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LO STILE DELL’INTERPRETE LETTERARIO di Emerico Giachery
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RA i tanti problemi che mi son trovato a considerare nella mia lunga esperienza di interprete letterario, un problema che mi ha sempre interessato e impegnato anche in prima persona è quello dello stile critico, dato che considero il critico, l’interprete di testi, un écrivain écrivant sur des écrivains, secondo la definizione di uno dei grandi maestri della critica francofona, Georges Poulet. Per quanto ne so, questo tema in Italia è stato poco affrontato. Ma uno dei maggiori studiosi italiani di letteratura del secolo scorso, se non →
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All’interno: Emerico Giachery Passione e sintonia, di Domenico Defelice, pag. 4 Da Marilyn Monroe a Cappuccetto Rosso, di Rossano Onano, pag. 7 Riccardo Marchi e il ‘Prometheus Unbound’ di P. B. Shelley, di Ilia Pedrina, pag. 11 Lettera agli Italiani di Destra e di Sinistra, di Giuseppe Leone, pag. 16 A tu per tu con Dante Alighieri. Zavanone incontra il Poeta, di Luigi De Rosa, pag. 19 Carlo Lucarelli: Nuovi misteri d’Italia, di Giuseppe Giorgioli, pag. 21 Vittoriano Esposito. La sua eleganza di uomo e di scrittore, di Giuseppe Leone, pag. 28 Mario Landolfi: Maria Luigia a Parma, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 30 Raffaele De Lauro e La ragazza di Bombay, di Anna Aita, pag. 33 “Bonbon Robespierre” in un saggio di Sergio Luzzatto, di Giuseppina Bosco, pag. 36 Arthur Schopenhauer, di Leonardo Selvaggi, pag. 38 Rinchiuso fra tre mura, di Carlo Trimarchi, pag. 40 Premio Città di Pomezia 2016 (regolamento), pag. 41 I Poeti e la Natura (Tagore), di Luigi De Rosa, pag. 42 Notizie, pag. 51 Libri ricevuti, pag. 53 Tra le riviste, pag. 55 RECENSIONI di/per: Anna Aita (L’amore della poesia e la poesia dell’amore, di Giovanni Albano e Massimiliano Caputo, pag. 44); Elio Andriuoli (Ancora giorni, di Mario Pepe, pag. 45); Tito Cauchi (Emozioni sparse al vento, di Anna Trombelli Acquaro, pag. 46); Roberta Colazingari (Bambini, di Anna Vincitorio, pag. 47); Roberta Colazingari (Emozioni sparse al vento, di Anna Trombelli Acquaro, pag. 47); Aurora De Luca (Probabilmente sarà poesia, di Isabella Michela Affinito, pag. 47); Filomena Iovinella (Bambini, di Anna Vincitorio, pag. 48); Nazario Pardini (Ombra e sogno, di Salvatore Quasimodo, pag. 48); Andrea Pugiotto (D’in su la veta della torre antica, di Giuseppe Leone, pag. 49).
Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Loretta Bonucci, Rocco Cambareri, Michele Di Candia, Luigi De Rosa, Serino Felice, Filomena Iovinella, Adriana Mondo, Carlo Trimarchi
addirittura il maggiore, Mario Fubini, nel suo fondamentale volume Critica e poesia del 1956, dedica a questo tema un ben articolato saggio, intitolato Stile della critica, che comincia così: «Se oggi ancora si componessero delle arti retoriche, non potrebbe in esse mancare una trattazione su come si deve scrivere la critica: un’arte critica, che avrebbe il suo posto accanto a un’arte storica, o ne fosse un capitolo per sé stante». Certo il critico non deve riecheggiare nella propria prosa l’opera d’arte originale, non richiede copie o imitazioni, e tuttavia è inevitabile che «in ogni critico deve pur cantare dentro, anche quando
vien svolgendo i suoi ragionamenti, la voce del poeta e a quella voce egli di continuo deve porgere ascolto». A volte faccio una distinzione, del tutto approssimativa e provvisoria, tra ‘critico letterario’ e ‘interprete di testi letterari’, dato che, per quanto mi concerne, mi ritengo soprattutto ‘interprete’. E riservo l’appellativo di ‘critico’ al critico militante, con interesse per la letteratura in divenire, per le avanguardie e le polemiche letterarie. Interesse che non è in me abbastanza vivo e operante, pur riconoscendone l’utilità. Tutto sommato lo stesso Benedetto Croce, nei sei appassionati volumi della Letteratura della
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nuova Italia, si mostrò critico ‘militante’ al cento per cento. In ogni modo, per il discorso che qui avvio, la distinzione, a uso del tutto personale, fra ‘critico’ e ‘interprete’ non ha ragione di sussistere e di creare complicazioni o malintesi. Perciò non ne terrò conto. In una conferenza del dicembre 2015, Giulio Ferroni ricordava, con partecipe passione, la insostituibile presenza e vitale importanza nella cultura italiana di Francesco De Sanctis e di Benedetto Croce, leggendo alcune splendide pagine di entrambi che hanno affascinato il pubblico. Sono stati entrambi grandi critici perché grandi scrittori, mi venne subito fatto di commentare. In effetti, De Sanctis è forse il maggior prosatore italiano nel periodo tra Manzoni e Verga. Quanto a Croce, ricordiamo che Giacomo Devoto, nel suo ben meditato e motivato, e forse un po’ a torto dimenticato, Profilo di storia linguistica italiana, parla, da linguista aperto al fatto letterario, di una vera e propria “età crociana” nella cultura italiana di alcuni anni del Novecento. Forse Croce avrebbe meritato il Nobel della letteratura più di Winston Churchill, al quale venne assegnato nel 1953 per i suoi scritti storici, preferendolo a Hemingway che pure era in lista (e al quale però, per fortuna, il Nobel venne assegnato l’anno seguente). A Fulvio Castellani, che mi intervistò nel 2008, espressi il mio parere sulle esigenze espressive della scrittura critica. Riporto qui di seguito la mia risposta, dato che non ho cambiato parere, anzi mi sono rafforzato nelle mie convinzioni. «La mia posizione è implicitamente polemica, direi polemica ‘di fatto’, più che di proposito, nei confronti della totale sudditanza a una pretesa scientistica che ha
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generato l’insopportabile ‘critichese’, che combatto come posso, e che parla di poesia come se parlasse di cibernetica. La ‘scientificità’ dell’ermeneutica letteraria (“scienza dello spirito” avrebbe detto Dilthey) per essere ‘rigorosa’, come è giusto che sia, non ha bisogno di scimmiottare le scienze cosiddette ‘esatte’ e il loro ‘misurazionismo’. Ciò non significa che non si possa anche (mai però soltanto) scomporre, catalogare; importante è che lo si faccia in ogni caso in funzione dell’ interpretazione, della ricerca di senso che è il fine unico e ultimo del nostro lavoro». In un improbabile campionario di modelli di stile critico agile ed armonioso non includerei passi come questo, da uno scritto del 1981 sulla poesia italiana d’oggi: «La generalità dell’Utopia Paradossale coagulata nel ‘68 si è in breve frantumata nell’imbecillità catastrofistica di tanti piccoli utopismi puramente distruttivi, diventati ben presto, con l’ omologazione accelerata tipica delle società a fortissimo indice mercificante, consumo di violenza, e consumo di spontaneismo». Sarà magari un discorso coerente, ma la densità dei lessemi astratti indica l’astrazione intellettualistica del discorso, quasi rivolto da iniziato a iniziati. Tutto sembra, tranne che un discorso sulla poesia, o che comunque abbia qualche familiarità col fatto poetico. Secondo Anatole France - che considerava, già negli ultimi anni dell’Ottocento, la critica come un vero e proprio genere letterario tipico del mondo moderno e con piena dignità di presenza - il critico racconta «le avventure dell’anima sua tra i capolavori ». Rischia però, così facendo, di diventare quell’artifex additus artifici che Croce considerava, non senza ragione, estraneo alla vocazione e funzione del critico, che sarebbe invece, a suo parere, un philosophus additus artifici. Croce si mostra a volte troppo philosophus e, se così è lecito dire, troppo additus, cioè in sostanza poco ‘sintonico’. Il buon interprete, comunque, anche se non philosphus in senso proprio, è tutt’altro che sprovveduto, conosce gli strumenti in uso e sa come servirsene con discrezione ed eleganza. Tuttavia se non ha
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un po’ di sensibilità d’artista, se non è un po’ artifex lui stesso, non realizzerà mai la sintonia col testo che è al centro dell’atto interpretativo, ne è, per così dire la prima musa. I dosaggi e gli equilibri sono difficili, certo. Un buon critico è probabilmente più raro di un buon narratore o di un buon poeta. Scrittore optimo iure, insomma, il buon interprete, dotato di disposizione empatica nei confronti del testo, preciso nel definire e distinguere, comunicativo nell’ esternare la ‘presa diretta’, maieutico nel far a emergere ciò che è implicito. Vorrei concludere con recenti affermazioni che mi è caro qui ribadire, perché riassumono, in alcuni aspetti essenziali, il senso profondo della mia lunga e appassionata vicenda di interprete letterario sia dalla cattedra sia nella pagina. «Attraverso la frequentazione assidua e penetrante, attraverso il reiterato approccio tematico stilistico simbolico strutturale ai testi di poeti amati di ermeneutico amore, ecco che il grand appétit de poésie, irrinunciabile motore della nostra attività d’ interpreti (attività giustamente riservata da Paul Valéry soltanto a chi possiede con indiscussa certezza quell’appétit) si va via via maturando in un motivato sentire. Come ogni autentico
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amore, anche l’amor di poesia si arricchisce e consolida nella conoscenza dell’ oggetto amato e nel formulare in parola sempre più piena e pertinente le ragioni del proprio sentire. Privilegio gioioso dell’ interprete è poterne rendere partecipi ascoltatori e lettori». Emerico Giachery
EMERICO GIACHERY PASSIONE E SINTONIA di Domenico Defelice
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IACHERY non ha mai voluto essere definito critico; modesto com’è, ha sempre affermato di non averne a sufficienza tutte le qualità che un vero critico debba possedere, tra le quali la passione e l’interesse; preferisce lo si ritenga un “interprete”, un “esecutore”, anche perché - com’ egli riporta da Luigi Pareyson -, <<“Leggere significa eseguire” e “l’opera non ha altro modo di vivere che la vita dell’ esecuzione”>>. Giachery ha sempre prediletto la lettura della poesia a voce alta, o, meglio, la recitazione, dandone, spesso, la dimostrazione che non è una cosa facile in cd-rom allegati alle sue “Lecturae Dantis”. In tal campo, Giachery si sente idealmente legato a tanti Maestri e particolarmente affine a Spitzer e ad Alfredo Schiaffini, perché critici idealisti (ai quali apparteneva - ce lo consenta il caro amico Emerico - anche l’illustre e per noi mai sufficientemente compianto prof. Francesco Pedrina, che abbiamo visto tante volte piangere mentre, a voce alta, leggeva i suoi classici - da Dante a D’Annunzio - e i suoi poeti moderni: Serra, Delcroix, Gerini, per citarne solo alcuni). Passione e sintonia, da poco apparso con la Carocci di Roma, è un meraviglioso serto di incontri, non sempre solo spirituali, che hanno arricchito Giachery nel corso degli anni “di orizzonti ed incentivi”. In Emerico Giachery si sono sempre incontrate e fuse “filologia ed ermeneutica”. Il suo
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è sempre un incalzare fascinoso di autori e di citazioni che colmano il cuore e poi la mente di chi legge (come nel nostro caso) e di chi ascolta; non si ha il tempo di delibare il già offerto, che altri autori e altri brani ci avviluppano in un’atmosfera di armonia, di delicatezza e di sapienza. Il libro andrebbe tenuto e letto come breviario, centellinato in ogni sua immagine, a sera e a mattina, in un arco di tempo illimitato; non si presta, insomma, a una lettura come la nostra, continua ed affrettata per ragione di servizio. Giachery è lettore “spirituale”. “Non mi lascio certo spaventare dalle parole né da chi si spaventa per le parole, e vado dritto per la mia strada, tanto più cara quanto più personale e appartata. In questo caso la qualifica di spirituale condensa per me più d’un aspetto della comunicazione didattica. Mi limito qui a chiarire un solo aspetto centrale. Ciò che quel termine può significare nel momento dell’incontro col testo poetico, molto meglio me lo fissano le parole di un indimenticabile pensatore e amico, Rosario Assunto: “sempre altro dice la poesia, ad ascoltarla e a leggerla; proprio perché eccede rispetto alla comunicazione, e per questo acquista quel senso [...], che ci solleva al di sopra della nostra umana caducità” Ecco: di quel “senso”, nell’ interpretazione della poesia (ma non soltanto in quella!), vorrei essere stato, qualche volta almeno, docile e fedele messaggero”. Ma precisa che la luce che il lettore spirituale trasmette non è mai la propria, ma quella intima dei testi: “Ho detto qualche volta, in modo certo troppo semplicistico ma forse efficace, agli studenti, che noi siamo arpa eolica di un’ arpa eolica: quella dei testi, la quale a sua volta fa vibrare folate del gran vento dell’ esistenza. Se poi l’esistenza, come tendo a credere, si fonda e s’avvalora nell’Essere, un’ eco sia pur tenue e remota di quell’Essere deve pur sussistere nelle grandi voci della poesia e del pensiero, e fondarle. A quell’eco, forse, al nostro sintonizzarci con essa mediante gli strumenti offerti dalla filologia, dalla sensibilità del gusto, si deve in parte la gioia che scaturisce dalla trasmissione inter-
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pretativa di un testo poetico che ci attraversa e trascende. Gioia, anche, di una vittoria sul silenzio e sul nulla, ottenuta con far rivivere attraverso il testo vita e storia in esso coagulate, gioia come di proustiano temps retrouvé”. Si sente vicino allo psicanalista Massimo Recalcati quando afferma che “Non esiste insegnamento senza amore” e proclama che “il ritratto più pertinente di uno studioso” sono “i tanti libri” che affollano, continuamente in crescita, gli scaffali della sua biblioteca “E i tanti libri (...) acquistati e non letti, e che mi guardano intonsi e severi, e quasi mi fano capire quanto io abbia perduto non leggendoli, sono il ritratto presunto di ciò che avrei voluto e potuto diventare se mi fossi eroicamente impegnato a leggerli tutti, col rischio, però, di restarne sopraffatto”. Anche saper citare, estrapolare, è un’arte. Giachery lo sa fare da poeta. Le sue sono citazioni che danno colori e profumi, come il giallo “vittorioso di un’alba e d’un tramonto” (Sainte-Beuve), ma anche quello “malaticcio” e il “raggio di luce che irrompe frontalmente, ma penetra “obliquo”, “tangente” ”. A tutti questi criteri, principi, etica, pedagogia eccetera, sono improntati i saggi che compongono questo autentico gioiello e che aridamente elenchiamo: Presenza della critica nel Novecento; Il “Copernico” di Leopardi e il sentire “cosmico”; Divagazioni carducciane; Verga, D’Annunzio, destino; Pascoli e il francescanesimo; La nozione di opera-vita e l’esperienza di Ungaretti; Per Montale: una lunga fedeltà; Senso dell’Europa in un racconto degli anni Cinquanta”; Antonio Pizzuto in riva al Lemano (con tre missive); La lingua della poesia italiana del Novecento; Ritmi di macchine e linguaggio poetico. L’Indice dei nomi completa l’opera. Capitoli su ognuno dei quali ci sarebbe da scrivere molto. In Il “Copernico” di Leopardi e il sentire “cosmico”, per esempio - a parte linguaggio e stile qui e dappertutto sempre affabulanti -, ci troviamo davanti a uno di quei nodi, grovigli, fiocchi letterari nei quali, accanto o intorno a un capo, se ne tessono altri, sicché Giachery all’operetta di Leopardi
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lega sapientemente, tra autori e critici, Tommaseo e Giovanni Getto, Mamiani, Tennyson, Poe, Sully Prudhomme, Aleardi, Zanella, Galileo, Pascoli, Brecht...; così anche noi, col grande lirico recanatese, potremmo cantare ...e il naufragar m’è dolce in questo mare. In Verga, D’Annunzio, destino, supremamente suggestiva è la metafora sulla partenza, di persone, ma più di stagioni, sentimenti, emozioni. In Per Montale: una lunga fedeltà, ci piacerebbe soffermarci sulla ricerca della libertà e sui tanti pertugi, due dei quali in particolare: quel “varco” della “Casa dei doganieri” - che permette a “la creatura privilegiata, a volte persino alata” di passare dall’altra parte - e quel “buco fra i rampicanti”, che permette al riccio di rifugiarsi “nell’orto dei carabinieri”. E scriviamo volutamente “rifugiarsi”, perché non ci sembra che qualcuno abbia finora approfondito a sufficienza quale fosse il rapporto tra Montale e i tutori della legge: i doganieri ed i carabinieri, così come la situazione, i condizionamenti, le aspirazioni e gli intendimenti della creatura alata e del riccio transfuga. In La lingua della poesia italiana del Novecento ci lascia perplessi l’insistere ancora su certi nomi e certi gruppi come validità della loro presenza e del loro operato in favore della letteratura e della lingua italiana; nomi nefasti, alcuni, per noi, che hanno arrecato solo danni; qualcuno - per noi - autentica nullàggine, anche se da ogni parte osannato, visto che, nella nostra repubblica delle lettere, salvo rare eccezioni, ha dominato sempre il pecorume. Giachery non c’entra, è in buona fede. Nei paesaggi della poesia e della cultura, ogni volta che lo fa donandoci un bel libro, il viandante Giachery inizia il cammino parlando con se stesso; a fine itinerario, però, non è mai solo: a poco a poco, gli si accoda sempre una gran folla, sicché, il suo incontrare autori e testi e il suo raccontare, tutte le volte finiscono in coro. Pomezia, 2 gennaio 2016. Domenico Defelice EMERICO GIACHERY - PASSIONE E SINTONIA Saggi e ricordi di un italianista - Carocci Editore, 2015 - Pagg. 182, € 20,00
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Immagini - Pag. 1: Il pittore Castelvecchi, Maria Luisa Spaziani e Emerico Giachery nel 1996 a Portoferraio; Pag. 3: Mario Luzi, Alberto Brandani (sullo sfondo) e Emerico Giachery nel 1994 a Portoferraio.
AUTOSTRADA DI LIGURIA SOSPESA IN CIELO Nel blu notturno trascorrono scintillando puntini bianchi da est ad ovest. Sul davanzale si inseguono a migliaia ininterrottamente. Portano idee e progetti desideri speranze sogni. La tenebrosa boscaglia in fondo a destra continua ad inghiottirli instancabilmente. Ma rispunteranno, forse... Chissà dove. Luigi De Rosa (Rapallo, Ge)
Domenico Defelice: La roccia, china, 1958 ↓
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“Io ragiono di testa mia” (?)
DA MARILYN MONROE A CAPPUCCETTO ROSSO La strana psicologia sperimentale dei processi decisionali di Rossano Onano
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ARILYN Monroe. La curiosità degli adolescenti è onnivora. Al Liceo, mi spiegavano il Romanticismo, con l'avvertenza che tutto cominciava con la pubblicazione dei canti di Ossian, e con Johann Van Goethe che licenziò, nel 1774, I dolori del giovane Werther. Non trovando in giro i canti di Ossian, mi tuffavo nella lettura del Werther. Si tratta di un giovane che, innamoratosi di una donna già promessa e quindi non disponibile, piuttosto che affrontare la vita senza di lei preferisce uccidersi con un colpo di pistola. Sarà per la mia natura poco romantica, ma trovai la lettura insopportabile. Dirottai sul Foscolo, dove Iacopo Ortis si uccideva ugualmente per amore, con l'aggiunta di uno scoramento per ragioni patriottiche. Il mio giudizio cambiò di poco. Mi chiedevo, da bravo adolescente che cerca di spiegarsi il perché delle cose, come il giovane Werther avesse riscosso un successo così straordinario, ispirando una serie di suicidi emulatori presso i giovani sentimentali del tempo. L'opera, per questa ragione, finì per essere messa al bando in parecchi paesi europei. Non so se il sociologo David Phillips, dell'Università di San Diego in Califor-
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nia, abbia a sua volta da ragazzo letto il Werther; fatto è che lo studioso, sostituendo il pallido giovanotto di Goethe con il resoconto dei suicidi pubblicati dai media, si propose di scoprire fino a che punto tali messaggi possano oggi indurre nei lettori un moderno effetto Werther. Phillips si buttò a capofitto sulle statistiche americane tra il 1947 e il 1968, e scoprì che il resoconto di un qualsiasi suicidio pubblicato in prima pagina procurava, in media, una sessantina di episodi analoghi. Il solo suicidio di Marilyn Monroe, nel 1962, aveva aumentato il tasso dei suicidi americani del 12% circa. I messaggi subliminari. Quando decidiamo per un comportamento, amiamo dire: “io decido di testa mia”. In realtà, i nostri processi decisionali sono largamente condizionati da fattori esterni che agiscono sulle nostre cellule grigie, soprattutto quando queste sono bombardate da messaggi largamente diffusi per via mediale. Dalle nostre parti a una cosa del genere, magari senza quantificare, ci si arriva un po' così, senza bisogno di verifiche sperimentali. Ma gli anglosassoni sono persone precise: prima di acquisire una convinzione, devono verificare. Nel 1957 tale James Vicary, un esperto di ricerche di mercato, si propose di verificare come e quanto i messaggi subliminari condizionassero il comportamento d'acquisto dei consumatori. Gli esiti della ricerca furono trasmessi allo Skeptical Inquirer e pubblicati solo nel 1992, quando si dice pensarci bene prima di scrivere. James Vicary fece ricorso ai messaggi subliminari, ossia ai messaggi “nascosti” all'interno di un contesto che trattava argomenti di altra natura. La faccenda si faceva complicata. La pancetta di Frank Edwards. James Vicary trafficò con i gestori di cinema del New Jersey, ottenendo che durante la proiezione di film fossero lanciate, da un proiettore ad alta velocità progettato da lui stesso, a modo di bombardamento messaggi subliminari che dicevano, guarda caso: “Bevete CocaCola”, e poi: “Mangiate pop-corn”. Ciascuna esposizione durava da uno a tre millesimi di
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secondo, ovvero il cervello non aveva modo di leggere, e il pubblico delle sale non si era accorto di nulla. Eppure, in sala e successivamente fuori sala, le vendite di Coca-Cola e di pop-corn erano aumentate rispettivamente del 18% e del 58%. Uhm, vediamo se funziona anche con la televisione, pensò il ricercatore De Fleur nel 1959. Per un mese intero, all'interno del palinsesto serale della WTTV Channel 4 dell' Indiana, il programma di attualità condotto da Frank Edwards, una specie di Maurizio Costanzo americano, fu bombardato da messaggi subliminari che dicevano: “Guardate Frank Edwards”, e anche “Comprate la pancetta”. Alla fine dell'esperimento, dopo un mese, De Fleur verificò che i bravi consumatori dell'Indiana avevano comperato tanta pancetta quanta ne comperavano prima. In compenso, lo show di Frank Edwards diminuì l'indice di ascolto, dal primitivo 4,6% a un modestissimo 3%. I messaggi subliminari avevano sortito l'effetto contrario, convincendo parte del pubblico a disertare lo show. Niente di nuovo, in fondo. Il nostro cervello è paziente, ma c'è un limite. Personalmente, quando il messaggio promozionale di un certo prodotto mi tempesta con troppa frequenza in TV, sono attraversato da qualche sospetto, che mi induce a non comperare il prodotto. Così spero sia di voi. George Bush e il passato evolutivo. Conviene lasciar perdere i messaggi subliminari, e passare ad altri tipi di condizionamenti. Negli anni '60 un antropologo, Thomas Gregor, si è messo a studiare la popolazione Mehinaku della foresta tropicale americana. Gli indigeni più alti sono chiamati rispettosamente wikepei, non saprei cosa significhi ma è senza dubbio qualcosa di positivo. I wikepei hanno infatti molte più probabilità di accedere a belle donne ricchezze e potere rispetto agli indigeni di bassa statura, chiamati spregiativamente peritsi, che invece si sa bene che cosa vuol dire. Itsi, infatti, è l'organo sessuale maschile, peritsi equivarrebbe al nostro irrisorio “pistolino”. Un atteggiamento del genere si
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comprende facilmente: il nostro cervello rimane aggrappato al suo passato evolutivo, quando la frequentazione dell'animale più grosso, cui corrispondeva la qualifica di “capobranco”, garantiva un vantaggio innegabile quando si trattava di sconfiggere il nemico e procurarsi cibo. E' sorprendente constatare come il nostro cervello, su questa faccenda, assomigli tuttora a quello dei primati: uno studio ha dimostrato, ancora negli anni '80, come oltre la metà degli amministratori delegati delle aziende americane abbiano una statura superiore a un metro e ottanta. In politica, stesso discorso. Nelle campagne presidenziali americane ha sempre avuto la meglio quello dei due contendenti che aveva la statura più alta. George Bush, quello senior, nel dibattito televisivo del 1988 salutò il rivale Michael Dukakis con una lunghissima stretta di mano, a distanza ravvicinata: che vedesse bene, il pubblico televisivo, chi fra lui e Dukakis fosse il più alto. Il passato evolutivo condiziona anche il nostro modo di valutare l'aspetto fisico delle persone. Nel nostro passato di scimmie avevamo il viso e il corpo coperti di peli: terreno adatto alle zecche e ai parassiti, per cui l'evoluzione ha pensato bene di diradarli. L'evoluzione sarebbe tuttora in atto, considerando la mania attuale di fare ricorso alle cerette, anche da parte degli uomini, per depilarsi. Vuoi vedere che i peli, e soprattutto la barba, sono scimmiescamente correlati a un giudizio di virilità?, così pensa lo psicologo sperimentale Robert Pellegrini negli anni '70, che escogita una prova di questo tipo: sceglie otto giovanotti barbuti, li rasa lasciando dapprima baffi e pizzo, poi solo i baffi, poi lascia il viso completamente liscio. Immortala le quattro fasi con la macchina fotografica, e chiede poi a un gruppo di individui scelti a caso di valutare la personalità dei giovanotti nelle istantanee. Il risultato confermò il sospetto di Robert Pellegrini: più barba, più virilità; baffi e pizzo così così; viso glabro virilità zero. Lo scienziato concluse l'indagine commentando: “in ogni uomo rasato c'è una barba che chiede a gran voce di uscire”.
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Wendy e Michael. Beh, ma poi il cervello si è evoluto, non fa più attenzione alla statura fisica e ai peli, per esempio ha imparato a parlare. Forse, quando si tratta di messaggi verbali, il nostro cervello è meno condizionato dai messaggi visivi, ha maggiore libertà decisionale. Niente da fare. Il nostro comportamento è condizionato anche dalle reazioni emotive suscitate dalle parole. Nel 1971 i ricercatori dell'Università di San Diego, California, dimostrarono, dati statistici alla mano, che i nomi propri corrispondenti a stereotipi vezzeggiativi (Wendy) oppure angelicati (Michael) suscitavano nel pubblico un sentimento di simpatia. Al contrario, i nomi di battesimo inconsueti (tipo: Oder; o, peggio, Lethal) suscitavano un sentimento di diffidenza. La personalità futura di un bambino, concludevano i ricercatori, è già decisa al fonte battesimale. Nel 1999 un altro studio, sempre a San Diego, attingeva al database computerizzato dei certificati di morte californiani, e forniva un esito sorprendente: le persone il cui nome conteneva una sequenza di almeno tre lettere positive (tipo: ace, asso) erano vissute quattro anni e mezzo più della media. Al contrario, le persone il cui nome conteneva una sequenza di almeno tre lettere negative (tipo: pig, maiale; o, peggio: die, morire) morivano circa tre anni prima. Il nome, conclusero a San Diego, influenza non solo il giudizio che gli altri hanno di noi, ma anche il giudizio che abbiamo di noi stessi. I nomi con la sequenza negativa sviluppano un sentimento di disistima di sé, che porta ad essere insicuri (maggiore incidenza di incidenti) o depressi (maggiore incidenza di suicidi) Va da sé che un bravo californiano il cui nome contiene la sequenza die (morire), leggendo la statistica è ancora più portato a considerare il suicidio come possibile maniera di concludere la propria vita. Ma fa lo stesso, la psicologia sperimentale non è scienza etica: spiega i comportamenti, le cose vadano poi come devono andare. Cappuccetto Rosso. La psicologia sperimentale ha confermato ciò che, intuitivamen-
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te, tutti noi sappiamo: i messaggi esterni, visivi o verbali o addirittura subliminari, influenzano il nostro modo di ragionare sulle cose, e di agire. Le agenzie pubblicitarie lo sanno benissimo. Ciò che non sanno, è che il nostro cervello è in parte scimmiesco, portato all'imitazione (vedi il caso di Marilyn Monroe); in parte, si è fortemente evoluto verso l'autonomia di giudizio, condizionando un sentimento di fastidio verso le sollecitazioni troppo insistenti (vedi il calo degli ascolti per lo show, troppo pubblicizzato, di Frank Edwards). Il nostro cervello si è evoluto dall'imitazione scimmiesca addirittura condizionando comportamenti contrari ai messaggi, diciamo così “politicamente corretti”, sollecitati dai mass media. Da Marilyn Monroe a Cappuccetto Rosso. La mamma dice: “se incontri il lupo nel bosco, non fermarti a parlare con lui”. Cappuccetto Rosso, che per conto suo sarebbe andata tranquillamente dalla nonna senza fermarsi a parlare con chicchessia, incontra nel bosco il lupo e, incuriosita dal divieto della mamma, proprio per questo si ferma a parlare. “Che cosa mai avrà di così interessante da dire il lupo, se non mi è permesso di ascoltare?”. E' lo stesso atteggiamento di Ulisse, mente evoluta, nell'antro del Ciclope. I compagni, asserviti ai messaggi di una cultura prudenziale, vedono nell'antro attrezzi da lavoro di dimensioni smisurate, e lo pregano: “Andiamo via”. Ulisse, seguendo virtute e conoscenza, dice: “Restiamo”. L'evoluzione della mente comporta l'accettazione del rischio. E' precisamente per questo che le campagne mediatiche condotte per via mediale, ad esempio condotte contro il fumo (“che uccide”) o contro le droghe (“che distruggono il cervello”) hanno scarso esito dissuasivo. O addirittura, quando chi ascolta è Cappuccetto Rosso, sortiscono l'effetto contrario. E allora? Potremmo trarre una conclusione di questo tipo: le campagne dissuasive (“non fare questo”) servono a poco, quando addirittura non sono controproducenti. Bisognerebbe condurre campagne assertive (“fai questo, se vuoi essere virtuoso”).
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Il problema è che la virtù, in quanto categoria del pensiero atta a condizionare i comportamenti, non sembra godere attualmente di ottima salute. Rossano Onano
POTER POI RITORNARE Per quello che ho fatto o quello che non ho fatto specialmente per quello che avrei dovuto fare non mi perdonate non è più necessario. Mi son già perdonato abbastanza da me abbastanza da potere ...da poter rimediare e veramente aiutare e tornare a stare dove compete a me ovvero con te e con te e con te e...con tutta l'umanità che c'è! E così poter poi ritornare a Casa! Michele Di Candia
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Ancora ad aspettare quel maledetto treno, ma ormai era sola e non sapeva se salirci o meno. Il ragazzo se ne era andato, lei si distese su un prato. Pensando e ripensando a cosa stesse sbagliando... Tornò alla stazione e per distrarsi andò cantando, non sapendo se il treno fosse mai arrivato, non sapendo se in fondo le era mai importato... Non sapendo se quel ragazzo era tutto ciò che aveva sempre desiderato. Una ragazza sosta alla stazione del treno, e aspetta paziente la sua venuta... E' triste e non può farne a meno, si è fatta male dopo ogni caduta... Ormai era sola e non sapeva se salirci o meno, ma lei ancora, ad aspettare quel maledetto treno. Carlo Trimarchi Frascati, RM
GIOIA DI NIENTE Cresciuti d’anni sappiamo ancora giocare alla sabbia.
Inghilterra
ASPETTANDO Una ragazza sosta alla stazione del treno, e aspetta paziente la sua venuta... E' triste e non può farne a meno, si è fatta male dopo ogni caduta. La gente si muove, il treno va per ogni dove... le ore passano e si appesantisce il suo cuore. Il treno che lei aspetta mai arriverà, ma questo, lei, ancora non lo sa. Poi d'improvviso, un ragazzo con un sorriso. Si avvicina con leggiadria per dirle di non andar via... La ragazza non sa che fare, non sa che dire... A momenti le pare di svenire. Il ragazzo la conforta, l'aiuta... Ma lei ha paura e lo rifiuta.
Recliniamo l’omero in archi sotterranei per contatto di vene tra acque e conchiglie - fanciulli persi in giochi inconsapevoli. E su scogli vigili ci rapiscono gabbiani - stormi di sogni migranti in lidi di calda ètà. Ora so come al vivere sia salvezza, un dono, fanciullezza dilungata per gioia di niente. Rocco Cambareri Da Da lontano - Edizioni Le Petit Moineau, 1970
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Febbraio 2016
RICCARDO MARCHI AFFRONTA IL 'PROMETHEUS UNBOUND'
DI P. B. SHELLEY di Ilia Pedrina
“
A Francesco Pedrina, fraterno ricordo di Riccardo Marchi. Livorno febbraio 1962.” Il piccolo volumetto appartiene alla Collana 'La grande poesia d'ogni tempo', della casa Editrice Ceschina di Milano, con il numero progressivo XVI-XVII, del 1961. Si tratta del 'Prometeo Liberato' di Percy Bysshe Shelley, dramma lirico in quattro atti nella libera interpretazione di Riccardo Marchi, che di fatto dirige anche questa stessa collana. Manca il testo inglese a fronte e quindi mi devo fidare del Marchi senza riserve: questo scrittore livornese, classe 1897, introduce l'opera con delle informazioni brevi ma essenziali, considerandosi un interprete moderno che proietta il proprio lavoro verso tempi indistinti a partire dall'inglese, lingua d'origine che possa trasferirsi in pathos di tensione e d'immagini nella differente lingua d'arrivo, l'italiano. Cito le perplessità di questo scrittore-traduttore, illuminate da sottile ironia, che calzano opportunamente dopo aver svegliato sul tema il Carducci stesso, per il quale Shelley era 'tiz-
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zone d'Inferno': “... Dovrei dissimulare tante difficoltà, come quella di trasporre non poche impoetiche disquisizioni shelleyane in versi che faccian poesia, dal momento che essi versi fanno poca musica anche nel testo originario? Né si fa una scoperta a riconoscere, come ha fatto la critica shelleyana, che in questa sinfonia possente il tono qualche volta decade. Può confermare, chi ha orecchio a queste cose, quanto sia difficile comporre versi passabili dai reiterati termini astratti in cui, strada facendo, si va ad inciampare come su di un aspro pietrame. Si chiamano massimamente: Verità, Libertà, Saggezza, Disperazione, Giustizia, Pestilenza, Carestia, ecc.; peggio e più difficile da tradursi in musica quando questi termini stanno in bocca di Dei, Spiriti o Furie! Più spesso mi ripeto la domanda: Si cruccerebbe lo Shelley se, riconoscendoci a rivivere i sentimenti poetici nella lingua del paese che amò e nel cui mare andò ad inabissarsi, alcuni di questi termini, in funzione piuttosto esornativa, vennero soppressi per conferire fluidità e snellezza al verso? Vedete ad esempio il coro a pag. 66: “Wisdom, Justice, Love and Peace, When they struggle to encrease Are to us as soft winds be To shepherd boys, the prophecy Wich begins and end in thee”. Esso viene a questo modo interpretato: “Così Speranza, Giustizia, Amore in perpetua lotta maturano; con dolci zeffiri portano ai pastori la profezia che in te ha inizio e fine”. Dove i pastori (shepherd) non sono più fanciulli (boys) e di questo faccio ammenda appo il grande avo. Dove Pace (Peace) per ragioni metriche, e non solo per quelle, rimase nella penna, ma con non grande rammarico mio presumendo “Pace” complemento non indispensabile di Speranza, Giustizia ed Amore. Il lettore avvertito, cui offro l'esempio perché si formi un'idea, sia pure approssimativa, del metodo di lavoro da me seguito, potrà assolvermi da questi e da altrettali arbitrii? Tuttavia l'autore dei medesimi si sente consolato dalla opinione dichiarata da Shelley essere la
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poesia arte imitativa e come tale interminata ed interminabile. Figurarsi quando chi l' avvicina vanta con Lui, con Shelley, qualche congenialità, accoppiata, per il vero, a non pochi scrupoli. D'altronde un'opera così densa e complessa, ed anche un poco esornativa, prodotta dal fervore di un poeta non ancora trentenne, li merita davvero. Ma l'autore della 'Ode all'allodola' (vedi 'Adonais ed altre interpretazioni di Shelley' al numero uno di questa collezione) alludeva evidentemente a se stesso quando, nell'ode celeberrima, dettava: 'poeta nascosto nella luce del pensiero'. Lascio al lettore attento di giudicare come nell'atteggiarsi del poeta in questo 'Prometeo liberato' uscisse da un rifugio di Luce per irradiarla agli uomini e quanto il compito di rivelarla possa essere costato al temerario ultimo interprete. Amo anzi, nella intensità di una speranza che qui appena si adombra, ripetere quel che di Lui icasticamente scriveva Giosuè Carducci: 'Come il mistico uccel pellicano, egli sbranasi il giovane petto, e versa a fiotti il sangue della sua poesia per abbeverarne il secolo arido'” (R. Marchi, Introduzione a P. B. Shelley, 'Prometeo liberato', op. cit. pp. 9-12). Prometeo, si sa, attraversa i secoli ed arriva a noi come eroe temerario, insofferente, pienamente consapevole della tortura eterna alla quale andrà incontro in quanto estranee al suo cuore ed alla sua mente sono l'ubbidienza e la devozione passiva eteronoma. Shelley interpreta quell'opera di Eschilo che non è giunta in codici ma di cui può essere rintracciata una sottile linfa nel lavoro di Esiodo, ne completa profili e protagonisti e progetta questo lavoro drammatico per l'immaginazione dei lettori, non per la scena, concluso dopo drammatiche esperienze familiari nel 1820. Egli sostiene testualmente nella Prefazione che è come un'apertura introduttiva ed esplicativa: “... Il Prometeo Liberato di Eschilo supponeva la conciliazione di Giove con la sua vittima quale prezzo della rivelazione del pericolo minacciato al suo impero dalla consumazione del suo matrimonio con Teti. Teti, secondo questa versione,
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veniva data in matrimonio a Peleo, e Prometeo, col permesso di Giove, veniva da Ercole liberato dalla prigionia. Se avessi costruita la mia storia su questo modello, avrei, in definitiva, rinnovato il dramma perduto di Eschilo; un'ambizione che, se la mia preferenza per questo modo di trattare il soggetto mi avesse stimolato, l'intimidente ricordo del paragone mi avrebbe fatto rintuzzare. Per la verità ero contrario ad una catastrofe fiacca com'è quella che fa riconciliare il Campione con l' Oppressore dell'Umanità. L'interesse morale della favola, potentemente sostenuto dalle sofferenze e dalla costanza di Prometeo, sarebbe annullato se potessimo immaginarlo nell'atto di rinnegare il suo alto linguaggio e di cedere al suo trionfante e perfido avversario. Il solo essere immaginario che in certo qual modo somiglia Prometeo è Satana. Prometeo, a mio giudizio, è figura più poetica di Satana perché, oltre al coraggio, alla maestà, alla tenace opposizione alla forza onnipotente, può venir descritto come esente da ambizione, invidia, vendetta e dal desiderio di crescente grandezza che, nell'eroe del Paradiso Perduto, contrastano con l'interesse principale. La figura di Satana genera nell'animo una perniciosa casistica che ci porta a pesare i suoi difetti coi torti da lui ricevuti e a scusarli perché eccedono ogni misura. Nell'animo di chi considera quella magnifica finzione con sentimento religioso, esso genera qualcosa di peggio. Ma Prometeo è, per così dire il tipo della più alta perfezione della natura morale e intellettuale, sospinto dai motivi più puri verso i migliori e più nobili fini. Questo poema fu scritto per la massima parte sulle montagnose rovine delle Terme di Caracalla, fra le fiorenti radure e le macchie odorose che si stendono in sinuosi labirinti su immense piattaforme ed archi vertiginosi sospesi in aria. Il luminoso e azzurro cielo di Roma e l'effetto della primavera in rigoglio in quel clima divino, e la nuova vita di cui impregna ed inebria gli spiriti, furono l'ispirazione di questo dramma...” (P. B. Shelley, Prefazione, op. cit. pp. 15-17). Tutta questa parte è sottolineata, in biro ros-
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sa, dal Pedrina: in una nota a margine di pagina 8, egli, che non conosceva la lingua inglese ma si fidava del proprio intuito estetico, aveva evidenziato come troppa sintesi, in traduzione, possa evitare di creare quel clima d'angoscia eterna, ininterrotta mai, che rappresenta la condizione di Prometeo: “... Eppur l'enumerazione in questo caso è più efficace della sintesi, perché ti fa sentire lo stillicidio de' millenni, enorme lasso di tempo ma i cui momenti sono distinti da agonie interminabili”. Entro nel vivo della trama del 'Prometeo liberato'. I personaggi, non in ordine di apparizione, sono tutti legati ad una rivisitazione del mondo mitico in chiave rivoluzionaria, togliendo attraverso la parola poetica bende agli occhi ed alla bocca, degli interpreti come dei lettori: Prometeo, Demogorgone, Giove, La Terra, Oceano, Apollo, Mercurio, Asia e Pantea e Ione, le tre Oceanidi, Ercole, il Fantasma di Giove, lo Spirito della Terra, lo Spirito della Luna, Spiriti delle Ore e poi altri Spiriti, Echi, Fauni, Furie. L'Atto I è costituito da un'unica Scena, che presenta 'un burrone di rocce coperte di ghiaccio nel Caucaso Indiano. Prometeo è avvinto al precipizio. Pantea e Ione sono sedute ai suoi piedi. È notte e durante l'apostrofe di Prometeo rompono lentamente le luci del mattino'. Prometeo Monarca di Dei, Demoni e Spiriti - tutti fuori che uno in folla nelle lucenti e mobili sfere che io e te soli, insonni, miriamo, volgiti a questa terra popolata di schiavi. Tu, per il servaggio e la prona fatica, l'adulazione e la morte dei cuori, con pauroso sprezzo la ripaghi mentr'io, tuo odiato nemico, alla tetra sventura, alla vana vendetta sopravvivo. Tremila anni d'insonni ore, con attimi che parvero anni da lancinanti dolori segnati, Onnipotente, più glorioso del tuo ecco il mio impero. Poiché spartir sdegnai la tirannia,
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pendo a questi calvi monti che sfidano la nera aquila jemale senz'alito di vita, o erba o insetto e dolore, ahi, dolore sempiterno! Speranza di mutare non mi arride eppur sopporto ed alla terra chiedo: Monti, udite? E cielo, terra, sole, vedete il mio martirio? E tu, mare, cangiante ombra del cielo, udiron l'onde tue la mia agonia? Ahi, dolore, dolore sempiterno! Gli aculei dei lunari ghiacciai mi trafiggon le ossa; l'alato velenoso veltro morsica il cuore mentre irridendomi, vagano attorno a me orrendi spettri di sognati regni. Torcono i chiodi sulle mie ferite i demoni che scrollano la terra e, dagli abissi, in aguzza grandine, delle tempeste i geni folti latrano. Benvenuti mi sono ad ogni ora, sia che uno franga il gelo mattutino o lento salga il plumbeo orïente seco menando le striscianti ore, quale officiante la vittima all'ara traendo te, crudele Monarca, a baciar le ferite dei miei piedi sdegnosi di pestare un tale schiavo. Ma non disdegno, la pietà si muove se lungo il cielo ruinerai indifeso e l'alma tua, scissa dal terrore, spalancherà le viscere d'Inferno. Eppure non esulto, non so odiare. Mi fe' saggio il dolore e la maledizione revocar vorrei, che scagliai su di te. Monti dai multivoci echi blasfemi, geli in dimoio che la valle del Caucaso inondate, aere sereno di tiepido sole, ali librate sul remoto abisso che ammutolisce se un forte suono fa oscillare l'orbe, allora fu la mia voce potente. Ora si è spenta ogni memoria d'odio. E voi, che un giorno mi udiste parlare, la mia maledizione ricordate?...' (Atto I,
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op. cit. pp. 29-31). Le Furie sono dalla parte di Mercurio, affinché Prometeo ceda e si sottometta, avendo in dono quella libertà che sarebbe però limitata; c'è una doppia realtà che si insinua e si snoda tra i versi, quella degli spiriti-ombre e quella dei viventi e la parola li avvolge in dissonanze da ascoltare, nelle due differenti lingue, da un immaginario aedo che asseconda le nostre emozioni. L'Atto II si compone di cinque scene, che colgono i protagonisti in differenti spazi e tempi: al mattino, in una valle allietante del Caucaso Indiano; poi in una foresta con caverne e rupi che Pantea ed Asia attraversano, mentre intervengono due Fauni, accoccolati sopra una roccia, in fascinante ascolto, con Cori di Spiriti che sottolineano eventi e loro significati; le tracce di Asia e Pantea, che arrivano alla caverna del Demogorgone e poi visioni avvolgono le protagoniste con magnetici splendori, tra riflessi di carri nelle nuvole e canti modulati spiritualissi. Tutto qui pare un inno multiforme di aeree parole tra Asia e Pantea ed echi e Spiriti delle Ore, mentre interviene per la prima volta Demogorgone, per rispondere a lei, all'amata di Prometeo, ad Asia che vorrebbe nella parola, nel nome da dare al Dio di tutte le vite e le morti del mondo, un sigillo di sicurezza. Egli rifiuta evitando così una definizione che non è necessaria. Nell'Atto III, costituito da quattro scene, Giove fa la sua apparizione tracotante, sul trono nel cielo dei cieli, circondato da Teti, la madre di Prometeo, e dalle altre divinità: Demogorgone arriva sul carro splendente delle Ore, egli pure è figlio di Giove e lo trascinerà con sé nell'abisso oscuro delle profondità eterne, interrompendo così il potere tirannico e perverso sugli esseri umani e su tutte le creature in vita, che non devono più patire sofferenza. Poi l'obiettivo del poeta si sposta alla foce di un fiume assai vasto nell'Isola Atlantide, mentre Oceano è adagiato nei pressi della spiaggia ed Apollo è in piedi accanto a lui, a confermare l'avvenuta detronizzazione del sanguinoso dio: tutto è
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infatti pronto per far intervenire, nel luogotortura sul Caucaso, i protagonisti che assisteranno alla liberazione di Prometeo da parte di Ercole, mentre Asia e Pantea arrivano portate dal carro dello Spirito dell'Ora, intreccio di versi appassionati e poeticamente validissimi, per arrivare fino alla selva, luogo mitico-magico dell'ispirazione, con sul fondo una caverna, nicchia dell'origine e della vita, con Prometeo ed Asia uniti per sempre ed ancora Pantea con loro e lo Spirito della Terra, a vibrare insieme per la conquistata libertà. L'Atto IV riprende gli aspetti di questo luogo, in una parte della foresta vicino alla caverna di Prometeo, dove Pantea e Ione stanno dormendo e si svegliano a poco a poco, nella delicata sonorità di voce degli Spiriti Invisibili, affiancati poi da altri Cori e Spiriti, delle Ore, della Terra, della Luna: Demogorgone pronuncia nobilissime parole che risuonano come verità ancestrale: “Terra, placido impero d'anima felice, armonïosa avvenente sfera che accogli amore fra celesti rédole... Notturna Luna che, meravigliando, guardi la Terra mentre ti rimira, in te quieta armonia sono e bellezza veloci augelli, uomini e animali... E se l'Eternità con mano inferma, assidua genitrice d'ore ed opre, libera il serpe dalle lunghe spire che potrebbe ravvolgerla, questi sono ancora gl'incantesimi per districare e dominare il fato. Soffrire pene obliare offese più della Morte e della Notte oscure; sfidare il potere che sembra onnipotente; amare, indulgere, sperare finché su le rovine la Speranza ricrei le cose che sta contemplando. Non mutare, non vacillare o pentirsi: questa, o Titano, è la tua sola gloria. Essere grandi, liberi, gioiosi: questo solo è Vittoria, impero, Vita.” (Atto IV, op. cit. pp. 152-156)
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Mi si perdonino le lunghe citazioni che ho presentato da quest'opera poetica, perché il clima che esse evocano e gli interrogativi che hanno portato a snodare via via le trame sottili di questa audace tessitura invitano ad approfondire il contatto diretto con il poeta inglese P. B. Shelley e con Riccardo Marchi, che par farci dimenticare che questa sia realmente opera di traduzione. L'amore della Oceanide Asia per Prometeo, assente in altre trattazioni intorno a quest'eroe ribelle, in realtà adombra quella legge dalla quale gli esseri umani dovranno lasciarsi affascinare, senz'altro tempio che il loro cuore, in sintonia. Sarà, come abbiamo visto, proprio Demogorgone, suprema guida del mondo delle Ombre a provocare la liberazione di Prometeo, condannando Giove all'oscura immobilità degli abissi, ed a proclamare ad Asia “All things are subject to eternal Love”. Strati di tempo e spazio, nella stesura di questi lavori letterari che si intersecano tra loro: il mondo greco arcaico, mitico-magico offre temi ricchissimi quando l'interesse per la scrittura poetica e letteraria si nutre di firme in conviti e gare pubblicamente apprezzate, nelle polis dove i cittadini sono in grado di decidere per il destino comune (da Esiodo al Convivio di Platone e oltre); il riverbero, che
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via via se ne sprigiona, quando la cultura greca e greco-romana si intreccia con quella giudaico-cristiana, porta altre interpretazioni e silenzi, affiancati da percorsi audaci e rivoluzionari, talora pagati anche con la vita (dalla letteratura greco-latina a Dante, a Shakespeare, a Giordano Bruno e oltre); P. B. Shelley, nato nel Sussex nel 1792 ed inabissatosi nel Golfo degli Dei e dei Poeti, di fronte a Lerici, nel 1822, è quel giovane tormentato eroe della penna e dell'avventura, che rimane affascinato dall'Italia, dai poeti e dai miti che Roma ancora riesce a trasmettere e che sosta, nel suo prolungato soggiorno in Italia, anche a Livorno. La loro trascolorante fusione, nella magia di quest'opera, giunge a noi intatta e ci coglie di sorpresa. Ilia Pedrina
L'ALIANTE DEL POETA Non sempre, né molto a lungo, si può continuare a volare. I vuoti d'aria della quotidianità fanno cabrare e picchiare verso il suolo anche il più audace dei prìncipi del volo. Non ogni giorno c'è vento di fortuna e di buona ispirazione, la dolce voglia di vivere che elèva sopra mari e praterie. Sovente riaffiora l'angoscia che risospinge verso il selciato, verso sporchi rigagnoli e ciuffi d'erba polverulenta, verso miserie e pene che affliggono il tempo degli uomini e delle donne. Ma l'ala conservata intatta carpirà sempre il colpo d'azzardo di un nuovo effluvio che verso il profondo azzurro inopinatamente si innalza. Luigi De Rosa (Rapallo, Genova)
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LETTERA AGLI ITALIANI DI DESTRA E DI SINISTRA CHE BEVONO IL CAFFÈ AL CENTRO di Giuseppe Leone
O
GGI, quelle iniziali battute del Don Giovanni mozartiano recitanti “Voglio fare il gentiluomo e non voglio più servir”, più che rimandarmi al clima effervescente della rivoluzione francese allora alle porte quando il genio salisburghese componeva quelle mirabili note, mi rimandano all’attuale situazione della Sinistra italiana che s’è messa in testa di essere ormai ineluttabilmente un partito di governo, sconfessando per sempre la sua visione proletaria e socialista che l’aveva tenuta per lunghi anni a sedere in Parlamento sui banchi dell’ opposizione. Non ho il potere di imporre ai suoi capi un ritiro per una riflessione seria e profonda. Ma glielo consiglierei, in un momento storico come questo, non foss’altro che per indurla a pensare, per riprendersi un’abitudine che è stata sua e solo sua, ma che oggi non sembra voler più riconoscere.
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Da tempo, si va sostenendo che le vecchie coordinate della politica, Destra e Sinistra, non riescano a dirci più nulla, soprattutto dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989 che ha dato una spallata senza precedenti a queste classiche divisioni. Ma, davvero, le parole Destra e Sinistra si sono svuotate del loro tradizionale significato? Davvero non riescono più a fare la differenza tra una visione conservatrice e un’ altra riformista? Davvero non ci danno più la percezione esatta di quello che succede attorno a noi? È pur vero che le idee chiare e distinte, quelle celebrate un tempo dalla filosofia cartesiana e non solo, sono a loro volta tramontate nel postmodernismo contemporaneo, finite in quel calderone nichilistico che valuta tutte le cose nel nome del loro superamento. Eppure, non molti anni fa, Norberto Bobbio riusciva ancora a soffermarsi su queste vecchie distinzioni della politica e scrivere Destra e Sinistra, un trattatello in laude delle due parole che, secondo lui, hanno ancora un significato in grado di onorare la loro differenza, soprattutto, intorno all’idea di uguaglianza. E a proposito, così scriveva: “Coloro che si proclamano di Sinistra, pur non pensando che gli
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uomini siano in tutto uguali, danno maggiore importanza a ciò che rendono gli uomini uguali; mentre coloro che si proclamano di Destra, pur non ritenendo che essi siano in tutto diseguali, sono convinti che le disuguaglianze siano un dato ineliminabile”. Non è che un solo punto, tra i tanti che un tempo marcavano le differenze ideologiche tra Destra e Sinistra, ma è così importante e cruciale, in tema di democrazia, da legittimare ancora oggi il loro diritto di circolazione nel dizionario della cultura politica. E non solo per quanto attiene all’idea di uguaglianza, ma anche all’idea di giustizia, sulla quale Destra e Sinistra non hanno davvero alcun margine per una mediazione, se le conclusioni a cui giunge Bobbio sono così tanto vicine a queste del de Laveleye, che recitano: Una teoria sociale non può fondarsi su una teoria biologica, dato che dal mondo naturale non si possono ricavare nozioni come quella di giustizia". Le parole sono fedeli a se stesse e perciò il loro significato non dovrebbe mai cambiare. A meno che non siano gli uomini a farglielo mutare. Non ho mai preteso che un uomo di destra si comportasse come uno di sinistra, né ho mai sperato che i liberali smettessero di fare i liberali per diventare qualcos’altro o che i socialisti smettessero di essere tali per correre altre avventure. Ho solo desiderato che i primi esprimessero al meglio la visione gobettiana piuttosto che tenersi arroccati su posizioni ottocentesche e che i secondi si ispirassero agli utopisti proudhoniani, ancora capaci di sognare, piuttosto che nuotare in acque letee, ora inseguendo il biscione milanese ora il giglio fiorentino. Il fatto è – per dirla con Leopardi - che siamo un popolo che non ha costumi, e non per colpa di chissà quale mito o archetipo scagliatici addosso dalle più remote civiltà, ma a causa di una cultura impastata di fato e di provvidenza, che avrebbe finito per inculcarci non l’idea che siamo liberi di decidere, ma l’opinione che le nostre sorti si decidano altrove. Saremmo ancora quelli che siamo se, a
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scuola, al posto dell’Eneide avessimo letto le Georgiche e al posto dei Promessi Sposi La colonna infame? Da noi, non è importante fare, ma dire di fare. Gli oracoli e gli annunci ci appagano più dei fatti stessi. Fatta la Costituzione, non ci siamo impegnati un sol minuto per farla uscire fuori dalle sue potenzialità. E oggi, senza averla ancora realizzata, la stiamo smantellando a cuor leggero. Certo che, se, in momenti come questi, qualcuno si ricordasse di Calamandrei, la sua sola memoria forse potrebbe ancora sottrarla alla violenza delle picconate; ma quanti sono oggi in parlamento in grado di sapere chi sia stato costui, se come dicono i mezzi d’informazione il quaranta per cento dei parlamentari non legge neppure un libro all’anno? Nemica della politica, allora, non è l’ antipolitica, ma la politica stessa, quel suo ostinato voler prescindere dall’intelligenza e dalla coscienza, quel suo cieco giudizio sul merito delle persone, mai teso a scegliere fra i collaboratori il meglio del meglio, ma sempre il meglio del peggio, cioè il peggiore tra i peggiori. Tuttavia, questo non mi fa perdere la convinzione che gli strumenti migliori della politica siano ancora i partiti, e Destra e Sinistra i loro donatori di sangue. Concepire la politica senza il loro distintivo contributo è cancellare in un sol colpo l’89 francese, e con esso la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, per perpetuare così il triste esercizio di riconoscere il merito solo a chi ci somiglia e mai a chi è diverso. Giuseppe Leone Caro Leone, i temi della tua lettera meriterebbero ampi commenti. Speriamo lo facciano i nostri lettori; io, per vari motivi, vi accenno semplicemente. La Sinistra italiana non doveva sconfessare “la sua visione proletaria e socialista”, ma solamente il suo cieco massimalismo e la sua incapacità all’autonomia, ad affrancarsi dai tanti carri ai quali è stata, da sempre, saldamente attaccata - in particolare quello sovie-
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tico -, nonché dalle tante sirene, e, guarda caso, tutte al di fuori dei nostri confini. Voglio dire che, in Italia, purtroppo, non abbiamo avuto mai una Sinistra “proletaria e socialista” veramente nazionale. Un male estremo, caro Amico, una metastasi paralizzante. Ne è prova il fatto che, al crollo del muro di Berlino e dell’impero sovietico, la Sinistra italiana ha impietosamente mostrato quanto vuoto fosse il suo guscio ed è andata in frantumi. Lo sfascio della Sinistra ha rivelato che anche la Destra fosse vuota, che, in Italia, si reggessero l’un l’altra. Il tenere, per esempio, il Movimento Sociale-Destra nazionale fuori dall’arco costituzionale, era uno stratagemma inutile quanto ipocrita - la solita distrazione di massa: serviva perché gli Italiani non guardassero altrove e non vedessero le crepe profonde che fin dalle origini hanno dilaniato tutti i nostri partiti, senza ideologie vere, legati solo da interessi economici personali di ciascun componente, raramente di gruppo. Ideologicamente vuoto, insomma, persino il singolo individuo! Destra e Sinistra della seconda parte del Novecento: solo leggere maschere dietro le quali ciascuno nascondersi per perseguire indisturbato le proprie ruberie, i loschi affari, dar sfogo alle proprie libidini, alle tante bassezze morali; Destra e Sinistra di questo primo scorcio del duemila: entità superlativamente malate, eredi di una società corrotta fin nel DNA da una DC gesuitica, che commetteva delitti d’ ogni genere dietro una croce e da un fascismo socialcomunista, che, di giorno, fingeva una blanda opposizione e, di notte, partecipava alle rapine e alle spartizioni. Craxi non fu certo esente da colpe!, ma va ammirato
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perché fu il solo, in Parlamento, ad avere avuto il coraggio di accusare di connivenza nel malaffare tutti i partiti, dal più grande al più piccolo, senza ricevere alcuna smentita. La società degli anni settanta-ottanta del secolo scorso, dunque, aveva avuto già la coscienza asfaltata, era divenuta talmente cinica, da tagliare ogni radice sia col pietismo da libro Cuore, sia con le vecchie mitologie, sia con le vicende di Renzo e di Lucia. La Sinistra dominante di quegli anni (non la Destra) aveva abbattuta ogni gerarchia all’interno delle scuole e degli uffici, distrutto ogni pudore, vero o falso che fosse (i giovani inneggiavano a Porci con le ali e le donne sfilavano per le piazze gridando la fica e nostra e la gestiamo come ci pare), beffeggiata l’autorità dei genitori, disintegrata la famiglia, tacciato di fascismo chiunque nominasse il termine Patria o esponesse il tricolore. In un tale contesto, allora, leggere le “Georgiche” al posto dell’ “Eneide” e “La colonna infame” al posto dei “Promessi Sposi” non avrebbe cambiato alcunché. Anch’io mi sono illuso, in quegli anni, scrivendo che bisognasse togliere dalle scuole il romanzo del Manzoni e sostituirlo con altro, magari di Salgari, scrittore, a mio avviso, ancora capace di dare al giovane qualche entusiasmo, strapparlo dal nichilismo nel quale era stato scaraventato dal montante interesse esclusivo verso la divinità del denaro. Illuso, perché una gioventù cinica, anemica, priva di anticorpi etici, non poteva venire insanguata da uno scrittore, pur fascinoso, ma suicidatosi per motivi economici. Sinistra e Destra e relativi partiti, solo in presenza di un nuovo ideale, di un nuovo sogno, di una nuova palingenesi, potrebbero riacquistare valenza, riprendere il ruolo che loro spetta all’interno della società. E scaturirebbe, allora, da questo nuovo sogno, la scelta degli autori nuovi da dare in pasto alla gioventù. Falso problema è pure la modifica della Costituzione, ancora oggi non del tutto attuata, se è vero, per esempio, che mai si è fatta una legge che regolasse la vita dei partiti e dei tanti sindacati. D. Defelice
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A TU PER TU CON
DANTE ALIGHIERI GUIDO ZAVANONE INCONTRA IL SOMMO POETA NEL SUO POEMETTO “IL VIAGGIO STELLARE” di Luigi De Rosa
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ESSUN risvolto della tragedia umana sfugge alla mente indagatrice del poeta Guido Zavanone, genovese di origine astigiana, la cui logica analizza lucidamente le problematiche della vita umana e del Cosmo, anche se il cuore è tutt'altro che indifferente. I suoi versi sono animati da una originale metafisica moderna, da un'acuta sensibilità etica affamata di giustizia e di equità, e sono portatori di un autentico dolore di vivere, nonostante un' ironia onnipresente, a volte sulfurea. Zavanone, che è stato un alto magistrato (fino a procuratore generale presso la Corte d'Appello di Genova) come poeta si è ormai conquistato, con recensioni e presentazioni dei suoi libri da parte di firme di primissimo piano e prestigiose, e con una
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raffica di Premi importanti vinti, un posto di rilievo nella poesia italiana del Novecento e di questi anni del Duemila. La sua produzione poetica di una vita è stata selezionata recentemente in un libro intitolato Lo sciame delle parole, prefato da Stefano Verdino dell'Università di Genova, ed edito da Interlinea di Novara. Nella sua ricca produzione svettano due poemetti, Il viaggio (San Marco dei Giustiniani, Genova 1991) e Il viaggio stellare (ibidem, 2009). La sua cultura finemente laica, al servizio di una sensibilità moderna, si avvale dello strumento “classico” dell'allegoria, con un linguaggio volutamente “dotto” e amorevolmente volto verso il passato, specialmente nell'opera “Il viaggio stellare”, chiaramente ispirato anche al Divino Dante Alighieri (12651321) e alla sua celebre “Commedia”. E' proprio nel corso del poema “Il viaggio stellare”, articolato su 25 “capitoli”, composto da endecasillabi classici inframmezzati a versi di lunghezze variabili, atti ad agganciare alla classicità del contenuto la modernità della forma, che avviene l'incontro-choc, seguito da un illuminante dialogo, con l'ombra di Dante Alighieri. E precisamente nel capitolo XVII (intitolato, appunto, L'incontro). Dopo avere viaggiato per buona parte dello Spazio su una misteriosa astronave che lo stava portando da casa sua, sulla Terra, alla ricerca della soluzione dei misteri della vita e del Cosmo, guidato da uno spirito-guida dalle forme di stupenda ragazza, l'Autore arriva al Regno dei morti, il regno immenso e desolato che governa il Potere divino o il Nulla eterno. Trattasi di un antro enorme, dentro il quale le vuote ombre dei morti si agitano in modo confuso e frenetico quale alveare d'un tratto ridesto, ombre in volo come uno stormo immenso d'uccelli di passo che oscurano il cielo. Sono pochi, però, i morti che vogliono e possono parlare col poeta e la sua guida. In generale, non possono farlo quelli che nella vita hanno parlato anche troppo, cianciando
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come dei ventriloqui anche se non avevano nulla da dire. Tra questi presentatori garruli e servili politici tronfi ed indigesti che ben conoscono l'arte sottile di parlare senza farsi capire. Non diversi i teologi che insegnano ciò che non sanno facendo la ruota e buona parte dei predicatori che dicono nel vuoto cose vuote. Non parlano neppure i sognatori (perché non si dissolva il loro sogno), e quanti in vita hanno sofferto troppo, e i violenti, e i filosofi che sanno di non sapere, gli educatori che alle parole preferirono l'esempio. Ad un certo punto, dai caroselli di ombre che vorticano senza sosta, se ne stacca una, insofferente delle altre, e nessuna osa passarle avanti. L'emozione che l'incontro con l'ombra di Dante procura al poeta Zavanone è fortissima: Come la vidi un tremito/ percorse le mie membra, il cuore in petto/ mi batté forte per l'antico amore/ e l'emozione d'essere al cospetto/ d'uomo che più d'ogni altro il mondo onora... Ma nonostante la voce stenti ad uscirgli, e la lingua, esitante, riesca ad articolare solo parole confuse, il poeta riesce a rivolgersi al Maestro: “O caro padre mio, che visitasti / Inferi e Cielo e illumini il cammino/ di chi tardo e confuso viene dietro/....che sorte attese i morti che onorasti/ con il tuo canto
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e li facesti grandi?” / Rispose triste: “Giacciono ammucchiati/ nel grande cimitero della Terra. / Pacificati / fraternizzano tra i vermi. / Però fin quando il mondo li ricorda/ vagano quaggiù le loro ombre, / si muovono nel nulla e regge i fili/ di quest'altra esistenza la memoria./ Poi la Bontà infinita ha sì gran braccia/ che tutti ci cancella e più non resta / della nostra esistenza alcuna traccia.” Ma è anche un'altra la domanda che brucia sulle labbra di Guido al suo Maestro. E questi la intuisce, e prontamente gli viene incontro: “Ma non eluderò quella domanda/ che la tua mente al dubbio sottomette/ e già vedo salire alle tue labbra: esiste un Dio che l'Universo regge? Se intendi rettamente la visione/ che muove la Commedia e la suggella/ Dio è luce in cui l'uomo si riflette./ Ma se l'arida scienza l'apparenta/ a protoni, neutroni ed elettroni/ ogni fede ha perduto sua semenza.”. La voce era serena, ma il dolore e la ferita dell'anima erano rivelati dallo spasmo del volto. “Tutto è vanità” proseguì “ma gli uomini/ non comprendono e si fanno la guerra/ divisi sempre in vittime e oppressori: / fin che la tomba gli uni e gli altri serra. / Ognora si ripete nella Storia/ quello che lungo i secoli è successo/ Budda è venuto e Cristo e Maometto/ giù sulla Terra per cambiare il mondo/ il mondo ruota ed è sempre lo stesso./ Afflato di giustizia e di pietà, / nell'Oltretomba ho collocato gli uomini/ variamente secondo che meritano/ quasi supplendo la Divinità.” L'ultimo accenno di Dante è allo stesso poeta che ha davanti: “Tu saresti un altro Guido/ e forse vorresti essermi seguace/ ma più nessuno tra i versi fa il nido/ se pur fornito d'ingegno vivace... E qui Dante parla da grande critico letterario, per significare che la Poesia è in crisi per il tragico solco fra Autori e Lettori, anche per colpa dei primi, troppi dei quali si gingillano con parole astratte e vuote senza il rispetto della realtà umana e naturale. La parola anche l'ho aggiunta io, perché le cause della crisi della poesia sono numerose, e strutturali alla società moderna, oltre quelle ascrivibili agli autori. Luigi De Rosa
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Durante il mese di agosto ho voluto leggere tre libri, fra loro collegati, uno sul Mostro di Firenze di Michele Giuttari, un altro su varie storie di cronaca italiana, fra cui anche quella del mostro (o mostri di Firenze) di Carlo Lucarelli ed il terzo “La strana morte di Wilma Montesi” di Angelo Frignani, che avevo in casa da qualche tempo. Ne fornisco una breve recensione per la gradevolezza che ho avuto nel leggerli. Questa è la seconda puntata (la prima è uscita sul numero di dicembre 2015), che tratta parte della recensione di Carlo Lucarelli, cioè i primi sei capitoli.
CARLO LUCARELLI NUOVI MISTERI D'ITALIA I CASI DI BLU NOTTE di Giuseppe Giorgioli
L
UCARELLI, con questo libro, ce ne regala un altro dei suoi bellissimi, in quanto ci fa ricordare tanti momenti di storia recente. Sono i misteri ancora irrisolti dal dopoguerra ad oggi. Leggere queste storie fanno rivivere il passato specie per chi lo aveva rimosso. Le storie descritte sono nove, e precisamente: il bandito Giuliano, Wilma Montesi, la strage di Ustica, Alceste Campanile, i mostri di Firenze, Antonino Agostino ed Emanuele Piazza, Pier Paolo Pasolini, Beppe Alfano, la strage di Bologna. In questo libro Carlo Lucarelli torna a indagare la parte nascosta dell'Italia, gli intrecci tuttora inspiegati fra politica, crimine e società in un nuovo libro basato sulla trasmissione televisiva "Blu notte". La narrazione, attraverso gli strumenti letterari del giallo, consente di approfondire le storie rispetto alla sceneggiatura televisiva, ma mantiene costante la fedeltà ai documenti dando voce a tutte le ipotesi e a tutte le piste. Il libro inizia con la storia del bandito Giuliano, ovvero la leggenda del bandito Giuliano. Con una serie magistrale di colpi di scena viene descritta questa storia: dalla lotta contro le nuove leggi sulla riforma agraria all’ attentato terroristico durante la festa del primo
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maggio del 1947 a Portella della Ginestra durante i festeggiamenti per la vittoria dei socialcomunisti nelle elezioni regionali del 1947. Giuliano forma anche un movimento per l’indipendenza della Sicilia. Vengono descritti agguati, tradimenti fra cui quello del cugino Pisciotta fino alla morte di Giuliano in un conflitto a fuoco. Anche la morte di Giuliano rimane nella leggenda: vi sono fino a sedici versioni diverse. Di certo si sa solo che Giuliano è morto a Castelvetrano in provincia di Trapani nel luglio 1950. La storia di Giuliano nasce con la liberazione della Sicilia dagli Alleati nel 1943. Per agevolare lo sbarco in Sicilia gli Americani hanno preso contatto con la mafia locale attraverso un noto boss di New York, Lucky Luciano. La mafia appoggia gli Americani. La protezione degli Alleati porta noti mafiosi a capo delle amministrazioni locali, come don Calogero Vizzini, che diventa sindaco di Villalba. I mafiosi siciliani hanno rapporti con l’Oss, il servizio segreto americano. Tra i collaboratori dell’ Oss c’è un giovane aspirante avvocato di nome Michele Sindona. La storia del bandito Giuliano, documentata anche in un film di Francesco Rosi nel 1961, è una strana storia, che fa uno strano uso del terrore, definito nei primi anni della Repubblica “strategia della tensione”. E che dire della successiva Storia di Wilma Montesi, la ragazza trovata morta a Torvajanica, piena di segreti e di misteri? La storia inizia quando un muratore Fortunato Bettini scopre casualmente un corpo sulla riva del mare sulla spiaggia di Torvajanica alle 7,20 dell’11 aprile 1953. Vengono avvisati i carabinieri ed alle 9,30 arriva il maresciallo, accompagnato dal medico condotto del paese, il dottor Agostino De Giorgio. La causa della morte per il dottore è abbastanza evidente: la ragazza è annegata! Due giorni dopo la famiglia riconosce Wilma all’obitorio dove nel frattempo era stata portata. Saltano fuori tanti testimoni, fra cui la signora Rosa Passarelli, dipendente del Ministero della Difesa, che afferma di aver fatto il viaggio con Wilma fino ad Ostia. Emerge che Wilma aveva un piede
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arrossato per un eczema e aveva bisogno di fare dei bagni in mare. Un edicolante di Ostia afferma di aver visto Wilma quella sera e che ha scritto una cartolina per il suo fidanzato; poliziotto a Potenza. Si fa strada anche l’ ipotesi del suicidio, ma viene scartata. A dicembre del 1953 il caso viene archiviato con la seguente dinamica: Wilma è andata al mare per fare un pediluvio, ma è inciampata e, trascinata dalle onde, è morta per annegamento. Ma qualcosa non torna! Prima di tutto gli orari: la signora Rosa dice di averla vista sul treno alle 17,30, mentre la portiera dello stabile dove abitava Wilma, l’ha vista uscire sempre alla stessa ora, cioè alle 17,30. Poi quando è stata trovata morta non aveva tanti oggetti che aveva portato con sé, come il reggicalze, la borsetta, le scarpe , la gonna…Poi è stata trovata a Torvajanica: se la corrente del mare l’avesse trascinata da Ostia a Torvajanica ci sarebbero voluti due giorni… I giornali, l’opinione pubblica si convincono che Wilma è stata uccisa. Nel frattempo compaiono altri testimoni: il giornalista Silvano Muto afferma di aver visto un’auto Alfa 1900 arenata in mezzo alla sabbia vicino Capocotta con dentro Wilma ed il figlio Piero del ministro Attilio Piccioni. Lo scandalo si allarga. Escono vari testimoni, fra cui Anna Maria Moneta Caglio e Adriana Concetta Bisaccia. Diventa anche un caso politico con accuse dei comunisti ai democristiani, definiti capocottari. Attilio Piccioni sull’onda dell’opinione pubblica è costretto a dimettersi da Ministro degli Esteri in un momento cruciale per la crisi dovuta alla questione Trieste. Dal punto di vista politico se ne avvantaggia L’on. Fanfani. Nel marzo 1954 inizia un nuovo processo affidato al Giudice Sepe. Secondo Silvano Muto e Anna Maria Moneta Caglio si tenevano festini a base di sesso e droga in alcune ville di Capocotta, gestite da Ugo Montagna, marchese di San Bartolomeo, che aveva collaborato con i nazifascisti durante la guerra. Poi da Roma il processo viene spostato a Venezia, dove durerà tre anni. Nel maggio 1957 vengono assolti con formula piena Piero Piccioni, Ugo Montagna e l’ex Questore Saverio
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Polito. Per il Tribunale di Venezia le orge e i festini a Capocotta ci sono stati e Wilma è stata uccisa, ma non si sa da chi. Colpo di scena finale: nel 1964 il Tribunale di Roma condanna Silvano Muto e Anna Maria Moneta Caglio per calunnia. Secondo il Tribunale di Roma hanno mentito su tutto. Wilma Montesi è morta per un incidente, mentre faceva un pediluvio! La terza storia ha per titolo :”La strage di Ustica”, raccontata in modo brillante da Lucarelli. Inizia così: “questa è una storia da far paura, è la storia della strage di Ustica.” La storia ha un inizio preciso: le ore 20,08 del 27 giugno 1980, ora di partenza del DC9 Itavia dall’ aeroporto Marconi di Bologna con arrivo a Punta Raisi, a Palermo, dove non è mai arrivato! L’aereo doveva partire alle 18, ma è partito con due ore di ritardo. I passeggeri sono 81, di cui 4 fanno parte dell’equipaggio. Fra tutti si ricorda Pier Paolo, tecnico della Snam Progetti in partenza per riparare un guasto al metanodotto di Gela. Vi è una bambina Giuliana di 11 anni, che doveva partire il giorno prima, ma ha atteso la consegna della pagella di quinta elementare da mostrare al babbo in Sicilia. Vi è, fra gli altri, Alberto di 37 anni di Bologna, fratello di Daria Bonfietti, ora senatrice e presidente dell’ Associazione parenti delle vittime della Strage di Ustica. Ben fatta la descrizione tecnica dei controlli del decollo e durante il volo del DC9 I-TIGI. Dopo il decollo il DC9 viene preso in carico dal radar di Ciampino e si vede il puntino luminoso sul monitor del radar ricevuto dall’ aereo ogni 6 secondi. Alle 20,26 il segnale scompare, poi dopo qualche minuto torna il segnale. Alle 20,44 il DC9 è sopra il lago di Bolsena e comunica con la torre di controllo di Ciampino. Il pilota dell’aereo dice una cosa strana: da Firenze fino a lì hanno trovato tutti i radiofari spenti! Alle 20,57, quando mancano circa 25 minuti all’atterraggio, il DC9 lascia il contatto con Ciampino e si collega con Punta Raisi. Mentre l’equipaggio stava parlando e scherzando, qualcuno dice :”Gua…” e poi nulla. Alle ore 20,59 e 45 se-
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condi il DC8 sparisce dal radar di Ciampino. Viene interrogato Palermo, ma non vi è traccia. Vengono interrogati i vari radar: Martinafranca, Licola vicino Napoli, ma non c’è nulla! Alle 23,30 al TG1 il giornalista comunica che si sono persi i contatti radio con l’aereo DC9 del volo IH 870 diretto a Palermo senza aggiungere altro: fa solo l’ipotesi di un eventuale dirottamento. Il mattino successivo cominciano ad affiorare i primi corpi al largo di Ustica. Vengono recuperati 38 corpi: dall’ autopsia emerge che sono morti con gravi lesioni polmonari per decompressione causa la rottura in volo della cabina di pressurizzazione dell’aereo. Il ministro dei Trasporti Rino Formica nomina una commissione d’inchiesta, che come prima azione chiede i tabulati dei radar di Marsala, Ciampino e Licola. A Licola esiste un registro scritto manualmente dall’ operatore DAI. Tale registro risulterà scomparso. A Marsala subito dopo l’incidente il radar viene spento! Il Corriere della Sera riporta l’ipotesi di un missile, francese o americano. Oppure una collisione con un altro aereo. L’ Aeronautica Militare smentisce tali ipotesi affermando che quella sera non c’era nessuna esercitazione militare. Altro colpo di scena: sui monti della Sila vengono ritrovati i resti di un Mig libico. Dall’autopsia del corpo del pilota si fa strada l’ipotesi che quel Mig potrebbe essere caduto il 27 giugno quando è caduto il DC9. Le indagini sul Mig vengono chiuse in fretta, i resti del Mig e del pilota vengono restituiti alla Libia. Non tutti però, alcuni resti del Mig vengono conservati in un Hangar di Pratica di Mare. Si fa l’ipotesi di un cedimento strutturale, ma poi viene scartata l’ipotesi in quanto l’ aereo ha avuto una rottura troppo rapida. Si fa strada l’ipotesi di un missile o di una bomba a bordo. Secondo l’Aeronautica non vi era alcuna attività aerea intorno a cinquanta miglia dalla caduta del DC9. Dopo anni (1988) su sollecito del Presidente Cossiga, commissione d’inchiesta presieduta da Giuliano Amato, vengono riportati a galla da tremilasettecento metri di profondità i resti del DC9, compresa
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la scatola nera. Vengono portati a Pratica di Mare. Ma sono davvero tutti? In un’ immagine di repertorio si vedono delle tracce di un trattore nel punto dove c’erano i resti del DC9! Su Ustica si crea un muro di gomma. Un militare di servizio a Marsala nel 1988 interviene alla trasmissione “telefono giallo” di Corrado Augias dicendo che vi era l’ordine di stare zitti! Il Giudice istruttore Rosario Priore constata che quella sera non erano solo i radar di Ciampino, Marsala e Licola a seguire il volo del DC9, ma anche i radar di Poggio Ballone a Grosseto, Poggio Renatico a Ferrara, di Potenza Picena a Siracusa e di Martina Franca. Ma nessuno ha visto niente di strano quella sera! Emerge anche che quella sera da Grosseto alle 20,20 si sono alzati in volo due F104. I piloti di quel volo sono morti prima di poter testimoniare! Quella sera vi era molto traffico aereo: ci sono registrazioni telefoniche che lo confermano fra cui una fra Ciampino e Martina Franca (ben descritte in questo libro!). Ma l’Aeronautica continua ad affermare che quella sera non vi era alcuna attività aerea intorno a cinquanta miglia dalla caduta del DC9! Il mistero si infittisce sempre di più: vi sono morti sospette dei testimoni di quella sera, fra cui i due piloti dei due F104 che si erano levati in volo quella sera (morti in una collisione durante un’esibizione di frecce tricolori nella base NATO di Ramstein, in Germania provocando la morte di 59 morti fra gli spettatori! Una morte molto sospetta è quella del maresciallo Mario Alberto Dettori, che, quella sera, era di servizio al centro radar di Poggio Ballone. La moglie dice che quando tornò a casa era molto scosso e disse: “Qui è successo un casino, vanno tutti in galera!”. Fu trovato morto impiccato ad un albero il 31 marzo del 1987: suicidio? Anche il maresciallo Franco Parisi, pochi giorni prima di essere interrogato dal Giudice Priori, fu trovato impiccato il 21 dicembre del 1995. Era di turno il giorno della caduta del Mig libico in Sila. Per il Giudice Priore quella sera il cielo era affollato di aerei e vi è stata una collisione fra il DC9 ed un altro aereo, mentre l’ Aeronautica continua a sostenere che non vi era traffi-
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co aereo intorno al DC9 e che la causa dell’ incidente è stata per un’esplosione in volo per una bomba. Il 31 agosto il Giudice Rosario Priore chiede il rinvio a giudizio di 4 generali dell’Aeronautica per attentato contro gli organi Costituzionali con l’aggravante dell’alto tradimento. I generali si difendono e danno la colpa alla Magistratura che non ha svolto bene le indagini fin dall’inizio. Il 26 novembre 2003 il Tribunale di Roma condanna i Ministeri dei Trasporti, della Difesa e degli Interni a risarcire l’Itavia con 108 milioni di euro per non aver garantito la sicurezza aerea quella sera. Il racconto di Lucarelli si ferma al 2004, data di uscita del presente libro, ma a tutto oggi (2015) la procura non crede alla tesi del missile, piuttosto propende per la “quasi collisione”, sposando le conclusioni di due consulenti tecnici, Carlo Casarosa e Manfred Held, che consegnarono a Priore una perizia che concludeva che il Dc-9 precipitò a causa di un’operazione di intercettazione di un velivolo militare che volava “nascosto” sotto di esso (questa è la “near collision”). Un Mig 23 libico inseguito da due caccia, poi abbattuto sulla Calabria, dove del resto un aereo di Gheddafi fu trovato, che per sfuggire avrebbe virato violentemente investendo il Dc-9. Il volo Itavia, dunque, si sarebbe trovato casualmente coinvolto in una battaglia nei cieli di Ustica, come lo stesso Cossiga affermò, parlando però di un missile. Comunque la vicenda rimane tuttora avvolta nel mistero! La quarta storia ha per titolo :”Alceste Campanile”, raccontata, come tutte le storie, in modo brillante da Lucarelli. Scrive Lucarelli: “La storia inizia a quindici chilometri da Reggio Emilia, sulla strada che da Sant’Ilario porta a Montecchio. E’ il 12 giugno del 1975.” Un contadino in un vicino casolare mentre stava guardando alla televisione Tribuna politica (parlava Fanfani essendo prossime le elezioni amministrative) sentì due colpi di arma da fuoco. Poco tempo dopo una coppia in auto si ferma in quanto la donna non si sente bene, la donna scende dall’auto e vede il cadavere di un giovane. La
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coppia va in paese a dare l’allarme. Il giovane ucciso ha 22 anni e fa parte di Lotta Continua, formazione extraparlamentare di sinistra. Il 1975 è un anno di lotte fra fazioni di destra e di sinistra. Sono in auge le Brigate Rosse. Si scava nel passato di Alceste Campanile e si scopre che il padre era di destra e che Alceste era iscritto al Movimento sociale prima di passare a fare l’attività nella sinistra. Era considerato un traditore. Un gruppo estremista di destra rivendica l’omicidio a Parma tramite un volantino, il cui autore risulta essere Donatello Ballabeni. Questo viene arrestato insieme ad altri due. Ma qualcosa non quadra: Ballabeni la sera dell’omicidio ha un alibi e stava ubriaco fradicio in un bar. Il giudice si convince che quel volantino non dice la verità. E a questo punto succede qualcosa: entra in campo Vittorio il padre di Alceste Campanile. Vittorio Campanile (padre di Alceste) sosteneva però che il figlio fosse stato ucciso dai compagni di Lotta Continua, in quanto ritenuto a conoscenza di alcune informazioni relative al sequestro Saronio e degli esecutori materiali, identificati dalle indagini in alcuni militanti dell'estrema sinistra. L'omicidio di Alceste, dunque, avrebbe dovuto coprire alcuni esponenti di gruppi militanti che avevano compiuto il rapimento ma che non erano ancora stati scoperti, in particolare giovani dei collettivi autonomi emiliani, tra cui nomi di esponenti di spicco dei movimenti comunisti. Carlo Fioroni, il rapitore di Saronio, apparve confermare la "pista rossa", facendo il nome di Campanile in una deposizione. Dopo parecchi anni che fanno pensare che il delitto di Alceste fosse un caso chiuso succede un altro colpo di scena! Nel 1999 viene arrestato Paolo Bellini, ex estremista di destra e latitante per anni in Sudamerica dal 1976. Si “pente” del suo passato e confessa i vari omicidi fatti fra cui quello di Alceste Campanile. Il giorno dell'omicidio Bellini aveva trovato Campanile per strada, che faceva l'autostop, lo aveva caricato in auto e lo aveva poi freddato. Vi sono alcune contraddizioni in quanto Bellini afferma di averlo ucciso da solo, ma le
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analisi hanno appurato che a sparare sono state due persone con due pistole diverse. Lascio al lettore di questo libro gli approfondimenti. Comunque tale delitto rimane ancora oggi un mistero! La quinta storia ha per titolo :”I mostri di Firenze”, raccontata, come tutte le storie, in modo brillante da Lucarelli tanto da far diventare una storia anche troppo conosciuta, come quella dei mostri di Firenze avvincente come un romanzo giallo. Questa storia è la stessa, che ho riportato più avanti nella recensione del libro “Il Mostro” di Michele Giuttari. Lucarelli ne fa una descrizione sintetica e coinvolgente. La storia inizia il 14 settembre 1974 a Borgo San Lorenzo a 49 chilometri a nord di Firenze, dove viene massacrata una coppietta. La pistola usata è una calibro 22, il bossolo ha come serie una H. La donna ha subito 96 pugnalate. Poi, per 7 anni non succede più nulla fino al 6 giugno 1981 quando un’altra coppia viene trovata massacrata vicino a Scandicci 10 chilometri a sud di Firenze. Sembra un film dell’orrore: alla donna viene asportato il pube! La pistola è la stessa del delitto precedente, quindi sembra esserci un collegamento fra i due delitti. 4 mesi dopo, il 23 ottobre del 1981 viene trovata massacrata un’ altra coppia con la stessa arma vicino Prato. Anche in questo caso è stato asportato il pube alla ragazza. La gente comincia ad avere paura. 7 mesi dopo, il 19 giugno del 1982 viene trovata massacrata un’altra coppia con la stessa arma a Baccaiano, 25 chilometri a sud di Firenze. In questo caso non è stato asportato il pube alla ragazza in quanto l’auto delle vittime era in mezzo alla strada e troppo visibile. A questo punto succede qualcosa: un maresciallo dei carabinieri di Firenze si ricorda di un delitto avvenuto14 anni prima compiuto con la stessa arma calibro 22. E’ il 21 agosto 1968 quando un uomo, che sta dormendo a casa sua vicino Signa, viene svegliato da un bambino di 6 anni che gli chiede di accompagnarlo a casa sua in quanto sua madre e lo zio sono morti in auto! Il bambino era in macchina e stava dormendo quando sua
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madre e lo zio sono stati uccisi con quattro colpi di pistola ciascuno calibro 22 mentre stavano facendo all’amore. L’assassino è Stefano Mele, il marito della donna. Si prende sedici anni ed è ancora in galera quando si verificano i delitti del Mostro. Si scopre che l’ arma usata nel 1968 è la stessa dei delitti del Mostro. Si indaga e si accusa Francesco Vinci, che era un altro amante della moglie di Stefano Mele, di tutti i delitti del mostro, compreso quello del 1968. E’ la pista sarda. Ma, mentre Francesco Vinci era in galera il 9 settembre 1983 a Giogoli, vicino Scandicci, una coppia di tedeschi viene uccisa. L’ assassino credeva di aver ucciso una coppia invece erano due ragazzi, di cui uno sembrava femmina per i lunghi capelli. L’arma era la stessa pistola calibro 22, bossolo con serie H. 9 mesi dopo, il 30 luglio 1984 viene trovata massacrata un’altra coppia (Claudio e Pia Rontini) con la stessa arma a 35 chilometri a nord di Firenze, a Boschetto di Vicchio. In questo caso è stato asportato non solo il pube alla ragazza, ma anche il seno sinistro! Un anno e un mese dopo, l’8 settembre 1985 viene trovata massacrata un’altra coppia (due ragazzi francesi, mentre stavano facendo all’amore) con la stessa arma a 20 chilometri a sud di Firenze, a San Casciano. Anche in questo caso è stato asportato non solo il pube alla ragazza, ma anche il seno sinistro! Questo seno viene spedito via posta al Sostituto Procuratore Silvia Della Monica! Questa vicenda assume il carattere di una vera e propria sfida! A questo punto il Mostro si ferma dopo sedici delitti: 9 uomini e sette donne. Nasce la SAM, squadra Antimostro. Viene dapprima incolpato Pietro Pacciani, già condannato a suo tempo per un omicidio di un suo rivale per gelosia con diciannove coltellate. Era solito fare maltrattamenti in famiglia. Dopo varie indagini ed interrogatori si arriva alla prima condanna: il primo novembre del 1994, la Corte di Assise di Firenze condanna Pietro Pacciani a quattordici ergastoli per i quattordici omicidi avvenuti tra il 1974 ed il 1985. Per il primo, quello del 1968, non ci sono
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prove che l’abbia commesso Pacciani, anche se per la Corte sarebbe da attribuire a lui. Ma i lati oscuri rimangono in quanto nell’ultimo delitto dei due francesi Pietro Pacciani non era solo. Due testimoni lo hanno visto allontanarsi dal luogo del delitto con un’altra persona. Il 29 gennaio 1996 si apre il processo di appello. Agli avvocati Bevacqua e Fioravanti che lo hanno difeso in Corte di Assise, si aggiunge l’avvocato Nino Marazzita ed un pool di investigatori composto da Carmelo Lavorino e Francesco Bruno. Il 13 febbraio 1996 Pietro Pacciani viene assolto! Dal 15 ottobre 1995 c’è un nuovo Capo della Squadra Mobile, che si chiama Michele Giuttari della D.I.A. Giuttari esamina tutti gli indizi e i testimoni. Arriva a scoprire quattro testimoni, chiamati in codice Alfa, Beta, Gamma e Delta. Questi dichiarano di aver visto Pacciani, insieme ad un’altra persona Mario Vanni, uccidere la coppia dei francesi. Nei contraddittori il testimone Beta, Giancarlo Lotti confessa di aver partecipato come palo ai delitti. Il 20 maggio del 1997 si inizia il processo presso la Corte di Assise di Firenze dei compagni di merende Mario Vanni e Giancarlo Lotti. Si aggiunge anche un’altra persona, chiamata in causa da Lotti, un commerciante di piastrelle. Manca al processo Pietro Pacciani. Il 24 marzo 1998, dopo cinque giorni di camera di consiglio la Corte di Assise condanna Vanni all’ergastolo e Lotti a trent’anni. Il commerciante viene assolto. Sentenza poi riconfermata il 31 maggio del 1999. Intanto muore Pacciani in modo misterioso il 21 febbraio del 1998. Ma non è l’unica morte misteriosa: nel ’93 Francesco Vinci, uno dei primi sospettati, viene trovato morto carbonizzato nella sua auto insieme con un altro uomo. Due settimane dopo anche una prostituta amica dei compagni di merende viene trovata carbonizzata in macchina insieme al figlio di tre anni. Molti anni prima nel 1981 era morto il marito di Maria Sperduto, che era stata l’ amante di Pacciani. Suicidio strano per impiccagione con i piedi che toccano per terra!
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Giuttari si dice convinto che l’unica certezza è la sentenza di Cassazione del 26 settembre 2000, che conferma la condanna per Lotti e Vanni e conferma la teoria dei ”Compagni di merende”. Ma Giuttari si convince che c’è dell’altro, che bisogna trovare i mandanti, che i pezzi asportati dalle donne venivano pagate da qualcuno per i riti esoterici, che le scene del delitto erano contrassegnate da segni esoterici: luna piena, omicidi durante l’atto sessuale vicino ad alberi e corsi d’acqua, cerchi in pietra. Giuttari scopre anche che in una villa, frequentata anche da Pacciani e abitata da un pittore, avvenivano strani riti. Nel 1984 Vincenzo Parisi, direttore del Sisde, affida ad un criminologo Francesco Bruno l’indagine sul Mostro: da ciò emerge la pista della setta esoterica. Ma di questo rapporto la polizia ha notizia solo nel 2001! Era stato insabbiato. Poi ci sono i soldi che avevano sia Pacciani che Vanni. Non mancano le polemiche: per Mario Spezi, giornalista della Nazione, l’assassino è uno solo, un serial killer. Per le sue ipotesi Spezi nel 2006 viene condannato e rimane in carcere per 23 giorni con l’accusa di depistaggio (sosteneva la pista sarda). Verrà poi scagionato, ma inquisito di nuovo per il delitto del dottore chirurgo Francesco Narducci, trovato morto nel lago Trasimeno. Il 9 dicembre del 1998 il signor Rontini, padre di Pia ragazza massacrata dal Mostro, muore per il dolore d’infarto per la strada! La sesta storia ha per titolo :”Antonino Agostino ed Emanuele Piazza”, raccontata, come tutte le storie, in modo brillante da Lucarelli. Scrive Lucarelli: “Questa è la storia di due ragazzi, poliziotti. Questa è una storia da non crederci e come se fosse un romanzo… Accade a Palermo, tra l’agosto del 1989 e il marzo del 1990. Antonio Agostino è un giovane agente di polizia di 28 anni. Sta a casa dei genitori a Villa Grazia di Carini per festeggiare la sorella Flora che compie diciotto anni. Vi è la moglie di Agostino, Ida Castellucci, di vent’anni e che aspetta un figlio. Sono le 19,40 del 5 agosto 1989. All’ improvvi-
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so due giovani a bordo di una moto sparano e uccidono Agostino e la moglie Ida davanti agli occhi del padre di Agostino. I due killer scappano con la moto. La moto verrà ritrovata qualche giorno dopo a un chilometro di distanza, ma degli assassini nessuna traccia. Scomparsi!” Il padre di Agostino non riesce a spiegarsi il motivo. Al funerale ci sono molte autorità: carabinieri, militari, vigili urbani. La telecamera si sofferma sui volti immobili e commossi di Falcone e Borsellino. Sembra un delitto ad opera della mafia, ma Agostino faceva un normale servizio di polizia, non sembrava coinvolto in giri mafiosi. Ed il funerale è stato un funerale di Stato! Una volta però confidò ad un collega di lavoro di essere “sulle tracce di qualcosa di importante.” Ed era preoccupato! Si scopre che prima del matrimonio Agostino aveva frequentato una ragazza legata alla mafia. Una telefonata anonima afferma che Agostino aveva messo del tritolo presso la villa di Falcone. Tutto rimane nel mistero, finchè succede che un altro poliziotto Emanuele Piazza, figlio di un avvocato, scompare e non viene ad una cena di amici. A casa sua, a Sferracavallo, Emanuele non si trova! Emanuele è un poliziotto come Antonino ed essendo esperto di arti marziali viene scelto a fare la guardia al Quirinale. Emanuele è tra le guardie del corpo del Presidente Pertini. Ma passare i giorni sui tetti a fare la guardia non gli piace, torna a Palermo e briga per entrare nei sevizi segreti, nel Sisde. Si iscrive all’Università: con la laurea avrebbe fatto carriera. Sulla scomparsa di Piazza viene fatto un servizio alla trasmissione Rai “Chi l’ ha visto?” con Donatella Raffai: viene detto che un ragazzo di circa trent’anni Emanuele Piazza è scomparso da casa sua a Sferracavallo dopo aver preparato il pranzo il giorno 15 marzo del 1990. Dopo questa trasmissione un brigadiere dei carabinieri viene a trovare il padre di Emanuele l’avvocato Piazza. Il brigadiere constata che non si è subito indagato sulla scomparsa di Emanuele, ma che si volesse insabbiare il caso. Emanuele aveva lavorato nei servizi segreti in prova solo per tre
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mesi dal 13 novembre 1989 al 13 febbraio 1990 e che era un ragazzo normale, molto socievole e trasparente. Emergono due punti in comune fra i due ragazzi. A Emanuele era stato chiesto di indagare sull’omicidio dell’ agente Agostino. Agostino lavorava per il commissariato di San Lorenzo, lo stesso a cui faceva riferimento Emanuele. Emanuele è molto amico di Francesco Onorato. Vivono nello stesso quartiere, vanno in palestra insieme. Emanuele pensa che Ciccio Onorato possa dargli alcuni nomi della malavita per prendere poi la taglia con la successiva denuncia. Ma Emanuele non sa che Ciccio sta in un giro grosso di mafia. Sulla scomparsa di Piazza è buio pesto fino a quando il suo amico Ciccio si pente e confessa l’omicidio di Emanuele. Secondo il collaboratore Onorato, in una di queste occasioni, Piazza venne notato da Salvatore Biondino, della famiglia mafiosa di San Lorenzo e braccio destro di Totò Riina (con cui verrà catturato), mentre scambiava amichevolmente quattro chiacchiere con lui. Poco dopo, Biondino rimproverò Onorato dicendogli: “Che fai, ti abbracci con gli sbirri?” Il giorno della scomparsa di Emanuele, il 16 marzo Emanuele viene attirato fuori dalla sua abitazione da Onorato, ex pugile e suo vecchio compagno di palestra, con la scusa di cambiare un assegno in un magazzino di mobili di Capaci (a pochi minuti di distanza da Sferracavallo). Onorato condusse Piazza in uno scantinato, e l'agente venne strangolato. In seguito il suo cadavere venne sciolto nell' acido in un casolare della campagna di Capaci, a poche centinaia di metri dal luogo dove nel 1992 troverà la morte lo stesso giudice Falcone. Il padre di Antonino continua a farsi crescere i capelli e la barba e continua a premere le Autorità perché si faccia luce sulla morte di suo figlio. Purtroppo, senza grandi risultati… Giuseppe Giorgioli CARLO LUCARELLI: NUOVI MISTERI D'ITALIA. I CASI DI BLU NOTTE - Versione brossura: Einaudi, Stile libero - Edizione 2004, pag. 213, € 14,50 €, ISBN: 88-06-16740-5.
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VITTORIANO ESPOSITO La sua eleganza di uomo e di scrittore di Giuseppe Leone
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UATTRO anni fa, il 14 febbraio 2012, ci lasciava Vittoriano Esposito, critico letterario nonché scrittore e poeta nativo di Celano e vissuto ad Avezzano dove ha insegnato per lunghi anni latino e greco nel cittadino liceo classico Torlonia.
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Un galantuomo delle lettere e un intellettuale dal portamento signorile, si sentì dire di lui in un convegno alla sua memoria tenutosi a Pescina alcuni mesi dopo la sua scomparsa. Sono appena due definizioni fra le tante che si sono udite, ma bastano per dare unità umana e letteraria a uno studioso che ha percorso, si fa per dire, l’intero cursus honorum delle lettere. Ha pubblicato più di una raccolta di versi con lo pseudonimo di Amato Amans, in uno stile che lo faceva annoverare fra gli autori del Semplicismo, una corrente poetica degli anni Cinquanta; racconti, storie della letteratura abruzzese, singole monografie su autori fra Otto e Novecento: Leopardi, Pascoli, Pirandello, Pavese, Flaiano, Pomilio; e altri minori. E poi ancora altri saggi, la maggior parte dedicati a Ignazio Silone, verso il quale Vittoriano manifestò, fin da giovanissimo, ammirazione e un interesse che non si tradusse mai in una imitazione pedissequa della sua personalità, perché tra lui e Silone - spiegherà Angelo Sabatini - c’era un’identità interiore nonché una stessa crescita intellettuale. Ho conosciuto Vittoriano Esposito nel Centro Studi Silone di Pescina, nell’agosto 2003, in occasione di un convegno dedicato all’autore di Fontamara nella ricorrenza del XXV° anniversario dalla morte. Non ci eravamo mai incontrati prima, alle spalle solo una conversazione telefonica per una richiesta di prefazione a un mio saggio dal titolo Silone e Machiavelli. Una scuola che non crea… prìncipi, che poi venne pubblicato e presentato durante la stessa manifestazione. Seguirono altri incontri nel Centro e a casa sua, oltre che un’intensa corrispondenza epistolare relativa ai suoi saggi e ai miei articoli su alcuni dei suoi scritti, tra cui: Questioni Siloniane (vecchie e nuove), Penultime note di letteratura abruzzese; Ignazio Silone e la rivolta del Terzo Fronte; e L’altro Novecento, una corposa opera in undici volumi, dove sono raccolte, fra antologie di poeti, scrittori e critici, centinaia e centinaia di recensioni. Ed è proprio su questo genere, dove Vittoriano ha incastonato una perla dietro l’altra,
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che oggi vorrei fermare la mia attenzione. Quegli incipit, divenuti ormai proverbiali, come: con un titolo che… con una prefazione che… introdotta magistralmente da notazioni critiche; oppure: libro bello e soprattutto interessante…; Affermatasi già in concorsi letterari, regionali e nazionali…; Con alle spalle, come si suol dire, già una lunga esperienza di narratore…; Giunto al bel traguardo dei settant’anni, tenuti splendidamente…; A distanza di poco più d’un trentennio dalla sua prima, felice prova narrativa…; Con i tempi che corrono, ha avuto del coraggio…”. E non solo gli incipit, anche le conclusioni, come: Se a tutto questo si aggiunge l’ innegabile pregio…; Doveroso aggiungere che ogni racconto…; Un volume miscellaneo, si direbbe…; Tutto bello, dunque, questo libro?...; Non si è detto che il testo ha anche una bella e acuta prefazione…. Non sono tante queste citazioni, ma sono emblematiche per dire che Vittoriano, relativamente alle recensioni, fu un maestro, e non solo limitatamente allo stile, ma anche alla moralità, di cui ne ha dato spesso spiegazioni nel corso di numerose introduzioni e prefazioni dei suoi libri: “autori e opere vengono solitamente vagliati con un metodo di assoluta serenità, senza sfiorare i limiti della inutile mitizzazione e senza sfociare nel gusto acremente stroncatorio”. Era proprio in questa urgenza, a metà strada fra biografia e scrittura, fra arte e vita morale, che maturavano le sue recensioni a scrittori famosi e non, ma anche a molti altri che egli definiva “eslege”, appartenenti a quella non più ristretta cerchia di poeti che non sono letterati di professione e che ritengono di scrivere versi solo quando “ei ditta dentro”, poeti soltanto nella durata della loro ispirazione, che non intendono conferire al proprio lavoro un intento né autobiografico, né letterario, ma piuttosto personale. Una scelta, questa, che rende onore, da una parte, a Vittoriano perché dimostra d’ aver vinto ogni pregiudizio intorno alla nozione di letteratura, non più appannaggio di una corporazione, ma espressione istintiva e
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naturale di uomini e donne; e dall’altra, merito anche a questi scrittori per la loro insospettata dignità letteraria. Vittoriano scriveva queste sue recensioni, non disperdendo, neppure in questo caso, la lezione siloniana. Le scriveva per “capire e far capire”, grazie a una sua concezione democratica della letteratura che lo escludeva dal novero di coloro che scrivono le recensioni per far pubblicità al libro. Ne scrisse un’infinità, per un numero illimitato di autori, inserendole tutte nella già citata antologia critica, un’opera provocatoria, a sfida degli storici della letteratura, invitandoli a rivedere i criteri con i quali essi stabiliscono di inserire uno scrittore e di escludere un altro, soprattutto quando il costume è quello di privilegiare solo scrittori e poeti che hanno goduto delle luci della ribalta e mai coloro che vissero appartati nell’ombra. Giuseppe Leone
HO BACIATO Ho baciato i fiori: il loro calice sembrava una bocca assetata di affetto sembravano occhi che guardavano l’infinito. Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, Mi
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 04/01/2016 Stupri, toccate e fughe, abusi di massa e non solo in Germania, a Colonia, ma in Svizzera, Austria. Alleluia! Alleluia! A nessuno viene in mente che, dietro queste coordinate aggressioni e molestie, possa nascondersi un nuovo terrorismo musulmano, meno sanguinario, ma non per questo meno inquietante? Domenico Defelice
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MARIO LANDOLFI: MARIA LUIGIA A PARMA Genesi di un patto d’amore di Liliana Porro Andriuoli
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RITICO e saggista di livello (ha al suo attivo numerosi libri, tra i quali ricordiamo Il romanzo di Giorgio Saviane, 1989; Pagine sul Novecento letterario, 1997; La famiglia nel teatro di Eduardo, 2005; La Lucania dell’ingegnere Leonardo Sinisgalli, 2013; Aldo Capasso e il Realismo lirico, 2014), Mario Landolfi si è di recente occupato di Maria Luisa d’Austria-Lorena, in un saggio dal titolo Maria Luigia a Parma – Genesi di un patto d’amore, seguendola nelle diverse fasi della sua vita. (Maria Luigia è il nome con cui la Duchessa Maria Luisa si faceva chiamare a Parma, durante gli anni del suo Ducato). Il libro inizia con la nascita di Maria Luisa a Vienna, il 12 dicembre 1791, nel palazzo dell’Hofburg, dove crebbe, circondata dall’ affetto dei genitori e dei fratelli, dedita allo studio delle lingue, della musica e delle arti. “Fondamentale” nella sua educazione fu anche l’insegnamento della religione; di una religione però osservante più della forma che della sostanza del Messaggio Evangelico: lo studio dell’“agiografia”, infatti, “unitamente alle molte ore trascorse nella cappella reale a sgranare il rosario, costituiva una parte essenziale della sua giornata”. Il padre, Francesco I d’Asburgo, benché amasse la figlia, non esitò, per ragioni di stato, a darla in sposa a Napoleone, assecondando i piani del Metternich il quale, dopo il trattato di Vienna, voleva rendere duratura la pace stipulata con la Francia, eterna nemica degli Asburgo. E Maria Luisa, docile per indole e fin da piccola educata all’ubbidienza, accettò tale decisione senza opporre eccessiva resistenza. Le nozze furono celebrate con rito solenne a Parigi, nel palazzo del Louvre, il 1° aprile 1810 e, un anno dopo, il 20 marzo 1811, nacque l’erede, tanto sospirato da Napoleone,
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che fu chiamato Francesco Carlo Giuseppe e ricevette dal padre il titolo di “Re di Roma”. Maria Luisa, malgrado non fosse amata dai francesi ed andasse spesso col pensiero all’ antenata Maria Antonietta, ghigliottinata durante la rivoluzione, non disdegnava il suo nuovo stato; né ingrato le risultava, nonostante l’educazione antinapoleonica ricevuta da bambina, il suo rapporto con il coniuge. A questo punto tutto faceva supporre che l’ Europa potesse godere di un lungo periodo di pace, ma non fu così perché, solo pochi mesi dopo, Napoleone, a capo di un imponente esercito, decise di attaccare la Russia. Non riuscì tuttavia, come è noto, ad avere ragione del nemico, perché rimase irretito dalla tattica da questi adottata: quella della guerriglia anziché dello scontro in campo aperto. Inoltre, a sfavore dell’esercito francese, molto giocò anche il clima particolarmente rigido del territorio, a cui il nemico era invece avvezzo. Pertanto, con le truppe decimate dal freddo e dagli stenti, il grande stratega fu costretto ad una disastrosa ritirata e, con la sconfitta di Lipsia, l’avventura napoleonica iniziò a volgere al suo epilogo. Il 31 marzo 1814 infatti lo zar Alessandro I e il re di Prussia entrarono in Parigi e Napoleone fu costretto ad abdicare e a ridursi in esilio nell’isola d’ Elba. Sul trono di Francia salirà Luigi XVIII, fratello minore del re ghigliottinato, che sarà però presto inviso alla popolazione, per il suo intento di smantellare a poco a poco tutte le conquiste della Rivoluzione fatte proprie da Napoleone. Molto difficile in quel frangente fu anche la situazione in cui si venne a trovare Maria Luisa essendo ella, da un lato, ancora la moglie di Napoleone, di cui avrebbe dovuto (ed in un certo senso anche voluto) seguire il destino all’isola d’Elba, ed essendo, dall’altro lato, pressata dall’Austria che voleva il ritorno dell’arciduchessa in seno agli Asburgo. Sarà ancora una volta il Metternich a determinare la sorte di Maria Luisa, questa volta però in maniera opposta alla precedente: sarà infatti lui a convincere Corvisàrt, il medico di Napoleone, che godeva della sua piena fiducia, a comuni-
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care all’Imperatore in esilio che la moglie non poteva raggiungerlo per motivi di salute. A Maria Luisa, d’altra parte, non avendo seguito Napoleone all’Elba, non restava altro da fare che chiedere aiuto, per sé e per il figlioletto, al padre, il quale concederà loro accoglienza e protezione presso la Corte Asburgica. Inevitabile sarà così l’incontro di Maria Luisa, favorito dal Metternich, con il Conte Adam von Neipperg, nei cortili di Schönbrunn. Dapprima “infastidita” dalla costante presenza del Neipperg, l’ex imperatrice ne rimarrà “gradualmente affascinata, tanto da rimandare più volte la programmata partenza per l’Elba”. Neipperg diventerà così presto il suo sostegno e, successivamente, una volta morto Napoleone, il suo secondo marito morganatico. Avrà da lui due figli, Albertina Maria e Guglielmo. Molto bene Mario Landolfi evidenzia come la storiografia non sia sempre concorde sull’ interpretazione del comportamento dell’ arciduchessa asburgica; e meno che mai lo sia a proposito di questo così complesso ed intricato periodo della sua vita. Egli infatti, avvalendosi delle fonti (sempre puntualmente citate), pone bene in luce come Maria Luisa, “in balia, ancora una volta, di giochi politici più grandi di lei”, riesca però, nonostante tutto, a tessere la tela del suo destino. “Secondo una parte della storiografia”, invero, scrive Mario Landolfi, “al di là delle seduzioni del conte, fu [la stessa] Maria Luisa ad affidarsi a lui” e a decidere di “ricominciare una nuova vita”. Gli eventi politici, come è noto, si susseguirono in maniera vorticosa: Napoleone, dopo i cento giorni dell’Elba, rientrerà in Francia per riprendere un’altra volta le armi, ma sarà sconfitto a Waterloo (18 giugno 1815) e costretto a subire l’esilio definitivo a Sant’ Elena, dove morirà il 5 maggio 1821. Con il Congresso di Vienna sarà deciso il nuovo assetto territoriale degli Stati europei con la restaurazione di gran parte dei sovrani che vi avevano regnato prima dello scoppio della Rivoluzione Francese. In questo contesto, e anche per l’intervento di Neipperg e
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Metternich, sarà riconosciuta a Maria Luisa l’investitura del Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, oggetto di contesa tra gli Asburgo e i Borbone-Parma, vantanti entrambi su di esso diritti dinastici. Questo in breve è quanto viene esposto da Mario Landolfi in maniera efficace e coerente, con un ricco apparato di note e con molte notizie ricavate anche da lettere private e da assidue ricerche d’archivio. Nella seconda parte del suo saggio, Mario Landolfi tratta diffusamente dell’ insediamento di Maria Luisa a Parma (dove, come si è detto, verrà chiamata Maria Luigia) e della sua attività di governo; ma soprattutto della sua capacità di rendere “quell’insignificante città di provincia un centro cosmopolita dell’ epoca dei lumi”1. Un governo illuminato, fu senza dubbio il suo, specie per l’assiduo intervento del Neipperg, che la consigliò e la sorresse nell’ assumere le decisioni più importanti. Notevoli furono infatti le riforme da lei introdotte nel ducato: dal campo dell’istruzione pubblica a quello della vita economica, nonché in materia di assistenza ai bisognosi. Da menzionare specialmente a tale proposito è la creazione di un Ospizio della maternità e di un Ospedale per gli alienati mentali. La duchessa provvide inoltre al riordino del Catasto, alla riforma della pubblica Amministrazione dei Comuni, alla nuova codificazione in materia civile e penale (che però non cancellò del tutto le conquiste dei codici napoleonici), al riordino dell’Università (che Napoleone aveva retrocesso al ruolo più modesto di Accademia) e delle Biblioteche, inaugurò il Teatro Ducale (l’attuale “Teatro Regio di Parma”) e istituì il Conservatorio. Si adoperò anche per l’ottenimento di una maggiore equità fiscale e promosse al contempo tutta una serie di lavori pubblici per ridurre la disoccupazione. Il suo governo risentì, come emerge da tutte queste riforme, dell’“influenza culturale dell’ età napoleonica”, influenza che sopravvisse allo stesso Napoleone; il che valse a salvare le principali conquiste della Rivoluzione
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francese. Molto equilibrato fu anche il comportamento di Maria Luigia in occasione dei moti rivoluzionari del 1821 e del 1831, durante i quali ella seppe evitare degli inutili spargimenti di sangue, conseguenti alla loro repressione, che invece si ebbero altrove: e molto bene lo mette in luce il Landolfi, il quale sottolinea anche l’autonomia di comportamento tenuta dalla Duchessa nei confronti del Metternich, che premeva invece per una più dura repressione. Gli anni più felici della vita di Maria Luigia furono proprio quelli trascorsi a Parma fra il 1817 e 1820; anni nei quali nacquero i due figli, Albertina Maria e Guglielmo, avuti dal Neipperg e durante i quali si posero le basi per un proficuo e “affettuoso” rapporto con il suo Ducato. La morte del Neipperg, avvenuta il 22 febbraio 1829, gettò Maria Luigia in uno stato di profonda prostrazione; il che diede mano libera al nuovo inviato dell’Austria, il barone Joseph von Werklein, il quale con la sua politica poco accorta suscitò le ire del popolo, che si sollevò. Maria Luigia lo licenziò ed il governo venne affidato al barone Vincenzo Mistrali, che riuscì a placare gli animi, riconducendo la situazione alla normalità. Egli infatti consigliò ed ottenne un’amnistia per quanti si erano compromessi durante i moti del 1831, pacificando in tal modo il Ducato. Un altro grave lutto colpì Maria Luigia, appena tre anni dopo, con la morte del figlio Franz (come veniva chiamato in Austria il figlio di Napoleone), al cui capezzale era accorsa il 24 giugno 1832, essendo stata informata solo all’ultimo delle sue condizioni di salute. Franz morì il 22 luglio dello stesso anno, consumato dalla tisi e dagli strapazzi di una vita dedita ai piaceri mondani. Osserva Landolfi: “Gli anni successivi alla morte di Franz trascorsero nel Ducato senza grandi slanci politici, né mutamenti significativi”. Maria Luigia ebbe come terzo marito il conte di Bombelles, che sposò il 17 febbraio 1834, piuttosto per trovare un appoggio che per amore. Infatti lo tradì anche con subalterni, come si sussurrava a Corte.
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Il 2 marzo 1835, a causa di una polmonite, morì anche l’arciduca Francesco I, il padre, a cui Maria Luisa era rimasta estremamente affezionata, malgrado qualche contrasto o qualche dissapore intercorso tra loro a causa del matrimonio impostole con Napoleone. Negli ultimi anni di vita la duchessa andò sempre più declinando. Morì il 17 dicembre 1847 a Parma. La sua salma, imbalsamata, fu esposta per tre giorni al Palazzo Ducale, dove i parmigiani le resero un commosso omaggio. Il suo corpo fu poi trasportato a Vienna, dove venne sepolto nella cripta dei Cappuccini. Della sua opera di duchessa di Parma restano specialmente alcune opere importanti, come il Teatro Ducale, inaugurato nel 1829 con la Zaira di Vincenzo Bellini. Ne fu Direttore artistico e Direttore d’Orchestra Nicolò Paganini. Anche Giuseppe Verdi fu ospite al Teatro Ducale con il Nabucco, suscitando grande entusiasmo sia nel pubblico che nella Corte. Verdi dedicò poi a Maria Luigia I Lombardi alla prima crociata, che fu rappresentato a Parma nel 1844. Tra le attività promosse da Maria Luigia vi fu anche quella della coltivazione dei fiori: famose rimasero le sue violette, dette appunto di Parma. Una duchessa molto amata dai suoi sudditi (al punto da essere considerata “una buona madre”) fu certamente Maria Luigia, che ancora oggi, dopo più di un secolo e mezzo dalla sua scomparsa, è ricordata nella città che resse per oltre trent’anni con grande affetto e simpatia. Mario Landolfi ne ha tracciato un’ immagine molto compiuta, con un saggio che risulta certamente utilissimo a quanti vogliano documentarsi, per meglio approfondire l’argomento in questione. Liliana Porro Andriuoli 1 - Nel testo la frase è virgolettata e, come di consueto, Landolfi ne cita la fonte: “Stuart J. Wolf, Le riforme e l’autorità: l’illuminismo e il dispotismo (1750-1790), in Storia d’Italia, vol. 3, Einaudi, 1973, p. 98”. ----------------------------MARIO LANDOLFI: MARIA LUIGIA A PARMA Genesi di un patto d’amore - (SamniCaudium Edizioni, Montesarchio (BN), 2015, € 10,00)
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RAFFAELE DE LAURO CI PORTA NELL’INDIA DEGLI ANNI ’40 CON LA “LA RAGAZZA DI BOMBAY” di Anna Aita CCOLA l’India vera, l’India cruda, al tempo della II guerra mondiale con le sue infinite difficoltà. Ce la racconta Raffaele De Lauro, che l’ha sperimentata sulla propria pelle, con la vista, con l’udito, con tutti e quattro i sensi, proponendola a partire dal suo lungo viaggio, prigioniero degli inglesi, verso Bombay. Ed è possibile, allora, leggendo i suoi ricordi durante questo suo lungo, tormentato tratto di vita in India, soffrire insieme a lui alla vista di tanta gente malandata nelle strade, sentirsi soffocare nella stiva della nave, osservare le nudità per difendersi dal calore e lo “specchio oleoso delle acque” e i famelici squali e tant’altro ancora. Il volume ha delle caratteristiche specifiche: non è suddiviso in capitoli, ma la scrittura procede senza esitazioni e senza interruzioni. E, proprio per questo, non necessita di indice. La scrittura è limpida, sincera, lineare, una scrittura visibile e, sottolineo ancora, cruda, che traccia senza veli e senza infingimenti verità sconvolgenti nei campi di prigionia: tappe ospedaliere, problematiche concrete di una giovinezza rimasta lungo tempo senza una compagnia femminile, la forma infiammatoria del “lichene” che aggrediva le ghiandole sudoripare, l’invasione delle cavallette e soprattutto un “caldo implacabile”. Ed ecco, improvvisamente, come ci racconta meravigliosamente il nostro Autore, il calore ossessivo si placa. Dopo il lungo periodo di arsura, dilaga la vita: “L’India, assetata ed esausta, come un essere disperso in un deserto, esplose improvvisamente, in tre giorni, come l’aprirsi di un mazzo di fiori tra le mani di un prestigiatore. La terra, riarsa dal sole, ricevuto l’elemento vitale dell’acqua, aveva nascosto nel suo seno, l’immenso e segreto tesoro aspettando. Piante, fiori, liane, erba,
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scoppiarono quasi dalle viscere della terra e il paesaggio cambiava volto giorno dopo giorno, ora dopo ora”. Da questa esplosione di vitalità, mille sono le riflessioni che si avvicendano nell’animo di Raffaele e che ci vengono trasmesse con forte empatia. Finalmente, dopo tanto rigore e tante costrizioni, il nostro prigioniero riesce a conquistare un margine di libertà che gli consente di circolare per le strade dell’India e conoscere da vicino i suoi abitanti. La visione che il narratore ci offre è molto triste: quasi tutti i passanti portano ben visibili sul corpo le “stigmate della denutrizione”, caratteristica che turba soprattutto nei bambini che mostrano occhi grandi e neri come carbone, un ventre simile ad un tamburo pieno d’acqua e gambe e braccia scheletriche. Più che raccapricciante, direi impressionante la descrizione particolareggiata di come sciacalli e iene divoravano i corpi esanimi talvolta abbandonati nelle strade. Raffaele De Lauro non ci risparmia nulla degli orrori incontrati in questo terribile periodo di vita. Credo sia proprio questa verità a tutti i costi, a rendere il volume molto particolare: l’Autore si sofferma su avvenimenti di ogni genere, non esclusa la raccolta del the fatto da donne prive di indumenti intimi. E, Intanto, il giovane continua a soffrire di coliche intestinali al punto da arrivare, ancora una volta, al ricovero ospedaliero, evento che lo costringe ad abbandonare definitivamente il campo militare che occupa e i suoi tanti cari amici che l’hanno aiutato. Nel campo 29, dove verrà trasferito, esiste un cimitero ma anche qui la certezza di rimanere tra quelle croci, verrà superata e, dopo inenarrabili sofferenze, il nostro prigioniero passa al campo 28. Un momento di scrittura, questo, in cui qualcosa il nostro Autore poteva risparmiarcela. Ma egli procede convinto: la verità in tutto e su tutto. Costi quel che costi. E noi andiamo avanti. Nel campo 28, Raffaele se la caverà abbastanza bene in quanto, scoperte le sue incredibili doti canore, ereditate dal padre, diventerà l’acclamata voce tenorile che riceverà, alla
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sua prima esibizione, ovazioni incredibili. Un giorno, dopo un cocciuto, infinito pedalare sotto un sole cocente, madido di sudore in tutto il corpo, Raffaele raggiunge l’India vera, “quella degli indiani, quella del Mahatma, di Siva e di Visnù: l’india delle vacche magre e dei templi dorati, l’India dove gli inglesi e tutti i bianchi non potevano entrare. Dove caldo e sudore, umori e odori, colori e sapori, gioie e dolori, ricchezza e povertà, sembravano fermentare in un unico crogiuolo ribollente e pietrificato, a un tempo, nei millenni”. Tutta la scrittura è scandita al ritmo di descrizioni rapide e precise. Nulla sfugge allo sguardo acuto del nostro Autore: strade, paesaggi, persone, variazioni del clima e dell’ animo umano vengono trasmesse, con sapienti pennellate, nella nostra mente e nei nostri occhi interessati e avidi, sempre pronti a carpire immagini ed eventi. Lo scopo dell’incredibile sfacchinata, di cui ho riportato poco fa un passo, ha uno scopo preciso: l’incontro, finalmente, con una giovane, una donna disponibile ad essere completamente sua. Sul racconto di questo incontro, il nostro Raffaele non lesina particolari. Tutto viene raccontato con dovizia di dettagli e di sfumature nei suoi vari colori. È il contatto fatale, quello con “La ragazza di Bombay” che resterà per sempre nel cuore del nostro Autore, come l’indelebile momento di un lungo tratto di vita del tutto privo di amore fisico. Intanto, qualcosa comincia a girare nel verso giusto: il generale inglese propone al giovane cantante il lancio di una canzone presso la stazione di radio Delhi dove egli sarà trasferito per una ventina di giorni. Il giovane aderisce all’invito. Qui ottiene la meritata notorietà, acclamato in varie esibizioni da tutti e soprattutto dalle donne. Da alcune di queste viene colpito profondamente per l’intensità dello sguardo ammirato e trasognato. E sono sempre donne affascinanti e misteriose che continuano a lasciargli dentro qualcosa di inquietante ed indimenticabile.
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In questo mondo sognante, Raffaele conosce Roberto, un amico importante che lo condurrà alla scoperta “della Delhi vecchia e nuova, dei meravigliosi templi indiani, delle rive dello Jumma e delle sue scimmie festanti, del fantasmagorico palazzo mussulmano poco fuori la città vecchia. Delle manguste dagli occhietti penetranti e dai dentini a spillo, dei cobra che gli indiani portavano nel giardino entro ceste di vimini, del folklore indiano di Chandini Cohok che mi affascinava e delle donne d’India dalle quali mi sentivo sempre più attratto, come in una spirale”. Intanto, in Italia, le cose evolvono. Arriva il giorno in cui la stampa locale riporta la fotografia di Mussolini, appeso per i piedi accanto all’amante Clara Petacci; è la fine dei sogni del giovane italiano che vede crollare miseramente tutto il mondo da lui idealizzato nel corso della giovinezza. Ne deduce che, anche se tra gli ultimi a partire, sarebbe ritornato in Italia. Cerca, allora, di approfondire la conoscenza dell’inglese, che parlava già correntemente e, soprattutto, si preoccupa, nel tempo che gli rimane, tra lavoro di ufficio, speaker della radio e concerti come cantante in pubblico ed in privato, di conoscere profondamente le bellezze dell’India. Qui iniziano pagine favolose in cui l’Autore ci trasmette le sue emozioni dinnanzi a tanto incanto. Mi piacerebbe molto riportare alcuni passi ma credo di essermi già dilungata abbastanza e, dunque, rinuncerò a raccontare di cupole intarsiate, di suppellettili in avorio come tessuti trapuntati, delle rive dello Jumma, della graziosa scimmietta Chiquita con la quale Raffaele aveva fatto amicizia. C’è un fascino segreto, in queste pagine, che trascina e ammalia e che ci fa superare il disagio di quelle un po’ troppo… audaci? Il tempo passa. Raffaele è al quarto anno di prigionia e si è talmente assuefatto alle donne locali da essere convinto che non riuscirà mai più ad amare una donna dalla pelle bianca. E invece, proprio in India, conosce, e si innamora perdutamente, di una donna europea: una bellissima inglese. Mentre egli teme di doversene allontanare
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per sempre, in quanto destinato al rientro in Italia, Erika si ammala e, in breve, muore lasciandolo solo e disperato. Sono pagine intense, pagine toccanti che concludono un volume di ben 360 pagine. Al termine della lettura, c’è da chiedersi cosa sia rimasto in tutti noi. Facile rispondere: impressioni fortissime di vita intensa ma anche di dolore, una realtà vissuta nei suoi aspetti più attraenti e fascinosi, ma anche tra i più terribili e sconvolgenti. Un libro scritto bene, pieno di sincerità e di sorprese anche brusche per raccontare la vita. Quella vera. Nel concludere questi miei pensieri, affermo che, nonostante la presenza di varie circostanze di scrittura con tonalità particolarmente accese, oserei dire piccanti, vorrei vedere, al di là della parte storica, questo volume come un grande libro dell’amore. Amore visto sotto tutte le angolature, quelle più accettabili e quelle impossibili, quelle candide e quelle distorte o proibitive: amori vissuti da un italiano, come ho già detto, prigioniero degli inglesi in India. Un uomo che, nella sua disperata solitudine, ha saputo comunque amare, riscattando le tante ombre con la luce sfolgorante di un grande amore, imprigionato nelle pagine più belle, conclusive di una storia che andava raccontata. Anna Aita RAFFAELE DE LAURO - La ragazza di Bombay (Romanzo per adulti) - Editrice Italiana Letteraria, 2015 - Pagg. 362, € 22,00.
LUOGHI E RICORDI Vola il pensiero a volte verso luoghi carichi di ricordi e nostalgie, luoghi legati a un volto, a una persona o ad un evento dolce nel ricordo. Vola il pensiero a volte verso un luogo e a volte va a una persona o a un fatto legati a un certo luogo. E allora penso se mi è più caro il luogo o la persona od il felice fatto un dì in quel luogo da me vissuto. Ma se al luogo torno
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e non c’è più con me quella persona, sarà il ricordo di chi mi fu caro o del fatto piacevole soltanto ciò che mi darà gioia, e quindi serve, il luogo, solamente a render vivo, profumato e fragrante il mio ricordo. Allora il luogo di per sé ha valore solo per la bellezza che racchiude, e sono solo le persone e i fatti che lo rendono caro al nostro cuore. Anche un luogo fra i più insignificanti così diventa amato nel ricordo. Mariagina Bonciani Milano
IL MIRACOLO Luce ricolma di vento quando gli uccelli di tutto il cielo, le onde di tutto il mare palpitano nell’abbraccio di questa notte magica, in un istante infinito, si consumerà. Ed è già mattino del nuovo giorno quest’ora sospesa di preghiera per il nostro Salvatore. Adriana Mondo
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 15/01/2016 10 Regioni italiane sono per il NO-TRIV, cioè, contro l’estrazione di idrocarburi (gas eccetera) nei mari prospicenti e su tutto il nostro territorio. Alleluia! Alleluia! Dipendiamo dall’Estero per il 90% dell’energia e ci permettiamo di fare gli schifiltosi verso le poche risorse che possediamo. Grulli più che lesionisti, destinati ad essere sempre schiavi o gregari degli altri. Domenico Defelice
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“Bonbon Robespierre. Il terrore dal volto umano”1 Saggio di
SERGIO LUZZATTO di Giuseppina Bosco uno studio nuovo ed inedito sulla Rivoluzione francese, soprattutto perché approfondisce il profilo storico di un personaggio, quello di Augustin Robespierre, fratello di Maximilien, di cui i libri di storia non parlano, in quanto è legato ad un’altra fase della rivoluzione, considerata forse migliore. E difatti, Augustin, deputato della montagna, uomo di legge, ha avuto un ruolo non secondario nel periodo rivoluzionario nell’ intento di voler cessare la politica sanguinaria del terrore. Il titolo che attribuisce ad Augustin l’ appellativo di “Bonbon” non fa che riprendere in senso ironico il suo secondo nome di battesimo: Augustin Bon-Joseph quasi ad evocare qualcosa di leggero, di dolce (che lo storico Luzzatto riprende da uno studio di G Walter pubblicato a Gallimard a Parigi nel 1946). Invece, molte biografie su Maximilien Robespierre lo presentano come l’incorruttibile e l’ intransigente moralista. Nonostante le diverse personalità e le differenti posizioni politiche assunte dai due fratelli, il destino soprattutto nella fase del ’93 li vuole uniti nella morte durante il 9 termidoro dell’anno II, cioè il 27 luglio 1794. Di lui Augustin Robespierre si fa riferimento negli annali della Convenzione solo per lo “stoico sacrificio”, e non per il suo ruolo parlamentare, perché lui chiede di essere ghigliottinato insieme al fratello. Cosa avviene il 27 luglio 1974, nove termidoro dell’anno secondo? Molte notizie su quella giornata sono attinte dall’autore dal “Moniteur”2 . Nella sala delle Tuileries dove si riunisce la Convenzione nazionale, Maximilien Robespierre ha pronto l’elenco dei convenzionali
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denunciati come inaffidabili e quindi destinati alla ghigliottina. Ormai si è creato un clima di insofferenza nei confronti di Robespierre tra molti deputati della montagna che hanno già pronto il decreto d’arresto per “l’ incorruttibile”. In una confusione indescrivibile si alza Augustin detto il “Robespierre Jeune”- come lui ha l’abitudine di firmarsi- e chiede un decreto d’accusa pure per se stesso, perché colpevole al pari del fratello. I termidoriani avrebbero potuto non prestar fede alle sue parole, ma in quella circostanza quello che lui dichiarò equivalse ad un vero e proprio suicidio politico. È interessante apprendere dai documenti consultati dallo storico3 che il giorno dell’ esecuzione di Maximilian Robespierre sale quasi agonizzante al patibolo, probabilmente perché ha tentato di uccidersi facendosi esplodere in faccia un colpo di pistola. Un’ altra ipotesi potrebbe essere quella che a sparare sia stato un giovane dal cognome forse appropriato: Jean Andrè Merda. Invece, il fratello Augustin tentò veramente il suicidio quando, prigioniero all’Hotel de Ville, si gettò dal balcone del primo piano che dava su Place de la Grève. Nonostante fosse in fin di vita fu ghigliottinano insieme al fratello Robespierre, Sain Just e altri davanti a Place de la Revolution. È ancor più sorprendente scoprire che ci sia stata una volontà da parte dei termidoriani di evitare in tutti i modi che le sezioni di Parigi prendessero le difese di Maximilian Robespierre, mettendo in giro anche una leggenda metropolitana: il maggiore dei Robespierre progettava di sposare la figlia di Luigi XVI per fondare, attraverso il matrimonio, una propria dinastia. In realtà la fine di Augustin è coerente con la sua dedizione al fratello, anche se nell’ ultimo periodo non ne condividesse più i metodi. Robespierre petit fin dal 1793 fu convinto che per salvare la rivoluzione bisognava attenuare la scristianizzazione, aprire la porte delle Chiese, scarcerare molti sospettati senza alcun motivo e non dare più seguito alle sentenze di morte.
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Una testimonianza del “realismo politico” di Augustin è legata all’esperienza di Tolone, quando la Convenzione nell’estate del 1793 lo nominò “inviato in missione” presso l’ Arme de l’Italie, stanziata a Nizza.i Era la leggenda di “Robespierre Roi”4 e la conferma di tale storiella viene fornita dall’ ultima sopravvissuta della famiglia Robespierre: Charlotte, la quale, interrogata il 13 termidoro dal Comitato di Sicurezza Generale5, non solo prende le distanze dai due fratelli che si stavano macchiando di un “infame complotto”, ma dà ulteriori notizie su Maurice Duplay, proprietario di falegnameria, il quale aveva coabitato con tutta la famiglia Robespierre, e nella casa di Duplay venivano preparate le liste di proscrizione contro i nemici della rivoluzione. La Francia, in quel periodo impegnata a fronteggiare una guerra civile antigiacobina nel sud, ebbe non poche difficoltà per domare le rivolte, ma alla fine gli eserciti della Repubblica riportarono l’ordine. Durante la permanenza a Nizza, “Robespierre Jeune” svolse il lavoro di rappresentante in missione, dimostrando capacità politico-organizzative nella gestione dei rapporti con il club giacobino, nella sorveglianza del clero e nell’ arresto dei nemici della Repubblica e in campo strategico-militare, cercò di abbozzare un disegno tattico (di cui più tardi si approprierà Napoleone): quello di combattere l’ imperatore d’Austria attaccandolo non dal fronte orientale, bensì da quello meridionale, attraverso la Liguria e il Piemonte6. L’esperienza di Tolone fece inoltre maturare ad Augustin un’intuizione davvero profetica quando, in una sua corrispondenza ufficiale indirizzata al Comitato di salute pubblica, affermò: “Non si doveva più rivoluzionare un paese già rivoluzionato e per salvare la rivoluzione occorreva terminarla”, soprattutto nell’aspetto più degenerativo del terrore e dell’intolleranza. Giuseppina Bosco 1
Sergio Luzzatto, Bonbon Robespierre. Il terrore dal volto umano, Einaudi, Torino, 2009 2 Moniteur. Reimpression de l’ancien, depuis la reunion des Etats-Generaux jusqu’au Consulat,
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Plon, Paris, 1854-63, Vol. 21. 3 Annales Historique de la devolution Francaise. 4 Tesi su Robespierre Roi è presente nel libro consultato dall’autore B. Baczko (1989), Come uscire dal terrore. Il Termidoro e la rivoluzione, Milano, Feltrinelli. 5 Per quella sull’arresto di Charlotte Robespierre sono state esaminate le pagine di G. Lenotre “Mille de Robespierre”. 6 L’autore su questi aspetti si rifà agli studi di Le Febvre “La France sous la directoire”, Editions Sociales, Paris, 1984.
DUE NOVEMBRE A SANTIAGO Non dirmi parole d’amore. Altro amore dentro mi strazia con voce di tuono. Mi trascinano i morti ai paesi del Sud ove grande è il silenzio. Lasciami, fanciulla, tra volti in pena, stalagmite di lacrime. Lasciami tra nuvole basse e piogge e cipressi nerissimi. Rocco Cambareri Da Da lontano - Edizioni Le Petit Moineau, 1970.
FRAGILE PALPITO in una selva di gridi come lepre braccata da tuo incondizionato amore: Tu che governi i cieli “bisogno” hai di me? perché pungoli questo fragile palpito fino al sonno della morte? Serino Felice Da Frammenti di luce indivisa (poesie scelte), Ed. Centro Studi Tindari-Patti, 2015.
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ARTHUR SCHOPENHAUER (1788 DANZICA – 1860 FRANCOFORTE SUL MENO) VITA E OPERE di Leonardo Selvaggi I RTHUR Schopenhauer nasce in una famiglia borghese. Viaggia tra il 1803 e il 1805 in Olanda, Inghilterra, Francia, Svizzera e Austria. Avviato al commercio, decide di darsi agli studi prediletti dopo che suo padre è morto suicida nel 1805. Si iscrive all’Università di Gottinga, ha per maestro lo scettico G.E. Schulze. Su consiglio di questi studia Kant e Platone. Nell’ autunno del 1811 si reca a Berlino, dove ascolta le lezioni di Fiche, restandone disgustato. Nel 1813 si laurea in filosofia all’Università di Jena con la dissertazione “Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente”. A Weimar la madre Johanna Trosiener, scrittrice di romanzi e donna di mondo, dà vita a un salotto che Schopenhauer visita qualche volta, incontrandovi personaggi come Goethe e l’orientalista Friedrich Majer che lo avvicina al pensiero indiano. Nel 1811 la madre accoglie stabilmente in casa un suo ammiratore e così i rapporti già turbolenti con il figlio si interrompono del tutto. Arturo Schopenhauer si trasferisce a Dresda, dove nel 1818 porta a termine la sua opera maggiore con poco successo, “Il mondo come volontà e rappresentazione”, stampato a Lipsia nel 1819, all’età di trentatré anni. In questo anno viaggia in Italia, Venezia, Bologna, Firenze, Roma, Napoli. Nel 1820 lascia Dresda per Berlino, allo scopo di intraprendere qui la carriera accademica, ottenuta la libera docenza in quella Università dove trionfa in questo periodo Hegel. Il 23 marzo tiene la discussione “Sulle quattro distinte specie di causa”. Durante la discussione si scontra con Hegel. Dal ’20 al ’31 tenta di tenere le lezioni in concorrenza con Hegel. Nel primo semestre riesce nel suo intento, in seguito non ha più studenti. Assoluto è l’insuccesso del suo insegnamento e della sua opera.
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II Arturo Schopenhauer uomo coltissimo e gran viaggiatore. Trova distrazioni in Italia nel 1822. Continua la sua opposizione all’ Idealismo trionfante e più particolarmente contro Hegel, Fiche e Schelling. Nel 1831 Schopenhauer per sfuggire all’epidemia di peste, scoppiata a Berlino, si trasferisce a Francoforte, e qui resta fino alla morte, avvenuta il 21 settembre 1860. Nel 1836 pubblica “La volontà della natura” e nel 1841 “I due problemi fondamentali dell’etica”, i “ Supplementi al Mondo come volontà”, apparsi nel 1844 come secondo volume della 2a edizione dell’opera maggiore e i “Parerga e Paralipomeni” nel 1851, che sono un insieme di saggi, tra cui “La filosofia delle Università”, “Aforismi sulla saggezza della vita”, scritti in modo brillante e popolare, che contribuiscono a diffondere il pensiero di Schopenhauer. Fra gli avversari di Hegel, se si eccettua Kierkegaard, Schopenhauer è il più acceso. Qualifica Hegel accademico, mercenario, sicario della verità. La filosofia asservita ai ciarlatani interessati allo stipendio e al guadagno. La sua è una verità non remunerata. La rivoluzione del 1848 dà valore alle nuove espressioni filosofiche ponendo fine alle aspirazioni del periodo precedente. Il pessimismo di Schopenhauer porterà all’irrazionalismo degli ultimi decenni del secolo. III Schopenhauer negli ultimi anni della sua vita ha la soddisfazione del riconoscimento pubblico. Ha enormemente influito sulla cultura successiva. Il suo pensiero arriva, oltre che ai filosofi quali Wittgenstein e Horkheimer, al romanzo europeo di Tolstoj, Maupassant, Zola, Anatole France, Kafka e Tomas Mann. Importante ricordare anche che nel 1858 sulla “Rivista contemporanea” il De Sanctis pubblica il suo celebre articolo “Schopenhaauer e Leopardi”. Schopenhauer nelle sue attività di indagine nei vari settori del sapere non poteva non interessarsi al Cristianesimo, di cui a suo modo dà delle inter-
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pretazioni particolari. Il peccato originale significa che la nostra natura è originariamente malvagia. La Grazia è un vero rinascimento, una trasformazione del nostro carattere intelligibile. Schopenhauer ispira una vasta e importante corrente letteraria e artistica dell’ 800. Si pensi al Tristano di Wagner (1813 – 1883), tutto pervaso dall’idea della rinunzia e si pensi all’ammirazione per Schopenhauer di Nietzsche (1844 – 1900) che traduce la volontà di vivere in volontà di potenza. Dobbiamo, inoltre a Schopenhauer, la diffusione nella cultura europea dei motivi del Buddismo. IV Schopenhauer si muove da Kant, ravvivando il criticismo, al contrario dell’antidealista Federico Herbart che considera la cosa in sé, vede il mondo come semplice rappresentazione. Per Schopenhauer tutto è fenomeno, fenomeno il nostro corpo e fenomeno l’Io, considerato individuo che significa essere in un determinato tempo e in un determinato spazio. Il corpo non è dato solo come rappresentazione, ma viene sentito immediatamente, è espressione esatta della volontà, volontà è movimento, il corpo è oggettivazione del volere. Il piacere e il dolore rivelano la proporzione dei movimenti del corpo agli atti volitivi. Nella rappresentazione Schopenhauer scorge un’opposizione tra soggetto e oggetto, nel sentimento di piacere e di dolore la rivelazione immediata del nostro intimo essere. Il mondo come rappresentazione, che ci mostra divisi e opposti, è un’illusione, è un inganno, il mondo come volontà è verità. La volontà è ciò che per Kant è la cosa in sé. Nel volere si scopre l’in sé dell’uomo e l’in sé del mondo. Una sola volontà opera dappertutto. La volontà ha un significato assai più ampio del comune, Schopenhauer dà questo nome alla gravitazione che spinge i gravi al centro, al magnetismo che volge ai poli la calamita, alla forza plastica della pianta, all’istinto dell’ animale, all’azione conscia dell’uomo. La realtà in sé, come un insieme di bisogni e sentimenti, chiamata volontà. Il mondo non è
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opera della ragione, ma di una volontà senza meta, di un impulso senza norma. Schopenhauer contrappone al razionalismo ottimistico di Hegel un volontarismo pessimistico. L’ irrazionale viene elevato a principio metafisico nel sistema di Schopenhauer che, utilizzando la distinzione kantiana tra i fenomeni e la realtà in sé, considera che il mondo della nostra conoscenza intellettuale sia il mondo della rappresentazione, dell’apparenza, e che invece quello della realtà sia il mondo della volontà, intesa come una forza cosmica irrazionale, inconscia in tutti gli esseri della natura inferiore e consapevole di sé soltanto nell’ uomo. V La filosofia di Schopenhauer nella parte della conoscenza contiene importanti sviluppi di concetti kantiani e fichtiani, nelle sue degenerazioni metafisiche ed etiche è un prodotto meramente letterario. Schopenhauer si considera il vero successore di Kant. Vuole dare un’interpretazione al mondo dell’ esperienza, si vuol sapere che cosa esso sia al di là dell’apparenza in cui si mostra. Questo bisogno metafisico lo cerca al di fuori dell’attività concettuale del pensiero, in una intuizione geniale uguale a quella dell’artista. L’ universo si presenta in un modo diverso da quello degli idealisti. Questi vedono una profonda armonia e razionalità, un evolversi di un logos eterno. Schopenhauer vede invece il dominio di una volontà irrazionale che non sa quel che vuole, acuendo sempre di più la sua perenne insoddisfazione, aumentando il dolore che porta in sé. Irrazionalismo contro razionalismo, pessimismo contro ottimismo, convinzione di un immobile ripetersi di vicende contro uno storicismo che esalta un eterno progresso della realtà verso il bene. Il materialismo è in errore perché nega il soggetto, riducendolo a materia e l’Idealismo è anche sbagliato perché nega l’oggetto riducendolo a soggetto. E’ contrario al Realismo secondo cui la realtà esterna si manifesterebbe per quello che è nella nostra mente. Leonardo Selvaggi
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RINCHIUSO FRA TRE MURA di Carlo Trimarchi
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OSTRUIAMO interi edifici e imponenti mura intorno a ciò che hanno già distrutto... e ci priviamo della libertà di scegliere. Scegliere cosa fare o cosa edificare. Torniamo sempre sui nostri passi, perché siamo fatti così e, quando lo facciamo, ci rendiamo conto di quanto sia stupido non cambiare luogo. Passiamo vite intere a porci delle domande che probabilmente non avranno mai risposta e giorni interi a riflettere su cosa stiamo facendo... per poi renderci conto che è stato tutto inutile e che, domani, sarà un giorno come gli altri. Fissiamo un punto fermo nella nostra vita e lo usiamo come punto di riferimento, difendendolo e facendo sì che non cada mai. Poi, però, te lo strappano via...; basi la tua esistenza sui se e sui ma, senza pensare che basterebbe vivere il presente, invece che pensare di vivere il futuro; o, meglio, lo pensi, ma, alla fine, volente o nolente, continuerai... perché tu sei così. Costruiamo panchine per chi si vuol sedere nella nostra città, ma la gran parte della gente è solo di passaggio...; a dire il vero, pressoché tutta e solo pochi hanno il privilegio di vivere nella tua città. Innalziamo teatri per intrattenere qualcuno e palchi per far ridere qualcun altro, per poi renderci conto che è stato tutto inutile e che domani sarà un giorno come gli altri. Siamo in costante movimento con la speranza di non mollare, stanchi, ma ci muoviamo e balliamo questa danza che tutti chiamano amore, sperando che ci salvi... e magari succede, però non è per sempre. E quando finisce la musica, finisce tutto e ti ritrovi nel buio, in solitudine.
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Scrivi qualche riga con la speranza di distrarti, fai un disegno con la speranza di sfogarti e ti chiedi costantemente perché sei lì, nel mondo. Tu sai che non ti appartiene eppure ci rimani..., forse per gli amici, la famiglia, la speranza. E pensi che domani sarà un giorno nuovo, che finalmente cambierai vita e ti sentirai, finalmente, a tuo agio; poi, però, ti svegli, la smetti di avere la testa fra le nuvole e ci pensi... Dopotutto, nella tua vita non fai altro che pensare, prima o poi, però, il tempo finisce e devi prendere una decisione, per poi renderti conto che è stato inutile. E che domani... sarà un giorno come gli altri, rinchiuso dietro le tue stesse mura, a togliere macerie. Carlo Trimarchi AUGURI MAMMA A te che mi hai sempre cresciuto, a te che mi hai sempre amato, a te che mi hai sempre creduto, a te che mi hai guidato. A te dedico questa poesia, poca cosa ma è roba mia... Scritta in fretta e furia prima della cena, faccio queste rime che quasi fanno pena. A te che mi sei rimasta sempre nfonno ar core... A te che mai mi lasceresti col dolore. A te che dopotutto non sembro così brutto e che son pieno di qualità da mettere a frutto. C’è un lavoro a tempo indeterminato costante e mai ripagato (monetariamente)... Un lavoro che distrugge molte donne, ma mai ci furono sensazioni più profonde... La mamma è sempre la mamma e ti dimostri pure giovane. Quindi, ammazza che mamma! A te faccio i migliori auguri, ti mando un bacio anche quando ti infurii... E se questo non può bastare, ci sono altri 3 figli da non dimenticare. Mamma, tanti auguri! Carlo Trimarchi
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Comunicato STAMPA XXVI Edizione CITTÀ DI POMEZIA L’Editrice POMEZIA-NOTIZIE - via Fratelli Bandiera 6 - 00040 Pomezia (RM) - Tel. 06 9112113 – E-Mail: defelice. d@tiscali.it internet: http://issuu.com/domenicoww/docs/ - organizza, per l’anno 2016, la XXVI Edizione del Premio Letterario Internazionale CITTÀ DI POMEZIA, suddiviso nelle seguenti sezioni : A - Raccolta di poesie (max 500 vv.), da inviare fascicolata e con titolo, pena esclusione. Se è possibile, inviare, assieme alla copia cartacea, anche il CD; B - Poesia singola (max 35 vv.) ; C – Poesia in vernacolo (max 35 vv.), con allegata versione in lingua; D - Racconto, o novella (max 6 cartelle. Per cartella si intende un foglio battuto a macchina – o computer - da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1800 battute. Se è possibile, inviare, accanto alla copia cartacea, anche il CD); E – Fiaba (max 6 cartelle, c. s., lettera D); F – Saggio critico (max 6 cartelle, c. s.). Non possono partecipare alla stessa sezione i vincitori (i Primi classificati) delle trascorse Edizioni. Le opere (non manoscritte, pena l’ esclusione), inedite e mai premiate, con firma, indirizzo chiaro dell’autore e dichiarazione di autenticità, devono pervenire a Domenico Defelice – via Fratelli Bandiera 6 - 00040 POMEZIA (RM) - e in unica copia - entro e non oltre il 31 maggio 2016. Le opere straniere devono essere accompagnate da una traduzione in lingua italiana. Ad ogni autore, che può partecipare a una sola sezione e allegare un breve curriculum di non oltre dieci righe, è richiesto un contributo di 20 Euro per la sezione A e 10 Euro per le altre sezioni, in contanti assieme agli elaborati (ma non si risponde di eventuali disguidi) o da versare sul c. c. p. N° 43585009 intestato a :Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00040 Pomezia (RM). Le quote sono in
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euro anche per gli autori stranieri. Sono esclusi dal contributo i minori di anni 18 (autocertificazione secondo Legge Bassanini). Non è prevista cerimonia di premiazione e l’operato della Commissione di Lettura della Rivista è insindacabile. I Premi consistono nella sola pubblicazione dei lavori. All’unico vincitore della Sezione A verranno consegnate 20 copie del Quaderno Letterario Il Croco (supplemento di Pomezia- Notizie), sul quale sarà pubblicata gratuitamente la sua opera. Tutte le altre copie verranno distribuite gratuitamente, a lettori e collaboratori, allegando il fascicolo al numero della Rivista (presumibilmente quello di ottobre 2016). Sui successivi numeri (che l’autore riceverà solo se abbonato) saranno ospitate le eventuali note critiche e le recensioni. Ai vincitori delle sezioni B, C, D, E, F e ai secondi classificati per ciascuna sezione, verrà inviata copia della Rivista - o del Quaderno Letterario Il Croco - che conterrà il loro lavoro. Per ogni sezione, qualora i lavori risultassero scadenti, la Commissione di Lettura può decidere anche la non assegnazione del premio. La mancata osservazione, anche parziale, del presente regolamento comporta l’ automatica esclusione. Foro competente è quello di Roma. Domenico Defelice Organizzatore del Premio e direttore di P. -N. Vincitori della SEZIONE A delle precedenti edizioni: Pasquale Maffeo: La melagrana aperta; Ettore Alvaro:Hiuricedhi; Viviana Petruzzi Marabelli:Frammento d’estate; Vittorio Smera: Menabò; Giuseppe Nalli: A Giada; Orazio Tanelli (USA): Canti del ritorno; Solange De Bressieux (Francia): Pioggia di rose sul cuore spento; Walter Nesti: Itinerario a Calu; Maria Grazia Lenisa: La ragazza di Arthur; Sabina Iarussi: Limen; Leonardo Selvaggi: I tempi felici; Anna Maria Salanitri: Dove si perde la memoria; Giuseppe Vetromile: Mesinversi; Giovanna Bono Marchetti: Camelot; Elena Mancusi Anziano: Anima pura; Sandra Cirani: Io che ho scelto te; Veniero Scarselli: Molti millenni d’ amore; Sandro Angelucci: Controluce; Giorgina Busca Gernetti: L’anima e il lago; Rossano Onano: Mascara; Fulvio Castellani: Quaderno sgualcito; Nazario Pardini: I simboli del mito; Rodolfo Vettorello: Voglio silenzio; Isabella Michela Affinito: Probabilmente sarà poesia.
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I POETI E LA NATURA - 52 di Luigi De Rosa
Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)
“La poesia della Natura” dell'indiano TAGORE (1861-1941)
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Viaggiai per giorni e notti per paesi lontani. Molto spesi per vedere alti monti, grandi mari. E non avevo occhi per vedere a due passi da casa la goccia di rugiada sulla spiga di grano...” Da “La poesia della Natura” In un discorso generale sui Poeti e la Natura non si può non prendere in considerazione anche la vasta opera letteraria di Rabindranath Tagore (Thàkkur), il più grande poeta bengalese, nato e morto a Calcutta (18611941). Tra i molti libri da lui scritti ve n'è uno intitolato La poesia della Natura (fatto conoscere in Italia nel 2005 da Guanda, a cura di Brunilde Neroni).
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A Tagore venne assegnato, nel 1913, il Premio Nobel per la Letteratura. Nella “motivazione” si leggeva “Per la profonda sensibilità, per la freschezza e bellezza dei versi che, con consumata capacità, riesce a rendere nella sua poeticità, espressa attraverso il suo linguaggio inglese, parte della letteratura dell'Ovest...”. Un tentativo “geopolitico” di “annettersi”, anche se in parte, l'opera poetica di Tagore attraverso l'inglese, indubitabilmente la lingua di gran parte della letteratura occidentale? Tagore era un profondo conoscitore dell'inglese, e i suoi libri se li traduceva personalmente dal suo bengalese (aggirava il pericolo “traduttore-traditore?) assicurando ai propri scritti un'ampia leggibilità e diffusione mondiale. La Natura, dunque, è già di per sé generatrice di poesia, è essa stessa poesia, che va individuata e cantata dai poeti. Sì, cantata, e non solo scritta e letta, pensata o declamata. Ma anche cantata, con o senza musica strumentale. Cosa che Tagore faceva spesso con le proprie poesie essendo anche musicista (e pittore), oltre che filosofo, prosatore, mistico religioso. Le immagini di Tagore, come del resto avviene spesso nel filone orientale, sono miniaturizzate, cesellate, poste in primissimo piano, quando non inserite in un contesto paesaggistico grandioso. In ogni caso, sono innervate, oltre che di estetica, anche di filosofia, religione, “saggezza” orientale. Le tematiche dominanti in Tagore sono Dio, il viaggio, l'amore, la solitudine, il dolore presente nella vita, la Natura. Anzi, questa è la rappresentazione sensibile di Dio Creatore e di tutto il resto della vita e del mondo. Per il Panteismo, Dio è dovunque. Quindi, è molto più vicino di quanto ci possa sembrare. Specie nella Natura, con la quale bisogna vivere in contatto intimo. Non si pensi però a descrizioni di paesaggi incantati e suggestivi al solo scopo di meravigliare i lettori. In quanto la poesia della Natura in Tagore è un sentimento di rispetto quasi devoto, che è tipico dei grandi pensatori orientali. Nel discorso di Tagore sulla Natura
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si evidenzia, in primo piano, la necessità di difendere la ricchezza del mondo naturale, di proteggerla con tutto il cuore: “… Il tramonto posò le sue perle sui fini e neri capelli della sera ed io le ho nascoste come una collana senza filo dentro il cuore.” Forse in qualche poeta epigono, superficiale, il paesaggio è trattato e descritto in modo barocco, caramelloso, troppo lontano dalla realtà naturale e artistica. Ma in Tagore questo è difficile che accada, perché la Natura non è una cartolina da ammirare bensì un componente essenziale della realtà spaziale e di quella temporale. Ad esempio essa può essere, nel ricordo, anche un ponte gettato attraverso i secoli fra il poeta e i suoi eventuali futuri lettori... “Chi sei tu, lettore che leggi le mie parole fra un centinaio d'anni ? Non posso inviarti un solo fiore della ricchezza di questa primavera, una sola striatura d'oro delle nubi lontane. Dal tuo giardino in fiore cogli i ricordi fragranti dei fiori svaniti un centinaio d'anni fa. Nella gioia del tuo cuore possa tu sentire la gioia vivente che cantò in un mattino di primavera, mandando la sua voce lieta attraverso un centinaio d'anni.” Luigi De Rosa
SPLENDORE E ILLUSIONE DELLA NATURA Una liquida lastra rossoazzurra nel Golfo del Tigullio ingoia il sole in punta a Portofino, in un tiepido tramonto di gennaio. Agavi, fichidindia, pini si protendono da terrazze e giardini.
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Ma perché ? Se da un giorno all'altro dobbiamo scomparire da questo palcoscenico, perché è così traboccante di luce, di dolcezza ineffabile, di magico splendore ? Luigi De Rosa (Rapallo, Genova)
Domenico Defelice: Ultimo tratto di via S. Pietro a Mirabello Sanitico (CB), biro e pastello, 1981. ↓
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Recensioni GIOVANNI ALBANO MASSIMILIANO CAPUTO L’AMORE DELLA POESIA E LA POESIA DELL’AMORE Sono tanti i sentimenti che condizionano la nostra fragile umanità conducendoci verso la gioia o verso il dolore: delusione, fraternità, rabbia, invidia, condivisione e così via. Ma il sentimento più grande, quello che vince tutti gli altri è, senza dubbio, l’ amore. La prima esperienza d’amore viene vissuta nel grembo materno, segue quella genitoriale, dei fratelli, dei parenti e così via via, a seconda dell’evolversi della vita. Ma c’è un altro amore che, al di là della famiglia, può coinvolgerci in maniera sentita e profonda: l’ amicizia. Un esempio di questo sentimento ci viene da Giovanni Albano che ha voluto raccogliere in un libricino una cinquantina delle numerose poesie scritte dal suo amico Massimiliano. Sono poesie vere, sentite, poesie di vita, d’amore, versi che commuovono o strappano un sorriso. Un libretto semplice, artigianale, senza pretese ma ricco di tenerezza, sia per la motivazione che per il contenuto e la grafica: una figura geometrica in copertina dai toni gentili che vanno dal grigio all’ azzurrino tenue e una dedica che diventa una richiesta di scuse dell’Autore, per aver pubblicato delle poesie che non gli appartengono e che vengono chiamate “pensieri”, come il Poeta nella sua modestia le ha sempre definite. Nel pieno rispetto del “credo” di Max, Giovanni
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inizia il percorso poetico con una lirica religiosa, “ ‘A Bibbia”. A questa ne seguono altre, ancora espressioni di fede, mescolate a vari argomenti inerenti la quotidianità, nei loro eventi comici o di normale amministrazione: quadretti simpatici della nostra napoletanità. Deliziosa, “ ‘A casa mia”, nella quale il Poeta, innamorato di Napoli, paragona la sua casa ad una bella nave, trasferendo con i suoi versi, nel lettore, l’emozione di una straordinaria visione: “’o sole, mare, libertà, freschezza/ me mettono int’’o core n’ allerezza”. Dolcissima in ogni momento descrittivo, ecco la chiusura: Peffino quann’o mare sta aggitato/ ‘a notte è comme fosse nu sunnifero,/ ‘o mare sciacquettianno sona e canta,/ me pare ca me canta ‘a ninna nanna”. Piacevole il mare visto da casa, per il nostro Poeta, ma mai da una nave vera. Accade, una volta, che i figlioli preoccupati dai continui litigi dei genitori, per mettere un po’ di armonia in famiglia, decidono di offrire loro una bella crociera. Abbandonate le difficoltà quotidiane, partono i due coniugi, sorridenti e festosi, con un carico di valigie. Visitano la Tunisia, Marsiglia, Barcellona, Palma De Maiorca. Tutto trovano favoloso ed entusiasmante. Ma, tornando verso casa, a conti fatti si chiedono quale luogo visitato sia stato più stupefacente di Napoli: nessuno, si rispondono all’unisono. E, dunque, sarà d’uopo dire ai figli, al rientro, di non badare ai loro litigi in quanto grande è il loro amore. Anzi, dichiareranno convinti: “…si succede n’ata vota/ ce avessimo appiccicà, ce ‘o facite ‘nu favore, vuje lassatece sta ccà!”. Amore, grazia, simpatia: tutto è racchiuso in queste pagine dalle quali, come già detto, c’è sempre da trarre un sorriso, come, ad esempio, nella poesia “La collaboratrice domestica” in cui Massimiliano racconta di una moglie che, stanca di tanto lavoro e bisognosa di aiuto, avanza l’ipotesi di assunzione di una badante. Il marito, condiscendente, elenca i dettami per una donna che abbia i migliori requisiti (in fatto di femminilità, s’intende!). Questa la risposta decisa: “Oi nì, ma fusse scemo?/…/saie che te dico: susete ‘a dint’’o lietto, ca m’ha daje tu ‘na mano a faticà/ i’ faccio finta ca sì ‘o cammarero/ e ca te tengo pe te cumannà!”. Non perde occasione, Massimiliano Caputo, di decantare, nella sua poetica, l’amata città che gli ha dato i natali . Sfilano, allora, poesie come “‘ A capitale d’’a bellezza“, “ ‘A scola mia”, “Turretta e Margellina”, “ ‘O puntile ‘e Bagnoli”, “ ’A canzone napulitana”. E procede nella stampa, Giovanni, offrendo poesie sfiziose e divertenti come “ ‘O lido mappatelle”, tavolozza di colori sul comportamento della povera
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gente che, senza dispendio di danaro (che nemmeno c’è!), sfruttano l’accesso gratuito al mare per permettere ai loro figlioli di godere la delizia del sole e del mare. Ed è proprio qui che ne accadono, appunto,…. di tutti i colori. Alcune poesie sono dedicate ai parenti; tra queste una è davvero geniale, iniziando dal titolo: “ ‘E capito ‘e Caputo!?”. In essa, Massimiliano (in arte Max – impeccabile presentatore) decanta le doti canore e artistiche di ciascun componente della famiglia. Ed io che li ho conosciuti tutti, posso testimoniare la verità di queste affermazioni: i Caputo sono davvero artisti. Artisti nati! Ci sarebbe ancora tanto da dire su questa pubblicazione, ma preferisco fermarmi qui per lasciare, al lettore, la possibilità di scoprire da sé le tante altre storielle raccontate in poesia. Il libro si conclude con quel tocco di geniale ironia che soltanto un napoletano è in grado di offrire. E, questa volta, in prosa : “Dedicata a chi non ama Napoli”, una lettera indirizzata a chi, disprezzando Napoli, l’ha definita “la città che puzza”. Di questa meravigliosa scrittura (che parla di puzza di sfogliatelle, di dolci fatti in casa, di pasta al pomodoro e basilico; puzza di tremila anni di storia, di Cristo Velato, di Caravaggio, della prima Università Pubblica al mondo; puzza delle donne più belle del mondo… donne che potete solo sognare e non potrete mai farle vostre perché non puzzate abbastanza… e di tant’altro ancora), vi offro il finale: “Tutta questa puzza dà odore alla mia vita, amo la mia città con tutte le sue contraddizioni mentre voi potete solo sfoderare la vostra invidia. Sono fiero di puzzare di Napoli”. Grazie a Giovanni Albano per averci dato la possibilità di conoscere ed apprezzare il Poeta Massimiliano Caputo. Anna Aita
MARIO PEPE ANCORA GIORNI Editore De Ferrari, Genova, 2015, € 12,00 Nostalgia e stupore per tutto ciò che con gli anni è volato via sono le note dominanti di questo libro di Mario Pepe, Ancora giorni, apparso nel 2015 nelle Edizioni De Ferrari di Genova. E’ quanto può rilevarsi da poesie quali Progetti, nella quale è il ricordo del padre e della madre del poeta che torna alla sua mente e lo fa soffrire: “Mio padre non è più tornato / al suo paese / nel cuore dell’Irpinia”; “Mia madre se n’è andata / prima che un supermercato / aprisse nel suo stesso palazzo, / l’avrebbe resa così felice”. Si legga a tale proposito anche Giorni: “I
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giorni girano veloci, / così simili / da sembrare lo stesso giorno. // S’infilano a precipizio, / luce e buio, / buio e luce, / nel medesimo tunnel, / come al Luna Park”. L’ossessione del tempo che fugge e lascia soltanto cenere dietro di sé la si ritrova in Volti, una delle poesie più significative di questa raccolta: “Il mio posto nella foto / è il quarto in seconda fila / o il terzo in alto, / solo mia nipote mi riconosce”, dove il mutare dell’espressione di ciascuno di noi con il passare degli anni subito s’impone come il motivo centrale della poesia. S’incontra anche in questo libro il sentimento di epoche antiche dell’umanità, come quelle della Grecia di Olimpia (Olympia) o dell’Egitto dei templi di Luxoro (Crociera sul Nilo); così come s’ incontra il sentimento profondo della natura, fonte di rasserenamento e di gioia: “Il mare sorpreso / dalle campane / si riveste di azzurro. / … / Dal dirupo, oleandri e mimose / osservano due vele / gonfiate dalla brezza / … / Dalla spiaggia sale / un tenue fiato di salsedine” (Mare di Liguria). Rosa Elisa Giangoia nella sua lucida prefazione alla silloge parla per la poesia di Mario Pepe di “disillusione e amarezza”, nonché di “disincantata inquietudine”; osservazioni che ci sembrano molto pertinenti, dal momento che in questa raccolta si possono leggere versi quali: “Solo la farfalla/non lascia orme /sul sentiero/come fanno le lumache,// noi deperiamo/meno in fretta,/ma 70 anni sono niente,/anche l’albero dura di più” (Solo la farfalla). Si vedano poi certe visioni di un lontano passato che giungono a Pepe circonfuse da una sottile tristezza: “Lassù ci sono le finestre / dove abitavo, / dietro vedo le stanze, / e il mare, / e quei giorni sospesi / nel dondolio delle navi. // Guardo il portone / da dove uscivi / per incontrarmi / giovane e fanciulla, / e mi viene voglia / di aspettarti, // ma non credo / mi riconosceresti, / improvvisamente vecchio / come sono” (Piazzetta Santa Croce). Mario Pepe appare inoltre un amante della bellezza, dal momento che in una poesia come La Rotonda può rimpiangere l’equilibrio e la serenità delle forme classiche. Altre poesie da ricordare di questo libro sono quella dedicata da Pepe Alle nipotine (“Ancora indecise, / le vostre figure leggiadre / si muovono su un fondo d’oro”); Proprio tu, che contiene delle assorte riflessioni sul nostro vivere (“Ma non domandarti / perché sei proprio tu / dentro questo corpo / e non un altro”); nonché Mio padre, che è percorsa da un profondo sentimento di rimpianto (“Non seguo il filo / delle tue parole, / ascolto / il suono della tua voce, / familiare / come il mormorio / della corrente , / come il profilo / dei monti d’intorno”).
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Da notarsi inoltre in questo autore (e la prefatrice lo rileva) è una vena di sottile ironia (o di vera e propria satira) che talvolta emerge da poesie quali L’uomo nuovo: “Non lascia tracce / Non sporca l’aria / Compera niente // Mangia poco / Evita le strade affollate / Rinuncia all’automobile nuova…” o Solitudine: “Mi sorprende sempre / la solitudine dei molti. / In autobus / parlano ad alta voce, / al cellulare / vomitano nelle tue orecchie / lo squallore della propria vita”. Si veda anche a questo proposito Musica in piazza: “Guardo l’omaccione che mi sta davanti / e ascolta distratto, / intento a succhiare una sigaretta / per togliere all’aria della sera / quel tenue odore di mare / che è ancora rimasto”. Ciò che però meglio caratterizza il nostro poeta è un’assorta pensosità, emergente da poesie quali Tutto a posto, dove la visione di un remoto passato si accampa sovrana: “Qualunque cosa fai / sei sempre al punto di partenza, / come cinque milioni di anni fa, / quando mettesti il piede per terra, / per la prima volta”. E’ con questi versi che evocano l’inizio del lungo cammino dell’umanità sulla strada di una civiltà e di un progresso rimasti tuttavia in gran parte illusori, che ci piace concludere queste brevi osservazioni su un libro come Ancora giorni di Mario Pepe con il quale egli ha dato prova ancora una volta della sua non comune capacità di esprimersi compiutamente in versi. Elio Andriuoli
ANNA TROMBELLI ACQUARO EMOZIONI SPARSE AL VENTO Il Croco/ Pomezia-Notizie dicembre 2015 (4° Premio Città di Pomezia 2015) Emozioni al vento è raccolta di Anna Trombelli Acquaro, vincitrice del 4° Premio Città di Pomezia 2015. Ciascuna poesia è accompagnata, a piè pagina, da un pensiero espresso in forma di aforisma. Domenico Defelice nella presentazione afferma che la Trombelli si inserisce nella “nostra questione meridionale, alla fuga costante, negli anni e nei secoli, dei nostri migliori cervelli”. Ed è così che la poetessa, calabrese nativa di Bianco, è emigrata da giovane (nel 1958) in Australia portando con sé una valigia di sogni e tanta nostalgia che ha trasferito nelle sue composizioni facendo varcare l’eco della sua voce oltre i confini; presenza assidua nella associazione letteraria in Australia denominata A.L.I. A.S. I suoi versi sanno di semplicità e del profumo della sua terra d’origine, sono impastati di lacrime e malinconia. Anna sente lo strappo subito, l’assenza dell’ ab-
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braccio materno, soffre della dinamica sentimentale dell’esule portato al continuo confronto fra le condizioni ambientali e affettive, fra lo stato attuale e quello lasciato alle spalle, e promette nel suo incipit: “Un giorno chissà,/ forse tornerò laggiù dove c’è casa mia/ e mi ritorni in mente tu/ nella tua splendida veste”. Perciò si arrovella in uno struggente ricordo espandendo le “emozioni al vento”, come suggerisce il titolo. I ricordi della Poetessa si colorano dell’azzurro del cielo e del suo gemello che è il mare (come ella preferisce definirli), delle tinte floreali sotto un tetto di primavera splendente; ma nella notte tutto si rabbuia e quel cielo prima splendidamente colorato, adesso si accende di tanti lumini, come la mestizia dell’anima le suggerisce. Affida le sue emozioni a foglietti ben custoditi: “son dentro al cuore,/ lì, non sbiadiscono, non si offuscano,/ sono parole d’ amore,/ parlano di te, portano l’essenza tua/ che non può mai morire,/ sarà sempre viva in me per l’ eternità.” (pag. 10). Vede la propria madre muoversi, ne sente il calore e il profumo, la voce spandersi intorno; ma deve fare fatica a convincersi che quello che le accade intorno è solo frutto dei suoi sentimenti. Il ricordo della madre è pressante, la conforta e nel contempo le fa sgorgare lacrime di nostalgia, perché deve fare dello sforzo sovrumano per riuscire a vincere la distanza; tuttavia il ricordo diviene dolce balsamo. Innalza un inno alla madre carnale per averne ricevuto la vita e l’amore, e nel contempo leva un canto alla madre natura per averla arricchita di poesia. Bella è l’immagine dell’albero con i suoi rami e le sue foglie nella analogia con genitori e figli. In una sorta di transfert madre-bambina-madre, la Poetessa vive la condizione psicologica e affettiva di madre e di figlia insieme, così che detta: “Tu piccolo fiore,/ sembri fragile/ raggio lunare,/ fra gli opachi vapori/ dell’umida sera./ Sorridi, sii felice,/ incanta il mondo,/ con l’emozione/ e l’amore dell’ anima.” (pag. 17). Sarebbe bello indugiare sui pensieri che emergono dai ricordi di Anna Trombelli Acquaro; ma, si interroga la poetessa: “Come si fa a tenere a bada la memoria? I ricordi sono come avvoltoi in cerca di una preda, con il fascino del sublime, del brutto e del bello.” (pag. 19). La poesia si fa lirica struggente, se ne percepisce il senso più tenero di chi ha dovuto lasciare le proprie origini per un futuro migliore che la propria terra non ha saputo assicurare. Perciò scelgo di sollecitare i sentimenti nella coscienza di chi ha un’anima, certo che le Emozion sparsei al vento depositeranno tutta la bellezza che l’anima sarà capace di assorbire. Tito Cauchi
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ANNA VINCITORIO BAMBINI Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie 2016 Il titolo è quanto mai esplicativo: “Bambini”, quelli di tutto il mondo, in particolare quelli dimenticati, usati, abusati, sfruttati, fatti crescere troppo in fretta da una civiltà che civile non è. Una civiltà che li ingloba nei suoi folli ingranaggi per farli diventare merce da vendere per asportare organi, per piacere sessuale, per farne piccoli eserciti di guerra, per recapitare “pizzini” o droga, per gettarli nelle acque gelide di traversate assurde di migranti disgraziati. La Vincitorio, in questa sua piccola raccolta, si ispira ai fatti di cronaca, dai quali ogni giorno siamo bombardati, in particolare ultimamente con la tecnologia che rimbalza notizie ogni secondo sui così detti social, sfruttando il nostro lato umano, che poi tanto umano non è. La nostra indignazione finisce davanti ad una foto, ad un filmato…e poi? E poi il nulla, si riprende la vita di tutti i giorni, si volta pagina in attesa che un’altra immagine ci sconvolga per qualche secondo. Detta così è orribile, lo so. Ma è la triste realtà. Siamo tutti bravi a scrivere, a filmare a riportare, ma nessuno che si rimbocchi le maniche e concretamente tenti di fermare questo massacro. Qualcuno c’è, ma sono molto pochi, qualche associazione umanitaria (ma sarà poi così umanitaria? Viene da dubitare anche qui…) che si occupa di toglierli dalla strada. Ma per uno salvato altre centinaia, migliaia sono già persi. Troppi sono i bambini senza infanzia, senza futuro. Bambini ai quali con le sue liriche la Vincitorio ha voluto dar voce, affinché non restino per sempre invisibili. Roberta Colazingari
ANNA TROMBELLI ACQUARO EMOZIONI SPARSE AL VENTO Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie 2015 Pensieri, ricordi, malinconie, gioie e molto altro come se fossero trascinate dal vento, un vento a volte leggero altre volte più impetuoso. “Emozioni sparse al vento” è la raccolta di Anna Trombelli, che lascia su carta un bel po’ di sé, della sua vita, delle sue due patrie: l’Italia e l’Australia. Più precisamente Bianco in Calabria e Altona North a 10 chilometri da Melbourne. Leggendo le liriche c’è tutto il suo mondo che l’ ha vista andare via dalla sua terra natia, piena di profumi, storia e leggende, in cerca di fortuna e ap-
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prodare nella piccola città vicino Melbourne. I ricordi hanno il sopravvento, nella poesia “Nostalgia”: “Un giorno chissà, forse tornerò laggiù dove c’è casa mia…tutte le emozioni che mi hai regalato rivivono con nostalgia nell’anima…” e in tutto il resto della raccolta. La Trombelli identifica la sua terra natia con la figura della mamma, che si mescola, si confonde, si unisce alla sua Bianco. I versi sono piccole pennellate di colore date su tele, simili ai fotogrammi di un film o di un rullino fotografico. L’autrice è in realtà fisicamente in Australia, ma con cuore e anima è sempre a Bianco, nella sua Calabria. Lo scrivere versi per lei è sicuramente un modo per non perdere, per non far sbiadire i bellissimi ricordi che serba per sé: stando ben attenta che il vento sparga queste sue emozioni, ma alla fine le riporti integre sempre verso di lei. Roberta Colazingari
ISABELLA MICHELA AFFINITO PROBABILMENTE SARÀ POESIA (Iniziano tutte con la P) Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, Ottobre 2015, 1° Premio Città di Pomezia 2015. Iniziano veramente tutti con la P i titoli di questa sottile, ironica, prolifera silloge. La P di Poesia? Può essere. Vien voglia di tenere il passo appresso a questa poesia, parola del possibile e dell’ impossibile. È un gioco accattivante, rapido, composto da versi strettissimi e che formano come tronchi d’ albero: le chiome, che sono i titoli, iniziano tutte con la P. Sono lunghi steli e quel che contengono è un composto originalissimo. Una tale composizione si beffa della punteggiatura, il verso è tutto, la parola è tutto, l’aria la ha già all’interno e i significati si vanno inanellandosi tra loro nello stesso modo in cui si ricompone una rêverie. La poesia del tutto, che prende per sé assonanze ed eufonie, metafore e metonimie senza che l’ orecchio s’accorga di sforzo alcuno: i libri traduco il gorgoglio di un fiume, nello specchio s’eterna illusoriamente la giovinezza, un’anfora indossa l’ abito rosso della rossa storia, ‹‹l’anatomia risponde / come voce di violino / all’attimo che porta / il mistico pensiero […]››. È la poesia del mito alto e del mistico, ma ecco uno scarto, ed è la poesia della carta e del manufatto, una capriola e si presenta poesia della terra e dei paesi ‹‹Se non fosse / che le mie radici / di albero marino / afferrano stralci / di quella terra / morbida di sabbia/ millenaria, forse /
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mi ritroverei anonima / tra i rami nodosi / che l’ inverno crocifigge / sul Golgota dell’Italia››. Pare l’indovinello di un giullare alla corte delle Muse; sarà poesia? Lingua che batte sul dente velocemente come la penna che non dà tregua al foglio, all’accapo, alla sillaba. Strapperà forse ad Omero un verso mai scritto che egli stesso invidierà? Potrebbe. Sale sicuramente alla bocca un verso che tira l’ altro e che tira l’altro e che va a capo quando fa pausa l’onda dell’ispirazione: un attimino. Mi pare poesia come ala d’ape, come volo di rondini in amore, come libellula, come scatto di passero, un nervo sensibile e teso ora all’approdo ora al volo. Aurora De Luca
ANNA VINCITORIO BAMBINI Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2016 Da madre ascolto il continuo canto dei miei bambini, ma doveroso è sentirsi madre di tutti i bimbi. La trincea come un fosso in cui affondare e risorgere -. La Guerra dei piccoli “ bambini” coraggiosi e soli tra uomini squallidi che decidono la lotta armata in ogni tempo, passato e presente. Scorrono i versi della poetessa Anna Vincitorio in una limpidezza d’animo, oserei dire anche in una forma legale, che ne rendono la poesia un incanto di purezza e di giustizia da ritrovare …in fretta. I bambini e la loro onestà, che danzano in rime, che sperano di rendere immortale tale ignominia, tanto da non far imbracciare armi a corpi acerbi, ancora caldi di calore di mamma, mai più. La missione di questa raccolta poetica, per me, è meravigliosa. Può l’arte letteraria essere lotta di risanamento? Si! Ed ancora Si!. Solo nella dimora degli umili sopravvive primordiale innocenza - ed è cronaca di sempre questi versi che uniscono fanciullezza, emigrazione, carità e poi nella CRONACA stessa chiude la lirica con solo pietà rimane alle sue sponde - pietà sia per tutto il genere umano. Per terminare citando la nota ampia del Direttore Defelice nel recensire lo stile dei versi della sensibilissima Autrice: brevi e lacerati, spesso atoni, sottolinierei la presente cadenza di virgole che cascano come macigni tra le parole, che massi di realtà vogliono rappresentare. Un’opera breve, ma intensa, che affronta uno dei temi e degli aspeti più tragici della nostra società, crudele e cinica. Filomena Iovinella
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SALVATORE QUASIMODO OMBRA E SOGNO Poesie giovanili Edizioni Atelier. Taranto/Nizza. 2010 Una plaquette, quella che ci troviamo di fronte curata dal Alessandro Quasimodo e da Vittorio Del Piano e editata dalle Edizioni Atelier MediterraneArtePura, Taranto, 2010, che riunisce in tre sezioni (Alucce, Atomi, Chiaroscuri) le poesie giovanili di Salvatore Quasimodo. Come afferma il figlio Alessandro nella prefazione del testo: “Tra le attività a cui mi sono dedicato negli ultimi anni, una mi regala particolari soddisfazioni: il riordino, l’analisi e (talvolta) la pubblicazione del materiale che riguarda l’intera produzione di mio padre.”, si tratta di poesie inedite, carteggi, saggi o interventi. Trovarsi di fronte a composizioni di ispirazione giovanile di un tale poeta, intanto, è motivo di forte emozione per uno che biascica poesia da anni. Poi, naturalmente, di urgente sollecitazione razionale ed esegetica a far tesoro dei subbugli emotivi, affiancandoli nello scoprire fino a che punto questo cantore in nuce abbia a che vedere con il poeta delle grandi questioni umane, politiche e sociali, o semplicemente esistenziali degli anni a venire. Quello, per intenderci, di Acque e terre, dove stilemi e contaminazioni liriche mallarmeane, convivono sia a livello contenutistico che formale con reminescenze leopardiane, pascoliane o dannunziane. E dove un saldo equilibrio creativo fra dire e sentire la fa da padrone, facendosi esempio esplicito (“Vento a Tindari”) de ”La poetica della parola” (“e segrete sillabe nutro”) che avvicinerà Quasimodo alla esperienza di un esasperato ermetismo con la ricerca attenta del verbo e dei suoi nessi, motivo principale della sua poetica e di una metaforicità voluta e cercata, che non andrà mai a scapito, comunque, di quella liricità pura che lo ispira; anche se questa assillante aspirazione ad andare oltre il termine si affievolirà in Giorno dopo giorno, in cui l’esperienza della guerra sarà motivo valido a fargli rivedere il ripiegamento solipsistico o il mito di purezza formale che lo aveva antecedentemente caratterizzato (Alle fronde dei salici, Milano agosto 1943). Ma non è certo questo il luogo adatto per scandagliare tutta l’evoluzione tematico-formale del Nostro attraverso le sue opere; semmai, è quello di ricavare l’assioma definitivo della finalità della sua arte: la poesia come espletamento di una missione etico-sociale; l’uomo visto nei suoi attributi spirituali di creatore di civiltà che si evince dal discorso sulla poesia: “Oggi, dopo due guerre, nelle quali l’eroe è diventato un numero sterminato di morti, l’impegno del poeta è ancora più grave, per-
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ché deve rifare l’uomo… questo è il problema capitale, questo l’impegno”. Insomma, per tornare a noi e all’analisi comparativa di queste prime esperienze giovanili, direi che ben poco c’è del futuro scrittore. Vi leggerei semmai un impeto incontrollato ed emotivamente acceso di un giovane Autore che sente l’urgente bisogno di confessare tutto il suo patema giovanile in maniera effusiva; priva del linguismo di quegli argini stilistici a frenarne le esondazioni che caratterizzerà la poetica de La terra impareggiabile, ad esempio, o la vita non è sogno, o ancora il falso e vero verde, che si porteranno dietro l’echeggiare di quell’ urlo nero di Giorno dopo giorno. Lo fa senza condizionamenti alcuni, con versi semplici e liricamente liberi, anche se vi si può riconoscere qualche impennata e qualche guizzo etimo-fonico o iperbolico che sottintendono già quella insoddisfazione per un dire senza pointes cospirative. Ma si dovesse misurare il risultato poetico di queste prime poesie con quello di intonazione epica in endecasillabi di continuata musicalità espressiva; con quello che si fa timbro di un respiro creativo che traduce in immagini di rude vigore biblico gli impulsi dell’ humanitas quasimodiana, ben poco vi si troverebbe di comune. Credo, quindi, che abbiano, senz’altro, un grande valore storico-letterario in quanto documenti per studiosi. E che vadano considerate come opere a sé per quello che valgono e per quello che non. Una cosa è certa: per come io intendo la poesia, queste composizioni hanno un pregio: sanno arrivare con empatia e generosità comunicativa, impiegando analogie, metafore, e accorgimenti panici con tale semplicità verbale da farne apprezzare l’ insieme. In qualche pièces anche per l’uso di un endecasillabo che già preannuncia, anche se in maniera piuttosto vaga, la predisposizione del Nostro per questa misura espressiva. Nazario Pardini
GIUSEPPE LEONE D’IN SU LA VETTA DELLA TORRE ANTICA G. Leopardi e C. Bene sospesi fra silenzio e voce Il Melabò, 2015 - 110 pagg. € 16,00 Già molti secoli fa ci fu uno scrittore eccelso, Plutarco, che lasciò al mondo un’opera davvero straordinaria: Vite parallele. In essa, esaminava l’ esistenza dei più diversi personaggi affinché si potesse confrontare il modus operandi o cogitandi, la fortuna avversa o favorevole, di personaggi illustri, nella storia e nella leggenda, che avevano agito in un certo modo per conseguire un determinato scopo, passando poi alla Storia per tutto ciò che avevano fatto
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in modo straordinario, nel Bene e nel Male. Giuseppe Leone (laureatosi nel 1973), autore di romanzi e opere teatrali ma, soprattutto, saggista (c’è una lista molto rispettabile, in tal senso, in quarta di copertina) offre una sua variante dell’opera plutarchiana con questo scritto, davvero notevole in verità, confrontando l’opera di Carmelo Bene, scrittore e uomo di teatro, con quella di Giacomo Leopardi, poeta e scrittore, vissuto nella prima metà del XIX secolo. L’occasione ufficiale, sì come suggerisce il titolo di quest’opera, è data dal fatto che sia Carmelo che Giacomo operarono dalla cima di una torre (il primo a Bologna e l’altro a Recanati) in occasioni diverse fra di loro ma che una cosa l’avevano in comune: la Tristezza e la Solitudine. Leopardi fu triste e solo tutta la sua vita (o almeno, finché non si spostò a Napoli) e le sue riflessioni melanconiche, contenute ne L’Infinito, mettono a nudo l’animus del contemporaneo di Puskin, scrittore e poeta russo, che preferisce scegliere il suono o il silenzio alle immagini, cercando di trovare consolazione al suo triste stato psico fisico. Carmelo Bene, sagace ed attento osservatore della vita del secolo scorso, volle commentare una tragedia avvenuta a Bologna (una strage, alla stazione dei treni, il 2 agosto 1980), leggendo e commentando versi di Dante dall’alto della Torre degli Asinelli, sempre a Bologna. Anche Bene dunque fu alfiere della Tristezza, dovuta ad un fatto di sangue senza motivi purchessia più o meno chiariti, ed alla solitudine (dei parenti delle vittime, abbandonati a sé stessi dalla Patria, che si rammenta dei suoi figli solo nella stagione del 740!). Non è facile parlare con precisione e dovizia di particolari né su Carmelo né su Giacomo, ambo riconosciuti due geni, sia pure per motivi diversi, urbi et orbi. Chi o che cosa è un genio? Cosa esprime la genialità? Come si esprime la genialità? Carmelo Bene era forse un ateo assoluto (scrisse Sono apparso alla Madonna) ed un materialista, ma forse era anche un filosofo. E Giacomo Leopardi, autore de Le operette morali e de Lo Zibaldone, così pragmatico e preciso nello scrivere, potrebbe essere annoverato anche fra i filosofi oppure era solo un poeta, pur se eccelso? Non è facile districarsi in questo cammino irto di ipotesi, dubbi, sentenze che si contraddicono fra di loro (il parere di Benedetto Croce, critico autorevolissimo, e quello di Nietzsche, filosofo tedesco di notevole spessore), insinuazioni, ripensamenti, verità assolute. Non è facile, è vero e sacrosanto, ma l’Autore di questo saggio non si scoraggia e con molta pazienza e moltissimi interventi, citazioni, note a piè di
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pagina, offre al lettore un discorso molto preciso, coerente e chiaro. Non è un pane facile da addentare, certo, ma non è neppure un tozzo di pan raffermo da passare con dispregio a Fido perché ci sono alternative migliori. E’ così’ com’è e può piacere o no, ma certo è un saggio degno di rispetto, approfondito la sua parte e che non manca di obiettività, poiché chi ha qualcosa da dire, a pro o contro, circa Bene o Leopardi, è presente ed enuncia il suo pensiero. Il lettore poi giudicherà. Comunque, è un testo degno e va letto con molta attenzione. Andrea Pugiotto
AZZURRO Nell’azzurro ritorni o Cristo con la tua cosmica presenza di pace. Ti abbiamo tradito in paesaggi di urbana follia. Abbiamo udito, guardato senza vedere la tua trama dissolversi. Duplice uomo abbandonato e respinto, odiato senza ragione, ritorna a noi consolaci rifaremo il mondo con Te o Divino salvatore delle nostre anime, nella speranza ora vivremo per rivederti nella tua grandiosa luce che risplenderà nuovamente su questa povera umanità. Adriana Mondo Reano, To
IL BUON PORTATOR DI PENE Il buon portator di pene non porta pena è come polline è come seme cade nella rena e non geme e la vita mena dove va: terre mari cieli città. Non scrive questa come me non fa la vive subito appena è là. Alla fine tutto scompare
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solo L'Amore rimane: L'Ognuno Spirituale. Michele Di Candia Inghilterra
COME È TRISTE Come è triste il calare della notte, tutto cade nell’ombra, soltanto le stelle come fiammelle fanno luce nel buio, tutto tace nel silenzio notturno e iniziano i sogni, e come farfalla vago nel buio. Loreta Bonucci
SUSSURRI Si! Trema nel profondo ora il lontano mietere d’amore mentre nel sapere colgo che voglio donarmi qualvolta sento la dolce natura che mormora non sempre, non mai ma sol durante quei sussurri. Filomena Iovinella Torino IL CROCO I Quaderni Letterari di POMEZIA-NOTIZIE Il numero 122 di questo mese è dedicato a: FILOMENA IOVINELLA ODI IMPETUOSE (2° Premio Città di Pomezia 2015)
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D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE DUE TESI SULL’OPERA DI DOMENICO DEFELICE - Ci sentiamo in dovere di ringraziare le tante testate amiche che hanno voluto pubblicare la notizia delle due tesi discusse di recente all’Università di Roma Torvergata, dipartimento di Lettere e Filosofia, sull’opera letteraria del giornalista e scrittore Domenico Defelice, e precisamente quella (il 2 dicembre 2015) di Aurora De Luca in Letteratura Italiana: Aspra terra e creazione fertile nell’opera di Domenico Defelice, - relatore il chiarissimo Professore L. Rino Caputo - e l’altra (il 15 dicembre 2015) di Claudia Trimarchi in Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea: La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice - relatore il chiarissimo Professore Carmine Chiodo. Delle due tesi, infatti, abbiamo letto, per esempio, su Il Pontino Nuovo del 16/31 dicembre 2015, su Città & City dell’1/15 gennaio 2016, su Domani Sud del gennaio-febbraio 2016 e sulle testate online Solofra Oggi e Alla volta di Leucade, in entrambe il 16 dicembre 2015. *** A RICCARDO - L’edizione del fortunato A Riccardo (e agli altri che verranno), che Emerico Giachery definisce “bella mescolanza di poesia e vita”, è del tutto esaurita: non se ne trova in giro neppure una copia. Nel ringraziare quanti ci hanno voluto esprimere la delusione per non averlo potuto leggere, assicuriamo che stiamo pensando a una eventuale sua seconda edizione. Ma quello che ci inorgoglisce è l’aver potuto rilevare come il libro non sia stato da quasi nessuno giudicato una sem-
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plice raccolta di versi datati, bensì un sentito nostro contributo alla difesa della famiglia, oggi assai bistrattata; e può apparire strano, ma è vero: molti di coloro che ci hanno espresso il desiderio di leggerlo son giovani: giovani nostri lettori, giovani che ci incontrano per le strade e le piazze di Pomezia, giovani incontrati di recente in una Università romana... Che gioia dover costatare che la poesia viene ancora cercata dai giovani! Ricordiamo gli interventi di Nazario Pardini (sul blog Alla volta di Leucade), NN (su quindicinale Il Pontino Nuovo), NN (su Città & City), Giuseppe Ciccia (Il Centro storico), Marcello Falletti di Villafalletto (L’Eracliano), Salvatore D’Ambrosio (Fiorisce un cenacolo), Lucia Paternò (Il Convivio), Pasquale Matrone (La Nuova Tribuna Letteraria), Giovanna Li Volti Guzzardi (Il Giornalino Letterario, Melbourne), e poi su P. N.: Aldo Cervo, Luigi De Rosa, Elisabetta Di Iaconi, Ilia Pedrina, Liliana Porro Andriuoli, Corrado Calabrò, Tito Cauchi, Paolangela Draghetti, Elena Milesi, Laura Pierdicchi, Anna Aita, Andrea Bonanno, Caterina Felici, Rossano Onano, Isabella Michela Affinito. Un ideale abbraccio a tutti e tante scuse per le dimenticanze. (ddf) *** DOBBIAMO SMETTERLA! - Riceviamo, via email, da Rapallo, l’otto gennaio 2016: "Caro Direttore, permettimi di complimentarmi con te per la chiarezza tagliente del tuo Editoriale di dicembre "Dobbiamo smetterla!". Condivido in pieno le tue indignate esortazioni. Ci voleva una voce forte e chiara. Basta costruire e vendere armi. Dalle armi individuali alla Bomba all'Idrogeno. ( Purtroppo ci sono troppi pazzi e criminali al mondo...). Ma la Storia non insegna niente, non è maestra di niente. Basta fare i gendarmi e intrometterci in tutti i modi negli affari interni degli altri (Ma ci sono troppi interessi economico-politici). Basta con l'esportazione della democrazia, per i motivi da te lucidamente esposti... Basta con l'imperialismo economico-finanziario e culturale che fa da supporto a quello delle armi. Però basta anche sopportare così stolidamente un terrorismo feroce e senza limiti, sia individuale che fanaticamente organizzato, a spese di tanti innocenti. Tra una feroce dittatura e una stolida, rovinosa anarchia, dovrebbe esistere una via di mezzo che garantisse la sicurezza collettiva senza sopprimere la libertà personale. Occorrono, da parte dei responsabili, più fatti e meno chiacchiere ipocrite. Il fatto, comunque, che queste cose siano state dette con tanta coraggiosa chiarezza dal Direttore di una Rivista culturale
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aperta e pluralista come Pomezia-Notizie, dovrebbe spingere anche tanti poeti e scrittori ad intervenire, invece di stare sempre a guardare e a restare tranquilli a coltivare il proprio giardinetto letterario.” Luigi De Rosa Carissimo Amico, grazie per lo stimolo, che dovrebbe venire da parte di tutti, da quanti, invece, continuano a rimanere annegati, strozzati, dall’imperante scetticismo: giacché le cose difficilmente possono cambiare, è inutile intervenire, protestare, alzare la voce, esprimere il proprio pensiero. È qui che si annidano i germi del nostro fallimento, del fallimento dell’interno Occidente. Dobbiamo svegliarci, invece, scrollarci l’aura scettica, protestare le nostre utopie come se fossimo graniticamente certi della loro realizzazione. La “via di mezzo” che tu auspichi “Tra una feroce dittatura e una solida, rovinosa anarchia”, in certi Stati non esiste; ecco perché occorre aspettare che maturi in quei Popoli senza il nostro intervento non richiesto e perciò destabilizzante. Se non c’è maturazione nelle coscienze individuali, nessun nostro intervento dall’esterno potrà mai garantir loro una stabile “sicurezza collettiva” e una loro “libertà personale”. D. Defelice *** CONCORSO LETTERARIO “MARIA MESSINA” - Riservato alla narrativa - La “Associazione Progetto Mistretta”, attraverso il suo giornale “Il Centro Storico”, indice la tredicesima (2016) edizione del Premio letterario “Maria Messina” – Un racconto per “Il Centro Storico” - per onorare la memoria della scrittrice verista (1887-1944) vissuta a Mistretta nei primi anni del 1900, le cui spoglie, insieme a quelle della madre, riposano nel Cimitero Monumentale di questa città, della quale è cittadina onoraria. Regolamento: Art. 1. E' indetto il concorso "Premio Maria Messina" Un racconto per "Il Centro Storico" per opere di narrativa inedita e edita. Sezioni inediti: • a) riservata agli adulti; b) riservata alle scuole superiori di secondo grado. Alle sezioni A e B si partecipa con un racconto che non superi le 10 cartelle dattiloscritte (1800 battute circa per cartella); c) riservata alle scuole superiori di primo grado; d) riservata alle scuole primarie. Alle sezioni B, C e D si può partecipare individualmente o come gruppo di classe; e) riservata alle scuole del territorio, distinte nelle tre fasce di livello. Si partecipa inviando una fiaba, la cui lunghezza non potrà supe-
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rare le 5 cartelle dattiloscritte. Sezione libri editi: Sono ammessi volumi di narrativa (racconti o romanzi) pubblicati nel periodo Gennaio 2015 Aprile 2016, tema libero. Art. 2. La partecipazione al concorso è gratuita per le sezioni “inedito”, mentre è prevista una quota di iscrizione di euro 10,00 per la sezione “libri editi”. Art. 3. Gli elaborati dovranno pervenire entro e non oltre la data del 15 giugno 2016 all’indirizzo dell’Associazione. Art. 4. Gli elaborati inediti devono pervenire in 6 copie, prive di generalità dell'autore in calce, e devono essere spediti in busta anonima, sulla quale va specificata la sezione alla quale si intende partecipare. Tale busta deve contenerne un’altra, anch’essa chiusa e assolutamente anonima, contenente: la scheda di iscrizione, un breve curriculum (facoltativo) e l’autorizzazione al trattamento dei propri dati. Art. 5. Non possono concorrere al premio coloro che si sono classificati primi nelle ultime tre edizioni; ad essi verrà, eventualmente, riservata una sezione speciale. Gli elaborati vanni inviati a: Associazione Progetto Mistretta - Segreteria del Premio Letterario Maria Messina – Via Libertà, 185 – 98073 Mistretta (ME). Chiedere scheda e regolamento completo. Tel. 0921 381232 (Presidente) email: centrostorico@virgilio.it www.centrostorico. altervista.org *** Premio Internazionale Poesia, Prosa e Arti figurative e Premio teatrale Angelo Musco Il Convivio 2016 - L’Accademia Internazionale Il Convivio, in collaborazione con il Museo Valle Alcantara e l’ omonima rivista, bandisce la XV edizione del Premio Il Convivio 2016, Poesia, prosa e arti figurative e la X edizione del Premio Teatrale Angelo Musco, cui possono partecipare poeti e artisti sia italiani che stranieri con opere scritte nella propria lingua o nel proprio dialetto (se in dialetto è richiesta una traduzione nella corrispettiva lingua nazionale). Per i partecipanti che non sono di lingua neolatina è da aggiungere una traduzione italiana, francese, spagnola o portoghese. Premio Poesia, prosa e arti figurative Scadenza: 15 giugno 2016. È diviso in 8 sezioni: 1) Una poesia inedita a tema libero in lingua italiana (cinque copie) 2) Un racconto inedito di massimo 6 pagine (spaziatura 1,5) (cinque copie). 3) Romanzo inedito (minimo 64 cartelle) (tre copie). 4) Raccolta di Poesie inedite, con almeno 30 liriche, fascicolate e spillate (diversamente le opere saranno escluse) (tre copie). 5) Libro edito a partire dal 2006 nelle sezioni: 1) poesia, 2) narrativa, 3) saggio (tre copie). Non si può partecipare con volumi già presentati nelle edizioni precedenti del Premio Il Convivio. 6) Pittura e scultura: si partecipa inviando due foto chiare e leggibili di un’opera
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pittorica o scultorea. 7) Opera musicata (poesia, canzone, opera teatrale, ecc). L’opera è accettata solo ed esclusivamente se accompagnata da un DVD o CD (una copia). 8) romanzo, saggio, raccolta di poesie o di racconti inediti per e-mail (inviare una copia corredata di generalità e recapiti all’indirizzo e-mail: angelo.manitta@tin.it, enzaconti@ilconvivio.org). Premio Teatrale Angelo Musco Scadenza: 15 giugno 2016. È diviso in 2 sezioni: 1) Opera teatrale inedita in qualunque lingua (anche dialettale, ma con traduzione italiana) (tre copie) 2) Opera teatrale edita in qualunque lingua o dialetto. (tre copie) Premiazione: Giardini Naxos (ME): ottobre 2016. Si può partecipare a più sezioni, ma con una sola opera per sezione, dichiarata di propria esclusiva creazione. Delle copie inviate, una deve essere corredata di generalità, indirizzo, numero telefonico ed e-mail, le altre copie devono essere anonime se inedite, se invece edite non è da cancellare il nome dell’autore. Il tutto è da inviare alla Redazione de Il Convivio: 1) Premio “Poesia, Prosa e Arti figurative”, Via Pietramarina Verzella, 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) - Italia. 2) Premio teatrale “Angelo Musco”, Via Pietramarina Verzella, 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) - Italia. Si raccomanda di allegare un breve curriculum. I vincitori saranno avvertiti per tempo. Il verdetto della giuria è insindacabile. Ai vincitori e ai partecipanti sarà data comunicazione personale dell’esito del premio. I premi devono essere ritirati personalmente. Le opere inedite devono restare tali fino al giorno della premiazione. L’Accademia si riserva la possibilità di pubblicare gli elaborati inediti sulla rivista Il Convivio e, dopo averli selezionati, eventualmente inserirli sull’antologia dei premi Il Convivio 2016. I vincitori della Sezione Arti figurative il giorno della cerimonia potranno mettere in mostra, previo accordo, le proprie opere. Premi: Trofeo il Convivio, coppe, targhe e diplomi. La partecipazione al concorso è gratuita per i soci dell’Accademia Il Convivio e per gli studenti che partecipano tramite scuola. È richiesto invece da parte dei non soci, per spese di segreteria, un contributo complessivo di euro 10,00 indipendentemente dal numero delle sezioni cui si partecipa (o moneta estera corrispondente) da inviare in contanti. Le copie inviate per e-mail vanno corredate della copia del versamento di partecipazione. Tutela dei dati personali: Ai sensi del D.Lgs. 196/2003 “Tutela delle persone rispetto al trattamento dei dati personali” l’ organizzazione dichiara che il trattamento dei dati dei partecipanti al concorso è finalizzato unicamente alla gestione del premio. I partecipanti al concorso con l’invio dei materiali letterari acconsentono al
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trattamento dei dati personali. Per ulteriori informazioni scrivere o telefonare alla Segreteria del Premio, Via Pietramarina Verzella, 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) Italia, tel. 0942-986036, cell. 333-1794694, e-mail: angelo.manitta@tin.it.; enzaconti@ilconvivio.org . È possibile anche consultare il sito: www.ilconvivio.org Il presidente del Premio Angelo Manitta
LIBRI RICEVUTI ANNA TROMBELLI ACQUARO - Attimi d’ emozioni - Poesie e racconti, Prefazione di Piero Genovesi, Presentazione di Giovanna Li Volti Guzzardi; volume di grande formato, illustrato con foto a colori e in bianco e nero; in copertina, a colori, pittura su tela di Maria D’Appio - A.L.I.A.S. Editrice, 2011 - Pagg. 105, s. i. p. Anna TROMBELLI ACQUARO è nata a Bianco (RC) ed è emigrata in Australia nel 1958. La sua passione per la scrittura le ha recato successi e riconoscimenti sia nazionali che internazionali. Il legame con l’A.L.I.A.S. risale a dieci anni fa e da allora ha sempre collaborato con tale Associazione, della quale è anche sostenitrice e con la quale, nel 1999, ha pubblicato “Le Mie Poesie”. In Italia, nel 2002, ha pubblicato un libro (italiano-inglese) di favole, intitolato “Il lago incantato”; nel 2005, sempre con A.L.I.A.S., un altro libro di poesie: “Un alito d’amore”. Partecipando al concorso A.L.I.A.S. ha vinto il premio speciale Medaglia d’Argento del Papa Giovani Paolo II - due volte - e vari Primi Premi. Nel 2006 ha vinto il Secondo Premio. Nel 2007, il Terzo Premio e, nel 2008, la Menzione d’Onore. Nel 2009 ha vinto il Premio Speciale del Moonee Valley City Council e nel 2010 Menzione d’Onore per poesia e narrativa. Inoltre, vari premi internazionali, compresi il Napoli Cultural Class, L’Accademia Universale Giosuè Carducci, l’Associazione Culturale Savonese, il Concorso Internazionale Poetico Musicale di Lugano e l’American Biographical Institute dove è stata presentata con ‘The presidential seal of honour’ per esemplari conquiste nel campo della poesia e della letteratura. La Trombelli Acquaro è anche stata riconosciuta nel libro ‘Great Women of the 21st Century’ pubblicato dall’American Biographical Institute nel 2004/2005. Nel 2007 ha ricevuto il premio ‘International Peace Prize’, per notevoli successi personali per il bene della società nel suo complesso e nel 2009 ha anche fatto parte dell’American Hall of Fame per eccezionali risultati personali, de-
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dicazione e una leadership straordinaria. ** EMILIA BISESTI - Pagine erranti - Poesie, Prefazione di Domenico Defelice, in bandella, nota di Sandro Gros-Pietro; in copertina, a colori, “Deserto”, disegno di Davide Conforti - Genesi Editrice, 2015 - Pagg. 64, € 10,50. Emilia BISESTI è nata a Roma il 23 febbraio 1967. Coniugata è mamma di due ragazzi. Da 25 anni partecipa attivamente alla vita dell’Associazione Coloni di Pomezia, che si propone di diffondere la storia e la cultura del territorio. Presenta le tradizionali manifestazioni storico culturali dei Coloni e cura la declamazione delle liriche dei poeti della “Spiga d’Oro”, settore artistico della stessa associazione, di cui è coordinatrice dal 1996. Scrive poesie tentando di liberare le più semplici e segrete emozioni racchiuse nell’intimo. Recentemente ha promosso la mostra d’arte “Anime oltre l’Autismo”, rassegna artistica di proprie poesie e disegni realizzati dal figlio Davide. In questa raccolta - la prima in volume - con trepidazione, sfoglia alcune delle Pagine erranti delle stagioni del suo cuore, l’effimera esistenza marcata da malanni, turbamenti e speranze stroncate a metà, ma altresì da un fiore, dal vento, da un sorriso inaspettato e dalle parole di un amico poeta, che la spronano a vivere e godere del momento; la implorano a lasciare scorrere i pensieri più cupi solamente negli specchi freddi ed insipidi della vita. ** BRUNO VESSPA - Donne d’Italia. Da Cleopatra a Maria Elena Boschi storia del potere femminile - Rai Eri Mondadori, 2015 - Pagg. 424, € 20,00. Bruno VESPA è nato a L’Aquila nel 1944, ha cominciato a 16 anni il lavoro di giornalista e a 24 si è classificato al primo posto nel concorso che lo ha portato alla Rai. Dal 1990 al 1993 ha diretto il Tg1. Dal 1996 la sua trasmissione “Porta a porta” è il programma di politica, attualità e costume più seguito. Per la prima volta nella storia, vi è intervenuto un papa, Giovanni Paolo II, con una telefonata in diretta. Tra i premi più prestigiosi, ha vinto il Bancarella (2004), per due volte il Saint-Vincent per la televisione (1979 e 2000) e nel 2011 quello alla carriera; nello stesso anno ha vinto l’Estense per il giornalismo. Fra i suoi più recenti volumi pubblicati da Mondadori ricordiamo: Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi; Vincitori e vinti; L’Italia spezzata; L’amore e il potere; Viaggio in un’Italia diversa; Donne di cuori; Il cuore e la spada; Questo amore; Il Palazzo e la piazza; Sale zucchero e caffè”; Italiani voltagabbana. ** EMERICO GIACHERY - Passione e sintonia. Saggi e ricordi di un italianista - Carocci editore,
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2015 - Pagg. 182, € 20,00. Emerico GIACHERY, già ordinario di Letteratura italiana moderna e contemporanea nella II Università di Roma-Tor Vergata, dopo avere insegnato negli Atenei di diverse città italiane e straniere, tra cui Ginevra. Una trentina le opere pubblicate. Tra le altre: “Metamorfosi dell’orto e altri scritti montaliani”, 1985; “Nostro Ungaretti”, 1988; “Verga e D’Annunzio; Ritorno a Itaca”, 1992; “Dialetti in Parnaso, 1992; “Letteratura come amicizia”, 1996; “Luoghi di Ungaretti, 1998; “Ungaretti “verticale” “ (in collaborazione con Noemi Paolini), 2000; “La parola trascesa e altri scritti”, 2000; “L’avventura del sogno”, 2002; “Albino Pierro grande lirico”, 2003; “Gioia dell’interpretare. Motivi, Stile, Simboli”, 2006; “Belli poeta di Roma tra Carnevale e Quaresima”, 2007; “Abitare poeticamente la terra”, 2007; “Ungaretti ad alta voce ed altre occasioni”, 2008; “Voci del tempo ritrovato”, 2010; La vita e lo sguardo (2011); Alcune “Lecturae Dantis (Inferno XIII, Purgatorio X, Paradiso I e III)” sono state pubblicate di recente con l’aggiunta di cd contenenti la lettura vocale dei canti fatta dallo stesso lector. ** GIOVANNI DINO - La nascita di una idea - Monologo-poemetto, nota di Elio Giunta; In copertina, “Anche animali e piante escogitano idee per vivere e sopravvivere”, di Francesca Lucia Gargioni Fondazione Thule Cultura, 2015 - Pagg. 30, s. i. p. Giovanni DINO, poeta, nato a Palermo nel 1959, vive e opera a Villabate (PA). Reputa sua vera scuola le molteplici esperienze di vita con persone di diversa levatura sociale e culturale e la loro amicizia. Ha frequentato i corsi di teologia e studi biblici di base della Diocesi di Palermo, dedicandosi anche a diversi approfondimenti filosofici sul “Bene” e sul “Male”, sul “Bello” e sul “Buono”, a studi sulla poesia nazionale contemporanea dal dopo guerra ad oggi, su poeti palermitani, alcuni dei quali conosciuti e frequentati. Ha lungamente militato nella rivista “Spiritualità & Letteratura”, il cui direttore, poeta Giulio Palumbo (già suo professore alle medie inferiori), ne ha scoperto il talento agli inizi degli anni ’90, avviandolo al mondo della poesia. Alla sua morte (1998), Pietro Mirabile, anch’egli poeta del sacro e condirettore della rivista suddetta, assieme anche all’ editore-scrittore Tommaso Romano, ha preso cura della sua formazione poeticospirituale. Innamorato delle tradizioni popolari del suo paese, conoscitore della cultura islamica, Giovanni Dino vanta viaggi e persistenti rapporti interculturali con dialoghi e interviste a iman e a personalità nordafricane presenti nel territorio palermitano. Amante della natura e degli animali, ha sempre coltivato, dopo la poesia, la passione per l’ orticul-
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tura biologica, la cucina, e il “fai da te”. Cattolico, è attivista aperto ecumenicamente verso tutte le fedi religiose. Tra le sue pubblicazioni: “La parola sospesa” (1995), “Ritorneremo (I Cavalieri dello Spirito)” (1998), “Anima di gatto” (2002), “e ritorno a te” (2004), “Un albero che nutre la terra di cielo” (2007); ed ha curato l’ “Indice Generale 19862003” e gli “Editoriali di Spiritualità & Letteratura” (2006), “Nuovi salmi (con Giacomo Ribaudo, 2012). Presente in varie antologie di poesie e dizionari di autori, collabora a diversi mensili e riviste letterarie. ** GIOVANNI DINO (a cura di) - I poeti e la crisi note del Curatore e di Rita Cedrini, antropologa Fondazione Thule Cultura, 2015 - Pagg. 302, s. i. p. Vi sono antologizzati: Ennio Abate, Massimo Acciai, Nino Agnello, Domenico Alvino, Filippo Amadei, Giovanni Amodio, Brandisio Andolfi, Amedeo Anelli, Sandro Angelucci, Cristina Annino, Lucianna Argentino, Vincenzo Arnone, Andrea Barbazza, Antonella Barina, Arnaldo Baroffio, Maurizio Barracano, Mariella Bettarini, Gabriella Bianchi, Donatella Bisutti, Rino Bizzarro, Silvana Blandino, Paola Bonetti, Anna Maria Bonfiglio, Lia Bronzi, Marisa Brecciaroli, Ferruccio Brugnaro, Luigi Bufalino, Franco Campegiani, Caterina Camporesi, Maria Cannarella, Domenico Cara, Licia Cardillo Di Prima, Mariella Caruso, Franco Casadei, Maria Gisella Catuogno, Augusto Cavadi, Viviane Ciampi, Grazia Cianetti, Domenico Cipriano, Carmelo Consoli, Anna Maria Curci, Salvatore D’Ambrosio, Antonio Demarchi Gherini, Jole de Pinto, Luigi De Rosa, Marco Ignazio de Santis, Adele Desideri, Rosaria Di Donato, Felice Di Giacomo, Carmelo Di Stefano, Emilio Diedo, Giovanni Dino, Angela Donna, Antonella Doria, Gianfranco Draghi, Germana Duca Ruggeri, Pasquale Emanuele, Gio Ferri, Giovanna Fighera, Luigi Fioravanti, Zaccaria Gallo, Sonia Gardini, Serenella Gatti Linares, Daniele Giancane, Mariateresa Giani, Eugenio Giannone, Filippo Giordano, Agnese Girlanda, Elio Giunta, Enza Giurdanella, Grazia Godio, Eugenio Grandinetti, Maria Luisa Gravina, Francesco Graziano, Diego Guadagnino, Gianni Ianuale, Alfio Inserra, Carmine Iossa, Gianfranco Isetta, Giuseppe La Delfa, Stefania La Via, Giuliano Ladolfi, Alessio Laterza, Enrico Mario Lazzarin, Maria Grazia Lenisa, Maria Lenti, Aldino Leoni, Giacomo Leronni, Salvatore Li Bassi, Nicola Licciardello, Stefano Lo Cicero, Gianmario Lucini, Francesca Luzzio, Mauro Macario, Annalisa Macchia, Marco Giovanni Maggi, Roberto Maggiani, Gabriella Maleti, Angelo Manitta, Nunzio Marotti, Sara Martello, Viviana Mattiussi, Vito Mauro, Sen-
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zio Mazza, Anita Menegozzo, Alda Merini, Giancarlo Micheli, Elena Milesi, Ester Monachino, Marina Montagnini, Ardea Montebelli, Alberto Mori, Maria Pia Moschini, Lorenzo Mullon, Antonio Nesci, Clara Nistri, Sergio Notario, Guido Oldani, Claudio Pagelli, Giacomo Panicucci, Nazario Pardini, Ezio Partesana, Guido Passini, Edoardo Penoncini, Guglielmo Peralta, Rosanna Perozzo, Mariacristina Pianta, Andrea Piccinelli, Laura Pierdicchi, Domenico Pisana, Marina Pizzi, Giorgia Pollastri, Paolo Polvani, Davide Puccini, Paolo Ragni, Alessandro Ramberti, Enzo Rega, Gianni Rescigno, Flora Restivo, Alain Rivière, Nicola Romano, Mario Rondi, Angelo Rosato, Ottavio Rossani, Ciro Rossi, Pietro Roversi, Stefano Rovinetti Brazzi, Marcella Saggese, Anna Santoliquido, Loredana Savelli, Marco Scalabrino, Maria Teresa Santalucia Scibona, Antonio Scommegna, Liliana Semilia, Gianfranco Serafino, Luciano Somma, Italo Spada, Antonio Spagnuolo, Santino Spartà, Marzia Spinelli, Lorenzo Spurio, Fausta Squatriti, Gian Piero Stefanoni, Anna Maria Tamburini, Luigi Tribaudino, Carmela Tuccari, Luca Tumminello, Adam Vaccaro, Mario Varesi, Anna Ventura, Emanuele Verdura, Anna Vincitorio, Ciro Vitiello, Fabrizio Zaccarini, Carla Zancanaro, Adalgisa Zanotto, Guido Zavanone, Lucio Zinna. ** SERINO FELICE - Frammenti di luce indivisa (poesie scelte) - Presentazione di Lorenzo Spurio Centro Studi Tindari-Patti, 2015 - Pagg. 120, € 10,00. Felice SERINO è nato a Pozzuoli nel 1941. Autodidatta. Vive a Torino. Copiosa la sua produzione letteraria (raccolte di poesie: da Il dioboomerang, del 1987, a D’un sognato dove, del 1914); ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti e di lui si sono interessati autorevoli critici. È stato tradotto in sette lingue. Intensa e prolifica la sua attività redazionale visibile anche on-line. Gestisce vari blog e siti.
TRA LE RIVISTE ntl LA NUOVA TRIBUNA LETTERARIA - Rivista fondata da Giacomo Luzzagni e diretta da Stefano Valentini, direttore Editoriale Natale Luzzagni, Vicedirettore Pasquale Matrone - Casella Postale 15C - 35031 Abano Terme (PD). e-mail: nuovatribuna@yahoo.it Riceviamo il n. 120, 4° Trimestre 2015, nel quale Valentini (“Dopo venticinque anni non finisce qui”) e N. Luzzagni (“Futuro a colori”) annunciano prossimi cambiamenti e rinnova-
POMEZIA-NOTIZIE
Febbraio 2016
no l’invito a lettori e collaboratori a continuare a dare fiducia alla testata e ad aiutarla in tutte le sue necessità, anche economiche. Tra i pezzi più pregevoli vogliamo segnalare: “I 150 anni della nascita di William Butler Yeats”, di Luigi De Rosa; “Il mondo incantato delle fiabe di Luigi Capuana”, di Maria Nivea Zagarella; “Una sottile è pensosa tristezza: Aleksander Puskin”, di Elio Andriuoli; “Voci femminili dell’Ottocento inglese: Christina Rossetti”, di Liliana Porro Andriuoli e poi i tanti interventi di Pasquale Matrone e “Quello che la Grecia ha veramente dato all’Europa” di Rosa Elisa Giangoia. Daniela Monreale si interessa di “Là dove pioveva la manna”, dell’amica Imperia Tognacci. * VERNICE - Rivista di formazione e cultura, responsabile Claudio Giacchino; Redattori: Giovanni Chiellino, Liana De Luca, Carlo Di Lieto, Sandro Gros-Pietro, Rossano Onano, Armando Santinato, Aldo Sisto - Genesi Editrice - via Nuoro 3 - 10137 Torino. Tel. e Fax 0113092572 e-mail: genesi@genesi.org internet: http://www.genesi.org Riceviamo, inviatoci da Imperia Tognacci, il n. 52, ottobre 2015, la cui copertina è dedicata all’ amico Guido Zavanone, del quale, all’interno, troviamo una intervista a cura di Sandro Gros-Pietro, una “Notizia biobibliografica”, una Antologia poetica, numerosi giudizi e numerose fotografie a colori e in bianco e nero. A Imperia Tognacci vengono dedicate le pagine da 235 a 254, con fotografie, poesie, una vasta scheda critica di Sandro GrosPietro e un giudizio di Giorgio Bàrberi Squarotti. La rivista, una vera e propria antologia di 300 pagine (€ 20), contiene numerosissimo materiale e tutto importate, ma che non si può citare integralmente per ovvi motivi di spazio. Ricordiamo solo le pagine dedicate alla memoria di Gianni Rescigno, a firma di Sandro Angeluci, Marina Caracciolo, Francesco D’Episcopo; il saggio “Seduzione, perturbante e doppio nella “Donna fatale” di Luigi Manzella” a firma di Carlo Di Lieto; il racconto “Il collier scomparso” di Sandro Gros-Pietro; né possiamo non citare le firme, a vario titolo, di: Adriana Mondo, Elio Andriuoli, Liana De Luca, Anna Vincitorio, Laura Pierdicchi, Rossano Onano, Emerico Giachery, perché tutti anche nostri collaboratori.
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AI COLLABORATORI Si invitano i collaboratori ad inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione), composti con sistemi DOS o Windows, su CD, o meglio, attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è necessario un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (con copia cartacea) Annuo... € 50.00 Sostenitore....€ 80.00 Benemerito....€ 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia....€ 5,00 ABBONAMENTO solo on line: http://issuu.com/domenicoww/docs/) Annuo... € 35 Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 NO76 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio