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Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale 70% - DCB - ROMA Anno 24 (Nuova Serie) – n. 4 - Aprile 2016 € 5,00

ADRIANA ASSINI UN CAFFÈ CON ROBESPIERRE di Marina Caracciolo

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DRIANA Assini è una delle più note scrittrici italiane che si siano specializzate nel genere del romanzo storico. Conosciuta anche all’ estero, soprattutto in Spagna – dove il suo romanzo Le rose di Cordova (2007) è stato tradotto in castigliano da Mercedes González de Sande, docente di Filologia Romanza e Filologia Italiana nelle Università di Salamanca, Murcia e Oviedo (presso quest’ultima, il libro è stato inserito fra le letture obbligatorie dei corsi di Filologia Italiana) – ha al suo attivo più di una dozzina di titoli, fra i quali possiamo ricordare i più recenti: Un sorso di arsenico, Il mercante di zucchero e La Riva Verde, tutti editi da Scrittura & Scritture di Napoli. Nel caso di questo romanzo appena uscito, Un →


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All’interno: Roma nel primo dopoguerra, di Emerico Giachery, pag. 5 Erri De Luca: parole in preghiera, di Ilia Pedrina, pag. 8 Dalla Cina mondo inquinato e Litchi in fiore, di Domenico Defelice, pag. 11 Uno scintillio di percorsi lontani, di Marina Caracciolo, pag. 14 Anche ai “Ragazzi di zinco” il Premio Nobel, di Luigi De Rosa, pag. 16 Francesco De Sanctis e la scuola, di Antonia Izzi Rufo, pag. 18 Giuseppe Leone e un’analisi intensa e magistrale, di Aida Isotta Pedrina, pag. 21 Gabriele D’Annunzio nella prima guerra mondiale, di Marina Caracciolo, pag. 24 Sabato Racioppi, di Leonardo Selvaggi, pag. 26 La mia Lèucade, di Nazario Pardini, pag. 31 Laura Pierdicchi: Oltre, di Tito Cauchi, pag. 35 Sull’irriducibilità del poetico, di Susanna Pelizza, pag. 37 Premio Città di Pomezia 2016 (regolamento), pag. 38 I Poeti e la Natura (Federico García Lorca), di Luigi De Rosa, pag. 39 Notizie, pag. 53 Libri ricevuti, pag. 55 Tra le riviste, pag. 57 RECENSIONI di/per: Elio Andriuoli (L’altro Regno, di Bozzetti Maria Rita, pag. 40); Tito Cauchi (Odi impetuose, di Filomena Iovinella, pag. 41); Tito Cauchi (Bambini, di Anna Vincitorio, pag. 42); Tito Cauchi (World Poetry, di Zhang Zhi & Lai Tingjie, pag. 42); Tito Cauchi (Pagine erranti, di Emilia Bisesti, pag. 43); Tito Cauchi (Poeti italiani del nostro tempo, di AA. VV., pag. 43); Tito Cauchi (Storia Postale Italiana, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 44); Domenico Defelice (Oltre, di Laura Pierdicchi, pag. 44); Domenico Defelice (Matteo e il tappo, di Caterina Felici, pag. 46); Aurora De Luca (Bambini, di Anna Vincitorio, pag. 46); Elisabetta Di Iaconi (Odi impetuose, di Filomena Iovinella, pag. 47); Paolangela Draghetti (Probabilmente sarà poesia, di Isabella Michela Affinito, pag. 48); Paolangela Draghetti (Bambini, di Anna Vincitorio, pag. 48); Paolangela Draghetti (Emozioni sparse al vento, di Anna Trombelli Acquaro, pag. 49); Filomena Iovinella (È Oriente, di Paolo Rumiz, pag. 49); Francesca Maiuri (Dignità e condizione della donna, di Adalpina Fabra Bignardelli, pag. 50); Susanna Pelizza (Palcoscenico, di Tito Cauchi, pag. 50); Liliana Porro Andriuoli (La donna di picche, di Rachele Zaza Padula, pag. 51); Francesca Tedeschi (Il dialetto della vita e Il sogno la vita la bellezza, di Pasquale Montalto e Domenico Tucci, pag. 52).

Lettere in Direzione (Emerico Giachery, Ilia Pedrina, Giuseppe Leone), pag. 57 Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Loretta Bonucci, Rocco Cambareri, Colombo Conti, Domenico Defelice, Luigi De Rosa, Elisabetta Di Iaconi, Nino Ferraù, Filomena Iovinella, Giovanna Li Volti Guzzardi, Leonardo Selvaggi, Carlo Trimarchi

caffè con Robespierre, non ci troviamo nell’ epoca che l’Autrice ha sempre prediletto, in bilico fra il basso Medioevo e il Rinascimento, poiché qui la storia si snoda evidentemen-

te nella Parigi della Rivoluzione, e in particolare tra il 1793 e il 1794, in pieno periodo detto del «Terrore». Il Robespierre presente nel titolo, nella vi-


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cenda compare soltanto in modo sfumato, appena di scorcio: di lui, capo carismatico del governo rivoluzionario, si parla spesso, è ovvio, ma egli non è un personaggio che interviene attivamente nella trama: poter sorseggiare un caffè, seduta in poltrona nel salotto della sua casa, al 366 di rue Saint-Honoré, ascoltarlo parlare dei suoi progetti di radicale rinnovamento dell’amata Francia, è il sogno forse impossibile della graziosa e rinomata modista Manon Liotard, protagonista del romanzo insieme a suo marito, Bertrand Blondel, il miglior cuoco in servizio alla reggia di Versailles. Con il ben noto talento rappresentativo e scenografico di Adriana Assini, il romanzo prende le mosse proprio attraverso gli occhi di questa coppia di «umili». Sono loro due, poi scortati da una manciata di personaggi secondari, lo specchio dei terribili avvenimenti che la Francia sta vivendo, in uno storico spartiacque dove il popolo e i potenti scrivono una pagina che costituirà una pietra miliare, di cui, in seguito, dentro e fuori della Francia, tutti, e in qualunque condizione politica, dovranno tenere conto. La scena si apre il mercoledì 16 ottobre 1793, quando Maria Antonietta, l’odiata «au-

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striaca», come la chiamavano i Francesi a cui era invisa, o più semplicemente, per il Tribunale della Rivoluzione, la vedova del già giustiziato citoyen Capet, lascia la testa sotto la lama della ghigliottina. È Bertrand che lo racconta, tornando a casa da Piazza della Rivoluzione, stravolto e bianco come la cera. La moglie Manon, donna eccentrica e un po’ inquieta, non condivide quella sua incondizionata adorazione per una sovrana non solo straniera, ma soprattutto superficiale, frivola, politicamente insignificante come il suo inetto consorte, e del tutto indifferente ai problemi dei suoi sudditi. Lei è stata invece rapita dalla grande svolta, dalla fede giacobina, da un mondo nuovo che si profila ormai evidente, seppure ancora tutto da costruire: una società più giusta e anche più felice, dove la gente non dovrà soltanto curvare la schiena sotto il peso di pesanti doveri, ma avrà diritti fondamentali incontestabili e rispettati da tutti. Così, fin dalle prime pagine, si profila la divergenza ideologica tra i due giovani protagonisti, una differenza di visuale che finisce per contribuire ad allontanarli anche sentimentalmente, in un ménage coniugale piuttosto stanco, provato dalla noia di una vita senza passione. Manon, che si consola di nascosto con il giovane e affascinante poeta rivoluzionario Jérôme, è ancora però molto amata dal marito, anche se lei crede che la sua principale, anzi esclusiva passione siano le prelibate leccornie che sa preparare e di cui conosce a menadito l’origine, i segreti, le varianti, con risultati così eccellenti, dagli antipasti ai dessert, da togliergli di mezzo – diversamente dalla sua vita di coppia – qualsiasi rivale. Bertrand conoscerà il tradimento della moglie quando il bel Jérôme avrà ormai offerto anche lui la testa al boia; ma la delusione cocente, ingoiata e tenuta segreta, lo incoraggerà tuttavia a cercare fortuna in Italia, nel regno dei Borboni di Napoli, dove accanto a un re svogliato e istrione come Ferdinando, siede Maria Carolina, figlia pure lei di Maria Teresa d’Austria, di certo più fortunata ma non


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molto diversa dall’infelice sorella Maria Antonietta nel darsi allo sperpero e ai trastulli. Dopo un viaggio di quasi duemila miglia, il malinconico Bertrand scopre la bellezza incomparabile del mare e il profilo imponente del Vesuvio; ammira stupito il fasto degli edifici barocchi; conosce il vociare frenetico e allegro dei vicoli e dei mercati, è attratto sempre di più da una gente esuberante, piena di cuore, attaccabrighe ma sinceramente affettuosa; e sopra tutto si impadronisce giorno per giorno dei segreti della stuzzicante cucina mediterranea, riconoscendo che nella sua incredibile varietà e fantasia nulla ha da invidiare alla squisita raffinatezza dei francesi. Oltre all’amore segreto di Manon, e alla sua fatale conclusione, e al viaggio in Italia di Bertrand, non ci sono molte altre vicende movimentate in questo romanzo: come si addice perfettamente ai gravi casi dell’ultimo scorcio del secolo dei Lumi, qui soprattutto si parla molto, si dialoga vivacemente al Caffè Zoppi o al Cafè de Chartres, al Cafè des Aveugles oppure al ristorante dei Frères Provençeaux. Si sfogliano i giornali commentando le pagine di politica, si nominano Rousseau e Voltaire, si legge Chenier; si discutono le idee dei girondini e dei sanculotti, si interpretano i discorsi di Danton, di Hébert o di Saint-Just; si deplora con rammarico l’atroce e ingiusta condanna di Lavoisier, l’eminente scienziato fondatore della chimica moderna… E così la grande Storia, quella che un giorno sarebbe finita sui libri, prende vita e rilevanza sul fondale di un palcoscenico animato in primo piano da umili e borghesi. Da Napoli Bertrand invia lunghe ed entusiastiche missive all’ancora amatissima moglie, e lei risponde confessandogli che sente la sua mancanza ogni giorno di più. Lui continua a sperare che quella separazione, se non li divide per sempre, li riunirà una volta per tutte, e più saldamente di prima. Nel penultimo capitolo è proprio Robespierre, il grande assente di cui però si parla quasi ad ogni pagina, a tornare alla ribalta con la sua tragica fine. Quell’ambìto caffè, seduta

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in poltrona a casa sua, faccia a faccia con il suo idolo, Manon non potrà berlo mai. È lei che scrive a Bertrand: «Tutto è compiuto. L’ uomo che non aveva mai visto il mare, che combatteva contro un’idra dalle cento teste per difendere i più deboli è stato giustiziato come l’ultimo degli infami». E invero a Robespierre furono attribuiti dai suoi nemici misfatti che non aveva sottoscritto né tanto meno compiuto. Purtroppo il ritratto di lui consegnato ai posteri fu tratteggiato in parte proprio da quella ligue des méchants, come egli stesso la definì prima di morire, che l’aveva condannato. E così ancor oggi non sono pochi a ritenere che Maximilien de Robespierre (il quale – come puntualmente sottolinea l’ Autrice – in un rapporto alla Convenzione aveva ribadito: «Vogliamo sostituire la morale all’egoismo, il dovere alla convenienza, la fierezza all’insolenza, la grandeur dell’animo alla vanità») sia stato uno dei più temibili criminali che la Francia abbia mai conosciuto. Se così fosse stato, non avrebbe mai avuto, tra l’altro, l’incrollabile appoggio di un leale, devoto sostenitore come il giovane, irreprensibile idealista Louis-Antoine de Saint-Just, decapitato insieme a lui. Il romanzo di Adriana Assini – tanto sorretto da un’accurata documentazione quanto permeato da una caleidoscopica inventiva – è avvolto nelle ultime pagine da grandi delusioni colme di speranze: Manon e Bertrand forse si ritroveranno, in Italia o in Francia, in un mondo di certo molto diverso dal precedente. Un’intera epoca è ormai tramontata. Per il momento la Rivoluzione sembra aver mancato i suoi obiettivi, perdendosi negli sterili conflitti delle opposte fazioni, nei personali interessi di potere, negli intrighi dei corrotti, e mandando al patibolo proprio alcuni dei suoi migliori esponenti. Ma in ogni caso ha saputo condurre per mano la Storia all’alba di una nuova era. I semi non sono stati gettati sulla roccia; e nulla, nei successivi eventi, sarà mai più come prima. Marina Caracciolo UN CAFFÈ CON ROBESPIERRE. Romanzo di Adriana Assini.(Scrittura & Scritture Editore. Napoli, marzo 2016; pp.184, € 13,50).


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ROMA NEL PRIMO DOPOGUERRA E UN POETA CALABRESE DIMENTICATO di Emerico Giachery

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ON siamo in molti ormai a ricordare il tempo, per noi straordinario, seguito alla liberazione di Roma e poi alla fine della seconda guerra mondiale. Nel "preludio" di uno tra i miei libri più cari, Nostro Ungaretti, con l'intento di dar testimonianza, sopratutto ai giovani, su ciò che rappresentò per la mia generazione un'opera come Il Dolore di Ungaretti, anche in virtù delle evocazioni romane della centrale sezione Roma occupata, ho cercato di evocare lo stato d'animo di un tempo, personale e storico, vissuto con particolare emozione e intensità. Era un tempo in cui "l'etica (e il mito) della ricostruzione univa e animava. Il recupero di valori a lungo oscurati, l'ansia di risanare lacerazioni e fratture col sentimento di una consolante continuità storica interrotta da tanto cataclisma: tutto ciò risuonava nelle parole di molti che ci parlavano e riconoscevamo maestri, e conso-

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nava nei nostri cuori. A non pochi di noi, meno propensi di altri, per formazione e temperamento, alle passioni più pugnaci dell'azione rinnovatrice, pareva (intanto) impegno quasi religioso ritrovare il senso dell'antico umanesimo europeo che si riproponeva in tutto il suo prestigio. Tra le restrizioni di un'esistenza davvero non consumistica, non poche furono le notti liceali trascorse (raro dono, in quell' immediato dopoguerra, la corrente elettrica) al tremolio di candele e lumini a petrolio, a scoprire momenti, sensi e messaggi dell'Europa classica e cristiana. Quel tremulo lume, lucula noctis, che accendevamo nelle tenebre, ci dava la sensazione di lavorare nella direzione dell'uomo, dell'uomo perenne. Un senso vivo dell'uomo, soprattutto, chiedevamo alla voce dei poeti d'ogni paese, a quell'ideale Internazionale della Poesia che ci pareva il fiore d'una civiltà". Nel primo dei Quaderni internazionali di "Poesia" - di solito non abbastanza ricordati - Enrico Falqui, che con sagace autorevolezza li diresse tra il 1945 e il 1948, annunciò: "Sarà la voce dei poeti a soccorrerci, quale concreta manifestazione di fratellanza tra uomini di buona volontà". Poesia, dunque, bellezza, cultura, umanesimo. Nel ricordato preludio a Nostro Ungaretti aggiungevo: "Gioia della scoperta di un monumento di bellezza e di armonia, fosse quadro o piazza o cattedrale, che arricchiva le nostre vite e ci ridava il senso di una pienezza dell'essere dopo tanta mutilazione e devastazione. Gioia della scoperta personale di un libro, adocchiato e subito sfogliato in libreria, acquistato quando si poteva: gioia che ci si comunicava tra amici e sodali con una sorta di complicità iniziatica. L'arca del libro sopravviveva al diluvio. L'arcobaleno della bellezza annunciava l'illimpidirsi -finalmente -del cielo”. Ragazzo innamorato di poesia, incontrai in quegli anni magici persone disposte a riunirsi e a mettere insieme una rivista, intitolata “Il Cenacolo”, animata e diretta dal gentile e pugnace Carlo Cassia, poeta, polemista in campo artistico contro l’astrattismo che in quegli anni dominava il campo. Tra interruzioni diverse, la rivista resisté qualche anno, e accol-


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se le mie prime scritture stampate. Intorno al "Cenacolo" si raccolsero giovani concertisti e cantanti lirici (che si esibivano nei concerti organizzati con frequenza dal nostro sodalizio)e artisti figurativi anche noti. Per esempio i pittori Andrea Alfano, con la sua nostalgia del Rembrandt degli autoritratti, presente anche come poeta, e Giuseppe Armocida, che già aveva esposto sia alla Biennale di Venezia sia alla Quadriennale romana, lo scultore Alessandro Monteleone. Se ben ricordo, tutti e tre questi artisti erano calabresi, come lo era Giuseppe Selvaggi, scomparso di recente, che era anche critico d'arte, amico e studioso del corregionale Andrea Alfano, e che sarebbe divenuto stimato giornalista parlamentare, tenendo anche desta in anni tardi un'antica vocazione alla poesia. Tra quanti frequentavano il “Cenacolo”, una cordiale amicizia nacque con Mattia Sassanelli, che aveva parecchi anni più di me, e perciò non è possibile che abiti ancora questo mondo. L’ultima volta che lo vidi, passeggiando e conversando insieme per le strade dell’Esquilino, risale a non meno di trenta anni fa. Mi scriveva ogni tanto dalla Riviera di Ponente, in cui, con la gentile consorte Teresa Sala, sua ex allieva, si era ritirato, già molto avanti negli anni, ma sempre giovane d'animo e assetato di vita e di bellezza. Non è facile tracciarne un ritratto. Appassionato, candido, della natia Calabria aveva serbato il poetico ricordo, ma non certo l'accento: non per nulla era stato insegnante di dizione e di ortoepia. Molto legato alla vita musicale, ricordava con piacere di essere stato discepolo al conservatorio nientemeno che di Francesco Cilea, e di aver avuto cordiale amicizia con quel grande e quasi dimenticato direttore d'orchestra che fu Antonio Guarnieri, padre della nota attrice Anna Maria. Fu anche basso lirico (ebbi occasione di ascoltarlo al Teatro dell'Opera di Roma nella parte di Maurizio nei Quattro rusteghi di Ermanno WolfFerrari), ma la sua attività principale fu quella di docente di letteratura drammatica e poetica nei conservatori di Stato. Svolgeva anche, con libero estro, attività di musicologo. Ma

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non meno che alla musica era legato alla poesia, congiungendo a volte le due arti nel “melologo”, la cui natura ("un recitare parafrasato musicalmente") e storia aveva sintetizzato in una breve nota apparsa sul “Cenacolo”. Con particolare slancio si dedicava a diffondere la poesia contemporanea italiana con recitals poetici sapientemente orchestrati ed eseguiti, che andava presentando in tournées in Italia e all'estero, tanto da meritare l'appellativo di "ammirevole araldo di poesia", formulato da Giorgio Vigolo. Aveva conosciuto non pochi poeti: dall'abruzzese e dannunziano Ettore Moschino, di cui a volte mi parlava e che considerava tra i suoi maestri, a Paolo Buzzi, di cui fu amico, da Piero Jahier a Corrado Govoni, al quale dedicò una poesia per il figlio Aladino ucciso alle Fosse Ardeatine, da Diego Valeri a Salvatore Quasimodo a Carlo Betocchi, da Giuseppe Villaroel a Renzo Laurano. Fu lui a mettermi in contatto col poeta e narratore modenese Guido Cavani, suo buon amico, che aveva appena ripubblicato per i tipi di Feltrinelli il bel romanzo "appenninico" Zebio Còtal, al quale dedicai un articolo-saggio, scritto in una lontana primavera sul Pratomagno e pubblicato su "Belfagor". Questo snello e fervido gentiluomo all'antica, apparteneva allo stampo raro e meraviglioso dei puri di cuore: fedele ai valori cristiani e anche a certe sofferte memorie (trasmessegli dalla generazione dei padri) della Grande Guerra. Di lui ricordo anzitutto i grandi occhi chiari, spesso sgranati a stupore, di irriducibile fanciullo. "Occhi spazzaturai", come li definì egli stesso in una poesia, così poi postillando: "occhi fermissimamente protesi nella cerca della bellezza e pertanto (=spazzaturai) fermi eliminatori di tutto ciò che è brutto e volgare". Nel volume Tempo di giostra, edito da Rebellato nel 1974, Sassanelli raccolse un'esperienza ventennale (19541974) di assiduo lavorio sulla parola poetica. Ricca di motivi e di movimento, la sua poesia fu spigliatamente linguaiola e immaginifica, a volte spavaldamente preziosa, non immune da suggestioni futuristiche e govoniane (la


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frequentazione di Buzzi e Govoni aveva lasciato in lui qualche traccia), in un impasto, comunque, molto personale, di cui l'accesa destrezza del dicitore sapeva mettere in valore effetti e riflessi. Chi mai avrebbe scritto, negli anni Settanta, in uno stile e in un linguaggio come quello del commiato al suo libro di versi? Ecco la conclusione: “Nel mio immaginifico tragetto io trèpido ora per voi che svirgolate voli sbussolati e ribelli al delirio delle risonanze, al levigato concertismo della parola, al bisbigliare agro-dolce della tematica allusiva, al futile telaio di sentimenti a prestito, alla ruminazione, infine, dei cerebrali a vita. Io so questo, miei versi, e vi precedo nella cieca caduta delle vanità, presso il frantoio infrenabile del tempo. Pure ho fede ancora bastevole a suggerirvi: non ripetete più di quanto il respiro non riveli l'ansia; sappiate l'umiltà di ciò che sopravvive a voi stessi e a me; non degradate, con la dolce follìa dei segni, il sofferto e il goduto insieme, nel rotare vario dei fantasmi in gara con la vita maestra. E perdonate le mani, queste mie mani (forse ancora inesperte) che vi hanno tratto a deriva di un sogno, inventandovi un volto che rincorro a fatica, come la foglia che scalando il vento cancella perfino il suo saluto”.

Almeno un piccolo specimen della sua poesia vorrei qui trascriverlo. Sceglierò (scelta non del tutto facile) la prima parte di Vidi le viole, in cui rende visita alla salma del suo amico Alfredo Casella, l’insigne musicista appena deceduto: Vidi le viole con la testina versa sulle severe in croce mani del morto forse sognanti tastiere celestiali: E un lenzolaccio giallo dilavato là fin sotto al collo del mio amico vidi stiracchiato alla meglio! Nella penombra inginocchiate ombre delle suore monfortane sfiatano preci affumicate dal nerume dei ceri stracotti di calore: oh dove affonda il nostro e l'altrui massimo dolore! Io fantasticavo biasciando un requie mentre il mio morto fingeva di ascoltarmi e lui invece mi zittiva col silenzio ... Emerico Giachery A pag. 5, foto di Emerico Giachery

Case di Anoia (Reggio Calabria) in due chine di Domenico Defelice del 1961


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ERRI DE LUCA: PAROLE IN PREGHIERA AL VITTORIALE DEGLI ITALIANI di Ilia Pedrina

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L teatro è quello interno a Villa Mirabella, al Vittoriale degli Italiani. L'occasione è data da un intento reso progetto reale e chiamato 'LE SORTI DELLA BELLEZZA', ideato e portato a compimento in sinergia, con alla guida Giordano Bruno Guerri. Erri De Luca e il Canzoniere Grecanico Fiorentino trovano spazio ed accoglienza empatica sul palcoscenico dell'Auditorium: Mauro Durante, voce-percussioni-violino, scandisce il percorso dei suoi musici, Emanuele Licci, voce-chitarra-bouzouki, Maria Mazzotta, voce-percussioni, Giancarlo Paglialuga, vocetamburello, Massimiliano Morabito, organetto, Giulio Bianco, zampogna-armonica-flautifiati popolari. Al poeta basta una semplice

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seggiolina, che si apre e chiude, perché quando lui non è lì, al suo posto c'è Silvia Perrone, danzatrice scalza. A ridosso di due canti introduttivi lui si offre con la semplicità che lo incarna da sempre, perché è impastata con la condivisione della fraternità, nella gioia come nella sofferenza. Dice che le parole hanno nella musica un potente mezzo di trasporto: se lui avesse 'cantato' il suo convincimento dalla parte dei NOTAV, non sarebbe stato accusato di 'istigazione a commettere reati', fino a finire in tribunale. '...La musica riesce a prendere le parole e a renderle intoccabili, illese, non attaccabili dal codice penale. Anche questo può fare la musica...'. Ribadisce con determinazione che Napoli non è una città del Sud, Napoli, città di tufo posta tra due vuoti, sopra e sotto, ha duemila e cinquecento anni di storia, che essa dipende dall'Est, perché è stata fondata dai Greci, poi occupata dagli Spagnoli, venuti dall'Ovest, da altre genti, venute dal Nord '...Napoli è un concentrato di punti cardinali...'. Ma il suo centro è il Mediterraneo: Erri De Luca sostiene che deve tutto al Mediterraneo: 'Io mi riconosco debitore di tutto al Mediterraneo, tutto quello che ho e so proviene dal Mediterraneo, tutta la mia civiltà, la civiltà alla quale sento di appartenere. Le architetture, le astronomie, le filosofie, i teatri, perfino le religioni, anche quella ultima, monoteista, definitiva, proviene dal Mediterraneo...'. L'emozione sale quando Erri ci legge di sé bambino e della sua esperienza con la bimba oltre il vuoto pieno d'aria e di polvere, al di là della strada, in via Monte di Dio a Napoli, mentre stanno demolendo a colpi di picconi, dall'alto verso il basso, il palazzo vecchio di fronte: se i 'munacielli' sono gli spiriti dei morti in generale, la lingua napoletana ha un termine preciso per i morti bambini, 'pacchianelle', gli dice la sua nonna, che sull'argomento è esperta come un'antropologa delle cose misteriose: lui riesce ad intercettare lo sguardo della bambina portando il riflesso del sole nel frammento di specchio che tiene tra le piccole mani fino colpire i propri occhi, accecandosi per un istante. Quando il palazzo sarà


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demolito completamente, la bambina non apparirà più: verrà sostituita dalle lettere, d'una o di tante lingue non importa, basta che le parole con esse formate arrivino al cuore come calore di vita e ci facciano ciechi, per un istante, in luce piena. L'alternarsi dei canti, della musica danzata in ritmi arrotati e vitalissimi, delle sonorità che si espandono nello spazio circostante, alla voce di Erri De Luca, che legge ancora dal suo libro 'Solo andata', e che si dona a tutti in una semplicità, per narrare del mondo e dei suoi soprusi attraverso le parole, che sono la sua vita e il suo respiro rende questa esperienza carica di forza, d'arte, di valore. Il tempo si ferma in questo moto ondulante e sono solo loro, le parole, dette o in canto che siano, a darne la scansione. Non c'è tempo altro che si possa esperire. Allora, quando la carica emotiva di chi ascolta arriva alla giusta temperatura, il poeta dona a memoria la sua preghiera laica, in piedi, come un segno rituale di rispetto di fronte al sacrificio: “Mare nostro che non sei nei cieli e abbracci i confini dell'isola e del mondo, sia benedetto il tuo sale, sia benedetto il tuo fondale, accogli le gremite imbarcazioni senza una strada sopra le tue onde, i pescatori usciti nella notte, le loro reti tra le tue creature, che tornano al mattino con la pesca dei naufraghi salvati. Mare nostro, che non sei nei cieli, all'alba sei colore del frumento, al tramonto dell'uva di vendemmia, ti abbiamo seminato di annegati più di qualunque età delle tempeste. Mare nostro che non sei nei cieli, tu sei più giusto della terraferma pure quando sollevi onde a muraglia poi le abbassi a tappeto. Custodisci le vite, le visite cadute come foglie sul viale, fai da autunno per loro, da carezza, d'abbraccio, bacio in fronte, di padre e madre prima di partire.”

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Erri De Luca va dentro nelle cose con tutto se stesso ed anima il mondo con il suo respiro: si porta addosso la poesia come una luce fatta di segni che danno immagini, fatta di energia che dà calore, fatta di vento che dà vita. L'indifferenza è il peggior sopruso che possa essere fatto alla sua parola. Ma ognuno ha il suo tempo, per nascere un'altra volta alla vita. Quando lo incontrerò, gli chiederò anche del GiGi veneziano: mi regalerà parole d'esperienza ed il suo volto in storie vere. Tornata a casa, ricerco e trovo senza difficoltà il suo piccolo libro 'In nome della madre', non soffocato tra i mastodonti della Collana Bompiani sul pensiero occidentale: ha sempre preteso spazio, poco ma teso a farsi leggere. E così è stato, il 9 marzo, perché la donna in festa non dura un giorno solo. Entro, lo attraverso e mi commuovo ad ogni stanza perché Erri si fa qui Myriam/Maria, che diventa la sua prima persona. Segno gli endecasillabi che nella sua prosa si fanno riconoscere come ritmo privilegiato. Nel risvolto di copertina lui dice: 'L'adolescenza di Myriam/Maria smette da un'ora all'altra. Un annuncio le mette il figlio in grembo. Qui c'è la storia di una ragazza, operaia della divinità, narrata da lei stessa...' (Erri De Luce, 'In nome della Madre', ed. Giang. Feltrinelli, 2008). In nome di quella Madre, portandola senza sforzo nella sua stessa carne, egli eleva un 'Canto di Myriam/Maria Di chi è questo figlio perfetto, chiederanno frugandolo in viso, di chi è questo seme sospetto, la paternità del suo sorriso?


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È solamente mio, è solamente mio, di nessun'altra carne, è solamente mio. È solamente mio, è solamente mio. È solamente mio, è solamente mio, finché dura la notte è solamente mio. Chi è questo figlio cometa? Chi è questo mio clandestino? Spillato da fonte segreta, venuto al travaso del vino? È Solamente Mio, è Solamente Mio, il suo nome stanotte è Solamente Mio, È Solamente Mio, è Solamente Mio. Domani avrà altro nome, adesso è Solamente mio.' (Erri De Luca, op. cit. pag. 78) Allora ascolterò spesso, da sola, nella registrazione che ho fatto, anche la sua voce, nel nome del padre, della madre, del mare nostro, che non sta nei cieli. Una memoria orgogliosa del suo farsi sentire: la sua voce mi caricherà di dignità, mi vincolerà al Meridione con lacci ancor più saldi, mi permetterà di entrare nel ritmo dei millenni, nei passi delle danze a piedi nudi, nei timbri e nelle voci che riempiono di sole ogni notte. Ilia Pedrina Le foto sono di Augusto Rizza

COSÌ LA VECCHIETTA DALL’ “ALTO” Vidi il mio viso solcato da una prima ruga, una seconda, una terza, un intreccio di scavi che l’immagine alteravano; colorarsi i capelli di “cacio e pepe” e coprirsi infine d’un candido manto di raso. E non era ancora vecchiaia! La mia voce decisa, argentina, si fece d’un tratto stridula, inceppante; col pungolo i miei passi si alternavano: dovetti appoggiarmi al bastone;

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gli occhi vedevano a stento, debolissimo era l’udito; puntuale arrivò anche l’incontinenza. E non era ancora vecchiaia! Cominciò la memoria a vacillare: dimenticavo, confondevo, stentavo a ricordare, a trovare i termini propri. Era già vecchiaia? Ed ecco l’immobilità, il pianto e rimpianto della vita che s’andava stancando di me, la mente che s’annebbiava, la ragione che in demenza (Ahimè!) s’andava cangiando. Era arrivata, trionfante, la vecchiaia! Ma io non me n’ avvidi: ero immersa nei sogni, già volavo verso l’IGNOTO, nel mio viaggio senza ritorno. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo al Volturno (IS)

VARUNA Solo le mani parlano in questo luogo di silenzio in cui ricerco lo spirito. Brezza fresca non alita il vento ma vibrazioni sublimi. È l’essenza del nettare che mi nutrirà oltre i confini del razionale. Dalle ginestre scomparirà l’amaro, dalle rose toglierò le spine. Fragranza su fragranza accenderà i tramonti, mentre il sentiero dell’abbondanza il discernimento indicherà. Svanirà così il turbamento del possesso, la materia si farà luce. Camminerò a piedi scalzi lungo i confini dell’oceano ove Varuna regna con i suoi figli. Infinite goccioline d’acqua, il senso dell’unione… Tra nuove vite che nascono. Colombo Conti Albano Laziale


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DALLA CINA

MONDO INQUINATO E LITCHI IN FIORE di Domenico Defelice

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ORLD Poetry Yearbook 2014 è una grossa antologia (26,5 x 17) curata da Zhang Zhi (in arte Diablo) e da Lai Tingjie, che contiene 263 poeti di ogni parte del mondo. I gruppi più numerosi sono quelli della Cina (15 autori), degli USA e dell’India (13), della Bulgaria (10), dell’Italia (9) e della Grecia e dell’Ucraina (7). Fuori testo, ben 12 pagine a colori dedicate al pittore cinese Tan Jun, la cui arte magmatica, dalle figure e dai paesaggi che sembrano decomporsi, ha un particolare fascino. Tan Jun ha fatto molti studi e ha esposto in diverse città della Cina, a Chonqing-Sichuan, Hong Kong, Singapore, in Europa, nel Nord America (San Francisco) eccetera. Delle sue opere qui riprodotte colpiscono, in particolare, le figure: un corpo femminile visto di spalle, semisvestito, e una coppia di

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ballerini, che si confondono con l’ambiente, anzi, che nell’ambiente sembrano sciogliersi; e poi i fiori e i paesaggi tormentati, dei quali, il meno drammatico è quello riprodotto in prima di copertina. Ma Tan Jun è anche poeta; ha pubblicato The Body Forward (Cinese-Inglese) e in questa antologia è presente con tre liriche: “A Few Fingers to Close”, “Joy at Midnight” e “Lie” (Bugia), nella quale ultima scrive, fra l’ altro, che “La verità non ha bisogno di essere confezionata/La bugia/in abbagliante aurea rende vuote le promesse/di essere onesti”... Del principale organizzatore e curatore dell’antologia: Zhang Zhi, vogliamo evidenziare la sua lunga poesia “Il mondo è ondeggiante in un binocolo” (The World Is Swaying in a Binoculars), nella quale, in otto brevi lasse, scrive, anche con un pizzico di ironia, della nostra terra fortemente inquinata di “sperma, scorie nucleari, eroina, sangue e AIDS”; un mondo a tratti personificato, che è “come un agnellino smarrito/in piedi a un bivio” e che, “Affilando il coltello” sgorbia “la sua propria carne/giorno e note”. 1. Il mondo, sporcato da spazzatura, sperma, scorie nucleari, eroina, il sangue, l’AIDS, non potrà mai essere pulito. 2. Guarda! Il mondo è entrato in KTV camera noleggiata Chissà che bella bestia deliziosamente gemere di nuovo sotto i suoi fianchi questa notte, mondo dannato sarà sicuramente giocar duro - È anche OK se si immagina la scena di essere la Terza Guerra Mondiale. 3. I fiumi corrono a est per andare a ovest Il mondo è come un agnellino smarrito in piedi a un angolo chiedendo robot in direzione nord sud


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“A chi ci si inginocchia, signore?” 4. Il mondo applaude per i politici con i piedi I politici bagnano il mondo di sangue. 5. Il mondo non può vedere chiaramente le nostre facce forse non ce l’abbiamo il viso “Possiamo essere spudorati dal momento che siamo senza volto” così ha detto un determinato maledetto artista. 6. Il mondo sta agitando il suo pene urlando sulla sommità dell’edificio delle Nazioni Unite “Ecco, è grande” In realtà, la scorsa notte costui mi sussurrò nel sogno “Signore, il mio pene è di qualche utilità” 7. Il mondo non ha fretta Il mondo non ha paura Il mondo è andato sotto la ruota della storia ma il sangue non è gorgogliato Chi ha visto il sangue vero 8. Affilando il coltello, il mondo ha fatto scempio della propria carne giorno e notte. Scarsità canta una canzone eterna in una goccia di sangue “Crema del seno-grasso ingrassa il seno, non la cintola” Diablo è nato a Phoenix Town nella contea di Baxian, Sichuan, nel 1965 ed è un importante poeta e critico della Cina contemporanea. Il suo nome originale è Zhang Zhi e il suo nome inglese è Arthur Zhang. Laureato in letteratura e in diverse altre professioni, è presidente dell’International Poetry Translation and Research Centre, editore della rivista The World Poets Quarterly (multilingual). Numerose le sue opere ed i premi conseguiti, come le onorificenze e gli incarichi di prestigio. Il secondo curatore, editore in-chef: Lai Tingjie è un poeta più intimista e discorsivo. Ha versi brevi e lunghissimi, irregolari, nei

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quali canta l’amore. Il gruppo di poesie qui ospitate (“Events in Land of Litchi”, “My Love in the Land of Litchi”, “In the Litchi Garden of Han People Slope”, “The Real Charm of a Village Girl” “Litchi Flowers Dancing and Falling”), ha per protagonista un ciliegio della famiglia Sapidaceae, unica nel suo genere, pianta tropicale e subtropicale, il cui frutto fresco ha una polpa bianca, delicata e profumata. Il rapporto Litchi-ciliegiaragazza è spontaneo e gli suggerisce molte immagini ad effetto, evocatrici. Vi manca la primavera. Il fiori del litchi sono bianchi Nessuno può bloccare la fragranza nel midollo Nessuno può ostacolare il vostro cuore, con l’oscurità della vita Scorrendo i campi della terra dei litchi I fiori già fioriti, si sforzano per rifiorire L’amore che ha amato, si sforza per amare di nuovo Amici cari, vi prego di credere nel calore della vita È bene che sia rosso. Gli agricoltori Litchi dicono Di questa molla nella vita Di tal raggio di luce, che può maturare Chi può costringerci a indietreggiare, con un fulmine L’affascinante sorriso sulle labbra? Chi può con amarezza, influenzarti La dolcezza persistente sulla labbra? Accogliendo sotto il sole, accogliendo nel favo dolce delle api I fiori litchi, tu conosci i venti e le nuvole scure dietro il tempo Sai meglio, al di sopra della tomba fiorita Qual è il vero fascino di una ragazza del villaggio. (The Real Charm of a Village Girl) Lai Tingjie è nato nel 1970 a Maoming, provincia di Guangdong ed è un famoso poeta, scrittore calligrafo e musicista contemporaneo cinese, premiato. Membro dell’ Associazione Scrittori Cinesi, ha pubblicato lavori


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Come un fiore mi vesto di profumi e corro spensierata verso i campi, che di fiori multicolori son dipinti, per regalare a tutti la voglia di giocare all’aria pura, con il vento che accarezza la natura. Con il cuore che sobbalza per l’incanto che l’avvolge, vado cercando il rosa dell’alba e non sento più il soffio del vento, l’alba ha colorato il firmamento e dalla gioia è scappato via il vento. Il sole dolcemente mi accarezza, il vento si è trasformato in lieve brezza, le rondini arrivano cinguettando, è la primavera che gioiosa sta cantando, la natura insieme a me è in festa ed io volo con le rondini senza sosta. Cav. Giovanna Li Volti Guzzardi Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori (A.L.I.A.S.)

a partire dal 1982. Non è possibile interessarci di tutti i poeti antologizzati (i cui nomi, però, vengono diligentemente riportati nella rubrica “Libri ricevuti” in questo stesso numero), ma è doveroso segnalare coloro che sono stati o sono tuttora nostri valenti collaboratori, come Teresinka Pereira, Nadia-Cella Pop, Adolf P. Shvedchikov eccetera e gli italiani amici Corrado Calabrò, Elio Andriuoli, Tito Cauchi. Domenico Defelice Zhang Zhi & Lai Tingjie - World Poetry - Yearbook 2014 - 263 Poets 100 Countries and Areas The Earth Culture Press, 2015 - Pagg. 428, USD 60,00 Euro 50,00

COME UN FIORE Quando il vento soffia su di me, mi porta il polline tra i capelli che s’infiorano di colori e svolazzano morbidi nel sole, che spunta all’improvviso cacciando via le nuvole.

NUBI ARDENTI Nubi ardenti impalcano il cielo. Radenti sibili, brilla la morte, lava di fuoco sotto oscuro manto. Fertile vita dopo distruzione. Rinnegato sono da questa terra che accolse e svanì transumanti genti, retaggio di antichi peccati che il bene mai curò tra granelli di deserto. E manna al vento lì… Per nutrire lo spirito tra arsure di bocche in cerca di pace. Colombo Conti Albano Laziale


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UNO SCINTILLIO DI PERCORSI LONTANI di Marina Caracciolo ITTORIO Alfieri – grande e irrequieto viaggiatore, e in ciò ben diverso, per es., da Giacomo Leopardi, che invece fu piuttosto un promeneur spirituale e fantastico – ebbe a dire che il viaggio è giovevole sopra tutto «a conoscer se stessi e gli altri in parte». Ebbene, il significato del verso alfieriano si rispecchia perfettamente in questo recente libro della poetessa Imperia Tognacci. Suddiviso in sette episodi, è un lungo viaggio in Medio Oriente che si spinge dalla Giordania fino al lontano porto di Aqaba. Un itinerario che passo a passo si imbeve di tutta la grandiosa bellezza del deserto – simbolo, come il mare, della vita e dell’infinito – e nel contempo filtra, assimilandola, un’esperienza inestimabile, intimamente umana, che collega il Sé individuale all’Uomo («siamo parte di un progetto /nascosto tra gli spazi degli eventi») e alla Storia. Scrive nella prefazione Andrea Battistini: «Non a tutti è dato di essere stati “Là, dove pioveva la manna“, ma l’obiettivo della raccolta è di consentire che attraverso l’ esperienza singola della viaggiatrice i lettori rivedano se stessi, si guardino con sguardi diversi e inattesi. In altri termini bisogna che, con l’ aiuto della poesia, si arrivi a scorgere le cose con occhi nuovi […] attraverso una prospettiva che ottativamente aspira all’eterno, ovvero all’«irrisolto mistero dell’altrove». Entrata a passi lievi, come pia e antica pellegrina, in questo mistero, l’autrice annoda una delicatissima trama di immagini, suggestioni, consapevolezze, memorie, speranze. Intanto, il viaggio verso luoghi mitici e lontani, fra sabbie infuocate e gelidi cieli stellati, acquista il volto del divenire del Tempo che non ha pace e non può dar pace, mentre si converte in trasparenza nel senso del dolore e dell’umana fragilità, nel lento volgere della vita e della morte.

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Ma ciò che sembra prevalere nei versi di questo poemetto, costituendone senza dubbio uno degli aspetti più attraenti, è il fascino della Storia, delle sue meravigliose impronte, sempre vive ed eloquenti, da tempi immemorabili, allo sguardo dell’Uomo di oggi («baluginare di un passato/che riemerge, mentre il tempo/corre e discorre come il vento»): non è Storia degli altri, appartenente ad un tempo estraneo e concluso che ci lascia indifferenti; è proprio nostra, poiché dilaga nel nostro essere come una linfa invisibile e perenne, e ci annoda alle orme solenni e misteriose di civiltà primordiali… Tutti e sette gli episodi di questa trama poetica sono costantemente investiti da un vento avvolgente e turbinoso, che spira in realtà dal deserto, ma che di continuo si muta, come per incanto, in soffi di vaghi e mutevoli pensieri, nell’incessante procedere dei passi: Tra fragili pendii di dune, nell’oblio del tramonto, le preghiere di antichi pellegrini rinascono nell’anima ad arginare l’umana inquietudine. Intrecciano le loro dita alle nostre arcaici popoli presenti nei graffiti, nelle petrose tombe, nelle antiche impronte, fra torce riaccese per il nostro pellegrinare. Nel variare del vento, che sibila tra gole di rocce, consumiamo passi risalendo erte petraie. In trasparenze d’aria, lunghe file verso l’irrisolto mistero dell’altrove. Nel difficile peregrinare su primitivi sentieri, il piede stanco e l’anima assetata anelano alle oasi, ai pozzi d’acqua, alla quiete che ristora dal lungo cammino. Ed ecco che, analogamente, nella stessa seduzione dell’esodo, in quella volontà medesima di uscire dal labirinto delle consuetudini («…volare oltre l’orizzonte /dei quotidiani limiti») e di fuggire lo squallore dell’ Alltäglichkeit (Heidegger) per riscoprire e riconquistare una terra promessa che sembrava ormai perduta, si insinua ora la spina pungente della nostalgia, l’ansia febbrile del ritorno


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(νόστος). Il viaggio è «spogliazione di ritmi /è avanzare, sostare e ripartire», scrive l’ Autrice. Come il mitico Ulisse ritorna alla sua Itaca dopo lungo errare; come, avvolta nel suo manto di mistero, la regina di Saba ritorna con le sue carovane, più ricca di doni e di saggezza, da Gerusalemme al suo lontano regno, così la poetessa ritorna alle sue radici, alle sue stanze, alla sua vita di sempre. I viaggi finiscono, come finiscono anche i sogni; ma, a differenza di questi, essi incidono in noi dei solchi assai più profondi. Non sono effimere le riflessioni, gli incontri, le visioni, i fruttiferi germogli di sapienza che un viaggio ha potuto suscitare. Rinunciare, sarebbe stato come voler «passare accanto /ad un pozzo e non bere». La poetessa ha voluto udire di persona la voce dei saggi, ha annusato curiosa spezie e profumi d’Oriente; ha voluto «su venature di rocce /léggere lo scorrere dei millenni». L’esperienza rivissuta nella rifrazione cristallina della parola poetica arricchisce di un nuovo e più ampio orizzonte la sua visione del mondo. Essa è consapevole che nulla sarà perso o dimenticato mentre, ancora «vestite di sole», si dileguano le rive da cui infine si allontana; quando ormai «batte alla porta del cielo una nuova alba», forse portatrice di altre affascinanti avventure. Marina Caracciolo Là, dove pioveva la manna. Poesie di Imperia Tognacci. (Prefazione di A. Battistini. Postfazione di A. Manitta. Ed. G. Laterza, Bari, 2015; pp. 80, € 12,00. In copertina, acquerello dell’Autrice: Il deserto giordano Valle della Luna).

LUCE C’è un dono, normalità che non si nota negli scaffali del mondo viene riposta e spolverata viene guardata e riguardata viene persino annoverata. C’è un dono, abitudine che non si nota solo essenza di genuinità, sei che non può che restare ferma perché voce

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perché senso di regolarità, sei a cui il mondo oggi non può guardare rispecchiarsi è chiedere troppo luce, troppa luce dalla finestra. Filomena Iovinella Torino

MATTINATA SUL MARE S'è levata dal mare una colomba in un cielo incolore. All'orizzonte una nave bianca, delicata come un'ave. L'acqua tremula fra le mie palme riflette il sole nascente. L'anima corre, inebriata, ed il mare, rosso rumoroso fanciullo, vuole ghermirla. Natura e mondo umano, un miracolo precario di armonia... Si levano stormi di gabbiani e fiochi gridi per l'infinito azzurro. Luigi De Rosa ↓Una china di Domenico Defelice (1973)


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ANCHE AI “RAGAZZI DI ZINCO” DELLA BIELORUSSA SVETLANA ALEKSIEVICH IL PREMIO NOBEL 2015/2016 Il lavoro della “giornalista” integrato da quello della “scrittrice” (Ma la stampa russa contesta il Premio...) di Luigi De Rosa EL numero di gennaio 2016 di “Pomezia Notizie” ho parlato del nuovo Premio Nobel per la Letteratura 2015-2016. In particolare ho posto l'accento sul suo libro “Preghiera per Cernobyl”, che rievoca il noto disastro nucleare di Cernobyl del 1986. Questo mese desidero ricordare un altro dei cinque libri fondamentali che hanno permesso alla giornalista-scrittrice bielorussa Svetlana Aleksievich di vincere il Premio Nobel, e cioè “Ragazzi di zinco”, edito dalla E/O di Roma. La Aleksievich è nata in Ucraina nel 1948 ma è bielorussa e scrive in lingua russa. Ha studiato all'Università di Minsk e si è laureata in giornalismo. Prima ha lavorato come insegnante (seguendo l'esempio dei propri genitori, insegnanti nelle scuole rurali) poi si è tuffata nel giornalismo. Ha lasciato la Bielorussia nel 2000 perché il regime l'accusava di essere una spia della C.I.A. in incognito. Fino al 2011 ha vissuto in Europa, tra Parigi, Gotheburg in Svezia e Berlino. I primi

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tempi, dal 2000 al 2002, anche in Italia, a Pontedera (Pisa) come “intellettuale rifugiata politica”. E' conosciuta a livello internazionale per i suoi libri-reportage che, con indubitabile coraggio, hanno indagato su “aspetti oscuri e ambigui” della Russia nel trapasso dal Comunismo al Post-Comunismo. Il libro Ragazzi di zinco si occupa delle vicende di migliaia di giovani (e giovanissimi) soldati sovietici restituiti alle rispettive famiglie mutilati o distesi in casse di zinco, a causa della decennale e disastrosa guerra in Afganistan degli anni Ottanta, combattuta ( e persa) “ per difendere le frontiere meridionali dell'Unione”. Guerra prodromica allo sfascio, de iure, dell'Unione Sovietica, che ha lasciato il posto alla C.S.I., Comunità Stati Indipendenti. Da conversazioni in attesa dell'aereo per Kabul o in volo sulla città: “Prima spari e poi ti rendi conto se era una donna o un bambino...A ciascuno il suo incubo...” “ Cosa potrei fare in Russia ? La prostituta ? Ormai lo sappiamo. Se almeno riuscissi a mettere via abbastanza soldi da prendermi un appartamento in cooperativa. Gli uomini ? Lasciamo perdere. Sono capaci solo di bere...” “ Il generale ci ha parlato del dovere internazionalista, della difesa delle frontiere meridionali: si è perfino commosso: portate loro delle caramelle. Sono come dei bambini. Non c'è miglior regalo delle caramelle...” (Dostoevskij ha scritto che i militari sono le persone al mondo meno interessate a porsi dei problemi...). “Quando prendono dei prigionieri tagliano loro le braccia e le gambe e le stringono con dei lacci, perché non muoiano dissanguati. E li abbandonano sul posto in quello stato, e i nostri raccattano questi tronconi: loro vogliono solo morire e invece vengono curati...” (“Si parla molto delle atrocità compiute dai mujahiddin afgani sui nostri prigionieri” chiosa la Aleksievich - “qualcosa che ci riporta al Medioevo. E in effetti qui ci troviamo in un'altra epoca, i calendari indicano il XIV secolo”). “Gli ho sparato a bruciapelo e ho visto il suo cranio volare in pezzi. Ho pensato: il primo ! Dopo il combattimento, morti e fe-


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riti...tacciono tutti...Mi capita di sognare il tram. Mi vedo sul tram verso casa... Il mio più bel ricordo è mia madre che cuoce i biscotti...l'odore di pasta dolce per tutta la casa...” “Socialismo di guerra, militarismo, ma non volevamo diventare uomini nuovi ?” Tutte queste affermazioni non sono frutto della Aleksievich. Ma ella ha pazientemente raccolto, come giornalista-saggista, impressioni e racconti con migliaia di interviste ai singoli interessati, con rapporti, relazioni, narrando sostanzialmente i drammi personali dei singoli inquadrandoli in una guerra completamente diversa dalla seconda guerra mondiale. In quella degli Anni Quaranta la Russia era stata invasa dalle divisioni tedesche, e la guerra era poi stata vissuta dal popolo come una “ guerra patriottica di liberazione”. Questa degli Anni Ottanta in Afganistan, invece, viene inquadrata nell'ambito della dissoluzione progressiva del mondo sovietico, un processo che la Aleksievich ritiene tuttora in corso. Fa le domande e poi ascolta in silenzio, prendendo appunti, registrando, magari commentando. E soprattutto conservando (e a volte pubblicando) i nomi e cognomi dei suoi intervistati. “ Ho conservato nei miei appunti i loro nomi – ha scritto - Può essere che un giorno i miei eroi vorranno essere riconosciuti per quello che mi hanno raccontato”. Ai lettori viene dunque presentato quello che è stato detto alla giornalista-scrittrice da una madre (o un padre) di un soldato semplice morto in guerra, un'impiegata, un tenente comandante di una sezione di mortaisti, una sottufficiale dei servizi segreti, un maresciallo istruttore, un soldato addetto ai lanciabombe, un fuciliere della fanteria motorizzata, un capitano, un istruttore sanitario di una compagnia di esploratori, un tenente comandante di un reparto del Genio, una moglie di un sergente maggiore, un'infermiera, un medico batteriologo, un maggiore, propagandista in un reggimento di artiglieria, e così via, in un panorama umano di indubbio valore, anche storico. Il racconto di un dramma-tragedia corale

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fatto attraverso le parole delle “piccole persone” che ne sono state protagoniste. Il libro “Ragazzi di zinco” è stato proibito per dieci anni. E l'assegnazione del Nobel alla Aleksievich è stata contestata polemicamente dalla stampa russa . Già l'8 dicembre 2015 il giornale economico “Lo sguardo” scriveva, tra l'altro, che “...se per narrativa intendiamo un qualsiasi testo scritto in russo, sì, “La guerra non ha il volto di una donna” (altro libro della Aleksievich) è, ovviamente, letteratura. Se consideriamo, invece, che il metodo letterario consiste nel creare un mondo artistico convincente per mezzo della lingua, allora qualunque testo di Aleksievich non è più letterario di quanto lo siano le istruzioni per l'uso di un ferro da stiro. Per questo le è stato assegnato il Premio Nobel ?” E a sua volta, la “ Literaturnaja Gazeta” ha affondato il colpo: “ Scrittrice mediocre. Si è fatta conoscere perché va contro il suo Paese. Per questo è stata premiata, come Brodsky e gli altri prima di lui.” Luigi De Rosa Domenico Defelice : Testimoni dramma (schizzo, 1962)

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FRANCESCO DE SANCTIS E LA SUA “PRIMA SCUOLA” di Antonia Izzi Rufo

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RANCESCO De Sanctis è stato uno dei maggiori critici italiani. Nato nel 1817 a Morra Irpina (Avellino), oggi Morra De Sanctis, in una terra che era stata feudale e in cui il potere era gestito dalla chiesa e dai piccoli e medi proletari, trascorse i primi anni nel luogo di nascita che ebbe sempre come punto di riferimento. Nel 1826 fu mandato a Napoli come allievo dello zio Carlo, titolare d’una scuola di lettere. Nel saggio “La giovinezza” si leggono, fra i tanti ricordi, notazioni sul metodo d’ insegnamento tutt’altro che critico e innovativo: si dava importanza agli esercizi di memoria e si trascurava quella che era la vera formazione educativa. Avrebbe dovuto fare l’avvocato, ma la morte dello zio lo indusse a sostituirlo ed a scegliere l’insegnamento. Già prima di tale avvenimento, però, era entrato nella scuola di lingua italiana del marchese Basilio Puoti, compiendo sotto di lui un importantissimo tirocinio di letture e preparazione retorica. Fu proprio con l’aiuto del Puoti che aprì la sua “prima scuola”, quella di “Vico Bisi”. I “Quaderni di scuola” li dettò ai suoi alunni. Essi attestano il suo evolversi progressivo dal Purismo e dall’Illuminismo moderato fino

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all’Hegelismo. I “Quaderni” sono divisi per materie d’insegnamento. I più antichi tra essi sono i Quaderni di “Lingua e Stile” dove è tracciata la prima sintesi di “Storia della letteratura”. E’ questa la maggiore delle opere e di essa tutte le altre sono complemento. E’, tale Storia, <<la più complessa e profonda indagine sui legami tra la società fiacca e corrotta e i conseguenti vizi letterari della retorica e dell’accademia>> (A. Piromalli). Nella prima edizione aveva carattere scolastico perché composta per gli studenti. Riuscì invece opera fondamentale della storiografia romantica italiana, non solo letteraria. E’ divisa in tre epoche: il Medioevo, che culmina nell’ opera di Dante; il Rinascimento, che da Petrarca giunge all’età barocca; il rinnovamento operato dall’Illuminismo e dal Romanticismo. <<E’ la sola storia intima d’Italia che finora si abbia>> (F. Pedrina). Composta dopo l’unificazione, abbraccia anche la storia del Risorgimento. Vi è rappresentata tutta la vita italiana, religiosa politica morale, dal Duecento all’Ottocento. De Sanctis s’interessò di letteratura e di politica. Fu governatore di Avellino, deputato, più volte ministro della Pubblica Istruzione. Combatté l’analfabetismo, introdusse nella scuola l’ insegnamento della religione e dell’educazione fisica. Nel 1871 gli fu assegnata la cattedra di letteratura comparata all’università di Napoli (la sua seconda scuola). La sua scuola di lettere mirava a formare “tutto l’uomo”. Contenuto e forma non possono essere scissi, s’identificano. La vita morale non s’insegna con le massime, si accende con l’ esempio. Quando manca la vita interiore, mancano insieme la morale e l’arte. Modello di scrittore per lui era Manzoni, di poeta Leopardi. Negli ultimi anni della sua vita fu colpito da una malattia agli occhi. Dettava le sue “Memorie” alla nipote Agnese. Morì a Napoli il 29 dicembre del 1883. Prima di iniziare la lettura de “L’ultimo dei puristi” , saggio molto interessante, un accenno a Basilio Puoti, che del movimento purista fu rappresentante. Per Puoti il periodo aureo, accanto al Trecento, fu il Cinque-


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cento. Il Marchese accolse nel suo palazzo i giovani più colti di Napoli e li educò allo studio dei classici italiani precedenti il sedicesimo secolo. Egli escludeva tutti gli autori moderni e quelli stranieri e bandiva i termini francesi. Questi dovevano essere sostituiti da vocaboli del Trecento. Giudicava ridicoli, però, e quindi erano da eliminare, quei termini trecenteschi che erano andati in disuso. Modello da imitare, per lui, era il Boccaccio. Ed ora entriamo nel vivo del saggio nel quale De Sanctis si racconta: mentre parla delle sue esperienze, illustra un quadro chiaro ed esauriente della cultura del suo tempo, della scuola e della personalità del Puoti, educatore modello e guida encomiabile per il modo di avvicinarsi ai giovani, di comunicare con essi e di portarli alla conquista del sapere e alla formazione della personalità con l’amore, l’umiltà, il rispetto, il buonsenso. Siamo nel 1868. Nelle mani di Francesco De Sanctis capita un’opera “ponderosa” stampata l’anno innanzi a Pisa: “Lezioni di storia” di Ferdinando Ranalli. E’ un’opera fuori stagione, con un ritardo di almeno un trentennio durante il quale è avvenuto il Risorgimento della patria e tante cose sono cambiate. La lettura di quei due volumi riportano nella mente del nostro Critico l’ immagine dei suoi primi anni di studi. Quei tempi sembrano distanti due secoli, ma il libro di Ranalli glieli riconduce davanti vivi e presenti e gli dice: <<Ricordati! Come allora così ora così sempre si ha a scrivere e a pensare>>. E’ un libro giudicato noioso, oltre che superato, ma egli lo trova piacevolissimo perché gli fa rivedere, con l’immaginazione, il signor Ranalli insieme a lui, alla scuola del marchese Puoti, mentre s’impegnavano a <<riempire i quaderni di belle frasi e parole, a studiare grammatiche e rettoriche, trecentisti e cinquecentisti, pieni di orrore per il forestierume e risoluti a rimanere italiani di lingua di stile di pensiero, ignorando gli sciocchi che li chiamavano puristi>>. Questo ritorno alla giovinezza gli addolcisce l’animo. Lo stile del libro, la lingua, il pensiero lo riportano ai vecchi tempi… Mentre

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legge le <<dotte elucubrazioni ed investigazioni (che rigetta), s’interrompe spesso e corre con la mente alla scuola del Puoti, ai compagni, ne ricorda i tanti fatterelli e non riesce a prestare attenzione al testo. Smette così di leggere, <<manda via il libro e corre liberamente verso l’ombra di Puoti, verso i ricordi >>... A sedici anni fu mandato a Napoli, sotto la guida dello zio Carlo che dirigeva una scuola di lettere latine (Era una scuola tenuta in buona considerazione, ma, in realtà, era tutta <<un vecchiume retorico, con metodi mnemonici e arbitrari, e le notizie storiche e letterarie vi erano impartite e apprese senza principio o sistema alcuno>>). Compiuti gli studi ginnasiali, passò a quelli liceali tenuti dall’ abate Fazzini (Questi lasciava molto a desiderare e per le sue idee e per il suo metodo). Leggeva molto, ma in modo disordinato, <<come portava il caso, senza disegno né ordine>>. Lo chiamavano “penna d’oro” ed egli si riteneva l’uomo più istruito di Napoli (beffeggia se stesso, proprio come l’Alfieri di “Vita scritta da esso”: “Ero un asino tra asini”- Viva la sincerità! - ). Fu Francesco Constabile, discepolo e bibliotecario del Puoti, a proporgli di entrare in quella che egli chiamò la sua prima scuola. La chiamavano la scuola del perfezionamento. Le lezioni si tenevano in un “palazzo magnatizio” (quello di Puoti), signorile, con servitori in guanti e in una sala tappezzata di libri. Il Puoti volle essere informato dal De Sanctis nei dettagli sul suo curriculum scolastico. Era, il marchese, un uomo <<amabilissimo, vivissimo ma… in quell’ambiente non c’era aria né di scuola né di maestro: pareva piuttosto un convegno di amici, un’accademia senza regole né formalità>> (Primo impatto di stupore, positivo, per il giovane Francesco) Puoti reagiva quando lo chiamavano maestro, voleva essere chiamato marchese. Non accettava che gli si baciasse la mano (non era il papa!). Il suo era uno studio, non una scuola, e le lezioni erano esercitazioni. Ci si esercitava nell’arte dello scrivere, si facevano traduzioni, si raccontavano aneddoti. Non c’erano panche, ma sedie nello studio. Più che maestro, Puoti era un amico, una guida. Ascoltava


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il parere di ognuno, diceva il suo, riconosceva i propri errori. La libertà di discussione non generava anarchia. Voleva bene ai suoi giovani (non studenti) ed era ricambiato. Era come un padre. Quando si ascoltavano i “Veterani”, c’era silenzio intorno. Gli “Eletti”, che occupavano un posto distinto, erano coloro che facevano un lavoro “indovinato”. Il marchese soleva dire che le lettere “raggentilivano e nobilitavano” l’animo. Dopo pochi mesi di frequenza, De Sanctis si sentì un altro uomo (La scuola del Puoti portava ad un rinnovamento interiore). Il marchese non faceva lezioni o discorsi, non insegnava grammatica o retorica, parlava alla buona, per esempi. Il lavoro era tutto degli studenti. Si andava a scuola tre volte la settimana. Un giorno era “consacrato” alla lettura e all’esame dei componimenti, alla discussione. Chiudevano il discorso gli Eletti e gli Anziani. Il marchese riassumeva il tutto. Le discussioni erano brillanti. Gli altri due giorni erano dedicati alla traduzione e alla lettura dei classici. Il marchese metteva tanta diligenza in queste traduzioni, <<…stava mezz’ora ad acchiappare una parola o una frase e se non veniva diceva “non è poi il Vangelo” >>. Si leggevano brani classici trecentisti e cinquecentisti. Il marchese voleva che si studiasse pure a casa. Questo assiduo lavoro di leggere, tradurre e commentare era più utile che imparare a memoria. Citando un detto di Socrate, Puoti diceva che il maestro dev’essere come la levatrice, che aiuta a partorire (La maieutica!). Altra sua massima: <<Il miglior maestro è colui che pensi meno a comparir lui e che lasci fare ai giovani>>. Ciò che egli insegnava non era <<tutt’oro di coppella>> (sua espressione), ma strumento efficacissimo di educazione e progresso. Amava, ricambiato, i suoi allievi, pardon, collaboratori. <<L’ amore è il primo segreto del buon insegnamento, “Non basta il metodo di Puoti, ci vuole il cuore di Puoti” >> commenta De Sanctis. L’italiano si doveva imparare con lo studio degli scrittori classici, gli scrittori del secolo d’oro e del dotto Cinquecento con appena qualcuno del Seicento, secondo i decreti della

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Crusca. La parola era per il marchese qualcosa di luccicante come l’oro; <<parole di buona o falsa lega>> soleva dire, <<parola di finissima lega>>, <<oro purissimo>>, <<oro di coppella>>. Facevano tutti a gara per scacciare le parole sospette di falsa lega, soprattutto i francesismi. Il Marchese aveva giurato, come Annibale, odio implacabile ai francesismi o gallismi. <<Purgar la lingua delle brutture>>. Fra tanti pregi, conclude il De Sanctis, la sua scuola aveva un difetto: <<Vi si dava troppa importanza alla parola e alla parte meccanica dello scrivere come formazione del periodo. Né questo studio poteva riuscire bene, segregato dal presente e dal vivo, e fondato sugli scrittori di parecchi secoli addietro, come si fa di una lingua morta…Lo scrivere non era più una produzione ma una imitazione>>. Lo stesso marchese confessava che una certa esagerazione c’era e si scusava dicendo <<chi ama esagera>>. Comunque, bisogna riconoscere che la sua scuola operò una “compiuta” trasformazione nella cultura nazionale. Si cominciò a studiare un po’ meglio il latino e il greco; anche nei seminari ci si interessò alle cose italiane; si diffusero i classici pure nelle più isolate province; sorsero qua e là scuole simili a quella di Puoti; non ci fu scienziato che non avesse cercato di scrivere più “pulitamente”. Il maestro poté notare tali effetti positivi nel giro di pochi anni, compiacersene e avere la soddisfazione di vedere insegnare a giovanetti, come materia elementare, quello che egli insegnava a giovani già molto innanzi negli anni e negli studi. E quando De Sanctis disse in pubblica Accademia che il purismo non aveva più ragione d’essere perché aveva già vinto, e che la questione non era più di lingua ma di stile, il brav’uomo (Puoti) se ne compiacque e accettò la teoria per buona. Ma quando De Sanctis iniziò a trarne le conseguenze, egli reagì e lo chiamò ribelle. Nondimeno, presso al letto di morte, al suo ex allievo che era andato a fargli visita disse: <<Tu sai che io ti ho sempre voluto bene>>. (Ri-costruisco la scena nell’immaginazione e mi commuovo). Antonia Izzi Rufo


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GIUSEPPE LEONE “D’IN SU LA VETTA DELLA TORRE ANTICA” UN’ANALISI INTENSA E MAGISTRALE di Aida Isotta Pedrina ENENDO per la prima volta “D’in su la vetta ….” fra le mani, l’indovinato titolo provoca subito un moto di curiosità e un pensiero: ”Ma cosa potrà accomunare Leopardi, uno dei più grandi e famosi poeti italiani, nato duecent’anni fa, e Carmelo Bene, attore e scrittore ultra moderno, genio controverso e stravagante, la cui fama era costantemente offuscata dal suo biasimevole comportamento e dal suo penchant per lo scandalo? Risulta che questo bel saggio è interessantissimo e coinvolgente appunto perché mette in netta evidenza le non poche caratteristiche condivise da questi due personaggi, tormentati da profondi conflitti e travagli interiori, di salute precaria, insofferenti delle convenzioni e limitazioni sociali, in rivolta contro le tradizioni sorpassate, e ancor più contro l’incomprensione della critica e dei loro stessi genitori. Attraverso questo originale confronto, Giuseppe Leone è riuscito a connettere mirabilmente queste due straordinarie personalità non solo affermando la pienezza artistica e l’innegabile impatto culturale di entrambi, ma anche dando un nuovo significato alle intime emozioni, alle sofferenze, all’intolleranza e le polemiche di Leopardi e Carmelo Bene. “D’in su la vetta…” è un’ opera particolarmente comprensiva e impegnativa che fra l’altro, fa emergere Leopardi quasi come genio contemporaneo di Carmelo Bene, annullando così la grande distanza di tempo fra i due artisti, e conferendo a questa analisi un interesse ancor più vivo e attuale. Giuseppe Leone dimostra di aver fatto – e con grande entusiasmo e maestria — un lungo e intenso lavoro di

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ricerca, arricchito da un’ampia e accurata selezione d’ interpretazioni e citazioni di Leopardi, di Bene e di tanti altri studiosi e critici illustri. In “D’in su la vetta..”, Leopardi e Bene sono presentati principalmente come i geni creatori di una “ cultura nuova” e alcune delle loro opere come ispirazioni necessarie per risollevare il prestigio della cultura italiana. A questo fine, entrambi affrontarono fra l’ altro il tema della “voce” verso il “silenzio” della scrittura; Leopardi nelle sue “Operette morali”, e Carmelo Bene nel suo “Sono apparso alla Madonna,” misero in grande rilievo il vantaggio della “voce”, proponendo il mondo del suono e l’immediatezza del sonoro come più avvincente della scrittura, e spesso più adatto a risvegliare e a coinvolgere le emozioni e a rendere comprensibili opera d’ arte a un più vasto numero di persone. Inoltre per Carmelo Bene, la voce, o il suono, ascoltato mentre si perde nel silenzio, era la suprema realtà che annulla l’io convenzionale, come del resto, lo era per Leopardi quando ascoltando la voce del vento, il canto degli uccelli, il sonoro quotidiano, sentiva il suo io perdersi in questi e nel silenzio dello spazio infinito. Per entrambi, il sonoro era anche fonte d’oblio: ascoltare per dimenticare sofferenze e delusioni: il canto come conforto. E qui, Giuseppe Leone osserva che Leopardi e Carmelo Bene ebbero entrambi aspirazioni al di là dei confini umani, al di là della realtà, al di là dell’ essere convenzionale; avevano percepito l’irrealtà che circonda la vita programmata e condizionata dalle tradizioni sociali. Fra le altre molteplici caratteristiche condivise, le seguenti potrebbero essere le più dense di significato: Leopardi e


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Bene vissero la loro infanzia in un’ambiente altamente religioso; entrambi erano molto devoti e servivano spesso la messa da fanciulli; Carmelo Bene persino quattro volte al giorno, giocando poi in Chiesa con le statue dei santi. Di Leopardi il padre scriveva: “…. Sommamente inclinato alla divozione….. Giocava agli altarini: serviva volentieri messa…. Voleva diventare Santo….” (Giuseppe Leone, “D’in su la vetta della torre antica”. Giacomo Leopardi e Carmelo Bene sospesi fra silenzio e voce. Ed. Il Melabò, 2015, pg. 68) Tutta questa religiosità sarà, più tardi, causa di profonde riflessioni filosofiche, di travagli interiori, di amarezze e delusioni, risultando nella perdita della fede di entrambi. Leopardi e Bene erano anche accomunati dal grande desiderio di rimanere fanciulli, di godere le gioie dell’infanzia e i privilegi della “vita bambina”. Il rifiuto di crescere e la nostalgia della fanciullezza, sono chiaramente dimostrati da entrambi: nello “Zibaldone”, Leopardi scriveva: “….Dato l’andamento e le usanze e gli avvenimenti e i luoghi di questa mia vita sono ancora infantili; io tengo afferrati con ambe le mani questi ultimi avanzi e queste ombre di quel benedetto e beato tempo, dov’io sperava e sognava la felicità, e sperando e sognando la godeva….” E ancora: “…. La massima parte delle immagini e sensazioni indefinite che noi proviamo pure dopo la fanciullezza e nel resto della vita, non sono che una rimenbranza della fanciullezza, si riferiscono a lei…..” (Op. Cit., pg. 80) E nel suo “Pinocchio”, Bene dichiara: “….. L’ essermi come Pinocchio rifiutato alla crescita, è se si vuole la chiave del mio smarrimento gettata in mare una volta per tutte….” (Op. Cit., pg. 80). Nell’analisi di questo “rifiuto di crescere” dei due artisti, Giuseppe Leone sembra immedesimarsi con grande sensibilità artistica, nel contenuto umano di questo confronto, nei sentimenti e il pathos di questi due geni e anche nella loro infinita nostalgia della fanciullezza, quando scrive, per esempio, di Carmelo Bene: “ Nel suo “Pinocchio, ulteriore alter ego della sua biografia, attraverso il

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quale può rappresentare metaforicamente, il suo rifiuto di crescere, poiché individua nel rimanere bambino il concentrarsi di tutto il potenziale dell’esistente non ancora realizzato ma sospeso nel possibile…..” (Op. Cit., pg. 79-80). Significativa in questo brillante saggio è anche l’analisi degli innumerevoli scontri e polemiche che Leopardi e Bene ebbero con la società, con la famiglia, e particolarmente, con la critica; essendo entrambi profondamente consapevoli del valore delle loro idee e delle loro opere, rifiutarono di essere invischiati nell’ intrattenimento e la socievolezza, lottando accanitamente contro l’implacabile animosità della critica, nonostante le loro gravi e continue sofferenze fisiche. Nel capitolo: “Leopardi e Bene geni ma senza premi”, troviamo che le approfondite osservazioni di Giuseppe Leone fanno particolare riferimento ai giudizi negativi della critica “…che non ha mai perso l’occasione di scrivere e parlar male della loro opera…”. Significativi sono fra l’altro, il giudizio “stroncatorio” di Giuseppe Mazzini (Op. Cit., pg. 86), e la sconfitta e disperazione di Leopardi quando partecipò a un premio letterario nel 1830 con le sue “Operette Morali” che furono nominate al terzo posto. (Op. Cit., pgg.90-92). Naturalmente, questo smacco provocò Leopardi a inveire contro il vero proposito di questi premi; polemica condivisa anche da Carmelo Bene. (Op. Cit., pg. 94). Di rilevante interesse sono anche le pertinenti osservazioni dell’autore sull’odio reciproco fra Carmelo Bene e la critica (Op. Cit., pgg. 96-104). Chiudendo questo capitolo, Giuseppe Leone sottolinea la tensione emotiva dei due artisti riguardo l’ incomprensione dei critici: “….Tuttavia Leopardi ne era cosciente e aveva anche scritto un aforisma che Carmelo Bene, guarda caso, aveva scelto come esergo per uno dei suoi tanti scritti: “….Tanto è l’egoismo e tanta l’invidia e l’ odio che gli uomini portano gli uni agli altri, che volendo acquistar nome, non basta fare cose lodevoli, bisogna lodarle, o trovare, che torna lo stesso, alcuno che in tua vece le predichi e le magnifichi di continuo……. Spon-


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taneamente non isperare che faccian motto per grandezza di valore che tu dimostri, per bellezza d’opere che tu facci…..” (Op. Cit., pg. 102) Un breve saggio non è sufficiente per descrivere l’interessantissimo e originale contenuto di questo volume; “D’in su la vetta….” è opera agile e precisa, sostanziosa e penetrante, che tiene ferma l’attenzione del lettore; è anche un profondo studio del pensiero, delle emozioni di Leopardi e di Carmelo Bene; Giuseppe Leone dimostra di aver compreso mirabilmente la grandezza e la disperazione di questi due geni trasformandole in emozioni attuali e concrete per il lettore; “D’in su la vetta ….” rimarrà unico nel tener vivo e presente questo originalissimo confronto; un’ idea geniale, una stimolante lettura che senza dubbio, aprirà nuovi orizzonti al pensiero. Aida Isotta Pedrina

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Il sole di quel giorno sembrava non volesse tramontare senza darci un saluto, e là ci attese sospeso all’orizzonte in un regale spreco d’oro e di porpora. La sabbia porta ancora la forma del tuo corpo e il desiderio dolce e feroce ora mi scioglie in miele ora mi ritempra in pietra. Non incontrerai così vicini mai dolcezza e forza, conquista e offerta, libertà e catena. Io t’ho portata in chiuso abbraccio come un vaso greco per ricolmarti a vergini sorgenti e sentirti salir fin sulla gola musiche senza età... Nino Feraù da: Pietre di fiume, Edizioni GBM, 1998.

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BEI SOGNI AZZURRI DEI VENT’ANNI Bei sogni azzurri dei vent'anni quando ci bastava un sorriso visto e non visto tra un mare di volti a lievitare il cuore di vane speranze... Speranze labili come gocce sui vetri fragili come bolle iridescenti che una lama di vento mette in fuga. Accendevamo fuochi in riva al mare... Cenere resta delle nostre bugie cenere calda che un soffio disperde... Luigi De Rosa (Rapallo, Genova)

MUSICHE SENZA ETÀ Ora il ricordo delle nostre gioie che giunsero invocate e fuggirono, invano trattenute, rimanga intatto almeno come latte di luna ad abbracciare cimiteri di tristezza.

“La sabbia porta ancora/la forma del tuo corpo” - Acquerello di Domenico Defelice, 1982.


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GABRIELE D’ANNUNZIO NELLA PRIMA GUERRA MONDIALE Cento anni dal Notturno di Marina Caracciolo

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IFUGIATOSI in Francia in un «volontario esilio» nel 1910, assillato dai debiti e inseguito da una frotta di creditori insoddisfatti, a cui già aveva ceduto la sua villa toscana della Capponcina, Gabriele D’Annunzio fa ritorno in Italia nel 1915, anno in cui, a Quarto, è invitato a tenere il discorso celebrativo della spedizione dei Mille, in occasione dell’inaugurazione del monumento all’impresa di Garibaldi. Fin dall’inizio della prima guerra mondiale egli si schiera dalla parte degli interventisti, e l’occasione è subito còlta come efficace mezzo di propaganda bellica. Da tribuno, lo scrittore si trasforma ben presto in combattente. Durante il conflitto è sempre in prima linea, anche se è vero che alla vita pericolosa e durissima della trincea preferisce quella eroica e spettacolare dei grandi gesti. Al suo nome rimangono legati i voli su Trieste e su Trento, nel 1915, e su tutta l’area di operazione bellica italiana negli anni successivi. Nel 1916 per un incidente aereo perde un occhio. Del 1918 è la cosiddetta Beffa di Bùccari1, e il volo su Vienna per gettarvi volantini tricolori. Tutte queste imprese gli valsero la medaglia d’oro e la fama di soldato impavido e ardito. A guerra finita, nel 1919, alla testa di un gruppo di volontari, D’Annunzio si impadro1

Bùccari è una cittadina della Croazia, in una profonda baia sul Carnaro. La notte del 10 febbraio 1918, 3 mas italiani, comandati da Costanzo Ciano, penetrarono audacemente nella baia lanciando siluri contro quattro piroscafi austriaci che vi stavano ancorati e riprendendo con sicurezza il mare. A bordo di uno dei mas era D’Annunzio, che lanciò agli Austriaci un ironico messaggio rinchiuso in galleggianti, per cui la spedizione prese poi il nome di Beffa di Bùccari. Sotto questo titolo lo scrittore pubblicò (1918) il racconto dell’impresa.

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nisce di Fiume (12.IX.1919, marcia di Ronchi), poiché le clausole del trattato di pace la negavano all’Italia; obbliga le truppe di occupazione a ritirarsi e costituisce la Reggenza italiana del Carnaro, con poteri civili e militari. Ma in seguito, il Trattato di Rapallo fra Italia e Jugoslavia (12.XI.1920) dichiara Fiume uno stato indipendente: il 31.XII dello stesso anno D’Annunzio deve abbandonare la città. (Ridivenuta italiana per un accordo del gennaio 1924, Fiume ritornerà definitivamente jugoslava dopo la seconda guerra mondiale, nel 1947). Di questo periodo del governo fiumano, al di là dell’esperimento politico in sé, è rilevante, piuttosto, tutto l’apparato esibizionistico che venne instaurato, tra coreografiche sfilate e saluti romani, pose artefatte e arringhe dirette alla folla, che avrebbero in seguito ispirato l’Italia fascista di Mussolini (come la medesima impresa di Fiume, con l’intervento diretto e spontaneo di un manipolo di privati che si sostituisce allo Stato, è indubbiamente da considerare un anteprima del futuro squadrismo fascista). Sul piano letterario, d’altro canto, di questi anni di guerra ci rimane come testimonianza


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una delle più valide prose autobiografiche dell’ultima stagione creativa dello scrittore abruzzese: il Notturno. Questo testo, poi pubblicato nel 1921, ebbe origine a lato di un’ esperienza eccezionale. Durante un volo di guerra, il 16.I.1916, D’Annunzio fu costretto a un atterraggio di emergenza. In quel frangente, rimase ferito all’occhio destro, che poi perse. Per evitare la completa cecità, dovette restare supino per settimane, con gli occhi bendati. Scrisse il poeta nell’Annotazione al libro: «Per più settimane, mentre stavo supino in veglia, mentre soffrivo senza tregua l’ insonnia, io ebbi dentro l’occhio leso una fucina di sogni che la volontà non poteva né condurre né rompere. Il nervo ottico attingeva a tutti gli strati della mia cultura e della mia vita anteriore, proiettando nella mia visione figure innumerevoli con una rapidità di trapassi ignota al mio più ardimentoso lirismo. Il passato diveniva presente, con un rilievo di forme e un’acredine di particolari che ne aumentavano a dismisura l’intensità patetica». Il Notturno intende appunto raffigurare questa sotterranea e ininterrotta vita della coscienza, questo spontaneo riaffiorare di immagini e di ricordi – e, più spesso, di sensazioni – còlto proprio nel suo sbocciare dalle profondità dell’inconscio. Non avendo la possibilità di parlare né di dettare, il poeta fu obbligato a scrivere su sottili strisce di carta, tenute fra le ginocchia, con uno stile rapido, intenso, evocativo, e compose il libro come un insieme di versetti brevi, ciascuno generato da una suggestiva illuminazione. In bilico fra una prosa di memorie e una prosa lirica, pronta a rilevare le vibrazioni più segrete di una sensibilità resa ancor più affilata dalla malattia, i racconti non si svolgono secondo un avvicendamento logico e temporale, ma sono immersi in un presente senza tempo, mentre sorgono da una libera aggregazione di particolari che dall’oscuro impulso dei sensi si tramutano in immaginose figure.

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Proprio per questa via, D’Annunzio rispecchia un aspetto fondamentale della poetica del Decadentismo: quella tendenza, cioè, a trasfigurare la realtà in un simbolo della vita misteriosa dell’inconscio, e a identificare in essa, fuori da ogni razionalità, una rivelazione pura, essenziale, quasi esoterica, facendo in tal modo della poesia il tramite più sublime della conoscenza. Il tema dell’eroismo e del superuomo, che aveva certo appesantito i suoi romanzi, in questo caso passa decisamente in secondo piano: escludendo qui le costruzioni più sofisticate della sua cultura estetizzante, lo scrittore, nelle parti più riuscite, aderisce intimamente a quell’autentica ispirazione naturalistica e mistico-sensuale che aleggia nelle Novelle della Pescara e nei capolavori della sua poesia. Questo spiega, a cento anni di distanza, il valore ancora attuale del Notturno – forse il miglior testo del D’Annunzio prosatore – e il fascino che ha continuato a esercitare sugli scrittori contemporanei. Marina Caracciolo

LIBELLULE Dalle verdi acque sbocciavan libellule. Cerchi concentrici, anelli dinamici disegnavano voli. Picchiate fugaci dispensavano morte. Su canne palustri si schiudevano ali coi colori dell’iride. Beltà su beltà mi sfiorava il volto. Sentivo in me tanta smania di vivere, di saltare nell’erba a pestare rugiada, mentre il sole maculava i colori dei rami. Colombo Conti Albano Laziale


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SABATO RACIOPPI ORRORI E SPLENDORI DEL MONDO D’OGGI di Leonardo Selvaggi I ’OPERA storica” Orrori e splendori del mondo d’oggi” di Sabato Racioppi costituisce un trattato di grande interesse per acutezza di riflessione, valutazione critica e articolata analisi su ideologie, avvenimenti, trasformazioni profonde nei costumi e nelle strutture tecniche-economiche del nostro tempo. Una pubblicazione di grande mole che va ad aggiungersi ad una produzione già di considerevole dimensione, fatta, oltre che di numerose opere storiche, da importanti scritti filosofici, sociologici, di etica e sulla letteratura del ‘900.Un’opera complessa che si offre alla meditazione di quanti sono vigili sulle problematicità contemporanee che investono popoli e territori di tanta parte del nostro pianeta. Sabato Racioppi è un osservatore perspicace: i suoi scritti hanno carattere di notevole scientificità per vastità di contenuti, frutto di ricerche appassionate e di esperienze di studioso specializzato di problemi sociali. Ci illumina sulle cause e sui futuri sviluppi degli avvenimenti che per estensione hanno riflessi su tutti gli apparati organizzativi mondiali, non esistono isole che rimangono escluse. Ambienti e strutture in un intreccio di coinvolgimento che non ha arresti in un’ epoca di per sé frenetica e caotica, insoddisfatta e di continuo presa da sete di novità.

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II La storia dell’Umanità vista come eterna lotta, condotta in scontri che non si potranno mai dichiarare definitivi fra gruppi di spadroneggiatori e popoli in miseria. L’Umanità in tutti i secoli vissuta in continua fermentazione tra ansie, aspettative, sofferenze, idealità, violenze, predomini. Dopo pause di splendori, nuove lotte, stragi, dominazioni, martiri, innalzamenti di principi ideali. In un dualismo

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di attacchi contrapposti: il male e il bene, spiritualità emergenti e violenze distruttrici fanno un eterno movimento dinamico tra razionalità e istintivismi belluini. Sempre ascese metafisiche e stati tenebrosi lungo le accidentalità del cammino della storia. Aneliti di benessere e cadute nei marasmi e nelle crisi. L’ opera storica di Sabato Racioppi “Orrori e splendori del mondo d’oggi” ampiamente va diffusa, portata all’attenzione di menti ansiose di approfondimenti e di chiarificazioni che in questo trattato abbondano, condotti con spirito spregiudicato, avulso da ogni formalismo, con animo aperto e spassionato. Un’ opera colossale: va considerata fonte per ulteriori studi, ogni suddivisione costituisce una trattazione specifica, sufficiente per essere un volume a sé. E’ una miniera inesauribile con dati, raffronti, citazioni, ogni pagina ha una vastità di contenuti da offrire al lettore materia sufficiente per molteplici riflessioni. L’ opera oltre che storica, è di alta moralità. Anche dal punto di vista editoriale dobbiamo dire che la fatica nel realizzare questo capolavoro non è stata lieve. Pagine dense, massicce con illustrazioni che commentano eloquentemente gli avvenimenti che si scontrano e si intrecciano attorno al grande protagonista che è l’umanità e in special modo ai gruppi sociali compressi, meno fortunati che si muovono con passione di vivere, con instancabile volontà di lotta lungo le accidentalità dei giorni, sempre tormentati: sono loro i veri creatori di storia contro i predomini famelici soggiogatori. L’opera nella sua notevole consistenza si rende maneggevole, gli argomenti risaltano facendosi luce l’un l’altro nella loro varietà di aspetti. Illuminato è il lettore dal metodo di sintesi che qualifica l’opera di Racioppi, consistente nel vedere la storia del nostro tempo intensificata da tutte le ripercussioni dei secoli passati, rimaste ineliminabili retaggi. Tipograficamente in veste chiara, trasparente, la pagina ha caratteri nitidi: abbondante dovizia di concetti, espressi con facilità di linguaggio. Questo sempre per quella potenza espressiva fatta di immediatezza che viene da un grande storico che rende la materia trattata strumen-


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to di insegnamento. Ogni pagina prende il tutto, è un’opera, si può dire, spiritualizzata per la sua organicità, e il compito dell’Autore è stato svolto appieno, c’è un ininterrotto svolgimento di legami fra le varie posizioni sociali, la politica e l’economia. Non è una caotica successione di fatti esposti aridamente e in superficie, gli argomenti storici sono vivi, animati, connessi nei loro momenti di esplicitazione. Il nostro tempo si conosce per la sua problematicità amplificata di concezioni e di movimento di tutta l’esistenzialità. Risaltano essenzialità e moventi significativi. III I secoli passati, le conoscenze della sapienza del tempo antico fanno da sfondo alla trattazione. La storia si ripete e si arricchisce nel contempo, fattasi complessa ed esplodente difatti e di situazioni in continua evoluzione: sconvolgimenti, orrori, grandiosità di conquiste, punti di arrivo dopo esperienze maturate. L’opera “ Orrori e splendori del mondo d’ oggi” di Sabato Racioppi ci pone davanti a più allargate prospettive con responsabilità e impegnati, siamo di fronte a un futuro che si aspetta dalla dignità di uomini di civiltà superiori raggiungimenti conclusivi con decise e definitive determinazioni. Per presentare la grande opera di Sabato Racioppi si rende necessario e doveroso ripercorrere le tappe più significative che la compongono. Andare attraverso avvenimenti e situazioni in fermento è riconoscersi vicino al tempo d’oggi che non può non risentire i grandi sommovimenti avutisi con le rivoluzioni francese e bolscevica. E’ sentirsi in più ampia esistenzialità, riempiti di realtà e di testimonianze fra le più significative. Le pagine ribollono di personaggi, di condizioni sociali insostenibili, popoli repressi che si infiammano di speranze, di fremiti, di contraddizioni che fanno esasperare. Dalla grande rivoluzione del ’79 divampata dalla immensa miseria del popolo, dall’opera dei filosofi e scrittori dell’Illuminismo, a quella Bolscevica del 1917, nata dalla predicazione del socialismo. Con Marx ci si incammina verso una nuova società, al di fuori delle clas-

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si e delle sperequazioni economiche. IV Moti propulsivi di progresso e decadenza di costumi nella storia vanno insieme, si creano disorientamenti, incertezze. C’è uno scuotimento della mente umana che si sente annichilita, le aspettative fanno vivere illusioni vane, non sono più fomentatrici di speranze. La scienza, le teorie sociali disturbano sentimenti e virtù interiori. Augusto Comte e Spenser, maestri del positivismo credono alle realtà concrete e distruggono la spiritualità. Si annienta un padronato e si creano nuove borghesie. Ebollizioni a catena che attizzano conflitti, accensioni distruttive in ogni angolo della terra nei primi anni del secolo (19001920). La seconda guerra mondiale (19391945) con 30 milioni di morti. L’opera “ Orrori e splendori del mondo d’oggi” mette in evidenza le tappe storiche più caratterizzanti. Sempre lotte tra energie contrastanti. Fotografie drammatiche dei campi di concentramento nazisti, orrori, malvagità demoniaca che sempre affiora dal fondo dell’animo umano in opposizione con lacrime e morte, travolti si è dalla tempesta delle armi omicide. Nell’opera di Sabato Racioppi le verità risaltano come fiammate dalle tenebre da cui viene il mondo umano di tanto in tanto avvolto. Spesso si ricorre alle figurazioni mitologiche per far luce su situazioni che travolgono lo spirito dell’ uomo. Circoli viziosi che determinano autodistruzioni. C’è sempre un vaso di Pandora da cui tutti i mali escono portando infestazioni orribili. Continuano nel Terzo Millennio violenze, guerre, poteri, miserie. La pace e l’ uguaglianza, le attenuazioni delle sofferenze, il sostentamento degli inermi si potranno avere quando gli uomini diverranno umili, spogli di ogni pensiero malvagio. L’opera di Sabato Racioppi costituisce un abbondante nutrimento che corrobora con molta efficacia chi ama conoscere gli intrecci degli avvenimenti storici, la loro evoluzione, gli aspetti nuovi che sopravvengono. L’intelligenza dei grandi spiriti non riesce mai a creare domini di bene e di luce, ma solo spinte più furenti nelle lotte.


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Pregiudizi e violenze razziali un’altra piaga che fa piangere l’Umanità. Questo male dilaga da sempre, dal Medio Evo ad oggi, è una cancrena che rode anima e corpo, le volontà di uomini schietti e semplici che non concepiscono l’odio fra simili. Razze dominatrici e razze serve, tutto un campo disseminato di morti e di tremende pene, di pianto e di barbarie. Sette segrete diaboliche che non vogliono il riconoscimento dei diritti civili ai Neri portano segregazioni e stragi negli Stati Uniti V Le pagine sempre traboccanti dell’opera storica di Racioppi esprimono obbiettività, pensiero acceso e schietto. Eroismi fatti di predicazione di amore per il prossimo. Il movimento della Non Violenza capeggiata da Martin Luther King. Le teorie razziste in contrasto con i messaggi evangelici. Il mondo contemporaneo è sconvolto: violenze sempre riaccese, solitudine, alienazione, l’uomo disumanizzato, caduto nell’irretismo dall’ automazione. Il volume “ Orrori e splendori del mondo d’oggi” diviso per sezioni si legge con avidità, tanta storia messa insieme in connessioni ideologiche: fatti, filosofi, scrittori, scienziati, autori di teorie e di principi che annodate svolte e Autodistruzione, l’ intelligenza umana trapassa in strumenti bellici automatizzati che generano il finimondo tra popoli ancora in stato di primitività, stremati dalla fame e dalle epidemie. Il mondo contemporaneo con le sue trasformazioni, con l’ espansione dei mezzi di ricerca, con le strutture tecnologiche si fa erompente e dilagante per tutte le parti della terra. Attraverso l’ esame del nostro tempo con i suoi peccati e gli splendori si rilevano le significazioni di una storia umana sempre più intricata, confusa: un condensato in fermentazione tra malessere, corruzione, malcostume. Grandi attori gli uomini: fanno la storia con la nobiltà d’ animo, con l’odio, con i domini, con le miserie, le sofferenze: macchine di civiltà, formano in un tutto insieme un micro-cosmo che mette in moto con reazioni a catena, con reci-

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proche influenzazioni ambienti, contesti sociali, costumi, vitalità, morte, distruzioni, eroismi, idealità, principi supremi di religiosità, di morale, di giustizia: archetipi incrollabili nella mente umana, in lotta con se stessa tra materialità e certezze metafisiche. La ramificazione di collettività, di idee, di progressi, di guerre, di aspettative, di mutamenti, tutta protesa sempre verso l’avvenire, punto di attrazione che fa muovere la storia lungo il cammino di ogni giorno. VI Orribili misfatti tramati dal male, silenziosi tormenti di volontà dirette al bene, richiami del senso di giustizia, involuzioni, umiltà, atrocità, amore per il prossimo in pagine stimolatrici di arricchimento di sapere, estese, chiarificatrici. Il movimento della storia su tutti i luoghi della terra che nel nostro tempo si trovano ravvicinati da un diffuso senso di cosmopolitismo e da sempre più vasto ecumenismo. L’opera di Sabato Racioppi, un lavoro di grande perizia che si svolge con profondità e acutezza di pensiero. Realizzata dalla Editrice “Nuova Impronta” di Filippo Chillemi. Un’opera storica vista nella sua autenticità di catena di avvenimenti che si condizionano fra di loro e si irradiano in un divenire che sempre si polarizza su estremi contrastanti lungo cammini di progresso, di decadenza, di crisi, di riprese rinnovatrici. Albert Camus in tempi in cui si sono smarriti i valori con realismo pessimistico vede gli uomini chiusi in egocentrismi, nemici l’un verso l’altro, in una vita di assurdità. Gli anni dal ’50 diventano materialisti, senza religione, con superbia e arroganza. Gli uomini consumisti, privi di senso della unitarietà, individualisti, si vedono fuori da ogni contesto sociale. Il progresso tecnologico ha distrutto le norme etiche, si è arrivisti, presi da ingordigia, da un fremente desiderio di novità, insoddisfatti, svuotati di sentimenti, si vive attruppati, elementi della massa anonima in città che si fanno agglomerati di solitudine. Mafia e criminalità organizzata, corruzione a tutti i livelli. Le virtù antiche smantellate. La famiglia è in


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crisi, non costituisce più l’ambito dove si vive insieme, disorganicità, gli affetti perdono la loro attrattiva, si è influenzati dal mondo esterno, l’autorità della famiglia viene ad essere soggiogata dai poteri collettivi. VII Si impone la dottrina del liberismo che vuole rivendicare la libertà d’azione degli individui. Per questa via si dà modo di avviare l’ arricchimento di gruppi potenti, detentori di capitali e di macchine. Il libero mercato non ha influssi positivi per tutti, mancando la relazione tra proprietà privata e le regole della giustizia sociale. L’opera “Orrori e splendori del mondo d’oggi” di Sabato Racioppi mette ancora una volta in risalto lo sfruttamento dei miseri, costretti a lavori deprimenti in ambienti malsani privi di ogni tutela. Tutto il pianeta diviso secondo le condizioni economiche in tre grandi blocchi. Primo Mondo capitalistico, Secondo Mondo socialista, Terzo Mondo, liberato dal dominio coloniale, travagliato da problemi sociali, politici e di sopravvivenza. Paesi sottosviluppati in piena povertà di mezzi. Oggi almeno un miliardo di persone vive senza alloggi, senza servizi igienici. Popoli tormentati da malattie e morte. L’ industrializzazione, il progresso tecnologico determinano mali gravi che mettono in crisi lo stesso pianeta con l’inquinamento atmosferico e le deforestazioni. Il mondo contemporaneo in pieno stravolgimento, contrasti sempre più profondi fra capitalismo e miserie. Attecchisce sempre più la criminalità, si inseguono finalità perverse, ricorrendo alla violenza e alle attività illecite. L’opera “Orrori e splendori del mondo d’oggi” ha pagine che richiamano tristezza e senso di insicurezza. La violenza senza dubbio rappresenta il male atroce del nostro tempo. E’ indicazione di condizione di debolezza, mancanza di dialogo e di forza morale. Episodi di criminalità aberrante erompono in ogni parte della terra. Non può restare per tempi indeterminati, va aggredita e sconfitta da tutti i popoli. Ancora continua l’elenco delle turpitudini in voga nel nostro tempo. La prostituzione diffusa in tutte

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le forme. L’aborto che genera vittime, è espressione di malvagità, di mancanza assoluta di eticità, divenuto un fenomeno di massa. Le guerre di religione dell’Età moderna ripetono fenomeni avutesi nel Medio Evo. Fondamentalismi contro ogni libertà di credenza. Altre cancrene, che rodono gli ambienti sociali e che sembrano assommare tutte le forme di malcostume verificatesi nei secoli, il traffico delle armi e delle droghe. L’O.N.U. non riesce ad arginare i fenomeni distruttivi per le sue insufficienze e incapacità di intervento. VIII Al trionfo di tanti mali che attanagliano l’ Umanità lo storico Sabato Racioppi contrappone le espressioni di splendore che fanno pensare ai futuri assestamenti della società sulla base di rinnovellati modi di concepire i rapporti tra i popoli: si spera in riordinamenti di strutture che garantiscano in certo qual modo pace e giustizia. La caduta delle dittature, la decolonizzazione del Continente Nero, dell’Asia Meridionale, a cominciare dalla Rivoluzione delle colonie inglesi del Nord America. Si instaurano le nuove concezioni del lavoro con prospettive di diffuso benessere. L’uomo di oggi in tanta parte del mondo trova nel lavoro le vie per affermare la sua identità. Si divulgano i sistemi organizzativi che comportano progressi nell’ambito dell’ alimentazione e della sanità pubblica. La tecnologia è in uno sviluppo continuo, a cominciare dalla conquista dell’orbita terrestre negli anni ’50 e ’60 del Novecento. Conquiste di grande portata, trasformano il mondo intero in tutti i settori, dalla chimica alla biologia, alla medicina. Due grandi scienziati hanno rivitalizzato l’Umanità Albert Sabin e Alexander Fleming. Esempio straordinario di dedizione per il bene dei sofferenti il volontariato della Carità che inizia con Madre Teresa di Calcutta. Inoltre vanno sottolineati: lo sviluppo della scuola che ha avuto dimensioni incalcolabili; i movimenti del femminismo, altro aspetto di grande evoluzione; il ritorno al sacro che si fa molto sentito con l’ Ecumeni-


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smo cristiano; altro fenomeno sociale che contribuisce ad avvicinare i popoli è dato dalla mondializzazione dell’informazione.

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in solitudine canta amori svaniti. Colombo Conti Albano Laziale

IX Non potevamo non soffermarci sulle varie argomentazioni trattate nell’opera storica di Sabato Racioppi per poter rilevare la completezza e lo svolgimento metodico delle sue parti in luce di sintesi e con acume intellettivo. Ogni pagina rappresenta una sua ricchezza espositiva. Di capitolo in capitolo, dell’ opera si riconosce l’importanza che la rende utile e valida come testo di studio ad alto livello. La pubblicazione di Sabato Racioppi di elevata grandezza per i profitti che si possono trarre come strumento di apprendimento e di informazione, per i suoi caratteri didascalici, ma soprattutto come risultato di un lavoro poderoso, condotto con perseverante impegno di studioso sempre dedito a ricercare verità, per l’entusiasmo che via ha profuso e per la sentita doverosità di dare al pubblico dei lettori consapevolezze sui fatti sconvolgenti che viviamo, rendendolo partecipe attento del nostro tempo. Leonardo Selvaggi

SPICCHI DI SOLE Spicchi di sole, arance carnose nelle tue gote. Timidezza si libera, palloncini ondeggiano rincorrendo innocenza. Papaveri sbocciano tra aliti di vento su mari di grano cullati dal sole. Luce negli occhi m’infonde calore. Sbocciano gioie appena abbozzate. Sorride la vita, chiaroscuri cancella mentre il cuculo

L’ORA DEI SOGNI Con un finale “Amen” si concludono le preghiere della sera. Spengo la luce e mi abbandono all’abbraccio del cuscino e delle coperte. E’ giunta l’ora dei sogni. Mariagina Bonciani Milano

PAS MÊME LA VIE SI ELLE N’EST PARTAGEE C’est le mien! Tu l’affirmes avec force, presque d’un air renfrogné. De la possession tu as une conception absolue. Tien le jouet de qui est à côté de toi, qui joue avec toi et les autres enfants; tiennes aussi les routes, les maisons; tien le petit cheval dans le parc sur lequel tu te balances; tien l’entier manège public. Tiens, naturellement, maman et papa, la grand-mère et le grand-père; si tu es avec l’un, tu chasses les autres, tu les exclues. Comment te faire comprendre que le mien est bien avec le tien le sien le nôtre le leur? Joie pleine, la richesse? Aucune chose n’est belle dans la vie, pas même la vie si elle n’est partagée. Domenico Defelice Pomezia, 27 Juillet 2012 in A RICCARDO (e agli altri che verranno) Traduction de Béatrice GAUDY


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LA MIA LÈUCADE (Il viaggio tormentato di una memoria che dal ventre della terra cerca di proiettarsi in mondi di onirica bellezza) di Nazario Pardini

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O sempre in memoria le parole che un poeta semisconosciuto francese mi rivolse alla fiera del libro di Francoforte nel lontano 1997 (Maurice Degas): “Le poète c’est la mer et le fleuve”, il poeta è mare e fiume. Mare perché vede in quell’ orizzonte lontano la possibilità di completare la sua insufficienza. Fiume in quanto si sente rappresentato in toto da quelle acque che scorrono veloci verso un’immensità che completa o annulla (contemplazione). Una visione eraclitea della vita e del tempo. In effetti tutti e due si fanno simbologia dell’anima poetica: il senso alfieriano (vedi “La vita”) di una libertà che mai si concretizza in politica, e il cui simbolo più aderente è quel piano azzurro (per Alfieri le ampie distese nordiche di neve) nel quale i Romantici vedevano concretizzate le loro aspirazioni vaghe e indeterminate (vedi le pitture di Delacroix). E Lèucade è l’isola che non è, e mai sarà. Rappresenta l’ aspirazione dell’uomo, la sua spinta verso il plurale, la totalità; la sua attrazione naturale verso il Cielo, in quanto essere mortale, imperfetto e miope, con una vista che mai potrà appagare il suo desiderio di vedere lontano. Quindi sta in questa spinta verso l’alto il cuore della Poesia. La ricerca continua del Bello assoluto; ciò che si fa e si sfa in continuazione. Niente c’è di compiuto, niente di perfetto, tantomeno l’idea del Bello che l’uomo-poeta ha: un divenire di contrapposizioni che generano verità relative. E tutto è relativo, ed è proprio ciò a determinare spleen, inquietudine, saudade, nostos. È proprio nella sua natura questo miscuglio di terra e cielo. Il fatto sta che il terreno tiene vincolato l’uomo alle sue braccia. Mentre egli dovrebbe ambire alla Natura. A quella pura, incontaminata, spec-

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chio del supremo. Tutto è in fieri, in divenire, e l’Arte in genere è alimentata da questo impulso a superare la realtà cruda, anch’essa imperfetta, e deficitaria, che ci dà la continua conferma della nostra pochezza. Mi piace definirla - la Poesia - quella parte di noi che più si avvicina all’inarrivabile. Sì, all’ inarrivabile; e finché avvertiremo questa voglia, questo impulso, questa necessità di elevarsi, esisterà anche il serbatoio della Poesia. Un traguardo quindi inarrivabile anche perché non esiste linguismo sufficiente a concretizzare questi input emotivi che l’anima genera. Questa è soprannaturale, venuta dall’alto e destinata all’alto; il verbo è mortale, una semplice, seppur complessa, creazione umana, e, come tale, imperfetta; mai sufficiente a configurare quegli slanci. Un tempo misi come sottotitolo a Lèucade: “Il viaggio tormentato di una memoria che dal ventre della terra cerca di proiettarsi in mondi di onirica bellezza”. Poesia è vita; il poeta è un uomo vivente in tutto il corso del tempo (passato, presente e futuro). E che cosa è la vita se non che la memoria e il sogno. La memoria, dacché essa conserva le cose importanti, quelle che stanno a cuore nel bene o nel male, e degne di restare; la vera vita. Il sogno, perché è là che si rifugia il poeta per ovviare alle sottrazioni del quotidiano. Ed è nel sogno che vede le realizzazioni della sua impotenza. Höldernin nove anni prima di essere ricoverato in una clinica per alienati mentali, chiede nella lirica Iperione o l’Eremita della Grecia, al “canto” che sia per lui “rifugio amichevole”, affinché la sua “anima, raminga e senza radici/ non smanî di oltrepassare la vita” e divenga “luogo di felicità (…) giardino curato con premuroso amore,/ ove aggirandomi tra fiori in perenne fioritura,/ in sicura semplicità io abbia dimora,/ mentre di fuori con tutto il suo ondeggiare/ il tempo possente, il tempo mutevole rumoreggia lontano”; e nell’elegia Pane e vino invita tutti i poeti a unirsi in un’universale fratellanza: “… e molto (buono) ascoltare dei giorni d’amore,/ dei fatti che accaddero un tempo/… Sono i poeti, a fondare quel che rimane (Was bleibt aber stinte die Dichter)”.


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Trovare la serenità là da dove siamo partiti è forse il sistema migliore per calmare il disagio che incontriamo misurandoci con il tempo e la morte, se non si vuole impazzire. E là è il “giardino curato” di Höldernin. Che cosa sia la poesia, poi, è certamente uno degli interrogativi più annosi della storia dell’uomo. La sola certezza comunque è che necessita, volenti o nolenti, di realtà individuali, di singole esperienze, di vicissitudini ed emozioni personali, per aprirsi dal memoriale all’immaginario, dalla vita al gran senso. Si fanno avanti il sogno, la fantasia, la realtà che non riescono comunque mai a liberarsi del tutto dal bagaglio del memoriale che ci portiamo dietro sempre più vago e nostalgico, vita scampata all’oblio e per questo degna di esistere. E quello che ci tormenta è proprio il pensiero del suo destino. Chi lo affida ad una fede religiosa, chi al puro sogno, chi ad una fede poetica, e chi, laicamente, ad un’isola quale potrebbe essere quella di Lèucade, tentativo foscoliano come terapia al morbo del dubbio. E Lèucade rappresenta la purezza laica, la bellezza, l’isola del- l’equilibrio classico, della realizzazione del supremo su questa nostra problematica terra; il tentativo di elevarci laicamente al sapore del durevole. Excursus verso un mito futuro rappresentato già da Ulisse che riprende la sua navigazione. Non è soddisfatto di chiudere i suoi giorni nella staticità di un tramonto insulare. Riam- maina le vele, impugna la scotta verso la demarcazione delle colonne. Impennata laica in un contesto medievale in cui primeggia la supremazia di un Divino intoccabile e imperscrutabile per chi tenta l’avventura umana. Ed è qui che si raggiunge dopo il percorso di una realtà settembrinamente idealizzata, e melanconicamente vissuta, l’incontro con l’apparizione metaforica delle Eumenidi nella collocazione geografica del fiume paesano trasferito nell’isola di Lèucade. Si chiede aiuto perfino a figure più o meno grandi che già si sono imbattute colla visione infernale delle tre donne, o col mito di Venere cipride o citerea. Incontri laici, comunque, sia coll’epicu-

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reismo di Lucrezio, sia col panteismo di Virgilio che nel VII dell’Eneide incontra le Erinni, sia con l’Ulisse di Dante, sia con le Grazie del Foscolo che con l’Edipo del Niccolini: Il ritorno di Ulisse Qui tutto è sapido. Lo so! I profumi dell’isola, il ginepro, la lavanda, e tu che ho ritrovato. Ho sempre in mente il volo urlato della procellaria. Mi strappava la carne. Le sirene misteriose e adescanti e io che immobile all’albero maestro volli fendere i nascondigli fitti del sapere, i più vogliosi. È questa la mia isola. Qui alla sera torna a dilatarsi l’idea dei meriggi e il lungo andare. E ancora estendo sguardi in lontananze sperdute. Mi lasciarono nell’anima crepata di salsedine le note che tornano insolute. È sempre aperta la sfida tra l’eterno e me che cerco con gli occhi indolenziti quella luce che mi soverchia. Ma stasera il mare riporta chiare voci di Calipso e di Circe. E il canto di una vergine intenta al suo corredo. Sento ancora la sua candida pelle su me adusto di sale. Ritornare era il mio sogno. Eppure condannati siamo sempre dai gorghi della vita che le spoglie depongono. Nell’anima germinano e si fanno giganti al calare. Ognuno tiene di Nausicaa chiusa con sé nel fondo una sembianza mai defilata. Ed ora salta fuori e porta dietro ogni contorno d’anni e di stagioni che non solo amore significa, ma voglie e nostalgie che trovano le vie le più nascoste e avanti a noi si levano. La ciurma


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è lì che attende. Ancora salperemo oltre colonne, questa volta, mitiche d’impedimento ai sogni. L’ora è giunta. Se il mio destino vuole che ritorni ai familiari usi ed ai barlumi dell’isola agognata, porterò con me più luminoso il cielo. Se perire vorrà ch’io debba in mare straboccante d’immenso sopra i limiti del mio essere umano, perirà assieme a me l’eterna primavera di chi non sentì mai sopita in anima la voglia del viaggio. Poi tornare nuovi. O superbi spegnerci per via.

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gli sfortunati umani per disperdere reminiscenze estreme. Ed anche Venere restò meravigliata nel sentirsi serena dopo il volo. Gli infelici a Lèucade accorrevano

Fuga da settembre E furono le Eumenidi a portarmi dove non vi è stagione. Ventilava zefiro eterno l’isola di Lèucade

dai più lontani luoghi. Preparavano con offerte ad Apollo e sacrifici la loro prova. Ed erano sicuri coll’aiuto del dio di sopravvivere all’eccelsa caduta. Proprio qui, dove tu siedi, stette il piede tenero dell’infelice Saffo che Faone abbandonò. Nel cielo di quest’isola, lucido ed armonioso, riscontrava solo dolore; andava su altre sponde dove il mare violento tormentava gli scogli dissestati per rivivere il suo triste destino. Dalla cima, sfiorata dalle mani della dimenticanza, si gettò in quest’onde fatali. Ed Artemisia regina della Caria ed altre ancora raggiunsero la meta, ma scambiando la vita con la morte.” “Mi sovviene il mio settembre tanto logorante nei palpiti di umana inconsistenza, nei flebili lamenti di esistenza, nei pallidi scolori di tristezza di un borbottio leggero di rumori quasi alla fine. Ma non so se vale di più restare immoti nella stasi di un eterno sereno che provare il dolce senso del dolore umano.” “Proprio il poeta, diciamo di Nicostrato, gettandosi dall’alto della rupe non lasciò col patire il respiro di vita. Forse il dio volle che poesia perpetrasse, dopo il salto, il suo divino suono. Ci chiediamo se più grande pacato che in tormento come da scoglio umano.” Ed io fuggii

eternamente dolce nel respiro di lavanda e di timo. “Dallo scoglio” mi dissero “Ove siedi ad osservare gli ampi spazi del mare ricamato da sciami di gabbiani, si gettavano

scabro settembre, mese addolorato, dal sangue che si sperde in ogni dove dell’ultimo respiro della vita. Io ti lasciai e un salto nelle oniriche acque di Lèucade non mi concesse

Il linguaggio stesso subisce un’evoluzione di adeguatezza diacronica. Si insaporisce di termini arcaici, tende sempre più alla plasticità del distacco marmoreo. Ed è sullo scoglio di Lèucade che si raggiunge il colmo di una scalata lirica che permette sia la dimenticanza degli affanni esistenziali, la ripulitura per così dire del vissuto, che l’amore del tutto, ora veduto con altra dimensione umana, direi quasi ebrietudine dell’immagine che si fa poesia. La circolarità si compie nei canti arcaici. Dove tutto un mondo amato, in cui, secondo me, immensi erano i presupposti immaginativi e creativi, irripetibili per liricità poetica, dipana una visione superlativa di amor vitae che si fa plenitudine di canto e di filosofia laica dell’esistenza. Un’isola mitica e magica, irrealmente reale; un’isola a cui tutti i poeti sentono il bisogno di approdare; e non mi prendete per narciso se vi propongo un pezzo nato proprio dalla voglia di approdare a Lèucade:


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morte né oblio, ma solo la ricchezza d’immagini feconde rivissute da un’anima al di sopra delle povere storie del giorno. E ti rivissi, vita, con un sentire lieve e tanto amato che in ogni fatto lieto o meno lieto, ma scampato, vidi un superbo dono. Nazario Pardini

SUONI ATTUTITI Ballata cittadina: suoni attutiti dietro imposte chiuse; con note in disaccordo che aggregano il rombare di motori al pianto di un neonato, a frasi pronunciate dai passanti. Accordi abituali, talvolta uniti al canto degli uccelli, diretti ai loro nidi costruiti sugli alberi dei viali. Sonoro sottofondo che si alterna al silenzio nelle case e colma i nostri giorni. Elisabetta Di Iaconi

I petali aperti, assaporati entro il calice, sugli steli gocce di latte, braccia verdi. Sei rimasta lì, ferma con presenza ossificata, oltre gli anni e i luoghi diversi nell’aria del paese nell’ardore drammatico della giovinezza. Ti ho voluto lasciare intatta figura nella gloria del sogno e delle illusioni, al crepuscolo nei rintocchi delle campane, quando l’aria si oscura lentamente e ci si sgretola con le cose. Leonardo Selvaggi Torino

CIELO CELESTE ATTRAVERSO I VETRI Cielo celeste attraverso i vetri e trasognate grida di gallo in lontananza; un autocarro romba nel polverone. Ogni mattino è un sole di speranza Luigi De Rosa (Rapallo, Genova)

Roma

FARFALLA NELL’ARIA La faccia adolescente genuina ha le lentiggini sulla delicata pelle. Tutta la primavera si diffonde, tutto l’azzurro è trapuntato dal giro delle farfalle. L’eterna fidanzata nel silenzio sopra le brame del cuore. La sua persona s’estende per la piccola stanza, le vesti sono un velo sul calore del corpo vaporoso. La raccolta delle delizie nel canestro felice. Nel nido di piume il flessibile groppo di carne si prende. Scoperto l’ovale candido: la profondità delle curve la purezza lineare di un giunco, il fiore dei ricordi.

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È in uscita

CLAUDIA TRIMARCHI

LA FUNZIONE CATARTICA E RIGENERATRICE DELLA POESIA IN DOMENICO DEFELICE Il Convivio Editore


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LAURA PIRDICCHI OLTRE di Tito Cauchi

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AURA Pierdicchi è nata a Venezia e vive a Mestre, ha al suo attivo un’ intensa partecipazione a eventi culturali; è presente in molte riviste letterarie come saggista e oggetto di recensione; ha pubblicato tredici libri, tra cui Oltre, di cui ci occuperemo. Sandro Gros-Pietro, l’editore, nella prefazione indica due fili rossi uno riguarda “la nozione inafferrabile del tempo” o il “non tempo”, in cui i ricordi sono in continua mescolanza perché la Poetessa riesca a leggersi diversificandosi; così che l’oltre del titolo debba essere interpretato come modo nuovo di leggere la realtà secondo la fantasia e non secondo la materia. L’altro filo rosso riguarda l’amore verso il marito pittore Franco Rossetto, con il quale ha condiviso un’intesa culturale durata cinquant’anni. Altresì avverte che

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l’elemento autobiografico non è invasivo, né egotico “ma piuttosto propositivo di tematiche che investono l’universalità dei fenomeni e delle persone.”; la Poetessa con onestà alza un canto d’amore all’uomo eletto compagno della sua vita, e in questo si annovera tra le migliori poetesse italiane contemporanee. La raccolta non poteva che essere dedicata al marito, Franco, del quale cita un pensiero del 1962, “Amo il mondo più del mondo perché è un’amara gioia”. Le pagine non riportano titoli; i versi vergati possono essere intesi come frammenti di un discorso unico, senza costruzione prefabbricata, diciamo un monologo o una lunga confidenza. Le riproduzioni artistiche sono di K. B. Rossetto; tre citazioni di Emily Dickinson aprono, chiudono e costituiscono il corpo della silloge. Un brano d’apertura cita “Ora accompagno la tua solitudine/ per riempire il baratro che incombe.” I pensieri della Donna sono rivolti al marito assente, al quale descrive i suoi stati d’animo; non c’è né un prima, né un dopo. Gli parla delle emozioni, delle percezioni che ha del mondo esterno, interiorizzate: tutte le cose le parlano di lui. Alterna ricordi, evoca i momenti più delicati, più belli, la loro complicità. Sono attimi fermati ed eterni nel contempo, oltre la dimensione temporale, ma anche i più tristi di cui non riesce scrollarsi: “Ti hanno messo il vestito migliore/ per sposarti con fuoco-/ le fiamme hanno danzato/ sulla tua carne fredda” (pag. 24). Momenti di vita vissuti insieme a contemplare le bellezze del mondo, come un campanile, la luna, il mare. Comprende da se stessa di avere tanti pensieri che si intrecciano ma non in un ingarbuglio; anzi si intrecciano in una storia d’amore, ricca che non sai da dove cominciare a raccontare; ti rimane il sogno della notte per goderne della bellezza, per viverne gli istanti, tutti. Adesso cancellati. Si sveglia la donna che è in lei, la sua umanità, il suo bisogno di sentire la presenza di lui. Il suo spirito invoca lo spirito dell’altro, ne avverte l’alito, il calore; in uno sforzo oltre i limiti umani fisici, sente materializzarsi i due spiriti, sino ad avvertirne il contatto.


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Laura Pierdicchi è consapevole che si tratta di mera illusione, perciò rimane con un tonfo dentro allo stomaco: “Lo so che non paga/ sposare il martirio-/ che tutto e niente trascorre./ (…)/ Lo so/ ma ignoro l’antidoto.” (pag. 45). La Poetessa, nel palcoscenico della vita immaginato, assume una finzione per celare il dolore che ha dentro, costruisce un “non tempo”. Ho apprezzato la semplicità espressiva di una storia d’amore, qui racchiusa: “Eravamo sconosciuti/ quando incontrai il tuo occhio/ fisso sul mio/ nel consueto bus giornaliero// Non ero ancora maggiorenne/ ma già ti attendevo/ per un vuoto da colmare// Sceso alla mia fermata/ mi hai fermato/ e per mezzo secolo/ sei stato lo scopo del risveglio.” (pag. 58). Ho sorvolato sui versi più dolci, preferendo quelli meno aulici come ‘groviglio, catene incrociate, catena di cause e di effetti’, che restituiscono una dimensione umana. Non indugio sul l’accostamento alle grandi poetesse contemporanee, in quanto mi dà l’ impressione di una poesia cosiddetta al femminile. Io penso che la poesia di Laura Pierdicchi vada oltre tale cesellatura, la sua è poesia che può essere coniugata tanto al maschile, tanto come poesia degli affetti verso i genitori o affetti filiali, se non addirittura Poesia d’ Amore, sic et simpliciter. Preferisco concludere con la chiusa della raccolta: “Quando la sete/ trova l’acqua nel deserto// è copula astrale.”, che mi richiama i quattro elementi della vita

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(acqua, terra, aria, e il fuoco d’amore). Tito Cauchi LAURA PIRDICCHI, OLTRE, Genesi Editrice, Torino 2016, Pagg. 88, € 14,00

AL CIELO Mi tieni per mano levità, cielo; m’inazzurri gli occhi e germogli sul capo. Cielo, riva sterminata del cielo che s’incrina, di spazi che adombrano. Innanzi a te tutto rimpicciolisce e quasi muore. Cielo, vertice del murato carcere, la vita. Rocco Cambareri Da Da lontano, ed. Le Petit Moineau, 1970

FARFALLA ODISSEA S’adagia sulla luna una farfalla odissea: si dilunga la Terra. E un soffice altalenare rapisce a celesti continenti, alba d’un nuovo fuggire. Saremo tatuati d’azzurro, il nostro petto recherà stemmi solari e luci astrali attingeremo. Ma il guscio della sfera gravita sul cuore. Quale nocchiero tesserà corone di mani intrecciate? Rocco Cambareri Da Da Lontano, ed. Le Petit Moineau, 1970


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Sull’IRRIDUCIBILITÀ DEL POETICO di Susanna Pelizza

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“trasmettere cultura”, si distingue, quindi, con l’imprescindibilità di un senso che sta al di là delle nostri più comuni ed equivoche opinioni. Susanna Pelizza

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A Poesia può di nuovo intervenire nell’uniformità mediatica, separando i vari saperi. Per cui se tutto fa parte di un sapere collettivo è pur tuttavia giusto, differenziarne le varie attività dello spirito, come la filosofia, la prosa, la cronaca, il teatro, la musica, e in ultimo la Poesia. In che cosa si differenzia la Poesia dalle altre arti? La Poesia è un processo culturale nel senso che la sua struttura trasmette “rimandi” che la rendono “irriducibile” a qualsiasi omologazione. Il suo senso non può essere “spettacolarizzato”, manifesta una sua irriducibilità e particolarità, nel suo essere conforme a un principio di cultura. La Poesia non ci aiuta a vedere meglio la realtà: c’è per questo la Filosofia e la Psicanalisi. La lirica, invece, ci aiuta a vedere meglio la cultura. Ci educa e ci istruisce su un “senso” che diventa il Senso Universale di un sapere comune e condiviso per cui se nella mia poesia rivisito il “tanto caro mi fu questo ermo colle”, la “spazialità del rimando”, il senhal arricchisce il mio sapere, con la ripresa non spettacolarizzata e non soggetta alla trasfusione mediatica, quindi con il “risveglio di un luogo letterario assopito”. La poesia esistenziale si differenzia dalla poesia culturale: la prima produce sensazioni, come una “melodiosa canzonetta cabarettistica”, l’altra spazia il nostro intelletto come un enigma del cruciverba. La poesia esistenziale può imperniarsi di contenuti cabarettistici può produrre una fusione tra psicanalisi e filosofia, spettacolo, musica, può essere malleabile come creta e riducibile a qualsiasi procedimento di omologazione in corso, può essere colloquiale e vicina alla prosa, soggetta a qualsiasi trasformazione. Molta poesia esistenziale non si distingue dal puro fatto di cronaca, dal linguaggio comune e occasionale del quotidiano. La poesia culturale manifesta una sua particolare irriducibilità che sta nel

D. Defelice: Tre vasi (biro e pastello, 1981)

In fase di stampa presso le Edizioni EVA:

AURORA DE LUCA ASPRA TERRA E CREAZIONE FERTILE NELL’OPERA DI DOMENICO DEFELICE


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Comunicato STAMPA XXVI Edizione CITTÀ DI POMEZIA L’Editrice POMEZIA-NOTIZIE - via Fratelli Bandiera 6 - 00040 Pomezia (RM) - Tel. 06 9112113 – E-Mail: defelice. d@tiscali.it internet: http://issuu.com/domenicoww/docs/ - organizza, per l’anno 2016, la XXVI Edizione del Premio Letterario Internazionale CITTÀ DI POMEZIA, suddiviso nelle seguenti sezioni : A - Raccolta di poesie (max 500 vv.), da inviare fascicolata e con titolo, pena esclusione. Se è possibile, inviare, assieme alla copia cartacea, anche il CD; B - Poesia singola (max 35 vv.) ; C – Poesia in vernacolo (max 35 vv.), con allegata versione in lingua; D - Racconto, o novella (max 6 cartelle. Per cartella si intende un foglio battuto a macchina – o computer - da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1800 battute. Se è possibile, inviare, accanto alla copia cartacea, anche il CD); E – Fiaba (max 6 cartelle, c. s., lettera D); F – Saggio critico (max 6 cartelle, c. s.). Non possono partecipare alla stessa sezione i vincitori (i Primi classificati) delle trascorse Edizioni. Le opere (non manoscritte, pena l’ esclusione), inedite e mai premiate, con firma, indirizzo chiaro dell’autore e dichiarazione di autenticità, devono pervenire a Domenico Defelice – via Fratelli Bandiera 6 - 00040 POMEZIA (RM) - e in unica copia - entro e non oltre il 31 maggio 2016. Le opere straniere devono essere accompagnate da una traduzione in lingua italiana. Ad ogni autore, che può partecipare a una sola sezione e allegare un breve curriculum di non oltre dieci righe, è richiesto un contributo di 20 Euro per la sezione A e 10 Euro per le altre sezioni, in contanti assieme agli elaborati (ma non si risponde di eventuali disguidi) o da versare sul c. c. p. N° 43585009 intestato a :Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00040 Pomezia (RM). Le quote sono in

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euro anche per gli autori stranieri. Sono esclusi dal contributo i minori di anni 18 (autocertificazione secondo Legge Bassanini). Non è prevista cerimonia di premiazione e l’operato della Commissione di Lettura della Rivista è insindacabile. I Premi consistono nella sola pubblicazione dei lavori. All’unico vincitore della Sezione A verranno consegnate 20 copie del Quaderno Letterario Il Croco (supplemento di Pomezia- Notizie), sul quale sarà pubblicata gratuitamente la sua opera. Tutte le altre copie verranno distribuite gratuitamente, a lettori e collaboratori, allegando il fascicolo al numero della Rivista (presumibilmente quello di ottobre 2016). Sui successivi numeri (che l’autore riceverà solo se abbonato) saranno ospitate le eventuali note critiche e le recensioni. Ai vincitori delle sezioni B, C, D, E, F e ai secondi classificati per ciascuna sezione, verrà inviata copia della Rivista - o del Quaderno Letterario Il Croco - che conterrà il loro lavoro. Per ogni sezione, qualora i lavori risultassero scadenti, la Commissione di Lettura può decidere anche la non assegnazione del premio. La mancata osservazione, anche parziale, del presente regolamento comporta l’ automatica esclusione. Foro competente è quello di Roma. Domenico Defelice Organizzatore del Premio e direttore di P. -N. Vincitori della SEZIONE A delle precedenti edizioni: Pasquale Maffeo: La melagrana aperta; Ettore Alvaro:Hiuricedhi; Viviana Petruzzi Marabelli:Frammento d’estate; Vittorio Smera: Menabò; Giuseppe Nalli: A Giada; Orazio Tanelli (USA): Canti del ritorno; Solange De Bressieux (Francia): Pioggia di rose sul cuore spento; Walter Nesti: Itinerario a Calu; Maria Grazia Lenisa: La ragazza di Arthur; Sabina Iarussi: Limen; Leonardo Selvaggi: I tempi felici; Anna Maria Salanitri: Dove si perde la memoria; Giuseppe Vetromile: Mesinversi; Giovanna Bono Marchetti: Camelot; Elena Mancusi Anziano: Anima pura; Sandra Cirani: Io che ho scelto te; Veniero Scarselli: Molti millenni d’ amore; Sandro Angelucci: Controluce; Giorgina Busca Gernetti: L’anima e il lago; Rossano Onano: Mascara; Fulvio Castellani: Quaderno sgualcito; Nazario Pardini: I simboli del mito; Rodolfo Vettorello: Voglio silenzio; Isabella Michela Affinito: Probabilmente sarà poesia.


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I POETI E LA NATURA - 54 di Luigi De Rosa

Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)

“La chitarra” di Federico Garcia Lorca (1898-1936) Con Garcia Lorca ci affacciamo (anche se solo per un attimo) sul fiorito mondo della Poesia Spagnola. Il nome completo del poeta spagnolo era Federico del Sagrado Corazòn de Jesus Garcia Lorca. Ma qui lo chiameremo solo col cognome. E ricorderemo che era non solo poeta ma anche scrittore, intellettuale, drammaturgo; anzi, era anche pianista, libero pensatore e disegnatore, con spiccato interesse, oltre che per la poesia, per la pittura e per il cinema. Sono infatti noti i suoi rapporti con Salvador Dalì, Juan Ramòn Jimènez, Pablo Neruda, Luis Bunuel. Nonché la sua appartenenza al Gruppo Generazione del '27. La sua ecletticità e poliedricità fa sì che le sue opere rappre-

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sentino punti d'arrivo importanti non solo per la letteratura spagnola, ma anche per quella mondiale. Tra le sue opere sono molto note Romancero Gitano, Yerma, Nozze di sangue, Mariana Pineda, La casa di Bernarda Alba. Forse il suo capolavoro è Poeta en Nueva York, scritto dopo un soggiorno alla Columbia University, negli Stati Uniti. Garcia Lorca ha cantato con inesausta passione la vita, l'amore, la morte, le piante, gli agenti atmosferici, il Paesaggio esteriore e interiore, pescando a piene mani nella Natura le sue immagini originali e affascinanti sui fiori, la terra e la sabbia, il mare, la felicità e il sangue, il cuore paragonato ad un'isola nel mare della solitudine, il cielo infinito a coprire pietosamente la grande tragedia della vita umana. Dopo una vita infelice a causa di una fortissima depressione che lo aveva colpito per la sua omosessualità, ebbe una morte violenta e prematura, a soli 38 anni. Perché si era schierato a favore della Spagna repubblicana. Ed in quanto “ di sinistra, omosessuale e massone” fu, infatti, assassinato da appartenenti allo schieramento vicino al futuro Dittatore della Spagna Francisco Franco, subito dopo il golpe e la presa del potere. Aveva quasi prevista una propria morte imminente e “pubblica”, quando aveva scritto: “...Cuando yo me muera enterradme bajo la rena en una veleta...” Naturalmente, da buon poeta, e per giunta spagnolo, non avrebbe potuto non amare la musica dello strumento nazionale, la chitarra. E proprio alla chitarra aveva dedicato una delle sue liriche, condensando voci della Natura e voci di un cuore desolato: “ Incomincia il pianto della chitarra. Si rompono le coppe dell'alba. Incomincia il pianto della chitarra. E' inutile farla tacere. E' impossibile


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farla tacere. Piange monotona come piange l'acqua come piange il vento sulla neve. E' impossibile farla tacere. Piange per cose lontane. Arena del caldo Meridione che chiede camelie bianche. Piange freccia senza bersaglio la sera senza domani e il primo uccello morto sul ramo. Oh, chitarra, cuore trafitto da cinque spade.”

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Recensioni Luigi De Rosa BOZZETTI MARIA RITA L’ALTRO REGNO Edizioni Polistampa, Firenze, 2015, € 7,00

VAGHE FIGURE Come folgorazioni, che all’improvviso brillano nel cielo, vaghe figure vanno a rifugiarsi in attimi di tempo. Volti dimenticati? Fisionomie riemerse dall’inconscio? O sogni frantumati? Rimaste nei circuiti della mente, affiorano ogni tanto e accrescono il mistero della vita. Elisabetta Di Iaconi Roma

DISPERSO Lo sguardo alzò dall’orizzonte lo sperduto, come se chiedesse aiuto, come se fosse muto. Lo sperduto correva, camminava, strisciava, scappava da qualcosa, qualcosa d’arrabbiato, nella sua mente costipato: ritrovarsi all’orizzonte immobile, svuotato. Carlo Trimarchi Frascati (RM)

Un profondo amore per gli animali, da lei sentiti come esseri a noi vicini nel comune destino del nascere e del morire e capaci come noi di sofferenza, è ciò che ha mosso Maria Rita Bozzetti a scrivere le poesie de L’altro regno, da poco apparse presso le Edizioni Polistampa di Firenze. In particolare questa poetessa ama i gatti, per i quali prova una forte attrazione, come avvenne per Caterina, “una gatta senza particolari pretese di bellezza”, una randagia, che però sapeva comprendere “quanto di falso e di duro / si nasconda nel cuore umano” e leggervi anche quanto vi sia di oscuro. Scappava a volte, allontanandosi su vie misteriose, “come un figlio che tenta l’avventura”; ma poi faceva ritorno e accorreva al richiamo della sua amica, incrociando fidente il suo sguardo. Difficile era addomesticarla, trasformandola “da randagia a gatta con padrone”, abituarla ad avere una stabile dimora. Aveva un sonno agitato, animato da “miagolii muti” e “moti involontari”. Talora sonnecchiava “vigile, in attesa”; ma alla sua amica il guardarla dava come un senso di tranquillità; quasi l’emozione di sentirsi “in rocciosa appartenenza al mare della vita”. Oltre a Caterina però la Bozzetti ama anche altri animali, come le rondini, di cui avverte la presenza allorché “Sfreccia un garrito / e poi si apre a corolla / in voli e canti divisi”; così come ama una picciona che cova e sembra indifferente a ogni richiamo, “immolata / ad un destino più grande, / quello di


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dare vita ai suoi figli” o come ama i gabbiani, il cui volare è “ forza che trasforma l’inerte azzurro / in acrobatica pista per supreme picchiate” e persino lo scarafaggio, “brutto magari buono”. E poi c’è Car, il trovatello che ha fatto compagnia alla sua padrona per otto lunghi anni, fedele come sanno esserlo i cani, sempre in attesa di un suo sguardo o di una sua carezza. Ciò che meglio la Bozzetti coglie negli animali è la sofferenza nella lotta per la vita; una sofferenza che ella cerca di alleviare offrendo ai suoi amici cibo e affettuosa simpatia: “Ho visto la rossa coda / dietro una pallina bianca / in fuga dentro un tubo di fognatura: / ho conosciuto il tuo lamento” (Gattino); “Il mio richiamo, / un verso delicato sussurrato / quasi una carezza trascinata dalla voce, / ti ha incantato oltre lo steccato della paura” (Il mio richiamo); “Tardi sono venuta / per sfamarti: / già la sera imbrigliava la vista / … / ho incrociato il tuo cucciolo sguardo” (Tardi). La parola della Bozzetti è sempre limpida e netta; procede con naturalezza, ma ha accensioni improvvise se più intensa è l’emozione che la muove: “Anche oggi mi hai aspettato. / E’ consueta la sera / e su sponde diverse fissa l’incontro” (Sempre … micino); “Quegli occhi piccoli che grande / vedono il futuro nel mio sguardo” (Il musetto); “Forse oggi prenderà il volo / il piccolo colombo nato sul mio balcone” (Piccolo colombo). Racconta l’autrice in alcune pagine poste a conclusione della raccolta che l’ha spinta a scrivere queste poesie “un desiderio sempre più forte di stare vicino a questi inquilini del mondo, di sentirne il respiro, cercare di capire il (loro) modo di essere”. E a sua volta Franco Manescalchi nella sua puntuale presentazione del libro osserva che “Qui sono registrati attimi di vita che, concatenati, danno luogo allo svolgersi della vita sotto lo sguardo attento della poetessa che si immedesima in quel mondo fino alla ricomposizione creaturale”. Invero ciò che maggiormente s’avverte in queste pagine è il grande amore per la vita, che le pervade e che trova la sua più compiuta espressione specialmente in alcune poesie poste verso la fine della raccolta, come Avanza la vita, che ha questo incipit: “Avanza la vita e sfonda / perimetri tranquilli e limiti precisi, / e nel caos riprende spazio e tempo”; Parlare nel silenzio, che termina con un verso altamente positivo e vitale: “di un segno forte di vita”; L’amore per un diverso, l’ultima poesia della silloge, dove si parla di “provvidenza di vita” e che così si conclude: “Amore è la tua presenza / che è logos del mio tempo / come artefice di pensieri / in slancio di vetta infinita”. E’ questo il messaggio che Maria Rita Bozzetti ci

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manda; un messaggio nobile e schietto; certamente degno di trovare l’ascolto e il consenso dei suoi lettori. Elio Andriuoli

FILOMENA IOVINELLA ODI IMPETUOSE Il Croco/ Pomezia-Notizie, Febbraio 2016 Filomena Iovinella nativa di Frattamaggiore (Napoli, 1969), risiede a Torino sposa e madre. Di formazione tecnico-commerciale, svolge l’attività professionale amministrativo-contabile; si dedica agli studi filosofici e alle sue passioni artistiche (musica e cinema). In particolare la sua passione più intima è la poesia, con la quale ha conseguito buoni risultati come dimostra la raccolta Odi impetuose, vincitrice del 2° Premio Città di Pomezia 2015. Su questa silloge Domenico Defelice evidenzia “Un io sdoppiato che duella con se stesso” già fin dal titolo che si lascia modellare in “odi impietuose” senza con ciò alterarne il contenuto; un contenuto, si badi, dalle mutevoli sfaccettature poiché solletica in modi diversi la sensibilità dei lettori. La stessa Poetessa nella prefazione chiarisce che le sue Odi sono come l’aria che respiriamo e che ci parlano da un “palcoscenico”. La silloge apre con l’eponima che mi sembra un concentrato di sensi e controsensi, fantasia e consapevolezza; qui come altrove, procede in stato di ansia e di attesa ed è presente il refrain dove l’ argomento viene ripreso e variamente modulato tra sogno e realtà: “Le porterò con me queste fiamme, universo/ (…)/ muovermi mi fai sulle tavole da palcoscenico/ (…)/ recito, sento, affogo la voce/ lascio triplicare nell’aria l’alone misterioso/ delle deliziose e impetuose odi di cuore, il mio/ Le porterò con me queste fiamme, universo.” La ode occupa tutti i pensieri di Filomena Iovinella, segnandone la vita, la gioia e il tormento. In altre parole la Poetessa leva un’ode all’ode stessa, si apre e si chiude ad essa, si apre e si chiude al mondo; credo che nel suo mondo immaginifico si confondano sentimenti dell’essere e del non essere, superando la materia e divenendo solo spirito, forse anche alla ricerca di un chiarimento. Con un pizzico di compiacimento si abbandona al sentimento che la pervade: “sono stata felice di averti incontrata, ode/ si muove il mondo tra la gente che non sa di me/ si ferma la mente nel mio micro mondo/ tra la gente che sa di me.” (pag. 11). Ed è così che preferisco immaginarla. Tito Cauchi


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ANNAVINCITORIO BAMBINI 2° Premio Città di Pomezia 2015 - Ediz. Il Croco/ Pomezia-Notizie Gennaio 2016 Bambini è raccolta pubblicata nell’agile quaderno di sedici pagine, risultata vincitrice del 2° Premio Città di Pomezia 2015. Autrice ne è Anna Vincitorio, poetessa napoletana vissuta quasi sempre a Firenze che per formazione di studi ha insegnato materie giuridiche; vanta la pubblicazione di una ventina di volumi poetici, oltre che di saggi critici e traduzioni. Domenico Defelice nella presentazione, riferisce dell’immagine del piccolo naufrago trasportato a riva “con maglietta rossa e jeans” che ha fatto il giro del mondo, giorni e giorni, commentando che è “Un autentico sfacelo umano, al quale la Vincitorio impronta anche lo stile, con versi brevi e lacerati, spesso atoni, una punteggiatura volutamente scarsa, asfittica, dove a mancare è specialmente il punto fermo per dare il senso del soffocamento”. Bambini è chiaramente ispirata alle giovanissime vittime soprattutto dei nostri tempi: uccisi, brutalizzati, commercializzati; o che imbracciano armi pesanti o schiavizzati nei campi di lavoro, anche in Italia. Nella loro vita non c’è alcun peluche, non una festa, nessun gioco fra i prati fioriti, nessuno spettacolo goduto della natura, nessun abbraccio: vita e morte sono fuse. La Poetessa rivolta al ‘Bambino in guerra’ commenta: “Non vi stringono al seno,/ orfano il corpo,/ conche vuote le mani”. Contrastano i reportage che spesso portano lustro e denaro solo agli autori. Anna Vincitorio ha attinto nelle cronache, purtroppo divenute giornaliere, facendo rivivere le tragedie di cui s’è detto sopra. Il premio assegnato ha scorto pregi nascosti confermando la presenza di coscienze dormienti; tuttavia credo che rischi di porsi tra cronaca e retorica, poiché i notiziari ne sono pieni. Nondimeno merita di essere ricordato il piccolo siriano di tre anni Aylan Kurdi, portato alla deriva sulla costa turca il 3 settembre 2015, come un minuto relitto che solo la pietà del soldato che lo ha preso in braccio, lo ha consegnato alla dimensione umana; né va dimenticato il fratellino Galp Kurdi di cinque anni, che lo ha seguito nella tragedia. Ulteriori commenti rischierebbero di farci avvitare inutilmente. Conclude bene la raccolta: “Per queste ali d’angelo recise/ non basterebbe il mare/ Solo pietà rimane/ alle sue sponde”. Tito Cauchi

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ZHANG ZHI & LAI TINGJIE WORLD POETRY Yearbook 2014 (263 Poets, 100 Countries and Areas) Editors in chief Zhang Zhi & Lai Tingjie, P. R. China 2015, Pagg. 430, USD 60.00, € 50.00 Da qualche anno vede la luce l’Annuario Mondiale della Poesia (l’antologia World Poetry) stampato in Cina per iniziativa di Zhang Zhi e Lai Tingjie, importanti poeti e critici cinesi, presenti entrambi in questo Yearbook 2014, ottimamente strutturato. Essi hanno un curriculum di tutto rispetto, con numerose opere e la presenza in molte antologie; accademici di istituzioni letterarie e scientifiche internazionali; sono tradotti in varie lingue e presenti in molte antologie. Precisamente Zhang Zhi è nato nel 1965, in Phoenix Town of Baxian County, Sichuan, ha assunto il nome in inglese di Arthur Zhang e per le sue composizioni usa lo pseudonimo di Diablo; laureato in Lettere ha svolto varie professioni; è presidente della International Poetry Translation and Research Centre (IPTRC); editore di The World Poets Quartely (multilingua). Lai Tingjie è nato nel 1970 in Maoming, Guangdong Province, “calligrapher and musician in contemporary China”. Fra i membri della redazione riconosco i seguenti autori-poeti, noti ai lettori di PomeziaNotizie, come: Adolf P. Shvedchikov (Russia), Giovanni Campisi (Italia), Nadia-Cella Pop (Romania), R. K. Singh (India), Teresinka Pereira (brasiliana residente negli USA), Zacharoula Gaitanaki (Grecia). I poeti antologizzati sono presenti con una foto, un breve curriculum e alcuni componimenti. Gli italiani inseriti sono: Alberto Rizzi, Anna Maria Bracale Ceruti, Corrado Calabrò, Domenico Defelice, Elio Andriuoli, Francesco Manna, Lidia Chiarelli, Raffaele Ragone, Tito Cauchi. Le antologie hanno il merito di disporre di un ventaglio di autori che si mettono a confronto, ciascuno nella sua dimensione poetica, offrendo così il panorama culturale e il fermento spirituale di un gruppo variamente identificato per appartenenza ad un’epoca o ad un’area geografica. A maggior ragione la World Poetry Yearbook 2014 riunisce sotto lo stesso cielo tutti i poeti del mondo, facendoci sentire cittadini cosmopoliti e realizzando l’ambizioso progetto di fare sentire fra gli uomini la fratellanza e la pace. Zhang Zhi e Lai Tingjie sono encomiabili divulgatori che meritano tutto il sostegno. Tito Cauchi


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EMILIA BISESTI PAGINE ERRANTI Genesi Editrice, Torino 2015, Pagg. 64, € 10,50 Emilia Bisesti originaria di Roma (nata nel 1967), è sposa e madre di due figli, è innamorata della vicina città di Pomezia, sì da essere presenza attiva da venticinque anni, nella Associazione Coloni di Pomezia; in questa, promuove la mostra d’arte “Anime oltre l’Autismo” in collaborazione con il figlio Davide, autore dell’immagine di copertina. L’ Autrice spiega che le sue Pagine erranti risentono della “effimera esistenza marcata da malanni, turbamenti e speranze stroncate a metà”. Sandro Gros-Pietro, l’editore, giudica multiforme la poesia della Nostra, il cui viaggio interiore comprende gli affetti familiari entro la cornice della natura nel segno di una devozione al Creatore e del culto della città di Pomezia, ricordando le fatiche dei coloni fondatori (nel 1938). Domenico Defelice, nella prefazione, evidenzia nella Poetessa “intima vena di dolore e pessimismo” che non riesce a superare avendone realisticamente motivo, richiamando la piccola Klara costretta a vivere sulla sedia a rotelle, del celebre romanzo di Johanna Spyri, vicenda resa più nota dalla serie televisiva Heidi dove viene detto che la Fede può smuovere gli ostacoli. Emilia Bisesti è sfiduciata, nondimeno le sue evocazioni della natura riflettono religiosità, così riversa il suo amore nella famiglia e nell’umanità intera. Ella ha molto da dire, sì che le poesie scorrono lunghe e polisillabe, come un fiume dalle ampie anse. Significativa mi sembra la poesia d’ apertura; le due strofe di inizio e di chiusura, ci dicono: “Le prime brezze di Novembre/ son tornate un’altra vota/ ed il vuoto nell’anima/ mi consuma a poco a poco./ (…)/ Il vento mi liscia il volto,/ l’aroma dei cornetti caldi mi consuma,/ il mio passo è veloce e corre/ al ritmo del battito del cuore,/ che rimbomba tutto intorno.” Osserviamo un alternarsi di stati d’ animo, che vanno dalla afflizione al benessere; la strofa di apertura contiene immagini meteorologiche e allusive (mese freddo e dedicato ai morti), nel ritmo unico per mancanza delle pause (o delle virgole); mentre all’opposto si presenta l’ultima strofa in cui la voce è costretta a zoppicare, come un singulto. La Poetessa si rivolge a suo figlio con tono colloquiale ed esortativo, infondendogli coraggio e anelando ella stessa una pace che non trova; preoccupata ne vede il volto “ragazzo, quasi uomo” il cui sorriso è rimasto immutato. La vita si colora dei festoni natalizi, eppure questo le raggela le aspettative sul futuro, non risparmiandole le spine nel cuore. Il

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suo è un dialogo interiore i cui destinatari sono soggetti diversi ma riconducibili ad un solo motore: l’amore, soprattutto verso il figlio; e che riversa attraverso una micia, che sembra solidarizzare con lei. Tutta la vita è come una preghiera; nostalgia di un tempo che non torna. Un motivo ripetuto come una preghiera è la voce rivolta a un grande amore “Sei tormento ed estasi,/ amore mio!” (pag. 20). Presta la voce a Er regazzino, che mi pare riveli tanta umanità e verità: “Eh… mi fratello, furbo,/ quanno non c’à voja de studià,/ subbito dice a mi madre/ che vò giocà co me,/ (…)/ Guardami nell’occhi/ e dimme: Nonno, mio, bello,/ e ancora come te chiami?/ Io quarche vorta je risponno/ E lui come mi madre, mi padre e tutti l’antri/ fanno l’ occhi lucidi;” (pag. 25). In queste condizioni di mille emozioni, di pathos, si impone riconoscere una dimensione alle cose che ci circondano; si aspira ardentemente una sosta che dia serenità. Nella vita di molti di noi esiste una sorta di finzione in cui ciascuno svolge un ruolo suo malgrado: “Noi due sempre sul filo di lana…/ noi due, maschere di una società scellerata,/ noi due onesti fino all’osso/ alla ricerca del meritato riscatto./ Noi due sognatori fino in fondo,/ anche quando il sonno ci ruba il respiro;” (pag. 30) Alla ricerca della Musa ispiratrice, la trova nell’ immagine esotica delle donne vestite di bianco per le vie di Algeri, ma anche fra le terre rese fertili dell’agro pontino, e dagli affetti dei suoi avi. Ed oggi riversa il suo affetto alla sorellina, al nonno Luigino; senza dimenticare di celebrare nei memorial, Mario D’Ottavi e Maria Versari. Il tempo è scandito dalle stagioni che la Poetessa sente su di sé; ma soprattutto mi sembra che viva la stagione dei lavori sui campi, dove si raccolgono i covoni, simbolo di fatica e di attaccamento alla terra pontina. Ha tanta bellezza dentro, ma la sua gioia si strozza in gola. In chiusura dopo la tempesta, gli ultimi versi lasciano sperare:“Un sorriso improvviso/ placa lo scontro furibondo,/ gentile, malizioso e dispettoso/ quello di mio figlio.” Tito Cauchi ACCADEMIA COLLEGIO DE’ NOBILI POETI ITALIANI DEL NOSTRO TEMPO Anscarichae Domus, Scandicci (FI) 2015, Pagg.166, € 10,00 Poeti italiani del nostro tempo è antologia del biennale Premio Internazionale “Danilo Masini” (1905-1995), avente per tema “Poesia e Vita”, giunto alla 10a Edizione 2014, organizzato con la collaborazione di altre strutture di Montevarchi


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(Arezzo), associazioni culturali, musicali e sportive, in omaggio al poeta che vi ebbe i natali; quindi nel ventennale della sua scomparsa. Nutrito e qualificato è il numero dei giurati. La prefazione è a cura del Presidente dell’ Accademia, Marcello Falletti di Villafalletto, il quale spiega che il tema proposto poesia e vita, è stato ampiamente condiviso dai partecipanti. Diffusamente descritta è la cerimonia che ha visto molti protagonisti, nell’articolo ripreso dalla rivista L’ Eracliano, organo ufficiale dell’Accademia, nuova serie anno XVIII, N. 201-202-203, X. XI. XII. MMXIV. L’Antologia comprende 124 autori raggruppati in tre sezioni: poesia inedita con 76 poeti (36 donne, 40 uomini); poesia libro edito con 38 poeti (20 e18); poesia inedita giovani con prevalenza di 9 poetesse e 1 solo giovanotto. I poeti sono antologizzati secondo questo criterio: in ordine progressivo i classificati fino al 10° premio; in ordine alfabetico a seguire gli altri. Generalmente i poeti sono presenti con un solo componimento; alcuni anche con breve scheda biografica. Da quest’ultima, per quanto è dato espresso, deduciamo la variegata provenienza geografica nazionale e l’attività svolta dai partecipanti. Molti sono i nomi noti che si ritrovano in altre antologie e riviste, che tralascio di scrivere; sono un campione rappresentativo dei fermenti culturali e poetici che si diffondono nel nostro Bel Paese. Tito Cauchi SALVATORE D’AMBROSIO STORIA POSTALE ITALIANA Annullamenti di Terra di Lavoro (1863-1889) con valutazioni, Pesole, Napoli senza data, Pagg. 80 Salvatore D’Ambrosio è uno scrittore di spicco che figura su varie testate letterarie, occupandosi di poesia e saggistica letteraria. Adesso lo scopro in veste di storico, appassionato ricercatore di vicende amministrative investigate con acribia e puntualità normativa. Lo fa con Storia Postale Italiana, la cui fatica si restringe ad un’area geografica in Campania, la denominata Provincia Terra di Lavoro, che era composta da 238 comuni (la futura Provincia di Caserta). Prende le mosse dai timbri di annullo delle affrancature postali entro l’arco temporale del 1863-1889, rispettivamente inizio del servizio delle “collettorie rurali” (uffici postali periferici) e fine dell’uso dei “numerali a sbarre” (particolari timbri). Il Nostro apre la premessa al volumetto con la seguente affermazione: “La storia postale italiana può essere scritta solo passando attraverso la sto-

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ria delle singole regioni.” Aggiungo che non solamente la Storia Postale, ma tutte le storie, sotto i molteplici aspetti, andrebbero rivisitate considerando le singole storie regionali e locali, antecedenti la nascita dello Stato d’Italia; vedi per esempio l’ economia, la politica agraria e produttiva più in generale, i costumi stessi, il noto debito pubblico. L’ Autore spiega che “la circoscrizione amministrativa di Terra di Lavoro” è derivazione di Terra Laboris a sua volta derivata dall’antica parola Liburia, che comprendeva l’intera Campania, istituita da Ruggero II (XII sec.); l’assetto delle circoscrizioni borboniche è stato mantenuto anche successivamente all’ Unità d’Italia (1861). D’Ambrosio riporta il testo di alcune normative legislative antecedenti l’Unità, iniziando dalla Legge 1806 n. 272 (Governi compresi nei distretti di Terra di Lavoro): 1° Distretto di S. Maria, 2° Distretto di Gaeta, 3° Distretto di Sora. Dopo l’Unità, la circoscrizione territoriale dal 1868 al 1896, subisce alcune variazioni alle denominazioni dei comuni e il passaggio di alcune parti da una provincia all’altra. La bibliografia riportata in chiusura, utile per chi volesse saperne di più, avvalora l’interesse del Nostro sull’argomento. L’opera è ricca di documentazione fotografica degli annulli nell’area interessata, dell’elenco dei Comuni nell’avvicendarsi dei periodi storici dal regno borbonico a quello dello Stato d’Italia; interessante per ricercatori e curiosi filatelici. In particolare si sofferma sul servizio postale, degli annulli, entro il periodo in esame 1863-1889, nell’ambito dei cinque Circondari, che nell’ordine sono di Caserta con 14 mandamenti - 72 comuni; di Gaeta e Formia con 9 mandamenti - 39 comuni; di Nola con 6 mandamenti - 23 comuni; di Piedimonte d’Alife con 3 mandamenti - 23 comuni; di Sora con 9 mandamenti - 44 comuni. Con il nuovo ordinamento amministrativo la Provincia di Terra di Lavoro ha preso la denominazione di Provincia di Caserta. In seguito, con la Repubblica, questa Provincia nel 1948, comprende 100 Comuni. Non posso fare a meno di dire che, per associazione di termini, mi sovviene la denominazione di Terra dei Fuochi, in provincia di Salerno che si è guadagnata una cattiva fama. Tito Cauchi

LAURA PIERDICCHI OLTRE Prefazione di Sandro Gros-Pietro - Genesi Editrice, 2016 - Pagg. 88, € 14,00. È soltanto da qualche anno che è morto Franco


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Rossetto, pittore residente a Mestre, ma nativo di Tarvisio, città nella quale è stato anche animatore brillante; negli ultimi mesi del 2013 gli avevano diagnosticato un brutto male, che in breve tempo l’ha spento. Franco Rossetto era sposato con Laura Pierdicchi, poetessa e scrittrice veneziana, con all’attivo, finora, di almeno dodici sillogi di versi e un volume di racconti. Ed è al compagno - che per tanti anni l’ha sostenuta con il suo braccio e le ha acceso il pensiero con “il timbro amato”, col quale il suo “essere/era in pienezza” - che Laura Pierdicchi ha voluto dedicare Oltre, pubblicato nel febbraio 2016 dalla Genesi Editrice di Torino. Il volume reca, a colori, in copertina e all’interno, opere pittoriche di Rossetto, dalle quali si può rilevare come le due arti si somiglino: entrambi - poesia e pittura essenziali; entrambi, per certi aspetti, grovigli non facilmente decifrabili, per altri, bei tocchi coloristici e d’ immagini. Si vedano, per la pittura, i lavori riprodotti alle pagine 30 e 48 e, per la poesia, i versi di pagina 31, i quali, pur imbevuti di tristezza, non riescono ad ottundere, ad oscurare una bellezza plastica:

struggere tutto e, andando alla ricerca di una ragione, vive il “succedersi dei momenti/nel nuovo non senso/nella separatezza dello spazio”. Da ciò, l’ alternarsi di tratti nebulosi a chiarezze. Bene e male, gioie e pene di una vita trascorsa insieme, tempo e spazio, nel suo incessante scavare acquistano nuove sfaccettature come nel taglio di un diamante, divengono ora più leggibili ed ora più impenetrabili; man mano che in lei avviene la metabolizzazione del dramma, gli avvenimenti, allora vissuti come quotidianità, acquistano altro spessore, altri contorni: “la vera Realtà” - afferma - “Si comprende solo/dopo il soffio d’addio”. Ci vorranno anni ancora perché in lei tutto si chiarisca e almeno in parte si acquieti; per adesso, non riesce più a vedere lo splendore del cielo se non a tratti, negli sprazzi dei ricordi. È calata la sera, che ha il colore della sua veste e del mistero; ora, il nero è l’unico, vero colore, quello che conta; gli altri, l’ azzurro, il rosato, non hanno più senso:

Dietro il campanile del nostro paese-presepio la luna rischiara ancora

Mi resta solo la sera che si confonde in contorni di mistero

la prima stella si accende tutte le sere l’acqua del mare gorgoglia sotto la chiglia. Manchiamo solo noi nella nostra cabina a rimirare dal vetro l’ultimo paradiso. A flash, a fotogrammi mentali, la poetessa ci dà tutto il mosaico della sua dolorosissima vicenda, partendo dall’orrido delle fiamme che divorano le carni dell’amato nel rito della cremazione e risalendo ai giorni felici, allorché - ricorda ...bruciavamo di una forza stupenda. Prigionieri felici eravamo figli eletti del cielo. Ella ancora non riesce del tutto a capacitarsi di come un uragano improvviso abbia potuto di-

Del cielo il colore non è mio la luce si è spenta di questo cielo

La sera porta il colore che mi veste. La ricerca spasmodica di azioni e sensazioni, che hanno costituito il terreno cammino di due anime, che hanno “disegnato una storia/ indivisibile”, porta in superficie brandelli la cui bellezza non si percepiva all’atto del vissuto, allorché era “il destino astrazione” e non si aveva netta la cognizione che quel che si viveva “era il tempo della fiaba”. Oggi, la consapevolezza provoca un buco nel cuore un pugno allo stomaco un grido lacerante una cascata di pianto. Basterà la fede a darle certezze e un qualche briciolo di serenità? Non basterà, almeno nel breve periodo. Millenni di filosofia non sono stati sufficienti a squarciare il mistero di come sia - e se ci sia - lo stato dell’ “oltre il soffio” e, tuttavia, la poetessa anela “di unirsi al cosmo/e captare il vibrare/della (...) energia” dell’amato. Domenico Defelice


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CATERINA FELICI MATTEO E IL TAPPO Ed. Italic Pequod, 2016 - Pagg. 118, € 15,00 La brava scrittrice ci perdonerà se, trattando del suo affascinante libro, rinunciamo a scrivere del protagonista Matteo - ch’è il principale - e dell’altro protagonista il Tappo; diciamo solamente ch’è piacevole vederli agire e altrettanto sentirli parlare. La favola avvince e non è solo per adulti, visto che, per le generazioni post Porci con le ali, favole, al tradizionale, non se ne scrivono quasi più, perché più non si leggono. Non le leggono gli adolescenti, attirati dalle magie e anche dagli inferni della scienza in genere e dell’informatica; non le leggono i gradi - genitori e i nonni in particolare -, impegnati in tutt’altre faccende, in parte sempre legate alle tecnologie della modernità: “oggi, accanto al camino, più non nascono fiori di pace e il nonno, per il televisore, ha smarrito lo scrigno di fiabe”, scrivevamo su La Procellaria nell’ormai lontano 1973. E c’è di più; c’è che le riflessioni, alle quali Caterina Felici ci conduce, investono sì, gli adulti, ma alla rovescia, e, in modo più diretto, i giovani. Vogliamo dire che il gap tra le condizioni materiali ed esistenziali dell’anziano moderno e i giovani s’è ristretto di molto e che tutti ci stiamo infilando in una dimensione da non poterci più definire schiavi del lavoro, perché il lavoro manca in ogni settore e a qualunque livello; che, chi ne soffre, sono per lo più i giovani e che, per una sua giusta ridistribuzione, o prima o poi scoppierà l’incendio. E, allora, se non intendiamo trattare né di Matteo, né del Tappo e se non vogliamo svelare come finisce la favola, perché è giusto che ogni lettore arrivi ingolosito fino all’ultima pagina, di cos’altro possiamo scrivere? “Salendo sulla collina, contemplava da questa il verde di varie gradazioni, chiazzato dal giallo delle ginestre e dalle rosse distese di papaveri splendenti al sole”. “Rimase a guardare le stelle; da moltissimo tempo non le contemplava. Osservò la luna, che era in parte velata da una nuvola”. “S’impose al suo sguardo il cielo in un fulgore di colori, tinteggiato di rosso fuoco, d’arancione e di giallo dal tramonto”. “...il tappo piroettò nell’aria facendo udire il suo riso argentino, si diresse verso l’alto e sparì, come inghiottito dall’argento ossidato della sera”. “...il giardino silenzioso, il quale pareva illanguidito nelle sue lunghe ombre, nei colori sbiaditi delle piante e dei muri, emanava un senso di pace”. “contemplava i balenii d’oro del grano luccicante di sole e ondulato dal vento; nel campo oscillavano

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anche, sparsi in quel mare di spighe, l’azzurro dei fiordalisi, il rosso fiammeggiante dei papaveri”. “Gli sembravano tetre gramaglie attorno a sé le ombre degli alberi; poi, fra i loro rami, cominciò a guardare le stelle, scintillanti lontananze incastonate nel cielo...”. Vogliamo dire, cioè, della poesia che circola in abbondanza fra queste pagine; della natura nella quale Matteo e il Tappo si muovono; della scorrevolezza del dettato, perché senza enfasi, senza forzature. Il libro varrebbe la pena leggerlo solo per questo, oltre che per le pacate e acute meditazioni sulle condizioni umane della vita. Un libro appena apparso e che già ha suscitato tanti apprezzamenti, come quello di Giorgio Bárberi Squarotti, che scrive di aver “letto con grande piacere e ammirazione il romanzo, tanto avventuroso e giocoso ed elegante”; o come quello di Paolo Ruffilli: “Ho letto tutto d’un fiato “Matteo e il tappo”, favola coinvolgente e incisiva, di ottima scrittura...”; o quello, infine, di Roberto Pazzi: “Della favola “Matteo e il tappo”, della sua leggerezza e vivacità sto godendo tutto il profumo mentre mi inoltro senza alcuna fatica nella lettura del libro”. Un’opera, insomma, alla quale, assieme a Squarotti, intendiamo augurare “molti e attenti lettori”, adulti o meno non importa. Domenico Defelice

ANNA VINCITORIO BAMBINI 2° Premio Città di Pomezia 2015 - Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, Gennaio 2016 Solo nella memoria degli umili/ sopravvive primordiale innocenza Che potere, che possibilità, che senso, che missione, che forma, che significato può avere la poesia, la parola poetica, di contro a tanta disumana cattiveria? La cronaca odierna, come anche quella passata, in un circolo infinito di dolore perfetto, non fa che ‘portare a galla’ morti e stragi, bambini spezzati, uomini spezzati, donne spezzate. Un’umanità che muore nell’uomo. È l’idolo denaro, l’idolo della sopraffazione, a guidare il mondo, ma in nome di cosa, quando tutto è devastazione fisica e morale? La poesia cosa può aggiungere a così grandi bestemmie verso la vita? Può farsi piccola e insinuarsi dove c’è fango e dolore e perdita, perdere i luoghi alti e farsi sbrindellata, vestirsi di pezze, indossare occhi di pulce e praticare la notte.


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La poesia non può altro che essere, dare l’ essenza, non deve né far piangere, né rallegrare, essa però può aggiungere all’animo e al corpo biologico di chi la legge un’essenza primizia che cambia il passo. Può stare al fianco, camminarti vicino, e farsi indice che punta l’attenzione su ciò che non si è abituati a vedere. Anna Vincitorio con il suo Bambini, ha fatto la sua poesia sfilacciata e sincopata, dice Defelice in prefazione un autentico sfacelo umano, al quale la Vincitorio impronta anche lo stile, con versi brevi e lacerati, spesso atoni, una punteggiatura volutamente scarsa, asfittica, dove a mancare è specialmente il punto fermo […]. L’ha fatta tale per farla discendere nel fango, per farla stare sui barconi degli emigranti in fuga dalla guerra e della paura e che finiscono in bocca al nulla, l’ha fatta finire negli occhi vuoti e allucinati dei bambini soldato, dei bambini usati e sfruttati e venduti, che non hanno fili d’aquiloni colorati tra le mani: Bambino dov’è il tuo aquilone/ Il filo rosso/ lo ha portato via/ tra nuvole ingorde/ Tu, senza guardare, avanzi/ Tu, senza ancora saperlo, / ti prepari a morire […] – da Bambino in guerra. Risulta essere poesia-lamento, il lamento di un uomo o di una donna ormai folle, perché per la prima volta pienamente cosciente di atrocità troppo grandi, tanto che le sue parole non possono risultare eufoniche e musicali; è una poesia-lamento di veloci immagini, tute mimetiche, elmetti, kalashnikov, piccole mani, fragore, sibili di vento, acerbi fiori, inerme giovinezza, soffici capelli neri, bocche a cuore, lacrime, madri morte, invocazioni d’aiuto, un futuro senza nome, occhi vuoti… Lo sguardo del ‘folle’ salta rapidamente da una cosa all’altra, da un pensiero all’altro, da una visione all’altra, si pone domande, va indietro nella memoria, scatta avanti nel futuro, torna indietro, va in Africa, va in Russia, va a Coccaglio, in Niger, nel Mali, nella Mauritania, incontra bambole rotte e primavere che non portano speranza: Quello che resta/ è luccicore d’armi/ Piccole schiere/ presto ombre di fanciulli alteri/ nudi d’inerme giovinezza […]. È poesia-cantilena da ripetersi come un disco rotto, come un vecchio vinile incastrato spasmodicamente sulle stesse note; Dormi fanciullo sembra essere proprio una nenia, una profezia come canto monotono del folle che tutto ha visto, Dormi fanciullo/ nell’anfora fiorita/ come il ventre di tua madre/ Il pianto insegue le stelle/ e vara spazi verdi/ nell’azzurrità di cieli/ mai conquistati/ Tu sorridi, forse/ nel tuo sonno / di tempi lunghi/ come i silenzi Cosa può la poesia di fronte a chi vuol mettere un prezzo di vendita alla vita di innocenti, o con le ar-

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mi o con la legge? Se tutto può valutarsi a peso d’oro, cosa può la poesia? Essere un pezzo di carta, tenuto nella tasca da un prigioniero, capace, nella sua finitezza, di renderlo libero. Aurora De Luca

FILOMENA IOVINELLA ODI IMPETUOSE 2° Premio Città di Pomezia 2015 – Il Croco, I quaderni letterari di POMEZIA-NOTIZIE, 2016 Filomena Iovinella, scrittrice campana trapiantata a Torino, aggiunge ai suoi più recenti successi nel campo della narrativa e della poesia questa silloge, meritevole del 2° premio Città di Pomezia 2015. Domenico Defelice in prefazione insiste sull’ “io sdoppiato” dell’autrice e sulla sua tendenza per “ogni nichilismo reale o mascherato”. Esploriamo le quindici liriche, illuminate da “fiamme di complicato fuoco”, “dove la dolce ed estenuante attesa/ ha costruito in silenzio e in tormento”. Il vento, i paesaggi notturni, l’amore si rivelano solo una trama, un brogliaccio per scavare dentro di sé. Emergono paure nella natura, tra la folla e nella sua psiche: “mi sono compatita e ferita/ perpetrando nel pensare/ che illusione fosse verità/ ho gettato le basi per la solitudine”. Poi un lampo di felicità, per aver trovato la soluzione nella poesia: “e sono tra le mie odi/ sopra la nuvola/ dell’ode più bella/ avvolta nel prodigio”. E continua, sentendosi nella lirica “Il nichilista”, “un’ombra di riscossa”, mentre nella poesia di chiusura, intitolata “Felicità” sottolinea l’importanza delle suo odi, “fatte di parole semplici, odori delicati/ visioni celestiali e tormenti illuminanti”. La rarissima punteggiatura conferisce allo stile della Iovinella un suono di spezzatura voluta, di infinito nei pensieri che si accavallano. Come la scrittrice afferma in prefazione, nelle sue odi c’è la decisione “di volare, nell’incantato mistero esistenziale dell’anima”. Elisabetta Di Iaconi

ANNA VINCITORIO BAMBINI 2° Premio Città di Pomezia 2015 – Il Croco, I quaderni letterari di POMEZIA-NOTIZIE, 2016 La silloge di Anna Vincitorio ci presenta riflessioni in chiave poetica su un argomento che tocca il


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cuore di tutti: la sorte spesso tragica dei bambini, in questo mondo quasi sempre indifferente al problema. L’autrice vanta un ampio curriculum che la vede, prima impegnata come docente di materie giuridiche e poi come apprezzata scrittrice. Le sue poesie ci trasportano tra le betulle e i girasoli delle pianure russe ove si esercita la “baby armata” dei bambini in guerra. Stringe il kalashnikov tra le mani la creatura “non ancora soldato/ ma con negli occhi/ viva fame di guerra”, che non possiede più un aquilone con cui sognare. Cambia lo scenario: l’Africa, dove “non fa più notizia/ morire di Aids”, dove “corpi sempre più piccoli” si spengono “nello squallore di un letto/ ospedaliero”. Poi l’autrice posa il suo sguardo sul mondo crudele che ovunque abbandona neonati, ovunque violenta, ovunque si disinteressa dei piccoli senza famiglia, senza casa, preda della paura. La Vincitorio impiega versi franti, incisivi e si pone domande: “dove la tua innocenza?”; “cosa porti negli occhi, bambino?”; “alberga ancora/ in alcuno pietà?”. La commozione è la chiave di lettura di questi componimenti, anche dell’ultimo, ove si augura quella parvenza di pace che solo il sonno può donare. “Dormi fanciullo/ nell’anfora fiorita/ come il ventre di tua madre”. Elisabetta Di Iaconi

ISABELLA MICHELA AFFINITO PROBABILMENTE SARÀ POESIA Primo Premio Città di Pomezia 2015 - Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2015 Per una come me che è abituata alla metrica, al ritmo e alla sonorità di una poesia, leggere qualunque poesia moderna priva di tutto questo mi mette sempre in grave difficoltà, non sapendo come articolare i discorsi. Lo confesso: io ritengo che i punti e le virgole siano indispensabili anche in poesia, non solo nella narrativa, per far comprendere meglio al lettore l’intento di chi scrive. Nonostante ciò, nelle poesie (tutte che iniziano con la P) della poetessa Isabella Michela Affinito ho trovato una freschezza nei versi, anche se non sono stati vergati dalla punteggiatura. Essi sono stati scritti di getto, come lo scorrere di un fiume che talvolta è costretto a deviare anche di poco il suo corso per evitare i ciottoli o altro. Ne sono esempio quei versi volutamente terminanti con un articolo “il” o “i”, o con una preposizione “in” “sul”, che lasciano in sospeso il discorso, come talvolta accade ai bambini. Ed è proprio con

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l’ingenuità e spontaneità di un bambino che la poetessa dipinge gli elementi della terra, sia quelli animati (gli alberi, le foglie, i petali) che quelli inanimati (l’anfora, le bottiglie, le pietre), conferendo ai suoi versi quella gioiosa vivacità propria dei fanciulli. Ogni “P” è un quadretto dipinto con poche ma sapienti pennellate e, a mio avviso, “Piccolo mondo lunare” è il quadretto più riuscito, in quanto in esso il romanticismo ha ceduto il passo alla fiaba. Paolangela Draghetti

ANNA VINCITORIO BAMBINI 2° Premio Città di Pomezia 2015 - Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2016 Sono rimasta affascinata, anzi, che dico!, travolta dalla semplicità quasi cronistica, dalla schiettezza e dal puro lirismo delle poesie di Anna Vincitorio, che ha ben meritato un 2° premio al ‘Città di Pomezia 2015’. Ella ha saputo toccare con delicatezza, ma con realistico sdegno, tutti i tasti dolenti degli abusi compiuti sui minori: dalle guerre alla fame, dalla prostituzione infantile al commercio degli organi fino allo sfruttamento dei bambini sul lavoro. Bambini ai quali è stata rubata l’innocenza e il diritto di vivere un’infanzia serena. Queste sono le maggiori violenze che si possono attuare sulle loro misere pelli. Facendo leva sulla loro ingenuità, quegli adulti ingigantiscono le loro “azioni”, imbonendoli con doni fittizzi come fossero premi per cose da “grandi” e illudendoli di essere martiri e meglio dei loro coetanei. Benché io non abbia avuto figli e non abbia quindi provato fisicamente il significato di essere madre, di fronte a questi abusi inorridisco e mi metto nei panni dei genitori di quei bambini, i quali soffriranno pene d’inferno sapendo ciò che i loro figli sono costretti a subire. Mi piace inventare favole e scrivere filastrocche per tutti i bambini del mondo, e sono alquanto amareggiata per coloro che non hanno avuto e non avranno mai la possibilità di sognare una vita fantastica e piena di magia, come solo le fiabe sanno fare. Le illusioni, le speranze, le fantasticherie di quelle piccole vittime, sono cadute giù amaramente come castelli di carte per un soffio di vento. Allora... “dormi fanciullo nell’anfora fiorita come il ventre di tua madre...”, così come conclude la poetessa. Paolangela Draghetti


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ANNA TROMBELLI ACQUARO EMOZIONI SPARSE AL VENTO Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2015 Titolo davvero indovinato per questa silloge di Anna Trombelli Acquaro. Ogni sua poesia rappresenta una sua emozione, ma soprattutto in ciascuna traspare quel profondo sentimento che la lega alla madre, perno della sua esistenza, la quale come un albero si spoglia di tutta se stessa per lei. Ma la madre impersona anche la sua terra natia (la Calabria) dalla quale è partita, fanciulla, per l’Australia. E lo struggente ricordo della sua Calabria, con i suoi colori e con i suoi profumi, offusca o quasi cancella l’ azzurro mare dell’Australia. Nei suoi versi, ella manifesta una grande nostalgia per la sua casa, il suo giardino ed i suoi fiori quasi unici, affidando poi le pagine al vento (vento di Primavera) affinché le porti in Italia per mantenere vitale quel filo dei ricordi, così come ella scrive: “per riscaldarmi lì/dove c’è il sole, al mio paese natale,/dove l’alba splendida sorge/e illumina e riscalda la mia anima/con devozione e amore.” In lei c’è anche la speranza di ritornare “laggiù dove c’è casa mia...” dove “le emozioni che mi hai regalato (dice riferendosi alla madre) rivivono con nostalgia nell’anima...” La madre, la terra natìa e la casa sono per Anna Trombelli Acquaro la medesima cosa, un tutt’uno che ella mischia e impasta come i colori per comporre una tavolozza piena di immagini, di profumi e di sensazioni da portare sempre con sé. Paolangela Draghetti

PAOLO RUMIZ È ORIENTE Universale Economica Feltrinelli, 11a edizione luglio 2015 - Pagg. 198, € 8,00 E’ forte la sensazione nel pensare e soffermarsi al peso del mondo, mentre si leggono pagine narranti fughe di interi popoli, desertificazioni e nuovi assetti geopolitici, come la caduta del muro di Berlino, che spostano l’equilibro alimentando divisioni ideologiche ed antropologiche. La dicotomia del bene e del male anima dibattiti senza generare risposte concrete, cosa fare e cosa non fare, cosa è giusto cosa non lo è, e intanto parti del mondo restano sole. Se debbo dare un mio personale titolo al libro di Paolo Rumiz è questo: Il mondo che non conosce i suoi confini. Cosa c’è ad Est di noi? La mitteleuropa descritta in viaggi a tappe con vari mezzi di trasporto dal

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giornalista di Repubblica, con la sana curiosità di osservare e poi descrivere, come afferma nella frase: “mi chiedo se il narrare non nasce dall’andare”. Mix di racconti e viaggi “ in libertà” alcuni di essi già pubblicati su riviste e giornali. Il primo dal titolo “dove andiamo stando?” pubblicato sul settimanale “Diario” nell’autunno 1998 ci narra di un viaggio percorso in bicicletta lungo il confine italiano partendo da Trieste fino ad arrivare a Vienna -“rallentiamo lungo il Nashmarkt, il mercato dove comincia l’Oriente. La sera dopo lo strudel, discussione sulla vita, sul fare e sull’essere”-. “L’uomo davanti a me è un ruteno” viaggio in vagone diretto per Budapest, nell’inverno del 1999 - “ore 12,40 stazione di Villa Opicina, sosta per la frontiera…….nessuno direbbe che per questa frontiera deserta passano settantamila clandestini l’ anno, il doppio di quelli strombazzati sulle coste pugliesi” - in questo punto ti soffermi e respiri il senso di paesi bloccati al dopo regime: contadine croate, calzamaglia di lana, costumi, tradizioni, lingue lontane dall’Europa che non si avverte. “ Chiamalo Oriente” pubblicato su Repubblica insieme a “ljubo è un battelliere” il mio riporto dei titoli parte dalla considerazione che sono espressioni linguistiche molto significative, anche perché restano nella memoria del lettore. In questi due racconti sento la sottolineatura fatta, persino con naturalezza, della visione sconvolgente di un’Europa che dovrebbe essere unità al di là delle frontiere, che risulta assente da terre cosi vicine e così etnicamente rappresentanti di solo loro stessi, l’ incompletezza del progetto “comunità europea” - “ Oltre i finestrini, scorre un mondo dove tutto sembra accaduto l’altroieri, dove la storia ha l’impronta indelebile dei cingoli di un panzer, dove i treni merci hanno ancora l’odore di bestiame umano… Noi europei d’Occidente non possiamo immaginare che nel centro Europa le memorie brucino anche per mezzo millennio”-. Vorrei chiudere con un ultimo passaggio che mi lascia a ricordare la cronaca di quel di ieri, fotografia di ciò che è oggi in un altro angolo di Italia: -“la radio dice che anche stanotte, tra il faro di Sant’Andrea e quello di Otranto, sono arrivati scafisti con i clandestini dell’altro mondo. Ottanta, forse cento”Questo reportage di Paolo Rumiz, viandante errabondo, ci lascia notizie profonde che cambiano l’ intimo del lettore, rincorrendo la determinazione di non dimenticare, per ritrovarsi poi nella condizione di avere coscienza critica nel valutare gli eventi che spostano il peso del mondo, sulle coste e nell’ entroterra, di viandanti stanchi e soli lungo la strada . Filomena Iovinella


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ADALPINA FABRA BIGNARDELLI DIGNITÀ E CONDIZIONE DELLA DONNA Un cammino dalla dote ai diritti Fondazione Thule Cultura – 2015 Adalpina Fabra Bignardelli con questo interessante saggio ci riporta a quando il Pater familias sottoponeva le donne all’autorità del nonno, del padre, dei fratelli. Esse non avevano alcun diritto giuridico. Erano tenute lontano da scuole, uffici pubblici o privati, non potevano promuovere processi né per sé, né in nome di altri. Era stabilito che la donna vivesse in famiglia e che in questa trovasse il segno della sua dignità. Gli stessi S. Paolo e S. Agostino, nonostante la predicazione cristiana portasse nei cuori la speranza di un mondo migliore, dove uomini e donne avessero pari dignità, e la loro anima fosse considerata uguale e destinata all’immortalità, proponevano l’idea che la donna doveva servire l’ uomo in quanto egli era il capo ad immagine di Dio. Costretta dunque a rintanarsi tra le mura domestiche, in una vita di soli affetti familiari, la donna, curava in maniera quasi ossessiva il corredo, l’ unica cosa ad appartenerle veramente. L’Autrice ci racconta di quando, prima del Concilio di Trento, grande importanza aveva la promessa, un’usanza che la Chiesa non accettò mai. Ci ricorda anche che le leggi riguardanti il matrimonio in Sicilia, per quanto la regione fosse culturalmente elevata, rimasero più a lungo legate al mondo medievale. Ci parla della dote, quel complesso di beni che la moglie portava al marito per sostenere le esigenze matrimoniali. Il corredo era diverso per le donne e per gli uomini: per il figlio, anche nell’ambiente popolare, i genitori preparavano una serie di attrezzi da lavoro nei campi, calze, scarpe e berretti con la coppola di velluto per le feste. Mentre la sposa, completava il suo corredo durante il fidanzamento con la biancheria personale, secondo la moda di quel determinato periodo. Mentre il corredo riguardante la biancheria della casa, già preparato da tempo, veniva ricamato con le iniziali del casato del marito e successivamente esposto per essere valutato e ammirato nelle stanze della futura sposa. L’Autrice ci informa sugli usi nuziali degli Arabi e degli Ebrei, per poi concludere, riflettendo sulle motivazioni che l’hanno portata alla scrittura di questo libro, la frequenza dei femminicidi, di cui le cronache attuali sono piene. Parla di ‘prepotenza’, di ‘superiorità virtuale’ maschile che perdura nonostante il passare dei secoli e il cambiamento della società in cui viviamo. Ci lascia con un pensiero, che vuole essere anche d’auspicio, dopo ‘un cammino lungo e faticoso, fatto di ribellioni e mai completamente risol-

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to’. “Dio ha creato la donna da una costola d’Adamo, se avesse voluto l’avrebbe creata da un piede. Indicando la volontà di calpestarla. Se l’avesse creata dalla testa, avrebbe indicato di dominarla; L’ha creata dalla costola, per indicare un cammino ugualitario.” Fianco a fianco. Francesca Maiuri

TITO CAUCHI PALCOSCENICO Editrice Totem, Lavinio Lido (Roma) 2014, Pagg. 64, € 10,00 Oltre il Post-Ermetismo - “L’inquietudine è l’ anima della poesia. Lo aveva proclamato Petrarca, sulla scia di Sant’Agostino. Il Poeta, purtroppo, non ha certezze e questa paradossale condizione di privilegio gli consente di sperimentare una straordinaria confidenza e complicità con il mistero, il quale non gli si svela mai totalmente ma lancia messaggi cifrati, che la poesia raccoglie e trasmette a chi è disposto a indovinarli, a interpretarli” (Francesco D’ Episcopio su “Renzo Ricchi: l’inquietudine di un poeta” in “La Nuova Tribuna Letteraria” Gennaio 2016). Così il noto professore universitario partenopeo commentando il Poeta, rivela la matrice evidente di queste ultime poetiche che si muovono all’interno di un “post-ermetismo” la cui base evidente è di stampo luziano (in particolare il Luzi di “Subspecie umana”) orfica, ermetica e complessa. Tito Cauchi, invece, con quest’opera Palcoscenico cerca di muoversi “oltre la ripresa”, di superare l’ epigonismo (di molta parte della nostra attuale produzione) affrontando il verso nella linearità di uno stile che cerca di sfuggire all’orfismo di maniera. Come molti poeti di oggi, anche la sua poesia, è carica di mistero: ma saremmo, ancora, nell’ambito ermetico se ci limitassimo solo a questo. L’originalità, o meglio la particolarità della sua lirica, sta nell’incontro tra classico e colloquiale, tra stilema e chiarezza, tra rime dilettevoli e trattazione gnomica: un connubio che non corrode “sperimentalmente” il tessuto linguistico ma lo rafforza con una “sottile armonia”. Tito non cerca note dissonanti, convinto che il nuovo o meglio il “senso originale” vada ricercato in una “pacata quanto asciutta impostazione lirica”, nata dalla rimembranza degli accordi ritmati giocati su aperture mentali (senhal o luoghi letterari) più che sulle comuni sensazioni emotive. “Ora piana sdrucciola tronca è la rima/ ti riveli desiderosa d’ essere baciata/ bella sei alternata incrociata incatenata/ interna, pensierosa ti nascondi in stanze./


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(…)/ Concedimi il dono della freschezza/ ispirami con passione e tenerezza/ fammi sentire l’amore con una carezza” (da Poesia o vetrina, op. cit. pag. 22). E qui l’apertura, di cui parlavamo, va verso i Grandi Rimatori del Settecento che “alleggerivano” per trattare, va verso una poesia con intenti educativi e dilettevoli che cerca un colloquio con il “piacere stilistico”. Una poesia che esorbita dagli schemi puramente critici, per cui non è né orfica, né ermetica, né simbolista, né minimalista, con l’evidente padronanza di una cultura che s’impone oltre lo schema, facendo interagire “Intellettivamente” il lettore, è la “Nuova poesia di oggi”, quella che scongiura l’anatema dell’intimismo e delle vuote e quanto mai precarie, effimere emozioni. Susanna Pelizza

RACHELE ZAZA PADULA LA DONNA DI PICCHE Osanna Edizioni, Venosa, 2016, € 10,00 Dopo In dimensione acronica (Edizioni Levante Bari, 1979), Il seme del tempo (Edizioni B M G Matera, 1984), Dissolvenze (Rocco Fontana editore in Matera, 1989) e Disincantesimo (Edizioni Ermes Potenza, 1999), Rachele Zaza Padula ha recentemente (Gennaio 2016) pubblicato un nuovo libro di versi intitolato La donna di picche; un titolo di cui ella subito ci spiega il significato: “Non voglio / scoprire la donna di picche / che mi sottrarrà al sole” leggiamo infatti nella chiusa della prima poesia della raccolta e deduciamo immediatamente che la donna di picche è qui una metafora della morte. Un libro della contemplazione della fine, dunque, e di un pensoso ripiegamento interiore è questo che la Padula ci offre, in una stagione della sua vita che è quella dei consuntivi e dei rendiconti. Un libro nel quale il passato si fa avanti imperioso e il vissuto l’ assedia con le sue immagini e con i suoi richiami. Ecco allora l’affacciarsi dei ricordi della casa natale, che ritornano con prepotenza alla sua mente: “Odore di legumi sul fuoco / sapore d’inverno / di neve / di affetti perduti” (Le lenticchie); ecco la visione di giorni lieti, vissuti accanto all’uomo che amava: “E’ scolpita nella memoria / una gioia lontana. / Aspettavo un bambino / e nei tuoi occhi vidi / un’intensa dolce tenerezza” (Una gioia lontana); ecco le immagini che vengono da altre età e le fanno tornare presente ciò che pareva ormai sepolto: “Aprire quel cassetto / è stato riscoprire / un mondo perduto: / le vecchie foto / degli anni belli quando / bastava una carezza dei miei / a rendermi felice” (E poi). Si fanno avanti però in questo libro anche i ricor-

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di dei giorni più dolorosi e più tristi, quale quello della perdita dello sposo: “Come forte è stato il mio dolore / quando sul punto di perderti / ti ho chiesto di vincere la morte: / di non lasciarmi sola nella grande casa” (L’allodola). Ma in questa variegata raccolta di versi ben radicato è anche il presente, che la Padula vive intensamente, quantunque molta sia la sofferenza e la pena che ella deve sopportare. “Le gambe sono malferme e le mani / nodose prima lunghe e affusolate / … / Gli occhi prima neri e vivaci / … / si scolorano opachi” (Le campanelle). E la sua pena non è causata soltanto dalle sofferenze personali, ma anche da quelle altrui, come appare dalla poesia Ad un’amica: “Mi sono legata al tuo destino / per amicizia, quella vera che gli antichi / credevano fosse un dono degli dei. / Non sopporto che rifiuti la lotta / e ti rassegni al gioco della vita”. Lo stesso può dirsi per una poesia come A Roma, dove la pietà nasce in lei per la vista di una creatura cenciosa, ravvolta nei suoi stracci (“… I capelli erano radi / la pelle invisibile sotto la sporcizia, / solo negli occhi neri, dilatati, / in un lampo di luce un che di umano”) o per una poesia come 24 marzo 1980, dove compiange la morte del vescovo Romero, ucciso dai sicari sull’altare, per aver difeso i più poveri (“Hanno ucciso il vescovo Romero / in chiesa sull’altare mentre / levava in alto il calice intarsiato. / Il sangue ha macchiato l’abito talare”) o ancora per una poesia come Maledetto l’alzaimer, dove è partecipe delle sofferenze di Anna, colpita da questa terribile malattia (“Le tue parole slegate dal presente / si rifugiavano in visioni lontane / alla ricerca di persone amate / che non ci sono più. Sono morte. / Una tristezza amara m’ha preso”). Significativa è pure una poesia come Olga, nella quale una ragazza che si accompagna ad un soldato americano nel dopoguerra è vista in tutta la sua desolata e desolante fragilità (“Rientrava furtiva nell’ombra del portone / e ancheggiando proterva / salutava il suo accompagnatore, / un soldato americano…”). È però soprattutto di sé che ci parla Zaza Padula, della sua sofferta condizione esistenziale di donna sulla via del declino, che tuttavia ha ancora i sensi vigili e una intatta lucidità intellettuale. Così se può dirci: “Sono un annoso tronco d’albero / alla base segato di netto” (Il tronco) e “Ognuno ha la sua stagione di pianto” (Sincerità), può anche dirci: “Mi presto al gioco delle nuvole” (Le nuvole) e “Lasciatemi al ricordo dei Natali antichi, ai pastori di cartapesta del padre di mio padre // …// Lasciatemi al profumo delle ginestre in fiore, / che a maggio coprono di giallo le colline” (Le ginestre). Si vedano anche: “L’inverno è la mia stagione. //… //


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…nel buio che mi opprime / talvolta brillano schegge di luce” (I fiori di montagna) e “Morire lentamente / come il sole al tramonto /…/ O continuare il mio cammino / privo ormai di armonia. // Non ho ancora il coraggio / di perdere di vista la mia vita” (La scelta). Ciò che soprattutto la conforta è però la sua capacità di espressione poetica, che le offre la sua luce e il suo bene. “La poesia ritorna / prepotente e violenta. / Le parole irrompono / armoniose sconfinate / luminose intriganti” (La poesia ritorna); “Scopro che in me c’è un’epifania di parole” (Resurrezione); “E’ un lampo / che illumina sottili tracce / quasi linee perdute / negli spazi dell’animo” (La poesia). E’ nella poesia, dunque, che Rachele Zaza Padula trova il suo riscatto; e lo fa con un andamento discorsivo e affabile, altamente comunicativo, ma sempre dotato di un suo ritmo che conferisce al testo forza e vigore; un andamento ben pausato e armonioso, con il quale ella riesce con semplicità a dire tutto di sé: delle sue gioie e delle sue tristezze; dei suoi tuffi nel passato e dei suoi risvegli nel presente; e lo fa sempre con sincerità e schiettezza e con quella autenticità del sentire che è propria della vera poesia. Il tassello che ora aggiunge al suo lungo lavoro compiuto negli anni è una nuova prova della necessità e della coerenza della sua scrittura, capace di esiti validissimi anche nel campo della narrativa come emerge dal suo romanzo Donna Isabella Glinni (2006) e dell’espressione teatrale, come appare specie dai suoi testi più recenti: il dramma sacro in tre atti Sancta Teresia Benedicta a Cruce (2011) e Oscar Arnulfo Romero, una tragedia in tre atti e un epilogo, incentrata sulla figura del santo martire sudamericano (2014). Liliana Porro Andriuoli

PASQUALE MONTALTO DOMENICO TUCCI IL DIALETTO DELLA VITA IL SOGNO LA VITA LA BELLEZZA Apollo ed.ni, Cosenza, 2015 Ho conosciuto il poeta Pasquale Montalto nel modo più bello e più nobile: leggendo le sue poesie. Confesso che non è stato facile trovare la chiave per aprire il forziere in cui erano custoditi i suoi versi. Versi che ci evocano grandi temi: la Natura, il Dolore, l’Amore, la Vita. Il poeta con questa raccolta di poesie invita il lettore ad entrare nel suo mondo interiore e chiede in

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maniera velata di comprenderlo e di sostenerlo. Le poesie, se pur incentrate sulla ricerca interiore del poeta, su un costante dialogo tra l’uomo e la sua anima, esortano alla lettura, donando la possibilità di condividere passioni, conflitti e l’intimo sentire. Le liriche, intrise di slanci e di sentimenti celati, conducono il lettore verso orizzonti più soddisfacenti. La Natura è un tema ricorrente nelle poesie di Montalto “il fogliame geme, a primavera, Mosso dal vento rubilante, che scuote le esili gemme; ... buio e acqua d’uragano si rovescia addosso, con pena, ai teneri fiorellini”. Lo stato d’animo del poeta, inquieto e tormentato, è sottolineato dall’improvviso temporale. Lo scrigno si apre ed i suoni fuoriescono impetuosi e colpiscono senza tregua: “Ascolta, una brezza è in arrivo, e asciuga le lacrime, superba ondeggia la rosa”. Anche se fa paura, la natura, per il poeta, non è mai matrigna e crudele bensì profondissima quiete e bellezza: “Con la pioggia o con il sole, al buio o nella luce, con la tramontana o il libeccio, la natura ti è sempre compagna …”. La natura viene intesa come un rifugio, uno spazio dove approdare felici. La musicalità dei versi è evocata dall’uso raffinato delle parole che hanno la capacità di riprodurre, con ricchezza d’immagine, un’immensa varietà di suoni ed è proprio il suono, elemento principe dei suoi versi, che rapisce e accompagna il lettore in un viaggio misterioso e affascinante. E’ abile, il poeta, nel gioco di parole onomatopeiche. La perfetta organizzazione dei suoni, infatti, è una peculiarità dei suoi versi che rendono l’ immagine più intensa e suggestiva: “Lo scroscio dell’acqua sulla roccia ai piedi della sequoia, riecheggia limpide trasparenze …”. Una raccolta di poesie, queste di Pasquale Montalto, che si compone piano come un puzzle che, senza mai risultare banale, porta il lettore in un universo fatto di sensazioni e atmosfere di forte intensità emotiva. Versi nei quali ci si può rispecchiare e da cui si deve imparare. Francesca Tedeschi

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D. Defelice: Il microfono (1960)

NOTIZIE LINGUAGGI DI POESIA ESISTENZIALE E BELLEZZA DELLA VITA - Sabato 5 marzo 2016, alle ore 18,00, nella Libreria Ubik - via Galliano 4, Cosenza, Pasquale Montalto e Domenico Tucci hanno presentato “Il dialetto della vita/Il sogno, la vita, la bellezza”, in ricordo di Angelo Foggia ad un anno dalla morte. Sono intervenuti: Antonio Rizzo, antropologo; Gianfranco Pinto, psicologo, psicoterapeuta; Francesco Fucile, critico letterario, scrittore; Francesca Tedeschi, professoressa di Catanzaro. Hanno letto le poesie: Alice Pinto, Caterina Barbuto e Sonia Vivona. *** LE SORTI DELLA BELLEZZA - La Bellezza va salvata guardandola crescere. È accaduto qui, al Vittoriale degli Italiani, a Gardone Riviera, in ore serrate cariche di emozioni, il 4 e il 5 marzo 2016, dal tramonto luminoso, passando attraverso la notte, fino ad arrivare alla piena pioggia del giorno dopo, quando il Lago di Garda ha dovuto cambiar colore, per assecondare il cielo. 'Le sorti della Bellezza' è il nome dato a questo evento importantissimo dal Presidente G. B. Guerri, tutto avvitato intorno alla data di nascita di Gabriele d'Annunzio, il 12 marzo del 1863: “ 'La fortuna d'Italia è inseparabile dalle sorti della Bellezza, di cui ella è madre.' Così ha scritto più volte Gabriele d'Annunzio, anche nel Fuoco. Le sue parole sono un'indicazione per noi, tanto più oggi. La bellezza viene attaccata e distrutta da chi, negando la storia, assalta presente e futuro. Per questo il Vittoriale aumenta il suo impegno civile tanto nella conservazione della storia quanto nella crescita della bellezza. Riapriremo an-

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cora una parte delle Vallette, ammireremo i lussureggianti dipinti di Antonio Saliola e l'opera di Gian Marco Montesano, ascolteremo nel canzoniere grecanico salentino di Erri De Luca un'antica unione fra culture, che si arricchiscono a vicenda. Perché la bellezza arricchisce se stessa, oltre a tutti noi. Ne è prova ulteriore la donazione di 3000 carte dannunziane fatta da Martino Zanetti - che festeggeremo – e che ha portato a nuove acquisizioni. Ne è prova anche la crescita di GardaMusei, che a pochi mesi dalla propria nascita festeggerà quella di un suo Festival, sviluppo di Vittoriale Tener-a-mente. Cresci, bellezza, cresci.” Il venerdì 4 marzo, alle ore 18, l'inaugurazione della mostra 'Che fai tu, luna, in ciel nei quadri di Saliola?' di Antonio Saliola, grazie all'abilità ed alla cura organizzativa di Roberto Iseppi, nelle sale al piano terra di Villa Mirabella, dove rimarrà fino al 25 maggio prossimo. Li osservo uno per uno, li salvaguardo con gli occhi della bambina che riconosce in basso, su ciascuno, il loro nome scritto dal pittore in quelle lettere che stanno dentro nei quaderni a righe di terza elementare: 'saliola: quando la Luna e il Giardino ti invitano a cena', in dettagli curati e sfumati insieme, mentre la luce della luna in falce calante irrora sui volumi delle forme di natura, curate, i suoi riflessi, lasciando trasparire e respirare tipologie di verde-giallo in giochi e differenti geometrie. Nel piccolo libro che sintetizza il percorso, alla pagina 16, la poesia 'O falce di luna calante', di Gabriele d'Annunzio, in sezioni scandite, in ritmi di immagini che vanno viste dal vivo. Colgo la polvere che impregna gli interni di cose negli spazi circoscritti delle stanze, dando alla luce riflessi differenti. Antonio Saliola mi dice: 'Io non pulisco ma lascio tutta la polvere del tempo... Infatti queste atmosfere sono le atmosfere delle case poi nelle quali abito, perché la mia casa è esattamente come questi quadri, esattamente così. Amo molto anche la campagna, infatti ci sono i giardini...' Gli dico dell'amore di Shelley per l'Italia, per i suoi giardini, per le sue rovine e lui incalza, sugli stranieri di ieri in Italia, diretto e spontaneo: '… Ma l'Italia che cos'era? Andare a vedere queste opere, le vedevano e svenivano! La sindrome di Stendhal: vedevano delle cose meravigliose e svenivano! Ma che commozione! Al giorno d'oggi dobbiamo vergognarci: siamo scesi nel ridicolo e nel grottesco, non ci rendiamo conto ma è così!' Mi parla del suo amore per il cinema, dei suoi lavori come istantanee, quasi fotogrammi a ferma immagine, perché il tempo possa essere catturato in quell'istante con tutto quello che l'istante stesso riesce ad imprigionare. Ci ripromettiamo reciprocamente altri contatti, riguardo i suoi lavori nuovamente e li salvaguardo, dentro di me. Scrivo qual-


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cosa sul libro degli ospiti e mi avvio all'appuntamento con i ragazzi dell'Istituto Professionale Alberghiero 'Caterina de' Medici' di Gardone Riviera, che hanno allestito sotto la guida dei loro docenti l' aperitivo 'Alimenti in movimento e Ars bibendi', negli spazi interni del Giardino di Villa Mirabella, tra le curatissime esposizioni di immagini e cose di d'Annunzio, la sua collezione di giacche da camera e di vestaglie in raso, di scarpe e stivali aderentissimi, di lingerie da lui stesso disegnate e fatte eseguire accuratamente a mano per donarle alle sue amate e tanto, tanto altro, tutto ben custodito dietro alte teche in vetro. Luca, aperto e disponibile al dialogo, addetto al tavolino della frutta, mi dice: 'D'Annunzio mi ha colpito molto, tutto è collegato alla sua poesia: l'estetismo, il suo modo di fare, di sedurre.. lui era molto 'idolo', di se stesso!' Altri passi tra le preziose offerte che attraggono e calamitano gli ospiti, facendoli sostare e degustare le prelibatezze dai colori e dalle forme, dai profumi e dagli abbinamenti dei sapori tra loro dannunzianamente ispirati per arrivare all'incontro con Martino Zanetti, Presidente della Hausbrandt, che verrà onorato per la preziosissima donazione delle sue 3000 carte all'indomani, il 5 marzo, all'Auditorium di Villa Mirabella, dopo la cerimonia dell'Alzabandiera presso la Piazzetta Dalmata. Mi dice tra le altre riflessioni intense, a voce alta: 'Io ho avuto la grande gioia di vedere mio figlio, ventiseienne, e altri ragazzi appassionarsi per d'Annunzio. Peraltro altri miei coetanei, anche uomini di cultura notevole, mi hanno detto: 'Ci hanno castrato da giovani, non ce lo hanno lasciato leggere'. Per cui quando io leggevo da ragazzo certe interpretazioni asinine della cultura italiota, mi importava capire e allora sono andato a vedere, direttamente, che non era proprio così...' Si avvicina un giovane e lui sottolinea: 'Eccone qua uno! Questo ragazzo è uno di quelli di cui le dicevo!' Immediatamente dopo eccone un altro, tra quelli, credo sempre più in gran numero, che lo chiamano 'Martino', con spensierata affabilità. Dico loro che si sono lasciati attrarre dal fascino dell'avventura, che sono la luce del futuro, il dinamismo dell'orecchino. Il clima è confidenziale e dà testimonianza delle tante ore vissute insieme, quelle che hanno fatto crescere l'affabilità culturale d'esperienza, ciascuno secondo la propria misura in divenire e vocazione. La Signora Zanetti, spontanea, sorridente, elegante e sobria al tempo stesso, asseconda il clima di cordialità che si è instaurato e lo esalta con il suo fascino discreto e coinvolgente. Poco prima dell'evento della sera, 'Concerto. Erri De Luca e Canzoniere Grecanico Salentino', facendo quattro passi per raggiungere l'Auditorium, uno dei due giovani mi dice che ha fatto una tesi in musicologia

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sul 'Prometeo' di Luigi Nono. Si, queste ore d'esperienza dal vivo ti accendono, ti avvitano su se stesse e ti fanno trascurare ogni altro tempo. Ilia Pedrina *** Premio Internazionale di Poesia “DANILO MASINI” - L’Accademia Collegio de’ Nobili e Il Circolo “Stanze Ulivieri” in collaborazione con il Comune di Montevarchi e l’A.C.S.I. di Arezzo promuovono la 11a Edizione del PREMIO INTERNAZIONALE di POESIA “Danilo Masini”, fondato da Marcello Falletti di Villafalletto, che avrà per tema: “SOGNO O REALTÀ” Commissione giudicatrice: Presidente Onorario Maria Teresa Santalucia Scibona, Poetessa Presidente provinciale del MOPOEITA di Siena (Movimento per la diffusione della Poesia in Italia); Presidente Marcello Falletti di Villafalletto, Preside dell’Accademia Collegio de’ Nobili; Segretario Generale Claudio Falletti di Villafalletto; Componenti: Libera Bernini, Lucia Lavacchi Burzi, Giorgio Masini, Anna Medas, Lea Pesucci, Luisa Raffaelli, Alberto Vesentini. REGOLAMENTO Il concorso letterario si articola in due sezioni: a) Sezione Poesia inedita: Il concorrente dovrà inviare da 1 a 3 liriche in lingua italiana. Ogni poesia in 7 copie dattiloscritte o al computer, di cui una sola debitamente firmata e recante in calce nome, cognome, indirizzo, numero di telefono e indirizzo e-mail. Le copie al computer dovranno essere in Times New Roman, dimensione 12. b) Sezione Libro edito di poesia: Occorre inviare 5 copie del volume riguardanti opere edite nel periodo gennaio 2006 – luglio 2016 di cui una recante all’interno firma, indirizzo, telefono e indirizzo email dell’autore. POESIA A TEMA LIBERO Per le sezioni: Poesia inedita e Libro edito si partecipa con le stesse modalità della poesia a tema.Gli elaborati dovranno essere inviati entro e non oltre il 1° ottobre 2016 alla Segreteria Generale del Premio presso Accademia Collegio de’ Nobili, Casella Postale 39 - via G. da Verrazzano, 7 50018 SCANDICCI (Firenze). Farà fede il timbro postale. Il contributo di partecipazione è fissato in € 20,00 per ogni sezione alla quale s’intende partecipare da inviare, unitamente agli elaborati, in contanti. Per i giovani, che non hanno compiuto il 18° anno di età, alla data di scadenza del bando, non è prevista alcuna quota di partecipazione (indicare la data di nascita e inviare fotocopia del documento d’identità). Gli elaborati dovranno giungere alla Segreteria a mezzo posta prioritaria o raccomandata, e corredati di quanto richiesto dal Regolamento. L’organizzazione non risponde di


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eventuali disguidi o ritardi postali. La Segreteria del Premio comunicherà l’esito del concorso solamente ai vincitori ed ai finalisti. La partecipazione al Premio non impegna l’Organizzazione ad obblighi di qualsiasi genere o natura. La Cerimonia di Premiazione si svolgerà a MONTEVARCHI (Arezzo), città natale del Poeta Danilo Masini, SABATO 03 DICEMBRE 2016 - ore 17.00 presso il Circolo Culturale “STANZE ULIVIERI”, Piazza Garibaldi, 1. PRIMO PREMIO Sezione Poesia inedita: € 250,00.= dell’Accademia Collegio de’ Nobili PRIMO PREMIO Sezione Libro edito di poesia: € 250,00.= delle Stanze Ulivieri. Ai vincitori d’ogni sezione saranno assegnati trofei, targhe, medaglie, opere d’arte e libri, nonché diplomiricordo. Ai vincitori d’ogni sezione sarà pubblicata l’opera nel mensile “L’Eracliano”. La Segreteria si riserva di procedere alla pubblicazione di un volume antologico delle opere meritevoli, come per le precedenti edizioni, edito dalla Casa editrice ANSCARICHAE DOMUS. L’invio degli elaborati al Premio costituisce per ogni concorrente dichiarazione di conoscenza e accettazione totale del suo Regolamento. Gli elaborati inviati non si restituiscono. L’invito alla Cerimonia di Premiazione non impegna l’Organizzazione a rimborsi di spese, né produce obblighi di qualsiasi genere o natura nei confronti dei concorrenti. L’Organizzazione si riserva di apportare al Regolamento, tutte le variazioni necessarie per cause di forza maggiore. Per informazioni telefonare o inviare e-mail ai seguenti numeri: cell. 339.1604400 Cell. 329.7235669 Email a: accademia_de_nobili@libero.it

LIBRI RICEVUTI LAURA PIERDICCHI - Oltre - Prefazione di Sandro Gros-Pietro; in copertina e all’interno, a colori, riproduzione artistica di K. B. Rossetto - Genesi Editrice, 2016 - Pagg. 88, € 14,00. Laura PIERDICCHI è nata a Venezia e vice a Mestre. Ha pubblicato undici volumi di poesia e un libro di racconti. Cura recensioni e articoli per riviste e quotidiani con argomenti di letteratura e di cultura varia. Sue liriche figurano in antologie e riviste ed hanno conseguito molti premi a concorsi nazionali e internazionali. Le antologie “Venezianamente” (Spagna) ed “Echi d’acqua” (Romania) comprendono una silloge di sue liriche, a cura rispettivamente di Nadia Consolani Quiñones e Ştefan Damian. Anche nella rivista “Vernice” appare un ampio servizio sulla sua attività. E’ componente di giuria in con-

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corsi letterari e svolge intensa attività pubblica di partecipazione a manifestazioni culturali. Di lei si è interessata la critica più qualificata. Sue liriche sono state tradotte in tedesco (e presentate da Helmut Meter al Musil Archiv di Klagenfurt e pubblicate in “I nascosti colori della vita”), spagnolo e romeno, e stampate in diverse riviste nelle rispettive nazioni. Tra le sue opere ricordiamo le più recenti: “Bianca era la stanza” (2002), “Il segno dei giorni” (2004), “Il tempo diviso” (2008), “Voci tra le pieghe dei passi” (2013). ** CORRADO AUGIAS - Le ultime diciotto ore di Gesù - In sopracoperta: Antonio Ciseri, “Ecce Homo”, olio su tela, 1890 - Einaudi, 2015 - Pagg. 252, € 20,00. Corrado AUGIAS è giornalista, scrittore, autore televisivo. Tiene la rubrica quotidiana delle lettere su “Repubblica” e conduce su Rai Tre la trasmissione quotidiana “Le storie - Diario italiano”. Tra i suoi ultimi libri ricordiamo: “Leggere. Perché i libri ci rendono migliori, più allegri e più liberi” (2007), “I segreti del Vaticano” (2010), “Il disagio della libertà” (2011), “I segreti d’Italia. Storie, luoghi, personaggi nel romanzo di una nazione” (2012). ** ZHANG ZHI & LAI TINGJIE (Editors-in-Chief) World Poetry Yearbook 2014. 263 Poets 100 Countries and Areas - In copertina, a colori, opera di Tan Jun, del quale ne vengono riprodotte altre 11 all’interno, fuori testo; in prima bandella, foto e curriculum di Bengt Berg (Svezia); in seconda bandella, foto e curriculum di Diablo (Zhang Zhi); in quarta di copertina, foto e poesia di Fernando Rendon (Colombia) - Ed. The Earth Culture Press, 2014 - Pagg. 428, prezzo USD 60,00, Euro 50,00. Ecco gli autori antologizzati. Albania: Agron Shele, Jeton Kelmendi, Olimbi Velaj, Violeta Allmuca, Visar Zhiti. Algeria: Abdel kadir Kechida. Angola: Ruy Duaerte de Carvalho. Argentina: Ada Iris Juanita Cadelago, Alvaro Marín, Graciela Nasif, Luis Raúl Calvo, Rubén Pasino, Teresa Palazzo Conti. Armenia: Eduard Harents, Hrant Alexanyan. Australia: Anna Kumarich, Georgia Xenopou, Jayne Fenton Keane, Robert Maddox-Harle. Austria: Kurt F. Svatek. Bahrain: Layla Al-Sayed. Bangladesh: Hassanal Abdullah, Manohar Mouli Biswas. Belarus: Valzhyna Mort. Belgium: Albert Russo, JeanLuc Wauthier, Liza Leyla, Willem M. Roggeman, Zhang Ping. Bosina and Herzegovina : Lidija Pavlović-Grgić, Sabahudin Hadžialić, Zarko Milenic. Botswana: Molly Thokwana. Brazil: Teresinka Pereira. Bulgaria: Bozhidar Pangelov, Christina Borisova, Emiliya Proynova, Kristin Dimitrova, Maya Mitova, Milka Georgieva Pinalska, Slavimir Gen-


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chev, Stanka Boneva, Vessislava Savova, Yordanka Radeva. Canada: Flavia Cosma, Hédi Bouraoui, Terence Leonard Parkin, Yuan Changming. Chile: Leonor Andrea Dinamarca Carrasco, Rodrigo Verdugo. China: Di Bai, Diablo, Hua Wanli, Huang Yazhou, Jing Xi, Lai Tingjie, San Sejin, Tang Shi, Tang Yi, Xi Ke, Xiang Yixian, Xu Jiang, Yang Ke, Zhou Sese, Zhu Likun. Colombia: Fernando Rendon, Fuad Muvdi Chaín. Croatia: Joso ZivkovicSoja. Cuba: Enrique Sacerio-Garí. Cyprus: Andreas Polycarpou, Rubi Andredakis. Czech: Ivo Harák, Jan Maruna, Jiří Prošek, Michal Brzák. Denmark: Niels Hav. Ecuador: Cristian Avecillas Sigüenza, Simón Zavala Guzmán. Egypt: Gihan M. Omar, Moahmed Naguib Ekramady. El Salvador: Carlos Ernesto García. Estonia: Jüri Talvet. Finland: Anni Sumari, Rita Dahl. France: Athanase Vantchev de Thracy, Denis Emorine, Georges Friedenkraft, Nicole Barriere, Philippe Tancelin, Rebecca Behar, Sylvie Reff. Georgia: Paata Natsvlishvili. Germany: Margaret Saine, Martin Kirchhoff. Ghana: Osman Abraham Lincoln. Grece: Apostolos J. Paschos, Arqile Vasil Gjata, Athanassios Koumouris, Panagiota Christopoulou-Zaloni, Roula Melita, Takis D. Ioannides, Yannis A. Phillis. Guatemala: Humberto Ak’abal. Hong Kong: Choi Lai Sheung. Hungary: Károly Sándor Pallai. Iceland: Eyvindur Pétur Eiríksson, Garðar Baldvinsson. India: Aju Mukhopadhyay, Anjana Basu, Arbind Kumar Choudhary, Biplab Majee, C. L. Khatri, Dilip Mohapatra, Gopal Lahiri, Gopikrishnan Kottoor, Jagdish Prakash, K. V. Dominic, P C K Prem, Ram Krishna Singh, Sunil Sharma. Indonesia: Goenawan Mohamad. Iran: Hamidreza Shekarsari Salimi, Mansoureh Vahdati Ahmadzadeh, Masood Ahmadi. Iraq: Adnan Al-Sayegh, Hamdi Hameed AlDouri. Ireland: Gabriel Rosenstock. Israel: Ada Aharoni, Edith Lomovasky-Goel, Hedva Rabinson Bachrach, Kaila Shabat, Luiza Carol. Italy: Alberto Rizzi, Anna Maria Bracale Ceruti, Corrado Calabrò, Domenico Defelice, Elio Andriuoli, Francesco Manna, Lidia Chiarelli, Raffaele Ragone, Tito Cauchi. Jamaica: Kei Miller. Japan: Kae Morii, Michiko Shida, Taki Yuriko, Tomoji Nakamura. Jordan: Fathieh Saudi. Korea: Baek Han-Yi. Kosovo: Fahredin Shehu, Naime Beqiraj. Kurdistan: Hussein Habasch. Latvia: Baiba Talce, Gvido Drage. Lebanon: Lara Nabhan Mallak. Lithuania: Sigitas Parulskis. Macedonia: Ljubomir Mihajlovski, Ljupce Zahariev, Zejnepe Alili-Rexhepi. Malaysia: Wu An. Mexico: Francisco Azuela, Maria Eugenia Soberanis, Patricia Garza Soberanis, Roberto Rosales Martinez. Mongolia: G. Mend-Ooyo. Montenegro: Katarina Saric. Morocco: Touria Majdouline. Mozambique: Domi Chirongo. Myanmar: Arche A.

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Nepal: Banira Giri. Netherlands: Gerry van der Linden, Quito Nicolaas. New Zealand: Ron Riddell. Nicaragua : Ninozka Chacón Bandón. Nigeria : Nnamdi Desmond Asiegbu. Norway : Odveig Klyve. Oman : Mohamed Al-Harthy. Pakistan : Ayub Khawar, Fakhira Bataool, Hamza Hassan Sheikh, Muhammad Shanazar. Palestine : Mohamed Rabie. Paraguay : Celia Benfer, Lucina Medina de Barry. Peru: Teodora Amiot. Philippines: Caroline Nazareno, Jose Wendell Capili, Mark Angeles. Poland: Bogumila Janicka, Grażyna Kielińska, Maria Kogut, Marlena Zynger. Portugal: Herberto Helder. Puerto Rico: Etnairis Ribera, Mairym CruzBernal. Romania: Constantin Eugen D. Moga, Dragoş Barbu, Gheorghe Mihail, Nadia-Cella Pop, Noni-Emil Iordache, Tatomir Ion-Marius. Russia: Adolf P. Shvedchikov, Azsacra Zarathustra. Senegal: Daouda Ndiaye. Serbia: Bilall Maliqi, Dušan Gojkov, Ivana Milankov, Slobodan Simić, Tatjana Debeljački, Vedran Vučić. Singapore: Ling Jiangyue, Shi Ying. Slovakia: Juraj Kuniak. Slovenia: Taja Kramberger. South Africa: Makhosazana Xaba. Spain: Gustavo Vega Mansilla, José María Paz Gago, José Santiago. Surinam: Jit Narain. Sweden: Bengt Berg. Syria: Sulaiman Al-Hukmiy. Taiwan: Chiu Pin, Hsu Chicheng. Thailand: Meng Ling. Tunis: Amina Saïd. Turkey: Ayten Mutlu, Dilek Değerli, Fide Erken, Gülsüm Cengiz, Nisa Leyla. Ukraine : Dmytro Chystiak, Dmytro Kremin, Ihor Pavlyuk, Kateryna Devdera, Lesya Mudrak, Oksana Samara, Tetiana Dziuba. UK : Dennis Evans, Jenny Lewis, Joan Michelson, Paul Tristram, Peter Thabit Jones, Shanta Acharya, Tim Cloudsley. United Arab Emirates : Abdul Hakeem Al Zubaidi, Shihab Ghanem. USA : Aaron A. Vessup, Bill Wolak, Carolyn Mary Kleefeld, David M. Lucas, Elisavietta Ritchie, Gerald W. Jones, James Ragan, Jim Kacian, Luis Alberto Ambroggio, Maria Bennett, Neal Whitman, Stanley H. Barkan, Tammy Nuzzo-Morgan. Venezuela : Gabriel Jiménez Emán, Mariela Cordero García. Vietnam : Nguyen Chi-Trung. Zimbabwe: Christopher H. D. Magadza. A seguire: Books Reviews, Research Papers, Poets Talking Abaut Poetry, Prizes 2014: The International, Best of the Year ; IPTRC. ** CATERINA FELICI - Matteo e il tappo - Favola per adulti - Italic Pequod, 2016 - Pagg. 118, € 15,00. Caterina FELICI, insegnante, è poetessa e scrittrice e ha pubblicato volumi di poesia e prosa. Tra i libri di poesia: “Reciproco possesso” (1975), “Vastità nei frammenti” (1978), “Oltre le parole” (1982), “Poesie scelte” (1992), “Labili confini” (1994), “Confluenza” (1997), “Tessere di vita” (2004), “Tratti d’insiemi” (2007), “Fogli di vita”


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(2013). Sue poesie sono presenti in antologie. Tra i volumi di narrativa: “Il vecchio e altri racconti” (1987). Ha ricevuto vari primi premi in noti concorsi letterari nazionali. Tra coloro che si sono interessati di lei, si ricordano: Cesare Segre, Giacinto Spagnoletti, Giuliano Gramigna, Giorgio Bárberi Squarotti, Walter Mauro, Bruno Maier, Giorgio Cusatelli, Claudio Toscani, Maria Lenti, Paolo Ruffilli, Antonio Piromalli, Marino Moretti, Giambattista Vicari, Luigi Volpicelli, Gian Luigi Beccaria, Vittorio Coletti, Gina Lagorio, Domenico Rea.

TRA LE RIVISTE IL CONVIVIO - Trimestrale di Poesia Arte e Cultura fondato da Angelo Manitta e diretto da Enza Conti - via Pietramarina-Verzella 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) - E-mail: angelo.manitta@tin.it ; enzaconti@ilconvivio.org - Riceviamo il numero 4 (63), ottobre-dicembre 2015, del quale segnaliamo: “Corrado Calabrò: tradizione classica nel moderno”, intervista di Carlo Di Lieto e “Indossando il vestito”, una commedia in due atti, con illustrazioni di Pasquale Colacitti, di Maria Altomare Sardella; inoltre, rileviamo le firme di: Giuseppe Melardi, Caterina Felici, Loretta Bonucci, Giovanna Li Volti Guzzardi, Béatrice Gaudy, Antonia Izzi Rufo, Isabella Michela Affinito, perché anche nostri collaboratori. Allegato il n. 29 (ottobre-dicembre 2015) di CULTURA E PROSPETTIVE, di 192 pagine, con numerosissimi interventi, tra i quali quelli di: Angelo Manitta, Guglielmo Manitta, Leonardo Selvaggi, Orazio Tanelli, Carmine Chiodo. * THE WORLD POETS QUARTERLY - Rivista multilingua fondata da: Dr. Zhang Zhi, Dr. Yu Haitao, Dr. Choi Laisheung, + Dr. Rosemary C. Wilkinson - P. O. Box 031, Guanyinqiao, Jiangbei District, Chongqing City, P. R. CHINA - E-mail: iptrc@126.com ; iptrc@163.com - Riceviamo il volume n° 79 in Total, August 8, 2015. In prima di copertina, foto a colori di FebBlue (Cina); in seconda di copertina: foto a colori di Domenico Defelice, un suo breve curriculum e due sue poesie in inglese e in cinese: “Bricklayers of the South” e “A Song to Life”; in terza di copertina, a colori, foto del pittore Shao Qihong e la riproduzione di 6 suoi lavori pittorici più un suo curriculum; in quarta di copertina, a colori, foto di: Bengt Berg (Svezia), Abdel kadir Kechida (Algeria), Anni Sumari (Finlandia), N V Subbaraman (India), Wang

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Lishi (Cina), Norton Hodges (UK), Olimbi Velaj (Albania) e Wang Jiahong (Cina). La rivista (56 pagine grande formato) ospita un gran numero di poeti di almeno 16 nazioni. Riportiamo i poeti cinesi: Choi Lai Sheung, FebBlue, Tang Yi, Zhu Likun, Di Bai, Chen ZHong, Zhang Zihan, Mu Lan, Li Zhengshuan, Wang Lishi, Bao Rongbing, An Yu, Wu Liangru, Ye Guanghan, Yuming Zhou. * KAMEN’ - Rivista di poesia e filosofia edita dalla Libreria Ticinum Editore e diretta da Amedeo Anelli - viale Vittorio Veneto 23 - 26845 Codogno (LO) - E-mail: amedeo.anelli@alice.it Riceviamo il n. 48, gennaio 2016, di Pagg. 120, € 10,00, con i contributi di: Daniela Marcheschi, Giovanni Cairo, Francesco Giarelli, Margherita Rimi, Amedeo Anelli, Darko Suvin, Ursula K. Le Guin. * IL CENTRO STORICO - Periodico dell’ Associazione Progetto Mistretta, Presidente Dott. Nino Testagrossa, direttore responsabile Massimiliano Cannata - via Libertà 185 - 98073 Mistretta (ME). E-mail: Ilcentrostorico@virgilio.it Del numero 1-2 (gennaio-febbraio 2016), segnaliamo l’intervista a Massimiliano Valerii a cura di Massimiliano Cannata: “Italia dove stai andando?”, ma tutti gli interventi son da leggere, con le firme di: Francesca Maria Spinnato Vega, Dionigi Tettamanzi, Oscar Bartoli, Salvatore Pettineo, Francesco Ribaudo, Angela Mollica Nardo, Giusy Sirni, Francesca Scarcina, Rosalinda Sirni, Margherita Petranzan, Nerina Toci, Lucio Bartolotta ecc. * LA RIVIERA LIGURE - quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro, Direttore responsabile Maria Novaro - Corso A. Saffi 9/11 - 16128 Genova - E-mail: info@fondazionenovaro.it Il n. 3 (78), settembre-dicembre 2015 è dedicato a Aurelio Valesi, con le firme di Maria Novaro, Marco Ercolani, Pino Boero, Carlo Romano, Francesco De Nicola, Rosa Elisa Giangoia, Massimo Morasso, Lucetta Frisa, Carla Ida Salviati.

LETTERE IN DIREZIONE “LA FESTA (DELLA DONNA) È ORMAI TRASCORSA”... - E-mail del 14 marzo 2016 da Emerico Giachery, da Roma -


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Carissimo Domenico, ti ringrazio per avere segnalato nel numero di marzo il libro che mi regalai per gli ottant'anni (anziché acquistare un libro, mi son detto, c'era più gusto a scriverselo, tanto più che diventava un regalo molto più "personalizzato", contenendo il senso e il sapore di tanta mia vita). Hai fatto molto bene, a mio parere, a far apparire il volto di Giulio Regeni, un giovane "d'eccellenza", come oggi usa dire, che operava per un mondo più umano ed è stato brutalizzato e ucciso da poteri oscuri e antiumani. Tutti, come italiani, ma soprattutto come esseri umani, ci sentiamo offesi e vulnerati dalla sua crudele morte. Vedendo, in quarta di copertina, momenti della tua attività di pittore, volevo chiederti se conosci un altro Domenico, calabrese anche lui e pittore, e abbastanza affermato, il Maestro Tripodi, che ogni tanto mi telefona invitandomi con molto slancio a visitare il suo studio insieme con mia moglie Noemi e con una carissima amica appassionata d'arte, guarda caso anch'essa di origini calabresi, e con casa a Tropea, Anna Angiò. Tutte le strade portano in Calabria! Mi spiace di non aver pensato a inviarti, in vista del numero di marzo, un mio scritto in lode delle donne con preludio onirico-musicale, forse non sgradito alle tue tante collaboratrici, in occasione della Festa della Donna. La festa è ormai trascorsa, ma te lo allego ugualmente, sempre che tu abbia tempo e voglia di leggerlo, e lo dedico alle donne della tua famiglia. Buona primavera e buona Pasqua Emerico Carissimo Emerico, potevo non segnalare le tue Voci del tempo ritrovato? Un libro favoloso, che merita più di una segnalazione. Diviso in sei sostanziosi capitoli e un folto album fotografico, è tutto un’ingordigia. Anche se parte da un tempo in cui ancora non ero nato, il cuore del tuo lavoro sta negli anni favolosi della mia infanzia e della mia giovinezza, diciamo a partire dagli anni cinquanta del secolo appena trascorso. In “Un ottantenne racconta” ci dai sprazzi sulla tua frequenza scolastica, a partire dalle elementari e accenni pure alle riforme, la più

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organica quella Gentile, che “caldeggiava una scuola elementare <aderente al sentimento, all’esperienza, ai costumi, alla lingua, all’ anima del popolo>”; poi accenni al Liceo e alla scoperta di libri e antologie e poeti - alcuni: Pascoli, Quasimodo, Montale, Ungaretti (al quale dai ampio spazio nel terzo capitolo riguardante il Lazio) da te assai amati -, per passare all’Università e ai tanti Maestri, anche di fama internazionale, come Pantaleo Carabellese, Guido De Ruggiero, Gaetano De Sanctis, Federico Chabod, Raffaele Pettazzoni, Antonino Pagliaro, Alfredo Schiaffini, Angelo Monteverdi. E non manca l’ accenno alla guerra, ai bombardamenti, agli spostamenti e alle ristrettezze economiche, a proposito delle quali mi son gustato, nel capitolo “Lazio di memoria, mito, poesia”, quel tuo “rientro a casa con una preda di fagioli o patate o con una bottiglia d’olio, pregiato quasi come l’oro”, rientro che “era, allora poco meno osannato del ritorno di Radames a Menfi dopo la vittoria sugli Etiopi di Amonasro”. Non meno affascinante è il capitolo “Anni trenta: radio, libri, canzoni”, opere e melodie vivissime ancora negli anni cinquanta e perciò anche da me amate e stampate nella memoria. Come si fa a non ricordare il Quartetto Cetra, per esempio, Natalino Otto; canzoni come “Parlami d’amore, Mariù”, “Violino Tzcano”, “Lilì Marlen”; libri come Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno e Quel pasticciaccio brutto di via Merulana”; personaggi come Nunzio Filogamo, attori e attrici, la Topolino della Fiat, i costumi?... E tu hai la magia d’infilarci, qua e là, riflessioni soffuse di leggero umorismo (“Avrei ancora l’età giusta per diventare Presidente della Repubblica. O magari Papa. Ma è poco probabile che io diventi l’uno o l’altro. Dovrò accontentarmi di meno appariscenti occupazioni e rinunciare a prendere appunti per il saluto di Capodanno agli Italiani o per una possibile Enciclica”), o di afflizione dolorosa, come quando, rievocando i versi di “Signorinella”, ti soffermi sulla notizia del nostro tempo della donna musulmana che, per essersi messa i pantaloni, è stata condannata a quaranta fru-


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state!. L’avrò già scritto altre volte: tu inizi sempre da solitario il tuo peregrinare di memoria tra autori e libri, per poi giungere alla meta contornato da una folla immensa e favolosa. Nel capitolo sul Latium vetus (ed attuale), non si possono dimenticare le tue escursioni in bicicletta con tuo padre, alla scoperta di Palestrina, Castel San Pietro (con l’accenno al film di De Sica, “Pane amore e fantasia”), Frascati, Albano, Lanuvio, e quindi Lavinium, Pratica di Mare, Pomezia e Torvaianica, con la tomba di Enea, il Santuario delle XIII are e quello di Minerva, l’antro della Ninfa Egeria... Mi dai l’impressione che almeno qualche volta ci saremo sfiorati senza salutarci, perché sono stato a Roma per la prima volta a quattro mesi (via e largo Arenula); mi hanno scattato la prima foto intorno ai dodici/quindici anni nei giardini della casa di Nerone di fronte al Colosseo; ho vissuto nelle pensioni tra la stazione Termini e San Giovanni (l’ultima, in via Emanuele Filiberto); ero solito andare a messa nella chiesetta dei Frati Bigi e in quella su via Merulana, angolo via Labicana, dove, qualche anno fa, violenti manifestanti hanno preso a martellate l’immaginetta della madonna; ho visitato più di una volta i luoghi dello sbarco di Enea e i vari reperti archeologici; ho baciato la ragazza seduto nella piazzetta di Pratica di Mare sotto l’ombra dei platani... Dimmi come possano non affascinarmi i tuoi scritti! Oggi ho quasi ottant’anni e se anch’io mi metessi a raccontare, almeno alcune cose combacerebbero con le tue. Il capitolo “Alla scoperta di Firenze” è tra i più brevi. La città ci viene incontro con le tante e celebri canzoni ad essa dedicate (Messer Aprile, Madonna Bice, l’Arno d’argento), le tante opere letterarie e cinematografiche, con nomi celebri (Guido Brignone, Alessandro Blasetti, Sem Benelli, Clara Calamai, Emma Gramatica, Rossellini, Pratolini, Zurlini, Palazzeschi - da me incontrato alla SIAE dell’ Eur insieme a Vincenzo Fraschetti e a Giulio Andreotti -, Luzi), i monumenti e i pittori (il Battistero, San Marco e l’Angelico, il Carmine e Masaccio, Santa Felicita e Pontorno)...

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Firenze, una delle “città ricche d’anima”, come tu giustamente scrivi. In “Oceano lago fiumi”, abbiamo una prima parte col tuo racconto di ventenne Wanderer per l’Europa appena uscita dalla guerra e mentre le singole nazioni tentano di sanarsi le ferite. Eccoti a specchiarti “nelle chiare e fresche acque del Sorga a Fontaine-de-Vaucluse”, a Strasburgo; eccoti, capelli al vento, sulle “Rocce titaniche a precipizio sulle tempeste” dell’ Atlantico. Poi c’è il Wanderer più maturo fare, a volte, gli stessi itinerari ed elargendoci visioni e bellezze, anche di ragazze, come l’ Annie bretone che “cuce e canta”; di laghi come il Lemano con Ginevra e i suoi tesori e la sua cultura e i ricordi che pullulano come sorgiva e riportano in superficie libri, arte, cucina e buoni vini, e amici speciali come Eugène Kuttel. Per quanto concerne i fiumi, non poteva mancare il Tevere (con Ponte Sant’Angelo e Mario dell’Arco che ricordo al Caffè dei Poeti e all’Associazione Trilussa); e poi l’Arno, la Senna, il Danubio, il Reno, con le città, l’arte, i poeti e, infine, “Il gran fiume dell’Essere, che convoglia e trascina e travolge nei gorghi gli innumerevoli e minuscoli affluenti delle nostre esistenze, dei nostri amori e pensieri, delle nostre speranze e illusioni”. Se mi avessi fatto avere il pezzo per le donne in marzo, sarebbe stata una vera grazia per le tante nostre lettrici e collaboratrici; sì, perché P. N. ha avuto sempre un bel pubblico femminile e a molte donne sono state nel tempo dedicate copertine e prime pagine. Per non andare troppo indietro, ricordo il 2015: gennaio, ad Anna Achmatova; febbraio, a Oriana Fallaci; marzo, a Marguerite Yourcenar; giugno, a Giulia Di Barolo; settembre, a Lilli Gruber. Pure questo 2016 è incominciato alla loro insegna: gennaio, a Svetlana Aleksievich; marzo, a Maricla Di Dio e, questo aprile, a Adriana Assini. Serbo, allora, il tuo pezzo per il numero di maggio, mese che io dedicherei per intero alle donne, essendo il più bel mese dell’anno. L’otto marzo ha ormai perso lo spirito profondo per il quale è stato istituito; è diventato solo un business


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commerciale e una manifestazione plateale di ipocrisia per chi considera la donna un oggetto (e qui mi fermo, cercando di trattenere la bestemmia al pensiero che si è presa la brutta piega di festeggiare pure l’otto marzo della gattina e della cagnolina, della coniglietta, della maialina, perché anch’esse creature di Dio, ed è giusto che anche a loro si dispensino baci - veri, non Perugina -, leccornie, e si comprino pure le mutandine colorate di rosso...). E lo scandalo è ancora più indecente se si pensa che le donne a tutto ciò non solo non si ribellano ma vi partecipano attivamente., Ho incontrato tempo fa a Piazza dei Navigatori, a Roma, una coppia che portava a spasso il cagnolino. L’uomo aveva fretta e la donna, rivolta all’animale che si attardava ad annusare il marciapiede: “Dai, amore, altrimenti papà se ne va!” Papà, di un cane! Sì, è giusto “accarezzare i cani dagli occhi benevoli che ci tendono il muso con simpatia” - come tu scrivi -, ma non dimenticando mai che sono animali; lasciamoli, insomma, vivere da cani! Facciamo loro torto costringendoli, per nostro egoismo, a scimmiottarci e a comportarsi contro loro natura. Scordiamoci, allora, caro Emerico, dell’otto marzo - ormai solo scandalo - e dedichiamo alla donna i nostri scritti e tutto di noi stessi quando ci pare. L’Occidente non è civile come non lo è l’ Oriente, come non lo sono il Sud e il Nord. L’ umanità continua nella barbarie finché ha bisogno di martiri come Regeni e del sangue di milioni di donne uccise, di fanciulli seviziati, di cristi giornalmente messi in croce. È solo ipocrisia parlare di civiltà e ciò che noi chiamiamo progresso, anziché migliorarci, ci sta rendendo più duri, crudeli e cinici e raffinati nelle brutture e nelle devianze. Conosco il caro Domenico Tripodi e non è una volta sola che P. N. dedica a lui e alla sua arte qualche pagina e qualche copertina a colori (per esempio, giugno 2014). Ma lui è restio a più assiduamente collaborare. Ognun di noi ha i suoi itinerari, ognun di noi è un esclusivo Wanderer. Scusa se mi son dilungato e se, ora, non ho

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neppure il tempo di rileggere, perché in ritardo con la chiusura e devo portare il tutto in tipografia. Mi par di stare su una catena di montaggio: un numero viene licenziato e l’ altro è già in cantiere! Quanto potrà durare ancora un tal delirio? Domenico *** Ilia Pedrina, da Vicenza, e-mail del 18 marzo 2016: Caro, carissimo Amico, dal Novembre 2015 al Marzo 2016: nella stasi delle proprie dimore ciascuno di noi ha potuto viaggiare senza sforzo tra i sentieri che collegano la Bellezza alla vita, al sogno, alla ragione determinata e calcolante, alla rivoluzione spinta con forza per far cambiare atteggiamenti e comportamenti, deleteri soprattutto se collegati con l'ipocrisia e l'indecenza dei propositi volti all'arrembaggio che accaparra le risorse di questa nostra Nazione, alla tragedia dell'abbandono e della solitudine, al lutto della perdita, alla vita trascorsa nella fede e nella dedizione, ai ritmi cadenzati di Poesia, ai palpiti di quel contatto umano che si snoda tra domande e risposte. Si, un viaggio di cinque mesi, straordinario, innovativo, che allaccia contenuti a vite, a relazioni e a palpiti, in complesse, complessive emozioni che lasciano il segno. Si, parole scritte che portano riflessioni, considerazioni originali e ben documentate, slanci d'amicizia e di cordiale, trasparente sintonia, a consolidare convergenze d'intenti e di progetti. Si, tutto questo è presente nel tuo instancabile frutto di cultura, d' arte, di musica, di scienza, POMEZIA NOTIZIE, dico, che si diffonde in copia ogni mese, in un ritmo lunare che rinnova sempre la sua luce. Dal Novembre 2015 al Marzo 2016, lungo il filo rosso dello scambio in intreccio di percorsi, come quello dell'articolo di A. I. Pedrina sull'eternità dell'anima e sull'immortalità (Pom. Not. Nov. 2015), che porta a riscontri meditati e consapevoli nella 'Lettera aperta' di Marina Caracciolo (Pom. Not. Marzo 2016) Marina dice ad Aida Isotta, apertamente, che non trova citato Gesù nelle sue riflessioni. È


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vero, non viene mai nominato Gesù, perché forse lei, Isottina, come la chiamo io, ha dentro Maria, la sua Mamma, ancora e sempre incinta di Lui, senza farlo venire a questo mondo. Nel canto tutto al femminile di Erri De Luca 'In nome della madre', in copertina una lettera ebraica, al suo retro un'altra lettera, differente ad indicare le due 'M' del nome 'Myriam', segnate l'una con un piccolo spazio d'aria che passa, l'altra a lei simile, ma segreta e chiusa, ma a simboleggiare due realtà di vita, dalla verginità in purezza aperta all'esperienza e al mondo, a quell'essere piena di Vento che rappresenta il momento dell'Annuncio, fino al compimento di quell'Essere che nella Parola diventerà Vento e respiro in luce per chi in questo Vento vedrà il Padre. Così scrive Erri De Luca, che mi ha fatto commuovere dal vivo, in dolcezza, nella serata al Teatro dannunziano di Villa Mirabella al Vittoriale degli Italiani, tra gli Artisti del Canzoniere Grecanico Salentino ed i loro straordinari strumenti, la sera del 4 marzo scorso: 'In ebraico esistono due emme, una normale che va in qualunque punto della parola e una che va solo in ultima casa. Miriam ha due emme, una dell'esordio e una terminale. Hanno due forme opposte. La emme finale, mem sofit in ebraico, è chiusa da ogni lato. Quella iniziale è gonfia e ha un'apertura verso il basso. È un'emme incinta.' (Erri De Luca, In nome della madre, ed. Giang. Feltrinelli, 2008, retro di copertina). E c'è anche Ernst Bloch, qui sullo scrittoio, tra una Pomezia Notizie e l'altra, quello del volume 'Ateismo nel cristianesimo - Per la religione dell'Esodo e del Regno 'Chi vede me vede il Padre', con traduzione e cura di Francesco Coppellotti, mentre è Giangiacomo Feltrinelli che firma il progetto editoriale. Allora io, che mi sento sempre bambina ai primi passi in un mondo che conosco già fin troppo bene, mi rivolgo in tempo reale a Maurizio Mazzetto, il cui pensiero e volto hai ospitato tra le pagine della Rivista proprio nel mese di Novembre 2015, e gli prospetto una richiesta d'aiuto, visto che le mie note portano la data del 2008. Lui va a cercare il libro, nella sua biblioteca ordinata

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assai, lo trova e mi scrive che quel testo reca la data d'acquisto e di lettura del 1976, è tutto annotato e lui era ai primi passi nel percorso del sacerdozio, al primo anno di Teologia, e quel libro di certo non era 'scolastico'. Bloch, dedicando ad Adolf Lowe quel testo, analizza con raffinata eleganza il percorso del sacro e prende dentro anche Orfeo ed il bisogno di questa divinità di consegnare la matrice del suo canto a chi la sa cogliere e disperdere. Poi arriveranno le parole, quelle della poesia e della musica che ne è la radice. Ti manderò un lavoretto su questi temi perché lui, questo filosofo tedesco nato nel 1885, ha la forza ancora di farsi ascoltare, perché dal suo 'Il principio speranza' (ed. it. Vallecchi 1967) sono scaturiti fiumi di riflessioni e di approfondimenti. Allora chi prega intende rendersi degno della fiducia di Chi lo ascolta: questa certezza psicologica passa nella vita d'ogni giorno, come ricorda Erri De Luca nella serata di cui ti ho detto, intensissima, descrivendo con il cuore la fede degli operai musulmani che erano con lui, in totale ristrettezza di mezzi, nella stanza-dormitorio della fabbrica dove lavoravano, nel 1982, alla periferia di Parigi. Si volgevano al muro, verso Oriente, a ricercare una forza che per loro non ha volto, ad intercettare un contatto che ha senso sempre cinque volte al giorno, senza che mai ci si dimentichi di questi appuntamenti. Mai. Mentre ti scrivo, le lacrime vengono giù lungo le gote da sole, perché la commozione è umida e liquorosa, si, quel liquore dell'anima che inebria nell'innamoramento e lo scrittore, dentro le parole, descrive proprio questo innamoramento tra le creature ed il loro Fattore, non differente dal nostro. Tra il Novembre 2015 e il Marzo 2016, dicevo. È così: ogni mese, come il ciclo regolare della fecondità della vita nella donna, ritualmente, metti insieme le nostre parole, che ti arrivano con quel fremito che accompagna ogni offerta: tu ti fai Demiurgo e componi tutto in nuova armonia, fili complessi tessuti insieme dalla condivisione, primo denominatore comune della conoscenza; tu ti fai Racco-


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glitore e bacchetti severamente chi nel nostro tempo è senza qualità morali, senza dignità, senza destino costruito sulla responsabilità che detta scelte coerenti; tu ti fai Regista di un canto comune iniziato tanti anni fa, quando hai raccolto l'eredità de 'La Procellaria' di Francesco Fiumara e indietro nel tempo quella del 'Realismo Lirico' di Aldo Capasso. Francesco Pedrina, dopo aver collaborato ad entrambe quelle preziose riviste letterarie, rimane ancora voce viva tra noi, quando pubblichi i racconti che ti mando, quelli di 'Vela d'argento - Viaggio sentimentale attraverso la mia vita', tradotto in francese dalla cara, dolcissima Solange de Bressieux. Allora questa continuità è divenuta risorsa piena dello spirito in ricerca, della nostra capacità di intercettare Dio tra le cose del mondo, le emozioni, le sofferenze, i disagi, i conflitti, gli ardori dell' amore umano, che arriva a contenere anche Dio e a chiedere in preghiera un Suo silenzioso riscontro, infinito, dilatatissimo. Il grande Tertulliano, uno tra i Padri della Chiesa, diceva 'Credo, quia absurdum': proprio perché è un'assurdità il credere, sia a Dio che all'eternità dello Spirito che all'immortalità dell'Anima, si apre con lui quel percorso incredibile che arriva fino a Kierkegaard e oltre. Paolo di Tarso non si sarebbe mai permesso di considerare assurde le sue convinzioni, pieno com' era di sé e della sua fede. Ti abbraccio, allora, piena di gratitudine. Ilia tua Cara Ilia, che idea prendere in considerazione cinque mesi di vita di Pomezia-Notizie, e proprio quelli dal novembre 2015 al marzo 2016! Cinque mesi vissuti come sempre con grinta ma alla giornata, senza, cioè, i progetti faraonici di molte testate poi quasi mai realizzabili; con grinta, ma anche con umiltà, memore che progettare spetta solamente a Dio, a me solo collaborare ed eseguire. Ogni numero s’è sempre realizzato quasi al di fuori della mia volontà, nel senso che non c’è stato mai niente di preventivato e che temi e argomenti scaturiscono e si compongono volta

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per volta attraverso gli scritti inviati da te e da tutti gli altri affezionati collaboratori. Così, per esempio, ecco il tema della lingua, portando in campo, nello stesso numero, Gentile, Cardarelli e Gadda; ecco quello della fede, o quello della violenza nel quale ben si inserisce la silloge Bambini di Anna Vincitorio; o, ancora, il dolore e la morte, con il ricordo dei nostri amici o dei parenti che hanno fatto l’ultimo viaggio; o il tema della politica (Destra e Sinistra di Giuseppe Leone) e quello che tocca geografia e città: la Tunisia, per esempio, Genova, Pechino... Io eseguo, non progetto, e ogni numero è agile e vivo perché imprevisto, in base a ciò che voi inviate; io raccolgo e colloco, distribuisco. Dire che faccio il “demiurgo”, mi sembra veramente esagerato; qualcuno dice che faccio il regista: in parte forse è vero, ma solo in parte, perché anche in campo filmico, il capolavoro nasce solo se c’è il concorso degli attori, degli scrittori, dei costumisti, dei fotografi, dei macchinisti e via elencando. Così, se io metto insieme le vostre parole, ogni numero diventa un coro armonico di consensi e contrasti solo perché le vostre parole sono alte, altrimenti sarebbe sempre e solo silenzio assordante. Se Isotta non nomina Gesù ci sarà un motivo, forse Lei questa grande figura non l’ha ancora bene introitata, metabolizzata. Gesù è ancora oggi - e lo sarà per sempre - una pietra d’inciampo, essendo venuto al mondo, come Lui stesso afferma, non per portare la pace e l’unità, ma “le discordie, il fuoco, la spada, la guerra” (Vangelo di Tommaso). Gesù è il più grande dei rivoluzionari. Le notizie che noi abbiamo di Lui sono scarne e agiografiche, ma anche da così pochi elementi si può risalire al suo radicalismo, al suo socialismo1, al suo amore per la libertà. Sì, è stato anche un banditore della libertà (e non soltanto della coscienza). Domenico 1 - Gesù - scrive Corrado Augias in Le ultime diciotto ore di Gesù, Einaudi, 2015 - “È un uomo pio ma è anche un uomo aspro, difficile, come chiunque senta fin nel profondo del suo essere il senso di una missione che può arrivare a squassare i rapporti


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tra gli uomini e i fondamenti di una società. Predilige i poveri, lo ripetono tutti. Tommaso 59: <Beati i poveri perché vostro è il Regno dei Cieli!>; Luca 6,20: <Beati voi, poveri, perché vostro è il Regno di Dio>; Matteo 5,3: “Beati i poveri di spirito perché loro è il Regno dei Cieli>. Ma di quali poveri sta parlando? Il testo greco di ptochò, che non è l’ indigente, è il mendico, il vagabondo, il miserabile, colui che non ha casa né cibo. Gli ptochoi sono il portato dell’ingiustizia sociale, gli scarti umani...”.

*** E-mail del 19 marzo 2016 da Pescate (LC) Ho letto il numero di marzo di PomeziaNotizie e devo dirti che ho trovato la rivista in ottimo stato di salute. Trovo che la sua ricchezza, mi preme dirtelo, non è tanto nella varietà dei suoi temi, che pure sono tanti, quanto nei frequenti scambi d'idee e di vedute fra i suoi collaboratori. Penso alla lettera aperta di Marina Caracciolo a Aida Pedrina e a quanto scrive in una lettera al Direttore Emerico Giachery, che si sofferma sul mio articolo in ricordo di Vittoriano Esposito ma anche sul dibattito fra me e te su Destra e Sinistra. Insomma, caro Domenico, una rivista viva e vivace, frutto, mai di preconcette posizioni su questa o quell'idea politica, su questa o quella corrente letteraria, ma sempre nel segno della tolleranza e della libertà di espressione. Una bella azione editoriale che dura da oltre quarant'anni. Un caro saluto, Giuseppe Leone Caro Giuseppe, l’unico stato che non solo non è “ottimo”, ma al di sotto di “pessimo”, è lo stato economico. La crisi ha colpito anche PomeziaNotizie, facendo diminuire i suoi abbonati di almeno un 30%. Se non ho da comprar da mangiare - mi telefonava all’inizio dell’ anno un vecchio abbonato -, come posso rinnovare l’abbonamento? Ho assicurato l’ amico che gli farò avere il mensile finché posso, anche senza l’abbonamento. Altri lo hanno dimezzato letteralmente: Contèntati! - mi han detto -, di più non posiamo dare! Che fare? La famiglia protesta; è vero che sono alla soglia degli ottant’anni, ma ciò

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non può giustificare l’intaccare la pensione di appena mille euro. Logica sarebbe chiudere, ma non ce la faccio: i vostri apprezzamenti sono vita. Grazie! Domenico

SOSTA C’è giocare di ali che nunziano avvento di primavera. E io mi sento nascere; e si dirada l’uggia d’inverno che m’inabissa. Uno spiraglio di cuore consentirebbe sosta all’intimo fuggire irreparabile. Rocco Cambareri Da Da lontano, Ed. Le Petit Moineau, 1970


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Qui sotto a sinistra: Domenico Defelice: Paesaggio (acquerello, 1982) e La luna dietro il cipresso (china, 1960)

TERRA Terra grembo della vita: sei amica dell’uomo e da te tutto proviene e tutti gli esseri viventi a te ritorneranno.

AI COLLABORATORI

Loretta Bonucci

Si invitano i collaboratori ad inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione), composti con sistemi DOS o Windows, su CD, o meglio, attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è necessario un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (con copia cartacea) Annuo... € 50.00 Sostenitore....€ 80.00 Benemerito....€ 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia....€ 5,00 ABBONAMENTO solo on line: http://issuu.com/domenicoww/docs/) Annuo... € 35 Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 NO76 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio


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