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Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale 70% - DCB - ROMA Anno 24 (Nuova Serie) – n. 5 - Maggio 2016 € 5,00

ELOGIO DELLE DONNE (CON PRELUDIO ONIRICO-MUSICALE) di Emerico Giachery IVERSI anni fa, per ben due volte, l’inconscio, attraverso il sogno, richiamò il Tannhäuser. Pur amando Wagner, non ho un interesse specifico per quest’opera, che conquistò Baudelaire, quando fu rappresentata a Parigi nel 1860. Ricorderò solo che la geniale Ouverture, splendidamente eseguita a Roma con l’orchestra di Berlino guidata dalla mistica bacchetta di Willhelm Furtwängler nei primi anni del dopoguerra, rappresentò per me un’autentica rivelazione, un “evento”. Nel tempo in cui si espressero i due sogni, ascoltati e registrati con partecipe interesse, dell’opera mi attrasse il cammino di purificazione e di iniziazione, che rispecchia il nostro itinerario verso il Sé. L’opera wagneriana è ricca di spunti simbolici, di emozionanti archetipi. Anzitutto il monte di Venere, Venusberg, con la sua seduzione; e, contrapposta, Elisabetta, portatrice di redenzione (classica antitesi del Femminile, che culmina nel rapporto Eva-Maria). Inoltre: il pellegrinaggio verso Roma, forte →

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All’interno: Erri De Luca: La faccia delle nuvole, di Ilia Pedrina, pag. 6 Filippide non ha corso la maratona, di Rossano Onano, pag. 10 Leonardo Selvaggi affronta Giovanni Gentile, di Ilia Pedrina, pag. 13 Luigi Maria Lombardi Satriani: L’evasione dai giorni, di Carmine Chiodo, pag. 16 Rossano Onano e il sandalo di Nefertari, di Domenico Defelice, pag. 19 L’opera di Italo Tacelli, di Leonardo Selvaggi, pag. 21 Caterina Felici: Matteo e il tappo, di Tito Cauchi, pag. 26 L’acrobata, di Filomena Iovinella, pag. 29 Premio Città di Pomezia 2016 (Regolamento), pag. 31 I Poeti e la Natura (Salvatore Quasimodo), di Luigi De Rosa, pag. 32 Notizie, pag. 44 Libri ricevuti, pag. 47 Tra le riviste, pag. 48

RECENSIONI di/per: Elio Andriuoli (La notte bianca - Le poesie di Živago, di Paolo Ruffilli, pag. 34); Marina Caracciolo (La grande poesia di Gianni Rescigno, di Luigi De Rosa, pag. 35); Tito Cauchi (Intime annotazioni N°1, di Brandisio Andolfi, pag. 36); Tito Cauchi (Frammenti di luce indivisa, di Felice Serino, pag. 37); Tito Cauchi (Ancora poesie, di Mariagina Bonciani, pag. 38); Roberta Colazingari (Odi impetuose, di Filomena Iovinella, pag. 39); Luciano Domenighini (Dicotomie, di Nazario Pardini, pag. 39); Giovanna Li Volti Guzzardi (Poesie; Poesie e Musica; Sogni; Ancora poesie, di Mariagina Bonciani, pag. 40); Liliana Porro Andriuoli (Ultimo tocco, di Antonio Spagnuolo, pag. 41).

Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Loretta Bonucci, Corrado Calabrò, Michele Di Candia, Paolangela Draghetti, Béatrice Gaudy, Eloisa Massola, Adriana Mondo, Walter Nesti, Susanna Pelizza,Teresinka Pereira

emblema di centralità, e sede storica convalidata del Sacro (evidente ormai l’importanza del Sacro nella mia esperienza sia esistenziale sia saggistica). Infine, la possibilità di rinnovamento, di rigenerazione espressa dal bastone pastorale che dovrebbe verdeggiare come una pianta viva. Con un’immagine di templare-trovatorepellegrino – archetipo per uso personale molto affine a Tannhäuser – mi sono a lungo identificato in anni giovani; e forse non ho mai cessato di essere l’antico Minnesänger pellegrino sulla via del Sacro. Fermiamoci per un attimo sulle immagini emerse nelle poche righe che precedono: Venere, Elisabet-

ta, e l’importanza centrale del femminile, e il duplice volto del femminile, e la strada da percorrere per realizzare se stessi, e la dominante presenza del sacro, e la musica in cui tutta la leggenda, la fabula, è immersa, e insieme trascesa, dal genio wagneriano. A questo punto, ecco tornare alla mente un sogno lontano, che mi era sembrato a suo tempo molto significativo. Sul mio cammino appariva una targa stradale con la scritta Via musica, ed era una strada che convergeva con una Via Eva, allusione sin troppo evidente all’archetipo di un Eterno Femminino non sublimato, ma comunque primigenio, direi assoluto. Musica aveva quasi connotato di


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aggettivo, come nei musici concenti di Leopardi. Mi pareva che nel sogno Via musica fosse seguita da un ad, con l’indicazione di una destinazione. Quale la meta indicata dalla preposizione ad? L’avevo purtroppo dimenticata al risveglio, ma la sapevo così essenziale per la mia vita, che osai integrare con Deum: addirittura Via ad Deum. Perché no, se si ricomincia a parlare, anche da teologi, di Via pulchritudinis? Certo, nel mio cammino e destino la via “musica”, o anche “musaica”, via delle Muse, della epifanica bellezza e della orfica armonia, mi ha addotto ad approdi capaci di offrirmi «quel cibo che solum è mio et ch’io nacqui per lui». La Via Eva, allora? Beh, in una delle sue pagine più fervide e da me predilette, il Proemio alla Quarta Giornata del Decameron, Boccaccio, che se ne intendeva, ci ha insegnato che «le Muse son donne». Come d’altronde lo sono le Cariti, o Grazie. Quanto alla confluenza musicale, cosa si può immaginare di più femminile del celebre quadro di Gustav Klimt, dipinto in due versioni (di cui una perduta) e intitolato Allegoria della musica? Piccolo preludio onirico-musicale, si direbbe, quello che precede, in cui la musica, per impulso incoercibile dell’inconscio, converge con la Donna. È piacevole soffermarsi un po’ in questo ameno soggiorno tra Muse e Donne. Boccaccio aiuta con la sua splendida pagina. Pagina che è un elogio delle donne, da me condiviso in pieno. A dire il vero un elogio delle donne piacerebbe molto anche a me scriverlo, non fosse che per controbattere lo scandaloso maschilismo imperversante in tanta parte del mondo, spesso ancorato a capziosi supporti giuridici e religiosi: alle “quote rosa” per fortuna copiose nei nostri parlamenti sarebbe difficile attenersi all’assurda ingiunzione «tacciano le donne nelle assemblee», I, Corinzi, 14,34 , o accettare senza eventuali precisazioni l’inizio del versetto 38 della Sura IV: «La donna è inferiore all’ uomo». Tanto più che gli abituali partecipanti a dimostrazioni, marce e cortei sembrano (o sbaglio?) scarsamente interessati alla condizione della donna, al suo asservimento vio-

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lento, alla sua disparità giuridica in troppi paesi. Eppure si tratta di uno dei più dolenti problemi della comunità umana. Jung, per quel che ricordo, ha affermato che ci sarà equilibrio nel mondo soltanto quando la donna acquisterà la pienezza dei suoi diritti e della sua piena presenza. Ma a indurmi a scrivere un elogio delle donne e della Donna sarebbe un movente molto più profondo e personale, che apparirà nelle pagine seguenti. Fatto sta, tuttavia, che per un uomo scrivere, senza «né risentimenti, né illusioni, né astrazioni teoriche», sulla donna, così diversa da lui e in molti aspetti opposta, è impossibile, secondo Jung (qualche eccezione per gli autori di Antigone e di Phèdre, per Flaubert, per Tolstoi, e via dicendo, possiamo anche farla!). Questo l’ho imparato scartabellando tra i non pochi volumi junghiani della mia biblioteca, in cerca dell’importante affermazione citata poche righe sopra, che peraltro corrisponde alla concezione del grande maestro della psicologia analitica. Ma è stato come cercare un ago in un pagliaio. Ecco, però, che dal saggio La donna in Europa è emersa un’asserzione, che spero profetica. La traduco per offrirla ai lettori e specialmente alle lettrici, destinatarie privilegiate di queste pagine: «La donna d’ oggi ha dinnanzi a sé un enorme compito culturale che prepara forse l’alba di un’era nuova». Rivolgendosi alle donne in prima persona, Boccaccio scrive così: «io, il corpo del quale il Ciel produsse tutto atto ad amarvi, et io dalla mia puerizia l’anima vi disposi, sentendo la virtù della luce degli occhi vostri...», e così via. Incline per indole a sogni cavallereschi (ecco già riaffacciarsi l’archetipo del cavaliere evocato poco fa), e perciò molto più affine a Federigo degli Alberighi (Giornata Quinta, Novella Nona) che non al malizioso Boccaccio del testo qui ricordato, nella “mia puerizia”, collezionavo comunque “fidanzate”. Fu precoce, in un cantuccio recondito di casa, il primo bacio, censurato da un intervento materno. Erano tempi di ottusi moralismi, di deleteria repressione di così spontanei e gentili atti di fresca vita. (Non ci si crederà: il 18


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marzo 1666 papa Alessandro VII aveva stabilito che persino i baci «dati per il solo diletto sensibile» possono spedire dritti dritti all’ inferno!). Quanti anni, troppi, troppi, per arrivare al secondo bacio e inaugurare la nuova serie! «La virtù della luce degli occhi vostri», scrive dunque Boccaccio. Poi enumera molte altre qualità femminili più concrete, che apprezzo – c’è bisogno di dirlo? – ma qui non rievoco. Studioso appassionato, negli ultimi anni, della luce, del grande motivo della luce, sia in poesia sia nella simbolica dello spirito, mi approprio, per ora, di quella “luce” muliebre, che ai miei occhi nasceva da fondo d’ anime, attingeva all’essenza perenne del Femminile: quasi sostanza cosmica. Anche senza arrivare a divinizzarla, come fanno i versetti del Tantra: «La donna è il creatore dell’universo. / È il vero corpo dell’universo. / Non c’è felicità come quella che dà la donna». Mi riconosco in pieno in un verso di Petrarca così caro ad Ungaretti e per lui così esemplare, da definirlo una volta il più bel verso che mai sia stato scritto: «E m’è rimasa nel pensier la luce». Da alcune incarnazioni dell’ Eterno Femmino, ma solamente da «coloro che sono gentili e che non sono pure femmine» (Vita Nuova, XIX), m’è pervenuta tanta luce, tanta poetica luce. Un destino di timido Tantalo ha fatto sì che di solito gli oggetti d’ amore sfuggissero, inseguiti anche in paesi lontani. Dissoltasi, col fluire del tempo e della vita, l’ombra sofferta della privazione e della rinuncia e delle attese struggenti e vane, è rimasta la luce. Petrarca, Simone Martini e i germi d’alta nobiltà e civiltà dello spirito d’una Toscana che è al contempo Europa generano il volo («Vola alta, parola, cresci in profondità... sii / luce, non disabitata trasparenza...») di un toscano europeo che ha riletto Dante accanto a Mallarmé: Mario Luzi. «Ed ecco che salvifica interviene la luce, legata però alla figura di una donna, affiorante di notte in notte». Un teologo aperto, come tutti dovrebbero essere, alla bellezza, saluta così i versi del poema Il

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pensiero fluttuante della felicità dal volume Su fondamenti invisibili: Finché una luce senza margini d’ombra illumina l’oscurità del tempo, risale ad uno ad uno i suoi tornanti e m’accorgo di te entrata nella mia vita... (Scorre scorre il cammino della vita; ma ecco, non previsto, un appuntamento del destino...) “A Noemi, che è dono e luce”: è questa, non poteva essere che questa, la dedica del primo libro pubblicato dopo l’unione sacra con la donna del mio destino e della mia vita. Dopo più di un trentennio vissuto insieme, la riscriverei con le stesse parole. La luce, quando si manifesta non solo come bagliore, ma anche come continuità e durata, acquista particolari modalità e qualità. Il dono di luce si diffonde nel quotidiano per conferirgli significato e sapore. Avvalora la condivisione, che arricchisce le occorrenze del vivere («il partage è ciò per cui siamo nati», scriveva, e praticava, il grande amico d’anni giovani Eugène Kuttel, deputato a Berna). Bellezza di un luogo bello visto insieme, di un’opera bella ammirata insieme: quella bellezza era lì proprio per aspettare noi due; e per che altro, sennò? Altra cosa importante da tener presente: commentata a due voci, con scambio di sensazioni e di impressioni, l’esperienza della bellezza si potenzia in pienezza e in senso. Non più giovani (stavo per aggiungere ‘ahimè’, ma no, no, sarebbe ingratitudine verso il destino), seduti quietamente, vis à vis, in un locale accogliente e gentile, come lo vedo sempre bello il viso di lei! Nel fluire della vita, il dono di luce compenetra le mille attenzioni e premure, e la tenerezza discreta di certi gesti e sguardi, che vorrei – e purtroppo non sono – esser sempre capace di cogliere e apprezzare nei minimi particolari, e prontamente ricambiare. Chissà di quante provvide attenzioni e premure oblative non ho neppure contezza: sbocciano nel silenzio, anche in mia assenza o in momenti di mia inadeguata ricezione. Nulla però va perduto. Tutto si


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fonde in aura, in essenza di vita, e si respira con l’anima. Chi respira, si sa, non si accorge neppure di respirare; ma l’anima ne resta misteriosamente ossigenata. Ogni distrazione dietro un pensiero che abusivo ci occupa, quando invece uno sguardo di tenerezza cerca e chiama il nostro, è mancanza non veniale. Prendersi il proprio tempo: nemica è la fretta, il rimo alienante delle nostre vite, anche contro saggi propositi. Ogni occasione di luce, anche piccola (ma no, non ne esistono di piccole) da costruire e vivere in due va colta e tenuta ben stretta e conservata poi gelosamente come “ricordo di luce insieme” da rigodere, in aroma e senso, nell’avvenire. È irripetibile e sacra. Sacra verso la Vita. La mia “fotologia dell’anima” insegna che la luce del “due insieme” (uniti e distinti) della coppia integrata ha maggiori possibilità di operare beneficamente su altri, di generare atti e climi positivi intorno a sé. Il “motivo coniugale” diffonde una melodia delicata. Lo so bene. Quel motivo, ora, lo sento crescere di intensità, tra le cadenze della scrittura, e potrei lasciarlo cantare ancora un poco. Ma gli si addicono toni discreti e sommessi, timbri vellutati. Metto la sordina alla piena del cuore. Prendo di nuovo a braccetto l’amico Boccaccio, lui così malizioso, io così candido e ben lieto di esserlo. Per concludere, mi riallaccio a uno spunto iniziale. Anche dalle donne che mi hanno donato non molto più che immagini da sognare, da ricordare dolcemente, da desiderare ardentemente, da associare a progetti di vita non realizzati – a volte anche la distanza e l’assenza hanno una propria musica, raffinano il sentire, cesellano l’anima – m’ è pervenuta luce. A volte soltanto un bel sorriso, un bel sorriso convinto di donna (come del resto quello di un bambino felice) può accrescere la durata della vita. Ne è scaturito, verso l’Eterno Femminino, un flutto di gratitudine da tesaurizzare con gioia. Emerico Giachery Foto prima pagina: Noemi Paolini Giachery

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COME ABBIAMO FATTO !? Immote le case stanno fra tutti questi suoni di questi umani giochi a forma di commedie che si abbandonano e si trasformano in drammi e poi sfuggono o condotti in tragedie mutanti nell'oblio annientando i nostri giochi ed il gioco. Perché ? Perché ! ? Come abbiamo fatto a dimenticar Noi Stessi L' Amore Che Siamo e lo spirito di gioco ! ? Come abbiamo fatto a dimenticar di vivere la nostra Essenza il nostro Essere Spirituali ! ? Michele Di Candia Inghilterra

LUNEDÌ DI PASQUA DEL 2014 Contro le finestre dei vicini del pianterreno mettono le loro bici i loro scatoloni le loro macerie i vari materiali che non vogliono più Dalla finestra buttano sul loro mucchio di materiali diversi le loro patatine i loro strofinacci le loro bottigliette le loro bottiglie di vetro i loro mozziconi accesi meteore rosse che hanno appena incendiato il nostro appartamento Béatrice Gaudy Francia


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ERRI DE LUCA SCRIVE ED IMMAGINA IL VOLTO DEL FIGLIO DEL VENTO di Ilia Pedrina

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I compone ora in forma quasi di rappresentazione popolare la passione di Erri De Luca: dare traccia in parole delle immagini che esse stesse provocano rispetto alla narrazione. Ecco dunque 'La Faccia delle Nuvole', il suo più recente volumetto, pubblicato da Giangiacomo Feltrinelli nel marzo 2016, per aprire la lettera che compone la vita concreta di quel Vento che è entrato nel ventre di Myriam/Maria e si è fatto Ieshu/Gesù. In copertina una nuova lettera ebraica, antichissima, elaborata dall'Ufficio grafico Feltrinelli: la sua forma mi riporta alla seconda lettera dell'alfabeto ebraico, la 'beth', la casa a partire dalla vita e dalla scelta, in forma chiusa su tre lati ma aperta a sinistra, perché ci sia un passaggio onde far entrare l' imprevedibile, fosse anche il male stesso. L'Autore si trova a suo agio perché dopo aver tradotto in italiano tutte le parti ebraiche che compongono la Torah, ha acquisito dimestichezza con questa scrittura così sacra da essere legata al respiro, alla vita stessa di chi sta investigando. Egli ne dà riscontro allora in questa narrazione semplice e profonda, poeti-

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ca e concretissima al tempo stesso, agile ed immaginaria, a segnalare, a provocare un cambiamento nelle nostre rappresentazioni della piccola famiglia composta da Josèf/Giuseppe, Myriàm/Maria ed ora Ièshu/ Gesù: “Credere in amore non è cedere, ma accrescere, aggiungere manciate di fiducia ardente”, sostiene Erri De Luca nella breve 'Premessa' al canto in prosa che si accinge a donarci. Un canto scandito in tre ambienti di vita quotidiana, nella quale un personaggio discreto, saggio ed assertivo al tempo stesso, il 'Narratore' affianca la giovane coppia che ha sfidato la storia delle leggi e delle consuetudini consolidate, figura palpitante che lascia in intreccio poi altre voci e più articolati profili: I Stanza della capanna - II Stanza in Gerusalemme - III Sulla cima del Golgota (pp. 15-65). In Appendice tre momenti illuminati della relazione tra Ièshu/Gesù, i suoi amici, il loro mondo: Ultime istruzioni - Il discorso Dayènu, ci basta. Sul colle Getsemani (pp.


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67-88). I pastori che chiedono di vedere il piccolino parlano la lingua antica delle terre napoletane e portano doni semplici e necessari come ricotta fresca, legna d'ulivo ben stagionato, latte fresco offerto con devozione: già in ciascuno di loro si innesca il bisogno di far assomigliare il volto di questo nuovo nato non a quel se stesso che sarà, ma al re Salomone, o forse ad Elia o forse ancora a Davide re anch'esso: 'Josèf: Troppa grazia, è solo una piccola vita appena spuntata al mondo. Se vorrà il cielo farà il mestiere mio, sarà un buon falegname. Di profeti ne abbiamo avuti assai...' (Erri De Luca, op. cit. pag 25). Qui le rassomiglianze vanno lontano nel tempo e lo portano avanti come se fossero l'intimo volto della promessa, che ha in risposta, al suo interno, il fuoco della speranza, principio d'azione che assume con forza la direzione tra passato e futuro in questo presente non ipotetico e senza confini. È poi la volta dei Magi che si esprimono in lingua ufficiale e portano anch'essi doni tra l'incenso e l'oro ma è dalla bocca del terzo, quello che reca la preziosa mirra, che sgorga in parole il profondo senso del tempo: 'Terzo (tra i Magi): … Lo so che non capite la mia lingua, ugualmente vi dico da questo capolinea del mio viaggio: qui vedo il tempo che si spezza in due, tra un prima e un dopo. Sono presente all'ora in cui succede la frattura, ora nitida in cielo e ricoperta di segreto in terra. Sul cerchio della meridiana l'ora zero del tempo è senza ombra...' (op. cit. pag. 28). Gli eventi si susseguono in lacerante tensione perché nella 'Stanza di Gerusalemme' l'Autore mette in bocca a Myriàm parole che lasciano sgomenti e quasi interdetti: 'M: Hanno ammazzato i bimbi per cercare il nostro, hanno versato il più innocente sangue. Che possa ricadere su di loro il fuoco delle nuvole. Questo nostro bambino inizia la sua vita da scampato alla strage. Si porta dietro uno strascico di sangue e il grido di dolore delle madri. Quanto dovrà fare per ripagare il loro strazio? Quanta misura di risarcimento dovrà versare in cambio?...Verrà a sapere da che storia viene, sarà disperato e niente, nessun

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sacrificio gli sembrerà abbastanza..' (op. cit. pag. 35). Queste parole, ispirate ad una ancestrale legge che vendica il sangue innocente versato attraverso il passaggio obbligato di un sacrificio trasparente, quanto più volontario possibile, trovano il loro vero spessore nei ricchissimi profili d'immaginario che l'Autore porta in sé dopo aver fatto esperienza con le lettere sacre della Torah, vive e benefiche in ogni tempo ed aggiungono una versione profonda, originale, trasversale del sacrificio di Gesù. La lettura di questo testo ti coinvolge e non lascia spazio che per respirare: la 'Stanza di Gerusalemme' si chiude con pagine d'umanissima semplicità, illuminata dalla dimensione della fraternità, quella che Ieshu porta in sé per guarire dalla solitudine e da ogni male. Comprendi allora, in profondità, che questa è la stessa mano che ha tracciato la preghiera laica 'Mare nostro che non sei nei cieli'. 'Narr.: La faccia delle nuvole è il destino di chi viene scambiato per qualcun altro. Essere frainteso: faceva guarire e allora accorrevano ai suoi passi, ma non era quella la sua specialità... Semplicemente lui non apparteneva al mondo... Esistono energie che trasformano dall'interno una persona, si, una per volta. Una candela può accenderne solamente un'altra, una per volta...' (op. cit. pag. 55). L'antica saggezza rabbinica del Talmud ti viene offerta così, tra le righe e te ne appropri proprio grazie a quella fraterna semplicità che incide e modifica i tuoi passi. 'Sulla cima del Golgota': c'è spazio ora solo per loro due, Josef e Myriam, soli. La narrazione nelle pagine a seguire ci avvia ad eventi che portano luce carica di verità e d'ispirazione: la Resurrezione come dimensione attiva e coinvolgente dell'infinito, condivisa con viandanti in viaggio verso Emmaus; il discorso alla folla che si piazza da ogni parte per ascoltarlo e spiazza gli invasori, quei romani che non tollerano l'autonomia dei popoli nell'abitare liberi le loro terre e che ammazzano, si, di tasse e con armi inique. Su di loro, contro di loro perché ci sia cambiamento, le parole antiche di un profeta che tutti avevano


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in petto: 'L'uomo in piedi sull'altura si era schierato, stava con l'abbattuto di vento, con lo 'shefàl rùah'. La traduzione nostra 'poveri di spirito', perde per strada il carico prezioso di Isaia, profeta caro all'uomo sull'altura... Quando i primi diventano gli abbattuti di vento non esiste più il potere e il suo diritto. Era un annuncio che riscaldava il cuore, senza armarlo d'ira e di rivolta. Non valeva più la pena, non aveva più senso contrastare la potenza fasulla, priva di fondamento in cielo e perciò parassita in terra. Date a Cesare tutti i suoi simboli di grandezza, sono solo gingilli per bambini...' (op. cit. pp. 82-83). Il terzo momento, che conclude questa narrazione, porta nelle parole scritte il palpito dell'ansimare nella solitudine della sofferenza, quando si chiede all'altro prossimità e condivisione e si ha in risposta il sonno a palpebre pesantemente chiuse: 'Ora stava tra gli ulivi e trasudava stretto tra il desiderio di vivere ancora e l'altra volontà. Ancòra: fino all'ultima sillaba di vita e caloria, sentiva i colpi del suo cuore che batteva ancòra, ancòra, ancòra. In ebraico sono simili ai battiti: od, od, od...' (op. cit. pag. 87). Da queste pagine emerge un nuovo profilo di Gesù: quello delle parole che pronuncia, lettere messe come selciato di un percorso che si fa storia e storia tutta interiore, docile al cambiamento destinale. Ho affiancato, certo senza premeditazione, questa lettura a due momenti intensi della ricerca di senso, delle immagini come dei testi e dei progetti in divenire. Il primo riguarda Giotto e la sua raffigurazione della morte di Gesù nella Cappella degli Scrovegni in Padova: il volumetto allegato a 'Il Sole24ORE' è elaborato da Alessandro Tomei per la Silvana Editoriale, risale al 2003 e mostra con testi ed immagini esplicative 'Il Compianto sul Cristo morto', con il corpo livido di Gesù, quasi del color della roccia, sostenuto dalle braccia di Maria: il volto di lei, madre dolentissima, si avvicina moltissimo a quello del figliolo, quasi a fornirgli ancora respiro, in drammatica tensione. Sostiene il Tomei:' 'La composizione è dominata dalla figura distesa del Cri-

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sto, attorniata dai dolenti, ognuno dei quali instaura un rapporto emozionale diverso con il proprio dolore per il sacrificio del Salvator Mundi e con la rappresentazione della morte stessa, incarnata dal corpo livido e rigido, non appoggiato sul terreno ma sorretto dai dolenti, secondo l'antica tradizione iconografica bizantina. Tutti gli elementi costitutivi della scena convergono verso il fulcro espressivo dell'evento: l'intenso, muto dialogo tra la Vergine e il figlio, ovvero tra la vita e il mistero della morte dell'uomo-Dio. Il dolore della madre, pur nell'umanissima e protettiva tenerezza del gesto, è contenuto, anzi sommessamente manifestato dalla vicinanza dei volti e dall'intensità fermissima e intima dello sguardo. È come se Maria volesse dimostrare la propria consapevolezza della necessità del sacrificio e al tempo stesso avesse qualche presagio della imminente resurrezione...' (A. Tomei, op. cit. pag 7). Il secondo è relativo all'evento 'Il talmud rinasce dai roghi', articolo firmato da Giulio Busi per il Domenicale de 'Il Sole 24ORE' del 27 marzo 2016: è stato dato avvio alla prima traduzione in lingua italiana di tutto il Talmud Babilonese, grazie ad un importante accordo tra presidenza del Consiglio dei ministri, Miur, Cnr, Ucei-Cri, mentre tantissimi sono gli studiosi coinvolti, circa cinquanta, sotto la guida esperta del Rabbino Riccardo Shemuel Di Segni e con Clelia Piperno in qualità di direttrice del progetto. Vi ha parte importante anche l'Istituto di Linguistica computazionale del Cnr di Pisa ed il Primo Volume dell'opera, per i tipi della Giuntina di Firenze e relativo ai commenti ed al trattato Rosh haShanah, il Capodanno ebraico, è stato presentato al pubblico ed al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il 5 aprile scorso, presso l'Accademia de' Lincei in Roma. Sostiene lo studioso G. Busi: “Confische, censure, roghi, a intervalli regolari il libro ha rischiato l'estinzione. E ogni volta, gli sforzi degli inquisitori sono stati vani. È vero che i manoscritti antichi sono rarissimi, a causa delle persecuzioni, ma è altrettanto certo che il Talmud è come un fiume contro cui si sono costruiti argi-


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ni e si sono ammassate dighe, senza metterlo mai in secca. Un autore solo lo si poteva cacciare in prigione, e bruciare. Ma cento, mille? Nel 1553, per volere di Giulio III si fece un gran falò di copie del Talmud a Campo de' Fiori, a Roma. Ad andare in cenere furono carte e pergamene, l'opera continuò a circolare. La diaspora era vasta, molto più capiente di una piazza o di una città...” (G. Busi, art. cit.). Le lettere ebraiche allora hanno coinvolto, con il loro fascino, oltre al nostro Autore, altre menti che, dando forza alle mani ed ai piedi, si sono messi in cammino, per capire qualcosa ancora del mistero che circola nel nostro respiro e lo illumina di esperienza. Ilia Pedrina

SOCRATES 1908 Molti anni fa, nella locanda di Cosma, si sparava ai barili. Un colpo e il vino zampillava come una fontana inturgidita per il grande caldo e per quel desiderio di farsi sabbia e svanire nel fiotto tiepido di una ferita aperta. L’ora della siesta era il tempo delle danze a suon di singhiozzi, nel retrobottega odoroso di aneto – e per un secolo si è conservata la malìa senza nome, intrecciata ai capelli bui delle donne. Ogni resurrezione era un fremito di cosce, un calcio al cane nero, una bestemmia sussurrata per oltraggiare il mendicante cieco. Anche questa notte una canzone turca fa tremare i fianchi e ondeggiare i polsi e i rami d’ulivo; riesce a sovrastare perfino le chiacchiere inutili degli avventori e il frinire fino a sera di donne e cicale.

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Sappi che qui tu e io come altri folli impazienti prima di noi dovremo crepitare, stretti nell’abbraccio feroce dei naufraghi, non più tardi della prossima alba. (Grecia, luglio 2009) Eloisa Massola Casale Monferrato, VC

DURANTE LA MESSA (Parrocchia di S. Cipriano, Milano, 13 marzo 2016) Scendevano di corsa dall’altare i bambini di terza e quarta classe elementare dopo aver partecipato, con la loro presenza al fianco dell’officiante, al mistero della consacrazione. Scendevano di corsa disperdendosi fra i banchi per tornare ai propri posti, scendevano e si distribuivano rapidi nei banchi come pioggia di petali leggeri. Un pittore avrebbe certo saputo fermare sulla tela quella loro felice corsa, ma non avrebbe potuto completarla col loro lieve calpestio evocatore del battito d’ali di farfalle. Mariagina Bonciani Milano

AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 2/4/2016 L’Ammiraglio Giuseppe De Giorgi, capo di Stato maggiore della Marina, è indagato per aver patrocinato l’acquisto di quattro navi militari. Alleluia! Alleluia! Non sarà solo per questo, altrimenti, per certi nostri magistrati d’assalto, anche l’auspicare il potenziamento dei propri mezzi costituirebbe un delitto. Domenico Defelice


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Erodoto di Alicarnasso corrispondente di guerra FILIPPIDE NON HA CORSO LA MARATONA Ha invece corso la gran fondo Atene-Sparta Senza cavallo: perché? di Rossano Onano

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E mamme di Atene. Sente il cuore scoppiare, la vista si annebbia ma continua la corsa barcollando, fino a raggiungere la piazza di Atene gridando “Nike”, vittoria, poi crolla a terra, ucciso dalla fatica. La vicenda del guerriero Filippide che corre a piedi da Maratona per annunciare ai cittadini la vittoria greca sui persiani di Dario appartiene, dal tempo delle scuole elementari, al nostro immaginario collettivo. “Un atleta poco allenato”, commentava Gianni Brera, giornalista sportivo grande e cinico. Il testo di lettura delle elementari riferiva l'episodio giocando, ignobilmente, sulla nostra ansia infantile di separazione materna. Filippide, stravolto dalla fatica, continuava la corsa senza concedersi una sosta di riposo: “Le nostre mamme, ad Atene – il maratoneta diceva a se stesso – sono in ansia, devo annunciare la vittoria il più presto possibile”. Le spose no, il testo lo escludeva, chissà i bambini cosa avrebbero pensato. Ricordo di avere rivolto alla gentile maestra questa domanda: “Ma Filippide, non poteva usare un cavallo?”. Ne ricevevo una risposta poco convincente: i cavalli erano tutti morti in battaglia. La stessa domanda: perché Filippide non è montato a cavallo?, l'ho rivolta per l'ultima volta durante una visita in Grecia, proprio guardando la piana di Ma-

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ratona. La guida turistica, un greco edotto di storia, mi rispondeva mimando il gesto di Balotelli dopo un gol, quando si toglie la maglia e mostra i muscoli: “Perché Filippide voleva dimostrare di essere forte!”. Ma come, le mamme di Atene non avevano più fretta?, non erano più ansiose? Gli asini di Dario. Per sapere come siano andate le cose, mi sono affidato alla lettura di Erodoto, formidabile cronista delle guerre persiane da poco trascorse. Il Gran Re di Persia, Dario, prepara l'invasione della Grecia prendendo la faccenda un po' da lontano: decide di aggirare la Grecia assoggettando dapprima gli Sciti, popolazione nomade affacciata al Mar Nero. Alle spalle degli Sciti la sterminata pianura russa, d'inverno ricoperta da fiocchi di cotone, che sarebbero poi la neve. Essendo nomadi, gli Sciti erano abbondantemente provvisti di cavalli. Vale la pena ricordare quale sia stata la loro strategia difensiva: cercano dapprima l'alleanza dei popoli vicini. Alleanza che, tramite ambasciatori, viene rifiutata: “Questo messaggio fu riportato agli Sciti, i quali, come l'ebbero conosciuto, deliberarono di non venire in nessun caso apertamente a battaglia campale col nemico, dato che gli altri popoli non volevano confederarsi con loro; ma di ritirarsi a poco a poco, con le cose loro, colmando e otturando nel


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passaggio i pozzi e le fonti, ed estirpando l'erba dal suolo, divisi in due corpi d'armata”. I due corpi d'armata portano a spasso l'esercito di Dario, mantenendosi alla distanza di un giorno di cammino. I Persiani incalzano, senza mai raggiungerli. Finché, sfiniti e ridotti alla fame dalla mancanza d'approvvigionamento, decidono di tornare alla costa, per imbarcarsi e tornare in patria. Nel corso dei secoli successivi, i condottieri avventuratisi per le pianure russe sono caduti nello stesso trabocchetto. Napoleone e Hitler non avevano letto Erodoto. Mussolini, che era maestro di scuola, avrebbe dovuto conoscerlo. Veniamo al dunque. I Persiani manovrano per imbarcarsi, i due corpi d'armata degli Sciti, con tutti i loro cavalli, fanno marcia indietro e convergono per sterminarli. L'esercito di Dario, però, è abbondantemente provvisto di asini e muli: “La Scizia, come ho già ricordato, non produce né asini né muli; così, in causa del freddo, non si può trovare in tutta la Scizia un solo asino o un solo mulo. Accadeva, perciò, che il raglio degli asini imbizzarriti portava lo scompiglio nella cavalleria scitica; e spesso, nel bel mezzo d'un assalto, all'udire il raglio degli asini, i cavalli retrocedevano spaventati, drizzando per stupore gli orecchi, come quelli che non avevano mai, prima d'allora, udito quella voce, né veduto simile animale”. Bisogna ammettere che i cavalli degli Sciti fossero parecchio sensibili. E comunque, le cose andarono così: furono gli asini e i muli a salvare l'esercito di Dario. La prudenza di Milziade. Riguardo alle qualità militari del Grande Re di Persia, paragonato ai suoi predecessori, Erodoto se la sbriga con una frase: Ciro era un padre, Cambise un despota, Dario un mercante. Seppure mercante, nelle cose di guerra Dario era parecchio puntiglioso. Imbarca sulla flotta tutti gli asini e i muli e decide di assalire direttamente la Grecia, sbarcando a

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Maratona. A capo dell'esercito greco è Milziade, ateniese, il quale raggiunge a sua volta la piana di Maratona e pensa di fermare i nemici, diciamo così sul bagnasciuga, appena sbarcati. Il genio militare di Milziade è straordinario: dispone il proprio esercito in modo che il centro sia debole, mentre rafforza le due ali. I Persiani sfondano il centro e avanzano, incuneandosi fra le due ali, che convergono su di loro. I Persiani si trovano circondati, soccombono. Nel corso dei 2500 anni successivi, tutti i più grandi condottieri della storia hanno copiato Milziade, schierando al centro la compagine più debole, e rafforzando le ali. Il nemico, che evidentemente non ha letto Erodoto, quando vede un centro debole non resiste, avanza e s'imbottiglia. Erodoto non dà cenno che l'esercito greco a Maratona fosse provvisto di cavalli. Per quale motivo?, continuo a chiedermi, e mi do una spiegazione affascinante. I Greci dell'epoca erano svegli come le nostre Repubbliche Marinare del Medioevo: solcavano i mari istituendo stazioni commerciali sulle coste. Avevano stazioni anche nel Mar Nero, dove erano venuti a contatto con gli Sciti. Curiosi come erano, i Greci si facevano raccontare le storie locali, e gli Sciti avevano riferito la faccenda degli asini e muli persiani diabolici, perché in grado di spaventare i cavalli. Motivo per cui Milziade, prudente, decide di combattere a Maratona senza cavalli, non si sa mai. Ovvero: Filippide non può andare a cavallo da Maratona ad Atene, perché l'esercito greco era sprovvisto di cavalli. A questo punto, uno si aspetta che il pignolo Erodoto ci renda comunque edotti circa l' impresa di Filippide, che corre a piedi verso la sua città per annunciare la vittoria. Invece, niente. L'esercito greco, dopo la vittoria, torna tranquillamente ad Atene, senza farsi precedere da una staffetta. Ovvero: la corsa di Filippide senza cavallo da Maratona ad Atene non c'è mai stata, è una bufala. La Gran Fondo Atene-Sparta. Senon-


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ché, il corriere Filippide compare in altra sede, prima di Maratona. Gli ateniesi cercano l'alleanza di Sparta: E per prima cosa gli strateghi, mentre erano ancora in Atene, mandarono araldo a Sparta Filippide ateniese, di professione emeròdromo. Mi avvalgo di antichi studi liceali per capire cos'è un emeròdromo: un uomo “capace di correre per un giorno intero”. Filippide giunse a Sparta il giorno dopo la sua partenza da Atene,e chiede aiuto. Ovvero: percorre in 48 ore più di 200 Km, a piedi. Altro che maratona olimpica, si tratta di 100 Km al giorno. Non è uno scherzo, ma un emeròdromo ce la può fare. Gli Spartani, pensando in cuor loro “abbiamo già dato alle Termopili”, rispondono all'invito chiedendo tre giorni di tempo per preparare l' esercito e mettersi in marcia. Arriveranno ad Atene quando la battaglia di Maratona è già agli archivi. Filippide ha corso più di 200 Km in 48 ore per niente. Detta così, l'impresa è ugualmente straordinaria, ma non ha nulla del carattere epico di cui si ammantano le leggende. I Greci, meravigliosi artisti del pensiero, ne hanno bisogno. E allora, ultima spiegazione: Filippide è stato l'inutile corriere inviato a Sparta; trasferito, nella leggenda orale, a Maratona per stramazzare gloriosamente di fatica gridando alla mamme ateniesi: “Nike”, vittoria. La Matrioska. La storia è una Matrioska, la bambola russa che contiene una bambola che contiene un'altra bambola, e così via. Ti sembra di risolvere un problema, e se ne apre un altro: perché Filippide, dovendo percorrere gli oltre 200 Km da Atene a Sparta, non ha inforcato un cavallo? Rossano Onano Carissimo Rossano, chi segue da vicino Pomezia-Notizie sa che la nostra - sempre più limitata per spazio - Redazione è, in effetti, un autentico porto di mare. Dal 2007 ospita costantemente gruppi ristretti di giovani laureandi (tre, quattro per volta); da sempre, invece, è frequentata, da affiatati collaboratori dei paraggi (un esempio è il carissimo amico prof. Tito Cauchi, che viene a trovarci quasi ogni mese) e da collaboratori italiani e stranieri che, arrivando a Roma

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per vari motivi, decidevano e decidono di far visita alla mia creatura di carta, con ciò riempiendomi di orgoglio. Ricordo, per esempio, i tanti incontri con Solange De Bressieux (della Sorbona di Parigi); con l’attore Hubert Gravereaux (pure francese); con Anita Nardon (poetessa belga innamorata dell’Italia); con Orazio Tanelli (arrivato dal Molise - dove aveva trascorso alcuni giorni - con un gruppo di parenti, prima di rimbarcarsi su un volo per gli USA dallo scalo di Fiumicino); con Maria Grazia Lenisa (da Terni, assieme al marito e alle due figlie, Marzia e Francesca, ancora piccole); col pittore e scrittore Saverio Scutellà eccetera. Un lungo elenco se volessi riportarli tutti, del passato e del presente. Ora, siccome il cinque aprile scorso, inviandomi il pezzo - da te stesso definito “semiserio” -, mi chiedevi “se hai una tua versione, diversa dalle mie, potresti aggiungerla in calce”, ho pensato di farlo leggere in anteprima a un gruppetto di studenti universitari (due ragazze e un ragazzo) nell ’incontro dell’otto aprile mattina. Sono rimasti affascinati. Il maschietto s’è permesso pure di cazzeggiare sulle spose dei poveracci che combattevano a Maratona, mentre le donne hanno tifato per le madri dei militi e per i figli, in ansia, speranzosi di poter abbracciare i propri cari. Riguardo la vicenda del maratoneta, si è escluso che egli fosse “un atleta poco allenato”; che i cavalli fossero tutti morti; che “Milziade, prudente”, avesse deciso “di combattere a Maratona senza cavalli”. Una delle ragazze ha propeso che fosse un “emeròdromo”. L’altra, che fosse un soldato pedestre, che, cioè, combattesse solamente a piedi e non fosse in grado di andare a cavallo. Il maschietto, però, prendendola alla larga, ha voluto prima raccontarci dei raduni romani dei Gay Pride, con i giovani e le giovani travestiti da papa e suore, o, per lo più, quasi svestiti per mettersi in evidenza, per attirare l’attenzione, concludendo che Filippide, fosse stato un “emeròdromo”, un fante, un combattente pedestre che non sapesse andare a cavallo, ma anche un bel gay vanitoso ed esibizionista (si correva nudi e nudi anche spesso si combatteva).Milziade - come Pericle, come Ciro e tanti altri - era un incantatore di popolo, ma anche uno stratega e per annunciare la vittoria avrebbe potuto organizzarsi diversamente, ma Filippide, col suo corpo statuario alla Balotelli, ha insistito, lo ha pregato, ha quasi pietito, convincendolo: “Ci vado io! Ci vado io!”, per farsi ammirare e desiderare. La sua, insomma (e concordo), è da considerarsi solo una nuda, narcisistica esibizione finita male! D. Defelice


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LEONARDO SELVAGGI AFFRONTA GIOVANNI GENTILE E NE NASCE UN DETTAGLIATO E STIMOLANTE PROFILO di Ilia Pedrina

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OMEZIA-Notizie, lo sappiamo da tempo, è un punto di riferimento assai ampio per investigare attraverso l'opera di tutti i collaboratori, la Cultura, la Storia, la Poesia, le Arti e le Vicessitudini d'ogni giorno, quasi un crogiolo di conoscenze e di moti dell'intelletto, in concentrazione pensosa o in arguto e dinamico incedere. Tutto questo per formare, non solo per informare. Alla sua guida, da oltre quarant'anni Domenico Defelice, che sferza il potere a schiette sciabolate metaforiche e che nel contempo sa far vibrare parole in canto che, oltre alla lingua francese, chiedono ora altri approdi, altre sonorità per più ampie risonanze in riscontro. Questa premessa è necessaria per avviare il mio viaggio intorno ad un articolo di Leonardo Selvaggi, 'L'ATTUALISMO DI GIOVANNI GENTILE (Castelvetrano 1875 – Firenze 1944), apparso su questa Rivista nel Novembre 2015. Si suddivide in quattro sezioni essenziali ed efficaci al tempo stesso perché, credetemi, una sintesi così articolata e pertinente non mi era stata ancora offerta alla lettura. Su Giovanni Gentile lavoro da tempo ed ho sentito emergere a gran voce, nello scritto del Selvaggi, la richiesta urgente di approfondire gli aspetti complessivi di questo filosofo tutto italiano! Nella Sezione I egli offre le coordinate biografiche della formazione teorica ed esegetica, critico-esperienziale del Gentile, proprio in quella Scuola Normale di Pisa, quale allievo di Donato Jaia, del quale poi verrà a continuare l'insegnamento, in modo originale e compiutamente vitalissimo: importante e denso di future investigazioni è il breve elenco di lavori del Gentile che si agganceranno a questa matrice e ne daranno ottimi frutti: “… 'Rosmini e Gioberti', l'edizione dei Dialoghi Italiani del Bruno, il commento all'Etica di

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Spinosa, il volume su Telesio, la traduzione di parte della Critica della ragion pura di Kant... le 'Ricerche storiche' dal Genovesi al Galluppi e l'ampio saggio premesso all'edizione in volume degli 'Scritti filosofici' dello Spaventa...” (Pom. Not. Non 2015, pag. 29). In questa stessa sezione dati biografici di rilievo essenziale, come l'amicizia e la collaborazione del Gentile con Benedetto Croce fino ad arrivare al suo ruolo istituzionale come Ministro della pubblica Istruzione, dal 1922. Nella sezione II Leonardo Selvaggi approfondisce le caratteristiche di quella Riforma della Scuola Italiana, in vigore dal 1923 e ben solida a tal punto da chiamarsi 'Riforma Gentile' e da durare così molto oltre la fine del Fascismo e della II Guerra Mondiale, con gran parte dei docenti intenti ad ignorare sia il suo Autore che il suo Pensiero! “…. Sempre più legato al regime, approva il Concordato con la Chiesa cattolica... Nel 1943 non si stacca dal fascismo, aderisce alla Repubblica di Salò. Questo senza dubbio costituisce un atto di fedeltà al regime di cui è stato il leader culturale, e, oltretutto un atto di coerenza morale. Nel 1944 viene ucciso da mano partigiana, davanti alla sua casa di Firenze” (Pom. Not. op. cit. pp. 29-30): così il Selvaggi, con stile scarno ed al tempo stesso illuminante, ha preparato il terreno per affrontare, nella sezione III, le linee portanti del pensiero del filosofo, tutte convergenti nel dare concretezza al pensiero che si fa azione, passando attraverso la citazione dei suoi scritti filosofici e storici dal 1911 al 1943, sostando appunto sugli approfondimenti legati sì alla filosofia tedesca, ma illuminati profondamente dalla propria originalità in divenire, che ha solide radici nella storia del pensiero filosofico italiano. Sostiene L. Selvaggi per chiarire questo complesso tema: “... Gentile oppone alla logica statica del pensato la logica del concreto. All'origine di tutto è dunque l'atto del pensiero pensante, che è il costituirsi della verità nell'atto stesso del pensiero che pensa... Arte e religione non possono sussistere se non in quanto l'una e l'altra si risolvono nella filosofia, è la sintesi che rende possibile la tesi e l'


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antitesi. Pertanto arte e religione debbono venire assorbite dalla filosofia...” (ibidem). Nella sezione IV il Selvaggi analizza in modo acuto e pertinente aspetti interni del pensiero di Giovanni Gentile a confronto con la filosofia di Benedetto Croce ma non solo: si deve prendere in mano questa traccia illuminante perché chiarifica complessi versanti dell'autonomia del pensiero filosofico italiano rispetto alle investigazioni di Kant e di Hegel, a partire proprio dalla produzione filosofica e pedagogica del Gentile. Mi riservo allora una necessaria sosta sulla Sezione I, sosta che va a sottolineare l'importanza tecnica di dettagli messi in luce palesemente: il vincolo teoretico che aggancia Giovanni Gentile a Bertrando Spaventa, da un lato, e la profonda consapevole ed organica conoscenza della lingua tedesca onde avviarsi nell'avventura della traduzione del testo di E. Kant dall'altro, con al centro, tra i due grandi mondi filosofici, i lavori del Gentile su Giordano Bruno e Baruch Spinoza. Allora mi prendo il volume del Gentile 'STUDI SUL RINASCIMENTO', seconda edizione riveduta ed accresciuta, nel quale si susseguono pagine interessantissime che raccolgono i suoi approfondimenti interpretativi su Francesco Petrarca e sui Dialoghi di Platone posseduti dal Petrarca stesso e poi ancora su Paolo Veneto, Leone Ebreo e Spinosa, su Machiavelli e la sua etica, passando sotto analisi i suoi concetti di religione e virtù, su Giordano Bruno, su Tommaso Campanella, su Galileo e i filosofi napoletani, con uno studio, il XVIII, che ha per titolo 'Contributo alla storia del metodo storico', che conclude il volume edito a Firenze da G. C. Sansoni, nel 1936 – XIV, di circa 300 pagine. Prendo in esame la Sezione X di questo testo, 'Studi Bruniani', che analizza in tre distinte parti, gli studi più aggiornati sul Nolano: I. Un libro inglese; II. Due libri italiani; III. Un libro francese. Mi soffermo sulla prima parte, nella quale Giovanni Gentile sostiene: “Dopo la monografia ancora utile di I. Frith (Isabella Oppe-

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nheim), riveduta dal Carrière (1887), ma direttamente concernente solo la vita di Bruno, la letteratura inglese s'è arricchita testè di un eccellente lavoro del prof. Intyre dell'Università di Aberdeen; il quale ha scritto sul Bruno uno di quei libri ordinati, semplici, eleganti di cui gl'inglesi posseggono il segreto; in cui la critica e l'anima dello scrittore si mostrano il meno possibile (as little as possible) e sono abilmente dissimulate dall'arte di narrare e di esporre, che lo scrittore adopera, di un'apparenza quanto mai ingenua, senza professione di metodi da seguire, senza discussioni o polemiche con gli studiosi precedenti. E la stessa preparazione erudita dell'autore si contenta di apparire discretamente in una semplice lista bibliografica a capo o in fondo al volume, la quale rende possibile che nel corso del libro l'apparato delle citazioni, spesso così pesante nei libri di storia tedeschi e italiani, si restringa a brevissimi rimandi, che non distraggono l'attenzione di chi legge..” (G. Gentile, Studi sul Rinascimento, op. cit. pag. 143). Il Gentile si riferisce qui all'opera di J. Lewis Mc Intyre 'G. Bruno', London, Macmillan, 1930, suddivisa in due parti, una dedicata alla vita del Nolano, l'altra alla sua filosofia, con tutti quei nodi che si intrecciano quando si tratta di essere denunciati -nel caso di Bruno a Venezia dal Mocenigo- a partire dalle proprie convinzioni intellettuali e non forse dalle distorsioni di esse provocate nella mente dello zelante accusatore ('le imputazioni del denunziante', come scrive il Gentile!). Nodi dei quali Giovanni Gentile dà appropriati profili ed intersecazioni, onde andare a chiarire, anche con il sostegno di altri studiosi in questo campo, come si siano svolti i fatti e quali i reali, concreti intenti teorici ed investigativi, in materia di religione e di filosofia, portati avanti dal Bruno nei suoi testi. Innanzi a tutti quel che di prezioso il Gentile trae dal Mc Intyre: “... Luce nuova, come annunziata nella prefazione, l'Intyre ha procurato di gettare sugli anni del Bruno passati (1583-85) nella Gran Bretagna, sui suoi rapporti con Castelnau, e sulla parte avuta in alcuni mo-


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vimenti letterari del tempo. Ma neanche a lui è riuscito di scoprire documenti diretti, relativi a questo periodo della biografia bruniana; periodo, del rimanente, a noi più noto e più chiaro d'ogni altro nella oscura vita del Nolano, grazie alla copiosa e vivace rappresentazione che egli stesso ne fece ne' dialoghi italiani...” (G. Gentile, op. cit. pag 145). E ci son tracce di Bacone, che Bruno può incontrare in Inghilterra o di probabili e non ancora ben chiariti rapporti tra Bruno e Shakespeare: su questo tema ben illuminante l'analisi di Gilberto Sacerdoti su Bruno e Shakespeare che andrò a recensire a tempo debito (G. Sacerdoti, Sacrificio e sovranità – Teologia e politica nell'Europa di Shakespeare e Bruno, Ed. Einaudi, Torino, 2001), mi porterà ancora a collegarmi con Giovanni Gentile, ringraziando così nuovamente il dotto Leonardo Selvaggi per questo importante e circostanziato, stimolante profilo. Ilia Pedrina

UN BRINDISI A TEMPO DI VALZER (sulle note della ‘Vedova allegra’ di F. Lear) Dall’azzurra nuvoletta di lassù nonno Pietro a nonno Eugenio mostra giù di Lambrusco vigne rosse tal rubin che buon vino danno nero e frizantin. “Caro amico” dice Eugenio “Il mio vin di Toscana è invece Chianti sopraffin”. “Dài, allor cos’aspettiamo! Su, facciam ‘cin-cin’. Tu col Chianti, io col Lambrusco, fino al mattin!” Sulla terra i due nipoti danzano, coi bicchieri nelle mani,

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brindano. “Alla nostra unione. Ai nonni di lassù. Un goccio di Lambrusco ed un buon Chianti, su!” Paolangela Draghetti Livorno

IN QUESTO VENTO Frusciano le foglie in questo vento che viene fra questi alberi si carezzano l'un l'altra e si concedono terra. Spargono colori i raggi della luce del sole dell'attorno tra le foglie vibranti e si chiazzano sull'erba. E' una pace vissuta e qualcosa si può fare si può sempre fare anche s' è bello stare in questo percepire senza pensare in questo spazio di vita così. E chissà quando ci riconosceremo spirituali immortali. Michele Di Candia Inghilterra

STORMCLOUD Sei apparsa sul mio sentiero come una nuvolanembo che in un istante è grande quanto il cielo. Corrado Calabrò Roma


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LUIGI MARIA LOMBARDI SATRIANI L’EVASIONE DAI GIORNI di Carmine Chiodo

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IA Elio Pecora sia Dante Mafia colgono molto bene la fisionomia di queste originalissime poesie del noto e apprezzato antropologo Luigi, M. LombardiSatriani ,che fin da giovanissimo si è cimentato nello scrivere versi e dopo varie esperienze di vita e di studio ecco che viene fuori questa silloge poetica che è convincente e nello stesso tempo, lo dicevo prima, originale nei contenuti e nella lingua. Una poesia, questa di Lombardi-Satriani che appartiene tutta all’uomo, allo studioso, al poeta LombardiSatriani che si confessa e lo fa senza reticenze: la sua poesia è poesia d’amore, quell’ amore visto e assaporato, concretizzato in varie maniere e forme. Da vario tempo leggo poesia contemporanea e non mi sono mai imbattuto in versi cosi nuovi e originali come questi che appartengono a questa silloge, attraverso i quali si coglie il modo di poetare dell’amore con temi diversi ma penetranti; versi che dicono come sente l’amore il poeta, lo vive e lo soffre pure, lo attende; amore che ha caratterizzato e caratterizza la sua esistenza. Ma ascoltiamo la voce del poeta: << Abbracciare una donna/di notte /e non essere soli,/ è tentare uno schermo tra la tua vita e quel buio/che hai a volte intravisto /e sai che ti attende /ma non dove né

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quando./Abbracciare una donna /di notte è trovare calore /e allontanare quel freddo/che ti richiama alla mente altro freddo /altre cose / che non puoi avere compagni /per tutta la vita>> (Abbracciare una donna, p.55); << Le cosce, la bocca, il seno di un’altra / o di un’ altra /con cui ho diviso serate/ e qualche momento di gioia,/ che ho goduto con egoismo da uomo / con difese e in maturo equilibrio /è pensiero cui a volte ricorro /ché si attenui la sete di te>> (Mi ritrovo ragazzo, pp.57). Comunque la poesia di LombardiSatriani procede con diversi ritmi e presenta varie situazioni, tutti espressi con linguaggio chiaro, intenso, che non presenta punte oscure, enfatiche, cervellotiche; c’ è un continuo rifarsi all’amore, alla donna che ora corrisponde e ora no, l’amore altre volte che è assente o si allontana, oppure l’amore che non appare a << lenire il dolore>> per cui << Son dure a passare/queste ore di notte / pensando a te, amore /che non appari a lenire il dolore>> (Questo stare in ascolto, p. 65). Più vado avanti nella lettura e più mi convinco che in Evasioni dai giorni nessun verso o immagine o situazione riecheggia altri poeti che la tradizione ha decretato essere grandi, quelli del Novecento, più vicini a Lombardi- Satriani, La sua è una poesia che nasce da vere situazioni ed emozioni espresse poi con un linguaggio all’apparenza comune ma che dice la bellezza, la forza, la fisionomia dell’amore di un uomo che è andato alla ricerca di esso. Non viene mai meno l’anelito ad amare, all’amore; c’è sempre – come confessa il poeta in Sapore di vita (p. 76) - << (…) la voglia improvvisa /di stringere ancora / un altro corpo di donna ,/ché non vuoi esser saggio/e arrenderti al feroce fluire del tempo>>. Vita e amore: c’è tutta la vita e l’anima del poeta e uomo Lombardi- Satriani in queste poesie riflessioni sulla vita e sull’amore; poesia sorgente dalla memoria e dai ricordi giovanili e che appartengono ad altre età dell’esistenza fino ad arrivare all’età adulta, anziana ma si è sempre attaccati all’amore, si tende sempre ad esso: la voglia d’amare e d’ amore non viene mai meno e al poeta per questo il poeta


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ama e gli <<piace spiare >> sul corpo del figlio Alfonso quelli che sono i << segnali /di quella nuova esperienza /che è l’amore per qualcuno che non sia /il padre o la madre>>, e ancora in questa poesia, tenerissima poesia al figlio Alfonso si legge: << Mi piace pensare che anche tu sarai bruciato /dal fuoco / che arde la vita, ed è vita:/ mi piace pensare /che per uno sguardo / ti sentirai capace di tutto;/mi piace immaginarti /pazzo di amore,/ felice, commosso, angosciato,/arrabbiato, esaltato ; (…)>> (p. 70). Sono convinto che le poesie che formano la silloge che sto esaminando sono scritte di getto come sentimenti ed emozioni dettano, e ciò viene fatto con sincerità e verità. Ci troviamo di fronte a versi che hanno il sapore talvolta di una definizione secca e categorica oppure hanno un tono colloquiale, narrativo, riflessivo: << Libertà è/scegliere che il proprio destino si compia>> (Gabbiano, p, 69); altre volte i versi si espandono più largamente e sortiscono da altre riflessioni e situazioni. << La sessualità che nel giovane /è diritto e splendore /nel vecchio è impossibile e oscena /e viene negata nonostante il corpo che pulsa,/ senza voler ascoltare ragioni /o possibili appelli>> (Gentilezza e stupori, p. 8). Il Lombardi-Satriani si serve della poesia per scrivere della sua vita, della concezione dell’amore, e di come lui ha amato e ama e lo dice in modi armonici e diretti e senza alcuna retorica o enfasi. Una poesia unitaria e armonica, e tutto si affida a un ritmo nella maggior parte dei casi narrativo ma nel contempo molto lirico e questo ritmo accompagna le situazioni che si notano in versi precisi e chiari come questi che ora cito: << La vita non consente ritardi / o processi di appello;/ è essa stessa un processo; (...)>> (Il castello, p. 68). Comunque nonostante il tempo passa, l’età” si fa più matura e anziana, nonostante si è << vecchi>> il << sangue >> urla e << l’impeto del cuore /è un bisogno di vita /che vuole ancora essere /e negare la fine /anche se ormai è prossima>>. “Certo il tempo dinanzi /si restringe sempre di più,/ con oggettiva ferocia./Eppure continuo a cercare parole/prole, parole/fino a che il

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buio verrà/e sarà davvero tutto finito>> (Ho citato da Congedo, p. 97). Ho voluto citare questi versi in quanto sono quelli che mostrano meglio l’intenzione poetica di LombardiSatriani che è quella di dire chi è stato, e che cosa è stata ed cos’è ancora la sua vita ricca di ricerca, di emozioni, di studi, di amore e che continua sempre. La poesia di Luigi M. Lombardi-Satriani è poesia di sostanza e di pensiero, non orecchiata o piena, peggio ancora di luoghi comuni o di versi scipiti e cervellotici ma al contrario ci imbattiamo in versi chiari, sinceri, ben fatti e costruiti: << La gentilezza sollecita /di persone che mi danno soccorso / o che mi cedono il posto negli autobus /mostrandosi volenterosi e cortesi /sono per me umiliazioni /perché mi confinano nel ruolo di vecchio /cui sono negati /desideri e pulsioni.>> ( Gentilezza e stupori, p. 81); <<Ma tu non sei più un ragazzo /e i castelli li fai con fatica./ E quando le case ridiventano rena bagnata /il dolore che provi / non puoi, di corsa, portarlo /piangendo alla madre /sdraiata che guarda lontano-/ché lo serbi per casa /quando a tavola si è tutti riuniti./Vai avanti ghignando,/ché, in fondo, sei un uomo>> Estate, parte VII, p. 28). Leggendo attentamente questa silloge si notano varie situazioni e varie emozioni, riflessioni, sensazioni, richiami a ciò che è stato ,alle varie emozioni e sensazioni amorose. Ma c’è soprattutto l’ anelito, la continua tensione, il continuo protendersi all’amore, quindi alla vita, ai desideri e alle pulsioni del cuore. Non ci si arrende mai, e basta l’amore a far risorgere e a vivere; basta una donna per essere rigenerati fisicamente e interiormente. Il poeta ora maturo e in là con gli anni ama ancora e quindi vive d’ amore e in ragione dell’amore; evviva la poesia che deve dire sempre la verità e quindi ecco che leggiamo << L’amore è la vita >> ma ciò << che dà calore /ai miei giorni /è parlare di te /del tuo corpo di latte /da bere abbracciandoti /e succhiandoti piano; […[]>> ( p. 78, Percorsi del corpo.). Importante sottolineare ora il fatto che il componimento dal titolo Era inverno è dedicato a Patrizia e tal testo mi spinge a dire che per il


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poeta con l’ amore ritrovato si inizia una nuova vita. L’ uomo e il poeta ora amano e da ciò gli stupendi e felici, umani versi. << Era inverno,/stanchezza di cuore,/ sei apparsa leggera, con la tua voglia di vivere,/ il tuo amore./E di nuovo il gelo si è sciolto./ Ho ritrovato il Calore,/ possibilità di futuro./Sei impetuosa ,/ pronta a slanci di amore /e non solo di amore,/cosi diversa da me,/ della mia cifra di vita,/ nel bene e nel male,/ nel mio rispetto formale dell’altro /e nel vorace egoismo./Sei più vera di me./ Non voglio rinunciare a questo tuo modo di essere/ rimpiangerlo se per qualche ragione dovesse finire./Sei la forma che ha assunto di nuovo l’amore / apparendo inaspettato e leggero>> (p. 96). L’amore ha operato il suo miracolo e questi versi ben azzeccati lo dicono apertamente. Per concludere queste mie impressioni sui testi poetici di Satriani debbo dire che sono ben riusciti, felici, originali, caratterizzati da vari ritmi e situazioni, fatti di attese, di speranze, di note malinconiche. Insomma è poesia vissuta e non letteraria, espressa con un linguaggio vivo, originale, e come pure originali sono i temi o i vari motivi amorosi e esistenziali. Colloqui interiori, ben misurati e intensi, e non posso non citare, per finire la mia analisi sulla poesia intensa e sofferta, vissuta di Lombardi- Satriani, questi significativi versi che ci danno sempre di più la magnificenza poetica, il modo di poetare del poeta e antropologo Lombardi-Satriani: <<Parole, parole, parole./Son parole scavate a fatica negli anni,/di cui ho estremo pudore,/ché è come se per esse /fossi nudo nell’ anima./Molte volte mi sono nascosto nei libri / occultando cosi che trovare parole/era un modo per proiettarmi nel tempo>> (Congedo, p. 97). Ma come ci stanno a testimoniare i versi dedicati a Patrizia ora l’amore accarezza e allevia di tanti dolori fisici e spirituali. Auguro all’amico e poeta Luigi Maria Lombardi –Satriani tantissimi momenti, e lunghi e operosi, momenti di gioia esistenziale, di grazia poetica, di vita e di studio. L’evasione dai giorni è il miglior libro di poesia che nel corso di quest’anno io abbia avuto la fortuna di

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leggere. Carmine Chiodo Luigi Maria Lombardi Satriani, L’evasione dai giorni: Poesie, Prefazione di Elio Pecora, Postfazione di Dante Mafia, La Vita Felice, Milano, 20015, € 13,00.

L’ANEMONE (sonetto) Nato ai piedi del Monte1 di Maria che, nero di fronde, fronteggia il mare, piccolo fiore di lilla vestito ad un’attinia tu vuoi somigliare, la cui appendice, in superbo intreccio, all’onda affida del corallo i rami. Fiero tu pure esponi al Libeccio la tua corolla di fini ricami, sfidando il vento in una tenzone al fin di uscirne da vero campione. Umile, invece, coi simili appari della Vergine Madre ai suoi altari, quale dono di fede o atto d’amore, per ringraziarla d’un suo favore. Paolangela Draghetti Livorno 1 - Il monte cui si fa riferimento nella poesia è Montenero di Livorno, in cima al quale si trova un Santuario dedicato alla Vergine Maria.

AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 2/4/2016 Federica Guidi è così sprovveduta da comunicare per telefono al proprio compagno l’ approvazione di un provvedimento per l’ impianto petrolifero Tempra Rossa che l’ avrebbe favorito. Alleluia! Alleluia! Ma non poteva dirglielo a voce, durante uno dei loro incontri? O son compagni platonici, amanti che non si toccano e neppure si vedono? Non ci hanno fatto un figlio? Domenico Defelice


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ROSSANO ONANO IL SANDALO DI NEFERTARI di Domenico Defelice

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N genere, Rossano Onano ci fa penare prima di farci entrare nel suo mondo e nelle sue storie, spesso allucinate; ne Il sandalo di Nefertari, l’incipit è stranamente chiaro, cantante, quasi ballabile: Mi dai notizia della migrazione, della fuga nella terra odorosa di licheni, dove stentano gli alberi. Si aggirano solo lenti animali da tana. A quelle bianche aurore ti distendi consapevole che il sonno sarà lungo, senza abbagli. Di primo acchito, ci verrebbe da esclamare: Che bello! Finalmente leggeremo, di Onano, una storia lineare e fascinosa. Conoscendolo, però, non osiamo fidarci, non ci rilassiamo; rimaniamo in difesa, vigli, in attesa di qualche tranello che ci riporta nel bel mezzo delle sue immersioni, dei suoi, a volte, quasi deliri, dove l’atmosfera cambia ad ogni verso, tra luci e ombre improvvise, mutamenti altrettanto improvvisi anche di sesso, immagini e personaggi che si accavallano, il tutto velato d’ironia leggera e folle; rimaniamo in difesa anche perché il paesaggio dell’ incipit non ci sembra proprio quello dell’ Egitto, dove potremmo trovare alberi che stentano per una terra cotta dal sole, non già perché “odorosa di licheni”; i “lenti animali da ta-

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na” posso pure starci (almeno per le notti desertiche), ma i licheni! Proseguiamo, allora, nella lettura con cautela. Nefertari dorme il sonno eterno che sarà “lungo, senza abbagli”. L’afflitto Ramesse le cuce i sandali per l’Oltre tomba “a filo d’oro” e poi glieli calza. La storia sembra annunciarsi meravigliosa, anche se nostalgica, dolorosa. Ma ecco il trabocchetto. La vicenda Nefertari è finita e subito veniamo avvolti dal turbine di immagini di grande impatto sociale come altre volte abbiamo scritto -, spesso sarcastiche, di un quotidiano crudo: niente favole, ma quadri a volte dolenti e surreali da rasentare quelli di Brutti sporchi e cattivi di Ettore Scola, interpretati da Nino Manfredi. Una socialità profondamente sentita dall’ autore, ma mascherata dall’ironia e, perciò, fatta nostra solo dopo più di una lettura; immagini e scene quotidiane - a leggere le cronache -, vere e a volte crudeli e folli, taglienti come rasoi, sibilline. Il contadino (è la nostra interpretazione e non assicuriamo sia quella giusta) rapinato (possiamo dirlo?) dal notaio che incassa una lauta prebenda senza il rilascio di “una qualche minuta/detrazione fiscale”. La terra non produce e così il povero coltivatore “a rischio di precipizio d’usura” è costretto a pagare in natura con “l’ultimo/vitello grasso, la speranza, le concubine”. Il sesso con la minorenne - stuprata o consenziente che sia (“Lieve, solleva la gonna sul cuore/la bambina che ha colto le margherite”) - dell’uomo solitario che la ricompenserà con “una bambola, la caramella d’anice, il cellulare”. La partita di calcio in simmetria con la partita della vita, con tanto di “arbitro cornuto” e giocatori che, invece di attenersi agli schemi studiati dall’allenatore, ne corrompono “la geometria”. Il sesso telefonico - praticato sia dagli uomini che dalle donne: i primi, “scegliendo nomi femminili in qualche modo rassicuranti/come Marta Maria Concetta” e, le seconde, “nomi maschili di pratica testamentaria/come Marco Matteo Luca” - e il gioco sui doppi e


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tripli sensi. Son tutti, infatti, nomi che riportano alla religione e ai Vangeli, compresi Gabriella (l’arcangelo Gabriele) e Giovanni, e “pratica testamentaria” allude ai tanti casi di cronaca di soggetti deboli che si fanno facilmente accalappiare e che, prima di morire, vengono indotti a fare testamento a favore di questi lestofanti dell’amore online. I doppi sensi che rimandano alla religione sono tanti (“arca dell’alleanza”, “quaglie/e manna”, “un santo cattolico e per giunta apostolico”, “trenta denari” eccetera) e in “una muchacha morena”, per esempio, l’incipit “Avendo digiunato quaranta giorni” ci riporta al Gesù dei Vangeli, ma tutto il resto non è certo edificante, compresa la fornaia dalla “lasca/occhiata” e dal “cupo sorriso”. L’ipermercato, frequentato dai vecchietti “con applicazione accanita”, anche in cerca di incontri e ...dell’ “ultima disperazione”. Potremmo continuare a lungo con le immagini, perché Onano è un cronista che canzona e sberleffa tutti, del presente (certi maniaci del PIL, per esempio, i vegani, il “famoso critico” d’arte di passaggio per Reggio Emilia) e del passato (Giulio II, Laura e Petrarca, la sposa del soldato “partito in guerra” che giace “nel lettone col dottore/che guarisce il suo dolore”; il figlioletto del povero soldato dorme lì accanto, prima cullato dalla madre “Fai la ninna fai la nanna” -, mentre il poeta ci ricorda il titolo di una canzone di Lucio Dalla, “Attenti al lupo”: “a vegliarti fiero e cupo/nella notte viene il lupo”...). E Nefertari? Sparita fin dall’inizio, come abbiamo scritto. Siccome, però, nella poesia di Onano non manca il sogno, e siccome anche a noi piacciono ironia e paradosso, confondiamo l’ultima storia ed i soggetti, e, mentre chiudiamo il libro, ce la immaginiamo viva e in partenza col suo Ramesse: “Dalla strada un rumore terrestre come di cocchio/tratto da cavalli, cortesi, e intorno tanto silenzio”. Domenico Defelice ROSSANO ONANO - IL SANDALO DI NEFERTARI - In copertina, a colori, “Nefertari tra le palme mentre lei sotto riposa”, di Roberta Durante Edizioni Prufrock spa, 2016 - Pagg. 92, € 12.

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ELETTRA (Dove si ricerca la colpa e si finisce per raccontare storie) Come mio padre fatico a provare rimorso – di mia madre conservo la forza caparbia che la spinse a vibrare il colpo ogni volta che fu necessario. Nessun dramma di cui scrivere oltre allo stupore malinconico di essere ciò che da sempre esiste. Uno ad uno vi prenderei per mano, scrollandovi fino alla morte. Sentitemi. Queste sono le parole, questa la colpa che ricercate. Non c’è uomo (specie nell’ora in cui il sole rende pericolose le colline) che non desideri scagliare sassi e bestemmie – bianche le pezze di stoffa consunta. Detesto i monili, detesto avere intimiditi piccoli seni e i muscoli del grembo tanto irrigiditi da non poter offrire quiete a nessun capo, seme o lacrima. Eppure è dalla mia voce che sentirete raccontare storie – frammenti che non mi sono mai appartenuti e che pure ricerco per vivere – in questa sarabanda testarda. Eloisa Massola Casale Monferrato, VC


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NELL’OPERA DI STORIA PATRIA DI

ITALO TACELLI RIEMERGE LA CIVILTÀ CONTADINA IN PIENA INTEGRITÀ ESPRESSIVA DI VIRTÙ E DI INFATICABILE DEDIZIONE di Leonardo Selvaggi I ’OPERA di Italo Tacelli “Nomi e soprannomi, usanze e mestieri in Monte San Giacomo dal 1930 al 1960”, edita dall’Editrice Nuova Impronta nell’anno 2007, costituisce indubbiamente un lavoro meritorio di plauso, realizzato con ostinato, infaticabile impegno. Un libro importante dal punto di vista linguistico e storico, ricca testimonianza delle nostre antiche tradizioni. Si parla del piccolo centro Monte San Giacomo in provincia di Salerno, nelle vicinanze di Sassano, Sala Consilina, Padula, pittoreschi comuni, in bella posizione geografica attorno al meraviglioso e ridente Vallo di Diano.Opera di storia patria, espressione di amore per la propria terra. Suddivisa in varie sezioni, a cominciare dalle regole sulla pronuncia del locale dialetto fino ai soprannomi, ai costumi e ai vecchi mestieri. Tutto in piena integrazione con elementi completi sulla identità culturale della civiltà contadina di Monte San Giacomo in un periodo abbastanza ricco e rappresentativo che va dal 1930 al 1960. Siamo davanti ad una documentazione che per i contenuti di vasto spazio può essere rapportata all’intero nostro Mezzogiorno. Ripercorriamo con interesse radici di tempi ormai lontani e attraverso il dialetto ricostruito si rinvengono storia e caratteristiche di gente che si è distinta per semplicità d’usi, laboriosità, capacità natie che hanno fatto essere industriosi in epoca di miseria e di stenti. Il volume corredato di illustrazioni ha ampiezze di notizie che evidenziano attività svolte nell’artigianato, in agricoltura e nella pastorizia. Rappresentati modi di essere, tutti improntati da un forte senso di sacrificio, da coerenza, da spirito di adattamento e da collaborazione.

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II Monte San Giacomo, come tanti paesi della Basilicata, della Calabria, ci riporta nella mente tutte quelle problematicità sociali che sono state oggetto di trattazione da parte di grandi meridionalisti. I giorni vissuti in uguale ritmo hanno conservato sempre l’aspetto dell’umiltà e dell’infaticabilità con una certa punta di orgoglio, spontaneità dei sentimenti: virtù natie che sono state fondamenta di principi di umanità e abnegazione. Un’ ambientazione in tanta parte morigerata, guidata dal senso dell’ordine e della parsimonia, soprattutto un accanito attaccamento alla propria terra che ha creato negli anni vicendevoli rapporti di vitalità e di sinergia nell’abitato. Italo Tacelli attraverso ricerche e notizie acquisite in forma diretta e da fonti archivistiche ci ha portato a riconsiderare un mondo particolare di una popolazione tutta espressiva con una sua primigenia forza e connaturate sostanze. Doti di una civiltà rurale che anche se accomunate hanno nel contempo diversificazione e specificità da rendere in genere ciascuno identificabile in modo più proprio attraverso l’attribuzione di soprannomi. Persone sagge in un tutt’uno con i mestieri, veri personaggi con rudezza e limpidezza, vivaci, concreti, diversi l’un dall’altro, dai tratti fisionomici indelebili. Gli abitanti dei paesi nei tempi andati li riconoscevi a distanza, non come le presenze individuali di oggi, specie quelle delle città, che appaiono tutte uguali, uscite da uno stesso stampo. La naturalezza di Monte San Giacomo, come di altri centri agricoli del periodo che l’autore ha trattato, trova tanto respiro e spazio in pienezza di legami, di omogeneità di comportamenti. III Attraverso il dialetto, che si fa specchio di pensieri, di contesti esistenziali, di stati d’ animo, vediamo tutto il territorio, la genuinità di una vita, fatta di spontaneità, realistica: una cultura e soprattutto radici profonde di tempi atavici. In un vero amalgama di analogie tanti


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paesi del Mezzogiorno con corrispondenti, comuni condizioni sofferte, di isolamento politico, di ristrettezze economiche. Doti di qualità di grande volitività dal punto di vista morale, costumi severi che costituiscono molla di efficienza davanti alle difficoltà da superare. Si era allora con la civiltà contadina in un’atmosfera di serenità con spirito di sopportazione e di resistenza, con ferme abitudini che non facevano deflettere. Sempre attivi nei mestieri, nei lavori della terra. Il progresso di oggi fa mettere in risalto quanto si è andati lontano da quei tempi in cui si viveva pacifici, contenti del poco, pieni di fede, mai privi di sottile intelligenza, propria della gente semplice. La tecnica moderna degli anni che si sono succeduti ha messo sottosopra i vecchi costumi: la meccanizzazione ha come travolto la civiltà rurale, un diffuso inquinamento a tutti i livelli ha originato un sempre più deturpante movimento di trasformazione, una specie di devastazione ha quasi raso al suolo tutto il passato. Il dialetto perde sempre più la sua presenza e le persone divengono artificiose e automatizzate. Il linguaggio non rispecchia la vita nella sua vera essenza, c’è un livellamento che annulla distinzioni e diversità di modi di pensare, quella che permette il dialogo e le vedute pluralistiche necessarie per affrontare le problematiche quotidiane. Andiamo accodati, ormai i rapporti di vicinanza si sono affievoliti: accentuati i vizi e le perversità, il disamore, l’arroganza, l’ipocrisia. IV Italo Tacelli con il volume “Nomi e soprannomi, usanze e mestieri in Monte San Giacomo dal 1930 al 1960” ci fa ripercorrere tempi grami, ma felici, si era infiammati allora da una vera passione di vivere. Tutti maturi, uguali si era, insieme piccoli e grandi in un’armonia di rapporti familiari amabili, con perspicacia, pronti a sentire gli altri e a discutere, sempre annodati dalle tradizioni, guida sicura per integrità di idee e sapienza di contenuti. Il tempo passato si rimuove ardente nella mente; la dolcezza dei visi e i sorrisi un po’ scanzonati che si imprimevano sulla fac-

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cia, una intercomunicabilità che si rendeva immediata intesa dentro un dialetto rude e sonoro che si vuole ritornato vivo, tutto ricchezza ed essenzialità di sentimenti, arcaicità, umori e vicinanza alle cose: le nostre sembianze, le ansie e le speranze, i momenti esaltanti e le amarezze. Italo Tacelli ci fa amare i suoi compaesani attraverso le pagine che parlano di giochi, di processioni, della festa di Natale, di artigianato, di applicazioni assidue con mezzi rudimentali. Oggi si è adulterati con una espressività confusa, senza anima, frammentata, mescolata con termini stranieri, fredda, irritata. Il dialetto di Monte San Giacomo, come tutti quelli del sud, pieno di palato, a volte chiuso nella bocca, sfavillante negli occhi, nelle poche tracce rimaste, tutto fatti e passionalità dell’animo. Lo si vuole far riemergere, come tanta parte delle antiche costumanze per rinvigorire i tempi nostri decaduti, rendendoli reali e più naturali. Nel dialetto troviamo i luoghi amati dei paesi natii, la loro interezza, i vicinati e le voci sparse che si richiamano squillanti in un’aria tutta libera e tersa. Lo avvertiamo nel flusso delle vene con i significati intrinseci, ossificato con la terra che ci appartiene, nei particolari, nel minuto: quasi ci sentiamo massificati nella complessità delle origini, nelle matrici che ci tengono stretti. Mimetizzati, ma diffusi, allungati, spaziati. Dalla bocca dei contadini escono voci profonde, sotterranee, che sanno di sostanza, di pane nero, di terre dissodate: corteccia dura all’intemperie, ciò che è di tutti, la fine istintività che prende la persona intera. V Il passato tra affetti e amicizia teneva con esaltazione vitale l’uomo vero, laborioso, sensato, in panni di fustagno, sulle aie con l’ asino bendato che girava intorno, pestando spighe di grano. I vecchi borghi oggi non li riconosci, come coperti da una certa patina, presi da solitudine, semiabbandonati dalla fuga verso le città. I contadini, i pastori e gli artigiani in una sola famiglia con gli animali e le piante nella spaziosità delle campagne, senza reticenze, spassionati si illuminavano


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attratti dalle bellezze della Natura, zampillanti, uguali ad acqua di sorgente. Stanno gli animali con il mangime artefatto nelle stalle, con i vestiti puliti e gli strumenti meccanici. Le persone separate dagli animali sono diverse, come rinsecchite e solitarie, non c’è passaggio di forze e di unione, sono nel deserto, senza calore e naturalezza. Italo Tacelli nelle pagine patinate del suo volume di storia patria fa trascorrere immagini del suo paese: strade sterrate, selciati e bambini all’aperto, scalzi, in camiciola. Risuonano gridi di giovani esuberanti, la voce dello stagnaro con la caldaia a tracolla e i suoi attrezzi di lavoro per mettere pezze alle pentole di rame. Con lo stagno inargentava l’interno dei recipienti, quasi con un tocco magico che faceva pensare all’ alchimista. Le case dei contadini in una frescura confortante, vedevi tutto in ordine, tenuto con cura gelosa, le scarpe appese al muro, il letto alto con materassi, come sacchi, riempiti di foglie di granturco. Il volume di Italo Tacelli è un’opera molto significativa, ci fa andare a ritroso, scrostandoci il malessere che sentiamo addosso per una vita carica di insoddisfazioni, di incertezze, povera di spirito. Pagine dense, ci sentiamo giovani nei ricordi, corriamo dietro il cerchio lungo la rotabile con il vestito lavato nella liscivia, odoroso, nuovo rivoltato. La mamma premurosa la sentiamo sempre vicina, ci guarda dalla finestra, ci guida fino all’estremo della via. VI I soprannomi sintetizzano, hanno una rappresentatività vivace e colorita, modi di essere in movimento ritmico con l’andamento delle stagioni. Vita estenuata da mane a sera, solerte, fatiche a non finire, indipendenza autosufficiente con il necessario che basti: il ricavato del lavoro della terra rende il poco, che è ricchezza, consumata con misura e vigile diligenza. Tutto si svolge con impegno e attaccamento, non si ha l’idea dell’inerzia, fiduciosi sempre nei giorni che verranno. Dalla scuola alla vita domestica, alle occupazioni agricole c’è un legame di sintonia che corre con il senso del dovere, perseguito con osses-

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siva volontà. L’istruzione elementare basata su una severa disciplina e una collaborazione fattiva con le famiglie. L’abitudine inflessibile ad essere responsabili con riflessione e onorabilità. Non si pensava al denaro, ma al lavoro fatto bene, ci si applicava con passione, tanta pazienza nelle rifiniture. Ci si industriava in tutto con assennatezza, tra i modi di pensare e l’operare non si avvertivano sperimenti, rilassatezza. Le ristrettezze, le privazioni di ogni tipo facevano la mente aguzza, quasi spiritualizzata con i pensieri che correvano in ogni dove. I caratteri aperti richiamavano collaborazione e aiuti scambievoli in ogni momento. La chiarezza dell’aspetto andava insieme alla serietà dei costumi e all’ intransigenza. L’esterno rifletteva un’ interiorità combattuta e perseverante: le donne sono i principali protagonisti in tempi di magra, soccorrono con la prodigalità e la dedizione continua. Le case dei contadini brillano con le loro necessarietà, allineate, quasi strati, in fondo troviamo l’asino e il mulo accanto al letto del padrone. Non si avvertono l’indolenza e i modi trasandati dell’epoca del progresso, sbrindellata e tutta affastellata. Tanta libertà ha la gioventù, nutrita per tutte le bocche. Le adolescenti dai glutei esaltati, sicure e proterve. Turgida e morbida ogni parte di carne piena. Le vesti nuove non piacciono, si amano quelle sbiadite, la moda strana lacera i bordi. Sciatte, polverose, paiono artigiani di officina. Munte e pressate da tante mani non sanno il circoscritto inviolato campo curato né il vaso esuberante che trabocca e riempie il casto amplesso. Nel tempo mio erano fasciate come bendate, dalla figura stretta nulla usciva fuori. Linde dallo sguardo trepido, il viso si portavano arrossato. Frementi di pensieri segreti, la sera sulle scale insieme dei vicinati di Monte San Giacomo, fra ombre e luci ai riflessi tenui della Luna erano tinta d’argento, sedute si facevano, ripiegate, un gomitolo. Il tempo della civiltà rurale e quello che noi viviamo si caratterizzano con la diversità di costume che prende significato soprattutto dal modo di essere della donna. Il materialismo consumistico porta insoddisfazioni in fami-


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glie che, in gran parte, hanno perso tutto ciò che sapeva di correttezza e di riservato aspetto. In città in modo accentuato e con spregiudicatezza, mentre nel paese di Italo Tacelli in presenze larvate assistiamo ad un processo disgregativo che porta a rilassatezza morale. Sono le nuove generazioni che hanno segnato profonde scissioni tra il vecchio ed il nuovo, sperse e a gruppi, avulse da tutto ciò che è tradizionale, vanno come dilacerate, senza dialogo e senza riconoscere l’importanza delle concomitanze e simmetrie: l’organicità e la saggezza sostituite dal particolare e dal limitato ambito specialistico. Giovani lerci, irrispettosi, arroganti, facili agli scontri, pare che si siano sotterrate le qualità contrassegnate da giusto equilibrio e da rapporti coordinati. VII Italo Tacelli con la sua opera “Nomi e soprannomi, usanze e mestieri in Monte San Giacomo dal 1930 al 1960”, condotta con completezza di elementi significanti, ci conduce in atmosfere salubri. Il luogo natio, dedito in larga parte alla pastorizia, con molte coltivazioni di grano e di granturco, che sono le maggiori risorse tratte dalla lavorazione dei campi. Descrive momenti sereni di un mondo, che di per sé era una ricchezza di cultura umana, in cui preminenti erano le doti di schiettezza, tutte basate sulla fondamentalità di virtù che davano alla vita un alto tono affettivo e spirituale. L’autore ha prodotto un lavoro di contenuto, di contenuto storico e morale che, risalta in tutta la sua importanza, messo di fronte ai cambiamenti succeduti nell’ultimo cinquantennio. Chi ha vissuto quei tempi nei paesi del Sud non può non apprezzare figure di forte caratterizzazione, quali l’arrotino, il cappellaio, il raccoglitore di stracci, il ritrattista, oggi col diffuso anonimato si rivelano espressioni di grande straordinarietà, proprie di un mondo di fiabe. Si può giungere a riviverle spinti da slanci immaginativi, superando i tempi odierni fattisi meccanici, monotoni, come trincerati in recinti chiusi, irretiti in poco spazio. Trasformazioni si sono infiltrate dappertutto, anche i

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paesi simili a Monte San Giacomo si presentano diversi, immersi in un’altra aria. L’ ambientazione una volta omogenea, armonizzata, non confusionaria, come attualmente con i processi di immigrazione su vasta scala, veri esodi che infestano costumi e cultura. Esasperati egoismi che non riconoscono il valore morale della persona e dei principi di vita tramandati e mantenuti con inflessibilità di carattere. Tutto quello che veniva promesso era sacro giuramento che non veniva meno. Frequenti ora sono le manipolazioni e il modo di fare da mitomani cha falsificano integrità e chiarezza di idee. Pagine di particolari, minuti fatti che ci attraggono, presi da furiosi impeti, corriamo verso i luoghi natii per ritrovare la nostra esistenza, lasciando alle spalle l’amorfa residenza che ci tiene esuli. Italo Tacelli sente fermentare dentro momenti che hanno avuto una profonda incrostazione sul proprio animo. Ha fermato nella memoria un lungo arco di tempo, dal ’30 al ’60. Si parla della seconda guerra mondiale, la vita tranquilla avuta rimane per diversi anni in preda a paure e confusione. Monte San Giacomo ha tempi di maggiori ristrettezze. Per superarle alla meglio ci si adatta al mercato nero, scambiando i prodotti della terra. VIII Si ha l’armistizio, poi l’arrivo degli Americani che portano i primi segni di tutti quei mutamenti che daranno una svolta lenta, progressiva. Poco per volta il paese di Italo Tacelli cambia volto, le sue passate strutture si fanno sempre più evanescenti. Quei quadri che avevano la bellezza degli idilli non si staccano mai dalla mente, monti e vallate verdi e fioriti oggi hanno perso la freschezza di una volta. Meravigliose le passeggiate nelle notti estive, lungo i sentieri di campagna, punteggiati dalle lucciole, simili a stelle danzanti che nel loro lento vagare creavano un mondo di poesia. Le sere invase dall’odore di fieno: di ritorno dalle campagne le donne come madonne compunte, sedute sul basto in vesti di tessuto pesante. In visioni diafane compaiono, dopo i riti religiosi, le giovani sul


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selciato del sagrato, sfuggenti e lievi, inquadrate in un’aureola di purezza, ferme, inafferrabili entro ricordi di nostalgia che vanno e vengono con flusso continuo, in concomitanza con il respiro e i moti dell’animo. Un’ opera di storia patria come quella di Italo Tacelli è sempre una pubblicazione di grande interesse. Si avverte il rapporto di amore, uguale a quello materno, verso la propria terra, vista ricettacolo di dolcezze. Senza questa vicinanza sempre ravvivata, saremmo vaneggianti, senza consistenza. Il passato, attraverso il dialetto presenta frammentazioni, tracce sbrindellate. Un mondo di cose accumulate, radicate in interiorità e sostanzialità esistenziali. Il linguaggio del popolo, dei piccoli paesi e delle campagne è dentro la precarietà dell’uomo, nelle sue miserie, tormenti e superstizioni. Si è certi che negli abitati circoscritti non tutto il passato, con la sua naturalezza e genuinità di forme, può scomparire. Tutto quel mondo di semplicità si risente tempestoso con voce lamentevole, serpeggiante per entro le modernità subentrate dagli anni ’60 in poi, lo si sente pestato, pieno di lacrime, con la freccia schiacciata per terra.

razioni che portano agli eccessivi automatismi, distruttivi e disumanizzanti. Italo Tacelli ci ha lasciato in forma semplice, disinvolta e con passione nostalgica una testimonianza storica di grande apprezzamento per ricchezza di dati e vivacità espositiva. Ci invita a non perdere gli aspetti edificanti di una saggezza, fatta di spontaneità di sentimenti, di virtù natie, espressione ineliminabile dalla nostra cultura mediterranea. L’epoca evolutiva e innovativa della tecnologia avanzata saprà mantenere gli elementi concreti del passato. Vanno alimentate le buone inclinazioni che paiono sommerse, ma si risentono rimuovere, come l’ardore, l’entusiasmo, l’intraprendenza, tutto ciò che è naturale e bello. Una civiltà passata non è mai finita, costituisce ponte di passaggio per ulteriori progressi, per un avvenire che non può non tenere vive quelle interiori, sane energie vere, che sono nel fondo dell’ animo umano, come insopprimibili identità che non mutano mai al di sopra di ogni tempo e ogni spazio. Leonardo Selvaggi

IX Nel volume “Nomi e soprannomi, usanze e mestieri in Monte San Giacomo dal 1930 al 1960” non solo il paese natio di Italo Tacelli, ma possiamo dire tutto il Mezzogiorno è presente negli anni della civiltà rurale. Oggi viviamo una vita artefatta, la meccanizzazione ha tutto capovolto. Il contadino non lo vediamo più dietro l’asino lungo i vecchi tratturi, con le macchine in poche ore di lavoro è tutto fatto. Si auspica di ripristinare le parti migliori perdute: l’attaccamento alla terra con ostinato amore, soprattutto la schiettezza del carattere delle persone, la naturalezza dei comportamenti. Nonostante tutto, rimane il piccolo paese come un angolo di pace, in contrapposizione con le città, cataste di prigioni inquinate. Si è consapevoli della necessità di ricostruire le vecchie tradizioni, di ritornare ai rapporti interindividuali meno appiattiti, cercando di smussare le troppe aber-

TRISTEZZA Il velo del giorno cala sul livido scenario della notte. La storia non vissuta respira negli alti spazi stellari. Scende quell'unico Spirito lucente su di ogni zolla mentre fragilissima musica vibra di molti mormorii. Scuotono i fiori d'acqua il garrulo ruscello e il vento s'adagia fra i pini. Gocciole di pioggia, più tenere di rugiada bagnano la rosa ninfa illanguidita. Da questo innocente sogno, mia anima risorge, la vita s'illumina dopo il buio. Si spegne tra l'aranceto ogni rumore al vergine canto della tristezza. La speranza carezza la fredda notte sotto il peso dell'ora incombente come un'onda che si frange. Adriana Mondo Riano, To


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CATERINA FELICI MATTEO E IL TAPPO di Tito Cauchi

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L libro Matteo e il tappo, fresco di stampa, non riporta notizie biobibliografiche dell’autrice, Caterina Felici, se non la professione di insegnante, che ha ricevuto riconoscimenti da critici di un certo “calibro” per le precedenti pubblicazioni. La narrazione riguarda ambienti e persone dei nostri tempi, con un personaggio in più, rappresentato da un tappo di sughero. Basterebbe questo per interrompere la lettura appena iniziata, da parte di chi non prediliga questo genere; ma teniamo presente che l’autrice ha avvertito nel sottotitolo che trattarsi di Favola per adulti e in effetti si rivela tale, poiché contiene utili metafore etico-sociali. Introduciamo subito il personaggio principale, Matteo: egli è un giovane ragioniere, contabile, che presta la sua collaborazione sia come impiegato di una amministrazione, sia a titolo autonomo; ha un unico desiderio, quello di guadagnare molto per acquistare una villetta fuori città, e prendere il volo dalla casa dei genitori. Egli ha lavorato molto, con straordinari e sacrificando il tempo libero, la buona lettura, i divertimenti e, perfino, i legami sentimentali.

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Raggiunge il suo scopo trovando un luogo meraviglioso, che non per niente si chiama Pacealcuore, su una collina, dall’alto della quale può guardare la città dove lavora. Aveva programmato di organizzarsi nella maniera seguente: nei giorni lavorativi, pranzare dai suoi, e a fine lavoro, la sera, rientrare nella sua oasi. Entrato nella sua reggia, vuole così dare inizio alla sua sovranità stappando una bottiglia di spumante, esultando “Viva la libertà!” Sbalordito sente una vocina ripetergli la stessa esclamazione, proveniente dal tappo di sughero che piroettava in aria e che aggiungeva di essere libero dalla morsa della bottiglia. Il giovane svuotò d’un fiato il bicchiere; temette di avere delle allucinazioni e tardò a prendere sonno, ma non si dette pena, certo che il giorno dopo, essendo festivo, se la sarebbe presa comoda. Seguiamo il nostro ragioniere nelle fasi successive per comprenderne l’humus psicologico e ambientale a cominciare dal giorno successivo. Si reca in chiesa e ascolta la predica del parroco, il quale raccomanda di avere “rispetto per se stessi e per gli altri”, di non seguire la moda consumistica e di non sprecare. Al rientro trova davanti al cancello amici ad attenderlo, sono Dario e Gianni, il primo dei quali gli dice di avere incontrato in precedenza Giovanna, la ex fidanzata di Matteo. I giorni sembrano trascorre normalmente: lavoro, saluti scambiati con amici e colleghi, pranzo dai genitori e rientro in villetta. Ma solo in apparenza, perché il suo comportamento doveva sembrare alquanto strano agli occhi degli altri, poiché ovunque andasse il nostro ragioniere, egli veniva seguito dal suo ospite indesiderato e dispettoso soprattutto con i picchiettii alle tapparelle e alle finestre. E fra loro due possiamo immaginare discorsi, pur sensati, che di strano avevano solo gli interlocutori. Matteo, presso un negozio di profumeria conosce una commessa di nome Annalisa, la quale dopo breve confidenza respinge le sue attenzioni. Un dubbio percorre il nostro ragioniere che l’attribuisce alla sua mancanza di tono fisico: così decide di praticare della ginnastica tro-


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vando compagni di footing in alcuni, pressoché coetanei, l’avvocato Bianchini, il professore Maffei, il meccanico Rossini. Durante le corse incontravano una studentessa universitaria Donatella abbastanza in forma. Tempo dopo la donna respingerà la sua corte. Ai compagni di corsa, che l’avevano sentito profferire parole rivolte al tappo, dovette giustificarsi dicendo che si riferiva al soprannome del nonno. Matteo comincia ad avvertire di essere prigioniero del suo lavoro, perciò ne prova ad allentare gli impegni, inizia a leggere libri e ad ascoltare la musica, e a dedicarsi a qualche svago; e per le faccende di casa assumerà una collaboratrice domestica, Emma. Questa donna, durante le faccende, si sente osservata e pensa che la casa sia abitata da spiriti; alle sue proteste Matteo la rassicura che non verrà più disturbata e così avvenne, con il risultato di essere ritenuto, suo malgrado, un indovino dai poteri paranormali. La donna nonostante avesse promesso di tenere per sé, questa vicenda, ne diffuse la notizia. Così capitava che alcune persone gli si rivolgevano chiedendogli qualche consiglio, lui le tranquillizzava e sorte vuole che queste persone venivano esaudite nelle loro aspettative, il che ha accresciuto la convinzione che egli possedesse realmente delle facoltà straordinarie. Alcune disavventure stravolgono il nostro personaggio. Nel paesello conosce una donna di nome Loredana, i due finiscono per frequentarsi; dopo breve tempo, all’ appuntamento presso un parco, la donna chiarisce di essere disposta a fare all’amore, ma solo a pagamento, poiché era una prostituta. Durante il tentativo di furto nella villetta Matteo viene svegliato dal tappo che, in tal modo, ha potuto sventare la rapina. Una sera tardi, percorrendo con l’auto una strada di campagna, ha un alterco con un motociclista e venendo offeso in malo modo, il tappo ne prende le difese andando a colpire l’altro alla testa che per tutta risposta abbatte a terra Matteo con un pugno. Comunque sia, il ragioniere porterà i segni per qualche giorno tanto che è dovuto ricorre

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alla visita di un medico e a impacchi sul viso, facendo preoccupare chi ne veniva a conoscenza. All’invito degli amici per inaugurare la villetta, ha un comportamento strano per via delle bottiglie di spumante portate dagli amici, inventandosi di essere allergico perfino alla loro vista. Un giorno incontra casualmente la ex fidanzata, Giovanna. La donna gli racconta che si frequenta con un vedovo. Lei apprezza il cambiamento di Matteo e lui, per tutta risposta, le dice: “A volte la solitudine aiuta ad imparare: ci costringe al rapporto con noi stessi e favorisce la riflessione, l’autocritica.” ( pag. 98). Ed è così che intensifica la sua corte colmando di attenzioni l’amica per farle comprendere la serietà dei suoi sentimenti. Il tappo percependo che Matteo ne soffriva perché sentiva riaccendersi la fiamma, tormenta il malcapitato vedovo, con i suoi picchiettii durante la notte, così da fargli credere che sia la moglie dall’aldilà, perciò ritira i propositi di matrimonio. Intanto Giovanna, dopo molti dinieghi, e avendo costatato che Matteo era migliorato in quanto all’atteggiamento verso la vita, finisce per acconsentire al loro fidanzamento. Il tappo si congeda dal ragioniere divenuto amico, lasciandosi trasportare dal vento, senza prima dimenticare di salutarlo, avvertendolo che andrà ad aiutare altre persone. Comprendiamo che il tappo sia una specie di angelo custode, o se vogliamo, rappresenta la ragione. Il linguaggio surreale e lo stile semplice fanno del racconto una lettura piacevole e spassosa. Il tappo ci ha tenuto allegra compagnia offrendoci temi psicologici e sociologici, nonché richiamo e denuncia dei miti moderni che distraggono le persone dai veri valori dell’esistenza. Caterina Felici con Matteo e il tappo, ci ha offerto materiale che merita approfondimento. Se vogliamo possiamo commentare semplicisticamente avvertendo che il primo soggetto si comporta come un matto (prendendo spunto da pag. 89, in cui è detto che al nome proprio si toglie la ‘e’); mentre il secondo soggetto è la coscienza. Riflettiamo circa l’


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esito negativo che ha ricevuto il nostro ragioniere con le donne (il senso di solitudine), le scuse paradossali che ha escogitato quale il soprannome del nonno (tappo), l’essere lui diventato allergico allo spumante, l’essere stato scambiato per una persona dai poteri paranormali, ecc. Tanti sono gli ingredienti da potere imbastire una piéce teatrale con tanto di verità, o una semplice burla; ma anche con tanta poesia. Tito Cauchi CATERINA FELICI, Matteo e il tappo, Favola per adulti, Italic, Ancona 2016, Pagg. 120, € 15,00.

L’ALBA Il sole è fuggitivo sulla tettoia della casa, e il chiarore dell'alba fa risplendere la tua camera, resteranno solo le parole non dette proiettarsi verso le onde del mare, come i nostri gesti gettati al vento, con i passi leggeri della memoria. Rapisco ancora i tuoi occhi come rami spogli che si levano al cielo, le nostre anime sole nell'autunno dell'amore. Ecco spuntare l'imprevedibile mormorio del nostro passare oltre. Adriana Mondo

Pag. 28 gli occhi di basilisco son diventati innumerevoli Biafra dello spirito non bisogna pensarci tanto un Cile una Spagna un Vietnam sono sempre a portata di mano

Giullari puttaneschi non è l’idea che condanno in me presente come l’albero del pane ma la traccia mocciosa della pusillanimità in voi più che peccato è già natura. Walter Nesti Carmignano PO

IL GIARDINO DELL’ETERNA GIOVINEZZA Nel giardino Nonnino fa delle bolle soffiando fortissimo La sua nipotina nell’erba corre e salta per acchiapparle il loro splendore iridato che esplode sulla punta delle sue dita del suo naso E Nonnino tutto ridente si sente quasi quasi giovane quanto lei Béatrice Gaydy Francia

Riano, To

XXIX È l’ora dei giullari che su corde roche starnazzano invocando libertà imprevedibile dama mascherata cangiante come seta sintetica Giullari organizzati lasciano che muoia il vecchio re e a piccie e in frotta traslocano al castello più vicino dove un sovrano giovane fa corte e sa così bene trascinarli Se al di là di altre frontiere

AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 5/4/2016 Bruno Vespa è diventato scrittore del copiaincolla. I suoi libri di gran mole (ormai annuali) si somigliano tutti e di veramente suo hanno solo brevi frasi di collegamento tra una dichiarazione e l’altra. Alleluia! Alleluia! Il più recente - Donne d’Italia -, contiene pure la stranezza di volerci far considerare “nostre” (sebbene “fuori serie”), oltre l’ormai cotta e stracotta in tutte le salse Cleopatra, la regina Elisabetta d’Inghilterra, Angela Merkel, Hillary Clinton e Madre Teresa di Calcutta! Domenico Defelice


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Il Racconto

L’ACROBATA Abigail una storia moderna di Filomena Iovinella

E

RANO giorni lunghi e freddi, Abigail era da sola in quella stanza, tra quattro mura solitarie, tutto dentro si era rotto, frantumato, era polvere di residuale stellare. L’illimitato spazio che la illuminava e la guidava facendola stare nel limbo, creando il filtro per la sua vitalità, lasciandola nel mare di persone a donare suoni e canzoni, non c’era più, era svanito nel nulla e la sensazione era esclusiva senza cenno d’introspezione. La Mami la rimproverava voleva vederla ritornare alla vita, implorava con lacrime asciutte il dolce ritorno alla gioia in quella figlia persa nel dolore, empaticamente e simultaneamente in stretto collegamento con la sofferenza di tutto il mondo, frastornata da una delusione che non lasciava più spazio al miraggio fantastico, sentiva che il cuore batteva mentre lei dormiva senza sogno. Pensava la Mami - Non può farcela e se lo ripeteva - ma sperava in un giorno diverso, in una sensazione nuova che cambiasse le sorti. Ci confidava da così tanto tempo che le stagioni si susseguivano inesorabili, aveva quasi smesso di crederci, quella notte sentiva che le lacrime sarebbero continuate a scendere su quelle gote, invece tutto stava cambiando. A piedi nudi accarezza la figlia e la saluta con la buonanotte: “Abigail, sei dolcissima figlia mia” “Mami! Ti voglio bene” La chitarra acustica è poggiata sul letto fuori dalla custodia e la stessa aperta a metà, la cerniera è sfasata ha i lembi che si aprono confusamente ed un angolo pende verso l’ interno, vuoto, che respira l’aria dello spazio lasciato, da solo, dalla chitarra. La musica arriva nella testa come un acrobata, si impadronisce del corpo. Il colpo da pugile dritto allo stomaco con un gancio fortissimo. La chitarra mette le ali, le mani battono sul legno e

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danno ritmo, suona il legname la musicista, prima ancora, di cercare la sua melodia meravigliosa. Come atterrare a piedi uniti sul suolo lunare a guardarsi intorno come Niel Armstrong. Scopre le mani, articola le dita che nuovamente muovono l’aria e battono forte sul legname e sulla cassa acustica che si riscalda, si cerca la luna d’argento in quel momento, nella notte fonda si avvista anche il raggio di sole immenso che si è perso, il giorno albeggia nella notte allunata, solo con lo scopo ultimo, il volere andare oltre quei limiti che l’hanno bloccata da tempo. Sole e luna insieme nuovamente a brillare di sortilegio. Dal corpo si libera l’acrobata nel suono fatto di rifrazione tutto in una volta sola, le dita toccano con leggerezza le corde di bronzo che aspettavano quella carezza, la mano che sfiora una schiena coperta di granelli di sabbia e suonano quelle spalle, la carezza delle dita concretizzano l’imitazione perfetta di quelle onde del mare, scappano sacre le note, scappano ansiosi i suoni e creano. I granelli di sabbia volano nell’aria scintillano e volteggiano nella loro leggerezza, cristallinano il parossismo devastante di quella stanza troppo piccola, troppo anonima, troppo persa. Suona la mano a bollire il legno su quel tono di accordo, sbatte quel palmo su quel punto di caldo, strimpellano le corde tra accordi e cadenza del suo riverbero blu cobalto. Nota, strofa, inciso, ritornello, strofa ancora nota e poi la voce, falsetto, vibrato, tono alto, mezzo tono e nota, strofa, inciso, mezzo tono, mezzo fiato, esistenza e gancio, penultimo respiro e stop. La sala dell’auditorium è ricolma di gente, le persone si ammassano sulle porte, quelli seduti in poltrona osservando intorno, si sollevano pensando al loro privilegio. Quelli in piedi si disperano, si mangiano le mani, si rotolano in quello spazio che li divide dal circo. Alla platea viva che attende, parla il presentatore : “Signore e signori, ecco a voi Abigail”. Entra con una camminata lenta, il suono dei tacchi delle scarpe danno il tono alla sua sicurezza, la gonna aderente l’accompagna din-


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nanzi all’asta con il microfono, al centro del palco, la chitarra poggiata sulle spalle, la mano la ruota in avanti e trova il primo suono battendo sul vuoto della cassa armonica, la mano cerca il calore del sole mentre batte sul legname vivo, tante volte lei guarda la platea, guarda la stanza satura di respiri in silenzio e in attesa, le dita toccano le corde ed esplode la musica. I suoi occhi sfiorano il cielo e l’ acrobata si sprigiona in lei. La folla impazzita l’applaude esagitata . La notte sembra non finire mai, la gente è stanca ma non vuole smettere di ascoltare, la gente non vuole perdere quel luogo magico, quel senso di immortale che regna in quel posto, la luna brilla argentea nel cielo. Abigail ha le mani stanche, atrofizzate dal movimento e il riverbero blu cobalto si trasforma ancora e crea altro tono, altro inciso e lascia il riflesso specchio di Merisi nello stagno d’acqua che la pone a guardarsi mentre la folla applaude impazzita, stanca e stordita. Vestita con abiti lunghi e capellino a ridosso dell’alba arriva al canile municipale sente abbaiare i suoi più teneri amici e magneticamente si avvicina a loro. Si avvia verso quelle gabbie, la sua Mami parla con il responsabile, nel frattempo lei esplora a modo suo, con il fiuto di stare al mondo. Dinnanzi ad una gabbia le mani si incatenano forti, mentre osservano il cucciolo nero di meticcio che le saltella davanti a lei, gioca con la scodella, rovescia tutto e crea una grande confusione di effusione e gioia. E’ puro caos solo per farsi notare, ma lei è lì per lui, per il suo acrobata nero corvino, come inchiostro. La Mami la raggiunge e vederla incatenata con le mani alla gabbia la incanta gioiosamente, la stupisce di nuovo come l’astronauta che viaggia intorno alla luna affascinata dalla terra inesplorata e lontana, la conquista del suolo dall’ astronauta in assenza di gravità. Le chiavi tintinnano e il nero meticcio le salta ad-

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dosso leccandola tutta. Lo sguardo del custode si posa per la prima volta su di lei. “Abigail! Tu sei la rockstar!” Una folla impazzita di flash e giornalisti invadono il canile. “Presto, presto venite con me, da questa parte, passate attraverso le gabbie “ Si lasciano passare tra le gabbie tra cuccioli saltanti e coccoloni mentre abbaiano allegri, si ritrovano in una uscita secondaria, anche lì flash e fotografi, loro salgono in auto e si allontanano. Il cucciolo nero corvino, l’acrobata inchiostro, è di nuovo con Abigail. “ Il caos confonde la mia mente in un sostrato di polvere cosmica, buonanotteeeee a tutti” L’auditorium viene giù in un oceanico caldo applauso. Filomena Iovinella

LA VOCE DI DIO Va il mio pensiero sulle alte montagne a udire nel canto degli uccelli la voce di Dio Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, Mi

Domenico Defelice: “Pupazzetto con paracadute” (pastello, 1960) ↓


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Comunicato STAMPA XXVI Edizione CITTÀ DI POMEZIA L’Editrice POMEZIA-NOTIZIE - via Fratelli Bandiera 6 - 00040 Pomezia (RM) - Tel. 06 9112113 – E-Mail: defelice. d@tiscali.it internet: http://issuu.com/domenicoww/docs/ - organizza, per l’anno 2016, la XXVI Edizione del Premio Letterario Internazionale CITTÀ DI POMEZIA, suddiviso nelle seguenti sezioni : A - Raccolta di poesie (max 500 vv.), da inviare fascicolata e con titolo, pena esclusione. Se è possibile, inviare, assieme alla copia cartacea, anche il CD; B - Poesia singola (max 35 vv.) ; C – Poesia in vernacolo (max 35 vv.), con allegata versione in lingua; D - Racconto, o novella (max 6 cartelle. Per cartella si intende un foglio battuto a macchina – o computer - da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1800 battute. Se è possibile, inviare, accanto alla copia cartacea, anche il CD); E – Fiaba (max 6 cartelle, c. s., lettera D); F – Saggio critico (max 6 cartelle, c. s.). Non possono partecipare alla stessa sezione i vincitori (i Primi classificati) delle trascorse Edizioni. Le opere (non manoscritte, pena l’ esclusione), inedite e mai premiate, con firma, indirizzo chiaro dell’autore e dichiarazione di autenticità, devono pervenire a Domenico Defelice – via Fratelli Bandiera 6 - 00040 POMEZIA (RM) - e in unica copia - entro e non oltre il 31 maggio 2016. Le opere straniere devono essere accompagnate da una traduzione in lingua italiana. Ad ogni autore, che può partecipare a una sola sezione e allegare un breve curriculum di non oltre dieci righe, è richiesto un contributo di 20 Euro per la sezione A e 10 Euro per le altre sezioni, in contanti assieme agli elaborati (ma non si risponde di eventuali disguidi) o da versare sul c. c. p. N° 43585009 intestato a :Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00040 Pomezia (RM). Le quote sono in

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euro anche per gli autori stranieri. Sono esclusi dal contributo i minori di anni 18 (autocertificazione secondo Legge Bassanini). Non è prevista cerimonia di premiazione e l’operato della Commissione di Lettura della Rivista è insindacabile. I Premi consistono nella sola pubblicazione dei lavori. All’unico vincitore della Sezione A verranno consegnate 20 copie del Quaderno Letterario Il Croco (supplemento di Pomezia- Notizie), sul quale sarà pubblicata gratuitamente la sua opera. Tutte le altre copie verranno distribuite gratuitamente, a lettori e collaboratori, allegando il fascicolo al numero della Rivista (presumibilmente quello di ottobre 2016). Sui successivi numeri (che l’autore riceverà solo se abbonato) saranno ospitate le eventuali note critiche e le recensioni. Ai vincitori delle sezioni B, C, D, E, F e ai secondi classificati per ciascuna sezione, verrà inviata copia della Rivista - o del Quaderno Letterario Il Croco - che conterrà il loro lavoro. Per ogni sezione, qualora i lavori risultassero scadenti, la Commissione di Lettura può decidere anche la non assegnazione del premio. La mancata osservazione, anche parziale, del presente regolamento comporta l’ automatica esclusione. Foro competente è quello di Roma. Domenico Defelice Organizzatore del Premio e direttore di P. -N. Vincitori della SEZIONE A delle precedenti edizioni: Pasquale Maffeo: La melagrana aperta; Ettore Alvaro:Hiuricedhi; Viviana Petruzzi Marabelli:Frammento d’estate; Vittorio Smera: Menabò; Giuseppe Nalli: A Giada; Orazio Tanelli (USA): Canti del ritorno; Solange De Bressieux (Francia): Pioggia di rose sul cuore spento; Walter Nesti: Itinerario a Calu; Maria Grazia Lenisa: La ragazza di Arthur; Sabina Iarussi: Limen; Leonardo Selvaggi: I tempi felici; Anna Maria Salanitri: Dove si perde la memoria; Giuseppe Vetromile: Mesinversi; Giovanna Bono Marchetti: Camelot; Elena Mancusi Anziano: Anima pura; Sandra Cirani: Io che ho scelto te; Veniero Scarselli: Molti millenni d’ amore; Sandro Angelucci: Controluce; Giorgina Busca Gernetti: L’anima e il lago; Rossano Onano: Mascara; Fulvio Castellani: Quaderno sgualcito; Nazario Pardini: I simboli del mito; Rodolfo Vettorello: Voglio silenzio; Isabella Michela Affinito: Probabilmente sarà poesia.


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I POETI E LA NATURA – 55 di Luigi De Rosa

Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)

QUASIMODO (1901-1968): LA SOLITUDINE DELL' UOMO NELLA NATURA

Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole.

Ed è subito sera.” Chi non ricorda questi versi del grande poeta siciliano Salvatore Quasimodo, Premio Nobel per la Letteratura nel 1959? Quasimodo nasce a Modica (Ragusa) nel 1901 e trascorre la sua infanzia in vari paesi della Sicilia dove via via si trasferisce il padre che fa il capostazione. Dal 1919 al 1926 vive a Roma per frequentare il Politecnico e laurearsi in ingegneria, ma le ristrettezze economiche e gli interessi per le lingue latina e gre-

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ca lo dissuadono presto da quel tipo di studi. Nel 1926 si impiega presso il Genio Civile di Reggio Calabria e nel 1929, trasferito a Firenze, viene introdotto da suo cognato Elio Vittorini, nell'ambiente letterario della rivista "Solaria" dove conosce Montale, La Pira, Loria... e comincia le sue pubblicazioni poetiche. Nel 1930 pubblica la sua prima raccolta di versi Acque e Terre e nel'32, trasferito a Genova, pubblica Oboe Sommerso. Nel'34 il poeta è a Milano, accolto nell'ambiente culturale milanese, e lasciato l'impiego al Genio Civile si dedica completamente alla poesia. Nel 1940 pubblica la sua mirabile traduzione dei Lirici Greci ottenendo tali consensi che nel 1941 "per chiara fama" è chiamato ad insegnare letteratura italiana al Conservatorio. Intanto, scoppiata la seconda guerra mondiale, il poeta ne viene profondamente sconvolto e matura l'idea che la poesia deve uscire dalla sfera aristocratica del privato per interessarsi alle problematiche sociali e civili, intenta a "rifare l'uomo" abbruttito dagli orrori della guerra. Questo impegno si riscontra in tutte le successive raccolte poetiche di Quasimodo: Giorno dopo giorno (1947), La vita non è sogno (1949), La terra impareggiabile (1958). Nel 1959 gli viene attribuito il premio Nobel per la letteratura. Muore a Napoli nel 1968. In questa sua famosa lirica (Ed è subito sera”) c'è tutta la visione della vita umana entro l'ambito della Terra, della Natura e del Cosmo. E c'è la dolorosa constatazione che la vita dell'uomo è troppo breve e che il raggio di sole “simbolo della natura” dura troppo poco per alleviare il suo dolore e sollevarlo dalla pena di vivere. Per giunta l'uomo vive questa sua vita, così avara di gioie, in perfetta solitudine (“Ognuno sta solo”) . Una solitudine inconsolabile, ma che comunque non entra mai in conflitto aperto con la Natura, come avveniva in Leopardi, per il quale la Natura è, senza alcun dubbio, “matrigna” nei confronti dell'uomo in quanto non mantiene le promesse fattegli nella giovinez-


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za. Al contrario, Quasimodo cerca l' “accordo” con la Natura. Vi cerca consolazione, che si tratti sia della sua vagheggiata Sicilia che delle pianure e dei laghi lombardi (simbolo della sua migrazione e del suo sradicamento). Il problema sta nella solitudine dell'uomo fra gli altri uomini. Ciascuno si trascina il peso del proprio dramma e del proprio destino di singolo individuo, pur vivendo nei formicai umani presenti “sul cuore della terra”. Fino a giungere alla “sera” di ciascuno. Nel parallelismo, nella metafora, di tanti poeti di ogni tempo, tra la fine della vita umana e la fine del ciclo del giorno naturale. Luigi De Rosa L’ULTIMA ORA (Sonetto acrostico)

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che già conoscevano gli antenati degli antenati dei tuoi antenati se venuto da un paese vicino non fosse anche caduto un grosso drone per fortuna in un campo deserto È l’alta technologia di cui i poteri pubblici affermano che sia indispensabile alla nostra vita Di certo essa può anche uccidere Béatrice Gaudy Francia N. B. Il 29 febbraio 2016, un drone belga che volava a più dei 160 kilometri all’ora a quota mille è scappato al controllo dei suoi proprietari. Dopo avere varcato la frontiera, improvvisamente ha smesso di funzionare per schiacciarsi in un campo del comune di Dizy-Le-Gros, a 45 chilometri da Reims, in Francia. Il 19 febbraio 2016, vicino all’aeroporto francese di Roissy, il copilota di un Airbus A320 ha per poco evitato la collisione con un drone passato a cinque metri dall’aereo, a più di 1600 metri di altitudine.

Parole di pietra ramificate E vuoti pensieri precari Neri grappoli di vite amari Alla terra anime purificate

DOPPIATO

Morte bocca di Dei avari Ora che scuote, lenta procede Ronza dentro ciò che possiede Torna percuotendo i temerari

Si sdoppia, a una svolta, la vita: dalla sopravvivenza è sorpassata. Corrado Calabrò Roma

Averno è il luogo dove risiede Lontano è ora il vecchio oblìo Entra, squilla, procede, precede Sovrasta il suono del mormorìo E la parola non ha più memoria Isocronismo che spezza il balbettìo. Susanna Pelizza Roma

PIOVASCHI HIGH TECH Alternanza di raggiante sole e di acquazzoni di pioggia di grandine di grandi fiocchi bianchi leggeri quali uccelli Crederesti contemplare lo spettacolo stagionale

_____________ Sono 22 i libri di poesie pubblicati in Italia da Corrado Calabrò e 32 quelli pubblicati all’estero, in 20 lingue. Tra i principali: Una vita per il suo verso, Oscar Mondadori, 2002, e La Stella promessa, Lo Specchio Mondadori, 2009. L’ultimo suo libro (il quinto pubblicato in Spagna), è Acuérdate de Olvidarla (Ricordati di dimenticarla), vincitore del Premio Internacional de Literatura Gustavo Adolfo Bécquer 2015. Delle sue poesie sono stati fatti anche vari compact disks con le voci di Achille Millo, Riccardo Cucciolla, Giancarlo Giannini, Walter Maestosi, Paola Pitagora, Alberto Rossatti, Daniela Barra. I suoi testi sono stati presentati in teatro, in recitalspettacoli, in 34 città italiane e anche all’estero. Per la sua opera letteraria è stata conferita a Calabrò la laurea honoris causa dall’Università Mechnikov di Odessa nel 1997, dall’Università Vest Din di Timişoara nel 2000 e dall’Università statale di Mariupol nel 2015.


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Recensioni PAOLI RUFFILLI LA NOTTE BIANCA – LE POESIE DI ŽIVAGO (Biblioteca dei Leoni, Treviso, 2016, €12,00) Già da tempo Paolo Ruffilli è andato pubblicando, nella collana di poesia della Biblioteca dei Leoni da lui diretta, i suoi saggi e le sue traduzioni riguardanti alcuni dei più importanti poeti russi del Novecento, come Osip Mandel’stam e Anna Achmatova. Ad essi ora si aggiunge Boris Pasternak, con un libro intitolato La notte bianca – Le poesie di Živago, che appare subito di molto interesse, perché vale a richiamare l’attenzione su dei testi poetici che sono tra i più validi di questo grande scrittore, nato a Mosca 10 febbraio 1890 e morto a Peredelkino il 30 maggio 1960, il quale da noi è noto specialmente per il suo romanzo. È questo un libro che ha non soltanto dei grandissimi pregi narrativi, ma anche degli alti valori poetici per i molti squarci lirici che contiene. Del resto il protagonista, il dottor Živago, è anche un poeta, e l’autore ci informa che “i suoi versi, secondo lui, si giustificavano in virtù d’una certa forza e originalità; le due doti che egli considerava essenziali alla realtà dell’arte”. (La citazione è tratta dal libro Il dottor Živago, edito da Feltrinelli, Milano, 1957). Le poesie qui tradotte sono state tratte dall’ultima sezione del romanzo, la diciassettesima, nella quale l’autore ha inserito le Poesie di Jurij Živago. E che esse siano molto significative lo si rileva sin da una prima lettura di testi quali Amleto, da cui emerge la problematicità e l’azzardo del vivere: “Spente le voci, eccomi entrato in scena./Poggiato a uno stipite di porta,/vado intuendo nell’eco sempre più smorta / quello a cui la vita mi incatena” o quali La notte

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bianca, la poesia scelta da Ruffilli come eponima, nella quale viene espresso l’estatico incanto di una notte trascorsa con l’amata di fronte al Creato: “Siamo presi nella stessa velata/trepida tela di ragno del mistero,/come la città con il suo panorama intero/che piega laggiù oltre la Neva sconfinata”. Altrove in queste poesie s’affaccia la lacerazione del dolore e della sconfitta, che lega l’animo in una rete di cupa tristezza: “E gli anni passeranno e tu ti sposerai, / dimenticando questi disordini felici. / Ma, farsi donna, sì che è una conquista, / fare impazzire è solo impresa da eroina” (Dichiarazione). Sovente poi è la descrizione della natura che affascina il poeta, il quale trova in essa lo specchio del suo animo ed in essa si ricontempla: “E là dove il tramonto si incendiava / contro il nero di alberi lontani, / come una campana che suonasse a stormo / si alzò nell’aria la frenesia di un usignolo” (Strade di fango); “Scherzando il bosco gioca a lanciare / un suo rumore sull’erta del pendio / dove i noccioli arsi dal sole estivo / stanno bruciacchiati come dal fuoco. / … / Ed è una pena che l’universo sia più semplice / di quanto pensi qualcuno più istruito, / e che il bosco sia andato così giù / e che per ogni cosa arrivi la sua fine” (Estate di San Martino). Qui è la situazione psicologica del protagonista, e del romanziere allo stesso tempo, che nelle apparenze del mondo esterno si riflette: infatti, come osserva Ruffilli, “Jurij Živago è la trasposizione romanzata, l’alter ego di Pasternak”, il quale in lui si identifica, dal momento che “Jurij nel romanzo vive lo stesso dissidio del suo autore tra l’artista e la società, tra la poesia e la politica, tra l’arte e la storia, tra l’amore e il matrimonio”. Ed è proprio ciò che conferisce alla sua figura un così grande interesse. Queste poesie, come ancora osserva Ruffilli, “ripercorrono l’intera vicenda di Jurij nel romanzo”; e lo fanno con quella “originalità sobria, smussata, irriconoscibile all’esterno, nascosta sotto il velo di una forma ovvia e consueta”, di cui si fa ordinariamente uso nel libro. Fatte di emozioni e di illuminazioni, queste poesie contengono un forte elemento simbolico; e, come dice Angelo Maria Ripellino, che qui viene ricordato, insieme a Renato Poggioli, sono portatrici di “improvvisi stupori” e di “incantamenti”, che danno ai loro versi una “straordinaria freschezza” e un “sapore di meraviglia”. È quanto si nota, ad esempio, in testi quali Le nozze, dove si legge: “Anche la vita ha la durata di un istante,/solo un rapido dissolversi/di noi stessi in tutti gli altri,/ come ci fossimo offerti loro in dono”. Ma si vedano anche Notte d’inverno: “Tormenta in ogni angolo della terra./Sul tavolo bruciava una candela,/lì sopra restava tremolando accesa” e La


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terra: “Nelle case di Mosca, è a un tratto/che irrompe d’impeto la primavera./… /Lungo i mezzanini di legno / si espongono di nuovo vasi di fiori”. Ci sono tra queste poesie anche quelle d’ ispirazione religiosa, come Stella cometa, che rievoca la nascita di Cristo; Miracolo, che colpisce per l’ inesorabilità dell’evento che evoca; Giorni crudeli, in cui la sofferenza e il male che ovunque dilaga si affacciano con particolare veemenza, in analogia con molte pagine del romanzo: “Poi giorni sempre più cupi e crudeli, / con i cuori ormai sordi all’amore / e il disprezzo che aggrotta i sopraccigli, / precipitando verso la sua fine. // Con la pesantezza livida del piombo / il cielo schiacciava tutta la città…”. Si vedano anche le due poesie dedicate alla Maddalena, con il loro profondo scavo psicologico e Getsemani, una delle poesie più ispirate e profonde tra quelle che qui figurano, con la quale la raccolta si chiude. Ed è significativo il fatto che essa sia posta a conclusione di un libro di così alto valore, che narra, in maniera vivace e accattivante, la vita di un medico e di un poeta, Jurij Andrèevič Živago (tanto simile per molti versi a quella del suo autore), trascinato nel turbine della rivoluzione sovietica e diviso tra l’amore di due donne, Tonia e Lara. Il romanzo, apparso in anteprima mondiale in Italia, nel novembre 1957 presso l’Editrice Feltrinelli, poté essere pubblicato in Russia soltanto nel 1988, perché inviso al regime sovietico. Valse a Pasternak nel 1958 il Premio Nobel per la letteratura, ma l’ autore non poté ritirarlo per timore, ben giustificato a quel tempo, che gli fosse negato il rientro in patria. Un lavoro molto utile quello di Ruffilli, che vale a far meglio conoscere dei testi poetici di alto pregio, ma poco noti, per il prevalente interesse rivolto nel mondo attuale all’arte del narratore rispetto a quella del poeta. Elio Andriuoli

UIGI DE ROSA LA GRANDE POESIA DI GIANNI RESCIGNO Il poeta di Santa Maria di Castellabate Saggio critico (Genesi Editrice, Torino, aprile 2016; pp.186, € 14,00). Con questo ampio saggio intitolato La grande poesia di Gianni Rescigno, uscito da poco a Torino per i tipi della Genesi Editrice, lo scrittore e saggista Luigi De Rosa realizza un’impresa invero encomiabile e meritoria: un libro che costituisce un equilibrato quanto devoto omaggio postumo alla ricca produzione in versi del poeta di Castellabate

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scomparso un anno fa; un’opera scorrevole, di elegante scrittura, e che ha, tra gli altri, il grande pregio della profondità e della completezza. L’autore non sceglie di entrare subito in medias res per addentrarsi nell’analisi critica delle molte raccolte di poesia: dopo la sua premessa introduttiva, egli preferisce infatti aprire le prime pagine riportando alcuni fra i molti messaggi, lettere ed email che, nei giorni successivi al 13 maggio 2015, giunsero subito alla famiglia Rescigno per testimoniare in un coro unanime lo stupore, il rammarico, il vivo dolore per l’improvvisa e inaspettata dipartita dell’amatissimo poeta. Un lutto non soltanto soggettivo, personale, ma una perdita incolmabile anche per il mondo della cultura italiana. De Rosa ha occasione di sottolineare quanto sia stata concorde la reazione di «sbigottimento, incredulità, dolore, espressioni di stima e di ammirazione per Gianni Rescigno, uomo e poeta inimitabile». Un uomo dall’animo semplice, Gianni Rescigno; una persona fidata e leale, dalla bontà straordinaria, con un’indole sincera e generosa che si rispecchiava interamente nella limpidezza malinconica e sognante della sua poesia. Era stato un bravo maestro di scuola, fedele alla sua missione di educatore e affezionato ai suoi scolari, che, come si vede bene in una delle bellissime fotografie in coda a questo volume, pareva uscire dalle pagine del Cuore di De Amicis. E non ci si può dimenticare che anche altri maestri di scuola rifulsero nel firmamento letterario: penso, tra gli altri, alla lombarda Ada Negri e soprattutto alla svedese Selma Lagerlöf, la prima donna a ricevere il premio Nobel per la letteratura (1909). De Rosa conclude la sua premessa affermando con ferma fiducia che Gianni Rescigno non morirà mai. E anche l’Editore, lo scrittore Sandro GrosPietro, non manca di esprimere nella sua nota finale la medesima certezza che «ci sia una nuova vita comune di Gianni Rescigno, còlta in eredità come esempio e come monito di valori culturali e territoriali da lui difesi e diffusi, e si possa dire con Dante «per correr migliori acque alza le vele / omai la navicella del mio ingegno». Proprio perché la memoria di Gianni Rescigno e della sua opera resti intramontabile e luminosa nell’ animo dei suoi amici e dei suoi lettori, Luigi De Rosa scrive questo libro nutrito, perspicace, accurato ma mai pedante, e gli offre in tal modo un meritato dono commemorativo. Diversamente da colei che qui scrive, la quale, poco più di quindici anni fa, mettendo a punto il primo lavoro sistematico sull’opera poetica rescigniana, si trovò davanti circa mezzo migliaio di poesie, prefazioni di illustri personalità, alcuni arti-


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coli di giornale, ma nemmeno un lavoro importante che vi fosse specificamente dedicato – forse con le sole eccezioni del capitolo Lux et veritas: Gianni Rescigno, all’interno di un libro di Giuseppe De Marco, e dell’esteso Profilo e bilancio critico di Vittoriano Esposito, nella raccolta Le strade di settembre – De Rosa ha avuto oggi di fronte una mole di versi pressoché raddoppiata (i 13 libri di poesia di allora sono diventati 24), una decina di saggi dati alle stampe, innumerevoli recensioni e una tesi di laurea; tutti testi che, nella sua puntuale disamina, ha dovuto necessariamente tenere in conto. A maggior ragione, dunque, dobbiamo grandemente ammirare il suo lavoro, poiché è dovuto procedere arricchendosi di capitolo in capitolo non soltanto dell’ esplorazione sempre approfondita dei versi del poeta, ma anche di tutto quanto su di lui è già stato scritto e pubblicato. Si potrebbe affermare, ricorrendo a una metafora, che il testo di De Rosa scorre dalla prima all’ultima pagina come un fiume che, lungo il suo percorso verso la foce, diviene sempre più ampio e copioso mentre raccoglie da ogni parte le acque di tutti i suoi affluenti. Cominciando dalla prima raccolta di versi, Credere (1969), l’Autore procede passo a passo ad illustrare una per una tutte le sillogi fino all’ultima (Un sogno che sosta, 2014), attraversando così quasi cinquant’anni di produzione poetica, attento non solamente a rilevare gli aspetti fondamentali che costituiscono le imprescindibili coordinate dell’ universo lirico rescigniano, ma anche a mettere in luce gli elementi significativi di maturazione e di evoluzione che è possibile individuare nel corso dei decenni. Molte sono, per di più, le poesie citate – alcune anche integralmente – per cui il libro, oltre che un esaustivo testo critico, diventa di conseguenza un bellissimo florilegio di tutta la poesia di Rescigno. Nella seconda e ultima parte del volume (La poesia di Rescigno nella critica letteraria) De Rosa, senza dimenticare nessuno fra gli illustri Autori, letterati e saggisti che hanno dedicato pagine di analisi e di commento a queste raccolte di versi, considera puntualmente i testi più rilevanti che sono stati pubblicati da quindici anni a questa parte sul poeta di Santa Maria di Castellabate, chiamando a raccolta una corona di voci della critica contemporanea (in primis Giorgio Bárberi Squarotti, e quindi in ordine sparso Luigi Pumpo, Franca Alaimo, Giuliano Manacorda, Menotti Lerro, Maria Rosaria La Marca, Sandro Angelucci, Antonio Vitolo, la sottoscritta ed altri ancora) che in tal modo hanno potuto congiungersi, nella sua indagine, in una poliedrica visione, individuale come collettiva, per contribuire a tracciare nell’insieme un eloquente ritratto a tutto

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tondo dell’intera poetica rescigniana. Con questo libro Luigi De Rosa ha veramente messo a punto un testo di alto profilo critico, in grado di illustrare con diligente, quasi umile cura, e con un linguaggio terso e fluente, il lungo, incomparabile itinerario di un’opera di poesia da cui egli non nasconde di essere affascinato, e che tuttavia, se pure lo conquista intimamente, non gli toglie mai il distacco necessario ad uno studio profondo, intelligente, obiettivo. Se avesse potuto essere ancor oggi fra i viventi, Gianni Rescigno – che sapeva dall’autore del costante progredire di questo lavoro – avrebbe senza dubbio sfogliato queste pagine con grande gioia e autentica commozione, e l’avrebbe saputo apprezzare in ogni sua parte traendone una rara quanto meritata felicità… Marina Caracciolo

BRANDISIO ANDOLFI INTIME ANNOTAZIONI N° 1 (Quasi poesie), Accademia Internazionale Il Convivio, Castiglione di Sicilia (CT) 2015, Pagg. 64, € 10,00 Brandisio Andolfi è nato a Casale di Cerignola nel 1931, laureato in Lettere Moderne, nella Università di Caserta vi ha svolto la docenza negli Istituti di Media Superiore e formandovi famiglia; ha pubblicato centinaia di recensioni su autori contemporanei, e una ventina di libri, soprattutto di poesia tra cui il più recente Intime annotazioni N. 1, intrattenendo relazioni con importanti critici. Le sue annotazioni sono intrise di tristezza. Salvatore D’Ambrosio, nella prefazione alla raccolta, richiama l’attenzione sulla possibilità che la memoria costituisca la guida per capire il senso della vita, e indica nei poeti le persone più adatte a capire “La disperazione, il dolore, la gioia, la musicalità di un filo d’erba o di un soffio di vento improvviso”, a comprenderne il respiro e a comparteciparne i propri simili. Dice che “L’Andolfi è Titiro e Melibeo (Virgilio, prima Bucolica) nello stesso tempo” per via del suo attaccamento alla terra che gli diede i natali (Sessa Aurunca, Caserta), seppure gli provochi nostalgia della propria fanciullezza; diviso fra questa terra e l’attuale terra che l’ accoglie. La raccolta si presenta come un fiume in piena per via della lunghezza dei componimenti e della versificazione prosastica, d’altronde il mondo in cui si muove è disincantato: automobili e moto che sfrecciano rombanti, incidenti stradali che ci hanno abituati all’indifferenza, un ecosistema alla deriva.


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A queste aridità oppone parole come: assera, albale, abbuiare, annottare. Abbiamo perduto la capacità alla meraviglia. C’è nel Poeta questa riflessione filosofica che accomuna tutti gli esseri che hanno cuore e sentimenti, perciò commenta: “Solo i ricordi e la nostalgia viva/ ci rincuorano un po’ gli ultimi giorni/ specie se sono pieni di sole e non di/ cattivi pensieri che distruggono più/ di tutti i mali senza rimedi/ per alleviare i tormenti di ieri.” (pag. 13) Brandisio Andolfi ripercorre all’indietro il tempo e corre immediato il confronto con la realtà che vive. Le sue origini, il contatto con la campagna; “un campo arato di fresco,/ per un buon raccolto a fine anno.” (pag. 31).Sui balconi non mancavano le pianticelle di basilico e di altre essenze per la cucina e si godeva della visione del cielo, del mare, della campagna, al contrario di oggi in cui diventa raro ammirare il cielo terso, ci sovrastano frastuoni di ogni genere, montagne di spazzatura, siamo diventati incapaci di parlare con il proprio intimo. Ai cavalli quadrupedi abbiamo sostituito quelli del motore. Man mano gli amici sono sempre di meno. In città è diventato difficoltoso spostarsi, per via del traffico; gli artigiani vanno sparendo. In quanto alla modernità, dice di essere rimasto all’età della pietra, poiché non conosce i nuovi mezzi elettronici di comunicazione; ma ne riconosce l’utilità, tant’è che ammette:“Papà, dice mia figlia: quando esci di casa/ portati sempre il cellulare, perché/ tu possa essermi vicino.” (pag. 24). Il Poeta osserva nelle sue annotazioni, che siamo diventati tortuosi nel linguaggio, che la pesantezza degli anni ci approssima alla temuta Signora nera; e che nonostante le prediche, i buoni propositi, almeno formalmente, regnano le liti e l’assenza di fratellanza. Brandisio Andolfi si rattrista pensando alla sua Campania divenuta “terra dei fuochi”, simile all’ Inferno dantesco; aggiungo che una volta l’intera regione veniva denominata Terra Laburis: un vero contrasto, specie se la rapportiamo alla Milano industrializzata e ricca di storia. Le tragedie che attraversano i nostri tempi, non risparmiano nessuno. Al disordine materiale si affianca quello morale, per volere sempre di più, così: furbi, furbetti e malandrini frodiamo fingendoci invalidi. Oggi siamo assoggettati al dio denaro, al profitto; l’uomo viene valutato per quello che ha, non per quello che è; a tal proposito mi ricorda quanto scriveva Erich Fromm. Alla festa del lavoro non sventolano più le bandiere dei lavoratori, il lavoro manca. Un omaggio il ricordo a Corrado Calabrò per avergli “fatto leggere il suo libro/ di belle poesie ‘Mi manca il mare’./ Come a me adesso” (pag. 42). Anche il Nostro pensa al mare di Gaeta, facendo rivivere Ulisse e l’ammaliatrice Circe. Evoca la pri-

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ma nomina, il suo amore per gli allievi e rimane deluso per la situazione odierna. Tito Cauchi

FELICE SERINO FRAMMENTI DI LUCE INDIVISA Centro Studi Tindari-Patti (ME) 2015, Pagg. 120, € 10 Felice Serino è campano di Pozzuoli, nato nel 1941; autodidatta, vive a Torino. La recente raccolta Frammenti di luce indivisa, si divide in cinque sezioni (Di luce indivisa, Dai cieli del sogno, Ladro di parole, In divenire, Trasformazioni e dediche). La prefazione è a cura di Lorenzo Spurio, il quale afferma che la poesia del Nostro è pervasa dal sogno e dal surrealismo; spiega che il riferimento agli astri da parte del Poeta, sta a indicarne il desiderio di conoscenza dell’aldilà. La prima impressione che si ricava dalla lettura è il linguaggio sciolto e scorrevole, colorito e a volte divertito. Assenti sono i segni di interpunzione e le maiuscole ad inizio poesie; e presenti sono echi letterari espressamente indicati. Ricorrente è la parola ‘morte’, ecco perché perfino la bellezza di una rosa è respingente con le sue spine; perciò mettiamo in dubbio la presenza di Dio, nondimeno sul sangue di Cristo abbiamo costruito una comunità solidale. Nella visione di Felice Serino troviamo esempi edificanti quali Madre Teresa di Calcutta, Gino Strada, Erri De Luca di Emergency; ci invita a riguardarci dai falsi amici, novelli Giuda. Basti percorrere la crocifissione per renderci conto della mutevolezza e molteplicità della tipologia umana. Si mostra compassionevole verso i poveri, i malati di mente, i disadattati. Un continuo confronto tra angeli e demoni in cui è avvenuto il miracolo della conversione del dissoluto Agostino, forse perché Dio ha bisogno di noi; perciò conclude di affidarci alle Sue mani. L’Autore commenta che siamo fatti di cielo, eppure ne abbiamo tagliato il cordone ombelicale. Nell’alternarsi della vita e della morte, il Poeta si affida al sogno. Ricorda a Nelo Risi cosa significhi amare. Con linguaggio colorito, sulla vita considera “se ci pensi/ vi si entra con uno schiaffo e/ se ne esce con una/ manata di terra” (pag. 69). Sa di esprimere parole, ma muove un rimprovero ai critici che “ti mettono a nudo sulla pagina-lenzuolo/ ravvivano il grido di luce/ della parola sofferta/ concepita nelle viscere” (pag. 76). Felice Serino, nei suoi Frammenti di luce indivisa, parla della vita, ma anche della morte: basta raccoglierne i frammenti, ordinarli secondo “l’ aleph del poeta cieco” Jorge Luis Borges (in un in-


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finito numerabile, si direbbe in matematica). Il Poeta vuole dare la voce a chi non l’ha, come nel caso degli ammalati di Alzheimer; al grido d’aiuto del senzatetto dato alle fiamme, delle tante vittime dell’ 11 settembre (2001 a New York) che gli richiamano gli anni di piombo in Italia. Pensa all’esempio di San Francesco e a volere scacciare da sé il “mal du vivre”. Dichiara di trarre ispirazione da Dario Bellezza, da Nicodemo e da altri. Tiene presenti Ungaretti, Alda Merini “segregata incompresa crocifissa”, Emanuel Swedenborg, Rimbaud, Walt Whitman, James Dean, Hemingway; e pensa all’ amico poeta Flavio che l’ha preceduto nella “via dell’Inconoscibile”. Nomi ed eventi che cita il Nostro, possono sembrare sbavature poetiche, nondimeno essi sono il tentativo di un mondo ricostituito. Tito Cauchi

MARIAGINA BONCIANI ANCORA POESIE Edizioni Helicon, Arezzo 2015, Pagg. 76, € 11,00 Mariagina Bonciani, nata e residente a Milano; ragioniera per professione, si è occupata di importexport, viaggiando e imparando lingue straniere; ha rinunciato a farsi una famiglia e si è preso cura della madre inferma. Trova svago e impegno nel pianoforte, ma la sua passione più intima rimane la poesia, che l’ha fatta conoscere a molti grazie alla sua partecipazione a concorsi letterari e alle opere pubblicate. Fra queste ultime abbiamo Ancora poesie, la cui copertina, raffigurante uno spartito musicale, una rosa rossa e una farfalla, sta già a segnare una intima sentimentalità. Neuro Bonifazi nella prefazione alla raccolta rimarca l’immagine sognante e autobiografica, della Poetessa con i versi impregnati di metafora e di magia, che sposano insieme musica e incanto poetico, sostando anche in passi discorsivi. A volte il soggetto transita dalla prima persona alla seconda, creando un dialogo interiore soprattutto con la madre defunta. In quest’ultima immagine realizza il ritorno alla propria tenera infanzia ed anche l’ esternazione di una “rivelazione risolutrice delle sue angosce inconsce e dei suoi rimpianti” per il suo unico amore ancora fuso con la poesia. Difatti Mariagina percorre il suo excursus esistenziale “Camminavo per un sentiero/ che non sapevo dove mi portasse,/ (…)/ posto perché continuassi quella via/ che ora vedo chiara:/ la poesia.”, notare la metafora e la musicalità. Inizia un dialogo ora con lo sguardo alla luna, alla maniera dei romantici; ora con lo sguardo alla visione circostante di un balcone fiorito, evocando una presenza che le

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faceva palpitare il cuore (nel 1952), ora volatilizzata. Ora si rivolge alla madre guardandone l’ immagine riflessa nelle vetrine e specchiandosi in lei medesima; nel contempo scorge nel volto della genitrice, i tratti distintivi della nonna, con esiti lirici toccanti, poiché commenta: “Ma invano/ mi domando/ chi in me qualcuno ti ritroverà.” (pag. 15). In una sorta di religiosa visione passa in rassegna volti e circostanze. Il cuore è rimasto a Firenze, al suo colore e all’arte; ma è rimasta anche legata a Londra che le evoca i bei giardini, “La bellissima, straziante melodia/ del Lago dei Cigni di Čajkovskij” che tuttavia le è di conforto. Vari luoghi visitati come Plaza Monumental di Barcellona. Con l’ incanto dei concerti e dei grandi maestri, dell’ Adagio di Barber che le dà tanta tristezza; del Sogno di una notte di mezza estate di Mendelssohn. In tutto questo teatro il numero civico 90 di West Cromwell Road, è un topos rimasto scolpito nella mente e nell’anima; quando vi ha fatto ritorno le viene detto: “Oh, dear, he died three years ago.”; rimanendo con l’eco di una voce registrata: “Hello, Maria. This is Tony speaking.” Penso che le dediche o i richiami a persone e a personaggi, possano sembrare una sbavatura poetica, tuttavia credo che non li possa evitare perché essi sono legati a episodi cari della sua vita e mettono a nudo i sentimenti e il suo interesse sociale. Così ricorda Claudia Vanzini; Amalia la sua prima insegnate di pianoforte; Maria Luisa; scrive in memoria di Liliana Rattagi Zucchetti; rammenta ad Alfonso Piscopo i momenti felici. Nel panorama delle persone, mostra ammirazione per Margherita Hack, la quale come sappiamo, si dichiarava atea, perciò la Poetessa si chiede “Quale sul volto avrà ora espressione/ trovandosi davanti al Creatore?”. Ma il volto più caro rimane quello della madre che lentamente e progressivamente si avvicina alla Casa del Signore, fino a sostarvi il 9 maggio 2010. Ed ora le sue visite e i suoi ascolti avvengono in modo virtuale. Legata d’affettuosa amicizia a Vsevolod Dvorkin in una atmosfera da concerto. “La grande potenza descrittiva/ di questa Sheherazade di Rimsky Korsakow” le fa fantasticare un’ avventura con la nave di Simbad, ma subito si sovrappone “quella di un’altra nave carica/ di poveri emigranti.”(pag. 45). Mariagina Bonciani rammenta che il poeta costruisce con le parole, perciò lei si congeda ricordandoci che mette a nudo la propria anima e “Forse/ qualcuno la raccoglierà se piace./ Allo stesso modo si raccoglie/ una foglia da terra quando è bella.” Tutto questo è il mondo incantato in cui lo struggimento sublima un sogno in una storia d’amore da darle corpo. Tito Cauchi


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ILOMENA IOVINELLA ODI IMPETUOSE Ed. l Croco/Pomezia-Notizie, 2016 Nelle sue “Odi Impetuose” la Iovinella prova ad esplorare il caos. Un caos che per prima cosa è dentro di sé e poi è attorno a sé, nel mondo. Prova ad esplorare, perché è come se i suoi versi aggiungessero caos ad altro caos, vista la vita che ognuno di noi conduce ogni giorno. Siamo tutti vorticosamente coinvolti, nessuno che si ferma un attimo a riflettere, a guardare l’altro con occhi più accoglienti. Tutti impauriti, insicuri, vediamo e comunichiamo violenza e paure. E allora i versi che dovrebbero ripulirci l’animo, possono servire? O portano solo ad un divenire terrorizzante? “Emolliente balsamo di disonestà…una corrotta densità che…nella morte muore e muore”, bastano queste poche righe a far comprendere che lo scenario è apocalittico. La Iovinella ci prova a guardare un paesaggio fiorito e profumato con gli occhi della calma, ma anche qui ci sono stati di ansia e di disagio: un vaso non è solo colmo, ma ricolmo; l’aria non è solo calda ma arsa; la distanza è violenta e non placa il tormento dei fiori profumati che sono il simbolo di una meta irraggiungibile. Un duello continuo nella ricerca della felicità propria e altrui. Riuscirà la poetessa a trovare uno stato di calma almeno apparente? Forse non lo sapremo mai, perché sembra quasi che la Iovinella in questo caos interiore ed esteriore ci si trovi bene; il caos è per lei l’ambiente ideale, uno sprone a comporre rime e parole che scuotano sempre di più il genere umano. Roberta Colazingari

NAZARIO PARDINI DICOTOMIE Writer Poesia, 2013 - Pagg. 320, € 16,00 Una prosa lirica meditata e fluente pare a prima vista essere lo strumento e il veicolo letterario di questa raccolta poetica dal tono riservato e colloquiale, ora mansueto, ora sognante, ora gravido di nostalgia ma sempre incline al piacere, calmo e cadenzato, del raccontare. Questa veste prosastica, narrante, di largo respiro, sempre confidente, questo periodare per ampi tratti che occupano in genere tre o quattro versi spesso conclusi in emistichio, cela in realtà uno straordinario, egregio impianto metrico. Non ingannino le frequenti inarcature generate nei versi dove sul primo emistichio si compie un periodo e sul secondo si avvia il periodo seguente: è

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l’endecasillabo sciolto, di ascendenza leopardiana (ben ravvisabile d’altra parte la citazione dalle “Ricordanze” all’8° verso de “Il profumo della giovinezza”: “Ed io che ti perdevo. Inutilmente/”), il riferimento metrico dominante che sostiene e governa tutto il dettato poetico di questa silloge e il suo abile trattamento già di per sé è un segnale di perizia letteraria non comune. Molte liriche sono formate integralmente da endecasillabi. In altre la cadenza del nobile verso è dominante ma è rintracciabile un’ampia gamma di altre misure metriche, dal ternario ai bipartiti alessandrini, con preferenza per il settenario. Sul ritmo basilare, largo e pulsante, degli endecasillabi Pardini inserisce alternative alloritmiche, come detto raramente ad andamento estensivo tramite versi lunghi o doppi, ma più frequentemente contrattivo, attraverso versi brevi, realizzando digressioni ritmiche sincopate, d’altra parte mai frenetiche e indipendenti ma sempre ricondotte e connesse allo stacco maestro dell’endecasillabo che, puntualmente, ogni volta, ricompare ristabilendo la cadenza originaria. Il linguaggio è accessibile, scorrevole, sobrio e sorvegliato, senza ostentazioni, dal tono pacato, conversante, dai colori soffusi, alieno da clamori fonetici (solo qualche sporadico accoppiamento di rime o di assonanze) come anche da sensazionalismi concettuali (rilevabile forse una sola contorsione metaforica: “per fionde che affondavano radici/ nel terriccio dell’anima” in “Lo stradone di scuola”); linguaggio congeniale insomma tanto a una soffice pittura descrittiva quanto a una vereconda rievocazione affettiva, talora impreziosito da qualche lemma ricercato (deliziosa la citazione pascoliana “reste”, da “L’ora di Barga”, in “Volerei felice fra le reste”) o desueto (“buiore” in “Zufoli e fili d’erba”) oppure arricchito dall’occasionale ermetismo di qualche breve digressione concettosa e filosofeggiante. La funzione dei tempi verbali è quella classica: i passati riservati alle memorie, il presente per le aperture descrittive, mentre certe subentranti, esaltanti sequenze di futuri configurano una dimensione auspicante, che in “Elegia per Lidia”, festosa e amorosa apocalisse, diviene surreale, oracolare e visionaria; una dimensione vaga e struggente eppure propositiva, rasserenante, tutta tinta di speranza. Notevole è anche la gamma sensoriale dei ricordi dove tutti i sensi, visivo, uditivo, gustativo, olfattivo e tattile, sono rievocati e tradotti con agilità e limpidezza. Certo l’aura di mitezza che fa da sfondo a questo eloquio poetico, accanto a un suo colore “sombre”, autunnale e all’austerità che si addice, pur nell’ al-


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ternarsi dei registri, a un’immanente, costante “contemplazione della morte”, sembra vietargli la scolpitezza di fraseggio e l’impeto d’accento così che in certi momenti la moderazione potrebbe essere scambiata per inerzia e la sobrietà per gracilità espressiva. A ben guardare però un simile rilievo appare ingiusto. Non è infatti raro trovare momenti di ragguardevole impatto espressivo, ora di incisiva eloquenza (cfr. “ad immolare il giorno alle memorie” in “Il raggio di un pensiero” oppure il bellissimo verso “Il pianto suo solenne ai vostri marmi” in “Oh terra di novembre”), ora di intenso abbandono lirico (cfr. “Andiamo, andiamo/ tu e io soli, giovinezza, andiamo” in “Il profumo della giovinezza“) ora di immaginosa eleganza (cfr. “alle frullane lucide di sole” in “ Contro le lune”, oppure il notevolissimo “...; e tu madre/ sempre lesta alle brine mattutine” in “Oh terra di novembre”). Più d’uno sono i registri linguistici di quest’opera che forgia un “epos” familiare e contadino. “I canti dell’assenza” declinano una colloquialità composita, che alterna una semplicità piana e gergale a tratti di erudizione quando non di riferimento a fonti illustri. D’altra parte l’affinità con i “Canti” leopardiani non sta solo nell’impiego dell’endecasillabo sciolto o nella citazione sopra rilevata, ma si ravvisa anche nella luminosa pienezza di certe aperture descrittive (cfr. sei versi in “Sera di casa mia”: “L’aria si apre/ chiara nel cielo. Sfioriranno i gigli./ I narcisi sui prati e sopra i fulgidi/ balconi di paese. Ritornato/ sono per rivedere il primo verde/ che evade con il raggio del mio prato/ il fumido maggese”). Ne “I canti dell’assenza” Pardini ricostruisce alcune pietre miliari del proprio vissuto con l’acutezza dell’artista ispirato e la perizia del letterato di vaglia in una “Rechèrche” di un tempo mai perduto, riecheggiato e ritrovato nella terra, nelle stagioni, nelle persone, nei simulacri di un passato salvato e conservato dentro agli affetti indelebili riposti nei recessi più intimi della coscienza affettiva, negli angoli più difesi del cuore. Un passaggio da “Non chiedermi perché”, a cui una doppia rima conferisce un tono gozzaniano, riassume il senso di quest’opera poetica : “Sarà forse l’amore. Chi lo sa./ Eppure c’è qualcosa che ha guidato/ quest’animo rigonfio di ricordi/ tra i fiordi del passato.”. In una prospettiva insieme austera e benigna, queste liriche sono culto della memoria, rintracciamento di segreti del proprio passato nella ciclica, rituale immutabilità della natura e infine liturgia della speranza verso un ideale “nostos” di compimento e di

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appagamento affettivo. Nonostante l’impianto composito, sono la misura e l’equilibrio nel dosare, accostare e legare le immagini dei ricordi e le componenti del “melange” emotivo e sensoriale suo proprio, in una parola l’ ammirevole equilibrio della linea narrativa, ad apparire come uno dei pregi salienti, forse il risultato più distintivo e qualificante di questa raccolta. Luciano Domenighini

MARIAGINA BONCIANI "POESIE" Marzo 2012, Edizioni Helicon "POESIE E MUSICA" Giugno 2014, Casa Editrice Menna, Avellino "SOGNI" Agosto 2015, Il Convivio "ANCORA POESIE" Dicembre 2015, Edizioni Helicon Il mese di marzo 2016, ha portato dall'Italia un bellissimo profumato bouquet di libri, di una dolcissima e meravigliosa Poetessa, che tanto ho ammirato per tutte le sue stupende poesie che ho letto da tante riviste che assiduamente mi arrivano, in primis la maestosa POMEZIA-NOTIZIE, per farmi sentire nella mia Terra e apprezzare tanti Autori, che mi riempiono il cuore di allegria e di forti batticuori. Mariagina Bonciani, è arrivata con quattro dei suoi libri carichi di poesie, che odorano della bellezza della natura, del bene infinito per la sua mamma, dell'amore che ha conservato gelosamente nel cuore, dei sogni che le danno tanta ansia e la passione per i viaggi, che le hanno dato gioia e spensieratezza. Mariagina, ha fatto gioiosamente ingresso nella grande famiglia dell'A.L.I.A.S. coi suoi libri, luccicanti di luminose liriche, che tutti gusteranno con l' afflato magico di cui sono colme, per arricchire di nuove ondate di calore la passione che ci accomuna, dandoci la soddisfazione di amalgamare i nostri pensieri e farli volare nell'etere accorciando le distanze e godere il nostro mondo fatto di poesia e d' amore, per ogni cosa che Dio ha creato e che ci ha regalato per godere i Suoi doni e donare amore! “A MIA MAMMA, nel giorno della sua scomparsa” dal libro ANCORA POESIE: Di te/ mi erano rimasti ormai soltanto gli occhi,/gli occhi tuoi grandi e belli e luminosi./ Spenta la voce,/ e spento/ anche quel tuo sorriso/ radioso./ Mi guardavi/ e i grandi tuoi occhi belli/ chiedevano qualcosa/ che non riuscivo o non volevo/ capire. Un ricordo indelebile le è rimasto della mamma,


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versi che toccano le radici dei puri sentimenti, un affetto che rimane per sempre nel profondo del cuore e la tristezza nel pensarla non andrà mai via. Un altro libro è nelle mie mani che tremano d'emozioni, Mariagina con il suo "SOGNI" apre la porta alla speranza e all'ansia dell'attesa di sognare: "IL SOGNO DELLA MIA VITA" dal libro "SOGNI'. Non ti pensavo. /Mille problemi e ancora/ nuove preoccupazioni/ affollavano ieri la mia mente./ Ma tu, pur non chiamato, dopo tanto,/ sei tornato a visitarmi nel sogno./ La mia mano hai cercato, e dolcemente,/ quasi carezza l'hai sfiorata. Il cuore della Nostra, si rallegra nel sogno, incontrando il suo amore, che solo in sogno gli può dare la pace dei sensi, perché lui vive tra le stelle, lontano da lei per sempre! Mariagina, ha viaggiato tanto, ogni estate, ha passato le vacanze in luoghi che tanto ha amato, in particolare Londra, che le ha regalato l'amore con la musica e i concerti che tanto ha amato, ma il violino del suo Tony la incantava, e il suo cuore volava con le note dolcissime che la stupivano per la sua dolcezza e delicatezza, sfiorandole il cuore e accarezzandole la mente, inondandola di un flusso di armonia e di tranquillità. "L'INCONTRO" dal libro "POESIA E MUSICA" In quella Londra che io tanto amo/ e che giorno per giorno io scoprivo/ a me vicina per il suo rispetto/ di usanze e tradizioni e per l'immensa/ varietà di interessi che mi offriva; /in quella vecchia Londra dove allora/ mi sono conosciuta ed ho provato/ la gioia di vagare alla scoperta/ di nuove genti e usanze e nuova lingua;/ In quella vecchia Londra ove ogni giorno/ in una sala da concerto oppure/ in una chiesa o un parco o per la via/ sempre ascoltavo musica... /Là ti ho trovato un giorno,/ forse in mia attesa dietro una finestra,/ at number 90 di West Cromwell Road. Ed ecco che il suo cuore incontra la gioia, che per tutta la vita le dà musica e amore, in quel dolce ricordo vive i suoi giorni, in felice attesa di quell'amore che ha sempre tenuto nascosto tra le briglie del suo cuore. "QUASI UNA VITA" dal libro "POESIE" Quasi una vita/ amandoti senza parlare/ quasi una vita/ amandoti senza sperare./ Ora che avevo capito/ che dovevo parlare/ ora che avevo capito/ che potevo sperare/ ti ho cercato/ pronta ad amare/ ed a donare./ "Oh dear, he died three years ago." / Mi è stato detto. /Quasi una vita/ mi resta ormai per ricordare/ e immaginare. Mariagina Bonciani ama la vita nel ricordo dei giorni lieti e del suo amore, ama la poesia che è l' arcobaleno, la tempesta, la catena che imprigiona e

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ricama i giorni e unisce l'anima tra cielo mare e terra, nel sublime incanto del firmamento, che accende di luci e colori il respiro, con quella sete di emozioni e sensazioni uniche, che dà il creare una poesia!!! Giovanna Li Volti Guzzardi Melbourne, Australia

ANTONIO SPAGNUOLO ULTIMO TOCCO (Puntoacapo Editrice, 2015, Pasturana, AL, € 12,00) Attivo in campo letterario da più di 60 anni, Antonio Spagnuolo si è recentemente ripresentato ai suoi lettori con una nuova silloge, dedicata alla memoria della moglie, da non molto mancata al suo affetto. Caratteristica primaria di questa raccolta, come ben nota Mauro Ferrari nella puntuale postfazione, è l’“eccezionale coesione tematica ed espressiva”, rilevabile finanche nella totale assenza di titolo delle 58 poesie che la compongono: le 11 liriche della prima sezione (quella eponima) sono infatti contraddistinte quasi anonimamente con i simboli delle lettere (a carattere maiuscolo) del nostro alfabeto, mentre le 47 della seconda (intitolata significativamente Memorie) sono numerate con i simboli dei numeri romani. L’insieme tende ad assumere così un significato paradigmatico quasi il poeta voglia eternare la propria avventura, al di là della breve parabola terrena che lega tutte le cose umane, elevandola ad una condizione di universalità. Ne risulta un vero e proprio poemetto, che potrebbe continuare all’infinito, confermando quel legame affettivo che lo unisce alla donna amata e che perdura anche oltre la sua morte: “Parlami ancora di te, dei tuoi singhiozzi, / delle incertezze incredule che non hanno senso” (C); “Ancora urgeva l’ offerta delle mani / in quell’ansia improvvisa di sfrondare / gli anni trascorsi nelle trasparenze” (F); “Ora dietro alle porte torna il vuoto, / quel che rimane della solitudine” (XLVI). Un genere di poesia, questo, inteso a perpetuare il ricordo di una donna defunta (o anche di un uomo, com’è il caso di parecchie Rime dedicate da Vittoria Colonna al marito, Francesco Ferrante D’ Avalos, caduto nella battaglia di Pavia), che ha avuto origini illustri: basti pensare a Dante, che dedica molti suoi versi a Beatrice morta, dopo averla esaltata in vita, oppure alle rime scritte dal Petrarca in morte di Madonna Laura. E per venire ad un poeta a noi più vicino nel tempo, si pensi alle poesie di Xenia, contenute in Satura, scritte da Montale per Mosca (al secolo Drusilla Tanzi), la moglie premor-


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tagli. A questa consuetudine si ricollega appunto Antonio Spagnuolo, ma lo fa in maniera autonoma, servendosi di una metrica che spesso alterna a versi tradizionali altri dall’andamento più libero e moderno, in maniera da sortire effetti molto convincenti. Si vedano ad esempio: “nel decoro improvviso dei tuoi seni, / ecco compare il ricordo del tuo ciglio / il ritaglio di mani col tuo bacio / senza più fiato grigio del destino” (A); “Se la storia ritorna oltre sembianze / i nuovi lembi nascondono la notte / … / Ecco il mio prossimo incendio / a rintracciare il richiamo delle tue labbra / per assurdi desideri” (L); “Le tue braccia non hanno più giorni / fra i trifogli e il brusio delle scommesse” (M); “Mi prende, mi solca, mi avvolge / come capelvenere, / ed è l’unica angoscia che stordisce domande” (I). In questo libro il poeta, chiuso nella sua sofferenza, considera con rimpianto i giorni della propria vita trascorsi accanto alla sua donna; ed ora che ella non è più, a tu per tu con sé stesso si tormenta e si scava. “Possiedi i miei occhi se piango / mentre l’ autunno ritorna nell’estremo / tentativo di scacciare le angosce” (I); “Rivedo le tue mani tra le parole del vecchio ricamo / nell’aspra solitudine che aggancia / e annulla le illusioni per un nuovo sorriso” (III). Talvolta le sue parole si fanno più lievi e la sua voce assume delle modulazioni che paiono più aperte al canto; ma si tratta di un canto sommesso e sfumato, che ci giunge come un’eco della memoria e che nell’animo a lungo perdura: “È carezza e lusinga il lieve vento / che tenta la tua ombra nel ricordo / e asseconda le braccia, dissolvendo / le parole che sussurrammo bocca a bocca” (VIII). E si tratta di un canto che racchiude la lunga storia di tutta la loro vicenda: “La pietra dove incido i miei versi / non è il canto sussurrato appena, / tra foglie che annunziano angosce, / ma storia che parla di noi due / nel segno della fiaba” (VII). Ciò che maggiormente affligge Spagnuolo è ora la sofferta solitudine conseguente all’irreparabile perdita di colei che gli viveva accanto. Nasce in tal modo in lui il sentimento dell’assenza e dell’ abbandono: “Frantumato nel tempo / ogni spazio riconduce l’assenza, / ed il sorriso puro della tua tenerezza / ha distanze repentine, sempre ricomposte / nelle finzioni che mi raffiguro. / Sei stata una passione, / ora sei gesto di estrema solitudine” (XXXVII). E dalla “solitudine” scaturisce la paura. Ecco allora che il poeta si trova di fronte a quest’altro mostro che turba i suoi giorni e le sue notti, non dandogli tregua: “Ho paura del rosso che alle ciglia / racconta confusioni del passato. / Ho paura del silenzio notturno / che avvolge le coperte

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e mi annoda. / Ho paura di girare lo sguardo / e rivedere la tua ombra inseguirmi. / … / Ho paura perché la mano ha dimenticato / l’onda dei tuoi capelli. / Ho paura perché rimango solo / verso la morte” (XV). Speranze, anche brevi, e facili attese ora non hanno più senso, dato che tutto s’annulla e cede di fronte alla morte; e ben lo sa Spagnuolo che invano insegue i fantasmi del suo passato: “Il silenzio mi aggancia e nel ricordo / ogni luce ha l’impatto violento, / a ritroso, inciso in quelle trasparenze / che non hanno confini. / … / Ritorna la tua immagine nel sangue / tuffata a vuotar tenebre…” (XVII). Assorta si fa poi a volte la sua voce che pare voler cogliere più sottili rispondenze, come accade nella XVI poesia di Memorie: “Altri suoni rincorrono parole / ora che il tempo è fermo e misteriosa / è l’ ombra del tuo dubbio”; mentre altre volte assume dei toni schiettamente espressionistici, quali: “L’ urlo che da giorni sanguina, / cieco tra i denti, nudo nella luce…” (XIX). Forte diviene inoltre talora in questo poeta la perentorietà del dire, evidente in certi passi, come: “Si sgretola il silenzio. La memoria / ha parole soltanto per le assenze” (XIII). Ora che è rimasto solo tutto diviene intorno a lui vuoto silenzio e le apparenze svaniscono dietro un muro d’ombra che le inghiotte: “Sono fuggiti i giorni della carne, / i giochi raffinati delle ore, / le carezze leggere dei pensieri” (XXII). Un inganno è anche la nuova stagione che ancora una volta si affaccia con la sua luce e il suo profumo: “Trappola la primavera / con i boccioli che non potrai toccare. / … / Come un ladro l’orologio è muto” (XXV); e persino le più salde apparenze ora si rivelano fragili e inconsistenti: “Più vaghe ed indecise scorrono dissolvenze / nel canto che riuscisti a sussurrare, / e sogno ancora il campanile / ove correvi tra i profumi del bosco” (XXVII). Il passaggio sul mondo di colei che il poeta tanto amò è stato per lui come un sogno, del quale a tratti ancora s’accende la memoria (“È stato solo scherzo del passato / rincorrere pochi attimi di luce, / spezzare con le dita anche l’incanto” - XL), mentre intorno a lui ora resta solo il vuoto: “Ogni giorno il tuo profilo sparisce / anzi dissolve: / non posso credere che il nulla / sia la tua forma” (XLIII). Di questo sogno oggi soltanto rimane l’amarezza del distacco e dell’abbandono: “Mi hai abbandonato!” è infatti il grido che il poeta rivolge alla sua compagna dei giorni nell’incipit dell’ultima poesia della silloge; e bene esprime quella che è la condizione spirituale in cui attualmente si trova; una condizione tuttavia dalla quale sono scaturite queste liriche che sono certamente tra le più alte e compiute che egli abbia scritte e che hanno dato luogo ad un libro


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ricco ed intenso, dal contenuto profondamente umano e per questo è capace di dire a coloro che gli si accostano schiette parole di vita che vanno ben al di là del dolore e della morte: capaci comunque di resistere all’usura del tempo. Liliana Porro Andriuoli

PASQUA, PRIMAVERA In Primavera fiorisce la nostra speranza per la vita eterna. E` il tesoro di rinascita sempre inseguito dalle nostre menti. Non è un miracolo, è la conoscenza che lentamente ci porta verso l'orizzonte in cui gli scienziati e i poeti del faro dell'amore aumentano i nostri desideri di risparmio con la nostra vita, l'esistenza del Pianeta per i nostri discendenti che vi abitano, con quelli che arriveranno dopo di loro in questo minimo Universo, pieno di brillanti albe che tornano giorno dopo giorno. Teresinka Pereira Traduzione dall'inglese di Giovanna Li Volti Guzzardi

COME SI PLACA Come si placa dentro di me il pensiero quando la notte chiude il suo sipario sul mondo. Loretta Bonucci

Pag. 43 è rifiorita dentro di me, ma sarà breve come un sogno Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, MI

HAI SVOLTATO L’ANGOLO A SORPRESA Dove ho perduto l’ombrello? E il bottone? Getto dietro le spalle i miei pensieri come passeri morti. Sento odore di pesce e di mare. O forse è solo il ricordo del porto. Riconoscevo a occhi chiusi le reti le voci le stagioni e la presenza delle donne del nord che mi stordiva… Da dove spira il vento? E verso dove? Sfuggirò come un gatto la luna che imbianca di presagi il marciapiede. E non mi volterò a guardare indietro. Anche se non saprei guardare altrove da quando le tue mani non moltiplicano il pan di via per la nostra comunione. Riesco a farmi la barba la mattina senza scrutarmi il volto. Quando ho venduto la barca? E da quanto mi seguita il cane? Sono passeri implumi come facce sbarbate, i ricordi. Della faccia hanno lo stupore di chi è caduto dal nido nel sonno.

Triginto di Mediglia, MI

Come ho smarrito la sincronizzazione su e giù con l’ascensore del tuo umore? OGGI Oggi la speranza

A un amico nell’ultimo black out gli s’è smemorizzato nel computer il romanzo di centottanta pagine.


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contro l’amore l’averti consegnato la mia password. Corrado Calabrò

Cosa resta di te dentro gli specchi appostati per casa e nelle vetrine compiaciute in cui lanciavi, passando, uno sguardo?

Roma

Forse ho sbagliato strada; son tornato sulle mie stesse tracce un’altra volta: ecco perché non trovo bricioline. Come s’orientano i pesci sott’acqua? E gli astronauti dentro l’ascensore? Persino a mille chilometri da terra non depistiamo quello che crediamo d’aver lasciato come che sia alle spalle. Svolterò a ogni angolo a sorpresa fino a lasciare surplace la mia ombra.

D. Defelice: Il microfono (1960)

La faccia della luna è coperta. Ma i miei passi m’inseguono e s’intrecciano come pipistrelli nella notte.

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Dove scompaiono quando si fa giorno? Dove sei, cosa pensi? E perché mai il tuo quadro in cantina non invecchia? Meglio non saperlo. L’assenza di motivi può spiegare di per se stessa una separazione. Giunge nell’aria un sentore di mare. Il cane annusa l’odore del pesce. Da dove spira il vento? E verso dove? Perché continua a seguitarmi il cane? Quando ho perso l’ombrello? E il bottone? Corrado Calabrò Roma

PASSWORD Abbassa le difese immunitarie

LECTURA DANTIS METELLIANA - L’ Associazione Lectura Dantis Metelliana di Cava de’ Tirreni comunica il calendario delle letture della XLIII Edizione 2016, che si terranno alle ore 18,00 dei martedì sotto elencati nell’Aula Consigliare del Comune (nell’occasione, saranno esposte opere di artisti contemporanei): 5 aprile 2016: Canto II dell’ Inferno, Prof. Fabio Dainotti - Presidente Onorario della Lectura Dantis Metelliana; 12 aprile 2016: Canto III dell’Inferno, Prof. Corrado Calenda Università di Napoli “Federico II”; 19 aprile 2016: Canto IV dell’Inferno, Prof. Francesco Santi Università di Cassino; 26 aprile 2016: Canto V dell’Inferno, Prof. Federico Sanguineti - Università di Salerno; 3 maggio 2016: Una storia del pensiero di Dante, Prof. Leonardo Sebastio - Università di Bari; 10 maggio 2016: Una rilettura di Dante oggi. Dante poeta di contestazione, Prof.ssa Giovanna Scarsi - critico letterario. *** ASSEGNATO IL PREMIO “G. CALOGERO” - Si è celebrato, il 29 gennaio 2016, nell’Aula Magna “G. Reale” dell’Università per stranieri “D. Alighieri” di Reggio Calabria, la XXVIII Edizione del “Premio Giuseppe Calogero 2015”. Anche in questa circostanza, l’assegnazione del prestigioso


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Premio è andata a personalità calabresi, operanti, in Calabria ed altrove, in vari settori culturali, imprenditoriali, artistici, scientifici e professionali, contribuendo a dare impulso e sviluppo alla crescita della Calabria e alla difesa dell’immagine di una Regione spesso presentata in termini non esaltanti. L’ incontro è stato preceduto da un Convegno sul tema “Il Mediterraneo tra cultura, economia e storia”. Ha introdotto i lavori l’On. Natino Aloi, già sottosegretario alla P. I.. Relatori: lo scrittore Piefranco Bruni, lo storico Domenico Ficarra, l’economista Antonino Gatto e la pedagogista Anna Stajano. A conclusione, l’On. Natino Aloi ha proceduto alla consegna del Premio, che ha visto tra i destinatari anche il dott. Pasquale Veneziano, Presidente dell’ Ordine dei Medici della Provincia di Reggio, il colonnello del Carabinieri Cosimo Giuseppe Fazio (alla memoria) e la dottoressa Mirella Marra, Direttrice dell’Archivio di Stato di Reggio Calabria. Ecco l’elenco dei premiati: Professoressa Concettina Audino, Architetta Maria Letterina, Professoressa Maria Maddalena Cavallo, Prof. Raffaele Gaetano, Prof. Giuseppe Currao e prof. Giovanni Praticò (docenti); Dott. Francesco Cornelio, Dott. Giuseppe Femiano, Professoressa Anna Maria Cardona, Dottoressa Maria Frisina (Poeti); Dott. Luciano Greco (Provveditore agli Studi); Dottoressa Anna Maria Fedele, Dott. Francesco Procopio, (Dirigenti scolastico-amministrativi); Dott. Titto Squillaci (studioso cultura magnogreca); Dott. Fabrizio Canale e Dottoressa Anna Arcuri (Tesi di laurea); Giuseppe Ginestra (poesia in vernacolo); Colonnello dei Carabinieri Giuseppe Fazio (alla memoria); Dott. Pasquale Veneziano (Pres. Ordine dei Medici di Reggio Calabria) e Dottoressa Mirella Marra (Dir. Arch. Stato Reggio Calabria). *** TANTI PREMI ALLA POETESSA MARIAGINA BONCIANI - Apprendiamo che la silloge "Campane Fiorentine", di Mariagina Bonciani, che aveva ottenuto il 4° premio al concorso letterario internazionale Città di Pomezia 2010 (apparsa nel numero 95 - dicembre 2010 - dei Quaderni Letterari Il Croco), ha vinto il 2° Premio alla 38a edizione del Concorso "Città di Avellino-Verso il Futuro" 2015, la cui cerimonia di premiazione ha avuto luogo nel trascorso mese di aprile. Intanto, Domenica 17 la Poetessa milanese è stata a La Spezia per una targa "Menzione con merito" per la sua poesia "Il sogno interrotto", e, contemporaneamente, a Pontedera le è stata assegnata una coppa! Ci complimentiamo con la nostra collaboratrice, le cui poesie appaiono costantemente sulle pagine del no-

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stro mensile e che poi sono, spesso, quelle che mietono i tanti premi! *** POETI ITALIANI DEL NOSTRO TEMPO Sabato 23 aprile 2016, alle ore 17, il Circolo Stanze Ulivieri di Montevarchi (Presidente Elisabetta Benini) e l’Accademia Collegio de’ Nobili di Firenze (Preside Marcello Falletti di Villafalletto), con il Patrocinio del Comune di Montevarchi ed ACSI Comitato Provinciale di Arezzo, hanno presentato, presso le Stanze Ulivieri - Piazza Garibaldi 1 Montevarchi -, l’Antologia (della quale PomeziaNotizie si è interessata nei numeri scorsi di marzo e aprile 2016 - pagine 65-66 e pagine 43-44) “Poeti Italiani del nostro tempo”, 10a Edizione del Premio Internazionale di Poesia “Danilo Masini”, tema “Poesia e vita”. Le poesie sono state declamate da Claudio Falletti di Villafalletto e dal direttore artistico per prosa e teatro Silvano Alpini. È seguito un concerto del Duo violino e pianoforte Kevin Mucaj e Anastasiya Byshlyaha. *** CORRADO CALABRÒ A FRANCOFORTE SUL MENO - Dal 19 al 21 maggio 2016 a Francoforte sul Meno la IX edizione del Festival della Poesia Europea. Si aprirà con il saluto del Console generale d’Italia, Dr Maurizio Canfora, nel salone dell’Hotel Monopol, il 19 maggio 2016 alle ore 17.00 a Francoforte sul Meno la IX edizione del Festival della Poesia Europea. Marcella Continanza, fondatrice e direttrice artistica del Festival, illustrerà il programma del Festival. Tre giorni (19 – 21 maggio 2016) dedicati ai poeti europei, a reading, a presentazioni di libri e letture critiche. Purtroppo il clima di tensione internazionale dovuto ai meschini e devastanti atti terroristici verificatisi negli ultimi mesi ha determinato sia la rinuncia a partecipare di alcuni poeti sia l’impossibilità a essere ospitati in luoghi e musei storici come nelle passate edizioni a causa degli inevitabili controlli per il pubblico partecipante. Il programma ha quindi subito qualche cambiamento, tre giorni invece dei quattro- cinque previsti. I poeti ospiti saranno: Corrado Calabrò (Italia), Ferruccio Brugnaro (Italia), Lisa Mazzi (Germania), Laura Cecilia Garavaglia (Italia), Titos Patrikios (Grecia), André Ughetto (Francia), Diego Valverde Villena (Spagna), Klara Hurkova (Repubblica Ceca), Malgorzata Ploszewska (Polonia), Ursula Teicher - Maier (Germania), Vincenzo Guarracino (Italia), Eric Giebel (Germania), Barbara Höhfeld (Germania), Barbara Zeizinger (Germania), Pino de March (Italia). Seguirà al “Club Voltaire” una lettura critica con Ferruccio Brugnaro e alle ore 20.00 l’interessante


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dibattito “Intellettuali e Potere” che prenderà in esame la relazione tra cultura e potere. All’evento parteciperanno i poeti del Festival, modererà Hartmut Barth-Engelbart. Poi venerdì 20 maggio alle ore 12 è prevista “la passeggiata goethiana” nel Giardino Botanico tra piante e alberi che è divenuta una poesia a più voci con i poeti del Festival fino all’albero del Ginko, caro a Goethe, mentre all’ Hotel Monopol alle ore 18.00 al “Goethe Caffè“ incontro con i poeti Barbara Zeizinger e Pino de March e alle ore 19.00 letture con Laura Cecilia Garavaglia, Malgorzata Ploszewska , Ursula Teicher- Maier, cui seguirà alle ore 20.00 nella sala Beethoven l’omaggio a Giacomo Leopardi: “Il tempo del Nord” conferenza con il prof. Vincenzo Guarracino, critico letterario e poeta che illustrerà il pensiero europeo del grande italiano e testimonianze dei poeti del Festival; altre conferenze verteranno su “Poesia e Natura” e sull’ “Integrazione in Europa” per stimolare l’attenzione verso di essa e non solo a livello politico o culturale. Sabato 21 Maggio alle ore 15.00 alla Libreria “Internazionale Süd Seite” ci sarà una lettura critica con Klara Hurkova, Diego Valverde Villena, Lisa Mazzi infine alle ore 19.00 al GoetheUniversität letture critiche con Corrado Calabrò, Andrè Ughetto ed Eric Giebel. Moderatrice: Prof. Laurette Artois

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Il Festival con il patrocinio del console d’Italia di Francoforte sul Meno, il Dott. Maurizio Canfora, è promosso dall’Associazione “Donne e Poesia Isabella Morra” di Francoforte sul Meno e dal Giornale “Clic Donne 2000”. Valeria Marzoli de.it.press 6 *** A SILVIA CALAMATI IL PREMIO LETTERARIO 'CITTA' DI CATTOLICA' - Silvia Calamati è scrittrice vicentina ed ottima collaboratrice free-lance di Rainews24 e Radiorai. Qualche giorno fa mi insegue con la sua bicicletta in via Fusinieri e mi offre questa vera primizia: “... Mi hanno assegnato il I° PREMIO CITTA' DI CATTOLICA...”. “Per il tuo libro sulle 'Figlie di Erin. Voci di donne dell'Irlanda del Nord'? Quello che è piaciuto tanto a Virgilio? Quello duro, durissimo, che io non sono ancora riuscita a leggere?” “Si, proprio quello!” Ed io, orgogliosa della sua amicizia e memore della mia fragilità rispetto alle umane crudeltà, perpetrate attraverso la violenza razionale: “È da quel tuo testo storico, vero, diretto, lacerante, che mio fratello Virgilio si è legato a te in una profondità indelebile, stimandoti perché sincera, con uno stile di stesura scarno ed efficacissimo, che trasmette in filigrana la testimonianza di un'interiorità ben solida, perché non si ferma alla superficie degli eventi...!”. Questa del 2016 è l'VIII edizione del Premio ed il titolo del suo lavoro è “Le compagne di Bobby Sands. Le donne e la guerra in Irlanda del Nord”, pubblicato da Castelvecchi, in Roma: i partecipanti sono stati 722 ed in rete è presente la copertina del volume, con la fotografia dell'Autrice, ma se si va a vedere qualche immagine legata a Bobby Sands ed alla sua straziante prigionia, ora, nella sua cella, su quella nuda branda spicca una rosa rossa: è Silvia, si, proprio lei ad averla offerta in memoria della dignità e della coerenza, dell'amore per la vita, del coraggio e della determinazione nell'attivismo tragico di Sand e dei suoi Blanket Men, quegli uomini nudi, in sciopero della fame, coperti dal panno fornito loro dai carcerieri al servizio della Corona. Senza le loro e le altre donne di questo indomito popolo, presenti al oro fianco, nulla sarebbe stato possibile! Bobby Sands è morto il 5 maggio del 1981 nel carcere-lager di massima sicurezza di Long Kesh, dopo 69 giorni di sofferenze per tener fede allo sciopero della fame, come unica arma nonviolenta possibile per dimostrare la verità e la validità dei propri convincimenti politici: Silvia Calamati, nel volume 'Il diario di Bobby Sands. Storia di un ragazzo irlandese', pubblicato sempre da Castelvecchi nel 2011 e tradotto anche in gaelico, fornisce per la


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prima volta in lingua italiana le vicessitudini, i testi ed i riscontri storici della lotta aperta tra la gente di Belfast, nell'Irlanda del Nord, e le forze militari della Corona. A collaborare con lei il sociologo Denis O'Hearn e Lawrence McKeown, ex compagno di prigionia di Sands, i quali avevano già al loro attivo un prezioso lavoro su questo tema per un pubblico di giovani lettori. A Riccardo Michelucci, che l'ha intervistata per l'Avvenire il 30 aprile 2010, Silvia Calamati spiega: “Sands trasformò la prigione in un campo di battaglia, usò i suoi scritti e i suoi gesti come armi per abbattere l'oppressione coloniale e la discriminazione nei confronti del suo popolo, riuscendo infine a diffondere valori come la libertà, l' amicizia, la solidarietà e l'amore per la vita” (fonte: Internet, alla voce 'Silvia Calamati'). Il 6 Dicembre 2007 ho cominciato ad affrontare il suo complesso lavoro storico “Irlanda del Nord. Una colonia in Europa”, pubblicato dalle Edizioni Associate in Roma a partire dal 1994 ed arrivato alla terza ristampa nel 2005, che fornisce tutte le tappe di questo sanguinoso percorso ai danni di un popolo, quello irlandese, non certo lealista, ma proprio per questo bisognoso di mantenere altissimo il livello della propria identità, di lingua, di tradizioni, di territorio. Nel 2002 le è stato assegnato a Belfast il prestigioso premio Tom Cox Award per la letteratura storicogiornalistica, mentre per questa nostra Rivista, nel numero del Maggio 2015, ho dato rilievo al suo più recente lavoro storico, 'Neve e fango per dissetarmi. Diario di Sotiris Kannellòpoulos, partigiano della Guerra civile greca (1 marzo-17 maggio 1949). La incontrerò nuovamente, dopo la premiazione, e questa occasione sarà per me fonte di rinnovato vigore civile e civico. Ilia Pedrina *** MATTEO E IL TAPPO PIACE ANCHE A LUCIO FELICI - Pesaro, 14 - 3 - 2016 Gentile Defelice,/grazie per la recensione scritta da lei sulla mia favola “Matteo e il tappo”. Sa che io la stimo come scrittore e come critico e sono contenta della stima che lei rivela pe me. Sicura di farle piacere, desidero dirle che il mio libro ha continuato ad avere successo di lettori e di critica. Ultimamente Lucio Felici (che non è mio parente) e che, come sa, è un bravo e famoso studioso di Leopardi, ha così scritto sul mio libro: “Ho letto con divertimento la favola “Matteo e il tappo”, apprezzando la fantasiosa invenzione e la veloce, elegante scrittura”./ Sono convinta che la favola ha anche in quest’epoca il suo grande fascino perché sa divertire, indurre a riflettere, focalizzare importanti verità che la fantasia, in senso assoluto, può con levità mettere in rilievo,

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offrendo insegnamenti per il nostro vivere. Come si sa, la fantasia non è antitetica alla razionalità, ma è una sua componente essenziale; anche uno scienziato ricercatore necessita della fantasia per immaginare traguardi da raggiungere./La saluto con tanta stima. Caterina Felici

LIBRI RICEVUTI ROSSANO ONANO - Il sandalo di nefertari - In copertina, a colori, “Nefertari tra le palme mentre lei sotto riposa”, di Roberta Durante - Edizioni Prufrock spa, 2016 - Pagg. 92, € 12. Rossano ONANO nasce a Cavriago nel 1944. Si laurea in medicina a Milano e vive a Reggio Emilia ove esercita la professione di medico specialista psichiatra. L’esordio in poesia risale a “Gli umani accampamenti” (1985). A seguire: “L’ incombenza individuale” (1987), “Dolci velenosissime spezie” (1989), “Inventario del motociclista in partenza per la ParigiDakar” (1990), “Rosmunda, Elmichi, altri personaggi di Evo Medio” (1991), “Viaggio a Terranova con neri cani d’acqua” (1992), “Le ancora chiuse figlie marinaie” (1994), “La trasmigrazione atlantica degli schiavi” (1995), “Il senso romanico della misura” (1996), “Preghiera a Manitou di Cane Pazzo” (2001), “Appunti ragionati di prossemica” (2002), “Ammuina” (2009), “Mascara” 2011), “Scaramazzo” (2012). Nel 1998 ha pubblicato la raccolta di saggi critici “Il pesce di Ishikawa”, seguito, nel 2006, da “L’ultimo respiro di Cesare”. Nel 2010, in coppia con Veniero Scarselli: “Diafonie poetiche a contrasto” e, con Domenico Defelice, “Alleluia in sala d’armi. Parata e risposta” (2014). E’ inserito nell’almanacco paredro XX secolo/anno 2006 intitolato “Un secolo in un anno”. Ha ottenuto numerosi riscontri premiali per la sua attività e ha partecipato a convegni di poesia. Mantiene un’ampia collaborazione e un’ attiva presenza con le riviste di poesia. ** ANTONIA IZZI RUFO - La casa di mio nonno Prefazione di Angelo Manitta - Il Convivio Editore, 2016 - Pagg. 144, € 13,50. Antonia IZZI RUFO, insegnante in pensione, laureata in Pedagogia, è nata a Scapoli (IS) e risiede a Castelnuovo al Volturno, frazione di Rocchetta (IS). Tra le sue tantissime opere (saggi, poesia, narrativa), ricordiamo: “Piccolo caotico zibaldone”, “La nonna racconta”, “Castelnuovo e il brigante Centrino”, Di tutto un po’, streghe, malocchio e fatture”, “Un posto chiamato


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Scapoli”, “Gira la ruota del tempo”, “Volando... Sognando...”, “Ho conosciuto Charles Moulin”, “Ricordi d’infanzia, ricordi di guerra”, “Quando la Musa è con noi”, “Tristia - Ovidio”, “Perdonami, Galdino”, “I colori dell’anima”, “Le novelle della Pescara”, “Saffo, la decima Musa”, “Senderos de azul, Sentieri d’azzurro”, “Voli nei sogni”, “Pensieri per te”, “La Ginestra di Leopardi”, “Riscopriamo Mimnermo e Solone”, “Continuano a chiamarmi la Maestra”, “Les couleurs de l’âme - I colori dell’ anima”, “Emozioni”, “Profumi”, “Una rivisitazione di Virgilio”, “Omnia vincit amor L’amore vince ogni cosa”, “Intus”, “Meraviglioso mare”, “Passi leggeri”, “La Vita Nuova di Dante”, “Enrico Marco Cipollini e le sue opere”, “La mia vita con te”, “Pasquale Vecchione e la Capitale della zampogna”, “Lamento dell’animo”, “Ritorno alla terra”, “Ricondurre ad unità”, ”Donna”, “Catullo”, “Io, natura e amore”, “Azzurro”, “De Profundis”, “Ti cerco”, “29 racconti”, “Miraggio”, “Aldo Cervo e gli odori della terra”, “Il poeta e l’emozione”, “Stralci di vita”, “Dolce sostare”, “Dilemma”, “Flusso di coscienza”, “Desideri” (2011), “Mi manchi”, “Perché tu non ci sei più”, “Felicità era...” (2012), “Scapoli e il suo dialetto”, “Paese” (2014), “Castelnuovo, paese di canti e di suoni, di miti”, “Voci del passato”, “Raccontarsi” (2015). Lavori e saggi critici sull’Autrice: “Antonia Izzi nella Critica” (Volume I), “Antonia Izzi Rufo nella Critica” (Volume II), Enrico Marco Cipollini, “Invito alla lettura dell’ opera di Antonia Izzi Rufo”, Leonardo Selvaggi, “Nelle opere di Antonia Izzi Rufo Poesia e Tradizioni”, Aldo Cervo, “Antonia Izzi Rufo tra soggettivismo lirico e neorealismo”.

TRA LE RIVISTE IL TIZZONE - Periodico fondato e diretto da Alfio Arcifa - via Amatrice 40 - 02100 Rieti. Riceviamo il n. 4 (106 - 107) dell’aprile 2016. * MAIL ART SERVICE - Bollettino dell’Archivio “L. Pirandello” diretto da Andrea Bonanno - via Friuli 10 - 33077 Sacile (PN). Riceviamo il n. 93, marzo 2016, dal quale segnaliamo “Retrospettiva dedicata all’ottantesimo compleanno di Ben Vautier”, di Giovanni Bonanno e “<L’autoritratto al cavalletto> di Vincent Van Gogh”, di Andrea Bonanno. * SOLOFRA OGGI - La voce di chi non ha voce Direttore Raffaele Vignola - via A. Giannattasio II

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trav. 10 - 83029 Solofra (AV) - E-mail: solofraoggi@libero.it Riceviamo il n. 3, marzo 2016. AI COLLABORATORI Si invitano i collaboratori ad inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione), composti con sistemi DOS o Windows, su CD, o meglio, attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è necessario un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (con copia cartacea) Annuo... € 50.00 Sostenitore....€ 80.00 Benemerito....€ 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia....€ 5,00 ABBONAMENTO solo on line: http://issuu.com/domenicoww/docs/) Annuo... € 35 Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 NO76 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio


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