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“LA “BUONA SCUOLA”: SECONDO RENZI O LA MASTROCOLA? di Giuseppina Bosco AOLA Mastrocola è un’insegnante di Lettere in un liceo scientifico di Torino, è nata nel 1956 a Torino ed è autrice di romanzi : La gallina volante, (di cui uno dei premi è stato il Campiello 2000), Palline di pane (finalista al premio strega 2001), Una barca nel bosco (Premio Campiello 2004), Più lontana della luna (2007), La narice del coniglio (2009); Il pamphlet narrativo La scuola raccontata al mio cane (2004); i due romanzi favola
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All’interno: Gli scrittori italiani e la grande guerra, di Elio Andriuoli, pag. 5 Leonardo Sciascia e la scomparsa di Majorana, di Marina Caracciolo, pag. 7 Aurora De Luca tra esperienza e trascrizione poetica, di Ilia Pedrina, pag. 11 La rivolta del correntista, di Giuseppe Giorgioli, pag. 14 La Calabria si racconta, di Carmine Chiodo, pag. 20 Edoardo Sanguineti, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 23 Anna Vincitorio: Bambini, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 25 Giovanni Battista Rigon e Gioacchino Rossini, di Ilia Pedrina, pag. 28 Olinto Dini, di Leonardo Selvaggi, pag. 31 Domenico Defelice in un saggio di Claudia Trimarchi, di Marina Caracciolo, pag. 35 Antonia Izzi Rufo e La casa di mio nonno, di Tito Cauchi, pag. 37 La poesia di Domenico Defelice e la funzione catartica, di Luigi De Rosa, pag. 40 Leggendo poesie di Nazario Pardini, di Aurora De Luca, pag. 42 Che cosa intendo per poesia, di Nicola Lo Bianco, pag. 46 A mio padre, di Anna Vincitorio, pag. 48 I Poeti e la Natura (Umberto Saba), di Luigi De Rosa, pag. 51 Notizie, pag. 60 Libri ricevuti, pag. 63 Tra le riviste, pag. 65
RECENSIONI di/per: Tito Cauchi (La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice, di Claudia Trimarchi, pag. 53); Carmine Chiodo (Il dialetto della vita/Il sogno la vita la bellezza, di Pasquale Montalto e Domenico Tucci, pag. 55); Domenico Defelice (La grande poesia di Gianni Rescigno il poeta di Santa Maria di Castellabate, di Luigi De Rosa, pag. 56); Elisabetta Di Iaconi (La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice, di Claudia Trimarchi, pag. 57); Anna Vincitorio (La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice, di Claudia Trimarchi, pag. 58).
Lettere i Redazione (Ilia Pedrina), pag. 66
Inoltre, poesie di: Elio Andriuoli, Mariagina Bonciani, Domenico Defelice, Luigi De Rosa, Salvatore D’Ambrosio, Michele Di Candia, Elisabetta Di Iaconi, Caterina Felici, Béatrice Gaudy, Filomena Iovinella, Antonia Izzi Rufo, Adriana Mondo, Rossano Onano, Nazario Pardini, Susanna Pelizza, Teresinka Pereira
Che animale sei? (2005), e E se covano i lupi (2008); la raccolta di poesie La felicità del galleggiante (2010), e i nuovi romanzi “Non so niente di te” (2014), L’esercito delle cose inutili” (2015). Ciò che scrive e sostiene nell’opera “Togliamo il disturbo”1, saggio sulla libertà di non studiare è condivisibile al cento per cen-
to, e un po’ rispecchia il malessere che la totalità degli insegnanti vive quotidianamente. Si tratta di una fotografia della realtà giovanile, i giovani ridotti a “orda scomposta per colpa del sistema-società che li ha ridotti così, e che determina demotivazione nei docenti, i quali vivono con disagio il proprio lavoro, chiedendosi continuamente: che senso ha og-
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gi il lavoro d’insegnante? I ragazzi difatti, non credono nell’istruzione, vanno a scuola spinti dalle famiglie. Esse in virtù dell’ambizione scolastica familiare li iscrivono al liceo scientifico o classico o delle scienze umane o linguistico e questa ambizione delle famiglie, unita alla trasformazione della scuola in azienda (che deve assicurare e vendere un buon prodotto formativo, si fa per dire) ha contribuito a snaturare la scuola stessa intesa come luogo di trasmissione di cultura e conoscenze. La scuola-azienda degli anni Novanta sorta come scuola dell’autonomia che si autopromuoveva con il PEI prima e con il POF poi mediante progetti e finanziamenti finalizzati alla creazione di strutture efficienti (laboratori-palestre-videoteche), ha bisogno di far leva sui numeri: più iscritti, più promossi e licenziati per garantire la propria sopravvivenza e molto spesso, questi numeri (capestro), sono condizionanti per la categoria. I professori affinché gli allievi siano esortati a frequentare la scuola e a studiare (forse!) devono saperli motivare, fornire loro le competenze necessarie, eliminare gli insuccessi, altrimenti si tratta di cattivi insegnanti, incompetenti, ed è colpa loro se i giovani non scelgono quell’indirizzo di studi o, peggio ancora, se abbanbandonano la scuola. Si crea sempre più spesso, soprattutto nelle scuole superiori,
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un circolo vizioso: malessere del docente, solitudine, disagio, insoddisfazione\ incomprensione, che può condividere solo con pochi (i più illuminati), per il resto, si arriva ad una spietata competizione come lotta per la sopravvivenza, L’ultima riforma sulla cosiddetta “buona scuola” accentua sempre di più questo processo). Non ci sarà più (o forse non c’è mai stato) un confronto leale tra colleghi, senza che si assista alle performances dei più “competenti”, dispensatori di dotti saperi e di innumerevoli “ipse dixit”, con buona pace di quell’ atteggiamento collaborativo e di condivisione relativo agli aspetti problematici del proprio insegnamento. E proprio questi docenti-monadi ,auto referenziali, giudici impietosi del lavoro altrui, severi censori verso altri colleghi che ritengono non abbastanza esperti ed innovativi, rivelandosi poco solidali, predomineranno maggiormente nella scuola-azienda. Le quotazioni di alcuni professori poi “salgono” se preparano i propri allievi a partecipare a concorsi vari (regionali, nazionali o interni alla scuola) che si dia il caso poi vincano, sono la garanzia della tanto declamata “scuola di qualità o buona scuola”, come adesso si suol dire. I docenti “normali”, quelli che pretendono dagli alunni lo studio, che siano scolarizzati, ossequiosi delle regole del vivere civile, sono considerati vessatori, intolleranti, contrari ad un’impostazione democratica della scuola, la quale deve garantire a tutti il successo formativo. Alle famiglie e ai figli, si affida il giudizio inappellabile sull’insegnante e se quest’ ultimo si permette di fare un’interrogazione a sorpresa o proporre compiti impegnativi o peggio ancora, dà voti negativi, si accusa subito l’insegnante che non sa insegnare. Questi poveri docenti devono essere ricondizionati o meglio ancora ri-programmati, soprattutto in questa scuola del terzo millennio, che sull’onda delle direttive europee, contenute nel trattato di Lisbona, deve assicurare
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agli allievi le cosiddette “competenze, conoscenze e abilità”. In cosa consistano queste competenze ci viene chiarito dai nuovi formatori, esperti della nuova scuola che devono, come tanti Kapò, ricondizionare la classe docente (robotizzata) e accettare il nuovo verbo: non bisogna trasmettere più le conoscenze (le poesie di Pascoli, la filosofia di Kant, l’apparato digerente) ma saper fare, o meglio ancora ,saper finalizzare le discipline ai “ contesti lavorativi”. Non importa sapere la filosofia di Hegel, ma saper risolvere problemi, saper agire in situazioni significative, saper navigare su internet e saper apprendere all’infinito (non importa che cosa) e quindi programmare significa assicurare a tutti le conoscenze, abilità, competenze in modo tale che il ragazzo impari poche nozioni e dimostri di saperle applicare (abilità) e in futuro, in situazioni di lavoro, saper far tesoro delle competenze e abilità. Non si è in Europa se la scuola non tiene conto delle otto competenze-chiave che alla fine del percorso scolastico l’alunno deve possedere. Non importa se gli alunni conoscano Manzoni, Dante, Tasso l ’importante è come li utilizzino, se poi serva a conoscere meglio la lingua italiana, è poco rilevante, l’importante è che “conoscano” le lingue straniere. In una parte del saggio la Mastrocola2 cita un importante studio di Erich Fromm sul valore della libertà, dal titolo ”Fuga dalla libertà”3, pubblicato nel 1941, che analizza in un periodo dominato dai totalitarismi e dalla negazione delle libertà individuali, l’origine psicologica e sociale di questa fuga dalla libertà. Pertanto l’uomo per non sentirsi solo, escluso, isolato, se rimane legato alla propria libertà individuale, accetta di vivere sotto un governo dittatoriale o diventa “uno dei tanti” come massa informe, conformandosi così ai modelli dominanti, spersonalizzandosi. L’ uomo esce dall’anonimato solo “chattando” o aprendo un blog. Vivere secondo la propria autentica personalità se da un lato ci rende liberi, dall’altro ci condanna all’isolamento e all’incomprensione.
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Difendere la propria libertà individuale significa aver consapevolezza di quel che si è e si vuole fare, pur andando controcorrente, quando si pretende la propria realizzazione personale attraverso lo studio e la preparazione. Non necessariamente essere studenti/cittadini attivi significa freneticamente o schizofrenicamente “ dover fare tante cose contemporaneamente, come mandare un’email, ascoltare musica, studiare la lezione”. Allo stesso modo è fondamentale, per un una società veramente democratica, il rispetto delle libertà di insegnamento e l’autonomia degli insegnanti. La scuola oggi deve, oltre a trasmettere i saperi, formare i cittadini, consapevoli di poter operare scelte in base alle proprie attitudini, attenti ai valori etici e relazionali e non competitivi, egoisti e poco rispettosi verso il prossimo. Non è dunque più sostenibile che lo studio di Dante, di Petrarca, di Kirkegaard sia un valore in sé dal punto di vista culturale e formativo, se non spendibile ai fini commerciali. Bisogna uscire da questa logica della società di mercato e promuovere la cultura come valore formativo per “essere” e non per “competere”. L’ex ministro della pubblica istruzione, Gelmini, con i guasti provocati dalla sua pseudo-riforma della scuola, pretendendo di coniugare innovazione e tradizione, non è stata credibile per: i continui tagli all’ istruzione, il riordinamento dei licei, che si sono tradotti in una sfascio generalizzato della scuola e il ricorso ai cosiddetti “nuovi pedagogisti” (i diseducatori degli educatori come molto pertinentemente li definisce la Mastrocola) contribuiranno a formare l’ homo novus, non più sapiens, bensì videns, anzi “zappiens”. Giuseppina Bosco 1
Paola Mastrocola, Togliamo il disturbo, saggio sulla libertà di non studiare, Ugo Guanda editore, 2011. 2 ibidem, pp 264-271 3 Erich Fromm, tratto da “ Escape from freedom” 1941, “ Fuga dalla libertà”, edizioni di comunità, Milano 1978
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MARIA TERESA CAPRILE E FRANCESCO DE NICOLA: GLI SCRITTORI ITALIANI E LA GRANDE GUERRA di Elio Andriuoli
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UELLO della guerra è un tragico evento che investe un’intera collettività: è naturale pertanto che essa coinvolga anche gli scrittori, sia narratori che poeti, i quali in tale comunità vivono ed operano.
Della guerra quale fenomeno sociale e politico si erano già occupati Francesco De Nicola e Maria Teresa Caprile con un libro intitolato Gli scrittori italiani e il Risorgimento, apparso nel 2011 ed ora sono tornati ad occuparsene con un libro Gli scrittori italiani e la Grande Guerra, uscito nel 2014 (Ghenomena Editore, Formia, € 18,00), cui dovrà far seguito un terzo volume, Gli scrittori italiani e la Resistenza. Sono, queste, delle ricerche di molto interesse, perché mettono a fuoco, come osserva-
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no gli autori, “pagine di buona e talora ottima qualità letteraria”, sovente dimenticate o non del tutto valorizzate per il significato che contengono di testimonianza diretta e profonda del loro tempo. Ci siamo già occupati del primo di questi libri, allorché apparve; spenderemo pertanto qualche parola anche sul secondo, che è giunto in occasione del centenario della Prima Guerra Mondiale. L’argomento è vasto e opportunamente gli autori lo hanno trattato suddividendolo in vari capitoli, il primo dei quali è Dalla vigilia all’entrata in guerra, che pone in primo piano la figura di Filippo Tommaso Marinetti, autore con altri del Manifesto del Futurismo, pubblicato a Parigi il 20 febbraio 1909 su “Le Figarò” dove, tra le diverse dichiarazioni d’intenti, si legge: “Noi vogliamo glorificare la guerra, sola igiene del mondo”. Tra questi scrittori della “vigilia” sono anche da ricordare Renato Serra, del quale qui si leggono alcune pagine del suo Esame di coscienza di un letterato; Luigi Pirandello, con la novella Berecche e la guerra e Elio Vittorini, con il racconto La mia guerra, oltre ad altri autori molto noti, come Dino Campana. Fa seguito un capitolo intitolato Poeti in trincea, nel quale figura innanzi tutto Giuseppe Ungaretti, con alcune poesie di Il porto sepolto, il suo libro d’esordio, dal quale ebbe la fama, che vide la luce a Udine, nel dicembre 1916, ad opera di Ettore Serra, anch’egli poeta, che aveva conosciuto Ungaretti in zona di operazioni ed era stato il suo primo editore. Vengono inoltre antologizzati in questo capitolo Vittorio Locchi, con La sagra di Santa Gorizia; Umberto Saba, con due brevi poesie: Partendo per la zona di guerra e La stazione; Piero Jahier, con Prima marcia alpina; Clemente Rebora, con Voce di vedetta morta e Viatico; Eugenio Montale, con Valmorbia; Camillo Sbarbaro, con alcune delle sue Cartoline in franchigia; Carlo Betocchi, con una pagina del suo libro L’anno di Caporetto. Sono questi, come ognuno può constatare, alcuni dei maggiori poeti italiani del primo Novecento, i quali parteciparono in vario
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modo alla Prima Guerra Mondiale, fermando nei loro testi momenti indimenticabili dell’ esperienza vissuta. La maggior parte delle pagine di questo volume sono però dedicate ai narratori, distribuiti negli altri cinque capitoli, che variamente li raggruppano. Così, nel terzo capitolo, intitolato Dalle Alpi agli Altopiani, compaiono scritti di Massimo Bontempelli: Cortina, 4 settembre 1915; Carlo Pastorino: Via!; Emilio Lussu: Un anno sull’altopiano; Beppe Fenoglio: Gli zii e la guerra; ecc. Di ciascun autore sono inoltre date notizie sulla vita e sulle opere, che valgono ad inserirlo nel più generale contesto, e sono inoltre date delle informazioni utilissime per comprendere il clima spirituale in cui i loro scritti erano nati. Ne risulta un quadro molto variegato, nel quale la guerra è considerata sotto differenti punti di vista, che vanno dal consenso alla ripulsa, ma sempre con l’immediatezza e la freschezza di un’arte che nasce direttamente dalla vita vissuta. Questi scrittori infatti sono stati per lo più testimoni diretti dei fatti narrati, che vengono in tal modo da loro evocati con autentica partecipazione emotiva. Percorre inoltre queste pagine il vivo sentimento dell’ineluttabilità del destino che su tutti incombe, al quale non è dato sottrarsi. E’ quanto emerge anche dagli altri capitoli del libro, che seguono le varie fasi della guerra o ne considerano i diversi settori. Ecco allora le pagine del capitolo Dal Carso all’ Isonzo, dove compaiono gli scritti Vent’anni di Corrado Alvaro; Nostro Purgatorio di Antinio Baldini; Rubè di Giuseppe Antinio Borgese; La paura di Federico de Roberto; Ritorneranno di Giani Stuparich; ecc. Aviatori, marinai e prigionieri è un capitolo che contiene pagine di Umberto Saba Partenza d’aeroplani; Gabriele D’Annunzio: Notturno; Vittorio Giovanni Rossi: I lupi nell’ ovile; Carlo Emilio Gadda: Compagni di prigionia; Carlo Pastorino: Prigionieri in Boemia. Sono scritti questi nei quali gli sviluppi della guerra e i suoi orrori sono descritti con par-
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ticolare efficacia ed evidenza, con un’analisi sovente impietosa delle vicende belliche e della sofferenza che esse comportano. Gli ultimi due capitoli, Le vittime senza divisa e Da Caporetto al Piave, concludono un libro per molti versi utilissimo a chiunque voglia comprendere un periodo molto importante della nostra storia nazionale, che avrà conseguenze determinanti per gli anni a venire. E si tratta di capitoli che contengono testi degni, al pari degli altri, di molta attenzione, come quelli di Mario Rigoni Stern (da Storia di Tönle); Angiolo Silvio Novaro (da Il fabbro armonioso); Enrico Morovich (Memorie da un altro mondo: da Le parole legate al dito), che parlano delle sofferenze patite dai civili a causa della guerra; e quelle di Mario Puccini (Cappotto); Ardengo Soffici (La ritirata di Caporetto); Riccardo Bacchelli (da Il mulino del Po) e italo Svevo (da La coscienza di Zeno), che affrontano piuttosto le ragioni della dolorosa ritirata di Caporetto e poi della battaglia finale di Vittorio Veneto che segnò l’ora della nostra rivincita. Elio Andriuoli NON SIA MAI CH’IO DIMENTICHI Non sia mai ch’io ti dimentichi o ti riduca a un’immagine sbiadita, tu che sei stato la ragione più bella della mia vita. Non sia mai ch’io ti dimentichi, ch’io dimentichi il tuo viso, la tua voce, il tuo sorriso, le parole che un giorno mi dicesti o quelle che a volte mi scrivesti. Non sia mai ch’io dimentichi quel senso di comunione d’anime che ancora mi invade ogni volta che ti penso e ti fa vivo nel mio cuore ancora adesso. Mariagina Bonciani Milano
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LEONARDO SCIASCIA E LA SCOMPARSA DI MAJORANA di Marina Caracciolo quarant’anni dalla pubblicazione del bel libro di Leonardo Sciascia e a centodieci dalla nascita (5 agosto 1906) del grande fisico siciliano, può essere interessante soffermarsi di nuovo su questo singolare enigma, che fu a suo tempo, e tale all’incirca è tuttora, uno dei più oscuri e intricati casi di sparizione di tutto il secolo XX. Il saggio – che uscì nell’autunno del 1975 – si rivela ancor oggi attuale e affascinante: negli undici agili capitoli, la linearità e la chiarezza del documentario si alternano all’ eleganza della prosa letteraria e alla profondità di uno studio sia storico-politico che psicologico. Costruendo un’indagine a mosaico, Sciascia comincia il suo racconto dalla lettera che nell’aprile del ’38 Giovanni Gentile scrisse al capo della polizia Arturo Bocchini, sollecitando calorosamente attive ricerche di un uomo che definiva «una delle maggiori energie della scienza italiana», e man mano si ad-
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dentra nell’argomento tracciando un quadro sempre più dettagliato dei fatti e un ritratto sempre più ricco di sfaccettature della personalità del giovane scienziato. Fin dalle prime pagine si capisce che lo scrittore siciliano non concorda con la tesi – che all’epoca, nonostante molte perplessità, finì per prendere il sopravvento – della scomparsa con intento di suicidio: Ettore Majorana, mente eccezionale, fisico teorico di straordinaria levatura, che, dicono, soleva scribacchiare a matita, su foglietti volanti o su pacchetti di sigarette, geniali teorie che – se sviluppate e pubblicate – gli avrebbero assicurato il Nobel; titolare per «chiara fama», a soli trentuno anni, della cattedra di Fisica Teorica all’Università di Napoli, di famiglia benestante, non aveva, a dire il vero, molti motivi per togliersi la vita. A Roma, entrato a far parte, sebbene sempre in maniera alquanto anomala e saltuaria, dei «ragazzi di via Panisperna», i giovani scienziati – come Emilio Segrè, Edoardo Amaldi, Franco Rasetti, Giovanni Gentile jr. e altri – guidati da Enrico Fermi, Majorana, quando aveva quasi compiuto gli studi di ingegneria si sentì più incline alla fisica teorica e, dopo il passaggio di facoltà, si laureò «con lode» con una tesi su La teoria quantistica dei nuclei radioattivi. Fermi aveva per lui una profonda stima e un’ammirazione incondizionata. Majorana era l’unico, come disse Segrè, che potesse discutere con lui, sul piano scientifico, da pari a pari. «Io non esito a dichiararvi, – scrisse in una lettera a Mussolini – e non lo dico quale espressione iperbolica, che fra tutti gli studiosi italiani e stranieri che ho avuto occasione di avvicinare, il Majorana è quello che per profondità d’ingegno mi ha maggiormente colpito.[…] Ettore Majorana ha al massimo grado quel raro complesso di attitudini che formano il tipico teorico di gran classe». In un’altra occasione, lo scienziato romano lo descrisse come un vero e proprio genio, e lo paragonò (dimenticandosi però stranamente di Einstein) a Newton e a Galileo. Tuttavia più ancora che di Fermi, verso il
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quale, oltre ad essere animato da un certo spirito di antagonismo, sentiva pure un senso di estraneità al limite della diffidenza, Majorana divenne amico – durante un soggiorno di alcuni mesi a Lipsia, nel 1933 – del fisico tedesco Werner Heisenberg. Come scrive Sciascia, fu forse questo l’incontro più significativo, più importante della sua vita; e sul piano umano prima ancora che su quello scientifico. Poco più che trentenne, Heisenberg è descritto da Majorana, nelle lettere ai genitori, come una persona straordinariamente cortese e simpatica. Con lui lo studioso italiano riesce a mettere da parte la sua ritrosia durante lunghe chiacchierate, appassionanti discussioni scientifiche e piacevoli partite a scacchi; e per di più impara la lingua tedesca. A Lipsia incontra anche altre eminenti personalità, come il fisico americano Feenberg e, in seguito, a Copenaghen, Niels Bohr. «Questo giovane smilzo, con un’andatura timida, quasi incerta – come lo descrisse Amaldi, vedendolo per la prima volta, nel 1928 – dai capelli nerissimi e dalla carnagione scura, le gote lievemente scavate e gli occhi vivacissimi e scintillanti», questo genio dall’intelligenza fenomenale ma dal carattere scontroso e introverso, del tutto restio a conferire in pubblico e anche a pubblicare i risultati delle sue ardite ipotesi scientifiche,1 che motivo poteva avere, pochi anni dopo, di eclissarsi per sempre o addirittura di rinunciare alla vita?… Sciascia riporta in proposito un passo eloquente di una lettera della madre di Majorana, Dorina Corso, inviata a Mussolini dopo la sua scomparsa, in cui così parla del figlio: «Fu sempre savio ed equilibrato e il dramma della sua anima o dei suoi nervi sembra dunque un mistero. Ma una cosa è certa, e l’attestano con grande sicurezza tutti gli amici, la famiglia, ed io stessa che sono la madre: non si notarono mai in lui precedenti clinici o morali che possano far pensare al suicidio; al contrario, la serenità e la severità della sua vita permettono, anzi impongono, di considerarlo soltanto come una vittima della scienza».
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In contrasto con le due missive del 25 marzo 1938, una inviata a Carrelli, direttore dell’Istituto di Fisica dell’Università di Napoli, e l’altra indirizzata alla famiglia, dove il proposito di porre fine ai suoi giorni, seppure espresso in maniera non esplicita, è tuttavia assai evidente, ci sono molte cose che fanno pensare a una volontà di sparire, di far perdere le proprie tracce per non farsi mai trovare, ma non al suicidio: Majorana aveva sicuramente pianificato da mesi la sua scomparsa, con cura meticolosa e senza tralasciare il minimo particolare. La sua mente matematica e strategica commise tuttavia due strani «errori» (sempre che non fossero voluti, proprio per lasciar capire a qualcuno, in maniera sottintesa, che in realtà non intendeva affatto uccidersi): è alquanto inverosimile che chi voglia suicidarsi porti con sé il passaporto e tutto il denaro che può avere a disposizione… Già a gennaio del ’38 Majorana aveva chiesto di poter prelevare dal conto in banca tutta la parte a lui spettante, e poco prima del 25 marzo aveva ritirato in una sola volta cinque mensilità arretrate del suo stipendio, che fino a quel momento non si era preoccupato di riscuotere. Il tutto poteva equivalere a circa 10.000 dollari attuali. Se voleva portarsi dietro i documenti e questa somma cospicua, non pensava a morire gettandosi in mare dal piroscafo nel tragitto Palermo-Napoli, come volle lasciar credere; forse progettava invece un viaggio, magari in paesi lontani, dove nessuno l’avrebbe mai potuto individuare. In un libro appena pubblicato, La seconda vita di Majorana (Chiarelettere, giugno 2016) gli autori, i tre giornalisti Giuseppe Borello, Lorenzo Giroffi e Andrea Sceresini, ripercorrono le indagini da loro condotte attraverso la Sicilia e il Lazio, fino a giungere in Venezuela. Là hanno parlato con gli ultimi testimoni che ritengono di averlo riconosciuto, con i loro figli e nipoti, e hanno messo insieme i tasselli della possibile seconda esistenza del fisico catanese. Ne risulta un interessante reportage con molte risposte nuove ma pieno di ombre e di altri misteri. Il «caso» Majorana
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sembra comunque non ancora vicino ad essere del tutto chiarito. Che si sia trattato di suicidio oppure no, il vero enigma della sua scomparsa consiste tuttavia nelle motivazioni all’origine del gesto. Ed è a questo proposito che Sciascia avanza due ipotesi: una di natura eminentemente etica, l’altra di ordine psicologico; con l’ esclusione, pertanto, di qualunque causa patologica (follia o grave depressione oppure insicurezza e paura morbosa di affrontare le responsabilità e i problemi dell’esistenza). Le ricerche nel campo della fisica – di Heisenberg, di Majorana come dell’Istituto di via Panisperna diretto da Fermi – vertevano in particolare sull’atomo e sulla fissione nucleare. È molto improbabile, afferma Sciascia, che il giovane studioso, con la sue straordinarie doti di intuizione e di lungimiranza scientifica non avesse capito il potenziale terribilmente distruttivo che vi era connesso. Ecco allora che la volontà di sparire potrebbe corrispondere all’urgenza di eludere qualsiasi successiva forzatura politica e ogni possibile sfruttamento a fini bellici delle sue ricerche. Le sue speculazioni teoriche, insomma, non dovevano trasformarsi in una rovina per l’ umanità. Questi assilli morali dovevano forse essere già sorti al tempo del suo viaggio in Germania, probabilmente nel corso delle conversazioni con Heisenberg. Al suo ritorno a Roma, Majorana cambiò visibilmente atteggiamento: già chiuso e riservato di natura, divenne sempre più misantropo, uscendo ben poco di casa e ancor più diradando le sue visite all’Istituto. Sembrava pure aver cessato di occuparsi di fisica, per lo meno non ne parlava più. L’altra spiegazione ipotizzata da Sciascia è quella psicologica (in ogni caso connessa alla prima): il voler perdere del tutto la propria identità per acquistarne una nuova, tutta diversa. L’autore – che nel saggio parla spesso di letteratura e nomina scrittori come Eliot e Montale, Shakespeare e Stendhal, Brancati e Pirandello – qui cita Il fu Mattia Pascal e, in particolare, come una sorta di «modello» dell’atteggiamento di Majorana,2 il Vitangelo
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Moscarda di Uno, nessuno e centomila. La «morte» è da considerarsi allora simbolica, non reale: il passaggio da uno ad un altro individuo, da una ad un’altra vita, entrando, nel contempo, nell’impenetrabile sfera dell’ invisibilità. Un mutamento che costituisce un ingresso nel mito. «Già lo scomparire – scrive Sciascia – ha di per sé, e in ogni caso, un che di mitico. […] Ma specialmente in un caso come quello di Ettore Majorana, nel cui mitico scomparire venivano ad assumere mitici significati la giovinezza, la mente prodigiosa, la scienza». Nel bel saggio Uno strappo nel cielo di carta – che nell’edizione Adelphi3 commenta in appendice il testo di Sciascia – l’autrice, Lea Ritter Santini,4 parlando del tormento di coscienza di Majorana, propende per la prima ipotesi formulata dallo scrittore siciliano, e cita a proposito un altro autore, il drammaturgo svizzero Friedrich Dürrenmatt, che nel suo dramma I fisici5 fa dire a un personaggio (Mœbius): «Siamo giunti, nella nostra scienza, ai confini dello scibile… Abbiamo raggiunto il traguardo del nostro cammino. Ma l’ umanità non c’è ancora arrivata… La nostra scienza è diventata tremenda, la nostra ricerca pericolosa, la nostra conoscenza mortale. Non resta per noi fisici che la capitolazione di fronte alla realtà… Dobbiamo rinnegare la scienza e io l’ho rinnegata. Non c’è nessun’altra soluzione, nemmeno per voi». Ecco, Ettore Majorana aveva forse intuito che la fisica nucleare stava prendendo una strada sbagliata, una via rischiosa e terribile che portava non al progresso ma alla distruzione. La sua scomparsa – sia che fosse il rifugio nel segreto di un chiostro o una nuova vita in un altro continente o perfino la morte – non era di certo una vile fuga dalla realtà, ma la precisa decisione di sottrarsi al coinvolgimento, alla colpevole complicità morale di un futuro sfacelo. E di lì a qualche anno gli eventi avrebbero tutt’altro che smentito le sue pessimistiche previsioni. Marina Caracciolo NOTE 1 Ricordiamo, ad esempio, che fu Majorana ad elaborare per primo, pur senza mai pubblicarla, la teo-
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ria del nucleo dell’atomo costituito da protoni e neutroni; teoria che poco tempo dopo fu enunciata da Werner Heisenberg e ne ebbe il suo nome. 2 Come Sciascia ci riporta in un esergo di questo saggio, Edoardo Amaldi, nella sua Nota biografica di Ettore Majorana, ricordando le passioni letterarie del giovane scienziato aveva osservato: «Prediligeva Shakespeare e Pirandello». 3 Leonardo Sciascia, La scomparsa di Majorana (Adelphi, Milano 19971). 4 Il saggio di Lea Ritter Santini accompagnava originariamente la traduzione tedesca del testo di Leonardo Sciascia (Der Fall Majorana, Seewald, Stuttgart 1978 e Ullstein, Frankfurt-Berlin-Wien 1980). 5 Friedrich Dürrenmatt, Die Physiker in Komödien II und frühe Stücke, Verlag der Arche, Zürich 1963 (trad. it. I fisici, Einaudi, Torino 1972).
LE PEUPLIER A l’ami Paul Courget En haut et en bas, en haut et en bas, le long de ton tronc haut et léger, - pic inquiet inspectant au sommet le nid des passereaux. Deux œufs, puis trois..., cinq... toute la couvée. En haut et en bas, en haut et en bas, matin et soir. Voici les petits sans plume, gauches, horribles à voir dans leur nudité sans défense. En haut et en bas, en haut et en bas, et vint le jour de la fête et de la mélancolie. Va-t’en de là, va-t’en pic inquiet ! semblaient crier papa et maman en voletant en rond au-dessus de ma tête. Sur le bord du nid se montrèrent les petits - cinq jeunes fiers -, tous décidés à conquérir le monde. Tchip, tchip, tchitchip ! L’un derrière l’autre les voilà allègres suivant leurs parents au-delà de la route bruyante où vogue noire une forêt.
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J’étais heureux moi aussi, pic inquiet sur ce tien tronc à me balancer au vent. Pic, tu veux t’en aller ? Oh, la nostalgie de voler, sûr moi aussi de conquérir le monde ! Je me souviens que je demeurai embrassé à toi, ami peuplier, quasiment tout le jour, bercé par ta bruissant chevelure de feuilles, les yeux mi-clos, perdu moi aussi dans le vert au-delà de la route bruyante, là, où voguait une forêt (pas la Forêt des Mille Poètes !) Domenico Defelice in ALBERI ? - Traduction de Béatrice Gaudy, della quale è anche il disegno “Nel cuore segreto del bosco” (ma l’albero è una quercia, non un pioppo !), che ospitiamo a pag. 50.
SOLI AMICI Sabbia pepite nel sole del fiume la pirite sfavilla come l’oro Grandine delle pene i lutti le malattie la povertà e il fiume è nero! i volti amici lo sciabordio delle parole che si cancellano che ammutiscono Gelo degli affetti E non è neanche la collera di tanta ipocrisia Il disprezzo Nel buio della corrente risplendono i soli sinceri che rischiarano una vita Bice (Béatrice) Gaudy Francia Traduzione del Poeta Nino Briamonte
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Luglio 2016
AURORA DE LUCA tra esperienza e trascrizione poetica di Ilia Pedrina
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’ESPERIENZA di vita forma e trasforma insieme non solo chi la vive come propria ed imprescindibile dal sé, ma anche e reciprocamente coloro che vi si trovano intorno, accanto, in ascolto, in frattura, in allacciamenti amorosi, in sintonia, tra confusioni e silenzi, in attesa d'aspettative indipendenti dalla loro realizzazione concreta e forse solo sognate, in respiri e parole pronunciate o taciute, in fascinazioni destinali, in slanci ed accovacciamenti assorti. Su tutta questa intrecciata trama di emozioni si vibra una capacità di trascrivere per sé e per gli altri un percorso sensibile che renda efficace e degna di memoria quella esperienza stessa, sganciandola da tante altre, portandola a livelli di comprensibilità armonica nuova ed interessante. Così Aurora De Luca affronta la trascrizione poetica delle sue emozioni, vitalissime: mi riferisco a 'I Quaderni letterari di POMEZIA-NOTIZIE, Il Croco, Marzo
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2011', numero dedicato ad Aurora De Luca, vincitrice del Quinto Premio Città di Pomezia 2010 con la raccolta di poesie 'IL TUO COLORE MARE BLU', con presentazione di Domenico Defelice. Un percorso di 24 liriche o canti d'esperienza e di memoria, che, tengo a precisare, non è ricordo, ma traccia, orma, solco, incisione fissa nella raccolta strategia della permanenza d'immagine: il versante intimo si evidenzia fin dai primi approcci di scrittura, quando la giovane Aurora intona in ritmo reiterato l'evocazione dell'amato, desiato ed atteso: in 'Solo tu' questo inciso viene colto in eco a differenti livelli e segna quel ritmo acceso che spegne docilmente ogni arsura e spinge le sue aspettative oltre, quasi sponda e approdo all'interno dei segreti del colore del mare; in 'Ora' gli elementi di natura sono raccolti nel cuore, nel corpo, nel respiro della giovane artista che nel vento ha la sua metamorfosi d'ali per alimentare ancor più le componenti in fuoco del legame a due. Aurora De Luca percorre la vita attraverso l' amore, l'attesa, il desiderio, così i suoi canti si susseguono come respiri con ritmi nuovi che incalzano anche attraverso la scansione ansimante degli interrogativi, posti a chi è pura immaginazione poetica pensare che possa dare un responso: ella si fa sacerdotessa dell'attesa e dell'andare oltre, nell'Amare, dinamica che sospende il tempo e lo fa rinascere nel differente tempo della Poesia ('Essenza' e 'E allora...'). Ma il vivere l'esperienza del 'fare poesia' non è cosa semplice, né semplice esercitazione d'immagini da ritradurre in versi, perché l' effetto sonoro e l'effetto immaginativo si intrecciano inscindibilmente e devono arrivare a livelli d'originale nuova incandescente armonia, affinché si snodino via via elementi di stile. Prendo come avvio d'esercitazione ritmica 'Rileggi': “Rileggi te. Di quella te che hai consegnato al tempo cosa c'è?
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C'è che sono io. Ma ho un altro viso, uno sguardo un poco diverso, quella luce, e quel tono. Lascio qui, caro diario, il compito della riscoperta. Sono qui, non ti abbandono” (Aurora De Luca, op. cit. pag. 8) Aurora si pone allo specchio di sé, tra le parole scritte ed i loro segreti contorni, non detti ma pur sempre àncora ed aura dell'esistere. Questa tensione non emerge nei versi, anche se è Aurora aura del suo sé, in poesia, in piena consapevolezza: la semplicità del dettato è a tutto limite della fascinazione dell'emozione del sé allo specchio, sempre intensissima, unica. Allora, con pochi tagli, ecco come dare al canto vibrazioni d'intima forza, sganciata dalla banalità: 'Rileggi te quella te consegnata al tempo. Sono io un altro viso uno sguardo di poco diverso luce tono riscoperta'. La formulazione narrativa dei versi deve lasciare il passo ad un incedere libero e con poche radici nelle terre della norma del dire e del comunicare consueto, perché ci sia evento forte, acceso, teso nell'entrare e lasciare traccia in chi legge. Passo ad un altro esempio. Si tratta della poesia 'Eppure': “Si naufraga, eppure non si muore. Si brucia, eppure non ci si ustiona. Si è come gabbiani sulla scogliera, il passo del libero, verso l'orma ma lasciare.
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Eppure siamo legati, due unità che sono l'orma sulla scogliera riflessa nel mare, sin laggiù, sino a quella ancor da lasciare.” (Aurora De Luca, op. cit. pag. 12) Propongo un'evoluzione formale che diriga l'accento su immagini forti che già costituiscono il tessuto fondante della lirica: L'orma. Come gabbiani sulla scogliera libero il passo verso l'orma da lasciare. Si naufraga senza morire si brucia senza ustionarsi. Siamo legati unità nel due orma sulla scogliera riflessa nel mare sin laggiù verso quella ancor da lasciare. Il cantore interviene sul testo e la sua interiorità cresce perché entra l'effetto armonico dei versi e delle parole che li costituiscono. In 'Blu' Aurora De Luca arriva ad espressioni di vibrante intensità e nessun intervento risulta suggerito: “Blu è il colore del tempo che abbiamo piantato, come stille di lacrime e tempera di cielo è il blu dei fiori che s'apriranno nei nostri sguardi. E del tuo blu assaggia il mio cuore, mano tremante nel mio petto, e dei miei sogni blu-notte assaporano i tuoi occhi, specchi a vista serena del tuo tesoro.” (Aurora De Luca, op. cit. pag. 14) Poesia come tempo di scelte e di abbandoni, onde arrivare a riprendere tra le mani il
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tempo del sé nell'Altro da sé; Poesia come trasformazione, nel passare attraverso se stessi e nel farsi canto franto d'immagini e d'emozioni; Poesia come fusione tra suoni, immagini, ritmi e loro risonanze nell'altro, in ascolto ed in lettura, per evocare e provocare emozioni. Poesia è impegno del sé nell'esperienza ed Aurora De Luca è in cammino, in questo percorso di luce, perché già è riuscita a descrivere l'amore come tessuto prezioso di una gemma da animare. Ilia Pedrina
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quella che c'è ancora, lasciatemi viaggiare nello sconfinato Universo per miliardi di miliardi di anni-luce con la navicella della mia fantasia; lasciatemi dormire fiducioso come un bambino con la sua mamma; lasciatemi vigilare, con gli occhi sbarrati per il timore e lo sconforto; lasciatemi sperare, e disperare, nel groviglio dei dubbi e dei tormenti, e con l'unica mia bussola sicura : la Poesia. Luigi De Rosa
POESIA, UNICA BUSSOLA SICURA Ora che sono arrivato fino qui ( quanti anni svaniti!) e che qui me ne dovrei rimanere ( fino a quando non so, viviamo giorno per giorno) proprio adesso, ancora di più, che il cuore ogni tanto fa i capricci, lasciatemi scrivere di quello che voglio e che davvero mi interessa; lasciatemi solo, ogni tanto, a meditare in un “ozio” fiorito, a vagheggiare cose dolcissime, inesprimibili ( cose di altri mondi ! ) lasciatemi sorridere di gioia nel cuore del mio cuore davanti ai fiori dell'uomo, i bambini, e davanti alle persone sincere e buone, ai segnali di amore, alla Natura; lasciatemi sognare nel gioco intrigante della Poesia, unica mia droga; lasciatemi urlare a squarciagola contro le centomila storture del mondo che in sempre nuove forme si riproducono, sotto spoglie sempre diverse. Lasciatemi ripartire ( senza trattenermi), lasciatemi tornare, e restare ( senza imprigionarmi) lasciatemi rimpiangere tutta la Bellezza che non c'è più e lasciatemi adorare
(Rapallo, Genova)
FESTA LONTANA Lo scampanio vibra come uno scoppiettio, fluttuando vanno le ocarine per la campagna. Negletto è il cuore al crepitar della gioia sovrana. Tuonando va la campana che il gioco della festa rende silente. Susanna Pelizza Roma
GIORNO DELLA TERRA La terra è un enorme casa, forte e rinnovabile dove i nostri sogni e la nostra utopia sopravvive. La Terra è come riciclata come siamo, esseri che vivono in superficie, metropolitana, o nel suo spazio cosmico. Viva la Terra per il tesoro infinito che ci dà! Dobbiamo avere un amore speciale per la Terra di tutti Teresinka Pereira USA - Traduzione del Cav. Giovanna Li Volti Guzzardi, Melbourne, Australia
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Luglio 2016
LA RIVOLTA DEL CORRENTISTA1 E IO, GIULIA E SANTIAGO di Giuseppe Giorgioli
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ORTOLETTO con questo libro ci ha regalato una bella descrizione sui comportamenti delle banche e su come riuscire a difendersi e a non farsi fregare. Questo libro racconta la storia dell’autore,
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A Ferragosto del 2014 ho avuto piacere di sentire una Conferenza di Mario Bortoletto nella Piazza di Asiago gremita di persone. L’argomento verteva sul comportamento scorretto di parecchi istituti bancari, che applicando tassi di usura, costringono diverse Ditte ad andare in rosso con il proprio conto corrente. Da qui ai vari episodi di imprenditori che si suicidano il passo è breve. Mario Bortoletto presentò il libro “La rivolta del correntista”. Il ricavato della vendita del libro veniva da lui dato in offerta alle vedove degli imprenditori suicidi.
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imprenditore e vicepresidente del movimento “Il delitto di usura”, che tutela le vittime di usura ed estorsione bancaria. Una storia simile a quella di tanti italiani e che dà importanti indicazioni per riuscire a districarsi nel labirinto degli istituti di credito senza farsi ”fregare“. “Un giorno ti svegli e non hai più niente. Tutto quello che avevi ottenuto con i sacrifici di una vita diventa proprietà della banca. Disperazione e notti insonni, non ti rimane altro, nemmeno l’età per ricominciare. Ti prendono tutto, anche quello che in realtà non gli è dovuto. Molte persone credono di essere debitrici nei confronti delle banche mentre in realtà sono creditrici. Mi auguro che questo libro possa aiutarle ad avere giustizia. Mario Bortoletto è un imprenditore edile di Padova. Ha avviato una serie di contenziosi con diversi istituti bancari. Ha ricevuto risarcimenti per migliaia di euro. Dal 2013 è vicepresidente nazionale del movimento “Il delitto di usura”, che tutela le vittime di usura ed estorsione bancaria prestando assistenza informativa tecnicolegale. A oggi ha avviato cause con 5 diversi istituti bancari. E’ stato riconosciuto dal Tribunale di Venezia consulente tecnico di parte in materia bancaria. Ha ottenuto due vittorie, una con sentenza del Tribunale di Padova e relativo risarcimento per circa 70 mila euro, la seconda con una transazione. E’ stato riconosciuto dal Tribunale di Venezia consulente tecnico di parte in materia bancaria. Nel settembre del 2013 la sua storia è stata raccontata nel corso della trasmissione Presa diretta di Riccardo Iacona. Nel novembre 2013 il programma Report di Milena Gabanelli ha raccolto la sua testimonianza in un servizio della giornalista Giovanna Boursier. “La rivolta del correntista - Come difendersi dalle banche e non farsi fregare” è formato da questi capitoli: Uno di voi Missione impossibile
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Il processo La battaglia continua I funzionari del recupero crediti I dieci comandamenti del correntista La voce dei correntisti Epilogo, i signori del credito Postscriptum. Il sequestro di Santa Maria Novella Postfazione di Alessio Orsini Un salvagente per il correntista Nel libro “La rivolta del correntista” Mario Bortoletto racconta la sua storia e la sua esperienza con le banche e le varie truffe che vengono occultate dagli istituti bancari. Attraverso la sua diretta esperienza ci svela i trucchi per non farsi “fregare”. Ormai le truffe sono all’ordine del giorno e quindi dobbiamo tutelarci come meglio possiamo. Il libro è talmente coinvolgente e interessante che si legge tutto d’un fiato! Nel primo capitolo “Uno di voi” viene descritto come Mario Bortoletto dal nulla fa nascere (nel 1972) e crescere la sua azienda fino alla crisi del 2004 quando, a causa dei debiti, è costretto a vendere un immobile di prestigio nel centro di Padova. Successivamente a causa di continue richieste, con cadenza prima settimanale poi quotidiane, da parte di una banca per un rientro di 22.500 €, Mario Bortoletto studia i movimenti bancari degli ultimi dieci anni e si accorge di essere non debitore ma creditore di circa 70.000 €. Bortoletto in conferenza dichiara: “Ho iniziato ad indagare e scoprire tanti imbrogli che naturalmente tutti ignoriamo. Dopo aver preso delle fregature colossali ho iniziato a “combattere contro le banche”… Mi torna spesso in mente una frase di Giulio Andreotti: “A pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca.” È proprio così. L’ho capito dopo aver preso delle fregature colossali. Anni fa mai avrei avuto il minimo dubbio sul corretto comportamento delle banche con cui avevo a che fare. Erano i miei angeli custodi. Oggi mi sono accorto che sono lupi travestiti da agnelli. Ho scritto questo libro perché vorrei che la mia storia diventasse la storia di tanti cittadini italiani, di quelli
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che faticano ad arrivare alla fine del mese, quelli che hanno perso il lavoro e forse anche la casa, gli imprenditori o i commercianti che sono stati costretti a chiudere le loro attività, i giovani precari che non possono chiedere nemmeno un mutuo per costruirsi una vera vita indipendente, una famiglia con dei figli. La mia generazione ce l’ha fatta perché è cresciuta in un mondo in cui lavorare era ancora un diritto e una possibilità concreta mentre per i giovani di oggi questa possibilità si è trasformata in una chimera.” “I rapporti con le banche spesso condizionano pesantemente la nostra esistenza: addirittura ci sono stati casi anche di suicidio in Italia. Ecco cosa deve fare un correntista per non ritrovarsi in situazioni spiacevoli e di crisi esistenziale. In molti casi all’imprenditore in difficoltà con una banca viene consigliato di fare una perizia econometrica, cioè un’analisi di tutta la storia del proprio conto corrente: il tasso applicato da contratto, le commissioni di massimo scoperto, gli interessi di mora e tutte le altre spese aggiunte. Serve un bravo commercialista, specializzato in materia bancaria, che ricostruisca la storia dei movimenti, che passi ai raggi X tutte le voci di spesa, gli interessi, i costi addebitati dalla banca, i cosiddetti “giochi di valute”. Insomma, tutto quello su cui per anni io avevo sorvolato. Tutto ciò che, per via del tanto lavoro, mi ero lasciato scivolare addosso. Seguo anch’io la strada della perizia e per me comincia una nuova fase: era la prima volta che affrontavo una banca con una perizia. Sicuramente non ho mai smesso di fidarmi di me stesso, e non delle banche, cosa che dico anche a voi lettori. Per poter sapere se la banca si è comportata in modo irregolare deve essere disponibile la documentazione completa riguardo i movimenti bancari del conto corrente. La banca è tenuta a dare gli estratti conto degli ultimi dieci anni gratuitamente a meno delle spese delle copie. Bortoletto, quando ha chiesto i
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documenti degli ultimi dieci anni, ha ricevuto dall’istituto bancario una richiesta di 2000 €. A questo punto ha fatto fare un’ingiunzione dal Giudice del Tribunale alla Banca ottenendo in tal modo i documenti richiesti con le spese del giudizio a carico della banca in 1216,62 euro. Tale azione ha avuto eco a livello locale con pubblicazione del fatto sul “Mattino di Padova”. Bortoletto ha preso a cuore le battaglie contro l’usura bancaria perché colpito dalla situazione delle vedove degli usurati che si sono tolti la vita a causa delle banche. Nel capitolo “I DIECI COMANDAMENTI DEL CORRENTISTA” vengono elencate le dieci regole da osservare nei confronti delle banche, con commenti ulteriori e molto utili : Regola numero 1: Conservate sempre tutta la documentazione bancaria, i contratti, gli estratti conto, gli scalari trimestrali o semestrali. Fate attenzione alle cosiddette “variazioni unilaterali“. Regola numero 2: Fatevi fare una perizia econometrica. È il vostro tesoretto Regola numero 3: Fate attenzione a tutti i costi e a tutte le spese che contribuiscono a determinare il tasso soglia Regola numero 4: Se siete in difficoltà valutate con molta attenzione le cosiddette agevolazioni che il vostro istituto vi propone Regola numero 5: Occhio all’anatocismo bancario, cioè la capitalizzazione degli interessi passivi Regola numero 6: Tenete sempre sotto controllo le commissioni di massimo scoperto Regola numero 7: Attenti ai giochi sulle valute Regola numero 8: Non abbiate paura della Centrale rischi Regola numero 9: Occhio alle provvidenze pubbliche: possono salvarvi la vita (imprenditoriale) Regola numero 10: Diffidate dei consulenti Quello che fatico ad accettare è che, nonostante le banche quasi sistematicamente vengano condannate per illeciti addebiti e applicazione di tassi ultralegali, continuino con
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questi comportamenti. È evidente qual è il loro pensiero: per due correntisti che si svegliano almeno centomila dormono o sono ignari. Ecco perché ho scritto questo libro, per coloro che attualmente si sentono ”disperati“ e che vogliono farla finita. Non mollate e non ammazzatevi per questi ”usurai“. Cercate di portarli allo scoperto. Non perdete mai la speranza e soprattutto seguite i consigli e verificate con attenzione tutte le vostre operazioni. Fate tutte le perizie e controllate bene le varie operazioni. Del capitolo “La voce dei correntisti” mi ha particolarmente colpito e commosso la storia di Giovanni Schiavon, imprenditore di 59 anni, con moglie e figlia, che dinanzi al fallimento della propria Ditta si è sparato un colpo di rivoltella. E pensare che il fallimento è dovuto a crediti che vantava presso Enti Pubblici, che con la scusa della crisi, ritardavano il pagamento. Inoltre vi è stato anche il concorso della banca con tassi usurai. La moglie ha scritto anche a Monti, attuale Presidente del Consiglio, per richiamare l’attenzione sul suicidio del marito. Ma, senza ottenere alcuna risposta! La nostra realtà oggi è questa: l’economia reale cade a pezzi, la disoccupazione aumenta raggiungendo cifre senza precedenti soprattutto fra i più giovani. Ma cosa fanno i governi? Aiutano le banche. Negli ultimi anni la BCE (Banca Centrale Europea) ha fatto arrivare ai principali istituti di credito europei una pioggia di miliardi di euro a un tasso ridicolo. Centinaia di miliardi sono arrivati alle banche italiane. Le banche avranno pure le loro garanzie e le tutele necessarie ma devono stare attente a non tirare troppo la corda perché prima o poi si spezza. Quindi cari lettori, fate attenzione e chiedete trasparenza. Attenzione all’anatocismo. L’ ANATOCISMO in pratica è il calcolo degli interessi sugli interessi attraverso l’applicazione dell’ interesse composto invece dell’interesse semplice. Molte banche giocano su questo. In pratica
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si tratta di interessi che le banche non avevano nessun diritto di incassare. Per questo motivo il recupero dell’ anatocismo è un’opportunità molto interessante in quanto potrebbe davvero cambiare radicalmente la vostra situazione economica.” Quest’esperienza vissuta sulla “pelle” dell’ autore è un messaggio positivo di speranza e ottimismo anche per tutte le altre persone che si trovano in difficoltà economiche simili a causa delle banche. Tutti possono chiedere trasparenza e quindi non farsi fregare. Per i consigli e le consulenze il signor Bortoletto non prende un centesimo, non guadagna nulla da questa attività: semplicemente si dedica alle persone che attualmente si trovano in grosse difficoltà. “Chi mi chiama spesso è sul lastrico e io ricordo bene cosa significa trovarsi con le banche che ti stanno addosso e non ti lasciano respirare. Chiedere altro denaro sarebbe un atteggiamento miserabile” afferma Mario Bortoletto. Adesso a seguire le sue pratiche c’è Alessio Orsini, un giovane avvocato molto capace ed esperto di usura bancaria, autore della postfazione di questo libro. Tra l’autore e lui c’è gioco di squadra, hanno gli stessi valori e lottano per i medesimi obiettivi. Inoltre chi vuole chiarimenti potrà rivolgersi all’associazione Il delitto di usura. Mario Bortoletto è il classico imprenditore veneto, tutto d’un pezzo. Classe 1949, ha iniziato a lavorare giovanissimo mettendo in piedi un’impresa edile partendo praticamente da zero. Siamo a Padova, al centro di quel Nordest che, negli anni Settanta, diventerà il motore trainante dell’economia italiana. In quei primi anni di attività Mario Bortoletto, come tanti altri piccoli imprenditori della zona, consoliderà e amplierà il suo business affidandosi alle commesse della pubblica amministrazione e partecipando alle gare d’ appalto degli enti locali. Un’attività abbastanza certa, insomma, perché la pubblica amministrazione, anche se elargisce i fondi con un certo ritardo, è un debitore sicuro, liquido ed
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esigibile. Una giornata al mare Il giorno 28 agosto, faccio una giornata al mare a Silvi Marina, vicino Pescara, anche per andare a trovare mia figlia che stava in vacanza da quelle parti. Stavo presso lo Stabilimento “La Conchiglia” dove andavo in vacanza negli anni ’60. Il bagnino Carlo Di Francesco, figlio dello storico bagnino Mario, mi chiede cosa stavo leggendo d’interessante. Gli faccio vedere un numero di PomeziaNotizie e gli dico che io e mia moglie facciamo spesso su questa rivista alcune recensioni di libri letti. Carlo mi dice che ha scritto un libro e me ne regala una copia chiedendomi di recensirla. IO, GIULIA E SANTIAGO Il romanzo ha una prefazione e 16 brevi capitoli. La prefazione è scritta da Roberto Colantuono, in quanto ha incoraggiato ed aiutato Carlo per la stampa di questo libro.
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Nella prefazione Colantuono cita un aforisma di Edgar Lawerence Doctorow: Scrivere un romanzo È come guidare una macchina di notte; non puoi mai vedere oltre i fari, ma puoi viaggiare liberamente sulla strada. Colantuono è rimasto affascinato dalla dolcezza del contenuto ed emozionato per la profondità ed umiltà dei sentimenti dei personaggi, ivi descritti. Per chiudere la breve prefazione Colantuono cita una frase che lo ha colpito e che è presente all’interno del libro, frase pronunciata dalla saggezza di nonno Josè al nipote Santiago per il suo sedicesimo compleanno: - Percorri la tua strada, circondati di persone migliori di te, commetti mille errori e mille volte reagisci. Troverai te stesso e questa sarà la tua vittoria che dà il senso alla tua vita. Questa frase deve essere un augurio per la vita di Carlo, come per quella di tutti i lettori! E’ un romanzo, che si legge tutto d'un fiato. La condizione umana è racchiusa in questo romanzo. Lo stile ed il contenuto sono quelli tipici di un giovane della nostra epoca. Si vede che è stato scritto con una certa spontaneità di espressione. E’ la storia di tre amici, che condividono varie esperienze di vita. Il primo capitolo ”Compra un TV, vince l’Italia, vinci un TV” contiene una parvenza di critica all’attuale consumismo tecnologico. Nicola era compagno delle scuole medie di Giulia, che gli presentò il suo fidanzato Santiago nel 2006. Nicola ricevette una telefonata da Santiago dopo circa un mese dalla sua conoscenza per essere accompagnato con l’auto a comprare un televisore moderno (32 pollici minimo, LCD o plasma, ecc…). Nicola considerò quasi un’invadenza ciò in quanto non doveva prendersi tale confidenza per essersi appena conosciuti! Comunque accettò. L’acquisto del TVC da Mediaworld consentiva di vincerne un altro se l’Italia vinceva i mondiali di calcio. L’Italia vinse (era il luglio 2006) e con il buono regalo Santiago prese un laptop gratuito! Santiago e Giulia sono coetanei, del 1975. Santiago è messicano, natura-
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lizzato italiano. Tutti e tre decidono di fare un viaggio nello Yucatan per trovare il nonno Josè e i genitori di Santiago. Facciamo un passo indietro nel tempo: i nonni di Santiago si trasferirono da Città del Messico e con i loro risparmi acquistarono due siti a ridosso del mare nello Yucatan, dove sarebbe sorta Playa Paradiso. L’imprenditore edile italiano Umberto Vaira costruì le strutture e si innamorò della loro figlia Maria, che a diciassette anni rimase incinta di Santiago. Umberto e Maria non si sono mai sposati. Umberto era sempre in giro per il suo lavoro e Santiago crebbe con sua madre . A 11 anni si sentì male, svenne. Il padre lo portò in Italia, dove Santiago fu operato al cuore, si rimise in salute e proseguì la sua vita presso i suoi nonni paterni, genitori di Umberto Vaira, Fernando e Assunta, che lo seguirono come un figlio. Il futuro di Santiago ormai era in Italia e non riusciva più a rivedere suo nonno Josè e sua madre. Al compimento dei suoi sedici anni Josè gli scrisse: “Percorri la tua strada, circondati di persone migliori di te…,”. Santiago al leggere queste parole pianse di commozione. Il romanzo prosegue con la descrizione del viaggio in Yucatan e con ritmo piacevole, divertente ed incalzante vengono descritti i vari episodi, come la perdita di una valigia di Giulia, durante il viaggio, scambiata con quella della signora Stempton di Londra, come le cene luculliane a base di pesce, le passeggiate romantiche con la luna piena, la partita improvvisata fra italiani e messicani (vinta dagli italiani per 2 a 1). Vengono descritti i festeggiamenti fino all’alba dopo la partita, le serate passate in discoteca. Ad un certo punto Santiago riceve una telefonata da Londra per informarlo che suo padre, cadendo da un’ impalcatura, si ferì gravemente e successivamente è stato ricoverato in ospedale. Santiago prende la decisione di andare a Londra da solo, provocando discussioni con Nicola e Giulia, che vorrebbero accompagnarlo… Santiago parte da solo per Londra e Giulia
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prosegue la sua vacanza con Nicola. Santiago, prima di partire, lascia uno scritto a Giulia, dove, fra l’altro, dice che il destino di ciascuno spesso condiziona la nostra vita! In una email Nicola comunica a Santiago l’ indirizzo di Londra della signora Stempton che in sbaglio ha ricevuto la valigia di Giulia. La valigia della signora di Londra verrà recapitata dai servizi aeroportuali dello Yucatan, sperando che la signora faccia altrettanto con quella di Giulia. Santiago a sua volta invia un’email dove scrive che il padre è in coma per un ematoma alla testa, che dovrà essere operato e che lui – Santiago - dorme in ospedale accanto al padre. Nicola e Giulia proseguono la vacanza: vanno a vedere le grotte di stalattiti e stalagmiti di Cenote Chaac, la piramide dei Maya a Chichen Itza. Tramite altre email si viene a sapere della morte del padre di Santiago e che lascia anche una compagna Sasha ed un figlia di tre anni Piera. Il libro si conclude con il viaggio di ritorno a Roma di Nicola e Giulia dallo Yucatan e di Santiago, Sasha e Piera da Londra. Si incontreranno tutti all’aeroporto di Fiumicino. Bella la poesia alla fine del libro, che Santiago dedica a Giulia! Il commento di copertina in sintesi: L’ambizione dello scrittore è chiara e semplice: raccontare con l’animo del protagonista la storia di tre ragazzi che si vogliono bene, viaggiano, ridono, piangono e dicono qualche bugia bianca. In sintesi: vivono. Le loro azioni sono lineari e le riflessioni sincere. Non è un triangolo, ma la simbiosi di amicizia e amore che rendono la convivenza uno stato di felicità. Il distacco invece porta dubbi. Solo la scrittura e la lettura avvicinano gli animi persi. Ti amo si può dire in tanti modi. Ti voglio bene di un amico è unico. Carlo Di Francesco, è nato ad Atri (Te) il 26 novembre del 1976. Laureato in Giurisprudenza presso l’Università di Teramo. E’ cresciuto a Silvi Marina, dove gestisce con la sua famiglia uno Stabilimento Balneare. Dal 2011 vive ad Atri con sua moglie Piera.
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E’ allenatore di scuola calcio, ama la letteratura, il cinema e scrive perché lo diverte. Giuseppe Giorgioli MARIO BORTOLETTO - LA RIVOLTA DEL CORRENTISTA (BESTSELLER) - Versione brossura: Chiare lettere - Edizione 2015, pag 125, Euro 6,90 €, ISBN: 978-88-6190-716-4. CARLO DI FRANCESCO - IO, GIULIA E SANTIAGO -Una storia di vita, amore e amicizia (dedicato alla moglie) - Editrice Cassandra (info@lacassandraedizioni.com) , Edizione brossura 2015, pagg. 148, € 10, ISBN: 978-889406212-0.
INCONTRO L’ombra di due colombe che passano per i tetti svanisce nell’ombra del crepuscolo; essenza di morte nel buio notturno. Percepisco dalle labbra inerti il chiudersi del cielo iracondo che porta un freddo invernale. Sepolta da un senso d’ira io vedo passare l’incontro lontano, fugace come il desiderio effimero di un infante. Cosa resterà di te nel mio incontro? Forse il tuono impetuoso del mio battermi contro, forse il grido lacerante di chi è in preda ad una sorte straziante, forse la nenia sofisticata di una morte aitante, che sorvola con passi leggeri il circuito dei miei pensieri. Immane è l’attesa nella mente che vacilla; già l’ombra glauca della mano chirurgica del destino sentenzia la fine di quel giorno con scrupolosa perseveranza e opererà togliendomi l’infame sensazione del ricordo che ondeggia nella mia mente illeso. E nel fronteggiare del dolore la ragione inasprirà nuovamente il riso amaro della mia inettitudine. Susanna Pelizza Roma
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LA CALABRIA SI RACCONTA di Carmine Chiodo
<<L
a Calabria si racconta>> è un libro di racconti scritti da dieci scrittori calabresi, che appartengono ad aree geografiche diverse della regione, hanno pure età varie ma che comunque tutti dimostrano di avere le carte in regola, e ci hanno dato ottimi racconti di vario argomento, che attengono pure alla regione. Alcuni di questi scrittori sono noti altri si stanno affermando e imponendo sulla scena letteraria. Ecco i nomi con i relativi titoli dei lorio racconti. Carmine Abate (<<Prima la vita>>), Giuseppe Aloe (<<La voce dell’aguzzino>>), Gioacchino Griaco (<<Laura, un ruolo perfetto>>), Domenico Dara (<<Della vera storia di Ciccio Morta), Mimmo Cangemi (<< Bruno nella stanza >>), Annarosa Macri (<< Due barche inna-
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morate >>), Serena Maffia (<<Tra alti e bassi blu>>), Caldo Perri (<< U’porceddu i matra’ Arcangelo >>), Olimpo Malarico (<<L’anima del sangue>>), infine Peppe Voltarelli (<<L’idea>>). Racconti diversi per stile e contenuti e temi ma comunque tutti belli dai quali emergono alcuni tratti e avvenimenti della Calabria, e ad apertura ecco Carmine Abate col suo racconto che ha come tema gli emigranti che sono arrivati alla terra, al paese dove è nato lo scrittore, Carfizzi (provincia di Catanzaro) e qui, in queste pagine lo scrittore dà voce a uno di questi disperati che come è arcinoto intraprendendo viaggi pericolosi che alcune volte sono viaggi verso la morte in mare. È arrivato a Carfizzi un gruppo di questi emigranti <<un giorno di maggio. E lo ricordiamo bene, ché la mattina c’era stata la festa del corpus domini>> (p.9). E agli abitanti del paese, gli emigranti che <<saranno stati una ventina, da vicino sembravano giovani sotto i vent’anni >> (v. p. 11). Uno di questi emigranti racconta il suo viaggio che lo ha portato a Lampedusa, un viaggio che costa caro e poi molti emigranti rimangono con pochissimi soldi o senza nulla: <<quasi tutti i soldi spesi per viaggio>>. E poi i commenti degli abitanti del paese, comunque alcuni di questi disperati, che fuggono da guerre, fame, miseria, trovano un lavoro e una situazione abbastanza dignitosa. Ben orchestrato e articolato il racconto di Dara in cui viene rievocato un uomo particolare calabrese. Ciccio Morta, il quale cosi veniva salutato dai suoi paesani: <<Faciti passara |Faciti passara!>>. Con questa <<gridata >> ogni mattina Ciccio veniva mentre faceva ingresso nella bottega (v. p. 50). Storie e fatti d’altri tempi che talvolta hanno dell’incredibile e sono raccontati - come qui - con una lingua che è un impasto di termini italiani e dialettali. Comunque questo racconto ci dice che la Calabria, che in Calabria è avvenuto tutto ciò, che sono, che sono vissute tali persone, che ha operato tale umanità, tali uomini come Francesco Morataloro, divenuto leggenda col nome di Ciccio Morta, che mori alla venerabile età di novanta e passa anni, e tutti erano convinti che ad uc-
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ciderlo fosse stato quel famigerato ago <<che gli bucò il cuore>> (p. 50). Interessante il racconto di Perri in cui si parla di un porcello e tale racconto ci riporta al tempo del dopoguerra, al <<venti dicembre del 1945 >> . La scena si svolge in un rione ove c’è una grande animazione perché si celebra il primo Natale del dopoguerra. Lo scrittore affidandosi al vivido e comunicante dialetto richiama tutta una serie di scene quotidiane che si svolgevano nel paese, ed ecco il <<vecchio postèro>> che aveva deciso di uccidere il maiale e <<arrigistrare u purceddi nello slargo della sua casetta bianca, distante un centinaio di metri dal mare>>. Poi ecco ancora i <<ragazzi con le orecchie rosse e gli occhi umidi e spiritati >> che aspettavano con eccitazione e terrore l’ inizio delle torture del povero animale. Intanto giocavano a salta cavallina: << Ciceri cotti cotti cotti, fave arrapate arrapate arrapate, scarrica, scarrica, scarrica sta cannata!>> (p. 93). Un racconto che richiama figure e parlate dialettali di un tempo, in questo caso scene e persone che attengono alla uccisione del porco, che veniva scannato da <<Turuzzu u chiacheri>> (da Salvatore il macellaio), che era un uomo mite, <<malinconico e impacciato>> ma pure era una persona pratica, operativa, allegra quando doveva uccidere il maiale. Una storia anche comica: a un certo punto il maiale scappa e andò a finire in mare e dopo tanta fatica, data pure le condizioni del mare, la preda veniva ripescata, e cosi tra canti e suoni si concluse quella fredda giornata invernale e il porco era stato ripescato, e la guerra <<era appena finita>> (v. p, 101) e seguono ancora le scene che animano i vicoli: le note <<della chitarra battente di zze Gnazza>>, i canti <<acuti e sanguigni di zza Gloria e zza Maria, accompagnati con lo zuco zuco>>, e con il Natale ricomincia la vita. I rimanenti racconti hanno un’altra andatura e fisionomia, storie tragiche talune, altre intime. In questi racconti è presente la Calabria, o città di essa. Cosenza nel racconto di Aloe, la città viene definita come <<una donna che non ti ama. Pensi di possederla e ne sei posseduto>> (p. 21). Qui è presente un casentino
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che non abita più in questa città ma che vive a Milano e ogni tanto ritorna nei luoghi natii, ai quali pensa spesso e rimane incantato, solo a pensarli. Mai il calabrese recide il cosiddetto cordone ombelicale che lo tiene legato alla sua terra. Aloe descrive molto bene e in modo intimo il suo rapporto con la città natale e questo racconto di Aloe è intimo, fluido, mentre Criaco ci racconta la storia di Laura, che si innamora del conte di Cassano e il padre della ragazza, Bruno viene a sapere delle ignominie sulla figlia e sulla <<propria madre>>. Si sa in Calabria, e non solo in questa regione, un tempo i conti, i baroni erano prepotenti e commettevano tanti soprusi e stupri. Storia portata in teatro, il varietà della vita. Il racconto di Gangemi parla o meglio ci presenta una situazione particolare, quella di un tal Lorenzo che era <<abituato al buio, da ragazzino aveva fatto compagnia al nonno mentre sviluppava le foto, e al padre, prima che si montasse la testa e prendesse una strada parallela, e pretenziosa - Pure a se stesso qual era lui a sviluppare>> (v. p. 60). La storia di Lorenzo e della sua famiglia, quel nome che era <<Lorenzo all’anagrafe don Renzo fuori>>. Una storia di un fotografo. Da parte sua la Macri ci racconta un viaggio particolare in Calabria: una storia d’amore, e successivamente Serena Maffia ci presenta una storia tragica, la morte di una donna, un amore, una vita sempre caratterizzata da difficili rapporti prima col marito poi con un altro uomo, e infine lo scrittore caccurese (ma nato a Crotone) Olimpio Malarico, che in un bel racconto ci presenta la storia di Antonio Pasculli: <<ogni agosto, l’otto agosto, da non so quanti anni, vado a trovare Antonio Pasculli, unico inquilino di un casello a due piani, distante un paio di chilometri da Caccuri>> (v. 102). Malarico con fantasia e tocchi realistici, espressi con fine e suggestivo linguaggio, narra, fa riemergere certe forme di vita e dì umanità di un piccolo paese nel quale egli è vissuto e quindi ne porta fortemente impressi certi personaggi, avvenimenti e ore e note di paesaggio. Malarico ama e privilegia il suo paesino, Caccuri ora in provincia di Crotone, anche se
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lo scrittore è nato a Crotone ma è vissuto da ragazzo in paese, ora vive lontano ma spesso ritorna ai cari luoghi e persone, ma egli è magna pars con altri dello splendido e significativo <<Premio Caccuri>>, che si svolge tutti gli anni, nel mese d’agosto, appunto nel paese di Caccuri, ove accorrono, data la rilevanza dell’iniziativa culturale, parecchie persone dei paesi limitrofi. Malarico ritorna alle sue <<rughe>>, ai cari vicoli e <<vinelle>> del paese, e ne ricorda forme di vita e personaggi, come dicevo prima, creando un impasto suggestivo e delle trame e pagine narrative pregne di poesia e di belle risonanze sentimentali che alimentano i suoi deliziosi racconti, come questo dal titolo <<L’anima del sangue >>. Qui viene evocata, tra le altre cose, << la periferia sperduta di Caccuri>>: << Alla periferia sperduta di Caccuri e soltanto per un giorno, mi faccio un regalo: mi spoglio, e sono io libero, affrancato dagli obblighi>> (v. p. 104). Caccuri ha fatto e fa continui <<regali>> alla memoria dello scrittore. Ben congegnata e narrata questa storia che ci racconta lo scrittore che sa mescolare abilmente ambiente realtà e fantasia, sa combinare i vari piani del reale e della fantasia. Storia di due amici, quasi fratelli siamesi, che fanno varie esperienze, varie peregrinazioni in Italia e fuori. Un racconto che allude a varie vicende e anche a fatti drammatici, un racconto armonico nelle sue parti, nel quale si parla ovviamente della Calabria, dei suoi prodotti tipici, del suo clima, del suo sole, un sole calabrese, i cui raggi sono come <<stiletti che non risparmiano nulla a nessuno>>. I prodotti della terra calabra son presenti, come dicevo poco fa, ecco i vini, quello di Cirò, poi i frutti rossi con le spine, e poi si passa al silenzio assoluto, <<devastante, un silenzio che puzzava di bruciato>>, e poi ancora il sole agostano che accompagna i pensieri e i ricordi dell’io narrante, ora in preda all’agitazione per un sogno terrificante, ad esempio (a tal riguardo si legga pag. 108). Si trovano, tutto sommato, in questo racconto i luoghi del paese, le sue case, il suo castello, già ricordati e visualizzati in altre sue opere dallo scrittore, che ora si
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abbandona al racconto di altre storie e momenti particolari di vita umana e di stagioni. Ecco il castello, visto da sinistra o destra. Un castello, quello del paese, che è un <<tiranno che esercita il potere sulle case circostanti>> mentre, per contrasto, quella di Antonio è modesta, semplice, possiede il necessario per vivere e poi il <<tempo sembra essersi arrestato ai primi anni sessanta>>. L’ io narrante va alla ricerca dell’amico del sogno all’anima del sangue, il cui pilastro è rappresentato da Antonio Pasculli, che poi muore e muore guardando l’amico come <<un padre che abbandona suo figlio. Come un padre vuole tenere intatta l’anima del sangue>> (v. p. 114). Una storia ambientata <<fra i castagni e le ciaule del paese>>. Aspetti reali del paese, aspetti e presenze reali che hanno accompagnato vari momenti di vita e di avvenimenti svoltisi nel tempo. Comunque attraverso questi racconti si coglie la vita, la dimensione umana della Calabria, che ha una storia millenaria. Tante vicende di uomini, di donne, tanti ambienti, tanti colori e stagioni ben ritmati in questi dieci racconti, <<frutto della sapiente scrittura di alcuni fra i più apprezzati scrittori calabresi>>, che ci presentano varie storie, alcune sognate oppure una realtà vissuta oppure immaginata e tutto svolgendosi in una terra di nome Calabria. Carmine Chiodo AA.VV.: La Calabria si racconta. Prefazione di Pino Aprile, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015, pp. 126, € 12,00.
ENERGIA DEL DOVE Il tuono che illumina la faccia contrita Il tempo che scandisce il polso tremante In quel luogo del sentire sei giunta Quel che l’energia muove è intensità irrequieta del dove Filomena Iovinella Torino
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EDOARDO SANGUINETI (1930-2010)
LA CULTURA DELL’INDIPENDENZA di Salvatore D’Ambrosio
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ARLARE un poco dei poeti contemporanei, ma di quelli che ormai sono tra chi non c’è più come Edoardo Sanguineti, conviene per la quasi totale assenza di qualcosa di veramente valido e innovativo nella produzione poetica odierna. Vedo oggi, ma forse mi sbaglio abbondantemente, un ripiegamento, un accartocciamento su posizioni poetiche, anche se talora
pseudo-innovative, tendenti a un certo conservatorismo. C’è oggi una tendenza a riverniciare, più che creare, per non dispiacere il buon giudizio del critico del momento, che come tutte le prime donne vuole rubare sempre e comunque la scena, anche quando la sua recitazione è di pessima qualità. Parlare di Sanguineti non è cosa facile, perché non fu una personalità facile, essendo in controtendenza e in polemica con tutti. Lungo fu lo scontro dialettico con Pasolini. La sua ribellione non è votata all’ isolamento, anche se poi lo dovrà subire, ma di apertura a realtà nuove con una precisa cronaca dei comportamenti dei nuovi ceti, in rapidissima
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ascesa. Edoardo Sanguineti sembra seguire nel suo racconto poetico, l’antesignano Nanni Balestrini che fu il creatore del TAPE MARK: poesia elettronica ottenuta mescolando materiale linguistico con lo scopo di rompere la struttura di tutte le proprietà linguistiche. L’intento è quello di risvegliare il cervello dell’uomo odierno, che quotidianamente è immerso, anche consapevolmente, in luoghi comuni e nella ripetitività di atti e parole. Sanguineti rifiuta anche la ricerca apparente del verso bello. Cerca piuttosto di proporre immagini che eccitano la fantasia, con il suono delle parole a volte anche in stridente contrasto tra loro. (… è la soddisfazione, è vero, che produce putrefazione)): - [Stracciafoglio-1980] La poesia del Sanguineti è dettata dal bisogno di andare controcorrente; è una poesia che penetra nella prosa fino a mimetizzarsi con essa. Opera il Poeta una sliricizzazione con un verso lungo, adoperando a tratti un linguaggio elitario, quasi a-comunicativo. Reinventa la catena sintgmatica. La struttura codificata è malvista. Rifiuta la mummificazione delle buone maniere letterarie, della grafica standardizzata. Il verso deve essere sovversivo, audace, desemantizzato e fuori dalla logica per dare al lettore la libertà di percepire in autonomia. La poesia ha il verso spezzato e disarticolato proprio per interrompere quella linea di continuità culturale, non tanto o non solo per scandalizzare, ma meglio per innovare, o per andare più in profondità, per coniare espressioni verbali di estremo dolore e sofferenza di fronte alla cecità dell’ uomo che non vede l’estrema sofferenza dell’ universo, che conquista un benessere crescente a fronte di un aumento della pena del vivere. L’angoscia, il dolore che è dentro toglie senso, confonde la mente, partorisce parole in disordine rappresentando la realtà di quel momento mentale così come è. L’umanità perde tensione emotiva, si assuefà alla perdita di autonomia, diventa indifferente, crea nuove forme di schiavitù come il
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silenzio-assenso o il concorso-in colpa, che capovolgono tutti i principi sia di legge che morali. Saltano così le basi delle regole morali e legislative che sono al fondamento di una civiltà. La poesia chiusa nel romitaggio della tecnicità e delle sofisticazioni di una élite culturale che si culla tra l’ordinario e il pianificato non gli interessa, ovvero non serve alla sua voglia di non stare in silenzio. La parola del verso deve avere la capacità di oltrepassare il limite della pagina bianca del libro, deve penetrare le menti e restituire le ragioni dell’ esistenza. Provocatoriamente il linguaggio nelle sue opere risulta disarticolato fino all’ipotesi di una destituzione della logia sintattica. La sua scrittura confezionata ed intessuta di idiotismi colti, di ironica corrosività, di dialoghi che oggettualizzano la quotidianità di più bassa lega, è anticipatrice di una cultura del limo che va stratificandosi nel popolo italiano: favorita in questo da una televisione di scarsi contenuti in quanto improntata alla pura evasione o per meglio dire al culto di una estetica preponderatamente edonistica. La sua allotria, come capita spesso nella cultura italiana, è vista con invidia più che come una forma di superiorità letteraria dalle forti connotazioni innovative. Il suo sperimentalismo attira non poche critiche da parte di Pasolini, che sulla rivista “Il Punto” non riconosce che solo a se stesso la capacità di fare vero e proprio sperimentalismo. La quale cosa dà un poco fastidio a Sanguineti, sentendosi relegato ancora di più nella sua solitudine di poeta orgoglioso di una sua libertà di stile. Nel programma della neoavanguardia invece, Sanguineti è figura centrale per il suo tendere verso l’estetica di Pound; per l’uso della psicoanalisi nei suoi testi; del plurilinguismo presente; di una punteggiatura piena di parentesi e due punti. Due a parere mio sono le raccolte più mature e significative della sua poetica: POSTKARTEN con la materia prodotta dal 1972 al 1977 e STRACCIAFOGLIO del periodo
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1977-1979. In queste raccolte è evidente la forte necessità del narrare, del raccontare, del comunicare. L’insieme è realizzato in modo stringato, quasi didascalico o per meglio dire come se si stesse scrivendo una cartolina postale. Non a caso la titolazione Postkarten. Si raccontano le cose della giornata viste, vissute, considerate: così come un tempo si scriveva prima di andare a letto, la giornaliera cartolina alla fidanzata o alla famiglia, per chi ne aveva una. Vengono fuori dei resoconti di viaggio o di pensieri, liberi viaggiatori della sua mente. Il percorso poetico di Sanguineti è nuovo ma complesso già a partire dalla pubblicazione del Reisebilder, avvenuta nel 1972. E continuerà anche dopo. Sarà per tutti gli anni “70 del secolo scorso, il poeta più interessante e polemicizzato in quanto la sua arte poetica interagì non solo con la realtà letteraria di quegli anni, ma anche con quella politica e sociale. Anni importanti i “70, anche per la sua carriera di professore universitario prima a Salerno e poi a Genova. In questa città si impegna anche politicamente in prima persona venendo eletto da indipendente, per le liste del PCI, a consigliere al comune. Travagliatissimo ma vitalissimo percorso letterario il suo, come il nostro Paese che riesce ad essere sempre a galla per l’opera instancabile di personalità artistiche, che il caso o la fortuna, poche volte la bravura, fa diventare di primo piano o relega, il più delle volte, in troppi stretti dimenticatoi. Salvatore D’Ambrosio DANIEL Vorrei cavalcare l’onda, l’onda più lunga del mare, come Daniel delfino sognante che scoprì nel sogno il suo mondo dorato, per giungere oltre l’orizzonte infinito nella libertà del mare, per una vita perfetta. Adriana Mondo Reano, TO
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ANNA VINCITORIO: BAMBINI di Liliana Porro Andriuoli
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IÀ altre volte Anna Vincitorio ha scelto l’infanzia, in particolare l’ infanzia sfruttata o abbandonata, come tema dei suoi versi. È del 2012 infatti la sua traduzione di The cry of the children (Il pianto dei bambini) di Elisabeth Barret Browning, una delle poesie sociali maggiormente note di questa poetessa, che è tra le più apprezzate dell’Ottocento inglese. In essa la Browning denuncia lo sfruttamento del lavoro minorile, compiuto nelle fabbriche inglesi agli inizi dell’era industriale, che vide concentrate in enormi opifici vaste schiere di lavoratori, e sovente ancora fanciulli. Questa poesia ebbe un notevole effetto dal punto di vista del progresso della società inglese per ché, letta in parlamento, destò una tale emozione che contribuì a far cambiare la legislazione in mate-
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ria. Ed in verità forte è l’impatto emotivo di questo testo, che inizia con una dolorosa constatazione: “Fratelli miei, ascoltate il pianto dei fanciulli. / Piangono nel paese della libertà / nel tempo libero dei giochi degli altri” e seguita con tristi parole di pena: “La nostra giovinezza è colma di affanni / niente abbiamo, solo i vecchi hanno le tombe”; “… tutto il giorno trasciniamo il nostro carico amaro / … / ora guidiamo tutto il giorno ruote di ferro / che nelle fabbriche si muovono giro, giro”; ecc. Di recente il tema dell’infanzia violentata e tradita è stato ripreso dalla Vincitorio in una plaquette intitolata Bambini (Perugia, Blu di Prussia, 2016), che reca una Nota critica di Nazario Pardini e un’Appendice di Sandro Angelucci. In essa la poetessa agita diversi problemi, attinenti tutti all’ignobile sfruttamento dell’infanzia. Le prime due poesie della plaquette sono dedicate al problema dei “bambini-soldato”, cioè a quei ragazzi che, non ancora diciottenni, vengono impiegati come combattenti, messaggeri, spie, o anche solo come facchini, cuochi, o altro, nei numerosi conflitti che qua e là fioriscono sul nostro tormentato pianeta. Qualunque sia la giustificazione che si voglia dare a tale ignominioso sfruttamento, non va dimenticato che si stanno in tal modo privando dei giovanissimi del diritto di vivere la propria infanzia; e non va nemmeno trascurato il fatto che si si tratta di un problema che, già diffuso più di quanto generalmente si possa credere, si sta generalizzando sempre di più. Secondo l’Unicef, infatti, fermo restanti le difficoltà di fare una stima ufficiale del fenomeno, a causa della mancanza di informazioni affidabili ed aggiornate, si presume che siano circa 250.000 i bambini coinvolti nei vari conflitti mondiali. I versi della Vincitorio suonano dunque come un monito che dovrebbe destare le coscienze di tutti coloro che rimangono indifferenti di fronte a questa situazione e nulla fanno per opporsi al male che intorno a loro dilaga. “Lampi negli occhi chiari, / perle tra il
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rosso delle labbra / Nelle tue mani / la mortale stretta / del Kalašnikov / Dove la tua innocenza? / … / Tu, senza guardare, avanzi / Tu, senza ancora saperlo, / ti prepari a morire, / … / è un gioco di scacchi / la baby armata: / l’orgoglio la esalta / il sogno la rimpingua / la realtà l’uccide” (Bambino in guerra). Ma è certo che, come ci suggerisce la nostra poetessa, il problema dei bambini-soldato va inquadrato in un più vasto contesto che è quello della povertà e talvolta persino della miseria che causano molti conflitti nel mondo; così come avviene in Africa (specie in Paesi quali il Niger, il Mali o la Mauritania), dove la carestia genera spietate guerre intestine, fomentate anche da conflitti religiosi e odi razziali. “Il mistero accompagna / la vita e la morte / di colonne di bimbi / scomparse nel silenzio / … / Piccoli volti, / occhi immensi / pieni di domande / Nessuna risposta” (Bambini invisibili). Di fronte a queste tragedie noi rispondiamo troppo spesso con l’indifferenza, conclude la Vincitorio: “Siamo sordi alle immagini” che purtroppo “non emettono suoni” e non trasmettono “invocazioni d’aiuto”. È infatti sufficiente “interrompere il video e spegnere la luce” perché “Tutto torni eguale”; come se il problema non esistesse più o addirittura non fosse mai esistito (Ivi). Un altro problema, e non meno doloroso, è poi quello dell’abbandono dei minori, che sovente vengono lasciati dalle madri presso i Conventi, talora anche appena nati: o perché frutto di una gravidanza indesiderata, o a causa delle condizioni di estrema indigenza in cui versano i genitori. I Conventi li accolgono, senza che se ne conosca l’origine: “Due braccia cieche / non hanno saputo trattenerti / Due occhi vuoti di tragico pianto / ti hanno visto inghiottire / tenero, indifeso, solo” (Bambini abbandonati). E quell’abbandono rimarrà come un marchio che segnerà tutta la vita di quel piccolo essere indifeso: “Cosa porti negli occhi, bambino? / Cosa porti sul Cuore? / Un sacchetto, un santino, una medaglia…” (Ivi).
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Non ultimo è poi il problema della violenza sui minori, che emerge con sempre maggiore frequenza nel mondo attuale e che occupa ogni giorno gran parte della cronaca dei nostri giornali. Ed appunto usuali fatti di cronaca vengono evocati dalla Vincitorio nelle poesie successive di questa plaquette: Cronaca; I ragazzi dello zoo di Roma e White Christmas a Coccaglio. Uno dei tanti reati contro la persona, che purtroppo si ripete con dolorosa frequenza, è argomento della prima: “Voci e, all’improvviso, / due braccia e una morsa / atroce, innaturale. / … / La fiducia violata dall’inganno / Vinta l’antica pietà / per l’ innocente inerme”. Le due poesie che qui compaiono fanno invece riferimento a due precisi avvenimenti, a cui i giornali hanno dato largo spazio e dei quali la Vincitorio riporta, nello stesso titolo, il nome del quotidiano (“Repubblica” nella fattispecie) e la data: 19 gennaio 2016 per la prima e 20 novembre 2009 per la seconda poesia. I ragazzi dello zoo di Roma (è il titolo della prima delle due poesie) trae lo spunto da un reportage realizzato da Floriana Bulfon e da Cristina Mastrandrea per conto dell’Unicef, nel quale si mette in luce un fenomeno che ha assunto ormai vaste proporzioni: quello dei minori non accompagnati che sbarcano in Italia e che, dopo esservi approdati, “scompaiono nel nulla”, perché finiti nella rete di pedofili, sfruttatori e altre categorie di delinquenti. Uno di questi luoghi di ritrovo è quello della Stazione Termini romana, dove i ragazzi si concentrano in cerca di un rifugio e dove li cercano coloro che approfittano della loro misera condizione: “Visi / dove lo sguardo parla / Li atterra il sonno / nei cunicoli / e benda i loro sogni / Soli tra gli altri / prigionieri senza sbarre / Mani d’uomo marchiano / la loro giovinezza”. Il titolo del reportage ci rimanda ad un altro evento analogo avvenuto nella Berlino degli anni ’70, di cui allora molto si parlò (e dal quale trassero argomento anche un libro ed un film, Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino), consistente nella consuetudine di alcuni ragazzi della classe operaia o della me-
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dia borghesia di prostituirsi per comprare l’ eroina e vincere così il loro male di vivere. Ad accomunare i due titoli è la felice metafora di una prigione esistenziale, rappresentata dalle gabbie, senza alcuna via d’uscita, di uno zoo. In White Christmas a Coccaglio la Vincitorio agita il problema della discriminazione razziale, prendendo ancora una volta spunto da un altro fatto di cronaca, avvenuto a Coccaglio, un paese del bresciano dove, l’autorità competente dispose, in seguito all’aumento del numero degli immigrati, un maggior rigore nei controlli, al fine di individuare coloro che erano sprovvisti del regolare Permesso di soggiorno. “L’ascia vibra / e pesante colpisce / per abbattere tutto / Alberga ancora / in alcuno pietà? / La pelle, vestito del volto / è più scura, / bianca la neve / Aveva occhi azzurri / Gesù Nazzareno? / Neri e cupi i capelli / di Maria Maddalena / che Gesù perdonò / Perché non guardare / fino al bianco dell’ anima…”. L’avvenimento ha avuto vasta eco, anche perché avvenuto durante il periodo natalizio.
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GIADA Giada, dolce nipotina, a due anni d’età contagi entusiasmo di vita con lo stupore luminoso dei tuoi occhi quando ti si svelano sconosciute realtà, con l’infaticabile esplorare il mondo per le molte tue curiosità, con il riso e i gridi di gioia che spandi a te attorno, abbandonata contenta all’amore che ricevi nel quale cresci rigogliosa come pianta al calore del sole, in un terreno ricco di umori. In te ritrovo la mia sorgente di vita, i preziosi incanti dell’infanzia; sai donarmi interiore giovinezza. Caterina Felici Pesaro
La plaquette si chiude con Dormi fanciullo, una poesia che suona come un compianto funebre e del compianto ha la delicatezza e la misurata parola: “Tu sorridi, forse / nel tuo sonno / di tempi lunghi / come i silenzi”. “Una plaquette intensa, emotivamente umana”, questa della Vincitorio, Bambini, come la definisce Nazario Pardini nella sua Nota Critica introduttiva ai testi. Una plaquette nella quale l’autrice indaga a fondo e con acuta sensibilità alcuni problemi altamente sentiti, ma che forse non sono stati ancora affrontati adeguatamente dai governi. Certo, quello della Vincitorio non è che un contributo dato per la soluzione di enormi problemi che si presentano nel mondo attuale, ma è offerto con purezza di cuore e soprattutto con quella freschezza di voce che da sempre caratterizza il suo canto. Liliana Porro Andriuoli ANNA VINCITORIO: BAMBINI - Blu di Prussia, Perugia, 2016
CIRINNÀ Navighiamo per poco ancora sopra una barca che affonda La barca che affonda riposa sopra una lastra di corallo La lastra di corallo ha cozze e granchi ermafroditi I granchi ermafroditi hanno pene piccolo e ciglia colorate Le ciglia colorate sono aguzzi polpi centimani I polpi centimani assaltano la vetta di Zeus pantocratore Zeus pantocratore se la ride tracannando la coppa di Ganimede Minerva chiude nella corazza virile il piccolo ventre sterile Rossano Onano Reggio Emilia
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GIOVANNI BATTISTA RIGON DIRIGE ALL'OLIMPICO DI VICENZA LA 'PETITE MESSE SOLENNELLE' DI
GIOACCHINO ROSSINI di Ilia Pedrina
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INGRAZIO Elisabetta Rigon, segretaria della XXV Edizione delle 'Settimane Musicali al Teatro Olimpico, per avermi consentito di assistere per ben due volte, nei giorni 4 e 11 giugno, alla splendida esecuzione della 'Petite Messe Solennelle' di Gioachino Rossini, opera conclusa a Parigi nel 1863, nella versione originale per 12 voci soliste, due pianoforti ed harmonium, diretta da Giovanni Battista Rigon, anche direttore artistico di tutta questa manifestazione, in collaborazione con il Conservatorio 'B. Marcello' di Venezia. Lo studioso e musicologo Cesare Galla ha introdotto l'evento presso l'Odeo del Teatro Olimpico, mettendo in luce particolari interessanti della vita del compositore ed in particolare di questo suo ultimo 'peccato di vecchiaia'. Gioachino Rossini interrompe la sua prestigiosa carriera di compositore di opere semiserie, buffe e forse anche drammatiche con il Guglielmo Tell (1829): ha trentasette anni e sceglie Parigi per continuare a comporre, per se stesso e per pochi intenditori, elevando il pianoforte a suo strumento d'elezione. Ecco in elenco le sezioni che compongono
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l'opera, tratte dalla partitura stessa, in tutto 14: Kyrie eleison (Andante maestoso) - Christe eleison (Andantino moderato tutto sottovoce e legato a cappella) / Gloria (Allegro maestoso) / Gratias agimus tibi (Andante grazioso)/ Domine Deus rex coelestis (Allegro giusto) / Qui tollis peccata mundi (Andantino mosso) / Quoniam Tu solus Sanctus (Allegro moderato) / Cum Sancto Spiritu (Allegro maestoso) / Credo (Allegro cristiano) / Crucifixus (Andantino sostenuto) / Et resurrexit (Allegro) / Preludio religioso (durante l'Offertorio, per piano solo, Andante maestoso) / Sanctus (Andantino mosso) per soli e coro a cappella) / O salutaris Hostia (Andantino sostenuto) / Agnus Dei (Andante sostenuto). Nella parentesi che si viene a creare tra il Kyrie e la sua ripresa, ecco l'innovazione di una tematica ardita e dall'andamento votivo: il 'Christe eleison' è per solo Coro a cappella, in disegno armonico intensissimo e senza accompagnamento di strumenti. È proprio alla figura del Cristo che Rossini riserva il suo interesse pieno, penetrante, silente e segreto perché interno all'elaborazione musicale, che qui è fatta anche di parole. La lingua latina, antichissima, si presta docilmente a frangersi secondo le necessità creative del compositore, che finalmente ha scelto una dimensione tutta sua del comporre, privilegiando una sintesi chiarissima, pienamente consapevole delle prestazioni vocali dei suoi cantori. Certo erano stati aboliti per legge vaticana i castrati e non a tutti andava-
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no a genio le sonorità acidule e spezzate delle voci bianche. I solisti, nelle voci di soprano, alto, tenore, basso intervengono in parti riservate a loro ed adatte ad introiettare nel pubblico, nel corso dell'ascolto, particolari effetti emotivi e di tensione immaginativa vibrante. Poi, nelle parti per Coro, essi si fondono nel gruppo di tre, a formare una compagine quasi cameristica, di inconsueta intensità. Io mi sono commossa più volte: al mio fianco era seduta la Mamma del Direttore Titta Rigon ed anche lei era colpita e partecipe di tanto sapiente raccoglimento, pensoso e devoto insieme, durante l'esecuzione del 'Preludio religioso', vero intimo testamento spirituale senza parole, ad indicare un cammino che non deve risultare marcia funebre. Poi le parole 'Amen' e 'Christus – Christe' occupano tante battute per pagine e pagine della partitura, a sottolineare in variazioni armoniche come Rossini abbia voluto tenere sapientemente sotto controllo anche le dissonanze, modernissime e ben mimetizzate nel contesto. Se non avessi studiato a lungo, con severa assiduità, la partitura del 'Prometeo' di Luigi Nono, non sarei stata in grado ora di rilevare le minime diffrazioni ed i sottili contrasti nell'intreccio delle differenti vocalità del coro. Riporto qui, a conferma di quanto sto sottolineando, alcune osservazioni fatte da Giuseppe Ungaretti circa le parole e le loro scansioni sillabiche in poesia: “La poesia è una delle arti del movimento. Possiamo, anche oggi, immaginarla fusa in una voce bianca o di baritono o di coro in una polifonia; accompagnata dallo zufolo o dal liuto e dalla viola, o dall'organo, o dall' orchestra... Il numero non è un'opinione. È insensato negare i rapporti, le proporzioni, gli accordi, le simultaneità, le simmetrie, tutto ciò che mette in grado di muoversi il disegno melodico e l'intreccio armonico dell'opera d' arte... Tra una sillaba e l'altra, tra una parola e l'altra, tra un inciso e l'altro, tra un ritmo e l'altro, tra un verso e l'altro, tra immagine e immagine, tra il senso di ciascuna parola e il senso dell'intera poesia, tra queste cose nette Leopardi suscita un intervallo, un vuoto dove
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si muovono scie, echi, svaniscono vibrazioni...” (cfr. Luigi Nono e Giuseppe Ungaretti, 'Per un sospeso fuoco - Lettere 1950-1969' ed. Il Saggiatore, Milano 2016, a cura di Paolo Dal Molin e Maria Carla Papini, pag. 212, postfazione, nota 27, tratta da G. Ungaretti 'Difesa dell'endecasillabo' (1927) ora in SI, rispettivamente alle pagine 158, 159, 161). Scelgo così di soffermarmi un poco sul testo che ritengo particolarmente rilevante perché parte integrante dell'antica liturgia medioevale ed insieme attualissimo contesto di una fiducia o fede concepita come lotta armata, nei confronti di un nemico, visibile o invisibile che sia. La partitura rossiniana lo indica come tredicesima parte, per soprano solo: O salutaris hostia qui coeli pandis ostium bella premunt hostilia: da robur, fer auxilium. Uni trinoque Domino sit sempiterna gloria, qui vita sine termino nobis donet in patria. Tommaso d'Aquino, che Dante tiene in così grande considerazione, ponendolo nel Paradiso tra i saggi, elabora questo canto interno alle lodi del mattino coincidenti con la celebrazione del Corpus Domini. Di sicuro Rossini ha letto Dante ed il suo Paradiso, Cantica nella quale san Tommaso è presentato nel cielo del Sole, tra altre anime di beati e musiche e passi di danza celestiali. Sono convinta che egli abbia colto in profondità questa dolcezza piena della composizione creativa dantesca nel suo riverbero musicale, nella convinzione di oltrepassare la costante così spesso da molti condivisa che ad essere felici quasi quasi sia peccato, perché Cristo si è immolato per noi, e questo ci deve portare a condividere la sua sofferenza. Scrive lo stesso Autore a conclusione dell' Agnus Dei: “Buon Dio, eccola terminata questa umile piccola Messa. È musica benedetta sacra quella che ho appena fatto, o è solo della benedetta musica? Ero nato per l'opera buffa, lo sai bene! Poca scienza un poco di cuore,
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tutto qua. Sii dunque benedetto e concedimi il Paradiso...” (fonte Internet, alla voce 'Petite Messe Solennelle'). Allora questa partitura rossiniana ci deve entrare dentro come generoso dono del compositore, nella piena consapevolezza della resurrezione, dopo la passione. Si. Perché la gioia della resurrezione deve vincere pienamente sulla sofferenza del sacrificio. Infatti, se si rileggono tutti i ritmi indicati per l'esecuzione dei differenti brani, non si incontra mai un 'Lento', un 'Lentissimo', un 'Largo' o un 'Adagio' e l'accurata direzione del lavoro ha dato pieno risalto alla specificità dei solisti e del coro, oltre che delle sonorità strumentali programmate: Adriana Cimolin, Valentina Corò, Miao Tang soprani, Valeria Girardello, Huijiao Li, Ludovica Marcuzzi alti, Andrea Biscontin, Diego Rossetto, Nikolay Statsyuk tenori, Paolo Ingrasciotta, Francesco Toso, Chenglong Wang bassi; all'harmonium Carlo Emilio Tortarolo, ai due pianoforti rispettivamente Alberto Boischio e Manuel Ghidini. Per il risultato artistico di questa esecuzione olimpica annovero l'evento della Petite Messe
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Solennelle di Gioachino Rossini diretta da Giovanni Battista Rigon tra le più prestigiose interpretazioni esegeticamente rigorose e cariche al contempo di afflato umano ed artistico. Perché egli ha trasmesso al coro ed ai musicisti il suo intendimento intenzionale: quello di interpretare la partitura dalla parte del suo Autore; perché la sua guida sobria e consapevole dei temi trattati fa scoprire a ciascuno dei componenti coinvolti, e quindi, in riverbero, del pubblico tutto, la responsabilità di entrare nel meccanismo della sospensione del tempo e dello spazio, nella prestigiosa scenografia del Teatro Olimpico, per far scaturire tutti i segreti di questa opera d'arte musicale; perché egli, nell'Amen, interno al 'Sanctus Spiritus' e non solo, fa in modo tale che la vetta della gioia venga raggiunta con la semplicità della pura perfezione, mentre armonicamente le voci si incrociano tra loro e si susseguono, dando così, nell'ascolto, le stesse vibrazioni emotive condivise. Ilia Pedrina
NEI CAMPI Il vento piange nella campagna solitaria romito va un bove lungo la strada il fiocco di bambagia si spezza al trito gracchiare di una rana moribonda. Tra le foglie stridule il lento strisciare di una viscida vipera si avverte. In cerca di una meta il mio cuore va errando tra le selve spinose; si riposa sull’edera fiorita che abbandonata la gelata tramontana dello scorso inverno, riscalda come una fiammata del focolare l’eterna illusione. Susanna Pelizza Roma
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OLINTO DINI O DELL’ARMONIA POETICA di Leonardo Selvaggi I La poesia ha mantenuto intatti i luoghi dei propri sogni. ISAVVENTURE, vita travolgente non hanno interrotto la interiorizzazione dei pensieri, delle aspirazioni. Le ferite sono state sopportate, anche se profonde, mai si sono viste fuori. Con orgoglio la fine personalità scinde ciò che è stata l’ incidenza drammatica della realtà dalla caratterizzazione che il lungo cammino dei giorni ha prodotto sulla propria maturazione intellettiva e sull’attività culturale nel progressivo andamento delle inclinazioni natie. Una esteriore serenità, un aspetto limpido, vitale. Il poeta Olinto Dini, con la sua liricità ha saputo mantenere intatti i luoghi dei suoi sogni, l’amore per la sua Garfagnana, rimasto intoccabile e puro in tutto il suo peregrinare. Con nobile riserbo ha tenuto nascosti il dolore della morte prematura del padre e tutti i disagi sopravvenuti. La sua poesia non ha fatto trapelare la minima traccia delle sue pene. A differenza di Giovanni Pascoli che per tutta la vita ha portato sul volto le amarezze della tragedia vissuta in famiglia, mai saputa celare. Per Olinto Dini la realtà è stata soprattutto bellezza naturale, che ha esercitato incanto; oggetto di rac-
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coglimento e di meditazione. Olinto Dini nato a Castelnuovo di Garfagnana il 25 gennaio 1873. Nei primi anni di istruzione lo vediamo al Cicognini di Prato, poi al Liceo di Lucca, infine all’Università di Pisa. Comincia la sua attività di insegnamento in varie regioni, in Toscana, in Emilia, in Lombardia, in Piemonte, in Liguria, in Abruzzo, in Basilicata. I suoi diciotto volumi di poesia non parlano mai della gente e delle contrade che ha conosciuto ed osservato di qua e di là per l’Italia. II Aspra e bella la Natura della Garfagnana con le Alpi Apuane. Soltanto la Versilia sempre viva nella sua anima, nei suoi meravigliosi versi. Le novità, gli aspetti clamorosi visti fuori non l’hanno per niente toccato. L’amore per il suo paese e i dintorni, ricchi di colline e di borghi arrampicati sui declivi, di torrenti cristallini dalla freschezza primaverile, tra castagni e faggi. Branchi di capre in mezzo alle piante sterpose. Nel grande silenzio l’armonia dei canti degli usignoli e delle capinere. Di notte grilli in un altalenare continuo, ad ondate che vanno e vengono da ogni direzione. Olinto Dini è immerso in tutto questo ambiente, si amplifica e si diffonde la sua presenza, sembra un fantasma che appare e scompare, tra gli alberi dentro la musica del vento. Nella parte meridionale la Garfagnana è costituita dalle Alpi Apuane, che azzurre e irte impediscono la vista del mar ligure. Hanno la prepotenza e schiettezza delle Dolomiti. È il regno dei falchi e delle aquile. Azzurri spazi fra giogaie senza contaminazioni. Hanno la densità delle sostanze senza scorie, limpidi, quasi il vuoto non esiste, il cielo e la terra si incontrano scambiandosi le loro parti. III Il sentimento d’amore per tutto ciò che è sublime e delicato. La poesia di Olinto Dini si espande in tutta la sua terra, vi trova alimenti, esprimendosi con una originalità tutta personale. Nei versi non si trova il minimo riferimento alla sua
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cultura letteraria, nessuna traccia dei poeti che nella Garfagnana hanno avuto una certa presenza, quali Dante, Ariosto, Pascoli, Carducci. Soltanto per somiglianza di gusti artistici e anche per l’amore che ha verso la solitudine della campagna, non certo per imitazione, si avvicina al Petrarca. Grande armonia nei canti che quasi sempre sono brevi. Si innamora di creature vere, semplici, di bellezza naturale, uguali ai fiori di mandorlo, nell’aria luminosa d’aprile. La donna che vede passare davanti alla sua casa, che chiama “Villino dei sogni”, riempie la sua immaginazione. “ È fresca come un’aurora,/ è forte come un querciolo./ All’altura dove dimora / sale come un capriolo./ Par che sfiori appena il suolo.” Tutta un’interiorità che traspare attraverso un penetrante lontano sguardo, si ha l’ impressione che l’anima esca fuori per ammirare e sognare. Versi asciutti, classici per misurata musicalità e pienezza. Anche modernità e snellezza notiamo tra forma e contenuto. “Guardo la notte, e mi si fa notturno/ anch’ esso, il cuore, e i palpiti ne segna/ misterioso il palpitìo degli astri”. Enrico Pea lo chiama “l’usignolo di Val di Serchio”. Il sentimento d’amore eterno, profondo, assillante, dominante. Dalla “Casa dei sogni” in alto, a strapiombo sulle cave Olinto Dini come un’ aquila, osserva, emanando dolcezza di suoni. “Sono una sete d’amore; son come un beone che sosti/ presso l’usata bettola ond’escon fragranze di vini;/ e non ha un soldo”. Delicatezza dei pensieri sottili, passano liberi, pieni di ritmo vagano attorno, rimbombano nell’ antro ampio del suo intimo. “Morbidezza di muschio mi sento sotto la mano,/ mentre amorosa sui tuoi capelli la passo e ripasso/ con lunghi indugi di fremito”. Nobiltà d’ animo, passionalità leggera. La poesia è la sua vita, circoscrive il suo mondo, attorno tutto il profumo della bellezza amata. IV Poesia che non va dimenticata per purezza di immagini e schiettezza ispirativa. Le immagini con fierezza non toccate dalla volgarità, soltanto incanto e sfolgorante luce.
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La materialità degli attimi brevi di piacere si tiene lontana. Olinto Dini, un poeta di grande cultura, di riflessione. Eternamente posseduto dal senso della giovinezza, che rifiorisce in ogni momento. La sua poesia arriva alle Alpi Apuane, dalla intuizione, da una mente scevra da pesi di turbamento, tutta immersa nel silenzio e nella pace dei campi. Poesia elevata, sonora, amata con grande devozione in sintonia con tutto ciò che di sublime, di gentile, di bello, di caro esiste. Poesia immacolata, nitida, fresca, splendente, considerata ormai fuori moda, dimenticata, non la trovi in nessuna antologia, non è ricordata in nessuno degli attuali dizionari letterari. La forza sentimentale dal reale va in pienezza spirituale. “Squassa ed insieme odora il nembo d’aprile l’annosa / selva ov’io vado; così l’amore nel vecchio mio cuore”. Armonia schietta fra le selvagge boscaglie attorno alla “Casa dei sogni”, abbiamo perle e oro rispetto ai versi aridi contemporanei, sordi di musicalità nel fragore delle città, davanti alle espressioni scontente, piene di inquietudini, di alienazioni, di lercio materialismo. In Olinto Dini una metrica che corrisponde alla vitalità intima senza l’ombra degli artifici. Poesia di intensa sensibilità che va ad incontrarsi con quella di D’Annunzio, di Pascoli e di Carducci. Non è derivazione, ma un puro ritrovarsi insieme, quando si è nelle altezze dell’assoluto. V Versi armoniosi e di classica concisione. Tutti i volumi di poesia testimoniano indipendenza piena da tutti gli autori che potevano considerarsi suoi maestri. Del tutto personale e maturata negli anni. La poesia è fatta soprattutto dalle parole, dai modi di costruire il periodo, dalla musica delle strofe e dalla indefinibile armonia che fa dei versi il respiro, sempre inafferrabile e intraducibile. Troviamo in Olinto Dini precisione di grande artiere, aduso al lavoro della lima, lapidarietà come quegli artigiani della Versilia che lavorano le pietre dure. Tutti belli , perfetti, ispirati i Canti, sembra che escano da una sorgente che non conosce impurità. Dulces ante omnia
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Musae. “In questa cristallina aria invernale / tutto risalta netto./ Non potrei senza pena / pensare all’impreciso e il disuguale. /Ogni mio sguardo è una gioia serena / che m’ appaga di un senso di perfetto”. L’ordine, frutto di riflessione e di misura. Un maestro di poesia dalla mano leggera. Pare che nello stesso tempo un pennello, un cesello, una bacchetta magica scuotino simmetrie, dolcezze di toni e di stile. La poesia di Olinto Dini sa di scaturigine naturale, vista come acqua che zampilla fra arbusti, nascosta fra il fogliame. Non viene dai suoi studi umanistici, ma dalle sensazioni e dagli occhi che sono lance appuntite, spinte lontano. Ha affinità con il Leopardi per l’intimità delle ispirazioni e per l’amore delle forme concise, essenziali, trasparenti, senza sovrappeso, non ci sono lacune, ombre, tutta completezza: non si può togliere una parola né fare sostituzioni. La poesia viene dai luoghi natii, filtra attraverso l’interiore, in un rapporto spirituale, intuitivo-estetico con l’ ambiente esterno è imitazione della Natura, del vero. Basta stare a Castelnuovo qualche tempo per capire i canti di Olinto Dini. La voce del fiume Serchio la si sente nei versi. VI Dal “Villino dei sogni” la presenza del Poeta in spiritualità diffusa. Nel “Villino dei sogni” immutabile la sua presenza, che rimane estesa, intatta per tutta la Versilia. Leggiamo l’epigrafe posta sulla parete. “Olinto Dini comunicò agli uomini le gioie dell’anima e tanto più semplice e umile fu la sua vita tanto più in alto con l’ ispirazione delle muse fu sollevato agli splendidi paradisi del sogno dalla robusta ala della poesia”. La bellezza dei paesaggi tutta nelle opere. Il dominio delle Alpi ha impressionato sempre il poeta: veri muraglioni, prepotenti, massicci, come una violenta espressione di rupi, dalla terra al cielo. La Garfagnana, diversa dalle altre parti della Toscana, in gran parte feconda, rende serenità e gaudio allo spirito. La poesia di Olinto Dini erompe dall’ anima, si riempie di azzurro, si fa durezza adamantina, resistenza nel tempo. Riporto di
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continuo versi, sono di una fattura impareggiabile, di una immediatezza difficile a riscontrarla in tanti altri autori. “Guardo montagna dov’aquila / ha covo, ed in essa m’ esalto;/ e dico e ridico al mio cuore:/ conserva quest’apuo vigore;/ ed esso miri sempre in alto”: Il mondo esterno come quello interiore è fatto di luci e di ombre. I sorrisi delle fanciulle inondano la vita di Olinto Dini, mettono sopra un’aria carezzevole, colori e dolcezze che sanno di nettare e di petali, di farfalla che sfiora e fugge. “ Questa fanciulla è un riso / di fresca levità / che par fatto di cielo e di rugiada”. L’eterna fanciulla del suo sogno che vede passare e che sente nei palpiti del suo sangue, un bene irraggiungibile, luce fuggitiva, che crea estesa malinconia. VII Penetrabilità intellettiva e fine sensibilità ai palpiti più sottili. La poesia si fa ancora perfezione, sensibilità che coglie tutti i particolari, le visioni più diafane. Pittura non soltanto, ma musica, quando si osservano l’aurora, il tramonto, le notti di luna. Penetrabilità intellettiva, una attenta lettura delle meraviglie del Creato, solo Olinto Dini entra nella dinamicità dei momenti che si vivono nella Natura, che portano passaggi, trasformazioni. Serenità e un certo ottimismo l’hanno sempre dominato con il senso del mistero passa ognora dallo spirituale al bello della vita terrena. Attraverso gli anni ha mantenuto una leggerezza primaverile, sempre nella luce dei meriggi, aleggiando nell’aria dietro voci e profumi. Conosciuto e apprezzato durante i suoi progressi artistici, poi subito caduto nell’ oblio. Di certo la sua poesia è di elevato valore, sarebbe bene riavvicinarsi nei tempi che viviamo, violenti, disamorati, privi di sensibilità e di umani sentimenti. Olinto Dini, poeta di grande levatura della prima metà del ‘900, impeccabile autore di versi stupendi, che sanno prendere da ogni parte i palpiti più sottili. A vederlo, appare dal volto tutto altero, quasi immobile, un fine sorriso lo pervade, tutto proteso con la vivacità
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dell’ intelletto e dei sensi. Elegante, di raffinata correttezza, tutto presente con entusiasmo davanti alle cose ammirevoli. Le sue tristezze le ha tenute dentro, concependole aspetti secondari della vita, importante è stare vicino alle grandi realtà, nelle forme degne e vigorose, quelle che hanno essenzialità e fondamentalità esistenziali. Olinto Dini trova la felicità nelle solitudini meditabonde, nei luoghi della Garfagnana, amati giorno per giorno. VIII L’Arte è Vita in processi continui intuitivoestetici. Pubblica il primo volumetto di versi “Alcune poesie” nel 1900 a ventisette anni, ottiene incitamenti da Angiolo Orvieto e da Giovanni Marradi. Con l’editore Bemporad di Firenze nel 1902 “Poesie”, con Lapi di Città di Castello, 1909 “Fremiti e sogni”, nel 1914 “Due vite”, cui fanno seguito, citando solo alcuni titoli, tutti editi da L’ Eroica di Milano, “Vita e sogno” 1920, “Natura e anima” 1926, “Ombre e fulgori” 1929, “Dal mio romitaggio” 1932, “Voci della mia sera” 1937, “Contrasti e armonie” 1948, “Dal villino dei miei sogni” 1950. Le sue liriche hanno avuto nei primi anni struttura classica e rime tradizionali. Pochi sono i sonetti che ha scritto. Negli ultimi volumi abbandona quasi del tutto l’ architettura complessa della strofa. Non bisogna dire che si concede ai modi libertari della moderna avanguardia. Acquisisce una maggiore disciplina, intensità e asciuttezza soprattutto. Dalle note cupe alle più trasparenti, sempre fedele all’ispirazione, schietto nei pensieri e nelle immagini, senza mai cadere nei formalismi. Perfezione da esteta, mai freddezza. Le sue liriche in lampi di sinteticità passate attraverso una attenta elaborazione. Sono gemme: limpidezza e nel contempo passionalità. Con Olinto Dini l’Arte è Vita, dentro di essa ha costruito un altro se stesso, prendendo il materiale dal vero dei fatti e dalla Natura. Muore a Castelnuovo il 16 marzo 1951. Leonardo Selvaggi
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QUESTO BASTANTE Volteggia nell'aria parola che nutre parola che crea carezze leggere che porta agli abbracci abbandonati. Un bacio poi schiocca da labbra vogliose e sopra un sorriso spande nel cielo lo sguardo di luce d' ammirazione lo sguardo di luce di compassione e si condivide... l' essere. Oh l' amore l' amore questo bastante non è mai troppo o troppo poco. Michele Di Candia Inghilterra
SCIROCCO Morde il mare quest'oggi lo scirocco. S'avventa sulla riva e brucia l'anima delle palme imploranti. Poi si schianta sulle arrese facciate delle case. A chi l'ascolta narra antiche storie di pirati e naufragi e bianchi approdi per incanto dissolti. Gli occhi inseguono nubi veloci correre nel cielo. Le incendierà il tramonto col suo fuoco e sarà nulla il battere dell'ora. Elio Andriuoli Napoli
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DOMENCO DEFELICE E LA SUA POESIA ANIMATA DA URGENZA SOCIALE IN UN SAGGIO DI
CLAUDIA TRIMARCHI di Marina Caracciolo
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OPO Anna Aita (Domenico Defelice. Un poeta aperto al mondo e all’ amore, Il Convivio Ed., 2013), un’altra studentessa della Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, Claudia Trimarchi, si è laureata (dicembre 2015) con una tesi sull’opera poetica di Domenico Defelice. Impresa, come sempre, non facile, data la vastità e i molteplici aspetti della produzione letteraria di questo autore. L’autrice illustra nelle prime pagine il significato del titolo che ha dato al suo lavoro: «La poesia assume una funzione catartica, in quanto libera dalle mediocrità e dalle incongruenze dell’umana esistenza, e rigeneratrice, poiché – lasciando intravedere realtà altre, oltre la pura fenomenica – edifica uno “spazio” nuovo in cui è possibile riscattare la pena di vivere in ben altre infinite possibilità di vita». La poesia configura dunque nella parola una nuova dimensione e insieme un superamento,
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una sorta di rivincita, con una funzione fondamentale non soltanto costruttiva ma anche salvifica. La scrittura poetica rappresenta – prosegue infatti la Trimarchi – «una fune di salvezza a cui aggrapparsi saldamente nel perpetuo susseguirsi delle stagioni e delle vicissitudini dell’esistenza». Il saggio comincia risalendo all’infanzia e all’adolescenza dello scrittore, trascorse in un piccolo paese della Calabria, dove, a contatto con la natura selvaggia dell’ambiente, prende vita pian piano la fervida immaginazione che più tardi si sarebbe trasformata in attività poetica. Così vengono illustrate le sue prime raccolte di versi, dove, in uno stile molto curato ma ancora soggetto all’influenza dei classici – uso privilegiato dell’endecasillabo, frequente comparsa della rima e gusto per la struttura del sonetto – l’autrice ravvisa l’affiorare di due temi fondamentali: l’amore, vagheggiato e per lo più non corrisposto, per la donna e l’ acuta nostalgia del Sud, l’amore sconfinato per la propria terra lontana (Defelice, a vent’ otto anni, si trasferì dalla Calabria a Roma, stabilendosi poi a Pomezia dal 1970). Soprattutto il secondo di questi temi continuerà a percorrere come un leit-motiv tutta l’ attività, non solo poetica, dello scrittore; pertanto Claudia Trimarchi ha modo di diffondersi con intelligente competenza sui vari aspetti – storici, politici e sociali – della cosiddetta «questione meridionale», dal momento che Defelice ne ha rivissuto tutti i gravi problemi nel profondo del suo animo con una intensa e lacerata condivisione. È appunto il prevalere dell’aspetto profondamente umano e sociale a costituire lo spartiacque, il passaggio alla seconda, più matura maniera dello scrittore, dove, abbandonato lo stile «passato» che caratterizzava i versi elegiaci e amorosi della giovinezza, trionfa la lindura espressiva dei moderni versi liberi, spontanei, comunicativi, tanto lontani da echi stilnovistici, petrarcheschi o leopardiani, quanto da un astratto e criptico ermetismo. Rimane immutata, invece, la certezza del potere trasfigurante della poesia. La Trimarchi cita in proposito le bellissime parole di Defe-
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lice tratte da Le poetesse e l’amanuense (1996): «… anche una ruvida pietra, se sfiorata dal soffio di un animo arcano, può acquistare la bellezza del sogno». Con il proseguire della sua indagine, l’ autrice cita diversi componimenti e si sofferma in profondità sui differenti temi della poesia defeliciana, fra cui quello religioso, che si distingue per una bontà e per una pace inequivocabilmente francescane, con utili comparazioni atte a rilevare prerogative, rimandi, riposte sfumature. Soprattutto nella poesia animata da un’urgenza sociale, di certo preponderante nella scrittura di Defelice, la studiosa sa rilevare con acutezza «il senso di angoscia e di consapevole impotenza, di abbandono e di solitudine impenetrabile che nasce dalla dolorosa constatazione dell’ immutabilità delle vicende che segnano la storia della gente del Sud». E proprio da questa sofferta cognizione nasce spontaneamente «l’urgenza di denunciare i conflitti sociali, la corruzione e il malcostume, di farsi interprete dell’ansia di riscatto di generazioni abiette e umiliate, prigioniere della paura e del ricatto […]». Ed ecco allora che, come per un necessario contrappeso, il vagheggiamento di un’altra, diversa esistenza in grado di curare gli affanni del vivere quotidiano, ritorna a farsi strada fra i versi del poeta. Nei «Canti d’amore dell’ uomo feroce» Defelice scrive, rivolgendosi ad un amico: «Quando tu ed io, Amico /ambasce più non avremo, / lungo ioniche rive, sul rosso / tuo battello veleggeremo / colloquiando d’erbe e d’uccelli…»; e qui, in una trasparenza, per così dire, di diafani vetri smerigliati, pare affiorare la memoria di un celebre sonetto di Dante rivolto all’amico Guido Cavalcanti: «Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io / fossimo presi per incantamento / e messi in un vasel che ad ogni vento / per mare andasse al voler vostro e mio /…». Lasciando in ombra la produzione narrativa e drammaturgica, di cui tuttavia fa cenno, l’ autrice passa, nell’ultima parte, a trattare, con numerose esemplificazioni, l’attività di critico, sia letterario che d’arte, di Domenico Defelice. Mentre sottolinea il suo merito nel vo-
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lere «dar voce a scrittori ed artisti contemporanei ingiustamente relegati nel silenzio a causa dell’odierna realtà critico-editoriale che […[ è votata al dio denaro», esalta in lui non solo la capacità di scoprire attraverso la sua indagine aspetti di un’opera, sia essa poetica o narrativa o pittorica, che il lettore/ spettatore, e talora persino colui che l’ha creata, non sarebbero in grado di riconoscere a prima vista, ma anche la sua fondamentale dirittura nel mettere in luce la vera arte, dove essa realmente esiste, sapendo però agire costantemente con equilibrio e obiettività, vale a dire senza illudere un autore con eccessivi incensamenti oppure, al contrario, annientarlo con indebite stroncature. Claudia Trimarchi conclude infine il suo saggio – corredato, tra l’altro, da frequenti e opportune citazioni tratte da diversi altri lavori che sono stati pubblicati su Defelice – con un meritato elogio riferito allo scrittore ma anche all’uomo, scrivendo: «è persona onesta, schietta e semplice; e, fruendo la pienezza poetica che pervade la sua vastissima e policroma opera, il lettore non di rado si commuove, piacevolmente appagato dal cogliere la caratura morale, lo spessore umano prima ancora che artistico, l’acutissima sensibilità di un uomo sincero e leale, integro e coerente con se stesso e con gli altri. E quando il lettore si commuove è segno che l’autore ha toccato le sue corde più intime e che ha fatto vera arte». Marina Caracciolo La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice. Saggio di Claudia TRIMARCHI (Il Convivio Ed., Castiglione di Sicilia, 2016; pp. 133, € 13,00). Pag. 35: C. Trimarchi e Defelice all’Università di Roma Tor Vergata subito dopo la discussione della tesi, il 15/12/2015.
DOLORE ALLARGATO Il nostro dolore del presente c’induce a rivivere nel ricordo i personali dolori del passato; si unisce ad essi, diventa dolore allargato. Caterina Felici Pesaro
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ANTONIA IZZI RUFO LA CASA DI MIO NONNO di Tito Cauchi
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NTONIA Izzi Rufo è nativa di Scapoli (Isernia) e risiede a Castelnuovo al Volturno frazione di Rocchetta. La professione di insegnante e l’indirizzo di formazione in Pedagogia, hanno caratterizzato buona parte della sessantina delle sue opere, di vario genere (narrativo, poetico, saggistico). La sua esperienza vissuta, è evidente nella recente raccolta di diciotto racconti tra cui l’eponimo La casa del nonno, che possono considerarsi un solo unico romanzo pedagogico. Angelo Manitta nella prefazione, definisce la Nostra, “scrittrice a tutto tondo” che ha il pregio di avere l’espressione limpida e poetica con i suoi richiami alla natura. Sono motivi volti a invogliare i più giovani al recupero della storia che inevitabilmente richiama la seconda guerra mondiale (vissuta dai nostri padri o nonni), i costumi sobri o poveri, le ristrettezze economiche del periodo postbellico, e temi pressanti di attuale realismo. La voce narrante, generalmente appartiene
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al genere femminile, spesso è in prima persona, segno di autobiografismo o comunque di una esperienza vissuta da vicino Le case del luogo erano povere, prive dei servizi sanitari, l’ acqua si andava ad attingere presso le fontanelle del paese, si tenevano orinali (vasi da notte) entro i comodini e mazzetti di lavanda dappertutto per contrastare i cattivi odori. Per strada si raccoglieva lo sterco degli animali per farne concime. Si badi nel proseguo ai numeri: le donne (ragazze) erano destinate al matrimonio a quattordici-quindi anni e nel corso della vita coniugale partorivano dodici-quattordici figli; come nel caso di Flavia, destinata dai genitori a contrarre matrimonio con Marco, senza conoscersi e frequentarsi, ma solo vedersi in casa in presenza dei genitori o di una zia “zitella” a far da guardia (pag. 92). Nei paesi non esistevano cicli scolastici completi, così le elementari spesso terminavano alla terza o alla quarta classe, mentre per la quinta ci si recava nei paesi vicini più attrezzati e spesso privatamente; e questo valeva soprattutto per le femmine. Esistevano le ‘sputacchiere’. Ed oggi? Nel racconto d’apertura, La casa di mio nonno, uno dei più ampi, in verità Antonina Izzi, ci parla dei quattro progenitori e delle vicende del loro tempo. Erano tempi in cui la necessità costringeva le famiglie a non cedere ai sentimenti affettivi e i figli crescevano in autonomia. I nonni paterni sono Antonia ed Emidio: la nonna quando si è sposata aveva quattordici anni, aveva avuto quattordici figli ma ne sopravvissero solo otto e allo stato attuale (2016) ne rimane uno solo di novantasette anni. Il nonno faceva il procaccia postale e con un calessino si recava a Colli Volturno, a ritirare la corrispondenza; aveva una bottega alimentare gestita dai figli. Alla sua morte la Nostra, ancora piccolina, spesso andava a dormire dalla nonna, facendole compagnia e compiacendo suo padre. Narra di un cugino che perse un braccio e riportò gravi conseguenze ad un occhio, avendo giocato con ordigni esplosivi disseminati per le campagne.
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I nonni materni, vivevano in una casa molto ampia e comoda. Nonno Antonio era serio e taciturno, faceva il guardaboschi, camminava con fucile e cane, nel paese di Scapoli, possedeva vari ettari di terreno, le donne di famiglia gestivano una trattoria. Nonna Celidonia era morta nel periodo della prima guerra mondiale a seguito della “spagnola”; essendo la primogenita, zia Nice, già sposata, fu sua madre di quindici anni a prendersi cura dei fratellini e della casa. Il nonno alla morte della moglie volle costruirsi una casa in cima a un eremo, vicino al cimitero per stare in compagnia della sua donna, cosa che ha fatto fino ai suoi ultimi giorni; trascorrendovi notturni colloqui. La nipotina l’andava a trovare felice di quell’incanto naturale. I ricordi che ci riportano alla fanciullezza si vivono felici perché esprimono spensieratezza (anche se non sempre). Così Antonia Izzi Rufo dice che erano gran festa per i piccoli, luoghi come San Rocco; le stagioni si susseguivano ritmate, e costituivano momenti di gioco la vendemmia, la spannocchiatura; in quelle circostanze le zie Elvira e Filomena, allora nubili, offrivano vino e biscotti fatti in casa, adulti e bambini partecipavano a titolo gratuito. I tempi felici proseguivano durante la raccolta delle olive, seguita a fine anno dall’uccisione del maiale come da tradizione; poi si rinnovavano la Befana, e così Pasqua e Natale. I racconti brevi sono come parentesi che a volte continuano pressoché nello stesso humus ambientale e altre volte sono una sorta di divagazione come quella futurista che ci porta alla fine del terzo millennio, dove Laura e Stefano (pag. 29) fra i pochi superstiti di uno scombussolamento nucleare-biologico- chimico, passano da una vita totalmente automatizzata ad una primitiva. Oppure il ripiego (pag. 32) di Cristina che si emancipa con lo studio, diventa infermiera e sposa il collega Mauro; essi raggiungono il benessere, i loro figli giungono a laurearsi; ma lei andata in pensione viene presa da smania o solitudine e senza avvedersene finisce per tradire il marito, fin quando prendendone coscienza si rifu-
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gia nella preghiera; ma il matrimonio era naufragato. Antonia Izzi Rufo ci dà una bella storia, quella del giovane Oscar, finché l’Io … non decide (pagg. 36-63), sia pure con esito triste. Un ragazzo benestante, svogliato negli studi, fin quando, già adulto, non scopre la sua dimensione umana nella passione della chitarra e raggiunge la fama internazionale incidendo CD musicali. La fidanzata, o ‘ragazza’, Licia, riesce a laurearsi in medicina, e a sposarsi, ma rimane senza figli e assiste con abnegazione il marito ammalato fino alla morte. Per un caso fortuito i due s’incontrano ed un giovane prete, don Mario, fa da tramite per coronare due sogni, uno è il raggiungimento del diploma che purtroppo il padre novantenne colpito da demenza non era in grado di rallegrarsi, e l’altro è l’unione dei due maturi innamorati, che dura poco per sopravvenuta morte della donna, malata terminale. Brutta fine, rimane il ricordo e il dialogo con l’ immagine di lei al cimitero, fin quando lui esce dal torpore, esortato da don Mario e dagli amici del gruppo musicale e così ritrova la sua ragione di vita. Pregevole è il commento psico-sociologico: “Il sentimento agisce nell’ ombra e determina le nostre fobie future, le nostre angosce, i nostri sbagli, la nostra indolenza.” (pag. 38). In diversi racconti abbiamo considerazioni sul dramma senile e su chi perde l’autonomia fisica ed è costretto ad affidarsi agli altri, specialmente ad estranei, sia pure in strutture attrezzate per anziani, dove “Al primo ‘scontro casuale’, scoppia la ‘sopportazione repressa’…” (pag. 64). Oppure riscontriamo le preoccupazioni da parte di una anziana signora che riguardano il futuro dei nipoti, laureati o diplomati, è difficile trovare un lavoro. Od anche una nonna che sprona Marco, giovane sano e forte, colpito dal morbo di Crohn, che infine riesce a dare un senso alla vita dedicandosi a dipingere, così che gli “sgorbi” lo fanno uscire dall’apatia, lo “spleen” di cui parlava Baudelaire. Il pellegrinaggio di Rosa, a San Giovanni Rotondo per invocare da Padre Pio, la fine dei dolori del figlio Ivan gra-
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vemente ammalato; ma al suo rientro il figlio si lancia da un ponte mettendo fine al suo supplizio, mentre la donna si scaglia contro il Santo. L’Autrice commenta: “Forse la donna, nell’inconscio, aveva realmente pregato il Santo di far morire Ivan piuttosto che costringerlo a sopportare un male irreversibile che evolveva sempre più.” (pag. 81). Antonia Izzi Rufo ne La casa di mio nonno, riferisce che al tempo della seconda guerra, nel 1943, aveva dieci anni; allora i tedeschi facevano rastrellamenti per la manodopera e per le derrate alimentari specialmente nelle campagne. E queste due evenienze erano accadute a un giovane, Lucio, il quale dopo vari mesi riesce a scappare, affamato, come possiamo immaginare, e le sue condizioni peggiorano perché durante il rientro, per un caso fortuito si immerse nelle acque gelide per salvare un vecchio amico, Peppino, che non sapeva nuotare. Il suo precario stato di salute, non migliora, nonostante le cure prodigate a casa da una infermiera, Angelina, che se ne era innamorata. Quando Lucio muore la giovane ha voluto realizzare una scia di confetti azzurri come il cielo per tutto l’ultimo tratto terreno del giovane ventiduenne, spendendo il suo patrimonio. Alcune vicende mi fanno commentare che non bastano millenni di progresso per raggiungere una convivenza veramente civile. Penso che una nota prevalente riguardi la solitudine, conseguenza del bisogno d’affetto che si riversa, per esempio, sugli animali come sulla cagnolina Rosy, sulla gattina Cleopatra e sulla capretta Argentine nella quale Valentino cerca compagnia; a volte si sopperisce con una fiaba come quella che fa sognare Lilla. A volte si realizza un sogno d’amore come quello di Maria per Eros, con famiglia e figli, e una buona posizione sociale; ma tutto ciò non basta e dopo espedienti per combattere la solitudine trova compagnia nella nipote. In questa raccolta, mi sembra che tutti i grandi amori, finiscono male: il mondo va alla rovescia. Tito Cauchi ANTONIA IZZI RUFO - La casa di mio nonno, Il Convivio Editore, 2016, Pagg. 144, € 13,50
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LA SOLUZIONE Dove chiunque in qualche modo può essere aiutato e può aiutare... eppoi ritorna la quiete l' attività e l' amicizia. Dove ognuno riabilita la propria abilità di essere fare ed avere solvendo quel problema o quella domanda posta. Dove ogni persona può conoscere Sé Stesso ritrovando la propria comprensione sfera d' azione e Liberazione ed ogni Religione l' amor delle persone. Scientology È La Soluzione. Michele Di Candia Inghilterra
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 19/6/2016 Da Roma a Torino Raggi Appendino*: due belle signore spadaccine in fiore
colpito han di fino! Domenico Defelice * Virginia Raggi e Chiara Appendino elette a sindaco della capitale di oggi e di quella di ieri. Alleluia! Alleluia!
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LA POESIA DI DOMENICO DEFELICE HA UNA FUNZIONE DI CATARSI E DI RIGENERAZIONE (Un bel libro di
Claudia Trimarchi sul poeta calabrese di Pomezia) di Luigi De Rosa
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pagina 25 del suo bel Saggio sull'opera poetica di Defelice, uscito nel marzo 2016 (per i tipi de Il Convivio Editore, direzione di Giuseppe Manitta) Claudia Trimarchi, che con lo stesso, ma in forma di tesi, si è laureata in Lettere – nel dicembre 2015 – all'Università di Roma-Tor Vergata (con l'esimio prof. Carmine Chiodo come Relatore), si legge: “ Accade che il Defelice giornalista, accorto osservatore del mondo contemporaneo, incontri il Defelice poeta, il quale non si ferma alla realtà visibile ma attraverso l'incantesimo dell'Arte, la trasfigura, evocando ciò che della realtà è interpretabile solo poeticamente: “A noi, che amiamo la poesia e ne facciamo pane di vita...ogni cosa ha un altro volto sconosciuto alla realtà di ogni giorno... anche una ruvida pietra, se sfiorata dal soffio di un animo arcano, può acquistare la bellezza del sogno...” Guardando il panorama dell'opera defeliciana dall'alto della Torre del Tempo Trascorso, ci accorgiamo che c'è un Defelice poeta di zucchero, poeta d' amore (dolce
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come il famoso Stil Novo) per la Donna e per la Natura, e c'è un Defelice poeta di assenzio e di spada che satireggia aspramente su personaggi e situazioni che offendono l'onestà e la giustizia; c'è un Defelice paladino dei buoni e degli onesti e c'è un Defelice guerriero implacabile, che lotta con la penna e con la propria vita concreta contro la corruzione e le mafie. In una fin troppo rapida sintesi si può indicare, nella vasta opera letteraria del Defelice (un calabrese di Anoia, nel reggino) trapiantato dal 1964 a Roma e dal 1970 a Pomezia) una prima fase di ricerca, in cui i contenuti vengono espressi con forme che ancora risentono della grande poesia classica; seguita da un'ulteriore fase, che, ripudiando l'Ermetismo, si avvicina significativamente al Realismo Lirico di Aldo Capasso; per poi giungere infine, negli anni della maturità artistica, ad una forma più smagata e pensosa sul versante della poesia dei buoni sentimenti, e ad una poesia civile infiammata, di satira mista a parodia, o addirittura colpi di scherno, per quanto pietosi perché consapevoli della pochezza umana a fronte della maestà dell'eterno. Resta il fatto che la poesia di Domenico Defelice, vista e assaporata nella prospettiva di una vita spesa per la letteratura e le arti figurative, appare per quella che è, cioè la espressione, sincera e pura, di un poeta ed artista genuino ed autentico che si è fatto da sé tra mille sacrifici, aperto al contributo letterario di chiunque purché sia valido e in buona fede; lontano, comunque, da qualsiasi confraternita letteraria che sia delimitante e condizionante. Trovo bellissimi quei due “esergo” firmati da Defelice stesso sul carattere ardente della propria poesia della maturità artistico- letteraria: “Chi crede che nell'orto del poeta crescano erbe rare, fiori variopinti, alberi tropicali: chi crede che vi scorrano acque fresche e vi cantino uccelli, non conosce il poeta. Nell'orto del poeta crescono spine, fiori avvelenati e gli alberi proiettano ombre inquiete: nell'orto del poeta scorre il sangue della gente affamata e l'unica voce è l'urlo della rivolta.”
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“Ora i miei versi e la mia prosa bruciano. Nel mio orto non conto le nuvole e non ci sono tettoie. Il sole screpola i crani, nel mio orto, e i veleni d'intorno convergono impetuosi nella mia penna.” Defelice ha lavorato con perseveranza e tenacia per una vita intera, anche fondando e dirigendo, fin dal 1973, tra mille difficoltà, la rivista “Pomezia-Notizie”, efficace strumento riconosciuto di elaborazione e diffusione della cultura, forse “modesto” nella forma esteriore ma oltremodo prezioso e insostituibile nella sua funzione di valorizzazione della Letteratura e dell'Arte. E tutto ciò con l'umiltà e la consapevolezza dei poeti veramente grandi, senza assumere atteggiamenti tanto spocchiosi quanto fasulli. Egli ha messo la propria vena poetica e artistica al servizio di una missione civile e culturale sempre permeata di onestà e di aspirazione tenace alla giustizia (sostanziale, non formale). E c'è riuscito. Attraverso gli anni non gli sono mancati i riconoscimenti – anche da parte di critici di grande valore, non legati a carrozzoni fasulli al servizio di mode ed interessi formalmente letterari ma sostanzialmente centri di potere. Uno di questi riconoscimenti gli proviene dal prof. Carmine Chiodo, Docente all'Università di Roma-Tor Vergata, giustamente definito da Giuseppe Manitta, nella sua centrata Prefazione al volume della Trimarchi, “un critico che ha preferito sempre fare “ricerca” lungo territori più o meno noti della nostra letteratura, a partire dalle origini fino ai giorni nostri.” Nelle 132 pagine del suo agile ma nutrito volume, contenente, come detto, la propria tesi di laurea, Claudia Trimarchi ha sintetizzato, con abilità e sensibilità, l'Ortus (senza acca, nel senso latino di nascita, origini, vita) di Domenico Defelice. Ha individuato e lumeggiato i “Motivi lirici ricorrenti nella poesia defeliciana”, tra autobiografia ed universalismo. Ha illustrato con efficacia ed acume la “Questione meridionale” e la funzione del-
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la parola poetica “al servizio di un'urgenza sociale”. Infine, dentro l' Hortus, ha dedicato la conclusione del suo lavoro ai parallelismi tra l'opera poetica di Defelice e l'opera pittorica di Gazzetti, Scutellà e Mallai. Per lungo tempo, e con ardente passione, Defelice è “andato per quadri”, frequentando e studiando pittori i cui dipinti hanno avuto un'influenza non secondaria sulle sue poesie. L'opera si conclude con una utilissima Bibliografia dello scrittore e artista Defelice (Poesia, Prosa, Saggistica, Articoli) nonché con una Bibliografia su di lui, altrettanto utile, per conoscere quanto hanno scritto altri Autori sulle sue opere. Luigi De Rosa Claudia Trimarchi -La funzione catartica e rigeneratrice della poesia di Domenico Defelice – Il Convivio Editore – pagg. 133 – € 13
ANNIVERSARIO Sedevamo in silenzio sotto il platano grande del parco a primavera. Il cielo ornavano le nubi del tramonto. Era l'ora suasiva, quando lieve si fa la luce e sfrecciano i rondoni, in un crescendo di gioiose strida, gli ultimi voli. Io pensavo: ecco, un'altra stagione si consuma e non so quante te ne serba la vita che già imbianca il tuo capo e da te fugge. Il tuo occhio inquieto si volgeva a contemplare le obliose apparenze, quasi coglierle tutte volesse in un estremo abbraccio dell'anima protesa a possederle, innanzi della tenebra che incontro fitta e veloce ti correva. In cuore sentivo un peso ed un'oscura pena. Trascorso è un anno. Oggi mi pare lieta quell'ora che sentii triste. Ormai brucia senza di te la festa della sera. Elio Andriuoli Napoli
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LEGGENDO POESIE DI
NAZARIO PARDINI di Aurora De Luca
[…] i
l suo continuo ardire e discoprire,/il suo coraggio eterno di sfidare/il mare nero, lo scoglio e le sirene,/ quella pazzia di un fuoco che ci fa/scintilla degli dèi, impronta del divino,/bocci di libertà” (da Il volo di Icaro). È la poetica del tempo imperfetto, il canto lirico del passato in divenire, brumoso, opaco, il verbo di una velata malinconia, dell’azione che faceva ed ancora fa. Il primo testo, “Il volo di Icaro”, ha la maestosità ritmica della poesia epica, ed è forse, per mio modo d’intendere, la vela spiegata dell’intera raccolta: la giovinezza dell’uomo è arditezza e follia, un “volo troppo arduo” che ci sperde in “cieli fra le stelle”. Segue ad essa “Elegia per Lidia”, cos’altro se non il sentimento? Si apre così già il tempo imperfetto “ed oltre i davanzali le tue mani/coglievano gli steli delle stelle.”, l’azione che si perpetua dietro le spalle. Quasi a dire la rapidità del tempo, un volo per l’appunto, una vista di bellezza dall’alto, un balzo d’onnipotenza durante il quale la corporeità è pari all’invincibilità dell’anima. Subito dopo il tempo imperfetto. E iniziamo a parlare chiudendo gli occhi, aprendo buchi da cui tirare fuori emozioni più forti, immagini più vivide che promettano al futuro “avelli riempiti di colori” dove “danzeranno beate le fiammelle,/ linguiformi falò, apriranno i cieli”. Che ad un tempo imperfetto si accosti un tempo futuro è immagine poetica, di ciclo, di superamento del limite. I testi che seguono si fanno pieni di belle immagini, di fragranze, di suoni, di echi che ribattono, di schiamazzi e scalpiccii “E pensare, ricordi?, che riuscivo/ a silurare il cielo colle pietre/convinto di bucare anche le nubi”. Belli gli enjambement che lasciano al verso ancor più visioni: quel “riuscivo” gonfia la chiusa dell’intera poesia e le dà il peso degli anni. “L’albero gemma. Inflorescenze can-
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dide/ si aggrapperanno ai rami come figli/ ai seni delle madri. L’aria si apre […] Ritornato/ sono per rivedere il primo verde [...] La cimasa/ si fletteva ai garriti delle rondini”: il poeta ritorna e ritorna a Primavera, quando l’aria si apre. Presente, Imperfetto e Futuro giocano e tessono con fili sottili, e non c’è più freno, il tempo dissolto vaga. Le sonorità si fanno rotonde, l’andamento si dilata, le immagini rievocano. Possiamo ben sentire il suono degli zufoli e leggere nella mente i propositi segreti della classe: siamo anche noi dissolti nel tempo, abbiamo alle spalle le ali di Icaro, canne alle golene e “Davanti [...] c’è un guado,/ un guado che riporta/ quest’uomo ormai attempato/ all’altra sponda”. Ma se tutto sembra navigare in cose che non hanno più presenza, che non sono più, ecco che “Il peso delle pietre” ci fa riaprire gli occhi: “E ci portiamo dietro questo peso/ di pietre graffite da nomi/ di padri e di madri/ volati all’azzurro/[…] Lo porterò con me oltre quel fiume/ quel sacco di pietre aggrappato alle spalle, / lo renderò leggero, lo renderò una piuma […]” Il poeta torna ad inneggiare ad Icaro, alle sue ali, cui però pone il peso di un’intera vita, e all’audacia giovanile accompagna sogni maturi, visioni di completezza: “Mi è nemica/ la mancanza di forza e di energia/ che l’anima possiede e se ne invola/ lasciando attero a terra/ l’involucro che più ormai ne è vela”. Il ritmo poetico si è fatto sincopato, non rapido, né appuntito, quasi a seguire il battito più forte di un cuore vivo. In particolare “Il peso delle pietre” e “Volerei felice fra le reste” (da cui ho tratto i versi precedenti) hanno l’ andamento di una canzone commista di violini e bassi, ma rap. Il tutto si chiude con “Fiume” e una domanda : “Lo sai tu dove corri?”, l’ idea tanto umana che la conoscenza difetta, e l’idea tanto divina che la conoscenza rende immortali. Aurora De Luca Il volo di Icaro Attratto dai richiami del meriggio
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volò alto, alto volò toccando cime immense, azzardi che gli umani cercano con l’anima e la mente; ma ci si può bruciare se il volo è troppo arduo, si annullano in abissi senza fine le nostre identità; sperderci oltre la siepe, o in cieli fra le stelle è un naufragio per la nostra essenza. E tu Icaro, privo di remeggi, a braccia nude, senza appigli, brancolasti in vertigini d’azzurro quando l’astro di vita e di morte ti rammollì la cera. Cadevi impaurito, risucchiato: “padre, tu che mi hai dato il volo, aiuta questo figlio, dagli l’ali, che il cielo non mi regge ed io sprofondo incauto negli abissi. Padre, io sono qui, corrimi incontro, arresta il mio naufragio, tu puoi, con il tuo amore e il tuo superbo ingegno”. “Icaro, Icaro dove sei? dove giace mio figlio eterni dèi? Ditemi alfine! Ch’io sappia almeno ove cercare; carne della mia, figlio imprudente, dove il volo tuo lontano dai miei occhi. Cosa fare? che cosa potrà fare questo padre?” Ma d’Icaro la bocca fu chiusa dalle onde di quei pelaghi. E quando il genitore scorse le vane piume sparse sull’acque a sfiorare gli scogli, non poté che ergere un sepolcro in terra d’Icaria. Maledì la sua arte ed il destino, gli azzardi degli umani, le imprese folli, la violenza del cielo, il regno del sole, maledì quella natura umana, il suo continuo ardire e discoprire, il suo coraggio eterno di sfidare il mare nero, lo scoglio e le sirene,
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quella pazzia di un fuoco che ci fa scintilla degli dèi, impronta del divino, bocci di libertà. Elegia per Lidia Ritornerai tra gli alberi e sui campi quando l’autunno lacrime d’ambra gocciola a terra, fiore di stagione. Brillava di passione l’occhio cielo ed oltre i davanzali le tue mani coglievano gli steli delle stelle. Quando il profumo volerà per terra (che sepolta ti tenne per mill’anni) ritorneranno i fiori inebrianti di giovani corolle ricamati. Tingeranno caverne, forre e prati, vinceranno l’odore della morte. Lontano sarà il giorno dell’addio ed il viola dei tappeti al muro che tennero la bara del tuo rosa trapunterà di vita la campagna. L’assenzio spargeranno nelle stanze che videro i tuoi crini sciolti a caso fiori rinati che più sul nostro suolo noi vedemmo. Si apriranno gli avelli e fauni belli amanti dell’amore suoneranno negli incavi nascosti flauti imprestati dagli angeli dei cieli. Non ci saranno veli a coprire l’innocenza. Squilleranno le trombe i Serafini ed ai confini dei mari compagnia ci faranno le bellezze che le brezze mortali di nascosto rapirono le notti negli abissi. Fissi negli occhi i giorni leggeremo di quando si correva sopra i sogni stanchi giammai di abbracci e di carezze.
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Sui colli danzeremo, sopra le acque al tinnire frequente che mai tacque l’aria imbevuta dei nostri desideri.
miro dritto alle cime e scaglio il sasso, ma guardo attorno e quasi mi vergogno per come vola basso e poi ricade. E pensare, ricordi?, che riuscivo a silurare il cielo colle pietre convinto di bucare anche le nubi.
E attorno ai cimiteri anime bianche sugli avelli riempiti di colori al canto degli uccelli variopinti danzeranno beate e le fiammelle, linguiformi falò, apriranno i cieli.
Sera di casa mia
Lo stradone di scuola Sono i solchi carrabili sbilenchi che incidono il tuo corso anche se pieni delle spoglie giallastre del settembre. Lo stradone di scuola. Eppure perdi le verdi scaglie come un serpe obliquo in cuore alla campagna e mi dilati i cigli luccicanti di rugiada per rivestirmi il seno del fruscio della carta di un libro. Mormorava, con la voce un po' rauca dei suoi righi, parole che levavano lo sguardo sul volto del maestro. Sempre primo con la bici coperta di fanghiglia e i gancetti alle balze, mi rapiva da quello scantinato padronale che gocciolava sogni sopra il banco. Giungevo infreddolito, ma la porta chiudeva fuori sguardi sulle zolle verdeggianti di aprili anche a dicembre. Che lanciavamo sassi ti ricordi? Erano così veloci che anche i falchi restavano di stucco nel sentirli sibilare nell’aria. Si sperdevano e ancora non li ho visti ricadere. Senz’altro hanno percorso un bel tragitto se dura più del tempo di una vita. Bella gara. Presa proprio di petto. Depredavamo i pioppi di forcelle per fionde che affondavano radici nel terriccio dell’anima. Mi provo, quando nessuno vede, ad impugnare un cimelio di fionda. Da un tuo ciglio
L’albero gemma. Inflorescenze candide si aggrapperanno ai rami come i figli ai seni delle madri. L’aria si apre chiara nel cielo. Sfioriranno i gigli. I narcisi sui prati e sopra i fulgidi balconi di paese. Ritornato sono per rivedere il primo verde che evade con il raggio del mio prato il fumido maggese. Nelle ataviche gesta dei paesani o nei cortili dai cimoli macchiati che si affacciano alle crepe dei muri, degli aprili voglio vedere il volto e respirare l’aria buona di casa. Ascolterò i primi piedi scalzi di un bambino nella strada sterrata tra i rondò dei cipressi giganti. Là i verdoni covavano già le uova per le estati. E i passi di mio padre ammorbiditi dai tappeti terragni ormai sbocciati alla vita novella. Sarà là che poi mi recherò coi miei amici sui rami debordanti dei ciliegi maturi. Alle pendici correremo in peduli per sfidare la corsa della vita ove una casa attendeva alla sera il mio ritorno con guance affaticate. La cimasa si fletteva ai garriti delle rondini puntuali agli aprili ed io gridavo litigioso con te fratello mio paziente per la luce che spegnevo. Non sarà più la sera che calante annuncia solo un giorno che va via coi suoi colori vecchi. Declinante il segno non sarà della mia vita volta a rammemorare. Alla natura riaprire le finestre di un ostello
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non varrà che annunciare alle mie mura colori di serate ritrovate.
quest’uomo ormai attempato all’altra sponda.
Non chiedermi perché
Il peso delle pietre
Non chiedermi perché sono venuto a trovarti di nuovo. Sarà forse perché qualcosa provo ancora dentro me. Sai!, non è molto che pensavo all’ultimo saluto. Ti ricordi? Era sul mare, il cielo cinerino di un settembre un po’ stanco accompagnava un melanconico addio. Eppure io non credevo che un lungo patrimonio potesse rivelarsi così fragile come la bruma pallida d’autunno. Il cielo si rompeva ad occidente e il sole grosso e fervido, alla sera di quel giorno impossibile, tingeva il tuo volto diverso. Mi ero sperso. Non ritrovavo più la strada amica, la strada di una vita. Sono qui. Non chiedermi perché. Sono venuto! Ho ancora dentro l’anima il sole di una sera, il mare quasi calmo, un volto stanco, e una bàttima lenta a misurare un tempo troppo pigro per chi soffre. Sarà forse l’amore. Chi lo sa. Eppure c’è qualcosa che ha guidato quest’animo rigonfio di ricordi tra i fiordi del passato. Ma non chiedermi di più. Accetta un mio saluto. E vado. Davanti a me c’è un guado, un guado che riporta
E ci portiamo dietro questo peso di pietre graffite da nomi di padri e di madri volati all’azzurro. Di pezzi di muro tatuati da dita intrecciate di sogni per dire: “Ti amo.” Di gerle di sere d’incontri d’amore corrose da acide piogge di tempo. Di sguardi di lava volati nel cielo e tornati a pesare. E di forza rocciosa sgretolata da ore, da giorni in pese parole restate nell’animo e poi andate a sostare. Lo porterò con me oltre quel fiume quel sacco di pietre aggrappato alle spalle. Lo renderò leggero, lo renderò una piuma, per fargli guadare quel fiume, per farlo volare. L’abbraccerò con tutto il suo sapore di terra coltrata, di verde di mare, di luce di sole, di perse parole per non farlo morire. Il fiume (…) Ti perderai tra poco nel clangore dell’irruente mare, ed il tuo salice ti guarderà sparire. Non t’inganni il profumo allettante; presto vane saranno quelle immagini di sponde in spazi senza fine. (…). Avresti mai pensato, al rampollare bisbigliante dei gorghi tra le fresche chiazze sorgive di finire amaramente dentro voragini sì avare? Nazario Pardini
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CHE COSA INTENDO PER POESIA di Nicola Lo Bianco
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A cosa nasce che la poesia antica, greca e latina, ha un linguaggio semplice, accessibile, immediatamente comprensibile, pur nella profondità e nell’ altissimo esito poetico?. Mi domando: si può ritornare a questa semplicità? E come? Sotto quali forme? La letteratura in genere, pur con esiti di alto valore poetico, rimane ancora lontana e chiusa in se stessa, cioè prerogativa dei letterati e dei cultori, e come tale viene percepita in genere dal popolo, voglio dire dalla comunità civile nel suo insieme, cioè come qualcosa di estraneo, che non gli appartiene, perché i suoi strumenti e l’uso di questi strumenti, anche se gli argomenti sono ad esso pertinenti, non sono i suoi e sono lontani dalla sua sensibilità ed esperienza. La ricerca, per ridare alla poesia funzione civile ed attendibilità presso la società civile è, secondo me, quella che accorcia la distanza nell’uso del linguaggio, oltreché nella scelta delle tematiche. Il modo dei cantastorie credo sia quello che può rinnovare questo “patto” tra poesia e società civile: e perciò il modo della narrazione con cadenza recitativa, ritmica, dove gli elementi prosodici interni alla narrazione siano ben strutturati ed evidenziati. Lo stile e il linguaggio non possono essere che il parlato, la strutturazione quella dell’ oralità còlta nel suo procedere, al di là o al di qua degli schemi grammaticali, normativi propri della scrittura in prosa. Intendo la poesia come Rapsodia, come il canto del rapsodo, del cantore popolare, come voce di un racconto corale, analoga all’ impersonalità verghiana, ma fuori degli schemi descrittivi propri del romanzo. Non, quindi, un romanzo in prosa, ma un racconto poematico o frammenti di un poema in prosa. La rima non va cercata, è intrinseca al detta-
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to poetico, spontanea, si colloca da sola dove vuole, è più assonanza risonanza, eco, suono che si specchia, che non sillabario preconfezionato, il che non esclude che la rima ci possa anche essere, ma trovata da sé, involontaria. Non propriamente la rima, ma il ritmo, la clausola, l’andamento musicale. I protagonisti di questa poesia rapsodica non possono che essere gli esclusi, gli emarginati, gli scartati, i barboni, i ”mutoli”, i “paria”, lì dove c’è ancora un forte senso della vita combattuta a mani nude, col corpo e con la mente, dove si deve pensare alla sopravvivenza, con la tentazione del suicidio, con la morte fisica o morale: la bellezza risiede nell’autenticità, al di fuori del “mercato”. Sono “belli” perciò i derelitti, i clandestini, i cartoneros, gli intoccabili, i solitari, gli eremiti, i monaci, le monache di clausura, il perdente che ritrova se stesso. Dice il mio amico poeta drammaturgo Franco Scaldati, purtroppo scomparso, "La bellezza è dei vinti. Il futuro non è dei vincitori, è di coloro che sono in grado di vivere” La poesia è nelle cose, esiste a prescindere, non è una creazione singolare, individuale, è semplicemente una scoperta, una rinascita, un portare alla luce quell’elemento: il problema è sentire e guardare per scoprire, tutti possono percepire, tutti possono scoprirsi poeti nel senso della scoperta. E, perciò, non è necessario un linguaggio particolare, “il linguaggio poetico”, ma il linguaggio quotidiano, parlato, trovato ovunque ci siano uomini che parlano, il linguaggio è loro, sono loro i poeti, solo che non se ne accorgono, non se ne rendono conto. Ascoltiamo, parliamo, ma non percepiamo, non ritorniamo a riflettere su quello che ascoltiamo o diciamo: è come se lasciassimo perdere, se abbandonassimo lungo la strada, quel mare di poesia che è intrinseco al parlare. Quello che si dice poeta, scopre questa poesia, questo linguaggio poetico, lo pone in evidenza, lo organizza per addensarne il significato e lo stato d’animo.
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Tutto l’apparato retorico che in genere accompagna la comunicazione poetica o non c’è, o anch’esso è intrinseco a quel linguaggio spontaneo. In questo senso non c’è ricerca della figura retorica, ecc., ma piuttosto della prosodia, cioè di tutto ciò che scaturisce dall’uso spontaneo del linguaggio che contiene movenze gestualità atmosfera tonalità, colore, ecc. che ricreano l’immagine così come è nata, il frammento di realtà così come s’è presentato, così come è stato percepito da chi osserva, lasciandolo nella sua spontaneità, nel racconto dei presenti o del narratore o di quanto e come se ne dice. E’ dal modo di dire, di pronunciare, di scandire la parola, la frase o il periodo che si danno un di più di informazioni, così come avviene nella recitazione teatrale o nell’ ascolto dal vivo del narratore o dell’ interlocutore, il quale, come il cantastorie, aggiunge molto alla parola con il gesto, l’ intonazione, il silenzio, la mimica facciale. La letteratura descrittiva non credo che abbia futuro: il di più letterario non è più. La letteratura non può essere data dalla sovrapposizione della parola o della lingua alla realtà, sarebbe una letteratura solo per la casta dei letterati. Il mio scopo è quello di rendere partecipi tutti, tutti gli strati sociali, alla poesia, alla sua comprensione ed accettazione nell’ambito del circuito culturale. E’ la direzione dell’oralità, ma quale oralità? L’andamento prosodico della scrittura deve ricreare l’ambiente, la situazione, l’ora, il paesaggio, ecc. Tutto questo non deve essere descritto, ma fatto immaginare indirettamente. La descrizione è una sovrapposizione, un punto di vista, una scelta di immagini e pieghe narrative propri di un’altra cultura, un altro modo di guardare e sentire la vita o l’ accaduto, una curiosità umana e letteraria, interessante, ma distaccata, non emotivamente coinvolta e coinvolgente. In “Centanni di solitudine.”, la narrazione,
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anche se in terza persona è poematica, si dipana come linguaggio e punto di vista ed immagini, emersi dalla collettività, o da chi si presume presente e protagonista. Insomma, l’intenzione nella mia poesia è quella di eliminare quanto più possibile lo scarto tra parola e cosa: come se il lettore stesse assistendo di presenza a quanto accade, con tutto ciò che questo significa in termini di ricreazione delle percezioni sensitive indirette, una sinestesia dettata dal risvolto prosodico della scrittura, non una organizzata “finzione”, ma “funzione”. La poesia con un frammento di realtà dice molto, moltissimo di ciò che potrebbe essere e che non è; è un’aspirazione, un sogno, un desiderio, una ricerca di innocenza, di un altro modo di essere contro la realtà presente, chiama in causa indirettamente la coscienza, ciò che nell’affanno del vivere quotidiano scompare, non ha la forza di realizzarsi. Il bello è un frammento della vita in posizione statica, di quiete, che non ha possibilità di essere altro da se stesso. Anche una formula matematica o fisica che fissa una legge universale è bella. Nicola Lo Bianco
UNDERSCORE Vanno contraendosi parole per ke_ tempo non basta + X cose da fare: nella sostanza 0_ optima res per vincere l’isolamento; cmq vada_ se appari sei + dell’essere e non vai mai in stand-by_ Salvatore D’Ambrosio Caserta
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Il Racconto
A MIO PADRE di Anna Vincitorio
L
A casa era silenziosa. Piena di mobili, di oggetti. Ancora permeata d’ invisibili presenze. Passavo da sola lunghi pomeriggi nell’ultimo tepore del tardo autunno. Ricercare, selezionare, cosa conservare. In uno degli armadi Biedermeier dell’ ingresso che s’imponevano nella penombra col loro antico splendore, ho trovato una scatola rossa e un pacchetto legato con nastri azzurri. La scatola era piena di antiche foto, alcune a me sconosciute di personaggi lontani nel tempo, altre che avidamente prendevo tra le mani per ricostruirne il percorso. Ti ho ritrovato, padre, bambino col berretto con su scritto Andrea Doria, il viso serio, lo sguardo intenso. Chissà cosa osservavi. Tanti racconti mi tornavano alla mente legati alla tua infanzia di discolo. Una volta rovesciasti una damigiana di rosso di Puglia sul corredo di tua madre e fuggisti, agile, inseguito da tuo padre infuriato che ti scagliava dietro una forma di pane. Il tuo rifugio, quando potevi, erano i nonni. Ma soprattutto lei, la nonna che ti serrava tra le braccia e ti portava a spasso negli aranceti di famiglia a Rodi Garganico. Amavi nasconderti dietro le alte persiane e le porte finestre per riapparire dopo lunghi richiami, con enormi baffi di marmellata. Nessuno mi disturba e i miei occhi e le mani vagano tra tutte quelle foto; ora ti osservo, giovanotto elegantemente vestito, con un completo spezzato, una paglia con gros grein, il viso compunto e l’aria a dandy. Tenera la dedica: “A mia nonna venerandola”. Lasciasti la tua Puglia per studiare a Napoli. Vivevi presso una vedova e so che alle volte, preso dalla fame, prendevi dal tegame che bolliva, mestolate di fagioli che servivano parzialmente a saziarti. Pazienza se il tegame continuava a bollire semivuoto. Amavi andare alle aste e ti soffermavi su antiche tazze, vasellame di pregio.
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Eri dotato di senso estetico, ammiravi il bello; arrotondavi le tue entrate facendo la comparsa al San Carlo con la tua splendida voce di baritono. Ti sentivi vicino anche ai poeti ma nei tuoi occhi verde azzurro brillava la luce dell’avventura, della irrequietezza. A quei tempi si amava la patria, gli ideali, l’ odio per il nemico e tu partisti, ragazzo del ’99 per la guerra. Battesimo del fuoco a diciotto anni. Scontri alla baionetta, canti patriottici e, nelle pause, sempre affamato, finivi le scorte di cibo. Un obice ti colpì schiacciandoti il polmone che lese il tuo cuore. Ma tutto questo non ti fermò. Proseguivi il tuo cammino studiando e lavorando. Ogni lavoro ti coinvolgeva all’inizio, poi l’ entusiasmo scemava e tu ne provavi un altro arricchendoti di nuove esperienze. Adesso guardo due foto della mamma da te gelosamente conservate; una di lei a sedici anni col viso puro e perfetto nella sua giovinezza e l’ altro di lei donna col sorriso malioso da te vista presso una contessa napoletana, amica di famiglia. Ti rapì quel sorriso a labbra dischiuse, quel ricciolo capriccioso sulla fronte. Riuscisti, data l’ amicizia, ad avere l’ indirizzo. Taranto, Via Federico di Palma, 129 e giunse una tua lettera al mio nonno. Per te quell’incontro fu un punto fermo voluto dal destino. Adesso apro il pacchetto dai fiocchi azzurri. Ci sono tante lettere con le buste ingiallite dal tempo, una sopra l’ altra. Se sono lì ed io le ho trovate forse è giusto anche che le legga; potrò in esse scorrere la tua vita, quella di mia madre, molto prima della mia venuta al mondo. Nelle lettere prendono corpo, emozioni, speranze, dolore. “Napoli, 8 aprile 1934: Pina mia, creatura adorabile, infinitamente cara; sorriso di primavera sfolgorante di luce, corolla che si schiude al tepore dei primi raggi della vita; olezzo, profumo soave, inebriante d’amore intenso e sanato; tale sei per me. Così ti ho desiderato, come ti voglio: vita della mia vita, faro luminoso del mio pensiero, meta di tutte le mie mete. Ti stringo fortemente al cor mio nel palpito saturo d’amore infinito e di incommensurabile passione che brucia il sangue e le vene. Io ti amo quanto non può esse-
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re concepito dalla mia stessa mente e tutto questo è merito della tua infinita bontà, della tua profonda dolcezza di sentire. Sono queste tue spirituali doti di sentimento che eccelle che mi confondono e ti elevano alla dignità dell’Ideale. Sei il mio orgoglio... Raccolta, in disparte tu ascolti pensosa e quasi trepidante questa voce che al cuore t’infonde vieppiù il sentimento che è tutta la tua passione e, nelle armonie recondite dell’arcano, volgi le tue amorose pupille alla fuga luminosa dei tuoi sogni dorati... Ti sento vicina, respiro l’alito del tuo amore che mi aleggia d’intorno... Un’armonia che mi circonda come questa primavera che: - Brilla nell’aria e per li campi esulta/si ch’a mirarla intenerisce il core (Leopardi) in cui tutte le cose si baciano ricreate dalla rugiada brillante al sole nascente dell’aurora candida come l’abito vergineo ed il velo che indosserai da sposa tutto confuso col candore della tua anima...”. “Franz mio tanto caro, ...Spero sempre nel tuo amore. Io ti voglio tanto, tanto bene e pensarti riempie il mio cuore di dolcezza. Fra pochi giorni saremo uniti per sempre...” nei racconti di mia madre la vostra vita a Napoli in Piazza San Luigi: davanti Marechiaro, dietro la collina. L’assalto la sera della civetta. Per mamma un oscuro presagio; poi la perdita del bimbo che attendeva. Ancora come sospese, padre, le note della tua voce echeggiavano arie d’ opera. Nell’ etere ritengo rimangano impressi accadimenti importanti di ognuno. Il ricordo è materia tangibile anche sotto il peso degli anni. Tra le carte ritrovate, un po’ strappato e ingiallito il tuo diario di navigazione. Il tuo entusiasmo per le novità acuito dalle difficoltà del quotidiano ti portarono all’ avventura. “0,30 - 9 novembre 1936 - in navigazione. Nessuna preoccupazione per me... e se non avessi avuto il conforto dell’ esperienza morale dei compiti di chi è a capo della famiglia, nessuna altra forza avrebbe determinato la mia decisione necessaria in questa svolta della mia vita. La famiglia è parte integrante della Patria...” Fu l’inizio di una avventura verso quell’Africa vagheggiata prima di conoscerla. In un pulviscolo d’ oro lentamente si dissol-
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vevano Castel dell’Ovo, Posillipo, palazzo Donn’Anna cupo come la leggenda dei suoi misteri, una parte importante della tua vita, padre; ma la necessità irrinunciabile di nuovi spazi, la ricerca di un lavoro diverso tra popoli indigeni, quel rullare di tamburi incessante che ti catturava, i violenti colori di quella nuova terra ti allontanavano dalla tua sposa che aveva accettato a cuore stretto il tuo temporaneo addio. Ho letto e riletto il tuo diario. Guardavi sempre le lancette dell’orologio. Segnavano un tempo diverso. Nuovi doveri; la tua vita era impostata all’organizzazione di un lavoro complesso: Direzione trasporti e Traffici - Mogadiscio. I tuoi racconti dettagliati sullo sbarco; la nave definita mastodontico cetaceo che si ridesta stacco dopo un lungo sonno e la partenza verso l’Italia nuovamente ma senza di te che hai scelto deliberatamente un diverso destino. Osservo vecchie foto in bianco e nero: tu col volto abbronzato, calzoni alla zuava e stivali. Dietro di te sorridente un’ombra scura. Il tuo giovane attendente che si era affezionato a te. “Tu stare a me come mio padre e mia madre e difendere da Gim (l’invisibile demonio tenuto lontano dal ritmico sbattere di due sassi tra le mani)”. Parlavi sempre del caldo afoso del giorno e delle notti fredde. Ti era compagna soltanto una coperta ma mai, così dicevi, una qualche bella indigena; nei tuoi occhi soltanto la visione della sposa nella casa solitaria sulla collina di Posillipo con gli occhi velati di nebbia e lacrime volti verso il mare che nell’ attesa cresceva a dismisura. Ripensavi a quei fazzoletti bianchi che, simili a gabbiani, salutavano la nave. Gli occhi dei soldati volti al porto e alla riviera in dissolvenza, vedevano sparire a poco a poco un mondo conosciuto per affrontare quell’ignoto che molti avrebbe annientato. Ti senti fondamentalmente solo, avvolto da una moltitudine che non ti appartiene; hai scelto quell’ingaggio per un ipotetico futuro migliore, per le stellette da ufficiale. Vagheggi luoghi temperati e ti vedi accanto la sposa protetta da un cappello di paglia che resiste a quel caldo estraneo ed accetta una vita completamente diversa alle sue abitudini.
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Sono solo tuoi vagheggiamenti; lei ti è fedele ma lontana; col ventre in cui sboccia una nuova vita, ma le tue mani, il tuo viso non ci sono e nemmeno la tua voce; solo albe e tramonti che si ripetono implacabili in quella grande Napoli che quasi la schiaccia. È timida, impaurita; vede il suo uomo oppresso da mille pericoli. Teme quel lontano popolo a lei ignoto, ostile, che l’Italia vuole colonizzare. Avverte un pericolo indefinito e crescente e l’ insopportabile separazione, da lui. Tutto questo ha cambiato la sua vita. Puntuali si susseguono le lettere. Il tempo ha cancellato il profumo di esotico che le avvolgeva... “Si manifesta la possibilità di essere trasferito nella zona di Addis Abeba dopo la nomina a ufficiale di complemento allo scopo di permettermi di espletare il servizio in una zona nuova dove il soggiorno dell’europeo è delizioso per il clima mite e costante. Molte in Etiopia le possibilità speculative per iniziare una vita soddisfacente. Spero che tu comprenderai l’ eventualità di una tua vita futura qui con me in questa terra che sento di amare per i suoi soli abbaglianti e per i suoi incandescenti tramonti. Ti amo con tutta la dedizione della mia anima; sei il mio Angelo, creatura adorabile. Sappi che il tuo cuore amante è fiamma che non si spegne né per lontananza, né per morte. Ti bacio e ti desidero incondizionatamente; per il bambino che porti in te, scegli nome di tuo piacimento; sarà la nostra creatura! Ti bacio e ti desidero incondizionatamente. Il tuo Franz”. “24 giugno 1937. Dopo la tua ultima con la notizia ferale della morte della nostra bambina e della precarietà del tuo stato di salute non ho più pace. Avverto l’infinità del mare che ci separa e non riesco più a svolgere il mio lavoro con l’entusiasmo iniziale; vedo solo il tuo viso, la tua tristezza acuita dalla mia lontananza... Ti bacio e ti chiedo perdono per non essere accanto a te. Tuo Franz”. Riordino tute le lettere e le fermo nuovamente coi nastri azzurri. L’avventura africana di mio padre si concluse col suo rimpatrio, causa una grave infezione contratta (ameba e dengue) che lo colpì. Il mare infinito ora ri-
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prendeva una sua dimensione e col volto pallido e scavato vedeva i luoghi da lui amati e familiari avvicinarsi. L’ancora con un rumore sordo toccò il fondale. Lo sbarco e l’inizio di una nuova vita. Dopo anch’io feci parte di quella nuova realtà e l’affetto che ci unì a lungo è perdurato, struggente, invisibile anche molti anni dopo la tua morte. Ti amerò sempre e spero che un giorno, non so quando, mi tenderai la mano. A mio padre: Il tempo ha spezzato quelle scale dove il celeste bagliore si spense con un grido fluidi calarono i falchi sul sole e fu ombra di parole pensate, mai dette Tu ora non più sembianza ritorni voce azzurra di dentro e schiudi le mani al mistero (da Trama verde sull’aria - Edizioni Hellas 1986) Anna Vincitorio
Qui sotto: Béatrice Gaudy - Nel cuore segreto del bosco.
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I POETI E LA NATURA - 57 di Luigi De Rosa
Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)
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differenza di sua madre, aveva un temperamento espansivo, allegro, caloroso (e aveva perso il proprio unico figlio). Il cognome Saba sarebbe derivato da Sabaz. Secondo altri, invece, deriverebbe dalla parola ebraica “saba”, che sta ad indicare il pane. Per tutta l'infanzia il poeta fu tormentato da questo duplice amore , quello per la madre (che lo trascurava) e quello per la balia (che lo adorava). Ma tutta la vita di Saba è marchiata, comunque, dalla infelicità esistenziale e dal dolore di vivere col timore continuo, più che di morire, di perdere la ricchezza rassicurante dell'affetto della moglie Lina e della figlia. Chi non ricorda la poesia La foglia, dove queste idee e queste paure sono espresse con una efficacissima metafora, tratta dalla Natura: quella di una foglia caduca, paragonata alla precarietà angosciosa della vita di un uomo? Le linee essenziali della sua angoscia derivante dai traumi infantili lo avrebbero poi portato, un giorno, all'incontro illuminante con la Psicanalisi di Sigmund Freud.
La foglia, e la capra, di Umberto Saba (1883-1957)
Io sono come quella foglia – guarda sul nudo ramo, che un prodigio ancora tiene attaccata.
U
Negami dunque. Non mi sia rattristata la bella età che a un'ansia ti colora, e per me a slanci infantili attarda.
mberto Poli (in arte Umberto Saba) nacque il 9 marzo 1883 a Trieste, nella stessa terra di Italo Svevo, Scipio Slataper, Giani Stuparich. Sarebbe poi morto di infarto a Gorizia, nella Clinica San Giusto, nel 1957. La madre, Felicita Rachele Cohen, era un'ebrea tutta dedita alle pratiche religiose e ai piccoli commerci. Il padre, Ugo Edoardo Poli, era un discendente da una nobile famiglia cattolica veneziana. Quando ebbe il figlio Felicita Cohen, che nel frattempo era stata abbandonata dal marito, mise il piccolo Umberto (ebreo perché di madre ebrea) a balia presso una contadina slovena, Peppa Sabaz. Il piccolo si affezionò moltissimo alla balia anche perché questa, a
Dimmi tu addio, se a me dirlo non riesce. Morire è nulla: perderti è difficile. Anche la Natura è permeata dal Dolore. Anche la vita animale. Si ricordi, solo per un esempio, la poesia La capra, dove Saba arriva a paragonare la propria situazione esistenziale con quella dell' animale, mansueto come lui. In Umberto Saba il sentimento della Natura ha un carattere spirituale e religioso. C'è un profondo amore, simile a quello francescano, per tutte le creature della Natura, con
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le quali il poeta sente un forte legame di affinità e di fratellanza. La rappresentazione del paesaggio è legata alla rievocazione del passato e di persone care, e altrettanto spesso gli elementi naturali assolvono un ruolo simbolico rispetto alla vita umana. “ Era sola sul prato, era legata. Sazia d'erba, bagnata dalla pioggia, belava. Quell'uguale belato era fraterno al mio dolore. E io risposi, prima per celia, poi perché il dolore è eterno, ha una voce e non varia. Questa voce sentiva gemere in una capra solitaria in una capra dal viso semita sentiva querelarsi ogni male, ogni altra vita.” La comparazione tra la vita dell'uomo e quella di un animale è lampante. Prigioniera l'una (anche se con la pancia piena), prigioniero l'altro. Solitaria l'una, solitario l'altro. Addolorata l'una, addolorato l'altro. Per quel dolore esistenziale assoluto, quasi indefinibile ma reale, di sapore leopardiano, che permea tutto il mondo dei viventi. Impressionante, poi, la parola “semita” attribuita al viso (non al muso) dell'animale. Come se anche la capra fosse trattata , al pari di esseri umani, come un organismo vivente “diverso”, e comunque di rango inferiore. (Ricordiamo che Saba, in quanto ebreo braccato dai tedeschi, aveva trovato solidarietà e rifugio in altri due poeti, Ungaretti e Montale, che lo avevano ospitato in casa loro). Umberto Saba, però, non si ferma alla semplice constatazione della presenza del Dolore Assoluto. Egli fa derivare da questa situazione il dovere morale e sentimentale dell'amore fraterno e della solidarietà fra i viventi. Un amore necessario, fra tutte le creature, perché tutte derivanti da un unico Dio. Luigi De Rosa
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FUOCO E CENERI Immagini un uomo libero sulle vie del mondo. È quel pane morsicato, per giorni di guerra, rivolto a quei fratelli che resistono con la stessa ferita, truccati di bellezza, quando l’alba ha soltanto la coda, per una giornata fatta di pena e d’inerzia quotidiana, ecco allora ti mostra il tuo Cristo e tu non lo riconosci. Tu vedi solo i boia odierni, sempre più assetati di vendetta. Tu osservi i potenti, gerarchi mandati assolti, a Santiago come a Roma. Osservi ombre feroci, carnefici dell’anima, e con loro la morte che avanza. E poi rimane solo l’oblio, che cade e si dissolve nei meandri di speranza perduta nel nulla. Adriana Mondo Reano, TO
Domenico Defelice - Foglie (1982) ↓
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Recensioni CLAUDIA TRIMARCHI LA FUNZIONE CATARTICA E RIGENERATRICE DELLA POESIA IN DOMENICO DEFELICE IL Convivio Editore, Castiglione di Sicilia (CT) 2016, Pagg. 136, € 13,00 La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice, è titolo della tesi di laurea in Lettere di Claudia Trimarchi, voluta dal prof. Carmine Chiodo di “Tor Vergata” di Roma, che indirizza la ricerca su autori del nostro tempo. Come aggiunge Giuseppe Manitta nella prefazione, richiamando a sua volta un intellettuale trevigiano dell’Ottocento, Giuseppe Bianchetti, “la lodevolezza di uno scrittore non mediocre è la capacità di coniugare il sentire comune con i tempi e i luoghi in cui egli stesso vive”. Ed è quello che fa il nostro poeta calabrese, che porta addosso i problemi della sua terra, dell’intero Meridione e “soprattutto l’ urgenza sociale”. Domenico Defelice è un uomo che si è riscattato a nome di tutto il Sud: scrittore, poeta, saggista, critico letterario e artistico, pittore, giornalista, direttore del periodico Pomezia-Notizie da lui fondato nel 1973, operatore e organizzatore di eventi culturali, mecenate, umile, ma con schietto orgoglio. La sua produzione, nella scrittura e nella pittura, ne rispecchia la biografia e il percorso formativo; nelle liriche giovanili il sentimento d’amore si rivela panico, comprendente tanto la donna di cui si innamora, quanto il suo paese, tanto la Natura tutta, entro una cornice esistenziale velata di inquietudine, ma spoglia del “male di vivere”, in cui rinsalda la sua fede in Dio.
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La neodottoressa romana Claudia Trimarchi introduce la sua fatica dichiarando di fare leva su un volume in particolare, L’orto del poeta (1991) sottile pubblicazione che raccoglie scritti nell’arco di oltre trent’anni (1958/1989) nel quale “gran parte delle opere affonda le radici ideologiche”, oltre che biografiche. L’hortus ci restituisce il poeta- contadino che coltiva le sue piante preferite; ed è qui il senso della funzione catartica e rigeneratrice della poesia. Altresì l’autrice precisa di avere scelto di attuare uno studio comparativo delle singole opere esaminate, poesia e critica d’arte, per giungere alla fonte della sua creatività. Fa da guida ai quattro capitoli il saggio di Sandro Allegrini, Percorsi di lettura per Domenico Defelice (2006); troviamo anche guida in Orazio Tanelli per altro saggio monografico (del 1983), nonché il contributo di altri autori. Domenico Defelice nasce alle falde dell’ Aspromonte, il 3 ottobre 1936, da genitori contadini; vive l’esperienza della guerra, conosce orrori e privazioni; nondimeno non perde la vitalità propria dei bambini e la fervida fantasia, alimentata dalla campagna e dagli animali cui egli stesso portava al pascolo. A Reggio Calabria consegue il diploma di ragioniere e perito commerciale, nel 1964 lascia la sua regione e si trasferisce a Roma, e nel 1970 si stabilisce nel comune di Pomezia. Senza mai dimenticare le sue radici che si attaccano al luogo ameno Baldis che incontriamo in più luoghi, come nella silloge Con le mani in croce (1962) in cui indica il suo paese di Anoia come “caduto accidentalmente dalla tasca di Cristo”. Claudia Trimarchi evidenzia alcuni temi, come quello delle migrazioni, nel dramma in atto unico La mania del coltello (1963). La voce si libra come il cuore comanda, senza badare alla rima di cui aveva dato prova nella silloge Un paese e una ragazza (1964). Nel saggio al pittore e poeta Rocco Cambareri, Un silenzio che grida (1968), Defelice trova occasione per prendere le distanze dall’ Ermetismo; mentre ne La morte e il Sud (1971) è presente il tema sulla questione meridionale. Quanto cova in corpo, matura, rivendicando il dirittodovere di denotare le cose con il loro nome: così “il pane, pane; il vino, vino”. Era il tempo in cui diceva di “andare a quadri” come il titolo di un saggio del 1973. L’indignazione di Domenico Defelice esplode nella silloge di Canti d’amore dell’uomo feroce (1977), con prefazione di Maria Grazia Lenisa, la quale vi individua il “Realismo Lirico” in opposizione all’Ermetismo; dove “feroce” sta ad indicare la fierezza del Poeta, come osserva Sandro Allegrini. A questo punto il richiamo a Quasimodo, a Unga-
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retti, a Marinetti e ad altri che hanno aperto nuove frontiere alla Letteratura, è d’obbligo. Defelice trova occasione per prendere le distanze anche dall’ Astrattismo nell’arte. Claudia Trimarchi si sofferma più diffusamente su alcune opere, che ho voluto schematizzare in senso cronologico, come segue. *** Un paese e una ragazza (1964) è volumetto in cinque sezioni. Claudia Trimarchi evidenzia il “verso gentile” iniziale che ci richiama il Petrarca; il “paesaggio dell’anima” del Defelice si rispecchia nella Musa ispiratrice Maria e nel paese di Anoia. La Nostra sottolinea segni lirici dello sradicamento, della solitudine e della nostalgia, che riecheggiano “A Zacinto” del Foscolo, “A Silvia” del Leopardi (come rilevava l’amico pittore e sacerdote Eleuterio Gazzetti), connotando la poesia come devozionale. Nondimeno emerge un realismo magico alla Bontempelli nella figura fondamentale della “Venere” Marcella in cui esplodono deità e terrestrità, con prevalenza della femminilità in carne e ossa, anziché eterea come una Laura petrarchesca o una Beatrice dantesca. Nella quarta sezione rivela una poesia civile i cui frutti maturi anticipano il castigatore come nelle opere To erase, please? (1990), Alpomo (2000), Resurrectio 2004, ed altre ancora. Nel poemetto di chiusura, nel personaggio di Scaldapanche, si rivela narratore di fabula con il soggetto Marcella che gli sfugge alla maniera di Angelica dell’ Ariosto o di Erminia del Tasso. La morte e il Sud (1971) tratta della questione meridionale; si pone come crinale nell’età della scrittura tra quella giovanile e l’adulta, con la prevalenza dei temi civili distinguendosi nettamente dalla produzione precedente degli anni Sessanta. Il paesaggio naturalistico non assolve più a funzioni edeniche, ma si copre di tristezza benché non ne tradisca la magia evidenziata dalla Trimarchi quando richiama la tecnica del contrasto in alcuni passaggi, per esempio nella “necessità di sottolineare che ‘però era estate’ e c’era ‘anche’ il caratteristico stridio dei grilli” (pag. 62). In quanto alla secolare depressione economica e culturale del Mezzogiorno, legata al conservatorismo e servaggio delle popolazioni, la desolazione è resa da un linguaggio ben aderente alla situazione sulla scia dei maggiori scrittori meridionali come Verga e Sciascia. Le figure sono scolpite e l’ambiente si fa arido, cupo, s’affaccia il topos del serpente, l’angoscia, il torpore che si abbatte sulla gente del Sud, la diffidenza verso il forestiero; il desiderio di riscatto della dignità calpestata. Gli assassini “perdono la propria fisionomia ed ogni tratto di umanità” dice la Trimarchi (pag. 66). Occasione per soffermarsi sul fenomeno mafioso della ’Ndrangheta, etimo elleni-
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stico andragathos “uomo coraggioso, valente”, attingendo a fatti reali di cronaca come il rapimento di John Paul Getty nel 1973 o alla strage di Duisburg in Germania, nel ferragosto 2007, il soffocamento delle libertà e della giustizia. Tutto ciò turba il Defelice che denuncia senza arretrare, trovando sbocco nell’opera successiva. Canti d’amore dell’uomo feroce (1977) mantiene la parola poetica al servizio di un’urgenza sociale in cui la voce si scioglie e si fa meno cruenta. Il Defelice rispecchia il volto di Nonno Domenico di cui va fiero. La Nostra commenta quanto la ferocia sia in noi stessi come lascito ancestrale della nostra natura; residuo, aggiungo, dell’uomo della foresta. Ma il Poeta non sfocia in uno sterile pessimismo, bensì reagisce invitando ad amare la natura come fa nel saggio dedicato al conterraneo amico e poeta Franco Saccà (1980) e come farà ancora più recentemente nella raccolta dedicata al nipotino Riccardo nel 2015. Nenie ballate e canti (1991) affronta il tema della tragedia umana, come nel caso della vicenda del piccolo Alfredino Rampi, di cui denuncia la spettacolarizzazione; riproducendo in copertina il suo dipinto che rappresenta la piccola vittima, inghiottita da un pozzo artesiano nelle campagne di Vermicino (Frascati, Roma). Per ammissione dello stesso Poeta sappiamo che dopo tale vicenda non ha più toccato pennello. Alberi? (2010) è la raccolta dove il punto interrogativo ha valore ironico, per dire che non si tratta di semplici alberi, ma di persone, di anime. È dedicato ad amici poeti e artisti, fra cui compaiono Maria Grazia Lenisa ed Ada Capuana (pronipote di Luigi Capuana). Trimarchi pone la sua attenzione alla origine delle parole e alla loro connotazione, così richiama la poetica dell’orto medievale locus amoenus, l’hortus conclusus, accostandolo all’ortogiardino di cui parla in una sezione della raccolta Giustamente Nazario Pardini giudica Alberi? come rifugio, “fuga da un mondo fattosi selva oscura” (pag. 113). *** Claudia Trimarchi afferma: “Defelice non negava certamente la necessità di innovazione nel campo delle Belle Arti ma incoraggiava verso un ‘nuovo’ che non ripudiasse però il passato, ma che ad esso si ancorasse” (pag. 96). Perciò, come s’è detto, si pronuncia in favore su Quasimodo, ma non dei seguaci di Ungaretti, e nemmeno dei seguaci di Marinetti, volendo significare che l’artista come il poeta, non deve perdere il contatto con la realtà, ma la deve interpretare, offrendo un servizio, divenendo un’ opera rigeneratrice per la sua caratteristica etica. Da questo scaturisce una dichiarazione di poetica:
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“l’assoluta assenza di timore di non compiacere e nel bisogno di intendere la poesia come forza educativa all’utile in armonia con l’alto senso dell’ uomo” (pag. 57), accostandosi al Parini e al Giusti; ciò che più sopra abbiamo coniugato con l’ onestà. Nel senso della onestà di espressione, si è pronunciato nei seguenti saggi. In favore della poesia di Geppo Tedeschi nel 1969; in favore della Pittura di Eleuterio Gazzetti (1980) dai colori forti che partecipano del dramma della vita. Così nel saggio Saverio Scutellà (1988), nelle opere pittoriche gli alberi sono antropomorfi somiglianti a corpi femminili; il Defelice sostiene che il pittore “tenta ripristinare l’equilibrio spirituale”. Così avviene ne L’arte raffinata di Giuseppe Mallai (2004), ove si coglie la valenza socio-psicologica, le opere esprimono l’ incomunicabilità fra le persone del nostro tempo e anche se esse vivono in “superaffollati palcoscenici”, ognuna sta in solitudine. Solitudine che nella Trimarchi evoca i celebri versi del Quasimodo: “Ognuno sta solo sul cuore della terra/ trafitto da un raggio di sole”. Non per niente il nostro poeta ha scelto un’opera del Mallai per la copertina dell’ opera satirica Alpomo. Claudia Trimarchi con La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice, mostra padronanza di conoscenza delle opere dell’ Autore, a tutto tondo, che sono di vario genere, ben collegando le parti riuscendo a interessare il lettore. Nondimeno si può fare fatica ad orientarsi nella ventina di opere trattate del Poeta e in aggiunta di altre della bibliografia che lo riguardano, se non si disponga già di una certa conoscenza; perciò ho preferito conferire un’impostazione schematica. In tutti i casi ha offerto comparazioni e accostamenti come per partecipare a un dialogo a distanza cronospaziale, dimostrando anche maturità di scrittura e aggiungendo un tassello alla buona letteratura (Complimenti!). Tito Cauchi
PASQUALE MONTALTO DOMENICO TUCCI IL DIALETTO DELLA VITA IL SOGNO LA VITA LA BELLEZZA Apollo Ed.ni, Cosenza, 2015, pag. 158, € 10,00. Il libro presenta composizioni poetiche di Domenico Tucci, medico catanzarese, e di Pasquale Montalto, psicologo cosentino, prefate da Antonietta Meringola e Bonifacio Vincenzi, e con grafiche interne di Alice Pinto e Giulio Tucci. La poesia di Tucci piace in quanto piana e cor-
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diale, una poesia non assolutamente complicata, ma accessibile e armoniosa, sia nella lingua che nei contenuti esistenziali, come quelle intitolate a Bruno, a Ombretta e Gianfranco (Salute a te, Bruno/ auguri per questi/ tuoi anni belli, / per l’amore e l’ amicizia/ che ci dai …; Auguri, Ombretta, / auguri/ alla tua bellezza, / ai tuoi occhi sognanti, / alla verità …; Amico, perduto nel dolore!/Troverai/ la speranza,/ il sogno/ e il domani?). La poesia accompagna la vita di Tucci, che mira all’essenziale e in ciò consiste, mi pare, la qualità del suo Io poetico. Tucci canta in modo naturale e spontaneo, e le sue parole vanno diritte al cuore e all’ anima: non per nulla cuore e anima ricorrono in Tucci in coppia, come nel caso del componimento Cuore e Ubriaco di vita, dove si legge: Sono a casa, / il sapore dolce/ di te/ scende nel cuore. / Sono ubriaco/ di vita/ e di te. / Io custode della tua anima. Le poesie di Tucci riflettono anche le sue competenze medico-psicologiche e colpisce la fluidità del linguaggio semplice e suggestivo: Il vento porta profumo di rose …/Questo fu ed è il Karma. / Oltre il tempo e lo spazio. / Io ti amo come un sublime sogno. Per raggiungere questi esisti espressivi, positivi e convincenti, Tucci, certamente ha limato varie volte e con passione i suoi versi, che ampiamente riflettono i suoi pensieri, le sue sensazioni e sentimenti. Grati dobbiamo essere a Domenico Tucci per averci regalato una poesia calda di amore, di anima e di vita. Sicuramente leggendo le poesie di Tucci e di Montalto, la nostra mente, come giustamente dice Antonietta Meringola, gioisce, così che il lettore riceve in dono autentici fiotti di sentita poesia. Convincente e profonda la poesia dell’acrese Pasquale Montalto, che, con Tucci, presenta una poesia di alto valore poetico. Poesie che sono caratterizzate da una continua ricerca linguistica e che promuove tutta una serie di metafore e di immagini ben costruite, che danno suggestioni e producono pensieri. Montalto consegna alla poesia Scrivere (pgg.53-59, con traduzione romena di M. Cristian) la sua poetica, la finalità del suo scrivere poesia appunto. Difatti ci imbattiamo in versi come: Scrivere, perché, nel vortice/ la parola vera interrompa, la cultura dell’inganno. / Scrivere per vincere/ sul buio della mente/ e scavalcare oscure chiusure, / che non si conoscono/ e non permettono di vivere. / E scrivi, scrivi, al posto di convertirti, / non ubriacarti di un’ideologia inconcludente. / La scrittura meditativa, / vera oasi d’allegria per il passeggero stanco, / che con leggerezza già guarda/ al gioco del giorno successivo. Orbene, se si leggono bene queste poesie, Mon-
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talto presenta tutto ciò che è la sua scrittura, e che forma per me il carattere primario di Voci dialettali. E come sensibilità d’impegno alla vita quotidiana, attitudine meditativa e nomenclatura sentimentale del poeta, eccone subito una prova lampante in Storia (pag. 60-61, tradotta in inglese da D. Montalto), dov’egli dice: Storie di amori difficili e tardivi, / storie tradite nel cuore del risveglio. / Storie travagliate come tante. E ancora in Nel cuore il dolore, si legge: Giudizi affrettati, / da quattro soldi al mercato, /mi sfiorano, mi raggiungono, mi attaccano, / mi sconvolgono l’animo. E pure in Strade, risuonano questi versi: Strade di storie tristi/ intrise di veleni cocenti, / con argini insozzati/ da cupe sporcizie umane. Si confronti anche il “tieni dritta la meta, / oltre quel cancello reclusivo, / tara mentale dell’acefalo tecnologico” nella poesia dedicata ad Alda Merini, con la dedica Per ogni mamma che ancora spera. La poesia di Montalto è corposa, di sostanza, scorrevole, e narra la vita nei suoi diversi aspetti. Una poesia varia e cambiante nei ritmi e argomenti, ma tutto è ben orchestrato dall’Io poetante che si insinua ovunque, per far emergere vari contenuti e atmosfere. Anche nella seconda parte Il dialetto della vita si ammirano versi vivi e fluidi. Al riguardo si vedano le poesie Alfabetiere, Una nuova storia, Natura, Amore, Donna del mattino. Qui la parola di Montalto, riprendendo i versi della poesia Il dialetto della vita, è vera, bella, libera, giusta. Nella stessa poesia si legge: Morbide scorazzano le parole, / con l’ impegno ritrovato, che costituisce uno dei tanti pregi di questa Poesia del risveglio, dove a pagina novantasei si legge: Il fogliame geme, a primavera, / mosso dal vento rubilante. /che scuote le esili gemme. Poi in Donna del mattino il poeta canta: Colorata bellezza sul tuo viso compare/ quando aurora si leva/ e di umido lascia la terra desertica/ … e del suo cuore ti aspetta il tepore. Montalto diventa libero attraverso la poesia. E questo sentirsi libero lo porta a scrivere versi autentici e originali. Bonifacio Vincenzi è nel giusto quando nella sua condivisibile prefazione scrive che nelle sue poesie c’è “luce”, ma pure colore e profumi, “c’è l’aura nei luoghi, nelle persone e nelle cose”, ma c’è anche tanta libertà di inseguire la sua vita e quella degli altri, i luoghi che danno vita alle sue poesie. *Carmine Chiodo Roma, maggio 2016 *Docente di Letteratura presso l’Università di Roma Tor Vergata.
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LUIGI DE ROSA LA GRANDE POESIA DI GIANNI RESCIGNO il poeta di Santa Maria di Castellabate Genesi Editrice, 2016 - Pagg. 188, € 14,00 Un saggio commosso, all’apparenza quasi improvvisato, per l’attualità, la tempestività e la unanimità del coro di dolore alzatosi alla scomparsa del poeta di Santa Maria di Castellabate, il 13 maggio 2015, e per l’enorme quantità di giudizi, in quanto, De Rosa, preferisce far parlare gli altri più che se stesso. Infatti, già nelle prime pagine egli rende noti alcuni echi di amici scrittori, poeti e critici che, increduli, hanno ricevuto la ferale notizia: Giorgio Bárberi Squarotti (il maggior critico di Rescigno, che ha prefazionato gran parte delle sue sillogi, a partire da I salici, i vitigni e che, per la triste occasione, ha composto pure la commossa poesia “Gianni”, nella quale fa quasi una sintesi dei temi cantati da questo poeta), Sandro Gros-Pietro (l’editore di quasi tutte le sue opere maggiori), Rossano Onano, Giorgio Agnisola, Francesco D’Episcopo, Franco Campegiani, Maria Rizzi, Umberto Vicaretti, Pasquale Balestriere, Giacomo Panicucci, Sandro Angelucci, Paolo Bassani, Ninnj Di Stefano Busà, Giorgio Linguaglossa, Mariella Bettarini, Liliana Porro e Elio Andriuoli e, in particolare, Marina Caracciolo, che è stata la prima a tentare di esplorare a fondo il mondo poetico rescigniano con il saggio Gianni Rescigno: dall’Essere all’Infinito (2001). La Caracciolo sarà pure tra i primi a commemorarlo sulle pagine di Pomezia-Notizie. Scrive De Rosa a tal proposito: “Si tratta di un pezzo particolarmente centrato, la cui collocazione potrebbe anche trovare spazio nella parte del libro dedicata agli interventi della Critica sulla poesia di Rescigno, ma che letto qui, subito, ci dona anche la commozione del ricordo dell’uomo, oltre che del Poeta, così a ridosso dei giorni successivi alla sua dolorosissima scomparsa”. Il volume di Luigi De Rosa, bello anche dal punto di vista editoriale, oltre ad esaminare tutte le opere di Gianni Rescigno, ne illustra anche le varie tematiche. È suddiviso in due parti: “I libri di poesia” e “La poesia di Resigno nella critica letteraria”, nella quale ultima si dà particolare attenzione ai saggi e agli interventi di Squarotti e Caracciolo, ma anche di Franca Alaimo, Sandro Angelucci e Antonio Vitolo. De Rosa evidenzia come Rescigno abbia, nelle sue opere, cantato sempre lo stesso ambiente straordinario (la Campania fertilissima, il salernitano-cilentano) con figure, immagini, personaggi in-
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dimenticabili per ricchezza umana e solidarietà cristiana (la madre, in particolare, il padre); una terra e “una Natura adorata, non ancora minacciata gravemente dall’inquinamento, prodiga di sapori e profumi anche se esigente di sacrifici amari e di “fatiche” a volte sovrumane”. E precisa: “La Natura è nel suo mondo, è dentro la sua sensibilità e le sue fantasie, anche nelle sillogi in cui il tema dominante è il sofferto, ma alla fine fiducioso, rapporto con Dio, o l’amore, o la memoria, o gli affetti familiari, o la pietas per gli umili e i diseredati e per la fatica di vivere”. “Questo poeta del Sud raffigura la propria terra - scrive Teodoro Giùttari - scartando ogni facile folclorismo, la esprime senza cantarla, la proclama senza estetizzarla, con impegno civile ed umano, oltre che artistico e letterario”. NaturaTerra che significa tutto, il paesaggio e chi sopra ci vive: “Cintura di cemento alle spiagge/zitte/ respirano le ville senza fuoco./Attendono le domeniche/dei padroni/che non sentono colpa verso Dio...”. Sono versi che troviamo in Torri di silenzio e che si riferiscono al paesaggio ferito dalle costruzioni dei ricchi per la villeggiatura, da gente sprezzante verso gli uomini e verso Dio, orgogliosa della propria ricchezza, che cementifica le spiagge non per necessità, ma per lo sfizio di passarci solo pochi giorni all’anno; case, cioè, praticamente abbandonate - “senza fuoco”, scrive il poeta, e perciò senza vita. Una Natura-Terra che parla attraverso le cose e sprigiona l’eterno. Le foglie degli alberi sono parole, per Rescigno, nel senso che parlano attraverso il ticchettio che su di loro produce la pioggia o il fruscio del vento che le attraversa ed è così che ci raccontano della caducità d’ogni cosa e delle stelle, dell’umano pensiero e dei gabbiani, della vita e della morte, della quotidianità e dell’eterno (“tra la morte e il risveglio”). Questo libro è un “viaggio all’interno della poesia di Rescigno”, le cui “tematiche portanti” sono presenti già nel primo libro Credere, ma appena in germoglio e vengono sviluppate man mano, poi, negli altri. Rescigno “bolla e condanna l’ ingiustizia sociale. Sceglie quelli che lavorano, con fatica; quelli che stentano; quelli che devono sbarcare il lunario tra mille difficoltà. Ma la sua non è una protesta sociale violenta e classista”. Tranne rari casi (si veda “Cominciò settembre”), la poesia di Rescigno è ricca di aggettivi (lo rileva anche Tombari), ma, come afferma Squarotti, quasi sempre “senza eccessi”. Un libro stilisticamente veloce, questo di De Rosa; gradevole nella lettura, che tocca i vari temi cantati dal Rescigno, in particolare la fede, l’ affetto per genitori e figli, il prossimo; il tutto, però, sublimato o, quantomeno, trasfigurato in un’ at-
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mosfera visionaria. Ed è per questo che il canto rescigniano è sempre nuovo e diverso anche quando, in effetti, sta narrando il già detto. Domenico Defelice
CLAUDIA TRIMARCHI LA FUNZIONE CATARTICA E RIGENERATRICE DELLA POESIA IN DOMENICO DEFELICE Il Convivio Editore, 2016 - Pagg. 134, € 13,00 La tesi di laurea di Claudia Trimarchi segue passo passo il percorso esistenziale e poetico di Domenico Defelice. Lo fa con appropriate citazioni, ricercate da tutte le sillogi che il nostro Direttore ha pubblicato nel tempo: da quelle giovanili, spesso rispettose della metrica, alle ultime in verso libero e d’impronta più propriamente civile. Cita spesso gli studi di Maria Grazia Lenisa e di Sandro Allegrini che hanno sviscerato in profondità le opere del nostro autore. La nativa Anoia, con i suoi paesaggi agresti, la Calabria, con i suoi molteplici problemi, sono spesso lo sfondo dei versi di Domenico Defelice e l’ attenta critica lo evidenzia con mano esperta. Soltanto la poesia sa consolare la disperazione e addolcire il pessimismo, davanti all’inaridimento dei valori. Nella seconda stagione poetica di Defelice la poesia è denuncia “al servizio di un’urgenza sociale”. A volte la Trimarchi sente l’urgenza di citare liriche particolarmente incisive nella loro interezza (anche nelle note esplicative), per rendere efficace e partecipe il suo discorso. Le citazioni riguardano anche i saggi critici e i testi teatrali scritti da questo autore che alterna all’idillio la sua passione civile. Non mancano riferimenti alla predilezione di Defelice per la pittura, di cui è un valido rappresentante. Infine va sottolineata l’attività di mecenatismo, che viene realizzata (a partire dal 1973) attraverso le pagine del mensile “Pomezia-Notizie”. Vorrei riportare il giudizio conclusivo della Trimarchi su Defelice, da cui si può tratteggiare esattamente la sua figura. “Lontano dai clamori dei letterati e dall’autoreferenziale mondo intellettuale, umile di carattere ma ferreo nelle proprie convinzioni etiche, mai disposto ad alterare il contenuto o la direzione del proprio pensiero per tenerlo sui binari della communis opinio, Domenico Defelice non ha mai operato per il plauso del pubblico, prediligendo l’urgenza di dire più che di pubblicare”. Elisabetta Di Iaconi
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CLAUDIA TRIMARCHI LA FUNZIONE CATARTICA E RIGENERATRICE DELLA POESIA IN DOMENICO DEFELICE Il Convivio Editore, 2016 - Pagg. 134, € 13,00 Una tesi di laurea in Letteratura italiana moderna e contemporanea. Siamo di fronte a un saggio seriamente condotto da Claudia Trimarchi. Approfondimento della vasta opera di Domenico Defelice, autore poliedrico la cui analisi ha investito più settori: drammaturgia, poesia, narrativa, pittura. Viene esaminata con devota attenzione la produzione del poeta dagli anni 1958 e il 1989. Si parla di hortus conclusus, anche se il nostro autore non ha mai smesso di donarci sue testimonianze sia in campo letterario che sociale. È un poeta che non si stanca di percorrere con devota attenzione il difficile e controverso campo della poesia. La laureanda Claudia Trimarchi affronta in modo comparativo l’intera opera riportando direttamente le parole dell’autore. Felice intuizione perché nei versi affiora la sensibilità e la forza del poeta producendo un effetto emotivo diretto. Poeta, Defelice che dalle sue origini contadine legate all’ Aspromonte, attinge forza solare tradotta in versi che assumono particolare vivezza pittorica: “(...) La zagara m’investe, ancora nei sogni parmi vagare (...) sotto le volte immense degli ulivi... ... Scaverò con queste mani bianche le tue crete sonanti di conchiglie e ascolterò i respiri ampi del mare, da cui fremente nascesti, seduto sotto le querce annose in compagnia delle tue ninfe, amore” Si analizza sia il meridionalismo tipico delle prime composizioni - “La morte e il Sud” che il percorso attraverso gli anni del boom; ci sono nei suoi scritti riferimenti autobiografici ed eventi realmente accaduti (vedi saggio di Sandro Allegrini del 2006). La nostra Claudia cerca di capire il segreto della poesia di Defelice e ci riesce dandoci una visione ampia e pregnante del suo sentire come anima che a sue spese ha realizzato scelte esistenziali. Indicativo il frammento in “A Riccardo (e agli altri che verranno)” Ed. Il Convivio - marzo 2015 pag. 40: “Nonno dici alle nuvole di andarsene? Voglio il sole Potessi comandare le nuvole! Andate!, dico a quelle nere che coprono il cielo di gramaglie.
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Ed esse vanno, (...) Claudia Trimarchi affronta ogni sfaccettatura dell’opera di Defelice istituendo collegamenti anche tra pittori (Gazzetti, Scutellà, Mallai) e la poesia del nostro. L’arte è universale e deve comunicare; le parole devono essere semplici e naturali e la pittura tendere al concreto, al figurato, al poetico. Tutto questo quando c’è una affinità anche latente tra poesia e pittura. Si potrebbe concludere che Defelice ha vissuto sin da giovanissimo per l’arte, la letteratura, senza però allontanare il suo occhio attento dal sociale. Sono inoltre citati nella tesi critici di chiara fama che hanno evidenziato “lo spessore umano prima ancora che artistico, l’acutissima sensibilità di un uomo sincero e leale, integro e coerente con se stesso e con gli altri”. “E quando il lettore si commuove è segno che l’autore ha toccato le sue corde più intime e che ha fatto vera arte”. (Le poetesse e l’amanuense - 1966 pag. 33 di Domenico Defelice) Anna Vincitorio
IL BOZZOLO DORATO Il filo della vita, ravvolto attorno a un bozzolo dorato, chiude un oscuro baco. È il grumo della pena che si cela, pronto a involarsi, quando potrà svanire il chiaro labirinto. Andrà in frantumi il baco, mentre si spargeranno in alti cieli le rischiaranti luci. Elisabetta Di Iaconi Roma
EUROPA L’urlo dei corvi aleggiò lontano quasi il pianto di una libertà sovrumana, mentre moriva il canto di questa Europa senza poemi, muta di spirito degli uomini, poi all’improvviso s’udirono i passeri cantori di questa terra saccheggiata; i chiurli, i fringuelli il loro richiamo di fine
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inverno, cantori dei bucaneve e delle primule a consolare questa Europa caduta nella galassia dell’indifferenza, per una morte quasi annunciata. Dove sono le canzoni dei confini, delle foreste, le voci delle onde e dei fondali, che tu Europa non sai più ascoltare, dove sono? Nella tua carne si dissanguano gli dei, si inchiodano le stelle nel tuo cuore, potrai essere terra che nella luce rinasce, paradiso perduto al ritorno della vita, potrai se lo vorrai con la tua anima, nella fede dei tuoi uomini indomiti e guerrieri, per una nuova generazione di speranza e futura felicità. Adriana Mondo Reano, TO
MEZZOGIORNO Fiumi fumiganti di salsa verde saporosi arrosti aromatici, escono baldanzosi dall’osteria mischiata di altre aromatiche fragranze. Dal tavolo ilari parole squarciano sguardi indifferenti offrendo anche all’osservazione più distratta motivi per riflettere sull’inevitabile gaiezza di un pranzo di mezzodì. Mentre signore e signori di abito leggero, assurgono dal pasto l’esser loro, libero da frontiere senza più confini, nella spontaneità e nella libertà di esprimersi, acquisisce l’indissolubile esemplarità di esistere. Nel pranzo anche il cuore si spoglia di inutili affanni per gridare alla campagna il suon beato, mentre da lontano a rintocchi lenti un campanile squilla;
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è triste solo l’aratro che immune dal piacere mondano inonda l’essere suo dell’abbandonata utilità del mezzo. Susanna Pelizza Roma
TEMPORALE A POPPI Le piante squassate dal vento ondeggiano sotto la pioggia ed ora la nebbia nasconde ogni cosa oltre l’orlo dei tetti sui quali si affaccia guardinga la ben riparata finestra. Ed è così intensa la pioggia che anche se è là, oltre ai vetri, a me quasi viene la voglia di aprire qui in casa l’ombrello. Poppi, 12.6.2016, ore 20.30 Mariagina Bonciani Milano
IO E MAMMA Non è un bambino, è un uomo, già, maturo, razionale, normale ma con qualche problema psicologico che lo rende insoddisfatto di sé, della vita che pure è stata prodiga con lui: l'ha dotato d'intelligenza, prestanza fisica, attitudine al sorriso e alla gentilezza, in una famiglia l'ha deposto agiata e affettuosa. Schiva il trambusto, la folla, la presenza frequente di estranei. Sta bene con i suoi cari e con essi ama restare, uscire di casa, distrarsi, viaggiare, andare al mare; con i suoi familiari, la mamma in particolare. Ogni volta che questa gli consente
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di passare un po' di tempo con lui per una passeggiata o un giro in macchina o una breve vacanza, è felice come non mai. Lo vedi sereno, il viso disteso, gli occhi che brillano e i moti riflettono interiori; e lo ascolti che narra estasiato di loro due insieme e intercala ogni parola, ogni frase con <<Io e mamma>> <<in paradiso>> in sua vece il silenzio completa. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo al Volturno, IS
D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE POESIA: PREMIO DAMIAO DE GO'IS A CORRADO CALABRÒ - Roma, 7 giu. (AdnKronos) - L'università Lusófona di Lisbona ha conferito il riconoscimento Damião de Góis a Corrado Calabrò per la sua opera poetica e per i valori umanistici da lui affermati nelle sue molteplici attività. Damião de Góis fu un grande umanista portoghese del '500. Condivise con i grandi spiriti cosmopoliti del suo tempo, e in particolare con Erasmo - del quale fu grande amico -, gli ideali di rinascita della cultura umanistica europea e promosse il Rinascimento in Portogallo, dove fu peraltro processato
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dall'Inquisizione per le sue idee aperte e non conformiste. La cerimonia della consegna a Corrado Calabrò della Medaglia-Riconoscimento Dãmiao de Góis ha avuto luogo il 30 giugno a Lisbona, nell'Università Lusófona, alla presenza dell'Ambasciatore d'Italia. (Nex/AdnKronos) *** LA FUNZIONE CATARTICA E RIGENERATRICE DELLA POESIA IN DOMENICO DEFELICE - Riceviamo da Roma una E-mail (del 29/05/2016) di apprezzamento della tesi della giovane neolaureata - Carissimo, avevi ragione. Il libro di Claudia Trimarchi è un bel libro, e Manitta ha fatto bene ad accoglierlo nella sua rispettabile collana e a rendergli onore con la sua autorevole prefazione. La Dottoressa Trimarchi ha esplorato, con acume e partecipe passione, in più direzioni concomitanti, il tuo universo poetico, e ne ha fatto emergere il senso e il valore. Auguro al libro una attenta ricezione, e spero che presto facciano seguito altri scritti di critica letteraria. All'autrice auguro un felice e operoso cammino, sia sul piano della realizzazione sempre più piena e gratificante del Sé (nel senso junghiano del termine), sia sul piano del lavoro letterario, per il quale possiede ottimi strumenti e una notevole capacità di comunicare. Vedo che abita a Frascati, città che mi è cara anzitutto perché vi abitava, e vi possedeva un affascinante studio presso la stazione ferroviaria, l'indimenticabile amico Italo Alighiero Chiusano, germanista, romanziere e poeta. E che mi è cara anche perché ho fatto parte per diversi anni della giuria del premio letterario Frascati, ora intitolato ad Antonio Seccareccia, che pure ho conosciuto e di cui serba affettuosamente la memoria la figlia Rita. La Giuria, alcuni anni fa, ha anche voluto onorarmi con un premio alla carriera. Credo che ora abiti a Frascati la mia collega Rosalma Salina-Borello, valentissima e coltissima comparatista. Auguri di buona settimana a te e ai tuoi cari, anche da parte di Noemi, che vorrebbe inviarti un suo scritto per "Pomezia-Notizie" che ha ospitato in prima pagina la sua fotografia Emerico Giachery Scrive, da Verona, il 27.5.2016, Enrico Ferrighi un poeta che da lungo tace, ma del quale non possono essere dimenticate sillogi come “Dialogo dei dispersi” (1984), “Arcobaleno” (1986) e “La crisalide” (1993) -: ...L’autrice della tesi ha svolto il suo lavoro con serietà e obiettività dimostrando una conoscenza profonda di tutta la tua opera. Sono frequenti i riporti dei tuoi scritti, i richiami, i rimandi, i giudizi critici di altri astri del firmamento letterario. Ormai manca solo il riconoscimento (e
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lo spero veramente) del premio Nobel di Stoccolma. In verità lo meriti perché hai speso una vita a scrivere di Arte, Letteratura e quant’altro fa seguito. Lodevoli il tuo carattere, la tua tenacia, i nobili fini e gli ideali che ti sei proposto, onde portare all’Umanità il sollievo catartico della Poesia, l’ Amore del Bello, e l’ansia di migliorare l’Uomo nella sua integrità, assetato da sempre di Libertà, di Giustizia. Enrico Ferrighi *** A.L.I.A.S. - SEMPRE PRONTA A RICORDARE L’ITALIA- Domenica 22 maggio 2016, dalle ore 12 alle ore 18, presso la Sede di questa benemerita Associazione, a Melbourne, in Australia, si è tenuta una gran festa: TUTTI INSIEME per il 24mo anniversario A.L.I.A.S., con il benvenuto a IL GIORNALINO LETTERARIO A.L.I.A.S., con scenette, poesie, mostra di pittura, presentazione di libri e molte altre sorprese dagli Autori A.L.I.A.S. per ricordare il 70mo anniversario della nascita della Repubblica Italiana. A presentare sono stati Giovanna Li Volti Guzzardi - instancabile organizzatrice di tutto - e i tanti amici che la affiancano. *** CURRICULUM DI GIUSEPPE MANITTA Giuseppe Manitta è il direttore editoriale de Il Convivio Editore e caporedattore delle riviste Il Convivio e Cultura e prospettive. Inizia a pubblicare giovanissimo, esordendo con la silloge poetica Meteore di Luce (con saggi introduttivi di Domenico Cara, Pasquale Francischetti, Carmine Manzi, Nunzio Trazzera, Angelo Manitta, Il Convivio, Castiglione di Sicilia, 2002), cui seguono i poemetti Sentieri d’ assoluto, poema-racconto, (con note introduttive di G. Barberi Squarotti, D. Cara, L. Felici, C. Manzi, A. Piromalli, Il Convivio, 2003) e Sul sentiero dell’upupa (con introduzione di Arnaldo Bruni, Il Convivio, 2006). Contemporaneamente si dedica all’attività divulgativa della narrativa italiana, dalle origini al ‘900, pubblicando per la casa editrice Mursia del gruppo Mondadori due volumi in collaborazione con Angelo Manitta: A partire da Boccaccio. La novella italiana dal Duecento al Cinquecento (Mursia, Milano, 2005) e Noi e il mondo. La novella italiana da Pirandello a Calvino (Mursia, Milano, 2006). Successivamente si concentra quasi esclusivamente alla critica letteraria pubblicando il saggio Stefano Pirandello e altri contemporanei (Il Convivio, 2007) in cui affronta principalmente la vicenda letteraria di Stefano, figlio di Luigi Pirandello, proponendo alcune originali posizioni critiche, e di autori come Giorgio Barberi Squarotti, Inisero Cremaschi, Giuseppe Conte, Cesare Ruffato ecc… Segue l’antologia di poesia con-
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temporanea Cento poeti per l’Europa del terzo millennio (in collaborazione con Carmelo Aliberti e Angelo Manitta). L’anno dopo introduce e commenta il poema di Carmelo Grassi, autore siciliano del primi del ‘900, dal titolo Maria o La virago di Motta Camastra di Carmelo Grassi (Infinity media, 2008). Sempre di interesse siciliano e la codirezione del Dizionario biobibliografico degli autori siciliani. Ottocento e Novecento (Il Convivio, 2013). Negli stessi anni lavora alla ricerca storico- bibliografica che confluirà in Giacomo Leopardi. Percorsi critici e bibliografici (1998-2003), (Il Convivio, 2009, pp. CCXIII-322), opera che viene giudicata di certa rilevanza dal mondo accademico e critico tanto da essere considerata in numerosi saggi critici e curatele nazionali e internazionali (cfr. G. Leopardi, Cantos a cura di Maria de las Nieves Muñiz Muñiz, Madrid, Catedra, 2009; Zibaldone di Pensieri, a cura di Fabiana Cacciapuoti e un preludio di Antonio Prete, Roma, Donzelli; Canti, a cura di Andrea Campana, Roma, Carocci, 2014 ecc.) nonché recensito in numerose riviste di italianistica come Quaderni d’Italianistica (Official journal of the Canadian Society for Italian Studies), Annali d’Italianistica (University of North Carolina a Chapel Hill), Giornale Storico della Letteratura Italiana (Università di Torino), La Rassegna della Letteratura Italiana (Università di Firenze - Accademia della Crusca). Con il medesimo saggio vince il premio Tulliola e giunge finalista al Premio Città di Adelfia 2009 insieme a Riccardo Chiaberge per La variabile Dio (Longanesi), Silvio Biancardi, La chimera di Carlo VIII (Interlinea); Aurelio Iori, Stato senza gestione, (Guida); Augusto Gentili, La bilancia dell’arcangelo (Bulzoni); Armando Massarenti, Staminalia. Le cellule etiche (Guanda). Nel 2015 ne esce la prosecuzione dal titolo Giacomo Leopardi percorsi critici e bibliografici (20042008). Con appendice (2009-2012) (Il Convivio 2015, pp. CLIV-296). Medesimo interesse critico e rilevanza nel mondo accademico suscitano le curatele sulla letteratura italiana: Carducci Contemporaneo (Il Convivio, 2013, a cura di G. Manitta con scritti di Giorgio Barberi Squarotti, Carmine Chiodo, Emerico Giachery, Angelo Manitta, Alessandro Merci, Giacomo Nerozzi, Pantaleo Palmieri, Elena Rampazzo) e Boccaccio e la Sicilia (Il Convivio, 2015, a cura di G. Manitta con scritti di Emilia Cavallaro, Anna Cerbo, Carmine Chiodo, Lilith Meier, Nicolò Mineo, Ugo Piscopo, Federica Rando, Alessandra Tramontana, Susanna Villari). Negli anni inizia a interessarsi anche all’opera del poeta romeno Mihai Eminescu. Ciò comporta tutta
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una serie di conferenze in varie università dell’Est dell’Europa (Bucarest, Chişinău, Alba Iulia ecc.). Alle stregua dei suoi studi è l’unico critico italiano ad intervenire assiduamente nelle varie edizioni del congresso internazionale di studi su Mihai Eminescu che si svolge annualmente a Chişinău e i cui risultati di ricerca sono stati pubblicati in riviste specialistiche italiane e straniere. Nel 2010 individua, insieme ad Angelo Manitta, il codice di Rime del petrarchista cinquecentesco Antonio Filoteo Omodei (Capponiano 139), chiarendo numerosi disguidi filologico-testuali e biografici sull’autore (cfr. A. Manitta - G. Manitta, Il Codice autografo delle rime di Antonio Filoteo Omodei (Cappon. 139), Il Convivio, 2014). Passione costante rimane la poesia, di cui ha pubblicato L’ultimo canto dell’upupa (Il Convivio, 2011, con premessa di Giorgio Barberi Squarotti e introduzione di Carmine Chiodo), opera confluita con variazioni nel più recente Il Giullare del tempo (con prefazione di Francesco d’Episcopo, Il Convivio, 2013). Con questi testi è giunto tra i vincitori del Premio Tulliola e del Premio Borgo di Alberona, nonché ha ottenuto una Publica Laus per la poesia dalla Pontificia Università salesiana di Roma. Dal 2016 collabora con il Centro Leopardi dell’ Università La Sapienza di Roma e per la sezione Primo Ottocento de La Rassegna della Letteratura Italiana (Università di Firenze-Accademia della Crusca). Stralci critici sulla sua poesia, tratti da recensioni o prefazioni: «Il poemetto dell’upupa e di tanti altri animali emblematici e avventurosi è molto bello per ricchezza di immagini, visioni, ironia, fantasticherie, ansie e speranze del cuore. È, a mio parere, un testo davvero mirabile, originalissimo, fra mito e realtà attuale e drammatica, un risultato di straordinaria inventività. È una narrazione ansiosa e solenne, fra quotidianità e visione, meditazione e passione, dolore e bellezza delle cose e dell’anima. Insomma il significato del poema è l’originale reinvenzione della struttura e dell’armonia, è un’opera che tende al sublime, alla totalità, alla curiosità linguistica. Ad esempio il ‘ziolare’ come verso onomatopeico del grillo, io non ho mai sentito questa parola: il Pascoli usa ‘zirlo’, che è termine certamente toscano, oppure ‘cricri’ onomatopeico, questo diffusissimo. Sì, la sua poesia è per fortuna molto lontana dai versi di moda, ma è pur vero che lettori attenti ancora esistono, per mia esperienza. (Giorgio Barberi Squarotti, Università di Torino, dalla Premessa a L’ultimo canto dell’upupa) «Dotato di solida e varia cultura letteraria, Giusep-
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pe Manitta la fa convergere in un poemetto, intitolato L’ultimo canto dell’upupa, in cui una consapevole perizia tecnica si pone al servizio di sensazioni e di emozioni che, tradotte in versi carezzevoli e ammalianti, diventano un inno alla natura, seducente perfino nei suoi ‘rovi riarsi’, nei ‘lampi di spini’, nella ‘bufera’ che ‘piove sul prunalbo’» (Andrea Battistini, Università di Bologna, motivazione del Premio Città di Alberona 2012). «Ma la Sua ambizione è altra o diversa. Se non intendo male, vorrebbe allargare il perimetro del montalismo verso una doppia polarità, riconducibile da una parte al mito, che così insistentemente ritorna; dall’altra a una quotidianità maculata di nevrosi (l’insettofobia della zanzara), di cui si fa carico l’alter ego Archimede». (Arnaldo Bruni, Università di Firenze, dalla Premessa a Sul sentiero dell’upupa) «La sua poesia si colloca sulla frontiera più avanzata della ricerca. Ricerca del l’accordo/antitesi, dell’ ossimoro che squarci il velo dell’abitudine che ci ottunde gli occhi, ma anche ricerca alchemica della singola parola che risvegli un senso di pregnanza obliterata (avaccio, orezza, berza, s’adima). Ricerca attenta, preziosa, della parola non contaminata perché le parole la seconda volta che vengono pronunciate perdono la loro magia, la loro forza evocatrice. Lui sa che i contemporanei hanno ucciso Omero, Virgilio, Dante, Petrarca, Leopardi e cerca nuove piste, che indica a tutti gli esploratori del verbo che vogliano seguirla su un terreno che prende le distanze dalla banalità. Fossero anche piste nel deserto!». (Corrado Calabrò) «Giuseppe Manitta è un buon studioso di letteratura italiana e poeta, come attesta pienamente questo suo felicissimo poemetto crepuscolare dal titolo L’ ultimo canto dell’upupa... A mio avviso questo poemetto è avvincente e si lascia leggere ben volentieri per tematiche e stile, lingua che non è poi quella che si legge in tanta poesia contemporanea. Difatti è rarissimo leggere quei versi nella odierna poesia. Manitta scrive e usa una lingua letteraria, ricca di richiami a grandi poeti del passato. Un nome per tutti: Dante. Sicuramente il poeta siciliano non vuole darci una poesia di moda e quindi ecco che compone questo riuscito poemetto che è stato lodato e giudicato positivamente da noti studiosi di letteratura italiana... Oggi come oggi, molta poesia è cervellotica, banale, si basa su imitazioni di poeti noti e famosi. Direi che uno dei tanti pregi di questo poemetto consiste nel fatto che non è per nulla banale, ma è ben fuso, unitario. È un vero piacere leggerlo, soffermarsi e ammirare le immagini che esso presenta». (Carmine Chiodo, Università di Roma Tor Vergata, dalla Prefazione a L’ultimo canto
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dell’upupa). «Giuseppe Manitta scrive un “poemetto crepuscolare” e lo intitola L’ultimo canto dell’upupa. Va con passo sicuro e consapevole, con versi brevi utilmente scanditi, con movimenti narrativi essenziali... Predilige una dizione classica, e talvolta tende a impreziosire con qualche effetto di ricercatezza eccessiva: “Lungo è il viaggio / della nave argheifonte / mentre tacciono gli alcioni / e l’aria blezza i cocci / delle campane”. Senz’altro un buon lavoro, di spessore e pensiero» (Maurizio Cucchi, su La Stampa) «Giuseppe Manitta... realizza un procedimento letterario quanto mai ardito e riuscito: combinare le radici della sua terra, la Sicilia millenaria, con ragioni che appartengono al contemporaneo e al quotidiano. Una prospettiva, realizzata a piene mani dal conterraneo Salvatore Quasimodo in quello che si potrebbe in qualche modo definire suo “terzo tempo”, dopo la fondamentale e rivoluzionaria tradizione dei lirici greci. Manitta, tuttavia, opera in proprio, costruendo progressivamente una personale poetica, che, se risente ovviamente delle sue intense letture e corpose esperienze critiche (si pensi a Leopardi e Carducci), conquista una specifica dimensione espressiva, in cui il mito, il sacro, si misura con la realtà, il quotidiano appunto, senza che questo confronto generi un corto circuito nelle linee di tensione del discorso poetico, anzi tutt’altro, con il risultato di una serie di effetti speciali, di natura sinestetica e sintetica. Il poeta si avventura in un continente empedocleo, dal quale ritaglia di volta in volta la propria isola “impareggiabile”, lasciandosi affatturare dal canto di una sirena, che sa di mare, di vento, di sogno, di desiderio, di abbandono e di ritorno al flusso primigenio delle cose, che reggono l’incerto, umano destino. Che è poi la poesia!». (Francesco D’Episcopo, Università di Napoli Federico II, dalla Prefazione a Il giullare del tempo) «La sua raffinata ricerca linguistica, con la presenza di lessemi antichi, è un segno di sensibilità moderna e di fervida vocazione espressiva, e insieme un giusto riconoscimento alla continuità della poesia (ricordo in proposito un bel saggio del vecchio Croce premesso al celebre libro di de Lollis sul linguaggio poetico italiano). Ma ciò che più colpisce è il fluire poematico, la ‘melodia infinita’ del libro, e insieme l’emozione mitica (il mito è archetipo perenne, veduta umana) che da esso si sprigiona». (Emerico Giachery, Università di Roma). «Il rincorrersi dei versi in queste pagine appare come un luminoso accordo che tratteggia il poemetto, tra elementi incalzanti che si aprono ad un canto decisamente sereno e coinvolgente. La conquista delle immagini possiede il ritmo della canzone, tra
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le improvvise piume di Icaro e lo stridore delle auto, tra le crepe del muro e le vertigini della nebbia, tra l’armonia di una danza e il rossore degli aironi. La clessidra, lievemente sospesa tra le dita incerte, affanna nel contare il tempo che inesorabilmente scompone il respiro ed i riflessi. Ed il rito si ripete, in un pensiero più vicino alla visione che le cose hanno di se stesse, in una alternativa sapienziale, che le invocazioni sono capaci di elaborare. Il recupero di un realismo sottinteso prende forma, ed il fenomeno delle metafore ha l’immediatezza della grande sceneggiatura, coniata per una poesia da contemplare». (Antonio Spagnuolo) «Il primo verso della raccolta credo sia significativo: “All’alba Icaro ha perso le piume”, il sistema di riferimento della raccolta è quello simbolico ma le scelte lessicali appartengono all’epoca del Dopo il Moderno, si apre così una contraddizione tutta interna al dettato poetico tra due forze dissonanti e divergenti con esiti senza dubbio positivi. Il colloquio con i grandi poeti del passato (Omero, Virgilio, Dante, Petrarca, Leopardi etc.) è un colloquio mutilo, venato di malinconia che investe alche lo stile della scrittura di questo agile libretto. Oggi la fine del “mandato poetico” ha segnato anche l’ eclisse della presunta antinomia di continiana memoria tra il genere innico e quello elegiaco; la disparizione, di fatto, di una generazione di intellettuali poeti in possesso di una cultura classica, conseguenza di una situazione di pacifica equivalenza agli interessi del mondo dell’editoria e delle redazioni letterarie influenti. Ma il libro in esame, oltre alle qualità intrinseche, assume anche un valore di critica a questo “giullare del tempo”, ad una età ostinatamente avversa e ostile alla lirica» (Giorgio Linguaglossa).
LIBRI RICEVUTI LUIGI DE ROSA - La grande poesia di Gianni Rescigno il poeta di Santa Maria di Castellabate - In copertina, a colori: Santa Maria di Castellabate; all’interno, in bianco e nero, sei foto di Rescigno Genesi Editrice, Torino, 2016 - Pagg. 186, € 14,00. Luigi DE ROSA, poeta e scrittore, saggista e recensore, di genitori partenopei ma cresciuto in Liguria, vive a Rapallo (Genova), in pensione dal 2001. Tra i suoi libri di poesia, “Risveglio veneziano ed altri versi” (1969); “Il volto di lei durante” (1990 e 2005), “Approdo in Liguria” (2006), “Lo specchio e la vita” (2006), “Fuga del tempo” (2013), “Imperia Tognacci e i suoi poemi in poesia e in prosa”
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(2014). Sulla sua poesia sono usciti saggi e recensioni su numerose riviste (tra le più recenti “Poesia”, “Vernice”, “Nuovo Contrappunto”, “Ilfilorosso”, “Paidèia”, “Nuova Tribuna Letteraria”, “Le Muse”, “Pomezia-Notizie”, “Sentieri Molisani”, “Veia gianca”. Nel corso della sua lunga militanza letteraria ha scritto numerose recensioni, prefazioni e presentazioni, oltre a saggi e articoli su Eugenio Montale, Camillo Sbarbaro, Giorgio Caproni, Giovanni Descalzo, Umberto Saba, Giovanni Giudici, Giovanni Pascoli, Antonia Pozzi, etc. Mentre della sua poesia si sono occupati, oltre ai prefatori (Diego Valeri, Giorgio Bárberi Squarotti, Sandro GrosPietro, Graziella Corsinovi), molti altri critici e poeti, tra i quali Neuro Bonifazi, Francesco Fiumara, Giovanni Cristini, Liana De Luca, Paolo Ruffilli, Rodolfo Tommasi, Elio Andriuoli, Rosa Elisa Giangoia, Piera Bruno, Domenico Defelice, Roberto Carifi, Fabio Simonelli, Guido Zavanone, Liliana Porro Andriuoli, Silvano Demarchi, Viviane Ciampi, Francesco De Napoli, Pasquale Matrone, Claudia Manuela Turco, Francesco Graziano, Fulvio Castellani, Lia Bronzi, Mauro Decastelli, Elvira Landò Gazzolo, Danila Boggiano, Angelo Manuali, Tito Cauchi. “Nell’uso di un linguaggio tanto cristallino quanto rigoroso per il rispetto della forma e dei contenuti - scrive la Giuria del Premio “I Murazzi” -, Luigi De Rosa mette a fuoco il dramma del poeta moderno che ha acquisito la coscienza storica dell’inadeguatezza della parola letteraria a raccontare il movimento e la densità del mondo reale, ma che tuttavia non abdica al suo ruolo di anima sensibile e vigile della storia degli uomini e dei suoi drammatici eventi personali e collettivi”. ** AA. VV. - L’autodidatta. Rassegna Poesia Contemporanea XXII Edizione Artecultura 2005 Milano - Presentazione (“Non esiste diritto umano senza risparmio”) di Giuseppe Martucci; in copertina, a colori: “Imput visivi” (tecnica mista - acrilici, 2005) di Fulpor - Fulvio Porcaro - Edizioni Artecultura 2005 - Pagg. 178, s. i. p.. Sono presenti: Giovanni Abbruzzese, Isabella Michela Affinito, Adriano Arlenghi, Dante Bambozzi, Augusta Bariona, Maresa Baur, Maurizio Barello, Vera Benelli, Marta Bercelli Brischetto, Bruno Alessandro Bertini, Tiziano Bertrand, Elena Betta, Ermanno Bighiani, Carlo Blagho, Ermanno Boffi, Fulvio Bonacina, Rina Eugenia Bonanomi, Pier Luigi Bonizzi, Maria Rosa Borgatti, Anna Maria Teresa Borrelli, Dario Borsotti, Ivana Bristot Martinenghi, Marzia Braglia, Giuseppe Busia, Luisella Caielli, Fabio Campadelli, Marisa Canetti, Maddalena Capalbi, Franca Carella, Luciana Carmello, Filippo Carmeni, Dario Carrera, Domenico Cassano, Tito
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Cauchi, Rosita Cecchettelli, Maria Chimenti Arena, Angelo Ciucci, Gabriella Colletti, Mario Conforti, Antonio Conserva, Luisa Cozzi, Valentina Danielis, Raffaele De Prisco, Patrizia De Ros, Calogero Di Giuseppe, Giuseppe Di Giulio, Domenico De Salvatore, Marco Ernst, Salvatore Errati, Diego Fantin, Mario Ferrario, Giampiero Folco, Sabrina Forni, Emilio Franchini, Tiziano Maria Galli, Giuseppe Gambini, Elda Maria Garatti, Maria Gattulli, Daniela Ghinassi, Eva Ester Giovannini, Piera Giudici, Luigi Giurdanella, Sergio Gradin, Grazia Greco, Bruna Gruppi, Paolo Guerriero, Marisa Guttoriello, Vincenzo C. Ingrascì, Giovanna La Donna, Marinella Lamarca, Luciana Leone, Maria Assunta Leone, Leonarda Letterato, Dora Liguori, Manuelita Lupo, Sebastiano Maccarrone, Maria Elena Malfitano, Romilda Malinverno, Andreetta Manara, Luigi Gaspare Marcone, Maria Giuseppina Margherita, Liliana Marioni Boggio, Licia Massella, Stefania Minotto, Dina Molteni, Alma Montesano, Anna Laura Monzi, Margherita Motta, Massimo Muti, Veronica Murrau, Ottavio Negri, Pietro Nigro, Katia Olivieri, Sergio Osimani, Antonietta Pacella, Elvira Pacenza, Rosalia Pandolfo Bianchi, Caterina Parisi Mehr, Umberto Petraroli, Gianfranco Pignaton, Anna Maria Piria, Anna Podda, Fulvio Porcaro, Domenico Porco, Simone Ravanini, Luciana Francesca Rebonato, Ermanna Rendi, Anna Ricucci, Lidia Riera Panico, Salvatore Rizzi, Luca Rodilosso, Andrea Rossi, Anita Rota, Caterina Rovatti, Giuseppe Sabino, Fausta Salati, Graziella Salterini, Pietro Salvini, Giuseppe Sansone, Antonio Saracino, Paola Sarasso, Ines Savoca, Luca Sergio, Ambrogina Sirtori, Zina Smerzy, Maria Luisa Castioni Sordi, Walter Storri, Laura Strani, Giuseppe Talarico, Franca Trevisi, Dora Vardaci, Rudi Veronese, Rosario Vesco, Giambattista Vignato, Daniela Zanutel, Giovanna Zappalà, Rosa Zappia, Maurizio Zorzetto, Antonio Zumpano. Autori dal Carcere San Vittore di Milano: Gianluca Berti, Ugo Lattes, Carmelo Lo Conte, Issa M’Bengme, Enzo Martino, Eros Monterosso, Andrade Silva Valdimar, Fausto Dario Valentini, Giovanni Vitali. Dall’Ucraina: Ivan Burmej, Oles, Lupij, Vasyl Riabyj, Ludmyla Rzehak, Mykola Zaruba, Ivan Trush. Le scuole: Classe III scuola elementare statale Villa Sanguineti di Rivarolo Genova, insegnate Cinzia Gugliotta (Simone Bruzzese, Michele Chiappardi, Stefano Gaezza, Emanuela Govi, Erica Ducoli, Francesca Lesino, Riccardo Luciano, Gaia Morabito, Elena Medicina, Giulia Moscamora, Chiara Olmo, Giulio Napoli, Roberto Verallo, Marta Totani, Rita Ubaldini) - Classe IV A scuola elementare statale Tommaso Grossi di Milano, insegnante Daniela Zanutel (Daniela Amendolea, Daniela Cani, Gianna Lucia
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Castillo Roca, Amira Di Rocco (detta “Bimba”) Angelo Di Rocco Di Guglielmo Roberto, Angelo Di Rocco, Roberto Di Guglielmo, Jeric Justin Endaya, Ilham Et Tovizi, Angelo Ferri Celli, Simone Giarratana, Giuseppe Minino, Wafa Moez, Denise Sabino, Jonathan Tilaye, Mirko Torre, Mithila Warnakulasurija). ** PANTALEO MASTRODONATO - Cavalcata al Symposium - Cenacolo Symposiaco, edizioni Symposiacus, 2016 - Pagg. 200, L. 2.500. Pantaleo MASTRODONATO ha studiato in molte città italiane ed estere. Compiuti i suoi studi in Linguistica e Filosofia classica presso l’ Università di Montpellier, ha in atto dei lavori di studi e ricerche presso la stessa. La sua insaziabile sete di verità e di giustizia lo condusse nel 1972 ad una profonda crisi religiosa, propugnando da allora in poi i valori di un cristianesimo genuino scaturito da un sistematico approfondimento biblico per una imparziale valutazione dell’epoca presente. Dirige la rivista “Il Symposiacus”. Tra gli ultimi suoi lavori ricordiamo “Leucotea (Mimologia)” (2014), “Enciclopedia Palatina” (antologia, 2014), “La force du divin dans le monde” (2014). ** AURORA DE LUCA - Aspra terra e creazione fertile nell’opera di Domenico Defelice - In copertina, a colori, “La casa sulla collina”, biro e pastello (1980) di Domenico Defelice - Edizioni EVA, 2016 - Pagg. 152, € 10,00. Il presente volume è frutto della tesi di laurea in Letteratura italiana, anno accademico 2014/2015 - Aurora DE LUCA è nata nel 1990. Risiede a Rocca Di Papa. Dopo la maturità classica è trascorso un periodo di ricerca personale, avendo frequentato la facoltà di Giurisprudenza, per poi approdare alla facoltà di Lettere. Nella sua vita si è sempre dedicata allo sport, praticando nuoto agonistico fino a divenirne a sua volta istruttrice. Inizia presto a scrivere. Nel 2004 partecipa ai suoi primi concorsi letterari, ricevendo ottimi risultati ed interessanti motivazioni nelle sezioni studenti e dei giovani, con poesie singole. Molti sono stati i premi e i riconoscimenti ricevuti, la maggior parte delle poesie vincitrici è stata edita nelle antologie dei vari premi, il primo “Marengo d’oro” a Genova, “Publio Virgilio Marone” a Roma, “Agostino Venanzio Reali” a Cesena, “Marillianum” a Napoli, “Città di Forlì” come il più giovane valido concorrente e “Città di Mesagne” Puglia, a Mattinata “Santa Maria della Luce” e con il “Convivio” ai Giardini di Naxos in Sicilia, “Luigi De Liegro” Roma, “Akery” ad Acerra come premio assoluto giovani, con il “Parco dei Castelli Romani” e tanti altri premi grazie ai quali ha avuto
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l’occasione di viaggiare su tutto il territorio nazionale. In seguito, nel 2006, si avvicina alla sezione narrativa giovani, guadagnando anche in questo ambito l’attenzione delle giurie con premi e attestati. Nel 2007 compone la prima silloge poetica “Indice di idee al caleidoscopio” partecipando al premio “Città di Pomezia” e ottenendo un buon piazzamento, pubblicherà a gennaio 2008 nei Quaderni letterari “Il Croco” supplemento alla rivista, con un grande successo di critica. Si sono interessati infatti molti scrittori, con recensioni edite sulla rivista “Pomezia-Notizie” diretta da Domenico Defelice, con la quale collabora assiduamente. Nell’ aprile 2010 pubblica sempre su “Il Croco” anche la sua seconda silloge “Questi occhi miei” e la terza “Il tuo colore mare blu” nel 2011. Nel 2012 esce “Sotto ogni cielo”, nel 2013 “Primizie” e, nel 2014, “Materia grezza” e un altro Quaderno Il Croco: “Cellulosa”. E’ presente, con un’opera poetica, nell’antologia “Le altre forme delle donne”, curata dalla scrittrice Anna Bruno, edita nel febbraio 2009 da Albusedizioni. Scrive e collabora anche con la rivista letteraria “Il Convivio” di Castiglione di Sicilia (CT), diretta dal professore Angelo Manitta e dalla scrittrice Enza Conti e con “Vernice” di Torino, portata avanti da Sandro Gros-Pietro. Affascinata da tutto ciò che è arte, nel tempo libero le piace creare, disegnare, dipingere e non ultimo leggere. “Sotto ogni cielo” è stato presentato, il 15 dicembre 2012, nell’Aula Consiliare del Comune di Rocca Di Papa, alle ore 16,30 dal critico d’arte, poeta e scrittore Franco Campegiani, col l’intervento della professoressa Carla Giorgetti, moderatore Valeria Quintiliani, attrice Ilaria Tucci. Presenti, oltre a un qualificato pubblico, il sindaco Pasquale Boccia ed il presidente della Pro-Loco. Ma anche gli altri suoi lavori hanno avuto, qua e là, varie presentazioni.
TRA LE RIVISTE IL GIORNALINO LETTERARIO - Organo dell’ Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori (A.L.I.A.S.), a cura di Giovanna Li Volti Guzzardi e Daniel D’Appio - 29 Ridley Avenue, Avondale Heights 3034, Melbourne - Victoria - Australia E-mail: alias@alias.org.au http://www.alias.org.au Riceviamo il numero di maggio 2016 (in pratica, il numero 2), ricco di poesie, di prose, di foto a colori, di notizie; si presenta così bello e simpatico, da non fare rimpiangere l’Antologia che annualmente ormai pubblicava questa benemerita Associazione, che da sempre ha difeso e divulgato la nostra lingua
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e la nostra cultura in Australia, il cui emblema è l’ immagine di questo estremo e bel continente con sovrapposta l’immagine del nostro altrettanto bello e vecchio stivale. Tra le tante firme presenti, evidenziamo quella del vero motore di tutto: Giovanna Li Volti Guzzardi, e poi di Daniel D’Appio, Biagio Presti, Emilia Squillace Chiodo, Vito Bufalino, Vincenzo Salemi, Teodino Ottavi, Anna Trombelli Acquaro, Carmela Sacco Perri, Mimma Strangis, Carmela Rio, Victoria Briguglio, Rina Rossi, Maria Raffaella Agricola, Angelo Mario Cianfrone, Nenè Amato, Maria Coreno, Marcherita Princi, Sandra Zampini Zanta, Nilla Cosma, Vittorio Di Sandomingo, Nicodemo La Rosa, Giovanni Belanti, Mariano Coreno, Connie Rossitto, Paolo Mazzarella, Maria Turano Aprile, Carmelina Blancato Pelligra, Salvatore (Sam) Mugavero, Carmela Rio, Giovanni Composto, Nilla Cosma, Angelo Manitta, Antonio Angelone e Giuseppe Barra.
LETTERE IN REDAZIONE (Ilia Pedrina) Carissimi Amici, che intorno al nostro Direttore vi accingete a fremere sempre di passioni e d'immagini, di poesie e di riflessioni, di giudizi e di rispecchiamenti, nella fervida attesa di veder pubblicati i vostri lavori, sempre circostanziati e di pregevole livello, lasciatemi fare l'elogio del 'Domenicale', con 'ilSole24Ore' della domenica ed in particolare del numero uscito il 22 giugno 2016. Mentre Vicenza è in preda ad una originalissima fascinazione, il 'MuVi, Musica Vicenza tra corti e palazzi', ideata e portata a compimento da Sonig Tchakerian e dai suoi fedelissimi, come Pietro Tònolo, Paolo Birro ed altri ancora, per aprire la XXV edizione de 'Le Settimane Musicali al Teatro Olimpico, io mi siedo al Caffé dell'Opera, sotto un antico portico e con splendidi scorci su Palazzo Chiericati, Piazza Matteotti e le mura del giardino interno del Teatro Olimpico. Questa iniziativa vede aperti alla musica prestigiosi palazzi del Centro Storico, per la durata di tutto il pome-
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riggio fino a sera inoltrata: il Colonnato di Palazzo Chiericati, la Loggia del Capitaniato, il cortile di Palazzo Trissino, l'Odeo del Teatro Olimpico ed il pubblico può partecipare liberamente, sia di passaggio sia come in piacevole sosta, quella che fonde tra loro suoni d'arte e di vita quotidiana. Mi metto a leggere il piccolo libro allegato 'Racconti di Odessa' di Isaak Babel e l'interesse per questa scrittura dettagliata, ironica, con tratti di spietata precisione circa i comportamenti del Re e degli altri protagonisti del Ghetto della Moldavanka mi prende dentro un vortice di immagini, profumi, sapori, vociare grasso e progetti esplosivi, fin dalle prime pagine. Isaak Emmanuilovic Babel è ebreo e nasce ad Odessa il 30 giugno del 1894, nel quartiere della Moldavanka è assai intelligente ma per causa dei pogrom è costretto al percorso da autodidatta, ama la letteratura, il teatro, il giornalismo, morirà dopo torture durante gli interrogatori per volere di Stalin, che ha firmato la sua condanna, perché Beria l'aveva accusato di essere spia e traditore, di non stare dalla parte della classe lavoratrice, di elogiare il banditismo in modo naturalistico e romantico. Nel retro di copertina una sua riflessione: 'Di tutta la famiglia restavamo soltanto lo zio Shimon, pazzo, che abitava ad Odessa, mio padre e io. Ma mio padre era fiducioso verso le persone, le feriva con l'entusiasmo del primo amore, le persone non glielo perdonavano e lo imbrogliavano.' E poi ancora, nel breve profilo biografico: 'Il 15 maggio 1939 in seguito all'accusa di attività antisovietica cospiratoria terroristica e spionaggio, subisce l'arresto e la confisca di numerosi manoscritti, andati perduti per sempre...Babel viene condannato a morte e fucilato il 27 gennaio 1940...' (retro di copertina della serie 'Racconti d'Autore', Isaak Babel, Racconti di Odessa, Il Sole 24 Ore, domenica 22 maggio 2016) La lettura di questa sua incredibile testimonianza mi ha accompagnato per oltre due ore, mentre nell'aria musiche Jazz ed altri intrecci di note si inserivano nel variato cinguettio
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delle rondini, con nido e piccoli tra le basse travi del portico. Chi vuole capire dall'interno come farsi strada nel groviglio aspro di decisioni violente e poco pulite, basta che segua le tappe del successo di Benja Grid, il Re dei re, il capo scelto per l'eccellente modo di far violenza allo scopo di far rispettare gerarchia e dignità del sangue. Cito: '... Un altro come Benja il Re non esiste. Distruggendo la menzogna, cerca la giustizia, quella giustizia tra virgolette e quella senza virgolette. Ma tutti gli altri rimangono impassibili come gelatina, non amano cercare, e non cercheranno, e questo è ancora peggio...' (I. Babel, op. cit. pag. 68). Nel volume I dell'Appendice dell' Enciclopedia Treccani Babel è inserito a pagina 232: qualche riga per dire che è scrittore russo sovietico, che dal 1917 al 1924 è stato soldato sul fronte romeno e che la sua prima fama, rapida assai è dovuta a questa esperienza di vita militare, trasfusa in racconti pubblicati in Italia nel 1932, con il titolo 'L'armata a cavallo', a cura di R. Poggioli, a Torino. Dei 'Racconti di Odessa' l'ignoto compilatore del profilo sostiene che si tratta di quadri realistici colti dalla vita quotidiana del quartiere ebraico della Moldavanka, facendo in modo tale però da associare al realismo della descrizione anche quello della conversazione dialettale, il tutto condito con elementi epici e lirici. Non c'è scritto come e perché è morto, ma era amico di Majakovsky e merita anche lui un posto tra il 'Canto Sospeso' e i 'Cori di Didone' di Luigi Nono. È chiaro allora: ringrazio in cuor mio ed ora pubblicamente, su queste pagine di Pomezia Notizie il direttore del 'Domenicale' Roberto Napoletano, perché con l'aggiunta di 0,50 centesimi al prezzo del quotidiano mi sto inoltrando in un mondo mai prima esplorato, quello della malavita del Ghetto di Odessa e delle sue ferree regole d'oro per mantenere alto il livello della dignità, della famiglia come del sangue. Dalle ore 14 alle 17 interrompo la lettura per recarmi all'Odeo del Teatro Olimpico. Assisto così alla prova pubblica della 'Petite Messe Solennelle (1863)' di G. Rossini, nella versione originale per 12 voci soliste, e guida tutti,
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pianista ed 'harmoniumista' compresi, il direttore Giovanni Battista Rigon. Nell'esecuzione ufficiale ci sarà anche il secondo pianoforte. Non conosco bene questo lavoro di Rossini ma so per certo che il direttore è un rossiniano, ricercatore scrupoloso ed accuratissimo, profondo nell'interpretare lo spirito di questa particolare produzione parigina del Nostro. Prendo appunti a matita sul librettino di Babel, in tutte le pagine vuote, senza sosta, affascinata dall'incedere dei brani verso la glorificazione dell'Altissimo, dal Kyrie al finale Agnus Dei, per contralto e coro: in questa formazione i solisti fanno parte del coro e se ne sciolgono per far emergere zone calde ed emotivamente spiritualissime della partitura. Mi accorgo subito che il sacro ed il profano qui sono sapientemente calibrati, proprio perché Rossini aveva ben capito che abbiamo solo questo corpo e questa vita per entrare nello spazio dell'anima e cantarne gli accenti in fervore. Esco da questa esperienza come calamitata verso l'altrove, verso un bisogno segreto, interno e non cancellabile, di leggere la partitura. L'indomani andrò di filato da Roberto, della Diesse Copy, che conosce bene la nostra Rivista perché me ne fa copie su copie, quando mi servono, e lui mi stamperà questo miracolo, disponibile gratuitamente per tutti in rete. Rossini ha interrotto la sua splendida carriera per dedicarsi alle composizioni per pianoforte, da camera, per sale riservate ad ascoltatori attenti, che sappiano capire: la 'Petite Messe Solennelle' è, come dice lui, il suo ultimo peccato della vecchiaia. Al pomeriggio di questa giornata, lunedì 23 giugno, sosto con Humbert, l'Adameva tedesco, presso il ristorante 'La Beccaccia', per un caffè. Parlo di Isaak Babel e di Odessa e loro, i giovani Misha e Gregorio Capnist, di antica origine greco-caucasica, titolari dell'esercizio aperto di recente, mi raccontano che questa città sul Mar Nero è veramente bellissima, vi sono stati qualche anno fa e mi diranno ancora e ancora, perché volevano comprare uno stupendo albergo d'epoca proprio nei 'Passagen', di fronte alla Baia del Porto sul Mar Nero. Aggiungono al caffè il 'Mezzo e mezzo',
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un aperitivo della Nardini e dei biscotti fatti a mano da Fatima, dolce marocchina da anni in Italia con la sua famiglia. Misha dice, dopo che ho sottolineato la fragranza di questo pasticcino, al sapore di sesamo ed arachidi, introvabile altrove: '...Lo chiameremo 'Sheherazade', come la bellissima fanciulla delle Mille e una notte...' Carissimi, da queste poche tracce ognuno prenda il percorso che desidera e si metta in cammino, tra le tragedie dell'oggi ed i resoconti storico-letterari, appassionati e veritieri di qualche tempo fa, perché la tensione del sapere e del governare gli affanni grazie a quel distacco che la scrittura sempre richiede, possa portare fino ai confini e ben dentro ai territori umanissimi, quali quelli della Bellezza e dell'Armonia, là dove la natura ci ha posti. Un abbraccio devoto a tutti voi ed a te, carissimo Direttore, la mia riconoscenza piena. Ilia
Qui sotto: Domenico Defelice - Crotone, Portico Lara (Acquerello, 1961).
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