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Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale 70% - DCB - ROMA Anno 24 (Nuova Serie) – n. 8 - Agosto 2016 € 5,00

LA LEGGEREZZA E PETRARCA di Emerico Giachery

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O sempre amato la leggerezza: naturalmente nel senso di levità (la levità dello shakespeariano Ariele), non nel senso di frivolezza, di mancanza di serietà o di costanza. Il mio primo e unico testo narrativo a stampa, scritto quando avevo vent’anni, cominciava con la storiella surreale di un personaggio che «si alleggeriva sempre più e sembrava ogni giorno più libero dal suo peso corporeo». Alla fine del raccontino, lo strano e un po’ misterioso protagonista «diveniva ogni giorno più leggero. Ogni giorno più libero dalle severe leggi di gravità. Uscendosene di chiesa, dopo Messa, saltava l’intera gradinata d’un sol balzo, atterrando agilmente sul sagrato, come una colomba». Per scomparire un giorno all’improvviso, forse sollevatosi negli spazi celesti. D’altronde chi non ha sognato, da bambino, di potersi sollevare da terra a volontà? Con una predilezione, come questa, mi sento motivato a dire qualcosa sul tema della leggerezza. Nelle postume e giustamente celebri Lezioni americane di fine millennio Italo Calvino offriva al millennio avvenire, come primo dono-auspicio, la leggerezza, antidoto «contro la pesantezza, l’inerzia, l’opacità del mondo». Nella sua attività di narratore, Calvino afferma di aver «cercato di togliere peso ora alle figure, ora ai corpi celesti, ora alle città», e soprattutto «di →


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All’interno: Erri De Luca e Il peso della farfalla, di Claudia Trimarchi, pag. 5 Francesco Pedrina, Federico De Maria, il Realismo Lirico, di Ilia Pedrina, pag. 10 XXVI Edizione Premio Città di Pomezia 2016 (risultati e materiali di: Antonia Izzi Rufo, Lina D’Incecco, Pasquale Montalto, Claudio Carbone, Giovanna Li Volti Guzzardi, Santo Consoli, Isabella Michela Affinito, Daniele Boganini, Giuseppe Cosentino, Océliane, Maria Assunta Oddi, Adriana Mondo, Gennaro Petricciuolo, Mariagina Bonciani, Filomena Iovinella, Antonio Visconte, Andrea Masotti, Marina Ristè, Elisabetta Di Iaconi), pagg. 15 - 29 Incontro con l’Autore: Fabio Dainotti, di Virginia Corvino, pag. 30 Sonig Tchakerian tra musiche e danze, di Ilia Pedrina, pag. 35 Nazario Pardini e la sua Lèucade, di Maria Grazia Ferraris, pag. 38 Un libro di Osvaldo Marrocco, di Luigi De Rosa, pag. 40 Illuminazioni di A. Rimbaud, Leggende, La mia passeggiata, di Antonia Izzi Rufo, pag. 41 Alfonso Gatto, l’uomo, il poeta, di Elio Andriuoli, pag. 45 Claudia Trimarchi e la funzione catartica in Defelice, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 47 La poesia di Viviane Ciampi, di Luigi De Rosa, pag. 50 Paolo Mantegazza, di Leonardo Selvaggi, pag. 51 I Poeti e la Natura (Gabriele D’Annunzio), di Luigi De Rosa, pag. 57 Notizie, pag. 71 Libri ricevuti, pag. 74 Tra le riviste, pag. 75

RECENSIONI di/per: Marina Caracciolo (Trasparenze, di Ines Betta Montanelli, pag. 59); Roberta Colazingari (La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice, di Claudia Trimarchi, pag. 60); Eugen Galasso (Echi e sussurri, di Giorgina Busca Gernetti, pag. 60); Filomena Iovinella (La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice, di Claudia Trimarchi, pag. 61); Giovanna Li Volti Guzzardi (La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice, di Claudia Trimarchi, pag. 62); Maria Antonietta Mòsele (Là, dove pioveva la manna, di Imperia Tognacci, pag. 63); Maria Antonietta Mòsele (D’in su la vetta della torre antica, di Giuseppe Leone, pag. 63); Maria Antonietta Mòsele (Ferrazzi e l’opera perduta di Pomezia 1938 - 41, di Daniela De Angelis, pag. 64); Maria Antonietta Mòsele (Nel tuo firmamento e Il tuo risveglio, di Santo Consoli, pag. 65); Susanna Pelizza (La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice, di Claudia Trimarchi, pag. 65); Liliana Porro Andriuoli (All’alba di un giorno qualunque, di Anna Gertrude Pessina, pag. 66).

Inoltre, poesie di: Maria Fausta Ascolillo, Mariagina Bonciani, Lorella Borgiani, Rocco Cambareri, Michele Di Candia, Béatrice Gaudy, Antonia Izzi Rufo, Leonardo Selvaggi

togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio». In certi momenti a Calvino «sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra». Ed era «come se nessuno potesse sfuggire allo sguardo inesorabile

della Medusa». E ancora: «Nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che vorrei volare come Perseo in un altro spazio». Perseo, naturalmen-


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te, contrapposto a Medusa che tramuta in pietra. L’aspirazione a volare «in un altro spazio», trattandosi di uno scrittore laico dalla testa ai piedi come Calvino, non la si può certo leggere come aspirazione a una realtà trascendente o ulteriore, al caelum novum intravisto nella visione messianica di Isaia, o a quello dell’Apocalisse. Lo scrittore indica come una sorta di emblema araldico o icona della leggerezza la figura di Guido Cavalcanti, che nella stupenda novella nona della sesta giornata del Decameron scavalca le arche di Santa Reparata «sì come colui che leggerissimo era», e si allontana dalla petulante brigata di messer Betto Brunelleschi, dicendo loro «onestamente villania» con la sibillina battuta: «Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace». Vale davvero la pena di rileggere la postilla di Calvino. «Se volessi scegliere un simbolo augurale per l’affacciarsi del nuovo millennio sceglierei questo: l’ agile salto improvviso del poeta filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d’automobili arrugginite». Cavalcanti esprime segni di leggerezza anche come poeta, con tutti i suoi «spiriti», con l’invito alla celebre sua ballata di andare «leggera e piana» sino all’amata, col suo incantarsi a contemplare la «bianca neve scender senza venti». Ma il poeta italiano esemplare per la leggerezza gli sembra Leopardi, il quale «nel suo ininterrotto ragionamento sull’ insostenibile peso del vivere, dà alla felicità irraggiungibile immagini di leggerezza: gli uccelli, una voce femminile che canta da una finestra, la trasparenza dell’aria, soprattutto la luna. La luna, appena s’affaccia nei versi dei poeti, ha avuto sempre il potere di comunicare una sensazione di levità, di sospensione, di silenzioso e calmo incantesimo». E aggiunge che «il miracolo di Leopardi è stato di togliere al linguaggio ogni

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peso fino a farlo assomigliare alla luce lunare». Tra gli autori ricordati da Calvino come esempi di leggerezza manca proprio quello di cui voglio qui sottolineare l’esemplarità: Petrarca. Presenze lessicali significative, nel Petrarca volgare, non ne mancano certo. Non soltanto inerenti al motivo della fugacità della vita (il tempo «veloce e leve», «quant’io vidi il Tempo andar leggiero», «i dì miei più leggier che nessun cervo / fuggir com’ombra»), ma anche per indicare, con suggestiva efficacia, l’impegno a liberarsi del fardello dei peccati per prepararsi al gran transito: «Bisogna ir lievi al periglioso varco». Ma è un fatto che la leggerezza è molto più che un semplice tema o motivo; è anche un nucleo di poetica, su cui si è fondata, tra l’altro, una proposta di lettura interpretativa. Mi riferisco allo articolo di un maestro che con dire sempre raccolto e discreto insegnò a leggere a un paio di generazioni, Giuseppe De Robertis. Si tratta di pagine apparse sulla «Voce» e intitolate Valore del Petrarca, che potrebbero risultare utili anche agli attori che si cimentano nella non facile impresa di leggere testi di Petrarca. In esse si sceglieva quasi come chiave di lettura per il Petrarca volgare il verso «Salendo quasi un pellegrino scarco». De Robertis invitava a leggere - a leggere «ascoltando», si potrebbe dire, quasi in una lettura affidata anche all’ orecchio bene intento - Petrarca, assaporando «quel parlato castissimo, mondo, quell’ assenza di peso che gravi». (Uno scrittore e lettore di non meno sottile orecchio, Antonio Baldini, sembra quasi fare eco, in tutt’altro contesto, a De Robertis: il Petrarca «s’è fatto proprio un dovere di togliere peso e densità alla parola in sé»; nella sua poesia «le parole sono trascelte per la loro levità»). Leggerezza non dissociabile da quell’ iniziale, significativo salire nel verso sopra ricordato «Salendo quasi un pellegrino scarco», che De Robertis sceglie come verso emblematico, e che ci riporta a un momento, a mio avviso, supremo e sintomatico della ricerca espressiva (ma anche al contempo spiritua-


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le) di Petrarca. Utilizzo qui il testo della recente edizione critica del Canzoniere a cura di Giuseppr Savoca: «Ma la forma miglior, che vive anchora / et vivrà sempre su nell’alto cielo / di sue bellezze ognor più m’innamora». «Volo con l’ali de’ pensieri al cielo». «I’ vo piangendo i miei passati tempi / i quai posi in amar cosa mortale, / senza levarmi a volo, abbiendo io l’ale». In quel ««senza levarmi a volo, abbiendo io l’ale» non si potrebbe leggere, in un «discorso secondo», oltre che l’esplicita allusione a un’esperienza esistenziale, anche il segno implicito, persino inconsapevole, dell’ aspirazione a un mutamento sul piano dell’ esperienza poetica? Se dovessi leggere ad alta voce (e quanto mi piacerebbe poter accludere a questo mio scritto una cassetta registrata per far sentire in modo concreto e udibile ciò che intendo!) il passo che ora citerò, metterei in rilievo la forza espressiva del significante, che indugia nell’enjambement (ossia inarcatura che prolunga il concetto espresso in un verso nella prima parte del verso seguente). E subito dopo, col frangere il fraseggio in un polisindeto (ossia ripetizione della particella copulativa per unire più termini) di nuclei grevi come pietre, sottolinea, in perfetta sintonia col significato, il motivo del peso; e poi si impenna nello slancio ascensionale del volo. Affido questo momento davvero memorabile del sonetto CCCXLIX del Canzoniere alla «esecuzione interiore» di ciascuno dei miei lettori: «O felice quel dì che, del terreno / carcere uscendo, lasci rotta et sparta / questa mia grave et frale et mortal gonna // et da sì folte tenebre mi parta / volando tanto su nel bel sereno, / ch’i’ veggia il mio Signore et la mia donna» (forse dalla memoria inconscia di Petrarca non era assente il detto di Beatrice in Purgatorio XXXI, 50-51, «le belle membra in ch’io / rinchiusa fui, e che so’ ’n terra sparte»). La parola, librandosi, si è trascesa, ha spiccato il volo. Le due terzine finali ne traducono splendidamente l’ascesa. Penso ora all’attacco di un altro testo supremo, il sonetto CCCII: «Levommi il mio

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pensier in parte ov’era / Quella ch’io cerco e non ritrovo in terra». Non posso non notare la forza significante di quel Levommi in così risentita posizione iniziale. Compio (lo so bene) una forzatura interpretativa, che va letta però soltanto in chiave di metafora. Laura in cielo, cercata e non ritrovata in terra, come è fissato in un verso indimenticabile (“Quella ch’io cerco, et non ritrovo in terra”) è una dimensione dell’Oltre verso cui tende non l’anima soltanto, ma la stessa parola, che si protende per uscire da se stessa, per trascendersi, appunto. Ripeto, si tratta soltanto di una metafora, dell’ inconsapevole, involontaria metafora di un poeta che attraverso il senso di vuoto di un’assenza ontologica e la tensione a colmarla schiude nuovi orizzonti alla propria poesia. Emerico Giachery

Domenico Defelice: Castello (china, 1963) ↓


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ERRI DE LUCA E IL PESO DELLA FARFALLA di Claudia Trimarchi

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HE peso può avere una farfalla? Con il suo corpo longilineo e affusolato, da cui spuntano un paio d’ali leggere e finissime, trasparenti come carta velina se viste in controluce? Un peso minimo, infinitesimale, ai limiti dell’impercettibile vien da pensare. Secondo la teoria della relatività di Einstein l’incidenza del peso di un corpo è variabile per effetto dell’energia cinetica, cioè del movimento, e del campo gravitazionale, ovvero varia in relazione a fattori esterni alla materia stessa (si badi, non è il peso – qualità intrinseca della materia – a variare, ma l’ incidenza che esso ha su un altro corpo); ciò significa, in altre parole, che l’influenza esercitata su un oggetto da forze esterne, e quindi dal contesto spazio-temporale in cui esso è inserito, gioca un ruolo fondamentale nella percezione dell’oggetto stesso e della sua

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massa. Se estendiamo il concetto che ha aperto la strada ad una nuova concezione delle leggi fisiche che reggono l’universo al nostro modo di percepire la realtà e il vissuto personale, ci accorgiamo di quanto il “peso” che alcuni eventi hanno avuto o hanno nella nostra vita sia suscettibile di una molteplicità di sfumature che tengono conto dell’ambiente con cui interagiamo, del grado di sensibilità che ci è proprio, della nostra modalità di elaborazione cognitiva, della fase del ciclo esistenziale in cui ci troviamo. In quest’ottica tutto assume un valore relativo, condizionato, e non si fatica a comprendere l’autore quando scrive che “ci sono carezze che aggiunte sopra un carico lo fanno vacillare” (pag. 50); così, per il vecchio bracconiere di montagna, coprotagonista insieme al re dei camosci di questo avvincente racconto di Erri De Luca, il peso della farfalla, che andò a posarsi sul corno sinistro del camoscio ucciso e caricato sulle proprie spalle, “fu la piuma aggiunta al carico degli anni, quella che lo sfascia.” (pag. 59). È luogo comune ritenere che le farfalle siano portatrici di novelle; ciò potrebbe aver a che fare con la rappresentazione iconografica, sedimentata culturalmente nell’immaginario collettivo, della figura di Hermes con i calzari alati; fatto sta che, consciamente o meno, sospinto dal titolo del libro il lettore si addentra nella narrazione con l’attesa dell’incontro con la farfalla e la curiosità di conoscerne il messaggio. Quest’ultimo non tarda a rivelarsi: già dalle primissime pagine, dopo un duello atto a stabilire il maschio dominante del branco, “sul corno insanguinato del vincitore si posarono le farfalle bianche”; visivamente l’ immagine evocata è intensa: sinonimo di candore e purezza, il colore bianco delle ali delle farfalle contrasta fortemente con il rosso del sangue e l’asprezza dello scontro appena consumato: “In alto si ammucchiarono ali nere di cornacchie e gracchi. Sospese sulle correnti ascensionali guardarono il duello aperto a libro sotto di loro. Il giovane maschio solitario avanzò, batté zoccolo a terra e


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soffiò secco. Lo scontro fu violento e breve. Le corna dello sfidante si aprirono una breccia nella difesa e il corno sinistro agganciò il ventre dell’avversario. Lo squarciò con un chiasso di strappo e in alto strepitò il frastuono di ali. Gli uccelli proclamavano il vinto a loro destinato. Il camoscio sventrato fuggì perdendo viscere, inseguito. Le ali si tolsero dal cielo e scesero in terra a divorarle. La fuga del vinto si spezzò di netto, s’ impuntò e cadde sopra il fianco. Sul corno insanguinato del vincitore si posarono le farfalle bianche. Una di loro ci restò per sempre, per generazioni di farfalle, petalo a sbattere nel vento sopra il re dei camosci nelle stagioni da aprile a novembre.” (pag.11); l’impatto emotivo che suscitano verbi come “squarciare”, “strepitare”, “sventrare”, “divorare”, “spezzare”, contribuisce a rendere maggiormente la crudezza della scena e, al tempo stesso, amplifica l’asimmetria tra lo scontro cruento, a cui prendono parte “ali nere di cornacchie e gracchi”, e le ali bianche delle farfalle, come lembi di velluto leggero “a sbattere nel vento sopra il re dei camosci”, il quale, nella sua innocenza - non ha fatto altro che obbedire alle leggi della natura, all’istinto di sopravvivenza - ne sostiene tranquillamente il “peso”. Ma per l’uomo è diverso: la sua innocenza si misura in rapporto alla possibilità di scegliere; nel duello finale, differito negli anni, tra il camoscio e il cacciatore, “la bestia lo aveva risparmiato, lui no. (…) La più aspettata vittoria era gemella uguale di una sconfitta mai conosciuta prima.” (pag. 57). Ecco allora che il peso della farfalla bianca “gli era finito sopra il cuore, vuoto come un pugno chiuso.” (pag. 60): “Il re dei camosci era più in su di lui. Aveva nel naso l’odore dell’uomo e del suo olio disgustoso, da soffiare per non guastarsi l’aria. Era un giorno perfetto, di nitido confine tra un tempo scaduto e uno sconosciuto. La stanchezza del corpo si accoppiava al congedo della stagione buona. (…) Guardò in su per un saluto all’aria e si mosse in discesa. (…) Arrivò dieci metri sopra l’ uomo steso sotto di lui, con il fucile al fianco.

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(…) Il re respirò calmo tra collera e disgusto per l’assassino di sua madre e dei suoi. L’uomo sapeva prevedere, incrociare il futuro combinando i sensi con le ipotesi, il gioco preferito. Ma del presente l’uomo non capisce niente. Il presente era il re sopra di lui. L’ uomo era una schiena facile da calpestare. Saltandoci sopra lo poteva scaraventare in basso. Il re pesava quanto l’uomo, mai se n’era visto uno di taglia simile. Si alzò il ciuffo di schiena in segno di battaglia. Scosse il corno nell’aria per liberare la farfalla, picchiò l’unghia dello zoccolo sopra la roccia, rumore perché l’uomo si voltasse. Non lo voleva di schiena ma di fronte. L’uomo si girò a serpe verso il fucile in tempo per vedere il re dei camosci che gli veniva addosso a precipizio con due balzi in discesa. Era forza, furia e grazia scatenata. Uno strepito di grida e una folla di ali chiamò per la montagna. Gli zoccoli anteriori sfiorarono il collo dell’uomo, i posteriori fecero volare via il cappello. Il re gli era saltato addosso sfiorandolo senza un graffio, (…) gli aveva tolto il fiato e il sole, il tempo di sentirsi perduto e ritrovarsi illeso. (…) Scrosciavano piccole valanghe al seguito del re, uno strascico bianco. (…) Volò giù in picchiata verso il branco che aveva drizzato orecchie e musi. (…) Il re non li raggiunse. Si fermò all’improvviso, s’impennò sulle zampe davanti e tornò indietro. Scalò un sasso appuntito, piantato su uno sfasciume di rocce appese al vuoto. E restò lì. Era il giorno perfetto, non si sarebbe più battuto contro nessuno dei suoi figli e non doveva aspettare l’ inverno per morire. Aspettò lì fermo impettito la palla da undici grammi che gli passò dall’alto in basso il cuore. (…) L’uomo guardava, l’arma ancora in spalla, il corpo sui gomiti. Abbassò il fucile. La bestia lo aveva risparmiato, lui no. Niente aveva capito di quel presente che era già perduto. In quel punto finì anche per lui la caccia, non avrebbe più sparato ad altre bestie.(…) Disprezzò l’istinto che gli aveva allineato il tiro. Gli venne uno sputo in gola e un’acqua al naso, mentre gli occhi si erano appannati. Ladro di vita indomita, sovrana, lasciata incustodita


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sotto il sole dal padrone di tutto: a meno che la custodia non toccava proprio a lui che si faceva ladro. Toccava a lui difendere. Contò gli anelli delle corna, gli anni accumulati a cerchio. Valevano più dei suoi, aveva ucciso un vecchio. Una fitta alla spalla sinistra accusava il rinculo. Era in ginocchio sopra il re dei camosci che guardava lontano oltre di lui, occhi abituati al cielo. (…)” (pag. 54). Alla voce “bestia” il dizionario di lingua italiana Garzanti riporta: “ogni animale, in quanto non dotato di coscienza e ragione; si contrappone a essere umano, persona.” Nella sua narrazione Erri De Luca lo usa spesso, riferendosi talvolta all’animale (figura peraltro sovente umanizzata in questo racconto) talaltra all’uomo; ma se quando è riferito al primo il termine “bestia” non stride affatto - anzi, piuttosto che assumere una connotazione spregiativa (come, per estensione, il termine di fatto assume nell’uso comune che lo associa alla brutalità, alla ferocia) mantiene invece quel sapore autentico, quella neutralità intatta e quella dignitosa fierezza che appartengono al chiamare semplicemente le cose col proprio nome - quando è riferito all’uomo ha tutt’altro peso: “Bestia assassina l’uomo che abbatteva i figli del re dei camosci da lontano, bestia che brulicava a valle e faceva rumore di tuono quando era sereno. Bestia solitaria quella che saliva da loro per agguato, per portar via. Anche così i camosci lo preferiscono all’aquila, che arriva all’improvviso senza avviso di odore, in giorno di nuvole e di nebbia e spinge nel vuoto i piccoli per divorarli in basso sfracellati. Meglio l’uomo, che si fa sentire da lontano e che scaccia le aquile. Di lui i camosci si accorgono sempre. (…) A centinaia di metri di distanza sollevano il muso, tirano l’aria con una narice alla volta, una smorfia buffa che prendeva in giro: tana per il cacciatore.” (pag. 16; 20). La superiorità dell’animale rispetto all’ uomo fa continuamente capolino tra le pagine; ne è consapevole perfino il cacciatore che ne ammira la lealtà - “L’uomo aveva assistito a duelli di camosci di altri branchi. Ammirava la loro lealtà, mai due contro uno. Lui porta-

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va nel fianco il taglio di un coltello traditore, colpo sferrato da uno del mucchio che lo aveva aggredito. Gli uomini hanno inventato i minuziosi codici ma appena c’è occasione si azzannano senza legge.” (pag. 47) - e ammette “la spinta dell’invidia”: “aveva seguito cervi, caprioli, stambecchi, ma di più i camosci, le bestie più perfezionate alla corsa sopra i precipizi. In quella preferenza ammetteva la spinta dell’invidia. Si muoveva sulle pareti a quattro zampe senza un briciolo della loro grazia, senza il soprapensiero a testa alta del camoscio che lascia fare ai piedi. L’uomo poteva anche scalare difficoltà superiori, salire dritto dove loro aggirano, ma restava incapace della loro intesa con l’altezza. Loro ci vivevano dentro, lui era un ladro di passaggio. [si avverte qui un senso panico nei confronti della natura che appartiene certamente all’autore, il quale in “Visita a un albero”, una sorta di appendice al libro (pp. 61-70), narrando della sua personale esperienza di alpinista, scrive: “È l’abbraccio di cielo e di terra, si toccano le estremità opposte. È un abbraccio nuziale. Chi ci si trova chiede scusa di essersi intrufolato nell’intimità” (pag. 68); in fin dei conti, scrive ancora De Luca “l’uomo sulla montagna è una sillaba nel vocabolario.” (pag. 34)] Aveva visto i camosci saltare i precipizi in piena corsa, uno dietro l’altro eseguendo l’identica sequenza di passi nello slancio da una sponda all’altra. Il loro salto era un rammendo tra due bordi, un punto di sutura sopra il vuoto. C’entrava l’ invidia per la superiorità della bestia, da cacciatore ammetteva la bassezza che inventa l’ espediente, l’agguato da lontano.” D’ altronde, aggiunge l’autore, “Senza certezza di inferiorità manca la spinta a mettersi all’ altezza.” (pag. 22). Erri De Luca offre ai lettori spunti di riflessione che spaziano in molteplici direzioni e che trascendono il contesto specifico della storia narrata per assurgere a considerazioni di carattere universale e di più ampio respiro: sulla natura umana: “(…)La specie umana aveva liberato le mani, alzandosi sui piedi, ma aveva perso in velocità. Scalando ritor-


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nava alle quattro zampe, però da analfabeta (pag. 28). “(…) L’uomo passò duecento metri d’aria sotto il branco. Non poteva vederlo, molti salti di roccia più in su. Nessun senso gli dava la certezza che c’era. Sono scarsi i sensi in dotazione alla specie dell’uomo. Li migliora con il riassunto della intelligenza. Il cervello dell’uomo è ruminante, rimastica le informazioni dei sensi, le combina in probabilità. L’uomo così è capace di premeditare il tempo, progettarlo. È pure la sua dannazione, perché dà la certezza di morire. (…) L’ uomo non sopporta la fine, dopo averla saputa si distrae, spera di avere sbagliato previsione.” (pag. 25); sulla vecchiaia e sul senso del tempo: “Quel giorno di novembre era lucente, un giorno buono per chi è giovane e scintilla di energie. Di quelle [il vecchio bracconiere] ne ricordava il profumo di cuoio ingrassato e di prima neve. Ora rubava le energie all’aria, le assorbiva dal fuoco, le proteggeva dal vento. Era un pezzo di pane secco da strofinare all’aringa appesa al trave, per riavere sapore.(…) La fatica di abitare in cima al bosco è che il taglio va portato in su. (…) Quell’ottobre aveva fatto più viaggi per alleggerire il peso della schiena. L’ anno venturo pensava di cominciare già in settembre la provvista. I vecchi devono allungare i tempi di lavoro, mentre le giornate si accorciano insieme alle forze. Gli era venuto l’affanno in quel taglio di ottobre. Si stendeva spesso a guardare in su lo scompiglio infantile delle nuvole. Gli veniva il pensiero che la materia intorno era composta di vita precedente e scaduta. Nelle nuvole c’era il fiato umido delle bestie che aveva abbattuto e di antenati di uomini. Il suolo che lo reggeva era concimato con la loro polvere e la loro cenere. Quando un uomo si ferma a guardare le nuvole, vede scorrere il tempo oltre di lui, un vento che scavalca. Allora c’è da rimettersi in piedi e riacciuffarlo. Si rialzava al lavoro, ripuliva i tronchi dai rami laterali, lasciando il ciuffo di cima. (…) A casa col primo fuoco acceso riprendeva la forza e la pazienza di portare il giorno a finitura. La sera perfeziona l’opera grezza cominciata al ri-

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sveglio, a cielo ancora buio. La sera smussa, dà l’ultima mano di cartavetra fina al giorno fatto a mano.” (pag. 41). La narrazione procede per brani ricchissimi di metafore, alcune delle quali se fossero sequenze di un’opera musicale sarebbero equiparabili a veri e propri virtuosismi: “Gli zoccoli del camoscio sono le quattro dita del violinista. Vanno alla cieca e non sbagliano millimetro. Schizzano su strapiombi, giocolieri in salita, acrobati in discesa, sono artisti da circo per la platea delle montagne. Gli zoccoli del camoscio appigliano l’aria. Il callo a cuscinetto fa da silenziatore quando vuole, se no l’unghia divisa in due è nacchera da flamenco. Gli zoccoli del camoscio sono quattro assi in tasca a un baro. Con loro la gravità è una variante al tema, non una legge. (…) Il giorno di sole schietto asciugò presto la nebbia, un ruscello di luce infilava il branco da est che ci si abbeverava sollevando all’aria i musi.” (pag. 13). In un articolo apparso su Pomezia-Notizie (Aprile 2016, pag. 9) Ilia Pedrina scrive che offrendosi “con la semplicità che lo incarna da sempre (…) Erri De Luca va dentro nelle cose con tutto se stesso ed anima il mondo con il suo respiro: si porta addosso la poesia come una luce fatta di segni che danno immagini, fatta di energia che dà calore, fatta di vento che dà vita.” Più che il linguaggio infatti – che ha un non so che di ancestrale, casereccio, genuino, semplice, disadorno (nel senso buono del termine, cioè lontano da un registro ampolloso o retorico) - sono le immagini che esso evoca a trasudare di quell’ intensità e pienezza poetica che solo i veri artisti “si portano addosso” e che inevitabilmente si intrufola nel plot narrativo, ma con naturalezza, senza sfarzosità, senza intenti di sfoggio o forzature. Una poesia nuda, dimessa, che si esprime con spontaneità e leggerezza, scivolando giù – è il caso di dirlo - “senza fare rumore”: “(…) guardò la finestra dietro le spalle della donna. Una cannuccia d’acqua si buttava giù da una roccia lontana, una riga bianca su pagina nera, il suo rumore non arrivava a loro. La donna si voltò a guardare


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anche lei il punto fissato da lui. Così gli offrì la nuca, il panno di capelli sciolti caduti lisci sulla schiena saltando la curva del collo. Come il volo dell’acqua sulla roccia, venivano giù senza rumore.” (pag. 49). Claudia Trimarchi Erri De Luca, Il peso della farfalla, Feltrinelli Editore, Milano, 2010, (I ed. novembre 2009) pp. 70, € 7,50

IL MIO PAESE Ti porterò al mio paese, è sulla collina disteso, ha l’aspetto di una persona sdraiata in malinconia, adagiata sulle braccia sorrette. I giorni vanno con l’ultima punta di un filo raggomitolato, segnano il tracciato di tanto cammino. Ossificato il cranio, secco teschio si fa, che rotola e rimbalza staccato. C’è dentro un vuoto, pare una tana traforata, rintronano i rumori del mio paese. L’asino raglia legato al chiodo presso lo stipite della casa, i bambini in camiciola scalzi sul selciato con escrementi sulla pancia, gridi di donne in vesti nere. Quasi tutte in lutto tengono lungo sopra i ricordi dei morti, stinto il tessuto diventa marrone sotto il sole consumato. Odori di letame, porte aperte per dove entra l’aria bruciata, anche questa come persona accaldata va in cerca di ombre, s’infiltra dentro la fascia di frescura fino agli animali in fondo. Io sono appoggiato al muro di fronte bianco di intonaco rustico. Il caldo preme affossato in una solitudine densa, che attutisce le voci facendole lontane. Nell’evaporazione l’aridità ha divorato quello che sta intorno, quasi scarnificato sotto una massa di peso cammina. Una stanchezza nelle ossa rimaste scoperte sopra le pietre infuocate. Una spirituale aria al mio paese, nel silenzio delle persone che sono camaleonti luccicanti tra il bianco e l’azzurro attaccate alle pareti che non trasudano,

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il sudore asciugato nelle vesti acide. Io emanazione in distratta presenza trasognata, i visi intravisti si tengono in immagini diafane inquadrati nella mente. Al mio paese tutto è aperto come le corolle colorate; le membra hanno spaccature, si vede dentro tutto: passa dagli ocche ed esce fuori il fluido e il respiro dei pensieri; la purificata voce che risuona, gli occhi vanno da una parte all’altra, un diffuso richiamo per le strade. Le persone come le case che hanno le porte aperte. Il silenzio dilaga in tutti i vuoti e i vicoli stretti, si aggrappa ai muri, copre sagome che sono ombre allungate con lenti passi. Leonardo Selvaggi Torino

Volo verde Una ciliegia nel becco un verdone ad ale spiegate torna al suo nido mentre un congenere affamato si nutre sul ramo Al piede del grande ciliegio un merlo tentato li osserva vola via sotto i passi di un bambino Un pettirosso lascia vagare sui giaggioli il suo sguardo vivace Nel fondo del giardino sette gabbiani di un bianco quasi luminoso contemplano il panorama dal colmo del tetto di ardesia della cappella di quello che fu l’Ospizio degli Incurabili Poche strade più lontano delle pecore da Ouessant brucano la città Siamo a Parigi Béatrice Gaudy Francia

Dalla raccolta inedita Sous le vol du verdier.


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FRANCESCO PEDRINA SCRIVE A FEDERICO DE MARIA PER DIFENDERE IL REALISMO LIRICO di Ilia Pedrina

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EDERICO De Maria è poeta, scrittore, giornalista siciliano. Nato nella splendida Palermo il 15 aprile 1883, la sua figura è legata alla storia della letteratura e della poesia di Sicilia e d'Italia, ma anche a tanti ricordi della mia infanzia ed a tutte quelle lettere che arrivavano al Pedrina da Palermo, con mittente Federico De Maria. Importante è stata dunque la serie di contatti personali a partire dal 2012-2013 con i responsabili dell'Archivio storico della biblioteca civica di Palermo ed in particolare con la dott. Rosalba Guarneri, che mi ha consentito di ottenere in fotocopia il materiale depositato nel vastissimo e prezioso fondo De Maria e relativo alle lettere, cartoline, telegrammi del Pedrina al De Maria, dal 1951 al 1954, insieme ad altro importante materiale dei Realisti Lirici del Belgio con lettere e testi di Maurice Carême, Edmond Vandercammen, Geo Libbrecht.

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Entro nel vivo del dettato critico-estetico e biografico del De Maria fatto dal Pedrina nel suo testo 'Il Poeta Precursore'. “Come siciliano, Federico de Maria è un portento. Per incominciare, in gioventù deve essere stato biondo (un Lyon appassionato e romantico) e ancor oggi ha occhi chiari a seconda dell'ora, del luogo, della momentanea euforia o fisica o sentimentale. Poi delle glorie isolane non riconosce e non inchina che le secolari e lontane. Per i contemporanei, benché già legato d'amicizia con Borgese e Pirandello ai tempi della goliardia spavalda, non ha particolari culti e quanto al Rapisardi suscitatore tra i conterranei di non ancor sopiti entusiasmi, si dolse in cuor suo, sinceramente, di vederlo anfanare per stringer nei suoi poemi cielo e terra, uomini e dei, ere passate e future, quando avrebbe dovuto confortare col buon volere e non deviare a pretese messianiche l' indubbio afflato lirico che è nelle giovanili Ricordanze e che riaffiora potente nelle tarde Poesie religiose e nell'Empedocle. Ma dalla Sicilia, non ancora ventenne, anzi appena uscito di puerizia, Federico De Maria allargò lo sguardo a tutta Italia, e plaudì solo in parte ad Enotrio, e non tubò con Giovannino e non s'imparadisò con Gabriele. Egli parve consumare in sé l'esperienza di tutti costoro e già a sedici anni, prima che uscissero le Laudi dannunziane, dava uno spontaneissimo e ancor oggi mirabile esempio di verso libero nel Canto dell'usignolo (1901). Tutti, chi più chi meno, incominciano imitatori: perfino i grandi. Tra i moderni, il Carducci si vantò scudiero dei classici, Pascoli e D'Annunzio mossero dapprima sulle orme carducciane: De Maria, questo illustre ignoto per quarant'anni agli stessi compilatori di storie letterarie (e chi scrive fu, almeno per vent'anni, della schiera), fa un sol fascio di tutti, brucia le tappe e precorre nettamente il Marinetti - il grande usurpatore - nell'auspicare una nuova poesia consona al dinamismo della vita moderna. La Fronda, la rivista nata sotto il segno di Federico De Maria, uscì a Palermo nel 1905; il Manifesto del Futurismo a Parigi nel 1909. Nel primo numero de La Fronda si legge fra l'altro: “Da un pezzo suoniamo l'organino. Il bagaglio della poesia è sempre la chincaglieria vecchia di venticinque secoli che ogni tanto qualcuno è riuscito a spolverare e a ritingere... Possibile che i poeti d'Italia e di tutta la latinità ora non siano buoni che a frugare, rimestando, tra le morte ceneri della tradizione? Siano allora buttate a mare queste tradizioni e queste glorie del passato, quando non servono che a incepparci invece che esserci fari in un libero cammino, o diamo meglio uno sgambetto a tutti coloro i quali sanno metterci innanzi agli occhi il pas-


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sato, il passato, quest'eterno passato!”...” (Fonte

internet: F. Pedrina, Il poeta precursore, disponibile in pdf.). L'analisi del Pedrina continua in modo attento e circostanziato e la sua ricerca criticoestetica viene suddivisa nelle sezioni qui di seguito elencate: De Maria e Marinetti (qui riportata al completo); Le tendenze passatiste, presentiste, avveniriste, Bisogno di arte che rispecchi la vita; Le nozze d'oro con la Musa; “L'uomo che salì al cielo”; Dalle “Canzoni rosse” a “Incantesimo del fuoco”; Il “Giobbe”; 'Alla maniera di Federico De Maria'; Il primo ed il secondo De Maria; L'ultimo De Maria; Il suo estro drammatico; L'ora del divino possesso; De Maria: un nobile atleta dal largo petto; De Maria romanziere “La vita al vento”; “Santa Maria della Spina”; Lo scanno di De Maria. Di questa ultima sezione del lavoro del Pedrina trascrivo due note importanti, perché dettagliano il momento storico nel quale gli Autori si trovano a vivere, nell'agire come nel pensare e nel fare arte: la prima (1) 'Il De Maria fu, è evidente, buon profeta anche nel campo politico e sociale: pochi anni dopo crollava l'impero ottomano, seguito da

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quello Austro-Ungarico, dal Germanico e dal Russo' rinforza e spiega il testo demariano del 1907 apparso sulla rivista La Fronda, da lui ideata, che registra il momento storico della dissoluzione e della rielaborazione“...L'antico uomo si dissolve, si dissolvono le antiche società. Tutto ciò che fu cerchio chiuso, piccolo aggregato, si sfascia, si sfasciano le nazioni e gli stati; pochi decenni ancora, forse, e assisteremo allo sfasciamento di potenze fondate su vecchi ordinamenti che sembrano oggi di bronzo...”; la seconda (2), che riporto in tratti di sintesi, è riferita al contesto del romanzo 'La vita al vento' ed al suo protagonista Bruno Soveria, appassionato e romantico hidalgo di Sicilia esperto d'arte amatoria e sicuro di sé nella tenzone politica, spiccati tratti del suo ideatore: “Anche qui una pagina profetica, fra tante altre che ritraggono stupendamente - e con valore di alta documentazione storica – con brevi scorci la nuova psicologia formatasi in Italia dopo la guerra del '15-'18, alla Vigilia dell'avvento del fascismo: 'Unirsi! Unirsi!egli scriveva - pacificare i sentimenti più che gli Stati Maggiori. L'intesa fra Coloro che per una grande generale follia hanno combattuto ieri, deve avvenire da coscienza a coscienza e non da banca a banca. Le grandi industrie, i TRUST e i CARTELLS sono quelli che stabiliscono e che mantengono questa DÉNTEE fra i popoli; il maledetto ferro, il maledetto carbone, le dogane, le tariffe, rendono la civiltà più inumana del cannibalismo dei maori'. Parrebbe quasi che queste parole siano state scritte dopo la guerra del '39-'45. E al clima postbellico del secondo immane conflitto ci porta diritti il passo che segue: 'Che importano la Sarre, la Renania, a confronto della tranquillità di due popoli, dell'accordo tra la Francia e la Germania che, unite, rappresentano il più formidabile baluardo alla vera civiltà del mondo?.... il diritto non è che ricchezza di pensiero, forza di spiritualità, non è che arte, letteratura, scienza... Qualunque popolo bruto può imporre l'effimero dominio delle armi al mondo; ma nessuno sarà grande quanto la nazione che lo dominerà col can-


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to..' ...” (ibidem, fonte internet). Riflessioni personali attualissime possono generare da queste parole forti e decise, come le idee che stanno alla base delle vere rivoluzioni dello spirito, se si tiene presente che il testo è stato dato alle stampe nel 1952 e Federico De Maria è venuto a mancare il primo aprile del 1954. Pochi tratti di vita, d'esperienza e di autonomia creativa tratteggiano grazie al Pedrina il bel profilo del nostro Autore e permangono punti di riferimento indelebili per consentire un concreto accostarsi con vivace fedeltà e chiarezza ancora oggi ai suoi testi poetici e critici. Qui di seguito riporto il testo della poesia Io, Ulisse, introdotta dalle parole del Pedrina: “Con la voce si è irrobustito nell'ultimo De Maria anche il pathos umano. Basti a testimoniarlo la figurazione tragica dell'Io, Ulisse. Già è tratto originalissimo quel calarsi nel naufrago eroe, là, dai millenni, e pur non spento ancora ed è bello che nel soffio di vita che rimane ancora legato a quel corpo immondo viva l'inesausto, andante desiderio d'un bene già invano cercato dal mitico navigatore per tanti mari e popoli sconosciuti; ed è intuizione di poeta far proprio quel desiderio e dar così forma fantastica tutta nuova a un vecchio motivo. Io vedo - fuori del mio corpo e dell'anima mia – vedo il travaglio della piccola nave che mi portava, dopo la bonaccia, nei giorni accesi e sotto i firmamenti brulicanti di fiamme vive, tra le onde divenute a un tratto branchi di fiere canute e ululanti, bramose di me solo nell'immenso deserto. Vedo il naufragio, già in vista della terra sperata, me divelto dall'ultimo relitto che mi reggeva, la persona mia inerte rotolata dai marosi, scagliata priva di sensi su la spiaggia, e lì rimasta presso la quieta foce del fiume, fra i detriti della terra e del mare... E sono lì da allora. E fuori di me stesso, ecco, mi vedo pesto e sfigurato, come un cetaceo esangue, tra la melma

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e i fuchi marci, non ancora morto ma cadavere più che uomo mal vivo. E sento di morire d'ora in ora, legato nelle membra e nei sensi dal torpore e dal gelo. Ma so che la salvezza può venire, se lei, la giovinetta dalle bianche braccia, udrà il muto richiamo del mio spirito già presso a svanire. O Nausicaa, Nausicaa, l'ultimo filo di vita già si spezza: accorri, tergi il corpo immondo del naufrago, rischiara la brancolante anima già ricinta dalla tenebra: ancora qualche giorno di piena luce fa su lui che cercò il bene supremo, e che tuttora lì, morente, l'attende. Accorri, accorri, Nausicaa, amata amante della fine: altra nave con bianche vele appresterai domani al suo viaggio per la sterminata notte ma che l'affronti e vi dilegui egli portando seco l'oblio di tutto e solo l'immortale desiderio di te, non posseduta! Del momentaneo collasso dell'eroe il poeta ha fatto il suo torpore secolare (di queste trovate fantastiche si nutre la vera poesia) e come dal suo spirito già presso a svanire sale l'invocazione suprema : 'O Nausicaa, Nausicaa...' tutto un mondo di bellezza ti si avviva intorno e la giovinetta dalle bianche braccia assurge senza sforzo a simbolo dell'attesa folgorazione, per cui l'anima intravede, senza attingerla, la felicità suprema. Dopo di che il poeta potrà avviarsi tranquillo alle prode deserte della notte perpetua, recando seco, sacro lume della misera vita, il ricordo della serenante visione e il suo rimpianto. Ma non è il solo afflato poetico che rende singolare questa lirica, ma anche il suo pregio formale, che è poi una cosa sola con quello. Il grido a Nausicaa si prolunga, sale d'intensità, riveste un attimo la luce del sogno, si fa preghiera, voto, e il ritmo s'adegua ai moti dell'anima, sale anch'esso e rifluisce come onda sospinta da un soffio uguale e potente...”

(fonte internet, F. Pedrina, Il poeta precursore, sez. 'L'ultimo De Maria'). Confronterò il testo riportato in rete con l'originale, sicuramente presente nella Biblioteca Civica di Palermo, nel Fondo Federico De Maria, ma quel che ora mi interessa è rilevare la vitalità del palpito quotidiano, sincero e schiettamente franco, coerente, che si evince


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dalle comunicazioni scritte, cariche di spensierata e riflessiva immediatezza. Di queste due lettere inviate dal Pedrina all'Amico, che inserisco qui di seguito, i termini riportati in corsivo sono sottolineati nell'originale con un tratto netto. Povolaro è la frazione di Dueville, comune del vicentino e luogo splendido dove sono nata. Povolaro, 1-II-51 Caro De Maria, mentr'io ti commentavo Io, Ulisse, tu pensavi a me e mi offrivi la signorile ospitalità di Palermo. Non sono mai sceso tra voi; avevo in animo un viaggio venatorio in Sardegna; ora tu mi porti alla decisione; sarò vostro ospite, accetto. E per accontentarti ho pensato alla comunicazione e poiché si tratta dei primi e degli ultimi poeti della lingua nostra, io parlerei dell'ultima corrente seria della nostra letteratura, dell'ultimo sbocco della grande arte nostra: Il realismo lirico e i suoi poeti. Pochi cenni introduttivi, un volo più lirico che critico da Jacopo da Lentini e Giacomino Pugliese a Capasso e a De Maria, e poi lettura di una lirica o due per ciascun poeta. Credo sarebbe il modo migliore per richiamare l'attenzione sul nostro movimento e far sentire alcuni suoi poeti che si prestano a una bella lettura (non ad una declamazione che guasta quasi sempre la musica del verso). Tutto sta nel tempo che sarà concesso a ciascuna comunicazione. Per una pacata lettura un'oretta ci vorrebbe. Come ti ho detto sopra, Io, Ulisse ha già il

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suo bel cappello e il suo commento, ma siccome apparirà, prima che in Lirica moderna, in Fiordaliso, Antologia per la Scuola Media, bisognerebbe togliere quel posseduta finale, troppo forte per scolaresche al di sotto dei quattordici anni. Non sei il primo a cui chiedo questi sacrifici: il Fiumi, in Poesia, aveva un verso che suonava così: “i lessici hanno fremiti di gravidanza” e in “Fiordaliso” suonerà così: -tra i lessici corron fremiti d'esultanzaLa tua chiusa potrebbe presentarsi così: … portando seco l'oblio di tutto e solo l'immortale desiderio di te, fiore dell'anima, mai tocco! Nel corso di Io, Ulisse, c'è un altro trisillabo: “scagliata”, o quadrisillabo che sia. Naturalmente io ti faccio una proposta: tu sei despota e padrone di mutare come vuoi. Dalla mia interpretazione ho tolto l'idea del “possesso”, o per lo meno l'ho sfumata. Eccola: Io, Ulisse Il poeta rivive il travaglio di Ulisse naufrago, si vede rotolato dai marosi alla foce del fiume, fra i detriti della terra e del mare. Ed è lì, da allora, pesto e sfigurato, più cadavere che uomo mal vivo, in preda a un millenario torpore prossimo ad estinguersi anch'esso. E un'invocazione suprema sale dal suo spirito già presso a svanire: “O Nausicaa, Nausi caa!...” Solo la giovinetta figlia del re dei Feaci può tergere il suo corpo immondo, rischiarare la brancolante sua anima già ricinta dalla tenebra. Ella gli potrà poi apprestare un'altra nave con vele bianche per l'ultimo viaggio verso la notte sterminata, ma che egli l'affronti portando seco l'oblio di tutto e solo l' immortale luce di lei e il rimpianto della sua umana intatta grazia. Fantasia pervasa di alto pathos, come quella che chiude in sé l'incessante e sempre vano anelito dell' anima umana verso un bene supremo (segue la poesia e il commento). Sotto la cancellatura non si cela un segreto, ma solo una distrazione. Cordialmente e affettuosamente tuo Francesco Pedrina”.

Il De Maria riporta in vita il mito dell'ultimo Ulisse, non già di colui che vive la propria intelligenza come sfida nel porre agli altri astuti progetti di scontro, lotta, vittoria certa perché meditata attraverso la perspicacia intessuta sulle debolezze dell'avversario e sulle possibilità di dilatarle fino all'estremo. E mi riferisco qui all'Ulisse guida militare che sfida ed atterra i troiani con l'inganno, ci siano tra loro anziani, donne, bambini e non solo


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soldati non ha importanza; si, con l'inganno del cavallo cavo in dono, ben celato avvio alla distruzione della antica, fiorente città dell' Asia Minore e del suo popolo; ma anche all' Ulisse che si confronta con Polifemo e lo rende ebbro di se stesso ed appassito nella sua brutalità, aprendo così la strada ai connotati di quel Nessuno che si identifica con la forza semantica del nome rispetto alla forza bruta e brutale del gigante: non questi i prismatici aspetti portati in versi dal Poeta, ma quelli più intimi e sfumati dell'approdo alla terra del sogno e dell'ultima vitalità del canto. È chiaro che il Pedrina ama questa lirica più delle tante altre che pure gusta in una sintonia estetica, le cui tappe si rilevano proprio da questa corrispondenza. Passo dunque alla seconda testimonianza epistolare. “Povolaro 6-III-51 Caro De Maria, ho corretto sulle bozze Io, Ulisse e ti assicuro che, così incastonata tra introduzione (modificata assai) e note, la tua lirica ci fa una gran bella figura: una delle gemme di Fiordaliso. Il quale uscirà ai primi di Aprile... Anche Lirica Moderna fa passi da gigante e spero portartene giù una copia a maggio. A proposito della mia comunicazione Aldo Capasso mi osserva che potrei suscitare dei bat-

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tibecchi perché ci saranno fra l'altro presenti Ungaretti e Quasimodo. La cosa non mi lusinga affatto, perché io verrei a Palermo per inebriarmi gli occhi della tua bella terra e non per avvelenarmi il sangue. Perciò il mio argomento rimane sospeso. Ne sceglierò un altro. Si deve comunicarlo in anticipo, o si può annunziare con la nostra venuta? Ho sentito che scenderà a Palermo anche Aldo Capasso con non poca sorpresa, legato com'è ad Altare. Meglio così. Si chiacchererà assai e ci toglieremo di dosso qualche anno. Poi io, se i Russi vorranno scorazzare per l'Europa, passerò in Tunisia... Ho l'impressione di fare un viaggio col ritorno al rallentatore. Con viva cordialità tuo Francesco Pedrina P.S. L'ultimo verso di Io, Ulisse suona: desiderio di te, giammai sfiorata. Purché la correzione sia eseguita bene, In Lirica Moderna nessuna modifica.

Il problema sfiorato in questa lettera e che ha perno rotante intorno alla figura di Aldo Capasso riguarda il Pedrina tra i letterati di successo, di grande, pieno successo in Italia e all'estero come Ungaretti e Quasimodo: nelle sezioni iniziali de 'Il poeta precursore' l'intendimento del Pedrina è quello, deciso e chiaro, di sottolineare l'autonomia del De Maria rispetto a tutte le altre voci che si elevano in poesia da più parti della nostra terra, in quanto il siculo Federico, il biondo Lyon come lo definisce lui, ha forza bastevole per uscir di crisalide di getto, farfalla pronta al volo ad ali spiegate, mentre sono in molti a trascinarsi brandelli di bozzolo ancora visibili adatti solo a rallentare il procedere nell'aria. Questa metafora del Pedrina mi è piaciuta assai perché rappresenta lo sforzo intenso e talora o assai spesso non riuscito di padroneggiare un canto senza scorie, vincente sul piano formale, su quello della fantasia e dello stile, sul piano artistico dell'innovazione intelligente. Non mi resta allora che lavorare su questo e su tutto l'altro complesso materiale a mia disposizione ed avviarmi a rendere ragione di queste investigazioni appassionate. Ilia Pedrina ← A fianco: Francesco Pedrina sullo sfondo della Marina di Grosseto; pag. 11: Federico De Maria e pag. 13 Aldo Capasso.


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XXVI EDIZIONE PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE CITTÀ DI POMEZIA 2016 Comunicato Stampa Nel ringraziare, per la pubblicità accordata, le Testate (cartacee e blog) che hanno pubblicato in tutto o in parte il Regolamento del Premio, si comunica che la Commissione di Lettura del nostro Periodico, dopo un primo esame delle opere pervenute, tra il 20 e il 30 giugno 2016 ha selezionato, per le diverse sezioni, i lavori dei seguenti Autori (e si ricorda che il regolamento recita: “Per ogni sezione, qualora i lavori risultassero scadenti, può decidere anche la non assegnazione del premio”): Sezione A (Raccolta inedita, max 500 versi): Ceralacca, di Claudio Carbone (Formia, LT); L’Infinito, di Santo Consoli (Catania); Ombre e luci, di Lina D’Incecco (Termoli, CB); Sensazioni, di Antonia Izzi Rufo (Castelnuovo al Volturno, IS); Il silenzio delle rose, di Giovanna Li Volti Guzzardi (Avondale Heights, Vic., Melbourne, Australia); Parole ricercate, di Pasquale Mon-

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talto (Rende, CS). Sezione B (Poesia singola, in lingua, max 35 vv.): “Le balance cubiste”, di Isabella Michela Affinito (Fiuggi, FR); “Nella fredda caverna”, di Daniele Boganini (Prato); “E non fui sola”, di Mariagina Bonciani (Milano); “Sempre nel cuor s’accende”, di Giuseppe Cosentino (Oberkotzau, Germania); “Rami”, di Filomena Iovinella (Torino); “Migranti”, di Adriana Mondo (Reano, TO); “Insomnie” (Insonnia), di Océlyane [Eliane Charabot] (Schengen, Lussemburgo); “La rosa bianca”, di Maria Assunta Oddi (Luco dei Marsi, AQ); “Dimme che so’ pe’ tte’?”, di Gennaro Petricciuolo (Napoli). Sezione C (Poesia singola, in vernacolo, max 35 vv.): Nessuna poesia selezionata, lavori scadenti. Sezione D (Racconto, novella): “Carluccio”, di Antonio Visconte (Santa Maria Capua Vetere, CE). Sezione E (Fiaba): “L’invasione degli angeli”, di Elisabetta Di Iaconi (Roma); “Geo e il podere wifi”, di Andrea Masotti (Bologna); “La favola di Babalù”, di Marina Ristè (Jesi, AN). Sezione F (Saggio critico): Nessun saggio selezionato, lavori scadenti. Da un successivo esame della Commissione di Lettura, e a suo insindacabile giudizio, è scaturita la seguente graduatoria: Sezione A: 1) Antonia Izzi Rufo - la cui opera verrà pubblicata, gratuitamente, nei Quaderni Letterari Il Croco (presumibilmente sul supplemento al n. 10 - ottobre 2016 di Pomezia-Notizie) -; 2) Lina D’Incecco; 3 (ex aequo), Claudio Carbone e Pasquale Montalto; 4) Giovanna Li Volti Guzzardi; 5) Santo Consoli. Tutti riceveranno proposta per una edizione nei quaderni letterari Il Croco di Pomezia-Notizie. Sez. B: 1) Isabella Michela Affinito; 2) Daniele Boganini; 3 (ex aequo), Giuseppe Cosentino, Océlyane, Maria Assunta Oddi; 4 (ex aequo), Adriana Mondo e Gennaro Petricciuolo; 5 (ex aequo), Mariagina Boncia-


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ni e Filomena Iovinella. Sez. C: Non assegnato. Sez. D: 1) Segnalazione d’Onore: Antonio Visconte. Sez. E: 1) Andrea Masotti; 2) Marina Ristè; 3) Elisabetta Di Iaconi. Sez. F: 1) Non assegnato. Pomezia, 11 luglio 2016

Domenico Defelice Organizzatore del Premio e direttore di Pomezia-Notizie Vincitori della SEZIONE A delle precedenti edizioni: Pasquale Maffeo: La melagrana aperta; Ettore Alvaro: Hiuricedhi; Viviana Petruzzi Marabelli: Frammento d’estate; Vittorio Smera: Menabò; Giuseppe Nalli: A Giada; Orazio Tanelli: Canti del ritorno; Solange De Bressieux: Pioggia di rose sul cuore spento; Walter Nesti: Itinerario a Calu; Maria Grazia Lenisa: La ragazza di Arthur; Sabina Iarussi: Limen; Leonardo Selvaggi: I tempi felici; Anna Maria Salanitri: Dove si perde la memoria; Giuseppe Vetromile: Mesinversi; Giovanna Bono Marchetti: Camelot; Elena Mancusi Anziano: Anima pura; Sandra Cirani: Io che ho scelto te; Veniero Scarselli: Molti millenni d’amore; Sandro Angelucci: Controluce; Giorgina Busca Gernetti: L’anima e il lago; Rossano Onano: Mascara; Fulvio Castellani: Quaderno sgualcito; Nazario Pardini: I simboli del mito; Rodolfo Vettorello: Voglio silenzio; Isabella Michela Affinito: Probabilmente sarà poesia.

Caro Yuky, sei partito dalla città e ti sei lasciato alle spalle il frastuono della folla, il rumore delle macchine, lo smog, il grigio del cemento. Alla periferia del paese hai rallentato l’andatura: lo stupore t’era negli occhi, l’emozione nell’anima. L’argenteo contemplavi degli ulivi, il tepore delle foglie di quercia lungo gli argini delle strade, i monti, il cielo terso; abbassavi le palpebre al sole che la vista t’abbagliava ed esclamavi rapito

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<<Che bello! Che paradiso! >>. Hai spento il motore senza stridio, delicatamente hai chiuso la portiera: per ascoltare il silenzio, per inglobare la pace che nell’aria aleggiava (<<Che silenzio! Che pace! >> andavi ripetendo estasiato). E risentito hai gridato <<Perché, qui io non vivo? Ma vi tornerò e il tempo di mia vita che mi resta vi trascorrerò>>. T’ho ascoltato sorpresa, soffusa di rossore, pentita della mia negligenza: perché io, più non avverto ciò che tu vedi e senti e non m’inebrio, come te, dell’incanto di questa natura selvaggia, primordiale, vi sono abituata, l’ho in me, la considero normale, senza nulla di speciale, anche se stupenda. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo al Volturno, IS Da Sensazioni, 1° Premio (Sezione A) al Città di Pomezia 2016. Antonia IZZI RUFO, insegnante in pensione, laureata in Pedagogia, è nata a Scapoli (IS) e risiede a Castelnuovo al Volturno (IS), frazione di Rocchetta. Ha pubblicato opere in prosa e poesia, saggi e altro, circa una sessantina di testi finora. Ha vinto moltissimi Premi Letterari. Noti critici ed esponenti della cultura nazionale e internazionale hanno scritto di lei, tra gli altri Costas M. Stamatis, Paul Courget, Giovanna Li Volti Guzzardi, Giorgio Barberi Squarotti, Massimo Scrignòli, Enrico Marco Cipollini, Marco Delpino, Angelo Manitta, Sandro Angelucci, Emilio Pacitti, Luigi Pumpo, Carmine Manzi, Aldo Cervo. Tra le tante sue opere: Felicità era... (2012), Paese (2014), Voci del passato (2015), La casa di mio nonno (2016).

QUELLA SERA A PARIGI Quei petardi che scoppiettavano


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improvvisi in una sera di svago ed erano i colpi di Kalashnikov puntati su vittime inermi. Le urla erano confuse q quelle delle sirene, l’aria impregnata di terrore e le strade arterie di panico. La sala di concerto un luogo di mattanza. Nel ristorante corpi immobili sparsi a terra tra i tavoli. Lontano lo stadio era l’arena di una umanità atterrita. Poi il silenzio, un muto smarrimento. Mille occhi increduli spettatori dei tragici eventi fra il tramestio convulso delle notizie sui media. Sì, quella sera Parigi era l’affresco della brutalità dell’ignominia mentre la morte banchettava con le sue armi letali per umiliare la città distruggere la vita. Nella notte Parigi si levava, sfidava le ombre del buio. La Marsigliese procedeva decisa verso il riscatto. Lina D’Incecco Termoli, CB Da Ombre e luci, 2° Premio (Sezione A) al Città di Pomezia 2016. Insegnante di Francese in pensione, Lina D’ INCECCO vive a Termoli in Molise. Ha coltivato a livello amatoriale la poesia e la pittura. Ha partecipato a vari concorsi letterari tra cui l’ “Histonium” di Vasto, il C.E.P.A.L (Francia), Aletti editore e A.L.I Penna d’autore (Torino), ottenendo buoni riconoscimenti. Alcune sue poesie sono state inserite in raccolte antologiche.

Invocazione d’autunno Avrei voluto parole semplici, scorrevoli nel tepore dorato di foglie suonanti, su di un passo cadenzato

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e spensierato, radicato nel cuore di un autunno carezzevole, amorevole; avrei voluto il solito autunno, il mio autunno di sempre, un po’ assolato, un po’ grigiastro, salutato dai fiori nella primavera del Santo. Vorrei ora si cancellasse questa data infausta d’autunno: ascoltami Autunno che prepari ogni volta un nuovo Natale di festa, ridammi la civiltà creativa e svegliami da quest’incubo mostruoso. Senza questa notte al Bataclan, potrei continuare ad ascoltare il suono dell’autunno, cullare il desiderio d’affacciarmi alla vita; potrei avere il solito lunedì, volto al quotidiano intorpidito, invece mi trovo forzatamente affossato nell’orrore e nell’odore aspro del massacro. 13 - 16 Novembre 2015 Pasquale Montalto Rende, CS Da Parole ricercate, 3° Premio (Sezione A) al Città di Pomezia 2016. Pasquale MONTALTO, è nato ad ACRI (CS) nel 1954. Ha svolto i suoi studi presso il Liceo Classico V. Julia di Acri e poi presso l’Università degli Studi La Sapienza di Roma, dove ha conseguito le Lauree in Psicologia Clinica e Sociologia e i Perfezionamenti in Fondamenti di didattica e Didattica sperimentale. Presso l’Ospedale Cristo Re di Roma si è formato in Sessuologia e Ginecologia psicosomatica. Specializzato in Psicoterapia Analitica Esistenziale e Sophianalisi, svolge la professione di Psicologo Psicoterapeuta, Sessuologo, Sophianalista, prevalentemente tra Acri, Rende e Cosenza. Dal 1980 ha intrecciato l’impegno professionale lavorativo con un’intensa attività culturale di scrittura e di critica letteraria, che ha condotto alla pubblicazione di una quindicina di libri di Poesia, uno di Narrativa e due di Saggistica, oltre a Saggi professionali di Psicologia, Sociologia e Letteratura editi su riviste specializzate. Ha fondato il Movimento della Poesia Esistenziale (MPEm) e gran parte dei suoi scritti


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sono documentati in un sito internet.

IL MIO VIAGGIO Serapo abitava in quella casa la campagna le dune di sabbia le aiuole arabescate si affacciavano nei giardini dell’infanzia. Da lì rigettavo la palla sul cuore caduta con l’invito a non crescere. Un sedativo le cicale nascondevano il futuro non le ho mai vedute come le Sirene piegate da Ungaretti. Esausto sono approdato in Grecia declamando il mio viaggio. ANCORA M’APPARTIENE Mi chiedo chi potrà abitare le canne d’organo dove un usignolo s’annida. Così entro ed esco dalla conchiglia in un canto di tristezza nel rigurgito d’onda che ancora m’appartiene. Claudio Carbone Formia, LT Da Ceralacca, 3° Premio (Sezione A) al Città di Pomezia 2016. Claudio CARBONE è nato a Gaeta il primo gennaio 1958. Insegnante di Liceo, vive a Formia. Frequenta negli anni ottanta gli ambienti letterari della capitale e in seguito collabora alle iniziative dell’ Associazione Amici della Poesia. Per un lungo periodo tralascia la poesia per dedicarsi maggiormente all’architettura prima e alla pittura poi. Nel 2008 ritorna a scrivere versi ottenendo numerosi riconoscimenti in concorsi nazionali ed internazionali, in particolare nel 2009 ottiene il premio speciale della Presidenza a Nocera Superiore e nel 2011 con la silloge “Quotidiane colonne” risulta vincitore alla 2a biennale internazionale “Dino Grammatico” a Valderice (TP). Inserito in alcune antologie di poeti è invitato spesso a partecipare a vari readings di poesia. Ha pubblicato “O laureat” (poesie dialetta-

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li), “Passo di cicogna” per la collana l’Arcobaleno, “Quotidiane colonne” per la collana “la Stanza del poeta”, “Sagome e specchi” (ed. Eva), “Al posto delle rose” (Madrid - ed. Amargord). Tradotto in francese da Mena Savore e in spagnolo da Carlos Vitale. Il suo nome è inserito nei “libri poveri” (livres pauvres) a cura di Daniel Leuwers (Università di Tours) conservati nella “Maison de Ronsard” e in un volume pubblicato dall’editore Gallimard in Francia.

IL MIO MONDO Il mio mondo è sempre colmo d’amore, amo tutto e tutti e sorrido sempre, anche se il mio cuore piange. Si piange dentro, ma fuori, si deve avere sempre il sorriso pronto per fare coraggio e dare un po’ di gioia a chi soffre. Intorno c’è sempre tristezza e dolore, violenze e brutte malattie, tragedie e disastri senza fine, fame e miseria, bambini violentati, ammazzati, bombe che esplodono, atrocità e sofferenze incredibili. Come sarebbe bello sconfiggere il male, abbracciarci tutti con amore, col sorriso e la gioia sempre nel cuore, ringraziando il nostro Creatore! Sorridiamo insieme con amore, sotterriamo la tristezza e il dolore, innalziamo al cielo la nostra preghiera, oh mio Gesù, dacci un mondo migliore! 22 – 3 – 2016 Giovanna Li Volti Guzzardi Avondale Heights, Vic., Melbourne, Australia Da Il silenzio delle rose, 4° Premio (Sezione A) al Città di Pomezia 2016. Giovanna LI VOLTI GUZZARDI, è nata il 14 febbraio 1943 a Vizzini CT. Nel 1964, insieme al marito pensarono di visitare l'Australia come secondo viaggio di nozze e vi rimasero, affascinati da questa grandiosa isola, che ha alimentato la sua grande passione per lo scrivere. Ha pubblicato cinque libri di poesie "IL MIO MONDO" in Italia nel 1983, Gabrieli Editori Roma. "Isola azzurra" in Australia nel 1990. "VOLERO" maggio 2002 - Editrice A.L.I.A.S. Melbourne. Nel 2007 "IL GIARDINO


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DEL CUORE", OTMA EDIZIONI. Milano. Dicembre 2012. IL CROCO - I quaderni letterari di POMEZIA-NOTIZIE. "LE MIE DUE PATRIE" Poesie. "4° Premio Città di Pomezia 2012 - Direttore Domenico Defelice. Nel maggio 1992 fonda l' ACCADEMIA LETTERARIA ITALO AUSTRALIANA SCRITTORI - "A.L.I.A.S." Tanti, tantissimi e intensissimi anni, tutti dedicati a questa "figlia" bisognosa di cure e di affetto. È stata insignita del prestigioso riconoscimento: "Cittadina dell'anno 1995", dal Comune di Keilor. Nel 1996 ha ricevuto un prestigioso riconoscimento Letterario dal Comune d'Australia che ha sede a Sydney, nominandola "Commissario della Lingua Italiana in Australia." Ha partecipato a diversi concorsi letterari internazionali, ottenendo sempre ottimi risultati. Le sue poesie sono state pubblicate in parecchie antologie e riviste letterarie un po' dovunque. È corrispondente e delegata di diverse Accademie e Associazioni Letterarie. È insignita dal riconoscimento "ACCADEMICO BENEMERITO" da diverse Accademie. Nel settembre 2000, riconoscimento speciale dal Comune di Moonee Valley: "Cittadina dell'anno per l'Arte e la Cultura". Ottobre 2000, durante una favolosa serata al CROWN CASINO di Melbourne le viene consegnato un riconoscimento importante dalla Camera di Commercio ed Industria Italiana: BILATERAL CULTURAL RELATIONSHIPS RECOGNITION AWARD. Nel 2001 è stata nominata "ACADEMICORUM ORDO" dell'Academia Gentium Pro Pace di Roma. Dal dicembre del 2001 è Membro a Vita dell' " INTERNATIONAL WRITERS AND ARTISTS ASSOCIATION " IWA. Stati Uniti d'America. Dicembre 2002, VICTORIA AWARDS FOR EXCELLENCE IN MULTICULTURAL AFFAIRS, Award for Meritorious Service in the Community to Giovanna Li Volti Guzzardi, consegnato dal Governatore. Maggio 2003, Medaglia del Centenario della Federazione Australiana assegnata dalla Regina Elisabetta II, con gli auguri del Primo Ministro e del Governatore d'Australia, Giugno 2003, International Writers an Artists Association U.S.A. and International Society of Greek Writers and Artists International Academy : "OEA AOHNA" - President Dr. Chrissoula Varveri-Varra "OEA AOHNA" OF MERITORIOUS ACHIEVEMENT to Giovanna Li Volti Guzzardi who are hereby accorded recognition throughout the five continents of the World for their dedication to ACCADEMIA LETTERARIA ITALO- AUSTRALIANA SCRITTORI and for intellectual and spiritual greatness. Aprile 2004, dagli USA: the Board of Directors, Governing Board of Editors and Publications of the Board American Biographical Institute do hereby recognize that

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Giovanna Li Volti Guzzardi Professional Women's Advisory Board. 20 gennaio 2004, invitata in Italia (una settimana a Palermo) per partecipare al Work Shop di Partenariato indetto dal Ministero degli Esteri, Roma. 29 maggio 2005, giorno della Festa della Repubblica Italiana in Melbourne, il Presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi e controfirmato dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi le assegnano l'alta Onorificenza di Cavaliere della Repubblica Italiana OMRI, per aver diffuso la lingua italiana in Australia, Italia e nel mondo, tramite il Concorso Letterario Internazionale A.L.I.A.S. e per aver insegnato la lingua italiana con amore e passione per 25 anni. 27 aprile a Palermo le viene consegnato dalla REGIONE SICILIANA l'importante riconoscimento: SICILIANI NEL MONDO AMBASCIATORI DI CULTURA, e invitata a ritirarlo di persona con grandi festeggiamenti a Palermo. Dicembre 2006 dagli USA: the Board of Directors, Governing Board of Editors and Publications of the Board American Biographical Institute do hereby recognize that Giovanna Li Volti Guzzardi Professional Women's Advisory Board. Maggio 2007, riconoscimento dal Primo Ministro d'Australia the Hon. John Howard MP. 15 settembre 2007, premio "Carretto Siciliano 2007", definito l'Oscar della Sicilianità. Maggio 2008, The American Biographical Institute, does hereby recognize that Giovanna Li Volti Guzzardi INTERNATIONAL WOMEN'S REVIEW BOARD, FOUNDING MEMBER. 2008 International Writers and Artists Association, Diploma to certify Giovanna Li Volti Guzzardi is recognized as THE BEST DAME OF POETS OF AUSTRALIA. 27 Maggio 2009, invitata in Italia dal CRASES: Centro Regionale Attività Socioculturali all'Estero ed in Sicilia. Presidente Gaetano Beltempo e Vice Presidente Ezio Pagano, in occasione del 40mo Anniversario del CRASES e SERES è promossa delegata. 21 settembre 2010: VICTORIA'S MULTICULTURAL AWARDS FOR EXCELLENZE Meritorius Service to the Community - Organistations awarded to: Accademia Letteraria ItaloAustraliana Scrittori (A.L.I.A.S.) Medaglia donata dal Governatore David De Kretser al Government House. 28 giugno 2013: PREMIO DELLA CULTURA IL PONTE ITALO-AMERICANO 2013, Orazio Tanelli Direttore, Antonio Cece Editore, Cav. Mattia Cipriano, Vicedirettore. Novembre 2013: The international Writers and Artist Association, Registered at the Library of Congress, United States of America, Unesco, Paris, France , and United Nations Assoc. of USA. DIPLOMA THE Board of Directors and the President of the IWA hereby confers upon Giovanna Li Volti Guzzardi


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IWA the degree of DOCTOR HONORIS CAUSA IN HUMANITIES for the her elevating spirit of philantrhropy, and humanism, Teresinka Pereira, Ph.D. President. Ha insegnato italiano ai bambini di ogni nazionalità, come volontaria per 25 anni. Ma la sua gioia più grande è stare in mezzo a poeti e scrittori, per questo è riuscita a riunire tanti poeti e scrittori italiani da ogni parte del nostro pianeta, creando un punto d'incontro nell'Antologia A.L.I.A.S. Ed è felice di lavorare duro per far sì che la nostra Cultura e la nostra Madre Lingua Italiana venga portata sempre avanti in questa lontana, ma stupenda Terra Australe. Attualmente dirige Il Giornalino Letterario, da Lei fondato.

La Nostra Alba Una lieve rugiada si era posata sul tuo prato in questo dolce mattino, mentre giungeva la luce della tua alba. La notte ormai si era svegliata, portando la tua innocenza. Ora è la mia alba che si riempie della tua luce. Santo Consoli Catania Da L’Infinito, 5° Premio (Sezione A) al Città di Pomezia 2016. Santo CONSOLI nasce a Misterbianco (CT) nel 1946. Conseguita la Laurea, si trasferisce in Veneto e inizia la sua carriera di docente, insegnando per quasi un trentennio Lingua e Letteratura Inglese nel Liceo Scientifico di Dolo e negli Istituti Superiori di Mestre e Venezia. Dopo il ritorno in Sicilia, inizia, dal 2005, la sua attività poetica e la partecipazione ai Concorsi, arrivando a conseguire ben 699 Premi, tra i quali son da menzionare 80 Primi Premi, 74 Secondi Premi, 66 Terzi Premi e 95 Premi ‘Speciali’. Ha, inoltre, ricevuto 27 ‘nomine”, tra le quali, degne di nota: a Reggio Calabria, Premio ‘Universal Victory’ 2012 ed ‘Accademico Leopardiano a vita’; a San Cipriano d’Aversa (CE) nominato ‘Cavaliere della Cultura’ 2012; a Gallipoli (Lecce), nominato Gran Maestro della Poesia e Poeta dell’ anno. Premio Speciale a Lugano (Svizzera) al Premio Internazionale “Europa”, coppa IWA (International Writer Association). Nel 2014, ad Eboli (Salerno), Premio Speciale U.N.E.S.C.O..

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Sue liriche sono pubblicate in varie antologie e riviste letterarie; è presente nel Dizionario di Autori Siciliani nel Mondo, nella raccolta “Poeti Italiani nel Mondo” e nel Dizionario Bio-bibliografico degli Autori Siciliani. Ha pubblicato numerosi libri di poesie e l’ opera omnia “Melodie ed Emozioni”.

LE BALANCE CUBISTE (La Bilancia Cubista)* Il giorno uguale alla notte nel mese dell’equinozio in cui il Sole entra nel Segno della Bilancia, comincia l’equilibrio dei due piatti allorquando una mano saggia posiziona i suoi pesi. Non è mai stanca di togliere o di aggiungerne altri affinché permanga la Giustizia, l’armonia profonda, la bellezza così come era legata ad Afrodite cnidia e alle sue onde amiche schiumose del Mediterraneo antico. Lei pesa gli affetti, la sensibilità creativa, la gradevolezza, lo stare insieme con gli altri e con le muse, ad un unico banchetto terreno o sull’Olimpo di oggi e di ieri. Tutto è vanità è vero, ma con la Bilancia governata da Venere ogni forma d’arte ha un senso, anche quella tela trasversalmente tagliata da Lucio Fontana che non ha mai sanguinato! Isabella Michela Affinito Fiuggi, FR 1° Premio (Sezione B) al Città di Pomezia 2016. *Questa poesia è dedicata al settimo Segno Zodiacale della Bilancia, e la struttura della stessa è pervasa dello stile che fu caro a Pablo Picasso, il Cubi-


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smo. Un binomio, zodiaco e arte, che è servito a spiegare in versi un segno d’Aria, maschile, cardinale, governato da Venere e Saturno. Di origini pugliesi da parte di madre, Isabella Michela AFFINITO è nata in Ciociaria il 22 novembre 1967 e si sente donna del Sud. Risiede a Fiuggi Terme. Ha frequentato e completato scuole artistiche anche a livello universitario, quale l’ Accademia di Costume e di Moda a Roma negli anni 1987 - 1991, al termine della quale si è specializzata in Graphic Designer. Ha proseguito, poi, per suo conto, approfondendo la storia e la critica d’arte, letteraria e cinematografica, l’antiquariato, la fotografia, la storia del teatro, la filosofia, l’egittologia, la storia in generale, la poesia e la saggistica. Nel 1997 ha iniziato a prendere parte ai concorsi artistico-letterari delle varie regioni italiane e in seguito ha partecipato anche a quelli fuori dei confini d’ Italia, tra cui il Premio A.L.I.A.S. dell’ Accademia Letteraria ItaloAustraliana Scrittori di Melbourne. Primi Premi vinti alla IV Edizione “San Teodoro” di Nicola Calabria (Messina, 1999), al Concorso dell’ Accademia Universale ‘Neapolis’, sezione saggistica ((2000), alla V Edizione “Peltuinum” di Poesia (2002), al Concorso “Una poesia per Maribruna Toni” de “Il Foglio letterario” (Piombino, 2002), al Città di Pomezia 2015 (Sezione A). Secondi premi: XXXIIIa edizione “Silarus” Battipaglia (poesia, 2001), 12° Edizione “Rosario Piccolo” (Patti, 2001), 18° Edizione Gran Premio Internazionale d’ Arte e Cultura InterArte (saggistica, 2001) e poi ancora terzi e altri premi. Ha reso edite quasi 50 raccolte di poesie e un volume di critiche letterarie, dove ha preso in esame opere di autori del nostro panorama contemporaneo culturale e sovente si è soffermata sul tema della donna, del suo ruolo nella società odierno del passato, delle problematiche legate alla sua travagliata emancipazione. Con “Da Cassandra a Dora Maar” (2006) ripropone le infinite donne da lei ritratte nei versi per continuare un omaggio ad esse e a lei stessa. Inserita in moltissime antologie, tra cui l’ “Enciclopedia degli Autori Italiani” (2003), “Cristàlia” (2003), “8 Marzo” (2004), “Felicità di parole...” (2004), “Cluvium” (2004), “Il suono del silenzio” (2005) eccetera. Sempre sul tema della donna ha scritto un saggio sulla poetessa Emily Dickinson. Pluriaccademica, Senatrice dell’ Accademia Internazionale dei Micenei di Reggio Calabria, collaboratrice di molte riviste, è presente in Internet con sue vetrine poetiche. Esprime la sua creatività anche in settori come la critica d’arte e letteraria. Scrittrice e collaboratrice di riviste con articoli su cinema, teatro, astrologia, arte. Disegna

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copertine di libri.

NELLA FREDDA CAVERNA In una caverna buia piena di ragnatele e torbide acque riesce ad entrare questa mattina l’alba come una figura che illumina. Un suono melodioso si sente e si diffonde come i raggi di sole colorati che regalano felicità nella cupa e fredda caverna. Daniele Boganini Prato 2° Premio (Sezione B) al Città di Pomezia 2016. Daniele BOGANINI è nato l’otto giugno 1975 a Firenze, ma risiede a Prato. Diplomato in Ragioneria. Da qualche anno frequenta corsi di teatro e di scrittura creativa.

SEMPRE NEL CUOR S’ACCENDE Sempre nel cuor s’accende nell’ora dell’incerto tramonto quando frammenti di ricordi stillano silenziosi momenti. Sono passati quasi vent’anni della Tua improvvisa partenza, verso lidi lontani dove la pace germoglia su prati infiniti e la voce di Dio è sinfonia. Ora che il tempo ingoia con falsità i pochi anni che ancora mi restano ritorno sulla barca dell’infanzia e, sognando l’ultima Tua carezza, mi addormento chiamandoti... Mamma. Giuseppe Cosentino Oberkotzau, Germania 3° Premio (Sezione B) al Città di Pomezia 2016. Ci manca il curriculum di Giuseppe COSENTINO, di questo nostro italiano in Germania per ragioni di lavoro, che onora la nostra Nazione e sventola la


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bandiera della nostra bella lingua.

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OCÉLYANE (Éliane CHARABOT), di nazionalità franco-spagnola, vive a Schengen, ma è nata a Marseille il 5 gennaio 1950. Attualmente in pensione, ha fatto l’insegnante e l’educatrice. Il Lussemburgo, dove ha risieduto fino al 1984, le ha offerto moltissime occasioni per apprezzare la natura e l’ha ispirata ad esprimere in versi le emozioni e l’ ammirazione per la bellezza. Numerosi viaggi e i lunghi soggiorni in varie parti del mondo, i contatti privilegiati con popoli e culture diverse, una naturale empatia per uomini e bambini e una grande sensibilità alla sofferenza e alla bontà hanno affinato la sua personalità e ispirato i suoi scritti. Linguista di formazione, professoressa di spagnolo e di francese per 20 anni, ha esercitato per più di 22 anni la professione d’educatrice in un centro multiculturale. Questo magnifico mestiere le ha permesso tra l’ altro di sensibilizzare all’arte e alla creatività artistica l’infanzia. Oggi in pensione, si occupa di pittura con passione, e alla creazione poetica. Una prima raccolta, pubblicata nel dicembre 2013 e illustrata con sue pitture, ha ottenuto gran successo e molti premi internazionali; nel dicembre 2015 è stata pubblicata una seconda silloge elegantemente illustrata da lei stessa.

INSOMNIE Arrogante et sombre, La falaise gronde... Le vent hurle sa haine, Le ciel menaçant Éloigne les passants : Le saule pleureur frisonne, Ses feuilles tombent En fine pluie d’or Sur la sente solitaire ; Aucun pas ne foule Le sol durci par le froid, Des ombres rôdent Et plombent mon insomnie, Mon âme vagabonde En rondes dans la nuit. Lune de cristal Dans l’aube pâle, Le vallon se pare, Ombres de la nuit Et lueurs du jour Le moirent. Ô nature glacée Où mes pas affolés Sans fin résonnent, Où mes larmes en tombant Éclaboussent ton givre De quelques étoiles de sang.

LA ROSA BIANCA Rotonda come un circolo di neve amarognola di gelo al primo mattino s’accartoccia smorta sullo stelo e chinata la ghirlanda del capo s’increspa d’effimera leggerezza. Océlyane

Schengen, Lussemburgo 3° Premio (Sezione B) al Città di Pomezia 2016. (INSONNIA - Elegante e cupa,/La scogliera ruggisce/Il vento urla il suo odio,/Il cielo minaccioso/Allontana i passanti;/Il salice piangente trema,/Le sue foglie cadono/In fine pioggia d’ oro/Sul sentiero solitario;/Nessun passo sfiora/Il suolo indurito dal freddo/Le ombre si agitano/E piombano nella mia insonnia,/La mia anima vagabonda/vaga nella notte/Luna di cristallo/Nell’ alba pallida,/La valle si adorna,/Ombre della notte/E chiarori del giorno/La striano.//O natura ghiacciata/Dove i miei passi impauriti/Senza fine risuonano/Dove le mie lacrime cadendo/ Schizzano la tua brina/Di qualche goccia di sangue. Océlyane)

Oh! Il giardino d’inverno or ricomincia a fiorire dentro i vasi di cocci pieni di terra sul mio cuore ostinato d’amore offeso. Oh! anche la candida corolla tornerà nel meriggio a brillare sulla conca delle mie mani tenere fragranze. Perché torna sempre il tempo dei fiori. Maria Assunta Oddi Luco dei Marsi, AQ 3° Premio (Sezione B) al Città di Pomezia 2016. Anche di Maria Assunta ODDI siamo privi di cur-


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riculum e ci scusiamo con i nostri lettori.

MIGRANTI Come ombre ondeggianti che passano e fuggono, i passi di tanti donne, uomini, bambini corrono, camminano in aerea di vita diversa, noi stiamo a guardare, l’egoismo ci acceca, ci rende indifferenti, spietati, non bastano le preghiere, le suppliche, tutto ci riporta altrove in un mondo separato dove si è persa l’umanità, dove il dono dell’altro ci fa paura e non sappiamo reagire, a questa immensa catastrofe, racchiusi come conchiglie nel guscio di stanchezza morale, di disturbo, girando il canale dove si proietta gli arrivi che piano, piano giorno dopo giorno creano crescente disagio: deleghiamo alibi su alibi... io non so cosa debba fare, io sono giovane, io sono troppo vecchio, io non ho un lavoro, e così di seguito. Delegando agli stati membri il potere di tutte le cose necessarie per aiutare questi nostri fratelli. Sperando nel giorno che verrà per altre vie. Qui si firmano gli ipocriti: NOI TUTTI! Adriana Mondo Reano, TO 4° Premio (Sezione B) al Città di Pomezia 2016. Adriana MONDO è nata a Torino e risiede a Reano. In poesia ha pubblicato: Poesie, Centro Studi Anna Kuliscioff, Torino 1987; Invisibili fili, Club dei Poeti, Massa Carrara 1998; I preludi, Centro Studi Cultura e Società, Torino 1990; Al guado delle tenebre, stampato in proprio, Torino 1992; Lucori d’ignoto da un estuario, Firenze Libri, Firenze 1994; Le stanze oscure, Personal edit, Genova, 1995; Lacerazioni, Ed. Anaphora, Torino, 1998; Conclave d’amore, Arte e Poesia Panis, Torino 2000; Nel grembo oscuro del mondo, Genesi Editrice, Torino 2009, per il quale ha vinto il 3º premio ex aequo A.C.S.i. di Prato; Accordi, idem 2012. Ha vinto il premio Santa

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Margherita Ligure – Franco Delpino 2013, sezione poesia inedita Menzione d’Onore su 738 partecipanti. e numerosi e importanti altri premi letterari.

DIMME CHE SO’ PE’ TTE’? Mamma’, che so’ pe’ tte’ ca m’he lassata appena nata? Tu, che non hai mai provato nessuna emozione e te senti’ ‘e chiamma: “Mammà”! ‘stu core tujo gelido, impassibile, oggi non puoi riaccendere la fiamma spenta dell’amore materno. Tu, non puoi provare più sensazioni volate via col vento del tuo egoismo. Dimme, che so’ pe’ tte’? Rassegnati, non sei più credibile nemmeno quando dici che senti ancora il pianto della tua creatura, nata vent’anne fa. Ora aspetti che il sole t’illumini, ma la luce dell’amore non potrà rischiarare più il tuo cuore. Solo Dio potrà perdonarti per i troppi sogni spezzati. Ho vissuto nella solitudine e nell’angoscia d’una famiglia estranea. Rassegnata e delusa, aspetto che il fantasma del tempo s’accorga di me e cancelli l’accidia dell’odio! Gennaro Petricciuolo Napoli 4° Premio (Sezione B) al Città di Pomezia 2016. Non abbiamo curriculum di Gennaro PETRICCIUOLO. Sappiamo, comunque, che il testo è tratto da una canzone dello stesso Autore.

E NON FUI SOLA 31.12.2013 Sapevi che per la prima volta sarei stata


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in questa ultima notte dell’anno sola. Così con una notte d’anticipo hai voluto farti presente a me nel sogno. Giovane, allegra e bella, mi venivi incontro sorridendo sotto l’ombrello nella pioggia, e il nostro incontro fu quello lieto di due amiche più che di madre e figlia. Per questo ti sento ancora insieme a me, qui, oggi, per questo sarai con me anche in questa mezzanotte. E la dolce veneziana della nostra tradizione sarà divisa in quattro questa notte, e quel dolce moscato spumeggiante, che tanto ti piaceva, questa notte sarà versato in quattro bei bicchieri. Perché con noi saranno a festeggiare questo nuovo anno anche il tuo caro Enrico, mio papà, ed il mio Tony. Mariagina Bonciani Milano 5° Premio (Sezione B) al Città di Pomezia 2016. Mariagina BONCIANI vive a Milano dove è nata nell’aprile 1934. Diplomata in Ragioneria nel 1953, ha sempre prediletto le materie letterarie e le lingue. Conoscendo il francese e lo spagnolo ed avendo perfezionato soprattutto lo studio dell’ inglese, ha lavorato, dal 1953 al 1989, come segretaria di direzione, capo ufficio e corrispondente presso tre diverse ditte nel settore import-export. Ama la lettura, i viaggi e la musica classica. In pensione dal 1989, per alcuni anni si è dedicata alla madre inferma, smettendo di viaggiare, ma studiando pianoforte, russo e greco antico. Non si è mai sposata. Da qualche anno ha iniziato a presentare nei concorsi letterari le sue poesie, ottenendo sempre riconoscimenti e premiazioni. Sue poesie sono state pubblicate in antologie e riviste. Nel 2010 ha pubblicato nei quaderni “Il Croco” della rivista “Pomezia-Notizie” la silloge “Campane fiorentine”, accolta con entusiasmo dalla critica e nel 2011, sempre per “Il Croco”, la silloge “Canti per una mamma”. Nel 2012 ha pubblicato la raccolta “Poesie”, nel 2015 “Sogni” e, nello stesso anno 2015 “Ancora poesie”. Sue poesie vengono regolarmente pubblicate nella suddetta Rivista e su “Silarus”. Vince il primo premio al concorso “Città di Avellino - Trofeo verso il futu-

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ro” 2013 con la silloge “Poesia e musica”. È presente nel volume “Poeti contemporanei - Forme e tendenze letterarie del XXI Secolo” (2014), a cura di Giuseppe e Angelo Manitta.

RAMI Intrecciati rami le tue ali fogliame autunnale dal colore variopinto. Corteccia succosa di cellulosa mi incolli nel tuo abbraccio trasformando il colore della pelle mimetizzando il senso della natura. Ci confondiamo nel cercarci a lungo ci troviamo tra i rami braccia di quercia che ondeggiano nell’aria sibilano suoni e stati lasciano il secolare tempo ad ombreggiare su di noi, pragmatismo natura ed essenza di un uomo nel mezzo, mentre il carro alato spezza i rami che ci tenevano a terra e si innalza nel firmamento portando con sé la linfa di noi. Dissonanza alcuna mista a dissolvenza sale in cielo, a dar sogno ai sognatori, naviganti solitari per ombre ideali di mistero; precipitati poi per mano del vento in quell’oceano che ad accoglierci lascia galleggiare un ramo di vita cui ancorarci ancora. Noi, demiurghi viventi. Filomena Iovinella Torino 5° Premio (Sezione B) al Città di Pomezia 2016. Nata a Frattaminore, in provincia di Napoli, Filomena IOVINELLA vive a Torino. Scrive solo da pochi anni e l’appassionano i testi di filosofia. Ha pubblicato tre racconti: nel 2012 “Traccia di vita”, nel 2013 “Il ritorno di Stefano”, nel 2013/2014 “L’ eros e la strada”, nel 2015 “E un giorno arrivò la libertà”. Nel 2016 è uscito il suo romanzo “L’ inizio della fine - storia di famiglia -“ e la silloge “Odi impetuose”. Segue sempre il suo blog dal titolo “Gli indistinti confini”. Scrive anche poesie,


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una delle quali è stata pubblicata in un volume delle Edizioni Aletti. Nel 2013, ha vinto la sezione fiaba al Premio Internazionale Città di Pomezia.

CARLUCCIO di Antonio Visconte

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UELLA mattina me la prendevo allegramente, poiché avevo soltanto la quarta ora all’Istituto per geometri e ragionieri di Teano, dove al triennio insegnavo italiano e storia per una cattedra complessiva di poche ore settimanali. Un tiepido sole faceva capolino dietro un ammasso di nuvole nerastre e non prometteva una normale giornata di primavera, quando sentivo bussare il campanello. Mi precipitai a rispondere e mi pregarono di aprire. “Se non mi dite chi siete, non apro”, gli comunicai. “Il maresciallo Cardone e il brigadiere Filippo”. “Chi cercate”, domandai con insistenza. “Abita qui il signor Carlo Martone?” “Sì, abita qui, è inquilino del mio fratellastro Raffaele, figlio della prima moglie di mio padre Domenico, che ha ereditato la proprietà della madre Clementica”. “Dobbiamo acquisire delle informazioni”. “Vi apro subito”, e scesi giù per salutare i militi dell’Arma Benemerita, sempre fedele nei secoli. “Che soggetto è questo Carlo Martone?” mi proposero. “Un bravissimo uomo, molto laborioso, ma la fortuna non l’ha seguito. Gestiva un’ officina meccanica, costretto a chiuderla per le troppe tasse e un’infinità di spese e ha lasciato un debito di settemila euro, che dovranno pagare i figli, a meno che non li voglia scontare con gli anni di carcere”. “Andatelo a chiamare”, m’impose il maresciallo e mi recai all’uscio del povero uomo, annunziandogli la visita funesta. “Già me l’aspettavo”, brontolò Carluccio, esplodendo in uno scoppio di pianto.

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“La cattiva nuova la porta il vento”, esclamai sommessamente. “Professore, non mi abbandonate, trovatemi un avvocato che mi faccia ottenere gli arresti domiciliari, ho paura in mezzo ai carcerati, non sono una persona violenta”. “Tanto ci vuole per farlo vestire”, soggiunse in brigadiere. “Se deve andare in galera”, precisai, “diamogli il tempo di preparare un poco di biancheria intima”. “Ma chi ha detto che deve andare in galera?” dichiarò il milite. “Carluccio”, gridai, “non devi andare in galera”. “Non li prendete sul serio”, argomentò Carluccio, mentre usciva di casa, con un fagotto sotto il braccio, “lo dicono sempre per non spaventare l’imputato”. “Eccomi qua, possiamo andare”, soggiunse singhiozzando, mentre si avvicinava ai gendarmi, “non mi mettete le manette, che non me ne scappo”. “Signor Carlo Martone, vi dobbiamo dare una brutta notizia”, affermò il maresciallo. “Già lo so”, proruppe Carluccio, “a quale carcere mi avete destinato?” “Signor Carlo Martone”, riprese il maresciallo, “state tranquillo e non vi disperate. Non si tratta del carcere. La notizia è più brutta del carcere”. “Mamma mia”, propugnò Carluccio, “che vi è più brutto del carcere?” “La morte!” incalzò il maresciallo e vostra moglie è morta questa notte in seguito a un incidente stradale”. “Madonna mia, Gesù Cristo mio”, strepitò Carluccio, gettandosi in ginocchio per terra e sollevando le braccia al cielo, mentre le grida svegliavano il vicinato, “vi ringrazio, mi avete fatto la grazia!” Impazzito dalla gioia, si alzò, aprì il portone, uscì sulla strada e continuò a schiamazzare: “Correte, correte, facciamo festa per tutta la settimana con torta e champagne, Carmela è morta!” Da uomo sfortunato Carluccio divenne un uomo fortunato e non agli altri è riservata


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una fortuna simile, come dice il proverbio: cade la siepe e si aggiusta la strada. Il bravo uomo, con i soldi assegnati alla moglie per gli alimenti, che già viveva con il suo amante, riuscì un poco alla volta, mese per mese e con un pizzico di economia, a saldare il debito ai creditori e a sollevare i figli dal triste fardello. Antonio Visconte Santa Maria Capua Vetere, CE Segnalazione d’onore (Sezione D) al Città di Pomezia 2016. Antonio VISCONTE è nato in San Prisco (Caserta) nel 1935. Ha frequentato il liceo classico di Santa Maria Capua Vetere e l’Università Federico II di Napoli, laureandosi in lettere moderne. Insegnante di materie letterarie nelle scuole statali, ha svolto un’intensa attività di docente ai corsi abilitanti e preparazione ai concorsi a cattedra, di critico d’arte e cronista giudiziario. Ha pubblicato (nel 2000, quarta edizione) un vasto poema dal titolo IL MESSIA (14.400 endecasillabi sciolti, raccolti in ottave, proseguendo il filone poetico aperto dall’ Ariosto e dal Tasso) e - in latino - le sue memorie, nonché poesie e racconti vari. Compone musica per singoli strumenti, voci, orchestra e banda.

GEO E IL PODERE WIFI di Andrea Masotti

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EO era nato in campagna, figlio di di contadino, uno degli ultimi nella zona. Mattia a scuola lo prendeva in giro per il fango sulle scarpe e perché aveva raccontato che al mattino faceva colazione con un ovetto. “Le galline vivono in casa?” gli ripeteva “Dormono con te?”. Geo si era confidato con la mamma, ma l’ unica spiegazione era che ogni famiglia aveva un lavoro e la loro era una famiglia di contadini. Avrebbero avuto sempre aria buona, animali mansueti e prodotti freschi per mangiare. Per qualche anno Geo si era fidato. Poi i dubbi erano cresciuti con lui. “Cosa fai oggi?” Gli chiedevano i compagni. “Gioco con il mio cane Lotus” rispondeva.

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“Io con l’ultima play station! Tu ce l’hai?” lo incalzava Mattia. Di giorno in giorno Geo diventava più insofferente. “Papà, non passeremo tutto l’inverno ad aspettare che i cereali crescano?” “Si deve fare così, Geo. Ci vuole tempo per crescere”. “Ma è tempo perso”. Alle superiori era riuscito a farsi comprare il computer ed ebbe un’idea. La campagna doveva produrre in fretta, così ci sarebbe stato più tempo libero. “Se c’è più luce la frutta cresce prima. E se innaffiamo meglio i cereali aumentano”. Geo chiese al padre di modernizzare. Batterie solari consentirono a delle lampade di illuminare gli alberi da frutta e le verdure negli orti. Un sistema di pompe portò più acqua per irrigare. Spese una cifra ma a fine stagione un buon raccolto aumentò le vendite e il padre pareggiò quasi i conti. “Allora Geo, come vanno i tuoi esperimenti?” chiese Mattia, che girava con la cuffia nelle orecchie. “Bene. Sono solo all’inizio”. “E le mucche?” “Cosa intendi?” rispose Geo. “Con le ragazze ci troviamo tutte le sere. Tu stai bene con le mucche”. “Sabato vengo anch’io. Dove vi trovate?”. Geo pensò che lo stavano lasciando in disparte. Lesse di un sistema per tenere compagnia alle mucche. Fece acquistare amplificatori e qualche dischetto musicale. Alle mucche mise le cuffie sotto le corna. Meglio la musica rock, sarebbe venuto latte più vitaminico. Il latte infatti migliorò. Era ora di intensificare la produzione e ridurre i tempi. Così avrebbe avuto più giorni liberi. Ordinò prodotti chimici per far crescere il grano in fretta. Due raccolti l’anno, forse tre. E per mungere le mucche, macchine da applicare alle mammelle. Bastava passare la sera e raccogliere il latte. L’ultimo tocco fu collegare tutto con un sistema Wifi. Geo in-


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viava un messaggio e le lampade si accendevano, l’acqua girava nei canali, le macchine succhiavano il latte, i contenitori versavano mangime. Quell’anno fecero due raccolti e la frutta sugli alberi pesava il doppio. Passarono i mesi e venne la primavera. Una sera il vento soffiò forte come non succedeva da anni. I rami del frutteto scossero e i frutti caddero. I genitori cercarono di spostare le batterie solari al riparo ma non fecero in tempo e il vento le rovesciò e ne frantumò parecchie. La pioggia trascinò la frutta caduta nelle condutture che si bloccarono facendo allagare gli orti e gli ortaggi marcirono. Un blackout interruppe la musica e le mucche rimasero sole tra i tuoni. Terrorizzate scalciavano le macchine per il latte e rischiavano di strozzarsi con le catene. Il padre entrò con una pila e aprì i lucchetti. Le mucche fuggirono nei campi e li devastarono. Quando tornò Geo cercò di limitare le conseguenze, mentre il cellulare squillava. “Vieni all’Happy hour?” Chiese Mattia. “Certo. Le disgrazie non devono fermare” rispose e partì mentre i genitori cercavano le mucche. Era di cattivo umore e, malgrado qualcuno cercasse di consolarlo, non si divertì. Al ritorno non trovò nessuno. Un biglietto diceva che suo padre era caduto per riportare una mucca nella stalla e che era stato trasportato via con l’ambulanza. Cercò di chiamarlo, ma il cellulare, bagnato, non funzionava. Dove cercarlo? In provincia c’ erano tre ospedali. Si distese a letto. Mentre riposava arrivò il suo cane e appoggiando le zampe lo svegliò. Aveva fame e cercava compagnia. Non c’era tempo da perdere. Diede a Lotus una bistecca poi, inforcato lo scooter, partì verso l’ospedale più vicino, dove fu informato che il padre era stato operato a una gamba in un’altra sede. “Come stai, papà” furono le prime parole quando lo vide, con la madre vicino al letto,

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nel reparto chirurgico. “Bene, perché ti vedo. E il podere? Sei stato a casa?” “Il podere è in ordine. Lotus ha sorvegliato e le mucche sono tornate”. “Sì. Ci vuole qualcuno presente. Il cane ha fatto quello che poteva, ma solo per far piacere a te”. Geo riportò a casa il padre qualche giorno dopo e progettò ancora. In parte le innovazioni rimasero, perché erano utili e costose, ma decise di fermarsi almeno qualche ora tutti i giorni, eliminando i comandi a distanza e le sostanze sciolte nell’acqua, per aiutare e controllare che tutto funzionasse bene. Di raccolti ne bastava uno, se era buono. Il podere si prestava a organizzare patite di calcetto e alzò con gli ultimi risparmi una rete di pallavolo in cortile. Decise anche di organizzare delle feste, in campagna gli amici venivano volentieri più che all’Happy hour e si faceva musica dal vivo. Ma ritornò anche per Lotus che quando lo rivedeva gli saltava intorno e voleva giocare con lui. Il suo tempo era tornato quello degli alberi e delle foglie, degli animali e delle piogge. Non l’avrebbe più perduto.

Andrea Masotti Bologna 1° Premio (Sezione E) al Città di Pomezia 2016. Medico, Andrea MASOTTI scrive già dall’ infanzia. Negli ultimi anni ha partecipato con successo a vari concorsi nazionali di poesia e narrativa tra cui Città di Pomezia - sez. Poesia singola. Ha pubblicato poesie con CFR (Nun si cuntunu i ciri nta l’artari - Non si contano i ceri sugli altari, scritti per una cultura della legalità e Cronache di Rapa Nui), Giraldi, Perrone Lab, e racconti sempre con Perrone, Nottetempo (Racconti nella Rete 2008), riviste letterarie. Nel 2010 ha pubblicato il romanzo “Intrigo sulla Moskova” editore Ibiskos, che ha ricevuto vari riconoscimenti tra cui il 1° Premio per la narrativa edita a Viareggio, Premio speciale della giuria a Cattolica e al Premio L. Europeo via Francigena, finalista ad Arona. Nel 2014 ha pubblicato il romanzo breve “Preferisco il rumore del mare”, scritto a quattro mani con Giovanna Astori e due racconti gialli con Damster Editore.


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LA STORIA DI BABALÙ di Marina Ristè ’ERA una volta un ragazzino di nome Balù; lui però balbettava e non riusciva a dire bene il suo nome; così era soprannominato da tutti Babalù. Un giorno nella sua città arrivò un terribile gigante: tutta la popolazione fu terrorizzata e nessuno aveva il coraggio di uscire per la paura di essere scoperto; allora Babalù pensò di andare a parlare con il gigante. - Dove vai Babalù, non hai paura del gigante? - No-no-no, i-i-io n-no-n ho pa-pau-r-ra deldel gi-gi-gan-te. Detto questo, Babalù prese il suo gatto Flix e si avviò verso la montagna dove si era stabilito il perfido invasore. Arrivato ai pressi della montagna, Babalù chiamò il gigante: - D-do-dove s-sei? Una rimbombante risata fece tremare le pietre della montagna che cominciò a sgretolarsi. - Dove vorresti andare, piccoletto, e che razza di lingua parli? - Io ba-ba-balbet-to. - Ma come sei divertente! Sai che hai avuto un bel coraggio a venire qui? - S-sì, l-lo so. - Facciamo un patto: se riesci a farmi ridere ancora, ti prometto che scapperò e non tornerò più e, se non manterrò la mia parola, morirò. - Va-va-va be-bene. Babalù prese il suo gatto e gli ordinò di andare ad infastidire il cane di Patricia e rincorrerlo proprio dove era seduto il gigante. Il gatto Flix obbedì e poco dopo Babalù lo vide arrivare inseguito dal cane. Il gatto incominciò a correre sopra i piedi del gigante e dietro Babalù che li rincorreva cercando di prendere il suo gatto. - F-Fli-Flix! F-Fli-Flix! F-Fli-Flix! A questo punto, il gigante incominciò a ridere a crepapelle, un po’ per il solletico ai piedi che gli facevano il gatto, il cane e Babalù rincorrendosi e un po’ per la voce balbuziente del

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povero ragazzo che continuava imperterrito ad urlare: - F-Fli-Flix! F-Fli-Flix! F-Fli-Flix! Il gigante continuava a ridere, a ridere e non riusciva a trattenersi, tanto che dovette dire a Babalù di smettere, altrimenti sarebbe scoppiato dalle risate. - A-all-allo-allora, te-te ne andrai? - Oh, oh, oh, non preoccuparti: certo che me ne andrò! - E-e ci-ci la-sce-lasce-lascerai pe-per sesem-sempre? - Ma certo! Ah, ah, ah, dillo ancora, per favore, continua a parlare. - No-non, non vo-vo-voglia-vogliamo più veveder-vederti; no-non ci fa-fai pi-più pa-papapapau-papaura. - Uh, uh, ah, uh, uh! Era da tanto tempo che non riusciva a ridere così; promettimi che ogni volta che avrò voglia di ridere, tu mi aiuterai come oggi. - Ce-ce-cer-cecerto; pe-pe-peperò no-no-non de-dede-devi fa-fafar-fa-farci più de-de-dema-mama-mamale, ha-hai ca-ca-ca-cacapito? - Oh, oh, uh, uh, ah, ah! Certo, certo, tutto quello che vuoi, allora ti chiamerò io. Ciao Babalù. Dopo aver detto quelle parole, il gigante scappò via ancora ridendo e felice perché aveva trovato un amico con un linguaggio tanto curioso da farlo ridere così di cuore che nessuno c’era mai riuscito. Babalù ritornò trionfante e tutta la popolazione ne fu entusiasta, per lui nella città ci fu una festa bellissima con la banda, i fuochi d’artificio e dolci di tutte le specie. Ci fu musica, danze e una grande pesca di beneficienza; tutto intorno risuonava di canti, gioia e grida per festeggiare Babalù. - Evviva Babalù! E tutta la popolazione in coro: - Evviva, evviva, evviva Babalù! - Gra-gragra-gragrazie! - Evviva, evviva, evviva! ...E da quel giorno il gigante divenne buono ed ogni volta che si sentiva triste ed aveva bisogno di ridere, chiamava Babalù, il suo gatto e il cane di Patricia per farsi fare il solletico ai


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piedi: così avrebbe incominciato a ridere a crepapelle come quel giorno in cui era arrivato in città. Marina Ristè Jesi, AN 2° Premio (Sezione E) al Città di Pomezia 2016. Marina RISTÈ è NATA A Jesi (AN), dove vive, il 28 luglio 1961. Coltiva la passione per l’arte fin dall’adolescenza; nel corso degli anni, ha ottenuto numerosi riconoscimenti per le sue opere: poesie, canzoni, favole e romanzi. Non limita la fantasia ad un solo genere: gialli, fantasy, fantascienza, ma soprattutto romanzi d’amore, filo conduttore di tutte le sue opere. Le sue pubblicazioni varie fra racconti, romanzi, poesie e favole sono fino a questo momento diciassette, ma le sue opere diventano anche sceneggiature dove una in particolare ha passato la prima selezione di un concorso cinematografico; ma il suo impegno è anche quello di aiutare altri autori ad emergere con prefazioni, recensioni e articoli. Ha frequentato due corsi sulla scrittura creativa e uno per il teatro.

L’INVASIONE DEGLI ANGELI di Elisabetta Di Iaconi

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E campagne erano spopolate e le città, intasate dal traffico, soffocavano per lo smog. Profughi, scappati dalle guerre in corso in tutti i continenti, percorrevano sentieri, deserti, mari in tempesta. Le abitazioni non erano più il nido protettivo: furti e violenze avvenivano a ritmo crescente. Tra la gente cresceva il disamore, l’ invidia, l’odio. Chi aveva le chiavi del potere si abbandonava alla corruzione. Per i pochi buoni e i rari giusti le sofferenze erano inaudite: erano preda di sconforto e di depressione. Ciclicamente, il pianeta Terra, percorso dalle forze del male, pareva sul punto di concludere la sua storia. Le grandi civiltà, che avevano lasciato tracce meravigliose nei monumenti, nella letteratura, nei dipinti, stavano per estinguere il loro influsso sui popoli avviliti. Un giorno, però, inspiegabilmente tutto mutò. Giunsero angeliche creature in missione speciale, per cambiare il mondo, senza farsi riconoscere. Vennero privi delle loro soffici ali e

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si confusero tra la gente comune in tutti gli stati, ognuno con un compito da svolgere: uomini e donne impegnati per compiere un prodigio. I mutamenti, prima esigui e inconsistenti, si fecero più importanti e decisi. Qualcuno si sorprese a pensare cosa fosse accaduto e di chi fosse il merito di una trasformazione così spettacolare. Tutti i governi adempivano con specchiata onestà ai loro doveri e così avveniva per l’ultimo operaio e per il massimo dirigente. Si completarono opere pubbliche, si ripulirono i fiumi e i mari. Soprattutto, nelle nazioni in guerra cessarono le ostilità e iniziò la ricostruzione. C’era da restare stupefatti! Chi operava nell’ombra dietro quella rinascita? Alcuni cominciarono a guardare in faccia coloro che li sfioravano per strada, nei locali, sugli autobus, alla ricerca di un tratto speciale, di un gesto rivelatore; ma non riuscivano a scoprire nulla. Le schiere in incognito continuavano a lavorare sulle coscienze. Lentamente, gli affetti, la solidarietà, la speranza e la gioia si diffusero; il pianeta divenne un nuovo eden. Il miracolo agognato si realizzò: fervore di attività ovunque, sia nelle zone rurali che nelle grandi città. La pianta degli ideali si irrobustì, creando individui forti e responsabili. Cessarono le guerre: in un’atmosfera di fraternità fra i popoli, sembrò possibile la realizzazione del messaggio evangelico che ha propugnato la legge dell’amore. Elisabetta Di Iaconi Roma 3° Premio (Sezione E) al Città di Pomezia 2016. Elisabetta DI IACONI collabora a varie riviste (“Silarus”, Pomezia-Notizie”, “Voce Romana”, “Voci dialettali”, “Romanità”). Frutto di appassionati studi sul dialetto romanesco del Seicento è il libro sul poeta Giovanni Camillo Peresio (Editore Rendina). Ha dato alle stampe le sue poesie, raccolte da decenni (“Quel fremito antico...”) e il romanzo per la gioventù “Un enigma di quartiere”, oltre alla silloge “Er celo s’arischiara” in dialetto romanesco, nonché ”La chiave ignota” edita nel quaderno letterario Il Croco di Pomezia-Notizie. Ha inoltre pubblicato “Elementi di lingua. Tecnica delle comunicazioni”, in collaborazione con Laura Pedone (Editoriale Scientifica).


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INCONTRO CON L’AUTORE: Selected Poems di Fabio Dainotti, fra tradizione ed avanguardia di Virginia Corvino Docente di Lingua e Civiltà Inglese, anglista e progettista europea

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ABIO Dainotti, già professore di Letteratura italiana e latina, dantista, giornalista, è un intellettuale dalla fervida attività artistico-culturale, impegnato a Cava de’ Tirreni e in tutta Italia, fino agli Stati Uniti e le sue opere sono già presenti in numerose antologie italiane ed estere, fino al Bunker poetico della Biennale di Venezia nel 2001. La sua ultima fatica letteraria è la raccolta di poesie, Selected Poems1, tradotta dalla prof.ssa Rosaria Zizzo, ed è il risultato di un lungo percorso artistico che ha portato il poeta Dainotti alla prima traduzione in lingua inglese di molte delle sue liriche contenute in altre raccolte già famose, pubblicate dal 1997 ad oggi. I Selected Poems raccolgono, appunto, diciannove tra le sue più celebri liriche, più tre poesie inedite. La particolarità di questi com-

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ponimenti poetici si può cogliere nelle piccole dediche agli affetti personali del poeta ed, allo stesso tempo, a personaggi illustri della letteratura da cui, chiaramente, lo stesso autore trae ispirazione. Attraverso la lettura del componimento Sera che dà il titolo all’omonima raccolta del 1997 From Sera (1997), tradotto per i Selected in Evening, ripercorriamo in pochi versi tutta la storia universale della poesia che da Dante: “Era già l’ora che volge al desio”2 arriva a Foscolo “Alla Sera”3, a Leopardi “La sera del di’ di festa”4, a Pascoli “La mia sera”5 alla stringatezza del verso ermetico di Quasimodo, “Ed è subito sera”6. Ma Fabio Dainotti mostra ancora qualcosa in più: quel senso del reale, così presente, così materialmente concreto, proprio perché legato alla carnalità degli affetti familiari, come denota la dedica posta in cima alla poesia In Loving memory of grandma Anna Maria (in memoria di nonna Anna Maria). Inoltre, non c’è solo il richiamo alla letteratura classica, ma tutta la sua lirica risente dell’influenza della letteratura internazionale, soprattutto della matrice mitteleuropea, di autori del calibro di Thomas Mann, Franz Kafka, Robert Musil, e ancora James Joyce e Thomas Eliot. L’influenza della letteratura mitteleuropea si avverte proprio nella lirica Cane e Padrone, inserita nella raccolta de La Coscienza captiva in Maliardaria (2006), dedicata proprio a Thomas Mann, perché rimanda espressamente al racconto dell’autore tedesco “Herr und Hund”7, appunto Cane e Padrone, che in inglese la prof.ssa Rosaria Zizzo ha voluto rendere nel titolo, aggiungendo l’ aggettivo possessivo ‘its’: A dog and its owner, il suo padrone. Il racconto narra la storia di una “corrispondenza di amorosi sensi” tra il padrone e il suo cane, un rapporto idilliaco, “una comunione di pari dignità”8; questo cane bastardino dà tanta gioia di vivere al suo padrone semplicemente con l’esserci (il Dasein esistenziale di Heiddegger)9, con la sua affettuosa presenza, e le cose più piccole, più umili diventano “sublimi” in una visione di


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goethiana humanitas. Lo stesso Thomas Mann dirà che “... le parole grosse, trite come sono, non si addicono ad esprimere cose straordinarie, vi si riesce meglio sublimando quelle piccole, portandole al culmine del loro significato”10. Deve essere molto cara questa poesia al poeta Dainotti perché userà quest’ultima terzina come dedica introduttiva, come incipit ai Selected Poems: “It seems to us decay, but someone younger now, once grown up, will remember it...” Si noti, ancora, che nella traduzione in inglese c’è l’aggiunta di “once” (una volta); questo avverbio di tempo nella versione italiana non è presente, ma in inglese viene sapientemente inserito dal traduttore per dare una maggior enfasi a quello che l’autore stesso vuol dire (“...una volta cresciuto...”). Da notare che quella “decadenza, quel degrado” a cui allude il Dainotti è di profonda attualità: si tratta di un degrado che investe tutti i campi del vivere, da quello prettamente materiale ed economico-sociale, a quello psicologico, fino a toccare la sfera spirituale ma, soprattutto, un degrado valoriale, come lo stesso Thomas Mann aveva affermato nel suo celebre romanzo ‘Morte a Venezia’11, laddove la malattia, la morte simboleggiano il mal de vivre du siecle, una realtà malata, appunto, dove il privilegio della diversità si paga con l’ estraniamento e la solitudine; in fondo è, questa, la morte spirituale. Questo mal de vivre è quel patrimonio ereditario che ci lascia il secolo scorso, il Novecento, con le sue grandi scoperte scientifiche, col progresso tecnologico, che nulla hanno potuto, però, contro i grandi sconvolgimenti delle guerre mondiali e le grandi catastrofi ambientali e umane che si sono, poi, susseguite12. Questo scenario viene abbozzato magistralmente nella poesia dal titolo Novecento, inserita nella raccolta La Coscienza captiva in Maliardaria (2006), tradotta nei Selected in The Twentieth Century (Il XX secolo). Qui la poesia di Dainotti si fa nel contempo

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musica e pittura: è come ammirare un dipinto del ‘900, quale può essere un quadro di Picasso (pensiamo a ‘Le Moulin de la Galette’); la poesia è un vero e proprio sketch sul Novecento; del resto l’ombra del secolo scorso è onnipresente nella lirica di Fabio Dainotti in pieno stile modernista, così come è vivo in lui il discorso pittorico. In un pomeriggio di fine estate, ai tavolini dei caffè all’aperto di New York si affollano uomini intenti a chiacchierare, davanti a una pinta di birra, di amori impossibili e di belle sconosciute. Ecco, una scena da film d’autore in bianco e nero. In questo caso, la poesia non è corredata di dedica ma, rileggendola più attentamente, si scopre che, tra le righe, riecheggia un altro nome illustre: si tratta di Thomas Eliot, evocato attraverso la definizione che il Dainotti dà degli uomini che affollano le strade di New York, ma che si ritrovano ormai in tutti i luoghi del mondo, ossia Hollow Men13 (Uomini Vuoti); quegli uomini, dunque, che non hanno identità, personalità e sussurrano parole vuote e si prostrano come dei servi alla tracotanza del potere. Come non riconoscere, poi, in questa lirica la tecnica del correlativo oggettivo, affinata e messa appunto da Eliot, laddove l’oggetto diventa metafora esistenziale: ‘una tromba solista’; ‘la ghiaia celeste’ ‘le statue’; ‘le tre note’ dove, appunto, una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi si trasformano nella formula di un’emozione14. Ebbene, questo tratteggiare sapientemente, come un pennello fa sulla tela, scene di vita quotidiana è proprio una nota distintiva della lirica di Fabio Dainotti dove il quotidiano, il banale incalzare della vita vissuta in modo inconsapevole degli Hollow Men, zombi viventi, uomini senza qualità, come direbbe Musil15, anime dannate dantesche (ecco ancora la morte che ritorna come metafora del mal de vivre) irrompe nella visione d’insieme; ‘hollow’ è usato anche da Shakespeare, nel Giulio Cesare, nel monologo di Bruto riferito ai cospiratori di Cesare16; ma anche la definizione di “materia di sogni” ricorda Romeo e Giu-


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lietta17, dove il sogno è un’altra parola chiave che irrompe nella lirica di Dainotti, come nella poesia Sogno premonitore, sempre tratto da La Coscienza captiva in Maliardaria (2006) tradotto per i Selected in Prophetic Dream (Sogno Premonitore). Ci sono due citazioni illustri, da Catullo e da Saba e, poi, la dedica personale al padre: To My Father. Nella sua classicità, Sogno premonitore rivela un tema di grande modernità: l’uccisione simbolica del padre, di freudiana memoria, laddove la citazione di Saba, scelta dal poeta a corredo della poesia appare calzante: Mio padre per me è stato l’assassino fino ai vent’anni che l’ho conosciuto L’ombra del padre sembra quasi si aggiri in questa poesia come il fantasma del re di Danimarca, morto per mano del fratello assassino, che si palesa ad Amleto in cerca di vendetta e avvertiamo anche la presenza di Dante (Inf. XXVI verso 7: Ma se presso al mattin del ver si sogna), sempre così predominante nella poetica di F. Dainotti, in particolare proprio nel verso: “..all’alba, quando i sogni son veri”. E riappacificarsi col proprio padre, a volte, può accadere solo dopo la morte e il sogno diventa il luogo ideale d’incontro dove vita e morte si annullano per un attimo e anche chi è nell’ al di là può ritornare da “dove dicono nessuno ritorni” (Catullo, III, v.12: Illuc unde negant redire quemquam). La grande capacità di F. Dainotti, dunque, è proprio questo sapiente slittare tra la tradizione classica e quella modernista, non solo, ma ancor di più si avverte lo spirito di quella post-ermetica. Leggendo alcune poesie, quali Even Milan wakes up at this hour (Anche Milano si sveglia a quest’ora) e in It rains (Piove) e molte altre delle sue liriche, forte è il richiamo alla poetica del Postmodernismo. Queste poesie ricalcano i grandi saggi critici sul postmodernismo, in cui si assiste all’ industria culturale che entra di diritto nell’ opera d’arte facendole perdere la sua aura

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magica, la sua unicità e asservendola alla logica del mercato, alla società di massa, dove il lettore diventa consumatore e il pubblico audience18. E’ l’epoca, questa, della pubblicità, della cultura dell’immagine, del simulacro, ben rappresentata in arte dalla Pop Art e dal fumetto, in fotografia dal photorealism, in musica dalla new wave, dal punk, dal rock, in letteratura dal pastiche; con la fine delle grandi ideologie, la realtà svela tutta la sua frammentarietà e la sua schizofrenia lacaniana, ed i significanti sono portatori di significato. Tutto e’ in superficie in questa estetica del populismo di massa19. Oggi, Internet e la società 2.0 non hanno fatto altro che acuire questo fenomeno di delirio collettivo: l’eroe classico sembra non esistere più e lascia il posto ad un anti-eroe, mediocre e senza spina dorsale, calato profondamente nella prosaicità del vivere contemporaneo. Tutto ciò si avverte, appunto, nella poesia Anche Milano si sveglia sempre a quest’ora dove la figura della cassiera, annoiata dalla vita e da un lavoro che non le darà possibilità di carriera, manda tutto alla malora (“let all go to hell”), negando pure gli stessi oggetti di seduzione, quali ‘stockings’ e ‘lipstick’ che aveva usato per sedurre l’uomo di turno ma, in fondo, lei è cosciente che si tratta dell’ennesima fregatura (“cheat”). In Piove, invece, il setting, la location è Battipaglia, comune in provincia di Salerno, e la protagonista è la classica mamma moderna, impegnata tra casa, lavoro e intenta a far scorazzare i pargoli nel SUV in compagnia del suo fedele cane sul sedile posteriore (sembra che di fedele gli sia rimasto solo il cane!.. e l’ occhio attento del poeta che si affaccia alla finestra, aspettando di vederla pronta a fare la spesa dal suo fruttivendolo, con i suoi capelli sottili bagnati dalla pioggia, come in “una reclame di un bagnoschiuma”). Ma intanto la sua bellezza sfiorisce sotto i colpi incessanti del tempo che passa inesorabile. Il mondo della pubblicità, l’incontrastata regina della comunicazione dei nostri tempi, entra dirompente nella lirica del Dainotti, così


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come la vera protagonista è la daily routine, fatta di situazioni quotidiane che appaiono come degli short sketches of life e di gesti apparentemente banali ma che viene filtrata dal processo lirico del poeta. Dopotutto è l’arte che dà unità alla frammentarietà, al caos del vivere contemporaneo, soprattutto quello avvertito nelle grandi metropoli che tutto fagocitano, laddove la città diventa metafora del mondo globalizzato. E fra le tre poesie inedite, contenute alla fine dei Selected, ossia: Le parole che non ti ho detto, Senza esclusioni di colpi, e Ricerca di senso a Milano, è proprio quest’ultimo componimento che, appunto, incarna il mondo metropolitano dove si innescano tutte le dinamiche vitali dell’individuo, componimento che è tradotto in Searching for meaning in Milan. Si tratta davvero di un piccolo capolavoro; si notino le due citazioni che introducono l’ argomento in medias res: la prima di Salvatore Quasimodo, che è il reale protagonista della poesia stessa. Tale citazione rimanda alla lirica Mater dulcissima, inserita nella raccolta di poesie del 1949, La vita non è un sogno, dedicata alla madre malata che vive da sola lontana dal figlio che è in cerca di fortuna nella speranza di affermarsi come poeta a Milano, ma che vive ancora in povertà “con un cappotto corto e pochi versi in tasca”20, come dice lo stesso Quasimodo di sé, preoccupato per la salute della madre e pronto a partire in “infiniti andirivieni”, proprio come recita l’altra citazione “Perché questo andare e venire” di Ledo Ivo21, uno dei più grandi artisti della letteratura brasiliana, scomparso nel 2012 a Siviglia. Ma tra le righe, avvertiamo la presenza di un altro mostro sacro della letteratura internazionale, James Joyce che col suo ‘Ulysses’ riprende, attraverso il protagonista Leopold Bloom, il mito di Ulisse e dell’eterno peregrinare umano in questo ‘Wandering around the city’ senza meta e senza senso; così nella lirica del Dainotti, il labirinto metropolitano si proietta in una dimensione atemporale e vive una dimensione mitica di infiniti andiri-

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vieni, in un circuito di eterno ritorno tra il paradiso, ormai perduto del passato, la caduta, di cui si vedono gli effetti nel presente e ancora il ritorno, come speranza di futuro migliore: Paradise - Fall - Return22. E quel sì (‘yes’) nell’ultimo verso della poesia sembra confermi la presenza dell’illustre irlandese ricordando proprio la chiusura dell’Ulysses, col celeberrimo e lunghissimo monologo interiore di Molly Bloom dove non vi è alcuna punteggiatura, ma solo un concitato fluire di parole apparentemente senza senso, come generato da un delirio onirico in cui la donna rievoca tutta la sua storia, fatta di continui tradimenti, continue delusioni e insoddisfazioni per il suo matrimonio, e per la vita stessa, ritorna a casa e accetta col sì di provarci ancora, di riprovare a vivere23; in fondo, dopo tutto, domani è un altro giorno24! E questo “sì” alla vita è la piena consacrazione che il Dainotti fa degli affetti familiari: la nonna, il padre, la donna amata, la figlia, gli amici sono gli emblemi di una vera e propria “religione dainottiana”, che si innesca sapientemente con i grandi temi esistenziali e sociali e rende la sua lirica così unica. Mi piace, a conclusione, riportare un autorevole giudizio critico di Giovanna Scarsi: “Con Selected Poems, Fabio Dainotti, poeta laureato, si colloca nel panorama della poesia post-ermetica in una dimensione di autonomia e di aristocratica solitudine. L’ essenzialità, l’eleganza, l’immediatezza comunicativa di visibilità e di musicalità di questa poesia sono il risultato di una ricerca paziente e tenace in cui la trasversalità della cultura delle fonti fra passato e presente si concilia con la classicità di una cultura che va al di là del tempo e dello spazio e si annulla nel filtro di un’emozione di una creatività pura e vera. Quasi a dire, riferendomi ad un modello antico e caro, il Canzoniere di Petrarca, che l’ emozione si riscalda in punta di penna ma ti perviene al cuore attraverso il filtro ed il controllo della grande preparazione letteraria e della tecnica poetica che sono a monte”25. Virginia Corvino NOTE BIBLIOGRAFICHE


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F. Dainotti, Selected Poems, New York, Gradiva Publications, 2015 - traduzione a cura di R. Zizzo, edito da Irene Marchegiani. 2 Dante, Purg. VIII verso 1. 3 U. Foscolo, Alla Sera, SONETTI - I ed. 1803; Foscolo, Sepolcri. Odi. Sonetti, a cura di Donatella Martinelli, Milano, Oscar Mondadori 1987. 4 G. Leopardi, La sera del di' di festa, IDILLI, I ed. 1820 - Titolo dell’Opera Canti -I edizione dell'opera 1831, presso l’editore Piatti. Mentre la poesia, composta nel 1820, comparve per la prima volta nel 1825 sul “Nuovo Ricoglitore”. 5 G. Pascoli, La mia sera, dalla Raccolta di Poesie I CANTI di CASTELVECCHIO, Bologna, Zanichelli, 1903. 6 S. Quasimodo, Ed è subito sera, poesia di apertura della raccolta omonima Ed è subito sera, Milano, Mondadori, 1943. 7 T. Mann Cane e padrone racconto pubblicato la prima volta nel 1919 col titolo Herr und Hund: ein Idyll, in una edizione contenente anche il poemetto in esametri. Noi seguiamo Cane e padrone e altri racconti traduzione di Ingrid Harberck, Milano, Feltrinelli Editore, ed. I Classici, maggio 1994. 8 G. Gramigna, «Uomini e animali la differenza allo specchio», Corriere della Sera del 26 novembre 1992. 9 Nella lingua tedesca comune Dasein equivale ad «esistenza» (Existenz) intesa nel senso della «realtà effettiva» (Wirklichkeit) o dell' «essere lì davanti» (Vorhandensein) di qualcosa. Heidegger conferisce al termine un significato particolare e lo trasforma in un concetto cardine sul quale impernia tutta la sua prospettiva filosofica: esso indica quindi il peculiare modo di essere della vita umana, radicalmente distinto dal modo d'essere di tutto ciò che non è umano. Heidegger ne dà questa definizione: «L'analitica esistenziale studia dunque l'Esserci nel carattere assolutamente singolare del suo essere (esistenza), non nei caratteri che esprimono la diversità fra individuo e individuo (essa ha portata esistenziale, non esistentiva); perciò non può risolversi nell'antropologia, nella psicologia, nell'etnologia, nella biologia. Essa studia la realtà umana nella sua struttura e non nel suo apparire», M. Heidegger, Essere e Tempo, IX. 10 T. Mann, da Cane e padrone p.84 - Cane e padrone e altri racconti traduzione di Ingrid Harberck, Milano, Fetrinelli Editore, ed. I Classici, maggio 1994. 11 T. Mann, Der Tod in Venedig, 1912; tradotto in italiano come La morte a Venezia, Berlin, S. Fischer, 1919. 12 M. Adorno e T.W. Horkheimer, La Dialettica dell'Illuminismo, Amsterdam, 1947.

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T.S. Eliot, The Hollow Men, London, 1925 Ricordiamo che nella lirica italiana questo concetto trova la sua più alta espressione nella poetica di Eugenio Montale. 15 R. Musil, L'uomo senza qualità (Der Mann ohne Eigenschaften), Berlino, 1930-1933. 16 W. Shakespeare, Julius Caesar , Atto II, scena 1 . 17 W. Shakespeare, La tempesta - Prospero: atto IV, scena I: « Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d'un sogno è racchiusa la nostra breve vita ». 18 W. Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della tecnica, 1936. 19 F. Jameson, Postmodernism, or The Cultural Logic Of Late Capitalism, New Left Review I/146, July-August 1984 and Terry Eagleton, Capitalism, Modernism and Postmodernism, New Left Review I/152, July-August, 1985. 20 S. Quasimodo, Mater dulcissima, vv. 12, 13 nella raccolta di poesie La vita non è un sogno, Milano, A. Mondadori, 1949. 21 L. Ivo (Maceió, 18 febbraio 1924 – Siviglia, 23 dicembre 2012) poeta, saggista e giornalista brasiliano. Ivo è stato uno dei più importanti letterati brasiliani moderni, membro del movimento "Generazione del 1945". Era membro dell'Academia Brasileira de Letras. Nel 1990 fu eletto intellettuale dell'anno in Brasile e nel 2009 ottenne il premio Casa de las Américas, nella categoria della letteratura brasiliana. È morto nel 2012 all'età di 88 anni per infarto a Siviglia. Di L. Ivo è stata pubblicata in Italia l'antologia Illuminazioni, a cura di V. Lúcia de Oliveira, Multimedia Edizioni, Salerno, 2001; la poesia da cui è tratta la citazione è: I poveri alla stazione degli autobus (Os Pobres Na Estação Rodoviária) contenuta nella medesima antologia poetica. 22 M. Bradbury & J. McFarlane, Modernism, 18901930, London, Penguin Books, 1976; F. Rella, Miti e figure del moderno, Feltrinelli, Milano, 1993. 23 J. Joyce, Ulysses, Episode 18: Penelope, I ed. 1922, - Ulisse, trad. Giulio De Angelis, Collana Oscar classici, Milano, Mondadori, 1973. 24 Scena finale del colossal, Via col vento, diretto da V. Flaming, 1939 - titolo originale GONE WITH THE WIND, universalmente riconosciuto come uno dei film più famosi della storia del cinema. Il film venne prodotto da D.O. Selznick e distribuito dalla Metro-Goldwyn-Mayer; la sceneggiatura, in buona parte dovuta a Sidney Howard, è tratta dal romanzo omonimo di M. Mitchell, vincitore del premio Pulitzer nel 1937. 25 G. Scarsi, durante la presentazione dell'autore, F. Dainotti, nella serata di Kermesse di Letteratura e di Arte del 15 Dicembre 2015 presso l'Aula Consiliare della Provincia di Salerno. 14


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SONIG TCHAKERIAN TRA MUSICHE E DANZE ARMENE. PER NON DIMENTICARE di Ilia Pedrina

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NCHE se è trascorso del tempo, l' esperienza non si può annebbiare, perché rimane incisa nell'immaginario emotivo di ciascuno di noi ed entra a far parte della conoscenza che ha senso profondo ed indelebile. Giovedì 11 giugno 2015, dietro ispirazione e progettazione di Sonig Tchakerian, musiche e danze armene hanno avvolto le scenografie fisse del Teatro Olimpico di Vicenza, coinvolgendo un pubblico sensibile e talora meditativo. L'evento è stato realizzato anche grazie alla partecipazione del Centro Studi e Documentazione della Cultura Armena, con il Patrocinio dell'Ambasciata della Repubblica Armena in Italia e dell'Armenian Genocide Centennial 1915-2015. Lei, la violinista Sonig, della quale ho trattato tante volte sulle pagine di questa Rivista, responsabile

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del Progetto Artistico per la Musica da Camera all'interno delle Settimane Musicali, ha inteso ricordare la sua terra d'origine e quel popolo che, antichissimo, ha dato vita a lingua, cultura, arte, musica e danza sacra o profana che sia, nonostante numerosi ripetuti tentativi di tranciare di netto la sua stessa esistenza. Lei, Sonig, ha portato per la prima volta a Vicenza il Trio Dabaghian, formato da Gevorg Dabaghian al duduk, strumento a fiato originale armeno, le cui ripetitive sonorità ti arrivano dentro e si fanno strada nel tuo vissuto, senza sforzo, in attesa di necessaria reiterazione, affiancato da Narek Mnatsakanyan, pure al duduk e da Kamo Khachatryan al dhol, strumento a percussione che struttura lo sfondo ritmico e scandisce, sfiorandoli o reclamandoli con forza, gli istanti che formano il tempo e gli andamenti dei passi di danza. Lei, Sonig, con Stefania Redaelli al pianoforte, ha associato e fuso insieme questo gruppo con Dialogos Danze, sotto la direzione artistica di Paola Varricchio e la partecipazione del musicista pianista Daniele Roi, esperto in danze barocche e del folklore popolare d'Armenia e ne è nato uno spettacolo efficace, intriso di cadenze appassionate, di memorie laceranti e di necessaria, consistente sfida, attraverso queste stesse sonorità, alle volontà malvagie ed assassine che hanno determinato il Genocidio di questo popolo, per decisione dei Giovani Turchi del nazionalista Ataturk. Di recente, il 2 Giugno 2016, il Parlamento tedesco ha riconosciuto il genocidio degli Armeni, provocando un vero e proprio terremoto politico nelle relazioni con la Turchia di Erdogan. Alcuni quotidiani hanno riportato situazioni e vicende di quell'epoca: questo dato non mi ha trovata impreparata perché tengo sempre a portata d'occhi e di mano il testo 'ARMIN T. WEGNER E GLI ARMENI IN ANATOLIA, 1915-Immagini e testimonianze', ed. Guerini e Associati, Milano, 1996, catalogo della Mostra fotografica e documentaria tenutasi a Milano il 22 aprile 1995, presso il Museo Archeologico in Corso Magenta 15, il cui Direttore, prof. Ermanno Arslan, di origine arme-


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na, è testimone di sangue dello sterminio della sua famiglia a Kharput e a Trebisonda. Armin Wegner è medico tedesco di origine prussiana ed al contempo testimone diretto e fotografo degli eventi che hanno portato alla distruzione quasi totale degli Armeni d'Anatolia. Il figlio Misha, in apertura del Catalogo sottolinea con spontaneità: “Trent'anni fa, credo intorno al 1965, avvenne l'ultimo grande trasloco nella vita di mio padre. L'intero Archivio, i manoscritti, i documenti storici, l' enorme biblioteca, passarono a Roma da Monteverde Vecchio al centro storico in via della Purificazione. Lo scioglimento, il trasloco e la ricostituzione del tutto, sotto la mia regia ed in buona parte sulle mie spalle, fu sicuramente una 'purificazione', ma vissuta con l'allegria e la forza della gioventù... ogni dibattito, ogni mostra è un appuntamento con mio padre, una scoperta di suoi inediti, una riscoperta della memoria 'del prima'. E non solo. È la felicità di poter dare un contributo alla parte migliore di noi stessi, alla parte migliore dell'uomo, ai valori dell'umanità, che inesorabilmente si ripete nelle sue tragedie. Devo molto alla nuova famiglia degli Armeni, come a dei parenti ritrovati. È la scoperta di un linguaggio che ci accomuna, di uno stesso respiro. Così il 'prima' e il 'dopo la morte', la causa di singoli e di un popolo si amalgamano in una causa generale fuori dal tempo riempiendomi e motivandomi. Ne sono grato e intendo ricambiare” (op. cit. pag 13). All'interno di questo prezioso testo storico sono presenti i contributi di Mario Nordio, presidente dell'Associazione Italiarmenia, di Antonia Arslan, scrittrice, di Anna Maria Samuelli, intellettuale responsabile della parte storica e dei testi del catalogo, Carlo Massa, amico d'infanzia di Misha Wegner, Vartuhi Demirdjian Pambakian, figura di spicco della cultura e delle tradizioni armene nella città di Milano. Segue la sezione dedicata al profilo del medico Armin T. Wegner, a cura della stessa Samuelli, estratti dalle lettere, '… un percorso cosparso di dolori...', come le definisce egli stesso e dunque si arriva alla sezione delle fotografie.

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Scrive il Wegner: “Negli ultimi tempi ho scattato molte fotografie. Mi hanno raccontato che Gemal Pascià, il carnefice siriano, ha proibito pena la morte, di scattare fotografie nei campi dei profughi. Io conservo le immagini di terrore e di accusa legate sotto la mia cintura. Nei campi di Meskene e di Aleppo ho raccolto molte lettere di supplica che tengo nascoste nel mio zaino in attesa di consegnarle all'ambasciata americana a Costantinopoli, perché la posta non le avrebbe inoltrate. Io so di commettere in questo modo un atto di alto tradimento, e tuttavia la consapevolezza di aver contribuito per una piccola parte ad aiutare questi poveretti, mi riempie di gioia più di qualsiasi altra cosa che abbia fatto. Armin T. Wegner Aleppo, 19 ottobre 1916” (op. cit. pag. 71). Le pagine successive portano le testimonianze fotografiche agghiaccianti del genocidio di questo antichissimo Popolo Armeno (pp-72-128), le quali vanno a preparare la sezione documentaria del medico tedesco, costituita di pagine di diario, del testo della sua 'Lettera aperta al Presidente degli Stati Uniti d'America Woodrow Wilson', pubblicata sul Berlin Tageblatt il 23 febbraio 1919, schietta, lucida, circostanziata, decisa nelle richieste, carica d'ardore e del pieno senso di verità e di giustizia (ibid. pp. 137.146); poi segue il testo, con lunga prefazione del Wegner, del processo contro lo studente armeno Soghomon Tehlirian, che aveva ammazzato Talaat Pascià, ex ministro degli interni turco ed infine il testo della 'Lettera aperta al Cancelliere del Reich Adolf Hitler', redatta subito dopo la stretta morsa contro gli Ebrei nella Pasqua del 1933, fatta recapitare a Monaco, alla Casa Bruna e con ricevuta firmata da Martin Borman (ibidem. pp. 155-165). Qualche pagina oltre, scrive Armin Wegner in 'Congedo da me stesso': “... Una parte della mia anima era legata ad Israele, una parte all'Armenia, una parte all'Italia e un'altra all'Inghilterra, un'altra parte di me amava nuovamente la gioventù tedesca, un'altra viveva in Turchia e in Arabia nella città di Baghdad, in Svezia o nella città di Berlino, dove avevo passato il tempo più lun-


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go della mia vita. Una parte sulle Isole Lipari, dove, ai piedi del vulcano Stromboli, avevo ristrutturato una torre per poter guardare il mare. Un'ultima parte piena di dolorosa nostalgia, restava nei miei sogni, là dove più di tutto mi ero sentito a casa, sulle rive dell'Oder in Slesia, lungo le quali ero cresciuto da ragazzo, una terra che d'ora in poi non mi sarà più possibile calpestare...” (ibid. pag. 170). Da questo percorso intenso ed inciso dentro ho imparato che è necessario usare estremo rigore e cura, vera preoccupazione spinta a non dimenticare, sfidando quella nebbia interiore che tutto devasta e tutto annichilisce, se si trascura di difendere la dignità umana e le sue caratteristiche, che danno alimento e forza, oltre che forma attiva, alla libertà, quella individuale come quella collettiva. Per rendere ancor più vivide queste tensioni mi sono messa in ricerca ed è disponibile in rete una esecuzione del grande violoncellista Mario Brunello in onore dell'Armenia e dei suoi canti, 'Canzoni Armene - per violoncello, torrente e poco vento', un video registrato da Sergio Gibellini tra i rifugi Tires e Sassopiatto, evento dell'8 luglio 2011: l'amico che riprende questo particolarissimo incontro, che tocca ogni corda della nostra sensibilità, sottolinea: 'Mario Brunello ha scelto un promontorio erboso sopra ad un nevaio ed un piccolo corso d'acqua, ai piedi di una parete rocciosa, per un concerto offerto ad un gruppo di escursionisti in trekking da Vogo di Fassa al Passo Sella. In questo video Mario Brunello esegue al violoncello quattro canzoni armene ed il vento riprende a soffiare forte proprio alla fine dell'esecuzione quasi che la natura avesse rispettato la bellezza della musica. Forse anche le numerose marmotte sulle pendici del monte si sono messe in ascolto senza fischiare.' (video citato, fonte 'you tube', postato il 17 luglio 2011). In una documentazione successiva, il 6 luglio 2013, Mario Brunello dedica a don Andrea Gallo, dall'altopiano delle Pale di San Martino, al Passo Pradidali, (m. 2658) la sua esecuzione di 'HavunHavun', antica melodia armena di Narekatsi, toccante, da vedere più e più volte, ascoltando

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in rapimento le parole del violoncellista che introducono in brano. Nella nostra mente questa dedica può essere dilatata in onore delle vittime della recente strage di Nizza, per non dimenticare. 'Havun-Havun' è stata inserita anche nell'evento tra le scene fisse del Teatro Olimpico del Palladio, quando la violinista Sonig Tchakerian ed i suoi amici hanno offerto al pubblico un'esperienza sacra e profana ad un tempo, semplice, intensa, dalla profonda portata culturale ed emozionale. Ilia Pedrina

FERRAGOSTO A TORINO Guaiti nella sera, respiri affannosi nel caldo infuocato d’agosto. Apparizione di fugaci presenze, paiono ratti sbucati da fogne. L’aria al mattino nello spazio solitario, la città non c’è in questi giorni. Piazze come stagni di pietra, i pochi sperduti abitanti ombre di superstiti, denudati di ogni aspetto, da ampie giacche ricoperti, vaganti nella fosca afa. Fantasmagoriche allucinazioni, dallo spiazzo a cubetti antistante i saloni barocchi si pensa l’uscita del Re verso il verde del parco. Pensieri stravaganti, l’illusione nella solitudine estiva spazia eccitata. La stazione ha divorato una città intera, le case sono ruderi, vecchiezza di pareti gravide di tempo. Giorni in libertà primitiva, esistenza di resti antichi tra pilastri abbattuti all’intemperie. Lo sguardo è verticale, sensazioni raffinate, si scompongono cornici e portali, mai visti, angoli giallastri macerati dalla ruggine. Gli extracomunitari lungo il fiume in fila, grossi volatili appollaiati. Frantumi d’oggetti infangati sulla riva. In lontananza flebili immagini di persone smembrate. Un’alluvione ha portato via la città, putridumi affioranti, luridi rifiuti, cartone pestato, barattoli, miseria svuotata. Leonardo Selvaggi Torino


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NAZARIO PARDINI E LA SUA LÈUCADE di Maria Grazia Ferraris I voleva l’intervento di Vito Lolli che evoca visivamente e simbolicamente Lèucade … (“… la silenziosa ed evocativa presenza di un vecchio faro in disuso sopra le poco visibili pietre perimetrali dell'antico tempio di Apollo: è il promontorio che costituisce la punta meridionale dell'isola, la meravigliosa scogliera verticale dove la tradizione colloca la scena del suicidio di Saffo. Lì è possibile l'ascolto del vento e del moto ondoso fino a dissolvere la sensazione del tempo. L'isola poetica è raccolta, separata dal mare ignoto e sempre rischioso. Chi vuole raggiungerla deve rinunciare ad ogni approdo e ad ogni stabile stazionamento. Deve lasciare la terraferma del senso comune e delle illusioni di conoscenza…”)… Ci voleva l’intervento suggestivo di Lolli, dicevo, (cui sono seguiti altri 20 ammirativi interventi!) che rievoca il senso il valore il colore la possibilità polifonica della poesia… perché Nazario Pardini decidesse di dedicare al suo blog, così generosamente aperto a tutti i venti, la “sua Lèucade”… e ne sentivamo il bisogno, così come quello della sua interpretazione: “Il viaggio tormentato di una memoria che dal ventre della terra cerca di proiettarsi in mondi di onirica bellezza” che passa attraverso il ripensamento che “le poète c’est la mer et le fleuve”… Lèucade dunque, l’utopia che ci aiuta a vivere. La poesia, la bellezza. “… E Lèucade è l’isola che non è, e mai sarà”… “ Lèucade rappresenta la purezza laica, la bellezza, l’isola dell’equilibrio classico, della realizzazione del supremo su questa nostra problematica terra; il tentativo di elevarci laicamente al sapore del durevole… Un’isola mitica e magica, irrealmente reale; un’isola a cui tutti i poeti sentono il bisogno di arrivare; carichi della voglia di approdare all’isola immaginaria…”.

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“Poesia è vita;… E che cosa è la vita se non che la memoria e il sogno…”: “… Ventilava/ zefiro eterno l’isola di Lèucade / eternamente dolce nel respiro/ di lavanda e di timo…” Excursus verso un mito del passato che si spalanca verso il futuro, rappresentato già da Ulisse che riprende, nonostante la nostalgia di casa, la sua navigazione: “… Qui tutto è sapido. Lo so! I profumi/ dell’isola, il ginepro, la lavanda,/ e tu che ho ritrovata. Ho sempre in mente/ il volo urlato della procellaria./ Mi strappava la carne...”. Magnifico intreccio di suoni e profumi, colori figure e significati. “Mi piace definirla - la Poesia- quella parte di noi che più si avvicina all’inarrivabile. Sì, all’inarrivabile; e finché avvertiremo questa voglia, questo impulso, questa necessità di elevarsi, esisterà anche il serbatoio della Poesia. Un traguardo quindi inarrivabile anche perché non esiste linguismo sufficiente a concretizzare questi input emotivi che l’anima genera…” Non v’è rimpianto nostalgico o accettazione incondizionata: è un Eden che accoglie il poeta e l’uomo in generale, con tutte le sue inquietudini e il suo bisogno di risposte e di serenità: “Lèucade non mi concesse/ morte né oblio, ma solo la ricchezza/ d’immagini feconde rivissute/ da un’anima al di sopra delle povere/ storie del giorno. E ti rivissi, vita,/con un sentire lieve e tanto amato/ che in ogni fatto lieto o meno lieto,/ ma scampato, vidi un superbo dono.”. Solenne endecasillabo che introduce una nuova fase della “ visione “ del poeta, onirico e turbato. Una dichiarazione di fede nella Poesia, un inno alla Bellezza imperitura. Fede pur nel dubbio che rende significativa l’ Utopia, valida sempre, nel passato e nel presente. Questi testi oltre che essere POESIA, sono una dichiarazione di poetica che collegano Nazario Pardini alla più alta poesia dei nostri ormai classici del Novecento. Mi sovviene una lirica –inconsueta- di G. Ungaretti, di potente polisemica ambiguità, che appare nel Sentimento del tempo, dal titolo L’Isola del 1925: l'isola, un paesaggio fuori dal tem-


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po che è un insieme di realtà e sogno, paesaggio di poesia - larva languente - o ninfa abbracciata ad un olmo - fiamma vera - che rappresenta anche un'interpretazione metafisica della vita e dell'arte. La voglio ricordare: Ungaretti: L'isola A una proda ove sera era perenne Di anziane selve assorte, scese, E s’inoltrò E lo richiamò rumore di penne Ch’erasi sciolto dallo stridulo Batticuore dell’acqua torrida, E una larva (languiva E rifioriva) vide; Ritornato a salire vide Ch’era una ninfa e dormiva Ritta abbracciata ad un olmo. In sé da simulacro a fiamma vera Errando, giunse a un prato ove L’ombra negli occhi s’addensava Delle vergini come Sera appiè degli ulivi; Distillavano i rami Una pioggia pigra di dardi, Qua pecore s’erano appisolate Sotto il liscio tepore, Altre brucavano La coltre luminosa; Le mani del pastore erano un vetro Levigato da fioca febbre. Sono motivi poetici inquieti di grande valore umanistico ben presenti al Nostro in un magnifico intreccio di figure di significato: la ricerca del tempo nel paesaggio come profondità storica; la sensazione di una civiltà minacciata di morte che induce alla meditazione sul destino dell’uomo e a sentire il tempo come effimero in relazione con l’eterno; la coscienza dell’invecchiamento e del morire della sua stessa carne, un possibile varco verso le regioni dell’assoluto: “mani di vetro levigato da fioca luce…”. Lèucade è forse una onirica moderna Arcadia, in cui le inquietudini si placano o trovano conforto nell’immaginazione di una terra unica esistente in qualche luogo della memoria e

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dell’immaginazione. Nella costruzione verbale dell’Eden, la parola è luce, pace, armonia, ma anche fiamma e febbre e la prospettiva è quella del miraggio, una costruzione mirabile operata dalla luce del sole sul deserto che ci circonda. Maria Grazia Ferraris

LE EMOZIONI DEL VENTO Il vento ha in serbo meravigliosi progetti didattici comprendenti significative schede operative. Si impegna caparbio nella soluzione dei problemi mettendoci impegno e lealtà. È intelligente e anche se a volte non riesce a gestire le sue emozioni nulla c’entra l’errore di Cartesio se il vento assai si arrabbia col vanesio, con quei che mal gestiscon la natura che si arricchiscon, compiendo ogni bruttura! Egli, si arrabbia tanto, tanto assai procurando a costoro guai e poi guai! Da sempre s’è raccolto quanto si è seminato, non certo è il vento, nemico del Creato bensì il malvagio perverso uomo ingrato! Maria Fausta Ascolillo Treviso

Nel rumore delle bombe a mano e dei cannoni da acqua sotto il volo di sorveglianza degli elicotteri ti scrivo che il nostro paese sta male quando la libertà di informazione dei giornalisti è manganellata dalle forze poliziesche Béatrice Gaudy Francia


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UN LIBRO DI

OSVALDO MARROCCO SULLE SILLOGI DI

ANTONIO VITOLO Il concetto e il senso della poesia – Dal Cilento al mondo intero di Luigi De Rosa

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L tempo scandisce l'ascesa. E' il titolo di un interessante libro che Osvaldo Marrocco ha pubblicato nella primavera del 2016, stampato presso la Digital Press di Santa Maria di Castellabate per conto delle Edizioni del Centro Culturale prt il Cilento Acciaroli, Salerno. Il sottotitolo è Tratti del cammino poetico di Antonio Vitolo – San Mauro Cilento 2004-2012. Di Antonio Vitolo mi sono già occupato, ma non nella sua veste di poeta quanto in quella di saggista, perché ho dedicato ad un suo saggio sull'amico poeta Gianni Rescigno un capitolo del mio recente libro sull'indimenticato Gianni ( Gènesi Editrice, Torino). Lì ho potuto apprezzare, direttamente da un testo di Vitolo, la sua vasta cultura e le sue doti letterarie. In questo libro di Marrocco trovo invece il Vitolo poeta, dalla produzione originale e profonda, che emana il profumo di un Sud tanto bello quanto, inevitabilmente, drammatico. Antonio Vitolo, nato nel 1961 ad Olevano sul Tusciano (Salerno) è un poeta ( oltre che narratore e saggista) che appartiene alla nobile “categoria” dei medici scrittori, e dopo cinque sillogi negli anni '90 , ha dato alle stampe – tra il 2007 e il 2015 – tre libri dedicati al paese di San Mauro Cilento, in cui svolge la professione medica di Continuità Assistenziale (ex Guardia Medica). Si tratta di Tracce salmastre rosso amaranto (Edizioni Centro di Acciaroli 2007), Bardo al crepuscolo ( 2007-2009, Ed. Ripostes, Battipaglia 2010), Saluto mareggiato, 2009-2012, Genesi Editrice, 2015). Sono numerosi i Premi vinti da Vitolo, così come le recensioni ottenute, e i saggi critici sulla sua poesia. Osvaldo Marrocco, col suo

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libro ben costruito e puntuale, ci offre una panoramica sensibile del cammino poetico compiuto da Vitolo negli ultimi anni, con particolare riguardo al centro di San Mauro Cilento e alle emozioni, sensazioni, riflessioni, più o meno felici o dolorose legate al centro cilentano, ai suoi abitanti e alle sue tradizioni. Tra le numerosissime recensioni spiccano quelle del critico letterario Giorgio Bàrberi Squarotti, del poeta Paolo Ruffilli, del poeta e critico Sandro Gros Pietro, del poeta, critico e scrittore Giancarlo Pontiggia, del poeta Valerio Magrelli, del poeta e critico Elio Andriuoli, del poeta Gianni Rescigno di Santa Maria di Castellabate, recentemente scomparso, e del critico Marina Caracciolo. Un saggio in particolare, a mio parere, ci offre un ritratto fedele del poeta cilentano, ed è quello di Elvira Zammarelli, intitolato Spasmodiche visioni della vita in una terra viva tra le onde. Ho molto apprezzato, inoltre, la Postfazione di Osvaldo Marrocco, e soprattutto una Intervista al poeta Antonio Vitolo, con cui si chiude il volume. Da questa si desume il giudizio di Marrocco sulla poesia di Vitolo, ma soprattutto il pensiero di questo poeta cilentano molto consolante, contenuto nella risposta, decisamente ottimistica, a una domanda di Marrocco sul destino, l'identità e il prestigio della lingua italiana:“ La poesia, come lei sa, è la ricerca della parola. Non penso che in futuro ci sia il rischio che la lingua italiana possa perdere identità e prestigio, perché per poter esprimere le proprie ansie, i propri tormenti, ma anche le proprie gioie e la felicità, l'autore di lingua italiana ha in primis un corteo di lemmi che supera di gran lunga tutte le lingue del mondo, e ha inoltre, a mio parere, i luoghi che diventano essi stessi pilastri portanti del componimento, il quale raggiunge la soglia di irripetibilità e in alcuni casi assume le sembianze di opera immortale. La storia insegna al mondo intero le profonde radici della nostra lingua e gli uomini, geni, che nel corso dei secoli l'hanno fatta assurgere ad opera memorabile ed inestinguibile.” Luigi De Rosa


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“ILLUMINAZIONI” DI ARTHUR RIMBAUD di Antonia Izzi Rufo ON è il titolo adatto per quest’opera che nuota nella completa “oscurità”. A che cosa voleva alludere l’autore? Non si sa. Credo non lo sapesse nemmeno lui. Invano noi lettori cerchiamo una “luceguida” che ci permetta di trovare il bandolo per dipanare la matassa… “Dipanare la matassa” ? Impossibile. Ed egli lo sapeva perché – secondo me, e credo di non sbagliarmi – si divertiva a scrivere frasi senza senso, in apparenza prive di significato, inestricabili, per provocare l’irritazione dei lettori, per esasperarli. E’ successo a me. Dopo aver letto e riletto “quella sua scrittura” (facente parte della lirica o della prosa?), sono stata presa dall’ira, da una normale reazione, e avrei voluto strappare il libro (non l’ho fatto). Perché, quando leggo, voglio capire. A che scopo leggere solo per leggere, per arrivare alla fine, per perdere tempo? A me non piace: il tempo

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è prezioso e voglio utilizzarlo costruttivamente. Era sadismo quello di Rimbaud o lo strano poeta di Charleville era schizofrenico e aveva le “allucinazioni” ? Ecco, sarebbe stato questo il termine giusto, appropriato: “Allucinazioni”. Con questo titolo nessuno si sarebbe meravigliato della totale incomprensione del testo, di quelle frasi buttate giù in un caos da rigetto, da decifrare senza riuscirvi; ognuno avrebbe compreso. Lo stesso senso di rigetto e fastidio provai quando cominciai a leggere (a metà libro smisi) l’”Ulisse” di Joyce. Ma lì, sebbene mancasse ogni segno d’ interpunzione, qualcosa si capiva; in “Illuminazioni” quasi nulla. E’ così bella la chiarezza, la trasparenza, così apprezzato l’ordine nell’ esposizione delle idee (rispecchia l’ordine interiore). E’ la prima regola che insegniamo ai bambini, la prima cosa che da essi pretendiamo, il primo habitus che essi devono acquisire. E non è difficile, anzi facilissimo perché noi uomini abbiamo innata la tendenza all’ ordine, alla precisione, a semplificare il nostro modo di espressione per comunicare, per capire ed essere capiti. Perché “stravolgere” l’ ordine, perché apparire oscuri, enigmatici, ermetici? Solo per essere innovatori, per operare il cambiamento? Il “ cambiamento” va fatto per migliorare le situazioni non per peggiorarle. “Le novità più rilevanti in Joyce sono la massiccia presenza del monologo interiore e, soprattutto, l’impiego della tecnica del “flusso di coscienza”. In quest’ultimo caso egli riporta sulla pagina i pensieri del personaggio così come affiorano alla sua mente, senza alcun intervento personale o collegamento di tipo strutturale, abolendo ogni segno di punteggiatura. Sebbene si possa trovare un precedente nel romanzo del francese Edouard Dujardin, “Hanno tagliato gli alberi”, sarà Joyce a determinare l’importanza o l’ originalità del procedimento, come espressione di una voce che sta fra la coscienza e l’ inconscio” (Baldi…Letteratura Italiana, vol. III). “Molte delle composizioni comprese negli “Ultimi versi” e quasi tutte le “Illuminazioni” sono espresse in un linguaggio oscuro e balenante” (Baldi). Così Margoni e Coletta:


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“L’oscurità di Rimbaud deriva in sostanza da tutto ciò che non ’significa’… Essa è il rifiuto del suo contrario, di quella ‘clarté’ dei classici francesi che egli aveva conosciuto come aspetto dell’oppressione scolastica e che rifiutava violentemente”. Non posso non riconoscere che “Il battello ebbro” sia un’opera valida, molto valida, “qualcosa di nuovo, una poesia che sintetizza mirabilmente in sé il cammino da Baudelaire ai simbolisti, con una nuova disposizione visionaria e onirica” (Baldi…). Avrò esagerato nei miei giudizi negativi. Rimbaud aveva, senza dubbio, anche dei meriti. Così il suo amico Paul Verlaine: “Ci furono molte opinioni contrastanti su Rimbaud, individuo e poeta… Un uomo d’ingegno arrivò a dire: ‘Ma è il diavolo’… Era invece un grandissimo poeta, assolutamente originale, d’un gusto unico, prodigioso linguista”. E Hugo Friedrich: “Le ‘Illuminations’ non sono per un solo autore, non vogliono essere comprese. Sono una tempesta di sfoghi allucinanti… Esse confermano che il loro poeta è un ‘inventore che ha un metodo del tutto diverso da tutti i predecessori’ “. E Jean-Pierre Richard: “…’ Io’ che tenta di farsi ‘Altro’ vedendo e chiamando il mondo attraverso gli occhi dell’ universo intero”. Scriveva Rimbaud: “Riesce a capirmi chi mi assomiglia, chi ‘dentro’ è come me” . Io non lo capisco però –strano controsenso – sono affascinata dalla sua “enigmatica poesia”, dal desiderio di penetrarne il mistero e recepirne il messaggio. Antonia Izzi Rufo

LEGGENDE di Antonia Izzi Rufo A “prima storia” che imparai, da bambina, fu quella delle “leggende”, esattamente delle leggende che si riferivano ai popoli antichi, a Roma in particolare, prima della sua fondazione, durante e subito dopo. Nei testi scolastici erano riportati i fatti, e accanto ai fatti le leggende. Erano queste le letture che attiravano l’attenzione di noi

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scolari, il nostro interesse, la nostra curiosità, che esercitavano su di noi lo stesso fascino delle fiabe. A distanza di anni, di decine di anni, quelle storielle sono ancora vive nella nostra memoria, ancora piacevoli da ricordare, non così gli avvenimenti reali, i fatti accaduti. La fantasia è il canale d’emergenza che permette di evadere dalla realtà, di accantonare i problemi, alleviare le angosce, rimuovere le delusioni. All’uomo piace immergersi nell’immaginazione, sognare, accettare per vere creazioni avvolte nel mito; per lui significa sfuggire ad uno stato psicologico negativo e far riposare la mente nei “sogni riparatori” che appagano, che realizzano quei desideri che la vita spesso, molto spesso nega. Le prime leggende sono state tramandate oralmente, sono passate di bocca in bocca e, un po’ alla volta, hanno perso la loro autenticità. E’ proprio vero tutto quanto esse trasmettono? Non del tutto, in minima parte. Mi viene in mente, a tale proposito, la ” storiella della gallinella bianca” riportata nel mio libro di lettura della terza elementare: <<Mentre la gallinella si spulciava, perse una piuma. La vide una sua amica pettegola e disse in giro esagerando “la gallinella bianca s’è tirate due piume per amore del gallo”; una terza “la gallinella bianca s’è tirate quattro piume per amore del gallo”; un’altra disse che le piume erano otto; un’altra ancora che le piume erano sedici. Infine la notizia giunse all’udito della gallinella bianca: “Lo sai che una di noi s’è spennata tutta per amore del gallo? “. “Che svergognata! “ commentò la gallinella>>. Questo esempio è una testimonianza di come si trasformano i fatti che si raccontano e della loro assenza di veridicità. Ciò che si tramanda per scritto, anche se subisce alterazioni, è più attendibile di quanto si trasmette oralmente. Possiamo credere alle leggende? C’è molto poco di vero in esse. I fatti non si narrano così come si sono verificati ma subiscono modifiche di volta in volta, vengono riferiti, di solito, non con lo scopo di far conoscere la verità ma di trasmettere agli altri quanto si ha in mente di comunicare influenzando, e convincendo del falso, chi, ignaro, ascolta. Ciò suc-


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cedeva in passato, succede ancora oggi, oggi più che mai, e in modo accentuato. Vengono trasmesse notizie alterate che finiscono per attecchire, per essere accettate come vere, notizie che si comunicano agli amici, ai parenti, ai giovani che ne diventano i depositari ufficiali. Queste false notizie, divulgate da chi si prefigge di far presa su chi ascolta, finiscono per incidere, per essere recepite in modo convincente così che una persona buona e onesta appare cattiva e disonesta. Si ha sempre di mira la lode di persone grette, subdole, con l’ intenzione di farle apparire integre moralmente, pulite dentro, mentre si fa il contrario per denigrare, buttare nel fango le persone morigerate. Questo è frequente oggi, soprattutto in politica. Ho conosciuto genitori – non degni di tale nome – che hanno fatto il lavaggio del cervello ai figli per attribuire a loro parenti ambigui e corrotti meriti che non avevano; si sono serviti della forza della parola per iniettare negli animi ingiuste accuse, meschine cattiverie. Ma torniamo alle leggende, facciamo un salto a ritroso nel tempo, ripeschiamone solo qualcuna di esse; riascoltiamo, dalle acque del mar Ionio, il lamento di Saffo, l’infelice fanciulla che si lanciò dalla rupe di Leucade per amore di Faone; commuoviamoci, e rabbrividiamo, al canto di Omero, il grande aedo cieco che si faceva condurre di città in città e vagava tra le macerie per incontrare i fantasmi degli eroi e ascoltarne la voce; uniamoci al dolore di Orfeo, piangiamo e cantiamo con lui la perdita della bella Euridice…Non sono tutti veri i racconti che leggiamo, quelli dei Grandi del passato, lo sono solo in parte, ma noi li consideriamo immortali perché sono vivi, perché la loro autenticità, la loro arte, la loro bellezza li colloca nell’eterno, sfugge alla morte, si nutre solo di vita. Antonia Izzi Rufo

LA MIA PASSEGGIATA di Antonia Izzi Rufo ’ frequente. La faccio spesso perché i due paesi tra i quali mi muovo sono vicinissimi, li separa una strada di soli

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tre chilometri, tutta curve, completamente in discesa uscendo dal territorio, in salita entrandovi. Un breve percorso, tra una frazione ed un comune, entrambi molto piccoli e, attualmente, scarsamente abitati (vi sono pochissimi giovani, molti vecchi). Sono l’uno di fronte all’altro, abbarbicato al monte omonimo l’uno adagiato su un colle l’altro. Li separa una profonda vallata, sono circondati da monti, si scoprono, reciprocamente, in senso globale, circolare. Superfluo dire che sono belli, anzi bellissimi e rappresentano il luogo ideale per chi vuole riposare, respirare aria salubre, bere acqua di sorgente, godere della visione di stupendi paesaggi che ispirano artisti e poeti. Se non si avvertono rumori assordanti, se intorno regna il silenzio, si può ascoltare il suono delle campane delle due chiese. L’uno è il mio paese d’adozione (vi abito da un sessantennio), l’altro quello di nascita. Li amo nello stesso modo questi due borghi selvaggi, sono entrambi nel mio cuore, li associo in un unico sentimento d’amore, sono la mia casa, rappresentano il mio ritorno al passato, alle persone care che non ci sono più e che ritrovo vive nella memoria, in queste due case ora solo mie, templi dei quali io sono la sacerdotessa triste e solitaria… Non lasciarti sopraffare dalla tristezza dei ricordi, mia anima! Non era questa l’intenzione con la quale mi sono accinta a scrivere. Perché ho deviato? Voglio tornare sulla strada iniziale. Rimuovo pertanto la commozione e mi ricongiungo alla mia evasione, alla mia irrinunciabile, reiterata passeggiata… Passeggio in tutte le stagioni io, col caldo col freddo, col sole con la pioggia, col vento con la neve. E ogni volta torno a casa serena, leggera, la mente svuotata da pensieri assillanti, l’ espressione sorridente del viso, ritemprata. E adesso racconto di questa mattina, di questa mattina di fine giugno e inizio, appena, d’ estate. Bellissimo il tempo, proprio come dovrebbe essere (ma non sempre lo è) l’inizio della stagione del mare, delle vacanze. <<Che faccio? >> mi sono detta appena sveglia <<La giornata è splendida: vado a passeggiare>>. E’ bastato questo pensiero a mettermi


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subito di buonumore, a riempirmi di brio, a farmi pregustare la deliziosa passeggiata che stavo per intraprendere. Jeans e maglietta, scarpe da ginnastica, cappellino da sole, zainetto a tracolla, ed eccomi in strada entusiasta come non mai… Mentre camminavo, a passo svelto, saltellando, aspiravo l’aria fresca intrisa d’un profumo che m’inebriava, mi provocava un nonsoché di piacevole, di eccitante, un miscuglio d’effluvi che riuscivo a scomporre e a individuare nei componenti: fiori di ginestre, di tigli, di garofani, rose, belladonna, papaveri e tanti, tanti fiorellini campestri di cui ignoro i nomi, un aroma denso che mi faceva gridare <<Grazie, natura! Tu sola sai creare tali essenze! Mai riuscirà l’uomo a produrne di eguali>>. Camminando mi giravo danzando, facevo piccole giravolte, allargavo le braccia come per spiccare voli nell’ azzurro, come per imitare il frullare d’una farfalla, e disegnavo nell’aria piroette e ghirigori come una rondinella. Quando sono tornata, stanca ma felice, mi sono arrestata presso la fontanella della piazza, ho messo la bocca sotto il rubinetto ed ho lasciato che l’acqua gelata mi scorresse dentro e fuori, mi dissetasse e rinfrescasse. Chi, più felice di me? Antonia Izzi Rufo

LA VITA CELESTIALE Il mio pensiero spesso i limiti oltrepassa dell’orizzonte conosciuto a noi e vaga nell’aldilà, nel mondo ignoto che ci sovrasta e che ci attende, e allora mi raffiguro l’anima beata che dopo un giusto Purgatorio accede al Paradiso. Come sarà e che farà quest’anima ? E se avrà un corpo, che resuscitato santo sarà, secondo quanto per Credo professiamo, cosa farà quest’anima, nel corpo suo spirituale, per l’eternità ?

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Sia pur nella contemplazione di un Essere Perfetto non si appaga nell’ozio un’anima, che vive per l’azione. Forse sarà inviata dal Signore ad esser guida e aiuto di un mortale … Questo pensiero mi canta nella mente mentre penso ed il sentiero della vita mi rende profumato d’incenso e più leggero. Mariagina Bonciani Milano

IN UN CIELO SMARRITO In un cielo smarrito senza più palpiti d’azzurro un mondo senza valori, ostile, troppo emancipato ma senza carisma! Anaffettivo, claudicante, incapace di pensare sensato, capace di aver generato un vero crollo della fiducia di aver offuscato la vera bellezza. Un mondo di leader corrotti, fine a se stessi; smaniosi di autocelebrarsi, senza autocontrollo, evasivi, ma senza imbarazzo... Sì! Il cielo scruta ma non si arrende Dio non si arrende mai! Non è apatico né indifferente. Con successo, ristabilirà la disciplina, la giustizia, in quel tempo, il mare non farà più terrore e il cielo ritornerà a palpitare d’azzurro. Maria Fausta Ascolillo Treviso


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ALFONSO GATTO: L’UOMO, IL POETA di Elio Andriuoli

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cura di Luigi Reina, e di Nunzia Acanfora, è apparso nel 2014 un volume, Alfonso Gatto: L’uomo, il poeta, contenente gli Atti del Convegno di Studi promosso nel quadro delle celebrazioni per il 25° anniversario della morte di Alfonso Gatto, che rappresenta un importante contributo per una più compiuta conoscenza di questo poeta, che è da annoverarsi tra i maggiori del nostro Novecento. Introdotto con un’ampia prefazione da Reina, che inquadra ampiamente l’ argomento, il volume consta di ventuno saggi, che vanno da quello di Donato Valli, Alfonso Gatto, bambino del Sud con i fondamentali della poesia (dove viene messo in luce, tra l’altro, come Gatto, distanziandosi dal pensiero di Benetto Croce, affermi l’ indispensabilità della “non poesia”), a quello di Sebastiano Martelli, Alfonso Gatto: viaggio nel Sud, che illustra l’attività di Gatto quale

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indagatore della realtà meridionale, sia in prosa che in verso. Tra gli altri interventi critici che maggiormente colpiscono vi è quello di Alberto Granese, Gatto o del “trobar clus” (poetica e poesia), nel quale l’autore dopo aver osservato che “una componente ludica è [sempre] presente nell’arte di questo poeta”, e che “Gatto dipinge e compone con gioia”, afferma che “la concezione gattiana dell’arte ruota intorno all’idea di ambiguità, di ineffabilità del fatto artistico, librato tra il dire e il non-dire” e che “lo shock semantico e la sorpresa, provocata dall’automatismo fonico dei segni verbali, secondo l’indicazione surrealista, sono fondamentali per Gatto”. Antonio Pietropaoli, a sua volta, nel saggio “Vischiosità” semantica nella poesia di Gatto, dimostra come in questo poeta “il discorso sia semanticamente vischioso, nel senso che egli pattina in continuazione su se stesso, si aggroviglia sui suoi temi coatti, sulle sue metafore ossessive, alla ricerca delle radici dell’essere”, come legato ad una “dimensione onirica”. Sud, linguaggio, magia è il tema scelto da Fausto Curi, il quale, dopo aver osservato che nell’ermetismo meridionale “magia e civiltà, natura e soggetto, arbitrio dell’ immaginazione e legalità metrica e sintattica si incrociano senza turbamenti e squilibri”, dimostra come ciò è evidente anche in Gatto, in quanto nella sua poesia “gli oggetti perdono i loro contorni più netti e il loro spessore e si fanno tenui parvenze che il canto modula a suo piacimento”; mentre “l’endecasillabo diviene il corrispettivo antagonistico del magma verbale”. Come è noto, Alfonso Gatto fu, oltre che poeta di gran pregio, anche un buon pittore e della sua pittura si occupa Stefania Zuliani nel suo scritto La pittura come luogo del vedere, dove è dimostrato come “la «meraviglia del vedere» … è movente comune per il poeta e per il pittore”, per il quale fondamentale era stata la lezione di Cézanne. Lo sport di Alfonso Gatto è il titolo del


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contributo di Raffaele Giglio, il quale si sofferma sull’attività giornalistica di Gatto come cronista sportivo, osservando come in lui il giornalismo raggiunga un’“altra espressione”, esaminando egli “il fatto sportivo con maggiore impegno critico”. Uno studio sulla metrica di Gatto è compiuto da Paolo Giovannetti, in Modernità metrica del primo Gatto, dove è messo in luce l’uso che questo poeta fa dell’ enjambement e della presenza in lui, accanto alla metrica tradizionale, del verso libero. In Poesia e realtà nella raccolta “Il capo sulla neve” Anna Manceri dimostra invece lo stretto legame tra poesia e storia (o meglio tra poesia e società) in Gatto, il quale si fa testimone appassionato del suo tempo. L’attività critica, compiuta con “Campo di Marte”, il “quindicinale di azione letteraria e artistica”, che Gatto fondò, con Vasco Pratolini, nell’agosto del 1938 e che durò sino al luglio del 1939, è illustrata da Maria Laura Vanorio nel saggio Un’idea di letteratura: Alfonso Gatto e l’esperienza di “Campo di Marte”. È questa una rivista che ebbe notevole importanza, perché fu tesa a dar voce all’Ermetismo, del quale ospitò i maggiori rappresentanti, da Bo a Luzi, da Bigongiari a Ferrata, da Vigorelli a Giulia Veronesi. La rivista non ebbe tuttavia vita facile, perché non allineata col Regime Fascista e per questo dovette cessare dopo appena un anno. I colori nella poesia di Alfonso Gatto è il contributo di Giorgio Cavallini, il quale nota come “l’occhio mediterraneo e solare del poeta sembri prediligere i colori accesi e luminosi, con i loro effetti cromatici anche contrastanti”. Invero per Cavallini la vivacità e l’insistenza dell’elemento coloristico in Gatto rappresentano la spia del suo amore per la vita, che ne costituisce l’elemento propulsore, caratterizzato inoltre da “accostamenti inaspettati, comparazioni e fulminee analogie”. Che “i versi di Gatto diano l’impressione ogni volta “di nascere da eventi esemplarmente concreti” e che la sua “precisione stia

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tutta “nel forzare le parole e rendere conto con la maggiore esattezza possibile dell’ aspetto sensibile delle cose” è dimostrato da Epifanio Ajello in Alfonso Gatto. Di alcune apparenze. Il “Cielo” di Gatto rappresenta invece il contributo di Francesco D’Episcopo, il quale, dopo aver osservato che “in Gatto il «cielo» è lo spazio metafisico del silenzio e della solitudine”, prosegue affermando che “il «cielo» è il protagonista avido e assoluto della poetica (r)esistenziale gattiana. È il dio segreto, che ha tutto, che può tutto; è il referente primordiale di una mediterraneità corporale, che si identifica e si struttura con le città della nostalgia e del desiderio”. In L’alito del vento nella poesia di Alfonso Gatto Dante Maffia individua nel vento un fattore importante nell’espressione artistica di Gatto, il quale “sembra muoversi guidato dalle folate improvvise, pazze, capricciose di questo elemento della natura, che corrisponde al suo carattere, al suo modo di fare”. La conclusione è che “il vento nella poesia di Gatto … riveste un’importanza capillare; senza di esso avremmo sì il paesaggio che è suo stato d’animo e avremmo il mare che s’apre a superbi scenari, ma sarebbero nature morte, con qualche accenno e sfumatura metafisica, senza quel bollore e quel lievito che vivificano e rendono presenze umane ogni cosa”. Alfonso Gatto, viaggio nel Sud tratta infine degli scritti meridionalistici di questo poeta, che sono il frutto della sua attività “soprattutto giornalistica degli anni CinquantaSessanta”, con dei resoconti dei suoi viaggi in Campania, Lucania, Calabria, Puglia, Sardegna, ecc., raccolti per la maggior parte nel libro Carlomagno nella grotta. Da queste pagine scaturisce un quadro molto compiuto della condizione delle genti del Sud e delle loro prospettive di sviluppo. Da tutti questi saggi e dagli altri non menzionati, emerge netta la figura di Alfonso Gatto, per la cui conoscenza questo libro appare utilissimo. Elio Andriuoli


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CLAUDIA TRIMARCHI: LA FUNZIONE CATARTICA E RIGENERATRICE DELLA POESIA IN DOMENICO DEFELICE di Liliana Porro Andriuoli ELLE Edizioni del “Convivio” è apparsa nel marzo 2016 la Tesi di Laurea di Claudia Trimarchi sul seguente argomento: La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice, che ha avuto come Relatore il Prof. Carmine Chiodo. La pubblicazione è preceduta dalla Prefazione di Giuseppe Manitta, il quale illustrando il significato della ricerca della Trimarchi nota che dal suo studio emerge come in Defelice “i tempi della scrittura e della tradizione letteraria si fondino con quelli dell’analisi sociale”. La Trimarchi inizia il suo lavoro parlando della vita di Domenico Defelice, che dal nativo paese di Anoia, in Calabria, situato alle falde dell’Aspromonte, si spinse, dopo essersi diplomato in ragioneria a Reggio ed aver soggiornato per motivi di lavoro a Rosarno e a Crotone, sino a Roma e successivamente a Pomezia, dove tuttora vive dal 1970. Sempre tuttavia ha persistito in lui l’amore per la Terra di origine, che gli ha ispirato versi colmi di affetto e di nostalgia. Osserva a tale proposito la Trimarchi che la poesia di Defelice “si esprime … attraverso una viva, sofferta umanità”, animata però da “una tensione civile e morale che non conosce steccati”. Ed è proprio tale tensione che si trova alla base della produzione poetica del nostro autore, il quale ha appreso la lezione del Parini e del Giusti per ciò che concerne la satira, mentre dal Petrarca e dal Leopardi ha appreso quella della lirica. Ed è specialmente con quest’ ultima che Defelice inizia la sua carriera poetica, ispirata dall’amore per la donna e per la natura, che è poi quello per la sua Terra, dove la natura ha un ampio rigoglio. Quanto alla forma, la Trimarchi fa osservare come la poesia di Defelice si caratterizzi

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per l’adozione del verso libero e per la chiarezza espressiva, tendente ad una diretta co-


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municatività. Ella dice infatti che Defelice, come poeta, “non spazia nei territori sconfinati di un astrattismo immaginifico, ma muove dalla realtà, trae alimento dal contingente, affonda le radici in questo nostro mondo”. La sua è, non a caso, una poesia del reale e del vissuto, sicché potrebbe anche dirsi il racconto di una vita. Secondo l’autrice, inoltre, la poesia di Defelice è permeata dalla “voragine dell’ assenza” che solo “chi soffre d’una lontananza” può conoscere; ed è inoltre dominata da “un senso di mestizia e smarrimento”, presente in particolare nelle prime sillogi, dove affiora la tematica dell’esilio e della perdita. Così è per Un paese e una ragazza1, che è del 1964, anno nel quale Defelice, servendosi “dei metri e degli stilemi codificati dalla tradizione classica”, esprime il suo amore per Maria, la ragazza, e per Anoia, il suo paese. Ciò che qui maggiormente si nota è “il senso di sradicamento e (di) nostalgia” per tutto quello che il poeta ha dovuto lasciare e che ha per sempre perduto. Vi è in questi versi, come osserva la Trimarchi, la “cognizione dell’ esperienza del dolore”, che tuttavia viene trasformato “per mezzo dell’atto creativo, in spinta vitale”; e vi è inoltre il contrasto vitamorte, così come vi è la riflessione sulla “caducità del tempo”. Ma ciò che maggiormente si nota in essi è l’apertura alla “sfera religiosa e spirituale”, ad “una dimensione religiosa intatta ed umile”; ad “una fede autentica, sentita e raccolta, che si esprime attraverso un rapporto diretto ed intimo con Dio, e che si fa portavoce di un umanissimo bisogno di affidamento, conforto e protezione”. Tra le sillogi di Defelice, apparse nel primo tempo della sua produzione, vi sono Con le mani in croce, edita nel 1962 e 12 mesi con la ragazza, due sillogi della gioventù, che di essa esprimono gli entusiasmi e gli ardori, co1

È opportuno ricordare che questa silloge, seppure di pubblicazione posteriore a Con le mani in croce, successivamente citata, contiene, come ben precisa la Trimarchi, poesie scritte in epoca anteriore.

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sì come le profonde tristezze; sillogi che contengono poesie capaci di dar luogo a espressioni liriche fresche e immediate, dove evidente è l’affiorare della “tradizione cortese e stilnovistica” e dove “il paesaggio non è semplicemente uno sfondo marginale, ma parte integrante e costituente della poesia amorosa”. Inizia qui però ad affiorare in maniera significativa anche la satira, che diverrà prevalente in seguito: una satira “acuta e sferzante”, che prepotentemente si fa strada “fra (la) mimesi realistica e (la) deformazione grottesca”, e sembra ispirarsi prevalentemente a quella del Parini e del Giusti. È, questa di Defelice, una satira nascente dalla constatazione delle ingiustizie e delle storture del mondo in cui viviamo, che troverà il suo compimento nella poesia “civile” de La morte e il Sud, la raccolta del 1971 e nelle altre successive, Nenie ballate e canti (1974); Canti d’amore dell’uomo feroce (1977); Alpomo (2000); Alberi? (2010), dove, come osserva la Trimarchi, “la parola poetica [è posta] al servizio di un’urgenza sociale”. Qui infatti la parola del poeta si fa aspra e dura, mossa dallo sdegno per tutto ciò che di nefando e di iniquo vediamo intorno a noi. Alla “dimensione intimistica” subentra pertanto “quella sociale”, con tutte le problematiche che essa comporta. Aleggia infatti, come bene osserva l’autrice, in queste poesie dell’età matura del nostro autore come “la potenza di un grido inascoltato”, che non nasce soltanto dal “coinvolgimento affettivo dell’autore per la sorte amara dei suoi conterranei”, per terminare con un puro sfogo sentimentale, ma “si protende” nella “necessità di un riscatto”. Nella denuncia della corruzione e del malcostume la poesia di Defelice trova pertanto il suo compimento e la sua ragion d’essere. Si vedano a questo proposito innanzi tutto i Canti d’amore dell’uomo feroce, nei quali il poeta sviluppa il tema della ferocia umana e della violenza imperante tra gli uomini. Più lieve si fa invece la voce di Defelice nelle poesie che egli dedica A Riccardo (e


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agli altri che verranno), nelle quali è l’affetto per il nipotino che diviene l’argomento primario del suo canto. Nella serenità di una raggiunta saggezza si conclude così l’iter poetico di Defelice, che in Alberi? compie anche un ritorno alla natura, quale fonte di rasserenamento e di gioia. E si avvera in tal modo quella “funzione catartica e rigeneratrice” della poesia defeliciana, la quale dopo aver attraversato il dolore ed aver contemplato il male del mondo, perviene a cieli più sereni. Claudia Trimarchi si sofferma nel suo excursus anche sull’attività di riflessione critica compiuta da questo autore sulla poesia, con molti saggi e articoli su riviste, dei quali è da ricordare specialmente Invito ai giovani artisti, dove, in polemica con l’Ermetismo, si fa promotore di una poesia immediata e schiettamente comunicativa che, senza ripudiare il passato, si faccia specchio del presente, del quale accolga le istanze. Collegata con quella letteraria, è poi l’attività critica svolta da Domenico Defelice nel campo della pittura, dove sono particolarmente significativi i suoi studi sulla pittura di Eleuterio Gazzetti, e su quella di Giuseppe Mallai. Da ricordare è infine l’assidua attività di promotore culturale svolta dal nostro autore con la rivista “Pomezia Notizie”, da lui fondata nel 1973, che ha pertanto superato il traguardo dei quarant’anni di vita e continua ad uscire puntualmente ogni mese. Oltre che di poesia e di critica letteraria, Defelice si è però occupato anche di teatro, con alcuni lavori di notevole attualità, quali Silvina Òlnaro (un testo nel quale viene agitato il problema dell’opportunità di mantenere in vita artificialmente una persona che non ha alcuna possibilità di riprendere un’ esistenza normale); ed ha inoltre dipinto molti quadri in maniera schietta e moderna. Ma su tali attività, esulando dal campo della sua ricerca, la Trimarchi non si è soffermata. Da ultimo è doveroso osservare che la Tesi di Claudia Trimarchi è scritta con proprietà e scioltezza di stile ed è il frutto di un’indagine capillare sull’argomento affrontato: dimostra-

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re La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice, per il quale ha compiuto delle assidue ed approfondite indagini, sicché, alla fine, ha saputo offrirci un ritratto veritiero e significativo dell’autore studiato, presentandocelo sia sotto l’aspetto umano che sotto quello del poeta: scopo che era poi quello primario del suo lavoro. Liliana Porro Andriuoli

REGINA DEGLI APPLAUSI Ragnatele alla finestra regina degli applausi nella luce di un silenzio ricami sogni parodie in simbiosi cimiteri di vertigini nella fretta di crescere …un sorriso. Lorella Borgiani Ardea (Roma)

CAPARBIETÀ Tenace la brama d'estrarre poesia, che canta, che spinge, dal fondo dell'animo mio. Deboli son'ora le mie energie. E resto impotente ad attendere, a soffrire, ad aggrapparmi alla speme che pur non s'arrende. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo al Volturno (IS)


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UNA VENTATA D'ARIA FRESCA DALLA POESIA DI

VIVIANE CIAMPI di Luigi De Rosa

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SCITO per le Edizioni Fili d'Aquilone di Roma (v. il sito www.efilidaquilone.it) l'ultimo libro della poetessa franco-italiana Viviane Ciampi ( nata a Lione ma di origine toscana e residente a Genova, poetessa e traduttrice al Festival Internazionale della Poesia di Genova e alla Alliance Francaise, vincitrice di vari Premi, tra i quali I Murazzi di Torino) è un libro non facile, sospeso com'è “tra realtà e invenzione”, in un'atmosfera al calor bianco lontanissima dal banale e dal déjà vu. Generato da un documentario sconvolgente, intriso di violenza e terrorismo, amplificato dalla follia omicida del Bataclan di Parigi del 13 novembre 2015. Già dalla copertina inizia un discorso fuori del comune. Il titolo evoca l'aria e la terra ma l'illustrazione (una magica foto di Lino Cannizzaro) evoca anche la non-aria e la non-terra. Alcuni pali indistinti sembrano affiorare da una malinconica acqua lagunare. Ma la foto, uno dei tanti capolavori fotografici dell'artista Cannizzaro, si presta anche ad altre interpretazioni e avventure dello spirito. Quanto al testo, cioè alle prose poetiche che lo compongono, non è per palati di facile contentatura, ma per buongustai letterari esigenti. Del resto, Viviane Ciampi non “punta” ad essere originale, “ lo è, e basta, naturaliter, per una disposizione dello spirito che la induce ( la costringe) ad inventare ex novo le forme del suo fare poesia”, come acutamente ha scritto Vico Faggi a suo tempo. E anche Bernard Noel è andato giù deciso quando ha evidenziato la “tenera durezza” di Viviane, “ un'atmosfera composita di sentimento pensoso che evita sempre il sentimentalismo.”

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Anche per tutto quanto sopra non poteva non approdare al Festival internazionale della Poesia che ogni anno si celebra a Genova, collaborando con quel geniale innovatore che è il poeta Claudio Pozzani. I testi in prosa della Ciampi esplodono in un lirismo acuto, a suo modo raziocinante, in un alternarsi di lucida febbre e di saggia non-accettazione dell'aberrante (e consequenziale nel contempo) mondo d'oggi. Essi tendono a coinvolgere emotivamente il lettore disponibile, nella lotta corpo a corpo col non-senso esasperante di una vita umana (individuale e di massa) e di un pianeta che sembra ad un passo dal deragliamento. Sia l'una che l'altro si presentano come un caos organizzato che esige di essere, se non interpretato, almeno “espresso”. Non resta, alla poesia, anche sotto forma di prosa, che avventurarsi in un viaggio spazio-temporale alla ricerca di un senso. Forse non è il caso di scomodare James Joyce e il suo “illeggibile” ma mirabile “Ulisse”, un testo diverso da tutti gli altri che ha suonato la sveglia nel campo della narrativa. Qui siamo nella poesia (l'eterna, l' indispensabile) anche se espressa in forma di prosa. Lasciamo stare i flussi di coscienza e la scoperta della psicanalisi. Qui siamo su un fronte della poesia contemporanea impegnato spasmodicamente (escluse certe insinuazioni furbesche che prima o poi si vanificano da sole) nel cercare una forma espressiva nuova, efficace, per rendere il sangue, la sostanza della realtà viva in cui siamo immersi oggi. A cominciare dall'Autrice, che non giudica da fuori e da lontano il caos organizzato, ma si sente ella stessa “d'aria e di terra”, cioè parte attiva del Tutto. Si tratta di poesia pura, anche se in forma di prosa. Lo stesso Eugenio Montale, che pure era un onesto conservatore, riconosceva che ai nostri giorni molta “poesia” è tristemente prosastica, mentre in molta “prosa” si avverte il profumo intenso della poesia. Luigi De Rosa


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PAOLO MANTEGAZZA SCIENZIATO E IGIENISTA CHE NON VA DIMENTICATO di Leonardo Selvaggi

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AOLO Mantegazza nato nel 1831 a Monza, medico antropologo. Dopo i tanti viaggi in Europa e Sudamerica è professore di patologia all’Università di Pavia nel 1865. E’ autore di una ricca produzione scientifica divulgativa. Ricordiamo subito “Fisiologia dell’amore”(1873), “Fisiologia del piacere”(1880), “Fisiologia del dolore”(1888). Sulla cattedra il famoso igienista dà la convinzione precisa che veramente lo stile è l’uomo. Bello, esuberante, giovane ancora. Elegante, chioma abbondante e il pizzo nero. Il volto ovale e pallido, occhi ardenti, snello di persona, la parola ornata e facile. Gioviale, schietto, stimato da tutti per sincera e spontanea amicizia. Salvatore Farina, studente del primo anno di legge a Pavia corre ad ascoltare Paolo Mantegazza. Lo vede straordinario, sembra mandato dal cielo, incanta con le argomentazioni scientifiche, sottili, esposte con una vivacità di forte attrazione. Anche la sua abitazione è bella, ordinata, un rifugio paradisiaco per lo scienziato che

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indaga sulle tante forme di psicologie. Le stanze ricche, armoniose. Il bello femminile di cui Paolo Mantegazza si dimostra adoratore negli scritti e nella parola è ispirato dalla prima moglie, donnina soave, alta e gentile. Un’americana, colta e amata durante un viaggio nel Perù. Una rivelazione per lui come la coca, oggetto di continue sperimentazioni, di cui ha parlato ampiamente, facendola conoscere in Italia, nella “Fisiologia del piacere”. Di questa scoperta è felice Paolo Mantegazza per tutta la sua vita, dalla coca ha avuto origine la cocaina, utile nella pratica chirurgica e clinica. Per la sua intelligenza, l’affabilità, il suo operare continuo apprezzato e amato da tutti, il suo modo di fare espansivo crea simpatia, molto vicini gli sono stati Edmondo De Amicis e Angelo De Gubernatis. L’igienista, epicureo geniale, vive periodi di avversità, si sente allontanato dalla grande stima di cui ha sempre goduto, quando si vengono a conoscere attraverso la “Fisiologia del dolore” gli esperimenti odiosi e fatti di torture sugli animali. Segue l’esempio di altri scienziati, scoperchia il cranio dei cani, lo penetra con un punteruolo. Queste ricerche hanno poca durata. Con l’animo buono si avvicina alla religione, maturano i principi morali. Sostiene che per la vita beata e non inutile è necessario non far soffrire nessuno, essere sempre attivo e infaticabile nei propri impegni mirando al bene pubblico e al progresso civile. Mantegazza viene chiamato nel 1869 a Firenze nell’istituto di Studi superiori, pratici e di perfezionamento, che diverrà Università degli Studi nel 1924 alla cattedra di Antropologia, la prima d’Europa, istituita ad iniziativa di Pasquale Villari, nel periodo in cui fermenta un clima di dialettica scientifica e culturale in seguito alle teorie di Darwin. Paolo Mantegazza è un fervido sostenitore dell’ evoluzionismo. Nello stesso anno fonda il Museo nazionale di Antropologia e Etnologia di Firenze che, oltre all’Antropologia italiana, si interesserà dello studio dei caratteri somatici, psichici e culturali dell’uomo nelle loro variazioni etniche. Come senatore del Regno nel 1871 istituisce la Società italiana di Antropo-


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logia e Etnologia oltre al periodico ufficiale “Archivio per l’Antropologia e la Etnologia”, strumento di diffusione delle nuove idee scientifiche nel campo antropologico. Per opera di Mantegazza viene creata la prima scuola antropologica d’Europa, a questa fanno riferimento studiosi, scienziati, diplomatici, esploratori che con le missioni di studio in terre lontane e spesso inesplorate hanno arricchito il Museo di collezioni osteologiche, etnografiche e fotografiche, di grande interesse scientifico per le ricerche morfologiche e morfometriche di molti gruppi umani ancora sconosciuti e per lo studio della loro cultura originale oggi scomparsa o dispersa. L’ attività scientifica, le ricerche, le iniziative di Paolo Mantegazza costituiscono un aspetto fondamentale della cultura italiana fra il 1860 e il ‘900. Fino a tarda età fa sentire la sua voce nell’aula magna dell’Istituto Superiore fiorentino. Il pubblico abbondante non manca mai. Paolo Mantegazza disinvolto, pieno di grazia, divulgatore della scienza che sempre si evolve, l’appassionato, e ostinato indagatore. È cercatore di una verità che si nasconde di continuo. Ci si illude di aver raggiunto mete straordinarie mentre subito ci accorgiamo di essere al punto di partenza. Si è impazienti e scettici, sinceri e umili, schietti nelle fatiche che si portano addosso lungo il cammino delle ricerche scientifiche. A dimostrazione di questa passione irrefrenabile che lo accompagna negli scritti, nelle lezioni, nell’attività divulgativa, in ogni momento, con esaltazione e fermento interiore sta scritto sulla porta del villino “La Serenella” a San Terenzo al mare in Liguria, la sua seconda dimora, “Calamus mihi haec otia fecit”. Paolo Mantegazza un ottimista, un uomo che crede alla felicità, un medico, un fisiologo, uno scrittore. In tanti anni celebre, ha dato vita in Italia ad una letteratura che ha reso popolare la scienza. Con ingegno, con la sua dottrina ha scritto tenendo di mira fini umanitari, non sempre raggiunti. Moralista ed edonista nello stesso tempo. Molto letto, di vena rigogliosa, le sue pagine

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allettano, corrono fra le mani come un frutto proibito, le avide scolaresche le divorano in gran fretta. Il primo volume la “Fisiologia del piacere” e l’ultimo la “Bibbia della speranza”. Fra l’uno e l’altro tanti scritti, i più celebri “Un giorno a Madera”, “Gli amori degli uomini”, “Testa”. Quest’opera concepita non in opposizione al “Cuore” di De Amicis, ma per far capire che non tutto il mondo è cuore e che non tutto si fa col cuore. Paolo Mantegazza convinto che si possa essere soddisfatti e sereni, basta saper mangiare bene, lavorare bene, amare bene. Precetti sempre validi e fondamentali, con la loro apparente semplicità e tutta l’essenzialità dei contenuti. L’amore considerato una funzione fisiologica regolata dalle norme igieniche, occorre metodo ed ordine. Mantegazza non pensa che l’amore in realtà sia una passione terribile, torbida, instabile. Si può essere d’accordo con i principi d’igiene relativi all’alimentazione e alla salute del corpo, ma non si accetta il concetto dell’edonismo basato sull’egoismo, sul senso del calcolo e della misura, sulla temperanza, l’amore perde di attrattiva e di fascino. Da scienziato classifica, ordina la vita con norme, sul piano pratico i fatti procedono diversamente: sono i principi che debbono adattarsi agli aspetti turbolenti della vita, l’amore è irrazionale, non va regolato, si muove come ad ognuno aggrada. Ai tempi nostri gravati da lercio, confuso, intricato materialismo sarebbe di gran vantaggio ai fini di equilibrare e di umanizzare nel modo migliore i rapporti sociali, l’armonizzazione con le leggi della Natura, con i principi razionali. Un edonismo che sfavilli di solarità in un ambiente più rigoglioso, meno tenebroso, stretto negli angusti degli artifici moderni, con spinte di esuberanza, in libertà guidata da spontanei impulsi vitali che ci fanno incontrare in processi di amalgama e di sintonie. Un edonismo certo che non sia aggredito da violenza, da corruzione, da quell’egoismo che non è sereno, istintivo moto delle forze connaturate. I principi di Mantegazza edonistici ed etici in correlazione fra di loro brillano di aperti trasporti ai godimenti puri nel rispetto delle norme


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che danno salute e atteggiamenti di riflessione, di attento, vigile controllo, toglierebbero di certo malessere e contraddizioni, stati di disagi, sovrapposizione egoistica fatta di forza, di predominio dell’uno su l’altro, di astuzia e di subdoli assalimenti. In tutta l’opera di Paolo Mantegazza argomento fondamentale sempre l’igiene dell’amore. “Fisiologia della donna”, Estasi umane”, “Arte di prendere marito”, “Arte di prendere moglie”, “Igiene della morale”. Paolo Mantegazza con candore e ingenuità è rimasto amareggiato dallo scandalo che ha prodotto la pubblicazione dell’opera “Amori degli uomini”. Non è possibile mettere nella testa degli amanti la ragionevolezza. Le teorie non trovano sempre applicazione, anche se ispirate da intenti etici, sociologici. Influssi positivi producono tanti altri aspetti trattati ampiamente nelle sue investigazioni scientifiche. L’incitamento dato agli uomini ad aver fiducia nella vita, l’esaltazione delle gioie della famiglia, l’amore che va prodigato nel lavoro e nelle azioni di bontà, il desiderio di bene. Interessanti gli “Almanacchi igienici”, volumetti popolari che diffondono nelle classi medie le norme che riguardano il vivere sano. Importante dal punto di vista scientifico e letterario il romanzo “Un giorno a Madera”. Ha contribuito il Mantegazza alla eliminazione di tanti pregiudizi, di tante leggerezze, proibendo i matrimoni fra malati, ad essere cauti ai fini di non incorrere in errori relativi alla procreazione di figli infelici. La popolarità raggiunta specie con certe opere significa l’importanza di certi principi divulgati, si vuole soprattutto insegnare ad abituarsi all’osservazione, ad essere pratici. Essere felici costa poco, necessario soprattutto l’entusiasmo, amare tutto ciò che forma l’ ambiente umano, ammirare le bellezze della Natura: viverle significa contentezza, essere in equilibrio fra quello che noi siamo e quello che intorno desta curiosità, desiderio di sapere. Ricordiamo altri titoli di opere, ”Dizionario delle cose belle”, “Epicuro”. Bisogna essere fiduciosi, godersi la vita in tutti i suoi meravigliosi aspetti con il buon senso e la

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prudenza. Paolo Mantegazza incantato dallo splendido golfo della Spezia, vi si nasconde un piccolo seno che protegge il ridente villaggio di San Terenzo, luogo amato, una vera gemma della Natura, un vero Eden. Qui anche d’inverno il sole riscalda, il verde si mantiene florido, quasi come in primavera. Aleggia sempiterna la poesia di una solitudine selvaggia e bella. Vi hanno dimorato due geni Byron e Shelley. L’autore di Childe Harold non dovette venirvi che di passaggio per far visita all’amico poeta. Shelley il 26 aprile del 1822 si stabilisce nella villa Magni di San Terenzo, sono pochi i giorni di serena dimora. Muore naufrago sulla costa di Viareggio l’ 8 di luglio dello stesso anno. Nessuna cornice poteva essere più splendida per il genio di Shelley, nessun luogo più degno del suo trascendente idealismo. Tra pini e lecci il mare penetra in ogni dove facendo sentire il forte odore di salsedine. La casa abitata da Shelley per Mantegazza è un punto di riferimento e di meditazione. Qui il poeta inglese scrisse i frammenti del suo Triumph of life, poema in terza rima, tutto scintillante degli splendori d’ oro e di zaffiro che lo circondavano. Parliamo di Paolo Mantegazza, oltre come scienziato lo vediamo dedito alla vita politica con alti e nobili intendimenti. La politica non deve rattoppare cenci, puntellare le casse dell’erario, lasciare situazioni precarie ai futuri. Ogni eletto deve aprire un solco in cui i figli abbiano a seminare il pane dell’avvenire. “Chi ha avuto dagli elettori la più alta missione, che si possa affidare ad un cittadino, ha maggiori doveri degli altri di preparare la terra per un’Italia migliore, vale a dire lasciare agli Italiani possibilità perché diventino più sani e più onesti prima di tutto, più operosi e più sapienti, che è quanto dire più ricchi e più potenti”. Siamo sempre intorno al tema delle ricerche e degli studi che hanno impegnato per tutta la vita Paolo Mantegazza. L’amore non è lussuria né voluttà, ma gioia ”che vive nelle più alte e serene regioni del Paradiso in terra”. Anche Dante esprime dell’amore lo stesso concetto, “…Questa cara gioia/ sovra la quale ogni virtù si fonda”. Paradiso, c. XXIV.


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L’amore è il più potente e il meno studiato degli affetti umani, sempre circondato da pregiudizi, misteri e ipocrisie. Considerato spesso con falsi pudori come frutto proibito. Paolo Mantegazza lo vede come un fenomeno della vita e come forza gigantesca, elemento di salute dell’individuo e delle generazioni. Con realismo, razionalità l’amore come nutrimento, strumento di equilibrio psicofisico, spinta all’operare con spirito collaborativo in processi di integrazione. In “Fisiologia dell’amore” l’autore conduce un’analisi psicologica del principe degli affetti. In uno stile caldo e colorito si affronta l’amore nei suoi aspetti concreti, come dovrebbe essere in una società migliore. “Amori degli uomini”, studio etnografico, antropologico dell’amore, dalle razze più basse risalendo fino a noi. “Igiene d’amore”, un saggio dell’arte di amare, la massima voluttà in concordanza col massimo bene dell’individuo. In “Epicuro” viene considerato il bello, il senso dell’ estetico: un inno di entusiasmo per tutto ciò che è sublime. Il culto del bello costituisce la vera religione. Il vero e savio epicureismo consiste nell’amare, nell’adorare e nello studiare il bello: unico Dio che non tramonta mai nel cielo dell’Umanità. Il bello nella Natura e nell’Arte. Il bello nella vita dell’uomo e nella storia della civiltà. Il bello rispetto al buono e al vero. È il più grande creatore, è la prima molla del progresso, il più largo e democratico dispensatore di gioie. Nell’opera “Il Dio ignoto” Paolo Mantegazza, uomo felice ed estasiato, si sente immerso in tutto ciò che costituisce l’esistente e che dà vita, vede in alto nell’immensità del cielo, scruta nelle profondità divine cercando la ragione dei nostri destini. I sacerdoti cambiano le vesti, i templi l’architettura, ma la religione dell’ideale vivrà quanto l’uomo e forse più di lui. Il Dio ignoto è l’ideale visto in varie forme: il buono, il bello, altri lo adorano sotto le spoglie del vero, nessun uomo può vivere senza una religione. “L’ideale è il nostro Dio, è il Dio ignoto”. Al di sopra degli Dei v’è il Dio, al di sopra delle religioni la re-

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ligione. La lingua è una, i dialetti sono molti, ma quanti adorano l’ideale sono fratelli, sono stretti ad un patto, devono darsi le destre, non corrugare le fronti, devono rispettarsi a vicenda”. Nello stile che scorre pieno di vita, di passione Paolo Mantegazza ci stimola a vincere ogni scetticismo. Non si conoscono tenebre, ma vitalità nella luce e nello splendore di tutto il Creato che si manifesta in ogni momento intorno. “La vita non è un sogno, non un’amarezza,, è una bella e buona e vera cosa, e dobbiamo benedirla e coll’ultimo sospiro lasciarla ai nostri figliuoli più bella e più cara di quel che ce l’abbiano lasciata i nostri padri”. Fra le opere citate, di particolare incisività “L’Amore”. Concetti utili che stimolano e innalzano sopra le negatività diffuse che il nostro tempo presenta. Paolo Mantegazza parla della gratitudine che è uno dei moti del cuore fra i più naturali e più irresistibili, come all’offesa con fatale automatismo risponde un’altra offesa, al beneficio deve rispondere la riconoscenza. Nella Natura al dolore risponde l’odio, alla gioia l’amore. Due equazioni di una logica matematica. Il senso della bontà, dell’umiltà, l’animo semplice di Paolo Mantegazza affondano le radici nelle più alte essenzialità della vita. La gratitudine, virtù oggi misconosciuta, la più maltrattata, ha contrapposizione di forme di avidità alimentate da egoismo esasperato. La gratitudine va sentita con gioia serena. Occorre essere fiduciosi e perseveranti nel tenere fermi i sentimenti umani al di sopra di se stessi. C’è sempre della gente buona. La reazione irresistibile del bene, che risponde al bene. Principi di difesa della verità e della morale. La libertà del pensiero che si muove in una complessità di situazioni e di aspetti della vita. Il dualismo di materia e di forma nello studio dell’uomo è superato. In ogni indagine c’è una ramificazione di anelli di una catena, che non si sa mai dove incominci né dove finisce, ma che lega insieme in un solo intreccio di modi e vitalità storia, sociologia e biologia, psicologia, etnografia. Il volume “L’Amore” costituisce il complemento degli altri tre di cui si è fatto


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cenno. Per il Mantegazza il sentimento dell’ Amore costituisce la vita. La trilogia che pure ha dato fondo all’universo amoroso e ha studiato sotto tutti gli aspetti la più dolce e la più terribile delle umane passioni non conteneva ancora materiale sufficiente per rendere l’ argomento trattato in modo definitivo. Si sono fatte aggiunte di parti tralasciate in quest’ ultimo volume, integrandosi così le tante lacune intraviste in “Fisiologia dell’Amore”. Con serenità si affrontano gli intricati problemi della moralità amorosa, in libere e spassionate espressioni, con la consueta purezza di idee, con scientificità metodica e la spontaneità di un uomo leale dai profondi sentimenti quale è Paolo Mantegazza. La trattazione va al di fuori della rigorosità religiosa, di una morale troppo indulgente, al di fuori delle leggi del codice civile che spesso peccano di ipocrisia. L’Amore sempre ricondotto alle fonti essenziali della Natura, che è sempre maestra veritiera di ogni morale, di ogni felicità sana e sicura. L’Amore visto nella sua nudità e istintiva naturalezza, senza le troppe vesti e coperture che risultano appesantite e false. Il 28 agosto lo scienziato muore nella sua villa “La Serenella” in San Terenzo. Al figlio Jacopo ha lasciato in eredità le sue carte, i suoi scritti, i suoi libri e La Serenella. Jacopo pensa di trasferire in Firenze, dove il maestro ha abitato, tutta la biblioteca. Comincia a ordinarla senza portare a termine il lavoro intrapreso. Tutto fino alla sua morte nel 1919 rimane dimenticato. Vogliono la Biblioteca del Mantegazza la Biblioteca comunale di La Spezia e il museo di Antropologia e Etnologia di Firenze nella nuova e attuale sede, L’antico Palazzo Nonfinito. Si decide di donare al museo nel 1924 le carte, le opere e i libri che illustrano la vita e l’attività scientifica del Mantegazza. Alla Biblioteca di La Spezia vanno gli altri libri e i duplicati delle sue opere. Oltre all’ ordinamento della Biblioteca a cura del Museo e della Società Italiana di Antropologia e Etnologia, vengono pubblicate nel 1989 le lezioni di Antropologia tenute dal Mantegazza presso

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l’Istituto di Studi superiori di Firenze dal 1870 al 1910. L’attività di Paolo Mantegazza interessata a tutti i fenomeni della Natura e alla ricerca di una loro spiegazione scientifica, alle indagini sull’atavismo, sulla pangenesi e sulla selezione sessuale, alla divulgazione di norme scientifiche, che potevano essere di grande utilità pratica. Importanti notizie si ricavano dall’epistolario, specialmente quello con Giovanni Omboni, professore di geologia all’Università di Padova. Vi troviamo commenti sulla vita politica e letteraria del tempo, appunti sulle collezioni del Museo. Alle sue lezioni pubbliche partecipavano oltre agli studenti universitari, anche la gente comune, specie le donne. Paolo Mantegazza è considerato uno studioso moderno. A tutti ha dato la possibilità di discutere su argomenti fino al allora riservati solo al mondo della cultura. Non va dimenticato, le sue opere vitalizzano, si leggono con interesse e destano apertura ai sentimenti, alle sensazioni. La Scienza di Paolo Mantegazza ha come centro delle ricerche l’uomo, il suo ambiente, la famiglia, l’ amore-stimolo primordiale alla vita. La Scienza vissuta con impeti interiori, con umanità, spaziando in libertà senza ottenebramenti e strutture meccaniche alienanti. Si moltiplicano con i principi di Paolo Mantegazza le capacità umane, si va alla ricerca delle profondità del vero e del bello, che creano innalzamenti, in stati di esuberanza, di serena gioia. Ci si ristora guardando le bellezze che ci sono intorno. Il Mantegazza stimola le energie connaturate che portano alla fiducia, ad essere felici, a vedere in alto, a riflettere, a non essere immersi nell’anonimato, consci della propria elevata natura e delle doti sublimi avute, a non essere massificati. In un insieme armonico tra il Creato e i nostri simili, a non andare con il muso per terra scontrandoci in file meccaniche come pecore matte, egoistiche lungo i binari che ci trasportano come pesi, in gruppi svirilizzati. Paolo Mantegazza ha sentito il dovere di istruire il popolo. La Scienza vera ha il compito di migliorare la gente, di uscire dagli ambiti puramente accademici, di elevarci per non essere passivi,


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dominati dalla tecnologia fine a se stessa che potrebbe a lungo andare avere processi di predominio a vantaggio di pochi: una specie di oligarchia per un cammino di retrocessione. Si pensi che il Mantegazza ha pubblicato a spese proprie i suoi scritti. Le sue opere vanno riprese, le porterei nelle scuole, sentiamo con esse fluire dentro di noi la nostra umana esistenza. Sbarrano pregiudizi, fanno amare la vita e tutti gli esseri. Sarebbero di scuotimento per tanti allievi che leggono poco, indolenti e disamorati. I libri di Paolo Mantegazza diversi da quelli attuali, hanno organicità e non sono discontinui, aridi, stretti negli schemi. Il Mantegazza ha scritto per tutti, spinto da profondo senso morale, con schiettezza di pensiero, senza contraddizioni, con linearità verso fini di salutari traguardi. La Scienza non pura creazione di strumenti meccanici, ma generatrice di energie che consentono legami e solidarietà. Scienza ravvicinata a tutti, umanistica, che valorizza le tradizioni, che non relega, che non chiude in recinti asettici, fatti di settorialismi e frammentazioni che distruggono il corpo e lo spirito. La Scienza di Paolo Mantegazza vede l’uomo come microcosmo, non lo chiude in involucri deterministici, succube dell’esperimentalismo che poco per volta detronizza l’intelligenza umana. Paolo Mantegazza ci abitua al rispetto dei principi fondamentali che danno movimento in piena libertà, le sue scoperte hanno allargato le possibilità di interpretazione della Natura. La sua è la Scienza che ci mantiene con vitalità nell’ambiente umano, rendendolo vivo e aperto. Leonardo Selvaggi

LEGGENDE NUOVE Non coprire col silenzio l’accento che si dilata discorde: anch’io sono preso in leggende nuove. Te pure possiede l’intrico che interseca il globo

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- vascello disancorato in siderali maree. Tu conosci vertigini di gusci colmi d’effimero e frante attese: tu che a ma chiedi cencioso ed io che do un obolo che punge di rossore. Smarrito quando la Terra apre bocche di zolfo o per mobili trincee di odio che accerchiano: ora che il cielo è disuguale e il bigio dell’uranio lo dissemina e vizziti fratelli si nutrono cantando alla luna. E io mi traggo a riccio; non è fuggire pusillanime. Sto come antenna per messaggi d’oltre oceano, per te logorato viandante, pe te sfiorito adolescente già sgomento di chitarre e chiome nazzarene. Sto come antenna per te uomo abbrividito che vivi proteso verso qualcuno che alzi al cielo pargoli, perché all’incrocio del mondo vigili amore. Rocco Cambareri Da Da lontano - Edizioni Le Petit Moineau, 1970. In questo nostro tempo quanto mai inquieto, migliaia e migliaia di “logorati viandanti”, donne e “sfioriti adolescenti” bussano ogni giorno alle porte della nostra sazia Europa. A loro vogliamo dedicare questa intensa, bellissima ed attualissima poesia del nostro indimenticabile amico Rocco. (D. Defelice)


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I POETI E LA NATURA - 58 di Luigi De Rosa

Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)

GABRIELE D'ANNUNZIO (1863 – 1938) E LA SUA“FALCE DI LUNA CALANTE”

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uesta rubrica mensile è giunta alla puntata n° 58, cioè sta per compiere, in ottobre 2016, cinque anni di vita senza interruzioni. Ovviamente, di ciascun poeta trattato viene in primo piano il suo rapporto con la Natura, così come risulta, princi-

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palmente, da alcune delle sue poesie, o addirittura, dalla sua intera produzione poetica. Si uscirebbe fuori tema se si esaminassero altri tipi di rapporto del poeta con altre realtà. Così oggi, parlando di D'Annunzio (lui usava la d minuscola, il vero cognome di suo padre era stato Rapagnetta), cioè di quel grande poeta nato a Pescara nel 1863 (e morto nell' Esilio” di Gardone Riviera nel 1938) ci occupiamo di una sua poesia famosa, dedicata all' antico tema poetico della “luna”. Ma se lo spazio della Rivista ce lo consentisse, ci potremmo dedicare anche ad altre composizioni liriche , come “La pioggia nel pineto” ed altre, tutte comprese in un filone lirico che, secondo molti, resiste ancora egregiamente nella memoria del “grande pubblico” per quanto riguarda il Vate abruzzese, che ha una biografia assolutamente fuori del comune ed una bibliografia sterminata. Restano quindi fuori dal nostro “raggio” (almeno qui, ed in questa occasione) il poeta ambizioso e convinto della propria superiorità che, nonostante sia ancora uno studente liceale sedicenne, spedisce direttamente al celebre prof. Giosuè Carducci, all'Università di Bologna, una copia della sua prima silloge, Primo Vere, stampata a spese del padre, e poi propala la notizia falsa e pietosa della propria morte per una caduta da cavallo, smentita poi da lui stesso, per attirare una folla di lettori sulle proprie poesie. Così come ne rimane fuori il politico che dopo tre anni di destra storica passa all'estrema sinistra, e che flirta non solo con Mussolini (che lo riempie di benefici sia onorifici che finanziari) ma anche col neonato regime sovietico (ma il Duce lo faceva sorvegliare e spiare). Restano fuori l'appartenente alla Massoneria (33° grado della Gran Loggia di Piazza del Gesù), il tenente-colonnello dei Legionari Fiumani, il “dictator” e il Costituzionalista che introduce nella Costituzione del Libero Stato di Fiume principi rivoluzionari per quell'epoca ( come la libertà assoluta di orientamento sessuale e di Nudità e di uso di droga, il voto alle donne, le pensioni di invalidità, i diritti dei lavoratori, etc.). Restano fuori anche il generale onorario di brigata ae-


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rea, il mutilato e il decorato, l'eroe sprezzante del pericolo, il seguace del Decadentismo, di Nietzsche, del Super-Uomo e di certa filosofia tedesca, l'innamorato dell'amore e del sesso che seduce Eleonora Duse e tantissime altre donne lasciandole poi senza il minimo scrupolo, che per avidità delle Cose Belle e per adorazione dell'Estetismo in sé ma anche per generosità, continua a contrarre una marea di debiti fino a dover “fuggire” in Francia per sottrarsi alle ire dei creditori, e che poi nell'Esilio di Gardone Riviera, anche se assediato da donne, da problemi di sesso, di frustrazione e di impotenza, provvede a far costruire la strada litoranea Gargnano-Riva del Garda per portare benefici a tutta la zona e liberare molti centri abitati del Garda da un isolamento di secoli. Qui ci interessa soltanto la poesia pura, la lirica, che peraltro conferma la multiformità del personaggio D'Annunzio:

punto, coi suoi sogni. Ma c'è anche un edonismo portato al diapason persino in un paesaggio incantato, che dovrebbe ispirare, forse, desideri più romantici che carnali. Fino all'esasperazione della ricerca del piacere sempre e comunque, con quel popolo dei vivi che si addormenta, tutto, senza eccezioni, ancora oppresso d'amor, di piacere, come se uomini e donne non avessero altre cure ed affanni che la ricerca del piacere e dell'orgasmo multiplo e generalizzato. E' vero, la falce di luna calante suscita sogni, tanti sogni, ma per D' Annunzio sono soprattutto sogni legati all'amore e al piacere. Un disperato, e alla fine inutile, tentativo di eludere la finitezza dell' uomo, e le sofferenze e i tormenti che ne accompagnano la breve vita. Luigi De Rosa

“O falce di luna calante

Sale per la via nei rigagnoli sorgivi di un’intesa

O falce di luna calante che brilli su l'acque deserte, o falce d'argento, qual mèsse di sogni ondeggia al tuo mite chiarore qua giù! Aneliti brevi di foglie, sospiri di fiori dal bosco esalano al mare: non canto non grido non suono pe'l vasto silenzio va. Oppresso d'amor, di piacere, il popol de' vivi s'addorme... O falce di luna calante, qual mèsse di sogni ondeggia al tuo mite chiarore qua giù !” Un commento analitico di questa poesia ci porterebbe molto lontano. Non v'è chi non veda l'assoluta novità e originalità della stessa a fronte di tutta la poesia italiana precedente. Una sensibilità moderna, nervosa, nel rendere l'anima di un paesaggio ampio, dal bosco al mare, che si abbandona ai sogni. Un'identificazione della Natura con l'Uomo, le sue sensazioni e i suoi sentimenti; in una parola, ap-

NEI PROFUMI DI UN INCHIOSTRO

nei profumi di un inchiostro un barlume di luce. S’assottiglia la preghiera mentre in pace se ne va la guerra attentati di misericordia avari di sogni s’insinuano nelle trame di un’irriverente debolezza. Socchiuse le palpebre nella giostra della vita un’altalena di umori nei giorni a non finire mirabile tra i ricordi esiste il vagabondo dire. Lorella Borgiani Ardea (Roma)


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Recensioni INES BETTA MONTANELLI TRASPARENZE Carpena Edizioni. Sarzana, 1989; pp. 70, s.i.p. È un piacere del tutto particolare, quando già da tempo si sono lette e considerate in profondità le molte raccolte di versi di un poeta, ritornare alle origini, ai suoi esordi nel mondo letterario; è come risalire alla sorgente di un fiume, contemplare quella limpida acqua che zampilla vivace tra le rocce, ai piedi della montagna, e dire: è diversa eppure è ancora la medesima che per lungo tratto ho visto scorrere tranquilla e maestosa fra le ampie sponde… Nel gennaio del lontano 1989 la Carpena Edizioni di Sarzana pubblica in una assai sobria quanto elegante veste editoriale una raccolta dal titolo Trasparenze, quaranta brevi poesie che costituiscono una delle prime pubblicazioni di Ines Betta Montanelli, poetessa nativa di La Spezia ma originaria di Pontremoli. Sfogliando le pagine, si ravvisano ben presto le coordinate fondamentali che diverranno i fili conduttori di tutta la sua visione poetica: i tenaci affetti famigliari, l’accorata nostalgia per la spensieratezza dell’infanzia e della prima giovinezza, l’ appassionata contemplazione della Natura e della sua terra di Lunigiana; tema, quest’ultimo, che raggiungerà poi la sua vetta espressiva 11 anni dopo, in quel vero e proprio gioiello che è la raccolta NEL PASSAGGIO DI TANTE LUNE. Si riconosce subito anche il sostanziale impianto diaristico della sua poesia: i pensieri, le impressioni, le memorie sono còlte e fissate sulla pagina come semplici appunti di diario, con l’intento di fermarle, di cristallizzarle poeticamente, perché il

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Tempo non le disperda e non le distrugga: una di queste composizioni, per es., dal titolo Frammenti di pensieri, è costituita da quindici brevissime annotazioni, staccate l’una dall’altra, che paiono catturare ciascuna una vibrazione fantastica e trasformarla in parola poetica. Bellissima, fra le altre, la quarta: «Nell’aria tersa / respira il nuovo giorno, / il candido manto di luna / sulle vette lontane / lento scompare». Il fascino del paesaggio è – e resterà sempre – non una mera cornice ma una sostanza, una linfa vitale di cui lo spirito della poetessa si nutre e amorosamente s’imbeve. Così essa abbraccia con occhi commossi la sua Lunigiana nella poesia dal titolo Orsaro: «Mie trasognate cime / dove il cuore coglieva / segreti d’orizzonti. / Sarò ancora / anima d’ala che migra, / pulviscolo di neve, / per ritrovarvi / assorte in stupori di cielo / mie trasognate cime». Colpisce, in questo libro, l’originalità dell’ inventiva, che ovunque si traduce in inconsuete metafore, lievi e delicate come piume, dove affiora, in particolare, il gusto della personificazione: come nelle mani di sole che offrono ciotole di arcobaleni, oppure nell’inquieto silenzio che ha occhi smarriti di autunno. Incantevole, poi, nella poesia Cieli d’ agosto, la sera estiva dipinta come un’anfora di quiete. O ancora, altrove, vediamo la gioventù raffigurata come fanciulla che conserva / onirico volto d’avorio / e lunghe trecce corvine / odorose di mirto. Un altro aspetto che continuerà a dominare le successive raccolte della poetessa è quella persistente, ansiosa malinconia che tutto avvolge e su tutto aleggia: è lo sgomento dell’ignoto e, insieme, l’angoscia del Tempo che fugge, che ogni cosa rovina e deruba, come un dio invidioso che impedisce di godere a lungo della felicità. Di qui la dolce, nostalgica rievocazione di antiche consuetudini ormai perdute: «Forse più non udrai / il cigolar dei mulini / sui ruscelli / né rocca di nonna / al focolare. / Gli uomini hanno sepolto / essenze suoni sogni». Di qui, per antitesi, il fantastico miraggio di perdersi in un silenzio che non abbia mutamenti né confini, per poter estendere a dismisura l’ala azzurra e leggera della giovinezza. C’è già, insomma, in Trasparenze, tutto l’ universo interiore che possiamo riconoscere e ammirare nei libri successivi della Montanelli. Col trascorrere degli anni, però, è sopraggiunta una più alta maturità di vita, di pensiero e di scrittura, che ha portato la poetessa ad essere in grado di mettere a fuoco con più acuta sensibilità e incisività immagini e suggestioni, e ancor più a saperle trasfigurare nel raggio di un’intuizione lirica spesso di eccezionale valore.


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Citiamo, per portare due soli esempi, due poesie tratte da L’ASSORTA TENEREZZA DELLA TERRA, silloge uscita quasi 25 anni dopo: «Ti ho svegliato per farti vedere / gli alberi sotto la neve / e il giallo delle primule sbucate all’improvviso / e la fontana muta che sembra / una rosa ingessata. // Volevo farti sentire la gioia / dei passeri tra i rami / in attesa di nuovi voli / e tutta la poesia del cielo / e i bambini pieni di meraviglia» (I miti dell’infanzia) – «Uno sfavillio lievissimo di neve / volteggia nell’aria di febbraio. / Gli alberi appisolati non fiatano. / La mimosa che osava già dischiudersi / è solo un pallido raggio. // Nemmeno la luna stanotte / tenterà incontri furtivi. / Il cielo è grigio richiamo. / Veliero di malinconia» (Affresco). Marina Caracciolo

CLAUDIA TRIMARCHI LA FUNZIONE CATARTICA E RIGENERATRICE DELLA POESIA IN DOMENICO DEFELICE Il Convivio Editore, 2016 - Pagg. 134, € 13,00. Un lavoro veramente completo sulle opere di Domenico Defelice quello pubblicato dalla 33enne Claudia Trimarchi. Si tratta di una tesi di Laurea ben congegnata su “La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice”. La Trimarchi si insinua, scopre, osserva e setaccia il sapiente lavoro di scrittura di Defelice, affinché si recuperi la buona lettura ai nostri giorni troppo spesso abbandonata per lasciare spazio a “Whatup”, Facebook e altre diavolerie computeristiche. E’ un omaggio a tutto il lavoro svolto da Defelice, un lavoro che spazia in diversi campi letterari (poesia, saggistica, prosa). Per la Trimarchi Defelice è un letterato che riesce a dialogare con il tempo biologico e con quello generazionale, senza perdere mai di vista le radici della propria esistenza, tra cui la Calabria e altri posti che hanno lasciato il segno nella sua vita. Defelice è un uomo attento, che osserva e assorbe da ciò che lo circonda, dal paesaggio ma soprattutto dalla collettività, dalle persone con cui viene a contatto. Per questo riesce a cogliere tematiche molto profonde: l’atavica e mai risolta questione meridionale e, in generale, l’emergenza sociale che chi ci governa tende sempre a sminuire. La sua poesia ha quindi una funzione purificatrice, catartica. Defelice con i suoi scritti cerca di rigenerare la società e il mondo che ci circonda, sperando di dare

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quella scossa che serva a costruire una società veramente fondata sulla Cultura, sul Rispetto e sull’ Amore. Ps. Il fatto che una studentessa e quindi un giovane abbia scelto le sue opere come motivo di studio, significa che la strada intrapresa da Defelice è quella giusta. Roberta Colazingari

GIORGINA BUSCA GERNETTI ECHI E SUSSURRI Firenze. Edizioni Polistampa, 2015, pp.124, € 10 Classicista, già docente di letteratura italiana e latina al Liceo Classico di Gallarate (lei è piacentina, però), Giorgina Busca Gernetti non ha bisogno di alcuna presentazione, dato che da anni pubblica raccolte poetiche di notevolissimo spessore. Qui, con un titolo complessivo quasi (per fortuna solo "quasi", vista l'atroce prospettiva dell'opera in questione dell'autore svedese) bergmaniano («Sussurri e grida», come noto), la poetessa articola il libro in cinque sezioni («Fiori della notte», «Alba dell'anima», «Seduzioni», «Immagini elleniche», «Il canto di Orfeo»), decisamente dense, come densa è la bella prefazione di Marco Onofrio e la postfazione del curatore Franco Manescalchi. Mai come in altre raccolte poetiche qui l'autrice dichiara i suoi referenti "favoriti": la classicità greco-latina (più greca che latina, invero), ovviamente, ma anche Rainer Maria Rilke (i cui versi introducono ogni sezione), riletto in modo tutt'altro che apologeticamente "confessionale" ma come poeta del dubbio e della speranza (l'angelo - forse "l'angelo necessario," per dirla con Massimo Cacciari, ma l'espressione è un verso del grande poeta statunitense Wallace Stevens), come poeta del Dio-tutto, panteisticamente inteso, includente dunque in pieno la natura (Bruno-Spinoza- Schelling, se vogliamo, non Hegel, che disprezza l'"ammirare Dio nelle cose naturali"), ma anche un grande incompreso e déraciné della poesia italiana e non solo, Cesare Pavese, al quale però idealmente dice: «Non ti seguo nel Nulla, Cesare mio» ( «Pagina mia», dedicata a Cesare Pavese, op.cit., p.45), oltre a quell'altro grande "escluso" dalla cultura, in specie da quella paludato-codina, che è Lord George Byron, cui dedica «Capo Sounion», con il verso straordinario del grande romantico inglese «let me sing and dìe» («lasciami cantare e morire») in esergo. Poesia dell'illustrazione e della descrizione, ma che ritrova sempre \'intima essenza della poesia e del poetico, come nel lungo viaggio poetico attraverso Hellàs, attraverso quanto la Grecia antica


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(quella moderna, monarchica, poi della terribile dittatura dei colonnelli, di Tsipras e di Varoufakis, delle interferenze dell'UE interessano meno, chi scrive questa nota ma fortunatamente anche Giorgina) offre ancora a chi la visita e ammira-adora da sempre. Poesia (ma qui a chi scrive sorge un problema: quello di non ripetere cose già scritte in altre occasioni) di significante, di classica scrittura poetica (basterebbe, nella citata poesia su e per Byron il verso «Serse sconfitto piange il sogno infranto», in «Capo - Sounion», op.cit., p.91), dove l'allitterazione introduce musicalmente, quasi tirteicamente, l'evento, ma anche sempre di significati, densi, profondi, come quando si chiede se «Vita o esistenza? ». («Dubbio», op.cit., p.31) invitando infine a un dolce escapismo salutare: «Anima mia, rifugiati nel sogno», ibidem), dove il dilemma para- shakespeariano («To be or not to be, that is the question» in "Harnlet», Atto Terzo, Scena Prima, soliloquio di Hamlet) si distende nella dimensione del sogno, da sempre ventilata, dalla cultura classica "occidentale" e da quella orientale, antica e non, approdando a «La vida es sueño»,. di Pedro Calderon de la Barca, senza dimenticare una riflessione poetica (il vero "pensiero poetante", in realtà) sulla vita stessa («Bios» e non «Zoè», dovremmo dire grecamente) di grande efficacia: «Impietosa clessidra questa vita», in «La clessìdra», op.cit.p.21). Eugen Galasso

CLAUDIA TRIMARCHI LA FUNZIONE CATARTICA E RIGENERATRICE DELLA POESIA IN DOMENICO DEFELICE Il Convivio Editore, 2016 - Pagg. 134, € 13,00. “ Quando di fronte a me voi ve ne state/assorta tutta nel gentil parlare,/io non mi stanco di fantasticare/su le bellezze vostre più pregiate” questa è la prima quartina della lirica “Le labbra vostre” in “Un paese e una ragazza”. Sono esattamente alla pagina numero 54 della tesi di Claudia Trimarchi – la funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice – e parto dal concetto supremo e cortese dell’amore. La Musa del Nostro Defelice, il ritratto inserito nella silloge “con le mani in croce”, ci parla della passione amorosa per Marcella, tra divino ed umano. Perché è pur vero e ne riconosco la validità “ l’amore è la principale porta della poesia” mi diletta passare la chiusura del sonetto “ che al cuor vanno qual linfa divina”. Leggiadra è la lirica in endecasillabi che ci dona il nostro Defelice, in una cornice di let-

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teratura classica, mentre mi ricorda la Beatrice di Dante. La meraviglia e lo stupore (ogni buon testo scritto lo fa) aiutano sempre a porsi dinnanzi a nuovi orizzonti. Scattato in me un intento, il sonetto, farne un nuovo esercizio poetico. Facendo seguito a questa sentita mia premessa, che per altro, ha bloccato la lettura e fermato il consenso sublime da lettrice, provo a descrivere il lavoro della Trimarchi e ciò che di valido e concreto evinco: il pensiero fondamentale che l’arte non risiede solo negli autori “noti” ma che deve per dovere, ogni studioso, e non, ricercarlo nei meandri della storia letteraria e culturale del proprio paese, e non. A scoprirsi, pertanto, contemporanei ed innovatori, in un tempo che si evolve e che rappresenta il mondo. La giovane laureanda si pone come obiettivo la riscoperta di una vita dedicata alla poesia, alla saggistica, all’arte in genere; particolare è anche la copertina (Domenico Defelice davanti ad un suo dipinto del 1967, scatto con fotocamera analogica) eppure, una fotografia che lega il caso alla suggestione, e delinea i tratti di un’immagine tridimensionale. La giovane mi appare in questa stesura acquisire una leggera forma di consapevolezza, che la pone in riflessione. Il Nostro Defelice (prendo a prestito l’espressione usata dalla Trimarchi) assimilando i dati forniti dalla studentessa nella sua opera di ricerca e di narrazione biografica, è per me, nella sua prima parte di vita e di letteratura un vero istinto alla natura stessa, al bello, all’amore, alla terra e alle radici. Quel tanto di indefinito che nasce insieme al primo vagito di vita, non si può spiegare, si può solo declamare. Alle falde dell’Aspromonte, in questa terra abbandonata da Dio e dagli uomini, immersa nel verde di agrumeti e fichi d’India, all’ombra… nasce il 3 Ottobre del 1936 Domenico Defelice. La poesia per il Nostro Defelice è esigenza spirituale, ha influenze classiche. Giacomo Leopardi, Giovanni Verga, Francesco Petrarca i suoi maestri, e poi le sue libertà espressive, la sua poetica corposa, intensa e controllata, in una leggera forma di empirismo. La seconda parte dal titolo: Dalla questione meridionale all’uomo grandemente feroce: la parola poetica al servizio di un’urgenza sociale. Ci regala Le autonomie del nostro Autore che coincidono con un periodo di crisi, fondamento per ogni liturgia di metamorfosi, che genera rinnovamento e potere decisionale interiore. La biografia di Domenico Defelice insegna a vivere creando, lasciandosi trasportare dalla vita stessa nella dimensione artistico- poetica. “La morte e il Sud” comprendo essere il suo snodo esistenziale ed artistico


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a tale evoluzione. “furono guizzi, parole concitate, lampeggiar di coltelli” la natura non è più come un tempo, essa si colora di toni feroci e la terra calabra brucia. L’uso della penna a servizio del giornalismo scandaglia il “codice d’onore” di una terra bloccata in un silenzio di mafia che ancora ora fa piangere il cuore e grida. Il Nostro Defelice attraverso i versi “morte del seduttore” e “al morto della solfara” crea il passaggio alla sua letteratura in versi della questione meridionale. “Bisogna tutelarlo l’onesto e rendere prestamente giustizia a chi ha subìto un torto” meraviglioso questo passo del diario datato 1966 di Domenico Defelice nella sua veste sociale. “non riesco più a scrivere se non calato nel sociale”. Ed eccola, successiva, di nuovo la poesia rinascere e prendere nuova visione esistenziale, il prima del caos e il dopo caos e si riappropria dell’amore. “l’orto giardino” ospita voci di artisti e poeti che hanno fatto della Poesia “pane di vita”. La mano tesa verso tutti quelli che hanno condiviso con lui la magia di un foglio di carta che vive dell’anima umana. “sotto i palchi frondosi s’alzano le voci per il meraviglioso mondo e il canto dei poeti onesti” …. “sommesso degli artisti sconosciuti, sconosciuti a molti, a me carissimi”. Approdando in un progetto autentico dove trova rifugio e voce la più variegata essenza del sentire la rivista letteraria di Pomezia Notizie - . Per riuscire concretamente nel suo intento di dire ciò che è la sua verità-polemica: lasciate parlare il coraggio di chi non ha padroni. La sua meravigliosa “creatura di carta” insieme ai tratti di matita e di pittura che pubblica e lasciano la stessa migrazione emotiva, di libero pensiero, della parola in versi del nostro Domenico Defelice. Auguro alla giovane Claudia Trimarchi, che dell’ arte letteraria si è fregiata di primo alloro, il coraggio e la determinazione di continuare ad indagare in nuove ricerche, con la stessa efficacia messa in questa sua opera, lasciando procedere, in lei, un Io sempre libero e sincero. Filomena Iovinella

CLAUDIA TRIMARCHI LA FUNZIONE CATARTICA E RIGENERATRICE DELLA POESIA IN DOMENICO DEFELICE Il Convivio Editore - Prefazione di Giuseppe Manitta. In copertina: Domenico Defelice davanti ad un suo dipinto del 1967. In questo splendido libro, scritto dalla bravissima Claudia Trimarchi, il nostro grande Autore Dome-

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nico Defelice, viene presentato, passo dopo passo, in tutta la sua vita, che appassiona e commuove non solo per i suoi maestosi scritti, ma per il suo buon cuore, la sua onestà, sensibilità, generosità e perfezione. Una vita dedicata tutta alla letteratura e all’arte in genere, da interessare i più grandi critici e recensori, che hanno scritto di lui le sue qualità più uniche che rare. Io ho quasi tutti i libri del Nostro prolifico artista, ho letto con tanta ansia ogni sua poesia, racconti, drammi teatrali, saggi, ecc.ecc. ho ammirato le sue stupende pitture, ma in questo magnifico libro, c’è tutta la sua vita raccontata con magico afflato da incatenare il cuore ad ogni frase, ad ogni verso, da non volere smettere finché non si chiudono gli occhi da soli. Claudia Trimarchi nella sua tesi di laurea “LA FUNZIONE CATARTICA E RIGENERATRICE DELLA POESIA IN DOMENICO DEFELICE” ha dato il massimo di sé stessa, nel realizzare un’opera d’incommensurabile valore culturale, che resterà per sempre nella storia della letteratura italiana di gran pregio. Domenico Defelice, ha lasciato la sua Calabria giovanissimo, ma le è rimasta sempre dentro il cuore, ha scritto per la sua terra tanti ricordi in liriche che hanno emozionato e commosso chi ha avuto la fortuna di leggere le sue stupende creazioni, capolavori colmi di eventi straordinari che ha vissuto, anche soffrendo stenti e solitudine, tristezze e dolori, pensando ai suoi cari lontani. Poi è nata POMEZIA-NOTIZIE, la sua dolcissima creatura, ricca di ogni ben di Dio da ammaliare chiunque, con l’aiuto della sua bella famiglia, ogni mese ci porta in casa notizie che sono una sorgente zampillante di componimenti armoniosi e sensazioni magiche per tutti i gusti. Quasi 45 anni di stupefacenti successi sia in Italia che all’estero, una Rivista colma di grandi talenti letterari, ricca di collaboratori entusiasti di comunicare le loro impressioni su ogni tipo di avvenimento letterario, artistico, umanitario. POMEZIA-NOTIZIE, arriva in Australia carica di allegria e d’attesa per stringerla forte al cuore e inebriarsi delle sue meravigliose notizie, soprattutto le poesie che ci accomunano e ci danno la pace nell’anima. Ogni nostro autore la legge con tanta ansia e infinito interesse. POMEZIA-NOTIZIE, stracarica d’amore, le sue riserve di creatività sono inesauribili, chi la legge una volta non potrà più separarsene. Domenico Defelice, il nostro sensibilissimo Autore, con i suoi preziosi doni di libri, la Rivista POMEZIA-NOTIZIE e IL CROCO, è di casa in


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Australia, tutti gli amici dell’A.L.I.A.S. lo ammiriamo, lo stimiamo, tutti gli auguriamo tanta salute e tanta forza d’animo, e ancora tante e tante pubblicazioni di libri di grandioso successo in ogni continente! Giovanna Li Volti Guzzardi Australia

IMPERIA TOGNACCI LÀ, DOVE PIOVEVA LA MANNA Ediz. Giuseppe Laterza, 2015 - Pagg. 80, € 12,00 Della poetessa Imperia Tognacci è il libro ”Là, dove pioveva la manna” ( Edizioni Giuseppe Laterza, 2015, pagg.80, € 12,00). Come in un poemetto – al di là delle suddivisioni titolate – l’Autrice descrive, attraverso il suo viaggio in Medioriente, il viaggio interiore della propria vita alla ricerca di certezze, di luce e di verità: percorsi, cammini tutti alquanto faticosi. Parte, fuggendo dal “deserto metropolitano” per volare “oltre l’orizzonte/ dei quotidiani limiti”. Il vero deserto, nonostante la valida guida dei beduini della carovana, risulta molto difficile: distese infuocate, tempeste di sabbia, borracce vuote, spazi infiniti in cui ci si sente impotenti, ma “fermarsi è morire”; e miraggi/illusioni/speranze di raggiungere l’oasi -sempre più lontana- con la persona amata. Si arriva nell’antica Petra < porta d’Oriente>, con i suoi templi, abitazioni, canali, fossili, sculture, tombe, altari - tutti scavati nella pietra - “città perduta e riemersa”. La Poetessa, se dapprima si sente “roccia/ fessurata dal vento”, poi, dice, “Avverto rigermogliare, in me,/ gesti e parole spenti nel rotolo/ dei giorni”; e nonostante sia “irrisolto (il) mistero dell’altrove“, “Cerco/ la sorgente della quiete interiore” e “preghiere…/ rinascono nell’anima ad arginare/ l’ umana inquietudine”. Come dopo tanta siccità giunge la pioggia, e “sotto pietrame frantumato/ spunta un filo d’erba”, così è la vita: un “muto avvicendarsi/ di morte e resurrezione”. Il deserto non è semplicemente “scorribande di guerrieri” predatori, o “velenosi morsi di serpente”, ed ora “muri di guerra”, viaggi di emigranti in cerca di vita; ma è, ed era, soprattutto “ideali di popoli in cerca d’Assoluto”, anacoreti, anime che si vogliono purificare. E qui ricorda che anche la regina di Saba attraversò il deserto per recarsi dal re Salomone, alla ricerca della vera sapienza. Dopo Qumram, custode di scritti sacri e di “sbiaditi papiri”, si giunge ad Aqaba, dove il mare è inquinato dal petrolio . Ormai la Poetessa è alla fine del suo viag-

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gio/pellegrinaggio, e teme, tornata a casa, di ritrovarsi nuovamente al buio perché “non si supera la soglia di fuga/ dal Sé”, anche se dice: “vera dimora è la mia anima”; ma, aggiunge, “dovevo seguire la direzione/ dei pozzi e delle oasi per l’anima/ assetata”. E conclude dicendo: ”Tu, Dio,/ eterno viandante, gridi,/ inascoltato, nel deserto/ interiore dell’ uomo tecnologico,/ affinché nel profondo dell’ anima/ si innalzi, a Te, la preghiera/ che oltrepassa l’ignoto confine.” Richiamando il Salmo biblico, ancora si chiede: “Sarai tu, raggio divino,/ <Lampada ai miei passi,/ e la tua parola luce al mio cammino>?” Le immagini, la narrazione, le osservazioni, le riflessioni, descritte tutte in modo mirabile, dimostrano la difficoltà, ma anche la determinata volontà di scoprire con la mente e col cuore, le verità più segrete della propria anima, del proprio essere, del proprio esistere: tutto ciò, nello scorrere fluido della più alta poesia. Maria Antonietta Mòsele

GIUSEPPE LEONE D’IN SU LA VETTA DELLA TORRE ANTICA Edizioni Il Melabò, 2015 - Pagg. 140, € 16,00 “D’in su la vetta della torre antica” – primo verso della poesia leopardiana “Passero solitario” - è il titolo di questo ampio lavoro di critica e di giusto apprezzamento che l’autore Giuseppe Leone compie su due Grandi della cultura letteraria italiana: Giacomo Leopardi e Carmelo Bene “sospesi fra silenzio e voce”, dice il sottotitolo (Ediz. Il Melabò, 2015, pagg.140, € 16,00). Le torri sono quella campanaria di Recanati dalla cui sommità il passero solitario canta; e la torre degli Asinelli di Bologna dalla cui altezza Bene “recita” Dante, in seguito alla drammatica strage alla Stazione ferroviaria, avvenuta il 2 agosto 1980. <I capolavori non si scrivono – ammoniva Nietzsche – capolavori si è>: è l’ attribuzione che l’Autore ora rivolge ai due geni Leopardi e Bene, dei quali vede le affinità, al di là dello spazio e del tempo in cui i Due vissero, e delle attività da essi svolte: l’uno nella letteratura, l’ altro nel teatro. Ma il tema da essi affrontato è il medesimo: la vita umana osservata con un senso di estraneità e, allo stesso tempo, di partecipazione. Entrambi intuiscono che il testo scritto (certamente una conquista con l’invenzione della stampa) non basta, annoia, è muto e insufficiente per trasmettere vere emozioni agli altri: occorre puntare sul senso dell’ udito, come si usava nell’antica civiltà millenaria della voce: la <tradizione orale>.


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Leone segue con scrupolosa attenzione il faticoso cammino letterario di Leopardi nella ricerca di voler riprodurre, nella scrittura, l’infinità sonora: infatti, all’inizio scrive i Canti, richiamando la voce degli uccelli, il suono (della stagione), la quiete che poi scompare nel silenzio; poi si dedica alla conversazione con l’altro da sé nei Dialoghi; vorrebbe anche passare all’azione dedicandosi al teatro come scena (non come testo drammaturgico), ma trova troppe difficoltà a realizzarlo; vorrebbe pure scrivere su periodici proprio per parlare ad un vasto pubblico, ma ciò gli viene negato. Per cui si vede costretto a ripiegare sulla scrittura, riproducendone la funzione epica, naturalmente rinnovandola (“Paralipomeni”). Leone poi ci parla di Carmelo Bene che, come anticipato, vuole che l’immagine passi interamente nel sonoro, nel senso che non è il personaggio che parla, ma è il suono stesso che diventa personaggio, energia creativa, attraverso il bisbiglio, lo svanire della voce, il grido, modi vocali che comunicano dall’interno ”sospesi fra silenzio e voce”, “sonorità immateriale”, possibilità musicali e nuove potenze che non sono canto, né coro parlato, ma li possono accompagnare: si tratta di una voce modalizzata o piuttosto filtrata, che dà senso vitale alla parola: questa è la sua invenzione che vuole ottenere un effetto altro dal dire, che non dice, ne è superiore: è il depensamento, il non-luogo (l’infinito, per Leopardi), la “negazione del reale”, il punto segreto dove il visibile trascorre in udibile. Per lui, il teatro è un teatro senza spettacolo, è arte viva che crea uno spazio vuoto in cui assumersi la responsabilità di esistere e di desiderare: ecco il miracolo che Leopardi non può fare: instaurare integralmente, fuori dalla scrittura, la civiltà della voce; quello di Bene è il Teatro della voce, per cui egli stesso dichiara: ”Ho reso possibile l’impossibile”. Ed egli riesce a ricondurre anche i Canti di Leopardi a pura oralità, proprio come il loro Autore li aveva sognati. Giuseppe Leone fa numerosi paralleli fra questi due Geni, purtroppo senza lodi, né premi: per Entrambi, la parola/suono è intesa come significante, non come significato; tutti e Due sono soprattutto Pensatori, consapevoli del proprio genio (che fa quello che può, non quello che vuole, come invece il talento – dice Bene); ma, soprattutto Entrambi hanno saputo rimettere la Cultura italiana nella contemporaneità, innalzandola dopo secoli di ritardo. Moltissime le spiegazioni, le citazioni di molti Critici, le annotazioni e i riferimenti riportati da Leone. Seguono le bibliografie dei due Artisti, con il foltissimo elenco delle opere critiche su di essi. Maria Antonietta Mòsele

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DANIELA DE ANGELIS FERRAZZI E L’OPERA PERDUTA DI POMEZIA 1938 - 41 Gangemi 2015 - Pagg. 32 Un interessante saggio/documento ci viene presentato da Daniela De Angelis: “Ferrazzi e l’opera perduta di Pomezia 1938-41” (Gangemi Editore, 2015, pagg. 32). Si tratta dell’encausto, cioè di un importante ed imponente lavoro/affresco, dipinto dal 1938 al 1941, su un’intera parete dell’allora Palazzo Podestarile (ora Palazzo Comunale) di Pomezia, che misteriosamente è andato distrutto, sembra per la cattiva tenuta del muro che ha fatto ben presto scurire tutti i colori, creando muffe e infiorescenze, in quanto, nell’impasto, era stata usata sabbia di mare, anziché di fiume. Per cui, essendosi così rovinato il dipinto, ed ancor più dopo il crollo della torre comunale nel 1946, il Genio Civile ha fatto imbiancare tutta la parete, ricoprendo completamente il lavoro. Ed una dichiarazione ufficiale non c’è…. Però esistono le foto dell’intero encausto, sia nella versione provvisoria, sia nella versione definitiva, che vengono riportate nel presente volume. In esse, possiamo vedere la grande raffigurazione elegiaco/mitico/simbolica del Trionfo della Terra, e precisamente del territorio di Pomezia, ultima città nuova costruita dopo la completa, colossale bonifica dell’Agro Pontino, effettuata durante il Fascismo, periodo storico/politico che riproponeva gli antichi Fasti di Roma. Al centro della parete è rappresentato un uomo seminudo che traina un cavallo legato ad un carro (con baldacchino stilizzato) su cui sta seduta una donna, seminuda, con in braccio un infante tutto nudo. Al centro, è seduto un ragazzo con in mano un corno da caccia e una cornucopia, mentre un cane, accanto a lui, giace vigile e sereno sopra uno scalino di marmo. Ai loro lati, ci sono astanti che reggono trionfi di fiori e frutta. Ad interrompere, con effetto tromp-l’oeil, e ad illuminare la scena, ci sono due finestre vere, ornate di vegetali e volatili, al di là delle quali, altri due astanti reggono trionfi di fiori e frutta. A rendere ancor più teatrale la scena, c’è una balaustra che accoglie orizzontalmente il tutto. Si tratta di un’opera simbolica che, nel rappresentare i cicli della vita umana e della natura, e la prosperità rurale, si rifà alle figure mitologiche del dio etrusco Vertumno e della dea Pomona (da qui il nome della città), ispirandosi alle narrazioni descritte nelle Metamorfosi di Ovidio e nell’Eneide di Virgilio, ed anche ad una poesia di Ludovico Ariosto, illustrata in alcuni dipinti dal manierista Pontormo. Nonché il pittore Arciboldo dipinge un


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Vertumno/Rodolfo II con il volto e il busto tutto composto da fiori, frutta e ortaggi. L’Autrice fornisce varie interpretazioni degli elementi trattati in questo imponente lavoro, sia dal punto di vista dell’iconografia, che della storia/ leggenda di Enea e dei miti del Lazio arcaico (i più significativi dei quali vengono qui citati). E ci rimanda anche al biblico Cantico dei Cantici che ha per tema l’amore dell’uomo e della donna, con immagini simboliche del cavallo, dei fiori, della colomba, delle vigne, del baldacchino di re Salomone. Sempre l’Autrice ci ricorda che nell’antica Roma, le feste Vertumnali si svolgevano a fine ottobre, e Pomezia venne inaugurata proprio il 29 ottobre 1939. L’incarico a Ferrazzi, allora accademico d’Italia, venne dato da Araldo di Crollalanza, presidente dell’O.N.C., nel 1938, e l’artista lo completò nel 1941, perché troppo impegnato in lavori (anche musivi) in varie città italiane. Il suo stile è qui definito “magico/iperrealista”; e il contenuto ha significati “occulti e coltissimi”. Maria Antonietta Mòsele

SANTO CONSOLI NEL TUO FIRMAMENTO Edizioni Peloro 2000 - Pagg. 48 IL TUO RISVEGLIO Ed. Il Convivio, 2011 - Pagg. 48, € 10,00 Santo Consoli ci ha fatto pervenire due sillogi poetiche che parlano d’amore: “Nel tuo firmamento” (Edizioni “Peloro 2000” Messina, 2010, pagg. 48) e “Il tuo risveglio” (Ediz. Il Convivio, 2011, pagg. 48, € 10,00). Come dice Alfonso Saya nella Prefazione del primo libretto, in queste liriche domina un’ atmosfera sognante, elegiaca, appassionata, che tende a un mondo di luce e d’amore. Le poesie sono per lo più brevi – scritte al passato - ed alquanto significative. Le riporterei tutte, perché tutte affascinanti. Iniziamo dalla prima: “Nel tuo firmamento/ ho sempre ritrovato/ quella speranza/ che il pendolo dei miei sogni/ aveva ucciso/ nel tempio dell’amore.” E, via via, il Poeta ci racconta della felicità che questo amore gli faceva provare, vivendo in un mondo di musica, di gioco, di colori, nell’ ”arcobaleno di due innamorati”, sia in prati raggianti di sole, sia nelle notti illuminate da luna e stelle. E’ vero, quel tempo è passato, ma lo ha vissuto appieno, ed ora rimangono i ricordi che a volte si affievoliscono e a volte ritornano vivissimi, perché: “Nessuna eco si estingue/ se nella notte/ ritorna la

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magia/ di tutto il tuo amore.” Così “Apriremo/ le nostre conchiglie,/ ritroveremo intatte/ le nostre perle.” E gli sono venute in mano le rime che lei gli aveva dedicato, scrivendo “con tremolio di stelle” …”dando anima all’infinito.” E’ vero, lei se n’è andata, ma il Poeta dice che ne resta indelebile l’immagine, di “quando fremevo/ dentro il fremito/ del tuo cuore.” Nella Prefazione del secondo volume di Consoli, Giuseppe Manitta afferma che la parola e il silenzio sono i due grandi poteri del mondo; e in questo caso, è proprio con la forza della parola che Consoli trasmette al lettore le sue stesse emozioni, invitandolo a non fuggire la realtà, ma a continuare a credere in essa. Anche qui si parla d’ amore – quasi sempre al passato – quando, dice il Poeta, “Scorrevano coriandoli / nel mio tempo,/ come petali al vento,/ mai appassiti/ nella memoria”, ed aggiunge “Non si spegnerà/ la tua lampada,/ guidata/ dal nostro spirito,/ tenuta in vita/ dalle nostre voci/ …Silenziose.” I due innamorati si sono lasciati in lacrime, e lui si sente “randagio”, per cui si lamenta dicendo “Mi aggiro/ sulle tue sponde/ nella speranza/ di essere traghettato/ fin dentro al tuo cuore.” Finalmente, dopo lunga, estenuante attesa, si risvegliano entrambi – nel sogno? - proprio nella notte di Natale, felici di abbracciarsi, rivivendo, nel silenzio, il loro “giardino di stelle”. Sono poesie ricche di immagini originali e bellissime, a volte soffuse di un velo di mistero e di vaghezza – specialmente le ultime liriche - da lasciare al lettore incertezza nell’interpretazione. Maria Antonietta Mòsele

CLAUDIA TRIMARCHI LA FUNZIONE CATARTICA E RIGENERATRICE DELLA POESIA IN DOMENICO DEFELICE Il Convivio Editore, 2016 - Pagg. 134, € 13,00 Domenico Defelice è un autore poliedrico, poeta, saggista, critico letterario, giornalista (fondatore di Pomezia-Notizie) e pittore, si distingue per due particolari caratteri che lo fanno uscire dal coro, da una moltitudine poetica, molto spesso amorfa e ripetitiva e sono l’impegno sociale e l’aspetto culturale. Entrambi sono profondamente legati e rappresentano quelle importanti peculiarità che servono a definire la grande poesia. Nel saggio della dott. Claudia Trimarchi (libro che rappresenta la sua tesi di laurea), “La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice” (Il Convivio), questi due cardini emergo-


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no incontrastati, elementi con i quali si superano gli asfittici sperimentalismi post-neoavanguardia incentrati come sempre, sullo iato profondo tra arte e vita, e si manifesta, invece, la necessità (ma tale necessità è comunque presente, anche, nella poesia esistenziale) di un colloquio con il lettore molto lontano dallo sbalordire Sanguinetiano (“non viziare il lettore” Sanguineti) improntato sulla coscienza di una lirica d’impegno e di Cultura. Sì perché, ciò che differenzia il Defelice dal coro amorfo, è proprio questa necessità di superare le barriere del sociale con l’impegno di un canto che si fa universale e non individuale, che affratelli in una lotta contro i soprusi. “Chi crede che nell’orto del poeta crescano erbe rare, fiori variopinti, alberi tropicali; chi crede che vi scorrano acque fresche e vi cantino uccelli, non conosce il poeta. Nell’orto del poeta scorre il sangue della gente affamata e l’unica voce è l’urlo della rivolta.” (op. cit. pag. 10, D. Defelice). È facile notare, per intertestualità, un richiamo al Baudelaire dei Fiori del male mentre la chiusa espressiva manifesta tutto l’impegno di una lirica che vuole, necessita di uscire fuori dal ghetto dello Intimismo. “La rivolta morale e civile, dunque, sarà compagna fedele del Nostro, in tutta la sua avventura umana e professionale investendo, talvolta con più e talaltra con meno incisività e vigore, l’intera sua produzione letteraria, dagli albori delle sue prime composizioni alle opere più mature” (Claudia Trimarchi, op. cit. pag. 26). Per il Defelice la poesia non è solo fuga dal mondo che non soddisfa, ma anche e soprattutto ricerca di un comune linguaggio che inciti a prendere coscienza e posizione, a squarciare il velo delle illusioni e dell’ipocrisia, dagli abbellimenti con cui molto spesso la nostra società si veste. Un linguaggio colto ma non complesso in grado di dare la dimensione di questa coscienza, ma nello stesso tempo adatto a riabilitare verso l’uso aulico, all’ascolto lirico. La cultura è ricerca di un’identità nell’ eternità degli attimi, ma anche e soprattutto nella storia dell’essere (memoria) attraverso le immagini che diventano archetipi dell’io. La poesia non è tanto “scultura della materia” (come sostiene G. Linguaglossa alle prese con l’oggettività di un realismo ormai esacerbato fino alle radici) ma cultura della materia, oggetto reso storia e sapienza. La complessità fenomenica degli oggetti reali, non esiste in Defelice poiché l’oggetto stesso (o stilema) è rivestito di una storia personale e universale che rifugge le strettoie dell’esistenzialismo. La forza della parola sta nell’intrinseca qualità del rimando, il dramma non è individuale ma cosmico e collettivo. L’amore per l’umanità e l’amore per la cultura animano le poesie dell’autore, due elementi che in

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simbiosi trascendono la sua visione personale. Lo stilema è l’atto in cui la sua visione individuale si collega all’universale, è il momento d’incontro tra cultura e realtà. La rievocazione nostalgica di un Eden, cioè di un luogo (molto spesso collegato al luogo natio) da opporre alla frenesia del moderno, non è nuova (risale al Pascoli ma ancora più indietro ai lirici latini come Teocrito) ma diventa “stilema culturale” da opporre all’astrattismo esistenziale in molte poesie dei nostri giorni (presente, anche, in maniera differente in I. Tognacci, V. Rossi, Rescigno, L. De Rosa ecc.). Lo stilema qui, ha forti ascendenze leopardiane e foscoliane “...tra le molli ombre di garrule palme/e l’olezzar di mille e più profumi/mi annullo, mi dissolvo assieme a loro” (da Mi mancan per sognare, D. Defelice op. cit. pag. 36) e si configura come Topos ricostitutivo dello stesso valore poetico incentrato sul recupero, sul rimando, come “elemento rieducativo” da opporre alla massificazione verbale. “Amo questo mio sogno/ch’ad ogni istante/a consolar la mia tristezza/ti porta sopra il verso gentile” (da “Amo la luna” D. Defelice op. cit.). La Trimarchi parla di linguaggio chiaro che “sgorga dal cuore” opposto a certe complessità e astrusità ermetiche. In realtà l’ intuizione onirica da cui provengono certe visioni defeliciane, s’incontra armonicamente con l’esperienza in una relazione volutamente chiara ma che non rinuncia agli effetti stilistici. Ne sono prova i versi apocopati capaci di restituire musicalità al verso, gli effetti allitteranti e assonantici “...del nido mio desio m’assale (...) salvami tu da questo rio rumore” (da Desio m’assale, idem) e la rivisitazione di alcuni senhal che segnano il passaggio da una poesia di stampo sensoriale esistenziale a Culturale “...all’ ombra dei cipressi in cimitero” (da Anoia mia, in “La funzione generatrice...” op. cit. pag. 42). Ciò che caratterizza, quindi, la nuova poesia è la ricerca di quei valori comuni da trasmettere alle generazioni future, come dono: il valore legato alle origini, alla propria terra, alla Natura, alla scoperta delle cose buone di un tempo, che la modernità sta cancellando o che è l’aspetto più propriamente culturale di una poetica non sradicata dalla sua essenza, come quella del Defelice e che nello stesso tempo si fa promotrice di un corale impegno di trasformazione sociale. Susanna Pelizza

ANNA GERTRUDE PESSINA ALL’ALBA DI UN GIORNO QUALUNQUE Manni Editore, Lecce, 2016, € 20,00 Con lo stile analitico e ricco di notazioni psicolo-


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giche che le è proprio, Anna Gertrude Pessina si presenta a noi con un nuovo romanzo, All’alba di un giorno qualunque (Lecce, Manni Editore, 2016), che si pone come una tappa importante della sua carriera di narratrice. La vicenda è quella di un padre, Ariele (nome schiettamente shakespeariano), al quale viene concesso l’affidamento della figlia Verdiana, ancora in tenera età, dal momento che la madre, Eva, era stata ritenuta dal giudice minorile del tutto inaffidabile e quindi inadatta ad educare una bambina di poco più di cinque anni. Un affidamento storico, questo, perché con esso fu “la prima bambina nella storia della Magistratura minorile” ad essere “affidata a un papà” (p. 16). Eva era infatti una donna autoritaria e narcisista, egoista, che non nutriva alcun interesse per il prossimo; nemmeno per quello a lei più vicino, come la figlia e il suo compagno di vita. Desiderava solamente garantirsi un avvenire comodo e tranquillo, disposta a sfruttare tutte le proprie arti femminili di seduzione, pur di ottenere più velocemente i mezzi idonei allo scopo. La sua “aspirazione latente” era infatti quella di riuscire ad “aprire un sexy shop” (p. 20), per poter vivere nel lusso e senza troppa fatica. Un modello di vita oltre modo negativo dunque per la piccola Verdiana. Ariele, al contrario, era un uomo di vecchio stampo, sostanzialmente onesto e consapevole delle proprie responsabilità, al quale risultò perfettamente naturale, come padre della bimba, prodigarsi per la sua educazione. E lo fece con grande affetto: l’ accompagnava a scuola ogni giorno e cercava di seguirla in tutte le sue numerose attività della giornata nel migliore dei modi. Come d’altra parte si adoperava per soddisfare sempre anche ogni suo pur minimo desiderio al fine di renderle, per quanto gli fosse possibile, la vita serena, in modo da ricompensarla del fatto di avere una madre inesistente. Insomma, riversava su di lei “un affetto abnorme per perequare il ripudio materno” (p. 16). Ma in tal modo si era trovato a condurre un’ “esistenza frenetica”, piena di numerose incombenze da svolgere, precludendosi così un sia pur minimo spazio personale. È vero che se ne sentiva ampiamente gratificato perché, con il suo affetto e con le sue “moine”, “Verdiana lo ripagava della fatica e dello stress” (p. 15) a cui si era sottoposto e si sottoponeva continuamente per lei; ma è altrettanto vero che questa sua tanto completa dedizione alla figlia non gli aveva permesso di pensare a formarsi una seconda famiglia, con una donna che, magari, lo avrebbe reso felice con altri figli. “L’assolutezza dell’amore paterno” gli aveva pertanto suggerito, o più precisamente imposto, di condurre “in perma-

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nenza, la condizione di single” (p. 39). Come si sa, però, il tempo scorre veloce e Verdiana divenne in fretta un’adolescente, ma purtroppo molto diversa da quella che Ariele aveva previsto e sperato. Scrive infatti la Pessina, sintetizzando in poche icastiche frasi (come è suo costume) la situazione in cui si venne a trovare il povero padre, allorché si accorse di come stavano realmente le cose: “Così snodavano i giorni. Così corsero dieci anni di segreti, bizze, moine. Colorarono di rosa l’esistenza. Inopinata e, senza sintomi apparenti, la fuga della sua stella. Il declino della vita ingrigì” (p. 33). La vita, infatti, “ingrigì” davvero per il povero Ariele, il cui unico torto era stato quello di non avere saputo, nel suo grande affetto di padre, comprendere in tempo alcune piccole stranezze nell’ evoluzione del carattere di Verdiana; quello cioè di non aver dato peso ad alcuni suoi atteggiamenti, forse, un po' troppo protervi. Ma si sa, bisogna pur dar tempo ai giovani di trovare il loro giusto equilibrio, prima che divengano adulti… Ed inoltre gli era sembrato naturale “imputare alla instabilità della fase di crescita i segnali di protervia, cui [purtroppo] Eva stava indirizzando la sua preda” (p. 38). Una visione sicuramente più veritiera della situazione era invece quella che si era formata Dunia, la sorella di Ariele, convinta più che mai che il fratello, “per non perdere Verdiana si fosse bendato gli occhi con lenti molto affumicate” (p. 167). Una convinzione, purtroppo, non manifestata in tempo per tutta una serie di problemi psicologici che, malgrado la stima e l’affetto reciproci, si erano andati creando sin dall’età dell’infanzia fra i due fratelli. Punto essenziale è dunque il fatto che Ariele non previde per tempo quanto deleteria potesse essere l’ influenza di una tale madre sulla figlia; ma d’altra parte anche se l’avesse previsto non avrebbe potuto impedire i loro incontri, garantiti dalla legge. Né, data anche la sua indole pacifica e rispettosa degli altri, sarebbe forse stato capace di aprire gli occhi della figlia per farle comprendere la perfidia della madre. In tal modo Eva, benché ufficialmente esclusa dal processo educativo della figlia, riuscì ad influire ugualmente su di lei, e molto negativamente. Infatti, nei giorni in cui le era concesso di vedere la bambina e di trascorrere qualche ora con lei, non perdeva occasione di circuirla e di manipolarla, al fine di mettere in cattiva luce ai suoi occhi la figura del padre. E tutto ciò era da lei architettato nella segreta speranza di riuscire, in un domani non molto lontano, ad indurla ad assecondare le proprie trame, sempre unicamente tese a trovare un’adeguata sistemazione per sé, a danno del povero Ariele, che si venne di conseguenza a trovare in una situazione destinata a divenire col passare del tempo sempre


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più pesante e sempre meno gestibile. Poco dopo infatti, e certo non fu un caso, sopraggiunse anche l’ ictus che lo lasciò privo della parola e con una difficoltà deambulatoria. Ma quello che più affliggeva Ariele era il comportamento di indifferenza o meglio di palese intolleranza che nei suoi riguardi ostentavano Eva e la figlia, le quali, nel loro diabolico egoismo, non solo non mostravano una seppur minima compassione per le sue difficili condizioni fisiche e psichiche, ma non esitarono nemmeno a sfruttarle per chiedere la sua interdizione, che, ovviamente, data la loro abilità, riuscirono facilmente ad ottenere. Così l’ infelice venne affidato alla tutela di Verdiana, ormai divenuta maggiorenne, ma sempre succube della perfida madre. E tale provvedimento, che lo privava della sua capacità di agire, generò nel suo animo una profonda ferita, ritenendolo egli un vero e proprio “attentato alla sua intelligenza, non compromessa dal processo ischemico” (p. 63). Di grande importanza ai fini dell’economia del romanzo appare il trasferimento di tutta la famiglia a Roma, nell’appartamento in cui in passato Ariele aveva vissuto felicemente con Verdiana bambina. Ora però per lui in quella casa, tutto era cambiato, nulla essendo rimasto più come prima. In quella bella casa di un tempo, accogliente ed arredata con gusto, mancavano infatti molti oggetti, finiti chissà dove; ma soprattutto il pover’uomo si sentiva ridotto in schiavitù, costretto com’era a vivere completamente isolato, rinchiuso tutta la giornata nella cameretta che era stata della figlia, dalla quale poteva uscire soltanto per i pasti principali. Si sentiva prigioniero in casa propria, continuamente schiavizzato da quelle due terribili donne che occupavano invece tutto il resto dell’appartamento, conducendo una vita sempre più irregolare, fra feste notturne, che mascheravano una bisca clandestina, e convegni amorosi di ogni tipo. Eva inoltre si ingolfava in continui debiti, firmando cambiali accettate unicamente per la fiducia di cui godeva Ariele, il quale veniva così colpito finanche nella sua rispettabilità. Verdiana poi, nella sua totale sudditanza di figlia plagiata, andava gradualmente assumendo sembianze che diventavano nel tempo sempre più simili a quelle materne, acquistandone finanche il modo di esprimersi e di atteggiarsi; predestinata pertanto ad imbarcarsi anche lei in un modello di vita completamente privo di valori. Questa, nelle sue linee essenziali, la vicenda che sta alla base del romanzo; una vicenda che ben rispecchia un aspetto della nostra attuale società: quello della perdita dei valori tradizionali, che hanno rappresentato il punto di forza delle genera-

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zioni precedenti e che, forse con troppa superficialità, sono stati rifiutati in blocco e non sono mai stati sostituiti con altri. Un romanzo, dunque, questo della Pessina, che trapassa anche nel sociale, dal momento che l’autrice ci dimostra come, senza il rispetto di quei principi fondamentali che reggono, ed hanno retto, l’umanità sin dalle sue origini ci si trovi di fronte all’assurdo ed al nulla. Ed è proprio Ariele, il personaggio centrale del romanzo, a reggere le fila di questa moderna e tragica storia di una famiglia ormai in sfacelo, in cui regnano solo “disvalori e disamore”. Non è però, a mio avviso, l’aspetto sociale quello più rilevante del libro; come non lo è l’avvicendarsi delle varie vicende, anche se tutte sempre funzionali al suo svolgimento e tutte sempre molto coinvolgenti per il lettore. L’aspetto invece che mi è sembrato maggiormente importante in questo ben strutturato romanzo di Anna Gertrude Pessina è lo studio psicologico che ella fa dei suoi personaggi, dato che è appunto lo scavo nella loro psiche che le permette da un lato di evidenziare le varie ripercussioni comportamentali che l’avvicendarsi degli avvenimenti provoca in loro; dall’altro di scoprire alcuni lati meno appariscenti del loro carattere, ma essenziali nell’architettura del romanzo. Tipici in questo senso sono proprio i lunghi monologhi interiori di Ariele, sempre condotti dalla Pessina con notevole abilità. Sono appunto queste continue “digressioni” sulla sua attuale vicenda esistenziale, che lo portano ad analizzarsi ed a tormentarsi, risalendo con il ricordo sempre più indietro nel tempo, sino ad evocare età remote della sua vita e finanche della sua famiglia, dove si trovava forse la radice del suo assurdo destino. Molto ben caratterizzata risulta anche la figura di Massimiliano, il ragazzo di cui Verdiana si è follemente innamorata, pur sapendo che era un tipo che “annoverava girls per ogni giorno della settimana”; fatto del quale non faceva “alcun mistero” (p. 58): insomma un rappresentante esemplare di una generazione senza valori; un degno “amico” di Eva, il personaggio femminile di maggiore spicco del romanzo. Donna di estrema perfidia Eva ha in tutto il racconto un comportamento che rispecchia il suo squallido credo di vita, per il quale l’autrice non sembra cercare nemmeno alcuna giustificazione. Il che sicuramente risalta dal contrasto con la figura di Ariele; ma anche (e forse ancora di più) da quello con due figure, decisamente secondarie nel romanzo, quali Francesca (p. 95) e Sabina (p.188): due antiche conoscenze di Eva, ma di lei senz’altro di gran lunga migliori, le quali, pur partendo da una condizione esteriormente molto simile alla sua, so-


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no riuscite a riscattarsi ed a conquistare la stima e l’ affetto di coloro che vivono loro accanto. Francesca ha attualmente un figlio in seminario al quale dedica la sua vita e Sabina una figlia prossima alle nozze, alla quale è fortemente legata. È inoltre doveroso evidenziare la ricchezza del vocabolario adoperato dalla Pessina, che rappresenta una prova dell’ampiezza del suo patrimonio lessicale, come ben dimostrano i numerosi vocaboli giuridici, psicologici, medici sempre appropriati, di cui il romanzo abbonda, usati spesso accanto a quelli della comune lingua parlata, o magari addirittura accanto a parole in gergo, a inglesismi o a nuovissimi neologismi. E spero che le citazioni da me riportate e virgolettate lo abbiano, almeno parzialmente, messo in luce. La pagina della Pessina rivela inoltre una grande ricchezza di arditi accostamenti verbali, che bene esprimono l’animo delle figure di volta in volta descritte, quali: “il viso fiammeggiava dissensi”; “gli occhi roteavano felini”; “intimo ruscellare della malevolenza”; “dirupava il ponteggio della fantasia”; “cotto sulla grata dei sensi”. E ancora con tutta una serie di neologismi che ovunque s’incontrano in questo libro, come: “incainisca”; “vegetalizzarsi”; “fanciullizzarsi”; “inchiestarsi”; “smielò”; sbrodeghezzi”; “sbriellare”; “approcciare”; “repetare”; “infantichiva”; ecc. Molto ben architettata è poi l’ultima scena del libro, che contiene il riscatto di Verdiana, succube in tutto il romanzo della madre, ma redenta alla fine dalla morte. Parecchie altre cose si potrebbero e si dovrebbero dire su questo bel libro, ma dovendo concludere vorrei aggiungere soltanto che All’alba di un giorno qualunque appare un romanzo di accattivante lettura, dotato di una problematica coinvolgente, sviluppata con un genere di scrittura ricca e intensa, che ha il ritmo proprio della vita vissuta. Pregevole soprattutto la sua natura essenzialmente psicologica, che colpisce specialmente per lo studio assiduo dei caratteri, studiati da Anna Gertrude Pessina sempre con la massima cura; il che fa scoprire in lei doti non comuni di narratrice, che tuttavia già altri suoi testi avevano messo in luce. Il libro è stato degnamente presentato presso l’Istituto “ErreKappa” di Napoli il giorno 15 aprile 2016, alle ore 17.30, dal Prof. Francesco D’ Episcopo dell’Ateneo partenopeo: moderatrice la giovane Laura Russo Krauss, che ha brillantemente svolto il suo lavoro, con l’ausilio di due valenti lettrici. Liliana Porro Andriuoli

Pag.69 (S)CENES VENITIENNES Sur le rouges ou jaunes des façades des Ca’ des poissons happent les miettes colorées des fruits et légumes qui ont chu des étals des embarcations alignées sur le vert Veronese des rii de Venezia Un peintre les croque Béatrice Gaudy Francia

MASCHERE E TRAMONTI Volti e parole senza alcuna giovinezza paure coperte di nuovo all’ancora della salvezza. Solitudine avara di me trionferò ancora con leale cura assisterò a tramonti e a maschere al vento. Lorella Borgiani Ardea (Roma)

TORINO UN POCO MIA E quanto t' ho amata Torino un poco mia tu che mi vedesti crescere tra le tue braccia nel cielo e nella terra che mi guardasti


POMEZIA-NOTIZIE nel mio scoprire le fronde nel vento che gioisti con me ai teneri incontri col mio primo amore che giocasti anche tu con noi al passar dei giorni. E quanto t' ho amata Torino un poco mia tu che m' hai concesso di vivere e conoscere anche la vita tua che m' hai donato così tanti amici con cui vincere il tempo che m' hai divertito nei giorni del teatro per le tue piazze che m' hai turbato nei giorni sbandati di scontri di piazza. E quanto t' ho amata Torino un poco mia tu che m' hai aiutato nel silenzio senza musica coi tuoi grandi spazi ch' eri sempre presente anche nel pianto nel dolore nello smarrimento che discreta sapevi esserci con la tua benevolenza quando i tanti miei morirono che lasciavi passare lenta la dolce illusione e della casa la presenza.

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E quanto t' ho amata Torino un poco mia tu che accompagnavi la partenza non la lontananza di così tanta vita ed amore che non domandavi del mio perseverare in questo mio cercare che mi lasciavi sorridere e ridere e sghignazzare di me all' aumentar della mia comprensione non piangere per me tu che sempre accoglierai i miei ritorni. E quanto t' ho amata Torino un poco mia tu che m' hai visto rinascere nell' Eterna Conoscenza Che Libera L' Anima che m' hai visto arricchire di Questa Speranza Universale Che Vive oggi per l' Umanità che m' hai ascoltato in questo mio cantare Libertà Spirituale quanto t' ho amata quanto t' ho amata Torino un poco mia. Michele Di Candia Inghilterra

AI COLLABORATORI Per mancanza di spazio, siamo stati costretti a rimandare al prossimo numero una quantità di materiale già selezionato. Siamo certi della vostra comprensione e di quella dei lettori. D. Defelice


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D. Defelice: Il microfono (1960)

NOTIZIE NURIA SCHOENBERG NONO interpreta il nostro tempo tra cultura, musica, progetti innovativi - Il 31 maggio 2016 si è svolto ad Avellino presso il Conservatorio 'D. Cimarosa' un importante incontro storico 'Conservare la memoria: Arnold Schoenberg e Luigi Nono', che ha visto al lavoro Nuria Schoenberg Nono, donna del nostro tempo, vivace, sorridente, sempre coinvolta nei contesti culturali legati al padre, Arnold Schoenberg ed al marito, Luigi Nono. È stata affiancata in questa occasione dal Presidente del Conservatorio Luca Cipriano e dai docenti Antonio Caroccia e Gianvincenzo Cresta, mentre il ruolo di moderatore è stato svolto dal caporedattore de 'Il Mattino' di Avellino, Generoso Picone. L'avevo ascoltata a Firenze, nella Sala Ferri, il 17 maggio 2016, in occasione della presentazione del volume ' Luigi Nono e Giuseppe Ungaretti - Per un sospeso fuoco. Lettere (1950-1969), ed. Il Saggiatore, 2016, a cura di Paolo Dal Molin e Maria Carla Papini, di cui già avevo caldeggiato la pubblicazione, per studiosi e non solo, nelle pagine di questa Rivista, a conclusione del lavoro su 'I cori di Didone' di Luigi Nono, nell'interpretazione del compositore padovano Carlo De Pirro. A presentare il volume, oltre ai due curatori, hanno preso la parola anche Gianmario Borio e Carlo Ossola. Non potendo andare ad Avellino, nell'occasione di questo evento, per essere tra i luoghi che hanno animato gli interessi e la partecipazione di Luigi Nono, mi sono messa in contatto con il Direttore del Conservatorio Carmine Santaniello: gentile e

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disponibile, ha passato il filo dei legami con me al Maestro Caroccia. Il risultato è stato importantissimo. In rete, sul sito del Conservatorio, è inserito anche il materiale videoregistrato dell'evento, con Nuria Schoenberg Nono che arriverà a firmare la convezione e l'accordo d'intesa tra le due istituzioni, il Conservatorio di Avellino e la Fondazione Archivio Luigi Nono alla Giudecca in Venezia, di cui lei è Presidente, come figura di pieno rilievo nella vita culturale, artistica musicale dei nostri giorni, convenzione che andrà a tutto beneficio di giovani studenti e ricercatori. Si, perché lei, figlia di Arnold Schoenberg e moglie di Luigi Nono, sintetizza in sé una femminilità creativa, attiva, dinamica, emotiva, riflessiva e pratica ad un tempo, per testimoniare che gli eventi da lei vissuti sono memoria vera da condividere. Ecco allora il momento culminate dell' evento, quando ricorda di essere stata migrante, con la sua famiglia, dalla Germania agli Stati Uniti d' America e quando sottolinea che proprio ad Avellino il suo Gigi ha dato testimonianze dirette con la sua presenza, le sue musiche, le sue idee. Di lei e della mia assidua frequentazione dell'Archivio alla Giudecca molto ho già detto su queste pagine, grazie al pieno consenso del nostro Direttore, ma ancora tantissimo resta da scoprire dopo attenta e scrupolosa investigazione, affinché siano messe in luce tante profondissime sfumature della sua galassia creativa: così amo definire la pura capacità d'arte incarnata dal Gigi veneziano, ben lontano dal volerci lasciare in eredità miti o utopie, la cui ricaduta effettiva nel quotidiano è fragile e sfuma quasi subito, poco cambiando dell'interiorità in ciascuno di noi. Allora mi riferisco qui al volume che ho acquistato in Archivio, in una delle prime occasioni legate alla mia ricerca ed al progetto di portare ancora una volta nelle strade la sua voce, oltre che la sua musica, 'L'ASCOLTO DEL PENSIERO – SCRITTI SU LUIGI NONO', a cura di Gianvincenzo Cresta, ed. Rugginenti, Milano, 2002. Roberto Fabbriciani, amico e profondo estimatore di Nono, in 'Aliti di suono' fa brillare tutta l'autentica luce delle idee del compositore veneziano: “... lavorava molto intensamente all'idea di tracciare nuove vie, di ricercare nuovi percorsi musicali che potessero superare qualsiasi residuo di accademismo e che potessero aprire le menti. Provocare era un suo costante agire, così come rischiare, arrivare fino ai confini del non udibile e forse oltre. Accendere nuovi modi di ascoltare per allargare gli orizzonti del mondo sensibile e spingere l'umano genere a rinnovarsi e ad accettare nuove necessità. Esempio significativo fu la nostra presenza in Sardegna in cui Gigi guidò la mia performance ai limi-


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ti dell'udibile provocando una situazione di ascolto estremo di fronte ad un uditorio in totale religioso silenzio, alla ricerca di un alito di suono. Da questa esperienza positiva nacque il desiderio di sviluppare l'idea, nata in Sardegna, progettando una tournée di conferenze, concerti ed incontri con la mia presenza, la presenza di Gigi e, talvolta, quella di Massimo Cacciari, unita a studenti di licei e di università...” (R. Fabbriciani, 'Aliti di suono', in 'L'ascolto del pensiero - Scritti su Luigi Nono', a cura di Gianvincenzo Cresta, pag. 143). Oltre alla cura del Cresta, in questo importante volume stampato con il contributo dell'Ente Provinciale per il Turismo di Avellino, nell'occasione dell'evento 'Musica in Irpinia - Rassegna Internazionale di Musica Contemporanea', vengono pubblicati scritti di M. Cacciari, M. Cesa, N. Cisternino, R. Cresti, R. Fabbriciani appunto, L. Pestalozza, B. Porena, B. Putignano. Al suo interno, oltre a tre pagine belle che riportano in grande grafia documenti originali di Luigi Nono per progettare viaggi di studio e di ricerca in Italia, in Portogallo, in Germania, in Svizzera (pp.144146), anche un suo saggio inedito, 'Musica e Massa popolare', raccolto dalla registrazione effettuata il 15 giugno 1978 presso l'Auditorium del Conservatorio 'D. Cimarosa' di Avellino, interno al Convegno che porta la stessa intestazione e che è stato organizzato da Arci Musica-Incontro, sez. di Avellino, del quale riporto qui solo alcune intensissime tracce in attesa di darne più compiuto ed approfondito resoconto interpretativo: “... bisogna andare molto più in là, cioè considerare che il concetto di massa è molto più articolato. Se resta legato a un dato concetto di massa, si resta legati anche a una pratica di consumo di massa, di comunicazione di massa, di cultura di massa, che si sviluppa in un paese capitalista ove vi è però una utilizzazione della massa non per il suo potenziale creativo, né per farlo crescere né per farlo esplodere, mi riferisco anche al potenziale sociale, economico, culturale, morale, di vita... Se si approfondisce il rapporto fra realtà sociali socializzate e non fra linee, diviene chiaro che il problema non è tanto della cultura di massa generica, di cultura-strumento, ma di cultura che sia momento di conoscenza della realtà, dei fenomeni e della cultura del passato e della cultura di oggi... Per cui parlare qui ad Avellino di una concezione che si basa prevalentemente sullo sviluppo della tecnologia non è contraddittorio è soltanto anche questo un momento di conoscenza volto a non far risaltare il divario che esiste fra le possibilità del Teatro alla Scala di Milano e quelle che qui ci sono, non per trovare una alternatività, ma semmai, al contrario, per trovare una base unitaria tra situazioni e condizionamenti storici differenti, per cercare

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insieme di progettare nell´ottica della conoscenza, non tanto una sintesi, ma un accordo, un raccordo. Quando si parla del Sud, il Sud abbandonato, il Sud isolato, del Sud di un certo tipo è vero fino ad un dato punto. Anche al Sud c´è una distribuzione economico finanziaria di capitali che talvolta è determinata da una multinazionale con un proprietario straniero che decide di testa sua - in questo caso c´è un intervento finanziario ed economico che ha riflessi diretti all'interno di una cultura, di una società e che definirei un elemento di fortissima disgregazione che non porta ad una possibilità di sviluppo ma di massimo sfruttamento - o da una pioggia fitta di intervento finanziario che è distribuito sul piano della corruzione violenta, della corruzione umana, della corruzione sociale, della corruzione morale e che si unisce a posizioni anti-storiche di conservatorismo, simili a istituzioni, come la mafia. Tali forze si uniscono per mantenere una subalternità, per dividere, per disgregare...” (L. Nono, Musica e Massa Popolare, in 'L'ascolto del pensiero', op. cit. pp. 147-149). Queste riflessioni hanno la forza della messa in atto della propria vita, non appartengono alla sfera del mito o dell'utopia. Ilia Pedrina *** STRAORDINARIA SCOPERTA DELLA DOTTORESSA MARIA GIOVANNA DAINOTTI - Mercoledì 15 giugno durante il meeting dell’Astronomical American Society a San Diego, in California, si è tenuta una conferenza stampa sulla recente scoperta di Maria Giovanna Dainotti, Marie Curie Outgoing Fellow alla Stanford University e assegnista all’INAF-IASF di Bologna, Cavaliere dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana dal 2013. La dottoressa Dainotti (nella foto), insieme ad un team internazionale composto dal dottor Postnikov, dottor Xavier dell’Università del Messico e


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Prof. Michal Ostrowski della Jagiellonian University, ha identificato un piano su cui tutte le esplosioni di lampi gamma lunghi (maggiori di 2 secondi) e con determinate caratteristiche giacciono. I lampi di raggi gamma, GRBs in inglese, sono il fenomeno più violento del cosmo dopo il Big Bang: in pochi secondi emettono la stessa quantità di energia che il nostro sole produce in tutta la sua vita. Questa energia è in grado d’attraversare quasi l’intero universo. Con questo piano fondamentale due importanti implicazioni saranno possibili in un vicino futuro: un miglioramento della comprensione dei modelli teorici che possano spiegare il meccanismo che origina i GRBs. Il vantaggio più rilevante di questa scoperta è la possibilità di usare questo piano fondamentale come candela standard (cioè un oggetto astrofisico di cui la luminosità è nota o può essere derivata tramite correlazioni, in questo caso il piano è indentificato da una correlazione tridimensionale) per misurare le distanze cosmiche e i parametrici cosmologici anche con i GRBs con una precisione sperabilmente maggiore di quella ottenuta in passato. Questa scoperta è stata possibile grazie all’utilizzo del telescopio spaziale Swift della NASA, operativo dal 2004, che speriamo possa continuare il più possibile nella sua missione. *** AUGURI! AUGURI! - La nostra amica Giovanna Li Volti Guzzardi - Presidente dell’A.L.I.A.S. Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori ha avuto la grande gioia di diventare bisnonna! La bellissima Ella Rose è nata il sette luglio scorso, rendendo felici i genitori e i parenti tutti. Nell’ augurare alla piccola, a nome della intera grande famiglia di Pomezia-Notizie, un futuro splendido, uniamo al coro delle felicitazioni anche le nostre, perché la nascita di una creatura è sempre una scommessa nel futuro della umanità. (ddf) ELLA ROSE Una pioggia di felicità è scesa con la nostra bellissima Ella Rose. La cicogna, ci ha rallegrato coi suoi squittii di gioia, dicendoci che i bisnonni sono più importanti dei nonni! Un sole splendente, di un giorno brillante del sette luglio lucente, ci ha regalato un angelo delizioso - Ella Rose -

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È più bella di una rosa, un dono prezioso del nostro Gesù che teniamo stretto al cuore e ci dice che i bisnonni sono più speciali dei nonni. Cantano gli usignoli, danzano le gazzelle, cinguettano le rondinelle, fischiano i passerotti ci destano le cicale, un coro altisonante di pappagalli c'informa, che l'amore dei bisnonni è più grandioso e spettacolare di quello dei nonni! 12 - 7 - 2016 Giovanna Li Volti Guzzardi Avondale Heights, Melbourne - Australia ***

COMUNICATO STAMPA - Comune di Sestri Levante, Fondazione Mario Novaro e Mediaterraneo srl hanno presentato: Giovanni Descalzo, quaderno n. 79/80 de «La Riviera Ligure», Venerdì 15 luglio 2016, ore 21, Convento dell’Annunziata - Terrazza sul mare “La ginestra”, Baia del Silenzio, Sestri Levante. Interventi di Valentina Ghio (sindaco di Sestri Levante), Marcello Massucco (Mediaterraneo servizi srl), Francesco De Nicola (Università di Genova), Maria Novaro (Fondazione Mario Novaro), Enrico Rovegno (scrittore), Marcello Vaglio (critico letterario) - Letture di Paolo Paganetto. È stata una terrazza sul mare il luogo dove venerdì 15 luglio, alle ore 21, nel Convento dell’ Annunzia-


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ta di Sestri Levante, si è svolta la presentazione del n.79/80 de «La Riviera Ligure» dedicato allo scrittore Giovanni Descalzo (Sestri Levante 1902-1951), con un suo diario inedito. Il quaderno, pubblicato dalla Fondazione Mario Novaro, comprende inoltre gli interventi di Valentina Ghio, Francesco De Nicola, Fabrizio Staffoni, Francesca Bottero, Franco Ragazzi, Natalino Dazzi e Vincenzo Gueglio. Giovanni Descalzo non poteva fare a meno di scrivere, anche se nel frattempo faceva il garzone in una cartoleria, l’elettricista alla Fit (Fabbrica Italiana Tubi), il postino, l’operatore in un cinema sul lungomare, il marinaio, sempre precario fino al 1933 quando il Comune di Sestri Levante lo assume come apprendista archivista. Carica che non muta mai e del resto ogni scatto di carriera è impossibile perché il suo corso di studi si ferma alla quinta elementare. Il padre muratore muore in un incidente sul lavoro e Giovanni inizia a lavorare per mantenere la famiglia. Nel 1939 sposa l’insegnante di francese Adriana Franzoia, da cui nel ‘44 nasce Maria Rita Benedetta, morta dopo pochi mesi a Chiavari sotto le bombe. Nel 1946 arriva la secondogenita Ilaria e Descalzo inizia anche a scrivere per i bambini e i ragazzi. Chissà da dove viene non tanto la voglia di esprimersi, quanto piuttosto la capacità di trovare la forma in cui sostanziarla, in una vita già così dura. Ma così è, per Descalzo, l’operaio poeta che comunque non rimane estraneo alla cerchia dei suoi colleghi scrittori. Anzi. Pubblica sulle riviste letterarie «L’Eroica» e «Circoli», è stimato da Angelo Barile, Camillo Sbarbaro, Adriano Grande ed Eugenio Montale. Carlo Bo lo chiama affettuosamente “Giuanin”. Risale al 1 febbraio 1943 la prima lettera di Giovanni Descalzo a Mario Novaro, prima di una breve corrispondenza - ma quanto mai ricca di significato – che purtroppo i lutti della guerra in corso interrompono bruscamente. Non però l’interesse di Descalzo per la poesia di Murmuri ed Echi, che continuerà a recensire e trattare (pubblicando anche testi inediti) ancora negli anni successivi alla morte di Novaro, avvenuta nell’agosto 1944. Frequenta Oscar Saccorotti, Antonio Discovolo, Lino Perissinotti, Emanuele Rambaldi, amici artisti che si rivolgono a lui per essere presentati in catalogo, sebbene non si presenti mai come critico d’arte. Con il suo sguardo raffinato arriva a individuare l’attitudine al disegno nel collega d’officina Eugenio Raffo, fino a indirizzarlo verso la xilografia, di cui sarà riconosciuto maestro. Tutto nasce dalla capacità di guardare e dalla voglia di scrivere. Nel 1929 Descalzo pubblica il poemetto Uligine, nel ’33 la silloge Risacca, poi i racconti

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Sottocoperta, La terra dei fossili viventi (1938), Santuari, vallate e calanche della Liguria orientale (1941), Le cinque terre (1943), Ai quattro venti (1943), i romanzi Esclusi (1937) e Tutti i giorni (1950). Negli anni Duemila Francesco De Nicola e Franco Ragazzi gli dedicano nuovi studi, pubblicati da San Marco dei Giustiniani, De Ferrari e Gammarò. Ma ci sono ancora molti aspetti da indagare, anche perché Descalzo ha sempre tenuto un diario di cui poco è stato finora reso noto. Una parte si può per la prima volta leggere su questo quaderno di «La Riviera Ligure». Sono pagine vivaci e sincere che offrono l’ immediatezza degli stati d’animo, gli incontri e le attività quotidiane durante un viaggio compiuto nel 1933 sulla motonave Augustus, dove era stato assunto come redattore viaggiante del «Corriere del mare», giornale edito a bordo. Destinazione: Sudamerica. Giovanni spera così di dimenticare l’amata Corinna, olandese conosciuta a Sestri Levante. È a lei che si rivolge nel diario, come in una lunga lettera in cui pare arreso al pensiero fisso di un amore non corrisposto, nonostante i tuffi in piscina (la prima piscina scoperta su una nave), le lezioni di scherma, la cabina di lusso dove non approfitterà mai del campanello per farsi servire dalla cameriera (che a un certo punto si preoccupa). Un mondo da cui si sente estraneo, lui che non solo soffre il mal di mare, ma ha iniziato a navigare sui leudi per caricare vino dall’isola d’Elba, formaggi dalla Sardegna, sabbia per uso edilizio dalle foci dei fiumi. Tutto scritto anche questo, nelle raccolte Scogliere e In coperta. Morirà improvvisamente proprio fra i leudi, sulla spiaggia di Sestri Levante, davanti al suo mare. Fondazione Mario Novaro

LIBRI RICEVUTI TITO CAUCHI - Ettore Malosso tra sogno e realtà. Analisi e commento delle opere pubblicate. Simposio 2016- Pagg. 40, s. i. p. - Dichiara, a pag. 3, Giuliana Bellorini Malosso: “In queste pagine l’amico Tito Cauchi ci offre una sintesi dell’ opera pubblicata di Ettore Malosso molto utile per chi non l’avesse ancora affrontata in tutti i quattro testi. È un’anticipazione, quasi una premessa alla lettura che dimostra come fosse articolato il pensiero dell’autore. Tito ha avuto anche il piacere e la fortuna di conoscere Ettore e proprio per questa ragione, in quanto egli scrive c’è tutta la genuinità di un’esperienza vera e propria, letteraria ma soprat-


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tutto umana.// Un lavoro prezioso e un dono inaspettato del quale gli sono particolarmente riconoscente e lo ringrazio.” Il volumetto è strutturato in una “Prefazione dell’Autore”, nella quale Cauchi ci dà una sintesi della figura di Ettore Malosso e della sua dolorosa esistenza, incontrato “disteso su un letto attrezzato per la terapia, con a fianco una bombola di ossigeno”; un capitoletto su “Gli anni 1916-1973”, nel quale narra dei corsi frequentati dal Malosso per conseguire il brevetto di pilota, delle sue missioni, del suo amore per la cultura, tanto è vero che, durante i voli, soleva portare sempre con sé “Nel suo zaino di pilota” “i Pensieri di Blase Pascal e le Passeggiate solitarie di Jean-Jaques Rousseau”. A questo periodo appartiene il suo primo libro: “Realtà, forse...”. Seguono gli “Anni 1975-1976 e gli altri volumi, come “Gil e Su... tra sogno e realtà” e, poi, “Anni 1977-1988 Nel segno dell’amore”, “Alcune Divagazioni”, “Ettore Malosso e il pianeta dei sentimenti”, “Alba del Duemila Argomenti filosofici” - con la messa in evidenza della soggettività e oggettività delle speculazioni di Malosso, la fantasia e la realtà, la ricerca della verità, l’ideologia e la realtà, la realtà e la verità di fede, la realtà concreta e la religione eccetera. A lettura finita, il ritratto di Ettore Malosso è sufficientemente nitido, anche per coloro che non l’hanno conosciuto, né letto i suoi libri. (ddf). ** AA.VV. - XXV Settimane Musicali al Teatro Olimpico 22.05 - 15.06 2016 - Direttore Artistico Giovanni Battista Rigon, Pregetto Artistico per la Musica da Camera Sonig Tchakerian - Pagg. 226, s. i. p. Si tratta del catalogo dell’avvenimento (inviatoci da Ilia Pedrina): Presidente Paolo Marzotto; Consiglio direttivo: Gaetano Bertolo, Riccardo Brunelli, Carlo Morisani, Federico Pupo; Segretario generale Elisabetta Rigon; Organizzazione Luca Fornasa, Alice Bettiolo; Ufficio stampa Anna Baldo. Contiene, tra l’altro, il testo completo de “Le nozze di Figaro”, opera di Wolfgang Amadé Mozart (Salisburgo 1756 - Vienne 1791), Libretto di Lorenzo Da Ponte (Vittorio Veneto 1749 - New York 1838) e i medaglioni - testi e foto - per i protagonisti: Giovanni Bietti (musicologo), Paolo Birro (pianoforte), Andrea Biscontin (tenore), Andjela Bizimoska (maestro collaboratore), Alberto Boischio (pianoforte), Alberto Bologni (violino), Mario Brunello (violoncello), Marco Bussi (baritono), Alessandro Cammarano (musicologo), Daniele Caputo (baritono), Enrico Carraro (viola), Diana Cazacu (trucco e parrucco), Claudio Cervelli (light design), Silvia Chiesa (violoncello), Francesca Cholevas (soprano), Arianna Cimolin (soprano), Pierluigi Comparin (maestro del coro), Carla Conti

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Guglia (scenografa), Valentina Corò (soprano), Silvia Dalla Benetta (soprano), Marco Ferrari (maestro collaboratore), Antonio De Gobbi (basso), Giovanna Donadini (soprano), Elvis Fanton (tenore), Maria Selene Farinelli (assistente alla regia), Cesare Galla (musicologo), Maddalena Giacopuzzi (pianoforte), Stefano Gibellato (maestro al cembalo), Manuel Ghidini (pianoforte), Valeria Girardello (contralto), Giovanni Guglielmo (violino), I Polifonici Vicentini (coro), Paolo Ingrasciotta (baritono), Viviana Lasaracina (pianoforte), Huijiao Li (mezzosoprano), Carolina Lippo (soprano), Riccardo Longo (costumista), Benedetto Lupo (pianoforte), Ludovica Marcuzzi (soprano), Elisabetta Mascitelli (coreografa), Ksenia Milyavskaya (violino), Neil Barry Moss (maestro collaboratore), Andrea Nocerino (violoncello), Orchestra di Padova e del Veneto, Filippo Pina Castiglioni (tenore), Gianluca Pirisi (violoncello), Quartetto Della Fenice, Luca Ranieri (viola), Stefania Redaelli (pianoforte), Andrea Miazzon (pianoforte), Anna Rigoni (pianoforte), Elisa Rumici (pianoforte), Lorenzo Regazzo (regista), Silvia Regazzo (mezzosoprano), Giovanni Battista Rigon (direttore d’orchestra), Diego Rossetto (tenore), Margherita Rotondi (mezzosoprano), Federica Sartor (assistente scene e costumi), Orazio Sciortino (pianoforte), Simone Soldati (pianoforte), Nikolay Statsyuk (tenore), Michele Suozzo (musicologo), Miao Tang (soprano), Alessandro Tardino (pianoforte), Sonig Tchakerian (violino), Pietro Guido Tonolo (sassofono), Carlo Emilio Tortarolo (armonio), Francesco Toso (baritono), Chenglong Wang (baritono), Alfredo Zamarra (viola), Riccardo Zamuner (violino), Claudio Zancopè (basso). Tantissime e bellissime le foto artistiche. ** AA. VV. - Ponantè - Volume collettaneo, Prefazione di Giuseppe Aletti, autore anche della foto a colori in copertina - Aletti Editore 2016 - Pagg. 118, € 12,00. Sono antologizzati: Angela Maria Benedetto, Mariagina Bonciani, Loredana Canonica, Nicola Gullo, Rosanna Spadini, Gian Piero Trincavelli.

TRA LE RIVISTE MAIL ART SERVICE - Bollettino informativo dell’Archivio di mail art e letteratura “L. Pirandello”, diretto da Andrea Bonanno - via Friuli 10 33077 Sacile (PN) - Riceviamo il n. 94 (giugno 2016) dal quale segnaliamo l’articolo del Direttore su “Le follie non sono più follie” di Ferruccio Bru-


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gnaro, libro che, secondo Bonanno, rappresenta “Il sogno della liberazione e della giustizia”. * L’ERACLIANO - organo mensile dell’Accademia Collegio de’ Nobili - fondata nel 1689 - diretto da Marcello Falletti di Villafalletto - Casella Postale 39 - 50018 Scandicci (FI). E-mail: accademia_de_nobili@libero.it Riceviamo il n. 219/221 dell’aprile-giugno 2016. Ecco alcuni titoli degli articoli: “Due decenni tributati alla poesia”, in prima pagina; “Attività accademica”, pagg. 3- 7; “Dalla legazione dell’Italia centrale”, pag. 8; “Maestro umile e saggio (Dom Stanislao Maria Avanzo OSB Oliv)” di Fra Bernardo Maria Marcello Falletti di Villafalletto, pagg. 9-10; “Appuntamenti a Torino (dal corrispondente Gian Giorgio Massara)”, pag. 11; “Ordine del Cingolo Militare” di Marcello Falletti di Villafalletto, pag. 12 - 15 eccetera. * LATMAG - Rivista Culturale diretta da Franco Latino, responsabile Eugen Galasso - Casella Postale 96 - Bolzano 1 - 39100 Bolzano - Riceviamo il n. 74 del settembre 2015, sul quale Eugen Galasso si interessa di Echi e Sussurri di Giorgina Busca Gernetti; troviamo anche Anna Vincitorio e Imperia Tognacci con una poesia ciascuna e Franco Latino e Eugen Galasso ricordano Edio Felice Schiavone.

Domenico Defelice: La caraffa, 1964. ↓

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AI COLLABORATORI Si invitano i collaboratori ad inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione), composti con sistemi DOS o Windows, su CD, o meglio, attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è necessario un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (con copia cartacea) Annuo... € 50.00 Sostenitore....€ 80.00 Benemerito....€ 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia....€ 5,00 ABBONAMENTO solo on line: http://issuu.com/domenicoww/docs/) Annuo... € 35 Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 NO76 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio


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