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CLAUDIA TRIMARCHI: “La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice
IL BUON SELVAGGIO NELLA TANA DEL LUPO Dal Vittorioso all'impegno meridionalista e civile di Rossano Onano
C
LAUDIA Trimarchi: La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice, Il Convivio Editore, 2016. In copertina, Domenico Defelice giovane, avvolto in una nuvola di fumo, sovrapposta a un suo dipinto del 1967. L'immagine è frutto di una casuale sovrapposizione di scatti effettuati con fotocamera analogica. Non so cosa voglia dire. Personalmente, preferisco l'immagine senile di Domenico, affettuosa e curata barba bianca da vecchio saggio. Di fatto, il quadro da lui dipinto nel 1967 rappresenta volti stravolti e doloranti alla Munch, bocca urlante e mani sui capelli. Simbologia del dolore. “Funzione catartica”,
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All’interno: Massimo Recalcati, tra fuoco e respiro, di Ilia Pedrina, pag. 13 Antonio Marcello Villucci: Nei vicoli della memoria, di Carmine Chiodo, pag. 17 Ezio Starnini, uno scrittore centenario, di Luigi De Rosa, pag. 19 Opinione, di Antonia Izzi Rufo, pag. 21 Le relazioni affettive in una società “liquida”, di Giuseppina Bosco, pag. 28 Poesia che risplende di luce propria, di Leonardo Selvaggi, pag. 30 I Poeti e la Natura (Gabriele D’Annunzio) di Luigi De Rosa, pag. 35 Notizie, pag. 53 Libri ricevuti, pag. 54 Tra le riviste, pag. 54
RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (Michele Frenna nella sicilianità dei mosaici, di Tito Cauchi, pag. 37); Isabella Michela Affinito (Bambini, di Anna Vincitorio, pag. 39); Elio Andriuoli (Versi a bassa voce, di Giovanni Stefano Savino, pag. 39); Giancarlo Baroni (Il sandalo di Nefertari, di Rossano Onano, pag. 41); Tito Cauchi (Viaggio interiore, di Isabella Michela Affinito, pag. 41); Luigi De Rosa (Bambini, di Anna Vincitorio, pag. 43); Giuseppe Giorgioli (Contro gli abusi delle banche, di Mario Bortoletto, pag. 44); Maria Antonietta Mòsele (Letture critiche nella produzione letteraria di Amerigo Iannacone, di Aldo Cervo, pag. 46); Maria Antonietta Mòsele (A Riccardo (e agli altri che verranno), di Domenico Defelice, pag. 46); Maria Antonietta Mòsele (Profili critici, di Tito Cauchi, pag. 47); Maria Antonietta Mòsele (Viaggio interiore, di Isabella Michela Affinito, pag. 48); Maria Antonietta Mòsele (Bambini, di Anna Vincitorio, pag. 48); Susanna Pelizza (Profili critici, di Tito Cauchi, pag. 49); Liliana Porro Andriuoli (Campionature di fragilità, di Melania Panico, pag. 50).
Lettere in Direzione (Ilia Pedrina), pag. 55 Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Piera Bruno, Domenico Defelice, Michele Di Candia, Caterina Felici, Béatrice Gaudy, Filomena Iovinella, Attila Ilhan Yaĝmur Kacaĝi, Giovanna Li Volti Guzzardi, Leonardo Selvaggi
dice il titolo. Ricordo che Defelice ha smesso di dipingere, come lui stesso racconta (Alleluia in sala d'armi, 2014) in seguito alla vicenda di Alfredino Rampi, il bambino nel pozzo: “...In superficie, il Presidente con il suo codazzo, tra venditori di noccioline e di gelati, una pena straziante”). Domenico dipinse la Morte di Alfredino Rampi, poi buttò il pennello. Il dolore e il fastidio portarono alla rinuncia espressiva, che è faccenda tutta diversa dalla catarsi. Il Convivio Editore ha conferito dignità di
stampa alla tesi di laurea in Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea di Claudia
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Trimarchi, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. Relatore: Prof. Carmine Chiodo. A sostegno della tesi, la nostra laureanda pone ad esergo citando lo stesso Defelice: Chi crede che nell'orto del poeta crescano erbe rare, fiori variopinti, alberi tropicali; chi crede che vi scorrano acque fresche e vi cantino uccelli, non conosce il poeta. Nell'orto del poeta crescono spine, fiori avvelenati e gli alberi proiettano ombre inquiete; nell'orto del poeta scorre il sangue della gente affamata e l'unica voce è l'urlo della rivolta. Non avevamo dubbi che acque fresche e uccelli nell'orto non possano accostarsi ad alcuna funzione catartica. Resta da verificare se, e come, alla catarsi conducano le spine e i fiori avvelenati. Già nell'Introduzione Claudia Trimarchi fa patti chiari col lettore, declinando un progetto di lavoro: delineare i tratti salienti della figura umana e letteraria di Defelice, nella convinzione che vita ed opere dell'autore siano faccende fra loro inscindibili. Infatti, il vissuto esperienziale ispira l'Opera e l'Opera lo restituisce alla vita rischiarato da una luce nuova. Di seguito premettendo quale sarà l'esito finale dello studio: In questo senso, allora, la Poesia assume una funzione catartica, in quanto libera delle mediocrità e dalle incongruenze dell'umana esistenza, e rigeneratrice, poiché – lasciando intravedere realtà altre, oltre la pura fenomenica – edifica uno “spazio” nuovo in cui è possibile riscattare la pena di vivere in ben altre infinite possibilità di vita. Catarsi è termine di origine religiosa, che fu
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assunto dal pitagorismo per indicare la purificazione, sia del corpo sia dell'anima, dall'irrazionalità delle pulsioni umane. Corpo ed anima, così purificati, sono “rigenerati” ad una più generosa condotta operativa, e questo è consequenziale. Il problema è spiegare come avvenga e cosa sia di per sé la catarsi. Il termine fu adottato da Aristotele, che vide nella tragedia, e nell'arte in genere, uno strumento di liberazione dalla vita pratico- passionale. Il mio professore di lettere al liceo spiegava Aristotele ammettendo sommessamente con se stesso, e con noi: il concetto è difficilmente comprensibile. In effetti, trovavo strano che un cittadino ateniese, assistendo ad una trilogia mettiamo di Eschilo, se ne uscisse dal teatro con animo disposto ad un comportamento rigenerato e magnanimo verso gli dei e verso il prossimo. Successivamente, scoprivo che il termine catarsi fu adottato da Breuer in psicopatologia, ad indicare la purificazione che il paziente otteneva dalla sua anomalia comportamentale riuscendo a rievocare eventi psichici obliati. Il termine fu in seguito abbandonato da Freud, che disse: non ci siamo: Il concetto di catarsi ricompare nella psicologia reflesso-
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logica: ogni atto di aggressione al nostro psichismo costituisce, a certi livelli, una catarsi, che riduce la tendenza verso nuovi atti aggressivi. Perché ciò avvenga, è necessario che le forze psichiche inconsce (aggressive) possano liberarsi e detendersi in un soddisfacimento sostitutivo. La teoria è tuttora impiegata in particolari tecniche di psicoterapia infantile, ove si permette al bambino di distruggere alcuni oggetti (specialmente bambole) che rappresentano simbolicamente personaggi (mettiamo un fratellino o una sorellina) con-
tro i quali il bambino non può esercitare realmente la propria aggressività. Come dire: ho massacrato la bambola, non c'è bisogno che io massacri il fratellino o la sorellina. Il meccanismo è intuitivo. Peccato che, di fronte a un bambino che massacra una bambola, si preferisca oggi attivare le assistenti sociali, che subito accorrono per sottrarre la bambola e indirizzare il bambino a comportamenti placidi e socializzanti, i girotondi, le filastrocche giulive, disegni di fiori da colorare a pastelli. Anche le assistenti sociali hanno ragione: il
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comportamento adattivo sarebbe frutto di buona educazione, un prodotto culturale che nulla ha a che fare con la catarsi. In linea teorica, la liberazione dall'irrazionalità delle pulsioni si può ottenere sia massacrando le bambole, sia nascondendole all'aggressività del soggetto. E allora, mi dico, il comportamento adattivo rispetto a un'aggressione subita dipende, alla fine, da un atto volitivo del soggetto. Vediamo come Claudia Trimarchi colleghi l'agire in poesia di Domenico Defelice, a partire dalle aggressioni subite nell'infanzia. La nostra ricercatrice ha temperamento cartesiano: colloca le aggressioni infantili sofferte da Defelice all'interno delle coordinate fondamentali dello spazio e del tempo. Il luogo iniziale è Anoia, il paese natale del nostro. L'incipit è strepitoso: si racconta che una volta, mentre Nostro Signore andava per il mondo seminando, qua e là, città e paesi che custodiva in una grande tasca bucata, essendo Anoia troppo piccolo, sia caduto dal foro e senza che il Signore se ne accorgesse. Si tratta di un aneddoto popolare attinto dallo stesso Defelice, che lo riportò nel suo L'orto del poeta, 1991. Claudia aggiunge di suo una certa espressività fiabesca, insieme lirica ed epica: Alle falde dell'Aspromonte, in questa terra abbandonata da Dio e dagli uomini, immersa nel verde di agrumeti e fichi d'india, all'ombra di castagneti ed ulivi centenari, nasce il 3 0ttobre del 1936 Domenico Defelice. Il tempo è quello doloroso degli anni di guerra. Ancora attingendo da Defelice (PomeziaNotizie, ottobre 2014): Gli anni 1943-1945 sono in me ancora indelebili. Di essi accenno qualcosa in due racconti, entrambi - “La banda tedesca” e “Un miracolo” - facenti parte dell'inedito “Non circola l'aria”. Ricordo ancora i timori costanti, assillanti, ossessivi dei miei genitori. (…) la razzia, in quel casolare di campagna, di tutto quel che avevamo ad opera di un manipolo di tedeschi in fuga; la musica malinconica dei loro strumenti; la fucilazione del mio cane; il loro allontanarsi ghignanti e carichi delle nostre
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vettovaglie. Il bambino conosce precocemente la paura e la ferocia della guerra: il teatro esistenziale prelude ad esiti caratteriali di qualità differente, che vanno dal ripiegamento difensivo alla vitalità reattiva. Defelice ha cromosomi solidi, tratti da onesti lavoratori dei campi, e ha cuore volitivo: sceglie la reattività. Da giovanotto è a Roma, studia e lavora. La Trimarchi lo segue attingendo dal Diario di anni torbidi, 2009, ove Domenico racconta il proprio apprendistato di uomo e di scrittore. Mangia una volta al giorno. Difficile imma-
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ginare un temperamento intellettualmente irrequieto nelle vesti di venditore presso una ditta di rappresentanze e deposti: ma la vita non è sogno, bisogna mangiare. Eppure, la vita è anche sogno: Domenico scrive e collabora a diverse testate e riviste letterarie. Del resto a Roma non è solo: ha diversi amici, Rocco Cambereri in testa, che a loro volta lavorano, mangiano una volta al giorno, e scrivono. Anni torbidi ma esaltanti, per tutti. Claudia Trimarchi frequenta gli archivi, e scopre quale sia stata la prima pubblicazione di Domenico, ancora da Anoia nel 1953: una battuta umoristica comparsa nel 1953 su Il Vittorioso, settimanale romano per ragazzi, con redazione in Via della Conciliazione, come dire: Vaticano. La notizia riferita da Claudia agita in me le corde della nostalgia. Ero un fedelissimo del Vittorioso, e quindi già negli anni '50, senza sapere, ero un lettore di Defelice. Al quale ho recentemente scritto di raccontare i suoi trascorsi con la testata romana. E' possibile che io lo faccia, mi ha risposto, non proprio i miei trascorsi ma il senso e l'atmosfera che ruotava attorno alla testata romana. Il Vittorioso era un giornale per ragazzi di ispirazione cattolica: il titolo era in certo modo guerresco, alludeva alla vittoria dei giovani contro la mediocrità del vivere. Il giornalino rivale di area rossa aveva per titolo Il Pioniere, che alludeva all'avventura della vita da affrontare in modo indomito. Né l'uno né l'altro dei settimanali era fazioso, entrambi si limitavano a sollecitare le qualità migliori di qualsiasi gioventù. I ragazzi degli anni '50 erano abituati bene. Dico così, perché mi sembra che la stampa attuale per ragazzi non abbia la stessa qualità. E' verosimile che Defelice abbia abbandonato la collaborazione al Vittorioso proprio negli anni torbidi romani, assillato da problemi esistenziali e ormai orientato a interessi letterari, diciamo così, adulti. La Trimarchi colloca la prima silloge a stampa del nostro, Un paese e una ragazza, nel 1964, anno appunto del suo trasferimento lavorativo a Roma. Dove, negli anni '60, spira il vento della contestazione giovanile. Sappiamo, dal Diario di
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anni torbidi, che Defelice prenderà da subito le distanze dal movimento, condannandone gli eccessi ma soprattutto un certo dilettantismo manicheo nell'impostazione ideologica: studenti/operai/uniti nella lotta, contro borghesia/istituzioni impegnate alla difesa dei rispettivi privilegi. Nelle intelligenze evolute, mettiamo Pasolini, il conflitto aveva radici più profonde. L'attenzione di Defelice, garantisce Claudia Trimarchi, già dagli anni romani era rivolta alla solidarietà empatica verso le vittime dell'ingiustizia sociale, rinunciando al facile schema dialettico proletariato/borghesia
per toccare radici più profonde, identificate con le cosche mafiose e con la simbiosi di queste con la totalità degli altri poteri in gioco, tanto politici quanto giudiziari ed ecclesiastici (collusione, quest'ultima, che per un collaboratore del Vittorioso deve essere stata particolarmente dolorosa). E la catarsi, pretesa da Claudia Trimarchi? Come può nascere nella poesia di Domenico a partire dalla visione, con annessa condanna, dell'ingiustizia sociale? Non metto in dubbio che la catarsi, come sostiene Claudia, ci sia; metto in dubbio che la catarsi intervenga se-
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condo causalità psicologiche, inconsce o meno, come si sostiene a partire da Aristolele per finire a Breuer. Penso che la catarsi sia più comprensibilmente spiegata dalla psicologia reflessologica: secondo la quale qualsiasi organismo vivente reagisce ad un insulto, fisico o psichico che sia, secondo due modalità comportamentali di difesa: l'”attacco”, o la “fuga”. Né l'attacco né la fuga sono comportamenti per loro natura catartici; lo sono negli esiti, perché condizionano un comportamento reattivo di “attacco” all'insulto doloroso (contrapposizione, e questa è appunto la catarsi) o comunque di “fuga” (frapposizione di una distanza di sicurezza, una specie di catarsi passiva). Domenico Defelice sceglie l'attacco. La Trimarchi accosta il nostro ad altri autori del Novecento letterario (Seminara, Jovine, Scotellaro, Alvaro ed altri) che ebbero a cuore la causa per il Mezzogiorno, drammaticamente imbrigliato in una condizione di storica arretratezza economica, culturale e sociale da cui non sembra esserci via d'uscita; almeno fino a quando Mafie, Logge e Consorterie (scritti in maiuscolo per sottolinearne la sovranità incontrastata) saranno conniventi con la politica, nell'interesse che le attuali condizioni rimangano immutate e che le leggi siano, secondo un'espressione attribuita a Solone, “come le ragnatele; i potenti le infrangono, i deboli vi rimangono impigliati”. E' interessante il richiamo a Solone, VII secolo a. C. Come dire: nel corso dei secoli, il rapporto che l'uomo intrattiene col potere è sempre, drammaticamente, lo stesso. Rivado ai nomi dei letterati meridionalisti citati dalla Trimarchi, e mi torna alla mente una poesia letta da ragazzo e mai più dimenticata, di un paese del Sud abbarbicato ai monti, con gli abitanti votati all'etica contadina del lavoro: a capo del paese il maresciallo / che non portava mai la rivoltella. Credo fosse di Rocco Scotellaro, ma non mi interessa verificare. Risale a quella poesia la mia impressione che gli scrittori meridionalisti siano in genere affetti da una forma endemica di dissociazione: l'uomo è fondamentalmente
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buono, e l'uomo del Sud lo è particolarmente; ma la terra dell'uomo del Sud ha il cancro, è malata. Il buon selvaggio (Rousseau) nella tana del lupo (Hobbes). I letterati citati dalla Trimarchi, e con loro Defelice, sono perfettamente consapevoli della dissociazione. Per risolverla, sembrano tutti più o meno concordi su una cosa: se il cuore dell'uomo è fondamentalmente buono, è inutile lavorare sul cuore; bisogna invece lavorare sul cancro. La comune percezione porta tutti costoro a una precisa scelta di campo, utilizzando la penna in luogo della spada a difesa degli oppressi e degli umili. Defelice (da L'orto del poeta, 1991): I poeti sono l'avanguardia del progresso, le antenne del futuro sintonizzate sul nostro tempo, il motore dell'affrancamento dei popoli, la maturazione delle coscienze, il legame fra l'umano e il divino. I poeti sono lievito per le masse e il loro canto è foriero di tempesta. Ovvero: la poesia non porterebbe alla catarsi per la via dell'inconscio emozionale (Aristotele), ma per la via razionale della coscienza (“maturazione”). Basta intendersi sui termini: quando si tocca la coscienza, non si parla più di catarsi, ma di pedagogia. La poesia di Defelice non sarebbe quindi catartica, ma pedagogica. Ben inteso: la pedagogia, in quanto disciplina atta a condizionare il comportamento dell'uomo, è una forma sublimata di aggressività. Sulle qualità agonistiche di Defelice, del resto, non esistono dubbi. Lo sanno bene i lettori di Pomezia-Notizie, dove il nostro conduce una rubrica (Alleluia!) di denuncia e lotta contro l'arroganza del potere. Ho collaborato con lui per un certo tempo alla rubrica, con pezzi a due voci poi riuniti in un fortunato libretto (Alleluia in sala d'armi, parata e risposta, 2014). Io fornivo lo spunto, per lo più secondo mia natura in maniera acida. Rispettando il gioco delle parti, Defelice rispondeva a braccio, incredibilmente in versi, qualche volta impiegando un certo grado di magnanimità. Quando Defelice non si arrabbia, non è più Defelice, gli ho scritto una volta. Ha ri-
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sposto: con gli anni, faccio più fatica ad arrabbiarmi. Claudia Trimarchi sembra assecondarlo, dando molta evidenza alla produzione matura di Domenico: Alberi?, 2010. Il ritratto del poeta nell'orto-giardino: E' l'Eden favoloso in cui mi serro stanco della città. Nel lavacro di verde e di profumi la mente mia s'inebria e poi sconfina oltre le vaste praterie del cielo. (…) Sarà. Vado piuttosto all'ultimo libro in versi: A Riccardo (e agli altri che verranno), 2015. Nasce il nipotino Riccardo, e nonno Domenico pianta nell'orto un albero. Un leccio, mi sembra di ricordare. Bisogno ontologico della proiezione di sé nel tempo, dal tronco del proprio albero alla foresta dei tronchi che verranno. Dimensione epica. E' cosa diversa tanto dall'aura metafisica dell'Eden favoloso, quanto dal ritiro bucolico nell'ortogiardino. L'uomo reagisce alle offese, dicevamo, con due comportamenti possibili: la fuga verso la salvezza, oppure l'attacco aggressivo. Defelice si rifugia nell'orto, ma neppure questo ritiro è fuga. E' lotta contro la fame onnivora del tempo. E' lotta, anche, per la sopravvivenza di sé dalle proprie radici. Massima espressione, sublimata, di aggressività reattiva. Le tesi di laurea hanno tutte un difetto, diciamo così, strutturale. L'esaminato deve “convincere” citando, manca la sintesi onnicomprensiva e fulminea. Nella mia tesi di laurea mi fu affidato uno studio sul Glucagone. Si tratta di un ormone iperglicemizzante ed io, al termine della letteratura esaminata, concludevo che si tratta di un ormone iperglicemizzante. Non era pertanto una tesi originale, ma non è colpa mia. Potevo cavarmela con una paginetta, dove l'enunciato iniziale e le conclusioni coincidevano. Ugualmente avviene per la tesi della Trimarchi. Il primo capitolo prelude ed insieme
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conclude l'ipotesi di lavoro, ed è sufficiente all'illustrazione dell'opera e della personalità di Defelice. Il resto è sostegno alla tesi. La scrittura è fluida, partecipe e convinta. Direi che Claudia ha talento narrativo, più ancora che critico. A scanso di equivochi, sto facendo un complimento. La Trimarchi esercita la massima partecipazione empatica quando accompagna Defelice nelle frequenti escursioni che debordano dal sociale per investire la sfera religiosa e spirituale. Quando cita: O tu che in cielo splendi, Madre benigna e pia, sii di quest'alma mia solo conforto ognor. Tu, che tra gli angel siedi, Madre, vicino a Dio, chiedi per conto mio la grazia del suo amor. In gioia ed in tormento, Madre, fa' ch'io T'invochi, fa' ch'ardan sempre i fuochi de l'amor mio per Te. Fa' che nell'ora estrema di questa vita mia, il nome Tuo, Maria, sia l'ultimo sospir. Devozione che diventa nostalgia, antropologica e corale, quando cita il Natale d'altri tempi (Arturo dei colori, 1986): in paese, quel giorno, non vi è altro da fare, se non andare in chiesa a vedere il presepe e, poi, sedersi in un cantuccio riparato dal freddo gelido e guardare le altre persone accalcarsi intorno a quel piccolo mondo lontano. La devozione antropologica è corale, ovvero in qualche modo epica. L'invocazione a Maria ha la grazia leggera di un Metastasio, che precisamente devozionale non era. Defelice, come tutte le personalità fortunatamente complesse, utilizza differenti registri
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espressivi. Catartico oppure pedagogico che sia, è in questa varietà di registri che risiede il fascino vitalistico della sua scrittura. Rossano Onano Caro Rossano, il fascino dei tuoi scritti, per me, viene prima della più o meno condivisione delle tue sempre e comunque affascinanti tesi. Il tuo modo di affrontare il tema della catarsi provoca in me reazioni a grappoli, ma, costretto a un lavoro che assomiglia a una catena di montaggio - quello di far uscire regolarmente il mio periodico dodici mesi l’anno non ho il tempo, né la tranquillità necessari per una risposta corale. Intanto, sento di ribadire il vecchio e generale concetto che un’opera (articolo, poesia, romanzo, pittura, scultura, musica), di qualsiasi genere e dimensione, è valida solo s’è capace di suggerire nel tempo emozioni non solo univoche e lineari, ma multidirezionali, sorgive e perenni; perché, se così non fosse, della Divina Commedia e di tantissimi altri capolavori si sarebbe smesso di parlarne già da secoli. Catarsi è commozione radicale, tale da provocare nell’individuo che la subisce, un cambiamento altrettanto radicale e, perciò, definitivo. In tal senso, allora, per me è possibile, non mi sembra assolutamente “strano che un cittadino ateniese, assistendo ad una trilogia mettiamo di Eschilo, se ne uscisse dal teatro con animo disposto ad un comportamento rigenerato e magnanimo verso gli dei e verso il prossimo”. La poesia è l’arte più idonea ad assumere una funzione catartica (come pedagogica), sia per chi la crea, sia per chi ne usufruisce; catarsi, perciò, è commozione viscerale e dello spirito, intima, profonda, sia per l’autore che per il lettore e la giovane Trimarchi, scrivendo, ha pensato sicuramente ad entrambi gli aspetti. È catarsi, secondo me, anche quella che subisce Alfredo Bonazzi alla lettura delle mie opere. Ma perché la catarsi dia frutto e non rimanga sterile, è necessario che trovi terreno fertile, che casca come seme “in terreno buono” (Matteo III, 8), giacché non sarà mai vera
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e non darà mai benefici se trovasse, cadendo sempre per citare il Vangelo -, “la strada”, o un “luogo sassoso”, o una selva di “pruni”. Bonazzi, in quei momenti, era certamente un terreno fertile, macerato dal dramma e dal rimorso. Alfredo Bonazzi era un ergastolano, che scontava la sua pena, per avere assassinato il padre, nel penitenziario di Porto Azzurro, isola d’Elba, in Toscana. È da lì che mi scriveva di sentirsi profondamente cambiato dopo la lettura dei miei versi. Un cambiamento radicale e vero, se convinse anche il Presidente della Repubblica di allora, Giuseppe Saragat, a concedergli la grazia. Dopo, di Bonazzi, non si è sentito più parlare, segno che non ha commesso altri reati. Non è questa catarsi? Quelle lettere di Alfredo Bonazzi oggi dovrebbero trovarsi nella biblioteca di Anoia (RC), perché facenti parte della donazione di libri e materiale documentario da me effettuata, su richiesta, il 27 marzo 2009. Solo da accennare ai miei “trascorsi con la testata romana” de Il Vittorioso, o sarebbe come togliere il tappo a una bottiglia col suo interno in pressione. E, tuttavia, occorre un qualche richiamo a come vivevo in quegli anni, all’ambiente e allo stato, alle condizioni, altrimenti non si comprende il mio amore so-
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pra le righe per questo storico e illustre settimanale, che improvvisamente mi si presentò come una meta e una luce. Dopo le elementari, avevo abbandonato la scuola. La mia vita, tranne rari spostamenti, si svolgeva tra il borgo selvaggio di Anoia e una campagna a colonia, di proprietà della famiglia Belcaro di Laureana di Borrello: Baldis (o meglio: Baldes, come risulta dagli atti notarili secondo le ricerche effettuate dalla Trimarchi), che alla mia età, appariva mitica e sterminata. Campagna, però, era anche la mia casa in paese - sita su via Roma, proprio di fronte al vecchio Municipio, una delle poche costruzioni decenti e di un certo stile e decoro dell’intero abitato -, perché possedeva un vasto giardino, con alberi di fichi, peschi, aranci, limoni e mandarini, una grossa palma maschio e un alto e frondoso noce. Sul retro della casa, Ciomba, un precipizio di un centinaio di metri ammantato di ficodindia, acacie e grossi e altissimi ulivi, in fondo al quale scorreva e scorre lo Sciarapotamo, torrente rumoroso che allora aveva l’acqua anche in estate, e si apre una valle ad agrumeti. In casa non avevo un angolino tutto mio e ci stavo solo per dormire. Per il resto trascorrevo il tempo in mezzo agli alberi e agli anfratti dei due siti - oh, le mie scorribande, tra aprile e maggio, alla cerca di nidi! -, lungo gli argini del torrente, o a coltivare la terra, a badare agli animali domestici - sveglia rigorosamente prima che spuntasse l’alba -: il maiale, la capra, le pecore. Tra i due, Baldes - distante dalla casa e dal giardino di Anoia parecchi chilometri era per me l’ ambiente più favoloso e misterioso. Impiegavo ore e ore per percorrerlo tutto, salendo e scendendo sentieri ricchi di conchiglie fossili e di fiori straordinari e variatissimi di colori, comprese le orchidee selvatiche. La parte pianeggiante era un agrumeto, mentre la collinare era ammantata di ulivi centenari, dal tronco forato nelle cui cavità facevano il nido le cince e vi dormivano ghiri. Le cime degli ulivi, come quelli dei pioppi e delle acacie traboccavano di nidi, specie di passeri. I miei genitori spesso si recavano a lavorare un altro fondo nel comune di Rosar-
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no ed io rimanevo solo per intere giornate, cercando di evitare che le mandrie di capre di pastori di frodo rovinassero le colture e divorassero le piante di arancio, visitato spesso da delinquenti di passaggio o alla macchia nel vicino bosco di castagni. Un ambiente selvatico ed io bambino altrettanto selvaggio, ma con la passione della lettura. Leggevo avidamente tutto ciò che mi capitava e su generici pezzi di carta, a volte sulle stesse foglie degli alberi, vergavo ingenui versi e disegnavo. Pezzi di carta e foglie che, portati a casa, finivano regolarmente com’esca per accendervi il fuoco. Le volte che mio padre si recava a Laureana di Borrello, i Belcaro, che sapevano della mia passione per la lettura, gli davano in prestito romanzi e saggi che avidamente divoravo in fretta per poterli restituire la volta successiva: i Racconti di Poe, il libro Cuore, la Vita di Cesare, Bertoldo Bertoldino e Cacasenno... Frequentavo l’Azione Cattolica, della quale sono stato Aspirante e anche rappresentate in diverse occasioni. Proprio durante un Convegno, tenutosi per tre giorni nel Seminario vescovile di Mileto, ho incontrato per la prima
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volta Il Vittorioso, sopra un tavolo, in mezzo a tante altre pubblicazioni. Mi attirò la sua grande Testata, dove dominava il rosso Il giorno trascorreva tra conferenze, incontri, momenti di preghiera (specie appena alzati e prima di andare a dormire), giochi di gruppo negli spazi all’aperto; la notte si dormiva in stanzoni collettivi al secondo piano del grande e freddo fabbricato. Ho potuto sfogliare e leggere da cima a fondo il settimanale solo a strappi, nei vari e brevi momenti di sosta, affascinato dalle storie avventurose, incantato dai fumetti a colori, dalle tavole meravigliose, le figure elegantemente disegnate, gli alberi e le erbe verdissimi in un ambiente tropicale, quasi del tutto simile a quello agreste in cui vivevo. Mi segnai l’indirizzo e al rientro a casa sottoscrissi l’abbonamento, con la segreta speranza di collaborarvi. Cominciai ad inviare poesie e disegni, barzellette, vignette. A rispondermi era quasi sempre Vittò, su cartoline postali. Per mesi lo stesso ritornello: ci dispiace, i tuoi lavori non son ritenuti validi per la pubblicazione. Tutto ciò, anziché umiliarmi e deprimermi, accresceva in me la volontà di continuare, arrivando a spedire materiale ogni settimana. Ricordo che, dopo ogni invio, per settimane vivevo come invasato sotto gli alberi, eseguendo ogni cosa distrattamente, nell’ansia di una risposta. E, finalmente, un bel giorno, sfogliando freneticamente il settimanale prima di divorarmelo dalla prima all’ultima sillaba, ecco il mio nome nella rubrica “Dopo la scalata”. Era una semplice “battuta”: - Qual è il paese ove noi ragazzi non vorremmo mai andare in vacanza? - A...noia! Tutto qui, ma era la prima volta che il mio nome appariva sulle pagine di una testata e per me preziosa come Il Vittorioso! Ricordo lo stordimento. Percorrevo il viottolo su e giù, su e giù da un capo all’altro del giardino, gesticolavo, canticchiavo, ridevo in uno stato di follia. Capivo finalmente il significato dell’espressione toccare il cielo con un dito. Mai più avrei goduto di una gioia così piena in fatto di pubblicazione su quotidiani e pe-
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riodici. Mi vennero stampate poi altre barzellette e vignette - con le quali ho partecipato anche a Rassegne Nazionali delle Vignetta Umoristica, come quella svoltasi a Lanciano - a cura dalla Pro-Lanciano e patrocinata da Il Travaso - dal 13 al 16 settembre 1959 e alla quale hanno preso parte nomi poi baciati dalla fama, come Alberto Fremura (Livorno, 1936), Franco Bacci (Pistoia, 1938), Antonio Botter (Milano, 1938), Giovanni Duiz (Trieste, 1923), Ettore Frangipane (Bolzano, 1934), Emilio Isca (Torino, 1937), Alberto Mari (Milano, 1941) e tanti altri1: insomma, io, giovane insignificante, tra i migliori vignettisti e illustratori d’Italia! 77 partecipanti, 76 Big ed io, selvatico principiante fra loro, sotto la lente di una Giuria composta da Folco, Gaspare Morgione, Giuseppe Rosato, Luigi De Giorgio e Mario D’Aquino! Seguirono, sul Il Vittorioso (che, nel 1967, divenne semplicemente VITT: rotocalco dei ragazzi), disegni e poesie. La collaborazione si interruppe ai primi degli anni sessanta, per ragioni di crescita, ma ancor più di economia. Ormai a Roma in via definitiva (c’ero stato altre volte per periodi brevi), senza un lavoro decoroso e quasi niente da mettere sotto i denti, mantenere l’abbonamento a Il Vittorioso era un lusso da non potermi permettere. Mi sentii quasi in colpa per doverlo disdire dopo quasi un decennio. Una mattina decisi di recarmi in via della Conciliazione a visitare la Redazione. Non più un bambino, eppure ero di una ingenuità terrificante. Pensavo di trovarvi le rotative e la schiera di coloro che consideravo i miei più grandi e cari amici e maestri: il vecchio narratore romanziere poeta sceneggiatore Vittorio Emanuele Bravetta (Livorno 1889 - Roma 1965), per esempio, del quale ricordo, in particolare Dove sono i 99 mozzi? (Anonima Verità Editore, 1943); Vittò - che curava le pagine umoristiche -; Franco Benito Jacovitti e poi: Claudio Nizzi, Stelio Fenzo, Enrico Vinci, Mario Rossi, Silvio Betocchi, Paolo De Sandre, Domenico Volpi, Giorgio Bonelli, Caesar, Antonio Canale, Franco Caprioli, Franco Chiletto, Sebastiano Craveri,
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Gianni De Luca, Giulio Ferrari, Ruggero Giovannini, Lino Landolfi, Carlo Peroni, Renato Polese eccetera. Vi trovai soltanto un ufficio e una segretaria, che naturalmente niente sapeva di me e delle mie fantasie. Non ci pensai più e presi a collaborare con altre testate culturali, ma non abbandonai del tutto la lettura di Jacovitti; letteralmente levandomi il pane di bocca, ho continuato ad acquistare i suoi album e i suoi volumi di fumetti, editi per lo più dall’A.V.E. come Festival di Jacovitti o Le Babbucce di Allah; ma anche da Piero Dami Editore, come il volume di grande formato Jacovitti, di ben 256 pagine; i tre volumi su Zorrykid (editi dalla BUR nel 1975); Per un pugno di spiccioli & Occhio di Pollo (Mondadori, 1971); Coccobill fa 7+ (Il Corriere dei ragazzi, 1973) e tanti altri album sullo stesso celebre personaggio col cavallo Trottalemme2. Perché Franco Benito Jacovitti rimane per me forse il più grande disegnatore italiano di fumetti per ragazzi e sicuramente la prima colonna portante de Il Vittorioso. Rossano Carissimo, non son proprio sicuro di averti chiarito i miei trascorsi con Il Vittorioso; ho di quel periodo un tal groviglio di ricordi difficilmente districabile e niente supporti come pezzi di carta o fotografie; mi restano solo alcuni ritagli di quella testata, non tutti, e mi resta l’amore, perché, ti confesso, con tale intensità non ne ho amato mai altra. Spero, almeno, di averti confermato il buon selvaggio nella tana del lupo! Ti abbraccio. Domenico 1 - Ecco l’elenco completo: Gastone Alecci (Roma), Pier Luigi Allegrini (Lucca), Alessio Antonutti (Udine), Domenico Argenzio (Giugliano), Franco Bacci (Pistoia), Gino Barberis (Savigliano), Orazio Bartolozzi (Pistoia), Claudio Biaconi (Norcia), Livio Bisegna (Colleferro), Virgi Bonifazi (Macerata), Pier Sarre Borio (Torino), Antonio Botter (Milano), Giuseppe Bustreo (Zianigo di Mirano), Adolfo Cardascia (Lanciano), Achille Cella (Messina), Paolo Cimino (Roma), Luciano Colia (Foligno), Giuseppe Conti (La Spezia), Domenico Defelice (Anoia), Renzo Del Monte (Sanremo), Vincenzo De Pamphilis (Colledimacine), Bruno Donzelli (Napoli), Giovanni Duiz (Trieste), Leonello Fanta-
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sia (Roma), Ettore Frangipane (Bolzano), Alberto Fremura (Livorno), Giacomo Fusillo (Savona), Sergio Grassi (Genova), Vittorio Grimandi (GeRivarolo), Carlo Grossi (Milano), Antonietta Innocenti (Foligno), Emilio Isca (Torino), Liviano Livi (Lucca), Ugo Lucci Chiarissi (Viareggio), Giorgio Mancini (Piano del Voglio), Enzo Maneglia (Cortoghiana), Marcello Marchi (Collegno), Alberto Mari (Milano), Marino Marini (Genova), Sergio Micheloni (Milano), Nino Moro (S. Vito dei Normanni), Angelo Olivieri (Roma), Franco Oneta (Casalbuttano), Delio Oneto (Livorno), Giorgio Panaroni (Fano), Angelo Pancella (Lanciano), Gustavo Pastori (Lucca), Giovanni Pellegrini (Città di Castello), Pino Pini (Voghera), Belisario Pizzilli (Pomarico), Bruno Prosdocimi (Bussolengo), Mino Prosdocimo (Treviso), Dimitri Pusateri (Torino), Franco Putzolu (Serramanna), Angelo Repetto (Milano), Cesare Righi (Suzzara), Aurelio Rizzi (Alzano Lombardo), Carmelo Romeo (Roma), Ennio Rovetto (Lanciano), Umberto Sala (Lanciano), Gavino Sanna (Sassari), Filippo Sasto (Caserta), Gianni Saviozzi (Livorno), Luigi Scatogliere (Roma), Sandro Scandolara (Gorizia), Giorgina Serpi (Dolianova), Filippo Sferlazza (Cattolica Eraclea), Sergio Simeoni (Torino), Nerio Staffolani (Ascoli Piceno), Gino Terrile (Torino), Lucio Trojano (Pescara), Gianpaolo Trombettoni (Foligno), Antonio Tubino (Genova Sestri), Alberto Valeri (Foligno), Renato Vermi (Piacenza), Paolo Vienna (Venezia), Luigi Zuppelli (Brescia). I primi due premi erano pure favolosi per quel tempo: 50.000 lire al primo, 20.000 al secondo; ma non erano da disprezzare gli altri: orologi svizzeri, conche di confetti della Pelino di Sulmona e preziosi - data la fame di quegli anni - salami della Ditta Fratelli Pozzolini! 2 - Più di 100 i famosi personaggi jacovittiani, gran parte autobiografici o - come afferma Vezio Melegari - “portatori di una sua idea”. Son tutti chiaramente dotati di forte personalità, alcuni di un sano e gioioso sadismo, simile a quello che caratterizza molti personaggi interpretati da Totò. Accanto a Cocco Bill e Trottalemme, ecco Osusanna Ailoviù, Tex Revolver, Bricco Bracco, Peppino il Paladino, Gamba di Quaglia, Mustafà, Il Mago Cucù, Tarallino, Pim, Alvaro il Corsaro, Sempronio, Romero el Torero, Tizio, Battista l’Ingenuo Fascista, Gionni Galassia, Ghigno il Maligno, Oreste il Guastafeste, Ciak, Romea, Fra’ Caramba, Agatone, Giovanni Spaccabue, Alvaron de La Gota, Giuseppe, Alonza Alonza detta Alonza, Giulietto, Il Capitano Perfidio Malandero, Il Sergente Martin Pelota, Carmelito Battiston, Kid Paloma, Elviro il Vampiro, Don Pedro Magnapoco, Pinocchio, Zorry Kid, Bobby Cianuro, Tom Faccanaso, Chicchirichì, Pasqualino Ri-
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fifì, Camillo il Pericolo Pubblico N. 13, Tony Mandrillo, Baby Tarallo, Alonzo Alonzo detto Alonzo, Aleppe, Satan, Chicchirino, Pappotar, Microciccio Spaccavento, Mandrago il Mago, Pape, Mustafà (diverso dal primo), Cip l’Arcipoliziotto, Palla, Zagar, La Signora Carlomagno, Gallina, Kilometro, Il Capitan Baccalà, L’Onorevole Tarzan, White Kuknass, Green Kuknass, Red Kuknass, Brown Kuknass, Blue Kuknass, Yellow Kuknass, Pippo, Pertica, Selim, Alì, Occhio di Pollo, Black Kuknass, Giacinto Corsaro Dipinto, Carramba, Pete lo Sceriffo, Giorgio Rosetta il Barbiere della Prateria, Cin Cin, Kuku, Pasqualone, L’Orcotauro, Don Chisciotte, Pasqualino, La Strega Filippo, La Scopa Giovanna, Raimondo il Vagabondo, Martin Padella, Flitt (la caricatura di Hitler), Mammone il Bonaccione, Filippo Pecorino, Ciao, Il Prof. Leopardo da Cinci, Lolita Dolcevita, Il Prof. Caterina, Radames il Faraone, Jak Mandolino, Pop Corn, Il Prof. Tulipano, La Sora Gei, Gionni Peppe, Billy Mandracchio, Little Tom eccetera. Immagini: Pag. 1: la Testata de Il Vittorioso con alcuni ritagli inerenti disegni e barzellette di D. Defelice. Pag. 2: L’immagine (del gennaio 1967) di copertina della tesi di Claudia Trimarchi. Pag. 3: D. Defelice mentre dipinge nel giardino della casa di Anoia (gennaio 1967). Defelice sul dirupo sotto il quale scorre lo Sciarapotamo (18 agosto 1957). Pag. 4: Defelice nel giardino della casa di Anoia, sopra un albero spoglio di fico, il 28 gennaio 1964. Pag. 5: Ancora ritagli da Il Vittorioso e da Capitan Walter. Pag. 6: Una vignetta di Defelice dal titolo “Arrivederci!” (1960). Pag. 9: Uno scorcio a china di Defelice del palazzo del Municipio di Anoia (1961). Pag. 10: Altra vignetta di Defelice dal titolo “Caduta massi” (1960), con le “stelle” che ...vede un vecchio e quelle che ...vede un bambino.
CONQUISTA DEGLI ALBERI La vecchia strada abbandonata assalirono le radici degli alberi: teneri virgulti esplosero, una verde foresta la coperse. Clangori più non turbano la festa degli uccelli. Domenico Defelice
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MASSIMO RECALCATI: PAROLE PER RICOSTRUIRE LA PASSIONE, TRA FUOCO E RESPIRO di Ilia Pedrina
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UESTA interpretazione è offerta in dono al nostro Rossano Onano, che tanta parte svolge nel cuore pulsante di questa Rivista, quasi Alter-Ego di ciascuno di noi, in ironia, scandagli profetici, approfondimenti teoretici e psicoanalitici ad un tempo, fantasia creatrice e nostalgia in abbandono. Si tratta del volume che il prof. Massimo Recalcati, psicanalista, ha pubblicato nella Collana 'Volti' della Mimesis Edizioni, fresco di stampa: 'Un cammino nella psicoanalisi – Dalla clinica del vuoto al padre della testimonianza (Inediti e scritti rari 2003-2013)'. Il testo porta una dedica: 'A Maria Egidi, che crede nell'esistenza degli angeli', per me ancora come un suo interrogativo segreto da svelare: il volto pieno dell'Autore, per incontrarlo, lo si deve osservare alla fine, perché in copertina lo sguardo è barrato di nero. Il volto, senza capacità d'osservare, è privato di un medium che lo rende fragile e temibilissimo ad un tempo ed allora chi osserva si trova di fronte una privazione di senso pieno dell'Altro, che solo lo sguardo può mettere in campo. Lo sguardo e la parola. Potrei dire che questo testo, il primo che fino ad ora ho letto dell'Autore, si pone come parola e scrittura della devozione al desiderio. In rete, per vedere ed ascoltare tematiche chiave del pensie-
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ro e della pratica clinica del Recalcati e per osservarlo senza essere osservati, si trova moltissimo materiale illuminante, mentre per incontrarlo attraverso la scrittura bisogna viaggiare assai più lentamente, perché questa esperienza è differente dal dirsi e dall'offrirsi in diretta, è meditata e soggetta a tutto campo a revisioni, riprese, ripensamenti. Dunque in questo volume, per incontrare il suo volto senza essere visti, bisogna arrivare alla pagina 79 ed il suo sguardo è diretto, deciso e con una buona dose di semplice apertura, il sorriso appena accennato, libero il collo da colletti e cravatte costrittive, a mostrar chiaro che a questo mondo bisogna saper 'respirare': questo testo, se se ne intraprende la lettura, aggiunge ossigeno al nostro respiro e vi immette fuoco, se già non ne abbiamo di bastevole per mantenere vive le passioni e la messa in campo di quelle avventure che esse esigono. A Milano, dove vive, Massimo Recalcati è al lavoro come psicoanalista, insegna Psicopatologia del comportamento alimentare presso l' Università degli Studi di Pavia ed a Verona, al Dipartimento di Scienze Umane dell'Università, ha reso vivo e vitale il corso 'La lezione clinica di Jacques Lacan': tantissime le iniziative per rendere concretamente attiva e valida la sinergia di studiosi, esperti ed appassionati nel campo specifico della terapia analitica soprattutto in relazione ai disturbi dell'alimentazione e della dipendenza, così insidiosamente presenti nei nostri giorni ed è doveroso che ci si informi in dettaglio sul suo percorso attivo. Nella bibliografia essenziale, per restare all' interno del campo della sua scrittura, sono elencate 22 pubblicazioni, aperte dal titolo 'Abitare il desiderio' del 1991 e concluse da quattro opere di fresca stampa o ristampa, nella nostra e in altre numerose lingue. Fin dal 1993 si possono annoverare titoli legati al grande psicoanalista francese Jacques Lacan: 'Il vuoto e il resto. Il problema del reale in J. Lacan' e poi, nel 1995, 'L'universale e il singolare. Lacan e l'al di là del principio del piacere', un percorso variatissimo per andare a perlustrare in modo nuovo e originale Sig-
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mund Freud, J. Lacan, il Freud di Lacan, fino ad arrivare al Freud e al Lacan così come egli stesso li vive con passione e li interpreta. Si, perché il cuore pulsante dell'esperienza di Massimo Recalcati è il percorso di vita, di lotta e di ricerca di Jacques Lacan: lettura, interpretazione, innovazione dei suoi percorsi in traccia, per passare oltre rispetto al Maestro e giungere al 'non ancora detto' del senso e di quel vuoto dal quale per necessità di nascondimento emerge la malattia. L'allievo, ormai soggetto di questa avventura in piena autonomia, sogna il Maestro e ne traccia i quattro mondi, volti, aspetti prismatici: “Mi è capitato poche volte di sognare Lacan. In uno di questi sogni mi appariva come scomposto da uno specchio che rifrangeva la sua immagine in modo che apparissero, stratificati come in un quadro cubista, diversi volti di Lacan. L'impressione era quella di qualcosa che sfuggiva a una resa identitaria coerente, che il volto di Lacan non si lasciasse catturare mai in uno solo. Lo sognavo attraverso l'oggetto che lo aveva reso celebre (lo specchio, la sua teoria dello 'stadio dello specchio'), ma il suo volto si moltiplicava come se la sua testa fosse quella di un alieno. Nel sogno restavo disorientato fino alla nausea di fronte a questo strano collage. Mi stropicciavo gli occhi chiedendomi se era la mia vista ad essere alterata oppure se ciò che vedevo aveva una sua propria consistenza. Ripensando al sogno, una delle mie prime associazioni legò i diversi volti di Lacan ai suoi quattro discorsi. I volti attraverso i quali mi appariva erano forse quattro come i suoi discorsi?...” (M. Recalcati, 'Quattro volti di Jacques Lacan', conferenza alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Trieste il 5 Aprile 2009, inedita con trascrizione di F. Valencak, ora in 'Un cammino nella Psicoanalisi - Dalla clinica del vuoto al padre della testimonianza', op. cit. pag 139). Scelgo un approccio disarticolato al testo, partendo dai contenuti che mi sono più familiari da tempo, quasi onda lunga che va a costituire, in continuo, mutevole cambiamento, gli elementi della mia consapevolezza. Si trat-
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ta della sezione 'IL ROVESCIAMENTO DELLA VISIONE: TRA MERLEAU- PONTY E LACAN', un intervento pronunciato dall'Autore il 27 settembre 2008 presso l'Università di Pavia all'interno del Congresso internazionale che ivi si è svolto in lingua francese avente come titolo e tema 'MerleauPonty: penser sans dualismes aujourd'hui', all'interno della quale vengono sviluppati i nodi cruciali del rapporto tra percezione, emozione, linguaggio: – Il soggetto dell'inconscio è strutturato come un corpo; – L'allucinazione; – La carne e il corpo pulsionale; – L'esempio dello sguardo: il rovesciamento della visione. E' solo attraverso la visione che io mi rendo conto del mondo esterno e dell'Altro in esso, ma io ne faccio parte, in maniera ineliminabile ed indiscutibile, senza potermi vedere se non allo specchio: infatti è soltanto attraverso lo sguardo dell'Altro che io mi rendo conto che sono visto, osservato, interpretato e che a mia volta posso esercitare, attraverso il mio sguardo, un incredibile potere sull'Altro, di identificazione e di appropriazione che sempre sfugge, perché l'Altro si può negare, anche attraverso il linguaggio (*). Recalcati offre a Merleau-Ponty, allievo con Sartre ed altri giovani parigini negli Anni '30 del secolo passato, di Alexander Kojeve, attento esegeta di Hegel e della sua 'Fenomenologia dello Spirito', uno spazio teorico e pratico, conoscitivo ed interpretativo di grande rilievo. Ne traccio alcune rilevazioni significative: all'interno del dibattito del 23 febbraio 1957, curato dalla Società Francese di Filosofia, Merleau-Ponty sottolinea la differenza problematica tra i protagonisti della Scuola freudiana, i suoi successori accreditati ed il modo originale di interpretare Sigmund Freud, portato avanti da Jacques Lacan, lungo il corso di tutta la sua vita, così accende l'attenzione degli ascoltatori ed allora, ci informa Recalcati: “...concludendo il suo breve intervento con un auspicio: 'è urgente che il vero freudismo -
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quello che troviamo nelle opere di Freud- si esprima'. L'interesse di Merleau-Ponty non è diverso da quello di Lacan: si tratta per entrambi di sottrarre il testo di Freud a una lettura ingenuamente empirista che annulla il significato profondo della sovversione freudiana del soggetto...” (M. Recalcati, op. cit. 155). Come Mario Giorgetti Fumel introduce e cura questo volume è oggetto di un'ulteriore avventura, perché quello che ci dice dimostra competenza investigativa ad ampio spettro su tutta la produzione conoscitiva, filosofica e clinica del nostro Autore, ci invita a metterci in cammino per esplorare i suoi testi e la sua prassi clinica, tutta incentrata sulla devozione al desiderio, allargando così la valenza di questo termine, che dal 'Wunsch-desiderio' freudiano si cangia in 'vœu-voto' lacaniano: c'è luce e fuoco proprio nelle memorie d'esperienza del Fumel, utilizzate per mantenere vivo il riverbero interiore che parole e scritti del Recalcati provocano su di lui e su ciascun altro di noi in maniera differente e prismatica. Ne è prova di perfetta sintonia con me un inciso, che qui trascrivo: “Tengo tra le mani, separati da quasi un trentennio, due scritti e ritrovo, in una coerenza che mi pare magnifica, quasi artistica, il corpo a corpo che quest'autore ha portato avanti senza tradimenti, senza indugi...” (M. Giorgetti Fumel, Introduzione, op. cit. pag. 34). Le mani attraverso il tempo, che impegnano e danno esperienza di appartenenza e di continuità; lo sguardo sui testi ed i loro autori, offerti come contenuti di conoscenza e come dono per intensificarne la condivisione; la riflessione presentata come passione vitale che accompagna l'avventura della vita. Anche questa è passione, tra respiro in luce e fuoco. Massimo Recalcati ha mostrato in questo testo come sia possibile cogliere l'onda lunga del proprio dire ('Inediti e scritti rari 20032013') e caricarla ancora di effetti d'attrazione, come nelle maree quelli della luna sulle superfici dei mari, a provocare risposte e contatti, appropriazioni e rifiuti, in piena, originale autonomia, con efficaci debiti di senso e di
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consenso, se occorre: è un testo da sfogliare con grande interesse e curiosità costruttiva, perché al suo interno è presente una 'δυναμις' libidica che manca sia a Freud che a Lacan: quella di saper coglier il substrato passionale della vita come valore etico primario, essenziale ed esistenziale, positivo ed originale, portandolo alla consistenza del fuoco e del respiro, che alimentano la vita stessa. Questo 'vuoto da malattia', che incalza come figura simbolica in tante parti del testo, e che spinge chi soffre ad un incontro ravvicinato che porti salvazione, salute, a partire dall'amore- devozione silente e nascosta dell'analista al desiderio dell'Altro di libertà ed autonomia dal vuoto, a reintegrare cioè il soggetto nella vitalità del suo libero, originale respiro, mostra il versante privilegiato di una riflessione sulla Psicoanalisi profondissima, partita dal cuore pulsante dell'esperienza del nostro con Jaques Lacan: lettura, interpretazione, innovazione dei percorsi in traccia ed il passare oltre rispetto al Maestro, giungendo così al 'non ancora detto' del senso, quasi sogno - Recalcati sogna, come abbiamo visto, veramente Lacan e ne traccia i profili onirici con semplice narrato - e verticalità a spirale dell'interiorizzazione dell'oggetto: un nuovo approccio all' inconscio e alle sue leggi, oltre la formula del soggetto barrato, cioè privato dell'autonomia di cui ha diritto, perché prigioniero, dietro barre o sbarre fa lo stesso, dell'oggetto d'amore, la figura materna, la 'A' maiuscola, rispetto alla quale il soggetto si sente oggetto 'a' piccolo. Lettura non solo per intenditori, perché carica di passione, tra il fuoco del vivere, l'esperienza diretta della clinica del vuoto di senso (vita senza respiro originale ed autentico, vita nella quale il godimento è privato di forza desiderante e quindi si ripete all'infinito, quasi automatismo in clonazione ripetitiva e vuoto dell'attesa, quell'attesa che rende il desiderio stesso carico di fuoco) e costruzione di un nuovo respiro possibile, nel riconoscimento della propria vocazione, perché consapevoli del fantasma del principio del mondo, del fantasma dell'origine, dell'immagine dell'ori-
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gine del mondo come matrice e simbolo. Colgo qui l'occasione per confrontare 'la Chose', lacaniana, intorno alla quale Recalcati traccia pagine intensissime, così neutra, maiuscola, opprimente nella sua necessità, onnipresente ed onnivora, se occorre, con una metafora poetica forgiata da Domenico Defelice: “... Non è mistero la morte: eredità perenne a noi perviene dalla foce materna.” (dall'opera 'Canti d'amore dell'uomo feroce', a pag. 68, ora citato nella tesi di laurea di Claudia Trimarchi 'La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice, Il Convivio Editore, 2016, pag. 86). Mi scrive il Defelice: “... La madre, partorendoci, ci dà nel contempo la vita e la morte. La morte è una perenne eredità che l'uomo si porta fin dalla disubbidienza e dalla cacciata dall'eden... (e-mail del 19 agosto 2016). 'La Chose' e 'La foce materna': profondi interrogativi si pongono per individuare la forza misterico-mimetica della parola, capace di provocare schiavitù in asfissia nel vuoto di senso della vita, frequente evento carico di rischio e di pericolo nella nostra società postcapitalistica, o di evocare immagini sorgive dense di vitalità nel continuo fluire dell'onda della vita. Lacan acquista l'opera pittorica di Gustave Coubert 'L'origine du monde' (datata 1866) per un milione e cinquecentomila franchi, ed è questa una prova concreta di quella fascinazione che l'opera d'arte porta con sé, così realistica e carica di eros, con la 'foce materna' posta al centro del dipinto, senza che si possa vedere il volto della modella, fondendo insieme desiderio e godimento quasi immateriali, perché posti all'interno di quel piacere pieno che dal desiderio appagato direttamente deriva. Per me, l'altro polo intensissimo della fascinazione, profana e mistica insieme, dello sguardo sulle nostre radici carnali è rappresentato dal 'Cristo morto' del Mantegna (databile tra il 1475 e il 1478), ripreso di scorcio con tecnica quasi da scultura, per la forza, il vigore statico delle forme car-
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nali appunto del Cristo che emergono sotto il drappo, il resto del corpo nudo con i piedi forati posti al fondo, in primo piano, quei suoi piedi prima in cammino e che, se osservati, ti seguono nella loro modalità d'esser tratti di scorcio. Questa è la prova che il testo del Recalcati ci riguarda tutti da dentro e provoca risonanze perché si tratta di un nuovo approccio all'inconscio e alle sue leggi. Nella mia riflessione quasi empatica su questa traccia, il Recalcati riempie lo spazio tra Telemaco, che va alla ricerca del padre, per potersi riconoscere nella sua Legge, che è utilizzo d'eredità in piena autonomia, e Prometeo, che contro il padre si pone ed oppone, per quella devozione verso gli umani che lo spinge a donare loro il fuoco, a patire da un lato per questo, a godere poi per la forza d'amore che ne è stata originata e che finalmente l'ha liberato, come lo è il 'Prometheus unbound' di Shelley: una nuova scrittura analitica, tra fuoco e respiro, in nome della vita, della professione psicoanalitica eticamente intesa e della devozione al desiderio. Ilia Pedrina (*) 'L'arte come corpo e come segno in Maurice Merleau-Ponty': questo il titolo della mia Tesi di Laurea in Estetica a Padova con il chiarissimo professore Dino Formaggio, dalla cui Scuola sono stati forgiati anche, tra tantissimi altri, Stefano Zecchi e Massimo Cacciari. All'interno di questo lavoro ancora inedito una traduzione originale del lavoro del filosofo francese 'L'œil et l'esprit', un piccolo libro denso di verità: da Merleau-Ponty ha origine la mia dimestichezza con la lingua francese, così, direttamente, senza scuola e senza vocabolario, quel che capivo, capivo. Ed ho capito tanto. D'ora in avanti sarà arrivato il tempo anche per Jacques Lacan, in lingua originale.
ED HO VISSUTO Ed ho vissuto che io sono senza aver bisogno d’essere qualcosa. Michele Di Candia Inghilterra
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ANTONIO MARCELLO VILLUCCI NEI VICOLI DELLA MEMORIA di Carmine Chiodo
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EN prefata da Sandro Cros-Pietro, questa silloge poetica di Antonio Marcello Villucci è caratterizzata da chiarezza espressiva e tutto viene detto con la massima naturalezza. Villucci non è per nulla un poeta complicato o sofisticato ma sempre chiaro, scorrevole, e ciò fa si che il lettore prova piacere nel leggere le singole poesie. Per quanto ho detto ecco alcuni versi che cito da diverse poesie di questa raccolta. <<Da Bodrum sulla costa analotica / avevi come prima approdo /con mamma e papà /la greca Cos e di là lontano,/ dall’altra parte del mondo/su un caicco che a stento reggeva il mare,/ ma la coda cava di un’onda /svuotò il gheriglio /e morte ti colse tra gurgiti d’acqua /e voci disumane dei tuoi>> (Da Bodrum, p. 42); <<Dalla mensa si spargono odori./Un
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nuovo giorno di fatica /li attende l’ indomani,/Spento il focolare cadono tra le braccia del sonno>> (Sono le voci dei nonni, p. 24); <<Nell’ora che la luce trasmigra /lenta discende la sera /col suo carico d’ombre/al suono lieve del liuto/lungo il sentiero battuto/dal pastore col suo gregge/tra un brillare di stelle/e tremuli lumi alle finestre>> (v, Nell’ora che la luce trasmigra). Villucci ci offre una poesia che va lodata per l’accuratezza e precisione delle immagini, per i contenuti vari, ma espressi sempre con una lingua sciolta, suggestiva, ben calibrata che conferisce ai versi, alle poesie una misura narrativa ricca di varie suggestioni e avvenimenti, che appartengono al passato e al presente, e al riguardo ecco, ad esempio, il testo Terremoto in Irpinia (v. p. 44), e qui <<Tetti sconnessi>>, case, chiese <diroccate>>, e poi <<morti tanti morti nelle bare a schiera>>. Ma nonostante ciò non bisogna arrendersi e quindi è necessario riprendere <<l’orgoglio dei padri /che fecero vive queste contrade /dal tempo dei ‘tratturi’ /ricomponendo il proprio destino>>. Una poesia che piace per temi e per linguaggio, e nel contempo colpisce per la grazia, il garbo, la delicatezza con cui vengono dette le cose o descritti i momenti esistenziali o di stagioni, e qui si nota una misura narrativa e poetica molto riuscita e penetrante. <<Quando ritorna primavera/di nuova linfa la terra /invade le radici degli alberi /e i rami rimettono gemme>> (Quando ritorna primavera, p, 40); <<Discende la sera dai monti /sui colli, sui prati /tra le vele di cirri./La campana del vespro /saluta il giorno che tramonta./ Arde il ceppo al focolare /tra l’incenso delle pine /per noi assisi sulle panche>> (v. p. 41: Discende la sera). La silloge si presenta compatta e unitaria in ogni sua articolazione e s’ode di continuo l’io poetante che si muove nella memoria nel passato, nel presente, richiamando certi ricordi, evocando paesaggi e persone care, momenti esistenziali o temporali precisi. In questi vicoli della memoria c’è la vita del poeta, il suo paese, il suo paesaggio, gli amici, il padre. <<Nell’alba dei ricordi /ti ritrovo in divisa
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/alla fermata dei treni/ in quel di Benevento /e poi in brandina in ospedale /per bombe che squarciarono i treni, binari,/schegge penetrate nella carne>> (A mio padre, p. 62); ed ecco ancora le <<voci dei nonni /che accendono echi sul sentiero /con gli arnesi in spalla./Spandono nell’aria canzoni ‘a dispetto’ /per rendere più chiara la fatica>> (v. p. 24. Sono le voci dei nonni). Bastano queste citazioni che io fin qui ho fatto per rendersi conto che ci si trova davanti a un canto poetico ben intonato e dall’andamento scorrevole, armonico che presenta varie sequenze e atmosfere tutte rese con lingua altamente poetica e per nulla oscura o artificiosa. Tutto scorre limpido e cristallino. <<Il Roccamonfina si distende in verdi colli / trapunti di querce e ulivi,/di polvere d’oro sui rami di ginestra/ […]>> (p. 29); <<L’annuncio di Babbo Natale? iniziava nella notte con lo squillo/ delle campanelle sulla groppa delle renne /in un silenzio ovattato da fiocchi di neve>> (Vigilia di Natale, p. 31),leggendo con attenzione la silloge ci si accorge che ogni poesia ha una sua fisionomia e specificità che si basa, anzi meglio che poggia su una lingua immediata, diretta che esclude ogni ricercatezza o uso di parole difficili, di immagini complicate ma il poeta rende tutto chiaro e sa scendere nei suoi ricordi e poi riportarli alla luce, come pure nelle cose. Secondo me la caratteristica precipua del dettato poetico di Villucci consiste - come si può constatare dalla silloge che sto esaminando - da originalità linguistica che rispecchia integralmente l’interiorità del poeta che si esprime con la massima chiarezza e intensità poetica, ottenute con l’impegno di forme linguistiche non elevate ma fortemente ben fuse tra di loro che ci danno la visione che il poeta ha delle cose, della vita, dei luoghi, del paese in cui vive. Ma ci sono pure i ricordi ma non solo essi. La poesia di Villucci si presenta subito coinvolgente, non respingente e invoglia il lettore sempre ad andare avanti nella lettura. <<Restano orme di passi degli amanti /tra spenti ombrelloni>> (Si spegne l’ estate, p. 34); <<Alla mia donna ho donato giorni sereni;/ i figli, saldi germogli,/hanno
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portato gioia nella mia casa / seguendo i tuoi insegnamenti./Lodo te, mio Signore,/ è per averci amato tanto>> (Lodo te mio Signore, p. 36); <<Sulla riva del mare / che trasuda di variopinte conchiglie /strida di gabbiani sfiorano l’azzurro>> (Quando ritorna primavera, cit. p. 40); <<Tra i vicoli si spande il richiamo /del mosto che fermenta >> (Autunno, p. 51); <<Quando giungeva l’ora del sonno /v’era il sorriso di mamma tra le coltri;/ed ecco gli elfi, le voci dei cavalieri delle fiabe/ miei compagni di sogni fino all’alba>> (v. p. 60: Ritorno ai giorni dell’infanzia). Sono solo alcuni momenti della varia e felice poesia di Villucci, poeta che dice tutto – e lo ribadisco per l’ennesima volta - con chiarezza e incisività poetica. Non sempre nell’affollato, affollatissimo parnaso contemporaneo si leggono versi ben fatti e di sostanza come questi di Antonio Marcello Villucci che ci fa partecipare al suo mondo e alle sue visioni, consegnandoci particolari attimi di vita, ricordi, momenti esistenziali e diverse atmosfere: <<A fine pranzo il brindisi finale / con spumante di casa/ tra strascichi d’organetto /fino a notte inoltrata/quando l’ebbrezza stendeva tutti/sui sacconi di tutuli / in un russare sordo fino all’ alba>> (La festa di Natale, p. 63); e per finire: <<Gioie venivano su per anni dal cortile./ Le famiglie si adunavano /sotto il manto dell’ olmo /per lavori a maglia /o per rabberciare panni e calzini>> (Le gioie del cortile, p. 59). Vale veramente la pena leggere e indugiare sui versi di questa silloge attraente e valida in quanto nasce da vere, provate intense emozioni. Carmine Chiodo Antonio Marcello Villucci, Nei vicoli della memoria, Torino, Genesi Editrice, 2006, pp. 74,€ 8,50.
AFORISMA Bassa ombra e sole alto. Prima che mi aggredisca, decapito l’orgoglio appena nato. Domenico Defelice
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Settembre 2016
EZIO STARNINI, UNO SCRITTORE CENTENARIO L'ex marinaio del Rex e del Conte di Savoia festeggiato a Chiavari di Luigi De Rosa
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L 22 luglio 2016 la città di Chiavari (Genova) ha festeggiato lo scrittore Ezio Starnini, nato il 22 luglio 1916 a Genova ma residente a Chiavari da una vita. All'iniziativa, promossa dal Museo Marinaro del comandante Andreatta col patrocinio del Comune (rappresentato dal Sindaco Levaggi) hanno aderito numerose Associazioni, tra le prime il Centro Culturale L'Agave (presidente Mirna Brignole) di cui egli stesso è uno degli antichi Soci Fondatori. Ai festeggiamenti per il concittadino centenario ha partecipato una folla calorosa e festante in un'intera piazza dedicata all'evento (piazza Gagliardo). Lo scrittore Starnini, alto e asciutto, in camicia bianca e tanto di cravatta nonostante il caldo, accompagnato dall'inseparabile moglie Flora (96 anni...) ispiratrice di tanti versi, ha ringraziato tutti col suo solito stile tra il veemente e l'educato e signorile.
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La città ha voluto ricordare in lui anche l'ultimo testimone del REX. Nella sua vita centenaria Starnini ha vissuto ben tre vite, come giustamente ha ricordato anche Elvira Clementi Moretti sul quotidiano “Il Secolo XIX” del 22 luglio. La gioventù, a bordo dei transatlantici REX e CONTE DI SAVOIA; l'età adulta, come impiegato in una compagnia petrolifera (Starnini è ragioniere... come lo era Montale...); e la maturità, in cui ha vissuto a tempo pieno la sua passione per la letteratura, che ha sempre amato profondamente. Il tempo trascorso sul mare (quello alto e profondo, l'oceano) è rimasto nella sua produzione come una costante ispiratrice, ma lo hanno attratto anche il racconto poliziesco, e quello d'avventura, un po' alla James Bond ma comunque senza mai scivolare in volgarità o sciatteria. Il suo stile narrativo è semplice e diretto, sorretto da una fantasia assai vivace ma che non dimentica mai un sano e sorridente realismo ligure. E' nei romanzi e nei racconti che egli ha dato il meglio di sé, con un acuto spirito di osservazione e uno stile pulito ed efficace. Si è fatto conoscere come narratore, dal 1960 al 1978, su La Gazzetta di Parma, su Il Rinnovamento di Napoli, e su altre riviste. Ricordo altri suoi libri: Un ventennio (EIL, Edizioni Italia Letteraria, Milano 1979) nel quale ha dato un ritratto autentico ed efficace dell'atmosfera del famoso Ventennio, basato su ricordi personali esposti in forma romanzata ma autentici, e privo di fronzoli retorici. Il romanziere si è rivelato appieno con Fuggiasco in Valcedra, (Ed. Lanterna, Genova 1986) seguito da Genova dentro (ECIG Genova 1991) con prefazione di Elio Andriuoli, da Era il tempo... (Ediz. Tigullio Bacherontius, Santa Margherita Ligure 1996, prefazione di Marco Delpino). Nella letteratura di genere poliziesco rileviamo L'ingegnere utilizzato (Personaledit, Genova 2002) ristampato nel 2012 col titolo Il tassello mancante (Gammarò Editore). Oltre che nella Narrativa, Starnini si è cimentato anche nella Poesia e nella Saggistica. Nella Poesia per esprimere la sua visione di
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tenerezza e di amore, con al centro la propria ispiratrice, la moglie Flora. Nella Saggistica per tentare di tacitare la sua insaziabile fame di conoscenza e di cultura. Ricordo qui brevemente quanto da lui espresso sul poeta Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, su Italo Calvino e su Elsa Morante. Questi ed altri scritti sono apparsi per le edizioni Gammarò di Sestri Levante oppure sugli annuali Quaderni letterari del Centro Culturale L'Agave di Chiavari. Ricordo quello Sulle origini della poesia giapponese (Quaderno 18), oltre a quello su La Città del Sole di Tommaso Campanella (Quaderno 23). Ma sono soltanto alcuni esempi, a dimostrazione lampante della perenne e intelligente curiosità della vita, dell'arte e del mondo degli Autori (delle loro traversìe e dei loro messaggi) delle situazioni storiche più svariate e delle problematiche filosofiche più complesse. Nell'occasione del 22 luglio scorso a Chiavari è stato presentato il suo ultimo libro (con presentazione dello scrivente): Un ventennio per una catarsi 1925...1945 – Edizioni ANPAI Tigulliana, Santa Margherita Ligure. Luigi De Rosa
VIA BONAPARTE (PARIGI) “et toi mon coeur pourquoi bats-tu comme un guetteur mélancolique j’observe la nuit et la mort Apollinaire Io non conosco Via Bonaparte non la conoscete voi che traversate Via Bonaparte senza rendervene conto dal caffè dei deux Magots fino alle gole della Senna rifletti la tua ombra nelle vetrine poi tira via come se ti sentissi nudo di mattina per la nebbia gli occhi non si vedono tra loro se ne hai il coraggio passa da Via Bonaparte di mattina
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arraffa i vecchi libri sparpagliali per le strade accantona i buoni pensieri come se fossi una prostituta io non conosco Via Bonaparte non la conoscete voi che in Via Bonaparte vi potete anche divertire di notte in Via Bonaparte frantumi vetrosi di gelo, i jin di Via Bonaparte andati alla Senna a giocare a palla di fronte alla chiesa un paio di mantelli in bicicletta la lancetta delle ore la lancetta dei minuti mano nella mano a dividere la notte1 il paesaggio notturno di Via Bonaparte è straordinario gli angoli ostentano caduta di morale e lordo meretricio manda un ciao e un paio di millanterie ai lampioni svendi indole e nazione per un gotto di galvados io non conosco Via Bonaparte non la conoscete voi che la traversate come angurie e tondi meloni rotolanti Attila Ilhan Yaĝmur Kaçaĝi 1 - alla lettera: giusto nel mezzo della notte Da Fuga nella pioggia - Bilgi ed. Ankara, 11a ed. aprile 2002 (1a ed. 1955) - Traduzione di Piera Bruno
VITA EFFIMERA MA INTENSA Quando morirò, neppure un fiore sopra la mia bara. Lasciate che queste rugiadose e splendide creature della terra vivano la loro vita effimera, ma intensa come la preghiera fatta d’un sol palpito potente, il primo e l’ultimo del cuore. Domenico Defelice
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OPINIONE di Antonia Izzi Rufo
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N tutte le epoche vi sono stati scrittori e poeti, artisti, in numero più o meno rilevante, però la corsa verso la scrittura s’è accentuata nel Novecento e continua tuttora. Ci si esprime in prosa e in versi, si scrivono saggi, si dipinge, si scolpisce, si compone musica; si traducono opere in lingue diverse, ma i traduttori non abbondano come gli scrittori e i poeti. Perché si scrive? Perché tanta prolificazione? Forse perché il dialogo che c’era nelle famiglie d’una volta s’è spento e se ne sente la nostalgia, si avverte il bisogno di comunicare con gli altri, di confidare ai nostri cari, ai nostri simili quanto è racchiuso nel nostro microcosmo e, non potendolo fare, riversiamo sulla carta i nostri pensieri, le nostre gioie e le nostre angosce, i nostri sogni infranti, le nostre aspettative deluse? Si cerca uno sfogo per ovviare alla solitudine, all’indifferenza, alla superficialità e ci si rifugia nel canale d’emergenza più congeniale, ossia nella scrittura? La realtà è l’ insoddisfazione dell’uomo moderno che non trova comprensione nei suoi simili, che non condivide la falsa politica e l’arrivismo dei politici, che non tollera l’inquinamento della natura e la morte dei valori. Ci si muove in un mondo che va alla deriva, in un universo in crisi globale. Si ha paura del presente in bilico, del futuro senza speranza. E’ questa la “fine del mondo” preannunciata dai saggi dell’ antichità? Va tutto male, tra gli uomini e in natura. Squilibrio in ogni campo. Non più moralità, non più pace: miseria, debiti, corruzione, disoccupazione; non più spinta interiore a progredire, ad avanzare verso il miglioramento, ad alimentare il piacere di mettere da parte dei risparmi per un domani più sicuro, di benessere e tranquillità; non più stimolo ad accrescere la cultura, ad approfondire il sapere, a sforzarsi di penetrare nel mistero della vita e della morte. Tutto appare inutile. Una mia riflessione, ora, quasi sfida all’ opinione comune: ‘L’uomo ha sempre sentito
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il bisogno di estrinsecare quanto ha avvertito dentro, ha sempre scritto, già dai primordi della civiltà; non conosceva ancora i segni dell’alfabeto e si esprimeva con disegni che incideva sulle pareti della caverne, sulle pietre (ricordiamo i caratteri cuneiformi, i geroglifici); continua a far conoscere il contenuto del suo mondo segreto. Quali oggi gli argomenti della scrittura? L’intimismo, la natura, il passato, il presente. Il primo impulso che induce l’uomo a scrivere è il suo bisogno di confidare alla carta quanto si agita nel suo intus, la sua urgenza di sfogarsi (pare che soffra di ansia), di mettere allo scoperto le sue idee e di renderne partecipe il prossimo. La sua spiccata sensibilità, la sua naturale tendenza a prediligere il Bello, il suo innato senso artistico lo inducono ad ammirare la natura, ad estasiarsi delle sue meraviglie, a scoprirsi poeta, a creare poesia. Se la casa di pietra (o mattoni) è il suo rifugio concreto, abituale, il luogo che protegge la sua “privacy”, che lo ripara dalle intemperie e dai pericoli esterni, la natura è il regno nel quale la sua anima s’adagia per entrarne in simbiosi, per respirare serenità, per illuminarsi del divino che essa si porta dentro. Per quanto riguarda il tempo trascorso e quello contemporaneo, è da constatare che il passato, anche se non proprio confortevole, nel ricordo è sempre visto come un periodo positivo che comporta rimpianto, desiderio di riviverlo (perché le cose che più non abbiamo, le persone scomparse le vediamo, non come furono in realtà, ma in maniera completamente positiva? Forse perché non ci appartengono più e con esse muoiono i nostri sentimenti di rancore o odio o disprezzo – se si sono nutriti – nei loro confronti?). I tempi contemporanei, al contrario, anche se non del tutto da rigetto, emergono quasi sempre negativi, e sotto ogni aspetto: si è convinti che in essi nulla funzioni come dovrebbe e tutto sarebbe da rifare, da demolire e ricostruire in modo giusto e sano. Si esagera sia nel giudizio che si esprime per il passato che in quello per il presente, non si è obiettivi. Perché non riconoscere il buono e il cattivo che, effetti-
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vamente, identificano l’uno e l’altro periodo? Nel suo incipit il Terzo Millennio si portava appresso tutto quanto, di negativo e positivo, gli lasciava in eredità il Novecento, più di cattivo che di buono; il carro, comunque, anche se a stento, e un poco inclinato verso il lato scosceso, tirava avanti, procedeva fiducioso, convinto che piano piano si sarebbe raddrizzato (così sembrava, così si credeva). E si era tranquilli. Non si navigava nell’oro ma nemmeno si moriva di fame, non si conduceva vita da signori ma neppure si affogava nel pantano. Poi, improvvisa (perché era in incubazione), la catastrofe. Ci si è ritrovati bocconi a terra, senza possibilità di potersi rialzare. La diga vacilla, l’acqua fuoriesce da tutti i buchi. Si sono messe insieme tutte le energie per impedire il riversarsi del mare sulla terra, ma tutto sembra inutile. Ce la faremo a scongiurare il disastro? Ci trasmettiamo a vicenda le nostre buone intenzioni, la nostra volontà di collaborare e resistere, gli arti graffiati, affondati nel fango. “Spes, ultima dea”. Ho esagerato? Ma i tempi che corrono mi mostrano una visione drammatica, a volte apocalittica della situazione. Qualcuno non del tutto informato (perché non legge i giornali e non segue le notizie dei mass media) si chiede: <<Che faceva la gente prima, che fa ora mentre la piena si concede qualche attimo di tregua per poi riprendere il suo andare alla deriva? >>. La gente continua a fare ciò che ha sempre fatto, ma è costretta a ridurre il pane e il fuoco, a riciclare i vestiti, a portare le scarpe al ciabattino e il mare e i paesi esteri li vede in televisione anziché andarli a visitare in crociera o con l’aereo; e chi ha talento e ispirazione non rinuncia a comporre versi o musica, a scrivere romanzi, a cimentarsi in opere d’arte. E’ un modo per consolarsi, per rimediare a quanto è venuto a mancare, per realizzarsi in qualche maniera, per non morire in vita. La poesia la vorremmo sempre con noi, ma spesso ci sfugge, si nasconde. Noi la cerchiamo senza sosta. Se non la troviamo didiventiamo tristi. Perché la sua presenza ci rasserena, c’infonde speranza, produce amore; perché cancella l’opaco dal mondo e lo
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inonda di luce e d’azzurro, l’affascinante figlia di Erato. Ed ora, giacché ne ho appena scritto del numero considerevole, un accenno a qualcuno dei tanti scrittori e poeti, artisti (alcuni morti da poco, altri, più giovani, ancora in vita) che ho avuto modo di conoscere, personalmente o attraverso le opere. Anche se mi limiterò a personaggi italiani, non posso non ricordare Paul Courget, un poeta francese di tendenze classiciste, il gentiluomo cortese e galante che aveva grande stima e rispetto per la donna che considerava “angelicata” come gli stilnovisti. Tradusse in francese, fra l’altro, la mia silloge “I colori dell’anima”, io volsi in italiano alcune sue poesie. Ebbi con lui una lunga corrispondenza che durò fino a poco prima della sua dipartita. Aveva l’abitudine di ornare ogni lettera, scritta a mano con chiara scrittura di amanuense, con fiorellini colorati ritagliati da riviste cartoline o altro. E con lui ricordo Carmine Manzi (erano quasi della stessa età, solo un anno li separava), il “Carmi” (così si firmava) delle assidue lettere che mi scriveva a mano (anch’egli con la stessa scrittura classica, precisa), a volte con la vecchia “Olivetti”. Era puntuale nella corrispondenza, proprio come Paul. Di lui conservo molte lettere, mie recensioni ai suoi libri (ne scrisse moltissimi), sue ai miei. Paul e Carmi avevano in comune quella squisita sensibilità che non si riscontra nell’uomo moderno, quel comportamento corretto, irreprensibile, superato, oggi tabù. Paul idealizzava la donna, la poneva su un piedistallo, la venerava (mi vien da dire) nello stesso modo di San Bernardo di fronte alla Vergine (Dan-
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te, Paradiso); Carmi la considerava sacerdotessa del nido domestico, madre amorosa, sposa devota. Riporto, di Paul, “La bella destata”: <<Ella dormiva. Eccola che si sveglia / sorridendo, felice, al nuovo giorno, / e il suo sguardo che repentino s’illumina / ripete all’amato la sua promessa d’amore>>; di Carmi “A mia madre”: <<Ho pensato a te per tutto il giorno / … / Non il tempo che passa / il ricordo sfiora, / se nelle scarne mani / scorre il sangue ancora / se d’argento il sole / le palme ai colli / e i tuoi capelli / illumina tuttora, / e quando stanca / m’aspettavi al davanzale /per lunga lontananza / ansiosa del ritorno>>. Un senso di tristezza si avverte nel ritrovarsi lungo le strade e i vicoli bui dell’antico paese di Striano (NA): scomparsa quell’atmosfera di entusiasmo culturale che vi si respirava quando c’era ancora Luigi Pumpo a richiamare centinaia di scrittori e poeti che venivano a ritirare il “Premio di Poesia e Narrativa” da lui istituito (Quanti attestati e medaglie d’oro conservo!). Luigi Pumpo, oltre che presidente del Premio e direttore della rivista “Presenza”, era valido scrittore e poeta, anche critico. Con la sua morte, avvenuta diversi anni fa, non si bandisce più il concorso né si pubblica la Rivista: tutto finito. Aldo Cervo (Caiazzo –CE-). Non lo conoscevo. Lo vidi, per la prima volta, in un incontro culturale in cui ci ritrovammo in molti, scrittori in maggioranza, per la presentazione di un libro. Quando mi fu presentato, lo considerai uno dei tanti intervenuti che si confondeva con tutti gli altri. Fu quando lo sentii parlare (era lui il relatore) che fui colpita dentro da qualcosa che mi scosse tutta, che fui attratta da lui, o meglio dalla sua parola, dal suo dialogare, in un modo che non so definire: dalla sua voce calda, dal suo linguaggio sem-
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plice schietto coerente, a volte ironico ma sempre coinvolgente, affascinante. Il suo discorrere fluiva leggero, limpido, senza intoppi, mi giungeva all’udito come musica tanto era suadente, veritiero, condiviso. Quando la sua esposizione ebbe termine, ero lì ancora con l’orecchio teso. Corsi a complimentarmi con lui. Diventammo amici, anche con la sua Pina che lo segue ovunque. Aldo ha recensito quasi tutti i miei libri, io i suoi. Ha scritto un breve saggio su di me, io uno su di lui. E’ stato lui a definirmi “La Ninfa delle Mainarde”. Ha scritto opere in prosa, saggi, recensioni, anche qualche testo di poesia. Impeccabili lo stile e il contenuto dei testi. Se tutti coloro che scrivono si esprimessero come lui, con una proprietà di linguaggio ed una ricchezza di idee che rispecchiano l’ordine e il contenuto interiori, non avremmo scrittori da “cestinare”. Accosto ad Aldo Cervo (senza dubbio alcuno), per aver saputo cogliere a fondo la spontaneità, le motivazioni esistenziali, il panismo e gli slanci vitali della mia poesia, Emilio Pacitti (Preside in pensione. Isernia). La scrittura di Pacitti è molto simile a quella di Aldo Cervo, quindi lodevole sotto tutti gli aspetti. Una differenza, comunque, c’è: il linguaggio di Pacitti, rispetto a quello di Cervo, è più delicato, più fine, più “signorile” lo definirei, più etereo. Quando leggi i suoi giudizi ti ci specchi dentro tanto sono tersi, trasparenti, tanto risaltano per l’evidenza della verità che hanno saputo cogliere. Emilio Pacitti è un uomo colto, ma non pubblica libri. Scrive recensioni e spesso partecipa, come relatore, a riunioni culturali. Non è da meno Angelo Manitta , siciliano di Castiglione di Sicilia (CT), Docente di lettere, editore, presidente di
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molti “Premi Letterari”, direttore della rivista “Il Convivio” in collaborazione con la moglie Enza e i figli Giuseppe e Guglielmo; scrive di tutto: romanzi, saggi, sillogi poetiche, note critiche e traduce testi di lingue diverse, per la sua Rivista. E’ molto attivo. Nessun argomento gli sfugge, si cimenta nel classico e nel moderno. Ha una vasta cultura. Encomiabili le sue liriche. Ammiro molto il modo di esprimersi dei tre personaggi suddetti (Cervo, Pacitti, Manitta), forse perché somiglia al mio. E’ un linguaggio semplice, scorrevole, denso di significati, conciso ed esauriente, chiaro nell’esposizione degli argomenti e dei concetti. Oserei paragonarlo (e credo proprio di non sbagliarmi) al modo di scrivere di John Steinbeck e a quello di Hermann Hesse, le opere dei quali leggo molto volentieri. M’accorgo di essere dispersiva perché comincio a divagare. Meglio se mi decido ad iniziare il mio viaggio, veloce, a tappe brevissime, attraverso il mondo letterario d’Italia e non solo, in modo piuttosto ordinato. Iniziamo (ma già vi sono “entrata “ per ricordare Angelo Manitta) dalla Sicilia, terra stupenda, oasi, vero eden della natura che si distingue per la bellezza e la fertilità del suolo, per il clima primaverile per buona parte dell’anno, per le opere antiche (retaggio dei molti popoli che vi sostarono attraverso i secoli e vi lasciarono le loro “impronte” immortali), per il numero stragrande di letterati e artisti che in essa proliferano senza interruzione, per la sua felice posizione: si stende al centro del Mediterraneo e ha di fronte, a breve distanza, il continente africano, l’Asia ad
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est, la sua Europa in alto e ad ovest e vede solcare le acque che lambiscono le sue coste da navi che filano in ogni direzione, di notte e di giorno, in tutte le stagioni dell’anno. Gli scrittori contemporanei della nostra Trinacria pubblicano i loro libri, in maggioranza, con case editrici di nuova istituzione (queste abbondano in ogni regione della penisola) (nota è quella de “Il Convivio” di A. Manitta), presso le quali i prezzi sono contenuti e non incidono troppo sulle loro finanze. Producono opere in prosa e in versi, saggi, molti testi teatrali. Tra gli artisti non posso non ricordare il valido mosaicista Michele Frenna, di Palermo, da poco scomparso, e sua figlia Gabriella, prolifica scrittrice e poetessa. Attraversiamo lo stretto di Messina ed immettiamoci nella Calabria. Una sosta a Ravagnese di Reggio Calabria per salutare Maria Teresa Liuzzo, direttrice della rivista “Le Muse” e bravissima poetessa. Proseguiamo per la Basilicata. Ci fermiamo a Grassano (Matera) per fare un giretto nel paese di Leonardo Selvaggi (dirigente superiore del Ministero per i Beni Culturali, ora in pensione, scrittore, poeta, saggista).Abita, ora, a Torino, ma non vi sta volentieri: sente la nostalgia della sua terra e di essa parla, con accorato rimpianto, in ogni suo scritto. Leonardo Selvaggi ha pubblicato moltissimi libri, saggi in maggioran-
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za, raccolte poetiche e recensioni che si leggono sulle più note riviste letterarie contemporanee. Ha scritto un saggio per me e diverse recensioni ai miei libri, io ho recensito suoi libri. In Campania ci dirigiamo verso Salerno e raggiungiamo Mercato San Severino, il paese di Carmine Manzi di cui ho accennato sopra. Il “Premio Letterario Paestum”, da lui creato, e la rivista “Fiorisce un cenacolo”, da lui fondata, ora li dirige la figlia Anna Maria, attiva e in gamba come il padre. A Nocera Superiore abita Sabato Laudato il quale, oltre a scrivere recensioni, conduce interviste e raccoglie notizie, in Italia e all’estero, per la rivista culturale “Il Convivio”. A Caiazzo (CE) abita Aldo Cervo, che ho menzionato sopra. Aldo (professore di lettere nelle scuole superiori, ora in pensione) partecipa spesso, almeno una volta la settimana, con altri scrittori e letterati, ad incontri culturali che si tengono a Venafro o a Formia o in altri paesi del Molise o del Lazio, e che vengono organizzati dall’ editore Amerigo Iannacone di Ceppagna (frazione di Venafro -_IS -), anch’egli scrittore, critico, poeta. Nel Molise troviamo il già menzionato Emilio Pacitti e un gran numero di poeti e scrittori, tra i quali Vincenzo Rossi e Ida Di Ianni di Cerro al Volt. (IS) e Antonio Angelone di Forli del Sannio (IS). Tra i musicisti, invece, emergono Lino Rufo e il figlio Yuky, il quale sta seguendo la carriera ascensionale del padre. Lino, musicista e cantautore molto noto, è autore di moltissimi testi musicali ed ha scritto e musicato quasi tutte le sue canzoni. Ha inciso dischi con la RCA e con altre case discografiche.
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La sottoscritta è di Scapoli (IS) e risiede a Castelnuovo al Volturno, frazione di Rocchetta (IS). Di Scapoli è Luigi Mancini (Ottocento), autore de “Il prete del villaggio”, di Castenuovo il pittore francese Charles Moulin, nato a Lille, “Premier Grand Prix de Peinture en 1896” (Il Premio lo venne a ritirare a Roma) (Sono morti entrambi). Franco Dino Lalli, abruzzese d’un paesino della provincia dell’ Aquila (Assergi) è un bravissimo poeta. S’è salvato dal recente terremoto, ma ha avuto la casa distrutta. Approdiamo nel Lazio. A Frosinone salutiamo Lino Di Stefano (molisano di Casacalenda), esperto latinista. Scrive un po’ di tutto, saggi in maggioranza. Ha recensito diversi miei libri, io molti dei suoi. A Pomezia, invece, incontriamo Domenico Defelice, direttore della rivista “Pomezia-Notizie” e presidente del “Premio Letterario Città di Pomezia” da lui fondato. Domenico Defelice è uno scrittore poliedrico imbattibile. A parte quanto riguarda la Rivista (recensioni, lettere, notizie pubblicitarie, “sketch”, anche disegni un po’ naif), scrive saggi, raccolte poetiche, articoli giornalistici e altro ancora. Insomma si cimenta in mille cose e se la cava brillantemente in tutto. A Carrara (Viale XX Settembre, 144) facciamo sosta da Enrico Marco Cipollini, studioso di filosofia e filosofo egli stesso. E’ uno dei critici contemporanei più bravi, più prolifici. Laureato in Storia della filosofia alla Normale di Pisa, pubblica i suoi scritti sulle più note riviste italiane, anche su quelle estere. Non c’è scrittore attuale che non abbia una sua recensione. I miei libri li ha recensiti tutti e ha scritto anche un saggio su di me, io
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uno su di lui. Ha pubblicato diversi testi scolastici, sussidi, una ricerca filosofica su Cabanis e sulla disamina dei suoi “Rapports”. La toscana è terra feconda di menti eccelse. Ve ne sono state nel passato, continuano a proliferare nel presente. Si può non ricordare Nazario Pardini, laureato alla Normale di Pisa e docente di lettere all’università della città della “torre pendente”? Nazario Pardini è un poeta e un critico eccellente, un letterato eclettico, umanista e assiduo studioso dei classici. Così Maurizio Soldini, nel suo giudizio sui poemetti “Il volo di Icaro” e “A colloquio con suo padre. Il sogno”: <<Nella poesia di Pardini, vi è l’ epica con la sua narrazione pacata e sublime. Vi è l’idillio. Vi è l’ elegia. Vi troviamo l’ epicedio. Ma soprattutto c’è tanta lirica>>. Rapolano Terme (SI), invece, ci ricorda il noto Premio Internazionale “Il Molinello con Nicla Morletti e Marco Delpino (esponenti, tra gli altri, della Commissione giudicatrice) e il Presidente Onorario, ora scomparso, Mario Luzi. Non posso non ricordare, ancora, la casa editrice “Maremmi Libri” di Firenze, che bandisce ogni anno il concorso “L’Autore”, nel quale sono stati segnalati e pubblicati diversi miei libri, conservati nella “Piccola Biblioteca”. Sandro Angelucci, poeta e scrittore poliedrico, abita in Umbria, poco lontano dalla cascata delle Marmore. A Bologna c’è la Casa Editrice “Boock Editore”, con Massimo Scrignòli, che ha pubblicato la mia raccolta poetica “Passi leggeri”. A Padova insegna, nell’ Università, il critico, linguista, scrittore e poe-
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ta Luciano Nanni, profondo scandagliatore dell’animo umano. E’ stato lui a definirmi “La Saffo italiana”. A Torino ritroviamo Leonardo Selvaggi il quale, mentre passeggia lungo le strade, nauseato dell’ambiente cittadino freddo ed inquinato, torna col pensiero alla sua terra di Lucania, aspra e incontaminata, in una natura ancora primitiva, e lacrime mute versa di rimpianto e nostalgia. Ma anche il critico (uno dei più noti attualmente in Italia) Giorgio Barberi Squarotti che continua a soddisfare le richieste di quanti (e sono tanti) si rivolgono a lui per una nota critica. Ho recensito il suo libro “Il vero Ettorre: l’eroe del ‘Giorno“, la poesia “Il rapimento di Europa” e steso una breve nota su “La donna di Giorgio Barberi Squarotti”. Ecco uno dei suoi giudizi sulla mia poesia: <<La Sua poesia è luminosa ed essenziale, in forza di una magata liricità, con esiti spesso altissimi>>. Nota, fra le altre produzioni, è la sua Letteratura Italiana. Luigi de Rosa, ex Provveditore agli studi e Sovrintendente scolastico regionale per la Liguria, è uno dei più fecondi scrittori contemporanei (se la batte con Defelice). Scrive di tutto. Non c’è rivista letteraria nella quale non si trovino suoi scritti (recensioni, saggi, poesie, racconti). A Santa Margherita Ligure c’imbattiamo in Marco Delpino, editore, direttore della rivista “Bacherontius”, giornalista, critico, indefesso scrittore che si esprime sia in prosa che in versi. Marco Delpino ha pubblicato diversi miei libri. Quanti ne ho tralasciato per via? Migliaia. Il mio sguardo interiore s’è posato solo su alcu-
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ni che, di primo acchito, mi si sono mostrati istantanei all’attenzione, lungo il mio viaggio, su alcuni che, nell’inconscio, ritenevo più amici. Perché non su tutti, se tutti sono amici, se tutti fanno parte della mia schiera, della schiera di coloro che alimentano lo spirito nello studio delle opere dei Grandi del passato, e del presente, e nella contemplazione delle meraviglie della natura? Di coloro che confidano alla carta i loro pensieri e le loro emozioni? Tanti i nomi che ora affluiscono alla memoria, proprio tanti. Preferisco, però, non elencarli per non offendere quelli che, distrattamente, potrebbero sfuggirmi. Voglio solo affermare che tutti, chi più chi meno, chi nella critica chi nei versi chi nella prosa, chi in ogni espressione sentimentale narrativa o esegetica, chi nella fantasia chi nella realtà, chi nell’indagine del profondo e nell’enigma del “poi”, tutti hanno dato il meglio di sé, tutti hanno contribuito ad accrescere il sapere personale e quello universale. Antonia Izzi Rufo
LUMINOSA CREATURA DELLA VITA a mia sorella Ione, recentemente scomparsa Non so pensarti un possesso della morte. Mi appartieni in queste fotografie del tuo passato che a lungo sto osservando; ti ridona la memoria giovane scattante nel gioco a pallavolo, a tamburelli sulla spiaggia, a nuoto fendi veloce il mare, balzi gioiosa sulle onde, scompari in un trionfo di spuma. Rivedo i tuoi biondi lunghi capelli tendersi nell’aria nelle allegre corse in bicicletta, volteggi sui pàttini lucidi di sole. Instancabile figlia del moto. Tanti i ricordi di te ai quali mi abbandono; ti ritrovo donna dalle salde radici che appartengono a chi sa profondamente amare e ha in sé vigore d’entusiasmi, di speranze; ti ritrovo sognatrice dalle agili ali che conducono ad altezze.
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Si diffonde intorno a me il tuo riso, odo spiritose tue battute che la memoria ripete; di te divertente noto l’umorismo. Non ti sento possesso della morte; resti luminosa creatura della vita. Caterina Felici Pesaro
PELLE NERA Canto d’Africa Riemergo da un’onda di un forte calore alla ricerca del mio fiero canto di trasmissione nascosto dentro il fuoco di una pelle nera guardo l’Alba di un dolce tormento racchiuso in una catena di osso intorno ad un collo regale seno schiuso al mondo della luce maternità spontanea che sgattaiola tra le gambe intrecciate mani di ebano che lavorano fronde gioielli di terra che godono sulla pelle capelli fermati da cascata di cenere che fluiscono in fumo di luna sguardo che porta con sé le note di un canto celebrativo d’Africa puro e dolce essenza di un tempo fermo su di una pelle che parla allo spazio meteora sfuggita al paradiso. Filomena Iovinella Torino
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 26/7/2016 Il Onda, la trasmissione de La7, Massimo Giannini, sfegatato della Sinistra, a proposito dei terroristi islamici, ha affermato che noi italiani non riconosciamo più con forza la nostra identità, al contrario di loro che la propria la riconoscono e la rivendicano. Alleluia! Alleluia! Ma chi è stato, nella seconda metà dello scorso secolo, ad adoperarsi perché in noi venisse annullata ogni idea di Patria e Nazione, accusando di fascista chi semplicemente la pronunciasse? Domenico Defelice
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LE RELAZIONI AFFETTIVE IN UNA SOCIETÀ “LIQUIDA”1 di Giuseppina Bosco N una società sempre più dominata dall’ individualismo, dall’indifferenza e dalla materialità, è necessario riflettere su un saggio di Bauman intitolato “Amore liquido” che analizza la problematicità delle relazioni umane, condizionate da insicurezze e precarietà di una società sempre più tecnologizzata e massificata. Zygmunt Bauman, sociologo e filosofo polacco tra i più noti dei nostri tempi, ha coniato la metafora della liquidità in un celebre libro di qualche anno fa, uscito in Italia per Laterza, Modernità liquida. Prosecuzione di questa sua analisi è Amore liquido del 2006, con cui continua a sviluppare il discorso sulla società liquido-moderna.
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Alla base della sua analisi vi è la distinzione tra modernità/società solida (Homo faber, cioè produttore) e modernità/società liqui-
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da, ovvero soggetta alla manipolazione, alla trasformazione (Homo consumens, consumatore). A partire dallo studio della società moderna, Bauman analizza approfonditamente anche altri aspetti del vivere umano, come il rapporto tra l’uomo e i legami affettivi, l’ amore, il rapporto con gli altri, il rapporto stesso tra uomo e società. Lo stato magmatico dei legami personali e sociali produce un individuo afflitto dalla solitudine, egoista ed egocentrico, favorendo il radicarsi dell’individualismo, la perdita dei veri significati delle relazioni affettivo- amicali verso relazioni fondate sull’utile e sulla convenienza. In una società “liquida”, quindi consumistica, dove i sentimenti e le relazioni umane sono mercificati, l’amore, inteso come legame “solido” e duraturo, basato sulla fedeltà, sull’ aiuto e rispetto reciproci, perde di significato. In un passo del libro, difatti, Bauman chiarisce bene questo concetto: "amore significa prepotente desiderio di proteggere, nutrire, riparare; e anche di accarezzare, coccolare e accudire, oppure di difendere gelosamente, isolare, imprigionare. Amore significa essere al servizio, stare a disposizione, attendere ordini” 2 Nell’era tecnologica e globalizzata, i legami stabili fanno paura e si cerca rifugio nelle cosiddette relazioni virtuali, nelle quali è permesso prendere le distanze o riavvicinarsi al partner con estrema facilità e ogni qualvolta lo si desideri, evitando il rischio di intrappolarsi in relazioni troppo solide, gestendole a proprio piacimento con distacco e disimpegno. L’amore, dunque, inteso come sentimento vero che implica la dedizione all’altro pur non perdendo di vista la propria autonomia, concepito nella sua assiduità temporale, non è più concepibile in una società liquida che degrada le esperienze “appassionanti” in brevi e consumate esperienze d’amore. Un’altra affermazione illuminante in questo senso è quella che vede la relazione virtuale come scelta più produttiva in quanto meno
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stabile nella costruzione dei legami: “essere connessi è meno costoso che essere sentimentalmente impegnati”3 Ulteriore conseguenza, nei nostri tempi, è il confondere l'amore con il desiderio ossia con l'impulso di possedere ciò che attrae. È pur vero che il desiderio non comporta investimento di tempo o consolidamento di legami, in quanto, una volta soddisfatta la voglia momentanea, come un prodotto da consumare, è facile e comodo sbarazzarsene. Il desiderio così coincide con la distruzione del suo oggetto ma anche l’amore mira al possesso dell’altro. Quest’ultimo meccanismo, che può generare nell’individuo nevrosi e la psicosi dell’ innamorato, ben analizzato da Roland Barthes nel suo studio “Frammenti di un discorso amoroso”4 , se non sfocia nella patologia, implica il riconoscimento dell’alterità. L’amore nell’era della tecnica e dell’ informatica, invece, non presuppone un vero e proprio incontro con l’altro: l’io che ama non si consacra più alla persona amata, ma è il mezzo con cui ci si connette con la persona amata a divenire sacro: il cellulare, il web, per cui le relazioni sono più virtuali che reali. Come dice bene Bauman, i rapporti affettivi diventano “tascabili”, durano un breve spazio temporale “e come le azioni in borsa, muoiono secondo le fluttuazioni sentimentali globali”5. Nel saggio si fa esplicito riferimento alla «sordità affettiva» a cui siamo esposti, la quale impedisce quella comprensione profonda dell’altro che permetterebbe di ridurre al minimo i conflitti, le offese, consentendo apertura e dialogo, disponibilità e incontro con il proprio simile. Questa sordità si può tradurre anche in indifferenza nei confronti dell’”altro”, sia esso profugo, extracomunitario, straniero a cui viene negata anche l’accoglienza. Gli stranieri, difatti, poiché sono ritenuti diversi ed estranei alla comunità nazionale, vengono respinti, alimentando comportamenti xenofobi. Infine, nella società globalizzata in cui tutto è riconducibile alle leggi del mercato e dell’ apparire, in cui anche i mass media con i vari
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talk e reality show contribuiscono alla “smaltibilità”6 dell’essere umano, la vita “diventa un gioco duro” e l’individuo vale non per la sua storia personale e per le sue virtù , ma per l’esito del suo ultimo duello”7. Gli altri sono visti solo come antagonisti e chi vuole “andare avanti e scalare la vetta, si coalizza con colui che in quel momento è utile allo scopo. Gli strumenti che aiutano a vincere la gara sono svariati e spaziano dall’autoritarismo esplicito ad una prudente auto moderazione”8, tutto si riduce ad un basso meccanismo di sopravvivenza di darwiniana memoria. Nei segmenti della società non contano più i valori quali “fiducia, compassione, fedeltà”9, ma l’imperativo della lotta “omnium contra omnes”. Sono invece i principi “dell’ educere” (morali, culturali) che devono prevalere sia nella formazione dei giovani, i quali devono scalare la vetta della propria realizzazione, sia nella loro trasmissione da parte di insegnanti e formatori. Giuseppina Bosco Zygmunt Bauman, “Amore liquido”, Editori Laterza, 2006 2 ivi pag.19 3 ivi pag. 15 4 da Roland Barthes, “Frammenti di un discorso amoroso”, Einaudi, Edizione italiana 1979 5 ivi pag. 126 6 ivi pag. 123 7 ibidem 8 ibidem 9 ibidem 1
ESSENZE DA SCOPRIRE Non le conosciamo Della loro bellezza delle loro proprietà medicinali non abbiamo nessun’idea Tuttavia di saperle esistere ci rende il mondo più prezioso Così la Poesia Béatrice Gaudy Francia
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POESIA CHE RISPLENDE DI LUCE PROPRIA di Leonardo Selvaggi I A fede in Dio è vita per il poeta Pantaleo Mastrodonato. Gli uomini di buona volontà, tramite il perdono, si purificano e rientrano nelle mani della Divina Provvidenza. La luce di Dio è di guida, di protezione, allontana tutte le perversità che fanno disconoscere le possibilità di incamminarsi verso l’infinito, la via dell’immenso Creato. Il tempo reo di peccati fa maturare consapevolezza e pensieri meditativi. In mezzo alle tempeste della vita l’uomo che ha fede vede comparire l’ombra diafana della Grazia. Le vanità di un mondo in rovina risaltano davanti alle divine dimore dell’Eterno, alle vie della verità, agli sfavillanti mondi dell’ Universo. Pantaleo Mastrodonato con perseveranza, ispirato dai lumi della sua anima pura vede la grandi mete, lontane dalle inanità della terra, dalle selve oscure del male, dalle tormentazioni del vivere sconvolto del nostro tempo. La raccolta di poesie “Euterpe” di Pantaleo Mastrodonato è tutta uno splendore di pensieri sublimi che seguono la via del Signore, i Suoi precetti. Diffusa e incrostata è la ruggine dell’arida terra, cosparsa di malesseri, delle tante contaminazioni. La luce di Dio fa considerare le tristezze della storia dell’uomo che ha sempre forti le radici del male, le ammorbanti nequità dell’egoismo, l’uno contro l’altro con violenza e insaziabile sete di sopraffazione. Pantaleo Mastrodonato, studioso, scrittore, poeta insigne è testimone della nostra era tecnologica. Abbiamo un processo di disumanizzazione con le brutture dei costumi, un materialismo inverosimile, non ci sono quei modi di essere che facevano dell’uomo un coerente seguace dei grandi principi di vita, delle fondamentalità etiche, dell’ esistenzialità moderata della civiltà rurale con le virtù della parsimonia, della laboriosità, delle capacità industriose. Il direttore della prestigiosa rivista Symposiacus è vicino alle tradi-
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zioni bibliche, alle grandi fonti della storia del cristianesimo, critico letterario con costante attitudine alla lotta contro il malcostume dei giorni nostri pervasi da aberrazioni e da ingordigia a danno delle misere condizioni degli oppressi. Le poesie di “Euterpe” con l’ armonia dei versi, con l’espressività esemplare, incisività e pienezza di significati sono sempre di illuminata invocazione e di benedizione elevate a Dio onnipotente. Si vuole una maggiore forza per un retto cammino, tutto infiammato da fede e da principi d’amore che porta verso i luminosi orizzonti la gente prostrata, desiderosa di aiuto. La giustizia in questo mondo pieno di peccati per creare rapporti di vicinanza e comprensione. II Abbiamo bisogno di semplicità, di collaborazione e di buon senso per eliminare le contrapposizioni che sono sorgenti di sofferenze, di angustie di ogni tipo. Quando si è privi di luce interiore, andiamo come vermi insaziati, presi da una dannata esagitazione che ci toglie pace e senso di speranza. Come sperduti nel buio non si ha un cammino che possa dare entusiasmo e prospettive di vita serena. Vuotaggini che chiudono qualsiasi apertura, senza possibilità di redenzione. La luce di Dio, sfolgorio infinito di amore, stimola energia nell’intelligenza e nell’anima delle creature generose fatte di bontà che vedono un mondo di eguaglianza e di bene. Dio protegge nelle disavventure della vita gli uomini che sanno lottare e migliorarsi con spirito di sopportazione. I versi discorsivi e di alta ispirazione hanno consistenza divina, sono voce in espansione, guardano lontano oltre i luoghi impantanati nei vizi. Una poesia che conosce le vie dove incontrare gli angeli messaggeri ultramondani di Dio-amore, che apre cammini di luce agli uomini di fede nemici delle oscurità di un mondo vano, delle desolazioni. La fede in Dio con ardore alimenta la complessità intellettiva di Pantaleo Mastrodonato, i suoi spazi di cultura, di ricercatore, di azione combattiva e di quotidiana passione a vantaggio di chi vuole elevarsi alla vita spirituale.
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Dio è sempre presente nei nostri pensieri e nelle nostre azioni. Pantaleo Mastrodonato in tutti gli scritti, di preistoria, di letteratura, di linguistica vive il senso del primigenio, tutto dominato dal culto per l’Essere invisibile e ultramondano. Fondamentali i legami con i Testi sacri in ogni branca del sapere, nulla rimane circoscritto: fonte prima i principi di creatività in una dinamica evoluzionistica che ci porta all’Essere Superiore. La fede in Dio è vitalità che prende ogni aspetto esistenzialistico. Tutto è spiritualità che si fa rapporto universalistico. L’uomo non conosce divisioni. In spazi sempre amplificati abbiamo i sentimenti, le virtù di fraternità, di umiltà e gli slanci di generosità che con l’illuminazione di Dio diventano elementi di lotta contro la volgarità dei nostri tempi, le disuguaglianze. I moti interiori della poesia di Pantaleo Mastrodonato sono sempre in sviluppo, creano vicinanze d’amore. Una soggettività ispirata che mira all’unione dell’Io-Dio e le materia in un amplesso di totalità creata. Una fermentazione di pensieri e di ansie si ha nei versi panteistici di “Euterpe” che si fanno inno solenne, preghiera misericordiosa verso Dio. Odio acerrimo contro gli uomini potenti che tengono sottomessi tutti quelli che languono in condizioni di povertà, di abbandono. Chi ha sete di bontà invoca per i bisognosi da Dio soccorsi fecondi di conforto, c’è un legame tra gli uomini di fede e Dio per risollevare il mondo moderno dai peccati da cui è infestato, dalle prepotenze che distruggono ogni senso di umanità. L’uomo moderno crede solo alla sua volontà empia e dominatrice, cieco nell’ intelletto, ha spinte sataniche, non sottomette a nessuno il suo giudizio. Ogni tipo di opposizione lo irrita, pronto a ribellarsi alle norme, a disprezzare le tradizioni, a disconoscere le convenienze pubbliche, i costumi più confacenti ai modi dignitosi di una vita giusta. III Il nostro tempo rigurgita di esaltati che non conoscono superiorità, non sanno di finire, non sanno di essere polvere e cenere. I superbi costruiscono su mobile arena l’edificio del-
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le loro aspirazioni, sono come Icaro che con le ali di cera aveva la presunzione di arrivare al sole. Si attribuiscono singolarità al di sopra di tutti, bisogna invece far uso della propria azione a beneficio degli altri. Si è nel pieno del materialismo, l’eternità della materia, il moto che nasce dall’inerzia, la vita che sorge dall’inanimato. Non si crede alla Provvidenza. Si vive in una solitudine sdegnosa, ci si appropria di quello che non spetta. I versi di “Euterpe” hanno una dinamica concettuale di elevato innalzamento, si allontanano dalle tristi situazioni del nostro tempo, avulso dai principi di un vivere equilibrato. La voracità porta l’uomo da una parte all’altra, ci si avventa contro tutto, come belve affamate. L’ uomo empio che non ha da perdonarsi i tanti difetti che mostra, guerreggia, va all’assalto con tutti i mezzi subdoli. Il peccato è un merito, la forza fisica pare sia sublimità spirituale. C’è della brutalità contro ogni senso del giusto e dell’umano. Le doti morali, la consapevolezza di sé, il senso di responsabilità sono frantumati. I miseri vivono di illusioni, i mutamenti desiderati sono promesse vacue. La serenità non può aversi temendo le insidie dei tracotanti. Solo la fede in Dio può far attendere un aiuto celeste. I precetti del sommo divino Signore, se seguiti, potranno alimentare una vita rinnovata, abbattere le tenebre che non conoscono onore e giustizia, far segnare un nuovo cammino. La poesia della raccolta “Euterpe” ha saggezza, altezza di pensieri che si amplificano nelle meditazioni. Si ha un processo continuo di perfezione nelle pagine di Pantaleo Mastrodonato, prodigato dall’ ardente amore verso la luce di Dio. Le grandi mete, i grandi progetti per il bene dell’ umanità vengono indicati da Dio. Occorre una convinzione radicata nel profondo di se stessi, una fede, costantemente rinvigorita, resa tenace senza tergiversazioni. Non fede esile, formalistica che ha solo dimostrazioni apparenti, ma fede che ravviva la vita di ogni giorno, che si tiene distante da tutti i sogni effimeri, privi di combattività. Pantaleo Mastrodonato sa che la nostra era tecnologica è solo fatta di meccanismo, rende l’uomo un
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essere manipolato che si sente sempre più nullificato in una esistenzialità nebulosa, fragile. L’individualità di un tempo costituita da una autonomia di pensiero e azione rimane affievolita. L’uomo non ha libertà di estrinsecarsi nelle sue capacità, è un soggetto lacerato senza una propria cultura, sperso in una vacua scienza. L’egoismo rende l’uomo come un lupo, nemico famelico del prossimo. Un istintivismo agguerrito che fa crescere l’amor proprio e tutte le passioni più deplorevoli. L’ umiltà, il senso della generosità si avvicinano all’amore che Dio ha verso i semplici. Importante la schiettezza dei modi fatta di coerenza, di onorabilità, di ampiezza di consensi e di basi omogenee di collaborazione a vantaggio della comunità intera. Pantaleo Mastrodonato nei suoi versi si richiama all’aiuto di Dio, ha un odio acerrimo contro gli esaltati sempre insoddisfatti, usurpatori di beni materiali. IV Le verità supreme ci fanno vedere Dio dalle sommità dell’infinito Universo, Lo sentiamo in un oceano dilagante di Luce. Gli uomini falsi trovano i modi di contrasto per affermare la loro presunzione. Senza ricorrere all’amore del Signore, alla sua protezione vivono di vanità, di illusioni, vaneggiano, non sono certi di quello che fanno, increduli sono irrequieti, non sanno quello che vogliono, non pongono mente alla importanza dei Decreti del Cielo. L’ipocrisia è l’arma degli empi, amareggiano gli afflitti, le persone timorate di Dio. Gli ideali sono le passioni, non credono alle grandi testimonianze di eroismo che hanno reso immortali tanti personaggi della storia umana con il sacrificio della loro vita per difendere i popoli oppressi dalla prepotenza delle tirannidi. I versi della raccolta “Euterpe” di Pantaleo Mastrodonato esaminano in profondità tutti gli aspetti deprimenti dell’era moderna. Se ciascuno prendesse solo l’ indispensabile per provvedere alla propria esistenza e lasciasse il superfluo non si avrebbe né ricco né povero. I beni terreni servono solo quando si usano. Il consumismo, la corsa ai divertimenti, tutti i mezzi meccanici usati con
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sregolatezza deprimono le facoltà umane, portano al materialismo eccessivo, ai processi di massificazione, ai camuffamenti, agli stravolgimenti, all’anonimato. Il mondo di oggi in gran parte vive lontano dalla luce di Dio, ha manifestazioni svirilizzanti, ha un progressivo svuotamento di ciò che costituisce l’ essenzialità della nostra natura. Un disordine e un disorientamento dentro la struttura razionale. La modernità nelle sue esagerazioni genera incentivi di corruzione. Il cielo, lo spazio infinito dell’Universo, lo vediamo come specchio, passiamo con lo sguardo su di esso, ci osserviamo dentro nella nostra interezza. Parti di terra indurite sopra le membra che ravvolte paiono stracci. Il cielo azzurro appare sulla nostra faccia un grande velo in diffusione, terso. Illumina le parti rotte, brandelli fuori dalla pelle con tante lacerazioni. Tanti, isteriliti per la mancanza assoluta di spiritualità, brancolano come vermi con il muso infossato, tra fango e luoghi sabbiosi. Non guardano il cielo, tramano agguati nelle tenebre della notte. Abbiamo un mondo infestato da uomini inconsistenti, senza vita e senza religione, spersi in solitudine e in smania di divagazioni. Solo il piacere materiale, conseguente alla insoddisfazione degli animi. Non si è comunicativi, solo egoistici, dissolti, immorali. Le espressioni rudi e avvizzite. Si manifestano la sete di godere, i momenti di gaudio, un diffuso torpore che si accompagna all’ impuro. Dio, il creatore dell’Universo e di tutti gli esseri non riconosce gli uomini di questo mondo che pare capovolto. La terra sconquassata dai mali, da miserie di ogni forma. Tanto lerciume, temperamenti snervati e inettitudine, assenza di sentimenti e di buoni propositi. Dio vede con sofferenza le bestialità immani degli uomini che non hanno usato con saggezza la beatitudine spirituale connaturata nel proprio essere. Adamo ed Eva mandati via dal regno dei cieli e lasciati vivere sulla terra piena di mali, di miserie. Pantaleo Mastrodonato con le sue virtù di purificazione s’incammina seguendo i principi di una giusta vita verso la dimora di Dio. I suoi tormenti per le rovine di questo mondo lo
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conturbano, si rivolge al Signore, alla Sua santa benevolenza per vedere risollevati i popoli maltrattati dalle violenze e dalle ingiustizie. Il Signore dell’Universo con le sue indulgenze assicura tranquillità e tempi migliori agli uomini delusi dalle false speranze. Solo Dio può sorreggere con il suo amore nelle avversità di cammini spinosi. Con sensibilità tante le voci accorate di fronte agli sconcerti delle infamie. Le poesie che risplendono di luce divina di Pantaleo Mastrodonato rincuorano e ritemprano le anime abbattute. Il viziato, l’avaro, il superbo perdono l’aspetto umano, andando per le esagerazioni e gli eccessi, fuori dalle norme naturali. Oggi si vuole che la virtù non esista, la coscienza è considerata un nome, la morale un fantasma, il materialismo vede l’uomo costituito di terra organizzata. La coscienza rimane compressa, gli echi che si innalzano da essa vengono assopiti e affogati col rumore e la gazzarra, quando sprofonda nei gravi abusi, rimane oltraggiata l’autentica natura umana. Il male della terra è dovuto ad una catastrofe morale. V Iddio non conosce gli uomini estasiati e abbattuti, viziati, senza anima, solo membra rigonfiate di grasso., lerci, chiassosi. Gli uomini accecati da follia, che non guardano i beni dell’Eterno infinito, né capo né coda, rotolano a caso. Iddio è lontano dagli uomini che sono legati alla crosta della terra, che pensano di essere venuti come le piante dai semi, dalla fermentazione dei germi. Iddio non sa i tempi finiti dell’uomo insensato che si smarrisce per le strade sconnesse, per cammini sbarrati. Iddio non conosce l’egocentrismo e la ferocia dell’uomo che non crede al Creato. La fede porta l’uomo al tempo primigenio, alle origini dell’umanità, alla creazione di Adamo che ha fatto trovare in ciascuno di noi la presenza di Dio. Il Signore ha dato all’uomo la libertà di agire con la propria volontà. La fede, al contrario dell’incredulità, è un rispetto di fiducia verso Dio che concede, in virtù del suo amore per tutti gli uomini, il perdono dei peccati che rappresenta un rinnovo della vita, attraverso
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la grazia concessa. Si ritorna a Dio convertito, l’uomo pentito vede riaperta la vita eterna. Ci si allontana dal mondo delle tenebre per appartenere a quello fatto di pace e di pura gioia, con la salvezza dell’anima. Il nostro spirito si unisce allo spirito di Dio nel momento in cui il nostro cuore grida la volontà di essere salvo. L’uomo preistorico non appartiene alle scienze evoluzionistiche, è l’ uomo biblico, discendente di Adamo. La Creazione è basata su fatti, diversa dall’ evoluzione di Carlo Darwin, costituita da pura immaginazione e da teorie. Con la Creazione tutto l’Universo è in una situazione che comporta l’intervento personale sia di Dio che dell’uomo. Il poeta Pantaleo Mastrodonato con la presenza della forza divina, spirituale di Dio vede nella chiarezza tutta una realtà che sentiamo nel nostro spirito, non c’è il senso del mistero che chiude la possibilità di conoscere l’origine dell’Universo, una specie di sospensione del pensiero. Tutto si spiega e toglie ogni dubbio, si illuminano la verità della Parola di Dio, l’Eterno, la vita dell’uomo nell’Aldilà. Dio ha creato l’uomo mettendogli vicino la Sua propria vita, gli ha concesso la libertà di azione e l’autonomia di pensiero. Se Dio considera l’uomo identico a Gesù Cristo, la Sua volontà è immutabile, dà luogo ad una verità assoluta, l’uomo a immagine di Dio. Siamo lontani dalla religione positiva di Augusto Comte, non è Dio che ha creato l’ uomo, è l’uomo che ha creato Dio. Al posto dell’Essere Supremo si ammette il Grande Essere di natura umana che sintetizza tutti gli esseri pensanti, tutti i grandi pensieri, tutte le sensazioni e azioni umane passate e future, tutte le opere generali dell’Umanità d’ogni tempo. Le buone opere effettuate nella vita sono perpetue, trasmesse dai viventi alle successive generazioni. Il positivismo di A. Comte è nemico dei dogmi cristiani. La metafisica è astrazione, scienza dei fantasmi. La religione positiva è legata alla concretezza del vivere, al progresso, alla felicità, all’amore dell’Umanità. Pantaleo Mastrodonato ha versi nella raccolta “Euterpe” che sono sculture, manifestazione rappresentativa di virtù, di
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miserie, di grazia, di elevazione della vita alle mete dell’Eternità. Lo scrittore, direttore, saggista di Symposiacus nei versi di “Euterpe” ci fa ricordare insieme ai tormenti degli uomini oppressi dalle malevolenze di oggi la sua vita di lotta avuta in anni iniqui del passato, l’ardente fede e le azioni di piena dedizione gli hanno dato la pace dell’anima e i giorni sereni. La terra ha bisogno dei doni e della bontà di Dio, non sarà dura e aspra la vita in questo atomo opaco del male se si cammina con l’Eterno, se si innalzerà al cielo lo sguardo implorante e penitente. I versi della raccolta “Euterpe” hanno slanci divini, la fiducia nella luce di Dio porta ispirazione e espressività in pienezza di vitalità, una religiosità feconda di meditazione e di pensieri raffinati. Si vuole che il cielo si incontri con la terra, illuminandola là dove c’è vastità di malefatte, dove l’uomo moderno non sa ritrovare i beni che possono venire dalle virtù connaturate oggi andate in frammenti. Si devono costruire cammini dai grandi orizzonti che facciano intravedere la vicinanza di Dio, il suo amore per tutti gli uomini. Dobbiamo avvicinarci alla saggezza di Pantaleo Mastrodonato, alla sua perseveranza nel seguire i precetti divini che ci rendono sensibili ad avere in noi le energie più vere. In questo secolo che ci travolge con le scoperte tecnologiche, con fermezza e coraggio prepariamoci ad una rivoluzione spirituale per abbattere le perversità moderne, le realtà confuse che snaturano il proprio essere, riducendolo a larva, ad automa privo di tutta la originaria natura divina dataci da Dio. Leonardo Selvaggi
ROSA DI ROVO Fiore umano genuino, il viso reclinato di margherita piegata sullo stelo. Come è dentro così è sulla faccia chiara, dolcezza sono gli occhi. Una filippina, rosa di rovo, poche cose per lei e ne riversa tante da un vaso aperto. La sua terra affaticata di lavoro e di miseria.
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Lieve sorriso occhieggia dalla superficie acquitrinosa e malsana. Il canto della Natura intatta, paesaggi e intorno le fanciulle innalzano nel silenzio inni agli dei della vita. Tanto amore riempie le case, trionfo della fedeltà, l’uomo è il suo Signore, adorazione di ogni giorno. La filippina fa della casa un nido, va dentro di questa a piedi nudi riscaldando la mobilia e il pavimento. Aspetta il suo ritorno, le pietanze fumiganti sul tavolo, non vuole nient’altro se non lui contento: i piatti allineati per grandezza, a terra l’odore del pulito. La vedi alla ringhiera uccello felice mentre frettoloso lui vicino al portone. Entrare fra le pareti vuol dire penetrare la sua candida persona. Gli occhi languidi, lisci i capelli di una bambola immutabile fra le suppellettili ordinarie. Leonardo Selvaggi Torino
Il lupo stava nell’ovile a scegliere la sua vittima leccandosi i baffi i anticipo quando il pecoraio senza badare ai belati delle sue pecore partì in una foresta lontana alla caccia ai lupi perché gli importava molto che non ci fossero più lupi in questa foresta Così talvolta i politici francesi più preoccupati a quanto pare che sia possibile di recitare Le Fanatisme ou Mahomet le Prophète in Sira che non nel paese di Voltaire Béatrice Gaudy N. B. Voltaire (1694 - 1778) ha scritto “Le Fanatisme ou Mahomet le Prophète” (“Il Fanatismo o Maometto il Profeta”) nel 1736. Questa poesia fu scritta il 6 luglio 2016, pensando alle stragi passate e a quelle da temere nell’ avvenire. Il 14 dello stesso luglio, un attentato a Nizza ha fatto 84 morti e più di 200 feriti.
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I POETI E LA NATURA - 59 di Luigi De Rosa
Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)
“SETTEMBRE, ANDIAMO. È TEMPO DI MIGRARE” I PASTORI DI GABRIELE D'ANNUNZIO (1863 – 1938)
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ià mi sono occupato di D'Annunzio nella puntata precedente, per cui rimando alla stessa per le brevi note biografiche riguardanti il Vate. Qui mi limito a ribadire il concetto che, ai giorni nostri, se ancora c'è un interesse forte per D'Annunzio (a parte, è ovvio, quello degli studiosi) è dovuto alla freschezza e all'originalità di linguaggio di tante sue liriche. D'Annunzio lirico resiste. Sfrondato della ingombrante paccottiglia di retorica che poteva stupire il pubblico di lettori di allora ma ne può rovinare l'immagine e la resa artistica sul piano assoluto.
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Come sono belle le liriche contenute nelle Laudi! Questo mese ne prendiamo in considerazione una, tratta dal Terzo Libro delle Laudi, Alcyone, pubblicato nel 1903. E precisamente “I pastori”, dedicata ai pastori della terra d'Abruzzi, la stessa terra di D'Annunzio, pescarese. L'incipit è famoso: “Settembre, andiamo. E' tempo di migrare.” Anche quest'anno è arrivato settembre, l'estate volge al termine. Concetto che vale sia per la Natura e per i suoi accadimenti che, metaforicamente, per la vita dell'uomo. Soggetta a cicli, a corsi e ricorsi, e necessitata a seguire il cambiamento, il rinnovamento, in sintonia con la Natura. Nello specifico D'Annunzio, ormai quarantenne, sulla cresta dell'onda nella società romana ed oltreromana come poeta ed uomo pubblico, si ricorda delle proprie origini abruzzesi, e della magiche bellezze della sua Regione, del magnifico aspetto “estetico” anche di riti e mestieri portati avanti nel grembo della Natura ed in collaborazione con la stessa. Per un attimo si scopre malato di nostalgia, in quanto uomo di successo ma sradicato dalle proprie origini. Però niente défaillance,
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niente crisi. Il momento è superato alla grande, col piglio sicuro del grande lirico, padrone della lingua e artista che padroneggia vocaboli e sentimenti. Il poeta rievoca la transumanza, e cioè la discesa delle greggi, sul finire dell'estate e col presagio dei primi freddi, dagli stazzi e dai pascoli sull'Appennino fino alla pianura, fino al litorale del mare Adriatico, verde e selvaggio come i monti (unicità del paesaggio, avvolto in un unico abbraccio d'amore). Vista a posteriori, dopo tanti anni, la cosa appare patetica, se si pensa che questo non avviene più nel modo descritto dal poeta, in quanto il tutto viene eseguito in modo pratico e non poetico con l'utilizzo di camion e di altre possibilità pratiche ed efficienti. Ma allora addio alle profonde bevute a fonti alpestri? Addio al rinnovamento di verghe di avellano (bastoni di nocciòlo)? Addio discese a piedi, insieme agli animali belanti, per una specie di erbal fiume silente, lungo il tratturo antico, sulle orme dei propri padri e antenati ? Addio voce di colui che primamente/ conosce il tremolar della marina? (verso bellissimo ripreso da quello di Dante nel Purgatorio). Il poeta ci accompagna fino all'arrivo delle greggi e dei pastori al piano, al litorale marino, e ci fa quasi vivere insieme ad essi, rievocando isciacquìo, calpestìo, dolci romori, per cui ci sentiamo quasi i piedi bagnati, proviamo sensazioni vivissime, sia acustiche che visive (prima ancora che razionali). Cosa del resto pienamente coerente in una visione naturalistica e sensuale come quella dell'artista abruzzese...E si pensi alle antenne vibratili di un D'Annunzio “moderno”, precursore di un cinema d'arte, creatore di sensazioni fotografiche, visive, auditive e tattili, in un quadro poetico di sensibilità totale ed esasperata. Una ubriacatura panica di sensi in un quadro di unità biologica, psicologica ed artistica senza pari. Il tutto come sospeso in un tempo senza tempo, dove perfino l'aria è senza mutamento. L'esclamazione conclusiva della composizione sembra tradire comunque una certa sin-
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cerità di intenti del poeta, al di là del suo decadentismo ed estetismo: “ Ah, perché non son io co' miei pastori?” Non ci risulta però molto facile credere senza riserve alla sua “sincerità”, se ripensiamo alla sua ideologia di potenza dell'individuo e di ricerca del successo ad ogni costo, al suo modo di porsi di fronte agli altri uomini e al mondo. Almeno, fino alla prostrazione seguita al decadimento sopravvenuto nell'ultima parte della sua vita, alle ferite militari, alle traversie “teatrali” con donne e debiti. Fino ad allora persisteva l'immagine di un poeta onnipotente, padrone assoluto della sincerità o della mistificazione retorica in nome dell' Arte. Luigi De Rosa
NEL MIO LETTO DI PENA fosse questa l’ultima sera, l’atteso ritorno di volti e parole desuete dovute all’estremo passaggio: il sorriso materno, di mio padre lo sguardo buono; poi risme di carta, file dei banchi, magìe crescenti di libri, le nenie intonate col nonno. Potessi dal greto del fiume il verde chioccante riudire delle rane, i ragli dormienti destati da sbalzi di sassi e strascinanti attriti del suolo - ruote cerchiate del carro colmo di sabbia, pronta consegna domani all’alba. Nel flusso nero del fiume silente cogliere bianche scaglie e in silenzio ringraziare la luna, spia di scarabei sotto un lavello, lume alla veglia di farfalle e libellule impazienti del volo. Piera Bruno Genova
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Recensioni TITO CAUCHI MICHELE FRENNA NELLA SICILIANITÀ DEI MOSAICI EdiAccademia, Isernia 2014, Pag. 192, F.c. Un incontro avvenuto senza preavviso il 19 agosto 2008 e da lì un’amicizia illimitata per poter poi stendere un ragguaglio, una dimostrazione pragmatica verso tutto ciò che ha saputo creare un discepolo dell’arte musiva, Michele Frenna di Agrigento visto dal critico professore Tito Cauchi di Gela, provincia di Caltanissetta; ovvero due siciliani, due portenti per un’unica opera letteraria che racchiude l’intero vissuto dal maestro ormai scomparso. Dopo questo preambolo è necessario dire che la strada del mosaicista è e sarà sempre abbastanza ‘pietrosa’ nel vero senso del termine. Le qualità per essere un buon artista di questo settore sono innanzitutto la pazienza, la dedizione, la passione, il buon gusto, la precisione e quant’altro possedeva il maestro Michele Frenna (1928-2012).
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È stato un nome che prima o poi abbiamo conosciuto tutti, perché in molti tra le personalità più altisonanti del campo artistico e letterario si sono occupati di lui, di passare al vaglio le sue numerose opere veicolate negli anni tra le pagine di riviste, cataloghi d’arte, annuari, saggi monografici a lui dedicati, agende, libri, antologie, depliant illustrativi. Lui è stato, senza enfasi, un uomo eccezionale soprattutto nell’ambito della sua famiglia e nel carattere conciliante che aveva: schivo, sognatore, di una sensibilità interiore di cui noi abbiamo constatato solo la punta del suo iceberg, custode delle tradizioni, amante delle cose antiche e del passato. Era del segno zodiacale del Cancro sì, e le sue visioni le ha impresse nell’arte del mosaico, difficile e assorbitrice di tantissima attenzione da parte di chi la esercita. Il mosaico si può realizzare con le pietre dure, con le lamine dei metalli, la ceramica, la madreperla, la terracotta, pietre naturali, paste vitree; e Ravenna, in Emilia Romagna, è una consegnataria di questa tecnica che ebbe il suo apogeo nell’epoca paleocristiana e bizantina. C’era il Sacro Romano Impero, di cui quello d’Oriente fu più longevo di quello d’Occidente, con l’imperatore bizantino Giustiniano e la sua consorte-consigliera Teodora, allorquando proprio l’arte bizantina si espresse in tutta la sua fulgidezza visibile tuttora nelle chiese di San Vitale e di Sant’Apollinare in Classe a Ravenna, tesori di straordinari mosaici. Il suo - del maestro Frenna – è stato un cammino iniziato nel “1973, che può essere considerato quello della nascita artistica (è nato invece il 10 luglio 1928) una sua personalità inconfondibile che non gli deriva da nessun maestro e da nessuna scuola, ma solo dal suo istinto e dal suo sentire genuino.” (Dal libro I mosaici di Michele Frenna di Carmine Manzi, Edizioni Gutenberg, Anno 2000, Edizione fuori commercio, a pag. 15). Vulnerabile e profondamente ricco di una miniera interiore a noi sconosciuta, Michele Fenna iniziò quel suo percorso pietroso, ma nel suo caso ‘vetroso’, che è durato fino alla fine dei suoi giorni: “(…) fino a mercoledì 3 ottobre ha tagliato ed ha applicato i piccoli tasselli di vetro per realizzare il volto di Padre Matteo La Grua. L’opera è rimasta incompiuta. L’artista è tornato alla Casa del Padre venerdì 5 ottobre 2012.” (Dal saggio di Tito Cauchi, a pag. 170). Così quando un artista muore sul campo vuol dire che qualcosa di lui rimarrà sospesa fra il Cielo e la terra: la sua opera rimasta incompiuta, come la “Pietà Rondanini” (seconda versione) di Michelangelo Buonarroti che la scolpì quasi lui novantenne, rimarrà per sempre l’opera antecedente l’ultimo ‘viaggio’ che poi ha compiuto il
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maestro Frenna. Laborioso fino all’inverosimile, ha lasciato a noi opere che continuano e continueranno a parlarci del suo mondo tenuto da lui protetto il più possibile perché lui era fatto così; tutto si sentiva di proteggere dietro quella sua corazza cancerina. Entrato nel Corpo della Guardia di Finanza vi restò per ben trent’anni, fino al 1978 e per il resto della sua vita terrena ha conservato l’integrità sua di uomo e una sconcertante umiltà, che ancora trapelano dai suoi lavori, così come è trapelata la tragedia della prematura dipartita della prima figlia Rosanna, morta nel 1988 per un male incurabile. “La scomparsa della primogenita, Rosanna nel 1988, ha segnato un discrimine nella tematica creativa che si è fatta più pensosa (Rimembrando, Ragazze sulla spiaggia, Allegoria fantastica, Allegoria divina, Madonne, Madonna di Lourdes, Pensieri, mosaici su Gesù, ecc.). La residenza di Palermo dal 1965 lo ha reso estimatore della città e devoto anche alla sua patrona, Santa Rosalia.” (Dal saggio di Tito Cauchi, a pag. 145). Ma il Cielo che vede tutto e che a tutto provvede, ha elargito al maestro Frenna il dono di una collaboratrice assennata e devota, nonché sua figlia minore Gabriella, poetessa e scrittrice, che si è sempre occupata della parte letteraria del lavoro artistico paterno, di curare le disamine accumulate negli anni provenienti da ogni parte d’Italia e dall’estero, così da realizzare e far realizzare volumi che spiegano, a livello di critica, le numerose opere a mosaico del padre. “I due Frenna, non vorrei ripeterlo, sono due entità autonome, fanno un binomio tra immagine musiva (di Michele) e descrizione poeti-
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ca (di Gabriella), ciascuno nella propria dimensione: due linguaggi, una sola voce!” (Dal saggio di Tito Cauchi, a pag. 67). La semplicità dimorava nel suo animo e lui è rimasto uomo-fanciullo fino all’ultimo. Ha prediletto scene di lavori artigianali, di nature morte, di ‘sicilianità’ con il classico carretto, il tempio della sua città natale Agrigento, il simbolo della Trinacria, scene di vita quotidiana, la serie dello Zodiaco, di spiritualità cristiana, ritratti di santi a cui era fortemente devoto, di personaggi storici come Cristoforo Colombo e Giuseppe Garibaldi, ritratti delle sue adorate figlie, delle maschere, della Sacra Famiglia ed altro ancora. Dietro le quinte di questo estenuante ma appassionante lavoro, la verità è conosciuta solo dalla moglie Rosa, dalla figlia Gabriella e da lui quando era in vita, e cioè che quando dovevano preparare i tasselli di vetro chissà quante volte hanno rischiato di farsi male alle dita. “Immaginiamolo nel cantuccio del suo laboratorio, in solitudine, mentre prepara i minuscoli tasselli di vetro colorato, ha in mente la sua creazione, badando a eseguire il taglio perfetto dei minuscoli cocci e a non tagliarsi lui stesso, così la moglie o la figlia quando gli stanno vicine, badando anche loro a non tagliarsi. Solo un poeta come Carmine Manzi, poteva evocare un’immagine così cara e affettuosa.” (Dal saggio di Tito Cauchi, alle pagg. 53-54). L’argomento Frenna è inesauribile: si continuerà a parlare di lui e dei suoi inconfondibili mosaici domani, e ancora domani con la freschezza di sempre uguale a quella delle sue traslucide tessere di vetro, da lui stesso preparate perché voleva imprimere nel suo lavoro – e infatti le ha mirabilmente impresse – l’alacrità e la correttezza del suo essere prima uomo e poi semplice grande Artista! Isabella Michela Affinito
Immagini: Il Maestro Michele Frenna nel suo studio di Palermo e due dei tantissimi suoi splendidi mosaici.
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ANNA VINCITORIO BAMBINI Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2016 Uscita dalle righe dei classici temi poetici, la poetessa partenopea - ma da sempre residente a Firenze - Anna Vincitorio, ha preso parte all’edizione 2015 del Premio Letterario Internazionale “Città di Pomezia” con la raccolta di poesie che ha superato ogni immaginazione ed ha meritato il 2° posto. L’ immaginazione è stata travalicata è vero, ma solo perché la porzione di mondo verseggiata dalla Vincitorio è ben lungi dalla gioia e dalla spensieratezza, anche se ha a che fare con l’infanzia. È una porzione di mondo che purtroppo è stata defraudata, svilita, dove gli abitanti non sono più considerati esseri da proteggere, da consolare, da amare, perché ancora in tenera età, fanciullini, bensì “abbandonati, invisibili, considerati oggetto, sadicamente usati, sfruttati. Un mondo estremamente tragico, grottesco, violento, crudo quanto è possibile trovarlo solo tra gli umani”. (Dalla Prefazione del Direttore Domenico Defelice a pag. 2). I bambini non fingono le loro emozioni, sono senza maschere, per loro tutto è novità, svago e si accontentano di giocare alle volte, in mancanza di veri giocattoli, con l’ausilio della fantasia e grazie ad essa possono avere tutto, anche se poi fra le loro mani non c’è neanche un pallone. Fin qui potrebbe ancora essere accettabile il mondo dei bambini, senza giocattoli; ma da qui al mondo in cui vengono costretti “a maneggiare ed usare le armi, ad uccidere e a farsi uccidere, a massacrare spesso anche i propri genitori. Abbiamo bambini soldato in Sierra Leone, in Sudan, in Birmania, in Palestina, nel Congo, in Guatemala e in tante altre nazioni: bambini soldato africani e asiatici e sudamericani”. (Dalla Prefazione del Direttore pag. 2). Allora, la poetessa Anna Vincitorio, che essendosi laureata in Giurisprudenza ed ha insegnato materie giuridiche, si è schierata dalla loro parte difendendoli tutti; difendendo i diritti dei fanciulli con o senza voce, con o senza sorriso, con o senza i genitori, con o senza giocattoli. In questa sua silloge lei è un avvocato-poetessa con in una mano il grande libro delle leggi universali, e nell’ altra la penna con cui ha scritto i suoi versi che non finiscono come semplici parole stampate sulla carta, ma suscitano domande che partendo interiormente, si fanno poi protagoniste per delle profonde riflessioni ad alta voce. “Cosa porti negli occhi, bambino?/Cosa porti sul cuore?/Un sacchetto, un santino, una medaglia, un fiocco,/Ci sarà un domani,/un ritorno?/Due braccia cieche/non hanno saputo trattenerti/Due occhi vuoti di tragico pianto/ti hanno visto inghiottire/Tenero, indifeso, solo”.
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(A Pag. 10). Per attimo lei, l’autrice, la immaginiamo come la compassata donna che rappresenta “La Giustizia”, dipinta da Piero Benci detto il Pollaiolo (1443 - 1496), fratello di Antonio del Pollaiolo, nati a Firenze e vissuti fino agli albori del Rinascimento italiano. Nel dipinto c’è una donna austera, seduta maestosamente su un trono altamente prospettico, ed impugna con la mano destra una spada sguainata, con la sinistra tiene fermo un piccolo globo terrestre che, nel nostro caso, è il mondo dei piccoli. Lei, tornando all’autrice, obiettiva e senza riserve, non ammette vie di mezzo, non perdona, non può perdonare gli oltraggi di nessun genere, nemmeno quelli che indorano la realtà a tal punto da far sembrare normale un addestramento per la guerra impartito ai bambini. “Orma che s’ affossa/in sconfinate paludi/È un gioco di scacchi/la baby armata:/l’orgoglio la esalta,/il sogno la rimpingua,/la realtà l’uccide/Cade il fante/vince la torre/ tra sibili di vento/si dipanano le nenie/delle madri sole,/care all’infanzia/Non vi stringono al seno,/ orfano il corpo,/conche vuote le mani” (A pag. 7). La poetessa Vincitorio non ha partecipato al Concorso Letterario “Città di Pomezia” sperando di ottenere buoni risultati con la dolcezza, con l’ amabilità di parole ispirate a tutto ciò che di bello circonda o dovrebbe circondare tutti i bambini del mondo. Lei ha pensato ad una silloge-denuncia più che altro per riuscire a penetrare le coscienze. Non ha guardato all’estetica, alla mellifluità, ma allo spessore del tema trattato perché oggi più che mai il bambino spesse volte è già solo fin da quando si trova nel ventre materno; giacché con la questione scabrosa che ha provocato molte discussioni - dell’utero in affitto, il futuro neonato non si trova esattamente nel grembo della madre nel vero senso degli eventi, e comunque questa è un’altra storia. Quindi, una cosa è certa che “Dormi fanciullo/nell’anfora fiorita/come il ventre di tua madre/Il pianto insegue le stelle/e vara spazi verdi/nell’azzurrità di cieli/mai conquistati/Tu sorridi, forse/nel tuo sonno/di tempi lunghi/come i silenzi”. (A pag. 15). Isabella Michela Affinito
GIOVANNI STEFANO SAVINO VERSI A BASSA VOCE Gazebo Editrice, Firenze, 2016 Da anni Stefano Savino (pseudonimo di Giovanni Benocci) va pubblicando il suo diario lirico in più volumi, con assidua limpidità di canto. Ai libri già pubblicati ora se ne è aggiunto uno nuovo Versi a bassa voce, nel quale questo poeta ha raccolto i testi scritti dal 5 febbraio 2015 al 5 gennaio 2016.
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Quella di Savino è una poesia introspettiva, nella quale egli parla di sé e dei suoi giorni, che sono quelli di una vecchiaia tarda, ma ancora lucida e operosa. Ciò che subito colpisce in questo libro è la schiettezza del verso, sempre ben ritmato sull’onda dell’endecasillabo, con il quale l’autore si confessa in maniera semplice e piana, fermando i pensieri che gli suggeriscono gli eventi anche minimi della sua giornata, oramai senza più vasti orizzonti: “La mia / vita ripete, non inventa, i giorni / … / Mi parlano, nel buio ancora sveglio, // ancora dentro il ricordo di un’alba, / a mezzo in una via solitaria” (Ho gambe, braccia, mani, e mangio e dormo). Sovente le poesie di Savino si concludono in maniera ferma e netta, il che conferisce loro maggior vigore. Si veda, ad esempio: “Odo crescere l’erba nella conca” (I miei ultimi versi sulla carta); “Il tempo passa come ai ponti l’acqua” (Riprendo un foglio e le sillabe batto); “Dimentico il mio passo sulla strada” (Perdo i versi da mettere su carta); ecc. La condizione del poeta, chiuso com’è nella sua solitudine, è ormai statica; ma egli riesce a renderla varia inseguendo il corso dei suoi pensieri ed evocando stagioni e vicende della sua vita: “La vita mi servì per imparare / quell’andare mio solo, da lampione / a lampione, alle prime ore del giorno” (La vita mi servì per imparare); “Oggi mia madre mi guarda, il colore / dei suoi occhi, tra me e le cose, sfila, / lo ritrovo nel fondo del bicchiere…” (Il foglio resta bianco sulla macchina); “conobbi un tempo una donna, Vittoria” (Anche questa mattina, sulla conca); ecc. In questa sua condizione di solitudine e di abbandono ciò che resta a Savino è la consolazione della parola poetica, che lo ravviva e lo salva, consentendogli di comunicare con i propri simili e facendolo ancora sentire uomo fra gli uomini: “Cerco parole, chiuso in queste stanze” (Sotto al tavolo il sole si distende); “Se scrivo, vivo” (Ivi). Pochi gli eventi della sua giornata, come un raggio di sole che accende i vetri della finestra o i rintocchi delle campane di S. Croce. Ma sono quelle le parole di vita che ancora resistono in lui, come la luce dei lampioni che s’accendono a sera, dando una nuova immagine al mondo. Ciò che Savino si porta dentro è la gioia dei ritmi che egli ferma sul foglio; ritmi che danno un senso al suo spoglio esistere. Le sue sono poesie di pochi versi, ma intensi e composti con uno stile discorsivo ma asciutto e ridotto all’essenziale, spontaneo e senza forzature: “Scende la sera. Giro intorno al tavolo / e mi siedo. Esce anche questo giorno / dal calendario. / … / E la sera mi svuota la memoria / e un filo d’erba tra le labbra tengo” (Scende la sera);
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“In sillabe mi chiudo” (Siedo davanti alla finestra, il sole). Il suo stato è quello di una calma tristezza, mai d’ira o di disperazione, perché Savino ama la vita e sa coglierne l’estremo bene. “In un verso mi chiudo, mi nascondo, / e nella conca, sugli ulivi, splende / il sole” (In un verso mi chiudo, mi nascondo). A volte lo coglie come il sentimento di una più fondo scoramento: “Non ho più giorni, e non ho più parole, / riempito come sono di silenzio” (Miei i versi scritti e raccolti sul tavolo) e lo abbuia il monotono scorrere delle ore sempre uguali: “Passo ogni giorno tra i quadri attaccati / alle pareti, i libri, e più non torna / l’acquisto, il dono, ha roso tutto il tempo” (Passo ogni giorno). Lo legano però e lo rianimano i sortilegi della memoria: “… ma custodisce il passato volti, mani, / voci, in case di amici, nel silenzio / d’una chiesa e davanti ad un affresco / di Giotto o di Masaccio. Si dilata / in me lo spazio, colgo voci amiche” (Se la memoria); e tornano le parvenze gentili di coloro che più ha amati e che all’improvviso si riaffacciano alla mente per poi scendere ancora nel buio: “… ed entro nel silenzio di mio padre // e di mia madre, in un consumo d’ ombre” (Scrivo versi che butto nel cestino). Lo grava talora con maggiore intensità il peso degli anni (“Sento il peso dei novanta”, Non so se sette versi) e lo rende inquieto (“Io siedo al margine della mia vita; / le sillabe non conto più, misuro / la fine”, Io siedo al margine), mentre avverte su di sé il rapido fuggire del tempo (“Il tempo passa come ai ponti l’acqua”, Riprendo un foglio e le sillabe batto). Savino sa opporsi tuttavia alle ingiurie dell’età e sa godere delle pur piccole gioie che ogni giorno gli dona: “non cedo al tempo: resisto. / … / Se scrivo / sono col sole sul verde dei campi; / all’ombra degli ulivi nella conca, / … / ed attendo la luce dei lampioni” (Non cedo al tempo: resisto). Un poeta vero Giovanni Savino, che conduce ogni giorno la sua battaglia contro le ombre lunghe che si protendono sul suo cammino e che sa trovare ogni volta un appiglio che lo salva e lo fa risorgere a un’alba nuova. Egli è consapevole del lungo destino di tenebra che l’attende (“Nel buio perderò il nome e la sorte, / diverrò un numero, un resto…”); ma è anche certo che in quel buio porterà con sé “la luce che risplende / sulle mani, sul tavolo, sui libri” e che vedrà ancora da lontano (gioia degli occhi) a rallegrarlo “il verde degli olivi” (Mi porterò la luce, che risplende). Sembra un sogno, ma in lui quel sogno diviene una certezza, più che una speranza. S’illumina di purissima luce. Così, tra malinconia e pacata rassegnazione, Savino si guarda intorno e raccoglie il flusso armonio-
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so dei suoi pensieri. Resta in lui la gioia del canto, che offre a chi gli si accosta e serenamente l’ ascolta: “Pensami, se mi leggi, in una stanza / dove passo il mio giorno, e siedo e scrivo, / o penso a un volto amico, e scrivo versi, / o mi guardo al muro, ricevuto il dono, / quando andavo per vie a me note, a case, / e volti e mani, e facile era il passo // sotto l’ombrello in un giorno di pioggia” (Pensami, se mi leggi, in una stanza). L’animo suo a quei pensieri s’illumina. Elio Andriuoli
panti, aggressive e minacciose. Ma la tragedia è solamente accennata; ci distoglie dal dramma lo sguardo straniato dell'autore, la sua ironia a tratti bonaria e a tratti corrosiva, lo stile elegante e il ritmo sinuoso, mosso però mai agitato, che coinvolge il lettore in una specie di danza che sfiora l'abisso senza precipitarvi: “Un bambino attraversò l'inquietudine / con tutta la tempesta nei capelli / prima che il tramonto fosse ghiaccio / sullo strano silenzio dell'incognito”. Giancarlo Baroni
ROSSANO ONANO IL SANDALO DI NEFERTARI Edizioni Prufrock,2016 – pp. 90, € 12,00
ISABELLA MICHELA AFFINITO VIAGGIO INTERIORE Edizioni EVA, Venafro (IS) 2015, Pagg. 112, € 12, 00
Rossano Onano sa bene, e questa sua recente, ottima raccolta pienamente lo dimostra, che la fiaba è un passaporto, un lasciapassare per l'immaginazione. Finalmente la fantasia può sbizzarrirsi, correre a briglia sciolta senza remore e censure. Nel clima fiabesco i personaggi, anche quelli realmente esistiti, possono presentarsi in una maniera insolita che ci stupisce. Nell'incantevole libro di Onano, “Il sandalo di “Nefertari”, alcuni personaggi di questo tipo (contemporaneamente storici e leggendari) si presentano sulla scena meravigliandoci. Per esempio Giulio II, il papa che poteva permettersi di “dire a Buonarroti fai presto perché ho tanto da fare”; Erik il Rosso che scoprì la Groenlandia, “un regno vasto di perfezione ghiacciata”, e successivamente, anticipando Colombo, l'America; la regina Nefertari, di cui il Museo Egizio di Torino conserva un sandalo. Stupenda la poesia dedicata alla celebre Bibbia del duca estense Borso d'Este: lo splendore delle preziose pagine miniate viene abraso e rosicchiato da un piccolo roditore, da un topo nascosto in una tana della biblioteca: “...il tenace / sorcio di biblioteca, annusa la polvere, addenta / la bibbia di Borso d'Este... / ne gusta commosso l'inchiostro gotico”. Gli animali frequentemente sono i protagonisti delle favole. Nei versi ammalianti di Rossano Onano incontriamo l'immancabile lupo (“a vegliarti fiero e cupo / nella notte viene il lupo”), il serpente e l' orso, i rospi anzi le rospe (“Le rospe abbandonano lo stagno / scrollandosi i maschi dalla groppa, / si avvertiva l'avvento dello sparviero / appollaiato sull'albero della giostra”), bestie arboricole dalla “lunga coda pensile”. A volte i toni e le atmosfere si increspano e si rabbuiano, allora le storie raccontate dall'autore si incupiscono, diventano più incombenti, preoccu-
Isabella Michela Affinito è nativa del Frusinate; in chiusura alla silloge Viaggio interiore, dichiara di essersi specializzata in Grafica presso l’ Accademia di Costume e di Moda a Roma nel 1991, e in seguito ha approfondito gli studi autonomamente sull’arte, sulla cultura classica, sulla letteratura, filosofia, egittologia, teatro, cinematografia e varie altre cose. Ha pubblicato oltre cinquanta libri, con particolare riguardo al ruolo delle donne nella società odierna, in particolare rimanendo affascinata di Emily Dickinson, poetessa americana. Penso che i contributi critici di cui appresso, sui quali indugio, siano presi come fari che possono fornire una chiave di lettura; indicazione, questa, che potrebbe risultare, sì, limitativa, nondimeno illumina il testo e dà un’ impronta del mondo interiore della Poetessa. In esergo è riportata una citazione di Hermann Hesse (1877-1962) “La vita di ogni uomo è una via verso se stesso, il tentativo di una vita, l’accenno di un sentiero.” Aldo Cervo in prefazione evidenzia quanto la Affinito, pittrice ella stessa, appassionata di musica, dell’arte di tutti i tempi (un nome per tutti, Vincent Van Gogh), abbia sentito forte la necessità di cercare altra forma espressiva, trovandola, appunto nella parola, in particolare nella prosa Diaristica che offre ampio spazio e nella forma eccelsa della Poesia, che per ragioni di sintesi è sibillina. La sua passione e la competenza artistica acquisita con gli studi, hanno impregnato tutta la sua produzione letteraria. La Poetessa nella introduzione spiega che il suo Viaggio non è predeterminato, perciò lei stessa non conosce a priori né il percorso, né la destinazione, né la natura della strada; sua condizione è essere più vicina possibile al lettore ai fini della compren-
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sione. A sostegno di tale assunzione fa i seguenti richiami. Dante Alighieri, per avere scelto il volgare per il proprio viaggio guidato da Virgilio; Luigi Pirandello, il quale fa dire a un suo personaggio che “Partire è come morire”; il filosofo inglese Francesco Bacone, secondo il quale “Gli uomini devono sapere che in questo teatro della vita umana solo a Dio e agli angeli conviene essere spettatori.” E cita Guy de Maupassant, “Il viaggio è una specie di porta attraverso la quale si esce dalla realtà come per penetrare in una realtà inesplorata che sembra un sogno.”, a proposito del suo viaggio inteso come esplorazione, che in analogia al tipo di terreno, anche il suo linguaggio si serve della forma diaristica e del verso. L’Autrice apre il suo tragitto ad iniziare “dalle pagine del diario” in cui ha annotato la predilezione per la pittura di Van Gogh, per le canzoni “sulle labbra” di Dalida, per le sinfonie di Beethoven, abbraccia il diario di Anna Frank, ha compassione per la pittrice messicana Frida Kahlo. Si ponga attenzione su questi personaggi, tutti hanno avuto una vita molto sofferta. Non è per fare un elogio della scrittura diaristica, ma cita Silvio Pellico (aggiungo l’Ortis di Ugo Foscolo e un precedente illustre come Charles Baudelaire). Il diario ferma il tempo e la trasporta nel futuro, la eterna insomma, è la grande aspirazione di tutti gli artisti e dei pensatori che guardano all’oltre. Fulvio Castellani nella sua intervista, raccoglie il racconto della Nostra, la quale ribadisce di passare alla parola poiché l’impellenza della comunicazione verbosa si impone sulla pittura; spiega del fascino subito verso Emily Dickinson per la sua “vita non-vita” della cui vicenda è rimasta molto impressionata; dice che le storie degli altri sono per lei un motivo di stimolo. La Poetessa, difatti, trae motivazione dagli altri autori, e a supporto del Viaggio interiore propone la sua recensione al “Diario di una nuvola bassa” di Antonio Vanni, prendendolo come “zattera”, spiegando che la nuvola che viaggia bassa è più probabile che trovi ostacoli e muoia. *** Isabella Michela Affinito nell’incipit del suo Viaggio interiore invita anche noi: “Se farò un/ viaggio sarà/ attorno all’Essere/ (…)/ Guarderò le tue/ mani fermare il/ mio viaggio attorno/ al tuo essere che ha/ perduto la via, segui/ la mia scia e capirai/ chi sei.” Si osservi come l’enjambement sia una nota stilistica sempre presente e suppongo come la versificazione segua più il dettame interiore dell’animus, anziché della sua ragione, tanto che nell’immediato dell’excursus sembra che il sole metta in evidenza le incrostazioni dei muri e per le
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strade acciottolate l’edera si sia aggrappata tenacemente; il sole e l’edera, segnano il tempo ed il mistero della vita, e riverberano i sentimenti. Nel suo viaggio interiore e mentale, rimane assorta, ammaliata dai paesaggi e dai colori vivi (aggressivi) dei tulipani di Van Gogh, dei papaveri rossi di Monet, dei gladioli e ninfee; sembra avvertirsi l’odore dell’ erba falciata; il suo mondo, la sua strada è riempita di tante opere d’arte, che Lei è in grado di riconoscere ad occhi chiusi come il David di Michelangelo. Nettuno, sovrano del regno acquatico, si circonda dei suoi abitanti; il mare non ha confini poiché le sue acque, ora tempestose, ora calme, sono sempre vive in movimento; elemento primordiale della vita, che la dà e che la toglie. La Nostra si nutre di parole e ne cerca di nuove per il poeta che è “ognidove” e “ognintorno”, per un tempo “inveloce” e non si interroga del perché l’universo è governato dagli astri o dagli dei; è interessata a parlare della sua storia, vuole che la si conosca adesso che è in vita, non dopo, di quando giocava con le conchiglie, fantasticava con le fate e volava a cavallo di Pegaso. “(…) Ho/ viaggiato con la mia identità,/ ovvero con i fogli bianchi in/ mano e una penna turista in ogni terra” (pag. 48). Un’identità sconosciuta a se stessa, dirà più avanti, che si sta schiarendo (63), portando seco una valigia di speranze divenute illusioni, per stazioni che non sono più le stesse, sentendosi una “sibilla minore”, consapevole di “sentimentalizzare un viaggio”, quali “sacre sponde” del Foscolo, che non vorrebbe interrompere. Nella eponima traccia un elemento biografico sui suoi “più di quarant’anni l’identità/ non è ancora pronta, la/ mia realtà è visibile a pochi,/ il punto non è stato messo” all’indovinello che la sfinge pose a Edipo (che, inconsapevolmente, si macchiò del sangue del padre, si accompagnò alla madre generando una discendenza); ma lei dice di essere come la Fenice, per essere risorta dopo vent’anni di silenzio. La prenderà la nostalgia del mare e dei giochi sulla sabbia. Ricorderà che Pegaso nacque dal sangue di Medusa decapitata e che fu cavalcato da Athena, da Bellerofonte e adesso anche da lei (chiara allusione di appartenenza agli dei), ma Pegaso non navigherà più per i cieli. Il suo sguardo va all’ origine dell’umanità con “altri Adamo ed altre Eva”, agli antichi filosofi, alla storia, ai Crociati, agli eroi dell’Ariosto (Orlando e Rinaldo). Isabella Michela Affinito è tutto quanto descritto, è elfo e gnomo, è il ruscello che le sta intorno al collo come una sciarpa; vive il mondo di Omero ed è insieme le due Torri Gemelle di New York, è come Castore e Polluce, è Pierrot, ed è anche gioco matematico sulla radice quadrata. Pensa alle ‘Ro-
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taie’, pensa ai treni pieni di ebrei; alla sibilla cumana, alla scultura in bronzo di Auguste Rodin rappresentante l’inferno, il pensiero va ad Itaca. Troviamo la Vienna sognata in un dipinto di Klimt, un valzer di Strauss, le piazze della memoria che ricoprono tutta l’Italia. Tutto questo rappresenta i suoi luoghi dell’anima; perfino l’enjambement rappresenta il suo habitat incerto; sorvolo sulle irregolarità comportamentali e sui suicidi di alcuni personaggi. La Nostra si autodefinisce una tartaruga, non per la proverbiale lentezza, ma perché vive dentro la sua casa, portandola con sé. Così anche Lei fa della sua casa-prigione (non una reclusione come quella del Pellico), la sua sicurezza; e della solitudine, fa la sua “seconda pelle”. Si autodefinisce pure “lunare”, poiché il suo sguardo attraverso l’interiore va oltre il visibile umano. Il suo pensiero è un dilemma infinito, poiché è fatto di stati d’animo, che sono continua elaborazione di spirito e di materia. Il suo linguaggio, colto e impregnato di immagini, è fortemente metaforico. Isabella Michela Affinito conclude il suo Viaggio interiore: “Noi poeti soli,/ tra il bianco e il nero/ di una scommessa fatta/ non per gioco,/ scivoliamo sulla lava/ ancora calda e/ da quell’Ade usciamo/ assieme ai fiumi di/ un passato bruciato” (90). A lettura ultimata sembra che rimanga l’impressione di essere stati in presenza di una sacerdotessa in trance nella transustanziazione di persone, di soggetti ed oggetti dalla stessa nominati. Infine, giunta a destinazione, credo che chiarisca l’Essere iniziale: “Vedo nel mandala/ il mistero del/ cammino e la/ sabbia di colore/ ardesia spegne/ la ribellione del/ cuore perché la/ Terra non è Aria e il Fuoco non è/ acqua (…)”, intendendo nei quattro elementi della vita la soluzione dell’enigma e nel contempo la distinzione delle parti da cui occorre ripartire. Il suo viaggio non si è ancora concluso. Tito Cauchi
ANNA VINCITORIO BAMBINI Blu di Prussia 2016 Da Firenze, dove vive, la nota poetessa napoletana Anna Vincitorio, che si occupa di letteratura da più di quarant'anni, mi fa pervenire per posta una copia numerata, e firmata, della sua raccolta Bambini (Blu di Prussia 2016). Il volumetto è smilzo, solo sette poesie, ma l'argomento cui è ispirato è atrocemente importante, e, purtroppo, è reale nella sua drammaticità. Inoltre la Vincitorio sa fare arte pura anche coi temi più dolenti. Le poesie, intitolate : Bambino in guerra – Bam-
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bini invisibili – Bambini abbandonati – I ragazzi dello zoo di Roma – White Christmas a Coccaglio – Cronaca – Dormi fanciullo, mi sono piaciute molto. Lo sfruttamento dei bambini per gli scopi più vari (compravendita di organi, manodopera a bassissimo prezzo, lurido vizio, o per fini politici e militari) è una delle piaghe più purulente che infestano questo cosiddetto “mondo moderno”, che sembra credere soltanto in un ottuso benessere, nella potenza del dio denaro, nelle luci false e distorte di certa politica, scrivendo ogni giorno pagine più vili e più tristi. La silloge “Bambini” della Vincitorio, pur nella sua esiguità, è di quelle che ti prendono alla gola, anche se è da una vita che tratti argomenti di dolore, e si avvale di un corredo critico di prim'ordine, visto che è preceduta da una acuta Nota critica del noto poeta, critico e blogger Nazario Pardini ed è chiusa da un'Appendice critica dell'altrettanto noto poeta e critico Sandro Angelucci. Scrive felicemente, tra l'altro, Pardini: “...Una plaquette intensa, emotivamente umana, umanamente disumana, che con versi brevi, secchi, apodittici, e di urgente concretizzazione ontologica, cerca di agguantare tutto il disagio di una scrittrice sensibile e inquieta davanti a “piccole schiere/ presto ombre di fanciulli alteri/ nudi d'inerme giovinezza”. Sì, sono proprio i bambini che attraggono lo sguardo sconcertato e addolorato della Vincitorio. Ma non quelli che giocano allegri e spensierati su prati verdi, su spiagge profumate di salmastri, al sole ridente sui loro capelli, o rassicurati dallo sguardo delle madri. No ! Questi fanciulli giocano alla guerra; la giovinezza è stata loro strappata; rubata senza pietà alle loro braccia, gambe, mani, ai loro cuori; le loro altalene e le loro fionde sono state sostituite da fucili di morte e di sangue...” Quanto all''intervento di Sandro Angelucci, addirittura, esso sembra andare controcorrente e, in modo coraggioso (e provocatorio) tende a precisare: “...Sia chiaro: ci tengo a sottolinearlo, non intendo fare nessuna predica (lungi dalle mie intenzioni): voglio soltanto invitarci a verificare se anche a noi non occorra un po' di sapone. E' difficile farsi una ragione di tanta efferatezza, ma non meno arduo è liberarsi dalla presunzione di bontà. Il bene e il male convivono in ciascuno di noi: armonizzarli è il vero problema; fare in modo che uno non nuoccia all'altro ( certo: quando ipocrita, qualunque sentire è dannoso...” Non posso non rilevare con soddisfazione (anche considerato il mio passato di docente prima, e di provveditore agli studi poi, oltre alla sessantina d' anni di letteratura militante...) che una nota caratte-
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rizzante di quest'opera della Vincitorio sia da ravvisare nella circostanza (certo non secondaria) che sia l'Autrice che i due critici provengono dal mondo della Scuola come Docenti (Pardini anche come Dirigente) e nell'affrontare l'argomento assommano, ad una profonda preparazione poetica e letteraria, una squisita e impegnata sensibilità pedagogica, psicologica ed etica. Luigi De Rosa
MARIO BORTOLETTO CONTRO GLI ABUSI DELLE BANCHE Versione brossura: Chiare lettere - Edizione 2015, pag 125, 13 €, ISBN: 978-88-6190-713-3 Bortoletto anche in questo libro ci ha regalato una bella descrizione sui comportamenti delle banche e su come riuscire a difendersi e a non farsi fregare. Anche questo libro racconta la storia dell’autore, imprenditore e vicepresidente del movimento “Il delitto di usura”, che tutela le vittime di usura ed estorsione bancaria. Una storia simile a quella di tanti italiani e che dà importanti indicazioni per riuscire a districarsi nel labirinto degli istituti di credito senza farsi ”fregare“. “Un giorno ti svegli e non hai più niente. Tutto quello che avevi ottenuto con i sacrifici di una vita diventa proprietà della banca. Disperazione e notti insonni, non ti rimane altro, nemmeno l’età per ricominciare. Ti prendono tutto, anche quello che in realtà non gli è dovuto. Molte persone credono di essere debitrici nei confronti delle banche mentre in realtà sono creditrici. I conti delle banche sono sbagliati e le banche lo sanno. Mario Bortoletto ha aperto un mondo finora sconosciuto. È riuscito per ben quattro volte a passare da debitore a creditore di diversi colossi bancari nazionali. L'ultima verifica sui suoi conti correnti ha smascherato circa 300.000 euro pagati ingiustamente. Qui non sono in ballo solo reati (pesanti!), irregolarità e furberie. Qui sono in ballo i soldi dei correntisti. Sono milioni le persone in Italia che hanno problemi con gli istituti di credito. Le banche le chiamano sofferenze, cioè soldi che non riescono a recuperare. Ma quanti di questi crediti sono veri? Bortoletto e con lui centinaia di correntisti che hanno seguito i suoi consigli raccontano tutti i giochi sporchi su conti correnti, prestiti e mutui (sono circa 40 milioni i conti correnti in Italia, miliardi di guadagni solo per la gestione, anche se in attivo). Intanto le banche ricevono prestiti dalla banca centrale europea allo 0,15 per cento. E praticano ai cor-
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rentisti tassi esagerati, costi e commissioni ben nascosti negli estratti conto. Gli abusi continuano. “Contro gli abusi delle banche – Mutui, prestiti, conti correnti come difendersi” è formato da questi capitoli: LA VERITA’, VI PREGO SUL MIO CONTO CORRENTE IL CORRENTISTA PIGNORA LA BANCA LE BANCHE NON RESTANO A GUARDARE DA DEBITORI A CREDITORI. VI SPIEGO COME LA SITUAZIONE E’ GRAVE MA NON E’ SERIA BREVIARIO DI SOPRAVVIVENZA BANCARIA IL PAPA CONTRO LE BANCHE PRIMA DEL FALLIMENTO, IL RISCATTO COME EVITARE UN’ASTA GIUDIZIARIA EPILOGO: UN “PIANO MARSHALL” PER IL CORRENTISTA POSTFAZIONE: POTERI E PRIVILEGI DELLE BANCHE di Gianni Dragoni Nel libro “Contro gli abusi delle banche” Mario Bortoletto continua a raccontare la sua storia e la sua esperienza con le banche e le varie truffe che vengono occultate dagli istituti bancari. Attraverso la sua diretta esperienza ci svela i trucchi per non farsi “fregare”. Ormai le truffe sono all’ordine del giorno e quindi dobbiamo tutelarci come meglio possiamo. Anche questo libro è talmente coinvolgente e interessante che si legge tutto d’un fiato! Contiene vari consigli che Bortoletto dà ad imprenditori, a titolari di attività, a chi ha un debito e/o mutuo verso la banca e pensa di essere truffato con tassi di usura. Spiega con esempi pratici i vari casi di anatocismo, gioco delle valute, all’uso piazza… Spiega anche come procedere per fare una perizia econometria del proprio conto corrente o di un mutuo o di un leasing. Nel primo capitolo “La verità, vi prego sul mio conto corrente” Mario Bortoletto descrive come riesce ad ottenere dalla banca 300.000 €, dovuti a cms, tassi usurai e anatocismo. Questa è la quarta vittoria di Bortoletto! Nel secondo capitolo si descrive l’incredibile: un’imprenditrice tramite sentenza del Tribunale di Genova con l’aiuto di un ufficiale giudiziario pignora la Banca! Il mondo è capovolto: fino ad allora era la Banca che pignora la casa! Le banche dopo tali esperienze si sono organizzate facendo firmare al cliente postille varie e clausole di salvaguardia a loro favore, per cui prima di intentare una causa contro la banca bisogna presentare in giudizio un conteggio dettagliato, perizia econometria, con l’ausilio di un consulente.
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Bortoletto denuncia gli sciacalli: studi legali che, visto il caso del comportamento illegittimo delle banche, si improvvisano a difendere le vittime con parcelle alte (4 – 7mila euro!) senza avere la capacità di fare una perizia seria! Bortoletto stesso viene strumentalizzato da uno studio di consulenza, che sfrutta come pubblicità il video di Bortoletto a Presa Diretta da Riccardo Iacone su Rai3! Bortoletto fa togliere questo video pubblicitario. Adesso va di moda fare causa alle banche, se si digita su google: ” perizie usura” appaiono trenta pagine di società che si occupano di ciò: sono tutte serie, valide e oneste? Una Società, ad esempio, ha una rete legale in tutta Italia con consulenti improvvisati che svolgono il multilevel marketing con una preparazione consistente in un corso di una giornata! Siamo in un periodo in cui le banche, avendo nel loro bilancio grandi quantità di titoli tossici, cercano di scaricare sui vari clienti il loro passivo, applicando tassi di usura, commissioni di massimo scoperto elevate, anatocismi e facendo giochi di valuta. Per risolvere i problemi delle banche il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan lavora per trovare una soluzione, creando una banca parallela la cosiddetta bad bank (una società che serva a smaltire, appunto, le grandi quantità di titoli tossici). Particolarmente commovente è la descrizione del funerale dell’ imprenditore Maurizio a Dese in provincia di Venezia. Il parroco Don Enrico Torta, grandissimo amico di Bortoletto, dichiara: ”Fratelli, siamo arrivati al massacro!”. Così esordisce nell’ omelia. Riceve anche una lettera di conforto e vicinanza per i familiari di Maurizio da parte di Papa Francesco. E’ una lettera forte, fra l’altro Papa Francesco si scaglia contro la cattiva politica, dice: “La politica viene percepita come realtà distante, sempre meno amica del cittadino onesto e laborioso. E il rischio dell’antipolitica avanza.” Bortoletto fa l’esempio di una Srl, che da un debito di 5.300.000 € passa ad un credito verso la banca di 3.500.000 € (9 milioni circa di euro di differenza!) grazie all’analisi del curatore fallimentare. Bortoletto dimostra con diversi esempi nel capitolo “Come evitare un’asta giudiziaria” come ci si può difendere di fronte al caso della propria casa messa all’asta giudiziaria per i troppi debiti e come poter bloccare la relativa asta. Addirittura la fama di Bortoletto raggiunge gli U.S.A.! Bortoletto riceve nel suo studio Michele, imprenditore Americano, che esporta occhiali fatti in Italia, per esempio della Luxottica, e che aveva letto il libro “La rivolta del correntista”. La colpa principale dei rapporti scorretti delle banche in Italia è dovuto anche ad una tassazione troppo elevata
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sulle attività autonome, da cui il frequente ricorso al credito. In molti casi all’imprenditore in difficoltà con una banca viene consigliato di fare una perizia econometrica, cioè un’analisi di tutta la storia del proprio conto corrente: il tasso applicato da contratto, le commissioni di massimo scoperto, gli interessi di mora e tutte le altre spese aggiuntive. Serve un bravo commercialista, specializzato in materia bancaria, che ricostruisca la storia dei movimenti, che passi ai raggi X tutte le voci di spesa, gli interessi, i costi addebitati dalla banca, i cosiddetti “giochi di valute”. Bortoletto ha preso a cuore le battaglie contro l’ usura bancaria perché colpito dalla situazione delle vedove degli usurati che si sono tolti la vita a causa delle banche. La nostra realtà oggi è questa: l’economia reale cade a pezzi, la disoccupazione aumenta raggiungendo cifre senza precedenti soprattutto fra i più giovani. Ma cosa fanno i governi? Aiutano le banche. Negli ultimi anni la BCE (Banca Centrale Europea) ha fatto arrivare ai principali istituti di credito europei una pioggia di miliardi di euro a un tasso ridicolo. Centinaia di miliardi sono arrivati alle banche italiane. Quest’esperienza vissuta sulla “pelle” dell’ autore è un messaggio positivo di speranza e ottimismo anche per tutte le altre persone che si trovano in difficoltà economiche simili a causa delle banche. Tutti possono chiedere trasparenza e quindi non farsi fregare. Per i consigli e le consulenze il signor Bortoletto non prende un centesimo, non guadagna nulla da questa attività: semplicemente si dedica alle persone che attualmente si trovano in grosse difficoltà. “Chi mi chiama spesso è sul lastrico e io ricordo bene cosa significa trovarsi con le banche che ti stanno addosso e non ti lasciano respirare. Chiedere altro denaro sarebbe un atteggiamento miserabile” afferma Mario Bortoletto. Adesso a seguire le sue pratiche c’è Alessio Orsini, un giovane avvocato molto capace ed esperto di usura bancaria. Mario Bortoletto è il classico imprenditore veneto, tutto d’un pezzo. E’ di Vigonza (Padova), classe 1949, ha iniziato a lavorare giovanissimo mettendo in piedi un’impresa edile partendo praticamente da zero. Siamo a Padova, al centro di quel Nordest che, negli anni Settanta, diventerà il motore trainante dell’economia italiana. In quei primi anni di attività Mario Bortoletto, come tanti altri piccoli imprenditori della zona, consoliderà e amplierà il suo
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business affidandosi alle commesse della pubblica amministrazione e partecipando alle gare d’appalto degli enti locali. Un’attività abbastanza certa, insomma, perché la pubblica amministrazione, anche se elargisce i fondi con un certo ritardo, è un debitore sicuro, liquido ed esigibile. Oggi la lotta alle lobby bancarie per Mario Bortoletto è una vera e propria missione che svolge quotidianamente, a latere della sua attività imprenditoriale, come vice presidente del movimento “Il delitto di usura”. Nel 2014 ha pubblicato “La rivolta del correntista”, più volte ristampato, ora disponibile in versione tascabile. Completa il libro “Contro gli abusi delle banche” la Postfazione di Gianni Dragoni, giornalista de “Il Sole 24 Ore” e collaboratore della trasmissione “servizio Pubblico” di Michele Santoro. Tra i suoi libri ricordiamo “La paga dei padroni” (con Giorgio Meletti, 2008), sugli stipendi di manager e banchieri, e “Banchieri & Compari”, pubblicati da Chiarelettere. Giuseppe Giorgioli
ALDO CERVO LETTURE CRITICHE NELLA PRODUZIONE LETTERARIA DI AMERIGO IANNACONE Edizioni EVA, 2010 - Pagg. 75, € 10,00 Aldo Cervo viene a noi con un interessante saggio: “Letture critiche nella produzione letteraria di Amerigo Iannacone”(Edizioni Eva, 2010, pagg. 75, € 10,00), in cui esamina, spiega, giudica, rileva le abilità e l’originalità dello Scrittore trattato, approfondendone e rilevandone gli aspetti più salienti. Egli ci presenta da subito “Cronache reali e surreali” di Iannacone, un genere narrativo nuovo, i cui racconti sono sia veri ed ambientati nel proprio paese, sia immaginari; sono tutti brevi, e le trame sono espressioni di un mondo fervido; essi riescono ad esplorare le profondità dell’anima nei suoi mille interrogativi irrisolti ed un po’ misteriosi. Nonostante la diversità delle storie, l’opera è armoniosa, di vera arte letteraria. L’Autore segnala che alcune pagine si elevano sulle altre per la loro forza coinvolgente, toccando vertici di sublimante bellezza (come “Annabelle” e “Apocalisse”). Rileva lo stile sobrio, incisivo, chiaro, trasparente. I motivi trattati sono: i successi o meno nello studio e nel lavoro, l’ emigrazione, l’amore, la follia, la morte. Aldo Cervo, dopo averne controllato le bozze, nel 2008 fa una simpaticissima Presentazione a Venafro: qui
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sembra riportata proprio la registrazione dal vivo, tanto è immediata l’espressione. Anche della raccolta poetica “Semi” – che segue lo sviluppo dalle radici alla crescita della pianta, alla fioritura e alla raccolta della frutta - Aldo Cervo ha curato la Presentazione, evidenziando l’intimità delle liriche, gli affetti, le amicizie, la nostalgia del tempo trascorso, attraverso speculazioni filosofiche che generano una positiva inquietudine al lettore, invitandolo a scoprire quanto la vita offre di avvincente, nonostante i limiti: “Riversa l’io nell’altro e la tua vita/ ritornerà arricchita” (da “La vita è divergente”). E nota che le poesie si alternano ed integrano in una chiara unità: il tutto con un linguaggio affinato. Aldo Cervo, pur essendo della Campania, ama il Molise (che conosce fin da ragazzo) e i suoi abitanti di cui ha assorbito il carattere fiero. Apprezza l’arte, l’originalità e le grandi capacità di Iannacone che sa operare validamente ed onestamente in svariati campi letterari: nel giornalismo, nella saggistica, nella narrativa, nella poesia, nella critica, oltre ad essere Editore. La sua presenza è richiesta in molte parti d’Italia e all’estero. L’Autore è con grande piacere che accetta di fare un intervento pubblico (a dicembre, in una sala più fredda che l’esterno!) su “Nuove testimonianze” opera di attenta critica su molti scrittori – in cui Iannacone si domanda cos’è la poesia, e ne dà la risposta: “è un sottile, giusto equilibrio tra forma e contenuto, tra significante e significato, tra gusto e giusto, tra estetica ed etica: non prosa, né estetismo sterile”. Aldo Cervo, qui, esamina – sempre con grande maestria di esposizione e di giudizio - varie altre opere di Iannacone, fra le quali “Estaciones” nel genere haiku, e “L’ombra del carrubo” - dialogo di un figlio col padre deceduto – dalla forte intensità emotiva. Egli, simpaticamente e schiettamente, ci confessa che di fronte ad Autori bravi diventa invidioso, mentre verso quelli mediocri, diventa allegro, euforico, scanzonato. Segue una bibliografia di entrambi gli Scrittori. Maria Atonietta Mòsele
DOMENICO DEFELICE A RICCARDO (E AGLI ALTRI CHE VERANNO) Il Convivio, 2015 - Pagg. 64, € 10,00 Una bellissima foto del bambino illustra la copertina della silloge poetica che il nonno materno Domenico Defelice gli dedica: “A Riccardo (e agli
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altri che verranno)”- Il Convivio, 2015, pagg. 64, € 10,00. Desiderato dai genitori fin dal giorno delle nozze (alla figlia-sposa è qui dedicato il Cantico dei Cantici), all’annuncio del concepimento del bimbo, il neo-nonno/poeta, <felice>, già pensa alla nascita di questo suo primo nipotino. E qui, in un bellissimo gioco di flash-back e di flash-forward, arricchito da profonde considerazioni affettivo/esistenziali, il pensiero del Poeta va… a quando lo condurrà fuori per mano parlandogli, a quando gli insegnerà i giochi.… E subito fa un passo indietro a riflettere sulla gestazione: “Dicono che ancora non sei niente./ I laici lo dicono e la legge/ … fino a tre mesi./ Dicono che uno come te, chi vuole,/ può gettarlo alle ortiche.// Pazzi!// Non è dopo un pacchetto di giorni,/ né per legge che Dio lancia il Suo FIAT!...”: ormai sei concepito completamente. -Permettetemi, al riguardo, di richiamare il titolo, pieno di poesia e di sentimento, che il regista Ermanno Olmi ha dato al suo recente libro <Sono nato al primo sguardo dei miei genitori> : un titolo/messaggio che dice molto, tutto!Il Poeta procede: questa cellula, scelta fra miliardi di altre annidate in tua madre, questo primo fiore dei tuoi genitori, fresca risultanza dell’incontro delle precedenti generazioni, è creatura di Dio, come tutti noi. Durante la gravidanza viene scelto il nome Riccardo, come tanti re, santi ed eroi, dei quali il piccolo seguirà gli esempi. Finalmente arriva il grande giorno, il 26 ottobre 2009, in cui nasce Riccardo “nuova vita, nuova stella”, biondo, con gli occhi azzurri come quelli della mamma. “Ho piantato un leccio nel tuo nome./ Insieme crescerete”, dice il nonno. E, via via, sempre fuori di sé dalla gioia e dallo stupore, Defelice descrive le varie manifestazioni del bimbo e nel bimbo: il pianto, i gesti, i sorrisi; lo spuntare del primo dentino “piccolissima perla”; l’ attrazione ai tasti del computer; l’accartocciare le poesie del nonno… E le innumerevoli esperienze: a neanche un anno di vita, il viaggio in Sardegna con la nave (e qui Defelice ci confida di avere fatto il suo primo viaggio in nave a vent’anni, e gli pareva di trovarsi nel mezzo di un’avventura di Salgari! ); e più in là nel tempo, le telefonate dalla Puglia e addirittura da New York. Visto che al nido si dispera, e dato che i suoi genitori lavorano tutto il giorno, Riccardo viene seguito dai nonni che giocano molto con lui e che lo educano convenientemente, sperando che il nipotino possa tutta la vita “seguire verità e bellezza”. E Defelice ripensa alla propria infanzia, avvenuta in tempo di guerra: ben diversa dal periodo gioioso
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che Riccardo sta vivendo. In questo lavoro poetico, l’Autore ha veramente dato il meglio di sé, sia nello stile, sia nelle considerazioni sulla vita, sia nel saper descrivere i suoi più veri sentimenti d’affetto verso questo suo primo nipote. Sorpresa finale: anche dal figlio Stefano, da poco sposato, c’è la novità del prossimo arrivo di un bimbetto; per cui Defelice chiude dicendo: ”Non morirò del tutto/…Sarete il mio futuro”! Maria Antonietta Mòsele
TITO CAUCHI PROFILI CRITICI Totem, 2015 Dello scrittore Tito Cauchi è il volume “Profili critici” (Editrice Totem, 2015, pagg.174, € 20,00). Si tratta della risultanza della 1^ Edizione del Premio Nazionale di Poesia Edita, ideato dallo stesso Autore-Presidente, intitolato alla memoria di Leandro Polverini, un personaggio illustre di Lavinio, frazione di Anzio. E’ la soddisfacente conclusione dell’iniziativa di Cauchi, dopo aver costituito il gruppo “Amici della poesia”, allo scopo di dare voce ed ascolto ai Poeti per conoscersi e riconoscersi: perché – come egli stesso afferma - la Poesia merita di essere conosciuta e diffusa. La cerimonia della Premiazione, presente tutta la Giuria presieduta dallo stesso Autore (il quale ne ha tenuto la Prolusione) si è effettuata nella sala conferenze dell’Hotel Lido Garda ad Anzio, il 27 novembre 2011. Durante la manifestazione sono stati assegnati in premio alcuni quadri, grazie all’ interessamento della famiglia Polverini. I Poeti partecipanti al Premio – e che appaiono tutti nel presente volume - sono 75 (anche se non tutti presenti alla cerimonia), e precisamente 45 uomini e 30 donne – per la maggior parte giovani e dai diversificati lavori/professioni - aventi stili simili o differenti, e temi svariati, ma tutti molto significativi e interessanti. Distinti per categorie di espressioni letterarie quali simbolista, metafisica, orfica, ermetica, didascalica, mistica, sperimentale ed altre – sono elencati e classificati in ordine di graduatoria tutti i Poeti premiati. Ai quali poi, singolarmente ed in ordine alfabetico, sono dedicate due pagine con breve biografia, ampio profilo critico, dettagliata recensione dell’opera inviata al Concorso, Motivazione del Premio riguardante il posto ottenuto nella classifica per Categoria, ed illustrazione della copertina dell’ opera stessa.
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Solamente di cinque Poeti, troviamo qui inserita la Recensione che Cauchi aveva già pubblicato nelle Riviste: “Pomezia-Notizie” (su Casulli Paola e Antonio Vitolo), “Silarus” (su D’Ambrosio Leone), “Il Convivio” (su Gozzoli Roberta), “Le Muse” (su Accorsi Adriano), ai quali sono state aggiunte le Motivazioni. Ma come si può scegliere di accennare un nome fra tutti questi, dato che non ne conosco alcuno? Prendo a caso Giuseppe Napolitano (4° Premio per la poesia ellittica), di cui Cauchi apprezza i cenni autobiografici che rivelano freschezza d’ animo, nonché la scrittura breve, epigrafica, aforistica. Se l’arte fa soffrire – dice il Poeta – la buona poesia, anzi la “poesia di famiglia” porta diletto. E continua: purtroppo oggi la vita viene consumata come un oggetto; invece, con la comprensione per gli altri, dobbiamo aspettarci belle sorprese. Del poeta Gennaro Roberto, l’Autore mette in evidenza il significato che viene dato all’amore vissuto e sognato nelle forme fisiche e spirituali, spesso in conflitto tra incontri ed abbandoni, ma sempre espresso con parole scelte “con la carezza di una piuma”, musicali, e con significanze multiple ed implicite. Egli è meritevole del 3° posto nella Poesia Onirica. La poetessa Grazia Di Lisio si è aggiudicata il 3° posto Assoluto. Ella canta la sua terra “ma(d)re”, la Sardegna, e parla dell’importanza sociale della donna la quale, invece, viene trattata come “i gusci delle conchiglie, continuamente schiaffeggiate dal mare”. Le sue liriche sembrano tante piccole storie cucite da fili. L’Autore vede in essa una Poesia intimistica, dalle riflessioni esistenziali disincantate. Maria Antonietta Mòsele
ISABELLA MICHELA AFFINITO VIAGGIO INTERIORE Ed. EVA, 2015 “Viaggio interiore - poesie” (Edizioni Eva, 2015, pagg. 112, € 12,00) è l’originale lavoro di Isabella Michela Affinito, composto da: una Prefazione di Aldo Cervo che vede in esso un itinerario enigmatico e misterioso dell’anima, trasmesso, però, per arricchire e maturare il lettore; un diario personale dell’Autrice, quale “affresco” di autenticità; una vasta rassegna di splendide poesie; un’intervista alla Poetessa effettuata da Fulvio Castellani. Le liriche sono un invito a capire di più noi stessi, perché chiunque può sentirsi insicuro dinanzi
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alle scelte importanti della vita. E’ essenziale, quindi, seguire la strada della saggezza, consapevoli almeno del “primo passo”, in quanto la fine “appartiene all’ignoto, soltanto/ a Dio”. L’ispirazione ad esprimersi attraverso la scrittura o la pittura o la musica o in altre arti, è “l’ essenza della libertà” che fa spaziare nelle meraviglie dell’umanità più vera, nell’universo e nella cultura; e, pur essendo essa imprevedibile, “appartiene a chi crea e a chi vuole perfezionare la propria spiritualità”. La Poetessa ci dice di aver bisogno di un punto fermo per orientarsi: “anch’io poeta/ senza direzione/ colgo la rosa dei/ venti nel giardino/ del mondo per/ ritrovare il Nord/ del sublime”. Nel suo viaggio interiore, ella vede “tracce di/ domani intrise di/ addio negli occhi di/ creature che ho amato,/ altri occhi non vedrò più/ nelle stazioni che ho/ attraversato veloce con/ la valigia delle speranze/ fattesi illusioni”. Per cui ella comincia a dubitare della sua stessa identità; si chiede se andare avanti o fermarsi; avverte che a volte la vita è più forte della volontà di vivere; e in questo doloroso smarrimento, capisce che soltanto Dio la può aiutare, oltre ai buoni sentimenti (dimenticare, perdonare, riconciliarsi) e alle buone opere, verso il prossimo. La nostra Scrittrice ha capito che la vita è fatta di rotaie, viaggi “di gioia,/ di tristezza, di delusione,/ di incontro e di separazione”, ma lei rimane, pur sempre, nella fiduciosa attesa del successivo treno! Il suo è un grande viaggio esistenziale, espresso in maniera completamente libera, creativa e personale. I suoi versi sono arricchiti da spunti di arte, geografia, mitologia, filosofie orientali, scienza e cultura. Ella ama la poesia di Emily Dickinson che le infonde conforto, ed, essendo critico d’arte, spesso si ispira ad opere di grandi pittori per farne poesia. E’ pure esperta in grafica: il mandala di copertina è opera sua. Maria Antonietta Mòsele
ANNA VINCITORIO BAMBINI Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2016 Meritevole del 2° Premio Città di Pomezia 2015, Anna Vincitorio viene a noi con le poesie “Bambini”, pubblicate su “Il Croco” – Quaderno Letterario di Pomezia-Notizie del gennaio 2016. A presentarla è Domenico Defelice che condivide quanto la Poetessa denuncia sui bambini, oggi più di ieri, sfruttati, malnutriti, violentati e de-
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fraudati nella loro innocenza, fatti oggetto di commercio di organi e delle più feroci atrocità, e costretti a drogarsi prima di dovere – con la forza - andare in guerra: in un mondo cieco e sordo davanti a questi cristi. La Poetessa, ispirandosi ad un articolo del quotidiano La Repubblica (dell’agosto 2005) - che parla di dodicimila baby/soldato addestrati dal “Piano di educazione alla guerra”, già prima soppresso, ma ristabilito dal Presidente russo Putin (ex spia del Kgb) - scrive: “Nelle tue mani/ la mortale stretta/ del kalashnikov/// tu Soldato/ non ancora soldato///…Bambino dov’è il tuo aquilone/// Tu, senza ancora saperlo,/ ti prepari a morire,/ pallido, acerbo fiore…” Durante le carestie che colpiscono tante nazioni africane, quante “colonne di bimbi/ (sono) scomparse nel silenzio”; per cui l’Autrice si domanda: “Quando gli aiuti umanitari/ raggiungeranno le sofferte grida?” Purtroppo, noi “Siamo sordi alle immagini” che vediamo, e “Basta interrompere il video/ e spegnere la luce/ Tutto torna eguale”. Esistono anche bambini che vengono abbandonati fin dalla nascita, e che verranno rinchiusi “su un futuro senza nome”. Riferendosi, poi, ad un altro articolo tratto da Repubblica sul Natale 2009, la Vincitorio ricorda il calore e l’amore che si vivevano in famiglia durante quella Festa. Ora, invece, siamo muti “alla paura e al pianto” degli immigrati (costretti a stare nascosti in rifugi di fortuna) dei quali, a nostra volta, abbiamo paura e ostilità. Ma “Anche noi eravamo/ una volta emigranti” umiliati e in miseria. Ora “L’ascia vibra/ e pesante colpisce” contro di essi. E la Poetessa si chiede: “Alberga ancora/ in alcuno la pietà?” Dovremmo imparare da loro, perché “Solo nella dimora degli umili/ sopravvive primordiale innocenza”. Nella poesia “Cronaca” troviamo la descrizione di uno stupro mortale effettuato verso un bimbo inerme: “all’improvviso,/ due braccia e una morsa/ atroce, innaturale/ Nemmeno l’incubo il più oscuro/ può immaginarne il compimento/ La fiducia violata dall’inganno/// …L’omertà tribale occulta il lutto//…Per queste ali d’angelo recise//..Solo pietà rimane”. Forse soltanto nel grembo della madre, “anfora fiorita”, un bambino può dormire tranquillo e beato, sognando “spazi verdi/ nell’azzurrità di cieli/ mai conquistati” : queste parole finali, tutte da interpretare, ci fanno riflettere. Come possiamo constatare, qui non si tratta di fantasia, né di episodi del passato, ma di una cruda realtà attuale, e tutta documentata. Maria Antonietta Mòsele
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TITO CAUCHI PROFILI CRITICI Editrice Totem, Lavinio Lido (Roma) 2015, Pagg. 174, € 20,00 Una poesia come testimonianza di rinascita culturale Esemplare è l’opera fatta da Tito Cauchi con questo libro Profili Critici, ennesima prova critica di un autore apprezzato per le sue analisi poetiche, volte con “meticolosità” e professionalità. Esemplare e quasi “titanica” è la volontà di rilevare le 75 recensioni come “Rosa degli eletti” emersa dalla “molteplicità dei partecipanti” al Concorso Nazionale di Poesia Edita “Leandro Polverini” tenuto ad Anzio nel 2011. Poesie commentate dalla Giuria seguendo delle linee d’interpretazione come “Poesia astratta, esistenziale, metafisica, simbolista, orfica, concettuale”, ecc. quasi per tracciare un confine, un limite, anche se illusorio alla vastità dei temi trattati. La molteplicità e varietà delle opere, tutte edite da piccole case editrici, dimostra che la poesia non è al tramonto, ma è viva e vegeta, anche se nei canali di un sottobosco, volutamente ignorato dalla critica ufficiale e di parte. Lo stesso Cauchi afferma “I poeti sono testimoni del nostro tempo, indicatori degli umori, come lo sono la cartina al tornasole o il termometro; la composizione anagrafica e geografica dei poeti, si rivela un segnale della coscienza sociale del Paese” (pag. 7 op. cit.). Testimonianza di una “Forza culturale” all’ interno del Paese che proclama la sua rinascita a partire da un nuovo genere poetico volto alla “comprensione” e “stilizzazione delle immagini” molto più chiare e meno ermetiche, come gli esemplari versi di Marina Giudicissi Angelini “dolce stella/ tripudio di rose incantate/ sei vicina a tutti i cuori/ che si umiliano a te…” (“A Maria” in “L’Universale dell’anima”, Totem, Primo posto nella sez. poesia astratta). Il Cauchi si fa promotore di questa nuova esigenza di Rinascita che vede coinvolta una vastità di Poeti - scrittori, non più anonima, ma forza latente all’interno del Paese che spinge contro una cultura imbarbarita dagli stereotipati modelli narrativi e dai voluti effetti estetizzanti di una poetica esistenziale epigonica che non convince, perciò possiamo affermare, insieme a Wittgenstein che “da questa cultura, un giorno, potrà nascere una civiltà” (in “Pensieri diversi”, Mondadori, W. Wittgenstein). Susanna Pelizza
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MELANIA PANICO CAMPIONATURE DI FRAGILITÀ La Vita Felice, Milano 2015, € 10; Prefazione di Davide Rondoni Spesso presente nell’arengo campano come moderatrice e relatrice di incontri letterari, Melania Panico si presenta ora a noi con una silloge dall’ emblematico titolo Campionature di fragilità, apparsa nel maggio 2015, per i tipi dell’Editrice La Vita Felice di Milano. Per la verità Melania Panico si era già fatta notare sul Sito “Transiti Poetici”1 (marzo 2014) per alcuni suoi testi tratti dalla silloge inedita Dal nero in poi, che recavano una puntuale presentazione (“Il ticchettio del tempo nelle poesie di Melania Panico”) a firma di Giuseppe Vetromile, il quale già allora evidenziava come la sua fosse una poesia “forte”, “coraggiosa”, “autentica”; “una poesia che urge, che ha fretta di dirsi e di dire, ma nello stesso tempo una poesia misurata e curata nei termini, nella modalità espressiva”: caratteristiche pienamente confermate anche oggi da questo suo nuovo libro. Vorrei innanzitutto cominciare con l’osservare come sin da una prima lettura dei testi della presente silloge di Melania Panico emerga con evidenza la caratteristica primaria di questa poesia, consistente nel fatto che essa sa trovare la propria realizzazione e il proprio compimento nel susseguirsi veloce delle immagini, le quali talora assumono l’aspetto di una sentenza: “Mura chiuse / ad ascoltare una distanza” (Mura chiuse, p. 31); “La terra finisce ai piedi dell’instabilità” (La terra finisce ai piedi dell’instabilità, p. 15); “Si sciolgono grumi di incomprensioni” (Si sciolgono grumi di incomprensioni, p. 47). E come emerga anche subito che in questa silloge l’autrice s’interroga costantemente sul proprio percorso esistenziale e, proprio dall’ esame che ella fa del suo vissuto, trae pensieri e parole per raccontare al lettore tutto di sé; per comunicargli le sue gioie e i suoi dolori, le sue vittorie e le sue sconfitte: “Non so come interpretare / questo abbaiare / di cani / in lontananza / … / Non so qual è il verso / giusto / del foglio” (Non so come interpretare, p. 16); “E’ semplice la quiete / per chi non ha parole / che si arrampicano in gola” (Estate, p. 26); “Il silenzio tra noi / è un manto di parole / stese ad asciugare” (Il silenzio tra noi, p. 27): “Ora l’ ospitale chiassosità della riva / è ricalcare il vano tentativo dell’approdo, / non c’è luce che tocchi lo spazio del baratro, / il buio colato dall’alto, la chiu1
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sa agli spazi” (Fermenta l’aria adagiata alla porta, p. 41). Si tratta ovviamente di un percorso esistenziale irripetibile, ma che, proprio in virtù del linguaggio con cui viene espresso, acquista le caratteristiche dell’universalità. Non a caso Davide Rondoni, nella sua illuminante Prefazione alla raccolta, mette chiaramente in luce che questo libro è capace di colpire “il lettore in molti modi e molti punti”; ed a conferma aggiunge: “Potrei elencare una serie di momenti in cui ho detto: «Ecco…». Ovviamente ciò avviene, prosegue Rondoni, perché “i pensieri e i versi” della Panico “si dispongono” sul foglio come “pietre incastonate”; perché la sua “invenzione è rapida, quasi rappresa”. Melania infatti “non ama costruire ambientazioni”, ma riesce a mettere sulla pagina autentici “pezzi” del proprio vissuto, nei quali “possiamo riconoscerci in tanti”. Ritornando alle mie riflessioni su queste poesie della Panico, vorrei ancora aggiungere come il suo dire, a volte pacato e disteso, altre volte invece maggiormente problematico ed assorto, colpisca comunque sempre per l’incisività del dettato. “Le ferite ci dimenticano. / … / … Non ha senso declamare / secoli a mente si intersecano / parole stordite” (Mettere via l’odore della storia, p. 14). Si vedano anche versi quali: “A guardarla da lontano / la madre-isola soffoca a braccia conserte / non ambisce alla luce / resta la dissolvenza a contemplare la vertigine” (La terra finisce ai piedi dell’ instabilità, p. 15) o quali: “La sera si consuma / nelle vene delle mani / disfatti gli anni / su un foglio bianco / non sostiene i passi” (La sera si consuma, p. 19). Molto incisivi inoltre, nella poesia della Panico, sono senza dubbio alcuni incipit, che s’ impongono per la loro evidenza: “La casa di giorno ha sentore di verde” (La casa di giorno ha sentore di verde, p. 21); oppure: “Il corpo devastato dai silenzi” (Il corpo devastato dai silenzi, p. 20). Ma versi di sicura efficacia, emergenti dal contesto, s’ incontrano anche nel corpo delle liriche, quali ad esempio: “Di notte la casa ha un vissuto che spaventa” (La casa di giorno ha sentore di verde, p. 21); “la stanchezza è un’ombra / raccontata sottovoce” (Nel viso, p. 28) o ancora: “All’improvviso la sospensione / è il mare” (Offerta, p. 30). Poesia meditativa quella di Melania Panico, che seduce per l’assorta pensosità che la percorre e che talvolta affiora più intensa nel giro rapido dell’immagine, tingendosi di colori autunnali: “Invecchia al guinzaglio / la bellezza / finiscono gli spazi aperti / il cumulo delle imperfezioni / il proemio alla manipolazione / degli eventi” (Siede nell’antro concavo, p. 32); “Piove un’aria di miele e aghi / … / È una frustrazione / da ricondurre a ca-
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sa / camminare passi senza asfalto / aprire la luce su una voce scomposta” (Settembre, p. 35). Domina inoltre in lei lo scavo interiore e la volontà di far forza sulla parola affinché più dica, in una ricerca assidua e feconda. Da tale ricerca emerge l’espressione compiuta e si fa strada il senso riposto, che illumina e schiara: “Forse è questa la forma della soluzione / reinterpretare radici fangose, renderle gioia” (Accade lo stesso amore delle case vuote, p 39); “Il peso da dare alle cose / lo scriviamo ad occhi aperti” (Si sciolgono grumi incomprensione, p 47). Sempre comunque Melania Panico insegue un ritmo che la conduce e ad esso si affida, come avviene nei seguenti versi: “Resiste da ieri / la malinconia grigia / che intaglia i suoni / marcia di disperazione / il posto oscuro delle lacrime” (Conclusioni, p. 22); “Dovrebbe essere tutto diritto, grato / le pietanze sul tavolo del tinello / le conversazioni a luce soffusa, / si bada a tutto, e niente resta” (Ha raccolto gramigne dal solco, p. 23); “Non so come interpretare / questo abbaiare / di cani / in lontananza / rumore sordo / di macchine / la luce artificiale / della notte” (Non so come interpretare, p. 16); ecc. In quel ritmo nascono mondi e fervide mete. In quelle mete la sua vita trova il suo compimento e suo bene. Liliana Porro Andriuoli
CAPPADOCIA 3/7 febbraio ’95 in memoria di G. D. Nella notte di Urgup il peso delle stelle inclina il cielo e dita umane lo sfiorano. A Urgup la salmodia paziente delle chiese rupestri divide la notte, tra vagiti vaghi sospiri l’avvolge un controcanto di fantasmi. A Urgup quieto candore e mandorli indenni la notte e semitari aulenti tra le pietre e la soglia dell’Oltre. Solitario viandante, quella soglia tu l’hai voluta varcare; ora - anima arresa nell’ombra della gran luce sbandita nel suo silenzio attendi la luce si faccia tenue si laceri l’assenza e l’Uno amoroso disveli Paradiso che sia.
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Vanisce la notte di Urgup si apre l’azzurro la fuga dell’aria difende dal tempo gli odori di pane di latte di madri di bimbi le orme dei miti animali i canti distesi; deflagra al tuo cenno amica parola, audacia di rito che s’infutura. Piera Bruno Genova
L’INSEGUIMENTO DEL TEMPO Forse il bambino senza madre venuto chi sa da dove tra i nostri giochi nell’orto delle suore, che non ispirava fiducia e un giorno, presa per mano la bimba più piccola e bionda, con lei si dissolse in un ramo di lauro o spini di rosa o chi sa dove. Forse il ragazzo in bicicletta, ma io capelli al vento la mani chiuse a pugno su manubrio davanti a lui più svelta pedalavo. Senza frutto né requie l’inseguimento del Tempo, ma intanto insensibilmente il colmo dei miei anni al nulla volgeva. Solo una volta il Tempo l’ho veduto, chino sul letto infermo, gli artigli tesi se un ectoplasma dalla parete asettica, un angelo o mia madre, il pavente feticcio non scioglieva. Vecchio e canuto è misura dei miei ultimi passi; ne sento il gelo sul collo, le dita sul braccio. Sostanza dell’essere, segnato destino, l’inseguimento del Tempo, il demiurgo che bruciando fatui orizzonti, illuse verità, fa dei nostri stolti timori il compiuto incontro col l’Eterno. Piera Bruno Genova
IL CIELO DI CENERE Le disquisizioni intricate uscite dall’animo acre dissolvono la calda vicinanza. Languidezza del cielo ammorbato di cenere,
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la pelle biancastra di squame. L’amata lascia la morbidezza del corpo, la fluida vaporosa andatura. L’amore venuto con l’ansito oppresso gli arti come slegati portati da tempesta furiosa, lanciato da una forza invisibile. Un passaggio si apre nel petto, ansia leggera stato sospeso ti invade. Un lavoro minuto raffinato libera sostanze fini nella mente. Assenza che è visione intensa di sogno, vivide immagini presenti davanti riempiono gli occhi, senti attorno le braccia avvinte. Miele che si spalma con tinte di oro, edera infiltrata con le zampe di ferro nelle crepe del muro. Resina nel mattino a gocce profumate sulle dita. Leonardo Selvaggi Torino
Nel paese delle lingue morte ballano ballano coreografi della distruzione sulle spoglie di secoli di cultura E noi disgraziati amputati della metà del nostro patrimonio erriamo quali apolidi con la sensazione di vivere in un paese francofono ma non più nella Francia ricca di più lingue tra cui quelle che giocano a varcare le frontiere contribuivano al suo irraggiamento da mille anni Béatrice Gaudy Francia
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nella loro interezza restano a noi da giorni. Un vento lieve muove lentamente le bianche nubi in cielo ed il paesaggio davanti a me è mutevole, sia pure fisso restando nella sua eterna naturale immobilità. Vagano le nubi in cielo e vaga il mio pensiero mentre godo la quiete e la bellezza di un tramonto in montagna. Mariagina Bonciani Milano
DAL RIFUGIO SEGANTINI 4.8.2016 Impressionante alla vista è questo gruppo di cime che si elevano maestose nel montano silenzio, sorgendo da stretta e profonda valle, e dove stacca nel grigio scuro del sasso dolomitico il bianco della ghiaia delle lunghe strisce di numerosi canaloni, ormai ricordo degli antichi ghiacciai, che a valle si congiungono con il verde dei prati e degli abeti. Impressionante vista, quasi a portata di mano, così vicina all’apparenza come da potersi toccare. Impressionante vista. Mariagina Bonciani
UN TRAMONTO IN MONTAGNA 2.8.2016 Or qua, or là, lungo il pendio boscoso, brilla una casa sotto un raggio del sole che si avvia al tramonto mentre in cielo nuvole sparse coprono le cime delle timide Pale, che nascoste
Milano
S' IO FOSSI QUI S’io fossi qui mi troverei d’incanto. Michele Di Candia Inghilterra
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STELLE CADENTI Stelle cadenti in questa notte stellata ed io esulto dalla gioia e canto una serenata. Voglio ammirarla questa meraviglia e fino al mattino stare sveglia. Quando l’alba le caccia via, io aspetto il sole per farmi compagnia e per guidarmi a creare una bella giornata, sotto il suo splendore mi sento rinnovata e corro felice e beata. Ora è sera, il cielo splende di stelle, la luna è una falce brillante, intorno a me è tutto affascinante, mi giro e mi rigiro e non posso dormire, voglio con loro sorridere e gioire. Le stelle mi baciano, la luna mi accarezza, il sole m’illumina, fa splendere la mia vita. Son così contenta che canto a squarciagola la mia serenata, che di certo a tutti sarà gradita! 28 – 6 – 2016 Cav. Giovanna Li Volti Guzzardi Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori (A.L.I.A.S.)
D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE CONDOGLIANZE - Il 27 luglio scorso è deceduta la madre di Emanuela, la compagna del no-
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stro carissimo collaboratore di Pescate (Lecco), prof. Giuseppe Leone, scrittore e saggista di chiara fama, assai apprezzato dai nostri lettori. Ci uniamo al dolore dei cari Amici, porgendo loro le condoglianze anche a nome della intera grande famiglia di Pomezia-Notizie. *** PREMIO I MURAZZI - 6a edizione. Sezioni: Poesia singola; Silloge inedita di poesia (max 200 cartelle); Libro edito di poesia, non prima del 2013; Racconti e romanzo (max 200 cartelle); Libro edito di prosa, non anteriore al 2013; Saggio inedito (letterario, filosofico e attualità, max 200 cartelle), Libro edito di saggistica non anteriore al 2013. Opere da inviare a Elogio della poesia - via Nuoro 3 - 10137 Torino. Scadenza 15 ottobre 2016. Chiedere regolamento completo. info@elogiodellapoesia. *** AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! L’aiuto non si chiede al concorrente! - Al vertice a tre di Ventotene, di lunedì 22 agosto tra Italia Francia e Germania, i temi più forti sono stati quelli economici inerenti lo sviluppo, nel tentativo di sottrarci ad una sempre più asfissiante stagnazione; i migranti i quali, senza un aiuto efficace ai Paesi di origine, finiranno per invadere del tutto l’Europa; il terrorismo, che si può in parte controllare e arginare solo con una più coesa collaborazione tra le Nazioni; la difesa comune di conseguenza, che dovrebbe portare a un esercito europeo e ad una sempre più stretta collaborazione tra le polizie dei singoli Stati. Al margine di tutto questo, il nostro Presidente del Consiglio ha posto un tema particolare, formulando la proposta di un piano straordinario della cultura che, al di fuori dei lacci fissati dal Patto di stabilità, possa incrementare gli investimenti in tal campo a livello europeo, valorizzando, così, luoghi e simboli comuni e dando impulso a una politica diversa, impostata su un patrimonio di cui l’Italia - a detta dell’Unesco - detiene quasi il 70% di quello mondiale. Dario Franceschini, l’attuale ministro dei nostri Beni Culturali, ha plaudito naturalmente all’iniziativa perché, se attuata, “colmerebbe un vuoto di anni nelle politiche europee”. Pomezia-Notizie non può non plaudire anch’essa quando si tratta di cultura, ma... Ma si permette di ricordare la saggezza economica che esige di non chiedere mai l’aiuto ai concorrenti, se non si vuole ottenere l’effetto contrario e finire strozzati. L’Italia, nel campo della Cultura, non dovrebbe domandare alcunché, ma fare e dare. Dovrebbe impegnarsi, cioè, nell’investimento di più ricchezza,
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valorizzando il molto che possiede e “vendendolo”, metaforicamente, all’estero. Dovrebbe investire su persone e strutture, in un piano capillarmente particolareggiato su tutto il suo territorio, con “venditori” agguerriti, orgogliosi e preparati. Se in tal campo si rivolge ad altri Paesi - Francia e Germania in testa -, non solo non otterrà alcun beneficio, ma si troverà sul lastrico in pochi anni, perché ogni Nazione avrà tutto l’interesse di finanziare e spingere su iniziative che attirino sempre più sul proprio territorio i milioni e milioni di turisti che ogni anno invadono il mondo. L’Italia è in testa al patrimonio culturale mondiale per tanti motivi storici, non perché si è data da fare in questi ultimi secoli, anzi! Sarebbe il momento che cambiasse atteggiamento, che si decidesse ad essere in testa anche in investimenti, in strutture e valorizzazioni, in una capillare organizzazione turistica che faccia dei Beni Culturali la prima e la più efficiente industria della Nazione. Ripetiamo: sarebbe un errore tombale se l’Italia chiedesse e si affidasse, in questo campo, ai propri concorrenti più svegli e più agguerriti. Alleluia! Alleluia! È veramente troppo porgere il capo e pure sistemarci il cappio! D. Defelice
LIBRI RICEVUTI ANTONIO VISCONTE - Il Messia - Poema, Premessa di Gerardo Zampella - Edizioni Quintessenza, Editore Gerardo Zampella, X Edizione, novembre 2012 - Pagg. 192, s. i. p.. Antonio VISCONTE è nato in San Prisco (Caserta) nel 1935. Ha frequentato il liceo classico di Santa Maria Capua Vetere e l’Università Federico II di Napoli, laureandosi in lettere moderne. Insegnante di materie letterarie nelle scuole statali, ha svolto un’intensa attività di docente ai corsi abilitanti e preparazione ai concorsi a cattedra, di critico d’arte e cronista giudiziario. Oltre al poema IL MESSIA (14.400 endecasillabi sciolti, raccolti in ottave, proseguendo il filone poetico aperto dall’Ariosto e dal Tasso), ha pubblicato - in latino - le sue memorie, e, inoltre, poesie e racconti vari. Compone musica per singoli strumenti, voci, orchestra e banda. ** MARIO BORTOLETTO - Contro gli abusi delle banche - Mutui, prestiti, conti correnti, come difendersi - Ed. Chiarelettere, 2015 - Pagg. 132, € 13,00. Mario BORTOLETTO è un imprenditore edile di Vigonza (Padova). Nel 2004 il suo lavoro
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subisce i primi effetti della crisi economica. Le banche cominciano a chiedergli di rientrare. Nel 2008 Bortoletto decide di passare al contrattacco. Ha ottenuto a oggi quattro vittorie e risarcimenti per somme pagate ingiustamente. Nel 2014 ha pubblicato “La rivolta del correntista” (più volte ristampato, ora disponibile in edizione tascabile). Nel 2015 ha fondato un movimento contro gli abusi delle banche. Il suo sito è www.mariobortoletto usurabancaria.it Il suo indirizzo email è mariobortoletto@gmail.com A chiusura di questo libro, una lunga Postfazione “Potere e privilegi delle banche” di Gianni Dragoni, giornalista de “Il Sole 24 Ore” e collaboratore della trasmissione “Servizio Pubblico” di Michele Santoro. Tra i suoi libri ricordiamo “La paga dei padroni “ (con Giorgio Meletti, 2008), sugli stipendi di manager e banchieri, e "Banchieri & Compari” (2012), pubblicati da Chiarelettere.
TRA LE RIVISTE LA RIVIERA LIGURE - Quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro, Dir. Maria Novaro Corso A. Saffi 9/11 - 16128 Genova - info@ fondazionenovaro.it Riceviamo il n. 1/2 (79-80) dedicato a Giovanni Descalzo, con interventi di: Valentina Ghio, Francesco De Nicola, Fabrizio Staffoni, Francesca Bottero, Franco Ragazzi, Natalino Dazzi/Vincenzo Gueglio. * IL CENTRO STORICO - Organo dell’ Associazione Progetto Mistretta, Presidente Nino Testagrossa, direttore responsabile Massimiliano Cannata - via Libertà 185 - 98073 Mistretta (ME). Ilcentrostorico@virgilio.it Del numero 5-6 (MaggioGiugno 2016), evidenziamo gli interventi di: Massimiliano Cannata, Lucio Bartolotta, Luca Toselli, Maria Nivea Zagarella, Franca Sinagra Brisca, Antonella Barina, Franco Ingrilli, Giuseppe Ciccia, Filippo Giordano e altri servizi non firmati, ma interessanti e ricchi di foto. * POETI NELLA SOCIETÀ - Rivista letteraria, artistica e di informazione diretta da Girolamo Mennella, redattore capo Pasquale Francischetti - via Parrillo 7 - 80146 Napoli - francischetti@alice.it Riceviamo (non inviati dalla direzione/redazione, ma dalla nostra collaboratrice Isabella Michela Affinito) due numeri: n. 73 (novembre-dicembre 2015) e n. 75 (marzo-aprile 2016), nei quali troviamo, a vario titolo, molti amici o nostri collaboratori: Anna Aita, Susanna Pelizza, Isabella Michela Affinito, Ora-
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zio Tanelli, Michele Di Candia, Giuseppe Manitta, Paolangela Draghetti eccetera. * ntl LA NUOVA TRIBUNA LETTERARIA - Rivista di Lettere ed Arte fondata da Giacomo Luzzagni e diretta da Stefano Valentini (responsabile) e Natale Luzzagni (editoriale), Vicedirettore Pasquale Matrone - Casella Postale 15 - 35031 Abano Terme (PD) E-mail: nuovatribuna@yahoo.it Riceviamo il n. 123 (luglio-settembre 2016) del quale segnaliamo: “Le irresistibili sconvenienze” (sul pittore Lucien Freud, 1922 - 2011), di Natale Luzzagni; “L’insolito dolore: Sylvia Plath”, di Anna Vincitorio; “I Nibelunghi”, di Elio Andriuoli; “Lancillotto o il Cavaliere della Carretta”, di Liliana Porro Andriuoli; “”Fosca Andraghetti”, intervista di Pasquale Matrone (lo stesso Matrone recensisce “La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice”, tesi di laurea di Claudia Trimarchi, apparsa nel 2015); “Il viaggio di Ulisse”, di Rosa Elisa Giangoia. Tra le numerose recensioni, di Matrone, Valentini ed altri, evidenziamo quella di Stefano Valentini su “Il sandalo di Nefertari”, del nostro amico e collaboratore Rossano Onano. A pag. 15 viene ricordato anche Peter Russell, il grande poeta inglese vissuto in Italia, il quale, a suo tempo, è stato assai ospitato sul nostro mensile Pomezia-Notizie, del quale ci siamo tante volte occupati (si veda il nostro volume “Poeti e scrittori d’oltre frontiera” - Edizioni EVA, 2005) e del quale possediamo tanto materiale e moltissime lettere. * IL CONVIVIO - Trimestrale di Poesia Arte e Cultura, fondato da Angelo Manitta e diretto da Enza Conti - via Pietramarina-Verzella 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) E-mail: angelo.manitta @tin.it; enzaconti@ilconvivio.org - Riceviamo il n. 2 (65) (aprile-giugno 2016), del quale segnaliamo: “Francesco Curto Curto in turco”, di Carmine Chiodo e le firme di Loretta Bonucci, Giovanna Li Volti Guzzardi, Mariagina Bonciani, Antonia Izzi Rufo (che, tra l’altro, recensisce“ La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice”, tesi di laurea di Claudia Trimarchi, edita da Il Convivio nel 2015), Giuseppe Manitta, Nazario Pardini, Isabella Michela Affinito, Anna Aita. Allegato, il n. 31 (aprile-giugno) di CULTURA E PROSPETTIVE, volume di 200 pagine, con gli interventi di: Fabio Russo, Michele Ingenito, Angelo Manitta, Giovanni Cristaldi, Giorgia Chaidemenopoulou, Christian X. Ferdinandus, Giuseppe Cappello, Stefano Cazzato, Giovanni Tavčar, Domenico Cara, Pippo Virgillito, Aldo Marzi, Leonardo Selvaggi, Leonardo Labi-
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ta, Claudio Guardo, Silvana Del Carretto, Pietro Nigro, Carmine Chiodo, Antonio Crecchia, Giovanna Sciacchitano, Isabella Michela Affinito. * ILFILOROSSO - Semestrale di cultura, direttore Luigina Guarasci, responsabile Pasquale Emanuele - via Marinella 4 - 87054 Rogliano (Cs). Email: info.ilfilorosso@gmail.com Riceviamo il n. 60 (gennaio-Giugno 2016). * SOLOFRA OGGI - La Voce di chi non ha voce, direttore Raffaele Vignola - via A. Giannattasio II trav. 10 - 83029 Solofra (AV) - E-mail: solofraoggi@libero.it Riceviamo il n. 30 (giugno-luglio 2016) sempre ricco di foto e di tante e svariate notizie sintetiche di quel territorio. * FIORISCE UN CENACOLO - Rivista mensile internazionale di Lettere e Arti fondata nel 1940 da Carmine Manzi e diretta da Anna Manzi - 84085 Mercato S. Severino (Salerno). E-mail: manzi.annamaria@tiscali.it Riceviamo il fascicolo n. 46 dell’aprile-giugno 2016, nel quale, in apertura, troviamo una intervista di Anna Aita a Maria Teresa Liuzzo; Antonia Izzi Rufo si interessa di opere di tre autori: Antonio Angelone, Leonardo Selvaggi e Ferruccio Brugnaro; poi ci sono due interventi di Orazio Tanelli e un saggio di Leonardo Selvaggi su Salvatore Di Giacomo, nonché poesie, racconti eccetera. Si ricorda che la rivista gestisce anche il Premio Nazionale Paestum, giunto alla 56a edizione, con scadenza 20 agosto; perciò, i nostri lettori che volessero parteciparvi, son pregati di chiederne il regolamento per il prossimo anno.
LETTERE IN DIREZIONE Da Vicenza, Ilia Pedrina, il 16 agosto 2016 Carissimo Direttore, oggi è il 15 agosto e mentre ti sto scrivendo mi sta andando in onda in rete 'Signori si nasce', film del 1960 di Mario Mattoli con il Principe di Bisanzio Antonio De Curtis, in arte Totò ad interpretare il Barone Zazà, dalla parlata diluita in strascichi con l'erre moscia. Al suo fianco il Barone Pio Degli Ulivi, suo fratello di sangue e quasi vero coltello, che foggia abiti per il clero maschile e fem-
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minile, nella sua sartoria ecclesiastica, interpretato da Peppino De Filippo. Questo sfondo in movimento, carico di intrecci e dialoghi esilaranti, tra debiti in cambiali che scadono, eros e giovinette gambe al vento, protagoniste di una compagnia di varietà, con Zazà come loro protettore ed un tenore che viene scoperto in manica di mutande, mi permette di tener testa alle tante vicessitudini negative che accompagnano i nostri giorni perché la guerra portata nelle terre degli altri è sempre guerra, fatta di violenza, bombardamenti, vittime innocenti d'ogni età in quei luoghi che dalle stanze di un Potere senza coerenza e senza pietà vengono decisi per diventare obiettivi da centrare, chirurgicamente si dice, per far credere a tutti che la cosa va fatta ed è moralmente pulita, diciamo necessaria affinché trionfi la democrazia, quel 'potere del popolo' che ha quasi perso il vero connotato della dignità, che avrebbe in sé una forza indicibile, ora invece potere minimo e forse in asfissia, caratterizzato solo da sottomissione, servilismo, suicidio morale. Dalle pagine della tua Rivista si levano non solo parole contro questo sistema di scelte non condivise e di eventi non accettabili, tra i tuoi versi in satira e le riflessioni amare, durissime tue, mie e di tutti gli altri fecondi collaboratori, ma anche orientamenti che intendono smuovere le acque per far emergere quel fango che non rende più trasparente l'acqua limpida e sorgiva della nostra natura umana, fango che va circoscritto e rimosso, una volta per tutte. Allora tornano in luce i giudizi durissimi di Luigi Nono nei confronti della politica italiana e della sua sottomissione alla politica estera americana negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta del secolo scorso ed ora anche del nostro, mentre si sfoga con l'amico Luigi Pestalozza: “Caro Luigi, la RAI proibisce l'esecuzione e la trasmissione per radio della 'fabbrica illuminata' per via del testo! Mantelli è venuto apposta a Venezia per cercare di arrangiare la storia con me. Ti trascrivo alcune sue dichiarazioni: 'noi avevamo fiducia in te
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e tu ci hai tradito' (…) 'se noi trasmettiamo questa musica saltiamo subito, Razzi e io, licenziati' 'in questa situazione politica non è possibile trasmettere questa musica' (…) 'Capirai al concerto a Genova verranno i dirigenti dell'ITALSIDER e i vescovi e gli altri, poi porteremo i delegati stranieri (al Premio Italia) in visita all'ITALSIDER per mostrare loro un'industria modello' 'se tu insisti, non mandiamo il nastro a Venezia' (…) chiaro: ho respinto tutto e ho rifiutato tutto. 'fate la vostra dichiarazione, che è falsa, e lo sapete bene, ma la cosa si saprà e salterà fuori' 'i vostri ricatti non mi toccano, ricordate che non siamo più nel '35...”. Questo, carissimo, è il cuore pulsante del volume 'Per un sospeso fuoco', il Carteggio che va dal 1950 al 1969 tra Luigi Nono e Giuseppe Ungaretti, curato da Paolo Dal Molin e da Maria Carla Papini per i tipi de 'il Saggiatore' di Milano, freschissimo di stampa e la cui pubblicazione ho tanto auspicato dalle pagine di questa Rivista, quando mi hai pubblicato il lavoro su 'I Cori di Didone' di Luigi Nono: è tratto dal materiale in nota alla lettera che Nono spedisce ad Ungaretti da Venezia, con data '7 Agosto 1964', nota preziosissima perché riporta direttamente una parte del testo della composizione di Nono 'La fabbrica illuminata', elaborato da Giuliano Scabia, che si reca con lui e con Marino Zuccheri -suo amico ed esperto nel settore dell'acustica elettronica allo studio di Fonologia di Milano- a Genova, alla sede della Italsider di Cornigliano: 'fabbrica di morti la chiamavano esposizione operaia a ustioni a esalazioni nocive a gran masse d'acciaio fuso ecc.' In questa stessa nota, alla pagina 166 del testo che ti ho appena citato, i curatori riportano quanto Nono traccia con dati importanti e necessari per individuare quale per lui dovrebbe essere il rapporto tra astrazione e realtà: “... una volta nella realtà tumultuosa e in-
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candescente di Cornigliano, ne fui sconvolto non tanto per la spettacolarità acustica e visiva apparentemente fantasiosa del laminatoio a caldo e di quello a freddo, o per la implacabile ritualità negli altiforni per la colata, ma proprio, non restandone affascinato astrattamente, per la violenza invece con cui in quei luoghi mi si manifestava la presenza reale operaia nella sua complessa condizione, e l'idea e il testo per La fabbrica illuminata si precisarono di conseguenza. Alla Cornigliano si registrò materiale acustico nel laminatoio a caldo e a freddo e negli altiforni; inoltre anche voci di operai...” (ibid). Ecco, si, 'non restandone affascinato astrattamente, per la violenza invece con cui...': Nono è dalla parte degli operai, della loro condizione di vita e di lotta, quasi nuovo Prometeo liberamente sciolto tra i riflessi della laguna veneziana nel dare con tutto se stesso senso alla propria presenza nella storia, esempio ed energia vitale di lotta e d'avventura. Così, non certo per caso, mi è arrivato in mano il numero 4 della tua splendida creatura di carta, nientemeno che dell'Aprile 2010, con un omaggio all'ottimo Luigi De Rosa a firma di Fulvio Castellani e con la recensione importante di Laura Pierdicchi che riporta cenni al Pedrina, mentre ti confida una sua ipotesi su 'Il porto sepolto' di Giuseppe Ungaretti, e che tu riprendi in 'DIARIO DI ANNI TORBIDI': “... Defelice chiude il diario con la giornata del 27 giugno 1969, nel quale si trova una notizia forte (che evidenzia il suo coraggio). Riguarda ciò che pensa Pedrina de Il porto sepolto di Ungaretti: '...è convinto, anzi, che Serra, prima di pubblicare a sue spese la prima volta Il porto sepolto dell'amico, lo abbia riveduto e corretto a fondo. Sono convinto -mi disse Pedrina- che il vero autore de Il porto sepolto non sia il fantaccino Ungaretti ma il tenentino Serra!' Ci lascia così, con questo dubbio e un po' sbigottiti, senza aggiungere né una prefazione né una postfazione, solo la sua vita, giorno per giorno, per
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poterlo conoscere e giudicare ancor più profondamente”. Si, non è un caso, credimi, che io abbia trovato questa testimonianza riportata in luce, alla pagina 59 del numero che ti ho citato, perché anche Nono sperava, auspicava forse in cuor suo che il poeta nato ad Alessandria d'Egitto si sarebbe schierato dalla parte degli operai contro qualsivoglia sopruso, dalla prestigiosa posizione di successo raggiunta, si sarebbe messo in mezzo, alla RAI, per smuovere le acque -pensa che questa silenziosa aspettativa di Nono nei confronti dello scrittore viene ipotizzata anche dai curatori del volume!-. D'altra parte c'è completa assenza del nome del poeta e scrittore pregevole Ettore Serra nell'elenco dei nomi e dei titoli di questo Carteggio, in tutti i sensi vera documentazione storico-analitica delle lettere tra i due, Nono e Ungaretti, e di tutti gli agganci possibili che ogni loro comunicazione può far scaturire: nemmeno al nome 'Giuseppe Ungaretti' viene posto in elenco 'Il porto sepolto', assorbito per sempre nella 'Allegria di naugrafi o l'Allegria', quando in Commiato l'Ungaretti pone la chiusa della sua primissima raccolta di poesie dal fronte, dedicata proprio a lui: 'Gentile Ettore Serra/ poesia è il mondo/l'umanità/la propria vita/ fioriti dalla parola/la limpida meraviglia/di un delirante fermento./Quando io trovo /in questo mio silenzio/una parola/scavata è nella mia vita/come un abisso.' Non sarebbe guastato questo importante riferimento poetico, tanto più in quanto è costante e significativo, fondamentale e fondante nella sua urgenza interiore, l'interesse profondo del GiGi veneziano nei confronti della parola, delle sue varianti, delle sue scansioni vocaliche e sillabiche, delle sue impostazioni vocali umane ed elettroniche, per dare un percorso sonoro alla realtà che connota il dramma, anche quello di Didone, quando Nono nella sua composizione fa intonare a più voci il suo stato d'animo di abbandono.
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Si, caro Direttore, tornando a noi, anche il 1964 è stato un anno torbido, torbidissimo, non meno dei successivi, non meno dei nostri, ma questo nostro essere in lotta, nella vita di tutti i giorni, con la parola poetica e non; con l'analisi non superficiale dei dati, dei fatti, dei contesti; con le immagini, i suoni, le forme in arte che sono vita, ci consente di mantenere alto il rispetto per la dignità, che è un dono, d'essere al mondo, perché questo è il nostro mondo, perché questo è il nostro tempo. E su Totò, unico Principe al quale io offro il mio inchino, continuerò un serio lavoro, per portare alla luce la sua capacità anarchica ed ironica, senza tempo, d'interpretare il potere e la politica. Un abbraccio a te ed a tutti i nostri Amici, in piena, coraggiosa condivisione d'intenti. Ilia Ilia Carissima, Agosto ci ha regalato, tra l’altro, l’ecatombe del terremoto, la mattina del 24 -cancellati Accumoli, Amatrice e decine di piccole frazioni -, ma non ti nascondo che avevo il timore - dopo ciò ch’è successo in giro nei mesi scorsi - che avremmo assistito pure ai fuochi artificiali del terrorismo, con i treni e gli aerei stracolmi di vacanzieri, le spiagge brulicanti di carni arrostite, i giochi cinici (io son più bravo di te e te lo dimostro!) nel bombardare intelligente (la protervia più tragica e profonda dell’ ignoranza!) con la regia di Russia e USA - almeno in Siria e Libia -, le olimpiadi di Rio, l’inizio del nostro campionato di calcio... Totò è macchietta di un tempo per certi versi meno feroce dell’attuale, giacché le “tante vicissitudini negative” che rappresentava sulla scena, con faccia e gesticolare ora sardonici, ora sciatti, quasi sempre al limite del sadismo e della disonestà, si spegnevano sempre in una risata, amara o meno. Oggi la società brulica di tragici pagliacci dalla faccia seria, che pontificano d’onestà e delinquono indisturbati quando non invidiati ed osannati. Su “la guerra1 portata nelle terre degli altri” non posso che confermare quanto ho già
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scritto in quell’editoriale del dicembre scorso, riportato da altre Testate - ho ancora qui, sulla scrivania, per esempio, la pagina 27 de Il Pontino Nuovo n. 21 dello stesso mese - e pure tradotto (“Nous devons arrêter!”) dalla poetessa francese Béatrice Gaudy, la quale mi scriveva, inviandolo alla rivista belga Traversées: “Il suo articolo sarà vero a lungo, anche dopo attentati futuri”. Tragica profezia! Dobbiamo smetterla di fare i gendarmi. I militari se ne stiano in casa propria. L’aiuto militare è una cosa seria e non va dato mai di proposito, di nostra iniziativa, rovesciando governi, sconvolgendo costumi e tradizioni, agendo in favore di lobby da mani e denti grondanti sangue che invoca vendetta. La democrazia non si esporta, non è una merce; essa deve sorgere dalla mente e dal cuore degli uomini, non dalla imposizione, dalla forza. Invece oggi è tutto un agire peloso, pelosa anche la commozione che dura meno di uno spot pubblicitario. La foto scioccante del bambino Omran e quella ancora più tragica del piccolo angioletto Aylan strappano solo lacrime momentanee a una ipocrisia stratificata, generale, saldamente radicata, assai dura a morire. A dominare sempre la spietatezza del cuore, che ingigantisce il nostro io, la nostra boria, che non ci fa vedere altro all’ infuori di noi stessi e del nostro benessere: il nostro cuore di pietra. Ungaretti, come tu scrivi, in quegli anni era all’apice della notorietà e un suo intervento avrebbe potuto cambiare certe cose; ma importava, a quel papa della cultura, degli operai e dei soprusi contro di loro? Seduto sul suo alto scranno, a volte astrattamente pontificava, ma non agiva concretamente, dimentico di aver anche lui sofferto: la guerra e i suoi orrori, la morte del figlio Antonietto all’età di appena nove anni.... Il successo annebbia, cara Amica, e, spesso, anche nei Grandi si annida l’ipocrisia. Ricordo lo scandalo dopo ch’è morto Montale, il quale aveva l’abitudine di scrivere ad uno lodandolo e contemporaneamente ad un altro dicendo peste e corna del primo! Grandezza arti-
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ti straziò le carni. L’occhio mite della renna si torse nella luce inquieta di un’alba risospinta al Caos. Lo zigolo nevoso sognava neve rossa, il grizzly vivo che si sciolse con la geometria del suolo bivaccando su scheletro di volpe. Dal cielo livido tuonarono messaggi di sterminio per una terra ormai non più di Allàh, non più di Budda o Brama, non più di Cristo: “Un brillio d’acque, un gioco d’amori e di lusinghe, un susseguirsi d’ansie e di stagioni, sarà lavacro incandescente per le vostre carni martoriate dilaniate, rese luci e suoni...” “Ma il vostro piede adunco non calcherà la terra che si fonde, l’acqua che brucia. Ipocriti sciacalli, non urlate con bocca d’inferno inalberando simboli di morte sui templi che frodaste degli Iddii: cinquanta e cento megatons anche noi confezionammo in doni per i fratelli Russi... Così l’Este e l’Ovest. E noi dormiamo con le mani in croce, ci nutriamo di morte, coviamo acciacchi per i nostri figli.
stica non vuol dire sempre grandezza d’ uomo, grandezza morale, se alla base c’è solo l’ ipocrisia, i vari aspetti del profitto immeditato - e via!, tanti calci in... faccia all’etica. Siamo l’orrore del creato e, un tragico giorno, in folla accalcati dinanzi alla porta stretta grideremo Signore aprici, abbiamo mangiato insieme a te, con te bevuto. Terribile e gelante allora sarà per tutti la risposta: Andate via da me, non vi conosco! Domenico 1 - Il mio impegno contro le armi e la guerra è stato costante nel tempo. Eccoti, per esempio, alcuni miei versi del 1960, 1961, 1982, ma per molti aspetti attuali, segno che, tranne qualche scenario, nulla è cambiato negli anni se non in peggio:
OGGI NEI CUORI DI PIETRA Ed ancora a Reggane per la seconda volta il tuono ed il lampo di morte! Non più manna, ma pioggia di fuoco per le miserie del mondo nel suo scrigno conserva il futuro. Nei cuori di pietra troppo lieve fu l’orma della strage dei figli dell’Est. Nagasaki risorta, risorta Hiroshima e il ciliegio bruciato fiorito, invano lo sfregiato dal “Pikadon” ci ammonisce scoprendo le piaghe.
CON LE MANI IN CROCE Novaja Zemlja...La follìa ti dipinse a sangue in questi giorni,
Oggi nei cuori di pietra si disserrano insane follie. Vulcano disseta il dio Marte
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nell’arcano cervello dell’uomo ed un giorno non lontano l’ombra oscura della terra sparirà dalla faccia del sole. Ma forse è assai meglio in un livido lampo sprofondare nella geenna, se il mondo di buio e di nulla della bimba senza cervello già incalza ed incute terrore. CANTO PER GOLDRAKE DI UN BAMBINO AFGHANO Vieni, eroe d'acciaio, a liberare il popolo afghano ! Sui passi immacolati s'annidano mostri guerrieri. Nelle tenebre sono scesi come lupi, come lupi ora s'aggirano fra le case della mia Kabul. Vieni, eroe d'acciaio, a liberare il popolo afghano ! Farfalle colorate straziano l'innocenza delle nostre mani. Uccelli esplodono veleni e batteri. Pastori che intagliavano zufoli sono dilaniati dal napalm. Vieni, eroe d'acciaio, a liberare il popolo afghano ! In ginocchio imploriamo. L'America di Lincoln, dei Kennedy, paura ha come la vecchia Europa. Bastoni e pietre contro i cannoni, le mitraglie, le bombe, i laser. Vieni, eroe d'acciaio, a liberare il popolo afghano ! Un nuovo re malefico ha deciso di trastullarsi con le nostra ossa. Vieni ! Scaglia la tua alabarda sopra il capo del perfido Vega,
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le tue lance su Gandal e Ziril. Vieni, eroe d'acciaio, a liberare il popolo afghano ! AI COLLABORATORI Si invitano i collaboratori ad inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione), composti con sistemi DOS o Windows, su CD, o meglio, attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è necessario un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (con copia cartacea) Annuo... € 50.00 Sostenitore....€ 80.00 Benemerito....€ 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia....€ 5,00 ABBONAMENTO solo on line: http://issuu.com/domenicoww/docs/) Annuo... € 35 Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 NO76 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio