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Ma chi è
PATRICK MODIANO, LO “SCRITTORE DELLA MEMORIA” che vinse il Nobel 2014-2015? di Luigi De Rosa UEST’anno è stato il cantautore popolare americano Bob Dylan, di origini ebree tedesche (Robert Allen Zimmerman) nato nel 1941. Ma nel 2012 a Stoccolma avevano premiato il narratore cinese Mo Yan e nel 2013 era stata “incoronata” la scrittrice di racconti canadese Alice Munro (con otto milioni di corone, pari a un milione e centomila dollari). Non so quanti se lo ricordino ancora, ma per il 2014-2015 il Premio era stato conferito al narratore sessantanovenne Patrick Modiano, un ebreo francese di origini livornesi per parte di padre. Un padre “vivisezionato” dal figlio in gran parte della sua produzione letteraria, in quanto figura oscura e discussa, collaborazionista del regime di Vichy e degli occupanti tedeschi, ritenuto “colpevole” di borsanera e di →
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All’interno: Canto per te, di Giuseppe Leone, pag. 6 Lingua italiana e dialetti, di Emerico Giachery, pag. 10 La camomilla di Gabrina, di Rossano Onano, pag. 15 Pasquale Tuscano: Assisi nella civiltà delle lettere, di Carmine Chiodo, pag. 18 Giorgio Bárberi Squarotti: Le finte allegorie, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 20 Il Canto IX del Paradiso (1), di Fabio Dainotti, pag. 23 Il Codice di Federico e la Badessa Ghibellina, di Rossano Onano, pag. 28 Rosalba Maletta con Walter Benjamin, di Ilia Pedrina, pag. 32 Comunità patriarcale e moderna, di Antonia Izzi Rufo, pag. 35 Il segreto di Selenia, di Leonardo Selvaggi, pag. 37 Il picconatore, di Antonio Visconte, pag. 43 La strada dell’ultimo dell’anno, di Filomena Iovinella, pag. 44 I poeti e la Natura (Eugenio Montale), di Luigi De Rosa, pag. 45 Notizie, pag. 58 Libri ricevuti, pag. 64 Tra le riviste, pag. 65
RECENSIONI di/per: Elio Andriuoli (Anche se quel che spero, di Maria Rosa Acri Borello, pag. 46); Tito Cauchi (Aspra terra e creazione fertile nell’opera di Domenico Defelice, di Aurora De Luca, pag. 47); Tito Cauchi (Nino Ferraù, di Domenico Defelice, pag. 48); Roberta Colazingari (Carmine Manzi una vita per la cultura, di Tito Cauchi, pag. 49); Domenico Defelice (Michele e Gabriella Frenna l’incontro dai mosaici alle poesie, di Luigi Ruggeri, pag. 49); Aurora De Luca (Nino Ferraù, di Domenico Defelice, pag. 51); Salvatore D’Ambrosio (Nino Ferraù, di Domenico Defelice, pag. 51); Elisabetta Di Iaconi (Nino Ferraù, di Domenico Defelice, pag. 52); Giuseppe Giorgioli (Crisi della democrazia rappresentativa e beni comuni, di Francesco Falco e Giuseppe Sessa, pag. 53); Antonia Izzi Rufo (Nino Ferraù, di Domenico Defelice, pag. 54); Giovanna Li Volti Guzzardi (Sensazioni, di Antonia Izzi Rufo, pag. 54); Susanna Pelizza (Nino Ferraù, di Domenico Defelice, pag. 55); Laura Pierdicchi (Ode impetuose, di Filomena Iovinella, pag. 55); Liliana Porro Andriuoli (Non ritorni, di Antonio Spagnuolo, pag. 56); Anna Vincitorio (Canti dell’ assenza, di Nazario Pardini, pag. 57). L’Italia di Silmàtteo (12a e ultima puntata), di Domenico Defelice, pag. 66 Inoltre, poesie di: Elio Andriuoli, Giancarlo Baroni, Mariagina Bonciani, Anna Maria Bonomi, Rocco Cambareri, Giannicola Ceccarossi, Domenico Defelice, Antonia Izzi Rufo, Adriana Mondo, Reynaldo Armesto Oliva, Susanna Pelizza, Teresinka Pereira, Leonardo Selvaggi
altre losche vicende nell'atmosfera tragica di quegli anni immediatamente precedenti il 1945. Un padre col quale Modiano ha avuto rapporti burrascosi fino al 1966, quando ha deciso di non rivederlo più.
La motivazione ufficiale del Premio è la seguente: “Per l'arte della memoria con cui ha evocato i destini umani più inafferrabili e svelato la vita reale (“the life-world”) dell'Occupazione”.
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Qui per “memoria” si deve intendere sia quella individuale e intima che quella storica, di popoli interi. Sia quella delle descrizioni di fatti e persone che quella di sogni, attese, speranze, incubi e delusioni. “La mia memoria precede la mia nascita” disse una volta a Queneau per dare una spiegazione all'affascinante fenomeno della memoria e rievocazione di strade, negozi, alberghi, atmosfere parigine di prima del 1945, anno della sua nascita. (Si veda, in particolare, il romanzo “Dora Bruder”). La descrizione particolareggiata di tali atmosfere ha uno scopo preciso: quello di combattere quella che è la caratteristica della metropoli, l'impersonalità, la solitudine, l'indifferenza. Si arriva a descrizioni di angoli della grande città precise come mappe stradali, ma che restano fini a se stesse, non riuscendo a scalfire quel doloroso senso di nullità e di abbandono che può colpire l'individuo intimamente solo. Oppure, al contrario, ci si può imbattere in situazioni surreali, come quando lo scrittore dice “ ho sempre pensato che certi angoli delle vie siano degli amanti e che si venga attirati da loro se si cammina nei paraggi...” La reazione di Modiano alla notizia del Premio Nobel era stata, a tutta prima, di sconcerto misto a gioia. Anche se più noto in patria che nel resto del mondo, anche se schivo e piuttosto appartato, egli è comunque uno scrittore consacrato da più di quaranta anni, cioè dal Boulevard de ceinture”, Gran Premio dell'Accademia di Francia nel 1972. Eppure non ha potuto trattenersi dall' esclamare “C'est bizarre! Sono sorpreso, non me lo aspettavo. Sono molto colpito” davanti a tutti i giornalisti presenti negli uffici parigini del suo Editore. E mentre quest' ultimo brindava con champagne a tutti i titoli dei suoi libri passati, presenti e futuri, aveva aggiunto: “Mi sembra irreale essere finito insieme ad autori come Camus, che ammiravo quando ero ragazzo”. Quanto alla reazione della cosiddetta “Casta” letteraria, quella che “conta” in certi ambienti critico-giornalistici ed editoriali, è
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forse sufficiente richiamare il giudizio (l'opinione?) di Ernesto Ferrero, direttore del Salone del Libro di Torino che nonostante la felpata diplomazia aveva espresso con chiarezza il pensiero nascosto di molti: “Detto che è una scelta apprezzabile e condivisibile, forse anche in questa circostanza, senza voler essere particolarmente maliziosi, credo che possiamo apprezzare le notevoli capacità diplomatiche che ha la cultura francese nel sostenere a Stoccolma i propri autori. Nell'azione di lobbing i francesi sono bravissimi.” Ferrero ricordava che pochi anni prima, un altro francese “sconosciuto” era stato insignito del Nobel: Gustave Le Clézio. Diciamo però che Modiano, oltre ad avere molti estimatori, ha anche dei detrattori (per non arrivare a “Chi, quello delle carte da gioco?” oppure a “Il solito ebreo, si sa già dove si va a parare!”) e non solo per motivi di “invidia letteraria”, o ideologici, che lo accusano, in sostanza, di scrivere sempre lo stesso libro. Accusa, del resto, che potrebbe essere rivolta a molti altri scrittori, e che non aveva risparmiato neppure Moravia. Ma il conferimento del Nobel gli avrà dato (almeno per un anno) molte soddisfazioni. Intanto, nelle librerie francesi è uscito Pour que tu ne te perdes pas dans le quartier, cui hanno fatto seguito sia in Francia che in Italia ed in altri Paesi, altri libri (ristampe, traduzioni, etc.) Modiano è nato il 30 luglio 1945 nella popolosa Ile de France, nel Comune di Boulogne-Billancourt, alla “periferia” di Parigi. Non ha avuto molto affetto da parte della madre (né da parte del già citato padre) e all'età di dodici anni ha sofferto molto anche per la morte del fratello Rudy, di due anni più giovane, cui voleva molto bene. Sballottato di qua e di là, ha fatto studi irregolari, e ha sofferto acutamente le problematiche di un'adolescenza priva di guida, amore e comprensione. All'Università ha seguito per un po' Filosofia, poi si è iscritto a Lettere, ma non ha terminato gli studi. Modiano ha avuto la buona sorte di avere,
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tra i suoi professori di liceo, lo scrittore, e matematico, Raymond Queneau, buon amico della madre (un'attricetta fiamminga mediocre) molto noto nei Circoli letterari e stimato nell'ambiente della famosa Casa Editrice Gallimard. Quando l'autore di Zazie dans le metro (libro pubblicato da Gallimard nel 1959 e trasformato in film da Louis Malle nel 1960) oltre ad avergli insegnato geometria lo propose autorevolmente al suo editore come scrittore, Modiano aveva ventidue anni. Scrisse il suo primo romanzo, La place de l'étoile. La storia, manco a dirlo, di un ebreo francese che vive con l'incubo dei ricordi della guerra e della persecuzione del suo popolo. La narrazione, più che una cronaca o una pagina di storia, disegna, appunto, un incubo allucinante e caotico, dove i personaggi assomigliano più a dei fantasmi vaganti che a figure umane concrete. Il successo fu immediato, e Modiano si decise a scrivere a tempo pieno. Questo suo primo libro costituì la piattaforma sulla quale avrebbe costruito il suo progetto di scrittore (le sue opere, tra romanzi e racconti, sono una trentina. In genere si tratta di libri piccoli, ma dall'atmosfera densa, tra malinconia, paura, diffidenza). In seguito, avrebbe anche scritto una canzone per Françoise Hardy (Etonnez-moi, Benoit!”) e la sceneggiatura per un film di Louis Malle (“Cognome e nome: Lacombe Lucien”) oltre a racconti per ragazzi. In seguito, nel 1978, Modiano avrebbe addirittura vinto il prestigioso “Prix Goncourt”, col libro Rue des boutiques obscures (sì, la via del P.C.I. , ma il P.C.I. non c'entrava niente). In Italia, gli sono stati pubblicati Dora Bruder (Guanda, 1998, vincitore, nel 2012, del Grinzane Cavour) e quattro libri con Einaudi (Bijou, 2005, Un pedigree, 2006, Nel caffè della gioventù perduta, 2010, L'orizzonte, 2012). Sempre con Einaudi uscirà in primavera Arcipelago. “Dora Bruder” è la storia delle ricerche compiute da Modiano sui motivi della scomparsa di una ragazzina ebrea quindi-
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cenne (partendo da un'inserzione dei genitori sul giornale Paris Soir del 31 dicembre 1941) poi ritrovata, otto mesi dopo, insieme al padre, fra i deportati di un convoglio in partenza per il campo di sterminio di Auschwitz. Ma nella stessa storia lo scrittore inserisce, in sostanza, la dolorosa sequela dei suoi amari contrasti con il proprio padre. Addirittura, la ragazzina sarebbe il doppio femminile dello stesso Modiano, che immaginerebbe, quindi, la propria scomparsa ed il proprio destino di morte, non verificatosi per ...ragioni anagrafiche. La sua vera e propria autobiografia, comunque, Modiano l'ha pubblicata con Einaudi, sotto il titolo di Un pedigree. Nel recente L'orizzonte, sono numerosi i brani nei quali è in forte rilievo il dramma della “memoria”. “Ripensava a certi episodi della sua giovinezza, episodi incoerenti, tronchi, visi senza nome, incontri fugaci. Tutto ciò apparteneva a un lontano passato, ma poiché quelle brevi sequenze non erano legate al resto della sua vita, esse rimanevano in sospeso, come un eterno presente...”. “Quei frammenti di ricordi corrispondevano agli anni in cui la tua vita è disseminata di bivi, in cui ti si aprono così tante strade da avere l'imbarazzo della scelta. Le parole di cui riempiva il taccuino gli evocavano l' articolo inerente la “materia oscura” che aveva mandato a una rivista di astronomia. Dietro agli avvenimenti precisi e ai visi familiari avvertiva tutto ciò che era diventato materia oscura: brevi incontri, appuntamenti mancati, lettere perdute, nomi e numeri di telefono scritti su una vecchia agenda che non ricordi più, uomini e donne che hai incrociato senza nemmeno saperlo. Come in astronomia, la materia oscura era più vasta rispetto alla parte visibile della tua vita...” Lo scrittore francese continua ad attribuire a personaggi delle sue storie (se non addirittura al lettore) impressioni e sensazioni che sono sostanzialmente sue, e soltanto sue. Forse è vero che è ossessionato dalla “memoria”, e che finisce con lo scrivere sempre
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lo stesso libro. I volti che sembrano emergere dal passato sono, spesso, impauriti. E sono vaghi, ed esprimono un appello, una richiesta d'aiuto sempre più sorda, destinata a svanire nel gorgo del passato. Ed il tutto si svolge in un'atmosfera di affanno, di fatica continua, di ricerca angosciosa e perenne, perché “...per quanto ci sforziamo, non conosceremo mai il riposo, la dolce immobilità delle cose. Cammineremo fino alla fine su delle sabbie mobili...”. Il mondo di Modiano non è popolato soltanto da persone vive, ma anche da esseri umani che non ci sono più (“Credo che si ascolti ancora agli ingressi delle case l'eco dei passi di coloro che avevano l'abitudine di attraversarli e che, poi, sono scomparsi...da “Rue des boutiques obscures”). E, sempre nell'einaudiano “L'orizzonte”, Modiano si chiede, e ci chiede: “Siamo davvero sicuri che le parole scambiate tra due persone durante il loro primo incontro si siano disperse nel nulla, come se non fossero mai state pronunciate? E quel mormorio di voci, quelle conversazioni al telefono da un centinaio di anni a questa parte ? Le migliaia di parole sussurrate nell'orecchio? Tutti quei brandelli di frasi così poco importanti da essere condannati all'oblìo?”. Soltanto uno scrittore autentico, con l'arte della parola, può dare corpo a quanto di invisibile, inudibile, vago ma esistente (anche se per poco) vi sia nella vita degli uomini. Luigi De Rosa
SARDEGNA Quello che vediamo non si trova nel luogo immaginato, ma negli azzurri impossibili, nello scorrere segreto di paesaggio brullo, nel suo inconscio di pace ed armonia, nei tramonti infuocati, lungo spiagge immerse in quell'aria di sale. Quel mare sarà per noi
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negli odori del vento e della luce. Per questo giorno indimenticabile fatto di immagini perfette, sognate. Adriana Mondo Reano, TO
A NEW WORLD I tied a hammock to the high cedar branches. a supine light breeze rocks me. What vast sea is the sky! I see what I had not seen over the bramble hedge, from above, everything is different and it confuses me the new world. Domenico Defelice Traduzione di Giovanna Li Volti Guzzardi, Australia
PER CASO PER MIRACOLO Offriamole promesse elogi riti di ringraziamento verso il buio le cose si dirigono naturalmente ma dalla vita nascono per caso per miracolo. Giancarlo Baroni Parma
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 18/12/2916 Poletti, a proposito dei nostri giovani emigrati all’estero, dice che l’Italia “non soffrirà a non averli più fra i piedi”! Alleluia! Alleluia! Ma perché non emigra lui, così l’Italia soffrirà assai di meno, costretta com’è a sopportare la sua ingombrante carcassa e la sua proverbiale ignoranza? Domenico Defelice
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CANTO PER TE Omaggio a Tito Schipa di Giuseppe Leone
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dodici anni dalla monografia su Tito Schipa scritta da suo figlio Tito Schipa Junior e a coronamento di numerosi altri eventi creati per celebrare i cinquant'anni dalla morte del famoso tenore, è stato pubblicato nel luglio 2016 Canto per te. Omaggio a Tito Schipa, un volume di saggi di autori vari, per conto delle Edizioni Gri-
fo di Lecce, a cura di Elsa Martinelli, forniti per l'occasione dal Conservatorio di Lecce, “che oggi perpetua il nome di Schipa, avendo ereditato il lascito istituzionale del già Liceo Musicale a lui intitolato (al tempo sorto grazie al suo prestigio artistico e a una sua prodiga elargizione)” (11). Suddiviso in tre sezioni: Storie di una leggenda, Immagini, Memorie di una leggenda, il libro è nato, a detta della stessa curatrice, per “risarcire l'artista di alcune disattenzioni, o mancanze, inanellate negli anni, quale il tanto auspicato, ma ad oggi irrealizzato, museo dei cimeli” (11).
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E in effetti, già nei primi due saggi Titu e Una furtiva lagrima... Aneddoti di un amore poco ricambiato ovvero Tito Schipa a Lecce, Adriana Poli Bortone e Giovanni Invitto, ritornando al tempo dei loro incarichi istituzionali, ne parlano fra sensi di colpa e propositi di riparazione: la prima, ex senatrice e già sindaco del capoluogo salentino dal '98 al 2007, domandandosi se Lecce “a quest'uomo...divenuto tenore di grazia, compositore, direttore d'orchestra..., mecenate, che nel 1925 dava un milione per la costruzione del conservatorio, ammirato da tutto il mondo, ha saputo ridare... tanto quanto lui ha dato” (21); il secondo, già docente ordinario di filosofia teoretica nell'Università del Salento, scusandosi se, “dal settembre del '99, quando divenne collaboratore del presidente della Provincia Lorenzo Ria, quella sua proposta di riprendere un progetto da lui stesso promosso due anni prima in qualità di vicesindaco di Lecce, sul museo dedicato a Tito Schipa, non fruttò altro che un verbale assenso di Città, Provincia, Università, Camera di Commercio” (24). Eppure, Michael Aspinall, nel successivo saggio O dolce incanto. La vocalità di Tito
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Schipa nell'ascolto delle registrazioni (1913'64), nonostante un museo dei cimeli non sia stato ancora realizzato a Lecce, frena un po' sulle lamentele e scrive che il nome di Tito Schipa in fondo è ancora onorato in questa città se “la pasticceria più celebre di Lecce fabbrica tuttora il Cioccolato Tito Schipa; e se “ogni mezzogiorno, sulla centrale piazza intitolata a Sant'Oronzo, un altoparlante diffonde una riproduzione... della voce di Schipa...” (47); come è stato sempre onorato – ci tiene a precisare - dai suoi colleghi cantanti: da Gigli e Pertile, a Gianna Pederzini, a Gilda Dalla Rizza, a Bidu Sayão; e persino da critici come Rodolfo Celletti, che definisce la voce di Schipa “inconfondibile per la delicatezza dello smalto, per le suggestive screziature esotiche dell'impasto vagamente gutturale e per la freschezza e la levigatezza che contraddistingueva ogni nota dalla zona superiore dei centri in poi...” (49); Andrea Dalla Corte, che descrive la voce come “tipicamente meridionale, vellutata, morbida, un poco oscura come nella gamma propriamente baritonale” (48); e lo stesso Aspinall che scrive: “siamo grati al tenore per la sua lunga carriera di artista raffinato capace di spaziare dall'opera alla musica leggera senza mai cadere nel cattivo gusto” (62 ). Ma non solo rispetto alla musica leggera, per Alessandro Laporta anche riguardo al canto popolare di cui Schipa è stato pure fine interprete e compositore geniale, le cui esibizioni - secondo quanto scrive nel suo saggio, Da Castromediano a Tito Schipa... - non furono mai incontri estemporanei, ma frutto di un percorso culturale di recupero di un'antica tradizione “interpretando magistralmente e incidendo su disco Cuandu te 'llai la facce la matina” (67-68). Un percorso culturale dal quale il tenore non separerà mai la sua carriera, neppure quando canterà in Spagna, come nota Piero Menarini in La Spagna all'epoca di Tito Schipa..., al tempo del meraviglioso sodalizio tra Garcia Lorca e Manuel De Falla, che portò al primo Concurso de Cante Jondo del 1922 (79), una data che incuriosirà il critico fino a domandarsi, sulla scia di una suggesti-
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va ipotesi di Massimo Mura, se Garcia Lorca e Schipa non si siano anche conosciuti personalmente, “se è vero che Lorca, una volta trasferitosi alla Residencia de Estudiantes di Madrid, non perdeva nulla di quanto di veramente interessante si rappresentava nei teatri della capitale nei primi anni Venti (80-81). E neppure quando si esibirà in America Latina, Schipa sacrificherà il suo percorso culturale, lo onorerà, al contrario, e non solo con la sua attività di interprete, ma anche e soprattutto - come rivela Mariacarla De Giorgi in Tito Schipa, il mondo iberico-americano e la Spagna – nella sua qualità di “promotore della cultura musicale iberica, che apre il repertorio dell'opera lirica italiana alle zarzuelas della scuola nazionale spagnola e alla musica popolare rioplatense”, cimentandosi nella composizione di “canciones espagnolas”(85). Ma Schipa non legò il destino della sua carriera solamente ai luoghi, l'unì anche ai tempi del ventennio fascista e della Guerra Fredda come si evince da quanto asseriscono Elsa Martinelli, musicologa e docente del Conservatorio di Lecce, in Con l'Italia nel cuore Tito Schipa nelle cronache dell'Italian Journal,, e Dario Salvatori, storico della musica, in Un grande tenore di vita: la prima, estrapolando alcune notizie dal periodico australiano all'epoca della tournée del tenore a Sidney nel 1937 che riguardano il “saluto fascista del tenore, in occasione dei suoi concerti; un'intervista, sempre a Sidney, in cui il tenore si dice fiero dell'amicizia del segretario del partito nazionale fascista, suo conterraneo Achille Starace. (107); e l'offerta del tenore, nel '35, di sette chili di verghe d'oro al Segretario Federale Rino Parenti, alla Scala di Milano, in un intermezzo della Lucia di Lammermoor (99); il secondo, riferendo, tra le altre cose, anche sul sospetto di filocomunismo in cui era caduto Schipa, in occasione di un suo viaggio a Mosca nel '57 per presiedere la giuria di un concorso di canto ai Primi Giochi della Gioventù di Mosca, viaggio che in seguito ripeterà per altre tre volte (116). E qui si chiude la prima parte, a cui segue una seconda (una trentina di pagine di imma-
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gini riguardanti foto a colori e in bianco e nero di Schipa in scena e in famiglia, locandine, testi di canzoni, spartiti, articoli di giornali) e una terza che raccoglie altri saggi di Maria Giovanna Brindisino, Beatrice Malorgio, Luciana d'Ambrosio Marri, Gigliola Bianchini, Gianni Carluccio, dedicati alla memoria del grande tenore, questa volta, riguardo al suo rapporto con Lecce, ad eccezione dell'ultimo, relativo a tutta la sua carriera. Questi i rispettivi titoli: “Mai come nel 1925”. Tito Schipa riservato promotore del Liceo Musicale di Lecce” (159); Memorie di pietra. Riflessi umani e artistici di Tito Schipa attraverso tre interventi su altrettante architetture salentine... con le quali il tenore interagì a diverso titolo: il Politeama greco, l'ex Liceo Musicale di Lecce e il Monumento Nazionale al Marinaio a Brindisi (185-186); Libere associazioni e risonanze familiari. Omaggio a Tito Schipa. (201), Tito Schipa. Ricordi di un grande tenore nella Biblioteca del Conservatorio di Torino (211); infine, Patrimonio e nuove acquisizioni dell'Archivio SchipaCarluccio (221), in cui l'ingegnere nipote del tenore, dopo una dedica alla madre Silvana Schipa, elenca - accanto al notevole numero di documenti relativi alle Composizioni Musicali, ai Fascicoli e Spartiti Musicali, ai Costumi di Scena indossati dal tenore nelle varie opere interpretate, ai Diari della seconda moglie Diana Prandi - le numerose altre sezioni: La raccolta dei ritagli della Stampa; “Ricordi Artistici” a cura di Elvira Schipa (19021917); La Raccolta della Stampa Statunitense a cura di Lily Schipa; La Raccolta della Stampa Statunitense a cura del Rev. Richard A. Cantrell; L'Album Fotografico della Collezione “Carlo Schipa”; Nuove acquisizioni dell'Archivio “Schipa-Carluccio”, Il Museo Vrtuale “Tito Schipa”. Non si è detto che il libro si apre con un interessante racconto dal titolo Tito Schipa vive, in cui Tito Schipa Junior parla di un sogno ricorrente, tratto dal XV capitolo della già citata monografia, attraverso il quale offre un prezioso e illuminante contributo a chi voglia approfondire il suo rapporto con il celebre
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padre. Quello che colpisce, allora, sfogliando le 304 pagine dell'elegante volume, impreziosito in copertina da una foto che ritrae Tito Schipa nel ruolo di Guglielmo in Mignon, in scena al Teatro alla Scala di Milano il 6 aprile 1933, con un sipario rosso che non vuole chiudersi ma vi svolazza sopra formando una S, è notare come, in tutti questi saggi, l'esistenza del tenore risulti cosi fortemente schiacciata sui tempi (ma anche sui luoghi) dove trascorse la sua vita e la sua carriera, e così insistentemente, da farmi pensare a Heidegger quando scrive che il nostro essere debba forma e sostanza al tempo a cui si lega. Come la vita di Tito Schipa, per esempio, che dopotutto ha ricevuto così forte l'impronta dei tempi che lo circondarono. Da qui, l'uomo, il divo, il tenore di grazia, il dongiovanni, “dissoluto” tanto negli affari di cuore quanto in quelli delle sue poco fortunate attività commerciali; il cantante lirico aperto a tutte le espressioni del canto, da quello jazzistico, a quello popolare, alla musica leggera; e ancora il regista, l'attore, il cineasta, il direttore d'orchestra, l'impresario teatrale. E non solo, più in generale, l'uomo di cultura, ne parlava quattro lingue e cantava in undici. Tutte immagini di un artista dotato di una personalità straripante che lo farà vivere ogni giorno – scrive Invitto - all'altezza del suo nome, sempre in alto, dove lo collocarono prima il suo cognome Schipa e poi il suo nome Tito, rispettivamente aquila e colomba, come vuole l'etimo delle due parole. Aneddoto che una rivista americana non si lasciò sfuggire, intitolando Tito Schipa: il nome è la voce un articolo in occasione del suo centenario dalla nascita (31). Un artista a cui non bastò Lecce né il Salento per fare spiccare alla sua voce il folle volo, e neppure la sua arte principale, il melodramma. Gli servì un percorso culturale più lungo, apertosi grazie alla “passione per l'anima popolare della musica iberico- americana..., da cui prenderà in prestito ritmi, tonalità, melodie e forme dal tango, evocato dall'uso modale della scala andalusa”; e della can-
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zone napoletana, per “la semplicità della linea melodica della voce e la presenza delle alterazioni cromatiche (94). Tutti arricchimenti che, anziché allontanarlo da Lecce, gli faranno apprendere l'arte del ritorno, che avvenne puntuale prima in ispirito e poi nella realtà, dopo averle dedicato, nel frattempo, canti popolari come Lecce mia, Core miu, Beddhra e trista e Cuandu te 'llai la facce la matina, quest'ultimo di anonimo e rielaborato da lui. “Fu l'ultimo dei “tenori di grazia”, scrive Teodoro Celli il 2 gennaio '66 sulla Domenica del Corriere, (14-15), ma non solo, penso che sia stato anche l'ultimo “divo”, e forse anche l'ultimo “interprete”, perché calcò le scene di un teatro che andava ogni giorno cambiando. Ma Schipa fu molto attento al suo tempo, lo visse, non sopravvivendogli mai, grazie alla sua intelligenza picaresca che gli fece intuire che ciò che gli accadeva si stava verificando “qui e ora” e per l'ultima volta. Non conobbe appelli davanti al tempo che gli fissava scadenze, in questo forse la pensava come Buzzati. Persino la morte lo colse in quell'unica e ultima volta, quando lo raggiunse il 16 dicembre 1965. Non morì mai
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prima, perché seppe davvero “vivere” “oltre la gioventù”, se a settantasette anni viveva assieme a Priscilla Haslett che ne aveva 24. Giuseppe Leone Canto per te. Omaggio a Tito Schipa. A cura di Elsa Martinelli. Edizioni Grifo, Lecce, 2016. Pp. 304.
LA VITA INSIEME Il volto malinconico velato dai capelli arruffati scomposti. Il vento nella sera polveroso incastra le vesti nelle forme delle gambe. Distratto dai pensieri liberi, un richiamo dentro ha la visione intravista. Le sfocate linee di lontano intuite del cammino nei giorni futuri sono l’avvio segnato. L’occhio furtivo attratto, sul cuore una trafittura sentita. Messo sotto gli occhi che tanta sete hanno avuto nelle lunghe attese il canestro delle belle dovizie, non sai da dove cominciare, abbacinato dalla grande abbondanza fra le mani, un banchetto vero. Il binario parte di lì per inerpicarsi e raggiungere le mete varie, tragitto portato regolare, pure le ansie sospese avute sui cigli delle alture. Lungo i viali ampi le pause serene. Dell’andatura delle semplici giornate legate da fili ininterrotti di mira nella mente i punti fissati. L’istinto recalcitrante presto s’ammansisce, le opposizioni non sono rifiuto, ma significato che si aggiunge alla disponibile prontezza. Abitudine la costante presenza di dedizione nella casa. Il nero maligno si è visto di tanto in tanto dietro la porta, paziente la natura remissiva di contro agli accidenti piombati addosso. Malumori miei di malato sentimentale, il bambino è rimasto negli anni maturi desiderando le cose non fatte prima; le illusioni ostinate a ricolmare i vuoti. Sono mancati i suoi slanci per rifocillare dei desideri bruciati l’appetito non domato. Leonardo Selvaggi Torino
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LINGUA ITALIANA E DIALETTI di Emerico Giachery
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SONO infiniti i dialetti, i gerghi, / le pronunce, perché è infinita / la forma della vita: / non bisogna tacerli, bisogna possederli”. Versi di Pier Paolo Pasolini che porrei in esergo al mio dire. Pasolini, ottimo poeta in friulano (che poi è una lingua più che un dialetto), nel lontano 1947, sull’VIII quaderno di Poesia di Enrico Falqui, avviava il discorso sui dialetti in poesia che gli sarà sempre caro. L’anno seguente, un volume miscellaneo di Letterature comparate accoglieva un saggio di Mario Sansone sulle Relazioni fra la letteratura italiana e le letterature dialettali. Via via nel corso degli anni l’interesse s’è fatto sempre più vivo e ricco. Sono nate riviste specializzate di poesia dialettale come “Lengua”, “Diverse lingue” “Il Belli”, “Letteratura e dialetti”, “Rivista di letterature dialettali”. A un poeta in dialetto
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come il romagnolo Raffaello Baldini è stato assegnato il Premio “Viareggio”. Dell’opera poetica in dialetto di Albino Pierro, che a lungo e invano aspirò al Nobel ed è stato tradotto in molte lingue compreso lo svedese, e di recente l’olandese, sono state pubblicate, quando il poeta era ancora vivente, rigorose concordanze. Nel 1980 (1-4 dicembre) si svolgeva a Palermo un Convegno su La letteratura dialettale in Italia dall’Unità ad oggi. Nel 1991, Francesco Piga integra la vallardiana Storia letteraria d’Italia con un bel saggio accompagnato da ricchissima bibliografia e intitolato La poesia dialettale del Novecento. Nel 1992 esce, per i tipi pisani di Giardini, il mio volume Dialetti in Parnaso. Nel 1999 Franco Brevini pubblica La poesia in dialetto: storia e testi dalle origini al Novecento nei “Meridiani” di Mondadori. Nel 2005 a Trieste, in collaborazione con l’ Università ungherese di Pécs, è stato organizzato il Convegno internazionale Il dialetto come lingua della poesia, pubblicato nel 2007. Nei giorni 18-19-20 ottobre 2011 ha avuto luogo a Roma un importante Convegno di studi su Letteratura, lingua e dialetto: identità nazionale. Tra le maggiori ricchezze dell’Italia è la varietà che si esprime nella sua variopinta storia, nel paesaggio, nella cucina. E nelle parlate. Ricchezza che la letteratura ha saputo mettere a frutto, generando a volte capolavori. Alcune parlate sono state vere e proprie lingue: per esempio il napoletano, il veneziano, il siciliano. Il napoletano colto si compiace ancora di mostrare la sua napoletanità, di usare la lingua che aveva prodotto, secondo Benedetto Croce, “il più bel libro italiano barocco”, Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, scritto nel suo “apollineo e dionisiaco” dialetto, come lo definisce Francesco Flora. Lingua che comparirà anche nel teatro lirico (è il caso di Lo frate ‘nnamorato con musica di Giambattista Pergolesi) e che darà vita al melos squisito di Salvatore Di Giacomo, su cui si innesterà la gloriosa canzone napoletana, e poi al non meno glorioso teatro dialetta-
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le di Edoardo Scarpetta e dei fratelli De Filippo. Pochi sanno che il Presidente Emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, molti anni or sono, con lo pseudonimo di Tommaso Pignatelli, ha pubblicato un bel volume di poesie in dialetto napoletano che ho avuto modo di leggere e apprezzare. La tradizione attribuisce battute in napoletano ai Sovrani Borbone. Pare che alla corte pontificia di Pio XII, in cui i nobili romani erano in maggioranza, si parlasse spesso in romanesco. Il romanesco ha imperversato nel cinema, specialmente per opera di Alberto Sordi, e la pronuncia romana è forse dominante nella televisione italiana. Alla corte sabauda battute in piemontese sono rimaste famose, e persino nei tristi anni dell’ultima guerra Vittorio Emanuele III avrebbe detto al corregionale Maresciallo Badoglio: “nu sum d’i revenant” ; ossia “noi siamo fantasmi”, “siamo due sopravvissuti estranei all’attualità storica”. Il veneziano, per secoli lingua ufficiale della Serenissima, ci ha dato i capolavori di Goldoni, e la tradizione è continuata con Giacinto Gallina e Renato Simoni. Nella poesia, Giacomo Noventa (1898-1960), considerando troppo logora la lingua della poesia italiana e insufficiente il puro dialetto per esprimere i suoi temi “alti”, creò un suo personale linguaggio che non adotta nessuno dei dialetti veneti codificati dalla tradizione: “Mi me so fato ‘na lengua mia / Del venezian, de l’ italian”. Spesso quando un autore scrive sia in lingua sia in dialetto, la produzione dialettale ha caratteri di autenticità più accentuati. Per Goldoni la differenza di valore tra opere in lingua e in veneziano non è facilmente affermabile. Capolavori La locandiera, Gli innamorati, Il ventaglio, non meno di opere in dialetto come I rusteghi o Le baruffe chiozzotte o La casa nova: in queste ultime coglierei tuttavia un soprappiù di espressività e freschezza, dovuto al sapore del dialetto. Un forte scarto di qualità divide invece i tre grossi volumi di poesie in lingua di Belli, che quasi nessuno più ricorderebbe, nonostante l’ appassionata difesa che ne fece Giovanni Orioli,
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dai volumi dei sonetti romaneschi, che formano una delle maggiori opere della nostra letteratura. I nostri primi poeti in volgare, i siciliani, scrivevano in un siciliano nobilitato dal contatto col latino e con la tradizione occitanica. Ricordiamo che la lingua dei “poeti siciliani” che troviamo negli antichi Canzonieri è stata fortemente toscanizzata da copisti toscani: ci resta però qualche testimonianza di quella lingua (un “siciliano illustre”) in testi di Re Enzo e in un’ intera canzone, fortunosamente pervenuta sino a noi, del messinese Stefano Protonotario: Pir meu cori allegrari. In dialetto siciliano scriverà nel Settecento uno degli arcadi più raffinati, l’abate Giovanni Meli (che comparirà come personaggio nel bel romanzo di Leonardo Sciascia Il Consiglio d’ Egitto). La scelta del dialetto per esprimere il mondo poetico più suo, che è alessandrino e bucolico, non è dovuta all’intento di rappresentare un contesto popolare, ma al fascino del significante, a ragioni di musicalità preziosa, come in questo mattino, definito “così vero e così magico” da Francesco Flora: “Dimmi, dimmi, apuzza nica,/unni vai cussì matinu?/Nun c’è cima chi arrussica/di lu munti a nui vicinu;/trema ancora, ancora luci/ la rugiada ‘ntra li prati…”. In dialetto “girgentino”, ossia agrigentino (al quale aveva dedicato a Bonn la sua tesi di dottorato), Luigi Pirandello compose U Ciclopu, rifacimento del Ciclope euripideo, forse ancora rappresentato in Sicilia da qualche compagnia dialettale. Il romanesco antico, che pareva tanto orribile a Dante, diede nel Trecento quasi un capolavoro che è la cronaca anonima Vita di Cola di Rienzo; ma era totalmente diverso dal romanesco di Peresio, Berneri, Belli. Poteva forse assomigliare un po’ all’attuale ciociaro, ma fu fortemente toscanizzato nel Cinquecento, forse per influsso dei Papi Medici e delle loro corti. L’ eccezionale estro linguistico di Carlo Emilio Gadda farà confluire diversi dialetti per insaporire il ghiotto Pasticciaccio, che è certo tra i suoi più significativi capolavori. Non vorrei insistere in riscontri eruditi, ma
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piuttosto parlare dell’importante presenza di poeti dialettali nella mia ormai lunghissima esperienza di interprete di testi. Belli è stato un grande amore di gioventù, ravvivato dall’ ammirevole edizione dei sonetti romaneschi compiuta da Giorgio Vigolo, durato tutta la vita e sfociato in un tardo libro a lui dedicato. Dovendo sintetizzare la “presenza” di Belli nella letteratura, ricorro a parole di qualche anno fa. “Immergersi nell’anima profonda e quotidiana della Roma del declinante Stato Pontificio. Identificarsi in pieno, in ogni più icastica sfumatura e cadenza espressiva, con la voce degli strati più disagiati del suo popolo impulsivo e malizioso, spesso afflitto, non di rado sguaiato, dissacratore. A quella voce offrire tutta la possibile attenzione umana e filologica, tutta la vitalità, il ritmo, la forza comunicativa di un’arte scandita nelle magistrali strutture di oltre duemilatrecento sonetti. Ecco il miracolo, ecco l’unicità di Belli. Se la lettura delle poesie dialettali di Porta nel soggiorno milanese fu propizio incentivo, esiste comunque una lunga e tenace tradizione realistica italiana, che si continua in Belli. Il quale però di gran lunga la trascende per originalità, autenticità”. (Carlo Porta si inseriva comunque in una tradizione milanese, “meneghina”, molto più ricca di quella romana sino dal Cinquecento e dal seicento con Carlo Maria Maggi e viva nel Novecento con Delio Tessa, e ancora oggi con Franco Loi, Franca Grisoni). Giorgio Vigolo, uno degli studiosi più validi di Belli e quello col quale più mi sento in sintonia, già nel 1924 sosteneva che il poeta “a voler usare il dialetto romanesco senza snaturarlo, dovette farsi un’anima nuova: messa da parte ogni prevenzione letteraria, la sua immersione nel ricco elemento popolaresco dovette essere totale e assoluta. L’io di quest’uomo scompare e si propaga nel popolo, come se s’immergesse in un bagno letèo, in un lavacro battesimale in cui dovrà morire la vecchia personalità del letterato arcadico e nascerne l’uomo nuovo con i cinque sensi riconquistati alla vita e alla realtà”. Nessuno
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dei poeti romaneschi venuti dopo di lui raggiunse la grandezza di Belli. Non Cesare Pascarella, i cui sonetti epici su Villa Gloria emozionavano Carducci, non l’elegante e disinvolto favolista Trilussa, che godette di grande popolarità, e che raggiunge anche esiti epigrammatici non privi di grazia: “C’è un’ ape che se posa / s’un bottone de rosa. / Poi s’arza e se ne va. / Tutto sommato, la felicità / è ’na piccola cosa”. Cercarono di rinnovare in forme più moderne la poesia romanesca nel Novecento Mario dell’Arco (delicato nelle poesie di La stella de carta per il figlio morto ed epico nelle ottave di Er sacco de Roma) e Mauro Maré. Ho avuto modo di conoscere entrambi. Molti poeti dialettali ho conosciuto nella mia lunga vita, tra i quali ricorderò Achille Serrao, raffinato poeta in lingua e vigoroso poeta in dialetto campano, e, tra molti abruzzesi (come Vittorio Clemente, Ottaviano Giannangeli, Walter Cianciusi, Cosimo Savastano, Vito Moretti, Leandro Ugo Japadre) Alessandro Dommarco. Dommarco, che poetava sia in lingua sia nel dialetto di Ortona a mare, mio grande amico, era figlio di Luigi, autore delle parole di molte canzoni abruzzesi (tra cui Vola, vola, vola). Tra i pugliesi, Michele Urrasio e Cristanziano Serricchio, anche lui poeta in lingua prima che in dialetto. Tra i poeti “bilingui” che ho conosciuto potrei ricordare il calabrese Dante Maffia e il triestino Roberto Pagan, da poco approdato alla poesia in dialetto. Al tempo di Svevo, che forse conosceva meglio il dialetto triestino che l’italiano, la multietnica società triestina si esprimeva comunemente in dialetto. La Venezia Giulia ci ha dato due grandi lirici dialettali: il triestino Virgilio Giotti (1885-1957) e il molto fecondo Biagio Marin poetante nella parlata di Grado (1891-1985). Entrambi meriterebbero molto più che una semplice segnalazione. La Liguria, oltre al genovese Luigi Firpo, ci ha dato Paolo Bertolani, che ho avuto il piacere di conoscere, e che ha scritto forti poesie nella parlata già montanina della Serra di Lerici. La Romagna, ricca di buoni poeti in dialetto, ha un Archivio per la poesia dialettale a Santarcangelo;
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ricordiamo almeno Tonino Guerra, noto anche come sceneggiatore di alcuni film di Federico Fellini. Venticinque anni di amicizia mi hanno legato ad Albino Pierro (1916-1995), nato a Tursi, in provincia di Matera. Il paese natio gli ha tributato adeguati riconoscimenti. Nel suo palazzo di famiglia si trovano ora un museo che lo ricorda e un archivio. Nei cartelli che indicano la località è a volte scritto: “Tursi, città del poeta Albino Pierro”. Molti convegni, anche quando era in vita (uno svoltosi nella cattedrale di Tursi) hanno salutato e approfondito la sua poesia. La bibliografia che lo concerne è vastissima, e annovera alcuni tra i più illustri italianisti del secondo Novecento, da Gianfranco Contini a Umberto Bosco, da Fernando Figurelli a Giorgio Petrocchi, da Mario Marti a Gianfranco Folena. A tradurlo in svedese è stato un letterato celebre, traduttore anche di Virgilio, Dante e Baudelaire, che ho avuto modo di incontrare a Roma, Ingvar Björkeson; a tradurlo in francese è stata la scrittrice svizzera Madeleine Santschi, di cui divenni negli anni buon amico. Immerso con tutto se stesso nel contesto antropologico in cui è nato e ha vissuto la solitaria e malinconica infanzia, Pierro ha cominciato a scrivere in lingua evocando quel mondo e destando l’interesse di un grande etnologo come Ernesto de Martino, affascinato da momenti lirici come “Silenzio di preistoria nel villaggio”, e certamente da poesie di notevole respiro come Mia madre passava, col grande tema della madre, o Che dolce tenebra o Delitto a Frascarossa. Ma Pierro ha trovato in pieno se stesso quando ha sentito l’ irresistibile impulso di scrivere nella parlata di Tursi, che non aveva tradizione scritta prima che lui stesso la fissasse, e quasi si potrebbe dire la creasse. La prima poesia in tursitano, Prima de parte, fu scritta di getto la sera del 23 settembre 1959. Giuseppe Jovine, anche lui buon poeta in dialetto (molisano), così descrive quel momento così significativo: “Il poeta era da poco tornato a Roma da Tursi; la partenza anticipata, più triste del solito, aveva esasperato in lui la nostalgia della
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sua terra, lasciata a malincuore. Quel primo ‘exploit’ creativo fu seguito da ‘un’eruzione’ di poesie dialettali che gli uscivano dall’ anima […] così come il petrolio zampilla dalle viscere della terra”. Quel breve e semplice testo è pervaso da una sorta di misteriosa atmosfera magica: “ ’A notte prima de parte / mi n’inghianèje a lu balcone adàvete / e allè sintìje i grilli ca cantàine / ammuccète nd’u nivre d’i muntagne,// Na lunicella ianca com’ ’a nive / mbianchijàite ll’irmice a u cummente, / ma a lu pahàzze méje / tutt’i balcune i’ èrene vacante”. Ossia: “La notte prime di partire me ne salii al balcone di sopra e là sentivo i grilli che cantavano nascosti nel nero delle montagne. Una lunicella bianca come la neve imbiancava le tegole al convento, ma al palazzo mio tutti i balconi erano vuoti”. L'immersione nel paese profondo è una discesa, come del resto hanno anche sottolineato Gianfranco Folena e Aldo Rossi, al Regno delle Madri evocato da Goethe, da Bachofen; è regressione all'alvo di un primordio che precede ogni storia. La insanabile nostalgia della madre carnale, scomparsa quando il futuro poeta aveva pochi mesi segna per sempre la sua vita, e si proietta su succedanei simbolici dell’archetipo materno: la madre terra, la lingua madre più immediata, ‘più madre’, se così si può dire: “il neolatino addirittura protostorico della più isolata Basilicata”, per usare la definizione di Gianfranco Contini. In un momento cruciale del Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, Alessandro Manzoni rifletteva sul "tristo ma importante fenomeno" di "una immensa moltitudine d'uomini, una serie di generazioni che passa sulla terra, sulla sua terra, inosservata senza lasciarci traccia". Qualche traccia resta tuttavia (aggiungerei), se sopravvive e si perpetua la loro parlata. Molti anni or sono, mi tornava in mente questa riflessione manzoniana e approdavo, a proposito dell'esperienza tursitana di Pierro poeta, alle considerazioni che seguono: "Millenni di pensieri lucani, di affetti e di patimenti lucani, di silenziosa quotidiana storia dell'anima tursitana impressa e sedimentata nella creazione collet-
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tiva di una parlata di inaspettate modulazioni: tutto ciò assunto a sostanza espressiva di un canto monodico che nei momenti d'ala sa e può farsi canto di ognuno per virtù di melodia. Attraverso la scrittura e l'elaborazione formale, l'anima antica di Tursi si dona intera al lettore, il quale non può non tributarle amore, come se in quella voce (non per i contenuti espressi ma per il timbro e l'intonazione) cantassero all'unisono tutti i figli di Tursi, i vivi e i morti". Con queste ultime riflessioni, che risalgono a diversi anni or sono, penso di aver messo in evidenza l’importanza umana e storica che il dialetto può assumere soprattutto mediante l’amoroso uso che può farne un poeta. Emerico Giachery
del cattivo augurio lasciano l'amaro nella mia bocca e mi pietrificano con tanta tristezza!
IL TEMPO CHE C’È RIMASTO
INVERNO
Se toglierai pietre dal cuore non tornerò indietro a ricordare né ascoltare il suono degli occhi cresciuto nel silenzio ma sarà l’aria del mattino a dipanare piume sulle mie spalle Il tempo che c’è rimasto è acqua che scivola fra le dita Giannicola Ceccarossi
Il cielo cammina sulla bianca distesa di neve cupo e grigio, veloci corrono i giorni, l'inverno accerchia le ore. Alla finestra fiocchi come piume volteggiano, atterrando formano una strada di ghiaccio. Troppo lungo questo tempo avaro di sogni, solo un iceberg brilla su pietra avita, nella strana quiete il grande mistero. Adriana Mondo
Da Un’ombra negli occhi - Ibiskos-Ulivieri, 2016.
È QUESTA
Non posso dire addio: con gli anni che passano la storia si riscatta mentre ci prepariamo a seguire i comandi fino a quando è il nostro tempo per tornare come te alla terra di tutti dove possiamo riposare. Teresinka Pereira USA Traduzione Giovanna Li Volti Guzzardi, Australia
Reano, TO
l'ultima poesia, l'ultimo ricordo, omaggio, speranza per andare ad abbracciare te c'erano le palme fluttuando nel vento chiamare per l'uguaglianza sociale con l'amore e la giustizia? Comandante Fidel Castro, per molto tempo gli avvoltoi capitalisti annunciano la tua morte e le loro urla di bestie
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 5/12/2016 Silmàtteo è frantumato! Silvio se la gode con mestizia - in fondo, onestamente l’ha ammirato Matteo è salito al Colle e s’è dimesso. Per anni e anni avremo altri pagliacci il tutto cristallizzato, come adesso. Domenico Defelice
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A proposito di maghe e streghe
LA CAMOMILLA DI GABRINA Quando l'Inquisizione era una cosa seria
di Rossano Onano
L
'orto di Gabrina. All'estremità orientale di Reggio Emilia, dove periferia e campagna si confondono, resiste un'area verde denominata “Delle Acque Chiare”, attraversata da un ruscello di nome altisonante, il Rodano, ancora popoloso di anatroccoli. In quell'area la brava Erminia, come tutte le mogli attente alla salute del marito ormai anzianotto, nelle giornate che non sono troppo calde e non sono troppo fredde, cioè raramente, mi costringe a lunghe camminate ecologiche. In una cascina abbandonata il Comune, a scopo didattico, ha istituito un orto botanico, coltivato ad erbe officinali. Una targhetta illustra il nome delle pianticelle, dalla Camomilla alla Salvia alla micidiale Digitale Purpurea. Un cartello denomina l'area: l'Orto di Gabrina, e spiega: (Gabrina) è stata la guaritrice più famosa della storia di Reggio Emilia. Nel 1375 fu condannata dal tribunale civile come erbaiola e fattucchiera: raccoglieva erbe e alle donne tradite ed abbandonate dai mariti somministrava medicamentosi intrugli, secondo il suo sapere. Il suo è stato il più antico processo di questo tipo celebrato in Italia, di cui restano i verbali. Feroce fu la condan-
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na: Gabrina fu marchiata a fuoco e le fu amputata la lingua. La memoria di Ludovico. Il processo a Gabrina rimase nella memoria collettiva dei reggiani. Nella casa natale di Reggio, Ludovico Ariosto da bambino ascoltava sicuramente la storia della strega, raccontata da mamma Malaguzzi che la stessa storia aveva ascoltato dalla propria madre. La fantasia del piccolo Ludovico ne rimase accesa, tanto che nell'Orlando furioso, pubblicato a quasi un secolo e mezzo di distanza dal fatto, un personaggio femminile ha appunto il nome di Gabrina. Neanche a dire, si tratta di qualcosa a metà fra la maga e la strega, legata all'uso di strabilianti pozioni magiche. Torquemada non c'entra. Nella memoria collettiva reggiana Gabrina è rimasta, però legata ad elementi parassitari legati all'istituto dell'Inquisizione. Rispetto al quale, la nostra immaginazione è portata a raffigurarsi un'onesta erbaiola giudicata da un tribunale di preti che la condannano come strega dedita alle arti magiche, in combutta col diavolo. Non è così. Il Tribunale dell'Inquisizione, così come noi lo intendiamo, fu istituito più di un secolo dopo i fatti contestati a Gabrina, in Spagna da Ferdinando e Isabella, per altre cose tanto lungimiranti da prestare le caravelle a Cristoforo Colombo (Inquisizione Spagnola: imperversava il terribile Tommaso di Torquemada). Bisognerà aspettare ancora il secolo successivo per vedere in azione, a contrasto della Riforma Luterana, l'Inquisizione di Roma, quella appunto composta da preti che per esempio condannò al rogo Giordano Bruno colpevole di avere idee troppo originali in fatto di astronomia. Tisane e decotti. Gabrina, a Reggio, non fu processata da un tribunale ecclesiastico, ma da un tribunale civile. Si chiamava Inquisizione perché esisteva un inquisitore (Inquisitor), una specie di pubblico ministero che formulava l'accusa. All'Inquisitore, e alla
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Corte Civile, che Gabrina avesse stretto un patto col diavolo importava poco o nulla. Eppure, Gabrina fu condannata come strega in combutta col diavolo. La pena fu terribile: la donna venne marchiata a fuoco e ridotta al silenzio tramite amputazione della lingua. Gabrina distribuiva decotti di camomilla contro i mariti maneschi, questo è descritto agli atti. Distribuiva, questo aggiungo io, radici di cicoria, malva contro il mal di denti, tasso barbasso come diuretico. Ma c'è dell'altro. Un tribunale civile è adibito alla corretta manutenzione dei comportamenti sociali. E' naturale chiedersi come mai si accanisse nei confronti di una erbaiola colpevole di dispensare, per giunta gratuitamente, tisane e decotti a suo dire miracolosi. La lettura dell'inquisitio, cioè l'atto d'accusa formulato contro di lei e giunto fino a noi nell'Archivio di Reggio, spiega la motivazione della condanna. Anzitutto, Gabrina si rivolge al pubblico femminile, era una specie di femminista ante litteram che si proponeva di affrancare le donne dalle vessazioni di mariti maneschi. Ai quali la moglie doveva somministrare un decotto di camomilla, allo scopo di ammansirli. Fin qui, niente di male. Il fatto è che Gabrina si spingeva oltre, insegnando alle donne come conquistare il marito manesco appena ammansito. Il decotto di camomilla doveva essere accompagnato da un'azione specifica: mulier poneret manum ad vulvam, deinde po nere ad os suum. Tradotto in volgare: la donna offre la camomilla, nello stesso tempo si mette un dito in vagina, estrae il dito inumidito e se lo mette in bocca, infine con la bocca bacia il marito già rabbonito dalla camomilla.
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Non è escluso che i mariti riottosi di Reggio Emilia siano stati in un primo tempo eccitati da una procedura così originale. Con l'andare del tempo, la fama di Gabrina si espande, e la città è tutta un proliferare di donne che dispensano camomilla mettendosi un dito in vagina. La sentenza. Non che i reggiani, allora come oggi, fossero bigotti, però insomma la faccenda diventava alla lunga fastidiosa. Una straordinaria aggravante consisteva nel fatto che la nostra erbaiola dispensava camomille e consigli gratuitamente. Avesse preteso danaro, argomentò l'Inquisitor, il suo agire sarebbe stato comprensibile. Ma così, gratis, che regione poteva avere? La ragione fu trovata dall'inquisitore: Gabrina operava in combutta col diavolo, allo scopo di condurre uomini e donne al peccato. Il tribunale civile adottò la tesi. A Gabrina fu applicata una specie di leg-
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ge del contrappasso: con la lingua aveva esercitato la stregoneria (ad vulvam ponere), e per la lingua doveva essere punita. A Gabrina fu amputata la lingua, misura quanto mai efficace per ridurla al silenzio. Igiene mentale e ordine pubblico. Possiamo leggere la vicenda, oggi, con occhio disincantato. Ero giovane psichiatra quando, di guardia notturna al Manicomio quando il manicomio esisteva ancora, venivo attivato dalla pantera della Polizia che portava al ricovero cittadini affetti da ubriachezza molesta. Perché sono malati, spiegavano gli agenti mostrando misericordia. In realtà, portavano gli ubriachi in manicomio per togliersi d'impiccio. Gli agenti di Polizia avevano interesse a mantenere l'ordine pubblico nel modo più semplice possibile. Allo stesso modo, possiamo dire con certezza, il tribunale civile del Trecento agì con Gabrina. Che questa fosse in combutta col diavolo, ai bravi giudici non poteva fregare di meno. Il tribunale agì a garanzia dell'ordine pubblico. In questo senso, l'Inquisizione civile era una cosa seria. Certo, la faccenda del diavolo giustificava agli occhi del pubblico la misura repressiva. Così come la malattia giustificava ai miei tempi la reclusione in manicomio degli ubriachi. Oppure, in regimi totalitari, l'internamento in manicomio degli avversari politici. Da sempre, Inquisizione e Igiene Pubblica vanno di pari passo, nel controllo e nella repressione di comportamenti cosiddetti devianti. Che poi l'Inquisitor tiri in ballo il diavolo, oppure attualmente il DNA o le molecole impazzite del cervello, è cosa che all'Ordine Costituito interessa poco. Molto poco. Rossano Onano
UOMINI E ANIMALI La faccia larga di sguardo degli uomini e degli animali, uno spettacolo di sera
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al ritorno dai campi. La faccia uno specchio, vedi subito dentro; il corpo molle e sudato per le fatiche tutte fatte a mano. Pronti a offrirti i fichi nell’estate attorno le foglie ruvide vischiose di gocce dolci. Gli asini massacrati dagli anni moderni, la loro ubbidienza meccanica sembrava intelligente a sopportare sotto le some di tutti i giorni. Sono venuti i presuntuosi, tutti uomini importanti sacchi pieni di lardo, gli occhi piccoli affossati dalla carne dell’ingordigia di animali egoisti che stanno bene e più vogliono. Ho nostalgia delle mamme, figure oggi da leggenda: le mani dure per i panni lavati al fiume, le caldaie di liscivia poggiate sulle pietre a bollire. Le persone del condominio non ti vedono neppure moribondo, talpe fuggitive, l’ipocrisia crudele. Turlupinatura sfacciata della democrazia feroce divoratrice del prossimo. L’uomo che amava vederti negli occhi affinato nella dolcezza calda, le lacrime facili per le tue miserie. Leonardo Selvaggi Torino
IL FILO DELLA POESIA Soltanto il filo sottile della poesia ti può legare a me, tanta è l’età che ci separa, ma sento che forse è nato in noi un sentimento di simpatia reciproca. Mi piace pensare che così sia e chiedo al cielo che sia così e che così rimanga. Mariagina Bonciani Milano
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PASQUALE TUSCANO ASSISI NELLA CIVILTÀ DELLE LETTERE di Carmine Chiodo
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ASQUALE Tuscano, professore di letteratura italiana nell’Università di Perugina, dedica questo suo poderoso e ponderoso volume alla città in cui vive e opera culturalmente da anni. Assisi appunto. Questo lavoro di Tuscano è frutto di anni di ricerche e di studi e non solo si parla di letteratura ma pure di storia – come dice il titolo civile, a partire dal poeta latino Properzio per arrivare ai giorni nostri. Qui si trovano tante notizie, tante vicende letterarie e civili, molti autori, scrittori, poeti, pensatori, pittori e artisti, e lo studioso ci presenta tutto ciò con un linguaggio molto chiaro che marca e scandi-
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sce cronologicamente aspetti, vicende, fatti, problemi della storia letteraria e civile di Assisi. Ovviamente spiccano i nomi, su tutti gli altri personaggi richiamati, di San Francesco e di Properzio. Per di più da Dante ai Benzi, da Metastasio a Carducci, da D’Annunzio a Zanella, dalla Aganoor alla Bonacci all’ Aleramo, da Cristofani a Pennacchi a Fortini, ai moltissimi stranieri, da Goethe a Taine, da Scheider a Sabatier (questi famoso studioso di San Francesco) a Joergensen, a tanti altri, tutti questi si richiamano a San Francesco o a Properzio per i motivi più diversi, spirituali, filosofici e umani. La città di Assisi, con il poeta Properzio nella civiltà classica e con San Francesco, è un punto di riferimento da cui non si può prescindere. Assisi che ha una privilegiata collocazione naturale, isola felice di silenzio e di pace, che pende <<fertile costa d’alto monte >> (par: XI,45). Assisi significa ancora la parola e l’opera di San Francesco, che richiama l’uomo alla fraternità e all’amore e non fa altro <<che restituirci il senso del nostro essere nella terra >> e di unirci al Padre che ci ha creati. Assisi è ancora il <<Cantico delle creature>>, la <<fonte più alta e più vera della nostra poesia, l’ affresco più compiuto del creato e delle creature che lo abitano>> (Cito dalla quarta di copertina del volume). Il <<Cantico delle creature>> è un classico e non ha mai finito <<di dire quello che ha da dire>> (cosi Italo Calvino) e bisogna leggere questo sommo testo <<non più come ci ha abituati la mentalità moderna, a partire dalla critica romantica, ma, con un pazienze esercizio d’immaginazione, ricostruire, e recuperare, modelli e visioni del mondo ai quali quei testi si riferiscono >> (v, Il capitolo II <<Francescana>>, p. 35). E’ necessario leggere e capire la vita e gli scritti del santo <<storicizzandoli>>, vale a dire proiettandoli in modo rigoroso in quella civiltà dell’alto medioevo, tra il 1100 e il 1200. Dal volume emerge ancora il metodo, il modo di come lo studioso legge ed esamina i vari, i tanti testi, e si tratta di un metodo rigoroso che approda cosi a risultati eccellenti sul
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versante storico-artistico, letterario. Tuscano di ogni scrittore, di ogni poeta, autore, pensatore, pittore ci fornisce una dettagliata ricostruzione, puntuale e precisa e al riguardo si vedano le pagine dedicate ad esempio a Giuseppe Capitanucci o ad Arnaldo Fortini, o allo storico e poeta Antonio Cristofani. Con questo volume, Tuscano – come scrive nella Presentazione Serena Morosi - <<memore del massimo riconoscimento culturale che il Comune gli ha conferito nel 2013 - offre un particolare tributo ad Assisi nei termini della città millenaria e di quella novecentesca, del remoto ascendente pagano e del rinnovamento cristiano di Francesco, dei personaggi letterari nascosti nelle pieghe della decadente Città barocca e delle personalità emergenti dal difficile momento politico postunitario. Il tutto attraverso una lente particolare, originale: quella dell’intellettuale proveniente dal Sud del Paese, che ha portato fra noi il vigore e il rigore della gente di Calabria ed è saputo entrare – con dignità e rispetto da offrire e da esigere - nella Assisi di alcuni decenni fa, quella che, col passare delle generazioni si è per sempre allontanata dai nostri occhi>> (v, pp. 7-8). Pasquale Tuscano, calabrese di Bova (RC) vive dal 1966 ad Assisi, dove gli è stata pure conferita l’onorificenza di benemerito della cultura e nel contempo è autore di tantissimi e pregevolissimi studi critici, e ne cito qui solo alcuni: << Poetica e poesia di Tommaso Campanella>> del 1969, <<Letterature delle regioni d’Italia; Calabria>> del 1986; e poi nella stessa collana nel 1987 appare l’ <Umbria>>; <<Dal romanticismo al verismo>> del 1982; <<Gianvincenzo Gravina>> del 2003; e inoltre, per esempio, ha commentato <La coscienza di Zeno>> del 1966 come pure ha commentato e ben illustrato testi di Padula (2002) e la <<Città del Sole>> di Campanella (2006), e ancora le poesie e i recitativi dell’ umbro Francesco Melosio (2009). Da dire inoltre che con A. C. Ponti, dirige la collana <<Classici Umbri della letteratura>> ed è socio della Società Internazionale di Studi Francescani. Pasquale Tuscano onora con la
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sua sensibilità e cultura la sua terra d’origine, la nostra Calabria, e quella in cui ora vive, Assisi, l’Umbria umanissima e accoglientissima. Carmine Chiodo Pasquale Tuscano, Assisi nella civiltà delle lettere. Indagini e letture di storia letteraria e civile. Da Properzio ai giorni nostri, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ), 2016.
NUOVE PRATERIE a L. C. E spazio in nuove praterie. Sono gote fiorite di papavero e mani istriate da vene - fiumi azzurri di sangue e capelli - alberi giganti, galoppi dorati. Dal silenzio dell’anima s’ode solo eco di flebile voce, dolce come flauto pastorale. Fossi tu, fanciulla andina, luna nuova - lembo di terra scagliato nel mio cielo. Rocco Cambareri Da Da lontano - Ed. Le Petit Moineau, 1970.
MARIA Ho saputo ch'è morta. Era malata da tempo: il cuore. Già l'ultima volta che la vidi (son mesi) mi parlava con voce stanca. Ma l'occhio era vivo e lucida la mente. Ci lasciammo con un arrivederci. Poi più nulla. Ora invano ricerco le parole. Tutto si fa smarrita evanescenza e s'incrociano enigmi che tenta di decifrare la memoria muta. Si chiamava Maria. Più non ricordo quando l'ho conosciuta. Elio Andriuoli Napoli
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GIORGIO BÁRBERI SQUAROTTI LE FINTE ALLEGORIE di Salvatore D’Ambrosio
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CRIVERE una nota critica è cosa più difficile della lettura di una qualsiasi opera letteraria. Farlo poi alla fine della lettura dell’ultima pubblicazione dello Squarotti, diventa quasi andare per un sentiero pressoché impraticabile: per la complessità dell’opera e per lo spessore dell’autore. Al termine della lettura di questa silloge, ma spesso anche nel durante, ci siamo soffermati e posti la stessa domanda che si pone, in fondo, l’autore il quale interrogativo senza ipocrisie, lo mette bene in evidenza nell’esergo della pubblicazione, collocandolo da poeta onesto addirittura in copertina. La prima e forse più stupida osservazione che ci viene dalla lettura dei settanta componimenti è: quale senso ha nel mondo in cui siamo oggi, che ha perso tutti i pu-
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dori, descrivere e passeggiare poeticamente la nudità femminile? Facendone addirittura la chiave arcana di tutta la silloge? Guardando le date, che lo Squarotti ha voluto mettere al piede di ogni componimento, e facendo un rapido calcolo, ci accorgiamo che la riflessione poetica è avvenuta dopo i suoi settanta anni, evidenza sottolineata anche dal prefatore Giuseppe Napolitano. Pruriginosità senile? Balena subito in mente. Ovviamente la risposta è no; nessuna morbosità. Fascinazione questo si, antica ed immortale della bellezza divina delle fattezze della donna, con in più un lamento e nello stesso tempo la speranza, il desiderio o l’illusione di essere ancora disponibili per il mondo meraviglioso della carne femminile. Cultore del bello ideale come il Winckelmann, gli accade che la bellezza perfetta gli crei suggestioni tali da liberare “dal masso del concetto dell’artista ” la carnale perfezione e farla diventare per un attimo” corpo e voce”. Disperato desiderio di avventura di carne, dunque? Attenzione ammonisce il titolo della silloge: siete di fronte ad una finta allegoria. Forse. Cosa è allora? Ricerca della verità? Ma si! Pensi. È un’allegoria della verità che si dice essere nuda. Ma quale è questa verità?. Il giornaliero affollamento delle osterie, delle città, dei premi letterari con la petulanza di sedicenti scrittrici pronte a tutto, pur di cingersi il capo dell’ alloro poetico. E ovunque guardi: nel castello di Trezza, a Minori, nei boschi di Picinisco o in qualsiasi altro chi sa dove, trovi sempre qualcuno pronto a prostituirsi per ottenere qualcosa di cui si è incapricciato. Sembra che hai trovato la chiave giusta, ma subito si affaccia alla mente una diversa soluzione del gioco che tu lettore stai facendo con il testo. Sembri il viaggiatore-lettore di Calvino, che volta la pagina e si ritrova in un mondo dove tutto deve essere reinterpretato, riconsiderato. Si propone con forte fondamento allora la considerazione, e quindi l’interrogativo, che
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la moda invalsa dell’uso del corpo femminile esercita una fortissima attrazione, per cui la vendita del prodotto si trova la strada più spianata. Il fine diciamo giustifica i mezzi? Dobbiamo leggere la silloge considerando questo? Trova però subito poco spazio questo pensiero peregrino. La poesia non è un bene di largo consumo, anzi. Non si alzano cartelloni pubblicitari, non si fanno spots, passaggi televisivi, promozioni varie per invogliare a comprare o quanto meno a leggere in generale, e in particolare poesie poi. Eppure il lettore, anche se elegantemente, si trova continuamente tra la fascinazione di ragazze che esibiscono i loro celestiali pelosi incanti, in verità scevri da qualsiasi morbosa eroticità. Direi che c’è nel Poeta, in tutto questo raccontare la nudità della donna, un rimando alla memoria della sua natalità che, si sa, per gli uomini in modo particolare, è legato al corpo materno. Non a caso il quadro più bello e tecnicamente perfetto sulla “natura” della femmina è di Coubert e si intitola: “L’origine du monde”. E su questo titolo e guardando il quadro non c’è bisogno di altri commenti. È capitato direi a tutti che in treno, stando seduti su di una panchina in una piazza affollata, girando in un supermercato, passeggiando in spiaggia, seduto a un bar, o semplicemente incrociando una presenza femminile attraente, la mente si sia astratta in sogni irreali, desiderabili, ma quasi sempre improbabili. L’occhio-uomo, davanti alla bellezza si fa irretire, scardina tutti gli schemi mentali che ha allevato e condotto verso il rispetto, la considerazione, il trattamento paritario dell’ altro sesso, e prova quanto meno a sognare, a immaginare come sarebbe felice se potesse aspettare su quelle dolci colline di carne i tramonti più belli. Ecco alla luce di queste considerazioni vengono fuori nuovi interrogativi nostri e del Poeta: - Perché questo descrivi? Quale senso ha?... L’inganno della memoria, dunque, l’ incon-
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scio del vissuto nel seno materno, la sua venuta al mondo, il primo e incancellabile impatto con il corpo e la nudità sacra della femmina, non gli fanno smettere di celebrarla e anche di ripensarla con un felice e sempre nuovo innocente appagamento? Sembra si comprenda quale sia il centro di tutto, anzi si ha la certezza che quel tutto ruota intorno a sfericità e lanuginosi triangolini posti alla sommità di tornite colonne setose, dove un cane qualsiasi, può a tale vista, avere voglia di leccare ” umido di acque miste del cielo e degli abissi”? E finisce che quel cane rischia di cadere, e spesso vi cade, nell’abisso una volta che si è spalancato il tempio alla sommità delle colonne di vellutosa epidermide. Ma potrebbe essere solo chimera “di un vecchio che a fatica arranca sulla/ripida ascesa del colle di rocce/ rosse e bronchi spinosi, ma non c’è/che l’aria vuota,…” L’allegoria potrebbe anche starci, ma non perdiamo di vista il titolo con la sua chiara indicazione. Idolatrica sottomissione sembrerebbe, allora. No, c’è il desiderio di salire, ma la certezza di trovare solo disillusione. La donna sa che è la meraviglia dell’ universo, e che lo è per dono divino. “Ho scelto, appena pubere, di essere sempre nuda,…”: orgogliosamente un poco ne approfitta. Le cose stanno però anche e spesso, in modo diverso. La purezza del pensiero ha un suo tempo: non dura eternamente. Essa non sarà ”intatta e nuda”, ma presto verrà a essere travolta dalle piogge e dai venti della vita. Si viene al mondo nudi, cioè puri, ma sappiamo bene che questo stato dura il brevissimo tempo che sta tra le mani dell’ ostetrica e il lettino della nursery. Accade anche che c’è chi, al contrario, ne fa di un capolavoro divino e di innocenti verginità, oggetto di violenza e di sadico martirio. Cosa ci attrae dunque in questa silloge? Quale è il suo messaggio? Certamente, e lo abbiamo già accennato, la passione per il bello del Poeta.
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Il Poeta è qui, come nella Colazione sull’ erba di Manet, il distaccato e sognatore compagno di una merenda all’aperto, che sembra svolgersi tra due donne e due uomini. In realtà l’uomo-poeta, sta dialogando con la natura; anzi è immerso nella medesima e soprattutto nella semplicità della sua bellezza. Le poesie della silloge dello Squarotti, come tutto ciò che è nel quadro di Manet, rappresentano la semplicità sublime della bellezza del creato. La donna nuda in primo piano, quella che più dietro gioca con l’acqua; l’ acqua, la quantità enorme di alberi e piante, la presenza dei frutti sull’erba con i cibi; l’altra figura maschile che rappresenta due altri grandi doni come l’amicizia e la condivisione, sono tutti segnali presenti nelle poesie del Nostro Autore. E il poeta, come nel quadro l’ uomo accanto alla donna nuda, sembra attendere qualcosa che lo riporti alla realtà. Nel frattempo la sua mente vaga dentro “le lunghe ombre dell’attesa”; dove l’attesa si chiama morte e prende le sembianze di una donna. A questo punto il Poeta sa che le risposte ai tanti interrogativi, gliele potrà dare solo quel nome ”che è al di là di ogni altro nome”. E qui mi sembra che l’allegoria non sia poi più tanto finta. C’è in lui, però, una certezza che è quella che tutto passa, mentre solo la bellezza del creato resta eterna e immortale . O no? Salvatore D’Ambrosio GIORGIO BARBERI SQUAROTTI - LE FINTE ALLEGORIE - EVA Edizioni, 2016.
L’OMBRA QUERULA DEL PIOPPO Fra di noi finita era finalmente la battaglia di taglienti parole. Implacabile il sole sul pianoro. L’ombra querula del pioppo ci donava ristoro. Domenico Defelice
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ALBA DI NOVEMBRE Ancora nero il semicerchio dei monti di fronte, grigio-ferro il nuvolone ad essi parallelo, già tinto di luce l'opaco del cielo e un'alcova senape brillante ad oriente che il risveglio preannuncia del sole nascente e del giorno aperto al sorriso. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo
IL MIO PAPÀ Viene al mattino presto il mio papà nel sogno e mi saluta con un bacio mentre io dormo, come faceva quando da bambina mi salutava, mentre io dormivo, prima di andare in fretta al suo lavoro. Mi saluta come allora con un leggero bacio silenzioso, mentre io nel dormiveglia lo sentivo e fingevo di dormire. Come allora, oggi ancora il suo bacio affettuoso mi accompagna in seguito per tutto il giorno. Mariagina Bonciani Milano
POI ALL’IMPROVVISO ANGOLI DI CIELO Non dimenticare se il tempo tinge ferite e fa lividi gli squarci che sbiancano al pallore dei figli La solitudine ci allontana dalla casa e il ricordo non ha più memoria Poi all’improvviso angoli di cielo riportano argilla nelle nostre bocche e anche questa notte sarà buio Solo il frastuono della musica nei campi disperde il vento dai miei occhi Giannicola Ceccarossi Da Un’ombra negli occhi - Ibiskos-Ulivieri, 2016.
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IL CANTO IX DEL PARADISO di Fabio Dainotti stato da più parti osservato che sia nel nono canto dell’Inferno, sia nel nono del Purgatorio, sia in quello del Paradiso si assiste a una sorta di passaggio; nell’Inferno alla città di Dite; nel Purgatorio alla porta custodita dall’angelo; nella terza cantica il passaggio avviene dai primi tre cieli, su cui si proietta l’ombra della Terra, che influenza ancora le anime, al cielo del Sole. Qui si trovano momentaneamente, in quella sorta di rappresentazione per un solo spettatore che è il Paradiso dantesco, le anime di coloro che in vita furono travolti dall’amore terreno. Ci troviamo quindi in un cielo, il terzo, che corrisponde al secondo cerchio dei lussuriosi dell’Inferno. E non mancano infatti rimandi ai “peccator carnali / che la ragion sommettono al talento”1, e segnatamente a Paolo e Francesca. “L’accostamento ai due amanti del secondo cerchio infernale, ci tiene a precisare Eugenio Ragni2, non è affatto una forzatura dei moderni esegeti, ma una valenza nitidamente aperta dall’autore”. Un esempio per tutti. Folco da Marsiglia, (un personaggio di questo canto, ultimo dei trovatori dell’al di là,) dice di sé stesso ai vv. 97-99: “Ché più non arse la figlia di Belo, / noiando e a Sicheo e a Creusa, / di me, infin che si convenne al pelo”. Con un’elaborata perifrasi, il trovatore allude a Didone, che non rimase fedele alla memoria di Sicheo, secondo la tradizione accolta da Virgilio (altri, al contrario, lodavano la sua castità). “Prototipo di lussuriosa nell’ Inferno, Didone assurge nel Paradiso a funzionalissimo exemplum antitetico di Cunizza, di Raab e di Folco”3, che abitano il cielo degli amanti. Mentre, infatti, per Virgilio, Didone non è responsabile della luxuria, perché trafit-
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ta da un dio, il dio dell’ Amore; per l’ Alighieri, l’uomo è dotato di temperanza: quella virtù che rifulse in Enea e non in Didone, come si può leggere anche nel Convivio4. L’influsso del pianeta Venere è duplice, secondo una tradizione astrologica accolta da Dante: riguarda non solo il folle amore, di cui si parla nell’incipit del canto VIII del Paradiso; ma anche una felice armonia civile governata dall’ amore. Tale duplicità è simboleggiata dalla doppia epifania del pianeta Venere, che appare, assumendo nomi diversi, sia al mattino sia alla sera. A questo si riferisce Dante, ai versi 11-12 del canto precedente, là dove si parla della “stella / che ‘l sol vagheggia or da coppa or da ciglio” (dove “coppa” è da correlare all’aspetto negativo, la lussuria; mentre “ciglio”, all’amor virtuoso). Già i trovatori ci tenevano a distinguere dal fin amor il folle amore; i provenzali dicevano: fol e folor, recuperando anche semanticamente i termini furor e furens dei latini, in cui convergono le connotazioni di “pazzia, di passione amorosa, di delirio erotico”, implicando un’ assoluta mancanza di controllo in coloro che privilegiano, giusta la definizione del De vulgari eloquentia5, la dimensione animale dello spirito, riducendo al silenzio la ratio). Per l’autore del poema sacro, l’ardore che raggia dal terzo epiciclo dovrà essere interpretato come ardore spirituale. Al folle amore Dante contrappone dunque il giusto amore, la recta dilectio6. Il canto IX del Paradiso fa seguito a una serie di canti di argomento politico, che vanno dal sesto all’ottavo. Nel sesto canto abbiamo il discorso di Giustiniano; una visione provvidenziale della storia nel VII; nel finale del canto VIII, infine, l’intervento umano fa deviare i fini provvidenziali verso esiti impuri: “Ma voi torcete a la religïone / tal che fia nato a cignersi la spada, / e fate re di tal ch’è da sermone”. Carlo Martello ( Pd VIII 73-84), prima di congedarsi con una oscura profezia,
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If V 38-39. E. RAGNI, Folor, recta dilectio e recta politia, in “Studi latini e italiani”, 1989, p.138. 3 RAGNI, ibid., p. 143. 2
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Cv IV xxvi 6. VE II ii 7. 6 RAGNI, ibid. pp.135-152. 5
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ricorda il malgoverno angioino, che spinse la popolazione siciliana alla rivolta dei Vespri. E aggiunge: “Se mio fratello Roberto prevedesse questo, eviterebbe di servirsi di ufficiali e soldati che si conoscono per avidi taglieggiatori del popolo. Avrebbe bisogno di ministri che non avessero il solo scopo di arricchirsi, col rischio di fare affondare la barca dello Stato.” Questo per quanto riguarda l’Italia meridionale. Una seconda serie di profezie riguarda poi la Marca Trevigiana, quindi l’Italia del nord. In Pd IX 43-60, Cunizza, dopo essersi presentata e aver presentato lo spirito di Folchetto, passa alla parte politica del suo discorso. La gente della Marca, ella dice, non si cura di lasciare un buon ricordo. È una turba, cioè gente bruta che non segue più il giudizio della ragione; ed è restia al dovere civile di seguire Cangrande della Scala, vicario imperiale. Perciò queste popolazioni saranno giustamente punite. Tre sono le sventure profetizzate da Cunizza da Romano. Prima profezia: Padova, covo del guelfismo antiscaligero, che nel 1311 si era opposta all’imperatore ed ora si opponeva a Cangrande, proprio da quest’ultimo, alleato di Vicenza, sarà battuta nel 1314. Seconda: a Treviso, Rizzardo da Camino sarà ucciso da una congiura di nobili, insofferenti del suo dominio tirannico. Terza ed ultima profezia: un’altra città della Marca Trevigiana, Feltre, che, non diversamente da Treviso, non aveva accettato il dominio scaligero, dovrà soffrire per il tradimento di Alessandro Novello, un vescovo. Se il primo discorso, quello di Carlo Martello, nel canto VIII; e il secondo, quello di Cunizza in questo canto, hanno fatto risaltare, a contrasto con la serenità del paradiso, il triste quadro del disordine e della decadenza che regnano sulla terra, e cioè la mala signoria del Regno meridionale e la turba che abita la Marca Trevigiana, il terzo discorso del IX canto, pronunciato dal trovatore Folco di Marsiglia, fa emergere la cupidigia di Firenze e della Curia romana: in altre parole dell’ Italia centrale (Pd IX 127-142). Firenze, pianta
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nata da Lucifero, produce il “maladetto fiore”, (v. 130), il fiorino; che ha sviato il popolo di Dio, perché il pastore, che dovrebbe proteggerlo, è diventato lupo. Per danaro sono abbandonati i Vangeli e gli scritti dei Padri della Chiesa e si privilegiano i testi di diritto canonico, che assicurano cospicui guadagni. Anche il Papa e i cardinali trascurano il loro ufficio; non pensano a Nazareth, dove avvenne l’Annunciazione. A questo punto si inserisce la profezia di Folco: il Vaticano, dove morì san Pietro, e le altre contrade di Roma, nobilitate dal sangue dei martiri, saranno presto liberate dall’adulterio, costituito dal fatto che il Pontefice, sposo della Chiesa, la tradisce per denaro. La devianza politica riguarda dunque l’Italia tutta. Il cielo degli spiriti amanti, osserva nel suo commento7 Anna Maria Chiavacci Leonardi, è un po’ anche il cielo di Dante, il quale perciò ne sottolinea l’importanza, dialogando con tre spiriti e non con uno soltanto, come di solito avviene. Il primo spirito, Carlo Martello, incarna un ideale politico, quello del principe di nobile animo, ma nel contempo si trova nel terzo cielo per una serie di motivi: per l’aura di gentilezza che lo avvolge, per l’ amicizia reciproca col viator Dante, per la poesia amorosa, di cui si mostra grande estimatore. C’è un’importante precisazione da fare a questo punto. La poesia introduttiva del II libro del Convivio, Voi che intendendo il terzo ciel movete, da Carlo Martello citata al verso 37 del canto VIII del Paradiso, è poesia di transizione dall’amore alla sapienza: poesia di due amori in somma. Lo stesso discorso politico di Carlo Martello è circonfuso di amorosa sollecitudine, anche quando dall’ alto guarda a quelle sparse membra d’Europa, che egli, sol che fosse vissuto più a lungo, avrebbe potuto unificare, dando corpo al sogno politico dantesco di restaurazione imperiale. Anche l’argomento teologico, che viene
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D. ALIGHIERI, Commedia, con il commento di A. M. CHIAVACCI LEONARDI, vol. III, Paradiso, Milano, Zanichelli 2001, pp.152-154.
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sviluppato nella seconda parte del canto VIII, è intimamente connesso col discorso politico. Si tratta dell’influsso dei cieli, che, diversificando l’ indole delle persone, consente all’ uomo di essere “cive”8, cittadino; perché in una società bene ordinata occorre il soldato così come il predicatore, l’inventore come il legislatore. Venere politica, si diceva. Nel canto IX, Dante dialoga con altri due personaggi: Cunizza da Romano e Folchetto di Marsiglia; dediti da giovani all’amore dei sensi, ma in un secondo tempo pentiti, essi muovono rimproveri: la prima ai governanti della terra d’origine; il secondo alla Chiesa che traligna. Cunizza, tra l’altro, è la sorella di Ezzelino III, il feroce tiranno della Marca. Nella sua vita avventurosa, la donna viene rapita da Sordello, un poeta noto per le sue canzoni politiche. Folco è prima poeta d’amore e ardente amatore, ancorché “coperto e savio”; poi protagonista della crociata contro gli Albigesi. Questi a sua volta parla di Raab, una meretrice che si riscatta con la fede e con l’azione: favorisce, infatti, Giosuè nella conquista della Terrasanta. Folco si paragona a personaggi del mito travolti dall’amore fino a trovare la morte. Cunizza ebbe una vita affettiva a dir poco movimentata. Raab fu addirittura una meretrice. Ma proprio quella prontezza di cuore porta questi personaggi, una volta pentiti, a salvarsi, perché con lo stesso ardore abbracciano la nuova vita nella fede. Sulla bocca di Folco e Cunizza, come prima di Carlo Martello, sono poste le invettive politiche e le profezie contro gli oppositori dell’idea imperiale: nel canto VIII, contro gli angioini difensori dei guelfi; nel successivo, contro Padova e contro la Curia. L’Alighieri, che, negli ultimi periodi della vita, era approdato a una visione filo imperiale, vede in Cangrande della Scala, dopo il fallimento del tentativo di Arrigo VII, il possibile artefice di una restaurazione imperiale. Il nesso amore-politica è illustrato anche in
altre opere di Dante. In Mn I XI, 13-15 leggiamo: Il retto amore (recta dilectio) affina l’abito della giustizia, che pertanto può trovare la sede migliore in colui che può realizzare il maggiore amore, il monarca. La carità, spregiando gli altri beni, al contrario della cupidigia, cerca Dio e l’uomo e di conseguenza il bene dell’uomo. Anche nel passo citato, dall’amore sgorgano la giustizia e una politica che si occupi del bene dell’uomo. È fin troppo evidente che i centri antiscaligeri e antiimperiali, fustigati in questo canto, non corrispondono all’ideale dantesco, in quanto si oppongono all’ Imperatore e quindi alla giustizia e sono dediti alla cupidigia. In conclusione, da tutti i passi citati si evince che amore e politica sono inestricabilmente legati nell’opera e nella vita stessa di Dante, che scrisse prima poesia d’amore, poi morale o rectitudinis e infine profetica: la Divina Commedia. Non deve quindi stupire che amore e politica siano compresenti nel cielo di Venere. Nel Convivio9 al terzo cielo di Venere corrisponde la retorica. Perché proprio la retorica? Tra l’altro per la sua “chiaritade”, la sua chiarezza, dice Dante. Il canto nono si contraddistingue, infatti, per la ricercatezza formale. Si riscontrano latinismi (luculenta, propinqua, relinqua); mentre i parasintetici, come ad esempio “s’ incinqua”, sono presenti in misura maggiore rispetto ad altri canti. Un’altra proprietà della retorica è quella di persuadere. “La natura ‘suasoria’ dello stile discorsivo dei beati del cielo di Venere, propria appunto dell’arte retorica”, leggiamo in Merlante Prandi10, “risulta evidente nella ‘tensione di reciprocità comunicativa’ che anima nel suo insieme i canti VIII e IX”. Esempio: “Già non attenderei io tua domanda 9
D. ALIGHIERI, Cv II xiii 13-14. D. ALIGHIERI, La Divina Commedia, a c. di Riccardo MERLANTE e Stefano PRANDI, Brescia, La Scuola 2005, pp. 187-188. 10
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Pd VIII 116.
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/ s’io m’intuassi come tu t’inmii” (vv. 80-81). Naturalmente questa esigenza di chiarire le cose e di venire incontro ai desideri dell’altro è propria anche dell’influenza più tipica di Venere, quella amorosa. Per di più, nel canto IX, contraddistinto dalla presenza di un poeta provenzale, si riscontra una particolare disponibilità ad assecondare i desideri del pellegrino, anche perché nella Marca trevigiana “solea valore e cortesia trovarsi” (Pg XVI 116); (ma il termine “cortese” ha in questo canto una sfumatura sarcastica, riferito, come si vedrà, a un traditore). Appartiene alla strumentazione retorica del canto anche l’antitesi tra una prostituta, Raab, elevata alla gloria del cielo, e la Chiesa del tempo di Dante, che si macchia d’adulterio, perché, dedita al mercimonio, tradisce il suo sposo, Cristo. Il canto VIII e il canto IX costituiscono un dittico; il discorso di Carlo Martello è infatti la continuazione del canto precedente: Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza, m’ebbe chiarito, mi narrò li ’nganni che ricever dovea la sua semenza; ma disse : “Taci e lascia muover li anni”; sì ch’io non posso dir se non che pianto giusto verrà di retro ai vostri danni. (Pd IX 1-6). Siamo in presenza di un’apostrofe o di una prosopopea, a seconda se consideriamo la “bella Clemenza” persona presente (tesi suggestiva quella del Pézard11, secondo il quale Clemenza sarebbe a fianco del marito, nel terzo cielo, testimone muta del colloquio, così come Paolo nell’Inferno aveva ascoltato in silenzio le parole di Francesca), oppure no. Si è molto discusso se Clemenza sia da identificare con la figlia o la moglie. Propendo per la seconda interpretazione, accolta dai moderni commentatori, per vari motivi. Innanzi tutto per la presenza della parola “danni”: il figlio di Carlo Martello era stato privato della suc-
cessione al trono di Napoli per le mene di Bonifacio VIII, che aveva favorito Roberto d’Angiò, colui cui Dante nell’ultimo verso del canto precedente allude sprezzantemente, definendolo “re da sermone”. Ora è evidente che danni di tal genere abbiano colpito soprattutto i genitori; anche perché la figlia di Carlo Martello era divenuta nel frattempo regina di Francia, dunque tanto importante da potersi non curare di quegli inganni. Inoltre bisogna tener conto del fatto che l’ espressione “Carlo tuo” suona meglio se riferita a una sposa che a una figlia. La moglie di Carlo Martello, tra l’altro, era stata vista personalmente da Dante a Firenze. Vittorio Sermonti avanza un’ipotesi sulla presenza di Carlo Martello nel cielo degli amanti. Può darsi “che egli amasse sua moglie con affannoso trasporto corporale. Che non è peccato, come non è peccato essere giovani”.12 Già l’ Angiolillo13 aveva osservato, a proposito del principe francese: “La messa in scena della bella Clemenza dà corpo terreno al principe idealmente segnato dal cielo di Venere e serve a dare completezza alla dimensione di questo spirito amante, che, nel suo approdo all’amore universale, non ripudia il diritto a quell’amore terreno.” Con le parole di v. 6, “pianto giusto”, si allude probabilmente alla battaglia di Montecatini, in cui morirono Pietro e Carlotto d’ Angiò, fratello e nipote di Roberto. Il canto è successivo al 1314, come si può ricavare dai vv. 46-48, in cui, come si vedrà, si fa cenno alla sconfitta inflitta ai Padovani, che si erano ribellati ad Arrigo VII, da Cangrande; se nel verso 5 c’è allusione a quella subita a Montecatini nel 1315, da Fiorentini e angioini, superati da Uguccione della Faggiola, capo indiscusso delle forze ghibelline e continuatore dell’impresa di Arrigo VII, allora il 1315 è da considerare terminus post quem; ma quest’ ultimo dato è controverso. Nel 1315 il vicario di Roberto d’Angiò aveva ribadito la condan12
A. PÉZARD, Il canto VIII del “Paradiso”, in “Letture dantesche” a cura di G. Getto, Firenze 1962, p.1487. 11
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V. SERMONTI, Il Paradiso di Dante , con revisione di C. Segre, Milano, BUR 2001, p.159. 13 G. ANGIOLILLO, La nuova frontiera della tanatologia, vol. III, Firenze, Olschki 1996, p. 76.
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na dell’Alighieri all’esilio, estendendola ai figli. Ciò può spiegare il livore dell’autore della Vita Nova nei confronti di Roberto d’Angiò, considerato in questo canto un usurpatore. In quegli anni, inoltre, Dante si trovava ospite di Cangrande della Scala: è perciò comprensibile il punto di vista scaligero da lui adottato per giudicare la Marca Trevigiana. Si registra un brusco passaggio dalla conversazione con il pellegrino alla contemplazione delle celesti cose in Carlo Martello: E già la vita di quel lume santo rivolta s’era al Sol che la rïempie come a quel ben ch’a ogne cosa è tanto. (Pd IX 7-9). La “vita” è l’anima. Notevole nel v. 8 la struttura a cornice, dovuta all’allitterazione in ‘r’ che chiude al suo interno quella in ‘s’. Il purista Antonio Cesari14 così spiega: “Tanto: vale bastante, senza porre esempi, che ce n’è senza numero nella Crusca.” Alla profezia fa seguito la contemplazione delle celesti cose (vv. 7-9); a questa, il disdegno per il tralignare dell’uomo: Ahi anime ingannate e fatture empie, che da sì fatto ben torcete i cuori, drizzando in vanità le vostre tempie! (Pd IX 10-12). È uno schema ricorrente con qualche variazione in questo gruppo di canti, come ha notato Emilio Pasquini15, nel suo commento. Hollander16 osserva che si tratta sicuramente di un appello al lettore, anche se non sempre dai commentatori è stato annoverato come tale. Al v. 11 “torcete” si contrappone a “drizA. CESARI, Bellezze della “Commedia” di Dante Alighieri, a c. di A. Marzo, III, Roma, Salerno Editrice 2003, p. 1245. 15 E. PASQUINI- A. QUAGLIO, Commedia, Milano, Garzanti 1986, Paradiso, p. 128. 16 R. HOLLANDER, La Commedia di Dante Alighieri, Firenze, Olschki Editore 2011, Paradiso, p. 92. 14
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zando” del verso successivo, pur indicando entrambe le parole un analogo allontanamento dal vero bene. L’uso della parola tempie configura un caso di sineddoche di sineddoche, come è stato osservato da Raffaele Sirri.17 Non sguardi ma volti; non volti ma tempie; quindi contenuto dell’organo per l’organo; un organo per un altro. Fabio Dainotti (1- continua) _________________________________ 17 -I primi undici canti del Paradiso a c. di Attilio Mellone, Roma, Bulzoni editore 1992, p. 191.
COMO NINGUNA Cierto fue como ninguna la sal calo rauda el cielo bajo tierra , mar y cielo por tus labios oportuna. Mas de espinas una a una con amargo desencanto vio crecer sobre su manto tras la huella que nos deja una vida que se aleja ya camino al camposanto. Reynaldo Armesto Oliva Cuba . IWA
APPRODO Inquieta l'onda nella cala (altrove scoppiata è la tempesta) e inquieto il volo delle ignare colombe. I pescherecci si dondolano lenti e un cigolio sinistro li accompagna. Nero è il fondo da cui nulla traspare se non qualche viscido intrico d'alghe. S'è levato il vento e il suo pesante alito lega uomini e fiere. Ci giungono voci indistinte e remote. Fugge un cane randagio chissà dove. Intanto è scesa silenziosa la sera. Van le nubi veloci sulle cupe acque del lago. Elio Andriuoli Napoli
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Giancarlo Baroni: “I merli del giardino di San Paolo e altri uccelli” IL CODICE DI FEDERICO E LA BADESSA GHIBELLINA
di Rossano Onano
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IPELLINO. Finito di stampare nel mese di marzo 2016 presso le Grafiche STEP di Parma: I merli del giardino di San Paolo e altri uccelli, di Giancarlo Baroni. Si tratta di un piccolo gioiello editoriale. In seconda di copertina, la dedica onnicomprensiva dell'Autore a chi legge: (egli) crede che la poesia, nel suo piccolo, contribuisca ad accrescere bellezza e conoscenza e che i versi siano anche un gesto di amicizia. Giancarlo conferisce alla poesia, credo inconsapevolmente, minimalismo fattuale (nel suo piccolo) e prepotenza virtuale (accrescere bellezza e conoscenza, nientemeno). Appunto come gesto di amicizia una copia del libro è stata fornita a me, compagno di lunga conoscenza e scarsa frequentazione: fra i tanti umani difetti che Baroni ed io possediamo, quello d'essere invasivi non ci appartiene. Il volume è prefato da Pier Luigi Bacchini e Fabrizio Azzali. Le illustrazioni, di eleganza un po' liberty per l'una e incisiva grafia naturalistica per l'altro, appartengono a Vania Bellosi e Alberto Zannoni. In esergo, una strepitosa poesia di Angelo Maria Ripellino: Volare via da me stesso come un uccello migratore, da questo roveto, da questo malessere, da questo perenne dolore. La metamorfosi dell'uomo in uccello è traslata, sul piano conativo, in tensione metafisica: sollevarsi da terra, per quale meta non è dato sapere, per frapporre spazio e tempo (almeno) fra sé e il dolore. Hitchcock. Sarà. Guardo l'illustrazione di copertina, e la leggerezza volatile di Ripellino
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è subito disattesa. In primo piano il profilo di due uccelli grifagni, sicuramente carnivori, e sullo sfondo un corteo di volatili neri in discesa di volo, oppure già appostati sopra un immaginifico filo del telegrafo. Mi riesce impossibile non accostare l'immagine ai minacciosi uccelli che insidiano la bionda Tippi Hedren nel film di Hitchcok. Il subconscio metafisico, contrariamente a ciò che avverte l'aereo Ripellino, è spesso angosciante. Ecosistema. Il prefatore, l'ottimo Pier Luigi Bacchini, fortunatamente per lui ha un'anima meno angosciata della mia: attribuisce a Giancarlo Baroni la capacità di interagire giocosamente con la natura, ove in particolare gli uccelli “parlottano e tendono a filosofeggiare sul male e sul bene del nostro ecosistema”. Insomma, sarebbero uccelli che non fanno male a una mosca. Vorrei avere una percezione degli uccelli e della natura in genere altrettanto soave. L'uomo è l'unico animale che uccide non per fame, ma per il gusto di uccidere: è asserzione che ho sentito un'infinità di volte. Non è precisamente così. Ho visto un pasciuto gatto d’albergo, giorni fa, martirizzare a zampate e morsetti uno scarafaggio anch'esso d'albergo, per poi schifarsi e allontanarsi dopo averlo ucciso. Ugualmente ho visto un candido gabbiano, animale caro ai poeti, avventarsi dall' alto su qualcosa che assomigliava a un piccolo merlo ferito, sventrarlo a colpi di becco e poi, soddisfatto, volarsene via. Né il gatto né il gabbiano avevano fame. Giancarlo Baroni non ha una percezione della natura angosciata come la mia, ma neppure idillica o almeno bonaria come quella pretesa dal poeta Bacchini. Qualcosa di mezzo. Gli uccelli, in particolare, sembrando provvisti allo stesso grado di vezzosità e ferocia. Le piume sono squame evolute da ascendenze minacciose, adornano la chioma degli eroi pellerossa; anche se, tutto sommato, nelle zuffe fra loro mimano piuttosto che agire la guerra: Le vostre frasi nascondono messaggi bellicosi. Durante le conquiste
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colpite il rivale meno forte usando la cresta come elmetto. Zuffe o semplici avvertimenti. Ali sfregate sulla terra e minacce col becco. In mostra la vampa delle piume il volume del collo. La necessaria crudeltà del mondo. L'uccello in questione ha una tracotanza un po' così, da ragazzotto guappo nelle canzoni di Carosone. E però, subito dopo, irrompe nel testo il falco di palude, occhio rapace e artigli insanguinati:
fra l'animale e l'uomo. Nell'antichità l'uomo, a fronte delle circostanze dubbiose della vita, osservava il volo degli uccelli per trarre dalla direzione di questi il presagio del futuro, l'indicazione del comportamento idoneo alla difesa. Giancarlo compie l'operazione contraria:
Osservi, dalla cima di un pioppo nero, le anatre in abbondanza e adesso ghermisci una moretta riemersa dall'acqua dello stagno. La spolpi dopo averla spennata uncinando la preda con gli artigli.
E' l'uomo che avverte i presagi di una prossima catastrofe (ecologica?, morale?) e dà indicazione agli uccelli perché si alzino in volo e si salvino, almeno loro, dal disastro imminente. Giancarlo Baroni come Noè sull'arca: non morirà la natura, non moriranno gli uccelli. Non morirà l'uomo, si spera, nonostante. Federico. Paragonare Baroni al patriarca biblico è associazione mentale mia: essendo inconscia, va presa così com'è, semplicemente avvertendo che non compare nel testo, non appartiene a Giancarlo. Il quale, in ogni caso, salvati gli uccelli dalla ferocia dell'uomo e del mondo, si dedica ora alla propria personale salvezza. Cosa che compie nella seconda parte del libro (Federico II e i merli del giardino di San Paolo) virando improvvisamente l' immaginazione verso un tempo ed un luogo definiti: il duecento e la città di Parma. L'identificazione proiettiva è con l'imperatore Federico II, stupor mundi. Federico fu un personaggio straordinario: sotto minaccia di scomunica da parte di Gregorio IX, si fece perdonare offrendo al successore di Pietro i propri servigi, fra l'altro portando a termine una crociata con la conquista di Gerusalemme per via diplomatica, mica scherzi. Con il successore, Innocenzo IV, la conciliazione non ebbe luogo, tanto che Federico dovette subire una sconfitta sotto le mura di Parma (1248), disfatta che segnò il suo declino politico. L' assedio di Parma rimane ancora nella memoria epica dei parmigiani. Baroni racconta ponendo se stesso all'interno delle mura, durante l'assedio, quando alcune nobildonne offrirono alla Madonna, in
Il teatro della vita rappresenta la necessaria crudeltà del mondo, dove la morte dell'animale è sostentamento alla vita dell'altro. La catena alimentare è onnivora: ad essere contro natura sono i vegani, affabulatori di un mondo che mette al bando l'aggressività, un mondo che non esiste. Per inciso: la psicologia analitica considera l'aggressività una pulsione primaria, non può essere trattenuta ma soltanto deviata, ad esempio dal piano comportamentale al piano ideativo o verbale. Tutti i vegani, tanto per dire, professano la mansuetudine ma sono verbalmente molto ma molto aggressivi. So che il mio amico Giancarlo Baroni non è vegano; però mangia la carne malvolentieri. Il perfido airone. La solidarietà verso il mondo animale nulla ha però di lezioso. Gli uccelli sono come noi, astuti e stupidi, glossa Giancarlo. Un fantastico airone, mimetizzato nel canneto come appunto usano i cacciatori umani di palude, esercita la propria ferocia cannibalica con leggerezza olimpica: In marcia cautamente nel canneto trafiggi alcuni rospi che ti credono di sera un fantasma. Come il patriarca. Essendo la natura crudele, Baroni capovolge il rapporto corrente
Il cielo ci consiglia andatevene via, oggi ho rivisto cose che non posso nemmeno raccontare che non riesco a ridire, scappate, sciò, volatevene via.
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cattedrale, un modello in argento della città: Verrà rasa al suolo. Figli e uomini sterminati e noi donne rapite. Il sale sparso a piene mani sulla terra la renderà infeconda. Beata lei mentre noi subiremo la vendetta di diventare madri. Noi Ti imploriamo con la città d'argento posata ai tuoi piedi, 'difendici da Federico'. Beata la terra di Parma, che sarà seminata di sale, mentre noi saremo seminate in altra maniera, si lamentano le donne, alcune per la verità non troppo sgomentate (la mia immaginazione, contrariamente a quella di Giancarlo, contiene sfumature ciniche). L'offerta del modello d'argento è cosa gradita alla Vergine, tanto che i parmensi, di sortita, travolgono l'accampamento dell'imperatore, e lo saccheggiano. Complice Federico stesso, che cincischia attorno alle mura dedicandosi alla caccia col falcone: Quando l'imperatore esce dall'accampamento di Vittoria diretto al fiume Taro per cacciare col falco i parmensi, stremati dall'assedio, tentano una sortita. Mentre lo svevo osserva gli sparvieri in azione i parmigiani sterminano più di mille soldati. Da porta Santa Croce la folla inferocita si riversa nel campo saccheggiandolo. Sorprendono del prezioso bottino soprattutto l'harem di schiave saracene il serraglio esotico di scimmie cammelli e pellicani. Corre
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a Cremona Federico col rammarico del trattato perduto sugli uccelli e la falconeria. Giancarlo Baroni è appassionato di storia. Quando parla di una battaglia, sembra sempre collocato su di una collina prossima all'azione, ugualmente parteggiando per gli eroi, a qualunque campo appartengano. A maggior ragione nel caso specifico, non sa proprio per chi parteggiare: da bravo parmigiano, non può fare a meno di tifare per i concittadini; da poeta fra l'altro interessato all'ornitologia ha una passione sconfinata per Federico, fondatore della scuola poetica siciliana e lui stesso poeta e saggista. Il manoscritto De arte venandi cum avibus, scritto appunto da Federico, sembra sia stato sottratto all'imperatore proprio a Parma, a seguito del saccheggio dell'accampamento. Identificazione proiettiva per antitesi: all'urlo salvifico di Baroni (sciò, volatevene via) si contrappone il fallimento di Federico, incapace di trasmettere ai posteri il prezioso trattato di ornitologia. Il giardino di San Paolo. Si racconta che il trattato sugli uccelli dell'imperatore fosse custodito nel convento (ora ex) di San Paolo, quello riportato in tutti i libri di storia dell'arte per il soffitto affrescato dal Correggio: dove non sono illustrati gli uccelli, ma putti scanzonati e cantanti che fanno cucù dalle nuvole. Flash personale: ho lavorato per oltre vent' anni a Correggio, nella casa natale di Antonio Allegri. Tutto ciò che rimane del sito originario consiste in una lapide, con testa del pittore in bassorilievo. Una volta, in venti anni, è entrato un frate in sandali, turista, guardava di qua e di là cercando trace del Correggio. E' rimasto deluso quando ha scoperto che l'edificio era stato adattato a sede del Servizio di Salute Mentale. L'excursus personale a nulla serve, se non a dire che tutto scorre, cosa che sappiamo benissimo. Tutto scorre, tranne forse nel giardino del Convento di San Paolo, dove stanziano i nostri merli, quelli che Giancarlo Baroni ha scacciato dai pericoli del mondo facendo
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sciò. Si tratta di merli pacifici, temono i cattivi uccelli predatori, sono merli filosofi: Qui ci sentiamo protetti dai rapaci anche mentre dormiamo ci piace considerarci merli fortunati. La badessa Giovanna. I suddetti merli, garantisce Giancarlo, si difendono dai pericoli del mondo fornendo nello stesso tempo al mondo un servizio prezioso: sono i custodi del famoso trattato di ornitologia e falconeria scritto dall'imperatore. Irrompe nel testo, con silenziosa autorevolezza conventuale, la badessa Giovanna, donna di preghiera e cultura: La badessa Giovanna che ha assegnato il compito di affrescare una stanza del proprio appartamento al Correggio dicono custodisse un libro miniato sugli uccelli. Sopra quei fogli il timbro imperiale con l'effigie del falco. Bisogna vederli, i putti nudi comandati dalla badessa ad Antonio Allegri da Correggio: si affacciano dal soffitto, galleggiando per aria oppure facendo capolino da un folto fogliame aereo. Sono come i merli del convento, fanno da guardia al tesoro del convento. Il trattato di Federico, appunto. Sconfitto a Parma, l'imperatore si ritirava con il rammarico del suo trattato andato perduto. Non è stato così: chi ha sottratto il codice miniato al saccheggio degli accampamenti imperiali? Non certo un armigero, forse un prete accorso sul campo a confessione dei moribondi, una suora di carità, un monachello da biblioteca. Fatto è che il codice è salvo: soltanto la parola si salva dalla furia omicida degli uomini, soltanto la parola scritta rimane a patrimonio dell'uomo. La badessa Giovanna custodisce la parola. E qui, non posso farci niente, si accende la mia fantasia gotica: la badessa Giovanna ha nostalgie ghibelline? Oppure semplicemente, a distanza di secoli, coltiva un immaginifico amore per Federico, stupore del mondo, imperatore e poeta, umanista e guerriero, ornito-
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logo, sciupafemmine? Fatto è che Giovanna, e i merli di San Paolo, e i putti, e Giancarlo Baroni e tutti noi che leggiamo siamo ugualmente custodi della parola, scritta e miniata, contro le ingiurie del tempo e dell'uomo, contro la barbarie. Come Parmenide. Contro la necessaria crudeltà della natura, anche. La quale, a dispetto delle vicende umane, rimane sostanzialmente parmenidea, sempre uguale a se stessa, il divenire non esiste. Un avvoltoio volteggia e plana sui cadaveri, nelle ultime pagine del testo: Affonda il collo spennato nei cadaveri dalla carogna inerte estrae viscere succhiando la carcassa osso su osso. Poco insomma di eroico. Eppure preferiamo questo allo sparviero ai falchi cacciatori che sbranano le prede ancora vive. Meglio l'avvoltoio rispetto al falco di palude, rispetto al subdolo airone appostato nel canneto. Non so quanto consapevolmente, la pietas di Giancarlo Baroni è insieme razionale e disperata: la natura onnivora contempla la morte; la sola pietà possibile è quella dell'avvoltoio, che si nutre di carne senza uccidere. Come noi, del resto, inteneriti dall'occhio mansueto del vitello, eppure divoratori del vitello macellato da altri. Ecco perché l'amico Giancarlo, senza essere vegano, mangia la carne malvolentieri. Rossano Onano Giancarlo Baroni: I merli del giardino di San Paolo e altri uccelli; prefazioni di Luigi Bacchini e Fabrizio Azzali; illustrazioni di Vania Bellosi e Alberto Zannoni; Grafiche STEP edizioni, Parma, 2016.
IL CROCO I Quaderni letterari di Pomezia-Notizie Il numero di questo mese è dedicato a: LINA D’INCECCO OMBRE E LUCI Presentazione di Domenico Defelice
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ROSALBA MALETTA CI RECLAMA A MILANO, CON
WALTER BENJAMIN di Ilia Pedrina
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ILANO palpita nelle corde della vita che mi sta accompagnando: vi è nata la mamma Luisa Cartone ed il papà Francesco, con le emozioni fortissime che gli sgorgavano dalla mente e dal cuore nel commentare i grandi della scrittura, ha fatto la sua fortuna con la Casa Editrice Luigi Trevisini, portando con i suoi testi letterari per gli Istituti Superiori, fin dagli Anni Trenta del secolo passato, la passione profonda per lo stile e le prismatiche personalità che hanno nutrito la storia della cultura d'Italia e di Grecia. E poi, per dirla tutta, Walter Benjamin mi accompagna da tempo con i suoi testi, perché mi obbliga a riflettere sull'arte, sulla bellezza, sulla letteratura tedesca e non solo, sulla modernità osservata da protagonista ed anche dall'esterno, quasi da estraneo, e penetrata nelle sue differenti funzioni ammalianti, sul tempo della vita e sul tempo sciolto della luce, sulla storia subita dai vinti, che sempre più soffocati dalla versione arrogante dei vincitori, tenta di trasformare il pensare, il credere e l'agire degli esseri umani, perché si possa tenere aperta quella piccola porta attraverso la quale in ogni momento, può passare il Messia. Per questo e per tantissimo altro ho letto con estremo interesse il volumetto di Rosalba Maletta 'A Milano con Benjamin - Soglie ipermoderne tra flânerie e time-lapse
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(1912-2015), edito dalla Mimesis, per la Collana Eterotopie, diretta da Salvo Vaccaro e Pierre Dalla Vigna, nell'ottobre del 2015: tra pagina e pagina c'è di tutto, il campioncino di profumo 'Regina dei Prati' dell'Erbolario, che ancora emana la sua fragranza e poi foglie, foglioline e fiori secchi, a segnare pagine cariche di senso, perché rimanga più aperto e perché anche dopo, a lettura conclusa, possa esercitare la sua magnetica attrazione, quella che irradia sempre e comunque dai bambini e dai poeti, quando mettono in vita parole ed immaginari fuori dalla consuetudine. Simili modo, come per quelli che si lasciano contaminare dalla fascinazione dello stile, dalla musicalità della lingua altra, dal pieno di un tempo nel suo fluire indistinto tra immagini sulle quali far sostare lo sguardo e quelle che, già interiorizzate, ne costituiscono lo sfondo, così Rosalba Maletta scrive ed intende sedurre attraverso un risarcimento che ella stessa ha ottenuto attraverso Walter Benjamin: entrare nella dialettica inscindibile tra Aura e Forma, tra lontananza e prossimità, tra il trattenere per sé e l'offrire il proprio sé depurato al destino. È lei a dire: “È dunque insieme a questo viaggiatore tanto singolare che ci incammineremo per le vie e i quartieri di Milano. Sostiamo con il suo sguardo e le sue immagini pensanti (Denkbilder) dinanzi all'organismo difforme, variegato e pulviscolare dove flânerie e time-lapse si intrecciano e si combinano, chiamando il passante ad aprire canali sensoriali intorpiditi dalla ratio efficientista e anestetizzati dal principio di prestazione. Expo 2015 fa il punto sulle ricadute dei progressi di un mondo governato dalla finanza virtuale, cercando di invertire la rotta di un'ipermodernità che discetta di democrazia del cibo e organismi di controllo per prodotti cruelty-free nel mentre già lavora al post-umano... Nella Milano che corre e si affanna intorno al principio di prestazione e all'efficienza produttiva, provo allora a mettermi nella non-attesa e il tempo cessa di sfuggirmi. Posso tornarvi come in uno di quei luoghi-soglia evocati da Benjamin ed è così che prendo forse consapevolezza dei passa-
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ges che animano la mia città...” (R. Maletta, op. cit. pp. 13-14 e pag. 21). Tra il collassare del tempo nell'immediatezza di una contemporaneità che ha come spazio quello virtuale della rete e l'abbandonarsi, come fa Benjamin a vivere lo spazio della città di Milano con fretta si, perché ha solo due giorni di tempo, alla fine del maggio 1912, il lunedì 27 e il martedì 28, ma con quei 'bisogni d'immagine' che da tempo gli sostano dentro, in attesa di cogliere dal vivo le vibrazioni e le risonanze delle opere d'arte, quali sono i dipinti alla Galleria di Brera, e d'architettura come il Duomo, dall'interno, con la visione al tramonto dei vetri colorati e sacramente istoriati con riflessi tutt'intorno, e dall' alto, tra le guglie che perfezionano come pizzi inamidati la spinta verso il cielo di questo capolavoro, frutto anche di mille anonime mani maestre, oltre al passage della galleria Vittorio Emanuele, che lo affianca. Spiando in fretta senza essere vista, scelgo tre momenti vitalissimi nel viaggio iniziatico di Benjamin e dei suoi giovani amici nella Milano del maggio 1912, scandito in questo testo in tap-
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pe ad andatura musicalmente articolata, intersecate da 'incursioni' che l'Autrice si consente, come doveroso e ben fuso interstizio di una interpretazione di quel materialismo antropologico carico di messianismo che il giovane ebreo tedesco di Berlino ha costruito con illuminazioni ispirate che hanno l'eterno come dimensione più appropriata, dentro il reale stesso. Per il primo momento, la sosta al Duomo, dice Walter Benjamin: “Il tram ci ha condotto al Duomo. Certo nell'ammirarlo si dipende dal tempo atmosferico e siamo stati fortunati, poiché abbiamo veduto questa massa di pietra -voluminosa e tuttavia così slanciata sulle sue larghe fondamenta- contro il cielo azzurro che, in contrasto con il marmo, appariva di una tonalità ancora più forte. Più tardi siamo entrati... Le vetrate hanno colori carichi e ricordo in particolare il tono di luce calda e gialla che il sole al tramonto irraggiava sul pavimento attraverso una di queste finestre. L'interno si avvantaggia grandemente della mancanza di pale d'altare appariscenti. Inoltre nel Duomo non vi sono panche: tutto ciò aumenta la consapevolezza di trovarsi in uno spazio libero, maestosamente suddiviso, che la luce riempie ovunque sino a colmarlo” (W. Benjamin, Gesammelte Schriften, vol. VI, citato in R. Maletta, op. cit. pp. 53 e 56). Poi, alla mattina del giorno dopo, in una seconda sosta, attratto dallo spirito umano incarnato nelle forme delle pietre, Benjamin sostiene: “... La massa marmorea è così estesa che anche dall'alto è possibile vedere la piazza ai piedi del Duomo solo secondo determinate direttrici. Su tutti i lati si levano torri piccole e più grandi; parapetti, balaustre con dentro e sopra statue di santi. Qui si può guadagnare fiducia nell'umanità, se si pensa a quante schiere di uomini santi debbono aver vissuto affinché si potesse edificare il Duomo...” (W. B. G. S. vol. VI, citato in R. Maletta, op. cit. pag. 71). Per il secondo momento, la serata del primo giorno alla Scala, indeciso con gli amici se scegliere tra La Vedova Allegra e la Gloria di Gabriele D'Annunzio ed optando curiosamen-
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te per questa, Benjamin dice: “...Quando si entra a teatro -mantelli e spolverini si portano in sala- ci si trova di fronte a un sipario illuminato. Avevamo un posto inutilmente buono e, fin dove arrivava il nostro italiano, abbiamo potuto leggere da vicino il gran numero di réclames che tappezzano il sipario. Il teatro si è riempito a poco a poco; gli uomini fumano in sala. Delle signore colpisce il fatto che molte arrivino sole... Al di là del valore artistico, abbiamo impiegato davvero malamente i nostri danari anche a causa dell'allestimento e della pantomima deludenti...” (W. Benjamin, G.S. Vol. VI, in R. Maletta, op. cit. 64-66). Lasciando nelle profondità delle mie intime emozioni lo sguardo di Walter Benjamin sul Cristo morto del Mantegna, quasi mi avesse aspettato, lì a Brera, dopo la mia intuizione riflessiva tra questa e la tela del Courbet adorata da Lacan, arrivo a spiarlo, mentre è davanti all'Ultima Cena di Leonardo, teso, spaesato, sudorante: “Sto in piedi lì davanti, grondo sudore, mi cade il pince-nez, lo raccolgo sgomento, non riesco a metterlo. Via in tasca, inforco gli occhiali. Non sento null'altro che lo spazio e la consapevolezza di avere ora, sotto gli occhi, grande e scolorito, quel che sovente ho ammirato come riproduzione. Il tutto è durato a malapena mezzo minuto” (W. Benjamin, G. S. VI, in R. Maletta, op. cit. pag. 100). Le citazioni riportate sono come testimonianze che emergono quasi a viva voce dai testi di Benjamin, compiacendo il lettore della originalissima sintonia che si viene a creare: la studiosa, attenta germanista illuminata dalla gioia dell'investigare i testi in lingua tedesca per farne scaturire significati inesplorati e decisi passi dell'immaginario letterario proiettato verso il futuro, punta tutte le sue variegate tecniche per fornirci contenuti attraenti e che ci sanno adescare in concreti passaggi di realtà. Da quella concreta e ben dettagliata della 'due giorni' di Walter Benjamin a Milano, da quando arriva alla vecchia Stazione Centrale e dalla quale poi partirà tutto trafelato alla volta di Verona, di Vicenza, di Padova e poi di Venezia, a quella appena uscita di
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scena ed ancora viva nel time-lapse dell'Expo della Milano del 2015. Il testo si snoda tra sospensione della riflessione e della conoscenza, per immergersi nel vortice dell'immaginario indotto dai testi portati in citazione, anche di altri autori, per provare a tracciare qualche segnale della nuova antropologia post-moderna, quella che velocizza il tempo accelerandone il fluire, lo scorrere, in successione, e dilata, aggiunge, aumenta lo spazio della realtà aggiungendone la dimensione virtuale, aspetti dinamici che fanno saltare la consuetudine di vivere il tempo in successione lineare e lo spazio in funzione della regolarità, senza infanzia e senza quelle fantasmagorie che concretizzano il sogno. Lei ci è riuscita. Una modalità di lettura diventa 'propria' ed appartiene al contesto delle esperienze del singolo sognate se e solo se la citazione si fonde con il nuovo che ha ancora da essere detto: si tratta di essere e produrre pensiero, non allo specchio, ma nella concretezza di una visione alterata dalla verità messianicamente intesa, con al suo interno la contradizione. Per questo è possibile nel testo di Rosalba Maletta passare da Benjamin all'Expo 2015 verificando che il giovane pensatore tedesco, fattosi amante dell'amore e del sogno in scrittura, possa riprendere a respirare nella Milano di ieri come di oggi e di domani, dall' ipermodernità al suo oltre, ancora da individuare: ella ci consente di appropriarci del volto in scrittura di Benjamin, grazie a tutti quei particolari che rendono il testo da leggersi senza troppe interruzioni. Questi gli effetti di una piena autonomia del dettato interpretativo del testo letterario e diaristico, di cui l'Autrice si è appropriata portando anche attraverso la lezione di Jacques Lacan ad immergere il lettore nel contesto del collettivo sognante. Mentre stendo queste note, sullo sfondo, in rete, il canto di Yael Dekelbaum, onda sonora lunga, lunghissima di lei che guida con altre donne e madri e bambini, tra le alture di Jerusalem, la pace dei popoli in cammino dal presente al futuro. Ilia Pedrina
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COMUNITÀ PATRIARCALE E COMUNITÀ MODERNA di Antonia Izzi Rufo
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E persone molto anziane, che conservano lucidità mentale, ricordano la cosiddetta “famiglia patriarcale” per averne – alcune di esse – fatto parte. Tale esisteva ancora subito dopo la seconda guerra mondiale (1939-1945) e negli anni cinquanta, ed anche oltre, nonostante costumi e mentalità, in quel periodo, andassero cambiando rapidamente. Il cambiamento era da attribuire all’emancipazione subita dalle popolazioni del Centro-Sud in seguito al loro contatto con gli abitanti, più evoluti, dei paesi e delle città del Nord, nei quali esse furono deportate con la forza e la violenza e dove rimasero per circa due anni (dal novembre 1943 al giugno 1945). Quando tornarono nei loro paesi, sia gli uomini che le donne erano diversi e nella mentalità e nel modo di agire e ciò perché erano stati influenzati, in maniera positiva, dai settentrionali. Le donne erano meno timide, meno impacciate, più disinvolte: curavano il loro aspetto esteriore, mostravano di essere consapevoli dei loro diritti e li difendevano; gli uomini erano diventati più comprensivi, più tolleranti, meno gelosi. Le donne andavano in bicicletta come le settentrionali, entravano nei locali pubblici e si soffermavano a chiacchierare con i maschi, cosa che non avevano mai fatto prima, eseguivano lavori che prima erano affidati solo ai maschi, viaggiavano con i fidanzati, frequentavano le Scuole Superiori e le Università, se se lo potevano permettere. Anche le persone anziane, genitori e nonni, e nelle scuole gli insegnanti, avevano smesso quell’atteggiamento rigido, distaccato che non educava ma mortificava i ragazzi, e avevano addolcito i loro modi, erano diventati meno severi. Ma torniamo alla famiglia patriarcale. Tutti sappiamo come questa era formata e il ruolo che ogni suo componente aveva in essa. Non era, naturalmente, la famiglia patriarcale dei primordi della civiltà, con un pater-familias rigido al
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quale erano tutti sottomessi e al quale dovevano ubbidienza assoluta, un ”ipse dixit” le cui regole non potevano essere in nessun modo trasgredite; era, la famiglia patriarcale cui alludo, quella dell’ante e dell’immediato post bellum, una comunità ancora legata alla tradizione ma che s’andava liberando dei suoi lacci e s’avvicinava, anche se molto lentamente, naturalmente, alla modernità, che seguiva, magari senza rendersene conto, la spinta del divenire, congenito della mente umana. I familiari, infatti, vivevano solo in parte nello stesso nucleo e in una medesima abitazione nella quale c’era posto per tutti; la maggioranza di essi aveva una propria casa e una propria indipendenza, anche se svolgeva le sue attività nell’ “azienda familiare”, non aveva iniziativa alcuna e doveva rendere conto del suo operato al “capo” e seguirne gli ordini. Durante il periodo della ricostruzione c’è stato un capovolgimento totale nell’ ambito sociale tanto che la famiglia patriarcale s’è dissolta del tutto, non esiste più. Ogni individuo s’è ripresa la sua libertà e si è gestita a modo proprio la vita. Finite quelle estese parentele di primo, secondo, terzo grado che costituivano una interminabile catena che si estendeva all’infinito. A mala pena oggi si rimane legati ai fratelli, ai genitori e, per alcuni, ai nonni; cugini, zii, vicini e lontani, non si riconoscono più, si ignorano, si considerano estranei più degli estranei. Al posto della famiglia basata sulla parentela oggi s’è inserito un altro gruppo, un gruppo nuovo, più all’ avanguardia, un gruppo disinteressato che non ha legami di sangue, quindi d’interessi congiunti alla “roba”, motivo di implacabili dissidi. E’ il gruppo dell’ “amicizia” che oggi prevale, che oggi s’impone e risalta più vivo che mai. Sono i giovani a prediligerlo e a coltivarlo con amore e dedizione, a mantenerlo saldo per tutta la vita. L’amicizia tra i giovani inizia, di solito, fin dall’infanzia, a scuola, già dalle classi della Scuola Primaria e non s’ interrompe nemmeno se si vive in paesi diversi, se non si frequentano le stesse facoltà. Ci si tiene in contatto costante tramite i cellulari che, oltre tutto, si usano anche come ottime
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macchine fotografiche. Ci si incontra piuttosto spesso, anche se si vive in paesi distanti: nei fine settimana, in occasione di ricorrenze (matrimoni, compleanni, nascita di bambini), si va insieme in vacanza. Se muore un parente dell’amico si partecipa al funerale, se familiari dell’amico sono in ospedale si va a far loro visita. Tutto quanto non si fa per i parenti i quali devono essere “parenti stretti” per avere dei riguardi, altrimenti si ignorano. Perché tale scelta, tra i giovani in prevalenza? Perché con gli amici – ribadisco – non ci sono rapporti d’interesse, ma solo di stima e benevolenza, desiderio di stare insieme, sostenersi, prestarsi aiuto reciproco, darsi buoni consigli. “Vaerae amicitiae sempiternae sunt”. “Chi ha un amico ha un tesoro”. Antonia Izzi Rufo
IDILLIO
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Siamo noi pure segmenti di tracciati celesti. Ma non so ritrovarmi - seppure esatti i responsi e dati s’accumulano per interplanetari oroscopi. Dentro mi s’agitano sempre le stesse cose che dannano o redimono. Per questo mi detergo nel rivolo di sangue mio disperso e tra consunte pareti colloquio col fragile punto interrogativo di fumo. Con esso mi disfo in cerchi aerei e non ho volto. Rocco Cambareri Da Da lontano - Ed. Le Petit Moineau, 1970.
Voglio portare a Febo Alloro e giacinto A Carmene strofe alterne Mentre fuggo da questo mondo E mi riposo sotto il salice Dove sono pronti i doni Per la mia Venere succinta Solo da messe adornata Mentre un vento dirupa Là nella valle e la Fresca brezza rinfresca La tenera Giumenta che Si offre come obolo All’Altare. Susanna Pelizza Roma
NON HO VOLTO Ora l’attesa si calcola a secondo: robot: alterne luci verdi-rosse - occhiaie di congegni perfettissimi.
PROFONDO SILENZIO Affacciata alla finestra, la vita, guarda tristemente lo scorrere del tempo. Pensosa vorrebbe riavvolgere il nastro del vissuto. Nodi su nodi aggrovigliati, incastrati, stritolati sul nudo sedile di pietra a gran voce chiedono aiuto. Cade un profondo silenzio denso, eloquente, mai esplicitato da parole fresche e penetranti e stravolge una inutile speranza. Intanto un altro nodo, in un totale oblio, raggiunge gli altri sul gelido sedile di pietra. Anna Maria Bonomi Roma
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Rigenerazione sociale con incontri di nuovi mondi nel romanzo IL SEGRETO DI SELENIA DI MARIA ELENA DI STEFANO di Leonardo Selvaggi I LI anni dell’innocenza si sono arretrati in angoli dominati dal silenzio, in plaghe di verde, in vallate fiorite. Lo splendore della luce tra l’azzurro del cielo e l’aria vellutata che inonda i paesaggi. Paiono trasvolati in altri pianeti. Si sono scrostati del presente, vaganti di purezza, hanno celestialità spirituale. Li ritrovi negli ambiti dell’ animo, in atmosfere trascendenti, in trasumanazione passano per tutto l’etere. Un legame hanno con matrici ancestrali. I ricordi li ripercorriamo in dolcezze evanescenti con l’ immaginazione: un senso di divinità, in sintonia con il Creato, ci dividono dal tempo che viviamo, risonanti di echi, li sentiamo in alto e per entro le profondità della terra. Noi siamo scorie, fragilità conturbate sempre dai paradossi e dalle contraddizioni, dalle sopraffazioni. Le angustie del nostro ambiente ci minimizzano, quasi avulsi da noi stessi. Si avvertono come soffocate forze interiori che fiammeggiano divise sopra le membra spartite, automatizzate, frustrate. “Il segreto di Selenia” si incentra su questa sotterranea imperiosità di energie insite nella natura umana. Un’ansia di unitarietà e di amplificazione, un ritorno alle primigenie capacità che conducono a simbiosi a stati di comunanza. Processi di razionalizzazione elevandoci dalle strettoie degli egoismi, dagli ambienti ammorbati, confusi. “Il segreto di Selenia” il romanzo che ha la leggerezza di una fiaba esprimendo esigenze e possibili realtà avveniristiche, ci scopre intimità lacerante, donandoci slanci verso indirizzi umani più confacenti alle nostre caratterizzazioni. L’autrice Maria Elena Di Stefano in pagine semplici, scritte con il candore di un animo intristito dalle solitudini che la modernità ci fa vivere. Con uno stile spontaneo, scorrevole e una ricchezza di con-
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cetti, una varia esemplificazione di situazioni offre un panorama dei nostri giorni rappresi in troppo materialismo che porta ad alienazioni, a strutture meccaniche, a reclusioni mentali disumanizzanti. La protagonista di una sensibilità straordinaria, che pare costruita di celestiali sostanze, ci trasporta in stati sublimati che sono allucinazioni rendendo possibile il raggiungimento degli spazi aurorali dell’Infinito da dove siamo venuti. Il corpo soffre come invasato, febbricitante in rapimenti ascensionali, metafisici. Ci scrosta dalla troppo dura superficie della terra, oscurata dal malessere. Quasi una certa illuminazione apre la mente per selezionare le azioni, per rettificarle, riportandole a una linea di ordine razionale. La terra ci restringe massificandoci, occorrono sintonie con il senso del mistero, una spazialità spirituale che la protagonista vive con la fantasia e le emozioni. Altri pianeti, altri mondi, tra costellazioni e galassie, una evoluzione che ci unisce ad altri punti, agli alieni intravisti: cammini ulteriori per orizzonti immensi che sbarrano all’ umanità forze nuove, una specie di resurrezione, creando passaggi per l’assoluto, scomponendo convenzioni e formalismi che mascherano con ipocrisia ed esibizionismi. Un’ intercomunicabilità con le diverse esistenze, la sfera quotidiana di atteggiamenti rugginosi prendono un avvio per altri modi di essere. La protagonista, sbalzata dal reale, ha richiami interiori che fanno individuare il giusto tragitto. Ispirati i suoi pensieri, ansie represse, bisogni di libertà oltre le consuetudini di immobilità e rudezze, incomprensioni. Le incertezze tengono sospesi, abbattono in sperdimenti mortiferi. La visione di altri pianeti, portata da Teco, extra terrestre amico, visto e sentito attraverso le radioonde si è piantata nel suo animo. La mente riorganizzata, decantata, sensibilizzata fuori dai recinti che snaturano. La luce che viene dall’immensità segna traiettorie e superamenti dalle ambagi attuali. II Selenia, personaggio denudato di ogni peso
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materialistico e dei modi stereotipati ha un moto ascensionale e per sterminate superfici con la velocità dei pensieri. Le leggi naturali, gli istinti fini che rendono l’umanità compatta. La protagonista è per le strade, vive soccorrendo i bisognosi. Gli echi lontani che sono voci profonde e diramate arrivano tramite le luci dell’intelligenza superiore di Teco, di cultura raffinata, senza limitazioni. Sconfinamenti, luoghi felici nella Natura e nel rapporto con l’Universo. La sensibilità di Selenia avverte le tracce armoniose di intreccio con il tutto, la vediamo risollevata da ogni stagnazione, in processi dinamici di trasformazione l’ambiente esterno stimolato dai sentimenti, dalle buone azioni. Selenia sa di presenza surreale, vive di meditazioni e riflessioni, in atmosfera di spinte morali e di idealità. La società come ravvicinata ai ripensamenti, viene scossa dal torpore, dalla cecità delle concezioni edonistiche, dalle divisioni classistiche: con la dedizione e con l’amore il rapporto umano in un’ansia di ricostituzione ideologico-cristiana. I principi di uguaglianza trovano la via della realizzazione con le idee umanitarie dei mondialisti, con la convergenza fra i popoli, eliminando gli ingranaggi di burocratizzazione, di grettezza egocentrica. Un romanzo che ha aspetti fantascientifici, ma tanta pedagogia. I valori della vita in prima linea, rivalutati i principi di giustizia, il concetto di armonia e di virtù, di applicazione collaborativa con moti reciproci di spontaneità e immediatezza costituiscono il generale tessuto connettivo. Le condizioni di indigenza in tanta parte delle terra vengono ad essere i problemi più assillanti da risolvere. Eticità nelle volontà indomite di animi nobili. La violenza, commerci loschi, infestazione di malcostume nelle città congestionate che hanno perso il loro fascino come luoghi della storia e della bellezza artistica. Il segreto di Selenia ha il significato di esigenza morale: sorretta da impazienza, dall’ansia di vedere Teco, il percepire la sua presenza nell’aria, il suo amore che vince le amarezze, le lacrime delle sofferenze, un Deus ex machina che porta luce, verità e vita, se lo sente nel petto, trapassato da
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folgorazioni e da fremiti. Selenia si sente oppressa, la sua interiorità sofferta è trasporto affettivo verso il prossimo. Il sorriso innocente che vede brillare sui visi canditi dell’ infanzia penetra nelle sua persona e la fa estasiare, ritrovando equilibrio e gioia serena. Osserviamo nelle pagine del romanzo di Maria Elena Di Stefano una sintesi delle tante miserie che la società odierna ci presenta. Selenia in momenti provvidenziali spinta dalla profondità dei pensieri e da istinti di pratica attualizzazione, condotti sempre con la tempestività dell’intuizione. Teco, guida spirituale, arriva da altri pianeti in immediate ondate magiche, una vera apparizione sulla terra. La vita prende il suo significato, si dilata, si diffonde, occorre un rapporto di incontri, fatto di modi che sanno di compenetrazione. Il romanzo ha una soavità espressiva, anche le illustrazioni con pochi tratti danno il giusto effetto di far risaltare i rapimenti e le esaltazioni della protagonista. Dolcezza di linee, efficaci i contenuti per semplicità e pregnanza nello stesso tempo di sentimenti. III Occorre l’intelligenza che è pura, senza limitazioni né furberie, quella che arriva da ampiezze e da intangibilità, che sa le energie divine, ricca di vaste conoscenze, mossa da impulsi non appesantiti da orgogli, non insozzati da avidità e da insidie. Teco rappresenta le capacità razionali che garantiscono di avere una società vitale. Lo vediamo accanto a Selenia con tenerezza, con la fissità dello sguardo lungimirante. Selenia accomunando le necessità dei poveri è come un medicamento mellifluo e sicuro. La distruzione della sua casa è simbolica, non occorrono le pareti che allontanano dai nostri simili, all’intemperie ci si incontra faccia contro faccia, la gente tutta insieme come in un grande fiume che scorre allagando ogni parte delle superfici, colmando i vuoti, tutte le discontinuità scompaiono, un moto uguale di livellamento, un contemperarsi in unità di intenti, quasi trapassandosi l’uno nell’altro. Selenia ha il none della luna, il biancore diafano la veste, dal viso tondo
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con i riflessi della amabilità, la vediamo per le vie della sua Roma, negli angoli appartati, dove le persone come smembrate costituiscono il rifiuto della società avanzata, corre con le ali, il suo animo ha vibrazioni che sanno di musica “dolce e incalzante”, ravviva con paziente attenzione le psicologie intristite. La sua profondità di sentire fa il motivo dominante del romanzo: solo per la via della bontà la vita migliora divenendo degna e autentica secondo quanto vogliono le norme della pacifica convivenza. “Come per una evocazione dell’anima, dietro alle forme che vedeva, umane o naturali che fossero, dietro ad ogni immagine avvertiva presenze misteriose; dietro realtà, misteri che la mente comunemente si rifiuta di credere, o crede con riluttanza e riserva”. I misteri sono le bellezze delle esistenze che non concepiamo, le felicità di per sé si realizzano, sono le artificiosità e le malevolenze che sotterrano le manifestazioni di connubi vitali. La semplicità di cuore, la prontezza come la comprensione possono andare incontro. L’egoismo, il personalismo, i modi ingannevoli, le apparenze creano ostacoli. “Aneliti infiniti” attraversano la mente di Selenia aperta agli spazi, che deborda irrompente prendendo tutto come in un amplesso. “Per un bisogno irrefrenabile della sua indole, rifletteva intensamente intorno ai problemi che la colpivano, fino ad arrivare alla gioia o alla commozione”. Vincere il male e ristabilire l’amore e l’armonia nella società, mirando i cerchi concentrici del movimento universale dal divino Fattore sincronizzati. Il segreto di Selenia è l’illuminazione degli occhi di Teco, tenuta come dono prezioso: scuote momenti di felicità, dà le direttive per andare fra la gente con presenza viva e idee proliferatrici.. Luoghi liberi, azioni che ravvivano la vita, luoghi alti con paesaggi immersi nel silenzio, vicino alla Natura, mentre si prendono le lontananze che fanno percepire sensazioni di grandiosità. Togliersi dall’opprimente concentrazione di case e di sistemi meccanici che creano l’aria chiusa come fasciata, e noi automi manovrati senza comunicazioni. La protagonista, con il segreto che ha con sé, trepi-
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dante si sente sbalzata in altezze siderali, attorniata da riflessione di luce è portata ad affinamenti, a irradiazioni. IV Aumenta lo spazio, aumentano le conoscenze e gli impulsi, altre figure, incontri di diversa natura, processi integrativi, come smaterializzarsi, togliersi le dure croste di dosso e ricrearsi. La protagonista come l’ autrice, con una personalità fine che si costruisce modi di essere non consueti. Un desiderio di vedere il mondo attraverso visioni che consentono arricchimento di atteggiamenti morali legati ai principi fondamentali, all’ essenzialità, alla negazione di quei trinceramenti che sono soltanto isterilimento e frammentazioni. Maria Elena Di Stefano tratta tematiche scientifiche, sociali, letterarie, artistiche e spirituali che sviluppa con applicazione continua e approfondimenti, presa da idealità relative alla elevazione dell’ambiente umano. Ricordiamo per inquadrare la sua attività adusa a riflessioni e a maturazioni alcuni titoli della produzione pittorica che come i contenuti della sua poesia si connettono in modo significativo al romanzo, oggetto delle presenti annotazioni. “Notte e giorno”, “Evoluzione”, “Cristo del Cosmo”, “Solidarietà”, “Vita e morte”, “Bene e male”. Tutto un cammino che la porta a problemi metafisici, ontologici, in un divenire di trascendenza. Il romanzo “Il segreto di Selenia” ripercorre i suoi studiati transiti ideologici, vedendo le conquiste spaziali come mete necessarie cui l’uomo, ente pensante, è diretto con razionalizzazione, sempre in sintonia con i principi della fede. Sconfinamenti con il senso del divino che spingono oltre le nostre posizioni, lungo onde magnetiche seguiamo Teco attraverso i suoi cammini siderali. L’innocenza dei pensieri a contatto con i simili creano pace ed astrazioni. Una sensazione di evanescenza generata dalle attrazioni verso le meraviglie del Creato. Una musicalità diffusa attorno che movimenta la sensibilità. L’immaginazione trae “Magiche note capaci di fare.. brillare sole e luna; far parlare le stelle; far giungere venti
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da lontano”. Selenia “Dolcemente e serenamente si abbandonò alla volontà di lui che riteneva di origine superiore anzi ultraterrena”. Una specie di isolamento che la fa sentire “annullata nella luce”. Si esce dalle catene del convenzionalismo. La libertà naturale e vera conduce alla ricerca e alla cooperazione. Occorre vivere il mistero che è verità infinita ed esistenzialità sconosciute e l’intima ansia in noi presente di altre estensioni. Travisamenti ed errori nella vita sociale, falsa democrazia che arricchisce alcuni portando gli altri sul lastrico. Una sicurezza e decisione maggiore nei pensieri, come ce lo dimostra Teco, rendono possibile una dinamicizzazione nei rapporti con sentimenti di fratellanza. “Il suo modo di vedere il mondo stava cambiando, la sua mente si liberava della nebbia grazie a questa forza morale che lottava contro politiche sbagliate e forze malefiche”. “…sentiva il suo essere espandersi attraverso le barriere delle costruzioni umane, fisiche e sociali percependo valori universali…” . “…in sintonia con l’essere umano, che la cultura contemporanea aveva disperso per favorire aspetti spettacolari”. Selenia con la sua fragilità umana, con lo spirituale superamento di sé, quasi diafana aria, non si sente di appartenere alla terra, oltrepassa i suoi confini, la vede come sconvolta, sprofondata, distrutta con l’ umanità che vive sopra, disorientati si corre, non si conoscono più i cammini fatti, frastornati, le psicologie contorte come le membra inaridite paiono tronchi di alberi rinsecchiti. Le forme originarie si sono avvilite, tanta patina le ha coperte e corrose, l’umano sulla terra ha cambiato colore, la pelle indurita, le vene con grumi di sangue intasate, terra e membra si sono rimescolate, quasi mondo organico e inorganico si uniscono con uguale sostanza, la terra friabile rossastra, franabile precipita con le ossa degli arti spolpati, fattisi irrigiditi di metallo, meccanizzati, slegati dai movimenti razionali. V Maria Elena Di Stefano nel suo romanzo “Il segreto di Selenia” attorno a concetti basilari
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svolge la trama del percorso narrativo con una franchezza espressiva fatta di trasparenza e di levità di immagini. Un linguaggio come di vetro, vediamo dentro i contenuti fin nelle più sottili sfumature. Schematici ed essenziali gli sviluppi delle proprie tematiche. “… Importante la convinzione che gli extraterrestri fossero esseri decisamente spirituali, amanti di una cultura altamente morale capace di educare l’animo umano a valori equilibratori del sistema psicofisico”. Necessaria la razionalizzazione degli istinti come la collaborazione con intelligenze ad alto livello, dotate di capacità di supervisione, Le discoteche, luoghi di rovina, i giovani si disperdono contorcendosi nelle abbaglianti luci psichedeliche. L’edonismo toglie le energie, non fa sostenere le difficoltà della vita. La mente labile crea dissidi interiori, portando ad azioni incontrollate. Educativo il romanzo, di certo ha con la sua chiarezza ed evidenziazione effetti positivi. Un represso in tanti settori ha generato la modernità del nostro tempo. I giovani disordinati non sono disciplinati al senso della misura. La vita “ sconfitta nelle sue aspirazioni più nobili”, materializzata e dissacrata. L’ autrice nei suoi orientamenti pedagogici vede l’arte strumento primo di vitalizzazione della persona, per una sua cultura estetica di equilibrio e di dignità. Lo spazio figurativo stimola vibrazioni e ritmi per slanci a fasi di ingentilimento e di catarsi. La struttura fisica quasi si fluidifica e si espande, un processo profondo di riformazione, l’interiorità viene fuori prendendo corpo. Un afflato di reciprocità, di risonanze. L’assenza che si fa vicinanza lungo cammini penetrativi, di comunicabilità. Si avverte un peso comprimente nella vita attuale confusa e scomposta. Con le nuove mode quasi una deformazione negli aspetti dei giovani, con teste rasate, dipinte, sembrano galli eccitati. Il lercio sparso dovunque, il verde maltrattato, la delicatezza dei tratti è divenuta volgare esibizionismo e sregolatezza. Selenia prova momenti di gioia davanti ai “segni di civiltà e di elevatezza d’animo”… Il materialismo toglie le differenze ed ostacola i movimenti evolutivi. Ci si sfigura, come palle ro-
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tolanti, senza una posizione, arti e testa fusi, non sai da dove cominciare, irriconoscibili, non c’è una differenziazione di parti che permetta una gradualità di fasi. Una intelligenza fine e civile disprezza il consumismo, quell’inclinazione che si fa pronta al rifiuto, al disamore per gli oggetti. Viene a mancare il rapporto con l’ambiente, sfuggenti ci si avvia così alla alienazione fuori dalla concretezza e dalla stabilità di quanto ci sta attorno in forma protettiva. La sensibilità e la riflessione dicono ritrovamento di spazi che si amplificano e ambienti aerati e sani. La nostra persona ordinata prende forme evolute di elevata moralità. Si parla di cosmopolitismo, cominciando ad avvertire insoddisfazioni, si vuole uscire dal particolare e dall’interesse personale. I territori si avvicinano, i confini smantellati, arriviamo nei paesi ove si soffre la fame e le malattie epidemiche sono la caratteristica prima delle misere condizioni di vita, allo stremo delle forze e ai margini della sopravvivenza. Selenia è inebriata dalle altezze, un’ansia irrefrenabile di arrivare ove la luce si effonde in tutta la splendidezza. In basso tutto è decrepito, ammassato, invecchiato. I corpi rimpinguati hanno lentezze e abulia. Le città inquinate e congestionate vanno sventrate, hanno perso la pace, fracasso e confusione, la notte come il giorno, il silenzio, dominante un tempo, creava ombre e bellezze di angoli remoti, è stato massacrato. VI Teco e Selenia nel romanzo della Di Stefano hanno creato un’atmosfera con nuovi modi di agire, con programmi e vedute chiare. Una vitalità che penetra in animi angustiati. L’ambiente umano ha di dosso quel vello di brutalità che significa soltanto annientamento. Ipocrisia, contraddizioni in tutta la loro malvagia presenza. Si aspira ad una condotta ideale di semplicità e di spontanei rapporti in sistemi di trasparenza e di linearità contro l’ esibizionistico e il velleitario. Altri paesi ed altri mondi richiamano attraverso quel senso dell’ignoto che affiora in noi stretti dalla limitatezza. Forme arcane e ancestrali nel sub-
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conscio portano lontano a fonti di energia andate perdute, a curiosità di sapere: l’ansia di miglioramento con scoperte che possano sollevare le zone della terra soffocate da marasmi. Si attua con altra intelligenza un’apertura fra le comunità, fatta di selezione, di rinnovate organizzazioni. La monotonia, l’ automatismo sono veleni della razionalità e delle identità natie che ci appartengono. Tutti insieme, in sintonia di incontri volti verso spiragli di benessere e di amore. Selenia “confrontandosi in rapporti umani difficili, s’era sentita tanto sola da giungere alla necessità di crearsi un rapporto intimo, segreto, fatto a misura sua interiore”, “…anelava a un principio assoluto di verità, al quale dava volto e sentimenti dai tratti nobili ed elevati al di là di ogni principio di piacere”. I nostri luoghi sono ormai dei recinti, degli steccati, viviamo reclusi senza conoscerci. Occorrono movimenti dilaganti, confluenze. Come matti e ossessionati si gira su se stessi, avanti e indietro. Non abbiamo un dialogo, solo disagi da insofferenza, siamo presi da crisi. Occorre rigenerarci, lo sentiamo dentro, automi ci accorgiamo che davanti ai passi si aprono dirupi, sprofondamenti che non fanno vivere. Come Selenia avvertiamo di essere frammentati, disorganici. Dobbiamo rompere l’involucro che ci chiude, ci opprime di precarietà e di arida sopravvivenza. La Di Stefano con fede e religiosità richiama i principi cristiani, nuove esperienze: processi di spiritualizzazione, indirizzi di condotta etica, la necessità di credere a nuove forme di intelligenza, pure e scrostate da ogni irretismo. VII Un Messia che dia spinte verso altre frontiere per una generazione e un futuro senza confini, incontro a vere trasformazioni. Siamo troppo stratificati, formiamo aree archeologiche rose dal tempo, come ossificati sulla superficie della terra. Per nuovi pianeti e nuovi mondi, il messaggio che ci viene dalle semplici, affascinanti, candide pagine di Maria Elena Di Stefano. Teco, illuminazione e ardore di azione rappresenta la via per consi-
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derare il mondo da punti di vista superiori. Come dice Garcia Lorca, altre appartenenze attraggono, “l’etere si espande, gli astri tutto il volto/ rivelano ridenti…” . L’Umanità è eterna, si rispecchia nell’infinito, si effonde e si unisce con fluidi magici per tutti i luoghi. Sa di immensità, le aspirazioni sono per più ampi cammini, per rinnovate forme di esistenza, sa di lontananze e di echi, immersa in silenzi ondulati pieni di armonia. Può essere che l’uomo sia stato creato “da esseri più evoluti di noi e poi posto sulla terra”. Sintonia fra gli animi fa nascere nuovi sistemi l’Umanità avvolge la terra e altri pianeti, deve con unica continuità scorrere, incontrarsi nelle sterminate parti come in un cerchio. Abbiamo tutti un seme che dovrà germinare e farci “Scattare in avanti e in alto nuove capacità di pensiero” . La mente va agli “infiniti valori umani attraverso i secoli”, debbono rannodarsi per proliferare altre scoperte. “Gli sviluppi non possiamo constatarli neanche noi, credo, ma possiamo immaginare che avverranno fatti che oggi appartengono ai romanzi di fantascienza”. Teco chiama Selenia ed anche ciascuno di noi. “L’uomo stesso ammette che la sua esistenza ha origini trascendentali”. Legami esistenti in luoghi lontani dalla superficie terrestre possono avviarci per evoluzioni ultime. Sicuramente andiamo verso dilatazioni, verso forme spirituali che annienteranno le incrostazioni che serrano esseri non evoluti del tutto. Spazi eterei, tonalità infinite. Gli occhi di Teco presenti nell’animo profondo di Selenia hanno il colore delle stelle. Fermi nel particolare, nell’aggressività, nella miseria dei nostri anni di vita. Impossibile ancora il congiungimento con il soprannaturale. Liberarci da forme ambigue, dalle incertezze che fanno andare a tentoni. Il dramma eterno dell’uomo che non trova ancora soluzioni per uscire dalle strettoie che gli fanno la vita grama, dalle differenziazioni che danno l’impressione che ognuno abbia una origine propria. Gli uomini divisi per gruppi, non c’è un solo Dio, dobbiamo dire che l’armonia prende solo alcune parti, il resto va da sé, portato dal caso e da nefasti accadimenti. L’eterno contrasto tra
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male e bene, tra amore e solitudine. L’uomo impotente con tanta irrazionalità addosso, pesante con pelame che non gli permette di sollevarsi. La luce ci abbaglia, non vediamo altre presenze, i richiami non sentiamo. L’animo è battagliato dal segreto desiderio di mettersi in sintonia con il tutto, di superare le drammatiche, infelici discontinuità della terra. Unioni idealistiche, sentimentali, razionali, spirituali, alle fonti originari vitali, in ampiezze di socialità, in unitarietà cosmopolitiche. Leonardo Selvaggi
Qui sotto, un bel disegno del 1971 di MARIA ELENA DI STEFANO pittrice romana - nativa di Catania -, oltre che poetessa e scrittrice, della quale ricordiamo i volumi “Nello spazio e nell’anima” (1972), “Vere e false parole” (1978) - ampiamente recensiti sulle pagine dl nostro mensile di quegli anni -, nonché “Clamori e silenzi” (1981), “Terra, Fuoco, Vento, Luce” (1987), “Noi, la vita, l’universo” (200), “Il sole del 2000” (2004), “Risonanze di vita” (2005), “Realtà e fantasia - Storie di animali e fiabe” (2011) eccetera.
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Il Racconto
IL PICCONATORE di Antonio Visconte
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ENATO Capece si godeva il fresco di una notte agostana, appoggiato alla ringhiera del balconcino, al primo piano della sua casetta, appena fuori dell’ abitato, quando la moglie lo esortò di venire a letto. - Che bisogno c’è - pensava il brav’uomo -, sono in pensione, domattina mi alzo alle dieci, la stanza sente ancora il calore della terrazza. “Vengo subito”, rispose Renato e si coricò accanto alla donna. Non aveva ancora ristorato le membra, che dei forti rumori gli stordivano l’orecchio. “Corri, vai a vedere che succede”, gl’intimò la moglie. “Non mi voglio muovere”, ribatté Renato. “Ti devi muovere, pecorone che sei”, strepitò Teresa, “che vergogna ho fatto a sposarti”. La notte appariva tranquilla. Le stelle fiammeggiavano in un emisfero radioso, e la luna suppliva i traballanti lampioni, illuminando la campagna e la collina come di giorno. “Cosa stai facendo a quel povero cancello”, gridò Renato verso un giovincello, che picconava l’inferriata, cercando di aprirsi un varco, “lo vuoi buttare a terra?” Il giovane andò via e Renato ritornò a letto. La mattina seguente, ai primi bagliori dell’ alba, squillò il telefono e una voce gli diceva: “Non ti potevi fare i cazzi tuoi, quello che non ho fatto a lui, lo faccio a te.” Renato rimase esterrefatto. Una condanna a morte. Chi lo poteva salvare, chi lo poteva difendere da una fine annunziata? Cosa voleva quel tizio?” chiese Teresa. Renato riferì la telefonata. “Non ti preoccupare più di tanto”, aggiunse Teresa, “vestiti e corri subito dai carabinieri a denunziare il fatto. La devono smettere questi dannati di terrorizzare un paese.” Renato ubbidì e il piantone gli disse di
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aspettare alle nove, prima di essere ricevuto. “Vi siete cacciato nei guai”, affermò il maresciallo, “dovevate farvi i cazzi vostri.” “Ma non dobbiamo collaborare con la giustizia”, mormorò Renato, in preda ad uno sbalordimento il più completo. “Sicuro, che dovete collaborare con la giustizia, ci mancherebbe altro”, precisava il maresciallo, “ma non adesso, dopo che è avvenuto l’omicidio. Alla giustizia interessa il processo, che dà lavoro ai tribunali, non già la vita dei cittadini. Fatevi ammazzare e noi procederemo con le indagini.” Renato piangendo riferì alla consorte l’ infelice esito della spedizione. “Io non ti credo”, argomentava Teresa, “qualcosa di più preciso ti avrà detto il maresciallo, cosa ti ha detto?” “Mi ha detto cento volte che mi dovevo fare i cazzi miei.” “Sempre con questi cazzi”, strillò Teresa, “ma che ci stanno a fare, solo per prendere lo stipendio.” “La colpa non è loro”, riprese il marito. “E di chi è la colpa?” “La legge italiana è fatta così. Quanti carabinieri vengono uccisi, neanche loro si possono difendere, hanno le mani legate!” Il povero uomo si rinchiuse in casa, e aveva preso gli arresti domiciliari al posto del colpevole, ma un pomeriggio ricevette la visita di un parente che gli disse: “Domattina vestiti e vieni con me”, e si recarono da un personaggio fin troppo noto alle cronache cittadine. “Don Vincenzino”, iniziò Giuseppe, “vi ricordate di me?” “Come se mi ricordo, tu facevi il fornitore di pane nel carcere, e spero di non ritornarci.” “Ve lo auguro come un figlio.” “Di che si tratta?” “Don Vincenzino, questo mio parente, Renato Capece, involontariamente, per colpa della moglie, si è trovato coinvolto in un brutto incidente”, e raccontò l’accaduto. “Si doveva fare i cazzi suoi”, dichiarò il capozona. Renato iniziò a singhiozzare. Il malavitoso, il maresciallo, il capozona, dicevano tutti la
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stessa cosa. Chi altri rimaneva che poteva dire una cosa diversa? “Don Vincenzino, fatelo per me, perdonatelo”, supplicava Giuseppe, “a quell’ora la casa traballava, sembrava che gli cadesse addosso.” “Ma i colpi non erano diretti a lui”, ingiunse il capozona. “Questo è vero, però nel silenzio della notte, ogni piccolo rumore desta preoccupazione nel vicino di casa. La moglie aveva paura, e lui non voleva intervenire.” “Adesso lo perdono, ma la prossima volta deve farsi i cazzi suoi”, sentenziò il capozona, “e non ubbidire alla moglie.” Renato pronunziò la promessa, sapendo di non poterla mantenere, però in questa pericolosa circostanza ebbe salva la vita e ritornò a casa, come si dice, sicuro di sé. Antonio Visconte
LA STRADA DELL’ULTIMO DELL’ANNO di Filomena Iovinella
I
N lontananza arriva un auto, corre lungo un angolo di mondo innevato, tra una scogliera d’altitudine e in profondo il mare; mentre soffia il vento e la rugiada bagna il cofano. Lo sguardo indugia su quel muso metallico luccicato dal freddo, distogliendo l’ attenzione dalla strada e alla guida; tra la grinta di piede di uno scatto di velocità, ancor prima della sosta. Gli occhi di lei fissi, ad aspettare quell’alba di un anno nuovo, da disegnare a matita. Stringe al collo la sua sciarpa di lana, annoda al dito mignolo il nastro rosso, nell’ andarsene, portato con sé. Si volta a guardare indietro, nel momento in cui riscopre quel pensiero che gli ha spezzato i sogni, lasciandola sospesa per un minuto di eternità, in un suono assordante, micidiale, agonizzante; autore di quel dolore, del nessuno, che le viene come omaggio della vita stessa.
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Una musica diffonde da lontano il tempo portato da una slitta, la quale stranamente arriva dal mare, inondandola di pioggia e luce, mentre l’oscuro parla all’indomabile fantasma del sogno, che si accende. La stella cometa appare, li dinnanzi a lei, in un luogo diverso dalla storia di sempre, su quel mare dove si è adunata la flotta del mistero del tempo. Lungo la via dell’ultimo dell’anno, a ridare vita ad una visione trattenuta nel morso della mano, c’è colei che bussa all’orizzonte del domani. La strada si riempie di luce ed un palmo si allunga lentamente, a raggiungere l’altro. Le manca un verso…. poi lo ritrova, a mezzanotte, su quella strada invocata. Filomena Iovinella
Qui sotto: Domenico Defelice - “Una casa”, biro (1981)
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I POETI E LA NATURA – 63 di Luigi De Rosa
Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)
IL “MERIGGIARE PALLIDO E ASSORTO” DI EUGENIO MONTALE (1896-1981)
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ppena ho saputo che a Stoccolma avevano assegnato il Nobel al cantautore Bob Dylan con la motivazione che “ha creato nuove forme espressive poetiche nell'ambito della tradizione della grande canzone americana” mi sono andato a rileggere quella che avevano formulato per il poeta genovese Eugenio Montale nel 1975, “per la sua poetica distinta che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva di illusioni”. Tutto qui? Effettivamente non è facile, studiarsi una motivazione più che sufficiente,
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per assegnare un Nobel. Poi ho letto che Dylan non aveva tempo (aveva ...altri impegni) per andare a Stoccolma alla cerimonia della Premiazione. Mentre, a suo tempo, Montale vi era andato ben contento, anche se assai preoccupato se in un futuro la Poesia avrebbe resistito al tempo, o avesse minacciato di sparire. Il discorso ci porterebbe molto lontano, comunque meriterebbe di essere ripreso. Per oggi mi accontento di ricordare che Montale scrisse il suo capolavoro degli Ossi di seppia nel 1916, a soli vent'anni, dimostrando una maturità di linguaggio e di stile semplicemente strepitosa, per quell'età, ed una capacità di espressività e di novità incredibile. Dalla raccolta Ossi di Seppia ricordo qui (per il rapporto tra il poeta e la Natura) la famosa poesia Meriggiare pallido e assorto. Si tratta di diciassette versi raccolti in quattro strofe, di cui le prime tre di quattro versi ciascuna, e la quarta di cinque. La poesia è ispirata ad un angolo di Liguria arroventato dal sole e immerso in un'atmosfera soffocante e strana. I versi sono di nove o dieci sillabe, alternati con endecasillabi, in una varietà di ritmi e di armonie, di colore e melodia, che porta la sensibilità del testo al massimo grado. Sembra una composizione semplice, ma in realtà è estremamente curata nella scelta e
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nella disposizione delle parole, nell'alternanza di rime e di assonanze. L'ultima strofa è un susseguirsi inarrestabile di rime e assonanze. C'è il “trionfo” di una Natura necessitata. Prigioniera e imprigionante. C'è il paesaggio, la campagna. C'è anche il mare. Lontano, sullo sfondo, scintillante ma quasi prigioniero anch'esso. E ci sono le tracce della presenza dell'uomo (muro d'orto, cocci di bottiglia od offendicula...). C'è la vita degli animali, uccelli, serpi, cicale, formiche. Queste ultime come gli uomini, molto indaffarate anche se ignare di ciò che fanno e del perché lo fanno. C'è quella delle piante e dell'erba. C'è il mistero inspiegabile della vita, e in particolare di quella dell'uomo, che può al massimo camminare lungo una muraglia senza poter sapere che cosa ci sia al di là. La descrizione del “paesaggio”, pur così nuova ed originale, finisce col presentarci il problema del Dolore e dell'Infelicità sotto un'angolazione squisitamente classica. Ecco il testo montaliano, che, ripeto, ha più di cento anni di età... e non ha perso il suo vigore letterario: “Meriggiare pallido e assorto presso un rovente muro d'orto, ascoltare tra i pruni e gli sterpi schiocchi di merli, frusci di serpi. Nelle crepe del suolo o su la veccia spiar le file di rosse formiche ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano a sommo di minuscole biche. Osservare tra frondi il palpitare lontano di scaglie di mare mentre si levano tremuli scricchi di cicale dai calvi picchi. E andando nel sole che abbaglia sentire con triste meraviglia com'è tutta la sua vita e il suo travaglio in questo seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.” Luigi De Rosa
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Recensioni MARIA ROSA ACRI BORELLO ANCHE SE QUEL CHE SPERO Ediz. Tigulliana, Santa Margherita Ligure, 2016) Un intenso sentimento religioso è alla base delle poesie che Maria Rosa Acri Borello ha raccolte nel suo nuovo libro Anche se quel che spero (Edizioni Tigulliana, 2016). Sono, queste, poesie strutturate come un’invocazione o una preghiera rivolta a Dio per impetrare il Suo aiuto e la Sua misericordia: “Padre, tu che sei padre / donami parole / semplici, / … / Reggi la mia navicella / fra i marosi” (Piccola preghiera); “Onnipotente / allontana da noi / il vizio di deviare / da rotte obbligate. / su questa spiaggia di sassi / e questi scogli / noi T’invochiamo” (Preghiera di naufraghi). Vi è in taluni versi dell’ Acri Borello la suggestione delle immagini sacre delle origini; dei mosaici bizantini e degli affreschi di antiche chiese: “Tu eri / nella maestà / di una basilica, / nell’interno raccolto / di un mausoleo” (Paleocristo), così come vi è l’eco di una discesa all’Ade: “Scenderò assieme a te / scalini sconnessi / o pioli tarlati, / anima impervia” (Catàbasi). Ma ciò che maggiormente suggestiona in questo libro sono certe figure che sembrano appena uscite dall’Inferno dantesco, come quelle degli Scialacquatori, che nulla seppero conservare di quanto ebbero in sorte (“E Tu ci chiamerai / a render conto / di quei pochi talenti / che non tenemmo in serbo / neanche dopo lo scialo”); degli Ipocriti, che finsero, con doppiezza mendace, nei confronti del prossimo, sicché ora gemono sotto “grevi cappe di piombo / … / nella grigia prigione / di un’eterna inerzia” o dei Bestemmiatori, eterni ribelli nei confronti del-
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la Volontà Divina, che sovente compaiono, ad esempio, tra i tifosi di uno stadio, imprecanti se la loro squadra è perdente. S’incontrano inoltre nel libro dell’Acri Borello parecchie poesie che s’ispirano alla Bibbia, della quale citano i versetti, come questi, tratti dalla Genesi (6, 12): “Dio guardò la Terra ed essa era corrotta, / perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla Terra”, che costituiscono l’epigrafe della poesia La Storia (dove si leggono tra l’altro i seguenti versi: “Storia di guerre / e di desolazione, / col sangue dei fratelli / i figli del Maligno / hanno scritto sulla sabbia / i segni dell’ira”). Si veda anche questo passo tratto dal Libro di Ruth: “Arrivarono a Betlemme quando si cominciava a mietere l’orzo” (Ruth I, 22), premesso alla poesia che inizia: “In te mi riconosco, / donna in cammino / verso beni promessi / in premio / di fatiche e dolori”. Molte altre poesie significative si trovano in questo libro, come quella dedicata A Edith Stein, che reca in esergo un pensiero di Santa Teresa d’Avila: “Amarti è per me più felicità che dovere” o l’altra poesia, Milano, 24 agosto 2014, dedicata a Adelaide Roncalli, cui è preposto un pensiero di David Maria Turoldo: “Ma la morte è come varcar la soglia e uscire al sole”. La poesia ha questo inizio: “Come dev’esser triste morire / di domenica a fine agosto / in città deserte / prima dell’aurora!” e così termina: “Come dev’esser triste morire / una domenica di fine agosto / senza essere avvolti nel Suo manto, / senza il calore della Sua Luce!”. È inoltre da notare tra queste liriche anche Quaresimale, dove troviamo ancora citato Padre Turoldo (“Non chiediamoGli nulla”) in un testo che così inizia: “Non sono Nicodemo. / Non sono venuto a trovarTi / di nascosto e di notte / per paura di scribi e farisei, / né come Giobbe / o il vecchio Geremìa, / solo per lamentarmi”; così come è da notare Preghiera natalizia dell’anziano, che reca in epigrafe una frase di Papa Francesco: “La comunità cristiana ha ricevuto in dono il vino migliore, cioè l’Amore e la parola di Dio”. La seconda parte del libro contiene le poesie del Pellegrinaggio in Terrasanta compiuto dall’autrice. Qui appaiono significative le tappe del viaggio, che sono quelle dei luoghi sacri al Cristianesimo: Cafarnao: Rovine della Sinagoga; Mare di Galilea: Riva Occidentale; Sorgenti del Giordano: Fonte di Hatanur; Deserto di Giudea: Even Sapir; Gerusalemme - Via Romana a Gradini; Gerusalemme – Monte degli Ulivi; Piana di Esdrelon vista dal Monte Tabor; Emmaus: Resti della casa di Clèopa. Segue Il cammino di Santiago, che contiene tre poesie (La partenza, In cammino e L’arrivo) nate da un pellegrinaggio a San Giacomo di Compostel-
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la, uno dei luoghi più famosi della Spiritualità cristiana. Vengono da ultimo le traduzioni dal francese di due poesie: l’una di Alfred de Vigny (Le silence / Il silenzio) e l’altra di Gérard de Nerval (Le Christ aux oliviers / Cristo fra gli ulivi) con le quali questo libro, che costituisce una nuova significativa tappa dell’itinerario poetico di Maria Rosa Acri Borello, felicemente si chiude. Elio Andriuoli
AURORA DE LUCA ASPRA TERRA E CREAZIONE FERTILE NELL’OPERA DI DOMENICO DEFELICE Edizioni EVA, Venafro (IS) 2016, Pagg. 150, € 10,00 Aurora De Luca, nata e residente in Rocca di Papa (Roma), ha discusso la sua tesi di laurea su un poeta contemporaneo, intitolandola Aspra terra e creazione fertile nell’opera di Domenico Defelice, con copertina “La casa sulla collina” biro e pastello dello stesso poeta del 1980 (una allegoria). Tesi di laurea, di cui relatore è il Chiar.mo prof. L. Rino Caputo, è la terza dopo quella recente di Claudia Trimarchi, 2016, e la precedente di Eva Barzaghi, 2009 (ho avuto il piacere di conoscere entrambe). Anche altri critici hanno dedicato studi al Poeta; senza contare i numerosi saggi apparsi sulle riviste. Così abbiamo una monografia di Orazio Tanelli, 1983, di Sandro Allegrini, 2006; due trattazioni di Leonardo Selvaggi, 2009 e 2011; e una di Anna Aita, 2013. Letterariamente parlando, ho visto crescere e maturare la Neodottoressa, che dà prova di buona scrittura, attraverso le pagine della rivista di Pomezia-Notizie. Dichiara che la tesi poggia sulle origini dello scrittore-poeta ben radicate nella sua Calabria (aspra terra). Un uomo, cioè, impastato di terra e con tante aspirazioni in testa, con i principi tenuti da una forza che si chiama amore, inteso insieme come bellezza, purezza di linguaggio, onestà, sincerità, coraggio, orgoglio, umiltà. La Nostra, in apertura, espone una nota programmatica riguardante la metodologia seguita nello studio affrontato, specificando di soffermarsi su aspetti generali denominati Preludi; poi nello specifico prende in esame quattro opere poetiche; dichiara di avere attinto fra le pagine del mensile Pomezia-Notizie, più che 40-ennale creatura prediletta dal Poeta; infine, nel corso di una immaginaria “passeggiata”, prende occasione di svolgere una conversazione-intervista. Collegamenti logici e stile mantengono una narrazione priva di cesure pur nelle variazioni temati-
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che, segno che il lavoro è nato, gestito e maturato con continuità. Nella esposizione bio-bibliografica sul Defelice, si traccia il profilo umano e le attitudini dell’uomo-poeta, a cominciare dall’infanzia (nato nel 1936, ad Anoia - Reggio Calabria), scoprendo particolari caratteriali. La Nostra seleziona una poesia per ciascuna delle dodici raccolte pubblicate e sviluppa alcuni temi preferenziali facendo vari richiami. Di questa creazione fertile, evidenzia l’amore, “sia platonico contemplativo, sia petrarchesco” con sentori dannunziani (12 mesi con la ragazza, 1964). Così è per la collera quando parla della morte per mano della ‘ndrangheta nella sua Calabria o causata dalle pessime condizioni di lavoro per esempio nelle zolfatare (La morte e il Sud,1971); o per la cattiveria dell’ uomo, Caino contro suo fratello (Canti d’amore dell’uomo feroce,1977). Amici cari sono rappresentati come piante con alcune loro caratteristiche (Alberi?, 2010). Il Poeta è schivo da autocelebrazioni, e per la sua attitudine etico-sociale respinge ogni forma di prevaricazione, che egli combatte con ironia e polemica. Ha saputo intessere rapporti fra scrittori e poeti dal Nord al Sud e oltrefrontiera, ricevendo attestati di stima da tutto il mondo. Orgoglioso dei propri affetti mostra gioia per la nascita dei figli (Gabriella, Luca, Stefano), amore per la moglie (Clelia), memoria per i genitori e i nonni scomparsi; e, divenendo egli steso nonno, torna fanciullo (A Riccardo). Si bea nel suo giardino inteso eden (L’orto del poeta). Il suo excursus di studi ha visto avversità reali della sopravvivenza; le pulsioni amorose, per esempio verso Marcella, risentono di un lessico impastato di terra denominandola “Guancedipesca”; le prime collaborazioni a riviste, amicizie con pittori, scrittori e poeti per goderne dell’arte a costo di nutrirsi di digiuni; le prime raccolte pubblicate, la fondazione della Rivista (1973). Le amicizie di Solange De Bressieux, Paul Courget, Carlo Delcroix, Maria Grazia Lenisa, Francesco Pedrina, Ada Capuana, tutti scomparsi, e tanti altri ricordati (significativo è il Diario di anni torbidi). Congratulazioni ad Aurora De Luca che ci rende la simpatia verso Domenico Defelice, un uomo che può definirsi fortunato, perché ha potuto convivere con il poeta e il pittore, il sognatore e l’orgoglioso che sono in lui. Un multiforme artista che segue le processioni religiose di paese, che ha mantenuto sempre la sua faccia, quella umile e orgogliosa dell’ uomo del Sud che è riuscito a riscattarsi realizzando tante sue aspirazioni. Lasciamo le molte altre cose alla lettura. Tito Cauchi
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DOMENICO DEFELICE NINO FERRAÙ Il Croco/ Pomezia-Notizie, Novembre 2016, Pagg. 60, € 8,00 Domenico Defelice ha a cuore l’amicizia, specialmente quella letteraria e artistica; lo dimostra la monografia dedicata al poeta e grafico siciliano di Galati Mamertino (Messina), insegnante, Nino Ferraù (1923-1984), in appendice lettere fra i due. Il Poeta è stato il fondatore della corrente poetica denominata Ascendentismo e di Selezione Poetica organo della relativa rassegna internazionale d’arte, con l’intento di raggiungere la limpidezza cristallina dei costumi. Sul piano letterario l’aveva conosciuto attraverso due numeri del 1956, della sopraddetta Selezione, passategli da Francesco Fiumara fondatore e direttore de La Procellaria, al tempo della sua collaborazione alla testata calabrese. Trova interessante, per esempio, uno scritto polemico di Nino Ferraù sul “Realismo Lirico e Ascendentismo”; ma non manca di prendere le distanze da alcuni poeti, di cui cita l’identità, poiché rileva espressioni di autentica aberrazione sessuale. Ricorda gli incontri a Roma, negli anni SettantaOttanta, tratteggiandone il profilo umano e artistico, giudicandolo uno dei poeti più grandi del Novecento, che mostra “profonda pietà”. Percepibile è la sua ammirazione e la stima verso l’amico più anziano e le persone conosciute; nondimeno muove qualche rilievo anche al più volte citato maestro di Letteratura Italiana, Francesco Pedrina, del quale dirà: “Non brillanti sono alcune annotazioni dell’ illustre critico, non condivisibili. Segno che anche i grandi possono prendere cantonate, specie quando si è letta una sola opera. Aveva ragione Ferraù dicendo che un critico reputa migliori certi versi anziché altri, solo perché in quei versi ‘ritrova se stesso, il proprio mondo e i propri sentimenti’.” (pag. 45). Cito alcune opere: Immagine azzurra, poesie giovanili, i cui primi quattro versi furono scelti come epigrafe dal padre di Aurora, morta nel suo paese a dieci anni. Spine di rosa, romanzo del 1948. Orme di viandante, poesie. Grumi di terra, poesie che ho avuto il piacere di recensire (Pomezia-Notizie, agosto 2001). Pietre di fiume, antologia di 72 poesie. Una panoramica che offre versi autobiografici come: “La mia culla non ebbe lana o piume/ o cornice di veli o di broccati;/ né gingilli né rasi o nastri/ ornarono i suoi lati.” (pag. 10). I temi riguardano l’ amore, il sociale, la fede, il declino fisico; ma anche l’odio, il tarlo che rode. Domenico Defelice ricorda quanto Nino Ferraù
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fosse sensibile alle bellezze muliebri e mostri pudore, “Mai un cenno esplicito al rapporto sessuale”. Egli aveva conosciuto, frequentato e amato molte donne, era atteso nelle città ove si recava suscitando “attrazione platonico-sentimentale”; lo “ammiravano per i suoi versi, ma anche per la sua avvenenza e le sue numerose e umanissime qualità”. Per esempio, a Roma, dopo un pernotto presso una “procace poetessa”, al mattino si trovava “una faccia distrutta, alla Picasso”; a Bologna, una ascendentista gli aveva “fatto dono di una casa”. Credo che anche l’ amore rivolto alla donna, riveli quello verso la sua terra. In quanto al sociale, si schiera con i perdenti: le vittime di Hiroshima; Alfredino Rampi, inghiottito da un pozzo artesiano; deplora l’inquinamento. Aveva nel cuore la Sicilia per i suoi miti (Galatea e Aci, Polifemo, Cibele, Alcantara, ecc.) e disprezzava la classe politica deludente e famelica, sorda ai bisogni della gente e ai richiami dei poeti. Tuttavia la Sicilia l’aveva amareggiato, in particolare perché si era visto “costretto al primo matrimonio”. La sua religiosità si riverbera con levità, nel rispetto verso la natura, riuscendo a fondere il sentimento d’ amore nelle sue varie sfaccettature, idealizzando la donna, dando un senso alla morte: morire facendosi trovare in pace con se stessi, pur se attraversati da dubbi dovuti alla propria fragilità umana. Per approfondire la conoscenza di Nino Ferraù, si segnalano due pubblicazioni, quella di Anna Maria Crisafulli Sartori, molto interessante che affonda le radici in opere non più in circolazione e dalla quale apprendiamo l’esistenza di 150 mila versi; e quella curata da Luciano Armeli Iapichino, che racchiude interventi critici a lui dedicati, di vari autori, fra cui Cosimo Cucinotta. Il profilo che ne scaturisce è quello di un uomo orgoglioso di sé, ma umile nel rapportarsi agli altri. I suoi scritti hanno valore pedagogico, sociale, e fanno sognare. Tito Cauchi
TITO CAUCHI CARMINE MANZI Una vita per la cultura Totem Editrice, 2016 Tito Cauchi legge Carmine Manzi, così recita l’ ultima di copertina. E Cauchi lo deve aver letto molto attentamente visto il volume che ne è uscito fuori: “Carmine Manzi, Una vita per la cultura”. Un omaggio ad un uomo di cultura, fondatore di Fiorisce un Cenacolo, prolifico scrittore che ha trascorso tutta la vita a diffondere il suo ricco patrimonio di conoscenze.
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Patrimonio di conoscenze che gli derivava dall’ aver assorbito le bellezze della nostra Italia. Tito Cauchi passa in rassegna la vita di poeta e narratore di Manzi, intrecciata per un periodo con la responsabilità di essere sindaco del suo paese, Mercato S. Severino, e con l’attività di professore. Nel suo libro c’è spazio anche per il Manzi critico e per quello nella critica. Cauchi racconta anche come si sono conosciuti e come il loro rapporto è sempre stato di profonda stima reciproca. Manzi iniziò la sua attività negli anni ’40 e rimase sempre in vetta per tutto il ‘900 occupando posizioni di prestigio nella cultura del nostro paese, con oltre 120 volumi pubblicati saggi critici e, grazie anche alla direzione di Fiorisce un cenacolo e alla presidenza dell’Accademia di Paestum. Numerosi sono gli attestati di stima che arrivano alla persona del Manzi da parte di altri autori: egli è spesso riconosciuto come uomo in grado di divulgare una scrittura universale, fluida e semplice, ispirata al dialogo. Il lavoro di Cauchi è veramente ben fatto, in chiusura si avvale anche di una bio-bibliografia, molto utile a chi volesse scoprire l’uomo di cultura che è stato il Manzi, scomparso il 3 aprile 2012, ma che ancora oggi ha lasciato importanti tracce di sé da cui poter proseguire: un esempio di percorso letterario ben delineato per tutti coloro che intendono “lavorare” con le parole. Roberta Colazingari
LUIGI RUGGERI MICHELE E GABRIELLA FRENNA L’INCONTRO DAI MOSAICI ALLE POESIE Associazione Teatro-Cultura “Beniamino Joppolo” - Patti - Poeti della Misericordia- In copertina, a colori, “L’incontro”, mosaico di Michele Frenna MAGI Editore, 2016, Pagg. 60, € 8,00. Questo volumetto è definito, in copertina, saggio, ma per noi non lo è affatto. Luigi Ruggeri, sia su Michele Frenna che sulla figlia Gabriella, non apporta alcuna ulteriore conoscenza, ma si limita a proporci notizie e concetti già ampiamente e meglio elaborati da altri. Assembla, se mai, e pure male, il lavoro risultando, infatti, poco curato, strampalato come sistemazione dei materiali e sorveglianza del testo (e Ruggeri, a quanto pare, è lo stesso MA.Gi. Editore). Solo per fare qualche esempio, leggiamo: “Ma cosa hanno
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a che fare a con l’arte?”; oppure: “Diverse sono in filosofia le definizioni dell’Io, ma a me piace, nel caso di Gabriella Frenna piace assumere...”. Non è piacevole far certi rilievi, ma si è in presenza di una serie di brani scombussolati, come questo che, partendo da Gabriella, se ne va poi per altri campi: “Ecco che Gabriella Frenna degna figlia di un padre che, oltre ad essere un grande artista, è anche un figlio prediletto da quel Dio che è Amore e al quale ha dedicato opere artistiche intense e pregne di grande spiritualità”. Questi due artisti, a nostro parere, meriterebbero
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ben altro, sia dalla critica che dall’editoria. Michele Frenna è stato un Maestro artigiano di straordinario ingegno e capacità tecniche e uno dei suoi tanti pregi è consistito nell’aver avvicinato il mosaico alla pittura, sia dal punto di vista coloristico che da quello della struttura. Per storia, il mosaico era considerato per lo più elemento fisso di pareti e pavimenti. Avendo collocato sempre le sue tessere di vetro su supporti che potessero, poi, essere messi in cornice, come un qualunque quadro, egli ha, in pratica, definitivamente apparentato entrambe le arti - pittura e mosaico - in uno strettissimo connubio. “Il mosaico frenniano - scrivevamo nel 2001 - è in tutto e per tutto un quadro, che può venire spostato facilmente, essere collocato in ambienti e su pareti che prima erano appannaggio quasi esclusivamente della pittura”. In questo volumetto, Ruggeri riproduce, di Michele Frenna, 14 lavori a colori, dei quali troviamo particolarmente efficaci, per tecnica e resa poetica, “Trinacria” (1982), “Cornucopia” (1984), “Fiori di prunus” (2003), “Colomba” (2008). Ma anche le altre opere, specie quelle inerenti il sacro, sono ricche di pathos e di realismo. “L’ incontro” (1996), infine, è autentico capolavoro per movimento e plasticità di forma e di cromia.
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La figlia Gabriella rende omaggio a suo padre come meglio non poteva, evidenziando non soltanto i suoi indiscussi pregi artistici, ma anche le grandi qualità morali: “All’improvviso/il Padre Celeste/ti ha accolto/nella dimora eterna./Resterà impresso/nel nostro cuore/il dolce sorriso,/l’animo buono/e la delicatezza/dei tuoi gesti/e delle parole./Restano i bei ricordi/impressi nell’animo/di coloro che ti hanno/conosciuto e apprezzato/per la tua gentilezza, per la tua discrezione,/per l’ incoraggiamento/dato a tutte le persone./Messaggi di pace,/di fraternità e d’amore,/diffondevi dai mosaici/col tuo grande cuore./Hai creato opere musive/sulla vita di Gesù,/volti di santi/e della Madre celeste”... (da “Ricordo imperituro”. I versi di Gabriella Frenna sono un commento lineare alle opere musive, ne evidenziano il lavoro lungo e paziente dell’artista, la sua sapienza nel tagliare e nel collocare le tessere di vetro e la genialità nella scelta delle varie tonalità: “Con ispirazione inesauribile/creavi mosaici splendidi/con tasselli di vetro/che producevi instancabile/con ritmo costante/con pazienza somma/in tempi molto lunghi”. Nella intenzione del Ruggeri, tema di questo libro - da lui stampato nell’agosto 2016 - è la Misericordia, nell’anno giubilare indetto da Papa Francesco, del quale viene riportata l’apposita Preghiera, anch’ essa, purtroppo, copiata con refusi (...”a teche vivi e regni”...), segno della già ricordata scarsa cura prestata all’intero lavoro; una rabberciatura, la sua, insomma, niente di organico. Domenico Defelice
DOMENICO DEFELICE NINO FERRAÙ Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, Novembre 2016 Sono belli questi Crochi perché sono animati dalla voce e dalla poesia: dalla voce perché, negli scambi epistolari, si possono sentire anche le inflessioni roche del discorso; dalla poesia perché essa è il centro. Defelice ha amici che gli somigliano, che come lui amano la terra, che come lui amano la vita e che hanno un profondo naturale rispetto per la poesia e per l’arte. Sono, per questo spirito irriducibile, dei
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combattenti e degli innamorati: «non si consuma/ di pianto né di fuoco, / ma quando poi sentiamo di bruciare, / la fiamma ci distrugge a poco a poco/ ed è l’amor che insegna a lacrimare». Sono belli (I Crochi e i due poeti, Defelice e Ferraù) perché non si confondono nel baccano che c’è dentro alcuni salotti e fuori in certe piazze, ma piuttosto fanno come fa la poesia e cioè non si lasciano addomesticare, né comprare, né diminuire, fedeli a quella cosa che non ha mercato. Per questo sono salvi dall’invidia e possono provare veri entusiasmi per i meriti altrui: «Chi mi uguaglia lo sento fratello, chi mi supera lo riconosco maestro». Domenico rende a Nino un libricino che è un abbraccio fraterno e, nel contempo, «ossigeno per coloro che sono ancora innamorati dell’arte e della poesia». Il mondo cantato da Ferraù è un mondo “pieno di spine e rose” ove regna, seppur non vista, la forza della poesia: «io sono la poesia seppellita sotto la cieca forza del materialismo invadente e che tuttavia continua a rinascere su di esso, come la ginestra sulla lava». Non può scindersi la dolcezza dalla tristezza, né l’ andare dal tornare, come un lento languore rivolto alle cose amate e che non possono essere più raggiunte. Ma Ferraù è una nave che non può stare al molo e che imbarca su di sé tutte le contraddizioni della vita, quelle dell’umano e dello Spirito. Ho incontrato Ferraù in questo Croco, il direttore di «Selezione Poetica», il poeta delle pietre di fiume, del pensiero sofferto, l’ho incontrato intimamente, nelle passeggiate amicali, negli incontri che non si sa più quanti siano stati, perché Defelice ha concesso al ricordo d’un sodalizio di non essere perso. La poesia, quella no, non può perdersi né morire. «Ho letto il tuo volume Canti d’amore dell’uomo feroce e vi ho trovato il mio stesso mondo fatto di tenerezza e di sdegni, di dolcezza e di ribellione, di intimità famigliare e di tormento cosmico» (Nino Ferraù, Lettera del 9 Agosto 1978). Aurora De Luca
DOMENICO DEFELICE NINO FERRAÙ Edizione Il Croco/Pomezia-Notizie, 2016 Supplemento al numero di novembre di PomeziaNotizie, una bella e propedeutica pubblicazione di Domenico Defelice sul poeta, scrittore , giornalista siciliano Nino Ferraù. Il direttore di Pomezia – Notizie, che si è cimentato in questo lavoro, compie un atto di giustizia verso un poeta e soprattutto verso un amico, perché tale fu Nino per Domenico
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Defelice. Sulla scia, forse, e qui lo dico senza presunzione, del mio continuo battere sul tasto della considerazione che esistono altri grandi poeti nel novecento, anche se negletti, ma che insieme a qualche altro poeta considero “grandi minori”, che andrebbero riscoperti e soprattutto rivalutati e collocati nel giusto posto che spetta loro. Nino Ferraù è uno di questi e il lavoro di Defelice ce ne fa comprendere appieno la sua importanza. L’ attività letteraria del Ferraù inizia da giovanissimo, tanto che a soli 18 anni ha già un plauso da parte di Croce. Il lavoro del Nostro direttore parte dagli anni “50 del secolo scorso, quando il poeta è caposcuola dell’Ascendentismo, corrente che vuole una poesia nuova ma senza dimenticare la lezione del passato letterario della nostra nazione. Fonda per questo la rivista Selezione Poetica che ha lo scopo di fare da battistrada a questa sua idea poetica e letteraria. Attraverso i vari capitoli del suo lavoro su Nino Ferraù, il Defelice ci fa un profilo potrei azzardare completo dagli anni “50 al 1984 anno della morte del Messinese. Esamina dunque Domenico del poeta: il pensiero, l’estetica della sua poesia, il pudore con cui canta ed ama le donne, l’armonia e la musicalità che vive nei suoi versi, la tragicità spesso della realtà, la caducità e forse anche il fango che non visto spesso si camuffa nei sogni. Ci racconta della passione autentica del poeta siciliano per Roma, alla quale ha dedicato tanti versi e tante visite fatte in compagnia dello stesso Defelice, il quale ci racconta ancora del rapporto del Ferraù con la religione, la natura, la morte. Il Poeta è pieno della indiscussa potenza di Dio e della Sua grande generosità nell’offrirci tutto quello che è intorno e dentro noi. Domenico ci racconta, ben conoscendo il suo amico Ferraù, quanto egli ammiri la natura che è toccata ovunque dalla mano di Dio. Perfino la morte è un dono che Dio ci prepara giorno a giorno per non farci del male, per farci arrivare alla fine senza farcene sentire “lo strazio dello strappo”. Si dilunga doviziosamente Domenico, sulle parti più significative di alcune opere dedicate dal Ferraù a questa tematica che, presente nelle pubblicazioni: Il nostro posto; Credere in Dio; L’inferno, ci danno il senso della sua spiritualità. Profonda afferma il Defelice la socialità del Poeta e ci invita a tale proposito a leggere, per esempio: Casa di Villa Quiete. Nel suo raccontarci del Messinese l’autore non nasconde anche gli aspetti contraddittori dell’uomo Ferraù. E ci spiega come queste le troviamo anche
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quando egli parla di Dio, dell’amore, della natura, del sociale. Ci spiega, anche se brevemente, il concetto di Ascendentismo che aveva Nino e che lo spinse in quella direzione poetica. In teoria affermava il Ferraù : se i fiumi scendono per andare verso il mare, l’uomo dovrebbe salire per andare verso la purezza della fonte o delle fonti. Salire quindi controcorrente come fanno i salmoni, che per questo muoiono in grande quantità, così come avviene a tutti i poeti che non seguono correnti. Muoiono ai più, nessuno li considera. Eterno gioco della umana debolezza. Il Defelice ci parla ancora della spiritualità di Nino con l’attaccamento alla sua terra, alla vita per l’arte ,in generale, da lui condotta e non solo verso quella poetica o letteraria. Amò infatti anche disegnare e dipingere. Il poeta messinese, ci racconta nel Croco Defelice, è stato un continuo intreccio con molti fatti culturali della sua epoca. Il poeta di Galati Mamertino fu in contatto con varie personalità del suo tempo, come Quasimodo cui fu il solo a vegliarlo sul letto di morte. Il racconto di Domenico ci riserva in appendice, la trasposizione di alcune più significative lettere intercorse con il Galatese, tra cui quella che fu praticamente l’ultima, in quanto scritta sei mesi prima del suo decesso. Ottimo lavoro questo quaderno letterario di Pomezia-Notizie: da consultare e conservare con diligenza. Salvatore D’Ambrosio
DOMENICO DEFELICE NINO FERRAÙ Ed. Il Croco - I quaderni letterari di PomeziaNotizie - Novembre 2016 Domenico Defelice ci presenta un valido poeta che conobbe e frequentò assiduamente negli anni Settanta-Ottanta. Siciliano della provincia di Messina, Nino Ferraù morì sessantunenne nel 1984. Numerose le sillogi pubblicate. Era fautore di un movimento poetico chiamato Ascendentismo ed era direttore della rivista “Selezione poetica”. Alla luce di una fede sicura, ha trattato un ventaglio di tematiche: l’amore, la natura, il sociale, i paesaggi della sua isola. Defelice riporta numerosi versi di questo poeta malinconico e incline al pessimismo. Spesso usava la metrica, ma rivelava uno stile musicale anche nei versi liberi. L’autore del saggio insiste più volte sul valore di Ferraù: “poeta e scrittore ancora quasi del tutto da scoprire” (anche se non sono mancati con-
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vegni sulla sua opera; inoltre a suo nome è stata intitolata una scuola elementare a Messina). Ebbe contatti con grandi personaggi (Quasimodo, Saragat, De Chirico). Defelice cita numerosi giudizi critici sull’autore, tutti entusiastici (compreso quello di Francesco Pedrina). Come sempre, un fascio di lettere, diligentemente conservato da Domenico Defelice, getta una gran luce sul nostro autore. Dalle missive seguiamo il faticoso impegno di questo studioso che era a contatto con centinaia di poeti e che spesso fu nominato come membro di giuria nei concorsi. Più volte scriveva che, per essere ricordati, l’accorgimento migliore è la pubblicazione di un libro. Oggi la tecnologia ha fatto piazza pulita della carta stampata. Come avrebbe reagito Nino Ferraù a questa follia della rete che tutto ingoia e tutto dimentica? Elisabetta Di Iaconi
FRANCESCO FALCO GIUSEPPE SESSA CRISI DELLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA E BENI COMUNI Per una rivoluzione civica Formato Brossura, Editore Angelo Capriotti srl, gennaio 2013, pagg 98. L’avvocato Francesco Falco mi dette questo interessante libro da lui redatto insieme all’avvocato Giuseppe Sessa, entrambi di Pomezia. Visto l’ argomento molto interessante, la tutela dei beni comuni, ne faccio una breve recensione. Il libro, relativo ad una conferenza pubblica sul tema, si compone di una Prefazione dell’avvocato Marco Di Benedetto, di una Introduzione e di 40 brevi capitoli. La Prefazione inizia: “La lotta per la difesa e la valorizzazione dei beni comuni (dall’acqua alla conoscenza) è il centro nevralgico della politica dei nostri anni, in Italia e nel mondo, evidenziava Stefano Rodotà in un articolo apparso su La Repubblica del 10 agosto 2010.” E si aggiunge che già nella metà dell’800 Alexis de Tocqueville profetizzava che la lotta politica “si sarebbe svolta fra coloro che possiedono e coloro che non possiedono: il grande campo di battaglia sarà la proprietà.” La lotta per i beni comuni è proseguita nel tempo ed il campo di battaglia, che prima era la proprietà terriera si è spostato in altri beni comuni: beni comuni naturali (ambiente, acqua, aria pura), beni comuni sociali (beni culturali, memoria storica, sapere), beni comuni materiali (piazze, giardini pubblici) o immateriali (spazio comune del web).
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In tale scenario lo studio appassionato di Falco e Sessa appare in bilico fra la denuncia sociale ed un pregevole tentativo di regolamentazione dei c.d. beni comuni. Non si limita l’analisi alla realtà italiana, con riferimento alla Puglia e al Comune di Napoli (governo De Magistris), ma anche alla realtà europea presente e passata (Localism Act del 2011 ed il Local Government Act del 1894 del Governo inglese), ed a realtà extraeuropee (carte costituzionali di Ecuador e Bolivia). Spesso i diritti dei cittadini vengono calpestati tramite una giungla legislativa che cerca di espropriare il cittadino dei propri diritti. Bella la massima, citata nell’introduzione, di Franz Kafka nel 1920 nella “questione delle leggi”: Se dunque non trovi niente qui nei corridoi, apri le porte, se non trovi nulla lassù, non c’è problema. Sali per nuove scale. Fin tanto che non smetti di salire, non finiscono i gradini, crescono verso l’alto sotto i tuoi piedi che salgono.” Il bene comune per eccellenza è l’acqua: nel libro vengono citati tanti esempi di sprechi sia in Italia che all’estero. A Napoli si assiste a modifiche nella gestione dell’acqua dal privato al pubblico: il prof. Lucarelli è uno dei fautori di questa rivoluzione napoletana. A livello nazionale si è svolto un referendum su queste tematiche: il 12 e 13 giugno del 2011 il popolo italiano si è espresso in maniera plebiscitaria per il sì all’abrogazione dell’art. 23 bis della legge 133 del 2008, che stabiliva una gestione privata e a fini di lucro dell’acqua, ma la volontà dei fautori del referendum è stata calpestata! Infatti tramite una legge, 148 del 2011, la gestione dell’acqua passa di nuovo ai privati per l’urgenza di risanare il rosso dei conti pubblici nazionali su richiesta dell’ Unione Europea, ma la Corte costituzionale con sentenza n. 199 del 2012 dichiara l’illegittimità costituzionale della legge 148 del 2011. Nel diritto amministrativo italiano manca la tutela dei beni comuni. Per la difesa dei beni comuni c’è la possibilità dei cittadini di fare ricorso secondo il D.Lgs n. 198 del 20.12.2009. Nel libro sono illustrate tutte le modalità che regolamentano la class action. Un altro capitolo è dedicato al concetto di uso civico. I proprietari di terre con tale gravame possono togliere tale vincolo, liquidando la comunità in denaro o in terra. Falco sottolinea:” la fine del nostro mondo vi sarà quando nessuno di noi crederà nel valore dei beni comuni e nella necessità di salvaguardarli; l’acqua sarà in mano ad avidi speculatori, l’aria diventerà irrespirabile, le foreste non ci saranno più.”
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Un esempio nel calpestare i diritti dei cittadini ai beni comuni è quello della realizzazione della TAV in Val di Susa: si svende e si sventra un territorio, per la realizzazione di un’opera inutile. Falco indica e chiede quali battaglie è necessario fare per la tutela dei beni comuni: tali azioni possono essere fatte tramite le associazioni a livello locale, nazionale ed europeo; tramite i referendum; ed infine tramite il voto libero da interessi personali. Esistono anche i beni comuni non tutti a livello universale, ma solo a livello locale: tipico è il caso del diritto dei cittadini alla gestione urbanistica del loro territorio. Tale diritto viene fatto rispettare in Inghilterra dai parish counsil, mentre in Italia dai Comitati di quartiere. Giuseppe Giorgioli
DOMENICO DEFELICE NINO FERRAÙ Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2016 Terra rigogliosa di verde e di fiori, la Sicilia, d'azzurro ornata di cielo e di mare, dal sole baciata in ogni stagione dell'anno, cosparsa di pietre immortali corrose dal tempo, di frutti feconda della natura, d'artisti, poeti e scrittori, musicisti che, come funghi dopo la pioggia, proliferano a iosa. Tra illustri personaggi antichi e moderni, troppo lungo sarebbe elencarli tutti. Ci limitiamo ad uno degli ultimi, del quale scrive Domenico Defelice nel suo interessante ed esauriente saggio, ossia a Nino Ferraù. Era questi amico del Direttore di "Pomezia- Notizie" col quale strinse durevole amicizia, ebbe incontri frequenti e scambio di lettere. Il nostro esegeta ci presenta Ferraù nelle sue tendenze umane e culturali, didattiche e politiche, morali; lo definisce uno dei più grandi poeti e scrittori contemporanei e ne mette in risalto la straordinaria versatilità: non trascurava nessuna attività, si cimentava anche nel giornalismo, nella pittura, nella grafica. E non solo: dirigeva "Selezione Poetica", nella quale venivano ospitati i poeti più rappresentativi del passato e contemporanei ("La Rivista non ebbe lunga vita, ma lasciò profonda traccia nella repubblica delle lettere"); viaggiava senza interruzione, partecipava ad incontri culturali, faceva conferenze, stendeva recensioni. Defelice conduce una disamina accurata di alcune delle opere: "Il pensiero sofferto", libro altamente edificante al quale fu assegnato il Primo Premio al Concorso Nazionale "Il Cormorano"; "Immagine azzurra", un libro pedagogico, con poesie brevi e senza enfasi, nel quale si ritrova l'atmosfera del libro "Cuore"; "Orme di viandanti", un'opera antolo-
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gica in cui il poeta afferma: <<Il sognato dà gioia, la realtà è fonte di dolore>>. Il Dio di Ferraù è il Dio cristiano ed è dappertutto; <<La mia chiesa>> il poeta afferma <<si staglia sopra un monte da dove la preghiera s'alza più libera e veloce a Dio>>. La poesia di Ferraù è spontanea, autentica, vera, "non nasce nelle grandi città ma nei solchi delle campagne, negli ospedali, tra la gente che soffre". Così Francesco Pedrina: <<Quasi tutte le liriche hanno uno spunto, un palpito di poesia. Le cose dette non sono ricercate: sbocciano dal cuore all' improvviso>>. "Ascendentismo" viene denominato il movimento letterario del Nostro: perché? Perché la poesia non segue la direzione dell'acqua ma il contrario: va verso la sorgente dove tutto è puro. E, per concludere, ecco una delle contraddizioni su Ferraù che Defelice riporta: <<Mentre egli grida contro la cementificazione non decide di vivere in una spelonca, costruisce "Villa Quiete". Antonia Izzi Rufo
ANTONIA IZZI RUFO SENSAZIONI 1° Premio Città di Pomezia 2016 Ed. Il Croco – I quaderni di Pomezia-Notizie, Ottobre 2016. La nostra prolifica Autrice Antonia Izzi Rufo, si presenta a noi più interessante che mai, dandoci “Sensazioni” a non finire con le sue stupende poesie che fanno bella mostra nel nostro amatissimo IL CROCO, poesie colme di sensazioni magiche che hanno meritato il 1o Premio al Concorso Letterario Internazionale di POMEZIA-NOTIZIE. Ci dice il Dott. Domenico Defelice quasi alla fine della sua presentazione: Sensazioni potenti e vive, allora, non epidermiche, che al turbamento, allo stupore, associano la concretezza dell’agire e l’ amore profondo per l’ambiente, per gli uomini e le cose. Pag.2 Antonia Izzi Rufo, una donna speciale, una poetessa e scrittrice, critica letteraria, insegnante, che ha pubblicato tantissimi libri di gran successo, lei ama buttare suoi fogli tutto il suo amore per la famiglia, per la natura, il suo paese, ciò che scrive è tutto spontaneo, è dettato dal suo cuore che batte a ritmo incessante ad ogni forma di rapporti incontaminati, per ciò che Dio ha creato. “Il rosa del cielo/ riflesso nel lago/ appariva più rosa/ al primo imbrunire./ Ed era un incanto!” Da Visione magica, pag.15. Versi che s’adagiano dolcemente sul cuore e creano sensazioni dolcissime, dando la serenità ai sensi che palpitano sussurri gioiosi e fecondano
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amore. Tutto l’amore che lei ha dentro per i figli, il nipote Yuky, il marito tanto amato, il suo paese mai dimenticato, tutto nel profondo di lei è fuoco d’ amore, un vulcano sempre in eruzione. “Nei luoghi si torna/ della memoria/ per provare emozioni/ rivivere sensazioni/ svanite, rimosse./ Ogni giorno mi porto/ in quel tratto di strada/ che insieme calcammo/ per un sessantennio/ e lacrime verso/ di nostalgia./ è ciò che dà un senso, / ancora, alla mia vita.” Da Rivivere emozioni. Pag 25. Il cuore strombazza emozioni e sensazioni, ogni sua lirica incanta il lettore, che rimane in attesa di rileggere ancora e ancora, per acquisire la magia della pace dei sensi in subbuglio. Tutti i suoi libri, sono frutti deliziosi e primizie gustosissime per tutti i gusti, lo possiamo affermare noi dell’A.L.I.A.S. che li abbiamo letti con tanto entusiasmo e conservati alle falde del cuore per sempre! Antonia Izzi Rufo, un’amica e un’autrice straordinaria, pronta a far felici i suoi lettori coi suoi versi che solfeggiano musica d’amore. Cav. Giovanna Li Volti Guzzardi (A.L.I.A.S.) Accademia Letteraria Italo- Australiana Scrittori, Melbourne
DOMENICO DEFELICE NINO FERRAÙ Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2016 Il realismo lirico in Nino Ferraù Esemplare è l’opera di D. Defelice su autori minori che con regolarità escono su “I quaderni del Croco”, opera non solo di alto mecenatismo ma di significato, di contributo per il valore della nostra letteratura, che molto spesso viene amputata di alcuni suoi arti dalla critica ufficiale. Si sa che un corpo può vivere bene solo attraverso i suoi arti e tale amputazione (molto spesso voluta, molto spesso invece inconscia) compromette il buon esito del suo senso che sembrerebbe, oggi, minacciato da una lenta agonia. Caproni ha detto “Dubbio a posteriori/I veri grandi poeti/sono i poeti minori?” (citato da L. De Rosa a proposito di C. Sbarbaro in “Come la voce che si alza nella notte” in La Nuova Tribuna Letteraria 4° trimestre 2016). Poeti che, quindi, costituiscono la Storia Letteraria senza saperlo, poeti importanti per qualsiasi seria ricerca letteraria che si rispetti. È il caso di Nino Ferraù che viene inquadrato da D. Defelice tra “realismo lirico e ascendentismo” (citato a pag. 3 op. cit.) due correnti letterarie non comprese nei libri di testo scolastici, ma decisamente importanti per capire gli esiti futuri, gli svi-
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luppi della nostra odierna letteratura. Il realismo-lirico in Nino Ferraù è volto attraverso una ricerca stilistica che rifugge gli artifici postneoavanguardia per dare un valore più solido alla parola come scoperta di una realtà viva, come coscienza che si vuole trasformare ed esprimere (...”ma la poesia non germogliava/su quei dischetti sacri/all’ozio dei signori./Non nacque nei caffè la mia passione/di uomo e di poeta, ma tra i solchi/della mia gente contadina o accanto/alla fatica d’operai sfruttati/da avidi padroni/o lungo le corsie degli ospedali/in cerca di ammalati/senza parenti/di disperati senza amici, soli/con i loro patimenti” (Da “I caffè” in D. Defelice Nino Ferraù op. cit. pag. 31). Ecco l’intento realista lirico di una poesia ancorata al sociale, ecco il contributo che può dare la letteratura oggi, l’impegno a cambiare con un canto che è un disincanto sul presente, ecco la superiorità di una chiarezza su qualsiasi minimalismo o postminimalismo, su qualsiasi altro artificio retorico e stilistico, decantato da molti quaderni letterari la cui specializzazione a volte offusca il senso più vero. Una chiarezza che non rifugge le metafore, come le moltissime allegorie presenti in “Orme di viandante” che richiamano il senso proprio della poesia e la missione del poeta. Nino Ferraù viene esposto a chiare lettere da una critica, come quella del Defelice che si fa promotrice, prima ancora che interprete, di una nuova concezione letteraria che rifugge la pedante abilità analitica, per una più incisiva espressione del senso nella necessità di aprire la strada (e quindi la veduta critica) a una concettualizzazione più umana e Universale. Susanna Pelizza
FILOMENA IOVINELLA ODI IMPETUOSE Il Croco – I quaderni letterari di Pomezia Notizie, 2016 I versi di Odi Impetuose, la silloge con la quale Filomena Iovinella ha ottenuto il 2° premio Città di Pomezia 2015, scorrono fluenti senza mai uno stacco, quasi a non interrompere l’urgenza del pensiero. Il sentire della poetessa è molto forte (il titolo della raccolta lo denota) e comprende innumerevoli sfaccettature che oltrepassano le problematiche terrene per unirsi “nell’incantato mistero esistenziale dell’anima”, come ben spiega nella prefazione. Per tale motivo incontriamo emozioni contrastanti che si susseguono creando un clima ricco di pathos e che riflette le problematiche del vivere odierno. Vi è un sottofondo di inquietudine, ciò denota un ani-
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mo che fatica a superare gli ostacoli e che a volte si sente sopraffatto dagli eventi. Denota pure una certa fragilità, figlia di un sentire poetico che può a volte trasformare anche le visioni più semplici. La poesia di Iovinella è molto avvincente e accende il pensiero. I continui contrasti creano appunto un’alternanza impetuosa che non lascia mai al lettore un momento di quiete: “Strada di giorno tintinnante di lampioni / Strada di giorno tintinnante di umani passi / distinguere mi fanno l’oro del cuore / dimensione entusiastica di poco onore / per i pochi sensi perduti arriva lo scrigno / di costante, feroce, instancabile / irrequieto entusiasmo di forza effimera.”. Dalla silloge emerge pure una ricerca di capirsi, di confrontarsi con il mondo esterno. Nella poesia “Sono” troviamo un’autoanalisi spietata, dove Iovinella scopre il suo essere rendendosi conto alla fine di non essere ancora riuscita a trovare un certo equilibrio: “aspettando il sono / che mi manca / da tutta una vita / sentendo che il tempo / non mi cambia / non mitiga / non stravolge.”. Un animo dunque inquieto, sempre alla ricerca di un confronto e di un perché, ma per questo capace di creare un’ affascinante atmosfera poetica. Laura Pierdicchi
ANTONIO SPAGNUOLO NON RITORNI Robin Edizioni, Torino, 2016 € 12,00 Dopo quella dell’invocazione agli dei, allo scopo di ottenerne la protezione, quella del compianto funebre è stata una delle più antiche forme di poesia create dall’uomo. Posti di fronte all’evento oscuro e terribile della morte, specie dei propri cari, è stato naturale infatti per coloro i quali vi avevano assistito, levare al cielo il loro lamento e la loro pena, che spesso hanno assunto nel tempo le forme del canto. Così è stato per secoli e così è ancora oggi per i poeti che ricordano i loro familiari o amici defunti. È naturale perciò che anche un poeta quale è Antonio Spagnuolo, sulla breccia ormai da molti lustri, colpito dal dramma della perdita della moglie, l’ abbia ricordata in versi dolenti e di grande afflato lirico; il che ha dato luogo a due raccolte molto significative: Ultimo tocco17 e Non ritorni. Poiché della prima abbiamo già parlato, ci soffermeremo sulla seconda, apparsa nel luglio 2016 nelle Edizioni Robin di Torino. Il libro si apre con una Prima parte, intitolata 17
Puntoacapo, Posturana (AL), 2015.
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Lunghi murales, nella quale il poeta, come destatosi in un ambiente oscuro e ostile, leva alto il suo lamento per la sventura che l’ha colpito: “Urlo alle stelle il candido risvolto che corre / ai piedi della solitudine, sgomento ad ogni risveglio”; “Ripete il pensiero ascoltando attonito le scorie della mente / con l’inutile grido che scandisco rauco ad accecare occasioni”; “Forzerò la fioritura con i miei artigli / ignorando il cerchio che comprime e affoga / le sembianze”. Acerba è la pena che il poeta soffre ed è naturale pertanto che le sue parole assumano una tensione persino espressionistica, mentre egli le dispone sulla pagina bianca: “Rosseggia il turbinio al cardine di quelle lacrime / inchiodate alla sterile guancia”; “Ultima arsura del possesso la tregua di ogni nodo / piene le labbra, pieni gli occhi, piene le mani amare”. Permane sì la speranza di un Oltre, ma è offuscata dalla tragica realtà del presente, che urge e opprime col suo gelo. Al poemetto fanno seguito dodici poesie, nelle quali il tema viene ripreso e sempre più scava nell’animo del loro autore, perpetuando in lui la sofferenza. Qui però il movimento del verso è più rapido e incisivo, nel suo venirci incontro: “Seminascosto il tuo profilo gioca / ad assaporare il profumo della pelle” (Nudo); “Quale fondo limaccioso ci conserva l’autunno / in attesa di un’alba senza più illusioni…” (Ora); “Nell’orbita lo scorrere veloce del fiume, / il rapido riflesso della luce che trema / quasi sgomenta di tanto brivido” (Archi). La seconda parte della raccolta, intitolata Memorie, è la più ampia ed è anche caratterizzata da un tono più disteso, da un argomentare più sommesso e pacato, col quale il poeta esprime tutti i moti del suo animo, così come egli li avverte nel faticoso succedersi dei giorni. Spagnuolo in tal modo continuamente si specchia nel suo dolore e si scava, in un sofferto e inconsolabile rammemorare, dal quale nasce il suo canto. Il colloquio con la donna amata è per lui continuo e scaturisce da mille situazioni, sempre diverse, pur nella loro unitarietà d’ispirazione. A volte la richiesta è quella di una più lunga presenza di lei: “Lasciami ancora uno sguardo / nei giorni in cui non trovo più parole” (Sguardo); altre volte la parola si fa amara, in una dolorosa constatazione: “Sei partita per chiudere ogni porta, / per ingoiare l’azzurro del mare o quei colori / incantati del sole” (Frammenti). Talora il poeta si perde nel suo mesto e penoso ricordare: “… sembra appena ieri che ti inseguivo / … / ed ora le candele sono spente / nell’inutile attesa” (Voci); “Hai lasciato l’incanto di armonie / in questo girotondo di ombre” (Ocra); talaltra ha co-
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me un soprassalto, quasi si ridesti a un tratto da un sogno: “Al risveglio il limpido biancore della luna / come sbadiglio tra le cornici dei flutti” (Vertigine). Lo fa soffrire l’assenza della donna amata, per la quale avverte una pungente nostalgia: “Vivere ancora un amore che grida l’assenza / l’assenza del tuo corpo, il vuoto delle tue mani” (Stagioni) e la vede come un’ombra affiorante dal fondo dei giorni: “Quasi un delirio insensato lo sfiorare / lembi del tuo riflesso, che torna invano / per torturare il risveglio” (Pietra). Gli appare luminosa come una dea: “Andavi nelle stanze tra i riflessi del sole / a portare le ultime magnolie / e rallegravi pareti” (Fumo) e sempre avverte la sua presenza: “Silenziosa nella sera mi accompagni” (Nella sera); anche se ciò che alla fine gli resta è un sentimento di penosa solitudine: “Ormai non conto più le notti / non aspetto le ore / perché manca il segreto che ci unisce” (Riscatto) e se ad ogni istante il pensiero di lei lo tormenta e lo fa soffrire: “Senza fiato [è] l’attimo che scivola / oltre l’ autunno disadorno e uggioso” (Attimo). Ciò che resta allora al poeta è soltanto una fuga di ombre; ma egli si chiede: “Soltanto una chimera?”. E gli pare impossibile che sessant’anni trascorsi insieme a colei che ha amato siano “svaniti al volgere di uno sguardo / quasi per gioco, schiocco di frusta, / nel bianco consueto della luna” (Chimera). Certo, qualcosa è rimasto in lui che lo sorregge e gli dà la forza di continuare a vivere e ad operare, seppure in compagnia della sua pena: è il ricordo di lei, della sua voce e della sua dolcezza. È la sua luminosa presenza che si perpetua nel tempo e lo consola e lo guida nelle tenebre fitte in cui un giorno, partendo per un viaggio che non ha ritorno, lo ha lasciato. Ed è quanto basta per vederla ogni volta rinascere nel giro armonioso di un verso nel quale la sua immagine ritorna limpida e sorridente, così come allora. Liliana Porro Andriuoli
NAZARIO PARDINI CANTI DELL’ASSENZA Google Books, 2015 Carissimo Nazario, i tuoi Canti dell’assenza non possono assumere altro nome. Scivolano nell’anima come folate di vento e il vento ha una sua melodia. Soffia sui luoghi, sulle cime, sulle persone, mantiene in vita i ricordi. Assenza: prelude a un ritorno di luoghi, di anime. La tua parola risuona lungamente nella lettura: affascina, seduce, accompagna. “È vesperale/ questo saluto a un frutto che alla sera/ riporta il suo profu-
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mo. Coglierò/ Buca dei tassi i grappoli sanguigni/ dei sogni abbarbicati sui tuoi tralci:/ quelli che ancora danno all’imbrunire/ metafisici suoni e dolci essenze/ che la vita scolpì per non morire”. Tu canti la vita come quando canti la morte. La morte non è fine se la mente tiene vivo il ricordo. Ci sarà compagno nel dipanarsi del tempo. C’è sempre un ritorno “sull’imbiancata/ strada di gesso ai meridiani soli/ girovago nei campi”. C’è sempre un’attesa produttiva e il ricordo ricreerà attimi del passato; così “i trilli della rondine/ radente i grani e i volti degli amici…”. L’impressione che mi ha dato leggerti è quella di una visione bucolica che rimanda a un lontano vissuto che ci accomuna: “Poi è giunto ottobre a mietere le foglie/ di una stagione che ha reciso il sole… Niente di più vicino… a me risulta che il palpito ottobrino… Il frutto cade del giorno ormai maturo ed è la notte”. Una notte metaforica che prelude al freddo, un freddo mitigato dal camino che “schioccava” e dal calore del ricordo della voce paterna, dalla visione di amici a bere il Chianti in quella terra toscana coi suoi ciuffi di ginestre, coi suoi tramonti “porporini”. Gli anni sono come la storia; si allungano col tempo. Si parte dalla giovinezza, dal suo profumo “Ed i falò sul mare, le nottate/ a cacciare la luce del mattino,/ le corse a piedi nudi sulla sabbia/ arroventata. E tu che mi guardavi/ con aria sospettosa./ Andiamo ancora insieme in quel paese:/ …/ tu ed io soli, giovinezza, andiamo… ma tu/ ti trattieni con aria indifferente/ sulla panchina della piazza verde/ a seminare amore”. Nel tempo restano come inchiodate le voci di chi non parla più ma permane la loro eco. E tu, Nazario, ti rivolgi alla terra, entità fattrice: “oh terra di novembre. Il tuo riposo/ sia vigile ai miei cari… E ti rivivo/ novembre di dolore e di riposo… e i canti delle tortore mi aiutano,/ che lugubri rintoccano nell’aria,/ a vivere la morte,/ con voi miei cari,/ di questo mio novembre”. Ogni tua poesia, Nazario, è diversa, completa la precedente, aggiunge una emozione primigenia che accora. Impossibile una scelta selettiva; solo cogliere quello che più si è radicato nel cuore di chi legge. Ne cito alcune: Non chiedermi perché, Mia madre si stupiva, Contro le lune, Se il tempo. “se riportasse un giorno o solo un’ora/ le braccia disattese di mio padre,/ a me,/ colpevole di tante indifferenze/ di giorni macerati dall’inerzia/ di sottrazioni d’albe/ a primavere scorse senza luce”. Siamo con te ma non sapremmo dirlo; i nomi si inseguono: Francesca, Delia…; in Contro le lune “… chiedo solo/ al cielo a qualcuno, non so a chi,/ che mi mantenga in seno la tua voce,/ che mi man-
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tengo in cuore il tuo sorriso,/ il tuo sagrato profumato d’erba,/ e la tua voglia, maledetta voglia,/ di seminare sogni anche nei giorni/ più neri della notte./ Contro le lune”. Ritorna il vento e tu vorresti cavalcarlo “a pelo/ la mente alla criniera/ e l’anima con te alta nel cielo!”. Tu vivi, Nazario, e vivrai sempre perché ci rendi partecipi dei tuoi ricordi. Vorrei non smettere mai di scrivere di te ma è assurdo! È entusiasmante leggerti. Voglio chiudere con i versi di Mia madre si stupiva. È illustrata la sua vita faticosa “con in mano un falcino per recidere foglie” e i suoi stivali così pesi che le “stremavano i fianchi”. Il suo quotidiano sacrificarsi per gli altri: marito, figli; ma la fatica non copriva nel suo animo puro e anch’esso ricco di poesia l’incanto dei colori d’oro sulla mota dei solchi: … E mia madre si stupiva davanti a quei colori, davanti a quella volta iridescente. Con il falcino in mano, e il volto stanco, ammirava, stupita, quei giochi del tramonto sopra il campo. Anna Vincitorio
D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE PRESENTATO, ALL’ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI DI NAPOLI, LA DONNA E IL MARE DI CARLO DI LIETO - Col patrocinio del Club Paestum “Città delle Rose”, International Inner Wheel, Distretto 210 Italia,
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Biblioteca del Centro di Cultura e Storia Amalfitana, Centro Nazionale di Studi Leopardiani Recanati, F.U.I.S. - Federazione Italiana Scrittori, Lectura Dantis Metelliana, mercoledì 30 novembre 2016, alle ore 17, nel Palazzo Serra di Cassano, via Monte di Dio 14, Napoli, L’Istituto Italiano Per gli Studi Filosofici ha presentato il saggio di Carlo Di Lieto “La donna e il mare”: gli archetipi della scrittura di Corrado Calabrò. L’incontro/omaggio per i cinquant’anni di attività poetica di Corrado Calabrò ha ricevuto il saluto del dott. Roberto Vallardi. Sono poi intervenuti: Carlo Di Lieto, Antonio Filippetti, Lorenza Rocco, Lucia Stefanelli Cervelli, Maurizio Vitiello. Coordinatrice è stata Donatella Trotta. Pubblico qualificato e numeroso. *** IL NUMERO DI NOVEMBRE 2016 DEL NOSTRO MESILE - Da Emerico Giachery, da Roma - E-mail del 26/11/2016: Caro Domenico, sfogliando il nuovo fascicolo, da poco ricevuto, della tua rivista, ancora una volta mi sento un po' in famiglia. Trovo, per esempio, una recensione a Maria Assunta Oddi, mia allieva negli anni del mio insegnamento aquilano: anzi, la mia migliore allieva d' Abruzzo! Trovo recensito il gentilissimo, bravo, attivissimo Antonio Crecchia, per un libro di memoria patria che affettuosamente mi inviò e al quale risposi con molto slancio (mio nonno ebbe quattro figli in armi nella prima guerra mondiale, di cui uno gravemente ferito). Trovo la cara poetessa e narratrice napoletano-fiorentina Anna Vincitorio, che Noemi ed io consideriamo un'amica. Trovo recensito Carlo Di Lieto, di cui presenterò brevemente, alla Fiera del Libro dell'EUR, l'ultimo libro, un libro di notevole importanza e di notevole mole (700 pagine), straordinariamente ricco di documentazione e orizzonti: Chi ha paura della psicanalisi? Il "lato oscuro della mente" da Dante a Cesare Viviani, pubblicato da un editore anche lui amico, Sandro Gros-Pietro, Genesi Editore, Torino. Non sono certo io ad aver paura della psicanalisi e della psicocritica! In gioventù mi sono "abbuffato" (si direbbe a Roma) di libri di psicanalisi e di psicologia profonda, da me considerati preziosi per la conoscenza dell'uomo; ho molto apprezzato alcuni psicocritici italiani e stranieri, per esempio Elio Gioanola (il suo libro su Gadda, L'uomo dei topazi, mi è parso geniale). Il mitico Ernst Berrhard, presso cui ha fatto un'analisi Giacomo Debenedetti, mi donò, in occasione di un breve incontro, il suo saggio Il complesso della Grande Madre, che mi fu utile per redigere il mio libro su Pierro. A proposito, ti faccio presente che pochi giorni fa è stato celebrato a Tursi, suo paese natio, il centenario della nascita di Albino Pierro, con cui ho avuto un'amicizia venticin-
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quennale. Mi piacerebbe ricordarlo anche in pagina, non solo in cuore e memoria . Sono uno dei pochissimi suoi amici "storici" ancora viventi: forse l'unico. Il suo paese, anche per merito di suo cugino Ottomano, ha saputo onorarlo come si deve: con un centro di studi, fornito di biblioteca e archivio, nel palazzo in cui visse, e con un parco letterario a lui dedicato. Una sua compaesana ha pubblicato una guida in cui sono indicati i luoghi collegati con le sue poesie. Nella segnalazione stradale del paese è scritto: "Tursi- Paese di Albino Pierro. Questa è civiltà. Viva dunque l'amicizia! Emerico *** ACCADEMIA COLLEGIO DE’ NOBILI - Istituzione storico – culturale fondata nel 1689 - Dopo oltre un mese di lettura e disamina, la Giuria della 11a Edizione del Premio Internazionale di Poesia “Danilo Masini” dal tema Sogno o realtà e Tema libero, riunita in data 14 e 15 novembre 2016 a Montevarchi (AR), ha decretato che il 1° Premio per la Poesia Inedita andasse a Fabiola CONFORTINI di Limite sull’Arno (FI) per la poesia “Nonno” e il 1° Premio per il Libro Edito di Poesia a Luciano FANI di Marciano della Chiana (AR) per il libro “Per nuovi sentieri”, Il Convivio, Castiglione di Sicilia CT), 2015. Per la sezione Poesia Inedita giovani under 18, il 1° Premio è andato alla dodicenne Melissa STORCHI di Bibbiano (RE) per la poesia “Il mio cielo”. Gli altri premi assegnati per la sezione Poesia inedita sono i seguenti: 2° Premio a Maria Laura Ghinassi di Arezzo per “Quando il mare suona come un liuto”; 3° Premio a Aldo Ripert di Roma per “Il bambino e l’ aquilone”; 4° Premio a Fulvia Marconi di Ancona per “Lassù fra terra e cielo”; 5° Premio a Mario Aldo Bitozzi di Udine per “Confiteor”. Per il Libro edito di poesia sono i seguenti: 2° Premio a Claudio Tugnoli di Trento per il libro “La tua ombra Poesie dal confine”, Piero Manni, San Cesario di Lecce, 2011; 3° Premio a Giorgina Busca Gernetti di Gallarate per il libro “Echi e sussurri”, Polistampa (Firenze), 2015; 4° Premio a Roberta Bagnoli di Bagno a Ripoli (FI) per il libro “Acqua nel deserto”, Editrice GDS, Vaprio d’Adda (MI), 2012; 5° Premio a Franco Casadei di Cesena (FC) per il libro “La firma segreta Poesie in dialogo con Marina Corradi”, Itaca, Castel Bolognese, 2016. Per la sezione Poesia inedita giovani under 18 i seguenti: 2° Premio a Jasmine Maglie di Taurisano (LE) per “Assente presenza”; 3° Premio a Gabriel Tagliabue di Seregno (MB) per “Le foglie”; 4° Premio a Gaia Mizzon di Legnago (VR) per “Forse”; 5° Premio a Maria Casaro di Legnago (VR) per “Una poesia”. Sono stati, inoltre, segnalati i se-
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guenti poeti per la sezione Poesia Inedita: 6° classificato Pierluigi Fiorella di Montevarchi per la poesia “Imbrunire”; 7° ex aequo Alessandro Inghilterra di Genova per la poesia “Forse a Primavera”; 7° ex aequo Maria Cristina Renai di Sinalunga per la poesia “Sogni”; 7° ex aequo Vito Dimola di Scandicci per la poesia “Lo scacco”; 7° ex aequo Anna Maria Olito di Firenze per la poesia “A te (sogno)”; 8° ex aequo Giovanni Bubbico di Arezzo per la poesia “Pagliacci”; 8° ex aequo Fernanda Nicolis di S. Martino (VR) per la poesia “Cadono i sogni”; 8° ex aequo Ines Scarparolo di Vicenza per la poesia “Bisbiglio d’anima”; 8° ex aequo Stefania Calesini di Poppi (AR) per la poesia “Hai mai visto le lucciole”; 9° ex aequo Giovanni Tavčar di Trieste per la poesia “ Urgenza”; 9° ex aequo Vittorio Morrone di Roma con la poesia “Se mi arrampicavo sulle nuvole”; 9° ex aequo Daniele Boganini di Prato con la poesia “Quando guardavo la luna”; 10° ex aequo Lolita Rinforzi di Assisi con la poesia “Dall’aereo”; 10° ex aequo Maurizio Bacconi di Roma con la poesia “Via!”; 10° ex aequo Fiorenza Perotto di Prato con la poesia “Continuavi a suonare (A un sopravvissuto ad Auschwitz)”; 10° ex aequo Paola Carmignani di Altopascio (LU) con la poesia “Se…”; 10° ex aequo Daniela Musini di Città Sant’Angelo (PE) con poesie in forma Haiku; 10° ex aequo Claudia Degli Innocenti di Cavriglia (AR) con la poesia “Sfumature”. I seguenti per la Sezione Libro edito di poesia: 6° classificato Anna Santarelli di Rieti per il libro “Sguardi quotidiani”, Il Convivio, Castiglione di Sicilia (CT); 7° classificato Stefano Martin di Udine per il libro “Prima persona singolare”; 8° classificato Maria Grazia Rossi di Firenze per il libro “La stagione dei sentimenti quieti (o quasi)”, Carmignani Editrice, Cascina (PI); 9° classificato Maria Enrica Braggion di Adria (RO) per il libro “Graffi sull’anima”, Apogeo Editore, Adria; 10° classificato Paride Mercurio di Borgo Ticino (NO) per il libro “La persistenza del tempo”, Book Editore di Ferrara. I seguenti per la Sezione Poesia inedita giovani under 18: 6° Filippo Pacini di Vicopisano con la poesia “Avrei”; 7° Ilaria Isoli di Legnago (VR) con la poesia “Impercettibile vista”. Il Premio Speciale della Giuria è stato assegnato a Rita Muscardin di Savona per la poesia “Canto d’amore (dal mare)”. La Cerimonia di Premiazione ha avuto luogo sabato 3 dicembre 2016 alle ore 17.00 presso il Circolo Ricreativo “Stanze Ulivieri” in Piazza Garibaldi, 1 a Montevarchi (Arezzo). Dopo la Premiazione è seguito un concerto del Duo Beniamino Iozzelli, violoncello e Giovanni Inglese, pianoforte. Il Segretario del Premio Claudio Falletti di Villafalletto
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*** PIÙ LIB(E)RI - FIERA DI ROMA DELLA PICCOLA E MEDIA EDITORIA - Si è svolta a Roma-EUR, al Palazzo delle Esposizioni, dal 7 all’11 dicembre 2016, l’annuale fiera del libro, con la partecipazione di centinaia e centinaia di piccole e medie imprese, la partecipazione di migliaia di scrittori e lo svolgimento di centinaia di eventi, tra cui: Mercoledì 7 dicembre, ore 17, sala Ametista, presentazione del volume Chi ha paura della psicanalisi? Il lato oscuro della mente da Dante a Cesare Viviani, di Carlo Di Lieto (Genesi Editrice), con la partecipazione di Sandro Gros-Pietro, il quale ha presentato, via via, gli oratori. Il primo a prendere la parola è stato il professore Emerico Giachery, il cui intervento è stato alato e ricco di citazioni, tale da entusiasmare tutti, anche per il calore umano, tanto è vero che Gros-Pietro si è impegnato a pubblicare l’intervento sul prossimo numero di Vernice. È stata la volta, quindi, di Antonio Filippetti, critico del quotidiano La Repubblica, anche lui con un intervento profondo e circostanziato. Ha preso la parola, poi, l’Autore, prof. Carlo Di Lieto, che ha brevemente accennato ai vari autori - da Dante a Viviani - da lui meticolosamente esaminati all’interno della vastissima opera. Infine, è intervenuto brevemente Corrado Calabrò, che sedeva tra il pubblico, in prima fila. Oltre tutti questi amici, abbiamo potuto salutare e chiacchierare con la professoressa Noemi Paolini, consorte del prof. Giachery, la quale ha promesso di farci avere un suo articolo per la nostra PomeziaNotizie, periodico da tutti apprezzato; Venerdì 9 dicembre, ore 18, sala Ametista, presentazione del libro La luce delle crepe (Edilazio), di Luciano Nota, con l’intervento di Corrado Calabrò, Anna Maria Curci, Donato Loscalzo e Marco Onofrio; Venerdì 9 dicembre, ore 18, sala Corallo, presentazione del libro di poesia Elegie materne (Lepisma Edizioni) di Dante Maffia, con gli interventi dell’Autore, di Carmine Chiodo, Cristiana Lardo, Francesca Vannucci, Giorgio Taffon e le letture di Maria Pia Iannuzzi. Esoso il costo dei biglietti per l’entrata alla Fiera. Gli Autori non si rendono conto che quei soldi il pubblico li avrebbe potuti spendere per l’acquisto di libri. Il pubblico è stanco di questo aumento annuale dei biglietti e lo ha anche manifestato. L’ingresso dovrebbe essere gratis o, al massimo, con il costo di un paio di euro. Se si continua con gli aumenti, a rappresentare il pubblico, nei prossimi anni, saranno solo gli stessi Editori. Editori, poi, che si fanno profumatamente pagare per la pubblicazione delle opere, quando, invece, il vero editore dovrebbe lavorare per vendere il suo prodotto, non per spellare
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gli autori. Ecco quanto espresso, in proposito, l’ Associazione PoesiAzionArte di Roma: “Più Liberi Più Libri. Sedicente manifestazione della piccola e media editoria (...) inaugurata mercoledì 7 a Roma al Palazzo Dei Congressi all'Eur. La situazione. Per esporre lo stand si paga. Per entrare la gente paga. Una volta dentro per i libri devi pagare. Gli editori che espongono poi non sono veri "editori", ma sono quasi tutte "case editrici a pagamento", cioè che non vivono vendendo i libri che pubblicano, ma facendosi dare i soldi a monte, direttamente degli autori! Questi falsi editori pubblicano qualsiasi cosa purché l'autore li paghi! Fuori dalla Fiera nelle librerie normali i libri di questi pseudoeditori sono assenti o introvabili perché essi, non vivendo della vendita dei libri, non sono interessati alla distribuzione ed alla vendita, ma solo a spennare gli aspiranti scrittori con false promesse di successo e gloria letteraria che mai arriveranno. Inoltre l'idea stessa di "piccola editoria" che promuove la manifestazione "Più liberi più libri" è sbagliata. È un "grande editore" non chi pubblica in milioni di copie "Anche nel loro piccolo le formiche si incazzano" o le ricette della Parodi; è un grande editore chi cerca, scopre, pubblica, promuove autori come Joyce, Kafka, Musil, Bekett, Virginia Woolf, Rimbaud anche se in tirature limitate. In ogni caso non è avallando simili festival che si fa o sostiene davvero la cultura ed il libro...”. Pur non condividendo appieno - per fortuna, non tutti si fanno pagare e da tutti -, la protesta ha la sua logica, esprime una vera sofferenza. Insomma, il pubblico non ne può più di questa kermesse annuale e sempre più dispendiosa, per certi aspetti rapinosa (l’esoso costo dei biglietti) e noi non potevamo non rilevarne il malumore, suonare, come facciamo, la sveglia. D. Defelice *** LA BARCA DI NAZARIO PARDINI - Un’ intensa immagine visiva di un equilibrismo emotivo la barca - dove la nudità dell’estrema debolezza, muove leggiadra la sonorità metrica, di una lunga rima. Lunghezza di profonda ed estenuante navigazione, per ritrovarsi, poi, nella quiete di un porto di sicurezza, che possa, finalmente, illuminare il buio. Mi dia qualche certezza e poi restare quieto fuori dalle acque di tale mare che non ha confini. Struggente linea di purezza, quest’ultima scena di congedo al mondo, dell’universo del grande poeta. Filomena Iovinella Il Poeta si racconta, narra il suo dramma interiore, dà sfogo al suo tormento, arido, con un lungo canto elegiaco. C'è speranza e pessimismo nel suo lamen-
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to, speranza d'incontrare un porto in cui deporre "le malinconie", pessimismo perché ha solcato mari che rimanevano indifferenti alle sue speranze. Inutile è stato, pertanto, tutto quanto ha tentato e sofferto. Ora è stanco e scoraggiato; la barca è consunta e i remi non si mantengono compatti e quasi lo inducono a mollare. La sua anima, però, non cede, tenta di fuggire, di ripiegare verso nuovi mondi. Segue la rotta degli aironi, ma ad un certo punto si pente e torna ai vecchi legni dove ha lasciato "i suoi respiri" e "la sua vita fatta di pasti amari". Arrendersi? Impossibile, non può desistere: il suo obiettivo è sempre l'attesa di un porto, di una luce che lo illumini, di una guida sicura che riesca a squarciare "l'azzurro nero", che gli permetta di uscire dalle acque di un mare che non ha confini e riposare, infine, sulla terra tranquillo. Il suo porto, la luce, la guida sono sempre, e solo, la poesia che egli cerca senza sosta. Ma la dolce Musa (egli non se ne accorge, non ne percepisce la voce) è in lui, in ogni sua espressione, in ogni suo alito, anche nell'attesa e nella sofferenza e nella sua instancabile ricerca. Antonia Izzi Rufo *** L’UTOPIA DELLA PROVA - A Milano, per due giornate di incontri sul tema dell'utopia come dimensione del tempo, in ogni tempo, tra scrittura e suoi risvolti. 'L'UTOPIA ALLA PROVA DELL' UMORISMO - Giornate di studi utopici - 1 e 2 dicembre 2016, a cura del Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere, che affianca il Dottorato in Studi Linguistici, Letterari e Interculturali in ambito Europeo ed Extraeuropeo. Nella prima giornata, dopo i saluti istituzionali del Rettore dell'Università degli Studi di Milano, Gianluca Vago e del Direttore del Dipartimento Marco Modenesi, la prof. Rosalba Maletta ha fatto da moderatrice tra le relazioni messe in campo: Stefano Raimondi, Poeta: 'Le parole che deragliano. La poesia è un'utopia possibile'; Marco Modenesi (Univ. di Milano): 'Africa terra promessa: il mondo a rovescio di Abdourahman Waberi' (Djibouti); Gabriele Scaramuzza (Univ. di Milano): 'Grottesco e Utopia in Verdi'; Markus Ophaelders (Univ. di Verona): 'Sarà una risata che vi seppellirà'. Considerazioni sul comico in musica e in letteratura'. La seconda parte della prima giornata vede come moderatore il prof. Francesco Clerici e si alternano in successione: Carla Danani (Univ. di Macerata) 'Critica del reale e intenzionalità utopica'; Francesco Deotto (Univ. De Genéve) 'Ironie di Derrida. Su Rorty, Derrida e il rapporto tra utopia, scrittura e decostruzione'; Sara Di Alessandro
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(Univ. di Milano): 'Parole in gioco – Potere allo specchio: 'Till Eulenspiegel' di Adam Kuckhoff. Germania 1933'; Elena Putignano (Univ. degli Studi di Milano): 'Lungo il fiume e per vie discoste: un movimento che scardina e contesta. I luoghi dell'infanzia in Cora Sandel: 'Evlegaten' e 'La bambina che amava le strade'. La seconda giornata viene aperta a livello istituzionale dalla prof. Giuliana Garzone, Coordinatrice del Dottorato di Ricerca sopra indicato, mentre come moderatrici figurano Sara Di Alessandro e Rosalba Maletta. Quattro gli interventi presentati in programma: Stefano Simonetta (Univ. di Milano): 'Prendere l'utopia con umorismo: (ri)portare la filosofia in carcere'; Matteo Bonazzi (Univ. di Milano-Bicocca): 'Witz. Un legame senza rapporto'; Dario Altobelli (Univ. degli Studi Roma Tre): 'Teoria ironica e fine della realtà: Baudrillard pensatore utopico'; Didier Contadini (Univ. Di Milano): 'L'utopia della socialità tardo-moderna alla prova della risata'. Elena Putignano modera la seconda parte di questa giornata e si succedono Enrico Lucca (The Hebrew University of Jerulasem): 'Ironia, malinconia e messianico nell'opera poetica di Gershom Scholem'; Francesco Clerici (Freie Universität Berlin): 'E il mondo continuò/una riga più in basso. Quattro storie di amicizia tra ironia, utopia e soglie messianiche'; Rosalba Maletta (Univ. Di Milano): 'Cucire il rovescio della s/Storia: scritture d'infanzia tra Odradek e Il Narratore'. Ogni sezione dei lavori presentati è stata allargata a discussioni e dibattiti che, a detta della prof. Maletta, con la quale sono in contatto dinamico e costruttivo, hanno dato riscontri più intensi e profondi ben oltre le loro previsioni. Non ho potuto partecipare a questo particolarissimo convegno, ma mi terrò informata su questi versanti multipli sciorinati in intreccio. Intanto sostengo che per me l'utopia è il cuore pulsante del pensiero produttivo; è la tentazione mai evitata dei saggi quando rimangono bambini, con lo sguardo a volo d'uccello, ed utilizzano la scrittura come fantastica sezione di tutti gli spazi possibili, in divenire, nella Poesia, come nel Canto e nella Prosa, nell'apertura analitica di questi percorsi artistici come nell'attenzione che memorizza dall'alto, proprio attraverso lo sguardo e parla dell'arte pittorica ed immaginativa, di ieri come di oggi, perché il domani sia corpo e segno del creativo; è il luogo dove si incontrano tempo e spazio prima d'ogni creazione e vi si accede se e solo se si ha carisma, se si è toccati dalla Grazia dell'eccedenza minimale rispetto alla realtà che ci circonda. Poi vedrò, grazie al contributo di tutti questi studiosi, come irrobustire queste mie premesse d'esperienza.
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Sostiene Rosalba Maletta, coordinatrice del gruppo di ricerca Utopie in Dialogo all'Università degli Studi di Milano e curatrice del convegno: “Abbiamo individuato come elemento programmatico e relais una definizione che ci ha generosamente proposto Carla Danani (Università di Macerata), filosofa della politica e dell'abitare nonché profonda conoscitrice del pensiero utopico, la quale per lo scenario odierno propone parla di utopia come 'cura del possibile'. Personalmente intendo le sue parole come attenzione per le possibilità che ci aspettano, celate o trascurate nelle cose del vivente, negli incontri, negli eventi che ci vogliono catturare sul piano del globale e dell'immagine iconica e ci fanno trascurare la singolare unicità di ogni declinazione del vivente, fatta di residuale, di scarti e di resti – sulla scia della psicoanalisi, del pensare in controluce di Benjamin e dell'ebraismo messianico. Il relais permette a questo punto l'aggancio con l'umorismo come sguardo che il creatore getta sulla propria opera, allorché se ne distacca e le permette di andare per il mondo, qualunque e comunque essa sia per farsi e vivere ogni volta nell' incontro con l'altro irriducibile al mio proprio specchio egomorfisticamente apparecchiato... Abbiamo messo in movimento e in tensione dei concetti che fanno precipitare pensieri in altre forme e sembianze rispetto allo schema utopia-distopia ovvero 'oggetto buono'-'oggetto cattivo' e chiamano fortemente in causa il mercato e le strategie della società dello spettacolo nell'epoca della geoeconomia. Abitiamo le differenze lungo i bordi, i margini, situazioni liminari, stiamo nella soglia con Benjamin, con Freud, con Kafka, con la letteratura e la parola poetica, con la psicoanalisi più avvertita che si muove intorno al Witz e con la consapevolezza delle identità migranti!” (e-mail inviatami il giorno 8 dicembre 2016). Questo particolarissimo gruppo di ricerca, coordinato dalla prof. Maletta in piena ed aperta collaborazione con Francesco Clerici, Sara di Alessandro, Enrico Lucca, Elena Putignano vuole impegnarsi anche attraverso questo evento a diffondere un pensare oltre, che vada al di là delle costrittive limitazioni del nostro conoscere codificato e non ancora espugnabile, se non 'poeticamente': allora il nonluogo dell'Utopia si dilata e confonde, fondendo in sé, come figura immaginativa generata da Itzahak, dal figlio di Abramo in sorriso, anche il Messianismo. Non è certo un modo come un altro per alterare i rapporti di lettura e di interpretazione dell'Autore e dei suoi testi sullo sfondo di un ebraismo fuori dalla Sinagoga e dalla Terra di Israele: questo è il modo! Francesca Magro, vera maestra delle trasparenze
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oltre la pelle, quella di automi che quasi respirano senza traccia di appartenenze di sorta, e dei sottilissimi tratti a spessore di capello per costruire connessioni e legami, arricchisce il testo del Programma dell'incontro con tre immagini: 'Gioco alternativo', tecnica mista su carta, 2016, 'Progetto di sogno', inchiostro su carta, 2016, e 'Gioco collettivo', inchiostro su carta, 2014. Per ulteriori investigazioni la rete è strumento d'elezione. Ilia Pedrina *** GADDA, DANTE E L'ARTICOLO 70 DELLA NUOVA COSTITUZIONE ITALIANA - Insegnare trent'anni per poi ritornare ignoranti come al tempo prima delle elementari. Questa impressione l' ho avuta leggendo l'articolo 70 della nuova Costituzione sottoposta a referendum il 4 dicembre 2016. Non mi vergogno affatto di dire che non ho capito nulla. Non ho capito nulla, perché coloro che hanno steso l'articolo l'hanno scritto in una lingua che non conosco, né riconosco come italiana, perché la trascende, facendo a meno dell'uso delle regole grammaticali, quali si potevano riconoscere nell'articolo 70 della Costituzione del 1948. Eccolo: La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere, una frase esemplare in forma passiva, come una delle tante che venivano assegnate a noi, ragazzini di 11 anni, durante le esercitazioni di analisi logica, per trasformarle in attive. Ora, nella Costituzione portata al voto dal Governo Renzi, accade che questo articolo si gonfi come coda di pavone, passando da 9 a 451 parole, col risultato che tutto diviene presto incomprensibile. E in effetti, appena finite di leggere le prime parole tese a ribadire, come da vecchio testo, che la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere, pare di cadere dentro una pagina a firma di Carlo Emilio Gadda, dentro uno di quei suoi pastiche dove lingua e dialetti, mescolandosi, formano vere e proprie ridde di voci e di parole. Con la differenza che lo scrittore lombardo era cosciente di queste sue mescolanze, e se la rideva pure. A meno che, come Gadda, anche lo scrittore della costituzione abbia voluto portare altrettanto scompiglio nella lingua italiana, per nessun altro motivo se non per un feroce proposito di vilipenderla. Se questo è stato, si spiegano così le sparate e le evoluzioni di questo articolo davanti alle quali il manifesto del futurismo impallidisce fino a risultare un testo ancora vicino alla tradizione letteraria italiana, piuttosto che un proclama per oscurarla. Non riporto questo nuovo articolo 70 a causa delle sue gigantesche proporzioni, per cui consiglio, a chi voglia leggerlo, di andare a cercarselo su Internet.
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Ma, anche se “Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse”, dopo “quel giorno (del referendum) più non vi leggemmo avante”, perché, per nostra fortuna, il risultato fu una solenne bocciatura. Difficile sapere quanti italiani abbiano votato no per opporsi a Renzi, quanti per difendere la vecchia costituzione e quanti ancora per altri motivi. È vero, hanno votato no partiti di Destra e di Sinistra, parlamentari ed elettori del PD, ma anche chi come me, oltre all'aspetto politico, ha guardato con preoccupazione al modo come la nuova costituzione è stata scritta. O, a dire il vero, come non è stata scritta, con la rischiosa conseguenza di lasciare libertà d'interpretazione ai nuovi arrivati in Parlamento. Perciò ho votato no, e per amore verso la vecchia costituzione, e verso la nostra lingua, entrambe, da tempo, prese di mira da conti del sagrato più che da tiranni veri; da sprovveduti politicanti più che da diplomatici autentici. Segno di un'epoca ancora post-mussoliniana, teatro di farse più che di tragedie. E farsa delle farse il copione di questa nuova costituzione. Chi, domani, se il referendum avesse avuto esito positivo, sarebbe riuscito a distinguere ciò che è costituzionale da ciò che è incostituzionale, avendo come riferimento un testo astruso e bizantino, corredato di articoli come l'illeggibile 70? Giuseppe Leone *** PRESENTATO IL VOLUME “SELECTED POEMS” DI DAINOTTI - Associazione Culturale “Villaggio Cultura - Pentatonic” - Viale Oscar Sinigaglia, 18/20 – Roma - Domenica 18 dicembre 2016, ore 17 si è svolto un Incontro con l’autore: Fabio Dainotti: Selected Poems. Translated by Rosaria Zizzo, Gradiva Publications 2015. Ha introdotto Anna Maria Curci. Fabio Dainotti è presidente onorario della Lectura Dantis Metelliana, di cui è stato per anni direttore e poi presidente. Condirige l’annuario di poesia e teoria Il pensiero poetante. Ha curato la pubblicazione presso Bulzoni de Gli ultimi canti del Purgatorio dantesco (2010). Ha commentato canti del Paradiso e tenuto conferenze dantesche. Ha pubblicato i volumi di poesia: L’araldo nello specchio, Avagliano Editore, Cava de’ Tirreni, 1996; La Ringhiera, Book, Bologna 1998; Ragazza Carla Cassiera a Milano, Signum, Bollate, 2001; Un mondo gnomo, Stampa Alternativa,Viterbo, 2002; Ora comprendo, Edizioni Scettro del Re, Roma, 2004; Selected Poems, Gradiva, New York, 2015. Ha partecipato e partecipa alla vita culturale cittadina, prima come membro del Comitato culturale, poi come membro del Comitato per le onorificenze. Ha collaborato e col-
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labora a quotidiani e riviste di carattere culturale, come “Poiesis”, “Misure critiche. È presente in numerose antologie. *** AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! - Fabrizia Di Lorenzo, al mercatino tedesco; Valeria Solesin, al Bataclan parigino; 7 studentesse (Francesca Bonello, Elisa Valent, Valentina Gallo, Elena Maestrini, Lucrezia Borghi, Serena Saracino, Elisa Scarascia Mugnozza), su una strada spagnola... L’elenco dei nostri giovani di Erasmus, che muoiono all’estero perché l’Italia non sa dare loro un lavoro, si fa sempre più lungo. E mentre tutto ciò accade, i nostri politici d’ogni colore che fanno? O siedono appisolati sugli scranni in attesa che scatti la pensione (che altri mai avranno); o mestano per impinguarsi il già stracolmo portafoglio; o cavillano in eterno sulle inezie; o si scagliano di continuo deliziosi epiteti; mai, insomma, che cerchino d’accordarsi su qualcosa di utile per la Nazione. I giovani “vanno all’estero per dribblare l’immobilismo del Belpaese condannato all’ autoriproduzione dei dinosauri, al vicolo cieco delle raccomandazioni (degli altri). Ai privilegi di chi si bea delle posizioni acquistate senza cedere il passo a chi avrebbe esuberanze da esprimere”, scrive Marco Ventura su Il Messaggero del 21 dicembre 2016. Alleluia! Alleluia! Abbiamo nostalgia del sessant’otto, allorché si era in - forse eccessivo fermento. Oggi siam tutti silenti, in una stagnazione tombale. Giovani, scendete in piazza - senza fare e senza farvi del male, s’intende; noi abbiamo forse troppo dormito, dando campo libero alla schiera infinita di voraci caimani; fatevi sentire, pacificamente fate capire a questi ruderi che ci governano, a questi ingordi dinosauri d’ogni colore, ch’è giunta l’ora di lasciare il campo, che tutti abbiamo, che tutti avete vergogna di loro. D. Defelice
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 21/12/2016 Sala, iscritto nel registro degli indagati; Raggi, nell’elenco degli inetti! Su questo, PD e M5S hanno sempre ferocemente battagliato perché gli avversari abbandonassero la politica. Alleluia! Alleluia! Ora non è più così. Due pesi e due misure e le solite facce di bronzo. Domenico Defelice
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LIBRI RICEVUTI GIANNICOLA CECCAROSSI - Un’ombra negli occhi - Sinfonia in tre movimenti Adagio Adagio Meditativo - con un saggio introduttivo di Emerico Giachery - In copertina, a colori, particolare di “Hour between wolf and dog (Between darkness and light)” di Marc Chagall - Ibiskos-Ulivieri, 2016 - Pagg. 64, € 12,00. Giannicola CECCAROSSI è nato a Torino il 18 agosto 1937 e vive a Roma. Figlio d’ arte (il padre Domenico era un grande musicista solista), si dedica alla poesia da molti anni. Proprio con il padre realizza nel 1970 il poemetto “Per i semi non macinati” per corno (Domenico Ceccarossi), voce recitante (Arnoldo Foà), coro e orchestra d’archi, musica di Gerardo Rusconi. Nello stesso anno vince il “Premio Nazionale di Poesia Reggiolo”. Dopo un lungo periodo dedicato alla carriera manageriale, inizia nel 1999 a partecipare a concorsi letterari aggiudicandosi numerosi primi premi, tra i quali: Città della Spezia, Il Porticciolo, Histonium, Città di Portovenere, Apud Montem, L’ Aquilaia, Giuseppe Stefanizzi, Nicola Mirto, Il Maestrale, Santa Margherita, Poetico Musicale, San Valentino, Le Cinque Terre, Padre Raffaele Melis, Amarossella, Mario Tobino, Città di Santa Maria a Monte, Franco Bargagna, Aeclanum, Il Quadrato, La Gorgone d’oro, Città di Bitetto, San Domenichino, Olinto Dini, L@ Nuov@ Mus@, Nosside, Santa Maria in Castello, Raffaello Cioni, Antica Sulmo, Il Litorale. Inoltre Premio all’Eccellenza (“Voci” Abano Terme) e Premio alla Carriera (“San Domenichino”). Ha pubblicato: Poesie (1967), Ora non è più tempo (1970), Le dieci lune (1999), Frammenti (2000), I fiori nella schiena (2000), La terra dentro (2001), I gridi nella mano (2002), È appena l’alba (2008), Aspetterò l’arrivo delle rondini (2011), Ed è ancora così lontano il cielo (2012), Casa di riposo (diario, 2013), Dove l’ erba trasuda narcisi (2014), La memoria è un grano di sale (2015), Fu il vento a portarti (2015). ** ANDREA BONANNO - Van Gogh e la pittura “verificale” - Saggio - Youcanprint, 2016 Pagg.198, € 15,00. Allegato fascicoletto di 12 pagine con la riproduzione, in bianco e nero, di ben 24 opere del grande pittore e l’indice dei nomi. Andrea BONANNO, nato a Menfi (Ag), risiede e lavora a Sacile (Pn). Ha iniziato ad esporre all’età di 16 anni in una mostra, vincendo il primo premio e, fin dal 1966, è stato presente a livello nazionale, con partecipazioni a molte rassegne che lo vedono vincere molti premi. Pittore e scrittore svolge da anni un’
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intensa attività pittorica e letteraria, spaziando dalla poesia alla critica d’arte e di letteratura, partecipando a molte manifestazioni nazionali ed internazionali e ottenendo lusinghieri consensi ed importanti riconoscimenti tra i quale: “Artista dell’ anno”, Milano 1988; 1° Premio ‘Giorgio Vasari’, 1989; 1° Premio Internazionale “Artisti per l’ Europa, I Grandi dell’Arte Italiana”, La Spezia, 1990; 1° Premio della critica “I Geni dell’Arte”, Salsomaggiore Terme. Nel 1988 è stato nominato “Professore d’Arte Onorario” della scuola di Storia dell’ Arte <<Giorgio Morandi>> di Fidenza (Parma), in riconoscimento dei meriti culturali conseguiti per la sua attività artistica e del rilevante contributo dato dal suo operato allo sviluppo della cultura italiana. Infatti la sua produzione artistica si è distinta per un’altissima capacità di ricerca ed una qualità tecnica professionale ed artistica non comuni le quali, accompagnate dall’impegno culturale con cui ha da sempre operato, hanno consentito all’Artista di conquistare una posizione di primo piano nel mondo e nella cultura dell’Arte contemporanea. Collaboratore di svariate riviste e periodici, è autore di diversi volumi ancora inediti. Nell’ambito della critica letteraria, sua è la nuova ipotesi della “verifica trascendentale” per la lettura critica di opere letterarie e pittoriche, intesa quale via metodologica riflessivo-verificale per la ricerca e la fondazione di un’unitarietà psicologica e trascendentale (sovrapersonale) dell’anima dell’uomo. Ha fatto parte della redazione della rivista “L’Involucro”, dal novembre 1994 fino al luglio del 1997, anno della morte del direttore Pietro Terminelli, che ha segnato pure la fine della storica rivista letteraria, pubblicando il commento alle 21 liriche de “Lo schiaccianoci” dello stesso. Tra i suoi volumi pubblicati, si ricordano: “Le Poesie di Ferruccio Brugnaro” (2001), “Saggi sulla poesia di Maria Grazia Lenisa” (2003), “Saffo chimera di Maria Grazia Lenisa” (2005), “Poeti contemporanei per la “Verifica trascendentale”” (2007), “L’arte deviata - Otto Biennali di Venezia ed altri saggi” (2010), “Il romanzo e la Verifica trascendentale” (2011). Tra le firme che si sono interessati di lui: Beniamino Vizzini, Antonio Magnifico, Mariella Risi, Silvio Vitale, Giovanni Ianuale, Giovanni De Noia, Domenico Defelice, Anna Rita Zara, Andrea Ovcinnicoff, Carmine Manzi, Nicola Venanzi, Saverio Severi, Salvatore Porcu, Mario Meozzi, Lucio Zinna, G. P. Tonon, Silvana Folliero, Pietro Mirabile, Nunzio Menna, Mauro Donini, Tito Cauchi, G. Luongo Bartolini, Giovanni Cristini, Alex De Nardo, V. Gasparro, Dino Papetti, Domenico Cara, Daniele Giancane, Antonio De Marchi-Gherini, Sandro Bongiani, Guerino d’Alessandro, A. Sandron, Gianluca Boc-
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chinfuso, Gianna Sallustio, Giulio Palumbo, Giuseppe Bonaviri, Giuseppe Perciasepe, Rino Giacone, Carla Fiorino, Guido Cecchi, Alberto Cappi, Franca Alaimo, Italo Tomassoni, Luciano Cherchi, Giovanna Modica, Demetrio Paparoni, Carmelo R. Viola, Giorgio Di Genova, Luigi Galli, Vittoriano Esposito, Giovanni Amodio, Giorgio Saviane, Maria Grazia Lenisa, Pietro Terminelli.
TRA LE RIVISTE POETI NELLA SOCIETÀ - Rivista letteraria, artistica e di informazione, diretta da Girolamo Mennella, redazione Pasquale Francischetti - via Parrillo 7 - 80146 Napoli. E-mail: francischetti@alice .it Riceviamo il n. 79 (novembre-dicembre 2016), dal quale segnaliamo le firme di Giovanna Li Volti Guzzardi, Isabella Michela Affinito, Mariagina Bonciani, Pasquale Montalto. A pag. 18, un articolo dello scomparso Prof. Vincenzo Rossi su La lunga notte - le quattro giornate di Napoli, di Anna Aita e Aldo De Gioia. * IL CENTRO STORICO - organo informativo dell’ Associazione Progetto Mistretta, presidente Nino Testagrossa - dir. responsabile Massimiliano Cannata - via Libertà 185 - 98073 Mistretta (ME). E-mail: Ilcentrostorico@virgilio.it Riceviamo il n. 8-9 (settembre-ottobre 2016). Da leggere, almeno i seguenti interventi: “A colloquio con Roberto Panzarani. Il nuovo impero della conoscenza”, di Massimiliano Cannata; “Anton Cechov. Il teatro che guarda alla quotidianità”, di Francesca Maria Spinnato Vega; <”Premio Cocchiara” edizione 2016. Premiato il prof. Luigi Lombardi Satriani>, a cura di Giuseppe Ciccia. Ma il resto non è trascurabile. * IL CONVIVIO - Trimestrale di poesia arte e cultura fondato da Angelo Manitta e diretto da Enza Conti - via Pietramarina-Verzella 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) - E-mail: angelo.manitta @tin.it ; enzaconti@ilconvivio.org Riceviamo il n.66 (luglio-settembre 2016), sul quale troviamo le firme dei nostri collaboratori Leonardo Selvaggi, Caterina Felici, Isabella Michela Affinito, Aurora De Luca, Antonia Izzi Rufo (che recensisce, tra l’altro, Matteo e il tappo di Caterina Felici e Carmine Manzi una vita per la cultura, di Tito Cauchi), Carmine Chiodo (che recensisce Saluto mareggiato (San Mauro Cilento poesie 2010-2012) di Antonio Vitolo), Giovanna Li
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Volti Guzzardi. Ma segnaliamo anche “Corrado Calabrò, La stella promessa”, di Fabia Baldi; “Marco Baiotto, La dama di Onirion”, di Giuseppe Manitta; “Michele Frenna”, di Enza Conti; una nota, senza firma su “Luigi De Rosa, La grande poesia di Gianni Rescigno. Il poeta di Santa Maria di Castellabate”; “Tito Cauchi, Ettore Malosso tra sogno e realtà”, di Maristella Dilettoso; “Antonia Izzi Rufo, La casa di mio nonno”, di Lucia Paternò. Allegato, il n. 32 (lugliosettembre 2016) di CULTURA E PROSPETTIVE, antologia di pagg. 192, con le firme di Fabio Russo, Angelo Manitta, Bruna Pandolfi, Angelo Cacciato, Corrado Calabrò, Giorgia Chaidemenopoulou, Claudio Guardo, Domenico Cara, Pippo Virgillito, Silvana Del Carretto, Carmine Chiodo, Franco Trifuoggi, Carmen Moscariello, Raffaella Iacuzio, Anna Salvaggio, Giovanna Sciacchitano e Angela Chiacchieri. * IL GIORNALINO LETTERARIO - organo dell’ Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori a cura di Giovanna Li Volti Guzzardi e Daniel D’ Appio - A.L.I.A.S., 29 Ridley Avenue, Avondale Heights 3034, Melbourne, Victoria, Australia - E-mail: alias@alias.org.au Riceviamo il numero del novembre 2016, impreziosito di ben 30 foto a colori. A firmare le poesie sono: Giovanna Li Volti Guzzardi, Daniel D’Appio, Nilla Cosma, Mimma Strangis, Antonietta Torcasio Cozzo, Lilli Ziino, Biagio Presti, Anna Trombelli Acquaro, Domenico Favata, Maria Raffaela Agricola, Liliana Marcuccio Malfitana, Maria Coreno, Maria Turiano Aprile, Salvatore (Sam) Mugavero, Connie Rossitto, Vito Bufalino, Giovanni Belanti, Carmela Rio, Connie Sorbello Campori, Agata Colosimo Bonfà, Emilia Squillace Chiodo, Carmela Sacco Perri, Mariano Coreno, Antonio Angelone, Angelo Manitta, Claudio Giannotta, Giuseppe Barra, Domenico Defelice. Nella prosa troviamo: Giovanna Li Volti Guzzardi, Anna Trombelli Acquaro, Adriana Malfitana, Nilla Cosma, Giovanni Composto, Carmela Rio, Maria Turiano Aprile, Emilia Squillace Chiodo, Connie Sorbello Campoli, Connie Rossitto, Carmela Sacco Perri, Maria Coreno, Carmelina Blancato Pelligra. Invitiamo i nostri lettori alla collaborazione. * SOLOFRA OGGI - La voce di chi non ha voce, direttore Raffaele Vignola - via A. Giannattasio II trav. 10 -83029 Solofra (AV) - E-mail: solofraoggi@libero.it Riceviamo il n. 30, novembre 2016, con notizie e foto degli avvenimenti della città e del Comprensorio.
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L’ITALIA DI SILMÀTTEO di Domenico Defelice Dodicesima e ultima puntata* A voi, lettor, chiediam perdono e scusa se ci siam persi un poco per la via. Giusti due anni dall’ultima puntata...1 È che nel nostro Parlamento e in USA, in Asia, in Europa e in tutto il mondo sono successe cose ch’hanno depresso pure l’ironia. Ne ricordiamo alcune. Re Giorgio è scappato dal Palazzo dicendo ch’era ormai una prigionia ed è salito al Colle, quasi alla chetichella, tra colpi bassi e gas di pantano, il corvo bianco Sergio Mattarella, giudice di gran Corte, vecchio esponente democristiano, apparso nell’elenco poco sano di Mitroclin2, al tempo poi sbiancato dal permaloso Massimo D’Alema. Silmàtteo l’ha pescato nei cilindri - con prepotenza sale l’anatema! per rabbonire i tanti feudatari, come Bersani e come Rosy Bindi, Angela Finocchiaro la quale a porta spesa usa la scorta, lobby palesi e occulte amiche delle banche e della ‘Ndrina, nonché giovani leve insofferenti, tra cui Civati, Cuperlo e Fassina. Egli non se ne accorge, ma caduto è in quel solito andazzo ch’ha portato l’Italia alla rovina, del quale esempi sono, oltre Codazzo3, una Sinistra vecchia e assai retriva, la destra di birbanti e caimani e la finanza gretta e di rapina. Nell’utopia di fare la riforma, alzar dovrà la posta alla giornata, ma, essendo la materia un gran pasticcio, ne sortirà un bel nulla,
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o, al massimo, un’insolita frittata. Son quasi mille oggi in Parlamento e in mille forme vogliono che sia, perché difficilmente ci si adegua a quel che esige la democrazia, ai fondamenti della maggioranza: quel che si approva in sede o per la via senza vergogna poi si contraddice; sconfitta non si accetta, non si accetta rinuncia; al di sopra di tutto l’arrivismo; vada pure a ramengo la Nazione purché non si scalfisca l’egoismo. Un Parlamento sempre più serraglio di ladri senza fede, orrido e buio, in cui per settimane sbertucciati sono D’Alema e Prodi, son Rutelli, Magalli, la Bonino, Imposimato, usati come inutili zimbelli il calciatore Totti e il... non Amato4! Stanchi di mestolar nella padella - o, se volete, nella casseruola -, infine, dalla immensa schiumarola pescato fu l’inerme Mattarella! Possibile - bestemmian gli Italiani che fra gli arzilli ultracinquantenni non ce ne fosse uno, o ciarlatani, del tutto degno di salire il Colle, distante dalla casta, un uomo raro? Maggiore impegno avevan e più rispetto i dittatori dell’antica Roma, il nobile parente del somaro mettendo nel Senato o accanto al letto5. E poi c’è meraviglia se i partiti - che nascono ogni giorno a centinaia si sgonfiano la notte al chiar di luna, se c’è disaffezione in ogni campo e i saltimbanchi salgono in tribuna! Berlusca straccia il patto fraudolento firmato in gran segreto al Nazzareno, gridando a un inventato tradimento, sperando di gabbare un qualche fesso; ormai non regna più, non è sereno; legnoso e appesantito, non ragiona; nomina fintamente successori che con cinismo immantinente brucia, tradendo insieme a loro anche se stesso. È questo è clima adatto alle riforme?
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Portate avanti a colpi di fiducia per superare la montagna enorme di emendamenti messi a bella posta da mastri di paniuzze e lestofanti - a milioni dal solo Calderoli6 -. Mentre infierisce a Roma Casamonica7, si dimette Marino, il Palombaro8 che in testa aveva solo segatura. Chiamati sono a dar lezione magna Faranda brigatista e Bonisoli all’alta scuola di Magistratura9. Da secoli affamati di energia, ai No-Trav10 inneggiamo sulle piazze. L’Italicum11, approvato, è già un disastro, un attentato alla democrazia, bloccati i capolista, preferenze volute, poi negate, il doppio turno, sbarramento basso... Se avessimo l’orgoglio di Nazione, all’istante dovremmo sollevarci e questi inetti prendere a pedate’ dar loro finalmente una lezione! Ma non va meglio altrove. L’Europa di burocrati e d’inetti, più che dare lavoro agli affamati, accogliere chi emigra da ogni dove, assegna le misure al cetriolo, legifera il consumo degli insetti12! Con martelli, picconi e col tritolo l’arte è polverizzata. L’ISIS minaccia sempre Roma. La Francia impaurita ed umiliata. Dovunque sono stragi d’innocenti, la morte canta e ghigna da padrona. L’Inghilterra ha la Brexit e l’America Trump... Solo la Cancelliera sembra rimasta in sella ed in combutta: or Crudelia Demon cinica e nera, fa piangere una piccola immigrata13, il mondo corrucciando; ne accoglie, poi, un’ondata, quasi Madre Teresa di Calcutta! Straparla di giustizia e di decoro, dure sanzioni impone verso Mosca e le sue aziende, intanto, in ogni campo, con quelle russe fanno affari d’oro!
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Tempeste in tutto il mondo e terremoti, macerie impressionanti e tanti morti, aerei che strapiombano od esplodono, treni e binari laceri e contorti... Silmàtteo ormai è distrutto, frantumato 14. Silvio se la gode con mestizia - in fondo, onestamente l’ha ammirato -; fra loro certamente c’è amicizia. Cruda accettando la sconfitta e intera Matteo è salito al Colle e s’è dimesso. Sorride la culona Cancelliera e tutto il gran serraglio europeo. Per anni avremo ancora altri pagliacci, il tutto cristallizzato, come adesso! FINE 1 - L’undicesima, sul numero del gennaio 2015. 2 - Il dossier è del 1999 e contiene le attività illecite del Kgb in Italia. Quando il quotidiano Il Tempo e altri giornali rivisitano i fatti, Sergio Mattarella era vicepresidente del Consiglio dei Ministri, con premier il comunista Massimo D’Alema, con delega ai servizi segreti. 3 - Il senatore Giuseppe Codazzo, personaggio creato e interpretato da Giuseppe Longinotti, di Parma, che tanto successo ha riscosso sul canale La7. 4 - Massimo D’Alema, Romano Prodi, Francesco Rutelli, Giancarlo Magalli, Emma Bonino, Ferdinando Imposimato, Francesco Totti e Giuliano Amato sono i nomi sui quali il Parlamento, in seduca comune, si è esercitato per settimane a votare, prima di eleggere a Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. 5 - Si dice che i Romani dormissero con il proprio cavallo e Svetonio narra che Caligola, durante il suo impero (37 - 41 d. C.), nominasse senatore a vita il suo più amato quadrupede. 6 - Ben 82 milioni si è detto fossero gli emendamenti presentati dal solo Roberto Calderoli! 7 - Famiglia di delinquenti che spadroneggia in molti quartieri romani e che si è resa protagonista di uno spettacolare funerale per la morte di un suo patriarca. 8 - Ignazio Marino, il più discusso e clownesco sindaco di Roma, dileggiato dalla stampa con nomignolo di Sottomarino. 9 - Adriana Faranda e Franco Bonisoli, due brigatisti mai pentiti, il 3 febbraio 2016 erano stati invitati alla Scuola della Magistratura di Roma, incontro
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poi annullato sull’onda della protesta e del sarcasmo popolare. 10 - Niente trivellazioni nel nostro mare Adriatico per l’estrazione di carburanti. Mentre intorno a noi le varie nazioni, Francia e Svizzera in testa, si dan da fare per procurarsi energia - centrali atomiche, perforazioni eccetera - noi Italiani, che siamo stati sempre deficitari, ci opponiamo a tutto! 11 - Nuova legge elettorale per la sola Camera dei Deputati, approvata e mai utilizzata, ora bersaglio di tutti i politici, oltre che della Corte Costituzionale. Esempio della inettitudine, nonché della follia di chi ci governa e fa le leggi. 12 - Un’Europa dei burocrati non fa che emanare strane quanto inapplicabili norme, mentre è completamente assente sui veri e gravi problemi che ci attanagliano, come lavoro ed emigrazione. 13 - Durante un incontro di Angela Merkel in una scuola di Rostock, in Germania, Reem, una bambina palestinese, scappata con la famiglia, piange per la paura di essere rimandata in Libano. 14 - Silmàtteo non era altro che Silvio Berlusconi e Matteo Renzi fusi insieme; co la sconfitta al referendum del 4 dicembre 2016, Sivio e Matteo non hanno più ragione di coesistere.
* Breve Riassunto delle precedenti Puntate - Una notte d’estate, Berlusca erutta, attraverso un suo attributo, per una condanna definitiva. In Germania, Angela Merkel è in sofferenza per una perdurante stitichezza (in senso economico e specialmente nei nostri confronti). Silmàtteo Renzusconi promette di combattere contro l’ austerità dell’ Europa a direzione teutonica. L’Italia è nel caos. Anche per una partita di calcio si arriva alle pistolettate. Esplode il caso dell’ExPo milanese. Il nostro Parlamento spende denari pubblici in corsi per parrucchieri messa in piega al servizio di deputatesse e senatrici. Le riforme sono una farsa, le leggi non hanno valore e, nelle processioni, Madonna e Santi si ... inchinano davanti alle case dei mafiosi. Il Mediterraneo è sempre più una tomba di immigrati. La gente continua a perdere fiducia nella politica. I talk show sono in calo di ascolti, il Sindaco di Roma, Ignazio Marino, prova invidia per chi si droga. Unico faro è Papa Francesco. L’Europa, che ci bacchetta, spreca denaro peggio di noi. Manovre per la nomina del nuovo Presidente della Repubblica.
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AI COLLABORATORI Si invitano i collaboratori ad inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione), composti con sistemi DOS o Windows, su CD, o meglio, attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è necessario un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (con copia cartacea) Annuo... € 50.00 Sostenitore....€ 80.00 Benemerito....€ 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia....€ 5,00 ABBONAMENTO solo on line: http://issuu.com/domenicoww/docs/) Annuo... € 35 Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 N076 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio