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D’IN SU LA VETTA DELLA TORRE ANTICA
INTERVISTA A GIUSEPPE LEONE di Giovanna Rotondo
“
D’in su la vetta della torre antica. Giacomo Leopardi e Carmelo Bene sospesi fra silenzio e voce” è il titolo di questo singolare saggio di Giuseppe Leone che accosta due geni della storia letteraria e teatrale italiana, Giacomo Leopardi e Carmelo Bene. Due personaggi controversi nati in due epoche diverse, silenzioso, anche se il suo genio fu tutt’altro che silenzioso, il Leopardi; stravagante, ingombrante e scomodo, Bene.
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All’interno: Emerico Giachery: Abitare poeticamente la terra, di Antonio Crecchia, pag. 7 In cammino con Rosalba Maletta, di Ilia Pedrina, pag. 9 Lo spazio vissuto e l’altrove, di Rossano Onano, pag. 14 Sport e credulità popolare, di Massimiliano Pecora, pag. 19 Rosalba Maletta: Der Sandmann, di Ilia Pedrina, pag. 22 La poesia di Domenico Defelice, di Luigi De Rosa, pag. 26 L’ultimo anno di Liceo al “Duni”, di Leonardo Selvaggi, pag. 28 Leonello Rabatti ricorda Peter Russell, di Tito Cauchi, pag. 32 Verso casa, omaggio a Turi Vasile, pag. 34 Viaggio d’estate, di Anna Vincitorio, pag. 36 La ricetta del Medico santo, di Antonio Visconte, pag. 37 I Poeti e la Natura (Umberto Saba), di Luigi De Rosa, pag. 39 Notizie, pag. 48 Libri ricevuti, pag. 50 Tra le riviste, pag. 52
RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (Plasmodio, di Antonio Vanni, pag. 40); Elio Andriuoli (L’ultimo bagliore, di Dante Pastorelli, pag. 41); Tito Cauchi (In città al tramonto, di Nicola Lo Bianco, pag. 42); Antonio Crecchia (Viandante, di Emerico Giachery, pag. 43); Domenico Defelice (Natale Prampolini e le Bonifiche (1915 - 1950), di Daniela De Angelis e Nicola Tirelli Prampolini, pag. 44); Domenico Defelice (In città al tramonto, di Nicola Lo Bianco, pag. 45); Liliana Porro Andriuoli (Ifigenia siamo noi, a cura di Giuseppe Vetromile, pag. 45).
Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Rocco Cambareri, Antonio Crecchia, Luigi De Rosa, Enrico Ferrighi, Antonia Izzi Rufo, Giovanna Li Volti Guzzardi, Adriana Mondo, Teresinka Pereira, Leonardo Selvaggi
Viene spontaneo chiedersi che cosa accomuni due personaggi che appaiono così distanti tra loro. Lo potremo capire leggendo il libro di Giuseppe Leone che, inizialmente, e con grande intuito, li colloca su due torri, sulla Torre Campanaria di Recanati, Giacomo Leopardi e sulla Torre degli Asinelli di Bologna, Carmelo Bene, da dove i due artisti danno voce a pensieri ed emozioni, evocando antiche narrazioni. Memorabile, in questo senso, la Lectura Dantis tenuta da Carmelo Bene dalla torre degli Asinelli di Bologna, la sera del 31 luglio del 1981, un anno dopo la strage avvenuta alla stazione della città, Lui è la voce che ricorda e
piange, con passione e dolore, il sacrificio di quelle vite. E dolore e angoscia esprime Leopardi nei versi del Passero Solitario e dalla vetta della torre antica di Recanati, canta e lamenta la solitudine della sua vita. Due personaggi straordinari: due geni della letteratura e del Teatro italiano che non furono riconosciuti come tali nemmeno dalle loro famiglie, anzi, persino osteggiati. Molte sono le affinità che si scoprono tra Leopardi e Bene man mano che si procede con la lettura: nella politica, nella religione, nella vita, pur se espresse in modo diverso e a un paio di secoli di distanza l’uno dall’ altro.
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Dopo questa breve presentazione Giuseppe Leone ci parlerà del suo saggio e, per dare più sonorità a quello che considero uno scritto originale che mancava, gli farò delle domande di volta in volta. D. Qual è stata la ragione per cui ti sei cimentato in un’opera complessa come questa? Non è che una mattina ti sei svegliato e ti sei detto: adesso scrivo un saggio su Leopardi e Bene? Ci sarà stato un evento, un interesse particolare, il deside-
rio di un approfondimento che ha destato la tua curiosità. Parlaci di questo, com’è cominciato? R. Non penso che sia stato un evento o una qualunque altra causa occasionale a ispirarmi questo saggio, anche se eventi su Leopardi e Carmelo Bene non sono mancati in questi anni. Vedi la pubblicazione in America dello Zibaldone tradotto per la prima volta in lingua inglese e l’uscita nel ’95, nelle edizioni Bompiani, dell’opera omnia di Carmelo Bene. Penso, invece, che questo
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saggio sia stato un approdo dopo lungo interessamento all’uno e all’altro, iniziato, su Leopardi, già a partire dall’adolescenza, sia per la bellezza e il fascino della sua poesia, sia per la dolcezza e mitezza dei suoi consigli. Chi, come lui, dispensava suggerimenti del tipo: Godi fanciullo mio, stato soave. Stagion lieta è cotesta, così lontani dal cupo cipiglio dei precettori!; e su Carmelo Bene, a partire dalla prima volta che lo vidi a Milano negli anni Ottanta in Macbeth, fino alla lettura nel 2009 del breve saggio critico sul suo teatro di Giuditta Podestà, pubblicato nell’’82, che lo presentava come il teatro degli ultimi, per via dell’amore che Bene ha sempre riservato alle figure secondarie della tragedia, della commedia e dei libretti d’ opera; nonché ai deboli in generale: le donne dei seimila anni di storia, i servi della politica come dell’amore, i difettosi nel fisico, i santi imbecilli, coloro che per Carmelo Bene costituiscono le creature ancora degne di portare il nome di umane. D. Perché il sottotitolo sospesi fra silenzio e voce, che vuoi dire? Molti di noi pensano, in particolare a Leopardi, come al poeta del silenzio, della contemplazione, “della profondissima quiete”. R. Entrambi si sono avvicinati all’arte, trasferendo emozioni, ricordi e sentimenti nel campo del sonoro, strappandoli così alla silenziosa scrittura, non prima, però, di averli sottratti all’influenza del loro pensiero. Eccoli in colloquio con il mondo greco presocratico, con quel tratto di civiltà quando la poesia e l’arte erano tramandate oralmente e poeti e filosofi guardavano la Natura direttamente, senza l’ausilio della ragione, come la vedono i fanciulli. Leopardi lo farà già a partire dal breve componimento, L’infinito, dove visivo e sonoro si contendono le immagini, mentre il pensiero annega nell’ immensità: colle, siepe e profondissima quiete, sovrumani silenzi; e poi: e come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo’ comparando; e a seguire, attraverso le Operette morali e i
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Canti, fino ad arrivare ai Paralipomeni della Batracomiomachia, dove l’azzardo della voce che tenta di sostituirsi al testo scritto è ancora più evidente. Carmelo Bene lo farà con le sue performance, frutto, anche in questo caso, di un depensamento, private del testo scritto, come anche del regista e dell’attore che recita a memoria, riportando così il teatro a quel tempo prima che “l’epos euripideo-platonico rovinasse la poesia tragica in dialettica”. Modi che faranno ritornare l’artista agli attori greci, con coturni, maschera e megafoni, tutti strumenti atti ad amplificare il suono, “usati non tanto per farsi sentire meglio, fin dagli ultimi posti della gradinata, ma per garantire all’eroismo, alla divinità ch’essi gestivano una “portata” altra dal dire; una superiorità scontata nei confronti di quel pubblico straordinario, perché sempre disposto, nato a meravigliarsi. Quei teatri non erano assemblee casuali e incontrollate; erano luoghi d’ascolto”. D. Esiste un vantaggio della voce sulla scrittura? R. Esiste ed è quello che attraverso l’ oralità è possibile che si formi una coscienza pubblica, cosa che non sembra affatto possibile con la scrittura. È assai improbabile che la lettura di migliaia di libri faccia lo stesso effetto. Leopardi fu più volte tentato di passare dalla poesia al teatro, per realizzare meglio questo suo desiderio di oralità, come gli andavano da tempo suggerendo sia lo zio Carlo Antici, sia Madame de Staël: di guardare a Demostene, alla figura del letteratooratore, che si esercitava sulla spiaggia del mare per assuefarsi a declamare “sulla fluttuante moltitudine di Atene”; o a Isocrate, il mezzo filosofo, che poi il poeta immortalerà nelle Operette morali nella figura di Filippo Ottonieri. Mentre Carmelo Bene, con la voce in opposizione allo scritto, resuscita il morto-orale e ridà al qui e ora il diritto di rappresentazione, cosa che fino a questo momento non ha avuto, a causa, oltre che del testo scritto, anche dell’uso del pensiero
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degli autori. D. Pur avendo avuto un’educazione profondamente religiosa, il pensiero di Leopardi e Bene appare laico e moderno. Quanto sono stati condizionati dalle vicende della loro infanzia? o questa è stata una spinta a guardare avanti? R. Sia l’uno che l’altro hanno avuto un’ educazione cristiana. Leopardi giocava agli altarini e serviva messa, conservando la fede per molto tempo, fino alla soglia della giovinezza. Lo dimostrano le Lettere e soprattutto i numerosi scritti d’ispirazione religiosa, poesie e inni che sono stati pubblicati nel 1970 da Maria Corti e che rivelano come la preistoria e la storia di Leopardi abbia avuto anche questo tipo di ispirazione. Anche Carmelo Bene ha fatto il chierichetto, servendo messa quattro volte al giorno fino ai quattordici anni. Anni che i due artisti non dimenticheranno mai, ma non per l’ attaccamento ai santi e alle divinità, quanto perché il loro ricordo li teneva legati al tempo della beata infanzia. E fin qui, appare tutto normale, un’infanzia comune a milioni di bambini italiani. Quello che non appare normale sono le conseguenze che si manifesteranno nella loro vita artistica e morale. Leopardi dichiarerà che la religione cristiana ha moltissimo di quello che somigliando all’illusione è ottimo alla poesia (vedi la rievocazione della vita dei patriarchi che diviene occasione di vagheggiamento di una mitica età preistorica) e Carmelo Bene dirà che quelle messe e quelle immagini sono state di grande aiuto al suo teatro; come le effigi mariane, che la sua curiosità infantile volle profanare scoprendone la loro inconsistenza fisica e morale; e come, lo abbiano portato presto alla disillusa considerazione e al rifiuto di qualunque culto d’immagine, facendo nascere da qui, non solo il desiderio dell’irrappresentabile, ma anche la sua visitazione ossessiva dei corpi femminili e relativo dongiovannismo. D.
Quanto la critica ha osteggiato o de-
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cantato la sua opera e quella di Leopardi prima di lui? R. I rapporti con la critica sono stati, a dir poco, pessimi per entrambi. Su Leopardi, solo recentemente si sono avute delle schiarite, soprattutto a partire dalla lettura di Sebastiano Timpanaro nel 1964. Già all’ indomani della morte del poeta, la critica romantica prima e quella positivistica dopo, non hanno risparmiato stroncature alla sua opera: dal Tommaseo che ha influenzato il giudizio di De Sanctis e in seguito anche di Croce, ai critici Patrizi e Sergi di fede lombrosiana. Solo fra le due guerre, le insinuazioni dovute a questo rapporto stretto fra arte e sofferenze fisiche si sono leggermente attenuate per lasciare il posto a considerazioni testuali e artistiche. Si dovrà attendere la seconda metà del Novecento perché Timpanaro riporti la critica sui binari della decenza e della correttezza, sostenendo che i suddetti critici bene hanno fatto a ricondurre l’opera del poeta alla natura della sua malattia, ma male hanno fatto a non ritenere che il suo pessimismo non era un lamento, ma uno strumento di conoscenza. Oggi, la critica sull’opera leopardiana si sta spostando dal campo puramente poetico-letterario, a quello filosofico, dove, secondo Emanuele Severino, Leopardi può essere considerato, ove si prenda in considerazione la nozione di nichilismo, il più grande filosofo dell’ occidente, fino a dire che il poeta è stato tutt’ altro che un semplice precursore di Marx e Nietzsche. Su Carmelo Bene, la critica è stata ancora più ostile, giungendo a un giudizio di totale incomprensione della sua opera. Se si eccettuano pochi estimatori, da Lacan a Deleuze, Derrida e Manganaro, in francia, e da Arbasino a Flaiano, Pasolini, Elsa Morante, Giuditta Podestà, in Italia, la maggior parte dei critici ha sempre attaccato l’artista, sia sul piano della recitazione, sia su quello personale e morale, incapace di entrare nel merito delle sue geniali performance. Tali gli interventi di un Davico-Bonino, di un Guido Almansi, di un Renzo Tian, e non solo. Oggi di Carmelo Bene si parla poco, in
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molte delle Storie del teatro non viene neanche citato, e ciò con buona pace della critica che così si esime, ancora una volta, dal dover fare i conti con una maniera di fare teatro che non è solo stravaganza o bizzarria, è soprattutto una geniale invenzione di una mente “nata per fare quello che ha fatto”. D. Ci vuoi spiegare il modo come Leopardi ha letto l’Iliade di Omero e come Carmelo Bene ha messo in scena Shakespeare? R. Tutti sanno delle letture al massacro fatte da Carmelo Bene sui testi teatrali, in particolare su quelli di Shakespeare. Le fece, togliendo di scena i personaggi di potere, e non solo essi, ma qualunque altra cosa che fosse oggetto di potere (il copione, le regole, il regista), mentre darà più spazio ai personaggi vittime dei potenti. Per esempio, in Romeo e Giulietta, il giovane rampollo Montecchi trova la sua dimensione popolare in Mercutio che non muore come nel testo originale, ma rimane agonizzante sulla scena consentendo allo spettatore di assistere alle variazioni del suo divenire personaggio in scena; in Amleto, Orazio è colui che reciterà il celebre monologo; in Otello, Iago e Cassio sono posti sullo stesso piano psicologico del Moro, per via della degenerazione civile che segue alla degradazione militare: generale, luogotenente, alfiere; mentre, sul versante femminile, Desdemona trova la sua volgarizzazione in Emilia ed Emilia la sua prostituzione in Bianca. Pochi, però, conoscono il modo, altrettanto al massacro, come Leopardi ha letto l’Iliade. Delle migliaia e migliaia di versi che compongono il poema, solo otto dell’VIII libro furono quelli che catturarono la sua attenzione. Lo rivela Citati nel suo bellissimo Leopardi. Sono i versi 553-561, quelli dove si respirano e si sospirano speranze sulla fine del conflitto, quando i Troiani sostarono tutta la notte lungo i sentieri di guerra a coltivare speranze di pace, quando le stelle brillano visibilissime nel cielo attorno alla luna che splende, mentre l’aria è senza vento e appaiono tutte le
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rupi e le cime dei colli e delle vali, e uno spazio indicibile si apre sotto la volta del cielo e si vedono tutte le stelle, e gioisce il pastore in cuor suo. Tutte immagini, queste, che ispireranno a Leopardi concezioni, paesaggi e atmosfere di tutta la sua produzione lirica e filosofica. D. Li definisci due geni, due artisti che aprono una nuova stagione alla letteratura e al teatro. Perché allora li definisci geni senza talento? R. Non è mia la definizione, appartiene a Carmelo Bene che ha più volte ripetuto: il genio fa quello che può, il talento fa quello che vuole, volendo intendere che i talentuosi possono fare tutto quello che vogliono, mentre al genio la natura ha permesso di agire nell’ambito della necessità piuttosto che del libero arbitrio. Ma anche Leopardi pare che abbia fatto quello che ha potuto. Ugo Dotti scrisse che al poeta, “per una visione intensamente drammatica, il mondo contemporaneo si presentava come la patria da salvare con la propria azione artistica”. Due geni, dunque. E non sono pochi. Oreste del Buono, parlando di Carmelo Bene, ebbe a dire: “Ebbene abbiamo un genio, che ce ne facciamo? di un genio forse anche inutile e ingombrante, persino preoccupante nella nostra stupida società, magari dannoso, perché non rispetta il sacro dei luoghi comuni di destra e di sinistra. La stessa domanda, ora, me la pongo anch’io. Ma non per uno solo, per due. Che ce ne facciamo? Gli decretiamo, come proponeva il critico, un grande successo popolare senza precedenti, raddoppiando il numero degli incontri, con tanto di celebrazioni, recite, rappresentazioni? La loro arte, diffusa dagli alti coturni della torre campanaria di Recanati e dalla torre degli Asinelli di Bologna, in tutta la sua sonorità, è uno schiaffo impensabile ai millenni dell’ espressione logos-concetto, come ebbe a definirla lo stesso Bene, parlando delle sue rappresentazioni. E pare che stia cambiando in questa direzione anche il significato stesso di Letteratura se a Stoccolma negli ultimi
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vent’anni, il Premio Nobel per la Letteratura è stato assegnato prima al teatro di Dario Fo e poi alle canzoni di Bob Dylan, due espressioni artistiche in cui l’oralità della voce vince decisamente sul silenzio della scrittura. Giovanna Rotondo Intervista di Giovanna Rotondo a Giuseppe Leone durante la presentazione di D’in su la vetta della torre antica. Giacomo Leopardi e Carmelo Bene sospesi fra silenzio e voce, il 1 settembre 2017 nell’ex convento Santa Maria la Vite in Olginate (Lecco).
Domenico Defelice - I limoni - olio su compensato, 1960 ↓
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Emerico Giachery: ABITARE POETICAMENTE LA TERRA di Antonio Crecchia
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ARCEL Proust, con la sua monumentale opera À la recherche du temps perdu” e Luis Borges, con Funes o della memoria, hanno posto l’ accento sulle straordinarie e prodigiose facoltà della memoria, costruendo le loro opere sulle inesauribili risorse di questo requisito umano, depositario di esperienze, sensazioni, ricordi, cultura… Da buon socratico che non ha difficoltà a confessare la propria ignoranza, io non so se l’Italia abbia mai avuto uno scrittore che, in qualche modo, abbia utilizzato la propria memoria come strumento essenziale per costruire la propria biografia. Almeno fino a ieri, quando ho avuto tra le mani “ABITARE POETICA-
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MENTE LA TERRA” di Emerico Giachery. Opera di un emerito professore che ha insegnato Letteratura moderna e contemporanea in varie università, italiane e straniere. Non è un libro comune. È semplicemente straordinario. Bisogna leggerlo per capire a fondo la personalità, la formazione, la sensibilità, l’apertura mentale, “l’anima” di uno scrittore, che senza mai ammetterlo, è un poeta. La poesia non è nelle parole che scriviamo se esse ci mostrano soltanto la superficie, piatta, levigata, fredda, denotativa, per esprimere una condizione oggettiva a titolo puramente informativo. La poesia è “dentro” le parole che, nate dalla profondità dell’io, fluiscono e si sedimentano nella profondità di un altro io e ne determinano l’insorgenza di emozioni e sensazioni, di raccoglimenti interiori e di arresti meditativi. All’apparenza, un libro di erudizione (soltanto nel primo capitolo l’autore mostra una grande familiarità con un numero elevato di personaggi – oltre 70 - e ambienti diversificati, con cui ha avuto la ventura di rapportarsi per motivi familiari, di studio o di lavoro). Nella sostanza, una rigorosa ed esemplare ricostruzione di una vita dedicata alla ricerca di una personale dimensione negli ambiti della cultura, delle realizzazioni letterarie e delle relazioni sociali. Nell’essenza, un capolavoro di raffinata scrittura. Giachery è stato e rimane un divoratore di libri. Un dato emerge chiaro dalla lettura del suo libro: non ha limitato i suoi interessi alle opere dei “grandi” della cultura mondiale; la sua curiosità, unita ad una schietta sensibilità, lo ha portato ad occuparsi anche degli umili e dei “mediocri”, di coloro che lo hanno cercato sapendo che l’avrebbero trovato. E non è questa una forma di umiltà e di disponibilità ad aprire le porte della mente e del cuore al richiamo di qualunque viandante in cammino lungo le vie misteriose dell’ esistenza? Giachery ha un preciso codice preferenziale riguardo a certi concetti che caratterizzano l’attività del pensiero umano.
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Rifiuta l’attributo di critico come pure quello di esegeta, preferendo qualificarsi come “studioso e interprete delle opere altrui”. E in questa veste ha percorso un lungo cammino, ha avuto modo di incontrarsi - fisicamente, intellettualmente o idealmente – con una schiera di autori appartenenti a tutte le epoche della storia letteraria, a nazionalità, lingue e culture diverse. Ecco, dunque, un grande pellegrino che, con ammirevole stile francescano, viaggia felicemente e in assoluta libertà per le vie del mondo, alla ricerca di un ideale che dia un senso compiuto e definitivo alla vita; un novello Siddharta alla ricerca di una illuminazione che appaghi anima, cuore e intelletto. E l’illuminazione è giunta con questa stupenda intuizione che recita: Abitare poeticamente la terra. La scelta dell’avverbio “poeticamente” non è casuale, ma ampiamente meditata per motivare una concezione della vita intesa come “ricerca dell’autentico, fondazione del Sacro”, dilatazione degli affetti oltre la sfera dell’individualità e dell’ambiente privato ed esondazione nel mondo del ritiro professionale e nell’universo delle relazioni sociali, umane e culturali. È la dialettica dello spirito che si manifesta quale generatrice di spazi mentali aperti, di incontri che arricchiscono la personalità, di ininterrotta ricerca delle mete e dei fini che garantiscono la permanenza nel mondo dei valori. e dell’attività estetica. Scorrendo le pagine del libro, il lettore resta ammirato per la facilità e la musicalità dell’eloquio, per la capacità dell’autore di modellare e sviluppare un discorso coerente, limpido nella sostanza, efficace nello stile. Giachery è uno scrittore che non annoia: diletta, invoglia a rimanere nella pagina, ascoltare la sua parola che genera una crescente curiosità, un senso di appagamento interiore, la consapevolezza che la sua regione dello spirito è ampia e profonda, fertile di razionalità e di modernità, permeata di umanità e poesia. Antonio Crecchia Emerico Giachery: ABITARE POETICAMENTE LA TERRA - Carpena Edizioni, 2007
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MATTINO DI MARZO (Ad Emerico Giachery)
Un lesto gracchiare di corvi scuote la monotonia di tenere gemme che in trepida ansia si schiudono al morbido chiarore dell’alba. Ora i pioppi, quasi in preghiera, cedono gli smorti colori dell’inverno alla brezza che reca l’allegra canzone di novella iridata stagione. Si allunga il viaggio del sole e l’anima lieta ascende ai cieli sonori degli albatri, che bevono a sazietà gli umori estremi della notte caduta in fondo a un porto ove il conciliabolo di vecchi pescatori spinge assonnate barche fluttuanti verso il fuoco nascente dell’aurora. Antonio Crecchia Termoli, 4 marzo 2012
DALLA SILLOGE “XC” Lunga è la notte mia carissima Lara. Rivivo con ansia i nostri giorni. Il tempo scorre come l’acqua del ruscello. Dove arriverà? Non so. Proprio non so. In cielo è azzurro e la speranza nasce. Attesa? Forse. Trepida attesa. Poi, tutto è nulla, non sai? Io soffro. Enrico Ferrighi Da Carmina - Ed. Pomezia-Notizie, 1983.
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CON ROSALBA MALETTA IN CAMMINO PER UNA LETTURA PSICOANALITICA DEL TESTO LETTERARIO di Ilia Pedrina
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OSALBA Maletta è ricercatrice di ruolo all'Università Statale di Milano di Letteratura e Cultura Tedesca. Il suo percorso di vita è prestigioso e ricco di eventi che hanno lasciato un benefico effetto nell'arricchire la sua personalità, già dotata per natura di grande spirito d'avventura e d'intelletto. In rete è possibile addentrarsi e scoprire altri interessanti dettagli che la pongono come punto di riferimento indispensabile, dal 2016, per il Progetto Interdipartimentale 'In cerca dell'isola che non c'è. Utopie, luoghi buoni e felicità', fondando poi insieme ad altri il Progetto Transdisciplinare 'UTOPIE IN DIALOGO', in grado di aprire il fronte della ricerca nel porre il pensare utopico al centro del mondo globalizzato ed utilizzando come parametri interpretativi la psicoanalisi di Freud e Lacan e tutto quanto è stato loro possibile dire sulla cultura come dimensione ineludibile della vita di ciascuno. Ho penetrato la sua opera 'A Milano con Benjamin - soglie ipermoderne tra flânerie e timelapse (1912-2015)', dandone qui, in apertura d'anno (Pomezia Notizie, gennaio 2017), un gioco intrecciato tra memorie personali ed evocazioni in sintonia: ne ho col-
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to una misteriosa forza che provoca ricerca e spinge all'approfondimento conoscitivo. Ora Rosalba Maletta mi si dispone al dialogo ed io colgo questa splendida occasione perché emerga tutta la sua spontanea, ricchissima, appassionata competenza tecnica, conoscitiva, esperienziale, professionale e spirituale. Le sue parole sono come soffio vitale che continua a sollecitare attenzione rivolta al sogno, alla scrittura, al cambiamento, andando così oltre il rapporto stimolo-risposta che quasi sottende ogni intervista e lasciando fluire il suo respiro in scrittura, quasi che io l'ascolti, in un continuo riverbero dell'assenza del vedere e del guardar-si. ROSALBA MALETTA Quel che mi interessa e mi motiva nella lettura psicoanalitica del testo poetico e letterario è la latenza. L’inconscio è nella latenza del soggetto; è il fuori-tempo, il contrattempo rispetto all’ orologio. Qui si annida la soggettività. In quest’ epoca di massiccio ritorno a metodologie cognitivo-comportamentistiche diverremo solo automi? Sussisteremo, consisteremo nella ripetizione di azioni dove l’inconscio si risolve, si asciuga, si assolve nel meccanismo stimolo-risposta? Il testo poetico, il testo letterario, il cunto ci sollecitano sul margine di una latenza. La letteratura, la poesia, la lingua sono con noi per raccontarci un’altra storia. Sono l’ umano ridotto all’osso, l’osso del s-oggetto diceva Lacan: quel che ognuno di noi conquista nel divenire ciò che è e non ciò che vuole essere per compiacere. La poesia, la letteratura come il discorso dell’inconscio raccolto dalla psicoanalisi ci ricordano che il linguaggio serve a tutto meno che a comunicare e il tempo logico sopravanza le intenzioni, le buone intenzioni e le propedeutiche dell’ apprendimento. La finzione, nel senso di fictio e ϕαντασία, nasce da una mancanza e si sostiene nella mancanza del lettore. Certo l’uso degli emojis sostiene il ritorno a un tipo di comunicazione che, sulla scia di psicoanalisti e psichiatri di vaglia, definisco pittografico-imageante. Qualcosa ci cattura e
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ci fissa secondo il modo del visivo. Eppure mai come in questi tempi torniamo a promuovere corsi di calligrafia. La mano nell’ uomo è uno strumento meraviglioso; oggi tocca, verifica, sfiora, digita azioni in virtuale e in realtà aumentata. La mano farà per questo a meno della parola; digiterà sempre e solo faccine per scrivere l’Affekt? Intendo qui Affekt come ciò di cui l’Io che dice io e infila azioni alla prima persona singolare non ha contezza giacché può avere solo rappresentazioni di sé sempre sfalsate, sempre rivolte a un giro di boa dove un Altro giudica e attende e quel primo, mitico, irrappresentabile e irraggiungibile Altro fu, sino alla nostra epoca di mutazioni antropotecniche, una donna che fu madre. Con lo Story-Telling stanno nascendo nuove scene della scrittura, una nuova epica; avanzano nuovi narratori. E il tempo della lettura nei blogs non è più legato al tempo dell’ orologio e surdetermina un nostro tempo interno, un tempo dell’Affekt. Derrick de Kerckhove, allievo di Marshall McLuhan parla di inconscio interconnesso. Trovo che chi oggi ha il privilegio di lavorare su una lettura dei testi e può insegnare qualcosa della funzione poetica del linguaggio abbia a disposizione moltissimi dati che non può ignorare e ben vengano le neuroscienze. Non per questo è meno valido il detto del Faust di Goethe che Freud soleva ripetere: «Was du ererbt von deinen Vätern hast, erwirb es, um es zu besitzen» (Faust I, Di notte, vv. 682-683) - «Ciò che hai ereditato dai padri, fallo tuo per possederlo». L’eredità è un legato che ci riporta alla tradizione no-
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stra, di occidentali alle prese con migrazioni che dobbiamo saper ereditare senza tradire le nostre origini perché poi si parte sempre da un’origine che è invenzione. In epoca di iperreale, mondi inter- e iperconnessi, temporalità risolta in un clic psicoanalisi e poesia ci ricordano che l’umano non è specchio del mondo che pone fuori di sé e che gli occhi non sono specchio dell’ anima. Lacan ha ben argomentato intorno alla schisi occhio-sguardo. Poesia e letteratura ci guardano e ci riguardano là dove noi solleviamo muri ideologici e riluttanze comportamentistiche. Ci conducono alla dimensione più propria della psicoanalisi, quella che continua a fare scandalo senza risolversi nelle filosofie dell’empatia. L’Infantile Sessuale e la violenza dell’ interpretazione sono due capisaldi che guidano la mia lettura intorno al corpus di un autore che sgorga da un corpo pulsionale; lettura che conduco in orizzontale e in verticale. Parto dall’intera opera, comprese soglie e paratesti per poi concentrarmi sulle figure retoriche di quel singolo testo, su singoli lessemi, su occorrenze e zeppe. La letteratura, la poesia come del resto la psicoanalisi non sono un adattamento a norme, ideali, comportamenti di una società cristallizzata; si muovono lungo linee di frattura del legame sociale, negli sfaldamenti, nelle faglie e qui cercano un novum, qui cercano l’ umano come soggetto a e di linguaggio. Capisci allora che chi lavora a una lettura psicoanalitica del testo dispone di un sestante formidabile per navigare in queste nostre ipermodernità di corpi migranti, in transito, di idiomi estranei e stranieri, di babil di un’ umanità ancora e sempre inerme e nuda, per quanto si paludi e si addobbi delle insegne del successo. Le narrazioni incontrano corpi e possono accogliere. C’è bisogno di ricordare l’Odissea? C’è bisogno di ricordare i tre Meister di Goethe con la Entsagung, la rinunzia alle fantasie grandiose e il mettersi al servizio di una comunità? Le neuroscienze siano ben accolte. Wilhelm Meister si farà medico accogliendo il princi-
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pio di realtà al servizio del prossimo, il Nebemensch di Freud. Che si continuino a mappare zone del cervello è grande conquista dell’umano ma la psicoanalisi non chiama in causa il mentale (Mind) bensì lo psichico (seelisch lo chiama ripetutamente Freud) e a tal proposito ricorderei il libro di Bruno Bettelheim, Freud e l’anima dell’uomo. La psicoanalisi non riduce l’uomo alle sue radici etologiche perché c’è la parola e prima ancora, sostiene Lacan, c’è la scrittura. L’ umano non si risolve: nasce incompiuto nella Hilflosigkeit e ha bisogno dell’Altro, ha bisogno del Nebenmensch per sostenersi e sostentarsi ma già quel bisogno entra nello psichico, si scrive e si inscrive secondo certe direttrici proprie e uniche di quel singolo soggetto: Infantile-Sessuale. Di queste vicissitudini parla anche il Sandmann, analisi stilistiche e linguistiche alla mano. Gli incontri, le conoscenze si collocano su questa rocciosità basilare e certo la lavorano: il modo in cui la lavorano, il COME precipita nello stile di quell’unico poeta, di quel singolo scrittore. Ricordi che una volta si usava il termine idioletto? L’inconscio presenta sempre un resto nel saldo, nel conto che porgiamo all’Altro con il sorriso, con la mano levata per un pugno o una carezza. Nella mia parola, nella mia scrittura qualcosa mi smentisce nella postura egoico-egomorfistica che impongo a me e al mondo. Insomma Kafka, Pirandello ma ancor prima Hoffmann ci mostrano che l’abito che ci facciamo cucire su misura mostra i difetti, gli strappi. Se inganno l’Altro purtuttavia non mi inganno quando dismetto l’Io del controllo, del computo, dell’algoritmo. La psicoanalisi non dimentica che ogni processo di separazione si origina dall’ aggressività; l’oggetto nasce dall’odio dicono Freud e Lacan, il quale conia i neologismi hainamoration e jalouissance. Ciò è fondamentale per perimetrare il rapporto con l’altro uomo, con l’altro animale, con l’altro vivente perché la nascita allo psichico si produce nel processo di separazione-individuazione da una dimensione confusa e con-fusiva. Ed è proprio a
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queste aree latenti e attive in ognuno di noi, per quanto non ne siamo coscienti o non siamo disposti ad ammetterlo, che la letteratura e la poesia non solo attingono ma pure si rivolgono. E ora parliamo un poco di Maestri, quelli con la lettera maiuscola, quelli che respiri e odori avendo il privilegio di scambiare opinioni; quelli che ti leggono l’anima e sanno ascoltare. Uno degli incontri più felici fu con Enzo Funari, grande allievo di Cesare Musatti e freudiano di indirizzo: mi permise di scrivere una tesi di laurea tra psicoanalisi e letteratura lavorando a tutto campo sulla teoria, da Freud a Lacan, da Melanie Klein a Winnicott e debbo dire che fu lungimiranza di Fausto Cercignani, germanista e filologo di caratura, darmi la possibilità di affrontare un tema tanto complesso senza porre obiezioni di chiusura disciplinare che forse oggi finalmente cominciamo a sembrarci assurde. Cesare Segre è un interlocutore che non cessa di stimolare le mie riflessioni; ebbi il privilegio di frequentarlo e i nostri lettori conoscono meglio di me il retroterra di Cesare Segre. Fu e rimane uno dei sommi nel panorama della critica mondiale. E poi come parlarti dei miei Maestri dell’ anima? Quelli impalpabili, quelli di letture: gli psicoanalisti che si sono dedicati all’ analisi dei testi letterari, in primis André Green, poco frequentato da noi fuori dei settori degli addetti ai lavori. E ancora sul Materno nel testo poetico, che è un mio tema di sempre, come avrai letto nel Sandmann; sul Materno come ispirazione, dono di lingua e prima violenza interpretativa ho imparato moltissimo da Winnicott e Piera Aulagnier; non da ultimo da Bollas. Mi chiederai come mai tanta Francia e tanti autori anglofoni. E come facciamo con la psicoanalisi e le interpretazioni dei testi? In Germania è commovente come gli psicoanalisti che lavorano sul linguaggio traducano i Seminari di Jacques Lacan e frequentino assiduamente la lingua francese e quelli che seguo con maggior interesse non lo fanno di rimbalzo dalla French Theory, ma leggono alla fonte prime-
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va. Colgo l’occasione per menzionare almeno il blog di Rolf Nemitz https://lacan-entziffern. de/ueber/ nonché il lavoro di Franz Kaltenbeck e Achim Geisenhanslüke. C’è una scrittura saggistica che è profondamente creativa e gli psicoanalisti che hanno camminato e camminano nella scia di Freud ampliando la teoria sono sovente scrittori di vaglia. Pensa solo a Winnicott, a Bion e a Lacan! Concludo con due parole a mo’ di schibboleth: sublimazione, lessema che ci permette di misurare tutta la distanza tra noi e il soggetto creatore e che non ci dà il diritto di psicobiopatografare lo scrittore o la sua opera considerando il contenuto, solo il contenuto come fosse la realtà che ci circonda. Il fantasma per assurgere a opera di stile e linguaggio attraversa molteplici processi di velatura. Sublimazione: in chimica è la transizione dallo stato solido a quello aeriforme senza passare per la fase in cui il solido si fa liquido. E penso pure a tutta la retorica sorta intorno alla “società liquida” che il poeta proprio non ha considerato e non considera. Sublimazione: in epoca di neurochimica ben venga la definizione scientifica. E nel lettore che cosa avviene di questa sublimazione? Conoscete il termine stupendo nel nostro idioma italiano di brinamento? Ovvero sublimazione reversiva. Dallo stato aeriforme allo stato solido senza passare per quello liquido. Insomma il lettore è come se odorasse, aspirasse il testo e lo trovasse depositato dentro di sé, allo stato solido, come cristalli pulsanti. In italiano brinamento riprende il fenomeno della brina, ad esempio quella che si forma sui fili d’erba alla mattina e tu sai che la brina cristallizza. «Chaque lecteur est lecteur de soi-même» – tutto sta nel COME. Sublimazione come lettura infinita, inesauribile e infinibile come l’analisi di Freud (Endliche und unendliche Analyse – 1937). Avanza sempre un resto: scarto, confine, griglia per dire che ogni interpretazione non giungerà mai a coprire, esaurire un testo che è
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incessante produttore di senso e significanti tanto per i lettori omoevi che per quelli eteroevi. E poi la lettura infinita dell’ebraismo. La psicoanalisi nasce come analisi infinibile, lo abbiamo appena detto, e nasce ebrea, in esilio. Ma su questo forse ritorneremo; intanto spero di avere un poco incuriosito i nostri lettori. Perché c’è bisogno di individui capaci di cogliere e accogliere bellezza della parola poetica e letteraria con la psicoanalisi. Quella parola è corpo che si fa scrittura; quei grafemi sono il precipitato, il sublimato di pulsioni, emozioni, sentimenti che tracimano per vergare il bianco della pagina e agganciare il paesaggio interiore del lettore….. meteoriti della psiche, megaliti di coloro che ci generarono e che ci parlarono molto prima che nascessimo al mondo e per il mondo – siamo questo, questa miseria, questa possibilità di riscatto e con i popoli migranti torniamo a quelle origini che furono le nostre perché l’ umano è sempre in cammino, anche quando se ne dimentica. A tal proposito chiudo - e concludo per davvero - con il seguito della citazione dal Faust di Goethe: «Was man nicht nützt, / ist eine schwere Last». Quel che non si mette al lavoro, quel che non si fa fruttare, è peso difficile, greve e gravoso da portare e si fa ancor più pesante e impraticabile nel tempo. Freud non aveva bisogno di citare questo distico perché mise a frutto tutto l’orizzonte di sapere d’Occidente per creare la psicoanalisi. Freud ci lascia un legato imprescindibile per riflettere sui mutamenti che stiamo attraversando e una parola composta: Kulturarbeit che possiamo tradurre con “lavoro di civiltà” e che nulla ha a che vedere con il Management della cultura e le campagne di adattamento etologico legate a slogans come “buona scuola” ecc.. Kulturarbeit come cultura che ci lavora nella dimensione sub- e inconscia e ci fornisce una chiave formidabile per leggere i fenomeni di un’epoca schiacciata sull’attuale, sulla notizia urlata e sulla mente comportamentizzata. La poesia, la letteratura, la psicoanalisi si
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avventurano lungo il rovescio del pensare e ci consegnano un manufatto come scrittura della voce, del corpo vivente dove riecheggiano tutti i gesti, tutte le voci della specie nell’ epoca dell’antropogenesi antropotecnica. Ringrazio Rosalba Maletta per questa generosa offerta di sé e della sua vita personale e professionale. Ella ha aperto il nostro immaginario creativo a nuove tensioni che giacevano in ombra, come le dimensioni conoscitive della 'sublimazione' e del 'brinamento', là dove la consapevolezza del sapere scientifico, nel costituire e costruire una terminologia, evade dalla prigione circoscritta della disciplina di riferimento per invadere in libertà il campo della percezione emotiva e della scrittura evocativa. Al suo fianco mi sono addentrata allora in questi luoghi straordinari del 'pensare in tedesco' ed ho potuto avvicinare, con la competenza di chi si diletta nell'amare un Autore e la sua scrittura, sulle 248 pagine del suo lavoro interpretativo: 'Der Sandmann di E.T.A. Hoffmann - Per una lettura psicoanalitica', collana Germanistica/Critica letteraria, CUEM, Milano, 2003. Ilia Pedrina
L’ARPA EOLIA (ovvero Emerico Giachery) L’ho udito ancora il suono chiaro ed eloquente dell’Arpa eolia. L’ho udito di frequente nelle sere dolenti della Settimana Santa. Sere di mesti riti e di preghiere sotto le dorate volte di cattedrali e chiese, a ricordo d’un pane spezzato e d’un tradimento che portò Cristo sulla croce, tra insulti e tormenti. Suono fascinoso, di echi e rimandi a cori di voci dal respiro eterno, che di sublime han nutrito i cuori e al culto della parola suprema, che, per luce e armonia d’accenti, l’animo dispone a fecondi intenti.
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In Sintonie d’interprete ritrovo l’uomo tardo al passo ma di mente alacre, di cuore fervente, volto a sondare pagine, rime, umori e arte del Poeta che sovra tutti l’immortale ombra del valor suo spande, e poi di Belli, Verga e Pirandello, e quindi dei vati grandi d’Italia, come Pascoli, D’Annunzio, Ungaretti, che alla vetta ascesero del poetico canto con versi d’usignolo rapenti. Ma nelle pagine da me discorse altri nomi fan di sé bella mostra e linfa danno al Saggio, in sintonia entrato con il loro credo e linguaggio. Or mi dice in una sua lettera d’essere stanco e depresso, negato a quella penna che tante pagine ha ricamato con un filo d’oro, inossidabile alle ingiurie del Tempo; e io di rimando, con accorato appello, l’esorto a ritornare alla sua arte, da discepolo diletto d’Apollo, di virtù insignito e d’alta dottrina, e a fare della malinconia picca di scavo nel granito della Poesia di quei Maestri, moderni e antichi, che nell’amor del bello cullati si sono, ammaestrando giovani menti al culto dell’arte “bene vivendi”. Poi che di conoscenza non è sazio l’intelletto, volga la sua attenzione ai segni dell’umana creazione, e con chiaro intento ripercorra ancora i sentieri luminosi dai raggi solcati di pure Stelle di quel vasto e ricco firmamento che gloria e vanto è dell’italo genio. Tanti di quei remoti e recenti astri hanno attratto il suo rapito sguardo e dato fiato alla robusta voce dell’interprete d’eccezione, fine, sensibile, profondo e misurato nella dotta e armoniosa espressione, pregna di bellezza e d’ispirazione. Antonio Crecchia Termoli, Pasqua 2012
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LO SPAZIO VISSUTO E L'ALTROVE NELLA PAROLA DI CINQUE CONTEMPORANEI: Angelo Andreotti, Sandro Angelucci, Sheiba Cantarano, Umberto Vicaretti, Anna Vincitorio di Rossano Onano
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ON ho perso il vizio di pubblicare antologie, confessa Eugenio Rebecchi firmando la nota introduttiva. Sulle antologie, confesso da parte mia una certa perplessità, insieme alla conazione che ogni volta mi spinge a leggerle. A maggior ragione questa: Inchiostri digitali, contemporaneità. Brutto titolo. Blu di Prussia editrice, 2016, collana di quaderni antologici. Si tratta di cinque autori noti nel cortile delle lettere, ancora fortunatamente trafficato. Eugenio Rebecchi, curatore del volume, li introduce con enfasi categoriale elegante e sobria, da perfetto maestro di sala: Ecco, allora, avvicendarsi su un immaginario palcoscenico, l'introspezione analitica di Angelo Andreotti; la passione civile di Sandro Angelucci; la solarità colorata di Sheiba Cantarano; l'eleganza classica di Umberto Vicaretti e la raffinatezza descrittiva di Anna Vincitorio. Mi accosto al palcoscenico e guardo: gli autori sfilano rappresentando, ciascuno secondo personalissime stigmate, il rapporto che intercorre fra la loro parola e la categoria fenomenica dello spazio. Angelo Andreotti. Cita in esergo Nietzsche, “la danza circolare”, l'eterno ritorno di ciò che è sempre uguale. Andreotti è introspettivo, come sostiene Rebecchi, a patto di considerare introspezione l'ascolto delle intime afferenze sensoriali, sommosse dall'incontro con la realtà attuale, soprattutto vegetale. Nel verso della vita, il poemetto antologizzato, ha come vertice percettivo: […]
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novembre intanto sbrina i suoi colori stemperandoli in questo cielo cenere dilavato e premuto verso terra dal silenzio che scompone ogni cosa per poi ricomporla nella memoria orientando per difetto il cammino come licheni a nord di questi tronchi scossi da folate lievi e visibili piovendo suoni freddi e tinte calde sul nostro mantenerci fuori tempo dove noi ci tratteniamo anche adesso e in fondo sempre
a parlar d'amore […] Andreotti lavora a Ferrara, esperto in museologia, dirige i Musei d'Arte Antica e Storico-Scientifici. Come tale, sembra caratterialmente portato alla raccolta e conservazione e studio dei dati di realtà. La sua parola esprime una quasi compulsa orgia percettiva, nello spazio attuale del mondo. Che il nostro poeta assume com'è, lo ausculta con attenzione maniacale, lo introietta appunto senza intenzione
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alcuna di cambiare alcunché. Questo è il mondo migliore possibile (Leibniz); anche facilitato dal fatto di essere l'unico. Sandro Angelucci. Migrante fra LietoColle e BooK Editore, officine garanzia di qualità. Angelucci fa della passione civile la sua marca distintiva, garantisce Eugenio Rebecchi. Personalmente, mi aspetto versi correlati a una certa quota di acredine. Mai vista la passione civile passeggiare tenendo sotto braccio il lirismo percettivo. Il nostro Sandro si rappresenta piuttosto come un viandante che si aggira all'interno di una terra incognita, brulla e paurosa. Ma sempre con la fede nel prossimo che, nonostante, si fa incontro, si avvicina. Da Attimi di paura: Non conosco le voci ma salutano il Sole questi canti mattutini. Appartengono al coro degli amanti. Sono la civiltà della luce e del calore. Resta da solo l'uomo se neppure con il pensiero s'aggrappa alla speranza. Copre, una nuvola, per un secondo il cielo. Attimi di paura. Ma qualcuno si avvicina, lo sento canticchiare in lontananza. Lo spazio vissuto di Angelucci non è sicuramente il migliore possibile. Poeta e critico
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letterario, saggista, Sandro vive e insegna a Rieti. Ho avuto occasione di incontrarlo, una sola volta, nel corso di un premio letterario. Fra tanti personaggi umanamente attenti alla proposizione di sé al prossimo, è stato il solo a tentare l'approccio colloquiale diretto, soavemente. La passione civile di Angelucci consiste nell'attenzione allo spazio antropologico: lo spazio attuale è largamente perfettibile praticando la vicinanza, l'irrinunciabile fede dell'uomo nell'uomo. Sheiba Cantarano. Solarità colorata, imperiosa presenza femminile. La prima poesia antologizzata, Amaranto, è in effetti tutto colore, ammaliante corpo di maga nel rosso vinato della sua voce:
Le nubi prudenti e basse si sporgono dalle cenge dei Lepini e abbandonano uno scialle di grigia morbidezza sul corpo di Circe offeso d'abbandono ma dolce dalle regioni dell'assoluto amore giunge l'amaranto della tua voce a donarle un sogno nuovo. […] La poesia continua: la terra scura, il verde dell'acqua, le nuvole grigie, infine il rosso sorriso di Circe abbandonata al sogno del
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prossimo amore che verrà. La solarità colorata è soprattutto volitiva ricerca del colore/calore della vita, contro qualsiasi tristezza terrena. Sheiba Cantarano vive a Latina, dove insegna e partecipa a molte attività (regista, attrice, presentatrice) comunque legate al linguaggio del corpo. Lo spazio vissuto di Sheiba identifica la terra come l'Alma Mater della sapienza antica. La sua recettività è perfettamente femminile: Circe nel sonno spalanca il ventre destinato eternamente ad accogliere l'amore. Altrove, la simbologia analitica è scoperta: l'ape (penetrante) assalta il fiore (penetrato) che docilmente si arrende. Una donna, quando è fieramente consapevole di esserlo, scrive appunto così. Umberto Vicaretti. Viaggiatore di formale eleganza classica, versi cadenzati e lenti come
fossero la marcia paziente di un alpino. Poi guardi alla meta prefissata, e ti accorgi che la marcia è in realtà un esodo dallo spazio attuale alla Terra Promessa. La quale è sicuramente Altrove, confusamente percepita attraverso connotazioni antitetiche: essa è “scrigno” (morte) e nello stesso tempo rinascita panica (metempsicosi). L'incipit di La Terra irraggiungibile (“Exodus” è il primo verso, isolato, sospiro di colui che si confessa): Salpare è forse l'ultima scommessa, gettare il cuore oltre la linea d'ombra ed inseguire il sole ad occidente. Chissà se limpida è la rotta a prua e se la stella brilla ancora a Nord, ma il guscio vacillante che ci culla, seme affidato ai vortici del mare, è già salvezza,
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è già Terra Promessa. L'onda che incombe ad innalzare muri (sipario che rabbrivida e sgomenta) è forse tempio aperto che ci salva o forse è già presagio: rinasceremo in terre amiche, oppure torneremo all'abbraccio di conchiglie, ai serti insanguinati di corallo (azzurro e vasto come il cielo è il mare urna segreta, scrigno di memorie solo un poco più buio e più profondo...). […] Vicaretti è laureato in filosofia. Dei cinque autori antologizzati è l'unico che declina l'anno di nascita: 1944. Anno più anno meno, siamo coetanei. Appartiene forse ai nati sotto la cappa dei bombardamenti questo sussulto, primario e impaurito, dei geni orientati alla percezione di un mondo che non sarà mai placidamente posseduto. La parola di Vicaretti è appunto esodo, dallo spazio attuale (angosciato) all'Altrove desiderato (ugualmente angosciante, perché sconosciuto). “Eppure ancora splende, ammaliatrice / la Terra irraggiungibile che chiama”. Il viaggiatore di formale eleganza classica compie in realtà un eterno esodo e ritorno, non ha mondo, né attuale, né Altrove. Nulla di più disperante, nulla di più autenticamente umano. Anna Vincitorio. “Raffinatezza descrittiva” è attribuzione esatta, e tuttavia riduttiva. La Vincitorio porta alle estreme conseguenze la fenomenologia della spazio, collocato sempre “altrove” rispetto allo spazio dell'attualità vissuta. Di più, lo spazio “altrove” ha sempre connotazioni sanguigne: “Ciondola il rododendro in ciuffi di sangue”. Altrove, la natura è direttamente definita “insanguinata”. Dolore e sangue sono appartenenza esplicita dell'Altrove, quando invece indefiniti sono i personaggi che nell'Altrove patiscono, o sanguinano. Una poesia (Bambina) evoca una dolce creatura collocata in una specie di Ade bianco, battuto da brezze poco rassicuranti:
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Lo spazio di Anna è sempre altrove. Non per niente la nostra autrice è sempre in viaggio (Sognando Estoril; Il dopo Estoril); preferibilmente per mare, per eccellenza simbologia di vita, e di morte. Nata a Napoli ed ora stanziale a Firenze, Anna è laureata in Giurisprudenza. La conosco, è donna che possiamo torturare ma nulla dirà che sia direttamente riferito a sé. Una matrona classica che precorre i tempi disputando di legge nel Foro, di filosofia e vita nell'Areopago. Soltanto, la sua vita è sempre altrove rispetto al luogo dove vive e scrive. Avendo il pudore, letterario e umano, di definire un altrove sempre terrestre e giammai metafisico. E però, in un libro recente, “altrove” è una linda casa di riposo per anziani. Quelli sì, in attesa consapevole di un “altrove” metafisico: ovvero, migliori di noi, perché più vicini alla Verità.
Delirio di passeri sotto il tetto della stazioncina tra il vermiglio dei gerani E' pur sempre mare prima ancora di scorgerlo anche se due binari lo separano Ieri, un afrore di alghe, un castello e il tuo sorriso di bambina Oggi, nella rada a forma di conca, pali gialli impettiti nella prigione dei ciottoli e l'acqua ferma, nel suo nitore, imprigiona il ricordo tra stille di sole Riaffiorano i tuoi occhi di bambina ignari ancora, nella brezza estiva, di conchiglie perdute, di barche senza nocchiero e di presenze già remote Ciondola il rododendro in ciuffi di sangue
Le cinque voci racchiuse in antologia illustrano una vasta gamma dei rapporti, cognitivi/affettivi, che l'essere umano intrattiene con la categoria dello spazio. Angelo Andreotti spalanca i sensi e respira la realtà attuale, commosso e grato di esistere in questo migliore di tutti i mondi possibili. Sandro Angelucci irrompe nello spazio attuale per correggerlo, definendo uno spazio antropologico arricchito dalla fede dell'uomo nell'uomo. Sheiba Cantarano conduce una spericolata identificazione dello spazio/natura con la potenza generatrice dell'essere femminile. Umberto Vicaretti definisce lo spazio vissuto come perenne tragitto, andata e ritorno, fra un mondo attuale e un Altrove ugualmente non posseduti. Anna Vincitorio, a conclusione, colloca la propria realtà affettiva decisamente in uno spazio che è “altrove”, sempre terrestre quanto a locazione, sempre metafisico quanto a potenziale e irrinunciabile dimensione futura. Eugenio Rebecchi chiosa: ...la poesia resta un'arte di cui non poter fare a meno se si considera la vita come elevazione dello spirito, necessario approdo verso l'infinito. Si tratta di un postulato. Per il quale, ammettiamo, è lecito nutrire una certa diffidenza. Ho letto i cinque poeti antologizzati: dalla
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sensorialità forse pagana e però mistica di Andreotti alla bambina di Anna Vincitorio che sorride, e forse chiama, dalle brezze odorose del suo Empireo. Itinerarium mentis, dal qui ed ora contingente all'Altrove. Per una volta, devo convenire con me stesso: Eugenio Rebecchi ha ragione. Rossano Onano
LO SPECCHIO DELLA MENTE
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non si afferra per lacerarlo. Le realtà [dilaniatrici ti fanno pieghevole e forte con un martellare continuo sulle membra. Queste coperte di ferro come macchina corrono. Precisione e [pazienza, nel momento giusto tutto fatto con geometrici calcoli. Il corpo è di pietra, le malattie vecchie non si [ ricordano, le corde grosse divorano i fili sottili. Leonardo Selvaggi Torino
La realtà che porta all’evanescenza, toglie i [ contatti, scioglie la concretezza, vanifica [ l’ambientazione. Sperso in smarrimenti, forme smantellate, [inconsistenti. La realtà che taglia le mani, gli arti legati. Va tutto in fiamme, assilli ed esacerbazioni: non sono servite le virtù pronte a fare. La rabbia di chi non vuole credere. Osservo un insetto minuscolo, bianco, pure il [ colore non lo fa vedere, largo un millimetro, prende [ il mondo dentro. Gli metto il dito contro, gira attorno forsennato, vuole andare avanti, le antenne dicono che la [ via è sbarrata. Le lacrime per le strade aprono gli argini, senti che si allarga ai piedi l’orizzonte. La mente diventa uno specchio, riflette e sa leggere in fondo, prende altri spazi, ha penetrazioni che trapassano da una parte [ all’altra. La realtà che ti mette contro il muro e ti serra in un recinto. Il rifugio del mondo [ sognato ha messo entro fasce di luce la felicità che non si è vista a due passi di fronte. Lo spirito innalza e porta lontano, farà cadere in pezzi il fato mostruoso. Le forze interiori si ribellano con slanci di vita che ti librano furiosi dal presente infido. Il sogno trasporta in atmosfere sublimate. Il vero è di materiale [ corruttibile, lo spirito non si frantuma, ha una sostanza [invisibile,
DI SERA E' la voce del silenzio quella che ascolto di sera, appena la coltre di buio si posa sul borgo, sui monti, sui campi, nella valle. Occhieggia tremula la falce di luna in alto, all'occaso; sonnecchia ad oriente l'unica stella della volta, scintillano le luci elettriche delle contrade, delle strade, del campanile, e le finestre di alcune case mostrano l'interno illuminato. Tutto tace. Che pace! La vita scorre senza emettere suono. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo al Volturno, IS
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 12/9/2017 Nello spot dell’Aceto Balsamico Modena, la signora si rivolge al “Bassotto più lungo del mondo”: “Ugo, vieni dalla mamma!” Alleluia! Alleluia! Lei, insomma, ha partorito quel cane! Quand’è che la smettiamo d’ acquistare prodotti che diffondono bestialità e - diciamolo pure - cattivo gusto? Domenico Defelice
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SPORT E CREDULITÀ POPOLARE Osservazioni sull’occorrenza del motivo sportivo nella narrativa di
Giovanni Arpino di Massimiliano Pecora
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ELLA sezione centrale di Figures III Gérard Genette solleva un importante quesito: che ruolo assume, nell’ enunciazione narrativa, la digressione? Risale all’Ars poetica oraziana la sanzione delle divagazioni discorsive, ancora oggi deprecate da molti critici quali futili espedienti d’autore per coprire le insufficienze argomentative del racconto. Tuttavia, la produzione contemporanea, estendendo il concetto di letterarietà anche a forme di non-fiction novel come la cronaca sportiva, ha ingenerato una sorta di derelizione dello statuto letterario a vantaggio della scelta del soggetto rappresentato. L’ infondatezza di questo orientamento può essere ben dimostrata considerando, anche solo per cenni, alcuni excerpta della presunta ‘letteratura sportiva’ di Giovanni Arpino. Ben lontano dal qualificarsi come un giornalista, l’artista piemontese è in primis un romanziere e un poeta che ha esaminato e praticato lo sport, adoperandolo come un crivello metodologico con cui rastremare i limiti e le storture della società italiana del secondo dopoguerra. Nella giacitura tematica della sua narrativa, Arpino non accondiscende alla parenesi dell’evento agonistico, al pari di quanto fa sia nella riscrittura delle fiabe e delle favole della tradizione europea sia nell’ impa-
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ginazione dei suoi capolavori, i quali, fin dalle soluzioni ossimoriche dei titoli, – si pensi, per esempio, a Il buio e il miele, L’ombra delle colline e Randagio è l’eroe – esplicitano l’opposizione tra la severa moralità di alcuni uomini e i particolarismi egoistici dei più. Nell’articolo del 1979 che, per «Il Giornale», apre la rubrica Ritratti, lo scrittore rileva che il nostro paese ha perduto il «tessuto umano» a favore delle facili e alienanti ambizioni capitalistiche della società. Fedele al modello narrativo del realismo flaubertiano, Arpino, a metà degli anni Sessanta, aveva già rafforzato la convinzione circa l’esistenza di un ‘romanzo-favola’ in cui il discorso narrativo attendesse a una precipua funzione: tradurre i simboli più segreti e riposti dell’agire umano. Ebbene, nella descrizione delle catabasi etiche del cittadino italiano che ruolo assume lo sport? Per comprenderlo, consideriamo una particolare coincidenza. Tra il 1975 e il 1977 Arpino ha definito i caratteri emblematici della sua produzione letteraria. Qualificati attraverso accurate etopee e devoti al culto della singolarità, i suoi personaggi si sentono vituperati dal monotono grigiore e dalla piattezza morale del mondo piccolo-borghese. Mentre Saverio Piumatti, il protagonista di Primo quarto di luna (1976), decide la via dell’ isolamento trasformandosi in un ‘uomo di fumo’ – siamo, però, ben lontani dalle palazzeschiane irriverenze del Codice di Perelà! –, Arp, il giornalista di Azzurro tenebra (1977), compie un atto di déréglementation, una solitaria abiura nei confronti dello sport. Perseguendo tale orientamento critico, affidato all’elzeviro Calcio, gioco, passione della «Stampa» del 3 ottobre del 1969, l’analisi arpiniana si trasforma in un chiaro atto di accusa con Lo sport nella società di massa (1982). In realtà, questo retroterra ideologico è in nuce a partire dai lavori degli anni Sessanta: scrivendo di sport, Arpino ha da sempre costruito dei divertissement ironici orchestrati sulla frizione tra la mitografia degli atleti e la povertà morale dei tifosi. A dimostrazione di ciò constatiamo che tra le varie occorrenze in cui, nell’
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opus arpiniano, compare la figura di Giovanni Raicevich, il grande lottatore italiano non è soltanto un emblema culturale, ma anche il vessillifero di una simbologia letteraria e patriottarda di cui è vittima lo stesso scrittore ai tempi della sua giovane militanza nella squadra di lotta piacentina. Definito il «re della forza», Raicevich dominò in campo mondiale dal 1900 al 1930; fu volontario in guerra, decorato, attore, acrobata, produttore cinematografico, commissario tecnico della nazionale dal 1932 al 1943. Per lui e per la Federazione atletica italiana d’Annunzio coniò quattro acrostici latini. Tuttavia, nelle parole di Arpino, questa figura assume una valenza ben più complessa, come si evince dalla lettura di Raicevich, il racconto pubblicato postumo e ospitato in Storia nostra, il primo volume dell’opera omnia dello scrittore piemontese. L’intitolazione eponima, travestendo la prosa con le vestigia del tributo alla mitografia del personaggio, è ben lontana dal qualificare il breve scritto come un elogio del vitalismo epico-sportivo che caratterizza la cifra degli esordi narrativi di Arpino. Aggiungiamo che L’ombra delle colline contiene un breve riferimento al grande lottatore. Il romanzo del 1964 costituisce una sorta di redde rationem dell’esperienza degli italiani che vivono la profonda delusione successiva al clima di attesa e di utopiche speranze sorto all’indomani della seconda guerra mondiale. Nel complesso reticolo delle anisocronie che impaginano L’ombra delle colline si profilano le vicende di Stefano, l’uomo desideroso di prendere il suo posto nella Storia, e del padre, il colonnello Illuminati, vittima della fedeltà a un sistema di valori soggiogato dalle logiche della politica di stato. È in questo andirivieni tra passato e futuro che si staglia, in un momento particolare del romanzo, la figura di Giovanni Raicevich. Sappiamo che a Piacenza Arpino praticava la lotta nella stessa categoria del campione italiano. Questi, in qualità di commissario tecnico della nazionale, ritornò nella città emiliana nel 1943 per assistere agli incontri dei dilettanti. E gli anni che vanno dal 1943
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al 1945 costituiscono il primo tempo della storia del romanzo. La coincidenza temporale, pertanto, rende cogente la sovrapposizione del breve racconto Raicevich all’interno dell’Ombra delle colline, legittimando la continuità della posizione ideologica arpiniana sia nei confronti della letteratura sia nei confronti dello sport. Al colonnello Illuminati che, nel romanzo del ’64, considera le competizioni di lotta come distrazioni dalla tragedia dell’ imminente guerra civile, si oppone l’orgogliosa combattività dell’ anonimo protagonista del racconto, i cui entusiasmi, però, sono spenti repentinamente. Il giovane atleta di Raicevich, dopo aver speso coraggio e abnegazione per sostenere l’ esibizione di fronte al proprio idolo, apprende che il grande lottatore non ha assistito all’ incontro. All’apprendista non resta che ritenersi un novizio, un seguace della disciplina sportiva da perseguire senza l’ambizione della gloria mondana. Questa professione di umiltà, che richiama il monito rivolto ai lettori del saggio Lo sport nella società di massa, produce un’ importante domanda: dove risiede, per Arpino, la consistenza del mito sportivo? Le aspirazioni di una comunità o di un’epoca, per citare il protagonista di L’ombra delle colline, hanno bisogno di simboli, ma non di modelli estranei alla dura esperienza della vita. Del resto, considerando quanto lo scrittore conoscesse profondamente la bibliografia di Roland Barthes, non deve stupire che sia la conclusione di Raicevich sia il malinconico epilogo del romanzo del 1964 ripropongano in termini narrativi alcune delle analisi semiotiche di Miti d’oggi: nel racconto, il figlio, allo scopo di ottenere l’approvazione materna, mente e descrive la soddisfazione del campione alla vista dell’incontro; nel romanzo, Stefano, evitando un orgoglioso e infecondo solipsismo, nutre la saggia scepsi di colui che, per dirla con Detti e contraddetti di Karl Kraus, «sa e non si fa rovinare il gioco da ciò che sa, se una volta sbircia di là dalla propria spalla». Così, polarizzando il discorso narrativo intorno alla rappresentazione metaforica della
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competizione agonistica, Arpino può ben dissimulare la sua amarezza verso quanti non sanno sopportare quella precisa e onerosa dirittura morale che, nello sport come nella quotidianità, allontana le velleitarie ed effimere ambizioni proposte dalla cultura borghese del mondo contemporaneo. Massimiliano Pecora
LA MIA CASA DI RAGAZZO A LOANO (SAVONA) La mia casa sul precipizio del cielo fra nuvole bianche e stelle lentissimamente naviga colma di sogni e di attese. Incomincio a salire fra nuvole e luci. Laggiù v'è uno spasimo muto di rami ma qui la bellezza che toglie il respiro. E se, andando, incontrassi Dio ? Improvvisa, una motoretta sparacchia in corsa, guida una donna giovane e bella, coscione al vento, e il rombo si irradia nella campagna. Ricresce ritorna riprende a svanire. Luigi De Rosa (Rapallo, Genova)
LA PIOGGIA E LA SUA MUSICA Sento la musica della pioggia che mi accarezza i timpani e mi fa vibrare il cuore il suo concerto che con tanta gioia ascolto. Flauto, violino, corno, tromba, arpa, sassofono, clarino, batteria, un concerto speciale colmo d’allegria! Che dolce emozione, che mi fa battere forte il cuore, un concerto creato dal nostro Redentore
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per lavare tutto il marciume che la siccità dona all’umanità. Il profumo della pioggia mi sazia e mi sostiene, apro le finestre e il dolce suo odore mi colma di felicità il cuore. Corro tra la pioggia cantando, mi bagna e mi solletica e sorridendo allegramente mi tuffo in un radioso orizzonte, dove la pioggia proietta mille colori di un arcobaleno che splende e illumina ogni centimetro del nostro meraviglioso firmamento! 28 – 7 – 2017 Cav. Giovanna Li Volti Guzzardi Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori (A.L.I.A.S.), Avondale Heights, Australia
OLTRE L’AZZURRO Mio mondo interiore, universo che tutto comprende l'intero, immenso universo nel quale m'aggiro, sola e indifferente, tra la folla dei miei simili, sei tu il mio rifugio costante, caldo accogliente, discreto, la mia dimora tutta mia a chiunque inaccessibile! In te depongo i miei pensieri, viaggio e lotto con essi; in te rido piango mi lamento, sogno, programmo il mio tempo; in te incontro la Musa, creo poesia, vivo il mio momento magico (il più bello di mia vita), gioisco m'appago, mi sento felice, mi libero dalle scorie terrene e riesco a volare nell'alto dei cieli, a toccare i confini dell'Ignoto, a tuffarmi nell'enigmatico, illimitato Infinito. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo al Volturno, IS
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Rosalba Maletta DER SANDMANN DI E.T.A. HOFFMANN Per una lettura psicoanalitica di Ilia Pedrina
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I mancano parti per cesellare meglio l'insieme, ma l'efficacia della lettura di questo testo non può essere messa sotto silenzio, in attesa: va subito reso noto l'approccio psicoanalitico che Rosalba Maletta ha concretamente dettagliato e realizzato. Der Sandmann: racconto fantastico per lettori adulti del secolo a venire? Confidenza autobiografica in mascheramento? Viaggio iniziatico alla scoperta del fuoco della vita attraverso la mistica morte del sé nel fuoco stesso e nel vuoto? Esplorazione delle possibilità creative di una lingua letteraria, il tedesco, che si avvia a grandi passi verso evoluzioni epocali, per indurre sonorità da dilatare, oltre le regole del fare scrittura e scrittura narrativa? Forse, in profondità, questo testo è ciascuna di queste ipotesi e tutte insieme nello stesso tempo, tese in vibrato fermento a far entrare il lettore in una fascinazione da spaesamento. Ernst Theodor Amadeus Hoffmann (Könisberg 1776 - Berlino 1822) è scrittore, musicista, disegnatore che appartiene al suo tempo ed alla sua terra ma, attraverso i mezzi che la sua mente e le sue mani scelgono, oltre alle vicende della vita e della famiglia, si apre una strada maestra per entrare a pieno titolo a respirare anche nei secoli successivi. Grande dottrina appartiene al suo mondo interiore, dagli studi come giurista alle notevoli capacità tecniche ed espressive legate alla composizione musicale ed alla direzione d'orchestre e cori e poi ancora la conoscenza letteraria della sua lingua madre, che lo spinge a elaborare ed a produrre frutti importanti. Da tale grande dottrina talora verrà sommerso e perderà i tratti della serenità esistenziale. Per le opere letterarie sceglie il filone narra-
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tivo delle storie fantastiche tratte da vicende autobiografiche mescolate con temi grotteschi, cupi, irrigiditi tra pochissime variazioni del grigio e del nero fosco e notturno, quale si addice al trionfo dell'irrazionale nel periodo del Romanticismo Tedesco e che gli appartiene appieno. Der Sandmann risale al 1816 ed è il primo dei racconti inseriti nella raccolta Die Nachtstücke, pubblicata l'anno dopo: da questo passo alle oltre 240 pagine dell'opera interpretativa di Rosalba Maletta ci sono duecento anni di storia dell'Europa e del mondo e proprio per questo la sua avventura va condivisa, perché porta testimonianza di una scelta rigorosa, appassionata, illuminante l'immaginario umano d'ogni tempo e le sue risonanze nella cultura e nella vita. La trama del racconto è assai complessa ed il protagonista, giovane studente universitario, Nathanael, ha dentro e fuori di sé mondi del fantastico distorto e disturbante che si incistano nel reale. È innamorato di Clara ed il fratello di lei, Lothar, è il primo destinatario delle LETTERE, con le quali si apre il racconto ed attraverso cui, con il solo medium del lettore, viene via via a costruire il suo mondo interiore infantile: è dal mondo familiare che emerge la figura, il personaggio stonato e disgustoso di Coppelius, contro cui non sarà mai possibile provocare distacco interiore affinché ci sia crescita e crescita in libertà. Strumenti artificiali come un binocolo o uno specchio possono aprire voragini di evoluzione del narrato e portare il protagonista, lentamente, alla de-generazione dell'approccio alla realtà. L'Altro da sé, al femminile, è Olimpia, un automathon, una bellezza meccanica e perturbante che attira magneticamente fino all'abisso del vuoto, nel quale Nathanael cerca fondo e morte. L'intreccio è intenso, lo stile è incredibilmente coinvolgente, la lettura psicoanalitica portata avanti riserva panorami di investigazione assolutamente coerenti e circostanziati, attraverso riferimenti decisi e controllabili. Rosalba Maletta divide questo lavoro in due parti: PARTE I: Premessa metodologica
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(L'interprete e il suo autore; Note sul processo creativo; Valutazione dell'opera e godimento estetico); Come una introduzione -, S. Freud, 'Das Unheimliche' (Lo Unheimliches di Freud; Al cuore delloo Un-heim-liches). PARTE II: Der Sandmann. Prima Sezione L'Io narrante. Le lettere: Nathanael a LotharI-; Ritorno al presente - Il tempo della ripetizione; Clara a Nathanael; Nathanael a Lothar (II); Il corpo che parla; Le astuzie del narratore; Damit klarer werde...; Clara. Seconda Sezione - L'Io narrato. I Sottosezione: Primo ritorno a casa del protagonista; Il 'Gedicht': a) Atto primo - L'ispirazione; b) Atto Secondo L'elaborazione/insanizzazione, Il procedimento creativo di Nathanael e quello del narratore; c) Atto terzo - La frustrazione. II Sottosezione: Ritorno a G. - Olimpia; Le astuzie del revenant; Olimpia 'fort!'; Olimpia 'da!'-La festa in casa di Spalanzani, Esibizionistica esibizione di Olimpia in società; I geroglifici di Olimpia e gli scotomi di Nathanael; Laborszene -Atto secondo; 'Ehe ich, güstiger Leser! Dir zu erzählen fortfahre'-Nel mondo delle dòxai. III Sottosezione: Secondo ritorno a casa del protagonista; Ultimo atto – La 'Turmszene'; L' 'oggetto di prospettiva' nella creazione artistica; Lo 'häusliches Glück'. Considerazioni finali – Per un contributo alla riflessione sul 'LAVORO DEL NEGATIVO'. Ho approcciato quest'opera disordinatamente, rimanendone sempre più coinvolta ed ancora tanta strada mi rimane da fare: ho capito però che il risultato complessivo è come un materiale da portare sempre in mente, per le attente osservazioni critiche nella lettura psicoanalitica del testo e per i continui rimandi esplicativi ad autori come E. Funari, S. Freud, J. Lacan, D. Anzieu, M. Mead, D. W. Winnicot, H. T. Lehman, N. Nicolaïdis, C. G. Maassen, C. Magris, M. Thalmann, W. Segebrecht, S. Agosti, U. Hohoff, A. Green, J. Starobinski, F. Cercignani e tantissimi altri, perché i testi inseriti in Bibliografia sono addirittura 831 circa e questa sezione è preceduta da: 'Dizionari e lessici consultati', 'Opere di E.T.A. Hoffmann', 'Traduzioni' - è in questa sezione che viene indicata l'opera 'L'uomo
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della sabbia e altri racconti', trad. di E. Pocar, Rizzoli, Milano 1950 e l'impegno di Einaudi nel1969 di dare alle stampe 'Romanzi e Racconti' a cura di C. Pinelli, pref. di Claudio Magris, trad. di C. Pinelli, A. Spaini, G. Vigolo -, 'Documenti di e su E.T.A. Hoffmann', 'Documenti e testimonianze su Hoffmann da parte dei contemporanei', 'Pubblicazioni periodiche sulla vita e sull'opera di E.T.A. Hoffmann', 'Repertori bibliografici consultati'. L'accuratezza portata avanti nella preparazione di quest'opera esegetica ed introspettiva dà la garanzia della profonda credibilità nelle osservazioni e nelle considerazioni trasversali messe a disposizione del lettore. Due gli esempi che voglio portare in campo: il primo è relativo all'atto dello scrivere testi: “Se l'atto di scrittura è trasgressivo, è macchiare con l' inchiostro il candore immacolato, incontaminato, incorrotto del corpo materno, attraverso lo Er-zähl-en, il cunto, esso implica anche il riconoscimento della legge che presiede all' ordine temporale e causale, nel momento stesso in cui la si infrange... La scoperta freudiana acquista tutta la sua pregnanza nel tragitto che va dal corpo e dalla scarica motoria alla capacità di pensare il corpo. Allora scrivere, tanto per l'autore quanto per l'interprete, è un modo di rappresentarsi il soma come pure di pensare, o meglio, di mentalizzare il materno. È giocare con il corpo della madre (R. Barthes)... Tale la dimensione privata, intima, un-heim-lich/heim-lich della scrittura, non garantita, come ogni viaggio nelle tenebre verso l'indistinto e il medesimo. È, in fondo, proprio la scoperta di un'affinità a farci amare uno scrittore a prima vista e certe letture conoscono i palpiti dei primi amori, dove la trasgressione per il diverso copre e camuffa il richiamo dell'uguale... Accanto alla Einfühlung, al vissuto empatico, l'interprete dedicherà debita attenzione ai sistemi culturologici, al medium nella sua dimensione paradigmatica e sintagmatica...” (R. Maletta, Premessa Metodologica, op. cit. pag. 13). Il secondo momento che dedico ad un approccio d'avventura e di scoperta è quello dato dall'Autrice alla Wirchlichkeit, il principio
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di realtà alla quale lo scrittore deve in qualche modo tener testa e fede: “... L'opera d'arte si presenta tuttavia non come monade, bensì come 'oggetto transnarcisistico' rivolto a un destinatario tanto omo- quanto eteroevocompagno immaginario, Doppio dell'autore: 'Hypocrite lecteur, -mon semblable-, -mon frère!' nella dimensione più propriamente prospezionale, connaturata alla valenza erratica, extra-vagante del desiderio. Quest'ultima risulta peraltro strettamente embricata con il mondo esterno, con la Wirk-lich-keit intesa come realtà pratico-operativa nella quale e con la quale il soggetto dell'atto creativo si trova ad agire e ad inter-agire. È qui in gioco la ricerca di uno sguardo altro, in grado di tagliare il corpo a corpo del creatore con la propria creatura, cui si accompagna un recupero della relazione oggettuale, dove, con la presa in carico della Wirklichkeit, si spezza il circolo vizioso dell'oggetto autistico. Tramite detto ritiro narcisistico, che è stato assimilato alla epoché, l'artista esprime la volontà di rompere, di penetrare la crosta della realtà, per ritornare al fluido nocciolo infuocato della creazione, di cui parla Musil: tentativo di cogliere l'oggetto in prae-sentia, di farsi portare dall'esperienza fino a lasciarsene sommergere, processo nel corso del quale l'Io può smarrirsi...” (R. Maletta, ibid. pp. 18-19). Rosalba Maletta apre allora il lettore a fusioni con il testo che con-fondono, trascinando. Mi sono lasciata cogliere in pieno dalle riflessioni che seguono e che ho elaborato nel vortice dell'autonomia. Freud legge Hoffmann e se ne lascia attraversare, scrivendone una sezione nell'opera Hemmung, Symptom und Angst, filtra i principi costitutivi dell'Un-Heim-liche, ancora dai contorni sfumati e se ne appropria lavorando su se stesso e sul riflesso-complesso del corpo della Madre, che gli appartiene dentro in modo ineliminabile, perché egli vorrebbe essere anche femmina e possedere quella invisibile canalizzazione della realtà, che è l'antro oscuro fonte del piacere. Sgomento, incatenando il proprio immaginario al testo, Freud si lascia attraversare da questo Autore e dalla sua scrit-
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tura e se partecipa appieno della perturbante efficacia semantica del suo stile, nel contempo avvia una ricerca di interpretazione, sacra e scritturale appunto: proprio a questa sponda lui vuole pervenire, perseguendo con insistenza il raggiungimento di una sicurezza che ancora non tiene in pugno, quasi con un anelito a costruire verità e solo verità. Freud, che ha perso la strada in uno spaesamento tutto magneticamente attratto dal vuoto e dalla figura femminile nel mentale, si ri-trova circolarmente su se stesso, quasi autisticamente nella scrittura e chiede per sé questa procedura assumendo i panni istrionici del mago che dà catarsi, dello scienziato che dà sicurezza, del rabbi, profanissimo perché senza Torah. Quanta dolente umanità Rosalba Maletta ha rilevato nella scrittura di Freud su Hoffmann, quanti brividi che danno tristezza e si forzano la mente e la mano nel non lasciare traccia, ma permangono intensi in un progetto del sé che non ha libertà perché privo di mezzi per operare il ritorno in patria nell'utero materno questi gli sfiniti, spossanti confini dell'UnHeim-liche - e privo di fini, in quanto quella libertà, il cui bisogno dovrebbe essere senza confini, poggia invece sul basamento dell'indistinto che non agisce né separazione né individuazione. Questa condizione interiore risulta tesa fra la nostalgia del ritorno nell'indistinto ed il suo vuoto percepito come sofferenza: tutto ciò provoca alterazione della realtà percepita e mistificazione della matrice, con conseguente involuzione autistica della capacità di cogliere e gestire, nell'esistenza, l' élan vital. La scrittura allora diviene, passo dopo passo il nuovo originale percorso visibile disposto e sottoposto al giudizio, offerto nell'assegnazione del sé al mondo. La sezione che Rosalba Maletta elabora intorno alla categoria dell'Un-Heim-liche, per far entrare il lettore nel 'Der Sandmann' di Hoffmann, ha passaggi di pura, trasparente contestualizzazione ed il suo dettato avvince perché intrecciato consapevolmente all'originale (Hoffmann) e al suo interprete (Freud).
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Perché il tema del Padre possa mostrare sfumature luminose e delicate, riporto integralmente la dedica di Rosalba Maletta in apertura dell'opera: “Questo libro è per mio padre che non può più sedere accanto a me, ma è dentro di me, come le nostre infinibili passeggiate alla scoperta di una Milano costruita con le sue mani grandi e buone. Ogni parola, ogni pensiero, ogni rigo è per Mario-Occhidolci che tutto mi ha insegnato e ancora mi insegna, e con Anna e Maria rallegra l'esistenza interrotta che giorno dopo giorno compongo nell'attesa” Un richiamo a riposi e ad abbandoni in abbraccio, ad intese conoscitive sciolte dalla bellezza delle esperienze insieme, senza tempo e senza sosta, in questo istante che la scrittura frange in scintille, balenio di silenti richiami al divenire. Quest'opera magistrale lo conferma. Prima che scenda la notte, quando antiche sonorità ti arrivano da lontano, in un giorno che prende dentro tutti i giorni possibili, Rosalba Maletta mi trascrive questi versi di Shakespeare: Full fathom five thy father lies; Of his bones are coral made; Those are pearls that were his eyes: Nothing of him that doth fade But doth suffer a sea-change Into something rich and strange. Ilia Pedrina
per impazzire il vicino... Poi il pulsante della macchina del caffè pronta con acqua e grano sin dalla vigilia. Spingiamo il pulsante del microonda per scaldarci il pane, mangiamo e partiamo. Clicchiamo l’apri sportelli della macchina e clicchiamo per avviare il motore. Il telefono chiama e clicchiamo per rispondere. Perdiamo la chiamata, digitiamo i numeri fissati sullo schermo e parliamo con chi ha chiamato. Arriviamo in ufficio, clicchiamo per sconnettere il nostro portatile e clicchiamo per connettere il computer sul quale passiamo la giornata cliccando... Teresinka Pereira
Rosalba Maletta - DER SANDMANN DI E.T.A. HOFFMANN - Per una lettura psicoanalitica CUEM - 2003, Proprietà letteraria originaria dell'Università degli studi di Milano, Sezione di Germanistica del DI.LI.LE.FI
A tutti noi che ora lo piangiamo non resta che onorarlo nel ricordo, pregando che la Madre sua celeste conforti la sua mamma, che lontano da lui lo senta sempre a sé vicino nell’amor che dà vita nel ricordo.
VIVIAMO CLICCANDO! Svegliandoci spingiamo il pulsante della sveglia che sta
USA - Versione di Domenico Defelice
PER ANDREA VANNI mio caro nipote Quest’anno Maria Assunta andando in Cielo ha portato con sé, preso per mano, il mio nipote Andrea, ponendo fine alle sue estreme sofferenze in terra.
E sia così per Manola e per Daniela e i piccoletti che stan loro intorno. Mariagina Bonciani Milano Scritta in treno da Malaga a Ronda, il 16 agosto 2017
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LA POESIA DI DOMENICO DEFELICE HA UNA FUNZIONE DI PURIFICAZIONE E RIGENERAZIONE di Luigi De Rosa
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pagina 25 del suo bel Saggio sull'opera poetica di Defelice, (uscito per i tipi de Il Convivio Editore, direzione di Giuseppe Manitta) Claudia Trimarchi, che con lo stesso, ma in forma di tesi, si è laureata in Lettere – nel dicembre 2015 – all'Università di Roma-Tor Vergata (con l'esimio prof. Carmine Chiodo come Relatore), si legge: “ Accade che il Defelice giornalista, accorto osservatore del mondo contemporaneo, incontri il Defelice poeta, il quale non si ferma alla realtà visibile ma attraverso l'incantesimo dell'Arte, la trasfigura, evocando ciò che della realtà è interpretabile solo poeticamente: “A noi, che amiamo la poesia e ne facciamo pane di vita...ogni cosa ha un altro volto
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sconosciuto alla realtà di ogni giorno... anche una ruvida pietra, se sfiorata dal soffio di un animo arcano, può acquistare la bellezza del sogno...” Guardando il panorama dell'opera defeliciana dall'alto della Torre del Tempo Trascorso, ci accorgiamo che c'è un Defelice poeta di zucchero, poeta d'amore (dolce come il famoso Stil Novo) per la Donna e per la Natura, e c'è un Defelice poeta di assenzio e di spada che satireggia aspramente su personaggi e situazioni che offendono l'onestà e la giustizia; c'è un Defelice paladino dei buoni e degli onesti e c'è un Defelice guerriero implacabile, che lotta con la penna e con la propria vita concreta contro la corruzione e le mafie. In una fin troppo rapida sintesi si può indicare, nella vasta opera letteraria del Defelice (calabrese di Anoia, nel reggino) trapiantato dal 1964 a Roma e dal 1970 a Pomezia) una prima fase di ricerca, in cui i contenuti vengono espressi con forme che ancora risentono della grande poesia classica; seguita da un'ulteriore fase, che, ripudiando l'Ermetismo, si avvicina significativamente al Realismo Lirico di Aldo Capasso; per poi giungere infine, negli anni della maturità artistica, ad una forma più smagata e pensosa sul versante della poesia dei buoni sentimenti, e ad una poesia civile infiammata, di satira mista a parodia, o addirittura colpi di scherno, per quanto pietosi perché consapevoli della pochezza umana a fronte della maestà dell'eterno. Resta il fatto che la poesia di Domenico Defelice, vista e assaporata nella prospettiva di una vita spesa per la letteratura e le arti figurative, appare per quella che è, cioè la espressione, sincera e pura, di un poeta ed artista genuino ed autentico che si è fatto da sé tra mille sacrifici, aperto al contributo letterario di chiunque purché sia valido e in buona fede; lontano, comunque, da qualsiasi confraternita letteraria che sia delimitante e condizionante. Trovo bellissimi quei due “esergo” firmati da Defelice stesso sul carattere ardente della propria poesia della maturità artisticoletteraria:
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“Chi crede che nell'orto del poeta crescano erbe rare, fiori variopinti, alberi tropicali: chi crede che vi scorrano acque fresche e vi cantino uccelli, non conosce il poeta. Nell'orto del poeta crescono spine, fiori avvelenati e gli alberi proiettano ombre inquiete: nell'orto del poeta scorre il sangue della gente affamata e l'unica voce è l'urlo della rivolta.” “Ora i miei versi e la mia prosa bruciano. Nel mio orto non conto le nuvole e non ci sono tettoie. Il sole screpola i crani, nel mio orto, e i veleni d'intorno convergono impetuosi nella mia penna.” Defelice ha lavorato con perseveranza e tenacia per una vita intera, anche fondando e dirigendo, fin dal 1973, tra mille difficoltà, la rivista “Pomezia-Notizie”, efficace strumento riconosciuto di elaborazione e diffusione della cultura, forse “modesto” nella forma esteriore ma oltremodo prezioso e insostituibile nella sua funzione di valorizzazione della Letteratura e dell'Arte. E tutto ciò con l'umiltà e la consapevolezza dei poeti veramente grandi, senza assumere atteggiamenti tanto spocchiosi quanto fasulli. Egli ha messo la propria vena poetica e artistica al servizio di una missione civile e culturale sempre permeata di onestà e di aspirazione tenace alla giustizia (sostanziale, non formale). E c'è riuscito. Attraverso gli anni non gli sono mancati i riconoscimenti – anche da parte di critici di grande valore, non legati a carrozzoni fasulli al servizio di mode ed interessi formalmente letterari ma sostanzialmente centri di potere. Uno di questi riconoscimenti gli proviene dal prof. Carmine Chiodo, Docente all'Università di Roma-Tor Vergata, giustamente definito da Giuseppe Manitta, nella sua centrata Prefazione al volume della Trimarchi, “un critico che ha preferito sempre fare “ricerca” lungo territori più o meno noti della nostra letteratura, a partire dalle origini fino ai giorni nostri.” Nelle 132 pagine del suo agile ma nutrito
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volume, contenente, come detto, la propria tesi di laurea, Claudia Trimarchi ha sintetizzato, con abilità e sensibilità, l'Ortus (senza acca, nel senso latino di nascita, origini, vita) di Domenico Defelice. Ha individuato e lumeggiato i “Motivi lirici ricorrenti nella poesia defeliciana”, tra autobiografia ed universalismo. Ha illustrato con efficacia ed acume la “Questione meridionale” e la funzione della parola poetica “al servizio di un'urgenza sociale”. Infine, dentro l' Hortus, ha dedicato la conclusione del suo lavoro ai parallelismi tra l'opera poetica di Defelice e l'opera pittorica di Gazzetti, Scutellà e Mallai. Per lungo tempo, e con ardente passione, Defelice è “andato per quadri”, frequentando e studiando pittori i cui dipinti hanno avuto un'influenza non secondaria sulle sue poesie. L'opera si conclude con una utilissima Bibliografia dello scrittore e artista Defelice (Poesia, Prosa, Saggistica, Articoli) nonché con una Bibliografia su di lui, altrettanto utile, per conoscere quanto hanno scritto altri Autori sulle sue opere. Luigi De Rosa Claudia Trimarchi -La funzione catartica e rigeneratrice della poesia di Domenico Defelice – Il Convivio Editore – pagg. 133 – euro 13
Foto di pag. 26: La giovane Claudia Trimarchi - il giorno della laurea in Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea, nella facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma “Tor Vergata” - in posa con Domenico Defelice.
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 18/9/2017 Giro d’Italia 2017: prima tappa, Gerusalemme - Gerusalemme; seconda tappa, Haifa - Tel Aviv; terza tappa, Be’er Shava - Eilat! Alleluia! Alleluia! Siamo il Popolo più ridicolo del mondo e Bartali nel cuore degli Israeliani non c’entra, non giustifica le pulcinellate. Domenico Defelice
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L’ULTIMO ANNO DI LICEO AL “DUNI” di Leonardo Selvaggi
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I cercano N. Festa in biblioteca, le sue traduzioni e i saggi di cui avevo conoscenza. Per le strade di Matera volevo incontrarlo per avere spiegazioni sui dubbi che mi assillavano ogni volta che avevo versione in classe. Ero orgoglioso della sua fama di grande classicista ed umanista; lo vedevo come un compaesano, me lo sentivo dietro e sapevo dove aveva abitato, la strada che percorreva fino al Liceo. Matera mi era divenuta più famigliare, dopo i diversi anni trascorsi con la frequenza delle medie e del ginnasio. Ero rimasto solo, tanti studenti che conoscevo si erano iscritti in altri Licei, trovavano il “Duni” pesante e chiuso in un’atmosfera di rigore tradizionale. Ero all’inizio del terzo anno, mi sentivo sfibrato, convalescente da un paratifo che aveva avuto una guarigione stentata. All’infuori della malaria e delle infezioni intestinali si aveva poca esperienza, si andava avanti con molto empirismo. L’igiene ancora arretrata, l’acqua potabile si aveva con il contagocce; si andava per rifornirsi alla fontana di pietra nelle vicinanze del cimitero o al pozzo sulla rotabile. Io mi mettevo sulla spalla una grossa brocca di argilla, era la stessa di cui mi servivo quando di nascosto andavo a prendere i fichi nella vigna di mia nonna. Usavo tutte le furberie, andavo nelle ore della canicola. La terra arroventata. I fichi rigonfi, dalla pelle liscia
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di velluto, lasciavano la goccia di miele dopo una abbondante pioggia, erano densi di contenuto in piena maturazione. Mi sento stremato e mi pare proprio di non farcela, affossato nella calura dell’estate e sul guanciale sprofondato in uno stato di estrema solitudine. Un pomeriggio ho la sensazione che il peso del malessere si alleggerisca con un’abbondante emorragia dal naso, a fiotti di sangue si versa sopra le lenzuola. Può essere una benevola via d’uscita dalla malattia, proprio un percuotimento avverto alle tempie, deve essere una ripulita decisiva dell’infezione che mi ha tenuto febbricitante per due buone settimane. Nicola Festa non me lo tolgo dalla testa. Sento presente in lui irrorato dalle fiamme di entusiasmo e di felice serenità il calore muliebre di Hilda Montesi che mette sangue e forza fisica nelle pagine dei classici. La dolcezza dei contatti e la morbida, intercomunicante vicinanza della donna studiosa e amata collaboratrice fluiscono nei pensieri e nelle riflessioni, quasi la poesia sofoclea si ridesta. La luce degli occhi penetra nelle letture delle tragedie, la drammaticità delle scene si fa rappresentativa, le comparse con le voci altisonanti dei personaggi si chiariscono sotto lo sguardo. I moti sentimentali si accompagnano lunghe risonanze interiori ed escono esplodenti dando risalto e vivacità a tutto quello che si legge e si traduce. Il suono della sirena assordante teneva l’addome in sospensione angosciosa, l’ansia poi si diffondeva per tutta la persona creando dentro le ginocchia una incapacità di movimento. La porta del Liceo guardava con occhio burbero, sapeva se avevi studiato o se impreparato stavi con un vuoto dentro lacerante, pareva che da un minuto all’altro dovevano staccarsi l’intestino e tutti gli organi attorno. Il tratto del cielo che sovrastava l’orologio stava per chiudersi avvolgendoti con una cappa oscura addosso. I piedi quasi accavallati degli studenti si precipitavano per le scale, ammassati, sovrapposti, lo stato dell’ansia esorbitava da ogni parte del corpo, pareva perso il controllo fisico. L’ assiduità nello studio fa consumare, il viso illanguidito. Assonnato per le tante ore passate
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sui libri, a ripetere, ad approfondire le lezioni. Di notte si ha maggiore rendimento, quasi un filtro posto nella mente elimina ogni peso fisico. L’intelletto fa scorrere le idee, i concetti prendono la loro giusta formazione. Nascondo la lampada sotto le coperte, la padrona di casa mi assilla per il troppo consumo di luce. Sfrutto le prime luci dell’alba: mi rivedo, seduto sulle scale della cucina che arrivano sulla strada, il programma di filosofia svolto nei primi mesi. Ripasso i lirici greci, tenendo accanto il vocabolario che porta il nome di Ireneo Sanesi, tutto sgualcito, le pagine scucite, umide, impatinate si sono ingrossate, escono fuori dal dorso, ogni volta le debbo riassestare. La mia pazienza e la mia sopportazione per tutti i disagi e le scomodità che mi portano a stanchezze doppie. Non so se in tre anni di Liceo sono andato in bagno qualche volta, dovevo proprio sentirmi crepare. Come una pietra sul banco e tutto un sommovimento interno, sul viso di certo mi si legge la vita intricata, introversa, battagliata da pensieri che si scontrano. Avrò una specie di tempesta che non si arresta mai, desideri che ancora non hanno una loro delineazione, tra corpo e intelletto non ci deve essere proprio una separazione, li sento un tutt’uno, mi si muove fra la mente e le interiora un unico flusso. Il corpo dai primi anni si è mantenuto un involucro di ferro, i movimenti dei sentimenti, i fremiti di ogni tipo si sono tenuti sempre avvolti in fiammate erompenti, l’esuberanza incatenata mai un varco d’uscita ha trovato fluidificandosi a contatto con l’esterno. Mi sono mosso sorvolando la superficie, tutto sulle dita; il mondo mio, sorretto da particolari spinte interiori, immaginazione ed illusioni, tutto uno spazio di accensioni, pause meditative hanno tenuto in stati psicologici di continue fermentazioni, di attese, di consumazione e di ritorni con una circolarità senza soste. Sono stato come un tronco nodoso e storto, da raddrizzare continuamente, le avversità mi hanno dato giorni di contrasti. Insistente il ricordo delle vacanze passate al paese per due mesi in un
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caldo infernale ad impartire lezioni private dal mattino presto a tarda sera, avevo una resistenza indicibile. Gli alunni venivano a gruppi ed erano tanti. Attendevo una cartolina di risposta da Lucensea. Il mio compagno di classe me la teneva sorvegliata e mi informava puntualmente con lettere. Lui era pronto a dirmi tutto, se ne stava a casa e alcuni giorni in campagna per studiare filosofia sugli appunti miei che riempivano due quaderni. Potevano essere rielaborati per avere un testo vero e proprio scolastico. Oltre alle lezioni seguite, raccoglievano le mie riflessioni e arricchimenti dedotti da altri testi. La filosofia mi dava un nutrimento che pareva tutto fatto di contentezza rasserenatrice. I concetti si infoltivano e si allargavano, lievitati si impastavano in un amalgama compatto. Il mio Liceo è cresciuto nella vita semplice e in tanta parsimonia. Si era abituati al poco, al risparmio, tutto fatto a mano, al cibo ripetitivo. IL pane lo impastava mia madre e lo faceva cuocere al forno pubblico, se tutto andava bene si preparava la focaccia col pomodoro e l’origano: la meraviglia della settimana, croccante, bollente, rotonda, pareva essere una mano provvidenziale generosa. La fragranza fumigante che friggeva ancora riempiva la casa, pure le pareti erano contente; uscivano dall’umido sonnolento, aprivano gli occhi, avevano fame anche loro. In quegli anni si erano addestrate bene le papille gustative, avevano sapere pure le pietre. Tutto era buono per lo stomaco, non c’erano alimenti che non piacevano, anche le radici tagliate con gocce d’olio sopra. Chi viene da quegli anni di aridità vuole che le minestre facciano vedere chiaro quello che hanno dentro, i fagioli debbono mantenersi intatti, la verdura con le foglie e gli steli, colori e corteccia non debbono frantumarsi. Si è imparato che proprio il cibo semplice fa bene al corpo, quello che rimane in fondo al piatto è il più nutriente. Oggi si conoscono le cioccolate, le mamme te le mettono in bocca quasi con lussuria. Gli alimenti sono elaborati; tutti mescolati e frullati, paiono davvero escrementi di ogni colore, ributtanti allo sguardo. Si conoscevano piante selvatiche
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che rifocillavano con le fette di pane di grano duro. Era come prendere dalla natura per via diretta quello che la terra faceva crescere: elementi organici che si aggiungevano alle nostre cellule integrandole. Nell’arsura d’ agosto la luce dall’alto inonda tutto. Le asprezze, gli umori di letame, la convivenza tra uomini e animali eccitano le narici infiammate di idealizzazioni. Salgono dalla mente e si immergono in una specie di conflagrazione fra terra fumigante e aria ardente intrecci di sogni e fantasia, immaginazione e desideri. La solitudine densificata comprime le case spalancate. Il volto delicato lentigginoso fra le mani, lo sguardo che emana dolcezza fanno il tessuto fine di ornamento al canestro colmo di fiori raccolti, rosseggianti, dalla pelle morbida. L’ampio grembo candido sotto una veste leggera come brezza era stato in quell’estate l’apparizione delle meraviglie della vita, del fascino generoso e delle attrattive, della bellezza che prende e ci fascia in una benda di protezione. Felice trasporto in momenti di ebbrezza rimasti intatti senza che il tempo sia passato sopra. Tutto perle e purezza di sostanze incorruttibili in quell’angolo della casa che vive sospeso dentro l’incancellabile, eterna aerea memoria della giovinezza. La sete della bocca e delle crepe, un tuffarsi nelle sue parti che fluiscono come acque di un fiume: le membra si espandono con il respiro, hanno del salmastro e del sapido. La vedo di buon mattino in un arrivo furtivo attaccata allo stipite della porta di casa con la collana d’oro in regalo. Ha il terrore di mio padre cui sembra scandalosa la sua presenza. Per lui il sesso è una specie di demonio, bisogna fuggirlo e quando sei dominato nasconderlo. Il lavoro lo rende stressato, è tutto, deve essere fatto bene con onestà e tutta la passione. La severità e l’ onore importanti sopra ogni cosa. Voleva l’ ubbidienza immediata, ci manteneva in una restrizione di movimenti. La sera al suo ritorno tutti all’erta, non ammetteva la tranquillità, si doveva stare quasi assillati con il da fare che toccava. Alla fine del secondo Liceo sono
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andato a visitare Bari con un vicino di casa, avevo commesso un’infrazione disonorevole, non avevo chiesto il permesso a lui. Il mio era stato un atteggiamento passibile, degno della massima punizione, avevo superato la sua importanza di capo famiglia; anche davanti agli altri mi ero comportato da ribelle. Per lui contavano molto le belle figure nel vicinato, nessuno doveva sapere che c’era stata una scorrettezza tra padre e figli. Sono stato una giornata terrorizzato, lui furioso si era avventato contro con intenzioni di malmenarmi in un modo bestiale: sono scappato riparandomi nel sottoscala, confortandomi con i conigli e la capra, contenti di vedermi, avevo l’ impressione che anche loro sapessero, si avvicinavano con il muso alle gambe e sulle mani. Siamo ai primi di gennaio del ’51, nella corriera quella mattina fu disastrosa fra la malinconia del ritorno e sempre quell’ansia che ti preme dentro, mi sentivo venire meno, lo stomaco rigonfio, mi pareva ribollente, il viso freddo e giallo; avevo resistito tenendomi il malessere come fra le mani compresso; alla fine ho dei sussulti, l’intestino ha dei movimenti di contrazione, rimetto fuori tutto il contenuto dell’apparato digerente. Avevo mangiato in fretta, pezzi quasi interi vengono fuori in un flusso erompente, un arco dalla bocca di liquido con furia va a buttarsi nella tasca della giacca del mio vicino di sedile. Lui inconsapevole mette la mano dentro, il disgusto provato lo fa sobbalzare, come contagiato; nel momento in cui si alza in piedi di botto dà una spruzzata violenta sul vetro. Siamo scesi storditi, insudiciati, l’odore della nafta ci aveva messo per tutta la persona uno stato di sfinimento, strada facendo avevo ancora spasmi al ventre, avevo le gambe rotte. Quell’anno scolastico doveva darmi un giorno particolare. Si era ai compiti in classe del secondo trimestre. Alla consegna del tema di italiano su Dante esule presso Cangrande Della Scala il professore con una voce che mi pareva avesse dentro il sorriso e certo sadismo profetizzava che nel mio avvenire sarei stato un grande o niente. Il tema era stato svolto come un saggio, avevo visto con soffe-
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renza e partecipazione il dolore di Dante quando, pestandosi sulla sua gloria spirituale, umiliato, parla della durezza della sua vita. Salire le scale del Signore di Verona, elemosinare la sua ospitalità, un abbattimento, un affanno che distrugge. L’altezza morale e il genio di Dante messi nelle catene. Io misero, in panni laceri, infiammato mi sentivo da passione, da impulsi di entusiasmo, quasi trovavo un’apertura in me stesso di sostegno e di esperienze, di saggio equilibrio, sulla mia vita di adolescente patito. Ho negli anni tenute impresse quelle parole dette fra i banchi e i compagni di classe, mi creavano una coltre di incertezze, di sospensione nell’animo. Mi sembrava più una predizione di sfortune, i giorni futuri avrebbero continuato a riservarmi altri stenti, ostacoli, privazioni, amarezze cui ero abituato da sempre. Grande non sono stato, ma ho mantenuto una coerenza senza limiti, ho maturato in me una perseveranza ostinata. La grandezza l’ho avuta proprio nell’aver vissuto con i sentimenti e i principi morali le contraddizioni che la vita mi ha portato in circostanze di realtà straordinarie, nell’essere andato avanti con spirito di sopportazione, con estenuazione, con sublimità di pensieri inflessibili, sorretto dai miei ideali, dai miei modi di comportamento, dalle personali convinzioni. Il professore dall’esterno vedeva in me evidenziato un particolare stato d’animo che doveva avere degli sviluppi in un certo senso fuori della norma. Una mia psicologia, una sensibilità che invadeva un animo battagliato con potenzialità fermentanti, con un’ intelligenza contorta, sofferta che pareva venire fuori da spaccature con sforzi erompenti, da stretti passaggi, che mi rendeva un adolescente maltrattato per entro contrasti stridenti, tra emanazioni spirituali-intuitive, con un modo proprio di studiare e di selezionare i temi di trattazione, con una base di ristrettezza fisica fatta di fragilità, con un senso di inafferrabilità del reale che già allora mi teneva in uno stato di sospensione, di insoddisfazioni e di pessimismo, con segni di ribellione appena avvertibili. Con chiarezza leggo
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l’irrazionalità che pesa e prende nelle sue spire maledette gli istinti in ogni dove. La vita nella sua essenza e nei significati. Le invisibili profondità, le resistenze, le spine strette nelle mani di rabbia. Il professore leggeva sul viso la ricchezza umano-sentimentale che in potenza era in un germoglio stretto appena visibile, la forza di ferro e soprattutto la volontà che fa dimenticare i dolori, di avere un corpo, di avere fame. Tutto va bene senza vedere quando si tratta di se stesso. Per gli altri perseveranza dannata, una macchina con gli arti che si fanno tubi di ferro, che si piegano e si muovono in continuo moto. I miei giorni hanno avuto bisogno di requisiti sentimentali e di contrapposizione; hanno avuto asprezze e malvage situazioni che mi hanno fatto guardare tutto dall’alto, la superficie non è stata la mia base di movimento. Al di sopra dei particolari, di quegli aspetti dell’esistenza che sono giochi, leggerezze, anche se pungono, che sono niente di fronte agli uragani. Leonardo Selvaggi
TENDIMI LA MANO Teniamoci per mano, amore. Santiago è senza Cristo che resusciti morte parole, senza Giordano che redima. Tendimi la mano, amore. Mi capovolge la pioggia sull’asfalto tra fantasmi che mi somigliano. Sono come mendicante che all’angolo flautando narra tradimenti del duemila. Dammi le mani, amore, attesi oboli: sospiri d’aquilone, abbracci d’edera, secoli in istanti. Rocco Cambareri Da Azzurro veliero - Gruppo “Fuego”, Santiago del Cile, 1973.
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LEONELLO RABATTI RICORDA
PETER RUSSELL di Tito Cauchi
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A vita come poesia - Peter Russell e il Pratomagno, è opera curata da Leonello Rabatti che è stato amico molto vicino al poeta inglese (lontano parente del più noto filosofo Bertrand Russell). La pubblicazione è stata promossa dalla Associazione intitolata al Poeta, costituitasi all’indomani della sua dipartita (Bristol 1921 – San Giovanni di Valdarno, Arezzo 22 gennaio 2003), e con il patrocinio del Comune di Castelfranco Piandiscò (Arezzo) in cui Peter Russell ha vissuto gli ultimi venti anni della sua vita, affinché il lascito culturale del Poeta venga diffuso, come auspica in premessa il Vicesindaco Filippo Sottani. E noi ne facciamo da cassa di risonanza. Al suo interno abbiamo fotografie a colori del Poeta e di alcune copertine di sue opere, della casa dove ha abitato e del paesaggio naturale che la circonda (a pag. 13 appare la riproduzione della copertina di The Elegies of Quintilius edizione 1996, mi aspettavo di leggere Three Elegies). È divisa, di fatto, in due parti: la prima riguardante la figura sotto l’aspetto biografico e poetico, la seconda ripropone componimenti soprattutto della rac-
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colta poetica Pratomagno. Rabatti narra con viva partecipazione del percorso esistenziale di Russell, racconta di come si sono conosciuti, nel 1992, in uno di quegli incontri tra letterati in cui egli rimane affascinato dall’anziano intellettuale, percependo che quell’uomo aveva fatto della sua vita un’opera poetica, standogli vicino fino agli ultimi giorni della sua vita. Il Poeta distaccato dagli accademici e dai salotti autoreferenziali, conduce una vita di stenti insieme al figlio Peter George, in una casa diventata il suo eremo-eden stracolma di libri, ritagli di giornali e appunti (laboratorio letterario). Negli anni ’50 del secolo scorso, è “protagonista della scena letteraria inglese”, ha rapporti con i grandi del suo tempo, come per es. Thomas Stearns Eliot, si schiera a favore del-
la liberazione del poeta americano Ezra Pound rinchiuso per dissenso in manicomio. Allora traeva sostentamento economico dalla attività di libraio, traduzioni di opere e rielabora molti poeti da Dante a Shakespeare. Pubblica Three Elegies of Quintilius con l’ invenzione della elaborazione di frammenti, finendo per identificarsi con il personaggio latino errabondo ed irrequieto, dalla vita complessa. Si trasferisce a Berlino (19631965), mantenendosi insegnando e dando lezioni private. Successivamente si trasferisce a Venezia (1965-1980) e nel contempo riceve incarichi annuali quale “Writer in Residence” nelle università in Canada, negli Usa, in Iran. Infine si trasferisce a Pian di Scò (Arezzo, a metà del 1983), dopo brevi soste abita in un ex mulino de La Turbina, “scegliendo il tota-
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le isolamento”, immerso nelle letture e nelle traduzioni. Intessa rapporti personali ed epistolari con poeti e scrittori del panorama letterario italiano e internazionale, invitato a tenere conferenze, ricevendo indubbi riconoscimenti e in parte premi in denaro che gli permettono di sbarcare il lunario. Purtroppo nel 1990 un incendio in casa ha distrutto buona parte del suo archivio comprendendo libri, migliaia di foto e tutta la corrispondenza a partire dalla adolescenza e come se non bastasse due anni un’alluvione devasta ancora di più. Leonello Rabatti lo ricorda con il capo coperto da barba e capelli bianchi, dentro una nuvola di fumo di sigarette senza filtro (Alfa o Nazionali) e a portata di mano il telefono e il whisky, intento nelle sue elaborazioni. La sua produzione poetica è un vero fermento; pubblica nel 1994, Pratomagno scrivendovi: “La poesia deve essere una ri-creazione della vita, una cosa che comunichi il sentimento e l’essenza dell’esperienza meritevole di essere ricordato.” (pag. 17); e qualche anno più tardi pubblica, autoprodotti Sonetti Sparsi (1965-1997) e Il cuore mio selvaggio.
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Aveva ricevuto la candidatura al Premio Nobel, aveva soggiornato in Sicilia e sperato di stabilirsi nell’Isola; ma rientra nel 2000 e subisce un forte crollo fisico da costringerlo al ricovero a Castelfranco di Sopra e intanto il figlio Peter George viene ospitato in una casa-famiglia. Questo stato di prostrazione lo porta a meditare sulla morte e a scrivere Vivere la morte (2002). Impegnato sul fronte della cultura e dei diritti umani, viene definito dal Nostro “l’ultimo dei grandi moderni”. Per quel poco che posso aggiungere dico di avere avuto una breve corrispondenza epistolare. Tito Cauchi LEONELLO RABATTI (a cura), LA VITA COME POESIA PETER RUSSELL E IL PRATOMAGNO, Minimalia, Firenze 2016, Pagg. 64
CANZONE DELL’AZZURRO Ho un assillante bisogno di mangiare azzurro di bere a sazietà una voluttuosa azzurrità, di respirare aria cerulea, di ascoltare musica celestiale, un'indigestione di turchino, un'abbuffata di lapislazzuli, un volare a perdifiato nel celeste, uno sprofondare in un mare turchese, uno sguazzare nell'acquamarina un lavacro di blu in tutte le sue tonalità e sfumature da non poterne proprio più... Luigi De Rosa (Rapallo, Genova)
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DOCUFILM:
"VERSO CASA" Omaggio a Turi Vasile “Verso casa” è il viaggio di ritorno di Turi Vasile nella sua Sicilia. Primo omaggio filmico a otto anni dalla scomparsa del maestro, cercato e voluto da un giovane regista esordiente Fabrizio Sergi, 27 anni anch'egli siciliano, della provincia di Messina e dal maestro Nino Ucchino, pittore e scultore di fama internazionale. Un film realizzato grazie all’ interesse e al costante supporto della famiglia Vasile, in particolare dei figli Paolo, Luciana, Carla e dei nipoti Liza J. Butler e Francesco G. G. Zingales. Il "racconto" si articola in un incessante rapporto tra finzione e realtà: da una parte due professori buontemponi interpretati da Salvatore Coglitore e Salvatore Patanè che divengono appassionati ricercatori di tutta l'opera di Vasile si alternano alle numerose testimonianze di illustri personaggi che hanno realmente conosciuto e frequentato il maestro: Neri Parenti, Giovanni Antonucci,
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Carlo Lizzani (Intervista del 2007), Marcello Veneziani, Francesco Mercadante, Corrado Prisco, Giuseppe Rippa, Nino Ucchino, Carmelo Ucchino, Massimo Caminiti. “Verso casa” è una produzione indipendente del regista Sergi come tributo al poliedrico cineasta, anch’egli di origini messinesi, scomparso a Roma all’età di 87 anni dopo una lunga malattia, con alle spalle un cursus honorum ricco di successi e di grandi nomi. Fu tra l'altro produttore di centinaia di pellicole e lavorò con registi quali Federico Fellini, Luigi Zampa, Michelangelo Antonioni, Antonio Pietrangeli e diresse Totò nel film “Gambe d’Oro”. Un “siciliano errante” che ha vissuto la diaspora diventando uno dei personaggi più autorevoli nel panorama cinematografico del ‘900 svolgendo anche l’ attività di commediografo e drammaturgo mettendo in scena testi di Ugo Betti e Diego Fabbri, e fu anche un apprezzato scrittore e giornalista. “L’idea di realizzare un docufilm, dedicato al maestro Vasile che ho avuto la fortuna di conoscere negli ultimi anni della sua vita – spiega Fabrizio Sergi – è sempre stata presente tra i miei progetti. Oggi, grazie al supporto della famiglia Vasile e degli amici illustri che hanno voluto rendergli omaggio e grazie anche ai preziosi consigli del segretario generale di Taormina Arte, Ninni Panzera, che fin da subito ha accolto il progetto, è stato possibile realizzare questo lavoro. La selezione al 62° Taormina Film Fest, è stata per me motivo di grande orgoglio, in quanto vivo ed opero a pochi chilometri dalla perla dello Jonio e fin da bambino ho desiderato un giorno di potervi partecipare." Il set di "Verso Casa" è stato allestito per buona parte a Savoca “Città d’Arte”, borgo medievale incastonato nell'entroterra della riviera jonica messinese mentre la maggior parte delle testimonianze sono state raccolte a Roma. La colonna sonora è opera del maestro Aurelio Caliri e le interviste curate da Carmelo Ucchino, Manuela Tempesta e Pierpaolo Lo Giudice. Il docufilm sarà presentato il 10 novembre prossimo presso la Casa del Cinema di Roma, Villa Borghese, alle 17.30. Un evento coordinato
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da Luciana Vasile. IL REGISTA: Fabrizio Sergi, laureato Dams all’Università degli Studi di Messina, ha già collezionato diverse esperienze in ambito registico, grazie ad un costante apprendistato sul campo e grazie alla guida di importanti figure del settore, tra queste lo stesso Turi Vasile, conosciuto nell'ultima parte della vita. Inizia, nel 2008, appena diciottenne con un primo premio nazionale nell’ambito di un concorso cinematografico denominato “I come intercultura” promosso da MIUR e Agiscuola con il corto "Come L'Araba Fenice" (8') che lo proietta l’anno seguente all’ interno della giuria giovani Agiscuola al 66° Festival del Cinema di Venezia, da lì si dedica totalmente al cinema girando negli anni alcuni cortometraggi che annoverano tra gli altri gli attori: Antonio Catania, Orazio Stracuzzi e Daniele Perrone.
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quando stringi un bimbo al seno. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo al Volturno, IS
RICORDO DI UN CAOS IN PIAZZA SAN MARCO Sfolgora il sole nel bacino con ineffabili luminazioni. Tambureggianti orchestre sulla riva per mielosi cantanti antropomorfi. Più non riconosco il Palazzo Ducale e la sua loggia carica di storia. Piazza San Marco brulica di folla cosmopolita, avida, superficiale in un oceano di tavolini pronta a ingozzarsi di acqua gassata e canzonette in una fitta calzamaglia di pettegolezzi... Luigi De Rosa (Rapallo, Genova)
CANTANDO Quando l'animo mio è sereno, mi sveglio al mattino cantando, cantando una delle canzoni dei miei tempi, canzoni che non si dimenticano, che rimangono incise nel cuore, che conservano integra l'emozione d'"allora" e te la fanno ri-vivere così come "allora", con la stessa intensità, con nostalgia. <<Son tutte belle le mamme del mondo, quando un bambino si stringono al cuor...>> vado canticchiando stamane mentre giro per casa, mentre compio le faccende di sempre. Non smetto, non interrompo il dolce canto, ricomincio ogni volta daccapo, ripeto il motivo, le parole, come un disco inceppato che non s'arresta. Mi commuovo, una lacrima scorre sul viso. E' bello, mi piace ricordare, ri-provare la tenerezza, UNICA, che si prova, che tu provi
AMICA MIA VENEZIA Venezia autentica, amica mia, aiutami a capire qualcosa in più dell'esistenza, tu che ne fai ( ne hai sempre fatto) così incomparabile spettacolo di arte e decadenza. Luigi De Rosa (Rapallo, Genova)
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Il Racconto
VIAGGIO D’ESTATE di Anna Vincitorio Mi sono inerpicata tra castagni e pini nel sommesso pulsare dell’estate (I girasoli - Anna Vincitorio) N viaggio un po’ all’improvviso. Nello scorrere dei km scivolano le immagini di Paestum assieme a ricordi lontani che il vento non è riuscito a disperdere. Sono in una terra in cui colline assalite dal verde si intrecciano per poi degradare verso l’indaco di un mare che si delinea sornione e suadente. Il suo blu scorre veloce come le ruote dell’auto sull’asfalto. Il suo fascino ti prende proprio perché in lontananza si disperde il brusio e lo avverti come una parte di te che ti osserva e cattura. Percorro stradine isolate; un saliscendi verso vette fronzute. Silenzio interrotto dal frinire delle cicale. Paesini. Nessuno per strada. Forse il caldo. Amo il silenzio; mi è compagno il vibrare delle fronde. Sono in una strada con archi preparati per le luminarie di una festa paesana. Immagino i canti che seguono il baldacchino di Santa Maria Assunta. Ecco, al limitare della discesa, una chiesina in pietra del XIV secolo. Il nome del luogo: Celso. Una balconata davanti al portale con vasi di gerani. Il campanile robusto che svetta non più di tanto. Il portale è chiuso. Intorno aleggia una pace verde. Si placa l’inquietudine connaturata in me; recito adagio una preghiera, appagata dalla pace che il luogo sprigiona. Mi allontano e scendo verso il mare. Siamo vicini al tramonto e mi immergo nelle trasparenti acque di Pioppi... Prospicente il mare, un sentiero tra le canne e poi una scala orlata di gerani che s’inerpica su una collinetta. In basso frutti dell’orto, pomodorini. A profusione, oleandri, ulivi, chicas, fuxas. Effluvi di menta, alloro e mirto.
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Siamo a “Casa di Delia” Una scritta: - Il pane fatto in casa, l’ulivo fuori la porta di casa ed il pesce del mare davanti casa. Cosa si può volere di più? Ancel Keys1 La scritta m’intriga. Ansel Keys si stabilì a Pioppi negli anni ’60 e conobbe Delia, giovane contadina di Casal Velino che sposò un pescatore. Lei, giovanissima fu quasi adottata dalla coppia Keys lavorando come cuoca e collaboratrice domestica. Ho il menù tra le mani dove sono elencati i piatti del giorno con i nomi tipici del sud: zeppoline di alici, cavatielli con sugo di polpo, pesce bandiera con pomodorino, zucca grigliata, melanzana impaccata... Si respira un’aria di casa e mentre sorseggio un vino bianco gelato, arriva Delia. È anziana, con un vestito sull’azzurro; sorride e poi racconta la sua storia. Quella amicizia e affetto paterno di Ancel Keys, le intense giornate estive e quelle lunghe dell’inverno accanto al fuoco; quel reciproco amore per il cibo e la sua preparazione simile a un antico rituale. Accanto a lei il marito. Lo vedo al suo richiamo scendere a passi lenti le scale con la coppola in testa. Piccolo e un po’ traballante. Gli guardo le mani nodose che per anni hanno tirato su le reti dal mare. È un po’ come se il mirto, il rosmarino, la menta emanassero dai loro corpi. Ambedue, esseri semplici, festosi e timidi allo stesso tempo. Stringono le mie mani; mi guardano con tenera ammirazione; si raccontano. Poi Delia consiglia qualche piatto del menù. Mangio adagio e vorrei fermare il tempo in quella penombra soffusa nell’ intreccio dei colori di quel giardino silenzioso che degrada nell’ ombra. Il mare è assopito nella quiete di piccole onde e di fronte, in lontananza, le luci di Palinuro. È soltanto il tempo di una sera d’estate ma ha scatenato in me emozioni lontane legate a un concetto di famiglia ancestrale, alla sacralità dell’ospite, che si è perso. È tempo di andare via. Scendo le scale. Mi
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avvolge il buio ma nel cuore un senso di tepore un po’ malinconico. Pioppi è invece piena di luci, di gente festante. Voci. Volano palloncini davanti all’ albergo che ospitò Rossano Brazzi. Su una ceramica locale versi di Ungaretti scritti negli anni ’30. Grandi personaggi e semplici contadini, pescatori, accomunati da un senso di amore e di gratitudine per quella terra generosa che li ha accolti. La macchina riprende la sua corsa. Alle miei spalle, prima di svanire nel buio, la torre aragonese di Velia. Anna Vincitorio 30 luglio 2017 1 - Ancel Keys morto ultracentenario nel 2004. Fisiologo di Indianapolis (USA). A partire dagli anni ’60 studiò quel particolare regime dietetico divenuto noto come “dieta mediterranea” ora recepita dall’OMS che la raccomanda (è nota anche come “Piramidi alimentari”). Divise il suo tempo tra gli USA e Pioppi.
LA RICETTA DEL MEDICO SANTO di Antonio Visconte
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N ricco signore italo-americano era affetto da un male inguaribile e in quella nazione così avanzata, non aveva trovato un rimedio alla sua guarigione. Decise di partire per la Germania, dove neanche i più illustri luminari della scienza riuscirono a diagnosticare la natura del suo malessere. Intanto si era laureato in medicina un proprio nipote, figlio di una sua figliuola, che spesso si metteva in contatto telefonico con i parenti italiani, dai quali aveva appreso molte notizie intorno al magnifico talento di un medico napoletano, il professore Giuseppe Moscati, del quale tessevano gli elogi professionali e umani. Raccontavano che questo sanitario si era distinto nel campo della ricerca meglio delle moderne attrezzature e le sue analisi procedevano di pari passo con il senso della sua umanità. Sosteneva infatti il professore Moscati che
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la carità è più valida della scienza e gode di maggiore favore. Affermava l’approccio globale verso la persona ammalata, mentre la diagnosi moderna tiene conto soltanto della parte infetta, una visione unitaria dell’ essere umano contro tutte le interferenze, che lo dividono in parti inconciliabili. Poiché la solitudine risulta il più attuale dei problemi, che nessun dottore vuole diagnosticare, il professore Moscati, in ogni processo di guarigione, la inquadrava nel tema delle relazioni e ammirava la tecnica cinese, modello di terapia psicosomatica, mirante ad unire filosofia e psicologia. In conformità all’insegnamento cristiano, notava nell’ uomo una creatura divina e coglieva gli aspetti positivi di un orientamento che era prima antropologico e poi clinico, la salute come diritto di tutti e non privilegio di pochi. Poiché la verità non tradisce mai se stessa, nessuna contraddizione tra scienza e fede. Quando il professore Moscati si avvicinava ad un degente, gli faceva dimenticare la triste condizione, lo confortava sorridendo e lo allontanava dalla sofferenza. Il nonno americano ascoltava il nipote medico come i bambini ascoltano le favole raccontate dalla nonna. Era scettico. Gli sembrava impossibile da cittadino statunitense trovare rimedio in una città dalla quale partono molti malati, per cercare la guarigione all’estero. A differenza di Salerno, che ebbe una storica scuola di medicina, la città partenopea non ha mai brillato in tale settore. Tuttavia, aggravato dal male e prevedendo prossima la fine, decise di compiere l’ultimo tentativo, rivedere la ex patria e salutare gli anziani familiari ancora in vita. Presero l’aereo, giunsero a Napoli, pernottarono in un buon albergo e la mattina seguente furono ricevuti dal professore Moscati nel suo studio. L’illustre archiatro visitò l’ammalato, mentre il nipote aspettava nell’anticamera e poi gli disse: “Questa è la ricetta, andate subito a spedirla nella vicina farmacia, il mio onorario datelo ai poveri.” Quando la farmacista lesse la ricetta,
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scoppiò in una fragorosa risata e sussurrò: “Andate da mio marito, anche lui è farmacista, vi può sciogliere questo imbroglio.” “Siete molto bravi a falsificare le ricette, ma io vi denunzio”, esclamò il farmacista, atteggiandosi in un amaro sogghigno. “Non vi capisco”, soggiunse il giovane nipote. “E che volete capire”, gridò lo speziale, “siete tutti uguali, avete sostituito la data.” “Ma non è la data di oggi?” interruppe il nonno americano. “E non sapete”, continuò il farmacista, “che il professore Moscati sono quattro anni che è morto.” “Ma quali quattro anni”, ribatterono insieme, “se proprio in questo momento scendo dal suo studio, dove mi ha visitato e mi ha scritto la ricetta”, specificò il vecchio. “Non vi movete”, intimò il farmacista, “che chiamo la polizia”. Non era costui un novello sovrano francese il quale, avvertito dai servitori di correre in chiesa, dove si stava verificando un miracolo, non volle andare, precisando di andare a chiamare quelli che non ci credevano, mentre lui già ci credeva. Era un moderno san Tommaso, che volle assicurarsi personalmente se Gesù era risorto. Giunsero gli agenti, entrarono nello studio e trovarono ogni cosa a posto suo, come l’americano l’ aveva descritto. “Basta”, disse la farmacista, più saggia e accorta del marito, che era rimasta a spicciare i clienti, “datemi la ricetta e prendete le medicine che vi faranno guarire, il professore Moscati è un santo e con i santi non si scherza.” Aveva indovinato. Era stato proclamato beato da Paolo Sesto e santo da Giovanni Paolo Secondo. Ora lo hanno in custodia i Gesuiti nel loro tempio del Gesù Nuovo e a lui ricorrono i poveri, sempre vittime della malasanità. Beati i popoli che non hanno i santi, sanno risolvere da sé i loro problemi, ma noi ne abbiamo bisogno in una società poco perfetta. Antonio Visconte
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BEI SOGNI AZZURRI DEI VENT’ANNI... ...quando ci bastava uno sguardo intenso ( visto e non visto tra migliaia di volti) a lievitare il cuore di vane speranze, speranze labili come gocce sui vetri o come bolle iridescenti che una lama di vento mette in fuga. Ho acceso un fuoco sulla riva del mare. Come Scèvola mi son purificato. Cenere resta delle nostre bugie cenere calda che un soffio disperde. Luigi De Rosa (Rapallo, Genova)
STELLE Nelle stelle cadenti, ritrovo i miei sogni, nel volo del pensiero una festa. Appare dentro una stella la più bella, quel suono di vita che sempre si rinnova, nella danza infinita splende la sfera di cristallo che detta l'ora nella profonda quiete dell'anima. Adriana Mondo
L'ULTIMA LUNA Ho perso l'anello che mi regalasti. Dove si cela quel gioiello, in quale luogo segreto, si nasconde quell'amore magico. Ora nel mio stagno non vi è che oblio, come Sibilla ora per ora attendo il tuo ritorno nella sera dell'ultima luna, Adriana Mondo Riano, TO
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I POETI E LA NATURA - 72 di Luigi De Rosa
D. Defelice - Metamorfosi (particolare), 2017
“IL TORRENTE” DI UMBERTO SABA
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mberto Poli, in arte Umberto Saba, era nato a Trieste nel 1883, da padre cattolico e madre ebrea, Felicita Rachele Cohen (poi abbandonata dal marito). L'essere ebreo - per parte di madre – gli costerà anche persecuzioni nella seconda Guerra Mondiale, tra cui il non poter gestire di persona la propria libreria antiquaria a Trieste. Umberto Saba, così chiamato, forse, dal cognome della affettuosa nutrice Peppa Sabaz, una slovena della campagna, è stato uno dei
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maggiori poeti del nostro Novecento, del periodo di Montale, Ungaretti, Quasimodo. Non è facile collocare la sua poesia, soprattutto il suo Canzoniere, in una corrente o in un “ismo” (né peraltro ciò è necessario) in considerazione anche della sua personalità schiva e solitaria, tutta dedita agli affetti familiari, e della sua “poesia onesta” comprensibilissima e chiara, senza inutili orpelli ed espressioni troppo ricercate. Morì a Gorizia, in ospedale, nel 1957, senza mai riuscire a trovare conforto per la morte della adorata moglie Lina. Oggi, ai fini dello spirito di questa rubrica, prendiamo in esame una sua poesia, “Il torrente”, in cui campeggia il rapportoconfronto tra la Natura e la vita dell'uomo (e del poeta). L'immedesimazione e la comparazione fra il poeta e il torrentello, tra l'uomo che trascina la vita giorno per giorno e la corrente che fluisce inarrestabile, sono esplicite e totali. Il Poeta e la Natura sono in sintonia. La Natura sembra avere lo stesso destino dell'Uomo. “ Tutto il tuo corso – scrive Saba – è quello del mio pensiero/ che tu risospingi alle origini/ a tutto il fronte e il bello/ che in te ammiravo...” E alle domande innocenti di un bambino risponde la madre “austera”, una donna ancora bella che ha compreso intimamente l'essenza della vita umana, del suo inizio e del suo termine, e lo scopo stesso del suo ininterrotto fluire, come l'acqua del torrente. Siamo di fronte ad una filosofia dell'esistenza non per concetti ma per immagini e sentimenti, per intuizioni profonde che particolarmente in una donna o in un fanciulletto possono sgorgare così innocenti e profonde. E il poeta triestino si immedesima nella donna e nel fanciulletto, nello stesso torrentello, in un abbraccio d'amore con la Natura e con la vita umana, impregnata di un sottile, ineliminabile dolore. Ma lasciamo la parola al Poeta: “” Pur, se ti guardo, il cor d'ansia mi stringi, o torrentello, tutto il tuo corso è quello
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del mio pensiero, che tu risospingi alle origini... Sulla tua sponda lastricata l'erba cresceva, e cresce nel ricordo sempre; sempre è d'intorno a te sabato sera; sempre ad un bimbo la sua madre austera rammenta che quest'acqua è fuggitiva, che non ritrova più la sua sorgente, né la sua riva; sempre l'ancor bella donna si attrista, e cerca la sua mano il fanciulletto, che ascoltò uno strano confronto tra la vita nostra e quella della corrente.” Luigi De Rosa
Recensioni
CRISTALLI DELLA MEMORIA Troppo spesso i cristalli della memoria sono appannati dal fiato delle sconfitte. Torti e ragioni si alternano speranze e delusioni ferite inferte e ricevute senza pietà. Arriva il giorno in cui è mortificato il cuore dai rimorsi ingrommati come gemme nere. Chi ci lenisce il fianco piagato? Chi ci restituisce i diamanti ? Luigi De Rosa (Rapallo, Genova)
AVVISO AI COLLBORATORI Il Codice di Avviamento Postale (CAP) di Pomezia non è più 00040 dal giugno 2015, ma
00071 Preghiamo di volerne prendere nota. Grazie!
ANTONIO VANNI PLASMODIO Edizioni EVA di Venafro (IS), Anno 2017, Euro 8,00, pagg.52. Al di là del termine micidiale usato con discernimento dal prefazionatore Giuseppe Napolitano per commentare la titolazione della nuova crestomazia del poeta isernino Antonio Vanni, c’è da dire che esso (il titolo) ha in sé qualcosa della Genesi dell’ Antico Testamento, o meglio ancora può essere una derivazione della parola greca plásma, che significa “ forma, cosa plasmata “, mentre dal tardo latino vuol dire “ creatura “. Chi modella, chi forgia è in genere un creatore, ma « (…) Antonio Vanni non vuole certo sostituirsi a Dio, eppure sa bene che un suo mondo l’ha costruito, esiste, ha precise coordinate sentimentali, è abitato da chi gli vuole bene. » (Dalla Prefazione a pag.9). Principiando la sua modellazione, il poeta di Isernia distrugge innanzitutto i vecchi e consueti schemi di fare poesia per allontanarsi addirittura da sé stesso, così da poter raggiungere stati di visioni tra l’onirico e l’arte della parola sganciata dalla consistenza. Ad esempio, lui ci fa intravedere in una sua estatica lirica La casa poggiata sul lago quasi fosse un remoto collegamento con l’eteroclito, inverosimile progetto e poi realizzazione della Casa sulla cascata, la Fallingwater, una delle case più celebri del mondo costruita sopra le cascate del Bear Run in Pennsylvania nel 1936, firmata dell’architetto americano Frank Lloyd Wright (1869-1959). Si vede l’acqua che scivola via disotto forme architettoniche a blocco tra una vetrata e l’altra, e il vuoto col
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pieno che si compensano a vicenda. « Antinoo, quanta leggerezza nel cielo/ che ti siede accanto./ Porta con sé una cometa/ che lascerà il suo nome sull’acqua./ Avvicinati come resti vestito/ perché il giorno ti rende luminoso/ e passeggia nel giardino/ dove le margherite trascorrono la vita/ prima di capire chi possa averle amate/ senza mai esistere,/ quanto del tuo sguardo ritornerà/ ad aggrapparsi ai suoi occhi/ e sentire di aver perduto la stagione/ bussare una splendida volta soltanto/ contro la bellezza del tempo/ con le naviganti vele stracciate/ aprendo la finestra della casa poggiata sul lago/ dove qualcuno ti ha lasciato sognare. » (A pag.36). Antonio Vanni non si ripete mai e mai si stanca di inventare nuovi luoghi, nuove albe, nuove fiabe, nuovi eroi, nuove stagioni, nuove nature, novelli accostamenti perlopiù impensabili come « Una farfalla protegge il mare/ dal mio sguardo,/ una ferita verticale nel precipitare di un sollievo,/ una farfalla è possibile attraversi il mondo. » (A pag.39). L’universo del poeta di Isernia è limpido, fuoriuscito da una massa in continuo plasmodiare – in realtà questo vocabolo non esiste, ma lo si vuole riconnettere alla denominazione dell’intera silloge –, così gli esseri vertebrati e invertebrati finiscono con Il cremolare insieme. Anche questa parola non sta sul vocabolario, eppure immaginariamente esercita il potere de « (…) l’aquilone tra i ginepri./ Ai cani però fra un po’/ non saprò mentire,/ stracceranno con rabbia Dorian Gray/ e il suo pianto, le bacche vuote sanguinanti/ tra i rami, la gelida clessidra che mi abbraccia/ perché la sabbia non ha famiglia ed orme/ per assestarsi,/ non conosce quanto tempo è un addio./ Allora porto via il tuo cuore nel mio/ perché la bellezza del mattino/ è dignità e dolore. » (A pag.14). Antonio Vanni è l’Archimede dei versi, delle parole, delle persuasioni, degli amori improbabili e per lui esistono ed esisteranno sempre ulteriori spazi in cui ammassare le proprie ‘invenzioni’. Il suo Surrealismo non è lo stesso che aveva, ad esempio nella storia dell’arte, come concetto di base il sogno, il pensiero freudiano, gli scenari e i personaggi dal doppio significato di René Magritte, etc., ma è un proposito intellettuale che riguarda « La parola, l’immagine,/ il bambino dal cappellino arancione:/ - Oh che bel quadro, il cielo stellato./ Oh se avessi tanti fili da legare a me le tante/ luci del passato,/ brillantissime, severe occhieggianti voci mute,/ illuminate il ponticello sul ruscello./ Voglio toccare l’erba. La luna e i fili di perla. » (A pag.44). Un modo di fare poesia questo che durante lo spazio dell’intera silloge, « (…) ci si libera dalle cattiverie del mondo comune, ci si alza fin dove non si possa essere raggiunti da chi non parla o sente
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come noi. Il poeta lo può. » (Dalla Prefazione di Giuseppe Napolitano). Isabella Michela Affinito
DANTE PASTORELLI L’ULTIMO BAGLIORE Magi Editore, 2017, € 15,00 Su ritmi classici, ma con un linguaggio moderno, caratterizzato dalla nettezza del segno e dalla scioltezza dei ritmi, Dante Pastorelli ha raccolto le sue nuove poesie in un libro intitolato L’ultimo bagliore, con il quale ha fatto ritorno, dopo parecchi anni, nell’arengo letterario. E che si tratti di un poeta molto attento ai valori della forma, lo si rileva sin dalle prime poesie della raccolta. “Fui porto franco: splendida sul molo / indicava l’insegna la mia casa / agli esuli braccati dal passato / e dal presente” (Porto franco); “Era il tramonto l’ora dei poeti, / come l’autunno la stagione in cui / in barca si tiravano le reti / per controllare i pesci ancora vivi” (Era il tramonto); “L’ultima sigaretta nella notte / in grigie spire inarca nella stanza / litanie d’illogica struttura” (Notturno N. 3); ecc. È questa una poesia che esprime una condizione esistenziale di indubbio disagio e di sofferto disadattamento, che accompagna l’autore nei giorni e che un po’ ovunque in questi versi si ritrova: “O voi che rincorrete lieti il suono, / non alzate lo sguardo al mio balcone…” (Propizio vi sia il giorno); “Io non sono la merla fortunata / che il tepore trovò d’un fumaiolo” (I giorni della merla); “La mia terra promessa è quest’inerte / sabbia che non rifrange arcobaleni” (Fiumi lontani). C’è pertanto alla base di queste liriche un sentimento di non celato pessimismo, nei confronti della nostra condizione esistenziale, emergente da versi quali: “Secco e solo papavero d’autunno / cosa fissi con l’occhio stralunato?” (Papavero d’autunno); “Se la notte s’abbatte a ghigliottina / su tavole evocate con l’astuzia / dell’alchimista esasperato / … / lascia pure il sonnifero dov’è” (Insonnia). E tuttavia Pastorelli non ignora i momenti di calma e di rasserenamento, che egli trova nel diretto contatto con la natura, alla quale talvolta s’affida, come avviene in certi incipit, quali quello di Respiro d’aprile: “Eppure, aprile, ancora non desisti / d’inocularmi i tuoi trasalimenti” o quello di Falchetto d’ogni sera: “All’imbrunire nella rossa gloria / di un meriggio in solare beatitudine / passa il falchetto anticipatamente”. Ma si vedano anche certe improvvise visioni cittadine, com’è quella di Libro incompiuto: “Santa Maria Novella, alla tua ombra / che scolorava gl’
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impudichi tetti / del loro ardore / … / Oggi ti sfioro solamente e sfuggo, / dall’autobus che imbocca un’altra strada” o di Santa Maria di Costantinopoli (Chiesa di Manduria); “Santa Maria di Costantinopoli, / il cangiante splendore della cupola / trascolora in un tremulo pallore…”. Molto intenso in questo poeta è poi il mondo degli affetti, che trova una delle sue più compiute espressioni in poesie quali La domanda, dedicata al figlio Mauro, nel giorno del suo ventesimo compleanno: “Se chiederai un domani: «A cosa vale / mai nella vita questo nostro attendere?» / io risponderò: «La tua domanda». / Ma ora trafiggi ancora col tuo sguardo / lontananze a me note – lungo e forte / il tuo passo già d’uomo accanto al mio…”. Si veda anche Ritorno, dedicata alla figlia Isabella: “Son forte, figlia. Un padre non può piangere / se pervicace il sole vuol frugare / indiscreto nel volto e nelle pieghe / dell’anima…”. Affettuosissime sono pure le poesie che Pastorelli dedica all’ombra di suo fratello Marcello, Quel che resta di te, nonché all’amico Giorgio Bárberi Squarotti, da poco scomparso, Ancora un canto. È da notarsi da ultimo che in questo libro vi sono alcune poesie dalle quali affiora prepotentemente il pensiero di Dio, come Vigilia di guerra e Te Deum. Leggiamo dalla prima, dedicata a Sabrina Guidotti: “Se un immenso silenzio vuoi che domini / perché sei stanco di parole false, / Ti basti questo che m’avvolge come / una sindone…” e dalla seconda: “S’è cenno del Tuo amore questa morsa / infuocata, l’accetto: ma non basta / un cenno, altro Ti chiesi ed altro aspetto”. Talvolta più ampio e pausato (“Piana la strada biancheggia tra i carpini / dove s’inerpica il tuo monte oscuro?”, I due versanti), talaltra più sciolto e veloce (“Non capisco il perché di questo stridulo / e caotico volo delle rondini”, Sconosciuto perché), il verso di Pastorelli è comunque sempre sicuro e ben modulato: ed è questo che rende fermo e compiuto il suo dire. Elio Andriuoli
NICOLA LO BIANCO IN CITTÀ AL TRAMONTO Bastogi Libri, Roma 2017, Pagg. 146, € 12,00 In città al tramonto è raccolta di sette racconti di Nicola Lo Bianco, scrittore di vasta esperienza e già docente di materie umanistiche; il luogo del titolo si riferisce a Palermo, città natale dell’autore. In copertina è rappresentato “Il cavalluccio marino” di Crescenzio Cane. L’opera è impregnata del registro
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linguistico palermitano, ed è accompagnata da tre note critiche. Alfio Inserra nella prefazione, evidenzia un concentrato di eventi che assurgono a emblema, similmente ad alcune località di invenzione letteraria, come la Macondo, di G. G. Marquez nel suo famoso romanzo Cent’anni di solitudine (che contribuì a fargli ottenere il Nobel). Richiama la realtà contraddittoria della società cui ben si adatta il repertorio linguistico adoperato e di ciascuno dei racconti della città riporta l’incipit. Un lessico “rigoglioso e multilingue”, come conferma Daniela Monreale nella presentazione, che così offre vari piani di lettura. Rossano Onano nella postfazione evoca con scavo psico-antropologico, una sua visita turistica in Sicilia, evidenziandone le contraddizioni; dice che nell’Isola si sono succedute, varie civiltà che, in qualche modo, continuano a convivere. Perciò bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga fermo, come asseriva il sotteso autore siciliano (Giuseppe Tomasi di Lampedusa). Così è per la religiosità dei palermitani che non antepongono Gesù, alle spoglie che si venerano nella grotta di Monte Pellegrino della Santuzza (Santa Rosalia), spettacolarizzandola come la ‘Giulietta degli spiriti’ (titolo di un noto film). Il passato glorioso di questa terra è testimoniato dalle vestigia della Valle dei Templi, ma i suoi morti non chiedono pietà come i soldati americani seppelliti che aspettano sulla collina di Spoon River; così è per i personaggi del Verga, in eterno conflitto. Con questa analisi conclude che è “La Sicilia come metafora del labirinto”, in cui “ciascuno dice la sua”. Nicola Lo Bianco ha la caratteristica di far sì che siano i personaggi a rappresentarsi; alla stessa maniera, alcuni elementi connotano il periodo storico, come l’indicazione della “colonia dei figli della lupa” (pag. 21), del costo di un chilogrammo di pane pari a una lira (pag. 23) e, avanzando il tempo, si parla della vendita di una bambina al costo di cinquanta milioni (pag. 36). Garofalo vive con il rimorso per avere vendicato il nonno. Agostino, rimasto senza lavoro, decide di farla finita, quando un ambulante tunisino lo dissuade. Marò e Fifì (moglie e marito) si rinfacciano accuse nell’aldilà; lei si vanta di essere “giovane e fresca” avendolo preceduto trentacinque anni prima, dopo avergli sfornato nove figli, oltre gli aborti; rimprovera il marito dei maltrattamenti e dei tradimenti, “mai una carezza” ai bambini. Lui giustifica la sua fame di sesso perché era di ritorno dalla guerra e perché la madre di lei, gli ha fatto trovare disponibile la figlia.
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Uomini e topi si combattono in un nosocomio; un problema igienico-sanitario che fa eco in tutto il mondo. Leonardo Vitale un pentito di mafia che dichiara il suo stato in una città in cui “il primo che arriva pianta bandiera”; freddato all’uscita dalla Chiesa dei Cappuccini davanti alla madre nel 1984. Isidoro con i suoi discorsi strampalati denuncia il disfacimento della società e si rivolge, come ultima ancora, al dottor Falcone. Infine Mustafà, il soprannome che gli italiani danno a quasi tutti gli uomini di colore, è un tunisino di venticinque anni che guarda sempre il mare, fin quando vi si immerge come per raggiungere la sua terra. Giunti fin qua, possiamo dire che la città di Palermo, a differenza dei luoghi di invenzione, è una città reale in cui il suo tramonto non preannuncia un nuovo giorno. La dolente cronaca è trasfigurata in prosa e poetica letteraria, che è insieme indicazione della politica sociale e denuncia di una realtà squallida e becera (degrado morale e abusi sessuali, vendita di bambini e uccisioni, disoccupazione e sogni, desiderio di migliorarsi facendo il panettiere o il carabiniere od altro). Confesso che io stesso, pur avendo vissuto nei luoghi descritti, ho faticato a comprendere. Immagino quanto possa sembrare ostica la lettura, in alcuni passaggi, a chi non ha dimestichezza con la struttura espressiva della parlata siciliana, sicuramente fatta ad arte per dare vivacità agli eventi. L’opera, probabilmente, può essere fruibile maggiormente in rappresentazioni teatrali. Tito Cauchi
EMERICO GIACHERY VIANDANTE Edizione Graphisoft – Roma, 2011 Un’avvincente incursione di Emerico Giachery, con esiti ampiamente felici, nei recessi della memoria, per testimoniare “i limitati tempi dell’antico errare”, la passata propensione a “vagabondare” per l’Italia e l’Europa, la sua condizione di “vecchio viandante”, viaggiatore instancabile per motivi professionali, di studio o per piacere di scoperta e conoscenza di luoghi nuovi, magari correlati alla sua attività di appassionato “interprete” di opere altrui. Una plaquette zeppa di ricordi databili intorno alla metà degli anni Cinquanta, e oltre, quando il Nostro, “con le suole al vento” cercava “l’avventura, anzitutto dell’anima e della conoscenza, il Graal”. Dentro la metafora dell’homo viator, c’è da vedere non soltanto il viaggiatore, il viandante, ma anche il “il messo”, il messaggero, il nunzio della parola che apre nuovi orizzonti, nuove vie, nuove pro-
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spettive nel cammino di crescita individuale e collettiva. Un errare, un mettersi in cammino avendo come indicatore la bussola dello Spirito con l’ago rivolto all’infinito, nella ricerca del tutto nuovo e del tutto diverso. Ma anche un “accompagnarsi” allo spirito rivelatore di coloro che hanno già sperimentato le vie maestre della poesia, dell’arte e della conoscenza. Per il filosofo francese Marcel la vita umana deve configurarsi come “servizio”, deve essere consacrata a un valore superiore, come la cultura, l’arte, la professione di fede nella propria attività a fine sociale, educativo, propositivo, volutamente e liberamente scelta. E Emerico Giachery, da navigatore provetto nel mare dello Spirito del tempo, con questo piccolo prezioso saggio, ci rivela quanto sia importante accettare la vita come dono e ad essa dedicare con ferma determinazione e coerenza le proprie energie vitali, l’impegno a tenere desta la voglia del cammino “verso ignoto orizzonte”, tra speranze e “dedali di dubbio”. Né fuga né evasione dalle responsabilità che immancabilmente gravano sull’homo faber, libero costruttore del proprio essere e divenire, ma ferma determinazione a “partecipare a una storia dello Spirito”, a non accontentarsi del déjà vu, delle mete raggiunte ma, come Siddharta, “cercare e ancora cercare, interrogarsi, interrogare, ascoltare voci diverse…”. È il modo migliore per rompere con la staticità e l’ immobilismo della vita legata a particolare situazione contingente, a schematismi ripetitivi che escludono la dinamica dell’evoluzione intellettiva, spirituale, conoscitiva. Il nostro scrittore dichiara da subito che il suo viaggio non sarà quello dell’homo religiosus, irriducibile cercatore di verità e di illuminazioni, bensì quello del “vecchio interprete di poeti, con il suo amore di poesia e di bellezza”. In questa nobile veste Giachery ha dedicato la vita e l’insegnamento in famose Università italiane e straniere, ma anche al di fuori di queste ha profuso energie intellettuali con la proposta di saggi atti ad arricchire e onorare la civiltà delle lettere. Uomo di elevato spessore umano e culturale, con stile chiaro e fluido, riesce a ricostruire, con ricchezza di dettagli e significativi aneddoti, spaccati di vita remota, da protagonista serio, amante di luoghi nuovi e di nuove esperienze esistenziali e conoscitive, a trasformare il suo vagabondaggio terreno, spirituale e intellettuale in una serie di fotogrammi d’archivio, allineati in una sequenza d’immagini che raccontano l’evoluzione d’uno spirito alla ricerca dei “luoghi dell’anima”. E li trova, seguendo le orme di Pascoli, in Castelvecchio e Barga, e in Recanati, attratto “in area sacra” dai
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mitici topoi cantati dal grande recanatese e affascinato dal suo “pensiero poetante e non poetante, di cui i Canti sono soltanto il fiore supremo…”. Ma i viaggi e le soste di Giachery non finiscono qui, non si esauriscono nel contatto con un paio di importanti autori che, a loro volta, hanno fatto del “viaggio” la condizione essenziale per uscire dal chiuso mondo d’elezione e seguire, per necessità o disposizione delle proprie risorse, oppure pressati dalla volontà di toccare nuovi orizzonti, di esplorare nuove realtà al fine di colmare le interiori esigenze di essere al mondo e per il mondo. La ricerca della propria identità è continuata nello spazio e nel tempo, si è concretizzata nella continuità del suo cammino culturale e nella ragguardevole dimensione della maturità intellettuale, tanto che oggi Emerico Giachery è un nome che conta e risuona alto nel panorama della cultura italiana. Antonio Crecchia
DANIELA DE ANGELIS E NICOLA TIRELLI PRAMPOLINI NATALE PRAMPOLINI E LE BONIFICHE (1915 - 1950) Emigli Editore, 2017 - Pagg. 192, € 24,00 Pomezia è città giovanissima, ma il territorio nel quale è stata collocata, fondandola, nel 1939, è ricco di storia e di miti e gli avvenimenti che hanno portato alla sua nascita - e a quella di altre città, quali Latina (Littoria), Aprilia, Pontinia eccetera non son del tutto marginali; a dominare, tra tutti, è la Bonifica dell’Agro Pontino. Non a Pomezia, ma alle tante Bonifiche tra il 1915 e il 1950 - che hanno interessato il territorio italiano e non solo - è dedicato questo importante libro di Daniela De Angelis - che ha insegnato nell’Istituto d’Arte “Pablo Picasso” della nostra città - e di Nicola Tirelli Prampolini, ricco di documenti vari - principalmente di lettere - attraverso i quali si ha un quadro abbastanza nitido ed esaustivo di queste opere smisurate e importanti che hanno cambiato il volto e l’economia delle tante zone interessate. Il lavoro è fascinoso per un dettato lineare e chiaro e per il gran numero di soggetti coinvolti, personaggi tutti di peso nel periodo storico della loro carriera. Si tratta, per esempio, di Meuccio Ruini, Carlo Petrocchi, Eliseo Jandolo, Arrigo Serpieri, Angelo Omodeo, Natale Prampolini, Camillo Valle, Giovanni Raineri, Alberto De’ Stefani, Giovanni Giuriati, ma anche Ciano eccetera e Mussolini in particolare.
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Le posizioni di ciascuno sul tema bonifiche, e più sulla situazione politica del tempo, non sempre coincidono; “la posizione di Ruini - scrive la De Angelis -, quella cioè di fiero oppositore del fascismo che per questo fu allontanato dal suo ruolo, non venne condivisa da Petrocchi e Jandolo, che al contrario scelsero di rimanere al loro posto”. Giuriati, invece, per esempio, fu “un valido sostenitore del progetto della Bonifica Integrale di Serpieri”. Questi contrasti, sia di natura strategica che politica, non furono, comunque, da impedimento alla realizzazione delle grandiose opere e le numerose lettere qui raccolte ne sono testimoni ricchi di particolari e dati. La De Angelis evidenzia i molti contrasti tra enti e relativi dirigenti, come i ministeri dell’Agricoltura e dell’Economia del tempo, le società elettriche (la Edison di Motta) e d’altro genere, le banche, la Milizia Forestale, i 1.400 e passa Consorzi di bonifica sparsi in tutto il territorio italiano e fuori dei confini, come in Albania. Un gran movimento, un coacervo di iniziative e di energie, che avevano come oggetto un vero e proprio rivolgimento radicale in materia di “rimboschimento, la correzione dei corsi d’acqua, la sistemazione dei pendii, la bonificazione di laghi e stagni, di paludi e terreni di scolo, la cura delle dune litoranee e delle barriere frangivento, la distribuzione d’acqua per le popolazioni e le coltivazioni, l’uso dell’elettricità per i rurali delle zone di bonifica, le opere stradali di questi comprensori, il riaccorpamento fondiario”. Il personaggio principale è Prampolini, motore di tutte le più importanti Bonifiche: la Grande Bonificazione Ferrarese, le Bonifiche Terreni Ferraresi, la bonifica di Sibari, la Parmigiana Moglia, quella d’Albania, quella di Fondi e Monte San Biagio. Il nostro maggiore interesse, risiedendo a Pomezia, va, naturalmente, alla Bonifica dell’Agro Pontino, a Prampolini affidata da Giuriarti. Anche l’ azione di Prampolini non fu esente da aspri contrasti col Comune di Littoria, le nomine di personaggi, le erogazioni di fondi, le classifiche di terreni tra bassura e altura, l’uso di materiali come il cemento armato, il numero degli operai impegnati, le maestranze - stanziali o meno -, i funzionari, i dirigenti, i quantitativi di carburante, i macchinari e - mostro imperante - la malaria. Bene o male, la Bonifica venne effettuata tra il 1926 e il 1943, ma la malaria è stata debellata solo dal potente DDT degli americani. Tutto questo per quanto riguarda la prima parte del libro, “Bonifiche ed altro”, a firma di Daniela De Angelis; la seconda parte, <“E avvenne quello che doveva avvenire”: l’opera dell’ingegner Natale Prampolini>, a firma di Nicola Tirelli Prampolini, è
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la dettagliata biografia di un uomo che ha lavorato tanto, che ha avuto tante difficoltà e disgrazie, come la morte del “secondo dei suoi figli, Domenico (1914 - 1937), giovane pilota aereo e studente d’ ingegneria”. Biografia sicuramente incompleta, perché il suo archivio privato venne “disperso a causa di eventi bellici”. Natale Prampolini era nato il 25 dicembre 1876 a Villa Ospizio, frazione di Reggio Emilia, orfano nel 1886, laureatosi al Politecnico di Torino il 20 dicembre 1990. Rientrato in famiglia dopo il servizio militare, si sposa nel 1911 con la nobildonna Marianna Tirelli (1891 - 1970); fonda e amministra diverse industrie d’acido solforico e concimi chimici poi confluite nella Montecatini, ebbe molti encomi, cavalierati, commende di prestigio come l’Ordine della Corona d’Italia, fu nominato Senatore e poi Conte nel 1940 e Conte del Circeo nel 1941. Non ci fu bonifica che non lo ebbe principale responsabile e risolutore. Morì a Roma il 18 aprile 1959. Le numerose “Lettere” - asettiche, senza palpiti, perché d’ordinaria amministrazione -, che occupano le pagine dalla 49 alla 178, sono raggruppati per bonifica: dell’Agro Pontino (p. 49 - 95); di Sibari (p. 97 - 105); Grande Bonificazione Ferrarese (p. 107 - 114); Bonifica Terreni Ferraresi (p. 115 119); Bonificazione Parmigiana Moglia, Reggio Emilia (p. 121 - 134); Ente Bonifiche Albanesi (p. 135 - 156); Bonifica della Piana di Fondi e Monte San Biagio (p. 157 - 178). Seguono una “Galleria fotografica” e una folta Bibliografia. Un libro di grande interesse, insomma, e non solo per gli studiosi del settore. Domenico Defelice
NICOLA LO BIANCO IN CITTÀ AL TRAMONTO Racconti - Bastogi Libri/Percorsi Narrativi, 2017 (?) - Pagg. 144, € 12,00 Racconti non troppo lunghi, che navigano tra poesia e prosa; ibridi, come il linguaggio italosiciliano e personaggi immersi in una realtà cruda fino all’assurdo, con morti che raccontano e si raccontano in un Aldilà che non divaria dalla difficile esistenza terrestre e tanti contrasti insanabili, virulenti, beceri a volte, picareschi come certi film interpretati da Nino Manfredi; racconti, insomma che, anche quando avvengono tra anime, di spirito hanno ben poco, impastati di socialità dura, al limite dell’ allucinazione, di odio implacabile, feroce, oltre la tomba, come quello tra la disastrata coppia di Fifì e Marò: “Fatti una buona morte”, “fatti una buona morte pure tu”.
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A cucire ogni brano, una specie di spleen, la pietà e l’amore dell’Autore per questi personaggi specchio di un ambiente, di certe città e paesi, di un periodo storico e di una Sicilia che è sempre stata, e non cessa di essere, crogiolo di razze e di culture, in continua, incessante evoluzione, come avviene per il linguaggio: un dialetto che non è più tale - niente a che vedere con quello dei Malavoglia ed altri del passato - e una lingua italiana abbozzata. Una corruzione e un amalgama dialetto-lingua che hanno avuto incremento veloce dall’avvento della televisione e hanno investito le parlate dell’intero territorio italiano e non soltanto la Sicilia. Attraverso le amare vicende di personaggi al limite dell’umano - Agostino, Cristoforo, Isidoro , Nicola Lo Bianco, tocca temi tutt’altro che marginali; pensiamo alla Mafia, per esempio, ai delitti, al pentitismo, alla chiusura dei manicomi, alla massiccia emigrazione africana, alla quale è dedicato il toccante ed ultimo brano, “Il mare di Mustafà”. In città al tramonto, allora, è opera d’impegno, di colore e di costume, drammatica anche, il cui dolore è meno deflagrante solo perché spalmato, attenuato dall’ironico taglio del racconto. Domenico Defelice
GIUSEPPE VETROMILE (a cura di) IFIGENIA SIAMO NOI Antologia Poetica - Scuderi Editrice, Avellino, 2014, € 12,50 Un’antologia poetica al femminile è questa Ifigenia siamo noi, curata da Giuseppe Vetromile, nella quale vengono presentate sedici poetesse che con i loro testi vogliono compiere non soltanto una denuncia dello stato di emarginazione della donna nel mondo, ma dimostrare al contempo la loro capacità di efficace espressione artistica. Ifigenia, si sa, fu sacrificata sull’altare agli dei per volontà paterna, al fine di ottenere che fosse aperta la via del mare alla spedizione achea contro Troia: è quindi un esempio di sottomissione della donna, usata per scopi che riguardavano essenzialmente gli uomini, come la guerra. Il titolo assume pertanto un valore altamente simbolico. Ma veniamo alle poetesse che figurano in questa antologia. La prima è Lucianna Argentino, la quale nei versi qui pubblicati manifesta un’ ispirazione sacrale, quasi religiosa, che ella esprime con parole forti e tese: “Sconfiggi la mia incredulità di radice / ferita dalla terra – negata è l’acqua / alla mia sete, reciso ogni mio passo” (Il talento di
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Persefone); “Serviti della mia obbedienza, dàlle un volto nuovo, / convincimi che non c’è altro / che è tutto qui ciò cui abbiamo rinunciato” (Ivi). Questi suoi testi in prevalenza iniziano con un imperativo rivolto alla propria coscienza, forse a un Dio nascosto; e questo ci dà un’indicazione della sua intensa attesa di ascolto. Espressione di una sofferta condizione esistenziale appaiono le poesie di Victoria Artamonova, nativa di San Pietroburgo, come si può constatare sin dalla prima di esse, Senza titolo: “I piedi si muovono lungo il confine / in un movimento a onde; sembra / che stiamo giocando con la pelle”. Si legga anche Lettera a Petrarca dalla Russia: “Sto giocando a nascondino con il destino: / quando chiudo gli occhi, tu mi sei intorno, / quando li apro, sono lontano…”. Motivata appare comunque la sua esigenza di canto. Mossa da intenti di denuncia dello sfruttamento e dell’emarginazione della donna appare la poesia di Gaetana Aufiero in poesie quali Per le tessitrici del Nepal: “La povertà del mondo e i suoi bambini / corpi gonfi violati offesi / e madri in marcia / seni vuoti volti scavati…”; mentre in Ti amerò con addio e mai più stigmatizza la repressione della Giunta militare argentina, dopo il colpo di stato del 1946. Netto è l’incipit di questa poesia: “Fermo il sole alto su nel cielo, / prigioniero del suo pulviscolo feroce. / Ferme le rocce senza pianto ed ombra, / spoglie nude su deserti e campi”. Nella sua lunga poesia Non sono che madre Floriana Coppola confessa le sue frustrazioni e analizza la sua condizione di donna in lotta con le giornaliere necessità: “… in questa miseria stretta sui binari divergenti / esce ed entra nella stanza ogni figlio, la sua furia distratta / le richieste appese al collo…”; “Abito la mia solitudine di vecchia che non conosce tempo”; ecc. Il suo dire tende a disporsi in più ampie cadenza, nelle quali si articola un verso di stampo narrativo. Anche Ulrike Draesner, nata a Monaco di Baviera, è presente nell’Antologia con due poesie, tradotte dal tedesco da Federica Giordano. Nella prima, What is poetry?, esprime il disagio di un’ esistenza fatta di gesti ripetitivi e senza prospettive: “pulire passare l’aspirapolvere asciugare il moccio / … / cantare una ninna-nanna / … / infilare i panni in lavatrice…”; mentre la seconda, Il coraggio di aprirsi ad una relazione, che pure inizia in maniera poco rasserenante pare aprirsi alla speranza nella chiusa che recita: “nella luce fosca del mattino / l’ ardore della chimera”. Autrice della poesia Ifigenia siamo noi, che dà il titolo al libro, è Federica Giordano, la quale ci
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dice che: “… non fa più effetto glaciale / che una donna muoia per sacrificio, / o la sua speranza” (Ifigenia siamo noi) e che: “La donna è una finestra sul ritorno, / una maga che mette bandiere sui suoi amori” (Predestinazione). La sua è una poesia essenziale, lucida e disillusa, che tende ad una diretta comunicatività e che ha movimenti particolarmente incisivi, quali: “Nel mio tempio interiore, / unico abitatore, c’era già lui” (Predestinazione). Con un dire forte e risentito s’affaccia la poesia di Anila Hanxhari, albanese di nascita, la quale canta le angosce di un mondo lacerato: “qui cadono fiori come mani / che non mettono radici / tagliano il cielo a colpi di denti / qui le parole sfregiano…” (a poco prezzo). È questa una poesia dalle immagini dure e inquietanti, come “mi farò fucile con il corpo” e che invoca: “Restituitemi alla nascita”; che ci parla dell’“adamo” che “migra” e degli “eden che tornano solo negli specchi”. E sono immagini che costituiscono la spia di una vita aspre e difficile. Altrettanto tormentata si presenta la poesia di Giovanna Iorio, la quale introduce le sue dodici poesie con una citazione tratta dalle Metamorfosi di Ovidio, riguardante il mito di Niobe mutata in pietra a causa del dolore provato per la morte dei figli. E si tratta di poesie che in pochi versi esprimono tutta la tragicità dell’evento: “… anche stasera cerco / nelle vene qualcosa di vero / sotto la pelle di Niobe // impietrita” (prima poesia); “La Storia è piena di pietre / e di uomini soli” (quarta poesia); “voglio fare un guanto con la pelle dell’anima” (sesta poesia); “provare ogni tanto / a non essere umani // essere sassi / gettarsi in uno stagno / allargare cerchi / toccare il fondo / trovare altri sassi / parlare un po’ // la lingua silenziosa / delle pietre” (dodicesima poesia). Compiuta è l’ espressione. Un’assorta meditazione della condizione della donna la si trova nelle poesie di Amalia Leo, nelle quali si scopre la deprecazione dell’amore distorto (Violenza) e l’esaltazione della donna “forte come la roccia” e sicura di sé: “Guerriera indomita, / cavalco tempeste, / controvento” (Ivi). È una poetessa, la Leo, che dimostra di possedere un carattere forte ed equilibrato, che si manifesta in versi incisivi e particolarmente efficaci; atti ad esprimere il suo ideale di donna nel mondo moderno. Del tutto consapevole della propria fragilità è invece Ketti Martino, la quale interamente si confessa, nella convinzione di essere “Ostaggio frantumato nell’arco temporale / dove in assetto stanno le paure” e aggiunge: “Sono sequenza di
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crolli sotto le ceneri del mondo” (In fieri). Non cessa tuttavia in lei la speranza se può dire: “Non lascio niente (al caso): / nella calma che copre l’ acero, / nell’erba che canta al vento / mi sento incolpevole” (L’Io rifugio). Con versi lievi e veloci Vera Mocella canta “Quel che poteva essere / e che non è stato” (Nelle mie vene) e si rivede “Adolescente dolce”, allorché “inseguiva le ore del suo futuro” (La sorgente delle lacrime). La sua è pertanto una poesia della freschezza dell’anima e dell’aspettazione di un tempo immaginato clemente; ma è anche una poesia che si fa accettazione grata e fidente del dono immenso della vita: “Ti sorprende il mistero / e la grazia stupita / di essere viva. / La vita che domani sarà un’altra, / il mio essere eterno, / adesso, / qui, ora. / L’eternità che non vediamo” (L’eternità che non vediamo). Il dramma degli emigranti è presente nella lunga poesia Il mare tracannato di Rita Pacilio, la quale sente vivo il tormento di coloro che sperano di raggiungere la salvezza attraversando il mare e sbarcando sulle coste d’Europa, poche volte trovando quanto avevano sperato. Qui infatti “Sono le campane antropologiche a segnare / il territorio e la meditazione [rimane chiusa] in una gabbia / malata dove i giganti restano fuori dalle grate”. Il problema evidentemente è complesso e di difficile soluzione, dato che la pietà e l’umana simpatia devono lottare con gli egoismi e l’indifferenza dei più. Docente di Lingua e Cultura Portoghese dell’ Istituto Camões di Lisbona, Regina Célia Pereira da Silva insegna attualmente presso l’Università Orientale di Napoli. La sua è una poesia netta e incisiva, che corre veloce verso la sua conclusione. Il messaggio da lei lanciato con i suoi versi è di riconciliazione e di speranza in un mondo migliore: “Il forte non senso / rosicchia e consuma. // Unica possibilità / Amare. / Ritorna l’equilibrio / col ricominciare” (Di nuovo!); “Offuscata la sapienza / libero esclusivamente l’Amore” (Ivi). Nata a Zweibrücken, in Germania, Monika Rinck ferma le sue esperienze di vita in versi che si colorano di un manifesto sarcasmo, quali: “Non posso far morire nessuno di fame. Posso lasciare / però che muoia di fame. Sì, certo, potrei dargli da mangiare. / È giusta la tua affermazione. / Ma quindi adesso l’importante è che tu prenda quello / che io forse sono in grado di darti” (Basta!). La sua è pertanto una satira tagliente e beffarda della società nella quale viviamo. Anche per la Rinck, come per la Draesner, la traduzione delle poesie dal tedesco in italiano è stata fatta da Federica Giordano.
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Cittadina russa è Anna Tumanova, che dal 2006 vive a Napoli e lavora presso l’Istituto di Cultura russa Lermontov. La sua poesia si caratterizza per novità di immagini, fresche e intense, quali: “Festeggio lo sposalizio dell’estate” (Io butto le parole al vento); “Trasformo le parole in cenere” (Ivi); “E in un angolo sulla vecchia poltrona è seduta la mia giovinezza” (Ivi); o ancora: “Lasciate che il cuore che ama incontri la Fede” (La preghiera); “Lasciate che sia il cielo sempre azzurro” (Ivi). Un sottofondo di mai domo ottimismo percorre il suo dire. Vanina Zaccaria, presidente della Fondazione di cultura russa Lermontov, è anche un’esperta nel campo della ricerca sociale e delle politiche sociali. Data la molteplicità dei suoi interessi, non è da meravigliarsi se la Grecia l’affascina e se ad essa rivolge i suoi versi, in poesie piene di ammirazione e di entusiasmo: “Atene è nei miti ancestrali / Nella pietra sacra ai Propilei / Nel volo verticale di Egeo / … / Atene resta, nel granito / Al canto di cicala / Magnanima” (Terra Sacrificio). Certo, questa Terra generosa, creatrice della civiltà occidentale, ha molto sofferto per le invasioni e le guerre che l’ hanno sconvolta, ma la sua funzione di guida spirituale non può morire: resta viva nei secoli, come un faro che salva dai pericoli della barbarie, mentre il suo seme fruttifica in noi. Molto efficace infine la copertina che riproduce un olio su tavola della pittrice Eliana Petrizzi, che ben esprime il contenuto di sofferta problematicità del libro. A lettura terminata di questa Antologia poetica ci si accorge di aver incontrato in essa molta schietta poesia, espressa in diverse forme e con differenti contenuti, ma sempre con l’intento di tener desta l’ attenzione del lettore su un problema quanto mai attuale, qual è quello della condizione della donna nella società contemporanea. Scrive a questo proposito Giuseppe Vetromile nella sua puntuale prefazione al libro, facendosi voce delle poetesse qui antologizzate: “Ifigenia siamo noi, donne madri sorelle mogli figlie compagne. Siamo noi che lottiamo per la libertà e per i nostri diritti, in qualunque tempo della storia e in qualunque luogo della terra. Siamo noi, che con il nostro «sacrificio» trasformiamo e riformiamo continuamente e coraggiosamente la civiltà e la storia”. Sono queste parole che ben racchiudono il significato di questa raccolta antologica, i cui intenti a noi sembra siano stati pienamente raggiunti. Liliana Porro Andriuoli
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D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE IL RITORNO DI COCCO BILL - A 20 anni dalla scomparsa, il grande e indimenticabile fumettista Benito JACOVITTI (Termoli, 9 - 3 - 1923/ Roma, 3 - 12 - 1997) viene ricordato e riproposto con l’ istituzione di un Museo a lui dedicato a Roma (in via Roberto Raviola 8) e la pubblicazione a colori di più di 45 volumi di grande formato, con cadenza periodica, da parte dell’editrice Hachette Fascicoli s. r. l. di Milano, diretta da Paola Tincani, grazie all’impegno della figlia del disegnatore, Silvia Jacovitti, e di studiosi del fumetto come Luca Boschi. I volumi per ora programmati, con uscita a partire dal 18 agosto 2017, hanno come tema e personaggio principale il popolarissimo Cocco Bill (ma anche il meglio di Jacovitti). Luca Boschi, nel primo volume, ne fa la storia di questo eccezionale personaggio, allacciandolo ad altri, seri e meno, dell’epopea americana e western che, negli anni del dopoguerra, furoreggiavano in albi famosi e film famosi altrettanto. In poco tempo, Cocco Bill nato sulla spiaggia di Vittoria Apuana dal grido di un venditore ambulante di “frammenti di noce di cocco” -, diviene talmente popolare, da influenzare i cineasti -
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i film spaghetti western l’hanno ampiamente copiato - e da essere conteso da quotidiani famosi come Il Corriere della Sera e Il Giorno, nonché da settimanali strepitosi e inobliabili, Il Vittorioso in testa. Cocco Bill è diverso da tutti gli altri eroi western, perché - come scrive Luca Boschi - “innesterà in modo deciso la salutare marcia dell’ironia. Contrastando con il suo predecessore Pecos, privo di pistole e munito solo di lazo politically correct, Cocco Bill farà cantare le sue sputafuoco senza lesinare proiettili, con soddisfazione dei becchini e anche dei diavoli dell’Inferno, che talvolta irrompono dal terreno per ringraziare il loro costante fornitore di anime nere”. Egli, comunque, non userà sempre e solo le pistole, ma anche calci e pugni (e ne dice qualcosa l’influenza che avrà sui film di Bath Spencer e Terence Hill), né sempre sarà lui il protagonista risolutore, perché, spesso, a toglierlo dai guai, verranno involontariamente altri personaggi e il suo cavallo Trottalemme. Quello di Cocco Bill è un mondo fantastico, ma per nulla vuoto; Benito Jacovitti - o Lisca di pesce, come amava firmarsi - e i suoi personaggi son tutti per lo più po-
sitivi e prendono anche se ironicamente posizione su temi e argomenti vari, anche spinosi. L’ironia e lo sberleffo sono i mezzi migliori per combattere certe battaglie, secondo il detto latino castigat ridendo mores. Alla morte di Benito Jacovitti, Cocco Bill ha continuato ad uscire in altre storie, grazie al disegnatore erede jacovittiano Luca Salvagno. I personaggi di Jacovitti sono centinaia, hanno tutti un forte carattere, sono portatori di valori e meriterebbero di essere rimessi in circolazione, anche per contrastare i tanti altri che furoreggiano e sono meno educativi. Domenico Defelice *** 2° APPUNTAMENTO “GRUPPO DI LETTURA Leggiamo Domenico Defelice” - Il 21 settembre, alle ore 17, nella Sala Conferenze della Biblioteca “Ugo Tognazzi” di Pomezia - Largo Catone -, si è tenuto il secondo incontro del “Gruppo di Lettura Leggiamo Domenico Defelice”, coordinato da Maria Antonietta Mòsele e voluto dalla Direttrice, Dottoressa Fiorenza Castaldi. Il primo risale a giovedì 20 luglio, allorché sono intervenuti Giu-
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seppe Argentini, Andrea Bibbi, Elena Claudiani, Giuseppe Giorgioli, Antino Marandola, Anna Maria Marinone, Luca Paonessa, Marcello Risorto e Maria Soleo. Costoro erano presenti quasi tutti a questo nuovo appuntamento, nel quale sono stati letti brani e ricordati alcune opere di Defelice, come To erase please?, Resurrectio, Alberi?, Dialoghi all’esca, Nenie ballate e canti, nonché alcuni saggi, come quello di Orazio Tanelli. In sala, oltre il prof. Massimiliano Pecora, che è intervenuto, c’erano anche l’ex assessore prof. Achille Di Domenico, l’ex corrispondente de Il Tempo Franco Di Filippo eccetera. *** EVENTO AL VITTORIALE DEGLI ITALIANI - Il prof. Giordano Bruno Guerri, Presidente della Fondazione Il Vittoriale degli Italiani, ha concluso il percorso per portare proprio al Vittoriale degli Italiani un ulteriore prezioso contributo storico, civile e civico con l'evento 'ANCHE UN'ITALIA CHE', fissato per il giorno 16 settembre, a partire dalle ore 18,00 e proseguito fin nella sera inoltrata. Nel Manifesto di presentazione si leggono parole di G. d'Annunzio, rese motrici di riflessione e di approfondimento, affiancate a quelle del Presidente stesso: “ 'Ma c'è anche un'Italia che guarda in alto, che mira lontano', disse Gabriele d'Annunzio in un discorso del 3 agosto 1922. 'C'è anche un'Italia che ricorda, che riconosce, che afferma, che lavora, che aspetta, che patisce e del suo patimento fa il
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suo coraggio, che ardisce e del suo ardimento fa il suo dovere'. Ci siamo ispirati alla frase orgogliosa del Poeta poi pubblicata nel Libro ascetico, per celebrare questa giornata in onore dell'eccellenza italiana. Le eccellenze del Vittoriale, oggi, sono il Convegno su Pascoli e d'Annunzio, l'apertura del nuovo Museo L'automobile è femmina con il recupero dell'antico parcheggio, l'ampliamento del bookshop, l'apertura della Terrazza dello Schifamondo. Ma l'eccellenza italiana non è soltanto quella del passato, e celebriamo quella odierna - e futura con l' inaugurazione del portale Genio Vagante, dedicato ai nostri giovani che lavorano e studiano all'estero e con la presentazione di un progetto dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Per questo motivo abbiamo scelto una fotografia del Portico del Parente, con Dante e Michelangelo, scattata da un maestro dei nostri tempi, Aurelio Amendola. Passato, presente e futuro si uniscono, per un'Italia che...” Giordano Bruno Guerri Presidente della Fondazione Il Vittoriale degli Italiani. Grazie all'instancabile ed illuminato dinamismo di questo studioso dal carisma istituzionale, nazionale ed internazionale, i momenti importanti della cerimonia hanno visto il coinvolgimento, presso l'Auditorium, dopo la presentazione in anteprima del nuovo documentario del Vittoriale, del prof. Francesco Darelli, Direttore dell'Istituto Italiano di Cultura di Montreal per la Presentazione del portale GENIO VAGANTE; a seguire la presentazione del progetto editoriale TRECCANI - FONDAZIONE IL VITTORIALE DEGLI ITALIANI, con interventi di Massimo Bray e Aurelio Amendola, mentre per la presentazione dei nuovi spazi, il Museo L'automobile è femmina e il Nuovo Bookshop è intervenuta la dott. Cristina Cappellini, Assessore alle Culture Identità e Autonomie di Regione Lombardia. Ringrazio qui pubblicamente il Presidente dell'invito che mi è stato inoltrato: sono stata nell' impossibilità di poter partecipare a questo straordinario evento, ma mi riservo una 'tre giorni' al Vittoriale, per infiammare con tutte queste nuovissime iniziative ancor più la mia curiosità ed incontrare in dialogo il Presidente G. B. Guerri, respirando una dimensione dilatata della modernità che si spinge oltre, in intuizioni che hanno le loro più profonde radici nello studio assiduo, nella conoscenza fonte di progetti e di proficui cambiamenti, nella valorizzazione delle qualità intellettuali e pratiche dei giovani italiani coinvolti. Ilia Pedrina *** L’ANNO DELL’INDIA - Rosella Fanelli , docente di Danza Kathak del Nord India, è già stata ospitata
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sulle pagine di questa Rivista ed ora ci comunica le tappe di un evento unico nel suo genere, che fonde insieme Oriente ed Occidente, la danza Kathak del Nord India e gli odori dell'Oriente indiano respirati da Pier Paolo Pasolini, in viaggio verso quelle terre con due amici. Questi i temi nella cornice della Torre di Chia, in provincia di Viterbo, acquistata da Pasolini e sua amata dimora fino all'ultimo. Domenica 24 Settembre alle ore 17,00 presso la Torre di Chia di Pier Paolo Pasolini, Roccaltia Musica Teatro con Fanelli International Kathak Company hanno presentato L'Anno dell'India, evento a cura di Ilaria Passeri. Riporto dal Manifesto: “Evento unico poiché offre la possibilità al pubblico di essere accolto alla Torre di Chia, luogo accessibile e visitabile solo per l'occasione. La Torre di Chia è stata inserita nel 2017 dalla Regione Lazio nell'elenco dei Beni accreditati alla Rete Regionale delle dimore, ville, complessi architettonici e paesaggistici, parchi e giardini di valore storicoartistico. L'Evento L'Anno dell'India è dedicato alla Cultura Indiana, con letture tratte dal libro L'odore dell' India di Pier Paolo Pasolini, diario del viaggio che l'autore intraprese nel 1961 in compagnia di Alberto Moravia ed Elsa Morante nel subcontinente indiano, osservando 'i gesti e le movenze della gente, seguendo i colori dei paesaggi e soprattutto l'odore della vita', a cura dell'attore Aldo Milea. A seguire spettacolo di Danza Kathak, Danza del Nord India tra le più antiche al mondo e Musica indiana Pavitr Laya (Sacro Ritmo). Shiva, il danzatore cosmico e Signore dello Yoga, danza al ritmo del Damru, compiendo il ciclo della vita-morte-vita, così come tramandato dalla tradizione dell'antica India il cui suono, colore, odore ci accompagnerà in un viaggio estetico durante questa serata... Il suono delle percussioni, magistralmente gestito da Nihar Metha, artista indiano di calibro Internazionale ci porterà nel ritmo tonante tipico della Benares Gharana la cui intensità, velocità dal lento all'accelerato darà spazio ad una speciale comunicazione tra il percussionista e la danzatrice Kathak, che risponderà attraverso il battito dei piedi avvolti da centinaia di campanelli...” (Grafica Chiara Barone). L'ideazione e la coreografia sono stati messi in atto dall'Artista Kathak Rosella Fanelli mentre Nihar Metha si è incarnato nell'esecuzione del
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tabla, strumento di percussione indiana, affiancando anche Valeria Vespaziani e Beatriz Ceccarini, danzatrici Kathak (Scuola Fanelli). Sono stati pubblicamente ringraziati Graziella Chiarcossi, mentre per l'immagine del Manifesto l'onore va all'artista Françoise Gründ e alla Maison des Cultures du Monde di Parigi. La serata si è conclusa con un aperitivo offerto da Donne Contadine, che hanno messo in condivisione tutti i loro prodotti biologici locali. Ilia Pedrina *** UNA NUOVA COLLABORAZIONE a partire da questo numero (v. p. 19) -Massimiliano Pecora è Dottore di ricerca in Letterature comparate, Teoria della letteratura e Letteratura artistica. Ha conseguito una specializzazione post-dottorale analizzando l’opera saggistica di Filippo de Pisis. Studioso di metrica romanza e di cognitivismo letterario, è autore della monografia La parola che guarda (Ar-
chetipo, Bologna 2011) e di diversi studi che, afferenti alla letteratura dell’Ottocento e del Novecento, sono tutti editi su riviste scientificamente accreditate. Delle opere analizzate da Pecora si ricordano quelle di Giovanni Pascoli, di Ardengo Soffici, di Roberto Longhi, di Filippo de Pisis e di Sandro Penna. Insegna Lingua e letteratura italiane e Latino nella scuola secondaria di secondo grado. Dirige la rubrica radiofonica di carattere culturale Dicci prof! per l’ emittente Radio Top 100 Rtv (FM 96.6 Mhz). Cura il Blog della casa editrice Leggere conviene edizioni.
LIBRI RICEVUTI LEONARDO SELVAGGI - Tito Cauchi Voce all’anima - Presentazione di Domenico Defelice; in prima di copertina, a colori, foto di Tito Cauchi, in quarta, foto di Leonardo Selvaggi; all’interno, in
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bianco e nero, altre 32 immagini - Editrice Totem, 2017 - Pagg. 168, € 20,00. - Leonardo SELVAGGI è nato a Grassano (Matera) e risiede a Torino. E’ stato dirigente superiore del Ministero per i Beni Culturali. Scrittore, poeta, saggista, ha ottenuto numerosissimi premi ed è collaboratore d’ importanti testate editoriali. Ha curato sei antologie di poesia contemporanea. Della sua attività letteraria hanno scritto centinaia di critici su giornali e riviste. Il Centro di Studi e Ricerca “Mario Pannunzio” gli ha conferito il Premio Speciale del Presidente della Repubblica per la letteratura 1988. Il 13 giugno 1989 gli è stata conferita l’onorificenza di Ufficiale dell’Ordine “Al merito della Repubblica Italiana”. Tra le opere, in versi è prosa, si ricordano: Le Ombre (1955); Diario poetico (1964); Frammenti (1970); Desiderio di vivere (1973); Vent’anni di poesia (1975); La transizione (1978); Lo sradicato ed altri scritti (1986); Pagine di un anno (1988); Le radici dell’essere (1990); L’ultimo dei romantici (1991); La croce caduta (1993); Le feste degli altri (1993); Il mattino dell’ufficio (1993); Franti pensieri d’autunno (1994); Poesie in due tempi (1996); Eterne illusioni (1997); I giorni del baratro (1998); Realtà e poesie (1998); Michele Martinelli, La terra di Lucania e la sua gente negli anni cinquanta (1998); La poesia nel Dialogo Serale di Francesco De Napoli (1999); Stimolazioni e colloqui (1999); Arpeggi di mare - Saggio etico su “pensieri di sabbia” di Graziano Giudetti (1999); Sugli assetati di ordine e di giustizia (2000); Francesco Lo Monaco (2001); Saggi sulle “Poesie di Francesco Brugnaro” (2001); Brandisio Andolfi in “Alberi curvi d’ acqua” (2001); Lontano è il tempo della notte (2001); Le ultime pagine del Duemila (2001); Andrea Bonanno pittore e saggista dell’ uomo nella sua essenzialità primordiale (2002); L’amore sopra il precipizio (2002); Vita e pensieri (2002); Poesie nella tempesta (2002); Nicola Festa il classicista sommo della Basilicata (2002); I tempi felici (2002); Iddio non conosce gli uomini (2002); L’altra valle (2003); L’anima e gli echi lontani (2003); Il divorzio e l’amore (2003); Storia e autobiografia (2003); La poesia di Carmine Manzi nella sua ultima evoluzione (2003); Ruggero Bonghi (2003); Brandisio Andolfi cantore dei tempi nostri (2003); Il nostro tempo (2004); Alle fonti dell’essere (2004); La terra tutta ci prende (2004); Poesie di sempre (2004); Sui sentieri del cuore di Maria Teresa Epifani Furno (2004); Tra crisi di transizione la poesia di Amerigo Iannacone in stimolazioni etico-sociali (2004); AA. VV. Rino Cerminara nel secondo Novecento letterario italiano (2005); L’indignazione poetica (2005); Luigi Pumpo - Poeta della vita e della Natura (2005); Gli Italiani eterni immigrati (2005);
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Letteratura di ieri e di oggi (2005); Personaggi e storia umana (2005); La costante lunare e spirituale nell’ars poetica di Isabella Michela Affinito (2005); Polvere di ossa (2005); Vincenzo Rossi voce rappresentativa del ‘900 (2005); Lo specchio del cielo - Poesie 1996-2005 (2005); Bruno Giordano cantore dei nostri tempi (2005); La poesia di Amerigo Iannacone (2006); La critica di Leonardo Selvaggi sull’arte e sulla letteratura frenniana (2006); Estrosità immaginativa e Armonia poetica di Anna Aita (2006); Dalle poesie di Antonio Vitolo: il cuore antico dell’uomo in sentimentalità ed eterno amore (2007); Natura ed umanità (2007); Dalle opere di Antonio Angelone ritornano i pensieri e le amarezze dei grandi meridionalisti (2007); Umanità e grandezza lirica di Carmine Manzi (2008); Le dolcezze della vita (2008); Dai mosaici alle poesie (2009); Il mio esilio (2009); Domenico Defelice e le sue opere etico-sociali (2009); Giudizi critici “Le avventure di Fiordaliso” di Antonio Angelone (2009); Poesia e tradizione nelle opere di Antonia Izzi Rufo (2009); Le poesie di Giovanni Cianchetti (2010); Alle fonti dell’essere e della vita - saggio sull’opera di Vittorio Martin (2010); Vittorio Martin poeta e pittore (2010); Nunzio Menna; Opere e attività culturali (2010); Il fantasma e altre poesie di Vincenzo Rossi (2010); Nel Diario di Domenico Defelice giovinezza e poesia (2011); Pantaleo Mastrodonato nella vita e nell’arte - Profilo critico dello scrittore-poeta (2011); La poesia di Francesco Terrone (2012); Il dissolversi dell’uomo moderno (2012); Luce e saggezza nella poesia di Pasquale Francischetti (2012); Le commedie dialettali di Antonio Angelone (2012); Antonio Angelone e il suo mondo ideale (2013); Le opere di Nunziata Ozza Corrado (2013); Il percorso letterario di Vincenzo Vallone (2014). ** ADRIANA PANZA - Briciole - Poesie, Prefazione di Alfredo Barbati junior; in copertina, a colori, un quadro dell’Autrice - Edizioni EVA, 2006 - Pagg. 84, €® 10,00. Adriana PANZA è nata ad Arpino il 9 giugno 1940 e vive a Isola del Liri, dove ha insegnato per anni. Si diletta di fotografia, pittura, collage, recitazione, ricerche storico e folcloristiche e poesia. A soli 3 anni è costretta a sfollare, insieme a molti altri, a Casalmoro nel mantovano. Tornata nella terra natale, vi frequenta la media; nel 1954, con i genitori insegnanti si trasferisce a Mogadiscio, in Somalia, dove frequenta il Liceo; si laurea in Pedagogia in Italia. Viaggia molto, poi, rientrata in patria, si sposa e ha un figlio, ma un’improvvisa tragedia la priva del figlio e del marito. Riprende lentamente a vivere circondata dagli affetti familiari. Partecipa a numerosi concorsi letterari riceven-
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Ottobre 2017
do numerosi riconoscimenti. Fa parte del gruppo “Poeti Ciociari”. ** ADRIANA PANZA - Tra storia e vita - Prefazione di Aldo Cervo; in copertina, a colori, “Il Nomade, tecnica del “papier collé” dell’Autrice - Edizioni EVA, 2014 - Pagg. 192, € 14,00.
TRA LE RIVISTE ILFILOROSSO - Semestrale d cultura diretto da Luigina Guarasci, responsabile Pasquale Emanuele - via Marinella 4 - 87054 Rogliano (Cs) - email: info.ilfilorosso@gmail.com Riceviamo il n. 62, gennaio-giugno 2017, con saggi di: Pietro De Leo, Giuseppe Leonetti, Massimo Conocchia; poesie di: Pasquale Emanuele, Giorgio Mattei, Domenico Cara, Francesco Bazzarelli, Enza Capocchiani, Dimitris Kanellòpulos, Fabio Strinati, Enzo Ferraro; tra le Note e Noterelle, segnaliamo quelle di Annalisa Saccà e Carmine Chiodo. La rivista organizza pure il Premio Nazionale di Poesia e Narrativa Francesco Graziano, il cui regolamento può essere richiesto alla direzione, web: www. ilfilorosso.it * SENTIERI MOLISANI - Rivista d’Arte, Lettere e Scienze, direttore editoriale Antonio Angelone, responsabile Massimo Di Tore - via Caravaggio 2 86170 Isernia. E-mail: sentieri.molisni@gmail.com Riceviamo il n. 2 (50) del maggio-agosto 2017, del quale segnaliamo: “Anna Aita, Sul filo della memoria e L’ultima volta”, di Salvatore Veltre; “Antonio Angelone: La valle dei ricordi nello scrigno del tempo”, di Isabella Michela Affinito; “Vanno incrementati l’agricoltura e l’artigianato insieme con altri lavori a carattere sociale”, di Leonardo Selvaggi; “Antologia del Premio Nazionale Histonium” e “La donna di Giorgio Bàrberi Squarotti”, di Antonia Izzi Rufo; “Antonio Angelone: Un’arte fondata su una originale misura umana”, di Anna Aita; “Imperia Tognacci: Anime al bivio”, di Nazario Pardini; “Sei personaggi (ancora e sempre) in cerca d’Autore. Pirandello a centocinquanta anni dalla nascita (1867 -2017)”, di Luigi De Rosa; “Antonio Angelone: Il pianto dell’usignolo”, di Tito Cauchi; poesie di Isabella Michela Affinito, Gabriella Frenna, Giovanna Li Volti Guzzardi, Luigi De Rosa eccetera. * POETI NELLA SOCIETÀ - Rivista letteraria, artistica e di informazione, Presidente Pasquale Fran-
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cischetti, direttore responsabile Girolamo Mennella - via Parrillo 7 - 80146 Napoli - E-mail: francischetti@alice.it Riceviamo il n. 84, settembreottobre 2017, sul quale incontriamo, a diverso titolo, nomi o firme di nostri amici e collaboratori, come Giovanna Li Volti Guzzardi, Isabella Michela Affinito, Susanna Pelizza, Giuseppe Manitta eccetera. AI COLLABORATORI Inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione) preferibilmente attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è gradito un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (copia cartacea) Annuo, € 50.00 Sostenitore,. € 80.00 Benemerito, € 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia, € 5,00 (in tal caso, + € 1,28 sped.ne) Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 N076 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio