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Da Barbablù a Majorana, a donne di eccezionale cultura di ieri e di oggi
«OTTO SAGGI BREVI»: UN BEL LIBRO DI
MARINA CARACCIOLO di Luigi De Rosa ON l'inedito “Otto saggi brevi” Marina Caracciolo, nata a Milano ma fin dall'infanzia residente a Torino, ha vinto il Premio letterario “I Murazzi-Torino 2016”, Associazione Culturale Elogio della Poesia, con dignità di stampa, nella Sezione Saggistica. Un campo, quello della Saggistica e della Critica letteraria, oltre a quello della Critica Musicale, in cui la Caracciolo ha già scritto molto e conseguito numerosi riconoscimenti, dopo avere studiato Storia della Letteratura italiana moderna e contemporanea con Giorgio Bàrberi Squarotti, recentemente scomparso, ed essersi laureata in Storia della Musica con una tesi su Brahms. Dal luglio 2017 gli Otto saggi brevi sono divenuti un libro che è andato ad inserirsi al n° 51 della Collana “Novazioni” della Casa Editrice Genesi, di Torino (di Sandro ed Eleonora Gros Pietro). Un libro ben scritto e interessante, il cui contenuto di raffinata cultura, espresso con stile semplice ma tecnicamente efficace, è già anticipato fin
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All’interno: Memorie gioiose di un vecchio docente, di Emerico Giachery, pag. 5 Arturo Farinelli, di Giuseppe Leone, pag. 7 Luigi Ferrajoli, costituzionalista, di Ilia Pedrina, pag. 10 Fortunato Seminara e altri scrittori, di Franco Liguori, pag. 13 I due versanti della poesia di Calabrò, di Elio Andriuoli, pag. 17 Anime al bivio di Imperia Tognacci, di Luigi De Rosa, pag. 20 L’anomala 57a Biennale di Venezia, di Andrea Bonanno, pag. 22 Il primo dramma del bambino, di Antonia Izzi Rufo, pag. 24 Corrado Calabrò: La scala di Jacob, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 25 Caterina Felici: Dentro la vita, di Domenico Defelice, pag. 27 San Giuseppe Cottolengo, di Leonardo Selvaggi, pag. 28 Il Tempo, Rovelli, Verlinde..., di Giuseppe Giorgioli, pag. 33 Corrado Calabrò: La scala di Jacob, di Susanna Pelizza, pag. 36 Maria Russo, di Antonio Visconte, pag. 37 I Poeti e la Natura (Baudelaire), di Luigi De Rosa, pag. 39 Notizie, pag. 51 Libri ricevuti, pag. 55 Tra le riviste, pag. 57 RECENSIONE di/per: Isabella Michela Affinito (Leonardo Selvaggi panoramica sulle opere, di Tito Cauchi, pag. 40); Piero Carbone (In città al tramonto, di Nicola Lo Bianco, pag. 41); Tito Cauchi (La scala di Jacob, di Corrado Calabrò, pag. 42); Tito Cauchi (Ricordi cocenti, di Giovanna Li Volti Guzzardi, pag. 43); Roberta Colazingari (La scala di Jacob, di Corrado Calabrò, pag. 43); Roberta Colazingari (Ricordi cocenti, di Giovanna Li Volti Guzzardi, pag. 44); Antonio Crecchia (Ungaretti: vita di un uomo, di Noemi Paolini Giachery, pag. 44); Domenico Defelice (Le stanze inquiete, di Lucianna Argentino, pag. 45); Domenico Defelice (Oltre le stelle, di Antonia Izzi Rufo, pag. 46); Emerico Giachery (Attimi e infinito, di Caterina Trombetti, pag. 47); Antonia Izzi Rufo (Ricordi cocenti, di Giovanna Li Volti Guzzardi, pag. 47); Maria Antonietta Mòsele (La scala di Jacob, di Corrado Calabrò, pag. 48); Ilia Pedrina (Come distinguere scienza e non scienza, di Carlo Dalla Pozza e Antonio Negro, pag. 48); Liliana Porro Andriuoli (A pezzi, a bocconi, di Gianna Miola, pag. 50). Lettere in Direzione (L. Vasile, I. Pedrina, E. Giachery), pag. 58 Domenico Fatigati e il “Linearismo cromatico”, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 62 Inoltre, poesie di :Mariagina Bonciani, Loretta Bonucci, Rocco Cambareri, Antonio Crecchia, Salvatore D’Ambrosio, Enrico Ferrighi, Béatrice Gaudy, Filomena Iovinella, Antonia Izzi Rufo, Giovanna Li Volti Guzzardi, Adriana Mondo, Gianni Rescigno, Leonardo Selvaggi, Antonio Visconte
dall'illustrazione di copertina, riproducente un particolare di “Madonna col Bambino e coro di angeli”, di Sandro Botticelli (1477). Molto fine anche il corredo di bibliografia essenziale in calce ai saggi, a sostegno ulteriore della
serietà di studio e di lavoro dell'Autrice. Il primo degli otto saggi è dedicato a Barbablù. O meglio, al ciclo favolistico ruotante attorno al personaggio di Barbablù. Dalla favola di Charles Perrault, cioè dalla fine del
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Seicento, con accenno al precedente Gilles de Rais del secolo XV, fino a risalire a Maurice Maeterlinck e alle metamorfosi del Novecento. Questo notevole, approfondito saggio (che con le sue 24 pagine è il più esteso degli otto) è corredato da una vasta e puntuale bibliografia nelle Note a piè di pagina. Da notare, in questa storia critica del personaggio di Barbe Bleue, anche la colta analisi degli spettacoli musicali ispirati a grandi musicisti (come Bela Bartòk e Paul Dukas) dalla storia e dal personaggio stesso. Il mito di Barbablù viene rivisitato in modo originale anche dallo scrittore Anatole France. Si aggiunga a questo saggio il sesto, dedicato alla misteriosa e inquietante scomparsa del grande fisico catanese Ettore Majorana, o meglio, al libro pubblicato nel 1975 da Leonardo Sciascia su tale scomparsa. E anche qui la trattazione è ampia e approfondita, nonostante si tratti di un saggio “breve”. E vasti sono i riflessi di questo argomento sulle problematiche attinenti ai due secoli a cavallo dei quali stiamo vivendo. Non si può parlare di suicidio del Majorana; non ce ne sarebbero i motivi, quanto, piuttosto, di una volontaria sparizione dello scienziato perché pentito di avere, di fatto, contribuito alla scoperta di un'arma di distruzione di massa terrificante, foriera di altre scoperte ancor più terrificanti e distruttive. Ci rimangono sei saggi, singolari, che hanno la caratteristica accomunante di essere dedicati a donne di vari Paesi e Secoli che hanno primeggiato per virtù di dottrina e di arte, di animo e di spirito. Si tratta di quelli dedicati a Hildegard von Bingen, “la più grande testa femminile del secolo XII; a Isabella di Morra; ad una poetessa messicana del Seicento, Juana Inès de la Cruz; ad Irène Nemirovsky; ad Anna Ventura e a Natalie Babbitt. Con Hildegard siamo in pieno Medio Evo,
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nella rovente lotta per le Investiture fra Papato e principi. Ma in un Medio Evo sempre più scosso e infiltrato da elementi e personaggi nuovi, prodromi dell'Umanesimo e del Rinascimento dei secoli successivi. Lei vive all'ombra di un convento benedettino fino all'insolita età, per quei tempi, di 81 anni, ma non si estrania dal mondo esterno, anzi!, vuole essere ben consapevole della vita che la circonda e trova il tempo di scrivere importanti lettere a regnanti, filosofi e guerrieri del tempo (Federico Barbarossa, Enrico II di Inghilterra, Irene di Bisanzio ed Eleonora di Aquitania, Goffredo di Buglione e Abelardo...). Come una santa Caterina ante litteram. Scrive opere mistico-teologiche di altissimo livello, opere sui poteri terapeutici della Natura, ricettari ante litteram (era un'ottima cuoca nel convento di cui era badessa...). A sessant'anni, nonostante la salute cagionevole, intraprende viaggi di predicazione nella sua Germania, da Magonza a Wurzburg, da Bamberga a Treviri, ed oltre. Ma “un posto di assoluto rilievo le spetta di certo nell'ambito della storia della musica del Medioevo” scrive compiaciuta l'Autrice, che anche di storia della Musica, e di critica musicale, se ne intende. E aggiunge: “In un periodo storico di grande fioritura del canto gregoriano, Hildegard dimostra di conoscerne a fondo i principi ma anche di saper prendere le distanze dai canoni del suo tempo con uno stile moderno e non convenzionale...” Con le Considerazioni a proposito della poesia e della vita di Isabella di Morra la Caracciolo ci fa poi conoscere una singolare (e infelice) poetessa vissuta nella Basilicata della prima metà del Millecinquecento, la lettura delle cui Rime ci richiama alla mente (anticipazione mirabile di ben tre Secoli...) la poesia, la vita, lo stile, del grande Poeta Infelice per antonomasia, Giacomo Leopardi. Anche nella di Morra una giovinezza soffocata e reclusa in un “natio borgo selvaggio”, la guerra coi familiari, la mancanza di rapporti umani e letterari adeguati alla cultura e sensibilità del “poeta”. Tante analogie impressio-
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nanti, tranne che il Leopardi i suoi viaggi e i suoi rapporti letterari li avrà (a Roma, Bologna, Milano, Firenze, e soprattutto a Napoli, grazie anche all'amico Antonio Ranieri) mentre la povera Isabella vivrà praticamente prigioniera nel suo castello, e finirà addirittura barbaramente assassinata da tre dei suoi fratelli maggiori per biechi motivi di interesse... Il quarto degli otto capitoli del libro è dedicato ad Una poetessa messicana del Seicento, Juana Inès de la Cruz. Troppo intelligente e troppo colta per una suora (quindi, donna...) che vive nel secolo della Controriforma, diviene famosa per la sua cultura immensa (mette insieme una Biblioteca di oltre 4000 volumi...) e per la sua ottima produzione letteraria, fino a diventare, anche per ciò, insopportabile agli occhi del'Arcivescovo di Città del Messico che la perseguita e disprezza fino a plagiarla, a costringerla a trascurarsi e a morire di peste a meno di quarantasei anni... Pare che l'alto Prelato si rifacesse, tra l'altro, ad una frase di San Paolo (Prima Lettera ai Corinzi) che suonava così “Mulieres in Ecclesiis taceant: non enim permittitur eis loqui”. E per don Francisco Agujar y Seijas (un misogino...) suor Juana parlava decisamente troppo. Passeranno circa centocinquanta anni prima che si torni a parlare di lei e della sua produzione letteraria, una delle più importanti dell'Età Barocca. Il quinto capitolo di questo volume di “Otto saggi brevi” è dedicato ad una scrittrice di origine russa figlia di un banchiere ebreo ucraino, Irène Némirovsky, che, nata nel 1903, ha vissuto circa 39 anni soltanto, essendo morta nel 1942 nel campo di sterminio nazista di Auschwitz. Ebrea, avvenente, troppo colta (parlava correntemente cinque lingue), troppo intelligente e forse troppo sincera, ha suscitato opinioni controverse. Fatto sta che, come scrittrice, ha affidato il suo ricordo nel mondo delle lettere ad un romanzoracconto lungo che è un capolavoro di sublime lirismo, L'enfant génial (edito in Italia sia da Adelphi che da Passigli, che le ha procurato non solo ammirazione ma anche critiche metaletterarie. Contro di lei si è esercitata non
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solo la preconcetta critica antisemita ma anche l' avversione e il dispetto della sua stessa razza. “Ebbe a subire – come precisa la Caracciolo – l'antipatia della stessa intellighenzia ebraica per il fatto di tracciare spesso nei suoi racconti un ritratto ironico, obiettivo ma eccessivamente distaccato, se non pure in certi casi grottesco, caricaturale e beffardo, di tanti personaggi appartenenti alla sua stessa razza, come ad esempio David Golder, il protagonista dell'omonimo romanzo (1929) che le diede un'immediata notorietà.” Il libro della Caracciolo si chiude con due saggi veramente brevi (cinque o sei pagine ciascuno) dedicati ad Anna Ventura e Natalie Babbitt. Con Anna Ventura siamo praticamente ai giorni nostri, perché la poetessa, di genitori abruzzesi, è nata a Roma nel 1936. Della sua poesia si sono occupati anche Giorgio Barberi Squarotti e Vittoriano Esposito. Partendo dagli oggetti più disparati, nature morte alla Vermeer, simboli inequivocabili delle precarietà umana, si giunge con naturalezza al brivido dell'infinito. La Caracciolo parla di realismo e simbolismo, un simbolismo originale e moderno “...che sembra celare tuttavia una segreta colleganza con la teoria degli oggetti insita nelle nature morte della pittura fiamminga...”. Campeggia il silenzio delle cose, che, con un linguaggio semplice e familiare, si esprimono in formulazione di pensiero e in palpito vivificante di poesia. Tutt'altra musica nello spartito di Natalie Babbitt, “ritenuta una delle più importanti autrici americane di libri per la gioventù”. Si veda il suo romanzo La fonte magica (negli USA Tuck Everlasting) diventato un “classico” adatto anche agli adulti, tradotto in molte lingue. Di questo libro sono state vendute milioni di copie, e da esso è stato tratto anche un film. Un libro che affronta il mito antico dell'eterna giovinezza e della immortalità, vissuto, in questa occasione, come un dramma angosciante, una situazione senza senso. Luigi De Rosa Marina Caracciolo, Otto saggi brevi; pp. 88. Genesi Editrice, Torino 2017. (Euro 10,00).
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MEMORIE GIOIOSE DI UN VECCHIO DOCENTE di Emerico Giachery
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E mi volgo indietro, e getto uno sguardo sullo sgranarsi degli anni e dei decenni impegnati nell’insegnamento della letteratura, costruttivi e vivi mi appaiono anzitutto i molti incontri umani e scambi d’ idee con i giovani, certi abboccamenti durante l’elaborazione delle tesi e il piacere di “accompagnare” i candidati all’importante, solenne cimento dell’esame di laurea; e persino – strano a dirsi – gli esami di profitto, concepiti come opportunità di colloquio cordiale e sereno, mai come controlli “fiscali”. Specialmente quando, non essendo obbligatoria la materia da me insegnata, potevo lasciare agli studenti un avvio più libero e personale, e da quello partire per un dialogo costruttivo che desse la misura della maturità intellettuale raggiunta, della passione, dei motivi delle scelte. Con la gratitudine che si deve a certi doni della vita, ricordo le occasioni di condividere con gli studenti il godimento di grandi testi di poesia: occasioni scandite dai ritmi e animate dal fluire di corsi e seminari. Ricordo il fervore illuminante della ricerca che quegli eventi preparava e alimentava. Limitata, imperfetta, fu comunque ricerca di verità e di luce. È proprio inevitabile che tanto lievito vitale sprofondi per sempre nel nulla e nell’oblio? Mi basterebbe poter coltivare la speranza che qualche minuscola fiammella, scaturita dal gran crogiuolo e cuore della cultura d’ Europa, si sia accesa in qualcuno, specie in giova-
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ni, per il tramite del mio lavoro e della mia passione; e che il lume di quella auspicata fiammella possa essere anche spirituale, non intellettuale soltanto. So bene che spirituale è vocabolo inviso a molti, e non soltanto di estrazione materialista. Non mi lascio certo spaventare dalle parole né da chi si spaventa per le parole, e vado dritto per la mia strada, tanto più cara quanto più personale e appartata. In questo caso la qualifica di spirituale condensa per me più d’un aspetto della comunicazione didattica. Mi limito qui a chiarire un solo aspetto, centrale. Ciò che quel termine può significare nel momento dell’ incontro col testo poetico, molto meglio di me lo fissano le parole di un indimenticabile pensatore e amico, Rosario Assunto: «sempre altro dice la poesia, ad ascoltarla e a leggerla; proprio perché eccede rispetto alla comunicazione, e per questo acquista quel senso [...], che ci solleva al di sopra della nostra umana caducità». Ecco: di quel “senso”, nell’ interpretazione della poesia (ma non soltanto in quella!) vorrei essere stato, qualche volta almeno, docile e fedele messaggero. Da oltre vent’anni anche questa lunga stagione di seducenti studi, di insegnamento appassionato, si è conclusa. Ho continuato a studiare, a scrivere, ma mi è mancata la gioia della comunicazione diretta con i giovani. Tra i tanti corsi, ricordo con particolare nostalgia i corsi su Montale (al quale ho dedicato con amore uno dei miei ultimi libri intitolato Per Montale). Testo dopo testo si percorreva insieme un itinerario di poesia, che era anche un itinerario di conoscenza e di apertura al mondo. Incontrare ex-allievi è per me sempre una gioia. Anche mentre visitavo il Castello di Praga mi capitò di incontrare una ragazza che si era laureata con me. Ci abbracciammo, contenti. Quel po' di luce che, con molte perplessità, mi sembra di esser riuscito a trasmettere e suscitare tramite le epifanie dei grandi testi
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poetici attivati, ma spero non sopraffatti, dall' atto maieutico dell'interpretazione, proviene, comunque, non dal mediatore-interprete, bensì dai testi stessi, e a sua volta perviene ai testi da aspetti e valori dell'esistenza. Ho detto qualche volta, in modo certo troppo semplicistico ma forse efficace, agli studenti, che noi siamo arpa eolia di un'arpa eolia: quella dei testi, la quale a sua volta fa vibrare folate del gran vento dell'esistenza. Se poi l'esistenza, come tendo a credere, si fonda e s'avvalora nell'Essere, un’eco sia pur tenue e remota di quell' Essere deve pur sussistere nelle grandi voci della poesia e del pensiero. A quell’eco, forse, al nostro sintonizzarci con esso mediante gli strumenti offerti dalla filologia, dalla sensibilità e dal gusto, si deve in parte la gioia che scaturisce dalla trasmissione interpretativa di un testo poetico che ci attraversa e trascende. Gioia, anche, di una vittoria sul silenzio e sul nulla, ottenuta col far rivivere attraverso il testo vita e storia in esso coagulate, gioia come di proustiano temps retrouvé. L'interpretazione (che è anche “esecuzione”) riuscita di un grande testo è sempre un rito, ha una sua liturgica sacralità. Di questo rito, il pubblico (e tanto più un pubblico di discepoli), come in ogni autentico rito, è partecipe, e a suo modo “ministro”. Quando mi sembra di essere riuscito a ufficiare il rito adeguatamente - e ciò avviene non senza una sorta di lucido rapimento - in me scaturisce un'onda di affetto e di gratitudine sia verso il testo sia verso il coro silenzioso degli ascoltatori. Mi è caro che questa pagina di memoria si concluda con una nota di gratitudine. Emerico Giachery
DAVANTI A UN’ANFORA ETRUSCA Lùsie, fanciulla etrusca, hai nel calor degl’occhi l’ansia l’ardor la vita. Vestale della Diade,
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Vestale d’Urcla e Velthe, divinità sepolte nell’ombra e nel mistero. Composita bellezza sprigiona la tua effige sull’anfora scalfita. Capelli neri neri, gl’occhi caldi e lucidi, alta la bella fronte, fianchi sottili e stretti, la pelle d’alabastro, le gambe affusolate. E le mani sollevi nella danza, in alto, a salutar l’Aurora. Chi fu che ti ritrasse, artefice divino? Spira bellezza e incanto la grazia del tuo corpo. Per la danza eri nata e per il canto, Lùsie, il giovane Metùl portasti al Bulicame. Métul, Larthe di Tuscia, il venticinquesimo in ordine di tempo. Piacesti ai Lucumoni, piacque il tuo geto eroico. A Métul non cedesti, supremo sacerdote della Diade Velthe e Urcla. Un tempio di sotterra, nella sacrale zona di Riello e Macchia Grande, t’eresse il Lucumone e il popolo d’Etruria. Non cedesti all’amore, a sofferenze arcane. Il gorgo preferisti del Bulicame ardente e trascinasti teco il giovane Metùl. Empie l’aura il tuo spirto, vagando pe’ Cimini, Lùsie, splendore etrusco, bella ragazza etrusca. Enrico Ferrighi Da Carmina - Ed. Pomezia-Notizie, 1983
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ARTURO FARINELLI NEL CENTOCINQUANTENARIO DALLA NASCITA di Giuseppe Leone
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RTURO Farinelli (Intra, 1867 - Torino, 1948) è giustamente definito uno dei comparatisti italiani di maggiore autorità: “una testimonianza delle tappe percorse dalla cultura italiana” dell’ultimo scorcio del sec. XIX sino ad oggi “nella lotta tra il metodo storico erudito e il metodo critico estetico” (203). Così Giuditta Podestà apre la sua monografia Arturo Farinelli e il comparatismo letterario, apparsa in appendice nel suo saggio L’Oriente dimensione dell’anima romantica, nelle Edizioni Di Stefano di Genova, nel 1966, in vista del centenario dalla nascita del valente critico; e nel 2011, ancora in appendice, in un saggio di AA.VV. a cura di Giuseppe Leone, L’ottimismo della Conchiglia. Il pensiero e l’opera di Giuditta Podestà fra comparatismo e europeismo, edito dalla Franco Angeli di Milano. E di rincalzo, la comparatista, cosciente di aver a che fare con un intellettuale non sempre riconosciuto come la sua opera avrebbe
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richiesto, continua dicendo che “proprio per questo valore di testimonianza, Farinelli si inserisce, non solo nel quadro della critica letteraria italiana, bensì in quello del comparatismo europeo” (203). Si tratta di un breve saggio suddiviso in sei capitoletti, attraverso i quali la Podestà ripropone alla critica e alla storia letteraria una presa in esame del metodo da lui perseguito e dei risultati da lui raggiunti, “nonostante i mancati coordinamenti e le strutturazioni incompiute che le singole opere di lui possono presentare di fronte ai metodi attuali ben altrimenti provveduti e sicuri”(203). Un metodo – secondo la studiosa - che esalta la repubblica ideale della Weltliteratur (letteratura universale), in nome del primato dello spirito nonostante tutte le contraddizioni e le smentite, ma tale da realizzare un superamento della dialettica hegeliana, fino ad opporsi agli orientamenti romantici decadenti e al pseudo scientismo positivistico con un umanesimo senza frontiere, che dal chiuso soggettivismo romantico si discosta per universalità umana e, lungi da ogni senso di estraneità, si sa ovunque spostare nel cuore del mondo, per pulsare all’unisono in corrispondenza diretta. E in effetti, Giuditta, in questo carattere d’onnipresenza che funge da decolorante storico, per usare l’espressione di Santoli, vi scopre “l’attitudine di Farinelli a creare un tempo, una durata, uno spazio interiori che sanno dare attualità a tutto lo sforzo creativo universale, spostandolo su un piano di assoluta presenza” (217). Così, se il Weltgeist (lo spirito del tempo) è un mito per Croce, e come tale non può identificarsi con il concetto storico, nell’impostazione di Farinelli, esso dà senso e dignità alla storia, e in esso la letteratura di tutti i tempi e di tutti i paesi si riscopre viva e concreta, libera, geniale, primum creativo, orientato sul principio universale e razionale in cui esso Weltgeist si realizza, con irruzioni e sintesi sempre nuove e sempre più vaste, immortali nella loro essenza (217). Sembrerebbe, allora, superfluo affermare
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che questo Farinelli di Giuditta si muova in senso antiorario rispetto alle lancette dell’ estetica crociana e getti sul versante della critica letteraria le basi del comparatismo, soprattutto quando esso riguarda il circuito di “accostamenti, di amicizia, di valutazioni individuali e collettive tra tutti i popoli che parteciparono al movimento umanistico, con fede nei valori formali ma specialmente in quelli umani e civili che esso rappresentava; un comparatismo, insomma, che “porta a profilare una prospettiva sicura alla critica storico-letteraria che voglia definire la vera portata e l’intrinseca unità dell’umanesimo nella formazione dell’attuale civiltà europea (207). È a questo modo - scrive Giuditta - che Farinelli vuole tessere una storia nuova dei rapporti tra gli uomini: la storia degli incontri degli uomini civili e colti, che intendono muoversi sotto il segno degli ideali positivi, non della distruzione e della morte; dell’ intesa a largo raggio, non dell’isolamento mortificante, sì che le categorie su cui si muove la sua ricerca sono sempre più quelle d’arte, di poesia e di cultura (209). Sono quelle legate al suo gusto per la letteratura odoeporica, attinte sia all’umanesimo, sia ai principi dell’ umanitarismo e del cosmopolitismo settecentesco. E, con il fine di mettere in risalto la sua capacità di spostar prospettive e di aprire nuovi indirizzi dell’ermeneutica e della critica, la Podestà cita ad esempio gli sviluppi da lui dati alla ricerca del Bedier sulla tradizione manoscritta e orale delle chansons de geste, presente nei punti
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cruciali del pellegrinaggio a Compostela, e la trama di incontri tra umanisti e mecenati, inglesi e italiani, dalle nozze del conte di Kent che sposò Lucia (figlia di Barnabò Visconti, 1407), alla funzione mediatrice della Francia che all’Inghilterra trasmise, non solo i nostri masks e balli, ma tanta nostra letteratura (come il Petrarca di Ronsard, il Machiavelli del Gentillet), all’interpretazione demoniaca data al pensiero machiavellico da parte degli inglesi in genere e dalla critica moralistica oggi a tutti nota (208). Ma non solo, anche i rilievi che Farinelli fece sugli scambi italo- germanici, sull’umanesimo germanico, per esempio, di cui sottolineò la pacata malinconia, il senso idillico, l’idealità neoplatoneggiante, la singolare passione per l’archeologia e per la classicità letteraria antica (209). Per Giuditta, allora - val la pena ribadirlo Farinelli è uno studioso solo a torto accusato di mancare di senso storico e criticato per il suo modo di contrapporre sogno a sogno, perché, secondo lei, non si è tenuto conto che al concetto di un divenire meramente storicistico, in un grigio e non qualificato succedersi di eventi, l’illustre germanista contrappone il concetto di una storia identificata con la civiltà nei suoi segni più alti: come cultura che vede il suo primum nella produzione artistica (204). Perciò, se Farinelli, in parte per le momentanee smentite della tragica realtà contingente, in parte per il rigido veto dell’ estetismo crociano, in parte per l’inorganicità degli studi letterari universitari, non ha potuto sviluppare in tutte le sue implicanze morali e scientifiche l’indirizzo comparatistico dei suoi studi, è anche vero, per la Podestà, che ora la critica recente più provveduta sottolinea motivi già presenti nella ricerca e negli studi di lui, quali i concetti di unità nella varietà, di disinteressata fratellanza umana, d’ interpretazione semantica, di scambio tra categoria spaziale e temporale, di funzionalità fiduciosa, e li inquadra in aggiornati criteri di cosmopolitismo col riferire l’opera letteraria ai valori dell’epoca che la espresse assieme a quelli di tutti i periodi successivi “poiché l’ opera è insieme eterna e storica”, come dice
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R. Wellek con un concetto di tempo e di sincronizzazioni simili a quelli che ebbe Farinelli nelle sue intuizioni (218). Il tutto, secondo Giuditta, a dimostrazione che oggi, nel mondo della tecnica che vede profilarsi sempre più evidente l’istanza di un nuovo universale umanesimo, nonostante tutte le sue incompiutezze, sono proprio questi i riscontri che fanno di Farinelli un critico non superato, perché s’inserisce nel filone della cultura viva (219). Giuseppe Leone Giuditta Podestà - Arturo Farinelli e il comparatismo letterario in “L’ottimismo della conchiglia. Il pensiero e l’opera di Giuditta Podestà fra comparatismo e europeismo”. A cura di Giuseppe Leone. Franco Angeli, Milano, 2011. Euro 27.00, pp. 240.
LA LUNA IN ROMANIA La luna in Romania scende su di me con effluvi di balsami risanatori, uno stato di sopore mi [ prende; fata incantatrice la luna mi circonda col suo velo celestiale, illusione totale dominatrice. Nel silenzio dell’immensità le membra vanno con l’immaginazione, pausa di sogno sopra le vette della trasumanazione, non sono sulla [superficie dove ho sentito stretti i malleoli e i passi andare nel vuoto. La luna indoratrice di tutto lo spazio intorno mi ha condotto per vallate in fiore: ho avuto la vita, sono andato con i voli passando sopra i precipizi e le barriere costrittrici verso terre feraci di risorse paradisiache. La luna si scioglie in immagini disegnate con pallida luce e amabile portando il vaso di Pandora, la fragranza di tutti i beni, io trepidante con le mani in ansia a prendere le attrattive di rutti gli incantamenti, quelle dell’esuberanza estasiante della vita che è giovinezza piena, nella mente si sentono e sulla pelle sensazioni di velluto, soffi leggeri sul viso beato. L’amore e tutte le espansioni [libere che portano in ogni dove, come sangue che [ irrora,
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alimenti illuminanti nell’aria della primavera. Tutto me stesso, vitalità fattasi completa nelle giuste forme, tornato il mondo di prima. Anche la mamma è vicina, l’incitamento che [ accompagna in ogni momento dello sguardo lucido e il cuore colmo, la senti dentro e attorno, protezione e serena presenza: le cose si fanno, nei loro giri si aggiustano, senza troppi assilli che scompigliano. Sul pavimento, come un [occhio che guarda dal basso, la traccia dei passi che [riconosco. Io sono presente svestito di tutto, la mia struttura La fatica improba non l’ha toccata, non l’ha [ percossa. Il tempo sfiora la pietra viva, non la batte non la sgretola. Gli occhi sono magici, trovano i nei e le [lucentezze. I miei pensieri sono veloci, come l’aria escono e sono tanti, frammentandosi da una radice [comune. Disarticolati li fermo fluidi e trasparenti. Leonardo Selvaggi Torino
È COSÌ… OGNI GIORNO Come è bella la terra nuda all’alba, distesa audace sotto i suoi pastelli che s’affrettano a diventare bianchi. S’alzano, cominciando a poco a poco a perdersi, parole. S’arrendono tutte le ombre, salendo come ultimo fiato, nel chiarore del giorno. Si rimette in moto la vita: sarà nuovo frastuono di ansie e di mute speranze; che s’alzi un canto di festa e si lascino gli incerti presagi, che pure ci appartengono, celati sotto: nella terra. Salvatore D’Ambrosio Caserta
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LUIGI FERRAJOLI, COSTITUZIONALISTA, OFFRE ASPETTI DINAMICI NELL'INTERPRETAZIONE
DI HANS KELSEN di Ilia Pedrina
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N Italia il prof. Luigi Ferrajoli è assai noto per la sua ricca produzione investigativa ed innovativa del Diritto e delle basi costituzionali della Democrazia: scrivo questo termine con la lettera maiuscola perché vero oggetto dell'attenzione di questo studioso, anche quando si cimenta a lavorare su Hans Kelsen e sulla sua opera giuridica ed istituzionale. La sua più recente pubblicazione è 'La logica del diritto. Dieci aporie nell'opera di Hans Kelsen', Editori Laterza, pubblicato nel gennaio 2016. Il suo intento è molto importante perché mira a chiarire i contenuti di sintesi dell'opera di Hans Kelsen, dimostrandone aspetti di incompletezza, illuminando altresì, con coerenza, tutte quelle caratteristiche che possono essere considerate positive ed atte ad attraversare la Storia del Diritto con valenza adeguatamente efficace, affidabile, normativamente esaustiva. Vengono trattati, in dieci capitoli le dieci aporie legate ad altrettanti enunciati, dai quali partire per mettere in evidenza limiti, prospettive parziali e limitatamente attuative, possibilità stesse di approfondimenti evitate e/o non raccolte nella loro specifica valenza positiva. Intorno a questi
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enunciati kelseniani sostiene l'Autore nella Premessa: '… Mi è accaduto di rilevarle, in maniera sommaria e incidentale, in Principia iuris. Teoria del Diritto e della democrazia, dove esse sono emerse volta a volta, alla prova della formalizzazione del linguaggio teorico, in corrispondenza ad altrettante divergenze del sistema dei concetti e di tesi che venivo sviluppando rispetto all'apparato concettuale della dottrina pura. Mi è sembrato pertanto opportuno farne oggetto di una riflessione complessiva, più approfondita e, soprattutto, sistematica. Le dieci aporie, infatti - le prime otto nella teoria del diritto, le ultime due nella teoria della democrazia - sono tutte, come cercherò di mostrare, tra loro variamente connesse, oltre che talora connesse ad altre, da ciascuna implicate come sue specificazioni o corollari...' (L. Ferrajoli, Premessa, op. cit. pag. 5). Ora, nel tracciare un breve profilo di Hans Kelsen, sono forzata a tener presente non solo la sua origine ebraica tedesca, ma soprattutto la sua esperienza in terra americana di emigrazione, dopo l'ascesa di Hitler e del Partito Nazionalsocialista alla guida della Germania nel 1933. Nasce a Praga, in territorio dell'Impero Austro-Ungarico, nel 1881 da una famiglia di origine ebraica, ed il grande costituzionalista Georg Jellinek sarà suo maestro ad Heidelberg; si trasferisce a Vienna, dove consegue il titolo abilitante ad insegnare Diritto Pubblico e Filosofia del Diritto. Dotato di grandi capacità intuitive e comparative anche nel campo della sovranità degli Stati e del Diritto Internazionale, mi piace ricordare che la sua carriera si apre nel 1905 quando pubblica il suo primo lavoro sulla teoria politica in Dante, 'Die Staatslehre des Dante Alighieri': da questo prezioso avvio le sue pubblicazioni segneranno un percorso obbligato per tutti coloro che vorranno attraversare il campo 'minato' del diritto costituzionale in tempi di democrazia e di rapporti internazionali globalizzati. Hans Kelsen morirà a Berkeley, in California, nel 1973, concludendo una lunghissima carriera fatta di successi professionali, anche quale guida diretta di tante gene-
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razioni di studenti che hanno assistito alle sue lezioni. Proprio pensando a lui, ritengo che questo testo, La logica del Diritto. Dieci aporie nell'opera di Hans Kelsen, possa rappresentare un punto di riferimento importante e quasi obbligato per studenti ed appassionati di filosofia, di diritto, di storia giuridico-politica del Novecento in Europa e in America, di retorica attualizzata nella logica semantica, che aiuta a formalizzare gli enunciati, cioè quelle proposizioni fondamentali che devono dare accesso a sicurezza interpretativa. In quest'ottica si trovano presenti apparati di formule a prima vista incomprensibili, che non devono far chiudere il testo, ma spingere il lettore a valutare la propria intelligenza, a tener ben aperti gli occhi sul proprio tempo, a sfidare la propria capacità di comprendere i nuovi modi, puliti ed astrattamente rigorosi, quasi matematici, di presentare gli eventi, dandone consistenza trasferibile anche ad altri contesti, affinché non sorgano dubbi o alterazioni deformanti il messaggio. Ecco il contesto attuativo dell'opera, che ne dettaglia la forza: I. Il Sollen: una formula ellittica e un'indebita generalizzazione (pp. 3-26); II. Due tesi antipositivistiche (pp. 27-51); III. I diritti fondamentali: una nozione estranea alla teoria kelseniana (pp.52-65);
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IV. La confusione fra validità, esistenza ed efficacia e la negazione del diritto illegittimo (pp. 66-88); V. Ambivalenze sintattiche: atti e norme, persone e ordinamenti (pp. 89-116); VI. La rimozione della dimensione statica e sostanziale degli ordinamenti (pp. 117-143); VII. La tesi della non applicabilità della logica al diritto (pp. 144-178); VIII. La logica del diritto e l'illusione di una scienza giuridica puramente descrittiva (pp. 179-210); IX. La democrazia politica come autogoverno e la giurisdizione come fonte del diritto (pp. 211-226); X. La concezione solo formale della democrazia odierna (pp. 227-247). Ciascuno di questi capitoli è relativo, come abbiamo detto, ad un'aporia, da A1 ad A10, ampiamente spiegate ed integrate in superamento. Segue l'elenco delle opere in edizioni originali di Hans Kelsen, citate nel testo, a partire dal 1911 e comprendente anche pubblicazioni postume fino al 2012. Bisogna saper apprezzare Kant per arrivare a capire la fondamentale distinzione tra l'imperativo categorico che investe il campo della morale, per Kelsen il 'Sollen', il 'Dover Essere', e quello normativo riguardante l'individuo, per Kelsen il 'Sein', l'Essere, che investe il campo giuridico. Qui si mostra la prima grande differenziazione tra i due giuristi: per Kelsen solo il primo territorio è suscettibile di costruzioni legate al Diritto Costituzionale, perché il Sein, l'Essere, riguarda il campo della natura, delle contingenti possibilità sottoposte a leggi d'altro genere, le leggi del diritto naturale. Ecco formulato il contesto dal quale partire per chiarire i limiti evidenti dell'enunciato: il soggetto della norma è l'Essere, l'individuo, e la norma ne deve tenerne conto in relazione alla sanzione, altrimenti se si parte da essa prima che venga effettuato l'atto da sanzionare, non si tiene conto di categorie come l'affidabilità e l'efficacia che illuminano il Diritto civile, non assorbito dunque nel Diritto penale, come inteso da Kelsen. E proprio sulla sanzione, resa principio fondamentale
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del Diritto Costituzionale, soffermo la mia attenzione perché sto portando avanti un duro lavoro sugli articoli del Trattato di Versailles, a conclusione della Prima Guerra Mondiale, per verificare come sia stato possibile sostituire allo JUS PUBLICUM EUROPAEUM una nuova tipologia di giurisdizione di guerra, mai prima trattata, che inserisce la morale al posto del diritto, così abbraccio in tutto la tesi di Carl Schmitt, processato a Norimberga perché ritenuto responsabile dell'attività giuridica e legislativa del Terzo Reich, sotto Adolf Hitler, anzi forse accusato di essere suo consigliere diretto! Di questo, per gli intenditori che non vogliono solo fare 'assaggi', ma venir pienamente 'saziati', renderò ragione in futuri lavori. Cosa sta accadendo sotto i nostri occhi? Prima si tessono legami di ordine economico con Stati che abbiano risorse consistenti, poi si pongono sanzioni se manca uno stretto vincolo di alleanza non a termine, indi e quasi contemporaneamente si passa alla guerra come sanzione, alla Guerra Giusta, alla Just War. Cito: 'In base alla definizione dell'illecito semplicemente come comportamento giuridicamente vietato, la guerra di aggressione, essendo espressamente vietata dalla carta dell'Onu, dallo statuto della Corte penale internazionale e da talune Costituzioni come quella italiana, è un atto illecito benché (ancora) non esista la possibilità di sanzionarla. Per Kelsen, invece, a causa della sua concezione dell'illecito come presupposto di una sanzione, la guerra è talora un illecito e talora una sanzione: un illecito solo se, secondo una singolare riformulazione della vecchia dottrina della guerra giusta, è giustificata un' altra guerra come sua sanzione. Che è un'inutile incongruenza...' (L. Ferrajoli, op. cit. pag. 31). Quest'opera del prof. Ferrajoli, è chiaro, mi seguirà ancora per molto, perché è proprio nella ricca produzione di note ad approfondimento del testo che trovo inseriti particolari preziosi che portano luce sulle condizioni del muovere guerra, ancor oggi vigenti e sulla privazione della sovranità nazionale, una Car-
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ta costitutiva del Diritto dello Stato stesso, vincolata al debito interno, in antecedenza ampiamente considerato come irrilevante: prima si pongono in atto le condizioni dell'indebitamento di uno Stato, poi si chiede la restituzione del gettito prestato e se ciò non risulta possibile, allora la sovranità nazionale di quello Stato viene resa inattuale, cioè sospesa. Contemporaneamente a questo testo, che formalizza il linguaggio giuridico, portando in formule schematiche i contenuti legati al rapporto logico tra le proposizioni che compongono il Diritto Positivo e la sua Fenomenologia, ho portato avanti l'analisi dell'opera di Carlo Dalla Pozza e Antonio Negro 'Come distinguere scienza e non scienza', Carocci editore, febbraio 2017, allo scopo di verificare con maggiori dati gli elementi costitutivi di un enunciato affinché possa ritenersi 'scientifico'. Questi due testi rappresentano un aiuto concreto per costruire e mantenere viva una forte, consapevole attenzione a quanto accade in questo nostro tempo, una vera e propria 'dürftige Zeit', epoca dura e povera di Verità, come sostiene il prof. Marco Vannini. Ilia Pedrina
TERZO TEMPO Chi porterà il proprio segno, quale viandante oscillerà per una sfilante parola, entrando a capo chino, nella storia, per quella luce che si converte nel terzo tempo, affacciandosi all'alba dopo la battaglia. Che sarà di noi sulla terra? Umani rimasti terreno di memoria, persi nel pianto universale. Adriana Mondo Reano, TO
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Una preziosa raccolta di saggi di Carmine Chiodo sulla letteratura calabrese del Novecento
FORTUNATO SEMINARA E ALTRI SCRITTORI E POETI CALABRESI DEL NOVECENTO di Franco Liguori
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ARMINE Chiodo, calabrese di Caccuri (KR), è un valido ed apprezzato studioso di letteratura calabrese, che svolge da molti anni attività scientifica e didattica presso il Dipartimento di Lingue e Letterature comparate dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, dove insegna Letteratura italiana moderna e contemporanea. E’ autore di numerosi saggi sulla rimeria satirico-giocosa del Seicento, sulla poesia bernesca del Settecento e su scrittori minori dell’Ottocento. Di letteratura calabrese si è occupato a più riprese: l’opera sua più importante su questa materia è il corposo volume di circa 400 pagine “Poeti calabresi tra Otto e Novecento”, edito nel 1992 presso l’editore Bulzoni di Roma; molto conosciuta è anche l’ Antologia della letteratura calabrese, curata
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in collaborazione con Antonio Piromalli, ed edita da Pellegrini nel 2000. Recentemente, nel 2014, Carmine Chiodo ha opportunamente raccolto i suoi numerosi saggi di letteratura calabrese, apparsi in periodi diversi, in riviste e atti di convegno, in un bel volume di circa 500 pagine, edito da UniversItalia di Roma. E’ di quest’ultimo libro che vogliamo parlare in questo nostro articolo, perché riteniamo che esso costituisca un valido contributo di ricerca e di approfondimento critico su alcuni tra i maggiori autori della nostra letteratura regionale, primo fra tutti il narratore Fortunato Seminara, il cui nome compare già nel titolo del volume : Fortunato Seminara e altri scrittori e poeti calabresi del Novecento. Negli otto capitoli che lo compongono si tratta della poesia dialettale di Vittorio Butera, di Corrado Alvaro giornalista, di Mario La Cava e della sua formazione culturale, della poesia di Lorenzo Calogero, dei motivi e dello stile della poesia di Franco Costabile, mentre buona parte del libro tratta di Fortunato Seminara, dei suoi romanzi, da Baracche a Il mio paese del Sud , dei critici che hanno riservato attenzione all’opera dello scrittore di Maropati ,da Enrico Falqui a Vincenzo Paladino, da Mario La Cava ad Antonio Piromalli, da Eugenio Ragni a Geno Pampaloni, da Lombardi Satriani a Pasquino Crupi e tanti altri, di cui si riportano e si discutono i giudizi con valutazioni serene e criticamente fondate. Di ognuno degli autori trattati - si legge nell’ introduzione – “si è cercato di mettere a fuoco le caratteristiche di fondo della loro opera: lo stile, i contenuti”. In altre parole si è tentato, come afferma l’autore con troppa modestia, di offrire di ogni scrittore o poeta un “medaglione” critico il più possibile completo. E il “tentativo” è, a nostro avviso, perfettamente riuscito, perché Chiodo parte sempre da un’analisi puntuale dei testi per arrivare a delineare con chiarezza la poetica, lo stile, i temi di ogni singolo autore. Il primo saggio che apre il volume è dedicato a Vittorio Butera, il poeta dialettale di Conflenti (CZ), che scrisse nella lingua del suo paese, “uno dei più ricchi dialetti calabresi dal punto di vista lessicale”.
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Osserva giustamente Chiodo che “in Butera il dialetto è una necessità e non un pretesto per esibizionismi virtuosistici”, “il poeta pensa in dialetto, e pensa in un dialetto che è privo di traduzione letteraria, un dialetto suo che diventa poi calabrese illustre”. “Il poeta -rileva ancora Chiodo- si serve del dialetto per approfondire e presentare la psicologia dell’ uomo e nel contempo fa vedere le pieghe dei principali personaggi di un paese interiore che è Conflenti dopo il periodo post- unitario”. Interessanti le riflessioni critiche di Chiodo nel mettere a confronto il calabrese Butera col romanesco Trilussa. I due poeti scrive Chiodo – erano amici e si scambiavano le favole con parole di lode fraterna, a tal punto che a Butera venne l’ispirazione di volgere nel dialetto di Conflenti le favole romanesche di Trilussa. Ma la favolistica buteriana, per Chiodo, è diversa da quella di Trilussa, perché “deriva dal filone di una letteratura non scritta, quella che nei paesi di Calabria si narra nelle veglie attorno al focolare” e, poi, in Butera non c’è “intento di divertirsi e di far divertire”, come accade nella poesia di Trilussa; “il pietoso scenario degli alberi, degli uomini, delle bestie è, in Butera, la poesia che racconta la storia della gente calabrese”. Un contributo originale e interessante è costituito dal secondo saggio presente nel libro di Chiodo, che tratta di alcuni articoli di Corrado Alvaro apparsi su “Il Mondo” di Giovanni Amendola. Chiamato al “Mondo” dallo stesso Amendola, da lui considerato “un uomo di lotta e di cultura”, Alvaro, nella redazione del “Mondo” - scrive Chiodo - stette accanto ad Amendola e conobbe il meglio dell’intelligenza italiana di quel periodo, tra cui, sebbene di sfuggita, anche Gobetti e Gramsci. Per “Il mondo”, Alvaro fu prima corrispondente da Parigi, da dove inviò le Lettere parigine e altri scritti, e poi redattore; la maggior parte dei suoi articoli sul “Mondo” del 1925 comparve nella rubrica Lo specchio storto, una rubrica che alcuni critici considerano come una prova dell’ antifascismo dello scrittore di San Luca. Chiodo si sofferma, nel suo corposo saggio alvariano, ricco di
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lunghe note che documentano il certosino lavoro da lui svolto, sugli articoli che riguardano Parigi, la cultura e l’arte francese, ma anche su quei pezzi che si configurano come novelle o bozzetti che poi lo scrittore riprenderà in altre opere. Alvaro, “da esperto conoscitore della realtà e della città di Parigi, dà consigli a chi intende recarsi in questa città appunto, di cui conosce persino gli odori delle strade”, rileva il critico calabrese, il quale sottolinea “lo spirito d’osservazione di Alvaro che interpreta ogni gesto, ogni comportamento delle persone che vede e che incontra”. Tanti sono gli articoli alvariani apparsi sul “Mondo” presi in esame da Chiodo, e difficilissimo sarebbe farne una rassegna, sia pure sintetica. Da essi appaiono gli atteggiamenti dello scrittore, i suoi giudizi sulla letteratura italiana e tanto altro ancora; molti sono gli articoli in cui si parla di teatro, di quello drammatico e di quello dell’operetta, ma anche di moda e di arte. Sono articoli - come scrive Chiodo - “decisi e coraggiosi e possono ricordare l’impegno coevo di Gobetti e lo spirito combattivo del Risorgimento liberale”. Tre capitoli centrali del volume di Chiodo sono altrettanti saggi di notevole interesse critico su Fortunato Seminara. Ecco i titoli : “Da Le Baracche a Il mio paese del Sud : società e stile”; “Fatti, personaggi e stili in Terra amara” ; “Fortunato Seminara e la critica”. Per il critico calabrese lo scrittore di Maropati dà voce alla “secolare e oscura sofferenza delle masse contadine”, perché egli conosce molto bene i problemi della sua terra, le condizioni dei suoi abitanti, essendo vissuto a lungo in mezzo ai contadini della Calabria e avendone conosciuto e condiviso i dolori, gli amori, le speranze antiche. Seminara -rileva Chiodo – “partecipa a drammi, a miserie, a dolori della sua gente, inserendosi così nella scia di Alvaro, di Perri e di Repaci, e dando alle sue opere un impianto realistico, sociale e di denuncia, ma mentre Alvaro riproduce una Calabria mitica e favolosa, egli invece guarda con crudezza (si pensi a Le baracche) a un mondo fuori dalla civiltà moderna, quasi arcaico nelle sue strutture sociali e nella sua vita, e rap-
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presenta un mondo di affamati, di miseri, di vinti”. Esaminando il romanzo “Le Baracche” (1934), Chiodo scrive che in esso “è messo in luce il fatalismo della condizione umana e sociale dei personaggi, umiliati e offesi” e che c’è in questo romanzo “una realtà, una società fatta di miseria, ignoranza, invidia, arretratezza materiale”. L’opera rivela in Seminara un vero narratore : “lo si vede nella lenta impostazione della trama, nella sicurezza con cui colloca al giusto posto quelle tessere d’un meraviglioso mosaico che sono i personaggi di un romanzo”. Seminara, per Chiodo, è quello fra gli scrittori meridionali che “ha più profondamente aderito ai temi e ai motivi della Calabria con una precisa vocazione a testimoniare su di essa, a esprimere tutti gli elementi che ne costituiscono la storia e gli aspetti che ne rappresentano la condizione umana e sociale”; “il suo linguaggio non è masi astratto ma concreto, incisivo, aderente alla materia trattata. La prosa è nitida e lo stile assai vivo”. L’indagine critica di Chiodo non si ferma al romanzo “Le baracche”, ma passa in rassegna tutta la narrativa dello scrittore di Maropati, soffermandosi su altre opere come La masseria, Il vento nell’uliveto, L’ Arca, Terra amara, ed altre ancora, tutte puntualmente illustrate nella trama, nei temi, nei personaggi, nello stile. La trilogia di saggi su
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Seminara presenti nel libro di Chiodo, che ne fanno “un libro nel libro”, si conclude con un’ ampia panoramica dei giudizi che la critica ha espresso, negli anni, su tutta l’opera di Seminara: Fortunato Seminara e la critica . “La critica accademica” - scrive Chiodo - “non ha avuto sempre parole di lodi per lo scrittore calabrese”, ma lo scrittore di Maropati rimane “un raro esempio di coerenza umana e letteraria”, perché egli “scriveva per far vivere la sua terra e la sua gente alla quale era fortemente attaccato”. “L’opera di Seminara”, conclude il critico calabrese, “le sue baracche e i suoi personaggi non moriranno mai e avranno sempre il loro fascino”. Un bel saggio è anche quello che Chiodo dedica a Mario La Cava, lo scrittore “caratterista” di Bovalino, che, “nonostante sia vissuto in provincia, in paese, non è uno scrittore assolutamente provinciale o regionale”. Chiodo ne ripercorre la formazione culturale e ne esamina le opere, dai Caratteri ai Colloqui, alle Memorie del vecchio maresciallo e a Mimì Cafiero con grande acume critico. Le conclusioni cui giunge il critico calabrese sono che “La Cava è uno scrittore che di opera in opera è andato sempre più migliorando e affinando i suoi mezzi espressivi, e ciò lo rende uno scrittore di tutto rispetto, il cui nome può ben stare accanto a quello di un Moravia, tanto per fare un nome”. La Cava -rileva ancora Chiodo come Federigo Tozzi, lo scrittore senese che tanto incise nella sua formazione culturale, “delinea il carattere umano dei personaggi”, “rivolge la sua attenzione in particolar modo alla vita, alle passioni, alle delusioni, alle speranze dell’uomo, unico vero protagonista, ritratto nella sua psicologia e nei suoi rapporti umani e sociali”. Chiodo dimostra con questo suo saggio, di avere una grande ammirazione per Mario La Cava, specialmente nelle considerazioni finali, quando fa un cenno alle posizioni politiche dello scrittore, affermando che La Cava “è stato contro la guerra, contro i guerrafondai, contro il militarismo; ha parlato della libertà di parola, della giustizia e dell’ amor di patria “. In sostanza, Mario La Cava è stato, per Chiodo “uno scrittore moderno e
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classico nello stesso tempo che ha saputo cogliere il senso della vita e della storia: uno scrittore che riflette e fa riflettere”. Gli ultimi due saggi presenti nel libro di Chiodo sono dedicati ai due maggiori poeti della letteratura calabrese del Novecento: Lorenzo Calogero e Franco Costabile. Esaminando un notevole numero di poesie di Calogero, il critico calabrese riesce ad illustrarci con chiarezza la concezione della poesia e i temi cari al poeta di Melicuccà, e a spiegarci le ragioni della sua “grandezza” di poeta. “La grandezza di poeta” di Calogero - egli scrive - “consiste nella bellezza e nell’ espressività dei suoi versi, ma anche nel pensiero filosofico che li alimenta e li sostanzia”. Per Chiodo “Calogero elabora in modo costante le teorie estetiche di cui è a conoscenza, giungendo a un’ interpretazione personale della poesia e del suo valore”. Nell’ultima sua raccolta poetica (I Quaderni di Villa Nuccia, 1959-60) si trovano codificate le riflessioni estetiche del poeta sulla poesia e sulla sua funzione; “la poesia di Calogero”- osserva Chiodo – “nasce a volte dal dolore e si presenta come negazione della vita, come elemento alienante”. Tra i temi della poesia di Calogero, il critico calabrese pone l’accento sull’amore e sulla donna, elementi costante del suo percorso artistico ed umano. Ma la poesia, per il poeta di Melicuccà - fa notare Chiodo - “è anche la voce della vita, della natura, dell’essere primordiale che si fa canto e richiama l’uomo a sé, riempiendo i suoi vuoti, e quindi accendendo speranze che immancabilmente svaniscono, come si legge nella lirica La voce della poesia”. Belle pagine, ricche di riflessioni critiche e di comprensione umana, Chiodo dedica allo sfortunato poeta di Sambiase, Franco Costabile, morto suicida a Roma nel 1965, apprezzato e stimato dai critici e dai letterati più autorevoli del tempo. Di lui mette in evidenza soprattutto il grande attaccamento alla Calabria, che amò di un amore profondo e viscerale, desiderando inutilmente di vederla sollevata dalla sua secolare condizione di miseria e di subalternità. Scrive Chiodo che “Costabile rappresenta tutti i mali della Calabria e che egli si è
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dedicato a cantare con rabbia e con amore la sua storia” e, “grazie a lui noi oggi possiamo avere un documento poetico ed essenziale dei drammi di una terra abbandonata”. “Escono dai suoi versi” - continua il critico calabrese – “scanditi con rabbia i personaggi dei baroni, emigranti, raccoglitrici di ulive, zappatori, proprietari, ecc.. Un universo umano che dalla piccola Sambiase si estende a un’area geografica più vasta: quella del sottosviluppo e della preistoria della società capitalistica”. Interessanti le riflessioni sulla raccolta poetica più famosa di Costabile: La rosa nel bicchiere (1961), un’opera che “grida con asprezza la sua cultura e chiama per nome, inchiodandoli alla croce della storia, uomini ed istituzioni: i Gallucci, i Ruffo, i Lucifero, i Cassiani, i Foderaro, la Cassa per il Mezzogiorno”. Quest’ultima raccolta poetica è, per Chiodo, “il rigetto di qualsiasi progettazione tecnicopolitica fondata sul meridionalismo retorico e consumistico” e il messaggio che manda è che “i Calabresi devono accantonare l’ entusiasmo balordo delle speranze e delle illusioni (i miti della bellezza della terra, degli eroismi nella storia, ecc..) perché “non c’è nella storia che una Calabria senza pane, senza acqua, terra di frane, di carcerati, di baroni e carabinieri, minatori e promesse elettorali”. La posizione ideologica e morale di Costabile, per Chiodo, può essere avvicinata soltanto a quella di Fortunato Seminara o di Saverio Strati. Concludiamo questa nostra nota sull’opera di Carmine Chiodo Fortunato Seminara e altri scrittori e poeti calabresi del Novecento, edita a Roma da UniversItalia nel 2014 (prezzo: Euro 18,00), con la considerazione che essa rappresenta sicuramente un prezioso contributo alla conoscenza dei maggiori autori della nostra letteratura regionale del Novecento e può rappresentare un utilissimo strumento di studio per quanti amano leggere i narratori e i poeti calabresi, siano essi studenti liceali o universitari, ma anche semplici lettori adulti, che troveranno in questo libro una preziosa “guida alla lettura” dei più importanti autori del Novecento calabrese. Franco Liguori
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I DUE VERSANTI DELLA POESIA DI CORRADO CALABRÒ di Elio Andriuoli
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ELLA varia produzione poetica di Corrado Calabrò assumono un’ importanza particolarmente significativa due versanti: quello dell’ispirazione cosmica e quello dell’ispirazione amorosa. La prima trova la sua più computa espressione nel poemetto Roaming, apparso nel libro La stella promessa (Mondadori, 2009), dove il punto di partenza è dato da un sogno che il poeta fa e che lo trasporta nel bel mezzo di una catastrofe siderale, preceduta però da strani segni premonitori, che qui si affacciano alla sua mente, come quello del terremoto di Reggio e Messina del 1908, che Calabrò puntualmente descrive, evidenziando la tragicità dell’evento: “Faceva caldo fuori stagione / quella notte a Reggio e a Messina: / ventidue gradi il ventotto dicembre”; “Trentamila morti solo a Reggio. / Io persi nel crollo della casa / i nonni una zia e un cuginetto / che quest’anno avrebbe centun’anni”. Ed ecco che da questa catastrofe insensibilmente si passa ad un’altra di proporzioni ben maggiori, consistente nell’affacciarsi nel cielo di un asteroide, che minaccia la Terra: “L’abbiamo visto arrivare in un attimo / come un immenso undici settembre: / un’altra luna ci veniva addosso”. Calabrò precisa le dimensioni della minaccia che incombe sul nostro pianeta: “Un asteroide grande quanto Creta / apparso dal nulla all’improvviso”, pare diri-
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gersi verso la Terra; ma proprio quando l’ impatto sembra inevitabile, ecco che la Luna si frappone tra l’asteroide e la Terra, facendole da scudo. Tutto ciò non è però privo di conseguenze nefaste, dato che presto appaiono evidenti gli effetti catastrofici di quell’impatto: “si sapeva che il maremoto / aveva fatto milioni di vittime, / che le Maldive erano scomparse / e che Giava era in parte sprofondata”. Quali siano gli effetti disastrosi di questo sconvolgimento cosmico il poeta lo racconta in versi percorsi da un profondo senso di smarrimento, nei quali affiorano immagini di notevole evidenza, che denotano in lui la volontà di un’accurata documentazione scientifica: “Il due dicembre un immenso risucchio / ha ingoiato il lago Titicaca. / Il giorno prima la scossa ha mutato / l’inclinazione dell’asse terrestre / rispetto al piano dell’ellittica”. È qui evidente che Calabrò desidera darci una poesia che tenga conto delle leggi della fisica, ma che non rinunci a momenti schiettamente lirici (“Sono tornate le Pleiadi di Saffo/e l’alone dilata la luna”) o altamente drammatici (“Guardava l’eruzione del Vesuvio/Plinio il vecchio da bordo della nave./ prendeva appunti con mano veloce/ … / Polvere e gas piovevano dal cielo. / Plinio scriveva, solo sulla tolda, / finché non rimase soffocato”). Si vedano anche i richiami che il poeta fa all’Ecclesiaste: “C’è un tempo per la semina/e un tempo per la mietitura,/c’è un tempo per amare / e un tempo per essere dimenticati”. L’ispirazione di carattere scientifico è qui però prevalente, e la si ritrova innanzi tutto nel titolo. Roaming è infatti un vocabolo proprio delle procedure delle telecomunicazioni e sta ad indicare la messa in contatto tra due utenti all’interno della stessa rete o tra reti connesse tra loro. La visione con la quale si sviluppa il poemetto è comunque onirica; e come con un sogno si era aperta (“Chi sa perché ho fatto questo sogno”), così con il ridestarsi del poeta si chiude, ponendo termine all’incubo: “Fila come una boccia l’ Astroterra / con la sua luna di scorta / teleguidata ip-
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noticamente / dal ricordo perduto del futuro. // Sotto stupite stelle / si smarrisce per noi la distinzione / tra provenienza e destinazione”. La Terra, per il momento, è salva. Quanto alla poesia d’ispirazione amorosa, Corrado Calabrò ce ne offre un esempio cospicuo nella seconda parte di La stella promessa, dove troviamo poesie in tal senso molto significative, a cominciare dalla prima, Sotto le palpebre: “Il mio oroscopo passa / – poiché alzerai le palpebre – / per il tuo primo sguardo del mattino: // così attraversa l’aurora il nuovo giorno”. Fresca e nuova, questa poesia si contraddistingue per la sua immediatezza e intima necessità: “Accorre improvvisa al mio petto / la tua giovinezza” (Accorre improvvisa); “Irrompe in te precipitosamente/l’amore e ti scava/come avido torrente di montagna” (Alveo); “Lascia un sapore di mandorla in bocca / il vino color perla di Sibari” (Il tempo delle rose). C’è nelle liriche d’amore di Calabrò la modernità dell’invenzione, che sa prendere lo spunto dalle più diverse occasioni, facendo anche uso di un plurilinguismo in forza del quale vocaboli quali iPiod e password, essemmesse e bypass si trovano accanto ed altri, quali labentia signa e hysteron proteron e a citazioni dotte, quali questa tratta da Virgilio: “Humilemque videmus Italiam” (Eneide, Libro III, 522-23). Quello cantato da Calabrò è inoltre un amore pieno, dai toni a volte fortemente sensuali (“Cosa c’è di sbagliato, cosa manca, / perché vuoi interrogarmi negli occhi / dopo i nostri sfrenati corpo a corpo?” (Elisione); “Sulla mia spalla stasera la tua guancia / su su su / sbianca il giorno sbiancano le labbra // su su, ancora un colpo d’ala / già là dove l’ossigeno ci manca” (Sbianca il giorno). E tuttavia si trova in queste poesie anche il momento di assorta pensosità e di pacato rammemorare, come accade in Coppe carnose di camelie: “Trent’anni, oggi, che siamo in questa casa; / trent’anni, quanti ne hanno il cedro qui / e l’ ultimo dei nostri figli altrove”. Così come si trova l’improvviso soprassalto del pensiero
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che s’interroga: “… cosa c’è al di là dell’ orizzonte? / … / Intendo l’orizzonte della mente” (Eppure…). Certo è comunque che l’amore è vissuto da Calabrò in queste poesie con quella passionalità che è propria dell’anima meridionale: “Come la notte al giorno / come il giorno alla notte mi manchi” (Duale); “Ho paura di quest’amore / – se ci penso – / come si ha paura dell’angelo…” (L’angelo incredulo); “Amore che alla gola mi sorprendi / come si scopre d’essere feriti / dalla macchia di sangue che s’espande” (Alla moviola). E tuttavia la donna è anche da lui vagheggiata con estrema finezza, come accade in liriche quali Jessica, che levandoti: “Jessica, che alzandoti / sulle lunghissime gambe / meravigli il mattino…”. S’affaccia inoltre in queste liriche talvolta la notazione ironica: “Noi di Reggio a quelli di Messina / – che gli stiamo di fronte – / solo una cosa invidiamo: // la visuale” (Prospettiva); e si tratta di un’ironia che in Il ponte sullo Stretto si trasforma in vera e propria satira politica: “Protendere un ponte che trattenga / l’isola che vuole allontanarsi / e faccia più stretto lo Stretto”. Altre poesie fermano poi un’immagine, come quella di Anita Garibaldi, che seguì d’istinto l’Eroe dei due Mondi, andando incontro al suo destino (Anita). Nativo di Reggio Calabria, Corrado Calabrò avverte fortemente il richiamo della Magna Grecia, della cui cultura è imbevuto (si vedano, ad esempio, le sue citazioni di nomi di pensatori greci, quali Zenone di Elea, in Dilemma e di poeti quali Archiloco, in Il segreto del vetro); una cultura della quale egli avverte fortemente il fascino, benché non manchino in lui anche citazioni da autori francesi (Baudelaire) e inglesi (Eliot). Un poeta poliedrico, dunque, Corrado Calabrò, che sa cogliere la molteplicità del reale nelle varie forme in cui si manifesta. Ma soprattutto un uomo che ha appreso dalla vita che limitata è la nostra sapienza e che ugualmente limitato è il nostro intuito, sicché “…
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noi vediamo solamente / la stella che abbiamo nella mente, / quella che sappiamo di guardare” (Venere, a); e soprattutto ha appreso che occorre, per non recare troppo disturbo, “sparire dal radar così / senza traccia, senza spiegazione”, magari accertandosi prima di non portar via con sé qualcosa che servirà ad altri, come le chiavi di casa (Agenda). Il tema dell’addio è però trattato da Calabrò con estrema delicatezza in Commodus discessus, una delle ultime poesie della raccolta, che recita: “Spegniti un attimo dopo di me / te ne prego / o aspetta almeno a spegnere la luce / finché non rientro / così che aprendo il portone io non trovi / la casa spenta”. È qui che il nostro poeta ci offre l’esatta misura della sua capacità di saper toccare diversi registri, trascorrendo con facilità dall’uno all’ altro con quell’efficacia espressiva che è propria della vera poesia, della quale, come si è potuto constatare, in questo libro egli ci offre dei validissimi esempi. Elio Andriuoli
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dietro un rosso tramonto. Oggi il mio cuore è stretto da una morsa e non passa un filo di speranza, ogni cosa bella è priva d’importanza mentre tutte le cose tristi e piene di dolore sono in prima fila, come se fossero dolci da servire, ma domani, ci sarà aria di festa!. Un giorno nuovo comincia con l’alba tinta di rosa giocondo, un fiocco gioioso che augura a tutti “Buon Giorno!” Cav. Giovanna Li Volti Guzzardi Australia
LE MONTAGNE ARIA DI FESTA Aria di festa domani quando avrò più tempo per pensare e guardare in faccia la realtà che oggi mi sfugge. La pioggia ruscellava sul mio viso, era pioggia o lacrime? Non ricordo più, il tempo si è fermato lì a guardare minuscoli punti neri che pian piano diventano enormi, rocce puntute che trafiggono l’oggi, ma domani ci sarà aria di festa! L’oggi, stanco e malandato andrà a morire
Le montagne sono rossastre, in questo tramonto d’estate, in questa sera silenziosa di luglio; e ondeggiano le foglie degli alberi, baciate dagli ultimi bagliori del sole, pian piano i fiori si addormentano per risvegliarsi all’alba quando la rugiada bagnerà i loro occhi con slancio d’amore. Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, MI
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“ANIME AL BIVIO” – CONSIDERAZIONI CRITICHE SUL TERZO ROMANZO DI IMPERIA TOGNACCI di Luigi De Rosa
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NNUNZIATA...” era sempre più convinta di seguire ciò che di profondo sentiva nel suo cuore. Aveva trasgredito il divieto paterno di non recarsi dalle suore, ma questa trasgressione la faceva sentire più padrona di sé, mentre la sua personalità si andava delineando, discostandosi dal copione dei genitori, e da quel nido famigliare in cui era cresciuta”. In un breve periodo, con un italiano classico, di elegante umanità, senza necessità di voli pindarici affabulanti ma inconcludenti, la scrittrice Imperia Tognacci, residente a Roma dove si è prima dedicata all'insegnamento, ma originaria di San Mauro Pascoli, espone al lettore la sostanza della sua narrazione: Annunziata, la figlia minore e prediletta di Giacomo, magistrato onesto ed efficiente del Regno d'Italia, laico ed equilibrato, disubbidisce al proprio padre (che pure stima profonda-
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mente). E questo per una propria esigenza di crescita psicologica e morale nel rispetto della propria libertà individuale... Sceglie i voti. Va in convento. Ma nella sua vita di suora leale, intelligente ed onesta, si imbatte in tutti quei fenomeni negativi caratteristici della vita comunitaria, soggetta a regole e norme costrittive, in cui vivono fianco a fianco – si fa per dire – le persone più eterogenee per carattere, temperamento, inclinazioni, pulsioni, preparazione psicologica e culturale. E tra le quali si crea un'atmosfera ben diversa da quella, rasserenante e protettiva, che si può godere in una normale famiglia affiatata. Fenomeni negativi di carattere psicotico sui quali il padre la aveva, con immensa preoccupazione, messa in guardia. Dopo una lunga parentesi di vita trascorsa a battagliare, pur con tanta pazienza e spirito di sacrificio, contro soprusi ed umiliazioni provenienti dalle monache “superiori” o “generali” (nel nome di Dio...) suor Annunziata riesce a trovare, finalmente, un giorno, il coraggio morale di liberarsi dalla schiavitù psicologica (gabellata per dovere di obbedienza...). Il romanzo “Anime al bivio” si chiude infatti così: “...Era il giorno di sant'Anna, mentre ancora tutti dormivano, lasciò, silenziosamente, di mattina presto, la grande casa ancora addormentata passando per un'uscita di servizio. Nessuno se ne accorse. La porta del convento si chiuse per sempre dietro lei.” Era sola quel lontano giorno in cui vi era entrata. Ed era sola il mattino in cui ne uscì. Pentita, delusa e disillusa. In ogni caso, “maturata”. Poche righe prima, l'Autrice aveva fatto dire, mentalmente, alla sua sfortunata ma coerente eroina: “Ho capito troppo tardi, padre, l'errore che ho commesso. La mia era una vocazione missionaria. Avrei dovuto ascoltarti e riflettere, prima di entrare in convento.” Questo di Imperia Tognacci, già Autrice multipremiata di varie sillogi di poesia, è il terzo romanzo ed è uscito nell'aprile 2017. (Reca la prefazione del prof. Francesco D'Episcopo e la presentazione di Giuseppe Later-
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za). Esso fa seguito a Non dire mai cosa sarà domani (2002) e a L'ombra della madre (prefazione di Mario Landolfi, 2009). Tutti e tre sono stati editati da quel fine e culturalmente sensibile editore che è Giuseppe Laterza, di Bari. Rispetto a quando, per mia fortuna, avevo potuto leggere la prima stesura del romanzo, i miglioramenti e gli ampliamenti apportati sono molti e significativi, con un approfondimento delle descrizioni e delle considerazioni, con uno snellimento dei dialoghi e un maggiore, più efficace, distacco della voce narrante dalla materia narrata, con uno scavo attento dei vari personaggi, che non sono soltanto quelli della famiglia di Giacomo, della moglie Rina e dei loro cinque figli, l'ultima dei quali è, appunto, Annunziata. Vi è anche un' adesione maggiore ai problemi etico-sociali, economici e politici che contraddistinguono il periodo in cui i personaggi stessi vivono, soffrono e gioiscono (dai primi anni del Novecento in poi). Non mancano poi le descrizioni, come nella migliore tradizione del romanzo “classico”, alcune delle quali bellissime, e direi artisticamente esemplari. Sia della città di Roma e dei suoi monumenti, che di città estere come ad esempio Namur e Bruxelles. O di luoghi
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suggestivi come il Piemonte della Val Sesia, e tanti altri. I dialoghi si snodano al punto giusto, naturali e convincenti, realistici o in punta di penna, mai comunque grevi o sciatti, e ancor meno intrisi di una certa morbosità che impregna tanta narrativa contemporanea. Realisticamente (anche se intervallati da sogni e aspirazioni dolcissime) sono presenti sia il Bene che il Male, e sia l'amore spirituale e casto che quello connotato da una forte, naturale voglia di sesso. Sesso degno dell'essere umano, sano e gratificante, che completa e suggella un vincolo amoroso fra uomo e donna. La Tognacci non nasconde, comunque, la sua interpretazione della realtà basata sull'amore cristiano, ma è modernissima e di grande apertura mentale, lontana da ogni esagerazione e ristrettezza purtroppo presenti nella Storia, e che si auspica non abbiano più a verificarsi. Il Dio da cui tutto ha origine, Mistero tuttora insoluto, e, a quanto appare, destinato a rimanere tale, non può essere appannaggio esclusivo di una fede a danno di altre. Specie oggi, con l'esistenza di tanti steccati e assolutismi. Con l'atmosfera internazionale intrisa di tanta, dannosissima, “tolleranza zero”, che minaccia ad ogni passo la pace e lo sviluppo di un mondo equo e solidale. Come opportunamente ripetuto nella quarta di copertina, “se si svolge con serenità il proprio ruolo, si ama Dio con naturalezza, dando il meglio di noi stessi. Non sono le mura del convento, né delle chiese, né delle moschee o delle sinagoghe, a racchiudere Dio e tanto meno la nostra piccola mente.” Luigi De Rosa
TORNA BIMBO Vuoi sentirti giovane, essere felice? Gioca con un bimbo, torna bimbo; sorridi anche tu, come lui, alla vita. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo
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L'ANOMALA 57esima
BIENNALE D'ARTE DI VENEZIA (2017) E LE SUE STANZE CON GLI SPECCHI ALIENANTI DEL MONDO MAGICO di Andrea Bonanno
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A 57esima edizione della Biennale d'arte di Venezia, attivata in teoria da un titolo autoelogiativo banale e generico, inneggiante all'importanza ed essenzialità dell'arte, in un presente sconvolto dalla ferocia e dal caos, ha presentato accanto ai soliti progetti, ipotesi concettuose e la continuata manieristica assunzione di oggetti estrapolati direttamente dalla realtà (archeologia del Ready-made), la non inedita delocazione della realtà verso un “altrove” fatto coincidere con il Mondo magico, seguendo l'omonimo libro dell'antropologo Ernesto de Martino, per il quale è la magia a farci elaborare sempre nuove strategie di rigenerazione e di riordinamento della nostra anima e cultura in senso umanistico nella reintepretazione della realtà. Invero, quella delocazione della realtà è stata presente nella precedente edizione del 2015, curata da Okwui Enwezor, come un transito che partiva dalla memoria degli oggetti quotidiani della realtà per configurare un altrove come uno spazio nebuloso e indefinito. In questa edizione invece esso viene identificato ad uno spazio magico denso di risonanze sciamaniche, di evocazioni mitiche,
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tribali e misteriche. In siffatta accezione, non ci sembra ammissibile che tale delocazione possa consentire un nuovo umanesimo per l'affermazione della centralità dell'uomo e permettere all'arte di uscire dalle sue dissociazioni e fraitendimenti, dal suo frammentarismo e formalismo estetistico ormai indigesto, per pervenire, nell'ambito dell'ormai scomparsa pittura, ad una sintesi chiara e accessibile. E' infatti regressivo per l'arte attuale affidarsi ai fatti di cronaca, alle descrizioni e narrazioni di storie, per i quali la TV e il Web riescono meglio, ma neanche è pensabile che delle trite e semplici operazioni a carattere sociale alla maniera di un Mark Bradford (Padiglione americano), possano fare scrivere alla Francesca Pasini che "l'istanza più rivoluzionaria dell'arte non sia né la rappresentazione né la politica, bensì l'azione e la relazione". Preminente per l'approccio al Mondo magico si presenta il Padiglione Italia per il quale la curatrice Cecilia Alemani ha selezionato Roberto Cuoghi (Modena, 1973), Adelita Husni-Bey (Milano, 1985) e Giorgio Andreotta Calò (Venezia, 1979). Il laboratorio, alla Frankstein, del Cuoghi, dal titolo Imitazione di Cristo, 2017, seppure sveli all'inizio degli intenti verificali, si risolve alla fine nella negazione dell'identità di una figura devozionale (Cristo), di cui un'ossessiva e perdurante serialità fa sortire delle fisionomie sempre diverse nel loro spessore e colore per l'azione disgregativa della loro costituzione materica. La sua operazione estetica, oscillante fra vita e consunzione, fra resurrezione e morte, fra sacralità e blasfemìa, si risolve alla fine in un paradossale concettualismo che ammette una molteplicità di rappresentazioni sempre diverse di una medesima identità, che così resta sempre oscillante, relativa e indefinibile. Viene così negata la possibile formulazione di un'unica rappresentazione dell'identità e, nel contempo, ne viene azzerata la definibilità dei possibili valori validi. Tutto è relativizzato e sprofonda in un nichilismo orientato a temerarie e visionarie risoluzioni a carattere magico. La videoinstallazione dell'operatrice esteti-
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ca Adelita Husni-Bey, italiana di origine libica, dal titolo The reading / La seduta, 2017, vorrebbe essere una conversazione-indagine, avente come tema due opposte cosmogonie, che presto si risolve in un didascalismo frammentario e monotono, a carattere sociologico e politico, sconfinante improvvisamente in una danza apotropaica per la salvezza degli esseri umani nel presentimento amaro di un futuro totalmente virtualizzato, dove sono scomparsi per sempre la voce e il sentimento dell'uomo. Infine la tenebrosa installazione di Giorgio Andreotta Calò Senza titolo / La fine del mondo, 2017 consiste, nel mimare l'atmosfera desunta dall'omonimo libro del de Martino, in una aberrante deformazione percettiva dell' ambiente, ricorrendo a dei tubi da ponteggio per sorreggere una piattaforma in legno su cui è adagiata una vasca piena d'acqua che riflette il soffitto. La macchinosa e orribile scenografia, alla fine, rivela una conturbante illusorietà percettiva dalle risultanze oniriche e nichilistiche, nel quale tutto si duplica e si confonde, con evocazioni mitiche indeterminate, in un ossessivo incedere del senso di un vuoto che non si pone come un valido e chiaro plusvalore sia a livello conoscitivo che estetico. Il progetto della Macel si è rivelato deficitario soprattutto per il non aver verificato il precario status attuale dell'arte, non svelandone le storture, gli sconfinamenti estetistici e le sue contraddizioni poetiche. Ciò che resta certo consiste nella condivisa convinzione che quel tentativo di riscrivere la storia con strumenti meno tradizionali, ma secondo delle ottiche letterarie e antropologiche obsolete, non può che risultare un fallimentare e sterile esercizio didattico, insieme, come vedremo nei vari padiglioni delle nazioni partecipanti, ai tanti stilemi di un manierismo estetistico stracotto e ai tanti video concettuosi di un intollerabile documentarismo sociologico e politico. Invece, oggi più che mai si sente fortemente il bisogno di una vera arte che ritorni ad essere sintesi di quella poetica relazione costituita dall'io dell'artista che si commisura alle diver-
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se tematiche attuali del nostro violento, disumano e orrendo presente. Andrea Bonanno GRATITUDINE Per il Dott. Matteo Sacchi Ospedale San Giuseppe – Clinica Oculistica Università di Milano 8 agosto 2015 Mi chiedo se quando mi esamina gli occhi col suo microscopio ci vede qualcosa di strano che non corrisponde alla fisicità dei suoi studi e delle sue conoscenze. Non è cosa fisica, è infatti la mia gratitudine per le sue abili cure che mi hanno ridato la gioia di vedere meglio, gratitudine ormai diventata quasi affetto. Dice Teresa (che mi accompagnava) che oggi quando al controllo egli ha detto che il mio intervento è stato ottimo e fra i suoi tutti il meglio riuscito egli era visibilmente molto contento e che io per la gioia quasi lo avrei abbracciato. E forse aveva ragione. Marigina Bonciani Milano
Aggrapparsi alla foglia che ingiallisce che si accartoccia che vola via nel vento che s’en va ad [arricchire la terra Aggrapparsi a quello che persiste di vita naturale per trovare il coraggio di sopravvivere in questo tempo che chiama libertà la sorveglianza continua di tutti i cittadini Béatrice Gaudy Parigi, Francia
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IL PRIMO DRAMMA DEL BAMBINO di Antonia Izzi Rufo
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HE festa quando nasce un bambino! Che gioia! Un evento importante, il più importante di quanti se ne siano mai verificati in una famiglia, di quanti se ne verificheranno ancora in futuro. Se ne comincia a pregustare il piacere intimo già dall'attesa, che si vive con trepidazione, con la speranza che tutto si concluda nel migliore dei modi. E quando "accade", si è al settimo cielo, si è grati alla vita per quel dono speciale, quella "vita figlia della vita" che rappresenta la continuazione della specie, non solo nell' ambito della famiglia ma dell'umanità. Si è tutti attorno al piccolo, premurosi e affettuosi, in tenera sintonia, attenti ad occuparsi di lui con la massima cura, la massima delicatezza, a non trascurare nessun particolare necessario al suo benessere. Si segue con accorto interesse, con amore, ogni suo gesto, ogni suo, pur minimo, cambiamento, il suo aprirsi graduale alla visione del mondo, alla conoscenza, alla crescita psicofisica. Ed egli avanza, nel suo sviluppo, in fretta, senza soste, acquisisce sempre più la consapevolezza dell'ambiente che lo circonda, riconosce le persone che gli stanno vicino, gli vogliono bene, si occupano di lui a tempo pieno; recepisce e impara, con sorprendente facilità, tutto quanto vede e sente, ne ripete i suoni e i gesti ed è felice, sereno. Lo sono anche i parenti tutti per i quali, da quando c'è "lui", la vita è diventata meravigliosa e il rapporto tra i componenti il nucleo familiare è diventato più saldo: se qualche astio c'era, è scomparso e pare che tutti siano diventati più buoni e tolleranti. Nel cuore di ognuno c'è solo spe-
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ranza, ottimismo, gioia di vivere. All'improvviso si verifica qualcosa d'inaspettato: il cielo comincia a cambiare colore, l'azzurro si ricopre di grigio e grosse nuvole avanzano ambigue nella volta, si avvicinano...Che succede? Riappare in famiglia un problema da un po' di tempo rimosso, ossia da quando c'è il bimbo. Questi è cresciuto, ha un anno appena, si può "affidare ad estranei". Il motivo? La mamma deve riprendere il lavoro interrotto e non si può più occupare di lui. Il piccolo viene portato in un asilo a pagamento, ogni giorno, dalle nove alle sedici. (Povero bambino! Da quale violenza è stato colpito!) (E' una mia opinione). Nei primi giorni la novità lo attrae: la compagnia degli altri bambini, i giochi in comune...Tutto questo è bello, però non è tutto: manca il calore della mamma e del papà, dei nonni, degli zii. Con questi era libero di comportarsi in modo spontaneo; ora non è così: le maestre sono gentili, pazienti, ma hanno un modo di fare che crea distanza, che raffredda dentro, uno sguardo che dice "devi ubbidire, non fare capricci, non protestare". Il bambino diventa triste, comincia a piangere... <<No>> dicono le maestre <<non si piange, altrimenti...>>. Che significato ha "quell'altrimenti?". <<Altrimenti troveremo il modo di "educarti">>. E in che modo lo faranno? Con le maniere dure, magari con qualche schiaffetto o altro. E' triste il bambino. Pensa che i suoi genitori lo abbiano abbandonato, non lo vogliano più. E non ne sa intuire la causa, è piccolo, indifeso. Si chiude in se stesso, nella sua sofferenza, la sua prima sofferenza, nel suo dramma, il suo primo dramma. A casa, quando vi torna, quando ve lo riportano, è sempre serio, il suo viso, prima allegro e ridente, ha un'espressione assente, malinconica, meditabonda. E di notte, mentre sta dormendo, si sveglia di scatto e comincia a piangere. Perché le mamme devono lavorare? Non è giusto. Sarebbe più umano se si occupassero esclusivamente dei loro figli. Antonia Izzi Rufo ← A. Izzi Rufo e il pronipote Lucio.
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CORRADO CALABRÒ LA SCALA DI JACOB di Salvatore D’Ambrosio
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N fondo leggendo questa silloge che Calabrò ha presentato al premio Città di Pomezia, vincendolo tra l’altro, il titolo è appropriatissimo per questo suo continuo salire e a volte scendere da una scala che, come una spirale, lo porta verso le mete da lui più vagheggiate. E la spinta a questa sua ascensione è di volta in volta la donna, e l’amore che lei suscita, a volte dolcemente altre selvaggiamente; è la natura che è lì con la sua prepotenza e la sua bellezza, anzi direi con la sua prepotente bellezza pronta a proporci continuamente i suoi profondi misteri, colti anche paradossalmente dal Poeta, che in questo modo si diverte scrivendo in modo lievemente e coscientemente beffardo. È ancora la politica; la stoltezza dell’uomo che insegue le cose che gli danno le delusioni più scottanti; la dimenticanza delle cose che, anche se per brevi momenti, hanno dato succo alla nostra vita. Ancora brevi e fulminanti riflessioni filosofiche esistenziali: ”Frazione di zero”. Il titolo che ha dato alla silloge, dunque, esprime in pieno come nel suo versificare egli si proietti il più possibile verso l’alto. E per questo la sua poesia non è stantia e di routine. La cosa che più attira è l’uso verbale del quotidiano, direi meglio ancora dell’ attuale. Come per esempio l’uso di frasi in lingue di altri paesi, o la deformazione di esse dovute al linguaggio povero e ignorante
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dei nostri contadini emigranti (… Bruccolino…). Ancora i termini: “iPod”, “Dilatrend”,”B23”. Nel sogno di Giacobbe la scala poggia sulla terra, con la vetta verso il cielo e da essa scendono e salgono angeli. Nel sogno di Calabrò la terra è la poesia che per suo tramite si innalza verso vette possibilmente alte. E i suoi versi, sono le alate angeliche parole che si alzano in cerca della conquista delle più alte vette. In questo il poeta, è noto a tutti, è riuscito in pieno avendo la sua notorietà varcato confini e metaforicamente diremo che ha raggiunto alti cieli. Non vogliamo fare qui la biografia del Nostro, ma sono 22 i libri pubblicati in Italia, oltre 30 all’estero e ha avuto traduzioni in 20 lingue. La sua arte è stata riconosciuta da diverse università straniere con il conferimento di lauree honoris causa. La vetta insomma, attraverso la scala poetica, è stata raggiunta. La cosa che gli rende onore però è che, pur stando in alto, non gli piace sputazzare sulla testa di quelli che di sotto si accingono a salire la scala a spirale di Giacobbe. Cosa che invece riesce molto bene a altri, che mostrano anche i segni di un profondo godimento nell’indecorosa operazione. Ho avuto il piacere in qualche occasione di incontrarlo, e in vero l’ho trovato classicamente composto. Cioè: con una predisposizione all’ascolto, perché per sua natura è sempre pronto a nuove conoscenze, per rientrare sempre nel gioco. E il suo gioco è nella ricerca continua della parola. Per essere più precisi di quella dimensione inesplorata della parola, che gli permette di scrivere e quindi di dire. È convinto e consapevole della forza e di cosa possono realmente fare le parole. Infine è evidente per me l’amarezza che prova, e che mette nei versi, per la crescente indifferenza della gente verso gli altri: il suo simile, il fratello che, se pure di altra nazione e di altro colore, è pur sempre il suo fratello. Il Padre, non lo dimentichiamo, è uni-
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co e sempre quello, ma pare che nessuno lo voglia ricordare. Tutti fanno finta di chiederselo, ma nessuno risponde e per di più mantiene nella non risposta anche lo sguardo fisso a terra. All’uomo, dice, manca il coraggio di riconoscere e di riconoscersi; anche nella cattiveria. Ecco che allora un breve lampo di scoramento lo prende, non ostante la sua natura aperta e fiduciosa, portandolo a preferire di tenersi ben chiuse nella mente le parole dei versi che tanto ama e a distribuire, in tal caso, fogli bianchi; ché tanto per la distratta umanità sarebbe la stessa cosa. Non ci vedrebbe ugualmente nulla. Nero su bianco: grafemi che non riesce più a interpretare. È la rozzezza del mondo attuale, cerca di farci capire, che ha chiuso gli occhi a tutti: o quasi. In più, la rozzezza che domina il presente, possiede anche una forza di sradicamento tale che ci rende nomadi di noi stessi, continuamente alla ricerca di un presente che abbia valore. Ma intorno a noi c’è il vuoto, ci manca tutto: perfino la certezza di avere avuto un passato. Salvatore D’Ambrosio Corrado Calabrò - La scala di Jacob - Prefazione di Vincenzo Guarracino, Postfazione di Domenico Defelice . Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2017. Opera vincitrice del Premio Internazionale Letterario Città di Pomezia 2017.
FERMERÒ L’AUTUNNO Non aspetterò che le foglie muoiano di tristezza e di malinconia all’ombra delle brume che salgono monotone dal profondo della valle alla luce del mattino. Fermerò l’autunno su una parete di carta con i colori più belli della mia fantasia; guiderò la mia matita
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a tracciar sentieri fiancheggiati da macchie rosse di biancospini e fisserò sul colle il sole del mattino, con raggi accesi che illuminano il tetto d’un casolare antico e il volto allegro d’un bimbo che stringe tra le mani tutti i frutti creati dalla sua bizzarria o caduti dalla punta estrosa della sua matita. Antonio Crecchia Termoli, CB
TERRAFERMA E giungerò a lembo lontano, vicino al mio cuore. Era campana al fanciullo una vanga percorsa a rompere rustici meriggi e sgusciavano serpi di madreperla al sole. Non c’è continente che uguagli mattini goduti tra zufoli di canna e campanelli. M’incantava irraggiare ruota di bicicletta per strade di paese. In essa s’incontrano ancora orbite di vita trapassata. Ora soliloqui e trasalimenti per eco qualsiasi di pianto sono mia terraferma. Forse mai più guarirà il vecchio fanciullo. Rocco Cambareri Da Da lontano - Ed. Le Petit Moineau, 1970
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CATERINA FELICI DENTRO LA VITA di Domenico Defelice
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CRIVE Paolo Montanari, a proposito di Matteo e il tappo, recente romanzo di Caterina Felici: “Le favole classiche si chiudono con una morale. In Matteo e il tappo, la Felici connatura la morale alla favola. Un tappo, come il grillo parlante delle avventure di Pinocchio, diviene la coscienza di un travet Matteo, che cerca nel lavoro a tempo pieno, la sua realizzazione”. Dopo il successo di questo bel romanzo apprezzato non soltanto dall’infanzia alla quale era stato, in particolare, indirizzato -, la scrittrice pesarese si ripropone ai suoi lettori con Dentro la vita, una raccolta di stringate poesie, suddivisa in cinque sezioni: Realtà al riflettore, Oltre, Fascino della natura, Contrasti e Significativi ricordi. Sia il romanzo che queste poesie sono, al di là dell’aspetto letterario, un indirizzo esistenziale, una lezione di vita: “Sei vivo veramente se hai il senso della vita: se non ti chiudi nella cella dell’egoismo, tua condanna alla solitudine, e t’espandi nel mondo con la forza dell’amore ”. La poetessa non ama perdersi nella retorica e i suoi versi, a volte, sono semplici e suggestivi flash:
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“Un breve stormir di foglie in una folata di vento. Immaginarie presenze che subito scompaiono”. Le voci della natura, cioè, interpretate e scandite dal vento, che richiamano presenze umane, come potrebbero essere Ione e Igina, le sue due sorelle scomparse, o persone che, comunque, si son sempre donate “agli altri con gratuità”, “care persone (...)/vive nei nostri ricordi”. La vita - afferma Caterina Felici - è un continuo rischio, che ci incute timore, che ci costringe a camminare guardinghi; fantasma sempre in agguato, subdolo; crediamo di averlo evitato dopo aver percorso accidentate salite e discese e invece, appena siamo “sulle strade piane”, più rilassati e disarmati, eccolo che ci colpisce improvviso. Alla natura è dedicata un’intera sezione e in essa è presente il brano “Vicini alberi compagni”, tra i più articolati e belli, con il quale la Felici ha vinto il primo premio al Città di Pomezia 2017. La natura è l’ambiente che la fa sentire viva e serena, al quale son legati tutti i suoi ricordi di bambina, quando zappava “la terra cantando”, e “con entusiasmo” seminava, perché la vera gioia sta proprio nella semina - afferma la poetessa -, non nel più o meno abbondante raccolto. La natura va tutelata e difesa e lei l’ha sempre fatto, al tal punto da non permettere che i fiori vengano recisi; “La bellezza dei fiori per me” - confessa - è” un prezioso inno alla vita”. Dentro la vita è un volumetto assai esile, ma bello e vario. Ci troviamo il sociale (“Dopo il mercato”); la vecchiaia, da apprezzare per i suoi ritmi blandi, “interiormente vivi” e per la saggezza; ci troviamo gli affetti familiari, la presenza specialmente dei nipoti Roberto e Andrea, cresciuti nella educazione e nel rispetto del prossimo, nel culto dell’ amicizia, privi di qualsiasi alterigia, che danno e ricevono consigli; ci troviamo la donna, creatura apparentemente fragile, sulle cui spalle, invece, s’è sempre appoggiato il mondo. Domenico Defelice CATERINA FELICI - DENTRO LA VITA Longo Editore Ravenna 2017 - Pagg. 80, € 12,00
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SAN GIUSEPPE COTTOLENGO O DELLA DIVINA PROVVIDENZA di Leonardo Selvaggi I IUSEPPE Cottolengo nasce il 3 maggio 1786 da genitori poco più che ventenni, dediti al commercio di stoffe, a Bra in provincia di Cuneo. È il tempo della rivoluzione francese, gli eserciti sabaudi non resistono allo stravolgimento degli eventi. Napoleone invade mezza Europa. I seminari si chiudono, i conventi saccheggiati. Pio VII imprigionato. L’adolescente Giuseppe Cottolengo compie gli studi sacerdotali in clandestinità. Nella cappella del seminario di Torino viene ordinato sacerdote l’8 giugno 1811. Al congresso di Vienna le monarchie riprendono la loro esistenza. Il Cottolengo si trasferisce a Torino, si laurea in teologia il 14 maggio 1816, è chiamato per le sue doti eccellenti a far parte della congregazione dei canonici. Di natura insicuro, un animo sensibile, insoddisfatto sempre. Dopo anni di incertezze la sua vita si raffina, spiritualizzandosi sempre più attraverso le meditazioni sul Vangelo, studiando San Paolo, leggendo opere agiografiche. La biografia del francese San Vincenzo de’ Paoli lo esalta, vorrebbe essere San Francesco, in altri momenti San Domenico. Fino a quarant’an ni si può
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dire vive una vita di crisi di maturazione. È un contemplativo e nel contempo un uomo fremente. Vede Dio, la sua grandezza, la sua volontà, si interessa alle vicende tristi, alle difficoltà della gente. II Rifulgono sempre più in lui la luce della carità e la fede evangelica. Il 2 settembre 1827 segna l’inizio della sua missione, la voce di Dio risuona in tutta la sua persona, alla vista di una donna arrivata da Milano febbricitante per un male misterioso, l’animo del Cottolengo è pieno di angoscia quando la vede morire, dopo che viene rifiutata alla maternità, alla scuderia di una locanda. Il canonico Cottolengo è colto da un’ispirazione, da un senso di ardore, si sente ormai chiamato da Dio all’azione tutta rivolta alla vita delle sofferenze e dei poveri. Alla Basilica del Corpus Domini di Torino vede delinearsi la sua vocazione: fa suonare le campane, la gente strabiliata accorre, fa accendere le candele all’ altare della Madonna delle Grazie. Una celebrazione fuori orario, tutti si incuriosiscono. Per il Cottolengo è l’inizio della sua vita, nella sua mente appare il disegno di Dio che lo chiama all’amore universale dei più poveri. Le tenebre si diradano, troneggia la fede nella Divina Provvidenza. Tutta la sua disponibilità secondo la volontà di Dio. Radioso il suo animo esprime inavvertitamente in tutta la chiarezza il suo carisma, cui negli anni che verranno si ispireranno Don Bosco, Don Orione, Madre Teresa di Calcutta. Il Cottolengo affitta delle camere nel popoloso centro di Torino, in una casa chiamata la Volta Rossa, vi crea subito un centro di ospitalità, una specie di pronto soccorso sociale per accogliere tutti quelli che sono in stato di abbandono e non vengono accettati in altri ospedali o ospizi. III Siamo al 17 gennaio 1828. Il Cottolengo non aggiunge un’opera pia alle tante altre che esistono a Torino, va incontro ai bisogni improvvisi, scoperti della gente misera. In tre anni la Volta Rossa assiste 210 cittadini in
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condizioni precarie. Il Cottolengo è uscito dagli anni di buio della sua vita, ha scoperto se stesso, la sua luminosa missione. Con serenità, fiducia, slancio e intraprendenza. Molti volontari gli danno aiuto, c’è sempre da soccorrere qualcuno, da prelevare nelle soffitte dei sofferenti. Arrivano malati trasportati sulle spalle. Si è aperto il Paradiso che accoglie i più tristi e malandati. La spiritualità del futuro San Giuseppe Cottolengo si amplifica, s’irradia dappertutto. Con semplicità, con bontà inesprimibile rappresenta l’amore di Dio provvidente per i poveri, i disadattati. Nascono le suore ottolenghine con piena dedizione. Marianna Nasi diviene la prima Madre, come Chiara per Francesco d’Assisi, Luisa de Marillac per Vincenzo de’ Paoli. Le vocazioni si rinnovano sempre in ogni tempo e in ogni luogo. La generosità di vendere quanto si possiede, dandolo ai poveri per seguire la vita di Gesù, con donazione totale. Le prime suore ottolenghine dall’alba a notte fonda, a completo servizio, con infiniti sacrifici e con entusiasmo. Il Cottolengo senza la complicazione dei principi filosofici e teologici, con immediatezza segue l’esempio di Cristo. I poveri sono Cristo. Quest’inizio dell’ opera generosa della Piccola Casa tutto infiammato da energie spirituali. Un concetto fondamentale: non si è benefattori e si rifiuta l’idea dell’elemosina. I poveri hanno diritto alla vita, vanno serviti. Piena comunicazione con i bisognosi, per questi bisogna consumare la propria vita. Questa è la strada autentica, vera, concreta che conduce alle vette della carità evangelica, senza formalismi, con impeto, con condivisione massima delle sofferenze altrui. La spartizione del dolore, la via che porta all’amore, all’uguaglianza. IV Il 2 febbraio viene eletto Gregorio XVI, il 27 aprile muore Carlo Felice, gli succede Carlo Alberto, religioso, benefico, sostenitore del Cottolengo. Il 1831 anno drammatico per l’Opera del Cottolengo. In alcuni paesi d’ Europa scoppia il colera, la Volta Rossa sospettata come potenziale focolaio d’infezione
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viene chiusa. Si va alla ricerca di locali più idonei. L’ospedaletto viene traslocato nella zona tra Borgo Dora e Valdocco, nei pressi del Santuario della Consolata. In mezzo ai campi della proprietà Farinelli c’è una tettoia a piano terra e una stanza al primo piano. Le opere sante prosperano nei momenti di crisi, la Divina Provvidenza arriva in un baleno. I locali ristrutturati. Il 27 aprile 1832 inaugurazione della nuova sede. Sulla porta d’ingresso della casetta il Cottolengo scrive il motto di San Paolo: “Caritas Cristi urget nos!”. Ogni gesto d’amore solleverà un animo triste. Il Cottolengo in piena luce spirituale vede la grandezza della sua missione, capace di andare incontro alla miseria del Mondo. Si corre con l’impulso del cuore, non ci sono regolamenti burocratici né divieti per malattie, età, sesso, nazionalità, razza o religione. Per entrare in questa Casa è sufficiente essere poveri e malati, abbandonati, rifiutati da tutti. Per gli emarginati la Divina Provvidenza, che attorno al Cottolengo impera, aleggia, illumina, porta soccorso, assicura un pane, un letto e una persona che assiste. Il grande Canonico, il Beato, il Santo chiama la nuova sede “Piccola Casa della Divina Provvidenza”, sotto la protezione di San Vincenzo de’ Paoli, che diverrà famosa in tutto il Mondo. Si accoglie con un gemito, con battito del cuore la sofferenza dell’uomo per inserirla nell’amore divino. L’opera del Cottolengo si avvia con pochi mezzi, con la fiducia nella Divina Provvidenza. Tutti i collaboratori operano con amore, immediatezza evangelica. Si fanno debiti. V La Piccola Casa si espanderà, diventerà gloriosa, si svilupperà sino a quando amerà i poveri e li servirà. Le suore con abnegazione si sentono in piena libertà e luce di carità, si spogliano di ogni loro avere, tutto ciò che hanno o che potranno ricevere sotto qualsiasi titolo appartiene alla Piccola Casa. Tutto viene diviso con spirito di eguaglianza fraterna. Si ricordano le prime comunità della Chiesa apostolica ove, tutti concordi, a nessuno mancava il necessario. A settembre 1832 i posti
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sono 45, dopo un anno 250. Il Cottolengo prende in fitto una seconda casa che chiama “Casa della Fede”, poi alcune altre camere che denomina “Casa della Speranza”. Ancora locali nuovi, sempre attorno alla Piccola Casa, adatti per tanti invalidi, li nomina “Casa della Carità”. Il Cottolengo tiene presente l’ esortazione di Gesù: “Cercate il regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato in sovrappiù”. Non ha fiducia nei potenti di questo mondo, crede solo alla Divina Provvidenza, che è munifica, inesauribile, miracolosa. Le suore indossano il velo con un abito religioso, disegnato dallo stesso Cottolengo, al collo il Crocifisso e sul petto un cuore d’ argento, simbolo della loro vita. Aumentano sempre, portano nei tanti luoghi della terra il carisma dell’ospitalità e dell’amore nato nell’ animo del Cottolengo. La Congregazione delle suore di San Giuseppe Cottolengo riconosciuta di diritto pontificio nel 1959. Oggi sono circa 4000. Oltre a prestare il loro servizio nella Piccola Casa e nelle succursali, operano negli ospedali, ricoveri, servizi sociali, parrocchie, scuole materne. Abbiamo poi i fratelli laici nel 1833, con la stessa missione delle suore, sono infermieri per i malati della Piccola Casa, educatori, animatori parrocchiali. I fratelli di San Giuseppe Cottolengo riconosciuti di diritto pontificio nel 1965, testimoniano la carità evangelica tra i poveri nei settori sanitari, dell’ospitalità e di servizio sociale tra i disadattati in Italia, Africa, India, America Latina. Tutti insieme con fede e con le preghiere. I voti comportano sacrifici senza limiti, donazione totale a Dio e ai poveri in sublimazione spirituale e d’amore fino alla consumazione di se stessi. VI Il Cottolengo vive in una globalità di vicinanze e di cooperazione. La parola Cottolengo esula dalla persona del Santo fondatore e si espande a tutta l’Opera, vista come un tutto uno insieme di bisognosi e operatori. Il 27 agosto 1833 il Re Carlo Alberto riconosce l’ esistenza legale della Piccola Casa. Il Cottolengo nominato Cavaliere dei Santi Maurizio
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e Lazzaro, onorificenza concessa a coloro che, come i Cavalieri del Medioevo, si fossero distinti per abnegazione e generosità. Nella mente del Cottolengo tutto è voce e volere di Dio, attorno a Lui la forza della Divina Provvidenza: l’incontro con un povero, un gesto d’implorazione, sofferenze che piangono fanno subito sorgere un servizio, un centro di accoglienza. Una lotta con i debiti, con i creditori, parecchi benefattori rinunciano ad essere generosi, molti entusiasmi vengono meno. Il Santo con un pugno di suore e fratelli fedeli combatte contro tutti, anche contro la Divina Provvidenza che tarda a venire. Il Cottolengo molte volte lo vediamo gemere, stremato, ma resta combattivo fino alla morte. Nel triennio 1833-1836 si ha la costruzione dell’ospedale della Piccola Casa, con attrezzature varie, con sala operatoria, si pratica anche la trapanazione del cranio, considerata in questi anni eccezionale. L’ospedale famoso in mezz’Europa. Nella Piccola Casa si hanno le famiglie maschili e femminili degli epilettici con le camere trapuntate e i mobili senza spigoli, allo scopo di evitare contusioni durante i momenti di crisi. Vengono accolti ragazzi poveri per dare la possibilità di frequentare le scuole e apprendere un’arte. Inoltre presenti le famiglie dei sordomuti, si crea per loro una scuola per insegnare il modo di comunicare. Abbiamo orfani, anziani, invalidi fisici, ritardati mentali. I più ributtanti tra i malati devono essere i prediletti, i più ben trattati dalla carità. I più disgraziati sono le gioie, le perle della Piccola casa. VII La società francese “Montyon et Franklin” che esalta i meriti dei benefattori dell’ Umanità, una specie di Premio Nobel dell’epoca, sceglie per 1835 il Cottolengo. Diploma e medaglia portati per via diplomatica alla Piccola Casa dal Principe Vittorio Emanuele. Il Cottolengo riconosce ogni merito alla Divina Provvidenza e, siccome l’onorificenza viene da Parigi, afferma che l’attribuzione onora il cittadino francese San Vincenzo de’ Paoli. Si realizza una serie di servizi al di fuori della
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Piccola Casa, le suore vengono assegnate in vari ospedali del Regno Sabaudo. Si aprono scuole popolari, diversi asili infantili. Suore del Cottolengo presenti negli stabilimenti termali di Acqui per assistere i poveri. Questa diffusione di soccorsi una vera benedizione. Tutte queste opere in poco tempo. Ad Acqui andavano solo le persone facoltose, il Cottolengo riesce a far godere delle cure termali anche gli ospiti della Piccola Casa. Il Canonico Cottolengo si è mostrato un ottimo politico, quando ha contrastato le leggi che richiedevano alle Opere Pie i bilanci preventivi e consuntivi. “La Piccola Casa non ha capitali, ha contratto debiti ed obbligazioni per provvedere ai miseri: non ha altro da denunciare al Governo del Re. Parlo per sostenere le parti della Divina Provvidenza e i diritti dei miseri”. Ha difeso il Cottolengo il diritto alla vita dei poveri, non ci sono leggi che possano contrastarlo. Ispirato sempre dalla fede cristiana. Chi dà la vita per i poveri, manifesta l’ amore di Dio per gli uomini in difficoltà, i poveri sono di tutti, non si possono dimenticare. La Piccola Casa è sorta con questi sacrosanti principi, I debiti contratti a nome della Divina Provvidenza, il Cottolengo è uno strumento abile e combattivo nelle sue mani. La ricchezza viene da Dio, i beni della terra sono per tutti. VIII La fede eroica, oltre la carità, costituisce la virtù suprema del Cottolengo. L’ideale del bene sovrasta tutti i principi di Umanità. Il Cottolengo è un esaltatore dell’amore per l’ uomo, quando soccorre il povero, quando il suo gesto è spontaneo e generoso si fa braccio e cuore di Dio. Con il povero va sulla strada segnata da Dio. I cuori più sofferenti trovano, tramite il Cottolengo, la parola del Vangelo, benedicono Dio. L’amore per i poveri è divino, di questo sentimento è maestro tra le suore, i fratelli e i volontari. La carità si esercita con entusiasmo, con sollecitudine. È meraviglioso sacrificare tutto, anche la vita, per il bene degli infermi, degli abbandonati. Senza timore e pregiudizi, si cammina pronti verso i
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miseri. Questi rappresentano Gesù sulla Croce, la vita di accidenti e di passione. Il Cottolengo si denomina prete meschino, sempre convinto di non fare quello che si potrebbe. Nel 1837 si hanno epidemie di colera, le suore corrono in aiuto, molte muoiono compiendo la loro missione. Le persone sostenute dall’Opera sono 900, i debiti sono sempre tanti. Molte forniture vengono sospese. San Giuseppe Cottolengo pensa di aver sbagliato, diverse camere sono rimaste vuote, Dio in questo modo abbandona e la Divina Provvidenza tarda a venire. Per sanare la situazione finanziaria disastrosa bisogna aumentare le spese. Sembra paradossale, ma la Provvidenza nei momenti di maggiore crisi, quando tutto sta per crollare, arriva veloce. Il Cottolengo consuma se stesso fra i poveri che egli ama con infinita passione, per la sola gloria di Dio, amministra la Piccola Casa come un bene della Divina Provvidenza. Questa è la stessa in ogni momento, diversa dalla previdenza umana. Continua a prendere i terreni circostanti, messi in vendita, aumenta i servizi. Egli, che costruisce i palazzi per i poveri, mantiene per sé una modesta camera da letto. Non ha uffici né sale. Con le nuove costruzioni attua una vita più organizzata e più autonoma per le diverse famiglie di ospiti. Bisogna andare incontro alla sofferenza che è ineliminabile dalla vita dell’uomo. La Divina Provvidenza è bontà e sapienza, sa trovare il bene anche nel male. I collaboratori del Cottolengo incontrano gravi difficoltà quando si trovano dinanzi ai problemi di riabilitazione e di inserimento sociale. IX Negli anni 1839-1842 vengono fondati alcuni monasteri dediti alla vita contemplativa, costituiscono fonte di spiritualità, illuminano la missione sacerdotale, il servizio di carità, tutta l’attività della Piccola Casa. Abbiamo il monastero della Pietà a Biella che si prefigge di onorare la passione di Cristo, le sofferenze della Madonna ai piedi sella Croce e di pregare per tutti gli agonizzanti. A Cavoretto il monastero delle Carmelitane con lo scopo di
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offrire preghiere per la santificazione del clero. Piena di coraggio e infinita è la carità evangelica del Cottolengo. Fonda il monastero per le donne che vengono da una vita traviata, vittime del sottosviluppo culturale, dell’ egoismo umano. Tutti istituti che si rendono utili alla complessa vitalità che si ha nell’ Opera. Vivono in stretta unitarietà di intenti, sono essenziali per realizzare il santo concetto di carità universale, vivo, attivo nella Piccola Casa. Pura carità in conformità con i principi di Cristo. Uno scopo unico raggiungono le tante ramificazioni dell’Opera del Cottolengo: far vivere il misero sfortunato, al di fuori di ogni convenzionalismo. Benefattori, ospiti, fratelli, suore, il Cottolengo tutti figli della Piccola Casa della Divina Provvidenza. Vedendo le immense costruzioni, si ha l’idea del fermento operativo, tutto coordinato, tutto come una macchina, convivono uomini e donne, sani e malati, religiosi e laici, si lavora, si prega, si serve, si è serviti. Tutti in un afflato di santificazione reciproca. La preghiera è perenne, ritmata con tutte le operazioni di carità. Preghiere semplici che si adattano alle persone, vengono immediate dall’ animo. X Contemplazione e attività. Il Cottolengo con concretezza percorre la via della santità, l’azione si spiritualizza, amore, sacrificio e opere buone. In questo modo si vive l’ esperienza di Gesù, vista rispecchiata nelle sofferenze alleviate, spartite nella Piccola Casa. Una vita difficile, estenuante, a volte immersa nel buio, quella che ha portato il Cottolengo ad una realizzazione grandiosa, di carattere universale come principi e come attivazione. La Piccola Casa è una Città che freme, che coinvolge tutti con fatiche continue che hanno del misterioso, divorano le giornate e la vita di ogni operatore. Si ha l’impressione che la dimensione umana abbia estensioni divine: persone nel dolore e nelle imperfezioni quasi ricreate con la mano della Divina Provvidenza e con i principi cristiani fattisi strumenti della volontà infaticabile di tanti collaboratori.
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XI Un’altra tragedia colpisce Torino e in particolare la zona Valdocco, travolgendo la Piccola Casa. Un’epidemia di tifo petecchiale. Suore, fratelli, chierici stroncati dalla morte mentre servono i poveri colpiti dal morbo. Il Cottolengo è all’estremo delle forze, preso da angoscia, la sua spiritualità fiammeggia in questi momenti di tribolazione. Il suo volto è invaso da pallore, la persona distrutta. Accompagna alcune suore all’ospedale di Chieri, decide di fermarsi per dei giorni presso il fratello canonico Luigi. Si aggrava, è stato colpito dal tifo petecchiale, la robusta fibra sta per crollare. Ha percorso la strada della sua missione fino alla perfezione evangelica. Il 30 aprile 1842 muore, mentre Torino è in festa per le nozze del principe Vittorio Emanuele. Spettacoli, giochi popolari al Valentino, serata danzante al Palazzo di Città. Nessuno sa della tragedia del Valdocco. L’indomani i 1300 abitanti della Piccola Casa sono informati della morte del loro Padre fondatore. Tutti sono costernati, anche la città è a lutto, Carlo Alberto è in lacrime. Il Cottolengo ha vissuto di amore e di carità, virtù che sono state l’essenza del suo animo. Ha vissuto insegnando a tutti uno stile di vita e di spiritualità. Fratello dei poveri, ha camminato con la Divina Provvidenza per soccorrere l’uomo più piccolo, più misero, peccatore, fragile. Il 29 aprile 1917 il papa Benedetto XV dichiara beato il Cottolengo. Il 19 marzo 1934 Pio XI lo proclama Santo. La Piccola Casa ha più di cento succursali in Italia, si è diffusa in America, Africa e India. Il messaggio di San Giuseppe Cottolengo continua a fermentare con ardore da parte di volontari, suore, fratelli, laici e religiosi. Non si spegne la carità di Cristo nella Chiesa. Il nome del fondatore si identifica con il nome della Fondazione. Pochi sanno che cos’è la Piccola Casa della Divina Provvidenza, ma molti parlano di quest’ Opera grandiosa che è il Cottolengo, una vera città nella città di Torino, la più esaltante Istituzione che si possa avere, la più concreta, la più necessaria, la più ricca di vita. Leonardo Selvaggi
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IL TEMPO: ROVELLI, VERLINDE, GLI UFO E GERVASO di Giuseppe Giorgioli
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volte si ha troppo a disposizione. Un uomo con un orologio sa che ore sono; un uomo con due orologi non ne è mai sicuro. Qualsiasi persona sia se fa qualcosa sia se non fa niente è assoggettata allo scorrere del tempo. Si dice anche che il tempo è vita: se qualcuno ti fa perdere tempo è come se ti rubasse un po’ della tua vita. Carlo ROVELLI Su consiglio di un amico ho letto un libro di Rovelli: “L’ordine del tempo”. Rovelli è un fisico teorico, membro dell’Institut universitaire de France, responsabile dell’Equipè della gravità quantistica del Centro di Fisica teorica dell’Università di Aix – Marsiglia. Ha scritto vari libri, fra cui “Sette brevi lezioni di fisica”, tradotto in ben 40 lingue. E’ un libro che tratta della fisica moderna, quella di tipo quantistico con concetti filosofici senza utilizzare complicate formule matematiche. Di seguito ne faccio una breve recensione, citando alcuni passi che più mi hanno colpito. Come le Sette brevi lezioni di fisica, che ha raggiunto un pubblico immenso in ogni parte del mondo, questo libro tratta di qualcosa della fisica che parla a chiunque e lo coinvolge, semplicemente perché è un mistero di cui ciascuno ha esperienza in ogni istante: il tempo. Il libro si divide in capitoli: 13, distribuiti in tre parti, un’introduzione - “Forse il mistero più grande è il tempo”- ed un capitolo finale sulla morte – “ La sorella del sonno”. La prima parte (Lo sfaldarsi
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del tempo) trattasi di come la fisica moderna consideri il tempo. E un mistero non solo per ogni profano, ma anche per i fisici, che hanno visto il tempo trasformarsi in modo radicale, da Newton a Einstein, alla meccanica quantistica, infine alle teorie sulla gravità a loop, di cui Rovelli stesso è uno dei principali teorici. Nelle equazioni di Newton il tempo era sempre presente, ma oggi nelle equazioni fondamentali della fisica il tempo sparisce. Passato e futuro non si oppongono più come a lungo si è pensato. E a dileguarsi per la fisica è proprio ciò che chiunque crede sia l'unico elemento sicuro: il presente. “Pensiamo comunemente il tempo come qualcosa di semplice, fondamentale, che trascorre uniforme, incurante di tutto, dal passato verso il futuro, misurato dagli orologi. Nel corso del tempo si succedono in ordine gli avvenimenti dell’universo: passati, presenti e futuri; il passato è fissato, il futuro è aperto…Bene, tutto questo si è rivelato falso”. Aristotele pensava che il tempo fosse la misura del cambiamento delle cose, cioè considerava che il tempo non scorresse se tutto rimane immobile. Newton afferma invece che esiste un tempo assoluto indipendentemente dallo scorrere delle cose e degli avvenimenti. Einstein dà ragione a entrambi, ma afferma anche che lo scorrere del tempo è diverso da luogo a luogo: per esempio in montagna scorre più veloce rispetto alla pianura! Considerazioni analoghe valgono per lo spazio: lo spazio di una cosa è cosa c’è intorno a quella cosa, per Newton lo spazio è assoluto ed esiste anche dove non c’è nulla! Einstein supera tutte le teorie precedenti, introducendo lo spaziotempo e le onde gravitazionali. Per Einstein non significa niente “adesso”: se io vedo una persona non la vedo adesso, ma dopo il miliardesimo di secondo durante il quale la luce ha percorso la distanza fra me e quella persona. A livello più macroscopico: se dovessi comunicare con una persona che sta sulla base spaziale, non esiste la contemporaneità della comunicazione in quanto il
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segnale radio ha un tempo di propagazione. Infine vengono presentati il tempo e lo spazio, non come grandezze di tipo continuo, ma in forma granulare: non esiste il tempo o lo spazio zero, ma esiste un tempo minimo o uno spazio minimo : teoria dei quanti. Dopo vari passaggi di pensiero si arriva all’ argomento della seconda parte del libro, cioè “Il mondo senza tempo”. Il mondo non è costituito di cose, di qualcosa che è, ma di eventi, accadimenti e processi: si ha una continua trasformazione, che non permane nel tempo. La terza parte “Le sorgenti del tempo” è la più difficile: nel mondo senza tempo deve comunque esserci qualcosa che dia poi origine al tempo che noi conosciamo, con il suo ordine, il passato diverso dal futuro, il dolce fluire. L’energia si conserva: nulla si crea e nulla si distrugge. Questa è la regola aurea. Ma se si conserva perché dobbiamo crearne sempre una nuova per le industrie, per le auto, per il condizionamento ecc.? La verità è che l’ energia è in abbondanza, ve n’è troppa! Noi, ad esempio, usiamo energia e la trasformiamo in energia termica per riscaldare un ambiente freddo, ma non si può più riutilizzarla. Cosa è successo è aumentata l’entropia e tale aumento è collegato al passare del tempo. Rovelli fa un esempio banale di un sasso che cade a terra. Si domanda: perché il sasso passa da un livello alto di energia potenziale e cadendo perde questa energia? La risposta è che quando il sasso cade scalda la terra dove è caduto, l’energia si conserva ma viene trasformata da energia potenziale a energia termica con un’entropia più alta. Se non ci fosse il calore il sasso continuerebbe a rimbalzare sulla terra. Rovelli cita anche il capitolo XI delle Confessioni di Sant’Agostino: Agostino osserva che siamo sempre nel presente, perché il passato è passato e quindi non c’è, mentre il futuro deve ancora arrivare, e quindi pure non c’è! Alla fine del capitolo 12 si cita una poesia di Hofmansthal, di cui riporto alcune righe: “Sento la fragilità delle cose nel tempo.
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Giù nel mio cuore, sento che non dovremmo aggrapparci a nulla. Tutto scivola fra le dita. Tutto ciò che cerchiamo di cogliere si dissolve.” Il libro si chiude con l’ultimo capitolo “La sorella del sonno”: Rovelli scrive che lui al momento opportuno accoglierebbe la morte col sorriso, ma a mio parere questa dichiarazione rischia di rivelarsi un'illusione come sembra esserlo il tempo. Afferma perché avere paura della morte? E’ come avere paura della realtà, del sole. La vita si svolge in un breve arco di tempo. Tutto ciò che si vive è un mistero perché comprendiamo solo una parte della realtà. Tante verità rimarranno a noi nascoste. In conclusione il libro è un'affascinante esposizione riguardante il concetto del tempo, che da sempre incuriosisce ed inquieta l'essere umano. Erik Peter VERLINDE Leggendo la rivista Focus di luglio ’17 un articolo mi ha colpito “L’uomo che sfida Einstein”. Si tratta di un fisico olandese dell’ Università di Amsterdam, che ribalta secoli di studi sulla gravità. Per chiarire un mistero irrisolto: la materia oscura. Come Rovelli, va oltre le teorie, sviluppate nel mondo della fisica da Aristotele, Newton fino ad Einstein prospettando scenari nuovi e rivoluzionari. Per Verlinde, la gravità non si comporta secondo la definizione di Einstein e sostiene di poter predire la velocità di movimento delle stelle co-
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me anche la gravità in eccesso. UFO Quando ero studente credevo che potessero esistere forme di vita intelligenti extraterrestri, ma capivo che non ci poteva essere un incontro fra la nostra civiltà e la loro per le enormi distanze. Margherita Hack era molto scettica per gli stessi motivi. Ma i nuovi e incredibili sviluppi della fisica fanno pensare a concetti di spazio – tempo diversi dalle conoscenze tradizionali, fino a pensare che quello che si credeva impossibile, può diventare possibile… pensare ad esempio al teletrasporto… GERVASO Concludendo riporto una riflessione che Gervaso ha fatto sul Messaggero del 22 settembre ’17 in risposta alla seguente domanda di Carlo Saggy di Roma: «Sulla spiaggia ho plasmato un castello di sabbia. Il mio piccolo capolavoro soddisfa le aspettative, ma non ho nemmeno il tempo di apprezzarne la bellezza che una folata di vento lo spazza via, nel nulla. E nulla mi resta, se non l'amarezza e un senso di vuoto che non potrà mai essere descritto nella sua intensità. Ma voglio ricominciare, consapevole che anche il prossimo castello sarà spazzato via dal vento». E Gervaso rispose: “Caro Saggy, la sua riflessione dovrebbero farla tutti gli uomini. La
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vita è un fiume che scorre e che nessuno può fermare, arginare, deviare. Solo Dio, lo chiami come vuole, un supremo demiurgo, un sublime architetto, ha questo potere. Panta rei diceva il presocratico Eraclito, Tutto passa. Io non ho dubbi sulla nostra eternità, ma non ne ho neppure sulla nostra precarietà, sulla fugacità delle nostre azioni, sull'evanescenza dei nostri pensieri. Io, a ottant'anni, sono giunto alla conclusione che tutto sia, al tempo stesso, perenne e transeunte. Solo Dio può fermare l'attimo, ma non può sopprimerlo perché anche l'attimo è destinato alla perennità in un serbatoio cosmico immobile e in eterno movimento. Sembra una contraddizione, ma non lo è. Non lo è perché l'armonia regola l'universo. Lo regola con leggi immutabili, e infrangibili. È un arcano che mai riusciremo a svelare. Neppure chi filosofi e teologi con le sue astruserie, i suoi cavilli, le sue apodittiche ipotesi, pretende di spiegare l'inspiegabile e di fuorviare gli spiriti, coartandoli in letti di Procuste. Sulla mia tomba farò incidere un distico tacitiano. Due sole parole: Ho vissuto. Apparentemente un tributo al passato, in cui tutto, alla resa dei conti, s'invera. Pronuncio la parola invera e già appartiene al passato. Come al passato appartiene il futuro, che diventa presente e ne segue la sorte.” Giuseppe Giorgioli CARLO ROVELLI - L’ORDINE DEL TEMPO Editore Apelphi, ISBN 9 788845 931925, 2017, Euro 10
CATALOGNA Un popolo si alza il cuore pieno di amicizia Un popolo si alza i cui ardenti progetti sono o non sono - solo lui lo sa quelli più in grado di realizzare la sua felicità Il pacifismo e la determinazione con i quali questo popolo si alza sono una lezione per l’estero Béatrice Gaudy Parigi, Francia
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Dicembre 2017
Influenze culturali in una poesia che va oltre l’esistenziale
CORRADO CALABRÒ LA SCALA DI JACOB di Susanna Pelizza ORRADO Calabrò con “La scala di Jacob” ha vinto il primo premio al concorso Città di Pomezia 2017, un successo in qualche modo previsto, data l’ esemplarità e originalità della sua poesia, sempre così innovativa e fuori dagli schemi. Il testo, pubblicato nei Quaderni Letterari “Il Croco” di Pomezia-Notizie, ottobre 2017, si apre con l’introduzione del Guarracino che così commenta “(...) una rappresentazione della propria vita (una vera rivelazione), intesa come “historia sui” sulla scena del tempo, sottratta alla inesemplarità e riaccesa per forza di scrittura dall’energia della parola esatta, dalla dignità di una forma classicamente composta, tra illuminazione lirica e gnomica attitudine ragionativa, tra racconto e visione, in una metrica tramata di sottili riprese e rime interne”. Siamo, con queste parole, fuori dall’ impostazione “puramente esistenziale” di molte poesiole di oggi e credo che l’originalità del Calabrò stia in questa capacità, del tutto singolare e personalissima, di far coincidere il classico con il moderno, esperienza passata con linguaggio quotidiano, sapendo, anche, mirabilmente riadattare motivi di altri poeti alle proprie esigenze rappresentative. (Come in “Altalena” “Il mio amore sale e scende come il sole giornalmente” elaborazione della poesia “Sol” di Jaime Sabines).
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Volevo precisare che, fin quando si fa un lavoro di questo tipo, di ricerca letteraria verso una poesia fondante, in continua evoluzione e trasformazione, non si ha di fronte “l’ irreversibile perdita di aureola”, ma il contrario, la convinzione che la lirica sia non un gradino sopra l’esistenza, ma esperienza stessa di crescita: in sostanza, Calabrò non è un poeta che lamenta la fine di un genere nell’ era del post-moderno, pur consapevole dei dovuti limiti della precarietà del dire, di qualsiasi dire e dei rischi insiti nell’epigonismo, nel ritrattare temi già più volte espressi e ripetuti da altri autori, affonda il coltello proprio là dove “il dente duole”, oltre le lamentele critiche di oggi, in un linguaggio “ascensionale” e quindi profondamente culturale e innovativo, dove la matassa della vita si dipana sciogliendosi ed esaurendosi verso altre soluzioni. Susanna Pelizza Corrado Calabrò - La scala di Jacob - 1° Premio Città di Pomezia 2017 - Prefazione di Vincenzo Guarracino, Postfazione di Domenico Defelice; in copertina, a colori, “Il sogno della scala di Giacobbe”, di William Blake - Ed. Il Croco/PomeziaNotizie, ottobre 2017 - Pagg. 32.
FILO D'ORO E' un filo d'oro la tua veste nel balenio purpureo del fiume. Le cime delle betulle rimandano l'esile voce del cuculo, echeggia nel vento e si perde lontano, attraversa colline e campi troppo presto si fonde nel canto sfilandosi come le perline azzurre, della mia collana, troppo presto svanisce l'immagine del nostro amore. Adriana Mondo Reano, To
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Il Racconto
MARIA RUSSO di Antonio Visconte
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ARIA e Sandrina si abbracciavano e lacrimavano, mentre il sole volgeva al tramonto. “Perché ci vuoi lasciare?” supplicava Sandrina. “Devo stare vicino a mia figlia”, ribadiva Maria. “Sei stata la mia migliore amica”, affermava Sandrina, “dove trovo un’altra Maria Russo? Venisti con me a Milano, a salutare Claudia, cancelliere in quel tribunale, partecipasti in Sicilia al matrimonio di Rosetta, in assenza di molti parenti, che pure avevano l’obbligo di presenziare. Mi rimane impressa quella serata al teatro Alla Scala, mentre dirigeva l’ orchestra Riccardo Muti. Per la nostra eleganza ci prendevano per gente ricca e non vedevano che scendevamo dalla sesta fila”. “Sono bei ricordi”, argomentò Maria. “Altri momenti beati possiamo trascorrere insieme, se rimani con noi. In questo palazzo, con i bravi trentasei condomini, siamo una sola famiglia, ci vogliamo bene e ci aiutiamo a vicenda. D’altronde con la pensione tua e con la pensione di tuo marito Francesco, potete assumere una donna di servizio, che vi assiste giorno e notte e se volete vi fa anche la spesa”. “Mi dispiace, vi ringrazio, però vicino a mia figlia mi sento più sicura”, ribatté Maria. “Tuo marito cosa dice?” domandò Sandrina. “Non vuole venire, ma si deve adattare alla nuova situazione. Una volta la moglie doveva seguire il marito e adesso il marito deve seguire la moglie. All’inizio si troverà male, perché andiamo ad abitare nella nostra villetta a due piani in un parco chiuso, ma poi col tempo troverà gli anziani con cui dialogare e un po’ di verde per passeggiare, senza dimenticare che abbiamo la nostra figlia Elenuccia al primo piano che ci allieta”.
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“Chi lascia la via vecchia per la nuova, sa quella che lascia e non sa quella che trova”, ripeté Sandrina l’antico proverbio. “Hai quattro figlie”, ribatté Maria, “e non capisci una cosa così semplice, nessuno può darti ciò che ti dà una figlia”. “Ho quattro figlie”, reclamò Sandrina, “e resto sempre isolata”. “Mia figlia è affezionata ai genitori insieme al fidanzato”. “Speriamo bene”, concluse Sandrina, “anche tu ti dovrai ambientare nella nuova cittadella. Non troverai l’estetista sotto casa e il parrucchiere all’angolo della strada. Tutti i negozi, dai commestibili all’abbigliamento a pochi passi”. La signora Maria non volle sentire ragioni e si affaccendava a cambiare abitazione. Non soltanto l’amica Sandrina, bensì l’intero condominio la esortava a desistere dalla strana decisione, che non le avrebbe arrecato nessun giovamento. “Chi è che sta traslocando?” apostrofò il preside. “La signora Russo”, spiegò Sandrina, “cerca di sistemarsi vicino alla figlia”. “Ci sono ancora i figli”, biascicava il preside, “dove trovate la famiglia patriarcale, che radunava il nonno e i nipotini intorno al focolare domestico. L’individuo si è reso libero e indipendente e non brama condizionamenti. I romani adottavano il soprannome, per designare il casato al quale appartenevano e oggi puoi cambiare anche il cognome, se non ti piace la discendenza”. “Che brutto mondo!” sofisticava Sandrina. Quella mattina le fiamme lambivano la cucina. Invano Maria strepitava di bloccare il fornello, dove aveva poggiato il pentolino per riscaldare il latte. Mentre accompagnava il marito nel bagno, scivolò per terra e si ruppe una gamba. A stento i vigili del fuoco riuscirono a salvarli e a ricoverarli al pronto soccorso. “Voi conoscete i coniugi Russo?” chiese il maresciallo dei carabinieri ad un venditore ambulante, che entrava nel parco a vendere frutta e verdura, “dobbiamo acquisire delle
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informazioni e stilare il verbale”. “Li conosco benissimo”, specificò il fruttivendolo, “sono miei clienti dal primo giorno che sono venuti qui a stabilirsi”. “Vivono da soli o hanno parenti?” “Una sola figlia, che si chiama Elenuccia”. “E vive con loro?” “Sì, maresciallo, vive con loro”. “E dove si trova attualmente?” “È partita per la Russia con una comitiva di amici”, dichiarò il teste e consegnò il numero telefonico della signora Maria. Il maresciallo, abituato ad ogni tipo di sventure umane, non espresse sdegno e raccapriccio, però sul volto stanco si notavano i segni della sofferenza. A chi poteva dire che non si lasciano i genitori debilitati, se nessuno l’ ascoltava. Terminò così la tragica avventura di due anziani, che potevano godersi una vecchiaia tranquilla e rigogliosa. Il povero Francesco fu rinchiuso in una clinica privata e la signora Maria trascorse i suoi anni sopra una sedia a rotelle. Antonio Visconte
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Non pensavo che tu fossi qui accanto alle mie orme trascinate alle pietre miliari del riposo a tendermi la mano per prestarmi con lo sguardo sconfitte e pace di rinuncia a convincermi che padri e figli prima o poi s’incontreranno berranno la stessa acqua ascolteranno lo stesso vento mentre impollina l’amore. Gianni Rescigno
LA SPERANZA Dacci oggi la speranza come ce l’hai data ieri e ancora ieri l’altro fino ad andare al primo giorno di luce e continua a darcela fino all’ultima sera quando te la rimetteremo per sempre nelle mani. Gianni Rescigno
RICONCILIAZIONE Unghia nera al pollice lacrima di vista raccorciata odore di tempo in pelle rifugiato e suono di linguaggio con pretesa di trasmettere saggezza mi fanno come te padre, pellegrino di percorsi accidentati abbracciato all’affanno delle ore. Non pensavo allora che potessi somigliarti così tanto, con te riconciliarmi dopo varie discordanze, che potessi rivederti così chiaro nei miei gesti e nella mia voce, ritrovarti dove tu giungevi a tappe con coraggio verde bruciato alle stagioni ombre di pine accumulate nel pensiero.
ALL’OMBRA DI UNA QUERCIA Ho bussato e non c’eri. Ho aperto e ho trovato il buio (finestre e balconi chiusi) e nel buio il tuo ricordo svanito. Improvvisa la luce. Dall’odore dei vecchi vestiti (camicette e gonne svasate) ha vibrato la tua voce. S’è ricomposto il calendario coi fogli andati via. Ho messo insieme i passi del ritorno. Sui sentieri delle vipere t’ho trovata: intatta all’ombra di una quercia coi cuori cancellati. Gianni Rescigno Poesie tratte da Sulla bocca del vento - Ed. Il Convivio, 2013.
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I POETI E LA NATURA - 74 di Luigi De Rosa
D. Defelice - Metamorfosi (particolare), 2017
IL “PAESAGGIO” DI BAUDELAIRE (1821-1867)
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entocinquanta anni fa moriva Charles Baudelaire, in un ospedale di Parigi, a soli 46 anni. Dopo una vita molto travagliata e costellata di malattie, per la maggior parte causate dall'abuso di laudano, hashish ed oppio, e a causa di una sifilide inesorabile, fino all'ultimo stadio (allora non c'era-
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no gli antibiotici). Unica consolazione l'avere avuto la mamma al capezzale, dopo una dolorosa separazione per colpa del nuovo matrimonio di lei. Aveva vissuto una vita disordinata ma colma di ebbrezza “poetica”: e non solo poetica, ma anche prodotta da alcool (énivrez vous! Ubriacatevi!). Se si torna alla sua biografia si scopre, tra l' altro, che la sua infanzia, dai sette anni in poi, era stata resa infelice da un patrigno impossibile, troppo autoritario e intransigente (un tenente-colonnello poi divenuto generale). C'è una costante nella vita di quasi tutti i più importanti artisti e letterati di ogni tempo ed ogni Paese. L'aver dovuto vivere un'infanzia, un'adolescenza, a dir poco infelice, e l'aver dovuto combattere per il resto dell'esistenza contro difficoltà di ogni genere e contro il tarlo della solitudine (con tutto quello che ne consegue). Sul piano dei risultati letterari e artistici tutti sanno, comunque, della immensa importanza di Baudelaire nella storia della letteratura (francese, europea, mondiale) e della sua rivoluzionaria influenza su moltissimi poeti, grandi e meno grandi. Inutile fare nomi, ne dimenticheremmo sempre molti. Troppi. Per quanto riguarda il rapporto fra Baudelaire poeta e la Natura, ci potrebbe essere utile la rilettura della sua lirica “Paesaggio”. (In una traduzione dal francese di Luciana Frezza). La sostanza riformatrice della poetica baudelairiana sta soprattutto in questo: a differenza di altri poeti, anche grandi, Baudelaire, più che descrivere (come si faceva prevalentemente nei secoli precedenti) crea il paesaggio stesso. E' dal suo intimo che nasce e si sviluppa il paesaggio. Detta così, oggigiorno, la cosa sembra perfino naturale. Ma soffermiamoci un attimo a pensare che il grande poeta parigino era nato e morto nel secolo diciannovesimo. Baudelaire, cronologicamente, è tutto dell'Ottocento, anche se la sua sensibilità è del Novecento se non del Ventunesimo Secolo. (Andrea Zanzotto era arrivato a... constatare il nonsenso del paesaggio nella poesia dei nostri giorni. La cosa può non pia-
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cere a tutti, ma è così. Oggigiorno si potrebbe parlare, più correttamente, di dietro il paesaggio...). Ho accennato, prima, alla poesia di Baudelaire Paesaggio. Eccone i versi più significativi. Letti e riletti, assimilati col nostro cuore e il nostro spirito, rappresentano il discorso più efficace per “Spiegare” nella sua intima essenza il rapporto fra il Poeta (in questo caso, Baudelaire) e la Natura, il paesaggio, le stagioni, i colori, la bellezza sublime dell'Arte: “...Col mento nelle mani, dalla mia mansarda, vedrò il laboratorio dove si canta e si ciarla, le ciminiere e le guglie, alberi della città e i grandi cieli che fanno sognare d'eternità... …Vedrò le primavere, le estati, gli autunni, e quando verrà l'inverno e le sue nevi monotone, allora chiuse le tende e le imposte serrate, costruirò nella notte i miei palazzi fatati. Mi metterò a sognare orizzonti bluastri, parchi e zampilli piangenti dentro gli alabastri, baci, uccelli che cantano sera e mattina e tutto ciò che l'Idillio ha di più infantile... il Tumulto sarà profondamente immerso nel piacere di evocare con la volontà la Primavera, di tirar fuori un sole dal mio cuore e di creare col fuoco dei miei pensieri il tepore.” Luigi De Rosa
VOLO Sei un volo d’angelo lasci la scia nel cielo profumi poi di mistero tra gli occhi di lacrime il mio lungo ciarpame si lacera in quel volo Filomena Iovinella Torino
Recensioni TITO CAUCHI LEONARDO SELVAGGI Panoramica sulle opere Editrice Totem di Lavinio Lido (Roma), Anno 2016, Edizione fuori commercio, pagg.315. Chi non ha mai ricevuto qualche parola di commento (che poi sono state cartelle) dal poeta, scrittore, antologista, saggista e quant’altro, Leonardo Selvaggi? Lui si è prodigato per autori famosi e non famosi, e anch’io sono stata tra i tanti selezionati perché ho avuto in dono un suo saggio sul mio libro di poesie ispirate alla luna e sulle liriche dedicate agli artisti di tutti i tempi; una limpida dissertazione – Collana “ I colibrí “ n°8 Edizioni Eva del 2005 – dal titolo La costante lunare e spirituale nell’ars poetica di Isabella Michela Affinito. Adesso, invece, straordinariamente è stato il poeta, critico, professore, saggista Tito Cauchi ad aver preso in esame i libri da lui (Leonardo Selvaggi) pubblicati nel corso di oltre un ventennio tra poesia, prosa e saggi. Analizzare un portento letterario come Leonardo Selvaggi non è stata cosa da poco, anzi è significato uno sforzo non solo mentale, ma fisico nel senso del raggruppamento di tutte le sue opere che raggiunge il numero di oltre sessanta libri consultati, elencati poi nelle Bibliografie di riferimento del saggio stesso. Certo, la strada era stata già delineata dal passaggio del Dirigente superiore del Ministero per i Beni Culturali, Leonardo Selvaggi, di origini lucane ma residente a Torino già da diversi decenni; comunque si è trattato di rendere il percorso più chiaro nella sua tracciabilità, così da rendere schietto lo stile e le motivazioni letterarie del Selvaggi di fronte a tutti i suoi lettori.
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Leonardo Selvaggi non ha mai dimenticato la sua Lucania, terra di mute speranze, dal rozzo profilo di massi, dal carattere aspro, eppure sempre la sua terra assolata e amara. « (…) Qui il passato è ancora vivo, chiuso in una corteccia che resiste contro le assurdità e le stravaganze dei tempi nostri. Nella natura selvaggia, fra gli anfratti, abbarbicate sui pendii aridi della Basilicata si ritrovano ancora costumanze semplici, ambienti ancora fermi in una cornice di integrità morale. (…) La riconosco la terra della Basilicata, rimasta quasi intatta come negli anni passati. Gli oggetti non si consumano, invecchiano soltanto. La creta rovente della pignatta ha cotto le fave, queste spappolate dal guscio approntano la minestra. Dalla brace si espande il sapore della cotogna. (…) Riconosco la Basilicata in questa meravigliosa plaga, distesa nel golfo di Policastro; una parete biancheggiante di case è Maratea, la Dea del mare. (…) Ho imparato a riconoscere i miei corregionali anche lontano, a Torino. Fra tutti gli immigrati tanto significative sono proprio le mamme lucane; fanno ricordare quelle dipinte da Carlo Levi; addolorate e sagge negli scialli, colori sfrangiati di vesti lacere. Tanta tristezza a vederle, strappate da quel contorno casalingo che le faceva padrone. Loro sanno stare con il muso appuntito e dignitosamente compunto.» (Dal libro Storia e autobiografia di L. Selvaggi, Nuova Impronta Edizioni di Roma, Anno 2003, Euro 6,00, alle pagg.86-87). Probabilmente la sconfinatezza dell’ambiente seppure circoscritto a sé stesso, come deragliato dal resto dell’Italia, ha influito molto interiormente in Selvaggi, così come un solo anno di confino trascorso in Lucania da parte dello scrittore, medico, pittore antifascista Carlo Levi (1902-1975), influì a tal punto da indurlo a scrivere il celebre romanzo autobiografico Cristo si è fermato ad Eboli, pubblicato da Einaudi nel 1945 e divenuto film grazie al regista Francesco Rosi nel 1979, con protagonista Gian Maria Volonté che ha impersonato Carlo Levi, appunto. « (…) Cristo “si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né le speranze, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia… Le stagioni scorrono sulla fatica contadina, oggi come tremila anni prima di Cristo”. (Dal Dizionario Bompiani delle Opere e dei Personaggi, II° vol. Edizione speciale per il ‘Corriere della Sera’ Milano, Anno 2006, a pag.2055). Dire che Leonardo Selvaggi ha scritto tantissimo è poco, perché lui non ha mai smesso di puntare l’
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attenzione su autori nuovi e veterani per poi tessere i suoi commenti anche abbastanza chilometrici. E questo è visibilissimo adesso dal saggio del professor Cauchi: scritti sul letterato sardo Salvatore Porcu; su Domenico Defelice; su Nicola Festa; su Brandisio Andolfi; su Amerigo Iannacone; su Maria Teresa Epifani Furno; su Vincenzo Rossi; su Antonio Angelone; su Carmine Manzi; su Antonio Vitolo; su Luigi Pumpo; su Nunzio Menna; su Michele e Gabriella Frenna; su Vittorio Martin; su Francesco Lomonaco; su Imperia Tognacci; su Franca Alaimo; su Antonia Izzi Rufo, su Anna Aita e tanti altri argomenti ancora d’attualità e del passato, di eventi importanti di ieri e di oggi. Raggruppare tutto per ordine è stato un lavoro parimenti o forse di più del bibliotecario per il saggista Cauchi, entrato in perfetta sintonia con lo stesso metodo professionale usato dal Selvaggi, che sa benissimo cos’è il ruolo di responsabile della Biblioteca Nazionale di Torino. Così ha asserito il professor Cauchi nella sua Prefazione al voluminoso saggio « (…) La mia avventura letteraria mi ha fatto conoscere molte persone, con alcune delle quali, comprensibilmente, si sono venute a creare delle linee preferenziali che arricchiscono. Leonardo Selvaggi, letterariamente parlando, mi ha conosciuto al mio esordio nel 1993, e io ho conosciuto lui dieci anni dopo; gli debbo le considerazioni sempre approfondite e ad ampio raggio, che ha rivolto alle mie raccolte poetiche. (…) Dalla visione di insieme è emerso che l’ attenzione dello scrittore venuto dal Sud, si è posata su personaggi di diversa sensibilità che hanno un fattore comune: l’integrità morale. » (Alle pagg.10-11). Isabella Michela Affinito
NICOLA LO BIANCO IN CITTÀ AL TRAMONTO Bastogi, 2017 Rosso fuoco come un tramonto palermitano In città al tramonto di Nicola Lo Bianco, Bastogi editore, Roma 2017. Il titolo potrebbe suggerire, per quasi meccanica associazione temporale, lo struggente crepuscolo dantesco dei marinai quando loro s'intenerisce il core, ma visto che non di mare si tratta bensì prevalentemente di terraferma, il tramonto rosso fuoco, avvertito con corporalità terrestre dall'umanità insediata alla Kalsa o a Danisinni, a Ballarò o a Borgonuovo, fa risuonare versi di tutt'altra musica. In Città al Tramonto, è tragedia carnale di popolo. Nicola Lo Bianco la sa bene rappresentare per assidua propensione teatrale della sua scrittura.
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Uno stile di linguaggio e di sentire che si è venuto confermando nel tempo. Stile, sì, ma non come giuoco di parole bensì come etica della fantasia che esprime una certa idea dell'umanità. "Alla fin fine, signora mia, il marito carne di contratto è, / e si piange a merito" ("Cristofalo" XV). Ma è prosa o poesia? "Ch'era arrivato il tempo anche per lui Cristofalo lo capì quando con la lanterna accesa e il foglio in mano per dire metti la firma qua che sono innocente i picciottazzi nati e cresciuti senza arte né parte lo salutavano di lontano gli scanazzati lo aspettavano, ehi, Cristofalo, vieni a fare lustro a questa coppola di minchia, e la nottata gli passava a sghignazzare dandosi manate e pisciando al muro". ("Cristofalo" V) Poesia e prosa. E' l'una e l'altra, o, forse, né l'una né l'altra se l'una o l'altra la si vuol riconoscere formalmente con omogenità e lungo tutto un libro col metro della prosodia classica, eppure, il libro è compatto, compattissimo, perché la poesia è dentro o meglio: c'è un ritmo di lingua e di fantasia che, rompendo la tradizionale attesa della prosa come prosa e della poesia come poesia, riga dopo riga, a prescindere dal numero delle sillabe e degli accenti e delle rime, insomma, pagina dopo pagina, personaggio dopo personaggio, emergono proprio loro, i personaggi, e che personaggi: reietti perdenti da galera sconosciuti che sentono a loro modo la vita e la contano, la cantano e si raccontano, hanno le loro pene, i loro sogni, la loro filosofia, lontani dalla morale corrente o borghese che dir si voglia. Lo Bianco amorevolmente li ascolta, li interiorizza, li rappresenta, dà loro voce e ribalta, assecondando l'assunto di un altro scrittore atipico, amicissimo, affine nella poetica, Salvo Licata, secondo cui "il mondo è degli sconosciuti". Assonanze di poetica, e considerato il valore dato alla parola, quasi una militanza, corroborata da amichevole frequentazione. Assonanze, frequentazioni, dunque, scaturite, direi generate, da una certa idea della parola cercata nelle strade secondarie, nei quartieri malmessi, nei mercati popolari della città, a spremerne suoni, significati, giri sintattici, fallimenti, tragedie, degrado, non per compiacersene ma per andare alle radici sociali dei vinti, dei perdenti ovvero vittime perlopiù inconsapevoli di una generale ingiustizia, degli infelici che, però, promanano a loro modo, con autenticità, viscerale attaccamento alla vita tra fatti di sangue, povertà, devozionismo forse senza devozione, sboccato sentire, piaceri della carne perfino moralismo sui generis e intuitiva filosofia della vita. Prosa, poesia, teatro? Questione superata dall'em-
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pito dell'autore che, tra reattività morale e compartecipazione con lo stesso mondo rappresentato, tracima i consueti steccati linguistici, formali e semantici, per dar voce a chi voce non ha o non conta anche se grida; oscillante tra sogno e ansia di giustizia o felicità: sogni, ansia di giustizia, desiderio di felicità, nei casi particolari o nella loro universalità, non seguono grammatiche e casellari, in nessuna lingua. Piero Carbone
CORRADO CALABRÒ LA SCALA DI JACOB Il Croco/ Pomezia Notizie, ottobre 2017, Pagg. 32 (1° Premio Città di Pomezia 2017) L’annuale Premio della città di Pomezia, quest’ anno è stato vinto da Corrado Calabrò, conseguendo la pubblicazione della raccolta poetica La scala di Jacob. La copertina, in aderenza al dettato poetico dell’Autore propone a colori l’opera di William Blake, ispirata al biblico Giacobbe. Il Nostro è nato negli anni trenta, ha vasta esperienza professionale di prestigio, e non è di meno quella nell’ambito letterario ricevendo autorevoli riconoscimenti, basti nominare che è stato insignito ben quattro volte presso università straniere (del titolo di Laurea honoris causa presso Odessa [Ucraina], 1997; Timişoara [Romania], 2000; Mariupol [Ucraina], 2015; e di un Riconoscimento speciale dall’ università di Lisbona [Portogallo] nel 2016). Egli di così notevole reputazione, con la sua partecipazione, dà lustro al Premio. La raccolta è aperta da Vincenzo Guarracino e conclusa con nota di Domenico Defelice; il primo richiama la metafora dell’ascesa mistica oltre che della comunicazione e il secondo si sofferma ampiamente sulla figura del Poeta calabrese. La poesia d’apertura fa percepire la possanza erotica di un uomo maturo che mette insieme delicatezza espressiva d’altri tempi e lessico moderno, giusto per stare a passo con i tempi: la giovinezza di lei nei suoi “boccioli turgidi di rosa/ e l’iPod nelle orecchie trasognate”. Penso che in queste parole si concentri il desiderio di recupero del tempo andato, e considerata l’impossibilità fisica, il Poeta tenti dilatamenti e restringimenti metafisici (“Ho visto tutto/ ed il ‘tutto’ era in me:/ in me, frazione unitaria di zero”). Nel componimento eponimo rivolto al figlio, dice di lasciargli una scala a pioli verticale, ad intendere le difficoltà della vita. La scala a spirale di copertina, mi suggerisce, movimenti vertiginosi, l’andare a giro, quando fanciullo assisteva ai bombardamenti; ricordi di cada-
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veri disseminati. Riempirsi lo sguardo della vista del mare e pensare come l’onda possa trasformarsi in tsunami assassina. Corrado Calabrò, impregna la sua poesia di amore, nelle sue forme, forse anche di rimorso. Va a spaglio con la memoria, ora trasportandosi in una casa immersa nella campagna, ora a Cortina; sempre, comunque in un ‘trasloco’. L’età raggiunta lo fa regredire, guardare indietro e interrogarsi dove stia il prossimo e, soprattutto, desiderare l’abbraccio della propria madre “Chiudimi gli occhi, mamma!/ Io non te li ho chiusi/ e per questo li tieni ancora aperti.” Tito Cauchi
GIOVANNA LI VOLTI GUZZARDI RICORDI COCENTI Il Croco/Pomezia-Notizie, novembre 2017, Pagg. 32 (3° Premio Città di Pomezia 2017) Giovanna Li Volti Guzzardi è nativa di Vizzini (Catania); sposina, in giro di nozze per l’Australia, s’innamora di quella Terra e vi è rimasta, adesso è da oltre mezzo secolo. Divisa fra due amori, tra la piccola (Sicilia) e la grande isola (Australia), ha intrapreso l’attività di operatrice culturale scoprendo in se stessa la poesia; si è proposta nel contempo, diciamo, come ambasciatrice della Lingua Italiana, tanto che impregna tutti i suoi scritti di echi italici e della sua fanciullezza. È così che la raccolta vincitrice al Premio Città di Pomezia dispiega i suoi Cocenti ricordi, in cui confessa il tempo andato che non è possibile recuperare, come in una lunga lettera, tanto che le composizioni riportano la data prossima al concorso. In copertina abbiamo l’ illustrazione a colori “Metamorfosi” (quattro visi a ridosso di un tronco d’ albero) di Domenico Defelice, il quale, nella presentazione, pone l’accento sugli affetti familiari lontani e sui luoghi lasciati, i cui ricordi bruciano, sì, e nel contempo addolciscono l’animo. Difatti la Poetessa ram-
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menta il padre con la passione della musica e del teatro, la madre, e i fratellini più volte citati; il bel paesaggio. Adesso è bisnonna di una bimbetta, Elle Rose, che la riempie d’amore “che bisogna stringere forte al cuore!” Le distanze s’accorciano grazie alla tecnologia del web e riesce a godere del dialogo diretto, quasi esclusivamente nella “Madre Lingua Italiana” celebrando le ricorrenze della Patria lontana. Sono convinto che onori, pure, la terra che l’ha accolta Giovanna Li Volti Guzzardi, innamorata della poesia, eleva ogni suo pensiero come una nota musicale e lo porge come un gioiello. Era una fanciulla bella dai capelli biondi e ricci, raccoglieva margherite nei campi per fare collane, e con questi ricordi si abbandona al sonno. Tito Cauchi
CORRADO CALABRÒ LA SCALA DI JACOB Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2017 I versi contenuti in “La scala di Jacob” di Corrado Calabrò hanno riportato alla mia mente altri versi, questi: “…Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l' altrui scale….” (Canto XVII del Paradiso di Dante Alighieri, le parole di Cacciaguida). La scala come metafora del nostro cammino, sempre presente nella nostra vita, un cammino a volte facile, il più delle volte difficile, irto di pericoli, difficoltà, sbandamenti…voglia di arrivare in alto e paura di guardarsi indietro. A Dante, nel Canto XVII, Cacciaguida profetizza l’esilio qui Calabrò sempre sui gradini di una scala immaginaria cerca di riflettere sull’esistenza umana, fatta di voglia di arrivare, di buoni propositi, di voglia di scoprire, uno scorrere di linfa vitale (acqua sinonimo di vita) che la maggior parte delle volte incontra dei limiti, fisici o mentali, che ci fanno desistere, tornare indietro, ripensarci, abbandonare l’impresa di raggiungere l’ascesa, la realizzazione del proprio sé. Per Calabrò noi siamo come un onda che tenta di raggiungere il concreto, ma è preso, scombinato dall’effimero che ci circonda. Abbiamo bisogno di salire… una sete di conoscenza infinita, ma spesso finiamo in secca perché ci perdiamo nei miraggi che incontriamo, nella precarietà, nel tempo che trascorre e che non sappiamo fermare. Natura, amore, donna, vita, storia, affetti familiari sono tematiche costantemente presenti in noi… Punti fissi della vita umana che ogni volta rimettiamo in discussione con numerosi interrogativi. Ci
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poniamo domande per risolvere misteri, compromessi giornalieri che salendo le scale della nostra esistenza ci troviamo a volere risolvere…spesso senza riuscirci… Una scala piena di interrogativi, che vorremmo consegnare alle nuove generazioni pulita, sicura e non traballante come realmente è e sarà….perché finché esisterà l’uomo, gli interrogativi esistenziali ci saranno sempre. Roberta Colazingari
GIOVANNA LI VOLTI GUZZARDI RICORDI COCENTI Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2017 Ricordi che bruciano, che non si staccano dalla pelle, che lasciano i segni sul fisico ma soprattutto nell’anima: questa è la raccolta di Giovanna Li Volti Guzzardi “Ricordi Cocenti”. La poetessa, di origine Catanese, ma trapiantata in Australia perché rapita dalla sua bellezza, rievoca attraverso i suoi versi fluidi, senza punteggiatura quasi a voler lasciar volare i pensieri liberi, la sua infanzia, i suoi ricordi piacevoli e spiacevoli… “Le mie radici son troppo profonde, mi legano la mente e il cuore e mi danno ricordi d’immenso dolore… L’emigrazione è sempre fonte di tristezza…Questo è successo a me, anche se sono stata felice con la mia famiglia, ma pensare ai miei tesori lontani, è stata sempre una pena indescrivibile…” Il primo ricordo è tutto per il padre, pilastro della sua vita, poi la madre e via via la natura della quale è sempre stata innamorata e che le rievoca la casa di campagna, i profumi, gli alberi, i fiori… Una culla di sentimenti positivi ed anche di rammarico, perché la Guzzardi è divisa tra l’amore per l’Italia e quello per l’Australia… se avesse potuto, forse, avrebbe desiderato che queste due patrie fossero nella realtà un tutt’uno… Ma non è possibile, ecco allora che la tecnologia, tanto aspramente combattuta da chi è “più maturo”, diventa un modo per restare in contatto con i due mondi amati, con gli amici, con i profumi, con i suoni…Sempre però mantenendo la spontaneità e la semplicità. Roberta Colazingari
NOEMI PAOLINI GIACHERY UNGARETTI: VITA DI UN UOMO Raccolta di saggi - Aracne Editrice, Roma 2014 Critica perfetta è quella in cui i diversi momenti (per i quali è passata l'anima del poeta)
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Completato il piacere di leggere un libro, mi dispongo, come da abitudine e da impenitente dilettante che ama familiarizzare con la letteratura, ad esprimere una impressione di lettura. L’ultimo, in ordine di tempo, riguarda una nutrita raccolta di saggi su Ungaretti, a firma di una nota studiosa di letteratura italiana: Noemi Paolini Giachery. Appassionata “interprete” delle opere poetiche di un personaggio che ha tracciato un solco profondo nell’ambito della letteratura italiana del Novecento, Noemi Paolini Giachery consegna orgogliosamente al pubblico un volume in cui dimostra di possedere una preparazione e un’esperienza esegetica di ammirevole livello, le quali, unite a un solido armamentario linguistico, filologico e storico-letterario, oltre che psicologico e filosofico, le permettono di competere con noti studiosi, del passato e del presente, che, in tempi diversi o contemporaneamente, hanno instaurato un approccio critico a Porto Sepolto, Allegria, Sentimento del tempo, Frammenti per la Terra promessa…; testi poi raccolti in Vita di un uomo, di cui si hanno varie edizioni curate dalla Editrice Mondadori. Il libro, in nove capitoli, si apre con la tesi che qualifica Ungaretti “uomo di pace”, il quale, nonostante avesse rivestito la divisa militare per partecipare, da volontario, alla Prima guerra mondiale – cosa che fecero anche molti altri intellettuali, come d’Annunzio, Marinetti, Prezzolini, Ardengo Soffice, Slataper (morto in combattimento su Podgora), Stuparich, Jahier, Hemingway…; sul fronte francese, in trincee contrapposte, militarono, anche loro da volontari, Apollinaire e Remarque – si rivestì della condizione umana di chi combatte non per odio verso il nemico ma per una questione d’onore, verso se stesso, verso i numerosi poeti e scrittori amici che avversano la minacciosa “Kultur” teutonica, militarista e bellicosa, e verso quel fior fiore di gioventù cui appartiene, chiamata ad essere protagonista di una sanguinosa saga che infiamma l’ intera Europa. Un poeta dalla tempra risoluta e robusta, in un momento così grave per le sorti dell’ umanità, non poteva isolarsi, defilarsi, chiudersi in un angolo sperduto della terra; non poteva farsi tacciare di vigliaccheria dagli animosi compagni che si erano lasciati invadere dalla febbre dell’ interventismo e pronti ad accorrere laddove il dovere chiamava. Ma la motivazione più incoraggiante ad arruolarsi volontario fu indubbiamente, come annota l’autrice dell’opera di cui qui si parla, “il sentimento sincero e forte” della sua “appartenenza alla patria italiana, sempre amata, come un sogno lonta-
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no…” Il senso della pace era per Ungaretti “anche il principio di misura, di armonia, di amore che dovrebbe informare tutti i rapporti umani… – scrive a pag. 12 la nostra affabile e colta esegeta. A guerra conclusa, scrittori, poeti e artisti di mezzo mondo, usciti indenni dalla grande catastrofe, hanno riflettuto sul ruolo che hanno avuto dentro le spire dell’immane conflitto. Ognuno ha rivendicato l’onore di aver compiuto il proprio dovere fino in fondo, pur deprecando le brutalità e l’inutilità della guerra, di tutte le guerre che, momentaneamente, dissolvono lo spirito di solidarietà che regna fra le comunità in tempi di pace, lacerano i tessuti sociali, spirituali e materiali di intere nazioni e creano le premesse per nuovi e violenti contrasti, disordini, sofferenze, lutti, rovine materiali e traumi umani. Ungaretti poeta, il suo linguaggio, il suo essere “uomo di pena”, la consapevolezza della precarietà della vita nascono con l’esperienza della guerra, con la condizione tragica dell’uomo costretto a vivere giorni, settimane, mesi, in una “buca di calcare” dove anche “la bestia trafelata impazzisce”. Ma quella triste e deprimente stagione di guerra è durata poco più di tre anni. Non si può quindi negare che egli, uscendo dal sudiciume delle trincee, abbia affrontato la vita e l’arte poetica con lo spirito di chi, senza dimenticare il passato, si pone di fronte alle sfide del futuro e ne accetta rischi e condizioni. Ed è quindi bene accetta la tesi di Noemi Paoletti Giachery, la quale, in contrasto con le rassegne critiche di studiosi che si richiamano allo storicismo materialistico (non immune da deformante ideologia politica), o alla metodologia critica del formalismo che, in poesia, esalta il valore il significante rispetto alla “ricchezza” del significato, riafferma “la pregnanza della poesia” di Ungaretti, la continuità tra parole e cose, maturata in un saldo rapporto tra “vita e poesia” in cui si rende manifesta l’ attestazione di un impegno, di una ferma volontà di superare i limiti della propria finitudine per approdare ad una dimensione religiosa, oltre che etica ed estetica, che gli garantisca la vicinanza al “sogno fermo” e renda viva e operante l’aspirazione a un nuovo “patto” tra Dio e il Poeta, tra Dio e gli uomini. Questo interessante e sostanzioso libro della Paolini, si qualifica fin dalle prime battute come un saggio di “critica della critica”; e questo ci dice a sufficienza dello spessore culturale dell’Autrice, che non si limita a dare spiegazioni, giudizi e valutazioni sull’opera integrale di un poeta che ella ha avuto l’onore di conoscere, frequentare e apprezzare con tutto il trasporto e calore della sua anima, ma va ben oltre, mettendo in campo intelligenza e strumenti esegetici che le permettono di confutare
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arditamente e felicemente vari interventi critici dedicati a Ungaretti da noti ed esperti “maestri” nell’ ambito della critica letteraria, attualizzando, in piena autonomia e libertà di pensiero, le sue peculiari modalità e attitudini di approccio alla lettura dei testi, le sue intuizioni e convinzioni estetiche, la sua visione storica della letteratura come esperienza di vita: intellettuale, spirituale, pratica e artistica. Antonio Crecchia
LUCIANNA ARGENTINO LE STANZE INQUIETE Poesie, Edizioni La Vita Felice, 2016 - Pagg. 104, € 14,00 Chi di noi non è stato mai a un supermercato? Colonne e pile di prodotti allettanti; luci vellutate per non irritare, ma per distendere ed invogliare agli acquisti anche del superfluo, anche dell’inutile; musiche in sottofondo, suadenti e assorbenti; magie di sorrisi e d’altro. Poi, il passaggio alla cassa, dove, quasi sempre, sta seduta una donna bella e fascinosa, dalle mani svelte, dita frenetiche che battono tasti, numeri e luci sui display. Difficile immaginarsi, dietro quella bellezza e quei sorrisi, un’anima assai lontana dall’aridità di quei prodotti e quelle cifre; un’anima che gioisce o si commuove al giornaliero sfilare di tutte quelle persone, ognuna delle quali, più che di prodotti, è carica di vicende qualche volta liete, più spesso drammatiche e tristi. Lucianna Argentino alla cassa di un supermercato vi ha trascorso più di un decennio, non solo non lasciandosi inaridire, ma traendone insegnamenti di grande umanità. Le stanze inquiete è un diario di poesia, non solo perché scritto in versi, ma perché ogni brano è un quadro di carne e d’intime pulsioni, di molte sofferenze, di orgogli, frustrazioni, debolezze e miserie. L’Argentino ha la sensibilità di rapportarsi a chi le sta davanti nelle brevi soste, scambiando con loro “messaggi con gli occhi,/le mani e il fiato. Il lampo umido di uno sguardo”, contagiando e lasciandosi contagiare, in un bypassare continuo d’amore. Sensibilità, la sua, che l’ha da “sempre sostenuta - come lei stessa confessa in “Appunti per una est-etica del lavoro” - e in particolare in quegli anni, facendo sì che le centinaia di persone che ogni giorno mi passavano davanti non si trasformassero in una massa informe e indistinta, ma ognuno mantenesse la propria identità perché anch’io mantenessi la mia. È stato un dirci umano, un reciproco riconoscerci nell’umanità, nella fraternità che ci rende uguali al di là di tutti i dati contingenti che ci definiscono”.
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Un libro carico di sentimenti, allora, Le stanze inquiete, intimo, esteticamente e formalmente vario, “oscillando (...) tra la prosa e la poesia”, in un linguaggio adattabile, aderente alla vita vera, che non è tutta prosa, come non è tutta poesia. Ogni persona che passa e si sofferma alla cassa, è, per la poetessa, una stanza entro la quale entrare ad esplorare e grimaldelli e chiavi sono le scambievoli parole, gli sguardi, le ferite aperte di ciascuno tra corpo e anima, che si dilatano e distendono. Dalla sua postazione, gli occhi della cassiera di tanto in tanto perforano le vetrate del supermercato per incontrare la vita che pulsa sulle strade: la mendicante che chiede “sole/e aria nuova”, “uomini/(che) abbattono robinie/e piantano ciliegi da fiore”, il gatto che, “Nell’aiuola del parcheggio”, “si rotola nell’erba in pieno sole”. Il campionario umano che transita dalla cassa è assai vario: la mamma della ragazza madre; la bambina Martina; l’uomo che racconta del morbo che l’ha colpito; Pamela, che per reazione al diniego del padre di giocare con le bambole, ora ne riempie la stanza; Mauro; Anna della “giornata no”; Rosina la calabrese; “Giuseppe,/un vecchio cieco”; “Pina un metro e cinquanta di acciacchi”; Matilde, che ritiene il non credere una disgrazia; Antonietta, preoccupata che le banane non ricevano ammaccature, se no il figlio non le mangia. L’ elenco sarebbe lungo e ogni soggetto, come ognuno dei quadri, meriterebbe non solo un semplice richiamo, ma un lungo commento. Il passaggio a quella cassa, ogni giorno è convegno di “anime asfittiche/di case da tempo chiuse” e di “anime ariose, anime senza età”. Anime asfittiche sono l’ Antonietta delle banane e il figlio; lo è ancor più la donna sensibile all’animale e non all’uomo, che acquista “del cibo per il cane/del giovane girovago” e non per il poveraccio. Assai di più, per fortuna, le anime ariose, alle quali non possiamo non aggiungere Abele, protagonista di un poemetto che l’ Argentino pubblica nel 2015 con le Edizioni Progetto Cultura. Abele rappresenta tutto il positivo ed il principio della intera creazione, alla cui “origine è il dono, l’amore, non il peccato”. Abele è “il senza voce per eccellenza”, che racconta “le cose dal suo punto di vista, a cui fa da controcanto la voce di Eva”, la madre. Il dettato va via via crescendo di intensità, in un pathos da Genesi. La figura di Caino non è da annoverarsi tutta nell’asfittico; egli è la ragione e la conseguenza del travaglio cosmico e la ricerca umana di ritornare nel primordiale giardino, il voler “combattere con i cherubini per riconquistarlo”, afferma l’Argentino. Una lunghissima lista di soggetti umani quella che ci presenta la poetessa ne Le stanze inquiete,
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“ognuno con la sua muta preghiera/o la sua muta bestemmia”; e non mancano tocchi particolari che dimostrano, per esempio, come tutto quel che si vende nei supermercati non sia sempre e solo sofisticato, ma che c’è anche del genuino, se dentro il cespo di lattuga possa continuare a vivere tranquilla una lumaca, che la sensibile cassiera delicatamente raccoglie e depone “tra l’erba dell’aiuola”. Gli animali! Si fanno quasi tutti apprezzare; Zarina, per esempio, è una cagnetta, fedele e gentile più di tanti umani. Domenico Defelice
ANTONIA IZZI RUFO OLTRE LE STELLE Prefazione di Giuseppe Napolitano - La stanza del poeta Edizioni EVA, 2017 - Pagg. 48, € 8,00 Nel giudicare gli scritti affettivi - ma forse sarebbe opportuno non giudicarli del tutto - è necessario mettere in secondo piano forma stile contenuto; dominanti debbono essere le fibrillazioni del cuore, le emozioni, i brividi d’amore che sono per loro natura incontenibili e rasentano il caos, la gioiosa follia. Agli affetti è dedicato questo elegante e delizioso libricino di Antonia Izzi Rufo, a quelli più sentiti, s’ è vero, come suol dirsi, che l’amore dei nonni verso i nipoti abbia doppia valenza. Soggetto del canto della poetessa, infatti, è il pronipotino Lucio junior, al quale dà consigli, ne ricorda l’attesa prima e poi la nascita, il primo compleanno, i tanti giochi - specie col pallone -, gli scambievoli abbracci. Il cuore della bisnonna gronda tenerezza, ma non manca qualche giustificata sdolcinatura. Sostanzialmente, cioè, i versi di Oltre le stelle si mantengono contegnosi; l’autrice non riesce a spogliarsi - e lo evidenzia nella Prefazione anche Giuseppe Napolitano del suo ruolo d’insegnate e, senza volerlo, col pronipote si comporta come ha fatto con gli allievi per tantissimi anni. Ciò attenua la commozione (lei stessa se ne rende conto ch’è impossibile del tutto evitarla, “mostrare freno, discrezione,/contegno morale,/rimuovere l’eccesso...”) e rende godibile l’ insieme dei brani. Il lavoro, dal punto di vista stilistico e strutturale, è un piccolo poemetto, fonte di crescita e stimolo per il bambino. Lucio non potrà non ricordare negli anni la sua bisnonna, che ora gli vuol tanto bene, sul quale veglia e veglierà anche quando lei non sarà più del mondo: “... E volerò anch’io, lassù, dov’è pace e armonia, dove tutta la schiera della stirpe di Adamo
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in eterno risiede beata. Volerò, la mente alla meta diretta, indietro lo sguardo rivolto del cuore, ad un Bimbo che ignaro mi cerca, mi tende le braccia, aspetta impaziente ch’io giochi con lui...”. Ma, finché ciò ch’è della natura umana non si verifica, bisnonna e pronipote si sosterranno a vicenda: lei, dai passi sempre più lenti e vacillanti; lui, sempre più sicuro e proteso al futuro. Cosa farà da grande il bambino? “Il ballerino? Il musicista?/Il comico? Il medico?”, il giocatore di pallone? “Qualunque attività svolgerai - gli ricorda sicura la poetessa -/, dimostrerai senso di responsabilità” ed io - conclude - continuerò a tenere gli occhi su di te, a vederti e ad amarti “da un’altra dimensione”. Domenico Defelice
CATERINA TROMBETTI ATTIMI E INFINITO (Poesie scelte1986-2016),Scritti critici di Mario Luzi; saggio introduttivo e traduzione inglese di David Tammaro, The dot company, Reggio Emilia 2017 Una bella apertura davvero, un suggestivo avvio, il saggio introduttivo di David Tammaro, con l’ottica del traduttore che include quella del lettore e dell’interprete-critico, vivendola in una dimensione più ricca. Poi, ecco affiorare, come isole, i singoli libri, intorno ai quali circola, come fiume limpido e luminoso, l’abbraccio di Luzi, di questo prezioso e squisito dono che fu, ed è, Mario Luzi per tutti noi. Attimi e infinito : eccoli già congiunti in un suggestivo passo del primo libro : «il tuo guardarmi con occhi / infiniti : attimi e / incredibilmente, una vita » . Ed ecco, alcune pagine dopo, un fluire ritmato come di ondate sulla riva : « Eri un poeta. / E il mare, / che tutto porta / col suo incessante / susseguirsi d’onde / ti ha portato a me ». Siamo al tempo della « giovinezza già conscia », secondo Luzi. In una successiva raccolta, l’immagine del giardino « all’improvviso apparso » sembra quasi un’icona della poesia-vita (« scritta con la vita » dirà Luzi) : « Tu percorri immobile / la via delle stagioni / e alterni in te / la nascita e la morte ». Altra implicita icona dell’amatissima poesia potrebbe essere la rosa : « Ma si è accesa la rosa, / ritrovato il suo posto / ora si espande e riempie / del suo fuoco ogni età ». La poesia intride dolcemente soffuse atmosfere : « Natale dolente / dolcemente s’ avvicina », o « Deserta è la piazza a festa finita, / ma le parole dei poeti / rimangono nell’aria, / luc-
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cicano le stelle del Natale » ; e, nella conclusione : «È una notte magica che risuona / di poesia, circolano le parole , / vibrano, si posano, / verranno poi assorbite da ogni pietra ». Luzi nota che le poesie di Caterina Trombetti « così semplici e dirette » non di rado « tendano e si accostino a un loro assoluto ». Il fatto è che la poetessa, specialmente nelle poesie più recenti, è affascinata dai grandi temi : « Torno alle origini / per capire il mondo / e nel carbonio, nell’idrogeno / nell’azoto primordiale / mi ritrovo. // Sono lì, / cometa venuta dalla galassia, / in continua trasformazione ,/ ora particella umana / dell’universo ». Sono convinto che la letteratura, e in particolare la poesia, debbano sempre più comunicarci la coscienza cosmica che la scienza ci ha dischiuso (la poesia « della scienza fa coscienza » affermava genialmente Giovanni Pascoli), così come dovrà fare il pensiero religioso, sulla via indicata da Teilhard de Chardin. Emerico Giachery
GIOVANNA LI VOLTI GUZZARDI RICORDI COCENTI Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2017 In quasi tutti i suoi libri Giovanna Li Volti Guzzardi si apre al lettore, mette fuori tutto quanto è racchiuso nel suo ricco mondo interiore, un mondo che trabocca d'amore per i suoi cari, per la sua terra natia, per gli amici; e lo fa con un linguaggio semplice, spontaneo, incisivo, toccante. E' in "Ricordi cocenti", sua ultima silloge, vincitrice del terzo Premio Città di Pomezia 2017, che il suo estrovertere si manifesta in modo molto accentuato. La raccolta, costituita da ventidue liriche. si può considerare, oltre che autobiografica, "summa" di tutti i suoi ricordi, un riandare nel passato, ripercorrerlo in tutte le tappe e riviverne, con rimpianto e nostalgia, ogni particolare, ogni momento speciale. Nella prima lirica, nella quale è condensata, in breve, tutta la sua vita passata e presente, ricorda l'infanzia, la casa colma di libri classici, il papà che suonava le opere liriche col sassofono ed ella che, già da piccola, scriveva versi. Amava la natura il papà; di fiori, che egli stesso coltivava, ornava i giardini sia della residenza di campagna che di quella di città. Era un uomo buono, affezionato alla famiglia. Ogni volta che rientrava dal lavoro, portava a casa dolci e tanti regalini per tutti, tra le altre cose la miglior pasta che si produceva nel pastificio di cui egli era il direttore. Ogni sabato rientrava con la busta paga e consegnava la "paghetta" settimanale ai suoi gigli. Avrebbe voluto che Giovanna di-
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ventasse musicista o professoressa, ma questa contrasse matrimonio e lo deluse. Il viaggio di nozze Giovanna lo fece in Australia, con l'intenzione di tornare a Vizzini invece... rimase nel lontano continente e "distrusse la gioia di mamma e papà e dei fratellini". Così l'ultimo verso: "La vita è continuata, ma senza allegria". Quanti ricordi! Il "premuroso donatore" (un corteggiatore? ) che a primavera arrivò con uno splendido "bouquet" di rose e gigli, la nascita della nipotina Elle Rose, la sua graduale crescita ed ella, nonna, che la seguiva, correva con lei e camminavano entrambe a quattro zampe ("sembravano due pecorelle" ), il Natale, che in Australia si festeggia con il sole (trentasei gradi), l'anno nuovo... Vive le descrizioni di quadretti idillici della natura. Il problema che più d'ogni altro tormenta la nostra Presidentessa dell' "Accademia Letteraria ItaloAustraliana scrittori" e che ritroviamo in quasi tutte le poesie è la nostalgia dell'Italia. Ella manca dalla Patria da tantissimo e non riesce ancora (mai ci riuscirà) ad accettarne il distacco tanto che nella bellissima Melbourne, la città più vivibile del mondo, ov'ella risiede da moltissimi anni, continua a parlare, e a far parlare, "solo in italiano", "con me si parla solo in italiano. Si scrivono poesie, racconti, / romanzi, saggi, / si scrive di tutto" e solo nella nostra Madre Lingua Italiana". "E' bella l'Australia, sono stata felice, / ma il mio cuore ha sempre pianto per la mia Italia, / per la mia Sicilia". E' felice, e non crede a se stessa, si sente ubriaca dalla gioia: farà un pic nic a Sorrento, sarà un giorno speciale. In che modo la nostra romantica poetessa riesce a sentirsi, nonostante l'assenza materiale e la lontananza, con la sola fantasia, nella sua terra, a "casa sua" ? Tramite l'importante periodico che raccoglie, e pubblica, opere di un numero stragrande di artisti, letterati, poeti, che comunica con personalità di tutto il mondo: "L'Antologia ALIAS". Antonia Izzi Rufo
CORRADO CALABRÒ LA SCALA DI JACOB 1° Premio Città di Pomezia 2017 - Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, ottobre 2017. La silloge poetica “La scala di Jacob” è artisticamente illustrata in copertina da un meraviglioso dipinto di William Blake. Vincenzo Guarracino evidenzia che questa “scala”, per il nostro Poeta, è il sogno innato e inesauribile di ascesa, è l’impulso ad elevarsi verso spazi altri, sempre verso dimensioni inesplorate di sé.
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Corrado Calabrò qui ci presenta un saggio di argomenti alquanto diversificati che spaziano fra ricordi dolci e tristi, amori ricambiati e non, tra riflessioni esistenziali e religiosi, affetti e responsabilità famigliari, ammirazione di fenomeni naturali (“Luna blu” nell’emisfero australe), cambi d’ abitazione, considerazioni sul lavoro e sulla malattia. Queste liriche parlano di sensazioni e di sentimenti spesso contrastanti o mutevoli: l’amore di lui, e l’indifferenza di lei (“Accorre improvviso”); gli alti e bassi dell’amore come in un’altalena; gli incontri amorosi e segreti in campagna con la sua “lei”, nella finta noncuranza della proprietaria. E l’ ingenuo stupore del Poeta bambino nell’ammirare i fuochi dei bombardamenti veri, creduti fuochi d’ artificio, quando invece, “Dopo sei giorni si scavava ancora/ dove il fetore indicava i cadaveri/ ma noi andavamo in cerca di bengala”. Altro contrasto: il disastroso improvviso maremoto che si scaraventa nella calma e nel divertimento della spiaggia, tutti e tutto travolgendo e inghiottendo, e che come “un sipario sigilla mare e cielo”. E il Poeta aggiunge: “Da cinque giorni rivolto cadaveri”. -A volte “siamo tutto”, abbiamo incredibili possibilità. Infatti, se è vero che i ciechi non vedono, però possono avere visioni ed illuminazioni ancor più di chi ha buona vista. E, pensando a chi è sordo, basti ricordare che Beethoven, proprio nella sua sordità, compose la Nona sinfonia! - Altre volte siamo niente, “una frazione di zero”. Perché nel cammino della vita, in salita e spesso difficoltoso, incontriamo delusioni dal lavoro non apprezzato e dalle responsabilità e dai doveri presenti e futuri verso di sé e verso la famiglia. La vita, questa del Poeta, ha riservato vari imprevisti e distacchi dolorosi: dalla madre, dalla propria amata (“Chi sette volte una donna ha lasciato/ non ha un presente e ha perso il passato”), dalla casa. Ora, il messaggio da rilevare qui, è che la vita è impegno, ed è amore anche se a volte instabile, che però va continuamente cercato, desiderato, donato. E soprattutto, la vita non è indifferenza (“Dov’è tuo fratello?”). Maria Antonietta Mòsele CARLO DALLA POZZA, ANTONIO NEGRO COME DISTINGUERE SCIENZA E NONSCIENZA Carocci Editore, 2017, Euro 16,00 Questo volumetto vede la luce come compimento di un mandato importante, portato avanti da Anto-
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nio Negro rispetto al suo Maestro Carlo Dalla Pozza, professore di Logica e Filosofia del linguaggio all'Università di Lecce e di Verona. Su questa Rivista ho ricordato questo grande studioso, approdato alla logica ed alla semiologia del linguaggio formale dopo aver attraversato i territori della Letteratura, con una tesi su Renato Serra, della Retorica, della Filosofia della Scienza e della Logica dei predicati, o Semantica. Ora constato che il giovane Antonio Negro, con questo lavoro di fusione tra le due prospettive, ha dato concretezza alle problematiche emerse nel percorso di studi a fianco del Maestro. Il campo è quello delineato dai domini delle scienze osservative, percettive, quantificabili ed esatte, che deve essere ben distinto da quello dei domini delle scienze umane come la filosofia, la psicologia, la psicoanalisi e innanzitutto della metafisica. L'importanza degli aspetti divulgativi che questo testo possiede risiede tutta nel dare voce alla teoria di Bayes, che propone la possibilità di utilizzare la categoria della confermabilità, rispetto a quelle finora coinvolte in relazione a proposizioni da prendere in esame, la categoria della verificabilità e quella della falsificabilità. La Premessa è di Carlo Penco, studioso dal ricco ed affascinante curriculum filosofico e scientifico, perché, tra l'altro, è stato allievo di Michael Dummett (un vero umanissimo gigante della Filosofia Analitica, che avrei dovuto interpellare a Londra, ma che purtroppo è venuto a mancare nel 2008): egli ora è coordinatore in Piemonte del Consorzio di Filosofia del Nord-Ovest, e questa sua riflessione risulta essenziale per capire quali siano le linee portanti di tutto il lavoro, quelle cioè di aprire l'attenzione sul dibattito contemporaneo tra scienza e non-scienza: “... Il volume di Dalla Pozza e Negro giunge quindi in un momento di riscoperta e di forte interesse sul tema della demarcazione. Dopo aver richiamato in modo rigoroso i termini del dibattito 'classico' tra i neopositivisti (verificazionisti) e Popper (falsificazionista), gli autori mostrano che entrambe le soluzioni sono inefficaci nel proporre una distinzione effettiva tra scienza e non-scienza, e propongono la versione aggiornata di una terza soluzione, basata sulla teoria bayesiana della conferma. Con tenacia e rigore il testo di Dalla Pozza e Negro smantella passo dopo passo tutte le proposte di demarcazione sviluppate dai neopositivisti e da Popper, per arrivare a una proposta basata sul bayesianesimo. Sia o no questa la soluzione giusta al problema della demarcazione, ogni filosofo della scienza oggi dovrà confrontarsi con questo lavoro e con il problema che esso pone al trattamento delle scienze umane, in particolare la psicologia, la sociologia e la psicoanalisi. Ma questo testo è fondamentale anche per ogni studente -
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e, chissà, forse anche per qualche giurista volenteroso chiamato a valutare dispute mediche - che voglia capire a fondo il problema e lavorare in concreto sull'analisi di cosa può essere inteso come scienza... Il problema della demarcazione non è solo un problema teorico, ma un problema di gestione finanziaria: con quali criteri lo Stato può finanziare progetti di ricerca o cure mediche?... Credenze pseudoscientifiche (affermazioni che pretendono di possedere contenuto scientifico, al di fuori di qualsivoglia controllo n.d.r.) sono discusse e spesso accreditate in televisione e nei giornali, online e non; la facilità di divulgare notizie su internet accresce la diffusione di tali credenze, ammantate di un linguaggio apparentemente rigoroso...” (C. Dalla Pozza- A.Negro, Premessa di C. Penco, op. cit. pp. 910). A questa appassionata Premessa segue l'Introduzione (pp. 11-16) che consente di entrare nel panorama teorico e tecnico dei campi di indagine che verranno affrontati: Cap. I: Verificabilità (categoria trattata in quattro sezioni, pp.17-66); Cap. II: Falsificabilità (categoria trattata in due sezioni, pp. 67-100); Cap. III: Confermabilità bayesiana (categoria trattata in quattro sezioni, pp. 101-132). Appendice di Claudio Garola (essenziale contributo trattato in cinque brevi sezioni, successive ad una 'Premessa', pp. 133-144). Anche in questo testo come in quello del prof. Ferrajoli 'La logica del Diritto - Dieci aporie nell'opera di Hans Kelsen', sono presenti formule elaborate nel campo della logica semantica: basta associare ai simboli il loro corrispondente significato ed il gioco è fatto, così ho apprezzato, oltre alle acquisizioni per ripulire il territorio di ricerca da elementi inutili e fuorvianti, proprio la stesura chiara, comprensibile e rinforzata con esempi che ne rendono sciolta l'utilizzazione concettuale. Ho già da tempo abbozzato un percorso di studio sui contributi filosofico-scientifici di Dalla Pozza-Garola, riandando a Platone ed al 'mito della caverna', ma ora questo testo mi fornisce ulteriori schematizzazioni utili ad arricchire la mia ricerca di elementi attualissimi, in particolare legati alla possibilità di potare di molto l' albero delle Scienze Umane, Metafisica compresa e nel contempo di esigere severi e rigorosi controlli nell'ambito degli enunciati legati al mondo della politica, dell'economia e della finanza, che hanno ricadute penosissime sulla vita degli esseri umani, che non deve considerarsi nuda vita, cioè espressione puramente biologica. Allora mi dà piacere profondo menzionare la notizia apparsa su questa stessa Rivista nel numero di
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Novembre 2017 'LAMPI GAMMA PER STUDIARE LA STORIA DELL'UNIVERSO', che riporta in sintesi i risultati del team guidato da Maria Dainotti, ricercatrice dell'istituto Nazionale di Astrofisica con borsa Marie Curie presso l'Università di Stanford, quasi a segnalare l'importanza, nelle procedure scientifiche, dell'approccio di confermabilità bayesiana. Ilia Pedrina
GIANNA MIOLA A PEZZI, A BOCCONI Biblioteca dei Leoni, Venezia, 2016 Ciò che caratterizza la poesia di Gianna Miola è la spontaneità del dettato, che pare nascere senza sforzo, con immediata freschezza. È quanto si rileva da questo suo recente libro A pezzi, a bocconi, dove si leggono versi quali: “Il sole d’inverno che brilla / nel freddo delle strade di città / mi viene incontro oggi come / un amante ricco di promesse” (Il sole d’inverno) oppure: “Sì, la luce certa che incendia / i papaveri sulle spighe smuore, / accompagna la rasatura / dell’erba tra gli ippocastani” (Luce certa). Quello che dapprima incanta la nostra poetessa è la visione del mondo che le “viene incontro” e di cui avverte subito il fascino segreto, sicché in essa si perde. “Angoli di cielo tra cime scialbate d’alberi / tralucono allo specchio del tempo / di un inverno duro a morire” (Inverno duro a morire). Si legga anche: “L’aria tra noi leggera / patisce l’incanto di una città senza tempo. / Sospesi, senza respiro, i tuoi passi / che il lucido verde smorza, / scandiscono ore immote” (L’aria tra noi leggera). L’anima della Miola si rispecchia nel paesaggio e di esso s’illumina (“Amo i finestrini del treno / che mi fa attraversare la terra”, Amo i finestrini del treno), dando luogo ad una poesia nella quale la natura assume una fondamentale importanza (“Punge la gemma / sotto la scorza, / trema l’intero albero”, Punge la gemma) e trasmette sensazioni fresche e intense (“Dalla campagna muta, desolato / il battere d’ali di un merlo, / inascoltato fremito sulla riarsa petrosità”, Destino d’inverno). Sempre comunque traspare dalle sue poesie il forte legame che ella instaura col mondo esterno, come avviene nella poesia già citata Amo i finestrini del treno, dove il paesaggio che le scorre dinanzi suscita in lei lontani ricordi della propria vita (“ancora nei sogni quell’ansa / del fiume su cui placidi / si specchiano alberi / dei quali non conosco il nome…”), con tutto il fascino segreto del “déjà vu” (“Amo i finestrini del treno / che mi fanno ri-
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passare / l’esistenza, riportano / suoni ed immagini / consentendo un déjà vu”. Quella della Miola è però soprattutto una poesia d’amore, che sa farsi lieve e delicata, come avviene in Offro: “Offro ad un amore / incerto / l’incerto andare” o in Risveglio: “E sono nell’acqua del tuo fiume, / leggera mi abbandono tra i levigati sassi”, oppure sa divenire tormentata e problematica: “Ho contato i tuoi passi / attraverso la città / con il fumo, con il vento della folla / inafferrata e distratta” (Ho contato i tuoi passi); “Non dimenticarmi giocattolo rotto / dentro l’armadio della giovinezza” (Non gettarmi via idolo adirato). E molte sono in verità le poesie d’amore di questo libro, da Amore stilnovista (“Tu che vuoi specchiarti negli occhi miei di cimbra, / che dell’amore stilnovista conservi tutto l’ orgoglio…”) a A Fulvio perché ricordi (“Quando un fiume attraversa la città / e si colorano di blu i profili delle case…”); da Ritrovarti (“Ritrovarti / ritrovare le tue parole chiuse / e risentire in un giorno chiaro / la gioia chiara dell’aria”) a Nel cavo della mano (“Nel cavo della mano / il cuore tuo turbato / presago di un corpo più caldo”); ecc. Vi sono poi le poesie che nascono dalle più diverse occasioni, come La Rotonda, che inizia con un movimento che ricorda Baudelaire: “Luxe, calme, volupté…/ entro un cono di luce” o Nel segno di Majakovskij, dove si respira l’aria della rivoluzione di Ottobre: “Si è ispessita / l’ombra entro alla casa / dentro ai miei occhi / … / Carri armati hanno spianato la piazza!…”. Poesie di ampio respiro, come Un tempo che non ci appartenne, si alternano in questo libro a poesie che celebrano l’amicizia, come Ad un amico incontrato per via, che ha un felice incipit: “Si tesse di luce ogni parola / quando non è morta sillaba / ma lo smalto assume dell’umano incontro”. Poesie del disagio esistenziale poi, come Lacera l’ anima, fanno seguito a poesie nelle quali la mente corre a città note, come avviene in La sala degli specchi, dove si parla di un importante palazzo veneziano. Seguono le poesie che contengono delle memorie classiche, com’è di Lungo le strade di Grecia, Con Penelope, Nell’isola di Lesbo, che ci trasportano in luoghi cari alla nostra memoria; e vengono le poesie che nascono da eventi storici del nostro tempo che hanno crudelmente ferito la nostra sensibilità umana, quali Desaparecidos, Ripensando all’8 marzo, Nel giorno della memoria. S’incontrano infine in questo libro poesie nelle quali s’affaccia un vivo sentimento religioso, con la sua urgenza e il suo dono di liberazione e di speranza, come Verso Betlemme, Pasqua di Resurrezione, 24 maggio 2016, Maria Ausiliatrice, che ci
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rivelano un altro aspetto della personalità della nostra autrice, la quale dimostra di avere molte corde al suo arco. Un libro che è nato dal suo amore per la vita e dalla sua inquietudine e che lascia bene sperare per le prove che ella ci darà in avvenire. Liliana Porro Andriuoli
D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE DONATELLA BISUTTI PRESENTATA DA FABIO DAINOTTI - Il 29 ottobre ’17 alle ore 18, nel Complesso Monumentale di S. Maria al Rifugio di Cava de’ Tirreni, in occasione della Mostra di pittura dell’Accademia “Arte e cultura” di Michelangelo Angrisani, ha avuto luogo la presentazione del libro di poesie Dal buio della terra di Donatella Bisutti, edito in Roma per i tipi di Empiria. Relatore è stato il professor Fabio Dainotti. Ha coordinato Alessandra Gigantino. Presente l’autrice. Donatella Bisutti, nata a Milano nel 1948, è critico e poeta d’importanza nazionale, avendo vinto tra l’altro importanti Premi, tra cui il Premio Montale; suoi libri sono apparsi per i tipi di Bompiani, Mondadori (negli Oscar), Guanda e Feltrinelli. Giorna-
Autunno il grigio delle piogge il rosso delle mele tutt’una magia di colori che incanta i boschi Gli alberi sono astri raggianti Béatrice Gauduy Parigi, Francia
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lista professionista, collabora a diversi giornali e riviste a tiratura nazionale, tra cui l’Avvenire. *** ENRICA OMIZZOLO CI HA LASCIATO - Il giorno 14 novembre 2017 si è spenta, in Padova, la voce e l'arte di Enrica Omizzolo, compositrice, studiosa di tecniche pianistiche, figlia ed erede spirituale e creativa del maestro Silvio Omizzolo, che questa stessa rivista ha ricordato in relazione alla sua composizione 'Elegia per gli impiccati di Bassano', con testi di Neri Pozza, in occasione dell'adattamento teatrale 'Wohin' a cura di Giorgio Bordin, regista di Arti della Rappresentazione. Nella dimora padovana ha preservato con la massima cura tutto il lascito paterno e con il consorte Elio Peruzzi, esperto clarinettista, ha dato vita nel 2012 alla Fondazione Omizzolo-Peruzzi, come concreta continuità con il precedente Centro Culturale Musicale 'Silvio Omizzolo', fondato nel 1997. In rete sono riportate tutte le importanti attività ed iniziative legate alla ricca produzione pianistica e concertistica del padre, eseguite in parallelo con composizioni di altri Autori e compositori del Novecento anche Italiano come Guido Alberto Fano e Almerigo Girotto, per due anni mio docente in forma privata di Armonia e Composizione. Enrica ed Elio erano sempre presenti ai concerti organizzati con cura e portati a compimento in ambienti suggestivi come il
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Chiostro di San Niccolò al Lido di Venezia nella rassegna 'LidoMusicAgosto', in vita dal 2008, o le Sale Apollinee del Teatro La Fenice, o ancora a Padova, all'Auditorium 'Pollini' o alla Sala dei Giganti all'Università del Liviano. Dalla silhouette minuta ma elegante e decisa, pur sempre riservata, dai lineamenti dolci, umanissimi, i lunghi capelli raccolti ad indicare ancora una bellezza che esprime serenità in distacco, Enrica amava la musica e trovava in Luigi Dalla Piccola echi di un rigore armonico e strumentale che più sentiva consono alle sue ispirazioni. Nei nostri incontri con Giorgio Bordin e Jolanda Bertozzo, amava stare con i loro bambini Leonardo e Gregorio: allora la vedevi sorridere e ne intravvedevi un'empatia dal profondo. Credo abbia affidato alla composizione musicale quelle pieghe segrete dell'anima che pochi hanno saputo cogliere. In suo onore un'elegia silenziosa che ne colga l'originale, schiva, amorosa saggezza. Ilia Pedrina *** IL NUMERO DI NOVEMBRE DI P. N. - Una lettera del 15/11/2017 dalla Francia, di Béatrice Gaudy: Parigi sotto la grandine Buongiorno caro Domenico, Grazie tante per il numero di novembre di Pomezia-Notizie che sto scoprendo con un grande piacere e per i “Ricordi cocenti” di Giovanna Li Volti Guzzardi che scoprirò anche con un vivo piacere. Sono felicissima che Lei abbia pubblicato i miei poemi. L’articolo di Giuseppe Leone sul saggio di Giuditta Podestà dedicato a Pirandello e a Kafka mi dà voglia di rileggere le opere di Pirandello che apprezzo molto. “L’Ora dell’Angelo” di Gianni Rescigno è un seducente equivalente poetico della celebre pittura di Jean-François Millet “L’Angelus”. Nell’ “Aalleluia” della pagina 16, Lei evoca la xenofobia. Su quest’argomento, ho letto poco fa un articolo di Raphaël Gluksmann nella rivista settimanale “L’OBS”. Ecco il brano più interessante: “le tsunami national-populiste qui balaie l’Europe et l’Amérique échappe aux grilles de lecture habituelles. L’explication socio-économique fondée sur la paupérisation des classes moyennes n’est pas suffisante. L’Autriche et la République tchèque ne connaissant ni chômage de masse ni augmentation frappante du taux de pauvreté. Ce qui est partiellement vrai au nord et à l’est de la France ne l’est plus dans le Tyrol ou en Moravie. N’oublions pas non plus qu’Obama a laissé l’économie américaine dans une bien meilleure forme qu’il ne l’a trouvée. Et pourtant Strache. Et pourtant Babis. Et pourtant
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Trump. Un facteur culturel existe, irréductible aux déterminismes socio-économiques avancés tant par les experts libéraux que par les analystes post- marxistes. L’adage pseudo-réformateur « Mettez fin au chômage de masse, et vous aurez résolu le problème Le Pen» repose sur une approche superficielle de l’ébranlement de nos systèmes politiques. La « crise migratoire », notion en soi fort discutable, est souvent avancée pour rendre raison de cette « insécurité culturelle » qui s’empare des électorats occidentaux les uns après les autres. Est-ce vrai ? Les faits sont têtus, paraît-il. En les observant, nous découvrons que les régions allemandes qui ont le plus voté AfD sont celles qui comptent le moins d’étrangers et accueillent le moins de réfugiés, que Vienne la multiculturelle vote social-démocrate quand les campagnes blanches se mobilisent pour le FPÖ, que les Tchèques qui plébiscitent Babis et, pis encore, le très raciste et non moins poutiniste Tomio Okamura n’ont presque pas d’immigration extra-européenne. Comme me le faisait remarquer un ami pragois le soir du triomphe de Babis : « Nous avons ici à peine quelques milliers de musulmans et la campagne s’est jouée sur le rejet d’ une supposée « islamisation » de la société et de l’Europe, c’est totalement surréaliste ! » Surréaliste, mais efficace : les images de colonnes de migrants conjuguées à l’effroi légitime suscité par les attentats terroristes font du « musulman » un agent électoral parfait. Un ennemi mobilisateur. La figure de l’autre menaçant qui permet en réaction de définir un « nous ». Et nous touchons là à l’ essentiel. Non pas « la crise migratoire », non pas le « musulman », non pas, donc, cet « autre » qui n’est en l’occurrence qu’un facteur secondaire, mais ce « nous » ou plutôt son absence, son manque, l’ incapacité de nos démocraties à produire un « nous » et à lui donner sens. Le défaut d’horizon commun plonge nos consciences individuelles dans une insécurité permanente quant à ce que nous sommes et transforme chaque élection en campagne identitaire. » Articolo : « Une crise de civilisation » di Raphaël Gluksmann pubblicato nel settimanale « L’OBS » dal 26 Ottobre al 1 novembre 2017. (...) Con amichevoli saluti. Béatrice Gaudy *** VERSO CASA - Casa del Cinema – Sala DeLuxe – Villa Borghese in Roma. Venerdì 10/11/2017. In occasione della presentazione del Docufilm VERSO CASA. Omaggio a Turi Vasile, di Fabrizio Sergi e Nino Ucchino. Organizza: Luciana Vasile.
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Il maestro Stelvio Cipriani al pianoforte, per la colonna sonora “Anonimo Veneziano”, da lui composta. Verso Casa. Omaggio a Turi Vasile è anche un vero memoriale del personaggio Vasile, della sua vita, della sua opera, ne è autore e regista Fabrizio Sergi, coautore il pittore/scultore Nino Ucchino, che ha avuto l’idea del Docufilm a partire da un volto di Turi Vasile da lui disegnato alcuni anni addietro. Il recupero storico biografico di un volto e di un’ opera viene giocato in una divertente ma colta messa in scena, interpretata da due straordinari attori, Salvatore Coglitore e Salvatore Patanè, nella parte di due professori, nell’esibizione reciproca della loro comune passione di collezionisti, mostrando e commentando due ricchissime raccolte di locandine, cimeli, foto dei lavori di Turi Vasile. Vengono collocate così ad una ad una le tessere di un mosaico per ricomporre l’immagine del regista di teatro, di cinema, dello sceneggiatore, produttore, scrittore, giornalista, che ha lavorato e collaborato con Il Tempo, Il Giornale e con la casa editrice Sellerio. Turi Vasile ha iniziato la sua attività di teatro durante la Seconda Guerra Mondiale, scrivendo e rappresentando commedie come “L’arsura”, “La procura”, “L’acqua”; dopo la guerra, come sceneggiatore, collaborò con Alessandro Blasetti in “Altri tempi” (1952), con Luigi Zampa” in “Processo alla città” (1952), con Michelangelo Antonioni ne “I vinti” (1953), poi, nella seconda metà degli anni ‘50, passa alla regia con “I colpevoli” (1956), un film tratto da una commedia di Luigi Zampa, che egli aveva diretto l’anno prima. I due “professori” del Docufilm di Sergi non seguono uno stretto ordine cronologico nel mostrare le locandine, le foto, i canovacci; in sequenza si può dire che alla fine degli anni ’50 Vasile lavorava alla Titanus e avviava, in durevole amicizia, la collaborazione con Antonio Margheriti con un film di fantascienza, che ebbe un incredibile successo, “Il pianeta degli uomini spenti”. Con la Ultra film e la Laser film, sue
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case di produzione, realizzò film importanti, anche con registi di prima grandezza; ne ricordiamo alcuni: “Io la conoscevo bene” (1965) di Antonio Pietrangeli, “Operazione San Gennaro” (1966) di Dino Risi, “Anonimo veneziano” (1970) di Enrico Maria Salerno, con la struggente colonna sonora di Stelvio Cipriani, “I tulipani di Haarlem” (1970) di Franco Brusati, quindi “Roma (1972) di Federico Fellini, “Pane e cioccolata” (1973) di Franco Brusati. Fabrizio Sergi, in questo Docufilm, si dimostra regista di notevole maestria, nonostante i suoi 27 anni, è come se avesse alle spalle un lungo ed esperito percorso. I dialoghi e le interviste obbediscono alla sapiente orchestrazione di Carmelo Ucchino, fratello di Nino. Riuscito, oltre alla scelta di Salvatore Coglitore e Salvatore Patanè, è il modulo espressivo quasi naif, semplice naturale fluido comunicativo, che valorizza la loro recitazione. La lingua in cui gli attori si esprimono, un italiano con forte accento dialettale, i linguaggi del corpo, caldi nella loro immediatezza gestuale, sono sinestesicamente innervati nell’ ambiente, nel cortile, nella casa, nelle forme architettoniche del paese di Savoca e sembrano come scaturire da quei luoghi, dalla terra, dai suoi umori. Emerge sempre una Sicilia di viva umanità, in coerenza col pensiero di Vasile, sfera e categoria dell’anima, fonte e approdo di una memoria mai totalmente perduta, quindi neppure ritrovata, piuttosto trasfigurata, al punto da apparire al figlio Paolo come “L’Isola che non c’è”; a tale proposito, Paolo, con un aneddoto, recupera il ricordo di un viaggio dell’intera famiglia in Sicilia, in cui alla realtà si sovrainnesta l’omnipervasivo immaginario del padre. Dalla Sicilia Turi Vasile non si è mai allontanato, essa è archetipo che impregna il ventaglio delle sue polivalenti attività e il suo dispendioso, appassionato impegno di produttore e coproduttore teatrale e cinematografico, il suo intenso rapporto con la moglie Silvana, la sua figura di padre all’ antica, severo, esigente (così lo presenta soprattutto Carla), che nel tempo, per una metànoia del cuore, si addolcisce, fino a diventare nonno tenero, saggio, affettuoso. Invece la figlia Luciana recupera l’ abbrivio della biografia del padre ... Messina - città natale, da cui nonno Paolo, sottufficiale di marina, dovette allontanarsi, quando Turi aveva 17 anni e frequentava il primo anno di università - in cui non è stato possibile conservare un ormeggio, una casa per un possibile ritorno... Il tempo trascorso nella Città dello Stretto e a Capo D’Orlando - dice Luciana - tuttavia fu sufficiente per generare lo spazio interiore di un io dilatato, il tempio della memoria per il culto dei ricordi reali e sublimati. Turi Vasile si considerò uomo della diaspora, sempre esiliato;
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perciò - aggiunge ancora Luciana - non ci potrebbe essere maggior “Omaggio” di quello che si prefigga di riportarlo a Casa. La testimonianza dei familiari si accende di ulteriori emozioni nell’intervento dei nipoti, di Liza e in particolare di Francesco che ci trascina nel vortice dei suoi ricordi, delle sue emozioni e si commuove fino alle lacrime. Il Docufilm, oltre alla intelaiatura della fiction, alle testimonianze dei familiari, offre gli interventi di Turi Vasile, degli uomini di cultura che l’hanno conosciuto o che ne hanno studiato il percorso, Giovanni Antonucci, Carlo Lizzani, Corrado Prisco, Marcello Veneziani, Geppi Rippa, il prof. Francesco Mercadante e altri, tutti emotivamente partecipi, impegnati a ricostruirne l’immagine e le prospettive ideali: ... Turi Vasile personaggio la cui attenzione è stabilmente rivolta alla realtà e ai suoi valori...; Turi Vasile critico della dissoluzione assiologica della contemporaneità...; Turi Vasile - oltre ogni realismo storico e ogni nota di cronaca fedele alla sua Sicilia archetipica, sincronica, quella di Gorgia da Leontini e di Pirandello...; Turi Vasile che non rinunzia ai suoi principi ispiratori metafisici, anche religiosi, caparbi e luminosi, in un contesto socio-culturale non favorevole...; Turi Vasile, grande scrittore, non inferiore - come dice il prof. Mercadante - a un Basilio Reale, a un Consolo, a un Lucio Piccolo... Una nota particolare di merito va per la suggestiva atmosfera creata dalla colonna sonora del maestro Aurelio Caliri, accompagnato mirabilmente nel canto dal figlio Federico; musica che con il rimando sonoro, sinestesico delle sue note ai profumi, ai colori, ai “cunti” ancestrali di una Sicilia mitica che si trasmette da padre in figlio - dona un pervasivo respiro di vita a tutto il filmato. Roma 11 novembre 2017 Luigi Celi* *Prof. Luigi Celi, siciliano doc, ha pubblicato saggi di argomento filosofico-letterario e numerose raccolte di poesia. Critico letterario e operatore culturale, insieme alla moglie la poetessa Giulia Perroni, gestisce da anni l’Associazione Aleph in Trastevere a Roma. *** ALLA BIBLIOTECA DI POMEZIA, PRESENTATE DUE TESI SU DEFELICE - Mercoledì 22 novembre 2017, alle ore 16, nella Sala Conferenze della Biblioteca “Ugo Tognazzi” di Pomezia, sono state presentate le tesi di laurea: “La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice”, di Claudia Trimarchi (Il Convivio Editore, 2016), e “Aspra terra e creazione fertile nell’opera di Domenico Defelice” , di Aurora
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De Luca (Edizioni EVA, 2016). Relatori, il Chiarissimo Professore Carmine Chiodo, docente di Letteratura Italiana all’Università degli Studi di Roma Tor Vergata e la Dottoressa Aurora De Luca, autrice di una delle tesi, poetessa e scrittrice; era assente per malattia la Dottoressa Claudia Trimarchi, autrice dell’altra tesi. Sono intervenuti, leggendo poesie di Defelice, Maria Antonietta Mòsele, Giuseppe Giorgioli, Emilia Bisesti (poetessa e direttrice dell’Associazione Coloni), Elena Cluudiani (Direttrice dell’Associazione La Spiga d’Oro), Lucia Giammartino. Oltre a Domenico Defelice, erano presenti L’Architetto Luciana Vasile (scrittrice e poetessa, venuta da Roma), Prof. Tito Cauchi (scrittore e poeta, venuto da Anzio),
Prof. Massimiliano Pecora (saggista), Prof. Achille Di Domenico (ex assessore al Comune) e molti altri (la Sala era piena), ai quali chiediamo scusa per non poterli citare tutti, ma a tutti diciamo un grazie dal profondo del cuore. Un grazie particolare va rivolto alla Direttrice della Biblioteca, che ha voluto e organizzato l’evento, Dottoressa Fiorenza Castaldi; un grazie anche alle sue collaboratrici e ai suoi collaboratori, che hanno allestito la bella locandina e tutto quel ch’è stato necessario perché l’evento andasse in porto. Al termine è stato offerto un ricco buffet, nonché un omaggio floreale alla giovane De Luca, a Prof. Chiodo e a Defelice. Per mancanza di spazio, rimandiamo al prossimo
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numero di gennaio 2018 la pubblicazione delle relazioni del Prof. Carmine Chiodo e di Aurora De Luca.
LIBRI RICEVUTI ANTONIA IZZI RUFO - Oltre le stelle - Poesie, Prefazione di Giuseppe Napolitano; in quarta di copertina, a colori, foto dell’Autrice insieme al pronipote Lucio - Edizioni EVA, 2017 - Pagg. 48, € 8,00. Antonia IZZI RUFO, insegnante in pensione, laureata in Pedagogia, è nata a Scapoli (IS) e risiede a Castelnuovo al Volturno (IS), frazione di Rocchetta. Ha pubblicato opere in prosa e poesia, saggi e altro, circa una sessantina di testi finora. Ha vinto moltissimi Premi Letterari. Noti critici ed esponenti della cultura nazionale e internazionale hanno scritto di lei, tra gli altri Costas M. Stamatis, Paul Courget, Giovanna Li Volti Guzzardi, Giorgio Barberi Squarotti, Massimo Scrignòli, Enrico Marco Cipollini, Marco Delpino, Angelo Manitta, Sandro Angelucci, Emilio Pacitti, Luigi Pumpo, Carmine Manzi, Aldo Cervo. Tra le tante sue opere, che sarebbe troppo lungo enumerare, si ricordano: Ho conosciuto Charles Moulin (1998), Ricordi d’infanzia, ricordi di guerra (1999), Tristia - Ovidio (1999), Saffo, la decima musa (2002), Per una lettura della “Vita Nuova di Dante” (2004), Catullo, il poeta dell’amore e dell’amicizia (2006), Il poeta e l’ emozione (2009), Dolce sostare (2010), Dilemma (2010), Perché tu non ci sei più (2012), Felicità era... (2012), Paese (2014), Voci del passato (2015), La casa di mio nonno (2016), Sensazioni (2016). ** LUCIANNA ARGENTINO - Abele - Nota di Cinzia Marulli Ramadori, Introduzione di Alessandro Zaccuri - Edizioni Progetto Cultura, 2015 - Pagg. 32, € 6,00. ** LUCIANNA ARGENTINO - Le stanze inquiete Poesie - Nota in bandella, Presentazione (“Appunti per una est-etica del lavoro”) e Quasi una prefazione della stessa Autrice - Edizioni La vita felice, 2016 - Pagg. 104, € 14,00. Lucianna ARGENTINO è nata a Roma nel 1962. Si occupa di poesia dai primi anni Novanta, non solo come scrittrice di versi, ma come organizzatrice di eventi, letture pubbliche, presentazioni di libri e collaboratrice di riviste di settore. Sue poesie sono presenti in antologie e blog. Ha realizzato due e-book, uno nel 2008 con PaginaZero tratto dalla raccolta “Le stanze inquiete”, l’altro nel 2011, “Nomi” con il blog “Le vie
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poetiche”. Il suo lavoro inedito “La vita in dissolvenza” (quattro poemetti - monologhi) è stato musicato dal chitarrista Stefano Oliva e, dal marzo 2011, presentato in vari teatri, associazioni culturali e festival. Dal 2014 collabora con l’Ensemble Acquelibere con lo spettacolo “Almanacco indocile”. Di lei si sono occupati (con prefazioni, introduzioni, recensioni e altro): Gianfranco Cotronei, Dario Bellezza, Mariella Bettarini, Dante Maffia, Marco Guzzi, Anna Maria Farabbi, Alessandro Zaccuri eccetera. Ha pubblicato: Alessio Niceforo, il poeta della bontà (con Vincenzo Morra, 1990), Gli argini del tempo (1991), Biografia a margine (1994), Mutamento (1999), Verso Penuel (2003), Diario inverso (2006), Favola (con acquerelli di Marco Sebastiani, 2009), L’ospite indocile (2012), Abele (2015). ** DAMIANO FUSARO - Sette giorni Commentari de bello litterarum - Prefazione di Stefano Valentini; in copertina, a colori, “Giornata grigia” (1921), di Georg Grosz - Valentina Editrice, 2008 - Pagg. 168, € 10,00. Gli appunti di un viaggio in un mondo surreale, una pungente parodia dei giorni nostri, un atto d’amore nei confronti dell’uomo e di una delle sue migliori creazioni: la letteratura. Damiano FUSARO è nato a Padova nel 1985 e risiede a Granze (Pd). Laureato in Storia presso l’Università degli Studi di Padova, recita nella “Compagnia menTalmente Instabile”. Nel 2006 ha pubblicato “Bernardo il Figlio della Luna”, con il quale ha ricevuto il premio speciale Targa d’argento nel concorso letterario nazionale “Le Muse - Pisa 2000”. Finalista alla sesta edizione del concorso Cleup “Scritti di Bo” con il racconto “Solo Tersite vociava ancora smodato”. ** FRANCESCO SASSETTO - Stranieri - Prefazione di Stefano Valentini; in copertina, a colori, “Exodus”, di Lesley Anne Cornish - Valentina Editrice, 2017 - Pagg. 120, € 12,00. Sono tre i temi cardine di questo nuovo libro di un autore la cui poesia civile ha ricevuto, nel giro di pochi anni, il consenso di lettori e critici. La condizione di estraneità e straniamento che, lungi dal riguardare soltanto le persone migranti, lambisce ormai ogni esistenza; il rapporto tra lingua originaria - il dialetto veneziano - e nazionale, quali veicoli di radicamento e identità; il confronto, percepito come un guado, tra passato e presente, in vista di una nuova idea di futuro. Ne risulta un libro fondamentale, se non per decifrare, per interrogare il nostro tempo, chiedendoci quanta della diffidenza che riversiamo sugli stranieri non derivi in realtà da quella che, consapevoli o meno, proviamo (o dovremmo provare)
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verso noi stessi. Scrive, tra l’altro, nella lunga e dettagliata Prefazione, Stefano Valentini: “...Una poesia civile che forse in altri tempi, e altri paesi, avrebbe avuto risonanza anche maggiore, ma cui comunque non sono mancati riconoscimenti importanti e autorevoli da parte di chi, nell’arte dei versi, non cerca soltanto piacevoli vaghezze e intimi resoconti. (...) ...non di cronaca si tratta bensì d’effettiva poesia per l’attenzione al valore della parola, al susseguirsi delle immagini, al ritmo attento d’una prosodia libera da strutturazioni metriche e sapientemente retta da un respiro non soltanto interiore ma, diremmo, anche fonetico. (...) ...l’utilizzo del dialetto, il ricorso all’originaria lingua madre, s’è fatto (...) fondativo e pressante fin quasi ad apparire inevitabile. (...) Stranieri (...) siamo tutti, l’uno nei confronti dell’altro e stranieri anche a noi stesi, attaccati più o meno disperatamente ad una identità che solo la lingua sembra poter tenere insieme”. Francesco SASSETTO risiede a Venezia, dove è nato nel 1961. Laureato in Lettere all’Università Ca’ Foscari, la sua tesi è stata pubblicata nel 1993 con il titolo “La biblioteca di Francesco da Buti interprete di Dante”. Ha collaborato alla cattedra di Filologia Dantesca, conseguendo nel 1998 il titolo di dottore di ricerca in Filologia e Tecniche dell’Interpretazione. Ha insegnato Lettere nella scuola media e, attualmente, è docente presso il C.t.p. di Mestre. Dal 1995 partecipa a concorsi di poesia, ricevendo numerosi premi e segnalazioni; suoi testi sono presenti in antologie, riviste, siti internet e blog letterari. Ha pubblicato: Da solo e in silenzio (2004), Ad un casello impreciso (2010), Background (2012). ** WISŁAWA SZYMBORSKA - La gioia di scrivere - Tutte le poesie (1945 - 2009) a cura e introduzione di Pietro Marchesani; Cronologia di Antonina Turnau nella traduzione di Laura Rescio - Adelphi Edizioni, 2017 - Pagg. I - LIV + 1 - 778, € 19,00. Nell’arco di poco più di un decennio - da quel non troppo lontano 1996 in cui fu insignita del Premio Nobel per la Letteratura - Wisława Szymborska è diventata un autore di culto anche in Italia. Né questo vasto successo deve meravigliare. Grazie a un’impavida sicurezza di tocco, la Szymborska sa infatti affrontare temi proibiti perché troppo battuti - l’amore, la morte e la vita in genere, anche e soprattutto nelle sue manifestazioni più irrilevanti - e trasformarli in versi di colloquiale naturalezza e ingannevole semplicità. Il volume include anche la recentissima raccolta “Qui”, apparsa in Polonia nel gennaio del 2009. Wisława SZYMBORSKA è nata il 2 luglio 1923 a Bnin, nei pressi di Poznań. Fin dal 1941 scrive racconti, principalmente, e poesie.
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Studia lettere e sociologia all’Università Jagellonica negli anni 1945 - 1947, nell’aprile 1948 sposa Adam Włodek e pubblica il libretto per bambini “Il gatto con gli stivali”; nel 1952 esce la silloge di poesie “Per questo viviamo”, nel 1954 la raccolta “Domande poste a me stessa”, nel 1957 “Appello allo Yeti”, nel 1962 “Sale”, nel 1967 “Uno spasso” e poi a seguire: “Ogni caso” (1972), “Grande numero” (1976), “Gente sul ponte” (1986), “La fine e l’inizio” (1993), “Vista con granello di sabbia” (1996) eccetera. Riceve numerosi Premi e, nel 1996 il Nobel per la Letteratura. È morta a Cracovia il 1° febbraio 2012. ** CATERINI FELICI - Dentro la vita - Poesie; in copertina, a colori, “Ninfee” (1906), particolare di Claude Monet - Longo Editore Ravenna, 2017 Pagg. 80, € 12,00. Le poesie di Caterina Felici rivelano di lei l’acuta sensibilità e la profondità, la padronanza espressiva nel linguaggio limpido ed essenziale, con plasticità delle immagini, efficacia descrittiva. Caterina FELICI, insegnante, è poetessa e scrittrice e ha pubblicato volumi di poesia e prosa. Tra i libri di poesia: “Reciproco possesso” (1975), “Vastità nei frammenti” (1978), “Oltre le parole” (1982), “Poesie scelte” (1992), “Labili confini” (1994), “Confluenza” (1997), “Tessere di vita” (2004), “Tratti d’insiemi” (2007), “Fogli di vita” (2013), “Matteo e il tappo” (2016). Sue poesie sono presenti in antologie. Tra i volumi di narrativa: “Il vecchio e altri racconti” (1987). Ha ricevuto vari primi premi in noti concorsi letterari nazionali. Tra coloro che si sono interessati di lei, si ricordano: Cesare Segre, Giacinto Spagnoletti, Giuliano Gramigna, Giorgio Bárberi Squarotti, Walter Mauro, Bruno Maier, Giorgio Cusatelli, Claudio Toscani, Maria Lenti, Paolo Ruffilli, Antonio Piromalli, Marino Moretti, Giambattista Vicari, Luigi Volpicelli, Gian Luigi Beccaria, Vittorio Coletti, Gina Lagorio, Domenico Rea, Lucio Felici, Carlo Betocchi, Mario Luzi. ** AA. VV. - Verso casa omaggio a Turi Vasile CD in lingua italiana, sottolineature in inglese, anno 2016, durata 55’ 35’’, genere documentario. Regia di Fabrizio Sergi, con le testimonianze di: Luciana Vasile, Neri Parenti, Corrado Prisco, Francesco Mercadante, Giovanni Antonucci, Paolo Vasile, Nino Ucchino, Carla Vasile, Marcello Veneziani, Carlo Lizzani, Liza J. Buler, Francesco Zingales, Giuseppe Rippa, Massimiliano Caminiti, Carmelo Ucchino. Il film ha come protagonisti due bravissimi attori: Salvatore Coglitore e Salvatore Patanè, nelle vesti di due professori patiti collezionisti di manifesti di film, cimeli, articoli, libri del grande
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Turi Vasile. Nei vari brani del filmato, ognuno dei testimoni si sofferma su uno o più particolari: Giovanni Antonucci, per esempio, sull’autore di testi teatrali; Carlo Lizzani, sulla vita di lui e della moglie Silvna; Carmelo Ucchino sui libri - romanzi, racconti eccetera -, per lo più editi da Sellerio; Giuseppe Rippa, sulla crisi del cinema; Franco Mercadante, sulla presentazione di uno dei libri più famosi di Vasile, “Paura del vento”, alla libreria Croce di Roma, definendo l’autore “uno scrittore non occasionale”; Liza Butler, la nipote, sulle poesie; Francesco G. G. Zingales (nipote) avverte che ciò che Turi Vasile racconta nei suoi libri non è tutto vero, nel senso che l’autore artisticamente trasforma. ** AURORA DE LUCA - Resta mio - Una poesia al mese 2018. Oltre alle dodici poesie, una per ogni mese, questo grazioso e stimolante calendario ospita una Antologia di 19 composizioni - Il Convivio Editore, 2017 - Pagg. 54, € 7,00.Aurora DE LUCA è nata nel 1990. Risiede a Rocca Di Papa. Dopo la maturità classica ha trascorso un periodo di ricerca personale, avendo frequentato la facoltà di Giurisprudenza, per poi approdare alla facoltà di Lettere. Nella sua vita si è sempre dedicata allo sport, praticando nuoto agonistico fino a divenirne a sua volta istruttrice. Inizia presto a scrivere. Nel 2004 partecipa ai suoi primi concorsi letterari, ricevendo ottimi risultati ed interessanti motivazioni nelle sezioni studenti e dei giovani, con poesie singole. Molti sono stati i premi e i riconoscimenti ricevuti, la maggior parte delle poesie vincitrici è stata edita nelle antologie dei vari premi, il primo “Marengo d’oro” a Genova, “Publio Virgilio Marone” a Roma, “Agostino Venanzio Reali” a Cesena, “Marillianum” a Napoli, “Città di Forlì” come il più giovane valido concorrente e “Città di Mesagne” Puglia, a Mattinata “Santa Maria della Luce” e con il “Convivio” ai Giardini di Naxos in Sicilia, “Luigi De Liegro” Roma, “Akery” ad Acerra come premio assoluto giovani, con il “Parco dei Castelli Romani” e tanti altri premi grazie ai quali ha avuto l’occasione di viaggiare su tutto il territorio nazionale. In seguito, nel 2006, si avvicina alla sezione narrativa giovani, guadagnando anche in questo ambito l’ attenzione delle giurie con premi e attestati. Nel 2007 compone la prima silloge poetica “Indice di idee al caleidoscopio” partecipando al premio “Città di Pomezia” e ottenendo un buon piazzamento, pubblicherà a gennaio 2008 nei Quaderni letterari “Il Croco” supplemento alla rivista, con un grande successo di critica. Si sono interessati infatti molti scrittori, con recensioni edite sulla rivista “Pomezia-Notizie” diretta da Domenico Defelice, con la quale collabora assiduamente. Nell’ aprile 2010
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pubblica sempre su “Il Croco” anche la sua seconda silloge “Questi occhi miei” e la terza “Il tuo colore mare blu” nel 2011. Nel 2012 esce “Sotto ogni cielo”, nel 2013 “Primizie” e, nel 2014, “Materia grezza” e un altro Quaderno Il Croco: “Cellulosa”; Del 2016 è il saggio “Aspra terra e creazione fertile nell’opera di Domenico Defelice”. E’ presente, con un’opera poetica, nell’antologia “Le altre forme delle donne”, curata dalla scrittrice Anna Bruno, edita nel febbraio 2009 da Albusedizioni. Scrive e collabora anche con la rivista letteraria “Il Convivio” di Castiglione di Sicilia (CT), diretta dal professore Angelo Manitta e dalla scrittrice Enza Conti e con “Vernice” di Torino, portata avanti da Sandro Gros-Pietro. Affascinata da tutto ciò che è arte, nel tempo libero le piace creare, disegnare, dipingere e non ultimo leggere. “Sotto ogni cielo” è stato presentato, il 15 dicembre 2012, nell’Aula Consiliare del Comune di Rocca Di Papa, alle ore 16,30 dal critico d’arte, poeta e scrittore Franco Campegiani, col l’intervento della professoressa Carla Giorgetti, moderatore Valeria Quintiliani, attrice Ilaria Tucci. Presenti, oltre a un qualificato pubblico, il sindaco Pasquale Boccia ed il presidente della Pro-Loco. Ma anche gli altri suoi lavori hanno avuto, qua e là, varie presentazioni.
TRA LE RIVISTE ntl LA NUOVA TRIBUNA LETTERARIA - rivista di Lettere ed Arte fondata da Giacomo Luzzagni, direttore responsabile Stefano Valentini, editoriale Natale Luzzagni, vicedirettore Pasquale Matrone - via Chiesa 27 - 35034 Lozzo Atestino (PD) - e-mail: nuovatribuna@yahoo.it Riceviamo il n. 128, ottobre-dicembre 2017 del quale segnaliamo: “Thomas Hart Benton Modulazioni in musica”, di Natale Luzzagni; “4-4-2”, poesia di Rossano Onano; “Tahar Ben Jelloun” di Anna Vincitorio; “Che cos’è la solitudine. Mario Benedetti”, di Pasquale Matrone (che recensisce anche “Anime al bivio” di Imperia Tognacci); “Il principe delle nubi. Charles Baudelaire”, di Luigi De Rosa; “La Chanson de Roland”, di Liliana Porro Andriuoli; “Fabliaux”, di Elio Andriuoli; “il cantare delle mie castella, di Rossano Onano”, di Stefano Valentini eccetera. E poi rubriche varie e tantissime e bellissime foto. * SOLOFRA OGGI - La Voce di chi non ha voce, direttore Raffaele Vignola - via A. Giannatasio II trav. 10 - 83029 Solofra (AV) - E-mail: solofraoggi@libero.it - Riceviamo il n.10, ottobre 2017, con
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molte firme, tra cui Mario Martucci, Maria Ingenito (unica poesia), Antonella Palma, Alfonso D’ Urso, Nunzio Antonio Repole, Ruggiero Grimaldi, Gerardo Magliacano. Numerose le foto in bianco e nero. * POETI NELLA SOCIETÀ - Rivista letteraria, artistica e di informazione, responsabile Girolamo Mennella, redattore capo Pasquale Francischetti via Parrillo 7 - 80146 Napoli - E-mail: francischetti@alice.it Riceviamo il n. 85, novembre-dicembre 2017, con poesie, recensioni, rubriche varie. A firmare le recensioni segnaliamo, per esempio, Isabella Michela Affinito, Pasquale Francischetti, Susanna Pelizza (che si interessa anche di “Parole ricercate con il cuore”, silloge di Pasquale Montalto da noi edita in quest’anno nei Quaderni letterari Il Croco). Mariagina Bonciani è presente con la poesia “Armonia celestiale”. * L’ERACLIANO - organo mensile dell’Accademia Collegio de’ Nobili fondata nel 1689, direttore Marcello Falletti di Villafalletto - Casella Postale 39 - 50018 Scandicci (FI) - E-mail: accademia_de_nobili@libero.it Riceviamo il n. 234-236 del luglio-settembre 2017 e segnaliamo - e non solo per il contenuto, ma per la chiarezza e la scorrevolezza del dettato - il saggio d’apertura “Via un re, avanti un imperatore”, a firma di Marcello Falletti di Villafalletto. Poi le diverse rubriche, tra le quali “Apophoreta”, curata dallo stesso direttore, che si occupa di libri e di riviste.
LETTERE IN DIREZIONE Da Luciana Vasile - Roma -, il 14 novembre 2017: Caro Domenico, ricevo i primissimi del mese la tua rivista, come sempre più veloce della luce! In questi giorni sono stata impegnatissima perché oltre i cantieri, come sai, c’è stata la serata dedicata a mio padre. Nonostante lo sciopero generale venerdì scorso la Sala Deluxe della CASA DEL CINEMA in occasione dell’incontro nel quale veniva proiettato il docufilm dedicato a mio padre, era piena. Le note di Anonimo Veneziano, suonate dal vivo da Stelvio Cipriani al pianoforte, hanno introdotto la serata stabilendo subito una atmosfera di consonanza fra lo spazio il contenente (Casa del Cinema) e il contenuto (la sua attività poliedrica), perfetta-
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mente in armonia. Le immagini, le parole, i suoni di VERSO CASA del giovanissimo regista Fabrizio Sergi (27aa.) e il coautore lo scultore Nino Ucchino, ai quali sono seguiti tanti interessanti e calorosi interventi sono sembrati, a me che mi sono spesa con vera gioia e impegno per la realizzazione di questo evento, una specie di Resurrezione Laica di Turi Vasile. E non finisce qui, non credo al Caso (forse me lo hai sentito dire anche in altre occasioni!), questa settimana che sta finendo ha portato altre due belle notizie. Quasi che le energie di progetti sognati e in fase di costruzione si fossero allineate. 1) Martedì scorso, dopo due anni di impegno, Francesco Zingales - uno degli undici nipoti, fra l’altro mio figlio - che ne ha seguito passo passo il percorso, partito dalle preziose dritte avute dal prof. Francesco Mercadante - grande uomo di cultura, fraterno amico di papà - ci ha comunicato che il progetto di fare l’archivio di un intellettuale a tutto tondo come lui, è stato accettato dalla Biblioteca dell’ Università di Messina. Un altro strumento prezioso per riportare Turi Vasile a Casa. 2) Ancora in questi giorni Fabrizio Sergi ha iscritto il DOCUFILM AL DAVID DI DONATELLO. Tre mi sembra un numero perfetto per ... sperare! Verrò senz’altro il 22 prossimo alla Biblioteca di Pomezia. Un grande abbraccio luciana Carissima Luciana, non presente all’incontro nella Sala Deluxe della Casa del Cinema di Roma, venerdì 10 novembre (gli anni e qualche acciacco non mi permettono più gli spostamenti del passato), ospito volentieri e integralmente la tua e-mail, perché mi sembra una esauriente, anche se stringata, recensione all’ importante avvenimento in onore del tuo Papà. Quel che verrà effettuato dalla Biblioteca dell’ Università di Messina, non sarà che un doveroso omaggio ad un uomo di cultura così importante ed eclettico quale è stato Turi Vasile. E ti fa onore l’ averti spesa - insieme ad altri - “con vera gioia e impegno” per una iniziativa così carica di cultura e di pathos. Grato per la tua presenza alla Biblioteca di Pomezia. Domenico *** Da Ilia Pedrina - Vicenza -, il 15 novembre 2017: Caro, carissimo Direttore, un altro viaggio di un giorno, da Vicenza a Firenze, il 4 novembre, per partecipare al Convegno 'Disputa sull'Evangelo', legato al Giubileo Luterano e al-
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la pubblicazione del libro di Marco Vannini 'Contro Lutero e il falso evangelo', un dibattito pubblico presso la splendida Sala delle Conferenze, legata alla Biblioteca delle Oblate, poco distante dal Duomo e dal Battistero. La vice sindaco Cristina Giachi ha introdotto con non poco entusiasmo le relazioni degli intervenuti: don Alfredo Jacopozzi, direttore dell'Istituto Superiore di Scienze Religiose 'S. Caterina da Siena'; Roberto Celada Ballanti, ora docente di Filosofia Morale all'Un. di Genova; Marco Pellegrini, docente di Storia Moderna all'Un. di Bergamo. Ti lascio immaginare il mio interesse profondo, dato che già per tempo, sulla tua cara creatura di carta, è stata pubblicata l'intervista al prof. Vannini! Ho preso appunti ed il denominatore comune è stato proprio il rapporto tra religione, scrittura sacra, spiritualità individuale e collettiva a fronte di giochi di potere che portano la Verità ad essere da una sola parte, tirata a sangue e provocatoria, perché in suo nome si son fatte in terra d' Europa guerre lunghe, penose, senza misura umana. Ma nemmeno divina! Darò altri ragguagli, perché il percorso di riflessioni su questi temi deve durare ancora e ancora: il libro del Vannini, autore coraggioso, indipendente, preparatissimo, ha messo il dito nella piaga aperta e purulenta che affanna e soffoca il nostro tempo ed ogni chiesa e confessione religiosa nel nostro tempo, quella lacerazione all'esistere che fa dell'essere umano merce e consumatore di merci, non più creatura, fonte di vita e di scelte in dignitosa e spirituale libertà. Prima che abbia fine il 2017, è doveroso lavorare un poco con la memoria, riandare al 6 aprile 1917 quando le forze armate americane, sotto il governo del presidente Wilson, figlio di un rigorosissimo pastore protestante, approdarono in un'Europa lacerata ed iniziarono, attraverso la violenza delle armi, un procedere verso una Pace mutilata per tutti; un ansimare per avere forzosamente il meglio; un det-
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tagliare presunte colpe meritevoli di pena di morte che hanno schifato anche gli stessi esecutori. Una linea diretta procede da quell'aprile al marzo 1954, quando il mio Papà si vide forzatamente requisire la villa di Povolaro per quattro famiglie di soldati americani: la foto che ti allego vede il risultato sentimentale, generoso, rispettoso di quella procedura, il matrimonio di Aida Isotta con Julio De Soto, al taglio della torta nuziale. Un papà sorridente, conscio delle sofferenze interiori che gli mettevano a dura prova il cuore per questa scelta durissima; un papà aperto all'amore per la primogenita, essa pure bellissima per un giovane straniero, solo obbligando lei agli sponsali al compimento del 21esimo anno, novembre 1937/novembre 1958 -; un papà che vede la sua proprietà sventrata per farne cinque appartamenti -uno era per noi famigliari- e, dopo i tre mesi estivi tutti via, in città, perché la campagna d'inverno non piace e loro amano le comodità, il caldo estivo anche d'inverno. La grande villa avrebbe dovuto, nei suoi sogni, essere dimora pa-
triarcale anche per i figli ed i nipotini, dando ristoro e freschi spazi del parco in ogni stagione. Quei figli e quei nipotini egli ha sempre aiutato e sostenuto, anche e soprattutto economicamente, ma il cuore, dopo tanti infarti, si è lacerato per sempre, il 16 gennaio 1971. Altro percorso familiare rispetto al tuo, carissimo Direttore, che vedi crescere intorno a te i frugoletti ai quali doni poesie e sorrisi; che solleciti, con la tua presenza di lavoratore paziente e severo, un esempio che desta spontaneo rispetto, risposta libera scelta dai piccolini quando provano fascino e ri-
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cevono sorrisi; che consenti riflessioni scritte a ciascuno di noi, perché si possa vivere il nostro tempo durissimo, questo dürftige Zeit, stagione povera di spiritualità, come sottolinea Marco Vannini in dialogo con Roberto Celada Ballanti, con quella dignità che allontana dipendenza, ipocrisia servilismi d'ogni genere e con quella libertà che è volontaria espressione della spiritualità. Marco Vannini ha ragione. Nel 2016, prima della fine del suo secondo mandato, il democratico Obama ha forzato la mano perché venisse firmato un trattato capestro per tutta l'Europa Transatlantic Trade and Investment Partnership (sigla TTIP): nessun controllo sulla merce importata; nessun consenso alle Nazioni importatrici d'Europa per fare controlli sulla merce; nessuna possibile richiesta su chiarezza e trasparenza a monte, là dove vengono prodotte le merci! Hanno scritto che come vantaggio concreto si aumenta il PIL globale, una massa indicibile di denaro, non più convertibile in oro o quant'altro, che va a sovrastare come nuvola incontrollata e innaturale: vogliamo allora che l'Europa sia solo un mercato dove far affluire merci d'ogni specie e terra nucleare a far da fertilizzante alle nostre messi, come mi ha chiarito la giovane e bella nipotina Antonella, figlia di Aida Isotta? Vogliamo allora che l'Europa sia luogo dove gli Stati e le Identità dei Popoli possano essere liberamente minacciati perché, se si alza la testa e si parla di autonomia, subito si va a premiare chi difende il potere del denaro e la stabilità sempre in crescita dei guadagni? Vogliamo allora che l'Europa sia contenitore di quelle 'Continental Philosophy' e di quelle 'Humanities' solo da citare superficialmente e alla svelta, senza alcuna consapevolezza di origini, contesti e contenuti? Grande è stata la vitalità intellettuale di Giuditta Podestà nel sorvolare su queste voragini morali e nel concepire, fin dagli Anni '50 del secolo scorso, una strada maestra anche in Italia per la consistente costruzione conoscitiva della Letteratura Comparata nell'analisi della Critica dei Testi, dopo aver vagliato attentamente l'esperienza americana, come bene mostra il volume 'L'ottimismo della conchiglia. Il pensiero e l'opera di Giuditta Podestà fra comparatismo e europeismo', a cura di Giuseppe Leone: l'amicizia con lui è nata proprio da te e dall'espansione d'arte che provoca questa originalissima trama di penna e di intenti che è la tua Rivista. Me ne ha regalato una copia e dentro ci trovo materiale ardente e suscettibile di approfondimenti anche e proprio in relazione alla corrente letteraria del Realismo Lirico, della quale tu rappresenti l'erede più accreditato. Ed attraverso te ringrazio il prof. Emerico Giachery, sensibile ed attento cultore dell'arte sapiente dello scrivere e del dare
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alla scrittura forza viva legata a bellezza ed armonia: nella lettera a te, per novembre, egli ricorda Francesco Pedrina, che attraverso la lettura critica dei testi letterari portava avanti un messaggio pedagogico di coerenza, di dignità, di libertà di pensiero e d'emozione, che sono in sintesi tutte caratteristiche dello Spirito, quando rende la vita illuminata dalla virtù. Il Realismo Lirico ha avuto ed ha, attraverso te, proprio queste caratteristiche e l'accorato tuo appello affinché ciascuno di noi possa far arrivare questa voce libera ed emozionante a nuovi abbonati riempie il cuore di tristezza. Si tratterebbe solo della spontaneità d'un gesto quasi sacro: è vero, stiamo attraversando una 'dürftige Zeit', un tempo durissimo e povero di verità, ma proprio per questo è necessario il tuo, il nostro coraggio, quasi ai confini dell'Amore, che è tensione verso il Bene, il Vero, il Bello. Ilia tua, in un abbraccio che attraversa ogni tempo. Carissima Ilia, impossibile rispondere anche per soli cenni a questa tua lettera/resoconto che tocca vari argomenti di portata quantomeno europea. C’è in essa, è vero, un filo rosso, ma solo a seguirlo senza troppo soffermarsi occorrerebbero impegno e spazio ed io, in questo momento, difetto dell’uno e dell’altro. Mi manca l’impegno, assorbito come sono dal lavoro perché ci sia mensilmente la regolare uscita della rivista (senza considerare l’età che mi ha reso in tutto molto più lento); mi manca lo spazio, perché il materiale tuo e degli altri amici è sempre tanto, sicché ogni volta è impossibile accoglierlo tutto. E poi, importante non è una mia frettolosa risposta; importante è quanto tu relazioni con particolarità e passione. Grazie della foto del matrimonio di tua sorella Aida Isotta, nella quale è presente il tuo Papà visibilmente felice e commosso, ancora nel fior degli anni e nel fervore dell’attività letteraria; un cimelio e un bel dono, che non potrà non incontrare la curiosità e l’interesse dei nostri lettori. Il vivere in un mondo globalizzato in tutto, è terra fertile per caimani e mafie. I timori di tua nipote Antonella son più che fondati, perché concreti e sotto gli occhi di tutti. Ma non è il singolo che vi può porre rimedio; occorrerebbe che si svegliasse la massa dal torpore che le ha procurato la tecnologia, della quale è affascinata; la tecnologia che, prospettandole ogni giorno nuovi traguardi e nuove meraviglie, la ottunde, non le consente soste per pensare a un’azione comune di rivolta; perché chi trova giovamento da un tale progresso non è la massa, ma solo una limitata, potentissima ciurmetta che nel mondo s’accaparra il 95% della ricchez-
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za. Alla massa di benessere arrivano solo gocce, sufficienti, però, per addormentarla e non ostacolare, così, i manovratori. “Terra nucleare a far da fertilizzante alle nostre messi”, ti dice Antonella: una parte minima della gran massa di escrementi che ci ammannisce ogni giorno questa accozzaglia di carogne che s’ingrassa sul nostro torpore, insomma. Domenico *** Da Emerico Giachery - Roma -, il 16 novembre 2017: Carissimo, anzitutto rispondo con un affettuosissimo pensiero a Leonardo che mi sorride dall'ultima pagina di "Pomezia-Notizie", dove era già apparso, col suo simpatico visetto alcuni mesi fa, e lo salutavo, vedendolo il suo viso sul comodino dove era posato quel fascicolo della rivista. A Marciana Marina, dove abbiamo trascorso l'estate, avevo accanto al computer la foto di un pupo che sorride. Mi faceva compagnia, e sempre lo salutavo. Si chiama Emanuele, è coetaneo di Leonardo e risiede non molto lontano da Pomezia, ad Aprilia. Chissà che non debbano incontrarsi un giorno. Suo padre è uno stampatore molto esperto, titolare della Graphisoft. Domenica avremo il piacere di pranzare con loro e di constatare quanto è cresciuto Emanuele. Anche nell'ultimo numero della tua rivista che mi è pervenuto non mancano presenze amiche. Crecchia, sempre così affettuoso nei miei confronti, e generoso nella recensione che mi ha dedicato, e che ti ringrazio di avere accolto nella tua rivista. Elio Andriuoli non lo conosco personalmente, ma ho avuto il piacere, diversi anni fa, di fare la prefazione a un suo libro di poesia, e mi rallegro per il suo fervore creativo. Da Ilia Pedrina vorrei essere iniziato alla conoscenza di Luigi Nono, che ha musicato i Cori di Didone di Ungaretti, di Luciano Berio. In fatto di musica "colta" , non vado oltre Bartòk e Shostakovic , e , per l'Italia, non oltre il bellissimo Coro di morti leopardiano con musica di Petrassi. Con gioia vedo celebrato il "divino Monteverdi" che amo profondamente (ho avuto la gioia, nel Coro Universitario di cui facevo parte come secondo tenorebaritono, di cantare Il lamento di Arianna. Vedi quante porte apre la tua rivista! Vedo con piacere che ci sarà la presentazione solenne di due tesi di laurea di cui sono autrici due valentissime e avvenenti giovani, con la presenza del relatore Prof. Carmine Chiodo, che io chiamo Angelo Custode di Tor Vergata per la sua bontà e gentilezza umana. Auguro successo alla manifestazione. Un pensiero affettuoso anche da parte di mia moglie Noemi Emerico
tiche attenzioni, anche a nome di Leonardo (che ancora non può farlo direttamente!), di Antonio Crecchia, di Elio Andriuoli, di Ilia Pedrina, di Carmine Chiodo, delle due giovani laureate Claudia Trimarchi e Aurora De Luca: tutti, ne son certo, orgogliosi. Domenico
Grazie, Carissimo Amico, per tutte queste auten-
Neri Natali sofferti
IL NATALE Il Natale che bella festa, per i grandi e i piccini, ma non tutti la condividono, perché genera malinconia. Per godere il sacro evento, occorre amare la famiglia, un istituto che è crollato, sotto il peso della modernità. I nonni dormono negli ospizi, i giovani corrono a ballare, i bimbi giocano al computer e i genitori stanno a litigare. Che rimedio dunque abbiamo? bisogna viverla spiritualmente, andiamo in chiesa dal Signore e restiamo uniti nel presepio. Antonio Visconte Santa Maria Capua Vetere, CE
NATALI Erano i teneri presepi, accesi e spenti come petardi di fanciullo. Natali seguirono soli, in collegi saturi d’incenso o in caserme - soldato più grigio che verde. E Natali a Roma con vinti imperatori e plumbee fontane; intorno a calabre mense dentro me riemerse; innumerevoli notti natalizie a colloquio coi morti - a me stesso estraneo.
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tra miseri cui vedevo in gola raggrumarsi il pianto. E recenti Natali nell’America del Sud: Natale o Pasqua? Tanti Natali abbrividenti senza tepore di neve. Quest’anno senza te, altro Natale, altro capello bianco inaridirà sul capo: te l’offro come fiore. Rocco Cambareri Da Azzurro veliero - Ed. Gruppo “Fuego”, 1973.
NATALE A VILLA DELL’AMORE Natale. Quasi vuota la Villa dell’Amore. Gli scherzi d’argento sugli abeti, le foglie a mucchi nei viali, la stanchezza che trascina i passi all’imbrunire. Ti si è trasformato in malattia d’occhi impoveriti da tristezza il distacco dalla casa. Tremano le tue mani sulle poste del rosario. Aspettano d’accarezzare un volto caro sbucato per incanto dal bosco che riposa. Un volto che ti scaldi i brividi in ascesa agli aghi del pensiero. Ma ormai sai: la solitudine è amaro pane che ti resta, suo companatico la preghiera. Ti consola l’anima il tuo monologo: non sono per te soltanto le voci affievolite le scintille rare dei ricordi. Gianni Rescigno Da Un sogno che sosta - Genesi Editrice, 2014.
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REGALO DI NATALE Vorrei regalarti a Natale una risata lunga un anno allungata per un anno ancora al Natale di ogni anno. Gianni Rescigno Da Cielo alla finestra - Genesi Editrice, 2011.
DOMENICO FATIGATI e il “Linearismo cromatico” di Salvatore D’Ambrosio ’ARTE e le forme dell’arte, sono state sempre parte delle altre moltissime cose che hanno avuto un peso in gran parte della mia vita. Il filosofo americano Nelson Goodman, parlando di arte, diceva che distinguere e percepire le qualità estetiche di un’ opera d’arte, non dipendono solo dalle capacità congenite, che ognuno di noi ha di vedere gli oggetti, ma anche dalla pratica e dall’esercizio. In poche parole più musei o visite a gallerie hai fatto, più sei in grado di avere una capacità di discrimine. E ciò e sacrosanto. Avete mai notato le smorfie di disapprovazione o di disappunto che tante persone hanno di fronte a un quadro astratto? È perché frequentano occasionalmente luoghi deputati all’arte, non allenando così lo spirito alla percezione visiva. Non le possiamo biasimare. Il loro occhio e la loro mente è allenata a percepire solo il percepibile, nella sua forma più chiara e convincente. D'altronde come si impara a leggere, così si impara anche a vedere. La colpa di tutto sta quindi in questo: a scuola ci dedichiamo a far conoscere le lettere dell’alfabeto per leggere e quindi comunicare, dimenticando di insegnare ai ragazzi che ci sono tantissime altre forme di comunicazione che dobbiamo imparare a riconoscere, per
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sapere poi leggere i loro codici comunicativi. Se vogliamo essere pignoli, anche la scrittura con i suoi simboli è arte. Basta guardare la scrittura ideografica dei giapponesi.
Secondo Benedetto Croce, l’opera d’arte è frutto del rapporto tra intuizione e espressione. E se questa intuizione non viene espressa: è cosa inesistente. Ma il nostro punto di arrivo, fatte queste premesse, è parlare dell’arte di Domenico Fatigati. E questo artista napoletano nato a Acerra, rientra in quella categoria di artisti che deve sobbarcarsi le facce storte dei visitatori non allenati al Linearismo Cromatico, movimento pittorico nazionale, di cui è cofondatore. Esaminando le opere si comprende subito che il termine linearismo ha a che fare con quella che negli anni “70 del novecento, fu definita “optical art”. E in un certo senso gli si potrebbe anche riconoscere nella sua espressività una certa parentela. Al gioco “ottico” si aggiunge, però,
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la sublimazione del suo pensare artistico con il grande gioco cromatico. Il Fatigati adopera la sua sapienza compositiva facendo diventare protagonista più il colore che la forma. Per una maggiore onestà, però, debbo dire che il rapporto tra le due cose, è fortemente indissolubile. Anzi una non può fare a meno dell’altra. Il colore deve essere in linea con la forma e viceversa. Una determinata linea deve per forza seguire un determinato colore per ottenere quell’effetto significativo e significante che l’ Artista in quel preciso istante vuole dare alla sua intuizione. E si avvale per spiegarci visivamente queste sue intuizioni, di materiali che docilmente si piegano, non tanto al suo volere manuale, quanto al suo concetto filosofico - spirituale che sta legando in quel momento alla strisciolina di plastica colorata o da colorare, seguendo il dettato di un cromatismo interiore. Sembrerà curioso, ma niente di più dissimile di ciò che riesce a fare un’artista figurativo nel comporre le linee e le curve della figura umana. La quale sarà più riconoscibile in quanto legata a concetti conosciuti, più per presenza continua nella visione del nostro quotidiano, che per mere capacità di sapere rappresentare allo stesso modo di Raffaello o di Tiziano le morbide linee del corpo. La peculiarità delle opere di Domenico, non è solo racchiusa nella sapiente composizione spaziale e cromatica che deve produrre il desiderato effetto visivo, ma sta dentro anche al profondo respiro che senti realmente quando il tuo occhio affronta il colore, che è il vero
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protagonista, l’indiscusso principe delle sue visioni . C’è ancora da dire che il suo lavoro, sebbene rimanga ancorato alle sensazioni dell’ occhio, non si ferma alle sue percezioni, ma si completa ulteriormente in quanto il materiale che va a comporre il quadro, si erge, sale da esso prendendo una tridimensionalità che gli fa acquisire un corpo, un volume, una mutazione, soprattutto in presenza variante di luce. Esistono nell’opera di Fatigati, come è doveroso esistano in campo artistico, dei codici che vanno rispettati e che solo apparentemente sembrano non esistere. Se così non fosse tutti gli elementi presenti nei suoi lavori non avrebbero quella intelligibilità che concorrono alla fruizione e comprensione delle opere. Il fruitore più smaliziato potrebbe osservare che questo tipo di arte è facilmente riproducibile. Risponderemo che ciò è vero, ma in tal caso verrebbe a mancare la sua unicità, in altre parole una certa “aura” che è e rimane esclusiva dell’artista che ne ha fatto la sua espressività. Fatigati ci dice con la sua ricerca estetica, che confluisce nel Linearismo Cromatico, che la sua opera d’arte è una nuova visione del mondo non solo nei contenuti, ma anche nelle sue strutture comunicative. Salvatore D’Ambrosio DOMENICO FATIGATI e il “Linearismo cromatico” Unusual art Gallery Caserta (15-30 sett.2017)
BUON NATALE 2017 ! e... FELICE ANNO 2018 !
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Percorrere insieme il Nuovo Anno, dipende da Dio e poi da Voi, Cari Amici. RINNOVARE L’ABBONAMENTO è aiutarci a continuare a portare per il mondo la vostra firma, il vostro pensiero. Grazie. Il Direttore
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