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TULLIO DE MAURO e la battaglia per la Cultura, la Scuola, l’Università e la Ricerca, la Formazione Professionale di Domenico Defelice
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ULLIO De Mauro era nato a Torre Annunziata, il 30 marzo 1932 ed è morto a Roma il 5 gennaio 2017.Oscar De Mauro, il padre, di professione faceva il chimico e apparteneva a una famiglia di farmacisti e medici di Foggia; la madre, Clementina Rispoli, insegnante di matematica, era napoletana. Dopo aver frequentato le scuole a Napoli e il Liceo Classico allo statale Giulio Cesare di Roma, si era laureato, nel 1956, in Lettere Classiche alla Sapienza della Capitale, allievo del celebre Antonino Pagliaro. Nella stessa università, l’anno successivo era già assistente volontario di Filosofia del linguaggio; dal 1958 al 1960 fu assistente ordinario di Glottologia
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All’interno: Carlo Di Lieto e il lato oscuro della mente, di Emerico Giachery, pag. 6 Le “voci” degli uccelli nelle poesie di Giovanni Pascoli, dii Luigi De Rosa, pag. 9 L’inquisizione in Sicilia, di Giuseppina Bosco, pag. 10 Giannicola Ceccarossi “Tra oscurità e luce”, di Marina Caracciolo, pag. 13 Il Canto IX del Paradiso (2), di Fabio Dainotti, pag. 15 Vittoriano Esposito abruzzese ed europeista, di Giuseppe Leone, pag. 20 Maria Gargotta: I giorni della montagna bruna, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 22 Francesca Rotondo: A voce nuda, di Giuseppe Leone, pag. 26 Sigmund Freud e il “Manoscritto 1931”, di Ilia Pedrina, pag. 28 Niccolò Tommaseo, di Leonardo Selvaggi, pag. 32 L’ascesa al successo di Domenico Defelice, di Anna Aita, pag. 34 Tornavo ch’era sera, di Nazario Pardini, pag. 36 Questo è il mio nemico, di Francesco Pedrina, pag. 38 La ragazza e il colibrì, di Claudia Barrica, pag. 42 Il venditore di olio, di Antonio Visconte, pag. 44 Premio Città di Pomezia 2017 (regolamento), pag. 46 I Poeti e la Natura (Alda Merini), di Luigi De Rosa, pag. 47 Notizie, pag. 57 Libri ricevuti, pag. 60 Tra le riviste, pag. 63 RECENSIONI di/per: Elio Andriuoli (Aspra terra e creazione fertile nell’opera di Domenico Defelice, di Aurora De Luca, pag. 48); Giancarlo Baroni (Itaca non esiste, di Edmondo Busani, pag. 49); Marina Caracciolo (Materia grezza, di Aurora De Luca, pag. 50); Tito Cauchi (Ombre e luci, di Lina D’Incecco, pag. 51); Roberta Colazingari (Michele e Gabriella Frenna L’incontro dai mosaici alle poesie, di Luigi Ruggeri, pag. 51); Roberta Colazingari (Nino Ferraù, di Domenico Defelice, pag. 52); Domenico Defelice (A zonzo nel tempo che fu, di Amerigo Iannacone, pag. 52); Elisabetta Di Iaconi (Ombre e luci, di Lina D’Incecco, pag. 54); Carlo Olivari (Là, dove pioveva la manna, di Imperia Tognacci, pag. 54); Laura Pierdicchi (Aspra terra e creazione fertile nell’opera di Domenico Defelice, di Aurora De Luca, pag. 55). Inoltre, poesie di: Loretta Bonucci, Rocco Cambareri, Fiorenza Castaldi, Domenico Defelice, Elisabetta Di Iaconi, Filomena Iovinella, Béatrice Gaudy, Giovanna Li Volti Guzzardi, Ines Betta Montanelli, Leonardo Selvaggi
all’Istituto Orientale di Napoli; nel 1960, docente di Glottologia; negli anni 1961 - 1967, professore incaricato di Filosofia del linguaggio alla facoltà di Lettere della Sapienza di Roma; poi anche a Palermo, a Salerno e ancora a Roma dal 1996, ordinario di linguistica generale; dal novembre 2004 ordinario fuori ruolo e dal 2007 professore emerito. Indelebi-
le in lui il dramma del fratello Mauro, giornalista dell’Ora di Palermo, nel 1970 fatto sparire dalla mafia e del quale non s’è saputo più nulla. Fu uomo politicamente di sinistra e, nel 1975, venne eletto al Consiglio Regionale del Lazio nelle liste del PCI; dal 1976 al 1978 è stato Assessore alla cultura e alla Formazione
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Professionale. Dall’aprile 2000 al giugno 2001 fu Ministro della Pubblica Istruzione nel Governo di Giuliano Amato, succedendo a Luigi Berlinguer, uno dei peggiori ministri del settore. Pur avendo la volontà e tutte le qualità necessarie per rinnovare, De Mauro ha potuto fare ben poco, perché quel Governo ebbe breve durata. Tullio De Mauro è stato un grande linguista, prestato brevemente alla politica, che impietosamente ha saputo scavare nel profondo, asserendo che gli Italiani non erano in grado di giudicare i politici da quello che scrivevano o dicevano, semplicemente perché non li comprendevano! Ecco perché, quando gli Italiani vanno a votare - diceva -, non lo fanno mai con cognizione di causa, cioè con la ragione: “Solo il 30 per cento degli italiani è in grado di capire un discorso politico e più del 50 per cento stenta a capire un testo scritto. Queste difficoltà di comprensione non consentono di sviluppare in modo adeguato gli strumenti di controllo dell’operato delle classi dirigenti e producono il cosiddetto voto di pancia”. Era contro l’abuso delle parole straniere, specie di quelle inglesi, che reputava un paravento alla nostra ignoranza: “Servono, così come le parolacce usate dai politici, a coprire una scarsa capacità di usare le risorse più appropriate della nostra lingua”. Uomo di sinistra, dicevamo, ma non coi paraocchi, da non vedere e denunciare le sue tante incapacità. “La sinistra - affermava - è stata riottosa di fronte allo sviluppo della scuola. Ha dominato l’idea paritaria, promossa dai sindacati, che i dipendenti pubblici siano tutti uguali”, ricordando che la vera sinistra, quella del passato, sapeva ben discernere. Concetto Marchesi, tanto per fare un esempio, era contrario all’innalzamento dell’ obbligo scolastico, perché, se è giusto che la scuola sia di tutti e coloro che la vogliono frequentare debbano essere economicamente aiutati, essa non deve essere mai imposta. Affermava che una lingua non è sufficientemente viva quando non la si guarda e la si pratica con equilibrio tra forma e sostanza, tra
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norma e uso corrente, quotidiano. Perciò non disprezzava neppure le canzonette (si legga la Prefazione alla Storia della canzone italiana di Gianni Borgna, edita nel 1985), nelle quali trovava quelle spinte spontanee e necessarie perché la lingua lasciasse gli inutili paludamenti e vestisse la modernità. La sua lingua non era un monolitico, ma un corpo soffice e deformabile, capace di modellarsi di continuo attraverso il concorso della collettività e non della sola èlite: insomma, la sintesi di un vero e concreto comune patrimonio culturale (Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica, 1975). Concetto, questo, che ha sempre propugnato e sviluppato anche attraverso il GISCEL - Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica. Il sogno di una cultura alta, diffusa, non elitaria e quindi chiusa. C’è della narrazione in questa sua costante e capillare ricerca linguistica. La lingua deve essere sempre difesa da necessari paletti, perché non deragli rovinosamente; deve, perciò, rimanere ancorata al contesto storico-sociale del suo popolo. Ma ciò non deve tarpare le ali alla fantasia e alla espressività di chi quotidianamente la usa. Insomma, un salutare equilibrio, che sappia utilizzare con intelligenza regole e protocolli, giacché, se così non fosse, questi non sarebbero altro che capestri, velenosi cerimoniali che la porterebbero a morte. In De Mauro convivevano bene il conservatore e il progressista. Non dobbiamo fossilizzarci nel passato, eternamente grattare nella sua polvere, ma non possiamo neppure gettare tutto alle ortiche. Dovremmo apprendere dagli altri: “Gigantesche potenze economiche e culturali, come la Cina, il Giappone, l’India, Israele, prestano grande attenzione al loro retaggio antico”, mentre nell’opinione di molti nostri politici e intellettuali “si ritiene di poter eliminare i pilastri della nostra identità”. La lingua va divulgata e difesa all’Estero, ma la si difende veramente e bene solo allorché essa è mantenuta a livello alto all’interno del proprio Paese. Almeno una cinquantina le sue più impor-
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tanti opere, tra le quali ci piace qui ricordare: “Storia linguistica dell’Italia unita” (1963, 1970), “Introduzione alla semantica” (1965), “La lingua italiana e i dialetti” (1969), “Ai margini del linguaggio” (1984), “Capire le parole” (1994), “Idee per il governo. La scuola” (1995), “Grande Dizionario Italiano dell’ uso” (6 volumi, 1999), “Contare e raccontare. Dialogo sulle due culture” (con Carlo Bernardini, 2003), “La fabbrica delle parole. Il lessico e i problemi di lessicologia” (2005), “Parole di giorni lontani” (2006), “Lezioni di linguistica teorica” (2008), “La lingua batte dove il dente duole” (con Andrea Camilleri, 2013), “Storia linguistica dell’Italia repubblicana. Dal 1946 ai nostri giorni” (2014), “In Europa son già 103. Troppe lingue per una democrazia?” (2014). Non si contano le onorificenze ricevute, tra le quali la nomina a “Grande ufficiale dell’ Ordine al merito della Repubblica Italiana” (1996), a “Cavaliere di gran croce dell’ Ordine al merito della Repubblica Italiana” (2001), “Medaglia ai benemeriti della scienza e della cultura” (2007), oltre le tante lauree honoris causa di università italiane e straniere, tra cui l’Università Cattolica di Lovanio (1999), Lione (2005), Tokyo (2008), Bucarest (2009), Sorbonne Nouvelle (2010). Si è sempre battuto per una scuola libera e condivisa - nel senso che non ci fossero lotte intestine e frustranti tra docenti, dirigenza, amministrativi e allievi (lui diceva “partecipata”) -, con personale giovane e motivato, con
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risorse che la mettessero al pari di altre nazioni (oltre a quelle già elencate, ricordiamo opere specifiche per la scuola come “Parlare italiano. Antologia di letture per i bienni della scuola media superiore” - 1972 -, “Giorni di scuola. Pagine di un diario di chi ci crede ancora” -2011, con Dario Ianes). E scandalizzava non poco - in specie il Sindacato retrogrado - quando citava, a proposito di scuola e università, Chirac e la Thatcher - personaggi
invisi alla sinistra -, nelle cui nazioni, Francia e Inghilterra, entrambi gli istituti funzionavano meglio che da noi. Ministro della Pubblica Istruzione per pochissimo tempo, s’era reso conto di come tutti i Governi italiani hanno sempre latitato su scuola università e ricerca, tagliando fondi anziché incrementarli e trasformandole in feudi di raccomandati. Tutto questo in crescendo, per certi aspetti anche nel Governo Renzi, che è riuscito a distruggere persino “quanto di più positivo veniva dalla scuola stessa”. De Mauro, fino all’ultimo, è stato promotore di un “Patto per la scuola, l’ università e la ricerca”, perché si risolvessero collegialmente atavici problemi - finanziamenti, educazione permanente degli adulti, ricerca e importanza dei saperi - e si ponesse fine a lotte intestine. Tullio De Mauro era un uomo senza alterigia. Svolgendo, noi, per decenni rappresentanza sindacale tra i docenti UIL, assieme ai colleghi della CISL e della CGIL, l’abbiamo incontrato diverse volte negli anni 1976 1978, allorché egli ricopriva la carica di Assessore alla Cultura
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e alla Formazione Professionale della Regione Lazio. Sono stati anni, specialmente quelli a partire dal 1970, nei quali abbiamo lottato, e non solo con gli scritti, per dare una dignità alla Formazione Professionale, che molti, specie tra gli industriali, s’intignavano a definire ancora Addestramento Professionale - ad essere addestrati, in genere, sono gli animali! -. Anni di scioperi anche duri, perché si era costretti a lavorare senza materiali e strumenti adeguati, spesso senza neanche lo stipendio, in Centri gestiti da Enti disonesti e irresponsabili, nonché dalle stesse Confederazioni CGIL-CISL-UIL - gli stessi Sindacati ai quali quasi tutti noi docenti eravamo iscritti (la vergogna nella vergogna, che ci costringeva a lottare anche al nostro interno) -, da aziende di ogni genere senza alcun interesse all’ assunzione dei giovani al termine dei corsi; anni in cui si spendevano miliardi e miliardi, che regolarmente finivano nelle fauci di veri e propri caimani, lasciando irrisolti tutti i gravosi problemi della F. P., oggetto di un continuo e scandaloso scaricabarile tra il Ministero del Lavoro e le Regioni. Si lottava, tra l’altro, anche per una legge quadro in grado di favorire mobilità e qualificazione del personale, per la istituzione e la regolamentazione dello stage, lasciato (ma quasi nella totalità ferocemente ostacolato e proibito!) solo alla buona volontà ed alla responsabilità di qualche intelligente e premuroso docente, nonché per la già ricordata assunzione degli allievi al termine della frequenza. Di quelle nostre lotte sono testimonianza le pagine di questo mensile di quegli anni, oltre che di quotidiani come Paese Sera, l’Unità eccetera. Scandalo e scalpore ha suscitato anche un nostro grande manifesto, portato in processione negli scioperi per le strade di Roma, raffigurante una cascata di soldi pubblici (i finanziamenti per la Formazione Professionale) in un puzzolente Water closet! De Mauro, in quei due anni (all’ incirca), ha tentato di darci una mano, senza riuscirci, per la totale assenza di leggi adeguate e per la totale chiusura degli Enti Sindacati compresi, anzi, i primi responsabili, gestendo una quantità di Corsi direttamente o
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attraverso satelliti, apparentati, contigui: le Coop legate alla CGIL; vicini alla CISL, monache, preti e cardinali (l’A.N.C.N.I. di Roma, per esempio, era legata al segretario del Cardinale Cento)... -. Egli almeno ci ascoltava, ci assecondava, non si faceva mai negare. Ed è anche per questo che lo vogliamo ricordare, per la sua disponibilità; egli, col suo atteggiamento e col suo fare, dava ragione a quanto già espresso da Leopardi: che, cioè, tutti i veri grandi non sono superbi e sanno accogliere con semplicità. Domenico Defelice Foto di pagina 4: uno dei più imponenti scioperi della F. P. per le strade di Roma, il 20 dicembre 1974. In quella in basso, parte del lungo corteo snodantesi per via Cavour verso piazza Esedra, con in testa, tra un gruppo di docenti, il nostro direttore Domenico Defelice.
VITA EFFIMERA MA INTENSA Quando morirò, neppure un fiore sopra la mia bara. Lasciate che queste rugiadose e splendide creature della terra vivano la loro vita effimera, ma intensa come la preghiera fatta d’un sol palpito potente, il primo e l’ultimo del cuore. Domenico Defelice
LIFE BRIEF BUT INTENSE When I die, not even a flower above my coffin Let these dewy and beautiful creatures of the earth live their ephemeral life, but intense as a prayer made of a single powerful heartbeat, the first and the last of the heart Traduzione di Giovanna Li Volti Guzzardi, Australia
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CARLO DI LIETO E IL LATO OSCURO DELLA MENTE di Emerico Giachery
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LLA scherzosa domanda del titolo: “Chi ha paura della psicanalisi?” risponderei subito: “io, certamente no”. Oggi, spero proprio, nessuno ammetterebbe di averne paura. Ma non fu sempre così: Ungaretti, che sulla rivista “Lo Spettatore italiano” dell’ottobre del 1924 aveva scritto un articolo su Freud e il freudismo, non amava Freud, molto caro invece a Breton, che ne aveva conosciuto l’opera già durante la Grande Guerra, caro ai Surrealisti, ai Dadaisti. In una nota del 20-21 marzo del 1929 sul quotidiano “Il Tevere”, dal titolo Il nuovo mago, Ungaretti scrive “credo che a voler e scoprire e identificare i minuti motivi d’un processo oscuro, decifrabile solo dalla mente divina, si corra il rischio di [… fare] andare in fumo la poesia”. Più significativo, e comunque davve-
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ro riprovevole, evento degli anni Trenta. La Rivista italiana di psicanalisi, diretta da Edoardo Weiss, fu soppressa nel 1932, con la complicità del governo fascista, per volere della Chiesa, che ancora negli anni di Giovanni XXIII proibiva ai presbiteri di sottoporsi a psicanalisi. Oggi esistono persino sacerdoti psicanalisti; ne conosco uno anch’io, e ritengo preziosa un’esperienza di analisi per chi ha cura d’anime. L’apertura misticheggiante di Jung, avversata dai freudiani ortodossi, ha comunque “sdoganato”, come oggi usa dire, l’analisi del profondo, anche in ambiti che la consideravano con sospetto. Basti ricordare l’attività instancabile del vulcanico Padre Egidio Guidubaldi. il quale, oltre ad avere coordinato tre densi volumi su Psicanalisi e strutturalismo di fronte a Dante, 1972, si era personalmente impegnato nell’ interpretazione dantesca in chiave di psicologia profonda: Lectura Dantis mystica. Il poema sacro alla luce delle conquiste psicologiche odierne, 1968 . Una psichiatra e psicologa di indirizzo junghiano, Adriana Mazzarella, in Alla ricerca di Beatrice, Dante e Jung (tre edizioni, traduzione tedesca e inglese, positivo segno di interesse per il tema trattato) “cerca di avvicinarsi, per quanto è possibile, all’esperienza interiore del poeta per cogliere, al di là del velo della parole, il suo linguaggio intimo e spirituale”. Credo si possa guardare con interesse all’analogia tra il cammino di Dante dall’apparizione di Beatrice nella Vita nuova sino al vertice dell’Empireo e l’ itinerario, centrale nel pensiero di Jung, verso il raggiungimento del Sé. Negli stessi mesi in cui appare il libro qui oggi festeggiato, vede la luce un altro libro di taglio psicocritico, si potrebbe dire, militante: La donna e il mare. Gli archetipi della scrittura di Corrado Calabrò. Chi cerca il senso della ricerca di Di Lieto lo trova già sintetizzato nell’ottima, partecipe prefazione di Claudio Toscani. Ma lasciamo la parola all’ autore: “Dopo La scrittura e la malattia, ‘il male oscuro’ della letteratura, 2015, avvertivo la necessità di estendere il raggio d’ azione della mia indagine psicanalitica su un mate-
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riale inesplorato, che va dal Duecento ai nostri giorni, senza trascurare il richiamo agli autori della letteratura mondiale che hanno posto le premesse del rapporto scritturamalattia. Anche se certe coincidenze hanno un significato soltanto simbolico, è un fatto che il Novecento abbia inizio appena apparsa, a ridosso del nuovo secolo, la Traumdeutung di Freud (“l’opera della mia vita”) con cui si apre, in Occidente, l’età della psicanalisi. Secolo del cinema, il Novecento, ma anche secolo della psicologia del profondo. Freud stesso del resto, come confermerà tra l’altro Cesare Musatti, apre la via alla psicocritica, con Il delirio e i sogni della Gradiva di Jensen, del 1917, in cui afferma: “i poeti sono soliti sapere una quantità di cose tra cielo e terra che la nostra filosofia neppure sospetta” perché il poeta “esperimenta in sé quanto noi apprendiamo da altri, e cioè le leggi a cui deve sottostare l’attività di questo inconscio” E altrove, con intensa sintesi: “I poeti hanno scoperto l’inconscio prima di noi”. Se ripenso alla situazione universitaria dei miei anni giovani, mi pare che la pscicocritica abbia stentato ad affermarsi: un indubbio maestro in questo campo come Elio Gioanola (tra i tanti suoi libri ricorderò almeno L’uomo dei topazi, geniale saggio su Gadda) ai suoi esordi in anni ormai lontani fu contrastato, se non proprio avversato, dall’establishment universitario. Che era dominato dai dogmi intangibili di Gramsci, i quali, subentrati all’ ubriacatura crociana, ci hanno contristato per alcuni lustri (non senza, peraltro, positivi contributi, come il molto ben strutturato volume del 1960 Miti e coscienza del decadentismo italiano di Carlo Salinari). “Il maggior critico italiano del Novecento”, ossia, a parere di Contini, Giacomo Debenedetti, si sottopose ad una analisi junghiana col quasi mitico Ernst Bernhard, analista anche di Fellini e di altri importanti personaggi, e certo amoreggiò con la psicologia del profondo; e molti ricorderanno che non riuscì a ottenere la cattedra universitaria. Chissà che anche queste sue
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scelte non abbiano pesato negativamente : ricordo certi colleghi, superciliosi filologi, che lo definivano, con accademico distacco, “un saggista”. Un solerte italianista francese, che ebbi modo di incontrare, Michel David, fece una ricognizione della situazione col volume, La psicanalisi e la cultura italiana, del 1967, ristampato nel 1990. Da allora sono trascorsi molti anni, e ora è il momento di salutare Carlo Di Lieto e questo suo straordinario libro. Di Lieto è uno scrittore molto fecondo, che si è occupato di molti autori, con ben motivato interesse per Pirandello, studiato tra l’ altro in due importanti libri pubblicati da Genesi (Pirandello e la “coscienza captiva”, 2006, e “L’identità perduta”. Pirandello e la psicanalisi”, 2007, oltre che, stavolta per le Edizioni Simone, 2008, Pirandello, Binet e “Les altération de la personnalitè , e ancora Pirandello pittore, Marsilio, 2012. Di Lieto ha studiato nella stessa prospettiva molti significativi contemporanei, tra i quali il carissimo amico Giuseppe Bonaviri, che mi è caro qui ricordare anche per l’estrosa e profonda originalità del suo sentimento cosmico. In questi stessi mesi in cui appare il libro qui salutato, vede la luce un altro libro di Di Lieto, di taglio psicocritico, si potrebbe dire, militante: La donna e il mare. Gli archetipi della scrittura di Corrado Calabrò. Chi cerca il senso complessivo della ricerca di Di Lieto lo trova già sintetizzato nell’ ottima, partecipe prefazione di Claudio Toscani, che si muove in questa ardua tematica con agile competenza. Ma lasciamo la parola all’ autore: “Dopo La scrittura e la malattia, ‘il male oscuro’ della letteratura, 2015, avvertivo la necessità di estendere il raggio d’azione della mia indagine psicanalitica su un materiale inesplorato, che va dal Duecento ai nostri giorni, senza trascurare il richiamo agli autori della letteratura mondiale che hanno posto le premesse del rapporto scritturamalattia”. Dante, Petrarca, con la sua “acedia”, Machiavelli, Casanova, sfilano davanti alla lente psicocritica di Di Lieto. Né potevano mancarvi Le avventure di Pinocchio :
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“questo racconto, nonostante possa sembrare una semplice fiaba per bambini, è una traccia importante per guardare nel profondo dell’ io”, conferma Di Lieto. Pascoli era già stato studiato a fondo da Di Lieto in un libro del 2008 edito da Guida, Il romanzo familiare del Pascoli: delitto, passione e delirio. Nel Quaderno n.3 della serie “Il pensiero” poetante” delle edizioni Genesi Di Lieto compie un’ accurata, documentatissima indagine sull’ omicidio di Ruggero Pascoli, sui suoi possibili presupposti, sul tragico trauma del lutto nella famiglia e anche su echi e dicerie concernenti il delitto nell’ambiente rurale circostante. Pascoli, quando si conobbero certi comportamenti del poeta quando Ida si sposò e lasciò Castelvecchio, attirò abbastanza presto, sguardi perplessi e scrutatori di studiosi non indifferenti alla psicologia profonda, come il forse troppo dimenticato Siro Chimenz, già negli anni Quaranta, e poi negli anni Cinquanta. Ricordo che ad ogni manifestazione pascoliana appariva, quasi messaggero della famiglia, Raffaele Pascoli squisito gentiluomo e medico condotto in un paese del Nord d’Italia. Nipote di Falino fratello del poeta, veniva per difendere Pascoli da ogni possibile ombra di turbamento interiore, per attestare che Zvanì era l’uomo psicologicamente più sano del mondo. Eppure in testi come Gelsomino notturno, in Digitale purpurea , è difficile non avvertire un’atmosfera a dir poco conturbante. Di Lieto, che su Pascoli si era già espresso, come s’è accennato, in modo esauriente, non vuol ripetersi in questo libro e passa a D’Annunzio nel segno freudiano del “pricipio del piacere”. Poi si getta con coraggio pari alla competenza nel folto della letteratura italiana del Novecento, in cui la coscienza psicanalitica è inevitabilmente quasi onnipresente, non solo come centro tematico (da Svevo a Berto), non solo come sguardo, ma anche come lievito creativo. Il termine “psicanalisi” assume una ricchezza semantica che trascende largamente l’area freudiana che all’origine la limitava, ma implica le diverse ottiche e scuole della psicologia profonda. Non soltanto implicando Jung e (per Machia-
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velli) Adler, ma anche la psicosintesi di Assagioli (per Papini), Binswanger, con la sua “analisi esistenziale” (che diede suggestivi risultati nello studio di Ibsen), Matte Blanco, avvicinato dal francesista Francesco Orlando che aveva ricevuto una formazione freudiana dalla moglie di Tomasi di Lampedusa; e ancora diverse altre personalità e prospettive. Il libro si fonda su una documentazione ricchissima che non è solo insostituibile fonte di notizie, ma continuo invito a leggere e approfondire. Libro per conoscere, capire, capirsi. Ma anche libro, se così posso esprimere, di compagnia, da tener vicino per consultarlo ogni tanto. Chiude il libro un bel saggio su Cesare Viviani, “amico dell’invisibile”, a detta di Montale, cavaliere dell’ideale, poeta e anche psicanalista che teorizza a volte sulla sua attività terapeutica. A proposito di Viviani poeta, Di Lieto rileva affinità con Luzi, per un sentimento di “totalità celeste”, che approda “ad una sintonia cosmica, lasciandosi avvolgere da una sostanza siderale”. A questo punto vorrei chiudere con un ricordo personale. Una cinquantina d’anni or sono, conversando con Luzi, gli chiesi quale poeta gli paresse più interessante tra quelli che apparivano allora all’orizzonte. Mi ripose secco, senza esitare: “Cesare Viviani” Emerico Giachery Carlo Di Lieto, Chi ha paura della psicanalisi? Il “lato oscuro” della mente da Dante a Cesare Viviani, Genesi Editrice, Torino 2016
LEGGIADRE BARCHE Parole variopinte, come leggiadre barche, nel periglioso mare, che cela fortunali di pensieri, spuma di rare gioie, vivaci ondate di possenti idee. Parole variopinte, come salde cornici di speranza, per circondare i giorni, per consegnare un senso all’esistenza. Elisabetta Di Iaconi Roma
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LE “VOCI” DEGLI UCCELLI NELLE POESIE DI
GIOVANNI PASCOLI di Luigi De Rosa
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UANTO agli uccelli, il Pascoli ne dimostra una conoscenza notevole e una sensibilità particolare, arrivando addirittura a tentare, nei suoi versi, di imitarne la “voce” e i suoni. Possiamo ricordare qualche esempio. Dalla Raccolta Myricae (1891-1903) dedicata alla memoria dell'adorato padre Ruggero. Dalla poesia “Arano”: …................. Arano: a lente grida uno le lente vacche spinge; altri sémina; un ribatte le porche con sua marra paziente; ché il passero saputo in cor già gode, e il tutto spia dai rami irti del moro il pettirosso: nelle siepi s'ode il suo sottil tintinno come d'oro.” Nella poesia “Dialogo” si snoda, addirittura, un colloquio tra rondini e passeri, tra il vitt...videvitt delle prime e lo scilp dei secondi. E ricordiamo, altrove, il cu...cu...del cuculo, gli strilli della calandra, il singulto o chiù dell'assiuolo, il pettirosso che tintinnìa, il tordo che zirla, etc. Mentre, dalla Raccolta Canti di Castelvecchio (1903-1912), dedicata alla memoria della madre Caterina Alloccatelli Vincenzi, ri cordo il trillo dello scricciolo o uccellino del freddo con il suo trr trr trr terit tirit... che
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sembra vetro che incrina... O il pittiere, compagno dei taglialegna, ora in terra, ora sul ramo. Fa un salto, un frullo, un giro, un volo molleggia, più qui, più lì e fa sentire il suo richiamo tra quel sci e sci e sci... Per non parlare del tac tac di capinere, del zisteretetet di cincie e del rererere di cardellini, dello uìd di allodole, del siccecè di frullanti saltimpali, dell'un cocco un cocco per te delle galline che han fatto l'uovo per Valentino, e del Vita da re ! dei galletti. Luigi De Rosa
LE OMBRE NELLE STRADE Sullo spazio del paese per i rami delle strade la luna biancheggia con trasparenti trine. Dentro la grande aria stellata nelle pieghe nascoste sopra le malombre in agguato passa la luce riflessa; riecheggiano fatali nel vuoto i singhiozzi tristi della civetta. E i rintocchi dell’ora con la limpidezza di un vetro risvegliando gli spiriti tenebrosi battono sulle facciate sgretolate, che hanno le finestre aperte alla notte bella e solitaria. Animali e uomini hanno lo stesso sonno al tepore dei misti odori, amici nella fatica dormono ora abbandonati al riposo, i segni del giorno visibili sulla pelle dura del corpo. La luna vede le case bianche sepolte nel silenzio antico della notte, i cani senza padrone che girano annusando i rifiuti lasciati negli angoli, le ombre addossate alle porte sprangate. Leonardo Selvaggi Torino
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L ‘organigramma del Sant’ Uffizio siciliano a metà del Cinquecento
L’INQUISIZIONE IN SICILIA di Giuseppina Bosco A Sicilia in pieno ‘500 si sentiva ormai integrata nella realtà della grande Spagna. L’economia siciliana si era ripresa dopo la crisi determinata dalla cacciata degli Ebrei (1492), così come aveva ormai conseguito il suo equilibrio sociale, dopo la cacciata del viceré Ugo Moncada (1523) e dopo le rivolte dello Squarcialupo. (1) La venuta nell’isola dell’imperatore Carlo V, dopo l’impresa africana e il trionfale ingresso a Palermo (1535), determinò un secolo di tranquillità politica. Fra i tanti privilegi che i siciliani chiesero ed ottennero dall’imperatore vi fu anche quello della sospensione per un quinquennio, che venne subito rinnovato alla scadenza, delle prerogative della Santa Inquisizione. In Sicilia, durante il periodo dell’ Inquisizione, tutte le categorie sociali furono a
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rischio e sottoposte a delazioni; i supposti colpevoli venivano imprigionati ed avevano i beni confiscati. Molti, sotto tortura, confessavano anche colpe non vere, e alla fine venivano “relaxati” all’autorità civile: “Coloro che si riconciliavano col pentimento erano condannati a portare un abito particolare che li facesse riconoscere, il “sambenito” oppure a camminare con un sacco in bocca e una corda al collo”. Coloro che fuggivano e si sottraevano all’arresto venivano simbolicamente bruciati in statua o in effigie. I riconciliati subivano anche la fustigazione a sangue e la condanna al carcere duro. Le accuse coinvolgevano famiglie intere (i Nava, i Carruba, ecc…); se le accuse dei delatori risultavano infondate, essi venivano condannati alla fustigazione. Tra le persone a rischio vi erano quelle diverse per religione e razza (Ebrei, Musulmani) e le streghe o megere. Nel 1555 fu noto, difatti, un processo “super magariam” o per magia contro la messinese Pellegrina Vitello (2). Il processo si svolse intorno al 1550, al cospetto di monsignor Bartolomeo Sebastian, vescovo di Patti. E’ da lui che fu condotta questa donna di origini napoletane, residente a Messina e moglie di un fedifrago setaiolo. La Vitello, abbandonata dal marito per un’altra donna, cerca di sbarcare il lunario millantando poteri divinatori e magici, però venne denunciata da alcune anziane donne come strega. Esse riferirono alle autorità giudiziarie che la “strega” in diverse occasioni aveva preparato fatture ed invocava i demoni, era capace di cadere in trance nel guardare una caraffa piena d’acqua e di preparare sortilegi e magie varie. Dopo quattordici giorni di detenzione, la donna, nonostante fosse stremata da atroci torture, (come quella della corda: da una robusta trave da cui pendeva una corda, la vittima era lasciata cadere con i polsi legati dietro la schiena, con il risultato che le sue braccia e le spalle si slogavano) continuò a dichiararsi innocente, affermando “non sacho nenti”. Tuttavia, il 12 maggio 1555, Pellegrina Vitello è condannata al rogo nel solenne “autodafé” pronunciato nella piazza della Catte-
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drale di Messina, insieme ad un luterano e ad altre undici persone tra streghe, bigami e bestemmiatori. Successivamente la condanna è commutata e la “strega” Pellegrina Vitello è costretta ad andare in processione con un cero in mano ed una mitria in testa per le strade di Messina, fustigata senza pietà lungo il percorso. Nell’ambito della lotta contro l’ introduzione nell’isola dell’eresia luterana, specialmente dopo l’arrivo dell’inquisitore Giovanni Bezerra de la Quadra, fu posto sotto il controllo del sant’Uffizio tutto l’ambiente religioso e laico: insegnanti, maestri, librai e tutti quei forestieri che potevano essere veicolo di diffusione delle idee luterane. Carlo Alberto Garufi (3) ha ben esaminato quest’aspetto dell’attività inquisitoriale in Sicilia, sottolineando il settarismo dell’ Inquisizione che, affidata ai Domenicani, cercò gli eretici fra gli altri ordini religiosi: agostiniani, francescani, frati minori e i maestri di teologia. Si temeva soprattutto la presenza di tedeschi e fiamminghi che potevano propagandare le idee luterane e a tal proposito l’ inquisitore del tempo, nel 1569, riporta quanto lo scrivano genovese Nicolò dà testimonianza della discussione avvenuta tra fiamminghi e francesi, a cui fu presente: “Persone fiamminghe e francesi discutevano della setta luterana affermando che le immagini sacre non dovevano essere venerate”. La presenza dell’Inquisizione siciliana così, come in tutte quelle “terre” poste sotto il dominio spagnolo, costituiva una sorta di potere occulto, controllando la coscienza di tutti gli uomini, impedendo che le loro menti potessero allargare gli orizzonti conoscitivi al progresso della scienza del XVI secolo. È il periodo della Controriforma e della lotta all’ eresia luterana: non solo la Chiesa si sente attaccata nel suo impianto dottrinario, ma soprattutto nei privilegi ecclesiastici. Ecco perché, con decreto del 16 marzo 1782, il sovrano napoletano Ferdinando--- “volendo togliere ai suoi vassalli l’occasione di essere ingiustamente oppressi, […] ha sovranamente ri-
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soluto che si abolisca il tribunale del Santo Ufficio in cotesto regno”. Difatti, il compimento di questa sentenza avvenne con una solenne cerimonia, alla quale il viceré Caracciolo invitò tutte le autorità siciliane, presenziando egli stesso all’evento. In quell’ occasione vennero dati alle fiamme tutti i documenti che avrebbero potuto nuocere ai membri dell’apparato inquisitoriale e, insieme ad essi, tutti i processi pendenti contro “presunti eretici”, come furono pure date alle fiamme le carceri dello Steri con tutti i graffiti dei condannati dal Santo Ufficio. Molti documenti però, soprattutto quelli che riguardavano l’ archivio messinese, furono conservati alla fine del Seicento dal viceré conte di Santo Stefano quando lui requisì per ordine del sovrano “tutti i documenti della città” e dell’ Archimandritato di Messina che fanno parte dell’archivio ducale Medinaceli di Siviglia. Questo rogo fa pensare alla polemica sorta in Italia per quanto riguarda la distruzione delle carte del Sifar, i Servizi Segreti Italiani, affinché non si conoscessero i nomi dei delatori e degli informatori dei nostri servizi, anche se gli storici hanno sempre sostenuto che qualsiasi documento degli archivi del Sifar, falsi o legittimi che fossero, dovevano essere sempre oggetto di studio e di analisi relativa alla veridicità della fonte. Però evidentemente troppi nomi di persone compromesse e insospettabili “collaboratori eccellenti” dovevano essere eliminati, come difficili e scomode potevano essere alcune verità sul rapimento di Moro e sulla contiguità fra Stato e mafia per un certo periodo della nostra Repubblica. Allo stesso modo, quel falò del 1783 cercò di proteggere quegli esponenti responsabili di contiguità del rapporto fra Inquisizione e mafia. Tuttavia, molti dati relativi all’ organigramma di base di tutte le reti inquisitorie siciliane sono contenuti in questo documento (Carte de Legayo doc. n.03) (4), l’unico che sia stato salvato dal rogo ordinato dal viceré D. Caracciolo. Questo documento, dagli studi effettuati dai docenti di Storia medievale dell’Università di
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Palermo, (5) conteneva la “Matricula de los officiales y familiares de S.ta Inquisicion del Reyno de Sicilia”. Esso fu redatto dal segreto dell’Inquisizione Jan Perez De Aguilar per ordine del sovrano nel 1561. L’analisi del documento rivela, per 146 centri dell’isola, un numero di 539 affiliati all’Inquisizione e dal rapporto segreto del capitano Lopez Villegas Figueroa (1565) si sa che “En ciascun paese non devono esserci meno di quattro ufficiali e di un familiare, cioè un luogotenente di capitano, un giudice e un luogotenente di maestro notaio, e un ricevitore e un familiare” (6). A Palermo, che era la sede ufficiale del Sant’ Uffizio, esisteva un organico completo ed articolato. Ne facevano parte quattro consultori, un avvocato dei carcerati, un giudice dei beni confiscati, un medico delle carceri, due medici generici, un chirurgo, una barbiere e un aromatario. E poi i luogotenenti: di capitano, di maestro notaio, di ricevitore, ed un prete, lettore delle sentenze. Giuseppina Bosco 1 - Notizie storiche tratte dal testo: Dossier inquisizione Sicilia di Francesco Giunta Palermo, Sellerio, 1991 2 - Vicenda riportata da Leonardo Sciascia, nel testo “Morte dell’inquisitore” Milano, Adelphi, 1967 pag. 60-61 3 - C.A Garufi, “Fatti e personaggi dell’ inquisizione in Sicilia”, Palermo, Sellerio, 1977. 4 - I documenti citati sono quelli relativi a Matricula de los officiales y familiares de la S.ta inquisicìon del reyno de Sicilia Dyose dya de los Reyes de 1561 (6 gennaio) analizzati e studiati dal professore Francesco Giunta nel testo sopra citato. 5 - Ibidem 6 - Ivi pag. 35 Immagine di pag. 10: Palazzo Steri, sede dell’ Inquisizione a Palermo.
INCONTRO ALLA LUNA Le idee immutate e non cambio i modi, mi assottiglio uscendo dalle forme di tanti. Le case arrugginite involucri sordi di metallo. Materia su materia, nessun respiro trasmesso di presenza diversa. La solitudine
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non trova riparo, si mette nei taciti angoli nascosti. Non c’è la leggera aria che porta l’orizzonte su lontani limiti a distante celestiali. La trasparenza dei colori a strati bassi al tramonto, i tanti esseri compressi sulla superficie che fermentano con gli umori della terra. L’infinito che gravita come bufera trascina la polvere dei corpi minuti dal tempo livellati e frantumati. La notte precipita con taglio netto sulle strade, un muro oscuro fa attorno il recinto. Il cielo si sgretola, fatto di massi e cade in rovina a cataste convulse. I viali cambiano volto di sera, passi in ascolto, si potranno sentire in accordo trasmessi i frammenti dell’animo nel fondo di essi. Accumulo di dispersione accecata, non ti ritrovi. Tu vai uguale al lupo mannaro per i vicoli, mandi alla luna le tue asprezze i modi irrevocabili. La notte accoglie le insoddisfatte voglie, ove più si addensano le ombre senti la tua dimora. L’animo riversa in colloquio con se stesso quanto nelle viscere ribolle, le angustie un discorso di chiarezza fanno alle figure dei riflessi che piovono luce d’argento sulla faccia tesa in alto, sommessi latrati in mezzo alle tenebre, attorno simili a donne in funerei vestiti accorate. Leonardo Selvaggi Torino
IL NOSTRO LETTO Un tempo declivio leggero il centro era del nostro letto nel quale l’uno sull’altra rotolavamo entrambi, dal quale si emergeva esausti. Ora nella vecchiaia di lenzuola e coperte spesso muro ci separa. Domenico Defelice
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GIANNICOLA CECCAROSSI
«TRA OSCURITÀ E LUCE» di Marina Caracciolo ’ASPETTO che più di ogni altro spicca nella nuova silloge di Giannicola Ceccarossi è la straordinaria musicalità che affiora e signoreggia in ogni verso, quasi in ogni singola parola di questa eccezionale Sinfonia in tre movimenti (come viene designata nel suo sottotitolo, al quale sono anche aggiunte specifiche indicazioni di tempo: Adagio - Adagio - Meditativo). Il poeta – legatissimo alla musica per un retaggio famigliare che ha preso radici nella sua indole medesima (il padre, Domenico, era un eccellente musicista solista) mette qui a punto una sorta di poemetto, che fin dalla sua apertura «ci immette in un’assorta misura ritmica, propagata poi, con intima coerenza, per tutto il trittico, senza cadute, senza stonature: sans rien qui pèse ou qui pose, avrebbe detto Verlaine», come nota acutamente Emerico Giachery nella sua Introduzione. Il tema predominante, il lento trascolorare della vita nella morte, e della morte in una rinnovata e perenne vita nell’Oltre, è il ciclico Leit-motiv che qui informa tutti i brani, dove le inconsuete invenzioni liriche, le voci e le pause di silenzio, le armonie timbriche, le fluttuazioni percettive ed espressive, le inconfondibili visioni sinestetiche, fanno tutte parte
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di una composizione che – con la sua ricca i ntelaiatura lessicale, costituita da insoliti accostamenti e da segreti rimandi e consonanze – si svincola, come da ostacoli che la intralciano, dai ferrei legami razionali della logica, creando un edificio in cui la parola poetica (proprio nel significato etimologico di creatrice) approda a una dimensione superiore, sciolta dalla concretezza del reale (per quanto la realtà medesima sia vista costantemente come in uno specchio che la riproduce in cristalline rifrazioni prospettiche). Questa trama assai articolata e complessa è appunto tutta percorsa da un’intima essenza profondamente musicale, di incorporea levità, che si percepisce sempre e dovunque in tutta la sua «sottile filigrana tematica». È dunque in tale àmbito, dove il valore intrinseco dei significanti costituisce, in ombra, l’esatta controfigura dei significati (come sembra simbolicamente rispecchiare in copertina il bellissimo dipinto di Marc Chagall con i due volti between darkness and light), in visioni create da un incantesimo, che alla fine tuttavia non dispare, anzi, resta «impigliato», come un sogno ricordato e veritiero, nell’ animo di chi legge; è là – dico – che il poeta ci conduce per mano nel suo malinconico vagabondare all’interno di un trasfigurato paesaggio che si snoda fra lembi di boschi, stupori di germogli dischiusi, fiocchi d’ombre, fruscii di betulle, lacci di glicini e aromi di foglie; con un incedere lento e vellutato che si attarda ripetutamente a frugare nello scrigno socchiuso delle memorie, ma che non di meno è proteso a scrutare da lontano, con uno sguardo colmo ora di mestizia ora di limpida quiete, le lande incontaminate e brumose dell’ignoto. L’ultima parte di questa «sinfonia in tre movimenti» si intitola Forse ci sarà un altro tempo per vivere, ed è preceduta da una citazione in esergo tratta da Thomas S. Eliot: «Others echoes /Inhabit the garden». Altri echi misteriosi, dunque, che abitano il magico giardino, attraversano per intero il lungo e appassionato tempo finale (più di 200 versi) di questa composizione. Se ogni vita ha ine-
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sorabilmente il suo traguardo («Insegnami, Signore, che io devo pur avere una fine, che la mia vita ha un termine, e che da qui devo andarmene», rammenta il Salmo 39, v. 5), se il poeta non può che dire: io guardo questo cielo con animo affranto, e pensare a quanto sia ardua la sfida di superare quell’angoscia che mi offusca /e mi lascia solo con ciglia smarrite, è pur vero che proprio il tormentato pensiero del «grande salto», del temuto confine con l’Oltre investe la sua immaginazione di un soffio più potente, più vasto e quasi epico: Ma accanto ai fregi di una sala dorata le ombre appariranno lunghe e grigie e le parole recitate dai cantastorie finalmente conosceranno le nostre stagioni. Dimmi padre perché le sembianze che roviglio fra i gelsi sono distratte e cerulee in volto? Sbigottite ai margini del bosco confidano forse di essere salvate? La nebbia dispiuma contorni e visioni ma avverto il dolore di quelle anime e piango Come in un cerchio che infine si chiude, i versi, sempre più irti di interrogativi, intrisi di struggente inquietudine e di velato sgomento per l’ineluttabilità che ci sovrasta, si placano da ultimo in quelle alate euritmie con cui il poetico scenario si era aperto. La mente del poeta – che ha fin qui rievocato sogni meravigliosi e illusioni perdute, che ha confidato laceranti amarezze, cercando nel contempo varchi consolatorî e barlumi di speranza (Se la notte annoda fiocchi d’ombre /e i brividi fuggono dagli occhi /lunga è la strada dove cerco rifugio …) – approda ancora una volta, in un arcobaleno di giorni futuri che si rivela essere fatto di pace e altri echi, alle seducenti intuizioni liriche che hanno creato la sostanza, trasognata e immaginosa, di tutto il poemetto: Quando domani si schiuderà il giorno lambirò l’acero di monte dalle foglie verdi e rosse
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supplicherò che perduri nel cuore l’aroma dei suoi lunghi rami e saprò quale sentiero percorrere per tornare da dove sono partito. Forse mi pentirò delle parole e tenterò di salvare quel bisbiglio che mi rimarrà per esistere. Marina Caracciolo «TRA OSCURITÀ E LUCE» :Un’ombra negli occhi. Sinfonia in tre movimenti. Silloge poetica di GIANNICOLA CECCAROSSI. Saggio introduttivo di Emerico Giachery. (Ibiskos-Ulivieri, Empoli, novembre 2016; pp. 61, € 12,00). In copertina: Hour between wolf and dog – Between darkness and light (part.) di Marc Chagall.
LIMPIDA LUNA Fuori c’è ancora un barlume di luce viola e tu limpida luna già navighi nel cielo. L’odore del silenzio consola. Anche la notte assapora magie di viaggi lunari. Luna, destino, dammi ancora giorni grati e grida festose di bambini. Ines Betta Montanelli da L’assorta tenerezza della terra (2013), qui di seguito tradotta da Marina Caracciolo SILBERNER MOND Dort aussen darf man noch erblicken ein veilchenblaues Dämmerlicht, als du, silberner Mond, schon in den hohen Himmel wanderst. Die Stille hat einen tröstenden Geruch. Den Zauber des fahrenden Mondes kostet auch die Nacht. Mond, Schicksal, gönne mir noch liebliche Tage und ein lustiges Kindergeschrei.
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IL CANTO IX DEL PARADISO di Fabio Dainotti
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EGGIAMO ora insieme il primo apparire della seconda anima beata:
Ed ecco un altro di quelli splendori ver’ me si fece, e’l suo voler piacermi significava nel chiarir di fori. (Pd IX 13-15). Beatrice entra in scena all’apparire di Cunizza : Li occhi di Bëatrice, ch’eran fermi sovra me, come pria, di caro assenso al mio disio certificato fermi. (Pd IX 16-18) Gli occhi di Beatrice, parafrasiamo, mi fecero certo (ma “certificato” suona termine più tecnico-specialistico) del suo gradito assenso al mio desiderio di parlare col nuovo spirito. La locuzione di v. 17, “come pria”, si riferisce al c. VIII, dove ricorrono espressioni simili: Poscia che li occhi miei si fuoro offerti alla mia donna reverenti, ed essa fatti li avea di sé contenti e certi ( Pd VIII 40-42). Ricorre, in tutto questo gruppo di versi, la sillaba “er”, che appartiene al verbo ridere e anche a splendere; nello stesso tempo il ridere
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è una “corruscazione de la dilettazione de l’ anima, cioè uno lume apparente di fuori secondo sta dentro”1 . Dante dunque si rivolge all’anima beata e le chiede di soddisfare il suo desiderio, senza esserne pregata, dimostrando così che i pensieri dell’interlocutore non le erano ignoti, perché venivano riflessi in lei. “Deh, metti al mio voler tosto compenso, beato spirto”, dissi, “e fammi prova ch’i’ possa in te refletter quel ch’io penso!”. (Pd IX 19-21). dove “compenso”: (dal latino cum e pensum), vale compensazione. Onde la luce che m’era ancor nova, del suo profondo, ond’ella pria cantava, seguette come a cui di ben far giova: (Pd IX 22-24). “Luce” è parola tematica in Dante. Secondo Bartolomeo da Bologna, autore, nella seconda metà del XIII secolo, del Tractatus de luce, ripreso da Dante, bisogna operare una distinzione tra diversi lessemi: ‘luce’; ‘lume’; ‘splendore’; ‘raggio’ . Dante nel Convivio segue l’esposizione nello stesso ordine e con lo stesso significato2. In questo caso il poeta ha potuto per ragioni cronologiche conoscere il testo e forse poté conoscere il francescano personalmente a Bologna, perché “frate Bartolomeo era il successore di Matteo d’ Acquasparta nella scuola bolognese di teologia, e negli anni 1285-1289 circa ricoprì la carica di Magister della provincia di Bologna, in un periodo dunque in cui Dante, che forse fu a Bologna intorno al 1287, poté addirittura conoscerlo di persona”3. Inoltre c’è corrispondenza tematica e corrispondenza isomorfa: per cui possiamo parlare di fonte diretta e non di semplice intertestualità. Nel cielo di 1
Cv III viii 11. Cv III xiv 5. D. ALIGHIERI, La Commedia, canti scelti, a c. di Bianca GARAVELLI, Firenze, Bompiani 2001, p. 603. 2 3
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Venere, cui corrisponde la retorica, non è strano che si ripeta l’immagine a breve distanza. Nei vv. 13 e 15 infatti abbiamo “splendori” e “chiarire”. Ma è tutto il Paradiso che è un tripudio di luce. Si parla infatti di metafisica della luce, nozione elaborata dalla scuola oxoniense di influenza francescana di Roberto Grossatesta, secondo cui da un punto luminoso ha origine l’ universo. L’espressione di verso 23 “del suo profondo” ne richiama una analoga di Pd V 124125: “Io veggio ben sì come tu t’annidi / nel proprio lume”. Il verso 24, “seguette come cui di ben far giova” presenta un costrutto alla latina, con ellissi del pronome dimostrativo. Il poeta ancora non ci dice (la focalizzazione è su Dante personaggio) chi è lo spirito: “m’era ancor nova”. Scopriremo poi che si tratta di Cunizza da Romano, ultima delle sei sorelle di Ezzelino III e di Alberico, signore di Treviso. Fu dipinta come una donna dissoluta dagli antichi commentatori. Osserva Sapegno4: “Vere o false che siano le accuse dei cronisti e dei commentatori riguardo all’ indole di Cunizza, certo è che Dante le accolse come vere, come confermano abbastanza chiaramente i vv. 34-36”. “Molto prona nello amore”, la definisce il Landino5. Gli fa eco il Vellutello6: “donna di gentilissimi e umanissimi costumi, ma nel lascivo amore quasi senza freno”. Cunizza per il Tommaseo7 è “donna d’amore”. Ebbe tre mariti e numerosi amanti. Andò in sposa dapprima a Riccardo conte di San Bonifacio, signore di Verona, al quale dette un figliuolo. Ma fu un matrimonio politico, voluto dalle
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famiglie per suggellare la pace tra i Da Romano e i San Bonifacio. La successiva rottura tra le due famiglie spiega il fatto clamoroso: fu deciso dal padre e dal fratello di lei di farla rapire dal poeta Sordello, che già frequentava la sua casa. La liaison durava forse già prima del rapimento: conobbe Sordello nella casa del marito ed ebbe con lui una relazione. Bosco / Reggio ritengono che “il loro rapporto è da iscriversi piuttosto nelle normali forme dell’amore trobadorico”8, e che solo dopo il rapimento ci sia stata possibilità di un amore effettivo e concreto. Così almeno mostra di credere l’estensore delle Chiose Filippine9, che così si esprime: “Ista Cuniicia fuit luxuriosa femina et inhonesta et maxime luxuriebatur cum Sordello mantuano”. Tornata in patria, visse col cavaliere trevisano Enrico da Bovio “multa habendo solatia et maximas facendo expensas” (concedendosi molti piaceri e facendo molte spese), se dobbiamo credere alla cronaca, scritta intorno al 1260, del padovano Rolandino10, il quale però faceva parte di quel centro del guelfismo antiscaligero che era Padova e quindi era contrario anche ai Da Romano. Morto di morte violenta Bovio, fatto sgozzare da Ezzelino, la donna sposò il conte Almerio di Breganze e poi un nobile veronese, all’età di sessanta anni; (esclama il Lana11: “si recita che fue in omni etade innamorata ed era di tanta larghezza il suo amore, che avrebbe tenuta grande villania apo sé a porsi a negarlo a chi cortesemente l’avesse domandato”). Era a Firenze nel 1265. Tramontata la stella politica dei Da Romano, riparò infatti nella città toscana, dove pare vivesse una vita ritirata e dedita ad opere pie. A casa del Caval-
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La Divina Commedia a c. di Natalino SAPEGNO, Firenze, La Nuova Italia 1955-19574, Paradiso, p. 115, n.32. 5 C. LANDINO, Comento sopra la Comedia, a c. di P. Procaccioli, Roma, Salerno 2001, Tomo IV, p. 1696. 6 A. VELLUTELLO, La Comedia di Dante Aligieri con la nova esposizione, Roma, Salerno Editrice 2006, Tomo III, p. 1393. 7 N. TOMMASEO, Commento alla ‘Commedia’, Roma, Salerno Editrice 2004, tomo III, p.1677.
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La Divina Commedia, a cura di Umberto BOSCO e Giovanni REGGIO, Firenze, Le Monnier 1979, p. 142. 9 Chiose Filippine. Ms. CF 2.16 della Biblioteca oratoriana dei girolamini di Napoli, a c. di Andrea Mazzucchi, Roma, Salerno 2003, tomo II, p. 1193. 10 In MURATORI, R.I.SS., VIII, 173. 11 Jacomo della Lana, Commento alla Commedia, a c. di Mirko Volpi, Roma, Salerno 2009, tomo III, p. 1961.
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canti redasse un atto con il quale concedeva libertà agli uomini di masnada del padre e dei fratelli. Probabile che Dante l’abbia incontrata a casa dell’amico, rimanendo colpito dall’ incontro. Ma per quale motivo Cunizza, che fu una peccatrice, si trova in cielo? La risposta è naturalmente da ricercarsi nella ultima parte della vita, dedita alla penitenza. D’altronde Cunizza, anche se era “recte filia Veneris, quia sempre amorosa et vaga” era anche “pia, benigna, misericors, compatiens miseris quos frater crudeliter affligebat” ( così Benvenuto da Imola, che per primo si dà spiegazione della salvezza di Cunizza).12 Anche Fernando Coletti fornisce un’ analoga giustificazione. Cito testualmente: L’ambivalenza di questa singolare e quasi leggendaria figura di donna sempre fieramente appassionata, così nei colpevoli piaceri della giovinezza, come poi nell’intravisto raccoglimento della vecchiaia, si rispecchia nei giudizi dei contemporanei e, più ancora, nelle parole dei primi commentatori danteschi, che, in genere, sottolineando il finale ravvedimento di Cunizza, sembrano voler intendere e spiegare come mai questa donna[…], sia stata da Dante riabilitata e innalzata alla gloria dei cieli. Perché tutto il male tenacemente operato può ben trovare sovrabbondante compenso se una natura appassionata, che aveva prima stravolto il cuore ai peccati del mondo, lo indirizzi infine a Dio in uno slancio d’amore.13 Ezio Raimondi in Metafora e storia ritiene che l’episodio di Cunizza vada “letto in rapporto[…] alla politica scaligera” e non come
“capitolo di psicologia femminile”14. La scelta del “personaggio discusso, di una donna del gran mondo in fama di avventurose esperienze sentimentali” è in funzione polemica e serve al rilancio del milieu ezzeliniano: la pubblicistica padovana infatti usa leggende ezzeliniane in funzione antiscaligera. Leggiamo le terzine che riguardano Cunizza: “In quella parte de la terra prava italica che siede tra Rïalto e le fontane di Brenta e di Piava, si leva un colle, e non surge molt’alto, là onde scese già una facella che fece alla contrada un grande assalto. D’una radice nacqui e io ed ella: Cunizza fui chiamata, e qui refulgo perché mi vinse il lume d’esta stella; ma lietamente a me medesma indulgo la cagion di mia sorte, e non mi noia; che parria forse forte al vostro vulgo. (Pd IX 25-36). La “terra prava” è tutta l’Italia ( secondo alcuni commentatori la Marca trevigiana), individuata e designata con una perifrasi di tipo idrografico ed orografico. L’espressione “in quella parte”, osserva Silvio Pasquazi, in una sua lettura del 1989, conferisce “il senso della lontananza”15. Richiama tra l’altro la descrizione del luogo di nascita di San Domenico. “Un disegno paesistico, in cui i nomi geografici acquistano[…]un rilievo che sta tra l’essenziale espressività della linea giottesca e il modulo allusivo-simbolico di mosaici bizantini e di certe pitture romaniche tratteggia la Marca Trevigiana.”16 Servendoci di un linguaggio filmico, potremmo dire trattarsi di una ripresa dall’alto: si nota il colle, che non E. RAIMONDI, L’aquila e il fuoco di Ezzelino in Metafora e storia, Torino, Einaudi 1970, pp.123146, pp. 125-142. 15 S. PASQUAZI, Il canto IX del Paradiso, in Casa di Dante in Roma, Letture degli anni 1979- ’81, a cura di S. Zennaro, Roma, Bonacci 1981, pp. 269291, p. 281. 16 G. TOJA, Il canto di Folchetto da Marsiglia, “Convivium”, XXXIV, 1966, pp. 234-256, p. 238. 14
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BENEVENUTI DE RAMBALDIS DE IMOLA Comentum super Dantis Aldigherij ‘Comoediam’, nunc primum integre in lucem editum sumptibus G.W. Vernon, curante J.PH. Lacaita, Florentiae, Barbèra 1887, 5 voll., vol. V p.2. 13 F. COLETTI, canto IX, in Lectura Dantis Scaligera, Paradiso, Firenze, Le Monnier 1968, pp. 297344, pp. 316-317.
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si eleva molto in rapporto alle Prealpi. Da quel colle si muove la fiaccola di Ezzelino da Romano, che fece stragi nella Marca trevigiana. Ma la donna precisa che ebbe gli stessi natali di Ezzelino III, che si trova in Inferno, accreditando, in tal modo, implicitamente, la teoria, enunciata da Carlo Martello nel canto precedente, sull’influenza individuale e non familiare delle stelle. Cunizza e Ezzelino nacquero “d’una radice”: esattamente da Ezzelino II e Adelaide degli Alberti di Mangona; anch’essi traditori. “Facella” (fiaccola incendiaria) non è diminutivo, ma intensivo. L’allusione è a Ezzelino III, sfolgorante come la fiamma che la madre, prossima al parto, aveva sognato: “unam facem igneam, -spiega Pietro di Dante- quae comburebat totam Marchiam Trevisanam; et ita fecit sua horribili tyrannide.”17 La propaganda guelfa aveva molto insistito nel dipingere a tinte fosche Ezzelino da Romano, sostenendo che era nato dall’accoppiamento di una strega col diavolo e aveva provocato migliaia di morti. Ezzelino è filoimperiale e Dante vorrebbe dirne bene almeno sotto l’aspetto politico, ma non può certo ignorare la realtà storica e le leggende fiorite attorno al personaggio. Si tratta allora di stemperare alcuni aspetti, sorvolare su altri. È necessaria, insomma, un’operazione di chiaroscuro. Dante ci presenta Folco nell’Inferno (non è strano trovarlo tra i dannati, perché nel Medio Evo era noto come tiranno), assieme ad Obizzo da Este. Ezio Raimondi, nel passo citato, nota che Ezzelino è descritto nell’Inferno come una “fronte di pelo nero”; nella testimonianza più antica in cui si parla del colore nero di Ezzelino (la glossa del commento all’ Ecerinis, una tragedia ispirata al personaggio), il ritratto del tiranno suggerisce l’idea di vigore corposo dominato dal nero. Obizzo è biondo, un epiteto “che sembra implicare un’antitesi morale”. Obizzo da Este è un tiranno meno feroce di Ezzelino, e tuttavia quasi ambiguo.
Mentre della morte di Ezzelino, caduto da guerriero, non si dice nulla, si parla della fine ingloriosa di Obizzo, tolto di mezzo da una congiura di famiglia, con una violenza senza ombra di grandezza. Così con una complementarità cromatica e una contrapposizione di destini si ottiene di stemperare un ritratto di tiranno e di correggere un giudizio negativo. In secondo luogo, le parole di Cunizza: “d’una radice nacqui io ed ella” , cioè io e Ezzelino siamo nati dagli stessi genitori, hanno un significato polemico: informare che Ezzelino non è nato da un diavolo. Declinando una comune ascendenza, inoltre, può ancora acquistare l’autorità, lei donna, di parlare anche a nome del fratello, che non ne ha l’autorità morale, in difesa del milieu ezzeliniano e quindi della causa imperiale (non ghibellina tout court, come pretendeva Foscolo). Infine consideriamo il verso “che fece alla contrada un grande assalto”. La contrada è “prava”, polo corresponsabile, e il nodo ezzeliniano è assorbito dall’idea più ampia di mala condotta del pastorale. Ma torniamo a Cunizza. La donna confessa con “franchezza[…] tipicamente femminile”, osserva Aldo Vallone18, che aggiunge: “l’ espressione ‘qui refulgo / perché mi vinse il lume d’esta stella’ non va presa in sé[…]; se […] si unisce, come si deve, all’altra espressione che segue (‘la cagion di mia sorte, e non mi noia; / che parria forse forte al vostro vulgo’), il significato d’insieme diventa polemico, freddo e altero […]. Non contano le apparenze, conta la sostanza; conta quel che Dio, e solo lui, ha capito e raccolto, pur nella perdizione delle passioni, nel fondo della coscienza umana […]. Giovava, a sostegno di Dante, l’esempio evangelico della Maddalena, salvata per quella innocenza di fondo, che Cristo solo vide”. Si citano, al riguardo, il Vangelo di Luca e le parole di Gesù alla peccatrice che gli lavava i piedi col suo pianto. “Remittuntur ei peccata multa, quia multum
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Petri Allegherii super Dantis ipsius genitoris Comoediam Commentarium, curante V. Nannucci, Firenze, Piatti 1845, p. 612.
A. VALLONE, Il canto IX del Paradiso in Strutture e modulazioni nella Divina Commedia, Firenze, Olschki 1990, pp. 151-169, pp. 158-160.
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dilexit”. Queste anime sono apparse a taluni commentatori scarsamente individuate. Il personaggio di Cunizza in particolare, è parso poco vero. Ma Reto Roedel19 osserva, riferendosi ai vv. 13-15: “ E in quel ‘voler piacere’ par che ancora si pronunzi l’arte della seduzione muliebre di cui c’è traccia persino nei testi sacri […] e che rimane vivissima anche al di fuori del peccato.” A sua volta Di Pino20 nota, a proposito dei vv. 23 e 24: “ il suo canto si distingue[…] per un senso di raccoglimento quasi schivo e femmineo […]. Per la qualità intima di questi accordi, Cunizza può rammentare Piccarda; ma Piccarda ha un passato tenue […]. Cunizza ha conosciuto uomini e colpe; per questo il suo giudizio -appassionato e mondano- investe con veemenza profetica principi e contrade.” Dopo essersi presentata Cunizza accenna a uno spirito, luminoso come un gioiello, che le sta vicino e che ha conquistato fama duratura, esclamando: “Vedi dunque se l’uomo deve diventare illustre, in modo così che la prima vita ne lasci dopo di sé un’altra”: Di questa luculenta e cara gioia del nostro cielo che più m’è propinqua, grande fama rimase; e pria che moia, questo centesimo anno ancor s’incinqua: vedi se far si dee l’omo eccellente sì ch’altra vita la prima relinqua. (Pd IX 37-42) Donato Pirovano21 osserva che la caritas infiammò sia Cunizza sia Folco, ma nella prima si tradusse in carità materiale; nel secondo, in elemosine spirituali: e ciò gli valse fama più duratura. Fabio Dainotti (2 - Continua) 19
R. ROEDEL, Paradiso, canto IX, in Letture Dantesche, a cura di G. Getto, Firenze, Sansoni 1963, p.175. 20 G. DI PINO, Il canto IX del Paradiso, Torino, SEI 1964, p. 11. 21 D.PIROVANO, Dante e il vero amore. Tre letture dantesche, Pisa-Roma, Serra 2009, p. 77.
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IL LIMITE So che nelle tue mani di sposa con l’amplesso raccoglierai l’ultima ora: la mia persona smembrata e gli arti dissolti, il disperato grido. I giorni rannodati arriveranno alla fine, sento più breve il cammino uguale, che non conosce contrasti. Dolce e raccolta dimora, ordine alle cose, in sintesi è già narrato il mio vivere. Mattina e sera l’attesa impaziente per venire al rinnovato connubio. Ci troviamo al solito punto dove l’intimo contatto ci unisce e più facile si fa la via per domani. Mi sollecita la mitezza al quotidiano ritorno; sono un bambino disciplinato, che mette l’abito ripulito e le cravatte. Dentro al grembo delle tue premure continuo a prendere il nutrimento dalle labbra madide di calore. Ma vedo nei tuoi occhi riflesso il traguardo degli anni: la mia figura diventata di cera, le mani gelide incrociate sul petto. Ritornerei alle ansie disilluse d’un tempo: ancora alle partenze senza sapere le fermate. Nei frammenti di vita, ai momenti indefiniti autodifesi con l’istinto degli attimi. Leonardo Selvaggi Torino
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 15/1/2017 Il simbolo delle arene, a livello planetario - il prestigioso Barnum - ha chiuso per il drastico calo degli spettatori. Alleluia! Alleluia! Impossibile resistere ancora alla concorrenza dei circhi dei milioni di politici nel mondo, degli italiani in particolare, insuperabili. Domenico Defelice
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VITTORIANO ESPOSITO
abruzzese ed europeista di Giuseppe Leone
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ONO passati cinque anni da quando, in una fredda giornata di febbraio, in una Avezzano interamente sommersa dalla neve, ci lasciava Vittoriano Esposito, intellettuale e critico letterario di vasta cultura e profonda umanità, che io avevo conosciuto a Pescina nel Centro Studi Ignazio Silone, di cui era diventato, negli ultimi anni, anche Presidente Onorario, dopo essere stato, sin dagli anni della sua fondazione, l'anima ispiratrice di molti dei convegni dedicati alla figura del grande scrittore marsicano. Vittoriano Esposito è stato uno scrittore prolifico di lungo corso, avendo dedicato un sessantennio della sua vita alla ricerca letteraria; ma forse anche di più, se si considera il tirocinio poetico degli anni giovanili. Infaticabile ricercatore anche di opere di scrittori abruzzesi, è stato sempre attento al carattere di abruzzesità, ma mai con l'orgoglio di esibirlo a trofeo di un marchio di fabbrica squisitamente regionale. Significativo quello che scriveva nel 1980 nell'introduzione alla sua Antologia critica Parnaso d'Abruzzo: “A noi preme, però, non restar prigionieri di una visione prettamente provinciale o regionale delle vicende artistiche e culturali dell'Abruzzo, sì piuttosto stabilire o suggerire eventuali rapporti tra la letteratura abruzzese e la letteratura italiana e, per le personalità maggiori, anche la letteratura europea nel suo complesso”. È questo il critico che a me piace ricordare
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oggi, che, mentre scava dentro l'eredità culturale dell'Abruzzo, non si abbandona mai alla sua contemplazione, ma cerca un confronto con quanto vi sia, fra le sue pieghe, d'italiano e d'europeo. Per questa via, egli è stato uno scrittore moderno che ha saputo guardare alla letteratura, non come “morta gora” di passioni e di vita, ma come luogo mobile e sempre aperto della coscienza”, tanto da suggerirgli una ricerca, mai del tempo perduto o del tempo ritrovato, ma del tempo a venire. Qui, egli cercò di sistemare autori e opere della letteratura abruzzese ma non solo, finendo per ampliare il XX secolo, fino a intitolare la sua antologia critica L'altro Novecento, un'espressione, se si vuole, anche provocatoria, ma funzionale a una concezione democratica che Vittoriano ebbe della letteratura, convinto che essa non debba “restringersi alla superficie delle tecniche formali, perché soprattutto la poesia, ormai è risaputo, va ben oltre le schematizzazioni teoriche, e può anche rifiutarsi d'essere imprigionata nelle gabbie d'oro di estetiche legate a mode passeggere”; né essere rappresentata solo da poeti che si chiamano Dante o Leopardi, e non invece anche dai cosidetti “minori”, quelli che lui definisce “peones”, gli “onesti” lavoratori della penna attorno a cui non si sono mai accese le luci della ribalta. Questo Vittoriano io vorrei che venisse ricordato, cominciando a studiarlo in una luce di assoluta autonomia, piuttosto che in una proiezione a volte solo siloniana, anche se, come testimonia Maria Assunta Oddi, era lo stesso Vittoriano che ci teneva, eccome! a presentare la sua scrittura in questa prospettiva; e citava a testimone una richiesta del critico che la esortava a ricordarlo come uomo-siloniano “in un’ urgenza che egli avvertiva come rapporto di ‘osmosi’ vitale o ‘critica creativa’ tra l’autore pescinese e la propria interpretazione”. E' vero e non si può negare questa anima siloniana in Vittoriano, né ignorare i suoi nume-
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rosi scritti dedicati allo scrittore o le sue interminabili perorazioni per difendere la dignità di Silone dai continui attacchi a cui lo scrittore veniva periodicamente sottoposto dai critici revisionisti: dalle monografie sul pensiero e l'opera dello scrittore pescinese, alle Questioni siloniane vecchie e nuove, a Ignazio Silone e la “rivolta” del Terzo fronte; ad altri scritti come La tromba di Lazzaro, Frammenti di vita e di pensiero di I. Silone, Silone ovvero un “caso” infinito. Ma è altrettanto vero che in Vittoriano c'e anche un retroterra culturale che preesiste a Silone, ed è quell'eredità della cultura classica, palpabile, oltre che nella sua attività di professore di latino e greco che svolse per lunghi anni nel Liceo Torlonia di Avezzano, anche in quel suo stile di ascendenza ciceroniana sempre affabile e colloquiale, tipico della sua conversazione, che egli affrontava, ogni volta, con garbo e misura nei toni come nel linguaggio; nonché per quella sua maniera di non giudicare mai nell'ira, ma di “vagliare solitamente autori e opere con un metodo di assoluta serenità senza sfiorare i limiti della inutile mitizzazione e senza sfociare nel gusto acremente stroncatorio”. Sono trascorsi cinque anni, si diceva, da quando Vittoriano ci ha lasciato, non il suo ricordo, però, che continua ancora a circolare in mezzo a noi, grazie all'istituzione del Premio letterario Vittoriano Esposito a Celano, sua città natale, giunto quest'anno alla sua quarta edizione. Un'iniziativa che fa onore ai suoi concittadini e alla sua regione, meritevoli di non aver dimenticato la generosità di uno scrittore che non si è mai risparmiato nel ricordare gli altri. Fu anche letterato e ricercatore alla maniera del Petrarca, e come lui, s'interessò per tutta la vita a commentare opere di giovani autori abruzzesi e ricercare i testi antichi, come testimoniano ancora quelle sue Penultime note di Letteratura abruzzese”, dove si rivelò attento osservatore e sereno interprete delle vicende artistiche della sua terra, “sfatando la credenza che l'Abruzzo in passato sia rimasto sempre chiuso tra i suoi monti, isolato dalla
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storia ufficiale italiana, una sorta di Arcadia povera e felice”. Lo ha fatto attraverso un modo di raccontare “calmo, semplice e naturale” che non costringe mai la sua prosa a innalzarsi a un'artificiosa maniloquenza, né scendere verso un'arida exilitas. Un umanista, allora, un letterato, Vittoriano Esposito, vissuto in un momento storico problematico come il nostro, quando gli Stati nazionali sembrerebbero tendere nuovamente a chiudersi (l'avevano già fatto appena un secolo fa, con le conseguenze che tutti abbiamo conosciuto). Per cui, ricordare, oggi, l'opera di Vittoriano Esposito è un dovere e un'opportunità a un tempo, che non dobbiamo farci sfuggire. Un dovere perché non si disperda il suo ricco patrimonio culturale: la tolleranza delle sue idee, la serenità del suo giudizio; e un'opportunità, perché nel suo nome e nel suo insegnamento possiamo opporci contro chi innalza muri per impedire che due giovani ragazze come Valeria Solesin e Fabrizia Di Lorenzo continuassero a vivere in quella società libera, frutto dell'integrazione culturale, che loro stesse avevano contribuito a far nascere, vivendo emigrate, a Parigi e a Berlino. Giuseppe Leone
IL RISVEGLIO AL LAGO Penso, ma talvolta non credo, eppure vedo te che riposi frastornato dal canto delle anatre che sciano sulle onde in festa, sfiorano l'acqua e si rincorrono, si tuffano nuotano sguazzano riposo, sotto l'alito penetrante del venticello, che estasi di odori suoni colori respiro, m'inebrio di vita penso, credo rido canto cammino e ballo, tutto è vero, vola via in un attimo. Fiorenza Castaldi Anzio, RM
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MARIA GARGOTTA I GIORNI DELLA MONTAGNA BRUNA di Liliana Porro Andriuoli
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A Montagna Bruna è un monte che sovrasta Termini Imerese, la città natale di Michele, il protagonista del romanzo di Maria Gargotta, I giorni della Montagna Bruna, che appunto da quella montagna prende il titolo. E si tratta di un monte che diviene un po’ il simbolo del luogo in cui Michele è nato e vissuto e che sempre da lontano lo chiama mentre egli corre incontro al suo destino. Questo libro è infatti imperniato sulla storia di Michele, prima ragazzo e poi uomo, che vivrà la sua vita diviso fra l’amore di due città: quella che lo ha visto nascere e crescere, ai piedi appunto della Montagna Bruna, e quella in cui ha trovato lavoro e si è formato una famiglia, Napoli, città nella quale si è definitivamente stabilito. Nell’ intimo però rimarrà sempre legato alle sue origini: alla sua città e alla vecchia madre rimasta nell’isola. Fa da sottofondo a tutto il romanzo della Gargotta il dramma umano dello sradicamento dalla propria terra e dalla propria famiglia; un dramma che non è vissuto soltanto da Michele, il protagonista, ma anche dalla madre che è costretta a separarsi da lui. Quello di dover lasciare la terra in cui si è nati era stato invero un dramma già provato da Maria Caruso, allorché, quando era ancora una bimba, la sua famiglia aveva deciso di lasciare l’ Argentina, sua terra natale, per venire a stabilirsi nella patria degli avi, la Sicilia. Quel primo strappo non era stato però traumatico per Maria, perché in Sicilia si era subito integrata e si era sentita immediatamente «figlia di quella terra», dove tutti parlavano la medesima lingua che era abituata a sentir parlare in casa dai genitori; e non si parlava, al contrario, quella che «aveva appreso a scuola, in quei pochi anni in cui ce l’avevano mandata».
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Drammatica invece, a quel tempo, era stata per lei la decisione impostale dai genitori di interrompere gli studi, essendo entrambi (come molti genitori di quell’epoca e non solo in Sicilia) convinti che, specialmente per una bambina, fosse più che sufficiente il saper leggere e scrivere: Maria era stata fortemente contrariata da quella drastica decisione dei genitori, perché le avrebbe fatto molto piacere poter continuare a studiare: «Dentro di lei tutto aveva protestato. Aveva sentito le viscere gridare “no”, ma tant’ era… così doveva essere». E così fu, ma per l’intera sua vita i libri rimasero per Maria gli amici più fedeli; e continuò a leggerli «anche dopo il matrimonio» e le numerose gravidanze. Il dramma dello sradicamento Maria lo vive più acutamente ora, ormai adulta e quasi vecchia, costretta a staccarsi dai figli (soprattutto da Michele, il più giovane e forse «segretamente il suo favorito»), obbligati, come i loro antenati, ad andare lontano, per crearsi un avvenire più sicuro. Ed è un dramma lacerante; perché se è doloroso dover lasciare la propria terra in cerca di lavoro (come decide di fare Michele) è altrettanto doloroso restare nella propria casa e veder partire i propri cari (come deve fare la madre). Si tratta di due drammi che ci vengono descritti dall’autrice con grande bravura, seguendo alternativamente i sofferti percorsi mentali di ciascuno dei protagonisti mentre agiscono sulla scena del racconto. Ed è appunto l’urgere dei loro sentimenti, il loro sorgere ed il loro progressivo affermarsi, che affascinano la Gargotta, la quale, quasi inseguendo i loro pensieri, li analizza con sapienza e verità. E lo fa con una notevole capacità di penetrazione psicologica, forse anche perché le varie e sfaccettate vicende qui narrate riguardano suo padre, verso il quale ella ha sempre nutrito un particolare affetto. Con molta cura e con una sicura resa stilistica l’autrice descrive specialmente il complesso rapporto che lega Michele alla madre, una donna dal carattere forte, la quale vor-
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rebbe tenere per sempre vicino a sé quel figlio in cui ha riposto tante speranze e che poi vede fuggirle via, per andare lontano da lei, dove la vita lo conduce. Donna volitiva e tenace, talora addirittura ostinata nelle sue convinzioni, è quasi sempre lei a prendere le decisioni più importanti in famiglia. A tenerle testa è soltanto Nino, il figlio maggiore, un giovane equilibrato, con un carattere forte e uno spiccato senso di giustizia. Il padre, un lavoratore onesto e infaticabile, è una presenza meno incisiva nel contesto familiare, dato che, uomo dal carattere remissivo, è spesso succube della moglie, della quale accetta passivamente quasi tutte le decisioni. Poche volte lo vediamo imporsi e lo fa sempre con estremo equilibrio e rispetto verso gli altri. Ciò avviene ad esempio allorché deve far capire a Maria che le loro possibilità economiche non consentono di far continuare gli studi a Michele, anche se farebbe molto piacere a entrambi (ma specialmente a Maria, a causa della sua frustrazione infantile) avere un figlio laureato. Un’altra presa di posizione l’assume, ed il suo intervento è determinante, allorché porta Michele, in preda ad un’infezione allo stomaco, che il medico curante non era stato in grado di curare, da uno specialista di Palermo. Minore influenza, anche se sempre affettuose e protettive nei confronti di questo loro più giovane fratello, hanno sull’ educazione di Michele le due sorelle, due ragazze dalla personalità non molto spiccata e incisiva: Nenè, «camurrusa» come la madre e Agostina, la maggiore, più simile al padre, e ormai prossima a sposarsi. In questo ambiente Michele diventa adulto: va a scuola con un discreto profitto, conquistando la stima del maestro, anche se preferisce giocare al pallone, magari sporcandosi il vestito bianco «chiddu da festa» (ed attirandosi un terribile sguardo di rimprovero dalla madre). Ancora ragazzo inizia inoltre la sua esperienza di lavoro fuori casa, contribuendo in tal modo anche lui alle entrate della famiglia.
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Giunto però alla maggiore età, Michele decide di lasciare la Sicilia e, senza nemmeno molto riflettere, forse anche per soddisfare un inconscio desiderio di libertà, si arruola in polizia, come ha fatto l’amico Pino. Al suo paese d’altra parte non avrebbe potuto trovare un lavoro migliore; ed inoltre, divenendo poliziotto, evitava il rischio di essere richiamato alle armi e quindi di dover partire per il fronte (erano quelli infatti gli anni della Seconda Guerra Mondiale). Un rischio che si rivelò certezza allorché, pochi giorni dopo la sua partenza per Roma, arrivò la temuta chiamata alle armi! Tuttavia la madre non gli perdona e non gli perdonerà mai questa sua decisione. «Nun l’avivi a fari» gli dice infatti con aria di rimprovero, allorché egli le confessa di essersi arruolato in Polizia, non accettando quella scelta, che lo portava lontano da lei. Anche Michele però soffre molto per questo distacco dalla famiglia e dalla sua amata Sicilia; forse addirittura più di quanto dapprima avrebbe potuto immaginare. Scrive l’ autrice a tale proposito: «voleva portarseli tutti dietro i profumi e i sapori della sua terra, per tutto il tempo che ne avrebbe avuto nostalgia». E dopo poco, mentre la nave che lo portava nel continente si stava distaccando dalla costa, il giovane si avvede che, come osserva la Gargotta, «Nonostante la sua sete di novità e di libertà, la conca, in cui Palermo giaceva, stretta tra le braccia protettive delle montagne, sembrava guardarlo con la stessa triste rassegnazione di sua madre». Ed è significativa questa assimilazione che l’autrice fa tra la figura della madre e quella dell’ ambiente naturale e umano in cui Michele era vissuto e che rappresenta l’ altro bene a cui, partendo, aveva dovuto rinunciare. Il ragazzo va pertanto dapprima a Roma, dove frequenta il corso di addestramento per entrare in polizia, e si stabilisce, successivamente a Napoli, dove incontra l’amore nella persona di Tina, una giovane maestra che gli sarà fedele compagna per tutta la vita. Particolarmente efficaci, in questo contesto, sono le pagine nelle quali è descritto il sorgere
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dell’amore tra i due giovani, il suo crescere ed il suo definitivo affermarsi. Quasi imprevedibile il modo in cui essi vengono a conoscersi: in seguito alla decisione, presa da Michele con l’amico Pino, di rimettersi a studiare per conseguire un diploma, sempre utile per eventuali avanzamenti di carriera, i due giovani poliziotti cercano una maestra la quale li indirizzi e li aiuti nella preparazione. E il caso volle che la maestra loro consigliata fosse proprio Tina, con la quale Michele simpatizzò presto. Dopo il matrimonio la vita di Michele scorre relativamente serena, o almeno senza gravi problemi, anche se sempre si agita in lui il richiamo della sua Terra che, con voce che mai s’acquieta, sempre lo seduce, col ricordo del suo profumo e dei suoi colori. Ma più l’ angustia il pensiero della madre, la quale non solo non si è mai rassegnata alla sua assenza, ma non ha nemmeno mai visto di buon occhio una sposa forestiera per quel figlio tanto amato («Tu a mia promittisti ca t’a vinivi a pigghiari ccà “a mugghiera”» / «Tu mi dicesti che saresti venuto a prendere qua la moglie», ella dice). Michele pensava che tale avversione per la nuora napoletana dipendesse dal fatto che «quella ragazza, così cittadina e indipendente, era molto diversa da quella nuora che sua madre aveva in mente»; e sperava pertanto (o forse in cuor suo soltanto si augurava) che col tempo «se ne sarebbe fatta una ragione», come d’altra parte aveva dovuto farsela per suo fratello Nino. Ma purtroppo non fu così; quella speranza non si avverò mai. D’altra parte le due donne non si piacquero sin dal loro primo incontro e continuarono anche in seguito ad avvertire sentimenti di ostilità l’una verso l’altra; ragione per cui Michele dovette subire il peso della loro gelosia e del loro segreto rancore, che fin da subito apparve insanabile e che gravò poi a lungo su di lui, amareggiandolo. Commenta l’autrice, parlando degli incontri tra la moglie e la madre, in occasione dei viaggi di Michele in Sicilia: «Negli anni quegli incontri sarebbero stati anche per lui, diviso tra due affetti così
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diversi, che mai avrebbero dovuto competere tra loro, fonte di imbarazzo e di pena». A rallegrare però l’animo di Michele giunse la nascita della figlia Maria, che allietò la famiglia con l’ingresso di una nuova vita. Soprattutto rallegrò il padre, che dal primo istante la curò con affetto, essendo la mamma molto occupata con le sue lezioni di maestra. Seguirono poi altri eventi, alcuni lieti ed altri tristi, come quello della morte della vecchia madre, che colpì dolorosamente il figlio, il quale molto soffrì per quel distacco. Venne poco dopo a mancare anche la madre di Tatiana (così sin dai primi tempi Michele aveva battezzato Tina), provocando un profondo dolore nella figlia e creando un’ atmosfera di maggiore tensione in casa. Era venuta poi per fortuna (ma il padre l’ aveva fortemente desiderata) la nascita di Agostino, il secondo figlio di Michele, che aveva recato un lenimento a tale dolore, portando nella famiglia una ventata di aria nuova; anche se una non felice risposta di Michele aveva creato una forte frattura tra lui e la piccola Maria («un muro fra loro di cose non dette»), fino a quel momento convinta che egli fosse il «più bello babbo che c’è». Erano inoltre ben presto ripresi i consueti litigi provocati dalla gelosia di Tatiana, che voleva avere il marito tutto per sé e mal sopportava soprattutto il suo attaccamento alla Sicilia, che egli portava sempre nel cuore, anche se tante cose erano ormai cambiate nella sua isola, tra le quali quella della partenza di Nino per l’America, con la sua famiglia, nella speranza di trovarvi una sistemazione migliore, partenza avvenuta proprio da Napoli. (Commuovente era stato allora il saluto tra i due fratelli: «Michele, che pure si era ripromesso di non mostrare tristezza, assentiva senza parlare, ma, al momento dell’abbraccio finale, non riuscì a trattenere un singulto»). L’ esperienza americana di Nino non era stata però positiva, e così, dopo quindici anni, aveva fatto ritorno in patria, con grande gioia di Michele e della famiglia, la quale nel frattempo era stata colpita da diversi lutti, ultimo dei quali fu appunto quello della morte di Nino.
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Una morte, la sua, che aveva provocato nel fratello un profondo dolore. La storia poi si sviluppa con molteplici eventi, che si susseguono velocemente e che nascono quasi sempre dai rapporti, spesso non facili, di Michele con la moglie e coi figli, ormai diventati grandi; rapporti che vengono analizzati sempre con molto acume dall’autrice; così come vengono raccontati gli eventi riguardanti gli altri membri della famiglia, che però hanno seguito diverse strade. E sta proprio in questa sottile analisi psicologica il pregio maggiore del libro, che mette a fuoco il gioco vario dei sentimenti e dei minimi moti dell’animo dei personaggi con maestria e sapienza espressiva. Quella di Maria Gargotta è infatti una scrittura puntuale e ricca di immagini, che sa giovarsi anche del dialetto siciliano, adoperato con versatilità ed efficacia, in maniera da ottenere più incisivi risultati espressivi. Ma anche in lingua risaltano frasi di compiuta resa, quali: «… nessuno ebbe il coraggio di penetrare nelle reti di quella solitudine sassosa» oppure: «… sorrideva felice con i suoi tacchetti sui ciottoli bianchi, che parevano ancora profumati di mare». Un dire, quello della Gargotta, che sale dal profondo e che colpisce per l’immediatezza e l’autenticità con cui ella si esprime, che emerge con forza da molte delle sue pagine, specie quelle in cui parla della morte di Michele, il quale ripercorre tutta la sua vita prima di avventurarsi nell’Oltre. I giorni della Montagna Bruna è pertanto un libro che contiene la storia di un uomo, narrata con quella verità e con quella schiettezza che lo rendono un’opera fresca e viva, certo degna di essere ricordata. Il romanzo reca inoltre una puntuale Postfazione del Professor Francesco D’Episcopo, il quale, con la sua consueta acutezza di sguardo, ne chiarisce il significato, offrendoci una chiave di lettura molto convincente dell’intera opera. Liliana Porro Andriuoli MARIA GARGOTTA: I GIORNI DELLA MONTAGNA BRUNA. (Edizioni Città del Sole, Reggio Calabria, 2014, € 14,00)
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LE MIE GIORNATE Piango per il tempo volato. Mi sono confuso per le strade. Oggi una libertà statica, vuoto che non si riempie, si inventano le uscite per ingannare se stesso. L’artificio delle giornate movimento della persona. Le ore non sono più a gruppi, slegate navigano in superficie, uguali non le riconosci, approdi ad una di esse per trasportarti nel flusso. Il corpo alleggerito in mezzo alla città, intorno le case non si allacciano ai fianchi. L’impressione che la vita sia andata via, dal punto in cui l’ho lasciata un velo di passato si allunga. E io sono rimasto fermo. Voglio ritornare indietro, correre a ritroso La faccia in lacrime, tirati i capelli sull’occipite. Forza magica aspetto dentro che mi strappi per riprendere il cammino, un taglio netto mi ha separato dagli anni che sono passati. Le cose tutte amalgamate nel grande blocco. Voglio riprendere le mie giornate piene, le stanchezze delle fatiche che hanno fatto vivere, mettere il piede sopra il tempo andato in fretta che tiene il colore della lontananza. Voglio le cose di appartenenza, le ossa e la carne di prima che hanno rivestito il mio io nei lunghi giorni che si sono chiusi posati a terra. Voglio riavere i morsi avuti al petto e la lingua assetata di fuori per gli impervi valichi della vita. Tutta la sostanza dietro alle giornate d’impegno, la coerenza che ha legato le parole e i principi, sicuro si portava per la sua strada l’aspetto fortemente piantato. Leonardo Selvaggi Torino
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 9/1/2017 La CGIL vuole abolire i Voucher, ma abbondantemente li usa. Alleluia! Alleluia! La CGIL, che voleva mantenere ed estendere l’ art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, quando essa stessa licenziava senza giusta causa! Domenico Defelice
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FRANCESCA ROTONDO
A voce nuda di Giuseppe Leone
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ON un dipinto in copertina di Edgar Degas che ritrae una Giovane donna allo specchio e una limpida, aderente presentazione dell'editore sul valore della poesia, è apparsa, nel novembre 2016, per conto dell'editrice milanese La vita felice, una raccolta di liriche di Francesca Rotondo dal titolo A voce nuda, forse il libro di versi più bello tra quanti mi è capitato di leggere negli ultimi anni. Come rilevato un po' nella presentazione, in particolare dove si dice che “la poesia salva la vita, ci aiuta a capire noi stessi e il mondo attraverso le parole”; che “è la chiave preziosa e insostituibile per entrare in contatto con la parte più vasta e sconosciuta del nostro “essere” che concerne le emozioni”, la silloge è soprattutto un'intensa meditazione sul senso della poesia oggi, ma “non vista come una tecnica astrusa, bensì come
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un affascinante, a volte imprevedibile, “alfabeto della vita”, in una connotazione che non è solo letteraria, ma anche esistenziale, che “riguarda tutti noi semplicemente in quanto esseri umani”(5). Detto così, in estrema sintesi, si potrebbe rischiare di far passare il libro come una celebrazione della poesia, e invece di pagina in pagina affiora sempre più, e resiste, la convinzione che la poesia è qui un vortice / di rovine (48). Ovunque rovine: da quelle che si respirano a Talvera, dove l'uomo ha distrutto gli equilibri vitali, illudendosi di ristabilirli attraverso soluzioni artificiali, sostituendo gli argini naturali del fiume con passeggiate cementificate; a quelle che testimoniano guerre e massacri, come a Mostar, la cittadina dell' Erzegovina che, tra il '92 e il '93, in seguito ad un referendum popolare che la dichiarò indipendente in base all'allora vigente Costituzione della Jugoslavia di Tito, fu soggetta a bombardamenti e ad un assedio lungo nove mesi; a Banská Bystrica, paese in cui le persecuzioni contro i Rom sono frequenti; a Port Bou, cittadina al confine tra Francia e Spagna, dove, secondo alcuni, è sepolto il filosofo ebreo, suicida, Walter Benjamin, autore, tra le altre opere, di Aura e choc, a cui pare faccia pure riferimento la poetessa, quando scrive: Secca e schioccata / la frusta del tempo: / dipana la trasparenza dell'aria (26). Dalle rovine, ancora, che si vedono a Londra, Sotto il Tamigi (dove) urlano / gli occhi delle donne / (e) i loro figli hanno narici / colme di fango; a quelle prodotte dall'inquinamento a Milano, dove L'estate ingialliva tra i gas (23); a quelle dell'uomo contemporaneo condannato a una fuga senza fine, di cui sono simbolo Franz Tunda, personaggio uscito dalla penna dello scrittore ebreo Joseph Roth (11); Ernst Wiechert, scrittore tedesco, uno dei pochissimi cristiani che si opposero al nazismo (49); Franz Kafka, che con lunghe gambe / quasi volando / sorpassa inebriato / la concretezza del mondo (14). E questo è il filo logico, per così dire, che
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collega le parti più significative dell' itinerario poetico di Francesca Rotondo, tremendamente schiacciato sulla crisi del mondo attuale, al di là degli accenni al male di vivere più in generale, ravvisabili in Alicante, con le affermazioni perentorie che la vita è fatta di niente (15); ne La stagione bella, ossimorico titolo rispetto a un testo che rimane sarcastico (22); in Tempo, con una poetessa perplessa davanti all'assurdo andare del suo corso, così della sera, così del mezzogiorno (9). Il libro, naturalmente, contiene anche dell'altro, ci sono altre poesie che sollecitano a riflessioni diverse, digressioni solo apparenti rispetto al tema di fondo, quali la percezione ludica e pur pungente della creazione del mondo, in barba alla gravità delle teorie scientifiche o religiose (51); il dubbio sulla divisione delle età dell'uomo e, di conseguenza, lo smarrimento del filo unico della storia (29), la morte della tradizione umanistica quale si percepisce dalla confessione della poetessa di non avere avuto maestri che non fossero / acque, cieli, boschi (53). La cosa che più sorprende, comunque, è che, pur nel variare dei temi, la poetessa riesce a mantenere costanti stile e forma che, se pure, all'apparenza, sembrerebbero rimandare all'ermetismo, al simbolismo, al surrealismo, nella realtà, con queste correnti nulla hanno da spartire, grazie all'agilità di un pensiero sempre intuitivo capace di creare immagini ardite e originali. Del resto lo ha pure dichiarato, facendosi vanto di non avere mai avuto maestri. Che dire, allora, di questa raccolta di “marmo pregiato”, come tiene a precisare il suo editore, e di una poetessa che sembra volerlo contraddire definendo legno scadente le sue poesie? Marmo pregiato e legno scadente – mi piace ricordare - era la definizione dell'equazione con la quale Einstein descriveva la sua teoria della relatività come un monumento composto da marmo pregiato (la parte che riguarda il campo gravitazionale) e da legno scadente (la parte che riguarda la materia).
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Dire che A voce nuda sia una plaquette composta di questi ingredienti, per di più della premiata pasticceria Einstein, non può che rendere onore alla poetessa per aver saputo trasformare le rovine attuali in perle poetiche di rara lucentezza, riunite in una Collana editoriale che non poteva non avere il nome che porta: quello di Agape, parola che deriva dal greco e significa amore fraterno, lo stesso che la poetessa non nega alle vittime del nostro tempo, sia che risultino persone note, sia ignote cadute a causa di guerre e terrorismo. Non si è ancora detto che Francesca Rotondo, laureata all'Università degli Studi di Parma, non si è occupata solo di poesia, ma ha anche lavorato come traduttrice per alcune case editrici milanesi. È stata consulente per ricerche universitarie e tesi di laurea; e, seppure in ambiti diversi, ha dedicato gran parte del suo tempo all'insegnamento. Ha frequentato per un anno l'Ecole des Hautes Études en Sciences sociales a Parigi, dove ha presentato un lavoro sul teatro, e ha anche pubblicato negli anni articoli e poesie su giornali e riviste. Tutto bello e tutto perfetto, dunque, questo libro? Tutto bello sì e abbiamo pure spiegato perché, ma non tutto perfetto. Fa specie data la maturità dei suoi versi - non riscontrare nella sua biobibliografia un passato tra i “poeti laureati”, con tanto di carriera luminosa alle spalle, ricca di premi e di riconoscimenti. Sfido chi, leggendo questi versi, non si sarebbe aspettato come loro autore un nome famoso. Eppure, non è la prima volta che cose del genere succedano nel mondo della letteratura. Ma devo precisare che, almeno per questa volta, non si può né si deve parlare di “caso” letterario. Nessun critico è colpevole per non averne parlato, perché prima d'ora le poesie di Francesca Rotondo erano in un cassetto della sua scrivania. Va dato, perciò, atto nonché merito all'editore Gerardo Mastrullo per essersene accorto di questa grande novità. Giuseppe Leone Francesca Rotondo - A voce nuda - La vita felice, Milano, 2016. pp.64. Euro 10.00.
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SIGMUND FREUD E IL 'MANOSCRITTO 1931': TESTO INEDITO IN EDIZIONE CRITICA A CURA DI MANFRED HINZ E ROBERTO RIGHI di Ilia Pedrina
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UANDO ho ripreso in mano, sulle pagine di questa importante Rivista, il tema del Trattato di Versailles e la figura del presidente americano Wilson, la cui personalità era stata così adeguatamente tratteggiata dallo studioso, storico e poeta ad un tempo, da Giulio Caprin, intendo dire, non avrei potuto immaginare che quelle interpretazioni non ipotetiche ma fondate su fatti ed eventi e firme di capi avrebbero trovato ampio riscontro nella riflessione di Sigmund Freud! Mi è stata data questa opportunità ed allora posso ben parlare di 'convergenza delle telluriche noosfere', come amava sottolineare l'indimenticabile mio Maestro, lo psichiatra e socio-psichiatra trentino Beppino Di-
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sertori. L'opera si presenta come canto bilingue e controcanto insieme, con un finale dalle cui tonalità emerge un insieme di nuovi avvii verso altri lidi ed approdi. Freud ha cercato di imbrigliare la creatività all'interno della libidine e delle sue energie pulsionali, si è dato la pena di far trionfare il principio di realtà ma ben sapeva che siamo l'uno diverso dall'altro e la chimica degli elementi vagamente e variamente si confà alla nostra natura. Ecco allora questo testo, che ho geroglificato pagina dopo pagina, sia sul versante tedesco e su quello in traduzione, effettuata da Stefano Franchini: Sigmund Freud: 'MANOSCRITTO 1931' - Inedito in edizione critica' , pubblicato nel 2015 da 'La Casa Usher', a cura e con l'arricchimento di contributi di Manfred Hinz e di Roberto Righi. Si sono messi al lavoro per dare alle stampe questa importante testimonianza storica, che porta finalmente in luce, alla conoscenza di tutti, le riflessioni che il fondatore della Psicoanalisi come scienza ha redatto per offrire al delegato statunitense Bullitt una sintesi della propria teoria psicoanalitica, o meglio una ripresa quasi didattica dei principi che hanno fondato la sua investigazione deterministica riguardo la psiche umana, ora orientata ad interpretare una personalità problematica quale è stata quella del presidente americano Wilson. La Premessa, dal titolo 'Freud e il messianismo politico: indizi', porta la firma di Manfred Hinz e si offre in due brevi sezioni, che ho segnate ampiamente in letture reiterate attentissime. Si è finalmente aperto il dibattito intorno alla figura del ventottesimo presidente degli Stati Uniti d'America, Thomas Woodrow Wilson, ed all'origine c'è proprio la lettera di dimissioni di William C. Bullitt dall'incarico di rappresentante statunitense delegato diplomatico prima a Versailles, poi in Unione Sovietica, tra il 1918 e il 1919. Cito subito, perché mi torna alla mente lo storico Giulio Caprin ed il suo serio lavoro di corrispondente del Corriere della Sera proprio a Ginevra, nel corso della stesura degli articoli
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del trattato di Versailles, che ho portato in luce proprio sulle pagine di questa Rivista nell' Aprile del 2013 e che ha evidenziato il mio primo passo verso un approfondimento di cui questa rappresenta la seconda tappa: “... In quella lettera Bullitt esprime la convinzione che negli accordi di Versailles siano state gettate le basi per nuovi conflitti armati...”. Se da questa nota 2 torno al testo di pagina 9, allora non posso non provare un interesse portato alle stelle: “...Questa esperienza fece maturare in Bullitt la convinzione che i famosi quattordici punti di Wilson non fossero in grado di imporsi sulla Realpolitik inglese e francese e che a Versailles la retorica umanitaria di Wilson avesse fallito... L'opinione negativa che Bullitt aveva di Wilson ha costituito un primo punto di convergenza con Freud...” (Manfred Hinz, 'Premessa' al testo di S. Freud, Manoscritto 1931, inedito in edizione critica, op. cit. pag. 9). Le informazioni storiche dettagliate si susseguono incalzanti e veniamo a sapere che soltanto nel 1967 Bullitt ha dato alle stampe il suo lavoro su Wilson, per giunta poco prima di morire e nel frontespizio ci si imbatte anche nel nome di Freud, ma lascio ai lettori il fascino intenso di queste annotazioni e testimonianze di cui d'ora in avanti non si potrà più fare a meno. E non è certo troppo tardi! A questa Premessa (pp. 9-18), segue il testo del Manoscritto 1931, con una pagina completa che mostra la scrittura di Freud, fitta e difficile da decifrare e già riportata efficacemente a costituire la copertina: l'originale in tedesco porta a fronte la traduzione attenta, lo ripeto, di Stefano Franchini, che si riserva di precisare la struttura del Manoscritto 1931, costituita di ventiquattro pagine fitte fitte, ad inchiostro e con grafia di tipo Fraktur molto interessante. Lui ci avverte che le correzioni sono poche e ci fornisce altre preziose indicazioni. Conoscendo il tedesco quanto basta per metterci un poco il mio naso, ci si può fare un'idea di come ora tutte le pagine successive possano essere cariche di glosse, di note, di rimandi, in tutti i possibili spazi e con co-
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lori differenziati secondo i riferimenti filosofici e tecnici presi in considerazione. Il testo, che si sviluppa dalla pagina 22 alla pagina 63, ci presenta uno studioso in avventura rispetto al linguaggio specialistico da lui stesso costruito ed evocato secondo i propri intendimenti ed a partire dal personaggio in questione, il presidente statunitense T.W. Wilson, ma senza dare risposte precise, senza mostrare quella sicurezza diagnostica che fama e talento accumulati da Freud in vita ed in opere avrebbero potuto presentare a noi. Scrive Sigmund Freud: “... Wilson fu certo una personalità complessa e non sarà facile trovare il cammino per arrivare alle visioni che possano stare a fondamento delle apparenti contraddizioni della sua natura. Non vogliamo abbandonarci a illusorie speranze, apprestandoci a sottoporre ad analisi la sua vita psichica...” (S. Freud, 'Manoscritto 1931', op. cit. pag. 23). Un lavoro che si costruisce via via utilizzando quanto in psicoanalisi Freud ha già strutturato e fondato con una certa sicurezza: ora tutto quanto concerne il narcisismo infantile, il complesso di Edipo, la formazione e l' articolazione delle tappe dell'omosessualità e della passività che essa comporta rispetto alla figura paterna, della castrazione e delle sue insospettate conseguenze, tutte queste figure del metodo vengono riprese, chiarificate, chiamate in causa per gettar luce su questo personaggio storico, Wilson appunto, il cui operato ancora tanto pesa sui destini di un'Europa che tanti vogliono volutamente ed arbitrariamente in declino (dal Trattato di Versailles al Trattato Nato, riconfermato e ripristinato, ri-firmato insomma in terra del Regno Unito nel 2012; dalla Lega della Nazioni alla Società delle Nazioni all' Organizzazione delle Nazioni Unite, con caparbie rigidità che non rispettano affatto le esigenze delle società in mutamento, delle geografie politiche dei popoli e dei contesti territoriali specifici). Per costruire la Psicoanalisi, Freud deve lavorare sul linguaggio e strutturare nuovi significati per termini che nella lingua tedesca
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avevano consolidato uno spessore carico di tradizioni, di storia e di memoria, di virtù come valore aggiunto, insomma: il testo tedesco a fronte è indispensabile dunque per cogliere il suo intento rivoluzionario di sradicare ad esempio il termine 'Seele', tradotto solitamente con 'anima', e sostituirlo con 'Seelenleben', 'vita psichica', là dove la psiche diventa un territorio da esplorare e da portare alla luce. I termini tecnici dirottati nel loro significato, dopo estrapolazione mimetica differenziata, sono tantissimi e di eccezionale importanza: le conquiste che Freud ha realizzato con questa strategia, illuminata da intelligenza nell'imporre la propria Weltanschauung, il proprio modo di essere e di vedere questo mondo e gli esseri umani in esso, vengono in questo testo riprese, riassunte, presentate quasi didatticamente e schematicamente, fino ad arrivare ad una specifica pagina sulla figura di Cristo, che nel retro di copertina viene richiamata con forza. Io di certo su di essa qui non mi soffermo e passo d'un tratto al Commento critico che porta la firma dello studioso Roberto Righi: 'In alio - echi, sponde, sfondi di un Freud ritrovato', da pagina 77 a pagina 104, nelle agili sezioni 'Freud, da leggere', 'Freud in Bullitt', 'Gesù in Freud', 'Un altro Freud, un altro Gesù', 'Blüher in Freud', 'Homo duplex', 'Bullitt in Freud', 'Inventario, per ipotesi'. Righi ha uno stile consapevolmente franto, dotto ed innocente al tempo stesso, andando a fingere una semplicità nel dettato, una sorta di quotidianità, che maschera duro lavoro esegetico in stesura d'avventura, quella che sfida le certezze e privilegia il dubbio quando questo prepara alla luce, attraverso nebbie del senso. Scrittura che è esperienza percettiva oltre che dinamicamente significativa ed esige quindi dal lettore un approccio d'abbandono senza inerzia, in fiducia, tanto la verità, nel Manoscritto 1931, Freud non la fornisce sicuramente. La forza di questo Commento critico sta anche negli importanti rimandi ben orchestrati con le valenze interpretative del contesto che vi emerge, ed approfondite nelle note essenziali, volte ad articolare meglio gli strumenti di bordo
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che già possediamo, come una sorta di avvio al metodo dell'approccio multidimensionale, che sfugge senza sforzo ai rigidi confini d'accademia. Due le citazioni che intendo prendere dalla sezione di Righi. La prima è tratta dall'apertura del 'Commento critico', e richiama alla mente la fatica sui testi freudiani in lingua originale perseguita dallo studioso Michele Ranchetti, suo amico da sempre in quella Firenze di cui anch'io ho assaporato l'atmosfera: “... 'Si è mai letto Freud?' È uno dei Cattivi pensieri sulla storia della psicoanalisi di Michele Ranchetti. L'insinuazione non riguarda soltanto la scarsa circolazione che per decenni è toccata all'opera di Freud, l'esiguo numero dei suoi presumibili lettori; ha di mira, soprattutto, la qualità della lettura , o meglio di quella che a conclusione dei Cattivi pensieri Ranchetti chiamava la 'non lettura di Freud'. Una 'non lettura' non è (o non è detto che sia) semplice astensione, rinuncia; può consistere, piuttosto che in un vuoto, in un pieno: un pieno di intenzioni e di operazioni. Si fa esercizio di 'non lettura' quando si va dritti a interpretare, e si interpreta privilegiando un'esigenza di adottare e adattare. Si fa 'non lettura' quando da Freud si prelevano moduli, blocchi di lemmi e di tesi, al fine più o meno esplicito di costruire un Freud 'utile', anzi un Freud 'utensile' per allestire l'armamentario di una pratica, l'attrezzatura di un mestiere. Una lettura, invece, prima di tutto ha da assecondare le movenze di un testo, ha da captarne i nodi, gli scarti, gli sbalzi; e ha da saggiarne l'intrinseca pluralità: perché fa testo ciò che nelle frasi si intesse, appunto, ciò che in un testo si compone. Leggere, piuttosto che interpretare per assorbire, è compitare per decifrare...” (R. Righi, 'Commento critico' in op. cit. pag. 76). La seconda, a conclusione della sua analisi, riassume il percorso effettuato, senza nulla togliere alle fascinazioni di senso via via provocate nel lettore: “... In guisa di riepilogo. Cassare la castrazione, come fa Bullitt, comporta un'attiva dimenticanza della paura.
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Molte pagine del suo libro suggeriscono che Bullitt ritenga che, se ci liberassimo dei pazzi (alla Wilson) potremmo finalmente procedere a costruire, con fatica ma in fiduciosa serenità, alla costruzione di 'una grande comunità di fratelli'. L'insistenza sulla castrazione, nel Manoscritto 1931 sta a mostrare che invece per Freud tutto comincia e tutto procede dalla paura. L'identificazione con Gesù è intesa, forse, come il tentativo o la pretesa non di sbarazzarsi della paura, ma solo, per dirla alla svelta, per gestirla. In punto di fuga. L'inconscio si struttura come un linguaggio? Negli anni, a forza di tirarla di qua e di là, la tesi si è un po' illanguidita. Se ne può forse affiancare un'altra, azzardando: è la figura di Gesù che, in Freud, funziona come un linguaggio...” (R. Righi, 'Commento critico', op. cit. pag.103-104). Ho confessato a Rosalba Maletta i toni e gli accenti del mio lavoro su questo testo, donatomi dal Righi stesso. Quanto lei mi scrive potrebbe essere oggetto di corsi interdisciplinari ad altissimo livello, perché comporta l' obbligo di riflessioni profonde anche su protagonisti storici che sono lasciati volutamente in ombra, non certo da chi ha il coraggio di osare: “... Non sto a dirti lo stupore leggendo in questa tua del Manoscritto 1931 che ho da tempo en souffrance di lettura. Allorché venni a conoscenza della pubblicazione rimasi quasi esterrefatta che qualcuno potesse svolgere un lavoro tanto accurato intorno a Freud, che la vulgata corrente reputa ormai superato e da ascriversi alla cultura illuminista tout-court... Magari tu sei pure a conoscenza della vicenda che fece ritirare alla Bollati tutti i volumi già in commercio sull'edizione Freud curata e diretta da Michele Ranchetti. Ecco, quella fu vera infamia e pensa che nessuno di questi testi formidabili è oramai reperibile. Fu vero scandalo e oscenità ma la cosa si concluse senza clamore o denunzie pubbliche...” (R. Maletta, e-mail, 28 dicembre 2016). Rosalba mi acclude anche un prezioso rimando presente in rete, del quale avrò occasione di parlare esplicitamente in futuro, quando avrò modo di entrare con lei in pubblico dialogo
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proprio su queste pagine. Con Michele Ranchetti si veniva accompagnati a lavorare sul testo in traduzione a partire dalle complessità proprio della rivoluzione semantica, interna alle parole ed al loro spessore culturale in e per una società, quella di lingua tedesca, che aveva a suo fondamento la lingua Yiddish, l'ebraico popolare dell'Est Europa. Tanto si è sforzato Lutero per tradurre la Bibbia in lingua tedesca ufficiale, officiandola e dandole statuto, quanto si è sforzato Freud per far esplodere quei termini e procedere alla costituzione-costruzione della rappresentazione scritta del linguaggio pulsionale della libido. E da qui la Psicoanalisi ebbe il suo statuto, spettrale, come ha sostenuto Ranchetti nel suo prezioso volume Lo spettro della Psicoanalisi, nella collana SCRITTI DIVERSI, in quattro volumi per le Edizioni di Storia e Letteratura, stampato a Roma nel 1999. Questo testo di e su Sigmund Freud, 'Manoscritto 1931', a fine percorso, porta un'ultima traccia dei curatori: 'Tutto questo è per Michele Ranchetti (1925-2008)'. Ilia Pedrina
LA PAIX était au cœur du rêve de l’Union Européenne L’ARGENT est au cœur du maintien de l’Union Européenne Le cœur de l’Union Européenne serait-il devenu un portefeuille ? ***** La PACE stava nel cuore del sogno dell’Unione Europea IL DENARO sta nel cuore del mantenimento dell’Unione Europea Sarebbe il cuore dell’Unione Europea diventato un portafoglio? Béatrice Gaudy Francia
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NICCOLÒ TOMMASEO UN POLIGRAFO FECONDISSIMO DELLA NOSTRA LETTERATURA di Leonardo Selvaggi I ICCOLÒ Tommaseo nasce nel 1802 a Sebenico in Dalmazia da famiglia italiana. Studia dapprima nel seminario di Spoleto, poi va a Padova (1817) dove conosce Rosmini, si laurea in Giurisprudenza nel 1822. Ritorna a Sebenico, studia con intensa passione i classici e continua in quest’ impegno in Italia, prima a Rovereto e poi a Milano (1824-27), dove si lega al Manzoni. Scrive le sue prime opere, fra le quali “Il Perticari confutato da Dante” (1825). È a Firenze dal 1827 al 1833, il Vieusseux lo accoglie collaboratore dell’Antologia dal ’27 al ’32. Pubblica un “Dizionario dei sinonimi” nel 1830. E’ esule a Parigi, a Nantes e in Corsica per motivi politici dal 1834 al ’39. Abbiamo gli “Opuscoli di F. Girolamo Savonarola”. Profondi tesori di buon gusto nel commento alla Divina Commedia e nelle dissertazioni “Ispirazione e arte”. Vengono concepite opere pubblicate poco dopo il ritorno in Italia, il racconto storico “Il Duca d’Atene” (1837, “Fede e bellezza” (1840). Per un’amnistia concessa dall’Imperatore d’Austria, può rientrare in Italia e si stabilisce a Venezia (1839), dove rimane a lungo e pubblica il “Dizionario estetico (1840), raccolta di scritti critici. A Venezia è incarcerato nel 1848 dall’Austria, liberato dopo la rivoluzione a furia di popolo con Daniele Manin. Diventa membro del governo provvisorio del-
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la città. Alla caduta di Venezia (1849) va esule a Corfù, dove si sposa e risiede fino al 1854. Scrive numerosi volumi pedagogici. Di argomento storico- politico “Roma e il mondo” (1851). Si reca profugo a Torino (1854-59), dove vive in ristrettezze economiche. In questo periodo abbiamo il “Supplizio d’un Italiano in Corfù” (1855) e inizia la compilazione di quel grande “Dizionario della lingua italiana” che lo tiene occupato per tutto il resto della vita, in collaborazione con Bernardo Bellini. Nel 1859 a Firenze, vi rimane fino alla morte (1874). Rifiuta su posizioni reazionarie cariche e onori dal Governo regio. II Niccolò Tommaseo si cimenta in campi svariati, dalla poesia alla critica, dalla narrativa alla storia, dalla pedagogia alla linguistica e alla lessicografia. Contraddittorio, violento, sensuale, spesso ingiusto, si pensi agli aspri giudizi sul Leopardi e sul Foscolo e a certe affermazioni contenute nel postumo “Diario Intimo”. Tommaseo è un romantico, uno dei più vigorosi prosatori e poeti dell’ ‘800. E’ una figura complessa, coesistono in lui atteggiamenti classici, raffinatezze stilistiche e manifestazioni sentimentali. Un poligrafo fecondissimo d’infaticabile operosità, di vita austera e quasi stoica, di salde credenze cattoliche. Non sempre coerente nei suoi principi ha rivelato sentimenti di astiosa intolleranza. Nelle poesie di Niccolò Tommaseo si vagheggia l’unità armonica dello spirito umano con la divinità del Creato, c’è un panteismo di natura cristiana, ove scienza e ispirazione si illuminano a vicenda. La poesia di Niccolò Tommaseo, come la prosa, ora si complica ora si fa ricca, lascia gran posto all’indagine psicologica e si spinge fino alle plaghe dell’inconscio. Precorre quella dei decadenti. Il Tommaseo è attaccato ai suoi versi sia quelli scritti fra i primi che a quelli più recenti. Vi lavora attorno un po’ per tutta la vita, fino a che nel 1872 ne cura a Firenze l’ edizione definitiva. Fra le pubblicazioni parziali che precedono l’edizione fiorentina, ricordiamo: “Confessioni” (1836), “Versi facili
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per la gente difficile” (1837), “Memorie poetiche e poesie” (1838). I profondi motivi espressi nelle poesie, più che alla sua fantasia, appartengono al suo ingegno. Il suo romanticismo è più consistente che negli altri autori, c’è meditazione e consapevolezza. La sua poesia ha rigidezza e concettosità. Il Tommaseo nei versi rivela il tormento di un uomo combattuto fra il richiamo dei sensi e l’ansia di purezza cristiana. Esprime la sua prodigiosa attività, di politico, polemista, romanziere erudito filologo, linguista, lessicografo, studioso di morale, di estetica e di folclore. È profondamente religioso e nel contempo mantiene libertà di azione e di giudizio nella ricerca della verità. Come liberale paga di persona le conseguenze delle sue convinzioni. Non ha fiducia degli uomini politici del suo tempo, giudicati sempre con il suo rigido moralismo. Aspira a una repubblica savonaroliana. La sua arte è profondamente educatrice e popolare, attento al problema stilistico, concepisce il linguaggio come mezzo di comunicazione fra il mondo sensibile e il mondo spirituale. Il Tommaseo propone un linguaggio tradizionale, sollecitato dalla sua educazione umanistica. III Niccolò Tommaseo evidenzia rapporti tra vita e letteratura nel volume “Storia civile nella letteraria” Abbiamo un saggio erudito e filosofico “La donna” e parecchi scritti di religione. Di grande valore artistico, aderenti all’intimità del testo, le traduzioni che compone in vari momenti dei canti popolari toscani, corsi, illirici, greci e di opere latine, greche e francesi (1841). Con lo studio della parola e della sintassi ha conservato la semplicità e la solennità dell’originale. La maggiore caratteristica del Tommaseo è un moralismo minuto, penetrante, riflessivo che se non diventa sempre poesia né si congegna in opere organiche, si esprime sempre con ricchezza, evitando pose affettate e oratorie. La molteplicità degli argomenti trattati rende difficile definire le sue qualità. Di poco valore i romanzi per il suo scrivere troppo minuto e acuto, gli manca lo spirito costruttivo. Il
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Tommaseo è un osservatore morale preciso e circoscritto. Abile nel contrapporre pensieri e sentimenti, nelle riflessioni. Fine cura nell’ espressione letteraria, incapace di sintesi. È un frammentario Maestro sommo della singola frase perfetta stilisticamente. Niccolò Tommaseo è un grande scrittore di pensieri, ha un amore letterario della parola e una sottigliezza psicologica nell’esaminare l’animo umano. Chiarezza non luminosità, è amante del vero, ma non è un artista che commuove. Temperamento irrequieto, avido di sperimentazione, dotato di una sensibilità artistica pronta ad accendersi. Tendente alle rievocazioni. Poco capace di costruzioni organiche e compatte. Le sue pagine migliori sono quelle più torbidamente romantiche, quelle in cui il fascino della voluttà sensuale si scontra con una acuta coscienza del peccato e il tormento del rimorso. Una personalità complessa, irta di contraddizioni e ardentemente orgogliosa. Leonardo Selvaggi Qui sotto, opera di Serena Cavallini, Perugia
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Continua, sempre più entusiasmante
L’ASCESA AL SUCCESSO DI
DOMENICO DEFELICE di Anna Aita
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OPO essere rimasti a dir poco confusi dall’opera interessante, perseverante e, oserei dire, impavida di Domenico Defelice, sia in prosa che in poesia, restiamo ora piacevolmente soddisfatti per l’ interesse che il nostro Autore continua a suscitare nei giovani. Si succedono, infatti, gli studenti che scelgono come tema della loro tesi, l’eclettico personaggio. L’ultima pubblicazione della serie, che mi è stata sottoposta, porta la firma di Aurora De Luca e s’intitola “Aspra terra e creazione fertile nell’opera di Domenico Defelice”. Il lavoro non è definito esattamente una monografia, così come si potrebbe immaginare, quanto piuttosto una guida, “un contributo alla lettura dell’opera”. A puntuale chiarimento di quanto testé affermato, riporterò le parole stesse dell’ Autrice che così esprime il suo proposito: “...restituire un’immagine più aderente possibile a tutto tondo dell’autore, e per tanto, nello scendere sempre più a fondo tra le sue parole, si sono ricercati l’uomo e il poeta, indagato chi dei due fosse presente e in che misura”. Per fare questo, la De Luca si servirà di tutto il possibile e persino dell’impossibile di cui può disporre, attingendo ovviamente alle opere, sia in prosa che in poesia, alle pubblicazioni dal Defelice create e dirette
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come “Pomezia-Notizie”, “Il Croco” con i suoi epistolari, nonché lettere manoscritte e quant’altro. In più, l’Autrice precisa di aver raccolto anche da “una passeggiata, una chiacchierata, alcune confessioni, delle saggezze, delle dichiarazioni ispirate, parole preziose dello stesso Defelice, per noi che ne faremo inestimabile tesoro”. Simpatica la copertina del libro che riporta un’opera dello stesso Defelice intitolata “La casa sulla collina”. Sveliamo, ora, l’alacre lavoro della De Luca che, leggendo, indagando, scoprendo, così tanto s’impegna, così tanto conosce, da sentirsi in grado di prevedere, o meglio indovinare, il destino di quest’uomo, di un’artista dal timbro particolarissimo. È colpita dalla sua foga, dal suo entusiasmo, dall’attaccamento al Bene, dal suo instancabile lottare per conquistare giustizia e trasparenza. Non cerca il successo, il nostro protagonista, non ama le platee, il rumore, l’incensatore, l’adulatore. No: Domenico Defelice lotta contro la falsità, contro l’ipocrisia, contro il mal costume. Più avanti nella scrittura, l’attento critico propone al lettore una serie di componimenti che vanno dall’anno 1957 al 2015, per renderlo edotto sull’evoluzione dello stile e degli argomenti nel corso del tempo. Inizia così, la prima parte del lavoro vero e proprio, impegno intenso, interessante e, per certi versi, anche intrigante riuscendo, la De Luca, a sviscerare molti aspetti non facili da captare del nostro personaggio. L’Autrice prende il via dalla raccolta poetica “12 mesi con la ragazza” in cui trova “grande sensibilità, spazi di visioni, e pure controllo, calibrate sonorità, contrasti”, per un amore cantato in maniera “sia platonicocontemplativo, sia petrarchesco”, con echi dannunziani. Dopo l’amore al femminile, la nostra Autrice riprende lo studio dell’ attaccamento del Poeta alla sua terra, argomento che, partendo dalla materia, si trasforma in canto lirico per esprimere due grandi passioni: amore e odio. Il Defelice, chiarisce la studiosa, ha un rapporto così forte con la terra da sentirsi egli stesso terra. A prova di quanto af-
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fermato, riporta alcuni versi davvero significativi, tratti dalla raccolta “La morte e il Sud”, in cui i lavoratori dei campi vengono, dal Poeta, invitati ad arare piano per non fargli male: il suo spirito si nasconde nella terra e “ne ha nelle vene essenze e colori”. In quanto all’odio, questo sentimento viene manifestato denunciando morte e violenza causate dalla criminalità locale e dalla scomparsa di lavoratori “cui si oppone una sorte maligna”. Ha fatto un ottimo lavoro, l’Autrice, scandagliando perfettamente tra le righe tutto il pensiero, la rabbia e la ribellione del poetascrittore Defelice. Così anche quando legge “Canti d’amore dell’uomo feroce” e ne racconta la forza e la bellezza: “La penna defeliciana torna, in questi versi, a farsi lirica, alta, melodiosa, seppur moderna, riflessiva e triste...”. E continua la bravissima interprete ad analizzare, verso dopo verso, dandone ampia relazione principiando dalle motivazioni che li hanno suggeriti, per giungere alla comprensione del sentimento intimo dal quale sgorgano. Non poteva certo mancare in questa selezione di opere, “Alberi?”. Con questo lavoro, la De Luca riconosce la maturità poetica del nostro Autore, perfezione che s’incentra e si sviluppa sempre più nel panorama dell’Ortogiardino, passione dominante nell’anima del Poeta che qui trova riposo e pace agli affanni e, soprattutto, ispirazione: un mondo ovattato, lontano dai clamori e dai veleni della città. In questa poesia, gli alberi diventano personaggi: poeti, uomini e donne che Defelice ben conosce e che sono altrettante figure simboliche. Tra le tante, e tutte interessanti, mi fermo, con sentimento, al simbolismo materno, donna che viene paragonata al Castagno in quanto, tra quei rami, il piccolo Domenico veniva raggiunto dalla voce ansiosa di sua madre che lo cercava, preoccupata per averlo perso di vista. La seconda parte del volume viene introdotta dall’Autrice con dolce lirismo. Riprendo per chi legge: “...le poesie sembrano correre ridenti e trillanti come ninfe che giochino a
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nascondino dietro tronchi e cespugli/.../ testi brevi e belli, carichi nella loro brachilogia, di forza e di leggerezza, capaci di sguardi intensi”. Ci coglie a sorpresa verso la fine del volumetto, una breve sintesi della vita di Domenico Defelice, cui segue il commento su “Pomezia-Notizie” e sulle epistole, argomenti che rappresentano la seconda parte del volume. Sento forte il bisogno di complimentarmi per una scrittura in cui si trovano, tutti ampiamente presenti, studio, attenzione, cultura, poesia, coinvolgimento affettivo, grande capacità introspettiva, profondità di pensiero: un viaggio nell’anima del protagonista dove nulla manca delle sue idee, dei propositi, degli stati d’animo, dei tormenti. Grazie ad Aurora De Luca per aver colorato di pagine favolose la bella storia di un noto letterato dei nostri tempi. Anna Aita
LE MIE DUE CITTÀ Ciondolavo beata per le vie della mia città, i raggi del sole scendevano a fiotti su di me, profumo d’erba fresca inondava l’aria, quell’aria speciale che non ho mai dimenticato e che ho chiuso a chiave nel mio cuore per non farla scappare via. Un grattacielo di ricordi ho costruito dentro di me e le mie vene pulsano quando la penso. Che schianto questo cuore che palpita e frantuma la mia tranquillità, perché penso sempre alla mia città? Ma le città son due, una qui, una lì, stupore e meraviglia, sono le più belle! Ma se son qui, non posso esser lì, è qui che tutto si arruffa e non consola. Per arrivarci si deve volare, volare continuamente e amarle tutte e due per sempre! Cav. Giovanna Li Volti Guzzardi Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori (A.L.I.A.S.)
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Tornavo ch’era sera di Nazario Pardini Tornavo ch’era sera. Di città portavo in cuore i rumori rochi delle verghe serpeggianti per strada; le parole che sfuggivano ai tacchi per il corso; ed il fiume che intarsiava nei gorghi i suoi ricami. Il campanile perdeva la sua sagoma nel cielo ch’io lasciavo al ritorno. Ed era l’ora di stendere lo sguardo sopra i grani biondi rosati. È là che la mia sera apriva le sue braccia di fanciulla innamorata. Ed io mi ci immergevo. Confondevo il sapore dei suoi sepali coi fremiti vaganti dei papaveri. Come era larga l’aria che azzurrava! Era venuta sera. E mi acquietavo. In questa nuova poesia s’avverte lo stile e la forza emozionale che contraddistingue le opere del Nostro Poeta. Infatti, in essa si trovano i molteplici dialoghi dell’uomo e del poeta con la terra, la natura, il tempo e le sue memorie, e anche del tempo nel suo scorrevole presente. Un Climax armonioso che, avvolge e porta verso la meditazione nel vespro del giorno, simile a quello della vita. In questo momento l’uomo colmo della sapienza della vita sospende la quotidianità e, incontra ancora una volta il suo alter ego nelle braccia della poesia .. le sue braccia di fanciulla innamorata... Qui il poeta esprime con il suo ampio humus culturale, il suo tipico simbolismo musicale, con l’aurea febbrile che confonde... Confondevo il sapore dei suoi sepali coi fremiti vaganti dei papaveri... e nutrito dal latticello dolce dell’amore per l’arte e per la sua terra, s’acquieta dolcemente, donandoci versi d’ impareggiabile bellezza. Ed è forse questo un aspetto della poesia l’immergersi ne “le braccia di una fanciulla innamorata” (Francesco Casuscelli, 14/04/ 2016). * Bellissima questa poesia imperniata su un susseguirsi incessante di immagini, ricordi, sensazioni; la parola è centrata su simboli e diviene suggestiva quando tocca atmosfere notturne, l’aprirsi al fantastico. Immagini che sembrano ardere nell’assoluta
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fusione col sentire. Ciao caro Nazario, sempre bravissimo a cogliere l’essenza delle cose, specie le più semplici. Un abbraccio. (Emma Mazzuca, 14/04/2016). * Tra un incipit quasi pasoliniano e una chiusa dal sapore foscoliano, si compone il ricordo del Nostro Poeta di quando, a sera, rientrava nel suo paesello di campagna dopo una giornata lavorativa trascorsa in città. Siamo nella Pisa di Nazario Pardini, con il suo Corso Italia, l'Arno e la Torre pendente che "perdeva la sua sagoma nel cielo ch'io lasciavo al ritorno" e con tutti i suoi rumori portati dentro il cuore. Era l'ora del ritorno ed il paesaggio mutava immantinente passando dalle "vergelle serpeggianti per strada" ai campi di "grani biondi rosati". Era l'ora che dantescamente "volge il disio/ai navicanti e 'ntenerisce il core", intrisa di quel nostalgico sentimento che sempre accompagna Nazario nelle sue ricordanze poetiche. La sera si personifica in una fanciulla innamorata che lo accoglie a braccia aperte e persino l'aria si fa "larga" all'abbraccio dentro cui abbandonarsi e immergersi acquietando l'animo dai frastuoni del giorno appena trascorso con incantamento erotico. Una memoria che si fa metafora della vita attraverso i simboli naturali e l'eros. Una poesia di grande spessore poetico e umano che avvolge e coinvolge emozionando. Grazie. (Lorena Turri, 15/04/2016). * Poesia dalle immagini stupende e dai concetti puri. Sta il mio sguardo piantato, immobile, “sopra i grani biondi rosati” in un atteggiamento sentimentale complicato come se qualcosa da dentro dovesse essere cavato a tutti i costi, e quando penso di esserci riuscito, mi sovviene il ricordo di una fanciulla lontana che amava stare coricata per ore e ore su quel campo. Ancora mi assale il suo profumo... E quella fanciulla non era, di certo, la Poesia (Ubaldo de Robertis, 15/04/2016). * Memoria. Da dove vengono i luoghi, le cose, le emozioni, i ricordi, i sentimenti che non muoiono? da quale profondità sono in nostra intima stringente relazione? Forse da un mondo profondo, personale, quello della vissuta Felicità: la memoria non appartiene esclusivamente al passato, più che dietro, ci sta di fronte, ci avvolge in un gioco di cui noi siamo pedine. La memoria registra, rievoca, illude, confonde suoni, rumori, emozioni, intuizioni…: è un gioco costantemente in gioco, mai fissa nel tempo eppure mai arbitraria. È presenza costante, non serbatoio di un passato inerte. In lei si giocano i sensi delle vite che si legano e si sciolgono fra loro, nei nostri tempi e nelle nostre storie che ne tessono la
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rete. Nascono allora da questo intrico misterioso parole emozionanti pur senza definitivi significati, itinerari mentali dagli argini sfumati senza contorno… Questo è l’itinerario del poeta Pardini. Pisa lontana…Il lavoro intellettuale, le parole come veicoli del mondo ci inseguono ancora un poco: le carte vergate hanno lasciato un’impronta che si fatica a dismettere, le parole preziose e meditate a poco a poco, sotto l’incalzare del passo giovanile si perdono lungo il corso… Prende spazio nel pudore intimo il paesaggio: il fiume lento, il campanile in trasparenza…. Altri strati di significato si aggiungono alla muta conversazione. Poi l’implicito erotismo del nuovo approdo, e l’ erotismo della parola innamorata. Anche la parola nel testo compie la sua avventura: preziosa, ricercata, dotta… diventa emozionata, sfumata, dolce, consueta, amata. La campagna lavorata, la casa, il paesaggio consueto, l’ attesa che rivendica l’integralità. Gioventù innamorata, immersione senza freni. Altre fascinazioni. Dolce Sera. Largo cielo, azzurra l’aria, quieto finalmente l’animo. Emozioni, ricordi da far invidia alla dea Mnemosine, un epos che diventa musica, una dolcezza intera che stringe ed accarezza l’animo. Poesia (Maria Grazia Ferraris, 15/04/2016). * "E’ là che la mia sera apriva le sue braccia di fanciulla innamorata. Ed io mi ci immergevo.". Eccolo il nostro Nazario: l'innamorato della poesia, della vita e della natura. Eccolo il Poeta che canta, che non ha mai finito di stupirsi: torna dalla città, dal rumore dei passi sull'asfalto, perché sa che si è fatta l'ora, quella "di stendere lo sguardo sopra i grani / biondi rosati", quella di camminare a piedi nudi sull'erba e dimenticare tutto il resto; l'ora della SUA sera che lo aspetta per abbracciarlo, per dargli tutto l'amore di cui ha bisogno. E così si acquieta la spasmodica ricerca dell'uomo (Sandro Angelucci, 16/04/2016). * Il mio vuole essere solo un sentito grazie al poeta Pardini perché leggere una poesia come questa, prima di chiudere gli occhi al giorno, ci porta ad abbandonare, almeno per un po', le ombre che inevitabilmente offuscano il nostro vivere quotidiano, consegnandoci là, dove anche per noi lettori affezionati improvvisamente si allarga " l'aria che azzurrava" e tutto torna a calmarsi tra le braccia della sera e di una poesia che fa bene all'anima, la nutre di dolci e splendide immagini che il nostro Nazario ha nel cuore e con generosità, magistralmente ci dona con i suoi versi (Annalisa Rodeghiero, 16/04/2016).
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ETERNA GIOVINEZZA La giovinezza che entra ed esce dalla casa, non ha bisogno di porte, s’infila per ogni dove. Ha destrezza, salta ti viene addosso, vedi le sue forme, le trasmissioni dei colori che l’adornano, ti sfugge mentre gira intorno: le mosse veloci dello scoiattolo, il pelo liscio morbido alle guance. Le linee belle fanno i contorni, lo sguardo vede Improvvisi fantasmi, volto e sagome in vesti trasparenti, la fantasia tutta astrazione ha il lavoro di connessioni e di giustapposizione. Nella mente ordinate figure appena intraviste, barlume di luce i visi ridenti dentro le chiome lunghe evanescenti. La senti fra le braccia poi si dilegua e l’occhio corre con l’immaginazione, la segue mentre va e viene nello spazio fino a diventare lembo di cielo sperduto. La giovinezza non è di carne, neppure ha le ossa per camminare, linea retta ondeggiante, luce celeste, riflessi della luna: faccia radiosa per terra e intorno agli oggetti che ci sono vicini. Impalpabile fantasia dei pensieri fugaci, ossessivi che non si tolgono di mente, quasi ruggine in aderenza al corpo duro di ferro. Leonardo Selvaggi Torino
Si riche de monuments joyaux d’art et d’histoire l’Italie que tout violent tremblement de terre inflige une blessure terrible à son patrimoine culturel Et pleure l’entière humanité ***** Così ricca di monumenti gioielli di arte e di storia l’Italia che ogni violento terremoto infligge una ferita terribile al suo patrimonio culturale E piange l’intera umanità Béatrice Gaudy Francia
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Il Racconto
QUESTO È IL MIO NEMICO (Milano, 1940) di Francesco Pedrina
U
N racconto che ho avuto sempre nel cuore, tentato più volte e altrettante lasciato a mezzo o alle prime note, incerto se dare un quadro completo del mio viaggio sentimentale o lasciar almeno questa parte nel mistero. Dir tutto anche ora non potrò, perché quando l'idillio si fa doloroso dramma, non per colpa dei protagonisti, ma a loro strazio per una sorte più che amara e immeritata, al narratore non regge più l'animo di levare il velo su ciò che deve restare ormai avvolto nell'oblio. Pietà lo vuole e discrezione lo impone. Aveva una testa raffaellesca, senza quel languore che è nell'autoritratto di Raffaello, appena compatibile nel volto di una donna. In Viola quel languore era sostituito da non so che di rasserenante, che non finiva di attrarre, insinuando nell'anima una dolcezza lunga,
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senz'ombre. Nelle ore di intimità io non mi saziavo di contemplarla: “Quanto sei bella!” le dissi una volta, e mi sentii rispondere: “Vedimi sempre così”. Parlava poco, per lo più rispondeva alle mie effusioni. Nascondeva la sua passione sotto frasi allusive. Un giorno stavamo seduti accanto sulla sponda del letto. Affrettavo il congedo per non insospettir Barbaricciola. Batté con l'indice sul mio orologio da polso e disse: “Questo è il mio nemico”. Battute che un uomo porta con sé per tutto il resto della sua vita e su cui ritorna ad ora ad ora. Riode la voce che le ha pronunciate, ripensa il luogo, l'ora, rivede il caro volto, cerca di disoccultarle nella loro significazione intensa e si trova risommerso nel sogno. La scorsi la prima volta nella sala dei professori, china a riporre il registro dei voti in uno dei cassetti del grande armadio. Passavo per il corridoio e diedi un'occhiata attraverso la porta aperta. La vidi di profilo (era alta e snella) e dissi dentro di me stupefatto: “Donde è piovuta costei?” La sua eleganza aveva non so che di aristocratico, per cui era difficile classificarla tra le professoresse, anche se belle, anche se eleganti. Intuii la gran dama, che aveva a suo tempo conseguito la laurea e che le vicende della guerra o qualche altro dissesto economico aveva portato all'insegnamento. Era difatti così. Ebbi nei giorni seguenti occasione di presentarmi, di conversare insieme, di farle omaggio di un mio volume. La dedica era già per se stessa un alto riconoscimento e una dichiarazione d'amore. Incredibile: io lavoravo un terreno vergine, sensibilissimo. Nella sua bella testa c'erano già sprazzi di capelli bianchi, di veri capelli bianchi e l'anima era quella di una bambina. Ecco la dedica: “A una gentile dama settecentesca, a cui il tempo ha reso così lento il volo degli anni, ch'ella ha potuto giungere fino a noi fresca, giovanile, affascinante.” Lo spunto me lo ha dato il Parini, quando, nel 'Messaggio', rivolto alla Contessa Maria di Castelbarco, dice che il nuovo secolo avrebbe reso 'lento il volo' de' suoi 'begli anni' per poterla meglio mirare.
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Lo seppi poi. Viola aveva ospiti i genitori e il grosso marito, che fino ad allora aveva dormito fra due guanciali per la più che decennale fedeltà della moglie, prese il volume, l'aperse alla prima pagina, e tra l'attonito e il canzonatorio disse: “Sentite le dediche che Viola si fa fare!”. E lesse la dedica che avrebbe dovuto renderlo inquieto per il resto dei suoi giorni. Ma qualche volta anche l'annunzio più squillante ci lascia sordi e non giunge ad avere il peso di un avvertimento fatto sottovoce. Nacque l'amicizia con un sempre più vivo desiderio di trovarci insieme. Anche questo mi confessò poi. Andando per le vie di Milano, guardava tra la folla se mai le apparisse un certo paletot (un paletot di gran grido allora, di un marron acceso, che ammirai più volte in una vetrina di via Manzoni e che finii per acquistare). Una passeggiata attraverso il Parco del Castello Sforzesco ci iniziò alla vera confidenza amorosa. Non so che dissi durante quel tragitto; so che parlai sempre e che Viola, congedatasi da me per far visita ad un' amica, per prima cosa le disse: “Mi ha accompagnata un collega e mi sento quasi stordita. Nessuno mi ha mai parlato così.” Riservata fin da giovinetta, forse anche guardata con timidezza dai compagni di liceo e d'università per quel trepido stupore che infonde in chi la guarda la bellezza vera (allora il cameratismo tra i giovani era ben lontano dall'essere quel che è oggi), si trovò disarmata e indifesa ogni volta che qualcuno osava parlarle d' amore. Per le sue confidenze posso dire che tre sono le tappe della sua vicenda spirituale e tutte e tre ci rivelano il candore della sua anima, la sua grande impressionabilità. Sedicenne, un giorno un compagno, camminandole al fianco, forse non riuscì a contenere una lunga ammirazione e pronunciò parole ardenti. Viola affrettò il passo, trattenendo il respiro. Giunta a casa, scontrandosi con la mamma scoppiò in un pianto dirotto; la mamma ebbe una stretta al cuore, pensò ad una disgrazia. Consolò la figlia come poté e attese la ragione di tanto accoramento. Come lo seppe, la guardò a lungo tentennando il capo lentamen-
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te. Non tentò neppure le parole della saggezza materna, ringraziò in cuor suo Dio di averle dato una tal figlia; soltanto le disse: “Potevi risparmiarmi questo spavento”. I pericoli di una sensibilità così devastatrice e così indifesa sono grandi, anzi decisivi per il corso di una vita. Frequentava l'Università di Bologna, viaggiava quasi giornalmente in treno. Un signore la notò. Tutto doveva consigliarlo a non tentare l'insidia: i legami già contratti, la differenza d'età e di condizione sociale, per quanto fosse ben avviato nel commercio. Riuscì a intrattenerla, si trovò spesso nello stesso treno. L'innocente era già innamorata quando l'altro confessava d'esser sposato e d'aver iniziato la causa per l'annullamento del matrimonio. I genitori, all'annuncio di una simile situazione, rimasero costernati. Tanto più che trovarono nella fin allora docile figlia una rupe incrollabile. Amava per la prima volta, amava disperatamente. L'audacia di un uomo che non aveva alcun titolo né fisico né spirituale, per unire la sua vita a un fiore luminoso di gentilezza umana -di quelli che passando per la via lasciano la gente ammirata- s'ebbe un premio che spetta soltanto agli eletti. Ottenuto l'annullamento del matrimonio, ebbe il garbo di circondare la bella giovane moglie d'ogni signorilità. Gli affari (aveva un commercio con l'Oriente) gli andavano a gonfie vele. Ma dal cielo gli piovve una grazia anche più grande: l'amore di una donna bellissima, fedele, devota. “Per quanto l'hai amato?” le chiesi un giorno. “Per dodici anni” fu la risposta. Una carica interiore ch'era soltanto sua, della sua giovinezza raccolta e schiva, quasi inconsapevole del rarissimo e invidiabile dono. Riflettendovi, io non mi sapevo consolare e ho pensato più volte che, se dopo la Prima Guerra Mondiale avessi frequentato l'Università di Bologna anziché quella di Firenze, il corso della mia vita sarebbe stato diverso. Amare un uomo per dodici anni e poi trovarsi di fronte ad un'enorme mole di carne, a una testa coi capelli a spazzola, a un commerciante sbancato fu tutt'uno. Non una paro-
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la di rimpianto e di ripudio, ma un dignitoso proposito di guadagnarsi la vita. Bellissima e quasi non sfiorata ancora: fu allora che apparvi io. Era in tutto degna di me e io di lei. Per ciascuno di noi era suonata l'ora di riconoscerci e di amarci e -ahimè- di rimpiangere che questo non fosse avvenuto prima. Un legame che anche senza crismi religiosi poteva durare per tutto il resto della nostra vita, che sembrò avviarci su questa via (il marito se ne andò assai per tempo) e … Un anno scolastico s'era chiuso e se n'era aperto un altro. Frattanto, nell'inverno del 1940, erano avvenuti i primi sporadici bombardamenti di Milano. Moleste avvisaglie del terrificante bombardamento dell'agosto 1943. Dovemmo abbandonare la sede dell'Istituto per un'altra di fortuna, con qualche maceria intorno. Il caso volle che Viola, per accedere alla sua classe, dovesse passare per la mia. Momento di non lieve imbarazzo per lei. Veniva avanti visibilmente turbata. Pure alzava a un certo momento per accogliere il mio cenno di saluto. Dopo di che una breve pausa alla lezione anche da parte mia. Negli intervalli qualche volta c'incontravamo nella stanzaccia adibita a sala dei professori. In più di un'occasione soli. E la solitudine fa fare passi tremendi a due cuori che stanno per innamorarsi, o lo sono già. Un giorno fui sorpreso dall'acerbità dei suoi seni, quali trasparivano sotto la veste. “Ma voi siete una giovinetta!”, esclamai con un'allusione ch'ella afferrò senz'altro. Un'altra volta entravo mentre ella stava uscendo. Gli occhi si intesero e le bocche si sfiorarono. Ormai navigavamo nel sogno. Ciascuno sentiva che la volontà dell'uno era quella dell' altro. Ma con più abbandono da parte di lei, perché del tutto nuova (incredibile!) al fenomeno, perché fuori d'ogni sua aspettativa. Nelle ore di confidenza, mi disse poi cose che me la rivelavano intera. Per esempio: “Ho ricevuto tanti omaggi floreali, ma non ho mai pensato che il personaggio che me li faceva avesse qualche intenzione su di me”. Ancora: “Quando nella conversazione si parlava di questa o quell'amica che s'era fatta un amante,
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io ero inesorabile nel condannarla. Mi pareva d'esser sicura del fatto mio...” E dopo una pausa, con voce quasi roca: “...e mi sono innamorata!”. Non soltanto innamorata, crollata di schianto! Ricordo. Scese dal tram in Piazza Cavour, indossava una pelliccia di agnellino di Persia, che le donava assai, perché dava spicco alla sua bella testa raffaellesca, e tanto più intense nereggiavano le pupille. Le diedi il braccio. Costeggiavamo i giardini pubblici. Sapevo bene che lì presso c'era l'Albergo Manin, abbastanza signorile (fu poi demolito). La tenni stretta al braccio senza dirle parola e infilammo la porta girevole. Al bureau stava una donna: le chiesi discretamente una camera. Ci fece salire in ascensore e ci accompagnò. Sono momenti in cui si sta sulle spine. Viola conteneva il suo tremito con una tensione che prostrò tutte le sue forze. Quando ci trovammo soli nella stanza, la vidi appoggiarsi al muro, la bocca schiusa, la faccia alzata quasi a cercar respiro. “Cos'hai? Cos'hai?” Pareva venir meno. Il volto le si fece violetto. Temei in un collasso e la pregai carezzandola di non far così, di calmarsi. Le mie prime carezze potevano essere anche le ultime. Attimi terribili, in cui si teme di sfiorare il delitto. Quando mi parve che si riavesse un poco, la colmai di baci, per dirle la mia tenerezza e la mia passione. Non pronunciò mai una parola; era tutta tesa a dominarsi. Poi le viole impallidirono sul suo volto, man mano che le tornava il colorito consueto. Pareva vergognosa dell'accaduto; certo in cuor suo mi chiese scusa. Io non affrettavo alcuna mossa, ma spontaneamente Viola cominciò a spogliarsi e pareva indulgere silenziosamente per dirmi quanto m'amava, come volesse essere interamente mia, alla mia contemplazione e al mio possesso. Nuda sul letto conservava la stessa purezza di linee che vestita. Non so che pallor roseo ora mi penetrava quasi a compenso del pallor viola che m'aveva turbato tanto. N'ebbi l'anima impregnata e alla sera mi sorpresi a cantare: 'Fior di mimosa/ una vision negli occhi m'è rimasa:/ pallor di viole e petali di rosa'.
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Nell'alludere, la poesia, quando sgorga spontanea, suscita, nel giro di poche note, quadri e scene che la fantasia a freddo s'affannerebbe invano a delineare. Certo fu quella la prima volta che Viola si spogliava innanzi a un uomo. Inconsapevolmente ubbidiva ad Amore che non soffre veli, che non vuole che si rinunci ad una sola delle sue seduzioni. Il suo potere si manifesta proprio in questo. Dove è Amore il pudore dilegua. D'improvviso puoi contemplare nuda una donna che qualche giorno prima sarebbe stata restia a sollevare appena un lembo della sua veste. Per questo non riesci a staccare lo sguardo dalla creatura che ti si offre: non hai davanti soltanto delle linee armoniose, dei molli clivi, delle fragole che non hanno minor forza di richiamo di quelle del bosco, ma un'anima che ti grida la sua dedizione nel solo gesto atto a disperdere ogni dubbio. Forse questo contemplare è un modo di pregare: e quando non si prega più, il culto è morto, sia pure per un dio a cui solo gli antichi facevano voti. Dinanzi alle mie rinnovate contemplazioni un giorno Viola ebbe a confessarmi: “Mio marito non mi guarda mai!”. Imene è senz'altro uno squallido dio, senza fantasia, senza iniziative. Ogni seduzione tace innanzi a lui, ogni vezzo. Ed è per questo che esce sempre ignominiosamente battuto. Ma il dileguarsi del pudore non significa l'affacciarsi della lascivia nella donna che è vissuta fino allora nell'innocenza (rendo questo omaggio al marito, che si guardò dal gualcire un fiore colto in un giardino a lui proibito). Quasi fosse alla sua prima prova, quand'io la contenni nelle mie braccia, Viola spalancò le sue (Sopore? Nuovo soverchiare dell'emozione?) e le distese inerti. Io le raccolsi e me le avvinsi intorno al collo. Allora premé un poco. Non si pensi che sarebbe desiderabile altra partecipazione. Una donna bella ha tale incanto con sé, che la sua seduzione non svanisce mai quali che siano i modi e gli atti del suo abbandono. Se poi la sua apparente 'assenza' è effetto d'una 'presenza' tanto intensa da farci pensare a Saffo, al suo impallidire al pari dell'erba e al lento approdo al-
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le rive di morte, non c'è che da ringraziare la sorte che una volta almeno, nella nostra vita, ci ha accostati a questo che, tra i 'segni d'amore' è il più smemorante e irripetibile. Qualcosa lavora nel nostro subconscio, qualcosa che d'improvviso ci fa presaghi del futuro. Non so spiegarmi altrimenti il mio grido d'allora (un vento di bufera l'avesse disperso!): “Sei mammina! Sei mammina!” Come poteva esser madre lei che in diciassette anni di matrimonio non aveva mai avuto un figlio? Così al primo sfiorarsi delle anime più che dei due corpi? Domande inutili. Sento piuttosto che un tal grido mi butta fuori dalla schiera dei cosiddetti amatori e mi colloca tra i ragazzi che fanno all'amore. E sia! Senza ombra di messe nere, di estetismi, di baudeleriane o dannunziane lussurie, noi tornammo all'abbraccio con appagamento lungo e mai sentii tanto pieno l'abbandono di una donna come in quel beato pomeriggio. Mi sia concessa una parentesi. Una ventina d'anni fa apparve nel Corriere della Sera un Elzeviro di Francesco Pastonchi, il poeta di Belfonte, del Randagio, dei Versetti. Un uomo di mondo e un bell'uomo, oltre che un esteta senza tetto. Fece sempre vita d'albergo. Quel giorno era seduto ad un tavolino all'aperto di un Caffè romano. Forse in Via Veneto. Passò in carrozza un'etera, lo riconobbe e senz'altro fece cenno al fiaccheraio di fermare. Gli mosse incontro, forse vantando qualche intimità passata. Il poeta l'accolse con la signorilità consueta. “Dì - interruppe a un certo momento dell'avviato discorso l'etera, come sopraffatta dal ricordo - quel tuo amico Gabriele! Non si accontentò di far buio nella stanza e di accendere intorno le candele; stese anche nel letto una coperta istoriata, con i segni dello zodiaco in rilievo. La mia sventura volle ch'io posassi le natiche sullo scorpione e me ne rimase per ventiquattro ore il segno”. Non saprei definire questo episodio se non come un esempio di intimità senza intimità, proprio quello che manca a tante pagine belle del D'Annunzio e ci impedisce di dirle bellissime. È vero: si trattava di un'etera e un po' di messinscena poteva trasfigurarne in qualche
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modo la facile offerta. Ma la donna non si commosse al rito, badò piuttosto alla sua stranezza e ne lamentò le conseguenze: e queste sono tali da muoverci al riso. Penso che alla base di simili non so se chiamarle bizzarrie o perversioni (perversioni non lo sono ancora, ma ci si trova sulla loro strada) stia l'impressione che non possa sgorgare spontanea l'umana poesia quando spira intorno aura d'alcova. Come i sopori, così posso ammettere i furori femminili (non per nulla gli antichi hanno creato le MenadiBaccanti...) e l'intorbidarsi dell'uomo nella lussuria e le sue zampate - la tempesta che squassa talvolta è più salutare della brezza che carezza - ma che la poesia esuli quando ciò che fu oggetto di sogno e di desideri intensi diviene tangibile realtà, non è affatto vero. Tanto più che questa realtà torna poi ad esser sogno nel ricordo. Dipende dal grado di gentilezza umana e dalla carica di poesia che ciascuno porta con sé. Chi per un sicuro dominio su se stesso, è capace di una sensualità pacata, del tutto spoglia di bestiali istinti, attinge una voluttà che, se non ha nulla di uraganoso, pur ti sospinge verso plaghe smemoranti, nelle quali non senti l'abisso e la perdizione, ma piuttosto - mi si passi la parola per amor di contrapposto - l'indiamento. Negli incontri con Viola non saprei dove finissero le care confidenze e quando incominciassero i lunghi interminati amplessi, intercalati di quando in quando dalle parole trasognate di lei: “Mai provato! Mai provato!”. Non ci sentivamo appagati che nella lenta fusione delle anime e dei corpi ed io non cessavo di dire cose amabili, cose care, ora beandomi del volto luminoso, da cui era come fugato ogni senso di terrestrità, ora vagheggiando soltanto gli occhi, o soltanto la linea del naso, o soltanto la bocca: e questo per ore. Gli occhi si intenerivano di più e lealtà vuole ch'io renda giustizia a un poeta calunniato che è quasi vergogna chiamar a testimone de' propri sentimenti. Alludo al Metastasio. Quel che io provavo con struggimento indefinibile, egli l'aveva già espresso con la grazia languida dei minuetti che sembrano portarsi sulle ali
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delle note l'anima leggermente commossa e sognante. E fui portato a ridirle e far mie le sue parole. A ridirle alla dama settecentesca, a cui potevo rivolgere ora le parole dell'amore corrisposto, dopo quelle dell'ammirazione senza limiti: 'Ch'io mai vi possa/Cessar d'amare,/Non lo credete,/Pupille care;/ Né men per gioco/V'ingannerò./Voi foste e siete/Le mie faville,/E voi sarete,/Care pupille,/il mio bel foco/Finch'io vivrò.' Proprio così. Io non ho mai cessato di vagheggiare quegli occhi e più e più col lontanare dei giorni. L'amor sopito torna a tratti immortale a riempirmi ancora di stupore e di riconoscenza. Ciò che l'anima ha raccolto con trepidazione -e cioè il dono di una creatura che 'tra bella e buona non so qual fosse più'non si spegne finché il ricordo non è solo ricordo, ma innamorata memoria. “Tu sei nato parlando!”, mi disse Viola in una di quelle trasognate vigilie. Francesco Pedrina ('Vela d'argento – Viaggio sentimentale attraverso la mia vita' - Padova, 1967 – inedito – Archivio Ilia Pedrina). Foto di pag.: Francesco Pedrina, giovane studente.
LA RAGAZZA E IL COLIBRÌ di Claudia Barrica
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NCHE quel giorno il sole era alto, luccicava sulla sabbia sedotta dal mare, che continuava ad avanzare e ritirarsi timidamente, quasi a baciarla. Il rumore dell’aria si liberava dal silenzio di quel pomeriggio per andare a soffiare su una spiaggia desolata. Il tepore era quello che si prova ogni volta che si esce dall’acqua dopo il primo bagno di stagione. Posata su quei granelli dorati, vi era come avvolta da una tiepida coperta, una ragazza dagli occhi cobalto. Si recava su quella spiaggia ogni venerdì, dall'alba al tramonto e stava tutto il tempo con il viso rivolto al cielo. Quando arrivava quel giorno, alla stessa ora un piccolo colibrì dalle piume arcobaleno scendeva per sfiorarle il viso e adagiarsi sulla
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sua spalla, restandoci fino a sera. Lei a quel punto chiudeva gli occhi, era come se riuscisse a comunicare telepaticamente con quella meraviglia della natura, che non mancava mai un solo appuntamento. Il perché arrivasse puntuale, come richiamato da una magica melodia, questo non fu mai noto alle persone comuni. C’era come una sorta di patto tra i due. Il tempo variava... nuvolo quando lo sguardo di lei si velava di tristezza e malinconia, pioggia quando una lacrima le scendeva dal cuore. Ma quando il colibrì si posava sul suo solito "posticino", d’un tratto lei si illuminava e un sorriso accennato le impreziosiva il volto, contemporaneamente il mare iniziava a gioire, accompagnato da una gradevole brezza. Tutto in quel momento pareva danzare e godere di armonia sotto il sole brillante. L’Universo parlava una lingua che solo loro potevano capire. Chi conosceva a grandi linee la storia della ragazza dagli occhi cobalto, raccontò che fosse figlia di una famiglia conosciuta in paese, con due fratelli. Un maschio identico a lei, e una sorella dalla notevole bellezza. Su questa spiaggia loro venivano spesso a passare i pomeriggi estivi. Si rincorrevano felici giocando sulla sabbia tra le risa gioiose. Ma un giorno, un venerdì, rimasero solo in due. Quel giorno accadde l’imprevisto. Mentre giocavano sulla riva sfidando il tempo avverso un'onda li travolse, e da quel mare incontrollabile, tra le urla agitate, solo uno di loro riemerse, lei. Le loro vite furono travolte e le loro esistenze distrutte. Tutto cambiò inesorabilmente. Le giornate divennero lunghe, buie e strette in una morsa angosciosa di solitudine disperata. Lei si colpevolizzò fino a desiderare ella stessa di essere morta al posto suo. Il suo viso era il riflesso di quel fratello strappato cosi presto alla vita da quel mare che per anni era stato il custode delle loro risa. Il cuore della ragazza divenne sempre più freddo e si incattivì a tal punto da allontanare tutto ciò che di buono aveva attorno. Nessuno la riconobbe più. La dolce anima pura e lu-
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minosa divenne presto una debole fiamma consumata dal tempo che avanzava senza pietà. Passarono i mesi e di lei nessuno ebbe più notizia. Quando ad un tratto, la rividero apparire, un venerdì appunto. Da lì, ogni settimana, tornava sul luogo di dolore sola a contemplare le onde cosi ormai ostili ai suoi occhi, spenti e vuoti. E cosi, seduta a riva con i piedi affondati nella sabbia e le mani che si avvinghiavano l’una all’altra, quasi ad ancorarsi in un ideale abbraccio, lei lo cercava. Cercava quel sorriso che le dava senso. Nulla poteva dissuaderla da quel rituale appostamento. Un giorno dal nulla apparve il decantato colibrì. Si posò sulla spalla e li rimase a lungo. Lei iniziò a sorridere, ad inseguirlo con lo sguardo che guardava il cielo con occhi nuovi. Sembravano vivere in un mondo solo loro, destando ovviamente l’attenzione degli abitanti di quell’anonimo paese. I giorni divennero settimane, le settimane mesi e così via. La storia si ripeteva. Pian piano però qualcosa iniziò a mutare. Gli incontri divennero meno assidui. Il colibrì si vedeva sempre meno, ma lei era sempre più allegra, e più vicina alla ragazza che era prima della tragedia. Il suo cuore sembrava essere tornato a battere a tempo della vita, i suoi occhi a vedere la meraviglia del mondo nascosto in un fiore schiuso a primavera, o nell’odore della pioggia all’impatto sulla terra. O nelle risa di bambini che giocano, negli odori della campagna e del caffè. Forse incominciava a vivere, quando iniziò a svegliarsi al suono delle cicale e gioire di un' alba o di un tramonto, o ad udire la dolce melodia dell’universo, il colibrì, come se avesse finito il suo compito, ad un tratto smise di volare definitivamente e si posò sul suo posticino, per sempre impresso con i suoi colori di vita, nella pelle della ragazza dagli occhi cobalto. > Chi fosse il colibrì è dato da immaginare, ma si narra da sempre che questa creatura rappresenti la gioia di vivere e l'amore per la vita, la felicità nonostante tutto, il potere di far volare lo spirito. Claudia Barrica
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IL VENDITORE DI OLIO di Antonio Visconte
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LESSIO, come tanta gente del mio paese, appena undicenne, usciva ogni mattina, di buon’ora, da casa sua, conducendo a mano il carrettino, per vendere nei comuni limitrofi i prodotti tipici della nostra terra, agli, cipolle, olive, capperi e uova fresche. Non avendo potuto studiare, rimase analfabeta per tutta la vita e quando firmava i documenti, non sapendo scrivere il proprio nome e cognome, vi apponeva la croce. Passò anche al commercio dei carboni e della carbonella, ma l’arrivo del gas in cucina e nel riscaldamento, gli mandò all’aria la nuova risorsa. Capitò un bel giorno in contatto con la moglie di un maresciallo dei carabinieri e la nobildonna lo pregò di portarle una bellissima bottiglia di olio di oliva. Alessio, volendo procurarsi una benevolenza così preziosa, non se lo fece ripetere due volte e la settimana seguente si presentò dalla signora con tale primizia, neanche facile ad ottenere dai contadini. “Pezzo di villanzone”, strepitò la signora, “dove avete preso questa schifezza e proprio a me la portate, che sono una vostra fedele cliente?” Alessio rimase di stucco, una vera statua nello studio di un artista e balbettando poche parole, “Signora illustrissima”, mormorò, “c’è voluta la mano di Dio per averla e voi la rifiutate?” “Alessio, non insistete”, ribatté la signora, “riprendetevi questa robaccia, altrimenti chiamo mio marito e vi faccio ritirare la licenza. Non vedete che l’olio è duro?” Come un supplice davanti ad una immagine, il nostro uomo cercava invano di far capire alla cliente che il vero olio di oliva in questo modo esce dal frantoio e bisogna riscaldarlo per renderlo liquido e poterlo usare. “Ma forse non mi sono spiegata abbastanza”, riprendeva costei “andate via e ritornate quando vi capita l’olio buono”. Il venditore raccontò alla moglie quanto
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gli era capitato e la povera Caterina, dalla desolazione, si metteva le mani nei capelli. Quella notte Alessio dormì profondamente, abituato a tutte le controversie della nostra travagliata esistenza, ma la consorte non si diede pace e allo spuntar dell’alba, sotto un cielo plumbeo, denso di nubi, “Alessio”, disse, “questa notte mi è sorta un’idea, vediamo se ti piace”. “Cerca di non mandarmi in galera”, rispose l’uomo. “Non è la galera che mi fa paura”, replicò la donna, “bensì la voce della mia coscienza e noi la coscienza l’abbiamo a posto. L’olio buono, il vero olio di oliva tu glielo hai portato e in cambio ci mancò poco che non te lo sbatteva in faccia”. “Basta, sentiamo”, riecheggiò Alessio. “Prendiamo dieci litri di olio di semi e ci versiamo dentro un litro di olio di oliva. Come tu sai, l’olio di semi non ha né odore, né sapore e così avremo undici litri di olio di oliva con il bel colore biondo dell’olio di semi”. La settimana seguente Alessio s’incamminò dalla signora la quale, appena ebbe tra le mani la bottiglia con l’olio nuovo, impazzì dalla gioia e saltellando esclamava: “Alessio, per Bacco, voi avevate quest’olio così splendido, perché mi avete offerto quella porcheria? Non si fanno questi scherzi!” Alessio non sapeva in che mondo si fosse e balbettando poche sillabe, “Signora illustrissima”, aggiunse, “questo è un olio che costa di più”. “E che problema c’è”, spiegò la signora, “vi do anche un regalo” e mentre la nobildonna compiva il magnifico gesto, Alessio continuava il suo esordio. “Non mi rimproverate, io sono un povero uomo, chi comanda è mia moglie. Lei, la mattina, quando faccio colazione, mi sistema la roba sul mezzo. Molto probabilmente, giacché è sempre indaffarata, avrà scambiato una bottiglia con un’altra”. “Adesso vi perdono”, precisò la donna, “ma se capita una seconda volta, non so come andrà a finire”.
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“Non si preoccupi”, affermò Alessio, “che non ci sarà una seconda volta”. “E state attento, mio marito è incaricato di combattere contro le frodi alimentari e dietro la denunzia dei consumatori si procede di ufficio”. Alessio riferì alla moglie il felice esito della spedizione e anche Caterina impazzì dalla gioia e saltellando esclamava: “Ti ho dato un buon consiglio”. Il trucco autorizzato navigava a gonfie vele. All’inizio la distribuzione avveniva in ambito locale e presto si diffuse in campo internazionale. Giungevano quintali di olio di oliva dall’Abruzzo e tonnellate di olio di semi dalle restanti regioni. L’olio si semi costava poco e a seguito di tale mescolanza veniva venduto al prezzo dell’olio di oliva. I guadagni arrivavano alle stelle! In pochi anni Alessio divenne il più ricco della zona, per primo festeggiò il miliardo di lire nella provincia, costruì un enorme oleificio, comprò autocarri e autotreni, assunse ragionieri e commercialisti, ingaggiò operai e autisti e quando transitava nella sua lussuosa Mercedes, la gente si inchinava e lo chiamava cavaliere. Caterina divenne così superba, che nessuno poteva rammentarle il misero passato. Sopra la sua dimora, composta di quaranta stanze, fece deporre il motto in latino: oleum fecit me, con acanto i nostri patroni, rendendo complici anche i santi. Si dedicò all’edilizia con palazzi e alberghi di prima categoria. Ebbe quattro figli non intraprendenti come lui. Andarono a scuola a laurearsi e così finì senza eredi quella favolosa avventura. Antonio Visconte
SOLITUDINE La cortesia del civile rapporto è distanza dagli altri: sterile espressione d’amicizia finta desiderio di non essere offesi. L’uomo isolato, automa nella selva dei palazzi
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con moto meccanico ripete la fisionomia uguale di tutti, ma distaccato dalla vecchia matrice intessuta di semplice amore che la realtà della tecnica ha snaturato. Le diversità degli elementi non hanno legame, i segni fermi sul volto senza le parole di un comune sentire. Agli incontri frettolosi i modi del saluto sono fatti per una scena recitata; la forma d’ognuno che spontanea erompe è prigioniera del livellato costume perché il moderno copre tutti secondo un’unica foggia, e la sofferenza dell’istinto si nasconde sotto l’esterna figura che l’ipocrisia mantiene nell’anonima forma del normale. Leonardo selvaggi Torino
PREZIOSO Prezioso cuore pieno di tumulto hai trasformato il mio tempo hai riempito le guance di rossore hai illuminato di luce gli occhi. Prezioso cuore pieno di tumulto hai inondato il mare ghiacciato hai immerso il corpo nel profondo hai filmato l’impossibile hai amato il millennio e il tempo secolare. Hai veleggiato e cercato solitudine il silenzio ed il rumore mi hai regalato il dono della pace interiore. Catturato il prezioso sentimento del tumulto melodioso nel tempo dello stornello dall’orchestrale eseguito tra i vicoli dell’anima mia. Traccia musicale di lieve e soave suono del mistico segreto. Filomena Iovinella Torino
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XXVII Edizione CITTÀ DI POMEZIA L’Editrice POMEZIA-NOTIZIE - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM) - Tel. 06 9112113 – E-Mail: defelice. d@tiscali.it internet: http://issuu.com/domenicoww/docs/ - organizza, per l’anno 2017, la XXVII Edizione del Premio Letterario Internazionale CITTÀ DI POMEZIA, suddiviso nelle seguenti sezioni : A - Raccolta di poesie (max 500 vv.), da inviare fascicolata e con titolo, pena esclusione. Se è possibile, inviare, assieme alla copia cartacea, anche il CD; B - Poesia singola (max 35 vv.) ; C – Poesia in vernacolo (max 35 vv.), con allegata versione in lingua; D - Racconto, o novella (max 6 cartelle. Per cartella si intende un foglio battuto a macchina – o computer - da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1800 battute. Se è possibile, inviare, accanto alla copia cartacea, anche il CD); E – Fiaba (max 6 cartelle, come sopra, lettera D); F – Saggio critico (max 6 cartelle, c. s.). Non possono partecipare alla stessa sezione i vincitori (i Primi classificati) delle trascorse Edizioni. Le opere (non manoscritte, pena l’ esclusione), inedite e mai premiate, con firma, indirizzo chiaro dell’autore e dichiarazione di autenticità, devono pervenire a Domenico Defelice – via Fratelli Bandiera 6 - 00071 POMEZIA (RM) - e in unica copia - entro e non oltre il 31 maggio 2017. Volendo, tutti i materiali possono essere inviati via e-mail (defelice.d@tiscali.it) Le opere straniere devono essere accompagnate da una traduzione in lingua italiana. Ad ogni autore, che può partecipare a una sola sezione e allegare un breve curriculum di non oltre dieci righe, è richiesto un contributo di 20 Euro per la sezione A e 10 Euro per le altre sezioni, in contanti assieme agli elaborati (ma non si risponde di eventuali disguidi) o da versare sul c. c. p. N° 43585009 intestato a :Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00040 Pomezia (RM). Le quote sono in
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euro anche per gli autori stranieri. Sono esclusi dal contributo i minori di anni 18 (autocertificazione secondo Legge Bassanini). Non è prevista cerimonia di premiazione e l’operato della Commissione di Lettura della Rivista è insindacabile. I Premi consistono nella sola pubblicazione dei lavori. All’unico vincitore della Sezione A verranno consegnate 20 copie del Quaderno Letterario Il Croco (supplemento di PomeziaNotizie), sul quale sarà pubblicata gratuitamente la sua opera. Tutte le altre copie verranno distribuite gratuitamente, a lettori e collaboratori, allegando il fascicolo al numero della Rivista (presumibilmente quello di ottobre 2017). Sui successivi numeri (che l’autore riceverà solo se abbonato) saranno ospitate le eventuali note critiche e le recensioni. Ai vincitori delle sezioni B, C, D, E, F e ai secondi classificati per ciascuna sezione, verrà inviata copia della Rivista - o del Quaderno Letterario Il Croco - che conterrà il loro lavoro. Per ogni sezione, qualora i lavori risultassero scadenti, la Commissione di Lettura può decidere anche la non assegnazione del premio. La mancata osservazione, anche parziale, del presente regolamento comporta l’ automatica esclusione. Foro competente è quello di Roma. Domenico Defelice Organizzatore del Premio e direttore di P.-Notizie Vincitori della SEZIONE A delle precedenti edizioni: Pasquale Maffeo: La melagrana aperta; Ettore Alvaro:Hiuricedhi; Viviana Petruzzi Marabelli: Frammento d’estate; Vittorio Smera: Menabò; Giuseppe Nalli: A Giada; Orazio Tanelli (USA): Canti del ritorno; Solange De Bressieux (Francia): Pioggia di rose sul cuore spento; Walter Nesti: Itinerario a Calu; Maria Grazia Lenisa: La ragazza di Arthur; Sabina Iarussi: Limen; Leonardo Selvaggi: I tempi felici; Anna Maria Salanitri: Dove si perde la memoria; Giuseppe Vetromile: Mesinversi; Giovanna Bono Marchetti: Camelot; Elena Mancusi Anziano: Anima pura; Sandra Cirani: Io che ho scelto te; Veniero Scarselli: Molti millenni d’amore; Sandro Angelucci: Controluce; Giorgina Busca Gernetti: L’anima e il lago; Rossano Onano: Mascara; Fulvio Castellani: Quaderno sgualcito; Nazario Pardini: I simboli del mito; Rodolfo Vettorello: Voglio silenzio; Isabella Michela Affinito: Probabilmente sarà poesia; Antonia Izzi Rufo: Sensazioni.
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I POETI E LA NATURA - 64 di Luigi De Rosa
Domenico Defelice - Il verme, lo scarabeo, il croco (acquerello)
ALDA MERINI E L'AMORE PER GLI ANIMALI (“IO SONO UNO DI LORO”)
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ello spirito di questa Rubrica mensile il rapporto dei poeti con la Natura riguarda non solo l'ambiente geografico-paesaggistico, minerale, meteorologico, spaziale, ma anche il mondo vegetale, e soprattutto quello animale. Con particolare riguardo agli animali domestici e addomesticati, come per esempio i cavalli, se non addirittura a quelli da compagnia, come i cani e i gatti. Specialmente con cani e gatti l' essere umano ha avuto, in tutti i tempi e in tutti i Paesi, rapporti particolarmente intensi, sfocianti nel campo affettivo, se non in quello pedagogico, filosofico, o addirittura in quello religioso. Mi torna in mente san Francesco, col suo Cantico delle Creature,
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cui ho dedicato una delle prime puntate di questa rubrica, anni fa. Mentre, se penso ai nostri giorni, non posso non ricordare il triestino Umberto Saba e la sua “mania” per il mondo degli alati, o Giovanni Pascoli e la sua “specializzazione” nell'imitare i versi degli uccelli nelle sue poesie. Ma oggi desidero ricordare una grande poetessa milanese che ci ha lasciati da pochi anni, Alda Merini. Una poetessa che, com'è noto, ha avuto una vita particolarmente sfortunata e infelice (dal 1931 al 2009), contrassegnata, da una certa età in poi, da dolorosi ricoveri in ospedali psichiatrici (i cosiddetti Manicomi). Una donna dalla sensibilità acutissima, che ha trovato nella Poesia una fonte di consolazione unica. Morta di un tumore osseo (sarcoma), e con l'onore dei funerali di Stato nella sua Milano dei Navigli: “Ho la sensazione di durare troppo - aveva scritto già quattordici anni prima – come tutti i vecchi non riesco a spegnermi, le mie radici stentano a mollare la terra. Ma del resto dico spesso a tutti che quella croce senza giustizia che è stato il mio manicomio non ha fatto che rivelarmi la grande potenza della vita” (Da “La pazza della porta accanto”, Bompiani, Milano 1995). La Merini non ha mai dimostrato di avere problemi su una eventuale definizione e collocazione del suo rapporto poetico con gli animali. In quanto lei, tout court, si sente di appartenere al loro mondo. “ Perché amo gli animali ?” si è chiesta un giorno. “ Perché io sono uno di loro” si è risposta con estrema chiarezza. “ Perché io sono la cifra indecifrabile dell'erba, il panico del cervo che scappa. Sono il tuo oceano grande e sono il più piccolo degli insetti. (Una volta si è ...calata nei panni di una vespa). E conosco tutte le tue creature: sono perfette in questo amore che corre sulla terra per arrivare a te.” Luigi De Rosa
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Recensioni AURORA DE LUCA ASPRA TERRA E CREAZIONE FERTILE NELL’OPERA DI DOMENICO DEFELICE Edizioni EVA, 2016 - Pagg. 152, € 10,00 A pochi mesi di distanza (marzo 2016-giugno 2016) dalla pubblicazione di una tesi di laurea discussa da Claudia Trimarchi, intitolata La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice, ecco ora una nuova tesi su questo autore, avente per titolo Aspra terra e creazione fertile nell’opera di Domenico Defelice, discussa presso la stessa Università da Aurora De Luca. Ed è di quest’ultima che qui ci vogliamo occupare. La De Luca inizia la sua tesi con l’esporre la metodologia da lei seguita in questo lavoro, che è stata quella di perseguire “un’analisi, stilistica, tematica e di evoluzione delle forme” volta a scoprire “l’ uomo e il poeta”. Ella passa poi a ricercare le origini di questa poesia, in un capitolo intitolato Terra e Uomo, nel quale, studiando la prima silloge di Defelice, Un paese e una ragazza, individua in essa un amore profondo per la Calabria, Terra natale di questo poeta, dai forti colori e dai profondi contrasti, ma anche dotata di una prorompente vitalità. La De Luca mette in luce anche come Defelice “dal soggettivismo lirico” della sua produzione giovanile, di stampo “assai passionale, abbia maturato una pianta sempre più robusta che assorbe il reale e guarda al vero, aderendo sempre più al carattere «feroce e mansueto» del suo autore”. Ricerca quindi il significato delle successive sillogi, evidenziando come questo poeta sia andato affinando
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la sia vena. Segue poi una scelta delle poesie defeliciane che ci offre un’immagine abbastanza compiuta di questo autore. Si passa successivamente ad un esame più particolareggiato delle varie raccolte poetiche, a cominciare da 12 mesi con la ragazza (1964), che ebbe “un inaspettato successo” per la sua freschezza e autenticità. Seguì La morte e il Sud (1971), nel quale affiora e prende corpo la vena civile di Defelice, il quale si scaglia con violenza contro le prepotenze e gli abusi dei malavitosi che insanguinano la sua Terra. L’arma di cui si serve il poeta è qui quella dell’ironia (sovente quella del sarcasmo), che crudamente mette a nudo i mali secolari del Sud. Altre invettive scaglia Defelice contro il consumismo e la “corsa affannosa di omologazione a standard produttivi”, fatta in modo da perdere di vista la qualità e il fine stesso della vita. Nella raccolta successiva, Canti d’amore dell’ uomo feroce (1977) la De Luca scopre una poesia che è distante sia “dai moduli essenzialmente lirici di 12 mesi con la ragazza, sia “dalla liricità epica di La morte e il Sud”. Qui infatti s’affaccia in questo autore la “mestizia”, e il tema della “ferocia” contro i malvagi sfocia in quello della “fratellanza” con coloro che soffrono, sicché il suo canto “anela alla pace”. “Un aspetto più intimistico” hanno poi i Canti per Clelia, che si trovano nella seconda parte della raccolta, mentre nella terza ed ultima parte vi è una commossa evocazione di “figure care” per lo più scomparse. Nella successiva silloge Alberi? la De Luca individua il raggiungimento per Defelice del culmine della sua arte poetica. In questo libro infatti, nel suo “orto-giardino” il nostro poeta è “in bilico tra il reale e il visionario”, pervenendo ad un equilibrio perfetto di stampo “panteistico”. In questo suo Eden Defelice ascolta il vento che gli porta “brezze carezzevoli”, ma anche gli porta “i lamenti e le angosce degli uomini della città”, sicché l’albero diviene il simbolo di una “spinta vitale” che “rigenera la Terra”. La Natura in Defelice si contrappone pertanto alla contraffazione e all’adulterazione che l’uomo compie nelle città, che divengono il simbolo del male e dell’inautentico. A riprova di quanto affermato, la De Luca fa ampie citazioni dai testi della raccolta, riportando a conclusione due poesie che appaiono molto compiute. Nel capitolo successivo l’autrice introduce l’ equazione Vita e Poesia: Poesia è vita, per dare una più efficace visione dell’arte dell’autore studiato, così come emerge da libri quali Nenie ballate e canti e ripercorre il suo itinerario poetico, per dimostrare la verità del suo assunto, attraverso molte-
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plici citazioni, acute notazioni sui testi e un’ampia messe di informazioni a riprova della validità della poesia studiata, che comprende anche altre raccolte di molto pregio, quali Resurrectio, dove l’evento della malattia e la successiva guarigione sono trattati con fine introspezione. Si vedano pure le poesie di A Riccardo (e agli altri che verranno), nelle quali il rapporto tra Defelice e il nipotino trova accenti di affettuosa levità Nella seconda parte della sua tesi la De Luca affronta l’attività svolta da Defelice come direttore della rivista “Pomezia-Notizie”, un mensile che è in vita da ormai più di quarant’anni. È questa un’ iniziativa nella quale Defelice ha profuso molte delle sue energie e che è divenuta un po’ la sua creatura. Dal 1992 inoltre compaiono con la rivista i Quaderni Letterari Il Croco, che presentano di volta in volta un poeta. Nella sua lunga attività la rivista ha ospitato numerosi articoli di molto interesse, ad opera di autorevoli redattori e dello stesso Direttore, il quale si è occupato anche di pittura, essendo egli stesso un pittore. Tra le molte poesie pubblicate su “PomeziaNotizie” la De Luca ricorda poi quelle che Defelice ha dedicate al nipotino Riccardo, e in particolare Ho piantato un leccio, che è tra le sue più incisive. Un capitolo a parte è dedicato in questa tesi all’ epistolario di Defelice, ricco di oltre quattromila lettere, da lui donate alla Biblioteca Comunale di Pomezia, tra le quali vanno ricordate quelle del critico Francesco Pedrina, che di Defelice fu amico e gli fece conoscere molti uomini di valore, tra i quali Ettore Serra e Carlo Delcroix. Fitto fu anche il carteggio intrattenuto da Defelice con la poetessa Maria Grazia Lenisa, con la quale strinse una fraterna amicizia. In appendice alla tesi compare inoltre un’ intervista, nella quale Defelice risponde ad alcune domande a lui rivolte dalla De Luca, che valgono a far meglio conoscere l’uomo e il poeta; domande alle quali l’intervistato risponde puntualmente, precisando che, per quanto riguarda il suo amore per l’ autunno (prima domanda), egli ha sempre “amato immensamente la campagna”, mentre per ciò che concerne l’attaccamento alle opere da lui prodotte (seconda domanda), egli ama tutto ciò che ha pubblicato, senza nulla rifiutare di quanto è andato scrivendo negli anni. Se però dovesse dare “un posto privilegiato” (terza domanda) a qualcuno dei suoi libri lo darebbe ad Alpomo, perché è quello che meglio risponde al suo intento di opporsi alla delinquenza organizzata. Ma anche altri suoi libri Defelice predilige, come Resurrectio, Alberi? e A Riccardo (e agli altri che verranno).
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Alla successiva domanda (la quarta): “Come convive Domenico Defelice uomo con il Domenico Defelice poeta, scrittore, pittore, giornalista, critico, saggista?”, l’intervistato risponde affermando che in lui l’uomo e il poeta convivono agevolmente, così come convivono le altre attività da lui praticate, dal momento che egli si è sempre sforzato di esercitarle con “onestà”; ed aggiunge che per lui praticare l’onestà intellettuale significa agire in modo da essere sempre “a posto con la propria coscienza” (quinta domanda). Alla sesta domanda, riguardante le sue “frequentazioni letterarie”, Defelice risponde che, oltre ai nostri autori classici, come Dante, Petrarca e Boccaccio, egli si è interessato di tutti i maggiori scrittori italiani e stranieri più noti del passato e anche di parecchi contemporanei. Defelice confessa inoltre che la poesia viene a cercarlo (settima domanda) specialmente allorché si trova in diretto contatto con la natura e che Roma, la città eterna, è stata sempre per lui fonte inesauribile d’ispirazione (ottava domanda). Se poi dovesse lasciare un messaggio ai giovani (nona domanda), direbbe loro di “non mirare mai alla ricchezza”, ma di amare la vita per se stessa “in tutte le sue sfaccettature”. Se infine gli fosse concesso uno “spazio bianco” (decima domanda) egli lo riempirebbe godendo dei doni meravigliosi della poesia e dell’arte in generale. Con questa intervista la tesi della De Luca si chiude, facendo emergere (così come si era nei suoi intenti) l’immagine compiuta di un poeta e di un uomo di cultura, qual è Domenico Defelice, in maniera sicura ed efficace: il che era poi lo scopo precipuo del suo lavoro. Elio Andriuoli
EDMONDO BUSANI ITACA NON ESISTE Edizioni Diabasis, 2015, pag. 90, euro 16. Contiene un irrimediabile male di vivere (che non si limita a essere un sentimento privato del poeta, “sorridi celiando sul mio male di vivere”, ma diventa una condivisa e universale condizione umana) l’ultimo libro dello scrittore parmigiano Edmondo Busani, nato nel 1949 e autore di tre precedenti raccolte. A tale riguardo citiamo questo verso particolarmente riuscito e significativo: “siamo vagabondi tra le rovine”. Prima di addentrarci nei versi e di intraprendere il nostro personale viaggio nelle parole del libro, occorre soffermarsi sul titolo ( Itaca non esiste) e sul sottotitolo (Poesie per un viaggio). La certezza che Itaca (isola metaforica e non reale dove si spera di
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rifugiarsi e riposare dopo peripezie e insidie) non esiste è una consapevolezza che l’autore ha acquisito da tempo e che non ha bisogno di ulteriori conferme: un punto di partenza più che di arrivo . Il viaggio a cui il sottotitolo si riferisce è poetico e psicologico e non geografico, è un percorso dove la riflessione sull’uomo e sui suoi limiti, sulle sue debolezze e fragilità, prevale decisamente sulla descrizione di paesaggi e ambienti. Itaca esiste semmai come miraggio, inganno e illusione, sopravvive come negazione. Scrive il critico Giuseppe Marchetti nell’ampia Prefazione: “proprio in quel non Itaca esiste. Essa è l’isola che non si raggiunge, e la fatica del viaggio culla la poesia”. Predomina nella raccolta di Busani un senso di sfinitezza (“la malinconia delle ore mi svuota l’ animo…”) che coinvolge cose, atmosfere e parole. Le ombre (non quelle spigolose e dure ma quelle velate e impalpabili) sovrastano la luce che “si raffredda” , che “si spegne senza rumore” e che appare (ai nostri occhi offuscati) ovattata, sbiadita, annebbiata, smorta: “All’ultimo guizzo le ombre / si avvicinano alla soglia / si fermano disorientate / guardano la luce che muore”. Comparse di un destino inesorabile, siamo confinati sul limite, sul confine: “Resto in piedi all’ entrata / granello nella fila per l’altrove”. I segni del nostro passaggio si riducono a tracce, impronte, “orme invisibili”; le parole si dimostrano incapaci di scandire con chiarezza i nomi delle cose, di raccontare i fatti, di illuminare gli oggetti svelandone tratti e significati: “Le parole si sono sbriciolate / impolverano / cose corpi respiri”. Sulla soglia del silenzio e dell’afasia, la poesia continua tuttavia, timida e temeraria, a cantare: “Assenze conosciute animano l’azzurro / quiete intonano un afono canto / per fecondare la terra”. Giancarlo Baroni
AURORA DE LUCA MATERIA GREZZA Poesie - Genesi Editrice, Torino, 2014; pp. 66, € 12 Uscita con tre note critiche introduttive che la coronano con dettagliata perspicacia – rispettivamente di Sandro Gros-Pietro, Domenico Defelice e Franco Campegiani – e corredata di una postfazione di Sandro Angelucci, questa raccolta di liriche della giovane poetessa Aurora De Luca è «un libro di invenzioni su un unico tema o su temi che si aprono a grappoli e si dispiegano come liquide dolcezze…» (Defelice): questo moderno «Canzoniere d’amore» sembra infatti trovare le sue origini e la sua linfa proprio in questa sua sostanziale, magmatica e me-
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ravigliosa fluidità. Il sentimento sempre si ramifica e si sgroviglia in allegorie acquatiche, e in specie marine: nulla invero più del mare, più di questa entità mutevole e inafferrabile, magnifica e terribile, può rappresentare metaforicamente l’ansia e l’ ardore, i cimenti e i sogni, la stupenda attrazione e la misteriosa infinità abissale della passione d’amore. Nel suo lirico soliloquio, la poetessa evoca dialetticamente l’amato, che è sì figura in controluce, ma è pur sempre presente ai suoi occhi, al suo cuore, al suo pensiero, mentre forgia passo a passo questa materia grezza e cangiante del suo sentire; materia costruttiva e sublime che è concretezza e spirito ad un tempo, eterna e sempre nuova nella sua essenza informe e indefinibile, «che lo scalpello della vita scolpirà per farne una mirabile scultura» (Campegiani). Intensissima, in ogni pagina, l’espressione dell’ ardente ricerca di una totale intesa, di un’intima complementarità, che non è mai, però, conquista irrevocabile, traguardo raggiunto; è un’ansia fiduciosa che di continuo si rinnova, che ogni volta da capo ricomincia come un quotidiano e faticoso percorso verso vette visibili ma non facili da raggiungere: «Ma m’accorgo che posso solo restare /a seguirti, /a cercare di vederti, /e che mai potrò saperti come cosa mia finita». In una semplice eppure straordinaria combinazione di eventi che solo il destino può aver messo in moto (destino nel senso preciso della greca τύχη, la fortuita facoltà di imbattersi in qualcuno o in qualcosa) lui ha incontrato lei: egli l’ha vista ed ella ha còlto all’improvviso il suo sguardo (…ed il tuo viso, tra molte facce, mi vide). Da quell’attimo, un intrico di fili, impalpabili e indistinti, ha iniziato a creare segretamente la materia grezza del mistero. Con viva e sensibile intuizione, Aurora scrive nel Prologo in prosa di questo libro: «Vorrei lo ricordassi, che sia tuo quel momento in cui era inizio, tutto sul filo, in cui ogni cosa poteva essere per sempre felicità o per sempre perdita. Vorrei sia con te quella sensazione di elettricità confusa, di leggera follia e paura, con te quella voglia pura e urgente che non ha nascondiglio». Nell’ansia costante di unione e di identificazione con l’amato, la poetessa dice in altro passo: «Ho tutti gli occhi infuocati di voce, /ti parlo, ti parlo. /Ti invio di più della semplice bocca, /un fluido d’anima timorosa, /che bussa nel tuo sguardo /per ricevere ospitali silenzi». Ed ecco, subito di seguito, in questa stessa poesia (Parole semplici), riaffiorare ancora le diffuse metafore marine: «Risacche di abbracci, /vuoti e pieni, /pallide palpebre marittime /che allorché si chiudono, /vedono». Un respiro d’infinito attraversa da cima a fondo questi versi, e li investe ovunque del soffio miste-
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rioso del Tempo che non ha pace e non dà pace, con una sempre così rara, intensa e disarmata purezza d’accenti, che pare raccogliersi in quella che è forse – senza nulla togliere ai pregi di tutte le altre – la più bella di queste liriche (Vento), sopra tutto per quell’impagabile senso di «indefinito» che la sovrasta, e per quella sotterranea Sehnsucht romantica – rinnovata nell’attualità di un giovane sentire – che diviene di per sé autentica visione poetica: Questo vento sa di posti che non ho veduto di sguardi che non ho mai còlto, di labbra che hanno sussurrato parole di luna che pur non ho mai udito.
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angolo colorato dell’ibisco, il cielo colorato del crepuscolo, le foglie secche che aspettano di volare con il vento; ma, soprattutto la spensieratezza e il sogno di due innamorati nel mese di maggio. Tutto questo non vuol dire perdere contatto con la realtà, ma semplicemente prendersi una pausa. Mentre mi sembra equilibrata la terza sezione (diciamo così); in essa abbiamo l’ammirazione verso Don Gnocchi per la sua attività umanitaria e a una sorta di cammeo assomigliano i versi dedicati a Lourdes; mentre esprimono una speranza i versi dedicati a Maria di Magdala: “Incanto di un mattino/ uscito dal buio della notte/ e una donna trepida, gioiosa/ che porta al mondo/ il primo annuncio.” Tito Cauchi
Questo vento mi è straniero. Eppure si aggiunge alla boscaglia della mia coscienza ed ella lo brama e lo chiede, come se avesse riavuto indietro un dono, perduto non si sa né quando né dove. Marina Caracciolo LINA D’INCECCO OMBRE E LUCI Il Croco/ Pomezia-Notizie, Gennaio 2017, Pagg. 24 Ombre e Luci, è raccolta poetica risultata vincitrice del 2° Premio Città di Pomezia, 2016. La sua autrice, Lina D’Incecco, insegnante molisana, può aggiungere tale merito ad altri già conseguiti. Domenico Defelice, nella prefazione sottolinea le ombre delle ingiustizie, come per esempio l’olocausto, e le luci che illuminano i luoghi della memoria; egli giudica questa poesia “altamente sociale” che prende le distanze dai tanti poeti che si piangono addosso, nel proprio io. Idealmente divido la raccolta in tre sezioni. Nella prima, abbiamo la visione del sangue che da vari anni macchia piazze di tutte le latitudini, per terrorismo (come a Parigi), per guerre, per lotte fra disperati (a Rosarno, Reggio Calabria) che lasciano la propria terra, mentre la vita dei giovani ugualmente scorre fra innamoramenti e canzoni; basta sfogliare i giornali. È triste realtà, ma è necessario che se ne prenda coscienza e non se ne perda la memoria, come fa la Nostra che ha metabolizzato il tempo che vive. Nondimeno mi sento più vicino a quelle poesie che consentono il rilassamento della fantasia, il piacere dell’incanto che ci fa evadere in luoghi come l’
LUIGI RUGGERI MICHELE E GABRIELLA FRENNA L’INCONTRO DAI MOSAICI ALLE POESIE Associazione Teatro-Cultura “Beniamino Joppolo” - Patti - Poeti della Misericordia- In copertina, a colori, “L’incontro”, mosaico di Michele Frenna MAGI Editore, 2016, Pagg. 60, € 8,00. Mosaici e poesie, poesie e mosaici…un incastro perfetto tra Michele e Gabriella Frenna. Padre e figlia con una passione per l’arte sfociata nel primo nella creazione di mosaici e nella seconda in poesie. Il saggio di Luigi Ruggeri vuole ripercorrere la vita artistica dei due, Michele purtroppo scomparso e la figlia Gabriella che ancora si dedica alla poesia.
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Il volume presenta una raccolta di alcuni mosaici di Michele Frenna, un’artista ispirato dalla sua Sicilia e dalla sua Fede. Il tutto accompagnato da alcune liriche della figlia, ispirati ai lavori stessi del padre, una sorta di omaggio al genitore che non c’è più, ma del quale rimane la sua opera più volte premiata. Nel volumetto le tessere dei mosaici, colorate, finemente tagliate si intrecciano con i versi poetici, quasi a formare un tutt’uno. L’arte dei due, sia del padre che della figlia, nasce da un dolore: la scomparsa dell’altra sorella di Gabriella, nonché altra figlia di Michele. Questo dolore nel tempo si è trasformato in ispirazione, per lenire le ferite che la vita ci lascia. I mosaici di Michele hanno tonalità gradevoli e sono ben definiti, basti guardare l’immagine di copertina (“L’incontro”) in cui due sub sono nel mare tra i pesci, in una sorta di danza… “il gioco sereno della coppia nell’acqua svela il pensiero dell’ artista musivo acerrimi nemici diventano amici… s’abbracciano gli squali diventano mansueti, col
messaggio d’amore, di speranza e di pace”. Gabriella con i suoi scritti lascia che il suo io cerchi di penetrare la conoscenza, un trascendentale che sfocia nel realistico; Michele con i suoi lavori cerca la pace, lo splendore del creato per regalarli a se stesso, alla sua famiglia e all’umanità. Roberta Colazingari
DOMENICO DEFELICE NINO FERRAÚ Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2016 Il Croco di Novembre 2016 è dedicato da Domenico Defelice al lavoro instancabile di Nino Ferraù, poeta, scrittore, giornalista, critico, pittore e grafico. Nato in provincia di Messina nel 1923, morì nel 1984. Defelice ripercorre la sua vita artistica ricordando che iniziò a comporre poesie all’età di 10 anni e che in collegio scrisse il suo primo romanzo. Un bambino prodigio per l’epoca, che era ostacolato dalla mamma (perché di scrittura non si campa) ma ap-
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poggiato in silenzio dal papà. Una volta diventato insegnante Ferraù ha appreso un linguaggio duttile e semplice, alla portata di tutti, facile da essere compreso. Nelle sue opere canta l’amicizia e l’amore: quello verso la donna e quello verso il genere umano, la natura. Un poeta armonico, lo definisce il Defelice, per il quale: “il sognato è vero e dà gioia; la realtà è spesso inguardabile e fonte di dolore e dramma…”. Ferraù sente nella natura e nell’uomo la presenza di Dio, l’albero simboleggia l’immortalità: “Nell’ armonia del paesaggio, nelle sue sublimità, ma anche nelle sue aridezze, i poeta vede il volto di Dio, lo stesso che scopre in ogni vivente; alzare un inno all’uomo, o agli animali e alle cose, è alzare un inno alla Divinità”. Per Ferraù il mondo è come un palcoscenico (ricorda un po’ Shakespeare) in cui si svolgono, non con finzione, le vicende di ogni essere vivente, in cui ci sono gioie, dolori, sangue e la morte che: “…è necessaria perché è la sola che ci inchioda all’evidenza della nostra pochezza e riesce a cementare l’amore”. Ferraù riesce a ripercorrere con i suoi lavori la socialità, il mondo del passato, del presente e anche del futuro; un mondo che lui vede senza speranza, inquinato, inesatto, cementificato. Le sue liriche sembrano delle istantanee fotografiche, che tentano di scavare nell’animo umano. L’excursus letterario si conclude con alcune lettere dell’epistolario avvenuto tra il Defelice e lo stesso Ferraù, amici per amor di letteratura. Roberta Colazingari
AMERIGO IANNACONE A ZONZO NEL TEMPO CHE FU Prefazione di Adriano Petta, Postfazione di Tommaso Scappaticci - Edizioni EVA, 2016 - Pagg. 112, € 16,00 Amerigo Iannacone è un innamorato dell’ Esperanto e ne ha tutto il diritto; noi non ne siamo ostili, ma indifferenti e pensiamo di averne altrettanto diritto. Perché, per noi, una lingua - qualunque lingua - è viva e ragionevole la sua diffusione se ha radici nella carne altrettanto viva di un popolo e di una civiltà, e l’Esperanto non lo è, nata artificialmente, a tavolino; essa per noi, insomma, è proprio quella che lui definisce la “scialba lingua” (“E finiamola qui”). Ma, al di là di queste discutibili divergenze, abbiamo sempre stimato Iannacone - scrittore, poeta, operatore culturale - fin dal 1982, quando abbiamo
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letto e brevemente anche recensito i suoi Pensieri della sera. I suoi “Appunti e spunti. Annotazioni linguistiche” ed i suoi “Versetti e versacci”, sotto la firma di Bastiano, li abbiamo sempre cercati sul suo Il Foglio Volante - La Flugfolio e letti con condivisione e spasso. A zonzo nel tempo che fu si apre con la poesia “Terra di silenzi”, nella quale egli definisce “Il Molise/(...) terra di silenzi”, appunto, e “un lembo di cuore”. Noi abbiamo amato la sua terra come la nostra fin da un lontano primo incontro. Iannacone sembra non condividere che qualcuno abbia definito il suo Molise “un’isola felice”. Se così è, sbaglia. Il nostro amore, per esempio, è scaturito proprio dal fatto che, allora, quella terra fosse, o così ci appariva, quasi del tutto vergine di delinquenza organizzata, mentre la nostra ne era stretta in una morsa soffocante: “Il Molise/somiglia un poco alla mia terra/e non ha scatti d’ira”... Sì, proprio “un’isola felice”, che ci procurava invidia; ne eravamo talmente con-
vinti che, in una poesia a lui dedicata, pregavamo l’ amico Nicola Iacobacci, nativo di Toro ma residente a Campobasso, che ci aiutasse affinché in noi non si spegnesse del tutto l’amore per la Calabria, dilaniata dalla ‘ndrangheta: “Aiutami, Amico, a non tradire il Sud. Tra gli ulivi s’aggira il serpe, cadono i giusti, il sangue già copre l’Aspromonte.” Da “Canti per i vivi e per i morti”, in Canti d’amore dell’uomo feroce, 1977. Abbiamo conosciuto Innacone il 20 ottobre 1984, nel corso della cerimonia conclusiva della V Edizione del Premio Letterario Internazionale Città di Pomezia; di noi più giovane e robusto, non aveva ancora il suo “bel quintale” - come egli stesso si esprime -. L’abbiamo sempre apprezzato anche perché poeta e scrittore non logorroico; di lui, infatti, non abbiamo letto mai brani che andassero oltre le due, tre paginette. Stringatezza succosa, che troviamo pure nei rac-
conti di A zonzo nel tempo che fu, libro che verrebbe voglia di definire romanzetto “memoriale”, perché i vari capitoletti son tutti delicatamente raccordati. Un libro che Tommaso Scappaticci definisce quasi un “saggio antropologico”, che vive “su precario equilibrio fra espansione affettiva e distacco testimoniale”, e nel quale “il racconto mira a evitare gli opposti estremismi della mitizzazione del passato e della elegia dell’infanzia povera e infelice”. Si è alla presenza di una narrazione piana, senza enfasi, sintetica e razionale. Il paese di Ceppagna che, per certi aspetti, assomiglia a un qualunque altro paese del centro-Sud dell’Italia di quegli anni, quindi non soltanto del Molise - ne esce vivo e palpitante e i fatti raccontati si memorizzano facilmente e spontaneamente con levità ed affetto, conditi come sono di sottile ironia. Francamente non siamo in grado di valutare quale, fra i tanti, sia il brano migliore. Persone, animali e cose hanno una luce di poesia, possiedono ed emanano spleen - non semplice e sola nostalgia che sostanzia e placa, fasciati come sono di profondo amore. C’è un aspetto di paese che nella realtà è scomparso o tende a scomparire e che il lieve raccontare di Iannacone eternizza. Domenico Defelice Nelle immagini, Amerigo Iannacone a Pomezia, nell’Aula Magna dell’Istituto Statale d’Arte, oggi “Pablo Picasso”, mentre ritira il Premio al Città di
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Pomezia 1984. Nella prima, sullo sfondo, con microfono, il corrispondente del quotidiano Il Tempo, dott. Franco Di Filippo; nella seconda, seduta, di spalle, la Presidente del Premio, la poetessa, scrittrice e ceramista Professoressa Ada Capuana, pronipote del grande scrittore siciliano Luigi Capuana. LINA D’INCECCO OMBRE E LUCI 2° Premio Città di Pomezia 2016 - Il Croco - i quaderni letterari di Pomezia-Notizie, 2017 Lina D’Incecco, professoressa in pensione nativa di Termoli, ha meritato il 2° Premio al Città di Pomezia 2016 con questa raccolta. In alcune poesie viene fotografata la realtà molteplice, spesso amara, dell’attuale momento storico. Sfilano nei versi secchi, franti, d’impronta narrativa, barboni ed emigrati, ma anche figure di tutti i giorni (la giovane valchiria fasciata dai fuseaux, o gli scout adolescenti che “come lupetti affamati/ cercano pastura/ e prime emozioni”). Una parte della silloge è all’insegna della fede (Don Gnocchi, Lourdes, Maria di Magdala). Spiccano delle liriche che ci narrano di emozioni di fronte alla bellezza della natura. Qualche esempio: “Turgida perla/ la sera d’estate,/ quando, calato il sole,/ resta all’orizzonte/ un violaceo alone./ Il chiaro del cielo/ si specchia/ nella quiete del mare”; “Stanziano sul marciapiede/ le foglie del tiglio/ gialle, secche, accartocciate”. Poesia sommessa che (per dirla con Defelice curatore della prefazione) è “altamente sociale, aperta agli altri, all’amore fraterno universale”. Elisabetta Di Iaconi
IMPERIA TOGNACCI LÀ, DOVE PIOVEVA LA MANNA Edizioni Giuseppe Laterza - Bari- 2015 “Là, dove pioveva la manna” ultima, grande rivelazione di Imperia Tognacci, che potremmo definire una delle più profonde scrittrici contemporanee, poesia con appropriatissime implicazioni filosofiche riflettenti eterne problematiche: essere non essere, razionalità e mito; mito generatore dell’essere, mito e realtà quotidianamente vissuta, che senza l’ intenso, impellente impulso alla ricerca, in noi, del mito, corrisponde appunto al non essere, senso del mito quindi in noi occulto ed intrinseco (da Parmenide ad Heidegger), mito e Verbo divino, razionalità ed esito mistico cristiano. Questa poesia dunque, ove la dialettica intellettuale è sempre intrinseca,
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senza staccarsi da essa, senza mai (raggelarla, alla grande emotività continua, la quale dà spesso luogo a bellissime immagini, poesia alcune, di per se stesse (come per esempio: “conchiglie fossili risuonano /dell’oceano lontano” pag. 26; “tace il trillo della sveglia / nell’assonnata stanza” pag. 19, il silenzio sui bicchieri vuoti accumulato, il portone che “… il tocco conserva di mani senza futuro” pag.19; “legami logori sono viatico nel millenario andare” pag. 34, “fonda notte di deserto / la luna abbassa gli occhi / sulle dune addormentate”; “non tutto di te è smarrito tra sbarre d’ombra” pag. 55; “in nicchie di luce lunare barcollano secoli” pag. 56; e tante altre veramente poesia di per se stesse, piccoli, universali mondi conchiusi in se stessi, prescindendo per un momento dal legame continuo con l’insieme; questa poesia, dico, è, per noi, raggelati dal vuoto di ritmi, senza senso, frenetici ed orrendi (incenerenti, di fronte alla nostra abbandonata inerzia, ogni residuo via via di valori, una profondissima indicazione all’anima per il viaggio che, su orme socratiche primamente, deve compiere per staccarsi da tutto in vista del “conosci te stesso”, con l’impulso platonico di vedere cos’è nelle sue origini mitiche il “te stesso” e nel senso agostiniano del sacro in me riscoperto tra le più varie traversie esterne. Ed infine senza questo viaggio che l’anima deve compiere (col senso dell’altro: familiari estinti, cicli di vite finite, ma presenti nel nostro profondo; Dio infine) per l’autrice non è possibile parlare di nuovi valori. L’opera si articola in sette poemetti, mondi apparentemente conchiusi in sé, ma legati dal profondissimo senso che è in tutti, ma spesso scordato, di unità tra noi, tra i vivi ed i morti, familiari e antichi, di cui più nemmeno parla o vagamente, la storia, ma presenti, anche tramite letture classiche, bibliche, coraniche, nel profondissimo, inconscio senso innato, inconscio dico, ma non nel senso psicanalitico, perché qui non si tratta di ereditari, mitici per lontananza, familiari legami del sangue, ma di legami inconsciamente intimi, più spirituali che fisici, per innato spesso perduto, senso di luce divina meta, via via chiarentesi, nella direzione dell’anima è riportarlo alla luce, nei legami prerazionali, e trascendenti la ricercante razionalità, sgomenta per il presente esterno, attuale orrore. Ma ecco l’ originaria unità, evidenziantesi in simbolico deserto, simboleggiante il nostro tempo, nel distacco insieme da esso, l’ originaria unità per cui spontaneamente (o meglio con l’ apparenza della spontaneità) si congiungono in strettissimo legame di osservazione e memoria i padri antichi, coi loro simboli, miti, e ritmi, con dromedari illuminati da veleggiante luna, con immagini familiari di cassetti, scialli riflettenti il paziente, concentrato lavoro di zie e di nonne.
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Prima di concludere, fissiamo l’attenzione su due bellissimi episodi: l’incontro nell’oasi (contatto tra noi e i cari estinti) con il marito morto che le appare in forma umana, sublimata dalla luce (in questo forse la resurrezione dei morti?) ma la poetessa è cosciente che di visione si tratta, vicinissima e abissalmente lontana. L’estinto le cammina a fianco come una volta, ma la sabbia non possiede sue tracce; l’immagine non dà ombra essa ombra è tuttavia stimolo a seguirla, nel “verde miraggio” della speranza-certezza E poi l’episodio finale; contro la decadenza dell’occidente, simboleggiata dall’onda oleosa, per le petroliere sprofondate ed inquinanti, con estinzione di pesci e sbandamento di gabbiani, il sorgere (luce, nonostante tutto, rivelantesi alla lunga ricerca) di una nuova alba, dove il terreno (coste di Aquaba “vestite di sole”) anche nei suoi aspetti più fulgidi, dilegua in nuova, neoplatonica e cristiana, assoluta luce. Per concludere non si può parlare di romanticismo, né di decadentismo. L’assolutezza del terreno è illusione, che però non porta leopardicamente, o montalianamente, alla desolazione, in vista di trascendente luce, in vista della quale l’assurdo, il nichilismo, pur costituendo un pericolo, sono privi di senso. La forma, pur attraverso profonde esperienze moderne – ogni immagine dei poemetti è simbolica - è armoniosamente, musicalmente, stupendamente classica. Carlo Olivari
AURORA DE LUCA ASPRA TERRA E CREAZIONE FERTILE NELL’OPERA DI DOMENICO DEFELICE Edizioni Eva 2016 – Pagg. 152 - € 10,00 Aurora De Luca ci presenta un nuovo libro dedicato all’opera di Domenico Defelice, frutto della sua tesi di laurea in letteratura italiana. “Aspra terra e creazione fertile …” sono le caratteristiche principali di Defelice, il quale è legato visceralmente alla Calabria, terra natia, dove ha passato gli anni dell’infanzia, forse i più importanti per la propria formazione. Terra meravigliosa ma nello stesso tempo difficile nella quale ha potuto maturare un carattere forte, aspro/dolce, combattivo, aperto a tutti gli avvenimenti dell’esistenza. Soprattutto ha ricevuto il dono della creatività, che gli ha permesso di cercare la bellezza in tutte le sue sfaccettature e di “sentire” l’amore, in modo da cantare sia la natura sia i vari sentimenti umani. Aurora De Luca evidenzia in una Miscellanea l’ evoluzione artistica di Domenico proponendo dei componimenti tratti da sue raccolte, cosicché il let-
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tore prende subito contatto con la sua poetica ed è il modo più diretto di conoscere l’autore; ma Defelice non è solo poeta, bensì è saggista, critico, narratore, pittore, perciò su di lui ci sarebbe da scrivere all’ infinito. Aurora ha considerato quattro opere poetiche, da quelle più giovanili a quelle più recenti, per darci modo anche in questo caso di avere una sua immagine nell’arco del tempo. Un’analisi dettagliata che scava nel lavoro e nel sentire di Defelice. Per ampliare ulteriormente il discorso su questo importante personaggio non potevano mancare notizie biografiche. In Vita e poesia: poesia è vita scorrono, infatti, i principali accadimenti della vita del poeta; dalla fanciullezza agli studi, al percorso artistico e letterario con le varie conoscenze e collaborazioni, oltre naturalmente agli avvenimenti familiari. Nella parte seconda del volume Aurora De Luca considera “Pomezia- Notizie – le epistole”. La Rivista, fondata nel 1973, tuttora presente sotto la direzione di Defelice, mese dopo mese per tanti anni ha portato alla luce il mondo culturale e poetico (non solo italiano) facendo conoscere una moltitudine di poeti, pittori, scrittori, critici, ecc. Ha accolto voci importantissime ed oggi si pone a livello internazionale come qualità dei contenuti e delle collaborazioni. Ne fa testo anche l’epistolario di ben oltre 4000 lettere, fra le quali spicca la corrispondenza con Francesco Pedrina, iniziata prima ancora della nascita della Rivista, e quella con Nicola Napolitano. Lettere che fanno ancor meglio comprendere l’ animo di Defelice e il suo porsi di fronte alle varie problematiche vitali. Anche con Maria Grazia Lenisa ha avuto uno scambio notevole di corrispondenza (Il Croco 2015) dalla quale si rileva il carattere della brava poetessa e la profonda reciproca amicizia. Per concludere, Aurora De Luca ci propone un’ interessante intervista con il poeta che sigilla e chiude il cerchio del suo pensare e del suo sentire. Ulteriormente, a impreziosire il volume, oltre la copertina, vi sono delle opere figurative che delineano l’estro artistico di questo poliedrico personaggio. Laura Pierdicchi
È GIUNTA LA SERA È giunta la sera, il merlo canta felice sotto un tiepido sole, i fiori
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e gli alberi hanno rimesso le foglie è primavera: il grano è verde e già alto, nei campi e nei prati ci sono i primi fiori. Come è bella la primavera.
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un arco di carne intirizzita nella raccolta delle olive, le mani screpolate. Il sei è di Nicola, l’otto è di Maria, il tredici di Lucia, il venticinque di Messia. Dicembre gelido, odiato, amato, delle mie mentali trasvolate! Domenico Defelice Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, MI
UN PICCIONE IL CAPANNONE Città industriale, miasmi, fabbriche, lavoratori, scioperi, diritti, bandiere rosse, rivendicazioni, tutto è passato annullato. Bambini, donne, proletari, sovrapproduzione, crisi, emigrazione, questo già sapevamo e non abbiamo evitato, tutto è lasciato ai corsi e ricorsi la storia ha i suoi percorsi e io solo ricordi. Fiorenza Castaldi
Un piccone canta all’alba, il suo canto è monotono e triste in quest’alba d’aprile. Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, MI
ITINERARIO DI CIELO Quote e abissi in itinerari di cielo.
Anzio (RM)
DICEMBRE DELLE FILASTROCCHE Dicembre, nell’inverno ci conduci ma di luce desiderio sei, speranza. Oh, le alzate fredde dell’infanzia la capra a pascolare ed il maiale! Dicembre, lieve tenerezza d’ansia delle albe ogni giorno più precoci nello specchio del ruscello e la borrana. Dall’oggi al domani ‘nu stincu di cani ridendo cantava mia madre. Dicembre delle filastrocche dalla nonna a Ciomba come preghiera recitate,
Mai così grande lo spazio che sogni un fanciullo; mai favola ha narrato di zolle con orme di giganti glauche e lontane geometrie stellate. Il Pacifico slarga orizzonti caleidoscopici e sento già nel cuore giovani patrie; mi dilungo in illimiti frontiere. Ora sospeso aquilone palpito vasto sui picchi delle Ande. Solo a tratti odo grido materno
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e insondabili echi d’addio. Ormai in una nicchia il sole strizza occhi rosati e il jet fragile squarcia nuvole come carta lo scolaro. Regale ondeggia e plana. Sono dunque tra copihues: nel Cile australe che sotto arde e la crosta sussulta incorreggibile. E mi s’inarcano cupole e fioriscono cieli e fanciulle turgide come olive mature. Rocco Cambareri Da Da lontano - Edizioni Le Petit Moineau, 1970
D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE ASSOCIAZIONE PETER RUSSELL - Peter Russell è considerato dalla critica uno dei più grandi poeti inglesi del secolo scorso e l’ultimo dei grandi moderni. Fu inserito tra i candidati al Premio Nobel. Nato a Bristol il 16 settembre 1921, è stato tra i protagonisti della scena culturale inglese degli anni ’50, fondando a Londra la rivista Nine, alla quale collaborarono le maggiori personalità lettera-
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rie dell’epoca, tra le quali T. S. Eliot, Ezra Pound, George Santayana, Kathleen Raine. Dagli inizi degli anni ’60, dopo un soggiorno a Berlino, ha vissuto stabilmente in Italia, a Venezia (fino al 1983) e poi nelle colline del Pratomagno, a Pian di Scò, in un vecchio mulino, “La Turbina”, divenuto la sua casa-biblioteca. Poeta, saggista, polemista, traduttore, conferenziere; profondo conoscitore delle maggiori culture letterarie e religiose mondiali e studioso di numerose lingue, ha conosciuto e frequentato personalmente ed epistolarmente le maggiori personalità culturali del secolo scorso. Da ricordare, tra gli altri, il legame con Ezra Pound, frequentato regolarmente fino alla morte, e l’amicizia con Quasimodo. È morto nell’ospedale di San Giovanni Valdarno il 22 gennaio 2003. Nel comune di Castelfranco Piandiscò - Piazza Vittorio Emanuele 30 - 52026 Castelfranco di Sopra (AR), dopo la morte del poeta, è stata Costituita l’ Associazione PETER RUSSELL, con lo scopo di promuovere e valorizzare la sua figura ed il suo patrimonio letterario, costituito dalla biblioteca, formata da oltre 9.000 libri, e dal suo prezioso archivio. Occorre raccogliere fondi per coprire le spese necessarie a catalogare i libri e sistemare l’archivio. Chi vuol divenire Socio, deve versare la quota associativa che, per il 2017, è di € 25,00 da versare sul conto corrente bancario dell’Associazione stessa, presso la Cassa di Risparmio di Firenze, Agenzia di Pian di Sco’. Il numero IBAN è: IT79 B061 6005 4540 0000 0004 360 Si può contribuire anche acquistando i libri del poeta e a lui dedicati.
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www.peterrussell.info ; info@peterrussell.info (da un foglio dell’Associazione). Peter Russell era amico di Pomezia-Notizie, alla quale ha collaborato per anni, con poesie, saggi, articoli. Di lui ci siamo interessanti tante volte, sia sulle pagine di questo mensile, sia nel nostro volume (da pag. 70 a pag. 86) Poeti e Scrittori d’oltre frontiera edizioni EVA 2005 -, sia, ancora, nell’ opera collettanea The Road to Parnassus: Homage to Peter Russell on his seventy-fifth Birthday - di 600 pagine -, edita dall’University of Salzburg - Salzburg - Oxford - Portland, 1996. Di lui possediamo molte lettere e materiale vario, mentre i suoi volumi sono stati da noi donati, su richiesta, a biblioteche pubbliche. Tempo e salute permettendolo, abbiamo intenzione di dedicargli, appena possibile, uno dei nostri Quaderni letterari Il Croco. (D. Defelice) *** L’OPERA COMPLETA DI POESIA DI SQUAROTTI EDITA DALLA GENESI DI TORINO - L’Editrice Genesi di Torino ha ricevuto l’incarico di pubblicare l’opera completa di Poesia di Giorgio Bárberi Squarotti, autore che ha attivamente partecipato alle vicende di ricerca e di innovazione - come si legge in un comunicato della Casa torinese a firma di Sandro Gros-Pietro - della poesia italiana negli ultimi sessanta anni di storia letteraria nazionale, arrivando a svolgere un ruolo di guida e di orientamento per gran parte degli scrittori italiani e non solo, e che ha sviluppato una sua tematica del tutto originale e autonoma, tale da non accusare debiti verso i classici che lo hanno preceduto, e da apparire inimitabile nella sua complessa formulazione di metafore, di sogni, di testimonianze, di voci del mondo e di visioni interpretative, nelle quali fortemente emerge il richiamo costante alla fedeltà della terra natia e più in generale alla storia antica e moderna del nostro Paese. L’opera editoriale verrà riepilogata in un cofanetto di due volumi, ciascuno dei quali di oltre mille pagine. La curatura dell’opera è affidata a Valter Boggione, già allievo di Giorgio Bárberi Squarotti e attualmente professore dell’ateneo torinese, presso il Dipartimento di Italianistica della Facoltà di Lettere della capitale piemontese. Nella mia coscienza di editore ho piena consapevolezza del valore storico e nazionale di questa edizione, che è destinata a rappresentare un caposaldo della Poesia italiana della seconda metà del Novecento e del primo e secondo decennio del Duemila. In essa, si riuniranno intorno allo Scrittore gli Amici più cari di vita, di lettura e di letteratura e ovviamente di Poesia e di Narrativa, il cui nome apparirà all’interno dell’ opera, nella sezione della “Tabula Gratulatoria”. L’ opera/cofanetto, che verrà presentata in occasione
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del Salone del Libro di Torino del 2017, sarà posta in vendita al pubblico a € 110,00. Per ulteriori informazioni rivolgersi alla Editrice Genesi - via Nuoro 3 - 10137 Torino, Tel. 0113092572, Fax 0110466635, e-mail: genesieditrice@gmail.com *** POMEZIA-NOTIZIE, UN REGALO DI NATALE - Parigi, freddo di stagione [4-1-2017] Buongiorno caro Domenico, Grazie tante per il numero di dicembre di “Pomezia-Notizie” giunto quale regalo di Natale (...). Il suo sottile “ALLELUIA!” sull’elezione di Trump mi piace molto. Non ho mai trovato “La scuola dei dittatori”, forse perché lo ho cercato in italiano (in Francia). Mi dispiace perché dopo avere letto “Fontamara” e “Pane e Vino”, condivido la stima di Albert Camus per la scrittura di Ignazio Silone. Presentare Shakespeare poeta è un’ottima iniziativa da parte di Luigi De Rosa. “Il Presepio” di Nino Feraù è molto commovente (...). Béatrice Gudy Parigi Cara Amica, Leggo il suo “Vrai Noël” e mi complimento con lei. L’avessi ricevuto in tempo, alla preparazione del numero di dicembre, l’avrei ospitato volentieri su queste pagine, sulle quali, per fortuna, non mancano le sue poesie. Grazie per l’apprezzare il mio mensile e per la puntuale lettura che ne fa. Per quanto concerne “La scuola dei dittatori” di Ignazio Silone, che in Francia non riesce a trovare, mi auguro che qualche nostro collaboratore, studioso dello scrittore marsicano, leggendo questa sua lettera, possa venirle incontro procurandole il libro. Io sono sempre pronto e felice di far da tramite. Cordiali saluti. D. Defelice *** LA DONNA E IL MARE AL SALOTTO D’ AUTORE - Mercoledì 8 febbraio 2017, alle ore 18, presso il Salotto d’autore di Sara Iannone - Palazzo Ferrajoli, piazza Colonna 355, Roma - è stato presentato il volume “La donna e il mare. Gli archetipi della scrittura di Corrado Calabrò”, di Carlo Di Lieto, Vallardi Editore. Ad introdurre, il Prof. Antonio Filippetti; interventi del Prof. Roberto Nicolai - Preside della Facoltà di Lettere dell’ Università La Sapienza -, l’On. Prof. Gerardo Bianco, il Prof. Carlo Di Lieto e il Dott. Giuseppe Manitta, Critico e Editore. Maria Letizia Gorga e Corrado Calabrò hanno letto alcune poesie. *** IL CODICE SEGRETO DI ENEA TRADITO-
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RE - Non è vero che la città di Troia sia stata occupata e distrutta dai Greci ad opera dell’astuzia di Ulisse e del suo celebre cavallo; a tradire la città, ad essersi messi d’accordo con i Greci e a farli entrare nottetempo sono stati Enea e Antenore, che hanno aperto loro le porte Scee, sulle quali era scolpita la testa di un cavallo. Tutto questo e molto altro riguardante l’eroe troiano, è stato raccontato in una conferenza alla Biblioteca comunale di Pomezia dallo scrittore di storia locale Giosuè Auletta, autore di molte opere sul territorio di Ardea e dell’Agro pontino e romano, venerdì 13 gennaio 2017, alle ore 17. Secondo lo scrittore - che ha ricordato come l’Eneide di Virgilio sia il libro emblema per eccellenza della cultura dell’Occidente e che se gli studenti lo odiano è solo per colpa degli insegnanti -, neppure la morte del giovane Turno fu per una questione di donne (Lavinia), come Troia non venne distrutta per la bella Elena. Enea venne in Italia e sbarcò sul lido del Lazio - nei pressi di Ardea e Pomezia, appunto -, con un grande esercito, da conquistatore. L’Eneide è stata assunta come libro epico di esaltazione dell’Impero da Augusto, come pure, nel trascorso secolo, da Benito Mussolini. Virgilio non l’aveva composto con un tale intento; è il potere che se ne è appropriato, usandolo a suo favore, costruendovi sopra un cumulo di bugie diventate storia, quella storia, che, si sa, viene sempre scritta dal vincitore, mai dallo sconfitto. Molti altri temi interessanti sono stati oggetto delle “provocazioni” di Auletta, come l’errore per aver abolito, in pratica, il latino dalle scuole; come sia sbagliato collocare Pomezia nell’agro pontino, ma romano; come lo scultore Giacomo Manzù, che ha lavorato nel suo laboratorio di Ardea, dove è pure sepolto, sia il vero interprete di Virgilio. Manzù è stato commemorato e ricordato, anche con una visita al suo Museo di Ardea, martedì 17 gennaio 2017, in occasione del 26° anniversario della morte. Questo incontro con Giosuè Auletta, presso la Biblioteca Comunale di Pomezia, è stato organizzato da Eliano Stella e dal suo Gruppo di Lettura. D. Defelice *** FONDO “DEFELICE POESIA E MISCELLANEE” - Apprendiamo che presso la Biblioteca Comunale di Pomezia, sede di Torvajanica, attraverso parte delle due donazioni effettuate anni or sono dal nostro direttore, è stato istituita la sezione specializzata “defelice poesia e miscellanee”. L’ accesso al patrimonio bibliografico e alla sezione è su prenotazione. *** XXI Edizione Concorso Internazionale di Poesia “Il Saggio - Città di Eboli” - dedicato a Orlando
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Carratù - Si articola in sei sezioni: A - Poesie a tema libero in lingua italiana; B - Poesia a tema libero in vernacolo; C - Poesia religiosa; D - giovani a tema libero – Italiano e vernacolo (fino a 18 anni al 30 aprile 2017); E - Libri editi (categorie: Poesia, Narrativa, Saggistica); F - Libri inediti (categorie: Poesia, Narrativa, Saggistica). Quota di partecipazione - Per ogni opera iscritta al concorso nelle sezioni A - B - C - E si richiede un contributo di partecipazione di 10,00 Euro (gratuito per le carceri e per gli istituti di cura - serve il timbro dell’Ente). Per ogni gruppo di tre elaborati il contributo richiesto è di 25,00 Euro. Per la sezione D non necessitano quote. Per la sezione F la quota è di 25,00 Euro. Ogni concorrente può partecipare con un numero illimitato di poesie o libri (la sezione D con una sola poesia). Tale contributo servirà a coprire parzialmente le spese organizzative. La quota di partecipazione può essere cumulabile tra le sezioni A, B, C, E. La quota di partecipazione dovrà essere versata sul CCP n. 1009316868, intestato a Centro Culturale Studi Storici (tel. 3281276922) via Don Paolo Vocca, 13 - 84025 Eboli (SA), indicando nella causale XXI Concorso Internazionale di Poesia “Il Saggio - Città di Eboli”. IBAN: IT80 B076 0115 2000 0100 9316 868. Copie - I concorrenti debbono inviare 5 copie per ogni poesia (A,B,C,D), una ulteriore copia completa di nome e cognome, indirizzo, recapito telefonico ed eventuale indirizzo email. Per la sezione E e F necessitano tre copie del libro, specificando la categoria: Poesia, Narrativa, Saggistica. Scadenza del bando - Le poesie dovranno essere spedite unitamente alla copia della ricevuta di versamento, non oltre il 30 aprile 2017 (timbro postale) a: Centro Culturale Studi Storici via don Paolo Vocca, 13 - 84025 Eboli (SA). Premi - La Giuria, il cui giudizio è insindacabile ed inappellabile, premierà i primi dieci classificati più altri 40 premi speciali delle sezioni A, B, C, D, con le eventuali medaglie (se saranno concesse): della Presidenza del Senato, della Presidenza della Camera, del Pontefice, targhe, diplomi ed altro. La giuria ha la facoltà di attribuire premi speciali e di menzionare o segnalare le liriche più meritevoli. Per la sezione E e F, la Giuria premierà i primi cinque classificati con medaglie e targhe, mentre se il libro è inedito stamperà l’opera e donerà trenta copie all’autore. Alcune poesie potranno essere pubblicate su “Il Saggio, poesia, arte, libri”, organo del Centro. La cerimonia di premiazione avrà luogo in Eboli dal 24 al 29 luglio 2017 (solo per le sezioni A, B, C, D) (La giuria viene nominata di anno in anno dal Presidente del Centro e le norme di valutazione vengono prese separatamente, previo incontro con il Presidente di giuria. Il giurato esamina e
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valuta dando un voto da 0 a 60 per ogni poesia. Il segretario, che non fa parte della giuria, fatta la somma di tutti i voti forma una classifica delle poesie e la passa alla giuria. La giuria forma i gruppi: 1°-15°, 16°-30°, 31°-50°. Durante la settimana della manifestazione le poesie saranno lette pubblicamente e la giuria formerà la classifica finale. Sarà presente anche una giuria popolare). La premiazione delle sezioni E e F avverrà nel mese di novembre 2017. Annotazione - Le poesie pervenute non verranno restituite e potranno essere utilizzate per un’eventuale pubblicazione edita dal nostro Centro. Ogni opera dovrà essere frutto esclusivo del proprio ingegno. Le poesie oggetto di plagio saranno automaticamente escluse dal Concorso ed il partecipante sarà cancellato dall’elenco dei poeti del Centro Culturale Studi Storici. E’ vietata la partecipazione al Concorso a tutti quelli che fanno parte della Redazione de “Il Saggio”, del Direttivo del Centro Culturale, nonché ai collaboratori editoriali e loro parenti di primo grado. La partecipazione al concorso implica l’accettazione incondizionata del presente regolamento. Giuseppe Barra *** LE LETTERE RITROVATE - Con le due donazioni di libri da noi effettuate alla Biblioteca Comunale di Pomezia, del novembre 1993 e del gennaio 2009, abbiamo fatto omaggio anche di numerosissime lettere di scrittori e poeti italiani ed esteri, come Solange De Bressieux, il grande pittore Giuseppe Mallai, Rossano Onano, Ilia Pedrina, Pasquale Maffeo, Elena Bono, Giorgio Barberi Squarotti, Liana De Luca, Vittoriano Esposito, Margherita Faustini eccetera, nonché di Case Editrici (Mondadori, per esempio) e di personaggi, come Susanna Agnelli. Lettere all’improvviso sparite. Orbene: sono state ritrovate! Alleluia! Alleluia! La nostra gratitudine e il nostro apprezzamento alla Direttrice della Biblioteca, Dottoressa Fiorenza Castaldi e alle due signore che hanno faticato nella ricerca: Giovanna Cingolani e Annamaria Serapiglia. Ecco, di seguito, la comunicazione della Direttrice, del 20 gennaio 2017. Domenico Defelice Gentile prof. Defelice, sono lieta di annunciarle che la sig.ra Giovanna Cingolani e la sig.ra Annamaria Serapiglia, dipendenti della biblioteca, hanno rinvenuto tra il materiale amministrativo dell'Ufficio cultura, ammucchiato da anni, (...), in un sottoscala, alcuni faldoni con le lettere, che poi esaminerò. Ciò è avvenuto da pochi minuti e ho voluto comunicarglielo subito.... (...). Un ringraziamento e un elogio per queste due signore che hanno cercato (...) riportando a nuova vita le lettere.
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Cordialmente, Fiorenza Castaldi
LIBRI RICEVUTI BRUNO VESPA - C’eravamo tanto amati Amore, politica, riti e miti. Una storia del costume italiano - Rai Eri Mondadori, 2016 - Pagg. 364, € 10,99. Bruno VESPA è nato a L’Aquila nel 1944, ha cominciato a 16 anni il lavoro di giornalista e a 24 si è classificato al primo posto nel concorso che lo ha portato alla Rai. Dal 1990 al 1993 ha diretto il Tg1. Dal 1996 la sua trasmissione “Porta a porta” è il programma di politica, attualità e costume più seguito. Per la prima volta nella storia, vi è intervenuto un papa, Giovanni Paolo II, con una telefonata in diretta. Tra i premi più prestigiosi, ha vinto il Bancarella (2004), per due volte il SaintVincent per la televisione (1979 e 2000) e nel 2011 quello alla carriera; nello stesso anno ha vinto l’ Estense per il giornalismo. Fra i suoi più recenti volumi pubblicati da Mondadori ricordiamo: Storia d’ Italia da Mussolini a Berlusconi; Vincitori e vinti; L’Italia spezzata; L’amore e il potere; Viaggio in un’Italia diversa (2008); Donne di cuori (2009); Nel segno del Cavaliere. Silvio Berlusconi, una storia italiana (2010) Il cuore e la spada (2010); Questo amore (2011); Il Palazzo e la piazza (2012); Sale zucchero e caffè (2013); Italiani voltagabbana (2014); Donne d’Italia. Da Cleopatra a Maria Elena Boschi storia del potere femminile (2015). ** GIORGIO BÁRBERI SQUAROTTI - Le finte allegorie - Poesie, Prefazione di Giuseppe Napolitano - Edizioni EVA, 2016 - Pagg. 120, € 15,00. Giorgio BÁRBERI SQUAROTTI è nato a Torino il 14 settembre 1929. Allievo di Giovanni Getto, ha insegnato Letteratura Italiana all’Università di Torino dal 1967 al 1999. Alla morte di Salvatore Battaglia, è stato nominato responsabile scientifico del Grande Dizionario della lingua italiana UTET. Sin dalla metà degli anni Cinquanta, l'interesse di Bàrberi Squarotti si è volto al rinnovamento delle forme poetiche nelle avanguardie europee e americane. Ha pubblicato fondamentali opere critiche su figure e tempi della letteratura italiana. Saggi: Astrazione e realtà (1960), Poesia e narrativa del secondo Novecento (1961, 1967, 1971, 1978), Metodo, stile, storia (1962), La poesia italiana contemporanea dal Carducci ai giorni nostri (1963, 1973, 1980), La narrativa italiana del dopoguerra (1965, 1968, 1975), Pagine di teatro (1965), Teoria e pro-
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ve dello stile del Manzoni (1965), La cultura e la poesia italiana del dopo guerra (1966), La forma tragica del Principe e altri saggi sul Machiavelli (1966), Simboli e strutture della poesia del Pascoli (1966, 1976), Camillo Sbarbaro (1971), Il gesto improbabile. Tre saggi su Gabriele D'Annunzio (1971), L'artificio dell'eternità. Studi danteschi (1972), Il codice di Babele (1972), Manzoni. Testimonianze di critica e di polemica (1973), Gli inferi e il labirinto. Da Pascoli a Montale (1974), Poesia e ideologia borghese (1976), Fine dell'idillio. Da Dante a Marino (1978), Le sorti del tragico. Il novecento italiano: romanzo e teatro (1978), Il romanzo contro la storia. Studi sui Promessi sposi (1980), Dall'anima al sottosuolo. Problemi della letteratura dell'Ottocento da Leopardi a Lucini (1982), Giovanni Verga. Le finzioni dietro il verismo (1982), Invito alla lettura di Gabriele d'Annunzio (1982, 1988, 1993), Il potere della parola. Studi sul Decameron (1983), La poesia del Novecento. Morte e trasfigurazione del soggetto (1985), L'ombra di Argo. Studi sulla Commedia (1986, 1992), L'onore in corte. Dal Castiglione al Tasso (1986), La forma e la vita. Il romanzo del Novecento (1987), Machiavelli, o La scelta della letteratura (1987), Manzoni. Le delusioni della letteratura (1988), Il sogno della letteratura (1988), In nome di Beatrice e altre voci (1989), Le maschere dell'eroe. Dall'Alfieri a Pasolini (1990), Le colline, i maestri, gli dei (1992), La scrittura verso il nulla: D'Annunzio (1992), Il sogno e l'epica (1993), Il viaggio di liberazione attraverso l'Inferno (1993), Parodia e pensiero: Giordano Bruno (1997), Le capricciose ambagi della letteratura (1998), L'orologio d'Italia. Carlo Levi e altri racconti (2001), Addio alla poesia del cuore (2002), I miti e il sacro. Poesia del Novecento (2003), Il tragico cristiano da Dante ai moderni (2003), Ottocento ribelle (2005), La teoria e le interpretazioni (2005), Le cortesie e le audaci imprese. Moda, maghe e magie nei poemi cavallereschi (2006), La letteratura instabile. Il teatro e la novella fra Cinquecento ed età barocca (2006), Il pipistrello a teatro. Pirandello, narrativa e tragedia (2006), La farfalla, l'anima. Saggi su Gabriele d'Annunzio narratore (2007), Il sistema della narrativa. Gli autori del Novecento: saggi critici (2008), La poesia, il sacro e il pâtinoire. Saggi su Gozzano e Pavese (2009), La cicala, la forbice e l'ubriaco. Montale, Sbarbaro e l'altra Liguria (2011), Le donne al potere e altre interpretazioni. Boccaccio e Ariosto (2011), Entello, Ulisse, la matrona e la fanciulla. Saggi su Saba e Campana (2011), Tutto l'Inferno. Lettura integrale della prima cantica del poema dantesco (2011), L'ultimo cuore del novecento. Paesaggi per la poesia (2012).
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Poesie: La voce roca (1960), La declamazione onesta (1965), Finzione e dolore (1976), Notizie dalla vita (1977), Il marinaio del Mar Nero e altre poesie, (1980), Dalla bocca della balena (1986), In un altro regno (1990), La scena del mondo (1994), Dal fondo del tempio (1999), Le vane nevi (2002), Le Langhe e i sogni (2003), Il gioco e il verbo (2005), La storia vera (2006), I doni e la speranza (2007), Gli affanni, gli agi e la speranza (2008), Le foglie di Sibilla (2008), Lo scriba delle stagioni (2008), Il giullare di Nôtre-Dame des Neiges (2010). ** MARINA CARACCIOLO - Oltre i respiri del tempo. L’universo poetico di Ines Betta Montanelli - In copertina, a colori, “Sulle colline”, di Telemaco Signorini - BastogiLibri/Testimonianze, 2016 - Pagg. 130, € 10,00. Marina CARACCIOLO è nata a Milano ma fin dall’infanzia risiede a Torino. Presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’ Ateneo torinese ha studiato Storia della Letteratura italiana moderna e contemporanea con Giorgio Bárberi Squarotti e si è laureata con lode in Storia della Musica. Dopo aver insegnato alcuni anni nei licei, è diventata consulente di redazione per diverse Case Editrici. Con la UTET ha collaborato all’ opera in 6 volumi “Musica in scena. Storia dello spettacolo musicale” e al “DEUMM. Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti”; al volume “I Mozart in Italia”, a cura di Alberto Basso (2006). Per le sue pubblicazioni ha ricevuto recensioni su quotidiani e periodici, tra cui “Amadeus” e “Il Sole 24 Ore” e qualificati premi, come “Mario Pannunzio” (2001), “Premio alla Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri” (2005), Premio speciale per la Critica Letteraria Rocca di Montemurlo” (2005), Per la poesia inedita, il “Premio Speciale della Critica-Mario Tobino” (2008), Premio “Over Cover Scriba” (2008). Traduttrice dal francese e dal tedesco, ha scritto prefazioni, saggi brevi, moltissime recensioni. Inserita in monografie e antologie. Ha pubblicato: Gianni Rescigno: dall’essere all’infinito (2001), Brahms e il Walzer. Storia letteraria critica (2004). ** AMERIGO IANNACONE - A zonzo nel tempo che fu - Prefazione di Adriano Petta, Postfazione di Tommaso Scappaticci - Edizioni EVA, 2016 Pagg. 112, € 16,00. Amerigo IANNACONE è nato a Venafro (Isernia) il 1950, dove vive, dove dirige “Il Foglio Volante - La Flugfolio” e le Edizioni EVA. Ha pubblicato: Pensieri della sera (1980), Dissolvenza incrociata (1983), Parliamo un po' di Ceppagna (1985), Esperanto, il perché di una scelta (1986), Eterna metamorfosi - Eterna metamorfozo (1987), Microracconti (1991), Ruit ho-
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ra (1992), Verso il fonetismo - Evoluzione della scrittura (1994), Mater (1995), La stramma Un artigianato in via di estinzione (1997), Da Babilonia a Esperantujo – Considerazioni sulla lingua internazionale (1998), Testimonianze - Interventi critici (1998), Vincenzo Rossi e i Canti della Terra (2001), Estaciones (2001), L'ombra del carrubo (2001), A zonzo nel tempo che fu (2002), Sera e l'ata sera – Filastrocche, stornelli, proverbi, scioglilingua e altre cosette molisane (2004), Semi (2004), Nuove testimonianze – Interventi critici (2005), Stagioni (2005), Piccolo Manuale di Esperanto (2006), Versetti e versacci (2006), Cronache reali e surreali (2006), Letture e testimonianze - Interventi critici (2006), Oboe d'amore / Ama hobojo (2007), Dall'otto settembre al sedici luglio (2007), Dall'Arno al Tamigi - Annotazioni linguistiche (2008), Il Paese a rovescio e altre fiabe (2008), Luoghi (2009), L'ombra del carrubo - La sombra del algarrobo (2009), Parole clandestine (2010), Prefazioni e postfazioni (2010), Poi, (2011), Matrioska e altri racconti (2011), ... E poi il Fiume Giallo (2012). ** AA.VV. - Dicono di “Eppure” Interventi sul libro di Amerigo Iannacone - Edizione EVA, 2016 - Pagg. 112, € 10,00. Numerose foto a colori all’ interno e, in IV di copertina, quella di Amerigo Iannacone. Gli autori che intervengono sono: Giuseppe Napolitano, Vincenzina Scarabeo Di Lullo, Antonio Vanni, Aldo Cervo, Chiara Franchitti, Rita Iulianis, Romina D’Aniello, Maria Benedetta Cerro, Amerigo Iannacone, Giovanni Petta, Paola Di Ludovico, Ida Di Ianni, Francesco Di Napoli, Andrea Pugiotto, Tito Cauchi, Umberto Vicaretti, Renato Corsetti, Rosa Amato, Giorgio Bàrberi Squarotti, Antonio Tabasso. ** LIBERO DE LIBERO - Aŭskultu Ĉoĉarujon ĉiela kreitaĵo - Esperantigo de Amerigo Janakono Antaŭparolo de Ĝerardo Vakano/Ascolta la Ciociaria creatura celeste - Traduzione in esperanto di Amerigo Iannacone Prefazione di Gerardo Vacana - Edizioni EVA, 2011 - Pagg. 52, € 12,00. Libero DE LIBERO, poeta, narratore e critico d’arte, nasce il 10 settembre 1903 a Fondi (Latina). Nel 1906 il padre Francesco viene nominato segretario comunale a Patrica (Frosinone) e Libero vi trascorre l’infanzia e l’adolescenza. Compie gli studi ginnasiali a Ferentino e i liceali ad Alatri. Ha insegnato storia dell’arte al Liceo artistico di Roma dal 1941 al 1973, svolgendo contemporaneamente un’intensa attività di scrittore, giornalista e critico d’arte. Principali opere di poesia: Solstizio; Proverbi; Testa; Le odi; Eclisse; Il libro del forestiero;
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Banchetto; Sono uno di voi (raccolte nel 1972 nel volume complessivo “Scempio e lusinga” edito dalla Mondadori); Di brace in brace; Circostanze. Prosa: Malumori (racconti), Amore e morte (romanzo), Camera oscura (romanzo), Il guanto nero (racconti), Racconti alla finestra (racconti), Borrador (diario). Critica d’arte: tante monografie su i più importanti artisti del Novecento, tra cui Scipione e Mafai. ** JORDI VALLS - Male/Mal - Traduzione di Carlos Vitale e Amerigo Iannacone - Edizioni EVA, 2015 - Pagg. 144, € 12,00. Jordi VALLS i POZO è nato a Barcellona nel 1970. Poeta e saggista. Ha vinto i premi Martí Dot, Vila de Martorell, Senyoriu d’ Ausiás March, Gorgos, Grandalla e i Giochi Floreali di Barcellona, diventando il primo poeta della città nel periodo 2006-2007. Inserito nelle antologie: Milenio. Ultimísima Poesia Española (1999), 21 poetes del XXI (2001), Dnevi poezije in vina (2008), Cançons de bressol (2011), Trentaquattro poeti catalani per il XXI secolo (2014). Tradotto in inglese, castigliano e sloveno. Poesia: D’on neixen les penombres (1995), Natura morta (1998), Oratori (2000), La mel d’Aristeu (2003), La má de batre (2005), Violència gratuita (2006), Última oda a Barcelona (2008), Félix orbe (2010), Ni un pam de net al tancat dels ànecs (2011). Saggistica: Retrat de Montserrat Abelló (2009). ** AA. VV. - I Poeti Extravaganti. Tremiti 2015 Introduzione di Giuseppe Napolitano - Edizioni EVA, 2015, collana La stanza del poeta - Pagg. 80, € 10,00. Sono antologizzati: Irene Vallone, Amerigo Iannacone, Virginia Macchiaroli Mucciaccio, Giuseppe Napolitano, Gilda Cieri Stramenga, Umberto Cerio, Luigi Perternolli, Gabriella Nicole Valeria Napolitano, Margherita Agresti, Cristina Luisa Pace. ** ENZO DEI e SILVIA MALDURI (a cura di) - Diego Garoglio Rime di Castelfranco - In copertina, “Antica strada da Castelfranco a San Giovanni”, foto di Odoardo Campa (1900); all’interno 12 foto in bianco e nero - Minimalia, 2016 - Pagg. 64, e. f. c. a cura del Comune di Castelfranco Piandiscò. ** TEODORO FITTIPALDI (a cura di) - Il presepe napoletano del Settecento - Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Napoli - fotografie di Giuseppe Gaeta e Ugo Pons Salabelle - Electa Napoli, 1995, Pagg. 96, € 7,00. In copertina, a colori, particolare del Presepe “Cuciniello”; all’interno 74 splendide foto a colori; in quarta di copertina, sempre a colori, “Mendicante” di Giuseppe Sanmartino. Si tratta di una selezione straordinaria dalle Col-
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lezioni del Museo Nazionale di San Martino - sintesi aggiornata delle fortunate pubblicazioni sul “Presepe Napoletano” e sul “Presepe Cuciniello” - che ripropone finalmente una tradizione plurisecolare, un’arte nobile che impegnò nella stagione più felice “scultori, pittori, architetti, cuoiai, ramai, vetrai, sarti, ricamatori, ceroplasti, liutai, committenti e collezionisti”. Dobbiamo il bel libro alla gentilezza dell’amico e collaboratore, scrittore e poeta Salvatore D’Ambrosio, di Caserta. ** WALTER NESTI - L’uomo e i segni - Poesie, Introduzione di Samanta Tesi - MF Masso delle Fate Edizioni, 2016 - Pagg. 82, € 12,00. Walter NESTI è nato a Poggio alla Malva, Firenze, dove risiede. Ha collaborato e collabora a quotidiani e riviste e ha diretto Pietraserena. Si interessa di ricerca storica locale e traduce dal francese, come Vanessa, romanzo di Frantz André Burguet , Le Chimere, poesie di Gérard de Nerval eccetera. Inserito in antologie. Ha pubblicato: “Calvario d’uomo” (poemetto, 1962), “Un’automobile lunga sei metri” (romanzo, 1972), “La protesta e il cuore” (poemetto, 1976), “Estate di fuoco” (libro per ragazzi, 1979), “Bollettini dall’ ultimo delirio” (1988), “Itinerario a Calu” (poemetto, Premio Città di Pomezia, 1989), “Diletto” (poesie, 1993), “Antes del poder” (poesie spagnolo-italiano, trad. di Teresa Albasini Legaz, 2000), “Calu perduta” (pometto, 2002), “Calu ritrovata” (poemetto, 2007), “Trilogia di Calu” (poema, 2011).
TRA LE RIVISTE L’ERACLIANO - organo mensile dell’Accademia Collegio de’ Nobili - fondata nel 1689 - diretto da Marcello Falletti di Villafalletto - Casella Postale 39 - 50018 Scandicci (Firenze), e-mail: accademia_de_nobili@libero.it Riceviamo il numero 225/227 dell’ottobre-dicembre 2016, del quale segnaliamo “Un brillante futuro per l’Accademia”, articolo senza firma e quindi sicuramente del direttore, illustrato con 12 belle e nitide fotografie a colori; a seguire, 4 fitte pagine dell’ “Attività Accademica”, da Firenze, Pescia, Badia a Passignano, Figline e Incisa Valdarno; poi altre pagine “Dalla legazione dell’Italia centrale” e “Dalla legazione dell’Italia meridionale”; infine, la rubrica “Apophoreta” di Marcello Falletti di Villafalletto che recensisce i volumi: “Aspra terra e creazione fertile nell’opera di Domenico Defelice”, di Aurora De Luca; “Nella luce di Cristo” Il magistero episcopale di Luciano Giovannetti - Testi e testimonianze a cu-
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ra della Comunità di San Leolino, Presentazione del Cardinale Gualtiero Bassetto -; “Abate Vittorino Aldinucci” Incontrarsi, conoscersi, amarsi, di Renato Rossi, prefazione di Bernardo Francesco Gianni, abate di San Miniato al Monte; “La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice”, di Claudia Trimarchi; “L’ Ulivo”, il numero luglio-dicembre della rivista olivetana. * XENIA - Trimestrale di letteratura e cultura, diretto da Gianfranco De Ferrari - Associazione Culturale Genova Lettere - via Brigata Liguria 3/1 A 16121 Genova - e-mail di Rosa Elisa Giangoia e Guido Zavanone, due della Redazione: rogiango@tin.it; guidozavanone@yahoo.it Rivista appena nata (riceviamo il n. 2/2016, del primo anno, inviataci dall’amico Zavanone), di 80 pagine, che reca in copertina, a colori, “Vittoria sul Biscaglino”, di Bruno Liberti. Segnaliamo: “Francesco Petrarca dalle Familiari alle Senili”, di Davide Puccini; due poesie di Nazario Pardini; “Le salmonelle a Rado”, di Guido Zavanone; “Attualità di un bestseller”, di Giuliana Rovetta; “Le rose - 4 poesie”, di Luigi De Rosa; “Emirati: il deserto del futuro”, di Milena Buzzoni; “I ricettari di cucina come genere letterario”, di Rosa Elisa Giangoia; “Montale critico di Bellini”, di Francesca Torre eccetera. Una bella rivista, alla quale invitiamo i nostri collaboratori e lettori ad abbonarsi (annuale € 20). *
POMEZIA-NOTIZIE
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IL CENTRO STORICO - Organo dell’ Associazione “Progetto Mistretta”, Presidente Dott. Nino Testagrossa, diretto da Massimiliano Cannata via Libertà 185 - 98073 Mistretta (ME) - e-mail: Ilcentrostorico@virgilio.it Riceviamo il n. 11-12, novembre-dicembre 2016 dal quale rileviamo: “Perché l’Italia ha detto no. Gli scenari del dopo voto nella analisi di Giuseppe Roma”, di Massimiliano Cannata; “Dentro lo “spazio” del silenzio. Linguaggio e tessitura narrativa nell’opera di Maria Messina”, di Francesca Maria Spinnato Vega; “Le elezioni americane”, di Giorgio Pacifici; “Il matrimonio nella storia di Mistretta”, di AA. VV.; “Alone ideologico borghese e malinconia esistenziale in “Personcine” di Maria Messina”, di Maria Nivea Zagarella eccetera. Un fascicolo molto denso e tutto interessante. * MAIL ART SERVICE - Bollettino dell’Archivio di Mail Art e Letteratura “L. Pirandello” di Sacile (PN), diretto da Andrea Bonanno - via Friuli 10 33077 Sacile (PN) - Riceviamo il n. 96, dicembre 2016, del quale segnaliamo: “La silloge poetica di Vincenzo Gasparro fresco mattino come la tua spalla”, di Andrea Bonanno; “La mela del Pistoletto Il terzo Paradiso”, di Susanna Pelizza; “Mostra personale di John M. Bennett, Spazio Ophen Virtual Art Gallery”, di Giovanni Bonanno.
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Pag 63 e in questa: Domenico Defelice - “Paesaggio lungo la via Pontina” (olio 1981) e “Il platano” (metamorfosi, biro e pastelli, 2016). AI COLLABORATORI Si invitano i collaboratori ad inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione), composti con sistemi DOS o Windows, su CD, o meglio, attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è necessario un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (con copia cartacea) Annuo... € 50.00 Sostenitore....€ 80.00 Benemerito....€ 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia....€ 5,00 ABBONAMENTO solo on line: http://issuu.com/domenicoww/docs/) Annuo... € 35 Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 N076 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio