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LA SCRITTURA HARD DI
ERRI DE LUCA di Salvatore D’Ambrosio
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EL mese di novembre dello scorso 2016, lo scrittore Erri De Luca si è visto assegnato il premio per la descrizione della peggiore scena hard. La suddetta è nel suo romanzo Il giorno prima della felicità, pubblicato per la Feltrinelli nel 2012. La notizia mi ha spinto a riprendere il romanzo, per rileggere le pagine “incriminate”. Da premettere che sono un lettore fedele di De Luca. Non mi manca niente di ciò che ha scritto, dal suo esordio nel 1989 con il romanzo: Non ora, non qui, ai recentissimi. Lo trovo molto vicino al mio modo di sentire le cose della vita. Sarà che è nato a Napoli come me. Ma penso invece, che le cose stanno in effetti in modo diverso. Amo in lui l’essenzialità nella descrizione delle cose, il sentimento che si legge nei suoi scritti, che non è un fatto voluto per fare diciamo così “cassetta”, ma è qualcosa che fluisce dalla sua anima alla penna e che necessariamente deve essere scritto, lasciato nero su bianco. Ricordo al suo esordio il giudizio severo che ne diede Edmondo Berselli, ricredendosi qualche tempo dopo, in quanto aveva anche lui capito la profondità delle riflessioni dello scrittore. Da persona seria quale era, si→
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All’interno: Atripalda e l’eterno femminino, di Rossano Onano, pag. 5 Guido Zavanone incontra Dante Alighieri, di Luigi De Rosa, pag. 9 Camus, Kafka e il suicidio del giovane Michele, di Giuseppe Leone, pag. 11 Modernismo, postmodernismo..., di Nazario Pardini, pag. 12 L’universo poetico di Ines Betta Montanelli, di Luigi De rosa, pag. 15 Le follie non sono più follie di Brugnaro, di Andrea Bonanno, pag. 18 Il Canto IX dell’Inferno (3), di Fabio Dainotti, pag. 20 Fiumi di musica, di Marina Caracciolo, pag. 25 Ezio Starniti, Un ventennio per la catarsi, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 26 Nino Ferraù: parole per sostanziare appassionata saggezza, di Ilia Pedrina, pag. 30 Dante Di Nanni eroe nazionale, di Leonardo Selvaggi, pag. 34 I giorni della vita di Bruno Rombi, di Luigi De Rosa, pag. 40 Ouverture del culturale, di Susanna Pelizza, pag. 41 Il mistero della saletta privée, di Rudy De Cadaval, pag. 42 Odore di fumo, odore d’antico, di Antonia Izzi Rufo, pag. 47 La milanese, di Antonio Visconte, pag. 48 La tela del pittore, di Filomena Iovinella, pag. 49 Premio Città di Pomezia 2017 (regolamento), pag. 50 I Poeti e la Natura (Trilussa), di Luigi De Rosa, pag. 51 Notizie, pag. 63 Libri ricevuti, pag. 66 Tra le riviste, pag. 67 RECENSIONI di/per: Elio Andriuoli (Traslochi, di Franca Alaimo, pag. 53); Roberta Colazingari (Ombre e luci, di Lina D’Incecco, pag. 54); Domenico Defelice (Un’ombra negli occhi, di Giannicola Ceccarossi, pag. 54); Domenico Defelice (Oltre i respiri del tempo, di Marina Caracciolo, pag. 55); Domenico Defelice (Visioni culturali, di Susanna Pelizza e Vito Sorrenti, pag. 56); Giuseppe Leone (Oltre i respiri del tempo, di Marina Caracciolo, pag. 57); Maria Antonietta Mòsele (Sensazioni, di Antonia Izzi Rufo, pag. 59); Maria Antonietta Mòsele (Odi impetuose, di Filomena Iovinella, pag. 59); Maria Antonietta Mòsele (Ombre e luci, di Lina D’Incecco, pag. 59); Ilia Pedrina (Atlas, di Umberto Boccioni, pag. 60); Claudia Trimarchi (Ombre e luci, di Lina D’Incecco, pag. 62). Lettere in Direzione (Ilia Pedrina), pag. 68 Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Loretta Bonucci, Rocco Cambareri, Fiorenza Castaldi, Domenico Defelice, Liana De Luca, Salvatore D’Ambrosio, Elisabetta Di Iaconi, Enrico Ferrighi, Filomena Iovinella, Antonia Izzi Rufo, Giovanna Li Volti Guzzardi, Adriana Mondo, Teresinka Pereira
rimangiò però tutto, annoverando il De Luca tra gli autori di oggi più validi. Leggere dunque dell’attribuzione del Bad Sex Award non mi è molto piaciuto, per il semplice motivo che sono stato sempre contrario all’omologazione, all’intruppamento, al
“così fan tutti”. In sintesi mi piacciono gli scrittori che rifuggono da tutti gli stilemi imposti da case editrici e dai recensori che indorano o stroncano in base ai comandi che ricevono. Ovviamente il riferimento è per quelli che si la-
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sciano manipolare secondo convenienza. Lo scrittore deve essere libero nelle sue descrizioni, nel suo raccontare la visione che ha dei fatti. In poche parole sono rimasto ai tempi in cui il successo degli scrittori, era decretato principalmente dai lettori. E ciò che sto dicendo, già lo sento, riapre una questione che fece soffrire anche il povero Tullio De Mauro, che da linguista mal tollerava certe ingerenze di carattere economico-industriale, e di classifiche dettate da esigenze di mercato, più che dalla validità di certi scritti. E non aggiungo altro a ciò che è storia recente. Il discorso che voglio fare è invece un altro e si pone l’interrogativo: serve alla buona letteratura la descrizione di parti anatomiche nei minimi particolari? Serve per raccontare le sensazioni emozionali che provoca il piacere, riempire pagine e pagine di epiteti riferiti a quegli organi che ci procurano dette sensazioni? Una buona descrizione di una scena d’amore carnale, deve necessariamente contenere solo materialità o può essere bella se è anche carica di spiritualità? Lo so che sto aprendo una voragine incolmabile. Ma la descrizione del rapporto amoroso, che il protagonista del romanzo di De Luca tiene con Anna, la ragazza di cui è letteralmente rapito, è di una delicatezza e di una donazione assoluta ed incondizionata. La cosa bella di questo rapporto, che si evince dalla descrizione che ne fa l’autore, carica non soltanto di atti meccanici necessari e, diciamo così, legati alla umana natura, dalla quale non possiamo prescindere, è soprattutto la descrizione del fitto sospeso intreccio di sentimenti emozionali. I quali sono provocati non tanto dall’atto, quanto dalla felicità di possedere il desiderato corpo tra le braccia, o meglio stretto nella fusione di carne con carne. Non come puro oggetto, però. Per questo motivo il protagonista si lascia prendere, si annulla nell’atto che per lui è essenzialmente amore, più che sesso. Infatti si chiede, a un certo punto, se è questa quella felicità, cui tutti hanno desiderio di conquistare. Tutto il racconto si concentra in scarse tre
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pagine. Forse è questa scarsezza che ha convinto la giuria ad assegnargli il premio, più che l’implicito bel contenuto che vi è in essa. Non sono qui a fare il difensore di uno come De Luca, che sa bene come difendersi. Ma credetemi ho sempre odiato leggere quella letteratura come: Porci con le ali; Melissa P. e i suoi colpi di spazzola; o quel tal libro di Lawrence che scoprimmo in gioventù, e che fu definito: quello che si legge “con una sola mano”. Per non parlare di sfumature di grigio o altri colori. E penso che forse anche Erri De Luca non abbia mai amato leggere di certe descrizioni, più da manuale di sessuofobia che di buono e sano erotismo. In un passo del libro l’autore dice: “ Lo scrittore deve essere più piccolo della materia che racconta. Si deve vedere che la storia gli scappa da tutte le parti e che lui ne raccoglie solo un poco. Chi legge ha il gusto di quell’abbondanza che trabocca oltre lo scrittore”. Ecco questa è la risposta che lui ha dato con quattro anni di anticipo, a quei signori del Bad Sex Award, oltre a farci comprendere la bellezza del leggere. Il lettore deve vagheggiare, animare da sé le scene. Fermarsi anche spesso, per qualche attimo a riflettere su una bella frase o sul pensiero a cui può portarci. Non occorre la descrizione minuziosa di parti anatomiche che sono nel corredo di ognuno. Non occorre sapere necessariamente di lanuginosità variamente disposte, e orientate a foltezza o scarsezza. Le tre pagine scritte da De Luca sono bastevoli e soddisfano, nella loro essenzialità, la furia del cuore e della carne che prende due persone, che si sentono complementari fino al punto da desiderare di fondersi l’uno nell’ altro. La descrizione del momento orgasmico, che è stato ritenuto difettevole e brutto, è invece una bellissima “prima volta” tra due ragazzi, che sebbene spinti dalla carica erotica della loro età, conservano e consumano in questo rapporto la freschezza, l’ingenuità, l’ inno-
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cenza del vero amore. E aggiungerei lo stupore e la goffaggine dei principianti. Non sono nella morsa del sesso senza cuore. Il loro desiderarsi è spontaneo. La tensione erotica viene loro dal patto di un’intesa non programmata, ma attesa. I corpi sono donati per simbiosi, non per artificio. Sono macchine i cui ingranaggi si lubrificano da soli. Sono pezzi i loro sessi di quella macchina, che può funzionare solo se è tutto compatibile. Non hanno bisogno di fruste, legature, estraneità che non siano le loro mani, le loro bocche, i loro fiati, i loro sudori, i loro sangui, che tendono a fondersi in un pensiero unico. Il loro è il suggello di un patto stipulato senza essere scritto: che deve comunque essere soddisfatto. Tutto questo non aveva bisogno nel roman-
zo, di essere sottolineato con parole a riferimenti sessuali con doppie Z o doppie S. Con descrizione di pose che neppure il più audace dei Kamasutra potesse ritenere possibili o probabili. Si potrebbe obiettare, e lo faccio da me, che in certi casi la fantasia è di aiuto. Ebbene si, vada per la fantasia. Ma che sia possibile, non marziana. Scoprire un bel corpo è l’anticamera del piacere stesso. Ma lacerare gli indumenti strappandoli di dosso con violenza, per raggiungere lo stesso scopo, è funzionale a che cosa? Ad aumentare la carica erotica. Potrebbe anche essere possibile. Ma nel contesto di quella scena del romanzo del De Luca, non credo. Leggendo il libro si sa che quei due corpi erano già ben carichi. Le positività e le
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negatività delle loro persone, non aspettavano altro che essere al contatto minimo per scaricarsi. In fondo ciò che avviene nella scena hard del romanzo l’autore sapientemente, per non sbollire la tensione, che pure esiste, ha ritenuto di poca importanza il resoconto di mugugni, sopraffiati, ansimi, e tutto il corredo di cose che esistono dall’uscita di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre. Tutto questo è descritto in quelle poche battute che sono nel racconto. Ma la commissione giudicatrice dell’Award, non è stata capace di vedercelo. Uno scrittore non deve preoccuparsi se ciò che sta scrivendo andrà a genio a questo o a quello. Lo scrittore ha l’esigenza di comunicare, attraverso la narrazione, i grandi e soprattutto i minimi momenti emotivi che nascono di fronte alle cose della vita quotidiana. Se segue un percorso improntato alla semplicità e non all’artificiosità preconcetta, al fine di conquistare un podio, sta facendo un buon lavoro, che non esclude la possibilità di acquisire il giusto e forse ambito premio. La scrittura deve essere per chi scrive, e soprattutto per chi legge, un‘isola dove si va per liberarsi un poco di certe petulanti presenze giornaliere e millenarie, della nostra umana condizione: della quale la sessualità è la principale pena o preoccupazione. E aggiungo liberarsene un poco, non rinunciare in assoluto. A meno che… In questa isola libera chi vuole può farsi sferzare dalla bellezza e dalla possanza di un vento impetuoso. Ma c’è, per forza di cose, anche chi invece ama lasciarsi accarezzare dalla dolcezza dello zefiro: che non è meno bello. Salvatore D’Ambrosio
Il Quaderno Letterario IL CROCO di questo mese è dedicato a: MARIA ANTONIETTA MÒSELE FIORETTI DI SAN FRANCESCO
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Due libri di Elio Caterina
ATRIPALDA E L'ETERNO FEMMININO Irpinia madre, la ragazzetta e Rina di Rossano Onano
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A memoria, lo sappiamo tutti, è funzione strategica: ci pensa su, seleziona attentamente, taglia e incolla, archivia secondo convenienza. Quando ritorna sul materiale archiviato, utilizza la lente d'ingrandimento: è il motivo per cui tutti noi, tornando alla vista della prateria dove da bambini giocavamo a pallone, tutte le volte ci ritroviamo affettuosamente stupiti nel rinvenire in suo luogo un campetto minuscolo. Per lo stesso motivo Elio Caterina, in viaggio estivo da Modena al paese nativo di Atripalda, ritrova piazza e Chiesa e vie molto più piccole di quanto la sua memoria contenesse. Elio Caterina è un amico. E' persona che parla raramente, e con molta circospezione, della propria vita affettiva. In compenso, affida i sentimenti alla pittura (le sue opere sono presenti in collezioni private e pubbliche) e alla poesia. Dalla visita estiva ad Atripalda ha ricavato il materiale per il suo ultimo volume, per le Edizioni Il Fiorino di Modena, settembre 2016: Ricordi di Atripalda e dintorni. Titolo bruttino, troppo circostanziato, come spesso gli succede. Della cosa lo rimprovero sempre, ma non c'è niente da fare. Il materiale poetico è introdotto da una specie di ruminazione interiore, stesa in prosa dallo stesso Autore, nella circostanza indulgente con sé come spesso succede quando pratichiamo le ricordanze. Elio raggiunge il luogo natale da Modena, in auto in compagnia della moglie e del figlio diciottenne: Quando giungo nel luogo del ricordo, mi accorgo che sono rimaste poche cose appartenenti alla mia memoria, il cemento non ha risparmiato Novesoldi, un posto in collina da dove si vede la valle del fiume Sabato. Cosicché: Mi trafigge il cuore soprattutto la tangenziale che attraversa la Civita tagliando le mura romane. Tracce di arte e cultura anco-
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ra una volta sconfitte dai barbari, ma stavolta non sono venuti da lontano. Elio Caterina ha coscienza civica e soprattutto, in quanto dipintore, coscienza estetica: le mura romane sventrate dai palazzinari, nuovi barbari, offendono in primo luogo il sentimento della bellezza, il sospiro sociopolitico aggregato (stavolta non sono venuti da lontano) sembra piuttosto una sovrapposizione razionale. L'animo dell'uomo è mosso soprattutto da ciò che direttamente riguarda la sua storia personale, pazienza per le mura romane, e infatti Elio dà un'occhiatina per raggiungere subito dopo ciò che veramente muove le corde della memoria e del cuore. In successione: gli edifici, le strade, il bar, i luoghi giovanili di associazione, la piccola Chiesa di S. Rocco, il balcone sotto cui passeggiava da ragazzino trepidando all'apparire (casuale?, voluto?) della ragazzetta oggetto del primo turbamento d'amore. E' singolare come, senza intenzione cognitiva, Elio vada ripercorrendo, ad Atripalda, quelle che sono le categorie freudiane che concorrono alla formazione dell'Io: la realtà oggettuale introiettata (i primitivi luoghi di socializzazione); le pulsioni affettive (ciò che l'analisi chiama Es: la ragazzetta al balcone); le istanze normative (ciò che l'analisi chiama Super-Io: la piccola Chiesa di S. Rocco). E' precisamente dalla dialettica fra queste istanze che si è formato l'Io di Elio Caterina, pittore e poeta. Che la dialettica, per lui come per tutti, non sia stata del tutto idilliaca lo dimostra il fatto che da Atripalda, a un certo punto, il nostro Autore si è congedato. Per ritornare, famiglia al seguito, in visita di ri-conoscimento. Fenomenologia dell'impatto: tutti noi, visitando un luogo nuovo e perciò ignoto, siamo rassicurati dall'anonimato che ci accompagna. E' il motivo per cui un turista può girovagare in veste solitamente sciamannata, tanto nessuno lo conosce, del giudizio altrui chissenefrega. Non è così quando il paese visitato è un luogo di antica memoria. Ricordo di avere rivisto il luogo della mia infanzia, Cavriago, tanti anni dopo averlo abbandonato. Avverti-
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vo una specie di disagio, un'acuta percezione di me per la quale mi pareva che tutti i passanti, confusamente, mi riconoscessero. Così per Elio, al primo impatto con Atripalda: Come se tutti sapessero del mio ritorno della voglia di stringere tra le dita la polvere dei viottoli e il fiume mi congedo al vento tra i sentieri di pietre. … Credo si tratti del sentimento di colpa: tutti gli abbandoni sono in certo modo un tradimento; lo sguardo altrui è che il sentimento che Elio ha di sé, proiettato sugli antichi concittadini, che appunto giudicano il tradimento. Il nostro Autore sopraggiunge ad Atripalda nel giorno della festa del paese. Probabile abbia calcolato il giorno esatto per la visita, sperando di ritrovare l'atmosfera meravigliata della sua gioventù: Si colorava il vicinato nel giorno della festa canzoni e musica e poi balli grotteschi. Le mamme si acconciavano come ragazze mentre i figli correvano nei cortili a fingersi eroi, guerrieri. … Sabato del villaggio, odo augelli far festa, atmosfera leopardiana. Peccato gli odori di kebab, non per essere razzisti, ma insomma torrone e zucchero filato erano un'altra cosa. Erano un'altra cosa anche i sorrisi e lo stupore delle ragazze, allora illuminate dai fuochi artificiali, oggi soffermate quasi assenti su muretti appartati, a colloquio coi telefonini accesi. Nulla è più spaesante del sentirsi anonimo nel posto che hai amato. E' il destino degli eroi partiti alla ricerca di fortuna, o di fama, o semplicemente alla ricerca di se stessi. Ulisse è tornato a Itaca, ha visto il mare l'Asia l'Inferno, nessuno lo riconosce. … Ma non c'è un posto dove fermarmi mi basterebbe anche un muro di tufo
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o un vecchio sgabello per aspettare che qualcuno passando si ricordi di me. Lo sgabello è metafora, naturalmente. Elio prosegue la passeggiata nei luoghi della memoria fino ad imboccare, consapevolmente, la strada che conduce alla ragazzetta del suo primo amore. Quella che lo rese fragile cristallo fra le rive, spiega il nostro con improvviso impeto lirico. E' qui che la ragazzetta, oramai donna, sembra lo riconosca. Il testo non fa cenno di un saluto intercorso fra i due. Pudore più che manzoniano, Elio è fatto così: … Adesso raccatto le rimaste emozioni cercando di resistere allo scolorire del tempo come quella mia scritta d'amore sul muro che ancora si ostina a rimanere. Dell'amore giovanile rimane una scritta sul miro. Così la gioventù ha sempre raccomandato alla storia il primo amore: gli attuali lucchetti esposti a Ponte Milvio sono soltanto una derivazione enfatica, piuttosto fastidiosa. Ricordo la frase, con firma, incisa da mio padre, ragazzo, sulla parete interna del nuraghe di Isili. Me la fece vedere, quando da Reggio Emilia mi portò al suo paese natale, ed ero bambino. In quel posto non sono più ritornato. Ad Atripalda rimane, di Elio, la frase d'amore alla prima ragazzetta. Ma anche il cameo, nella memoria, di un caro amico della gioventù: Avevo un cane di colore scuro, rassomigliava alle pareti della cantina e di sera lo confondevo con l'intonaco. … Neppure il cane Argo, per il nostalgico eroe che ritorna. Fatto è che Elio ritorna a Modena, ove edita congiuntamente (settembre 2016) i “ricordi”
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del paese natio, e un altro volume di versi: Donna reale o solo immaginata. Sulla qualità dei suoi titoli, mi sono già pronunciato. Le poesie hanno una dedica: A mia moglie Caterina. Elio e Caterina sono tuttora legatissimi: lei è dolcemente pragmatica, lui si concede solo scappatelle immaginarie, come la nostalgia per la ragazzetta di Atripalda, ovvero per la sua gioventù. E' singolare il fatto che il cognome dell'amico (Caterina) corrisponde al nome della moglie. Per gli amici, la moglie di Elio è semplicemente Rina. Il volume si avvale della prefazione di Antonio Maglio, insegnante di materie religiose. Sull'insegnamento della religione nell'attuale scuola italiana ho idee piuttosto confuse. Sono condizionato dal ricordo della professoressa di mio figlio, al liceo. Una signorina abbastanza carina e abbastanza cupa, la quale ci teneva a precisare: io non insegno religione, ma tutte le religioni. In nome dell'imperante multiculturalismo, pazienza se la cosa viene fatta in modo alquanto dilettantesco. Ai miei tempi, l'ora di religione e le ore di ginnastica erano vissute come pausa rilassante fra l'una e l'altra delle discipline eterogenee che i ragazzi dovevano affrontare. Il sacerdote che spiegava religione e il prof di ginnastica erano sempre molto amati. La signorina abbastanza carina e abbastanza cupa, no. E poi, secondo il mio rudimentale modo di pensare, se tutte le religioni portano alla salvezza dell'uomo, è perfettamente inutile studiarle tutte: basta sceglierne una, e sei a posto. Fatto è che mio figlio, come i suoi compagni di classe, è venuto su facendo una strana confusione fra Budda, Gesù, Maometto, estemporanee freddure di Confucio, qualche traccia di Pitagorismo. I ragazzi cui Antonio Maglio insegna materie religiose a scuola non corrono questo pericolo. Antonio è un maestro appassionato, pone al centro del problema il cuore dell'uomo, la sua aspirazione alla bellezza, all'amore, sostanzialmente la sua aspirazione all'eterno. Di Elio Caterina, Maglio coglie il dato essenziale: A volte nella vita di un artista si crea un vuoto, uno spazio senza colori né parole.
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Nell'attesa che ritorni l'acqua nel fiume della creatività, il poeta cerca lungo la strada gli stimoli per vivere ancora, così guarda la figura snella di una commessa, la vicina di casa mentre si adorna o la ragazza bionda che in spiaggia sogna con un libro sempre aperto. Per concludere: E scrive di donne appena intraviste regalando versi che mai leggeranno. In alcuni momenti osserva il viso ancora bello della moglie e la stringe a sé come la prima volta. Margaret Mead, antropologa che visse per anni fra i cannibali Mundugumor descrivendone i costumi sessuali, scriveva: Quando un uomo è veramente un uomo, nessuna donna per lui è indifferente. Altrettanto dice Maglio di Elio Caterina: nessuna donna è a lui indifferente. In effetti, ho notato io stesso, Elio le guarda proprio tutte, perché le ama: proprio per questo, ha valore il sentimento che nutre per la moglie, eletta fra tutte alla pratica dell' amore. Elio viaggia (ad Atripalda) coltivando l'idea platonica della donna e ritorna (a Modena) coltivando il corpo, caldo e caro, della propria. L'una e l'altra (la platonica; la moglie) sono fortunatamente provviste di forza seduttiva: Hai messo un rossetto rosso, rosso quasi a sfidare il grigio del giorno. Sposti i capelli e li leghi a coda sulle spalle. Adesso il tuo viso ha il colore del mattino appena maturo. Non ti fidi della pallida tenda e chiudi la finestra senza far rumore. Ti guardo mente ti avvicini col corpo di nordico sapore. Rina è una bella donna, la chioma scura conferisce alla pelle, per contrasto, una riflessione candida. Quando Elio Caterina, da pit-
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tore, termina un quadro e lo firma, scrive nell'angolo basso di destra: ANIR. E' il nome della moglie, steso al contrario. Rossano Onano ELIO CATERINA: Ricordi di Atripalda e dintorni, Edizioni Il Fiorino, Modena, 2016 ELIO CATERINA: Donna reale o solo immaginata, Edizioni Il Fiorino, Modena, 2016.
L’INVASIONE Si attorcigliano, si arrampicano, invadono i giardini e i campi le radici della gramigna, che arrabbiata allaga ed invade i germogli delicati e morbidi, che muoiono soffocati e piangono le piante, che senza rimedio soffrono l’invasione. È il tempo della corruzione! L’edera, a grandi passi inchioda le sue radici dappertutto e cresce all’infinito senza risparmiare piantine, pianticelle e piante, che poverine, si genuflettono al suo volere e pian piano, vanno pure a morire. La corruzione esiste anche dove nascono le piante dell’amore. Cav. Giovanna Li Volti Guzzardi Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori (A.L.I.A.S.)
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 24/1/2017 Un sondaggio rivela che l’ottanta per cento degli Italiani è in cerca dell’uomo forte, non avendo alcuna fiducia nella nostra democrazia. Alleluia! Alleluia! Non dell’uomo forte, ma d’un cataclisma manovrabile, che distrugga questo branco d’imbelli parassiti che sono i nostri politici, non la democrazia. Domenico Defelice
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SOLITUDINE Laggiù a Pomposa sedetti allo stesso tavolo al quale mi ero seduto con te. Eri assente. Eppure vedevo la tua immagine. Parlavo sommesso e guardavo lontano. Colloquio? Soliloquio? Non so. Non ricordo. D’altronde che importa? Dalla tavola cadevano le briciole del pane che avevo spezzato. Non accorsero i passeri intorno. No. Fuggirono la mia solitudine. Raccolsi le ultime nella mia mano. Uscii e le gettai all’onda. Nemmeno i gabbiani vennero. Gemettero alto nell’aria e volarono lontano, sordi ad ogni richiamo. Rimasi solo. Solo, di fronte al mare. Enrico Ferrighi Da Carmina - Ed. Pomezia-Notizie, 1983.
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L'INCONTRO DI
GUIDO ZAVANONE CON DANTE ALIGHIERI NEL POEMETTO “IL VIAGGIO STELLARE” di Luigi De Rosa
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ESSUN risvolto della tragedia umana sfugge alla mente indagatrice del poeta Guido Zavanone, genovese di origine astigiana, la cui logica analizza lucidamente le problematiche della vita umana e del Cosmo, anche se il cuore è tutt'altro che indifferente. I suoi versi sono animati da una originale metafisica moderna, da un'acuta sensibilità etica affamata di giustizia e di equità, e sono portatori di un autentico dolore di vivere, nonostante un' ironia onnipresente, a volte sulfurea. Zavanone, che è stato un alto magistrato ( fino a procuratore generale presso la Corte d'Appello di Genova) come poeta si è ormai conquistato, con recensioni e presentazioni dei suoi libri da parte di firme di primo piano e prestigiose, e con una raffica di Premi importanti vinti, un posto di rilievo nella poesia italiana del Novecento e di questi anni del Duemila. La sua produzione poetica di una vita è stata selezionata recentemente in
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un libro intitolato Lo sciame delle parole, prefato da Stefano Verdino dell'Università di Genova, ed edito da Interlinea di Novara. Nella sua ricca produzione svettano due poemetti, Il viaggio (San Marco dei Giustiniani, Genova 1991) e Il viaggio stellare ( ibidem, 2009). La sua cultura finemente laica, non esente da inquietudine religiosa ma al servizio di una sensibilità moderna, si avvale dello strumento “classico” dell'allegoria, con un linguaggio volutamente “dotto” e amorevolmente volto verso il passato, specialmente nell'opera “Il viaggio stellare”, chiaramente ispirato anche al Divino Dante Alighieri (1265-1321) e alla sua celebre “Commedia”. E' proprio nel corso del poema “Il viaggio stellare”, articolato su 25 “capitoli”, composto da endecasillabi classici inframmezzati a versi di lunghezze variabili, atti ad agganciare alla classicità del contenuto la modernità della forma, che avviene l'incontro-choc, seguito da un illuminante dialogo, con l'ombra di Dante Alighieri. E precisamente nel capitolo XVII (intitolato, appunto, L'incontro). Dopo avere viaggiato per buona parte dello Spazio su una misteriosa astronave che lo stava portando da casa sua, sulla Terra, alla ricerca della soluzione dei misteri della vita e del Cosmo, guidato da uno spirito-guida dalle forme di stupenda ragazza, l'Autore arriva al Regno dei morti, il regno immenso e desolato che governa il Potere divino o il Nulla eterno. Trattasi di un antro enorme, dentro il quale le vuote ombre dei morti si agitano in modo confuso e frenetico quale alveare d'un tratto ridesto, ombre in volo come uno stormo immenso d'uccelli di passo che oscurano il cielo. Sono pochi, però, i morti che vogliono e possono parlare col poeta e la sua guida. In generale, non possono farlo quelli che nella vita hanno parlato anche troppo, cianciando come dei ventriloqui anche se non avevano nulla da dire. Tra questi presentatori garruli e servili politici tronfi ed indigesti
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che ben conoscono l'arte sottile di parlare senza farsi capire. Non diversi i teologi che insegnano ciò che non sanno facendo la ruota e buona parte dei predicatori che dicono nel vuoto cose vuote. Non parlano neppure i sognatori (perché non si dissolva il loro sogno), e quanti in vita hanno sofferto troppo, e i violenti, e i filosofi che sanno di non sapere, gli educatori che alle parole preferirono l'esempio. Ad un certo punto, dai caroselli di ombre che vorticano senza sosta, se ne stacca una, insofferente delle altre, e nessuna osa passarle avanti. L'emozione che l'incontro con l'ombra di Dante procura al poeta Zavanone è fortissima: Come la vidi un tremito/ percorse le mie membra, il cuore in petto/ mi batté forte per l' antico amore/ e l'emozione d'essere al cospetto/ d'uomo che più d'ogni altro il mondo onora...Ma nonostante la voce stenti ad uscirgli, e la lingua, esitante, riesca ad articolare solo parole confuse, il poeta riesce a rivolgersi al Maestro : “ O caro padre mio, che visitasti / Inferi e Cielo e illumini il cammino/ di chi tardo e confuso viene dietro/....che sorte attese i morti che onorasti/ con il tuo canto e li facesti grandi ?” / Rispose triste: “ Giacciono ammucchiati/ nel grande cimitero della Terra. / Pacificati / fraternizzano tra i vermi. / Però fin quando il mondo li ricorda/ vagano quaggiù le loro ombre, / si muovono nel nulla e regge i fili/ di quest'altra esistenza la memoria./ Poi la Bontà infinita ha sì gran braccia/ che tutti ci cancella e più non resta / della nostra esistenza alcuna traccia.” Ma è anche un'altra la domanda che brucia sulle labbra di Guido al suo Maestro. E questi la intuisce, e prontamente gli viene incontro; “ Ma non eluderò quella domanda/ che la tua mente al dubbio sottomette/ e già vedo salire alle tue labbra: esiste un Dio che l'Universo regge ? Se intendi rettamente la visione/ che muove la Commedia e la suggella/ Dio è luce in cui l'uomo si riflette./ Ma se l'arida scienza l'apparenta/ a protoni, neutroni ed elettroni/ ogni fede ha perduto sua semenza.”.
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La voce era serena, ma il dolore e la ferita dell'anima erano rivelati dallo spasmo del volto. “ Tutto è vanità” proseguì “ma gli uomini/ non comprendono e si fanno la guerra/ divisi sempre in vittime e oppressori: / fin che la tomba gli uni e gli altri serra. / Ognora si ripete nella Storia/ quello che lungo i secoli è successo/ Budda è venuto e Cristo e Maometto/ giù sulla Terra per cambiare il mondo/ il mondo ruota ed è sempre lo stesso./ Afflato di giustizia e di pietà, / nell'Oltretomba ho collocato gli uomini/ variamente secondo che meritano/ quasi supplendo la Divinità.” L'ultimo accenno di Dante è allo stesso poeta che ha davanti : “ Tu saresti un altro Guido/ e forse vorresti essermi seguace/ ma più nessuno tra i versi fa il nido/ se pur fornito d' ingegno vivace... E qui Dante parla da grande critico letterario, per significare che la Poesia è in crisi per il tragico solco fra Autori e Lettori, anche per colpa dei primi, troppi dei quali si gingillano con parole astratte e vuote senza il rispetto della realtà umana e naturale. La parola anche l'ho aggiunta io, perché le cause della crisi della poesia sono numerose, e strutturali alla società moderna, oltre quelle ascrivibili agli autori. Luigi De Rosa L’ANNO NUOVO L’anno nuovo si presenta ricco di novità e di nuovi inizi ed io che credevo di potermi adagiare tranquilla sul mio letto di opere per riposare mi sento di nuovo chiamata ad affrontare un futuro di interessanti attività ed impegni. Se Dio vorrà, saranno piccole cose intese a portare un po’ di gioia a me e agli altri. Mariagina Bonciani Milano
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Marzo 2017
CAMUS, KAFKA E IL SUICIDIO DEL GIOVANE MICHELE di Giuseppe Leone
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ORSE non è stato un suicidio qualunque, quello di Michele, consumato a Udine l’ultimo giorno di gennaio, in casa della nonna. Non lo è stato, probabilmente, anche per il modo come è stata data la notizia attraverso una lettera del suicida pubblicata sulle pagine del Messaggero Veneto per volontà dei genitori, affinché non cada nel vuoto la sua denuncia; e per la quasi totale assenza di commenti da parte di esperti e psicologi. Un suicidio brandito in segno di riscatto sociale non è cosa di tutti i giorni e, in effetti, leggendo questa lettera di addio, sembrerebbe che il gesto di Michele trovi legittimazione non tanto nei modelli della civiltà presente, quanto nel loro superamento: di un Camus o di un Kafka, per esempio, che al suicidio, unitamente al lavoro, hanno dedicato più di una riflessione e di un approfondimento. Ma cerchiamo di entrare nel merito della lettera. Il giovane aveva solo trent’anni, ma sapeva già tutto della vita. Ne aveva coscienza della sua miserevole condizione e soprattutto si era fatta l’idea che non esiste punizione più terribile del lavoro inutile e senza speranza, tanto che era stufo “di colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e desideri… stufo di invidiare, stufo di chieder(s)i cosa si prova a vincere, di dover giustificare la(sua) esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le
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(proprie), stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illuder(s)i, di essere preso in giro. Era stufo di tutto, insomma, perché il mondo che gli girava attorno era assurdo, senza speranza e senza felicità, ma soprattutto perché, per un anticonformista come lui, mancavano le condizioni per imporsi e non aveva i poteri o i mezzi per crearle. In altre parole, Michele avrebbe anche combattuto il mondo, ma non per sopravvivergli. Ed è a questo punto che il suo gesto sembrerebbe prendere le distanze, tanto da Camus quanto da Kafka, dai loro personaggi s’intende, da Sisifo, come dall’agrimensore K.: dal primo, perché non può ammettere – come lo scrittore transalpino - che l’eroe mitologico sia felice quando, di nuovo ai piedi della montagna, si accinge a riportare il masso sulla cima; dal secondo, perché è “stufo” di stare ad ascoltare le voci del mondo, a differenza di K. che, nel cammino dal villaggio al Castello, nell’attesa di venire assunto come agrimensore, sta sempre in ascolto per decifrare le voci confuse e mescolate, risate vaghe, richiami lontani che egli sente quando telefona al Castello per chiedere notizie della sua assunzione. Michele, togliendosi la vita, non ha voluto accettare il quotidiano perché a ogni passo vi trovava un fallimento, con buona pace della felicità di Camus e della speranza di Kafka. Non ha accettato questa sottomissione al quotidiano, perché sarebbe diventata un’etica. Eppure, questa di Michele, poteva anche essere una lettera scritta non per annunciare la propria morte, ma per iniziare un suo prossimo ipotetico romanzo o diario e, in questo caso, avrebbe fatto riudire il grido dell’Ortis dal fondo della laguna veneta (Nord-Est), ma non lo ha fatto, per rimanere fedele alla vita. Ha, invece, preferito uccidere sul nascere, nel momento in cui ha preso coscienza, lo scrittore e il personaggio che avrebbero potuto sopravvivergli. E la sopravvivenza, neanche in questo caso, l’avrebbe sopportata. Giuseppe Leone
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Marzo 2017
MODERNISMO, POSTMODERNISMO O TARDOMODERNISMO. POESIA E NON POESIA di Nazario Pardini
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ER quanto mi riguarda non esiterei a sottoscrivere la poetica di un manifesto che rifiuti, con tutto il suo potere critico, il materialismo, il consumismo, la globalizzazione, l’industrializzazione, il condizionamento ad un comportamento omologante, il telecomandiamo, provocati da quelle innovazioni che hanno determinato la moderna cultura decentralizzata, a favore di una società interconnessa priva di un reale centro dominante di produzione intellettuale. Tutto a favore di un tipo di convivenza drogata di schopping e infarcita di disvalori a cui si contrappone un postmodernismo con una visione completamente opposta a quella conservatrice. Opposta ad un mondo in cui l’ industrializzazione e l’omologazione al consumismo hanno creato una società piatta, condizionata e senza spinte creative che affonda le radici nell’Illuminismo; in tutta la cultura ottocentesca del pensiero modernista che riconosce un' importanza suprema a ideali come la razionalità, l’oggettività, il positivismo ed il realismo. Ora ci si interroga sulla veridicità di tali ideali. D’altro lato non sottoscriverei di sicuro una poetica che volesse ingabbiare la poesia nella rete di un mero realismo spersonalizzato e senza anima; nell’oggettivismo più crudo, vòlto solo ai problemi della questione sociale. Si tratterebbe di una poesia condizionata, a senso unico. Di una poesia che si fa ancella di una questione, pur giusta, limitante, restrittiva per la resa creativa. La poesia richiede libertà, pluralità, totalità; ed ogni argomento è adatto a nutrirla, purché filtrato da un sentire che possa essere trasferito in arte. E credo che vadano evitati gli eccessi sia da parte di chi vuole rinnovare che di chi vuole conservare.
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Però una cosa è certa: il futuro ha sempre avuto bisogno della storia per crescere. Come è certo che in gran parte di ogni produzione artistica, quello che conta è la generosità emotiva del singolo. La sua energia immaginifico-intellettiva. Si può fare poesia ispirandosi all’ambiente in cui viviamo; digerendone le contaminazioni; traducendole in esperienze personali che si possono trasformare agevolmente in memoriale-serbatoio per il nostro dire. E credo che il verso debba essere movimentato da quel senso di musicalità baudelairana che ha influenzato gran parte della poesia contemporanea. Musicalità che chiede e detta; e che non permette al verso di andare a capo a piacimento. D’altronde col tardomodernismo c’è il pericolo di cadere in un oggettivismo invasivo che rischia di riprodurre le stesse limitazioni estetiche della società dei consumi. Senza contare che taluni sostengono che la stessa postmodernità sia già finita, dacché definiscono l'attuale periodo come post- postmoderno (Alan Kirby, nel saggio The Death of Postmodernism, and Beyond, definisce la cultura odierna "pseudo-modernismo"). Certo, scrivere di poesia oggigiorno è una cosa abbastanza difficile. Prima di tutto perché ci sono migliaia di poeti, per così dire, che si avventurano in questo campo tanto variegato; e tanti ne sminuiscono certamente l’ affidabilità. Si leggono poesie, di frequente, su antologie varie, che danno un chiaro esempio di cosa non dovrebbe essere la poesia. Quindi cosa è mai questa poesia? si possono delineare alcuni confini fra quello che è e quello che non è? Io credo che uno degli elementi portanti e comun denominatore di ogni espressione poetica sia una forma suggerita da un aveu sincero e spontaneo. Ma è estremamente necessario possedere un substrato linguistico non indifferente per accompagnare la nostra interiorità e non cadere nel semplicistico. Una forma che si articoli in figure retoriche e significanti metrici compatti e originali. In parole povere, una forma che denoti padronanza del verbo e dei suoi legami.
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È senz’altro la parola lavorata, ritagliata, ricercata, armonizzata in un contesto a dire il tutto. Ed è la graduale e sostanziale maturazione che porta ad essere padroni di una forma che identifica l’autore. Intendendo per forma una simbiosi inscindibile fra dire e sentire. E quanto è più ampio il linguaggio, quanto più ricco il patrimonio lessicale, tanto più cresce la possibilità di parlare di noi. E non è detto che fare poesia libera, senza misure metriche predisposte, senza vincoli, sia sufficiente a far scavalcare i confini fra un fasullo e un vero poeta. La stessa poesia così detta libera deve contenere al suo interno quella magica fluidità, quella ricchezza lessicale, quella compattezza armonica che può rivelare, ad esempio, un’alternanza metrica di endecasillabi, settenari e novenari. Alternanza che tenda ad evidenziare, dopo brusche rattenute, vere cascate musicali di versi adatti a tale funzione. Adatti ad accompagnare momenti di vita, moti esistenziali ora più intensi ora meno. La poesia allora deve essere guidata da regole? ma non è che con le regole la si distrugge? se ne annienta l’anima? Mi si potrebbe obiettare. Ma la regola è insita, non estranea alla espressione poetica, nasce contestualizzata e col solito sangue del vero poièin. Quindi è estremamente necessario formarsi su una solida cultura letteraria, arricchirsi di esperienze di vita e di lettura, di traslati e parole. È estremamente necessario conoscere la metrica, educare l’animo ai suoi strumenti, per fare nostra questa vena sonora finalizzata alla scoperta di noi stessi. Se in boccio dentro di noi va coltivata, attraverso un esercizio fonico-verbale, va indirizzata verso l’armonia che è il momento più importante dell’attività estetica, perché è proprio quello che avvince il fruitore, e lo rende partecipe del messaggio. Insomma, facendo il percorso inverso, non è certamente poesia una scrittura che stride all’orecchio, che non riesce a combinare la parola con l’interiorità, che non è all’altezza di creare quei guizzi folgoranti che sanno andare oltre il testo. La musica è dentro l’uomo
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fin dalle sue origini. E deve essere partorita da uno spartito le cui note volgano a una composizione umanamente coinvolgente. Quante volte diciamo: “Questa non è buona musica”. Perché è il nostro animo che tiene fin dalla nascita il germe dell’armonia, e questo germe va educato a più complesse orchestrazioni. Non si può fare poesia buttando giù frasi più lunghe o più brevi come fossero versi. Anche la poesia così detta libera deve attenersi a dei principi, e chi la scrive non è libero da vincoli espressivi e da conoscenze di armonia e fluidità; deve aver presente il valore del verso in tutte le sue funzioni di forma e di regole che la poesia stessa contiene in quanto tale, e che tiene nell’anima, innate, il vero poeta. E proprio su quel tessuto devono essere cucite parole che non sono più semplici grafemi, ma involucri che contengono immagini, frutto di realtà macerate nella nostra intimità. E quando si ricorre alla natura (ai suoi grandi spazi, ai suoi misteri, alle sue infinitezze o debolezze, ai suoi momenti ora fulgidi ora decadenti, ora brumosi, ora sfolgoranti) deve essere più vicina possibile al dipanarsi della vita umana. Al suo consumarsi. La natura deve aiutare, con il suo linguaggio, la confessione. Ed è sempre disposta, la natura, ad assecondarci, ad affiancarci con quello che vuole dire. Ed il binomio è fatto, la simbiosi è completata. Descriverla col solo scopo idillico-elegiaco significa partorire un prodotto senz’anima. Poi, per quanto concerne i contenuti, di solito si tende a delle suddivisioni secondo me piuttosto inutili: poesia oggettiva, d’impegno, poesia lirica. La poesia tutta deve essere lirica, sia religiosa, sia oggettiva, sia laica, sia civile, sia erotica. Se non la si sente e se la si deve fare solo per una missione religiosa o politica o civile o sociale o altro non raggiungerà mai le vette del Parnaso, ma sarà solo, tutto al più, una semplice manifestazione di pensiero. Ma mai una forma artistica. E lirico può essere qualsiasi contenuto, qualsiasi argomento, sia politico che religioso o erotico; è indispensabile che sgorghi dall’
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animo, è indispensabile che sia frutto di una passione, di un forte sentimento. Perché a indicarci le strade contorte, ora melmose, ora lucide di sole, ora tenebrose, ora albate di prima luce, a far riaffiorare quei sentieri rimasti a decantare in silenzio per anni, è l’ interiorità, anche quella portata agli estremi, quale la follia; e nasce da là la vera poesia: da quelle immagini irrobustitesi nel fondo della memoria, da quella realtà che si è fatta nuova, e riadattata e forgiata dentro noi dal fuoco dei sentimenti. Non certo dalla ragione che tende, semmai, a raffreddare quel fuoco, a dimostrare che la strada dell’arte è dettata da impulsi, da moti eccessivi, anche se rivissuti, su cui la ragione stessa non ha avuto né il tempo, né la forza d’intervenire. Nazario Pardini 24/04/2016
FUMO TRASPARENTE S’innalza come fumo trasparente ogni pensiero umano, per arrivare in cielo, oltre le stelle; ma resta imprigionato dentro la mente pronta a trasformarlo. Diverrà tenue fiore che sboccerà su campi di memoria, o seme di scoperta e, nel perenne anelito di un volo, vivrà di poesia. Elisabetta Di Iaconi
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è molto lieta che il suo nome venga da una canzone del complesso Beatles ritmata di passato e di futuro e per quanto i millenni le consentano a raggiera sculetta sul motivo. L’anca di Lucy l’australopiteca osserva la sua curva e si stupisce che gli esperti scienziati pronipoti possano ipotizzare che lei fosse un maschio e disquisiscano seriosi sul sesso suo come fosse degli angeli senza capire che è stato l’amore a farla madre dell’umanità. Liana De Luca Torino
IN SOLITUDINE Invece di lamentarci cerchiamo di liberarci e celebriamo il trionfo di poesia, della parola essenziale con la vita eterna. E' possibile il dialogo all'interno dell'essere umano, con le risposte a conferma che siamo vivi. Teresinka Pereira Traduzione di Giovanna Li Volti Guzzardi
Roma
LUCY L’anca di Lucy l’australopiteca ammira con orgoglio femminile lo sguardo fisso nelle orbite vuote il ghigno ironico della dentiera il pensoso inclinato osso frontale del suo cranio che stringe con affetto fra le braccia più gracili e più corte il bello scopritore paleontologo. L’anca di Lucy l’australopiteca
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 2/2/2017 L’Europa ci bacchetta, cresce economicamente e se la ride; noi siamo in pianto ed allo zero virgola. Alleluia! Alleluia! Sugli scranni del Parlamento europeo, compattezza tra i rappresentanti di ogni Paese quando sono in gioco interessi nazionali; i nostri sempre a scannarsi, divisi in opposte bande. Domenico Defelice
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L’UNIVERSO POETICO DI INES BETTA MONTANELLI IN UN LIBRO-SAGGIO DI MARINA CARACCIOLO di Luigi e Rosa
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EL dicembre 2016 è uscito a Roma – per i tipi della BastogiLibri – un importante saggio di critica letteraria scritto da Marina Caracciolo sulla produzione poetica che Ines Betta Montanelli ha pubblicato nel lungo periodo che va dal 1981 al 2013. Il titolo del volume è Oltre i respiri del tempo. Bellissimo titolo, desunto da una poesia della stessa poetessa: Le mie radici… vanno oltre le acque dei fiumi oltre i respiri del tempo Per il professor Giuseppe Benelli la poetessa «è passata attraverso le varie stagioni della vita in compagnia della poesia. Alla Musa Calliope ha sempre affidato le sue emozioni, i ricordi e il forte legame con la Val di Magra…». A sua volta, anche il sottotitolo del libro, L’universo poetico di Ines Betta Montanelli, denota chiaramente l’intenzione di impostare il significato della vita e del cosmo sulla chiave della durata senza fine, per l’ eternità. Vengono utilizzate le parole universo e tempo per indicare quali sono gli obiettivi «materiali», «respiranti» e transeunti, da superare e travalicare perché il Tutto abbia un senso, nella corsa dell’esistente, misurabile, verso l’Infinito e l’Assoluto, privi di qualsiasi limite. Il paesaggio attraversato nell’ inseguimento di questo traguardo è quello quotidiano, e fascinoso, della Lunigiana, fra due Regioni stupende come la Liguria e la Toscana. Ines Betta Montanelli, infatti, che è nata a La Spezia, da un’antica famiglia originaria di Pontremoli, risiede a Vezzano Ligure, nello spezzino, e fa rivivere nelle sue liriche, dolci e dolenti allo stesso tempo, la sua terra. Con
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affetto, malinconia e nostalgia (tanta). Il libro della Caracciolo – milanese di nascita ma torinese fin dall’infanzia, colta e puntuale critica letteraria vincitrice di Premi per la Saggistica, già allieva del critico e poeta Giorgio Bárberi Squarotti all’ Università di Torino – è dedicato dall’Autrice al suo Maestro, ed è strutturato in due parti. La prima consiste nel Saggio vero e proprio. La seconda è un Florilegio di cinquanta poesie scelte accuratamente fra quelle raccolte nelle otto opere poetiche pubblicate dalla Betta Montanelli dal 1981 al 2013. Tali opere sono le seguenti: Dal profondo (1981), Sete di stelle (1986), Trasparenze (1989), Radici d’ acqua e terra (1993), Nel passaggio di tante lune (2000), Il chiaro enigma (2002), Lo specchio ritrovato (2004), L’assorta tenerezza della terra (2013). Questa strutturazione è molto utile per il lettore e lo studioso, che può operare in qualsiasi momento un raffronto chiarificatore fra l’ analisi della Caracciolo ed il testo originale della poetessa. Si aggiunga che molti altri versi sono riportati, parzialmente o integralmente, nel corso della trattazione critica, sempre fluente e comprensibile. Un pregio particolare della Caracciolo, per quanto riguarda lo stile di presentazione di un poeta, è rappresentato dal linguaggio, scientificamente e tecnicamente appropriato ma sempre lucidissimo, nella partecipazione emotiva con l’autore e col suo contesto di vita e di poesia. Anche evitando l’uso di termini letterari, «retorici» e «datati», non indispensabili. Ecco: la fedeltà al poeta e al suo contesto vitale! Lo sosteneva già a suo tempo il De Sanctis, e lo ha sempre sostenuto Bárberi Squarotti. Nel suo pregevole libro, la Caracciolo ricorda anche i giudizi espressi a suo tempo da altri critici sulle raccolte prima elencate; oltre ai nomi di Bárberi Squarotti e del già citato Giuseppe Benelli (docente all’ Università di Genova). Troviamo, nell’analisi di Dal profondo, il nome di Sabino d’Acunto, che già nel 1981 aveva saputo riconoscere «a prima vista il valore e l’originalità di
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questa voce poetica che si affacciava timida, per la prima volta, nell’agone letterario». Nell’analisi di Sete di stelle, particolarmente acuta e puntuale, nonché riccamente inframmezzata da citazioni di versi, viene ricordato Dalmazio Masini. A proposito della raccolta successiva sono citate opinioni e giudizi di Alberta Andreoli e dell’autorevole Giovanni Sbrana. Particolarmente felice, in questo medesimo capitolo dedicato a Trasparenze, l’analisi e la parafrasi della stessa Caracciolo in merito alla funzione del paesaggio nella poesia di Ines: «Il paesaggio è qui – e resterà sempre – non una mera cornice, ma una sostanza, una linfa vitale di cui lo spirito della poetessa si nutre e amorosamente si imbeve. Così essa abbraccia con sguardo commosso la sua Lunigiana nella poesia dal titolo Orsaro: Mie trasognate cime dove il cuore coglieva segreti d’orizzonti. Sarò ancora anima d’ala che migra, pulviscolo di neve per ritrovarvi assorte in stupori di cielo mie trasognate cime. » Alla critica torinese non sfuggono le numerose novità tematiche e stilistiche che si affacciano nella poesia della Betta Montanelli nel corso del suo primo decennio di maturazione, e puntualmente le registra. Soprattutto pone in rilievo «la persistente, ansiosa malinconia che tutto avvince e su tutto aleggia: è lo sgomento dell’ignoto e, insieme, l’angoscia per il passare troppo rapido del Tempo». E in questa terza raccolta, l’ autrice mostra come sia già ben visibile l’ universo poetico che prenderà corpo e forma definitiva nei libri successivi. Un altro critico ricordato è Luigi Medea, a proposito di Radici d’acqua e terra, del 1993. Per non parlare del già citato professor Giuseppe Benelli, autore, tra gli altri testi di elevato spessore, della Nota critica La
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poesia della Lunigiana, scritta nel 2000 per il libro Nel passaggio di tante lune. A proposito di Il chiaro enigma, del 2002, vengono ricordati i giudizi di Ferruccio Battolini e di Elena Bono, ma in chiara evidenza è la friulana Maria Grazia Lenisa (direttrice della collana poetica «Il Capricorno» della Bastogi) che ne ha scritto la prefazione. Testo che, secondo la Caracciolo, «è piuttosto un ampio saggio introduttivo, in cui [ella] traccia le linee di fondo di un percorso vòlto a scoprire … soprattutto lo spessore dei significati della nuova opera poetica». La meditazione metafisico-poetica in cui si trova immersa la poetessa spezzina ce la fa immaginare, secondo il felice ritratto della Caracciolo, nel momento in cui sosta «dietro i vetri di una finestra, all’ora dell’ imbrunire, mentre si sofferma pensierosa a considerare l’ eterno rinnovarsi ma anche l’ immota solennità della Natura, millenaria divinità estranea fin dalle origini al convulso agitarsi e susseguirsi delle azioni e degli eventi umani». Sullo sfondo, la concezione della Natura come amica e consolatrice degli uomini ostili fra di loro, propria di Giovanni Pascoli. O, al contrario, la Natura matrigna del Leopardi, quella che non mantiene le promesse fatte ai figli suoi. In Ines Betta Montanelli la Natura pare avere un’ equidistante indifferenza rispetto alle vicende dell’Uomo. In realtà ne intride l’ anima, e la memoria, di dolcezza e di malinconia. E di nostalgia. La luce, la consolazione, salvo alcune felici eccezioni, non viene vista tanto nel futuro, quanto nel passato, oppure, in alcuni casi, nel presente. E rifratta dai giochi di prisma della Poesia. La Natura è presente in tutta la produzione poetica della Betta Montanelli. Ne è una fondamentale ispiratrice. Scriveva, tra l’altro, la Lenisa: «Da tempo Ines Betta Montanelli lavora da certosina alla conciliazione fra natura e cultura. Con la forza della sua costante ispirazione ha guarito non poche delle ferite della poesia che nella natura ha avuto in passato il suo specchio, quello specchio ritrovato che lei oggi assai energicamente ripropone».
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Più che di iato fra Natura e Storia dell’ Uomo, si dovrebbe parlare di tradimento della Natura da parte di un progresso tecnologico umano troppo “entusiastico”, che ha finito con l’avere conseguenze gravi di inquinamento globale. Ma forse è l’istinto di sopravvivenza a spingere l’Umanità a correre senza freni sulla strada della ricerca di sempre nuove fonti di energia, per sfuggire all’inevitabile morte della Terra e trovare, non si sa quando, una via di fuga di alcuni nuclei umani su altri corpi celesti. Per il resto dell’Umanità, e per le anime più sensibili, la “guarigione” si allontana nel tempo… Si legga la poesia Quel volo d’ uccelli dal libro Lo specchio ritrovato (2004): Quel volo d’uccelli che a trapezio remano l’aria verso l’Orsaro azzurrino non sanno che tra le rupi e gli zerbini rasati dal vento è rimasto il rimpianto di un gioco finito. La chiusa è troppo amara. Denota delusione e disillusione. Ma quattro anni prima (nel 2000, con il libro Nel passaggio di tante lune) l’amore per la vita e la bellezza aveva consentito alla poetessa di scrivere un canto di fiducia e di speranza: Nel passaggio di tante lune la trasparenza delle cose sfuma ma anche nello sgomento di un cielo cupo si cela l’irripetibile bellezza della vita. In definitiva, la poesia non è scienza. La poesia è anche, e soprattutto, emozione. Stato d’animo permanente, oppure solo di un attimo. Ma comunque caldo e tenero. Anche variabile. Purché autentico. Luigi De Rosa MARINA CARACCIOLO - OLTRE I RESPIRI DEL TEMPO - L'universo poetico di Ines Betta Montanelli - Bastogi Libri/Testimonianze, 2016, Pagg. 130, € 10,00
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LA PRIMA STELLA Sgocciolano anni e non c’è ristoro di davidici salmi. Tornaci nel cuore e in bianco mantello ripeti all’uomo: “Alzati e cammina”. Siamo ricchi solo di solitudine, come su orli a piangere la notte. I Tuoi occhi mansueti sono il giorno; unguenti per arcuate schiene, le Tue mani. Scendi dal Cielo nell’ora dei lupi; Tu hai parole ancora non vane per un addio cinereo di megatoni irrimediabili. Tu puoi comporre discordanze, ancorare terreni epiloghi e additare verticali orizzonti di cielo. Sei Tu la prima non ultima stella. Rocco Cambareri Da Da lontano - Ediz. Le Petit Moineau, 1970.
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 2/2/2017 Non cieco, ma non vedente; non sordo, ma non udente; non zoppo, claudicante, ma non abile... La realtà nascosta dietro un linguaggio ipocrita e affettato. Alleluia! Alleluia! Ed ora non più fallito, ma giuridicamente liquidato. Domenico Defelice
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“LE FOLLIE NON SONO PIÙ FOLLIE” DI FERRUCCIO BRUGNARO: IL SOGNO DELLA LIBERAZIONE E DELLA GIUSTIZIA di Andrea Bonanno
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A recente silloge poetica dal titolo Le follie non sono più follie di Ferruccio Brugnaro, Edizione Seam, pp. 68, euro 10, con prefazione di Igor Costanzo, si presenta densa di un lirismo espressivo notevole. Il poeta-operaio Brugnaro, memore della sua lunga militanza, fin da quando, nel 1965, distribuiva i suoi ciclostilati nelle fabbriche, nelle scuole ed in altri ambienti, sintetizza nel libro l’iter del difficile adattamento psicologico e culturale dei contadini trasformati in operai, della loro crescente disperazione giunta ai giorni nostri al parossismo di una cosalizzazione esasperata con terribili attentati rivolti alla loro medesima vita. L’uomo, disancorato dalla sua umanità, è ridotto ad un inerte strumento cosale, in possesso solo di una sensualità percettiva che lo possa far interagire con la realtà: è ormai in balia di “rettili glaciali (che) addentano / mostruosamente / le carni /(che) masticano senza pietà” (p. 11). Sono i perseguitori di sempre più alti profitti e soliti rivolgere “infiniti disprezzi /umiliazioni / disperazioni” (p. 13), “insulti” e “aggressioni di morte” (p. 12) agli operai martoriati che hanno avuto il coraggio di opporsi con “dolorose / laceranti lotte / dentro uno sfruttamento bestiale insaziabile /
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ai piedi di montagne / di profitti banche cattedrali / che stanno seppellendo / ogni sguardo, ogni sorriso” (I miei compagni sulle torri, p. 12). Autentico poeta, il Brugnaro, non può tacere i gridi che salgono dalla sua anima, umiliata e stravolta, e i suoi versi esuberanti e sinceri denunciano, insieme ai raggiri e agli irrazionalismi di un apparato tecnologico senza ossigeno ormai, il crollo illuministico della promozione dell’uguaglianza, della libertà e della fratellanza in ogni uomo e la medesima ragione della salvaguardia dei valori umani contro tutte le tirannidi passate e future, contro tutte le guerre, l’odio e quel senso della morte che aleggia su ogni palpito della vita: “La morte in questi giorni / non ha limiti. / La fabbrica ingoia la vita / nella più totale indifferenza. / Morte e solo morte” (Questo carico di morte, p. 31). Oggi che le condizioni degli operai sono peggiorate a causa dell’insensato agire dei politici in combutta con le strutture monopolistiche dell’apparato neocapitalista per via del gravoso furto dei diritti contributivi e previdenziali spettanti ad ogni operaio, dell’ abolizione dell’articolo 18 senza la previsione del reintegro automatico nel caso di un valutato licenziamento illegittimo, senza contare inoltre l’utilizzo spesso illegittimo dei vaucher, del peggioramento della sua precarietà operativa ed esistenziale, anche non volendo, ogni coscienza dell’oggi sarebbe spinta alla più veemente protesta e denuncia contro siffatti espropiatori della dignità, umanità e diritto alla vita di ogni uomo, contro siffatti sfruttatori ed arrivisti di un apparato rivelatosi delittuoso come nel caso dell’Ilva di Taranto, gli operai bruciati alla Thissenkrupp e i due asfissiati di Porto Marghera (p. 31). Con i suoi versi, il poeta Brugnaro, così frementi e pure lucidi, non può non esprimere tutta la sua indignazione e lo strazio della sua anima, riconoscendo che quel potere burocratico-dirigenziale non ha più alcun fine umanistico, ma l’insana direttiva di una abnorme cosalizzazione e di un feroce sfruttamento dell’uomo. Così i suoi versi, intensi di sinceri
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impulsi affettivi, protesi ad accarezzare il sogno di una migliorata condizione della spiritualità ed esistenzialità di ogni uomo, si dibattono nel contempo fra amare riflessioni e tristezze, che accrescono il caos e la scissione della nostra anima per la spasmodica incertezza e nullificazione del nostro destino, e la speranza, caldeggiata dalla sua anima, frustrata da mille soprusi ed insulti, di una liberazione dai “corvi della sventura” e disonesti propagatori dell’odio: “Il mio grido è una ferita angosciosa / una grande ferita. /Il mio grido è un acido / forte, deciso / entro una quiete millenaria di frustrazioni / una quiete piena di delitti / Non chiedetemi, non chiedetemi / di soffocarlo” (Non si può spegnere, p. 39). Così la sua anima di poeta mette a nudo gli slanci più intimi e pressanti del suo amore verso gli altri, la vita e la bellezza della natura nel sogno di una rigenerante catarsi dei soprusi e torti subiti, utilizzando il ritmo martellante delle parole iterate. Infatti, il modulo iterativo viene usato per sostenere il tono e la struttura di tutti i componimenti, sostituendo i connettivi prosastici, con una fitta rete dei rimandi iterativi, interni ai versi, con le anadiplosi, le anàfore, le epìfore (p. 47), le epanalèssi e l’enumerazione per asindeto, al fine di poter innalzare la loro liricità espressiva. Tutto è precipitato oggi nell’imbuto avvilente dell’immoralità , dell’oscena corruzione e di una feroce imposizione truffaldina, afferma il poeta: “Questi signori […] vogliono difendere i loro lauti introiti. / Questa gente, credete / vive del sangue martoriato dei popoli / si nutre della dura fatica dei popoli; / predica e si ingrassa / sulla pelle degli indifesi, degli affamati” (Continuano intanto su tutta la terra, pp. 41-42); “Grande è / il vostro sporco insaziabile / egoismo / la vostra farneticante / volontà di dominio / di terrore” (Rifiuto delle privatizzazioni, pp. 48-49). Il poeta allora sogna l’uscita dai labirinti della disonestà e del raggiro in nome di una speranza alimentata dalla solidarietà di un
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amore laico, motivato fortemente, pacifista ed estraneo a qualsivoglia violenza in cerca di un riscatto del negativo e della ferocia imposti al reale, puntando sulla sensibilizzazione delle coscienze democratiche, tramite la Poesia, che dovranno sottoporre alla epistème di un’obiettiva verifica le illegittime e false definizioni univoche del Potere e dei suoi accoliti per un salutare rifiorire della democrazia e di un vero progresso civile, economico e morale. E’ la sua, una poesia che, come accade nella realtà in primavera, in cui accanto al senso della morte vi è la gemma di una vita risorgente, così nella sua anima, accanto ai segni dell’amarezza più fonda ed il senso del nulla, vi è un acceso amore verso la vita, le sue creature più indifese, la tenerezza più calda verso i suoi primi aliti trionfanti e l’ intensa e fremente aspirazione a giorni inondati di sole e di amore: “Non c’è pezzo di terra / e di carne / che non bruci il suo peso / di morte / e non nasca pieno / di gemme / specchi / nastri rossi e azzurri” (La nascita della primavera, p. 14). Da qui il fermo intendimento del poeta di non desistere dal nutrire “resistenze / tenacie / gioie segrete e pazze”: Dentro una storia di morte / dentro uno spazio / di morte / il mio lavoro di sole / non avrà mai fine” (Malvagio, sono malvagio e bestia, p. 33). La poesia del Brugnaro, pertanto, dà lo scacco risolutivo agli ossimori permanenti del Potere, alla sua degradante e feroce cosalizzazione dell’umano operata dalla sua univocità e dal suo ambiguo ed autoritario monologismo, che non persegue più istanze di un vero progresso, sociale e umano e il fine di una sua riformulazione in senso umano, civile e democratico. Fin da ora, pertanto, essendo giunto il momento propizio in cui “il nostro sangue / deve erigere barricate alte”, il poeta alimenta la fede che possa essere rifondata una nuova condizione sociale, politica e morale dell’uomo, pervasa di una calda e appassionata umanità e di un totale senso della libertà. Andrea Bonanno
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IL CANTO IX DEL PARADISO di Fabio Dainotti
C
I sono fondamentalmente tre interpretazioni del verso “questo centesimo anno ancor s’incinqua”. Prima interpretazione: passeranno cinque secoli; ma è difficile che l’autore abbia voluto limitare a cinquecento anni la fama di Folco. Seconda: passeranno molti anni; ipotesi da scartare: cinque infatti, diversamente da sette, o cento, non viene usato col significato di innumerevoli volte; la terza, infine, dà ad “incinqua” il significato di moltiplicatore: questo centesimo anno, il 1300, si moltiplica per cinque. Questa interpretazione pare la più probabile, perché Dante fa spesso sfoggio della sua competenza nella cronologia, come in Pd XXVI, 118-23. Questo centesimo anno è il 1300, l’anno in cui si immagina avvenuto il viaggio oltremondano di Dante. 1300 per 5 dà 6500. Secondo complicati conteggi che il poeta fa in altri luoghi della Commedia sono passati, infatti, già 6500 anni dalla creazione del mondo. Questa cifra, sommata a 6500, che è il risultato della moltiplicazione, dà 13000, che, secondo Servio (comm. all’ Eneide III 954) è la durata di quel grande anno pronosticato dagli astronomi medievali cui il Nostro voleva probabilmente riferirsi. Il magnus annus è il periodo impiegato dalle stelle per ritrovarsi tutte nella identica posizione di partenza (rivoluzione di tutte le stelle). Per Macrobio la durata del grande anno è di 15.000 anni, ma è più probabile che l’ Alighieri segua Servio, perché la sua cifra di 13000 faceva coincidere date fondamentali nella vita e nell’opera di Dante. Come si ottiene la cifra 6500, cioè il numero di anni trascorsi dalla creazione del mondo? Sommando gli anni trascorsi dalla morte di Adamo alla discesa del Cristo agli inferi (4302) con la vita di Adamo (930) il risultato è 5232+ gli anni trascorsi dalla morte del Cristo , a trentaquattro anni, fino al 1300, 1300-34 fa 1266. Ora 5232+1266 fa 6498 . Ricapitolando
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4302 + dalla morte di Adamo alla morte di Cristo e discesa agli inferi secondo la cronologia di Eusebio 930 durata della vita di Adamo 5232+ 1266 anni trascorsi dalla morte di Cristo al 1300 6498 I versi 41-43 “vedi se far si dee l’uomo eccellente / sì ch’altra vita la prima relinqua” secondo alcuni suonano strani in bocca a un beato. Si discute dagli studiosi sul significato da attribuire all’espressione “altra vita”. Fama sulla terra di poeta o di uomo di chiesa oppure “il secondo felice vivere in Dio”; dovrebbe trattarsi della fama, ma dato che il conseguimento di una fama terrena relega gli “spirti, che son stati attivi / perché onore e fama li succeda”1, nel cielo di Mercurio, qui è da intendersi: fama vòlta al raggiungimento della vita eterna. Il discorso sulla fama serve a Cunizza per parlare di ciò che più preme: l’ammonimento al popolo trevigiano, incurante di dover lasciare una buona rinomanza dopo di sé: E ciò non pensa la turba presente che Tagliamento e Adice richiude, né per esser battuta ancor si pente; (Pd IX 43-45) I confini della Marca Trevigiana sono delimitati ad Est e ad Ovest dai fiumi, come spesso in questo canto; ad esempio, più sopra, altri due fiumi, Brenta e Adige, presi alle sorgenti, indicavano il confine settentrionale. Dante è solito servirsi delle acque fluviali per indicare un territorio, ma qui il ricorso all’ idrografia della regione, che è ricca di fiumi, è più insistito. Il verso 45 allude a malanni, guerre, oppressioni che colpiranno la Marca. Seguono le tre profezie di Cunizza: contro Padova, contro Treviso e contro Feltre. Le prime due occupano una terzina ciascuna; la 1
Pd VI 114.
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seconda, tre terzine: ma tosto fia che Padova al palude cangerà l’acqua che Vincenza bagna per essere al dover le genti crude. (Pd IX 46-60) Nei vv. 46-8 si allude alla sconfitta toccata ai guelfi padovani, guidati da Iacopo da Carrara nel 1314, ad opera dei ghibellini di Vicenza, alleati di Cangrande della Scala. Il colore dell’acqua del palude che il Bacchiglione forma presso Vicenza cambierà per il sangue versato; si ricordi “l’Arbia colorata in rosso” di If X, 86, dove si parlava della battaglia di Montaperti. La vittoria ghibellina del 1314 è vista di buon occhio da Dante, che in Cangrande riponeva la speranza di una restaurazione del potere imperiale. Meno probabile che si alluda all’allagamento a scopi militari della zona. I guelfi di Padova sono “crudi” nel senso che sono restii all’obbedienza ad Arrigo VII e al suo vicario Cangrande. e dove Sile e Cagnan s’accompagna, tal signoreggia e va con la test’alta che già per lui carpir si fa la ragna. (Pd IX, 49-51). E a Treviso, aggiunge Cunizza, dove si uniscono le acque del Sile e del Cagnano (oggi Botteniga), un tiranno, cui già si sta preparando la rete (“la ragna” di v.51 è una rete sottile con cui si catturano gli uccelli; potrebbe essere anche espressione metaforica e significar trappola, ma nel contesto sembra preferibile il significato letterale, che s’ accorda meglio col gusto corposamente realistico e col tono di sarcasmo sprezzante esibito qui mediante l’uso dei termini “bigoncia” e “oncia”), per acciuffarlo, va a testa alta. Si allude qui all’uccisione a tradimento del tirannello Rizzardo da Camino, che successe al padre nella carica di capitano o signore di Treviso dal 1306; Rizzardo fu ucciso mentre giocava a scacchi su una loggia. La congiura fu ordita nel 1312 dai nobili guelfi, che mal tolleravano i suoi modi tirannici ( cfr. If I:
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“con la test’alta”: è’ l’atteggiamento del superbo) e il passaggio a una politica ghibellina. L’esecuzione materiale fu opera di un povero scemo, un contadino, che sgozzò con la roncola il tiranno. Compiuta l’opera, il sicario improvvisato si avvicinò per ottenere la ricompensa pattuita, ma fu immediatamente ucciso dai nobili presenti. Rizzardo era figlio del buon Gherardo, di cui si parla a Pg XVI 124, e marito di Giovanna, figlia del “giudice Nin gentil”, la quale morì povera a Firenze. Di Gherardo da Camino Dante era stato ospite tra il 1304 e il 1306. Piangerà Feltro ancora la difalta dell’empio suo pastor, che sarà sconcia sì, che per simil non s’entrò in malta. Troppo sarebbe larga la bigoncia che ricevesse il sangue ferrarese, e stanco chi ’l pesasse a oncia a oncia, che donerà questo prete cortese per mostrarsi di parte; e cotai doni conformi fieno al viver del paese. (Pd IX 52-60). La profezia ultima, la terza, riguarda la città di Feltre. “Questa città piangerà amaramente per la colpa ( “difalta” è francesismo, dal francese antico defaut) del suo empio vescovo, che consegnerà dei fuorusciti ferraresi al Vicario di Roberto d’Angiò in Ferrara. Per mostrarsi di parte, cioè fedele ai guelfi che governavano Ferrara, verserà sangue innocente e per soprammercato di ospiti che si erano rifugiati presso di lui. La malefatta sarà così turpe che mai si entrò per una colpa simile in prigione. (Al v.52 “malta” significa fango e dà il nome a molte prigioni, che per il solito erano umide e fangose. Se ne conoscono molte, ma Dante, che qui usa il nome comune “malta”, vuole probabilmente alludere, dal momento che sta parlando di un vescovo, alla prigione fatta costruire sul Lago di Bolsena e adibita a prigione per il clero, volendo intendere: nessun prete o vescovo è stato così empio come il pastore di Feltre). Per contenere il sangue versato dai Ferraresi ci vorrebbe una bigoncia, cioè un vaso di legno molto
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grande, e si stancherebbe chi volesse pesarlo oncia dopo oncia: (a once si misurava il sangue ottenuto con i salassi): sangue che questo prete cortese regalerà per mostrarsi fedele ai guelfi. Simili doni saranno conformi ai costumi della contrada.” “Prete” è termine usato una sola volta, a proposito di Bonifacio VIII, che viene chiamato “gran prete”, in accezione negativa. Probabilmente questo tono particolarmente sprezzante è dovuto anche alla situazione dell’exul immeritus, che in quegli anni “sapeva di trovarsi esposto egli stesso al medesimo pericolo” 2 cioè di cadere nelle mani dei guelfi e di essere estradato a Firenze e quindi far la fine di quei fuorusciti. Sù sono specchi, voi dicete troni, onde rifulge a noi Dio giudicante; sì che questi parlar ne paion buoni”. (Pd IX 61-3). Il terzo cielo è governato dalle intelligenze angeliche che prendono nome di Principati. I Principati regolano l’istruzione dei principi e la distribuzione dei regni e i trasferimenti di potere. Non a caso, dunque, incontriamo qui figure di uomini e donne impegnati a diverso titolo in un’azione politica. Siamo in presenza di una palinodia di Dante, che, come spesso nella Commedia, arriva a modificare o ritrattare alcune sue teorie. Come nella parte incipitaria del canto VIII del Paradiso la ritrattazione aveva riguardato l’ opinione degli antichi, secondo cui l’ influenza di Venere era determinante e necessitante, così qui e nello stesso canto VIII, viene operata la correzione di una precedente teoria sulle intelligenze angeliche. All’altezza di composizione del Convivio, infatti, il poeta aveva espresso l’opinione, in seguito rigettata come erronea, che a governare il terzo cielo fossero i Troni, che poi invece promuove a reggitori del cielo di Saturno, inserendoli nel-
la terna più alta delle gerarchie, subito dopo Serafini e Cherubini. Nel trattato Dante seguiva Gregorio Magno3; nella Divina Commedia, invece, segue lo Pseudo Dionigi Areopagita, autore del De coelesti hierarchia. Richiamandosi a lui, Dante, nell’Epistola a Cangrande, 21 spiega: “omnis essentia et virtus procedit a prima (DIO) , et intelligentie inferiores recipiunt quasi a radiante, et reddunt radios superioris ad suum inferius ad modum speculorum.” Isidoro di Siviglia (Etym. VII, 5) così si esprime “Troni sunt agmina angelorum qui latino nomine sedes dicuntur [… ]et per eos iudicia sua disponit”. Attilio Mellone ha firmato la voce Troni per l’Enciclopedia Dantesca4, in cui ricorda che “alcuni scolastici, seguendo lo pseudo Dionigi (Coel. hier., specialmente VII-IX, in Patrol.gr. III 205-260) accentuavano le doti dei cori angelici, perciò preferivano vedere i troni come gli angeli in cui Dio poneva la sua ‘sede’ riempiendoli della sua scienza e della sua grazia (p. es. s. Tommaso Sum. theol. I 108 5 ad 6; 6c e ad 2); altri invece, seguendo S. Gregorio,[…] preferivano vedere i troni come la ‘sede’ giudiziaria da cui Dio manifestava i suoi giudizi ed esercitava la sua giustizia.” Ma perché Dante, pur avendo innalzato i Troni a un altro cielo, li nomina nel cielo di Venere? In Pd XIX 28-30, leggiamo: “Ben so io che, se in cielo altro reame / la divina giustizia fa suo specchio, / che ’l vostro non l’apprende con velame.” (Io so che se in cielo v’è altro ordine di beati nei quali si specchia la divina giustizia, voi non la vedete meno di quelli, anche a voi appare distintamente). In Pd IX 61 e sgg. dice che Dio si specchia nei troni onde la giustizia divina rifulge alle anime apparse nel cielo di Venere. Nel commento scartazziniano5 si rimanda a Pd XXVIII, 3
Gregorio MAGNO, Moralium libri, XXXII 48. Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana 1970-19782, pp. 649-650. 5 La Divina Commedia, col commento scartazziniano rifatto da Giuseppe VANDELLI, Milano, Hoepli 1989, p. 871. 4
M. PASTORE STOCCHI, “Il lume d’esta stella” lettura di Paradiso IX, “Rivista di studi danteschi”, a. XI (2011) fascicolo 1, pp.47-50. 2
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104, dove si legge: “si chiaman troni del divino aspetto” e si osserva che solo per essi Dante ci spiega il senso del nome e il perché della collocazione per un semplice motivo: “perché nel Convivio li aveva abbassati al terzo cielo e aveva esposto solo per essi un’opinione che poi riconobbe erronea.” Nei Salmi (9,9) troviamo scritto “È lui che giudica il mondo con giustizia, che governa i popoli con equità.” E allora tentiamo di dare una risposta al quesito che ci siamo posti. Il concetto di governo equo e giusto, proprio degli uomini che amministrarono rettamente la giustizia, è l’ ideale dell’Alighieri. Il concetto si riallaccia a quella concezione più larga dell’amore come amore del prossimo. Il cielo di Venere, come abbiamo visto, aveva infatti, secondo la tradizione astrologica, due influssi: l’influsso buono riguardava l’armonia della civile convivenza tra gli uomini, governati dall’amore. Ma governare con amore significa anche governare con equità, secondo il pensiero di Dante. Forse non casualmente si citano qui, nel cielo dell’amore, i troni, che all’altezza di composizione del Convivio, presiedevano appunto il cielo di Venere. Cunizza si rende conto che le sue profezie son violente e si giustifica: “Noi beati vediamo come in uno specchio la divina giustizia; perciò la profezia è vera e giusta, perché voluta da Dio.” Un’altra caratteristica è stata notata e additata da taluni come pecca, dal punto di vista della resa artistica; queste anime smettono brusca-
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mente di parlare e si volgono a Dio. Qui si tacette; e fecemi sembiante che fosse ad altro volta, per la rota in che si mise com’era davante. (Pd IX 64-66). Ma altri commentatori hanno opportunamente motivato questo modo di fare. Si tratta di anime caratterizzate dalla violenza delle passioni d’amore. Anche cambiando segno e volgendosi a Dio, la passionalità permane. FOLCO L’altra letizia, che m’era già nota per cara cosa, mi si fece in vista qual fin balasso in che lo sol percuota. (Pd IX 66-68). In Pd XXXII 99 “vista” ha il valore di ‘aspetto’. Frequente l’associazione beati pietre preziose. Il recente editore critico Federico Sanguineti6 mette virgola dopo “nota”, e legge “preclara cosa”. Il “balasso” (v.69), qualità di rubino che prende il nome dalla regione di Balascam in Persia, è definito “fin”, puro: si riteneva nel Medio Evo che la preziosità delle pietre fosse dovuta all’influsso delle stelle, che rendeva più fine la materia. Per letiziar là sù fulgor s’acquista, sì come riso qui; ma giù s’abbuia l’ombra di fuor, come la mente è trista. (Pd IX 70-3). L’interpretazione più plausibile è :“In paradiso si acquista fulgore in una con l’ accrescimento della gioia, come sulla Terra il riso è una ‘coruscazione dell’anima’; ma giù all’ inferno l’ombra si rabbuia quando la mente è triste.” Qualche commentatore ha inteso l’ avverbio “giù” riferito alla Terra. È stato però giustamente osservato che il sostantivo “ombra” si riferisce di solito al mondo sotterra6
F. SANGUINETI, Dantis Alagherii Comedia, Firenze, Edizioni del Galluzzo 2001, p. 426, ad loc..
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neo. E qui la presenza degli inferi è insistente: pensiamo al descensus Christi ad inferos del Vangelo di Nicodemo, ai vv. 119-20 di questo canto IX; l’accenno ad Ezzelino, che si trova tra i dannati; l’accenno a Didone abitatrice del terzo cerchio dell’Inferno; l’accenno a Lucifero in Pd IX 127-9; tutto congiura a creare un buio controcanto al trionfo di luce del cielo di Venere. Ma è un canto questo tutto giocato proprio sul contrasto luce-ombra, come ben simboleggia l’ombra della terra che s’appunta sul cielo di Venere, contrapposta alla luce sprigionata dal Cristo nel suo trionfo (tutti i pittori coevi lo disegnavano così). Notevole il costrutto con valore strumentale, come a XXXII 81, “per letiziar”. Ora il pellegrino Dante prende l’iniziativa in modo più deciso e chiede allo spirito di rivelarsi: “Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia”, diss’io, “beato spirto, sì che nulla voglia di sé a te puot’esser fuia. Dunque la voce tua, che ’l ciel trastulla sempre col canto di quei fuochi pii che di sei ali facen la coculla, perché non satisface a’ miei disii? Già non attendere’ io tua dimanda, s’io m’intuassi, come tu t’inmii”. (Pd IX 73-81). “Dio vede tutto e la tua vista s’interna in lui, cosicché nessuna voglia può essere ladra di sé, cioè può sottrarsi a te, può restarti celata. E allora perché la tua voce, che allieta sempre il cielo con il canto dei Serafini, che si coprono servendosi delle sei ali a mo’ di saio, (spesso nella Divina Commedia, i Serafini vengono così descritti sulla base dell’autorità della Bibbia7),non soddisfa i miei desideri? Io non aspetterei la tua domanda, se potessi penetrare nel tuo pensiero come tu nel mio.” Fabio Dainotti (3 - Continua) 7
Is., 6, 2-3.
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MELODIA Menava il sentiero in fondo alla valle, girava a un tratto a sinistra ed ecco -stupenda visione! una cascata mostrarsi di limpida acqua che cadeva veloce da una rupe, scivolava in un rio saltellando tra i sassi e nel labirinto si perdeva di cespugli intrigati. Pingue vegetazione intorno, d'un verde cupo, fiori e frescura. Attoniti, affascinati, sostammo a contemplare l'irreale-reale scenario e nel silenzio in aria sospeso una dolce melodia, un coro di suoni armoniosi, flebili soavi, d'arpa e violino, zufolo e cornamusa, ci giunse all'udito: era l'orchestra della natura che in uno fondeva sciacquio brusio ronzio guizzi salti cinguettii sibilare di vento stormire di foglie frullare di farfalle respiro di terra... e del nostro gioiva stupore. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 3/2/2017 Al Pubblico Ministero, che le contesta le polizze a lei intestate dal caro Romeo, Virginia Raggi risponde di non saperne niente: “Sono sconvolta”. Alleluia! Alleluia! Tale e quale Scajola, che, poveretto, niente sapeva della casa sul Colosseo! Domenico Defelice
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FIUMI DI MUSICA… LETTERA AD ALBERTO BASSO All’uscita della sua opera: L’Eridano e la Dora festeggianti. Le musiche e gli spettacoli nella Torino di Antico Regime Carissimo Alberto, finalmente, dopo lunga attesa, L’Eridano e la Dora festeggianti sono arrivati anche da me, qui sul mio tavolo. I due volumi sono giunti ieri pomeriggio con il corriere da Lucca. E così, dopo cena, incuriosita ed entusiasta di sfogliare questa meravigliosa opera, sono andata avanti ad occhieggiare qua e là ininterrottamente, fino all’alba, senza accorgermi del tempo che passava e del lento trascolorare dal buio alle prime luci del mattino!… Che dire? Qualsiasi apprezzamento, in questo caso, non trova espressioni adeguate o può apparire scontato e superfluo. Tuttavia è da più di trent’anni, fra tante tue pubblicazioni, a partire per lo meno dalla tua incomparabile Frau Musika1, che io continuo a meravigliarmi di come tu riesca a raccogliere e a dare ordine – lavorando oltretutto quasi sempre da solo – a una sterminata miriade di dati (dove ciò che manca è soltanto ciò che non è assolutamente documentato) senza mai nulla trascurare né dimenticare, realizzando infine una sorta di albero grandioso – se mi consenti questa metafora – magnificamente cresciuto, con tutti i suoi rami, grandi e piccoli, perfetto fino alle più minuscole foglioline… Il risultato – anche se si tratta di imponenti opere di consultazione – è sempre, per di più, un testo di piacevole, agilissima e affascinante lettura, dove il ricercatore e il narratore di continuo si integrano e si sovrappongono. Con questi due volumi –
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invero una pietra miliare, o meglio la “punta di diamante”, come è detto nella breve presentazione, di un lungo e articolato progetto di valorizzazione di un patrimonio inestimabile – hai elevato un monumento ai solenni eventi musicali, ai compositori, agli artisti e ai mecenati della Corte Sabauda, dagli albori fino alla fine del Settecento, in un’opera straordinariamente ricca e vasta (1250 pagine), finora inesistente tanto in Italia quanto all’estero, che sarà indubbiamente preziosa per gli studiosi di Storia della Musica, del Piemonte e di Torino in particolare, ma non di meno per ogni appassionato che voglia conoscere a fondo cinque secoli di storia di questa regione subalpina, vista all’interno delle sue relazioni artistiche, ma anche diplomatiche e storico-politiche, con il resto dell’Italia e con l’Europa: una regione ricca di tesori ma tradizionalmente, e di sicuro a torto, considerata un po’ in disparte – come scrivi nella tua stessa introduzione – e poco importante, piuttosto defilata rispetto agli itinerari fondamentali, alle grandi correnti dell’arte (non solo musicale) e più globalmente della cultura del nostro Paese. Naturalmente orgogliosa di essere presente anch’io, nel mio piccolo, fra più di cento nomi importanti, nella tabula gratulatoria all’inizio del primo volume, mi unisco con entusiasmo all’ideale meritatissima standing ovation di tutti i tuoi più cari amici ed estimatori, dell’Editore e di tutti i colleghi dell’ Istituto per i Beni Musicali del Piemonte. Con grande affetto e ammirazione Marina Caracciolo Torino, 25 gennaio 2017 1 - Alberto Basso, Frau Musika. La vita e le opere di J. S. Bach. EDT, Torino, 1979 (vol. I) e 1983 (vol.II). pp. 1754. ALBERTO BASSO, L’Eridano e la Dora festeggianti. Le musiche e gli spettacoli nella Torino di Antico Regime. LIM Libreria Musicale Italiana, Lucca, dicembre 2016. 2 volumi in grande formato con custodia, pp. 1250; all. CD con 730 ill., ognuna richiamata a margine nel testo. (In copertina: Il Po (Eridano) e la Dora, olio su tela (ca. 1738) di Claudio Francesco Beaumont; Torino, Museo Civico d’Arte Antica, inv. 23). Euro 100,00.
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EZIO STARNINI: UN VENTENNIO PER UNA CATARSI, 1925…1945 di Liliana Porro Andriuoli
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N occasione del compimento del centesimo anno di vita dell’autore (che cadeva nel 2016), è stato ripubblicato il libro di Ezio Starnini, Un ventennio per una catarsi, 1925…1945, già apparso nel 1979, nelle Edizioni EIL di Milano. L’iniziativa è stata quanto mai opportuna, dato che Starnini è uno scrittore accattivante e dalla fresca vena, come si può constatare specialmente dai suoi romanzi Fuggiasco in Valcedra (Lanterna, 1986), ambientato nel Ducato di Parma agli inizi dell’Ottocento e Genova dentro (Ecig, 1991), ambientato a Genova negli anni Sessanta, città questa molto amata dal nostro autore, il quale ne descrive con vivacità ed efficacia il contesto urbano. Quello che è stato attualmente ripubblicato è però un libro molto diverso dagli altri suoi, di carattere più personale, dato che narra episodi attinenti alla sua giovinezza, relativi cioè a quegli anni che lo traghettarono dall’età infantile a quella adulta; anni che per lui coincisero con un “periodo storico cruciale”, comunemente detto del «ventennio fascista». Ezio Starnini infatti in questo suo libro non racconta soltanto alcuni avvenimenti della sua vita, considerati nella loro successione (la sua non è pertanto una specie di autobiografia romanzata), in quanto parla, attraverso il susseguirsi di taluni episodi importanti occorsigli durante l’arco della giovinezza, della sua formazione civile e spirituale; o meglio racconta la sua presa di coscienza dei mali della dittatura, che pur delineandosi fin dall’inizio, si evidenziano in maniera definitiva e tragica negli ultimi capitoli del libro. È dunque questo un libro che contiene una sua morale, che intende trasmettere un messaggio; ed è proprio questo messaggio che gli conferisce il suo vero significato: la “catarsi”,
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alla quale Starnini perviene, che consiste proprio in quella consapevolezza del valore della libertà; consapevolezza pienamente raggiunta alla fine del suo racconto. E tutto ciò il nostro autore lo ottiene con uno stile fluido e immediato, che rende godibili gli episodi che si susseguono e lega a sé il lettore, il quale non sa staccarsene sino alla fine: nel che sta poi il suo pregio di autentico narratore. Vediamo allora cosa ci viene raccontato in questi dieci capitoli. Il primo di essi, che s’intitola 1925 - La Rivista Militare, ha per argomento una parata, tenutasi per celebrare il decimo anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia contro l’Austria, nel 1915. Ezio, all’epoca un ragazzino, è entusiasta e desidera assistere alla sfilata, anche se il padre, per ragioni ideologiche, non è di quest’avviso. Egli però vi si reca ugualmente e riesce finanche a salire sul palco delle autorità: trionfante, assiste alla scena del passaggio dei vari reparti, rimanendo estasiato di fronte allo scintillio delle spade dei corazzieri e all’ondeggiare delle bandiere, nonché al passaggio dei berretti piumati dei bersaglieri. Ma nello sporgersi dalla balaustra, per meglio vedere la sfilata, cade e si ferisce ad un ginocchio. La cosa potrebbe avere delle gravi conseguenze se non fosse per l’intervento di una gentile e giovane donna che lo soccorre, la quale però perde completamente la grazia e la generosa disponibilità dimostrata nei suoi confronti, allorché si esalta con ampi gesti al passaggio degli squadristi, che marciano baldanzosi con i loro gagliardetti, chiudendo la sfilata. Il racconto termina con due episodi che molto colpirono il giovanissimo Ezio il quale, ancora oggi, a distanza di tanto tempo, li ricorda fin nei particolari. Uno è quello del “pestaggio” di un medico socialista, “ridotto ad un cencio” ad opera di alcuni scalmanati fascisti, proprio durante la sfilata degli squadristi; l’ altro, avvenuto “l’indomani di quel giorno burrascoso” della parata militare, è quello dell’arresto, in classe, durante la lezione, della sua maestra, denunciata dal collega della
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classe accanto, in quanto “socialista”. Episodi che non poco sconvolsero la “mente acerba” del giovanissimo Ezio. Il racconto che fa seguito, Per una moneta d’argento, è ambientato nel 1928. Vi si narra del ritrovamento e del relativo, seppure non facile, recupero da parte dell’autore, allora imberbe, di una moneta da cinque lire, finita chissà come sul fondo della vasca di una fontana di Via Corsica (a Genova). Il giovanissimo Ezio vive una sensazione nuova, mai provata in precedenza, quella di sentirsi ricco e quindi di poter disporre a proprio piacimento del denaro in suo possesso. Avendola recuperata, dopo qualche momento di riflessione decide di spenderla comprando un “bollo” di cioccolata, che offre a Gianna, la sua vezzosa amichetta, che viene però immediatamente “divorato” non solo da lei, ma anche dalle sue compagne, che erano andate a trovarla. Ezio, quasi ignorato dal gruppo, rimane molto deluso da questa scarsa riconoscenza nei suoi confronti; ma soprattutto rimane “stupefatto ed incredulo” per il “giochetto” che le ragazzine gli propongono quale prezzo dell’assaggio di un pezzetto di quella cioccolata, che aveva acquistata con tanta gioia. Vengono poi altre esperienze, come quella de Il naufrago (siamo nel 1928), in cui Ezio evoca la sua caduta in mare, mentre sta compiendo il salto necessario per imbarcarsi sulla lancia che gli era stata destinata come allievo marinaio, durante una “dimostrazione” davanti al Federale Fascista. Tutto era stato accuratamente programmato, ma purtroppo non tutto andò per il verso giusto, sicché il nostro marinaio in erba rischiò di affogare. C’è poi l’esperienza, fatta durante l’estate alla “Colonia estiva” di Piazzatorre, alla quale Ezio partecipa, che viene raccontata nel capitolo 1930 - Memento audere semper. Quel soggiorno fu per lui un importante momento di vita, durante il quale, con il monito “Ricordati di sempre osare”, ricevette dal Comandante, “In nome del Duce”, l’agognato moschetto. In tale occasione ebbe anche l’ opportunità di fare l’esperienza del “percorso di guerra”, consistente nel superamento dei
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molti ostacoli, disseminati sul terreno allo scopo di accrescere la difficoltà del percorso, per simulare delle “azioni guerresche”, sia di attacco che di ritirata, con i compagni. Il racconto termina con una prova di “coraggio”: al ritorno a Genova dalla Colonia Ezio, sentendosi molto audace, forse perché ancora memore del “monito” ascoltato, sfida un amico a salire fin sopra la cupoletta della Lanterna ed a toccare il parafulmine. L’ operazione viene effettuata con non poche difficoltà da entrambi i giovani, che credono, con la loro bravata, di aver dato una dimostrazione di coraggio, degna dei figli del Regime. L’ allenamento fisico e “gli osanna alla Stirpe Italica”, inculcati loro durante il soggiorno in colonia, avevano dunque dato il risultato sperato. Il padre di Ezio, però, quando sentì il racconto del figlio, non approvò per nulla l’ impresa, ma la definì una “spacconata”, e non una prova di “coraggio”. Il vero coraggio infatti, soggiunse, non si dimostra con le bravate, bensì “difendendo i deboli” in difficoltà. I successivi tre racconti sono dedicati all’ esperienza marinara dell’autore, che lo vedono, a soli 16 anni, imbarcato sul Giulio Casare, una “nave a carbone”, diretta verso il Sud America, ma reputata “vecchia e poco sicura” dai “naviganti anziani”. Ezio è, al contrario, oltre modo felice e orgoglioso di poter iniziare la sua vita di bordo: potrà finalmente vedere luoghi nuovi e contribuire al bilancio della famiglia, che a quell’epoca attraversava qualche difficoltà economica (1931, Navigare!). E così, convinti con non poca fatica i genitori della bontà della sua “irremovibile decisione” di abbandonare gli studi per diventare marinaio, ottiene la firma del padre sul “libretto di navigazione”, indispensabile, essendo egli minorenne, al fine dell’imbarco da lui tanto desiderato. Viene così assunto “come «piccolo» alla riposteria di seconda”, addetto cioè a una macchina lavapiatti; un lavoro che gli procura non pochi disagi e sofferenze psicologiche, specie a causa del suo capo, uomo rozzo e cattivo. Duro è il distacco di Ezio dai suoi e dalla sua amata città, ma è pienamente consapevole
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che è necessario crearsi un avvenire, ed inoltre lo entusiasma molto poter conoscere altri Paesi, accorgendosi, magari con un po’ di delusione, che “lo Stretto di Gibilterra non è poi tanto stretto” come immaginava o vedere, all’isola di Goree, i ragazzini indigeni accostarsi su delle canoe alla nave, per vendere i magnifici frutti della loro terra, dai colori vivaci e dal sapore sconosciuto e recuperare le monete gettate loro dalla nave con rischiosi tuffi. Nel contatto diretto con uomini resi aspri e insensibili dalla giornaliera fatica, Ezio forma così il suo carattere ed apprende la vita, anche attraverso episodi conturbanti, come quello dell’uomo caduto in mare e fortunosamente salvato, grazie all’immediato intervento dell’ equipaggio; oppure quello del ciclone che investe la nave al largo di Recife, in Brasile, distraendolo dai suoi doveri. Ne consegue una durissima, seppur motivata, punizione che però, grazie all’intervento del Commissario di bordo, dà luogo ad un sostanziale miglioramento sia del suo trattamento sul lavoro che dei suoi rapporti con gli altri marinai dell’ equipaggio. C’è poi l’arrivo a Rio de Janeiro, posta nella magnifica baia di Guanabara, dove Ezio, sceso a terra, ha un incontro poco felice con dei ragazzini che gli rubano il portafoglio, approfittando della sua ingenuità e della sua mancanza di conoscenza del luogo. Segue lo sbarco a Buenos Ajres, città nella quale Ezio ha la sua iniziazione sessuale e conosce anche l’amore vero, nella persona di una cantante, genovese anche lei e padrona di un locale notturno, la quale s’invaghisce di lui. Tornato a Genova, dopo un breve periodo di riposo, durante il quale ritrova il piacere della vita in famiglia e della compagnia degli amici, Starnini s’imbarca nuovamente, questa volta sul transatlantico Rex, la nave ammiraglia della marina italiana degli anni Trenta (1932, New York), con le mansioni di “addetto ai lussuosi ascensori”. La partenza è ora verso il Nord America, dove proprio a New York, nei quartieri malfamati della vita notturna cittadina, vive una brutta avventura,
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molto più rischiosa delle precedenti (viene addirittura coinvolto in un omicidio, pur riuscendo a dileguarsi), dalla quale Ezio esce profondamente turbato, ma sempre pronto a riprendere il suo viaggio verso le nuove mete che lo attendono. Nel 1934 sale sul Conte di Savoia, un transatlantico “più lussuoso, se non più veloce del Rex”, diretto a New York. Due sono gli episodi di maggior rilievo occorsi durante questo viaggio: quello di una falla apertasi “nella murata di babordo” della nave, in pieno Atlantico, ma fortunatamente subito tamponata da un valente e coraggioso marinaio. L’altro è quello della visita del pugile Primo Carnera alla squadra di Basket della quale Ezio faceva parte, con relativa fotografia, riprodotta anche sul libro (Il Conte di Savoia). Intanto è scoppiata la Seconda Guerra Mondiale (siamo nel 1940) e Starnini viene imbarcato su un dragamine (D280) ed inviato in zona di operazioni. Qui riceve il battesimo del fuoco, consistente nel mitragliamento del mezzo su cui prestava servizio da parte di un aereo inglese. La sua imbarcazione avrebbe dovuto passare inosservata perché camuffata da barca da pesca; ma l’esasperato fanatismo di un commilitone, un certo Buzzini, il quale il giorno prima, violando gli ordini ricevuti, aveva aperto il fuoco con la mitragliatrice di bordo contro l’aereo nemico, fa sì che essi vengano presi di mira e duramente colpiti. Durante l’incursione Buzzini, lacerato dai proiettili, muore, mentre Starnini è ferito ad una caviglia. Tale ferita risulterà però provvidenziale, dato che a causa del suo aggravarsi, Ezio finirà in un ospedale di Genova, dal quale uscirà con un’invalidità di VI grado, che lo esonererà dal servizio attivo. In ospedale conoscerà inoltre una giovane e graziosa assistente sociale, Flora, che diventerà sua moglie (1940 “Mare Nostrum”). Nel penultimo capitolo del libro, Brutti tempi al Nord, si parla dell’anno conclusivo della guerra, il 1944; un anno difficile, anche per Ezio e Flora, che dovettero affrontare molti pericoli, come quello del superamento di un posto di blocco in via XX Settembre, a
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Genova, dal quale uscirono fortunosamente indenni, ma non senza molta apprensione. Venne poi il bombardamento di Genova del 4 settembre 1944, che provocò un gran numero di vittime; e venne in seguito la loro partenza per un periodo di riposo a Valditacca, sui monti del parmense, presso i genitori di Flora. Difficile e non senza rischi fu il viaggio: i treni erano pochi e non esenti dal pericolo di bombardamenti e le corriere, da Parma verso l’entroterra, pressoché “inesistenti”. Inoltre il paese, inizialmente tranquillo, era diventato zona d’influenza partigiana, nella quale avvenivano spesso scontri e uccisioni ad opera dei governativi, scontri in cui erano non di rado coinvolti anche dei civili innocenti. Il libro si chiude con l’insurrezione di Genova, avvenuta il 24 aprile 1945 (Genova insorse) e con la definitiva “presa di coscienza” da parte dell’autore dei mali della dittatura, che porta inevitabilmente all’odio e alla guerra; una “presa di coscienza” con la quale ha termine anche il suo lungo apprendistato alla libertà. E si è trattato di un percorso faticoso e non privo di pericoli, che Ezio Starnini ha saputo superare egregiamente, come molto bene questo vivace racconto della prima fase della sua vita dimostra. Liliana Porro Andriuoli EZIO STARNINI: UN VENTENNIO PER UNA CATARSI, 1925…1945 - Edizioni Tigulliana, Santa Margherita Ligure, 2015
LA MEDUSA
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COMMEMORAZIONE A COLLELUNGO Sul Collelungo faggi maestosi si innalzano in coro a spettrali testimoni grigia la corteccia soggiace alle foglie cadute un manto ricopre il ricordo di vittime innocenti una croce commemora il tempo passato. Il 28 Dicembre risuona tra il calpestio delle orme sulle pietre muschiate ancora insanguinate una preghiera, in una sola voce i nomi di anime innocenti riecheggiando nella foresta arrivano alla sommità del Colle fino a Dio, addio! Fiorenza Castaldi Anzio, RM
COME UN FIUME Momenti senza tempo. Con gli occhi chiusi leggi il tuo diario; ma non ricordi tutto e forse inventi i giorni smemorati. La vita come un fiume trascina fiori e pietre e ti consuma. E un folle corso d’acqua che non può andare indietro, ma procede diritto verso il mare. Lo arresti per un poco col pensiero e poi di nuovo scorre e ti trascina verso il suo segreto. Elisabetta Di Iaconi Roma
Prima che arrivi l'inverno, una medusa piange la trasparenza del lago, che la nebbia addensa e occulta, quando farà capolino la prima lampara, improvvisamente esplode un lampo fra le nubi, crescono i desideri fra l'ovatta del lago, ora c'è la barca che si accosta e spunta per gettare poi l'ancora e giungere finalmente a casa. Adriana Mondo Reano, TO
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 15/2/2017 Nei pollai normali, quando ci son più galli, si lotta, ma, chi perde rispetta il vincitore. Nella politica italiana - pollaio quanto mai merdoso -, chi perde se ne va e ne fonda un altro. Alleluia! Alleluia! Quand’è che si capisce che le scissioni, a destra, a sinistra, al centro, non portano alcun frutto? Domenico Defelice
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NINO FERRAÙ: PAROLE PER SOSTANZIARE APPASSIONATA E PENSOSA SAGGEZZA di Ilia Pedrina
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INGRAZIO lo studioso Giuseppe Ferraù, fratello del Poeta, per avermi inviato un prezioso plico. Il suo contenuto mi ha aperto ulteriori orizzonti intorno alla personalità dello scrittore, poeta e critico innovatore Nino Ferraù (1923-1984): immagini coloratissime per sottolineare la funzione profonda che le parole, in prosa ed in poesia, concordano a costruire, mostrando lo stile inconfondibile di questo caro Amico di Papà. 'Vecchia strada di Monte Pellegrino', tratta da 'Orme di viandante', apre un contatto diretto ed intenso con le vicende legate all'ascensione per strade impervie al Monte Pelle-
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grino, massiccio che domina Palermo: “Quella sera più piena della luna era la gioia e più vera del vero, mentre il mondo ci fu sì buono da non darci noia. Quel monte ebbe per noi i segreti di tutte le evasioni. Sotto la scorza della roccia viva esso ci aprì ben presto il suo cuore più vivo, come scrigno divino, in cui trovammo e la favola e il dramma dei millenni. Non esisteva il tempo in quella cima e soltanto alle falde, quando una volta ancora la città ci riprese, risentimmo la schiavitù dell'ora...” A lato di questa lirica una fotografia del Poeta, sorridente, nel suo studio di Galati Mamertino, Redazione di “Selezione Poetica” nel 1957 ed alla pagina successiva le parole in prosa, a sostanziare bellezza e seduzione del narrato, tra passione e saggezza: “Monte Pellegrino, con te, Maria Marchese Aragona, studentessa in legge all'Università di Palermo. Prima di te non ricordo che una luce lontana, una ricerca senza pace, una musica senza indirizzo, un profumo senza nome, la preistoria dell'amore.
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La vita, per un poeta, vale soprattutto per alcuni anni, gli anni per alcuni giorni, i giorni per alcuni momenti che hanno saputo concentrare e sintetizzare il meglio della vita stessa. Arrivo quasi a non credere di essere creduto o di poter dare col mio racconto, agli altri, almeno la centesima parte della suggestione vissuta. Dalla descrizione alla realtà c'è spazio bastante per una danza di mondi, e in questo spazio si agita anche, come non mai, la diffidenza nelle mie stesse capacità di poeta. Forse anche la natura, come la vita e come l'amore, ha bellezze in unico esemplare, momenti irripetibili...”. La testimonianza continua a dare intrecci forti tra riflessioni e resoconti palpitanti di questa ascesa, tratteggiando particolari percettivi che molto hanno in comune con la capacità del poeta di modificare la sostanza delle cose, assemblarle insieme per un nuovo atto di venuta al mondo, nel rinnovare appunto la veste delle cose: “... Una sciarpa di nebbia avvolse il monte, ma non era la nebbia nordica, immobile, uguale, adulterata in quel suo sapore di fabbrica; era una nebbia nobilissima e pura come quella che si sprigiona tra i filtri stregati degli incantesimi o come quella che i poeti e i pittori del mito sgomitolavano negli spazi celesti per la passeggiata degli dei; era come la profumata nebbia degli incensieri che vela ma non nasconde gli altari e che si fa tagliare a fette da quelle sciabolate di raggi che scendono dalle vetrate dei templi; era la divina nebbia siciliana, la nebbia dei paesi senza nebbia...” Sono alla terza pagina di questo originalissimo materiale grafico, elegante e carico di impensabili espansioni, dati i temi toccati, perché la conclusione di questa confidenza, fatta d'eleganza nello stile e di persuasività mai dolente, proprio in quanto la sua pensosità è appunto intrisa di appassionata saggezza, mi conduce a contesti intrecciati di storia e di cultura: “...Eppure, quasi tutta la bellezza delle cose e la potenza delle passioni è formata dal timore e dalla consapevolezza di doverle smarrire. E questo timore e questa
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consapevolezza ci fanno aggrappare alle cose con più accanimento possessivo fino a farci esplodere nel grido di Faust: 'Fermati, o attimo!'. Ma l'attimo non si ferma e tutte le filosofie vengono a gettare acqua fredda sui falò della vita, quasi per condurci alle sadiche dimostrazioni che anche gli eterni amori hanno alba, meriggio e tramonto... Tutti gli 'eterni amori' giurati persino davanti agli altari e davanti alle tombe, si frantumano nel giro delle stagioni, ma ritornano con lo stesso giro di stagioni. L'avvenire ci plagerà nei figli e nei figli dei figli. È lo stesso giuramento che ritorna a fiorire in altre labbra. È sempre lo stesso amore, lo stesso palpito, più o meno lo stesso gioco di parole, è insomma lo stesso copione che viene gridato da attori sempre diversi. E tutto passa come fiume delle cose. E tutto ritorna come legge delle cose. E impariamo che al mondo non c'è altro d'eterno che sol questo susseguirsi di cose non eterne... Nino Ferraù”. Senza timore d'essere contestata, da quest'ultima traccia riflessiva intensa nella sua semplicità, traggo motivo e prova che il grande teorico dell'eterno ritorno dell'uguale, Friedrich Nietzsche, ha amato l'Italia per questo suo sole che irradia e stordisce, da Rapallo e dall'Alta Engandina, allora, da Palermo e dalle sue vette in questi tessuti preziosi tra poesia e prosa che Nino Ferraù ci regala. È prima d'ogni altra cosa l'essere amati ed il poter amare che sostanzia e concretizza appagamento senza risentimento. Questo nostro poeta palermitano cita Wolfgang Goethe proprio quando con l'amata si trova a vivere in ripresa diretta le falde del Monte, definito dal Goethe come 'il più bel promontorio del mondo'. Goethe e Nietzsche: due poeti tedeschi, una stessa lingua da modulare all'infinito e con tensione spirituale altissima, anche se il secondo ha vissuto frustrazioni e disagi senza paragone ed ha trovato, nella scrittura rivoluzionaria come fiume in piena, una consolazione che l'ha portato alla follia. Hanno ragione il Pedrina e il Ferraù a sostenere che i poeti, come Platone, arrivano ben oltre i limiti che la filosofia si pone per rendere ragione
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del ragionamento sulla vita e sulla realtà delle cose: per questo allego qui una bella istantanea da me scattata che riprende il Pedrina con Nino Ferraù e la sua signora, altre bellissime sicule, un altro compagno felice, con fanciulli e bimbi intorno e in braccio. Sullo sfondo il Mar Mediterraneo. Un'occasione indimenticabile della quale parlerò ancora e ancora, quando avrò in mano altro materiale documentario. La plaquette che mi è stata così caramente inviata dallo studioso Giuseppe Ferraù riporta altre due poesie: 'Alla Grotta di Santa Rosalia', tratta da 'Grumi di Terra' (Ed. G.B.M.) e 'Mondello', tratta da 'Mosaico di Luci' (Ed. G.B.M.), con una bella immagine del poeta al fianco della giovane Maria Marchese Aragona, nel 1956. Nello stesso plico, che tengo assai caro in attesa d'incontrare personalmente il devoto mittente, altri tre pieghevoli coloratissimi con poesie ed immagini del Poeta e la sezione di un testo critico di Rina D'Amore, titolare di Storia della Musica ed Estetica Musicale presso il Conservatorio F. Cilea di Palermo, tratto dalla conferenza da lei presentata al Convegno sulla figura e l'opera di Nino Ferraù il 16 gennaio 1988 nel Salone Belvedere del Jolly Hotel di Messina. La studiosa sostiene: “...Quella di Ferraù è una poesia che Sciubertianamente trascolora in avventure tonali, le quali, disinnescate dalla matrice, esplorano il cielo, s'imbarcano su un battello di nuvole che muta ad ogni mutar di vento, fluiscono piane come il tempo liberato dagli ormeggi. Ma un tempo che non scorre alla deriva, un tempo che ritorna, un tempo che costruisce argini per difendersi dalle tempeste e lo fa privilegiando la verticalità degli aneliti, il messaggio semantico, diagrammato di un referto che non conosce altra mediazione se non quella di chi, frugando orme perdute, si sintonizza per avventura sulla stessa lunghezza d'onda del poeta...”. Ho tratto questo inciso dal pieghevole aperto dalla lirica 'La Porta' e contenente anche 'Molte Volte', 'Io Cerco', 'Le Cose Cadute', 'Creatura di Leggenda', tutto
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materiale lirico che induce alla condivisione sui piani di un immaginario percettivo di cui abbiamo necessità e sete, per una quotidianità che abbia senso. Altri due pieghevoli, a rendere completa questa offerta sincera, fatta da Amicizia che anticipa nella qualità ogni ulteriore circostanza nella quale provare rispecchiamento: il primo mostra un dipinto con una marina al tramonto, faraglioni in ombra sovrastati da gabbiani in volo e parole del Nostro per sostanziare empatia: 'Vi amo, rudi figli del Sole/gioiosi approdi di stanchi gabbiani', all'interno un'altra bella istantanea del Poeta, scattata nel 1954, il sorriso sincero di giovane in ricerca, affidabile, occhiali scuri e sfondo tra mare e cielo, a completare la suggestione e a dar concretezza nuova alle altre tre poesie qui riportate, 'Le stagioni della vita', 'Rondine del tuo inverno', 'La morte degli uccelli'; il secondo ci trasporta a penetrare il 'Significato divino e umano del Natale', con l'immagine de 'La Natività' di A. Dürer: è stato scritto dal Poeta per il Natale 1982, ed il testo in prosa, associato alla poesia 'Aria di Natale', presenta un succedersi incalzante di stimoli per riflettere sul senso che ci coglie nel vivere questa festività, a seconda del ruolo che ci troviamo ad impersonare, a recitare, per poter '...fissare un evento in un simbolo...'. Lo scrittore sostiene: “... Fino a quella data le giornate si accorciano, per poi successivamente allungarsi e l'impero della Luce inizia il suo lento ma continuo trionfo sull'impero delle tenebre... Cristo venne a rappresentare questo Sole anche in concreto come Amore incarnato, come Sapienza visibile, senza evitare di far propri anche i dolori degli uomini fino al giorno in cui distrusse la morte col morire (mortem morendo destruxit). In realtà, Cristo nasce in tutti i giorni dell'anno e in tutti i giorni muore. Egli non è un punto nel tempo, ma il tempo stesso nel suo eterno presente. Crocifisso ad ogni istante nel cuore di chi lo nega e lo tradisce, ad ogni istante risorge nel cuore di chi crede in Lui. Natale 1982 – Nino Ferraù”.
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Galeotto fu quel bellissimo Croco dedicato a Nino Ferraù del Novembre 2016 e chi lo scrisse, inducendomi a prestare ascolto a queste altre importanti suggestioni liriche che danno continuità e nuovi approdi alla mia ricerca. Grazie, Amico Defelice, grazie. Ilia Pedrina
VALENTINE 2017 E non esisterà mai qualcuno che disprezza l'amore. Ma coraggiosi e ben assestati i poeti sanno meglio come amare tutti gli esseri con entusiasmo nell'avere un giorno speciale celebrando con cioccolatini, versi, abbracci e baci che sono l'apparecchiatura d'AMORE. FELICE GIORNATA DI SAN VALENTINO! Teresinka Pereira USA - Traduzione dall’inglese di Giovanna Li Volti Guzzardi, Australia
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polvere al posto dei vestiti e pagine d’acqua di parole insufficienti piene di verbi difettivi, dell’io, del tu, del forse, di promesse, di sensi di responsabilità, di decisioni avventate, del detto, del non detto e dell’indicibile, compreso il breve trionfo esaurito nella cronaca dei giorni. Salvatore D’Ambrosio Caserta
ODORE Odoro e sento troppo il dolce e l'amaro la frescura e la calura l'odio e l'amore il torto e la ragione. Odoro e trepido e con un gesto d'amore la sensazione diventa emozione. Odoro e vedo un fiore profumato e variopinto il bianco il rosso e il nero tutto è selvaticamente vero. Fiorenza Castaldi Anzio, RM
SALE AMARO L’ECO DEI PASSI La nostra barca dove andrà se il porto è un molo con le corde rose dai topi e senza bitte? Si fermerà di fronte al sale amaro di un deserto di dolcezze, secco come pozzo asciutto di lacrime. Questa barca porterà verso la battigia senz’acqua, verso la notte senza buio, la bocca senza baci con la voglia di peccare senza il coraggio; o meglio con il coraggio senza voglia. Avremo, naufraghi,
Nella stanza in penombra giunge l’eco di passi affrettati che svanisce lontano. Il ricordo del bene perduto improvviso si accende e si spande sui muri silenti. Quanti passi ho sentito nelle fuga dei giorni trascorsi in accordo coi miei! Ora il suono si è già attenuato lungo il viale ormai buio; ma io ancora lo cerco nel vento tra le foglie cadute. Elisabetta Di Iaconi Roma
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DANTE DI NANNI EROE NAZIONALE PROTAGONISTA SUBLIME DELLA GRANDE STORIA di Leonardo Selvaggi I ON purezza di sentimenti ed entusiasmo, tutto della giovinezza esuberante di sogni e di ideali Dante Di Nanni, appena ventenne, cresciuto negli stenti e nel terrore di una città esposta ad ogni pericolo, vittima frequente di bombardamenti. Bisogna abbattere la società del dogma e dare vita a quella della discussione, cioè della libertà. Dante Di Nanni, tutto preso dagli affetti per la madre, come un ramo fiorito, trepidante nell’aria frizzante dei mattini. In una Torino in tempi di crisi, specie per la gente misera che appena riesce a sopravvivere. In una città ove regna timore e confusione, siamo nei mesi di marzo-aprile 1944 con senso di instabilità, con un avvenire incerto,
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contrapposizioni sociali, squallore e sconquassi di lunghi anni di guerra. Dante Di Nanni con pochi compagni nella lotta civile di resistenza contro il nazifascismo respira le idee nuove che sbarreranno liberi cammini fra le tenebre che si sono ammassate da tanto. Sente parlare di ricordi della guerra civile di Spagna, della cospirazione antifascista, anche di fatti vissuti in Abissinia, di partecipazione alla lotta di bande ribelli etiopiche nella resistenza armata contro gli Italiani. Dante Di Nanni, come pianta appena sviluppata assorbe tutto dall’ esterno, dai compagni che lo affiancano, dagli ammaestramenti che gli si danno. Nella città non servirsi mai di tram né di biciclette, sempre a piedi, si perde più tempo, ma c’è più sicurezza, non si corre il rischio di essere presi in una retata o in una requisizione. La volontà e la salvezza, l’ubbidienza immediata, la collaborazione con giudizio. Puntualità negli appuntamenti, se c’è ritardo andare via per non avere sorprese. II Dante Di Nanni, dolcezza nei modi, generosità infinita. Il senso del bene dell’ uguaglianza, l’irruenza contro chi fa della barbarie, chi vede solo odio, sadismo e inclinazione a distruggere, a uccidere. Contro i repubblichini, i tedeschi. Il più giovane partecipe del G.A.P., ossia del Gruppo Azione Patriottica o Partigiana. La lezione fondamentale gappista consiste in una ferrea resistenza nel colpire senza mai stancarsi. La stesso Di Nanni nel momento finale del suo eroismo consuma tutte le bombe che ha oltre alle pallottole, conservando solo per sé alcune di queste per non cadere nelle mani nazifasciste. Di certo facili nella guerriglia di città le rappresaglie, che poi sono considerate, nonostante la loro terribilità che comporta vittime innocenti, necessarie per scuotere il popolo, per incoraggiare gli incerti, per creare odio. Dante Di Nanni invasato dall’ ardore di partecipazione ad una lotta che vuole temerarietà, che è sfida alla propria vita e alla morte. Con la sua genuinità, con i
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sentimenti che non hanno subito deturpazioni, con spontaneità, con l’istintività naturale difende gli inermi, le sofferte miserie portate da una guerra barbarica. I suoi vent’anni gli hanno messo addosso la rabbia contro le abiezioni che ancora si ostinano a dare colpi mortali ad una Patria martoriata. Il più giovane, il più ardito con la immacolata idealizzazione dei pensieri più alati, più veri di pace e di concordia. Agile, con furtività agisce nella sua cellula di combattimento. Saltella, spia, si nasconde. La sua semplicità, la stessa affettività che tiene nella sua casa le porta fuori agguerrite con furore, non rendendosi conto di come si possa essere nazisti o fascisti, provocatori, disfattisti, guerrafondai, nemici dei sentimenti più puri. III Fermo nella splendidezza dei pensieri che si amplificano nella sua giovanile immaginazione, con orgoglio e fede piena è un terrorista perfetto. Le idee di uguaglianza, di umanità per lui non possono non essere connaturate con ogni persona. Si va disperati contro coloro che non hanno rispetto della vita umana. Si hanno reazioni con rastrellamenti e deportazioni. Il terrorista del G.A.P. cammina al buio: durante un’azione bisogna strisciare i piedi, le suole delle scarpe debbono rasentare il terreno per non farsi sentire. I veri gappisti quelli fidati, che amano il lavoro, la casa e la società, la pacifica convivenza, un avvenire sereno. Occorre essere decisi, razionali. La libertà della persona, dalle oppressioni, dal prepotere. Dante Di Nanni è una scintilla che scoppia in modo subitaneo. Lottare per una nuova vita, fondata sulla giustizia. A dicembre del 1943 i nazifascisti a Torino da padroni, non permettono più nulla, a nessuno. Trovare proseliti del G.A.P. si rende difficile, i contatti sono pericolosi, la Gestapo domina la città, spie fasciste e tedesche dappertutto. La paura di avere sempre alle spalle la polizia. Occorre essere cauti e pronti. La cospirazione vuole la velocità dell’azione. È necessario avere gente disposta a scioperare, a distribuire volantini, ad attaccare manifesti e a di-
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sarmare tedeschi e fascisti isolati. IV Dante Di Nanni con altri tre debbono far saltare la stazione radio da dove partono i disturbi alle trasmissioni, secondo quanto comunicato dagli alleati. Occorre piazzare gli esplosivi, rischioso è fuggire senza essere inseguiti. La stazione è sulla strada per Milano. È opportuno discendere verso la Stura e per la ritirata risalire il fiume sino al ponte. Notte fonda, Dante e i tre compagni vanno dove sono nascosti gli esplosivi e le armi. Le difficoltà sono tante e le forze di assalto molto ridotte. Scartocciano i pacchi. Strisciano nell’erba bagnata, con ansietà, stretti l’uno all'altro, si sente il fruscio della Stura. A un centinaio di metri la cabina. I quattro procedono angosciati. Si vede la sentinella, sono attimi tremendi. Vanno avanti, corrono verso la porta che si spalanca. I tre carabinieri che sorvegliano guardano sorpresi e inebetiti. Dante va nella stanza accanto, ove sono altri tre che riposano. Si hanno momenti di incertezza, prevale il senso di umanità, i nove carabinieri sono lasciati liberi, vanno via, corrono verso un cascinale dove alloggiano i tedeschi per dare l’ allarme. Intanto la cabina salta con le antenne. La vita dei carabinieri è salva, i quattro partigiani vedono la strada tagliata dai tedeschi, mentre i boati degli scoppi rompono il silenzio della notte. L’azione di Dante Di Nanni e dei tre compagni di lotta è compiuta. Un momento di vittoria proletaria contro il furore nazista. Dal ponte sulla Stura dei riflettori frugano nel terreno, vedono i quattro gappisti che fuggono. Seguono raffiche di mitra, due vengono colpiti. I tedeschi scendono dal ponte, attendono al passaggio Dante e il compagno superstite. Feriti tutti e due, Di Nanni in modo più grave. Dopo che si è fatta saltare la stazione radio (situata sulla strada per Milano) si arriva in via San Bernardino. Dante D Nanni nascosto in una abitazione dove si trova un deposito di armi. Viene adagiato nel letto su un fianco, si lamenta, ha ferite alle gambe e al ventre. Il
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compagno Ivaldi mette sulle parti insanguinate pezze ricavate da un lenzuolo. Si aspetta il mattino, il medico toglierà le schegge. La notte è lunga, Di Nanni ha dolori lancinanti, la sua giovinezza lacerata, sente che la vita gli sfugge. Pensa che quando la guerra sarà finita, lui sarà morto, allora tutto sarà bello, non ci sarà più il terrore, tutto straordinario con la libertà, in mezzo alla gente, i ragazzi con la propria fidanzata, nella luce del sole, con l’amore per la vita che riempie l’animo intero. Di Nanni, eroe, sensibile, romantico, in questi momenti drammatici pensa alla sua mamma, alla sua Rossella di sedici anni, il dolore delle ferite l’ha reso di una tenerezza e di una amabilità senza limiti. Il senso della vita lo pervade e lo illumina di pensieri e di immaginazioni. “Senza guerra la vita sarà una grande festa, si potrà dormire, passeggiare, guardare le montagne, fare il bagno nei fiumi, avere una ragazza, accarezzarle i capelli, guardarla, perdersi nei suoi occhi azzurri…Ho sempre sognato di amare e di essere amato così…”. Purezza e fini sentimenti, tenerezza di carattere che si accompagnano con i suoi fremiti di amicizia per le persone buone senza divisione di idee. La semplicità di cuore, le virtù innate, la passione per il lavoro, l’umanità nella espansione di tutti i suoi aspetti. In quella notte martoriata con le membra fatte a pezzi vede profilarsi nella mente un mondo rinnovato, rappacificato. Tutti ritornati a vivere sereni, con l’ entusiasmo di ricominciare daccapo. Ivaldi, reduce della guerra civile spagnola, e Dante Di Nanni con la sua spiritualità trasumanata sono felici della loro azione patriottica. V Il respiro di Dante si fa affannoso, ha spasmi: preso da tutte le sensazioni, in slanci improvvisi di vitalità, nel contempo sente che appena un filo debole lo tiene legato, il corpo tartassato si assopisce per le troppe ferite sanguinanti. Da poche settimane Dante Di Nanni era stato presentato ad Ivaldi, tutto entusiasta e pronto ad agire nel gruppo. Troppo giovane, dimostra un’età minore di quella che ha. Se-
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gue gli ammaestramenti e per gradi arriva ad essere gappista armato. La prima azione gli va male, una bomba a mano lanciata da un fascista gli scoppia fra le gambe, una ventina di schegge, senza troppi danni. Durante la convalescenza fa l’informatore, appoggiato a due bastoni, va intorno ai comandi tedeschi e fascisti per prendere notizie. Dopo l’azione nei pressi della Stura, è fermo sul letto. Ha frequentato le scuole elementari, a sei anni la comunione, a sette la cresima, come tutti i ragazzi del quartiere. Ricorda le ore passate all’ oratorio e le partite di calcio. Fa l’apprendista meccanico. Molto lavoro e pochi soldi. Gli bastano per il cinema nel giorno di festa. Una vita desolata nella periferia di Torino. Il dottore pratica iniezioni antitetaniche, pulisce le ferite che sono dappertutto, mette pezze imbevute di disinfettante. Occorre andare all'ospedale per estrarre i proiettili. Ivaldi va alla ricerca di un’autoambulanza. La vita di Dante Di Nanni dipende da una ignota corsa tra un’autolettica e un camion di uomini in divisa. Accanto al letto due mitra e la cassa degli esplosivi con le micce a strappo, già pronte e infilate nei detonatori. L’ansia di questi momenti è atroce, tra la vita e la morte, tra il soccorso e la comparsa di tedeschi e fascisti che saranno stati già avvisati VI Giungono i fascisti, sono più di cento, armati di mitra, circondano la casa. Qualcuno, forse del caseggiato, è andato a riferire, avendo visto le macchie di sangue per le scale. Una squadra sale, contro la porta lanciati con violenza molti colpi. Di Nanni non ha tempo per pensare, deve resistere. Gli viene ordinato di fuori di aprire, si ha una seconda scarica. La porta resiste. Dante Di Nanni afferra il mitra, si lascia scivolare dal letto, si trascina sul pavimento fino alla porta, cerca la maniglia, l’afferra, facendo forza si alza. Fa scorrere la sbarra della serratura, la porta si apre, con rapidità fulminea getta nella tromba delle scale una bomba. L’esplosione crea un finimondo. Uno dei fascisti spinge la porta, piomba nell’ anticamera. Di Nanni con il mitra lo uccide.
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Nella confusione arriva sul pianerottolo, inciampa su due corpi di fascisti, poi appoggia la canna del mitra tra le sbarre verso il basso, spara fino alla fine, vede altri militi cadere per terra. Le scale appaiono subito vuote. Nella strada c’è un confuso vociare. Di Nanni strisciando rientra a casa e chiude la porta. Con il tavolo e una sedia fa uno sbarramento. Se sfondano la porta, non gli saranno subito addosso, potrà sparare dal letto. Si tocca il ventre, non sente dolore. Spera che Ivaldi potrà liberarlo. Si ricorda di scene disperate viste al cinema risolte in pochi minuti. Si ricorda quando la mamma lo attendeva con ansia nelle tarde sere. Sdraiato sul letto, con il ventre in basso, vede gli stivali del fascista ucciso, controlla il balcone che dà sulla strada. Sente parlare, pensa che stanno salendo le scale. Appoggia il mitra sul cuscino. Dal balcone spunta un elmetto, un pompiere afferra il fascista ucciso, lo solleva e lo porge al compagno. Di Nanni aiutandosi con le mani, scende dal letto, si trascina sul pavimento, raggiunge il balcone. VII La via è bloccata da tedeschi e fascisti, alle spalle una piccola folla. Ci sono delle donne. Cerca di vedere i volti e pensa alla mamma e a Rossella. Nostalgia degli anni dell’infanzia. La tonsillite con la febbre che non riusciva a sopportare, quando sua madre lo guardava non sentiva più nessun male. Potrebbero salire sul campanile della chiesa di San Bernardino che è di fronte. Subito compare un elmetto. Di Nanni si abbassa, striscia sul pavimento, raggiunge il letto, vi si arrampica. Sul tetto vede un tedesco, tiene il mitra puntato, lo colpisce a morte. Scende dal letto, è sul balcone, afferra la ringhiera, si alza, guarda in basso, la stessa folla. Getta tutte le bombe che ha. Urli e gemiti dalla strada. Ritorna nella stanza, si difenderà fino all'ultimo, sente il rumore di un motore. Arriva un autoblindo, butta giù il tritolo, l’esplosione fa tremare tutta la casa. Dante Di Nanni torna verso il letto, prende tutto l’esplosivo rimasto, prepara altri pacchi, mette il detonatore, va ancora verso il
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balcone. Arrivano i carri armati, vede uno avanzare verso la casa. Scaglia il primo pacco, poi butta gli altri, il carro si arresta, gira su se stesso, sbanda, va contro il muro. Restano i due mitra, ha una ventina di pallottole. Infila l’arma fra le sbarre della ringhiera. Guarda la folla, non sa chi colpire. Vede un ragazzo senza giacca, sarà del quartiere, giovane come lui. Una voglia straziante di vivere, pensa di gridare dicendo di aver scherzato. Guarda il ragazzo, lui racconterà quello che ha visto, cenerà, uscirà con la sua ragazza, poi dormirà, pieno di vita l’indomani. La sua lotta fino agli estremi contro i nemici della vita, della gente semplice che si ama, lavora, che sogna un futuro diverso. Il nazifascismo trucidatore, demoniaco che vuol distruggere tutto, abbattere le case, gli affetti, i sentimenti, lo spirito di sacrificio e la volontà di vivere con onore. Il senso dell’umano, la vita con le sue incertezze, le miserie di ogni tipo. Dante Di Nanni avverte un forte dolore al basso ventre, sangue dappertutto. Non ha il coraggio di sparare ancora, poi preso da rabbia consuma disperatamente gli ultimi proiettili. Dalla strada, dalle scale una risposta furibonda, fucili, mitra, mitragliatrici in un coro assordante. Non gli danno tregua, sono sulla porta con colpi violenti. Dal balcone entrano sparatorie che fanno scrostare muri e soffitto. Ha ancora una lieve speranza, l’autolettiga non arriva. La morte ha il significato della vita, della giustizia, della libertà. Il suo sacrificio, il suo martirio non sa se serviranno. Non c’è un aiuto, sono in pochi, è una lotta isolata, invisibile che fiammeggia in pochi pensieri, con idealità che ancora non hanno sostegno sufficiente. Dolci sentimenti, esili come la sua vita che sta per finire, l’amore per la mamma, la sua presenza era tutto. Striscia sul balcone, l’ ultimo gesto disperato, illuminato dalla sua giovinezza, fiorente di pensieri e di amore, si alza in piedi, s’affaccia. Un’apparizione che lascia rattristati, meravigliati, sorpresi gli assalitori: un ragazzo pieno di sangue, di cerotti, seminudo, saluta col pugno chiuso la gente ammassata sulla strada. Dante Di Nanni non volendo cadere in mano alle iene fasciste e
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tedesche si getta dal balcone retrostante nel cortile. Il corpo nel vuoto, cade sul selciato, un fagotto di stracci, arrossato dalle ferite. Siamo al 18 maggio del 1944. Un milite sta per sparargli, viene un tedesco lo spinge con brutalità. VIII Il sacrificio di Dante Di Nanni consumato minuto per minuto, una cronaca dei momenti, attimo per attimo. Il grande eroe nazionale offre ogni parte di sé, le sue membra sono divorate dalla fiamma dell’ardore, della dedizione, tutto se stesso per un avvenire rinnovato, avviato per cammini più umani e civili. La battaglia di Dante Di Nanni terminata con eroismo e slancio totale per la pace, per la fine della guerra, che ha fatto piangere e morire tanta gente, distrutti i più sacri affetti, famiglie sconquassate. Gli alleati entrano in Roma il 4 giugno. L’eroismo di dante Di Nanni invade tutte le città d’Italia. Sono finiti gli anni di terrore. Dalle macerie delle distruzioni lo spirito di Dante Di Nanni si innalza in un’ aureola di gloria. Appare oggi quel grandioso sacrificio del 18 maggio 1944 un lontano ricordo. Oggi modi di vivere diversi da quelli vissuti in anni di paura e di fame. Decenni si sono accavallati con cambiamenti travolgenti. La sua figura giganteggia nei pensieri di tutti quelli che sono fedeli alle grandi idealità, al di sopra delle massificazioni di una vita amorfa, egoistica, alienata, disumanizzata. Si illumina nella mente di chi è fermo ai significati più veri di una umanità giusta e lungimirante, al di fuori delle divisioni ideologiche, degli egoismi di parte, delle contrapposizioni negatrici di pace, di convivenze democratiche, concrete e fattive. La sincerità e la trasparenza dell’idea, l’idea-azione in una spinta di vitalità ispirata ai più alti principi. Oggi, in tempi disamorati, belluini, ipocriti non si concepiscono gli eroismi e gli slanci di idealità generosi. Allora ci si contentava di poco, una certa religiosità legava gli umili e onesti di spontanei modi. La guerra poi aveva disseminato disastri, ci si sentiva distrutti, si era spinti da speranza e da ostinazioni a ricostrui-
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re. Gli animi abbattuti si univano per sostenersi sopportando strapoteri e pregiudizi. Fomentati pensieri di giustizia e di uguaglianza. Il dopoguerra si è incamminato lungo la strada indicata dall’eroismo di Dante Di Nanni e di tanti che credevano all'amore per il proprio Paese, per la libertà dai soprusi, alle idee di livellamento sociale, di redenzione umana secondo i principi fondamentali che fanno un popolo compatto e vigoroso in piena concordanza e corrispondenza di propositi. IX La gente dedita con passione nelle applicazioni artigianali. Paziente nelle condizioni di una vita senza spiragli di luce, dopo anni di terrore e di tenebre. La guerra teneva gli animi in uno stato di sospensione, senza troppe esigenze, ci si incontrava soccorrendosi nel bisogno, con ordine, dignità, senza arroganza. Si voleva vivere con solide convinzioni, tutte basate sulla correttezza e coerenza. Il sacrificio di Dante Di Nanni assomma i martiri patiti nei campi di sterminio, un sacrificio totale a vantaggio di un popolo che vuole vivere senza subire torture. Dante Di Nanni in tempi di oppressione, ci si sentiva come sull’orlo di un precipizio. Il nazifascismo aveva creato fratture sociali. Si era frementi di smuovere la violenza delle dominazioni, le brutalità, l’ irruenza malefica sobillatrice. Il nazismo era sostenuto da una forza sadica e da una voglia di spargere morti dappertutto, opprimendo la gente semplice che credeva ancora alle virtù. Dante Di Nanni esprime l’eroismo più illuminato, viene da una vita innocente, dalle sorgenti più vere della natura umana nelle sue più genuine caratterizzazioni. Dalla giovinezza della vita, dal desiderio di bene, contro tutto il male della ferocia che è una belva che di tanto in tanto si annida nell’animo dell’uomo. Dante Di Nanni s’erge come una bandiera che sventola trionfando sulla barbarie di Aushwitz, sulle nefandezze dei nazifascisti. Il gappista Di Nanni è un’espressione di naturale propensione a dare, in suprema purezza ideale. Un partigiano in difesa della gente inerme, soffocata da tutte le parti da una guer-
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ra civile fra le più fratricide della storia.
UN AMORE NASCOSTO
X Sappiamo le contraddizioni e le voracità di tanti che hanno preso parte alla lotta di resistenza, spinti non da sentimenti di pace, ma da stati di inibizione, presi da rancore, da vendette personali. Gli stessi alleati spesso hanno tradito i principi della democrazia di cui erano sostenitori. Poca convinzione, presi dall’impeto irrazionale che spinge ad azioni sovvertitrici. Dante Di Nanni, un esempio eroico altamente ispirato che ha contribuito a rinnovare la vita di tanti, rimasta pestata, sconvolta. Eroe nazionale di dedizione infinita fino all’estremo delle forze, oggi inconcepibile: eroe della libertà, del ritorno della ragione dopo i tanti eccidi. Eroismo che appare oggi inverosimile fra tanto materialismo, fra tanta demagogia e sconvolgimento dei valori umani. Tempi di sperperi, di vizi, di ricerca affannata di benessere. I tempi sono andati oltre il buon senso, in una confusione morale, improntati alle esteriorità, tempi senza capacità riflessive: egoismo piatto, cecità estrema sui problemi sociali, avidità di denaro, mancanza assoluta di spiritualità. Tempi che fanno vedere l’ esempio sublime di Dante Di Nanni come un episodio leggendario, non vero: non capito dai modi di pensare gretti, malsani, appesantiti da vanità personali, egocentriche, da arroganza. Un eroismo che ha tanto di divino, si auspica che ritorni ad illuminarsi nelle nostre menti a distanza di tanti decenni passati, che ridesti la volontà di tutti con slanci e nuove forze verso la realizzazione dei tanto sospirati sentimenti di giustizia e di uguaglianza che ancora rimangono idealità astratte, senza la concretezza di divenire veri strumenti di civiltà. Con Dante Di Nanni gli animi si portino a più profonde considerazioni, a moti di rinnovamento, a una più consapevole necessità di ritorno alle gloriose tradizioni patrie, a partecipazioni collaborative, costruttive con dignità e orgoglio, con le più insite, connaturate vitalità proprie. Leonardo Selvaggi.
Coi tuoi silenzi e i tuoi sorrisi tu hai scavato profondamente nella mia anima e vi hai deposto i germogli di un amore che ancora sopravvive a decenni di distanza. I tuoi silenzi incrociavano i miei silenzi, i tuoi sorrisi si incontravano coi miei. Così lasciammo che cominciasse, così lasciammo che continuasse un amore nascosto. Mariagina Bonciani Milano
IO TE E LA LUNA Io amo te tu ami me e il giorno dopo sarà ancora come il fiore rosa del pesco staccato per amore. Come rondine che prende il volo, salirà lassù oltre la luna per ammirare il tuo volto, nella più bella notte azzurra, lucente, piena di stelle bianche, per un lungo abbraccio. Adriana Mondo Reano, TO
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 17/2/2017 Inzaghi, l’allenatore della Lazio - ma non lui solo -, va dicendo ai suoi giocatori che debbono “essere più cattivi per vincere”. Alleluia! Alleluia! E poi ci si lamenta della violenza nello sport! Domenico Defelice
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I GIORNI DELLA VITA NELLE “OCCASIONI” DI BRUNO ROMBI di Luigi De Rosa
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EL 2016 è uscita un'altra silloge, dal titolo “Occasioni”, del poeta, narratore, critico e pittore Bruno Rombi, nato a Calasetta (Cagliari) ma residente da una vita a Genova. Il libro, di 70 pagine, comprende 27 nuove poesie, ciascuna con il testo a fronte in francese (traduttrice Monique Bacelli), ed è introdotto da una attenta e puntuale Prefazione della poetessa e critica letteraria Rosa Elisa Giangoia. L'Editore è l'Ismeca Libri, di Bologna. Sembrava che “Il viaggio della vita”, la copiosa e importante Antologia uscita circa sei anni fa, in felice concomitanza col compimento dei suoi 80 anni , come scriveva il critico prof. Francesco De Nicola dell'Università di Genova nella prefazione-saggio introduttivo, fosse una pietra miliare conclusiva della produzione poetica di una vita. In effetti, quella Antologia rimane una pietra miliare, ma non “conclusiva”, perché per fortuna una inestinguibile ispirazione poetica continua a spingere Rombi (che è del 1931) a scrivere versi, in un ininterrotto, drammatico scandagliare nella vita propria e dei propri simili, alla ricerca di un senso che sfugge e di un ancoraggio che dia speranza e pace. La vecchiaia viene avvertita sempre più come un peso ingombrante al quale l'artista tenta di reagire con orgoglio. Addirittura la Morte viene evocata sempre più spesso, come un fantasma che si aggira furtivo e con passo felpato, tra le sue sicure prede, sempre pronto a ghermirle. Ma il poeta reagisce vibratamente, con la sua mente e il suo cuore, rifiutando l'accettazione supina di una sorte infelice come quella dell'uomo che non vede svanire le negatività e i controsensi di fronte al fluire inarrestabile dei giorni: “Mi sfuggono fra le dita, come granelli di sabbia,
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i giorni della mia vita. Come se uno strano vento scaturito dalle pieghe delle onde marine mi togliesse la speranza di un residuo di forma del castello edificato a fatica sulla battigia del cuore.” Reagisce come un poeta, consapevole di essere sempre stato (e di continuare ad essere) un “Vate inopportuno”. Al quale, ad ogni sentenza, viene inferta una condanna... “...L'una sull'altra raccolte hanno reso me un mostro di vaticini inopportuni. E, perché poeta, da tutti deriso.” L'ultimo verso, tanto acre quanto vero alla luce fredda dell'utilitarismo imperante in una società sempre più cinica e confusa, sintetizza nella sua brevità un'intera questione poetica o dell'arte. Per alcuni aspetti viene alla mente la produzione poetica dell'ultimo Montale. Quello dei libri di poesie della vecchiaia. Ma con una differenza fondamentale. Che Rombi, anche se disilluso e amareggiato, anche se sardo orgoglioso e ostinato, rimane pur sempre un inguaribile poeta “romantico”. Un poeta che non rinnega l'amore; che soffre la solitudine; che resta senza parole di fronte all'indifferenza della massa per i drammi degli sfortunati e delle vittime della storia. Un poeta che si aggrappa ancora alla dolcezza che gli sanno regalare alcune occasioni della vita, alla bellezza della Natura, nonostante la tragedia degli Tsunami; al fascino del mare, onnipresente in entrambe le sue “patrie”, la Sardegna e la Liguria; al miracolo quotidiano delle piante e dei fiori; alle forme, ai colori e alle loro combinazioni (fonte di ispirazione per chi sia pittore in eterno...). A differenza del Nobel genovese, Rombi vuole continuare a credere nel mito della giustizia sociale (non disgiunto dalla libertà). Vedi l'incontro con Pablo Neruda, e tanta nobile “poesia civile” scritta in una vita intera, insieme a tanta “poesia intimistica” delicata e appassionata. Luigi De Rosa
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OUVERTURE DEL CULTURALE di Susanna Pelizza
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discapito dei lunghi piagnistei esistenzialisti che lamentano la morte della poesia, a discapito dell’ oggettività minimalista, ripetitiva e obsoleta, della superficialità di molte vuote liriche di oggi, ancora ancorate a certe immagini realistiche insignificanti e puerili, la poesia risorge come aurea Fenice dalle ceneri degli asfittici sperimentalismi post-avanguardia, risorge indicando la sua via e il suo valore: essere esperienza di cultura in un mondo senza cultura, essere espressione di un sapere rieducativo, in un mondo privo di valori e votato alla spettacolarizzazione. Cultura significa riemergere con le proprie possibilità intellettive di trasmissione dal sostrato caotico in cui siamo tutti immersi, significa sperimentare le proprie possibilità di trasmissione in un contesto che cresce con il tempo, in sostanza significa essere originali all’interno della tradizione. Cultura, significa associarsi in un comune progetto di sapere che affratelli per trasformare una società che si sente incolta e ignorante, che ricompatti riformulando lo stesso concetto di poesia non più epigonica nostalgica espressione dei propri sentimenti, ma luogo culturale d’incontro di un sapere condiviso, comune esperienza intellettuale di riabilitazione a quei valori che il sistema mediatico sta lentamente uccidendo. Per questo oggi più che in passato, diciamo che la poesia è necessaria per trasformare la società: la sua cultura è un atto di rivoluzione sulla volgarità del presente, la sua struttura serve a riqualificare un italiano precario, la sua esistenza è ciò che fa sopravvivere un sistema letterario continuamente minacciato dai processi della spettacolarizzazione in corso, e dalle inutili lamentele dei critici di parte. Oggi fare poesia significa sovvertire il sistema, essere reazionari di fronte all’ appiattimento mediatico, essere colti di fronte alla volgarità del linguaggio quotidiano, istruire le
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menti dei lettori imbarbariti dagli stereotipati modelli da baraccone. Ecco, perché chi fa poesia s’impegna a sconfiggere tutto ciò che di barbaro sovrasta ancora la nostra conoscenza e il suo impegno è urlo che scuote il gregge. Susanna Pelizza
CI SEI Restami accanto ovunque sei sangue paterno il cuore batte tanto quando ci sei. Filomena Iovinella Torino
TESTAMENTO Non era finito il giorno, e alla finestra la luce acquosa di novembre, frustava il suo pallore, mentre il letto bianco d’ospedale ne godeva. Questa è l’ultima volta, diceva lo sguardo dal letto alla finestra. Le mani fatte d’ossa stanche, solitarie, piene d’aria, ostentavano con orgoglio le dita affusolate, utili ora solo per sbadigli. Sul mare prosciugato non si alzava onda; restava però un venticello sulla bocca, che alzandosi portava a rimbalzo, dai vetri della finestra estranea alla casa sua, il testamento amoroso del desiderio di un bacio. La sua lettera capolavoro, breve, detta a voce: nell’ora in cui tutto, amaramente si confonde e muore. Salvatore D’Ambrosio Caserta
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Il Racconto
IL MISTERO DELLA SALETTA PRIVÉE di Rudy De Cadaval
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L dottor Grisanti si rese conto che per la prima volta in diciassette anni di carriera presso la Midland Bank Company si era lasciato andare ad alzare la voce. Ma invece di rammentare tacitamente a se stesso che l’ autocontrollo davanti ai subordinati rappresenta un’indispensabile qualità per avere successo come dirigenti, alzò di nuovo la voce, questa volta ancora più forte: “Che cosa stai facendo?”, gridò. René Gourmet, il capo sorvegliante della sezione cassette di sicurezza, si schiarì nervosamente la gola, inghiottì e disse di nuovo: “Stanno fornicando nei locali delle cassette di sicurezza, signore.” “Mi pareva che avesse detto così, Gourmet”, riuscì a dire con voce tranquilla. Si sentì soddisfatto da questa sua esibizione di padronanza. Lo stesso corso per dirigenti che aveva e che gli aveva insegnato l’ importanza di dimostrarsi particolarmente controllati di fronte ai subordinati era tutto imperniato sulla necessità di mantenersi sempre calmi in qualsiasi circostanza. La crisi inaspettata a cui i suoi istruttori avevano cercato di prepararlo ci aveva messo parecchio tempo ad arrivare - durante i diciassette anni che erano stati necessari al dottor Grisanti per conquistare la sua posizione di terzo vice presidente della Midland Bank & Company, direttore e responsabile delle operazioni di deposito e di sicurezza della filiale della Peri Boulevard, non era mai successo nulla che potesse mettere seriamente alla prova la sua capacità di mantenersi calmo - ma infine la crisi era giunta. Qualcuno stava fornicando nei locali delle cassette di sicurezza. Fornicava nei suoi locali, pensò, sforzandosi di dominare un im-
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provviso moto di rabbia. Il dottor Grisanti presiedeva alle sue funzioni di dirigente della sezione depositi e cassette di sicurezza della Peri Boulevard con un senso di responsabilità che sfiorava il possesso. Ogni giorno eseguiva personalmente delle ispezioni nelle salette riservate ai clienti che volevano esaminare in privato il contenuto delle loro cassette - quelle salette che ora erano state violate. Sempre lui personalmente si recava ad accogliere i clienti che da più tempo possedevano una cassetta di sicurezza quando questi si presentavano a l’ingresso per essere ammessi nei locali blindati - una dimostrazione di cortesia che egli segretamente riteneva almeno in parte responsabile del fatto che tanti ricchi e distinti clienti affidavano i loro gioielli, i loro titoli, e altri preziosi documenti, alla succursale della Peri Boulevard. Era sempre lui personalmente a passare in rivista Gourmet e qualsiasi altro sorvegliante fosse di servizio per controllare che le loro uniformi fossero impeccabili e che fregi e distintivi brillassero come l’oro. E infine era sempre lui personalmente a fare ispezioni improvvise per assicurarsi che venisse rispettata la buona regola bancaria di avere costantemente un sorvegliante vicino al campanello d’allarme dell’ingresso. Quindi avrebbe affrontato personalmente anche questa crisi. E, come gli era stato insegnato, avrebbe cominciato dal principio. “Dunque, Gourmet”, disse con tono equanime, “chi sarebbero queste persone?”. “Un signore che si chiama Max Ventura, dott. Grisanti”, disse Gourmet. “Non da solo, spero”, disse il dott. Grisanti congratulandosi tacitamente con se stesso per essere riuscito, malgrado le circostanze, a conservare un certo senso dell’umorismo. “No, signore”, rispose Gourmet. “C’è anche una donna”. Il dott. Grisanti si sentì stranamente sollevato dal fatto che la violazione delle sue salette avvenisse almeno su basi eterosessuali. Gourmet intanto dipanava una storia. Il signor Max Ventura aveva preso una cassetta di sicurezza circa tre mesi prima. Era un
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uomo cortese sulla trentina o al massimo sui quaranta, che si vestiva elegantemente ma in modo piuttosto tradizionale con giacche a doppio petto, e cravatte scure. Gourmet aveva sempre pensato che fosse un avvocato. Per i primi due mesi Ventura era venuto circa una volta alla settimana, e aveva sempre declinato di usare una saletta privata preferendo aprire la sua cassetta sopra uno dei tavoli dell’ingresso. Ma un paio di settimane fa era arrivato con una ragazza. In questo non c’era niente di strano. Le regole della banca consentivano ai titolari delle cassette di venire anche con uno o due ospiti. Alcuni uomini di affari portavano le loro segretarie per dettare qualcosa; gli avvocati spesso avevano bisogno di un testimone per esaminare dei documenti. E non c’era nulla di strano neanche nel fatto che quando era venuto con questa ragazza Ventura avesse chiesto di usare una delle stanzette private. Si trattava delle stanze destinate appunto ai clienti, quelle stanze che il dottor Grisanti curava in modo tanto sollecito, facendo sostituire gli immensi e soffici tappeti color porpora al primo segno di usura, e sorvegliando che le donne delle pulizie lucidassero a dovere i massicci tavoli di mogano. Il dottor Grisanti si pentì per un attimo di aver scelto dei tappeti così morbidi e accoglienti. “Allora che cosa le ha fatto pensare che ci fosse qualcosa di strano?”, domandò a Gourmet. “Ecco, la prima volta che usò una saletta... quando poi uscì e mi restituì la chiave allo sportello, il signor Ventura disse qualcosa come “Soltanto una alla svelta”, rispose Gourmet. “Lì per lì non ci feci caso. Voglio dire, poteva riferirsi a una rapida occhiata a qualche documento o roba del genere. Ma dopo ci pensai. Perché la ragazza che era con lui era veramente, uh, insomma, carrozzata. Alla porta c’era Villar e non faceva altro che fissarla. Come se fosse diventato una statua. Per uscire il signor Ventura gli ha dovuto battere sulla spalla prima che lui si rendesse conto che doveva aprire la porta.
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Poi, la volta successiva, il signor Ventura l’ ha detta di nuovo, quella cosa. E la ragazza sembrava, insomma, che si aggiustasse un po’. Si metteva il rossetto, ecc. Anzi, questa volta il signor Ventura mi ha detto: “Soltanto una rapida mattutina”. E io mi sono messo a pensare che non avevo mai sentito nessuno dire “una rapida mattutina” quando vengono qui a vedere qualcosa alla svelta nella cassetta di sicurezza”. “Ma poteva comunque avere un significato innocuo”, disse il dottor Grisanti. “Infatti, me lo sono detto anch’io, signore”, proseguì Gourmet. “Ma poi, la terza volta che sono usciti dalla saletta - il che è successo proprio il giorno dopo perché tutto a un tratto il signor Ventura ha cominciato a venire spesso a guardare nella sua cassetta di sicurezza - quando sono usciti dalla saletta, la ragazza sembrava proprio che avesse appena finito di fare qualcosa. E lui mi ha detto... scusi un attimo; me lo sono scritto sul blocchetto”. Gourmet si tolse un pezzo di carta dalla tasca. “Quella volta mi ha detto: “Bèh, certe vengono bene di notte, altre di giorno, e certe invece in qualsiasi momento”. Quella sera a casa sua, il dottor Grisanti sedette alla scrivania con un foglio di carta bianca davanti. Il foglio era diviso in quattro parti - il primo passo del sistema AFDA di analisi obiettiva che lui aveva imparato nel corso per dirigenti. In ciascuno dei quarti del foglio il dottor Grisanti scrisse le domande che corrispondevano alla sigla del sistema: (A). L’analisi è obiettiva? (F). Quale è il fattore finanziario coinvolto? (D). Ci sono altri dirigenti interessati? (A). Si può intraprendere qualche azione? =AFDA. Il dottor Grisanti si sentiva obiettivo. Non era certamente puritano, si disse, sebbene concordasse pienamente con sua moglie sul fatto che non esisteva nessun luogo, letto matrimoniale compreso, in cui non fosse necessaria una contegnosa dignità. Scrisse: “sì”, naturalmente sotto la prima domanda e passò a considerare il fattore finanziario. Prendere una cassetta di sicurezza standard presso la
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Midland Bank costa 15 franchi l’anno - e questa fu la prima cifra che il dottor Grisanti scrisse nel quarto di pagina destinato al fattore finanziario. Ma poi riempì quasi tutto il resto dello spazio con altre cifre. Se le salette private della filiale della Peri Boulevard venivano considerate come camere d’ albergo e usate come tali, diciamo un giorno lavorativo sì e no, il costo risultava circa 12 cent per ogni volta. In termini di fattore finanziario, fornicare nei locali delle cassette di sicurezza risultava particolarmente vantaggioso. Alle due restanti domande non era difficile rispondere. Ovviamente nessun altro dirigente era interessato e nessuno doveva assolutamente saper niente di ciò che poteva accadere nella sezione affidata al dottor Grisanti. Altrettanto ovviamente non si poteva intraprendere subito qualche specie d’ azione. Finché il dottor Grisanti non fosse stato sicuro di ciò che stava accadendo non poteva certo affrontare il signor Max Ventura. L’analisi AFDA indicava chiaramente la necessità di ulteriori studi - che, a quanto ricordava il dottor Grisanti, era sempre il tipo di risultato che offriva l’analisi AFDA. Il dottor Grisanti decise che avrebbe fatto in modo di essere avvertito la prossima volta che Max Ventura si fosse rinchiuso in una saletta privée con una con una ragazza. Il che accadde appunto il giorno successivo. Poco dopo mezzogiorno il dottor Gourmet schiacciò il pulsante speciale vicino a quello dell’allarme - il cicalino che suonava nell’ ufficio privato del dottor Grisanti - e il dottor Grisanti corse nei locali delle cassette di sicurezza. Gourmet e Villar erano soli, con gli occhi fissi sopra la porta di una delle salette private. Il dottor Grisanti restò in silenzio accanto a Gourmet, e sembrò che passasse moltissimo tempo. Il dottor Grisanti prese in considerazione l’idea di avvicinarsi furtivamente alla porta per ascoltare eventuali rumori sospetti, ma poi ricordò che, quale misura aggiuntiva di sicurezza, le salette erano acusticamente isolate, anche se il rumore più forte che vi si producesse abitualmente era soltanto
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quello delle forbici che tagliavano le cedole. Infine Max Ventura uscì dalla saletta e indugiò a riallacciarsi pigramente i gemelli ai polsini. La bionda che era con lui, pensò immediatamente il dottor Grisanti, doveva essere quella che le altre volte aveva trasformato Villar in una statua di sale. La ragazza sembrava sul punto di scoppiare fuori dal vestito che indossava. Il dottor Grisanti non capiva come facesse la stoffa a resistere mentre lei camminava verso il banco della firma vicino all’uscita. Era aggrappata al braccio del signor Ventura e ogni tanto gli sussurrava qualcosa all’orecchio. Il dottor Grisanti notò che i lunghi capelli biondi della donna erano leggermente scomposti. Quando raggiunsero il banco, Ventura posò la cassetta, firmò e si avviò alla porta dove Villar sembrava una nuova edizione della statua. L’uomo che fissa. La bionda bisbiglia qualcosa a Ventura e lui si mette a ridere. Voltandosi verso Gourmet e il dottor Grisanti, disse: “La nostra Lulù avrebbe un’idea a proposito dei tappeti delle salette. Dice che sono abbastanza morbidi ma un po’ troppo grandi per due piazze sole”. Lulù cominciò a ridacchiare. Ventura riuscì a risvegliare Villar battendogli forte le mani parecchie volte davanti al viso. I due uscirono, ma tornarono regolarmente tutti e cinque giorni lavorativi successivi. Dopo la sesta visita, il dottor Grisanti sedette alla scrivania e cercò di compilare un elenco di quanto risultava dalla situazione. Ma non riusciva a concentrarsi. L’analisi AFDA non sembrava adattabile a un problema che includeva una ragazza il cui contatto con la stoffa del suo vestito sembrava sfidare ogni regola di resistenza dei tessuti. Pensò lungamente a Lulù. (Nei suoi pensieri aveva cominciato a chiamarla per nome). Tentò di considerarla un semplice elemento del problema, ma tornava sempre a immaginarsela riversa sopra i morbidi tappeti scarlatti delle salette private. Improvvisamente il suono del cicalino lo fece sobbalzare. “Ma come? È tornato?”, domandò il dottor Grisanti quando raggiunse al banco dell’ in-
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gresso delle cassette di sicurezza. “Era già venuto appena un’ora fa”. Ha detto qualcosa come “l’esercizio tiene in forma”, disse Gourmet, parlando con tono di reverente ammirazione. Villar, davanti all’ uscita, fissava nel vuoto con un mezzo sorriso sul volto. Dopo quindici minuti Ventura aprì la porta della saletta privata. La ragazza che aveva accanto non era Lulù, ma un’esotica bellezza, alta e slanciata, con in dosso un vestito che sembrava una canottiera che si fosse ritirata nel bucato. Il dottor Grisanti si accorse che la sua prima reazione davanti a lei non era stata la registrazione del fatto che la nuova ragazza rappresentava un ulteriore elemento del problema bensì che sotto il vestito era assolutamente priva di qualsiasi capo di biancheria intima. La ragazza era avvolta attorno al braccio di Ventura e quando lui riuscì a districarsene per firmare, lei si avvolse istintivamente intorno al braccio del dottor Grisanti - come se, perduto un sostegno, le fosse del tutto naturale cercarne un altro. “Oh, scusi”, disse Ventura quando notò la ragazza avvolta intorno a un dottor Grisanti rosso come un peperone. Il tono di Ventura era simile a quello di una madre in un negozio quando si accorge che il suo giovane e sconsiderato rampollo sta giocando con la merce esposta. Si riavvolse la ragazza intorno al braccio, l’aggiustò un po’ meglio e si avviò all’uscita. Il dottor Grisanti si asciugò la faccia con un fazzoletto. Gourmet disse: “Per Gesù Cristo!”. Villar, di nuovo paralizzato, dovette essere scosso per il bavero della giacca prima che riuscisse ad aprire la porta. “Allora ci vediamo domani”, disse Ventura dalla soglia. “Vengo con Samantha, che vedete qui, e con un altro paio di ragazze. Vogliono fare certe cosette”. Quella notte il dottor Grisanti trovò difficoltà a dormire. Che cosa doveva fare? Ormai non aveva quasi più alcun dubbio che si stesse effettivamente fornicando nei locali delle cassette di sicurezza. Anzi, la sua mente era
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continuamente sconvolta dalle scene d’orgia che si immaginava. Però Max Ventura non aveva mai esplicitamente confessato ciò che faceva nelle salette private. Come si poteva farglielo ammettere? Non era possibile affrontarlo direttamente per domandargli: “Ma scusi, signore, ma lei per caso non va mica a fornicare nelle salette private?”. E se anche Ventura avesse risposto di sì? Infondo non sembrava che ci tenesse molto alla riservatezza su certi argomenti. Anzi, pareva piuttosto fiero dei suoi successi sessuali. Probabilmente un carattere leggermente esibizionista. E se avesse confessato, il dottor Grisanti poteva invocare qualche regola che proibiva i rapporti sessuali durante l’orario d’ufficio nei locali di una banca? No, veramente no; alla Midland Bank nessuno aveva mai previsto che una tale regola potesse dimostrarsi necessaria. Ma se la voce si spargeva? quanta gente avrebbe cercato di approfittare di una “rapida”. Al dottor Grisanti sembrava già di vedere decine di coppie che facevano la fila davanti al banco della firma - con Villar completamente partito davanti alle donne, e Gourmet che cercava disperatamente di cacciar fuori una coppia per fare posto ad un’altra. Coppie? Ma Ventura aveva detto che sarebbe venuto con tre ragazze. Presto qualcuno avrebbe cominciato a venire con strani tipi tatuati e con qualche arabo dagli occhi fiammeggianti, o magari con qualche animale domestico. Che cosa ci poteva fare Ventura con tre ragazze? Il dottor Grisanti ci pensò per tutto il resto della notte. Il giorno successivo, poco dopo mezzogiorno, Gourmet aveva appena toccato il campanello del cicalino che il dottor Grisanti arrivò all’ingresso. Ventura era presente con le due ragazze già note agli astanti e con una rossa talmente formidabile che Lulù, la quale stava accanto e metteva a durissima prova la resistenza di una nuova fibra sintetica della Dupont, sembrava quasi un’educanda. La rossa, che era alta almeno un metro e ottanta, indossava una camicetta nude-look e una minigonna di camoscio. “Ohilà”, disse allegramente Ventura. Poi,
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mentre si accingeva a firmare per prendere in consegna la cassetta, si accorse che Samantha era avvolta intorno al braccio con cui doveva scrivere. “Oh, le dispiace tenermela un momento?”, chiese al dottor Grisanti, districandosi da Samantha e drappeggiandola addosso al dottor Grisanti. “Grazie”. “Non c’è di che”, farfugliò il dottor Grisanti. “Sempre lieto di rendermi utile”. “Bravo”, disse Ventura trasferendo Samantha di nuovo al dottor Grisdanti. A questo punto la rossa si chinò e sussurrò qualcosa all’orecchio di Ventura. Ventura si rivolse a Gourmet e disse: “Viene con noi?”. Gourmet guardò interrogativamente il dottor Grisanti, ma il dottor Grisanti sembrava assente a tutto tranne a quanto Samantha gli stava bisbigliando all’orecchio. “Dio Cristo e Gesù!”, disse Gourmet e si unì al gruppo. La rossa si chinò a sussurrare di nuovo e Ventura disse: “Questa dice che se viene anche quell’ altro, potremmo fare le cose in modo più interessante”. “Bè, veramente non saprei”, disse Gourmet che aveva più o meno assunto il comando, dato che il dottor Grisanti non sembrava più funzionare da perfetto dirigente. La rossa bisbigliò ancora all’orecchio di Ventura e Ventura scosse la testa con rammarico. “Peccato”, disse. “Lei dice che se non viene anche il terzo non è divertente. Ha sentito parlare di un altro posto al Credit Suisse, qui in fondo alla strada”. “Vieni subito, Villar!”, disse Gourmet. Quando tutti furono entrati nella saletta privata, la rossa riprese a bisbigliare all’orecchio di Ventura. “Lei dice che non vi immaginate nemmeno che cosa c’è sotto la sua minigonna”. disse Ventura a Gourmet. Gourmet non riuscì a rispondere. “Una pistola mitragliatrice”, disse Ventura. Gourmet sorrise esitante, come se si domandasse che cosa poteva significare pistola mitragliatrice nel gergo delle orge. Poi la rossa mise una mano sotto la minigonna e tirò fuori una pistola mitragliatrice. “E che cosa ci sa fare con quella?”, doman-
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dò Gourmet, sempre sorridendo debolmente. “Ci si rapinano le banche”, spiegò Ventura. “Non fare quella faccia delusa. Tu e Vilar vi dovrete almeno spogliare. Ci servono le vostre divise. Gourmet e Villar vennero obbligati a spogliarsi e le loro uniformi vennero indossate da Ventura e dalla rossa - che, con i capelli nascosti da una parrucca da uomo e con i piedi nei lucidi stivali di Gourmet riuscì a sembrare atletica invece che sexy. Ventura tolse alcune manette dalla sua borsa e se ne servì per legare il dottor Grisanti e i suoi dipendenti all’ elegante e massiccio tavolo di mogano. Poi produsse due pistole col silenziatore per sé e per la rossa. E lasciando Lulù e Samantha con la pistola mitragliatrice e un’altra pistola a guardia dei tre legati nella saletta privata, andò con la rossa all’ingresso del deposito. Man mano che i clienti del pomeriggio arrivavano, venivano accompagnati gentilmente con le loro cassette nella stessa saletta privata, e poi legati insieme agli altri mentre le loro cassette veniva vuotate. Il dottor Grisanti non aveva detto una parola ma aveva molte cose che gli passavano per la mente. Si rendeva conto che la sua carriera presso la Midland Bank era finita. Era stato attirato in un tranello. Ciò che lo meravigliava era il fatto che in fondo perdere il posto gli dispiaceva meno di quanto non gli dispiacesse aver perso l’esperienza che già pregustava con Samantha e Lulù e la rossa sul tappeto della saletta privata. Quando Ventura e le ragazze furono pronte ad andarsene, il dottor Grisanti finalmente parlò: “Vorrei soltanto sapere”, disse a Ventura “se voi veramente, uh, lei, uh, insomma... nelle salette private?”. “Ecco, una spesa di un franco può rappresentare un fattore finanziario molto minore diciamo sul mezzo franco, se fornisse collateralmente un sottoprodotto positivo”, rispose Ventura. “AFDA”. Poi, con Samantha appesa a un braccio e con il bottino appeso all’altro, uscì dalla filiale della Midland Bank Company di Lugano. Rudy De Cadaval
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ODORE DI FUMO, ODORE D’ANTICO di Antonia Izzi Rufo
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L trillo della sveglia interrompe il tuo sonno, dolce, del mattino e tu non esiti: ti scopri, ti stiracchi, sbadigli, salti giù dal letto e ti dirigi in cucina per il caffè, un espresso che prepari in pochi secondi e ne gusti l’aroma e il sapore. L’ambiente è caldo, nonostante la temperatura esterna sotto zero, è inverno (il termostato è regolato in modo automatico e fa partire la caldaia nelle ore indicate). Indi nel bagno per la doccia, una piacevole doccia calda che ti “rimette in forma”, oltre a detergerti il corpo, ti fa sentire bene nella tua realtà psicofisica, ti predispone all’ ottimismo. Ti vesti, in tenuta invernale, ed esci per le tue faccende. Tutto si svolge senza imprevisti, senza sorprese spiacevoli, senza intralci, come sempre. I giorni scorrono, anche se variabili nel tempo incostante nei problemi e nell’umore, più o meno tutti uguali. Tutti uguali?... Ma non è proprio vero, perché ogni regola ha la sua eccezione. Questa mattina, al consueto trillo della sveglia, mi sono alzata e, cosa insolita, ho avvertito freddo, l’ aria infatti era gelida. Ho infilato la vestaglia e sono corsa in cucina per il caffè: ho aperto il rubinetto e l’acqua non usciva, ho girato la manopola del gas e il fornello non s’è acceso. <<Che succede? >> mi sono chiesta preoccupata. Ho controllato subito gli impianti dell’ acqua e del riscaldamento ed ho notato che non funzionavano, che tutto era bloccato. Che delusione! Che rabbia! Ho telefonato al mio idraulico perché venisse “immediatamente” a controllare e a riparare i guasti. <<Immediatamente?>> mi ha risposto ironico <<Sono impegnatissimo e non potrò venire prima di una settimana>>. L’ho pregato di venirmi incontro, gli avrei dato una somma superiore a quella spettante: non c’è stato nulla da fare, non sono riuscita a convincerlo. Ho telefonato ad altri idraulici e da ognuno ho ricevuto risposte negative. Mi sono sentita disperata, infelice, ma non mi sono persa d’animo. Ho
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acceso un paio di stufette elettriche (la corrente non era andata via), ma il riscaldamento era del tutto insufficiente. E dopo un attimo di riflessione ecco, l’idea giusta m’è spuntata nella mente: c’era il camino, potevo accenderlo! Da quanti anni non l’avevo fatto? Venti, trenta, forse più, da quando i nonni ci avevano lasciato. Non ho perso tempo: ho spostato il divanetto posto davanti all’ imboccatura del camino e mi sono recata su nell’orto, sotto la legnaia, dov’era accatastata tanta legna secca. Eseguivo ogni gesto con sveltezza ed entusiasmo. Quando ho visto divampare la fiamma dal mucchietto di tronchi e fascetti che avevo sistemato al centro del camino, ho provato una gioia incredibile. Le mani tese per scaldarmi, gli occhi curiosi spalancati, la bocca atteggiata ad un sorriso di soddisfazione, avevo la sensazione di avere riscoperto qualcosa di magico che avevo rimosso – credevo – per sempre. Sono rimasta in contemplazione per circa mezz’ora. E intanto attizzavo il fuoco e lo alimentavo perché non si spegnesse e mi sentivo le gote rosse per il calore. E perché non potevo adoperare neppure il fornello, ho pensato di prepararmi il caffè vicino al fuoco, in un pentolino che la mia nonna chiamava “c’cculatera” (cioccolatiera). L’ho trovato in un ripostiglio del sottoscala tra oggetti vecchi scartati. Mi sono accorta, poi, che in tutte le stanze della casa c’era del fumo e se ne avvertita il forte odore: ho aperto uno spiraglio della porta d’ingresso e il fumo s’è diradato. Ero allegra, entusiasta, ma perché ? M’era passata l’ira del primo momento, mi sentivo diversa, come se mi fosse accaduto qualcosa di straordinario. Ho cominciato ad organizzarmi, a programmare il mio tempo, <<sono sola>> mi sono detta <<posso fare ciò che voglio e quando voglio>>. Mi sono divertita a ri-fare ciò che facevo ai tempi dei miei nonni e le ore sono volate. Quando, il giorno appresso, mi ha telefonato il mio idraulico per dirmi che, per agevolarmi, avrebbe anticipato il lavoro di un paio di giorni, così gli ho risposto: <<Non si preoccupi, venga quando vuole, non ho premura>>. Ho cucinato i fagioli nella “pignata”,
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ho preparato le bruschette e l’arrosto sulla brace, le patate sotto la cenere… E la sera, prima di andare a letto, volevo scaldare un mattone sotto la cenere e mettermelo, avvolto in un panno di lana, ai piedi, ma il mattone non l’ho trovato e ho dovuto ripiegare per la borsa di gomma con l’acqua bollente (l’acqua la sono andata ad attingere alla vecchia fontana, naturalmente, non con la “tina” come si usava ai tempi della mia infanzia, ma con bidoncini di plastica). Mentre dormivo, al calduccio di una montagna di coperte, inglobavo “aria di fumo”, ma non mi dispiaceva perché ero felice di ri-vivere i tempi andati e di respirare, di nuovo, odore di legna bruciata, odore di fumo, “odore d’antico”. Anntonia Izzi Rufo
LA MILANESE di Antonio Visconte
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IA nipote Claudia, cancelliere presso il tribunale di Milano, mi comunicò che un illustre magistrato di quella importante sede giudiziaria, appassionato di archeologia, le aveva espresso il desiderio, nelle vacanze di Natale, di visitare la nostra storica città di Capua Vetere. Insieme a Claudia, mi recai a salutarli all’albergo Milano e il dottor Ubaldo, con la moglie Emma, non mi sembrò quell’esimio giurista, che mia nipote aveva voluto farmi credere, bensì il suo diretto superiore, cioè il cancelliere capo. Dall’alto del balcone gli descrissi la villa comunale e il dottor Ubaldo si meravigliava che nel solenne sacrario fossero sepolti i caduti garibaldini. “Non si trattò di una semplice “passeggiata militare” “, gli argomentai e solo verso sera, per una manciata di uomini, l’eroe dei due mondi ebbe la meglio contro un esercito regolare e bene attrezzato. Dopo la visita al Museo etrusco lo condussi al Mitreo e con una spinta di orgoglio gli feci notare che la città già a quel tempo aveva risolto il problema dei profughi e solo egiziani e persiani adoravano il dio Mitra.
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Il giorno seguente fu la volta dell’anfiteatro, costruito all’epoca dell’imperatore Adriano, corrispondente ai gusti dell’architettura moderna. Più basso e più largo del Colosseo, poteva ospitare ottantamila spettatori. Giungevano da Roma i ricchi patrizi per assistere ai giochi, dove si esibivano anche le gladiatrici, magnifico esempio di quella vetusta emancipazione femminile. Intanto si stava scavando per trovare i resti del primitivo anfiteatro di epoca repubblicana, dove combatteva Spartaco. “Come mai”, mi domandò Ubaldo, “la terza città d’Italia dopo Roma e Milano, così ricca di storia, osca, etrusca, romana e risorgimentale, ha bisogno di portare il nome della Madonna, non bastava soltanto Capua Vetere?” “Esimio dottore”, gli specificai, “noi possediamo la chiesa più ragguardevole del mondo.” Addirittura.” “E adesso le spiego.” Quando l’imperatore Costantino sconfisse i pagani di Massenzio sul ponte Milvio a Roma, nella Capua Vetere si svolse il primo Concilio Ecumenico della Chiesa. Presieduti da Sant’Ambrogio, i vescovi provenienti dall’ Asia e dall’Africa proclamarono che la Madonna è vergine, madre e assunta in cielo. L’ antico tempietto, logorato dal tempo, fu ricostruito in stile barocco, ma una epigrafe in latino, deposta all’ingresso, ne tramanda la memoria. La devozione alla Vergine è rimasta inalterata lungo i secoli. Quel pomeriggio la signora Emma supplicava con insistenza dove si aggirava suo marito. “Che problema c’è,” replicava Claudia. “Perché si preoccupa tanto,” aggiungevo io, “mi ha chiesto dove si gioca a bigliardo e l’ho introdotto nel Circolo Nazionale, frequentato da laureati e diplomati, un ambiente signorile, fornito di ogni conforto. L’ingresso risulta severamente vietato agli estranei, però l’ avocato Siniscalco si è detto particolarmente onorato di ricevere un tale personaggio.” “Andiamo a trovarlo,” dichiarò Emma.
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Seduto sul sedile posteriore della macchina, riuscivo a segnalare all’ospite gradita i principali monumenti, che si snodavano lungo il corso, il teatro Garibaldi, la fontana con i quattro leoni, ma non si mostrava interessata. Neanche nel duomo volle entrare, unico esempio di tempio a cinque navate, circondato da una selva di colonne, proveniente da edifici arcaici. “Troviamo prima mio marito e poi ne parliamo,” sussurrava. L’avvocato Siniscalco ci accolse all’ ingresso e si profuse nei più sviscerati complimenti nei riguardi della nobile gentildonna e ordinò al bidello di condurla dal marito. “Presidente,” soggiunse Osvaldo, “avete dimenticato che le donne non possono entrare.” “Osvaldo dei miei stivali, non hai capito un corno,” inalberò l’avvocato, “la signora viene da Milano, la capitale morale della nostra patria. È capitata quaggiù per portarci la civiltà di cui abbiamo tanto bisogno.” “Povero me,” continuava singhiozzando, “che bestia sono stato, potevo sposare anche io una milanese, mi sentivo libero e realizzato. Purtroppo non si può tornare indietro, le nostre mogli fanno solo casa, chiesa e cimitero.” “Pezzo di villanzone,” minacciò Emma, appena intravide il marito, “quante volte te lo devo dire, quando ti telefono, devi ritornare subito a casa.” “Fammi terminare la partita,” esclamò il povero malcapitato. “Te la do io la partita,” e fortemente alterandosi, gli strappò la stecca dalle mani e gliela suonò in testa. Afferratolo per un braccio, lo trascinò fuori dalla sala e iniziò a sferrargli i calci al sedere, che gli strapparono il pantalone. Preso dalla vergogna, l’avvocato Siniscalco si rinchiuse nella presidenza, io mi dileguai senza lasciare traccia e mia nipote accompagnò la misera coppia all’albergo, dove tristemente concluse il suo soggiorno nella Capua Vetere. Antonio Visconte
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LA TELA DEL PITTORE di Filomena Iovinella
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L tempo corre sulle onde, mangia il presente in un sol boccone, stravolge la certezza come fosse panna montata, su un cucchiaio pieno, in un unico boccone di ingordigia. Il pittore si sposta lentamente nei suoi anni, la sedia che trascina con lui, lungo la stanza, a raggiungere quel cavalletto dei ricordi, con di fianco i colori e i pennelli nella sua eterna dimensione. Dopo tanto tempo riprende a scrivere la tela, i colori vanno da soli, i gesti scandiscono il presente nel vecchio ritmo analogico; nel vivere la lentezza, sfiora la tela, accarezza l’anima, suona il respiro dentro e fuori di sé; regala al tempo il fermo immagine dipinto di personale e lascia il presente nel presente. Al centro del suo capolavoro appare un computer che si accende ed inizia a scrivere: “Mio caro amico è da una vita intera che non ti sentivo né vedevo, ti ritrovo ora, attraverso i contatti ravvicinati, nel mare di persone, che si cercano, da ogni distanza di globo. Come stai?” “ Sto bene, e tu?” “Siamo invecchiati, ma ancora vivi, io tutto bene” “Cosa fai?” “Dipingo, amico mio, ancora un po’!” Filomena Iovinella D. Defelice: Pioppi in inverno e casale↓
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XXVII Edizione CITTÀ DI POMEZIA L’Editrice POMEZIA-NOTIZIE - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM) - Tel. 06 9112113 – E-Mail: defelice. d@tiscali.it internet: http://issuu.com/domenicoww/docs/ - organizza, per l’anno 2017, la XXVII Edizione del Premio Letterario Internazionale CITTÀ DI POMEZIA, suddiviso nelle seguenti sezioni : A - Raccolta di poesie (max 500 vv.), da inviare fascicolata e con titolo, pena esclusione. Se è possibile, inviare, assieme alla copia cartacea, anche il CD; B - Poesia singola (max 35 vv.) ; C – Poesia in vernacolo (max 35 vv.), con allegata versione in lingua; D - Racconto, o novella (max 6 cartelle. Per cartella si intende un foglio battuto a macchina – o computer - da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1800 battute. Se è possibile, inviare, accanto alla copia cartacea, anche il CD); E – Fiaba (max 6 cartelle, come sopra, lettera D); F – Saggio critico (max 6 cartelle, c. s.). Non possono partecipare alla stessa sezione i vincitori (i Primi classificati) delle trascorse Edizioni. Le opere (non manoscritte, pena l’ esclusione), inedite e mai premiate, con firma, indirizzo chiaro dell’autore e dichiarazione di autenticità, devono pervenire a Domenico Defelice – via Fratelli Bandiera 6 - 00071 POMEZIA (RM) - e in unica copia - entro e non oltre il 31 maggio 2017. Volendo, tutti i materiali possono essere inviati via e-mail (defelice.d@tiscali.it) Le opere straniere devono essere accompagnate da una traduzione in lingua italiana. Ad ogni autore, che può partecipare a una sola sezione e allegare un breve curriculum di non oltre dieci righe, è richiesto un contributo di 20 Euro per la sezione A e 10 Euro per le altre sezioni, in contanti assieme agli elaborati (ma non si risponde di eventuali disguidi) o da versare sul c. c. p. N° 43585009 intestato a :Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00040 Pomezia (RM). Le quote sono in
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euro anche per gli autori stranieri. Sono esclusi dal contributo i minori di anni 18 (autocertificazione secondo Legge Bassanini). Non è prevista cerimonia di premiazione e l’operato della Commissione di Lettura della Rivista è insindacabile. I Premi consistono nella sola pubblicazione dei lavori. All’unico vincitore della Sezione A verranno consegnate 20 copie del Quaderno Letterario Il Croco (supplemento di PomeziaNotizie), sul quale sarà pubblicata gratuitamente la sua opera. Tutte le altre copie verranno distribuite gratuitamente, a lettori e collaboratori, allegando il fascicolo al numero della Rivista (presumibilmente quello di ottobre 2017). Sui successivi numeri (che l’autore riceverà solo se abbonato) saranno ospitate le eventuali note critiche e le recensioni. Ai vincitori delle sezioni B, C, D, E, F e ai secondi classificati per ciascuna sezione, verrà inviata copia della Rivista - o del Quaderno Letterario Il Croco - che conterrà il loro lavoro. Per ogni sezione, qualora i lavori risultassero scadenti, la Commissione di Lettura può decidere anche la non assegnazione del premio. La mancata osservazione, anche parziale, del presente regolamento comporta l’ automatica esclusione. Foro competente è quello di Roma. Domenico Defelice Organizzatore del Premio e direttore di P.-Notizie Vincitori della SEZIONE A delle precedenti edizioni: Pasquale Maffeo: La melagrana aperta; Ettore Alvaro:Hiuricedhi; Viviana Petruzzi Marabelli: Frammento d’estate; Vittorio Smera: Menabò; Giuseppe Nalli: A Giada; Orazio Tanelli (USA): Canti del ritorno; Solange De Bressieux (Francia): Pioggia di rose sul cuore spento; Walter Nesti: Itinerario a Calu; Maria Grazia Lenisa: La ragazza di Arthur; Sabina Iarussi: Limen; Leonardo Selvaggi: I tempi felici; Anna Maria Salanitri: Dove si perde la memoria; Giuseppe Vetromile: Mesinversi; Giovanna Bono Marchetti: Camelot; Elena Mancusi Anziano: Anima pura; Sandra Cirani: Io che ho scelto te; Veniero Scarselli: Molti millenni d’amore; Sandro Angelucci: Controluce; Giorgina Busca Gernetti: L’anima e il lago; Rossano Onano: Mascara; Fulvio Castellani: Quaderno sgualcito; Nazario Pardini: I simboli del mito; Rodolfo Vettorello: Voglio silenzio; Isabella Michela Affinito: Probabilmente sarà poesia; Antonia Izzi Rufo: Sensazioni.
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I POETI E LA NATURA – 65 di Luigi De Rosa
Domenico Defelice - Il verme, lo scarabeo, il croco (acquerello)
TROPPO SIMPATICI, TROPPO UMANI GLI ANIMALI DI TRILUSSA (1871-1950) Carlo Alberto Salustri, in arte Trilussa, nacque a Roma il 26 ottobre 1871. Rimasto orfano di padre all'età di tre anni, ebbe un percorso scolastico particolarmente accidentato. Per la sua svogliatezza dovette ripetere sia la seconda che la terza elementare. In seguito, avrebbe abbandonato la scuola. A 16 anni presentò un suo componimento in dialetto romanesco a Gigi Zanazzo, direttore del Rugantino, perché venisse pubblicato. Il sonetto, intitolato “L'invenzione della stampa”, era di ispirazione belliana. Uscì, e fu il primo di una lunghissima serie con la firma di Trilussa, anagramma della parola Salustri. Ispiratosi a Giuseppe Gioachino Belli, ma con un romanesco molto più simile all'italiano, dopo Ce-
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sare Pascarella divenne il terzo grande poeta dialettale romano. Accompagnato da una fama meritata di seduttore adorato dalle donne, sempre pieno di debiti, ebbe vita movimentata, divenendo il “dicitore” acclamato delle proprie poesie in romanesco nei “salotti” della Capitale. La sua produzione, che appariva prima nei giornali e solo in seguito veniva revisionata e selezionata per apparire in libri, era popolata di animali di ogni specie, ai quali attribuiva ruoli e affermazioni che altrimenti il trionfante regime fascista non gli avrebbe permesso di esprimere. Egli non si dichiarava antifascista, ma semplicemente...”non fascista”, e il regime lo lasciava fare, anche perché gli animali trilussiani esprimevano a loro modo una saggezza popolare romanesca radicata nei secoli, e una buona dose di “saggio populismo” poteva sembrare perfino divertente e bene accetta. Gli animali consentivano allo scrittore di rappresentare, con metafore efficaci e accattivanti, le caratteristiche e i difetti di una certa borghesia e di un certo popolino. Non tanto sulla scia del favolista latino Fedro o di quello francese La Fontaine, quanto su quella del greco Esopo, Trilussa ripropose in buona parte antiche favole con una moralità “rimodernata”. E di animali che parlano in romanesco ce ne sono veramente tanti, nelle sue poesie. Dai cani ai gatti, ai criceti e ai furetti, ai leoni, alle pecore e ai coccodrilli, ai maiali, ai conigli, ai sorci e ai grilli. E, naturalmente, non mancano i somari. Rileggiamo qualche verso da Er gatto e er cane: “Un gatto soriano diceva a un barbone: “Non porto rispetto nemmeno ar padrone, perché a l'occasione je sgraffio la mano; ma tu che lo lecchi te becchi le botte: te mena, te sfotte, te mette in catena... ...Io, guarda, so' un gatto, so un ladro, lo dico:
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ma a me nun s'azzarda de famme 'ste cose...” Er cane rispose: “Ma io...je so' amico!” Trilussa fu nominato senatore a vita, nella giovane Repubblica Italiana, il 1° dicembre 1950. Il mandato durò solo una ventina di giorni, perché morì, nella sua Roma, il 21 dicembre dello stesso anno. Ma è con la poesia “Er Somaro e er Leone”che il poeta romano dimostra di aver capito perfettamente la nuova atmosfera nella nuova situazione storica italiana: “Un Somaro diceva: “Anticamente, quanno nun c'era la democrazzia, la classe nostra nun valeva gnente. Mi nonno, infatti, per avé raggione se coprì co' la pelle d'un Leone e fu trattato rispettosamente. -So' cambiati li tempi, amico caro fece er Leone: ormai la pelle mia non serve più nemmeno da riparo. Oggi purtroppo ho perso l'infruenza e ogni tanto so' io che pe' prudenza mi copro co' la pelle de somaro!” Luigi De Rosa
COPPIA GIOVANE
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lo sosteneva a stento, l’altra avvolta da molteplici fili arrotolati. Quando infine i compagni se ne andarono s’avvicinò dubbioso ed il capino verso l’alto diresse e con squittii si avvicinò pietoso saltellando. Ma quando finalmente giunse a un bombo glielo rubò un compagno veloce e Pio fuggì con un fremito d’ali. Liana De Luca Torino
MUSICA DI STRADA Malinconia di note per la strada. Il violinista attento compone tra la gente indaffarata struggenti melodie. Sostano alcuni pronti a custodire la sensazione nuova che all’improvviso sgorga da quei suoni. Poi termina il concerto, ma tra i palazzi ancora vibra l’eco, sottile come fumo, di quella suggestione misteriosa. L’attimo si dissolve, ma resta impresso un palpito di vita nel cuore stupefatto. Elisabetta Di Iaconi Roma
Nel buio saiettato sdraiati sul divano a saponare al ritmo sincopato degli Antropomorfi band sound asleep lui e lei a rosicchiare Pop-corn chip to chip. Domenico Defelice
PIO Giunse impaurito tremante furtivo dietro i compagni in caccia di becchime che lo osteggiavano e lo beccavano per impedirgli l’accesso alle briciole. Era magro e spaurito e una zampa
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! Premio I Murazzi, da noi pubblicizzato su queste pagine, credendolo di prestigio. Opere da inviare a Elogio della Poesia, in via Naro 3, Torino, sede della Genesi Editrice; Presidente, Sandro Gros-Pietro, il quale, insieme alla moglie, porta avanti la Genesi Editrice; opere vincitrici (Leopardi e il “mal di Napoli”, di Carlo Di Lieto, solo per esempio, Nel settimo anno, di Carlo Molinaro...) edite dalla Genesi. Alleluia! Alleluia! Tralasciando il valore delle opere, Totò avrebbe detto: Ma mi faccia il piacere! Domenico Defelice
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Recensioni FRANCA ALAIMO TRASLOCHI LietoColle Editore, Varese, 2016, € 13,00 Limpidità della parola poetica e compiutezza espressiva, mai disgiunte da una profonda armonia, sono state da sempre le virtù primarie della poesia di Franca Alaimo, che parla con immediatezza al lettore, in maniera fresca e convincente. Ciò può dirsi anche per questo suo nuovo libro di versi, Traslochi, nel quale ella ci viene incontro con tutta la sua vibrante umanità, per rivelarci i suoi più segreti sentimenti. È, questa che l’Alaimo ci dà, una poesia-racconto, nella quale ella narra i suoi giorni con estrema sincerità e freschezza, ma anche con un’attenta elaborazione formale, che emerge ovunque dal suo verso libero, dall’andamento sicuro e ricco di immagini di particolare efficacia. E si tratta di immagini che vivacizzano la pagina, dandole forza e colore, quali: “lo zero della morte”; “un vento sporco di polvere”; “un fittissimo bosco di ponteggi”; “le foglie lampeggianti dei platani”; il selciato che “tremola di luci colorate”; “la stoffa buia dei cieli notturni”; “la lingua lucida dell’acqua”; le “coperte odorose di notte”; “il bianco squallore del cemento”; “l’ incommensurabile tedio del silenzio”; ecc. Quella che l’Alaimo racconta con questo suo libro è la storia della fine di un amore, che determina anche la fine di una vita in comune, cui consegue il forzato adattamento a nuovi ritmi di vita e a nuove abitudini. Le poesie vengono quindi a rappresentare i vari quadri di un dramma, che è appunto quello dello sradicamento e dell’abbandono, qui espressi
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con notevole efficacia di stile. Cambia la vita e cambia tutto il contesto in cui quella vita fu inserita: il “trasloco” diviene pertanto il simbolo di questo cambiamento; della perdita di un consolidato modo di trascorrere i giorni in serena armonia. Il libro inizia con una poesia, Separati in casa, che subito ci introduce nell’argomento. Segue Trasloco, dove la vecchia casa è descritta con minuta perizia, unitamente alle diverse forme (anche minime) di vita che l’abitavano. Il nuovo ambiente cittadino si rivela invece freddo e ostile, privo di quel conforto e di quel diletto che soltanto la natura amica sa dare. Affligge per di più l’autrice la solitudine. Ad alleviare il suo peso viene però ben presto la poesia, che le porge il suo incomparabile bene. E se è vero che talora l’assalgono lo sconforto e il rimpianto (“Io che un tempo credevo di parlare con il cielo / lasciando che le stelle mi cadessero addosso / nelle notti chiarissime di agosto / adesso sento il mio corpo una cosa tra le cose” (Insonnia), è anche vero che ad alleviare la sua pena possono giungere il canto assiduo di un grillo e la trasparenza dell’ alba” (Ivi). Qui la poesia dell’Alaimo ha molti echi e si avviva di più inquiete e sofferte movenze, quali quella di Solo un attimo, che ha questo incipit: “Giorni che non lievitano / nonostante le mani indaffarate” e ha questa chiusa: “… improvvisamente una macchina / proietta un occhio giallo di luce / che un attimo mi guarda, / e poi scompare / così come il fatto che poco fa / ti ricordavo”. Ci sono poi i rumori e i disagi del nuovo ambiente cittadino: “Si sveglia la città tra il rotolio delle serrande. / Anime irose schiacciano i pedali delle macchine…” (Il cielo metafisico); e ci sono i non piccoli problemi di sopravvivenza che ogni giorno è necessario affrontare: “Ma in città i pensieri quotidiani / riguardano l’affitto, il cibo, le bollette, / gli operai, gli oggetti che si rompono…” (Problemi economici), uniti a quelli di una non facile convivenza: “Sento i corpi che mi respirano sul capo / al piano di sopra” (Ivi). In città anche la pioggia è più triste, quando l’ acqua “singhiozza sulle ringhiere” (Pioggia in città) e labili divengono i rapporti umani (si veda I condomini di via Bonanno), dato che tutti appaiono “indaffarati o ritrosi”. Persino la sua gatta non gradisce quel nuovo ambiente, nel quale si è trovata ad un tratto a sua insaputa: “La mia gatta non gradisce questo appartamento. / Lo capisco dal suo sguardo offeso e sprezzante” (La mia gatta). Tristi in questa sua nuova casa sono i risvegli (Comincia un giorno), mentre prima l’accoglievano ogni giorno serene presenze (“C’erano i pesci rossi,
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l’amica d’infanzia / bionda e bianca come la luce, che rideva…”); e anche i fiori ora sono così piccoli da “innamorare il nulla” (Ivi), mentre il cielo è “lacerato dagli spigoli dei tetti” (Passeggiata). Franca Alaimo cerca allora “l’anima tra le costole” (Cerco l’anima) e nel fango “qualche pagliuzza d’oro / per intrecciare la trama nuova della sua vita” (Pagliuzze d’oro). Oggi è la solitudine che più la tormenta, mentre ripensa al tempo in cui era “giovane e piena di colori” (Ivi). E sempre le “raccontano un sortilegio di antiche voci / … / le colature della pioggia sopra l’intonaco” (Di fronte alla casa lasciata: ricordando), nel mentre “oscillano le colline, le case, gli ulivi, / scintillando umidi tra le lacrime” (Ivi). Ella guarda intensamente la sua vecchia dimora, dove “Tra terra e mare si legge ancora il nome del borgo” e la nostalgia l’incatena, sicché nel chiudere il suo libro, con gli occhi rivolti a quelle mura, tra se stessa mormora: “Ci torno da fidanzata e sposa del mio passato, / con quei ricordi di me, / bestiola così scalmanata e tenera in amore”. Un’epoca della sua vita si è conclusa. Ora ha intrapreso un nuovo cammino. Ma quella casa è sempre là che grandeggia nella sua mente e le fa cenno col suo invitante richiamo. Un bel libro questo di Franca Alaimo, caratterizzato dall’estrema sincerità con la quale l’autrice si confessa, nulla nascondendo delle sue lacerazioni e delle sue sconfitte. Ma anche un libro scritto con quell’andamento evocativo, tra pacatezza e urgenza del dire, che sottende una sofferenza controllata ma autentica, per la quale il verso incisivo dell’autrice trova la sua giusta espressione. E si tratta di un’ espressione che tocca esiti di vera poesia. Elio Andriuoli LINA D’INCECCO OMBRE ELUCI Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2017 Una poesia positiva, viva che non si lascia abbattere dalle brutture della vita. Lina D’Incecco scrive i suoi versi ispirata dall’ attualità e dal passato. Lei vede le brutture del mondo e dell’umanità; percepisce le luci e le ombre del nostro universo e li riporta su carta. C’è ombra (sangue) ma nello stesso tempo c’è la speranza (verde) nella sua scrittura. Verseggiando sulla violenza, sui drammi come l’Olocausto, sugli attentati terroristici, sui barboni ai margini delle città, sui profughi che disperati sbarcano in cerca di salvezza ma che poi sono “ammucchiati” come fossero oggetti in campi che diventano ghetti, la D’ In-
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cecco riesce sempre a intravedere un filo di speranza, di positività. Se ci si fa caso le poesie dedicate al male, alle brutture della vita terminano, dopo toccanti descrizioni, sempre in positivo. La D’Incecco vede verde, vede in ogni occasione la rinascita, della quale ne sono il simbolo i giovani. In loro non si spegne mai la gioia e la voglia di vivere, grazie anche ad esempi di altruismo come Don Gnocchi, gli scout e lo stesso Cristo. La D’Incecco descrive il sociale, lasciando le porte della speranza aperte; non piange sul passato invano, non si lascia inghiottire dall’inettitudine di non poter far ormai più nulla: sa benissimo che li fuori torneranno ad esserci i profumi delle zagare e “un giardino di stelle”. Roberta Colazingari
GIANNICOLA CECCAROSSI UN’OMBRA NEGLI OCCHI Sinfonia in tre movimenti Adagio Adagio Meditativo Ibiskos-Ulivieri, 2016 - Pagg. 64, € 12,00 Il volumetto non poteva avere mallevadore migliore di Emerico Giachery, che ha sempre guardato alla poesia (ma non solo) in particolare come suono e come voce, fino a volersi definire, più che un critico, un “interprete esecutore”, termini certamente più vicini alla musica. Alla musica questa silloge di Ceccarossi si richiama fin dal sottotitolo Sinfonia in tre movimenti Adagio Adagio Meditativo - e eccellente musicista solista è stato suo padre Domenico Ceccarossi -. Non ci è chiaro se anche Giannicola pratica la musica, ma ne è senz’altro imbevuto - è uno, come afferma Giachery, “nutrito di musica sin dall’infanzia” - e dalla scarna scheda che lo riguarda apprendiamo che proprio con il padre, nel 1970, realizza il poemetto Per i semi non macinati per corno, voce recitante Arnoldo Foà, coro e orchestra d’archi, musica di Gerardo Rusconi. Giachery è senz’altro uno che la musica la sente e la vive e perciò ci dà di questo intenso volumetto (saremmo tentati di chiamarlo poemetto) una interpretazione magistrale, rivelando di esso tempi, ritmi, accordi, movimenti, tutto, cioè, “Il musicale flusso di interrogazioni e memorie”, sicché “Viene fatto di pensare al pur tanto diverso Proust che nell’episodio del tempo ritrovato si scopre “essere atemporale e dunque incurante dell’avvenire” “. I temi trattati da Ceccarossi sono molti, dall’ amore per l’altro da sé alla natura, dal sociale all’ interiore, dalla vita presente al pensiero-mistero dell’Aldilà, che ci spiega “perché i morti/non rac-
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contano i loro segreti”. Scrive in “Forse ci sarà un altro tempo per vivere”: “A me sembra che la vita sia chiusa in una scatola dove ogni oggetto si fonde in un’armonia celeste e le musiche irriconoscibili all’orecchio umano divergono si spagliano creando scale serafiche Ora il mio animo sereno e rassegnato contempla l’Oltre non con paura ma con attesa La morte è un breve cammino già disegnato e io guardo con fede a quest’altra vita Il passato è il mio presente il mio presente è l’inizio del mio futuro il futuro è pace e altri echi”. Marina Caracciolo - altra innamorata della musica - giustamente afferma (P. N. febbraio 2017) che qui, a dominare, è “il lento trascolorare della vita nella morte, e della morte in una rinnovata e perenne vita nell’Oltre”. Una poesia suggestiva, ricca di metafore (“l’ aurora/carezzata dalla fiamma del camino”), tantissime delle quali confondono sentimenti e natura (“angoli di cielo” che “riportano argilla nelle nostre bocche”; “il tuo sguardo/appeso a un laccio di glicine”), in un gioco affabulante, disincantato e intenso, come quel melograno che indugia “sulle nostre ombre”. Nell’invitare a leggere e a centellinare questo autentico breviario d’amore, chiudiamo riportando i versi che Giannicola Ceccarossi dedica proprio a suo padre e che sembrano alludere a un rapporto, tra loro due, non sempre idilliaco: “S’è stretto il cuore in mille ombre di platani ma so che m’ascolti Non dirò di ferite mai richiuse né di silenzi che hanno smagliato gli occhi Ora il dolore delle rondini s’è consumato e il tempo non ha più nebbie da schiumare Il tuo sguardo assopito allontana il muro che ci ha diviso” Domenico Defelice
MARINA CARACCIOLO OLTRE I RESPIRI DEL TEMPO L’universo poetico di Ines Betta Montanelli Bastogi Libri/Testimonianze, 2016, Pagg. 130, € 10 I lavori pubblicati in volume da Marina Caracciolo non sono molti, ma ciascuno è così intenso da non farsi facilmente dimenticare. Ecco perché, qualche volta, abbiamo nutrito un po’ di buona invidia pensando a poeti - come Gianni Rescigno o, come adesso, Ines Betta Montanelli - che hanno avuto la fortuna di interessarla a tal punto da costringerla ad investigare a fondo le loro opere. Sono
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lavori, quelli della Caracciolo, meditati e maniacalmente curati, nei quali vengono cercati e poi coscienziosamente sviscerati i temi e i diversi aspetti del dettato poetico. Nel caso della Montanelli, in Oltre i respiri del tempo, i temi principali sono “i tenaci affetti familiari, “l’accorata nostalgia per la spensieratezza dell’infanzia e della prima giovinezza, il fascino della Natura e della terra di Lunigiana”; “la magia del paesaggio”, insomma e i ricordi, il tutto in uno stile alto e fasciato di delicata armonia, aspetto che non poteva non sollecitare l’attento orecchio di un’ amante della musica come la Caracciolo. C’è l’incontro di caldi affetti, c’è sintonia tra l’ esegeta e la poetessa, entrambe amanti della musica, filo sottile che percorre i loro testi. La poetessa ricorda il “timbro delle stagioni” e come viene influenzata dal figlio Marco, divenuto, negli anni, “un eccellente musicista”, come ne sia contagiata da “la musica che divido con te”; la Caracciolo afferma essere, quella della Montanelli, “poesia immediata e vibratile”, dalla “profonda intensità espressiva”, a tal punto da doversi rapportare a Brahms (“la vera difficoltà, nel comporre [in musica come nella poesia], non sta tanto nel trovare le idee, quanto piuttosto nel far scivolare via quelle superflue”) e citare Ezra Pound (“Alcuni musicisti hanno il dono dell’invenzione ritmica, melodica. E così alcuni poeti”). Secondo Marina Caracciolo, ci son due tipi di poeti: quelli restii a pubblicare e quelli “più prolifici”, cioè “autori i quali ci tengono a pubblicare tutto ciò che scrivono, senza selezioni rigorose”. La Montanelli non è tra questi (e non lo è neppure la Caracciolo). “La sua è una personalità assai discreta, riservata, delicatamente in disparte” e anche di una tal riservatezza il saggio vuole farsi testimonianza. Oltre i respiri del tempo - che, in verità, avrebbe dovuto intitolarsi “Un barlume di luce viola” - è strutturato in due parti. La prima, “L’universo poetico di Ines Betta Montanelli”, consiste in una “Introduzione critica” e otto saggi - come otto sono le opere pubblicate dalla poetessa ligure -; la seconda riguarda il “Florilegio di poesie”, un’accurata scelta che al saggio critico fa da specchio. “Pur non potendo certo essere esaustiva, l’antologia - insieme ad alcuni altri brani riportati integralmente all’interno dello studio critico dedicato a ciascuna silloge - permette appunto - scrive la Caracciolo di cogliere gli aspetti intrinseci, inventivi e stilistici, di queste opere poetiche, e in particolare di ripercorrere l’itinerario evolutivo compiuto dall’autrice, che senza dubbio è una delle voci più eccellenti e originali della poesia lirica italiana di questi ultimi
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decenni”. Marina Caracciolo non si limita a dare il suo giudizio, ma, con la onestà che la distingue, riporta ciò che condivide e con chiarezza espresso da altri, da Giorgio Bárberi Squarotti, per esempio, Sabino d’ Acunto, Françoise de La Côte, J. Sanchez, Mariangela Rinaldi, Dalmazio Masini, Alberta Andreoli, Giovanni Sbrana, Luigi Medea, Giuseppe Benelli, Paolo Bertolani, Loris Jacopo Bononi, Ferruccio Battolini, Elena Bono, Maria Grazia Lenisa, Vittoriano Esposito, Ninnj Di Stefano Busà, Nazario Pardini, Stefano Valentini. Insomma, dimostra di possedere quel raro dono che piaceva tanto a Francesco Pedrina: il dono del riporto. La poesia della Montanelli - scrive ancora la Caracciolo - è “un multiforme microcosmo di pensieri, sentimenti e suggestioni” e i suoi temi, pur essendo gli stessi in tutte le sue opere, sono presentati ogni volta in modo nuovo, perché nella poetessa, via via, cambiano le sensazioni e le prospettive; ella è una “dolce vestale del tempo e dell’anima”. Nel passaggio di tante lune è tra i lavori più intensi e belli della poetessa: “le ventinove poesie che lo compongono paiono scaturite in un solo getto dalla mente e dal cuore della poetessa”; ne Lo specchio ritrovato, invece, c’è “una sorta di contrapposizione pagana e classica”. La Montanelli, cioè, riscopre e rinnova vecchi miti e in alcuni di quei personaggi - Dafne, Poseidone, Tesero e Arianna, Ermes - addirittura si riconosce. Gran parte della poesia di Ines Betta Montanelli è diaristica, autobiografica; in L’assorta tenerezza della terra, infine, Marina Caracciolo nota “la delicata poesia delle cose” e “la centralità della visione del paesaggio”. Domenico Defelice
SUSANNA PELIZZA VITO SORRENTI VISIONI CULTURALI Introduzione dei due autori, Postfazione di Giuseppe Manitta - Il Convivio Edit., 2016 - Pagg. 80, € 11 Nella “Introduzione”, scritta a due mani, vengono prospettate diverse concezioni artistiche e una poetica: “<Visioni culturali> - scrivono entrambi gli Autori - auspica un nuovo lettore: quello che prenda coscienza della realtà mediante la cultura, quello che si sveglia dal torpore dell’indifferenza, guarendo dal veleno della banalità mondana, che immobilizza la coscienza, volta verso l’egoismo, con la melodia “aulica” di una cultura rinata, che riabilita e rieduca”. Noi, poetiche non ne abbiamo mai enunciate, né mai ci abbiamo corso dietro.
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Corrisponda, o meno, a tali canoni il contenuto delle venti poesie incluse, è certo che il libro si presente inusuale, giacché ogni brano è, dal Sorrenti per la Pelizza e dalla Pelizza per il Sorrenti, presentato con “un commento iniziale” e “un’analisi testuale”. Dei due autori, Vito Sorrenti è il più contenuto e i suoi versi sono ricchi di musicalità, di rime e assonanze libere, spontanee (“...sognava una colazione/con avanzi di pane/e un sorso di vino,/quando un cane...”), che li rendono assai gradevoli, in un variare di metri, dal decasillabo, all’ottonario, al quinario : ”Amor di te m’attrista con la musica mesta delle foglie ingiallite ora che tutto ritorna sotto un’altra luce e ridesta la grazia dei giorni favolosi e le obliate voci del perduto paradiso ma non riporta l’ambrosia del soave sorriso né il miele racchiuso in quelle tue labbra di rosa.” Sorrenti riesce bene ad amalgamare natura e sentimenti, a volte in “uno schema epico classico”. Da rilevare anche la sua nota sociale. In “Compianto” egli bolla con l’appellativo “iene” - ma, altrove, anche “squali del profitto” (p. 25), “sparvieri” - tutti quei datori di lavoro che sfruttano i dipendenti, nutrendosi del loro sangue, perché le tante “morti bianche” sono sempre il frutto della loro avidità. Sorrenti, come già rilevato, è in genere conciso; nelle poesie più lunghe - come “I derelitti”, “Il cane del barbone” per esempio -, dal contenuto totalmente sociale, il dettato si fa prosastico, vinto dalla virulenta denuncia verso una società padronale spietata ed arrogante. Susanna Pelizza ha componimenti classici per struttura e metro, nei quali - scrive il commentatore (Vito Sorrenti) - “non sempre i versi sono metricamente corretti e rappresentato quelle variazioni sul sistema come segni di una poesia “personalizzata” sullo schema”. Anche se poi aggiunge che la “Pelizza dà vita al sonetto acrostico, facendolo rivivere dalla sua immobilità”, noi rimaniamo del parere che la poesia acquisterebbe altra efficacia se dagli schemi si liberasse, giacché - e condividiamo - essa dovrebbe essere completamente “libera non avvinghiata e imprigionata dalle briglie della sovrastruttura”. Ma non vorremmo suscitare equivoci. Noi amia-
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mo la poesia in strutture e metri codificati, ma purché tali regole non freddamente utilizzate, senza anima, insomma. Condividiamo quanto asserito da Maria Pina Natale (L’altro Novecento - vol. VIII di Vittoriano Esposito): “...quando bisognava osservare le regole, queste supplivano, sia pure parzialmente, all’assenza di poesia. Ora che di regole non ce ne sono più, la poesia deve essere solo poesia, dettata da sentimenti superiori, e che sappia levitare la realtà sia con un linguaggio adeguato, sia con ispirazioni nobilissime e trascendenti”. “Sentimenti da lievitare la realtà”, sia quando si scrive seguendo schemi, sia quando gli schemi mancano. Abbondano, nella Pelizza, figure, richiami mascherati o palesi, che si rapportano ai miti, con espressioni e lacerti classici persino nei titoli (“Italia mia”); contenuti e strutture - ripetiamo - non comuni ai nostri giorni, ma che rispondono, a quanto pare (sperando di non sbagliarci), alle esigenze del cosiddetto “poeta culturale” o “Poetica del Culturale”. Un tale poeta ha l’imperativo categorico “di promuovere, ancora, dei valori in cui credere”. Le poesie della Pelizza sembrerebbero “retoriche”, scrive ancora il commentatore, ma precisa che “In realtà la retorica è un mezzo con cui si scongiura l’anatema dell’intimismo e si rende partecipe la “collettività” del senso universale trasmesso”. Anche Susanna Pelizza ha poesie nelle quali predomina il sociale, come la guerra, come la prostituzione. Ecco, per esempio, “Cronaca di una scarpa”: “Una povera pantofola rotta un tempo scarpa audace di pelle nera vellutata fu usata, sfruttata, logorata finì nel luogo dove giace dentro una scatola vuota fu gettata la sua breve vita, seppellita nella fossa in pace di lei non rimase nulla e chi seppe ancora tace...” Domenico Defelice
MARINA CARACCIOLO OLTRE I RESPIRI DEL TEMPO L'universo poetico di Ines Betta Montanelli Bastogi Libri/Testimonianze, 2016, Pagg. 130, € 10 Con un esergo in versi che recita Le mie radici.../ vanno oltre le acque dei fiumi / oltre i respiri
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del tempo e una dedica a Giorgio Bárberi Squarotti, in cui si dichiara grata del suo alto insegnamento, Marina Caracciolo ha pubblicato, allo scadere del 2016, per conto della BastogiLibri di Roma, Oltre i respiri del tempo. L'universo poetico di Ines Betta Montanelli. Un volume di 130 pagine, impreziosito in copertina da un dipinto di Telemaco Signorini, intitolato Sulle colline di Settignano, nel quale l'illustre artista ritrae la giovane figlia adottiva, Fanny, intenta a lavorare all'uncinetto, sullo sfondo di una campagna serena “che trasmette un senso di calma e di staticità”. L'opera si suddivide in due parti: una prima, dal titolo L'universo poetico di Ines Betta Montanelli che comprende otto brevi saggi dedicati alle sue sillogi, a partire dalla raccolta Dal profondo, e poi, a seguire, Sete di stelle, Trasparenze, Radici d'acqua e terra, Nel passaggio di tante lune, Il chiaro enigma, Lo specchio ritrovato, L'assorta tenerezza della terra; e una seconda, Florilegio di poesie, consistente in una cinquantina di liriche scelte fra tutte le raccolte della poetessa. Il tutto attraverso commenti in proiezione storicistica, già a partire dall'introduzione critica dove la Caracciolo traccia un ritratto unitario della Montanelli, descrivendola una poetessa dalla “personalità assai discreta, riservata, delicatamente in disparte” che “non ama i clamori della ribalta, la risonanza d'una plateale notorietà” (11); e dalla parola assolutamente integra, lontana da “arditi sperimentalismi… sofisticherie semantiche e funambolici artifici prediletti da certe avanguar-
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die del Novecento” (13). Ma la studiosa non si limita solo a queste sue personali osservazioni, ne tiene in gran conto anche altre, a cominciare da quelle di Giuseppe Benelli che lega l'ispirazione della poetessa ai ricordi, alle emozioni e al forte legame della Val di Magra (11); e di Giorgio Bárberi Squarotti, per il quale “La poesia di Ines Betta Montanelli è un esempio intensissimo e altissimo di discorso della memoria”, dove “racconto, evocazione, vicenda, luogo di esperienze del tempo perduto... sono fatti esistere di nuovo per il tramite della parola, luminosa, limpidissima, sicura ed essenziale...”, capace di reggere a un ampio ventaglio di temi, come “la pittorica e appassionata rievocazione della terra di Lunigiana, la rimembranza degli affetti e della giovinezza perduta, il pensiero che la vita fugge e non s'arresta un'ora, la sottile malinconia e i vaghi rimpianti, l'accettazione del dolore, il tormento dell'ignoto, il conforto del divino” (12). Insomma, una parola in grado di resistere a una poetica che la Caracciolo ritaglia sulla Montanelli, ora selezionandola qua e là tra le sue poesie; ora deducendola dagli interventi dei numerosi critici che si sono interessati alla sua poesia, tra i quali: Pasquale Matrone, secondo cui, il suo canto “ha il pregio di saper raccontare la vita con un linguaggio asciutto e intenso” (12); Maria Grazia Lenisa, che definisce il paesaggio della poetessa “come geografia intima” (13); Isabella Tedesco Vergano, secondo la quale “il discorso poetico di Ines si snoda in una continuità concettuale e immaginifica, che risponde alla sua coerenza intellettuale ed etica e alla sua spiritualità oggettivate in un ininterrotto flusso creativo” (15); e Nazario Pardini, che segnala come “un'intera esistenza (abbia) il fascino e la virtù di tramutare in arte ogni sfaccettatura del quotidiano vivere” (15). E proseguendo, poi, nei singoli saggi, la studiosa riporta altre autorevoli voci, come Sabino D'Acunto, che fa consistere la sua poetica “in un eterno presente che è spontanea ricerca capace di accrescere in lei quello che il passato è stato in grado di insegnarle e quello che il futuro nella sua intuizione poteva anticiparle” (17); Françoise de La Cote, che coglie “il ritmo antico e nuovo delle sue poesie” che la rendeva poetessa dell'oggi e pure osservava come “il suo amore verso la forma pulita, la sua scelta dei contenuti, che dicono anche la sua personalità sul piano umano, mirano ad un fascino non ambiguo ma sempre segnano una disciplina interiore ed anche una difesa della tradizione” (17-18); Mariangela Rinaldi, che intuisce come la poetessa sia "indubbiamente capace di apportare un grande senso di dignità nella nostra
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arte poetica occidentale e italiana", per "quel suo saper essere sempre vera" (18); Dalmazio Masini, che “apprezza il nitore dei versi” (21); e Giovanni Sbrana, che riconosce all'autrice “una sua innata disposizione ad esplorare i confini del sentimento per trasportare su carta le più sottili ed inafferrabili dolcezze” (25). Quello che colpisce, allora, in questo saggio, è il commento sempre attento e puntuale su ogni singola raccolta, grazie a una lettura sincronica e diacronica a un tempo, che consente alla Caracciolo, da una parte, di cogliere i temi fondanti della poetessa che non mutano negli anni, quali: i tenaci affetti familiari, l'accorata nostalgia per la spensieratezza dell'infanzia e della prima giovinezza, il fascino della Natura e della terra di Lunigiana (26); dall'altra, di evidenziare come negli anni cambi il suo modo di presentarli e come “l'itinerario creativo di questa “dolce vestale del tempo e dell'anima”, che lungo un cammino di quasi trentacinque anni, fra bagliori e penombre, sogni e realtà, ha dato forma di squisita poesia al suo trepido indagare negli enigmi insoluti del vivere” (49). Chiudono il testo, prima, un'esaustiva nota biobibliografica sulla poetessa, con un'ampia lista di nomi che hanno fatto la sua fortuna critica, tra i quali Giorgio Bárberi Squarotti, Mario Luzi, Vittoriano Esposito; e un ricco elenco di premi e riconoscimenti, come: il Gran Premio Histonium d’oro di Vasto (CH), il Concorso Penisola Sorrentina di Sorrento, il Concorso di Raidue Ci vediamo in Tv di Paolo Limiti con la pubblicazione della poesia premiata (Amare la terra) su Lo Specchio de La Stampa di Torino, il “Premio alla Carriera” nel Concorso Roberto Micheloni di Aulla in Lunigiana nel 2010; e poi, in quarta di copertina, una scheda dedicata a Marina Caracciolo, scrittrice e saggista di indiscusso valore, milanese di nascita, ma vissuta sempre a Torino, dove ha conseguito la laurea con lode in Storia della Musica e collaborato, in Casa Utet, all'opera in 6 volumi Musica in scena. Storia dello spettacolo musicale e al Deumm, Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti. Un'autrice che ha spaziato dalla letteratura alla musica, con al suo attivo saggi come Gianni Rescigno: dall'essere all'infinito e Brahms e il Walzer. Storia e lettura critica; prefazioni di libri di poesia, traduzioni dal francese e dal tedesco, vincendo premi per la saggistica, la poesia e la narrativa edite e inedite; e per l'insieme della sua attività culturale, il “Premio alla Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri”, nel 2005. Giuseppe Leone
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ANTONIA IZZI RUFO SENSAZIONI Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2016 Apprezziamo sempre la poesia di Antonia Izzi Rufo, questa volta meritevole del 1° Premio Città di Pomezia, che vediamo in “Il Croco” di ottobre 2016, con la silloge “Sensazioni”. Tutti questi versi sono pervasi dalla nostalgia e dal ricordo del compagno di tutta la sua vita: “..Emozione mi prende/nostalgia d’affetti/ perduti…/Emerge nel riso/il ricordo/batte pianto il cuore.” Non mancano, però, le consolazioni dai suoi famigliari, fra cui, bellissima e trepida, l’attesa, a Natale, della nascita del nipotino. Nonché l’ ammirazione per la natura che circonda il paese dove la Nostra vive: “Il rosa del cielo/ riflesso nel lago/ appariva più rosa/ al primo imbrunire./ Ed era un incanto.”; “Pensieri leggeri/ vestiti di rosa/ inondati di brio/ trainati dal sogno/ in un mare d’azzurro.”: Dove trovare liriche affascinanti e delicate come queste, pur nella loro sinteticità?E il suo caro Yuky, proveniente dallo smog della città, quando la va a trovare, le fa apprezzare ancor più la salubrità di quel meraviglioso paese sulle Mainarde che, a volte e per l’attuale propria solitudine, invece, le sembra una prigione. Ma anche il soffrire – e sembra una contraddizione - le infonde la forza di vivere: “…Ogni giorno mi porto/in quel tratto di strada/che insieme calcammo/per un sessantennio/e lacrime verso/ di nostalgia./E’ ciò che dà un senso,/ancora, alla mia vita.” Intanto, pur se a fatica, continua a cercare lo stupore del fiore che sboccia a primavera; a canticchiare quel motivetto sullo scricchiolare, ai suoi passi, delle foglie in autunno; ad immergersi nelle metamorfosi delle stagioni: sempre per evadere e fuggire i tristi pensieri. Alla domanda che ella stessa si pone, se ancora può sperare, troviamo pronta la sua risposta: “E quando, rigenerata,/ nell’acredine torno della vita,/ ricominciare posso, a lottare.” Non solo ancora qui, la Poetessa ci regala la bellezza della sua poesia, ma ci dà una saggia lezione di vita. Grazie! Maria Antonietta Mòsele
FILOMENA IOVINELLA ODI IMPETUOSE Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2016 “Il Croco” –Quaderno letterario di PomeziaNotizie di febbraio 2016, ci presenta Filomena Io-
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vinella con le poesie “Odi impetuose” a cui è stato attribuito il 2° Premio Città di Pomezia 2015. L’Autrice ci anticipa che si tratta di Odi piacevoli, sia terrene che di fantasia, aeree, in cui si specchia la sua anima. Ella, infatti, esprime qui un’alternanza di sentimenti, gioiosi o tristi, dovuta alla presenza o all’ assenza dell’amato, ed anche alla schiettezza, o meno, del di lui comportamento: “fiamme di complicato fuoco//…del mio cuore latente../ e tu/ legnoso rumore guidi le mie fiamme parlanti” e reciti come “atto teatrale”. Differente anche il comportamento di lei. Infatti, quando, dopo lunga, estenuante attesa, egli ritorna, “successo di cuore e di corpo/ regnerà sovrano”; ed ancora: “Ogni volta che arrivi/ io ti veglio mia pazzia.” <Tu vorresti ipnotizzarmi, io però so difendermi, e “oltrepasso il tuo sguardo.” Poiché il cuore è la cosa più preziosa di tutto – l’ Autrice continua, in prima persona - se durante la tua lontananza mi viene “l’irruente voglia di te”, faccio fatica a calmarmi. E a volte, “mi lascio traslocare/..tra le mie odi/ sopra la nuvola/ dell’ode più bella/ avvolta nel prodigio.” <Ancora: io mi amo e mi odio contemporaneamente; vorrei conoscere di più me stessa, “il sono/ che mi manca”. Ad un certo momento, i sogni della Poetessa si infrangono nella “magmatica intensità di un battito già persino andato//… e nella morte muore e muore.” Allora aggiunge:- il nichilista, “con il mondo del suo niente” vuole annientare gli altri, ma io troverò la mia “riscossa” che è “fuoco ardente di passione e di sogno”. Le sue Odi , come ella dice, sono fatte di “visioni celestiali e tormenti illuminanti”. In ogni caso, ella desidera la felicità, vera o fantasticata che sia. Ho trascritto quasi tutto nella persona dell’ Autrice, per evidenziare la sua grande capacità di esternare con sincerità i suoi sentimenti e i suoi stati d’ animo; e come ella riesce, volitiva, a superare quelli dolorosi. E’ una poesia fluida, ricca di immagini originali. Maria Antonietta Mòsele LINA D’INCECCO OMBRE E LUCI Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2017 Il Quaderno Letterario di Pomezia-Notizie “Il Croco” di gennaio 2017, ci presenta Lina D’ Incecco che, con le poesie “Ombre e luci” ha ottenuto il 2° Premio Città di Pomezia 2016. Infatti, l’Autrice inizia – come dal titolo - a pre-
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sentarci le “ombre” della nostra società: atti terroristici nelle città, addirittura approfittando di momenti delle feste di piazza (qui ella ricorda in particolare i fatti di Parigi), mietendo vittime e seminando terrore fra la gente. Passa quindi a parlare della rivolta dei lavoratori africani a Rosarno, i quali, armati di spranghe e bastoni, hanno incendiato campi e raccolto, per ribellarsi allo sfruttamento, per combattere – ahimè invano – contro il Drago, e salvare la loro dignità di uomini: intanto “marciscono sugli alberi i frutti”, ma niente cambierà. Sensibile com’è, la Poetessa parla dei campi dei rifugiati e dei profughi considerati costoro “inermi ingombri”, mentre “l’Occidente disunito/ non trova soluzioni./ Paesi ostili all’accoglienza/ hanno chiuso le frontiere”: viviamo proprio in una “società dello scarto”, ella dice. Altrettanto la addolora (come spero sia di quanti hanno un cuore) - ma lo guardo dei passanti è indifferente -, il barbone: “riversato sulla panchina//..Lui dalla vita si è licenziato/ non ha doveri né diritti//..Cellula perdente/ di una società in affari,/ non serve a nessuno,/ a nessuno fa male”: solamente Dio lo premierà… Struggente la poesia <Era maggio> che parla di un amore dietro le sbarre di una prigione, dove “Lei parlava felice/ lui l’ascoltava, taceva/ e guardava lontano…” Fortunatamente, la società non è tutta terrore e sfruttamento; è anche composta da giovani sani, come gli Scouts che amano la natura e la giusta compagnia; dai gruppi che amano la musica e la suonano, fra cui i metallari che rappresentano gli idoli, la “foga” e l’entusiasmo di tanti giovani; è composta da ragazze normali ed anche da certe ragazze snob che, tutte attillate ed eccentriche, fanno sfoggio di esibizione di sé e di una fierezza quasi guerriera, come fossero delle Valchirie. Ma le luci più belle sono date dalla natura (vedi la poesia <Il crepuscolo>), ed ancor più da certe persone speciali come Don Gnocchi, recentemente beatificato alla presenza di quelli che allora erano stati i mutilatini e gli orfani che egli aveva aiutato. Per non parlare della luce della fede che porta tante persone nei santuari (qui viene ricordato Lourdes) a convertirsi, a perdonare e a chiedere perdono, e a ricevere tante grazie. Ma la luce più bella in assoluto è la Risurrezione di Gesù Cristo “Tempo di grazia,/ di redenzione e di pace./ Incanto di un mattino/ uscito dal buio della notte/ e una donna trepida, gioiosa/ che porta al mondo/ il primo annuncio.” Davvero importanti tutte le osservazioni e le riflessioni che l’Autrice, abilmente, ha saputo mettere in poesia. Maria Antonietta Mòsele
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UMBERTO BOCCIONI ATLAS A cura di Agostino Contò e Francesca Rossi Scalpendi Editore, Milano, giugno 2016 euro 25,00 Si tratta di un prezioso Catalogo, un Atlante di immagini e di ritagli di giornale che Umberto Boccioni ha raccolto con intenti di differente natura, per forza magnetica di forme e segnali, per figure e sfondi onde far orientare la propria creatività, per approcci d'improvvisata e meditata selezione, sulla quale poi soffermarsi compiutamente. Riporto dal retro di copertina: “Emersi dal Fondo CallegariBoccioni della Biblioteca Civica di Verona, tre fascicoli composti da Umberto Boccioni sembrano rivelare la volontà di scrivere una propria autobiografia in divenire. La tecnica narrativa di Boccioni espone nel primo fascicolo i propri riferimenti culturali formativi, in una sorta di diario visivo o di atlante iconografico composto da ricordi e fonti visive databili tra il 1895 e il 1909; nel secondo considera l'iniziale fase futurista e nel terzo la scultura. L'insieme dei tre fascicoli montati da Boccioni narrano una storia attraverso i ritagli di immagini di sculture, di pitture, di ritratti di artisti, di incisioni, di francobolli e tanto altro, ma anche ritagli di articoli, immagini dei propri lavori tratte da periodici e libri di varia natura, il tutto montato di pagina in pagina, attraverso la tecnica del collage, costruendo così un discorso narrativo unico che appare sviluppato senza soluzione di continuità”. Dalla Prefazione curata da Antonello Negri, il volume di oltre 200 pagine si snoda in sezioni che illuminano la scelta originalissima e la presentano con grande competenza: 'Dalle parole alle immagini: l'Atlante della memoria di Umberto Boccioni', a cura di Francesca Rossi, che offre il suo speciale contributo anche nel successivo 'Atlante delle immagini (1895-1909): regesto', per poi approdare alla sezione 'BOCCIONI E VERONA Le carte del Fondo Callegari-Boccioni nella Biblioteca Civica di Verona', curata da Agostino Contò. Conclude l'opera 'ATLAS 1910-1915 - Regesto delle cartelle Serata di Roma 1913 e Scultura-Pittura 1912-1915', sempre a cura di Agostino Contò e la 'Appendice 1916-1933'. A conclusione dell'opera, incontriamo circa una decina di pagine dedicate alla Bibliografia che consta di ben 270 riferimenti ai ritagli di giornale, italiani e stranieri. Perché il filo conduttore delle mie ricerche si sostanzi meglio in dettagli inaspettati, trovo riportati a pagina 187 e 188, in tinta sabbia su sfondo ocra scuro i ritagli di giornale: 'Bilancia 13 XII 1913', inciso scritto a mano dal Boccioni stesso in inchio-
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stro nero e che va a segnalare per la 'Critica Letteraria' le due colonne a firma di Federico De Maria dal titolo 'La dinamica plastica (L'esposizione futurista a Roma)' e poi ancora a pagina 188 lo stesso articolo apparso su 'L'Ora' 8 Dicembre 1913, sempre a firma del De Maria. Affinché questa Mostra nella sua interezza possa apparire anche in degni spazi a Verona, dopo la sua conclusione al MART di Rovereto, mi abbandono a citare il nucleo centrale del dettato di De Maria su Boccioni e che ha suscitato l'attenzione del giovane pittore, mostrando cura nel ritagliare le colonne corrispondenti, segnalarle a mane e dar loro così futuro, come tutto questo prezioso materiale può ben dimostrare. “...Quel che più interessava oggi, non era la conferenza, né le poesie futuriste, che già avevamo letto su “Lacerba” ma la scultura di Boccioni. A prima vista gli undici lavori esposti nella Galleria futurista producono un effetto curioso. Avete mai visto seppie e calamari fatti a pezzi e infarinati per essere fritti? Quasi tutte le statue futuriste sembrano grovigli di enormi segmenti di quei molluschi saporiti. Ma guardando bene, voi cominciate a distinguere qualche cosa a ravvisare le intenzioni di qualche cosa. Boccioni ha voluto, tra l'altro, fare la scultura del movimento. Fino a quanto si può prestare la pietra, la materia inerte, a rendere questo moto, non dico materiale soltanto, ma riflesso, sensoriale, cerebrale? Nella pittura, fatta di colori che di per sé hanno delle vibrazioni, noi possiamo in certo qual modo cogliere il moto, ma come coglierlo nella scultura pochissimo vibrante, perpetuamente statica che da un atteggiamento solo può rendere tutta un'anima, una figurazione? Noi vediamo, dunque, in questa scultura, applicato lo stesso procedimento che i futuristi applicano alla pittura: la scomposizione; scomposizione che obbliga l'osservatore a una ricomposizione, a una sintesi. Ma, ripeto, mentre nella pittura ci aiuta il colore, nella scultura noi siamo obbligati a uno sforzo maggiore che non approda a nulla, o magari, che ci fa intendere l'intenzione dell'artista, ma che non ci fa mai esclamare: egli l'ha completamente raggiunta. Una statua, per esempio, vuole rappresentare una donna che guarda in un cortile. L'artista volle rappresentare in essa anche le sue sensazioni, gli effetti di luce sulla sua persona, gli oggetti che la circondano. L'intenzione è bellissima. Ma come è stata tradotta in arte? La luce spacca e tagliuzza quella faccia, il torso per metà è tutto scartocciato, come scorticato, sulla testa è un pezzo di casa con le persiane socchiuse, da un braccio scappa fuori un pezzo di ringhiera. Tocca a noi, secondo lo scultore, rifare dentro noi stessi la sintesi e rivedere tutto ciò
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come una rappresentazione compiuta. Ancora, “Muscoli in moto”. È una massa incerta, che s'intende voler essere un corpo umano che cammina. Snodamenti, attorcimenti, viluppi, linee estranee ed aritmetiche, muscoli che s'ingrossano e si moltiplicano come malati d'elefantiasi. Sembrano pezzi anatomici di animali diversi, rimescolati e mai riuniti da una fantasia burlesca. Ma il moto? Non c'è. C'è un'architettura cerebrale, una geometria soggettiva, manca il brivido, la commozione, il sentimento: sentiamo lo sforzo inaudito dell'uomo che vuol far rimuovere la pietra, non sentiamo la forza calma di Fidia che disse all'Athena: 'sii dea!' o di Rodin che disse all'uomo ignudo: 'cammina'! Ma questo brivido manca completamente? Quest'opera d'arte è irreparabilmente fallita? Quest'artista non è un artista? No. A uno a uno quei muscoli vibrano. Indubbiamente in ciascuno di quei pezzi anatomici v'è un pezzo d'anima dello statuario che palpita, che dà sensazione di forza non comune. La modellatura di quella faccia tagliuzzata, fendula, impressiona, reca un'impronta di vigore quale di rado si trova nei soliti modellatori. Pare, qua e là, da un braccio, da un bicipite, da un ventre, che un Titano abbia cominciato ad abbozzare un colosso, meraviglioso di bellezza e che poi un fanciullo inesperto sia sopravvenuto divertendosi a finire malamente il resto. Boccioni si rivela pur sempre un artista, che non ha ancora veduto tutto, che non ci ha dato ancora l' opera sua, forse geniale, forse gigantesca, che lo ingegno suo ci promette. E dicendo questo di lui non intendo emettere un giudizio che ad alcuni sembrerà futurista e ai futuristi sembrerà passatista. No. Noi diciamo all'artista: prendete qualunque materia volete, fate quel che sentite di fare, nessuna limitazione, nessuna regola, nessuna falsariga, niente: fate arte, fatemi un'opera bella, un'opera che, mi faccia saltare, commuovere, esclamare: Per Dio! Un' opera che sia come un cazzotto nel ventre, ma fatemela!.... Federico De Maria' (Cat. cit. Umberto Boccioni, ATLAS, pag 187-188). Questo Catalogo ha avuto la sua pubblica uscita in occasione del centenario della morte dell'Artista, avvenuta a causa di una improvvisa caduta da cavallo il 17 agosto 1916, accompagnando la Mostra 'Umberto Boccioni (1882-1916). Genio e memoria', a Palazzo Reale in Milano, dal 23 marzo al 10 luglio 2016, poi al MART, a Rovereto dal 4 novembre 2016 al 19 febbraio 2017 e, ci dice la studiosa Francesca Rossi, “...mostra alla quale si è esposta una parte significativa dei materiali individuati nella biblioteca veronese...” (op. cit. pag. 31). Antonello Negri suggerisce nella Prefazione: “... L'importanza della conoscenza dei 'contorni', per la
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cucina di Boccioni, è attestata dall'orientamento d'indagine di alcuni dei suoi maggiori studiosi attuali. Con la sua filologia visiva Flavio Fergonzi ha aperto la strada della ricostruzione del sistema di modelli al quale Boccioni poteva attingere attraverso le riviste d'arte che guardava; Federica Rovati si è concentrata su 'Beata solitudo, sola beatitudo', smontandone l'architettura iconografica e riportandone i diversi elementi a fonti visive per tali aspetti analoghe a quelle raccolte dal nostro album... Lo sguardo dell'artista è il filo conduttore di tale metodologia di ricerca. A essa credo vada ascritta l'indagine condotta intorno all'album e alle carte veronesi, riportati alla lkuce ed esemplarmente indagati da Agostino Contò per la parte bibliografica; e studiati come si deve da Francesca Rossi per quella iconografica” (Cat. cit. U. Boccioni, ATLAS, pag. 29). Con Agostino Contò un dialogo diretto, su questi e su tanti altri temi. Ilia Pedrina LINA D’INCECCO OMBRE E LUCI Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2017 Difficile non sentirsi coinvolti, non scorgere anche i propri tra i “mille occhi increduli / spettatori dei tragici eventi” di cui Lina D’Incecco non è mera spettatrice ma sceglie di farsi portavoce; e difficile, a dire il vero, è non sentirsi come foglie “gialle, secche, accartocciate” che “stanziano sul marciapiede” ormai avvezzi, come siamo, ai tanti drammi che dilaniano il nostro tempo; e per questo, forse, neanche più tanto “increduli”, ci ritroviamo semplicemente spettatori, un po’ smarriti certo “fra il tramestio convulso / delle notizie sui media” ma sostanzialmente muti, seduti sugli spalti di questo mondo divenuto “arena di una umanità atterrita”, seduti scomodi a guardare, limitandoci a constatare amaramente la nostra impotenza, a smaltire anche noi – come il barbone (pag.11) – “i nostri giorni in uno strano nirvana.” “Scende sul quartiere [come su di noi] / un velato grigiore, / un sopore l’avvolge [ci avvolge], / tutto è inerme / e senza rilievo. / (…) / In questa opaca levità / [siamo] un assorto vagar /di ombre nell’ ombra.” (Crepuscolo, pag.16). Queste le atmosfere che si respirano nella silloge della D’Incecco; tante ombre, tante anime che si muovono disorientate in questo momento storico incerto che fa spavento, e qualche spiraglio di luce che s’insinua timido - come la melodia nelle canzoni dei Tokio Hotel (pag.13) - “in una foresta di ritmi pesanti / che scandiscono ansie e paure.”
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Seppur flebili, poiché sovrastate da ombre ampie, le luci che irradiano la raccolta costituiscono in effetti la sola ancora di salvezza per chi come Parigi non si lascia piegare (Quella sera a Parigi), per chi ripercorso l’amaro calvario s’avvia al suono di violini verso la Pace eterna (I giorni della memoria), per chi “cellula perdente / di una società in affari” avrà giustizia nel Regno di Dio (Il barbone), e per chi, come l’autrice, nonostante tutto, non ha perso la capacità di trasfigurare un “angolo angusto / racchiuso tra pareti dimesse / con l’umido di muschio,” in “un giardino d’oriente / di amena bellezza” (L’ibisco, pag.15) e oltre “l’umor grigio dell’ asfalto [che] rispecchia un cielo di nubi” (Foglie secche, pag.17), sa dipingere un cielo come un giardino di stelle, inebriarsi d’aria di rose, donare ai pensieri la consistenza di petali leggeri. (Era Maggio, pag.18). La poetessa ha fede, anela al “incanto di un mattino / uscito dal buio della notte” (Primo annuncio, pag.22); “Verrà la primavera – scrive – Riporterà il profumo delle zagare.” Ma nel frattempo “marciscono sugli alberi i frutti” (La rivolta di Rosarno, pag.9); nel frattempo “tutti hanno [abbiamo (anche se per ragioni diverse ovviamente: i profughi stremati, sconfortati, “ammucchiati” al di là della rete, noi sbalorditi, sconcertati, fermi al di qua)] lo stesso sguardo / di stanchezza, abbandono, attesa. / Come inermi ingombri / giacciono [giacciamo] qua e là” mentre “il pianto di un bimbo / nelle braccia di una madre / corre lungo i fili metallici / di una rete inesorabile. / Dolente, fragile richiamo / alle società dello scarto.” (Campo di rifugio, pag.8); consoliamoci (per così dire): almeno quel bimbo piange cullato dalle braccia della madre; non così è stato, nei campi di concentramento durante la seconda guerra mondiale, per tanti bambini strappati al calore dolce e rassicurante del viso materno; anche per loro, “una moltitudine / di uomini, donne, bambini, / (…) / ombre dolenti e silenti”, c’è spazio tra i componimenti-testimonianze della silloge della D’ Incecco, vincitrice del 2° Premio Città di Pomezia 2016, che assume non solo valore altamente sociale ma anche storico. Passato e presente si intrecciano; dai lager nazisti ai campi di rifugio, dagli attentati di Parigi ad opera dell’Isis alla rivolta di Rosarno “una lotta senza vincitori né vinti” dove tutti sono “vittime di un sistema iniquo” -, i drammi della nostra epoca sono scandagliati con evidente intento di immediatezza comunicativa e chiarezza espressiva che caratterizza lo stile quasi giornalistico e scevro di retorica dell’autrice, e non è casuale, probabilmente, la scelta strutturale di porre il componimento “I giorni della memoria” subito prima di “Campo di rifugio”: la storia passata e la storia presente
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cioè, pericolosamente vicine, accomunate da quella sferzante “bufera delle leggi ingiuste, / del pregiudizio e dell’odio”, come sempre mascherate (neanche tanto abilmente) da provvedimenti necessari in materia di “sicurezza”. “Poesia sociale, intensa, non gridata” scrive Domenico Defelice nella Presentazione alla raccolta; poesia attualissima, che riflette e fa riflettere, oggi che “l’Occidente disunito / non trova soluzioni” e “Paesi ostili all’accoglienza / hanno chiuso le frontiere” - più che mai. Claudia Trimarchi
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delusioni pungenti e dolorose. Ma com’è triste il tempo che scolora le cose ambite il dolor il piacer. Di tenue oblio riveste ogni cosa. Tutto passa, mia cara, anche l’amore. Finì l’incanto breve in un baleno. Spazzò il vento lontano i nostri sogni. Enrico Ferrighi Da: Carmina - Ed. Pomezia-Notizie, 1983.
IL GABBIANO Vola il gabbiano sgraziato e ululante nel cielo in tempesta si posa su uno scoglio e poi riprende il volo inquieto tra le nubi cerca in basso e infine trova tra le immondizie umane una fugace gioia. Torna verso il mare bianco di schiuma cerca la sua natura volteggia tra gli alti pennacchi e gli sembra di essere nei grandi spazi ma ...brutale la fame lo assale e torna a fiutare i resti putridi e fetidi degli uomini serpenti. Fiorenza Castaldi Anzio, RM
“FINIS” Or ti sento lontana, più lontana, quasi che tu sia stata e più non sei. Svanisce nella nebbia il tuo ricordo, come il fiume che corre nella valle. Sei uscita per sempre dal mio cuore, né più soffre né s’agita il mio spirto. Sei sparita come foglia portata giù dal vento, or qua or là, nel tardo autunno, senza un rimpianto e senza nostalgia. Tutto è sepolto ormai, tutto finito, chiuso nel tempo come in una morsa. Follie della vita, inutil gioco, promesse poi cadute false o vere,
D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE PATRICK MODIANO - Riceviamo da Corrado Calabrò, Roma (23/1/2017): Caro Domenico, molto centrato l’articolo di De Rosa su Modiano. Io non sono un estimatore di Modiano; trovo che molte delle evocazioni rinvenute nella sua scrittura gli siano arbitrariamente attribuite. Ma ho apprezzato molte delle giuste considerazioni di De Rosa. Corrado Calabrò *** ROSSANO ONANO, CHIARO, SCHIETTO E SINCERO - E-mail dell’1/2/2017 da Claudia Trimarchi. Carissimo Domenico, (...) Che sorpresa trovare la dodicesima e ultima puntata della tua "Italia di Silmàtteo", dopo due anni dall' undicesima! Fa sempre bene, credo, mettere un punto a qualcosa che era rimasto incompleto. Sono contenta per te. Anche queste "puntate" non sareb-
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be male raccogliere in volume, come hai fatto con "Alleluia in sala d'armi"; penso che ne verrebbe fuori un bel lavoro. Ricchissimo comunque, come sempre, questo numero [gennaio 2017] e i due articoli di Onano la fanno, per così dire, da padroni. Mi piace molto il suo stile, lo trovo chiaro, piacevole, mai noioso ma interessante e scorrevole, condito da un'ironia sana che non guasta mai e che mi sembra essere in lui una dote innata più che frutto di un lavoro a tavolino; colgo nella sua abilità comunicativa un tratto di genialità. Ma soprattutto è schietto e sincero, e per questo mi piace. (...) Un grande abbraccio! Claudia Apprendiamo che l’amico Rossano ha vinto il PRIMO PREMIO ASSOLUTO SAGGISTICA INEDITA I Murazzi di Torino (Pubblicazione gratuita) (Rimborso diaria € 100) Rossano Onano, Testimonio eternamente errante (Editing: Volume di prevedibili 64 pagine, € 8.00 a copia, n. 50 copie omaggio) Motivazione di Giuria: Con una scrittura per metà illuminata dal sentimento dell’amicizia e per l’altra metà orientata all’ analisi critica letteraria e psicanalitica dei testi, lo scrittore e studioso Rossano Onano conduce, nel testo inedito Testimonio eternamente errante, una brillante disamina attinente all’uso della simbologia biblica sviluppato nella poesia del primo e dell’ ultimo periodo dal poeta toscano Veniero Scarselli. La Giuria del Premio I MURAZZI all’ unanimità assegna il premio di pubblicazione gratuita dell’opera presso i caratteri della Genesi Editrice di Torino. *** UN PREMIO A LUIGI DE ROSA E A CARLO DI LIETO - Riceviamo una e-mail dell’otto febbraio 2017 da Luigi De Rosa di Rapallo (GE): Carissimo Domenico, innanzitutto mi complimento per il tuo bellissimo, e puntuale, articolo di copertina su Tullio De Mauro. E' il Ministro della Pubblica Istruzione di cui ho conservato il migliore ricordo personale della mia lunga carriera di provveditore agli studi. Mi complimento anche per tutto quanto si riferisce alla tua produzione letteraria di cui si parla nel fascicolo di febbraio. (...) Col libro sulla poesia di Gianni Rescigno ho vinto la MENZIONE D'ONORE al Premio "I Murazzi. Torino 2016" nella Sezione "Critica letteraria edita" in cui il primo posto assoluto è andato all'importante libro di Carlo Di Lieto sul Leopardi napoletano. Ti abbraccio. Luigi.
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*** P. N. FEBBRAIO 2017 - E-mail dell’11/2/2017 del prof. Emerico Giachery di Roma: Carissimo Domenico, il numero di febbraio mi sembra ricco di orizzonti e sono lieto di trovarci diversi amici. Anzitutto Giannicola Ceccarossi, con cui siamo in comunicazione on line molto assidua e a volte, con gioia, in bei riti conviviali in qualche buon ristorante romano. Parliamo spesso di musica, di cui lui nutre continuamente la sua anima, come a volte risulta dalla sua poesia, che si alimenta spesso di un'intima musica. Siamo diventati molto amici. Congratulazioni a Marina Caracciolo per la bella recensione. So che è allieva prediletta dell'amico Bàrberi Squarotti ed è musicologa, e vivendo a Torino può darsi che conosca il mio figlioccio musicologo, che vive anche lui a Torino, Giangiorgio Satragni, che da poco ha scritto un bellissimo libro sull'ultimo Richard Strauss. Poi, trovo nella tua rivista ricordo anche di amici scomparsi. Anzitutto l'illustre Tullio De Mauro. Eravamo entrambi assistenti negli stessi anni e per materie non lontane, io di Storia delle lingua italiana, lui di Glottologia, con un maestro di grandissimo ingegno che andrebbe ricordato più spesso: Antonino Pagliaro. Con De Mauro ci s'incontrava quasi tutti i giorni nei corridoi della facoltà. Come ministro, è vero, non ha avuto tempo e modo di fare molto, dopo un predecessore che aveva solo un cognome rispettabile, ma forse è stato il peggior ministro dell'istruzione che l'Italia abbia avuto. Non sapevo delle tue battaglie sindacali in anni molto fervidi. Congratulazioni. E congratulazioni per lo slancio ed l'impegno con cui riesci a portare avanti, mese dopo mese, una rivista onesta e aperta. Tra i tuoi quadri e disegni che vi appaiono uno dei miei preferiti La caraffa, per il rigore compositivo, l'accordo dei colori. Prima di salutarti voglio ancora esprimere compiacimento per il ricordo di un altro amico, Vittoriano Esposito, gran gentiluomo, studioso operoso e generoso. Una volta sono stato con lui a Celano, suo paese natìo. Ora ti saluto molto cordialmente anche a nome di Noemi tutta immersa nella revisione del suo bel libro su Svevo che ristamperà presto, in edizione accresciuta, per i tipi di Aracne. Auguri cordialissimi a te, alla tua famiglia, alla tua rivista, ai suoi collaboratori e lettori Emerico Carissimo Emerico, hai avuto modo di costatare la mia felicità quando ti incontro, la stessa quando ricevo le tue e-mail o i tuoi ricercatissimi pezzi da pubblicare. Ancora una volta, ti prego di non farli mancare al mio modesto mensile, che tu leggi e apprezzi fino a commuovermi. Sì, De Mauro l’ho incontrato tante volte alla Re-
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gione Lazio per questioni sindacali quando lui era Assessore alla Cultura: la porta del suo ufficio era sempre aperta, non c’erano filtri - o, almeno, lui non li voleva - e si mostrava sempre cordiale. Continuo a pensare che, poi, come Ministro della P. I., avrebbe potuto fare qualcosa di buono e duraturo se quel governo fosse vissuto il tempo necessario; certamente, in quei pochi mesi ha fatto meglio di quell’autentico disastro che è stato il suo predecessore, dileggiato, giustamente, dalla Stampa per le sue sgrammaticature ed anch’io non gli ho risparmiato qualche frecciata (ancora, però, non avevo inventato gli Alleluia!). Vittoriano Esposito non è stato solo grande amico, ma validissimo collaboratore per tanti anni e mi rimane il cruccio di non averlo incontrato di persona. Molte volte sono stato dalle sue parti, con gli allievi, per la visita alla Telespazio, senza potermi, però, mai sganciare per qualche ora e andare a bussare alla sua porta ed abbracciarlo. Così sento quasi un dovere, e grazie ai pezzi dell’amico Giuseppe Leone, ricordarlo di tanto in tanto sulle pagine del mensile. Non ho più ricevuto per la pubblicazione l’articolo della tua Noemi; spero mi farà avere almeno il suo libro una volta uscito con l’Aracne. Ance a te e alla tua Signora, saluti cordialissimi. Domenico *** LE EDIZIONI IL CONVIVIO AL BUYK FESTIVAL DI MODENA - Il Convivio Edizioni e L’Accademia Internazionale Il Convivio hanno preso parte al Buk Festival che si è tenuto a Modena, il 18 e il 19 febbraio 2017 al Foro Boario, dalle 09.30 alle 19.30. A Modena, le Edizioni Il Convivio sono state tra i cento protagonisti della piccola e media editoria, un importante appuntamento che ha visto, in due giorni, più di 20.000 visitatori e grandi ospiti. In questa occasione, allo stand n. 58, hanno esposto le novità 2016-2017, affiancate da catalogo e dépliant. Si son potuti visionare i volumi delle varie collane: narrativa, saggistica, poesia e teatro. Si è trattato di una vetrina molto importante per i tanti autori che hanno affidato le loro opere al Convivio. L’augurio di Pomezia-Notizie è di vedere le Edizioni Il Convivio, quest’anno, anche alla Fiera della piccola e media editoria di Roma, che si terrà regolarmente ai primi di dicembre. *** ENRICO FERRIGHI: UN POETA DIMENTICATO - Nato a Bologna, vive a Verona. Negli anni ottanta ha collaborato con il nostro mensile e ha pubblicato, con la nostra testata, alcune sillogi di poesia, felicemente accolte dalla critica, tra cui: “Carmina” (1983), “Dialoghi dei dispersi” (1984),
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“Arcobaleno” (1986), opere, assieme a tante altre, da noi donate a biblioteche pubbliche su loro richiesta. Ora, il caro Amico, ci rimanda il volumetto “Carmina”, dal quale trarremo, via via, sue poesie da pubblicare sulle nostre pagine. Il volumetto reca in copertina il famoso quadro di Eleuterio Gazzetti “Sola nella notte”. Enrico Ferrighi ha partecipato a numerosi concorsi nazionali e internazionali, conseguendo premi e segnalazioni. Poeta della Serenissima; Membro d’ Onore delle Accademie Internazionali di Firenze, Roma, Caserta ed Arezzo. Alti riconoscimenti: 1° Premio internazionale “Eugenio Montale” per la poesia; 1° Premio Internazionale “Giosuè Carducci” per la poesia; 1° Premio Internazionale “Pier Della Francesca” per la Letteratura; Premio Internazionale per la poesia della Prima Biennale della Città di Arezzo. Il suo nome figura su alcune antologie e la critica lo colloca tra le migliori voci della poesia contemporanea. Studioso e ammiratore dei Classici sui quali ha forgiato la sua cultura. Temperamento inquieto e schivo, dotato però di profonda sensibilità e di autentico senso lirico. Cantore dell’ Amore e della Bellezza femminile. Ama la Natura in tutte le sue sfumature più delicate. Il suo verso, chiaro e preciso, ha uno sfondo intimistico e mantiene sempre forti tonalità poetiche. Suggestivo e avvincente, in perfetta sintonia con lo stile e il contenuto che esprime sempre con immediatezza e spontaneità. Dalla sua solitudine questo poeta lancia un messaggio che è un invito all’amore, un inno di sublimazione della donna. Un messaggio, possiamo dire, carico e vibrante di struggente umanità. *** PREMI ORGANIZZATI DA IL CONVIVIO Premio Internazionale Poesia, Prosa e Arti figurative Il Convivio 2017 _ L’Accademia Internazionale “Il Convivio”, in collaborazione con “Il Convivio editore” e l’omonima rivista, bandisce la XVI edizione del Premio Il Convivio 2017, Poesia, prosa e arti figurative, cui possono partecipare poeti e artisti sia italiani che stranieri con opere scritte nella propria lingua. Per i partecipanti che non sono di lingua neolatina è da aggiungere una traduzione italiana, francese, spagnola o portoghese. Il premio è diviso in 7 sezioni:1) Una poesia inedita a tema libero in lingua italiana (cinque copie) 2) Un racconto inedito di massimo 6 pagine (spaziatura 1,5) (cinque copie). 3) Romanzo o saggio inedito (minimo 64 cartelle) (tre copie, con sinossi di circa 30 righe). 4) Raccolta di Poesie inedite, con almeno 30 liriche, fascicolate e spillate (diversamente le opere saranno escluse) (tre copie). 5) Libro edito a partire dal 2007 nelle sezioni: 1) poesia, 2) narrativa, 3) saggio (tre copie). Non si può partecipare con
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volumi già presentati nelle edizioni precedenti del Premio Il Convivio. 6) Pittura e scultura: si partecipa inviando due foto chiare e leggibili di un’opera pittorica o scultorea. 7) Opera musicata (poesia, canzone, opera teatrale, ecc). L’opera è accettata solo ed esclusivamente se accompagnata da un DVD o CD (una copia). Per le sezioni n. 1, 2, 3, 4 e 6 è possibile inviare per e-mail una copia corredata di generalità e recapiti (per i romanzi è richiesta una breve sintesi) all’indirizzo e-mail: angelo.manitta@tin.it, enzaconti@ilconvivio.org). Premiazione: Giardini Naxos (ME): 29 ottobre 2017. Premi: Coppe, targhe e diplomi. È richiesto da parte dei non soci, per spese di segreteria, un contributo complessivo di euro 10,00 indipendentemente dal numero delle sezioni cui si partecipa (o moneta estera corrispondente) da inviare in contanti o tramite bonifico: Iban: IT 30 M 07601 16500 000093035210. Le copie inviate per email vanno corredate della copia del versamento di partecipazione. Per ulteriori informazioni scrivere o telefonare alla Segreteria del Premio, Via Pietramarina Verzella, 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) Italia, tel. 0942-986036, cell. 3331794694, e-mail: angelo.manitta@tin.it.; enzaconti@ilconvivio.org . È possibile anche consultare il sito: www.ilconvivio.org. Scadenza: 30 maggio 2017. PREMIO ANGELO MUSCO - L’Accademia Internazionale Il Convivio, in collaborazione con “Il Convivio Editore” e l’omonima rivista, bandisce la XI edizione del Premio Teatrale Angelo Musco, cui possono partecipare autori sia italiani che stranieri con opere scritte nella propria lingua o nel proprio dialetto. Per i partecipanti che non sono di lingua neolatina è da aggiungere una traduzione italiana, francese, spagnola o portoghese. Il premio è diviso in 2 sezioni: 1) Opera teatrale inedita in qualunque lingua (anche dialettale, ma con traduzione italiana) (tre copie, con breve sinossi di circa 20-30 righe) 2) Opera teatrale edita in qualunque lingua o dialetto. (tre copie) Alla sezione n. 1 è possibile partecipare inviando per e-mail una copia corredata di generalità e recapiti –è richiesta anche una breve sintesi - all’indirizzo e-mail: angelo.manitta@tin.it, enzaconti@ilconvivio.org. Si può partecipare a più sezioni, ma con una sola opera per sezione, dichiarata di propria esclusiva creazione. Delle copie inviate, una deve essere corredata di generalità, indirizzo, numero telefonico ed e-mail, le altre copie devono essere anonime se inedite, se invece edite non è da cancellare il nome dell’autore. Il tutto è da inviare alla Redazione de Il Convivio: Premio teatrale “Angelo Musco”, Via Pietramarina Verzella, 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) -
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Italia. Premiazione: Giardini Naxos (ME): 29 ottobre 2017. Premi: Coppe, targhe e diplomi. La partecipazione al concorso è gratuita per i soci dell’ Accademia Il Convivio. È richiesto invece da parte dei non soci, per spese di segreteria, un contributo complessivo di euro 10,00 indipendentemente dal numero delle sezioni cui si partecipa (o moneta estera corrispondente) da inviare in contanti. Le copie inviate per e-mail vanno corredate della copia del versamento di partecipazione. Iban: IT 30 M 07601 16500 000093035210; intestazione: Accademia Internazionale Il Convivio, Via Pietramarina Verzella, 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT); causale: Premio A. Musco 2017. Per ulteriori informazioni scrivere o telefonare alla Segreteria del Premio, Via Pietramarina Verzella, 66 95012 Castiglione di Sicilia (CT) Italia, tel. 0942986036, cell. 333-1794694, e-mail: angelo.manitta @tin.it.; enzaconti@ilconvivio.org . È possibile anche consultare il sito: www.ilconvivio.org Il presidente del Premio Angelo Manitta
LIBRI RICEVUTI SUSANNA PELIZZA - VITO SORRENTI - Visioni Culturali - Introduzione a firma dei due Autori, Postfazione di Giuseppe Manitta; in copertina, a colori, una composizione di Piet Mondrian - Il Convivio Editore, 2016 - Pagg. 80, € 11,00. Susanna PELIZZA è nata a Roma - dove è residente - il 24 novembre 1961.Ha una laurea in lettere moderne e insegna come supplente presso istituti statali. Nel 1986 vince a Stresa dalla casa editrice “La stanza letteraria” un diploma di segnalazione d’ onore come poetessa con la raccolta “Distrazioni”. Di gusto tipicamente intriso di manierismo, alcuni testi che riprendono i paradigmi della tradizione classica escono nel 1997 su due riviste romane, Nuova Impronta e Orizzonti. Sempre nello stesso anno arrivano nella rosa dei finalisti al premio Ottavio Nipoti (Ferrere Erbognone, Pavia) e vengono pubblicati nella antologia edita dal Club degli Autori. Nel 1998 vince due concorsi letterari: VI premio internazionale Penna d’Autore d’Oro, Torino, e Habere Artem (Orizzonti, Roma): alcune poesie vengono raccolte nelle rispettive antologie. Altre antologie: “Age Bassi” (1999), “Poeti dell’Adda” (1999), “Club degli Autori” (1999 - 2000 - 2001 2002), “Città di Monza” (2001), “Olympia Montegrotto Terme” (2001), “Fonòpoli” (2002), “Penna d’Autore d’oro 1999” eccetera. In quell’anno il racconto “Il mare” riceve un diploma di partecipa-
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zione al concorso “Gerenzano incontra la cultura” (Biblioteca comunale di Gerenzano, Varese). Ha scritto anche testi teatrali, sceneggiature per cortometraggi e due opere di narrativa: “I racconti” e “Tra le rovine romane”. Attualmente collabora con le riviste: Le Muse, Il Cenacolo dei poeti, L’ Attualità, Nuova Impronta, La Nuova Tribuna Letteraria. Vito SORRENTI è nato a Polia (VV) il 27 luglio 1952 e risiede a Sesto San Giovanni. Ha vinto numerosissimi premi, tra cui: “Prato un Tessuto di Cultura” (2001), “Città di Melendugno” (2002 2004), “”Nicola Mirto” (2004 - 2012), “La Rocca Città di San Miniato” (2006), “Città di Leonforte” (2008), “Lorella Santone” (2011), “Il Convivio” (2011 - 2014), “Città di Ceggia” (2012), “Settembre Andiamo” (2014), “L’Arte e le Muse” (2014), “La Poesia del Lavoro” (2015), “Dolce Sole - alla memoria di Donatella Gaspari” (2015), “Due Sicilie” (2016), “Universum”, 2016). Collaboratore di varie riviste, è inserito nel “Dizionario degli Autori Italiani del Secondo Novecento”, nella “Storia della Letteratura Italiana” e nella “Storia della Letteratura Rumena”, nonché nei volumi “La brevità speculare” e “Il lotto delle reliquie”. Ha pubblicato: “Gocce d’amore” (1994), “Vagando con la mente” (2002), “Poesie” (2008), “Amebeo per Euridice” (2009), “La poesia è una ladra” (2010), “I Derelitti” (2014), “Poesie d’amore” (2015).
TRA LE RIVISTE ILFILOROSSO - Semestrale di cultura diretto da Luigina Guarasci, responsabile Pasquale Emanuele - Via Marinella 4 - 87054 Rogliano (Cosenza) - E-mail: info.ilfilorosso@gmail.com Riceviamo il n. 61, luglio-dicembre 2016, dal quale segnaliamo: “Nikos Engonòpulos e il poema “Bolivar” “, di Crescenzio Sangiglio; “Dal taccuino del cinemaniaco Il 69° Festival del cinema di Locarno”, di Valter Vecellio; “Le Lettere di San Francesco di Paola e il quadro del santo nella chiesa di SS. Annunziata a Montalto Uffugo”, di Giuseppe Leonetti; la poesia “Dagli anni affiori”, di Francesco Graziano; la recensione di Giuseppe Leonetti al volume “Il sandalo di Nefertari” di Rossano Onano e quella di Andrea Bonanno a “Le follie non sono più follie” di Ferruccio Brugnaro. * ntl LA NUOVA TRIBUNA LETTERARIA - Venilia Editrice - Rivista di lettere ed arte fondata da Giacomo Luzzagni, direttore responsabile Stefano Valentini, editoriale Natale Luzzagni, vicediretto-
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re Pasquale Matrone - via Chiesa 27 - 35034 Lozzo Atestino (PD) - C. P. 15 35031 Abano Terme (PD) - e-mail: nuovatribuna@yahoo.it Riceviamo il n. 125 (gennaio-marzo 2017), del quale segnaliamo: “La sottile linea gialla - la pittura cinese contemporanea”, di Natale Luzzagni; “Vittorio Sermonti” di Luigi De Rosa; “Pierre de Ronsard: La Pléiade”, di Elio Andriuoli; “Crétien De Troyes: Cligès”, di Liliana Porro Andriuoli; intervista a Filippo Giordano, di Pasquale Matrone. Numerose le recensioni, tra le quali quella di Natale Luzzagni al volume di Aurora De Luca: “Aspra terra e creazione fertile nell’opera di Domenico Defelice” e di Anna Vincitorio al libro di Paolo Butti: “Nel fuoco vivo dell’amore”. Numerose le rubriche, tra le quali le notizie, i vostri libri, i premi letterari. Rivista lussuosa anche per le nitide fotografie e i tanti interventi sull’arte. * IL CONVIVIO - Trimestrale fondato da Angelo Manitta e diretto da Enza Conti - via Pietramarina-Verzella 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) e-mail: angelo.manitta@tin.it; enzaconti@ ilconvivio.org Riceviamo il n. 67 (ottobre-dicembre 2016), dal quale segnaliamo: “Kjell Espmark, La creazione”, di Corrado Calabrò; “Luigi Mazzella: una narrativa moderna, avvincente e legata alla realtà dei nostri giorni”, di Angelo Manitta; “Vittorio Capuzza, Un inedito incontro fra Giovanni Papini e il cardinale Pietro Maffi”, di Carmine Chiodo; le poesie “L’emozione della bellezza”, di Mariagina Bonciani, “Passano presto”, di Loretta Bonucci, “La giovinezza”, di Leonardo Selvaggi. Tra le tante recensioni, quelle di: Angelo Manitta per “La grande poesia di Gianni Rescigno il poeta di Santa Maria di Castellabate”, di Luigi De Rosa; Maria Vadalà per “Nino Feraù”, di Domenico Defelice; Aurora De Luca per “Libero è il vento” di Caterina Tagliani; Enza Conti per “Probabilmente sarà poesia”, di Isabella Michela Affinito; Antonia Izzi Rufo per “In un batter d’ali”, di Rosa Maria Di Salvatore e “Santificato il tuo nome”, di Rosaria Canfora. Allegato, il supplemento CULTURA E PROSPETTIVE, n. 33 (ottobre-dicembre 2016, di ben 184 pagine, con gli interventi di Fabio Russo, Giuseppe Manitta, Carlo Di Lieto, Angelo Manitta, Guglielmo Manitta, Salvatore Borzì, Claudio Guardo, Domenico Cara, Raffaella Iacuzio, Pietro Nigro, Leonardo Selvaggi, Aldo Marzi, Ferruccio Gemmellaro, Angelo Ruggeri, Paolo Prisciandaro, Antonio Crecchia, Carmine Chiodo, Nicola Prebenna. * FIORISCE UN CENACOLO - mensile fondato nel 1940 da Carmine Manzi e diretto da Anna Manzi
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- 84085 Mercato S. Severino (Salerno) e-mail: manzi.annamaria@tiscali.it Riceviamo il n. 10-12 (ottobre-dicembre 2016), del quale segnaliamo le firme di Orazio Tanelli, Antonia Izzi Rufo, Anna Aita, Leonardo Selvaggi. * POETI NELLA SOCIETÀ - rivista letteraria, artistica e di informazione, diretta da Girolamo Mennella, redattore capo Pasquale Francischetti - via Parrillo 7 - 80146 Napoli - E-mail: francischetti@alice.it Riceviamo il n. 80 (gennaio-febbraio 2017), nel quale troviamo, tra le tante, le firme di Isabella Michela Affinito e Susanna Pelizza. * LATMAG - Rivista culturale diretta da Eugen Galasso - via Torino 84 - 39100 Bolzano. Riceviamo il n. 75 (marzo 2016), sul quale troviamo firme e nomi di nostri amici come Luigi De Rosa, Imperia Tognacci, Liana De Luca, Anna Vincitorio. * SOLOFRA OGGI - La Voce di chi non ha Voce, diretto da Raffaele Vignola - via A. Giannattasio II trav. 10 - 83029 Solofra (AV) - E-mail: solofraoggi@libero.it Riceviamo il n. 30, dicembre 2016.
LETTERE IN DIREZIONE Ilia Pedrina a D. Defelice Amico carissimo, è notte fonda, nel passaggio tra il 13 ed il 14 di febbraio. Nessuna sentinella alla quale chiedere: 'Quanto manca alla fine della notte?' La luna sorveglia il mio lavoro, talora dietro nuvole che fanno trapelare il suo chiarore, ma quella notte il cielo su Dresda era illuminato a giorno, perché la guerra era finita e in centinaia di migliaia si erano rifugiati in città, per respirare meglio, per festeggiare. Il Papà ci rammentava questa tragedia prima della cena serale, forse in famiglia sono l'unica a tener vivo il ricordo, a far parlare tutti quei morti colti dai bombardamenti americani, a tappeto, a guerra conclusa, contro una popolazione ignara ed inerme. Come allora non confidarmi con te? Come non condividere con te, nel silenzio, una preghiera fatta di calore umanis-
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simo e di memoria? Sull'Europa si è scatenata un'aggressività senza misura, ben prima della 'soluzione finale' di torva origine: saperti al fianco, in lettura, mi offre la misura del tuo spessore etico, della tua rabbia contro ogni corruzione individuale e sociale, del singolo come dei gruppi, senza misura e senza sosta. Il tuo coraggio deve farsi 'anima' e 'respiro' per tutti coloro che, come me, sanno capire il tempo, entrandovi senza passività ed esigendo da se stessi, prima che dagli altri, rigore e coerenza, nei pensieri, nelle azioni, nelle scelte. Il bombardamento di Dresda, la lezione da dare, a guerra finita, al popolo tedesco, ha mostrato una ferocia senza pari, che ha sbigottito pure Churchill, che non era certo di stomaco delicato, visto che ha ben controllato che Benito Mussolini fosse ucciso e non per finta, con la mal capitata Claretta, permanendo nei paraggi del Lago Maggiore, a dipingere. Quando la signora Boldrini, presidente della Camera, rievoca il fascismo come pericoloso spauracchio politico e quant'altro, penso che Giordano Bruno Guerri deve fare in fretta a costruire quel ponte che ancora divide gli Italiani in Fascisti e Comunisti, perché è necessario gettare ampia luce resistente, di giorno come di notte, su quanto è stato ampiamente portato avanti come 'anti- mitostoria': un popolo che non conosce la sua storia non ha radici ed è assai facile sradicare deboli alberelli con la globalizzazione della rete e con la propria immagine che si dilata, soddisfando così un ego in crescita senza fondamenti. Allora, se Dresda non è in Italia, Roma lo è: da Roma è stato detto che l'Italia era stata fatta, mancava soltanto come impegno fare gli Italiani, con una 'mitostoria' costruita a tavolino, perché si fosse ben sicuri che gli insegnanti non spiegassero la Storia Contemporanea e non commettessero il peccato di 'apologia del disciolto partito fascista'. Quando la signora Lagarde, presidente del Fondo Monetario Internazionale, si permette di sostenere che si vive troppo a lungo e che si deve morire prima, per risolvere i problemi dell'economia, penso che ci debba essere maggiore riguardo e rigore ed autocritica, prima di emet-
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tere enunciati offensivi della dignità umana. In questa morsa di indecenze ci troviamo a vivere, carissimo, con tutti i giovani ed i più piccini che desiderano chiarezza per dare il loro impegno; che non vogliono solo chiedere, ma anche dare nella qualità, perché questo è diritto della loro intelligenza; che sono al nostro fianco, anche nei più duri sacrifici, se sono stati resi consapevoli che c'è giustizia, da perseguire e per la quale ancora esporsi e lottare. Allora se Dresda non è in Italia, Roma lo è: da Roma, dalla Piazza del Campo dei Fiori, il 17 febbraio 1600, cioè 417 anni fa, urla ancora la sua innocenza Giordano Bruno, filosofo scienziato e visionario che ha fatto tremare fin dalle fondamenta la struttura del Potere, ecclesiastico e finanziario, che è dir la stessa cosa. Papa Bergoglio è nel nostro tempo e non vive nel Palazzo, perché sa, si scosta indifferente, segue il percorso della consolazione e della misericordia, da diffondere a piene mani, in memoria di un certo modo di essere fratelli che è già stato messo in atto tanto tempo fa. Se Dresda non è in Italia, Roma lo è: da Roma doveva partire la difesa del pensiero laico, la concreta necessità di dimostrare che la politica è una cosa, la religione un'altra, perché, a mischiarle, si precipita in un abisso che lascia senza libertà e senza sostegno. Allora, per dirti quasi in silenzio che il tuo 'TO ERASE, PLEASE?' è quanto mai attuale e può indurre, per la forza che trasporta, calore e coraggio, ti riporto alcuni incisi del Direttore prof. Roberto Napoletano, che trascrivo dal 'Domenicale' de 'Il Sole 24 Ore' di Domenica 12 febbraio, in piena prima pagina, là dove spicca anche il bell'articolo di Massimo Bucciantini 'LUTERO IN CAMPO DEI FIORI'. Nella sezione 'MEMORANDUM', dal titolo 'La storia dimenticata e la lezione del grande Natalino' (roberto. napoletano@ilsole24ore.com), che sarebbe tutta da trascriverti, egli sostiene: “...Il prof. Codovini, ai miei occhi, ha anche un altro merito, il trasporto che trasuda dalle sue parole mi fa tornare in mente un altro professore che non c'è più, Natalino Palermo, amico di mio padre e compagno di svago di tante domeniche, la
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storia e la letteratura come passione. Ritorno adolescente e mi ritrovo con la testa e con il cuore nel suo studio, rivivo la scena di quest'uomo pieno di ingegno che ha legato il suo nome a saggi storici, volumi di grammatica e antologie del calibro di 'Espressione e Poesia', 'Itinera', 'Scrittori di Roma', 'Disegno storico della letteratura latina' e altri ancora ma si emoziona solo quando sfoglia davanti a me ragazzo le pagine de 'L'Orma-Corso di storia per le scuole medie' e mi indica fatti e protagonisti, racconta la scelta delle foto e il metodo documentale seguito nell'elaborazione dei testi. Ricordo una frase: 'Puoi fare tutto nella vita ma devi partire da qui, devi conoscere la storia, e sapessi quanto mi riempie fare qualcosa che aiuta a formare i cittadini italiani del futuro'. Ciao, grande Natalino, mi rendo conto ora che il pallino della Storia e della Memoria me lo hai inculcato tu. Anche se indirettamente, i tuoi libri e la tua lezione di vita sono uno dei tanti regali del mio papà, il frutto di un'amicizia fra voi fatta di sentimenti e stimoli intellettuali. A me è rimasto il gusto profondo di vivere il presente senza mai perdere la voglia di conoscere il passato per costruire il futuro” (R. Napoletano, Memorandum, Il Domenicale de 'Ilsole24ore', 12 febbraio 2017, pag. 21). Puoi ben capire la ragione di questa citazione che si snoda in pieno e per diverse righe: è tutta nel numero di febbraio 2017 di questa tua Rivista, di questa tua creatura d'ingegno, di canti, d'intelletto e di lotta che porti avanti con dignità e senza sostegni statali da oltre quarant'anni - senza trascurare gli altri numeri, questo è ben inteso -. Parlo del tuo articolo in memoria del prof. Tullio De Mauro, nel quale percorri con ricchezza di particolari la vita, gli studi e 'la battaglia per la Cultura, la Scuola, l'Università e la Ricerca, la Formazione Professionale', da leggere più e più volte, per cogliervi in filigrana anche la condivisione con lui dei tuoi intendimenti e convincimenti, matrici da cui trarre rafforzamento per decisioni e scelte, come questa tua di operare con segnali forti ed audaci nel campo dell'etica, della politica, della letteratura, della
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poesia, dell'arte visiva e musicale. Tante le altre importanti testimonianze, che vanno a disegnare un panorama di interventi e di interpretazioni critiche di grande rilievo. Il canto di tutti in sincerità, alta professionalità, stima reciproca, rispetto. Questo non è un sogno né un'utopia, ma il segno attento di sacrifici che colmano i vuoti di senso della storia. Grazie a questo canto, anche i morti ammazzati sotto i bombardamenti a tappeto, a guerra finita, il 14 febbraio 1945 a Dresda hanno ancora respiro. Ilia tua, commossa. Cara Ilia, saper rapportare la Storia al proprio tempo è una virtù, come lo è il tenerla sempre viva nel sacrario della memoria. Le stragi sono stragi, punto e basta, ma Dresda ci costringe al confronto tra quelle perpetrate dal nemico - prevedibili, contro le quali, a volte, si può tentare una difesa - e quelle, impreviste e, perciò più devastanti e più scioccanti, perché coinvolgenti anche la psicologia, dovute a chi dovrebbe proteggerci, nel nostro caso, gli Americani, che avrebbero dovuto liberarci dal mostro. Ho cercato spesso di fare un po’ di conti, ragionando con me stesso, arrivando all’ amara conclusione che le vittime innocenti, provocate dai liberatori e dagli eroi, superano spesso quelle causate dai mostri e dai nemici. Gli Americani hanno avuto sempre l’arma facile, fin dal tempo del selvaggio West; giurano di amare la democrazia - ed è vero; la loro, però! - e che essa va pure esportata - e questo non è vero, non essendo una merce -; così intervengono dappertutto, senza scrupoli e con la delicatezza dell’elefante nella cristalliera. Vietnam e Indocina, ieri, Iraq, Siria eccetera ai nostri giorni, sono esempi di stragi d’innocenti superiori ai massacri ed agli orrori provocati da chi era in programma di abbattere. Tempo fa, parlando dell’argomento ad alcuni giovani studenti dell’università di Roma, venuti a trovarmi, manifestando le mie
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perplessità sul facile quanto disastroso interventismo, affermando che gli eserciti debbano starsene ognuno nella propria nazione, uno di loro mi ha posto questa domanda: Ha mai pensato quali sarebbero le condizioni oggi dell’Europa e del mondo se gli Americani se ne fossero stati buoni buoni a casa loro? Se non fossero intervenuti, allora, al tempo di Hitler e, poi, via via, contro i tanti dittatori e macellai? Ho risposto di non avere certezze, confessando, però, che i milioni e milioni di bambini, di donne, di civili straziati e uccisi dagli interventi liberatori continuano a farmi groppo, a straziarmi fino alle lacrime. Ogni volta che tento di farmene una ragione o di coprirli con l’oblio, questi cadaveri mi tornano orrendamente a galla nella mente, come palloni inutilmente spinti a forza sott’acqua. A quanto pare, chi ha il potere e può decidere ha pure lo stomaco ben foderato e non si pone il tuo e il mio problema, Cara Ilia. Sì, è vero come tu scrivi, “Il bombardamento di Dresda, la lezione da dare, a guerra finita, al popolo tedesco, ha mostrato una ferocia senza pari”. Ma non era stato Hitler ad avvelenare i pozzi, con la sua ferocia e con la guerra, i milioni di morti, i campi di concentramento, i forni crematori? La vendetta, Carisisma, è figlia della ferocia e spesso entrambe vengono servite fredde, sposandole con il sadismo. Mussolini non è stato feroce, non doveva possedere anch’ egli uno stomaco ben foderato allorché fece assassinare Matteotti e fucilare il marito di sua figlia? E Churchill non è stato feroce se tranquillo si dilettava a dipingeva nell’ attesa che inviati a tale scopo assassinassero Benito e Claretta? E non hanno stomaco peloso e ben foderato coloro che oggi discutono del sesso degli angeli mentre a migliaia si muore annegati nel Mediterraneo, o dilaniati sotto le bombe ad Aleppo e negli altri mille inferni del mondo? E non sono feroci i nostri politici e non hanno lo stomaco ben corazzato, se in Parlamento e negli altri Palazzi non fanno che fornicare e rubare, ma nulla, assolutamente nulla, per dare dignità
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e lavoro a una gioventù umiliata e distrutta? Hanno, forse, gli stessi miei rigurgiti, costoro, inghiottono, forse, le mie stesse lacrime e i mie veleni alla notizia dei tanti suicidi causati dalla disperazione? Del giovane Michele tratta Giuseppe Leone in queste stesse pagine. I giovani son più sensibili di noi coriacei, Carissima, che con sadismo scaviamo esacerbando le loro ferite. Che stomaco avrà la Lagarde e come l’avrà foderato se, come tu affermi, “si permette di sostenere che si vive troppo a lungo e che si deve morire prima”? E che stomaco avrà un Poletti e foderato da grasso suino se, davanti al dramma dei giovani emigrati all’estero in cerca di lavoro, osa affermare che l’Italia non soffrirà più ad averli fra i piedi? Mi sto inaridendo a furia di ingoiare veleni e convincendo che non hanno più senso né
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la storia, né l’antistoria, né l’ati-mitostoria, né la mia poesia, né i miei vomiti, né i tentativi (ancora?) di edificare ponti per riunire Fascisti e Comunisti. Nulla ha più senso se camminiamo indifferenti nel sangue che scorre, o neppure ce ne accorgiamo; se nel nostro spettrale Parlamento giornalmente si svolgono logoranti quanto assurdi riti e noi non ci solleviamo indignati; se giornalmente, nel mondo, si verificano dieci e cento Dresda omertate, dieci e più guerre mascherate, migliaia di stragi raccapriccianti di innocenti provocate da pochissimi caimani ingordi e feroci che ingoiano il novanta per cento della ricchezza planetaria. Storia, anti-mitostoria, fascisti, comunisti, la mia poesia, il mio dolore impotente e sterile, Poletti, la mummia Berlusconi, Renzi, Bersani, D’Alema, Grillo, Salvini, i patetici capi di due tetri serragli Grasso e la Boldrini, Lagarde, Trump, Putin, Erdogan, l’ infernale Califfo, le Banche, le Borse, Israele che vuole la pace ma continua a colonizzare le terre degli altri... Basta! Basta! Basta! Anche te, cara Ilia, tutti dobbiam gridare Basta!, perché “anche i morti ammazzati sotto i bombardamenti a tappeto, a guerra finita, il 14 febbraio 1945 a Dresda” non solo “hanno ancora respiro”, ma gridano Basta! Giovani, mettete da parte il totem anestetizzante del telefonino e scendete per le strade e per le piazze, senza far male e senza farvi male, in un silenzio cupo e sordo come si addice al lutto. Vi abbiamo assassinati dentro. Come farvi capire la Storia, darvi di essa una ragione? Vi chiedo perdono, inutili e sterili sono state le mie battaglie. Scuote-
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2017
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tevi e scuoteteci! Non state anche voi a guardarci mentre, ebeti, ancora ci masturbiamo sul ciglio dell’abisso, del vulcano. Domenico
O MIO GESÙ O mio Gesù aiutami: aiutami nel cammino faticoso della mia vita, e non farmi perdere la speranza, che sei vicino a me quando sono affranta. Loretta Bonucci Triginto di Medifglia, MI
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