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Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale 70% - DCB - ROMA Anno 25 (Nuova Serie) – n. 4 - Aprile 2017 € 5,00 Cinquant’anni fa, Totò lasciava questo mondo, ma il suo testamento d’arte e d’umanità non è stato mai così vivo. P. N. lo ricorda con due articoli dei nostri corrispondenti e collaboratori: Ilia Pedrina, da Vicenza, e Giuseppe Leone, da Pescate (LC)

JOYCE, I LIRICI GRECI E TOTÒ NEL CINQUANTESIMO ANNIVERSARIO DALLA MORTE di Giuseppe Leone INQUANT’anni e non li dimostra; non li dimostra perché, in effetti, Totò non è mai morto. Mai una data così bugiarda come quel 15 aprile 1967, se, grazie ai suoi film, il geniale comico ha continuato a dilettarci con le sue battute. Che cosa rimanga ancora da scoprire nei suoi film, questo non lo saprei dire, so che tanto si potrà ammirare ancora in Totò poeta, in quei suoi versi in lingua napoletana, che egli venne componendo durante i brevi e rari intervalli della sua frenetica attività cinematografica. Del poeta ammiro ciò che Joyce ammirava dell’acqua: la sua universalità, la sua uguaglianza democratica e la fedeltà nel tendere sempre al suo livello. Pur principe e grandissimo comico, non nascose mai, nelle sue poesie, l’eredità popolare della cultura napoletana, frutto di una filosofia a metà strada fra scanzonata leggerezza del vivere e grave serietà

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All’interno: Parole per Antonio de Curtis, di Ilia Pedrina, pag. 3 Andrea Bonanno e Van Gogh, di Domenico Defelice, pag. 7 Uno sguardo sulla Cina di Mo Yan, di Luigi De Rosa, pag. 10 Luigi De Rosa e la poesia di Rescigno, di Carmine Chiodo, pag. 15 Dieci inviti a cena, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 17 Il Canto IX del Paradiso, di Fabio Dainotti, pag. 21 Leggi oculate, di Leonardo Selvaggi, pag. 27 La poesia di Erri De Luca e Domenico Defelice, di Aida Isotta Pedrina, pag. 33 Renato Filippelli, tutte le poesie, di Aurora De Luca, pag. 39 To erase, please?, di Ilia Pedrina, pag. 42 Realtà e trasfigurazione, di Nazario Pardini, pag. 46 Le “visioni culturali” della Pelizza, di Andrea Bonanno, pag. 51 Subite violenze, di Anna Vincitorio, pag. 54 Pasquale Purgatorio, di Antonio Visconte, pag. 55 Castelnuovo, di Antonia Izzi Rufo, pag. 57 Premio Città di Pomezia 2017 (regolamento), pag. 59 I Poeti e la Natura (Corrado Calabrò), di Luigi De Rosa, pag. 60 Notizie, pag. 71 Libri ricevuti, pag. 74

RECENSIONI di/per: Elio Andriuoli (Tra Tevere e Senna, di Luigi Reina, pag. 61); Tito Cauchi (Lo specchio ritrovato, di Ines Betta Montanelli, pag. 63); Tito Cauchi (Altalene, di Elisabetta Di Iaconi Salati, pag. 63); Domenico Defelice (L’uomo e i segni, di Walter Nesti, pag. 64); Domenico Defelice (Leonardo Selvaggi, di Tito Cauchi, pag. 66); Aurora De Luca (Oltre i respiri del tempo, di Marina Caracciolo, pag. 66); Salvatore D’Ambrosio (Aspra terra e creazione fertile nell’opera di Domenico Defelice, di Aurora De Luca, pag. 67); Giovanna Li Volti Guzzardi (Nino Ferraù, di Domenico Defelice, pag. 68); Maria Antonietta Mòsele (Nino Ferraù, di Domenico Defelice, pag. 69); Maria Antonietta Mòsele (Lettere, di Maria Grazia Lenisa, pag. 69); Laura Pierdicchi (Nino Ferraù, di Domenico Defelice, pag. 70). Inoltre, poesie di: Elio Andriuoli, Claudia Bàrrica, Mariagina Bonciani, Loretta Bonucci, Lorella Borgiani, Rocco Cambareri, Fiorenza Castaldi, Raffaele Cecconi, Salvatore D’Ambrosio, Enrico Ferrighi, Filomena Iovinella, Giovanna Li Volti Guzzardi, Teresinka Pereira

della morte. Mai ridotta a mero istinto per sbarcare il lunario, questa tradizione offrì alla sua meditazione occasione d’indagine verso aspetti più complessi della vita, come la democrazia e la giustizia, problemi sociali che egli vide avviarsi a soluzione solo nella realtà della morte, che tutto livella: Nu rre, nu magistrato, nu grand’ommo, / trasenno stu can-

ciello ha fatt’’o punto / c’ha perzo tutto, ’a vita e pure ’o nomme. La vita, al contrario, è ingiusta perché fatta a scale, tuona, in una delle sue poesie, contro le gerarchie presenti nella nostra cultura. In questa Italia fatta a scale, spunta, si direbbe per puro caso, il democratico Totò. Egli è democratico, perché democratici sono i sen-


POMEZIA-NOTIZIE timenti che ispirano le sue poesie: il riso, il pianto, la gelosia, l’amore, sono sentimenti che trasudano dai vicoli di Napoli, passioni di persone in carne e ossa: 'O schiattamuorto, il becchino che dice che la morte è nu passaggio dal sonoro al muto; Ninì Santoro, fine dicitore, ca pe magnà, al furto s’era dato; Peppino mezzafigura, che pezzente, chiede l’elemosina e col ricavato fa l’usuraio: dà e sorde c’’o ’nteresse / ’a sera va ’a cantina, / tene pure ’a seicento, / tre cammere e cucina. E democratico è pure il suo sentimento dell’amore. Pur rimanendo in lui echi d’ ispirazione provenzale e stilnovistica, le sue donne non si chiamano Laura o Beatrice, hanno i nomi della gente comune: Teresina, che fa l’acquaiola in un chiosco a Margellina; Donna Amalia, che egli vorrebbe sposare, perché quando la vede ’a capa (sua) nun po’ cchiù raggiunà; Francesca ’mpastata ’e latte, porcellane e rrose; e poi, ’Ngiulina, che faceva ’a sartulella a ’o Chiatamone. Donne tutte del popolo, ma che il poeta adora col sentimento fine ereditato dalle aristocratiche scuole poetiche del passato. Totò fu democratico, allora, per la concezione cavalleresca che ebbe nei confronti della donna e della morte. Rivivendo il rapporto con loro, alla maniera dei lirici greci, con quell’apollineo ossequio proprio di chi è timoroso del tragico che è dentro di loro, ritenne che tutti gli uomini fossero uguali nell’ impegno di sottostare alla loro potenza. Se amate è dolce sottomettersi al loro dominio; se non amate, distruggono con maggiore dolore. Da ciò, quel suo garbo e quella sua misura quando gli accade di parlare di queste due figure. Della donna disse: ’A femmena è ’na bella criatura / e quase sempe è ddoce comm’ ’o mmele; / ma ’e vvote chistu mmele pe’ sventura, / perde ’a ducezza e addeventa fele; e a proposito della morte: ’A verità vurria sapè che simme / ’n coppa a ’sta terra e che rappresentamme / gente e passaggio. Furastiere simme / quanno s’è fatta ll’ora ce ne jammo!” Giuseppe Leone

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PAROLE PER L’ULTIMO PRINCIPE DI BISANZIO, ANTONIO DE CURTIS di Ilia Pedrina

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NTONIO De Curtis, in arte Totò, unico, vero, grande interprete della Napoli del sorriso e della tristezza, della fame e della cupidigia che si fa violenza, dell'erotismo raffinato per salottieri infarinati, impacciati e gretti e della fascinazione libera ed immediata, per intenditori della bellezza. Ma andiamo con ordine. Da mesi questo Principe mi è assiduo compagno di sorrisi e di riflessioni profonde, non si stanca mai di darmi la forza di affrontare i guasti di una società che par tornata indietro verso i suoi pessimi passi. E non intendo solo quella italiana, visto che si è in tempo di globalizzazione. Infatti sembra che l'ultimo Principe di Bisanzio mi sia al fianco e mi solleciti: 'apri una parente' (dalla famosa lettera dettata a Peppino De Filippo nel film 'Totò, Peppino e la Malafemmina', lettera che scardina l'Italiano come lingua imposta ed impone invece regole altre, che avrebbero fatto invidia anche ad Umberto Eco, perché non le ha inventate!). Ed io allora lo ascolto. A lui, unico, offro il mio inchino, al Principe Antonio de Curtis, al personaggio-maschera Totò, dico, perché poco tempo fa è venuta a mancare, a Roma, la compagna ch'egli ha amato assai, assai, assai, fino all'ultimo istante della sua vita: l'attricegiornalista e scrittrice Franca Faldini. Avrei dovuto fare una capatina a Roma per incontrarla, darle la mia magnetica gioia di vivere, osservare il suo volto, il suo sguardo, ascoltare i suoi ricordi. Non mi è stato possibile. Ora rimangono le registrazioni in rete, ed io l'ho intercettata più e più volte, aumentando così di molto le visualizzazioni. Franca Faldini e Goffredo Fofi hanno pubblicato TOTÒ: L'UOMO E LA MASCHERA, per i tipi dell'Editrice Feltrinelli Economica, nell'ottobre 1977. Lei, Franca Faldini, si riserva di presentare, con la memoria e la ten-


POMEZIA-NOTIZIE sione emotiva che l'hanno sempre contraddistinta, quindici momenti della sua vita con Antonio, si, quindici anni segnati da uno a quindici, nella spontanea successione ordinale, quasi come si addice ad un conto qualunque, mentre il testo ti apre mondi della loro vita a due e non solo, con sincera, inequivocabile schiettezza. Cito. “... Ho scritto queste pagine non per ambizione e neppure con un occhio al giudizio della critica, che non m'interessa. Mentre m'interessa che interessino a tutti coloro che nella vita amano le creature umane, con le virtù e i difetti umani. Antonio de Curtis, in arte Totò, era un uomo umano... Si chiamava Antonio de Curtis. Era nato a Napoli il 15 febbraio 1898. Di professione attore, la gente più che altro lo conosceva come Totò. Il sipario calò sulla sua vita il 15 aprile 1967, verso le tre e mezzo del mattino, l'ora in cui d'abitudine si ritirava per dormire... Credeva senza mezze misure nell'Artefice di questo Creato che non si stancava mai di ammirare e su di Lui non ammetteva lazzi o linguaggi irriguardosi. Non credeva in quell'Aldilà prospettato già dalla prima preghiera che ti infilano in bocca e anzi, a questo proposito, affermava che l'inferno e il paradiso sono entrambi qua, in questo mondo, da quell'altro nessuno era mai tornato a descriverglieli... Ironizzava sui fasti funebri, gli annunci anniversario, le messe in suffragio. A questi, per rammentare chi non c'era più, preferiva sfamare un diseredato, persona o animale che fosse... Tante volte lo abbiamo salutato ai suoi arrivi e alle sue partenze...Era semplice, il successo non lo aveva montato. Nei film ci faceva ridere come bambini. Vogliamo dirgli anche adesso, Buon Viaggio, Totò!... La vedova biblica di quel 17 aprile 1967 ero io. Noi non fummo mai marito e moglie. Avevamo semplicemente dato a credere di esserlo... Quella era un'epoca in cui l'Italia somigliava parecchio a una comare di paese - inciuciona, perbenista, ipocrita, trasudante di cristianità e arida di carità cristiana... Noi convivevamo in allegria. Avevamo deciso di percorrere la vita dandoci la mano, un tratto o tutta chi poteva prevederlo,

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liberi di svincolarla quando meglio lo avessimo voluto, senza che quell'eventuale impulso dovesse essere autorizzato e sancito da nessun altro... Ci divideva una differenza di età mostruosa: trentatré anni... Antonio aveva innato il senso del ridicolo, era uno sfiduciato sospettoso... Timido, chiuso, pudico dei suoi sentimenti, li esternava con difficoltà e del resto - diceva - non sono le parole ma i fatti a parlare di quello che si prova. A volte riusciva a esprimerli in versi, rime chiare che scriveva di soppiatto e poi ti faceva trovare nei luoghi più impensati. Una sera del 1964, il nostro terz'ultimo anno assieme, sotto il bicchiere, a tavola, scorsi un cartoncino. In una calligrafia zigzagante perché da tempo ci

vedeva 'a orecchio', aveva scritto: ' A Franca Chist'uocchie tuie songo ddoie feneste aperte, spalancate 'incoppa 'o mare; m'affaccio e veco tutte 'e cose care 'nfunn'a 'stu mare, verde comme l'uocchie tuie: e veco 'o bbene, 'o sentimento, ammore, e assaie cchiù 'nfunno ancora io veco chello ca tu 'e date a mme... 'o core.' (F. Faldini: 'Quindici anni con Antonio de Curtis - A un uomo in prestito/e a un bastardo rosso' -da pag. 5 a pag. 83- in F. Faldini-G. Fofi, 'Totò: l'uomo e la maschera', ed. Feltrinelli, 1977, pp. 5-17). A seguire pagine intense, calde e distaccate


POMEZIA-NOTIZIE ad un tempo, come avviene in natura a chi ha il dono dell'immediata bellezza d'immagine e dello schietto, aperto convincimento dell'agire coerente, nel dare amore come nel pretendere libertà. Goffredo Fofi firma la parte relativa a 'Totò e Pulcinella' (pp. 85-118), assecondando così un desiderio covato dentro fin da ragazzo, quello di dire cose sensate su questo unico interprete dell'anarchia interumana costruttiva, nell'ironia delle gesticolazioni come nell'improvvisazione arguta e variatissima di dialoghi indimenticabili, dileggianti le regole imposte e tiranne, i soprusi da arroganza e soperchieria ingiustificata, le decisioni disumane e sconsiderate di governanti improvvisati. È arrivato il momento di lasciare parlare il Principe, trascrivendo qualche sua opinione. “...Io so a memoria la miseria, e la miseria è il copione della vera comicità. Non si può far ridere se non si conoscono bene il dolore, la fame, il freddo, l'amore senza speranza, la disperazione della solitudine di certe squallide camerette ammobiliate alla fine di una recita in un teatrucolo di provincia: e la vergogna dei pantaloni sfondati, il desiderio di un caffelatte, la prepotenza esosa degli impresari, la cattiveria del pubblico senza educazione. Insomma non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita... Io devo tutto a Totò e se non lo avessi incontrato un giorno, per la strada e non l'avessi riconosciuto come il solo amico della mia vita, Dio solo sa quale sarebbe stato il mio destino. Cugino di Pulcinella, nipote di Arlecchino? Io non l'ho mai saputo e ne hanno scritte tante a proposito di lui. Certo è un buffone serissimo, il quale come tutti i buffoni che si rispettano maschera la ragione da follia e la follia da ragione. Ne abbiamo passate insieme di tutti i colori. Mi disse, incontrandomi per la prima volta, di non perdere tempo, che avevo proprio la faccia che serviva a lui, e che lo avessi accompagnato, perché saremmo andati a morire di fame insieme. Io fui insomma il primo spettatore di Totò, come dire di me stesso. 'Vedrai che il pubblico alla fine ci vorrà bene, perché gli faremo patire un

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sacco di piacere'. Disse proprio il verbo patire quel buffone, ignorantissimo di filosofia come tutte le maschere, ma armatissimo di esperienze preziose, cioè a dire ricco di guai, di beffe subite, di appetito arretrato, esperienze che servono alla legge del contrasto comico... Negli anni Trenta io facevo della satira, e con successo, perché all'Italiano piace veder preso in giro questo o quel personaggio. L'italiano è un po' come un bambino: ha continuamente bisogno della favola di Cappuccetto Rosso, con cui si identifica, così come identifica il governo del momento col lupo cattivo. Ma per quest'ultimo personaggio manca sempre il buon cacciatore che lo fa fuori; e allora Cappuccetto Rosso si diverte a sentir dire cattiverie sul lupo, sui figli del lupo, su tutta la discendenza e la parentela del lupo. Il fascismo permetteva di farsi prendere in giro e noi lo facevamo con prudenza e senza trivialità. Così ogni sera io divertivo il buon Cappuccetto Rosso... Sono vittima di una situazione poco simpatica. Produttori senza scrupoli, soggetti decadenti, sceneggiatori improvvisati hanno creato il Totò dalla risposta facile... Io non prendo i cento, i settanta, i cinquanta milioni che prendono gli altri. E ciò di proposito, perché se sento dire che il tale o la tale hanno preso seicento milioni per la parte in un film, resto inorridito, schifato. Io non ho mai voluto prendere grandi cifre, perché ho sempre pensato che il produttore deve guadagnare col film. Se non guadagna, fallisce. Se fallisce, io non faccio più film. E se un po' alla volta falliscono tutti, io che faccio? I film dove recito io, di conseguenza, sono commerciali, sono filmetti arraffati, destinati alle sale di seconda visione, e costano poco anche come film. Quando son lì, non posso mica dire no, questo io non lo fo, non mi piace, non va. Sarebbe scorretto, scortese. Senza contare che io non posso vivere senza far nulla: se vogliono farmi morire, mi tolgano quel divertimento che si chiama lavoro e sono morto. Poi sa: la vita costa. Io mantengo venticinque persone, duecentoventi cani. I cani costano e valgono più di un


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cristiano... Il cane è 'nu signore, tutto il contrario dell'uomo. Guardi gli uomini come si odiano... Ricordate quella mia battuta: Siamo uomini o caporali? Ebbene arrivato alla mia età mi accorgo che al mondo di caporali ce ne sono tanti, ma di uomini pochissimi... Caporali sono quelli che vogliono essere capi. C'è un partito e sono capi. Cambia il partito e sono capi. C'è la guerra e sono capi. C'è la pace e sono capi. Sempre gli stessi. Io odio i capi come le dittature, le botte, la malacreanza, la sciatteria nel vestire, la villania nel parlare e mangiare, la mancanza di puntualità, la mancanza di disciplina, l'adulazione e i ringraziamenti... Questa frase, nata durante la mia prima giovinezza, mi è sempre servita come sistema metrico decimale per misurare la statura morale degli uomini, e mi è servita, nuovo entomologo, per classificare l'umanità in due grandi categorie...” (Antonio de Curtis in op. cit. pp. 119-140). 'Apro una parente', allora, per concludere questo primo approccio al gigante della libertà degna d'essere ancora costruita e mi lascio coinvolgere dalle sue parole in poesia. “ 'A vita 'A vita è bella, si, è stato un dono, un dono che ti ha fatto la natura. Ma quanno po' 'sta vita è 'na sciagura, vuie mm' 'o chiammate dono chisto ccà?

TEMPESTA

E nun parlo pe' mme ca, stuorto o muorto, riesco a mm'abbusca' 'na mille lire. Tengo 'a salute, e non faccio per dire, songo uno 'e chille ca se fire 'e fa'.

A Santiago sono uomo che piange con il lustrascarpe alle calcagna e m’umilia e con l’ispido barbone - agnello che dorme su lastricato di luna.

Ma quante nn'aggio viste 'e disgraziate: cecate, ciunche, scieme, sordomute. Gente che nun ha visto e maie avuto 'nu poco 'e bbene 'a chesta umanità. Guerra, miseria, famma, malatie, crestiane addeventate pelle e ossa, e tanta giuventù c' 'o culo 'a fossa. Chisto nun è 'nu dono, è 'nfamità”. (Antonio de Curtis, op. cit. pag 153). Ilia Pedrina

Tempesta! La natura è sconvolta: corre urlando il vento, batte nell’imposte. Il lampo saetta minaccioso, romba il tuono mentre piove a scroscio e muore il giorno e muore il tempo di questo giorno. Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, MI

BIANCHE VELE Perso in paralleli, desidero bianche vele. È in me accoramento di foglia secca che scricchiola tra piedi. Forse s’è spenta giovinezza.

Desidero bianche vele, di andare; ma dove non so se ancora Caino pugnala al cuore il fratello e ogni zolla è mia patria. Cercatemi una stella per sognare, un angolo quieto per sostare. Rocco Cambareri Da Da Lontano, Ediz. Le Petit Moineau, 1970


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ANDREA BONANNO E

VAN GOGH di Domenico Defelice

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N pittore e critico attento come Andrea Bonanno, ideatore della “ipotesi esegetica della <verifica trascendentale>”, era più che ovvio che, o prima o poi, si interessasse di un pittore così tormentato come Van Gogh e lo inserisse a ragione nella sua corrente critico-sistematica, in quanto un tale inquadramento è consono all’artista olandese e “capace di aprire la problematica generale dei significati della sua opera pittorica ad un più chiaro intendimento e ad una maggiore e lucida precisazione poetica”, fornendo, finalmente, un bilancio quanto più concreto e definitivo possibile, effettuato non soltanto alla luce delle sue opere pittoriche gli autoritratti in particolare, che rappresentano un “dialogo con la propria immagine”, come afferma Dino Formaggio -, ma anche delle sue tante lettere, attraverso le quali l’ artista per anni ha tentato di scavare nel profondo del proprio io. Intanto, Bonanno sgombra subito il campo dalla falsità che vuole Van Gogh sia morto pazzo e suicida. Tutto ciò è solo apparenza, superficialità; la verità è altra; è che coscientemente l’artista, dopo essersi “scoperto solo

ed emarginato” irrimediabilmente, ha capito di non avere altro “che la scrittura e la pittura (o scrittura per immagini), quali efficaci mezzi per la verifica del vuoto della sua condizione” e, pertanto, l’atto finale non ne è che una diretta conseguenza. Pittura e scrittura: l’ arte, l’unica capace di rivelare il vero assoluto della nostra esistenza, che in genere non percepiamo perché immersi e fasciati dalle tante cortecce spesse e dure di un presente e di una cultura millenaria, questa, sì, folle e alterante. Van Gogh subisce di continuo crisi nervose, ma “nessuno oggi - scrive Bonanno - è autorizzato a farlo passare per pazzo, tanto è vero che la lucidità espressa nelle sue lettere e la genialità espressiva delle sue opere non possono avvalorare questo acritico e malevolo giudizio”. La pittura, come ogni arte, è, per l’uomo, il più reale del Sé e, “Nello spazio virtuale della pittura, nel modo dell’intuizione, l’artista di fatto sa darci una sintesi della commisurazione intercorsa fra le caratterizzazioni varie del suo io con le datità dell’altro”. L’interessante saggio è strutturato i sei parti: “L’identità negata”, “La percezione, il simbolo, l’indagine verificale e il sentimento della natura”, “Van Gogh e l’identità cercata (La pittura come intuitiva metodologia della verifica)”, “Dopo il ricovero”, “Saint-Rémy e la ricognizione verificale”, “L’ultima stazione di Van Gogh”.


POMEZIA-NOTIZIE Impossibile dar conto di tutto il contenuto dell’opera. Va letta e la sua lettura, assicuriamo, è agile e accattivante, a tratti malinconicamente e dolorosamente godibile: vero e proprio romanzo di una vita spezzata in giovane età, vissuta nella sofferenza, per la quale l’unica gioia è venuta dalla natura e un qualche conforto, un qualche sprazzo di conforto, unito a crisi, dalla fede in Dio; una fede tormentata, che in un soggetto come lui, “che era protestante” e, dato il carattere, ha incupito la vita. La pittura vista come specchio di sé, scrive Bonanno, e come “intento <verificale>” la si ricava senza ombra di dubbio dalle lettere che l’artista scrive, in particolare, al fratello Théo. Sono, tali documenti, un interrogarsi e un rispondersi in una incessante e dolorosa - a volte anche straziante - indagine. Guardarsi continuamente nel profondo dell’io, con l’occhio reale e con l’immaginazione, “in modo da vedere - scrive - tanto i miei difetti quanto anche, forse, le qualità che li riscattano”. Occhio e immaginazione che - afferma il critico - “sono delle sonde commisurative”. Uno scrutarsi impietoso e un vedersi e sentirsi mutare in progress, come avviene nella realtà, per esempio, dei girasoli, come avviene nei campi di grano. Tutta la sua breve vita è stata un continuo scavo tra l’io, le sue aspirazioni e la spietata realtà quotidiana, sia lavorando nell’ambito del mercato dell’arte e nei musei - studiando tanti grandi pittori amati -, sia facendo l’ evangelista laico, a contatto con la povera

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gente e specialmente con i minatori. I drammi e le miserie dell’umanità sono il libro della sua formazione e la materia della sua pittura. Perché è nei soggetti umani, come in quelli della natura, che Van Gogh scarica le sue tensioni e il suo amore. Ansia e amore: dolore partecipato e affetto estremo, entrambi vere sorgive di follia che innalza, non della pazzia che annulla, quella che declassa e deprime, e della quale hanno scritto tanti critici. Il suo non compreso radicalismo amoroso è alla base anche dei suoi fallimenti lavorativi all’ interno del mercato dell’arte e l’allontanamento dai minatori quale predicatore, perché il suo trasporto verso costoro appare agli altri solo fanatismo. Tutti questi contrasti, che egli assorbe come spugna, contribuiranno ad aggravare la sua fragilità psichica. Le nere nuvole e i corvi; il freddo vento impetuoso; i cieli, il sole e le stelle galattici; le piante tormentate dalle intemperie; i fiori ora nella loro gagliarda bellezza, ora nell’ appassimento e nella morte; le sedie logorate, i tavoli sgangherati; i campi nei mutamenti delle stagioni; le case stamberghe; i volti macerati, scavati e gli occhi spiritati dal dolore, sono il segno della sua continua e spietata indagine, della pietà per gli altri più che per se


POMEZIA-NOTIZIE stesso, del suo straripante amore, della sua preghiera, perché le sue spennellate, le sue spatolate, spesso sono come ceri che si consumano nell’invocazione a Dio. Van Gogh esprime in ogni cosa il proprio dramma interiore ed è un sentimento profondamente evangelico quello che lo spinge verso ogni reietto, gli sfruttati, le prostitute. “L’ irrequietezza ed inquietudine vangoghiana nascono dalla sua duale natura - scrive Bonanno -, dall’antiteticità delle sue caratterizzazioni soggettive, accresciute poi, da tutta una serie di scacchi e di fallimenti esistenziali che infirmano la sua vita alla solitudine e allo struggimento interiore”. Il pittore era un uomo cristianamente religioso ed al Vangelo corrisponde il suo pensiero: “sono sempre portato a credere che il mezzo migliore per conoscere Dio sia di amare molto” e “penso che la vita senza amore sia immorale e peccaminosa”. La sua tristezza derivava dalla consapevolezza che l’uomo è una piccolissima cellula nell’immensità del Creato. Egli, mentre gioiva nel trovarsi immerso nella bellezza della natura, dolorava per le miserie e i drammi dell’umanità e per la consapevolezza della nostra impotenza per eliminarli e persino per attenuarli. Così, solo dipingendo trovava un po’ di sollievo e, distraendosi, si scaricava delle ansie. Andrea Bonanno si domanda più volte chi ha ucciso Van Gogh - perché il suo, ripetiamo, non è stato suicidio - e le sue risposte sono state “il rifiuto che scaturisce dalla stupidità delle teodicee e dei credi aprioristici alteranti che dispongono

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l’uomo contro l’uomo per il darsi di una disumanità e di una ferocia inaudita” e la “ferocia degli altri che passa attraverso la sua umiltà acquiescente e, soprattutto, quella malinconia che gli arma la mano contro se stesso per farsi orrore metafisico ed esibizione agghiacciante di sé”. L’opera di Van Gogh, “intesa in senso <verificale>”, viene dal Bonanno confrontata a quella di Nietzsche e Dostoevskij: “Tutti e tre con la loro opera segnano la crisi del razionalismo e di tutte le pseudo-filosofie aprioristiche” e “tutti e tre concepiscono il dipingere e lo scrivere come degli strumenti e mezzi di un’indagine verificale a connotazione delucidativo-esistenziale in senso non solo soggettivo ma anche sovrapersonale e trascendentale” Alla base di tutti e tre c’è l’amore per l’ uomo, il tentativo di farlo emergere dall’ abisso della possibile disperazione. Van Gogh non riproduce la natura così come comunemente la vediamo, ma traendone la bellezza e il dramma interiori; la natura di Van Gogh è un simbolo, una percezione, non una riproduzione fotografica; non è statica, parla, e l’artista deve solo stenografare il suo linguaggio: “L’arte - afferma il pittore - è l’ uomo aggiunto alla natura”, un tutt’uno, insomma. Un carattere, quello di Van Gogh, estremamente labile, capace di essere influenzato e condizionato da ogni avvenimento, a volte anche insignificante; una parola di troppo, l’ insistere nel difendere un’idea, una giornata di sole, un temporale, il vento, una notte stellata... tutto lo coinvolge e lo stravolge, lo fa fibrillare, vibrare come il più delicato e sensibile diapason; persino l’avergli i genitori imposto il nome di Vincent, quello, cioè, del fratellino morto in tenera età, e, poi, l’aver chiamato, l fratello Théo, con tale nome anche il proprio figlio - fatti banali, insomma -, divengono per lui motivi di sconvolgimento. Una indagine, questa di Bonanno su Van Gogh, quasi psichiatrica. Domenico Defelice ANDREA BONANNO - VAN GOGH E LA PITTURA “VERIFICALE” - Ed. Youcanprint, 2016 - Pagg. 198, € 15,00


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UNO SGUARDO SULLA CINA DI IERI E DI OGGI attraverso i libri del narratore cinese

MO YAN (Nobel 2012) di Luigi De Rosa

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EL 2012 il Premio Nobel per la Letteratura è stato assegnato, dalla giurìa della Reale Accademia di Svezia, allo scrittore e sceneggiatore cinese MO YAN, nato da contadini poveri il 17 febbraio 1955 a Gaomi, nella provincia di Shandong, nel Nord-Est della Cina, finora più nota per avere dato i natali a Confucio, il propugnatore di una morale particolarmente severa e conservatrice. Mo Yan si è detto felicissimo del Nobel, anche se ha precisato che non è una di quelle cose che gli possono veramente cambiare la vita (nonostante il discreto ammontare monetario del Premio, di circa un milione e duecentomila dollari). Il governo di Pechino ha accolto con favore la vittoria di Mo Yan, anche perché l'ha interpretata come una “riparazione” da parte della Giuria del Nobel (che in precedenza aveva premiato col Nobel “per la Pace” il dissidente Liu Xiaobo) dopo essere stato sul punto di scatenare un incidente diplomatico e provocare, per ritorsione, il blocco del commercio del salmone con la Norvegia. A sua volta, invece, Mo Yan è stato du-

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ramente attaccato dai dissidenti cinesi, particolarmente da Wei Jingsheng, secondo il quale il riconoscimento a Mo Yan ha voluto essere un'offerta di pace al governo cinese per placarne il perdurante risentimento. Richiesto di un parere in merito, Mo Yan ha preferito sorridere e tenere fede al suo soprannome : “ Preferisco non parlare”. Ma già il giorno dopo, il 12 ottobre, ha lanciato un appello al Governo di Pechino perché liberi Liu Xiaobo “il più presto possibile”. (Appello che però, all'insediamento del nuovo Presidente Xi Jinping, non ha ritenuto di formalizzare). Il vero nome dello scrittore è Guan Moye. Mo Yan è uno pseudonimo, un nome di penna, che significa “ colui che non vuole parlare”, “colui che non parla”. O alla lettera, secondo la sinologa Maria Rita Masci, “senza parole”. Lo scrittore lo ha scelto da tempo perché gli era rimasto impresso che, da bambino, i genitori e la nonna lo zittissero sempre (“non parlare”!) perché parlava troppo, e a quell'epoca, in piena Rivoluzione Culturale delle Guardie rosse, il parlare troppo poteva risultare pericoloso. Anche una parola sbagliata avrebbe potuto rovinare la vita di un individuo e della sua famiglia. Del resto, sarà proprio la Rivoluzione culturale a impedirgli di proseguire gli studi, che comunque riprenderà più tardi arruolandosi nell'Esercito Popolare, fino a laurearsi in Lettere. Facendo come molti altri giovani cinesi delle campagne, che si arruolavano nell'Esercito “per poter.. .mangiare a sazietà e vestirsi bene.” Nell'Esercito (dove ricoprirà il ruolo di addetto culturale) resterà ventun anni, dal 1976 al 1997. L'esperienza fatta da bambino, strappato alla scuola per essere mandato a lavorare nei campi di cotone o a pascolare capre e mucche, restando il più possibile zitto, lo segnerà per tutta la vita. “I bambini hanno strani meccanismi – ha detto un giorno Mo Yan – e più i miei mi dicevano di stare zitto più mi sembrava di avere cose da dire. Gli ho creato un sacco di problemi per il fatto che non riuscivo a tenere la bocca chiusa. Così quando ho cominciato a scrivere ho usato Mo Yan come pseudonimo.”


POMEZIA-NOTIZIE Certo è che nel corso di lunghi anni Mo Yan ha parlato abbastanza poco ma in compenso ha scritto moltissimo, tra racconti e romanzi, alcuni dei quali assai lunghi, anche di circa 500 pagine, come Sorgo rosso, la tragica epopea di Gaomi, dall'invasione Giapponese alla Cina d'oggi. Per non parlare di una miriade di storie brevi. La sua prolificità (e a volte torrenzialità) di scrittura è tale che egli stesso ha riconosciuto che può restare a scrivere anche per dodici-quindici ore di seguito (salvo, magari, non scrivere poi niente per dodici giorni). Egli non scrive al computer, ma preferisce scrivere su carta normale, usando l'apposito pennello e l'inchiostro. A tutto ciò si aggiungano le sceneggiature cinematografiche (“Sorgo rosso” e “Addio mia concubina”). L'Editore che finora lo ha fatto conoscere in Italia è Einaudi. Presso la casa editrice torinese, infatti, sono usciti libri come Sorgo rosso, scritto nel 1987 e pubblicato per la prima volta, col titolo originale Hong gaoliang Jiazu, a Taipei nel 1988. “Sorgo rosso” che è il suo romanzo più famoso, e dal quale il regista Zhan Yimou ha tratto un film di successo, sceneggiato dallo stesso Mo Yan e premiato al Festival di Berlino 1988 con l'Orso d'Oro, è stato tradotto per la Einaudi da Rosa Lombardi. L'opera è composta di cinque “Libri” (quasi alla stregua del poemi epici antichi...) nei quali l'Autore, come voce narrante, racconta la storia di Gaomi, e degli amori e delle gesta del bandito, poi patriota, Yu Zhan'ao (nonno dell'Autore) nonché dei drammi e delle tragedie dei suoi familiari. Cioè della nonna Dai Fenglian, dello zio Liù, della madre Quing'er, del padre Douguan, della seconda nonna Lin'er. Come efficacemente ha scritto Renata Pisu, “gli eroi sono contadini ignoranti, balordi, coraggiosi, superstiziosi, vigliacchi, nobili, assassini, vittime e carnefici : fanno l'amore, si ubriacano, combattono, violentano e sono violentati. Sono quella “canaglia” che Mao Ze Dong evoca nel suo famoso “Rapporto sul movimento contadino dello Hunan” del 1927: dicono che sono canaglia, vanno in giro con

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le scarpe rotte, con un ombrello bucato sotto il braccio, addosso lunghi mantelli di paglia, giocano di soldi e dadi, ammazzano i maiali, rubano il grano...” E noi, a nostra volta, ci chiediamo: Perché Mo Yan ha dato voce a questo mondo? Innanzitutto perché è quello da cui provengono egli stesso e le generazioni precedenti di suoi familiari. E' il mondo non solo geografico e ambientale, ma soprattutto umano, psicologico e sociale che conosce meglio. E Mo Yan ha sempre sostenuto che, se non si possiede una profondissima cultura, bisogna scrivere solo di ciò che si conosce bene. Secondariamente, perché, nella sua veste di addetto culturale dell'Esercito Popolare di Liberazione, si sente naturalmente portato a dimostrare, in prima persona, l'immensa azione storica benefica che sarebbe stata svolta da Mao in Cina, nello studio della compagine sociale, per una rifondazione e una rigenerazione della stessa. Anche se non possiamo dimenticare le sue critiche aperte e accorate al modo di vivere nelle campagne cinesi oggi, tra sporcizia e corruzione, tra inquinamento e gabelle arbitrarie e ingiuste. I cinque “libri” di Sorgo rosso raccontano proprio di questa “canaglia”, e delle armi e delle gesta del nonno dell'Autore, Yu Zhan'ao, e di suo figlio Douguan (padre dell' Autore), e di mille piccoli personaggi di questo mondo “ assieme a monaci buddisti, collaborazionisti, briganti, giudici imparziali, belle donne appassionate, vecchi tremebondi, cani che si coalizzano contro gli umani ( e viceversa)...” Secondo il mio punto di vista personale, i personaggi femminili sono quasi tutti migliori di quelli maschili. Le donne, tenute in nessun conto dal punto di vista sociale, pubblico, spesso sfruttate, angariate, sono le più positive e utili come collante familiare, portatrici delle sane ed utili tradizioni di casa, protettrici dei figli (a parte l'usanza disumana del mancato seppellimento dei bambini morti prima di compiere cinque anni... che peraltro non dipendeva dalla loro volontà). Quel poco


POMEZIA-NOTIZIE di bellezza, di gentilezza e dolcezza che era possibile in un mondo feudale in cui la vita quotidiana era così dura e faticosa, lo si deve alle donne. Sorgo rosso ha un'intonazione di grandiosa epopea, sullo sfondo degli sterminati campi coltivati a sorgo. Il sorgo è un cereale della famiglia delle Graminacee, uno tra i cereali più coltivati nel mondo, al quinto posto dopo mais, grano, riso e orzo, ed è una valida alternativa al mais nelle zone scarsamente irrigate e con piogge ridotte. I campi di sorgo, in autunno, “scintillano come un mare di sangue”. Scrivere sulla Resistenza anti- giapponese in Cina (e scriverne, per giunta, con immagini, a volte, violente e crude) ha sempre giovato, perché con questo gli scrittori toccano un nervo scoperto e sensibile dell'anima dei lettori cinesi. Per orientarci nel tempo, non possiamo non ricordare, rapidissimamente, che: negli Anni Venti e Trenta la Cina è ancora un Paese ad organizzazione socio-economica e culturale di tipo feudale, nonostante sia una Repubblica dal 1911; dal 1940 in poi infuria la lotta fra i nazionalisti di Chang Kai Sheck e i comunisti di Mao Ze Dong; una guerra di tutti contro tutti, giapponesi contro cinesi, cinesi contro cinesi, milizie paesane contro nazionalisti, comunisti, banditi, giapponesi ed altre milizie paesane. Un vero Caos. Dall'anno 1949 in poi abbiamo la Repubblica Popolare Cinese di Mao Ze Dong; La Cina di oggi, da sistema socialista si è trasformata in un sistema che, nei fatti, è un Capitalismo di Stato. Le immagini fra l'iperrealista e il visionario, dall'espressionista al barocco, a volte anche al truculento, al crudo e al crudele, (come non solo in “Sorgo rosso” ma anche ne “Il supplizio del legno di sandalo”) sono numerose nella narrativa di Mo Yan. Del resto sono caratteristiche di gran parte della narrativa moderna, oltre che funzionali alla materia narrata e alle sue atmosfere “allucinate” (o “magiche”, secondo la Einaudi, in cui la traduttrice

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Maria Rita Masci parla addirittura di “realismo magico” per le storie ambientate nella Cina pre-rivoluzionaria e di “ grottesco” per la Cina postrivoluzionaria e dei nostri giorni). Per farsi un'idea non solo del contenuto, ma soprattutto della forma, dello stile, occorre leggere il romanzo, anche e soprattutto a causa della tecnica narrativa usata da Mo Yan. Il racconto (composto e intrecciato, a sua volta, di altri racconti più brevi, o addirittura brevissimi) non si snoda in modo cronologicamente lineare ed uniforme, da un ieri ad un oggi a un domani. Anche se nelle grandi linee portanti, alla fine, la traiettoria è quella, perché così scorre e fluisce il Tempo nella vita reale (o no?). Anche se i cinque Libri sono divisi in vari “capitoli”, di un personaggio o di un avvenimento si parla un po' prima, un po' dopo, in un alternarsi e rincorrersi di flashback, all'indietro, o di forward, in avanti. A “Sorgo rosso” hanno fatto seguito altri libri, come L'uomo che allevava i gatti e altri racconti (1997), Grande seno, fianchi larghi (2002), Il supplizio del legno di sandalo (2005), Le sei reincarnazioni di Ximen Nao (2009). Un solo libro, tra quelli tradotti in italiano, sembra essere uscito grazie ad un editore diverso da Einaudi, e si tratta di Cambiamenti (Ediz. Nottetempo, Roma 2011), un racconto autobiografico di 104 pagine in cui l'autore racconta una parte della propria vita sullo sfondo di trent'anni di storia della Cina. E' un'autobiografia in punta di penna, l'autore non si mette mai al centro, sul palcoscenico sotto i riflettori, ma dedica maggiore attenzione ai destini dei suoi compagni di scuola elementare, soprattutto a quelli di He Zhiwu e di Lu Wenli. He Zhiwu è l'eroe-canaglia, anarchico e ribelle, che abbandona la scuola e si dà ai commerci diventando ricchissimo, con due sogni segreti: quello di guidare un vecchio camion verde Gaz 51, residuato sovietico della guerra di Corea crivellato di pallottole americane ma che corre ancora “come il vento”, guidato dal padre di Lu Wenli ; e, soprattutto, quello di sposare Lu Wenli, la graziosa (e sussiegosa) figlia dell'autista della


POMEZIA-NOTIZIE Azienda Agricola Statale, quello che guida all'impazzata il camion, osannato da tutti i ragazzini del paese e temuto da tutte le proprietarie di galline. He Zhiwu rivedrà Mo Yan nel 1992 (v. pag. 79), lo ospiterà in un hotel di lusso in riva al mare per vari giorni per potergli raccontare la propria vita. Mentre Lu Wenli si farà viva con Mo Yan nel finale di libro. Lui scrittore ormai affermato e noto, lei vedova. Gli chiederà una raccomandazione per fare assumere la propria figlia al Dipartimento per gli Affari Culturali e alla Radio-Televisione del Distretto di Gaomi. Quaranta posti per altrettanti giovani, con cinquecento concorrenti a contendersi quei quaranta posti. (v. pagg. 102104). Nel libro si parla anche di un viaggio a Pechino nel 1978 (l'anno della Riforma Agraria, Mo Yan aveva 23 anni) (v. pag. 47), della visita al Mausoleo di Mao (scomparso due anni prima, v. pag. 50) e della promozione a ufficiale di Mo Yan (v. pag. 72) . Tra le numerose opere che risultano non ancora tradotte in italiano mi limito a ricordare Rossa radice cristallina, Il clan dei mangiatori d'erba, Il paese del vino, Tredici passi, Foresta rossa e Quarantun cannonate. “L'uomo che allevava i gatti” è ispirato ad una esperienza personale: ”Andavo spesso con mio nonno a lavorare nei campi. Quello che ho scritto deriva sempre da cose che ho conosciuto direttamente.. Dagli anni Ottanta vado alla “ricerca delle radici” - ha detto, tra l'altro, Mo Yan in una Intervista rilasciata a Luciano Minerva nel 2005, per il canale televisivo Rai-News 24, in occasione dell'assegnazione a Mo Yan del Premio Nonino. Minerva aveva definito allora Mo Yan uno scrittore dalla fantasia imprevedibile, feroce e tenera. E a proposito dei contadini della sua infanzia e di quelli di oggi, Mo Yan aveva detto: “I contadini di oggi vivono meglio, ma trovo che la vita nei villaggi e nelle campagne è peggiorata e peggiora continuamente. C'è un profondo sconvolgimento. E troppa sporcizia puzzolente, che fa allontanare il cielo. Per

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non parlare della troppa corruzione che c'è tra gli amministratori locali, che a volte pesano sui contadini con tasse e gabelle ingiustificate.” Se lo dice Mo Yan, c'è da crederci. D'altronde la corruzione dei funzionari pubblici sembra talmente diffusa che il Partito Comunista Cinese, che ne riceve comunque un danno, è impegnato a combatterla in tutti i modi. Negli ultimi tempi il numero dei quadri condannati per corruzione è stato di circa novecentomila. (Una dirigente di banca di 49 anni aveva accumulato 41 appartamenti; un alto funzionario di polizia è risultato proprietario di 192 appartamenti, che aveva acquistato con un falso documento di identità. Aveva due hukou, cioè due permessi di residenza.) Secondo una legge cinese ancora in vigore, ogni cittadino cinese ha l'hukou, la residenza, nel luogo di nascita. Per la legge i cinesi si dividono in abitanti di città e abitanti di campagna, con diritti diversi. Ma vi sono in giro troppi falsi permessi di residenza. Mentre si studiano metodi veramente efficaci per stroncare la corruzione, metodi che non possono non tenere conto dell'enorme vastità e complessità del Sistema amministrativo cinese, il popolo (specialmente quello dei giovani) sta però imparando a difendersi da sé, magari fotografando e filmando tutti gli illeciti di cui viene a conoscenza, facendo dettagliate ricerche “patrimoniali”, anche su Internet, e denunciando il tutto al Partito, dagli appartamenti alle borse griffate, ai rolex, alle auto di lusso, alle mazzette di ogni forma ed entità. Parlando dei gatti e della loro “saggezza”, un giorno Mo Yan è passato a parlare degli altri animali in generale, e della specie umana, per le quali ha avuto parole di aperta critica “Gaomi, la mia patria letteraria, è molto povera, ma abbonda di animali di tutte le specie, che prima erano più rispettati. Noi non siamo i padroni del mondo, eppure causiamo l'estinzione di intere specie di animali. Gli uomini devono rispettare anche le altre realtà presenti nel mondo, a cominciare dagli animali e dalle piante...”


POMEZIA-NOTIZIE Per il libro “Grande seno, fianchi larghi”, Mo Yan ha avuto noie dalla censura cinese, a cominciare addirittura dal titolo, ritenuto troppo evocatore di...conturbanti immagini pornografiche. In realtà, per Mo Yan si tratta di un titolo serio. Il libro parla di una madre assolutamente diversa dallo stereotipo della madre cinese. “Una madre che fa nove figli con sette uomini diversi, più che una madre sembra una nutrice – commenta lo stesso Mo Yan - ma era secondo me il miglior modo per criticare un certo atteggiamento. Nella Cina tradizionale la donna è di fatto lo strumento per fare figli. Se una donna è sterile non ha nessuna posizione sociale. Ugualmente se genera solo femmine. Per questo il romanzo inizia con la nascita dell'ottavo figlio (finalmente un maschio!) in contemporanea con la nascita di un asino...” A proposito di figli . Mo Yan ha lavorato alla pubblicazione in Italia, sempre per i tipi della Einaudi, di un ultimo romanzo (frutto di ben dieci anni di lavoro faticoso) intitolato Rane, che dovrebbe essere la critica aperta ed esplicita della politica demografica del PCC del figlio unico (un solo figlio per coppia) che è in vigore dal 25 settembre 1980, e che secondo Pechino avrebbe permesso alla Cina di non arrivare alla mostruosa cifra di circa due miliardi di abitanti. In realtà molte coppie hanno un secondo figlio “illegale”, e la legge sul figlio unico è criticata e combattuta perché avrebbe causato troppe tragedie psicologiche personali e familiari (quindi “sociali”) per aborti forzati, ripudii, etc. Infatti il Partito Comunista cinese ne sta meditando l'abrogazione, anche perché in Cina risulta sempre più diffuso un benessere materiale crescente che va di pari passo col rischio di invecchiamento della popolazione. Ciò non toglie che, nel frattempo, continuino a fioccare le multe per coloro che violano la legge sul figlio unico: ad esempio, si parla di una multa di 18 milioni al regista cinematografico Zhan Yimou, che avrebbe avuto sette figli da tre donne diverse... La motivazione ufficiale dell'assegnazione del Premio Nobel a Mo Yan dice che il Pre-

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mio gli è stato conferito “ per il suo realismo allucinatorio che fonde racconti popolari, storia e contemporaneità”. Questa vittoria, come visto, è stata salutata con soddisfazione in Cina, come la prima volta del Nobel per la Letteratura ad un cinese. In realtà il Premio era già stato assegnato ad un cinese, nel 2000, a quel Gao Xingiian che però non è riconosciuto dal governo cinese, in quanto trasferitosi da molti anni in Europa perché dissidente, e divenuto cittadino francese. Un altro Premio Nobel, ma stavolta per la Pace, come visto sopra, era stato assegnato nel 2010 ad un cinese, quel Liu Xiaobo, dissidente, che sta scontando in carcere una condanna a undici anni di reclusione. Giova ricordare che Mo Yan non è un aperto dissidente nei confronti del comunismo cinese; egli ha approvato la Rivoluzione di Mao del 1949 che avrebbe liberato il popolo cinese dalla profonda miseria e dal suo sfruttamento medievale da parte dei regimi precedenti, spesso alleati con potenze straniere. In fin dei conti Mo Yan è sempre stato un membro attivo del PCC, ed è un veterano dell'Esercito Popolare, grazie al quale ha potuto studiare ed usufruire di biblioteche ben fornite (specie di libri di narratori russi e francesi), stampare articoli e volumi.. Eppure tutta la sua narrativa, direttamente o indirettamente, contiene critiche implicite non tanto a Mao Ze Dong ma alla politica di quelli che si sono succeduti nel governo della Cina dopo Mao, dal periodo post-rivoluzionario all'odierno Capitalismo di Stato. Mo Yan non è un dissidente aperto, ma a quanto pare non può nemmeno essere definito un intellettuale organico al PCC. E molte pagine dei suoi libri, specialmente di “Grande seno, fianchi larghi”, sono state colpite dalla censura. E non solo per un certo tono grottesco nei confronti delle gigantesche contraddizioni della immensa Cina, che si dibatte tra conservazione e discusse riforme, tra aspirazioni da seconda superpotenza mondiale e difficoltà e impacci derivanti da un sistema ancora troppo accentratore. Luigi De Rosa


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LUIGI DE ROSA E LA GRANDE POESIA DI GIANNI RESCIGNO di Carmine Chiodo

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IANNI Rescigno non morirà mai grazie alla sua poesia, a cui amici e critici hanno dedicato vari libri e saggi. Ora vede la luce questo bel e scorrevole, chiaro libro dello scrittore e poeta De Rosa su tutti i libri in versi di Rescigno, a partire da <<Credere>> fino ad arrivare ai nostri giorni. Il libro - come si legge nella Premessa <<avrebbe dovuto uscire quando il poeta Gianni Rescigno era ancora in vita>>. Personalmente non ho conosciuto Gianni Rescigno: ci scrivevamo e poi ci sentivamo telefonicamente, e dalla sua voce evincevo e mi rendevo conto che era un uomo generoso, buono, innamorato della poesia. Rescigno ci ha lasciato vari libri poetici che si impongono per temi, linguaggio; libri originalissimi. E voglio ricordare alcuni suoi versi che mostrano di trovarci davanti a un grande poeta. << Da dove venimmo /là torneremo. Questa/vita un sogno che sosta /tra acque e vento ./ Caduta di foglie /e festa di fiori>> (la poesia appartiene alla silloge Un sogno che sosta, Torino 2014); e ancora: << Signore /buono è il sole/buona è la mia terra,/ E l’acqua seppure scarsa/è buona,/Buono è il grano e il suo odore,/La chiami Sud/ la mia terra,/Ha querce e ulivi /viti e pascoli di roccia/stagioni di melma/per zoccoli di bufala> (Buona è la terra ). Qui, giustamente fa notare il critico, si vede la potenza espressiva che si sprigiona dai versi in modo ancora più efficace, proprio perché, a parte l’aggettivo qui - qualificativo

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buono (buona, buoni) non vi sono in essi, che elementi essenziali. Ecco ancora questi altri versi che si riferiscono alla composizione Confidenzialmente alla Signora del Tempo: <<Non so perché Signora /sono stato sempre propenso /ad immaginarti anziana,/non bella, bianca di capelli /come mia madre,/e con voce di preghiera,/ sguardo dimesso di chi implora,/Le mani te le ho sempre viste rugose/le unghie consunte di liscivia/nel bucato di cenere,/ e in sforzi di pazienza/le stanche movenze delle braccia>> (p.109). Poesia, questa di Rescigno, di fascino. Il commento, l’analisi di Luigi de Rosa alle varie liriche che compongono le varie sillogi del poeta che ci ha lasciato la notte del 13 maggio 2015, è puntuale, sicuro, penetrante. De Rosa coglie in modo perfetto e con molta perizia, quelli che sono i contenuti, lo stile, il linguaggio della poesia di Gianni Rescigno, sulla cui opera esiste una foltissima bibliografia che annovera critici e studiosi di grande valore e fama, e ne cito solo alcuni, tra quelli riportati dallo stesso De Rosa: Giorgio Bàrberi Squarotti, Francesco D’Episcopo, Antonio Coppola, Giorgio Linguaglossa. Mariella Bettarini. L’illustre critico letterario e poeta Bàrberi Squarotti, già citato, avendo appreso la dipartita del poeta cosi scrive il 13 maggio 2015: << piango con voi l’amico fervido e affettuoso di tanti decenni e il grande poeta che durerà al di là del nostro tempo come lezione di bellezza e di verità>>. Molte le lettere di cordoglio pervenute alla gentilissima consorte del poeta, Lucia Pagano. Da segnalare l’ articolo di Marina Caracciolo apparso sulla rivista mensile <<Pomezia -Notizie>>, fondata e diretta dal notissimo e apprezzatissimo poeta, scrittore, saggista, critico letterario e d’arte, Domenico Defelice. Rescigno scriveva e pubblicava versi da quando aveva 25 anni ed egli inoltre sapeva di valere, e ciò lo stimolava sempre a proseguire nella sua ricerca e creazione poetica. Persona umile Gianni Rescigno ma grande poeta come è testimoniato dalle sue opere, ora finemente e magistralmente analizzate da


POMEZIA-NOTIZIE Luigi de Rosa, che con una scrittura limpida, chiara, diretta, senza fronzoli, indaga e esamina in lungo e in largo le poesie di Rescigno, additandone il valore, i pregi, i temi, il linguaggio, tutto quanto il loro fascino. L’ analisi puntuale segue silloge dopo silloge il poeta salernitano ed ecco le origini di Rescigno, la sua terra ed il suo primo libro, già citato, del 1969. Ecco come è strutturato il cristallino libro esegetico del de Rosa: <<Il primo libro. Credere>>; << Questa elemosina>> (1972); <<Torri di silenzio>> (1976); <<I salici, i vitigni>> (1983); <<Tutto è niente>> (1987); <<Un passo lontano - Poesie per la madre>> (1988): <<Il sogno dell’uomo>> (1998): <<Angeli di luna>> (1994); <<Un altro viaggio>> (1995). Poi seguono le altrettante limpide pagine che attengono alle raccolte che si sono succedete nel tempo: Le strade di settembre (1997); Farfalla del 2000, Dove il sole brucia le vigne del 2003; Le foglie saranno parole sempre del 2003, Lezioni d’amore del 2003, Io e la signora del tempo del 2004, e poi ancora Come la terra e il mare (2005), Dalle sorgenti della sera (2008), Gli occhi sul tempo (2009) e ancora solo per citarne altre come Sulla bocca del

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vento del 2013, Un sogno che sosta del 2914. Dopo la presentazione critica di queste raccolte poetiche, voglio citare questi profondi e significativi versi: <<Forse ho seminato / quando non dovevo seminare /ho raccolto quando /non dovevo raccogliere,/ ho potato la tua vigna / quando non dovevo potare //forse ho scritto per te/parole che non avranno echi di poesia eterna,/ Perdonami Signore /se a te vengo / con mani vuote ‘Le ferite nel cuore,/ il lume della speranza negli occhi>>. L’analisi critica di De Rosa – va ribadito procede su binari giusti ed è scientifica, rigorosa, pertinente, privilegia sempre il testo ben esplorato in ogni sua componente. Per rendersi conto di ciò basta leggere le considerazioni, le analisi critiche che il critico- interprete dedica alle sillogi, analizzate al loro apparire da profondi conoscitori e studiosi della poesia contemporanea. Comunque la poesia di Rescigno occupa un posto privilegiato nel panorama foltissimo della poesia contemporanea e questo bel libro di De Rosa ce lo ricorda, ce lo dimostra ampiamente e persuasivamente. Carmine Chiodo Luigi De Rosa, La grande poesia di Gianni Rescigno. Il poeta di Santa Maria di Castellabate, Genesi Editrice 2016, pp. 186.

OSCURITÀ Non temere se sto male e son mezzo moribondo perché tanto anche se muoio non per questo muore il mondo Certo anche la mia fine prima o poi arriverà per lasciarci tutti al buio con le nostre oscurità E così del vecchio mondo ogni aspetto svanirà per condurci nel silenzio di una cupa eternità. Raffaele Cecconi Venezia, anni 87


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DIECI INVITI A CENA di Liliana Porro Andriuoli

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IECI inviti a cena, a cura di Maria Cristina Castellani e Rosa Elisa Giangoia, è un libro che nasce dall’ iniziativa di alcuni amici i quali, trovatisi insieme, una sera a cena, nell’allegria del convito, hanno accettato la proposta, lanciata da uno dei commensali, di scrivere ciascuno un racconto capace di far rivivere dei personaggi o degli autori “famosi anche per aver sfiorato il tema dell’alimentazione o addirittura essersi impegnati a lasciarci qualche interessante ricetta”. È quanto viene spiegato dalle due curatrici nel capitolo introduttivo (Eravamo a tavola…) di questo interessante libro di racconti, ma allo stesso tempo anche di ricette. Ricette che vengono riportate alla fine di ciascun capitolo, corredate spesso da utili spiegazioni e originali informazioni, dei piatti serviti a tavola, o semplicemente nominati nel testo. Gli amici non volevano infatti “scrivere solo alcune ricette ispirate a testi letterari”, ma era loro intenzione “creare racconti nuovi”, in modo da dar vita a delle storie nelle quali, “in

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modalità autobiografica diretta o inventando un nuovo testo narrativo”, fossero evocati autori di libri famosi i quali, in virtù della loro autorità, avrebbero nobilitato l’argomento. Accolta la proposta, gli amici si misero con entusiasmo all’opera e ben presto l’iniziativa prese la forma di un libro di piacevole lettura, che conteneva i contributi di tutti, essendo, come suol dirsi, a più mani. Apre il volume un racconto di Rosa Elisa Giangoia intitolato C’ero anch’io, nel quale l’autrice immagina di essere stata invitata a una cena in casa di Trimalcione, il protagonista del Satyricon di Petronio Arbitro, cui il racconto è dedicato. Tornata indietro di millenni attraverso la “macchina del tempo”, la Giangoia descrive, con sapiente capacità evocativa, l’ambiente in cui ha luogo il banchetto, che in realtà denota una totale mancanza di buon gusto: le vivande offerte appaiono infatti eccessive e troppo elaborate. Esse sono presentate inoltre con un apparato coreografico sfarzoso, avente l’unico scopo di stupire i convitati. E stupiti costoro lo sono sicuramente, ma specie per la volgarità e per la crassa ignoranza dimostrate dal padrone di casa ogni qual volta apre la bocca. Nulla, insomma, in questa cena sembra conforme alle norme di buon gusto e di sobria eleganza di cui amava circondarsi un vero romano di antica stirpe. Grande in ogni caso è qui la varietà dei piatti serviti: si passa dai ghiri in salsa di miele al cinghiale, dal pasticcio di tordi alle ostriche alle oche e alle lumache, il tutto accompagnato da uva, datteri e noci, nonché innaffiato da un ottimo vino, il falerno, e impreziosito dal garum, una salsa piccante a base di pesce, in gran voga presso i romani (anche se quella offerta non era della migliore qualità). Un’altra occasione di proiettarsi indietro nel tempo la Giangoia, che è anche un’ottima cuoca e una cultrice di pietanze in uso nei secoli passati (suo è il libro: A convito con Dante, Torino, Il Leone Verde, 2006) la coglie nel racconto successivo, intitolato Nel castello di Soave, nel quale compare addirittura Dante (cui il racconto è dedicato), ospite di Cangrande della Scala, alla cui mensa il poeta


POMEZIA-NOTIZIE dialoga con un ignoto interlocutore, un pellegrino che si siede al suo tavolo e l’interroga ed al quale egli risponde, esponendo con sobrie parole le usanze di quell’ambiente e i cibi che vengono offerti ai commensali, a cominciare dal pane insipido, spalmato col paté di fegatini di pollo, per seguitare col cinghiale, servito con verdure e terminare con la Spungata (o Spongata), che è un dolce molto antico, oggi tipico di Sarzana e dell’entroterra emiliano. L’austera figura dell’esule fiorentino emerge qui tratteggiata con grande efficacia. Il successivo racconto, Scherzi di fantasmi veneziani, è di Giovanni Cadili Rispi, ed è dedicato a Carlo Goldoni. In esso l’autore, che è anche un bravo attore di teatro, narra di una sua avventura veneziana, occorsagli in casa di Donatella del Monaco, la nipote del grande tenore, della quale era ospite. E proprio a casa della cantante, Giovanni si era travestito per il Carnevale da gentiluomo veneziano del Settecento ma, prima di uscire, colto da un’improvvisa stanchezza, si era disteso sul letto e si era addormentato. Destato da un rumore di passi, aveva inseguito un’ombra che lo aveva portato sino ad una locanda, dove quell’ombra si era rivelata essere quella di Carlo Goldoni in persona, qui presentatoci in quelle che sono le caratteristiche del suo stile di commediografo, vivace e legato alla concreta realtà. Fu durante la cena in compagnia di Goldoni che Rispi potette gustare alcuni piatti tipici veneziani, come l’agnello mielato, il bollito di carni miste in salsa verde, le polpette di Arlecchino e gli zaeti, tipici biscotti veneziani, intinti nella malvasia. Ad un certo punto però Giovanni si sente scrollare e, destatosi, si accorge di aver dormito ed aver soltanto sognato un’avventura legata alle sue esperienze di attore amante di Carlo Goldoni. Troviamo poi un nuovo racconto di Rosa Elisa Giangoia, Il pergolato di Charmettes, dal quale emerge la figura di Jean Jacques Rousseau (cui il racconto è dedicato) che viene colto in quelli che sono i dati salienti della sua personalità. Il racconto è ambientato a “Chambeéry, in Savoia, dove Rousseau era

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vissuto per alcuni anni insieme alla sua adorata Madame de Warens” e dove la Giangoia si era recata in gita negli anni ‘90, all’epoca in cui stava scrivendo il suo libro su Rousseau (In compagnia del pensiero, Firenze, L’ Autore libri, 1994), al fine di “penetrare quanto più a fondo fosse possibile nella sua personalità”. Ella immagina di averlo visto, proprio lì, sotto il berceau della sua modesta, ma gradevole casetta presa in affitto, in compagnia della Warens e di un altro uomo, forse Arnet o Vintzenried, suoi rivali in amore. Non tanto però di amore si tratta in questo racconto, quanto dell’ambiente in cui i personaggi agiscono e dei cibi della loro mensa, tra i quali eccelle la Fondue Savoyarde e il Gâteau de Savoie. Fresco e vivace, come altrove, è lo stile che, in virtù di quel ricordo, introduce il lettore in un mondo ormai lontano, ma sempre affascinante per le suggestioni che evoca. Fa seguito Una cucina tutta per sé di Maria Cristina Castellani, dedicato a Virginia Woolf, da cui prende il titolo, parafrasando quello del saggio A Room of One’s Own della nota narratrice inglese. In questo racconto (che è sotto forma epistolare), l’autrice rievoca gli anni, durante i quali, da giovane, “per medicare recenti ferite della vita” che l’ avevano duramente colpita, si trovava a Parigi, impegnata a scrivere la tesi che le avrebbe fatto conseguire (ma che non conseguì a quell’epoca) la seconda laurea. Nella Biblioteca dove era solita recarsi le capitò, un giorno, di chiedere il saggio della Wolf e ne rimase impressionata. Fu infatti proprio il modo in cui la Woolf parlava della diversa alimentazione praticata nel College femminile rispetto a quella, ben più appetitosa e nutriente, presentata ai suoi coetanei nel College maschile, che indusse Cristina a modificare le sue abitudini alimentari e ad abbandonare la “grigia dieta” che si era “imposta” ormai da diverso tempo e che continuava a seguire più per uno scarso senso di consapevolezza che per altra ragione. Sicché una sera, invece di mangiare la sua “solita insalata”, decise di recarsi, insieme ad un’amica, nel Quartier Latin, dove, in un caratteristico locale greco, cenarono al-


POMEZIA-NOTIZIE legramente con una moussaka e ballarono il sirtaki. Una decisione importante questa per la sua vita che le permise di ampliare la dieta e migliorare il suo rapporto con il cibo, ma soprattutto le fece acquistare una maggiore consapevolezza di sé, consentendole così di affrontare con più equilibrio i successivi momenti di crisi, inevitabili durante il percorso dell’umana esistenza. Le offrì inoltre anche la possibilità di conoscere persone che guardavano alla vita in modo positivo e che tuttora ricorda per l’importanza che ebbero sul suo futuro. Fra queste ricorda in particolare la grande Fernanda Pivano, autrice delle ottime traduzioni degli scrittori nordamericani, con la quale ebbe anche l’opportunità di gustare cibi schiettamente liguri, come la farinata. L’incontro di due solitudini può definirsi il successivo racconto sempre di Maria Cristina Castellani, Non so in che tempo avveniva, nel quale i due protagonisti, Katrine Larsen e Jean de Boufflers si conoscono per caso, mentre attendono il battello che collega Dakar con l’isola di Gorée e stringono così un’ amicizia che li porta a vivere una breve ma intensa avventura. Katrine, che è scampata fortunosamente dall’incendio della missione dove lavorava e dalla guerra, perdendo il marito, si sente attratta da Jean, uomo cavalleresco e di bell’ aspetto, col quale trascorrerà una notte d’amore, che però non avrà un seguito perché egli, gravemente ammalato, partirà la mattina seguente per la Francia, dove intende curarsi, e non potrà più ritrovarla. Li unisce l’amore per una scrittrice danese, Karen Blixen, ed è sulla prima pagina di uno dei suoi libri, da lui donatole, che Jean, il quale era tornato a cercarla, legge il significativo messaggio: “Vivi!”. È questo un racconto molto intenso, che costituisce un invito ad accettare la vita, nonostante ogni delusione e ogni sofferenza. Ed anche qui troviamo il consueto accenno alla cucina del luogo, della quale i due gustano, durante la cena, alcuni piatti tipici, come il pollo al cocco, il gelato di mango e i beignet di banana. Autori del racconto successivo, intitolato

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Papa doble e dedicato a Ernest Hemingway, sono Emilia Michelazzi e Orlando Planche Morales. Vi si narra di un giovane cameriere (lo stesso Planche), di un caffè dell’Avana, il quale un giorno ha l’occasione di ospitare nel suo locale un cliente eccezionale, l’ombra del grande scrittore Hemingway, che gli ordina un Daiquiri, cioè un cocktail a base di rum, del quale si rivela un vero conoscitore. Nel raccontare l’origine del Daiquiri gli suggerisce poi anche la ricetta di un altro cocktail, che Orlando, non appena lo scrittore si è perduto tra le ombre della notte, chiama “Papa Doble”. Particolarmente viva si fa avanti in queste pagine la figura di Hemingway, sempre in cerca di nuove esperienze che poi trasferirà nei suoi romanzi e nelle sue novelle. Un altro dei partecipanti alla composizione di questo libro attraverso un racconto è Gian Mario Cama, il quale dedica il suo testo a Georges Simenon, intitolandolo Madame Maigret e il mistero della farfalla color zafferano. Qui protagonisti sono: Maria, una giovane laureata italiana, e il marito, Michel Martin, un pittore francese, che si sono sposati nonostante il dissenso delle rispettive famiglie e vivono a Parigi. Maria ha vinto una borsa di studio come ricercatrice e con quella riesce a portare avanti il ménage domestico, con l’aggiunta del ricavato della vendita di qualche quadro del marito. La loro situazione economica pertanto non è rosea, ma un giorno Maria conosce la signora Maigret (la moglie del celebre commissario dei libri di Georges Simenon), sedendo con lei su una panchina ai giardini pubblici di Place des Vosges e fanno amicizia. M.me Maigret prende subito in simpatia la giovane, sicché l’invita a un pranzo in casa sua, durante il quale Maria e Michel possono gustare le saporite pietanze francesi che la padrona di casa offre loro, consistenti in una zuppa di cipolle, con pane gratinato e filetti di sogliola alla mugnaia, camembert al forno e torta di mandorle. Felici della serata trascorsa inviano alla padrona di casa un bigliettino di ringraziamento che, al loro rientro dalla vacanza, troveranno nella cassetta della posta, come corrispondenza non


POMEZIA-NOTIZIE evasa per “destinatario sconosciuto”! La farfalla color zafferano che compare nel titolo è quella che si posa sulla spalla della signora Maigret e che subito richiama alla mente di Maria un’altra farfalla, quella che dà il nome ad una raccolta di racconti di Eugenio Montale, intitolata appunto La farfalla di Dinard. Originale è l’impostazione del racconto, che consente all’autrice di entrare con disinvolta leggerezza e vivace fantasia nel mondo che vuol descrivere. A lezione di amore e cucina con Dona Flor è il testo di Emilia Michelazzi, dedicato a Jorge Amado, lo scrittore brasiliano, del quale viene evocato il personaggio di Dona Flor, tratto dal suo romanzo Dona Flor e i suoi due mariti (l’uno più estroso, ma morto che viene “richiamato in vita dal desiderio di Flor”, mentre l’altro è “un devoto …e rassicurante” farmacista), personaggio che l’autrice accosta a quello della sua suocera cubana, Ofelia, che le ha rivelato i segreti della cucina locale, nata dall’“incontro tra la cucina indigena con la cucina spagnola e portoghese”. E si tratta di un’arte, quella della cucina cubana, che richiede innanzi tutto la volontà di penetrare nella realtà del Paese al quale essa appartiene, cui si perviene a poco a poco, con la “passione” dell’“innamoramento”. Successivamente è richiesta una scelta accurata degli ingredienti necessari per elaborare i singoli piatti e un’assoluta dedizione nel prepararli. I risultati allora non potranno mancare e faranno apprezzare colei (o colui) che la pratica, come accade al termine di questo racconto. I piatti principali della cucina cubana sono costituiti dai frijoles (fagioli) cucinati con vari ingredienti; dalla ropa vieja (un miscuglio di carne e verdure); dalla yuca (tapioca) con mojo (salsa) e infine Cocadas (dolci di cocco). Chiudono il libro Gli arancini di Cristina di Maria Cristina Castellani, un racconto in cui l’autrice narra dei suoi viaggi in Sicilia in qualità di Ispettrice del Ministero della Pubblica Istruzione, durante i quali ha avuto modo di penetrare il fascino di quella Terra, capace di attrarre a sé chi la visita ed ha l’ opportunità, vivendo in essa anche se per poco

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tempo, di gustare le specialità della sua cucina. Dedicato al Commissario Montalbano, il noto personaggio di Andrea Camilleri, il racconto si sofferma anche (ed è questa la ragione del suo inserimento in questo libro) nella descrizione di cibi molto raffinati e gustosi, quali gli Arancini di riso, gli Spaghetti alla Bottarga; gli Involtini di pesce spada e i Cannoli siciliani. I viaggi di Cristina nell’isola a lei cara si trasformano pertanto sempre in una festa attesa con trepidazione e goduta con serena letizia. Qui il libro si chiude, non senza aver dato alcune informazioni molto interessanti sulle opere che hanno ispirato i singoli racconti e non senza aver fornito alcune notizie su coloro che dei singoli racconti sono stati gli autori. Si tratta dunque di un lavoro accurato, che offre l’occasione di una piacevole lettura, ma che soprattutto offre un ricettario prezioso di saporite vivande, capaci di allietare la mensa di quanti vogliano gustarle. Liliana Porro Andriuoli DIECI INVITI A CENA, A cura di Maria Cristina Castellani e Rosa Elisa Giangoia (Erga Edizioni, Genova, 2016, € 14,00)

GIORNATA INTERNAZIONALE DELLA DONNA 8 Marzo 2017 Io sono una donna e mi merito un giorno speciale per festeggiare la mia vita, per la mia disponibilità per la cura per la natura, gli animali e gli esseri umani, per la mia capacità di perdonare gli errori e per essere aperta nella disillusione ... Anche se non è sempre possibile a fondamentale speranza, è utile proclamarlo in pensieri e azioni, perché questa è la grandezza di donna. Teresinka Pereira USA - Trans. by Giovanna Guzzardi, Australia


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IL CANTO IX DEL PARADISO (Ultima puntata)

di Fabio Dainotti ’Ottimo1 sottolinea la varietà delle domande di Dante: “Qui l’Autore, volendo inchiedere l’anima come ha fatto l’altre, innuova forma nel suo stile[…]. La prima volta in questa spera […] disse: Chi siete voi? Nella seconda: dimetti al mio volere tosto compenso. Ora dice: “Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia” . “L’impazienza lo rende ardito, al che quasi rimprovera.”, osserva il Torraca2, il quale si chiede: “Ma perché quel “beato spirto” tarda a parlare? Certo perché Cunizza l’ha presentato con tanta lode e con tanta enfasi”. “S’inluia” è conio dantesco come gli altri parasintetici “intuassi, immii”. Al v.77 si accenna al “canto” che queste anime avevano interrotto, un canto “pria cominciato in li alti serafini” (Pd VIII 25-7). La musica, infatti, assieme alla luce, è un'altra caratteristica del Paradiso. Significativo l’ accenno ai fuochi pii: il fuoco, infatti, è simbolo dell’amore, ma anche della furia guerriera dello spirito con cui il pellegrino sta parlando (cfr. “facella” del v. 29). Al v.78 il riferimento al saio ben si addice al destinatario delle parole di Dante, che, come sapremo tra poco, è un religioso, o meglio lo diverrà nella seconda parte della sua vita. Si noti al v.79“satisface a miei disii”: costruito alla latina, lingua in cui satisfacio regge il dativo. Anche il rincorrersi dei pronomi personali e dei possessivi di prima e di seconda persona nei versi 80-81 valgono a creare un clima di scambio e di disponibilità comunicativa.

L

L’Ottimo commento della Divina Commedia, Arnaldo Forni Editore, Pisa 1995, Tomo III, Paradiso, p. 228. 2 La Divina Commedia, commentata da Francesco TORRACA, Milano e Roma, Dante Alighieri 1992, p. 716. 1

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Il parasintetico, d’altronde, è qui formato da un pronome e non da un nome, naturalmente con l’aggiunta simultanea di un prefisso e di un suffisso. “La maggior valle in che l’acqua si spanda”, incominciaro allor le sue parole, “fuor di quel mar che la terra inghirlanda, tra’ discordanti liti contra ’l sole tanto sen va, che fa meridïano là dove l’ orizzonte pria far suole. Di quella valle fu’ io litorano tra Ebro e Macra, che per cammin corto parte lo Genovese dal Toscano. Ad un occaso quasi e ad un orto Buggea siede e la terra ond’io fui, che fé del sangue suo già caldo il porto”. (Pd IX 82- 93) “Attraverso una magistrale autopresentazione, scrive Corrado Gizzi, che si protrae per nove terzine, (Folco) indica la sua patria, tesse la storia della sua anima e rivela infine il proprio nome. L’indicazione della città d’origine è fatta con una complessa designazione geograficoastronomica. Inizia determinando l’estensione della metà occidentale dell’ecumene (Gades Gerusalemme), compiacendosi di presentarci una carta del Mediterraneo, il più esteso dei mari interni, formato dal vasto oceano […]. Tale mare, specifica Folchetto, si estende in longitudine da occidente ad oriente per 90°, ed è limitato all’estremità occidentale da Gades e all’estremità orientale da Gerusalemme, così che il meridiano di Gerusalemme, essendo normale al meridiano di Gades, funge da orizzonte per Gades stessa; come il meridiano di Gades, essendo normale al meridiano di Gerusalemme, fungerebbe da orizzonte per la Città Santa. ( In realtà l’ estensione del Mediterraneo è di soli 42°). Dopo la determinazione geografico -astronomica del Mediterraneo, Folco fa sapere di essere nato sulle sue rive, a Marsiglia, che si trova quasi sullo stesso meridiano di Bugia, tanto che, per entrambe le città, il Sole sorge e tramonta ap-


POMEZIA-NOTIZIE prossimativamente nello stesso istante. Marsiglia e Bugia[…] hanno in realtà differenza, sia pur minima, di longitudine e differiscono anche di circa 8° di latitudine. Queste differenze, che fanno sì che le due città non possano avere la stessa ora, in quanto il sole non può spuntare e coricarsi per ambedue proprio nello stesso momento, sono messe in evidenza al v. 91: ‘Ad un occaso quasi e ad un orto’. L’accenno alla città natale offre lo spunto a Folchetto per ricordare la strage operata da Bruto sui marsigliesi per ordine di Cesare nel 49 a. C.” Folco mi disse quella gente a cui fu noto il nome mio; e questo cielo di me s’imprenta, com’io fe’ di lui; (Pd IX 94-96). Dopo aver declinato le proprie generalità con uno stile elaborato (Folchetto è un trovatore; per lui la poesia è trobar clus), specifica di essere stato influenzato da Venere. Folco (Folchetto) di Marsiglia, morto nel 1231, famoso trovatore, fu figlio di un ricco mercante genovese. Alcuni pensano che sia nato a Genova, ma abbia stabilito la sua residenza a Marsiglia dopo la morte del padre. Petrarca mostra di accogliere questa notizia per vera quando scrive nei Trionfi (IV): ‘Marsiglia che a Folchetto il nome ha dato / ed a Genova tolto’. Forse esercitò lui stesso la mercatura, a quanto si può giudicare dai suoi continui spostamenti; certamente era attivo e intraprendente e non soltanto ‘avvenente della persona’ come lo descrive l’antico biografo. Cediamo la parola ancora al Gizzi, recentemente scomparso: Folchetto, mentre viveva alla corte di Barral du Baux, s’innamorò della moglie di lui, Azaleis de Roquemartine, e ne esaltò in versi l’ incomparabile bellezza. Morta la donna amata, egli si ritirò in un convento cistercense e, divenuto vescovo di Tolosa nel 1205, combatté con ardente zelo fino alla morte, avve-

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nuta nel 1231, contro gli Albigesi.3 Una razo ci tramanda che nascose quest’ amore per Azaleis dietro due donne dello schermo, Laura de Saint Jorlan e Mabelia de Pontenes. Ciò gli procurò l’ira della donna amata, che lo congedò. Folco cercò allora conforto presso l’Imperatrice Eudossia Comneno, (così chiamata perché figlia dell’ imperatore di Costantinopoli ), ma molti cavalieri videro in quell’amicizia qualcosa di meno innocente. Il marito diede credito a questo pubblico giudizio, cacciando di casa la donna. Quanto alla crociata contro gli Albigesi, essa fu promossa dalla Curia e favorita dai re capetingi. Il poeta soldato si segnalò nella presa della fortezza di Lavaur, che si arrese al suono delle trombe suonate dai religiosi schierati sul terrapieno, in analogia con la presa di Gerico4. Fu considerato un anticristo da coloro che parteggiavano per la Provenza, come l’ estensore di una Chanson de la croisade albigeoise e definito diabolorum episcopus; fu esaltato invece da fonti ecclesiastiche. Si sa per certo che donò ai poveri le sue grandi ricchezze, combatté l’usura e promosse la fondazione della città di Tolosa. Queste microbiografie sono di solito fantasiose, contengono autoschediasmi e sono ricavate dai versi del poeta per quanto riguarda la prima parte della sua esistenza. A tal proposito Franco Suitner5 parla di “inconsistenza documentaria del romanzo d’amore, ricamato dal compilatore dell’ antica vida provenzale sui casi del trovatore marsigliese”. Dante6 lo cita, col nome di Folquetus, come es. del gradus constructionis (stile) sapidus et C. GIZZI, L’astronomia nel poema sacro, Loffredo Editore, Napoli, 1974 vol. II, pp. 315-317. 4 Ios. 6, 4 ss. 5 F. SUITNER, Due trovatori nella Commedia (Bertran de Born e Folchetto di Marsiglia), “Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche”, s. VIII, XXIV, 1980, p. 620. 6 V.E. II, VI,6. 3


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venustus etiam et excelsus, qui est dictatorum illustrium, cioè dello stile tragico della canzone. Probabilmente l’autore del De Vulgari Eloquentia ammirò la qualità della sua poesia, meno ermetica, difficile e ricercata di quella di Arnaut. Un filo presente nella poesia di Folco è quello di Madonna, che è portata nel cuore dell’amante. Si tratta di un variazione del tèma trobadorico della donna che ruba il cuore dell’amante. Sembra ricordarsene Dante nel verso 102: “quando Iole nel cuore ebbe rinchiusa”. Un altro stilema tipico della poesia di Folco è l’ immagine del fuoco, che pure ritorna nei versi danteschi 97-102. Oltre che poeta Folco fu anche un valente predicatore. Folchetto continua la propria presentazione:

dere un riferimento a tre amori del poeta: Azaleis e le due donne dello schermo. Dante sembra qui rifare il verso allo stile di Folco; ma è anche vero che nella seconda parte, quella profetica, lo stile cambia: forse si adatta semplicemente alla materia trattata, come qualche critico ha pensato.

ché più non arse la figlia di Belo, noiando e a Sicheo e a Creusa, di me, infin che si convenne al pelo; né quella Rodopëa che delusa fu da Demofoonte, né Alcide quando Iole nel core ebbe rinchiusa. (Pd IX 97-102).

Qui si rimira ne l’arte che addorna cotanto affetto e discernesi ’l bene per che ’l mondo di sù quel di giù torna. (Pd IX 106-108).

Folco si paragona nella prima terzina a Didone, la figlia di Belo, che recò dolore a Creusa, moglie di Enea, e al marito Sicheo, al cenere del quale “ruppe fede”7, dicendo che fin quando durò la giovinezza, età a cui si addice l’amore, arse d’amore più di lei; nella seconda terzina si paragona prima a Fillide, figlia di Sitone re di Tracia, dove si trova il monte Rodope ( perciò la donna è detta “Rodopea”), che, credendosi ingannata da Demofoonte, a causa del suo ritardo si tolse la vita e fu trasformata in mandorlo; poi a Ercole, che si innamorò di Iole, provocando la gelosia della moglie Deianira, la quale, nel tentativo di riconquistarlo, gli fece indossare la maglia intrisa del sangue del centauro Nesso, provocandone quindi inconsapevolmente la morte. Tre esempi dunque. Qualcuno ha voluto ve7

If V 62.

Non però qui si pente, ma si ride, non de la colpa, ch’a mente non torna, ma del valor ch’ordinò e provide. (Pd IX 103-105). “Qui però non ci si pente (“si pente” ha il valore di un passivo neutro), ma si è lieti, non della colpa, che non ritorna alla mente, (perché c’è stata la salutare immersione nel Lete), ma della virtù divina che così volle e provvide .”

Terzina variamente interpretata, anche per la presenza di lezioni diverse: “affetto-effetto; mondo-modo”; e di una rima equivoca “torna”, che sconsiglierebbe di dare al verbo il significato più probabile di “diventa”. Seguiamo quindi l’interpretazione classica del Vandelli8: “qui si contempla l’arte, il divino magistero che adorna ed abbella d’amore questa grande opera della sua creazione, e si discerne chiaramente il bene, il buon fine per cui il mondo di sopra torna il mondo di sotto”. RAAB Ma perché tutte le tue voglie piene ten porti che son nate in questa spera, proceder ancor oltre mi convene. Tu vuo’ saper chi è in questa lumera che qui appresso me così scintilla come raggio di sole in acqua mera. 8

Op. cit., ad l.


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Si noti il plurilinguismo di Dante, che al v. 112 adopera un francesismo, “lumera”, dal francese lumière. Su “mera”, che qui ha il significato di “limpida”, vale la pena di soffermarsi. L’aggettivo torna anche in Pd XI, 18, ma riferito alla lumiera, che sorridendo diventa “più luminosa”. In Pd. XXIII 60 leggiamo: “e quanto il santo aspetto il facea mero”; cioè quanto rendeva “luminosamente puro” il santo volto; in XXX 59 troviamo “ tanto che nulla luce è tanto mera” nel senso di lucente, chiara. In XVIII 55 “e vidi le sue luci tanto mere”, cioè vidi i suoi occhi tanto splendenti. Dunque la parola ha l’accezione di singolare lucentezza. Or sappi che là entro si tranquilla Raab; e a nostr’ordine congiunta, di lei nel sommo grado si sigilla. (Pd IX 115-117). “Sappi che là gode la sua pace Raab e, essendo congiunta al nostro ordine, questo è improntato da lei in sommo grado”. Anche questo passo è stato tormentato dalla critica. Si registra, infatti, un cambiamento di soggetto. La parola “ordine”, che nella proposizione oggettiva è complemento di termine, diventa soggetto di “si sigilla”. Per evitare questo brusco cambiamento, non usuale in Dante, taluni commentatori accolgono la variante “di lui”; il senso dell’enunciato non cambia nella sostanza. Raab è una “femina meretrice accesa eccessivamente d’amore”9 e Dante la pone in paradiso. Un paradosso cristiano anche questo, come nel caso di Cunizza in questo canto e altrove, nel XX canto, di Traiano e Rifeo, addirittura due infedeli che si salvano? No. Dante trovava già nei testi sacri la fonte della salvezza di Raab, che anzi in tal modo veniva a giustificare la salvezza degli altri “vinti d’

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amore”. Già nella Bibbia, infatti (Ios. 2, 1-21) incontriamo questo personaggio. Giosué, volendo entrare in Gerico, antemurale della Terra promessa, invia due esploratori. Essi entrarono in casa di una meretrice, Raab, e ivi alloggiarono. Il re di Gerico mandò a dire alla donna di consegnare le due spie. Ma Raab rispose, dopo aver nascosto gli esploratori, che essi se n’erano andati. Essa salì poi dagli esploratori che aveva nascosto sulla terrazza e disse: «Io so che il Signore vi ha dato questo paese»; e: «Il Signore vostro Dio è Dio in cielo e in terra». Essa li fece scendere dalla finestra con una corda. Quelli dissero: «Se tu attaccherai alla finestra per cui ci hai fatto scendere questo filo intrecciato di rosso scarlatto sarai salva con tutta la tua famiglia».” In un altro passo (VI 15-25) viene descritta la presa di Gerico: “Al settimo giorno i sacerdoti suonarono le trombe. Il popolo gridò. Caddero su se stesse le mura della città. Giosué fece salvare Raab e la parentela ed essa è rimasta in mezzo ad Israele fino ad oggi”. In Matteo (1,5) si legge: “Salmon generò Booz da Raab”. E nella lettera agli Ebrei (Ebrei 11, 31): “Per la fede Raab, la meretrice, non perì insieme con quelli che furono disobbedienti, avendo accolto con pace gli esploratori.” Nella lettera di Giacomo (Giacomo 2, 25) troviamo scritto: “L’uomo viene giustificato in base alle opere, e non solo in base alla fede. Similmente Raab la prostituta non fu forse giudicata in base alle opere?”. “Raab è figura della Chiesa”, osserva Auerbach10, aggiungendo che già i Padri della Chiesa interpretarono la finestra da cui la Cananea calò gli esploratori come la confessione, e il filo rosso come il sangue di Gesù”. Lo stesso Giosué è figura di Cristo, con il quale c’è quasi identità onomastica. Quindi l’ una e l’altra palma sono di Cristo e di Giosuè. Come abbiamo letto nel Liber generationis

9

Commento di Francesco da Buti sopra la Divina Comedia di Dante Allighieri, a c. di C. Giannini, Pisa, Nistri-Lischi 1989, tomo III, p.295.

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E. AUERBACH, Studi su Dante, Milano, Feltrinelli 1963, UE3, pp. 257-9.


POMEZIA-NOTIZIE delineato da Matteo, Raab è antenata di Cristo. La concezione di Gerico come perdizione eterna trova conforto in Luca 10, 30, dove leggiamo: Homo quidam descendebat ab Ierusalem in Iericho et incidit in latrones. L’ episodio è interpretato come caduta nel peccato. In conclusione, Raab si salva grazie alla fede (Ebrei); e grazie alle opere (Epistula Iacobi). Per l’Alighieri, che si batté in prima persona per il trionfo della giustizia, le opere hanno molta importanza, non solo la fede. Raab si salva perché dal folle amore approda alla fede e all’azione meritoria di aiutare Giosué. Infine Dante stabilisce un rapporto tra Raab e Folco da Marsiglia. La presa della fortezza di Lavaur, narrata dallo storico Domenico Bernino (Historia di tutte l’heresie, III, p. 277), presenta forti analogie con la descrizione della caduta di Gerico. “ La fortezza fu abbandonata dagli eretici atterriti dal canto dell’ inno Veni creator spiritus”. Tale analogia è da ricollegare alla concezione di Dante, che non faceva distinzione tra eretici e infedeli. Nei canti successivi avremo infatti l’esaltazione di San Domenico, che combatté gli eretici, e di Cacciaguida, che morì combattendo per la liberazione del Santo Sepolcro. L’esaltazione di Folchetto e di Raab torna a disdoro del Pontefice, che, al contrario, non si dà pensiero dei luoghi santi. Pastore Stocchi11 ritiene che Dante “privilegiasse una lettura di Raab più specifica e drammatica, che teneva conto anche della sorte minacciata a quanti avessero abbandonato la salutare dimora e di fatto toccata agli altri infelici abitanti di Gerico. Si vedeva in costoro il typus […] dei lapsi e degli apostati”. Da questo cielo, in cui l’ombra s’appunta che ’l vostro mondo face, pria ch’altr’alma del trïunfo di Cristo fu assunta. (Pd IX 118-120).

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Secondo Alfragano, l’altezza del cono d’ombra è di 871.000 miglia. La distanza minima di Venere dalla Terra è di 542.000 miglia; la massima è di 3.640.000 miglia. Dunque il cono d’ombra si dirige verso Venere, senza peraltro toccarla, quando la distanza tra essa e la terra è massima; oltrepassandola, quando la distanza è minima. Anche Dante (Cv. I, vii) fa cenno della distanza minima di Venere: “la quale (Venere), per la nobiltà dei suoi movitori è di tanta virtute, che sulle nostre anime e sull’altre nostre cose ha grandissima potestà, non ostante che ella ci sia lontana quando è più presso centosessantasette volte quanto è fino al mezzo della Terra, che ci ha di spazio tremila dugento cinquanta miglia”. In altre parole corrisponde a 167 raggi terrestri, pari appunto a 542.000 miglia. Per “trionfo di Cristo” si può intendere: “Cristo discese agli Inferi e trionfò sulla morte riscattando le anime dei profeti e dei patriarchi e di coloro che credettero in Cristo venturo”; ma anche “l’insieme dei beati, le schiere del trionfo di Cristo”. Ben si convenne lei lasciar per palma in alcun cielo de l’alta vittoria che s’acquistò con l’una e l’altra palma, perch’ella favorò la prima gloria di Iosüè in su la Terra Santa, che poco tocca al papa la memoria. (Pd IX 121-126). La palma è da sempre simbolo di vittoria; “l’alta vittoria / che s’acquistò con l’una e l’ altra palma” (vv. 122- 123) è sia quella di Giosuè, che stese le palme, sia del Cristo, che le allargò sulla croce. “Alcun” ha valore di “qualche”. “Favorò” viene dall’antico “favorare”. Gerico fu la prima città conquistata e perciò viene detta “prima gloria”. INVETTIVA DI FOLCO La tua città, che di colui è pianta che pria volse le spalle al suo fattore e di cui è la ’nvidia tanto pianta,

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M. Pastore Stocchi, op. cit. p. 58.

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produce e spande il maladetto fiore ch’ha disvïate le pecore e li agni, però che fatto ha lupo del pastore. (Pd IX 127-132). Con Firenze si vuole indicare la parte per il tutto ed è definita “pianta”, in quanto cresciuta nel male, quasi dal seme stesso di Lucifero. Per l’invidia di Lucifero, infatti, ancora si piange, dopo la cacciata dell’uomo dall’Eden. La mala pianta di Firenze “produce e spande il maladetto fiore”: il fiorino d’oro di 24 carati, che per la sua qualità aveva soppiantato il Genovino e le altre monete, diffondendosi in Europa, portava impresso su un lato il giglio. Siamo al punto nodale non solo del canto, ma anche dell’intero poema. La corruzione deriva principalmente da qui. Per questo l’Evangelio e i dottor magni son derelitti, e solo ai Decretali si studia, sì che pare a’ lor vivagni. (Pd IX 133-135). “ Per questo ci si applica solo alle Decretali, ( uno dei principali testi di diritto canonico), come appare dai margini, sui quali gli studiosi apponevano molte annotazioni”. “Vivagni”: Landino12 intende l’orlo dei panni lussuosi dei prelati. Non sarebbe forse da scartare tale interpretazione, seguita anche da altri, se è vero, come è vero, che la polemica si appunta soprattutto conto l’eccessivo sfarzo degli ecclesiastici. Nell’ Epistola13 ai Cardinali Dante scrive: Giace il tuo Gregorio [Magno], avvolto di ragnatele, giace Ambrogio negli scaffali chiusi dei chierici; Agostino è gettato via e Dionisio [Areopagita], [Giovanni]il Damasceno e Beda; e non so quale Speculum [iudiciale, di Guglielmo Durante], qual [ commento di]Innocenzo [IV alle Decretali di Gregorio IX) e Ostiense ( le opere di Enrico da Susa

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cardinale di Ostia, citato anche a XII 83) decantano: Come no? Essi cercavano Dio, ottimo e ultimo fine; codesti vanno a caccia di censi e benefici. A questo intende il papa e ’ cardinali; non vanno i lor pensieri a Nazarette, là dove Gabrïello aperse l’ali. (Pd IX 136-8). La maggior parte dei commentatori moderni intende “aprì le ali in segno di omaggio”. L’altra interpretazione è “aprì le ali per volare fino a Nazareth.” L’immagine dell’arcangelo Gabriele che aprì le ali ritorna, variata, in Pd XXXII 94-96. Il verbo “intende” ricorre anche in If VI, 30: “che solo a divorarlo intende e pugna”, dove il lessema significa “dirige tutte le proprie energie”. Si può istituire un parallelo tra le due situazioni. In If si parla di voracità dei golosi, qui di bramosia di denaro; là, di un essere dalle tre teste canine; qui sono messi in scena “in veste di pastor lupi rapaci”. Ma Vaticano e l’altre parti elette di Roma che son state cimitero a la milizia che Pietro seguette tosto libere fien de l’avoltero”. (Pd IX 139-142). Il Momigliano14, finissimo interprete, nella tradizione interpretativa che risale a Benedetto Croce, dei momenti poetico-lirici della Commedia, parla, a ragion veduta, riferendosi all’ultima parte del canto IX, di “gigantesco furore”. Fabio Dainotti Lettura tenuta per la Lectura Dantis Metelliana, nell’autunno del 2009.

14 12

LANDINO, op. cit., p. 1707. 13 Ep.XI,16.

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La Divina Commedia commento di Attilio MOMIGLIANO, Firenze, Sansoni 1945-1946, vol. III, Paradiso, p. 621.


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LEGGI OCULATE PER MISURARE LE DIVERSITÀ DI STATO DI BISOGNO E CREARE UN CERTO LIVELLAMENTO SOCIALE di Leonardo Selvaggi

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I rende necessario sfoltire, le leggi siano oculate, sagge nelle mani di esecutori imparziali che sanno vedere e misurare le diversità di stato di bisogno. Abbattere certe barriere che instaurano privilegi, per non avere più la sensazione di trovarci davanti a libere spartizioni dei beni comuni: tagliare i rovi intricati per avere sgombro il terreno e ricostruire con giustizia eliminando la confusione che sa di egoismi inveterati e far rifulgere una buona volta la luce della ragione. L’uguaglianza deve cominciare ad essere un termine concreto: la vitalità come soddisfacimento delle primarie necessità raggiunga tutti gli strati della popolazione, il mare delle provvidenze giunga a prendere anche i miseri in difficoltà, boccheggianti, quasi rifiutati, come fossero diversi, oggetti e non persone. Invece dotati di maggiore sensibilità e discrezione, maturati dalle privazioni avute, pronti a capire, liberi come all’intemperie, senza recinzioni, tutto con chiarezza con lo sguardo in faccia senza ipocrisie. Dannosi all’ economia certi uffici privati con attività che rimpinguano avidità personali; parassitari i cosiddetti Studi relativi all’amministrazione e gestione di immobili, basati per lo più su speculazioni. Spese da pagare non rispondenti appieno all’effettiva opera prestata. Bisogna mantenere la bella segretaria con le gambe tornite su tacchi a spillo, i suoi indumenti fini di seta che fanno piacere all’occhio. Il ragioniere compare di rado, ha dato da fare tutto a lei che è capace, astuta con quella faccia fredda del vizio, sa preparare bene i prospetti con le ripartizioni di somme che non sempre si capiscono, lei è attenta all’ufficio, non le sfugge nulla, è migliore, più interessata della

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moglie, merita di essere accontentata, di ricevere nel momento giusto il regalo guadagnato. Scoraggiati il risparmio e la vita misurata come hanno insegnato i nostri antenati. Si invoglia a vivere alla giornata da vermi spendendo tutto in comodità e nelle inconsistenti labili voluttuarie piacevolezze. Risento la calda voce di Salvatore Porcu che passa trepidante per tutta la sua persona, le mani si alzano ansiose, preoccupato da anni per i tanti problemi sociali che si tengono sospesi; scottante e deprimente quello della disoccupazione che costituisce la triste conseguenza dei vari errori economici e politici, dovuta soprattutto alla cattiva volontà di fare in uno Stato per tanti versi arretrato. Le sue idealizzazioni vissute ogni giorno che potrebbero condurre a miglioramenti entro la sfera politico –sociale e dei costumi, la grande, straordinaria, sempre sognata “Convergenza Universale”, che potrebbe portare alla realizzazione di nuove situazioni, più autenticamente umane. Una comunità più felice e ravvicinata dalla collaborazione reciproca senza le tante solitudini e distanze fra gli uomini. Ci ritroveremmo tutti insieme, rinnovati da un più diffuso senso della giustizia e dell’uguaglianza, in una sintonia d’intenti con contatti più veri per far convergere tutto ad un solo punto, quello della comprensione reciproca compenetrandoci l’un l’altro quasi formando un unico blocco di esseri razionali costituiti da un solo tessuto, da una sola, composita sostanza vivente. Presi da vicendevole fremito di vivere insieme, quasi accomunando i beni posseduti, tutti operosi con il proprio apporto di attività per un effettivo benessere sociale. “Se tutte le cause che determinano la disoccupazione non verranno eliminate, ovvero non saranno presi al riguardo provvedimenti di carattere normale, lo Stato ha l’obbligo preciso e inderogabile di prendere provvedimenti di carattere eccezionale, quale è quello di creare lavori speciali di pubblica utilità, aventi lo scopo di fornire occupazione all’intera massa dei veri disoccupati… Del resto si tratta di lavori tanto indispensabili (di bonifica, anticalamità, costruzione di case popolari, di bacini monta-


POMEZIA-NOTIZIE ni, ecc.) che, per non essere redditizi, almeno a breve scadenza, nessun imprenditore privato ha interesse ad assumere e che pertanto dovranno eseguirsi direttamente o per conto dello Stato. Per poter disporre delle ingenti somme necessarie alle spese di vario genere che tali lavori comportano, è indispensabile istituire un fondo occupazione…” . ”Per rendere gradita la vita nelle campagne, oltre a tante altre necessarie provvidenze, deve essere provveduto alla sistemazione di strade di penetrazione agraria, tali da consentire un facile accesso alla proprietà fondiaria. Inoltre tali strade devono poi essere mantenute in stato di efficienza affinché siano praticabili in ogni stagione”. “ Necessità di dotare di giardini pubblici non solo tutti i centri urbani minori, purtroppo destinati anch’essi a divenire popolosi, ma anche i quartieri della grandi città. Per questi il compito è assai più difficile a causa delle costruzioni già esistenti, ma tuttavia, sventrando qualche corpo di fabbricati vecchi, o angusti o miserabili, si può realizzare qualche giardino pubblico eventualmente anche modesto, o almeno delle oasi di verde a offrire respiro alla città. Occorrono freni alla cibernetica e alla tecnologia, l’uomo perde il raziocinio e diviene un automa. Le persone si sviliscono, nemiche fra di loro, invidiose sono prese dai propri tornaconti. Accanto ai complessi industriali moderni correttivi e costruttivi di certo i lavori di artigianato che mettono l’uomo più a proprio agio secondo le inclinazioni, in condizioni meno artificiose, in ambiente familiare, ridando vitalità naturale e genuina, rapporti con il prossimo più ridimensionati. Avvicinano alla concretezza delle cose, viene smussata l’ alienazione: sostanziali, radicati legami a tutto ciò che sa di vero e di sano, ritornando al valore delle tradizioni che tanta saggezza e cultura della mente hanno apportato. L’automatismo delle fabbriche rifiuta l’uomo e lo soggioga, molti disoccupati si dimostrano disadattati e non l’ accettano, si diventa psicopatici antagonisti di contro alla semplicità, bonarietà del carattere e dei sentimenti. I rumori metallici, assordanti

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e i movimenti ripetitivi snervanti distruggono la persona, la soffocano; estirpano le parti delicate intime riducendo l’uomo ad una carcassa dopo una vita arida svuotata di bulloni e di pezzi incastrati lungo la catena di montaggio. Il caso di mio cugino, apprendista fabbro al paese, viene a Torino chiamato dalla Fiat, sorridente, smanioso, entusiasta, l’illusione del posto fisso lo tiene felice durante la domenica, pieno di bontà, ingenuo affezionato alla famiglia. Il lunedì entra nel grande capannone polveroso, gli pare di essere divorato da un forno maledetto, dilaniato, sbranato da una belva: la pelle tenera rosata nell’aria di campagna come la delicatezza verde di una foglia, torna dopo mezza giornata fracassato, con le lacrime febbricitante. Spesso mi ritorna in mente la figura del disoccupato che conosco del mio rione, ha un figlio gracile rachitico, bisognoso di cure periodiche. Faccia tirata, sorriso vitreo contratto sull’occhio, statura bassa dietro il carretto alla ricerca di cartone attorno ai cassonetti dell’immondizia che poi vende in un deposito di materiale vario di recupero. Sicuramente per un paese civile è solo un dovere primario estirpare la disoccupazione in modo sistematico. Essa va affrontata come un male considerato difficile, le cui radici non si intravedono in superficie, ma sono profonde, nel malcostume e nell’indifferenza. Se ne parla con civetteria nei salotti con giornaliste ben pasciute, frivole e ben lontane dal saper vedere con sofferenza le verità che possono rendere drammatica la vita di ogni giorno. Occorre che i pubblici uffici si scrollino di dosso la crosta di assenteismo che fa vedere in astratto l’ambiente umano dei disoccupati. Per la gestione dei fondi destinati si abbiano amministratori avulsi dalla corruzione, dotati di provata dirittura morale e di alto senso di responsabilità, capacità e connaturata sensibilità per i problemi sociali. Allontanare gli intrallazzisti che si trovano sempre in mezzo, la loro prosopopea di uomini prepotenti, istintivi e andare a scovare le persone degne ed esperte, umili e semplici che vivono appartati, solitari e pronti con dedizione disinteressata a dare sé stessi. Al mastodontico ap-


POMEZIA-NOTIZIE parato delle strutture dei servizi non si contrappone nella misura adeguata l’agricoltura divenuta discontinua ed episodica, venuta a mancare la passione dei contadini di una volta. Nelle campagne più presenza umana e minor quantità di mezzi meccanici. Si può incrementare l’occupazione ripristinando l’ antico attaccamento alla terra con i semplici strumenti manuali senza troppo pianificare i lavori, né meccanizzare fino all’eccesso ogni tipo di intervento. Pochi sono i campi che si vedono rivestiti di morbidezza: freschezza nera delle zolle rivoltate con minuta applicazione, pronte ad essere verdi con i nuovi germogli. Con le macchine nelle campagne il contadino rimane vestito bene, non lo vedi con il pantalone di velluto né con gli attrezzi di un tempo. Dopo i veloci lavori del trattore rimane fermo, inoperoso, pare che i frutti nascano da soli: la semina automatica caccia le gemme lungo i solchi diritti, tutti tracciati uguali. Le chiacchiere che sanno tenere sempre vive, sospese le attese. Per tanti trionfa il massimo benessere. Loro sono presenti dappertutto con emolumenti vari, contornati da aureole, come monumenti al di sopra con occhio accigliato di coloro che vivono con poco sostentamento, nessuno si accorge di questi, nessuno ha il sentimento di considerare il loro stato. Sono pochi gli sfortunati disoccupati con guai a catena, non ci vuole molto per sollevarli. L’ avarizia e il materialismo parossistico di oggi portano con frenetica insaziata voglia a stare sempre meglio, l’uno contro l’altro, noncuranti, insuperbiti; si vuole quasi che il debole soccomba. I modi usati nei comportamenti sono ipocrisie feroci, dense di sadismo, pare di essere non in tempi di civiltà, ma fra i primitivi, nella giungla ove vige la legge del più forte. “Il rimboschimento si rende ormai indispensabile per il risanamento dell’ambiente, messo sempre più in pregiudizio dalla distruzione degli alberi e dal generale inquinamento. Ma il lavoro di rimboschimento è opportuno anche ai fini sportivi e per la ricostituzione fisica dei cittadini, il quale, oltre che dai

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lavoratori disoccupati dovrebbe essere eseguito volontariamente anche da masse di studenti, di soldati e di cittadini comuni”: Occorre un interessamento generale per i problemi di carattere sociale. Anche le scuole di ogni grado non dovrebbero essere avulse dalla realtà, l’insegnamento deve servirsi non solo di nozioni, ma dal contatto con l’esterno; gli studenti debbono essere a conoscenza della concretezza dell’ambiente di lavoro per avere modo di cominciare ad orientarsi e sapere le proprie capacità. Le assunzioni non debbono essere astratte, vanno indirizzate verso soggetti che proficuamente possono essere inseriti con una certa preparazione già in partenza; in questo modo anche gli organici dei vari posti di lavoro vengono a comporsi con giusta corrispondenza al bisogno. “Esisteranno sempre per l’uomo un’infinità di compiti minuti o accessori che nessuno strumento meccanico potrà compiere, o che comunque necessiteranno dell’impiego diretto della mente e delle braccia umane. I dispositivi meccanici ed elettronici non possono in altri termini sostituire completamente l’uomo, il quale, volendo, avrà sempre da occupare il suo tempo”. La struttura statale va rinnovata con assunzioni fatte secondo i fini precisi, adeguati alle caratterizzazioni di dinamicità e di sicura penetrazione nell’ambiente sociale. Deve rendersi sempre più efficace per garantire le migliori condizioni di vita al cittadino. “La noncuranza per l’altrui disgrazie è difetto di tanti uomini, ma non è tollerabile nei confronti dei governanti e degli amministratori della cosa pubblica, i quali hanno il compito specifico di provvedere alla tutela dei cittadini in ogni campo”. Molte sono le cose utili alla comunità che lo Stato può realizzare. La Nazione ha bisogno di queste ed è un vero delitto lasciare inoperose le masse di disoccupati. Regolato va il consumismo che è disamore per gli oggetti, svilimento della moneta, insoddisfazione psicologica che si traduce in sperperi, incomprensione, arroganza, indifferenza. Intervenire pure sulle norme generali. Le leggi non sono drastiche per punire i malfattori, coloro che si sono arricchiti con


POMEZIA-NOTIZIE violenza a danno dello Stato. Questo malcostume non è finito, si ruba con più destrezza, con modi raffinati, senza dare nell’occhio: l’ ipocrisia degli alti funzionari, parlano di trasparenza facendo passare per onesto l’uso dilapidato del denaro pubblico. Nemici dei disoccupati, della democrazia, della giustizia e della civiltà sono gli aumenti ultimi ottenuti delle indennità parlamentari: la retribuzione sale a otto milioni e 329 mila , senza contare sei milioni e mezzo al mese per la segreteria, circa venti milioni annui per i taxi, quattro milioni annui per viaggi di studio all’estero. Alberghi lussuosi di cui godono anche le famiglie, con tanta vanità, tutte spese inutili. Aumenti per i dirigenti della rai e della televisione e denaro a profusione per i programmi senza sostanza, per le belle presentatrici che improvvisano, non hanno effettiva professionalità, sono grossolane, sensuali urlatrici in manifestazioni popolari, fatte tutte allo stesso modo, plateali, giochi e scene poco costruttivi, dando l’esatta immagine di quanto deprimente sia il livello morale nei vari settori della vita sociale. Si va da un estremo all’altro, dalla sazietà straripante alla miseria più nera, dalla giacca sbrindellata negli ambienti depressi pieni di bambini smagriti ai vestiti che costano varie decine di milioni; smaglianti, estrosi capi indossati da Valeria Marini, angelo del paradiso, bionda, lussureggiante, sfarzosa dominatrice della felicità sopra i giorni di tenebrore dei diseredati. Più forte è l’istinto più i fatti personali vanno a gonfie vele. Occorre che gli organi dell’amministrazione pubblica siano equilibratori, che razionalizzino le troppe discrepanze esistenti, che portino una certa misura e un livellamento ove troppo evidenti sono le fratture delle diversità, dove ci sono vere barriere disumane che tagliano quel flusso di necessaria comunanza che farebbe la vitalità di tutti. Mille milioni all’anno guadagna il presidente delle F.S. Di recente si è avuta una nuova nomina per tele straordinaria carica, il dimissionario insoddisfatto di questi pochi soldi si è trovato impelagato in scandali

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per truffa, un vero mostro, meritevole della forca. Settecento milioni l’amministratore delegato dell’Eni e settecento milioni l’ amministratore delegato dell’Enel. Bisogna combattere l’insolenza incosciente, il parassitismo più costoso, i furti che avvengono tutti i giorni nelle più svariate maniere. Sono sensazionali le comunicazioni televisive dell’ ennesimo scandalo, arrivate simili a fulmini a ciel sereno, pare che sconquassino e annientino tutto all’intorno, rimanendo raso al suolo quello che si aveva. Il personaggio del giorno fa la sua comparsa subitanea con il sorriso di uno che innocente viene preso per errore, lui mai commesso nulla di irregolare, le mani pulite non hanno tracce di viscosità, non sono rimaste attaccate ai miliardi. La faccia impavida, fattasi di bronzo. Dopo la notizia vediamo che tutto ritorna come prima, un falso terremoto che non ha fatto crollare proprio niente. Gli arresti domiciliari sono una propaganda, diremo una promozione per ulteriori progressi e maggiore onorabilità sull’uomo che rimane intoccabile. Il carcere è per il misero denudato, portato ai misfatti dalle esasperazioni. Rimane tutto al suo posto in una società che dà importanza a quello che si vede, alle ricchezze, che ama gli squilibri per mantenere la superiorità capitalistica e l’ irrazionale scissione dagli ultimi della scala. Questi continuano a sognare senza difese le belle e comode cose che si fanno vedere lontano nell’evanescenza. Si pensa al vertice del palo della cuccagna: le mani dopo pochi metri cedono, per la troppa pece si precipita giù rannicchiati sopra le ginocchia piegate. Le leggi seguono gli istinti di coloro che primeggiano, favoriscono le soddisfazioni materiali di chi è già satollo. I disoccupati e quelli che vivono male rimangono fermi come irretiti con l’animo dissolto, il poco sostentamento porta al decadimento di ogni base di difesa. I piatti sbilanciati, per loro tutto pende sulla prostrazione: allora i sentimenti che si acuiscono, la coerenza dei principi che divengono veri coltelli contro se stessi. Irremovibili, l’ orgoglio chiude dentro un cerchio vizioso. Le leggi dovrebbero raffinarsi verso un processo


POMEZIA-NOTIZIE di umanizzazione, incontro alla comprensione di quelle condizioni psicologiche particolari che conducono alle realtà paradossali. Le leggi, sappiamo, pesano sempre sui casi di crisi. Un omicidio consumato non è tale per le particolari radici da cui si è mossi; la galera rappresenta niente davanti a situazioni di reclusione circoscritte da sentimenti umanitari. Stretti in quei recinti che mettono l’animo nelle pene, fremente e dilaniato. La ragione ha mantenuto una ingenua finezza che resiste e non si fa corrompere, una purezza che non si scalfisce e crea prigionie. Una sostanza immota nell’animo che non ha mutamenti nel tempo, rimane inchiodata, distesa senza piegature, una membrana forte come pelle che avvolge i pensieri allargati e mai dispersi, stretti da forte coesione, allacciati da rigorosa coerenza, durevole fino a quando la vita tiene in piedi. Le leggi burocratizzate che vanno uguali a segugi dietro la persona sbrindellata quando sono punitive, se stabiliscono miglioramenti prendono più facilmente coloro che si trovano già negli ingranaggi. Debbono certo avere una visione chiara delle realtà diversificate, più animate come sensibilizzate per togliere dai gravi inconvenienti i più sfortunati, abbandonati negli sprofondamenti. Occorrono leggi dinamiche, non chiuse in forme rigide, appesantite da formulari spesso ermetici, leggi di per sé espressive, analitiche che non avranno bisogno di legulei astuti per tirare fuori le parti adattabili a favorire i soliti personalismi. Insomma più rapporti e vicinanza elastica. Si continua con i consueti rituali ritornelli sulla disoccupazione, ma non si riesce a sradicare, a sventrare, a mettere sottosopra alcuni settori sociali per ricollocarli in altra maniera. Si cammina sempre sopra le stesse stratificazioni, sopra le strutture che sono di ferro, non c’è un mutamento, tutto rimane standardizzato secondo vecchi metodi di applicazione. La parte sgretolata non viene toccata, le pareti che hanno lesioni non vanno riviste. Non si ha una innervazione diramata per tutte le direzioni, per tutti i luoghi arrivando anche

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ai tuguri nelle zone impervie ove annidano pericoli, miseria e tenebre. Non debbono le provvidenze arrivare sempre alle lussuose ville illuminate, con festini, eleganza e bevande eccitanti. Afflussi i più diversificati, da coprire tutta la superficie dello Stato, quasi ricostituendo una pavimentazione per ogni dove, linee in arrivo, da avere un’unica copertura, senza lasciare nulla fuori. Tutto alla luce, levigato e ordinato, con interventi diretti oltrepassando le sovrastrutture sopravvenute, senza più quelle tergiversazioni che sanno di inganno e di confusione. Fiumane di giovani diplomati disoccupati, simili ad aridi arbusti, superficialità e astrattezza indolente li tengono disadattati, sbalzati oltre l’ambiente dei concreti rapporti. Dilagano per gli ampi spazi riempiendoli, pare massa melmosa densa senza frantumarsi né sciogliersi, compatta rappresa. Il lavoro, un Eldorato irraggiungibile, conseguenza di costumi errati, dell’ irrazionalità dominante che mette tutto a caso senza una linea studiata di rinnovamento in tutte le parti per rendere possibili passaggi intercomunicanti e vitalizzanti fra i vari settori sociali, superando le troppo dannose fratture esistenti. Curare costantemente l’operosità professionale, l’attiva partecipazione, la consapevolezza di adoperarsi con piena efficienza mirando al bene di tutti, considerarsi strumento di progresso civile. Riequilibrare l’ egoismo disseminato dappertutto come l’aria, elevarsi con pieno senso civico e dignità umana. La giornata allora di lavoro è satura di virtù; il mestiere si fa più confacente, si estrinseca e si affina, si evolve costruendo la propria personalità con spirito di dedizione. Il lavoro che diventa applicazione a beneficio di tutti, pensando a chi ha bisogno, aderenza con quanto ci sta attorno, lontano dall’aridità e dalle astrazioni negatrici. Allora è bello adoprarsi al di là delle pure necessità della vita materiale: l’attività umana che progredisce, realizza l’unità del contesto sociale, vive di collaborazione. L’egoismo si circoscrive, si dilata l’intelligenza che è comprensione vera degli altri. Il lavoro strumento primo di convivenza. Vivere in sintonia, vedere il cammi-


POMEZIA-NOTIZIE no di tutti. I tanti lavori che si articolano e si arricchiscono di intrecci. L’uomo e il lavoro, il lavoro necessità di vita, come muoversi, come respirare, l’uomo senza lavoro sarebbe lontano dalla propria matrice, che ha operato, che è vissuta in altri, che ha fatto essere: in disunione con questa si spezza il legame della continuità, si è scarnificati, morti; lavorare è come immettersi nel cerchio intercomunicante tra passato e futuro in cui si attiva la propria esistenza. Leonardo Selvaggi

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ma dal limite del Sagrato, tutto intero nella sua integra, delicata e affascinante bellezza. Mariagina Bonciani Milano, 31 gennaio 2017

‘A VOCCA SOJA Quanno tramonta ‘o sole, tutte ‘e case nfronte ‘o mare s’ arrennene ‘o rrusso do’ curallo suoje.

LA BETULLA Delicata betulla, or ti rivedo e vago un sentimento in cor m’accendi. Esile e bianca sali nell’azzurro, trema la foglia tua nell’aria pura. Ondeggi lievemente sussurrando, ti fan cornice il cielo e il verde prato. Salve betulla, amica de’ silenzi. A te corre il pensier nella tempesta e cerco la tua pace. idolo antico. Enrico Ferrighi

E ‘sta città ch’ è carnale assaje se passa ‘a voce e mano mano porta, ‘o culore ‘e stù tramonto pure ‘int’ ‘e viche cchiù oscure. E quanno ‘o rrusso do’ sole arriluce pe’ ‘nu poco int’ ‘e llastre d’ ‘a fenesta soja, nun è bello comme ‘o curallo ‘e chella vocca, ch’ me scarfe ‘o core, chiù d’ ‘o sole.

Da Carmina - Ed. Pomezia-Notizie, 1983

LA BOCCA SUA IL DUOMO IN UN POMERIGGIO INVERNALE Com’era bello il mio Duomo stasera, bianco dietro una leggera cortina di fine nebbiolina come velo, sullo sfondo uniforme e pure bianco del cielo ! Valeva la pena, sia pur col mal di schiena, di fare due passi in più per uscire dai Portici Meridionali e poterlo ammirare non fra una colonna e l’altra ed i pali della luce,

Quando tramonta il sole Tutte le case difronte al mare Si arrendono al suo rosso corallo Questa città che è molto altruista Riflette il tramonto In ogni angolo Pure in quello dei vicoli più scuri E quando il rosso del sole Si riflette per un attimo Nei vetri delle sue finestre Non è bello come il rosso corallo della sua bocca, Che scalda il cuore, Più del sole. Salvatore D’Ambrosio Caserta


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LA “POESIA” DI

ERRI DE LUCA E DOMENICO DEFELICE di Aida Isotta Pedrina

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vanti -- della Vergine Maria.2 Udiamola: “In nome della madre”

“IN nome della madre” di Erri De Luca: Alta poesia nascosta fra le pagine di un racconto.

“Non è strano in natura inseminarsi al vento, come i fiori.” La voce del messaggero era arrivata assieme a un colpo d’aria; mi ha annunciato il figlio: “Benedetta tu più di tutte le donne.”

In nome del padre: inaugura il segno della croce. in nome della madre s’inaugura la vita.”

“Una piccola anfora di argilla ancora fresca si è posata nell’incavo del ventre; mentre parlava io diventavo madre.” (Erri De Luca)

In questo originalissimo racconto, è la Vergine Maria stessa che narra -- con parole semplici e attuali di ragazza moderna -- la storia dell’Annunciazione, della sua gravidanza, della reazione drammatica del suo fidanzato Giuseppe e della gente del villaggio, il tutto pervaso dal suo stupore e dalla sua grande gioia di aspettare un figlio. Continua poi, parlando del suo viaggio da Nazaret a Betlemme e della nascita di Gesù, al quale parla subito, appena nato, rivelando qui il suo grande amore di madre già intensificato da dolorosi presentimenti. In questa straordinaria opera, la maestria e la sensibilità artistica di Erri De Luca rendono ancor più significativo e indimenticabile l’ antico dramma del Divino Evento. “In nome della madre”1 contiene tutto l’innegabile empito e partecipazione dell’autore; De Luca traccia con chiarezza e verità umana i suoi protagonisti, e le sue espressioni sono sempre vivide, attuali e intense. Particolarmente suggestivo è l’accostamento fra i piccoli drammi quotidiani e la semplicità della Vergine Maria, e la sua immensa importanza come madre di Gesù. “In nome della madre” mi ha oltremodo commossa e coinvolta; ho trovato tanta poesia fra le pagine di questo notevole racconto, che mi è venuto spontaneo citare, in forma poetica, alcune frasi -- fra le più belle e rile-

“Era per me il giorno uno della creazione. Si è piantato in me con un annuncio, con le parole di una benedizione.” “Stiamo così bene insieme in un corpo solo; sta nei miei pensieri, nel mio respiro, occupa tutto il mio spazio, non solo quello del grembo.” “Gli racconto: più del giorno ti stupirà la notte; è un grande grembo stracarico di luci. Così è la notte: una folla di madri illuminate che si chiamano stelle. Di tutte loro, solo io la tua.” “Bet--lehem, campi di grano intorno, aria di neve in cielo; solo una minuscola stalla dove c’era un bue. Una luce calava dall’apertura del tetto, era lei, la cometa, appesa in cielo come una lanterna.” “Ero arrivata al giorno. Eccomi pronta, argilla con anima di ferro. Il corpo esulta assieme a quello di ogni donna che mette al mondo l’altro sesso, perché è un regalo per noi.” “Sei venuto da lì, dal vuoto dei cieli, sei diverso già da ora, e neanche è trascorsa un ‘ora tua; mi fa paura che non piangi, figlio”.


POMEZIA-NOTIZIE “Finché dura la notte siamo soli al mondo, al riparo dal mondo fino all’alba. Poi entreranno, e tu non sarai più mio. “Dormi, domani vedrai la tua prima luce e avrai di fianco la tua prima ombra; dentro di me non ne facevi.” “Dormi, sogna che sei ancora lì, che la tua vita ha ancora il mio indirizzo. In sogno ci potrai tornare sempre.” (da: “In nome della madre”) Aida Isotta Pedrina Note: 1: Erri De Luca, “In nome della madre”, Feltrinelli Editore, prima edizione 2006, 17ma edizione 2014. 2: Citazioni: Erri De Luca, Op. Cit., ppg.: 11, 15, 16, 18, 19, 31, 32, 35, 49, 58, 59, 60, 63, 66, 67, 68, 70, 74.

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DOMENICO DEFELICE, 12 Month with My Girl: a translation of a few golden lyrics, promises of light, inspiration, meaning in all languages. di Aida Isotta Predina Domenico Defelice is a famous Italian poet, writer, and literary critic; he is also an artist and Art critic, and a dedicated warrior in the struggle against social injustices and discrimination. Moreover, he’s the Founder and Director of “Pomezia--Notizie”, a praiseworthy literary magazine, well known in Italy and internationally. Domenico Defelice’s literary work is remarkable and extensive and includes poetry, prose, plays, satire, and critical essays. I began to translate one of his collections of poetry, “12 mesi con la ragazza”1 (12 months with my girl) not only because it is a fascinating and timeless work of art truly worthy to be known and appreciated in the English language, but also because these lyrics--highly expressive, evocative, and spontaneous-enable the reader to revisit that dream world

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ruled by the ideals and passions of youth and love. At this time, I’m still translating the entire Collection; therefore, mine will be only a brief introduction and presentation of the following lyrics from “12 months with my girl”: “Golden April”, “Your Astral Origins”, “Calabria”, and “Cara il pesco”. “Golden April” and “Your Astral Origins”, are pervaded by the irrepressible yearning for love; the poet, very young, passionate, and sincere, perceives life with the deepest intensity, and love as an intimate and overflowing drama which fuses together the beauty of Nature, woman, and passion into a sublime and everlasting delight-regardless of his awareness of reality and of human illusions. “Calabria”2 is presented by the author at the end of the Collection as “Epigram for a denigrator”; this poem gives voice to the fiery and noble sentiments of the Poet, and his indomitable and loyal spirit. It also reveals the deep love and pride of the Poet for his Land, and his painful awareness of the enduring suffering of his people. Quite meaningful here-and cleverly expressed-- is the profound contempt Defelice feels for this “Pier Paolo”3 who, without consideration, and with a deplorable lack of tact and style, dared to denigrate publicly the people of Calabria. “Dear, the peach tree” is not part of “12 months with my girl”, but of another Collection of poems by Defelice: “Canti d’amore dell’uomo feroce”4 (Love songs of the fierce man); I have read it very recently for the first time, and felt it was worthy to be included in this presentation for its beauty and deeper meaning. In this poem we find all the meditative wisdom of the Poet who has perceived Cosmic Truths: the non--mystery of death, which all of us inherit at birth from our mothers, and the supreme Reality, that is, the unity of everything in Nature and the Universe which transcends any visible form and any concept of Duality. In “Dear, the peach tree”, Defelice speaks of the everlasting rebirth of all things in one form or another, regardless of the implacable laws of Nature and Death.


POMEZIA-NOTIZIE Beside the perennial rebirth of everything, those “velvety fruits” that the peach tree brings forth after being almost destroyed, can also symbolize the human joy and vital energy which return stronger and more radiant after painful experiences.

GOLDEN APRIL Oh, golden April, and who told you that I was in love with Marcellina? You brought violets for her golden hair, roses for her breasts and soft carpets of daisies for her fairy-like feet. But years have passed and her mouth now reeks of tobacco of thousand men and her legs have the lively sway of the wildest dances. And yet I live of memories, I live of dreams. Oh, her mouth like a red carnation, her fairy-like hands, her golden hair, golden April!

YOUR ASTRAL ORIGINS September has you grasped with its rains and a mortal weariness. By now, all you have left of summer is a flight of cranes. You become very dear to me in this season of ever denser clouds, You become almost sweeter to me; you forgo your astral origins that set you apart from humans, you too are dissolving in this Nature-infused eagerness.

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Now the dream of yesterday is not enough. You are in need of a friendly touch that moves you, of words in candlelight, of looks that bring back to you worlds long submerged….. And now you are crying! A tenderness of leaves is melting your heart of stone: today you live! And I come back when you first appear pure in thoughts and deeds, inhaling your scent of amarillis…. Oh, dearest, dearest! If I give in to the flow of memories this notion of years and sorrows evaporates like magic in the September moss of your eyes.

CALABRIA Your people are digging for millenia the barren earth; they have rough hands, and faces engraved with the deepest wrinkles; proud honesty and simple love. Your people endured for millennia frauds and injuries; humble, they dress with dreams an ancient poverty. And yet, a certain Pier Paolo who came here in the south to criticize5 saw you and described you as mother of thieves, sensualists, and assassins. I am your son, Calabria. I want you to know that I am her son, you, who under clothes are hiding long ears and tail.

CARA, IL PESCO Dear, the peach tree eaten by the calf has grown


POMEZIA-NOTIZIE more velvety fruits. Death is not a mystery: perennial inheritance coming to us from the maternal womb. I breathe, and there! You breathe! Nevertheless, we are turf, tree, water. Notes: 1 Domenico Defelice, “12 mesi con la ragazza”, Ed. La Procellaria,1964, pp.7, 12, 37. (translated in English by Aida Pedrina) 2 Calabria is a region in southern Italy and birthplace of Defelice. 3 Pier Paolo” is the first name of a famous Italian writer: Pier Paolo Pasolini; 4 Domenico Defelice, “Canti d’amore dell’uomo feroce”, Ed. Pomezia-Notizie, 1977, p. 68. (translated in English by Aida Pedrina). 5 “pasolineggiare” derives from Pasolini and is not translatable. Here it means a derogatory “behaving in the Pasolini’s way”, hence the use of “criticize” in the translation. Sometimes the harmony and the value of Italian poetry could be lost in translation; some changes are unavoidable, but every care has been taken to preserve the highly poetic and the literary value of Defelice’s poetry. The English used in this presentation and in the translation is currently written and spoken in the United States.

DOMENICO DEFELICE, “12 mesi con la ragazza”: una traduzione di alcune solari poesie, promesse di luce, d’ispirazione e di significato in tutte le lingue. di Aida Isotta Pedrina Domenico Defelice è un famoso poeta, scrittore e critico letterario; è anche pittore e critico d’Arte, e nobile guerriero nella lotta contro le ingiustizie sociali e la discriminazione. Inoltre, è il fondatore e direttore di Pomezia--Notizie una pregevole rivista letteraria ben nota e apprezzata in Italia e all’ este-

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ro. Le opere letterarie di Domenico Defelice sono eccezionali e vaste, e includono poesia, prosa, teatro, satira e saggi critici. Ho incominciato a tradurre “12 mesi con la ragazza”1 non solo perché è un’opera d’arte affascinante e senza tempo, veramente degna di essere conosciuta e apprezzata anche in lingua inglese, ma anche perché queste liriche -- altamente espressive, evocative e spontanee -- consentono al lettore di rivisitare quei luoghi meravigliosi dove regnano gli ideali, le passioni e i sogni della giovinezza e dell’ amore. Dato che sto ancora lavorando sulla traduzione dell’intera silloge, questa è solo una breve introduzione e presentazione delle seguenti poesie: “Biondo aprile’’ e “Il tuo principio astrale”, “Calabria”, “Cara, il pesco”. “Biondo aprile” e “Il tuo principio astrale” sono pervase dall’anelito incontenibile verso l’amore; il Poeta, giovanissimo, appassionato, e sincero, sente la vita con profonda intensità e l’amore come dramma intimo e prorompente che fonde la bellezza della natura, la donna e i fremiti del cuore in un sublime e perenne incanto-nonostante la sua consapevolezza della realtà e delle illusioni umane. “Calabria”2 è presentata dall’autore alla fine di “12 mesi con la ragazza” come “Epigramma per un denigratore”; questo epigramma dà voce ai fieri e nobili sentimenti del Poeta, e al suo indomito e tenace spirito. Rivela inoltre, l’amore e l’orgoglio di Domenico Defelice per la sua terra e la consapevolezza dolorosa del perenne travaglio della sua gente. Molto significativo qui -- ed efficacemente espresso -- è anche il profondo disprezzo del Poeta per questo presuntuoso “Pier Paolo”3 il quale, senza nessuna considerazione, e con una deplorevole mancanza di tatto e di stile, si permette di denigrare gli abitanti di Calabria. “Cara, il pesco”, non fa parte di questa silloge, ma di un’altra opera di Defelice: “Canti d’amore dell’ uomo feroce”4; ho letto questa poesia per la prima volta recentemente ed è senz’altro meritevole di essere inclusa in questa presentazione particolarmente per il suo profondo significato. Qui c’è tutta la saggezza


POMEZIA-NOTIZIE meditativa del Poeta che ha percepito Verità Cosmiche: il non--mistero della morte che ereditiamo alla nascita dalle nostre madri, e la suprema Realtà cioè, l’unità del Tutto nella natura e nell’universo che trascende ogni forma e qualsiasi concetto di dualità. In “Cara, il pesco”, Defelice dà anche rilievo alla perenne rinascita di ogni cosa nonostante le leggi implacabili della natura e della morte. Quei frutti ancor più “vellutati” che il pesco ha creato dopo esser stato quasi distrutto, possono anche simbolizzare l’umana gioia e l’energia vitale che ritornano più vibranti e significative dopo dolorose esperienze.

BIONDO APRILE O biondo aprile, e chi ti disse ch’ero innamorato di Marcellina? Portato hai le viole pei suoi capelli biondi, le rose per il suo seno e molli tappeti di margherite per i suoi piedi di fata. Ma gli anni son passati e la sua bocca odora del tabacco di mille drudi e le sue gambe hanno il brio delle danze sfrenate. Pure vivo ancora di ricordi, vivo di sogni. Oh, la sua bocca come un garofano rosso, le sue mani di fata, i suoi capelli biondi, biondo aprile!

Aprile 2017 assai cara in questo tempo dalle nubi sempre più fitte, quasi più dolce mi ti fai; abbandoni il tuo principio astrale che ti distacca dagli umani, ti dipani anche tu in quest’ansia che infonde la natura. Ora il sogno di ieri non ti basta. Hai bisogno d’una carezza amica che ti commuova. Di parole a luce di candele, di sguardi che riportino a te stessa mondi a lungo sommersi…

Ecco, tu piangi! Tenerezza di foglie s’è disciolta nel, tuo cuore indurito: oggi tu vivi! Ed io ritorno al primo tuo apparire vergine d’atti e di pensieri, aspiro il tuo profumo d’amarilli… O cara, cara! S’io m’abbandono al flusso dei ricordi questa teoria d’anni e di pene evapora d’incanto nel muschio settembrino dei tuoi occhi.

CALABRIA La tua gente scava da millenni nella terra brulla, ha mani ruvide, viso solcato da profonde rughe, fiera onestà e casto amore. La tua gente sopporta da millenni frodi e ingiurie; veste, umile, di sogni una miseria antica. Pure un certo Pier Paolo, quaggiù venuto a “pasolineggiare”,5 madre ti vide e ti descrisse di ladri, d’assassini e sensuali.

IL TUO PRINCIPIO ASTRALE Son tuo figlio, Calabria. Settembre ti ghermì con le sue piogge ed un languore mortale. Ormai dell’estate non ti resta che un volo di gru. Tu mi giungi

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Sappi che son suo figlio, o tu che sotto l’abito nascondi orecchie lunghe e coda.


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CARA, IL PESCO

Tra favole insane quadri di un lento egoismo di parole

Cara, il pesco che divorò il vitello più vellutati frutti ha maturato.

è sole prossimo a burrasca pronto a cancellare ogni entusiasmo.

Non è mistero la morte: eredità perenne a noi perviene della foce materna.

Mentre baratti la tua gelosia per un tratto di vita assecondi un invisibile amore

Respiro, ecco, respiri! Eppure zolla siamo, albero, acqua. Note: 1 Domenico Defelice, “12 mesi con la ragazza”, Ed. La Procellaria, 1964, pp. 7, 12, 37. (Traduzione in inglese di Aida Pedrina) 2 Calabria è una regione dell’Italia del sud e luogo di nascita di Domenico Defelice. 3 Pier Paolo è il nome di un famoso scrittore italiano: Pier Paolo Pasolini. 4 Domenico Defelice, “Canti d’amore dell’ uomo feroce”, Ed. Pomezia--Notizie, 1977, pg. 68. (traduzione in inglese di Aida Pedrina). 5 “pasolineggiare” deriva da Pasolini” e non è traducibile; qui significa un derogatorio “comportarsi alla Pasolini”, e di qui l’uso di “criticare” nella traduzione. A volte, l’armonia e il valore delle poesie italiane possono perdersi nelle traduzioni; alcune modifiche sono inevitabili, ma si è cercato con gran cura di preservare la musicalità e l’ alto valore letterario delle poesie presentate. L’inglese usato in questa presentazione e nella traduzione delle poesie è correntemente scritto e parlato negli Stati Uniti.

Aida Isotta Pedrina Tucson, USA

Il Quaderno Letterario IL CROCO di questo mese è dedicato a: PASQUALE MONTALTO PAROLE RICERCATE con il cuore

con mani che stringono carezze di un volto senza nome. In una sera d’estate sfuma la melodia di un canto dove ai confini del cielo in uno sguardo d’intesa si parlava di noi. Lorella Borgiani Ardea

SPIDER Il ragno è nascosto tra le carte di un solitario monotono che perpetua il nostro vivere di fantasie, la tela è intessuta sui nostri sogni diafani. Arriva il tempo, essi evanescenti fuggono, la tela si spezza, il sole pallido e solitario attraversa i brandelli delle ore trascorse nell'armonia dei giochi geometrici perfetti. La polvere catramosa appesantisce la tela, le forme perdono la bellezza, il ragno ha ormai abbandonato il suo lavoro, lo seguo, lo rincorro sulla via lui cerca una nuova malia. Fiorenza Castaldi Anzio, RM


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14 Marzo 2017, Aula Moscati – Università degli Studi di Roma Tor Vergata

RENATO FILIPPELLI TUTTE LE POESIE a cura di Fiammetta Filippelli di Aurora De Luca LOGIO all’amicizia letteraria, ovvero al sodalizio che si eleva dall’amore per la letteratura, per la parola eterna. Tali sono i propositi dello scrittore-saggista Emerico Giachery, che, con una giovinezza imperitura e con parole piene di cuore, tocca i punti nodali della poesia di Renato Filippelli. Il 14 marzo 2017 diviene un giorno ancora una volta di incontro fra amici, fra persone in sintonia, abili a godere della parola nuda, tributandole il valore che intrinsecamente ha. L’ occasione è la presentazione dell’opera omnia di Filippelli (Gangemi Editore), fortemente voluta da Fiammetta Filippelli, in onore del padre ma soprattutto in onore del poeta. La sede universitaria, si è fatto notare nel corso della mattinata, è stato luogo ‘accademico’ adatto ad accogliere un poeta assolutamente

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non engagé. In tale occasione si è potuto tra mandare una storia poetica ed umana a nuove generazioni di lettori, un dono che essi possano custodire e mantenere come sostrato indispensabile. Scelta questa voluta da Fiammetta stessa ma anche dai Professori dell’ Università, Professor Rino Caputo, moderatore della mattinata e Professor Carmine Chiodo, relatore di grande accorta profondità. Dunque proprio il Professor Chiodo ha affidato alla specializzanda Fulvia Mezi l’analisi di alcuni testi di Filippelli, scelti in base alla sua inclinazione. L’intervento di Fulvia ha evocato temi cari a Filippelli e dimostrato, come era a cuore per Fiammetta, l’adesione di tali temi ad ogni tempo. Poesia infatti non si limita ad un’epoca ma la prevarica rivelandosi sempre contemporanea al lettore. Il Professor Rino Caputo ha affidato invece alla sottoscritta il compito di eleggere un solo testo dell’intera opera di Filippelli e scriverne un’interpretazione. Tutto si è mosso nel segno della luce, un sole imperituro che illumina la poesia di Filippelli. Entrambe le studentesse si sono inserite in un contesto ancora più ampio ove sono stati ripercorsi altri e grandissimi temi: Giachery attribuisce all’amato Sud di Filippelli un’ anima sacra, Chiodo giunge a parlare di un Padre-Spirito presente in maniera assoluta nella sua poetica, il Professor Fabio Pierangeli fa luce sull’anima umana del poeta e profondamente edotta di vita e letteratura, il Preside Michele Graziosetto dedica a Filippelli addirittura dei versi d’amicizia. E qui si ritorna al principio, alle parole di Giachery: sodalizio e letteratura. Strano, e forse assolutamente giusto, come io non abbia potuto esimermi dal pensare a Defelice, a quel suo «m’avvelena l’amore che ti porto» rivolto alla terra natia. Sarà quindi il terreno comune che ha permesso alla mia mente di costruire così tante corrispondenze tra Filippelli e Defelice? Le rime giovanili di Filippelli (Vent’anni e Il Cinto della Veronica) non nascono forse da un amore genuino come fu per Defelice (12 mesi con la ragazza)?


POMEZIA-NOTIZIE Vi ho trovato una forza luminosa comune, un amore verso l’amata che era pari all’amore verso la terra, a sua volta pari all’amore dedicato alla Poesia. Perché in entrambi tutto è Poesia, tutto torna ad essa. Dunque erano doppiamente vere, mille volte vere, le parole d’apertura di Giachery: amicizia e letteratura, corrispondenze, terreni comuni. Assai emozionante è stato poi ascoltare la voce stessa di Filippelli (poiché la raccolta poetica è accompagnata da un CD) interpretare alcuni testi. Bello, nient’altro da dire. PREGHIERA Vedi come ti cerca la mia carne spirituale? Guizzano ciechi i miei sensi per la troppa luce, se t’avvicini. Ascolta, come l’accordatore il suo strumento e abbassa le cortine sulla mia antica insonnia. (P.459 da Spiritualità – Renato Filippelli) *** Scrive Giachery «Statura considerevole, come, del resto, la sua statura di poeta “del Sud”, e anche di poeta tout court, senza attributi. Poeta non engagé, né sperimentale. Fedele soltanto a se stesso, alla propria indubbia vocazione poetica»; e Gennarini già nel 1964 affermava «Ci troviamo senza dubbio di fronte a un poeta: di alta o durevole vena ora non è possibile dire, ma che ha certamente in sé il dono di una chiara vena di canto. Chiara non criptoermetica o di genere affine. E squisitamente personale. Che sollievo poterlo dire senza voler fare un complimento a Filippelli, in questi tempi così ricchi di «opere prime» e di premi letterari, ma così avari di poesia». Io, da par mio, posso aggiungere ben poco a quanto così approfonditamente hanno espresso prima di me critici e lettori di tale levatura. Ho potuto però intimamente godere leggendo questa macro-raccolta di poesie, seppur versandola in breve tempo. Certo, il go-

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dimento è maggiore se la lettura è a sorsi ‘d’estasi’: leggi un testo, un giro di versi, un ballo d’endecasillabo, poi chiudi il libro e te ne vai a compiere la vita di tutti i giorni. E come? Terribilmente elevato. Dunque, tra queste fulgide e splendenti immagini di sangue e terra – con dentro tanta vita, tanto spirito sacro, tanta forza primigenia – avevo il ‘compito’ di eleggere un testo, un solo testo. E m’è venuto naturale andare a cercare la Poesia nella poesia: è un fatto d’amore e dolore, come lo stesso Filippelli confessa quando dice «Sui miei versi consunsi per amore / quasi tutta la vita». E quindi: CON PASSI DI FANCIULLA... Giorno che in me dichina soffre tutti gli addii dei miei ricordi. E l’ombra delle foglie si accartoccia nella luce selvaggia... Nostra amica poesia abbassa le sue palpebre, sorride. So la tua sorte. S’alzano muraglie, verdi fiorite d’edera, a cingere il tuo sonno e le parole ultime che ti dissi nell’argentea luce dei colli. Poi fu l’autunno. Venne con passi di fanciulla trasognata sul mio cuore. (P.84 da RENATO FILIPPELLI, Il Cinto della Veronica, Centro Artistico Internazionale, Varese 1964 – Prefazione di Edoardo Gennarini). Che Poesia è questa? O meglio, mi son chiesta, chi, o cosa, è Poesia, per Filippelli. In cosa, o in chi, questo spirito imperioso, si fa corpo. In verità non me lo sono neppure chiesto coscientemente, m’è venuto solo l’atto di andare a ricercare questa risposta ad una domanda sopita dentro alle costole. Mi è sembrato di scorgerla dentro i versi appena letti, in quella luce selvaggia che cuoce le foglie. Essa, la Poesia, è nel corpo di una donna – vi sarà per poco, ho poi scoperto;


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è materna e amante finché non diverrà spirito paterno e potente, dall’occhio divino – e qui abbassa le palpebre e sorride. È una donna delicata e proprio umana, pudica ma fatta di carne e che risponde alla vita con un attaccamento viscerale; così è infatti per Filippelli che, quando ‘torna’ poeta scrive «Torno poeta. Il sangue doloroso / s’ ingemma e sboccia / nella melodia». In essa, per tanto, scorre un sangue doloroso e cionondimeno è un liquido che fluisce melodioso. Senza dubbio la sorte li ha voluti amanti, li ha voluti complementari Filippelli e la Poesia; e lui la sente così affine da scrivere:

«come responsabilità esistenziale e mai come puro compiacimento estetico» così Giachery scrive di Filippelli. Ancor più belle le parole di Fiammetta Filippelli «Mi piace pensare che la poesia possa essere assimilata all’immagine del pesce d’oro di Klee, che, sprofondato negli abissi silenziosi, riluce pieno di vita, quale guida sfuggente ma luminosa nel buio che la circonda». Perché è proprio così, Poesia è qui una luce, di quelle percepibili anche a palpebre chiuse; «un sole, non sai che sole sulla via maestra».

AFFINITÀ

[…] Si giace ad occhi spenti in conca di luce nuziale, e pudore non sale d’essere così nudi sotto un grido di procellarie. (P. 81 da In Conca di Luce Nunziale – Il Cinto della Veronica) *** RENATO FILIPPELLI - Tutte le poesie, A cura di Fiammetta Filippelli - Prefazione di Emerico Giachery, Postfazione di Francesco D’Episcopo. SOMMARIO: Cronologia 7; Nota introduttiva 19 di Fiammetta Filippelli; Prefazione 21 di Emerico Giachery; SILLOGI 27 Riflessioni a chiusura delle singole raccolte di Fiammetta Filippelli; Vent’anni 29; Il cinto della Veronica 65, Prefazione di Edoardo Gennarini; Ombre dal Sud 115, Prefazione di Emerico Giachery; Ritratto da nascondere 171, Prefazione di Fernando Figurelli; Requiem per il padre 229, Prefazione di Rosario Assunto; Plenilunio nella palude 281; Dai fatti alle parole 349; Spiritualità 423, Prefazione di mons. Raffaele Nogaro; Postfazione 475, di Francesco D’Episcopo. CONTRIBUTI E APPARATI, Note 489. Il percorso di vita e di poesia 497, di Pierpaolo Filippelli; Bibliografia 505; Bibliografia critica 507; Indice delle poesie 513; Album fotografico; Contenuto Cd Aurora De Luca

Alba di un puro inverno. La tua luce fìotta e zampilla dalle nude vette di Monte Massico. La tua casa è nel cielo dei cieli, ma pure in me, nel cuore del cuore. (p.452 da RENATO FILIPPELLI, Spiritualità, a cura di Fiammetta Filippelli, Edizioni Guida, 2012) Vi è sempre luce quando viene la Poesia, luce che è selvaggia, che qui fiotta e zampilla. Non c’è limite temporale, che sia l’alba o il giorno che dichina, che sia principio d’ autunno o puro inverno, per Filippelli «Oltrepassò l’aprile / degli anni e mi travaglia / ancora […] Mai fu un gioco; ora è il giro / della falena intorno / all’ultimo segreto della luce». Quindi, che Poesia è questa? O meglio, mi continuo inconsciamente a chiedere, chi, o cosa, è Poesia, per Filippelli. In cosa, o in chi, questo spirito imperioso, si fa corpo? Ma forse inciampo nel desiderio di disvelare qualcosa che Filippelli ha sin da subito lasciato fare. L’ha posta ad abitare nel cielo dei cieli e le ha dedicato, come altare, il proprio cuore del cuore. «Non è frequente incontrare una vocazione poetica così convinta, un amore così costante e fervido per la poesia, sentita sempre […]

IN CONCA DI LUCE NUZIALE

RENATO FILIPPELLI TUTTE LE POESIE, Fiammetta Filippelli, Gangemi Editore, Roma.


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Un poemetto del 1990, sempre attuale: TO ERASE, PLEASE?

DOMENICO DEFELICE SI VINCOLA ALLA PAROLA CHE CHIEDE PER OTTENERE di Ilia Pedrina ICEVO in dono “TO ERASE, PLEASE?” e lo leggo con rinnovata passione perché i lavori in scrittura di Domenico Defelice mi coinvolgono in profondità: la sua stesura poetica possiede il vibrato dettare dell'osservatore acuto sia dei fatti storici, che si snodano sotto il suo sguardo, intorno all'aria ch'egli stesso respira, sia della natura, della vita e dei legami forti, dell'amore per Clelia e per la famiglia che con lei ha costruito. La famiglia infatti gli è intorno: la prova è tutta nella dedica dell'opera: 'A/MIA MOGLIE/CLELIA/AI MIEI FIGLI/GABRIELLA LUCA STEFANO/IN RICORDO DI UN VIAGGIO/TUTTO SOMMATO/FELICE' Egli intreccia allora, nella memoria di questo viaggio, con le parole un dialogo poetico d'immagini liriche e realistiche insieme: esse vanno a segnalare un percorso percettivo e reattivo al tempo stesso, per dare l'assenso a quella forza critica esuberante che l'invettiva etico-politica sta a testimoniare. Il titolo di quest'opera, 'TO ERASE, PLEASE? - con uno studio critico di Maria Grazia Lenisa-', edito da Pomezia Notizie nel 1990 ed arricchito da un disegno in copertina ed all'interno di Umberto L. Ronco, contiene in sé una doppia provocazione: quella di utilizzare nel titolo l' intrusiva ed arrogante lingua dei 'liberatori' e quella di far emergere, attraverso questa macroscopica scelta, l'insopprimibile necessità di cancellare, una volta per tutte, ciò che appesta gli individui, gli ambienti, l'immaginazione e le idee. Cito. “L'urlo e la partenza Via, via da te città d'eterna crisi, smog, tramenio, clangore, urla e afa, afa, afa... …

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Obliate le giornaliere schiavitù delle quattro pareti e della fabbrica, Clelia ride di rinnovata giovinezza il cuore colmo. … La nave danza sull'onde turchine e la terra naufraga in velami d'ocra. Corri, mia nave, corri! Spettrale ancora emerge la ciminiera dal nero pennacchio... Corri, corri e tu sprofonda, maledetta...” (D. Defelice, 'L'urlo e la partenza', op. cit. pp. 21-23). Il tempo di questa avventura, 'TO ERASE; PLEASE?' viene scandito in sezioni, brevi e brevissime, come si addice a chi non è incline allo spreco: 'L'urlo e la partenza; L'attesa; Il viaggio; L'arrivo; Il tempio nudo; Villa Fiori; Sulla spiaggia; To erase, please?; Il risveglio; Il nuraghe; Il ritorno di notte' (pp. 2134). Di seguito, quasi a sottolineare la originale humanitas-pietas associata alla personalissima vis polemico-politica, tutta carica d'indiscussa e cogente, sorprendente attualità, l'Autore presenta una 'ANTOLOGIA MINIMA', scegliendo dal proprio canto al passato quei contenuti in versi che possono rendere ragione della tensione in lotta contro il male reale, non mai ipotizzato, perché parte tangibile, concreta, evidente del suo e del nostro tempo di vita e d'esperienza: 'La luce e il serpe; Strimpellata dell'uomo feroce; Uomo grandemente feroce; I falchi del mattatoio; Un grido dalle cascate; Clelia ride' (pp.37-47). Torno ai versi che ho citato. Il viaggio dalle coste romane alla Sardegna è iniziatico proprio per queste caratteristiche etico-sociali del suo ruolo di cantore e di pater-familias al tempo stesso, critico nei confronti dello sfruttamento degli operai e dell'ammorbamento dell'aria: allora limitati sono gli spazi dell'isolamento per poter lasciarsi andare all'avventura non più segreta dello scrivere per tramandare e Clelia vi appare in luce, quasi nuovo incoraggiamento silenzioso e costante alla vita ed al canto, pur se ribelle. Il contrasto è


POMEZIA-NOTIZIE netto e forza l'immaginario del lettore perché lo carica di insolito coraggio, fino a spingerlo a vivere nella condivisione sia l'interrogativo che l'esclamativo. Mi spiego. Parte dell'inciso che dà il titolo a quest'opera poetica appare quasi subito, esclamativo: “... Veleni, maledetti veleni! To erase, to erase! Negli abissi il file vostro ammuffito. … To erase. Si cancelli il loro file di veleno...” … 'To erase?'. Selfcontrol, please. Non ci riesco. Sorrido. Mare, mare profondissimo, cancellami il suo file di veleno. … To erase, Signore, to erase! Dalla robotica mente cancella il loro file di veleno... … To erase, Signore, to erase! … Me ne vado a ritroso, mani e piedi come un granchio. Ho paura di guardare gli idoli aggrappati ai capitelli. …. 'To erase?' Si, caserme e generali e reclute impiccate. … To erase, aiutami amico! To erase droga e AIDS, Sodoma e Donat Cattin. Che voli il tuo coltello in fronte al dio dei veleni! (da 'Il tempio nudo', op. cit. pp. 23-27). Sono di fronte al centro di tutto il percorso e questo approccio è già pugno chiuso, forte, determinato a metter silenzio e fine, nell'abisso, ai miasmi della assurda prossimità insulsa e vacanziera: allora nei versi a seguire l'incalzare del leit-motiv si varia e muta in se stesso, a rinnovare l'impulso schietto alla rimozione che spinge all'atto di cancellazione, necessario perché volontario, decisivo perché deciso a cogliere, nello spazio lasciato vuoto dalla cancellazione, le vibranti movenze della natura in respiro. Infatti, dopo l'ultimo dei versi qui citati seguono tocchi d'aria, di forme in

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moto, schegge in luce: “I pampini folleggiano alla leggera brezza e dalla balza sale il saluto del mare.” (op. cit. ibidem) Si, la cancellazione come necessità è invocazione, invito, decisione, richiesta audace e ferma, interrogativo che esclama tutta la sua forza, di fronte all'Altissimo ed a noi, minimi. È un lavoro in versi che mette fretta ed aliti di verità nel chiedere senza implorare, nell'esigere senza violare, nell'esistere fiero senza ammazzare: va letto tutto d'un fiato questo volumetto, perché vanno cancellati il dolore, la miseria, la sofferenza, la trascinata vita d'innocenti saturi e non ancora folli perché senzienti in tutto. Allora lo sconforto accalora la rabbia e dona la forza non brutale di cancellare il dio dei veleni, nunc et semper. L'altalenante ritmo delle realtà da cancellare, anche al solo udirle, trova immediato approdo in immagini acquietanti, in quella vibrazione che consente altra pazienza, necessaria per ricaricare la vis polemico-politica, forza d'opporre contrasto in versi che pochi poeti sanno governare e gestire. Non è l'Io padrone e distruttivo che annienta d'un tratto tutto ciò che del mondo non gli garba, ma è l'invito interrogativo del poeta che si fa strada nel cuore del lettore per aprirvi un varco benefico e costruttivo, carico di prospettive in luce, senza ambiguità: vince qui la matrice profonda della tensione vitale, di una libido non sottomessa a percorsi stereotipati, fissi, istintivi, perché è nella solitudine che emerge il singolare, individuale anfratto nel quale l'io minuscolo si protegge e si fa ricettacolo dello spirito. Cito. “Ho bisogno di solitudine. Lungo la riva vago raccogliendo sassi e conchiglie. Il mare divora la scogliera, pareti forate come maschere...” ('To erase, please?' op. cit. pag. 29). Dal sonno al sogno al risveglio il percorso in versi si fa durissimo, atroce delirio di verità. Non è riuscita la metamorfosi di un Occi-


POMEZIA-NOTIZIE dente prigioniero del fare, non del dare né dell'essere: nel cestino sono finiti uomini e vicende, non gli scenari che inducono rappresentazioni grondanti sofferenza. Su questi non è calato ancora il sipario che rigenera e risana: 'Ho vagato per mille chilometri su spiagge da orme immacolate. Davanti a me una parete a picco. Salgo in un intrico d'edere e mirti, galoppano cervi sotto l'ombra delle sughere. Scabro pastore mi guida lungo colline bianche di pecore e sassi. To erase! Vengo a te, patriarca, legislatore e dio...' ('Il nuraghe', op. cit. pag.31). Il dio da patriarca legislatore si è fatto minuscolo per dar prova concreta di una prossimità altra da raggiungere per via, al suo fianco, in passi verso Emmaus: l'io di questo dio va costruito dentro ciascuno di noi, lentamente, con forza, fierezza, coraggio. Ripeto: questa è un'operetta dura, aspra, verissima, che si legge tutta d'un fiato, con, per taluni ritmi, un pieno ascendere alle alture fascinose dei versi franti dei lirici greci. “To erase, please?” grida il Defelice e chiede per ottenere risposta e cambiamento, con la forza e la rabbia del villeggiante che non dimentica il suo 'status' etico e sociale, in consorzio con la sua amata ed i frutti d'amore che gli trotterellano intorno: allora a destra e a manca mena picconate per abbattere le pareti invisibili di muri che soffocano la vita, la rattrapiscono, togliendole quelle energie che è diritto sacro e santo mantenere in azione. 'To erase, please!' Esclama allora ogni anima bella che acclama il suo aedo e gli si fa intorno soverchiandolo di carezze per il benefico effetto che il suo canto in rivolta ha loro provocato dentro. Così e solo così la sua nemica, nuda seni al vento, ablativa in assoluto, non oblativa, si ritira sola tra le schiume ed i bagliori lunari delle onde. Il contatto con il testo critico di Maria Gra-

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zia Lenisa mi consegna un dettato sciolto e carico di competenza interpretativa. Una decina di pagine che partono da 'CANTI D'AMORE DELL'UOMO FEROCE' ed arrivano a questo 'TO ERASE, PLEASE?', le consentono una carrellata di collegamenti esegetici a testimonianza del proprio orgoglioso percorso critico-letterario: “... La poesia da sentimentale nell'afflato neoromantico o realista lirico, che distingue Defelice, assume toni tra il grottesco il drammatico e l'io lirico è sottoposto a scherno... Il nuovo momento defeliciano si pone come religioso: l'io è davanti al Tu (per eccellenza), la creatura chiede a Dio che la difenda, al culmine com'è della sua amarezza, fino a vendicarla. L'avventura psicologica individuale è pretesto più che diario, sfiora, nell'accusare la storia, l'alienazione da essa. Dio (o il tu) è chiamato alla cancellazione mistica del mondo, un mondo senza amore. C'è in 'TO ERASE, PLEASE?' la violenza jacoponiana che trafigge i momenti elegiaci, subito sconfessati da una natura offesa e ferita anch'essa. Il poemetto si attesta religioso, nella sua sostanza profonda...” (M. G. Lenisa in 'To erase, please?', op. cit. pp.8-9). L'importante traccia interpretativa della Lenisa, solida e significativa, quasi profilo critico-estetico rispetto al percorso europeo della storia della poesia e della lirica, va letta dopo aver compiuto il viaggio iniziatico con il Poeta: ella infatti osserva e delinea le differenti caratteristiche del suo dettato per meglio collocarlo in prospettiva e si approccia ai toni alti che però poco si addicono alla reale situazione nella quale il cantore si esprime ed a quel fuoco interiore che si immette nelle sue esperienze. La lettura di questo piccolo libro ti lascia infatti dentro una sincera sollecitazione all'agire incandescente che marchia e ripara, mentre il vento tempestoso della follia politica ed economica si fa strada tra gli eventi. Dall'Agosto 1989, l'onda lunga di una critica attiva e spietata contro il sistema corrotto di un Potere arrogante, che soffoca la dignità, arriva fino a noi e ne è testimonianza la rispo-


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sta profonda, testamentaria, del Defelice alla mia recente lettera a lui (cfr. Pomezia Notizie, Marzo 2017): “... Storia, anti-mitostoria, fascisti, comunisti, la mia poesia, il mio dolore impotente e sterile, Poletti, la mummia Berlusconi, Renzi, Bersani, D'Alema, Grillo, Salvini, i patetici capi di due tetri serragli Grasso e la Boldrini, Lagarde, Trump, Putin, Erdogan, l'infernale Califfo, le Banche, le Borse, Israele che vuole la pace ma continua a colonizzare le terre degli altri... Basta! Basta! Basta!... Giovani, mettete da parte il totem anestetizzante del telefonino e scendete per le strade e per le piazze, senza far male e senza farvi male, in un silenzio cupo e sordo come si addice al lutto. Vi abbiamo assassinati dentro. Come farvi capire la Storia, darvi di essa una ragione? Vi chiedo perdono, inutili e sterili sono state le mie battaglie. Scuotetevi e scuoteteci! Non state anche voi a guardarci, mentre, ebeti, ancora ci masturbiamo sul ciglio dell'abisso, del vulcano.”. In passi, verso Emmaus, con loro. Ilia Pedrina

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TEMPO VARIABILE Polvere di vento tra il rimbalzo del tempo scorrere di sguardo oltre l’altitudine tra cielo e mare, l’attimo più lungo il sole tra le nuvole e la luce suona e si dispera vibrando sul confine l’istante incessante arriva all’armonica sono agitata da molti giorni e da tanti venti che spirano in una tempesta fuori controllo e suonata di strumento, se ne va, danzando. Filomena Iovinella Torino

QUANDO IL CUORE NON PARLA E' la mano che manca su un cuore che stanca, che stanca le notti, che bagna gli occhi. E' il respiro che cede quando l'anima non vede, non sente, non vive. E' la voce che urla quando il cuore non parla. Siamo stelle aggrappate al sole che sorge. Claudia Bàrrica

Oggi, incontrandoti inaspettatamente per la strada, guardandoti ti ho vista come se ti vedessi per la prima volta, amica mia d’infanzia che pur vedo molto frequentemente. E per la prima volta oggi ho notato Il tuo passo lento e incerto, la tua schiena un poco curva e le profonde rughe sul tuo viso. E con dolore ho pensato che forse anche tu un giorno all’improvviso mi vedrai come veramente sono io, oggi…

Lavagna, Genova

BORGO MARINO

Se già non l’hai notato. Mariagina Bonciani Milano

Il sole accende l'onda e gioca dentro i vetri delle case. La bufera tra gli scogli è finita che sì a lungo combatté con la riva. Posa il vento caduto per incanto e a poco a poco s'acquieta il mare e annulla la sua spuma. Così la vita si rinnova lieve nel suo stupore. I suoi rancori e il male che tanto la ferì disperde; il grumo si scioglie; la sua febbre si consuma. Nuove frontiere pone al suo vagare. Elio Andriuoli Napoli


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REALTÀ E TRASFIGURAZIONE La filosofia dell’essere e l’arte dello scrivere di Nazario Pardini

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NA tematica che si può francamente riassumere in quella annosa quanto mai disputata questione fra arte e realtà oggettiva; fra arte e natura. Argomentazioni che hanno determinato il flusso filosofico-culturale-aristico da sempre: Dolce Stil Novo, Umanesimo, Barocco, Manierismo, Illuminismo, Neoclassicismo, Romanticismo, Verismo… E Saffo? e la grecità? e la romanità? Chi più ne ha più ne metta. Ogni corrente si è distinta dall’altra per una diversa interpretazione del rapporto fra l’io e il mondo circostante. Fino all’originalità Baudelairiana che vede nel poeta colui che può auscultare la realtà col sesto senso. Sì, uno in più. Perché riesce a percepire quella musicalità insita fra le pieghe del reale, che l’uomo comune non riesce a udire. Ed è proprio quella “sinfonia”, secondo lui, a creare una simbiotica fusione fra le cose che all’occhio comune appaiono divise. Ma, per farla breve, secondo me, l’arte non è ragione, né realtà scussa, l’arte è fantasia, immaginazione, passione. La ragione, semmai, tende a frenare quegli slanci onirici tesi a superare il gretto verismo. L’arte ha bisogno di un serbatoio a cui attingere. E quel serbatoio è alimentato dalla memoria. È essa che plasma la realtà mutandola in immagine. Ogni piccolo fatto, ogni sguardo, percepiti e degni di storicizzarsi, una volta decantati nel nostro animo, si fanno alimenti indispensabili per la resa estetica. Conosco tanti poeti che hanno creduto di fare della poesia un annuncio politico, una rivoluzione sociale. La poesia è altro. Si potrebbe partire addirittura dai presocratici, per non dire di Socrate, Platone, di Aristotele per tracciare una linea sommaria che tenga di conto dell’evolversi di tale rapporto, considerando che sono certe condizioni a permettere che tale tema della filosofia si svi-

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luppi proprio in Grecia nei secoli VII-V a.C. A determinarne l’esordio contribuiscono la visione dell'arte, della religione e le condizioni socio-politiche di quel periodo. E sopratutto Omero, Esiodo e la poesia lirica. Omero, pur rifacendosi a ragioni mitico-storiche, tenta di rappresentare la realtà nella sua totalità. Ed Esiodo cerca di venire a capo del «principio primo» da cui tutto ha inizio, ma rifacendosi sempre al mito. E Socrate, quanto al rapporto dell’io con la realtà, giunge al concetto di limite, di giusta misura: quel «conosci te stesso» del tempio di Apollo. Ma mi piace aprire una parentesi su Saffo la grande. Il suo rapporto con Pan è vario, e piuttosto conflittuale. Nei suoi frammenti ci sono chiari di luna, e scoperte di paesaggi serali veramente moderni. Ma la sua ricerca è sempre volta ad una Natura tormentata e violenta che faccia da specchio al suo essere abnorme, al suo involucro imperfetto, e “brutto”. Riesce a soddisfare il suo spirito solo davanti a mari che sbattono le loro onde fragorose su scogli dissestati, o in mezzo a temporali forieri di lampi paurosi. E bramerebbe che la morte la raggiungesse nel momento del maggior godimento erotico, perché tale beatitudine, tale sperdimento dell’essere non venisse profanato dalla vita: “… Proprio qui,/ ove tu siedi, stette il piede tenero/ dell’infelice Saffo che Faone/ abbandonò. Nel cielo di quest’isola,/ lucido ed armonioso, riscontrava/ solo dolore; andava su altre sponde/ ove il mare violento tormentava/ gli scogli dissestati per rivivere/ il suo triste destino. Dalla cima/ di pietra accarezzata dalle mani/ della dimenticanza, si gettò/ in quest’onde fatali…” (Da Nazario Pardini: Alla volta di Léucade: Fuga da settembre, Viareggio, 1999); “Volevo/ che tutto il mio sentire si spegnesse/ nella notte soffusa e che l’immagine/ non guastasse la luce. Era la morte/ ch’io bramavo nell’attimo superbo/ di eternare la gioia dell’amore./ La poesia e il canto il grande dono/ furono degli dèi per il deforme/ involucro dell’anima. Nessuno/ pronuncerà di certo il verbo furono/ per i miei versi. Aleggiano con piume/ verso l’Olimpo in questo nostro incontro./ Moriranno gli eroi,


POMEZIA-NOTIZIE le bellezze/ di cortigiane effimere e procaci,/ ma un cantico se eccelso volerà/ oltre gli spazi frali degli umani./ E se restò il ricordo di un’achea/ bellezza o ancor di più di gesta eroiche/ di un teucro si deve al grande aedo./ Il luccichio del mare accompagnato/ dai trilli lamentosi dei colimbi,/ il frangersi dell’onda sulle rocce/ logorate dagli anni, le tempeste/ che spruzzano la bava della schiuma/ sui volti scoloriti e poi i riposi/ delle bonacce sulle vele ai porti/ saranno giuste note che stasera,/ incise in poesia, legheranno/ il convivio all’eterno”. (Da Nazario Pardini: Alla volta di Léucade: Agape di vino e poesia, Viareggio 1999). Quanto al rapporto fra l’ego e il reale negli artisti greci tende alla trasfigurazione: non si riproducono mai le forme del corpo; e i volti delle statue greche non tradiscono mai un sentimento ben definito. Questi artisti utilizzano i movimenti per esprimere quelli che Socrate aveva chiamati “i travagli dell’ anima”. Lo scopo principale, in relazione al conosci te stesso di Socrate, era quello di coglierne il moto. Platone critica la poesia; e Socrate afferma che non è un vero sapere, ma una forma di conoscenza infusa dalla divinità: il poeta infatti quando compone è divinamente ispirato, la divinità si serve di lui per comunicare (Omero canta sotto dettatura della Musa). Non significa comunque che la poesia non valga nulla per Platone: lui stesso può essere considerato poeta. Basta citare lo "Ione", un dialogo platonico considerato "minore", dove ben emerge che fondamento della poesia non è la scienza, bensì l'ispirazione. Protagonisti sono Socrate e Ione, un rapsodo. Ione si dichiara espertissimo di Omero e di tutte le sue opere, e ne dà prova recitando a memoria i pezzi più svariati. Ma Socrate gli dimostra che il suo sapere non si basa su conoscenza e scienza: è un'ispirazione divina. Ci sono alcune differenze sostanziali tra arte greca e romana: i Greci rappresentavano un logòs immanente, i Romani la res. I Greci trasfiguravano in mitologia anche la storia contemporanea (le vittorie sui Persiani o sui Galati di-

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ventavano quindi Centauromachie o lotte fra Dei e Giganti o ancora Amazzonomachie), mentre i Romani rappresentano l'attualità e gli avvenimenti storici nella loro realtà. Passando ai primordi della nostra letteratura, con lo Stilnovo avviene una vera sublimazione dell’amore e una vera idealizzazione della donna. Un rapporto completamente diverso fra l’amante e l’amata, fra l’io cogitante e la realtà. Si afferma un nuovo concetto di amore impossibile, che aveva i suoi precedenti nella tradizione culturale e letteraria trobadorica e siciliana, nonché un nuovo concetto di donna, concepita adesso come donna angelo, donna angelica. Parlare di lei è pura ascesa e nobilitazione dello spirito, puro elogio e contemplazione descrittivo-visiva che consente al poeta di mantenere sempre intaccata e puramente potente la propria ispirazione in quanto diretta ad un oggetto volontariamente cristallizzato e, ovviamente, giammai raggiungibile. Ma è l’età dell’ Umanesimo a segnare la linea di demarcazione fra il vecchio e il nuovo nelle visione del rapporto fra l’uomo e la natura. Nasce un’idea del tutto innovatrice e cambia completamente questo raffronto. Di conseguenza cambia la concezione dell’arte, della vita, della morte, della religione, della scienza e della politica. Mentre nel Medioevo tutto dipendeva dall’ordine divino e la teologia era a capo di ogni attività umana (basta citare Dante e la Divina Commedia per notare che l’Aldilà era a capo di ogni pensiero filosofico. La punta più alta della conoscenza era considerata l’incontro con la luce eccelsa e abbagliante del Supremo), ora è una massima ripescata dagli antichi romani - Appio Claudio Cieco - a condensare in sé la filosofia dell’essere e dell’ esistere: “Faber est suae quisque fortunae”, “ognuno è artefice del proprio destino”. Per cui l’uomo si ritiene, sì, figlio di Dio, ma in quanto tale deve dimostrare di esserlo dandone prova colla sua azione e la sua creatività. E non pensare passivamente di far parte di un universo immutabile. L’essere umano diviene, così, l’artefice primo del suo progresso in terra; nasce l’uomo nuovo, fattivo, operativo,


POMEZIA-NOTIZIE scopritore che cerca di penetrare nei meandri del creato e della Natura. Una filosofia di vita che si trasmetterà all’Illuminismo tramite le discours sur le methode di Cartesio col suo Cogito ergo sum, che spingerà l’umanità alla scoperta, al miglioramento del suo vivere, alla Rivoluzione industriale, al Positivismo, e a tutte le fasi del progressismo scientifico, fino ai nostri giorni, con un grande input per il settore della medicina e della statistica. Al contrario, nella seconda metà del ‘500, nel periodo della Controriforma, comincia ad andare in crisi la sicurezza spirituale e filosoficoletteraria dell’Homo faber. Il primo a darne un esempio è lo stesso Tasso. Con tutte le sue irrequietezze e insicurezze, che lo avrebbero portato in manicomio. Cambia il rapporto fra l’essere e la realtà. Ci si chiede il perché della vita, dell’esistere, del quando, del dove; ci si interroga su tutti quei dubbi escatologici che portano l’io a meditare e a riflettere sulla fragilità della sua permanenza: malum vitae post-rinascimentale. Spleen esistenziale che sarà prodromico innesto per un Preromanticismo foscoliano o per un Romanticismo leopardiano. Per un Decadentismo pascoliano o pirandelliano e per quel filone di tutta la cultura occidentale contemporanea che avrebbe rispecchiato un animo inquieto alla ricerca di una verità improbabile, e forse mai raggiungibile. Si cercherà di reagire a questa psicosi di impatto sottrattivo, ma in che modo? Con sperimentalismi che il più delle volte portano a spegnere l’io in un oggettivismo massacratore della personalità dell’artista, e di dubbia resa poetica. Sì, perché non vedo l’arte come semplice rappresentazione dell’oggetto che ci sta di fronte. E credo che il vero artista non si debba far intrappolare da propagande politicosociali. L’arte è qualcosa di più. È trasfigurazione, è slancio, è azzardo, è ricerca, è metafora, è allusione, è manipolazione, tutto ciò che va oltre la parola, oltre il nesso, oltre la cruda realtà che ci condiziona. Montale è grande perché soffre nel sapersi vincolato a un quando e a un dove strettamente limitati per il suo sentire. Non è certo la ragione a

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spingerlo a considerare gli ossi di seppia metafora della vita. Ma il suo palpito esistenziale. Quell’abbrivo che va contro ragione e che ci porta a vedere nelle cose tutto ciò che in esse è nascosto. Ed è giusto considerarlo come il più fedele continuatore della poetica leopardiana. E Calvino è un vero artista in Marcovaldo, perché è lì che esplode con eleganza e semplicità comunicativa la sua indagine. C’è già presente, se si vuole, il rifiuto di una civiltà invasiva, di un progresso che avrebbe sovvertito l’ordine naturale delle cose; e che avrebbe fagocitato l’individualità dell’umanesimo; e lo fa con ironia, con garbo, con il sorriso sulle labbra, anche, spedendo Marcovaldo a fare la villeggiatura nella piazza di città e facendogli scambiare il semaforo con la luna. Facendo una apologia della campagna, della naturalezza, dell’uomo che è integrato con la terra. Sovvertendo i dati concreti. Una satira di contrasto, quasi pariniana, tipo L’incipriatura, o La vergine Cuccia. Secondo me si preannuncia già, con sottigliezza e verve calviniana, quel realismo terminale di cui si sarebbe abbuffato Oldani o chi per lui. Vera indagine, la sua, dello sdoppiamento dell’animo umano; servirsi delle cose per adattarle alle sue emozioni. Tutto frutto di un amore per la madre primigenia, in tutte le sue manifestazioni; di un’anima che trova la sua identità in certe avventure iperboliche tipiche dell’autore. Definirle irrazionali non è azzardato. Ed è giusto il riferimento al Parini. Lo definirei proprio l’iniziatore del filone lombardo che, secondo me, poi, si stravisa mutandosi in avventure sperimentali che niente hanno a che vedere con la poetica pariniana. Voglio dire, a parte i tempi, che le tematiche si fanno forzatamente realistiche, motivate più da una necessità di rappresentare oggetti e questioni, di propagandare idee, che da una vera ispirazione. Intendendo per tale la vera passione che dentro urge, irrazionalmente, e porta ad esprimere sentimenti che precedono lo stesso pensiero. La poetica del Parini, sì, è volta ad un discorso sociale, è inconfutabile. Soprattutto in certe odi, come La caduta, e più ancora in Il giorno; ed è vero che si


POMEZIA-NOTIZIE scaglia contro una società di cicisbei e fannulloni, di corrotti, e “gozzovigliatori”, ma lo fa con motivazioni che gli sgorgano impetuose dall’animo, con quella passione che sente l’ urgenza della poesia. E lo fa con uno stile nuovo, portatore di una vera narrazione rivoluzionaria: la satira di contrasto; è sufficiente leggere Il risveglio del giovin signore per rendersi conto del capolavoro davanti a cui ci troviamo. L’ultima voce satirica della nostra letteratura era stata quella dell’Ariosto. Una satira cosiddetta bonaria, oraziana più che giovenaliana. Con il Parini la satira è conseguenziale, frutto di un confronto di due poli contrastanti. Mai diretta: la bellezza dell’alba descritta con una partecipazione bucolica, unica ed affascinante; il giovin signore che, al mattino, rientra dalle solite sue feste preceduto da due ordini di teofori; dall’altra il plebeo che lascia le calde coltri, e si alza per andare al duro lavoro della terra; alla fatica dei campi; proprio alla stessa ora. Quindi, tirando le somme, questo filone ha perso la sua originalità. Ha preso tutt’altra strada fino a convertirsi in un realismo squallido ed omologante, vòlto solo a raziocinare, senza alcuna invenzione personale. Lo direi quasi un oggettivismo spersonalizzato il cui solo merito è quello di distruggere la vera anima della poesia: fantasia, immaginazione, sentimento, musicalità, creazione, voli di grande portata metaforico allusiva, dacché ogni argomento è valido per trarne ispirazione - politico, sociale, erotico, satirico… - basta che non sia frutto di un un processo razionale; deve essere il sentimento lì in agguato a captare il suggeritore esistenziale, deve essere lui poi a consegnarlo all'anima; sarà lei a tradurlo in poesia. E la parola? quell'ivolucro indispensabile a contenere il tutto? Non sarà mai sufficiente a definire compiutamente la massa delle emozioni che un artista ha dentro. E tanto meno il pittore giungerà definitivamente all’atto supremo della perfetta creazione visiva. Perché siamo mortali e in quanto tali deboli, fragili. E se da un lato la nostra fragilità è motivo di ispirazione, dall’altro è anche il circuito entro cui noi siamo condizionati. Quel breve spazio

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che ci limita e ci rende imperfetti. Quindi esprimere la trasfigurazione è la maniera migliore per avvicinarsi il più possibile all’ inarrivabile. Insomma, alla fin fine, vorrei che ogni artista sentisse l’urgenza di travalicare il fatto crudo, e di non restarne invischiato, in quanto egli stesso è un uomo e come tale ambisce a superare il contingente e scavalcare quella siepe che è strettamente vincolante e vincolata al fatto di essere umani. Ed è proprio questo il nocciolo per cui non è sicuramente vero che tutto è buono per far poesia. Nella stessa Divina Commedia bisogna saper distinguere i momenti di alta espressione artistica da altri di pura retorica. Soprattutto quando Dante si cimenta in argomenti di carattere astronomico, legislativo, o scientifico in genere. Si potrà parlare di concetti tradotti in metrica, ma non sicuramente di grandi slanci artistici. Come giustamente afferma Luigi Malagoli in “Stile e linguaggio nella Divina Commedia”: ci sono argomenti che la ragione assimila e ne fa teoria, ma che l'anima non riesce a rendere suoi per tradurli in arte. Né tanto meno si può parlare di Poesia quando la si vuole ancella di propaganda politica, o la si vuole declinare in manifesto tipo futurismo del Marinetti o gruppo '63 del Sanguineti. Lo stesso che si sarebbe poi pentito di avere prodotto scritti di uno sperimentalismo fazioso e partigiano. E' possibile che la poesia possa ridursi solo a forma? E' quello che voleva. La Poesia ha bisogno di libertà, di armonia, di passione, di inventiva non di farsi strumento. Deve essere lei a scegliersi la materia. E una formula di matematica non sarà mai soggetto per un'anima disposta al canto. La ragione fa scienza, filosofia; l'anima e il sentimento fanno arte. Insomma posso creare un poema con tutto ciò che la mia anima riceve, digerisce, trasforma e traduce. E questo può accadere anche con un ingorgo su una autostrada; basta che quell'ingorgo sia vissuto come esperienza esistenziale di un momento, di un tempo particolari, adatti a scatenare emozioni. Ma se mi ripropongo di limitare


POMEZIA-NOTIZIE lo sguardo solo a quell' oggetto, no!, non ci siamo! Per essere più precisi, quindi, diciamo che ogni argomento può essere valido, basta che abbia il consenso dell'anima. Ma una cosa è sicura, lasciamo da parte la ragione, e facciamoci trasportare dalla musica. E per dire del realismo terminale di Oldani o degli epigoni della “linea Lombarda” credo che in questi casi si cada in un oggettivismo assillante e trito, carente di quelle spinte emotive indispensabili ad una vera resa artistica. E a proposito mi trovo d'accordo con Pasquale Balestriere e vorrei concludere col suo pensiero: "Per il resto, con tutto il rispetto dovuto alla “linea lombarda” e ai suoi maggiori rappresentanti, non mi appaiono convincenti i suoi epigoni, ridottisi ad un oggettivismo pseudofilosofico, denotativo e minimale, proprio di chi, pur non avendo fiato e voce, intende cantare. Perché, come scrive Pardini “l’arte non è ragione, l’arte è fantasia, immaginazione, passione”. Né mi appassiona il “realismo terminale” di Oldani, con gli oggetti veri protagonisti di ogni realtà,” tanto che è l’oggetto ad essere l’artefice primo del nostro vivere; ed è esso a pilotarci, e a impossessarsi di noi: è esso che ci invade, impedendoci l’ attuazione di una ricerca: la conoscenza stessa dei nostri desideri”. Nazario Pardini PENSANDO… Quando il tuo sorriso mi accarezza il cuore, batte all’impazzata e non lo posso frenare, mi si rompono i freni e sbatto con orrore come una pera matura sul selciato dell’amore! La pioggia scende lenta, ogni goccia mi solletica il cuore, mi fa pensare al mio amore,

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mentre mi bagno le mani e cerco il tuo viso, nella pozzanghera galleggia il tuo sorriso, ci affondo dentro, e tutto diventa un lago d’argento! La linea zigzagante delle montagne all’orizzonte mi fa pensare a te, quando col tuo sorriso smagliante mi dicevi, che ero il tuo orizzonte e mi stringevi al cuore bisbigliando dolcemente, appassionate parole, scandagliando i miei sensi e catturando irrimediabilmente, tutto il mio amore! Giovanna Li Volti Guzzardi Australia

NEVICATA Un turbinio di candide farfalle continuamente risorgenti. Ai vetri bussa la nevicata. Oggi è stupore di un mondo che rinnova la sua veste per un prodigio inusitato. Cresce nel cuore una segreta gioia che ignari fanciulli ci rifà, per poca cosa pronti ad esser felici. Dai fondali del cielo senza tregua i fiocchi avanzano ed è vano inseguirli. Avviva gli occhi quella festa che pare senza fine. Domani un sole pallido verrà a cancellare il sogno. Emergeranno a poco a poco le apparenze note. Sarà tutto usuale e quasi spento. Elio Andriuoli Napoli


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LE “VISIONI CULTURALI” DELLA POESIA DELLA PELIZZA COME RIFLESSIVITÀ COMMISURATIVA PER L’ATTIVAZIONE DEI VERI VALORI UMANI. di Andrea Bonanno ELL’introduzione al libro dal titolo “Visioni culturali”, che accoglie poesie di Susanna Pelizza e di Vito Sorrenti, pubblicato nel mese di novembre del 2016 da Il Convivio Editore, viene presentato un nuovo intento “proposizionalista”, consistente nel “creare un’arte che sia espressione sia di valori culturali da trasmettere” che “specchio della realtà odierna” (p. 5). Il fine riconosciuto del suddetto intento viene riposto nell’educabilità ai valori morali soffocati e dispersi dalla “volgarità del presente”, dal cinismo dei massmedia con i suoi orripillanti vuoti e degenerazioni, i suoi disarmanti e stereotipati appelli e rivendicazioni esaltatrici dell’effimero e del materialismo. Nel contempo, viene rivendicato pure il fine che la poesia riesca a leggere obiettivamente le negatività della realtà, recepita come “specchio del tempo”. L’intento fondamentale viene riposto nel sapere ricollegare il presente con la storia del passato e la sua cultura, rinnegando come fuorvianti e deleteri tutti quelli “destrutturanti” ed “asemantici”, avanzati dai movimenti neovanguardistici e dal “Neosperimentalismo di Giuliani e Guglielmi”. Il libro persegue la volontà di voler sensibilizzare il lettore in modo di attivarne la coscienza e rendere più acuta la sua riflessione nello sfuggire le banalità più viete e intollerabili di un sentire egocentrico e cinico, perpetuate da una pseudocultura che mira alla disgregazione dell’ unitarietà della coscienza e al ristagno di ogni io nella molteplicità di erronei mitologemi narcisistici. La commisurazione di elementi esogeni e

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patogeni è volta ad educare il lettore e non a “stravolgere ed estraniare”, viene detto a p. 7. Per tale ragione, le visioni del classico opposte a quelle propagandistiche esaltate dal volgare assetto del potere, mirano a volere uscire dall’impasse di una falsa cultura che azzera di continuo l’umanità della coscienza, degradandola in sdoppiamenti fittizi o in effimere figurazioni modellate da insulse manipolazioni spettacolarizzanti. La prima poesia proposta dall’Autrice è Il bove, tratta dal volume “Distrazioni”, edita da “Penna d’Autore” nel 1999, in cui la poetessa ritrova e attiva l’abbrivio del sentimento negli stilemi di un’arcaica classicità, dove l’io poetico ricerca l’oggettività della propria soggettività, data appunto da una modulazione “autoriflessiva” del dettato poetico, commisurando la visione generale con quella particolare e la medesima realtà con la relativa visione soggettiva. Inoltre, riferimenti colti e altri a connotazione allegorica si susseguono con andamenti di una significazione diversa, ma che tuttavia puntano all’ universalità del dire poetico. Nel sonetto acrostico dal titolo “Italia mia”, la poetessa afferma la sua volontà “culturalizzante” nel promuovere l’amore e l’attaccamento ai veri valori, come quello verso la patria, promuovendo uno “sforzo collettivo” ed un sincero e forte senso della solidarietà nei riguardi soprattutto di tutti i popoli. L’enfasi e la retorica in questo sonetto vogliono essere un’antitesi all’ ”anatema dell’intimismo”, per ubbidire all’ intenzionalità fondamentale del “culturale”. Quella della Pelizza è una poesia, che strappata ai falsi miraggi del potere, si carica del valore di essere una commisurazione della coscienza, che interroga se stessa per divenire, per dirla con il De Sanctis 1, verifica di se stessa nei riguardi della realtà e della propria esistenza. In tale ottica, anche per Carlo Bo 2, la poesia è un “eterno confronto della nostra anima con il senso totale della verità” ma con un ben diverso intendimento. Nelle varie poesie dell’Autrice, prevale un


POMEZIA-NOTIZIE io impersonale che si commisura a delle “Figure istantanee”, come metafore assolute, e ciò lucidamente è riscontrabile nella sua poesia dal titolo “La domenica dell’ulivo”(p. 63), personificate dalla “Vanità” e dalla “Bellezza” di ogni cosa del reale, dalla “Fede” e dal “Dolore”, trascese ad una visione di una bellezza superiore ed appagante, che dà esultanza e gioia al cuore di ognuno. Altrove, come in “L’erica” (p. 71), la poesia viene intesa come una sovrapposizione di strati diversi, rimandanti a diversi connettivi realistici, compreso quello costituito dall’ interiorità soggettiva, in cui le varie manifestazioni dell’essere cercano un loro dialogo ed incontro per un loro approdo ad una loro sintesi rigenerativa del loro significato conoscitivo. Allora, se l’anima (la poesia), nel suo evolversi, come una pianta in crescita, può dar luogo ad una “esodanza” e ad uno sconfinamento nel nulla, deve opporre al senso del vuoto il “Culturale”, come “riflessione inserita nella storicità dell’ essere e dell’esistere” (p.49). Magistrale e suggestivo sonetto acrostico è “Mosaico” (p. 58) per la denuncia dell’ imperversare della guerra, di qualsiasi violenza e di qualsiasi forma di odio. La voce della poetessa rivela il pregio di poter annotare che “Invano le mani cercano salvezza” e che “Odo voci che piangono sommesse” (p.59) […] “Ordinano tregua a Dio che le uccide” (qui per il termine “Dio” si deve intendere qualsiasi fanatico religioso o terrorista, che operi in nome di Dio). E’ una gioia per l’ anima sognare allora la pace: “Colori veri che l’amicizia incide / E circoli d’amore dall’inferno che tace”. Il madrigale “cronaca di una scarpa” si sofferma sul grave problema del femminicidio, operato da un branco di stupidi e stravolti degenerati su una povera emigrata diventata meretrice, rea solo di essere stata “usata, sfruttata, logorata”, di cui non resta più nulla a causa di quell’orrenda omertà di “ chi seppe (e) ancora tace” (p. 62). Ritornando a parlare della poesia della Pelizza, il merito fondamentale che ella le ri-

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conosce è quello consistente nel fare interloquire espressioni auliche della tradizione con contesti diversi in un’armonica interrelazione che eleva e rinnova lo spessore estetico e quello conoscitivo, predisponendo il medesimo modulo poetico, per il lettore, in modo tale da poter attivare la sua riflessione, per esaminare e valutare i dettami del sentimento, scoprendone altri significati non convenzionali. Anche le numerose figure retoriche presenti insieme agli stilemi lessicali, nel sortire inedite comparazioni e giunzioni, sostengono una strutturazione inedita del modulo espressivo con il fine perseguito di poter approdare a nuovi significati a livello culturale. Inoltre, le poesie dell’Autrice tentano la coesistenza dell’allegorismo classico con un simbolismo “aperto”3, capace di favorire l’ attivazione e il nascere di “risposte emotive e concettuali” da parte della sensibilità del lettore, rendendo così realizzato il fine espressivo del “Culturale”, perseguito dalla poetessa, ormai insofferente alle scosse emozionali e pietistiche di tipizzazioni obsolete e non più riproponibili. L’inedita strutturazione del modulo poetico, oltre che rivelare richiami culturali notevoli, indirizza la poesia della Pelizza verso l’ accrescimento della conoscenza “culturale” insieme alla salvaguardia di quei veri valori da riconoscere all’anima dell’uomo di oggi, sovente stordito e sbalestrato dagli effetti spettacolari dall’alienante apparato massmediale dominante nell’attuale società, che si divincola, come un ossesso, per sfuggire all’ agghiacciante gravame del vuoto morale e culturale e ad una condizione di una scissione-dispersione totale della sua umanità, sempre più brutale e dissacrante. Andrea Bonanno Note 1. Cfr. Antonio Preti, Critica e autocritica, Milano, Celuc 1971, pp. 44-52 2. Ibidem, pp. 44-52 . Il critico Carlo Bo nel 1939 ha scritto “Otto studi”, in cui si trova il saggio “Letteratura come vita”, considerato il manifesto dell’Ermetismo. L’equazione letteratura-vita, o reale-verità per il Bo alla fine però si


POMEZIA-NOTIZIE risolveva con il privilegiare una “poesia pura”, destinata a basarsi su una interiorità ed atemporalità miranti a relazionarsi ad un assoluto, ricorrendo ad evocativi indeterminati, associazioni analogiche e a larvate allusività. In tal senso, il Montale ne denunciava l’oltranzismo simbolista, che sorretto da fascinazioni melodiche, musicali e da una esagerata sensualità, allontanava vieppiù il lessico poetico del soggettivismo ermetico da un’ obiettiva ed incisiva commisurazione con la realtà. 3. Umberto Eco, La definizione dell’Arte, Milano, pp. 164-165. Ivi l’Autore ha scritto quanto segue: “… mentre l’allegorismo classico poneva per ogni figura un referente ben preciso, il simbolismo moderno è simbolismo <<aperto>> proprio perché vuole essere anzitutto comunicazione dell’indefinito, o dell’ambiguo, del polivalente. Il simbolo della letteratura e della poesia moderna tende a suggerire un <<campo>> di risposte emotive e concettuali, lasciando la determinazione del <<campo>> alla sensibilità del lettore”.

INTENSO Maestre mani mi carezzano il volto audaci son gli abbracci tra le parole ardite ameno è il tempo e sfiora gli anni. Non pochi i giorni e i canti inquieti drappeggio d’ali e scritte scorrono. Portami con te delicato amore donami quel tuo sguardo volto verso l’infinito bisbigliami tenerezze l’anima mi cullerà

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la foglia lascerà il suo ramo la terra l’accoglierà con i suoi profumi ed io avrò cura dei nostri sogni. Lorella Borgiani Ardea

AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 19/3/2017 Il Presidente Sergio Mattarella, a Locri ha dichiarato che la mafia è vile - non ha coraggio - e senza onore. Alleluia! Alleluia! Meglio tardi che mai. Noi l’abbiamo da sempre pensato e scritto. Nel 1974, per esempio, ne L’orto del poeta: In questi ultimi anni i delitti di mafia si sono dovunque moltiplicati. Il rituale, sempre quello: le minacce per intimidire e logorare la vittima designata, poi l’agguato. La vigliaccheria più spregevole. La mafia è, infatti, un’ organizzazione di gente vile. Il fegatoso non cerca coperture, ma affronta a viso aperto il nemico; le cerca, invece, il pauroso e l’incapace, chi alla luce del sole non avrebbe neppure l’astuzia e l’animo d’affrontare una vespa priva del pungiglione. Sono in errore coloro i quali giudicano coraggioso il mafioso che, scoperto, gioca il tutto per sfuggire alla legge; che, se preso, si cuce la bocca e che, se deve uccidere, lo fa con apparente freddezza. Un tale suo comportamento lo esige la ferrea e spietata legge della mafia, la quale è pronta a eliminarlo non solo alla minima insubordinazione, ma, addirittura, al più piccolo e involontario errore. Il mafioso ha sempre dinanzi a sé il dilemma: rischiare la vita per soddisfare l’organizzazione o perderla sicuramente e nel modo più subdolo e crudele. Il suo fare deciso non è coraggio, dunque, ma disperazione. Domenico Defelice


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Il Racconto

SUBITE VIOLENZE di Anna Vincitorio

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DELE rientrava a casa dopo il teatro. Si era fatto molto tardi. Era stata una serata coinvolgente per la trama intensa del testo e l’immedesimazione degli attori. Ripensava ai dialoghi fra i due personaggi principali; facevano riflettere. Poteva essere benissimo un’ipotesi vissuta sulla pelle di qualsiasi donna. Nel momento attuale, la cronaca metteva a nudo drammi di violenza familiare, abuso, prevaricazione di minori, devianze. Uno squallore dal quale era difficile staccarsi e che poteva essere rimovibile solo rifiutandone la vista o vivendo egoisticamente nel proprio spazio. Lei era sempre stata aperta al dialogo, alla comprensione; si sentiva cittadina del mondo e aveva vissuto tra letture forti e la realtà del quotidiano. Rientrava a passi veloci; la strada semibuia e silenziosa; sul selciato il rumore dei suoi tacchi. Ancora suggestionata dal dramma vissuto in teatro, vedeva ombre che si allungavano sinistre nell’ondeggiare dei lampioni. Forse dei passi dietro di lei. Si affretta e apre il portone che si chiude alle sue spalle con un tonfo. È salva e, dopo la quotidiana indagine serale: verifica serrande chiuse, paletti antifurto, mandata di sicurezza, può finalmente andare a letto. La circonda un buio ovattato che concilia il sonno. Immagini affollano a strati la sua mente, lontane nel tempo. Una casa, quella paterna, lei bambina silenziosa, il padre severo e la mamma soprattutto intenta a preparare ghiottonerie in cucina. Forse l’età matura dei genitori e i tempi della sua infanzia non favorivano il dialogo. Adele bambina era piena di dubbi irrisolti, fantasticherie, turbamenti nell’ umore e quel corpo che si avviava verso l’ adolescenza senza alcuna consapevolezza. In casa all’epoca facevano dei lavori di ristrutturazione e andava e veniva un operaio sui cinquanta. Tra le varie modifiche c’era la costruzione di un grande soppalco. Tutto incuriosiva la piccola Adele. Il muratore che la vedeva sempre lì col naso ritto e gli occhi spalan-

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cati, le diceva: “Vieni mimma, sali sulla scala non aver aura che ti fo’ vedere il soppalco”. Lei saliva su per la scala e l’operaio di sotto che la reggeva. Un giorno che la mamma era uscita per fare la spesa, il muratore le chiese se le poteva mettere una mano tra le cosce. Intimidita, turbata e, non sapendo che dire, acconsentì. Si sentì per pochi attimi frugata. Uno spiacevole turbamento e un senso di vergogna. Si allontanò confusa senza dire nulla. Non ne parlò con la madre ma a una vicina che le voleva bene e con cui a volte andava verso la ferrovia a cogliere fiori, quelli piccoli e variopinti nati spontaneamente tra l’erba e le fessure del selciato. La vicina consolò Adele; le disse che non doveva sentirsi in colpa per non avere reagito e ne parlò alla mamma. Il padre non fu informato e il muratore venne mandato via. Adele si rigira nel letto e pensa: “Che cosa sgradevole e lontana sono andata a ripescare”; ma ormai su quella scia, altri sgradevoli ricordi affiorano. Andava a ripetizione per prepararsi agli esami di quinta ginnasio presso una signorina che abitava in una casa liberty con i genitori, amici di famiglia di Adele. Lei arrivava a volte in anticipo e parlava in cucina con la zia Erminia (detta nuvola nera). Adele beveva malvolentieri il caffè che non le piaceva ma le pareva scortese rifiutarlo. Un giorno era sola vicino al termosifone del salotto poco prima della lezione. A un tratto la morsa di due mani sui suoi giovani seni che rabbrividirono sotto il golfino azzurro e due flaccide gelide labbra le ghermirono la bocca. Disgusto, orrore. Come aveva potuto osare un amico di famiglia così vecchio e schifoso? Tornò a casa. Questa volta raccontò tutto alla madre che però non intervenne per non distruggere l’amicizia. Adele era mortificata, si sentiva violata e indifesa. Si rifiutò di continuare le lezioni. Alcuni mesi dopo dovette tornare in quella casa con la madre; il vecchio era sul letto di morte e lei con angoscia e disgusto guardò quel viso biancastro e spento dalle grossa labbra che l’avevano violata. Era una ragazza timida, studiosa che arrossiva come una ciliegia. Se si prendeva qualche cotta non ne faceva parola e non voleva che nulla accadesse. Le sue amiche invece,


POMEZIA-NOTIZIE avevano tutte il ragazzo. Ma il tempo dell’ amore arriva per tutti e un ragazzo biondo le stava dietro. Lunghissime telefonate, se lo trovava sempre davanti all’università, alle feste. “Strano”, pensava Adele, “però non mi fa una dichiarazione vera e propria, come mai? Mi bacerà un giorno?” Dopo qualche mese discontinuo d’incontri e di silenzi, una sera in casa lei gli fece una domanda diretta sui suoi sentimenti. La conseguenza fu un improvviso bacio. Lei chiuse gli occhi atterrita. Poi lui andò via e lei corse in bagno a stropicciarsi col sapone le labbra. Non aveva visto il bel viso di lui, i suoi occhi ridenti ma aveva rivissuto la sensazione frustrante e angosciosa dell’assalto del vecchio. Ci volle un po’ di tempo per dissipare il terrore e vivere la sua storia. Lunghe passeggiate nel verde, baci e poi baci tanti e una volta lui le portò un mazzolino di tromboncini gialli e bianchi. Uno è ancora tra le pagine di un libro. Le belle storie della prima giovinezza non sempre hanno un lieto fine. Lui diventò un po’ strano e discontinuo e non la riaccompagnava più fino a casa. Una sera di fine ottobre lei rientrava e fu inseguita da un folle con la mano nei pantaloni che voleva afferrarla pronunziando frasi inconsulte. Lei correva e lui dietro. La salvezza: il portone di casa. Con un balzo se lo chiuse alle spalle. L’ impronta della mano di lui intrisa di sperma era sulla sua giacchina blu. Salì le scale col fiato affannoso. Il padre sulla porta le disse: “Che bisogno c’era di sbattere così forte il portone?” Lei non disse niente. Quelle cose le avrebbe portate dentro di sé. Poi la vita che scorre e l’alternarsi di sogni e delusioni. La vita dà e prende. Però lei, pur rimanendo gelosa di sé preferì aprirsi all’amore e sfidare il destino e le convenienze. Ma anche a trent’ anni e più conservò quell’ingenuità nello sguardo unita a una smania d’amore senza condizionamenti. O tutto o niente! Quanti ricordi ad occhi chiusi nel caldo del letto. Prima del sonno talvolta faceva il consuntivo della sua vita. Aveva vissuto credendo nell’ amore, quello eterno, inseguendolo vanamente. Le tornavano alla memoria le parole di sua

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madre: “L’amore come tu lo vuoi non esiste!” E allora? Lei tuttavia in ogni incontro viveva attimi eterni. Meglio la follia assorbente e totale e poi la disperazione piuttosto che il vuoto perenne. Finalmente il sonno. Ma enormi ragni, i suoi archetipi si inseguivano sulle pareti; cercava suo padre senza riuscire a trovarlo e il volto della madre era nel silenzio cupo e aggrottato. Basta! Con un sussulto Adele si sveglia, accende il candeliere, le pareti sono sgombre e le sorridono a distanza le foto dei suoi figli bambini e una madonna napoletana del ‘600. Era soltanto un brutto sogno. Non devi avere più paura! Domani forse ci sarà il sole e qualcuno ti cercherà. Ora cerca di dormire. Lei stringe a sé il piumone giallo e accucciata dalla parte del cuore chiude gli occhi. Anna Vincitorio

PASQUALE PURGATORIO di Antonio Visconte

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O chiamavano Pasquale Purgatorio un modesto calzolaio del mio paese San Prisco, in provincia di Caserta, che sbarcava il lunario aggiustando le ruvide scarpe dei solerti contadini, ma non ho mai saputo se Purgatorio fosse il suo cognome o un soprannome. Aveva sentito dire che io, all’età di dodici anni, quando Mozart compose la prima opera, stavo ideando una tragedia dal titolo: “Giuseppe venduto dai fratelli”, e mi convocò nel suo bugigattolo, dove tra un chiodino e un altro che tratteneva in bocca per applicarlo sulle suole, mi pregò di leggere quanto avevo abbozzato, ma non appariva convinto. “Facciamo tutto da capo”, aggiunse, “e con il cambio dello scenario dividiamo il dramma in due atti e quattro quadri. Dapprima presentiamo la casa del vecchio Giacobbe, che in seguito a una carestia esorta i dodici figli a emigrare in Egitto e poi ci troviamo accanto al pozzo, dove i fratelli vendono Giuseppe ai mercanti. Il secondo atto lo apriamo con la festosa reggia del faraone e Giuseppe gli spiega il sogno delle


POMEZIA-NOTIZIE sette vacche grasse e delle sette vacche magre, con altrettanti anni di abbondanza e di penuria e chiudiamo con i fratelli che riconoscono Giuseppe e fanno pace con lui.” Man mano che quelle battute uscivano dalle labbra di Pasquale, la mia mente s’illuminava di gioia. Neanche Shakespeare sarebbe riuscito a caratterizzare quegli antichi personaggi in maniera così perfetta, eppure Pasquale era analfabeta e non sapeva né leggere né scrivere. Il lavoro venne interrotto, poiché Antonietta la sagrestana suggerì a Pasquale di comporre la tragedia di santa Matrona, la nostra patrona, regale donzella del Portogallo, che afflitta da una malattia inguaribile, ebbe in sogno una visione e cioè di recarsi nell’ antica Capua per scoprire i resti mortali di san Prisco, primo vescovo di quella storica città e a contatto con le sacre reliquie sarebbe guarita. Il soggetto accese la fantasia dell’esimio autore, che si mise subito all’opera. Il viceparroco, che era anche professore di lettere, trascrisse il copione che Pasquale gli dettava, l’arciprete gli diede il permesso di costruire il palco sul sagrato della chiesa madre e la sagrestana offriva in affitto le sedie, non essendoci all’epoca la messa vespertina. Il palco rimase ancora per qualche tempo a contrastare la furia del vento, che squarciò le scene, fino a quando i ragazzi non la smisero di saltare su quelle tavole traballanti, a stento sostenute dai pali. Per il suo viso esotico era stata scelta Geppina la Rossa a fare da protagonista, ma all’ultimo momento si era data per ammalata. In verità la povera ragazza aveva ripetuto tre anni la prima elementare e non era riuscita a imparare la parte. A questo punto le nostre strade si divisero. Giunto all’ età di quindici anni, incominciai a trattare la cronaca cittadina su giornali nazionali e articoli sopra le riviste regionali e a diciannove anni entrai nella Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere e nella Corte di Appello di Napoli in qualità di cronista giudiziario. Dopo nove anni di tale attività, accolsi di buon grado la nomina annuale da parte del Provveditore agli Studi di Caserta, dal momento che i giornali non mi passavano mai a sti-

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pendio. Pasquale intanto continuava con buon successo nella seconda attività di commediografo e regista teatrale. Organizzava la sfilata dei dodici mesi e la quadriglia, che non gli creavano problemi. I contadini a cavallo riuscivano a imparare la particina e la danza non prevedeva un testo, ma un bel giorno, tornando da scuola, seppi che il brav’uomo stava tentando di scalare l’Everest della gloria, portando sulla scena la più grande tragedia dell’umanità dal titolo: “Morte e Passione di Nostro Signore Gesù Cristo”. Questa volta lo spettacolo si svolgeva a pagamento e ogni spettatore, se voleva, doveva portarsi la sedia da casa. Era necessario trovare un ambiente chiuso e l’ avvocato Domenico Gianfrotta, della nobile famiglia capuana, dietro il consenso della devota consorte, la signora Carolina, mise a disposizione l’ampio cortile della loro casa di villeggiatura in San Prisco. Il primo atto riuscì a meraviglia e Pasquale, con acume ineccepibile, dimostrò la superiorità della visione laica su quella clericale e mentre il sommo sacerdote Caifa, con la folla che gridava dietro le quinte “sia crocifisso”, chiedeva la morte di Gesù, Ponzio Pilato dichiarava di non trovare nell’ uomo alcun reato degno di morte. Giungeva dopo un rappresentante di Erode e anche quel crudele tiranno non aveva riscontrato alcuna colpa. Per accrescere l’emozione Pasquale aveva stabilito che Gesù comparisse sulla scena all’inizio del secondo atto e direttamente sotto la croce. Il trucco era perfetto, la corona di spine circondava il volto tumefatto, ma la voce lo tradì. Appena disse alle pie donne: “Non piangete su di me, ma su di voi e sui vostri figli”, si levò dalla platea un grido disperato: “Quello è Turillo il Peccatore!” Non l’ avesse mai detto! Fu l’inizio di una rivolta. La gente in piedi lanciava invettive e minacce. Pasquale ordinò di calare il sipario e si rifugiò nello studio dell’avvocato. “Cos’è questo fracasso?” domandò il penalista. “Che ne so”, rispose Pasquale. “E se non lo sai tu, chi lo deve sapere, ribatté il giurista. “Ha fatto portare la croce a Turillo il Pecca-


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tore”, spiegò la signora Carolina. “Un delinquente al posto di Gesù, obiettò l’ avvocato. “La croce è pesante, solo Turillo poteva portarla”, riferì Pasquale. Alla religione offesa si univa la vendetta dei paesani per le angherie di quel facinoroso, ma da quel giorno in poi Turillo cambiò vita e divenne una persona perbene. Anche Pasquale ritornò al suo umile mestiere di ciabattino. Dopo tanti anni adesso capisco perché lo chiamavano Purgatorio. Viveva in uno stato intermedio, in attesa di salire in paradiso, sul Parnaso, dove Apollo raccoglieva le nove muse. Aveva sposato Talia, la musa del teatro, ma il matrimonio non era riuscito. Mancava a Pasquale la capacità di scrivere i suoi versi e la possibilità di trovare gli attori adatti in un’epoca poco scolarizzata, ma il suo ricordo ancora oggi mi riempie l’animo di commozione. Antonio Visconte

CASTELNUOVO1 nella fase che precede la rappresentazione del “Cervo” di Antonia Izzi Rufo

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ASTELNUOVO non è più il borgo allegro e movimentato di una volta, è silenzioso e deserto per buona parte dell’anno e si potrebbe paragonare ad uno di quei paesi disabitati e senza vita del Far West. Dai cinquecento abitanti di poche decine d’anni fa, il numero dei residenti è sceso a poco più di cento. Quale ne è stata la causa? Quasi tutti i giovani, per impossibilità di sistemarsi, sono stati costretti a trasferirsi in centri più grandi, dove hanno trovato lavoro, e vi sono rimasti. Quattro o cinque bambini si vedono ancora, di mattina, salire sullo scuolabus che li porta nella scuola di un paese vicino; il resto della popolazione è formato, a parte poche coppie di famiglie giovani, da persone anziane, nonni e bisnonni. Non ci sono più scuole né negozi in paese, non c’è più neppure un bar; è rimasto l’ufficio postale che

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apre una volta la settimana, e non sempre; il postino dovrebbe venire ogni due o tre giorni, ma spesso se ne dimentica. Per le spese e la farmacia bisogna recarsi nei paesi vicini o nel capoluogo di provincia. Siamo fortunati: ancora arriva una volta la settimana, spesso anche due, il fruttivendolo e possiamo rifornirci di frutta e verdura. Non è sempre questa, comunque, la realtà della “Piccola Svizzera” del Molise (Così chiamavano Castelnuovo anni fa, non so se ancora). C’è un periodo in cui la situazione si capovolge (sembra quasi per magia), in cui la Piazza, luogo d’ accentramento della gente (lo è sempre stato), si riempie di voci suoni rumori, in cui la vita ferve, torna di nuovo viva e attiva, proprio come nei tempi andati. Succede ogni anno, durante la settimana che precede l’ultima domenica di carnevale. In quei sette giorni ci si prepara per la pantomima del “Cervo” che sarà rappresentata la domenica, nel tardo pomeriggio, appena comincia ad imbrunire. Ne è coinvolto l’intero paese. Partecipano tutti gli abitanti, si danno tutti da fare, donne e uomini, grandi e piccoli, giovani e vecchi; chi ha locali in piazza li mette a disposizione, e senza pretendere compensi, perché la “festa” riguarda tutti e ognuno si sente in dovere di collaborare, di far sì che la rappresentazione si concluda con soddisfazione. E’ come se nello spazio della piazza (l’unica, non ve ne sono altre) sorgesse d’improvviso una struttura in cui la piccola comunità “patriarcale” (lo diventa per l’occasione “patriarcale”, e ne recita benissimo la parte) dovrà ospitare un numero stragrande di spettatori provenienti da ogni parte, da vicino e da lontano. Si recinta, prima di tutto, il territorio che servirà per la recita. In questo spazio si compone, al centro, un enorme mucchio di legna secca ( tronchi in maggioranza) (alla fine si accende ed il falò brillerà e riscalderà gl’intervenuti per tutta la notte), si innalza, in un angolo, un fantoccio di paglia, si sistemano qua e là piccole balle di paglia, fasci di rami secchi, sacchi di foglie ed erba; il lato che porta alla montagna si lascia aperto (è da questa parte che dovrà arrivare il “Cervo” e irrompere nell’arena (lo


POMEZIA-NOTIZIE spazio recintato). Nel restante spazio si monta un tendone che servirà da bar e da mensa, si innalzano tende per mercatini e depositi e anche come rifugio in caso di pioggia; non mancano il forno per le pizze, tavolinetti e sedili, cassonetti per l’immondizia e tante altre piccole cose necessarie. Dietro al monumento ai Caduti sorge un’altra ampia tenda che copre la cucina dove verrà preparata la polenta con le salsicce, da mangiare alla fine dello spettacolo. In fondo alla piazza, in un luogo appartato, vengono sistemate le latrine di plastica. Vi è un viavai di persone che lavorano: chi trasporta la legna col motozappa, chi sistema l’impianto elettrico, chi i tavoli per gli avventori, chi i festoni salendo sulle scale, chi alimenta il fuoco sotto le enormi caldaie, alcune “pacchiane” cominciano a preparare il sugo per la polenta, altre ad apparecchiare i tavoli. Chi va chi viene. La piazza è simile ad un grande alveare, sembra un accampamento di uomini primitivi in fervente attività (tale appare ai miei occhi). Intanto cominciano ad arrivare i visitatori, a piedi: le macchine (in numero elevato) sono state parcheggiate lungo la strada che porta a Castel San Vincenzo, lungo quella che porta a Scapoli e in quella che va giù a Santa Lucia. Io ho messo a disposizione due ampi locali sotto casa (abito in piazza) e il terrazzino davanti al portone d’ingresso per le riprese televisive. Seguo dalle finestre il lavorio incessante del gruppo operativo, il trambusto e il tramestio della folla, gli zampognari che si accingono ad esibirsi prima della recita…Mi accade di astrarmi dalla realtà presente e di ritrovarmi, in un volo a ritroso, ai tempi della preistoria, tra le prime comunità patriarcali, di stupire di tanta collaborazione, tanta sintonia, tanto accordo; di compiacermi della bella, grande famiglia, della sua pace. Ma perché tutto ciò si verifica solo in questa circostanza? Non potrebbe essere sempre così ? Si eviterebbero le guerre, si vivrebbe in allegria ed armonia… Credo di indovinarne il motivo: tutto quanto si fa in questi giorni è una specie di gioco, è “per finta”, è per divertirsi; le persone protagoniste, lavoratori e spettatori, partecipano

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con piacere e disinteresse, rimuovono preoccupazioni e pensieri assillanti; diverse apparirebbero nell’umore e nel comportamento se si trattasse di un lavoro serio e responsabile. L’uomo è un eterno bambino, mai si separa dal suo “Fanciullino”. Ed ora, in breve, un accenno alla pantomima, al rito del “Cervo” (“Gli’ Cierv’ “ in gergo dialettale). <<L’arrivo del “Cervo”, “Gl’ Cierv’ “, in piazza, è annunciato dagli zampognari che chiudono, prima della Quaresima, la stagione dei suoni iniziata nel periodo natalizio. In un frastuono generale, “Gl’ Cierv’ “, con grandi corna ramificate sul capo, coperto da ruvide pelli, il volto e le mani dipinte di nero e campanacci appesi al petto, irrompe nella piazza distruggendo ogni cosa, spaventando le persone e gli animali e mostrando, in ogni gesto, tutta la potenza della sua forza incontenibile e trasgressiva. La gente è spaventata. La salvezza-liberazione potrebbe essere Martino, un personaggio vestito di bianco, con un cappello a punta ed un bastone, che prima contrasta il Cervo, poi quasi lo soggioga riuscendo a trattenerlo con la fune; infine è costretto a constatare la sua impotenza. La bestia sembra aver vinto. Interviene il cacciatore che, con sicurezza e precisione, spara a “Gl’ Cierv’ “ che stramazza a terra, “Ma il rito non può morire”. Lentamente il cacciatore si china, e con un soffio nelle orecchie, ridona vita alla bestia che, ormai, purificata, si alza e torna alla sua dimora sconosciuta>>. Il “Cervo” rappresenterebbe, secondo alcuni, il male che cerca di sottomettere l’uomo e carpirgli l’anima. Fortunatamente per l’uomo, con l’aiuto della provvidenza, Martino riesce, dopo lunga lotta, a vincerlo e a ricacciarlo nelle tenebre. C’è collegamento tra l’uomocervo e il Signore degli animali (Pan). Martino è mediatore tra la natura (il Cervo) e la Cultura (Ragione). L’uccisione dell’uomo-cervo è vissuta dalla comunità come la punizione del “cattivo”, ma anche dei propri istinti bestiali. Antonia Izzi Rufo 1 - Castelnuovo al Volturno, frazione di Rocchetta (IS)


POMEZIA-NOTIZIE XXVII Edizione CITTÀ DI POMEZIA L’Editrice POMEZIA-NOTIZIE - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM) - Tel. 06 9112113 – E-Mail: defelice. d@tiscali.it internet: http://issuu.com/domenicoww/docs/ - organizza, per l’anno 2017, la XXVII Edizione del Premio Letterario Internazionale CITTÀ DI POMEZIA, suddiviso nelle seguenti sezioni : A - Raccolta di poesie (max 500 vv.), da inviare fascicolata e con titolo, pena esclusione. Se è possibile, inviare, assieme alla copia cartacea, anche il CD; B - Poesia singola (max 35 vv.) ; C – Poesia in vernacolo (max 35 vv.), con allegata versione in lingua; D - Racconto, o novella (max 6 cartelle. Per cartella si intende un foglio battuto a macchina – o computer - da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1800 battute. Se è possibile, inviare, accanto alla copia cartacea, anche il CD); E – Fiaba (max 6 cartelle, come sopra, lettera D); F – Saggio critico (max 6 cartelle, c. s.). Non possono partecipare alla stessa sezione i vincitori (i Primi classificati) delle trascorse Edizioni. Le opere (non manoscritte, pena l’ esclusione), inedite e mai premiate, con firma, indirizzo chiaro dell’autore e dichiarazione di autenticità, devono pervenire a Domenico Defelice – via Fratelli Bandiera 6 - 00071 POMEZIA (RM) - e in unica copia - entro e non oltre il 31 maggio 2017. Volendo, tutti i materiali possono essere inviati via e-mail (defelice.d@tiscali.it) Le opere straniere devono essere accompagnate da una traduzione in lingua italiana. Ad ogni autore, che può partecipare a una sola sezione e allegare un breve curriculum di non oltre dieci righe, è richiesto un contributo di 20 Euro per la sezione A e 10 Euro per le altre sezioni, in contanti assieme agli elaborati (ma non si risponde di eventuali disguidi) o da versare sul c. c. p. N° 43585009 intestato a :Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00040 Pomezia (RM). Le quote sono in

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euro anche per gli autori stranieri. Sono esclusi dal contributo i minori di anni 18 (autocertificazione secondo Legge Bassanini). Non è prevista cerimonia di premiazione e l’operato della Commissione di Lettura della Rivista è insindacabile. I Premi consistono nella sola pubblicazione dei lavori. All’unico vincitore della Sezione A verranno consegnate 20 copie del Quaderno Letterario Il Croco (supplemento di PomeziaNotizie), sul quale sarà pubblicata gratuitamente la sua opera. Tutte le altre copie verranno distribuite gratuitamente, a lettori e collaboratori, allegando il fascicolo al numero della Rivista (presumibilmente quello di ottobre 2017). Sui successivi numeri (che l’autore riceverà solo se abbonato) saranno ospitate le eventuali note critiche e le recensioni. Ai vincitori delle sezioni B, C, D, E, F e ai secondi classificati per ciascuna sezione, verrà inviata copia della Rivista - o del Quaderno Letterario Il Croco - che conterrà il loro lavoro. Per ogni sezione, qualora i lavori risultassero scadenti, la Commissione di Lettura può decidere anche la non assegnazione del premio. La mancata osservazione, anche parziale, del presente regolamento comporta l’ automatica esclusione. Foro competente è quello di Roma. Domenico Defelice Organizzatore del Premio e direttore di P.-Notizie Vincitori della SEZIONE A delle precedenti edizioni: Pasquale Maffeo: La melagrana aperta; Ettore Alvaro:Hiuricedhi; Viviana Petruzzi Marabelli: Frammento d’estate; Vittorio Smera: Menabò; Giuseppe Nalli: A Giada; Orazio Tanelli (USA): Canti del ritorno; Solange De Bressieux (Francia): Pioggia di rose sul cuore spento; Walter Nesti: Itinerario a Calu; Maria Grazia Lenisa: La ragazza di Arthur; Sabina Iarussi: Limen; Leonardo Selvaggi: I tempi felici; Anna Maria Salanitri: Dove si perde la memoria; Giuseppe Vetromile: Mesinversi; Giovanna Bono Marchetti: Camelot; Elena Mancusi Anziano: Anima pura; Sandra Cirani: Io che ho scelto te; Veniero Scarselli: Molti millenni d’amore; Sandro Angelucci: Controluce; Giorgina Busca Gernetti: L’anima e il lago; Rossano Onano: Mascara; Fulvio Castellani: Quaderno sgualcito; Nazario Pardini: I simboli del mito; Rodolfo Vettorello: Voglio silenzio; Isabella Michela Affinito: Probabilmente sarà poesia; Antonia Izzi Rufo: Sensazioni.


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I POETI E LA NATURA – 66 di Luigi De Rosa

Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)

IL MARE E L'AMORE NELLA POESIA DI CORRADO CALABRÒ

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n questa sede non è del noto magistrato ed uomo di Stato Corrado Calabrò che intendo parlare, ma dell'altrettanto noto Corrado Calabrò poeta e animatore di teatro insieme a grandi attori. Insomma, dell'uomo di cultura internazionale. Se volessi parlare del primo aspetto dovrei ricordare gli anni in cui ha fatto parte del Consiglio di Stato, o ha ricoperto la carica di Presidente del Tar del Lazio, o ha svolto le funzioni di Garante per le Comunicazioni, etc. Ma accennerò brevemente, nello spirito di questa Rubrica ormai poliennale, alla sua attività di poeta, e in particolare al suo rapporto col Mare, e quindi con la Natura. Calabrese di Reggio, nato nel gennaio

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1935, Calabrò si è laureato in legge a Messina a ventidue anni (avrebbe preferito laurearsi in Fisica, trovando appassionante l'astrofisica e in generale le scienze esatte). Portato anche moltissimo per la Letteratura, e per la Cultura tout court, in una unità spirituale quasi rinascimentale, ha pubblicato, dal 1960 in poi, una ventina di libri di poesia e un romanzo (“Ricordati di dimenticarla”) finalista al Premio Strega. Il suo primo libro di poesie lo ha scritto fra i 18 e i 20 anni, pubblicandolo poi nel 1960 col titolo Prima attesa. A questa hanno fatto seguito altre sillogi. Ricordo Agavi in fiore (1976) Vuoto d'aria (1979) Presente anteriore (1981) Mittente sconosciuta (1984) Rosso di Alicudi (1989) Una vita per il suo verso (2002) Poesie d'amore (2004) La stella promessa (2009) T'amo di due amori (2010) Dimmelo per sms (2011). Ricordo anche Mi manca il mare (Gènesi Editrice, Torino 2013). Dei libri sopra elencati, due sono usciti per le Edizioni Mondadori, Una vita per il suo verso e La stella promessa.


POMEZIA-NOTIZIE L'amore per il mare, l'amore per la donna. A chiudere il cerchio, a completare un amore rovente sia per la Natura che per l'essere umano di sesso dolcemente femminile. Per comodità di studio si può dire che siano queste due le fonti principali di ispirazione del poeta Calabrò: l'amore appassionato per la donna, con tutte le implicazioni di gioia e di sofferenza che questo comporta, e l'amore per quel meraviglioso elemento naturale che è il mare, con tutte le situazioni di dolcezza ineffabile, di burrasca e distruzione che lo vedono protagonista. Dal citato volume edito dalla Genesi nel 2013 leggiamo una lirica in cui sia il mare che la donna sono accomunati nella lirica percezione sensoriale-sentimentale del poeta Ho gli orecchi pieni di mare Così, librata su un pallone d'acqua, galleggia la mia zattera sull'ombra come un pianeta, nello spazio oscuro, sostenuto a distanza da una stella. Ho gli orecchi pieni di mare. Ho l'anima che come una medusa biancheggia nottambula in cresta al fluttuare violetto dell'acqua. Dell'acqua, rigonfia, d'ignoto; dell'ombra, ch'è tiepida di te. Calabrò è un abile forgiatore di immagini, padrone della lingua; con una venatura non istrionica ma comunque magica, affabulatoria. Si notino le interazioni sapienti fra mondo fisico e regno della psiche, tra irrazionalità spumeggiante ed asciutta reinterpretazione del mondo fisico. E questa è una caratteristica della grande, autentica poesia; la produzione nel lettore (o comunque nel fruitore) di una titanica, pacificante reductio ad unum di un mondo eterogeneo, multiforme e variegato, con prospezioni, anche se non dichiarate, oltre il mondo umano e terrestre, oltre la Natura e i meandri della psiche. Luigi De Rosa

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Recensioni LUIGI REINA TRA TEVERE E SENNA Narrativa Aracne, gennaio 2017, € 12,00 Tra Tevere e Senna è il titolo di un romanzo da poco apparso di Luigi Reina, titolo che sembra quanto mai appropriato, dal momento che l’azione si svolge tra queste due città, delle quali l’autore, tra rapidi scorci e suggestive visioni, coglie l’ anima segreta. Il libro ha per contenuto la maturazione sentimentale ed artistica del protagonista, Filippo Corsi, il quale, giunto ad un bivio della propria esistenza e stabilitosi a Parigi, per riprenderne il bandolo, scava nel suo passato, alla ricerca del perché il destino l’abbia condotto, per vie traverse, sin lì. Il racconto prende l’avvio da uno dei luoghi tipici di Parigi, Pont Saint Michel, dove Filippo, insegue i fantasmi di un mondo che “avrebbe dovuto rimuovere, ma che continuava a custodire con trepida passione”. Tale mondo è quello in cui è vissuto con la donna da lui amata, Lisa, che ha dovuto lasciare, partendo da Roma per Parigi, con una dolorosa lacerazione; e che tuttavia non riesce (o forse non vuole) dimenticare. Filippo è un pittore, esperto specialmente nella riproduzione di quadri di grandi maestri, e quindi di quella che può chiamarsi l’arte dei “falsi d’ autore”; attività che gli consente di vivere con una certa agiatezza, benché egli aspiri segretamente a diventare un pittore capace di affermarsi dipingendo tele del tutto sue. A Roma aveva una mansarda, nella quale Lisa


POMEZIA-NOTIZIE spesso lo veniva a trovare e nella quale aveva trascorso con lei ore felici, quantunque ella gli apparisse sempre un po’ sfuggente e restia ad abbandonarsi a lui totalmente. Ora Filippo va inseguendo l’immagine di lei e ne riascolta la voce, nel tentativo di comprendere il senso della loro storia e il perché del suo fallimento. All’Accademia era stato un allievo brillante, ma poi aveva faticato a trovare una strada che lo rendesse autosufficiente. Lisa lo aveva aiutato con i suoi consigli e con le sue conoscenze, ed in parte era riuscita nel suo intento. Filippo però aveva un carattere ombroso ed aspirava alla perfezione, mentre Lisa, più pragmatica, era capace di cogliere nel presente il bene che esso poteva donare. Con lei aveva trovato il suo compimento e le era riconoscente specie per quanto aveva fatto per lui in occasione della morte della nonna, l’unica parente che gli era rimasta, dopo la scomparsa dei genitori, periti in un incidente automobilistico. Aveva sentito allora il suo affetto e il suo conforto come cose tangibili. Ricordava le sue parole d’incoraggiamento e i suoi consigli circa il lavoro che andava compiendo; parole e consigli che lo rendevano sempre più legato a lei, benché avvertisse la presenza di qualcosa che si frapponeva tra loro. Ciò era dovuto al fatto che Lisa aveva un marito dal quale viveva separata, quantunque non fosse mai stato dichiarato il divorzio. E sarà proprio il riavvicinamento di Lisa al marito, dopo che questi era rimasto gravemente ferito in un incidente d’auto, che determinerà la fine della loro unione. A questa trama principale s’intreccia quella del rapporto tra Filippo e Grete, una sua compagna di studi all’Accademia; rapporto che però non aveva dato luogo a un vero legame e non era durato a lungo. Vi era stato poi, dopo l’abbandono di Lisa, l’avventura con Claudine, un’amica francese che aveva conosciuta a Roma e ritrovata a Parigi. Sono queste comunque delle storie marginali, che fanno da sfondo a quella principale del suo amore per Lisa, il quale costituisce la vera trama del romanzo. E si tratta di un amore intenso, fatto di tenerezza e di desiderio, che non esclude una certa sensualità, ma che nasce prevalentemente da una consonanza di pensieri e di sentimenti. In questo romanzo, al di là degli eventi narrati, ciò che più conta è tuttavia il continuo interrogarsi di Filippo; quel suo rimuginare sul tempo trascorso, alla ricerca di ciò che ha fatto naufragare il suo sogno di un legame duraturo con Lisa. Il che dà luogo ad un’assidua e sottile analisi da parte del protagonista dei propri sentimenti, condotta con quel penetrante acume che consente all’autore di

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offrirci pagine dense e ricche di sottili notazioni che costituiscono il vero punto di forza del romanzo. È questo pertanto un libro che acquista valore più che altro dalla sapienza dello scavo interiore, compiuto in maniera assidua da Filippo; scavo nel quale anche il dialogo, che a tratti compare, contribuisce alla migliore comprensione dei personaggi, presentandoceli con maggiore evidenza. L’autore dimostra inoltre di avere una non comune conoscenza dei luoghi nei quali si svolge la vicenda, che è narrata e si regge sul flusso dei pensieri di Filippo, il quale tiene le fila del racconto. Molto interessanti sono anche le osservazioni intorno alla pittura e alla sua tecnica, che palesano una competenza non superficiale da parte dello scrittore dell’arte del dipingere, della quale sa cogliere aspetti particolarmente interessanti. Ed è proprio nella felicità delle osservazioni, sia tecniche che paesistiche o psicologiche, che sta il maggior pregio del libro, nel quale accurato è specialmente lo studio dei caratteri, in particolare di quello di Filippo, che emerge in piena luce, con le sue crisi e le sue incertezze, risolte tuttavia alla fine con un ritorno a quella che è la ragione profonda della sua vita: la pittura. La decisione presa, al concludersi della vicenda, da parte di Lisa di tornare a vivere col marito, dal quale vive separata (ma dal quale aspetta un figlio), ha fatto molto soffrire, Filippo, che è però salvato dalla sua arte, dal momento che il libro termina con questi pensieri: “… La vita, l’arte, l’ amore… È poi davvero tanto importante tormentarsi per cercarne la conciliazione? Esistere non è già vivere? E potersi esprimere non è di per sé un atto miracoloso? Forse aveva bisogno di recuperare una parte del suo orgoglio che lo riconciliasse con se stesso senza falsi pudori e gli desse la sensazione di essere libero… e rinunciare alla sua Dea! Dovette riconoscere che la troppo lunga applicazione ai falsi gli aveva impedito di coltivare gli istinti frenandone la creatività. Sistemò una tela sul cavalletto e si accinse a definirvi il suo primo soggetto parigino: un grande arcobaleno su un collage pieghettato di vorticose sfumature in grigio e celeste. I cieli di Parigi”. L’impressione che resta al termine della lettura è quella di aver incontrato un libro composto con quella rara capacità di penetrare nell’animo dei personaggi, rivelandone ogni risvolto, che è propria dello scrittore di razza. Ed è ciò che si rivela Reina con questo suo lavoro, che a buon diritto s’inserisce nella migliore tradizione del romanzo europeo. Elio Andriuoli


POMEZIA-NOTIZIE INES BETTA MONTANELLI LO SPECCHIO RITROVATO Bastogi, Foggia 2004, Pagg. 112, € 8,00 Ines Betta Montanelli è nata alla Spezia; attratta dalla poesia fin da giovanissima, è autrice di raccolte, attiva negli ambienti letterari, è presente in molte antologie guadagnando riconoscimenti e premi. Ha meritato la stima di molti critici, tanto che la raccolta di cui ci occuperemo, Lo specchio ritrovato, è anticipata da firme prestigiose, come di Giorgio Bárberi Squarotti, Maria Grazia Lenisa, Paolo Bertolani, Marina Caracciolo; ed altre firme figurano nelle bandelle, di Mario Luzi, Stefano Lanuzza, Elio Andriuoli, Ferruccio Battolini, Giuseppe Benelli, Elena Bono, Giuseppe Coluccia, Anna Ventura; firme, queste ultime, simili a biglietti da visita, non necessarie in considerazione delle precedenti referenze, ma che danno un valore aggiunto. Le note critiche hanno tutte toni consoni esaltanti, dotte citazioni che mettono a fuoco “soave limpidezza di ritmo” e “vaghezza leopardiana” per quel tanto da conferire mistero; e versi che portano a Ungaretti (che chiedeva “sapienza discorsiva”), a Mallarmé (che consigliava di “dissimulare l’ armatura intellettuale”), a Montale (sul “non detto” che vela il pianto trattenuto), a Tolstoj (sull’evidenza del dolore esistenziale), oltre a richiamare miti come Pan ed Ermete, Teseo e Poseidone, Dafne e Arianna; sempre rifacendosi al vago misterioso di quello che è “oltre”, fuori di noi. Note che pongono la Nostra a fianco di poeti di gran rilievo, come Adriana Dentone, Lea Ferranti, Luigi Galli, Gianni Rescigno, Vincenzo Gasparro. Note che non tradiscono le aspettative del lettore; la Poetessa si presenta riflessiva, quanto assertiva, in una consapevole rassegnazione. La raccolta si divide in due parti: una, anticipata da citazione di Walt Whitman; l’altra, intitolata ‘Un mutare di foglie’; ma sostanzialmente senza alcun divario. In entrambe scorre la spiritualità di un dialogo interiore ininterrotto con l’Altissimo, con un lessico prevalente che, mi pare, faccia uso: nella prima parte, di espressioni legate alle stagioni, espressamente richiamate da una citazione di Arthur Rembaud; e nella seconda parte, attraverso espressioni floreali con richiamo soprattutto alle foglie del titolo, cangianti per natura, che rappresentano la caducità della vita. In apertura, richiamando un’immagine del mito (Arianna abbandonata da Teseo, dopo essere stata salvata), abbiamo l’esordio parallelo dell’ abbandono subito dalla Poetessa: “Anch’io piango per la mia vela d’amore/ perduta tra i marosi del tempo,/ per l’inquietudine che è fuoco/ che è gelo nelle ve-

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ne,”, rimanendo con rimpianti (in dedica al figlio). Si apre la visione di paesaggi agro-pastorali, di “stagioni sofferte”; di perdite, come le olive strappate dal vento ai rami, similmente alla vita strappata dai corpi, e subito si torna alla realtà, come quella del padre, più volte ricordato, che si appisolava con in mano il quotidiano “l’Unità”. Fra queste immagini si fanno spazio gli accadimenti nel mondo, appena fatti percepire, e si leva l’invocazione a Dio. Ines Betta Montanelli, sostenuta da W. B. Yeats, commenta come gli anziani, in attento “ascolto di voci amate/ perdute lungo il cammino” (pag. 80) e negli istanti che si susseguono, si aggrappano ai ricordi, assaporando “l’ultima stagione”, ritornando bambini: giocare nei campi, osservare il padre nella raccolta dell’uva (nel 1973) e rispecchiarsi nei giovani che ci seguono, consapevoli dei non-ritorno. Mentre, fra la generalità umana, si muovono persone dimenticate, forse, anche da Dio; e altre sono in cieli, come la madre. I ricordi portano alla luce la tenerezza fra due adolescenti, come pure i sospetti fra i tanti Giuda che si spacciano per amici. La propria sofferenza non va ostentata e pur è necessario lasciare uno spiraglio alla gioia. La mente va sul corso d’acqua del Giaredo; ha la visione dell’alba nelle sue sfumature e della notte illuminata dalla luna, con il timore che con il sopraggiungere del sonno i sogni vengano turbati. “Gli alberi aspettano baci di gocce,/ rivoli di vita alle radici.” (67). Il dialogo interiore continua, immaginandosi la cura delle rose, mentre i rami dell’ ontano si piegano nelle acque del brumoso Orsaro più volte citato. Tanta nostalgia per le parole taciute, accompagna la Poetessa, ma nessuno lo saprà anche perché adesso “i vecchi sono pietre.” I ricordi, in tal modo, diventano lo specchio ritrovato, in cui si riconosce. Tito Cauchi

ELISABETTA DI IACONI SALATI ALTALENE Bonaccorso, Verona 2016, Pagg. 102, €13,00 Elisabetta Di Iaconi Salati è romana, ha insegnato Italiano (1964-1995) e ha pubblicato opere di vario genere, tra cui una Grammatica italiana (in collaborazione con Laura Pedone), racconti e romanzo, poesie in lingua e in romanesco. Da qualche anno ha perduto il marito, Vittorio, al quale dedica la raccolta Altalene, titolo trasparente sulla condizione umana. Senza volerne tradire la lettura, conoscendo la bravura della Poetessa, posso assicurare della sua delicatezza femminile. I due interventi critici di apertura mettono bene a


POMEZIA-NOTIZIE fuoco la caratura di Altalene. Luciana Vasile, nella presentazione, spiega quanto il destino sia appeso a fili di vita sottili intrecciati di “ricordi, sogni, fantasie, mistero”; e, quando si spezzano, il mondo ci casca addosso; eppure, promette, che Elisabetta dimostra la forza di sorridere. E nella prefazione, Anna Maria Bonomi, richiama l’attenzione sulla musicalità lessicale realizzata con endecasillabi e settenari alternati, il cui uso appropriato rende chiaro i sentimenti. E, aggiungo, l’alternanza del metro, diventa suggestione di altalene. Ha inizio così una struttura narrativa, come una ballata, in continua altalena, in visioni limpide e celestiali, o in ossimori (un mare che brucia, una stella gelida), o in aperto contrasto di sconquasso, ove la mente si smarrisce presa tra il senso di precarietà umana e la gioia vissuta. Tutto ciò in un crescendo che sembra congelare, impietrire il respiro, a cominciare dai versi incipitari che offrono una visione arcana tra l’umano e il cosmico, che recitano:“Vola il tempo nel cielo dei sogni/e divora speranze/ trasformandole in stelle gelate.”; ove, mi pare che si veli e si sveli un sentimento cristallizzato in quelle stelle gelate che incontreremo ancora. Viene spontaneo appellarsi a quei frammenti di memoria di piena gioia per comporre un mosaico, che ci restituisca la sembianza che più ci consoli. Inizia così un dialogo ininterrotto della Poetessa con se stessa, ma a stenti, come dire a singhiozzi, perché il sole non scalda più e nemmeno il camino incanta come una volta; niente è come prima, ne ha la consapevolezza. L’umana condizione esistenziale fa reclinare il capo, ma ne sospinge lo sguardo in alto alla ricerca di una risposta, senza riuscire a stabilizzare l’immagine tanto amata. È come l’ andirivieni delle onde. Elisabetta Di Iaconi Salati sonda lo stato d’animo particolare, varcandone le emozioni, una sorta di analisi delle percezioni, la pelle si fa membrana osmotica “per trasformarsi in fiore di poesia,/ per serbare memorie,/ quando restiamo soli con noi stessi.” (pag. 27); e come il polline si disperde nell’aria; e come l’onda del mare si lascia cullare. Sempre presente è la consapevolezza che se la luce filtra attraverso l’uscio, consente qualche filo di speranza “ultima dea, sostegno degli uomini”. Ci si affida ai rigori del tempo e alle carezze del sole nei rari momenti di ripresa. Ci si illude che la primavera riporti a nuova vita, ma si sa che da certe partenze non si ritorna più. “io mi sostengo ancora,/ perché la navicella della vita/ sfugga alle mareggiate./ Echi sonori nel silenzio fondo,/ le frasi e le parole/ compongono i discorsi che ascoltavo/ nei giorni della gioia.” (47).

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Affetti, nostalgia, angoscia, serenità, gioia, tristezza, briciole di sorrisi, sprazzi di gioia afferrati dai ricordi, che si vogliono custodire per alleggerire la notte; ma quando poi si riapre il sipario sul palcoscenico della vita, non si trova un ruolo conosciuto. Diventa naturale rifugiarsi nei ricordi dell’ infanzia, i primi respiri nella casa natia, nei luoghi dell’anima. A paragone anche del semplice fiore che nasce ai bordi delle strade in primavera, diventa più greve l’assenza di chi ci ha lasciato; quante volte hanno visto i suoi passi, ma nessuna primavera potrà restituircelo. Elisabetta Di Iaconi Salati ci offre una poesia dove la recita non sta scritta su nessun copione; scorre sul filo sottile di una lira, emette una vibrazione che richiama con dolcezza un dolore immenso che però ha lasciato un ricordo indelebile che giunge alle stelle. Ci dà una misura della sua dimensione umana e poetica che si racchiude nei versi del componimento eponimo di chiusura: “E percorriamo il filo,/ equilibristi stretti dal timore/ del fondo precipizio/ che può inghiottirci prima dell’arrivo.” Tito Cauchi

WALTER NESTI L’UOMO E I SEGNI Introduzione di Samanta Tesi - Edizioni Masso delle Fate, 2016 - Pagg. 82, € 12,00 In questo poemetto - che di poemetto si tratta, diviso com’è in tre parti che son tre canti, ognuno, a sua volta, suddiviso in lasse, nel primo e nel terzo a numerazione araba, nel secondo, il più lungo, romana -, Walter Nesti adombra l’intera vita di un uomo, la sua, essendo il contenuto chiaramente autobiografico. La poesia di Nesti è traslucida, a tal punto da rasentare il paradosso o l’assurdo (“fragole delle orchidee”; è suggestiva; c’è narrazione, ma non prosastica; è un continuo evocare per immagini, così cariche che, nella mente di chi legge, si allargano e fluidificano scene vaste. Quando, per esempio, egli accenna al “vialone sterrato”, sul quale “sbavavano i primi motori”, non possiamo non pensare a “l’aristocratica forza contadina” e all’inizio della meccanizzazione in agricoltura, ma anche alle prime automobili; così, quando scrive che “al suono di campane/si opponevano rosse bandiere/agitate con rabbia sulla strada “, la nostra mente corre subito alla politica senza eccessivi sofismi - alla Peppone e Don Camillo, per intenderci -, perciò, sana e fattiva, seria e concreta, mentre spontaneo e assai severo sorge il giudi-


POMEZIA-NOTIZIE zio verso quella attuale; ma la mente ci porta anche alle lotte sindacali, alla rabbia e all’ entusiasmo con cui venivano affrontate. Immagini turgide, insomma, che stimolano la narrazione e la storia. Tutto questo raccontare suggerendo non vale solo per la presente silloge; l’accenno alla guerra, per esempio - “guerre non vissute/ assaporate/ dall’ avaro filtro dell’altrui memoria” -, ci conduce al suo bel romanzo Estate di Fuoco, a ricordi che non si cancellano, tanto è vero - dice il poeta che “I mostri della lontana infanzia/terrorizzano ancora le nostre notti”. È una vera e propria tecnica la sua, una strategia, sicché la malinconia, la sua sete di giustizia così forte da tramutarsi in rabbia -, il suo amore per la donna, i familiari, l’umanità, le cose -, rappresentano rosari di ricordi vestiti di rimpianti, drammatici o gioiosi non importa. Chi, come noi, ha letto gran parte delle opere di Walter Nesti, ne L’uomo e i Segni scopre richiami e rimandi a non finire e sempre una purezza d’animo equivalente alla lindura del suo stesso verso. Poesia specchio nitido della vita, insomma; pudore e rabbia; pena per le tante sofferenze, le malattie, i continui drammi che punteggiano la breve vita dell’uomo dalla nascita alla morte; ma anche amore profondo e illimite verso l’intero creato. Un palpitare continuo, un andare e venire come di respiro, quasi un ritorno incessante e un allontanarsi di Calu la mitica, di lotta, di rinuncia e di conquista, giacché l’uomo Nesti si sente realizzato solo allorché, giunto in vetta, può piantare “la bandiera del rosso risveglio” - o semplicemente quella tricolore, non importa - nella fresca carezza del vento, lo sguardo perso a sondare le profondità della natura e del cosmo, la vastità del pensiero. Abbiamo accennato a Calu. L’atmosfera che domina quel poema, nel quale protagonista può ben essere una donna, una città, o altro, si respira in parte anche ne L’uomo e i Segni: “Tenere le carni e palpitanti/dalle carezze delle mani tremanti/dal desiderio di un possesso raggiunto//In quest’ora stregata il tuo corpo/si apre come una valva”. In questo tripudio d’immagini, nella selva di annotazioni che insieme compongono la vita dell’ uomo, a dominare è la Natura (“il prigioniero profumo di ginestra/stordirà di follia la primavera”), per lo più estiva, quasi desertica, sia che si tratti di paesaggi o di flora e fauna: “cirri arrossati della sera”; “le ombre dei sassi troppo bianchi”; “arida roccia”, “crepe riarse”, “argilla frantumata/riarsa”, “nell’alba tempesta di farfalle/ abbarbagliate dal sole”, “Lucidi messaggi di

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dolore/scorrono sotto la crosta ghiacciata”, “pruni striati/secchi/dal gelo di aurore tramontane”. Sì, non sono gli stessi termini di Calu, ma l’ atmosfera è la stessa. Abbiamo figure indimenticabili quanto sfuggenti, perché “con gli occhi persi nel vento”, come quel poeta che vendeva le sue poesie sopra il ponte di una città qualunque, che “non raccoglieva il denaro/lasciava che da solo si ammucchiasse per terra”; immagine potente al par della violenza e il disprezzo di ogni umanità dell’operatore ecologico mentre passa con il suo “carro della nettezza” urbana e, fingendo di non vederlo, lo annulla, inghiottendolo “in un vortice d’acqua”. Non manca l’ironia e l’accenno, per esempio, alla pubblicità che oggi ci domina e ci impoverisce, come “gli olivi fioriranno bottiglie”, che ci riporta lo spot famoso quanto assurdo della Carapelli, o come il richiamo, per esempio al tragico quanto buffonesco ventennio fascista con il suo spot “il nemico ci ascolta”. La terza parte è dedicata alla madre, e alla sua malattia, dai sogni ancora pieni di futuro e “di speranze” “alimentate dalla morfina orrenda”. Poesia straziante di un figlio, “forse il figlio più amato”, ma che, forse - le confessa il poeta -, quello che “seppi amarti di meno”. Strazio inenarrabile, opprimente e pesante come una cupa montagna, il vederla dolorante nel letto, tra le lenzuola, ormai prossima a una fine inarrestabile, il guardarla sorprendendosi “a sognare/un assurdo miracolo”. Qui non abbiamo più una poesia traslucida fino ad essere ermetica, piena di alchimie e di termini desueti o astrusi: “disormia”, “veggio”, “cangialli”, “disòdilo”, “apòtame”, “voggoli”; ma semplice, verginale. Qui il cuore e l’animo del poeta cantano senza freni, macerati dal dolore e le immagini sono di una chiarezza e profondità impareggiabili; poesia veramente grande, che non disdegna d’essere anche viscerale; veramente un canto libero, un inno all’amore di figlio verso una madre che ha amato, è vissuta nella semplicità e nella austerità, all’apparenza severa, e che, fino alla fine, ha lungamente sofferto. Nella penultima poesia, Nesti accenna pure alla morte del padre, che viene collocato “nel loculo/ ch’era rimasto sfitto sopra” quello della madre. Il poeta immagina che ora moglie e marito abbiano ripreso “i lunghi parlottari”, quindi, che siano finalmente felici, ma egli si scopre “più nudo/esposto direttamente alla bufera” della vita, senza più la loro protezione. Ora, il poeta scopre di non averli amati abbastanza. Domenico Defelice


POMEZIA-NOTIZIE TITO CAUCHI LEONARDO SELVAGGI Panoramica sulle opere Editrice Totem, 2016 - Pagg. 316, e. f. c. Il suo interesse è talmente vasto e le sue opere così tante, che racchiudere in un volume, anche se consistente, un suo profilo pienamente esaustivo è quasi impossibile. Ci ha provato Tito Cauchi con una panoramica su alcuni dei suoi più importanti lavori e la figura di Leonardo Selvaggi che ne risulta ha un buon equilibrio tra il poeta e il narratore, il critico e il professionista. Leonardo Selvaggi è talmente innamorato della sua terra e ad essa così radicato, che perfino le persone acquistano valenza e consistenza solo da essa; la terra, cioè, è divinità ancestrale dalla quale primieramente scaturisce la vita vegetale e poi, con il concorso delle cose, gli animali e gli umani, i quali delle cose e dei vegetali hanno struttura e odori. Persino sua madre, infatti, “Ha sapore di pane di grano macinato/dalla ruota di pietra, porta l’odore della casa”. Una sola osservazione tra le tante che questi versi suggeriscono: la “ruota di pietra”. Se il grano venisse macinato con le macchine moderne, non sarebbe la stessa cosa, non avrebbe e non potrebbe rappresentare le molecole del corpo della madre, perché perderebbe la verginità dei costumi e delle tradizioni di quella particolare terra e non della terra in genere. La fusione tra la terra di origine e Selvaggi è assolutamente perfetta. Per conseguenza, in lui, anche “La sensualità come il tutto, secondo Cauchi - si sprigiona dalle cose, dalla pioggia battente, dall’erba fitta e soffice dei prati”; “perfino gli oggetti si armonizzano con la [sua] persona”. Leonardo Selvaggi è personaggio difficilmente incasellabile. Come critico, per esempio, è anomalo, nel senso che non si limita a comprendere e giudicare proponendoci il testo investigato, ma - afferma Cauchi -riesce a “farlo proprio assimilandolo e sovrapponendovi la propria esperienza”; in lui “altri argomenti prendono spunto dalla lettura di opere di autori contemporanei presi a pretesto, come una sorta di colloquio da cui trae spunti”. E non solo dagli autori contemporanei. Dentro la critica di Selvaggi c’è tutto e solo Selvaggi, come nella sua poesia e nella prosa. Tutto, insomma, in lui diviene autobiografia. Ciò fa si che i suoi saggi non abbiano la freddezza del sezionatore, ma siano caldi e partecipati, nei quali l’umanità straripa in un coinvolgente racconto. Autore preso in esame ed esegeta si fondono, divengono un tutt’uno per confondersi entrambi nella terra lucana, l’unica che può dar linfa alle radici.

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Questo connubio perfetto in lui si verifica sia quanto si interessa di Salvatore Porcu, che di Francesco Lomonaco, Ferruccio Brugnaro, Nicola Festa, Ruggero Bonghi, Luigi Pumpo, Anna Aita, Carmine Manzi, Antonia Izzi Rufo eccetera. I suoi interventi son tutti poemi del proprio io e della sua terra, tutti suddivisi in lasse compatte, quasi sempre contraddistinte da numerazione romana, senza gli a capo e, a volte, in una sintassi per certi aspetti vicina alla latina, carica e pastosa, in un incalzare di immagini e concetti. Sono centinaia ormai i suoi saggi da noi ospitati in tanti anni sulle pagine di Pomezia-Notizie e alcuni lettori son convinti d’essere in grado di rilevarne la paternità anche se fossero privi della firma. Leonardo Selvaggi racconta sempre, sicché la critica, la prosa, la poesia, presentano, a volte, ben poche differenze. Le sue composizioni poetiche sono sempre lunghe e concettose, hanno quasi sempre l’ ampiezza delle lasse della prosa e della critica delle quali abbiamo fatto cenno. Muoversi in mezzo a stratificazioni, sovrapposizioni, mescolamenti continui, non è agevole e perciò va dato merito a Tito Cauchi per esserci riuscito, consegnandoci un Selvaggi granitico nelle sue convinzioni, sofferente per vicende personali, familiari; un Selvaggi umanissimo, profondamente partecipe dei tanti drammi che coinvolgono l’umanità intera. Lo scrittore di Grassano, da tanti anni trapiantato a Torino, ha un fascino del tutto particolare, a tal punto stimolante che non ci si stanca di leggerlo perché di lui, come afferma Cauchi, si vuol “saperne sempre di più”. Domenico Defelice

MARINA CARACCIOLO OLTRE I RESPIRI DEL TEMPO L’universo poetico di Ines Betta Montanelli BastogiLibri collana Testimonianze, 2016. «Per me la poesia è sempre e soltanto trasfigurazione e sublimazione della realtà. Le mode rimangono fuori dalla poesia. […] L’Importante è essere veramente poeti» – Ines Betta Montanelli (p.14) Ricevo questo saggio via posta, corredato da una dedica, da una bella lettera autografa – di quelle scritte ancora a mano in una spontaneamente bella, ma bella davvero, calligrafia – e da un dono prezioso, utile per la mia prossima tesi. Mi piace riceverlo già solo per questo, e ancor più perché è uno di quei libri in carta ruvida, amati moltissimo dalle matite. Marina dedica il suo tempo alla poesia di Ines,


POMEZIA-NOTIZIE donna che, a sua volta, si dedica interamente alla Musa Calliope, alla bellezza, all’amore per la parola. Un amore estremamente precoce e che non l’ abbandonerà mai. Marina definisce Ines «dolce vestale del tempo e dell’anima, che lungo un cammino di quasi trentacinque anni, fra bagliori e penombre, sogni e realtà ha dato forma di squisita poesia al suo trepido indagare negli enigmi insoluti del vivere; con una molteplicità prospettica di visioni e una densità espressiva tali da rendere invero seducente il tesoro di divine malinconie che condivide con il lettore» (p.49) Ines è fra quei poeti che guardano con stupore il cielo e procedono interrogando le stelle, in soliloquio o dialogo con la vita, sentendo forte la precarietà, il tempo che inesorabile fluisce e lentamente (o velocemente) consuma le cose. E dunque, qual è il mistero della vita, il destino che attende l’Uomo nell’Oltre? La poetessa indaga e indaga, teme e freme, vorrebbe portare con sé per sempre le foglie e i ciuffi di mimose, il suo sole, tanto è grande l’ amore per la bellezza e per la bellezza della Terra. Ines verseggia al femminile, come fa notare Marina, citando anche passi critici di Paolo Bertolani, di Giorgio Bàrberi Squarotti, di Maria Grazie Lenisa e ancora altri non meno importanti (e avvalendosi pure di un buon uso di note), verseggia al femminile e piega il dolore in poesia, con una consapevolezza sempre maggiore e una partecipazione integra all’umana malinconia: l’alta malinconia di Ines è «Severa di una lucente compostezza, come scrive Paolo Bertolani, dalle ciglia asciutte, dolcissima, ma scarna di parole; dal tono sempre serio, anche se accorato e commosso». Ne esce fuori un ritratto completo della donna e della poetessa, dotata di naturale e profonda intelligenza e armonia, Marina divide sapientemente il saggio in due sezioni, una introduzione critica la prima; un corposo florilegio di poesia la seconda. La Prima parte scandaglia in modo amoroso la vita poetica di Ines – gli esordi, la crescita, le raccolte poetiche pubblicate e non, gli incontri, i premi, nonché i temi stessi, l’evoluzione stilistica, le sue radici, i suoi voli – proponendo l’intorno necessario alla lettura dei testi proposti nella Seconda parte. Un lavoro svolto con estrema cura e grande dolcezza, con occhio attento e corretto nei riguardi della Poesia. Marina dice di Ines «Poesia di una semplicità colloquiale scevra di lamentosa retorica, di una dolcezza impagabile che ogni cosa avvolge e intride» giungendo così – e comprovando la tesi critica con la lettura dei testi e la loro indagine – al fulcro dell’idea poetica della poetessa, ossia «l’occasione di ricondurre luoghi, immagini e vi-

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cissitudini nel meraviglioso alveo di una rinata esistenza nella parola che non è più soggetta a inevitabili disfacimenti; miraggi di figure in controluce, […] che sempre ri-appaiono sull’uscio illuminato della memoria». «Una sublimazione che corrisponde pure all’ irrinunciabile intento – possiamo aggiungere – di risultare da ultimo vincitori nella guerra contro l’imber edax del poeta Orazio, la bufera devastatrice del tempo che tutto corrode e distrugge; riuscendo a sconfiggere la morte delle cose, a salvare anche soltanto un grumo di vita che si sfalda, così che la nostra effimera umana avventura possa proiettarsi, lieta no ma sicura, in una perennità indistruttibile, in una dimensione spazio-temporale senza impedimenti e senza confini» (Marina Caracciolo, p.15). Aurora De Luca

AURORA DE LUCA ASPRA TERRA E CREAZIONE FERTILE NELL’OPERA DI DOMENICO DEFELICE Edizioni Eva-Venafro-2016, pp. 152, € 10,00 Cantava, Domenico Modugno, negli anni settanta su di un bel testo della Enrica Bonaccorti, tutto il dolore e l’amarezza che si prova non solo nel lasciare la propria terra natia, ma anche nel doverla vedere così abbandonata, lasciata morire senza che nessuno abbia il coraggio di muovere un dito. Nell’inerzia più assoluta che trita più di una qualsiasi schiaccia sassi. Sole alla valle/e sole alla collina/per le campagne/ non c’è più nessuno./ Addio, Addio Amore/ io vado via./ Amara terra mia/amara e bella./ Cieli infiniti/ e volti come pietra/ mani incallite ormai/senza speranza./Addio, Addio Amore/ io vado via/ amara terra mia/amara e bella… Aurora De Luca, la studentessa che si laurea in lettere alla facoltà romana di Tor Vergata, ha colto già da tempo, e da quando inviava al direttore Defelice per la sua rivista le poesie e i suoi racconti, che il buon Domenico puntualmente pubblicava per la loro validità, che il personaggio Defelice ha uno spessore e una scrittura poetica e non solo poetica, che necessita venga esaltata o quanto meno decritta. Per questo motivo decide di realizzare la sua tesi di laurea, analizzando e scrutando tra le più nascoste carte e non solo, poi vedremo perché, il contributo che l’opera del Defelice lascia alla letteratura italiana. Ma c’è anche una ragione più profonda che la spinge a dissertare sullo scrittore Defelice. È la


POMEZIA-NOTIZIE conoscenza della storia personale che possiede dell’ uomo Defelice, che le dà l’input per ricercare nella sua fertile creazione letteraria, la molla, la spinta che lo hanno fatto diventare un punto di riferimento nel panorama artistico-letterario. E poiché la storia dell’esule di Anoia trova un forte riferimento in quei versi della Bonaccorti che abbiamo citato in testa, nulla è più significativo di quell’Aspra Terra che la nostra laureanda Aurora ha messo nel titolo della sua tesi. Il lavoro della De Luca è diviso sostanzialmente in quattro parti: PRELUDIO, PRIMA PARTE, SECONDA PARTE,APPENDICE. Il preludio serve, dice la De Luca, a dare un profilo dell’autore che si va ad esaminare. All’uopo riporta, frammista o per meglio dire incastrata a citazioni dagli scritti defeliciani, sinteticamente ma non superficialmente la biografia del Defelice. In questo preludio, mi pare di cogliere, anche una veste di saggio critico. Seguono in MISCELLANEA, una serie di componimenti per dare la cifra stilistica e metrica del nostro autore. La prima parte del lavoro di tesi, investe invece la dicotomia presente nel Defelice che si divide tra Amore e Odio. Amore per la poesia, per la vita, ovviamente per le donne, poi per la famiglia e soprattutto per la terra amara e bella dal quale si è allontanato. Nella seconda parte della ricerca-tesi affronta la De Luca, in un continuum, la storia dell’uomopoeta, che è anche ottimo organizzatore dotato di coraggio e di inventiva. Nella sua frenesia creativa e non solo, il Defelice fonda un mensile che è palestra per lui e per tanti poeti e scrittori. E che dopo quarant’anni è ancora viva e vegeta. Passano nomi importanti e di prestigio per quelle pagine, un poco invidiate nel giro. Nell’Appendice : “Potendo noi bussare alla porta di Domenico Defelice, non ci risparmiamo dal farlo. Dice la studentessa diventata laureata. Questo significa che quella confidenzialità che possiede con Domenico, le permette di colloquiare serenamente e a lungo, per cui oltre alle carte ha il privilegio di consultare la “materia” da vicino. Ecco spiegato la sua opportunità di sbirciare tra “ le nascoste carte e non solo”, di cui avevo accennato all’inizio. Si aggiunge pertanto, con il lavoro di Aurora De Luca: “Aspra terra e creazione fertile nell’opera di Domenico Defelice”, un ulteriore tassello per meglio comprendere e studiare l’opera e la vita di questo poeta del nostro tempo. Salvatore D’Ambrosio

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DOMENICO DEFELICE NINO FERRAÙ IL CROCO – I quaderni letterari di POMEZIANOTIZIE – Novembre 20016 Il CROCO, fratello di POMEZIA-NOTIZIE pronto sempre per descriverci struggenti e mirabili personaggi da tenere per sempre legati nel libro della memoria. Un effluvio di emozioni mi ha preso il cuore nel leggere il meraviglioso IL CROCO, dedicato alla vita del grand’Uomo di tante gloriose attività, Nino Ferraù. Il nostro prolifico e straordinario Direttore e Fondatore di POMEZIA-NOTIZIE, ha descritto un’ altra delle sue stupende amicizie, da farci rimanere estasiati nel scoprire la vita laboriosa di questo personaggio famoso, e umile, suo grande amico. Nino Ferraù, Direttore della Rivista: “Selezione Poetica” e dell’Archivio Storico degli Ascendeisti, Membro del “Comitato promotore della Comunità Europea della Cultura e dell’Arte” e del “Comitato Ordinatore dei Convegni Internazionali.” Scrittore, giornalista, critico, pittore e grafico. Messina – Villa Quiete. Nino Ferraù, un vero grande UOMO, un’artista eccellente, che riempie il cuore di entusiasmo leggendo questo importante IL CROCO. La sua stupenda corrispondenza con il nostro Direttore Domenico Defelice è emozionante, avvincente in ogni frase, in ogni pagina, lettere appassionate e commoventi, che sono una testimonianza tangibile di questa grandiosa amicizia, durata fino alla sua dipartita a soli 61 anni d’età, nel 1984. Le sue poesie sono perle sparse nel mare dei puri sentimenti, basta gustare questi versi per essere catapultati in un dedalo di batticuori: “LE RUGHE” Era il tuo volto una rete di rughe,/ eppure la bellezza/ nella sua greca purità perfetta/ ancora resisteva ed appariva/ come visione dietro una veletta./ Ora ho capito cosa son le rughe:/ alvei del pianto e insieme del sudore,/ sono i sentieri/ di tutti i pensieri,/ sono le strade che portano al cuore... Versi abbaglianti, che toccano il cuore, che amalgamano mente e anima, che proiettano la giovinezza nell’arrivo della maturità, con le rughe regalate dal tempo che vola ininterrottamente... Nino Ferraù, questo grande Artista Siciliano, ci ha lasciato dei ricordi indelebili da conservare nello scrigno del cuore, basta leggere queste bellissime trame della sua affascinante vita, le incantevoli lettere e le splendide poesie di questo speciale IL CROCO, per conoscerlo anche noi così lontani dalla nostra Italia, e sentirlo vicino con il suo spirito


POMEZIA-NOTIZIE magico, e accarezzarci con i suoi magnifici versi da lassù, con le stelle che illuminano il suo eterno riposo. Giovanna Li Volti Guzzardi Presidente dell’A.L.I.A.S., Avondale Heights, Melbourne, Australia

DOMENICO DEFELICE NINO FERRAÙ Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2016 Sempre nel Quaderno Letterario “Il Croco” (di novembre 2016) ci viene presentata un saggio critico monografico su Nino Ferraù, da parte di Domenico Defelice. Dopo una breve biografia di questo Scrittore/poeta/pittore, e dopo averne enunciato le molteplici opere, fra cui “Immagine azzurra”, “Pietre di fiume”, “Orme di viandante”, “Vita e opere di Francesco Mezzina”, l’Autore, che ha conosciuto personalmente Ferraù, racconta del suo mondo: amante della natura, della famiglia (specialmente la madre), delle bellezze di Roma (lui siciliano messinese), delle donne a cui soprattutto “voleva bene, di un amore carnale e spirituale insieme”. Ricco di amore verso Dio che per primo ci ama – dice Ferraù – egli lo vede ovunque, nelle persone e nella natura, quali Sue manifestazioni. Contrario alla lussuosità delle chiese, la fede e la religione secondo lui dovrebbero essere più semplici, perché più vere, più sentite. Gli piacerebbe che Gesù Cristo tornasse a vivere su questa terra per poterlo vedere. Quasi presagendo la fine prematura della propria vita, egli, pensando al paradiso – perché l’ inferno è qui -, dice: ”Dio mi prenderà per mano”. Defelice descrive la concezione che Ferraù ha del sociale: egli vede attorno a sé un mondo di predatori, di sfruttatori, di insensati; non c’è giustizia (ricchi e poveri), non c’è umanità; egli si batte, con tutto se stesso, in difesa della libertà e dei deboli – come pochi altri Scrittori suoi amici ma il risultato è che si ritrova sempre più solo, con un intenso dolore personale, che diventa poi universale. Denuncia anche il mondo della droga e tutto l’ inquinamento morale ed ambientale. Afferma che sia il lavoro manuale che quello mentale sono entrambi impegnativi e faticosi. Altri temi trattati sono la vecchiaia, e la Sicilia con i suoi miti. Vengono evidenziati pure certi suoi concetti originali, fra cui la contraddizione che Ferraù sente dentro di sé, cioè egli capisce che come uomo bisogna essere tutto d’un pezzo, ma come poeta non si riesce mai a trovare il vero se stesso. Altrettanto, la

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sua poetica la definisce “Ascendentismo” perché va controcorrente, quasi nel senso letterale della parola: come il fiume scende in modo naturale nel mare, egli, con la sua poesia vuole, invece, salire sulle alte vette del pensiero. Defelice delinea vari paralleli tra Ferraù ed altri Scrittori del suo tempo – con cui ha avuto rapporti e scambi culturali - e, perché no, anche con se stesso, sia nel mondo della cultura in genere che nell’arte. L’Autore cita i molteplici lavori di apprezzamento sulle opere di Ferraù, fra i quali quelli di Anna Maria Crisafulli, di Luciano Armeli Iapichino, di Francesco Pedrina; oltre ai molti convegni ed iniziative organizzati dopo la sua morte soprattutto dal Sartori. Il testo si chiude in bellezza con molte interessanti lettere scritte da Ferraù all’amico Defelice. Maria Antonietta Mòsele

MARIA GRAZIA LENISA LETTERE Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2015 Sempre su “Il Croco” (del luglio 2015), prefato da Marzia Alunni e da Domenico Defelice, col titolo “Lettere”, viene offerta alla nostra lettura la posta inviata a Domenico Defelice da Maria Grazia Lenisa, nel lungo periodo dal 1974 al 2006. E’ un ricchissimo epistolario, tutto culturale, amicale, rispettoso ed umano, dove la Scrittrice apre se stessa, con la convinta affermazione della propria autentica vocazione ad una poesia innovativa ed originale, non ispirata o imitata. E testimonia che altrettanto vero e leale è il suo lavoro di critica letteraria che ella fa ad altri scrittori, e di cui si prende piena responsabilità. Innumerevoli sono i suoi lavori, a cominciare dalla collaborazione con Aldo Capasso nella rivista “Realismo lirico” in cui analizza anche le di lui poesie, per poi esaminare molteplici problemi esistenziali, sociali e morali, fra i quali riflessioni sulla giovinezza, sui diritti della donna, sull’amore, e, più tardi, sul suo rapporto con il male che affronta con ironia, con metafore, con ambiguità e con allusioni. Di se stessa dice: ”Nella vita porto tutta la moralità, come è giusto. La poesia è più libera e inventa altre possibili realtà”. – tutto ciò quanto sottolineato da Marzia Alunni. Defelice ci tiene ad informarci che queste non sono tutte le lettere ricevute da Lenisa, ma sicuramente almeno da quando ella ha iniziato a collaborare con Pomezia-Notizie. Alcune non sono datate, perché volutamente non formali, ma semplici, sponta-


POMEZIA-NOTIZIE nee, e soprattutto rivelano la reciproca stima, l’ amicizia affettuosa ed umana di un legame culturale. Per Lenisa la lettera è importante “perché può essere riletta, diversamente dalla voce. Ella ci teneva alla pubblicazione, e quasi l’aveva imposta a Defelice. In questi scritti, è evidente il passaggio dalla gioia al dolore al dramma, sempre sostenuti, questi ultimi, da grande coraggio. E’ davvero interessante vedere la comunicazione della nascita – via via – delle nuove reciproche opere che i due si spedivano e che recensivano vicendevolmente, apportando apprezzamenti ed incoraggiamenti a continuare, vista la genuinità e l’arte dei loro lavori. Spesso, nella lettera, vediamo aggiunte nuove sue poesie e bellissimi versi di massime di saggezza, anche non sue, ma riportate da altri (vedi “Trova il tempo”). Altrettanto importante era lo scambio di conoscenze e di informazioni su Scrittori, Case Editrici, Riviste letterarie, Presentazioni ufficiali di libri, Convegni letterari, Premiazioni, Concorsi (con indirizzi e date). E quanti Autori, con le rispettive opere, i Due hanno potuto, così, conoscere, allargando la sfera della Cultura, non solo italiana, ma anche straniera. Si parla, infatti, di Mario Luzi, di Giorgio Bàrberi Squarotti, di Zanzotto, di Nino Ferraù, di Solange de Bressieux, di Paul Courget e di tanti altri. Nelle lettere, Lenisa parla anche delle loro rispettive famiglie, fornendo notizie sui figli, su particolari ricorrenze, sulla salute; ultimamente, sulla propria. Sempre onesta con se stessa, ella confessa: “La mia vanità è solo scrivere” . Lenisa e Defelice si sono conosciuti personalmente a Roma il 14 ottobre 2003, in occasione del Diploma Accademico “Honoris causa” a lei conferito. Oltre a molte altre meritate onorificenze, ella ha ricevuto il prestigioso Premio Ziegler di Praga nel 2004. La sua ultima lettera/poesia è dell’8 giugno2006 intitolata “A te”, cioè a Defelice! Maria Antonietta Mòsele

DOMENICO DEFELICE NINO FERRAÙ IL CROCO I quaderni letterari di Pomezia Notizie – Novembre 2016 L’instancabile Domenico Defelice arricchisce la sua produzione con un altro mirabile saggio dedicato a Nino Ferraù. Ci fa in questo modo conoscere (per chi non lo avesse conosciuto) e approfondire la storia di questo interessante personaggio,

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che va ad aggiungersi ai tanti altri da lui considerati. Ferraù non ha avuto una lunga vita. Il suo cammino è terminato a 61 anni. Ciononostante, l’intensità con la quale ha vissuto, i continui spostamenti, la poliedricità del suo essere (poeta, scrittore, giornalista, critico, pittore, grafico) l’hanno annoverato tra le grandi figure del nostro Paese. Defelice ha avuto la fortuna di conoscere personalmente tutti i personaggi di cui si è interessato e con essi ha sempre tenuto un epistolario che comprova la reciproca amicizia nonché gli interessi poetici e culturali. Di Ferraù molte lettere sono andate perse ma da quelle rimaste si comprendono molto bene la stima e la considerazione che aveva per Defelice, al quale confidava gli spostamenti, il suo pensiero, gli impegni culturali; un dettato molto amichevole nel quale non mancavano consigli di vario tipo. In questo saggio Defelice valuta varie opere di Ferraù; sia libri di saggistica sia di poesia, e per ciascuno elabora un’analisi dettagliata per rendere evidente l’intento dell’autore, il suo modo di porsi, lo stile adottato (che spazia dal verso libero all’impeccabile metrica), l’amore per la natura e le tante emozioni del vissuto. Defelice lo considera “uno dei più grandi poeti del Novecento”, oltre che un uomo sanguigno amato da molte donne per la sua personalità, ma anche attaccato agli affetti familiari. Come Defelice rileva, per Ferraù vi sono due tipi di amore (il sesso e il cuore). In ogni modo, i versi concernenti il rapporto uomo/donna non scadono mai nel carnale, anzi, esprimono un’atmosfera passionale d’intenso lirismo. Inoltre, molto importante appare per lui la figura materna. Tutto ciò è stato vissuto da Ferraù in modo quasi frenetico poiché con i suoi viaggi era in costante movimento raccogliendo emozioni positive e negative. Appaiono pure i volumi curati da altri critici, come Anna Maria Crisafulli Sartori, Luciano Armeli Iapichino, e molto importante il giudizio di Francesco Pedrina. In questo modo il quadro si amplia e si completa dandoci una visione dettagliata della vita e dell’uomo Ferraù, il quale era “orgoglioso di portare nel mondo la poesia e orgoglioso di essere poeta, perché reputava la poesia un’arte eccellente ad educare, più di qualunque altra disciplina, perché in grado di lavorare dall’interno dell’essere, sciogliendo i grumi del cuore.” Dunque, un rinnovato grazie a Domenico Defelice per questo ulteriore tassello culturale. Laura Pierdicchi


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D. Defelice: Il microfono (1960)

NOTIZIE “Gente di palude Storie di vita quotidiana”, il catalogo. La presentazione a La Feltrinelli di Latina è stata il 24 Febbraio 2017 - Venerdì 24 Febbraio, alle ore 18.00, presso La Feltrinelli in via Diaz a Latina ha avuto luogo la presentazione del catalogo “Gente di Palude, storie di vita quotidiana”, Edizioni Smart Collana Immagini. L'associazione SMART, operante nel campo della promozione culturale, svolge da anni nella provincia di Latina numerose attività tese alla valorizzazione del territorio pontino. Dopo aver allestito con successo la mostra “Gente di Palude” nei comuni di Latina e Sabaudia, per non disperdere in singoli eventi espositivi l'enorme mole di lavoro di ricerca effettuato e adoperato per gli allestimenti (sono, infatti, oltre cento le foto originali e le numerose sintesi storiche elaborate da diversi studiosi) ha deciso

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di realizzare un catalogo. La pubblicazione “Gente di Palude”, è un avvincente connubio tra testi originali, ricerche storiche e suggestive immagini d'epoca, recuperate dal Fondo Carlo Romagnoli, dal Fondo Edoardo Tosti Croce, dal Fondo Giovanni Bortolotti e da diverse collezioni private. Il catalogo propone un’interessante lettura storica del tessuto socio culturale del territorio pontino in epoca antecedente la Bonifica, fa rivivere gli scenari inediti delle arcaiche abitazioni delle paludi, le “Lestre” e dei loro abitanti e la rarefatta atmosfera delle paludi, che restituisce in maniera vivida uno spaccato di vita quotidiana estremamente realistico. Le scene di vita rurale e pastorale, gli scatti rubati agli abitanti delle lestre, ai ranocchiari, ai cioccatori, ai “guitti”, ai mignattai, ai bufalari, ai boscaioli condurranno i visitatori in un viaggio a ritroso nel passato. I canneti melmosi e gli acquitrini narrano anche del lato oscuro della palude: la malaria, presenza malefica e mortifera che gli abitanti dei luoghi combattevano mescolando magia e religione. Le immagini sono accompagnate da testi storici scelti con cura dalla Professoressa Roberta Sciarretta e da lavori di ricerca realizzati da studiosi e appassionati del periodo: “Echi dal regno della febbre” di Mario Polia; “Lestre” di Daniela Novelli; “Mestieri” di Roberta Colazingari; “Vita quotidiana” di Claudio Galeazzi; “Malaria” di Carlotta Antonelli; “Religione” di Francesca Romano. Alla presentazione del catalogo “Gente di Palude, Storie di Vita quotidiana” venerdì 24 Febbraio erano presenti alcuni degli autori, la professoressa Roberta Sciarretta, lo storico Claudio Galeazzi, le giornaliste Roberta Colazingari e Daniela Novelli. Ecco la relazione della serata, stilata dalla nostra collaboratrice di Latina: Successo di pubblico a La Feltrinelli di Latina per “Gente di palude Storie di vita quotidiana”, il catalogo. Successo di pubblico venerdì sera a La Feltrinelli di Latina in via Diaz per la presentazione del cata-


POMEZIA-NOTIZIE logo “Gente di Palude, storie di vita quotidiana”, Edizioni Smart Collana Immagini. Un folto pubblico, molto incuriosito ed interessato, ha assistito alla presentazione del volume alla presenza di alcuni degli autori, la professoressa Roberta Sciarretta, lo storico Claudio Galeazzi, la dottoranda Francesca Romano, le giornaliste Roberta Colazingari e Daniela Novelli. “Gente di Palude” nasce grazie all'associazione SMART, operante nel campo della promozione culturale, che svolge da anni nella provincia di Latina numerose attività tese alla valorizzazione del territorio pontino. Dopo aver allestito con successo la mostra “Gente di Palude” nei comuni di Latina e Sabaudia, per non disperdere in singoli eventi espositivi l'enorme mole di lavoro di ricerca effettuato e adoperato per gli allestimenti (sono, infatti, oltre cento le foto originali e le numerose sintesi storiche elaborate da diversi studiosi) ha deciso di realizzare un catalogo. La pubblicazione “Gente di Palude”, è un avvincente connubio tra testi originali, ricerche

storiche e suggestive immagini d'epoca, recuperate dal Fondo Carlo Romagnoli, dal Fondo Edoardo Tosti Croce, dal Fondo Giovanni Bortolotti e da diverse collezioni private. Il catalogo propone un’ interessante lettura storica del tessuto socio culturale del territorio pontino in epoca antecedente la Bonifica, fa rivivere gli scenari inediti delle arcaiche abitazioni delle paludi, le “Lestre” e dei loro abitanti e la rarefatta atmosfera delle paludi, che restituisce in maniera vivida uno spaccato di vita quotidiana estremamente realistico. Le scene di vita rurale e pastorale, gli scatti rubati agli abitanti delle lestre, ai ranocchiari, ai cioccatori, ai “guitti”, ai mignattai, ai bufalari, ai boscaioli condurranno i visitatori in un viaggio a ritroso nel passato. I canneti melmosi e gli acquitrini narrano anche del lato oscuro della palude: la malaria, presenza malefica e mortifera che gli abitanti dei luoghi combattevano mescolando magia e religione. Le immagini sono accompagnate da testi storici scelti con cura dalla Professoressa Roberta Sciarret-

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ta e da lavori di ricerca realizzati da studiosi e appassionati del periodo: “Echi dal regno della febbre” di Mario Polia; “Lestre” di Daniela Novelli; “Mestieri” di Roberta Colazingari; “Vita quotidiana” di Claudio Galeazzi; “Malaria” di Carlotta Antonelli; “Religione” di Francesca Romano. “Gente di Palude è un tassello che mancava nella nostra storia. – ha spiegato il direttore de La Feltrinelli Massimo Bortoletto – Il volume va a raccontare sia con testi che con immagini cosa c’era prima della bonifica in questo territorio. Un lavoro interessante, che ognuno di noi dovrebbe tenere nella propria biblioteca, da sfogliare e da far leggere alle generazioni future perché le radici non vanno mai dimenticate”. Roberta Colazingari Latina, 25.02.2017 *** NAZARIO PARDINI - TORNAVO CH’ERA SERA - E-mail del 7/3/2017 - Leggo [PomeziaNotizie, febbraio 2017] appena il primo verso e il mio pensiero vola, istantaneo, all'ottavo canto del Purgatorio dantesco, e così come m'accadde quando ne lessi, per la prima volta e non solo, l'incipit, <<Era già l'ora che volge il disio / ai naviganti, e intenerisce il core / lo dì che han detto ai dolci amici addio...>>, avverto dentro una forte emozione e la voce-melodia di fata Poesia che in me canta in sintonia con quella di Nazario Pardini; ma anche con la nostalgia del Pascoli di "La mia sera", <<Di tutto quel cupo tumulto, / di tutta quell'aspra bufera, / non resta che un cupo singulto / nell'umida sera>>, e con la dolce malinconia del Leopardi di "Il sabato del villaggio", <<Torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre / giù dai colli e dai tetti / ...Or la squilla dà segno / della festa che viene; / ed a quel suon diresti / che il cuor si riconforta...>>.Quanti altri Poeti raggiungo con la memoria? Ne ascolto le voci e tutte suonano armonia, tutte fluiscono dal Monte come acqua limpida, fresca di sorgente. <<Tornavo ch'era sera>>, ci confida Nazario, stanco, l'espressione seria del viso, l'alternarsi lento dei passi, con nel cuore i "rumori rochi" della strada, le parole sfuggenti della gente frettolosa, i rintocchi del campanile, con negli occhi i ricami del fiume nei gorghi. <<Ed era l'ora>> di voltare pagina, di accogliere l'anelito dell'anima, <<di stendere lo sguardo sopra i grani / biondi rosati>>. E' proprio qui che si schiude, che esplode la sua Poesia, che la "sua sera gli apre le braccia di fanciulla innamorata" ed egli vi si rifugia, vi si "immerge" estasiato, ebbro, pago. L'aria intorno si colora d'un azzurro viepiù denso, vivo, magico. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo al Volturno (IS)


POMEZIA-NOTIZIE *** L’Associazione Culturale Marginalia informa che riparte il CONCORSO “UN PRATO DI FIABE” - XVII edizione nazionale con il Patrocinio del Comune di Prato e della Regione Toscana. Il concorso è aperto a tutti gli autori italiani che vorranno inviare le loro fiabe e a tutti gli illustratori italiani che vorranno inviare le loro opere grafiche. Una sezione speciale è dedicata alle scuole elementari che vorranno partecipare e che saranno esenti da quota di partecipazione. Termine ultimo per l’inoltro degli elaborati sia letterari che grafici: 30 giugno 2017. Il regolamento per le opere letterarie e il regolamento per gli illustratori si potrà scaricare dal link: http://www. associazionemarginalia.org/un-prato-fiabe-2017/ Per eventuali ulteriori informazioni potrete scrivere alla segreteria del concorso: SaraMarsili, concorsiletterari@ associazionemarginalia.org, oppure a Vania Fanciullacci, info@associazionemarginalia.org. In attesa come sempre delle vostre bellissime opere auguriamo a tutti buon lavoro, lo staff di Marginalia. *** TRE EVENTI IMPORTANTI - Tra febbraio e marzo del 2017 tre eventi hanno sollecitato in molti la fantasia e lo spirito avventuroso della creatività e della ricerca. Giovedì 23 febbraio, presso la Sala Archivio Antico del Palazzo dell'Università del Bò a Padova, a continuare la serie di manifestazioni dell'UniversaBoCulture, si è svolto l'incontro documentario ed interdisciplinare 'INTRECCI DI NOTE. I beni culturali musicali tra creazione, tutela e valorizzazione'. I protagonisti dell'incontro sono stati Sergio Canazza, direttore e docente del Dipartimento di Ingegneria dell'Informazione, Alvise Vidolin, maestro del suono e del live electronic, che ha operato importanti approfondimenti sulla storia e sull'avvio per i compositori come Luigi Nono, Bruno Maderna e Luigi Dalla Piccola, dell'impiego del live electronics nelle loro opere, proprio a partire dal centro di Fonologia della Rai di Milano. A seguire, nel suo intervento Nuria Schoenberg-Nono, presidente della Fondazione Archivio Luigi Nono di Venezia, ha spiegato, sull'onda di cari ricordi vivissimi, come sia stato possibile salvaguardare il patrimonio artistico del padre, il noto compositore Arnold Schoenberg, ora tutto accuratamente catalogato e conservato in Vienna e quanto invece abbia richiesto, come impegno e scelta di strategie di conservazione del materiale grafico, tutta la vastissima produzione grafica e compositiva del suo Gigi, che utilizzava anche i colori a pennarello per impostare e chiarificare meglio aspetti profondi delle sue

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composizioni, ben oltre le strutture chiuse del pentagramma. A conclusione dell'importante tavola rotonda ha preso la parola Federica Bressan dell'IPEM, presso l'Università di Ghent, in Belgio, per offrire informazioni di prima mano sulla ricerca portata avanti dal suo Centro in Ghent per ampliare le metodiche informatiche delle performances artistiche in continua evoluzione, per conservarle e consentirne la consultazione con opportune modalità temporali, data la sfuggente natura evenemenziale degli stessi. Dalla locandina riporto incisi di importanza fondamentale: “Strumenti obbedienti al pensiero, che 'si pieghino alle esigenze del mio ritmo interiore': era il sogno del compositore Edgar Varèse. La ricerca in ambito prima elettronico e poi informatico ha permesso di esaudire il desiderio di Varèse e di altri compositori del Novecento. Studi innovativi che portano alla creazione di sistemi informatici complessi per l'esecuzione automatica ed espressiva della musica, in studio e dal vivo. Nel mondo della computer music, zona ibrida tra arte e ingegneria, Padova è stata negli ultimi decenni uno dei centri principali a livello internazionale”. Il giorno 23 marzo, presso la sede de 'La Vigna'Biblioteca Internazionale-Centro di cultura e civiltà contadina, nel Palazzo Brusarosco Zaccaria in Vicenza, il Presidente prof. Mario Bagnara ha aperto il Convegno '1859 Sulla Via della Seta-Racconto di un'eccezionale spedizione in Cina', un'occasione unica nel suo genere per offrire al pubblico di studiosi ed appassionati conoscenze e immagini fotografiche senza precedenti. Per la Sezione Testuale è stato fatto pieno riferimento alla pubblicazione di un'opera del nobile friulano Giovan Battista Castellani, che partì alla volta della Cina con l'amico sericultore Gherardo Freschi, allo scopo di ottenere informazioni di prima mano onde arginare e bloccare l'epidemia della 'pebrina' che già aveva devastato gli allevamenti europei di bachi da seta: il diario che il Castellani aveva tenuto e che era stato pubblicato nel 1860 a Firenze con il titolo 'Dell'allevamento dei bachi da seta in Cina, fatto ed osservato sui luoghi', un testo di oltre 200 pagine con otto tavole incise di cui alcune ricavate da originali fotografici effettuati da Giacomo Caneva, padovano, tra i più importanti fotografi italiani dell'Ottocento è ora alla nostra portata (consultare il sito internet 'Biblioteca la Vigna Vicenza). Questo prezioso evento vicentino ha unito insieme la presentazione del volume del Castellani tradotto in Inglese ed in Cinese, pubblicato nella primavera del 2016 dalla Zhejiang University Press, sotto la supervisione del prof. Claudio Zanier dell'Università di Pisa, e la mostra delle documentazioni fotografiche del Caneva, originali ritenuti dispersi ed acqui-


POMEZIA-NOTIZIE siti invece dal collezionista trevigiano Giuseppe Vanzella. L'elevata professionalità e competenza dei protagonisti di questo straordinario evento stimola l'intelligenza ad approfondire ancor più questi temi ed a mantenere aperti i contatti con i relatori, coordinati affabilmente dal prof. Mario Bagnara, che ha fatto gli onori di casa pienamente soddisfatto dei risultati ottenuti. Dal 17 al 26 marzo 2017, grazie al costante impegno dell'Associazione Ukigumo, tra le vie ed i palazzi di Vicenza è passato l'Haru no Kaze-Vento di Primavera, arrivato quest'anno alla sua nona edizione, diviso in molteplici eventi tra Cultura, Concerti, Conferenze, Arti, Workshops, Esposizioni, Dimostrazioni. Questo Festival è dedicato al Giappone, anche per ricordare i 150 anni appena trascorsi dalla apertura dei contatti tra le due Nazioni, l'Italia ed il Giappone, importantissima ricorrenza storica, come ho sottolineato nel mio lavoro sui giovani Ambasciatori Giapponesi, guidati da Ito Mancho, che nel 1585 hanno sostato anche all'Olimpico. L'attuale manifestazione ha portato per la prima volta sul palcoscenico del Teatro Comunale la Danza Butho e Musica dal Vivo 'ĀTMAN', a cura della COMPAGNIAKHA con Kea Tonetti e musica dal vivo di Tivitavi, per offrire ai presenti tensioni emotive che spingono l'esperienza oltre i confini della consuetudine, per un rivoluzionario approccio al movimento, quando si vuol fare gesto che penetra Natura e Spirito, in un dinamismo che, unico nel genere del teatro-danza, confina con l'estasi, in scena (25 marzo 2017). Altri momenti interessanti sono stati la Conferenza sulla Cultura Giapponese 'Il The dei letterati - Origine e diffusione del Sencha nel periodo Tokugawa, tenuta dal prof. Livio Zanini, docente all'Università Ca' Foscari di Venezia e membro dell'Associazione Italiana Cultura del Tè (17 marzo 2017) e l'incontro sullo Shodō: 'La Via della Calligrafia Giapponese', a cura di Enrico Viola, allievo del Maestro Nagayama Norio (25 marzo 2017). In rete è possibile avere ulteriori informazioni e commenti su queste e tutte le altre splendide occasioni di condivisione delle tradizioni, dei costumi e delle antichissime usanze di questo nobile Popolo. Ilia Pedrina

LIBRI RICEVUTI LIONELLO FIUMI - Prose scelte - Proprietà Letteraria Riservata Comune di Verona e Centro Studi Internazionale “Lionello Fiumi” - Volume a cura di

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Gian Paolo Marchi e Agostino Contò stampato per conto del Comune di Verona da Grafiche Fiorini, Verona, 2014 - Presentazione di Flavio Tosi, Sindaco di Verona, Introduzione di Gian Paolo Marchi, Bibliografia di Agostino Contò - Pagg. 1142, s. i. p. Il prezioso volume ci è stato spedito dalla nostra collaboratrice Dottoressa Ilia Pedrina. Lionello FIUMI nasce a Rovereto il 12 aprile del 1894 e muore a Verona il 5 maggio 1973. Già dalla prima infanzia comincia a mostrare grande interesse per la letteratura e inizia a scrivere un romanzetto "I Robinson del Pacifico", sulla falsariga del Robinson Crusoe, cui faranno seguito "I banditi verdi" e "Gli schiavi neri". Dal 1908 si trasferisce, con la famiglia, a Verona. Sono di questo periodo le prime esercitazioni poetiche. A causa del precoce manifestarsi di un esaurimento nervoso, viene mandato per curarsi prima a Monaco di Baviera e poi sul Mar Baltico. Qui ha la possibilità di perfezionare la conoscenza della lingua tedesca ma soprattutto di entrare in contatto con la poesia moderna di tutti i paesi. Nel 1914, rientrato in Italia, pubblica la sua prima raccolta di poesie, Polline, stampata a Milano, importante per i testi, ma soprattutto perché contiene l'appello neoliberista, divenuto poi il manifesto del movimento 'avanguardista' che ebbe per centro la rivista "La Diana". Qui Fiumi, assai lucidamente, propone nell'appello una nuova possibile terza via per la poesia in versi liberi, alternativa tanto al passatismo classicista quanto alle iperboli futuriste. Tra il 1921 e il 1925 dirige il "Gazzettino Illustrato". Trasferitosi a Parigi, dove vivrà fino al 1940, svolge una lunga e infaticabile opera di divulgatore della cultura italiana in Francia e all'estero, che gli vale il titolo di ambasciatore letterario dell'Italia. Moltissimi i riconoscimenti che ottiene nel corso della sua lunga carriera di letterato: tra i maggiori il premio dell'Accademia d'Italia nel 1930 e nel 1936, e il conferimento del Grand Prix international de poésie della Societé des poètes de France, oltre che la Légion d'honneur. Letterato di vaglia sia come critico (dalla prima acuta monografia su Corrado Govoni agli importanti Parnaso amico e Giunta a Parnaso) che come poeta, traduttore, prosatore. Le importanti antologie della poesia e della narrativa italiana pubblicate in Francia rispettivamente nel 1928 e nel 1933 e l'attività legata alla rivista bilingue "Dante" fanno di Fiumi colui che, come pochi altri durante il Ventennio e oltre, operò per sprovincializzare le nostre lettere e per far conoscere i nostri migliori autori del Novecento. Importante anche la sua attività di traduttore dal francese (tra gli altri: Supervielle e Valéry) e l'ampia attività giornalistica. Opere: Poesia: Polline (1914 - 1919); Mùssole


POMEZIA-NOTIZIE (1920); Tutto cuore (1925); Sopravvivenze (1931 1931 - 1935); Poesie scelte (1934); Stagione colma (1943); Poèmes choisis (1950); Sul cuore, l'ombra (1953); Poesie scelte (1956); Ghirlanda per Marta (1957); E la vita si ostina (1961); 30 poesie (1962); Choix de poèmes (1962); Poesie scelte (1912-1961) (1963); 49 poesie (1972). L' intera opera poetica è stata raccolta in: Lionello FiumiOpere poetiche, a cura di Beatrice Fiumi Magnani e Gian Paolo Marchi, Verona, Fiorini, 1994. Narrativa, prosa lirica e di viaggio: Occhi in giro (1923); Un'Olanda fra due orari e ritorno via Bruges (1929); Immagini delle Antille (1937); Ex-voto antillais en vingt-six langues (1939); Frutti del vivere (1949); Ma uno ama ancora (romanzo 1951); Li ho veduti così (ritratti 1952); I dialoghi di Lanzo (1957); Li ho veduti a Parigi (ritratti 1960); La bottiglia sotto il sole di mezzanotte (Viaggio in Lapponia) (1965); Ancora di Parigi (1972). Prose critiche, antologie: Corrado Govoni (1919 e 1918); Anthologie de la poésie italienne contemporaine (1928); Littérature italienne (1929); La cultura italiana in Francia (1929);Antologie des narrateurs italiens contemporains (1931); Études italiennes: Guido Gozzano (1934); Supervielle, il poeta della relatività (1934); Poesia italiana contemporanea: Auro d'Alba (1934); Un grande amico dell'Italia: Pierre de Nolhac (1934); Fortuna del Pascoli in Francia (1935); Annunzio Cervi, il poeta morto sul Grappa (1939);Italianismo e italianisti in Belgio (1939); Poeti belgi d'oggi (1939); Parnaso amico (1942); Vite appassionate e avventurose (1943); Berto Barbarani (1950); Giunta a Parnaso (1954); Yves Gandon, romanziere e critico (1954); Pellico, coqueluche de Stendhal (1955); L'Italia e Verona nelle lettere del gaio presidente de Brosses (1955); Stendhal e una sua ingiustizia verso il Pindemonte (1956); A hora de Cascella (1956); Chesini. La vita e l'opera (1961); Il pittore Guido Codagnone (1962). L’edizione delle Prose scelte - leggiamo nel risvolto di copertina vede la luce a vent’anni di distanza dalla pubblicazione del volume delle Opere poetiche e completa il progetto di riproposta e rivalutazione dell’opera di un autore assai noto (e non solo in Italia) soprattutto per l’infaticabile opera di divulgazione della cultura italiana, che lo vide, oltre che poeta, traduttore, critico letterario per giornali e riviste di tutto il mondo (...). Vengono qui riproposti, in quella che è stata una necessaria selezione tra tutti gli scritti in prosa, i testi raccolti in “Li ho veduti così” (...), “Li ho veduti a Parigi” (...), “Ancora di Parigi” (...), “Parnaso amico” (...). Per volontà della vedova signora Beatrice Magnani sono stati affidati fin dal 1979 al Comune di Verona la biblioteca e l’intero ricchis-

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simo archivio che documenta l’attività di Fiumi, affinché ne venisse onorata opportunamente la memoria. Impegno che, con l’istituzione del Centro Studi Internazionale Lionello Fiumi (ora confluito nel patrimonio della Biblioteca Civica di Verona) garantisce con continuità lo studio e la valorizzazione dell’opera di questo importante protagonista della storia della cultura letteraria del Novecento europeo. ** MARIA ASSUNTA ODDI - Come foglie d’ autunno - Premio Speciale “Città di Levi 2016” - Disegno di copertina di Andrea Petricca - Vitale Edizioni, 2017 - Pagg. 40, s. i. p. Maria Assunta ODDI è nata a Trasacco il 23 aprile 1958. Si è laureata in pedagogia nel 1984 ed in filosofia e comunicazione nel 2014. Insegnate di lettere nella scuola media, mostra da anni una particolare sensibilità ai problemi pedagogici. Tra i tanti premi ricevuti, ricordiamo: Trofeo Lupa di Roma; Autore selezionato 1985 Centro Studi Ricerca e Documentazione sulla poesia italiana del 900 “Carlo Capodieci”; Premio Ripetta, 1997; Premio Leopardi; Dimensione amore, Pescara; San Francesco dell’Accademia Anversana; Premio della giuria al concorso (2000) Solidarietà tra le generazioni, Milano. Nel 2006 ha preso parte alla XXVI edizione del Città di Pomezia, conquistando il terzo posto nella sezione della poesia singola. Opere: Sensazioni (1990), Girotondo (1994), Le stagioni del cuore (1996), Tre voci di poesia (2000), Amore per amore (2003), Parole e immagini (2005), Non lasciarmi andare (2010). La Oddi è una poetessa apprezzata. L’amico Vittoriano Esposito scriveva di una “Disposizione fondamentalmente lirica, la sua, spesso coniugata ad esigenze pedagogiche” e un raffinato intenditore di poesia come Emerico Giachery, in Pomezia-Notizie del gennaio 2017 ce la ricorda con ammirazione: “Caro Domenico, sfogliando il nuovo fascicolo [novembre 2016], da poco ricevuto, della tua rivista, ancora una volta sento un po’ di famiglia. Trovo, per esempio, una recensione a Maria Assunta Oddi, mia allieva negli anni del mio insegnamento aquilano: anzi, la mia migliore allieva d’Abruzzo!”. I temi trattati dalla poetessa in Come foglie d’autunno sono vari. C’è, per esempio, l’amore, del quale ne canta la magia e le motivazioni con reiterato trasporto: “E ti amo perché sei infinito/divenuto visibile./E ti amo perché sei come la stagione morta...” “E ti amo perché sei punto dell’universo...” “E ti amo per le tue parole/armonioso fiato di uccelli in volo” “E ti amo perché il celeste del tuo sguardo...”; c’è il tempo “Solenne e spietato” che “ci tiene” “sul filo del rasoio/come la cavezza/sui buoi da sgozzare”; c’è la


POMEZIA-NOTIZIE luce: “Lontano è il chiasso/dei falciatori che altrove/trascina i carri di fieno/al fruscio del vento/e delle verdognole bisce” e c’è “Infinita (...) la tenebra/implacabile degli attimi/in fuga nel più segreto/sito dell’effimero”. C’è la natura, le stagioni, i ricordi e non manca il sociale, che troviamo in quelle donne di colore, nel terremoto, ne “i bambini che non ridono mai”, ne “la pila dei corpi ammassati/tra dune di sabbia”, ne “I fiori di Beslam”. C’è la precarietà della vita che, come ci scrive la stessa Autrice, “pone nell’effimero il senso della bellezza dell’esistente e la possibilità di cogliere per un attimo la fugace felicità o di riflettere sull’infelicità dei fratelli”. Una silloge da leggere e meditare, che ha ottenuto il Premio Speciale al Città di Leivi 2016, quale autore meritevole di pubblicazione. (D. Defelice) ** TITO CAUCHI - Leonardo Selvaggi Panoramica sulle opere - Editrice Totem, 2016 - Pagg. 316, e. f. c.. Tito CAUCHI, nato l’ 11 agosto 1944 a Gela, vive a Lavinio, frazione del Comune di Anzio (Roma). Ha svolto varie attività professionali ed è stato docente presso l’ITIS di Nettuno. Tante le sue pubblicazioni. Poesia: “Prime emozioni (1993), “Conchiglia di mare” (2001), “Amante di sabbia” (2003), “Isola di cielo” (2005), “Il Calendario del poeta” (2005), “Francesco mio figlio” (2008), “Arcobaleno” (2009), “Crepuscolo” (2011), “Veranima” (2012), Palcoscenico” (2015). Saggi critici: “Giudizi critici su Antonio Angelone” (2010), “Mario Landolfi saggio su Antonio Angelone” (2010), “Michele Frenna nella Sicilianità dei mosaici” (monografia a cura di Gabriella Frenna, 2014), “Profili critici” (2015), “Salvatore Porcu Vita, Opere, Polemiche” (2015), “Ettore Molosso tra sogno e realtà. Analisi e commento delle opere pubblicate” (2016), “Carmine Manzi Una vita per la cultura” (2016). Ha inoltre curato la pubblicazione di alcune opere di altri autori; ha partecipato a presentazioni di libri e a letture di poesie, al chiuso e all’aperto. E’ incluso in alcune antologie poetiche, in antologie critiche, in volumi di “Storia della letteratura” (2008, 2009, 2010, 2012), nel “Dizionario biobibliografico degli autori siciliani” (2010 e 2013), in “World Poetry Yearbook 2014” (di Zhang Zhi & Lai Tingjie) ed in altri ancora; collabora con molte riviste e ha all’attivo alcune centinaia di recensioni. Ha ottenuto svariati giudizi positivi, in Italia e all’estero ed è stato insignito del titolo IWA (International Writers and Artists Association) nel 2010 e nel 2013. E’ presidente del Premio Nazionale di Poesia Edita Leandro Polverini, giungo alla quinta edizione (2015). Ha avuto diverse traduzioni all’ estero.

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Per mancanza di spazio, rimandiamo al prossimo numero altro materiale, tra cui la rubrica “Tra le riviste” AI COLLABORATORI Si invitano i collaboratori ad inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione), composti con sistemi DOS o Windows, su CD, o meglio, attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è necessario un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (con copia cartacea) Annuo... € 50.00 Sostenitore....€ 80.00 Benemerito....€ 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia....€ 5,00 ABBONAMENTO solo on line: http://issuu.com/domenicoww/docs/) Annuo... € 35 Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 N076 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio


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