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Ricordo di
GIORGIO BÁRBERI SQUAROTTI Un grande intellettuale e un gran signore di Marina Caracciolo EL Palazzo delle Facoltà Umanistiche, all’Università di Torino, le sue lezioni si tenevano sempre nell’Aula Magna, o di Lettere o di Magistero; troppa era l’affluenza degli studenti per poterli radunare in una delle aule del pian terreno oppure su, al piano, nell’Istituto di Letteratura Italiana. Noi eravamo tutti assiepati, gli uni vicini agli altri, fino alle ultime file. Ognuno con penna e quaderno di appunti. Il silenzio era assoluto. Non soltanto per la presenza magnetica di Bárberi, ma anche perché la sua voce era sempre flebile, quasi un sussurro, come se non fosse di fronte a poco meno di un centinaio di persone, ma in un salotto, fra pochi amici con cui discorrere di letteratura.
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All’interno: Importanza dell’incipit, di Emerico Giachery, pag. 4 La giornata di Elena Cattaneo, di Giuseppe Leone, pag. 6 Giuseppe Cassinelli, di Ilia Pedrina, pag. 8 Giuseppe Leone fra silenzio e voce, di Claudia Trimarchi, pag. 13 Leo Perutz, di Marina Caracciolo, pag. 18 Tra Aldo Capasso e Giulio Caprin Lionello Fiumi, di Ilia Pedrina, pag. 22 L’ultimo Sud e l’emigrazione, di Leonardo Selvaggi, pag. 26 Domenico Defelice e la mittica 500, di Ilia Pedrina, pag. 30 I Bronzi di Riace, di Antonio Visconte, pag. 32 Premio Città di Pomezia 2017 (regolamento), pag. 34 I Poeti e la Natura (Giorgio Bárberi Squarotti), di Luigi De Rosa, pag. 35 Libri ricevuti, pag. 50 Tra le riviste, pag. 51 Notizie, pag. 52
RECENSIONI di/per: Elio Andriuoli (Voci al tramonto, di Maria Gargotta, pag. 37); Tito Cauchi (Fioretti di S. Francesco, di Maria Antonietta Mòsele, pag. 37); Roberta Colazingari (Fioretti di S. Francesco, di Maria Antonietta Mòsele, pag. 38); Roberta Colazingari (Leonardo Selvaggi, di Tito Cauchi, pag. 39); Salvatore D’Ambrosio (Antologia del Premio Histonium 2016, di AA. VV., pag. 39); Giuseppe Giorgioli (Ortogonali I, di Eugenia Berti Lindblad, pag. 40); Giuseppe Leone (Quando lavorare è bello, di Giovanna Rotondo, pag. 40); Pasquale Montalto (La donna che Dio non volle, di Alfredo Bruni, pag. 42); Liliana Porro Andriuoli (L’Arlecchino volante, di Roberto Torre, pag. 43); Anna Vincitorio (Nel regno della talpa, di Eraldo Garello, pag. 45).
Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Loretta Bonucci, Lorella Borgiani, Fiorenza Castaldi, Luigi De Rosa, Salvatore D’Ambrosio, Enrico Ferrighi, Antonia Izzi Rufo, Adriana Mondo, Rosalia Sanfilippo, Leonardo Selvaggi
Le sue lezioni erano un avvenimento, e non di rado strappavano l’applauso accademico. La sua più grande capacità era forse quella di sondare un argomento – storico, letterario o estetico – con straordinario acume e con una prospettiva sempre assolutamente originale. Anche agli esami, la fila di noi allievi era interminabile, ad ogni appello. Ma il professore faceva di solito pochissime domande. La sua grande esperienza di docente gli permetteva di capire già dalle prime parole le qualità e la preparazione del candidato. Bárberi era nato a Torino nel 1929. A settembre di quest’anno avrebbe compiuto 88 anni. Si laureò con Giovanni Getto nel 1952,
con una tesi sulle opere letterarie di Giordano Bruno. Dal 1967, per più di trentacinque anni, ha insegnato Letteratura e Storia della Letteratura Italiana moderna e contemporanea nell’Ateneo torinese. Con lui scompare una figura di primissimo piano nella cultura italiana ed europea, una personalità di grande statura per ingegno, scienza e sensibilità. Fra i più eminenti critici del Novecento, con una sessantina di saggi ha attraversato tutta la letteratura italiana, dal Medioevo all’Età contemporanea, come se fosse un secolare giardino di piante rare, di cui mostrare le caratteristiche e le bellezze evidenti ma anche quelle più nascoste.
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A cominciare dal primo saggio, Astrazione e realtà (1960) fino al più recente, Le verità della letteratura (2014) il grande italianista ha indagato durante tutta la sua vita di studioso le opere di Dante (fondamentali i suoi studi sulla Commedia), Boccaccio, Petrarca, Ariosto, Machiavelli, Tasso, Leopardi, Alfieri, Manzoni, Verga, D’Annunzio, Pascoli. Il Novecento, in particolare, ha attratto non poco la sua attenzione: Pirandello, Pavese, Montale, Levi, Pasolini; nonché Saba, Sbarbaro, Campana e molti altri ancora, spaziando dalla poesia alla narrativa al teatro. Membro di fondazioni e istituzioni prestigiose, Bárberi è stato anche, dopo la morte di Salvatore Battaglia, il direttore scientifico del Grande Dizionario della Lingua Italiana UTET, in 21 volumi. Accanto all’indagine critica egli ha pure coltivato, con un piacere pari al valore, la scrittura poetica: da La voce roca, pubblicato da Scheiwiller nel 1960, e La declamazione onesta, edito da Rizzoli nel 1965, si sono susseguiti negli anni una ventina di volumi di poesia, fino al più recente: Le finte allegorie (2016). La Genesi Editrice di Torino avrà prossimamente l’onore e insieme il merito di pubblicare tutta la sua opera in versi. Bárberi era un gran signore: pieno di garbo come un gentiluomo d’altri tempi, rispondeva sempre, anche con poche righe, a chiunque gli scrivesse inviandogli sue poesie: ammirava i versi più riusciti, talora correggeva o dava suggerimenti, ma in qualche caso – per amor di sincerità – non evitava la stroncatura. Io ho molti ricordi personali che mi legano al professor Bárberi Squarotti: era lui il presidente, quando mi laureai in Lettere, con una tesi su Johannes Brahms. E fu ancora lui ad avallare la pubblicazione del mio primo libro (Gianni Rescigno: dall’essere all’infinito, Genesi Ed., 2001) e poi a presentarlo al Centro Pannunzio di Torino. Per i suoi ottant’anni (2009) gli regalai un libro di poesie d’amore. Mi rispose che non potevo fargli dono più indovinato, poiché aveva sempre amato la donna, l’amore, la vita. Le sue lettere, che conservo gelosamente, terminavano sempre con
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la frase: «Spero in qualche futura occasione di incontro». Qualche giorno prima di Natale dello scorso anno gli avevo telefonato per gli auguri: nonostante i problemi di salute dovuti all’età, mi sembrava sereno, persino ilare. Apprezzava molto il mio nuovo libro appena uscito (Oltre i respiri del tempo, Bastogi, Roma 2016), espressamente dedicato a lui e al valore del suo alto insegnamento. Il libro contiene una disamina di tutta l’opera poetica di Ines Betta Montanelli, scrittrice di La Spezia di cui era amico e di cui ammirava profondamente i versi, come aveva dimostrato più volte, in numerose e fondamentali pagine di commento. Mancherà moltissimo a tutti: alla sua famiglia, agli amici, ai colleghi, agli allievi. Certe persone sono davvero insostituibili e indimenticabili. Al suo funerale, ai piedi del feretro, ho voluto deporre graziosamente tre gerbere: una rosa, una gialla e una bianca. Per alludere, con gentile metafora, alla grandezza dello studioso, del poeta, dell’uomo. Marina Caracciolo
VOLA O MIO PENSIERO Vola o mio pensiero, vola sulle alte montagne e tocca il cielo. Vola o mio pensiero vola in altri paesi del mondo, prima che giunga la notte, prima che giunga il buio, il sonno, e non perderti: fai parte di me, fai parte della mia anima. Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, MI
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IMPORTANZA DELL’INCIPIT IN NARRATIVA E IN POESIA di Emerico Giachery
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EL mio lungo cammino di interprete di testi mi è capitato di riflettere sulle caratteristiche di ciò che è ‘primo’ in varie sfumature del termine. Importanza strutturale, ma anche molto più che strutturale, dell’inizio, dell’incipit, dell’esordio. Nella dantesca Vita Nuova, che ho studiato a lungo, la funzione del primo incontro assume un rilievo che probabilmente non trova l’eguale nell’intera letteratura occidentale. Da esso e con esso ha inizio la narrazione stessa. Prima di esso, nel libro della memoria, «poco si potrebbe leggere»: poco d’ importante in ogni caso. C’è di più. Questo primo incontro apre «il primo libro della nostra letteratura», secondo Domenico De Robertis: «libro nuovo, e doppiamente nuovo per ciò che propone e per come lo propone», primo esempio di narrativa, di fronte al quale «ogni altro del Duecento scompare»; e ad un tempo rappresenta il primo atto riconosciuto come significativo del destino di un poeta. Nella ‘vita d’un uomo’ (per usare il significativo titolo impresso da Ungaretti al corpus dei propri scritti), ossia nell’opera-vita che Dante va costruendo tappa dopo tappa, col gesto di scelta iniziale fa il punto sulla propria giovinezza e sul senso di essa nell’insieme dell’esistenza. L’inizio come fatto strutturale si tematizza come ‘motivo dell’inizio’. Incipit vita nova è probabilmente, come sostiene De Robertis, una tipica
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formula di intitolazione di un libro medievale che «non ha, almeno originariamente, valore temporale, ma significa che l’operetta si chiama Vita Nuova». Tuttavia non si può certo escludere che, in una suggestiva polisemia, rechi anche l’entusiastico annuncio di un rinnovamento interiore, oppure (e magari allo stesso tempo) indichi la prima stagione della vita. Il titolo, si può dire, entra a far parte del testo, e lo anima ponendosi esso stesso come nucleo tematico. Su questo interessante problema dell’ inizio esiste un libro di Bruno Traversetti e Stefano Andreani, “Incipit”. Le tecniche dell’ esordio nel romanzo europeo,Nuova ERI, Torino 1988, che definisce l’incipit come «il luogo in cui la materia propria del narrare viene implicitamente ordinata a un artificio costruttivo, o fusa ad un sistema di prescienza che ne assecondi l’efficace lettura, […] come un luogo, sì, organico e specifico dell’opera, ma funzionale, e, in qualche modo subalterno ad essa: capace di svolgere compiti finalizzati alla sua comprensione su diversi piani». Interessante anche notare, con gli autori appena ricordati, che ogni inizio, «quali che siano le sue modalità e i suoi limiti, è sempre un atto di natura creante, ‘religiosa’, e in esso si annida pur sempre un valore simbolico: ancora oggi le encicliche papali affidano a un breve incipit di sole due o tre parole il duplice compito di rubricare il documento e di definirne l’orizzonte tematico». Accogliamo anche, prima di lasciare questo libro, l’ invito a tener conto della differenza fra incipit narrativo e incipit poetico, almeno per quanto riguarda i testi brevi e privi di ‘trama’ della poesia lirica, la quale «promuove una lettura che tende ad essere appercettiva, nella quale tutti gli elementi che convergono a formare il ‘significato’ contenutistico, emozionale ed estetico si compongono pressoché simultaneamente in un atto fruitivo unico e indivisibile». Si può rilevare che «sebbene rilevantissimo sotto il profilo estetico, e sebbene carico di senso, l’incipit della poesia ha tuttavia caratteristiche proprie (e consistenze quantitative proprie, tali da poterne affidare le maggiori energie a tratti semantici esigui come una
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parola o persino una frazione di parola, un suono iniziale o un’iniziale scelta sintattica) che richiedono strumenti d’analisi specifici e che, soprattutto, lo definiscono come fibra, pur privilegiata, dell’indivisibile moto appercettivo». In un testo di poesia, tuttavia implicitamente narrativo, come il lungo poemetto Italy di Giovanni Pascoli – di «genere nuovo, tra l’eroico e il familiare» e di un «eroico di casa e di focolare» di cui parla in una lettera lo stesso poeta, a proposito però del Ciocco - mi è comunque accaduto di constatare che la terzina iniziale è una specie di nucleo quasi iconico del senso dell’intero testo: «A Caprona, una sera di febbraio, / gente veniva, ed era su per l’erta, / veniva su da Cincinnati, Ohio». La terzina iniziale è una microstruttura che si apre con Caprona (non il villaggio in terra pisana di cui parla Dante, ma una località ‘ai Caproni’ così denominata dalla famiglia dello Zi Meo che l’abitava, e ribattezzata dallo stesso poeta per il ricordo dantesco) e si conclude con Cincinnati nell’Ohio, da cui provengono gli emigranti barghigiani rimpatriati. Un nome tutto nostrano e familiare apre la terzina e il poemetto, i nomi stranieri di una città lontana lo concludono, nomi di fuorivia enunciati con anonima secchezza amministrativa, da indirizzo postale o da scheda segnaletica. L’intero poemetto, anche nel contesto linguistico anglo-barghigiano, è giocato su questo rapporto tra il casalingo e l’ alieno, che anche è dissonanza interiore e crisi di appartenenza dell’ ‘Italia raminga’, secondo la efficace definizione del poeta, ossia degli emigranti, personaggi del poemetto. La prima, ardita rima, puramente fonica tra ‘febbraio’ e ‘Ohio’, sottolinea la dissonanza dei linguaggi. La seconda opera sull’incipit, che recepisce e attua una scherzosa proposta di Paul Valéry e va fruita piluccando qua e là ad apertura di libro, è stata messa insieme da Giacomo Papi e Federica Presutto e pubblicata da Baldini&Castoldi nel 1993. Si intitola Era una notte buia e tempestosa..., e raccoglie, come recita il sottotitolo, «1430 modi per iniziare un romanzo», spigolando in tutta
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la letteratura mondiale. Tra i 1430 sceglierò un solo esempio, nostrano e davvero magistrale: l’ incipit del romanzo dannunziano Le vergini delle rocce. Eccolo: «Io vidi con questi occhi mortali in breve tempo schiudersi e splendere e poi sfiorire e l’una dopo l’altra perire tre anime senza pari: le più belle e le più ardenti e le più misere che siano mai apparse nell’estrema discendenza di una razza imperiosa». Nell’introduzione alla ghiotta raccolta, or ora citata, di inizi narrativi, Umberto Eco cita argutamente esempi musicali: «È certo che la Quinta di Beethoven inizia bene, e ti dice subito che sta avvenendo qualcosa di importante, mentre l’Incompiuta di Schubert inizia in sordina, e se hai un giradischi o un mangianastri che funzionano male, non ti accorgi neppure che è incominciata, e potresti essere tentato di lasciare la stanza prima di capire a che cosa ti trovi davanti». Ma se penso alla musica non posso dimenticare il geniale inizio della cosmogonica tetralogia wagneriana L’ Anello del Nibelungo: il preludio dell’Oro del Reno (coll’immenso pedale della tonica in mi bemolle), in cui l’inizio dell’opera e della tetralogia coincide col primordio (tema dell’ elemento primordiale, poi tema del divenire, poi fluire dell’elemento liquido col tema delle onde). Non meno geniale e cosmico, possiamo aggiungere per completezza, il finale della tetralogia col chiudersi del terzo atto del Crepuscolo degli Dei che fa riaffiorare il trasognato e nobile motivo del Walhalla dal quale sorge la redenzione d’amore; amore, sottolinea Guido Manacorda nel suo prezioso commento, «vittorioso sulla fine stessa del mondo». Emerico Giachery AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 23/3/2017 Si è gridato allo scandalo per la foto del senatore Razzi con Assad. Alleluia! Alleluia! Lo scandalo non è il senatore Razzi, ma che l’Italia abbia simili senatori. Domenico Defelice
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LA GIORNATA DI UNA SCIENZIATA SENATRICE A VITA: ELENA CATTANEO di Giuseppe Leone
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CCO un libro che mancava. È Ogni giorno. Tra scienza e politica, un saggio uscito recentemente nelle Edizioni Mondadori, a cura di Elena Cattaneo, biologa famosa in tutto il mondo per i suoi studi sulla còrea di Huntington (una malattia neurologica causata da un gene mutato), nominata senatrice a vita nel 2013. Mancava, dopo che nel ’92, Papa Woityla, cancellando definitivamente la storica condanna a Galilei inflittagli dal Sant’Uffizio, riportava scienza e politica su di un piano di serena e civile collaborazione, come pare viverla, ora, questa giovane scienziata, dopo che il Capo dello Stato Giorgio Napolitano, conferendole il prestigioso incarico, ha messo nella condizione di poter intervenire e contribuire ai lavori del Senato della Repubblica (9). Si tratta di un testo (scritto in collabora-
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zione con José De Falco e Andrea Grignolio), nel quale la studiosa ripercorre i suoi primi anni in Senato, non prima, però, d’aver ricordato i momenti di incredulità che precedettero l’incontro con il Presidente della Repubblica: dai tanti strani pensieri, tra cui anche: “cosa posso avere fatto di male”, dopo la telefonata giunta in serata in laboratorio in cui veniva informata che il presidente voleva incontrarla, allo smarrimento totale nel giorno dell’ incontro quando si sentì dire da Napolitano che tra i nuovi senatori a vita voleva una scienziata “ancora attiva, dentro e fuori il laboratorio” (8-9). Sono tanti i temi che la studiosa affronta in queste 210 pagine, frutto di rigore scientifico e appassionata perorazione letteraria: da quelli più specifici che riguardano le discussioni in Senato relative “alle procedure di controllo” (48), alla necessità di un “presidio nell’ aula” (56); dagli Ogm (gli organismi geneticamente modificabili) e relativo modo di studiarli per capirne la solidità (72) affinché “la ricerca pubblica non venga impedita dall’ ignoranza (98), al rapporto scienza e politica dagli anni del regno e quelli più recenti dell’ odierna repubblica; dai finanziamenti pubblici (132), alla recente riforma costituzionale, in particolare la riforma del Senato bocciata con referendum popolare il 4 dicembre scorso (155); all’appello, infine, ai colleghi scienziati, giovani e meno giovani (197). Il tutto attraverso uno stile solo apparentemente letterale, ma che non disdegna il ricorso alla metafora, come quella del deserto, dietro cui la studiosa espone le sue concezioni intorno alla scienza che non deve avere confini di ricerca, perché anch’essa come il deserto è un “luogo immenso e apparentemente silenzioso, in continua mutazione nel suo ingannevole immobilismo, un po’ come la conoscenza, la democrazia, dove, per accedervi, lo scienziato dev(e) solo costruire una strada per arrivare là. Anche se (la sua) destinazione è sempre un po’ più in là. … Non trover(à) barriere nell’entrare. Potr(à) seguire le tracce di coloro che sono già passati. Eppure quando (è) dentro (capirà) anche che questo è lo spa-
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zio della libertà, e non ne potr(à) più fare a meno. (23). Ma qualunque sia il suo livello d’ interpretazione, letterale o allegorico, in primo piano, questa volta, è il dibattito scientifico che torna a farsi sentire in Senato, sebbene ancora un po’ acerbo, come la Cattaneo stessa sottolinea, a causa dell’impreparazione che si percepisce ancora nell’aula, soprattutto quando la discussione riguarda gli Ogm, sui quali rimangono ancora molto forti i timori: che possano nuocere alla salute; alterare a vario titolo l’ecosistema vegetale e animale e favorire monopoli economici (70). Paure che, secondo la scienziata, hanno immobilizzato l’ attività politica parlamentare dagli anni ’90 in poi, col risultato di alimentare la contraddizione, di “vietare la coltivazione di cose che importiamo, mangiare ciò che non studiamo e consegnarci alle multinazionali non producendo innovazione” (102). Di qui l’insistenza sul valore della “scienza come antidoto allo scollamento della politica” e di conseguenza l’esortazione ad affidarsi al suo metodo, per il quale lei continuerà a battersi … perché fatti, trasparenza e condivisione, con il loro profondo e indiscutibile senso civico, entrino nelle scelte politiche e nelle decisioni sull’uso delle risorse dei cittadini… fino a quando qualcuno non (le) dimostrerà, dati e prove alla mano, che esiste uno strumento migliore (201). È tanto il suo amore verso la scienza fino ad augurarsi che tutto ruoti attorno al suo metodo, in “un rapporto onesto con la società, alla quale non si può mentire mai (o così dovrebbe essere.)”, perché “l’impegno a non falsificare la realtà dei fatti è quanto di più condiviso ci possa essere da qualsiasi etica sociale” (127). E, a sostegno di quanto la scienza abbia garantito e garantisca tutt’ora la democrazia, la scienziata cita, per il passato, Max Weber, il sociologo che ha trattato sulla responsabilità e l’etica cui sono chiamati gli scienziati nel loro rapporto con la società; nonché Jefferson e Franklin, che scrissero la Costituzione degli Stati Uniti usando metafore riprese dalle scienze meccaniche, “prima fra tutte la ben nota espressione checks and balances ovvero
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controlli e contrappesi, che svela un’idea di società dove i meccanismi politico- istituzionali sono democratici in quanto reciprocamente equilibrati” (127-128); e, per il presente, Didier Schmitt, capo dell’ufficio per la consulenza scientifica del Regno Unito, che, nel 2012, attraverso un suo articolo, ha invocato la creazione di “un ponte che unisca il divario tra scienza e politica” (146). Non si è detto ancora che il filo rosso che attraversa il libro è la meraviglia che la scrittrice sente nascere dentro di sé, non solo nella scienziata o nella senatrice, ma anche nella donna, soprattutto dopo aver provato “quanto inaspettata possa essere talvolta la vita”, se “da un bancone di laboratorio si (può) essere chiamati a un compito altrettanto immenso ed entusiasmante, pur se completamente diverso nelle forme (e) concorrere in prima persona alla determinazione del benessere dei (suoi) concittadini” (183). A ben vedere, allora, alla luce di quanto si apprende leggendo questo bel saggio, non mancava solo un libro, mancava anche una scienziata e una senatrice come Elena Cattaneo, che ora c’è. Certo, ancora poca favilla in un Parlamento così ampio e così spazioso, ma se il Poeta, dando seguito al verso, rassicura che gran fiamma seconda, allora, il nostro animo può disporsi alla speranza. Giuseppe Leone Elena Cattaneo - Ogni giorno. Tra scienza e politica. - Mondadori, Milano 2016. € 19.50. Pp. 210.
ROSA BIANCA NEL SOLE DI FEBBRAIO Rosa bianca sul ciglio del fossato : solitudine splendida sospesa sul futuro e sul passato. Quanto al nostro presente è un funambolo che èsita sopra una corda tesa Luigi De Rosa Rapallo
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GIUSEPPE CASSINELLI, OTTIMA FIRMA DEL REALISMO LIRICO di Ilia Pedrina
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A Dolcedo, nel maggio 1968, Giuseppe Cassinelli, poeta, scrittore, critico letterario, scrive a mano una de-
dica: 'a Francesco Pedrina con amicizia ed ammirazione per il Suo coraggio letterario Giuseppe Cassinelli'. Si tratta del 'PROMETEO - Poemetto' Nota introduttiva di Gian Maria Mazzini, Editoriale Kursaal, finito di stampare a Firenze nel gennaio del 1958, pubblicazione che si colloca all'interno di 'Smeraldi', Collana di poeti odierni diretta dallo stesso G. M. Mazzini. In copertina un disegno di De Chirico, nel risvolto alcune notizie biografiche, perché il Cassinelli è nato a Dolcedo, in Liguria nel 1928: apprendo che, con Cesare Vivaldi, rappresenta all'epoca la voce più significativa della lirica dialettale ligure e che 'Critico attento e vivace, unisce alla solida preparazione storica un sottile intuito istintivo'. Con la grafia di Papà, in biro rossa a fine libretto
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'Dolcedo (Imperia)', nessun'altra annotazione o traccia. Ma assai importanti sono le sue lettere al Cassinelli, ch'egli mi ha devotamente fotocopiate ed inviate, un plico arricchito dal suo saggio critico su Elena Bono 'Non la pace ma la spada', copia unica che andrò a breve a restituirgli, altrettanto devotamente. Dall'importante intervista a cura di Liliana Porro Andriuoli, 'Un grande del Novecento Giuseppe Cassinelli' pubblicata con foto in prima pagina nel gennaio 2012 su Pomezia Notizie, questa miniera infinita di preziosi filoni per la ricerca artistica, etica, politica, letteraria, musicale, egli non cita mai questo piccolo libro, ma si addentra con tratti decisi e ben vagliati sulla grande poetessa di Chiavari, che il Pedrina ha tenuto a battesimo come 'La Leopardina'. Per ragioni di spazio, rimando l'analisi in dettaglio di questa Intervista al mio prossimo studio sul testo critico del Cassinelli per la scrittura poetica e narrativa di Elena Bono, perché ora mi soffermo su questo 'Prometeo', poemetto intensissimo, autentico canto della creatività e dell'autonomia, perché ci offre una schietta italianità lirica sciolta e significativa, mettendo in secondo piano ogni confronto con altri Autori alla prova sullo stesso tema intorno a questo personaggio ardito, Prometeo appunto. Il 'Prometeo' di Giuseppe Cassinelli si compone di quattro scene: nella prima i protagonisti sono il Potere, Vulcano, Prometeo; nella seconda incontriamo Vulcano e Prometeo; nella terza Prometeo e Pandora; nella quarta l'Uomo e Prometeo. Si, Prometeo rappresenta la solidità atavica dell'essere roccia nella roccia, con aliti di vita eterna dentro, umanissima e questo originale connotato innovativo lo incontro subito, fin dai primi versi di questo dettato poetico senza tempo. Cito. 'POTERE Ecco la bianca roccia, solitario nido di venti: ad essa inchioderai, o Vulcano, il ribelle, e intorno a lui sarà freddo silenzio e nuda notte per sempre.
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VULCANO Farò celermente ogni cosa: un potere senza ragione è un torrente senz'argini, stolto sarebbe sperare d'opporgli un fumo inconsistente di parole. POTERE Bada, o fabbro, che già troppo hai parlato...' (G. Cassinelli, Prometeo-Poemetto, op. cit. pag. 11). Sono undici versi, una prospettiva in canto dilatata nello spazio e nel tempo per inserire tra i due protagonisti i tratti di un tutto dal quale ricavare forza viva per andare oltre, nel contrasto, nella contraddizione, nell'altercar parole tra una divinità eterna, Vulcano, e un indistinto maiuscolo, il Potere, senza volto e senza nome, generico sostantivo che si sostanzia con una motivazione determinata, vuota essa stessa di senso. Si è venuta a creare un'aspettativa fortissima intorno al ribelle ancora innominato: questo vuole il poeta e lo si avverte subito: quella 'bianca roccia, solitario/nido di venti' verrà via via resa luogo e quasi urna sacrale di nuova gestazione. Ciò che il Potere vuole è domare, dominare il respiro perché un ribelle senza respiro è infatti un ribelle morto e non fa paura di certo e, passo successivo, porvi intorno 'freddo silenzio/e nuda notte/per sempre.' Ma non sono questi i connotati della morte? Il Potere vuole Prometeo vivo con il respiro domato, ma vivo con intorno la morte della comunicazione, quella morte che è freddo silenzio, quella morte dell'essere con gli Altri che rende senza senso il silenzio e la notte stessa, ormai nuda, svuotata del suo buio a far da sfondo alle stelle. La risposta di Vulcano, l'artefice delle solide catene con le quali avvinghiare in un unico tutto Prometeo alla roccia, ha un forte doppio binario interpretativo incandescente: da umile dio servitore egli si prende la libertà totale di disegnare il Potere con una similitudine forte, sferzante, calibratissima: '… un potere senza ragione è un torrente senz'argini...'. Qui il Cassinelli si rivela qual è, poeta carico di intuizioni d'esperienza, in pieno volto libero e senza maschere: un potere, qualunque esso sia, deve aver connotati di ragione
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non solo aver ragione, ma proprio avere la ragione come elemento distintivo del proprio progettare e dell'operare e la ragione è il principio che regola ed articola ogni gesto, dando ad esso senso e direzione costruttiva. La similitudine allora entra vivida e collegata con chi sa mai quante immagini dal vero di torrenti in piena, le cui acque si dilatano rovinosamente in ogni dove, in quelle terre di Liguria così strette tra le rocce ed il mare che il Cassinelli non intende lasciar fuori dalla sua ispirazione, anzi par che ne faccia punto di riferimento, qui quasi cenno di sfuggita, similitudine appunto, ma in realtà pilastro fondante del suo stesso dire in poesia ed in critica. Ecco dunque il doppio binario interpretativo incandescente: Prometeo non ha ancora voce in scena, ma il poeta sa come trarre ispirazione per indossarne il volto e le intenzioni, a caldo ed a calco, assumendone responsabilità piena. La propria esperienza di vita e di conoscenza, d'arte, di percorsi, di scelte poetiche e la propria terra, fatta di rocce e di mare, di sabbie e di alture, di agave e di ulivi: è Prometeo la voce del Poeta, prima ancora che il Poeta gli metta voce in bocca! Le ultime parole di Vulcano qui citate sono un ulteriore rinforzo perché i connotati del Potere siano ben tratteggiati, con sicurezza etica ben lontana dalla vuota protervia dei blateranti: opporre al potere 'un fumo inconsistente di parole'? Stolto sarebbe sperarlo, ci dice il Cassinelli, perché le parole, per la nostra tradizione, non sono come pietre, non hanno il peso specifico del pensiero che ci lavora a lungo ancora ed ancora, prima di formularle: 'verba volant' ci dice la tradizione, d' altro canto sola è la ragione a far si che le parole non siano 'fumo inconsistente'. Ma bisogna far ragionare il potere o far si che il potere sia potere di ragione? E il potere, che nella bocca del dio fabbro del ferro nel fuoco, del dio artefice di perenni legami di forza, è scritto minuscolo, rappresenta davvero il personaggio poche righe avanti scritto maiuscolo? O non è forse il vero, il reale connotato di Prometeo, di quel ribelle che ha ancora da entrare in scena? Il Potere ne prova paura e si difende, perché chi ha paura sempre attacca
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per primo, o lascia il campo, scappando altrove, lontano: 'Bada, o fabbro, che già troppo hai parlato'. Nei versi subito successivi, messi in bocca a Vulcano, cinque in tutto, tesi a preparare l'incontro con Prometeo, il dio che sa plasmare il fuoco nel ferro - perché è la forma del ferro ad avere il fuoco dentro, ed è proprio il poeta a farci operare questa modificazione metamorfica - si apre a pronunciar parole forti quanto pietre pesanti scagliate con intelligenza verso un ben preciso obiettivo: 'VULCANO Solo quanto mi basta a dir la pena che dentro mi si acerba nel dover punire questo dio, certo il più puro fiore d'Olimpo, il solo che d'amore guardò benigno i mortali...' (op. cit. pag. 12). Tra mito, storia letteraria e contemporaneità, il Cassinelli sceglie la propria autonomia in canto, di certo arricchita d'ogni sorta di ricerca e di avventura incide allora il suo sigillo in un complemento che completa in tutto il profilo dell'Eroe, pochi istanti prima della sua apparizione in scena: Prometeo è 'certo il più puro/fiore dell'Olimpo' ma è anche, in modo indiscusso, imperativo interiormente accettato - perché chi sceglie di cantare in versi il Prometeo, sceglie la propria libertà nel canto- 'il solo che d'amore/guardò benigno i mortali'. Prometeo non ha dato amore ai mortali, complemento di termine, questo; non li ha guardati con amore, utilizzando cioè l'amore come mezzo, strumento, modo della relazione; Prometeo è il solo che ha avuto sguardo d'amore, il solo che ha avuto occhi con già l'amore dentro, il solo che ha scelto i mortali, benignamente, come Altro da sé ai quali far pervenire la propria capacità d'amare, affinché questo gesto produca liberazione e porti alla condizione dell'essere liberi e liberi proprio con lo sguardo d'amore che Prometeo vuole loro donare. Come si fa ad imparare a guardare con l'amore dentro lo sguardo stesso? Non è questa la condizione di chi è carico d'Amore fin dall'inizio? Prometeo è introdotto in scena dal poeta con un'avvertenza semplice, decisa, necessa-
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ria, tra parentesi: '(come sognando al ricordo)', snodando così gli elementi di un'umanità senza coscienza e senza nome, un'animalità entro i limiti del puro naturale determinismo: 'PROMETEO … simili agli animali che, la sera, cercano le sorgenti fresche del sonno e sembrano le fioche ombre che inquiete pascolano l'Ade.' (op. cit. pag. 12). Il Potere quasi lo blocca intervenendo senza lasciargli designare altri dettagli di quella condizione. Cito: 'POTERE Pensi troppo, Prometeo, ed invano. E tu sbrigati, fabbro dell'Inferno! Ferragli i piedi, ribattigli il ferro sette volte... Ecco, così va bene... ed ora chiudi le sacrileghe mani che hanno osato rubare il fuoco e farne dono all'uomo, a quest'oscuro figlio della notte... PROMETEO Alla sua notte diedi un nuovo sole. Gli diedi di fermare per segni il fiume del pensiero e il mutevole cuore, di guardar senza tema il geometrico giuoco delle stelle e il gonfiare dei mari e il ritirarsi, tiepido gusto delle aeree case gli diedi, e la ragione, ben più caldo sole: con essa ora sereno guarda … con essa un giorno precipiterà, come spero, anche Giove giù dalla reggia superba dei venti e, libero signore dell'azzurro, mite guarderà il cielo. POTERE Nuda speranza. Un potere più forte lo incalza, il timore degli dei. PROMETEO Ma non per lungo tempo: quando un segno egli abbia dato al corso di ogni stella, e rese le correnti, ai fiumi, come
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miti cavalli, quando non più per lui dai monti, cupo di mistero, il tuono rotolerà, né il mare la sua voce solleverà profondo; allora - giorno di luce - egli, non Giove, sarà il vero signore della terra. POTERE O fanciullo vestito di sogni. La morte, forte più d'ogni ragione, hanno a schermo gli dei, e sempre, quando arriva, l'uomo non sa capire cosa sia questo lento trascolorare, questo venire come inerte pietra docile ad ogni mano. Così si fa sospeso nel cuore il vecchio che ode a primavera nuove canzoni, si fa sospesa la giovane madre che, un poco contenta, negli anni dei giovani figli si specchia e, un poco pensosa, declina. E la morte è terrore d'ogni mortale. PROMETEO È il suo dolce ristoro poiché quando... POTERE Basta. Troppe parole già mi hai fatto spendere, o uomo-dio....' (op. cit. Scena I, pp. 12-14). Il Potere mostra le sue prime incrinature alla compattezza quasi impenetrabile della sua struttura, ma purtroppo il Potere è al servizio di Giove, suo Signore, così Prometeo ha il coraggio di proferirglielo in faccia, cacciandolo e definendolo così 'araldo della paura', orgoglioso di non aver rimpianti 'd'essersi fatto simile ai mortali': così si conclude la Scena I, materiale poetico carico di tensione, di profonde trame e ganci con la storia del Mito, di originalissime elaborazioni che portano il dettato a nuovi più consistenti approdi. Nella Scena II Prometeo ha per interlocutore Vulcano, nella Scena III Pandora: in questi due eventi che si snodano in versi par quasi che egli debba difendersi dalle loro intenzioni: per Vulcano quella di far sì ch'egli chieda la grazia a Giove ed il permesso di rendergli scusa per quanto ha fatto; per Pandora quella
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di accettare che gli esseri umani conoscano l' amore e basta, che è già molto. Qui il Poeta mette in bocca a Prometeo il canto della vita nel suo scorrere al mutare delle stagioni, ciascuna con le sue proprie luci ed ombre, mai simile alle altre da indurre noia, quasi quell'abile susseguirsi di note che forma 'Le quattro Stagioni' del veneziano Antonio Vivaldi: il profilo intenso della vita viene tratteggiato in questi versi ed assume i toni alti quasi di un'orazione di grazia. Tutte queste parole, non certo vuote, provocano dure reazioni in lei che, dea bellissima, già molti mali ha regalato all'inconsapevole uomo: 'PROMETEO … Così sempre nuovissima la frana dei giorni scorre, come talvolta nel tenero sereno giuoca un fiato di nuvole che vano sarebbe se non fosse vario, ma variando, è cosa che ci fa fanciulli nell'ammirarlo. PANDORA La fredda dea attende queste cose dell'uomo, e chissà dove le porta, chissà come le spegne. Anche a noi immortali non è dato saperlo; solo questo sappiamo: come a sera il suono dolcissimo del flauto oscilla breve e poi si scioglie nel nulla tale è la sorte d'ogni cosa d'uomo: occhio, voce, ricordo, e il cuore troppo di dolcezze inquieto si dileguano e non ne resta eco. Questo dunque per te, per me vorresti, non esser più, questo vuoto del vuoto? PROMETEO Non esser più, non esser più dormire e non sognare, non è questa la morte: la morte è il vostro eterno immobile guardare, avere frutti e non sentire fame, acque e non sentir sete. Chiara ricordo la notte
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che mi cercò pietà dell'uomo, e grande era la mia tristezza: sul freddo giglio s'inchinava l'ombra delle montagne, pensosa, e il fatale silenzio. E gli dei che dormivano remoti! Solo Prometeo, tra uomini e dei, ascoltava la notte...' (op. cit. Scena III, pp. 22-23). Pandora gli avrebbe recato libertà nell'eternità, portandola a lui nel cavo a coppa delle mani, quasi alba di luce nuova alla quale non resistere, ma Prometeo non cede e consente alla tristezza di un nuovo, originale 'orto degli ulivi', di farsi libera fonte del rispecchiamento, quella forza originaria che l'ascolto, anche interiore, prima e oltre lo sguardo, provoca sempre, perché la notte non resti nuda, perché il silenzio non resti vuoto. Nella Scena IV si compie la cruda, reale verità di quella evocazione dell'Uomo con cui Prometeo stesso aveva concluso il suo dire nella Scena III: l'Uomo si tende tutto nell'intendere la chiamata e vorrebbe rinnegarne la sua forza magnetica, ma l'unica via d'uscita è quella di andarsene. L'Uomo ha rinnegato chi lo ha tolto dall'indolente scorrere del tempo senza consapevolezza e Prometeo così rimane solo: 'PROMETEO (rimasto solo) Se n'è andato anche lui, maledicendomi. Or questa pietra ed io siamo una sola cosa tristissima in mezzo ad un deserto... … almeno tu scendimi in cuore, o sonno, poi che non conosce il dolce bacio del nulla un dio. Ecco al tuo bacio, mansueti piegano il capo i fanciulli, e l'ansia delle vergini si placa … cola il nudo sopore della luna, come un immenso mare dove sembra placata rifluire, dal confuso travaglio delle vite brevi, la vita che non sa morire.' (op. cit. Scena IV, pag. 27).
che innova profondamente, nei contenuti e nello stile, quanto di questo eroe della libertà e della creatività è stato reso in canto e scritto nel corso dei secoli. Ne sono stata affascinata e fiera. Ilia Pedrina
In questo lirismo nudo, carico di forza, realissimo, si snoda questo singolare Poemetto
Caserta
‘A VERA ROSA Che dice? Ca’ ‘a vera rosa tene ‘e spine? Che c’ azzicche tu mo’ che spine? Chelle sienteme rusella mia, so’ ate rose: nun sanno ch’è ‘o profumo quanno c’ miette ‘o naso arint e t’ cunsuole. Vuò sapè pecchè ? Pecchè so’rose crisciute senza ‘o calore ‘e serra ‘e chistu core mio.
LA VERA ROSA Che dici? Che la vera rosa ha le spine? Cosa hai a che fare tu con le spine? Quelle ascoltami piccola rosa mia, sono altre rose: non conoscono cosa è il profumo quando le annusi e ti consoli. Vuoi sapere perché? Perché sono rose cresciute senza il calore di serra di questo cuore mio. Salvatore D’Ambrosio
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Tra anelito d’infinito e impellente necessità culturale.
GIUSEPPE LEONE FRA SILENZIO E VOCE di Claudia Trimarchi
E
SPORRE una valida esegesi al volume di Giuseppe Leone non è impresa semplice, sostanzialmente per due ragioni: la prima, di carattere generale ma certamente non trascurabile, risiede nella difficoltà insita nell’eseguire un lavoro di critica su un altro lavoro di critica; se, infatti, nel recensire un’opera ‘prima’ - per così dire - dell’ ingegno il lavoro del critico si snoda su un doppio binario, vale a dire che egli ha due anime di cui tener conto (quella dell’autore e la propria), nella ‘critica della critica’ egli deve fare i conti con tre ‘mondi’. Se si considera poi che opera creativa è in un certo senso anche l’opera esegetica, la situazione si complica ulteriormente. Per meglio circoscrivere i confini del mio ‘terzo’ ruolo e focalizzare i punti cardine dell’analisi che mi accingo a svolgere, urge allora la necessità di documentarmi circa la metodologia di una buona critica e penso di avvalermi dell’insegnamento di un grande maestro dall’indiscutibile coerenza e caratura etica, Francesco De Sanctis, del quale quest’anno peraltro si celebra il bicentenario dalla nascita. Mi imbatto così in un testo che finisce per rivelarmi come il metodo coincida con il senso e la natura della critica stessa, “la più natural cosa di questo mondo”;
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ne riporto un passo: “Il libro del poeta è l’ universo; il libro del critico è la poesia: è un lavoro sopra un altro lavoro. E come la poesia non è una semplice interpretazione, né una spiegazione filosofica dell’universo; così il critico non deve né semplicemente esporre la poesia, né solo filosofarvi sopra. Non questo, e non quello: cosa dunque? La più natural cosa di questo mondo: quel medesimo che fa il lettore. E cosa fa il lettore? Aprire il libro e leggere. E quando l’immagine comincia a mettersi in moto, quando vedete drizzarvi avanti tre o quattro creature poetiche, e la camera si trasforma in un giardino, in una grotta, e che so io, l’incantesimo è riuscito; voi siete ammaliati; voi vedete quello stesso mondo che brilla innanzi al poeta. E notate: ciò che voi vedete non è solo quello che è espresso nel libro, ma tante altre cose, parte legate con la visione, parte accidentali, mutabili, secondo lo stato d’animo nel quale vi trovate. Nel lettore dunque sono due fatti: l’ impressione che gli viene dal libro e la contemplazione ingenua, irriflessa del mondo poetico. Mettete tutto questo su carta, e ne nascerà una descrizione del mondo immaginato dal poeta, mescolata d’impressioni, di osservazioni, di sentimenti, dove si mostrerà ancora la personalità del lettore.” [F. De Sanctis, Saggi critici, vol. II, Bari, Laterza, 1957, pp. 84 sgg]. Opera dell’ingegno dunque, inteso come l’insieme delle capacità intellettive, intuitive ed empatiche - attinenti comunque alla più ampia sfera della creatività -, è anche l’opera del critico. Nel caso particolare del saggio di cui qui si tratta, la facoltà poietica dell’autore è particolarmente spiccata e si esprime in primis già nell’idea di un accostamento - di cui è pioniere, non esistendo un precedente parallelismo in proposito (si vedano pp. 117-118) - di due geni della storia letteraria e teatrale italiana, che “sopra coturni altissimi, quali sono la Torre Campanaria di Recanati e la Torre degli Asinelli di Bologna, (…) hanno diffuso l’armonia della loro arte poetica, che canta e non descrive”: Giacomo Leopardi e Carmelo Bene. Ma ancora più brillante - e qui colgo “la poesia nel libro del critico” a cui si riferiva il De Sanctis - mi
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pare la felice intuizione di individuare metaforicamente “nel simbolico della torre un tratto d’unione fra due eccezionali personalità a prima vista così lontane e diverse”. Due figure a dir poco imponenti, due personalità oltremodo complesse, che vengono dal critico presentate attraverso uno studio comparato che si propone di rintracciare le coordinate degli assunti ideologici e dell’ agire artistico che portarono entrambi ad operare, nelle rispettive opere, un continuo superamento - ma più pertinente sarebbe parlare di ‘oltrepassamento’ - della parola poetica o della messa in scena, intese non come un punto di arrivo ma piuttosto come un arco che si apre verso “Altro dal dire”, verso un infinito altrove. Ed è questa la seconda ragione della difficoltà da me riscontrata: l’argomento; l’ altezza e l’estensione filosofica ed esistenziale della materia in esame. Mi viene incontro fortunatamente il periodare fluente di Giuseppe Leone nell’argomentare in maniera lineare ed ordinata intorno a concetti di non facile o quantomeno subitanea assimilazione. Non resta allora che “aprire il libro e leggere”, o meglio, pormi in ascolto come suggerisce l’autore sin dalla premessa. Seguo dunque l’invito ad ascoltare e, a lettura ultimata, mi accorgo che due parole risuonano con vigore nella mia mente: 1) l’ aggettivo “sospesi” del sottotitolo; 2) la valenza imperativa del verbo “dovere” in chiusa della citazione in esergo al saggio. Due parole, a ben vedere, che potrebbero racchiudere nei rispettivi campi semantici le due linee principali intorno alle quali il critico ha articolato la sua esposizione: la lotta del sonoro della voce - o phonè (per Carmelo Bene) - contro il visivo e il muto della scrittura (‘sospesi’) e l’ operare di entrambi nell’ambito di un’ impellente necessità spirituale, ma anche sociale e culturale, piuttosto che del libero arbitrio (‘Io devo’). 1) Il suono per sua natura è sospeso, si diffonde attraverso l’elemento aereo, e “l’ infinità in cui s’annega il pensiero del poeta - scrive Paolo Marzocchi commentando L’infinito leopardiano - è un’infinità sonora” (p. 11); ed è lo stesso Leopardi nel suo Zibaldone a chia-
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rire che “in riguardo all’idea dell’infinito, l’ importanza del suono e del canto, di tutto ciò che spetta all’udito, era pari agli effetti della luce o degli oggetti visibili, perché piacevole per se stesso, e non per altro motivo, se non per un’idea vaga e indeterminata che desta un canto udito da lungi o che paia lontano senza esserlo, o che si vada a poco a poco allontanando; un canto udito in modo che non si veda il luogo da cui parte.” (p. 14); anche la voce di Carmelo Bene “parla nella lontananza delle cose esteriori, nella quiete raccolta di chi, esautorato l’umano, si concede all’ascolto” non del “suono particolare, gravato dalle contingenze della sua finitudine (…) ma [di] una sonorità immateriale, una musica in cui, come da una profondità immemorabile, ferve l’essenza del mondo.” (p. 33). Un senso di vago ed indeterminato dunque, di non finito, trasmette appunto l’ aggettivo ‘sospeso’, che tra i suoi sinonimi contempla anche ‘sollevato’, innalzato da terra; da luogo alto in effetti, “d’in su la vetta”, si spande il canto libero di Leopardi e di Bene; libero in quanto sempre espressione di un sentire autentico e mai asservito al potere politico o istituzionale, ma libero anche perché capace di esprimersi nella sua essenza primigenia senza “incespicare nei codici della lingua, dove la fluidità è asservita all’ articolazione, l’infinitezza del suono al compito di designare.” (p. 34): Leopardi “usò i segni scritti come partitura per una voce, ormai interiore, rivolta al solo pubblico capace ancora di emozionarsi e abbandonarsi all’incanto e al piacere musicale; (…) Così nacque (…) la stagione dei nuovi idilli (…) questa volta chiamati Canti” (p. 22); eccolo, allora, il canto “che canta e non descrive”; è la Voce che diviene essa stessa personaggio nel teatro di Carmelo Bene, dove “il suono non è un’altra cosa dal senso” (p. 32). Il termine ‘sospeso’ o ‘sollevato’ inoltre, evoca anche l’immagine-sensazione di vuoto attorno; un vuoto che Bene auspica e volutamente produce nelle sue performance: l’ artista leccese non esclude i momenti di dissacrazione, dissoluzione, negatività, dispersione, destrutturazione, ma li include nel para-
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dosso scenico della ‘non-rappresentazione’ che, anziché colmare il vuoto, lo dilata a dismisura - nella convinzione che questo sia l’ unico modo per educare lo spettatore ad ascoltare “parole orali (cioè la voce), solamente come suono, destituite da ogni significato logico o storico che sia.” (p. 30). La sua Voce sorge quindi dal nulla, dal silenzio che segue il crollo delle categorie linguistiche, dei valori assoluti e delle certezze inconfutabili: “il vuoto invocato da Bene è il difficile bilico in cui un soggetto cavo, senza altra dote che la propria nescienza, s’immerge nella melodia delle cose, cogliendo il punto segreto dove il visibile trascorre in udibile.” (p. 33). In conclusione, contestualmente appropriata mi sembra la scelta dell’aggettivo “sospesi” per le molteplici valenze di significato che il vocabolo assume, non ultimo il fatto che il canto dell’anima mundi sia percepibile soltanto attraverso la ‘sospensione’ delle sovrastrutture del pensiero, cioè la “detronizzazione della ragione dal ruolo di principio primo e costitutivo di tutte le cose” (p. 8), esperienza che Bene chiama “depensamento” e Leopardi “negazione del reale” (ovvero l’infinito): Leopardi indicava proprio nel pensiero “l’ ostacolo maggiore al raggiungimento della perfetta felicità, che si trova oltre e fuori il sapere, dove è possibile dire l’ineffabile. (…) Qui, egli individuava il non luogo, proprio come il teatro per il genio leccese, dove la voce del poeta si perde, perché non può più dire parole. Vi rimane il ricordo, la sua eco (Narciso), che Leopardi anticipa e fissa nel momento in cui il suo pensiero annega nel mare dell’infinito (il suon di lei).” (p. 34). 2) L’esperienza de ‘l’infinito’ dunque non può non prescindere dalla fase del depensamento, che a sua volta non può non coinvolgere la persona nella sua interezza, scuoterne le radici, minarne le certezze, sviscerarne il profondo; non può, insomma, sussistere scissione o sfasatura alcuna tra arte e vita per coloro che - e mi riferisco qui in particolar modo a Carmelo Bene -, portando alle estreme conseguenze l’atto del depensamento, arrivarono a destrutturare perfino se stessi, al punto tale che l’artista salentino affermò di essere
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stato “prescelto da una Voce per manifestarsi e per questo pro-sciolto da ogni materia, se non quella alata del suono, per sua natura alatere di qualsiasi corpo”. (p. 117). Da questa concezione traspare come Bene non solo abbia investito la Voce (l’Arte) di una sua autonomia espressiva ponendola ben al di sopra del volere umano, ma concepisca se stesso unicamente come mero tramite attraverso cui il genio - che “non è di nessuno, ma dell’arte che l’ha creato” - si manifesta; il suo Io dunque, reso estraneo, non ha nessun merito, tantomeno potere decisionale, libertà di scelta. Ed ecco quindi la preferenza - ovviamente non casuale - di Giuseppe Leone di porre in esergo al testo un passo molto significativo tratto da La Gaia Scienza di Nietzsche, introducendo da subito il lettore in una dimensione ontologicamente e moralmente impegnata della letteratura e dell’arte: nell’imperativo “Io devo” (in chiusa di citazione) è racchiuso quel senso di ‘necessità’ - il doversi sbarazzare dei pensieri - ma anche, se vogliamo, di ‘responsabilità’, che è insieme condanna e salvezza per coloro che non mirarono all’art pour l’art ma conferirono alla propria opera un profondo valore etico e vollero intenderla anche sotto il profilo di una missione culturale, filantropica e umanitaria: “al poeta [Leopardi], per una visione intensamente drammatica, il mondo contemporaneo si presentava come la patria da salvare con la propria azione intellettuale. (…) non di meno, Carmelo Bene ha operato con l’imperativo categorico di distruggere il teatro occidentale, per salvarlo così dalla decadenza. (…) Una vita contro tutti e contro tutto, contro tutto ciò che si ergesse a potere, il potere che il teatro e la poesia rappresentano e il potere dello stesso teatro e della stessa poesia con i loro riti e le loro regole”. (pp. 107-108). Leopardi e Bene - sottolinea il critico - furono “accomunati (…) dalla rara consapevolezza che entrambi ebbero della propria opera” (p. 60) e del proprio ruolo ben oltre il loro tempo presente: “un genio - rivelava Bene in un’intervista - deve sempre avere coscienza, coscienza pura. Non di essere superiore ad altri, ma di superare se stesso” (p. 47).
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D’altro canto però non si può negare che è proprio superando se stessi che entrambi divennero più ‘alti’, andando ben oltre le ristrette concezioni etiche e filosofiche dei rispettivi tempi in cui vissero; là dove la critica - spesso ostile - ravvisava ‘contraddizioni’, giunsero entrambi ad identificare quelle ‘variazioni’ naturali, insite nel ciclo evolutivo dell’uomo: “Io non posso né debbo soffrire di passare per convertito, (…) - scriveva il poeta recanatese in una lettera al padre del 28 maggio 1832 - Io non sono stato mai né irreligioso né rivoluzionario di fatto né di massime” (p. 73);“Leopardi non avrebbe mai analizzato il proprio mondo interiore attraverso un metodo dialettico, (…), molto più conveniente gli era ‘cantare’ e sentire la vita attraverso le variazioni (…). Da qui, quel suo rifiuto di definirsi un convertito” (p. 78), ma anche Bene, che dalla critica “fu costretto” a svolgere il ruolo dell’artista maledetto - riflette Giuseppe Leone - è portato a ‘cantare’, per variar d’affetti e di pensieri, man mano che questi urgono alla sua ispirazione”. La profonda e libera coscienza che questi due titani ebbero di se stessi consentì loro di non sentirsi per nulla in contraddizione anche rispetto al delicato tema religioso - così Leopardi poteva serenamente affermare, senza timore di venir frainteso, che “Tutto è o può essere contento di se stesso, eccetto l’uomo, il che mostra che la sua esistenza non si limita a questo mondo, come quella dell’altre cose” oppure che “la filosofia indipendente dalla religione, in sostanza non è altro che la dottrina della scelleragine ragionata; e dico questo non parlando cristianamente, e come l’hanno detto tutti gli apologisti della religione, ma moralmente.” (p. 70) - operando anche qui in un certo senso un ‘oltrepassamento’, nella misura in cui seppero conciliare il tutto in una sintesi armoniosa e coerente: l’esperienza infantile di un’imposta e quanto mai ortodossa religiosità non fu affatto negata o respinta ma al contrario accolta come parte integrante del proprio vissuto - “il primo che apprezzò la propria infanzia fu Leopardi. Conservò questi scritti [gli inni sacri] nell’elenco delle sue opere, segno che li teneva parte viva della
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sua storia.” (p. 74) - e riconosciuta come determinante per il successivo sviluppo del pensiero artistico; Bene, ad esempio, nella scioccante scoperta dell’“inconsistenza strutturale ed estetica” di quelle “effigi mariane adorate, che la sua curiosità infantile volle profanare (…) [cfr. p. 66], rintraccia non soltanto l’ origine della propria concezione della donna la mortificazione e la “visitazione ossessiva dei corpi femminili” -, ma individua consapevolmente come questa esperienza, che lo portò ancora bambino “alla disillusa considerazione e al rifiuto della vanità di qualsiasi culto d’immagine”, abbia fatto nascere in lui quel “desiderio dell’irrappresentabile” (p. 83) che ha plasmato e informato della propria sostanza la sua idea di non-rappresentazione: il “rituale” come “vilipendio alla religiosità (…), Il culto come oltraggio al dio assente mi avrebbe poi destinato a quella ‘rivoluzione’ teatrale ‘copernicana’, alla sospensione del tragico, al rifiuto d’esser nella storia, in qualunque storia, anche e soprattutto in scena…” (p. 68). Concludendo, mi sembra che le molteplici e interessanti analogie riscontrate da Giuseppe Leone tra i due grandi pensatori oggetto della sua attenzione non siano solo il frutto di un intenso lavoro di ricerca e di studio - per il quale si è avvalso di un apparato critico notevole -, ma siano soprattutto il risultato di un atteggiamento simpatetico, di una vivida facoltà intuitiva, dell’aver concesso alle nozioni assimilate il giusto tempo di sedimentazione nella propria mente e dell’essersi concesso lui per primo il piacere di penetrare il pensiero di Leopardi e Bene attraverso l’ascolto della loro voce, fornendo così al suo pensiero quella vitalità sostanziale che traspare dalla lettura delle sue pagine; se da una parte appare evidente l’intento di voler offrire al lettore una diagnosi comparativo esegetica che metta in luce anzitutto come “Giacomo Leopardi e Carmelo Bene, intrattenendosi con la Grecia presocratica, abbiano fatto bene alla cultura italiana liberandola dalla tradizione occidentale che la volle succube del testo scritto” (p. 114), dall’altra, con questo bel saggio, Giuseppe Leone ci svela come i due precursori
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“di una nuova genia di ‘poeti’”(p. 8) debbano essere ‘ascoltati’ per essere colti nella loro grandezza e unicità, se si vuole della loro arte - per dirla con le parole di Piergiorgio Giacché, che si riferiscono in particolare all’opera di Bene ma che ben si adatterebbero anche all’opera leopardiana - “toccarne la vita invece del senso, oppure (…) gustarne il senso invece del segno.” (p. 118). “Fra silenzio e voce” vuol significare, nello specifico, la battaglia condotta contro il silenzio della scrittura a vantaggio del suono dell’ oralità; ma potrebbe altresì fare riferimento al silenzio a cui le rispettive famiglie d’origine e la critica contemporanea e postuma tentarono di ridurre il pensiero di due giganti della letteratura e del teatro, i quali invece, contro tutto e tutti, e per l’intero corso delle loro esistenze, fecero risuonare alta e possente la loro voce. Claudia Trimarchi
IL PENSIERO DI TE Ai suoni di richiamo amoroso delle tortore al mattino si apre la casa alle persone, la luce dentro sopra gli oggetti. Fluisce il movimento mio, quello quotidiano lungo che riprende, snello e nell’ampiezza anche sulle ruvide parti scorre. Il pensiero di te è linfa che alimenta, irrora le discontinuità fattesi tessuto unico: dove è smembrato una cucitura veloce, le mani sono meccaniche e subitanee. Il calore amalgama, aereo il pensiero pieno viene da passaggi intellettivi e da dove io risento le profondità del mio essere. Corro dietro e ordino, ritornando ancora sono in mezzo. Metto dentro le voci e la presenza mia; la persona si scompone, le interiora svuotate, l’epidermide si è distesa al rimpastato per raddolcimento attorno. Io sono in continuo scorrere nella casa. Il tempo corre, vuoi farti trasportare, quando sei fermo è vorace, in tempestosa corsa ti consuma.
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Sono una macchina che fa tanti giri, gli arti di metallo si allungano e si piegano, sono bracci che si spostano e si sollevano. L’umana sensibilità è interiore, attorno ad essa fili d’oro e seta fine. Le cose comuni, da niente si ha voglia di baciarle, incredibile ad averle. Le piante assetate per un po’ di acqua che hanno si ridestano, è come aver messo nelle radici il sangue. Leonardo Selvaggi Torino
SE SAPESSI SUONARE E CANTARE Se sapessi suonare suonerei tra gli scogli nel mare furente con ronfi e strilli e rimbombi e squilli una danza primitiva d’amore ed angoscia demente come preghiera. Se sapessi cantare non canterei con la gioia incosciente della roccia spaccata pullulante in sordina ma griderei forte forte forte come l’uragano sulla boscaglia sulla rossa boscaglia dell’amore e della morte o come il vento che pazzo s’infila nella interminabile galleria. Luigi De Rosa Rapallo “ Se fra tutte le poesie di Luigi De Rosa – che ha scritto molto, e ha avuto importanti riconoscimenti – dovessi sceglierne solo due, assolutamente “ tutte belle” o, per meglio dire, con aggettivi critici più moderni, particolarmente significative o vitali, la mia preferenza andrebbe a “Rosa bianca nel sole di febbraio” e a “Se sapessi suonare e cantare”. Sono ambedue (come dire?) immerse in se stesse, essenziali, e prive di spiegazioni più o meno “didattiche”, di limitazioni al contributo – ce lo ricorda Valéry – con cui l’intelligenza del cuore del lettore pretende di interagire “ Maria Luisa Spaziani (Poetessa – già Docente all’Università di Messina - Roma 2005)
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La riscoperta di un autore dimenticato:
LEO PERUTZ di Marina Caracciolo AN Fleming, l’inventore del personaggio di James Bond, lo definì un genio. Con parole analoghe si espresse anche Theodor Wiesengrund Adorno nella sua Ästhetische Theorie (1970), parlando del suo romanzo Il Maestro del Giudizio universale. Max Brod, intimo amico di Kafka, giudicava di altissimo livello artistico la sua narrativa. Jorge Luis Borges, uno dei suoi più grandi ammiratori, lo fece conoscere ai lettori dell’America Latina. Ciò nonostante Leo Perutz (18821957) è stato l’unico fra i grandi romanzieri di origine ebraica vissuti fra Praga e Vienna a cavallo tra il XIX e il XX secolo (Roth, Kafka, Werfel, Zweig) ad essere quasi del tutto dimenticato dopo la sua morte. Il suo devoto amico Alexander Lernet-Holenia fece pubblicare postumo, nel 1959, il suo ultimo romanzo rimasto inedito: Il Giuda di Leonardo. Poi, sul romanziere praghese cala il silenzio. Prova ne sia il fatto che Ladislao Mittner, per esempio, nella sua fondamentale Storia della letteratura tedesca completata negli anni Sessanta, non ne fa il minimo cenno. Così pure nell’importante opera di Claudio Magris, Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna, uscito presso Einaudi nel 1963, sol-
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tanto sei anni dopo la scomparsa dello scrittore, non c’è ombra del suo nome. In Italia è scarsissima la bibliografia concernente le sue opere, e in Germania non arriva alla dozzina di titoli. Verso la fine degli anni Ottanta, però, si cominciò a notare una rivalutazione critica e un certo risveglio di interesse. Intanto, a partire dal 1987, l’Editore Adelphi iniziò a pubblicare, a distanza di qualche anno l’uno dall’altro, i suoi romanzi più importanti: Il marchese di Bolibar, Il cavaliere svedese, Tempo di spettri,1 Turlupin, Dalle nove alle nove e Il Maestro del Giudizio universale. Nel 2001 Fazi Editore pubblica anche il suo romanzo postumo, Il Giuda di Leonardo. La narrativa di Perutz aveva avuto un eccezionale successo di pubblico negli anni VentiTrenta, prima che lo scrittore, in seguito all’annessione nazista dell’Austria, fosse costretto ad abbandonare Vienna insieme con la sua famiglia, rifugiandosi per qualche tempo in Italia – prima a Venezia, poi a Forte dei Marmi – e successivamente in Palestina. La critica, tuttavia, salvo alcune eccezioni, l’aveva sempre ignorato; e lo scrittore, del resto, più che soddisfatto dell’entusiastico consenso dei lettori, aveva continuato a mostrare un atteggiamento alquanto sprezzante e altezzoso nei suoi confronti. Le storie che egli narra spaziano fra generi letterari diversi: lo storico, il fantastico, l’horror, il thriller. Questa disparità di registri, talora anche intrecciati in una stessa narrazione, probabilmente instillava nei critici il dubbio di un astuto intento «commerciale», vòlto a conquistare le più varie e più ampie fasce di pubblico. Ma non è detto che per creare pregevoli opere letterarie occorra necessariamente andar contro gli interessi di chi poi le venderà. Perutz fu comunque molto apprezzato da intellettuali, scrittori e pubblicisti del suo tempo come Alfred Polgar, Hermann Broch, Egon Erwin Kisch, Kurt Tucholsky, Carl von Ossietzky. Da questo coro di ammiratori si distaccavano però Robert Musil e Bertolt Brecht. A proposito della sua narrativa, Musil parlò di «poesia giornalistica», volendo forse intendere che i suoi libri si possono ritenere
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«romanzi d’appendice» e, dunque, letteratura d’intrattenimento. Brecht, dal canto suo, affermò che i suoi sono «romanzi da leggere per lunghi viaggi in treno»: frase assai ambigua, in bilico fra il plauso e il dispregio. C’è, senza dubbio, in Perutz il gusto dell’ effetto, la ricerca della suspense, il desiderio di attrarre magneticamente l’attenzione, costringendo il lettore a procedere pagina dopo pagina senza fermarsi. E ciò tuttavia non compromette in minima parte il valore inventivo e stilistico delle sue opere, per cui esse non sono relegabili in una Gebrauchsliteratur, in un genere di narrativa da best-seller. Leo Perutz era matematico di professione (fra l’altro, in gioventù, a Vienna, aveva lavorato in una compagnia assicurativa dove era impiegato anche Kafka). Si occupava in particolare di matematica attuariale. Ancor oggi, in campo statistico, è nota la formula di equivalenza di Perutz, che, da lui elaborata, prese appunto il suo nome. La perfezione, la razionale esattezza del ragionamento matematico, paiono più volte rispecchiarsi nella struttura architettonica dei suoi romanzi: in un disegno preordinato, preciso, spesso di bellissima simmetria, dove alla fine ogni tassello del mosaico narrativo è, o ritorna, al suo posto senza inceppi, senza scarti o sbavature. Il genere storico è quello prediletto dallo scrittore praghese: già il suo primo racconto, Der Tod des Mess Lorenzo Bardi («La morte di Messer Lorenzo Bardi») pubblicato nel 1907, quando egli era un giovane venticinquenne, è ambientato nell’Italia del Rinascimento. E così nella Milano della fine del Quattrocento sarà situato il suo ultimo romanzo, il postumo Il Giuda di Leonardo. Forse più ancora del celebre Il Maestro del Giudizio universale (1923) – che, come abbiamo detto, suscitò l’ammirazione di Adorno e l’entusiasmo di Borges, il quale in Argentina lo fece pubblicare nella prestigiosa collana «El séptimo Círculo» – è piuttosto Il cavaliere svedese (Der schwedische Reiter, 1936) a concentrare in sé tutte le migliori doti dello scrittore di Praga. Iniziato nel 1928 ma uscito a Vienna, presso l’Editore Paul Zsolnay, otto anni dopo, quando Perutz, ormai ul-
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tra cinquantenne, era al culmine delle sue capacità inventive ed espressive, Il cavaliere svedese è l’ultimo romanzo pubblicato durante la sua vita, e anche quello che egli prediligeva e considerava, a ragione, la sua opera meglio riuscita. Nella cornice storica del primo decennio del Settecento, la vicenda si snoda nell’Europa del Nord, fra Slesia, Polonia e Pomerania, al tempo in cui il giovanissimo re Carlo XII di Svezia è costretto a fronteggiare la Danimarca, la Polonia, la Sassonia e la Russia di Pietro il Grande alleate contro di lui. Christian von Tornefeld, il «cavaliere svedese» del titolo, è in realtà una figura secondaria, che compare all’inizio e poi ritorna soltanto nelle ultime pagine. Il vero protagonista delle quattro parti in cui il romanzo si articola, è un povero ladro a cui l’autore non dà un nome proprio, e che pertanto viene di volta in volta chiamato «il brigante» o «il predatore di Dio», poi appunto «il cavaliere svedese» (poiché ne assume furtivamente l’identità) e infine «il senzanome». In gioventù un bracciante agricolo, il ladro è noto nel suo paese come «l’Acchiappagalli» e, al pari di tanti altri poveri diavoli, è braccato dal feroce barone di Lilgenau, detto «il barone del malefizio», capo dei dragoni che in quelle terre danno la caccia a tutti i furfanti. In questa fosca vicenda di miserie e di rischi mortali, di sventure e di tenere gioie domestiche, di pace e di guerra, di amore e di delitti, di equivoci e misteri, non c’è molto spazio per gli aspetti fantastici che si trovano invece in altri romanzi di Perutz: qui l’unico personaggio che (forse) proviene dal mondo soprannaturale è il vecchio mugnaio morto, che ogni anno, come la gente va dicendo, ritorna dall’oltretomba per far fumare il suo comignolo e far girare le pale del suo mulino. Egli cerca di convincere sia Christian von Tornefeld sia il ladro a lavorare nell’inferno delle ferriere del vescovo, il dispotico «ambasciatore del diavolo» per colpa del quale, a suo tempo, egli si è impiccato, non riuscendo più a pagare i debiti. Nel tratteggiare questa figura, l’autore pare essersi vagamente ispirato al personaggio del vecchio Torbern (lui pure
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uno spirito), che compare nel racconto intitolato Die Bergwerke zu Falun («Le miniere di Falun»)2 di E.T.A. Hoffmann.3 Perutz potrebbe aver conosciuto anche l’omonimo dramma teatrale che Hugo von Hofmannstahl ne trasse nel 1899. Oltre alla magnifica raffigurazione del paesaggio, che il lettore ha sempre l’impressione di trovarsi di fronte, come su un grande schermo cinematografico; oltre alla scultura a tutto tondo dei personaggi, anche di quelli minori, e pure al di là della splendida e inesauribile inventiva che anima il romanzo dalla prima all’ultima pagina, la capacità più stupefacente dell’autore è forse quella di farci innamorare del suo protagonista: questo misero e infelice ladro di campagna che si pone a capo di una banda di briganti e insieme a loro ruba gli ori e gli argenti di tutte le chiese dei villaggi che attraversa; un uomo che, seppure a malincuore, non evita l’assassinio, se lo ritiene una legittima difesa; che diviene amante della rossa Lies, ma poi non esita a lasciarla su due piedi, perché innamorato della bella, dolce e delicata Maria Agneta, la giovane nobildonna che un giorno, avendo pietà di lui, l’aveva salvato dalla forca: per lei il brigante si trasforma in un gentiluomo, in quel cavaliere svedese che lei crede essere Christian von Tornefeld, e sebbene la inganni sulla propria identità, la salva dall’indigenza, ne fa una moglie ricca e onorata, madre di una deliziosa bambina, e l’ama con passione sincera per nove lunghi anni. Ma un giorno tutto si capovolge: l’avversa sorte che lo perseguita gli chiede alfine di pagare il conto della sua felicità. E allora il lettore, ormai conquistato da questa affascinante figura, dimentico dei suoi difetti e di tutte le sue colpe, è preso da una profonda commozione per la rovina che, dopo tanta letizia raggiunta a durissimo prezzo, si abbatte su di lui e lo trascina in un abisso di eterne tenebre. Un altro capolavoro dello scrittore praghese, uscito a gennaio 2017 per le Edizioni e/o di Roma, dal titolo Di notte sotto il ponte di pietra (Nachts unter der steinernen Brücke) non è un romanzo, sebbene così sia indicato, ma una serie di 14 racconti che l’autore iniziò
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a scrivere nel 1927 e portò a termine soltanto all’inizio degli anni Cinquanta. In essi prende corpo il mito della magia di Praga, e vi si rivela ampiamente – come scrive nella postfazione Marino Freschi – «il legame di Perutz con la sua patria, o meglio con le radici ebraiche e boeme della sua memoria, rievocate in un romanzo che si può dire “storico” se per “storia” si intende quell’evento epocale che lascia un segno indelebile nelle vicende delle comunità umane».4 Tutti collocati tra la fine del Cinquecento e il primo decennio del secolo successivo, al tempo dell’imperatore Rodolfo II di Asburgo, che scelse Praga come sua residenza, i racconti non hanno un’unica trama che si snoda dall’uno all’altro in maniera consequenziale, né possiedono un riconoscibile filo conduttore. Sono invece i personaggi a ricomparire ripetutamente in storie di volta in volta diverse: come il sommo Rabbi Löw, autore di sortilegi e leggendario artefice del Golem; o il non meno celebre Mordechai Meisl, il ricco ebreo, sindaco e benefattore della città ebraica, le cui favolose ricchezze scompaiono misteriosamente subito dopo la sua morte; oppure l’astronomo Johannes Kepler, che, pur dedicandosi a seri studi scientifici, si piega suo malgrado a pubblicare almanacchi di oroscopi e pronostici; o ancora il ventenne Albrecht von Wallenstein, che sogna di conseguire una fulgida gloria sui campi di battaglia. E così pure ritornano, in due diversi racconti, i vecchi clown Koppel-Bär (Orso al guinzaglio) e Jäckele-Narr (Giacomino il matto), che divertono con la loro goffaggine e loro avventure, comiche e lacrimevoli ad un tempo. Ma sopra tutto è l’imperatore Rodolfo, innamorato della bella Esther, moglie di Mordechai Meisl, a ripresentarsi più volte come protagonista: un sovrano triste che non ama governare, appassionato collezionista di opere d’arte, sempre afflitto da incubi e da manie, e invariabilmente attorniato dal suo variopinto seguito di segretari, buffoni, alchimisti e ciarlatani. È insomma un girotondo di figure, storiche o fittizie, che si aggirano tra il Hradčany, il quartiere del Castello, Malá Strana, la piccola zona fra il Castello e il fiume, e il ghetto ebrai-
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co: sono questi stessi personaggi, con le loro voci e le loro vicende, le loro chiacchiere e i loro aneddoti, a ricreare, in un’atmosfera di raffinato humour ma anche, più volte, di sottile tormento, l’autentico Roman der alten Prag, il romanzo della vecchia Praga; a rendere percepibile il sortilegio, la vera e propria suggestione esercitata da questa città, che l’autore dovette abbandonare da adolescente, ma a cui restò sempre avvinto, e che continuò ad attrarlo per tutta la sua esistenza con un fascino misterioso di incredibile intensità. Marina Caracciolo NOTE 1 Il titolo originale, assai meno suggestivo, era Wo rollst du, Äpfelchen? («Dove rotoli, piccola mela?»). 2 Falun è una città mineraria della Svezia meridionale, nella prefettura di Kopparberg. Nei secoli XVI e XVII le sue miniere di rame erano le più produttive al mondo. 3 Il racconto è contenuto nella raccolta di romanzi e novelle di Hoffmann Die Serapionsbrüder («I confratelli di Serapione»; 4 volumi, 1819-21). 4 All’inseguimento di Praga. Postfazione (datata 18 luglio 1988) di Marino Freschi a: Leo Perutz, Di notte sotto il ponte di pietra (traduzione dal tedesco di Beatrice Talamo). Edizioni e/o, Roma, 2017 (19881); pp. 231-237.
PERCHÉ?
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DONNA È POESIA Donna distrutta nell'orgoglio troppe volte calpestata ed ingiustamente rapita della sua libertà donna che a te si affida non cercare tu uomo di eludere il suo sguardo in cerca d'amore. Pioggia si riversa su di lei e la pace reclama tra le sponde di un fiume che la trascina via dalle tue prepotenze. Non sconvolgere ora quel diritto che lei si attende quel rispetto che lei pretende donna… lasciala libera di vivere di sorridere di gioire della sua poesia. Lorella Borgiani
Il primo pensiero del mattino, l'ultimo della sera, anche di notte, nell'intermittenza del sonno, è ascoltare se l'estro è spuntato in me, se mi ha sfiorato l'intus e mi ha invitata al canto: in caso affermativo il sole brilla e m'avvolge nel suo splendore, altrimenti il buio mi ghermisce delle tenebre, mi spaura, di gioia mi priva e di speranza. Perché, Poesia, sì forte mi possiedi? Antonia Izzi Rufo Castelnuovo al Volturno, IS
Ardea
ASCOLTARE IL SILENZIO Ascoltare il silenzio nel percorso segreto del vento, nel sole che riscalda la terra, nell'azzurro cielo invaso di uccelli dorati, ed è gioia questo attimo infinito di silenzio che ci avvolge, nella mutazione del tempo, solamente il silenzio resterà chiuso nel respiro della sera. Adriana Mondo Reano, TO
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TRA ALDO CAPASSO E GIULIO CAPRIN LIONELLO FIUMI TESSE GLI ASPETTI A TRAMA DI UN 'PARNASO AMICO' di Ilia Pedrina
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IONELLO Fiumi ama lavorare con intelligenza e professionalità su più fronti: il suo percorso di vita testimonia iniziative e contatti nazionali ed internazionali che hanno lasciato un segno forte nella storia della letteratura italiana, europea ed extraeuropea. Basta scorrere la sua biografia, entrare nel mondo ricchissimo dei suoi lasciti d'archivio, tutti tutelati dal competente nume che risponde al nome del dott. Agostino Contò, fare scorribande con qualche sosta tra i suoi scritti in prosa ed in poesia, tra le sue lettere ad amici di penna come al grande palermitano Federico De Maria per poter avere in mano una misura consistente del suo talento, vero Autore che sa, con la scrittura e con i contatti diretti, insospettati e d'avventura, tessere lavori e capolavori che vincolano chi intraprenda lo studio letterario del Novecento. Come già ho
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segnalato in altre occasioni su questa Rivista Letteraria, ho passato giornate indimenticabili all'Archivio del Fondo Internazionale 'Lionello Fiumi' di Verona ed ora finalmente trova ottima stampa 'PROSE SCELTE', il secondo volume, la cui pubblicazione era stata annunciata fin dal 1994, quando, per volontà della vedova Signora Beatrice Fiumi Magnani e per la competente cura del prof. Gian Paolo Marchi, ha visto la luce il volume 'LIONELLO FIUMI - OPERE POETICHE' per i tipi delle Grafiche Fiorini di Verona, che reca in sopraccoperta un bel ritratto del giovane Lionello eseguito dall'amico Angelo Zamboni. A conclusione della sintetica presentazione, che va a motivare questa pubblicazione, si legge: Opere di Lionello Fiumi I. Opere Poetiche II. Prose III. Lettere In questo primo volume, di 1340 pagine, si attraversa cronologicamente tutto il percorso di vita e di poesia del Nostro Autore, perché le opere presentate vanno da POLLINE (1912-1913) a MUSSOLE (1914-1920), a TUTTO CUORE (1921-1923), a SOPRAVVIVENZE (1025-1930), a STAGIONE COLMA (1935-1942), a SUL CUORE, L'OMBRA (1942-1952), fino a 'Da GHIRLANDA PER MARTA' (1957) ed ancora E LA VITA SI OSTINA (1958-1961), ULTIME POESIE (1968-1971), concludendo con POESIE RITROVATE (pp. 579-603). Seguono importantissime testimonianze della sua modalità originale nel costruire PROSE LIRICHE: e si parte da OCCHI IN GIRO (Prose liriche 1914-1920), passando per UN'OLANDA FRA DUE ORARI E RITORNO VIA BRUGES (Edizione originale 1929), con IMMAGINI DI BRUGES-LAMORTE, poi IMMAGINI DELLE ANTILLE -IMAGES DES ANTILLES (edizione originale 1937), poesie vergate anche in francese dal Fiumi stesso, cariche di fascino, che ti accompagnano in doppia sonorità fino alla pagina 995. Poi in un'APPENDICE, ci viene presentato il Fiumi tradotto in francese dai notissimi amici P. De Nolhac, V. Larbaud,
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J. Supervielle, A. Pezard, con materiale epistolare inedito e, a conclusione, fino alla pagina 1044, un ottimo lavoro di G. B. Pighi su 'La versificazione di L. Fiumi', redatta a Verona nell'aprile del 1976. Circa altre trecento pagine sono dedicate alla BIBLIOGRAFIA, alle ricchissime NOTE, puntuali, preziose, circostanziate, oltre all' INDICE DEI NOMI E DEI CAPOVERSI, fino a pagina 1321. Un lavoro di passione e di approfondimenti inesauribili sui testi poetici del Fiumi, che il prof. Gian Paolo Marchi ha portato avanti per anni e che ora potrà essere consultato senza sosta, perché la sua ricerca ci lega al Fiumi e ci vincola in una metodologia di analisi e di controlli in parallelo per qualsivoglia nuova argomentazione di critica letteraria. Ecco allora 'PROSE SCELTE', dunque, il secondo prezioso volume recensito dal prof. Domenico Defelice nel numero di Aprile di questa Rivista. Il lascito di Lionello F iumi al Comune di Verona è veramente ingente e consta di preziosi beni mobili ed immobili di grande pregio, a Verona come a Roverchiara, il Comune al quale ha donato la sua Villa, ora Museo e Biblioteca Civica. Assai efficace ed artisticamente originalissimo il bronzo del busto del giovane Lionello, eseguito nel 1914 dall'amico Ruperto Banterle, per il quale il Fiumi traccia ricordi indimenticabili in 'LI HO VEDUTI COSÌ - Figure ed episodi nella Verona della mia adolescenza'(1952), prima grande sezione di queste Prose (pp. 1138). Seguono pagine d'esperienze e d'avventure per la sezione 'LI HO VEDUTI A PARIGI' - Verona, primavera 1960 -(pp. 139362), nelle quali il giovane Lionello dettaglia, con quella qualità diaristica carica d'immediatezza e di ganci percettivi assai originali che caratterizza il suo stile, gli incontri con i protagonisti più in vista del momento: Pierre de Nolhac, Paul Valery, Gabriel Faurè, Eugène Bestaux, che, innamorato dell'Italia, ha ben tradotto 20.000 pagine, e poi ancora Marinetti, De Pisis, protagonisti e paesaggi tratteggiati con la fine arte del fotografo che impressiona la carta bianca con le parole, incidendola senza ausilio di acidi di sorta, in modo tale che ci resti traccia mnestica e noi rimaniamo
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così senza scampo. Tante altre impressioni a caldo nella sezione successiva 'ANCÓRA DI PARIGI' (pp. 363-540), dove trovano spazio parole per una Parigi a Primavera, per 'Un Pantheon di foglie e fiori' - “Parigi donava ai poeti un pezzetto di Bois perché ne facessero ciò che non esiste, credo, in nessuna città del mondo: il 'Giardino dei Poeti', il quale esiste, per contro, da quel giorno, a Parigi e continuamente s'arricchisce. L'idea era venuta a quel vulcano d'iniziative ch'è il corsonizzardo Pascal Bonetti, il magnifico poeta di Suite Royale; quale presidente della 'Société des Poètes Français', egli aveva chiesto agli edili della Ville Lumière l' insolito regalo, e Parigi, che i suoi poeti li ama, lo aveva, come si è detto, prontamente accordato...”- (L. Fiumi, PROSE SCELTE, a cura di Gian Paolo Marchi e di Agostino Contò, Verona, 2014, pag. 369). Ma ora, senza indugio, arrivo alla sezione che fa battere il cuore in fretta, in fretta! Si tratta di 'PARNASO AMICO' (pp. 541-1110), del quale ho già trattato sulle pagine di questa Rivista Letteraria e che ora affronto in dettaglio per i contenuti che riguardano i due del Realismo Lirico, Giulio Caprin ed Aldo Capasso. Per l'Amico Giulio, che si firma con lo pseudonimo di Pànfilo nella Terza Pagina del Corriere della Sera, il Fiumi traccia un profilo schietto e coerente: “Un poeta fuori commercio: Giulio Caprin” (op. cit. pp. 893907), che si apre così: “Un Giulio Caprin poeta, per lo meno poeta in versi, è un ics ypsilon per quelli medesimi che gli sono più vicini e non lascerebbe d'esser impresa vana, per non dir disperata, il
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cercar qualche sua composizione in una delle troppe antologie che fungheggiano sui fianchi del Parnaso. Si conosce, certo, Pànfilo, per quei suoi articoli di critica o di varietà letteraria che portano, in un magno quotidiano milanese, la nota dell'onestà e della distinzione, per quelle sue prose di fantasia che stanno tra il lirico, il narrativo e il filosofico e, fondendo il meglio di ciascuno di questi generi, producono un impasto personale inconfondibile... Questo Caprin -che i più sospettano nemmeno essere lo stesso Caprin (n. nel 1880) che acquistò grido con libri politici, particolarmente esperto di questioni attinenti la guerra del '14, l'irredentismo,- si fa amare infatti per una sua concezione della vita e del mondo ch'è scettica ma non amara, che sa sorridere arguta e talora ironica ma con bonarietà, che non arrossisce nemmen per qualche effusione sentimentale e si dimentica spesso in puri slanci di lirismo. Questo è anche il Caprin che ha viaggiato in lungo e in largo per l'Europa; il quale se, da vari peripli, mandava via via i distesi resoconti ch'eran di bisogno al suo giornale - resoconti che formano due volumi di Epiloghi Europei (1942) di documentario interesse retrospettivo – qualche mannello di appunti più intimi, più suoi, andava frattanto spigolando, all'ombra delle sue pubbliche investigazioni. Erano il frutto della sua solitudine di viaggiatore: solitudine, non perché egli transitasse 'in disdegnosa misantropia' - qualcuna delle sue pagine conferma il contrario – ma perché gl'incontri, registrati, fra lui e le cose erano quelli che poteva avere soltanto quando, liberatosi dall'altro viaggiatore che aveva i suoi compiti pratici, egli si trovava improvvisamente solo con sé stesso, sgombro da qualunque pensiero di informazione o di edificazione altrui...” (L. Fiumi, op. cit. pp. 895896). L'analisi procede attenta ed avvincente ed orienta lumi su una realtà incontestabile: il Caprin non voleva farsi riconoscere come poeta! Le note al testo, del Fiumi stesso, sono ricche e documentarie e vanno prese seriamente, perché danno indicazioni precise su come muoversi all'interno della critica letteraria del Novecento tra il Borgese, il Pancrazi,
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il Piovene e tanti altri ancora. Vengo ora alla sezione 'Significati di Aldo Capasso' (op. cit. pp. 979-1010), nella quale il nostro Autore sceglie una accorta modalità d'investigazione testuale per avvicinarsi ai versi del poeta di Altare, cronologicamente diversificati, onde darne così chiara interpretazione stilistica. Cito. “Io vedo in Aldo Capasso, quale esce dalle sue raccolte, 'Il passo del cigno' e soprattutto 'Il Paese senza Tempo', l'indicazione già ben definita d'una vera poesia nuova e mi pare che , per parlar di lui, il discorso debba partire da due punti di riferimento ben distinti: il significato ch'egli ha diremo così storicamente, quale indice d'una tendenza, e il significato ch'egli ha liricamente, per il suo mondo intrinseco. Per questo ho accennato, nel titolo, a significati al plurale... Siamo, quanto a linguaggio, di fronte ad una poesia ch'è di reazione al fasto magniloquente dannunziano ed anche, nella sua linea decisa e legata, agli spezzettamenti sincopati, al polverio sintattico del pascolismo. Reazione dunque a fineOttocento a primo-Novecento... Ma questa del Capasso sembra essere una reazione anche alle reazioni, sembra far bersaglio unico e del comune nemico e - mi si passi il bisticcio – dei nemici del nemico... Il Capasso scarta anche il sentimento, per lo meno allo stato grezzo, non accetta la commozione se non filtrata attraverso l'intelligenza, decantata dal raziocinio... La sensazione sarà il punto di partenza, ma dovrà sciogliersi, per lui, in meditazione, in idea poetica. Abolito l'impressionismo, caro ai poeti d' avanguardia, il momento verrà assorbito nell'immanen-
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te...” (L. Fiumi, op. cit. 979-982). Seguono pagine intense e dettagliate per illuminare criticamente il percorso intellettuale, fino a trovarne radici non solo in Paul valery, che il Capasso ha tradotto egregiamente, ma primariamente in Giacomo Leopardi, per poi da qui prendere il largo ed arrivare alla pienezza del dettato poetico della maturità, “... quasi ch'egli acquistasse via via un senso meno disperato della vita, accettasse il mondo e l'uomo come sono e giungesse perfino ad un tal quale ottimismo. Il 'secondo Capasso', quello del 'Paese senza Tempo', delle poesie fasciste, delle liriche ultime, segna, percettibilissimo, un allargamento di motivi, e, spesso, un più o meno denso amore della Vita vi trionfa sull' amore della Morte e della quiete, ossia su ciò che nel 'Cigno', era il motivo, più che dominante, unico...” (L. Fiumi, op. cit. pag. 994). La trattazione su Aldo Capasso si snoda dunque da pagina 979 a pagina 1010 e viene arricchita sempre da prove documentarie e citazioni dirette, colte dai due testi presi in considerazione. Si, il Capasso si rinforzerà in salute, lascerà Solange de Bressieux, sua fidanzata per decenni, per sposare la giovane poetessa creola Florette Morand ed al Fiumi arriverà anche la loro partecipazione di nozze, nel 1970, conservata in Archivio a Verona. Il Capasso, classe 1909, sopravviverà al Fiumi di circa vent'anni.. Allora da questo percorso abbiamo potuto cogliere in sintesi un Fiumi preparatissimo ed indipendente, dallo stile scintillante e fuor d'Arcadia, che riesce a farci passeggiare lungo i declivi del Parnaso Amico con sempre rinnovata curiosità ad ogni svolta: egli non teme confronti perché sa dosare acume interpretativo, tecniche linguistiche padroneggiate senza sforzo, incisi tratti a sbalzo perché ne rimanga vivo ed impresso, nel lettore, il protagonista letterario di turno. Voglio qui ricordare che il giovane Lionello incontra anche G. A. Borgese a Venezia e se torniamo indietro all'articolo apparso sulle pagine di questa Rivista nell'aprile del 2012, veniamo a conoscere che anche il Capasso plaude al Borgese e al Primo Premio Marzotto edizione 1952, da lui vinto a maggioranza
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piena, dandone dettagliata notizia in chiave interpretativa e biobibliografica in un articolo a sei colonne, del quale ho fatto oggetto di studio nel mio intervento al Convegno 'ALDO CAPASSO', tenutosi a Carcare presso il Liceo 'San Giuseppe Calasanzio' il 20 aprile 2012, a cura di Giannino Balbis, Fulvio Bianchi, Paola Salmoiraghi. Gli Atti sono stati pubblicati dall'Editore Claudio Zaccagnino ed al loro interno tanti preziosi contributi che delineano la prismatica personalità poetica e critica dello studioso di Altare. Molto ancora dirò di Lionello Fiumi, di questi testi e della sua amicizia vera con il grande poeta e scrittore palermitano Federico De Maria, anche e proprio a partire dalla corrispondenza in formato digitale che mi è pervenuta, dietro mia precisa richiesta, dalla Biblioteca Nazionale di Palermo, che conserva tutto il cospicuo lascito del De Maria. Anche così si può stuzzicar l'appetito intellettuale, meditato e scanzonato al tempo stesso, dei cultori della ricerca critica e letteraria, altrimenti non sarebbe appetito. Ilia Pedrina
NATURA A PRIMAVERA Rami contorti vestiti di giallo, bianchi spini fioriti, si incontrano lungo il lago. La natura, mia amica, mi ha salutato sulla via. Ho zappato, scavato la pietra, di argilla mi sono riempita le mani. Vivo, selvatico il mio sogno, tra fiumi, rocce, sassi e fossi. A casa voglio sempre tornare, nel bosco, vagabonda, tra ragni giganti, scorpioni e calabroni. Sento la natura, sovrasta ogni paura, domina i pensieri, pervasiva, immanente, potente, è una. Aprile 2017
Fiorenza Castaldi Anzio (Rm)
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L’ULTIMO SUD E L’IMMIGRAZIONE di Leonardo Selvaggi I meridionali si distinguono per l’andatura E valigie legate con lo spago con dentro delle provviste di legumi e frutta. Si va verso le città settentrionali in cerca di lavoro negli anni ’50—’60, un vero esodo. Partono di giorno, partono di notte, partono sempre gli uomini del Sud. Abbandonano i paesi d’origine i più dotati d’ indipendenza di carattere. Sono quelli che mal si tengono nelle piazzette dove si riuniscono di mattina e nei pomeriggi i contadini e gli operai, sono frementi di andare via. Direi sono i migliori, spirito di sacrifici e riservatezza, una buona quantità di amor proprio. Si allontanano con le mani dure, il viso secco e vivace, gli indumenti di velluto odorano di stalle, le giacche aperte: attenti con la testa ritta, pronti a sgrossarsi e ad apprendere le cose nuove per non sfigurare. Mi sembrano uguali ai cani con le orecchie diritte, hanno tanta volontà, anche se vanno con il cuore gonfio, il nodo alla gola. Si sentono sbrindellati e nel treno dal finestrino avvertono che qualcosa si strappi dall’interiora. L’emigrazione verso Milano e Torino ed altre città industriali europee ha preso le persone più sensibili, quelli che poi in gran parte con l’andare degli anni nelle titubanze e scontentezze hanno sofferto il male del Nord, in bilico continuo, in uno stato patologico divisi come a metà: il malessere della nostalgia per il paese di provenienza, malattia incancrenita. l primi immigrati, quelli
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degli anni cruciali, hanno saputo vivere la nuova residenza con orgoglio e coerenza, 1.0 scontro con l’altro ambiente sofferto dignitosamente. Senza mai farsi sopravanzare dai pregiudizi razzistici di gente di certo più evoluta, meno provata, con un tenore di vita migliore. Lavorano e mettono da parte i risparmi, si sentono persone diverse nelle città industriali e sopportano la superiorità settentrionale, quell’astio di antica data che ha sempre diviso il Sud dal Nord. Ma gli immigrati sono testardi, fanno il loro dovere, senza chiedere nulla a nessuno. Spirito di adattamento, è una lotta da combattere per vincere le ristrettezze che hanno portato dal paese. Gli immigrati sprovveduti, molti di essi si sono disonorati, si sono visti sulla cronaca cittadina per le malefatte dovute di certo ai momenti di crisi e di disorientamento. Soprattutto l’estraneità, la mancata risposta alle proprie esigenze. Nessuna struttura di aiuto per affrontare l’immigrazione in massa. Si può dire che davanti a tanti diseredati si è dippiù amplificata la superbia dei settentrionali, non hanno fatto nulla per alleviare i disagi dei nuovi arrivati. Questi considerati gente di poco conto, dei furfanti e degli analfabeti. I settentrionali più tradizionalisti li consideravano vero rifiuto sociale, una sottoclasse da sfruttare. Per le strade negli anni ’50 vedevi i meridionali distinguersi dalla andatura, dal linguaggio acceso risonante, i loro gesti di forte comunicativa, i corpi tozzi vestiti con colori vistosi dissonanti. Li vedevi vaganti, storditi dal traffico cittadino, le loro membra ruvide risentivano ancora la frescura della casa di pietra; lo stato di rammarico li teneva distratti, pensavano alle cose più semplici lasciate, fisse in un angolo geloso della mente. Il diaframma del campanilismo rimane Tanti meridionali si sono comportati lodevolmente; con la modestia e la paziente rassegnazione nel silenzio operoso, instancabili ed onesti, amanti del lavoro e della casa sono stati loro ad aver dato un apporto notevole e serio, fattivo con sacrificio costante per l’ ampliamento delle città industriali oltre che per l’impulso allo sviluppo delle lavorazioni
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tecniche nelle fabbriche. Si è arrivati ai momenti culminanti del ’61, anno che ha visto la celebrazione del grande boom economico a cent’anni dall’unità d’Italia. Invero solo incremento materialistico, arricchimento dei più intraprendenti, ma niente dal punto di vista dell’integrazione: gli immigrati hanno continuato a vivere da soli, hanno migliorato con fatica il. loro sistema di vita rimanendo nel mondo proprio, in gran parte avulso dall’ ambiente di residenza. Il diaframma esistente dall’inizio non ha ceduto per niente. Il razzismo ha evidenziato nei settentrionali stato di acrimonia, posizione falsa di incomprensione, una razza diversa, mentalità opposta a quella dei meridionali, passionali, fantasiosi e di vivace intelligenza. Due poli contrapposti, dall’ altra parte individui freddi, ostili, di poca fantasia, metodici. Due rette parallele che sono andate sempre meccanicamente e ciecamente avanti. Rari i casi in cui i meridionali si sono inseriti, hanno fatto gruppo a sé sempre infoltendosi negli anni con arrivi di conoscenti e chiamate di parenti, amalgamati con corregionali, con immigrati delle altre parti del Sud. Si riconoscono da lontano, presenti pure le vecchie mamme con i loro vestiti di paese, gonne lunghe di panno pieghettate, il fazzoletto in testa. Belle figure che facevano quadro e riempivano con la loro voce il cuore di tutti i compaesani amici. Non si riconosceva nulla alla sensibilità patita dagli immigrati, vissuti di stenti, ancora vive le tracce dei giorni passati al paese. L’animo aveva interiorizzato le cose più care, una forte scorza ricopriva la pelle, non era facile cambiare vita e dimenticare. Il lavoro dei campi o di artigiano era radicato dentro, l’esperienza di vita pratica il forte legame ombelicale alla materna terra di origine. La casa nel vicolo era rimasta chiusa, ma palpitava ancora entro il cuore ferito. Se l’immigrazione verso le Americhe aveva dato netto freddamente un colpo di accetta a tutta la persona rimasta tramortita e la distanza dell’oceano aveva fatto impazzire tagliando quasi le gambe, soffocata la speranza di un ritorno, l’arrivo nelle città del Nord lasciando la possibilità di prendere il treno di tanto in tanto aveva scavato solchi di solitu-
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dine e malumori, stretti dalla contraddizione di trovarsi stranieri in Italia per quel campanilismo profondo e totale che divideva aggiungendosi poi la diversità di costumi e di livello di civiltà. Questo creava rabbia ed orgoglio, rifiuto contrapposizioni che sapevano molte volte di inimicizia acre, di repulsione amara dall’ambiente, trincerandosi in malinconie, lacerati sempre dalla nostalgia. Quelli che erano approdati nelle città del nuovo continente ad un certo momento si erano rassegnati e non davano più peso una volta che si erano fatti i gruppi di amici compatrioti ed erano stati raggiunti dalle proprie famiglie. Nelle città del Nord invece la ferita del distacco non rimarginava mai, si viveva in gran parte separati dal nucleo dei parenti rimasto al paese. Non si dà pace, uno stato di psicologia combattuta rimane rendendo la vita instabile per quella sospensione e incertezza ipocondriaca che si tengono dentro. Tra nostalgia e ostinazione Appaiono ancora più lontani i paesi sperduti poveri della Calabria. Un senso di morte e di abbandono. Stanchi i muri, il cielo di sera conturbato nei lunghi inverni. La miseria delle case, tutte sgretolate dalle intemperie, la solitudine con nessuna speranza li ha fatto partire. Sono andati via anche dai paesi di una certa consistenza con possibilità pure di qualche risorsa. Hanno preferito il Nord quelli che non sapevano farsela con il sindaco e con i proprietari, senza faccia tosta per chiedere lavoro e raccomandazioni. Questi primi immigrati negli anni ’50, i più audaci, ma anche i più pazienti. Hanno dato una lezione di autonomia, di intraprendenza con volontà positiva. Hanno dato spazio di stare meglio ai rimasti che si sono nel tempo fatti senza avventurarsi una vita comoda. Abbarbicati gelosamente al paese con malizia hanno preso con poco anche le cose svendute. Nella città invece si è vissuto alla giornata, lavoro e tutto misurato. Una vita di piccole cose inquadrata con maggiore indipendenza e un certo programma. Si è continuato ad andare avanti, mettendo alla prova le capacità di perseveranza, fedeli a se stessi. Alla radice dell’ im-
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migrazione per i più poveri la fame antica dei padri sotto il Borbone, il malgoverno, sperequazioni, il dispendio della Cassa del mezzogiorno senza realizzare nulla di giusto e costruttivo. E i meridionali li vedi subito per le strade, angolosi ti guardano in faccia, molti hanno acuito dippiù la propria inflessione, ripiegati in se stessi custodiscono i ricordi degli anni addietro; la distanza geografica ha fatto avvertire di essere rimasti svuotati, solo la malinconia con sorriso sommesso li riporta al loro mondo di prima. Il profumo del Sud, della natura spoglia e del verde denso sparso per gli anfratti, il contadino adusto per i campi, tanta ricchezza dentro e tante fatiche pesano sulle braccia la sera dietro l’asino che ritorna carico di frasche. L’asino con il muso intristito, sembra che capisce tutto nella sua mansuetudine vicino all’uomo. Anche l’artigiano ha tanta esperienza, le sue mani industriose sanno con passione il mestiere. E insieme le mamme che sanno fare tutto a mano, che con dovizia ti aprono il cuore, parole convincenti, la saggezza che viene da quell’abitudine sempre avuta a far finta di niente e a vivere di privazioni. Le vesti indossate sanno di pudore, le maniche candide di pulito attorno ai polsi. Il linguaggio umoroso sa di tutto, i sentimenti passano per ogni parte del corpo; la mente rimane radicata agli organi come la pianta che cerca la luce e la vita si stringe alla terra. E l’ambiente dei meridionali immigrati ha avuto intreccio vitale minuto tra le poche cose e l’ostinazione a uscire fuori dai disagi di ogni giorno. Ogni cosa che si tocca, la più vera, acre e pungente sa di vita amara vissuta, la ruvidezza è nelle incrostazioni dei loro pensieri introversi. La semplicità delle persone uguale alla concretezza degli oggetti, significava ed efficace: mentre si parla si prende tutto con le mani, passa davanti agli occhi quello che si pensa. Una storia di apprensione e di stenti L’ultimo Sud, certamente quello autentico, rimane legato alle nostre memorie: è stato nelle nostra storia una realtà intrigata di complessa spiega-
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zione, sovrapposizioni e scontri tra prepotenza e condizioni misere, oppressione e possessivismo, orgoglio e malumori repressi. Questa crosta è stata squarciata dagli immigrati, il fisico è uscito districandosi con strappi dai rovi attorcigliati e vegeti che hanno invaso il campo. Si staccano con dolore dal paese poiché tante sono le lacerazioni: lasciano la casa e gli amici, il vicinato e gli animali nella stalla. Una vita in comune, in completa inscindibile simbiosi. Ritornando dopo diversi anni diventa difficile ritrovare le tracce di un tempo. Non riconosci le case dai muri di pietra, imbiancate ora hanno perso quel viso che ti riconosceva da lontano. Le pareti intrise di sospiri e di sudore, invecchiato con i padroni, la stessa pelle, uguale calore. L’ultimo Sud che l’immigrato portava nel cuore con rimpianto al momento della partenza, quel Sud tanto amato perché lo aveva fatto soffrire. L’averlo lasciato è stato triste, sembrava che si abbandonasse una persona bisognosa di aiuto. Le lacrime facevano il vuoto: leggero quasi senza peso ti allontanavi, non portavi nulla con te,, eri solo un involucro pieno di languore. A Torino lungo gli ampi corsi fiancheggiati dai platani dentro l’ umido e la foschia che come velo grigio annebbia la visione l’immigrato ha ferma arrugginita nel cervello la vista del suo paese. È certo che si porta con sé una dannata contraddizione: i suoi frenati desideri, i pregiudizi e la libertà in piena aria della campagna, la felicità naturale degli animali. I campi che risuonano del canto dell’allodola che svolazza bizzarra a
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grandi sbalzi dall’alto in basso sulle zolle nere. La vita meccanica e calcolata della città industriale, fredda e desolata per quel ritmo quotidiano che si ripete monotono tra le officine dal tetto dentato e lo snodarsi di macchine in fila ordinata, tra gli abitanti che paiono tutti dello stesso stampo, livellati in serie. Si presenta scintillante il quadro straordinario di altri luoghi in uno sprazzo fulmineo di luce assolata. L’ultimo Sud immerso nella grande calura con i campi di stoppie assetati, rocce appuntite che fuoriescono, ciottoli staccati rotolati nel fondo delle valli, i calanchi di colore giallastro, le siepi di rovo dai rami forti allungati come serpi stordite. Non si sono cancellate le vecchie ferite L’immigrato al Nord è rimasto in genere più misero dei suoi compaesani di uguale livello economico che non si sono mossi, lui di solito con le mani legate senza appoggi ha fatto quello che ha potuto, da solo secondo le sue forze. Non ricorda il Sud di un tempo che al paese è rimasto migliorando le sue condizioni, chi vede tutto trasformarsi con i mezzi moderni di comodità, le nuove esigenze soddisfatte, chi con malignità ha saputo rimanere nel paese destreggiandosi. Ma il ricordo del Sud è inchiodato nel cervello dell’emigrato in Germania che dorme nelle baracche. Lui è rimasto, anche se sistemato in quanto ad occupazione, con le riprovate amarezze e delusioni: è ritornato ansioso ed è ripartito dal paese sempre con la malattia dell’ insoddisfazione che persiste, sentendosi frastornato dalle doppie residenze. Come un cane randagio che nella sera si perde per la strada non ricordando verso quale casa dirigersi, l’incertezza e la nostalgia gli hanno roso la mente. Ricorda il Sud l’immigrato a Torino, gli rimane dentro con i distorti modi di essere, conficcati come punte di coltello; l’ultimo Sud che si porta dietro, che gli si legge sul viso. Non si possono cancellare i segni della miseria patita, di un costume arretrato che sa di pane duro e di ingiustizie. E non glielo fanno dimenticare i piemontesi che lo vedono diverso, lui di animo chiuso e nello stesso tempo loquace, con i tanti pen-
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sieri che lo turbano in silenzio e non escono fuori per lasciarlo rasserenato, anche il clima nebbioso mantiene strette le angustie. Lui è un meridionale, anche se onesto ed educato, è sempre un terrone che appartiene ad altri luoghi, glielo hanno detto sempre e scritto sui muri delle fabbriche. I piemontesi hanno avuto la vita più scorrevole, non sanno tutte le forme di inibizioni che tengono l’ animo prigioniero, il loro modo di vedere tutto incasellato secondo regole comportamentali fisse non fa capire l’ambiente del Sud, che non ha fatto attecchire la livellata condizione di benessere fra gli individui, che non ha fatto essere come loro irreggimentati con il lavoro e le necessità soddisfatte, nessuna soggezione dell’uno verso l’ altro. Il tenore di vita diversificato trai cafoni e i padroni ha fatto allignare la prepotenza ossificata, anche certe forme di matriarcato, gelosie, la testardaggine istintiva cieca possessiva. L’ antitesi drammatica molto pronunciata nel Sud, l’ egocentrismo da una parte e la debolezza di chi, represso diventa per sofferenza sentimentale assetato di cose giuste. Questo crea disorganizzazione, disaccordo continuo. Difficile l’ intraprendenza associata, quella che nelle regioni evolute porta al progresso, al benessere diffuso nei vari strati, stimolando fonti correlate occupazionali. La sperequazione economica che nasce dall’arroganza e dalla diversità di struttura psicologica che si manifesta con il carattere dispotico genera discrepanza e porta la voglia di andar via, verso altre residenze ove sussistono in generale una certa uguaglianza, autonomia e rispetto della persona importante soprattutto la norma di condotta, le regole del vivere collettivo. La sofferenza della psiche che vede il comportamento superbo e si angustia fino a diventare fremente, combattuta interiormente, introversa ribelle. Il recinto chiuso delle ristrettezze fisiche e morali a danno dei più remissivi e buoni, cresciuti nell’umiltà sempre insofferenti e pieni di amor proprio. Adusi alle fatiche più dure hanno avuto spirito di adattamento in ogni evenienza, forti sempre nelle difficoltà incontrate. Leonardo Selvaggi
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DOMENICO DEFELICE E LA PRIMA MITICA 500 di Ilia Pedrina
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N vivace racconto di Domenico Defelice con fotografia che risale al 1970: una Fiat 500 Targa 945563 Roma, con la bella Clelia Iannitto che sorride osservando la piccola vettura prima di salirvi, bianco l'abito poco sopra il ginocchio, a maniche corte, con breve spacco anteriore. Vi si narrano giornate che sciorinano i loro eventi, come panni in trame differenti al sole, al turbine di mal tempi, alle cupe acque del Porto di Reggio, in baratro. Il narratore è anche il protagonista che domina l'esperienza della scrittura e ne traccia percorsi che si susseguono sciolti e coinvolgenti. L'apertura disegna il nostro tempo quasi a tuttotondo, per l' inaugurazione della tecnologica Nuova 500 al Lingotto di Torino, il 4 luglio del 2007: “... Dai servizi televisivi si è visto un Cordero di Montezemolo emozionato, euforico e sorridente, ilare. Un bambino cresciutello e povero alla propria festa di compleanno. Era come se quella 500 lui l'avesse ricevuta in dono. Il vento gli scompigliava la chioma, mentre le girava intorno nel tripudio degli invitati”.
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Prodi però riceve l'onore dell'avvio sulla soglia delle memorie, per poi essere nuovamente scolpito con sbalzi decisi onde farne uscire una scultura farsesca: “No, neppure Prodi - che, con la sua buffa faccia, fa l'ispirato anche quando non ce n'è bisogno, impersonando, senza accorgersene, la figura del grullo - è in grado di annacquare o spegnere in me il grande amore che ho sempre avuto per le Fiat 500... Costretto, suo malgrado, a salirci a fianco di Montezemolo, per provarla per fotografi e telecamere, stirò le labbra sottili fino ai lobi delle orecchie. Per occhi, due fessure. Si capiva che il suo era un sorriso forzato. Col suo faccione da ebete, divenne ancora più inquietante del mortuario ET non appena fu costretto a collocarsi sul sedile posteriore accanto al giovane Elkann...”. Da Torino a Roma il balzo è quello della tigre esperta e scattante, perché in questa nuova occasione in diretta il Defelice è testimone oculare, si estrania un poco dal contesto e si abbandona ai ricordi, là dove i Dioscuri Castore e Polluce gli offrono solido conforto ed appoggio per viaggiare all'indietro nel tempo. Si, il giovane Domenico Defelice da Anoia, mettendo quasi una sorta di sordina al suo dettato, si confessa: “... Appena diplomato, mi buttai a capofitto in un lavoro di magazzino. Dopo due anni, firmando un mazzo di farfalle, mi comprai la 500. Ricordo che sono andato a ritirarla presso un rivenditore autorizzato di Gioia Tauro. Era di colore avorio, il tettuccio di tela nera, chiuso da un grosso gancio, che si apriva scorrendo in due scanalature. Mitico il primo giro per le strade del mio paese...”. Poi il susseguirsi incessante di eventi in immagini che hanno intriso di forti tracce la memoria ed allora il racconto si trasforma in confidenze goliardiche tra compagni d'avventure. Ascoltiamolo dunque! “... Avevo battezzato la mia 500 casa viaggiante della poesia, perché vi salivano molti poeti e poetesse. A Reggio Calabria... il caro Franco Saccà, già sofferente e dal respiro grosso. Moriva dopo qualche anno... Il caro e
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indimenticabile Geppo Tedeschi, piccolo e fragile all'apparenza, col suo cappello a sghimbescio e i suoi versi armoniosi e alati come gabbiani. Il mitico Nino Ferraù, che dalla sua Messina andava spesso a Bologna, dove, mi raccontava, aveva una casa donata alla sua associazione - l'Ascendentismo – da una poetessa del luogo. Di ritorno, passando per Roma, mi telefonava ed io andavo a prenderlo alla Stazione Termini... La mitica Solange De Bressieux, condotta qua e là per i Castelli... negli anni è stata mia ospite tante volte, divenendo amica anche di mia moglie e dei miei bambini Gabriella e Luca. Un giorno l'ho accompagnata al mare a Torvaianica. Era triste, profondamente addolorata dal tradimento di Aldo Capasso, il quale improvvisamente l'aveva piantata per sposare una bella creola... Sempre con la 500 ho fatto visitare Roma al caro amico Francesco Pedrina. Mi avvisava quando arrivava da Vicenza e lo accompagnavo anche a far visita ai suoi amici, molti dei quali poi son diventati anche miei: Carlo Delcroix, per esempio, o il grande Ettore Serra... Per me è stato un periodo d'oro...”. Tutti protagonisti vivissimi della mia vita nel segno della Poesia, della Letteratura, della Ricerca artistica e filosofica accanto al Papà. Allora non è stato un caso aver definito Domenico Defelice il vero erede della corrente letteraria del Realismo Lirico, della quale Francesco Pedrina si è fatto sincero e coerente interprete e divulgatore. Perdono chiedo in sincerità per le lunghe citazioni tratte dal racconto '500, AMORE MIO!', apparso su questa Rivista nel gennaio 2012, dalla pagina 33 alla pagina 35, ma mi si dia fiducia piena, perché sono state necessarie: in quella prima 500 e nelle altre a seguire sono stati infatti ospitati quasi tutti i protagonisti del Realismo Lirico, e non solo. A distanza di anni, con l'ininterrotta attività pubblicistica con questa Rivista 'POMEZIA NOTIZIE' fin dal 1973, è grazie a Domenico Defelice che il Realismo Lirico prende ancora forza piena, nuova, inesauribile ed egli si presenta così alle giovani generazioni come guida nella indiscussa, naturale modestia, per di-
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fendere con dignità i valori artistici ed etici contro qualsivoglia manipolazione forzata e talora occulta. Ilia Pedrina
CATENE Dorate e dolci erano le catene che ci trattenevano ai nostri rispettivi posti. Dorate e dolci. E forti. E doloroso fu non spezzarle, come doloroso sarebbe stato per entrambi lo spezzarle. Dorate e dolci. E tristemente forti catene. Mariagina Bonciani Milano
OLTRE LE STELLE Riversare su un fiore tutta la mia tenerezza, amarlo d'un amore puro, sano, trasparente, attingere da esso estasi interiore, capacità di volare nell'alto dei cieli, oltre le stelle del firmamento, è il mio senso di vita, il ritorno alla fanciullezza ed alla spensieratezza, al tempo delle fiabe, al luccichio intermittente delle lucciole che rincorrevo a piedi nudi, nelle lunghe serate di giugno, con la schiera dei bambini di "Via Piana", la mia strada d'allora. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo al Volturno, IS
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Il Racconto
I BRONZI DI RIACE di Antonio Visconte
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OME se la famosa reggia non bastasse, la nostra elegante città di Caserta aveva voluto una galleria, un modesto ambiente a pianterreno, lungo il corso Trieste, davanti al cinema San Marco. Vi esponevano ottimi negozi con abiti rinomati, materiale elettrico e regali in argento e oro di ogni genere. A differenza di ciò che avviene normalmente, notavo una bottega d’arte e con grande meraviglia mi chiedevo come mai il gallerista potesse ottemperare alle numerose spese ed alla pigione e mi fu risposto che don Michele trattava esclusivamente il genere classico e più facilmente vendeva i quadri. Mi avvicinai in qualità di critico d’arte, ma non mi mostrò attenzione, e mi disse che il genere classico parla da sé e non ha bisogno di intermediari. Don Michele mi apparve un personaggio strano e volli prendere delle informazioni. Era stato un impiegato comunale e appena andato in pensione, volle incoronare un suo sogno da tempo accarezzato, di offrire alla città un altro punto di riferimento. Partecipava all’estemporanea e per ogni gara che
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si svolgeva all’aperto, riceveva un premio. Da quelle colline lussureggianti, non ancora deturpate dalle cave di silicio, il valente artista ammirava le albe radiose e i tramonti dorati di questa fortunata Terra di Lavoro, così denominata la nostra provincia, dolce richiamo alle bellezze del cielo, che rifletteva sulle tele dal verde profondo e dall’azzurro immacolato. In quel tempo furono rinvenute le due statue, i Bronzi di Riace, dalla località della scoperta e segnarono la fine di quella armonia, che l’impegno di don Michele aveva realizzato. Non ci volle molto a prendere una fissazione, che lo accompagnò per tutta la vita, anche quando si ritirò in privato nel suo paesetto alla periferia del capoluogo. Di questi Bronzi ne fecero una infinità di riproduzioni, nei materiali più disparati e il nostro uomo, per portare il passo con i tempi, ne collocò due sopra una colonnina, all’ ingresso della bottega. Quel pomeriggio passeggiavo per il corso e mi venne la voglia di entrare. Don Michele stava discorrendo con una eccentrica signora e per non disturbare, mi ritirai in un angolino, fingendo di osservare un dipinto, ma il mio buon udito di musicista mi permise di seguire la conversazione. “Mi dica un poco”, iniziò don Michele, “perché vedo che lei è una donna di mondo, mentre io sono un povero ignorante in materia”. “Donna di mondo proprio non direi”, replicò la signora, “in che senso, sono una donna felicemente sposata con marito e figli”. “Ma avrà la sua esperienza?” insistette don Michele. “Ogni persona ha la sua esperienza”, precisò la signora. “E allora mi dica un poco, conosce questi Bronzi?” “Se li conosco? Ma cosa crede che vivo sulla luna! La televisione ne sta parlando giorno e notte”. “E non trova nulla di assurdo?” “Sono incantata dalla loro bellezza. Tenga presente che hanno dormito duemila anni dentro il mare”. “Eppure c’è qualcosa che non va”, soggiun-
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se don Michele. “Mi dica lei, dal momento che è così aggiornato”. “Non trova che rispetto alla grandezza hanno un pene troppo piccolo”, rilevò don Michele. La signora arrossì, si sconvolse, si adirò e varcando la soglia, “pezzo di mascalzone”, strepitò, “con chi crede di parlare, lo chieda a sua moglie”. Il bravo uomo non si diede per vinto e chiedeva a ognuno la sua opinione. I giovani si prestavano all’argomento, ma il perbenismo dominava la città. Sottovalutando le critiche che gli pervenivano da varie parti, volle sferrare l’ultimo attacco. Incaricò un valido artista di scolpire due Bronzi con un pene più lungo delle gambe, che quasi strisciava per terra, li depose sulla colonnina e vi scrisse sotto: “I veri Bronzi di Riace!” L’iniziativa gli costò cara. Questo onesto padre di famiglia paragonava la sessualità atavica alla fertilità dei nostri campi, come le vecchie statue che stringono al petto diciotto figli, ma il mondo cambia non sempre in meglio e perciò chiuse la bottega. Antonio Visconte
Ci sono momenti di gioia nella vita, piccole gioie che bisogna riconoscere e riporre nello scrigno della memoria. Mariagina Bonciani
MOMENTI DI GIOIA
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 13/4/2017 Corea del Nord e USA: - Arrestiamo il programma nucleare in cambio di benefici economici. - Siete un paese dell’asse del Male. Ritireremo le sanzioni dopo che avete smantellato le centrali nucleari. - Smantelleremo le nostre centrali dopo il ritiro delle sanzioni. - Volete utilizzare i negoziati per potenziare il vostro programma nucleare. - Se smantelliamo le nostre centrali, voi ci invaderete... Alleluia! Alleluia! E il mondo dorme con le mani in croce, insieme alla speranza, un mondo atroce.. Domenico Defelice
Ci sono nella vita momenti di gioia, come quando un mattino scopri che sul balcone inatteso è sbocciato nel vaso un narciso giallo, o come quando in un ventoso giorno invernale ti affacci alla finestra e sullo sfondo azzurro di un cielo terso scopri il profilarsi lontano della cima innevata delle Prealpi e scopri anche lo scintillare più vicino e pur lontano su quell’azzurro manto del cielo dell’oro che sul Duomo, solitario e alto, ti rivela la tua cara Madonnina.
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OMBRE Quiete discesero le ombre, tutto intorno taceva, il giardino viveva quell'ora segreta avvolto nel suo paradiso, nulla le mancava eppure quelle voci a volte smorzate, a volte alte, stridule il suono delle cicale noiose, il gorgheggio del cardellino, senza di loro pareva di essere in un mondo diverso senza quel canto infinito. Poi vide un lumino volante: era una lucciola, quella piccola luce le bastò, per trascorrere una lunga notte di sonno e pace. Adriana Mondo Reano, TO
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XXVII Edizione CITTÀ DI POMEZIA L’Editrice POMEZIA-NOTIZIE - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM) - Tel. 06 9112113 – E-Mail: defelice. d@tiscali.it internet: http://issuu.com/domenicoww/docs/ - organizza, per l’anno 2017, la XXVII Edizione del Premio Letterario Internazionale CITTÀ DI POMEZIA, suddiviso nelle seguenti sezioni : A - Raccolta di poesie (max 500 vv.), da inviare fascicolata e con titolo, pena esclusione. Se è possibile, inviare, assieme alla copia cartacea, anche il CD; B - Poesia singola (max 35 vv.) ; C – Poesia in vernacolo (max 35 vv.), con allegata versione in lingua; D - Racconto, o novella (max 6 cartelle. Per cartella si intende un foglio battuto a macchina – o computer - da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1800 battute. Se è possibile, inviare, accanto alla copia cartacea, anche il CD); E – Fiaba (max 6 cartelle, come sopra, lettera D); F – Saggio critico (max 6 cartelle, c. s.). Non possono partecipare alla stessa sezione i vincitori (i Primi classificati) delle trascorse Edizioni. Le opere (non manoscritte, pena l’ esclusione), inedite e mai premiate, con firma, indirizzo chiaro dell’autore e dichiarazione di autenticità, devono pervenire a Domenico Defelice – via Fratelli Bandiera 6 - 00071 POMEZIA (RM) - e in unica copia - entro e non oltre il 31 maggio 2017. Volendo, tutti i materiali possono essere inviati via e-mail (defelice.d@tiscali.it) Le opere straniere devono essere accompagnate da una traduzione in lingua italiana. Ad ogni autore, che può partecipare a una sola sezione e allegare un breve curriculum di non oltre dieci righe, è richiesto un contributo di 20 Euro per la sezione A e 10 Euro per le altre sezioni, in contanti assieme agli elaborati (ma non si risponde di eventuali disguidi) o da versare sul c. c. p. N° 43585009 intestato a :Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00040 Pomezia (RM). Le quote sono in
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euro anche per gli autori stranieri. Sono esclusi dal contributo i minori di anni 18 (autocertificazione secondo Legge Bassanini). Non è prevista cerimonia di premiazione e l’operato della Commissione di Lettura della Rivista è insindacabile. I Premi consistono nella sola pubblicazione dei lavori. All’unico vincitore della Sezione A verranno consegnate 20 copie del Quaderno Letterario Il Croco (supplemento di PomeziaNotizie), sul quale sarà pubblicata gratuitamente la sua opera. Tutte le altre copie verranno distribuite gratuitamente, a lettori e collaboratori, allegando il fascicolo al numero della Rivista (presumibilmente quello di ottobre 2017). Sui successivi numeri (che l’autore riceverà solo se abbonato) saranno ospitate le eventuali note critiche e le recensioni. Ai vincitori delle sezioni B, C, D, E, F e ai secondi classificati per ciascuna sezione, verrà inviata copia della Rivista - o del Quaderno Letterario Il Croco - che conterrà il loro lavoro. Per ogni sezione, qualora i lavori risultassero scadenti, la Commissione di Lettura può decidere anche la non assegnazione del premio. La mancata osservazione, anche parziale, del presente regolamento comporta l’ automatica esclusione. Foro competente è quello di Roma. Domenico Defelice Organizzatore del Premio e direttore di P.-Notizie Vincitori della SEZIONE A delle precedenti edizioni: Pasquale Maffeo: La melagrana aperta; Ettore Alvaro:Hiuricedhi; Viviana Petruzzi Marabelli: Frammento d’estate; Vittorio Smera: Menabò; Giuseppe Nalli: A Giada; Orazio Tanelli (USA): Canti del ritorno; Solange De Bressieux (Francia): Pioggia di rose sul cuore spento; Walter Nesti: Itinerario a Calu; Maria Grazia Lenisa: La ragazza di Arthur; Sabina Iarussi: Limen; Leonardo Selvaggi: I tempi felici; Anna Maria Salanitri: Dove si perde la memoria; Giuseppe Vetromile: Mesinversi; Giovanna Bono Marchetti: Camelot; Elena Mancusi Anziano: Anima pura; Sandra Cirani: Io che ho scelto te; Veniero Scarselli: Molti millenni d’amore; Sandro Angelucci: Controluce; Giorgina Busca Gernetti: L’anima e il lago; Rossano Onano: Mascara; Fulvio Castellani: Quaderno sgualcito; Nazario Pardini: I simboli del mito; Rodolfo Vettorello: Voglio silenzio; Isabella Michela Affinito: Probabilmente sarà poesia; Antonia Izzi Rufo: Sensazioni.
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I POETI E LA NATURA – 67 di Luigi De Rosa
Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)
LA GUERRA E LA PACE NELLA POESIA DEL COMPIANTO GIORGIO BARBERI SQUAROTTI (1929-2017)
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a breve telefonata dell'amico comune arriva, inattesa e rapida come una frustata: “ Bàrberi è morto, in ospedale...”. Ancora prima di apprenderla dalla Rai, dal quotidiano La Stampa e dagli altri giornali. “E' morto il 9 aprile, aveva 87 anni”. Avrei fatto volentieri a meno di questa notizia. Scompare così uno dei maggiori critici letterari italiani. Si spegne un'altra luce nel mondo della Poesia e della Critica letteraria. Ma come? Uno se ne va via così, da un giorno all'altro, e basta? Per fortuna, riman-
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gono le sue opere, i suoi scritti. Bàrberi Squarotti era nato a Torino il 14 settembre 1929. A ventitré anni si era laureato e dal 1967 aveva insegnato Storia della Letteratura italiana moderna e contemporanea. Per trentadue anni, all'Università di Torino, sulla cattedra ereditata da Giovanni Getto, e aveva esercitato il suo poderoso intelletto e il suo sensibile cuore sia come critico che come poeta. Sono numerosissimi i poeti che in tanti anni hanno avuto da lui il conforto di un breve saggio, o di una recensione, di una prefazione (perfino lo scrivente, nel 1990!) o introduzione, o presentazione, o di un semplice periodo, una frase, un giudizio sintetico, generoso e signorile, da poter inserire, con malcelato orgoglio, nei rispettivi curricula. Negli ultimi anni, specie dal pensionamento come Docente in poi, era tornato, principalmente, agli studi approfonditi su poeti e scrittori molto importanti nella Storia della Letteratura Italiana, da Dante Alighieri a Montale e Sbarbaro, e più recentemente su Manzoni. Era responsabile scientifico del grande Dizionario della Lingua italiana della UTET, e Curatore di una poderosa Storia della Civiltà Letteraria in Italia (sempre della UTET) in sei volumi (1990-1996). La sua bibliografia è sterminata. Si può trovare molto in Internet. E quanto alla sua opera poetica, ne è in preparazione un'edizione completa a Torino, presso la Casa Editrice Genesi, dello scrittore Sandro Gros Pietro.
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Rileggiamo, di Bàrberi, una poesia pubblicata quattordici anni fa, contenuta nella silloge Le Langhe e i sogni (Joker, 2003, prefazione di Franco Pappalardo la Rosa). La Natura inanimata è pace, armonia, bellezza, serenità. Gli esseri animati sono in perpetuo stato di guerra tra di loro; persino i bambini si azzuffano, i cani si azzannano, i passeri si abbandonano alle risse. Ma lasciamo la parola al poeta: “ Guerra e pace L'aspra rissa dei passeri, la furia dei cani che si azzannano, i bambini che si picchiano nel giardino limpido e sereno, dove non ci sono nubi né venti, né turbini, e canti, invece, di usignoli e foglie e fonti eterne, alla fine si acquietano, se giunge il pastore paziente e li ammonisce prima di imporre un poco di silenzio. Pacificati, si allontana, e allora il furore riprende nel trascorrere del breve tempo: la guerra non ha davvero fine, e dove è mai la pace nella storia atroce e stolta, o forse soltanto nella rixa metaforica dell'amore lunare, che si fa il tranquillato sonno per il sogno che mai non spezzi il canto delle allodole.” Affidiamoci, come sempre, ai libri. Mai fu più vero quel detto “Più libri, più liberi”. Come mai fu più falso quel detto “Historia magistra vitae”. La Storia, come ci ricordava anche Montale, in realtà non è magistra di niente; non insegna niente a nessuno. Luigi De Rosa
LA BAIA Ritorno ancora alla mia baia, ad ogni suono d'onda io ascolto questa sinfonia attorniata dal verde delle zagare fra
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la rosseggiante riva fitta di vegetazione, riprendono vita le cicale di mare, nella coppa di un cratere marino assaporando ogni momento nel mio ricurvo pensiero l'ambrosia che viene da questo mare burrascoso e misterioso danzando nella sua scrittura di vento. Adriana Mondo Reano, TO
DALLA MIA FINESTRA Dalla mia finestra che guarda il giardino, ondate di frescura invadono i miei pensieri; il verde è tenerissimo, come se fosse irrigato da lacrime d’innocenti. Oggi il Signore manda i suoi Apostoli a due a due... Io sono qui con i miei pensieri: Dio è con noi, anche se a volte finge di dormire, io Gli dico: porta portagli la mia voce e il turbine del mio amore perché possano sentire il refrigerio del mio pianto nascosto. Rosalia Sanfilippo Roma
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Recensioni MARIA GARGOTTA VOCI AL TRAMONTO Guida Editore, Napoli, 2009, € 8,00 Il “racconto di un’occasione mancata di incontro in vita, risarcito dalla forza e dalla fragilità della scrittura dopo la morte” definisce il Professor Francesco D’Episcopo, nella sua prefazione, il libro Voci al tramonto di Maria Gargotta, nel quale questa valente scrittrice affronta il problema della difficile convivenza tra una madre (la sua) e una figlia (lei) durante gli anni della loro convivenza, Il racconto coinvolge però tutta la famiglia, dal momento che investe anche i rapporti tra i suoi genitori e la nonna paterna, la quale non aveva gradito, lei siciliana, il matrimonio del figlio con una “forestiera” di Napoli. Donne dal carattere non facile, la suocera e la nuora, benché vivessero lontane, avevano creato un clima non propriamente disteso in famiglia, nonostante l’indole sostanzialmente pacifica e accomodante del padre Michele, il quale nutriva un profondo affetto sia per la madre Concetta che per la moglie Tatiana. Un rapporto più teso e complesso si era avuto però tra la madre Tatiana e la figlia Maria, oscillante tra amore e rancore, attaccamento e ripulsa, data la volontà di imporsi di Tatiana, la quale aveva voluto regolare la vita della figlia secondo i propri convincimenti. Ne era derivato così nella figlia un sordo rancore, che era emerso specialmente allorché Tatiana si era vivacemente opposta alla relazione di Maria con un uomo di cui nel libro si parla vagamente, ma che certamente doveva essere diverso da quello che la madre riteneva l’ideale compagno di
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vita della figlia. Ora, nel racconto, Tatiana è giunta al termine del suo cammino terreno e Maria l’accudisce amorevolmente, benché sempre il loro contrasto permanga e la figlia lo rinnovi, riandando con la mente al passato e riflettendo sugli eventi che ne scandirono i giorni, oggi più evidenti e più chiari, nel mentre la sofferenza fisica attanaglia Tatiana e la rende quasi un oggetto, nella sua inerzia dolorosa. Nascono così le riflessioni improvvise, che mordono l’animo ed illuminano tutta una vita, quali: “forse bisognava morire ogni volta per rinascere, guardarsi dentro e tagliare, tagliare, senza pietà i rami secchi. Senza potare l’anima, come si fa a crescere?” oppure: “Era difficile vivere con te, con la tua invadente, squassante energia, la tua irritabilità senza spiegazioni, almeno apparenti”. Maria si era in tal modo chiusa in se stessa e non aveva potuto trovare nella madre la confidente che desiderava, sicché ora, con l’avvicinarsi della morte della genitrice, legge con lucidità dentro il proprio animo e maggiormente avverte il peso dei giorni vissuti accanto a lei. Con un rivolgersi diretto a Tatiana, quasi nella volontà di compiere un estremo tentativo di stabilire con lei un dialogo chiarificatore, e in un crescendo di intensa e sofferta analisi psicologica, il libro si chiude allorché la madre muore. Le ultime frasi del racconto hanno accenti di alta commozione e di intensa liricità: “Le parole tra noi incominciano ora, scorrono ogni giorno come acqua trasparente, scorrono su queste pagine, che abbiamo scritto insieme, e scorreranno fino a che… non ritornerai ancora a prendermi per mano, e questa volta per portarmi via con te”. Un libro sofferto Voci al tramonto di Maria Gargotta ma anche un libro scritto con maestria di narratrice, che sa toccare con sapienza le più segrete corde del cuore umano, per trarne quei suoni che soltanto un profondo sentire e una grande sensibilità d’animo è capace di ricavare. Elio Andriuoli
MARIA ANTONIETTA MÒSELE FIORETTI DI SAN FRANCESCO Il Croco/ Pomezia Notizie, marzo 2017, Pagg. 48 Maria Antonietta Mòsele, vicentina di Asiago, residente a Pomezia, collabora da molti anni a Pomezia-Notizie, guadagnandosi la stima di molti lettori. Concilia la famiglia con il volontariato umanitario, con la scrittura e la pittura, specialmente da quando è libera dall’insegnamento. Nella presentazione dei suoi Fioretti di San Francesco, spiega che con la
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fatica da lei intrapresa ha voluto rielaborare l’opera originaria per renderla più attuale nella lettura; badando a mantenerne i contenuti, senza diminuirne lo smalto. L’Autrice avverte che l’opera non ha carattere storico, ma nasce “con finalità devote ed ideologiche, spirituali, mistiche. Il testo è tutto pervaso da un’atmosfera di incanto. Del miracolo sempre presente”. Per inciso avvertiamo che si tratta di una sessantina di episodi narrati, che vanno sotto la denominazione di 53 capitoli numerati, 5 considerazioni sulla stimmate e alcune descrizioni di eventi speciali. Tutti gli episodi concludono con la formula “A laude di Gesù Cristo e del poverello Francesco. Amen.” Per le ragioni di cui sopra specifica di avere riportato nei primi (tredici) capitoli la didascalia d’apertura in volgare e successivamente in lingua. San Francesco prese a modello la vita di Gesù Cristo, circondandosi di 12 apostoli, predicava soprattutto l’umiltà. Al suo seguito vediamo tanti confratelli: Bernardo da Quintavalle, Ruffino, Elia, Masseo, Egidio, Jacopo della Massa, Corrado, Giovanni da Fermo o della Vernia (Verna), Matteo di Monte Rabbiano, Pacifico, Lucido ed altri seguiti da una moltitudine di fedeli tra cui le consorelle Chiara, Agnese e la loro madre suor Ortolana. Molti sono i luoghi della predicazione, soprattutto del centro-nord della penisola e d’oltremare (Egitto); episodi di conversione e di guarigione; di come San Francesco mette alla prova i suoi discepoli e confratelli affinché guadagnino le virtù. In effetti i Fioretti sono fra le prime testimonianze di letteratura italiana medievale, anteriore a Dante, per intenderci. È destino comune, se si pensa ai testi antichi precristiani tramandati oralmente e manipolati a seconda della loro comprensione e degli amanuensi, specie di opere che si diffondono popolarmente. Si ritiene che proprio nella Toscana colta, ad opera di un traduttore ignoto, sia avvenuto il volgarizzamento del testo latino; tuttavia l’analisi filologica ci mette sull’avviso che gli episodi tramandati non rispettano l’ordine cronologico e contenutistico; si avverte uno stacco stilistico, precisamente si ritiene che l’estensore dei primi 41 sia di stampo umbro, mentre i successivi siano da attribuire al marchigiano Ugolino da Montegiove (1320/1340). Devo confessare che a cominciare dalle medie superiori, il desiderio di conoscenza, mi aveva portato a leggere testi religiosi tra cui i Fioretti; se non che la lettura non si presentava agevole all’età in pieno fermento, per via della narrazione, lenta e ripetitiva. Così, adesso, per un confronto con il lavoro della Nostra, ho ripescato una edizione della Utet
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del 1929 (di 180 pagg., non che io sia così vecchio!), che mi conferma l’intento di Maria Antonietta Mòsele volto a riportarci nell’humus ambientale e spirituale di quel tempo, in media res, come suol dirsi. I Fioretti (originari o quelli adesso presentati) non si soffermano sulla biografia del Santo; Francesco Bernardone (nome di battesimo Giovanni) di ricca famiglia commerciante di tessuti, morì il 4 ottobre 1226, a 45 anni, e a soli due anni dopo fu canonizzato. Comprendo quanto i Fioretti siano da leggersi a piccole dosi, intesi come momenti di meditazione di cui oggi abbiamo bisogno, religiosi e laici. Il Pontefice attuale ha assunto il nome del Santo fornendocene un esempio. San Francesco predica il conseguimento delle virtù, soprattutto l’umiltà, la povertà, l’obbedienza e stabilisce che la letizia si acquista nel sopportare con pazienza e allegrezza le avversità, rapportandosi alle pene di Cristo; e che la consolazione si raggiunge tenendo Dio nel cuore. Tito Cauchi
MARIA ANTONIETTA MÒSELE FIORETTI DI SAN FRANCESCO Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2017 Maria Antonietta Mòsele ha pensato di fare opera gradita al pubblico lettore riassumendo i famosi “Fioretti di San Francesco”. L’opera, in origine volgarizzata nell’ultimo quarto del 300 da un ignoto di natali toscani, è una raccolta di miracoli ed esempi del Santo e dei suoi discepoli durante tutto l’arco della loro vita. I Fioretti ricostruiscono il mondo della predicazione francescana e, alle volte, sono contornati di un alone serafico e fiabesco. I Fioretti scritti in volgare non sono di facile comprensione a tutti, così la Mòsele ha cercato, mantenendo la divisione originaria in capitoli (53) e la didascalia originaria (almeno fino al 13° capitolo), non di fare una traduzione parola per parola, ma di riassumerli in italiano salvando naturalmente il contenuto e il senso. Un modo per far arrivare a tutti, anche ai più piccini, in forma semplice i gesti, le parole, il comportamento, la fede e l’umiltà di San Francesco. Nei brevi riassunti si può scoprire come la vita di Francesco fu di molto somigliante a Cristo: anche lui si scelse infatti 12 compagni (come gli apostoli) e fece promessa di povertà. Ed ancora si racconta dell’incontro con il primo compagno frate Bernardo; di frate Elia; la quaresima di Francesco in un lago di Perugia; del pasto che Francesco
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ebbe con Santa Chiara etc…etc… L’ultima parte del lavoro della Mòsele è dedicata alla ricezione delle stimmate da parte del Santo sul monte della Verna e ad alcune considerazioni. Roberta Colazingari
TITO CAUCHI LEONARDO SELVAGGI Panoramica sulle opere Ed. Totem, 2016 Oltre 200 pagine offrono ai lettori uno sguardo a 360 gradi dei lavori di Leonardo Selvaggi. A scrivere il tomo è Tito Cauchi che, nella sua vita di letterato, ha conosciuto il Selvaggi. Cauchi ha intitolato questa raccolta di recensioni su Leonardo Selvaggi semplicemente “Panoramica sulle opere”. Il volume è diviso in quattro parti e si sofferma su Selvaggi poeta ultimo dei romantici; sull’ allontanamento dalla sua terra natia (la Lucania) e l’ arrivo a Torino; della figura di critico saggistico e di Selvaggi nella critica. Il tutto è corredato da un’appendice con numerose bibliografie di riferimento. L’intenzione di Cauchi con questa sua fatica letteraria è quella di fissare e far fissare nei lettori e negli amanti della cultura, la figura e le capacità di Leonardo Selvaggi. Nato in provincia di Matera, con molti sacrifici, ha studiato diventando professore, arrivando alla fine ad essere responsabile a Torino della Biblioteca Nazionale. Un uomo, Selvaggi, la cui vita è stata contornata da libri, sin dall’infanzia. Egli è un uomo profondamente legato alla sua terra, la Basilicata, ma che non esita per amor di lavoro, a partire e trasferirsi a Torino. Selvaggi incarna perfettamente la figura dell’immigrato nel suo stesso Paese e tutte le sofferenze e le rinunce che si fanno pur di portare a casa un pezzo di pane con dignità e lavoro. E’ romantico e pratico al tempo stesso. Selvaggi resta fedele alle sue radici, anche e soprattutto nei momenti di sconforto. Resta loro fedele grazie alla scrittura, ai libri, alla cultura. La sua produzione letteraria conta un centinaio di libri e numerosissime recensioni per riviste specializzate e non. Selvaggi in nome della cultura è stato onnivoro, studiando, leggendo e recensendo lavori anche del più piccolo degli esordienti. Per questo, secondo Cauchi, egli incarna la coscienza critica dei nostri tempi. Roberta Colazingari
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AA. VV. ANTOLOGIA DEL PREMIO HISTONIUM 2016 Edizione Il Torcoliere, Vasto, 2017 Con l’uscita nel febbraio di questo anno dell’ antologia, si è chiusa ufficialmente la XXXI edizione del prestigioso premio letterario HISTONIUM, svoltasi a Vasto-Chieti il 24 settembre 2016. Premio come è noto organizzato dal professore Luigi Alfiero Medea, sorretto nella parte di segreteria dall’instancabile ed efficientissima professoressa Angela Tommasi, tra l’altro sua gentile consorte. Anche quest’anno l’antologia ha richiesto un lavoro paziente e competente, a cui i coniugi Medea non si sottraggono, ma che anzi fanno molto volentieri, e più che bene. Il volume corposo di ben trecentodieci pagine, è curatissimo sia nell’ impaginazione che nella grafica. L’antologia è molto ricca di notizie sul premio e soprattutto sui partecipanti che godono, nella nona parte del volume, tutti di una dettagliata nota bio-bibliografica. Molte le foto della manifestazione, che colgono i vari momenti della chermes. Di ogni vincitore della varie sezioni, sei in tutto, il prof. Medea riporta, in calce alla stampa dell’opera, la motivazione dell’assegnazione del premio e un giudizio critico sulla medesima. Del sottoscritto, a cui è stato assegnato il premio speciale unico per la Campania, per la pubblicazione Dieci x Dieci, ossia i dieci comandamenti visti da un laico, il presidente del Premio Histonium e coordinatore delle Giurie del Concorso, prof. Luigi Alfiero Medea, ha detto nella recensione dell’opera le testuali parole. “ La giuria dell’Hstonium ha condiviso il giudizio di Mons.Nogaro, che ha definito l’opera del D’ Ambrosio nuova e ardimentosa, sottolineando la valenza letteraria, morale, e sociale dell’impegno profuso dall’autore, un poeta più volte premiato nei Concorsi Nazionali, ed evidenziandone lo stile colto e il linguaggio denotativo e coinvolgente. D’ Ambrosio parte dell’impostazione scenica del suo percorso poetico con l’immagine possente della montagna, luogo difficile da conquistare, ma dove è possibile ascoltare la voce di Dio e concludere con Lui un’alleanza di salvezza. In Mosè il poeta riflette il volto di ogni uomo che aspira a raggiungere la pienezza del suo essere. E spiega con incisività quali sono i requisiti fondamentali perché la scalata non si traduca in un fallimento esistenziale. Occorre da parte dell’uomo innanzitutto un’ adesione generosa all’invito di Dio e alla sua unica Verità, adesione che diventa una risposta data <senza tentennamenti/o alternative> per non rischiare di salire solo per metà, arrendendosi alle
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prime difficoltà, o di scendere dalla montagna a mani vuote. Ma occorre anche tanta fede e continua perseveranza, perché <è nella resistenza che sta la vittoria>. È vero, la salita comporta un duro sacrificio perché, nota D’Ambrosio,< le vette sono aguzze e con poco appiglio>. La conquista finale dell’Oreb, però, ripaga chi è prescelto e risponde ubbidiente all’invito divino”… Inoltre, come ogni anno, l’antologia porta il titolo del tema di approfondimento a cui erano stati chiamati i poeti e gli scrittori. Nella XXXI edizione si richiamava l’impegno ad essere “Custodi del nostro pianeta”. Cosa giustissima, in quanto l’uomo ha il dovere a non dimenticare che la terra è Madre e che va rispettata e non succhiata fino a ridurla allo stremo, perché essa è buona ma spesso negli eventi catastrofici urla tutto il suo dolore. E allora sarà l’ uomo a soffrire. Altra encomiabile iniziativa, riservata alla sezione F del concorso, quella dello scrivere una poesia o un lavoro in prosa sul tema: ”Servire gli altri al di sopra di ogni interesse”. Tantissimi i partecipanti in questa come nelle altre sezioni del Concorso. Non resta, adesso, che sfogliare la nostra antologia e fare gli auguri all’organizzatore prof. Medea per un ottimo XXXII concorso. Salvatore D’Ambrosio
EUGENIA BERTI LINDBLAD ORTOGONALI I Aletti Editore (www.alettieditore.it), Edizione brossura novembre 2016, pagg. 70, € 12,00 L’autrice Eugenia Berti Lindblad è italiana e vive a Stoccolma. Dopo studi classici, laurea in giurisprudenza, dirigenza nella P.A., inizia l’ esperienza cosmopolita in Svezia, Turchia, Emirati Arabi e Gran Bretagna. Esordisce in poesia fotografica con Parole intrappolate nelle icone, tratto dalla raccolta poetica Ortogonali. Regista ed autrice del poetry-film Eclipse, è co-fondatrice del manifesto culturale Eclissi9. www.eclissi9.com Il libro è costituito da una introduzione e da 45 poesie. Aprendo il libro vengono citate alcune frasi del Nobel Salvatore Quasimodo. Riporto la prima citazione : “Il linguaggio dei poeti è difficile non per ragioni di filologia o di oscurità spirituali, ma in virtù dei contenuti”. L’Introduzione è a cura del Professor Enrico Pozzi Docente di Psicologia sociale presso l’ Università
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“La Sapienza” di Roma. Leggendo le poesie Ortogonali il Professore dice: “ La realtà, soprattutto quella dentro di noi, è come il piano di Euclide, inafferrabile, impensabile, informe. La costruzione delle coordinate cartesiane è un gesto poetico.” Leggendo questo libro di poesie mi sono chiesto perché il titolo: “Ortogonali, perché il Professor Pozzi parla di geometria euclidea e mi sono dato questa risposta. Ortogonali corrisponde all’ incrocio di due assi cartesiani per individuare la posizione attuale, dove l’Autrice in continuo movimento per il mondo di volta in volta vive: Gran Bretagna, Svezia, ecc… Perciò tante poesie sono dedicate a varie città: Roma, Stoccolma, Parigi, Istanbul. Questo continuo girare fa si che si abbia una nostalgia dei posti dove si è vissuto. Pertanto traspare nelle poesie un certo pessimismo sulla caducità dei sentimenti umani (amore, affetti, nostalgia dei luoghi dove si è vissuto,..). Ho trovato interessante e originale questa raccolta di poesie. Riporto, come esempio, una poesia: Vertigo Vertigine insensata quella dell’amore Nell’attimo dell’incontro è già annientata Nel mio ventre i sensori traducono segnali biologici in cibernetica indifferenza Figura disperata converto in assurdo ologramma il riflesso del nulla Dalle mie aride viscere il dramma di Essere non vivente Al computer Amore Giuseppe Giorgioli
GIOVANNA ROTONDO QUANDO LAVORARE È BELLO Lettere dal carcere Prefazione di Silvana Ceruti. La vita felice, Milano 2017. € 14. Pp. 136 A distanza di poco più di due anni dalla pubblicazione di Non è colpa di Pandora. La zona d’ombra delle dipendenze, un saggio-racconto su un percorso di terapia di gruppo per i famigliari dei pazienti in trattamento di sostanze che creano dipendenza; e di Orlando Sora. Artista del Novecento, una monografia dedicata alla vita e l’opera pittorica dell’ artista marchigiano, Giovanna Rotondo ha dato alle stampe nel marzo 2017, sempre presso l’Editrice
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La vita felice di Milano, Quando lavorare è bello. Lettere dal carcere. Un volume che racconta, a detta di Silvana Ceruti che ne ha curato una lusinghiera e dettagliatissima prefazione, l’esperienza umana dell’autrice che entra in un carcere, per la prima volta, come tutor di un corso di Fondo Sociale Europeo per operatori di Legatoria e Cartotecnica presso la sezione maschile del carcere di Monza. Si tratta di un libro di 136 pagine corredate di foto a cura di Ian Stuart che ritraggono opere eseguite dagli allievi, suddiviso in due parti: una prima, dove la Rotondo parla della legatoria, del laboratorio, del tutor, delle perquisizioni periodiche nelle celle dei ragazzi (28); di Luca, il ragazzo più giovane e più bravo del corso trasferito dopo tre mesi ad altro carcere (40); di Matteo, giovane trentacinquenne di talento, entrato in carcere, dopo aver rifiutato gli arresti domiciliari per non recare disagio ai propri genitori (43); dei ragazzi della Sezione Sperimentale che frequentano il corso d’informatica; delle cooperative di lavoro, come prima accoglienza di inserimento fuori dal carcere, chiodo fisso di William (37); e una seconda, che comprende 23 lettere, che allievi come Luca, Enrico, Matteo, Carlo, William, Luigi, si scambiano tra loro e con i docenti, dando vita a un intreccio di informazioni e confessioni che vanno ben oltre l’apprendimento di una tecnica di legatoria, per diventare - scrive la Ceruti - “un incremento di umanità, a beneficio del singolo e della società” (12); nonché altri scritti apparsi sul giornalino del carcere Qui Clerici! (95), due fogli senza pretesa messi assieme dagli allievi per esprimere disagi e desideri, dove ciascuno dei corsisti, docenti e tutor possono dire la propria, intervenendo con poesie, canzoni rap, lettere, articoli. Ne vien fuori un mondo in odore di libertà, inaspettato e insospettato, in flagrante contraddizione, si direbbe, rispetto all’ambiente dove si svolge il corso. Stupisce che in un luogo di pena come il carcere, l’autrice parli di aspettative di riscatto e di aspirazione al bene, o che, nell’introduzione, scriva che in questo libro si stanno raccontando “comportamenti, necessità quotidiane… di persone… che sono… esattamente le stesse persone… intelligenti, stupide, creative, più o meno oneste di altre… con cui ci confrontiamo ogni giorno nel nostro lavoro, nei viaggi, in famiglia (13). Ragazzi normali, insomma – per la scrittrice che, in un momento di fragilità, si erano persi con conseguenze terribili per la loro esistenza e quella delle persone che gli vivevano intorno (36). Tutt’altro che realtà di mondi segregati e negati alla legge dell’evoluzione, come vorrebbero, invece, far credere le parole che una delle vicedirettrici del carcere rivolge a Giovanna: “Non si faccia illusio-
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ni… la prenda come un’esperienza. Criminali sono e criminali rimangono” (37). Libertaria e russoviana, Giovanna Rotondo non poteva non scontrarsi con un’istituzione carceraria così palesemente sorda ai richiami di tanta letteratura pedagogica a partire dal modernissimo diciottesimo secolo, da quando Cesare Beccaria ha cominciato ad ammonire che sia meglio prevenire i delitti con l’educazione piuttosto che reprimerli con le pene, dopo. Non si scontra invece con la prefatrice, la quale non solo condivide quanto la scrittrice propone, ma cerca anche di spiegarsi il successo di questo corso, dovuto, secondo lei, al fatto che Giovanna era entrata in questo carcere, con occhio attento e delicato, proprio di chi sa che il saluto del mattino è un rito importante quanto quello di scambiare due parole con tutti durante la giornata ((23-24). E non solo, anche di chi è avvezza a parlare con tutti con discrezione e non chiede mai le ragioni per cui uno si trova lì (24); di chi, infine, più che parlare, sa soprattutto ascoltare, perché “alle volte l’aiuto richiesto non è quello di trovare la soluzione a un problema, altre la richiesta è solo quella di essere ascoltati” (9). Ne è prova la soddisfazione che esprimeranno i ragazzi nelle loro lettere ai docenti: “Nel mio lungo inverno - scrive Enrico - mi avete dato calore… la vostra umiltà di gente normale mi ha affascinato e sorpreso”; oppure: “non ho mai ricevuto tante attenzioni da persone come te – fa sapere Luca che scrive al suo professore di Legatoria - e “sappi Alberto che non ti dimenticherò mai e che farò tesoro di quello che ho imparato da te” (71-72); oppure ancora: “cara Giovanna devo confidarle che mi manca il laboratorio” - confessa Matteo (86). Eppure, quelle parole di colore oscuro della vicedirettrice non si dimenticano facilmente, né sono poi così inopportune ai fini di una buona riuscita del saggio stesso, anzi diventano quasi provvidenziali, tanto che, nell’economia del testo, ogni sua parte ne guadagna, poiché tutto, d’ora in poi, diventa una sfida contro di esse. Già il titolo. Appunto, quando lavorare è bello? È bello quando, nel caso specifico, “l’allievo è in grado di riparare e rilegare libri, di usare la pressa a dorare e di confezionare agende e oggettistica per l’ufficio e per la casa”. E non solo, soprattutto quando può pensare al recupero e all’inserimento fuori, dopo che avrà finito di scontare la sua pena (14). Quando lavorare è bello. Lettere dal carcere è, allora, un libro nato, come i precedenti, da un’ esperienza lavorativa della scrittrice, ma che si distingue da quelli per il minore spazio lasciato alle cosiddette belle promesse, per cedere ormai il passo
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a sicure certezze. E Giovanna Rotondo, ormai, è una certezza. Non si può dire che sia nata, certo, una nuova Elsa Morante, una nuova Natalia Ginzburg, ma neppure che sia una scrittrice sprovveduta e improvvisata, poiché lei è dotata di un’autentica vocazione all’arte narrativa. Non interessa, per ora, che sia piccola o grande, interessa, al contrario, che lei abbia da dire delle cose non frivole e che le sappia dire in modo personale. Sebbene non faccia la letterata di professione, Giovanna Rotondo si mostra ben consapevole delle tecniche scrittorie. Lei si ricollega alla letteratura di certo realismo, ma è capace di spaziare nei significati più profondi delle sue storie, fino a scendere nelle pieghe più nascoste. E anche se al fondo di quello che racconta quasi sempre c’è una radice autobiografica, va subito precisato che i suoi recuperi memoriali, che riguardino un vissuto personale o sociale, avvengono di consueto in terza persona, quasi a porre, fra sé e la materia narrata, quel po’ di distacco necessario alla trattazione oggettiva. Giuseppe Leone
ALFREDO BRUNI LA DONNA CHE DIO NON VOLLE La Mongolfiera, CS, 2015, pp. 44, Collezione N° 3 di Le fanzine de la colpa. Alfredo Bruni mancava dal confronto diretto con la carta stampata da diversi anni: precisamente riprende i contatti con il mondo editoriale dopo vent’otto anni di assenza. E bisognerebbe capirne e approfondire i motivi, di strategia e convinzione, di questo enorme ritardo nel far conoscere i suoi scritti. Non che la sua presenza non ci sia stata nel contesto della comunità letteraria e artistica locale, regionale e nazionale, o che la sua penna sia stata inattiva. Non c’è e non c’è stato isolamento, perché questo non lo si può chiedere ad uno scrittore, tantomeno ad una mente attiva e creativa come quella di Bruni, che fa di ogni occasione d’incontro motivo del riavvio comunicativo con sé, gli altri e la società, il mondo intero. In questi anni di apparente assenza dalla stampa libraria Bruni ha continuato a scrivere, produrre opere letterarie e graffiare, provocare ideologicamente, accogliere il confronto e rilanciare proposte come è nel suo costume. E lo ha fatto, lo sta facendo utilizzando sia la poesia che la prosa. Intanto ha fondato la rivista e blog La colpa di scrivere e l’aperiodico Il pieghevole, nonché i Premi letterari Terre lontane e Una fiaba per l’ inferno, confermando, se ce ne fosse stato di bisogno, la sua voglia di attualità poetico letteraria, il fondamentale desiderio di impegnarsi come animatore
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e operatore di manifestazioni culturali e artistiche, la capacità di esprimere il senso e la generosità dell’ amicizia. Ora, dopo tanti anni, torna con un libro romanzo La donna che Dio non volle (CS, 2015), sei racconti tra loro collegati, edito in tiratura limitata, cinquantuno copie numerate e firmate dall’autore, con illustrazioni di Luigi Bruni, foto di Mimmo Aloise, dedicato ai lettori e agli scrittori colpevoli e che di sicuro farà discutere negli ambienti della cultura impegnata, nonché potrà aspirare ad una stampa di più ampia divulgazione su scala nazionale. Dalla lettura del testo ho nettamente percepito come, con modalità dialogativa e altamente coinvolgente, lo scrittore Bruni proponga una scrittura innovativa e dirompente, rispetto ai canoni tradizionali e dello scrivere e del giudizio morale e di ciò che si considera Bene. Prendiamo questi passi: Che cazzo stai scrivendo disse la pagina allo scrittore … a me quello che scrivi non piace (…) La pagina russava, lo scrittore capì che ce la stava per fare. Gli venne in mente Lucia che stavano per proclamare santa, e solo due cose lo impedivano. La prima che era ancora viva. La seconda che proclamando un’altra Santa Lucia, sarebbe nato un conflitto di interessi, perché la nuova Santa Lucia, voleva diventare più importante della vecchia e non si accontentava degli occhi … compare: lo scrittore, che cerca di contattare e esprimere la sua verità, di scrollarsi di dosso ogni incrostazione sociale e culturale e finalmente potersi liberamente esprimere per come detta la sua creatività ispirativa; la pagina che si ribella ad una sua funzione designata e fa l’ avvocato del diavolo, cercando di frenare la spontaneità impulsiva e vitale dello scrittore; la memoria e i ricordi, i pensieri della coscienza, che sfuggono alla censura della pagina, e che si imprimono, si impongono con tutta la loro forza, come piena consapevolezza dello scrittore che vuole storicizzare i suoi vissuti e credere privilegiatamente in quello di cui si fa esperienza; l’etica poi, che aleggia e si impone sulla realtà sociale, umana e esistenziale. Senza alcuna pretesa di analisi del testo, ho solo voluto mettere in luce come Alfredo Bruni fin dalle prime batture d’apertura del suo lavoro, ponga delle problematiche essenziali e fondamentali del vivere insieme, nella relazionalità comunicativa e d’ ascolto, che vanno dai costumi sociali e culturali ai fatti esistenziali e spirituali, e che, in quanto tali, coinvolgono le profondità dell’uomo e dello scrittore Bruni. Una scrittura d’impegno civile anzitutto, ma anche politico ed etico sociale, sempre svolto con la luce dell’intelletto e della coscienza, di una piena consapevolezza dialogativa che nasce dall’interno, dalla centralità e dall’anima dello scrittore, che si fa
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Persona, e che, per naturale conseguenza del senso dello scrivere, s’incontra poi con i percorsi dei suoi personaggi, presi dalla vita comune e dagli ambienti conosciuti, come valorizzazione del Luogo, e che il poeta e artista Bruni si trova a frequentare perché ci vive, e che vorrebbe perciò assumessero altro spessore e nella sua vita e nel contesto istituzionale. I personaggi che caratterizzano i luoghi e che emergono da questo libro sono persone appartenenti agli strati sociali più deboli, instabili economicamente, poveri e emarginati potremmo dire, ma non per questo deficitari nell’intelligenza e nel dono creativo, nonché anche ben dotati di capacità umane e di valori etici e estetici, perché perseguono il bello. Dice lo scrittore alla pagina: Adesso tu riposa, io esco a prendere una boccata d’aria. Arrivò fino a Schiavonea … in direzione di Itaca … Proprio da quelle parti aveva conosciuto Lucia, prostituta albanese, bionda come il sole che faceva l’ amore come una dea. Questi personaggi, presi dal mondo mitico e naturale, ma reali e carichi d’umanità, riescono a vincere su tutte le nefandezze, le pretese onnipotenti e gli sfrenati narcisismi di chi, altri personaggi che Bruni fa muovere sulla scena della quotidiana esistenza, brutalizza il rapporto e la relazionalità, con un arrivismo deficitario e acefalo, incurante di ogni sensibilità. Simbolo per tutti di questo personaggio dei nostri tempi, insensibile e centrato sul possesso e sul dominio, Bruni lo assegna ad una donna, senza ingerenze di genere, venuta male già dalla creazione divina, e che ogni intervento migliorativo non è purtroppo riuscito ad ottenere risultati apprezzabili. Potremmo definire la donna dal potere diabolico e divorante di ogni tentativo di contatto e di vicinanza, perché definisce solo il controllo sui suoi simili, come raffigurazione di un sapere corrotto e friabile, La donna, appunto, che Dio non volle, e che Alfredo Bruni né invidia né desidera, come metafora di un’umanità completamente priva di spiritualità, di cuore, di melodia artistica e di occhi idonei a scaldarsi con altra Bellezza del creato e da creare, da parte dello scrittore. Forse è bene ribadire, allo scopo di scongiurare frettolosi fraintendimenti, che la donna, in questo racconto di Bruni, è solo elemento simbolico di un’umanità corrotta; e che non ha nulla a che fare con la donna come genere che, anzi, in tutti i modi sta oggi cercando di svegliare l’uomo dal suo prolungato torpore, perché insieme, in coppia si cammini a costruire il mondo migliore che si vuole realizzare. E questo Bruni lo sottolinea varie volte e per tutto il libro, con una sensibilità unica e che apparenta a quella riconosciuta alla donna. Oltre le ragioni della pagina, assunta a personag-
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gio dialogativo interno, c’è poi la carica di speranza dell’anima bianca e innocente, aperta e disponibile al confronto, con tutti e per ogni elemento di dibattito, del poeta scrittore Bruni, che si propone e riesce nello scopo di offrire una scrittura originale, chiara e precisa, realistica, che sa come riprendersi ciò che gli appartiene, il proprio spazio di libertà, di intelligenza, di umanità verso una bellezza, ad iniziare dalla donna, da salvaguardare e rilanciare, rintracciabile nel racconto della bellezza delle ragazze donne che compaiono nei racconti e che scaldano il cuore e si riscaldano con il battito della vita cosmica. Ecco un esempio: Durante il viaggio incontrò un poeta che parlava con Alessia, bella come nessuno al mondo (…) Lo scrittore e la sua pagina spesso parlano di Alessia e vanno sulla centosei a farle compagnia. Lo spazio della pagina bianca, è alterità dello spazio incontaminato dello scrittore, che sa umanizzarsi e dialogare con ineguagliabile sensibilità, cosa oggi più che mai richiesta ad una scrittura che aspiri a fare cultura e trasmettere messaggi e valori, in una risoluzione di etica umanitaria e umanistica, alla quale la scrittura di Bruni certamente aspira, non disdegnando di potersi misurare con le asperità di un linguaggio che nasce dalla miseria e dall’ emarginazione, e che non a tutti forse potrà garbare. Alfredo Bruni nel portare avanti il continuum, a mo’ di romanzo, dei suoi racconti, fa perno sulla centralità del proprio sentire, costruito attraverso i dolori e i piaceri che la vita ha voluto mettergli davanti e che raccoglie con misurato equilibrio, in una scrittura che si fa carne viva d’esperienza di vita, valida da vivere, da scrivere e da condividere, far conoscere e trasmettere, per alimentare la buona conoscenza, non mercificata, all’interno del romanzo esistenziale dentro il quale si snoda, si svolge e si sviluppa la vita quotidiana di ognuno di noi. Pasquale Montalto
ROBERTO TORRE L’ARLECCHINO VOLANTE (Erredi, Genova, 2016 € 12,00) “Quasi d’appresso ai settant’anni / sulla via che arreca, forse, alla savietà / senza alcuna ostinazione / declinai la vita al buonumore” scrive Roberto Torre in Crucialità, la poesia d’apertura del suo nuovo libro di versi, L’Arlecchino volante, e fa con ciò una dichiarazione di poetica, dato che egli decide qui di “volersi divertire”, un po’ alla Palazzeschi, seguendo gli umori del suo burattino, che lo conduce in un “antimondo”, dove tutto può accadere, anche l’eventualità di trovare “l’uomo vero, / … l’
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uomo nuovo, / … l’uomo / più comico che c’è” (Confidenziale). Non più la lirica, quale espressione dei sentimenti dell’autore, dunque, insegue oggi Torre, giunto ormai all’età della saggezza, ma il divertimento e l’ allegra risata. “Senza biasimi né lodi, / ho dissipato la mia serietà / restituendola al gioco, / ché il riso / è la resurrezione dei vivi”, egli dice in Mi chiamo fortunato; e soggiunge in Elogio dell’allegria, con un palese richiamo a Cecco Angiolieri: “Se io fossi l’allegria / riempirei pagine d’ilari parole / e quelle grevi e stanche / lascerei ai miei piedi”. Vero è che in una delle prime poesie del libro, Block-notes, s’affaccia la satira che il poeta fa contro il proprio prossimo: “Parlo del vero / che porge le sue mani / per errore. / Parlo / del falso dell’ usuale. / Parlo del bene / che non succede al male. // Parlo del buio spirituale, / dove la responsabilità importuna / e la leggerezza è un peso”; il che ci fa comprendere come il “divertimento” di Torre non sia poi sempre tanto leggero, ma scavi a volte nel profondo con acre umore. C’è pertanto una diversità di atteggiamenti in questa silloge, che rivelano il differente modo di porsi del poeta di fronte al suo tema, quello del “divertimento”, sicché egli può dire non solo: “Sono il sosia di me stesso / emigrante della mia risata” (Identikit), ma anche, con maggiore intensità: “Ho il pensiero a scoppio / a scoppio di passioni, / alcune non autorizzate. / Possiedo la vita / quanto più essa mi sfugge” (L’esubero). C’è inoltre in Torre una diversità di registri, che talora lo porta a degli accostamenti culturali, come questo, che lo riconduce a Caproni: “… faccio ritorno sempre qui / da dove non sono mai partito” (Identikit), mentre altre volte lo conduce a delle amare riflessioni, quali: “… le verità sono soltanto sviste / in attesa di essere smentite” (Dislocazioni). Felici certe aperture, quali quella di Salve a te, che costituisce una sorta di inno al sole: “Ti saluto / grande sole levantino / dolce, tenero frutto / come l’ occhio di un Dio” o quella de Il vecchio codirosso: “Un vecchio codirosso / incappucciato volteggiò / in un ghirigoro / sopra il balcone”. E felici anche certe immagini, quali: “Dio era il cielo / di quella notte stellata” (Emozione intima) o “Bevo l’arsura delle mie parole” (Fuori). Un libro volto non soltanto al “divertimento” e al “gioco” L’Arlecchino volante, dato che in esso s’ incontrano anche testi, tra i più significativi, di schietto movimento lirico, come Alla maniera dei simbolisti, da Torre dedicata alla madre: “A volte ritorni / alla calda brezza della sera, / iscritta in un profilo / come la ruggine di un soffio / che s’incrina / sull’acqua ferma e vola” o Per il tuo compleanno
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e Quasi un madrigale, dedicate alla moglie. Leggiamo dalla prima: “Siamo sempre noi, gli stessi di ieri / una storia minima, / un dettaglio, / taciuto nell’intendersi / del suo vociferante accadere” e dalla seconda: “La mia sposa / ha occhi di lusinga / truccati di turchese. / Si pettina i capelli / col garbo del suo stile”. È da notarsi inoltre (e la cosa non è di poco conto) che “l’Arlecchino volante” di Torre oltre che momenti di umore allegro (quali quelli di Rime amorose: “Io punto tutto / sulle allegre compagnie, // non voglio più sentire / brutte notizie, / avere / cattivi pensieri”; Sommari: “Adesso vivo qui / tra l’ idillio dei coltivi / e gli spiriti buoni dei boschi”; Ho cambiato vita: “In un gesto mai uguale / sopra quaderni profumati / traccerò parole / come lucenti / monili di ciprea”; Alla fiera dell’uomo tranquillo: “… ci sono tante strade / che ancora si possono percorrere / ci sono tante aurore / che ancora devono risplendere”), ha anche momenti di turbata armonia (quali quelli di Dio e la fortuna: “Siamo spiaggiati / sopra una poltiglia nera, / tra le paludi delle acque morte”; L’altro volto del vento: “Sono sgusciato via / da questa spuria provincia dell’ apparire, / da questa giostra dei pazzi / al suo penultimo giro”; Ascolta: “Tu non t’avvedi / delle dinamiche convulse / di questo nostro vivere a sproposito, / degli smagati sguardi di noi / inquieti e sospettosi indagatori?”). Né manca in questo contesto una vera e propria critica sociale, che dà luogo ad una risentita forma di poesia civile (messa bene in luce da Mirna Brignole nella sua lucida prefazione alla silloge), affiorante ad esempio da Come un Top manager: “… in questo global mundi / che ci affratella, / l’ unica produzione limitata / è quella dello Spirito. // Siamo alla bieca, affascinante visione / dell’utile e del profitto” o da Ritrarsi è un dono: “… sulla Terra che dirocca / l’economia è un dolo / e un’impassibile ironia / già irride di saggezza il mondo”. Tra divertimento e ironia, allegria e cupo ripiegamento interiore, Torre ha scritto così il suo nuovo libro di versi, nel quale dimostra di aver raggiunto un suo traguardo anche stilistico, per l’equilibrio del suo verso libero, sempre dotato di un suo ritmo ben marcato e di un sicuro andamento. Certo è però che Torre un suo traguardo lo ha raggiunto trovando l’equilibrio tra negazione (a causa del male) e affermazione (a causa del bene trovato nella vita), se nell’ultima poesia del libro, Dentro (una specie di chiave di lettura di tutta la raccolta, che reca in exergo: Fuori testo), dopo aver iniziato col dire: “Ci hanno frugato, rovistato dentro / perquisito l’anima, la mente / sommini-
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strato / narcotici e tv / … / e ci sono cresciute erbacce / dentro, dure da estirpare… “, può così concludere: “Ma il cielo / è sempre più leggero / d’una serena, tranquilla, / spensierata indifferenza”. Nel che sta poi la vera conquista del suo Arlecchino volante, che col sorriso e l’allegoria, tra la concretezza del reale e la favola, scopre molte ignorate verità per noi tutti. Liliana Porro Andriuoli
ERALDO GARELLO NEL REGNO DELLA TALPA Giulino Ladolfi Ed., 2017 Il titolo di per sé produce inquietudine. La talpa opera nell’oscurità. Il suo regno è la terra. L’ oscurità spaventa perché non possiamo distinguere ciò che si cela in lei. Il testo, da una parte attrae, dall’ altra respinge. È il pathos dell’ indefinito. Siamo nel tempo e fuori di esso. La sapienza dello scrittore si manifesta attraverso i ricordi e con personaggi affioranti da un passato che ha una data ma è attuale e avvolgente nelle descrizioni del protagonista Alain Renoir. L’ azione si svolge a Vienna nel 1981 la cui descrizione denota una profonda conoscenza dei luoghi ma il protagonista con sapienti flash back, delinea Parigi e Algeri e ci fa oscillare in tempi e luoghi diversi. Sia i luoghi che i personaggi sono accomunati dalla violenza. Nelle descrizioni ricorrenti dell’Algeria, il viso di Alain risulta pallido, non contaminato dall’ ardente sole del deserto e dal fuoco algerino. Il suo lavoro nella Legione Straniera si svolgeva nella oscurità tra interrogatori, torture e crudeli abiezioni. Al presente una malattia terminale ai polmoni; il bisogno di morfina che lo porta ad accentuare la sua psicosi e quel continuo riandare a momenti agghiaccianti della sua esistenza sia passata che presente. Tra i più cruenti il ricordo del suo rapporto con Elisabeth, amante e torturatrice della sua adolescenza che lui ricerca, seduce per poi straziarla con un pugnale. Si passa da un tempo ad un altro e in lui ricordi maculati si alternano a dubbi, certezze per poi confluire nella determinazione di un futuro omicidio fatalmente collegato per la sua realizzazione a personaggi del passato come Vincent, compagno di antica data. A mio parere l’originalità del testo è dovuta in gran parte sia ai dialoghi d’impostazione filosofica, sia a quella irrequietezza temporale che ci trasporta spesso in una atmosfera surreale e metafi-
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sica. Sin dall’inizio della narrazione si ripetono in varie sequenze incontri su un treno “...con queste locomotrici moderne più che altro si avverte un rumore frusciante, come un sibilo metallico ovattato e persistente... ho come l’impressione di essere aspirato in un cono d’aria, come se ci fosse una pressione negativa esterna che risucchia il treno in una voragine infinita...”. Sul treno un interlocutore vestito di bianco; non gli si può attribuire un’età; occhiali con stanghette d’oro e le iridi di un grigio chiarissimo. C’è un’ambigua ostilità nell’uomo; conduce dialoghi colmi d’interrogativi che affascinano creando ansia. A mio parere il filo narratore del romanzo è imperniato su l’uomo misterioso del treno-presenza-assenza e il protagonista. Questo dialogare che può essere di ore, attimi, crea una subdola suspence. L’uomo del treno dal fisico elastico, contrasta col bianco delle sopracciglia tipico di chi è avanti con gli anni ed ha uno sguardo come “una stilettata di fuoco”. Anticipa le sensazioni di Alain; ne accentua l’inquietudine. Non è dato comprendere se la sua presenza è reale o proiezione della interiorità dell’autore, delle sue contraddizioni. È come essere di fronte a uno specchio a più facce. Questi incontri marcano l’ inizio e la fine del romanzo. Il testo ci condiziona; gli occhi assimilano le pagine in un vagare atemporale segnato da violenze, angosce ma anche da umani sentimenti di paura e di amore. Una donna si inserisce nel racconto a Vienna; Barbara, dal fascino fisico trascinante che crea in Alain desiderio di possesso molto forte ma impossibilità di appagamento. Accarezza quel corpo ma non può penetrarlo. Lei vorrebbe aiutarlo ma in lui questa possibilità non c’è; è il regno della talpa ma è anche luogo di attimi, bagliori; il protagonista disgusta, affascina, impietosisce. Il tutto si svolge attraverso la fluida ricchezza del linguaggio. La conclusione di un giallo non può darsi; però se ne possono anticipare le emozioni che scaturiscono dalla profondità delle sensazioni assimilate nella lettura. Nei personaggi ho creduto di intravedere gli aspetti molteplici e contrastanti del protagonista, la sua volontà distruttiva ma anche un impeto di rinascita, di superamento di un destino già delineato. Il tempo fatalmente perviene al suo naturale compimento. Di fronte a noi l’ uomo e il suo doppio. Specchio che riflette e in quel riflesso la talpa si cela serrata nell’ombra, presaga della fine ma che forse brama un ritorno alla luce. Luce, però, troppo intensa perché possa appropriarsene, anelito di libertà legato ad un sempre suo diverso esistere. Anna Vincitorio
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CORE CHE SE SQUAGLIANO PE’AMMORE O’ neputiello vuleva ‘a nonna primm’’e s’addurmì, pe’sentì tutte ‘e sere o’ nduvinello. L’ata sera ‘a vecchia ‘le dicette: “Uno fatica, adda tirà ‘a carretta zitto e muto, senza manco ‘o diritto ‘e parlà; e quanno parla ‘e parole soje so’ sulo sciucchezze pure quanno, è overo comme ‘o sole, so’ accorte e chine e’ verità. A pere a pere è fatta ‘a vita soje, ‘na lira sulo pe’ sigarette e ‘nu cafè ogni tanto, chisto è tutto ‘o lusso, abbascio ‘o Gambrinus ‘o Plebiscito. Tutte‘e sere, turnato da’ fatica ‘na cosa dinta ’a panza, po’ stracquo ’a lietto pe’ ffnì ‘a jurnata. E mentre dorme ‘o tene scritto ‘n faccia ca vulesse fa ‘chissà ch’ cosa pe’ cagnà, sulo pe’ vuje, chesta vita soje, ‘N ata se sceta ampressa tutte ‘e matine, ‘a primma a sta’ co’ père ‘nterra. Dice ch’è bell’, ca’ l’ piace ‘a casa muta. Nun è ‘o vero:è pecchè adda ‘ra essa ‘a bbona jurnata a chi s’ sceta ogni matina. Fatica allera e senza ricumpenza, dice ca’ sta sempe bona pure cu l’uocchie ‘e freva. ‘A vide sempe surridente pure quanno s’asciutta ‘ e lacrime pe’ ppene che se tene strette int’ ’o core. Pe’ nun fa’ suffrì ‘a famiglia dice ca un è niente, ca so’ e ‘ cipolle, ’na cosa int’ all’uocchie, o ‘a scusa ‘e sempe, ch’ se sta lavanno, mentre dinta ‘a tuvaglia s’annasconne ‘a faccia. So’ duje che nun te tradiranno maje, l’uneche duje veri amici tuoje che te vonne bene overamente pecchè l’ammore lloro è fatto sulo ‘e sentimento. So’ core che se squaglianno pe’ ‘ammore. Fernuto ‘a vecchia ‘l addimannaje: chi so ‘sti duje? Dimme? Nun l’he’capito ancora? Che stai dicenno? Aiza ‘a voce bell’ d’a nonna, ca nun c’ sente !
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Si!So ‘a mamma e ‘o pate! Strilla ‘sti nomme ,dill’,dill’ fort’ , ricuordte ca ‘e lloro nun t’è piglià mai scuorno. Ma mò ca faje?Dimme pecchè stai chiagnenne? Accussì s’ addurmette poco aropp’ ‘a criatura, co’ ‘a faccia felice e ncoppa ‘a vocchella ‘nu surriso. Salvatore D’Ambrosio Caserta
CUORI FUSI PER AMORE Il nipotino voleva la nonna prima di addormentarsi, per sentire tutte le sere l’indovinello. L’altra sera la vecchia gli fece questo: “Uno lavora, deve procedere in silenzio, senza nessun diritto di parola; e quando parla, le sue parole sono solo sciocchezze anche quando, è vero come il sole, sono accorte e piene di verità. A piccoli passi conduce la sua vita, i soldi solo per le sigarette e un caffè ogni tanto, questo è tutto il lusso, al Gambrinus in piazza del Plebiscito. Tutte le sere, al ritorno dal lavoro qualcosa nello stomaco, poi stanchissimo a letto conclude la giornata. Mentre dorme porta scritto in viso che vorrebbe fare qualsiasi cosa per cambiare, solo per la famiglia la sua esistenza. L’altra si sveglia presto tutti i giorni, la prima a mettere i piedi a terra. Dice che le piace, perché ama la casa silenziosa. Non è vero: è perché deve lei dare il buongiorno. Lavora allegra e senza ricompensa, dice che sta sempre bene anche febbricitante. La vedi sempre sorridente anche quando si asciuga le lacrime per le pene che ha nel cuore. Per non impensierire la famiglia dice che non è niente, che sono le cipolle che sta tagliando, una cosa negli occhi,
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o la solita scusa che si sta lavando il viso che nasconde nell’asciugamano. Sono due che non ti tradiranno mai, gli unici veri amici tuoi che ti amano veramente perché il loro amore è puro sentimento. Sono cuori che si fondono per amore.
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perché il dolore e il pianto il cuore detergono dalla sofferenza, il sorriso riportano, la pace e la rassegnazione. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo al Volt. (IS)
GIORNATA DI PIOGGIA Terminato la vecchina gli chiese: chi sono questi due? Dimmi? Non lo hai ancora capito? Cosa stai dicendo? Alza la voce bello di nonna, che non sento! Si! Sono la madre e il padre! Grida questi nomi, gridali, gridali forte, ricordati che di loro non devi mai vergognarti. Ma adesso che fai? Dimmi perché stai piangendo? Così si addormentò poco dopo Il bambino, con la faccia felice e sulla boccuccia un sereno sorriso. Salvatore D’Ambrosio
triste, opaca giornata; dalla finestra vedo i tetti gocciolanti, levigati i pioggia. I due piccoli pini, stremati chiedono un po' di calore, un po' di sole, ma solo pioggia cade dal plumbeo cielo in fondo al cortile un coccio di vetro risplende, verde smeraldo giace lì da tanto tempo, non l'avevo mai visto E' come un richiamo al futuro di luce, di sole che verrà dopo tanta pioggia. Adriana Mondo Reano, TO
Caserta
E IO TI ADORO LA FELICITÀ La felicità dura un attimo, un attimo soltanto, ma in quel breve lasso di tempo un segno nell'animo incide, indelebile. Intensamente lo viviamo quell'attimo e lo godiamo con gioia interiore che non dirada, che viva rimane nel tempo e nella memoria. Nello scrigno segreto lo conserviamo del nostro microcosmo, insieme ad altri attimi, felici, perle del nostro sentire, ori preziosi, cristalli nei quali tuffarci ogni volta che il peso ci schiaccia, delle angosce. Lo riscopriamo, e con rimpianto lo ri-viviamo, con tristezza e pianto, e tosto conforto ne riceviamo
Sono qui ad aspettare una carezza dal cielo, anche il sole si è nascosto dietro le nuvole che si rincorrono nel vento, per non seccare il tenero germoglio della mia preghiera. Fammi parte del tuo incontro d’amore, tu Gesù, con il Padre e lo Spirito Santo; apri la ferita più profonda e lascia che la mia anima trovi il suo posto dentro di te; fa che io respiri con il tuo respiro. Che io pensi con i tuoi pensieri, che io ami come ami tu. Sono ingrata Signore e tu lo sai perché l’anima mia si sente sola e spera che altri guardino la sua solitudine.
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navigando tra le parole Ma quando il cielo si rasserena sento che solo in te riposa l’anima mia ed io ti adoro SS Trinità Rosalia Sanfilippo Roma
distolgo lo sguardo ed accolgo preghiere l’anima ambisce beatitudini dà valore a questo giorno e ne conserva memoria.
NOSTRI LEUDI Prima o poi anche i nostri “leudi” personali, come quelli reali, arriveranno, dopo solerte navigazione, nel porto della quiete, con la vela latina ammainata.
Sarà il gesto di un cammino senza cuore ad esigere il silenzio di un amore. Lorella Borgiani Ardea
E taceranno – infine – tempeste ed affanni e scorreranno ormai senza scossoni i mesi e gli anni. Non guarderemo più direttamente il sole d'oro o le meravigliose stelle brillanti nei cieli notturni, ma vivremo, anche, di penombre, di prudenze, e di sagge rinunce. Saranno ancora belli i nostri leudi lo saranno per sempre ma, come quelli reali, soltanto da ammirare nel ricordo e nella nostalgia. Il tempo fugge, e non si ferma un'ora. Tutto si evolve, e a volte si migliora. Luigi De Rosa Rapallo
CATARSI Scorso è il tempo dell’oblio feconda mutevolezza partorisce nell’inconscio una catarsi di gesti. Nell’ascesa ammiro il cielo
I PENSIERI DELLA PSICHE Scorrono separati, ma sono rannodati; fili comuni hanno fra loro, sono gruppi particolari e girano in armonia con il respiro, punti che si richiamano in piena vitalità con quanto si muove intorno a noi; stati psicologici e aspetti della Natura, pensieri che ci tormentano che sono forze dentro, si aprono nella mente, fermentano, ci fanno andare, ci innalzano, fanno amare. La concretezza che cerca le precise connessioni, il freddo ripensamento che sistema le circostanze. Patimenti, stati d’ansia, momenti felici. I desideri che si accendono di piacere, le mani di donna che raccolgono e trasmettono, calde e fini, al tatto le senti come un tessuto di fili che si allungano e si intrecciano. Sono piene, si allargano morbide attorno agli oggetti che ti guardano vivi. Le mani di donna sopra il viso per far scorrere dell’alimento, aprendoti gli occhi un medicamento è lo sguardo. Rivestono la casa che si raccoglie e si distende come manto stretto fra le braccia. I pensieri della speranza: dal tutto scomposto una realtà rifatta si vuole, i giri della Provvidenza
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sono lunghi. Io voglio niente, sono con i tempi del poco e delle ristrettezze, della casa e degli affetti, dei modi assennati e dell’educazione. Si stava attenti alle parole che si dicevano: l’ordine e il rispetto, parallelismi e corrispondenze. Si amano tutte le cose, sembrano fiori, le tocchiamo con il soffio delle labbra, giriamo intorno al grembo della mamma che si allarga e ci prende insieme trepidanti. Il subconscio è stratificato, ti porta con pochi segni a disegnare figure: le immagini formate si fanno per te, con gli occhi hanno pure dentro un movimento che le fa stare vive, non le forme uguali che non vedi, tutte ammassate, non ti appartengono. Leonardo Selvaggi Torino
IL CANTO DELLA VITA Sto qui, pensoso, sdraiato sulla sabbia. Misuro il tempo con la clessidra della mia mano. Il sole mi ferisce le spalle nude. E il tempo mi percuote giù per la china precipite degli anni. Vivo? Non so. Sogno? Non so. Si frange l’onda flebile sul lido, nel gran silenzio estivo. Mi volgo. Guardo. O meraviglia! Nuda emerge dall’acqua, bianca ninfea,
o Venere divina. Sei nuda. Sei splendida, o bella o dolce o pura, vergine bionda. Scendono lentamente dai tuoi capelli umidi gocce d’acqua salmastra. Adornano i tuoi seni i mobili diamanti. I tuoi occhi son pieni di azzurro e d’infinito. Hai nei capelli il sole che m’infiamma. Su vieni. Corri sulla sabbia rovente. Sei come la libellula, velata di turchino, che danza nella luce dell’ora meridiana, là, su lo stagno verde, fra i taciti giuncheti. Or vieni dunque. Resta con me, ti prego, e conversiamo insieme. Il sole è alto ancora: non ci fa fretta l’ora. Risuona il mare, ora più forte, ora men forte. Ascolta. Non senti? Tra breve scenderà la sera. Vola su l’onda l’ultimo gabbiano, querulo e lento, cercando la compagna per la notte incombente. Vieni con me, ancora ti ripeto. Ti condurrò per mano laggiù tra i pini di resine olezzanti. Andiamo. Vieni. Corriamo alla pineta.
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POMEZIA-NOTIZIE Tra il folto dei cespugli di rose e di ginestre aspetterem la notte, la nostra breve notte ch’è fatta per amare. Tramonta il giorno. Ecco. Spuntano le prime stelle nel cielo che scolora. Brillano incerte, timide quasi del giorno che si muore. Contiamole. Non vuoi? Una... due... tre... Guarda: lassù un’altra. E un’altra ancora sul mare, più lontano. Presto la notte a noi darà rifugio. Ci avvolgerà di tenebre d’aromi d’incantesimi. Io sognerò i tuoi baci e le carezze. Le labbra affonderò nella tua pelle vellutata e nivea. Scorrerà la mia mano agevole e veloce giù, lungo la linea sottile del tuo corpo. La bocca cercherò con la mia bocca. A te mi stringerò, ti stringerò più forte. Nella mia fiamma t’avvolgerò bruciando. Le dita affonderò ne’ tuoi capelli, che odorano di salso di resina e di muschio. Di te mi sazierò. Ti parlerò d’amore nel dolce incanto de’ tuoi occhi stellanti. Le bianche membra
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t’inonderò di petali di rosa e di foglie di mirto. E tesserò corone a te di fiordalisi, per la tua fronte, divina creatura. Il miele suggerò dalle tue labbra. E quando, quando tu ritrosa mi dirai, in tono ardito di rimprovero palese: - Perché... perché fai questo? Che hai? Lasciami... Lasciami andare. Non voglio, tu... non devi. Allora di rimando, attonito e confuso, io ti risponderò baciandoti le mani: - Come son belli, Sandra, i tuoi capelli biondi. Sorge l’aurora già da oscure lontananze e si fa giorno. Svanisce il sogno inutile. Si perde nell’azzurro che esalta il tuo ricordo. Enrico Ferrighi Da Carmina - Ed. Pomezia-Notizie, 1983.
LIBRI RICEVUTI RINA D’AMORE - Ferraù e i “Grumi di Terra” - Saggio critico, tratto dal volume della stessa autrice intitolato “Le Parole per la Musica”, Intilla Editore. Rina D’AMORE, già titolare della Musica ed estetica Musicale presso i Conservatori “F. Cilea” di Reggio Calabria e “Corelli” di Messina, è anche autrice di diversi libri fra i quali “La musica sacra messinese dell’800”, ricerca rimasta finora unica nel settore. **
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FRANCESCO ARMETTA (a cura di) - Dizionario Enciclopedico dei Pensatori e dei Teologi di Sicilia, Secc. XIX e XX. Stralcio, dal Vol. III, delle Note Bibliografiche di Nino Ferraù - Salvatore Sciacca Editore. Lo Stralcio reca la firma di G. Amato. La stampa dello Stralcio è dovuta al Centro “Mons. A. Travia” per lo Studio della Storia e della Cultura di Sicilia, Facoltà Teologica di Sicilia in Palermo, Arciconfraternita S. Maria Odigitria dei Siciliani in Roma.
TRA LE RIVISTE IL CONVIVIO - Periodico fondato da Angelo Manitta e diretto da Enza Conti – N.67 - ottobre/dicembre 2016 – 65 pagine - Ho ricevuto la Rivista “Il Convivio” grazie alla mia attività di recensioni per Pomezia – Notizie, mensile, fondato dal Prof. Domenico Defelice. Le pagine sono piene di articoli interessanti. Sono articoli culturali di svariato genere: scientifico (astrofisica, geologia), sociale (fra cui la Sicilianità delle origini, del dialetto/lingua e delle più belle tradizioni), storico/civile, di attualità, artistico (con illustrazioni a colori di bellissime opere di pittori di cui viene delineato il profilo critico) e naturalmente, letterario, che comprende una sezione riservata ai Racconti, una alla Poesia - non solamente italiana e spesso tradotta in altre lingue, ma anche liriche di autori stranieri, quali rumeni, francesi, statunitensi e di lingua spagnola, tutte con varie trasposizioni linguistiche -; inoltre, ci sono le Recensioni, coordinate e selezionate da Enza Conti, di molti scrittori provenienti da tutta Italia. In questa Rivista, ho trovato interessante la recensione di Giovanni Tav’car: “Il cuore perso a Cipro” di Denis Poniz. E’ una descrizione suggestiva dell’isola di Cipro con il suo fascino e la sua storia. Fra l’altro viene descritta l’inquietudine di vivere in un posto, diviso in due parti abitate dai turchi e dai greci. Altra recensione interessante, a cura di Corrado Calabrò, è “La Creazione” di Kjell Espmark: “ la distinzione fra passato e presente non è così reale come comunemente si crede. E Einstein quasi duemila anni dopo Sant’Agostino ci ha rivelato scientificamente la compresenza di presente e passato. Noi vediamo cosa è accaduto miliardi di anni fa vedendo una stella lontana, oppure si può viaggiare nel futuro se ci si muove alla velocità della luce per qualche anno. Sulla terra al ritorno saranno passati secoli!!”. Fra i quadri recensiti da Adriana Repaci mi ha col-
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pito il quadro di Lorenzo Filippi (Torrebelvicino – Vicenza) “Papa Francesco”. Dice, fra l’altro, Adriana Repaci di quest’opera: “La mano destra che Papa Francesco solleva come segno di saluto e benedizione è un elemento importante nella simmetria della posa e completa il linguaggio del volto sul quale un solare sorriso comunica gioia e serenità.” A pag. 43 si trova il commento di Maria Vadalà sull’opera di Domenico Defelice: “ Nino Ferraù”, pubblicata sul Croco. Domenico Defelice dedica una monografia alla vita e alle opere di Nino Ferraù, realizzando un quadro ben chiaro e nitido della personalità umana e artistica di un uomo, che è stato: scrittore, poeta, critico, giornalista, ma anche pittore e grafico. Vediamo pure foto e notizie su Cerimonie ufficiali, Conferenze e Convegni, tenuti in Italia e fuori, tutti organizzati da “Il Convivio” - Accademia Internazionale. Vengono anche enunciati molti Bandi di Concorsi Nazionali ed esteri. Davvero una Pubblicazione culturale ricca, a vasto raggio e altamente impegnata, con lavori di ottimo livello. Complimenti! Giuseppe Giorgioli * KAMEN’ - Rivista di poesia e filosofia della Libreria Ticinum Editore, direttore responsabile Amedeo Anelli - viale Vittorio Veneto 23 - 26845 Codogno (LO) - E-mail: litz.b@libero.it Riceviamo il n. 50, gennaio 2017, dedicato, per la Letteratura e giornalismo, a Giuseppe Bonura, a cura di Alessandro Zaccuri e per la Poesia a Remo Pagnanelli, a cura di Erika Nicchiosini. Materiali, Ariberto Mignoli, a cura di Daniela Marcheschi. Il volume, di pagg. 114, costa 10 Euro. * IL CENTRO STORICO - organo dell’ Associazione Progetto Mistretta, Presidente Dott. Nino Testagrossa, direttore responsabile Massimiliano Cannata - via Belvedere 31 - 98073 Mistretta (ME) E-mail: Ilcentrostorico@virgilio.it - Riceviamo il n. 1-2 (gennaio-febbraio 2017), con in prima pagina “De Mauro: la competenza linguistica al servizio del popolo”, di Massimiliano Cannata. Altri pezzi da segnalare: “Zitta, devi stare zitta!”, di Franca Masserelli; “Mappe: rassegna “Padova Legge” a confronto Gianfranco Ravasi e Luciano Violante. Radici, identità e globalizzazione: analisi e prospettive”; “La storia dei Lager ritorna nei riconoscimenti”, di Franca Sinagra Brisca; “Perché Gesù è nato il 25 dicembre?”, di Francesca Maria Spinnato Vega; “Viva Sammastianu!”, di Lucia Graziano; “Mons. Guglielmo Giombanco è il nuovo Vescovo della Diocesi di Patti”, di Santino Cristaudo;
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“Riapre il “nostro” Cinema”, di Giuseppe Ciccia; “Impegno pedagogico e idillio nei racconti per ragazzi di Luigi Capuana”, di Maria Nivea Zagarella; “La creatura oppressa in L’Iguana di Anna Maria Ortese”, di Afef Lemkacher; “Le pause della vita”, di Lucio Bartolotta; “Emigrazione e poesia”, di Lucia Graziano. * IL PONTE ITALO-AMERICANO - Rivista internazionale di cultura, arte e poesia fondata e diretta da Orazio Tanelli - 32 Mt. Prospect Avenue, Verona, New Jersey 07044,973-857-1091, USA - Riceviamo il n. 4, Winter 2016. Segnaliamo: “Gerardo Bianco La balena bianca. L’ultima battaglia 1990-1994”, di Orazio Tanelli; “Le “Immagini di periferia” raccontate da Aldo Marzi”, di Carla D’Alessandro; “Marco Polo”, di Frank Roselli; “Inaspettato, mi giunge il primo dei quattro volumi di saggistica di Salvatore Veltre, da anni esaurito”, di Anna Aita. * FIORISCE UN CENACOLO - mensile fondato nel 1940 da Carmine Manzi e oggi diretto da Anna Manzi - 84085 Mercato S. Severino (SA) - E-mail: manzi.annamaria@tiscali.it Riceviamo il n. 1-2 (gennaio-marzo 2017), sul quale notiamo le firme di: Anna Aita (“Aldo Marzi, “Totò e Pinocchio” “), per esempio, Leonardo Selvaggi (parecchi pezzi, tra cui “Il clientelismo e i raccomandati i primi nemici dei disoccupati”), Orazio Tanelli eccetera. * MAIL ART SERVICE - Organo dell’Archivio di Mail Art e Letteratura “L. Pirandello”, diretto da Andrea Bonanno - via Friuli 10 - 33077 Sacile (PN) . Riceviamo il n. 97 (marzo 2017) dal quale rileviamo, in particolare: “Le “visioni culturali” della poesia della Pelizza come riflessività commisurativa per l’attivazione dei veri valori umani”, di Andrea Bonanno; “Van Gogh e la pittura “verificale” di Andrea Bonanno”, di Vincenzo Gasparro. * POETI NELLA SOCIETÀ - Rivista letteraria, artistica e d’informazione diretta Girolamo Mennella, redattore Pasquale Francischetti - via Parrillo 7 80146 Napoli- E-mail: francischetti@alice.it Riceviamo il n. 81 (marzo-aprile 2017), nel quale incontriamo le firme di Isabella Michela Affinito e Susanna Pelizza, entrambe anche nostre collaboratrici. * L’ERACLIANO - organo mensile dell’Accademia Collegio de’ Nobili - fondata nel 1689 -, diretto da Marcello Falletti di Villafalletto - Casella Postale 39 - 50018 Scandicci (FI) - E-Mail: accademia_de_nobili@libero.it Riceviamo il n. 228-229-
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230 (gennaio-marzo 2017), dal quale segnaliamo la cerimonia di premiazione del Concorso “Danilo Masini”, la cui Giuria era composta da Marcello Falletti di Villafalletto (Presidente e fondatore del Premio), Maria Teresa Santalucia Scibona (Presidente onorario) e da Libera Bernini, Lucia Lavacchi Burzi, Giorgio Masini, Anna Medas, Lea Pesucci, Luisa Raffaelli e Alberto Vesentini; “La Misericordia in mostra a Asti”, di Gian Giorgio Massara; “A colloquio con Mons. Dante Lafranconi Vescovo Emerito di Cremona”, di Carlo Pellegrini; “Apophoreta”, rubrica recensiva di Marcello Falletti di Villafalletto. * ntl LA NUOVA TREIBUNA LETTERARIA - Rivista di lettere ed arte fondata da Giacomo Luzzagni, direttore responsabile Stefano Valentini, editoriale Natale Luzzagni, vicedirettore Pasquale Matrone - via Chiesa 27 - 35034 Lozzo Atestino (PD) - E-mail: nuovatribuna@yahoo.it -. Riceviamo il n. 126 (aprile-giugno 2017). Da leggere: “La sottile linea gialla (2° parte): Li Wentao, Lu Jianjun, Cui Xiuwen, Liu Xiaodong, Fang Lijun”, di Natale Luzzagni; “Umberto Saba”, di Luigi De Rosa; “Aleksandr Aleksandrovič Blok”, di Liliana Porro Andriuoli; “Hart Crane, le rigide intrusioni del cuore”, di Anna Vincitorio; “Luciano Luisi, i versi di una vita”, di Elio Andriuoli; intervista a Luisa Puttini Hall, di Pasquale Matrone; “I luoghi di Sebastiano”, di Rossano Onano; la recensione di “Oltre i respiri del tempo” di Marina Caracciolo sulla poesia di Ines Betta Montanelli, di Luigi De Rosa.
NOTIZIE IL MONDO DELLE LETTERE HA PERSO IL SUO CRITICO MAGGIORE: GIORGIO BÁRBERI SQUAROTTI - Domenica 9 aprile, all’ospedale Maria Vittoria di Torino, è morto, per un attacco cardiaco, il critico, poeta e scrittore, Prof. Giorgio Bárberi Squarotti. A confortarlo, gli erano vicini i figli Giovanni e Silvia. La Direzione, la Redazione, i Collaboratori e i Lettori di Pomezia-Notizie si uniscono al dolore della Famiglia. L’ultima sua lettera a noi indirizzata è dell’ undici gennaio 2017, nella quale si notava lo squilibrio tra lei e tu, segno del costante peggioramento delle sue condizioni generali di salute: “caro Defelice,// auguro anche a lei un anno sereno e fruttuoso per le sue attività culturali. purtroppo da una
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quindicina di giorni la mia vista è molto indebolita: non leggo e non scrivo quasi niente. Puoi immaginare la tristezza delle giornate. Spero che le cure mi diano qualche giovamento.// Con i più vivi saluti,// Giorgio”. Giorgio BÁRBERI SQUAROTTI era nato a Torino il 14 settembre 1929. Allievo di Giovanni Getto, ha insegnato Letteratura Italiana all’Università di Torino dal 1967 al 1999. Alla morte di Salvatore Battaglia, è stato nominato responsabile scientifico del Grande Dizionario della lingua italiana UTET. Sin dalla metà degli anni Cinquanta, l'interesse di Bàrberi Squarotti si è volto al rinnovamento delle forme poetiche nelle avanguardie europee e americane. Ha pubblicato fondamentali opere critiche su figure e tempi della letteratura italiana. Saggi: Astrazione e realtà (1960), Poesia e narrativa del secondo Novecento (1961, 1967, 1971, 1978), Metodo, stile, storia (1962), La poesia italiana contemporanea dal Carducci ai giorni nostri (1963, 1973, 1980), La narrativa italiana del dopoguerra (1965, 1968, 1975), Pagine di teatro (1965), Teoria e prove dello stile del Manzoni (1965), La cultura e la poesia italiana del dopo guerra (1966), La forma tragica del Principe e altri saggi sul Machiavelli (1966), Simboli e strutture della poesia del Pascoli (1966, 1976), Camillo Sbarbaro (1971), Il gesto improbabile. Tre saggi su Gabriele D'Annunzio (1971), L'artificio dell'eternità. Studi danteschi (1972), Il codice di Babele (1972), Manzoni. Testimonianze di critica e di polemica (1973), Gli inferi e il labirinto. Da Pascoli a Montale (1974), Poesia e ideologia borghese (1976), Fine dell'idillio. Da Dante a Marino (1978), Le sorti del tragico. Il novecento italiano: romanzo e teatro (1978), Il romanzo contro la sto-
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ria. Studi sui Promessi sposi (1980), Dall'anima al sottosuolo. Problemi della letteratura dell'Ottocento da Leopardi a Lucini (1982), Giovanni Verga. Le finzioni dietro il verismo (1982), Invito alla lettura di Gabriele d'Annunzio (1982, 1988, 1993), Il potere della parola. Studi sul Decameron (1983), La poesia del Novecento. Morte e trasfigurazione del soggetto (1985), L'ombra di Argo. Studi sulla Commedia (1986, 1992), L'onore in corte. Dal Castiglione al Tasso (1986), La forma e la vita. Il romanzo del Novecento (1987), Machiavelli, o La scelta della letteratura (1987), Manzoni. Le delusioni della letteratura (1988), Il sogno della letteratura (1988), In nome di Beatrice e altre voci (1989), Le maschere dell'eroe. Dall'Alfieri a Pasolini (1990), Le colline, i maestri, gli dei (1992), La scrittura verso il nulla: D'Annunzio (1992), Il sogno e l'epica (1993), Il viaggio di liberazione attraverso l'Inferno (1993), Parodia e pensiero: Giordano Bruno (1997), Le capricciose ambagi della letteratura (1998), L'orologio d'Italia. Carlo Levi e altri racconti (2001), Addio alla poesia del cuore (2002), I miti e il sacro. Poesia del Novecento (2003), Il tragico cristiano da Dante ai moderni (2003), Ottocento ribelle (2005), La teoria e le interpretazioni (2005), Le cortesie e le audaci imprese. Moda, maghe e magie nei poemi cavallereschi (2006), La letteratura instabile. Il teatro e la novella fra Cinquecento ed età barocca (2006), Il pipistrello a teatro. Pirandello, narrativa e tragedia (2006), La farfalla, l'anima. Saggi su Gabriele d' Annunzio narratore (2007), Il sistema della narrativa. Gli autori del Novecento: saggi critici (2008), La poesia, il sacro e il pâtinoire. Saggi su Gozzano e Pavese (2009), La cicala, la forbice e l'ubriaco. Montale, Sbarbaro e l'altra Liguria (2011), Le donne al potere e altre interpretazioni. Boccaccio e Ariosto (2011), Entello, Ulisse, la matrona e la fanciulla. Saggi su Saba e Campana (2011), Tutto l'Inferno. Lettura integrale della prima cantica del poema dantesco (2011), L'ultimo cuore del novecento. Paesaggi per la poesia (2012). Poesie: La voce roca (1960), La declamazione onesta (1965), Finzione e dolore (1976), Notizie dalla vita (1977), Il marinaio del Mar Nero e altre poesie, (1980), Dalla bocca della balena (1986), In un altro regno (1990), La scena del mondo (1994), Dal fondo del tempio (1999), Le vane nevi (2002), Le Langhe e i sogni (2003), Il gioco e il verbo (2005), La storia vera (2006), I doni e la speranza (2007), Gli affanni, gli agi e la speranza (2008), Le foglie di Sibilla (2008), Lo scriba delle stagioni (2008), Il giullare di Nôtre-Dame des Neiges (2010), Le finte allegorie (2016). L’opera completa della sua poesia è in stampa presso la Genesi Editrice: un cofanetto, che
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verrà presentato al Salone del Libro di Torino di quest’anno e che sarà posto in vendita al prezzo di 110,00 euro. Molti poeti contemporanei debbono il successo alla sua indagine critica e alla sua particolare protezione, come è stato, per esempio, per Maria Grazia Lenisa e Gianni Rescigno; ma Egli era solito rispondere a tutti e dare un giudizio, anche se breve, sui volumi, di versi e di prosa, che scrittori e poeti gli facevano avere in continuazione; un vero signore anche da questo punto di vista. La nostra repubblica delle lettere da oggi si scopre più povera, privata, com’è, all’improvviso, di un personaggio di riferimento, amato e stimato. Fin qui, il nostro dovere di cronista. Perché, per noi, la sua poesia è quasi interamente monotematica. Le sue sillogi, infatti, son tutte affollate di donne e giovani uomini in atteggiamenti equivoci, anche se non scadono mai nella volgarità. Son personaggi che egli traeva dalla realtà, dai vari simposi cui partecipava: convegni, premiazioni di concorsi letterari, commemorazioni, durante i quali spesso lo si vedeva isolarsi, seduto su qualche sedia a prendere appunti, se non, addirittura, a scrivere di getto articoli e recensioni. Donne a volte fatue e uomini quasi cicisbei, le une e gli altri per lo più votati all’androgino, che egli descriveva svestendoli, ma conservando ogni loro tic e tutto il loro autentico vuoto. Se, leggendo, quasi non ci si accorge della ripetitività alienante e ossessiva del tema, è perché egli aveva acquisito nel tempo una grande tecnica, la capacità, cioè, di battere sempre sullo stesso chiodo dando l’impressione di fare altro; insomma, di apparire vario e sempre nuovo. Fu ritenuto critico penetrante e il maggiore in Italia; ma come facesse a leggere tutto quello di cui scriveva, rimane un mistero. Dava, come già accennato, un giudizio su ogni libro che gli perveniva: ma quanto aderente all’opera? Lodava, per esempio, Maria Grazia Lenisa affermando che, con Erotica e il resto, ella avesse scritto l’enciclopedia del sesso e della perversione, senza accorgersi, così, di denigrarla, perché mai la vera poesia s’è prestata a comporre dizionari di sorta. Diverse sono le sue indagini su poeti e scrittori di fama e su scuole e correnti, nelle quali egli dà il suo apporto equilibrato e spesso innova; ed è allora che gli calzano bene gli aggettivi di grande e penetrante. (D. Defelice) *** SEMPRE APPREZZATE LE PUNTATE DE “I POETI E LA NATURA” DI LUIGI DE ROSA Da Roma, il 7/4/2017: Domenico carissimo, ho visto il profilo che Luigi De Rosa mi ha dedicato nell’ultimo numero di Pomezia-Notizie. Davvero bello, intenso, centratissimo, coinvolgente!
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Ti prego di ringraziare sentitamente De Rosa (di cui non ho l’indirizzo) e dirgli tutto il mio apprezzamento. E grazie, grazie di cuore anche a te. Un abbraccio Corrado Calabrò *** L’AMORE DI DEFELICE PER LA TERRA DEL SUD, ALL’UNIVERSITÀ DI ROMA TOR VERGATA - Giovedì 13 aprile, presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma Tor Vergata, il Prof. Carmine Chiodo e le giovani Claudia Trimarchi e Aurora De Luca - entrambe laureatesi in quella Università nel dicembre 2015 hanno presentato Domenico Defelice, soffermandosi, in particolare, sull’amore che questo autore ha sempre nutrito per la sua terra, la Calabria. Si son lette delle poesie, anche di impegno e di polemica (come quella intitolata “Calabria”, contro il denigratore di questa regione: Pier Paolo Pasolini). Altro tema sfiorato, è stato quello della lotta che l’ Autore ha sempre sostenuto contro le mafie, la delinquenza e la violenza in genere. Defelice, nei suoi brevi interventi, ha puntualizzato e fornito notizie, lietamente sorpreso e quasi commosso per tanto interesse e acume investigativo dei tre relatori, ai quali va un sentito grazie. Davvero una gran bella e interessante mattinata. *** OMAGGIO A TOTÒ - Riceviamo, da Pescate, una e-mail del 14 aprile 2017 del nostro valoroso collaboratore prof. Giuseppe Leone: Caro Domenico, eccoti, come ti avevo già anticipato, un'altra mia recensione, questa volta su un saggio di Elena Cattaneo, scienziata senatrice a vita. Sono stato particolarmente contento di leggere ancora una volta il mio articolo sulla prima pagina della rivista, ma sono stato ancora più contento per il "raddoppio della marcatura" (si dice così in termini calcistici?) di Ilia che così opportunamente interviene con un altro articolo sul Totò delle parole e non delle immagini. Un vero contributo al Totò poeta, mi verrebbe da dire. Un modo di fare giustizia a quest'altra faccia di un pianeta che ha continuato, anche dopo la morte, a brillare, come la luna, mostrando solo la faccia cinematografica. Un caro saluto e a presto. Un abbraccio, Giuseppe. *** GIOIAMO CON ELLA - La bellissima ELLA ROSE, la nipotina della nostra amica Giovanna Li Volti Guzzardi - Presidente dell’A.L.I.A.S. (Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori) -, nata il 7 luglio 2016, copie nove mesi, ed è la gioia dei
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nonni e dell’intera famiglia. Qui, nella foto, è con i genitori, felici. Ci scrive, la nostra amica Giovanna, il 17 aprile scorso: “...la nostra Ella ha 9 mesi, è la nostra gioia, ci fa dimenticare gli acciacchi”, e, in una poesia a lei dedicata: “È più bella di una rosa,/un dono prezioso del nostro Gesù/che teniamo stretto al cuore/e ci dice che i bisnonni/sono più speciali dei nonni”. Pomezia-Notizie, che è stata sempre sensibile agli affetti, partecipa in allegria alla felicità dei genitori, dei nonni e dei parenti tutti. *** AUGURI, LEONARDO! - Il 21 aprile, alle ore 10,05, presso l’ospedale San Pietro di Roma, è nato Leonardo, secondogenito di Emanuela Vignaroli e Stefano Defelice. Alla felice coppia, al fratellino Valerio, ai nonni - Mario Vignaroli e Rosanna Costa, Clelia Iannitto e Domenico Defelice - e alla vasta schiera dei parenti, gli Auguri più sinceri e affettuosi. Il bimbo, appena nato, pesava kg. 3,570. Molte le telefonate e le e-mail di felicitazioni. A tutti un grazie dal profondo del cuore.
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- è luce di vita, sogno d'amore che si rende concreto nel suo respiro, veglia e vigilia insieme del vostro impegno... siate benedetti! Ilia Pedrina Vicenza - Benvenuto a Leonardo che festeggerà i suoi compleanni insieme a quelli della Città Eterna. Ai nonni, ai genitori e ai parenti le nostre congratulazioni! A voi tutti si aggiunga la nostra gioia. Così Valerio non può dire di stare solo e tutt’e due rispondono a Riccardo dicendogli che si aggiungono a lui in attesa di “quelli che verranno”. Tito Cauchi Anzio, RM ...è nato Leonardo!!! Che gioia e che allegria in Famiglia, augurissimi di un radioso futuro al piccolo, ai genitori, ai cari nonni e a tutti, sono emozionatissima e piena di gioia, che Gesù benedica il piccolo e lo faccia crescere pieno di salute, intelligenza e di benessere. Vi abbraccio con tanto affetto e bacioni ai nipotini!!! Sono con voi in questo grande gioioso evento! Auguri e bacetti a Leonardo!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! Giovanna Li Volti Guzzardi Melbourne, Australia
Qui sotto: la madre Emanuela con i figli Valerio e Leonardo. ↓
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AI COLLABORATORI
Qui sopra: la famigliola al completo. ↑
Si invitano i collaboratori ad inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione), composti con sistemi DOS o Windows, su CD, o meglio, attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è necessario un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (con copia cartacea) Annuo... € 50.00 Sostenitore....€ 80.00 Benemerito....€ 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia....€ 5,00
Il piccolo Leonardo. ↑
ABBONAMENTO solo on line: http://issuu.com/domenicoww/docs/) Annuo... € 35 Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 N076 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio