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FRANCESCO POLVERE DI DIO Un grande spettacolo scritto e recitato da
GABRIELE RICCARDO TORDONI di Elisabetta Di Iaconi EVO all’insistenza cortese di una mia amica l’aver conosciuto uno straordinario attore, che, per ora, è noto solo tramite una serie di preziose repliche del suo spettacolo (per l’esattezza 48), avvenute in ambienti suggestivi di Umbria e Marche. Venerdì 28 aprile ultimo scorso l’evento si è tenuto a Roma, all’Auditorium Seraphicum. Riccardo Tordoni ha presentato il suo affascinante testo, intitolato “Francesco Polvere di Dio”, recitando a braccio e ricorrendo di tanto in tanto a qualche brogliaccio posto su un leggio. Non è possibile narrare l’emozione che questo stupendo quarantenne (nato a Gubbio e diplomatosi presso una prestigiosa scuola di recitazione milanese) sa suscitare negli spettatori. Si potrebbe inizialmente credere che ci
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All’interno: Leopardi, Bene e Bob Dylan, di Giuseppe Leone, pag. 4 Evoluzione del comportamento sessuale, di Rossano Onano, pag. 6 Dialogo con Jeannine Burny, di Ilia Pedrina, pag. 9 Michele De Luca e i dialetti calabresi, di Carmine Chiodo, pag. 13 Mistica e filosofia, di Ilia Pedrina, pag. 15 La fuga del tempo in Luigi Derosa, di Bruno Rombi, pag. 17 Incrementare agricoltura e artigianato, di Leonardo Selvaggi, pag. 20 Squarotti e il vero Ettore, di Antonia Izzi Rufo, pag. 25 Il futuro del poeta, di Susanna Pelizza, pag. 28 Su “la poetica” di Nazario Pardini, di AA. VV., pag. 29 La leggenda di Bay of Chaleur, di Rudy De Cadaval, pag. 31 Il papa e la poetessa, di Antonio Visconte, pag. 37 Il cammello di Abu Dhabi, di Filomena Iovinella, pag. 39 I Poeti e la Natura (Autori vari), di Luigi De Rosa, pag. 40 Notizie, pag. 50 Libri ricevuti, pag. 53 Tra le riviste, pag. 54 RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (Ombre e luci, di Lina D’Incecco, pag. 42); Isabella Michela Affinito (Emozioni sparse al vento, di Anna Trombelli Acquaro, pag. 43); Tito Cauchi (Le finte allegorie, di Giorgio Bárberi Squarotti, pag. 44); Tito Cauchi (Parole ricercate, di Pasquale Montalto, pag. 44); Roberta Colazingari (Parole ricercate, di Pasquale Montalto, pag. 45); Antonia Izzi Rufo (Parole ricercate, di Pasquale Montalto, pag. 45); Giovanna Li Volti Guzzardi (Parole ricercate, di Pasquale Montalto, pag. 46); Susanna Pelizza (Ombre e luci, di Lina D’Incecco, pag. 46); Laura Pierdicchi (Ombre e luci, di Lina D’Incecco, pag. 47). Lettere in Direzione (Emerico Giachery e Marina Caracciolo), pag. 55 Francesco polvere di Dio, pag. 57 Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Loretta Bonucci, Corrado Calabrò, Giuseppe Cosentino, Luigi De Rosa, Enrico Ferrighi, Filomena Iovinella, Giovanna Li Volti Guzzardi, Adriana Mondo, Leonardo Selvaggi
venga presentata la biografia di San Francesco, ma ci rendiamo conto che non è così. Tordoni, da affabulatore nato, sa inserirsi nella realtà quotidiana, prendendo le mosse da un Medioevo attentamente studiato. La sua mimica, il suo sguardo, i suoi passi tengono letteralmente “incollati” gli astanti alle varie fasi del percorso spirituale, sottolineato di tanto in tanto dalla dolcezza della musica (Paolo Ceccarelli alla chitarra, Emma Grace al violino, Lorenzo Cannelli al piano e fisarmonica).
Talvolta si ha l’impressione che Tordoni riesca a trasfigurarsi, quando è al colmo del-
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SUL FAR DELLA SERA
le sue emozioni. Nelle sue parole non c’è solo la vita di San Francesco: ci sono pregi e difetti di tutti gli uomini, risultanti da uno scavo interiore profondo. La pianta-uomo è analizzata talvolta anche con amara ironia, specialmente quando il discorso cade sul contrasto tra ricchezza e povertà. I due corposi atti del lavoro (una vera fatica per l’attore) scorrono veloci, perché ognuno vi si ritrova con le sue paure, la sua coscienza, il suo cuore. Uno spettacolo del genere va visto, poiché non è agevole raccontarlo. Per ora, le repliche sono avvenute sul passa parola tra amici e parenti. Ci si augura che un testo così valido, interiorizzato da un attore fuori del comune come Riccardo Tordoni, possa raggiungere i grandi teatri, le platee di tutta Italia e (perché no?) d’Europa, poiché lo merita davvero. Elisabetta Di Iaconi
Le foto sono di Simona Bianchi.
Sul far della sera, molti uccelli cantano gai, cantano alla primavera che ha fatto risvegliare i fiori, cantano per gli alberi che si sono rivestiti a festa, cantano per i ruscelli che scendono a valle e fanno una musica arcana, cantano al sole che rossastro brilla nel cielo. E’ un concerto di suoni che fanno festa alla sera. Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, MI
AI TUOI OCCHI Ma dove sono, Sandra, i tuoi begli occhi dolci e pensosi? Freme lo spirito mio a rimirarli. Ribolle nel mio cuore un’infinita ansia d’amore. C’è in essi il giallo l’indaco l’azzurro. C’è il verde fresco dei tuoi giovani anni. E c’è l’amore. Ci sono - ti dico - tutti i colori dell’arcobaleno. C’è anche l’inquieta follia dei miei sogni. Enrico Ferrighi Da Carmina - Ed. Pomezia-Notizie, 1983
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LEOPARDI, CARMELO BENE E IL NOBEL PER LA LETTERATURA ASSEGNATO A
BOB DYLAN di Giuseppe Leone
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due. È per la seconda volta, dopo Dario Fo, che il Premio Nobel per la letteratura viene assegnato a un artista che letterato proprio non è. Era capitato già nel '97, strappandolo all'ultimo momento a Mario Luzi. Ricordo ancora le polemiche di quei giorni coi puristi della tradizione che gridavano allo scandalo. Non l'aveva presa bene nemmeno Carmelo Bene (mi si perdoni il gioco di parole) il quale, con l'amore del paradosso che gli era proprio, si chiedeva se non fosse il caso di assegnarlo anche a Nureyev, a Platini o alla Callas. O perché no, anche a lui, che forse sarebbe stato più pertinente. Su quell'assegnazione, avevo scritto qualcosa anch'io, e mi ricordo d'avere difeso la scelta fatta a Stoccolma a favore dell'uomo di teatro, dicendo, fra le altre cose, che, dopotutto, fra teatro e letteratura le distanze non fossero poi così incolmabili. Ora, nel 2016, Stoccolma replica la provocazione, assegnando il Nobel a Bob Dylan, il cantautore menestrello forse più ascoltato nel mondo fra gli anni Sessanta e Settanta.
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Premetto che non ho gridato allo scandalo neanche in questa occasione, anzi ho accolto l'annuncio come la più naturale e scontata delle decisioni, domandandomi solo se non sia il caso di ridiscutere il concetto o la nozione di letteratura. Mi ricordo le discussioni senza fine sulle canzoni di De André, se si potessero considerare poesie oppure no. Se fosse giusto pubblicarle nelle antologie scolastiche, oppure no. Ma io sono d'accordo con Stoccolma anche per una questione affatto personale, perché trovo la sua scelta in perfetta armonia con un mio recente scritto su Leopardi e Carmelo Bene, dove si parla delle rispettive poetiche, con cui i due artisti hanno trasferito l'opera d'arte dal silenzio della scrittura al sonoro dell'oralità, tipica nella Grecia presocratica. Dunque, un Premio alla Letteratura che trova nell'oralità la sua ragione d'essere piuttosto che nella scrittura, proprio come avviene nel mondo del teatro e della canzone. La voce, dunque, la phonè, per dirla con Carmelo Bene, i canti, per dirla anche con Leopardi, non sarebbero che l'autorevole precedente di questa scelta che viene fatta a Stoccolma. Ora, io non so se a Stoccolma effettivamente si sia pensato proprio alla letteratura così come l' hanno orientata Leopardi e Carmelo Bene, nel segno dell'oralità e in contrapposizione al silenzio della scrittura. Ma, quale che sia stata la motivazione, un fatto appare certo, che per assegnare il Premio per la Letteratura ad autori come Fo e Dylan, non stia più reggendo il tradizionale significato di letteratura. Continuiamo ancora, con Benedetto Croce, a ritenere letteratura “quanto si ritiene principalmente frutto di una formazione tecnica ed erudita piuttosto che di un'intima commozione poetica o anche quanto si ritiene viziato da astrattezza o da mancanza di spontaneità”? Prepariamoci per gli anni a venire, affinché non si continui a ritenere strambe le decisioni di Stoccolma, prepariamoci ad altre assegnazioni come queste, per
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non meravigliarci se alla letteratura verranno ascritte altre manifestazioni che non la tradizionale cartacea poesia o romanzo o saggio che sia. Viva Stoccolma, allora, se, vigilando sui confini che separano la letteratura dalle altre discipline, non si allarmi se avvista la presenza di altre arti che chiedono asilo alla sua corte. Non può che far bene alla Letteratura, se queste neo-espressioni, rinnovandola, servono a renderla ancora più solida. Giuseppe Leone
DORMIVEGLIA Svegliarsi e sapere che mi pensi …*. pensarti e non poter dormire … è come l’alternarsi delle onde alla battigia. Nella casa ai bordi della spiaggia tutta la notte quand’ero ragazzo mi cullava, supino, la risacca. Era grande il silenzio dell’estate in quegli anni per un adolescente. Forse davvero forse ancora in sogno la luna dilatata dai vapori giganteggiava nel cielo notturno, come se avessi gli occhi allucinati dall’atropina.
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CON TE Oh dolce farfalla che voli tra i fiori, t’imbevi di rugiada e di profumi e regali il sole guardandoti volare. Ti sei posata leggera sul mio libro quasi a voler nascondere le parole ed io ti ammiro e con te vorrei volare. Leggo con te che sfarfalli tra le righe, mi distrai e non capisco più ciò che leggo, son parole, è musica, è una canzone, è la dolce melodia del tuo candore! Oh dolce farfallina bianca come la neve, chiudo il libro e ti sfioro con la mano, mi accarezzi e poi ti allontani, mi hai lasciato il tuo profumo che tengo stretto stretto al cuore. Ho il libro aperto tra le mani, ti aspetto tra le pagine per cantare un nuovo motivo e poi volare, volare con te verso l’azzurro, ti prego oh farfallina prestami le ali. Con te volo con le ali che mi hai prestato, voliamo insieme verso l’azzurro, quell’azzurro lontano mai dimenticato! Cav. Giovanna Li Volti Guzzardi Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori (A.L.I.A.S.)
E’ come una barca senza chiglia una casa in cui manca la mamma. Svegliarsi e non sapere se mi pensi … sognarti e aver paura di dormire … Fa già caldo, l’estate è prematura. Apro le imposte: frugano i gabbiani nei cassonetti della spazzatura. *In coscienza non so se questi primi versi mi siano venuti in mente in sogno o se una donna me li abbia sussurrati all’orecchio al risveglio. Corrado Calabrò Roma
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 29/4/2017 Laura Boldrini, con la solita puzzetta sotto il naso che la distingue, ha definito, il raduno neofascista del 25 aprile al Cimitero Maggiore di Milano, “un affronto alla democrazia nata dalla Resistenza”. Sarà pur vero, ma non è affronto ancora più grave, e alla Costituzione, se più del 45% dei giovani sia senza lavoro? Se la gioventù fosse occupata, penserebbe ad altro, non a nostalgici raduni! Domenico Defelice
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Antropologia pelvica e dintorni EVOLUZIONE (STATICA?) DEL COMPORTAMENTO SESSUALE Dagli Indios del grande Chaco al toy boy postmoderno di Rossano Onano Politicamente corretto e stereotipie. A una parte c'è il politicamente corretto. La signora Barbara Colombelli bacchetta in TV, per la verità gentilmente, un ospite che osa ricordare una canzone degli anni '60, quella degli altissimi negri alle falde del Kilimangiaro: i quali, stringendo al cuore una donna, nel contempo parlano d'amore alle stelle. E' una canzone piena di poesia, ma non c'è niente da fare. Contiene la parola “negri”, spiega Barbara, che oggi non si deve pronunciare. Dall'altra parte ci sono gli stereotipi. Ancora oggi, nei documentari a carattere antropologico, gli operatori stranamente in costume coloniale e muniti di telecamera si imbattono in popolazioni primitive, preferibilmente africane, casualmente raggiunte nel momento in cui si dedicano a colorite danze tribali. I primitivi, insomma, sono sempre lì che ballano. Il mito del buon selvaggio è duro a morire. Precocità. Per la conoscenza dei comportamenti umani legati all'evoluzione dei costumi, è necessario fare ricorso ai testi classici di antropologia culturale. I quali, per la verità, hanno la carat-
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teristica di cristallizzare i comportamenti, come fossero “ora e sempre”, immutabili nei secoli. L'antropologa Margaret Mead, negli anni '30, si prese la briga di studiare il comportamento dei cannibali Mundugumor dell' Oceania, vivendo lungo tempo a stretto contatto con loro. Studiavo Margaret, ai miei tempi, dicendo fra me: com'è che i Mundugumor, se sono cannibali, sopportano una donna bianca che si intrufola, prende appunti e insomma rompe le scatole, senza essere presi dalla tentazione di metterla in pentola? Evidentemente, la faccenda del cannibalismo era già allora piuttosto enfatizzata. Tuttavia, l'approccio antropologico rimane quello migliore. I bambini dei popoli primitivi, spiegano i sacri testi, vengono a conoscenza della vita sessuale molto prima dei ragazzini appartenenti ai popoli civilizzati. Gli Indios del Grande Chaco dormono completamente nudi, al riparo di una sola coperta che serve contemporaneamente a più persone. Il contatto dei corpi sollecita ovviamente gli appetiti sessuali, ed è causa di precoci esperienze infantili. Nelle tribù africane i bambini dei due sessi si incontrano nel corso delle danze tribali, che culminano spesso nel rapporto sessuale, del quale i ragazzini sono edotti così da pervenire a pratiche di emulazione molto precoci. Insomma, i ragazzini primitivi sarebbero molto più smagati dei nostri. I trattati di antropologia culturale non hanno ancora dimestichezza col mondo internet: un bambino civilizzato, maneggiando qua e là, raggiunge una conoscenza dell'anatomia intima di poco inferiore a quella di un bravo ginecologo. Quanto alle esperienze precoci, le scienze statistiche collocano dalle nostre parti il primo rapporto all'età di 13 anni, addirittura 12 per le ragazzine, come sempre più smaliziate. Iniziazione. I primitivi concedono ai ragazzini ampia possibilità di avere liberi rapporti fra loro. I figli dei Beciuana vengono fidanzati ancor prima della nascita, il che non impedisce ai pargoli, pervenuti alla pubertà, di intrattenere liberi rapporti sessuali con persona differente
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dallo sposo promesso.. Nella Nigeria settentrionale esiste l'istituto dell' ”amicizia d'infanzia”: un uomo e una donna che abbiano trascorso insieme la fanciullezza sono liberi di congiungersi carnalmente in età adulta, anche dopo essere legati ad altri da vincolo matrimoniale. E' infine pratica comune, nella maggior parte dei popoli primitivi, l'usanza che il giovane adulto effettui la prima vera esperienza sessuale con donne anziane, appositamente dedite nei villaggi a questo tipo di iniziazione. Alle nostre attuali latitudini, l'approccio alla sessualità si avvale di pratiche del tutto simili. E' comune l'usanza della ragazzina che si porta l'amico di giochi nella cameretta, con la mamma che si inventa una commissione per togliere il disturbo e raccontare alle amiche: preferisco lo faccia in casa! Quanto all'antichissima usanza iniziatica della maestra erotica (magistra in sexualibus) è ancora viva la memoria del bravo papà che si portava il rampollo nella casa di tolleranza, raccomandandolo alla propria insegnante di fiducia. La stessa funzione è svolta oggi da oneste professioniste, dette escort, in rassicuranti appartamentini privati. L'evoluzione dei costumi, in questo senso, è rappresentata dalla tendenza della donna occidentale matura di passare dal ruolo di magistra (insegnante) al ruolo di domina (padrona). Tale donna ama giocare alla sessualità con un uomo giovane, infatti chiamato toy boy. All'atto pratico, la sostanza non cambia: il toy boy (come il giovane selvaggio) offre al rapporto la propria esuberanza fisica; la domina (come l'anziana del villaggio) la propria consolidata esperienza. Matrimonio. Una volta iniziato, il giovane è pronto al rito matrimoniale. La ricerca del coniuge presenta aspetti diversi presso i vari popoli: dalla lodevole praticità degli Eschimesi, dove un giovane si reca a domicilio della futura sposa, fa una breve discussione con i futuri suoceri senza che la ragazza metta becco, ed ecco che il matrimonio è fatto e pronto ad essere consumato. Presso gli indiani d'America, al contrario, la cerimonia nuziale è molto elaborata
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e romantica, con balli corali e allusivi, quelli che nei film western di una volta i pellerossa compivano appunto tutte le sante notti. Unico elemento in comune a tutte queste culture è l'usanza che il giovane debba pagare ai futuri suoceri il prezzo per la sposa. Un caporale somalo, a Mogadiscio negli anni '50, montando di guardia, moschetto a tracolla, anticipava a me bambino che avrebbe atteso il prossimo stipendio per comperarsi una giovane sposa: “vergine”, raccontava pregustando. Io, per quanto bambino, già allora consideravo l'usanza come una faccenda barbara. Il significato del rituale è tuttora male considerato dagli europei, i quali ritengono che le donne vengano così trattate come semplice merce di scambio. Non è così, avrebbe spiegato il caporale somalo a me qualora ne avessi fatto domanda: il prezzo pagato per la sposa è una forma di garanzia per la donna. La quale, ripudiata, ritorna dai genitori senza che questi siano tenuti a restituire il prezzo pagato per lei. L'uomo perde la sposa, non più vergine ma ancora utile per le faccende domestiche, e nel contempo perde il capitale (2 cammelli) versato per ottenerla. Del resto, sempre meglio di voi, avrebbe continuato il caporale, dove sono invece i genitori della sposa che debbono garantire la dote, e cioè pagare, allo scopo di piazzare la figlia. Nell'occidente attuale, l'usanza della dote portata dalla donna al marito è fortunatamente in disuso. L'occidentale ha imparato a ragionare in questo modo: io non pago (2 cammelli) per averti, e tu non mi porti la dote. Semplicemente, andiamo dal notaio, e dividiamo i beni all'origine: ciò che è mio è mio, e ciò che è tuo resta tuo. L'analogia garantista è evidente. Divorzio. La mancata restituzione all'uomo del patrimonio pagato per la sposa scoraggia la determinazione di porre fine a un matrimonio. Da noi, oggi, il deterrente è rappresentato dall'obbligo del mantenimento da corrispondere al coniuge economicamente più debole. C'è da dire che, nelle società meno evolute, il divorzio non è poi tanto semplice da conseguire. Nella maggior parte delle tribù africane
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lo scioglimento del vincolo matrimoniale è deciso in prima istanza dalle famiglie interessate, poi dal consiglio del villaggio, e infine dal capo tribù. Motivo valido per chiedere il divorzio è in primo luogo la sterilità della moglie. L'adulterio non è compreso fra le cause determinanti la richiesta di separazione. Circa l'obbligo di fedeltà le popolazioni primitive hanno vedute piuttosto magnanime. In alcune tribù africane è concesso alla giovane consorte di trascorrere un paio di settimane nella capanna di un amico di gioventù; al ritorno, il marito non rivolge alla moglie alcuna domanda, perché sa. Gli indigeni d'Australia praticano addirittura il pirraurru, una specie di matrimonio di gruppo istituzionalizzato. Gli uomini hanno il diritto di congiungersi liberamente con la moglie di un amico, il quale a sua volta è libero di congiungersi con la moglie dell'altro. La pratica garantisce la stabilità non di uno, ma di due nuclei familiari. Nel civilissimo occidente, la fedeltà richiesta al coniuge è faccenda alquanto disattesa, seppure la tolleranza sia praticata in maniera abbastanza ipocrita. Il luogo deputato alla detensione delle crisi matrimoniali è rappresentato dalla palestre: dove le signore trascorrono interi pomeriggi, a volte con appendice serale, in compagnia di giovanotti ugualmente desiderosi di fisicità. Al ritorno, il marito occidentale non chiede, anche lui sa. Quanto all'istituto del pirraurru, è sufficiente leggere le inserzioni giornalistiche, ancora meglio internet, dove coppie giovani (sull'età è lecito barare) cercano coppie altrettanto giovani per amicizie pudicamente definite “interessanti”. Prostituzione. Nella Mogadiscio anni '50, amministrazione fiduciaria italiana, i giovani soldati italiani frequentavano le bellissime ragazze indigene, a loro volta felici di essere frequentate. Le prostitute si riconoscevano perché vestivano all'europea, diversamente dalle coetanee oneste (in quanto già promesse spose) che vestivano la futa bianca. La professione di prostituta non era considerata infamante, ed anzi queste giovani godevano di un grande prestigio personale. Presso tutti i popoli primitivi,
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del resto, la condizione di prostituta non ha la connotazione negativa che noi le attribuiamo. Ancora oggi, molte fanciulle si trasferiscono dall'entroterra alle città dell'Africa del Nord per esercitare la professione, raggranellano una discreta dote per poi ritornare nella tribù d'origine, dove nessuno si sogna di discriminarle. Una cultura di questo tipo, concedendo alla prostituta dignità e libertà d'azione, presenta vantaggi indubitabili. Ad esempio la figura del lenone, altrimenti detto magnaccia, è sconosciuta. Nelle tribù africane, la prostituta esercita la professione con un amico che paga l'affitto della stanza o della capanna, un uomo solo per volta, e un uomo solo per tutta la notte. Sopraggiunta l'alba, ciascuno va per la sua strada, e amici come prima. In occidente, da poco è in uso una formula che garantisce all'esercizio una libertà analoga: la donna esercitante si chiama escort, l'amico paga per lei l'affitto di un appartamento o, se la cosa è veloce, la stanza di un albergo, si aggiunge un regalino perché la gratitudine è d'obbligo, lenoni sotto questa formula non se ne vedono, e la cosa finisce lì. Tattoo. In un documentario TV, alcuni anni fa, una giornalista intervistava una pastora peruviana, poncho addosso e bombetta di Stanlio e Ollio in testa, per poi salutarla dicendo: non perdiamoci di vista. Come no, risponde la pastora, entra nella capanna, tira fuori il computer e fornisce alla giornalista il proprio indirizzo email. L'antropologia è costretta a prendere atto che le differenze culturali sono oggi pressoché annullate. Nel campo specifico del comportamento sessuale, l'uomo rimane continuamente uguale a se stesso. Tutto sommato, la differenza sostanziale fra primitivi e civilizzati è oggigiorno rappresentata dalla pratica funzionale del tatuaggio: il quale è segno di appartenenza ma soprattutto, in quanto richiamo all'altro sulla propria fisicità, argomento di richiamo erotico. I primitivi hanno smesso di tatuarsi, gli occidentali, con la pratica tattoo, hanno appena ricominciato. Rossano Onano
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IN DIALOGO CON
JEANNINE BURNY SUL POETA BELGA
MAURICE CARÊME di Ilia Pedrina
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N uno dei miei viaggi verso la Maison Blanche ad Anderlecht, per incontrare Jeannine Burny, la presidente della Fondation Maurice Careme, viaggi dei quali ho dato ampie notizie sulle pagine di questa Rivista, oramai specialissima, ho acquistato il volume 'MAURICE CARÊME OU LA CLARTÉ PROFONDE – COLLOQUE 22-24 novembre 1985', Convegno svoltosi sotto l'alto Patrocinio di Sua Maestà la Regina Fabiola del Belgio, a cura della Commission Communautaire Française de la region de Bruxelles-Capitale. Eravamo nel mese di marzo del 2011 e la lettura degli Atti mi ha coinvolto con intensità crescente, fino a scaturire in questa intervista che Jeannine Burny mi ha cortesemente concesso. Eccone per intero il contenuto. 1) Un cadeau en ouverture: le profil de Maurice Carême, en observant la nature, avec une marguerite aux lèvres... J. Burny J’ai réalisé cette photo dans un des lieux de création de Maurice Carême au cours de l’été 1969 ou 1970. Il est assis dans le bois au-dessus du carrefour d’Orval dans le sud est de la Province du Luxembourg belge. Il se rendit à Orval à partir de la Pentecôte 1954 et y passera les étés (souvent l’entièreté des mois de
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juillet et d’août) de 1954 à 1970. Sur la photo, il lit, ce qu’il faisait généralement avant de se mettre à écrire. Il emportait avec lui des textes d’autres poètes. Il était très soucieux du choix de ces recueils poétiques. Sa culture poétique couvrait le monde. Sa bibliothèque en fait foi et est renommée comme la plus importante privée de Belgique francophone. 2) Parle-moi de la 'Maison Blanche' et de la FONDATION 'MAURICE CARÊME': comment est cette histoire? J. Burny Il fait contruire à l’automne 1933 la Maison blanche à l’image de celles de son Brabant natal. Il la garnira de meubles d’ époque (le plus souvent en bois de chêne) et d’objets anciens (verres, porcelaines, faïences ...). Nous avions de très belles porcelaines en Belgique (Bruxelles, Namur, Tournai, etc.) Il se lie au cours des années avec les plus grands artistes belges. Ceux-ci réaliseront de nombreux portraits du poète. Sa maison est devenue un véritable musée d’art (peintures, aquarelles, lavis, sanguines, dessins, sculptures). C’est ce trésor artistique, la bibliothèque, les archives patiemment réunies (manuscrits, correspondance) qui vont l’amener à créer une fondation d’utilité publique Maurice Carême. Il faut y ajouter les partitions musicales inspirées par ses poèmes, les nombreuses traductions tant en Europe qu’en Amérique qu’en Asie et qu’en Afrique. 3) Comment êtes vous arrivée au COLLOQUE DU 22-24 NOVEMBRE 1985? L'obiectif est très emportant: “MAURICE CARÊME OU LA CLARTE' PROFONDE' (édité en novembre 1992) J. Burny C’est la Commission communautaire de Bruxelles Capitale qui a été à la base de ce colloque et a chargé la Fondation Mau-
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rice Carême de son organisation. Nous avons donc tenté de réunir des personnalités qui touchaient à tous les aspects de l’oeuvre de Maurice Carême J'ai vu que les participants étaient à la fois très différents et bien choisis: donne nous quelques souvenirs de cet événement. - Paul Herremans, Conseiller à la Commission française de la Culture de l’ Agglomération de Bruxelles Capitale, fut l’initiateur du colloque. - Jacques De Decker, devenu aujourd’hui Secrétaire perpétuel de l’Académie royale de langue et de littérature françaises de Belgique, connaît Maurice Carême depuis qu’il est enfant, son père était peintre (Luc De Decker) et a fait un portrait du poète qui se trouve au Musée Maurice Carême. Jacques De Decker a une connaisssance profonde de l’oeuvre carémienne. Il est aujourd’hui administrateur de la Fondation Maurice Carême. - Georges Astalos s’est lié à Maurice Carême lorsque, fuyant la dictature communiste de la Roumanie, il débarque en Belgique. Tous les deux sont hommes épris de liberté et vont littéralement se reconnaître. - Jacques Chailley, spécialiste de la musique médiévale, fut inspecteur de l’enseignement musical en France, directeur de la Schola Cantorum, professeur à la Sorbonne et a écrit plusieurs cycles de mélodies sur les poèmes de Maurice Carême: A ma femme, Sept chansons légères, Poèmes à la mort. - Tanabe Tamotsu, professeur de littérature française à l’Université d’Osaka, puis de Kyôto, découvre Maurice Carême lors d’un passage à Paris par un article de presse. Il va immédiatement souligner les affinités de la poésie japonaise avec la poésie carémienne. - Laszlo Ferenczi, professeur à l’Université de Budapest, est devenu un des grands spécialistes de Maurice Carême qu’il avait rencontré peu de temps avant la mort du poète. Il sera en 1991 le premier lauréat du Prix d’ Etudes littéraires. Son essai “Relire Maurice Carême” fait autorité dans sa vision profonde d’une oeuvre dont la simplicité s’allie à l’ existentiel, au tragique, à l’humain.
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- Jacques Charpentreau est le plus éminent spécialiste de l’aspect “jeunesse” de l’oeuvre dont il n’a cessé de cerner la multiplicité des aspects. Il fut un ami du poète et réalisera plusieurs anthologies: Les plus beaux poèmes (1985), Les plus belles chansons de Maurice Carême (1986). Il fut aussi le promoteur de plusieurs éditions de l’oeuvre de Maurice Carême lorsqu’il était directeur de collections aux Editions ouvrières, à Vie ouvrière et au Livre de poche chez Hachette. - Wanda Wielgosz ouvrit les chaires de littérature française des université polonaises à la Fondation Maurice Carême. Nous y donnerons de nombreuses conférences de 1981 à 1998. Les Polonais reconnaîtront dans un des poèmes de Maurice Carême “L’oiseau” (Entre deux mondes) cette lutte qu’ils n’ont jamais cessé de mener depuis siècles contre les oppresseurs de leur pays. - Roger Somville avait illustré deux des recueils de Maurice Carême: “L’arlequin” (1970) et le livre de très grand luxe “Une vie” (1972). Des dessins et des lavis originaux illustraient les 60 exemplaires de l’édition dont les exemplaires de tête ont paru sur papier Japon nacré. - Rigoberto Cordero Y Leon fut professeur de droit à l’Université de Quito et écrivit plusieurs articles sur l’oeuvre carémienne dans des revues équatoriales. - Jean-Pierre Vanden Branden, éminent érasmien, a connu Maurice Carême depuis l’ enfance et est un des grands spécialistes de son oeuvre. 4) Tu as dit, dans la Préface, que pour Maurice Carême la vie n'a aucun sens si l'homme ne puise pas ses forces dans la bonté et l'amour: le niveau est d'une sagesse incomparable! D'ou lui venait-elle ? J. Burny Maurice Carême va approfondir toutes les religions (notamment les monothéismes chrétien, juif et musulman), les sagesses orientales (indienne, chinoise et, à la fin de sa vie, le Zen). Ces lectures sont à la base de sa philosophie de la vie basée sur le respect de l’autre, sur la bonté et l’amour. 5) Le style de Maurice Carême et son amour
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pour les belles lettres de la langue française, lui, un flamand ... A-t-il oublié sa langue maternelle? Quel sont ses Auteurs les plus aimés? J. Burny Maurice Carême n’est pas flamand. Il naît en Wallonie, à Wavre. Enfant il parle avec ses parents le patois wallon wavrien (patois de langue latine et proche de la langue française). Il apprendra le français à l’école et sa langue deviendra donc le français, même s’il a parlé toute sa vie avec sa famille ce patois wallon qui n’a rien à voir avec le flamand, langue germanique, alors que le wallon ressort du latin. En ce qui concerne le flamand, il l’entend parler dès l’enfance parce que sa ville natale est située à 5 km de la frontière linguistique et donc du plus proche village flamand. C’est à cause de cette imprégnation de notre seconde langue nationale qu’il deviendra un des plus grands traducteurs de la poésie de Flandre. Quels sont les écrivains les plus aimés de lui: poètes – Villon, Ronsard, du Bellay, Maynard, Saint-Amand, Chénier, Hugo, Lamartine, Musset, Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Apollinaire, Eluard, Aragon, Cadou, etc. romanciers – Rabelais, Montaigne, Flaubert, Maupassant, Mauriac... pour n’en citer que quelques-uns Il avait aussi une grande connaissance non seulement des poètes du monde, mais aussi des romanciers et prosateurs étrangers. 5) Dans ce livre, publié par la COMMISSION COMMUNAUTAIRE FRANCAISE DE LA REGION DE BRUXELLESCAPITALE, ta collaboration directe était complexe et bien articulée. Pourquoi pour Maurice Carême la poésie est-elle comme un communication de coeur à coeur? Maurice a toujours estimé que la poésie était un langage profond, essentiel dont les niveaux de lecture se multiplient selon les différents lecteurs. Eluard disait d’ailleurs qu’il y avait autant de lectures d’un poème qu’il y avait de lecteurs. 6) Comment avait-il analysé le pro-
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blème de la mise au point d'un poème? C'est un argument important pour plusieurs écrivains qui sont aussi poètes! J. Burny Le problème de la mise au point des poèmes ressort pour lui plus de l’intuition que de l’analyse. Il devait se remettre dans l’ atmosphère du poème et retrouver en quelque sorte l’inspiration première. Cela s’avérait parfois très difficile. Souvent, il a dû supprimer le poème à parfaire tant la mise au point s’avérait impossible. Dans certains cas, il mettait des jours, des mois, voire des années avant d’arriver à cette coulée de source à laquelle il voulait arriver. Maurice Carême se refusait à ce l’on sente le moindre effort dans son écriture. Il y a, bien sûr au départ le don. Il arrive que parfois le poème jaillisse dans sa forme parfaite, mais c’est souvent l’ exception. Ensuite, vient pour certains textes, cette longue mise au point qui ne réussira pas nécessairement. De là le grand nombre de poèmes supprimés. Il garde environ 91 à 92 poèmes sur mille écrits dans l’ensemble de sa création. Le choix est encore bien plus sévère dans l’aspect “jeunesse” de l’oeuvre. 7) Autour de lui, poètes, peintres, musiciens: en ce moment nous allons pénétrer le miracle du langage de l'ART pour Maurice Carème. J. Burny En ce qui concerne les musiciens – on est à 321 compositeurs et chansonniers, à 2.779 mélodies, choeurs et chansons – il ne fait aucun doute que c’est la musicalité de la poésie de Maurice Carême qui va fasciner les musiciens. Pour les peintres et dessinateurs, c’est l’art de l’image carémienne qui va inspirer ceux-ci. 8) Le miracle d'un vers bien réussi dans l'unité complexe du poème: cette terminologie est-elle prise aux limites du territoire de la sacralité, du divin? Qu’est-ce qui te laisse surprise, bouche ouverte? J. Burny C’est avant tout la magie du langage sans laquelle il n’y a et il n’y aura jamais de poésie et qui fait que Mallarmé est un aussi grand poète que Verlaine. 9) Parlons de ton livre “LE JOUR S'EN VA TOUJOURS TROP TOT - Sur les
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pas de Maurice Carême” - (Editions Racine, Bruxelles, 2007). Comment et pourquoi as-tu décidé de l'écrire? J. Burny J’ai très vite réalisé que ce que j’ai vécu avec Maurice Carême était une aventure exceptionnelle. D’abord sur le plan de la mise au point de l’oeuvre. Cette collaboration commence dès 1948. A partir de 1954, je l’ accompagne lors de tous ses séjours de création : dans le Brabant, à la Mer du Nord (Coxyde et Heyst), à Orval (les étés de 1954 à 1970), puis de 1972 à 1976 en France. Il viendra aussi très souvent écrire dans mon appartement à Anderlecht (faubourg de Bruxelles), d’abord rue Potaerdenberg, puis Place Verdi. Mais c’est en pleine nature que Maurice Carême privilégie de s’asseoir pour écrire. Les bois, les champs, les bords de rivières lui sont des lieux favoris. 10) Dans ce livre, il est clair que la BIEN-AIMEE c'est toi! J. Burny C’est dans les années 1950 que naissent les premiers poèmes du recueil. 11) Comment as-tu perçu et interpreté le travail de Maurice Carême? J. Burny J’ai toujours été émerveillée par ce don qu’il avait et qui, certains jours, faisait jaillir sur sa feuille des textes magnifiques. J’admirais cette humilité qui l’amenait sans cesse à remettre en question son art poétique, ce labeur de la mise au point qu’il n’arrêtait que lorsqu’il parvenait à ce jaillissement comme naturel du poème. Plus que d’artiste, il parlait d’artisan en ce qui le concernait. 12) Les plus belles étapes de ce voyage à côte de lui, sac au dos. J. Burny Sans doute est-ce à Montmédy que se situent les plus belles étapes. Nous ne devions pas nous quitter le soir comme à Orval. Les séjours en France furent certes merveilleux, mais il y avait l’angoisse de la maladie. Et je savais que l’état de Maurice Carême était très grave. 13) Avec toi, en février 2012, de la Maison Blanche à Coxyde. Le Mer du Nord était-il pour lui un lieu d'inspiration enlevé sur le territoire de l'amour pour la poésie et de
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l'amitié avec Wolvens, l'ami peintre? J. Burny Il mettra plus d’un an avant d’ accepter d’aller écrire à la Mer du Nord. Il ne cessera de répéter au peintre “Je suis un homme de la terre, non un homme de la mer”. Puis, soudain, un jour de 1966, dans mon appartement de la rue Potaerdenberg, il écrira le poème “Je sais, mer du Nord”. Il sera le premier étonné de voir jaillir ces vers sur sa feuille. En rentrant chez lui, ce soir-là, il téléphone à Wolvens. Enthousiasmé devant la beauté du texte, ce dernier l’installe la nuit même dans son appartement au 4ème étage en digue de mer. Non seulement, il écrira les trente poèmes pour l’album de grand luxe, mais il va en écrire un très grand nombre d’autres qu’il réunira en un recueil “Mer du Nord” (plus de 170 poèmes). Il retrouve à la mer le ton des “Petites légendes”. Il les pubiera en 1970 sous le titre “Entre deux mondes”. Il fera six séjours à la mer, d’abord à Coxyde en 1966 et 1967, puis à Heyst en 1968 et 1969. L’album de grand luxe “Mer du Nord” paraît en 1968, le recueil “Mer du Nord” en 1971. Les deux ouvrages sont illustrés de dessins d’Henri-Victor Wolvens. 14) Pouvons-nous dire, avec le prof. Tamatsu Tanabe, que la poésie de Maurice Carême est comme une pureté imprégnée de songes? Est ce qu’à ce moment, il t'envoie un message qui donne le courage de vivre et nourrit d'espoir? Pour moi la poésie de Maurice Carême est la protection la plus simple contre le mal du monde. J. Burny Il considérait que le poète se devait de rendre ce monde habitable. Je pense que cela se perçoit tout au long de son oeuvre qui s’avère immense. On peut affirmer sans se tromper qu’elle est le reflet d’un grand humaniste. Un dono per tutti gli amanti della Poesia, delle armoniche sonorità in rime e ritmi della lingua francese nelle poesie di Maurice Carême, dell'audacia nell'affrontare, attraverso la forza della Bellezza in luce, ogni pesante, opaca stonatura del nostro tempo. Ilia Pedrina
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MICHELE DE LUCA E I DIALETTI CALABRESI di Carmine Chiodo
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ICHELE De Luca è un noto e stimato glottologo, linguista, studioso di dialetto calabrese, su cui ha dato vari e fondamentali libri e saggi. Gli studi di De Luca riguardano in particolar modo la etnolinguistica, la toponomastica e il lessico dei dialetti calabresi, i quali sono studiati e indagati sotto il profilo e sincronico e diacronico. Anche se pochi parlano il dialetto, su di esso invece sono copiosi e di varia importanza gli studi, le indagini. Questo bel volume di De Luca analizza tutte le varietà dialettali che esistono nell’ampio repertorio linguistico della Calabria. De Luca è da anni, e con notevoli risultati, che studia il dialetto calabrese, dandoci pure i criteri e il metodo attraverso cui indagare e investigare sul dialetto: ci dà un metodo e linee di ricerca, gli strumenti per capire la diglossia e la politica linguistica. Il volume che sto analizzando è ben articolato e fatto, rigoroso da un punto di vista scientifico ma anche – e ciò è un’altra caratteristica di
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fondo – molto chiaro e comprensibile a tutti; un libro che si rivolge sia a studenti sia a studiosi entrambi desiderosi di approfondire una delle più suggestive caratteristiche etnicoculturali della Calabria odierna. Il libro si divide in due parti: una prima e una seconda. Nella prima si leggono ad esempio le pagine attinenti all’alfabeto calabro, alle trascrizioni foniche, alla corretta trascrizione fonematica, al raddoppiamento consonantico, ai bisillabi tonici, ai bisillabi e polisillabi ossitoni (alcuni vocaboli con l’ accento sull’ultima sillaba) ai nessi consonantici che non subiscono raddoppiamento. La Seconda parte spiega come orientarsi con le trascrizioni presenti nei dizionari areali antichi, e poi ancora questa parte (seconda) presenta una tavola di comparazione dei segni diacritici usati nei vocabolari areali calabresi, e poi ancora le sinossi dei dizionari calabri del passato (1862 - 1997), ad esempio. G. Rohlfs (1977), Francesco Muja (1862),Vincenzo Severini (1880), Cesare Molisani (1886), Raffaele Cotronei (1895), Luigi Accattatis (1895 - 98), Giuseppe Adamo (1926), Gaetano Fragomeni 1946), Domenico Bonaccurso (1970), Gabriele Rocca (1974). Ecco ancora in questa seconda parte le sinossi dei dizionari e vocabolari calabresi (con esclusione di quelli toponomastici ed onomastici); poi segue una <<Bibliografia >> di testi lessicali e demologici relativi alla Calabria, dizionari e vocabolari calabresi, repertori lessicali e toponomastici, e ancora , dizionari araldici, seguono poi proverbi, aforismi, indovinelli, motti e modi di dire del popolo calabrese, opere di carattere antropologico – culturale, folcloristico e sociologico sulla regione, e infine la bibliografia della e sulla Calabria. Il tutto viene espresso e presentato dallo studioso con la massima chiarezza e accuratezza metodologica e scientifica, e a tal proposito faccio alcuni esempi, e comincio dalla <<Presentazione>> allorquando De Luca afferma subito che la difficoltà più consistente per chi scrive in dialetto è quella di riprodurre <<certi suoni con appositi grafemi, ovvero di trovare una corrispondenza tra pronunzia e scrittura>> (1.3) e
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ancora viene pure sottolineato il fatto che capita, certe volte, leggendo gli scritti in dialetto, che una parte di cui si comprende il dialetto ci <<lasci perplessi, perché nella trascrizione dialettale quel vocabolo potrebbe avere un altro significato: se nel calabrese (quello della Calabria estrema) con la pronunzia <<ricchi>> (trascrizione letteraria) si indicano le orecchie, come si trascrive, sempre in calabrese, l’italiano <<ricchi possidenti?>> (v. Si scrive ricchi ricchji?, p. 15). Comunque la corretta trascrizione delle voci dialettali e l’ uso di alfabeti fonetici consentono, senza alcun dubbio, di superare questo ostacolo, in quanto raggiunta una intesa sulle norme che attengono alla pronunzia, si può pensare a una ortografia uniforme. E quindi avremo <<ricchi/ricci/orecchie e ricchi /rikki/ricchi, possidenti >>, e la trascrizione dei due vocaboli risulterà diversa. Questa guida allo studio dei dialetti calabresi ha lo scopo non troppo velato di stimolare il lettore ad una maggiore attenzione verso le trascrizioni dialettali per cui ,tutto sommato, il libro non è una grammatica, come dice lo stesso autore, non è una sinossi che prescriva precetti indiscutibili, ma solo un <<avvio ragionato>> alla comprensione dei dialetti delle Calabrie e delle <<forme lessicali più adeguate nelle registrazioni in vernacolo>> (p. 20). De Luca propone delle opinioni e le sostiene con una scrupolosa e puntigliosa documentazione, ma poi <<ognuno sarà libero di fare la scelta che ritiene più opportuna>> (ivi). La gente, ad esempio si chiede come vada scritto in dialetto fiore, e De Luca espone alcune soluzioni e nel contempo dichiara le sue preferenze e criteri seguiti nelle trascrizioni delle parole dialettali. Comunque non vuole dare regole o precetti, quindi ognuno è libero di seguire questo o quel criterio, questa o quest’altra soluzione. Comunque regola essenziale per poter <<stabilire una buona trascrizione>> è il fatto che si debbono avere degli strumenti tecnici di rilevazione e poi di sapere ascoltare. Inoltre questo libro di De Luca s’appoggia su studi linguistici e dialettali precedenti dovuti a illustri studiosi, di cui lo
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studioso coglie tutta l’importanza e innovazione, e ovviamente non può mancare Rohlfs, e poi ancora altri autori come Domenico De Cristo (autore del Vocabolario calabro- italiano,1895, che è di <<buona fattura, sebbene l’ ordine alfabetico delle voci registrate sia ballerino ed i verbi siano indicati in fondo ad ogni lettera dell’alfabeto!>> (p. 130). Non fu certamente facile per il maestro elementare Domenico De Cristo scrivere e sostenere poi economicamente l’uscita di quest’opera. Non solo De Cristo ma vengono citati e puntualmente analizzati altri autori che ci hanno dato opere sul dialetto calabrese, e di esse lo studioso coglie tutta l’importanza e l’ autorevolezza. Infine per chiudere questa nota è da dire che questo libro di Michele De Luca è un’opera utile, un’opera che ci mancava e di cui si avvertiva il bisogno e che ora solo un linguista e uno studioso bravo e preparato come De Luca poteva darci. Carmine Chiodo Michele De Luca, Guida allo studio dei dialetti calabresi, Editore Ferrari, Rossano (CS), 2016, pp. 261, Euro 25,oo.
MIS RECUERDOS Mis recuerdos ya sòlo son las calles cortas y estrechas de la Carihuela, las blancas casas con sus azoteas de cara al mar azul. Las buganvilleas sobre los muros blancos, y la lìnea grisa de las montanas de la Sierra. Mis recuerdos son una callejuela estrecha y corta, entre paredes blancas, una maceta con un geranio rosa, un nino, un gato, un perro: y al fondo, el mar. Un azulejo al lado de una puerta (“Ave Maria”), unas barcas ... playa y sol. Mariagina Bonciani Milano
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MISTICA E FILOSOFIA: MARCO VANNINI IN CAMMINO PER UN'EUROPA DA NON FAR TRAMONTARE di Ilia Pedrina
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ARCO Vannini, fiorentino di nascita, di studi e d'esperienza, rappresenta la voce più significativa tra gli scrittori che si sono lasciati coinvolgere in profondità dalla filosofia in lingua tedesca, utilizzata da autori come Meister Eckhart, Angelus Silesius, fino ad Hegel, a Schopenhauer, a Nietzsche, senza dimenticare Simone Wiel..Alla base anche la passione per il greco ed il latino, per verificare direttamente la portata intellettuale di Eraclito, Platone, Plotino, le voci del Nuovo Testamento, Agostino; per lo spagnolo antico di Juan de la Cruz e chi sa mai anche per l'arabo di Ibn 'Arabî e di altre voci del misticismo sufi. È dalla lingua scritta che si coglie la voce del passato ed il pensiero che affascina la mente e la lega alla ragione,
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così e solo così si fa strada un percorso di scelta e ti metti al lavoro, elaborando il tuo stesso volto in divenire ed affidandolo a tua volta alla scrittura, che altri poi trasporteranno altrove. Ecco i dati del testo che ho iniziato a leggere il giorno 8 febbraio 2008, concludendone l'attraversamento il 13 febbraio 2008 ed annotandone fittamente i riscontri. La seconda lettura ha preso avvio il 2 maggio 2017, in vista di un più serio approccio al recentissimo lavoro di Marco Vannini, 'CONTRO LUTERO E IL FALSO EVANGELO', della Lorenzo de' Medici Press, stampato nel gennaio 2017, per il quale mi metterò in dialogo con lui, onde farne scaturire vivaci segnali e stabili impronte conoscitive. Allora ci troviamo di fronte a questo serio impegno intellettuale, 'MISTICA E FILOSOFIA, Prefazione di M. Cacciari, ed. Le Lettere, Firenze, finito di stampare nel settembre 2007, con, in copertina, un lavoro di Pier Mondrian, Melo in fiore, 1912. Tutto si snoda a partire da una Introduzione, una Nota alla Seconda Edizione: costruendo nove capitoli, che qui offro in elenco, l'Autore intende sottolineare che forza grande acquista il suo interesse di storico e di filosofo speculativo per la vicenda di Margherita Porete, arsa viva a Parigi perché tacciata di eresia il giorno 1 giugno del 1310. 1. L'esperienza di Margherita Porete (a partire dall'impianto platonico, passando attraverso il suo 'Specchio delle anime semplici' per approdare alla componente cristiana del suo messaggio); 2. “Meister Eckhart, cui Dio nulla ha nascosto”, articolato in tappe via via sempre più coinvolgenti da 'Il fondo dell'anima' a 'Il distacco', 'La fede', 'La grazia', 'L'amore', 'Lo spirito', fino ad arrivare a 'La generazione del Verbo'; 3. La visione di Dio: Cusano e Ibn 'Arabi; 4. Angelus Silesius, pellegrino nell'assoluto; 5. Hegel: morte dell'anima e libertà dello spirito (costruendo con chiarezza la sezione 'Hegel e il buddhismo);
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6. Hegel: il pensiero dell'altro e il male; 7. Nietzsche: Ecce homo; 8. L'universalismo mistico di Simon Weil; 9. Il lieto annuncio (intensa testimonianza a gettar luce nuova su Giovanni evangelista). Il Vannini intende mostrare, con documentazioni ben articolate ed opportuni rimandi a suoi lavori di riferimento e di approfondimento, che la cultura canonica ha tradizionalmente tramandato materiale spurio o, se noto, da immergere nell'oblio, portando così, oltre che alla manipolazione, anche ad un travisamento consapevole delle fonti, allo scopo di far emergere verità altra, non maiuscola. Per questo, arrivando scrupolosamente alle fonti, il filosofo sceglie quei protagonisti che hanno saputo dare spazio dentro di sé all'ascolto dello spirito, attraverso la preghiera, il canto in poesia, il silenzio, il distacco: “...Alla chiacchiera teologica si è perciò sostituita (meglio sarebbe dire aggiunta) quella di un filosofare che giustamente Hegel chiamava 'accidentale, che si appoggia a questi o a quegli oggetti, a queste o a quelle relazioni, a questi o a quei pensieri della coscienza imperfetta, come l'accidentalità lo consente', assolutamente incapace di trovare l'essere, e la gioia nell'essere. In alternativa a tutto ciò, si presentano qui alcune figure che testimoniano il contrario: l'esperienza della non alterità dell'essere, la gioia dell'assoluto bene qui ed ora, il superamento di ogni alienazione. Sono filosofi che appartengono a quella dimensione che è consueto chiamare 'mistica': si tratta in effetti della filosofia nel suo senso più reale e profondo, ma è pur vero che in essa, in quanto esperienza dello spirito, si è mantenuta nei secoli la conoscenza di una realtà perduta dal piccolo uomo alienato contemporaneo. La mistica, se così vogliamo chiamarla, è infatti, da un lato, la vera scienza dell'anima, in grado di scendere davvero nel suo 'fondo' e di esprimere la verità dell'uomo, che è lo spirito - quasi un eteron ghenos psychès, come diceva Aristotele -, e di conseguenza assicurare profonda, in-
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contrastabile gioia. Dall'altro lato, essa è scienza di Dio, ed ha il merito di aver tenuto viva, in mezzo alla banalità del nostro tempo, religiosa o laica che sia, l'esperienza della non alterità dell'essere, dell'unità Dio-uomo. Questi due lati però sono le due facce della stessa medaglia, giacché unica è la realtà, unico l'essere: Dio e l'uomo sono lo stesso...” (Marco Vannini, Mistica e Filosofia, pp. 15-16). A Giovanni evangelista, a Meister Eckhart, a Hegel il primato delle citazioni, soprattutto in note di approfondimento, tutte necessarie. Il dettato di questo importante studioso mi ha sospinto, nell'immediatezza della lettura, a vergare note ed approfondimenti, per trovare prove concrete allo scopo di evitare una profezia che, scandalosamente, si auto-avvera: l' Europa è destinata a tramontare; l'isola felice si trova oltre l'Atlantico; i verdi pascoli d'Europa spettano come promessa ai figli del deserto; senza trascurare le cupe tinte di un apocalisse provocato ad hoc, alla bisogna insomma come realtà virtuale, onde tenere segregate e sotto sequestro dignità, intelligenza, progettualità conoscitiva di ciascuno di noi. Non così, non per queste finalità ed il Vannini ci aiuta, portandoci ad una complessa, vitale consapevolezza del diritto alla gioia, che è diritto alla vita vera. Lo spirito, dunque, nella luce e nella concretezza della sua realizzazione! Ilia Pedrina
ANNA Tenderò le mani nel silenzio Cercando il Tuo volto Amore, La mia fede raggiunge le stelle Là dove le preghiere giungono al cuore. Ti cercherò sempre nel viale della mente, Nella penombra del Tuo sorriso, Verso sera, aprirò la finestra dei ricordi E siederò sul davanzale della memoria, Ti parlerò di questo immenso silenzio E di questa sorgente di lacrime, Che scorrono copiose pensandoti. Amore! Giuseppe Cosentino Oberkotzau, Germania
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LA “FUGA DEL TEMPO” NELLA POESIA DI LUIGI DE ROSA di Bruno Rombi
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UIGI De Rosa, già provveditore agli studi di Torino, Trieste,Savona e Bergamo, e sovrintendente scolastico regionale della Liguria, nel mentre ha speso la sua vita in favore dell'istruzione e della cultura, in pari tempo si è continuamente tuffato nella poesia e nella letteratura, in modo tutt' altro che occasionale, ma anzi, in modo sistematico e profondo. Lo dimostrano le raccolte di versi via via ordinate nel tempo, a partire da Risveglio veneziano ed altri versi (presentata da Diego Valeri nel 1969), per proseguire poi con Il volto di lei durante (prefazione di Giorgio Bàrberi Squarotti, 1990 e 2005), Approdo in Liguria (prefazione di Maria Luisa Spaziani, 2006), Lo specchio e la vita (con saggio introduttivo di Graziella Corsinovi dell'Università di Genova, 2006) per giungere a Fuga del tempo, prefato da Sandro Gros Pietro (Gènesi, Torino, novembre 2013) che, in qualche modo, fa sentire la sua opinione anche sugli altri volumi. A me il compito di soffermarmi sull'ultimo, che si presuppone rappresenti la migliore tappa di un percorso poetico disteso lungamente nel tempo e, per effetto del tempo, forse più a lungo meditato. D'altra parte nel titolo Fuga del tempo si
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avverte una sorta di richiamo a se stesso, da parte del poeta, sulla necessità, forse, di un carpe diem, perché il tempo che “fugge” non si afferra, o perché con la “fuga del tempo”, con il tempo che si allontana, si separano da noi gli avvenimenti, e i ricordi, e i sogni vissuti. Se avessimo potuto seguire pazientemente il poeta De Rosa lungo il suo cammino potremmo tracciarne e individuarne meglio il percorso e il senso. Ma poiché l'incontro è recente, non ci resta, pertanto, che affidarci ai testi, dei quali manca il primogenito anche se, nel sondare attentamente ciò di cui disponiamo per una carrellata che introduca l'ultimo ci par di comprendere che le tracce del percorso – per lo meno alcune – esistono nei testi transitati – magari con qualche modifica – da una raccolta ad altre successive. In Il volto di lei durante che, come scrive Giorgio Barberi Squarotti in prefazione – è una summa in versi di una gioia vitale, De Rosa parla della vita, e dell'amore, con entusiasmo e intensità, ed ogni occasione – lavoro, viaggi, amori – diventa un gioco di sillabe e di rime “caricate di tutti gli umori e i sapori di un sapientissimo padrone della lingua e dei ritmi.” E se anche emerge un filo sottilissimo di una nostalgia che avrà forma ed espressione più chiara nei volumi successivi, per De Rosa ”La casa del poeta” è individuabile nei seguenti versi: “Eppure ci sarà quel marchio invisibile quella piccola brace inestinguibile in qualche parte dell'”anima”, come melopèa, ecolalìa struggente che sempre versa e sempre si rinnova: dov'è la casa del poeta ?” Di tessitura nel tempo della poesia di De Rosa parla anche Maria Luisa Spaziani nella prefazione al volume successivo Approdo in Liguria, un volume che, se ripercorre itinerari e ricordi della regione che ha avuto e ancora ha grande importanza nella vita del poeta, è anche quella riserva di momenti lirici e di ricordi cui attingerà a piene mani il poeta per il volume Fuga del tempo, ossia il testo ultimo. Comunque non saranno inutili i richiami a titoli precedenti, anche quando i
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procedimenti lirici sono diversi come, ad esempio, Canzone dell'azzurro e Nuova canzone dell'azzurro forse perché, per una sorta di cortocircùito sentimentale, che riporta il poeta ai momenti clou della sua esistenza, sfaccettandoli, diventano la spia di un processo ab interiore del macero della parola. Cito ancora la raccolta Lo specchio e la vita, che si avvale di un saggio introduttivo di Graziella Corsinovi che parla della poesia di De Rosa come riflesso, in uno specchio, dell'esistenza del poeta, sottolineando, insieme alla liricità del dettato, un sempre desto, anche se larvato, senso iconico che consente al poeta di guardare alla società contemporanea “parossisticamente imbarbarita dagli eccessi del consumismo e della tecnologia, falsamente civile nelle sue città splendenti e maleolenti...” con quel che segue. Per me, come ho scritto nell'ultimo numero della rivista genovese “Satura”, la poesia di De Rosa si muove sul filo sotteso di un sentimento nostalgico del tempo, sentimento che ha radici profonde nell'infanzia dove campeggia la figura paterna, ora con la sua presenza, ora in ombra in un contesto ambientale non bene definito ma dove s'avverte chiaramente la mancanza di una figura importante per la vita di un bambino: la madre. ...Ancora oggi il mio, talvolta, è un fluttuare lento in notturni silenzi senza fondo, parlando a fantasmi di cose umane. Mi rivedo bambino spaurito tenuto nervosamente per mano da mio padre offuscare di lacrime, in silenzio, i miei occhiali da sole, soffocanti, mentre mia madre si allontana per sempre.” Occhiali neri da sole : questa lirica è apparsa anche in raccolte precedenti e un grosso frammento finale apre, ad esempio, la raccolta “Lo specchio e la vita”. Sullo sfondo la natura, con un flash fulminante sulla Milano del 1944 e scorci di una Liguria matrice di gesti, sogni, ricordi e malinconie, come controcanto di una solitudine a tratti raggrumata in un
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cruccio e, a tratti, vivificata dal senso di una ricercata e acquisita vitalità : Ancora un segno della giovinezza... “...E' grazie al fascino stregone di questo mare sempre in movimento che , nell'inverno, io sopravvivo e non mi stanco mai di aspettare, come un coriaceo ulivo, ancora un segno della giovinezza che resiste nelle piante, nel cielo, sulle spiagge di questa Riviera.” Ad introdurre quel mondo di sensazioni, ricordi, sogni e delusioni, l'atto di coscienza di ciò che è stata la vita, paragonata, metaforicamente, ad un fiume che si muove Verso la foce. Non a caso il poeta apre la raccolta con questa lirica : “ Tranquilli, amici, non c'è fretta, né ansia, tanto andiamo tutti, inevitabilmente, chi prima, chi dopo, verso la foce. Il fiume della vita può fluire, a volte, più pesantemente, e per troppe dolorose sventure si può anche intorbidare. Ma alla fine tornerà trasparente come filo gelato di sorgente quando si fonderà con un mare aperto e profondo, senza più il limite, laggiù, di un orizzonte.” Con la serenità di chi ha compreso il corso degli eventi, De Rosa riassume con naturalezza la sua esistenza, cercandone il segno nello scrigno dei ricordi , dove tutto è raccolto coscienziosamente per giungere al quesìto fondamentale Cos'è una rosa ?. Senza riuscire, in comunione con Giorgio Caproni, a dirlo: “ Caproni, Poeta amico, anch'io, nel mio piccolo, in una o l'altra sera mi addormenterò, deluso, per sempre, dopo avere scritto in versi e in prosa per una vita intera, senza essere mai “riuscito a dire cos'è, nella sua essenza, una rosa”.
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E se l'uomo non può conoscere e capire l'essenza di una piccola cosa vivente, precaria, come può capire la Vita o, addirittura, il Dio che sembra assente ?” La figura dominante anche nell'ombra – quella paterna – riemerge in Caro papà . Tale confronto, che è anche un continuo tentativo di autoidentificazione nel genitore, prosegue nelle due liriche successive: una che descrive un dialogo: “ Papà, sempre più mi sorprendo a parlarti all'orecchio, a confidarti...” e l'altra, che documenta i dolci ricordi del passato : “ Ogni volta che ritorno a trovarti in questo immenso Cimitero di Asti tu continui a sorridere sornione dietro i baffetti, con quel tuo sorriso intelligente e ironico: come al solito, forse, non mi ascolti, ma vuoi farmi capire, anche in silenzio, che viene un giorno in cui non vale più la pena di soffrire questa vita...” Se la maggior parte delle liriche della Raccolta testimonia un'indagine retrospettiva, con una forte evidenza dell'io poetante, in molte altre liriche il Nostro svela quanto coglie intorno a sé, e viaggiando per la vita ( vedi Malinconia d'un pendolare) ora soffermandosi su scorci di realtà colti attraverso il gioco delle contraddizioni ( Un mattino di Liguria/Un mattino del mondo), o meditando sulle sorti della nostra umanità alla luce degli eventi atomici. E se, riflettendo sulla sorte dell'empio e del giusto, manifesta la sua fede nel Cristo che redime, concede anche fiducia alla natura perché “ Fino a quando le rondini partiranno e torneranno ( anche se in ritardo per una primavera capricciosa, tardiva) ci sarà ancora speranza. Fino a quando le rondini sfrecceranno zigzagando sicure senza andare a sbattere contro i piloni di cemento dei viadotti delle autostrade ci sarà ancora speranza
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per questo piccolo mondo ingannevole ma stupefacente” ( “Fino a quando le rondini”). Bruno Rombi (Dalla Presentazione del libro di Luigi De Rosa Fuga del tempo (Gènesi Editrice, Torino, novembre 2013) ad opera del poeta, scrittore e critico letterario Bruno Rombi, avvenuta il 4 aprile 2014 presso il Municipio di Genova-VIII -Levante, nell'ambito del Programma Culturale 2014 della Associazione Scrittori Liguri “Il Gatto certosino”, presieduta dalla poetessa, scrittrice e critico letterario prof.ssa Rosa Elisa Giangoia).
CUORE CHE TREMI Sfioro, amato cuore mio tremi, come una foglia al vento cerchi le risposte tra le lacrime ondeggi e respiri ossigeno soccorri le tue membra e il tuo corpo fotografato e appiccicato sul letto immagine di un riporto di apparente normalità sei un fuscello che galleggia sull’acqua, all’alba di un dolore notturno invasore freddo e invadente fino a tremare di quell’assurdo suono che ritorna nella tua mente a cullare il lento scorrere sul fiume dei ricordi, di un cuore amato nei giorni dello splendore che sono andati via per sempre lasciando il vento a soffiare tra le pieghe di un silenzio quasi mortale. Donna di sempre amato mio cuore di sventura ti sento e mi duole saperti cosi. Mi rialzo bagnata da quelle acque gelide e mi asciugo nel mio lento incedere verso la luna Filomena Iovinella Torino
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Giugno 2017
VANNO INCREMENTATI L’AGRICOLTURA E L’ARTIGIANATO INSIEME CON ALTRI LAVORI A CARATTERE SOCIALE di Leonardo Selvaggi
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CERRIMO nemico, fra gli altri, della disoccupazione è la presenza massiccia delle donne nei vari posti di lavoro. Se ti trovi ad uno sportello dei servizi postali non vedi che donne che sanno gestire il lavoro a modo proprio, con il loro istinto particolare e possessivo; se vai in una banca vedi che la maggioranza dei dipendenti è costituita pure da donne. Di certo il matriarcato dilagante spinge a creare autonomia e indipendenza economica al sesso gentile. Irrazionale soltanto è il criterio distributivo delle occupazioni che si traduce in dispendio di denaro, non rivolto a necessità di sostentamento familiare, ma ad incrementare il consumismo, avidità, vizi, lusso. La donna che non ha impellenti bisogni economici con il suo posto di lavoro non fa che svantaggiare il disoccupato, mettendolo sempre più nell’impossibilità di uscire dall’indigenza. Oltre tutto disgrega la unitarietà del nucleo familiare. La casa non ha quel calore che soltanto la presenza della donna che accudisce alle faccende domestiche può dare, mantenendo i rapporti con i figli con cura affettiva. Tutte le agenzie commerciali, gli uffici immobiliari sono costituiti da posti femminili, le donne sanno fare con astuzia e tutte le capacità adescatrici che hanno. Penso al disoccupato quando vedo la vigilessa che fa tutti i giri con il collega, non dice mai di no, le commissioni in tutti i luoghi, nei mercati e nei viali, il servizio lo vuole. La coppia compiaciuta, lui la guarda negli occhi e poi il vestito le sta bene per una immedesimazione totale. Non so quali passeggiate deve fare più con il marito, sarà stanca e avrà voglia solo di litigare. Tante le donne dalle belle forme, non trovi una che non eserciti attrattive. Tanti mestieri un tempo non alla portata di tutti, chiusi nell’aria magica di certe
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famiglie abbienti si tramandavano, ora presi dalle donne assumono un tono diverso, meno austero; la velocità di eloquio del vago sesso, quel tanto di meccanico e di schematico che è spontaneità espressiva Ci sono caterve di giornaliste che piovono in ogni occasione, non parliamo dell’ambiente del calcio; le interviste vuote hanno i contenuti più insulsi e convincono che sono il riempitivo vacuo di questa attività sportiva di cui si parla a profusione, con parassitismi senza confini, con denaro a fiume, miliardi che si danno come fossero niente. Nessuno sa quello che avviene negli ambienti del calcio, non si parla mai di scandali, tutto in regola. Teste vuote e zoticoni in grande quantità, mani sporche di denaro preso come si è voluto dai calderoni senza fondo. Attorniati dalla dolcezza delle gambe nude e dall’ombelico soffice delle giovinette con tutte le attrezzature sessuali di prima scelta, vicino ai tabelloni dei risultati delle partite. Siamo un paese ove il carnevale e la spensieratezza sono di tutti i giorni. Trasmissionifiume sul calcio, discussioni interminabili che paiono filosofia seria, minuta e puntigliosa sulle più sperticate stupidate riferite alle palle lanciate nella rete. Feste, abiti da sera che raggiungono certi incredibili, nottate di divertimento all’infinito. I veri disoccupati reclusi sempre più nelle difficoltà che non hanno sbocco, trovano impossibile un cambiamento di vita. Per qualunque informazione tu chieda per telefono sempre una voce argentina femminile risponde, Ti domandi dove sono gli uomini, forse occupano i posti misteriosi che fanno accumulare denaro per i vizi più estrosi, sono gli abili intrallazzatori che tramano incontri e affari a distanza con il telefonino, in modo magico, con la furberia e la maestria dei grandi volponi di professione. Tanta parte di uomini messa in uno stato di deprezzamento; spesso la caduta della dignità porta con lo svilimento a gestire in modo subdolo le attività, spinti per questa strada dall’ indeterminata smodatezza dei costumi. Le esigenze sempre più peregrine, il denaro vilipeso e consumato senza misura. Allora, in certi ambienti, tangenti, concussioni, illeciti, corru-
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zione diffusa diventata sistema di vita e di rapporti. Tutto per la felicità di chi senza lavoro ha i giorni maledetti, muovendosi nella penuria e in quello stato di privazioni che debilita e deprime. Il deputato come rappresentante della Nazione non si farà attorniare dal clientelismo, tutti i cittadini sono uguali ed hanno diritto ad essere tutelati, specie i diseredati, il povero operaio che lavora pochi mesi all’ anno, nelle condizioni di emarginazione. Né con sotterfugi consentirà vie tortuose per arrivare ad illeciti finanziamenti. Molti capannoni industriali sono stati installati per giustificare prestiti agevolati, denaro concesso per fantomatiche attrezzature. I capannoni sono rimasti sempre vuoti, l’occupazione di nuova forzalavoro mai pensata. Progresso civile, parola inconsistente senza corrispondenze concrete. Non è concepibile in un’era tecnologica l’ esistenza di divari economici abissali; potenti che spadroneggiano sul bene pubblico, agendo a proprio piacimento, liberi di appropriarsi di ingenti somme di denaro per appalti di opere che non vedono mai la fine. Sono monopolizzatori, presenti dappertutto, alla televisione, nelle banche, nelle industrie, lottizzatori di immensi complessi economici. L’età dell’automazione ha massacrato il buon senso e l’equilibrio alimentando fino al parossismo l’egoismo, la prosopopea di tanti che paiono di essere gli arbitri assoluti della sorte dell’ intero Stato. Inconcepibile che il problema della disoccupazione non trovi soluzioni in un modo automatico. I disoccupati veri e quelli con i minimi salari non saranno molti, ribadiamo, potrebbero una volta per sempre essere tolti dalla precarietà in cui versano. Si parla di Europa e non si pensa ad eliminare certe situazioni sociali divenute cancrenose, dovute a noncuranza e ad un’attività politica che va avanti discontinua. Essere cittadini d’Europa significherebbe che nella grande generalità ognuno di noi ha raggiunto uno stato di dignità apprezzabile. Si entra in un ambiente politico nuovo preparati, con una presenza decente, pronti per essere allineati con le altre Na-
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zioni, senza avere alle spalle troppi guai. Non penso che faremo viaggiare all’estero i nostri disoccupati – di emigranti ne abbiamo avuto in tutti i secoli e in tutto il mondo – per aggravare il loro disagio, disgiunti dalle famiglie, vivendo di stenti e di risparmi. Famiglie divise uguale a maggiori privazioni, a doppi consumi, senza parlare dello stato di solitudine e amarezza da cui rimarrebbero prese. Si dovrebbe avere prima dell’ingresso in Europa piuttosto un certo livellamento sociale, un concreto grado di maturazione civile: cittadini davvero degni di uno Stato che viene sbandierato come fra i più progrediti, industrializzati con un gran numero di riforme attuate che avrebbero elevato le condizioni generali sia politiche che economiche, come vogliono i nostri grandi far credere. Invece ci sono problemi antichi che stanno allo stesso posto di prima, non hanno mosso un passo: le condizioni generali dovrebbero rassomigliare ad una superficie più o meno piatta, invece è intersecata da burroni, da zone scoscese in pericolo permanente. Si ha l’impressione di avere un’Europa unita con apparenze formali mentre nel proprio Stato si accentuano le situazioni critiche. La disoccupazione correrà rischi maggiori, rimarrà un problema nascosto di second’ordine continuandosi a vedere le indorature esteriori e il benessere dei privilegiati fattosi più esteso. Le argomentazioni relative al volume “Come eliminare la disoccupazione” di Salvatore Porcu si svolgono con completezza, le parti riferite al tema sono trattate da ogni punto di vista, si sviluppano indicando le diverse vie risolutive che potrebbero essere effettive solo se l’impegno dei governanti e degli imprenditori mostrasse costantemente fermezza su un piano programmatico chiaro che mira alla meta con risoluta convinzione di arrivarci. Le pagine si susseguono con metodo sillogistico e simmetria, hanno sostanza essenziale e naturale per un vivificante arricchimento di informazioni e di stimoli a riflettere. Salvatore Porcu ha le narici appena slargate, un fiuto fine: è preso da un’agitazione, vorrebbe che si facesse in fretta per i miglioramenti ritenuti necessari. Sente
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nell’aria odore di temporale, potrebbe peggiorare lo stato dei disoccupati; occorre che si incammini un processo di risanamento dei costumi, un freno agli sperperi, un coordinato intervento da parte di tutti. “Non è chi non veda che, anche per non diminuire il livello di occupazione operaia e impiegatizia, è opportuno lasciare una certa libertà di azione a tutte le aziende produttive o di servizi, perché più esse prosperano e crescono di numero, maggiore risulterà il numero delle assunzioni”. “È da osservare che se sono elevate le imposte più facilmente i fondi dello Stato vengono sperperati in servizi e sovvenzioni inutili o in spese parassitarie e comunque inopportune. E ciò, oltre a rappresentare un grave inconveniente di ordine economico-finanziario, incide fortemente sulla disoccupazione, in quanto lo sperpero di fondi statali impedisce di sostenere attività necessarie e costruttive”. “Il contenimento della svalutazione e la conseguente difesa del risparmio popolare sono quindi essenziali per la stabilità del costo del lavoro e dei prezzi sul mercato, per salvaguardare gli interessi delle classi disagiate, che vivono con reddito fisso, e anche per attenuare il fenomeno della disoccupazione”. Ai fini di affrontare con metodo il problema dei disoccupati, oltre alle tante strade da percorrere, si pensi all’ “alberazione del maggior numero di strade e piazze; adornamento arboreo, floreale ed estetico delle stazioni ferroviarie e autotranviarie, nonché dei crocevia, spiazzi e luoghi di sosta…” Tutti i mestieri sono importanti, occorre che si smantellino gli orgogli e i pregiudizi, quella gelosa contrapposizione fra l’uno e l’altro, a gara per essere il migliore; tanti vanitosi ed aridi professionisti. Caterve di studenti svogliati che riempiono le aule facendo gazzarre, senza impegno nell’apprendimento, la frequenza solo un passatempo, pronti ad amoreggiare e deridere l’insegnante, senza rispetto e senza dignità: il livello di istruzione si è notevolmente abbassato. Tanti studenti non hanno la dovuta inclinazione né le capacità intellettive. Si tolga l’obbligatorietà fino ai quattordici
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anni e si dia libertà ai ragazzi senza portarli di peso nelle scuole. Alle famiglie fa comodo avere i figli studenti, poiché la mamma lavora e vuole essere libera: la casa è diventata per tanti un albergo, si entra a tutte le ore, ognuno si comanda da sé. Si ritorni a quell’atmosfera tradizionale di un tempo, contemperando la civiltà industriale con l’ampliamento dell’ artigianato e il ridimensionamento dell’ ambiente di famiglia: con toni di semplicità, con rapporti più naturali superando le forme false di modernità piuttosto nocive. I genitori sono fanatici specie nelle regioni meridionali, si vogliono i figli a tutti i costi professionisti, si instaura quella specie di antagonismo che rovina l’ambiente e fa perdere la spontaneità e le amicizie disinteressate. Tante dottoresse sottoccupate, tanti medici in esuberanza. Vadano a scuola i meritevoli e gli altri senza sbandamenti e senza rischi di alienazione, ma concretamente avranno le strade da percorrere verso i mestieri, l’agricoltura e le occupazioni a scopo sociale incentivate dallo Stato, l’unica struttura che ha in sé l’obbligo di risolvere certi problemi essenziali relativi all’ esistenza vitale nazionale. Non è vero che lo Stato sia il meno indicato per realizzare opere a carattere difensivo del suolo e dell’ ambiente. La corruzione annida dappertutto; perché gli Enti di ogni tipo si indirizzino alle attività nel modo giusto, occorre soprattutto che si moralizzino gli operatori con autocontrolli e responsabilità personali, con senso civico e inquadrati con severità disinteressata da parte di chi ha l’impegno delle mansioni direttive. In Italia si sanno fare soltanto macchine, che riempiono le autostrade di pericolo e sono molte volte vero strumento di rovina per famiglie intere. Opportuna la limitazione dei mezzi privati di locomozione che spesso creano solitudine e tengono in stato di frenesia, alla ricerca ostinata dei divertimenti, alimentandosi ogni tipo di vizio e di sperpero. Molti disoccupati volontari potranno diminuire incrementandosi posti di lavoro meno stressanti e in ambiente artigianale. A volte l’ attività industriale crea repulsione, distrugge poco per volta la vitalità natia, rendendola au-
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tomatizzata, l’uomo diventa estraneo a tutto ciò che sa di spontaneità e di immediato contatto con il mondo esterno più vivo e naturale. L’artigianato e l’agricoltura danno lavoro più confacente alle persone sensibili e fragili. Consentono a queste di mantenere doti di grande apprezzamento, quali l’inventività e l’ inclinazione alla manualità applicativa; la virtù delle mani che sanno costruire oggetti preziosi, con l’occhio vigile e la mente ricca di fantasia. Si pensi alle città lerce e si indirizzino i giovani ad amare l’ordine e ad essere rispettosi del bene pubblico. L’operatore ecologico, come oggi si chiama lo spazzino di un tempo, che si dedica con passione sarà il più benemerito, più lodevole di un pessimo dottore, più dotato di freschezza mentale e di buon senso, meno avido del professionista che gioca sulla debolezza del paziente. Si ameranno di più i centri abitati e le desertiche periferie. Orgogliosi di vedere le città lustre, gelosi che altri con poco rispetto le imbrattano e le deturpano rendendo i quartieri desolati e i palazzi resti di un tempo che non si riconosce. Le strade tenute pulite fanno riscoprire la dovizia storica delle facciate, inquadrate le strutture entro le linee autentiche. Il parlamentare non avrà inclinazioni clientelistiche, non guarderà in faccia nessuno, solo di mira il raggiungimento del benessere generale, al di sopra delle pose e dei personalismi, con modestia, umiltà, coerenza soprattutto. Essere assillati dai propri compiti e con ostinazione rimuovere gli ostacoli nocivi alla comunità, vedere l’insieme della struttura sociale superando i dislivelli per ricomporla in modo armonico, vincendo le discrepanze e le contraddizioni. Soprattutto tutelare la dignità umana uguale in tutte le persone al di sopra delle incrostazioni che tengono la diversità delle condizioni economiche, al di sopra delle etichette di partito. Non differenze di vedute, di posizioni ideologiche davanti alle realtà dure, spinose, che si evidenziano di per sé richiamando con immediatezza alla razionalità e agli incontri di pareri. L’occupazione per chi non ce l’ha potrà realizzarsi senza ambagi
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da parte di una classe politica seria che svolge il lavoro con impegno senza dare aditi a lungaggini, a pettegolezzi, a contrasti, con la forza dei sentimenti, con il senso della dedizione disinteressata. Presi dal dovere per mantenere alto il significato di rappresentanti della Nazione. Altro nemico della disoccupazione nostrana l’emigrazione dal Marocco a flusso continuo senza seguire ferme norme internazionali. Arrivi che non hanno nessun riferimento a contratti di lavoro. Veri sbandati nella grande maggioranza, sprovveduti, ribelli e turbolenti. Non hanno voluto sottostare al rigore delle leggi maomettane e hanno preferito la libertà che rasenta l’anarchia del nostro paese. I Marocchini ossuti e sani come muli insozzano i marciapiedi con lunghe orinate; sono benvoluti dagli istituti religiosi e dai piemontesi. Fortunati rispetto ai meridionali arrivati in quantità enormi negli anni ‘50-60. Il razzismo di allora faceva capire che vi era un ancestrale astio verso gli immigrati dal Sud, una certa gelosia nei loro rapporti quasi come avviene spesso nelle famiglie fra i consanguinei. Va messo di certo un freno all’ arrivo degli stranieri se non si vogliono aggravare i nostri problemi occupazionali. Pare che non ci siano frontiere, facili sono gli sbarchi di clandestini albanesi nelle Puglie. L’Italia è il paese ove si sta bene, gli emigrati trovano libertà e facile acclimatazione per quel lassismo che si deve a leggi precarie, di poca forza, non rispettate, formalistiche, oggetto di arbitrio. Deprecabile, poi, l’esistenza di disposizioni di varia applicazione da un ente a un altro. Si è sempre parlato di giungla retributiva. Mai si è pensato una buona volta di eliminarla. Un funzionario a parità di grado ha trattamento economico diversificato a seconda se presta servizio presso lo Stato o la regione o al comune o alle dogane; quasi passando da un ente all’altro lo stesso impiegato subisce una trasformazione, diventa più bello, più intelligente con un rendimento raddoppiato. Funzionari gradassi che si rendono padroni, commettono arbitrii e fatti illeciti a danno delle leggi: prelevano pollastrelle da posti inferiori per nominarle segretarie personali, con
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occhio fine e gusto da mandrilli. La liberalizzazione sessuale ha tolto quell’alone di pudicizia alle donne che le faceva casalinghe affezionate; ora gli uffici di ogni natura sono sovraccarichi di impiegate. Molte sono divenute più smaliziate, facili ai rapporti trasgressivi. Le mamme che un tempo nelle famiglie erano ottime amministratrici, oggi l’indipendenza economica le fa essere disamorate con le mani bucate. Per loro il denaro ha perso valore, prima in quantità minore lo si sapeva dividere per tutte le esigenze della casa, adesso non basta mai andando dietro ai facili capricci. Un fatto è certo: i molti posti tenuti da donne vanno assegnati ai padri di famiglia disoccupati. Le remunerazioni quando sono dirette a necessità vere costituiscono quasi una specie di investimento, realizzano quantomeno fini sociali, assumono significati di razionalità, attuano in modo leale e coerente i criteri di una giusta pianificazione occupazionale. Leonardo Selvaggi LA FIAMMA DELL’AMORE Una fermentazione di fatti e di idee, mi sento libero. Ho molto spazio, ogni luogo è comodo, la casa scorre fuori, si amplifica all’aperto. Le catene attorno e le pietre sulla faccia, con la rabbia che fa sconquassi con le mani. Non ci sono le persone che ci vedono, sono sulla superficie sparse, in alto brulicanti al sole fra le piante e i paesi. Tutto quello che ho, vedo fuori e sento lungo gli interiori cammini che hanno passaggi stretti e ampi, si distende accendendosi in tanta varietà di forme, sta attorno al fuoco che ho dentro serpeggiando per ogni parte del corpo. L’involucro duro delle membra ha poca aderenza con la superficie, è profondo e lo tiene immobile.
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Il fuoco arde con il respiro e i pensieri, brucia le sue alimentazioni e le rinnova, va con i movimenti della vita in cerchi che sfavillano e ruotano sostituendosi. Sempre la fiamma dell’amore che s’alza e gira intorno, vi passano i momenti vissuti, tutte le attese che fanno sospirare. Si vogliono i sentimenti senza frantumazione, che passano nella chiarezza della luce, non si spezzano, scorrono come sangue nelle vene, sono lunghi, avvolgenti, serpeggianti. I sentimenti non conoscono i nascondimenti dei pantani, si mettono in cerchio, stanno aperti, le braccia sempre si muovono. Non si tagliano in piccole parti, sono in unità armoniosa, si diramano. Al contatto con il vero si ammorbano, perdono la lucentezza erompente, hanno bisogno di idealizzazioni. Mi porto i pensieri e le ansie, la fiamma dell’amore, i piaceri della mente nel viale che tu conosci, che fa stare in riservata solitudine, come fosse recintato, tagliato per entro i rovi, è un rettangolo. Non passa nessuno, non lo vedono né sanno che è bello; per terra un manto filiforme che sembra di primavera in questi giorni di luglio, gli alberi ai lati appena vestiti, leggeri nelle forme snelle. È un rettangolo di serena pace nello spazio della Natura, nessuno lo vede questo viale. È corto, ampio, morbido; l’aria entra e scorre, si cammina come ravvolti in una leggerezza. Luogo che raccoglie, fa andare i passi con piacevole sospesa andatura. Qui mi trovo oggi risvegliato, un richiamo materno di calore e di rafforzato vigore sento di avere, un ritorno a stati di vibrazioni interiori, ad interezze vitali che mi fanno andare tutto rinnovato. Leonardo Selvaggi Torino
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SQUAROTTI E IL VERO ETTORE di Antonia Izzi Rufo
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N lavoro esemplare, quello di Giorgio Bàrberi Squarotti, di 'psicologia, scandaglio, autopsia' di ogni verso, parola o situazione dei personaggi del 'Giorno'; di citazioni, paralleli, confronti, riferimenti a miti, periodi storici, luoghi vicini e lontani, il tutto analizzato con scrupolosa meticolosità, senza nulla tralasciare. Lo studio esegetico, esemplificato e catalogatorio dell' opera del Parini, anche se abbraccia un vasto e variegato universo e ne illustra minuziosamente gli aspetti, s'incentra sull'aristocrazia e il Bel Mondo. Nella descrizione delle varie fasi della giornata del Giovin Signore, o meglio della rappresentazione dell' 'amabil rito' della vita aristocratica nella sua totalità, il Parini segue un procedimento che potremmo definire di 'contrapposizione'. Ed è proprio questo che il Prof Bàrberi Squarotti mette a punto, evidenzia per i lettori nel suo excursus del poema. Il primo esempio è delineato nell' apertura paesistica del 'Mattino', nella visione idillica dell'alba e del sole che 'rende lieti gli animali e le piante e i campi e l'onde', nel sorgere dal 'caro letto' del buon villano che si reca in campagna e scuote "lungo il picciol sentiero da i curvi rami" la fresca rugiada che,
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come le gemme, rifrange la luce del sole, del fabbro che riapre "la sonante officina" e l'orafo che incide gioielli d'oro e d'argento per la gioia delle donne... Un mondo pieno di luce vera, quella del sole, in contrasto con la notte del Giovin Signore, fatta di tenebre vinte dalle "fiaccole superbe dell'aureo cocchio"... Un altro mondo ha da illuminare il sole, un mondo di opere manuali, non di sublimi attività estetiche... Il contadino, il fabbro e l'orafo si sono destati dai loro sonni nella tenera, dolce atmosfera domestica, nella vicinanza dei loro cari, moglie e figli; al Giovin Signore "soavemente chiuse i lumi / il gallo che li suole aprire altrui... ". Lo sbadiglio mattutino del Giovin Signore è paragonato (contrapposto) al grido di guerra del capitano in battaglia... Il Giovin Signore non affronta nemici o altri eroi, così come il guerriero, ma valletti, servitori, visitatori, il sarto non pagato, il fattore, e la sua vestizione con abiti di seta e lino, profumi cosmetici e lavacri. Ripete, con la stessa analiticità, il rito epico dell'indossare le armi da parte dell'eroe, anch'egli aiutato dai suoi scudieri... Imprese nobili per gli antichi paladini, impresa del poeta di ricordare al Giovin Signore quanti leggiadri arnesi graveranno le sue vesti... L'avo in battaglia si presentò ai cittadini 'spettacol fero', il nipote, il Giovin Signore, apparve in pubblico 'vago e leggiadro'... C'è ironia fra il riso della morbosa passione antica e la misura del rito senza affetti e partecipazione del cuore dell'aristocratico. I discorsi sublimi dei nobili a tavola respingono le 'fole' economiche, non tollerano lo straniero gibbuto, brutto fuori ma non vuoto dentro...Potrei estrarre altri esempi, tra i numerosi, ma preferisco spiegare il 'perché' del titolo, "Il vero Ettorre: l'eroe del 'Giorno' ", anche se il significato emerge con trasparenza. Pure qui, e in maniera più incisiva, rientra il procedimento di 'contrapposizione'. Il titolo è stato scelto dall'Autore del saggio a mo' di esempio modello, esaustivo, portante per confermare quanto descritto dal Parini in tutto il poema. In questo titolo è racchiusa, e appare limpida, tutta l'ironia che il Parini esprime nell'intera opera in modo velato, senza che si mostri,
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con rispetto per quel mondo effimero, di cui egli fa parte come precettore discreto, cosciente dei propri doveri e dei propri limiti. A nessuno dei suoi eroi Omero ha attribuito le doti che scopre in Ettore, eroe forte, astuto, leale, buono, magnifico combattente, sprezzante del pericolo; a nessuno riconosce la generosa bontà che è il conforto di Priamo, il sollievo di Ecuba, la virtù di consorte incomparabile, benevolo incitatore del pavido Paride, solo fra i cognati che abbia per Elena parole e comportamento pieni di comprensione. Commovente la scena dell'addio sulle Porte Scee dove la famiglia s'incontra per l'ultima volta. Andromaca: <<Or mi resti tu solo, Ettore caro; tu padre mio, tu fratello, tu florido marito. Abbi deh! di me pietade e qui rimanti meco a questa torre; né voler che sia vedova la consorte, orfano il figlio>>.Ed Ettore: <<... dei Troiani io temo / fortemente lo spregio e dell'altere troiane donne, / se guerrier codardo mi tenessi in disparte... >>. E prima di andar via, prese in braccio il figlioletto Astianatte, 'alzollo al cielo' e pregò Giove e gli altri Celesti affinché lo proteggessero: <<Fate / che il veggendo tornar dalla battaglia, ... dica talun "Non fu sì forte il padre / e il cor materno nell'udirlo esulti! >>. un quadro familiare che tocca l'animo fin nel profondo per l'amore genuino, sincero, saldo, che unisce l'indissolubile nucleo che sta vivendo l'angoscia della separazione. Aria di freddezza, indifferenza, noia spira intorno al Giovin Signore e alla sua dama, sorrisi che restano in superficie, finzioni...Essere inetto, vanitoso, dedito solo al gioco, ai piaceri e ai divertimenti, frivolo, incapace di amare, superbo, egli attribuisce all'oggetto, allo strumento, ogni giudizio estetico ed etico. Non 'homo faber', ma l'uomo che sa usare le scoperte e le invenzioni del suo ingegno pratico, non altro. <<L'eroe tipico del poema moderno è il distruttore del poema epico della più alta tradizione classica; egli distrugge a poco a poco l'epica antica, quella illustre dell' "Iliade", la disfà per tutti i dieci anni dell'assedio e della presa di Troia>>. <<Le passioni tradizionali>> commenta G. B. Squarotti <<sono antiche, desue-
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te, persino l'amore adulterino è diventato un rito... Il marito è l'eunuco che custodisce il gregge>>. Ettore e il Giovin Signore, due eroi agli antipodi per sentimenti, comportamento, integrità morale. Il 'Giorno', come opera letteraria, rappresenta il possibile, non il reale, ma vuole essere tutto il possibile, accumulatore di eventi per la totalità. E per la totalità dell'interpretazione moderna del poema epico, anche il Giovin Signore deve fare il viaggio agli Inferi così come gli eroi dell'epica e del mito, solo così egli potrà essere assunto nell'Olimpo. Sua guida saranno la Sibilla Cumana e il Poeta precettore (riferimento a Virgilio, di cui Parini si considera erede, così come di Omero). La discesa agli Inferi dev'essere la consacrazione definitiva e più alta del poema. Parini si copre di un velo notturno: metamorfosi, maschera, culmine del grottesco... Il poema non si può concludere perché ci sono sempre nuovi sviluppi e citazioni, altre similitudini. La conclusione (sospesa) si ha quando i personaggi dell'epica capovolta, che il Parini ha creato, arrivano dal modello epico (omerico e virgiliano) alla parodia del modello mitico-religioso ovidiano. Le metamorfosi comportano la trasformazione dei personaggi in maschere della commedia dell'arte e del folklore carnevalesco e degli animali della tradizione giocosa. Sono le figure più anziane e autorevoli della società aristocratica che si trasformano, si muovono in modo grottesco e suscitano il riso. E' a questo punto che si ha l'interruzione del poema: si è arrivati ai personaggi più maturi, oltre non c'è che la morte. Il percorso delle fasi della giornata del Giovin Signore ("Mattino", "Mezzogiorno", "Vespro", "Notte") che corrispondono alle fasi della vita, si conclude con la vecchiaia, realtà ineluttabile che accomuna gli uomini di ogni ceto sociale. Butta via il velo dell'ironia, del sarcasmo e della discrezione, il Parini, e mostra, infine, senza finzione, l'aspetto autentico della vita, uguale per tutti. Se egli affronta argomenti che offendono il Bel Mondo, lo fa per non venir meno all'esaustività. Nel banchetto il Giovin Signore non deve conversare
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sulla 'uguaglianza', non deve lasciarsi influenzare dalle idee nuove, audaci e trasgressive, venute dalla Francia illuministica e dalla Ginevra di Rousseau. Se mai, ne parlerà, il Parini, nelle 'Odi', opera ugualmente valida ma minore rispetto al 'Giorno' e diversa perché, mentre il 'Giorno' è presentato come parodia, le 'Odi' sono qualcosa di più serio: in esse, così come nel 'Giorno', si hanno le stesse forme: mitologia, ampio uso di figure retoriche, una lingua calcolatamente dotta per sostenere il livello del verso, però, ripeto, nel 'Giorno' l'apparato è parodico, nelle 'Odi' l'uso è letterale. Antonia Izzi Rufo Giorgio Bàrberi Squarotti, Il vero Ettorre, l'eroe del <<Giorno>>, Edizioni dell'Orso, 1999, lire 25.000, pagine 100
LO STESSO RISCHIO Razionalmente, certo, il mare è un rischio; ma io non l’ho mai sentito come tale. Il mare va preso come viene così, con la sua stessa inconcludenza: portando verso il petto, a ogni bracciata, un’onda lieve che non si trattiene.
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sentendosi lambire a ogni bracciata da una carezza che non si trattiene. E’ una scommessa tutta da giocare fino alla sua estrema inconseguenza. La cosa più penosa è far le mosse sulla battigia, invece di nuotare. Corrado Calabrò Roma
SUL RETTILINEO PER VENEZIA In un pulviscolo d’oro e di rame la città s’intravvede. La macchina corre briosa sopra il rettilineo. Teoria lunga di pali fugge e mi sorvola l’asfalto ha la certezza di una morte ineluttabile. Corro uomo di questa civiltà in crisi con le mie piccole miserie ( le paure le speranze ) coi miei sogni ostinati come l’erba che ricresce sui cigli ad ogni sfalcio. E mi sorprendo con ebbro stupore a rimuginare versi e rime nella musica strana dell’acceleratore.
Non c’è altro senso nel tendere al largo, dove l’acqua è mielata dal tramonto, se non di tenere la cadenza fino a quando stramazzano le braccia e spegnere nel mare il desiderio di raggiungere a nuoto la soglia che segna il limitare a un nuovo giorno.
CIELO CELESTE ATTRAVERSO I VETRI
Se allora ci si gira sopra il dorso, come pescispada dissanguati, agli occhi gonfi d’acqua e indeboliti spalanca il cielo la sua occhiaia vuota : ma il corpo sta sospeso in un’amaca che lo sorregge come si è riamati nell’età antecedente la ragione. Passata quell’età, l’amore è un rischio, infido quanto più ne ragioniamo.
Rapallo “Caro De Rosa, nella Sua poesia c’è un vero temperamento poetico, con felici invenzioni verbali, che non sono, naturalmente, solo verbali, ma sentimentali e fantastiche, prima di essere parola. Ne sono un esempio quei “ sogni ostinati come l’erba / che ricresce sui cigli ad ogni sfalcio”( Sul rettilineo per Venezia). Oppure “Cielo celeste attraverso i vetri “, con quell’ “autocarro” che entra benissimo nell’atmosfera della Sua poesia “. Diego Valeri (Poeta – già Docente all’Università di Padova), da una lettera autografa da Teramo, 4 giugno 1969.
Al mare si va incontro come viene, in un’illimitata inconcludenza,
Cielo celeste attraverso i vetri e trasognate grida di gallo in lontananza ; un autocarro romba nel polverone. Ogni mattino è un sole di speranza. Luigi De Rosa
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Giugno 2017
IL FUTURO DEL POETA di Susanna Pelizza
L
A realtà muta con il tempo: la realtà storico-politica si presenta abbastanza incongrua, confusa, e di ciò prendiamo atto per l’elaborazione di un nuovo concetto di realtà che impegna un nuovo agire letterario. Vi è, quindi, una diversa impostazione nel rapporto scrittore-mondo, poetarealtà. Ambiguo e contraddittorio il mondo che ci circonda perde sempre più qualità artistiche ed estetiche, la vitalità molto spesso viene ricercata nell’uso sproporzionato della tecnologia che, come una Grossa Bocca vorace, inghiotte tutto. Due sono le soluzioni per lo scrittore: o adeguarsi passivamente a questo mondo multimediatico, o agire per cambiarlo. Se la prima appare quella più semplice e più comoda, è solo nella seconda che si trova la vera missione dell’artista. Disposto solo di un pennello e di una tela, Giotto fece il più perfetto cerchio che l’arte italiana abbia mai avuto; disposto solo di una penna e di un foglio, il poeta può imprimere modificando la realtà. E ciò è nella consapevolezza di un linguaggio libero, ma tenace nelle sue fondamenta e non massificato, fatto di forme ed espressioni originali e di nuovi emblemi e simboli che tendono a spalancare nuovi spazi e nuovi Universi, per la nuova, nascente Cultura. Una Cultura che pone domande sull’inefficienza di una realtà volta a non soddisfarle, una Cultura che educhi all’umanità, trasmettendo valori e bellezza, una cultura di amore verso il prossimo, che stabilisca relazioni e non differenze! Susanna Pelizza
FINO A QUANDO LE RONDINI Fino a quando le rondini partiranno e ritorneranno ci sarà ancora speranza.
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Fino a quando le rondini sfrecceranno zigzagando sicure senza andare a sbattere contro i piloni di cemento dei viadotti delle autostrade ci sarà ancora speranza per questo piccolo mondo ingannevole e stupefacente. Luigi De Rosa Rapallo, GE
SOPRAVVIVERO’ GRAZIE AI TUOI OCCHI So che un giorno non udrò più musiche e canti, esplosioni e pianti, né scrosci di pioggia, né strappi di vento, né la voce del mare. Solo per me si spegneranno quel giorno in cielo perle e fuochi e l’Universo annererà le stelle, e i fiori trarranno petali e profumi : nulla rimarrà della tenacia dei miei sogni.. Però so, anche, che sopravviverò grazie a te. Continuerò a vedere lo spettacolo di questo strano mondo con i tuoi occhi belli e intelligenti. Luigi De Rosa Rapallo “Il mondo è dunque ingannevole, ma anche stupefacente. Ed è grazie a questa capacità di provare stupore, che Luigi De Rosa, pregevole autore anche di saggi e di romanzi, figura di rilievo nel mondo culturale italiano e professionista di spicco nell’ambito dell’istruzione scolastica (prima docente poi provveditore agli studi ), riesce a conservare ed a riattivare, nel suo dettato poetico, quella semplicità comunicativa e quel candore aurorale che contraddistinguono, da sempre, il vero poeta“. Graziella Corsinovi (Critico letterario Docente all’Università di Genova – Genova 2006)
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Giugno 2017
SU “LA POETICA” DI
NAZARIO PARDINI Ho avuto l’onore e il grande piacere di recensire più di una delle opere qui presentate. Mi riferisco a “Scampoli serali di un venditore di arazzi”, a “I simboli del mito” e, soprattutto a “Alla volta di Leucade”: autentico capolavoro di arte poetica. No, non sto esagerando: è un libro – quest’ultimo – che rimarrà nella storia della letteratura, un esempio di come la vera poesia resiste alle mode e viene consacrata dal tempo. (Sandro Angelucci, 26/03/2014). * Perfettamente d’accordo con Sandro Angelucci. “Alla volta di Lèucade” lascerà il segno nella storia della letteratura per la robustezza del mito epico-lirico. (Pasquale Balestriere, 27/03/2014). * Nazario Pardini è un uomo di cultura che non finisce mai di sorprendere, a lui va tutta la mia stima e mi sento di aggiungere che questo artista mette in risalto, molto bene, alcune peculiarità della sua considerevole attività letteraria. Si potrebbe definire il tutto come un piccolo assaggio dell’uomo-poeta, tanto quanto basta per innamorarsene. (Loretta Stefoni, 27/03/2014). * Carissimo,/potrei leggerLa fino alla fine del tempo e stupirmi fino alla fine del tempo. Sa posare sulla sacra sponda della poesia autentica la valorizzazione dei classici, l’ulissismo, il mito di Saffo, l’inno alla bellezza di Elena e, con la stessa, incantevole levità, le isole maggiori della memoria, la contemplazione, la saudade, il dolore e il sogno. Non so recensire un’Opera di tanta vastità, ma ho il dovere di confessarLe che nel leggerla, con i cinque sensi, ho sentito gli occhi inumidirsi. L’ adozione della metrica, mai trasformata in gabbia, ma lasciata scorrere sullo spartito dei versi, lascia emergere il timbro, che sottolinea i toni meditativi, indaganti, dolenti, caldi, intensi… Se esiste la Poesia del Terzo Millennio credo abbia il volto della Sua, mio caris-
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simo Amico… Ancorata al molo del passato, in perenne crescita, priva di artifici semantici, attenta a misurare le figure retoriche, tesa a un futuro che non sia alluvione di parole. Ho letto il sostantivo ‘pudore’: di quanto pudore e dignità vibrano i Suoi versi? Che infinito Dono, mio adorato Professore! (Maria Rizzi, 27/03/2014). * Quello di Nazario Pardini è un approccio al Mito del tutto sui generis. Qui non siamo in presenza di favole antiche, trite e ritrite, ripetute a pappagallo, ma ci si trova in presenza di racconti inediti, di una nuovissima e originale rivelazione dei moti e dei segreti profondi dell’animo umano. C’è anche l’uomo di ieri, indubbiamente, ma c’è soprattutto l’uomo di sempre. C’è l’essenza che accomuna l’ uomo delle caverne all’uomo dell’età spaziale, facendone esemplari diversi di un’identica stirpe. (Franco Campegiani, 27/03/2014). * Ho già avuto modo di scrivere, recensendo “Alla volta di Lèucade” di Nazario Pardini, che “la nobiltà di un linguaggio così alto e aulico finisce per dare alla raccolta, paradossalmente, un crisma di rivoluzionaria modernità, se vi sappiamo individuare e “leggere” originalità e invenzione, purezza visionaria e inesausta, straordinaria forza creativa”. Nel confermare quel mio specifico giudizio (da estendere idealmente all’intera produzione poetica di Pardini), aggiungerei che solo ad un miope potrebbe sfuggire la profondità e la disarmante bellezza di quel poièin; e che solo un – per così dire – (a)critico “daltonico” potrebbe scambiare Nazario Pardini per un epigono seriale dei modelli poetici del mondo classico, o confondere la sua sontuosa coniugazione di quel mondo per ciarpame arcaico, vecchiume da consegnare alla mummificazione del passato, residuato di un mondo definitivamente scomparso. Niente di più fuorviante. La lezione di Nazario Pardini, infatti, è tutta qui: nella riproposizione della ineliminabile “modernità” del mondo classico, superbamente certificata da una rivisitazione che fa, di quell’insegnamento e di quel mo-
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dello artistico, una dimensione – per così dire – “strutturale”, connaturata con le ragioni stesse dell’uomo. Da quel mondo e da quel modello il poeta riparte, essendo la sua scommessa la scommessa stessa dell’uomo eternamente in cerca di risposte. Così Pardini/Ulisse/Icaro di nuovo salpano/prendono il volo, cercano il porto/la luce/l’ap- prodo, in ciò “rischiando” di intravedere la terra promessa, di “indovinarne” le coordinate, di avvertirne quasi il profumo. Ovviamente, più la navigazione e il volo si fanno arditi e alti, più aumenta il rischio del naufragio e della caduta. Ma Pardini, consapevolmente, accetta il rischio, quell’ “Azzardo dei confini” che fa del suo volo e del suo dettato poetico un unicum nel panorama letterario contemporaneo. Certo, si può persistere nella contemplazione del dito, piuttosto che guardare la luna; ci si può attardare nella verifica degli ormeggi, nel controllo delle sartie, dei remi, delle vele o nella verifica della resistenza delle ali, così come ci si può perdere e avventurarsi nel groviglio degli sperimentalismi e delle mode, degli avanguardismi e neoavanguardismi, dei minimalismi di ogni risma e natura (e nessuno nega che anche qui potrebbe spuntare un novello Ulisse a nobilitare la ricerca). Ma Pardini preferisce rischiare il naufragio, leopardianamente, nella bellezza di quel mare della classicità, di quella che tenacemente resta, per la parola e per la poesia, un’ indimenticata, (ir)ripetibile età dell’oro. (Umberto Vicaretti, 27/03/2014).
IL VOLTO DI LEI DURANTE Il volto di lei durante l’amore, estatico, in un abbandono totale, sogno, utopia, miraggio appartenente a privilegi d’altre vite, altre epoche. L’orologio, impassibile,
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segna il tempo della passione con lo stesso distacco delle ore della solitudine, dello scoramento, della nostalgia. Luigi De Rosa NON C’È ALTRA DIFESA CHE L’AMORE Non ho niente di prezioso da darti, non ho gioielli, non ho miliardi, sono solo un poeta e un funzionario, ma se non ti adoro perde ogni senso la vita e il calendario. Sono triste e felice per natura, contemporaneamente. Non riesco ad essere o l’uno o l’altro. Non riesco ancora a capire il perché di questa tragicommedia universale che si articola in tante diverse trame per poi sfociare sempre, e comunque, nello stesso finale. Luigi De Rosa Rapallo “La poesia di Luigi De Rosa appare, sostanzialmente, come il risultato di una grande espansione vitale, che trova nel verso la misura sensibile e disponibile per trovarsi una misura, una norma, una forma, in modo da perpetuarsi in rievocazione,memoria, sorridente e ilare ripetizione dei gesti fondamentali della vita, soprattutto di quelli dell’amore… Ma è il senso della fugacità del tempo che è richiamata a dare maggiore intensità alla gioia: e di qui deriva la precisione temporale delle occasioni poetiche di De Rosa… Allora la sua poesia acquista una profondità di echi che non le attenua lo slancio vitale ma lo rende metafora viva di un’idea dell’esistenza e del mondo che intrepidamente proclama l’ ottimismo più sicuro, perché ogni gioia, della parola come dell’amore, è un valore che non si può perdere, una volta che sia stata goduta e, dopo, fatto oggetto di celebrazione nella poesia…” Giorgio Bàrberi Squarotti (Critico letterario – Poeta – Docente all’Università di Torino – Torino 1990)
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Il Racconto
LA LEGGENDA DI BAY OF CHALEUR di Rudy De Cadaval un posto strano il Gaspe, tagliato fuori dal resto del Canada da una distanza irreale. Si tratta di una penisola protesa verso la foce del fiume St. Lawrence come la lingua di un cane stremato. Anche il suo aspetto è strano: scogliere fantastiche a cui si aggrappano piccoli pini con una specie di morbosa disperazione, a picco sull’oceano, e in certi tratti la costa ha l’illusoria apparenza di una pittura cinese. E poi c’è quell’immensa roccia forata che s’innalza solitaria dal mare, quella specie di scoglio che tutti abbiamo visto sui libri di geografia che ci servivano per nascondere in classe i volumi di avventure di Salgari. Gli abitanti parlano francese, però non è un francese che si lascia facilmente capire da chi ha l’orecchio abituato al grasso accento parigino. Essi sono spesso di sangue misto, francese e scozzese; e s’incontrano uomini che si chiamano Mac Lean e Frazer e che in inglese sanno dire soltanto “gita in barca” quando cercano di spillare qualche dollaro ai turisti americani o persino a quelli provenienti dal vero Canada, così lontano a occidente. Qualcuno dice che oggi il Gaspe sta cambiando, ma trentatré anni fa sembrava quasi un mondo perduto. C’erano pochissime industrie. Gli abitanti pescavano, intagliavano certe piccole stereotipate strane statuette di vecchi con la pipa, e raccontavano storie. Le storie erano invariabilmente macabre, poiché quella gente aveva nel sangue un miscuglio di misticismo cattolico francese e di superstiziosa credulità scozzese per le più tenebrose leggende. Alcune di quelle storie erano vere. Però, per la maggior parte, erano pura fantasia, come ad esempio quella del vascello in fiamme che in certe nottate di tempesta avrebbe dovuto veleggiare fra le nebbie di Bay of Chaleur. Ma non fu in cerca di storie
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vere che io capitai al Gaspe. Mi interessavano le leggende. E’ strano che un barman e anche poeta, per giunta, s’interessi di leggende? La poesia non è poi la scienza esatta che tanta gente sembra credere. E’ anche essa piena di assurde superstizioni. Inoltre, lo studio del folklore mi offriva un po’ di sollievo dall’ argomento delle questioni poetiche. E infine, speravo anche segretamente di trovare almeno una storia di fantasmi con qualche elemento veritiero. Ciò per me avrebbe significato che in fondo esisteva la possibilità del divino, e che la vita forse non era soltanto la breve e terrorizzata fuga di un animale fra il nulla e l’ oblio. Tale speranza mi aveva condotto a indagare e, purtroppo, a sfatare molte storie di fantasmi in ogni parte del mondo. Ora le stavo raccogliendo in un libro, e mancava soltanto un capitolo che sfatasse anche le leggende del Gaspe. E così quell’estate me ne andai lassù a mangiare l’ottimo salmone appena pescato e a cercare qualcuno, chiunque, disposto a giurarmi di aver visto il vascello fiammeggiante. Non trovai nessuno. Però seppi della leggenda della ragazza che passeggiava sulla spiaggia. Non era un granché. Verso il 1870 una bella e ardente ragazza del Gaspe venne obbligata dalla famiglia a sposare un ricco e irascibile capitano di mare che si chiamava Mac Lellan. Lui le costruì una casa vicino al villaggio di Perce, non lontano dalla famosa roccia forata, dove la teneva, come capita sempre in questi racconti, praticamente prigioniera. Dopo un anno lei gli fece una figlia. Qualche anno dopo Mac Lellan partì per un viaggio in oriente. La giovane moglie cominciò a fare lunghe passeggiate sulla spiaggia, dove un giorno incontrò un italiano. Lui era più anziano di lei, con dei capelli castani che alle tempie si facevano quasi lunghi. E divennero amanti. L’italiano si trattenne un mese, poi scomparve. Quando Mac Lellan tornò, seppe della faccenda e, pazzo di rabbia, pestò a morte la moglie con un ceppo del focolare. Poi incendiò la casa e si lasciò bruciare vivo. La figlia, che allora aveva sette anni, fuggì dalla casa in
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fiamme. E da quell’epoca, tutti gli anni verso la fine dell’estate, il fantasma della giovane moglie passeggia sulla spiaggia in cerca del suo amante italiano. La storia era piuttosto banale fra le tante di questo genere. Ne rimasi sorpreso dal fatto che non mi riuscì di trovare nessuno che avesse visto personalmente il fantasma, sebbene ci fosse il solito numeroso gruppo di persone che conoscevano qualcuno che lo aveva visto. Ciò che attirò il mio interesse fu il fatto che una discendente dell’ infedele moglie di Mac Lellan abitava vicino alla città. Una certa madame Poirier che si diceva fosse la sua bis-bis nipote. Ma disgraziatamente era partita la settimana prima per andare a trovare suo figlio a Montreal e – per quanto ne sapeva il postino – non sarebbe tornata prima di un mese. E così io continuai a raccogliere storie sul vascello fiammeggiante e sul fantasma femminile che nessuno aveva mai visto. Una sera – dovevano essere circa le undici – feci una passeggiata fino alla roccia forata che distava forse un chilometro dal mio albergo. La spiaggia era strana di notte. La roccia è uno scoglio separato dalla terraferma. Secoli di flutti e di maree hanno scavato e corroso la base di granito che ora sembra l’imponente prora di una nave sul punto di abbattersi contro la scogliera. E’ un blocco massiccio – le fotografie non danno un’idea delle sue dimensioni. Persino quel foro, vicino alla punta della prua di pietra, è immenso. Quando la marea è bassa, come quella sera, si può arrivare a piedi fino alla base della roccia. Ed essa torreggiava sopra di me nel buio, incredibilmente alta, facendomi sentire – e con me tutta l’umanità – piccolo e insignificante. Avevo l’impressione che la nave mi stesse venendo addosso per sopraffarmi e distruggermi. E c’erano nel cielo strane grida che mi facevano rizzare i capelli in testa. La sensazione non si attenuò quando mi resi conto che si trattava dei richiami dei gabbiani roteanti intorno alla cima della roccia. Uno s’ immagina che di notte anche i gabbiani dormono. Turbato e agitato, ripresi la strada per tornare indietro. Il rumore delle mie scarpe sopra la
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ghiaia rotonda e levigata della spiaggia, il liquido e indolente frangersi delle onde, rendevano per contrasto il silenzio ancora più intenso. Mi stavo avvicinando alla scogliera, dandomi del cretino per essermi lasciato vincere dalla suggestione e pensando che forse Jung ha ragione quando parla della memoria collettiva, quando la vidi – e pensai per un attimo che fosse proprio il fantasma. Salve – mi disse con una voce perfettamente concreta e umana. – Lo dicevo che c’era qualcuno sulla spiaggia. Sono uscita appunto per avvertirla. Presto si alzerà la marea – Grazie, – le risposi ridendo. Non la vedo molto bene. Il cielo era coperto, sebbene la luna stesse cercando di uscire dalle nubi; c’era una ragnatela di luce. – Lei ride per causa mia?- disse. Aveva un leggero accento franco-canadese, ma parlava in modo piano e corretto. – No, - dissi io, sto ridendo dentro di me. Per un attimo ho creduto che lei fosse lo spettro della moglie di Mac Lellan. Dicono che venga a passeggiare da queste parti - . – Somiglio a uno spettro? – Stava sorridendo. Lo capivo dalla sua voce. – Bè difficile a dirsi con questa luce, però mi sembra una persona in carne ed ossa -. Lei fece una breve risata, di gola, che mise in fuga i residui della mia paura inseguendoli fin nei più riposti e tenebrosi angoli dell’animo mio. – Lei ha un accento italiano, - aggiunse. – Forse dovrei domandarle se è il suo amante italiano, finalmente di ritorno - . – Sono stato un pochino sciocco. Ma qui di notte è tutto così suggestivo. Luise, si chiamava così? Non ricordo bene - Sì, si chiamava Luise. Come me – io mi chiamo Luise Garnier Molto piacere, - dissi stringendole la mano. – Abita qui? – Sono nata e cresciuta qui La luna finalmente uscì dalle nubi e la sua luce azzurra inondò la scogliera e la grande roccia intorno alla quale erano appesi argentei nastri di bruma, e il volto di Luise Garnier. Era molto bella. Era calda. Come se emanasse calore. E aveva anche un qualcosa che faceva pensare: ecco una donna capace di capire. Aveva forse cent’otto anni i suoi lineamenti erano molto francesi, ovvero del tipo che si trova soprattutto fra i francesi. (Esiste
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un particolare viso francese, con gli zigomi larghi, mandibola delicata, nocca piuttosto grande, e occhi leggermente a mandorla. Ho sempre pensato che si tratti di un ricordino ereditario dei mongoli che invasero l’Europa. Ma quale che ne fosse l’origine, quello era il tipo di viso che aveva Luise Garnier). Portava i lunghi capelli scuri sciolti sulle spalle, e indossava un semplice cappotto nero, molto elegante, sopra una camicia da notte di flanella, un po’ meno elegante. Lei si accorse che stavo guardando la sua camicia da notte, e si strinse il cappotto addosso con un po’ d’imbarazzo da entrambe le parti. – Senta, - le dissi, - io mi chiamo Alex Corsini. Vivo a Venezia, faccio il barman sono anche un poeta e sono qui in ferie per fare certi studi. Permetta che la accompagni a casa. In segno di gratitudine per avermi salvato dalla marea Lei sorrise. – Molto volentieri. Le offrirò una tazza di tè. Voi italiani preferite il caffè, ma ho soltanto del tè. Abito dall’altra parte, per di là - le presi il braccio. – Ma questa è la casa della Poirier, - dissi quando vidi la massiccia casa di pietra a mezza strada fra il mare e la provinciale per Perce. – Si. Lei conosce madame Poirier? – No, ma mi piacerebbe -. Stavamo calpestando l’erba bagnata. La casa era di fronte al mare, un edificio solido e ben piantato che sembrava aver l’aria di voler restare parecchio in quel posto. Questa era una delle cose che mi piacevano di più al Gaspe: tutto quanto sembrava permanente, non come se fosse stato dimenticato dal tempo ma come se tutta quella zona avesse deliberatamente sospeso il trascorrere del tempo. – Madame Poirier è una mia parente, - disse Luise Garnier mentre apriva la porta. Aveva lasciato un lume nell’ingresso. – Mi occupo io della casa mentre lei sta da suo figlio che fa il medico a Montreal. E’ una donna meravigliosa. Vedrà. Perché desidera conoscerla? – Per domandarle del fantasma -. Lei rise di nuovo. – Preparo il tè. Può aspettare in salotto, per di là - Accese un altro lume. La stanza era piena di mobili che avrebbero fatto fregare le mani a tutti gli antiquari
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di Venezia, Roma e Firenze messi insieme. Quando tornò, indossava una vestaglia azzurra di seta trapunta. Si era appuntata i capelli con un pettine d’argento sulla nuca. Sedette sull’orlo di una sedia per versare il tè. – Bene, Alex Corsini, barman o se preferisce poeta di Venezia, mi parli un poco di sé E io lo feci: parlai di me per due ore prima di notare un suo sbadiglio represso. Mentre tornavo in albergo, mi dissi che avrei dovuto vergognarmi di me stesso. Ma invece no. Mi sentivo felice e contento ed estremamente virile. Poche donne, anzi pochissime, sono capaci di far questo a un uomo: renderlo orgoglioso. E la storia di solito ricorda il loro nome. Tuttavia decisi che la sera seguente non avrei assediato di chiacchiere quella povera ragazza quando avremmo cenato insieme. E infatti ebbi la forza di mantenere una fiera reticenza per dieci minuti buoni. Ma le tovaglie della sala da pranzo dell’albergo erano di un bianco splendente, i cristalli dei bicchieri luccicavano, c’era una rosa rossa nel sottile vaso d’argento sulla tavola, e dalla finestra potevamo vedere la roccia forata che la sera tingeva di azzurro. Mi sentivo meravigliosamente bene, e cominciai a parlare come una telescrivente tanto era il desiderio che avevo di farle una buona impressione. Lei ascoltava con pazienza sconfinata e per un tempo lunghissimo, sebbene certe volte mi sembrasse che lei sapesse già ciò che stavo per dirle ancora prima che aprissi bocca. Poi, verso la fine del dessert, mi interruppe, Alex, Alex, Alex, - disse – perché hai tanta fretta? – Fretta? – risposi. - In tutto quello che fai. Sei molto impaziente – disse lei. - Forse perché c’è così poco tempo - Lei allungò un braccio e mi strinse una mano. Il suo tocco mi turbava piacevolmente. Alex, c’è tutto il tempo che si vuole. Siamo noi che ci muoviamo; il tempo sta fermo. Tutte le persone si affannano. Si preoccupano talmente di pensare al futuro che sciupano il presente. E dopo, quando il presente è divenuto il passato, si guardano indietro e si domandano perché sembra così irreale, come se non fosse mai
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accaduto - . Fece una pausa. – In un certo senso, è vero, abbiamo poco tempo. Ma è proprio per questo che non dobbiamo affrettarci. Dobbiamo vivere più lentamente che si può, godendo completamente delle nostre poche gioie Restammo silenziosi. Lei non aveva detto niente che io non avessi già vagamente pensato altre volte, però ne rimasi scosso proprio per questo: lei aveva preso e messo in luce qualcosa che io non avevo mai voluto guardare con la stessa chiarezza, uno di quei pensieri che vagano nel sottofondo della mente. E mi misi a pensare a tutti gli avvenimenti della mia vita che io avevo lasciato sfuggire, vivendoli soltanto a metà. - Luise, tu hai una specie di strana saggezza, - le dissi. – Da che cosa proviene? Lei sorrise. – Dai miei errori. Da certe cose che ho atteso troppo ansiosamente. Ho soltanto un poco di saggezza, veramente poca, ma mi viene da lì: dalle mie delusioni. Aspettando le cose a venire, stavo perdendo ciò che avevo già. Quindi smisi. Smisi e basta. E credo che la saggezza sia questo: la mancanza di fretta Volli aprire la bocca per ribattere, ma la chiusi subito, sapendo che era inutile discutere. C’era in lei qualcosa di straordinariamente fermo. In un mondo di gente indefinita, che non si può mai toccare né conoscere perché non ha niente di solido, lei invece era assolutamente concreta. Ammirai questa sua qualità. Ed avevo già cominciato ad amarla, sebbene non me ne rendessi conto. Anzi, non me ne accorsi per parecchi giorni. Fu sull’isola. A me piace chiamarla l’Isola degli uccelli. Era coperta di uccelli: rondini marine, gabbiani, procellarie, che a tratti si alzavano dai loro nidi per sorvolare le acque e tuffarsi, emergendo un attimo dopo con un pesce nel becco. L’aria era piena dei loro richiami, le rocce erano bianche dei loro escrementi. Più in alto, una scura pineta copriva le cime dell’isola come una capigliatura tagliata a spazzola. Facemmo colazione nella luce fresca e immobile fra le navate dei pini, sdraiati sopra il
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pesante soffice, tappeto bruno-rossiccio degli aghi caduti. Lei rideva e parlava di un film, una commedia francese, che avevamo visto la sera prima. – La scena con la torta! – diceva, quasi soffocando. – E quando la barca affonda e lui lascia tutte le impronte bagnate sul pavimento! – Io dissi – questa è la cosa più bella che tu hai. Non sei mai annoiata. Tutto ti fa piacere. Ti porto a fare una gita in macchina, e tu ti diverti come una bambina. Andiamo al cinema, ed è come fosse il primo film che vedi – La sua risata si attenuò in un sorriso assorto e come preoccupato. Io ero appoggiato sopra un gomito e lei era sdraiata sulla mia schiena con la mia giacca a vento piegata sotto la testa, e mi guardava. – Non dovrei essere così, Alex? Potrei diventare diversa, se tu lo volessi – No . No, mai – Nella mia gola c’era quel dolore che negli uomini sostituisce le lacrime. – Quando ripenso alla mia vita prima d’incontrare te, mi sembra di guardare in un lungo corridoio vuoto. Non mi ero mai reso conto di quanto io fossi solo – La sua mano mi toccò il viso. Io la baciai per la prima volta. E per la prima volta facemmo l’amore. I lunghi raggi del sole del pomeriggio che tagliavano l’ombra della pineta erano dorati, silenziosi e sereni. Restammo in silenzio mentre si tornava indietro con la piccola barca presa a nolo. Io mi sentivo commosso e intimorito, credo, per la profondità della passione che avevo scoperto in lei. Eravamo silenziosi e separati, ma non distanti, ciascuno con i propri pensieri. Si stava alzando la nebbia. Quando toccammo la riva, essa aveva inghiottito l’isola che ci eravamo lasciati alle spalle. Cenammo a casa sua. Io ero ancora turbato, senza riuscire a capire il perché, e penso che lo fosse anche lei: fumava di rado, ma quella sera fumò due sigarette, in modo teso, preoccupato, sempre chiusa in se stessa. Era tardi quando tornai in albergo, ed ero molto stanco. Ma la mattina dopo, le paure della notte mi sembravano assurde. Il cielo era un duro cristallo luminoso e senza nubi. Tirava vento, un vento un po’ selvaggio e
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come invaso, e gli alberi si agitavano, allegramente. Conclusi che soltanto uno sciocco si mette a ragionare sopra il dono dell’amore. Corsi da lei. Lei era nel giardino, in gonna corta, maglietta bianca, e portava le rose di madame Poirier. Io le misi le mani sopra le spalle e la tenni così, per guardarla con meraviglia. Non c’erano parole per ciò che sentivo, quindi ci guardammo sorridendo nel modo complice di due bambini che abbiano in comune un delizioso, colpevole segreto. C’ era una piccola cicatrice bianca sopra il suo labbro superiore, il ricordo di qualche incidente di fanciullezza. Serviva soltanto a rendere più bello il suo sorriso, attirando l’ attenzione in modo discreto e sottile sopra la sua bocca piena e morbida. – Ti rendi conto, dissi, - che non ho lavorato nemmeno un attimo da quando ti ho conosciuta? Ero venuto qui a fare delle ricerche e invece mi sono innamorato. Come farò a trovare il mio fantasma se continuiamo a comportarci così? – Tu e le tue ricerche – disse lei. – Pensa piuttosto a me, adesso. Sono bella, Alex? Dimmi che sono bella – Bella? Tu sei la cosa più squisita che io abbia mai visto– L’abbracciai con tutte le mie forze, come se volessi schiacciare insieme i nostri due corpi. – Mio dio, non sapevo che fosse possibile sentire quello che sento. Tu credi di poter venire a vivere in Italia? Perché noi dobbiamo sposarci subito, immediatamente – Ti prego, non correre, Alex. L’amore è come un fanciullo timido che fugge se si cerca di tenerlo troppo stretto. Perché quando la gente trova qualcosa di buono cerca subito di cambiarla in qualcosa di diverso? Parliamone in un’altra occasione, ma ora no. Amami e basta – Il suo umore si fece di nuovo allegro. – Che vogliamo fare oggi? Una gita con la tua macchina? Oppure prendiamo di nuovo la barca e andiamo lungo la costa? O restiamo qui a fare l’amore? – Non m’importa, - dissi io. – Basta soltanto che stiamo insieme – E così passarono i giorni. Non avevo mai provato una simile felicità. No, non felicità: gioia. Immagino che un cane o un uccello possano essere felici, che è una condizione di
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passività, ma soltanto l’uomo può conoscere la gioia, che è esuberante e vitale e conscia di sé, quasi una cosa mistica. Sebbene non riuscissi completamente ad abbandonare il pensiero del futuro (al momento buono, le avrei fatto cambiare idea), mi concentravo soprattutto sull’attimo presente. Poi accaddero due cose che mi strapparono da quel sogno. L’editore che doveva pubblicare il mio libro mi fece un’interurbana per domandarmi come stava andando. (- Oh, bene, bene, - risposi. – Sta andando molto bene -). E il postino mi disse che nel Museo Storico di Quebec c’era un ritratto di Luise Mac Lellan, eseguito da un famoso pittore francocanadese del diciannovesimo secolo. Sapevo che ci sarebbe stato da discutere quando avessi detto a Luise che dovevo andare a Quebec, e avevo ragione. Lei disse che se l’amavo davvero non potevo desiderare di star lontano da lei. Quando le ricordai che era stata proprio lei a mettermi in guardia contro un uso troppo frenetico del tempo, lei disse che ora si trattava di una cosa diversa perché io volevo buttar via il tempo che apparteneva a noi. - Ma si tratta di due giorni soli, tre al massimo. Che cosa farai quando dovrò tornare in Italia? – Forse ero un po’ lusingato dallo spettacolo della sua disperazione. Forse ora si sarebbe decisa a sposarmi. Certo, la conoscevo soltanto da meno di un mese, ma nemmeno dopo un secolo avrei potuto essere più sicuro che lei era tutto ciò che io volevo. – Ma perché vuoi andare a vedere quello stupido quadro? – mi domandò con rabbia. – Lo sai bene perché, per il mio libro. Se riesco a farne fare una buona fotografia, sarebbe un’illustrazione molto interessante – La presi fra le braccia. Certe volte le donne sono irragionevoli. E’ una cosa che non si capisce e non si spiega, sono fatte così. La baciai. Le spiegai pazientemente che se prendevo il treno del mattino, invece di andare in macchina, potevo tornare entro quarantotto ore. Quando lei vide che non poteva farmi cambiare idea, divenne calma. Io accesi il fuoco nel caminetto del salotto. Non ero mai stato a Quebec. Era una città
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stupenda e antica, con strette stradine all’ europea come scavate nella collina da London Town, e in cima si vedeva un panorama da mozzare il fiato: lo spettacolo del fiume St. Lawrence. Sebbene fosse pomeriggio tardi, e il museo fosse chiuso, rintracciai il numero di telefono del direttore. Gli dissi lo scopo della mia visita e che dovevo ripartire la mattina dopo. Lui accettò di farmi vedere subito il quadro. Attraversammo lunghi corridoi oscuri, mentre i nostri passi risvegliavano echi solitari, e arrivammo in una grande sala con le pareti coperte di quadri. Sulla parete più lontana, isolato in mezzo agli altri quadri, c’era il ritratto di una donna. Quando il direttore fece scattare un interruttore, si accese una lampada sopra la cornice del quadro. Io feci un respiro strozzato. Il quadro era un esempio di realismo fotografico, fino ai minuti particolari del fazzoletto di trina che la donna teneva in grembo, guardandolo con un sorriso dolce e composto. E sul labbro superiore, disegnata in modo perfetto da un pittore che non aveva trascurato nulla, c’era la piccola cicatrice bianca che le avevo baciato tante volte. Non c’era nessun aereo notturno per il Gaspe. Arrivai là la sera dopo. Corsi attraverso il giardino gridando – Luise! Luise! – Bussai con i pugni sulla porta. Si aprì. – Lei se ne è andata, signor Corsini – La donna aveva una sessantina d’anni, ed era ancora bella. – Io sono madame Poirier. La prego, si accomodi – Mi portò nel salotto. Ero pazzo? No; c’era il caminetto con la cenere del fuoco che io avevo acceso due sere prima. Caddi sopra una sedia e mi presi il viso tra le mani. – Perché non me lo ha detto? – dissi. – Lei avrebbe voluto. Ha persino provato. Ma aveva paura che se lei avesse saputo la verità. Quella vostra breve felicità sarebbe finita subito – Allora lei l’ha vista? – dissi. – Si per pochi minuti dopo che ero tornata. Poi se ne è andata – Io mi domandavo se non stessi per perdere la ragione. – Lasci che le prepari un po’ di tè – disse madame Poirier – o preferisce un bic-
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chierino? – No, va bene il tè – risposi. Cercai di riprendere il controllo di me. – E come mai quel nome, Luise Garnier? – domandai quando madame Poirier tornò. – Il suo nome da ragazza. Lei non si è mai considerata una Mac Lellan. Quell’uomo era un mostro, signor Corsini – Assaggiai il tè. Era molto caldo. – Permetta che ci metta dentro una goccia di questo – disse madame Poirier –Credo che ne abbia bisogno. Mi versò un po’ di scotch nella tazza. Scossi la testa. – Non capisco – In questa faccenda ci sono sempre state parecchie cose che non capisco neanch’io – rispose madame Poirier. – Ma un … fantasma - Le sarei grata se lei non usasse quella parola, signor Corsini. Tre generazioni di donne in questa famiglia hanno conosciuto e protetto quella ragazza, e nessuna di noi ha mai usato quella parola parlando di lei – Ma allora… che cosa… dissi io, sempre più confuso. Madame Poirier sedette, congiunse le punte delle dita e guardò verso il soffitto, come se sperasse di trovarci le parole adatte a spiegare l’inesplicabile. Poi disse – Questa casa apparteneva a sua sorella, che una mattina, dopo circa un anno dalla tragedia, la trovò addormentata nella camera degli ospiti. Da allora in poi, lei tornò tutti gli anni. Quando la figlia di sua sorella, che divenne mia madre, ebbe diciassette anni, seppe che Luise non era soltanto una bella zia che ogni tanto veniva in visita. E quando anch'io ebbi diciassette anni, mia madre lo disse a me – Madame Poirier restò assorta per un lungo momento. Poi disse – Una mattina d’agosto lei appariva qui, riempiendo la casa di trilli e di luce. E un’altra mattina, poche settimane dopo, lei spariva. Nessuna di noi lo ha mai capito, e le abbiamo tutte voluto troppo bene per preoccuparcene – Ma è…è assurdo – ribattei io, sempre più sbigottito . – Immagino di si - disse madame – ma io sono cresciuta accanto a questa assurdità, come mia madre. E ormai non mi sembra più tanto strano. A parte il fatto che io sono cambiata, sono diventata vecchia, e lei invece no. – Capisco –
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dissi io, sebbene naturalmente non capissi nulla. – Però c’è una cosa che lei non mi ha detto. Chi era il suo amante? – Madame Poirier mi guardò stranamente e poi disse – Ma lei, naturalmente – L’Associazione Britannica di Ricerche Psichiche, alle cui pubblicazioni io ora presto molta più attenzione di una volta, riconosce quattro tipi principali di apparizioni. In primo luogo, ci sono le apparizioni sperimentali che accadono quando una persona vivente tenta deliberatamente di proiettare la sua immagine a distanza. Poi ci sono le apparizioni critiche che vengono percepite quando una persona è sottoposta ad un violento sforzo, come quello della morte. Poi, ci sono le apparizioni postume che accadono qualche tempo dopo la morte dell’ individuo. Infine ci sono i fantasmi, apparizioni che di solito si ripetono in certi luoghi. Sono tutte essenzialmente delle allucinazioni, indotte nell’osservatore da un processo simile a quello della telepatia. L’agente manda al ricevente (o a riceventi) un’ immagine di se stesso (o di se stessa) che può essere straordinariamente specifica, fino ai particolari del vestito. Le apparizioni sono di solito fenomeni soltanto visivi. Talvolta sono anche auditivi. Molto raramente sono anche tattili e persino olfattivi. Un’ apparizione normalmente dura soltanto pochi minuti. Non riesco a trovare in tutti i miei testi un altro caso in cui l’ apparizione sia durata per un mese intero. E’ evidente che Luise apparteneva alla quarta classe di apparizioni, i fantasmi, per quanto poco piacere questa parola faccia a madame Poirier. E l’apparizione è stata totale, avvertibile da tutti i miei sensi, e da i sensi di coloro che mi erano intorno, come ad esempio i camerieri dei ristoranti dove abbiamo cenato. Sono passati quasi trentatré anni da quando io la incontrai presso la roccia forata. Io avevo allora ventisei anni; adesso ne ho cinquantanove e i miei capelli sono radi e grigi, specialmente alle tempie.
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Immagino che l’uomo che lei incontrerà (o che ha già incontrato una novantina d’anni fa, dipende dal punto di vista) sarà tecnicamente parlando un’apparizione critica di insolita durata. Mi domando come morirò. Il pensiero non mi rattrista; ho vissuto una vita utile e piena in questi ultimi trentatré anni. Però non ho neanche fretta. Lei mi ha insegnato la pazienza. Tornerò al Gaspe la prossima estate. Ma non troverò più madame Poirier. Dato che non aveva più nessun motivo di restare, ha venduto la casa e si è trasferita a Montreal per vivere col figlio, e poi è morta. Io sarò solo laggiù, per un po’. Ma non mi dispiacerà. Guarderò il sole illuminare il mare come una pioggia di zecchini d’oro, e gli uccelli marini che seguono la costa con le loro ali ferme e sicure. E aspetterò. Rudy De Cadaval
IL PAPA E LA POETESSA di Antonio Visconte
I
L nostro zelante arcivescovo aveva intuito che il papa si stava apprestando a nominare i nuovi cardinali di Santa Romana Chiesa e volle presentargli le personalità più spiccate dell’apostolato laico della nostra antica e storica arcidiocesi. Nel folto gruppo figuravano gli insegnanti di religione, i priori delle congreghe, i membri della consulta e di nuove aggregazioni, i presidenti delle associazioni cattoliche, molti sindaci di formazione religiosa e qualche amministratore locale. Roma era splendida per i suoi monumenti, che in quel mattino di fine ottobre riflettevano nei marmi, incoronati di storia, l’azzurro immacolato del cielo. Salutati dalle guardie svizzere, entrarono attraverso il portone di Bronzo, salirono per la scala regia del Bernini e furono ricevuti nella armoniosa sala Clementina. In mezzo ad essi spiccava la perla più preziosa del firmamento ecclesiale, la signorina Annamaria De Biasio, una maestrina elementare, che in seguito a una delusione amorosa aveva voluto
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consacrarsi completamente a Dio e dedicarsi al servizio del prossimo. Visitava gli infermi, confortava i carcerati e spendeva la metà del suo stipendio in opere di carità. Era tale la stima che il buon prelato nutriva per lei, da concederle, tra lo stupore dei parroci, di esporre il santissimo Sacramento nel salone privato del suo appartamento, dove per tre giorni si recavano i fedeli per un’ora di adorazione davanti all’ostensorio. In verità la signorina Annamaria già distribuiva la comunione alle persone che non potevano muoversi, in un tempo in cui non vi erano ancora le odierne badanti, però questa volta la sua casa medesima diventava una chiesa, dal momento che custodiva anche di notte l’Eucarestia. In un breve soggiorno a Roccamorfina, tra i boschi immensi di quei castagneti, paragonava la sua castità alla castagna, un frutto così casto che, come dice la parola, aveva voluto difendere la bella virtù con una doppia corteccia pungigliosa. L’arcivescovo presentava al Santo Padre i bravi diocesani, descrivendone i meriti e quando giunse il turno di Annamaria, scoppiò la guerra. “Santità”, disse la giovane donna, “ha ricevuto il mio libro di poesie che le ho inviato?” “Non ho ricevuto nessun libro, figliola cara”, dichiarò il papa. Come un insegnante che rimprovera un alunno indisciplinato, allo stesso modo Annamaria continuava a chiedere spiegazioni di quel mancato recapito. “Monsignore”, riprese il papa, rivolgendosi al suo segretario, “ne sa qualcosa del libro di questa figliola?” “Santità”, affermò il segretario, “la posta arriva nella segreteria di Stato e tutto ciò che non è protocollato viene cestinato.”. “Avete cestinato il mio libro?”, gridò ma misera poetessa. Povera Annamaria, il giorno del suo trionfo si trasformava nel giorno della sua disfatta. L’arcivescovo la prese per un braccio e la trascinò fuori della sala, mentre lei in preda alla stizza continuava a piangere. “Che ti prende?”, balbettava il savio prelato
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alla donna infuriata. “Come è possibile”, ribatteva costei, “con tanti soldi che ho speso il libro mi è stato strappato, non parliamo poi della castità, sembrava che mi dicessero: ma chi te l’ha fatto fare!” “Amabile figliola”, incalzò l’arcivescovo, “tu sai bene che la Chiesa è una istituzione divina, perché divino è il suo fondatore, però è piena di peccatori e oggi per fortuna abbiamo un grande papa missionario. Il Santo Padre si intrattiene a lungo con la gente cattiva, cercando di condurla sulla buona strada, ma tu già sei una pecorella sicura nel gregge del Signore”. Al termine dell’udienza il papa annunziò l’ apertura di un ufficio a parte, per ricevere tutta la corrispondenza indirizzata direttamente a lui. Il sole declinava dietro gli alberi secolari dei giardini vaticani e più opachi divennero i loro discorsi. “Abbiamo combinato un altro guaio”, iniziò il segretario. “Mi dica, monsignore, di che si tratta.” postulò il pontefice. “Questi poeti vanno in giro con la lettera che ricevono dal Vaticano insieme alla benedizione apostolica”. “Ho dovuto farlo”, continuò il papa, “ha visto cosa è successo durante l’udienza?” “Ma quella è una pazza. Sua Eccellenza diceva che è vergine, ma lei ci crede, una vergine di questi tempi”. “Ogni tempo ha le sue vergini”, replicò serenamente il papa. “E a cosa servono”, confermò il segretario, “ora che i musulmani stanno superando i cristiani per il numero dei figli”. “Non è il numero che conta”, precisò il pontefice, “bensì la qualità, siamo noi i rappresentati del vero Dio”. “Ma Vostra Santità dove troverà il tempo, per leggere tutti i versi di questi numerosi autori?” “Lo troverò il tempo, lo devo trovare, magari anche di notte”. “E ne vale veramente la pena con tanti impegni che ci assillano?”
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“Monsignore illustrissimo”, sentenziò il papa, “ogni testo che viene scritto rappresenta un messaggio di amore verso l’umanità e il mondo ha bisogno di questo amore. Come sarebbe bello se ogni uomo deponesse le armi e impugnasse la penna”. Il segretario rimase stupefatto dalla saggezza del Santo Padre e non aggiunse più una parola, come del resto farebbe ogni persona normale. Antonio Visconte
IL CAMMELLO DI ABU DHABI di Filomena Iovinella
“C
osa fai sdraiata lì per terra?” “Ciao Baldassare, cercavo di catturare la tua attenzio-
ne”. “Molto bene, ci sei riuscita! Qual è il problema?” “Nessun problema, anzi, sono in una leggerezza d’essere e quando faccio cose strane mi sento tanto tanto bene”. “Suggeriscimi, cosa devo fare per sentirmi leggero come te, ora? La cosa è decisamente più difficile per me e sono anche molto scettico, ma voglio fidarmi”. “Fidati, fidati in una tua precedente vita ti immagino il cammello prediletto del re di Babilonia. Ho letto un romanzo affascinante di Josè Saramago, parla di un tuo amico, un pachiderma, e di un viaggio lunghissimo”. “Ah si! E racconta, questa non la sapevo proprio!” “ Cercati una soluzione nuova per osservare e guarda il cielo”. Non è affatto facile per lui, ma cambiare prospettiva e guardare il cielo, non è mai semplice. Guarda all’insù, si piega sulle zampe, poi dondola, osservarlo dondolare divertito è meraviglioso. Io sono sempre sdraiata per terra e non faccio assolutamente niente, niente di niente. Pensiero fuori programma, fuori narrazione ma ci sta tutto com’è bello non fare niente, talvolta! – “E’ stupendo dondolare, non lo faccio
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quasi mai, il cielo si muove e sembra il mare!”, racconta le sue impressioni il cammello di Abu Dhabi. Filomena Iovinella
TORREMOLINOS (Mis recuerdos) I miei ricordi ormai sono soltanto le strade strette e corte della Carihuela con case bianche dai tetti terrazzati di fronte al mare azzurro. Le buganvillee sui bianchi muri e poi la linea grigia dei monti della sierra. I miei ricordi sono una stradina corta e racchiusa fra pareti bianche, un vaso con un geranio rosa, un bimbo, un gatto, un cane e in fondo, il mare. Una piastrella al lato di una porta (“Ave Maria”), due o tre barche … spiaggia e sole. Mariagina Bonciani Milano
LA FESSURA Nella fessura del tempo mi ricordo ogni giorno, lassù sul monte più alto osservo felice il fondo valle, stanca della salita e in fondo ancora e sempre di alberi, di foglie, di luce di rocce e come onda che passa veloce, scorre nelle mie ossa quell'attimo di beatitudine, legati ai rami del vento, spargerò erbe selvatiche, pianterò un fiore là in cima, reciterò una poesia ed infine mi riposerò. Adriana Mondo Reano, TO
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I POETI E LA NATURA - 68 di Luigi De Rosa
Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)
NATURA SÌ, NATURA NO (A proposito di alcuni giudizi di Autori famosi) “E' questa nostra vita, via dalla folla, trova lingue negli alberi, libri nei ruscelli, prediche nelle pietre, e ovunque è bene.” Ancora il poeta e drammaturgo William Shakespeare (1564-1616). E questa volta non per i suoi appassionati Sonetti d'amore (omosessuale) ma per l'esaltazione della Natura, l' unica a poter dare all'uomo una bellezza serena, armoniosa, senza richiedergli in cambio nulla se non il rispetto. (Venendo meno il quale, abbiamo il gravissimo problema dell' inquinamento in tutte le sue forme). E siamo nel Cinquecento! Il Capitalismo e
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il Collettivismo, le città-alveari, la tecnologia esasperata e l'automazione, sono ancora di là da venire, con i loro ritmi angoscianti e alienanti. Reinhold Messner (1944), alpinista, scalatore e scrittore, esorta a camminare: “Camminare per me significa entrare nella Natura. Ed è per questo che cammino lentamente, non corro quasi mai. La Natura, per me, non è un campo da ginnastica. Io vado per vedere, per sentire, con tutti i miei sensi. Così il mio spirito entra negli alberi, nel prato, nei fiori. Le alte montagne sono per me un sentimento, e mi hanno regalato ciò che gli uomini, le donne, i genitori, non sono riusciti a darmi.” Di tutt'altro parere la scrittrice, baronessa danese, Karen Blixen (1885-1962), l'autrice de La mia Africa, che si pone come la capofila di una folta schiera di contestatori del “mito della Natura”. (La scrittrice, tra l'altro, soffrì in modo atroce, come una vittima innocente, a causa della sifilide trasmessagli dal marito). Dice la Blixen: ”Non credo nel male, credo solo nell'orrore. In natura non esiste alcun male, ma solo orrore in abbondanza. Le epidemie e i flagelli, e le formiche, e i vermi”. Già nell'antichità romana Plinio il Vecchio (23 d.C.- 79 d. C.) metteva in dubbio l'assoluta “bontà” della Natura: “E' tutt'altro che facile dire se la Natura si sia dimostrata per l'uomo una madre generosa o una spietata matrigna”. (Che destino il suo! Fu ucciso dall'eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei !). Plinio il Vecchio trovò piena adesione, molti secoli più tardi, nel poeta Giacomo Leopardi (1798- 1837) secondo il quale la Natura si rivela una matrigna ingannatrice: “O natura, o natura, perché non rendi poi quel che prometti allor ? Perché di tanto inganni i figli tuoi ?” Almeno, per Leonardo da Vinci (14521519), scienziato, poeta e pittore, non si può emettere un giudizio sicuro perché “la Natura è piena di infinite ragioni che non furon mai
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in isperienza”. Per il poeta George Byron (1788-1824) invece, non v'è il minimo dubbio: fra la Natura e l'uomo preferisce di gran lunga la prima, senza la presenza dell'uomo (anche se con un linguaggio a volte sfumato, quasi diplomatico...): “C'è un piacere nei boschi senza sentieri, c'è un'estasi sulla spiaggia desolata, c'è vita, laddove nessuno s'intromette accanto al mare profondo, e alla musica del suo sciabordare; non è che io ami di meno l'uomo, ma la Natura di più.” Attraverso i secoli si rincorrono e si alternano, con varie sfumature, i giudizi positivi e negativi sulla Natura nei riguardi del suo influsso sull'uomo, con i lodatori e i detrattori. Un esempio eloquente dei primi è quello di Francesco d'Assisi (1182-1226) che, vedendo nella Natura l'opera del Creatore, ne tesse entusiasticamente le lodi, comprendendo, in queste, perfino Nostra Sorella la Morte corporale. Tanto per cambiare, c'è disaccordo, tra gli uomini, anche su questo. Oggi, poi, abbandonato certo deleterio assolutismo del passato, si tende ad accogliere a braccia aperte tutto e il contrario di tutto. Col risultato che, spesso, la confusione diventa enorme. Specialmente nei Paesi a democrazia rappresentativa (si fa per dire...). Anche questo è un segno inequivocabile dell'incertezza e del mistero riguardo sia alla Natura che all'Uomo ed al rapporto fra entrambi. L'approccio può cambiare, anche perché la cosiddetta Realtà rimane un mistero, e alla luce delle sempre nuove scoperte delle Scienze Spaziali sembra che, in uno scenario sempre mutevole, non basteranno milioni o miliardi di anni per trovare la spiegazione vera dello stesso mistero. Intanto si pongono, già da oggi, le basi per altri scenari, completamente diversi: da una parte, la possibilità concreta di un'Apocalisse Nucleare; dall'altra, il progetto di trapiantare la vita umana su altri pianeti o corpi celesti. Col cambiamento essenziale dei concetti di
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Natura e di Uomo. O cenere radioattiva o un altro Uomo. O tutte e due le cose... O chissà. Speriamo che la Poesia sopravviva, in qualsiasi forma. Luigi De Rosa
LUNA BLU (Perth, 2001) No, non dirò: Attimo fermati ! solo rallenta un poco rallenta un poco i battiti. Enorme, blu, non capita due volte nella vita di vederla sospesa in mezzo al cielo; di vederla e non crederla un miraggio. No, non dirò stanotte come Faust: Attimo, oh! Sei troppo bello, fermati! ma prenderò ad occhi aperti un Dilatrend per rallentare questa notte i battiti. Corrado Calabrò Roma Sono 22 i libri di poesie pubblicati in Italia da Corrado Calabrò e 32 quelli pubblicati all’estero, in 20 lingue. Tra i principali: Una vita per il suo verso, Oscar Mondadori, 2002, e La Stella promessa, Lo Specchio Mondadori, 2009. L’ultimo suo libro (il quinto pubblicato in Spagna), è Acuérdate de Olvidarla (Ricordati di dimenticarla), vincitore del Premio Internacional de Literatura Gustavo Adolfo Bécquer 2015. Delle sue poesie sono stati fatti anche vari compact disks con le voci di Achille Millo, Riccardo Cucciolla, Giancarlo Giannini, Walter Maestosi, Paola Pitagora, Alberto Rossatti, Daniela Barra. I suoi testi sono stati presentati in teatro, in recitalspettacoli, in 34 città italiane e anche all’estero. Per la sua opera letteraria è stata conferita a Calabrò la Laurea honoris causa dall’Università Mechnikov di Odessa nel 1997, dall’Università Vest Din di Timişoara nel 2000 e dall’Università statale di Mariupol nel 2015. Nel 2016 l’Università Lusófona di Lisbona ha attribuito a Corrado Calabrò il Riconoscimento Damião de Góis.
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Recensioni LINA D’INCECCO OBRE E LUCI 2° Premio “ Città di Pomezia “ 2016 - Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie 2017 - pagg.24. Sono le ombre a farci gradire di più la luce oppure è la luce, laddove non riesce ad infiltrarsi, ad ingenerare le ombre? Un dilemma scespiriano tuttavia antico quando il mondo e poi nel mezzo c’è il plumbeo della vita, che inevitabilmente si manifesta nell’arco del procedere quotidiano. È stata, a suo tempo, la scrittrice, poetessa, traduttrice, giornalista siro-libanese, Maryam Ziyādah (1895-1941) a denominare una miscellanea dei suoi scritti Luci e ombre – titolo anche di una sua raccolta poetica –, concetto antinomico in cui realmente si sentiva in una situazione di estraneità « in mezzo a quegli arabi che, pur condividendo la sua stessa cultura e lingua, appartengono, però, a una religione diversa. Infine, avendo studiato a fondo, oltre all’ orientale, anche la civiltà occidentale, europea in special modo, percepisce di essere una cosmopolita. » (Dal Dizionario Bompiani delle Opere e dei Personaggi 5° volume, Edizione speciale per il ‘Corriere della sera’ Milano, Anno 2006, a pag.5094). Ma è stato proprio il contrasto di sentirsi non connessa al territorio arabo in cui stava vivendo a privarla di una vera e propria patria e della serenità esistenziale. Ecco, quindi, l’attraversamento di momenti illuminati e di altri rabbuiati, proprio perché aveva compreso l’interferenza della conflittualità in ogni cosa. Un dissenso ripreso, in parallelo e nella contemporaneità, dall’insegnante di Francese, ora in pensione, Lina D’Incecco di Termoli in Mo-
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lise. La sua è una poesia che sa di chilometri spesi in lungo e in largo per le strade del mondo, tra passato e presente di cronache davvero accadute schivando abilmente « (…) i colpi di Kalashnikov/ puntati su vittime inermi./ Le urla erano confuse/ a quelle delle sirene,/ l’aria impregnata di terrore/ e le strade arterie di panico./ La sala di concerto/ un luogo di mattanza./ Nel ristorante corpi immobili/ sparsi a terra tra i tavoli./ Lontano lo stadio era l’ arena/ di una umanità atterrita. » (A pag.4). Che dire di questa liricità pura e drammatica allo stesso tempo che chiede un riscatto per tutti coloro che sono passati alla storia tristemente, giacché hanno vissuto di più nella difficile condizione di vita, senza dunque la speranza? Umilianti e faticosi quei giorni nel « lager, un negativo sfocato/ di caseggiati e campi innevati./ Si aggira nei pressi una moltitudine/ di uomini, donne, bambini/ usciti dalle fosse comuni,/ ricomposti dalle ceneri/ dei forni crematori./ Hanno le vesti bianche dei tribolati. (…) Così la bufera delle leggi ingiuste,/ del pregiudizio e dell’odio/ li aveva sradicati e scagliati/ verso l’olocausto. » (A pag.6). Se dopo ogni rabbuiamento segue in qualche modo un chiarore, il concetto si fa più alto, più spirituale e il cammino umano può procedere anche verso la beatificazione di persone che si sono distinte per il proprio operato, come « Don Gnocchi (…) Aveva preso con sé/ tanti bambini, i mutilatini,/ poveri, orfani, inermi./ Egli li aveva accolti/ imboccati come uccellini./ Li aveva allevati con cura/ e aperto loro le vie della vita. » (A pag.19). Questo dopo essere tornato sano e salvo dalla campagna di Russia in cui aveva assistito, da consacrato, alla morte di molti suoi ragazzi partiti per la guerra « nella disastrosa ritirata del Don/ a cui lui aveva partecipato. » (A pag.19). La poetessa Lina D’Incecco sa essere precisa cronologicamente anche senza l’ausilio delle date, che, infatti, non compaiono mai tra i suoi versi. Un’ accuratezza tacita che non si scompone neanche di fronte alle rivolte, per esempio, degli immigrati, nel nostro Paese, destinati ai campi per i lavori stagionali. Tante situazioni oscure bisognose del sole del perdono; del sole della redenzione; del sole della fiducia nel prossimo e nelle persone anche soprattutto differenti da noi e così « Quando giunge l’ estate/ nel mio cortile/ rifiorisce l’ibisco./ Il suo fogliame diventa/ un manto di broccato/ intessuto di fiori/ dalle corolle rosa confetto,/ fragili ciuffi di tulle./ Quando dal pezzetto di cielo/ passa il sole a mezzogiorno/ i petali si fanno di seta/ in vari toni./ La chioma allora/ galleggia nel vuoto/ come uno stagno verde/ su cui dolci vagano le ninfee. » (A pag.15). Isabella Michela Affinito
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ANNA TROMBELLI ACQUARO EMOZIONI SPARSE AL VENTO 4° Premio Città di Pomezia 2015 Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, Supplem. al n.12 (Dicembre 2015), pagg.28 Il vento è da sempre stato un elemento importante, un protagonista d’eccellenza nell’arte poetica per il fatto di adempiere all’atto del veicolare qualsiasi cosa visibile o invisibile. Sì, il vento forte o leggero che sia comunque trasporta, diffonde, comunica, scuote, accarezza, scombina, cancella, ispira soprattutto le persone più sensibili che nelle folate intravedono la presenza di chi hanno amato e non ci sono più; oppure intuiscono in modo vago dai sibili certe situazioni che devono ancora venire; oppure percepiscono, odono le voci degli altri, di chi vorrebbero riascoltare. Il vento si racconta da solo non ha bisogno di complici, giacché ha una sua forza, sa dove andare (e per questo ha tanti nomi in riferimento alle sue direzioni), quando e come sferzare, eppure di tanta natura non c’è nessuna materia tangibile, possiede solo alcune volte la voce che può essere piacevole o fastidiosa. Se poi si insinua nelle piccole fessure, come quelle delle persiane avvolgibili ad esempio, produce note simili al flauto e così da voce diventa musica isolata e improvvisata, senza seguire alcuno spartito. Allora, da cotanto preambolo si arriva all’Odore di terra mia. « (…) Fredda e tacita oggi ricordo con nostalgia/ le vecchie mura di casa mia/ ed il profumo della terra mia./ Dolce terra mia, umida ancora ti sento/ bagnata dall’emigrante pianto,/ ma un giorno con amore son tornata,/ forestiera nella terra mia mi son sentita,/ guardavo i vecchi muri sgretolati,/ i vecchi scritti del tempo passato, sbiaditi,/ gelida mi accolse quella via/ non c’era più nessuno della gente mia. » (A pag.4). Il direttore e fondatore della rivista ‘PomeziaNotizie’, Domenico Defelice, che ha reso edita la silloge di poesie di Anna Trombelli Acquaro in un Quaderno, e prefatore dalle compenetranti intuizioni; ebbene egli così ha scritto sul finale della sua introduzione: « Ricordi, emozioni e profumi che il vento costantemente trasporta nel suo incessante giro del mondo. » (A pag.2). Dunque, il vento nel movimento è un trasportatore assoluto e ci sono zone caratterizzate dalla presenza di venti locali che hanno un nome specifico che li contraddistingue, geograficamente parlando. Anche i pensieri scritti dalla poetessa calabrese Trombelli Acquaro, che compaiono a piè di pagina del quaderno dopo ciascuna poesia, risultano assoluti nel senso di lapidario-sentimentali, brevi e incoraggianti, luci sparse come fiammelle accese sul-
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la strada buia della vita. « Il cielo si ammanta/ dei colori notturni/ perdendo gli splendidi/ colori del tramonto,/ si ottenebra la notte,/ lasciando i suoi splendori/ ad uno ad uno come veli/ ed il cielo/ è una gemma colorata/ dai fosforescenti/ suoi lumini. » (A pag.5). Dell’autrice, grazie alle rivelazioni biografiche del prefatore, sappiamo che è stata un’emigrante al tempo in cui era ancora fanciulla, allontanandosi di molto dalla sua Calabria, tanto da andare ad approdare in terra australiana, in prossimità di Melbourne. Un ‘salto’ davvero enorme che ha messo sicuramente a rischio tutte le catene a cui sono aggrappati i ricordi, le tradizioni, il modo col quale una persona viene educata e cresciuta, le origini della famiglia e sé stessi. Non è possibile l’azione di compiere questo salto senza dover subire poi un contraccolpo, seppure lieve, quale reazione al cambiamento sopraggiunto che si va a sommare con tutte le altre Esperienze di vita. « Non cancellare mai/ nessun giorno della tua vita,/ i giorni belli/ ti hanno regalato la felicità,/ quelli brutti,/ ti hanno dato l’esperienza/ e i peggiori,/ ti hanno insegnato a vivere. » (A pag.16). Certo che la sconfinatezza australiana può incutere dei sensi di smarrimento interiore e a volte sconsolatezza, nel cuore di chi magari è stata abituata alla vita semplice della gente del meridione italiano, a quel mare e a quel sole, di cui sappiamo la risonanza a livello mondiale, che fanno tanta compagnia all'essere umano. Il mare della Calabria ha i suoi orizzonti-confini, è caldo, custodisce ancora i cimeli della civiltà greca, qualcosa forse ancora dei Fenici, grandi navigatori e commercianti che attraversarono in lungo e in largo il Mediterraneo. Quello australiano, invece, è un oceano con tutte le sue prerogative: freddissimo, distaccato, senza memoria, senza passato e ostile in quanto ci sono gli squali. Le sue onde sono ricercate dagli appassionati della tavola sull’acqua, che devono riuscire a scorgere l’onda cosiddetta perfetta, ovvero « (…) un mare non meno splendido, ma sicuramente meno ricco di storia e di leggende. » (A pag.2). Già questo è un fattore che provoca in modo inevitabile la nostalgia, insieme a tante altre cose rimaste dietro le spalle di chi emigra poiché è costretto a farlo principalmente per ragioni di lavoro e questo è uno dei tanti modi per garantire la propria esistenza. « (…) All’alba quando mi sveglio,/ sei il primo pensiero/ che gioia mi dà, dolca vita mia,/ e con le spalle appoggiate/ al vecchio muro coperto dall’ ombra/ del tramonto che muore,/ tutte le emozioni che mi hai regalato/ rivivono con nostalgia dell’ anima,/ quei momenti ci legarono di più/ degli anni
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passati insieme./ Mille sono i ricordi,/ una data scritta sul diario della vita/ e quel tempo che ho dato a te/ senza mai misurarlo era solo amore. » (A pag.3). Isabella Michela Affinito
GIORGIO BÀRBERI SQUAROTTI LE FINTE ALLEGORIE Edizioni Eva, Venafro (CS) 2016. Pagg. 120, € 15,00 Giorgio Bàrberi Squarotti è torinese (classe 1929), è stato ordinario di italianistica nell’ Università del capoluogo piemontese. Firma prestigiosa della UTET, dirigendo e organizzando la redazione del Grande Dizionario della lingua italiana, noto come Dizionario Battaglia, e curando collane di classici. Ha pubblicato molti saggi critici ed è una indiscussa autorità della critica letteraria, tanto da essere presente in migliaia di libri che mi sono passati per le mani, con i suoi interventi. Personalmente gli sono debitore di un paio di recensioni, dedicatemi quando lo ritenevo un omonimo (circa vent’ anni fa), e non l’originale, dopodiché non l’ho voluto importunare. Sapevo della sua molteplice attività e adesso mi trovo una sua raccolta di poesie, Le finte allegorie. Giuseppe Napolitano intitola la sua nota introduttiva “Le disavventure della bellezza”. Mi sembra che il Critico intenda con ciò, la nudità della donna come espressione di eccelsa bellezza, che crea delle disavventure nel Poeta che avanza con l’età. Perciò avverte della lunga esposizione di figure, una sorta di “spoon river” di nudi. Egli stesso pone retoricamente la domanda: “ci sono allegorie, ma sono finte, quindi è tutto vero?” Forse il critico segue il gioco linguistico del poeta. Giorgio Bàrberi Squarotti fa leva su tutto il suo sapere, dal classicismo ai tempi moderni e forse si tratta delle ultime allucinazioni di un maschio. Assidua la presenza di ragazze, direi in modo ossessivo, monotematico e monocorde, una vera esposizione di nudi, con la dovizia descrittiva di pube, cosce, sguardi lascivi, situazioni equivoche fra i sessi. La lunghezza dei componimenti e dei versi conferisce un andamento narrativo e descrittivo in movimento sempre di una sensualità, velata ma non tanto. Fiume in piena con tanti vortici che portano sempre sul nudo ossessionante delle donne. Va bene il nudo, pure spinto se si vuole, ma non quello ossessivo, non c’è composizione che non ne contenga insieme con altre voci che ne fanno da condimento. Sapevo della vicinanza del Bàrberi Squarotti ad alcuni poeti come il compianto Gianni
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Rescigno (1937-2015), del suo sentire tenero e passionale; ma qui non mi pare di riconoscerlo. A meno che non si individui la radice attraverso le località e le date di composizione, riportate a piè pagina, che fanno pensare alle occasioni colte ed elaborate, nel suo girovagare dal Nord al Sud, membro di giurie. Pertanto le finte allegorie finiscono per rappresentare una realtà vera e sconcertante che il Poeta avrebbe fotografato e sotto quest’ultima luce la sua poesia finirebbe per connotarsi come denuncia sociale del malcostume raggiunto (libidine ad ogni costo). Il giudizio non può esaurirsi alle sole apparenze e il dubbio sortomi, su cosa si debba intendere per vera poesia, in parte si dissolve con gli ultimi versi della raccolta, che liberamente adeguo al mio pensiero, il Poeta (il Vecchio) fa appello a Dante: “il Vecchio si avvicinò,/ con la tovaglia delicatamente/ le ricoprì, con dolcezza sorrise,/ voleva allontanarsi, si inciampò/ (…)/ però divertito:/ - Ci vuole una citazione adeguata/ per tanta confusione di piacere:/ ‘L’Amor che move il sole e l’altre stelle’:/ ecco, così-” Tito Cauchi
PASQUALE MONTALTO PAROLE RICERCATE con il cuore Il Croco/ Pomezia-Notizie, aprile 2017, Pagg. 32 Pasquale Montalto (Acri, Cosenza, 1954), divide il suo tempo tra l’impegno professionale di psicologo e psicoterapeuta, sessuologo e sociologo, e l’ impegno presso il Movimento della Poesia Esistenziale, di cui è fondatore. Ha prodotto una ventina di pubblicazioni fra scritti inerenti la professione e la poesia. La raccolta di cui ci occupiamo, Parole ricercate, è risultata vincitrice del 3° Premio Città di Pomezia 2016, il cui sottotitolo evidenzia con il cuore. Le illustrazioni sono di Alice Pinto (Bombay, 1956) che bene sposano le raccolte del Nostro. La presentazione è di Domenico Defelice il quale, in sintesi, afferma che l’efficacia della sua poesia consiste nel “suggerirci che la vita va accettata anche se ricca più di affanni che di gioie”. Infatti l’ incipit recita: “La vita non ti chiede,/ la vita arriva,/ ti prende per la mano/ e ti trascina;/…// Ora il mio cuore/ alla vita dice ‘Grazie’,/ perché, nelle asprezze del cammino,/ nulla è mai perito per siccità”. Il Poeta osserva intorno la realtà cogliendone i contrasti, le contrapposizioni generazionali, le deviazioni dei costumi; egli stesso vi contrappone l’Arte come “Antidoto di un potente veleno corrosivo” che nelle mani del nostro io bambino gioca in armonia con l’ universo.
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Gli equilibri nel consesso umano vengono minati da eventi funesti come la “notte del Bataclan” (attacco terroristico di matrice islamica, a Parigi), del 13 novembre 2015; data che va ad aggiungersi a quella dell’11 settembre 2001 (l’abbattimento delle Torri Gemelle a New York); date, purtroppo che non sono isolate. Tutte le volte si fermano le lancette degli orologi e ci si ripromette che tali eventi non abbiano a verificarsi “mai più”; ma il mondo sta andando alla rovescia mentre “Un fiume d’ ingiustizia/ corrode gli argini sociali” (pag. 17). Abbiamo dimenticato il vivere in armonia con la natura nel suo complesso, ci neghiamo la possibilità del sogno; “figlio di questi tempi alterni,/ deprivati del liquido paterno.” (27) e rimaniamo in attesa di tempi migliori. Pasquale Montalto si è calato nello sfacelo che attanaglia la nostra società, e ha il timore che la Musa l’abbia abbandonato; ma non ha perduto lo smalto poetico che lo ha contraddistinto in altre raccolte; il suo lessico risulta morbido, così: “il lume sull’ endecasillabo del sogno” e “un treno di stelle”, gli consentono di ascoltare “il suono della poesia” e di vivere con la “compagna di un morso di mela”; e alla pioggia chiede un bacio e una carezza fino a dissetargli l’anima. Il titolo recita Parole ricercate e, giustamente, avverte il Poeta, esse sono dettate e scritte con il cuore. Tito Cauchi
PASQUALE MONTALTO PAROLE RICERCATE con il cuore Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2017 “La vita non ti chiede, la vita arriva, ti prende per la mano e ti trascina…” in questi versi c’è il sunto della raccolta “Parole ricercate con il cuore” di Pasquale Montalto. Montalto canta la vita di tutti i giorni, quella che ti sorprende in ogni momento, ad ogni passo, con accadimenti fasti e nefasti. Ultimamente nel mondo che ci circonda gli accadimenti nefasti sembra stiano prendendo il sopravvento, ma ciò non toglie che noi umani dobbiamo sempre essere positivi. La vita ci riserva pericolose sorprese, come gli attentati dell’Isis (vedi Bataclan in Francia) che ci inducono a chiuderci a riccio e a vivere nel terrore: “Senza quella notte al Bataclan, potrei continuare ad ascoltare il suono dell’autunno, cullare il desiderio di affacciarmi alla vita…invece mi trovo forzatamente affossato nell’orrore e nell’odore aspro del massacro”.
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Però di fronte alla nascita di un bambino, questa nostra paura del baratro si cancella; una nascita ridà speranza nel futuro, mette coraggio, ci fa sentire dei guerrieri di pace, intenzionati ad andare avanti nonostante i mille pericoli. Anche la morte, la fine vita, secondo Montalto può essere vista come una ricompensa verso un aldilà immerso nel bene. Una cosa è certa per il poeta, qualunque destino la nostra vita abbia in programma per noi, bisogna accettarlo così come è. Non bisogna lasciarsi abbattere, ma vivere con il cuore aperto, immagazzinando e donando amore. Solo con il cuore, ricercando parole/azioni adatte questo mondo potrà avere il sopravvento sulla cattiveria e sui terrorismi che tentano di dividerci. Dovremmo provare a tornare tutti bambini, per recuperare quel “gioco” innocente alla Peter Pan, che porta energia, vitalità, armonia, amore. Roberta Colazingari
PASQUALE MONTALTO PAROLE RICERCATE Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2017 La vita non è da rinnegare, da buttar via come un indumento liso e fuori moda, come uno strumento vecchio e inutile; è qualcosa di prezioso, di sempre valido, qualunque ne sia la condizione; è l'entità prima, unica dell'esistenza, l'esistenza personificata, di questa il respiro, il moto perenne; va, pertanto, rispettata, coltivata, vissuta nel modo giusto, anche se nulla noi possiamo contro il suo potere ineluttabile perché essa fa di noi ciò che vuole: "Arriva, ci prende per mano, 'andiamo' dice e noi possiamo, dobbiamo solo obbedire". Oggi non si sa apprezzare la vita: si calpesta, si vive in maniera anomala. Si diventa, così, incapaci di reagire alle avversità, di sopportare la fatica e il dolore. E' ciò perché si è deboli psicologicamente, ci si lascia dominare dall' ozio e dall'apatia. Non così una volta. L'uomo d'altri tempi era forte, tenace, coerente, non si arrendeva di fronte agli ostacoli, non si lasciava abbattere da avvenimenti negativi, rispettava il prossimo e la natura: aveva in sé la forza per spuntarla in quasi tutte le circostanze, di raggiungere la meta prefissa e conquistare la palma della vittoria. E' questo l'argomento scottante che Pasquale Montalto mette in risalto, dibatte nei suoi versi, oltre al ripudio delle guerre, la corrotta politica, i "lampi dei potenti che impongono il terrore". E non dimentica la trasformazione rapida, non del tutto opportuna, di quanto ci circonda, anche del "lessico giovanile": <<In mano oggi il sole porta / la grammatica intuitiva / di
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un tempo trasformativo. / ...Senti già lo spazio (che) risuona / di un'eco nuova / che indica lessici inediti / nati dal gergo provinciale>>. Il nostro poeta ama la pioggia: sotto il suo scroscio ha l'illusione di liberarsi di tutte le brutture, di purificarsi: <<Bagnami, trattienimi, lavami, libera il mio viso, dissetami l'anima>>. Quale il rimedio che egli considera efficace per ovviare ai mali che affliggono la società ? La lotta per la pace, il sogno, l'amore, la poesia, l'arte: <<...gli spari il sogno non uccidono>>; <<Nel silenzio l'arte magica / ...trova parole guaritrici / per riscattare la bellezza dal mostro dell'odio>>; <<Sfoglio il taccuino dell'anima / e cerco la parola / ...compare allora la poesia...>>. Le sagge riflessioni che emergono da tutta la raccolta poetica, denunciano il negativo che infesta la nostra epoca. Antonia Izzi Rufo
PASQUALE MONTALTO PAROLE RICERCATE con il cuore. 3o Premio Città di Pomezia 2016. Presentazione di Domenico Defelice. Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2017 IL CROCO, meraviglioso e unico, sempre attento a presentarci Autori di grande rilievo e creatività, che con le loro opere allietano il nostro cuore e ci danno la spinta a non fermarci mai di comporre versi che volano ovunque, per rallegrarci di questa passione che pochi hanno. “PAROLE RICERCATE con il cuore” del Poeta Psicologo Pasquale Montalto, 3o Premio Città di Pomezia, ci ha donato la testimonianza tangibile, che la poesia è portatrice di veri sentimenti, che affondano nel profondo dell’anima per farci capire ciò che la vita ci dà, e che bisogna accettarla così com’è per non ammattire. “VITA” – La vita non ti chiede,/ la vita arriva,/ ti prende per la mano/ e ti trascina;/ sussurra l’impenetrabile/ mormorio del cuore./ Andiamo dice/ e puoi solo obbedire. Da pag. 4. Quanta verità c’è in queste liriche, tanto dolore sparso per il mondo con violenze e tragedie a non finire, terroristi e tiranni da rabbrividire, eppure nessuno può far niente per fermare questi orrori, ci resta solo di pregare il Dio nostro, che ci dà anche tante gioie, come la nascita di un bambino, quando arriva la pioggia che disseta l’anima, il calore invitante del cuore, buone azioni e nuovi profumi. E la vita continua la sua passeggiata... Che ancora oggi respira d’immagini/ E d’amore nutre e disegna il futuro. Il nostro bravissimo Autore ci ha regalato la sua
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memoria poetica da conservare perennemente nel museo del cuore. Le simpatiche e bellissime illustrazioni della pittrice Alice Pinto, (in Arte Alì) della copertina, di pag. 30 e della quarta di copertina, arricchiscono ancora di più IL CROCO dedicato a Pasquale Montalto, che presso l’ospedale di Cristo Re di Roma, si è formato in Sessuologia e Ginecologia Psicomatica, specializzato in Psicoterapia Analitica Esistenziale e Sophianalisi, svolge la professione di Psicologo Psicoterapeuta, Sessuologo, Sophianalista. Le sue poesie portano con sé il Suo Spirito di vero Professionista, per farci riflettere e insegnarci come seguire le regole della vita. Questo numero de ‘IL CROCO,’ è un grande tesoro da ammirare e da gustare con tanto afflato, è da tenere sempre esposto per dar modo a tutti gli amici di leggerlo e apprezzarlo in ogni pagina e in ogni verso. Un vero toccasana per tutti i gusti, che merita il nostro plauso e molto, molto di più. Giovanna Li Volti Guzzardi Australia LINA D’INCECCO OMBRE E LUCI Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2017 Il Piano del Culturale: tra impegno sociale e ricerca letteraria Il Croco di Gennaio 2017 si apre con la poesia di Lina D’Incecco “Ombre e luci” che ha vinto il secondo premio Città di Pomezia 2016: nella prefazione Domenico Defelice parla di “poesia sociale, intensa, non gridata” (prefazione op. cit. pag. 2). Le ombre sono affidate a immagini di gusto espressionistico, decisamente calate nel sociale, che affrontano argomenti scottanti. “(...) anziani rannicchiati in ossa stanche/:Passa la carità dei servizi sociali/piccolo aiuto ai loro bisogni,/e l’occidente disunito/non trova soluzioni/(...) migliaia di profughi stremati/respinti da guardiani ligi (...)” (da Campo di rifugio op. cit. pag. 8). Una chiarezza lirica che si fa Cultura nella consapevolezza che il poeta non può stare al di fuori del mondo con la propria poetica del cantuccio, con un sentimento solipsistico rivolto solo a se stesso, con le mani in mano a guardare un mondo in rovina, ma deve riflettere, nella sua opera, le inquietanti questioni che ci dilaniano, o, quanto meno, adoperarsi a spronare le coscienze. È, quindi, una poesia che si oppone a un certo esistenzialismo manierato di oggi, come rivela lo stesso Defelice “Una poesia, questa, (...) altamente sociale, aperta agli altri, all’ amore fraterno universale, che si innalza sui versi di una
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pletora di poeti odierni che non sanno fare altro che piangersi addosso, scavando egoisticamente solo nell’io” (dalla prefazione op. cit. D. Defelice). Una lirica che “si piange addosso” trova un terreno fertile in un critica altrettanto vittimistica e dolorante, ormai incapace di teorizzare come di promuovere nuove vedute. Al di là di questo esasperato vittimismo esistenziale, diventato un vero e proprio culto dietro il quale si nasconde una mafia intellettuale volta a fare il gioco editoriale della narrativa, la D’ Incecco affronta la lirica con la consapevolezza che si può ancora fare e dire qualcosa al di là del vittimismo e lo si può attuare mediante una chiarezza lirica sulle storture del sociale (ombre) e una dimensione propriamente aulica (luce) sulla qualità poetica come ricerca letteraria infinita, attualizzata nel topos o luogo letterario riflesso d’incontro tra il poeta e il lettore. Nella poesia Foglie secche (pag. 17) il topos delle foglie richiama, per intertestualità, Omero “Quale a quella delle foglie, tale è la stirpe degli uomini. Il vento le foglie alcune le sparge a terra e altre poi, per il bosco germogliante a primavera ne crea. Così gli uomini alcuni nascono altri muoiono” (Omero in “La saggezza degli antichi” D. Roncoroni, Mondadori): “Stanziano sul marciapiede/le foglie del tiglio/gialle secche, accartocciate./Aspettano che il vento/col vigore del maestrale le porti via”. (Lina D’Incecco, Foglie secche, op. cit. pag. 17). Tali analogie, come Era maggio (pag. 18 op. cit.) dove è facile notare un collegamento leopardiano con “era il maggio odoroso”, celebre incipit di A Silvia, sono indice di una riqualificazione lirica come “processo culturale inarrestabile”, come esperienza conoscitiva esemplare rispetto alla narrativa che ha ancora molto da dire e da trasmettere, se non altro il suo alto senso di valore educativo-letterario. Susanna Pelizza LINA D’INCECCO OMBRE E LUCI Ed. Il Croco – I quaderni letterari di Pomezia Notizie, 2017 Il verso di Lina D’Incecco si snoda armoniosamente senza interruzioni per delineare il suo impellente coinvolgimento nell’esprimere un sentire aperto alle problematiche sociali e universali. Ombre e luci ha meritato il 2° premio Città di Pomezia 2016 e già nella prima lirica la poetessa tratta la tragedia accaduta a Parigi per merito dei colpi di kalashnikov che hanno distrutto vite innocenti seminando terrore. E’ l’atmosfera dei nostri giorni. E’ una condizione peggiore della guerra
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normale; nessuna regola e solamente distruzione: “Sì, quella sera Parigi era / l’affresco della brutalità / dell’ignominia / mentre la morte banchettava / con le sue armi letali / per umiliare la città / distruggere la vita.”. E’ un glorificare la morte e ricorda purtroppo un altro triste momento per l’ umanità, quello del nazismo che ha sterminato milioni d’innocenti. La seconda lirica ben descrive la desolazione e il disperato dolore “di uomini, donne, bambini / usciti dalle fosse comuni, / ricomposti dalle ceneri / dei forni crematori.”. Un’altra piaga dei nostri giorni è quella dell’ immigrazione. Gente disperata che arriva sempre più numerosa, con un filo di speranza, e si ritrova in un “campo di rifugio” dove “Sotto i giubbotti e gli scialli / c’è freddo e fame. / Il loro esodo fermato in quel campo / dove i giorni passano vuoti. / Giovani energie spente, inattive. / Anziani rannicchiati in ossa stanche.”. Quando invece riescono a fare qualcosa si ritrovano sfruttati com’è successo a Rosarno “Lì, avevano trovato l’inferno: /sfruttamento e degrado, / una vita disumana.”. A Lina D’Incecco non sfugge neanche la condizione dei barboni “Un fagotto nero / riversato sulla panchina, / un mucchio di indumenti / che nascondono un corpo.”. Per fortuna però a tutto questo vi è un risvolto che dona speranza e che rileva una voglia di vivere, come per esempio “Gli scout” che passano il tempo in mezzo alla natura cantando e fischiettando, oppure “I Tokio Hotel” con la loro atmosfera surreale: “catapultati sul palco / sono i nuovi vikinghi / avventurosi e arditi / nella musica dei metalli / dove batteria e chitarre / sono pirati ardimentosi. ". Un inno all’esistenza è pure la bellezza dell’ibisco che fa diventare un “giardino d’oriente” un angolo angusto, e per finire, la dimensione più luminosa e ricca di vita: quella dell’ amore verso il prossimo. E chi più della Vergine di Lourdes o il Cristo può donarci l’amore di cui abbiamo bisogno? Si conclude così la raccolta di Lina D’Incecco, con un motivo d’amore e di speranza per far sì che la luce vinca sempre sull’ombra. Laura Pierdicchi
LE FAVOLE Il ricordo mi duole, gli venti sono sassi che cadono come un sospiro, rendono acide le favole La mia canzone ha le stagioni in cielo,
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dietro migrazioni di intere paludi di nuvole che ondeggiano come foglie di pensieri nel tramonto di attese perse lungo il pensiero lastricato di azzurre speranze Adriana Mondo
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SOLE DI PAGLIA Hanno la febbre i pesci a primavera. Esita maggio a schiudere i boccioli.
Reano, TO
Sole di paglia: così chiamano il sole a Sabaudia di fine aprile e dei primi di maggio.
ALBA DI NOTTE Striscia l’alba tra le griglie della persiana.
Questo lago sembra in sé concluso ma sotto sotto scambia le sue acque col mare per filtrazione.
Stanotte finalmente dormi accanto: me lo dicono i materassi che si stringono lo sostiene la levitazione del letto.
Mi s’è ristretto il lettino nelle spalle. Chi di noi due ha fatto il primo passo?
Dio mio, l’alba! Se aprendo gli occhi, adesso, mancasse la tua mano a trattenere il lembo della notte…
Hanno la febbre i pesci sotto l’acqua surriscaldata come le serpi sotto il fieno in fermentazione.
No, non è giorno, è la luce dei lampioni che trapela: me lo dice il tepore del tuo corpo me lo dice la voglia di sonno ancora intatta. Senti come ci palpa come ci rende bisessuati il buio? No, non è l’ora del primo treno. Questa persiana a griglie in legno douglas è il nostro finestrino schermato: fuori ognuno riprende ad inseguire a testa bassa il tempo -in moto, macchina, autobus, furgonima la tua giovinezza si stringe a me insieme al materasso. E non è stato un sogno; o lo è ancora. Altrimenti al tuo levarti mi sarei svegliato. Corrado Calabrò Roma
Annuso un bocciolo non dischiuso e una foglia d’alloro tarlata; di tanto in tanto riaccendo il cellulare. Oggi ci sono le finali degli Internazionali* al Foro Italico. E oggi è pure la festa del lavoro; con tante feste ormai è una convenzione. Sotto la duna di sabbia questo lago è in comunione segreta col mare; ma i pesci non riescono a passare. Tocca a chi ha fatto il primo passo fare adesso il secondo:
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un passo indietro. Devo solo aspettare quel passo come Maometto aspettò la montagna. Esita maggio… E’ tutto il giorno che i pesci non abboccano… E se fosse un passo a due? La tua bellezza, ai tuoi occhi, ti autorizza a essere conclusiva e inconcludente… Ma a nessun costo ti devo chiamare: meglio perderti perché non m’hai chiamato che per averti cercata una volta di troppo in controtendenza. Questa branda funziona da letto di contenzione; ora mi s’è ristretta sotto il petto. Tutta una fila di eucalipti impalati si sventola piano le ascelle con le foglie: imparerò la fermezza dagli alberi. E se mi ritrovassi per caso al Foro Italico? Potrei arrivare a Roma in treno, in taxi, a nuoto e fors’anche in bicicletta. Alla fin fine, quando scese il buio fu Maometto ad andare alla montagna dopo averla fissata tutto il giorno con gli stinchi incrociati.
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la nave del ritorno. Sole di paglia: così chiamano il sole a Sabaudia di fine aprile e dei primi di maggio. S’ingrugna il mare e sbavazza dando grandi panciate contro la duna di sabbia sommersa. Sento una goccia appiccicosa come resina. Un pescatore ripone la lenza e mette gli ami sparsi nella sacca. Il cielo s’è oscurato e i pesci sono scomparsi come se non ci fossero mai stati. Sole di maggio: sconsigliato dai medici ai romanisti irriducibili agli allergici agli insaccati freschi e agli amori stagionati. Aspettando un segnale di momento in momento – che so, una chiamata persa, un messaggio – nel cellulare spento non m’ero accorto che il lago s’è oscurato non m’ero accorto ch’è cambiato il vento. * di tennis. Corrado Calabrò
Nuvole in gregge s’ammassano in attesa. Ho gli occhi irritati la fronte febbricitante e la schiena lardellata forse per allergia al primo sole. Non si getta la spugna per amore né per incontinenza ma per aver bruciato il primo giorno sulla spiaggia
Roma
RETROGUSTO Persistente è l’amaro che il dolce troppo dolce lascia in bocca Stordisce più del vino fissare il cielo estivo dall’alba al tramonto Sto bene attento a non aprire gli occhi e a non allungare la gamba:
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si risente per anni l’assenza-presenza dell’arto amputato Tutta l’acqua del mare non placa la sete a chi non la può bere Lungo è il bisogno d’amore in chi t’ha amata. Corrado Calabrò Roma
L’ASTROTERRA La mia cabina è col letto a due piazze ed ha la zona pranzo ed un soggiorno. Ce ne sono di tutte le misure: a forma di torretta, a cassettone, altre addossate fitte fitte a schiera e poche recintate con piscina.
D. Defelice: Il microfono (1960)
Eh! a bordo siamo veramente in molti e, per quanto sia grande l'astronave, incominciamo a stare un po' strettini; si spiega che la ciurma sia irrequieta. E poi ci sono quelli morti in viaggio; deposti nella stiva nei tanti anni di questo nostro andare senza tappe, ce li portiamo appresso, insieme al resto, come ogni passeggero il suo passaggio. Levo in alto le braccia dalla tolda e le protendo nella notte al cielo lattiginoso, dove si tramanda che una volta ci fossero le stelle della galassia a segnare la rotta dando un senso-non senso all’oltreterra. Col capo rovesciato e gli occhi chiusi riesco ancora a vederle virtualmente. Se Ulisse navigò a forza di remi già Telemaco fece un televiaggio: l’odissea è circoscritta nella mente. A cielo aperto, forse io solo veglio. Non si sente corrente né rumore: solca la nostra nave spazio e tempo e spazio e tempo sono il suo motore. Corrado Calabrò Roma
NOTIZIE IL DISASTRO DELLA ECO X - L’incendio di venerdì 5 maggio 2017 alla ECO X - smaltimento di plastica e altri rifiuti speciali, tutta roba pericolosa -, per fortuna non ha causato vittime, ma il disastro ambientale è stato assai grande e duraturo nel tempo, con danni ingentissimi al territorio di Pomezia e a quello di altri comuni limitrofi. Evacuazione delle case entro cento metri dal rogo; porte e finestre chiuse nel raggio di due km.; divieto di raccolta e utilizzo di frutta e verdura e di pascolo nel raggio di 5 km. Si è certi che il tetto del capannone contenesse anche amianto, anche se il Ministero della Sanità afferma che esso non si è diffuso nell’aria. Un vero disastro; aziende e uffici chiusi per giorni e le scuole per quasi una settimana. Ringraziamo pubblicamente tutti coloro che da ogni parte d’ Italia, dall’Australia, dalla Germania eccetera, ci hanno scritto e-mail o ci hanno telefonato per rassicurarsi, per avere notizie: a riportarlo, un elenco lunghissimo, segno di stima e di affetto di centinaia di lettori e collaboratori del nostro mensile. L’ augurio è che catastrofi simili non abbiano più a verificarsi e che ci siano, da parte degli organi a ciò preposti, controlli preventivi e più efficaci dei tanti siti del genere, presenti numerosi in tutta Italia e non soltanto sul territorio di Pomezia. Ci scrive il 9 maggio, da Roma, Emerico Giiachery: “Mio caro Domenico, penso a voi che operate e vivete a Pomezia ogni volta che la televisione ci mostra l'autentico cataclisma che è accaduto in quei luoghi operosi e tranquilli. Ci sono certo grosse responsabilità. Co-
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me è difficile conciliare economia ed etica, l'intrinseca amoralità della pura economicità e quelle dell'etica che tende a reprimere con statalismi marxisteggianti la spinta creativa dell'economia. Per fortuna alcuni grandi personaggi hanno saputo creare un'economia etica pienamente creativa. Penso al grande Adriano Olivetti, straordinario promotore di cultura e di umanesimo, scomparso troppo presto durante un viaggio, a Ferrero che ha creato dal nulla una magnifica realtà industriale: tutta la città di Alba era al suo funerale per salutarlo e ringraziarlo.” Etica, morale, cultura, umanesimo: sogni di vecchi illusi come noi, caro Amico, visto che l’ interesse freddo e cinico regna sovrano in ogni campo e che l’incendio della ECO X e tutte le tante altre catastrofe quotidiane affondano in esso. (d. d.) *** PREGHIERA IN GENNAIO - Venerdì 26 maggio 2017, alle ore 18,30 presso la Libreria “Moby Dick” di via Edgardo Ferrari 3 - Roma, è stato presentato Preghiera in Gennaio (Ed. e-book poesia) di Rosaria Di Donato. Relatrice è stata Lucianna Argentino; moderatore, Gioacchino De Chirico, con l’intervento dell’attore Damiano Hulman. Folto e qualificato il pubblico; presente l’Autrice. *** COMMEMORATO GIANNI RESCIGNO - In occasione del secondo anniversario della morte del poeta Gianni Rescigno, a Roccapiemonte, suo paese natio, il giorno 12 maggio 2017, presso il liceo scientifico B. Rescigno, con il patrocinio del Comune, si è tenuta una cerimonia commemorativa in suo onore. Gli alunni, impegnati nell’alternanza
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scuola-lavoro, hanno recitato, con passione, alcune sue significative poesie. Sono intervenuti: la Dirigente Scolastica Cinzia Maria Guida; il Prof. Francesco D’Episcopo, docente presso L’ università Federico II di Napoli; il Preside Basilio Fimiani; il Pittore Nicola Della Corte; la Professoressa Concetta Rescigno, nipote del poeta; la moglie del poeta, Sig.ra Lucia Pagano; il nipote del poeta, Dott. Antonio Massimiliano Romanelli; la giornalista Luisa Trezza, assessore alla cultura; alcuni docenti del liceo B. Rescigno. A conclusione della cerimonia, alla moglie del poeta è stata donata una targa celebrativa. *** EVENTO A FAVORE DI MICHELE RANCHETTI - Mi sono profondamente legata a Michele Ranchetti, a questo protagonista severo, critico, onesto ed intransigente, a partire dal suo impegno per far conoscere al pubblico italiano un testo assolutamente eccezionale, 'Jacon Taubes, Escatologia Occidentale, Prefazione di Michele Ranchetti, Garzanti, Milano,1997, testo che, preso a prestito dalla Biblioteca Bertoliana di Vicenza, mi sono ricopiato ed annotato interrompendo il tempo in isole di profondità, lavorando ore ed ore, per mesi interi, quasi un impegno morale come è richiesto a chi, maschio ebreo, ha il dovere di ricopiare o di farsi ricopiare a pagamento tutti i libri della Torah. Dopo questa incredibile missione interiore e concreta ad un tempo, mi sono accorta del prefatore, di Michele Ranchetti appunto. Da qui in avanti la fascinazione intellettuale permane. Michele Ranchetti (1925-2008), milanese di nascita, fiorentino di adozione e per tradizioni familiari, ha attraversato il Novecento avendo nella mente e nelle vene la libertà di pensiero come pensiero stesso, come principio ed obiettivo, da perseguire in parole rese degne di rappresentarla, nella storia individuale e collettiva. Allora l'Amico Roberto Righi mi ha informato che a Firenze il giorno 2 marzo 2017, alle ore 16.30, presso la Sala Ferri del Gabinetto Scientifico Letterario 'G. P.Vieusseux, nella sede di Palazzo Strozzi, si è svolto un evento assai importante: 'MICHELE RANCHETTI: UNA MENTE MUSICALE', in occasione della donazione del Fondo appartenuto allo scrittore da parte degli eredi ed inserito nell'Archivio Contemporaneo 'A. Bonsanti', affinché sia possibile la catalogazione e l'utilizzazione di tutto il prezioso materiale per studiosi, ricercatori, appassionati della storia culturale del nostro tempo e non solo, dalla filosofia alla letteratura, dalla poesia alla mistica, dalla psicoanalisi alla filosofia del linguaggio, alla religione, alla politica, alla filosofia della storia. Questo Fondo è costituito da 171 faldoni,
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che vanno a raccogliere tutto il materiale documentario ed investigativo da lui scelto ed utilizzato nel corso di tempi lunghi, legati alle sue interessanti e particolarissime attività di studioso, di traduttore, di docente di Storia della Chiesa all'Università di Firenze, di poeta, di disegnatore e di grafico, di curatore e promotore editoriale per Boringhieri, Adelphi, Quodlibet. A me interesserà la sua corrispondenza con amici e protagonisti contemporanei, di grande rilievo storico ed intellettuale. Dopo il saluto dei responsabili dell'evento Gloria Manghetti, Andrea Cecconi, Diana Toccafondi, Sergio Givone ha introdotto e coordinato gli interventi che hanno dettagliato complessi aspetti della vita e della personalità di Michele Ranchetti: Gianfranco Bonola 'Ranchetti e i testi: tradurre, curare, pubblicare'; Alba Donati: 'Tradurre Celan senza abbellimenti'; Marco Pacioni: 'Tempo di mezzo: la poesia nell'opera di Ranchetti'; Anna Scattigno: 'Ricordo di un Maestro'. La locandina, oltre a questi contenuti in parole, porta un'immagine essenziale dello scrittore, elaborata nel 2009 dal figlio Sebastiano Ranchetti ad un anno dalla sua morte, in pochi colori, il volto fuso con lo sfondo bianco ed in rilievo per via degli occhiali, neri appunto, solo per via di questi, sospesi nel 'quasi vuoto' da segni, e per via delle braccia raccolte dietro la testa, a sostenerla in atteggiamento rilassato e pensoso ad un tempo, braccia formate da poche variazioni di verde, in pieghe, giacca indossata su camicia in variazioni del blue, vuoti i bottoni, come lo sfondo, le due dimensioni piatte a prender vita e vitalità nelle nostre rappresentazioni dell'uomo. Grazie, Sebastiano. Ilia Pedrina
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*** ATTIVITÀ DELL’ASSOCIAZIONE PETER RUSSELL - L’Associazione Peter Russell - c/o Comune di Castelfranco-Piandiscò - Piazza Vittorio Emanuele 30 - 52026 Castelfranco di Sopra (AR) creata, dopo la scomparsa del grande poeta, non solo per onorarlo, ma per conservare e studiare il suo enorme lascito letterario, ha portato avanti, finora, numerose iniziative. Eccone un breve elenco, a partire dal dicembre 2016, a firma del suo Presidente Dott. Leonello Rabatti: il 3 Dicembre 2016 è stato nominato il nuovo direttivo dell’Associazione, adesso costituito dal presidente, Leonello Rabatti; dalla vice-presidente, la figlia del poeta, Sara Russell, il cui contributo è ovviamente prezioso e fondamentale per proseguire l’opera di conservazione e valorizzazione del lascito letterario del padre; dal giovane studioso, laureato in storia e laureando in Scienze archivistiche e biblioteconomiche, Andrea Guerri, già da tempo nostro collaboratore; da Marco Prina, marito di Sara Russell e studioso di letteratura italiana; dal Professor Anthony Leonard Johnson, che è stato intimo amico e sodale del nostro poeta, nonché autore di saggi fondamentali sulla sua opera. Il rinnovamento si è reso necessario per cercare di dare maggiore impulso e respiro ai nostri progetti, che richiederanno d’ora in avanti indubbiamente un maggiore impegno ed un’ organizzazione più articolata. Il giorno 4 Febbraio 2017, con l’aiuto del personale del Comune e di alcuni amici volontari, è stato effettuato il trasferimento dell’archivio Russell dall’ISIS “B. Varchi” di Montevarchi, nei locali del palazzo comunale di Castelfranco di Sopra. Il materiale si trova adesso nelle condizioni ottimali per iniziarne lo studio e l’investigazione. Si tratta di un primo, importantissimo passo per recuperare il patrimonio letterario del poeta alla disponibilità della comunità locale e delle sue istituzioni. Rimane il problema di trovare un’adeguata collocazione sul territorio alla biblioteca, formata da oltre 9.000 libri, che attualmente continua ad essere conservata presso i locali del liceo. Andrea Guerri, il giovane studente e nuovo membro del direttivo dell’Associazione, sta iniziando la sua tesi di laurea in Scienze archivistiche e biblioteconomiche sull’archivio Russell. Il suo lavoro porterà un valido contributo alla conoscenza e all’ organizzazione del prezioso materiale, una selezione del quale potrà essere oggetto di esposizione e di pubblica fruizione, secondo modalità e progetti che verranno opportunamente articolati, non appena saremo in grado di valutare i risultati dell’ indagine in corso. Questo rinnovamento, unitamente alla ritrovata disponibilità dell’archivio, hanno consentito e
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stanno consentendo di svolgere un’attività su piani diversi e paralleli. Il giorno 29 Ottobre 2016, nella Sala Consiliare “G. La Pira” di Piandiscò, è stato presentato il libro “La vita come poesia. Peter Russell e il Pratomagno”, curato dal Presidente dell’Associazione, Leonello Rabatti. L’iniziativa ha avuto un buon esito ed ha fatto registrare una buona partecipazione di pubblico, non solo locale. Il musicista Giorgio Rossini ha presentato alcuni brani creati su testi russelliani, assai apprezzati. La figlia del poeta, Sara Russell, ha portato la sua testimonianza personale. Il libro, finanziato dal Comune di Castelfranco- Piandiscò è già distribuito a molti soci e conoscitori dell’opera di Russell. Il giorno 17 Febbraio, presso la la Biblioteca “Marsilio Ficino” di Figline Valdarno, si è svolto l’evento “Io nacqui per navigare la brezza Omaggio a Peter Russell”, organizzato dalla nostra Associazione assieme alla Biblioteca. All’ iniziativa hanno aderito alcuni poeti e scrittori, locali e non, amici o conoscitori di Russell, che hanno proposto letture di testi russelliani e testimonianze personali, assieme a Sara Russell, la figlia del poeta. A completare l’evento, sono stati proposti video e immagini del poeta e dei suoi luoghi di vita. Il gruppo Delle due luna trio ha accompagnato musicalmente i vari momenti della manifestazione. Alla fine di Marzo 2017 è stato pubblicato il libro “Le poesie di Manuela”, un volumetto a tiratura limitata, in 100 esemplari numerati, a distribuzione gratuita, contenente un’edizione bilingue dei sugge-
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stivi testi russelliani, in una traduzione rivisitata dalla figlia del poeta, Sara Russell. All’interno due saggi di Sara Russell e di Leonello Rabatti. L’ iniziativa editoriale si deve ad un amico di Russell, Fabrizio Orlandi, ed alla sua piccola ma attiva casa editrice, “La Linea dell’Equatore”, che propone testi molto curati e di pregevole qualità. Si può aderire all’Associazione Peter Russell versando la quota annuale di € 25. Ecco come contattarla: info@peterrussell.info Per informazioni specifiche ed invio di materiale informativo, la mail del Presidente è: l.rabatti@virgilio.it Cellulare: 340 7634751 (in orario serale). La figlia del poeta, Sara Russell, è disponibile al seguente indirizzo mail: s.e.russell76@gmail.com. Il sito dell’ Associazione è il seguente: www.peterrussell.info
LIBRI RICEVUTI FRANCO ORLANDINI - Altre stagioni - In copertina, a colori “Paesaggio” (cm. 14 x 7,5), opera dello stesso Autore; Prefazione di Giuseppe Manitta - Il Convivio Editore, 2017 - Pagg. 116, € 12,50. Franco ORLANDINI, poeta, scrittore, saggista letterario, è nato ad Ancona nel 1935, dove risiede. Ha conosciuto, quale insegnante, diverse località della provincia anconetana, rimanendo sempre sensibile al paesaggio naturale (montano, collinare, marittimo) e pervenendo, nella poesia e nelle prose, ad una sua idealizzazione. Collaboratore, sin dagli anni Sessanta, di periodici letterari, ha pubblicato varie raccolte di poesie, ad iniziare da “Stagioni” (1968) e riunendone una selezione in “Negli anni” (2007). Ha approfondito alcuni aspetti della letteratura dell’Ottocento e del Novecento ed ha raccolto gran parte dei saggi nel volume “Solitudine tra i poeti” (2009). Opere in prosa: “Natura e poesia” (2005), “Poeti e uccelli” (2006), “Uccelli per cento Poeti” (2016). Narrativa: “Paesaggi e figure” (2011, accresciuta 2014). Traduzioni: “Charles Guérin, Anima senza patria” (2012). Tra i Premi vinti: “Abbruzzo oggi” (1990), “Città di Avellino” (2015). Presente in biblioteche, siti letterari, internet; incluso in antologie e dizionari critici, tra cui “Storia della letteratura italiana - Il Secondo Novecento” Vol. II, Miano 1998), “Dizionario Autori Italiani Contemporanei” (Miano, 2006), “Poeti contemporanei - Forme e tendenze letterarie del XXI secolo” (di G. Manitta, 2014), “Atlante Letterario Italiano” (Libraria Padovana Editrice, 2007 - 2008). ** IMPERIA TOGNACCI - Anime al bivio - Ro-
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manzo, Prefazione di Francesco D’Episcopo, Presentazione di Giuseppe Laterza - Edizioni Giuseppe Laterza, 2017 - Pagg. 256, € 20,00. Imperia TOGNACCI è nata a San Mauro Pascoli. Vive a Roma, dove si è dedicata all’insegnamento. Sempre lusinghieri gli apprezzamenti sulle sue opere da parte di critici di chiara fama. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti e premi nazionali ed internazionali. E’ inserita in testi di storia della letteratura, di critica letteraria e in numerose antologie, ed è stata recensita su Riviste letterarie, quotidiani e periodici. Ha pubblicato, tra poesia, romanzi, saggi: “Traiettoria di una stelo” (2001), “Giovanni Pascoli, la strada della memoria” (2002), “Non dire mai cosa sarà domani” (2002), “La notte di Getsemani” (2004), “Natale a Zollara” (2005), “Odissea pascoliana” (2006), “La porta socchiusa” (2007), “Il prigioniero di Ushuaia” (2008), “L’ombra della madre” (2009), “Il lago e il tempo” (2010), “Il richiamo di Orfeo” (2011), “Nel bosco, sulle orme del pastore” (2012), “Là, dove pioveva la manna” (2015). Nel 2014, Luigi De Rosa pubblica il volume “Imperia Tognacci e i suoi poemi in poesia e in prosa. Saggio monografico sull’opera della poetessa e narratrice di San Mauro Pascoli”. È presente in Antologie, Dizionari ontologici, Rassegne di critica e Storie della letteratura contemporanea. Numerosissimi e importanti i Premi. ** FRANCESCO DE SANTIS - Partono i bastimenti... quando ad emigrare eravamo noi. La 1a Emigrazione Italiana in America... tra parole, musica ed immagini - CD dello spettacolo portato in scena venerdì 28 ottobre 2016, alle ore 17,30 presso l’Auditorium Ex GIL di via Milano a Campobasso, col concorso dell’Associazione Culturale Musica...mente di Mirabello Sannitico, Regione Molise, Molise Associazione alla Cultura e altri sponsor. Ideato da Francesco De Santis; interpreti: Patrizia Civerra e Aldo Gioia; musiche: Enrico Varriano, Nila; voce: Luciana Varriano; ballo: Luca Russo Simona Trivisonno. Lo spettacolo sulla Emigrazione Italiana in America ha avuto lo scopo - dichiara lo stesso ideatore e presentatore De Santis - di “rendere merito a quanti hanno avuto il coraggio di partire... e per ricordare tutti quelli rimasti con i loro sogni per sempre in fondo al mare.”
TRA LE RIVISTE IL CONVIVIO - Trimestrale fondato da Angelo Manitta e diretto da Enza Conti - via Pietrama-
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rina-Verzella 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) - E-mail: angelo.manita@tin.it; enzaconti@ ilconvivio.org - Riceviamo il n. 68 (gennaiomarzo 2017), dal quale segnaliamo: l’intervista di Guglielmo Manitta a Sonia Calvari, dirigente di ricerca presso l’INGV di Catania sui segreti di “Etna e Stromboli: due tra i vulcani più monitorati della terra”; “Pero Jahier e la sua umana poesia”, di Franco Orlandini; “Brandisio Andolfi, Per una conoscenza breve e sommaria della figura di tre umanisti campani. Giannantonio Campano, Elisio Calenzio, Luigi Tansillo”, di Salvatore D’Ambrosio; “Castelnuovo al Volturno, nella fase che precede la rappresentazione del Cervo”, di Antonia Izzi Rufo; “Alessandra Cinardi Vita e il libro dei morti”, di Angelo Manitta; le schede su pittori di Enza Conti; poesie di Giovanna Li Volti Guzzardi e Loretta Bonucci; recensioni a firma di: Giuseppe Manitta, Enza Conti, Antonia Izzi Rufo, Maristella Dilettoso (p. e., su Aspra terra e creazione fertile nell’opera di Domenico Defelice, di Aurora De Luca), Domenico Defelice (su Ombre e luci di Lina D’Incecco), Anna Aita (su Totò e Pinocchio, di Aldo Marzi), Orazio Tanelli eccetera. Allegato, il n. 34 di CULTURA E PROSPETTIVE (gennaio-marzo 2017), di pagg. 176, con la partecipazione di: Fabio Russo, Angelo Manitta, Giuseppe Rando (“Corrado Calabrò: la vita nuda e l’illimite”), Franco Orlandini, Claudio Guardo, Domenico Cara, Aldo Marzi, Giovanni Tavčar, Carmen De Stasio, Plinio Perilli, Silvana Del Carretto, Raffaella Iacuzio, Pippo Virgillito, Vittorio Verducci, Luigi Mazzella, Carmine Chiodo (“Mario La Cava, Corrispondenza dal Sud Italia, a cura di Gaetano Briguglio”), Carmen Moscariello, Lucia Stefanelli Cervelli, Giuseppe Manitta, Franca Alaimo, Pietro Nigro, Maria Gargotta, Carmelo Torrisi eccetera. * FLORILEGE - Trimestrale di creazione letteraria e artistica, redazione: Stephen Blanchard - 19, allée du Maconnais 21000 Dijon, Francia - aeropageblanchard@gmail.com ; riceviamo il n. 166, marzo 2017 (inviatoci dal poeta Ferruccio Brugnaro, che vi figura con una sua poesia nella traduzione di Béatrice Gaudy). Numerose le rubriche, poesie, riproduzioni di pitture, chiare foto a colori e in bianco e nero. Una bella rivista, che segnaliamo con piacere ai nostri lettori. * SOLOFRA OGGI - La Voce di chi non ha voce, direttore Raffaele Vignola - via A. Giannatasio II trav. 10 - 83029 Solofra (AV) - E-mail: solofraoggi@libero.it - Riceviamo il n.4, aprile 2017.
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Giugno 2017
LETTERE IN DIREZIONE Da Roma, Emerico Giachery, di Roma, il 12 maggio 2017: Carissimo, poco dopo averti mandato la mail con l'allegato, mi è stato consegnato il numero di maggio della tua rivista. Sono molto lieto che a un caro, dottissimo, sempre generoso e umano collega come Barberi Squarotti sia stato dato in essa adeguato spazio. Nel presentare Giannicola Ceccarossi, ieri sera, ho voluto brevemente ricordare Barberi Squarotti. Con Marina abbiamo fatto subito amicizia e molto conversato di musica e di comuni amici, tra ottimi fritti, fiori di zucca, baccalà e vino dei Castelli, in una simpatica pizzeria, poco distante dalla casa di Via Rimini dove sono nato ottantotto anni fa. Ho a Torino un figlioccio, Giangiorgio Satragni, che è un bravissimo musicologo, e così ho saputo che Marina e lui hanno recentemente collaborato per un libro su Mozart in Italia. Auguri per questo bel numero di "Pomezia-Notizie", impregnato della luce del maggio. Quanto allo sciopero dei mezzi di trasporto, gli scioperanti avevano ragioni da vendere: sembra che da due mesi non ricevessero lo stipendio. Nonostante il disagio che ci ha procurato lo sciopero, sono pienamente solidale con i lavoratori che l' hanno promosso. Per quanto riguarda gli incontri e i comuni amici e maestri, la rete che si tesse con essi, anche soltanto con la memoria, è una rete di luce e di senso del vivere. Il mondo è piccolo, e ciò a volte e una fortuna ("le monde est petit, parfois heureusement", mi disse infiniti anni fa un diplomatico belga, con un breve sorriso su quel parfois). Anche tu tessi una viva rete con la tua rivista. Viva tutto ciò che unisce nel positivo, nella cultura, nell'amicizia ( a proposito, saluterò per te Ceccarossi), nell'amore! Un abbraccio da Emerico Carissimo Emerico, la tua lettera è la dimostrazione della tua at-
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tenta lettura del mio mensile. Ne sono orgoglioso, anche perché so bene che non tutti lo facciano allo stesso modo. A un personaggio del calibro di Squarotti, che ha dominato il mondo culturale e non solo italiano per più di cinquant’anni, Pomezia-Notizie non poteva non dare particolare risalto. Di lui conservo gelosamente parecchie lettere, 35 delle quali, nel 2009, ho donato, su richiesta, alla Biblioteca Comunale di Pomezia e oggi fanno parte del Fondo defelice di quella struttura, assieme ad altro materiale librario e documentario. Marina Caracciolo di Squarotti è stata allieva ed è anche per questo che le ho commissionato l’articolo di apertura per ricordare ai nostri lettori e collaboratori il grande poeta e critico. Mi sarebbe piaciuto essere presente alla presentazione, tua e di Marina, del volume di Giancarlo Ceccarossi. È vero, gli scioperanti non avevano tutti i torti; ma il loro è un servizio pubblico e, astenendosi dal lavoro, hanno leso il diritto a tanta gente di viaggiare, di spostarsi senza eccessive difficoltà. Veramente non so quando si potrà ripresentare un’ altra occasione del genere, nella quale avrei potuto incontrare e abbracciare due amatissimi amici come te e Marina. Ecco perché, pur giustificandoli, il mio cuore protesta. Pomezia-Notizie il prossimo luglio compirà 44 anni. Veramente una rete solida e vasta di amicizie e di affetti nel nome della Poesia e della Cultura in genere; che unisce non solo “con la memoria”, ma nella concretezza, portando ogni mese per il mondo il frutti dell’ ingegno di tanti valorosi collaboratori; una bella ed affiatata palestra; una famiglia grande, cementata dall’amore. Grazie, caro Amico, a nome di tutti i lettori. Domenico *** Da Torino, il 19/05/2017, Marina Caracciolo: Carissimo Domenico, grazie del numero di maggio di PomeziaNotizie. Ti sono molto grata per il rilievo
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che hai voluto dare al mio articolo in ricordo di Bàrberi Squarotti, mettendolo in copertina. (Nonché l'articolo su Perutz che è stato molto apprezzato). Ho letto anche il tuo articolo su Bàrberi: sono perfettamente d'accordo con te sulle riserve circa le sue poesie. In verità, la sua insistenza sulla bellezza di procaci donne spesso molto "nude" anche se non volgari alla fine stanca. Chissà, forse per alcuni è una sorta di compensazione contro la vecchiaia che avanza... Mi ricordo che Giacomo Puccini, ormai in là negli anni, mandando a un suo amico una cartolina stile belle époque che rappresentava una bella donna, molto formosa, totalmente senza veli, scriveva nel retro della cartolina: "Eh!... noi ormai possiamo solo lustrarci gli occhi!...". Ecco, forse Bàrberi si lustrava gli occhi, magari anche con un po' di ironia. Tuttavia ti confesso che non leggerei mai le 2400 pagine circa che Gros-Pietro ha pubblicato, al modico prezzo di 120 euro (80 per chi lo acquista in Fiera!). Per conto mio lui conta come grande critico e storico della letteratura. In quanto alla Lenisa, penso che volesse appunto farle una critica (anche il suo insistito ed esagerato - benché trasfigurato - erotismo stancava) mascherandola da apprezzamento. E la Lenisa avrà senza dubbio capito!... Un caro abbraccio Marina Marina Carissima, sarebbe stato indelicato, dopo averti commissionato il pezzo su Squarotti, non dargli adeguato rilievo. Data, poi, la levatura del personaggio, era giusto ci fossero altre voci, come quella dell’illustre e caro Luigi De Rosa. Ovviamente, sono contento che tu ti trovi d’ accordo sul mio giudizio circa la sua poesia. Non è facile, oggi, mantenersi in quel ch’ esprimeva il Manzoni col suo “vergin di servo encomio/e di codardo oltraggio” e ad alcuni quel mio sincero giudizio non è andato giù, perché, avendo ricevuto, nel corso degli anni, qualche sua generosa quanto generica lettera - abituato com’era a
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rispondere a tutti coloro che gli inviassero libri di qualunque genere e contenuto -, non riescono a leggere con attenzione e guardare nel profondo degli scritti; in altri termini: quelle lettere generiche son diventate, per loro, autentiche fette di prosciutto, con le quali si son coperti gli occhi della mente. A me non sembra che la Lenisa abbia preso l’ affermazione di Squarotti - quella di aver confezionato, con i tanti volumi di poesia erotica, l’enciclopedia del sesso -, come una “critica” “maschera[ta] da apprezzamento”. Dopo una lunga telefonata sul tema, che lei riteneva alquanto disturbata, il 28 aprile 1984 le scrivevo tra l’altro: “a me sembra che lo stesso prefatore, con l’aria di lodarti, ne metta in evidenza un aspetto negativo quando scrive, praticamente, che tu, con questo tuo nuovo volume di versi, hai voluto fare un vocabolario dell’erotismo, quando scrive che tu hai voluto concretizzare “il desiderio di esaurire tutto l dicibile” e che esso si pone “come fine ultimo quello di costituirsi come la biblioteca della Babele erotica ed esistenziale”. Le sue risposte? Tutte e sempre forvianti, perché lei era per l’elogio, non per la critica. È che Squarotti e Lenisa in certi aspetti si somigliavano e si completavano; lei verbalmente più audace e allusiva di lui; entrambi saldamente stretti nella pania del sesso virtuale. Squarotti mi confessava di aver incontrata personalmente la Lenisa una sola volta; fra loro, insomma, non ci sono stati mai frequentazioni assidue e convegni, come ammicca qualche malpensate, ma entrambi si sentivano fortemente attratti dallo stesso tema ed entrambi godevano nel dipingere certi atteggiamenti e certe scene. Non conosco di Squarotti, ma la Lenisa, spinta nella parola e nella finzione, era, nella realtà, nei fatti, nei comportamenti, di una onestà assolutamente inossidabile, granitica. Niente, assolutamente niente di ciò che si può immaginare leggendo i suoi versi. Anche a te un caro abbraccio. Domenico
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Giugno 2017
FRANCESCO POLVERE DI DIO L’opera teatrale Francesco polvere di Dio, scritta e interpretata da Gabriele Riccardo Tordoni, data a Roma e in molte altre città, è ritornata nella Capitale, ad opera dell’ Associazione La Scuola del Fare, la sera del 30 maggio 2017 presso il Teatro della Parrocchia Regina Pacis - via Marzio Quadrio 21, quartiere di Monteverde Vecchio. Oltre l’attore Tordoni, ad esibirsi con chitarra sulla scena è stato Paolo Ceccarelli, al quale in gran parte si debbono le musiche. Il lavoro ha avuto ovunque gran successo e ne sono testimoni giudizi positivi di Fratel Alvaro Cacciotti, per esempio, Fratel Luigi Peruzzo (“Forma esile, francescana si direbbe appunto, ridotta all’osso; musica di chitarra amica a sottolineare momenti e passaggi, alcuni dei quali di grande efficacia”), Padre Pierbattista Pizzaballa (Custode di Terra Santa), Mauro Bertin (“Le parole di e su San Francesco che tutti conoscono, vengono ripulite di ogni stereotipo. Suonano come nuove, come mai udite, svelando un’inedita energia e producendo un forte impatto emotivo”) eccetera. Gli spettatori sono affascinati, a tal punto da sentire il bisogno di condividere. È il caso di Luciana Vasile, la quale, dopo aver affermato che “Francesco polvere di Dio” “è un’opera straordinaria e singolare, da vedere e divulgare”, invita conoscenti e amici e scrive loro interessanti lettere. “E (...) un invito (...) a chi sia interessato all'ascolto. Per farvi comprendere meglio il mio entusiasmo - sono una laica non praticante - e il senso dello spettacolo, allego la lettera al Prof. Rossi (...) e poi la lettera al mio amico missionario Mario il Piccolo Fratello di Foucauld, tutto parte da lui. I due scritti, di circa un anno e mezzo fa quando avevo sperato di poter fare qualcosa per rappresentarlo a Roma, riportano le riflessioni delle due volte che ho visto lo spettacolo. (...) Io vi assisto per la quarta volta,
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spero vivamente di vedervi. I miei più cordiali saluti Luciana Vasile”. Ed ecco, di seguito, le due lettere: Gentile Professore Tonino Rossi, qualche giorno fa sono stata a Gubbio a trovare il mio grande amico Mario Sabato missionario dei Piccoli Fratelli di Foucauld: è in Italia per il capitolo dell’Ordine. Lui vive in Messico a Ciudad Hidalgo nella Comunità che ho progettato per loro ca cinque anni fa. Mario è l’Esempio, è colui che, senza conoscerlo personalmente, tredici anni fa, attraverso un passa parola di quattro persone (che io chiamo la catena dell’amore), mi diede l’opportunità di concretizzare il sogno che avevo da sempre negli spazi più reconditi del cassetto dell’anima e cominciare il cammino nella solidarietà offrendo aiuto volontario come architetto in Nicaragua. Cosa che continua anche oggi. Ora, motivo di questo mio messaggio a te, come leggerai meglio nella mia lettera a Mario incollata qui sotto, è il profondo stupore suscitato in me dopo aver assistito, quel giorno a Gubbio, alla pièce teatrale “Francesco polvere di Dio” di e con Riccardo Tordoni. Un monologo da mattatore. Quando ho pensato che questa opera sorprendente e singolare fosse meritevole di essere conosciuta, replicata anche a Roma, mi sei venuto subito in mente tu con le tue straordinarie capacità di catalizzatore nella cultura, la tua curiosità che è sempre intelligenza, la tua attività sostenuta da quell’ entusiasmo contagioso per chi ti sfiora. Dal mio scritto spero si possa capire ed entrare nell’atmosfera della quale mi sono nutrita, complice l’arte espressa nelle antichità del piccolo centro umbro che dialogano con la verdissima natura. Se potesse interessarti l’idea potremmo parlarne, potremmo anche andare insieme a Gubbio giovedì 3 settembre quando replicheranno, etc. etc. Fammi sapere, il mio cellulare lo conosci. Che la notte sia buona con te luciana
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Giugno 2017
Caro Mario, sono io a ringraziarti per avermi invitata a Gubbio insieme alla Grande Comunità dei Piccoli Fratelli uniti e supportati da tante famiglie che da lunghi anni vi seguono in quel cammino – come tu dici – di LUCE BENE AMORE. Il viaggio Roma-Gubbio-Roma nella stessa giornata, lungo e variato di trenobus-piedi, non mi è affatto pesato. Leggera quella gioia che mi ha accompagnato nell’attesa e nelle aspettative dell’andata, nelle riflessioni del ritorno. Se avessi avuto bisogno di conferme questa è stata l’ultima in ordine di tempo. Il vostro mondo, quello della solidarietà, dell’apertura all’Altro, dove il Condividere diventa miracolo: moltiplica la gioia, divide la sofferenza, è ormai l’unico mondo nel quale, ogni volta, è come se tornassi a casa (mi succede anche quando vado in Nicaragua, o parlo e mi attivo per gli abitanti di quel paese). Tocco e riconosco la mia vera essenza interiore. Spazio della mente, del cuore, dell’anima che si fondono nello scintillio dei vostri sguardi, nella luce dei vostri sorrisi, in vera e autentica serenità pur nelle personali, chissà, lotte interiori ma che non arrugginiscono l’anima ma semmai la lubrificano dando continui significati al vostro agire. Non serve quasi parlare c’è solo da mettersi in ascolto attraverso i sensi. Un silenzio pieno di sentimenti profondi e di desiderio, passione nell’azione. Coronamento, oserei anche dire sottolineatura, dell’atmosfera della bella giornata di domenica scorsa, lo spettacolo su Francesco d’ Assisi dello splendido autore-attore Riccardo. La sua rappresentazione, alla quale purtroppo ho potuto assistere solo nella prima parte orari di treni che non contemplano altri tipi di “viaggi” -, mi ha colpito profondamente nei testi e nel modo di stare sul palcoscenico dell’artista. Nelle parole, nei gesti, nel sudore di anima e corpo, qualcosa di mistico e spirituale nell’essere (ex-sistere=stare fuori), durante tutto il suo racconto, nel continuo eterno presente della realtà vissuta - l’unico che abbia valore, che conti - che moltiplica se
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stesso nei secoli e compone la Storia. E allora quella LUCE, quel BENE, quell’ AMORE che nella mattinata avevo sfiorato insieme a voi, in voi, le ho ritrovate intatte, descritte mirabilmente da Riccardo e dal suo pathos di essere umano, dal suo "modus recitandi", nel suo centrarsi in sé come suggeriva Francesco con la sua con-versione= cambiamento di direzione. Ha avuto la capacità di farci vivere pienamente l’apertura di Francesco agli esseri tutti, senza distinzione, animati e inanimati, ma pieni di vita seppur in quella sofferenza che apre gli occhi, perché in lei misuriamo noi stessi, e che si trasforma in gioia. TUTTO UGUALE A PRIMA. TUTTO DIVERSO DA PRIMA. Grazie a quel raggio che illumina da un nuovo punto di vista tutte le cose e che ci permette di ascoltare da dentro il creato (obbedire). Come mi piacerebbe che Riccardo potesse venire a Roma con il suo lavoro... è più bravo e più simpatico di Benigni! Sarebbe bello mettermi in contatto con lui e vedere se fosse possibile organizzare una serata in un teatro romano. A te un abbraccio grande e riposati un po’ luciana” “Caro Mario, esattamente una settimana fa, in un giornata romana splendente di sole, in uno spazio ubicato sullo straordinario alto colle Palatino, che sopra ogni cosa domina l’ antichità dei fori romani e la sua storia, si è svolto l’altrettanto straordinario spettacolo “Francesco polvere di Dio”. Lo spazio, il luogo (la Chiesa di S. Bonaventura), il non-spettacolo, fermi e sospesi in un tempo che andava dal medioevo ai giorni nostri. Si è per me replicato il miracolo che avvenne a Gubbio, quando per la prima volta partecipai alla rappresentazione di e con Riccardo Tordoni, così bene accompagnato dai suoi collaboratori di voce e strumento nella melodia della musica. Allora non potei restare fino alla fine, questa volta ne ho goduto lo sviluppo fino in fondo, fino ad una commozione profonda che ha
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pervaso la mia anima senza riuscire a trattenere le lacrime che ne evidenziavano la presenza nella realtà. Mettere in atto, seguire, come ci suggerisce Riccardo attraverso Francesco d’Assisi, abbandonarsi, magari per un attimo, alla passione=passività, facendosi trasportare dal comprendere finalmente quella Conversione dettata dal volgere lo sguardo con decisione verso le profondità di se stessi. E’ tutto così semplice, senza la complicazione della ragione che organizza. Liberi nell’Universo= Verso Uno. Liberi di essere scelti, spossessati. Solo dal totale abbandono possono scaturire le emozioni, unica verità, perché tutto ciò che ha senso è invisibile. Svegli: Ascoltare, Attendere. Questo è ciò che è successo anche al prof. Antonio Rossi che avevo invitato alla rappre-
sentazione, il coinvolgimento. Si era potuto trattenere, per causa di forza maggiore, solo per una parte del primo tempo, ma vista la mia insistenza non aveva voluto perdere l’occasione, e quindi è stato molto poco, tempo ugualmente sufficiente a dirmi il giorno dopo per telefono: - Hai ragione, è veramente qualcosa di originale e singola-
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re. Tutto perfettamente in armonia, parole, voci, musica. Tutti bravi. Cercherò di rappresentarla a Roma nel nuovo teatro che stiamo allestendo come FUIS (Federazione Unitaria Italiana Scrittori della quale lui è il Presidente), anche se non so dirti che tempi ci saranno ancora per terminare i lavori di ristrutturazione già in atto -. Mi chiedeva poi che costi avrebbe avuto e io mi sono permessa - visto che la FUIS è un’organizzazione non a scopo di lucro, a noi iscritti non viene richiesta neanche una quota associativa –, di dire che pensavo, intanto per la prima volta, di riconoscere alla Compagnia un rimborso spese... poi vediamo che sviluppo potrà avere. Perché, a mio avviso, è qualcosa di talmente nuovo ed eccezionale, che ha bisogno di essere messo in circolo e di essere conosciuto sempre di più, e questo, lo so, potrebbe comportare sacrifici e impegno da parte di tutti. Ma ne vale veramente la pena. Ti terrò a corrente degli sviluppi, ti abbraccio forte luciana” Ci scusiamo con i lettori per la lungaggine, ma abbiamo ritenuto necessario rendere pubblici simili entusiasmi, entusiasmi di spettatori, gli unici che possono attestare la validità di un testo teatrale. D. Defelice *** Padre Pierbattista Pizzaballa, dopo aver dichiarato che: “Trovo noiose, ideologiche o edulcorate molte biografie su Francesco” e mentre si recava a Greccio per assistere allo spettacolo di Todini pensava: “Quale versione ci propineranno, mi dicevo. Il San Francesco” che ammansisce il lupo o il
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AI COLLABORATORI
“pacificatore con il creato, quello che parla con gli animali e canta e balla; oppure il santo più o meno indirettamente contestatore dei massimi sistemi; o quello tutto mistico e devoto”..., conclude convinto: “Lo spettacolo è stato una piacevole smentita dei miei pregiudizi”. Dice l’autore-attore Riccardo Tordoni: “Raccontare la storia di Francesco per me significa, sostanzialmente, metterla in relazione con la mia vita, e, in questo processo, sperare che entri in relazione anche con la vita di altre persone. A tale scopo lo strumento che utilizzo per seguire la vita di Francesco più attentamente possibile è il presente. Non ho a disposizione un testo fisso e imparato a memoria ma un canovaccio. Questo mi consente di stare sempre all’erta, di poter intervenire costantemente e al presente su ciò che racconto e di scoprire aspetti nuovi nell’atto stesso della narrazione. Lo studio continuo delle Fonti Francescane e delle infinite biografie è così intimamente intrecciato al momento comunitario, ovvero al rituale teatrale. La storia di Francesco è raccontata da me per quanto riguarda la parola detta e letta, e da Paolo Ceccarelli, chitarrista che esegue brani da lui appositamente composti, per quanto riguarda la musica”.
Le foto sono di Victoria Conforto.
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