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Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale 70% - DCB - ROMA Anno 25 (Nuova Serie) – n. 8 - Agosto 2017 € 5,00

LA VITA COME POESIA

PETER RUSSELL E IL PRATOMAGNO di Domenico Defelice N quaderno di grande interesse, questo di Leonello Rabatti1, che riporta l’attenzione degli studiosi e dei lettori appassionati di poesia sul grande letterato inglese che ha scelto di vivere gli ultimi anni della sua intensa vita nella magia e nello splendore della campagna di Pian di Scò, in provincia di Arezzo. Peter Russell nasce a Bristol il 16 settembre 1921 e muore il 22 gennaio 2003 presso l’ospedale “La Gruccia” di Montevarchi-San Giovanni Valdarno. Giovane, si trasferisce a Londra, ove gestisce una libreria-stamperia nel sobborgo di Soho, attività che fallisce per le tante tasse da pagare e per gli scarsi introiti. Dal 1949 al 1956 dirige e stampa la rivista Nine, da lui fondata, sulla quale ospita, accanto a suoi lavori, quelli dei maggiori poeti e scrittori del tempo, tra cui Santayana, Fraser, Bain, Scott-Kilvert, Barker, Hamburger, Porteus, Soper, Fletcher, CarneRoss, Madge, Middleton, Gorell eccetera, compreso Ezra Pound - in quegli anni rinchiuso in manicomio negli USA -, del quale scrive e approfondisce la conoscenza, fino a

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All’interno: Pirandello a 150 anni dalla nascita, di Luigi De Rosa, pag. 8 Silone, Vannini e le dimissioni dell’ultimo Papa, di Giuseppe Leone, pag. 10 Odori, sapori, suoni, stili, di Noemi Paolini, pag. 13 Lionello Fiumi e i Dialoghi di Lanzo, di Ilia Pedrina, pag. 16 Francesco, Polvere di Dio, di Luigi Celi, pag. 19 XXVII Edizione Città di Pomezia 2017 (risultati e materiali di: Corrado Calabrò, Antonio Crecchia, Lina D’Incecco, Filomena Iovinella, Giovanna Li Volti Guzzardi, Mariagina Bonciani, Imperia Tognacci, Elio Caterina, Giuseppe Cosentino, Franco Orlandini, Caterina Felici, Anna Vincitorio, Isabella Michela Affinito, Luciana Vasile, Anna Aita, Maria Assunta Oddi, Elisabetta Di Iaconi, Paolangela Draghetti, Antonia Izzi Rufo, Emerico Giachery, Ilia Pedrina, Antonio Visconte), pag. 23 - 54 Renato Cammarota e la sua poetica, di Anna Aita, pag. 55 Il Quaderno di LietoColle, di Pasquale Montalto, pag. 56 I Poeti e la Natura (Bruno Rombi), di Luigi De Rosa, pag. 58 Notizie, pag. 70 Libri ricevuti, pag. 75

RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (Salvatore Porcu, di Tito Cauchi, pag. 59); Isabella Michel Affinito (Ettore Malosso, di Tito Cauchi, pag. 60); Anna Aita (Mythos Il fascino del mito antico, di Antonio Crecchia, pag. 62); Elio Andriuoli (Auguste Papon il re degli impostori, di Roberto Beccaria, pag. 62); Tito Cauchi (Insolite composizioni, di Isabella Michela Affinito, pag. 63); Antonio Crecchia (Anime al bivio, di Imperia Tognacci, pag. 64); Antonia Izzi Rufo (La danza delle stelle, di Antonio Angelone, pag. 65); Rossano Onano (D’in su la vetta della torre antica, di Giuseppe Leone, pag. 66); Laura Pierdicchi (Parole ricercate, di Pasquale Montalto, pag. 67); Liliana Porro Andriuoli (I fantasmi sono innocenti, di Maria Gargotta, pag. 67).

Lettere in Direzione (Ilia Pedrina), pag. 76

Inoltre, poesie di: Elio Andriuoli, Mariagina Bonciani, Piera Bruno, Fiorenza Castaldi, Rocco Cambareri, Manuel García Centeno, Luigi De Rosa, Elisabetta Di Iaconi, Enrico Ferrighi, Giovanna Li Volti Guzzardi, Adriana Mondo prendersi a cuore la sua sorte difficile e battersi perché venisse liberato. Il periodo londinese è importante per la produzione di scritti e la direzione della rivista, ma anche per la creazione di un personaggio complesso, nel quale egli si identifica per carattere e attività letteraria: Cittinus Aurelianus Quintilius, detto per disprezzo Stultus. Quintilius e Russell, da questo momento, saranno sempre lo stesso soggetto, avranno gli stessi interessi, vivranno la stessa vita, tra-

vagliatissima anche in fatto di religione. Quintilius-Russell parte, infatti, dall’ adorazione degli dei pagani - fede che scaturisce in lui dalla conoscenza e dall’amore per la storia e la letteratura di Roma e della Grecia, della quale Roma s’era imbevuta -, per approdare prima all’ebraismo - che fustiga fustigandosi da eterna anima inquieta - e, poi, alla religione cattolica; ma saranno sempre le ricerche, le esperienze, gli studi, le conoscenze, i contatti, ad allontanarlo anche dal cristianesimo,


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finendo nello scetticismo e, quindi, nel credere solo nella poesia, la quale diviene - come scrive Rabatti - la sua “fede assoluta”. È ancora la sua insaziabile sete di conoscenza che lo allontanerà da Londra, approdando prima in Germania (a Berlino, dal 1963 al 1965) e poi a Venezia, in Italia (dal 1965 al 1979). Pur risiedendo nella laguna veneta, quegli anni, però, sono caratterizzati da frenetico nomadismo. Trascorre brevi periodi negli Stati Uniti, va in Serbia, in Canada, in Iran, insegnando in varie e importanti università, approfondendo studi, assaporando nuove conoscenze. Anni caotici, quindi, che si distinguono per viaggi, interessi sempre nuovi e una intensa produzione letteraria. Rientrato a Venezia nel 1979, RussellQuintilius vi trascorre circa quattro anni, muovendosi, però, per ogni dove, in Italia e fuori, fino ad approdare, nel 1983, a Pian di Sco’, dove scova un vecchio mulino nella folta vegetazione, sulle sponde del torrente Resco, poi trasformato in piccola centrale elettrica, poi abbandonato: il posto lo conquista a tal punto da innamorarsene perdutamente e sceglierlo come residenza per tutto il resto della sua vita.

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Pian di Sco’ e il suo vecchio mulino coincidono con il suo intimo, si identificano con le sue aspirazioni, rappresentano la geografia del suo io, in gran parte solitario e nomade. Il vecchio manufatto, immerso nel verde, la sua rusticità al limite della non vivenza, la difficoltà nel raggiungerlo con qualsiasi mezzo se non a piedi, rappresenta una vera e propria isola, l’Eden nel quale rinchiudersi con i suoi libri, le sue fantasie, fantasmi galleggianti di continuo nelle nuvole grigie scaturenti dalla sua bocca di fumatore incallito d’Alfa e Nazionali senza filtro. Una figura minuta, la sua, vestita senza ricercatezze, “dalla folta capigliatura e dalla lunga barba bianca”, “gli occhiali dalla spessa montatura nera, i vivacissimi occhi chiari” - come ricorda Rabatti che lo ha incontrato tantissime volte -; un quasi folletto, da confondersi nella natura circostante questa sua nuova abitazione, nella quale dà sfogo al suo canto di pispola gialla. Dal 1983, fino alla morte, dunque, La Turbina sarà, per Peter Russell-Quintilius, il suo nuovo mondo, l’intero mondo. Vi uscirà solo per brevi viaggi e brevi soggiorni, in Sicilia, per esempio, a Reggio Calabria, a Roma, insistentemente e pressantemente chiamato da amici veri - che gli volevano un gran bene e che avevan di lui una gran stima -, ma più spesso da interessati alla sua figura, da sfruttare, poi, per la pubblicità delle loro velleità pseudo-poetiche; o per l’assegnazione di qualche premio, quasi sempre consistente in coppe e medaglie e targhe di vile metallo, quasi mai in denaro, di cui aveva tanto bisogno per le misere condizioni di vita, scaturite anche dal fatto che volendo essere solo poeta e studioso, aveva troncato i legami con l’ insegnamento e altro, abbandonando, cioè, ogni attività che gli avrebbe procurato i mezzi necessari a una vita agiata; accettando - come scrive Rabatti - “quindi con estrema consapevolezza lo stato di precarietà, soprattutto economica, ma anche esistenziale, che tale scelta implicava”. Nel mulino di Pian di Sco’, per anni gli è stato a fianco il figlio Peter George, che spesso lo accompagnava pure nelle sue ultime uscite. È nella Capitale che abbiamo incontra-


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to di persona la prima e ultima volta Peter Russell, il 19 dicembre 1999, al Metropol di via Principe Amedeo, alla presenza proprio del figlio. Con Peter George avevamo avuto qualche contatto epistolare marginale, per il semplice motivo che aveva accettato, suo padre consenziente, di tradurci un manipolo di poesie, poi pubblicate in un quadernetto dell’Editrice Int. Le Petit Moineau, nel 1996. Il poeta era quasi cieco e quasi sordo, camminava a tentoni, aveva voce fievole, si vedeva e si capiva ch’era stanco, non vedeva l’ ora di rientrare a Pian di Sco’. la cui casa nel verde aderiva intimamente alla sua follia poetica, nel paesaggio e nella realtà umana: “A metà strada su per la collina, A metà strada giù per la valle, C’è il mulino d’un tempo in rovina Dove le acque non mancano mai. La ruota del mulino, sì, è sparita, Un fiore cresce sul terreno; Gl’ingranaggi rugginosi non si sentono più, Ma nel silenzio - una cadenza che s’attenua Lamento trionfante - ancora e ancora Discanta sopra gli altri uccelli.” da “Il Rifugio di Russell/ Russell’s Rest”, traduzione di Pier-Franco Donovan e l’autore) Il rapporto con la gente del luogo, infatti, non è stato sempre idilliaco, né stimolante, considerato com’era un eccentrico, per non dire un quasi pazzo; la natura, invece, gli cal-

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zava a pennello, gli dava energia e contribuiva ai suoi fantasmi. C’è una sua fotografia, degli anni ’90, da Rabatti riportata a pag. 4 del suo quaderno, della quale non si capisce se si tratta di una montatura, di un doppio scatto, o semplicemente dell’umidità e del tempo che han corrotto l’immagine; in perfette condizioni son solo il viso, la barba e i capelli bianchi; una vera e propria testa di satiro, sorridente e ironico, piantata in una camicia color terra, con intorno parvenze d’alberi e cespugli... Lui si trovava bene in questo ambiente, ma è un mistero come nella selvatichezza de La Turbina potesse viverci il giovane figlio Peter George, se non legando il tutto a un immenso amore filiale. Nella natura quasi edenica di Pian di Sco’ il poeta, comunque, non è vissuto del tutto isolato. Si inserivano in essa continuamente figure reali (i tanti amici, veri estimatori e gli importuni della pubblicità, del poter dire anch’io l’ho conosciuto di persona) e fantastiche, quelle create dal suo demone poetico, come Manuela. Negli ultimi anni, Peter George viene ospitato in una casa-famiglia del Valdarno e il poeta nella Residenza Sanitaria Assistita “Brachetti-Cellai-Donati-Polverini”. La poesia di Peter Russell è ambigua e consente più di una lettura. Egli era un vero mago della parola, anzi, un “fabbro (...) che forgiava ogni genere di versi”, che sapeva impostare e amalgamare in una infinità di misture. Di quella parola che lo aveva sempre affascinato e che immaginava esplosa nel consesso degli “Dei Primordiali”: una gigantesca molecola, una “grande Urna”, i cui frantumi si sparsero, poi, all’infinito “come uno sciame d’api”, dando origine, così, agli infiniti linguaggi. Il concetto che la lingua avesse origine divina è presente più volte in Russell, in “Smoke/Fumo”, per esempio, ma anche in “La scorsa notte”. Tale parola primitiva è divenuta adulta e indipendente: “parola che creò il mondo, e che ora cammina sola”. Pratomagno - Nei versi di Pratomagno Russell non si discosta dalle precedenti sue opere. Racconta a strappi e lascia il compito a chi


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legge di raccordare una strofa con l’altra, una e l’altra pausa e, tra le pause, aprire porte e finestre per scovare il mistero e dargli luce. La frescura che l’acqua dà, mentre “si riversa sotto il lauro”, è d’accostarsi all’arsura del deserto; il poeta, che passeggia vicino alla cascatella - che immaginiamo tra spruzzi e suoni -, è “contento” e rilassato “Di sentirla mormorare/dell’estate e degli uccelli”; i Beduini, invece, sono ansiosi e smagati, perché non potranno mai godere di tale bellezza e di tale frescura; loro non si stancherebbero di fissarla come un autentico miracolo, fino a immaginarsi il deserto scomparire, rinchiudersi, in essa inghiottito. L’intensità dell’uno non è l’intensità degli altri; la contentezza del poeta è assuefazione e quasi indifferenza e non potrà mai eguagliare lo stupore e il desiderio di coloro che, un tal bene, hanno soltanto la possibilità di sognarlo. L’acqua è protagonista in più di una composizione di questa raccolta. In “Giaggioli di giugno sul Pratomagno”: le gocce, delle quali son carichi i fiori, assorbono i colori di questi e divengono splendide “Lanterne blu”, con all’interno “una piccola fiamma”, il colore del loro pistillo; è ancora protagonista manca-

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ta in “Siccità di mezzo inverno” , con la quasi morte della natura circostante: il torrente che non più scorre, la cascata prosciugata, “La gora (...) asciutta, stagnante”, le nuvole sbrindellate e vuote, le rane che tacciono; la cascatella sotto il lauro, la corrente che trascina la vacillante barchetta del poeta, appartengono al Resco, “torrente montano selvaggio come la faina selvaggia”. La troviamo pure l’acqua - ne “La Turbina” e “Il rifugio di Russell”. Tutto è selvaggio intorno a lui: erbe e piante, gli animali, i monti e il cielo, il vento, la pioggia, persino il whisky che “raspa - afferma il poeta - queste esitanti decrepite vene” e selvaggio si sente egli stesso, il suo cuore e i suoi pensieri. Ma, selvaggio, come? Abbiamo scritto che la poesia di Peter Russell è ambigua. Selvaggio ha molti sinonimi, vuol dire barbaro e bestiale, feroce e incivile e incolto, ritirato e rozzo, aspro, fiero e silvestre e via elencando. Russell non era un linguista nel vero significato del termine, ma aveva una conoscenza sopra la media non di uno, ma di diversi linguaggi. I linguaggi si evolvono, mutano come muta l’uomo e tutto ciò ora avviene assai velocemente rispetto al passato. Oggi, nel gergo comune, selvaggio va acquistando il quasi esclusivo significato di violento. Russell spesso ci giocava con i sinonimi e volutamente creava contrasti e ambiguità, altre volte spontanei, lasciando campo libero a interpretazioni diverse e, per quel che ci risulta, non respingendone alcuna. Il significato base di selvaggio è per lui vergine e primordiale, incontaminato, ma giustamente diversificandolo per i vari soggetti. Così, per whisky, per esempio, il sinonimo è aspro. I linguaggi, dicevamo, mutano nel tempo e selvaggio viene associato quasi sempre a violenza, la quale pure ha una caterva di sinonimi: forza e furia, ferocia, inumanità, brutalità, ma anche necessità, durezza, deflorazione. Anch’essa, in Russell, ha significati diversi, persino nella medesima composizione. La morte, per esempio, è necessaria e, quindi, è una violenza come durezza e come necessità; la deflorazione è pure necessaria, perché sen-


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za sverginamento non avremmo continuazione del genere umano. Il poeta raramente ci dà indicazioni, lascia a noi la scelta del termine giusto, la libertà di crearci immagini e di cercare percorsi a volte lontani dal suo reale tracciato. Ricapitolando: selvaggio, in Russell, non è quasi mai in senso di primitività esclusiva istintiva o di violenza coscientemente voluta, ma di regola della natura, tale la selvatichezza e la violenza dell’erba e della pianta che, nascendo dal seme che marcisce, spaccano la terra; degli animali che, per istinto e necessità, si mangiano fra loro; dell’uomo, che le violenze assorbe tutte e tutte pratica, compreso il piacere dell’accoppiamento con la deflorazione della propria donna; del corpo - vegetale e animale - che, imputridendo, si sfalda e diviene terra. Selvaggio, quindi, nel senso di primitività edenica, innocente, di purezza, l’ imperativo categorico presente in ogni DNA, che spinge a seguire la corrente delle norme che hanno creato e reggono l’universo. Leggi non solo terrestri, insomma - del solo nostro piccolo atomo alle quali l’uomo non sa, né può, porre, o opporre, soluzioni e rimedi -, giacché anche le stelle le seguono e le galas-

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sie, cozzando di continuo fra loro con violenza inimmaginabile, morendo e trasformandosi in una genesi perenne. “La casa in collina” - l’apparenza (le voci dei suoi abitanti, i “bambini felici”, il nonno, la coppia) e la realtà -, ci richiama La Turbina e la famiglia del poeta, nella quale, c’è sembrato - ma possiamo sbagliarci -, ci fosse poco di idilliaco. Noi volutamente abbiamo sempre tralasciato di indagare aspetti del genere, perché la condizione affettiva e sociale del poeta quasi mai ha rilevanza con la sua poesia. Viviamo, però, in un’epoca in cui la critica tende sempre più ad orientarsi sugli aspetti personali, privilegiando, anzi, quelli più pruriginosi e grassi. Non ci stupiremmo, perciò, se, un domani, qualcuno si soffermasse su Russell e la famiglia, perché il vivere in solitudine è stata, fino a prova contraria, una sua scelta, ma non si è mai spiegato fino a che punto libera. Di certo, una vita vagabonda e isolata come la sua non poteva non avere conseguenze. De “La Turbina” preferiamo mettere in risalto un aspetto tra i tanti, che ha legame con il sociale. La casa e le sue dipendenze altro non sono che “gabbie di mattoni in rovina, sgretolate e sfaldate”, del tutto simili a quelle in cui, per tanti anni (“mezzo secolo” scrive il poeta), i castori, che egli ha liberato nelle acque del Resco, sono stati allevati dalle industrie per poi scuoiarli della preziosa pelliccia. La sua casa come la gabbia e lui come i castori; lui la libertà se l’è scelta pagando un caro prezzo, i castori l’hanno ottenuta da lui e da quanti, come lui, hanno lottato perché avesse termine un tale abominevole allevamento. Russell non era uno dei tanti animalisti arrabbiati, che spesso, alla causa, rendono più danni che utili, animati come sono, nella lotta, da un inconfessato, inconscio narcisismo egoistico, quello di mettersi in mostra; la sua era la lotta solitaria e intima, profondamente sentita e sono lotte del genere che, nel tempo, fanno breccia, scardinano le coscienze, come la classica goccia che scava la dura pietra. A rilevare quanto gli sia costata la solitudine, son tante le spie: camminare solo “Nella


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fredda notte umida”; non avere intorno a sé né bimbi felici, né goderecce culinarie in abbondanza; non possedere una casa dorata “che luccica mentre il sole della sera/Cade dietro l’orizzonte”, né mansarde da raggiungere con una “scala a chiocciola”. La casa che oggi lo imprigiona è fredda materialmente e intimamente, ha intorno “erba ingarbugliata”, una “maestosa quercia”, uno specchio d’acqua che muta col mutare del cielo, “Grigio argento nel chiar di luna/ Marrone verde sotto le stelle”. Lui non porta “risentimento” alcuno verso il singolo o verso la società: si sente, ed è, tale e quale i castori e, in questa sua solitudine voluta, si muove contento, se non proprio felice, simile ai suoi cari animaletti. Dicevamo che il poeta ama creare contrasti oltre che ambiguità. Si dichiara felice, senza rancori e non è vero. Come Dante, ne aveva almeno uno e, come Dante, lo confessa apertamente. Dante ha sognato inutilmente d’ essere incoronato nel suo bel San Giovanni, da ciò l’astio verso la propria città; Russell, d’ esser considerato come ben meritava, non essere solo “il cigno morente”, e, da vivo e pieno di energie, venire chiamato, acclamato ad indossare “la corona d’alloro”. Consapevole della realtà, usava spesso anche l’ironia; covava in sé questo risentimento in particolare verso coloro che amministrano il potere e non si accorgono della sua grandezza, snobbandolo perché amava cantare in solitudine, non diciamo noi - come un Bob Dylan, che, richiamando folle sterminate nelle piazze del mondo, ha attirato su di sé quattrini a valanghe ed il Premio Nobel. Russell mirava all’ anima sua e delle cose ed era intimamente in contrasto a sua insaputa. Era veramente nemico delle folle e odiava gli encomi o desiderava le une e gli altri? Se gli altri si fossero diversamente rapportati con lui, avrebbe, forse, anche lui mutato atteggiamento, attenuato la sua critica verso gli agglomerati chiassosi e le “melodie moderne” che “Rattristano la città moderna”? La realtà è che lui alla gloria pensava ed era ben consapevole della sua grandezza, come della “umanità (che) finge incurante di non sentire” e non vedere:

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“Oggi quante persone pensano alla Gloria? Poeti e politici, attori e uomini sportivi e campioni Di ogni sorta si occupano del proprio tornaconto. Nella vita umana è sempre la stessa vecchia storia: Si dà attenzione al corpo, ci si dimentica dell’ anima Si arranca nella vita in compagnia di minimi pensieri.” (da “I cieli sono pieni”) Un mondo sordo e distratto da cose futili, vuoto dei grandi valori; un mondo che si riduce, così, ad una casa; una casa che diventa gabbia, prigione e che, col passare degli anni e con l’avanzamento degli acciacchi, si trasforma in vera e propria bara. La cecità, la sordità, la stanchezza. Il buio finale ed eterno viene plasticamente raffigurato dall’ interno di questa casa, che si incupisce ogni giorno di più, sicché, ciò che prima era motivo di allegria e di bellezza, si trasforma in velame che prefigura, come dicevamo, la bara e la morte: “Perfino la fitta cortina delle foglie dell’ edera/Annera tutti i vetri delle finestre”. Poeta grande e complesso, Peter Russell, con ambiguità, contraddizioni, ironia, con profondità di temi e di pensieri, ancora in gran parte inesplorato. L’Italia gli deve molto, se non altro per la sua scelta di viverci, affascinato dalla sua natura, dal paesaggio - vera e propria opera d’arte - che lo esaltava e lo trasportava sempre più in alto, forse non proprio a quei “cieli (...) pieni della Gloria del Signore”, ai quali non sappiamo se credesse o meno, ma certamente nel paradiso del suo ideale, spinto dal suo profondo amore verso la umanità, dalla sua coscienza sociale, bambino dalle molte incarnazioni, che cammina a piedi nudi, con e come “un grido versato sull’altare afflitto del mondo”. Pomezia, 12 giugno 2017 Domenico Defelice 1 - LEONELLO RABATTI (a cura di) - LA VITA COME POESIA. PETER RUSSELL E IL PRATOMAGNO - Minimalia, 2016 - Pagg. 64, e. f. c.


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SEI PERSONAGGI (ANCORA E SEMPRE) IN CERCA D'AUTORE

PIRANDELLO A CENTOCINQUANTA ANNI DALLA NASCITA (1867-2017) di Luigi De Rosa UEST’anno, il 2017, ricorre il 150° anniversario dalla nascita di Luigi Pirandello. Infatti il grande drammaturgo, romanziere e novelliere nacque il 28 giugno 1867 a Girgenti (così era chiamata allora Agrigento). A presiedere il Comitato Nazionale per le celebrazioni è stato chiamato dal Ministro ai Beni Culturali Dario Franceschini un altro scrittore siciliano, quell'Andrea Camilleri che è universalmente noto come il padre del Commissario Montalbano, ma che è attivo in letteratura da una vita. Laureatosi in glottologia nel 1891 a Bonn dopo due anni di Lettere a Roma (il cambio era stato causato da...diversità di vedute... col Rettore dell'Università di Roma) Pirandello si stabilì nella Capitale con la moglie Antonietta Portulano, anche lei siciliana, e cominciò a scrivere novelle, romanzi e commedie con una foga creativa instancabile, dovuta non solo all'ispirazione incessante ma anche alle necessità economiche crescenti. I figli aumen mentavano (divennero tre) e l'assegno mensi-

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le del padre dello scrittore era venuto a mancare a causa dell'allagamento della miniera siciliana di famiglia. La moglie, purtroppo, fu ricoverata nel 1919 in una clinica per malattie nervose di Roma, e Pirandello finì per vivere in albergo o al seguito delle Compagnie teatrali che recitavano le sue commedie. Al contrario del Verismo, che finì per concentrare le proprie attenzioni sulla realtà quotidiana di un certo ambiente siciliano e su un ambiente di lavoro più faticoso e frustrante che fruttuoso, Pirandello fu attratto irresistibilmente dalle novità intellettuali introdotte dalla cultura europea, in special modo dalle teorie del filosofo francese Henry Bergson (1859-1941) e del filosofo e neurologo austriaco Sigmund Freud (1856-1939). Bergson, il padre dell'Intuizionismo, ha rivoluzionato il concetto di realtà con la sua teoria del tempo unico, della “durata”, della mobilità inesauribile e della creazione perenne, per cui ciascun momento (o situazione della realtà vivente) è diverso da tutti quelli che lo hanno preceduto. Nel momento in cui si stacca dal flusso, l'elemento vitale comincia a morire. Ecco perché il ritrovamento del Tempo Perduto è una chimera, un fallimento perché esso non può essere rivissuto. “Una realtà non ci fu data, e non c'è, ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere: e non sarà mai una per tutti, una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile.” Per Pirandello ciascuno di noi nasce in una società precostituita, una società dalle articolazioni false e stranianti. L'unico modo di vivere è quello di accettare la parte che ci è stata assegnata, indossando una maschera (una per la famiglia, una per la società, una per il lavoro). L'uomo in maschera non può realmente conoscere né se stesso né gli altri. Né può comunicare realmente. Quindi, incomunicabilità, la malattia morale dei nostri tempi. E solitudine. L' uomo- massa delle società moderne è un uomo che pur vivendo in mezzo a milioni di altri uomini, si sente profondamente solo. Le confidenze, gli sfoghi, sono rimedi illusori che durano troppo poco. “Nulla è più compli-


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cato della sincerità... Confidarsi con qualcuno: questo sì è veramente da pazzo!” Studiando anche le teorie di Gabriel Séailles (1852-1922) e rielaborandole in modo personale, lo scrittore siciliano si convince che tutte le percezioni sono relative, e che nella vita che fluisce inarrestabile ognuno le interpreta a modo suo, a seconda delle circostanze, ma soprattutto a seconda della sua educazione e della sua situazione di coscienza contingente. Ricordiamo la trilogia teatrale del teatro nel teatro: Così è se vi pare, Ciascuno a suo modo , Sei personaggi in cerca d'autore (“Così è se vi pare”, come altre commedie, è tratta da una novella, “La signora Frola e il signor Ponza, suo genero”). Non parliamo delle situazioni assurde, oniriche, create da tali commedie durante le rappresentazioni davanti ad un pubblico non ancora preparato ad un teatro così rivoluzionario...A proposito di “Sei personaggi in cerca d'autore” si ricorda che la sua “prima” al Teatro Valle di Roma, il 9 maggio del 1921, si risolse in un autentico fiasco, col pubblico che urlava Buffoni! Buffoni! Manicomio! E con l' Autore salito impavidamente sul palcoscenico a prendersi gli improperi per tentare di spiegare il significato del suo lavoro, riuscendo solo a far incattivire ancora di più il pubblico e a dover scappare sotto una pioggia di monetine. Al punto che l'impresario modificò il titolo nelle tre giornate successive, trasformandolo in “ Sei personaggi in cerca di pubblico”. Pirandello alla terza occasione, nel 1925, non modificò niente ma aggiunse al testo della commedia una prefazione chiarificatrice, spiegando come era nata la commedia e qual era il suo scopo. E fu, finalmente, il successo. Indispensabile come un balsamo rinfrescante. L'Autore ha pensato il dramma, ne ha abbozzato la trama, ne ha creato i personaggi, però poi non ha fatto sì che vivessero il loro dramma per esteso e fino in fondo. Ed essi è proprio questo che vogliono. “Vivere”! Il padre, la madre, la figliastra, il figlio, il giovinetto (che non parla), la bambina (che non parla), vogliono proprio questo, e fanno

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irruzione in teatro durante le prove di una compagnia di attori alle prese col secondo atto di una commedia di Pirandello (Il giuoco delle parti). Specialmente il Padre e la Figliastra, che poi sono i protagonisti, con le loro battute infastidiscono il Capocomico, che tenta di mandarli via. Alla fine, dopo le loro insistenze, acconsente che la loro vicenda venga rappresentata dagli attori della propria compagnia, lì presenti e insofferenti dell'intrusione dei sei personaggi. Ma il risultato è deludente, perché gli attori non provano alcuna emozione nel recitare sentimenti che non sono loro. Saranno così i sei personaggi stessi a spuntarla, e a recitare il proprio dramma. Fino all'ingresso sul palcoscenico di un settimo personaggio, Madama Pace, un personaggio negativo e grottesco, che gestisce un atelier di moda che in realtà è una casa di prostituzione in cui è finita la Figliastra, che un giorno troverà tra i propri clienti proprio il Padre. Arriva la Madre per tentare di separare il Padre e la Figliastra prima che accada l' ”irreparabile”, Madama Pace se ne va, la rappresentazione si tronca all'improvviso perché il macchinista commette un errore e fa calare di botto il sipario sulla scena. Alla ripresa il Capocomico fa spegnere le luci dall'elettricista, licenzia tutti, la Madre trova la Bambina affogata nella vasca, il Giovinetto con gli occhi fuori dalle orbite e una pistola nascosta in tasca. Anzi, parte un colpo di pistola fra il terrore degli Attori che temono che il Giovinetto sia morto, mentre il Padre gira gridando che quegli avvenimenti sono veri e la Figliastra scende dal palcoscenico scomparendo in un turbine di risate stridule. E' evidente che va perduta l'unità di tempospazio teatrale. Che domina l'angoscia ed il senso di colpa. Che non c'è un taglio netto tra vicende ed attori, e che invece domina la distinzione tra organismi che hanno una forma e personaggi che sono forme. Con le conseguenze già citate di inautenticità, incomunicabilità, solitudine senza rimedio. Ogni lettore o spettatore può formulare le considerazioni che crede. Così è se vi pare... Luigi De Rosa


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SILONE, MARCO VANNINI e le dimissioni dell’Ultimo Papa di Giuseppe Leone

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ARCO Vannini, filosofo studioso di mistica, nel prologo del suo scritto All’ultimo Papa, Lettere sull’amore, la grazia e la libertà, Il Saggiatore 2015, indirizzate a Papa Benedetto XVI all’indomani delle sue dimissioni dal soglio di San Pietro nel 2013, scrive che “le dimissioni di Celestino V nel 1294 furono una cosa ben diversa” (12). Non v’è dubbio che eventi di questo genere, per di più se capitati a distanza di secoli l’uno dall’altro e per l’unicità che li distingue, perdano il nome di storia e con esso anche il diritto alla comparazione. Non so se furono una cosa ben diversa anche nella rivisitazione che ne fece Ignazio Silone nel 1968, in pieno clima conciliare, dedicando all’umile frate francescano L’ avventura d’un povero cristiano, un romanzo adattato per le scene pochi mesi dopo con la regia

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di Valerio Zurlini. E sempre Vannini, ancora nel prologo, cercando fra le questioni vecchie e nuove della Chiesa quelle che più plausibilmente avrebbero convinto Benedetto XVI a lasciare il vertice della Santa Istituzione, esclude che siano state “le beghe e gli intrighi curiali”, che poi del resto, sono fastidi presenti da sempre e per nulla nuovi; o la vicenda della pedofilia, neppure essa meritevole della palma delle novità, perché ecclesiastici donnaioli – scrive - pedofili, sodomiti ci sono sempre stati e la letteratura di ogni tempo ha puntualmente informato i suoi lettori, talvolta anche dilettandoli. Ma neanche l’episodio delle carte trafugate dal segretario-maggiordomo è stato un evento tale da scuotere una navicella che ha corso ben altri mari e affrontato ben altre tempeste. E anche altri problemi più seri, come quello del celibato dei preti o del sacerdozio femminile, non sono nuovi, né tali da turbare più di tanto un’istituzione abituata a pensare in termini di secoli, se non di millenni (12-13). Non esclude, invece, dopo aver anche ricordato che “la principale fatica intellettuale di Benedetto XVI negli anni del suo pontificato è stata la redazione di una vita di Gesù, il cui ultimo volume precede, non casualmente, di pochi mesi le sue dimissioni”, che “il vero dramma di Ratzinger riguardi il venir meno dei fondamenti storici della fede”, se è vero che “il pontefice, di cui sono ben noti i risultati della ricerca scientifica, non poteva onestamente credere alle storie bibliche, sa benissimo che sono invenzioni la Genesi, le storie dei Patriarchi, l’Esodo … la nascita di Gesù, il concepimento verginale, così come buona parte dei miracoli evangelici, ivi compresa la stessa resurrezione” (13). Per cui “far passare il cristianesimo da mitologia a conoscenza dello spirito nello spirito deve essergli apparso un compito quasi impossibile, o tale comunque da richiedere forze molto superiori a quelle di un vecchio papa” (13). La Chiesa, secondo il filosofo, parla di umanesimo solo perché … non sa più parlare di Cristo come Dio … Essa non capisce che


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la divinità di Cristo significhi la divinità dell’uomo; non lo capisce perché non ha l’ esperienza che dà senso a questa affermazione: la morte dell’anima e la scoperta dello spirito. La chiesa ha ridotto Gesù a un rabbi, a un profeta, dissolvendo così il cristianesimo nell’ebraismo e distruggendolo in quanto tale (199). Ratzinger – conclude il filosofo - non ha ceduto all’Anticristo, né ha predicato un Cristo uomo, profeta di una religione sociale … Seguace di Agostino, non ha mai abbandonato il cammino dell’interiorità per quello dell’ esteriorità e per non scandalizzare il gregge, di cui era pastore, ha preferito ritirarsi, in silenzio, come il “solo che va verso il solo” (199-200). E come se tutte queste argomentazioni non bastassero ancora per rendere chiara la posizione di Benedetto XVI, Vannini ricorda anche il discorso che il Papa pronunciò a Ratisbona il 12 settembre 2006, col quale difendeva appassionatamente l’eredità filosofica greca, il Logos, in un momento in cui il biblicismo sempre più predominante nella chiesa annulla il cristianesimo come religione della

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ragione, riducendolo così a una variante debole dell’ebraismo (14). Dunque, secondo Marco Vannini, il professor Ratzinger “non è stato messo fuori servizio”, ma si è ritirato volontariamente per non partecipare a “feste dell’asino di nessun tipo”, un motivo di più per cui qui il filosofo si rivolge a lui come all’ “ultimo papa”, in un senso nobile, con profondo rispetto” (15). Anche “Silone”, interessandosi a Celestino V, “postula”, per dirla con Claudio Marabini, “un cristianesimo demitizzato e sciolto dai legami temporali, frusta le gerarchie, afferma che l’utopia è il rimorso della chiesa, indica nella Storia e nella Profezia la sua natura “bipolare”. Celestino è il campione di una forza genuina, che sgorga dalla parola stessa di Gesù. E la chiesa, com’è dipinta nel dramma e com’è incarnata in certi cardinali e particolarmente in Bonifacio, è l’esatto pendant ideologico del partito politico, è un partito essa stessa, che chiede ai suoi seguaci il prezzo altissimo dell’anima” (VIII). Autodefinendosi socialista senza partito e cristiano senza chiesa, Ignazio Silone ammetterà quanto dell’utopia e del gesto di Celestino riviva nella sua esperienza di “uomo onesto, solitario, che disse no alla storia”, proponendosi di combatterla in nome della coscienza, come Celestino V che ha imparato a sue spese che è difficile essere papa e rimanere un buon cristiano ( 137), fino a preannunciare così il suo abbandono: “Io Celestino, mosso da ragioni legittime, per bisogno di umiltà, di perfezionamento morale, e per obbligo dì coscienza, come pure per indebolimento fisico, per difetto di dottrina e per la cattiveria del mondo … con tutto l’animo e liberamente mi dimetto dal Pontificato …” (153). Non si può, da queste parole, non riconoscere che alla base delle dimissioni di questo Celestino V siloniano e di questo Benedetto XVI di Vannini vi sia un “caso” di coscienza. Come Celestino V, per lo scrittore abruzzese, si dimette per difendere la purezza evangelica del cristianesimo delle origini, così Benedetto XVI si ritira per non tradire i suoi principi agostiniani e la tradizione greca. E ancora,


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come Celestino è stato messo alle strette dalla sua coscienza, che non poteva sopportare “le infami denominazioni di eserciti cristiani, guerre cristiane, persecuzioni cristiane e altre ignominie del genere” (202), così anche Benedetto - e lo riconosce lo stesso Vannini - si è trovato stretto nella contraddizione tra la necessità di difendere la credenza tradizionale, soprattutto per le masse popolari, e il doveroso rigetto di una religione ridotta a mitologia, cui è ignota l’esperienza dello spirito (14). Vannini non lo dice espressamente, ma riesce ugualmente a far intendere che la Chiesa di Papa Francesco è proprio la Chiesa che Ratzinger ha rifiutato di dirigere. Giuseppe Leone Marco Vannini - All’ultimo Papa. Lettere sull’ amore, la grazia e la libertà. Il Saggiatore, Milano 2015. Euro 17.00. Pp. 208. Ignazio Silone - L’avventura d’un povero cristiano. Mondadori, Milano 2010. Euro 9.00. Pp. 236.

HAPPY BIRTHDAY ELLA!!! Un anno così bello e fosforescente, radioso, luccicante, gioioso, per la nostra stupenda nipotina Ella Rose! Ella, splende come una stella luminosa, bella come una profumata rosa! Ella, sempre sorridente e saltellante, con il suo ditino alzato mostra a tutti il suo primo compleanno e grida di gioia riempiono la sala, insieme ai tanti bimbi venuti alla sua festa si rincorrono nelle giostre, o nella vasca colma di tante palline colorate, come gabbiani si tuffano, pescano le palline e felici se le tirano addosso ridendo a crepapelle, facendo rallegrare i genitori, nonni, i bisnonni, zii, amici e parenti, quel caloroso gruppo di tanti bimbi meravigliosi

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protagonisti, sono attori di gran talento. Ella è la regina, che con il suo primo compleanno è sua maestà, con il suo dolcissimo sorriso dà a tutti la felicità! Buon Compleanno Ella, sei stupenda , sei la più bella sei la gioia dei bisnonni, molto di più della gioia dei nonni!!! Cav. Giovanna Li Volti Guzzardi Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori (A.L.I.A.S.)

A Domenico poeta Le tue parole affrescano il mondo, agitano le coscienze immobili, colorano i pensieri profondi (di purezza). Purpuree onde inquiete animano il vociare dei poeti, così sopravvivono al dolore, e vibrano ai suoni del maestro, richiamati a percepire il senso intraducibile, la poesia, forza creatrice di un' anima incorruttibile. Giugno 2017 Fiorenza Castaldi (Anzio)

L’EDEN DIMENTICATO Abbandonarsi al sogno, perché la mente possa districarsi dai suoi grovigli antichi, libera dai ricordi e dai rimpianti! Nell’interregno breve si ricompone il ritmo dei primordi, l’eden dimenticato. Nascosti dentro il filo dei millenni, lampeggiamenti e voci sono legami con remote genti, vive nel nostro sangue. Elisabetta Di Iaconi Roma


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ODORI, SAPORI, SUONI, STILI di Noemi Paolini

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E riserve che [...] si fanno su Strauss non vengono dal materialismo del musicista [segnalato da Massimo Mila] perché Dio sa di quanto materialismo è intrisa l’arte degli attuali modernisti. Esse vengono piuttosto dal fatto che l’arte di Strauss non si gusta senza un profondo senso della storia del costume, vale a dire senza un sentimento della cultura che non si impara né a Darmstad né a Venezia, né tanto meno nei conservatori; e dal fatto che il problema dei giovani d’oggi è essenzialmente una fuga dalla storia”. La divagazione che seguirà nascerà, come spesso mi avviene, da uno spunto letterario in cui mi pare di riconoscermi. A parte la mia soddisfazione per la sfumatura ironica con cui l’asciuttissimo Montale, in questo passo del 1961, accenna al “materialismo” degli “attuali modernisti” con i quali non sembra in grande consonanza, mi è piaciuto sentir parlare da una così autorevole fonte di quel “profondo senso della storia del costume” come di un dono personale, una facoltà innata che nessuna scuola ti può dare (come l’orecchio e il gusto, aggiungo

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io, coltivabili se ci sono ma non trapiantabili se mancano) e che si fa sempre più raro. Dono che Montale possedeva in straordinaria misura e applicava nella lettura dei suoi autori. Anche Svevo era assaporato nel “particolare colore letterario”, colore storico e ambientale che sa evocare attraverso luoghi (Trieste e Venezia), ambienti e persone. “L’odore di fondaco e di cantina, il cicaleccio quasi goldoniano del Tergesteo, l’inconfondibile pittura fine Ottocento di certe sue rare aperture di paesaggi e i numerosi suoi interni non sono forse la sicura presenza di uno stile?” Il raffinato lettore gode nel cogliere queste atmosfere ma anche lui sa, se pure qui non lo dice, che questo “dono” è incomunicabile ed è perciò accompagnato sempre dal disagio di questa impossibilità di parlarne se non in termini tautologici e dal dubbio, conseguente, di restare chiusi in una soggettiva illusione - dubbio del mistico, specialmente del mistico attuale, e dell’attuale relativista -. La definizione di questo “senso della storia del costume” si va via via precisando, nelle citazioni, in riferimenti sempre più lontani dalla razionale descrivibilità: si parla più giù di “colore”, e poi si evocano addirittura “odori”. Che c’è di meno descrivibile di un odore? E, chiudendo il cerchio aggiungerei, di uno stile? Odori, sapori, suoni... stili (il salto non è ormai tanto strano) parlano da soli nel loro intraducibile linguaggio. Il che non comporta che non si debba ad essi prestare attenzione. Quanto a me - qui il salto è più audace - sono sempre stata tutta protesa con fiuto, gusto, udito (fiuto, gusto, udito mentali, bisognerà dire paradossalmente, in quanto applicati in assenza dell’oggetto materiale) nell’ evocazione, spesso attraverso il filtro magico dell’ arte, di tempi e di luoghi lontani per lo più mai conosciuti. Convinta che le mie impressioni, se pure non potevo trasmetterle ad altri, non erano prive di verità, posso dire che ho conosciuto, direi piuttosto “ho fiutato”, da bambina leggendo libretti di russi e di norvegesi, la Russia del tempo degli Zar, e la Norvegia. I canti delle nianie musorskiane e i “fogli d’album” di Grieg hanno poi arricchito (ma erano solo


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delle conferme) l’avvincente esperienza. A quel punto non avevo più bisogno di andare in Russia o in Norvegia. Ho qui parlato di luoghi. Ma la mia personale recherche si è sempre rivolta anzitutto ai tempi. Non solo tempi della mia vita - l’ infanzia di cui ho commemorato dolorosamente la fine appena varcata la soglia dei quattordici anni - ma tempi, stagioni della storia cercate non tanto sul piano degli eventi ufficiali e istituzionali quanto nella dimensione privata. Cominciai con una struggente nostalgia del primo Ottocento romantico ma, per la mediazione di Chopin, probabilmente frainteso allora da un approccio convenzionalmente sentimentale, mi limitai a frequentare i salotti parigini e solo più tardi mi spostai nella Vienna schubertiana. Forse a ritardare la scoperta di Mozart contribuì una certa iniziale estraneità a quelli che, nella mia fantasia, erano i suoi tempi. Il Settecento - preso in blocco senza distinzione di periodi - era squalificato dall’ inflazione di “damine” imparruccate e di “cavalieri” del falso rococò dozzinale e anche, direi, della sfilata di mascherine di Carnevale, con neo e con coriandoli, per Via Nazionale. Se Bach, almeno il Bach della Ciaccona trascritta da Busoni, fu accolto precocemente tra gli autori della mia “scatola sonora” anche se il suo tempo mi era estraneo e non riuscivo a “fiutarlo”, il merito fu della mia amica Augusta che, dotatissima pianista sedicenne, si preparava al diploma quando io, quattordicenne, spasimavo ancora per avere uno strumento da suonare - tanto che proprio allora mi fu regalato un pianoforte -. Era difficile resistere a tanta bellezza. Ormai la Ciaccona per me si porta dietro un “colore storico” tutto personale. Quello dei primi anni Quaranta in cui ferveva il crogiolo della mia prima adolescenza. Ora tra le varie arti la musica del passato è l’arte che accolgo anche quando non è di particolare qualità. E ciò perché non le manca mai il potere di evocare tempi perduti. Il suono attivato nella esecuzione attuale mi dà sempre l’impressione di far vibrare, di smuovere fisicamente un’aria d’altri tempi e di compiere il miracolo. Già Montale registrava una riduzione dell’

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interesse dei giovani - eravamo alle soglie del ’68 - per il passato. Le avanguardie del secondo Novecento, come quelle del primo, odiavano il passato e cercavano di rimuoverlo. Facile gioco soprattutto quando manca quel “dono” così raro che “non si apprende a Darmstad e a Venezia” e che certe mode culturali tendono a soffocare e a censurare. Facile gioco perché in tali casi il passato, tutto il passato, anche e soprattutto quello dell’arte, è visto come decrepita paccottiglia polverosa. C’è stato è vero proprio in questa metà del secolo, specialmente nel cinema, un appassionato e coltissimo impegno per ridar vita e suggestione a tempi perduti, ma ormai mi sembra che prevalga, soprattutto nell’ interpretazione teatrale dei testi letterari e musicali, quell’ attualizzazione straniante (a dispetto delle intenzioni dell’autore, considerate spesso o inconoscibili o insignificanti) che è segno del rifiuto di ogni ipotesi di una possibile durata del testo, di una sua dimensione universale coesistente, naturalmente, con la dimensione storica e con quella individuale, e valorizzabile solo a condizione di non tradire la identità storica e originaria dell’opera. Quando, dall’altra parte, riaffiora lo storicismo, estremizza spesso, riduttivamente, l’ aspetto relativo e caduco delle espressioni artistiche del passato col concentrare l’interesse sul problema del pubblico; oppure, come nel caso di certe esecuzioni musicali cosiddette filologiche, benemerite in quanto presuppongono un rispetto del passato, col preoccuparsi solo della lettera - che spesso costituisce il grado ridotto del messaggio - e trascurando lo spirito. Per me cercare il passato significa cercare una possibile resurrezione, nella memoria, di tempi che proprio nella loro irripetibile specificità appartengono ancora alla nostra anima e possono rivivere in noi. Fin qui, come sempre quando mi abbandono all’illusione scrittoria, domina l’idillio. Questo proustiano amore del tempo passato raccontato in queste pagine sembra non tener conto di quell’ aspetto della storia che motiva la definizione di essa come “uno scandalo che dura da diecimila anni”. Né vale a giustifica-


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re questa rimozione l’attenzione concentrata esclusivamente sulle atmosfere private e talvolta domestiche. Non posso ignorare “di che lacrime grondi e di che sangue” la storia delle famiglie o delle varie relazioni umane - del passato forse ancor più che del presente -. Come non vedere i tragici o ambigui retroscena dei festosi e luminosi riti natalizi della famiglia di Fanny e Alexander, anche senza gli estremi di diabolica e forse inconsapevole vessazione della casa del vescovo? Ho rivisto l’altro ieri il film di Bergmann e sono ancora sotto l’effetto del suo straordinario fascino. E debbo concludere che, anche in questa esperienza, più forte della suggestione angosciosa e depressiva che poteva nascere dalla rappresentazione del “male di vivere” è stato il godimento della bellezza. È stato un dono della vita “fiutare” e “assaporare” quel tempo passato esteticamente trasfigurato. Estetismo indomabile? No, credo che attraverso l’esperienza estetica si sia aperto comunque il varco a una strana speranza. A questo punto ho l’impressione di essermi spostata su un piano che non era quello su cui avevo avviato il discorso (poco male: in una chiacchierata informale come questa si può anche ricredersi per via senza dover ritornare sul già detto). Il passato recuperato dall’arte è veramente un po’ meno passato in quanto un po’ affrancato dalle leggi, più contingenti ed effimere, di quello che chiamiamo costume. All’inizio parlavo, con un certo compiacimento, in compagnia di Montale, di un “senso della storia del costume” calato a cogliere odori, sapori, atmosfere del passato. Quel senso è per me indipendente dal rapporto con una eventuale sublimazione artistica di essi. Altro e, direi, ben più vicino è di fatto il tempo che evoca, per fare un esempio, una figura femminile di Picasso rispetto a quello cui ci riporta la maggior parte delle fotografie di donne morte nello stesso periodo e sepolte in un qualsiasi cimitero parigino. Quelle sì veramente morte, morte due volte per effetto dell’immagine legata a un gusto così passato, così morto! Ci sono, è vero anche fotografie belle, suggestive, e quelle rivivono grazie all’ emozione estetica che suscitano. Ma - questo

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volevo dire - c’è una diversa emozione che ci può venire, mi può venire, anche dalle immagini più caduche e più “morte”. Anche quelle mi pare proprio di poter sentire, “fiutare”, con un diverso struggimento, nel loro specialissimo pathos spesso addirittura kitc. Ma forse anche in quel caso è la memoria che compie una sorta di trasfigurazione estetica tutta interiore in persone, come me, portate a proiettare la loro fantasia quasi solo verso il passato; anche se non è affatto sicuro che rimpiangano di non esser vissute in tempi diversi dal loro. L’esempio, estremo, di Picasso risultava così straniato rispetto al costume e alla moda dominante tra la gente comune del tempo proprio perché l’artista, in quanto d’ avanguardia, dichiarava guerra al tempo. C’erano, all’estremo opposto, artisti come Vuillard, Bonnard o il nostro Spadini, per fare qualche esempio tra i tanti possibili - con una scelta intimista suggerita dai miei gusti personali molto più amici del tempo e delle sue atmosfere. Le loro figure femminili rassomigliano un po’ di più a quelle che troviamo effigiate nei cimiteri di inizio secolo. Ma ogni velo polveroso in esse scompare: resta un’ atmosfera vibrante e, questo è il miracolo, respira la vita. E amo illudermi che quelle immagini respirino ormai per sempre. Noemi Paolini Giachery CIELO Dalla Maiella contemplavo il cielo Farsi sempre più fondo a sera. Immensa dal trasmutante azzurro la foresta delle stelle affiorava. Ad una ad una le numeravo. Vorticava il cuore nel loro lento giro: l'Orsa, Vega, Boote. In me nasceva uno sgomento per quelle lontananze senza fine. Ma la voce dei grilli che saliva dai campi profumati per il fresco taglio dell'erbe mi donava pace e in me acquietava ogni tumulto. L'ora poi mi coglieva del ritorno. A notte remote solitudini sognavo. Elio Andriuoli Napoli


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LIONELLO FIUMI E 'I DIALOGHI DI LANZO' di Ilia Pedrina

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I tratta di un volumetto di Lionello Fiumi, come testimonianza della prosa di solitudine e di riflessione. In apertura, a grafia grande e chiara, una dedica: 'A Francesco Pedrina questi dialoghi lirico-filosofici da leggere nelle vacanze (se ne avrà tempo) con vecchia ammirazione e amicizia Lionello Fiumi'. 'I DIALOGHI DI LANZO' viene pubblicato nel gennaio del 1957, con il numero 35 della Collana di Misura, per la 'Tipomeccanica' di Napoli. “... tagliato dal mondo, ch'era stato il mio ossigeno, senza più l'imprevisto della posta che arriva ogni giorno, ch'è assillo ma anche sostegno, senza più la rete di collaborazione ai giornali, che, dai vent'anni in su, hanno formato l'accompagnamento cotidiano della mia esistenza, disseccata la vena del canto, mi venne di trovare inatteso e insperato conforto nella prosa del dialogo, un dialogo tra lirico e filosofico, la quale mi permetteva di dar forma, con estrema duttilità, alle riflessioni che la mia solitudine andava rimuginando... Questi dialoghi sono nati tutti così, in

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quei mesi tra l'agosto 1944 e il maggio 1945... Certo il carattere di questi dialoghi, ferocemente ostile nelle allusioni politiche guerra e dittatura, me ne faceva avvertire il pericolo... Un anno dopo, in Misura - la prima rivista letteraria internazionale del dopoguerra, che da Bergamo, sulle macerie si può dire ancora fumanti del mondo, era una mano tesa ai fratelli in poesia dei cinque continenti - vedeva la luce per l'appunto il Dialogo del senegalese...” (L. Fiumi, I dialoghi di Lanzo, ed. Tipomeccanica, Napoli, 1957, Avvertenza dell'Autore, pp. 6-7). Il Fiumi era stato costretto a riparare, in tutta fretta, a Lanzo d'Intelvi, perché il suo nome, fatto da un delatore poi giustiziato, figurava su una lista dei deportandi in Germania e la dedica a stampa, nella pagina successiva, apre un mondo d'intimità e di amore vero che si può solo intuire a grandi linee: “ALLA MEMORIA DELLA MIA INIMITABILE MARTA LA TENERA L'INDULGENTE LA MATERNA - CARISSIMA CHE DURANTE IL 'PERIODO NERO' CON VIRILE E SORRIDENTE CORAGGIO AFFRONTÒ FATICHE DISAGI FREDDO RISCHI MORTALI PER RECARMI A CASA DI CHE VIVERE, QUESTO LIBRO DI ALLORA CHE SPETTA A LEI, OFFRO CON TRISTE E DEVOTA GRATITUDINE.” (L. Fiumi, op. cit. pag. 8). Il volumetto si compone delle seguenti sezioni: PROLOGO (Dialogo dello Scrittore e delle sue idee), pp. 9-14; DIALOGHI DEI SENTIMENTI, pp. 17-63; DIALOGHI DEI TEMPI NERI, pp. 67-86; DIALOGHI DEI RAGIONAMENTI, pp. 89140; EPILOGO (Dialogo dell'Autore e del suo Censore), pp. 143-148. Mi inoltro un poco in due delle sezioni, nelle quali i personaggi nascono, crescono e si mettono in un confronto di fatti, d'esperienze


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e d'idee, tutte vestite d'inchiostro, come vuole il loro Autore, in un moltiplicarsi infinito di volti e di atmosfere che rendono ragione della fantasia riflessiva e sognante che le ha generate. Del primo gruppo, costruito tutto intorno ai sentimenti, scelgo il Dialogo del Solitario e del Fantasma molto amato, per rendere attualissimo questo volumetto, perché ben costruito, e per dare vigore e pieno riconoscimento al racconto di Rudy De Cadaval, 'La leggenda di Bay of Chaleur', pubblicato nel numero di giugno di questa stessa Rivista, dalla pagina 31 alla 37. Il volto ed il vuoto, tra le pareti della malinconia: Il Fantasma molto amato. '...Suvvia, stànati, rompi codesto involucro di misantropia ch'è scorza irsuta come quei ricci e, com'essi, fa male. Ne acquisterai tregua; e delicato piacere. Il Solitario. 'Piacere, piacere! Chi parla di piacere? V'ingannate: nessuna cosa al mondo può darmi piacere; od una soltanto. Amara è la mia bocca...' Il Fantasma. 'A ciò ch'io intendo, il tuo soffrire ti fa, come sovente occorre, poeta... io vorrei che tu pigliassi, se non piacere, che dici non ti è possibile, almeno un po' di sereno; sì che si spianasse d'un lume di pace cotesto tuo povero volto contratto. Il Solitario. '… Dimmi chi sei tu, che mi parli tanto soavemente che me ne viene quasi da piangere, ma di dolcezza?' Il Fantasma. 'Ancora non mi riconosci? Ancora non hai compreso che sono il fantasma da te molto amato? Io fui, e sono - altrove – realtà: la realtà verso la quale tu sei proteso tutto così spasmodicamente...' (L. Fiumi, op. cit. pag. 22). Il gioco di fantasie e di respiri si snoda in un doppio del sé che coglie dall'universale la forza per dare concretezza al sogno e lei, il fantasma tanto amato, che riporta alla memoria del solitario fatti e circostanze, si fa via via più consistente e realissimo, obbligando lui, il 'pellegrino allucinato' a volere essere ancora stordito dalla sua '… Assenza; ch'è dolcezza e strazio ad un tempo': l'Autore rende dinamico

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il modularsi intenso delle forme interne al pensiero, cariche di senso ma vuote al tatto, fino a definire il ricordo 'pallida istantanea mentale' ed a concludere, attraversando in un alternarsi serrato le schegge in specchio dell' identità del poeta, '...Ma credi al misero solitario che ha tanta sete di tenerezze: niuna dialettica può sostituire una realtà bramata; né cento argomenti dei più massicci varranno mai una sola carezza delle tue dita leggere.' (L. Fiumi, op. cit. pag. 25). Della seconda sezione scelgo subito il primo, 'Dialogo del Senegalese reduce e del Vecchio indigeno', perché carico di profetica tensione rispetto ai tempi ed ai fatti storici e perché è stato proprio il primo ad essere pubblicato a Bergamo sulla Rivista Letteraria 'Misura', fondata e diretta dal Fiumi stesso, subito dopo la fine della guerra. Il Senegalese è un mutilato reduce dalla Prima Guerra Mondiale e nella sua condizione da frantumato fisico ne sono tornati a casa in numero superiore ai ciottoli del fiume Senegal. E il Vecchio indigeno? È lui che vorrebbe tenere a totale distanza la civiltà dei bianchi e di quelli che, come loro '… si scannano come disperati: sarebbe codesta la civiltà di cui parli?' Il teatrino della politica è spiegato in dettaglio dal giovane senegalese mutilato ed orgoglioso di esserlo, perché gli eroi di ieri diventano i perseguitati di domani e tutto questo perché i modi del morire prendano sempre nuova energia ed infiniti altri sistemi per provocarli. Il Senegalese. '… Come mi diceva il mio sergente bianco, è necessario avere il coraggio delle proprie opinioni... Povero vecchio, come si vede che non sei mai uscito del tuo guscio... E le grandi Idee, corpodiscimpanzè? Gli alti Ideali di Pace con Giustizia, di Ordine nuovo? Si combatte, caro, per i Diritti dell'Uomo, per lo Spazio Vitale! Ch'è diritto d'un popolo a pigliarsi la fetta di terra che gli conviene, e magari una fettolina di più in nome di mancia... Vi sono popoli che hanno diritti che vengono dalla Storia: grandi imperi che levarono il grido nell'antico, e giusto è che i discendenti abbiano a rinnovellarne la gloria.


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Il Vecchio. Certo io non sono che un ignorante. Però ricordo che quel mercante arabo che passava da queste parti per la compera degli schiavi, e all'ora della siesta si ragionava sotto il baobab con un buon narghilè in bocca, mi diceva: gli Arabi, grandissimo popolo: tempo fu ch'ebbero in mano mezza Europa e quei cani d'infedeli aveano a rigar dritto come questi schiavi...' (L. Fiumi, op. cit. pag. 69). Il giovane mutilato africano ha imparato benissimo la lezione che gli è stata impartita in guerra dai Capi, cioè dal suo sergente bianco con delega a comandare: anche per quanto riguarda il cibo, a loro spetta quanto di meglio offre il mercato, mentre ai cittadini rinuncia ed astinenza e sudditanza ossequiente al loro volere, cosa che impedisce di scuotere dalle fondamenta il sistema, tutto quanto è in timbri e polizze e palazzi, come vorrebbe con tutto il cuore il Vecchio indigeno. Sì, questo si prenderà la rivincita e riuscirà a mettere dubbi nella mente del giovane Senegalese: Il Vecchio. … Tutti quei morti, non pensano a trarne utile in qualche maniera? Per modo d'esempio, le derrate di cui tanto bisognano e che ne verrebbero a tonnellate: combustibile calcina sapone o che so io? Il Senegalese. Qui mi lasci perplesso. Ad esser sincero, sarei quasi per credere che non sia la voglia che gli manca; che qualcuno, anzi, in qualche suo Quartier Generale, stia pensando pure a ciò, e che cotesto che dici, un giorno o l'altro, s'abbia anche a vedere.' (L. Fiumi, op. cit. pag. 72). Dall'ironia dura ai limiti del cinismo e del sarcasmo, quando è stato scritto il Dialogo, alla realtà dei fatti storici, quando gli eventi sono stati portati alla conoscenza di tutti: questi tutti che pure sapevano cosa stava succedendo nei lager e poi successivamente nei gulag e nulla è stato possibile fare, per quell'inerzia che ammutolisce e soffoca. Un'operetta snella, vivace, che avvinghia l'ethos alla stretta delle esperienze e nulla viene lasciato all'astrattezza delle congetture. Ilia Pedrina

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UNA VISITA

Ed oggi infine dopo tanto tempo sono venuta a trovarti, poiché sentivo forte la tua mancanza. Sono tornata at number ninety di West Cromwell Road, sono arrivata fino alla porta della tua stanza, ma come al solito non sono entrata. Come sempre, sono entrata nella mia camera, così vicina alla tua, e lì ti ho ascoltato mentre suonavi Bach, e poi Granados. E dopo, al termine, ho spento la registrazione che tanti anni fa per me tu avevi inciso. E dolcemente, con te vicino, mi sono ritrovata in questa casa, dove tu con me vivi nel ricordo. Mariagina Bonciani Milano

IL DOLORE BASSO Ci sono le impronte; l'odore e una bocca rossa da baciare, tra le pale del mulino va il dolore basso, chiamo tutto il vento canti e fischi fanno da ninna nanna, vorrei slacciare le tue dita per farmi accarezzare questo mio corpo felino suonerà il tuo amore un tamburo e passerà indenne attraverso il bagliore dei tuoi occhi. Adriana Mondo Reano, TO


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FRANCESCO, POLVERE DI DIO Il lavoro di Gabriele Riccardo Tordoni rappresentato al Teatro Regina Pacis di Roma il 30 maggio 2017. di Luigi Celi

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NO spettacolo che cattura occhi mente cuore e si impianta come un seme nel fertile humus della memoria al punto che ne senti, anche dopo giorni, in interiore presenza e in inquieto fermento, la misteriosa crescita. È proprio delle esperienze spirituali essere simili al sentire della donna in gestazione, che percepisce in sé la vita del bambino mentre con stupore ne custodisce il mistero. Francesco, polvere di Dio, al Teatro Regina Pacis di Monteverde Vecchio, a Roma, è stato magistralmente interpretato da chi ne ha concepito anche il testo, Gabriele Riccardo Tordoni, alla chitarra l’ispirato Paolo Ceccarelli. Con questa esecuzione, che sembra riscritta in scena dal vivo, Tordoni ci ha consentito di visitare la cella segreta, umana e spirituale, di Francesco d’Assisi; ne ha scandagliato, attingendo alle testimonianze di storici e agiografi, le segrete pieghe psicologiche etiche religiose, a partire dalle dinamiche famigliari e relazionali. È come se avesse pudore Tordoni a riconoscere la santità di Francesco, quasi ne volesse far risaltare maggiormente l’umanità, per cui si è mosso su un crinale scivoloso, da equilibrista, nell’indagare la conversione di chi diventerà un gigante che perfora il tempo. Francesco, prima di cono-

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scere il Cristo, è un giovane scapestrato e gaudente, figlio di un ricco mercante di Assisi, un rampollo di quella borghesia che erompe dal suo guscio medioevale sulla modernità. Rinascenza? Pre-Rinascimento? Categorie storiche che soggiacciono in parte a pregiudizi illuministi e positivisti, che soprattutto con Jakob Burckhardt hanno inventato il mito dell’Età di Mezzo come era oscurantista, intessuta di superstizione, da opporre a un Rinascimento presuntivamente tutto fulgore nel far rivivere la cultura classica e i valori umanistici. Non che i periodi di decadenza siano mancati in un’epoca che si estende dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente al XV secolo, certamente segnata, non solo ai suoi albori, dalle distruttive ondate delle invasioni barbariche. Sulla valutazione in negativo del medioevo grava il pregiudizio eurocentrico, occidentale. Se non si prendono in considerazione Cina, India, Giappone e gli splendori non meramente residuali dell’Impero Romano d’Oriente, che durò altri mille anni, se non si guarda alla fioritura delle culture arabe, ai risvegli sociali, religiosi, artistici che segnarono la sua estesa storia, si commettono arbitrarie distorsioni storiografiche. Il medioevo in Occidente è anche il tempo di Boezio, di Agostino, Anselmo, Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, Duns Scoto, di Cimabue e di Giotto, del romanico e del gotico, della nascita delle lingue nazionali, dell’iconografia e dei mosaici bizantini, dell’arte araba normanna sveva nel meridione, della Scuola Poetica Siciliana, dei Comuni e delle Città Marinare, del Dolce Stil Novo, della grande poesia di Dante Alighieri, ed è l’epoca di San Benedetto, di Caterina, di Chiara, di Francesco d’ Assisi, di Antonio di Padova, di Rita da Cascia. In Occidente, la decadenza iniziale della Città, dei commerci, l’insicurezza dei viaggi, le pestilenze che si accompagnavano alla scarsa igiene fisica e alle deprivazioni alimentari, imposte soprattutto ai servi della gleba, gli oscuri terrori di una religiosità ideologica, sempre in difesa rispetto all’incombente pestilenza spirituale dell’eresia, la divisione sacrale delle caste e del potere, con l’idea distorta dell’origine divina del potere politico e


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della proprietà feudale, con il dominio signorile sulle persone, l’intolleranza istituzionalizzata con l’Inquisizione - che tuttavia ebbe il suo massimo di crudele applicazione nell’ Età Moderna, dopo il più laico Rinascimento e dopo la svolta luterana e calvinista - trova nel suo travaglio secolare più di una intrinseca luminosa risposta. Basta guardare ai nuclei di resistenza all’imbarbarimento che vanno dal monachesimo fino a Cluny, o appunto a Francesco, agli ordini e ai movimenti religiosi pauperistici, più o meno ortodossi, più o meno ereticali, o a quelli attivi nel contemperamento di fede e ragione, ai grandi santi e ai mistici, alle evocative urgenze della riforma della Chiesa, che voleva anche essere una riforma sociale, civile, come al precostituirsi di una cultura cittadina o anche cortese, che si apriva ai nuovi fermenti di un agire laico; pensiamo tra tutti a un personaggio di assoluta grandezza, Federico II di Svevia e alla sua corte. Lo sfondo storico ci consente di guardare a Francesco - come appare anche nel lavoro teatrale di Tordoni - come a un profeta; uno che annuncia con la vita la parola di Dio, ma che anche crea le condizioni di un mondo orientato al bene, per questo motivo la sua irradiante scelta a favore degli ultimi si estende oltre il suo tempo, fino alla nostra epoca che chiamiamo postmoderna, nihilista quanto a valori etici e spirituali, dominata com’è dalla “volontà di potenza” e dalla ricerca smodata del profitto. Nello spettacolo di Tordoni giustamente viene sottolineato come Francesco rappresenti il cristianesimo più prossimo a quello delle origini, grazie alla riproposizione del Vangelo “sine glossa”,” unica regola” di vita, e come per altro vada sottolineata la sua giovanile urgenza di radicalizzazione del cambiamento. La sua scelta, forse, è la più grande che mai santo abbia saputo riproporre dopo gli albori della Chiesa primitiva, fa di lui l’uomo della misericordia e della compassione nella condivisione radicale dell’ esperienza degli ultimi; un rivoluzionario che esprime con la vita la più corrosiva e destabilizzante critica alla struttura materialistica del moderno, efficace soprattutto per la sua opposizione al sistema con la rinuncia al denaro.

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La scelta precorritrice ha ancora più efficacia in quanto proprio il suo tempo è quello “dell’accumulazione originaria”: cominciava ad imporsi il capitalismo finanziario, usuraio e mercantile, fonte dell’ulteriore sviluppo capitalistico, agrario e industriale. Francesco rivendica il primato dell’essere sull’avere, del donare sul ricevere, della condivisione sull’ accaparramento. La conversione è il grande rovello umano/divino, presentata da Tordoni, prima, come una segreta, lenta presa di coscienza da parte del giovane Francesco, sotto lo stimolo della grazia, della vanità della sua vita. Un vero e proprio crogiolo, che ha purificato come col fuoco la sua anima, dev’ essere stata l’esperienza del carcere a Perugia in seguito alla sconfitta di Collestrada del 1202 - e la malattia, da lui ivi contratta, che lo ha condizionato per il resto dell’esistenza. Qualche anno dopo, nel viaggio verso Spoleto, nel 1205, Francesco dovette abbandonare l’idea di diventare cavaliere; egli, come Paolo che fu atterrato da cavallo, venne come obbligato, dalla “Voce” che udì, a seguire e “servire il Signore, piuttosto che il servo”, o i servi, i cavalieri, che pensavano di appartenere a Dio con le armi, riconquistando i “luoghi santi” e sterminando gli infedeli (siamo nel tempo delle Crociate); allora tornò ad Assisi e in preghiera e assistendo i lebbrosi aspettò che gli fosse rivelata con più chiarezza la volontà del suo vero, unico Signore. La sua conversione esplose in evidenza prorompente, tumultuosa, pubblica, quando nel 1206 rinunciò all’eredità del padre di fronte al Vescovo Guido, quando si spogliò perfino dei vestiti, simboli di un’appartenenza ad una classe sociale, ad una famiglia, a un mondo che egli ormai rifiutava. La conversione va vista per intero, non solo come espressione di un dissidio interiore o anche famigliare e sociale, ma proprio nell’origine sovrannaturale e nel suo compimento di adesione totale al Cristo crocifisso e risorto; essa è da intendersi - e qui spero di non sovrapporre la mia interpretazione a quella di Tordoni - non in termini meramente etici, perché, per la testimonianza dello stesso protagonista, riportata dalle fonti, è frutto di pura grazia e generosa


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risposta di un’intera vita alla volontà del Signore. Francesco è l’uomo kenotico per eccellenza, il “povero in spirito” che si alimenta in radicalità di una “fede operante per amore”; in ogni gesto, egli è l’apostolo dell’ ascolto incondizionato, uomo rigenerato nella gioia dello Spirito e animato dalla gratitudine per il dono della salvezza in Cristo; egli è forse il più credibile, o tra i più credibili testimoni della speranza e della resurrezione presso gli ultimi della terra. Collimano in unità di senso e di vita, in lui, la nudità fisica e quella spirituale: il bacio del lebbroso è sfida che l’ amore lancia non solo alla malattia, ma alla segregazione; il tuffo nel brago putrido dei porci è atto di obbedienza non estrinseco a cui il Papa Innocenzo III (inizialmente ostile a Francesco, secondo una tradizione non da tutti accettata) lo avrebbe spinto inopinatamente. Francesco obbedendo alla lettera a quel comando, agisce per mozione interiore e fedeltà al Vangelo, riconoscendo nel Papa il successore di Pietro, anche se quell’uomo vive lontanissimo dal suo evangelico ideale di vita. Il Papa Innocenzo, peraltro, che deve fronteggiare i Patarini, gli Albigesi, i Catari ostili al primato papale, è felice di poter incoraggiare Francesco e favorire gli ordini mendicanti che riconoscono il suo primato. Innocenzo III, che per tre mesi fece attendere Francesco e i fraticelli, prima di accoglierli, in seguito a un sogno rivelatore che vedeva Francesco sorreggere la basilica lateranense a rischio di crollo, scenderà dal suo trono e abbraccerà il fraticello imbrattato di mota. Tordoni riesce a motivare proprio umanamente la mutazione di prospettiva etico-religiosa che Francesco introduce nelle gerarchie e nelle dinamiche sociali. Il sovrannaturale non è al di sopra del mondo, ma scorre attraverso il sangue e trova poi nelle stimmate la sua convalida misteriosamente cristica. Tordoni ha saputo recepire e comunicare questo flusso attraverso l’energia della sua parola e della sua interpretazione. Se analizziamo lo spettacolo sotto il profilo dello stile e del modulo adottati, non possiamo non cogliere l’ amplificazione espressionista della recitazione e come si vada dall’interiorità verso l’esterno. I

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toni del recitato rimarcano le fortissime tensioni a cui l’anima di Francesco è misticamente sottoposta ed è il modo in cui Tordoni tende a immettere lo spettatore nel vortice di quelle dinamiche. La scelta dell’ amplificazione potrebbe sembrare contrastante con la scabra semplicità di vita del giovane convertito, che agiva in radicale humilitas; ma è forse il contrasto a far meglio risaltare l’esplodere della metánoia e che passa, come una scarica elettrica, dallo spirito e dal corpo di Francesco e del suo interprete per raggiungere cuore e nervi degli spettatori. Il titolo dello spettacolo, Francesco, polvere di Dio, ci rimanda alla polvere del deserto, alla rinuncia e alla penitenza, ma ci richiama anche al fango adamitico. C’è quindi un sottile richiamo alla Genesi: il Cristo Dio riplasma gli uomini, li riconduce alla polvere, attraverso la sua croce, per farli poi rinascere, o risorgere, nella sua “nuova creazione”. Le citazioni di agiografi e storici, esplicitate, lette a intramezzare la performance propriamente attoriale, rispecchiano, a mio avviso, il duplice intento di illuminare la scena con i racconti della vita di Francesco e di commentare insieme le sue scelte anche estreme, quasi che l’autore-attore non intenda, pudicamente - come già notavamo - sostenere sempre, in presa diretta, il confronto con un esempio di santità così puntuto ed elevato. Suoni e toni alti e bassi si alternano in un’interpretazione di fortissima intensità espressionista, di cui un segno tra i tanti è quella camicia rossa che dovrebbe (in tutta evidenza) contrastare con il saio che il santo indossava. Forse, se una critica, che non si fermi all’elogio, può esser fatta, essa attiene ai tempi un po’ lunghi della rappresentazione; l’interruzione a cui l’attore è costretto è per la difficoltà psicologica e spirituale, più che fisica, a sostenere un esercizio così impegnativo. La prolusione allo spettacolo, fatta dallo stesso Tordoni, è operazione metateatrica, un commento che sarebbe stato più pertinente se elaborato da un critico fuori scena. Le mie impressioni su questi aspetti di dettaglio nulla devono togliere, però, al riconoscimento della bravura dell’autore/attore, a cui va confermata la nostra ammirazione per


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l’efficacia di un’interpretazione che raggiunge, attraverso le visceralità del connubio gesto parola, l’intelligenza e il cuore di chi ha ricevuto il dono di poter assistere al suo coinvolgente spettacolo. Roma 13-giugno-2017. Luigi Celi

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la nebbia sulle alture. La leggenda ritorna che ci crebbe e ci condusse per illimiti aurore. Come allora ancora ci sorregge e ci consola. Inventa nuove favole per noi. Elio Andriuoli Napoli

IL SENSO DI UN CAMMINO RITORNO DAL PASCOLO IN VAL D'AVETO Ogni giorno un evento, sopravvenuto come una sorpresa; un volto ed un sorriso in ricompensa al viaggio faticoso. Ogni giorno un pensiero che si nasconde tra velami oscuri, arricchimento nuovo nella sequenza rapida del tempo, antidoto al dolore. Ogni giorno il coraggio di ricercare il senso di un cammino. Elisabetta Di Iaconi Roma

Assomiglia al mio cuore questa valle : la nuvolaglia inghiotte la foresta d'oro e smeraldo, minaccia temporali violenti, ma dopo qualche ora il sole, nuovamente, abbaglia e brucia. A sera, per stradine frazionali, lente le mucche tornano dal pascolo, guidate da un'allegra brigata di cani scodinzolanti, di allegre ragazze ridenti, di nonne sorridenti a mezza bocca e di bambini vocianti.

APRILE

Come giganti al suolo incatenati posano i monti. Chiaro si distende il meriggio d'aprile. Un nuovo sole filtra tra bianche nubi. E tu che vieni, attraversando secoli d'assenza, amica, com'è dolce la tua voce che varca profondissimi silenzi, che chiama da universi senza nome. E' cieco il tempo. Ma se un lieve volo bussa alle porte del tuo cuore, ardita rinasce la speranza. Inventa giorni, suscita volti. Ancora una canzone in te perduta torna. E sei la stessa di quel che fosti. Sempre vinci gli anni, disperdi malefizi, leghi il drago, spezzi l'ali alle Furie. Io qui ti attendo, nell'ombra del mio nulla. Cade l'ora su riviere di perla. Si dirada

Si preannuncia un'altra notte fredda, inondata di luna. Luigi De Rosa (Rapallo, Genova)

L’OMBRELLO Nel breve spazio dall'auto alla casa, l'ombrello è come un fratello, accoglie, protegge da tante insidie, ritrovarsi sotto l'ombrello è come vivere dentro casa al sicuro da ciò che circonda, dopo lo posso richiudere ed è tutto passato. Adriana Mondo Reano, TO


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CORRADO CALABRÒ PER LA POESIA E A

EMERICO GIACHERY PER LA CRITICA LA XXVII EDIZIONE DEL PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE CITTÁ DI POMEZIA 2017

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Commissione di Lettura dell’Editrice Pomezia-Notizie, dopo un secondo e più approfondito esame dei lavori precedentemente selezionati, a suo insindacabile giudizio, ha compilato la seguente graduatoria: Sezione A (Raccolta inedita): 1) La scala di Jacob, di Corrado Calabrò (Roma). L’opera verrà pubblicata gratuitamente in un Quaderno Letterario Il Croco quale supplemento al n. 10 - ottobre 2017 - di PomeziaNotizie; 2 ex aequo) Suggestioni, di Lina D’Incecco (Termoli, CB) e Nel fiume del tempo, di Antonio Crecchia (Termoli, CB); 3) Ricordi cocenti, di Giovanna Li Volti Guzzardi (Avondale Heights, Vic., Melbourne, Australia); 4) A mio padre, di Filomena Iovinella (Torino). Tutti riceveranno proposta personalizzata per una edizione nei quaderni letterari Il Croco di Pomezia-Notizie.

Sezione B (Poesia singola, in lingua): 1) “Vicini alberi compagni”, di Caterina Felici (Pesaro); 2) “Ho tirato le somme”, di Anna Vincitorio (Firenze); 3) “Misterioso attimo”, di Imperia Tognacci (Roma); 4) “Cerco lontano”, di Franco Orlandini (Ancona); 5) “Distillati momenti”, di Giuseppe Cosentino (Oberkotzau, Germania); 6 ex aequo) “Pensiero”, di Mariagina Bonciani (Milano) e “Non avevo ancora finito di sognare”, di Elio Caterina (Modena). Sezione C (Poesia singola, in vernacolo): 1) “ ‘E scelle cadute”, di Isabella Michela Affinito (Fiuggi, FR). Sezione D (Racconto , novella): 1) “La bicicletta rossa”, di Maria Assunta Oddi (Luco dei Marsi, AQ); 2 ex aequo) “Cirella calabra”, di


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Anna Aita (Napoli) e “Al Mariposa”, di Luciana Vasile (Roma). Sezione E (Fiaba): 1) “Il sogno”, di Antonia Izzi Rufo (Castelnuovo al Volturno, IS); 2) “Un giorno di pace sul pineta terra”, di Elisabetta Di Iaconi (Roma). Sezione F (Saggio critico): 1) “<Tempo ritrovato> di un vecchio interprete di testi”, di Emerico Giachery (Roma); 2) “Maurice Carême scrive a Federico De Maria lettere d’amicizia vera”, di Ilia Pedrina (Vicenza); 3) “Emigrazione e integrazione”, di Antonio Visconte (Caserta). Pomezia, 18 luglio 2017 Domenico Defelice organizzatore del Premio e direttore di Pomezia-Notizie Vincitori della SEZIONE A delle precedenti edizioni: Pasquale Maffeo: La melagrana aperta; Ettore Alvaro:Hiuricedhi; Viviana Petruzzi Marabelli:Frammento d’estate; Vittorio Smera: Menabò; Giuseppe Nalli: A Giada; Orazio Tanelli: Canti del ritorno; Solange De Bressieux: Pioggia di rose sul cuore spento; Walter Nesti: Itinerario a Calu; Maria Grazia Lenisa: La ragazza di Arthur; Sabina Iarussi: Limen; Leonardo Selvaggi: I tempi felici; Anna Maria Salanitri: Dove si perde la memoria; Giuseppe Vetromile: Mesinversi; Giovanna Bono Marchetti: Camelot; Elena Mancusi Anziano: Anima pura; Sandra Cirani: Io che ho scelto te; Veniero Scarselli: Molti millenni d’amore; Sandro Angelucci: Controluce; Giorgina Busca Gernetti: L’anima e il lago; Rossano Onano: Mascara; Fulvio Castellani: Quaderno sgualcito; Nazario Pardini: I simboli del mito; Rodolfo Vettorello: Voglio silenzio; Isabella Michela Affinito: Probabilmente sarà poesia; Antonia Izzi Rufo: Sensazioni.

Ogni gradiente ne genera un altro perché è una scala che non può finire finché senti il bisogno di salire. Corrado Calabrò Roma Da La scala di Jacob, 1° Premio (Sezione A) al Città di Pomezia 2017 Corrado CALABRÒ è nato a Reggio Calabria, in una casa sulla riva del mare, nel 1935. Laureato in Giurisprudenza presso l’Università di Messina (1957), ha svolto l’attività di giurista, ricoprendo importantissimi incarichi, tra cui quella di magistrato della Corte dei Conti, del Consiglio di Stato, del TAR del Lazio, Presidente dell’Agcom eccetera. Sono 22 i libri di poesie pubblicati in Italia e 32 quelli pubblicati all’ estero, in 20 lingue. Tra i principali: “Una vita per il suo verso” (Oscar Mondadori, 2002) e “La Stella promessa” (Lo Specchio Mondadori, 2009). L’ultimo suo libro (il quinto pubblicato in spagna), è “Acuérdate de Olvidarla” (Ricordati di dimenticarla), vincitore del Premio Internacional de Literatura Gustavo Adolfo Bécquer 2015. Delle sue poesie sono stati fatti anche vari compact disks con le voci di Achille Millo, Riccardo Cucciolla, Giancarlo Giannini, Walter Maestosi, Paola Pitagora, Alberto Rossatti, Daniela Barra. I suoi testi sono stati presentati in teatro, in recitalspettacoli, in 34 città italiane e anche all’estero. Per la sua opera letteraria gli è stata conferita la Laurea honoris causa dell’ Università Mechnikov di Odessa nel 1997, dall’ Università Vest Din di Timişoara nel 2000 e dall’Università statale di Mariupol nel 2015. Nel 2016 l’Università Lusófona di Lisbona gli ha attribuito il “Riconoscimento Damião de Góis”.

PAGINA DI VITA LA SCALA DI JACOB Siamo portati su una scala mobile, ne scorriamo i gradini stando fermi fino a che rientra l’ultimo scalino. Ti lascio, figlio, una scala di legno; è una scala a pioli fatta a mano eretta in verticale verso il cielo: devi scalarla come un sesto grado.

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Questa sera voglio dormire. Voglio stendermi sul letto come un vecchio diario, chiuso sulle pagine belle e amare della vita. Non voglio pensare. Non voglio ricordare. Non voglio che altro sangue sgoccioli dalle ferite che parlano d’infamie umane,


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di malvagità senza contorni. In questa fredda latitudine, sotto queste quiete nuvole che accarezzano l’azzurro con la morbida voluttà della sera, voglio assaporare il profumo della stagione bianca l’ebbrezza smarrita d’un fiocco di neve che cade - fiore nel vasto lordo cimitero abbrunato e senza lumi con la tristezza infinita dello spazio negato alla luce delle stelle. Antonio Crecchia Termoli (CB) Da Nel fiume del tempo, 2° Premio (Sezione A) al Città di Pomezia 2017. Antonio CRECCHIA è nato a Taverna (CB) e risiede a Termoli. Sue poesie sono inserite in numerose antologie di prestigio nazionale e pubblicate in diverse riviste letterarie. Ha ottenuto oltre cento premi e riconoscimenti. Socio di varie Accademie, traduttore dal francese, ha avuto incontri con alunni di vari istituti e con docenti di materie letterarie che hanno preso in esame vari componimenti della sua produzione poetica, esercitando un’accurata e puntuale analisi testuale. Gli sono state dedicate varie opere. Lungo l’elenco delle sue pubblicazioni. Poesia: Il mio cammino (1989), Soave e gentile mia terra (1992), Parole per colmare silenzi (1993), Tarassaco di nuova primavera (1994), Ascesa a Monte Mauro (1995), Lirico autunno (1998), Lo spazio del cuore (1999), Oltre lo spazio della vita (2003), Frammenti (2004), All’ombra del salice (2004), Ossezia e oltre (2005), In morte del Papa Magno (2005), Fiori d’argilla (2006), I giorni della canicola (2008), Nuovi frammenti (2008), I giorni della fioritura (2008), Un po’ per celia, un po’ per arte (2009), Notte di Natale (2009), Luci sul mio cammino (2009), Aliti di primavera (2010), Nei risvolti del tempo (2012), Pensieri al vento (2016), Poesie occasionali (2016), Canti di primavera (2016), Florilegio poetico (2017), Foschie (2017), Barlumi (2017). Saggistica: Dentro la poetica di Rosalba Masone Beltrame (1992, sec. ed. 1993), La dimensione estetica di Brandisio Andolfi tra poesia e critica (1994), Orazio Tanelli (1995), Silvano Demarchi: Un poeta di spessore europeo (2002), La folle ispirazione - Coscienza etica e fondamenti estetici nelle opere di Vincenzo Rossi (2006), L’evoluzione poetica, spirituale e artistica di Pasquale Martiniello (2007), Pasquale Martiniello: Poeta ribelle ad ogni

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giogo (2008), Carmine Manzi: Esemplarità e fertilità di una vita dedicata alla cultura (2009), La militanza letteraria di Silvano Demarchi dall’esordio ad oggi (2011), Vincenzo Vallone: Valori e ideali, realtà e fantasia (2013), Il mondo poetico di Rita Notte - un’artista della parola (2013), Brandisio Andolfi (2014), Vincenzo Rossi: Un talento creativo al servizio della cultura (2014), Carlo Onorato: La missione sociale educativa di uno scrittore molisano (2014), Lycia Santos do Castilla: La grande matriarca dell’arte espressiva (2016), Itinerario scientifico-letterario di Corrado Gizzi (2017). Ricerca storica: Taverna, ottobre 1943 (1990), Taverna - Dalle origini alla Grande Guerra (2006), Tavernesi nella Grande Guerra (2016). Teatro: Eccidio in casa Drusco (2008), Ius primae noctis (2008).

LA STRADA Strada silenziosa che gode della pausa del pranzo quando la gente non passa ed i rumori sono smorzati. Le auto sonnecchiano presso i marciapiedi con i piccoli soli riflessi sui vetri. L’asfalto è un prato di luce su cui si stendono le ombre. In alto un corridoio di cielo ritagliato da tetti e terrazzi su cui s’incidono i gracili graffiti delle antenne. In fondo un rettangolo azzurro incassato tra i muri, lo sguardo vigoroso del mare in cui immergere i pensieri. Piccola strada di quartiere dimessa, così familiare che il gioco di luci e colori dipinge con le leggiadrie di un acquerello. Lina D’Incecco Termoli Da Suggestioni, 2° Premio (Sezione A) al Città di Pomezia 2017. Lina D’INCECCO, insegnate di francese in pensione, nata e residente a Termoli, in Molise. Si de-


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dica da alcuni anni alla poesia ed ha partecipato a concorsi letterari, quali l’ “Histonium” di Vasto, il C.E.P.A.L. in Francia, A.L.I Penna d’Autore a Torino, Aletti Editore ed “Il Convivio”, conseguendo buoni risultati. Alcune sue poesie sono state inserite in raccolte antologiche. Nel gennaio 2017 ha pubblicato “Ombre e luci”, in un quaderno Il Croco, frutto del secondo premio al Città di Pomezia 2016, ottenendo lusinghieri giudizi critici a firma di poeti e scrittori, come Tito Cauchi, Elisabetta Di Iaconi, Roberta Colazingari, Maria Antonietta Mòsele, Claudia Trimarchi, Isabella Michela Affinito, Susanna Pelizza, Laura Pierdicchi.

UN GIORNO SPECIALE Oggi è un giorno speciale, ma io mi sento male, il cuore batte incessantemente e la testa gira follemente, la mia mente piange insistentemente, sono in un mare di guai, non capisco il perché di questo male. Oggi è un giorno speciale, un pic-nic a Sorrento e il suo azzurro mare, ma per quanto son felice di andare, la mia testa mi fa traballare, sono ubriaca, sembra di aver bevuto un’intera botte di vino, non posso nemmeno guardare, tutto fugge e mi distrugge, è meglio continuare a dormire, dormire stando sveglia e disperata e non sapere cosa fare per farmi questa pazza testa riparare. Prego tanto che questo male passerà e così poter continuare la mia vita con gioia, salute e giocondità. 28 – 4 – 2017 Giovanna Li Volti Guzzardi Avondale Heights, Australia Da Ricordi cocenti, 3° Premio Sezione A) al Città di Pomezia 2017. Giovanna LI VOLTI GUZZARDI, è nata il 14 febbraio 1943 a Vizzini CT. Nel 1964, lei e il marito pensarono di visitare l'Australia come secondo

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viaggio di nozze e vi rimasero, affascinati da questa grandiosa isola, che ha alimentato la sua grande passione per lo scrivere. Ha pubblicato cinque libri di poesie "IL MIO MONDO" in Italia nel 1983, Gabrieli Editori Roma. "Isola azzurra" in Australia nel 1990. "VOLERÒ" maggio 2002 - Editrice A.L.I.A.S. Melbourne. Nel 2007 "IL GIARDINO DEL CUORE", OTMA EDIZIONI. Milano. Dicembre 2012. IL CROCO - I quaderni letterari di POMEZIA-NOTIZIE. "LE MIE DUE PATRIE" Poesie. "4° Premio Città di Pomezia 2012 - Direttore Domenico Defelice. Nel maggio 1992 fonda l' ACCADEMIA LETTERARIA ITALO AUSTRALIANA SCRITTORI - "A.L.I.A.S." Tanti, tantissimi e intensissimi anni, tutti dedicati a questa "figlia" bisognosa di cure e di affetto. È stata insignita del prestigioso riconoscimento: "Cittadina dell'anno 1995", dal Comune di Keilor. Nel 1996 ha ricevuto un prestigioso riconoscimento Letterario dal Comune d'Australia che ha sede a Sydney, nominandola "Commissario della Lingua Italiana in Australia." Ha partecipato a diversi concorsi letterari internazionali, ottenendo sempre ottimi risultati. Le sue poesie sono state pubblicate in parecchie antologie e riviste letterarie un po' dovunque. È corrispondente e delegata di diverse Accademie e Associazioni Letterarie. È insignita dal riconoscimento "ACCADEMICO BENEMERITO" da diverse Accademie. Nel settembre 2000, riconoscimento speciale dal Comune di Moonee Valley: "Cittadina dell'anno per l'Arte e la Cultura". Ottobre 2000, durante una favolosa serata al CROWN CASINO di Melbourne le viene consegnato un riconoscimento importante dalla Camera di Commercio ed Industria Italiana: BILATERAL CULTURAL RELATIONSHIPS RECOGNITION AWARD. Nel 2001 è stata nominata "ACADEMICORUM ORDO" dell'Academia Gentium Pro Pace di Roma. Dal dicembre del 2001 è Membro a Vita dell' " INTERNATIONAL WRITERS AND ARTISTS ASSOCIATION " IWA. Stati Uniti d'America. Dicembre 2002, VICTORIA AWARDS FOR EXCELLENCE IN MULTICULTURAL AFFAIRS, Award for Meritorious Service in the Community to Giovanna Li Volti Guzzardi, consegnato dal Governatore. Maggio 2003, Medaglia del Centenario della Federazione Australiana assegnata dalla Regina Elisabetta II, con gli auguri del Primo Ministro e del Governatore d'Australia, Giugno 2003, International Writers an Artists Association U.S.A. and International Society of Greek Writers and Artists International Academy : "OEA AOHNA" - President Dr. Chrissoula Varveri-Varra "OEA AOHNA" OF MERITORIOUS ACHIEVEMENT to Giovanna Li Volti Guzzardi who are hereby accorded recogni-


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tion throughout the five continents of the World for their dedication to ACCADEMIA LETTERARIA ITALO- AUSTRALIANA SCRITTORI and for intellectual and spiritual greatness. Aprile 2004, dagli USA: the Board of Directors, Governing Board of Editors and Publications of the Board American Biographical Institute do hereby recognize that Giovanna Li Volti Guzzardi Professional Women's Advisory Board. 20 gennaio 2004, invitata in Italia (una settimana a Palermo) per partecipare al Work Shop di Partenariato indetto dal Ministero degli Esteri, Roma. 29 maggio 2005, giorno della Festa della Repubblica Italiana in Melbourne, il Presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi e controfirmato dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi le assegnano l'alta Onorificenza di Cavaliere della Repubblica Italiana OMRI, per aver diffuso la lingua italiana in Australia, Italia e nel mondo, tramite il Concorso Letterario Internazionale A.L.I.A.S. e per aver insegnato la lingua italiana con amore e passione per 25 anni. 27 aprile a Palermo le viene consegnato dalla REGIONE SICILIANA l'importante riconoscimento: SICILIANI NEL MONDO AMBASCIATORI DI CULTURA, e invitata a ritirarlo di persona con grandi festeggiamenti a Palermo. Dicembre 2006 dagli USA: the Board of Directors, Governing Board of Editors and Publications of the Board American Biographical Institute do hereby recognize that Giovanna Li Volti Guzzardi Professional Women's Advisory Board. Maggio 2007, riconoscimento dal Primo Ministro d'Australia the Hon. John Howard MP. 15 settembre 2007, premio "Carretto Siciliano 2007", definito l'Oscar della Sicilianità. Maggio 2008, The American Biographical Institute, does hereby recognize that Giovanna Li Volti Guzzardi INTERNATIONAL WOMEN'S REVIEW BOARD, FOUNDING MEMBER. 2008 International Writers and Artists Association, Diploma to certify Giovanna Li Volti Guzzardi is recognized as THE BEST DAME OF POETS OF AUSTRALIA. 27 Maggio 2009, invitata in Italia dal CRASES: Centro Regionale Attività Socioculturali all'Estero ed in Sicilia. Presidente Gaetano Beltempo e Vice Presidente Ezio Pagano, in occasione del 40mo Anniversario del CRASES e SERES è promossa delegata. 21 settembre 2010: VICTORIA'S MULTICULTURAL AWARDS FOR EXCELLENZE Meritorius Service to the Community - Organistations awarded to: Accademia Letteraria ItaloAustraliana Scrittori (A.L.I.A.S.) Medaglia donata dal Governatore David De Kretser al Government House. 28 giugno 2013: PREMIO DELLA CULTURA IL PONTE ITALO-AMERICANO 2013, Orazio Tanelli Direttore, Antonio Cece Editore,

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Cav. Mattia Cipriano, Vicedirettore. Novembre 2013: The international Writers and Artist Association, Registered at the Library of Congress, United States of America, Unesco, Paris, France , and United Nations Assoc. of USA. DIPLOMA THE Board of Directors and the President of the IWA hereby confers upon Giovanna Li Volti Guzzardi IWA the degree of DOCTOR HONORIS CAUSA IN HUMANITIES for the her elevating spirit of philantrhropy, and humanism, Teresinka Pereira, Ph.D. President. Ha insegnato italiano ai bambini di ogni nazionalità, come volontaria per 25 anni. Ma la sua gioia più grande è stare in mezzo a poeti e scrittori, per questo è riuscita a riunire tanti poeti e scrittori italiani da ogni parte del nostro pianeta, creando un punto d'incontro nell'Antologia A.L.I.A.S. Ed è felice di lavorare duro per far sì che la nostra Cultura e la nostra Madre Lingua Italiana venga portata sempre avanti in questa lontana, ma stupenda Terra Australe. Attualmente dirige Il Giornalino Letterario, da Lei fondato.

SEI PROFUMO DI ORCHIDEA Profumo di Orchidea rosso di fiori variopinti luce, fuocherello saltellante sei nozze di un passato lucente ed ora impermeato in quella donna, che è restata lo attenti, il suo saluto tra gigli ed orchidee ogni giorno al sorgere del sole tra corridoi di nomi e volti il tuo ad illuminare il suo cammino lento realtà divisa, tra i profumi. Sei profumo di Giglio Filomena Iovinella Torino Da A mio padre, 4° Premio (Sezione A) al Città di Pomezia 2017. Nata a Frattaminore, in provincia di Napoli, Filomena IOVINELLA vive a Torino. Scrive solo da pochi anni e l’appassionano i testi di filosofia. Ha pubblicato tre racconti: nel 2012 “Traccia di vita”, nel 2013 “Il ritorno di Stefano”, nel 2013/2014 “L’ eros e la strada”, nel 2015 “E un giorno arrivò la libertà”. Nel 2016 è uscito il suo romanzo “L’ inizio della fine - storia di famiglia -“ e la silloge “Odi impetuose”. Segue sempre il suo blog dal titolo


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“Gli indistinti confini”. Scrive anche poesie, una delle quali è stata pubblicata in un volume delle Edizioni Aletti. Nel 2013, ha vinto la sezione fiaba al Premio Internazionale Città di Pomezia.

PENSIERO Vivevamo entrambi nello stesso mondo fisico, terreno, e non ci siamo parlati. Ora viviamo in due mondi distinti : ci separa una parete sottile che si impone fra il mio mondo terreno, fisico, ed il tuo mondo spirituale, ultraterreno. Ma ci parliamo. E voglia il cielo che un giorno, rotto il sottile velo, ci possiamo nuovamente incontrare in uno stesso mondo ultraterreno e ritrovata la giovanile voce dirci alfine tutto quello che sempre in questo mondo terreno abbiamo taciuto. Mariagina Bonciani Milano 6° Premio (Sezione B) al Città di Pomezia 2017 Mariagina BONCIANI vive a Milano dove è nata nell’aprile 1934. Diplomata in Ragioneria nel 1953, ha sempre prediletto le materie letterarie e le lingue. Conoscendo il francese e lo spagnolo ed avendo perfezionato soprattutto lo studio dell’ inglese, ha lavorato, dal 1953 al 1989, come segretaria di direzione, capo ufficio e corrispondente presso tre diverse ditte nel settore import-export. Ama la lettura, i viaggi e la musica classica. In pensione dal 1989, per alcuni anni si è dedicata alla madre inferma, smettendo di viaggiare, ma studiando pianoforte, russo e greco antico. Non si è mai sposata. Da qualche anno ha iniziato a presentare nei concorsi letterari le sue poesie, ottenendo sempre riconoscimenti

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e premiazioni. Sue poesie sono state pubblicate in antologie e riviste. Nel 2010 ha pubblicato nei quaderni “Il Croco” della rivista “Pomezia-Notizie” la silloge “Campane fiorentine”, accolta con entusiasmo dalla critica e nel 2011, sempre per “Il Croco”, la silloge “Canti per una mamma”. Nel 2012 ha pubblicato la raccolta “Poesie”, nel 2015 “Sogni” e, nello stesso anno 2015 “Ancora poesie”. Sue poesie vengono regolarmente pubblicate nella suddetta Rivista e su “Silarus”. Vince il primo premio al concorso “Città di Avellino - Trofeo verso il futuro” 2013 con la silloge “Poesia e musica”. È presente nel volume “Poeti contemporanei - Forme e tendenze letterarie del XXI Secolo” (2014), a cura di Giuseppe e Angelo Manitta.

MISTERIOSO ATTIMO Un violino tzigano suona nell’anima. E’ voce atavica che parla di aperti cieli, di fondali incantati. Sotto l’abito firmato, hai le ali tarpate, anima, da chi, schiavo di salotti dorati, beve nel calice del piacere, e riflette in preziosi specchi una costruita immagine. Nella notte, alla luce di fuochi in cui bruciano le convenzioni, Eros intona il suo canto. Da remota radice è fiorito l’attimo senza età. Hai varcato i miei confini e il pensiero di te intesse il mio giorno. Ricordi? In riva al mare, ascoltavamo i battiti del cuore, su tele di cielo dipingevamo acquarelli di poetici viaggi. Da quale fonte sgorga la melodia che udivamo? Sull’universale altare, tra nuvole frangiate d’oro, si annodavano raggi di speranza nel fuggire dell’ora. Imperia Tognacci Roma


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3° Premio (Sezione B) al Città di Pomezia 2017. Imperia TOGNACCI è nata a San Mauro Pascoli. Vive a Roma, dove si è dedicata all’insegnamento. Sempre lusinghieri gli apprezzamenti sulle sue opere da parte di critici di chiara fama. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti e premi nazionali ed internazionali. E’ inserita in testi di storia della letteratura, di critica letteraria e in numerose antologie, ed è stata recensita su Riviste letterarie, quotidiani e periodici. Ha pubblicato, tra poesia, romanzi, saggi: “Traiettoria di una stelo” (2001), “Giovanni Pascoli, la strada della memoria” (2002), “Non dire mai cosa sarà domani” (2002), “La notte di Getsemani” (2004), “Natale a Zollara” (2005), “Odissea pascoliana” (2006), “La porta socchiusa” (2007), “Il prigioniero di Ushuaia” (2008), “L’ombra della madre” (2009), “Il lago e il tempo” (2010), “Il richiamo di Orfeo” (2011), “Nel bosco, sulle orme del pastore” (2012), “Là, dove pioveva la manna” (2015), “Anime al bivio” (2017). Nel 2014, Luigi De Rosa pubblica il volume “Imperia Tognacci e i suoi poemi in poesia e in prosa. Saggio monografico sull’opera della poetessa e narratrice di San Mauro Pascoli”. È presente in Antologie, Dizionari ontologici, Rassegne di critica e Storie della letteratura contemporanea. Numerosissimi e importanti i Premi.

NON AVEVO ANCORA FINITO DI SOGNARE Non avevo ancora finito di sognare che mi toccò il braccio il mattino e la voce della cantante lirica dirimpettaia mi trasportò nel melodramma. Ma non sorrisi, ero solo tra le mura così scesi i tanti gradini recandomi a raccattare qualche parola d’affetto e a guardare svolazzare i biondi capelli che mai avrei toccato né odorato. Non avevo ancora finito di sognare che già camminavo sulla strada per il mare tra la sabbia e gli ombrelloni cattedrali. Una vela cercavo per navigare tra i sogni edere per poi allontanarmi dallo sciame di parole e dai desideri altrui carichi colori. Elio Caterina Modena 6° Premio (Sezione B) al Città di Pomezia 2017. Elio CATERINA (in arte ANIR) è nato ad Avelli-

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no, ma vive a Modena. Poeta, narratore, pittore, socio del circolo di poesia “La fonte d’Ippocrate”, fondatore dell’Associazione artistica “Il Torrazzo”. Componente di Giurie letterarie e artistiche. I suoi scritti sono stati ospitati in Antologie e Riviste. Ha vinto diversi premi e ha esposto suoi dipinti in mostre personali e collettive. Opere di poesia: Lungo i viottoli di campagna e strade asfaltate (1983), Prima di ritornar silenzio (1995), Davanti a un vuoto cenacolo (1998), Necessita ascoltare le comete (2000), Andata e ritorno - poesie di un treno (2006), Transito breve (2012), Tra questi luoghi spogli di fiori (2015), Ricordi di Atripalda e dintorni (2016), Donna reale o solo immaginata (2016). Narrativa: Pianodargine (2005), Anno Santo 1950 - Il guardaspalle (2008), Fasturo (2010), Quando il ricordo diventa inchiostro (2012), Una brocca di colore rosso (2013), Canossa - Tra vendette e potere (2017).

DISTILLATI MOMENTI Edith quando i tuoi occhi non vedranno più la luce del sole, e, nella tua mente rivivranno i ricordi del nostro amore, io ti sarò accanto e ti condurrò per mano per i viali del sole, e raccoglierò per te i distillati momenti del nostro tempo. Giuseppe Cosentino Oberkotzau, Germania 5° Premio (Sezione B) al Città di Pomezia 2017. Giuseppe COSENTINO non ama dare notizie che lo riguardano; da anni, infatti, partecipa al Città di Pomezia, mai allegando, però, un più che breve curriculum. Egli è approdato in Germania per lavoro, senza mai dimenticarsi dell’Italia e della sua splendida lingua. Ha un dettato molto semplice, ma efficace e i suoi versi molto spesso raccontano il quotidiano mischiato al sogno.

CERCO LONTANO Fra la nebbia il vagare va a confondersi, fra le sagome d’alberi ramosi.


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Cerco lontano una pianura eterea, di cui appena rasenti la strada, che mi diventi quale scia lievissima sempre più vaporosa nel remoto; mi guidino gli echi delle origini in plaghe dall’armonica interezza. Qui la vicissitudine che suscita convulsamente le parvenze, e stinge, ed i suoni discordi, quanto spesso l’intimo sforza e infrange; l’io integrale si fa sempre più arduo; il colloquio supremo ad ogni frase s’interrompe. Franco Orlandini Ancona 4° Premio (Sezione B) al Città di Pomezia 2017. Poeta, scrittore, saggista letterario, Franco ORLANDINI è nato in Ancona nel 1935 ed ivi risiede. Ha conosciuto, quale insegnante, località della provincia anconetana, rimanendo sensibile al paesaggio naturale (montano, collinare, marittimo) e pervenendo nella poesia e nelle prose ad una sua idealizzazione. Collaboratore sin dagli anni Sessanta di periodici letterari, ha pubblicato diverse raccolte di poesia; ne ha riunito una selezione in “Negli anni” (2007) e in “Altre stagioni” (2017). Saggi sulla letteratura dell’Ottocento e del Novecento: “Solitudine tra i poeti” (2009); prose: “Paesaggi e figure” (2014); “Uccelli per cento poeti” (2016); traduzioni: “Charles Guérin, anima senza patria” (2012) eccetera. Premi vinti, da “Abruzzo oggi”, 1990 al “Città di Avellino” (2015). Presente in antologie, dizionari critici, biblioteche nazionali, siti letterari internet.

VICINI ALBERI COMPAGNI Dalla mia casa in estate con gioia osservo le folte chiome degli alberi sonore di canti d’uccelli, animate d’ali, da giochi di luci e d’ombre, dal vento che dolcemente o furioso le scompiglia. Con piacevole stupore guardo i rami che reggono i sontuosi colori dell’autunno, dei quali lentamente si spogliano con piogge di foglie che chiazzano l’aria, mulinando nel vento

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in scomposte danze d’immaginari addii, d’accoglienza di un futuro diverso. Nell’inverno rami nudi si vestono a volte della lucentezza della neve, hanno ornamenti di ghiaccioli: immagini di rara bellezza; sembrano voler celare della pianta fermenti e attese. Osservo contenta i rami spruzzati di tenero verde in primavera: promesse di futuri tripudi di bellezze, inviti d’abbandono al vivere. Sento cari compagni questi miei vicini alberi che mi parlano del tempo che travolge e del trionfo della vita che nella natura ha in ogni stagione i suoi incanti. Caterina Felici Pesaro 1° Premio (Sezione B) al Città di Pomezia 2017. Caterina FELICI, insegnante, è poetessa e scrittrice e ha pubblicato volumi di poesia e prosa. Tra i libri di poesia: “Reciproco possesso” (1975), “Vastità nei frammenti” (1978), “Oltre le parole” (1982), “Poesie scelte” (1992), “Labili confini” (1994), “Confluenza” (1997), “Tessere di vita” (2004), “Tratti d’insiemi” (2007), “Fogli di vita” (2013). Nel 2016 ha pubblicato il romanzo Matteo e il tappo. Sue poesie sono presenti in antologie. Tra i volumi di narrativa: “Il vecchio e altri racconti” (1987). Ha ricevuto vari primi premi in noti concorsi letterari nazionali. Tra coloro che si sono interessati di lei, si ricordano: Cesare Segre, Giacinto Spagnoletti, Giuliano Gramigna, Giorgio Bárberi Squarotti, Walter Mauro, Bruno Maier, Giorgio Cusatelli, Claudio Toscani, Maria Lenti, Paolo Ruffilli, Antonio Piromalli, Marino Moretti, Giambattista Vicari, Luigi Volpicelli, Gian Luigi Beccaria, Vittorio Coletti, Gina Lagorio, Domenico Rea.

HO TIRATO LE SOMME I leoni di pietra assorbono il grido da te bloccato in quell’alto muro di gomma Nello sbiancarsi del giorno i limoni fronzuti attendono il levarsi del sole di quel Dio a me sconosciuto Vorrei poter vivere ancora


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ed essere a te congeniale, assaporare il calore che visita le mie notti Dalle finestre dischiuse i babelici profumi del buio e lo stridere aspro dei freni - prossima fermata Bologna centrale Tu, novello Teseo abbandonasti Arianna e le montagne che visitammo insieme sono ora cosparse di nebbia Il mio Golgota è qui nei consunti fogli della Bibbia La porta è ancora socchiusa ma non vuoi penetrarla Sempre nei miei incubi ritorna la stanza senza finestre Quella pianta di limoni non voglio che muoia! Anna Vincitorio 27 settembre 1991 Firenze 2° Premio (Sezione B) al Città di Pomezia 2017. Anna VINCITORIO è nata a Napoli, ma è vissuta quasi sempre a Firenze. Studi classici, laurea in Giurisprudenza. Ha insegnato materie giuridiche. Dal 1974 si occupa di poesia, critica, letteratura, collaborando a prestigiose riviste letterarie. Tra i suoi volumi di poesia: “Nebbie e chiarori” (1982); “Trama verde sull’aria” (1986); “Il canto fermo della fine” (1988); “L’esilio delle tartarughe” (1991); “I girasoli” (1992); “Alchimie” (1993); “Dissolvenze/flots” (1995); “L’agguato sommerso” (1997); “Le nozze di Cana” (1999); “L’ultima isola” (2000); “Filastrocche per l’angelo” (2001, versione francese 2010); “La notte del pane” (2004); “Sognando Estoril” (2007, versione spagnola 2009); “Il richiamo dell’acqua” (2009); “Sussurri” (2013). Prosa: i racconti “San Saba”, dall’inedito “Il limo di Eva” (1990); “L’Adelina” (1994); “Lettera ad un amico” (1996); “Ermanno” (1996) e poi “Il limo di Eva” (2010); “Per vivere ancora” (2012); “Il dopo Estoril” (2014). Numerosi saggi critici e traduzioni.

‘E SCELLE CADUTE ‘A stanchezza d’ ‘o sole Assumiglia A chillu senso ‘e scelle cadute

Pag. 31 Na sera ‘nterra Urdemo culore ‘e rosa E po’ niro E po’ blu. E’ già dimane E nisciuno M’ha dato scelle nove E io Songh’uno qualunque dint’ ‘e ‘mmure ‘e na casa e quaccheduno cu’ nu starnuto stacca sti scelle ‘e solitudine. Ma ‘nfunno Era sultanto Nu custume ‘e scena ‘e scelle erano chelle ‘e n’oca Pe’ tramente ‘o blu Affoga Verso l’orizzonte Pe tramente l’angiulille ‘a cielo Tenenno mente Vegliano. Isabella Michela Affinito

Fiuggi (FR) 1° Premio (Sezione C) al Città di Pomezia 2017. (QUEL SENSO DELLE ALI CADUTE - D’un tratto la/stanchezza del/sole somiglia a/quel senso di ali/cadute sul pavimento/della sera con gli ultimi/sprazzi di rosa, poi/blu fino al nero./È domani e/nessuno mi ha/rivestito delle nuove/ali, sono un essere/qualunque tra i/comignoli fumanti/di domestiche/situazioni, qualcuno/starnutisce per/staccare le piume alle/ali della solitudine./In fondo era solo/un costume di scena,/le piume erano/quelle di un’oca/remota, il blu è/annegato verso/l’orizzonte incurvato/e i veri angeli stanno/lassù per noi a/vigilare./ Isabella Michela Affinito) Isabella Michela AFFINITO è nata in Ciociaria nel 1967 e si sente donna del Sud. Ha frequentato e completato scuole artistiche anche a livello universitario, quale l’ Accademia di Costume e di Moda a Roma negli anni 1987 - 1991, al termine della quale si è specializzata in Graphic Designer. Ha proseguito, poi, per suo conto, approfondendo la storia e la critica d’arte, letteraria e cinematografica, l’ antiquariato, la fotografia, la storia del teatro, la filosofia, l’egittologia, la storia in generale, la poesia e la saggistica. Nel 1997 ha iniziato a prendere parte ai concorsi artistico-letterari delle varie regioni italia-


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ne e in seguito ha partecipato anche a quelli fuori dei confini d’ Italia, tra cui il Premio A.L.I.A.S. dell’Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori di Melbourne. Ha reso edite quasi 50 raccolte di poesie e un volume di critiche letterarie, dove ha preso in esame opere di autori del nostro panorama contemporaneo culturale e sovente si è soffermata sul tema della donna, del suo ruolo nella società odierna e del passato, delle problematiche legate alla sua travagliata emancipazione. Con “Da Cassandra a Dora Maar” (2006) ripropone le infinite donne da lei ritratte nei versi per continuare un omaggio ad esse e a lei stessa. Inserita in moltissime antologie, tra cui l’ “Enciclopedia degli Autori Italiani” (2003), “Cristàlia” (2003), “8 Marzo” (2004), “Felicità di parole...” (2004), “Cluvium” (2004), “Il suono del silenzio” (2005) eccetera. Sempre sul tema della donna ha scritto un saggio sulla poetessa Emily Dickinson. Pluriaccademica, Senatrice dell’ Accademia Internazionale dei Micenei di Reggio Calabria, collaboratrice di molte riviste, è presente in Internet con sue vetrine poetiche. Tra le sue recenti opere: “Insolite composizioni” - vol, VIII (1972), “Viaggio interiore” (2015), “Dalle radici alle foglie alla poesia” (2015), Una raccolta di stili (15° volume, 2015), Percorsi di critica moderna Autori contemporanei (Vol. II, 2016).

AL MARIPOSA* di Luciana Vasile

L

A linea 87 attraversava il centro di Roma nel pomeriggio inoltrato di una domenica di fine maggio. Grazie ad un sindaco straniero venuto da Genova, e incapace, che a riprova della sua inettitudine sfoggiava nelle apparizioni pubbliche - quando non era ai Caraibi in immersione - un sorriso beota, l’autobus, aspettato dai contrariati cittadini anche per più di quaranta minuti, traballava districandosi fra le numerose buche. L’odore penetrante dell’asfalto, già surriscaldato da una giornata di pieno sole, mischiato al fumo dei tubi di scappamento e alle esalazioni della spazzatura che fermentava nei cassonetti straripanti, si sollevava impastato al caratteristico ponentino. L’antico e tradizionale venticello del tramonto estivo nella Città Eterna, nonostante l’impegno profuso per non perdere la sua notorietà nel

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mondo, non riusciva a superare quegli insormontabili ostacoli; non ce la faceva a rendere l’aria gradevole e, attraverso i finestrini aperti, l’effluvio composito investiva gli irritati passeggeri appesi ai supporti e ondivaghi per la gimcana alla quale era costretto l’autista. Con intermittenza parole e frasi mozzate pronunciate con voce udibile da tutti giungevano alle orecchie degli astanti. Tutto sommato distraevano e aiutavano in qualche modo a sopportare meglio lo scomodo e non profumato viaggio: - Ahò, belle mie, questa estate annamo al ritiro della parrocchia tutte insieme. E so’ contenta! Lo sapete, m’hanno detto che ce so’ pure i maschiii!... Che fico!... Riunioni... seminari… discussioni… coi preti, e poi … i maschiii!...- . A parlare con tono eccitato alle sue due giovani amiche era una ragazzetta tutto pepe. Almeno una fragranza, di gioventù. Al discorso formulato a spizzichi e bocconi fra uno spintone e una perdita di equilibrio, le altre si limitavano ad assentire un po’ intimidite da tanta esuberanza in mezzo a gente sconosciuta. Una signora divertita non aveva resistito: - Mia cara, la parola “maschio” si usa per gli animali. Ma forse hai ragione tu, hai già capito tutto: gli uomini di tutte le età ed estrazione, anche quelli che si sentono i migliori perché contano, sono primitivi, vili, troppo spesso violenti a qualsiasi livello fisico e morale, e forse nel paragone si fa torto all’universo zoologico. Ma visto però che la speranza non bisogna mai perderla, il mio augurio è che il tuo futuro compagno sia un bravo ragazzo, del genere umano! - Così dicendo era scesa, districandosi fra la confusione di chi sbraitava e si intrufolava per salire dopo la solita lunga attesa. Aveva salutato le ragazze agitando la mano con complicità e si era avviata verso il Mariposa dove sicuramente avrebbe incontrato più maschi che uomini. Già solo all’inoltrarsi nell’atrio di accesso del locale, dove si faceva il biglietto d’ ingresso, la musica catapultava in una nuova atmosfera. Le note si facevano largo fra i pensieri e ne prendevano il posto. Sembrava che tutto entrasse in armonia al ritmo forte o dolce dei suoni degli strumenti e del canto


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eseguiti dal vivo. Il mondo con le sue buie preoccupazioni e difficoltà restava fuori. Attivando con curiosità, insieme all’udito, il senso della vista, i frequentatori del Mariposa si presentavano variegati dai molteplici punti di vista da cui si preferisse guardarli. Popolazione dai cinquanta in su, forse molto più su. Donne più giovani e scatenate alla pari delle più agé, bravissime e preparatissime anche quelle su tacchi da capogiro e zeppe da rischio storta con capigliature voluminose dalle tinture sfacciatamente gialle, carota, nere, non si perdevano neanche un ballo di gruppo. Alcune mostravano cosce nude cellulitiche, interrotte da attillate gonne corte che fasciavano fianchi opimi da dee e pancette prominenti, per non parlare dei seni generosi strizzati in corpetti di due taglie più piccole. Miracolo, perché incomprensibile, la grazia e la competenza da vere professioniste rendeva gradevole vederle muovere, un vero spettacolo che si ripeteva ad ogni tiburon, mambo, tarantella, cumbia, passeggiata… nell’ampio cerchio del minuetto, poi, era guardato a vista chi perdeva il ritmo o il passo con le coppie vicine. In pratica una irrimediabile Caporetto che metteva a repentaglio la sopravvivenza dell’esercito danzante. Tutti insieme invece, all’unisono, quella era la cosa più bella: l’essere e sentirsi uniti, nel movimento cementati dalla melodia - quante volte se ne ha l’occasione nella vita?! -. Il ballo di gruppo era stato preannunciato silenziosamente dalle luci che si erano fatte più forti per una migliore partecipazione corale, anche di coloro che erano rimasti seduti. Come onda del mare, schiuma del confuso amalgama di corpi di ogni genere e taglia, di bravi e meno bravi, di belli e brutti, di chi aveva studiato e chi no, di socialmente diversi, comunque ciascuno incurante dei suoi limiti, dei suoi difetti, oppure avvalorato dalle sue eccellenze - tutto andava bene perché senza complessi di sorta -, avanzava al limite della battigia formata dai salottini distribuiti nel perimetro rettangolare e si ritirava sul lato opposto dello stesso quando fungeva da risacca. La luce soft che avrebbe smussato angoli,

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nascosto i contorni della realtà per entrare nell’ascolto di un sogno, non si sarebbe fatta attendere quando avrebbe sottolineato la maggiore intimità nel ballo di coppia. Un discorso fra Lui e Lei di familiarità e confidenza nel solo sfiorarsi senza conoscere il nome l’uno dell’altro. La comunicazione non avveniva attraverso le parole, sia perché la musica ad alto volume non lo avrebbe permesso, sia perché a volte gli stretti accenti dialettali centro-meridionali erano al limite della comprensione. Sarebbero stati i gesti, l’atteggiamento delle membra nel quale tutto il corpo era coinvolto a lasciare trasparire l’interiorità di ciascuno. In modo più efficace e autentico svelavano ciò che si è realmente. Le parole troppo spesso ingannano. L’avvicinarsi delle aure, il loro invisibile intersecarsi, quando si scopriva consonanza e complicità facevano entrare in gioco la chimica più che la ragione. Il mondo Mariposa era variopinto, pur ostentando le differenze non si formalizzava o discriminava, le metteva tutte sullo stesso piano. Succedeva anche nel modo di vestire: accanto a sgargianti camicie hawaiane in un abbigliamento più adatto ad una gita al mare e magliette maculate grigio-oro attillate su stomaci rigonfi, alcune coppie con capi raffinati, da gran sera. Lui rigorosamente in nero, asciutto, spalle dritte impostate e collo eretto, addominali a tartaruga che si intravedevano sotto la camicia aperta sul petto. Lei sottile, ben fatta, gambe lunghe e ben disegnate, indossava un aderente vestito di pizzo, anch’ esso nero, che lasciando libera la schiena fino alla vita enfatizzava la sensualità del vedonon-vedo. Tutti quanti volteggiavano intorno alla sala, leggeri liberi da ogni peso, con volti raggianti accoglienti, impegnati in valzer lenti, nei più vivaci valzer viennesi, in strazianti tanghi, in dolci bachate e rumbe, in allegre mazurche e cha cha cha, in scatenati rock n' roll e jive. L’unica cosa vera e tangibile, presente e comune in quell’improvvisato, per qualche ora, villaggio globale era la passione per il ballo.


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Non si vedeva circolare né alcol, né fumo, né droga di alcun tipo. L’unica crisi di astinenza si poteva riscontrare in caso di impegni familiari o di lavoro che avrebbero tenuto il soggetto lontano da quel salutare allucinogeno, medicina per corpo e anima. Le signore una volta tanto permettevano ai loro cavalieri di condurre e, cosa ancora più strana per l’epoca del terzo millennio, si lasciavano scegliere. Insomma era rimasto l’ unico luogo al mondo dove l’uomo poteva esercitare il suo potere nei confronti del gentil sesso, portare avanti un cammino nella direzione da lui desiderata e con le sue modalità. Lei non si sarebbe ribellata, avrebbe taciuto, quella era una legge di natura alla quale nessuno si poteva opporre, anzi forse era anche piacevole abbandonarcisi… per una sera. Per la donna, cascare fra quelle braccia, se le piacevano, se erano forti e davano sicurezza, lasciarsi stringere, quando e se ne aveva voglia, priva di ruoli e responsabilità, senza avere paura di ingannare nessuno, prima di tutto se stessa, poteva diventare divertente… per una sera. Di contro all’uomo per il gioco delle parti non avrebbe fatto difetto esercitare l’ antica professione del corteggiamento, chiedere al primo giro il numero del telefono per sentirselo rifiutare. Benedetto colui che non pretendeva cellulari o indirizzi facebook, faceva un figurone! All’affermazione che, nel maschio, non c’era età che si privasse della primitiva e congenita tecnica dell’acchiappo, gli incalliti e irriducibili avrebbero risposto: - Non siamo professori, ma semplici artisti sociali!-. Lui, alto e grande, si era guadagnato l’ appellativo di “appolipato”. Seduti sul divanetto la sovrastava, avvolgeva con i suoi lunghi tentacoli-braccia dalle due file di ventose le spalle di Lei, uccellino dal pelo corto chiaro spettinato, che lì dentro timidamente prendeva posto. La seduzione ne aveva deliberato la conquista. Avevano ballato abbracciati per l’ intera serata, pochi i movimenti per non distrarsi dalle sensazioni del dialogo fra i corpi. Si venne poi a sapere che, stessa tecnica, in altre sere, in altri luoghi, Lui si appolipava con altre. Lei non ci ballò più, senza farne

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una malattia. Lui faceva parte del gruppo “artisti sociali”. - Sono uno spacciatore - le aveva detto serio. Poi, aprendosi in un sorriso: - No, sono un commissario di Pubblica Sicurezza -. Tipo originale, mustacchi lunghi e folti che potevano incutere una certa soggezione, a sua detta ingrassato di trenta chili negli ultimi tre anni conservava però agilità e destrezza. Lei volava, quasi non toccava neanche più con i piedi per terra. Risalendo le note di un valzer viennese dove Lui l’aveva sollevata e momentaneamente appoggiata, ascoltava le sue parole sussurrate: - Sei una piuma. Sei come la porporina che scintilla leggera nell’aria e poi svanisce. Sei un nulla… ma esisti -. Forse l’indomani mattina si sarebbe pure seduto alla sua scrivania del Commissariato Flaminio Nuovo, ma prima di tutto era un poeta. Intorno all’una di notte la cantante annunciò l’ultimo pezzo, un lento. Sulle prime note di “La canzone di Ghost” Lui avanzò verso di Lei, il viso luminoso invitava alla fiducia. Allungò le braccia prendendole tutte e due le mani fra le sue, con sguardo d’intesa la condusse sulla pista. Durante la serata avevano già ballato insieme ma ora, trascinati dalla melodia, Lui teneramente l’aveva stretta più forte a sé, Lei lo aveva assecondato. I corpi intrecciati con naturalezza come se già conoscessero l’uno le pieghe, gli incavi, gli anfratti dell’altro aderivano perfettamente. La fusione ignorava la presenza dei vestiti attraversati e annullati dal calore che si andava concentrando all’altezza dello stomaco dove maggiormente si cercavano. Lì si danno convegno le anime trascinate dalle emozioni. Lei si sciolse in lacrime. Sentiva le sue membra liquefarsi e con il fuoco che emanava dalla loro pelle dissolversi, evaporare. Magia del Mariposa, sarebbe restata lì, nell’ aria, a respirare il sogno. Luciana Vasile Roma * Farfalla 2° Premio (Sezione D) al Città di Pomezia 2017. Luciana VASILE nasce a Roma, figlia del grande Turi Vasile. Laureata in architettura. Nel 2002, nel-


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la sua esperienza di aiuto volontario nel terzo mondo per la costruzione di case per gli ultimi e che dura da quindici anni, ha scoperto il piacere di scrivere. E’ fondatrice e Presidente della HO UNA CASA-Onlus. Esordiente nei Concorsi Letterari nel 2004, ha conseguito numerosi premi (oltre centoquaranta) nella prosa e nella poesia. E’ membro delle associazioni internazionali degli scrittori: P.E.N. Club Italiano e Svizzero. “Per il verso del pelo” suo primo romanzo, 2006 Editrice Nuovi Autori di Milano, ha ottenuto riconoscimenti in otto Premi Letterari. “Lo sguardo senza volto” 11 poeti del disincanto”, 2008 Fermenti Editrice, volume antologico, curatore Donato Di Stasi. “Danzadelsé” - Ho ballato per Paparone e altre storie”, 2012 Prospettiva Editrice, pubblicato come opera vincitrice al concorso di narrativa per inediti Interrete, anche in ebook. Ha vinto il Premio Internazionale Lago Gerundo 2013 e premiato in altri quattro concorsi Di prossima pubblicazione la raccolta di poesie “Libertà attraverso… eros, filia, agape”.

CIRELLA CALABRA di Anna Aita

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HI non conosce questo delizioso paese in provincia di Cosenza, possiede una gemma in meno sul diadema della vita. E credo che questa pietra sia un’ acquamarina, un’azzurra, trasparente acquamarina. Al mattino, nei giorni di vacanza, destata da un concerto di rondini, mi precipito a spalancare le persiane perché l’azzurro del mare mi penetri gli occhi e l’aria gentile la gola. Si apre, sotto le trepide mani, un tratto di costa scintillante di sole che in un largo, sinuoso abbraccio raggiunge Diamante. Osservo rapita la vellutata distesa sognando di vedere, un mattino, venire fuori dalla conca trasparente del mare una sirena. Mi piace immaginarla mentre, con languidi movimenti di scaglie luccicanti, si distende sul bagnasciuga per offrire al sole l’ambrata pelle e i verginali seni. Messe da parte le fantasticherie, lo sguardo abbandona la riva e indugia sul grosso cetaceo che resta lì, immobile sull’acqua, impassibile custode, da secoli, della terraferma. La

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sua è una lunga storia di guerre e di sofferenza, testimoniati dalla roccaforte che ancora si erge superba nell’azzurro, pur sbocconcellata dai venti e dall’acqua salmastra: l’isola di Cirella. Non passa un’ora dal risveglio che sono già in strada. L’incombenza della spesa mi costringe ad una passeggiata intorno al paese; per percorrerlo tutto non occorrerà più di mezz’ora. In cima alla breve salita, che incrocia strade di lunga percorrenza, carpisce la mia attenzione un’altura: Cirella antica eleva al cielo, quasi in mistica preghiera, monconi di quelle che sono state, nei secoli passati, le abitazioni del popolo cirellese. Mi fu raccontato che questa composizione di scheletri eretti nel vento, malinconici di giorno, fascinosi di notte nella suggestiva scenografia di luci, sia quanto resta di un paese divorato da un nugolo di termiti talmente spaventoso da costringere la popolazione all’evacuazione. Questa storia mi aveva molto impressionato, ma la verità pare sia molto lontana. Secondo quanto pubblicato in un interessante fascicolo, frutto di intenso lavoro e di accurata ricerca da parte di Don Cono, parroco attuale della cittadina, la storia di Cirella è stata nei secoli molto sofferta. Si ritiene che essa sia stata abitata fin dal paleolitico superiore. Assurta a grande importanza con l’arrivo dei romani, fu estesa nel territorio e prospera cittadina. Partecipe con una legione di uomini alle guerre puniche, si fregiò di grande onore. Dopo una completa distruzione per mano di Annibale, fu ricostruita divenendo porto di rilevanza per grandezza e capacità di difesa. Nuovamente devastata, stavolta ad opera dei saraceni, la popolazione lasciò la marina per arroccarsi in alto, proprio dove oggi si possono visitare le antiche rovine. Nel medioevo, la cittadina conobbe un altro momento di grande fioritura: il porto tornò ad essere sicuro approdo, mentre il mare pescoso, la produzione di ottimo vino e gli importanti reperti d’arte restituirono a Cirella la meritata importanza. Nel XVI secolo, tormentata da numerosi attacchi da parte dei barbari, si difese strenua-


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mente finché i diamantesi non le ebbero trafugato i cannoni di bronzo. Indebolita, fu costretta a sottostare alla violenza dei Berberi che la conquistarono, ridotta in schiavitù. In seguito, tormentati da pestilenze e terremoti, gli ultimi abitanti abbandonarono Cirella medievale. Nel 1892, il territorio fu ricomposto con regio decreto e fu dimora di 1.200 abitanti. Oggi Cirella è un incantevole paese che conserva il fascino rurale di una civiltà che appare quasi ferma nel tempo, nonostante lo sviluppo commerciale progredisca di anno in anno. Un largo cappello di nuvole chiare copre i ruderi. Riporto i pensieri alle occupazioni del quotidiano e riprendo il cammino svoltando a sinistra. Mi fermo al Supermercato Tony per piccoli acquisti, passo dinanzi a “Old Town”, il più vetusto ritrovo della zona (oggi denominato “New Town”), e prendo la strada che conduce al centro del paese. È una viuzza stretta, costeggiata da fabbricati ingrigiti dal tempo, su cui la fresca giovinezza di bungavillae, gerani, glicini, gelsomini, regala alla fumosa nudità un tocco di colore. Su alcune pareti spoglie, mani artiste hanno tracciato pennellate in “murales” che creano una simpatica dicotomia tra l’antico e il moderno. Pochi passi più avanti, ecco la “casetta di Biancaneve”, un grazioso villino tutto dipinto di rosa. Oltre il cancelletto di legno all’ ingresso, sui cui lati si abbarbicano rami traboccanti di bungavillae, si allunga un vialetto in mattoni rossi, ombreggiato dal fogliame. Di fronte, accanto ad un portoncino, una fontana in pietra e un gelsomino che si arrampica fino al terrazzino del piano superiore, dove uno stupito pergolato di vite gronda grappoli d’uva. Procedo lasciandomi attrarre, come sempre, da un cartellone all’ingresso di un’osteria; vi sono disegnati una bottiglia di quelle che usavano per la misura del vino e un bicchiere colmo a metà di generosa bevanda; sotto una scritta: “Riempi il bicchier ch’è vuoto, vuota il bicchier ch’è pieno. Non lasciarlo mai vuoto, non lasciarlo mai pieno”. Sorrido e continuo il cammino. La piazzetta mi accoglie gaia. In tempo d’

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estate c’è già movimento nelle prime ore del mattino; qualche villeggiante ottempera come me al rito della spesa. Una vecchina, con uno scialle nero sul capo, nonostante il caldo già morda alle sette del mattino, si avvia verso la chiesa, una costruzione intonacata a neve, sul cui sagrato si innalza una colonna che accoglie la statua di una Madonnina tutta bianca; è la Parrocchia di S. Maria in fiore. Distrutta più volte per la vicinanza al porto, è stata da sempre partecipe, e rimane testimone e custode, della cultura e della cristianità dei cirellesi. Divisa in tre navate, conserva reperti storici di varie epoche: colonne in pietra, acquasantiere, affreschi, dipinti, statue. Opere di abbellimento e restauro, in un ambiente che mescola capitelli e mattoni vetusti con la pulita semplicità di una pittura a calce, conferiscono alla chiesa una decorosa bellezza. Lo sguardo abbraccia la piccola piazza avvolta nella frescura ciarlante del fogliame di alberi ad alto fusto. Tavolini e sedie, nello slargo centrale, offrono riposo e ristoro ai passeggiatori; appartengono al “Bar della Piazzetta”. Con tanto orgoglio e un pizzico (ma proprio un pizzico!) di presunzione, essa viene paragonata dagli abitanti alla famosa piazzetta caprese. La via procede, ora, in discesa. Mi fermo ad acquistare della frutta e con il carico già pesante, passo dinanzi all’ “ACI”, moderno complesso alberghiero completo di “conforts”. I fortunati ospiti hanno tutta per loro una spiaggia di piccoli ciottoli, che inventano melodie al passaggio. Il litorale si trasforma più avanti in una fantasia di scogliere e laghetti di mare, suggestiva scenografia che si congiunge, dopo un percorso di circa duecento metri, alla più ampia spiaggia ricellese. Superato il Palazzo Ducale, antico palazzo signorile (oggi prestigioso albergo), prendo a sinistra verso la salita che mi porterà a casa. Depositate le provviste, mi avvio velocemente alla spiaggia. Mi piace godere delle prime ore di sole nella solitudine di una spiaggia ancora inviolata, della nenia del mare che è ancora sussurro. Solitamente faccio il bagno alle otto tuffandomi in acque cristalline


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sul cui fondo, tra ciottoli variegati dal bianco niveo al grigio al nero ebano, dal colore dell’argilla al nocciola al marrone, luccicano pietre verdi scintillanti come smeraldi: sono cocci di vetro che il mare ha trasformato con pazienti, tenere carezze. Mi danzano intorno branchi di pesciolini mentre offro il corpo ai capricci dell’onda. Permetto che mi investano, le contrasto, mi faccio cullare in superficie in un gioco continuo, antico e sempre nuovo. Risalgo, infine, stanca ma felice, con una buona riserva di sassolini nei bikini. Descrivere la bellezza del mare di Cirella è impresa ardua; qualsiasi attributo - tanti attributi - non basterebbero a renderne l’idea; bisogna vederlo, viverci dentro, sentirlo sulla pelle, assaporarne il suadente abbraccio. Al rientro è ora di pranzo. Consumo sul terrazzino, vista mare, un pasto frugale; un riposino e mi preparo ad affrontare, con un buon libro, l’inevitabile calura agostana del tardo pomeriggio. Tra una pagina e l’altra, seguo il trasmutare del cielo e del mare, guardo le colline ammantate di verde, le montagne velate d’ azzurro, la spiaggia punteggiata dal giallo degli ombrelloni, il bagliore di vele sul drappo blu della distesa immobile, la lava incandescente sulla via tracciata dal sole. Scolora il mare. Il cielo sbianca. L’ immenso disco rosso oro cala infuocato sul mare; si placano gli scintillii di luce sull’acqua che ingrigia per trasformarsi in ocra e divenire, infine, rossastra. Sta per inabissarsi il sole. Prima, il saluto sfavillante con dita intinte nei colori dell’ arcobaleno. Spruzza oro qua e là, traccia graffiti di preziosa filigrana: smerletta nuvole rosa, cime di alberi, colline. Acceca le faccine stanche di casette sparse nel verde, costringendole a calare le palpebre sulle pupille assonnate. Il profilo del paese si staglia sempre più nitido contro l’ocra del mare; diventa una sagoma nera, precisa come cartone intagliato. Cala il silenzio. Tutto si addormenta nel buio di una notte profumata di eucalipti e pini mentre nella

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quiete dell’anima echeggia il brontolio del mare. Si rifugiano le rondini nelle braccia di fate che spargono, ai loro aprirsi, gerani e lillà e profumi salmastri. Penserà il nuovo giorno a reinventare ancora luce, ancora sole, ancora l’incanto di una rinnovata magia. Anna Aita Napoli 2° Premio (Sezione D) al Città di Pomezia 2017. Anna AITA, Cavaliere della Repubblica Italiana, giornalista e scrittrice, vissuta in un ambiente di musica e poesia. Allo zio paterno, Enzo Aita, tenore del S. Carlo, e al nonno materno, Antonio Cinque, poeta, fondatore e direttore de “La piccola fonte” primo cenacolo letterario -, è stata intestata una strada ciascuno in Napoli. Volontaria ospedaliera da 24 anni, è addetta alla Cultura e Stampa dell’ Associazione “Megaris”. Critico letterario, il suo nome compare su rinomati giornali italiani ed esteri. Recensita positivamente dai più importanti critici, ha ottenuto in premio numerose medaglie d’oro, d’ argento e la medaglia del Presidente della Repubblica. Tra le sue pubblicazioni: “Riflessi dell’anima” (poesie), “Sul filo della memoria” (narrativa), “Soltanto una carezza” (poesie), “Trasparenze” (quaderno di poesie ottenuto in premio con votazione nazionale), “Il coraggio dell’ amore” (romanzo verità), “In tre andando verso” (poesie), “Così la vita” (poesie), “Sintesi e commento di alcune opere di Carmine Manzi” (monografia), “Don Giustino tra storia e poesia” (biografia), “La lettera smarrita. La lunga notte” (in collaborazione con Aldo De Gioia), “Domenico Defelice - Un poeta aperto al mondo e all’amore” (monografia), “Aldo De Gioia - Quando la storia diventa poesia” “Quando a Napoli non c’erano le stelle” (con Aldo De Gioa, 2014).

LA BICICLETTA ROSSA di Maria Assunta Oddi 10 Marzo 2006 ARO diario, perdonami per questo ristagno di corrispondenze, che non è trascuratezza, tu sai quanto mi sono care le tue pagine bianche, pronte ad accogliere in silenzio come un vero amico in cerca di complice intesa i ricordi di emozioni, le sensazioni del presente

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o semplicemente le speranze e i sogni. Il tuo tacere che è più eloquente di un fiume di parole mi consente di rimanere eternamente infantile, beata nell’innocente egocentrismo, conducendomi sulla via del divenire senza trascendere me stessa. Io mi racconto e tu ascolti clemente e pacifico, calmo di indulgenza come una madre. I vecchi saggi latini dicevano “nemo dat quod non habet” non si può dare ciò che non si possiede, ma tu non sei muto. Più di una volta ho sentito la tua voce interiore che mi invitava a lasciare le preoccupazioni per guardare dentro il mio animo. Un po’ ti assomiglio alla bicicletta rossa di mio padre. Ecco è ora che te ne parli anche perché quando torno a ripensarla mi sento leggera, agile e fresca come se un ossigeno purificante mi ringiovanisse liberandomi dagli affari. Quando il cielo è basso e buio come un tetto e il soffitto della mia stanza da letto sembra la volta di una prigione immagino di uscire all’aperto con la bicicletta rossa sognando il ritorno prodigioso della primavera che nel tempo non ha perduto il suo profumo. Se chiudo gli occhi in quei momenti di lieta nostalgia ho l’impressione di scorgere tra il verde del campo e l’azzurro del cielo la fiamma rossa e le faville di orzo selvatico schizzate via sotto i colpi delle ruote che slittano sul maggese con stupenda e agile rapidità. Mio padre la usava per recarsi al lavoro nei cantieri o per raggiungere nelle lunghe serate estive i canali del Fucino a pescare trote opulente e gamberi bruni fino a notte inoltrata. Io la dividevo con tutti i membri della famiglia essendo l’unico mezzo di locomozione adisposizione della casa. Era sempre stata di vernice rossa, ma una volta mio padre sperimentò su di essa una nuova tinta: la verniciò di verde salvia nella tonalità chiara del pastello e poi con la fiamma di una candela la maculò a macchia di leopardo. Durò poco quel nuovo ed insolito colore, tornò presto rossa fiammeggiante. Quando le gomme si foravano, e ciò accadeva spesso per le strade sconnesse e piene di rifiuti, con un rito sempre uguale mio padre toglieva la camera d’aria interna separandola dal copertone usando un temperino mozzo e curvo che portava sempre

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con sé per i più svariati usi: sbucciare una mela, fare la punta ad una matita o dividere l’ amo impigliato dal filo. A parte, poggiandola sul cemento di un basso pianerottolo, riempiva una bacinella d’acqua immergendo il cerchio di gomma fino alla fuoriuscita di piccole bollicine per individuare il foro. Quest’ultimo veniva poi riparato con un pezzo di gomma preso dai vecchi pneumatici che dopo essere stato tagliato in forma circolare con minuziosa precisione veniva fatto aderire sopra il buco con la colla del calzolaio. Ai miei occhi da bambina tale lavoro era pieno di magia per questo restavo a guardare con interesse dimenticando i giochi usuali alla mia età. Ho sempre pensato che la mia bicicletta non fosse un oggetto privo di vita, ma un essere speciale dotato di uno spirito libero e avventuriero come mio padre che consideravo un cavaliere leale e coraggioso come te, caro amico mio che ancora muovi il silenzio dell’assenza come un fantasma che non spaventa ma che disleva gli eventi. il mistero dei ricordi della mia fanciullezza s’è disciolto nei venti delle stagioni trascorse, ma l’essenza è rimasta in me spensierata e lieta nella solitudine selvaggia delle cose spericolate. A perdifiato con l’ affanno sul petto correvo sulle strade bianche tintinnanti di ghiaia o lungo i marciapiedi del parco cittadino con un velocipede fra terrestre e celeste: il solo capace di condurmi fuori paese. Il vento, splendido pettine, talvolta da dietro le spalle mi stringeva i capelli sulla fronte facendo alzare la mia chioma ai lati della testa fin su le palpebre. Ed io ansiosamente con le palme aperte cercavo di tirare i capelli all’indietro liberando gli occhi e riprendendo subito i manubri che parevano balenare del riflesso di un’anima luminosa e ardente. Talvolta, piccola com’ero, m’alzavo dal sellino e in piedi, dondolando di qua e di là, pendevo sopra come da alture incommensurabili fino a sentire nel cuore l’onda delle nubi riflesse nelle pozzanghere fresche d’ acquazzoni. La bicicletta era per me il trionfo splendente di una giornata di sole, il guizzare delle saette dall’arco dell’orizzonte, la leggera carezza della nebbia, il solletico allegro delle matasse brune delle mie trecce sciolte sul col-


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lo. Alcune volte acceleravo l’ andatura, pedalando con forza, altre volte tenendo i piedi fermi e rigidi poggiati sull’asta centrale correvo velocemente sulle discese ardite delle colline per scendere dalla bici e fermarmi a raccogliere i fiori selvatici a valle. Quando improvvisamente il cielo torbido cominciava a lampeggiare dai monti, non mi affrettavo a tornare a casa. Mi piaceva espormi al vento che talvolta spingeva di traverso la pioggia minuta e fredda. Sicché, bagnata come un pulcino, con l’odore della terra sulla veste di cotone leggero, al ritorno venivo sgridata dalla mamma infuriata. La fiamma della mia bicicletta ardeva sempre nei miei occhi anche quando a scuola, apparentemente attenta, seguivo la lezione e, se il maestro talvolta chiedeva a cosa stavo pensando, con riserbo delicato abbassavo la testa evitando di rispondere come a proteggere un dolce segreto. Nelle giornate calde il pensiero della bicicletta era una tirannia giocosa, ma anche con il freddo il suo pensiero non mi allontanava. Il grande incanto terminava quando la bicicletta, riposta in cantina e dimenticata da tutti, non veniva più utilizzata. Ma io non mi rassegnavo e di nascosto la portavo fuori a rompere il ghiaccio delle pozzanghere con allegri scricchiolii. Non sempre ero da sola, talvolta facevo delle lunghe passeggiate con le amiche che a differenza di me possedevano bici proprie e moderne di fattura, ma non veloci come la mia che era munita di ruote grandi e robuste. Spesso facevo salire dietro, facendola sedere sui ferri, mia sorella più piccola che dimenticava ogni tanto di tenere lontano i piedi e le caviglie dai raggi delle ruote ferendosi, e costringendomi a repentine fermate. Anche mio padre talvolta mi posava delicatamente e affettuosamente sul manubrio d’acciaio cromato, mentre i suoi occhi chiari ardevano di un celeste intensissimo e mi invitava a sostenermi tutta con il suo animo gentile. Cresciuta, non prendevo più la bicicletta che, vecchia e arrugginita, giaceva nel cortile retrostante casa, con le ruote incatenate dai lacci delle erbe alte tra i panni stesi ad asciugare all’aria e il fondo umido del terreno. Una vecchia reliquia abbandonata al tempo incle-

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mente. Mio padre era morto, lasciandomi l’ angoscia come compagna per molti lunghi anni. Poi il dolore si era addolcito nella rassegnata consapevolezza che coloro che ci amano continuano a vivere nella nostra memoria più profonda. “È preferibile”, mi ripetevo spesso parafrasando un aforisma di Lord Tennyson “l’aver amato e aver perso l’amore al non aver amato affatto”. Spesso tornavo a rivisitare col pensiero i momenti felici della mia infanzia e con essi riaffiorava la bicicletta rossa cimelio di scorribande felici, di partenze improvvise, di ritorni senza preavvisi, di sogni rubati alla quotidianità, di complici fughe tra amici e poi di laceranti addii sulla via dell’esistenza. Com’è simile la vita: piccola cosa nelle mani dell’ignoto destino. Ecco, caro diario, vorrei che tu conservassi la memoria della mia storia semplicemente con queste brevi note, pagine sparse sulla trama dei giorni, dei mesi, degli anni. Chissà che non torni a rileggerti per avere ancora e sempre il coraggio di salire sulla bicicletta rossa e lasciando il chiuso correre verso la campagna. Sì, basterebbero pochi minuti da dedicare a decifrare le tue parole con purezza di intenzioni. La bicicletta, strana compagna di giochi, cavallo a pedali, macchina così preziosa da essere sognata con un’impazienza ostinata quasi collerica, resterà per sempre nel mio cuore grazie a te che non ti stancherai mai di raccontarmi delle mille strade che ho percorso tra i fiori delle siepi, i canti degli uccelli, il turchese dell’aria e il verde dei prati. Non mi farai pensare alla fatica che nelle salite inerpicate mi rese stanca ma solo alla spensieratezza che mi rese felice. Tutto ciò perché io veda sempre in labore fructus, nella fatica i frutti dell’amore. Ora ti saluto con profondo affetto arrivederci dalla tua amica. Oddi Maria Assunta Termoli (CB) 1° Premio (Sezione D) al Città di Pomezia 2017. Maria Assunta ODDI, nata il 23 aprile 1958 a Trasacco, laureata in pedagogia nel 1984, ed in filosofia e comunicazione nel 2014, insegnate di lettere


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nella scuola media, mostra da diversi anni una particolare sensibilità ai problemi pedagogici. Per il valore artistico della sua opera ha ricevuto il premio speciale “Trofeo Lupa di Roma”, la medaglia “Autore selezionato anno 1985” (conferitale dal Centro studi per la ricerca e la documentazione sulla poesia italiana del 900 “Carlo Capodieci” e il “Premio Leopardi”, indetto per il bicentenario della nascita del poeta recanatese. Ha partecipato a numerosi concorsi ottenendo lusinghieri riconoscimenti, tra i quali il primo premio nei concorsi “Dimensione amore” (Pescara) e “San Francesco” indetto dall’Accademia Anversana. Nel maggio 2000 gli è stato consegnato il premio della giuria al concorso “Solidarietà tra le generazioni” (Milano). Con le Edizioni dell’Urbe ha pubblicato il suo primo volume di poesie dal titolo Sensazioni (1990), quindi Girotondo (1994) inserito nella prestigiosa collana Studi e testi diretta da Giovanni Pischedda e Vittoriano Esposito e Le stagioni del cuore (1996), insignito nell’anno seguente del Premio Ripetta. E ancora: Tre voci di poesia (2000), Amore per amore (2003), Parole e immagini (2005), Non lasciarmi andare (2010).

UN GIORNO DI PACE SUL PIANETA-TERRA di Elisabetta Di Iaconi

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N bel giorno dal groviglio dei mondi sbocciò un’intelligenza superiore, basata sulla forza del pensiero. Esseri privilegiati ebbero così l’opportunità di spaziare nell’immenso universo, ma soltanto con la mente, non essendo loro possibile spostarsi col corpo o con l’immagine. Si soffermarono sulle galassie e sui più fitti ammassi di stelle, fino a scoprire il pianeta-Terra. Tutto ciò che videro li avvilì profondamente: città distrutte dalle guerre, incendi, terribili malattie, aria ed acqua avvelenate dall’ inquinamento, furti, rapine, violenze d’ogni tipo. Pensarono allora di sfruttare la loro incredibile capacità, per aiutare i terrestri, e subito si misero all’opera. Osservarono le più belle metropoli, i villaggi, i monti e il mare, studiando attentamente gli esseri umani. Non avendo il potere di trasferirsi nei luoghi prescelti, non restò loro che

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il tentativo di influenzare da lontano (da diversi anni-luce) gli abitanti rattristati e privi di speranza nel futuro. Ognuno pensava soltanto a sopravvivere e non c’era il minimo sentore che stesse nascendo un rimedio salvifico alle loro pene. Il tentativo degli esseri superiori purtroppo riuscì solo in parete, poiché il contatto avvenne con un unico essere umano. Il caso scelse Maura, una ragazza di vent’ anni che all’inizio si trovò smarrita, come immersa in un sogno ad occhi aperti. Stimolata a mettersi in comunicazione con i parenti lontani, finalmente comprese di possedere straordinari poteri. Tramite un contatto telepatico, poteva seguire i ritmi di vita dei nonni, delle zie e dei cugini. Il timore di essere considerata una folle le impedì di confidare il suo segreto alle persone care. Ben presto giunse dagli spazi siderali un messaggio importante: sintonizzarsi con i capi di stato del mondo e impartire loro l’ordine di stipulare trattati di pace, ovunque si combattesse, per mettere fine al bagno di sangue. Maura, ancora scossa e tremante, portò a termine l’importante missione, suggerendo a Sceicchi, Monarchi, Presidenti e Generali di troncare immediatamente qualunque operazione bellica. Quel giorno le armi tacquero e molti popoli esultarono. La ragazza gioì, perché si stava realizzando il sogno accarezzato da secoli in tutto il mondo. Purtroppo la suadente trasmissione del pensiero funzionò solo per una giornata, una memorabile giornata. I saggi delle galassie non si fecero più vivi nella mente di Maura e sulla terra ripresero i conflitti. Era stato splendido quell’unico giorno di pace universale (anche se poche persone ne furono consapevoli). Maura ancora aspetta di essere visitata in spirito dalle benevole intelligenze lontane, per ripetere il suo meraviglioso esperimento. Elisabetta Di Iconi Roma 2° Premio (Sezione E) al Città di Pomezia 2017. Elisabetta DI IACONI, romana, collaboratrice di varie riviste (Silarus, Pomezia-Notizie, Voce Romana, Voci Dialettali, Romanità). Il primo nucleo


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dei suoi studi, sul poeta romanesco del Seicento Giovanni Camillo Peresio, nasce come esercitazione sui pre-belliani, assegnatale dal compianto professor Carlo Muscetta. Tale studio è diventato poi un saggio (pubblicato dall’editore Rendina di Roma nel 1997), soltanto dopo il suo collocamento in pensione dall’insegnamento delle materie letterarie presso la Scuola Media Statale. In collaborazione con Laura Pedone, è autrice di Elementi di lingua. Tecnica delle comunicazioni. Ha dato alle stampe le sue poesie, raccolte da decenni “Quel fremito antico...” e il romanzo per la gioventù “Un enigma di quartiere”. Ha pubblicato anche la silloge “Er celo s’arischiara” in dialetto romanesco, “La chiave ignota” (nel Quaderno letterario di Pomezia-Notizie “Il Croco”) e l’ultima raccolta di liriche “Altalene”.

STEFANIA, VANESSA VANESIA di Paolangela Draghetti

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ACHIUSA nel suo bozzolo di seta, la piccola Stefania dormiva, mentre il suo corpo da misero bruco si trasformava dapprima in ninfa, poi in crisalide, pupa e infine in farfalla. Ed in quel suo mondo ovattato sognava... Sognava gli immensi prati di papaveri rossi, dei cui teneri petali s’era cibata quand’era bruco, e al ricordo del loro delizioso sapore si umettava le labbra. Ma sognava anche, o meglio immaginava, come sarebbero state le sue ali, nella speranza che fossero uguali a quelle della madre, che ricordava bellissime e che aveva ammirate, adorate e invidiate fin dalla nascita. Un fresco mattino di fine maggio, la trasformazione fu completata. Lentamente Stefania aprì il bozzolo e subito fu bersagliata da un tenue raggio di sole. Stiracchiò le zampette e pian piano aprì le ali poi, con un balzo, si librò felice nel cielo, inebriata da una gradevole sensazione di leggerezza, facendo entrare l’aria frizzantina nei polmoni. Per prendere confidenza con quel nuovo mezzo di locomozione, eseguì qualche giro in tondo sopra al ramo del pino che l’aveva ospitata ed appena si sentì sicura andò a cercare uno specchio d’acqua nel quale potersi

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rimirare. Il largo fossato che solcava il prato sottostante fece al suo caso. Si posò quindi sul pelo dell’acqua. “Oh sì, sì!” esclamò soddisfatta, rimirandosi in diverse pose come fosse un’indossatrice prima della sfilata di moda. “Sono proprio bellissime, anzi sono più belle di quelle della mamma.” Soddisfatta, lasciò il fossato e, raggiunto il prato candido di margheritine, si fiondò nei loro bottoncini dorati per suggerne il dolce nettare, ma assaggiò pure quello delle gialle primule, degli azzurri myosotis e delle violette mammole. “Veramente squisito.” mormorò. “Ma vorrei assaggiare anche il nettare dei miei amati papaveri, per verificare se è buono come le foglioline.” Volò allora più in alto, cercandoli con lo sguardo, e li vide sulla sponda opposta del fosso. Con ingordigia vi si tuffò sopra, immergendo nel loro incavo la sua lunga proboscide, alternandosi or sull’uno ora sull’altro. Quando fu satolla si addormentò, anche perché il succo oppiaceo dei papaveri aveva fatto il suo effetto. Al risveglio Stefania tornò a peregrinare di fiore in fiore, esplorando altri luoghi ed incontrò alcune farfalle della sua specie, ma anche altre di specie differenti. Ai loro cordiali saluti, ella rispondeva gentilmente, ma con un evidente ed affettato distacco, sottolineando con vanitoso orgoglio la propria superiore bellezza. Ad una farfalla Smeraldina, che le aveva lodato i colori delle ali, Stefania rispose con sarcasmo. “Le mie ali non hanno certo il colore verdolino pallido da malatina come le tue.” e se ne andò snobbandola. La Smeraldina ci rimase male e volò sul roseo fiore di un melo per riferirlo alla sua amica Melilèa, che la consolò subito. “Non prendertela, mia cara. Stefania aveva criticato anche il colore delle mie ali, dicendo che il loro rosato così tenue non si addice ad una modesta farfalla come me, per la quale sarebbe più adatto il grigio.” “A me, invece, ha detto che sono del tutto


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insignificante.” intervenne una Villica che si stava dondolando su di una foglia. “Ha detto che i bianchi pois (leggi: ‘pua’) stonano sulle mie ali nere.” “Io invece li trovo deliziosi.” asserì una Cavolaia che si era unita a loro posandosi sul picciòlo di una mela. “Comunque ha criticato pur le mie ali che, secondo lei, sono troppo bianche e monotone, come tutti i colori singoli. Chi si crede poi di essere quella lì... È appena nata e già sputa sentenze.” “Già! E io cosa dovrei dire?...” aggiunse una Trochilia mentre si distendeva lungo il tronco per godere gli ultimi raggi del sole, giunto quasi al crepuscolo. “Sapete cosa mi ha detto, Stefania, appena mi ha vista?... Ebbene, ha detto che io non esisto neppure per il semplice fatto che le mie ali sono trasparenti come il vetro... poi mi ha derisa.” Una bellissima farfalla Macaone, dalle ali variamente colorate, stava svolazzando sul delicato ombrello bianco di un fiore di finocchietto selvatico succhiandone il nettare. Udendo i loro discorsi, le raggiunse sul melo. “Salve, ragazze! Mi pare di aver sentito che state parlando di Stefania. È così, vero?!...” “Sì, cara, parlavamo proprio di lei. Mi auguro che non abbia disprezzato anche te.” disse la Smeraldina volandole accanto. “Non ho ancora avuto il piacere d’ incontrala, ma...” “Sicuramente, la vanitosa, si guarda bene dall’avvicinarti.” la interruppe la Cavolaia. “Non reggerebbe al tuo confronto. Secondo me, tu sei molto più bella di lei.” “E certamente non sei affatto superba.” aggiunse la Melilèa. “È vero. Stefania è una gran vanitosa.” ribadì la Villica. “Smettetela con tutti questi complimenti, amiche mie, altrimenti mi farete arrossire e allora... addio ai miei colori.” si schernì la Macaone. “E poi, a me non piace parlar male di chi non c’è. Comunque, vi ringrazio e state certe che se dovessi incontrala saprò come tenerle a freno la lingua. Ciao e a rivederci a domani.” con un elegante battito d’ali volò sulla sua cena. Anche le altre si salutarono in quanto il crepuscolo stava avanzando verso il buio, e si

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appressarono a tornare nelle loro tane per lasciare il posto alle farfalle notturne. Anche la Vanessa Stefania trovò un nido nel morbido incavo di una grossa calendula che stava ripiegando i petali su se stessa. Una Pavonia Maggiore, dalle ali grigie marmorizzate e puntate da macchioline nere simili a occhi cerchiati poi d vari colori, volò su di un pero e, dopo aver consumato il suo dolce pasto immergendo la proboscide nei suoi fiori bianchi, convocò le sorelle notturne per assistere alla serenata dei Grilli al lume ballerino delle Lucciole. Una dopo l’altra arrivarono tutte, dalle Sfingi, alle Pièridi, dalle Agròtidi alle cupe Àtrope sul cui dorso è disegnata una testa di morto. Esse salutarono le presenti con un lugubre suono lamentoso che le fece rabbrividire, benché avvezze ad udirle. Prima che i Grilli iniziassero, la Pavonia Maggiore rivolse alle compagne una domanda. “Amiche carissime, nel venire qui ho incrociato alcune Api che stavano rientrando nel loro alveare. Ho udito che sparlavano di una certa Stefania. Sapete dirmi chi è?” “Sì, io so chi è.” rispose una delle Sfingi. È Stefania, una bella Vanessa, però si pavoneggia troppo della propria bellezza.” “Pavoneggia?!... Io direi che è una gran vanitosa, una spocchiosa e soprattutto un’ insolente superba.” precisò una giovane Àtropa, con un lamento rabbioso. “È vero.” aggiunse una Pièride. “Nel venire qui ho incontrato una Cavolaia che si lamentava con un’amica, perché Stefania le aveva disprezzato le sue ali bianche.” “Io penso che bisognerebbe insegnarle un po’ di educazione e tanta umiltà.” sostenne la giovane Àtropa. “Già. Ma si potrebbe anche darle una lezione.” precisò un’Agròtide. “Sono d’accordo con voi, ma penso che non tocchi a noi punire la sua esuberanza.” sentenziò la Pavonia Maggiore. “Dici bene, ma chi lo farebbe allora?” domandò un piccola Pièride. “Sarà nostra madre Natura. Sicuramente ella saprà trovare il modo per ridimensionare la sua millanteria. Orsù, adesso godiamoci il


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concerto che sta per iniziare, e tu, amica Arpìa, non stare troppo vicina a quel lume laggiù. Lo so che la sua luce ti fa impazzire, ma finiresti per bruciarti le ali.” concluse la Pavonia Maggiore, sistemandosi sul petalo di un fiore. All’alba ciascuna fece ritorno al proprio nido, mentre una coloratissima farfalla Satiro, appena destata, le salutava. A mezza mattinata il prato di margheritine si animò. Valeria, una bambina di circa otto anni, e sua madre si accinsero a raccogliere del radicchio selvatico e del taràssaco per farne una frittata a pranzo. La bambina sapeva riconoscere molto bene il taràssaco, per via del suo fiore arancione, che poi si trasforma in soffione. Infatti fu proprio su uno di quei fiori che vide la bella Stefania. Attratta dalle sue stupende ali colorate, le si avvicinò a passi felpati e con un gesto repentino la catturò serrando le ali con due dita, poi corse dalla madre per mostrargliela. “Guarda, mamma, quanto è bella questa farfalla!” “Sì, ara, è bellissima, ma la devi lasciare andare, perché, toccandole, le sue ali perderanno i colori, senza i quali la poverina no potrebbe volare.” la esortò la madre. Valeria ubbidì e depose la farfalla sopra una pietra, poi seguì la madre nella raccolta delle verdure. Invece, la piccola Stefania rimase immobile, ancora con il cuore in tumulto per lo spavento. “Co-cosa mi è successo?...” balbettò con un filo di voce. “Non... non riesco a muovere le ali... E adesso... come faccio a volare?” Si avvicinò a piccoli passi al fossato per rinfrescarsi con qualche sorsata d’acqua e fu allora che dalla sua immagine riflessa notò d’ aver perso quei magnifici colori di cui andava tanto fiera. Tutto il suo vigore e l sua prorompente bellezza erano scomparsi in un attimo, per colpa del tocco innocente di quelle manine umane. Allibita, disperata e piena di vergogna irruppe in un pianto sfrenato tenendosi il capino con le zampe anteriori. Per Stefania, perdere il colore delle ali era un disonore tale che preferì nascondersi per non farsi vedere dalle altre farfalle. Chissà,

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pensò, quanto l’avrebbero derisa, così come lei aveva fatto con loro. Raggiunse il pino e si rifugiò sotto le sue radici, riconoscendo quel nascondiglio di quand’era un bruco, e vi rimase fino a sera, uscendone prima che il sole tramontasse per cibarsi. Sperò che nessuno la vedesse, ma la sorte volle che proprio una farfalla Macaone, fra le più belle della sua specie, la notò. “Ciao, bella Vanessa, ma... ma tu sei... Sì, sei Stefania. Cosa ti è successo, ti vedo così sciupata?” le domandò preoccupata. Stefania le raccontò piangendo lo sfortunato incontro con la bambina, asserendo di aver perso i colori per la paura. “E adesso... non riesco neppure a volare.” concluse. “Sciocchina.” la consolò la Macaòne avvicinandosi a lei. “Non te lo aveva forse spiegato la tua mamma che per riformare il colore sulle ali è sufficiente sdraiarsi al sole?... E con i colori le tue ali potranno di nuovo volare. Vieni con me.” La farfalla Macaòne, sorridendo, prese per mano Stefania e la condusse in mezzo al prato, affinché ricevesse i benefici raggi dell’ ultimo sole. “Grazie, amica mia. Sappi che da ora in poi sarò più umile e non criticherò più le altre farfalle, di qualsiasi specie esse siano. Ora so cosa si prova quando il nostro aspetto fisico ci fa sentire in inferiorità. Ti prometto che domattina andrò a chiedere perdono a tutte coloro che ho ingiustamente deriso.” Il sole era già tramontato, per cui le due farfalle si salutarono e raggiunsero i rispettivi nidi per trascorrervi la notte. Quando le farfalle notturne s’incontrarono sul pero per assistere al consueto concerto dei Grilli, commentarono l’accaduto. “Avevi ragione, cara Pavonia.” disse la piccola Pièride dopo aver raccontato cos’era accaduto a Stefania. “Made Natura, aiutata da una provvidenziale manina umana, ha domato la vanità e la superbia della bella Vanessa.” Paolangela Draghetti Livorno Fiaba validissima, alla quale, però, non è stato assegnato il Premio, perché l’Autrice è stata in passa-


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to già vincitrice della stessa Sezione E. Paolangela DRAGHETTI è nata a Mirandola (MO), sposata e vissuta per diversi anni a Siena, attualmente abita col marito a Livorno. Non ha avuto figli ma ben sei nipoti, insieme ai quali, ed oggi anche ai pronipoti, si è divertita ad ideare fiabe, racconti e filastrocche che anche molti bambini ormai leggono ed ascoltano. Infatti, ne ha incontrati parecchi nei suoi ‘Incontri con gli Autori’ organizzati sia dalla Provincia di Siena che dalla Biblioteca di Colle Val D’Elsa (SI), nell’ambito delle rispettive Mostre Mercato del Libro per Ragazzi. Di recente una delle sue fiabe (La fonte delle Fate) è stata interpretata dal Centro per anziani ‘La lunga gioventù’ nel loro teatrino interno a Siena alla presenza di numerosi bambini. Molti sono i concorsi letterari ai quali Paolangela Draghetti ha partecipato con successo di primi, secondi, terzi premi e menzioni d’ onore, sia a livello nazionale che internazionale. I volumi editi dalla DELTA 3 Edizioni di Grottaminarda (AV) sono: Serenella e l’abito da sposa (2004), La Fonte delle Fate (2005), Fiabe senesi (2006), Il cappello a cilindro (2007 e 2015 dopo revisione), Una magica notte d’estate (2009, edizione ampliata della precedente edita nel 2003), I campanellini d’argento (2010), I sette cavalieri del sole (2013). Editi da altre case editrici quale premio di concorso: Una magica notte d’estate (2003), Il Drago dal pennacchio (2009), Gocce di sogni (2009), La brocca fatata (2009), La giostra delle meraviglie (2011), Gherda e Cris (2013), Giocando a colori (2016), Nonna, mi racconti una storia? (2016).

IL SOGNO di Antonia Izzi Rufo

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I raccontano, e si leggono, ancora oggi storie di fate, ma non più come una volta, come decine di anni fa. Siamo nell’era atomica, nell’era della tecnologia avanzata, dei viaggi non solo sulla terra, anche su altri pianeti, siamo protesi nella realtà, nella concretezza dei fatti più che nella fantasia. Eppure, anche se col passare dei secoli, dei millenni, quell’alito onirico, innato nella mente umana, continua a palpitare vivo più che mai in ognuno di noi, sostegno nell’aspro cammino della vita. Altri interessi oggi si sono sostituiti alle fiabe e le fate sembrano scomparse: scomparse? Del tutto? Direi piut-

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tosto messe da parte come roba in disuso passata di moda. Le fate non sono morte, sono nascoste in angoli della terra ignoti a noi uomini e riemergono a tratti, guardinghe, di solito di notte, a nostra insaputa: l’ho scoperto per caso. Ero andata a letto piuttosto presto sere or sono e m’ero addormentata subito perché ero stanca. Dopo il primo sonno, però, m’ero svegliata e non riuscivo a riaddormentarmi. M’ero alzata e giravo per casa soffermandomi spesso presso la finestra (ho l’abitudine di lasciare l’avvolgibile un pochino alzato perché entri della luce) per guardare fuori. Deserta la piazza, muti il paese, il cielo e la natura intorno. In quell’atmosfera statica, sospesa, mi muovevo con precauzione e respiravo pianissimo per non rompere il silenzio sepolcrale che mi provocava brividi di paura e i battiti accelerava nel petto che comprimevo con mani tremanti (se sto sola di notte, vivo nel terrore: penso ai fantasmi – ai quali non credo – e ai ladri). Fu mentre guardavo le montagne di fronte (a pochi metri di distanza in linea d’aria) che mi sembrò di notare, tra gli interstizi di spaccatura di una roccia, delle ombre che si muovevano, braccia che gesticolavano: mi ritrassi terrorizzata e <<Che mi succede, sto perdendo il senno?>> dissi dentro di me <<La mia mente esaltata crea esseri inverosimili>>. Mi feci coraggio e osservai di nuovo: no, non m’ero sbagliata, c’erano veramente, in quella spaccatura priva di alberi, delle immagini di donne che discutevano (si notava dai gesti), ma io non ne udivo il suono delle parole. M’incuriosii, e per captare il loro discorrere, aprii (senza emettere il minimo rumore) uno spiraglio della finestra e mi misi in ascolto. Ma che donne! Somigliavano fisicamente alle donne, alle nostre donne, ma avevano un nonsoché di speciale che le differenziava da queste: sguardo, portamento, abbigliamento unici che le distingueva, di esseri che sembravano ma non erano del nostro pianeta. Erano molto belle, addirittura affascinanti. Parlavano la nostra lingua ed io le comprendevo perfettamente. Avevano gli occhi rivolti al paese in cui ero, il viso triste e preoccupato e così una di esse si esprimeva:


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<<Il borgo è spopolato; una volta morte le poche persone anziane che vi restano, sarà del tutto vuoto. Che possiamo fare per rimediare?>>. <<Un modo c’è>> rispose quella che appariva la più attempata <<Quanti emigrati, neri in maggioranza, giacciono accampati in spazi stretti e antigienici, senza speranza di uscire dalla loro situazione precaria, senza la possibilità di trovare un lavoro che permetta loro di sfamarsi, senza un tetto sotto cui ripararsi. Non potrebbero, alcuni di essi, trasferirsi in codesto paese in via di estinzione, occupare le case vuote, rimettere in coltura i campi, rianimare le stalle di voci di animali domestici, insomma rimettere in moto la vita in agonia?>>. Queste parole mi scossero, <<Ma che saggia questa fata! E che idea geniale ha avuto!>> mi dissi. Emisi un gridolino di soddisfazione, di piacere intimo e, per timore di essere scoperta, chiusi con cautela la finestra e corsi a rifugiarmi, di buonumore, sotto le coltri. Il sonno non si fece attendere. E mentre dormivo, profondamente, feci un sogno straordinario, vidi delle immagini insolite: la piazza del paese era gremita di gente; gruppi di persone chiacchieravano dinanzi al bar, delle donne attingevano acqua alla vecchia fontana, alcune galline razzolavano tra mucchietti d’ immondizia, dei cani e dei gatti si rincorrevano, una squadra di bambini giocava e gridava a perdifiato. E, cosa strana, vecchi giovani e bambini avevano la pelle nera. Osservavo stupefatta e disorientata dalla soglia di casa, non sapendo spiegarmi cosa fosse successo, quando una voce mi giunse all’udito: <<Non ti meravigliare: siamo noi che abbiamo operato il cambiamento, non lo desideravi pure tu?>>. Mi girai di scatto: le fate della notte mi erano di fronte e mi sorridevano. Fu in quel momento che ricordai e sorrisi anch’io, <<Sono felice>> dissi <<ma non mi faranno del male? >>. <<Non ti preoccupare, è gente umile e rispettosa e vuole solo sopravvivere. Tu, del resto, non resterai qui, verrai con noi, nel nostro palazzo magico, tra i monti, e avrai un appartamentino tutto per te con un terrazzo belvedere dal quale potrai osservare, a trecentosessanta gradi, uno scenario mozzafiato; ve-

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drai persino il mare>>, <<Ma le mie cose, i miei libri, il mio computer….La mia casa mi mancherà…>>, <<E’ già tutto nella tua “suite”, non manca proprio nulla. E la tua casa la vedrai abitata da una coppia di emigrati con quattro bambini maschi e una femminuccia, Sara, che occuperà la tua camera>>. Provai tanta gioia, e non mi dispiacque di sapere che quella famiglia di neri mi costringeva a lasciare il mio nido tanto amato. Stavo per rivolgere un’ultima domanda alle fate,” se potevo, qualche volta, andare a far visita a quella famiglia” ma non feci in tempo: mi svegliai d’improvviso. Non tardai a ricordare le immagini del sogno. Il sole mi saettò con i suoi raggi e nel suo linguaggio radioso mi sussurrò: <<Non passerà troppo tempo e tutto quanto t’è apparso mentre dormivi si avvererà>>. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo al Volturno (Isernia) 1° Premio (Sezione E) al Città di Pomezia 2017. Insegnante in pensione, laureata in Pedagogia, Antonia IZZI RUFO è nata a Scapoli e risiede a Castelnuovo al Volturno, frazione di Rocchetta (IS). Circa settanta i libri finora pubblicati, tra poesia narrativa saggistica e critica letteraria; ultimi: Felicità era... (2012), Paese (2014), Voci del passato (2015), La casa di mio nonno (2016). Collabora a diverse Riviste Culturali. Le sono stati assegnati numerosi Premi Letterari. Hanno scritto di lei Personalità della Cultura Nazionale e Internazionale; tra i Critici più noti: Nazario Pardini, Luigi De Rosa, Costas M. Stamatis, Paul Courget, Giovanna Li Volti Guzzardi, Giorgio Barberi Squarotti, Massimo Scrignòli, Enrico Marco Cipollini, Marco Delpino, Angelo Manitta, Sandro Angelucci, Emilio Pacitti, Luigi Pumpo, Carmine Manzi, Aldo Cervo.

“TEMPO RITROVATO” DI UN VECCHIO INTERPRETE DI TESTI di Emerico Giachery

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IÒ che è passato non è necessariamente perduto. Rimane in noi, e rimane nell’ inarrestabile fluire della vita attraverso quello che siamo stati, e che è


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stato, comunque, vita, e partecipazione, in un modo o nell’altro, alla vita. Il “tempo ritrovato” - per usare un’ espressione proustiana che mi è cara - di un vecchio studioso-interprete di letteratura può con profitto far rivivere, da partecipe testimone, una stagione particolarmente fervida e generosa della vita culturale europea: quella dei decenni che seguirono lo slancio della ripresa postbellica. Ripercorrendo qualche tappa e qualche scelta di un lungo e amato cammino, traggo illuminazioni anche sul senso della vita non soltanto professionale. Constato sempre più quanto la nostra professione di docenti e studiosi di letteratura sia legata alla vita profonda; ed è questa, almeno per me, una delle più valide ragioni del suo fascino. Ripenso con simpatia alle parole di Giovanni Macchia che rievocava la sua esperienza di studente alla vecchia Sapienza: «La letteratura indicava un modo per dare un senso alla vita, e la vita prendeva un senso dalla letteratura». Letteratura come vita è del resto il felice titolo del saggio più noto di Carlo Bo. La letteratura l’ho amata e insegnata non come “prodotto”, non come mero documento tra altri “rispecchianti” un determinato contesto, ma soprattutto come «esperienza spirituale» (questa bella definizione, riferita soprattutto alla poesia, appartiene a Jacques e Raïssa Maritain). So bene che “spirituale” è un termine che può insospettire, per la sua indeterminatezza, per un possibile residuo idealistico o misticheggiante. Ma non ho alcuna esitazione ad appropriarmene. E ripropongo con cautela, ma anche non senza sintonia, il pensiero di un eminente pensatore moderno, Karl Jaspers: «un’opera d’arte deve essere valutata esclusivamente sulla base del suo contenuto spirituale: la causalità sotto il cui influsso qualcosa è creata non dice nulla sul valore della creazione stessa». Ho sempre rivendicato l’assoluta centralità del testo. Inoltre la mia battaglia di sempre è stata ed è contro ogni forma di minimalismo riduttivo. Se riesamino il possibile senso - sperando che un senso esista - della mia vita trascorsa,

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non potrei, comunque, immaginare in alcun modo l’interprete senza il docente. L’ irradiante ‘esserci’ del testo nel momento magico dell’interpretazione condivisa con un pubblico, soprattutto di studenti, avvalora e arricchisce la paziente vigilia della ricerca, che altrimenti rischierebbe di disseccarsi in sterile e uggiosa accademia. La mia musa prediletta, sia come studioso sia come essere umano, si chiama sintonia. ‘Interprete’, inoltre, è una definizione in cui mi riconosco e mi identifico pienamente. Su una linea ermeneutica che da Schleiermacher e Dilthey perviene a Ricœur e al nostro Pareyson mi sento a mio agio: nei miei limiti, s’intende, di semplice interprete di testi letterari, non chiamato perciò a filosofare e a teorizzare, e tuttavia indotto talvolta, anzi spesso, a riflettere sui fondamenti dei diversi metodi interpretativi, esercitando così quella che potrei definire, quasi celiando, una ‘critica della ragion critica’. Alla critica senza aggettivi, al suo assiduo scavare e valutare anche con sguardo storico, di cui l’ermeneutica (alla quale soprattutto mi sono dedicato) è soltanto un aspetto, è qui doveroso, in ogni caso, rendere omaggio. La cultura italiana le deve davvero molto. Penso, per esempio, al deciso quanto autorevole riconoscimento della grande arte di Verga «fatta di bontà e di malinconia»: riconoscimento operato da Croce già nel 1903, ossia molti anni prima che l’ancor giovane Luigi Russo, nel lontano 1920, ne fissasse gli aspetti essenziali nell’appassionato saggio verghiano, arricchito poi negli anni dallo stesso studioso, e che resta, a mio parere, tuttora fondamentale. Un altro esempio di fecondo approfondimento critico, sul quale si misurò con passione la mia generazione, fu il ripensamento della seconda stagione di Leopardi culminante nella Ginestra. Si contestò e si scavalcò utilmente la conclusione, ingiustamente riduttiva, di Croce: “Leopardi poeta dell’idillio”, formula, che era divenuta il titolo di un libro di Fernando Figurelli edito nel 1941. L’intera coscienza letteraria italiana, e non soltanto italiana ha così potuto arricchirsi di una più motivata rilettura dell’ultimo Leopardi, cul-


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minante nel messaggio supremo della Ginestra, finalmente sottratta all’ipoteca del crivello crociano ‘poesia-non poesia’, e salutata nella pienezza del suo diritto di affermarsi in unità dialettica di poesia pensante e pensiero poetante. E fu liberazione e stimolo per tutta la critica italiana. Il fiore della ginestra «che il deserto consola», e impavido sfida l’ assurdo dell’esistenza e la spietatezza della naturadestino, è forse anche una pertinente icona, nell’intenzione poeta, della poesia in genere e in particolare della cosiddetta “poesia eroica di Giacomo Leopardi” (magistralmente sintetizzata in uno scritto di Walter Binni con questo titolo, compreso nel volume La protesta di Leopardi). Debbo comunque ricordare che a Walter Binni, così risoluto nella valorizzazione di un “ultimo Leopardi” anti-idillico, dava fastidio, quasi fosse indebito ritorno all’idillio proprio alla fine della vita, la presenza del Tramonto della luna. Che fu da lui considerato un momento «debole dell’ ispirazione leopardiana e scarsamente animato», con «una musica stanca». Eppure quel testo esiste, ed esiste proprio in quel momento supremo dell’esistenza di Leopardi, ed è uno splendido testo poetico, molto caro a Ungaretti, che non si può certo dire che non si intendesse di poesia, e che tra l’altro, per anni, aveva dedicato a Leopardi gran parte delle sue lezioni nell’Ateneo romano. Estraneo a teoremi critici preconcetti, Ungaretti partecipava con emozione alla «grande pausa cosmica» prodotta dalla scomparsa della luna ed evocata in quella che egli definiva addirittura, in un momento d’entusiasmo, «la più bella poesia di Leopardi». Lo schema eristico di Binni, peraltro motivato e comunque stimolante, in quel caso sfiorava il rischio di irrigidirsi in ideologia. Rischio presente - e quanto! - nel saggio leopardiano, senza dubbio coerente e rigoroso, di Croce nel celebre volume Poesia e non poesia. Quando si confrontava con Leopardi, Croce era soltanto il critico che giudica e distingue; ed era lontana da lui la “sintonia”, che ho poc’anzi salutato come musa dell’interprete. Sintonia invece generosamente presente, per esempio, nel saggio crociano su Ariosto “poeta dell’ armo-

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nia”. Per arricchire l’elenco dei meriti e doni della critica italiana con un nuovo significativo esempio, ne menziono ora uno con particolare gioia e compiacimento. Sottratto alla fruizione quasi casereccia dei simpatici “romanisti”, Giuseppe Gioachino Belli, uno dei miei poeti prediletti, entra a pieno titolo nel Parnaso dei grandi soprattutto per merito di Giorgio Vigolo, che tra l’altro fu anche notevole poeta e critico musicale, e poi di Carlo Muscetta e della sua scuola. Senza però dimenticare che già Sainte-Beuve, nei Nouveaux lundis, aveva definito Belli «un véritable poète», dopo che Gogol’ gli aveva parlato con entusiasmo delle letture che il poeta faceva dei propri sonetti nel salotto romano della Principessa Wolkonskaia. Inoltre, a quel che pare, D’Annunzio considerava Belli il miglior artefice di sonetti dopo Petrarca e ne teneva l’ opera sul comodino. Acquisizioni come queste appartengono, come un dono, a tutti noi; sono accolte a pieno titolo anche nelle scuole; sono integrate nella coscienza culturale italiana, e non soltanto italiana. Verga ora si studia nelle scuole – almeno si spera – anche fuori dello schema limitante dell’ appartenenza al realismo europeo, che rappresentò per lo scrittore, nel momento nodale della metà della vita, un incentivo maieutico più che un condizionamento: la “spinta liberatrice” felicemente intuita e segnalata da Croce. Nella cara e fervida stagione “verghiana”, stagione ancora felicemente giovanile, del mio cammino d’interprete, dietro quella ricerca del vero avvertivo la ricerca dell’ “autentico”, nell’accezione quasi esistenzialistica del termine. Avvertivo l’implicita ricerca, anche etica, del senso della vita (e forse indirettamente della ‘propria’ vita). E la sentivo proprio negli anni in cui anch’io, al pari di Verga, esperivo la svolta della metà della vita: una svolta che Jung, accogliendo e rielaborando intuizioni tradizionali, con ragione considera cruciale. Secondo Bacone, per arrivare alla retta conoscenza della verità, occorre far piazza pulita dei falsi idoli, gli idola, che inquinano la verità. Per l’interprete di testi letterari, uno degli idola più pervicaci e insidiosi è senza dubbio l’ideologia. L’ideologia fu definita


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qualche anno fa da Roberta De Monticelli, con mia piena adesione, «degenerazione ottusa dell’ideale», incapacità a comprendere «la singolarità di ciascuna condizione umana», e perciò «adesione cieca a una qualche visione del mondo». «Ideologia è un falso rapporto con la verità, cioè con la ricerca della verità». Allo spegnersi – che è peculiare dell’ ideologia secondo Roberta De Monticelli – «dell’ attenzione infinita necessaria a cogliere l’ unicità di ciascuna vita», possiamo far corrispondere, nell’atto ermeneutico, una carenza nell’intendere le specificità del testo-persona. L’ideologia rappresenta, nell’interpretazione di un testo, un vero e proprio letto di Procuste. Non farò nomi perché qui m’interessa segnalare il (supposto) peccato, non il peccatore. Nell’articolo, che risale a parecchie diecine d’anni or sono - anni sessantotteschi e perciò molto inquinati da ideologie - di un’ insegnante apprezzata nel mondo scolastico e sindacale romano, a proposito di alcuni passi dell’Infinito leopardiano, è scritto che «nelle morte stagioni e specialmente nella presente e viva» deve leggersi «un richiamo etico all’ impegno, un ritorno alle cose concrete viste nel loro sviluppo storico». In questo modo si è completamente tradito e stravolto il senso della meditazione sul Monte Tabor, che tra l’ altro risale al 1819, ossia alla piena stagione della cosiddetta ‘poetica dell’idillio’. Il più efficace contravveleno contro insidie ideologiche è la presenza costante e operante di un animus sostanzialmente filologico. «La filologia è la nostra etica in quanto studiosi di letteratura», ho tante volte ripetuto ai miei studenti, nel senso che il rispetto del testo è un’esigenza etica, oltre che una norma di deontologia professionale. «Quando si parla del testo e della sua singolarità nasce il rispetto dell’altro», scriveva un avvincente paladino dell’alterità, l’umanissimo filosofo Emmanuel Lévinas. Uno dei nostri filologi più apprezzati, Cesare Segre, invitava ad avvicinare filologia ed ermeneutica. Credo sia giusto tener conto del suo invito. Mi piace ricordare anche la bella formula dell’amico Mario Marti, dantista, leopardista, studioso principe del realismo del

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Duecento e della letteratura salentina, scomparso nel 2015 più che centenario : «critica come filologia integrale». Come ogni autentico amore, anche l’amor di poesia si arricchisce e consolida nella conoscenza dell’oggetto amato e nel formulare in parola sempre più piena e pertinente le ragioni del proprio sentire. Privilegio gioioso dell’interprete è poterne rendere partecipi e coadiuvanti ascoltatori e lettori. Emerico Giachery Roma 1° Premio (Sezione F) al Città di Pomezia 2017. Emerico GIACHERY, già ordinario di Letteratura italiana moderna e contemporanea nella II Università di Roma-Tor Vergata, dopo avere insegnato negli Atenei di diverse città italiane e straniere, tra cui Ginevra. Una trentina le opere pubblicate. Tra le altre: “Metamorfosi dell’orto e altri scritti montaliani”, 1985; “Nostro Ungaretti”, 1988; “Verga e D’ Annunzio; Ritorno a Itaca”, 1992; “Dialetti in Parnaso, 1992; “Letteratura come amicizia”, 1996; “Luoghi di Ungaretti, 1998; “Ungaretti “verticale” (in collaborazione con Noemi Paolini), 2000; “La parola trascesa e altri scritti”, 2000; “L’avventura del sogno”, 2002; “Albino Pierro grande lirico”, 2003; “Gioia dell’interpretare. Motivi, Stile, Simboli”, 2006; “Belli poeta di Roma tra Carnevale e Quaresima”, 2007; “Abitare poeticamente la terra”, 2007; “Ungaretti ad alta voce ed altre occasioni”, 2008; “Voci del tempo ritrovato”, 2010; La vita e lo sguardo (2011); “Passione e Sintonia Saggi e ricordi di un italianista” (2015). Alcune “Lecturae Dantis (Inferno XIII, Purgatorio X, Paradiso I e III)” sono state pubblicate di recente con l’aggiunta di cd contenenti la lettura vocale dei canti fatta dallo stesso lector.

EMIGRAZIONE E INTEGRAZIONE di Antonio Visconte paesi europei, quindi, anche l’Italia, sono vincolati da crescenti flussi migratori di singoli gruppi, che lasciano i paesi d’ origine per molte ragioni, la più frequente delle quali è la sopravvivenza. Rispetto al passato la emigrazione massiccia di popoli si caratterizza per il fatto che nella maggioranza dei

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casi, proviene da paesi poveri e comporta una condizione di difficile adattamento sia per gli stranieri che per gli autoctoni. Gli immigrati oggi in Italia non si limitano ad esprimere bisogni di sopravvivenza, legati ad un inserimento temporaneo, ma evidenziano veri e propri bisogni di permanenza. Tutto ciò genera nuove dinamiche di tipo sociale, culturale, economico, che rappresentano una sfida concreta, perché comportano l’ insorgenza degli uni contro gli altri. A questo proposito dicono gli Orientamenti che l’accentuarsi delle situazioni di natura multietnica e plurietnica, può tradursi in occasione di arricchimento e di maturazione, in vista di una convivenza basata sulla cooperazione, lo scambio e l’accettazione produttiva, delle diversità, come valori di crescita democratica. Per questo spetta all’educazione, alla multiculturalità, il riconoscimento e il valore delle diversità che si possono riscontrare nella scuola medesima e nella vita sociale. La scuola deve misurarsi con questa realtà multietnica, deve saper gestire la quotidianità del rapporto educativo. La nozione di educazione interculturale nasce con l’intento di sostenere i bisogni dei bambini, costretti a recuperare l’ abilità e le competenze nel minor tempo possibile. L’educazione rappresenta un evento di apprendimento che la persona può vivere indipendentemente, la pedagogia, invece, è un campo del sapere, che studia ed organizza le procedure per educare. Un’educazione di tipo compensativo si sancisce con il sostanziale riconoscimento dell’alterità e della differenza, quale “condizione essenziale” e l’indicazione di una prospettiva mira alla costruzione di nuovi modi di essere e pensare, perché tutti viviamo in un unico “villaggio globale”, soggetti ad una cultura del Duemila multietnica e multirazziale. Siamo oggi in presenza di un’equitante esplosione di identità etniche parziali (ex Iugoslavia, Cecenia), che portano a misconoscere il valore della diversità. L’identità dell’ essere umano non include il suo solo Sé, bensì l’intero sistema delle relazioni che lo colle-

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gano all’altro, inteso come tanti uomini e tante regole e valori. Così, esplorare la differenza vuol dire “mettersi in cammino”, alla ricerca delle proprie origini, accettando anche il rischio della perdita della propria identità, per trovare o ritrovare se stessi. La pedagogia interculturale ha pertanto il compito di formare individui disposti ad incontrare le differenze etniche, viste come risorsa per lo sviluppo e l’ umanizzazione del mondo intero. Il messaggio che la scuola deve far passare, è quello di una cultura molto vasta, aperta al mondo, capace di esprimere la propria identità senza chiusure localistiche, in grado di formare cittadini del mondo. La pedagogia interculturale si occupa di organizzare le condizioni più favorevoli all’ integrazione e all’interazione fra mondi di diversa origine e tradizione etnica; integrazione come processo direzione univoca, in cui l’individuo riesce a far propri i valori e gli stili di vita, senza perdere i propri tratti originari, determinando con ciò un’efficace dialettica tra più culture: integrazione, potrete dire, come convivenza e comunicazione tra pluralità, per sottolineare ciò che unisce e ciò che differenzia. Nella scuola materna, una particolare attenzione sarà prestata all’ambiente e alla strutturazione degli spazi e dei tempi, al gioco, come forma privilegiata di interazione e di apprendimento dell’idioma. Sul piano operativo, si potranno organizzare momenti formativi, durante i quali i bambini possono parlare e intervistarsi a vicenda, ascoltare musiche e fiabe e preparare mostre di foto ed immagini dei diversi paesi. È necessaria da parte della scuola, un’attenta considerazione ed una serie di interventi, intesi a garantire alla generalità degli immigrati l’ esercizio del diritto allo studio e a valorizzare le risorse provenienti dall’apporto di diverse culture. La realtà della presenza di stranieri rende di particolare attualità una nuova e mirata attenzione della scuola all’educazione interculturale. L’educazione interculturale promuove il dialogo e la convivenza costruttiva tra soggetti appartenenti a culture diverse e li integra in


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una visione globale del mondo. Antonio Visconte Caserta 3° Premio (Sezione F) al Città di Pomezia 2017. Antonio VISCONTE è nato in San Prisco (Caserta) nel 1935. Ha frequentato il liceo classico di Santa Maria Capua Vetere e l’Università Federico II di Napoli, laureandosi in lettere moderne. Insegnante di materie letterarie nelle scuole statali, ha svolto un’intensa attività di docente ai corsi abilitanti e preparazione ai concorsi a cattedra, di critico d’arte e cronista giudiziario. Oltre al poema Il Messia (2012) - 14.400 endecasillabi sciolti, raccolti in ottave, proseguendo il filone poetico aperto dall’ Ariosto e dal Tasso -, ha pubblicato - in latino - le sue memorie, e, inoltre, poesie e racconti vari. Compone musica per singoli strumenti, voci, orchestra e banda.

MAURICE CARÊME SCRIVE A

FEDERICO DE MARIA LETTERE D'AMICIZIA VERA di Ilia Pedrina Introduzione UESTO breve saggio intende portare alla luce, per la prima volta nel campo della critica letteraria italo-europea, la relazione d'amicizia vera tra il poeta belga Maurice Carême (1) e lo scrittore, poeta e critico letterario Federico De Maria, palermitano. Lionello Fiumi conosce entrambi, Francesco Pedrina è amico di tutti loro e le lettere che prenderò in esame saranno testimonianza di un fermento d'attività ben carico d'entusiasmo e di dinamica quotidianità. Tutto ruota intorno alla figura prestigiosa di Federico De Maria, che ha lasciato a Palermo tutta la sua eredità culturale costituita dalla ricchissima biblioteca e dal Fondo De Maria, con lettere, fotografie, cartoline e telegrammi a lui inviati per amicizia ed affinità di motivazioni e di prospettive, incarnati poi in progetti concreti. Le testimonianze epistolari del Carême, come quelle del Fiumi e del Pedrina, mi sono state fornite dal responsabile dell'Archivio Federi-

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co De Maria. L'occasione è importante. Egli organizza nel 1951 il Premio Siracusa e per tempo invita quelli che stima per valore e per lealtà di temperamento, allo scopo di far conoscere e diffondere la corrente letteraria del Realismo Lirico. Infatti egli sa bene questo: l'analisi dei testi di Storia della Letteratura Italiana del Novecento porta a considerare che l'offerta formativa agli studenti degli Istituti Superiori arriva a presentare ed a trattare poeti fino alla triade della corrente dell'Ermetismo, Giuseppe Ungaretti, Salvatore Quasimodo, Eugenio Montale, aggiungendo forse il triestino Umberto Saba, per quei docenti curiosi che vogliono andare oltre e ci inseriscono pure Cesare Pavese, politicamente. Si doveva ribaltare D'Annunzio, perché cantore mitomane e poi, a conclusione di un anno scolastico con gli esami di maturità alle porte e la calura in classe, basta proprio così, per non far fare ai giovani troppa confusione. Il De Maria sa bene anche che da Povolaro di Dueville, alle porte di Vicenza, dove vive con la famiglia fin dal 1939, si leva la voce solida e temeraria di Francesco Pedrina, scrittore e critico letterario, già al lavoro per la Casa Editrice Luigi Trevisini di Milano fin dal 1935: il Pedrina allora la pensa assai diversamente dai suoi colleghi docenti ed inserisce in tutti i suoi testi di Storia ed Antologia della Letteratura Italiana proprio la corrente del Realismo Lirico. Maurice Carême Ho colto la prima informazione sulla produzione lirica del belga Maurice Carême in '32 POETI BELGI - Testi scelti e tradotti da LIONELLO FIUMI, pubblicato nel 1939 e con Introduzione esplicativa atta a chiarire la motivazione dell'iniziativa. Riporto qui di seguito le quattro liriche del Carême scelte dal Fiumi. SEI BELLA, O MADRE... Sei bella, o madre mia, Come pan di frumento, Nei tuoi occhi di bimba il mondo tiene tutto.


POMEZIA-NOTIZIE La tua carezza è pari Alla betulla argentea Che il mattino corona Di mormorii d'api. Sai di buona lavanda, Di cannella e di latte, Il tuo cuor fresco e candido Mi profuma la casa E l'autunno è sì dolce Intorno ai tuoi capelli Che gli ultimi cuccù Vengono a dirti addio. POICHÉ LA ROCCIA S'ACCONTENTA Poiché la roccia s'accontenta D'appena qualche ciuffo d'èrica, Non dar mai al tuo desiderio Altro color che la preghiera. Sai bene che la vita è nuda Ed umile e dolce si piega. Che bisogna lasciare i giunchi Cantare il vento in riva all'acqua. Nulla è più lieve di colomba Che vola sul tetto natìo. Si può fare il giro del mondo Solo a parlar con una stella. S'INVITAVA SEMPRE L'INVERNO... S'invitava sempre l'inverno. Entrando lasciava alla porta I grossi zoccoli di ghiaccio. Si sedeva accanto a mia madre, L'inverno, e vicino alla stufa Dove scoppiavan le castagne Tutte gonfie di confidenze. Non s'aveva che da guardarle Perché quelle ci raccontassero Lunghissime storie di fate. Ne sapevano! Ne sapevano! E mia madre faceva loro Un cenno d'intesa. L'inverno Si dimenticava d'uscire

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Ad agghiacciare i cardellini. MELI Ci vuol più d'una mela Per empìre un canestro. Ci vuole più d'un melo Perché canti un verziere. Ma non ci vuol che un uomo Perché un po' di bontà Splenda come una mela Che si sta per dividere. (Maurice Carême, n. a Wavre nel 1899, in Lionello Fiumi, 32 POETI BELGI, op. cit. pp. 16 18) Manca il testo francese a fronte, ma nella sezione 'Italianismo e italianisti in Belgio', Roma, Il Libro Italiano, 1939, inserito in 'Poeti d'oggi', n. 19, Lionello Fiumi considera seriamente tutti quegli studiosi valloni, di lingua francese, e fiamminghi, di lingua neerlandese, che si sono interessati alle cose italiane da stranieri, lasciandosi affascinare dalla nostra letteratura e dai nostri poeti. Queste poche pagine d'introduzione, con Autori e testi citati, sarà oggetto di un mio prossimo approfondimento critico. In questa sede basta citare Robert Vivier, che Fiumi stima moltissimo: all'epoca era docente all'Università di Liegi ed il Fiumi dice di lui: “...Non soltanto egli ha iniziato, nel settimanale Cassandre di Brusselle, una cronaca di attualità letteraria italiana troppo presto sospesa (1934-1935), ma, con fine senso d'arte, comprensibile nel lirico di Au bord du temps, ha dato anche numerose traduzioni di poeti, da Carducci e Pascoli (in Le Flambeau di Brusselle, 1929) a Palazzeschi e Jahier e, per il Journal des Poètes, eroica iniziativa del Floquet, dal Govoni al Capasso...” (L. Fiumi, op. cit. pp. 4-8). Maurice Carême: lettere a Federico de Maria. Federico De Maria nasce a Palermo, il 21 luglio 1885 e si sente in forze bastevoli per fondare e dirigere, nel 1905, la rivista letteraria La Fronda, con altri giovani intellettuali palermitani. Ha successo e la sua voce arriva ben oltre Marinetti ed i suoi chiassosi amici. Così nel corso degli anni si creano solide atti-


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vità critico-letterari ed intensi scambi epistolari. Maurice Carême, allora, tra i firmatari del Manifesto del Realismo Lirico elaborato dallo scrittore e poeta altarese Aldo Capasso, scrive al palermitano Federico De Maria. Ho ricevuto autorizzazione scritta da Jeannine Burny, Presidentessa della Fondation Maurice Carême, a riprodurre il materiale inserito in questa ricerca analitica, acconsentendo così ad una mia specifica richiesta. Riporto per intero la lettera datata 'Bruxelles, le 20 Décembre 1950' e scritta mano su due fogli, il primo con intestazione in alto a destra 'MAURICE CARÊME/14 AVENUE NELLIE MELBA/ANDERLECHT-BRUXELLES/TEL. 21 67 75' “Cher poète, C'est grâce à votre lettre reçue en même temps que celle de Madame Pesce-Gorini, lettre où vous me dites clairèment en français: 'Je suis l'un des membres de la Commission de ce prix 'Siracuse', qui a été attribué à vous et à Lionello Fiumi; j'ai admiré beaucoup vos poèmes, si inspirès et vibrants d'une spiritualité aujourd'hui si rare', que j'ai enfin osé dèclarer que je partageais avec mon grand ami Lionello Fiumi l'honneur d'être prix Siracuse. Je vous remercie de tout coeur de vos felicitations et surtout de l'envoi de votre livre. Je connais assez l'italien pour lire les poèmes en m'aidant d'un dictionnaire et votre inspiration me semble nettement soeur de la mienne. Je vous envoie deux de mes recueils de vers: La Maison Blanche et La Lanterne Magique avec l'espoir qu'ils vous plairont autant que me plaisent vos vers. Inutile de vous dire sans doute que nous vous sommes profondément reconnaissants de bien vouloir nous inviter à Palerme, pour la fête de l'Esprit que vous organisez à l'occasion des Célébrations du VII° centenaire de la poesie. Je puis déja vous annoncer que Vandercammen et moi-même viendront avec nos épouses à Palerme. Bernier n'est pas encore certain de pouvoir se déplacer. Quant à Libbrecht, il ma répondu que ses affaires ne lui permettaient pas

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de venir en Italie à cette date. Je me réjouis très fort d'avoir bientôt cette occasion inespérée de vous rencontrer et je vous prie d'agréer, mon cher poète, mes salutations les plus cordiales. Maurice Carême” (“Caro poeta, è grazie alla vostra lettera, ricevuta contemporaneamente a quella della Signora PesceGorini, lettera nella quale voi mi dite chiaramente in francese: 'Sono uno dei membri della Commissione di questo Premio 'Siracusa', che è stato attribuito a voi ed a Lionello Fiumi; ammiro molto le vostre liriche, così ispirate e vibranti d'una spiritualità oggi assai rara', che alla fine mi son permesso di dire che ho diviso con il mio grande amico Lionello Fiumi l'onore di essere Premio 'Siracusa'. Vi ringrazio di tutto cuore dei vostri consensi condivisi e soprattutto dell'invio del vostro libro. Conosco abbastanza l'italiano per leggere le liriche con l'aiuto d'un dizionario e la vostra ispirazione mi sembra pienamente in sintonia con la mia. Vi invio due delle mie raccolte in versi: La Maison Blanche e La lanterne Magique nella speranza che vi piaceranno tanto quanto piacciono a me i vostri versi. Senza dubbio è inutile dirvi che vi siamo profondamente riconoscenti di volerci invitare a Palermo, per la Festa dello Spirito che voi organizzate in occasione del VII Centenario della poesia. Vi posso già annunciare che Vandercammen ed io verremo a Palermo con le nostre mogli. Bernier non è ancora certo di potersi liberare. Quanto a Libbrecht, mi ha risposto che i suoi impegni non gli permettono di venire in Italia per quella data. Rinnovo la mia gioia tanto intensa di aver presto questa occasione insperata di incontravi e vi prego di accettare, mio caro poeta, i miei più cordiali saluti. Maurice Carême” (trad. di I. Pedrina). Si tratta di una testimonianza assai importante perché apre a considerazioni dal colore morale inequivocabile: stima reciproca, sintonia d'intenti e di prospettive, convergenza nel dettato poetico, fraterna e profonda amicizia. Lionello Fiumi, come ho già detto, ha aperto la strada alla presenza di poeti belgi in


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Italia: qui infatti dal Carême vengono citati Edmond Vandercammen, Geo Libbrecht e Armand Bernier, che, con le loro liriche, sono presenti nel volume di Lionello Fiumi 32 POETI BELGI - Testi scelti e tradotti da Lionello Fiumi, allegato al numero 19 della Rivista POETI D'OGGI, Quaderni della poesia Italiana e straniera a cura di Fidia Gambetti, con data Giugno 1939 - XVII ed un inciso nel retro di copertina firmato da Mussolini : “SPECIE NEI TEMPI MODERNI LA POESIA È NECESSARIA ALLA VITA DEI POPOLI”, tutto in lettere maiuscole, appunto e con una avvertenza 'Rivista non premiata dalla Reale Accademia d'Italia'. Edvige PesceGorini, poetessa romana e sapiente organizzatrice di eventi letterari è presenza importante nel Realismo Lirico: qui il poeta belga mette in risalto il suo ruolo centrale nell'occasione del Premio Siracusa, a fianco del palermitano De Maria ed il premio sarà ugualmente ripartito tra il Carême e il Fiumi, che il Carême definisce 'mon grand ami' e con il quale è felice di condividere questo Premio Letterario. La seconda lettera, scritta a mano su due fogli e carta non intestata, datata 'Bruxelles, le 30 janvier 1951', s'apre con accenti emotivi e sinceri: 'Cher ami lontain...'. Il Carême confida all'amico lontano, quasi nel desiderio di averlo al suo fianco, d'aver superato una febbre spossante ed apre il discorso su autorità nel campo della Letteratura Italiana, che anche Fiumi ben conosce, come Robert Vivier e Robert van Nuffel, con rispettivi indirizzi, per invitarli nell'occasione del Premio. Evidentemente il De Maria ha chiesto notizie del lavoro poetico 'La ballade de Lancelot', perché egli dichiara che si, tale lavoro è stato messo in musica ma non crede che il musicista possa varcare la frontiera. Gli confida inoltre di aver parlato con Vandercammen per ore di lui, del poeta Federico de Maria, poeta puro, poeta vero. Allega in terzo foglio, vergato a mano, una sua poesia, che ho avuto l'autorizzazione a riportare, con le opportune modifiche volute dal Carême stesso.

Démâtez-moi, deportez-moi, Que je râle, que je divague Et râle à me casser la voix.

AMOUR Amour, sous vos croulantes vagues,

Del documento successivo, senza data e senza busta, riporto parti intense che testimo-

Dessèchez-moi le sang, les lèvres, Tordez mes mains, glacez mes os, Salez mes jeux, brûlez ma peau, Accroissez encore ma fièvre. Ah! doublez, redoublez les coups, Ecrasez-moi ce coeur en larmes, Remartelez-le sous vos lames Et ne m'èpargnez pas surtout Si, rendu, hagard, à genoux, J'implorais une heure de grâce! Maurice Carême Copyright: Fondation Maurice Carême. Questa è la versione definitiva del sonetto, corretta dal poeta ed inserita successivamente nella raccolta di poesie Heure de grâce, pubblicata dal Carême nel 1957 e l'unica ad avere l'autorizzazione ad essere riprodotta. Qui di seguito la traduzione in versi liberi, mantenendo la struttura del sonetto: AMORE Amore, sotto le vostre onde impetuose, Massacratemi, deportatemi, Che io urli, che io vaneggi Che io straparli in urla fino a perdere la voce. Disseccatemi il sangue, le labbra, Stritolate le mie mani, agghiacciate le mie ossa, Assalate i miei occhi, bruciate la mia pelle, Accrescete ancora la mia febbre. Ah! Duplicate, raddoppiate a nuovo i colpi, Annientate questo cuore in lacrime, rimartellatelo sotto le vostre lame E soprattutto non risparmiatemi affatto Se arreso, sconvolto, in ginocchio, Io imploro un'ora di grazia. (Trad. di Ilia Pedrina)


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niano gli ulteriori livelli di approfondimento intellettuale e creativo che si sta costruendo tra i due, perché, è chiaro, non si tratta solo di piacevole interesse a partecipare al premio letterario! Mon cher Federico de Maria, vous devrez habiter a Bruxelles où je devrais habiter Palerme. C'est une chose merveilleuse que de rencontrer un frére en poèsie, mais combien ce serait plus mervelliux de n'être pas séparés par des centaines de lieues. Ce sera, en tout cas, l'un des rencontres inoubliables de ma vie que celle du poète Federico de Maria. Il est rare chez un ecrivain que l'homme soit à la hauteur de son oeuvre. Or, je vous ai trouvé exactement comme je vous avais imaginé: ardent, généreux, enthousiaste et direct comme votre poèsie... Je vous remercie du plus profond de moi-même de m'avoir invité à ce congrès dont les joours ont passé tellement vit que l'instant où je vous ai dit au revoir m'a semblé suivre celui où vous m'avez pris dans vos bras pour m'accueillér. Croyez bien que partout où j'ai pu temperer ma main dans une eau magique - aufin de revinir un jour dans celle Sicile que m'est devenue chére -, je l'ai fait en pensant que Dieu nous reunirait encore sur cette terre. Je suis reparti de Palerme agrandi par votre amitiè, exalté par cette fraternité que vous avez su creèr entre les poètes venus de tous les coins du monde – et c'est une chose trop rare pour ne pas vous en rendre grâce. Maurice Carême”. Il materiale epistolare si arricchisce di due cartoline, la prima che raffigura il Musée de la Porte de Hal, in Bruxelles, con data 'le 20 octobre 1951' ed indirizzata all'amico De Maria mentre si trova a Parigi; la seconda che coglie uno squarcio del 'Mer et Dunes - Duinen en Zee'. In entrambi questi documenti è menzionata Caprine, soprannome dato dal poeta belga alla moglie Andrée Gobron (1897-1990). Si è ormai entrati nell'atmosfera di questa lingua stupenda e non occorre traduzione alcuna, perché il suo dire ti risuona dentro e si ammanta di fraterni accenti.

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All'indirizzo di Federico De Maria, in Largo Santa Sofia, 6, a Palermo, arriveranno nel contempo lettere del Pedrina e del Fiumi e l' orchestrazione si arricchirà di variazioni assolutamente originali. Nell'Archivio della Fondation Maurice Carême non sono presenti lettere del De Maria, ma quanto è stato sopra riportato è prova seria del grande livello d'empatica amicizia costruito a partire dalla vita e dalla vita vissuta attraverso il canto di Poesia. Ilia Pedrina Vicenza NOTA 1 - Di Maurice Carême sono stati pubblicati sulla Rivista Letteraria Pomezia Notizie i seguenti brevi studi critici: I. Pedrina, Jeannine Burny 'Le jour s'en va toujours trop tôt. Sur les pas de Maurice Carême, marzo 2011; I. Pedrina, Maurice Carême, Le Jongleur, giugno 2013; I. Pedrina, Maurice Carême, La voix du silence, maggio 2014; I. Pedrina, Maurice Carême: il volto di un poeta allo specchio, maggio 2015; I. Pedrina, In 'Sac au dos' Maurice Carême svela lo sguardo del viandante in ricerca, giugno 2015 (per gentile consenso del Direttore, prof. Domenico Defelice). 2° Premio (Sezione F) al Città di Pomezia 2017. Di Ilia PEDRINA non possediamo alcun curriculum, a causa della sua riservatezza; sappiamo che si è laureata all’Università degli Studi di Padova. Da anni collabora con Pomezia-Notizie, sulle cui pagine sono apparsi numerosi suoi saggi, apprezzati in Italia e all’estero. Amica di scrittori e poeti, molti dei quali conosce di persona. Ha collaborato col suo papà, il grande Francesco Pedrina, autore della Storia della Letteratura Italiana - per decenni adottata da Licei e da Istituti superiori - e di molte belle antologie, tra le quali Gonfalon Selvaggio e la celeberrima Musa Greca.

___________________________________ ___________________________________ IL CROCO Il Quaderno Letterario di POMEZIA-NOTIZIE Il mezzo più sicuro ed economico per divulgare le vostre opere. All’Autore vengono destinate 20 copie; le altre, allegate al mensile, inviate in tutto il mondo. Ogni Quaderno, in genere, ottiene diecine di recensioni (pubblicate, poi, su queste pagine) e, non di rado, anche traduzioni. Prenotatelo! ___________________________________


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RENATO CAMMAROTA e la sua poetica che vuole essere viatico alla speranza di Anna Aita

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OME nella prefazione Francesco Barone ci relaziona, Renato Cammarota, nello scrivere versi, ha la mano leggera, quasi un soffio di parole sfuggite al pensiero per librarsi, rondini in volo, e combinarsi insieme senza fatica, in maniera semplice e musicale. Scorrono le pagine e scorrono pensieri e versi del nostro Poeta che ricorda e descrive, rammenta e rimpiange. E, insieme alle sue parole, scorre il passato, la vita fatta di albe e di incipienti pensieri, di cose nate o appena perdute, di un’altra estate ancora fuggita via, di un perdono che tarda ad arrivare, di giorni belli e di quelli senza pace, di una mamma mai rimpianta abbastanza. E ancora: l’amore per l’Italia, quello per gli animali, il ricordo del crollo a Sarno: i volti segnati dalla paura, la desolazione della distruzione sulla quale, “Unica musica”, regna il silenzio, “padrone dei luoghi”. Vorrei soffermarmi, in particolare, sulla tenerezza della poesia che chiude la raccolta poetica, seguita, poi, dagli “Haiku”: “Ho cercato”. Tra questi versi, fruga Renato. Ma cosa cerca così ansiosamente? Ancora il suo vissuto, ovviamente. Ma, questa volta, cerca in un passato lontano e innocente. Senza malizia. Vuole ritrovare se stesso bambino, i giochi, l’ aia mai dimenticata e quel tempo testimone di una felicità senza ritorno. Allora, si cantavano insieme i canti del Natale e si scriveva, emozionati (stavolta in luogo appartato - nessuno doveva vedere!), la letterina finemente decorata che prometteva obbedienza e amore, al fine di ottenere, poi, il bacio soddisfatto di papà, che tutto sapeva e niente doveva sapere: “Quel bambino,/”, scrive il Poeta, ancora oggi commosso al pensiero, “fattosi uomo,/si è perso tra la folla/della gente indifferente”. Ed è una chiusa, triste, sofferta che costringe ad interrogarsi: dove sono finiti i sentimenti di allora, quando nella carezza della mamma,

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nella tenerezza del papà o in una macchinina di plastica di pochi soldi, ricevuta in dono nel giorno di Natale, era racchiusa tutta la felicità del mondo? Dunque, l’arte di Renato Cammarota si configura in una delicata trascrizione autobiografica, quasi suggestivo diario che si compone nella intimità della sua storia esistenziale. La parte successiva, quella degli Haiku, direi, è, forse, ancora più intensa. Il primo è proprio un ceffone in pieno volto, una scudisciata alla vita, il freddo intenso di una insoddisfazione che raggela i pensieri: “Acqua gelida/sono i trascorsi giorni/della mia vita”. Ma, andando avanti, qualche pensiero consola il nostro inciampo: “Una cicala/su un pesco fiorito/canta l’estate”; “Questa mattina/l’arcobaleno brilla/ come un sole”; “In autunno/le foglie dormiranno/sul prato d’erba”. Comunque, poesia o Haiku, l’attività poetica di Renato Cammarota è caratterizzata da una costante disposizione a cogliere gli aspetti più veri del vivere, versificando convenzioni, luoghi comuni e apparenze. Le sue suggestioni in versi rispecchiano una congeniale disposizione alla speranza che è la forza segreta di ogni sforzo che l’uomo compie per protendersi verso il futuro, verso nuovi orizzonti e, proprio come ribadisce il prefatore Francesco Barone: “...la disperazione non attecchirà mai nell’animo umano fin quando il suo cuore sarà ancora capace di accogliere al suo interno il volo di colombe di pace e soprattutto essere in grado di recepire con la dovuta attenzione il messaggio di Renato: “Speranza, speranza, speranza!”. Anna Aita PLENILUNIO È notte alta. La luna lenta sorge dal mare. Plenilunio di giugno. Tramontano le Pleiadi. Solo l’onda sussurra frangendosi sul lido. Enrico Ferrighi Da Carmina - Ed. Pomezia-Notizie, 1983.


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IL QUADERNARIO DI LIETO COLLE opera LA SVOLTA TERRITORIALE di Pasquale Montalto

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IETOColle di Michelangelo Camelliti, di comune accordo con tutta la squadra redazionale, e senza curatela, visto che è tutta LietoColle che firma, si riappropria della volontà ideologica, in termini culturali, di continuare a investire e credere nella validità del proporre e fare poesia oggi, dando sostegno e diffusione, visibilità e più opportunità di conoscenza, a giovani voci poetiche, altre mature, e tutte vivaci e valide nell’ offerta dell’impegno e della partecipazione socioculturale. Ecco allora che col quinto Quadernario Quasi a filo di luna (AA.VV. LietoColle, Faloppio (CO), 2017, pp 300, € 20,00), Almanacco di poesia dedicato per l’annualità corrente alla Calabria, che trae titolo dalla poesia L’esistente e il sogno della vita di Giusi Verbaro (Catanzaro, 1938 - Soverato, 2015), quarto Amuleto incastonato nella struttura dell’opera (pp. 199 - 202), LietoColle al completo, concorda sull’idea, per molti versi visionaria, di rifondare il progetto di sostegno e impegno verso la Poesia sul concetto di regionalismo e di territorialità, di ritorno alla terra, alle origini dei luoghi. All’interno di questi elementi sostanziali del fare poesia e fare cultura il Quadernario Calabria prende una forma variegata e ricca, ben curata nella grafica e con un’ossatura editoriale morbida e snella, brossura che invoglia e facilita la lettura, allineando significative e impegnate voci poetiche odierne con altre della contemporaneità e della tradizione maggiore regionale. Nomi dell’attualità poetica si affiancano e s’ intrecciano con altri di più ampio respiro, Amuleti appunto, come Lorenzo Calogero, in primis, e poi Franco Costabile, Giuseppe Selvaggi, Giusi Verbaro, posti a viatico, sostegno e garanzia, come a presenziare una data sezionatura del volume, fino a scambiarsi il compito con l’amuleto successivo, in una cordata unitaria che traina tutti gli Autori in porto, dando nel contempo organicità all’

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opera, che si completa e chiude nell’eleganza di un ricco florilegio di Poeti di indubbio merito, come: Gerardo Leonardis, Mario De Gaudio, Angelo Fasano, Corrado Alvaro, Antonio Piromalli, Raffaele De Luca, Aldo Dramis. Da sottolineare anche l’iconografia di Santi protettori calabresi, posta subito dopo ogni amuleto, a mo’ di tavole fuori testo, che proteggono e propiziano i luoghi con la loro presenza, così come la foto –immagine dei singoli autori il loro itinerario poetico. Ed è bello, gratificante anche nel risvolto dell’impegno profuso a favore della poesia, nella mia condizione di Autore presente nel libro, accorgersi di poter raccogliere la stima e la fiducia dell’editore Camelliti e della sua squadra, e potersi leggere e sentire vicino a tanti altri amici, vent’uno poeti inseriti per l’ esattezza, posti in ordine di nome, con alcuni dei quali si condivide conoscenza e partecipazione a manifestazioni artistico-culturali, soprattutto la passione per l’ascolto e la condivisione della magia che crea la parola poetica. Tale Almanacco di Poesia, a cadenza annuale e con l’obiettivo di spostare ogni volta l’attenzione su di una diversa Regione d’Italia, risulta essere, quindi, progetto dichiarato d’impegno a lungo termine e che in ogni caso, pur non volendolo, già fissa importanti aspetti documentativi di riferimento, e forse storicizza scelte, decisioni e tendenze, nell’ ampio panorama della poesia italiana. Un’opera dunque di valore e destinata a durare nel tempo, amorevolmente programmata, creativa, ricca nei contenuti e di grande rilievo letterario - culturale, che di sicuro non potrà mancare nelle mani di tutti i calabresi e di quanti italiani vorranno condividere il variegato e ricco progetto dell’editrice. Anche il valore immediato dell’espressione di gratitudine e riconoscenza, a nome mio e credo, cercando di raccogliere il sentimento comune, da parte di tutti gli altri Autori presenti in quest’ edizione del Quadernario, e omaggiati in un’ editoria di qualità, con la stampa da parte dell’Editore Michelangelo Camelliti, LietoColle, al quale vanno gli apprezzamenti e gli auguri sinceri di cuore, perché il suo sforzo dia sempre più energia trasformativa alla luce


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concentrata che proviene dal fuoco della poesia, e che annualmente si fermerà su di una regione italiana, coniugando poesia e identità culturale dei luoghi, nell’intento anche di contribuire a sanare il debito con la genesi delle scritture, che è ritorno alla Terra, alla relazione tra il poeta e la sua origine, alla fonte della parola autentica e vera dell’animo dei poeti e che da sempre è sorgente di un’acqua che sa farsi perimetro e lingua, per come condiviso da tutta la squadra dei redattori di LietoColle. Pasquale Montalto

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che solo quassù trova conforto ai graffi della vita cittadina. Verso sera, da una bianca cappelletta su una balza tintinna il campanino delle ore. I paesetti adagiati nelle valli si addormentano in pace, a poco a poco, lievemente, senza inutili rumori. Luigi De Rosa (Rapallo, Genova)

LE SPLENDENTI STRADE AMICIZIA Forma che muta, intatto sentire divina Amicizia quando bambina penetri nidi e giardini d’infanzia per unire piccole mani annodare impalpabili battiti d’ala e cori d’argento, o quando, fanciulla, disegni vaghi progetti intessi speranze e condivisi sogni. Nella sfida di Amore e gregari - Passione Odio Incontri Dolore vincente o sconfitta eguale ritorni. Io sola vanamente ti vado cercando nel lembo di vita che ha nome Vecchiezza. Ornata di fiori di carta di falsi merletti, occupante abusiva la cavalca un’azzoppata Solitudine. Piera Bruno Genova

SERA IN MONTAGNA Per tutto il giorno si sono rincorsi fiocchi di nuvole bianche, abbaglianti, in un profondo cielo inazzurrato, nell'aroma dei boschi verdi e gialli dell'Appennino ligure, culla di sogni e di memorie per la mia anima ormai autunnale

Ci siamo persi lungo le frontiere che abbiamo oltrepassato con l’ansia sconvolgente di arrivare. Ora cerchiamo i varchi per ritornare nella fiaba antica, nell’incantata infanzia; ma non vediamo più gli arcobaleni, con le splendenti strade, ove sostare con la fantasia. Elisabetta Di Iaconi Roma

AALLELUIA, AALLELUIA, ALLELUUIAAA! 20/7/2017 Caldo infernale e fiumi di sudore in quest’estate arroventata e pazza, sicché le pulci pur vanno in calore! Alleluia! Alleluia! Il ministro degli esteri austriaco* vieta con cipiglio a noi Italiani di trasferire sulla terra ferma il misero ch’emigra e gli isolani! Domenico Defelice * “Pretendiamo [sì, proprio così, nazisticamente impone Sebastian Kurz, ministro degli esteri austriaco] che venga interrotto il traghettamento di immigrati illegali delle isole italiane, come Lampedusa, verso la terraferma”. E minaccia di chiudere il Brennero. Ma com’è magnanimo questo gran K...urz, e, noi, che paura!


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I POETI E LA NATURA - 70 di Luigi De Rosa

D. Defelice - Metamorfosi (particolare), 2017

LA NATURA NELLE POESIE DELL'ULTIMO ROMBI

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nche l'ultima raccolta di poesie del cagliaritano-genovese Bruno Rombi (Occasioni -Ismeca Libri, Bologna) rivela l'accento forte e originale di un approccio alla Natura immediato, anche se in primo piano campeggia il dramma dell'uomo moderno alle prese con la società contemporanea (più spine che rose). L'uomo-roccia, ispido e ruvido all'apparenza, come sanno esserlo sia i sardi che i genovesi, ma autentico e generoso, ha superato gli ottant'anni ma non accenna a diminuire la sua produzione letteraria, sia in italiano che in lingua straniera, forte anche della collaborazione di, e con, ottimi traduttori ( in questo caso Monique Bacelli, francese). consegnando al lettore sia il testo italiano che quello, a fronte, in lingua straniera. Un richiamo diretto alla Natura è contenuto in varie di queste Occasioni, ma per motivi di

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spazio mi devo limitare ad esaminarne un paio, le più pregnanti e significative, Il Tempo e La mimosa. Comunque, la presenza della Natura è immanente nella produzione rombiana. Addirittura, in un poemetto intitolato Tsunami, essa la fa da protagonista, anche se involontariamente nelle vesti di una forza irresistibile e distruttrice. Il Tempo, che è il dominatore incontrastato di tutta la realtà, non ci sollecita tanto al richiamo del genio matematico di Einstein quanto alla presenza dello stesso nel mondo esistenziale dell'Uomo. Qui il Tempo ha addirittura un “colore”, quello della notte, e dà all' Autore il destro per dipingerci, da vero “poeta-pittore” qual è, un quadro finemente suggestivo, anche se è portato a dipingere paesaggi interiori, più che esteriori, o addirittura a cimentarsi con dietro il paesaggio, nella scia programmatica di Andrea Zanzotto. E, per giunta, Rombi è un poeta-pittore piuttosto pessimista (nonostante continui a coltivare una ostinata speranza. Il che è stato ben rilevato da Rosa Elisa Giangoia, (già docente di Liceo, scrittrice e critico letterario genovese di origini piemontesi) nella sua Prefazione alle Occasioni : “...Non c'è in lui un guardare il mondo con distacco e senso di lontananza, ma piuttosto con quell'ansia e quell'amarezza che può derivare dalla consapevolezza del persistere di tutto quanto si è dovuto constatare come negativo durante la vita”. Ed ecco il Tempo che Rombi incarna nelle forme mutevoli e nei colori cangianti della poesia come pittura: “ Il tempo ha il colore della notte nello specchio di mare che rifrange in scaglie colorate di vetro tremolanti gli scorci senza fine d'una collina addormentata” (Il tempo). Non meno totale è la resa dell'artista di fronte alla bellezza assoluta di una mimosa trionfante ln una singolare, ripida cittadina della Riviera Ligure di Levante (Pieve Ligure) a picco sul mare, tra il frinire delle cicale e l'aria fortemente impregnata di salsedine: “ Che splenda, come su questo


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fianco di Pieve non c'è altra mimosa. Le cicale vibrano di sole sul precipizio di case e la scacchiera di mare mossa da un ignoto giocatore. Sa di salsedine calda l'aria. (“La mimosa”). Non si può impedire, qui, che il pensiero corra per un attimo alla poesia del primo Montale, quella degli Ossi di seppia, con la sua Liguria verticale, con il suo meriggiare, le cicale, e così via. Ma si tratta di una reminiscenza dovuta al fatto che l'oggetto rappresentato è un angolo di Liguria dalle caratteristiche ambientali ricorrenti e marcate. Qui il meriggiare non è né pallido né assorto. Qui è violento e caldo, e il giallo della mimosa splende in modo incomparabile, le cicale vibrano, ebbre di sole. E, soprattutto, il mare è mosso da un “giocatore”. Ignoto, sì, ma esistente. Luigi De Rosa

NUBIFRAGIO D’AMORE Nelle ovali conche fiorite, nei tuoi occhi, si scioglie la brina che m’accerchia e si placano rinvii e innesto le distanze del cuore. Vorrei dirti di astri paonazzi e monotoni, di pesi che non sopporto della vita, del mio Sud assolato e povero. Oso dirti soltanto: amore; a te che sei azzurro precipizio e nubifragio d’amore, mentr’io già scoppio di resurrezione. Rocco Cambareri Da Da Lontano - Ed. Le Petit Moineau, 1970.

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Recensioni TITO CAUCHI SALVATORE PORCU Vita, Opere, Polemiche Editrice Totem Lavinio, Anno 2015, Euro 20,00. Dietro il prospetto dell’ulteriore saggio del professore Tito Cauchi di Lavinio, provincia di Roma, di oltre trecento pagine, viene da sottolineare che c’è stato un immane lavoro di riordino che avrebbe scoraggiato financo il più assennato monaco certosino. Lui, invece, l’autore, è andato avanti consapevole della responsabilità di diffondere, attraverso il saggio in questione, il nome le opere e soprattutto la personalità di un letterato vissuto, si può dire, per tutto il Novecento scorso. Stiamo parlando del poeta, giornalista, direttore di una testata da lui stesso fondata e durata venti anni, l’Ordinismo, scrittore Salvatore Porcu (1906-2005), di origine sarda, il quale è stato un uomo intransigente prima con sé stesso poi con gli altri, che guardava al futuro suggerendo la risoluzione di gravi problemi come la disoccupazione. Infatti esiste il « (…) saggio critico di Salvatore Porcu “ Come eliminare la disoccupazione“, varato in edizione ciclostilata il 20 giugno 1977 ed ora riveduto e in corso di stampa (omissis). » (A pag.228). Tutto è nato allorquando il professor Cauchi, leggendo e rispondendo anche poeticamente agli articoli di Salvatore Porcu, che man mano venivano pubblicati sul mensile di Pomezia-Notizie (ed era sul finire del 1993), cominciò ad avvertire il desiderio di conoscere personalmente l’illustre letterato, che risiedeva a Nettuno, il quale attraverso i suoi articoli, « (…) Vuoi che si trattasse di problemi sulla


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disoccupazione o sulla religione, sulla politica o sui dialetti, sulla omosessualità o sull’aborto, la sua era sempre una posizione chiara e netta, di una persona incorruttibile, senza vie di mezzo.» (A pag.11). Così un giorno, era maggio 2002, ci fu il primo incontro dove l’autore Cauchi conobbe anche la moglie del letterato , la signora Pasqualina – nota tra i colleghi e i conoscenti come Lina – Minozzi Porcu (1903-2004). Una donna che sapeva bene fin dove poteva arrivare la sua frontiera di moglie e di poetessa, giacché sapeva stare perfettamente nel suo ruolo di « (…) presenza discreta del marito, che con intelligenza seguiva i discorsi, con modi nobili assentiva e qualche volta interveniva senza sovrastare il consorte. Mi raccontarono di come si conobbero, delle vicendevoli passioni letterarie; ciascuno di loro recitandomi a memoria lunghi versi, ora propri, ora facendo citazioni di opere, nomi e circostanze; lui ha recitato qualche aneddoto nel suo dialetto sardo. Per compiacermi, la Signora Lina, con modi veramente gentili, mi declama alcuni brani poetici, finanche una vecchia canzoncina siciliana, lei di origine padovana! » (Alle pagg.12-13). Passò il tempo, in tutto due anni, durante i quali si fortificò un connubio culturale fra l’autore e il Maestro a tal punto da mettere in moto un trasferimento di faldoni all’indirizzo del saggista Cauchi. C’era di tutto in quegli scatoloni ritirati già nell’ottobre 2003, perché l’anziano scrittore Porcu aveva riposto la sua fiducia nel professor Cauchi, considerandolo all’altezza del ruolo di supervisore del suo lavoro di una vita e infatti « (…) I faldoni accatastati a casa lungo una parete hanno occupato circa 4 metri di lunghezza per l’altezza di un metro; oltre a questi pacchi, un altrettanto volume occupavano le pubblicazioni a stampa di libri suoi e di altri a lui dedicati e a vario titolo, o di raccolte di giornali e riviste, molto rovinati dal tempo e dal luogo ove erano stati prima tenuti a deposito (una baracca fra gli alberi). » (A pag.31). Bisognava seguire più di un metodo per catalogare gli scritti soprattutto di Salvatore Porcu; le annate riguardanti il suo giornale, l’Ordinismo dove lui si era rivelato e aveva dato soprattutto spazio agli altri: associazioni, poeti, abbonati, etc. Quindi, è stato un lavoro capillare in cui necessariamente ci si è dovuti immergere, senza badare allo spazio-tempo, fra le carte per recuperare l’anima del Maestro, i suoi insegnamenti, il suo credo, il suo testamento spirituale. Le spillette arrugginite, persino gli acari di fronte al valore inestimabile di quelle carte da vagliare, da riordinare, erano, sono state considerate quisquilia dal laborioso e attento

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Cauchi. « Per essere scrittore efficacissimo e dire cose veramente grandi, non dovrei vivere una sola vita, ma tante per quante se ne possono vivere. Dovrei essere e sentirmi ricco e povero, bello e brutto, colto e ignaro, piccino e adulto, uomo e donna, forte e debole, coraggioso e codardo, fortunato e disgraziato, cittadino di ogni punto del mondo, civile e selvaggio, buono e cattivo e, nel momento di lasciar libero sfogo al mio pensiero dovrei trovarmi in ogni luogo, nei salotti più raffinati, alla corte di un re, tra gli agi e le comodità, e contemporaneamente in una catapecchia, in una stalla, tra fango e sozzure, in un quartiere misero e lurido; (…) insomma dovrei essere tutto, dovrei trovarmi in ogni luogo e in qualunque situazione: dovrei essere l’infinito assoluto. » (A pag.42). Leggere questi brani significa entrare nell’ assolato mondo di Salvatore Porcu, che giustappunto non amava alcun genere di ombre, che altro non sono che i compromessi della vita. Lui era chiaro con sé stesso e con gli altri, e trasmetteva la speranza di un mondo risolvibile nelle sue falle. Salvatore Porcu voleva educare, salvare, far rifiorire, tramandare, conciliare, armonizzare, evolvere e tutto questo scaturì tutta una serie di diatribe con chi non la pensava come lui. Il saggio del professor Cauchi, si occupa proprio di queste nella terza e ultima parte del libro. Una sequela di battute e risposte in forma di articoli e recensioni ora da parte di Salvatore Porcu, ora di Carmelo R. Viola, fino ad un lungo scritto datato febbraio 1998 dello stesso direttore di PomeziaNotizie, Domenico Defelice, che ha solcato in profondità il terreno in cui era già passato l’aratro del Maestro. « (…) Almeno una volta nella vita, bisognerebbe conoscere persone come lui: ci si arricchisce spiritualmente. Non è che avesse un’aureola intorno al capo, era piuttosto saldo nelle sue idee, combattivo e nient’affatto rinunciatario; era esortativo; eppure irradiava una luce di saggezza per il magistero che tutti gli riconoscevano. » (A pag.25). Isabella Michela Affinito

TITO CAUCHI ETTORE MALOSSO Tra sogno e realtà Analisi e commento delle opere pubblicate, Simposio – Libero Incontro Artistico Culturale, Anzio Lavinio 2016, Pagg. 40. Sostanzialmente è stato un lodevole lavoro di sintesi è vero; ma con l’andare avanti coi commenti sulle opere dello scomparso Ettore Malos-


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so, il critico siciliano Tito Cauchi ci ha disvelato soprattutto il nerbo della personalità del vicentino letterato morto ad Anzio nel maggio 2008, quando aveva ben novantadue anni. Il volume, edito dal centro Simposio – il salotto nato grazie fondamentalmente alla presenza della moglie di Malosso, Giuliana Bellorini Malosso – è un omaggio per il centenario della nascita di Ettore, uomo che raggiunse il grado di Generale nell’esercito dell’Aeronautica Militare e poi, andato in congedo nel 1973, perlustrò altri cieli penetrando in altre tipologie di nuvole: quelle eccelse del Pensiero! Quest’uomo quand’era arruolato amava già la filosofia, perché “Nel suo zaino di pilota gli facevano compagnia i Pensieri di Blaise Pascal e le Passeggiate solitarie di Jean-Jaques Rousseau.” (A pag. 11). Due cose accomunano Ettore Malosso con l’ autore di questo saggio, Tito Cauchi: il fatto che l’ aviatore nel 1942, quindi in piena Seconda Guerra Mondiale, si trovò a sorvolare il cielo di Gela, città natia del critico poeta saggista Tito Cauchi, e che lo stesso aviatore è morto ad Anzio, luogo dello Sbarco storico e l’autore Cauchi risiede nelle adiacenze, a Lavinio, il celebre Lido di Enea. Ora, al di là di queste fortuità, c’era bisogno di quest’anteprima letteraria per capire chi è stato e cosa ha fatto e prodotto Ettore Malosso, ovvero un uomo che dopo il bagaglio d’esperienze militari in campo aereo, si è messo a scrivere autobiografie e non solo, giacché voleva informare gli altri su ciò che era accaduto a lui, all’Italia, ai suoi parenti venuti man mano a mancare nel corso degli anni. Ci sono stati “volumi, pubblicati postumi, tutti con copertina disegnata da Giuliana (pubblicati con prefazione di Lia Bronzi, dalla Bastogi Editrice Italiana, Foggia). Si intitolano: un volume Gil e Su…tra sogno e realtà, tre volumi Realtà, forse… Note autobiografiche di vita nel XX secolo, dove i puntini di sospensione, sia nel primo libro, sia nella trilogia, sottintendono la fede di Ettore, fede sentimentale e fede religiosa.” (Alle pagg. 7-8) Quando ha parlato di sé stesso, lo scrittore Malosso si è identificato con un Lui quasi estraniandosi dal vero e proprio compito autobiografico; preferiva vedersi riflesso in uno specchio e parlare della persona riflessa come se fosse qualcun altro da descrivere rimanendone distaccato. Il congedo dall’Aeronautica costituì anche la fine del primo matrimonio, come se fosse avvenuto lo svolgimento della ‘prima’ vita di Malosso; poi, dal 1974 l’inizio della ‘seconda’ esistenza allorquando conobbe Giuliana, più giovane di lui di trent’anni, in pratica lei aveva l’età di sua figlia Maria Grazia.

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La vicinanza di Giuliana lo rese estremamente fertile alle Arti in generale. “Rinacquero rinnovati, si nutrivano di conoscenza, di cultura umanistica, di ogni forma di bellezza, alla ricerca del senso della vita, che ognuno ritrova nell’altro. Erano travolti dal furore dell’arte, leggendo quanto possibile, desiderando saperne sempre di più, per esempio, sugli impressionisti. Si beavano dei dipinti di Manet, Pissarro, Sisley, Monet, Renoir, Degas, Cézanne, Van Gogh.” (Alle pagg. 20-21). Diciamo che nello stare insieme, Ettore e Giuliana progredirono, tra le altre cose, nella conoscenza geografica viaggiando molto dalle montagne fino alle isole; ma, soprattutto lei andò avanti negli studi e nell’approfondimento dell’arte, tanto che cominciò a fare esposizioni dei suoi quadri e “prima della fine del 1988 Giuliana si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia, presso l’Università di Padova, con un susseguirsi di ottimi risultati: molti i 30/30-mi; conseguirà la laurea con una tesi su D’Annunzio tra Letteratura e Arti figurative.” (A pag. 25). L’autore Cauchi ha avuto modo di incontrare lo scrittore-filosofo Malosso in casa di questi oltre dieci anni fa, invitato ad intervenire nel salotto di Giuliana Bellorini, dove non sempre partecipava il marito poiché stava già male e avanzato negli anni. Comunque fra i due portenti non sono mancati i raffronti e le condivisioni culturali ad oltranza. Di preferenza Ettore Malosso è entrato nella filosofia cartesiana attraverso l’aforisma per eccellenza del filoso e scienziato francese poi italianizzato, René Descartes: Cogito ergo sum: Penso dunque sono, “affascinato dall’idea di trasformare l’uomo in puro pensiero, puro spirito, conduce con dialettica le sue argomentazioni. È convinto che il pensiero, probabilmente quando si formalizzi, rischia di distorcersi per carenza delle corrette espressioni e forse anche per non dare ascolto alla coscienza.” (A pag. 31). Più si addentrava nell’età e più il filosofo-poeta Malosso penetrava nelle coscienze universali di tutti i tempi: si sentiva ora Socrate, ora tutore della fede, ora studioso sull’origine del mondo, ora sopraffatto dalle ideologie che imperversarono nel Novecento, ora aviatore con la passione per le teorie e ora filosofo con la passione del volo; oppure un semplice poeta che “Ama il canto degli uccelli, il profumo dei prati, dei fiori, la bellezza tutta del Creato; miracolo di un amore che di per sé vuol dire rigenerazione. Una unione che si rivela vera fusione, in cui l’io e il tu si fondono in un solo Noi.” (A pag. 38). Isabella Michela Affinito


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ANTONIO CRECCHIA MYTHOS - II fascino del mito antico Ed. ac <> 2017 - Pagg. 86, e. f. c. Con un incredibile titolo, alla scrittura esplicativa che precede il testo poetico vero e proprio, Antonio Crecchia ci offre una definizione originale e profondamente vera, sul mondo della mitologia: "II MITO: UN MONDO IMMAGINARIO SENZA TEMPO E SENZA FINE. Il mito è, da sempre, un'esigenza fondamentale dell'uomo, indotta dalla necessità di guardare ad un mondo superiore che lo allontani dal quotidiano. I miti sono tanti ed entrano nella nostra vita silenziosi e magici: fantastiche presenze che ci accompagnano quotidianamente invadendo persino la politica, quando, ad esempio, un personaggio straordinario, riesce a bucare il video, venendo fuori alla grande. Particolare importanza assume il mito nell'arte. "Il mito, scrive testualmente Antonio Crecchia, è un termine che rimanda ai primordi della civiltà".E, più avanti chiarisce: "...è la liberazione del pensiero, il suo gioioso cavalcare tra le ombre e le luci di un passato lontano, di cui gli arrivano echi, lampi e bagliori che accendono la fantasia; è il pensiero libero da condizionamenti storici, che crea mondi, personaggi e situazioni mai esistiti... ". Va avanti Antonio Crecchia, citando, sempre in riferimento al mito, Platone; ne parla come allegoria, cita il mito classico; ci racconta della correlazione tra mito e cultura. Ed eccoci giunti al lavoro vero e proprio che consiste in un'approfondita ricerca, a beneficio di tutti, affinché si possano conoscere i misteri del mondo mitologico, dai primi insediamenti mediterranei fino ai miti egiziani, greci e fenici, addirittura dall'universo prima della Creazione. Una raffigurazione che descrive un uovo cosmico, spaccato a metà, che darà vita a cielo e terra. Sono tanti gli affascinanti racconti che il Crecchia racchiude nei versi presentandoci, a mano a mano, personaggi tipici del mondo antico e leggendario, quando già si pensava di estrapolare verità e premonizioni dai sogni. Veggenti e interpreti capaci scioglievano gli enigmi e distruggevano il malocchio. I Fenici utilizzavano modelli egiziani come amuleti e talismani; nelle abitazioni vigilava lo spirito benigno di Imbriana; fortuna e sfortuna completavano la scena. Il destino imperava su tutti gli uomini, persino su Zeus, dio supremo, costretto, anch'egli a sottostare con obbedienza al volere del fato. L'interpretazione poetica che Antonio Crecchia dà ai mitici personaggi, aggiunge alla tematica un pre-

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ziosismo, proseguendo in una interessante rassegna in cui le varie manifestazioni letterarie si susseguono secondo gli ideali e gli interessi di una complessa civiltà, tutt'oggi esistente. Utile tenere a portata di mano, questo gioiellino, nella propria biblioteca. Anna Aita

ROBERTO BECCARIA AUGUSTE PAPON IL RE DEGLI IMPOSTORI Erga Edizioni, Genova, 2016, € 12,00 Le vicende di un avventuriero, Auguste Papon, vissuto nell’Ottocento, costituisce l’argomento di un libro riccamente illustrato e sapientemente condotto di Roberto Beccaria, il quale si è imbattuto in questo singolare personaggio, capace di una straordinaria inventiva e di infiniti raggiri, compiendo delle ricerche sui periodici genovesi dal 1473 al 1899. Papon fu infatti, tra le sue numerose attività, anche il direttore di un settimanale francese, “L’ Italie”, edito nel 1856; e svolgendo appunto tale attività tentò di ingannare un uomo di stato come Cavour, dal quale riuscì ad ottenere un’udienza, proponendogli, in cambio di un sostanzioso finanziamento, di favorire la causa italiana con il suo giornale. Il Cavour parve interessato alla cosa, ma il raggiro non riuscì per l’intervento dell’Intendente Generale di Genova, il quale, insospettitosi, fece le sue indagini e smascherò la truffa, essendo “L’ Italie” un giornale “poco diffuso e ancor meno letto”, il che escludeva che il governo piemontese potesse trarre un qualche vantaggio dagli articoli che vi apparivano. L’avventura terminò con la chiusura del settimanale, anche a causa di ulteriori malefatte, e con la fuga di Papon, che riuscì a far perdere le sue tracce. Ma chi era Papon? Egli si proclamava marchese di Sarde, ma pare che tale titolo non gli spettasse e fosse quindi da lui usurpato, dal momento che scrittori come Barbey d’Aurevilly, critici letterari come Saint-Victot e memorialisti quali il conte VielCastel lo misero fortemente in discussione. Roberto Beccaria si diffonde nel suo libro sulla personalità di quest’uomo dalle molte vite, che riuscì a introdursi negli ambienti della nobiltà e dell’ alta borghesia di mezza Europa, attraverso le sue indubbie arti di fascinatore e di brillante parlatore. Beccaria riporta tra l’altro il giudizio della contessa Dash, secondo la quale “Il suo viso e il suo aspetto erano molto gradevoli (e) molte donne gli accordavano la loro attenzione”. Secondo altri invece, come il barone Meller, Pa-


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pon sarebbe “un avvocato radiato dall’Ordine degli avvocati di Francia” per indegnità; mentre secondo Mirecourt Papon “avrebbe fondato in Francia La Société de l’Église, una specie di compagnia di assicurazione riservata a sacerdoti e curati per garantirli da eventuali furti nelle parrocchie e nei santuari”; compagnia che in realtà aveva l’unico scopo di incamerare le quote versate dagli stessi assicurati a vantaggio del direttore-gestore Jules Mahot e di Papon. La compagnia naturalmente fallì e Mahot venne condannato a sei anni di lavori forzati per bancarotta fraudolenta, mentre Papon anche in questo caso riuscì a farla franca. Il capolavoro di Papon fu però l’intrigo che ordì nei confronti di re Luigi di Baviera, il quale era caduto nella rete della ballerina Lola Montez, che lo aveva fatto innamorare follemente di sé. Papon, amico della Montez, riuscì a ricattare il re, minacciandolo di rendere pubbliche alcune lettere compromettenti in suo possesso se non gli fosse stata data la somma di diecimila franchi, oltre al titolo di ciambellano. La minaccia si concretizzò poi in un perverso libello, che effettivamente egli scrisse e pubblicò, intitolato Lola Montès, Mémoires. È questo, più che un memoriale, un libro diffamatorio della peggiore specie, nel quale si racconta come il re Ludwig di Baviera si fosse invaghito di “una saltimbanca”, sicché egli era ormai “un uomo che fa pena”. Il racconto fatto da Papon nel suo pamphlet è molto circostanziato e soprattutto impietoso, sicché il ritratto che ne scaturisce, sia di Lola che del re, è di una causticità sconvolgente. Dal libro di Roberto Beccaria l’intera vicenda emerge in maniera netta e precisa, attraverso un’ analisi accurata dei documenti, compiuta con acribia ed estremo impegno, così da farci comprendere appieno la figura ambigua dell’avventuriero Papon, in tutta la sua miseria morale. È stato osservato da studiosi di psicologia che uomini come Auguste Papon, estremamente dinamici, tendano continuamente a sconfinare nell’ illecito volendo superare i limiti della propria condizione sociale, per entrare in ambienti che, date le loro origini e i mezzi di cui dispongono, sarebbero loro preclusi. Essi hanno invero una natura proteiforme, che consente loro di affermarsi, anche per le doti personali d’intelligenza e di fascinazione, che però, essendo male indirizzate, in genere li conducono alla rovina. La sua ultima comparsa Papon la fece in Brasile, dove lo troviamo nel gennaio del 1857, a Rio de Janeiro. Qui egli riuscì a farsi accogliere nell’ esclusivo Cercle de l’Union, dal quale ricevette, come marchese, un’indennità di 400.000 reis. Il 25 maggio 1857 partì, a spese del Cercle, da Rio per

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una destinazione ignota e di lui si persero per sempre le tracce. Direttore della Sezione Periodici della Biblioteca Berio di Genova, Roberto Beccaria ha al suo attivo parecchie pubblicazioni, tra le quali sono da ricordare, oltre all’importante Repertorio “I periodici genovesi dal 1473 al 1899” sopra menzionato (Genova, Associazione Italiana Biblioteche, Sezione Ligure, 1994), anche “L’89. Una rivista per la rivoluzione (1888-1892)” (Genova, Costa & Nolan, 1989), edito con Pino Boero e Luca Borzani. Con Roberto Iovino e Calogero Farinella ha poi curato “Una cinquantina d’inverni. La Genova di Giuseppe Verdi e di Giuseppina Strepponi” (Genova, LOG, 2001). Per il 3° volume della “Storia della cultura ligure” pubblicato negli “Atti della Società Ligure di Storia Patria (Genova, 2005), ha scritto lo studio “Giornali e periodici nella Repubblica Aristocratica”. Ha collaborato inoltre al repertorio “La stampa periodica teatrale italiana dal settecento ad oggi. volume 1, 1700-1870)”, a cura di Alfredo Barbina (Roma, Bulzoni, 2009). Questa sua nuova pubblicazione su Auguste Papon conferma le doti di assiduo ricercatore e di accorto studioso di Roberto Beccaria, capace di analizzare a fondo i documenti a sua disposizione per trarne interessanti conseguenze e ci offre anche un libro di piacevole lettura, per la qualità dello stile, agile e puntuale ad un tempo. Elio Andriuoli

ISABELLA MICHELA AFFINITO INSOLITE COMPOSIZIONI 11° Volume, Cenacolo Accademico Europeo, Poeti nella Società, Napoli 2017, Pagg.44, Fuori commercio Isabella Michela Affinito, con l’undicesimo volume di Insolite Composizioni, non dovrebbe coglierci di sorpresa, eppure ha qualcosa di nuovo da condividere. Ci aiuta la sua prefazione, in cui specifica che “undicesimo è il segno dello Zodiaco”. Con ciò richiama Picasso e in particolare Le Verseau cubiste, l’Acquario cubista, il cui componimento omonimo apre la raccolta che conclude affermando: “solo l’Acquario sa vedere/ in tutte le direzioni”. Avvertendo che nell’anfora non dobbiamo aspettarci acqua, ma aria, “la nuova Pandora entrata nella dimensione astrologica”; altresì, non dobbiamo temere che si sprigionino venti disastrosi, bensì creatività e fratellanza universale. Teniamo presente che la silloge è dedicata al fratello maggiore Lauro, nato sotto il predetto segno, e che si ispira alla filosofia esistenziale del consanguineo.


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La copertina “Le Verseau cubiste” è realizzata dalla Nostra, in bianco e nero, raffigura vari elementi astrologici, a dimostrazione che la Poetessa porta all’unitarietà versi e pittura. Questi argomenti che precedono ci aiutano a entrare nell’intimo della Nostra, perché si comprenda il senso dei suoi versi, dietro alcune citazioni. Troviamo una sorta di scansioni, di immagini in un ampio ventaglio di simboli, nel cubismo del Picasso e dietro altri nomi celebri; ed ascoltiamo echi che richiamano l’acqua, così le maschere di Venezia, i mantelli da uomo tipici veneziani, l’agglomerato denominato Giudecca di minuscole isole collegate fra loro in appendice alla Città Lagunare madre; e aggiungo, perché no? anche anfore di vino per le danze delle baccanti. Le composizioni, che seguono la poesia d’ apertura, sono ventitré, numerate (223/245); singolarmente considerate, si presentano semplici nella loro espressione lessicale, tuttavia bisogna superare una cortina che ne vela la comprensione. Bisogna calarsi nell’intimo della Poetessa, a costo di forzare parole e citazioni colte che si ripresentano come in una giostra; ma se le consideriamo nel loro insieme, allora ci accorgiamo di avere un poema, poiché segue un suo progetto. Un poema erudito, che ci prende in un vortice onirico e visionario dietro i nomi di eroi e miti dell’epopea omerica, e non solo, carichi di evocazioni: come Ulisse, Cassandra, Nike; e di altri tra cui Isacco; e dei nostri giorni come New York. Difatti essi evocano, fra l’altro, viaggio e ricerca, profezia e sciagura, il trionfo raffigurato dalla donna alata, ubbidienza e sacrificio, lo smarrimento dei poeti seguito al silenzio (intendo: 11 settembre 2001); ed anche la sofferenza purificatrice. Solo per fare degli esempi rammento il più volte citato Vincent Van Gogh, a sua volta ritratto da Gauguin accanto ad una sedia vuota, che vuole evocare una assenza, quella soprattutto del padre del pittore olandese. I mesi citati sono soprattutto settembre, che generalmente associamo alla vendemmia (quindi vino, le menadi-onda o diversamente le baccanti in preda alla frenesia estatica: la vita) e novembre che generalmente associamo al mese dei defunti (quindi foglie secche: la morte). Richiamo alcune invocazioni: “Ti aspetterò/ Picasso rosa per/ conoscere le tue/ Demoiselles d’ Avignon” (n. 228); “Amica letteratura/ donami la redenzione/ come favola d’inverno/ ai piedi della Madonna/ del Rosario e fa’ che/ le mie parole vadano/ a riempire sempre pagine/ vuote” (n. 230). E alcune aspirazioni “Sarò poeta in/ una tragedia greca/ canterò l’amor sacro/ e l’amor profano/ stile Tiziano” (n. 231). Isabella Michela Affinito in Isolite composizioni

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appare leggera, come un sogno, svincolata dalla materialità quotidiana, in serena contemplazione, in luoghi di incanto e di beatitudine. Allo smarrimento della società incivilita l’essere umano, a volte, risponde ubriacandosi metaforicamente con danze dionisiache e si isola; ci soccorre l’Arte come forma di autoanalisi, per ritrovarsi e rinascere, riempire una sedia vuota. È ben consapevole che la vita è come una commedia che si recita in un palcoscenico, ignari e consci; le maschere più volte citate lo starebbero ad affermare e Isabella sarà come “foglia nel dramma/ di novembre” e nella solitudine raggiungerà la meta ambita, il trionfo, e forse come una Fenice trasfigurata, rinascerà conchiglia saldamente legata allo scoglio a fronteggiare le onde. Tito Cauchi

IMPERIA TOGNACCI ANIME AL BIVIO Edizioni G. Laterza – Bari, aprile 2017 Senza interruzioni di sorta, caparbia e volitiva, Imperia Tognacci prosegue la sua entusiasmante avventura letteraria pubblicando a getto continuo opere di poesia e di narrativa, che raggiungono, ormai, un vasto e qualificato pubblico, grazie anche alla lungimiranza di editori, come Giuseppe Laterza, che hanno intuito e valorizzato le potenzialità intellettuali e creative di questa affermata autrice romagnola, residente a Roma. Già la voluminosità del libro (250 pagine e passa) è indice di un impegno che, di solito, appartiene ai grandi scrittori motivati a non deludere il pubblico e a far salire le proprie quotazioni nell’ambito del mercato librario. La prefazione di un noto, apprezzato e illuminato intellettuale meridionale, Francesco D’Episcopo, è, poi, garanzia di un prodotto culturale firmato da una “specialista dell’amore e delle sue infinite declinazioni”, in virtù del “suo mondo di donna che le consente di penetrare nei meandri più superficialmente profondi di una femminilità, che la letteratura ha sempre cercato di fermare”. A questa meditata proposizione fa eco l’opinione dell’editore, ben lieto di avere incontrato un’autrice “ricca di esperienze e consapevolezza della utilità del proprio lavoro creativo”. Scrive Giuseppe Laterza nella sua Presentazione: “Imperia Tognacci scrive come un fiume in piena, la sua acqua reca più vite vissute e memorizzate con essenziali dettagli; alla foce, quell’acqua dolce diventa ricca di sale, ricca di sentimenti, di valori, sensibile alle sfumature esistenziali da cui emerge ogni volta una nuova grande storia”.


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Le sollecitazioni a leggere il libro, quindi, non mancano, e per la notorietà dell’autrice, di cui possiedo un nutrito numero di pubblicazioni, e per lo spessore critico-argomentativo delle note introduttive di D’Episcopo e di Laterza. Il libro ha come luogo geografico di partenza un piccolo comune del vercellese, Quarona, in Valsesia, dove Giacomo, il primo ad affacciarsi in scena in ordine di tempo, svolge l’attività di magistrato. Sposato ad una marchigiana, Rina “brava cuoca e ottima governante”, ebbe da costei cinque figli, due maschi e tre femmine. Il periodo entro cui la saga familiare viene inquadrata è quello che va dai primi anni Venti (ascesa al potere del fascismo) ai primi anni Settanta (prendo come data ultima di riferimento il testo della canzone “Parole, parole parole”, incisa dalla cantante Mina su vinile a 45 giri nell’aprile del 1972) In mezzo, la Seconda guerra mondiale, con tutte le aberrazioni, distruzioni, dolori, sacrifici e vittime che essa sparge dove passa con il rombo dei cannoni, lo scoppio delle granate, l’ ottusità e la violenza degli uomini che hanno smarrito il senso dell’ umanità e della ragione. Con il venir meno del principale supporto dell’ unità familiare, inizia l’inevitabile fase di disgregazione, durante la quale ognuno segue le proprie scelte di vita e di lavoro. Annunziata, la più giovane, determinata a dare significato concreto alla sua vocazione religiosa, entra in un istituto di suore “ubicato nel cuore di Roma”, quando la guerra fa sentirei suoi agghiaccianti e bestiali ruggiti anche per le strade della città eterna. Inizia qui la svolta del romanzo, incentrato fino alla fine su un’esperienza monacale di lunga durata, ma decisamente fallimentare per il netto contrasto tra lo spirito libero, ribelle ad ogni forma di ingiustizia, arroganza e prevaricazione di Annunziata e la rigida, e spesso disumana disciplina di un’ istituzione che ai bagliori di luce di “anime al bivio” assetate di conoscenza e di aneliti a progredire sulla via della fede, della giustizia e della carità, contrappone l’opacità, l’ incomprensibilità, l’autorità prevaricatrice e la durezza di norme e comportamenti radicati in un oscurantismo lacerante, inibitore di crescita intellettuale e spirito aperto alle esigenze e prospettive dei nuovi tempi. L’intreccio del romanzo, ben concepito e oculatamente orchestrato, lascia spazio anche ad altre figure di rilievo, come Giulia e Luciana, Raffaella e Lara, unite nella volontà di crescita amicale, intellettuale e spirituale, in funzione di un ideale che reclama l’affermazione della “verità”, la responsabilità comune, la difesa dei deboli, dei relitti, dei diseredati… E poi suor Lina

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e suor Monica; quest’ultima, caratterologicamente ispirata alla figura della “monaca di Monza” di manzoniana memoria. Collocato dentro un arco di tempo di mezzo secolo, l’impianto narrativo apre di volta in volta orizzonti di vita epocale, di cronaca e di storia, di realismo sociale e d’immersione nel mondo dei sogni e dei desideri. Il tutto pianificato e dosato con finezza psicologica, che indaga e mette a nudo, con tocco e nitore signorile, i fermenti sentimentali, le energie morali, gioie e sofferenze di creature umane, spesso in lotta con se stesse, ma risolute ad affermare le proprie individualità, nel mare mosso, agitato e minaccioso della vita comunitaria. Antonio Crecchia

ANTONIO ANGELONE LA DANZA DELLE STELLE poesie, EdiAcccademia 2016, pagg. 44, s. i. p. L’uomo è un essere “in fieri”, in perenne divenire, e non s’arresta il suo fluire evolutivo se non quando egli emette l’ultimo respiro. Prima di tale data ineluttabile, però, può arrivare un tempo in cui, grazie all’esperienza e allo studio assiduo, si senta realizzato tanto da poter confessare a se stesso, nonché agli altri, di essere soddisfatto perché ha raggiunto l’ideale che s’era prefisso. Tale preambolo per riportare quanto Antonio Angelone afferma nella prima lirica della silloge, “A te, mamma”: “Or che son giunto qui,/sull’alto Monte,/stanco ma pago/degli onor raggiunti,/dover ritengo/...al mare ridonar/questo nicchietto/per l’altrui fortuna”. Si tratta della conchiglia (“dalle cui valve nacque Venere”) che la madre, alla nascita del nostro Poeta, depose, come portafortuna, nella sua culla. Antonio Angelone, dopo il lungo, irto cammino nel suo arrampicarsi sulla china del Monte (di quale, se non del Parnaso?), è riuscito a toccarne la vetta. Non ce l’avrebbe fatta se non fosse stato per “il piacer di Venere”. Pago, entusiasta, e generoso, si libera della conchiglia e la ributta in mare perché possa portare fortuna ad altri. Un’altra lirica, “La danza delle stelle” (che dà il titolo alla raccolta), conferma l’ avvenuta realizzazione poetica e letteraria del Nostro. Ed è quando egli, mentre contempla le stelle, triste perché ripensa un passato che mai più tornerà, vede la Musa che scende dall’Olimpo, gli siede al fianco e gli dice: “Vivi d’orgoglio/su quest’alta vetta/ch’eterna vita avrà/questo tuo nome”. Ricordi e rimpianti nella raccolta abbondano, di cose e luoghi, persone che più non sono, d’amori di gio-


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ventù: l’ “Amato Rio” degli anni della vita studentesca, che egli torna a rivedere e nelle cui acque immerge nostalgico ed emozionato le mani; il torrente Vandrella; il colle Sant’Onofrio; i “Verdi leccini” sotto l’ombra dei quali sedette felice con Iole, in un caldo mattino di maggio; i tratturi, ora muti e ricoperti di erbacce perché non più attraversati dai pastori; Colle Vallisbona; il vecchio mulino di cui restano solo ruderi; l’orto della Fontanella; la casetta di pietra; la contrada Aravecchia, “or chiusa da boschi roveti e sambuchi”; gli amici scomparsi, Prospero Antonelli Filiberto Orazio. Tanta tristezza emerge dalla riscoperta d’un passato scomparso per sempre, di antiche tradizioni finite nell’oblio, cancellate dall’era atomica e dei computer ma rimaste, ancora, nel cuore di coloro che in esse si formarono. S’ impongono all’attenzione del lettore, tra le tante, che affrontano argomenti vari, le poesie d’amore, d’un amore sincero, profondo, come quello di Venere, dea della bellezza, la quale ama in modo incondizionato e gode del sentimento del cuore, come dea e come donna insieme, in maniera completa. Antonia Izzi Rufo

GIUSEPPE LEONE D'IN SU LA VETTA DELLA TORRE ANTICA Giacomo Leopardi e Carmelo Bene sospesi fra silenzio e voce Grafiche Rusconi, 2016 Giuseppe Leone licenzia la seconda edizione del saggio D'in su la vetta della torre antica. Giacomo Leopardi e Carmelo Bene sospesi fra silenzio e voce. Con avvertenza: rispetto alla prima edizione (2015) il testo è integrato dal tema, comune a Leopardi e Bene, della “donna che non si trova” e del rapporto che essi ebbero rispettivamente con Omero e con Shakespeare. Leone conduce la scrittura attraverso comparazioni fra analisi testuali e testimonianza biografiche e autobiografiche. Siamo così informati circa le similitudini, di carattere e comportamentali, fra Giacomo e Carmelo. Leone è scrittore autentico, capace di catturare l'attenzione. Il meglio di sé, in questo senso, lo offre appunto comparando, nel bene e nel male, le qualità caratteriali dei due geni. Fra le qualità in comune individuate da Leone mi permetto di aggiungerne una: Leopardi e Carmelo Bene erano, sotto traccia il primo e in modo imperioso il secondo, ugualmente narcisisti. L'analisi di Leone tiene conto dei contrasti scrit-

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tura/oralità, silenzio/voce, significato/ significante, determinanti nella resa dell'opera leopardiana così come nelle performance teatrali di Carmelo Bene. […] con il sospetto – trascrivo dalla premessa dell'Autore – che Leopardi e Bene facciano già parte di una nuova genia di “poeti” che hanno dichiarato guerra alla metafisica e a Platone (Leopardi, addirittura prima di Nietzsche), che pensano “depensando”, cioè detronizzando la ragione dal ruolo di principio primo e costitutivo di tutte le cose […] Sarebbe mia opinione che si possa detronizzare la ragione senza necessariamente declamare, come ha fatto Carmelo, arrampicato alla Torre pendente degli Asinelli. Ma fa lo stesso. Un esercizio critico intorno a un testo di critica letteraria è impresa impossibile, almeno per le mie forze. Leggo in terza di copertina che l'Autore è laureato in Lettere Classiche, e ha insegnato letteratura italiana e storia nelle scuole superiori. Formidabile il suo incipit: Se dico che anch'io non ho avuto ammirazione per Carmelo Bene mentre era ancora in vita, non è per infoltire la schiera di coloro che lo bollarono come antipatico. La confessione è sufficiente per definire la qualità del nostro Autore come insegnante: attento alla colloquialità con gli studenti, pagando di persona con ammissioni personali del tutto estranee alla convenzionalità scolastica. All'autenticità di Leone rispondo con la mia. Ho avuto, a scuola, un rapporto difficile con Leopardi. La professoressa era persona di larghi fianchi, generoso petto epicureo, esuberante di vita che mostrava di arraffare a quattro palmenti. Sentirla parlare della natura che di tanto inganna i figli suoi, e scrivere temi di conseguenza, era per me e tutti i compagni un esercizio improponibile. Uno di noi si azzardò a scrivere che, insomma, questo Leopardi esagerava nel pessimismo. Male gliene incolse. Da allora ho imparato a distinguere: una cosa è Leopardi, altra cosa i leopardiani. Quanto a Carmelo Bene, coltivo tuttora per lui una razionale antipatia. L'ho ascoltato una volta raccontare: ho letto Dante a una platea di cinesi, in italiano, e tutti i cinesi se ne stavano stupefatti e muti conquistati dalla parola. Anch'io posso ascoltare stupefatto e muto un attore del teatro kabuki. Quanto a capire, è un'altra cosa. Scrivo oggi, 3 luglio 2017. Mia moglie, più mattiniera di me nell'ascolto del telegiornale, mi dà la notizia: è morto Paolo Villaggio. Il poeta di tutte le nevrosi, le vessazioni, le debolezze umane. Più simpatico di Carmelo Bene, sicuramente. Più affettuosamente umano di Leopardi, Dio mi perdoni. Rossano Onano


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PASQUALE MONTALTO PAROLE RICERCATE con il cuore Ed. Il Croco – I quaderni letterari di Pomezia Notizie, 2017

MARIA GARGOTTA I FANTASMI SONO INNOCENTI Misterioso incontro di un magistrato con “il fantasma della Vicaria” (Rogiosi Editore, 2016, € 15,00)

Con la silloge PAROLE RICERCATE con il cuore (che ha ottenuto il 3° Premio Città di Pomezia 2016) Pasquale Montalto apre un canto dedicato all’esistenza. Forse la laurea in Psicologia Clinica e Sociologia e la professione di Psicologo Psicoterapeuta Sessuologo Sophianalista hanno senz’altro contribuito a farlo aprire a tutto ciò che si svolge durante il nostro passaggio terreno. Così Montalto spazia in ogni campo: dai bambini agli anziani, dall’incertezza dei nostri giorni carichi di terrore e ingiustizie alla “Preghiera” dove si rivolge al “Giudice divino” con una certa ironia per l’intransigenza del “Signor Assoluto”: “Assoluto e intransigente, / che sanziona in primis / buone azioni e nuovi profumi, //che sempre infestano la civile convivenza, /proprio che – di tolleranza e inclusione - / non se ne può più.” Un attento studioso della vita come lui non può che rendere evidente tutti i lati negativi che man mano s’incontrano. Anche l’amore non è sempre motivo di gioia: “la vita è quanto di più brutale / possa accadere quando t’innamori, / può ferirti e deformarti, / farti deragliare e calpestarti col silenzio”. Ammette però che “Non posso sostituire / La magia della vita”. Un elemento di questa magia è l’ arte: “Nel silenzio l’Arte magica / In silenzio trova parole guaritrici”. La sua poetica si avvale di un ragionamento che arriva direttamente al cuore del lettore. I versi sono ben strutturati, nitidi e comprensibili. Un dialogo che apre all’ombra e alla luce, ma l’ombra spesso prevale: “passi frettolosi di gente depressa, / schizoidi ciondolano, sparano, / in un insensato nebbioso, uccidono, / stendono polvere d’odio / sull’arte di costruire bellezza, veleno / spargono sull’inerme natura.”. Per fortuna vi è qualche spiraglio di speranza: “la bellezza lieve, il tepore, / che accompagna l’alito del cuore, / con gioia il mio bambino / dal sonno si è svegliato.”. Alla fine, l’unica cosa importante è il linguaggio dell’amore. Laura Pierdicchi

Sospeso tra realtà e surrealtà appare il nuovo romanzo di Maria Gargotta, I fantasmi sono innocenti, che ha per protagonista maschile un magistrato, Sante Santeri, il quale è stato trasferito da Ragusa a Napoli per l’intervento di sua madre, che ha voluto in tal modo allontanarlo dai luoghi nei quali è avvenuto l’omicidio del padre, sulla cui morte Sante indaga: e ciò nel timore che la Mafia, alla quale il delitto viene dal giovane attribuito, voglia eliminarlo. A Napoli il nostro giudice, dopo ormai due anni, si è perfettamente ambientato: è questa infatti una città che gli piace, sempre così “stravagante e imprevedibile, che non smette mai di stupirlo”, ma soprattutto è una città in cui si sente come a casa propria, perché, come ha occasione di confessare alla collega Marina Imbrinati, è una città “che ti crea intorno famiglia”. Il lavoro inoltre, seppure non gli lasci mai tregua, lo appassiona; e d’altra parte è proprio quello che aveva scelto di fare fin da quando, ancora ragazzo, era mancato suo padre. E, se è vero che il caso di cui attualmente si sta occupando si presenta piuttosto complesso, anche a causa degli scarsi indizi disponibili, ha un collaboratore come il commissario Varriale, che è uno dei migliori che vi siano in città. Né, d’altra parte, è il primo caso difficile che deve affrontare, dal momento che ha ormai quarant’anni e non è più quindi alle prime armi. L’indagine attuale riguarda l’ omicidio di un uomo molto importante: un “ricco e insospettabile banchiere, esponente dell’alta finanza, […] dalla vita, almeno all’apparenza impeccabile”, la cui moglie, Claudia Gaudiosi, dopo il delitto, è misteriosamente e inaspettatamente scomparsa. La narrazione inizia con grande scioltezza e con una felice descrizione d’ambiente fin dal primo capitolo del romanzo, nel quale Sante, recandosi a Castel Capuano, all’epoca ancora sede degli Uffici giudiziari, incontra un lustrascarpe già avanti negli anni; un gustoso tipo di popolano napoletano, colto dalla Gargotta in maniera molto efficace: un’ “omino da capelli bianchi”, “con la sua cassettina per lucidare le scarpe”, “scavato e aguzzo, come la maschera di Pulcinella, lo sguardo sfavillante di un eterno fanciullo, che non spegne mai lo stupore per la vita”. Una persona vivace e ciarliera, che ha una sua funzione nello sviluppo del romanzo, dal momento che è proprio lui a condurci in medias res, con una rapida e implicita allusione al “fantasma

Chi volesse usufruire di un numero personale de IL CROCO I Quaderni Letterari di POMEZIA-NOTIZIE si rivolga alla Direzione di questo mensile.


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della Vicaria” (“Chillo ‘e na femmena impiccata, pecché eva acciso ‘o marito”); proprio quel fantasma cui si fa cenno nel sotto-titolo del libro. Ed all’ indifferenza sull’argomento dimostrata da Sante, che considera l’esistenza del fantasma una pura leggenda metropolitana (“Questa città è piena di leggende, belle sicuramente ma leggende”), il vecchietto, più che mai convinto della sua verità, immediatamente replica: “Ma qua’ leggenda…, leggenda, questa è storia vera; io ci abito qua di fronte…, ed è pure ‘na bella femmena”. Poco dopo però Sante si accorge che della storia di questo fantasma è a conoscenza anche la collega Marina Imbrinati, la quale quella stessa mattina, come d’abitudine, si è affacciata nel suo studio per salutarlo. Anzi è proprio lei che, non appena lo sente accennare ad una storia di fantasmi, gli fa subito il nome di Giuditta Guastamacchia. Marina per la verità ha dimostrato fin dal momento in cui l’ha conosciuto una spiccata simpatia per il giovane magistrato, benché egli non si sia fatto facilmente coinvolgere dai suoi espliciti inviti e sia sembrato del tutto assorbito dal proprio lavoro, oltre al quale ha anche intenzione di scrivere un libro sui processi che ebbero notevole risonanza in età borbonica e trascorre pertanto parecchie ore in archivio per tali ricerche. Ai fini del libro d’altra parte anche la storia di Giuditta Guastamacchia potrebbe interessarlo, dato che il suo è un “caso” che sembra molto noto in città, pur trattandosi di una donna, vissuta più di due secoli addietro, nel capoluogo campano, dove fu condannata all’impiccagione in quanto ritenuta colpevole dell’omicidio del marito, come ha accennato il lustrascarpe. A parlare di Giuditta in modo molto accattivante a Sante ed a focalizzare il suo sempre più vivo interesse su quest’affascinante figura di donna è però l’ amico Lorenzo, siciliano e magistrato come lui, anch’egli interessato a quella storia. E non solo, ma recentemente ha addirittura conosciuto “una giornalista, scrittrice, particolarmente interessata” sia a questa che ad altre storie di fantasmi napoletani. Annamaria (questo è il nome della giornalista1 che si sta occupando di Giuditta) gli ha però anche confidato che, in realtà, di ufficiale su quel processo non esiste più nulla, ad eccezione di “qualche stralcio di cronaca”, per giunta “difficilmente reperibile”. E l’interesse di Sante per Giuditta aumenta ancora di più allorché una strana sera, mentre è solo nel suo ufficio di Castel Capuano, ha (o crede di avere) la visione del suo fantasma, che gli si pre1

Il riferimento è ad Anna Maria Ghedina, autrice de Il fantasma dell’impiccata della Vicaria, Pironti, 1970.

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senta sotto le sembianze di una donna “irridente e arrogante, sinuosa e insidiante…”, che subito inizia con lui una sottile schermaglia diretta a sedurlo. “Una voce alle sue spalle lo fece sobbalzare. […] una voce flautata, carezzevole […] I capelli nerissimi appena venati di rosso, come la lava cocente dell’Etna, il volto perfetto di un angelo caduto per sbaglio sulla terra, il corpo in ombra appena visibile”. In tal modo viene presentata dalla Gargotta la figura di Giuditta, il personaggio chiave del romanzo. L’autrice così prosegue: “La donna si staccò dal cono d’ombra che l’avvolgeva e si fece avanti. La debole luce artificiale del cortile, che traluceva dalle persiane, disegnò i contorni di un corpo sottile, appena avvolto da una leggera veste di tela bianca, che a mala pena riusciva a nascondere le sue nudità, morbidamente rotonde, di fanciulla”. Il racconto oscilla continuamente tra il fantastico e il reale, facendo emerge il ritratto di una donna intelligente e volitiva, decisa a lottare per liberarsi da qualsivoglia condizionamento esterno. Tanto convincente è il suo dire e così imperiosa la sua figura che Giuditta diviene per il magistrato quasi una donna vera, che assume delle sembianze di suprema bellezza, quale egli ancora non conosceva e da cui è sempre più attratto, al punto da non potersene più distaccare. Ed è così che, a poco a poco, Sante acquista coscienza che “quell’incontro ha cambiato la sua vita e le sue abitudini, il suo abito mentale e la sua consapevolezza di sé”. Particolarmente acuta appare anche l’analisi psicologica che la Gargotta compie sulle reazioni del nostro magistrato durante i successivi incontri con Giuditta. Se infatti Sante da un lato è ben consapevole dell’opportunità di rinunciare a quegli incontri notturni con l’affascinante fantasma, dall’altro sa perfettamente che ciò facendo dovrebbe contemporaneamente rinunciare anche “a conoscere una parte di sé stesso, che nell’occulto nascondeva, ad ascoltare una voce terribile e melodiosa, che da lontano lo chiamava, da tempo, forse da sempre”. Ed egli “quella parte di sé” vuole “incontrarla”, vuole “guardarla in volto senza paura”: il che ci fa supporre che Giuditta non sia per certi aspetti altro che una proiezione dei suoi dissidi interiori, delle sue ossessioni e delle sue paure. Sempre di grande importanza per lo sviluppo della trama del romanzo sono in ogni caso le apparizioni del fantasma, che a poco a poco si rivela in tutta la sua complessa personalità, sia raccontando la propria vicenda che facendo uso dei suoi poteri sovrannaturali, capaci di influenzare l’indagine giudiziaria in corso. D’altra parte è proprio dopo una sua apparizione che l’inchiesta sull’assassinio


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del banchiere, ormai da tempo in una situazione di stallo, compie inaspettatamente un balzo in avanti, dal momento che finalmente la polizia riesce a scovare Claudia, che si era segregata in un appartamento di sua proprietà. Il commissario Varriale vorrebbe comunicare immediatamente la notizia al magistrato ma, pur cercandolo tutta la notte, non riesce a mettersi in comunicazione con lui, “né in ufficio, né a casa” e nemmeno sul cellulare. Svegliato di soprassalto alle nove della mattina dalla telefonata del commissario, Santeri si precipita subito in Tribunale per poter finalmente interrogare colei che sembra essere l’unica imputata dell’omicidio del banchiere: Claudia Gaudiosi, una donna in cui Sante vede una certa somiglianza con Giuditta. Anche lei è infatti una donna molto bella, che rivela un forte carattere, e soprattutto si dimostra sempre molto sicura di sé nel dichiararsi innocente; entrambe inoltre sono accusate dell’uccisione del marito. Pur proseguendo separatamente, le due storie presentano vari momenti in cui s’intrecciano. Ma consideriamole nel loro svolgersi. Durante le sue apparizioni notturne Giuditta racconta a Sante la sua storia di amore e di morte; perché è proprio per amore che Giuditta aveva ucciso, dato che volevano impedirle di unirsi all’uomo che amava, Stefano, un giovane prete, al quale era legata da una passione che non concedeva scampo. Il padre, ritenendo tale relazione particolarmente peccaminosa aveva tentato in ogni modo di persuadere la figlia ad interromperla, giungendo addirittura a rivolgersi alle autorità ecclesiastiche al fine di allontanare da lei il sacerdote. Tutto però era risultato inutile, anche il matrimonio con un vecchio notaio, molto esperto di giochi amorosi ed attratto da Giuditta per la “fama delle sue … nefandezze”, più che per la sua bellezza. Ma col tempo “i soldi finirono” e il notaio, “pieno di debiti e inseguito dai creditori, scappò e … fu trovato morto malamente”. A causa del perseverare di Giuditta nella sua vita scandalosa il padre si rivolse ad un giudice, che la “condannò alla reclusione nel convento di Sant’ Antonio alla Vicaria”. Per farla uscire poi dal convento lo stesso Stefano le trovò un nuovo marito (un suo parente), nella persona di un giovane, senza arte né parte, il quale però, benché inesperto, si rese ben presto conto dei tradimenti della moglie, sicché divenne violento verso di lei. Giuditta allora non trovò altra soluzione che quella di eliminarlo. E lo fece con l’aiuto del padre, di un chirurgo, al quale si era concessa, e di un sicario. Dopo averlo ucciso lo tagliarono a pezzi, per disperderne il corpo in diversi luoghi della città. La cosa sembrava quasi riuscita, quando il chirurgo venne scoperto con il sacco

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contenente dei resti del cadavere. Fu così arrestato e trascinò tutti gli altri nella sua rovina. Seguì un processo che si concluse con la condanna all’ impiccagione di Giuditta, del chirurgo e del padre suo. Fortemente colpito e inorridito dal racconto di Giuditta, Sante si rifugia, per riaversi, da Marina, che l’ accoglie amorevolmente, facendogli trascorrere una piacevole notte con lei. Questa la storia del “fantasma della Vicaria”, ricostruita dall’autrice attraverso “qualche stralcio di cronaca” suggeritole, come ella stessa dice nei Ringraziamenti, da Annamaria Ghedina. Contemporaneamente, in un’altra stanza di Castel Capuano, anche Claudia Gaudiosi vive la conclusione della sua tragica storia. Attraverso le indagini si è giunti infatti a sapere che lei e il marito avevano un “amico”, un certo Nicola, frequentatore assiduo della loro casa, anch’egli scomparso senza lasciare alcuna traccia. Verrà ritrovato più tardi, ormai cadavere in avanzato stato di decomposizione, in una stanza segreta dell’appartamento della Gaudiosi, a cui la polizia riesce ad accedere per mezzo di un’antica mappa misteriosamente comparsa sul tavolo di Sante. Della morte di Nicola sarà naturalmente accusata la padrona di casa, anche a causa delle impronte da lei lasciate sulle armi del delitto: una pistola e un coltello. È interessante notare come la somiglianza tra l’ omicidio di Giuditta e quello di Claudia Gaudiosi divenga per Sante quanto mai evidente: “…Quelle due donne, senza pace e circondate d’ombre, apparivano più simili di quanto sembrasse”; entrambe si dimostravano mosse da uno stesso furore sanguinario, anche se Giuditta sembrava essere più genuina, nel suo desiderio di libertà (conculcata dai condizionamenti del padre o di chi per lui), da lei invocata per potersi dare senza intralci al suo Stefano. Ed è forse proprio questo desiderio di abbattere ogni intralcio alla propria passione che in qualche modo la giustifica. Più fredda invece e calcolatrice sembra essere Claudia, nel suo ponderato modo di agire, che la rivela maggiormente subdola. Ma ritorniamo a Sante. Egli appare un uomo dominato da un unico intento, quello di far luce sull’ omicidio del padre, sicché rifiuta persino l’ amore che Marina gli offre per dedicarsi totalmente a quella che egli ritiene essere la sua missione. Soltanto il fantasma in qualche modo l’attrae, divenendo per lui un pensiero quasi ossessivo, tanto da attenderlo puntualmente nel suo ufficio ogni sera, per ascoltarne la storia. Giuditta pare d’altra parte invaghita di lui e vuole legarlo a sé, ricorrendo a tutte le sue astuzie e alle sue arti, tanto da aiutarlo persino a risolvere il caso Gaudiosi, che gli è stato affidato.


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Ella si rivela così una donna mossa soltanto dall’ istinto, come una forza della natura, che la rende quasi “innocente”, come è detto nel titolo del romanzo, che è stato tratto dall’autrice da una frase di Alfonso Gatto, contenuta nel suo libro Napoli N.N., dove è detto: “Nel Sud i fantasmi sono innocenti. Se hanno subito un torto, se furono esposti all’ offesa o colti dall’insidia ignari nel sonno, il loro ritorno nel tempo e sui luoghi ha il segno di questa pace turbata che essi cercano di ricomporre. Se vanno in cerca di pace e di quiete, come possono turbarci?”. La sua vera maturazione, che gli farà considerare la vita in un modo del tutto nuovo, Sante la troverà allorché apprenderà da una lettera della madre, a lui recapitata dopo la morte di lei, che il padre non era stato ucciso perché vittima esterna della mafia, ma perché legato egli stesso alla mafia. Ciò costituisce un duro colpo per il magistrato che, pur tuttavia, proprio attraverso quella rivelazione, perviene ad una visione meno astratta della realtà, più legata alla molteplicità della vita ed al suo vario divenire. “Credevi fosse tutto chiaro, vero? o bianco o nero, o buono o cattivo, o vero o falso, povero il mio giudice, e invece, come vedi, è molto più complicato di così”, gli dice Giuditta Guastamacchia in una delle sue ultime apparizioni, scoprendo con queste parole il vero punto debole di Sante; quello di una visione troppo semplicistica e unilaterale dell’ esistenza. Ora Sante ha compreso che “il male giace in agguato nel grembo del bene” e così potrà guardare ai casi di ogni giorno e al suo prossimo con maggiore obiettività. Anche Claudia, al pari di Giuditta, va considerata pertanto con le sue attenuanti, delle quali bisogna tener conto. Il racconto termina con il ritorno di Sante in Sicilia, dove si dedicherà alla lotta contro la Mafia, per ristabilire quella giustizia che anche suo padre aveva violata, ma non troverà più la madre ad assisterlo. Un libro scritto con uno stile limpido e accattivante, questo di Maria Gargotta, I fantasmi sono innocenti, che ha il ritmo e la tensione di un romanzo poliziesco, ma che poi li supera in una più compiuta e consapevole visione della vita e del mondo. Un suo non piccolo pregio si trova infine nella vivace descrizione della vecchia Napoli, con i suoi vicoli ed i suoi monumenti, fatta con amorevole cura dall’autrice, così da dischiudere un mondo soltanto in parte conosciuto dai più, mentre molto ha da offrire a chiunque voglia penetrarne il fascino segreto. Puntuale e diffusa è la Prefazione del Professor D’Episcopo, il quale indaga a fondo, com’è suo costume, nella sostanza del testo, offrendo ai lettori

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una chiave utilissima per intenderne appieno il significato ed il valore. Liliana Porro Andriuoli

D. Defelice: Il microfono (1960)

NOTIZIE LEONARDO SELVAGGI E LE DONNE L’articolo di Leonardo Selvaggi, apparso alle pagine 20 -24 dello scorso numero di giugno, ha suscitato un autentico vespaio. Ecco, per esempio, due reazioni: quella della scrittrice e poetessa Antonia Izzi Rufo, di Castelnuovo al Volturno, e la lettera, del 20 giugno 2017, della scrittrice architetto Lucina Vasile di Roma: Interessante, molto interessante, il lungo articolo di Leonardo Selvaggi (pubblicato sul n. 6, Giugno 2017, di Pomezia-Notizie), “Vanno incrementati l’ agricoltura e l’artigianato insieme con altri lavori a carattere sociale”. Lo scrittore affronta i problemi scottanti dell’ attuale società, ma l’argomento prioritario preso in esame, ed evidenziato nei particolari, quello maggiormente discusso e non risolto, riguarda la “disoccupazione giovanile”. Di tale, Selvaggi enumera le cause e ne propone possibili soluzioni. Una delle cause della disoccupazione, la prima in senso assoluto, è, secondo il critico, l’ “invasione” (potremmo dire “l’invadenza”) delle donne in ogni campo lavorativo: “Tutte le agenzie commerciali, gli uffici immobiliari sono costituiti di posti femminili, le donne sanno fare con astuzia e tutte le capacità adescatrici che hanno”; “Tutte le donne dalle belle forme, non trovi una che non eserciti attrattive”; “ci sono caterve di giornaliste che piovono in ogni occasione”; “Per qualunque informazione tu


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chieda per telefono sempre una voce argentina femminile risponde”; “Funzionari gradassi prelevano pollastrelle da posti inferiori per nominarle segretarie particolari”; “Le mamme che un tempo erano ottime amministratrici, oggi l’indipendenza economica le fa essere disamorate con le mani bucate”... Tutti (quasi tutti) i posti tenuti dalle donne “devono essere assegnati ai padri di famiglia”. Quale, allora, il ruolo del “gentil sesso”? Occuparsi della casa e della famiglia, dei figli e del marito. Dovrebbe, la donna, tornare a fare la moglie e la mamma, proprio come si usava nei tempi antichi, ad essere l’angelo della casa. Se ne avvantaggerebbero sia il marito, che non si sentirebbe solo e trascurato, sia i figli i quali crescerebbero sereni e senza complessi. Non è, Selvaggi, contrario alla “par condicio” e all’emancipazione femminile (queste due condizioni favoriscono la crescita sana, normale della personalità dei ragazzi), egli propone di dedicare tutto il tempo, il tempo necessario, ai figli anziché al lavoro extradomestico. Dovrebbe, la donna, saper rinunciare ad effimere vanità e appagarsi di soddisfazioni interiori, essere felice di dare tutto quanto è in suo potere per riceverne, in compenso, affetto e gratitudine e (perché no?) anche ammirazione. Sono perfettamente d’accordo su quanto asserisce Leonardo Selvaggi, pur se anch’io ho trascorso i miei anni giovanili ad occuparmi di attività extradomestiche (ho insegnato per 40 anni), pure se anch’io affidavo i miei figli bambini ad altre perone, fidate, a mia madre e a mia suocera. Se tornassi indietro, rinuncerei all’insegnamento e farei la mamma, e la moglie, a tempo pieno. Antonia Izzi Rufo Gentile Direttore Domenico Defelice Complimenti! Sono alla prima apparizione di miei scritti sulla rivista che lei pregevolmente dirige e ne sono onorata. Ho letto con molto piacere articoli, racconti, poesie, nel numero di giugno, veramente molto interessanti. Come perle incastonate nelle pagine rifulgono di luce propria le raffinate e musicali poesie di Corrado Calabrò. L'unica cosa che stride - a mio avviso e mi perdoni la completa sincerità, so essere solo così come già le accennavo - è l'oscurantista, offensivo, irrispettoso nei confronti di donne e marocchini, articolo di Leonardo Selvaggi dal titolo:"Vanno incrementati l'agricoltura e...". Personalmente mi ha fatto venire l'orticaria, dalla quale difficilmente mi sto riprendendo. Dal dimenticatoio, dove ripongo le cose inaccettabili, spalmo quotidianamente creme lenitive, spero di guarire presto. Ci sono argomenti da controbattere che

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smonterebbero, parola per parola, questa cattedrale di cattivo gusto e vere stupidaggini. Ma francamente non vale neanche la pena di perderci tempo, non merita attenzione. E pensare che non sono neanche femminista, ma invece orgogliosissima di essere donna. Mi viene di chiedere: ma questo signore dove vive, che donne conosce e frequenta? Il ritratto da lui dipinto, della donna moderna che lavora, è fuori dal mondo...!!! Con profonda stima e ammirazione, compagna una buona dose di istintivo (non ci siamo mai visti) affetto Luciana Vasile *** AMERIGO IANNACONE NON C’È PIÙ Amerigo Iannacone è morto il 12 luglio 2017, ucciso da un’Alfa Romeo 156, condotta da un anziano (chi dice 78, chi 80 anni); è morto nei pressi dell’ospedale “Santissimo Rosario” di Venafro mentre, verso le otto del mattino, stava attraversando sulle strisce pedonali per andare al bar, dove abitualmente faceva colazione. Aveva 67 anni, era nato a Venafro il 17 maggio 1950. Una tragedia per la famiglia - alla quale porgiamo le nostre condoglianze - e una perdita grande per la cultura italiana. I funerali si sono svolti alle ore 17,00 del 13 luglio nella Cattedrale di Venafro. Dal niente, Amerigo Iannacone aveva fondato un simpatico mensile (Il Foglio Volante/La Flugfolio) e le Edizioni EVA, che, a poco a poco, con sacrifici e amore, stavano acquistando meritato spazio e generale apprezzamento. Ecco di Lui una assai strizzata scheda. Amerigo IANNACONE era nato a Venafro (Isernia) nel 1950. Ha pubblicato: Pensieri della se-


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ra (1980), Dissolvenza incrociata (1983), Parliamo un po' di Ceppagna (1985), Esperanto, il perché di una scelta (1986), Eterna metamorfosi - Eterna metamorfozo (1987), Microracconti (1991), Ruit hora (1992), Verso il fonetismo - Evoluzione della scrittura (1994), Mater (1995), La stramma - Un artigianato in via di estinzione (1997), Da Babilonia a Esperantujo – Considerazioni sulla lingua internazionale (1998), Testimonianze - Interventi critici (1998), Vincenzo Rossi e i Canti della Terra (2001), Estaciones (2001), L'ombra del carrubo (2001), A zonzo nel tempo che fu (2002), Sera e l'ata sera – Filastrocche, stornelli, proverbi, scioglilingua e altre cosette molisane (2004), Semi (2004), Nuove testimonianze – Interventi critici (2005), Stagioni (2005), Piccolo Manuale di Esperanto (2006), Versetti e versacci (2006), Cronache reali e surreali (2006), Letture e testimonianze - Interventi critici (2006), Oboe d' amore / Ama hobojo (2007), Dall'otto settembre al sedici luglio (2007), Dall'Arno al Tamigi - Annotazioni linguistiche (2008), Il Paese a rovescio e altre fiabe (2008), Luoghi (2009), L'ombra del carrubo - La sombra del algarrobo (2009), Parole clandestine (2010), Prefazioni e postfazioni (2010), Poi, (2011), Matrioska e altri racconti (2011), ... E poi il Fiume Giallo (2012), A zonzo nel tempo che fu (2016). (d.d. Amerigo Iannacone non è più Quando sono stata informata da un mio familiare, per telefono, della morte di Amerigo, ho gridato risentita, adirata: “Ma che stai dicendo! Che ti viene in mente! Non scherzare, per favore”. Non era uno scherzo, purtroppo, era verità, ma io stentavo a crederci. Ho provato sorpresa e dolore, e risentimento contro la crudeltà del destino, contro i pirati della strada. Professore in pensione, editore, valido scrittore e poeta, critico e saggista, direttore del “Foglio Volante”, era un brav’uomo, si faceva voler bene da tutti, aveva tanti amici. Quante volte (per motivi editoriali) sono stata nella sua casa di Ceppagna, insieme a mio marito! Una casa semplice, calda, accogliente, tra orti e verde. Ed egli sempre gentile, sorridente, ospitale, disponibile. Che vuoto lascia nella sua bella famiglia (la moglie Maria Grazia e i figli Eva e Renzo) e nel vasto mondo letterario di cui era circondato! Sarai sempre nei nostri cuori, Amerigo, non ti dimenticheremo. Antonia Izzi Rufo Anche Giovanna Li Volti Guzzardi, dall’ Australia, attraverso una e-mail del 17 luglio, porge sentite condoglianze alla Famiglia. *** PIETRO BISESTI CI HA LASCIATO - Venerdì 14 luglio è deceduto improvvisamente Pietro Bise-

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sti, Presidente dell’Associazione Coloni Fondatori di Pomezia. Aveva 75 anni e da più di trent’anni si occupava di tener viva la memoria storica di coloro che, negli anni trenta e quaranta del secolo scorso, son venuti nel nostro territorio in seguito alla bonifica. Persona affabile, voluta bene da tutti, che quasi tutti i giorni, ma in particolare la domenica, lo si incontrava in piazza Indipendenza - dov’è la sede dell’Associazione -, a chiacchierare e a preparare le tante iniziative per far conoscere la storia della nostra Città. A lui si deve l’istituzione, per esempio, del Monumento ai Coloni, in via Per Crescenzi, inaugurato l’otto dicembre 1990. Ma prima aveva raccolto una gran massa di materiale, anche documentario, come le migliaia di fotografie e fondato l’ Associazione, che ufficialmente è stata inaugurata il 3 ottobre 1989. Annualmente, Pietro Bisesti organizzava una diecina di manifestazioni, tra le quali la Festa del Grano, la Nascita e l’inaugurazione di Pomezia, il Presepe Vivente, la Giornata del Colono, Mostre fotografiche e - anche con il concorso del Gruppo Artistico La Spiga d’Oro - mostre di pittura, modellismo, saggi di poesia, presentazione di libri eccetera. In tutto questo lavoro, un aiuto fattivo e disinteressato gli è stato dato da tanti amici e dalla figlia Emilia in particolare, validissima poetessa, della quale qui vogliamo ricordare Pagine erranti, edito nel 2015 dalla Genesi di Torino. Pietro Bisesti ha curato pure diecine di pubblicazioni, tutte volte a far conoscere la storia della nostra Città e dei suoi tanti coloni. Il suo desiderio, finora irrealizzato: l’istituzione di un Museo della Bonifica, dove raccogliere oggetti, mezzi e strumenti usati dai coloni in quegli anni difficili, pioneristici, ma ricchi di entusiasmo. Unanime il Cordoglio della Stampa locale e della cittadinanza, a nome della quale e dell’ Amministrazio-


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ne il Sindaco Fabio Fucci ha espresso il cordoglio, dichiarando che Pietro Bisesti è stato “un uomo che ha dedicato la propria vita a tenere vive le radici e la storia della nostra città”. Noi di Pomezia-Notizie ci associamo al dolore della Famiglia, nell’augurio che l’Amministrazione Comunale sappia degnamente onorarlo, con l’ intitolargli almeno una strada e il Museo della Bonifica, che va istituito e al più presto. Perché Pietro Bisesti va onorato coi fatti e non solo con le parole. In particolare - come già ricordato -, ci si incontrava quasi tutte le domeniche in piazza Indipendenza, tra la folla che nei giorni festivi vi sosta, alla uscita delle messe, tra le varie iniziative organizzate da lui o da altre associazioni. Si chiacchierava a lungo e di tante cose: di politica (è stato un uomo di destra, ma non con i paraocchi), di storia e di costumi, di agricoltura, del decoro della nostra città, della famiglia eccetera. Ultimamente era felice e orgoglioso per la nascita di nipotini gemelli. Un vero amico, che rimarrà per sempre nel nostro cuore. I funerali si sono svolti nella chiesa parrocchiale di San Benedetto Abate, in piazza Indipendenza, lunedì 17 luglio, alle ore 15, gremitissime di parenti, amici ed estimatori. Domenico Defelice Ricordando Pietro Guido Bisesti. Pietro Bisesti merita il grande riconoscimento di aver tenuto vivo, per tutti questi anni, il ricordo dell’origine, della fondazione e della storia della città di Pomezia. E lo ha effettuato con molteplici iniziative: L’istituzione dell’Associazione Coloni Fondatori di Pomezia. Commemorazione delle date storiche della Città, attraverso esposizioni di documenti, di foto, di macchinari, di strumenti, animate da musiche e canti d’epoca. Ricognizione delle prime famiglie dei Coloni Fondatori, con dedicazione ufficiale di un monumento cittadino in loro onore. Visite storico/culturali nelle città Pontine gemelle e in altri luoghi di personaggi illustri legati a Pomezia. Incontri informativi con rievocazione di importanti date ed avvenimenti storici Nazionali. Manifestazioni culturali, del passato ed attuali: di letteratura, di poesia, di arte, di musica, con istituzione di Gare e di Premi. Istituzione di Feste conviviali, legate all’agricoltura: con gruppo folkloristico, degustazioni di vari prodotti della terra e di cibi da essi derivati Varie Celebrazioni di feste religiose,

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come Presepi viventi, Via Crucis e altro. Le molteplici attività, attuate grazie al grande impegno e alla buona volontà di Pietro Bisesti e dell’Associazione, più che dai mezzi disponibili, ne aumentano di valore. Anch’io ho partecipato ad alcune mostre di pittura. Ed ancora ringrazio l’Organizzatore! Mi piacerebbe che venisse intitolata una via dedicata a lui. Maria Antonietta Mosele Pomezia, 16 luglio 2017. Ricordando Pietro Guido Bisesti. Sono rimasto profondamente colpito per la inattesa quanto improvvisa scomparsa di Pietro Guido Bisesti, figura ormai storica per Pomezia in quanto ha rappresentato le radici della nostra Città, è Presidente dell’Associazione Coloni fondatori di Pomezia, ha organizzato varie manifestazioni in ricordo della sua fondazione: la Festa del grano, visite storiche a Predappio (tomba di Mussolini), mostre culturali e artistiche con libri, quadri di vari artisti, letture di poesie. Una delle tante manifestazioni a cui partecipai è la visita organizzata a Piana delle Orme, museo della bonifica pontina. Altra iniziativa di Bisesti a cui ho partecipato personalmente è la ricorrenza - 10 febbraio di ogni anno - della Giornata del Ricordo dei Martiri delle Foibe, istituita a livello nazionale dall’On. Menia nel 2004: Bisesti ogni anno ha organizzato brevi e toccanti Cerimonie a Via Martiri delle Foibe a Pomezia, dove fece installare una lapide recante scritto: “10 Febbraio giornata del ricordo dei Martiri delle Foibe”; ed è anche incisa la preghiera dell’infoibato. Tali cerimonie si concludevano presso la Sede dell’Associazione Coloni con ampi dibattiti e rievocazioni storiche. Infine ho partecipato a Presepi viventi, Via Crucis, organizzati dai Coloni. Bisesti va anche ricordato per la precedente attività professionale, ha operato presso le principali Ditte del territorio, come la ex Litton, ex Scialotti/Elmer nel settore impiantistico elettrico. Giuseppe Giorgioli Pomezia, 16 luglio 2017 A Pietro Guido Bisesti. Caro Pietro, la nostra amicizia risale a oltre cinquant’anni fa: ci siamo sempre stimati e compresi perché tu avevi un carattere molto buono per cui si andava perfettamente d’accordo. Di te ho molto apprezzato quanto fatto con l’ Associazione Coloni Fondatori perché con le tante manifestazioni da te organizzate hai voluto che i cittadini di Pomezia ricordassero le radici tutte particolari della nostra Città: la Befana, le ricorrenze della posa della prima pietra e della inaugurazione, la


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festa del Grano e dei Coloni, l’Immacolata ed il Natale Artistico. Grazie Pietro di quanto hai fatto. Tu meriti che si eriga in tuo onore un monumento. Marcello Risorto Pomezia, 16 luglio 2017 Dedicato a Pietro Guido Bisesti. Le grandi distese di spighe dorate che tanto amavi sono l’immagine che porteremo come il ricordo di te, perché sono la metafora di ciò che hai fatto in tutti questi anni per Pomezia e per tutti gli artisti dell’Associazione Coloni. Hai arato il terreno, lo hai seminato ogni giorno e hai permesso a tutti noi, artisti ed amici, di crescere affondando le radici in questa terra di Pomezia e, proprio come spighe, hai dato la possibilità ad ognuno di noi di dare frutto e di offrire i frutti del nostro lavoro alla nostra amata Città, alimentando in tutti i cittadini di Pomezia l’ importanza delle nostre origini e della nostra storia. Per tantissimi anni ho avuto la possibilità e l’ onore di poter lavorare a stretto contatto con te e con Emilia per realizzare le tue idee e i progetti che abbiamo pensato insieme e per questo dono grandissimo ti ringrazio a nome mio e di tutti gli artisti di cui eri tanto orgoglioso. Ti porteremo nel cuore e nella mente e cercheremo di realizzare tutti i desideri che avevi espresso per il futuro dell’ Associazione e della nostra Città di Pomezia. Elena Claudiani Responsabile del Settore Artistico dell’Associazione Coloni. *** FESTIVAL LUIGI NONO ALLA GIUDECCA 5-9 OTTOBRE 2017 - Musica Danza Esposizioni Film Incontri Reading - Con una bella fotografia del compositore veneziano Luigi Nono, in giubbino su maglia scura e jeans, mentre accenna al passo lungo la Fondamenta della Giudecca, con alle spalle l'imbarcadero della Palanca, tutti possono essere informati per tempo di questo straordinario evento, per il quale ho sperato con non poco fervore dentro di me e non solo. Ne sono testimonianza autorevole i numerosi testi pubblicati su questa Rivista che dal 2014 in poi hanno portato ai lettori informazioni in dettaglio sia di eventi che di opere e di interpretazioni su scritti, lettere, composizioni del Maestro. Il Progetto è stato elaborato e proposto dalla Fondazione Luigi Nono onlus, Giudecca 619-621, ex convento SS. Cosma e Damiano, Venezia, con indicazioni in rete www.luiginono.it e info@ luiginono.com, che ha alla guida come Presidente anche del Comitato Scientifico la signora Nuria Schoenberg Nono, preziosa ed instancabile ideatrice di quegli eventi culturali che hanno lasciato una pro-

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fonda traccia nella storia della musica, del teatro, della lotta etico-politica cui il suo GiGi (Venezia, 29.01.1924 – 8.05.1990) ha dato vita e realtà, sigillo, stile, anima. Quel giorno, l'8 maggio 1990, sono arrivata per caso a Venezia, per incontrare lo storico prof. Giovanni Pillinini: ho letto sui muri, in ogni piccolo spazio, gli annunci a lutto, con il bordo nero ed il suo nome, 'Luigi Nono', pure in nero. Ho provato una stretta al cuore: non potevo prevedere, allora, la ragione e l'intensità incredibile del disorientamento che provavo e di quell'avvertimento, proveniente dai sensi dallo spirito. Nel Manifesto, che sarà posto un poco dovunque, come l'altro, ma ora vivo e progettuale, in pieno contrasto con le cupe forze di Thanatos, si potranno trovare in elenco, giorno dopo giorno appunto, gli eventi che ne costituiranno i contenuti. Trascrivo dal Programma: 'Filo conduttore del Festival è la vita e l'opera di Luigi Nono, di cui si intende offrire un ritratto a tutto tondo, attraverso appuntamenti di musica e danza, esposizioni fotografiche e documentarie, proiezioni di documentazione audiovisiva, incontri con gli studenti, reading e una tavola rotonda. Nello sfondo la vita attiva della Giudecca, sede di fabbriche ormai dismesse, negli anni della ricostruzione postbellica, mentre si portavano avanti importanti lotte per i diritti civili, scolastici, sanitari. Le associazioni e gli enti coinvolti nel Festival partecipano con attività specificatamente ideate per questo progetto, al fine di valorizzare la numerosa documentazione inedita conservata all'Archivio Luigi Nono, di estremo interesse non solo per la conoscenza dell'artista, ma anche per la ricostruzione del contesto storico, sociale della Giudecca, dagli anni Cinquanta ad oggi...' Parte integrante attiva nel progetto, oltre all'Archivio Luigi Nono, il SILOS Art Inside, Venezia; Emergency, sede di Venezia; Centro Culturale 'Renato Nardi'; Centro Teatrale di Ricerca; CZ95 – Centro Culturale Zitelle; Teatro Junghans; IVESER Istituto Veneziano per la Storia della Resistenza e della società contemporanea; Spazio Bocciofila; Studio Giudecca 860; Spazio Punch; Cantiere Navale Gruppo Faldis; ARCI Luigi Nono; Trattoria Altanella; Bar La Palanca. In rete sarà possibile scaricare ogni dettaglio che potrebbe però ancora subire qualche variazione, ma qui, per ragioni di spazio, segnalo solo il momento fortemente significativo di apertura: alla sede del SILOS Art Inside Venezia, il 5 ottobre, alle 16:30 prenderà vita l'Inaugurazione del Festival, con Nuria Schoenberg Nono e Massimo Cacciari, che presenteranno l'Archivio, seguita da una Tavola rotonda 'Luigi Nono: La nostalgia del futuro',


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con relatori Massimo Donà, Mario Messinis, Stefano Bassanese, Veniero Rizzardi, Alvise Vidolin, mentre David Riondino leggerà testi di Luigi Nono, tra una relazione e l'altra. Tutta l'Isola della Giudecca sarà dunque per giorni e giorni fermento di incontri, realizzazioni originali, produzioni e cooperazioni europee, testimonianze in filmati storici audio-video e mostre fotografiche, perché si possa riflettere sulla realtà operaia di ieri e di oggi, sulla guerra, sull'intolleranza, sulla politica e sulla dignità d'ogni singolo individuo, in sintesi su Luigi Nono ed i suoi infiniti universi mondi. Ilia Pedrina *** LETTURA DI DEFELICE ALLA BIBLIO-

TECA DI POMEZIA - Giovedì 20 luglio 2017, alle ore 9,30, la Biblioteca Comunale di Pomezia - Largo Catone - ha organizzato un “Gruppo di Lettura - Leggiamo Domenico Defelice”. La simpatica locandina recava le firme dell’Assessore e Vicesindaco Dottoressa Elisabetta Serra e del Sindaco, Dott. Fabio Fucci. Pomezia-Notizie plaude all’iniziativa e dice grazie a tutti, in particolare alla Direttrice della Biblioteca, Dottoressa Fiorenza Castaldi, che ha voluto l’incontro. Sono intervenuti: Giuseppe Argentini, Andrea Bibbi, Elena Claudiani, Giuseppe Giorgioli, Antino Marandola, Anna Maria Marinone, Luca Paonessa, Marcello Risorto, Maria Soleo; coordinatrice: Maria Antonietta Mòsele.

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LIBRI RICEVUTI ROSSANO ONANO - Il cantare delle mie castella - Prefazione di Sandro Gros-Pietro - Genesi Editrice, 2017 - Pagg. 64, € 8,00. Rossano ONANO è nato a Cavriago nel 1944. Laureato in medicina a Milano, vive a Reggio Emilia, ove esercita la professione di medico specialista psichiatra. L’ esordio in poesia risale a “Gli umani accampamenti” del 1985; vengono, poi: L’ incombenza individuale (1987), Dolci velenosissime spezie (1989), Inventario del motociclista in partenza per la Parigi-Dakar (1990), Rosmunda, Elmichi, altri personaggi di Evo Medio (1991), Viaggio a Terranova con neri cani d’acqua (1992), Le ancora chiuse figlie marinaie (1994), La trasmigrazione atlantica degli schiavi (1995), Il senso romanico della misura (1996), Preghiera a Manitou di Cane Pazzo (2001), Ammuina (2009), Mascara (1° Premio Città di Pomezia 2011), Scaramazzo (2012), Il sandalo di Nefertari (2016). Nel 1998 ha pubblicato la raccolta di saggi critici “Il pesce di Ishikawa” seguito nel 2006 da “L’ultimo respiro di Cesare”. Nel 2010 è la volta di “Diafonie poetiche a contrasto” (con Veniero Scarselli) e, nel 2014, “Alleluia in sala d’armi Parata e risposta” (con Domenico Defelice). Nel 2017, vincitore assoluto sezione saggistica del Premio I Murazzi 2016, pubblica “Testimonio eternamente errante. La simbologia biblica nel primo e nell’ultimo Veniero Scarselli”. Inserito nell’almanacco paredro XX secolo/anno 2006 intitolato “Un secolo in un anno”. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti e premi per la sua attività e ha partecipato a convegni poetici. Mantiene un’ampia collaborazione e un’attiva presenza con riviste di poesia. ** ROSSANO ONANO - Testimonio eternamente errante. La simbologia biblica nel primo e nell’ultimo Veniero Scarselli - Prefazione di Sandro Gros-Pietro - Genesi Editrice, 2017 - Pagg. 88, € 9,00. ** PASQUALE MONTALTO - FRANCESCO FUSCA - Siamo Uomini Innamorati della Bellezza e che dialogano in Amicizia - Prefazione di Pierfranco Bruni, Presentazione di Antonietta Meringola, Introduzione di Pasquale Montalto, una poesia “Sulla tua fredda pietra” di Clelia Rimoli, nelle bandelle note di Enrico G. Belli. Il volume è composto di due parti: Nascere ad un nuovo paesaggio, di Francesco Fusca e Il tempo della libertà e dell’amore, di Pasquale Montalto. Copertina e disegni all’interno di Alice Pinto. Apollo Edizioni,


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2017 - Pagg. 138, € 10,00. Pasquale MONTALTO è nato ad Acri (CS) il 16 maggio 1954. Laureato in Psicologia all’Università La Sapienza di Roma. È dipendente della Comunità Montana “Destra Crati” in Calabria. Tra le tante sue opere ricordiamo: “L’amore dell’Alba Sociale”, “Libertà e Persona”, “Ricerca d’Amore”, “I, You, We, You, Others (Io, Tu, Noi, Voi, Altri)”, “Glass Bits (Schegge di vetro)”, “Il tempo perde la sua culla”, “Luci ed Ombre”, “Profumi sapienti” (1989), “Il Dialetto Della Vita - Il Sogno La Vita La Bellezza” (2015, con Domenico Tucci). E’ inserito in più di 40 antologie. Centinaia gli scrittori e critici che si sono interessati alla sua opera. Francesco FUSCA (Spezzano Albanese 1948 - Corigliano Calabro 2016), laurea in Pedagogia, docente e divulgatore culturale, impegnato in molti campi. Numerose le sue pubblicazioni di poesia, pedagogia, metodologia, didattica, legislazione scolastica, organizzazione, psicologia. Si ricordano: Persone disabili, in famiglia, a scuola e in società (2011), sei volumi (1987 - 2016) di “Canzonieri d’Amore”, tre volumi di “Poesie per Mamma” (1998 - 1982), “I Versi della Pietà” (2008), “Saggio sull’Amore” (2001 - 2002), “Storie quasi vere” (1986), “Corporeità e mente” (1993) ecc.. ** FRANCO DE SANTIS - I 44 di Unterlüss - Una pagina eroica della Resistenza Italiana - La straordinaria storia dei 44 Ufficiali IMI che osarono sfidare i nazisti. Spettacolo ideato e curato da Franco De Santis, tenutosi venerdì 24 marzo 2017, ore 17.30, Archivio di Stato di Campobasso; saluti della Dottoressa Antonietta Verdone, direttore Archivio di Stato CB; testimonianza del Gr. Uff. Dott. Michele Montagano (classe 1921), Presidente Nazionale Vicario A.N.R.P.; Letture di Aldo Gioia. Sotto la foto di copertina si legge: “Ciascuno di noi prese la sua decisione autonomamente e in piena coscienza per contrastare l’arroganza nazista, ...con la certezza di una morte sicura”. E in quarta di copertina: “Una resistenza silenziosa ma determinata più che mai quella che 650.000 soldati italiani fecero alla Germania Nazista di Hitler subito dopo l’8 Settembre del 1943. Michele Montagano (classe 1921) Internato militare e testimone oculare di quegli avvenimenti, ha deciso di accettare il mio invito e... raccontare la sua incredibile storia. Franco De Santis. Lo spettacolo e il relativo CD hanno avuto il patrocinio dell’ANRP - Associazione Nazionale Reduci della Prigionia, dall’Internamento, dalla Guerra di Liberazione e loro familiari, nonché dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Archivio di Stato di Campobasso. ** MANUEL GARCÍA CENTENO - Relatos y

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Versos publicados en Revistas Literarias y el Semanario Vegas Altas - Raccolta di scritti vari, apparsi su diverse Testate, come La Cita, El Molino Azul, Omnia, Vegas Altas, Zalamea de la Serena, Siembra, Clarin, Aguamarina, Aldaba, Nhesu Ha, Tántalo. Ci troviamo anche due brevi traduzioni, a firma di Amerigo Iannacone, recentemente scomparso, tratte dal volume del madrileno “Donde habita el silencio”. Ecco la versione di una poesia di Centeno tratta dalla rivista Clarin, che rende plasticamente, tra l’altro, e oltre gli aspetti sociali, gli assolati campi di Spagna: I BAMBINI E LE SPIGHE Un cappello di paglia, un fazzoletto di fiori, una maglietta di scampoli, sandali e calzettine per coprire l’aspro odore delle stoppie. Il sole brucia le labbra. Un’anfora all’ombra di una quercia. Spighe d’oro e miele per i bimbi. Un fagotto di pane sulla schiena... Manuel García Centeno Trad. Domenico Defelice

LETTERE IN DIREZIONE Carissimo, sono appena rientrata dal breve viaggio di un giorno ed una notte a Cologne, in provincia di Brescia e le emozioni sono state infinite, quasi provenienti da una antica cornucopia senza fondo. Ricerco in rete e scopro che il prof. Marco Vannini, invitato dal Direttore Scientifico Francesca Nodari, parteciperà alla XII Edizione del FESTIVAL FILOSOFI LUNGO L'OGLIO - TOCCARE, il 3 luglio alle ore 21,15 nel cortile del Palazzo Municipale, e terrà una lectio magistralis sul tema 'NOLI ME TANGERE', in riferimento all'Evangelo di Giovanni. Ho solo tre giorni di tempo, rifletto un attimo e dato che la zona confina con Lecco e i suoi dintorni, mi viene subito in mente di condividere questa bella iniziativa con il nostro caro Giuseppe, il Leone della Locride, che via etere in tempo reale mi asseconda e mi dà certezza che sì, ci sarà e verrà


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su con la compagna ed un'amica. Un primo tentativo di prenotazione non va a buon fine perché la signora, dall'altro capo del telefono, si sente presa in giro perché rido e sono felice; il secondo invece sì, subito, ad una collina di distanza dal luogo dell'evento: Rosalba Tonelli, responsabile del Cappuccini Resort, richiede i dati, mi conferma la prenotazione e mi aspetta. Da Vicenza a Cologne tre cambi, carissimo, quasi fossero tre dogane per le quali passare, tre stati differenti perché son della classe a reddito medio-basso e non mi posso permettere il 'Freccia': Vicenza-Verona, Verona-Brescia, BresciaCologne, linea Bergamo, dopo Coccaglio insomma, in Autobus. Il conducente lascia salire neri che non hanno il biglietto, li fa accomodare, non si irrita e prima di scendere gli chiedo come mai è in vigore questo clima sciolto. Mi risponde che, nel bisogno, da loro, da ognuno di loro avrà un pezzo di pane, da chi ci governa sicuramente no. Ho toccato con mano la solidarietà e l'accoglienza, il rifiuto di far da 'sentinella' al Potere, senza che mai venga l'alba di un giorno nuovo, la convinzione profonda, morale, che la tua dignità è il tuo simile a preservarla, nel rispetto reciproco, sulla strada, non grazie ai diritti sanciti, scritti ed assai mal interpretati fino a determinare vere e proprie ingiustizie. In Ottobre ci sarà il Referendum per l'Autonomia della Lombardia, come per quella del Veneto: quando però il Potere ha spazzolato via le risorse economico-finanziarie e la capacità produttiva dei territori, di quale autonomia si può parlare? Quanto è accaduto qui a Vicenza per la Banca Popolare e per Veneto Banca, capitali buoni ora assorbiti per un euro da Banca Intesa San Paolo, dopo la supervisione Rothschild, il passaggio cioè da risorse economico-finanziarie del territorio a proprietari privati, mostra una gestione che si suol ora chiamare 'creativa', si carissimo, si chiama 'finanza creativa' che lascia i cittadini sgomenti, inermi, privi di quella capacità di reagire, razionale e confortata da regole precise, che è necessaria in questo campo. Sì, perché la tua, la nostra Pomezia Notizie fonda sull'intelligenza attiva e creativa le sue solide basi, il preservare il risparmio individuale e familiare, sociale è altra cosa e decisioni egoisticamente ponderate per proprio puro tornaconto portano a cattivo fine. Giorni fa, sulle pagine del Giornale di Vicenza, il dott. Marino Smiderle, ottima penna in questo campo, ha scritto che in 19 minuti a Roma si sono cancellati 150 anni della Storia economico-finanziaria della Città, perché anche il Fogazzaro, come il Pedrina e come tanti altri comuni mortali, ci lasciavano i loro soldi dentro! Rifletto e, scesa a Cologne, mi lascio guidare da un signore che mi racconta la sua storia e mi porta, dopo un paio di Km giusto alla piazza del

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Municipio: mi dice che per arrivare al Resort devo far tanta altra strada e che mi conviene telefonare. 'Vedrà che la verranno a prendere!' mi dice e così è stato. Il figlio della signora Rosalba, Marco, mi porta al suo Resort, in vetta alla collina, in terre di Franciacorta, e l'emozione profonda che provo entrando in questo Convento cancella per un poco ogni pensiero duro. L'accoglienza di Rosalba è carica di consapevole soddisfazione, mi accompagna nella celletta dove dormirò e mi indica il ristorante, in fondo al Chiostro. Qui, ti dico sinceramente, la Storia mi si apre a voragine, perché la salvietta copritavola è tutta impostata alla difesa del 'nostro meraviglioso Pianeta', mentre l'incontro con Massimo è, a dir poco, sorprendente: mi porta 'Tataki di tonno con maionese alla soia' come antipasto offerto dalla Casa, mentre dal menù scelgo 'Tagliatelle di grano arso con ragù di vitello e zafferano di Pozzolengo'. È grano arso, una sintesi tra Storia, storia e memoria: il ricco latifondista, a raccolto avvenuto, mi dice Massimo, faceva bruciare totalmente i campi, affinché non ci fosse possibilità alcuna di raccolto delle 'briciole', da parte dei poveri braccianti. Loro invece, nella notte fonda, andavano a raccogliere i chicchi di grano bruciato, arso, appunto, e ne facevano farina. Dopo la fatica senza limiti, eccoti servita l'umiliazione perché vieni depredato anche di quel poco che rimane. Da ieri a domani i poveri hanno cambiato volto e panni, non esperienze: 'diritti', termine vago e vacuo che corrisponde al vuoto di senso della beffa, quando si priva dei modi da palcoscenico, che ancora la rendono capace di dar frutto e frutto di contestazione. La beffa, di cui il potere ha bisogno per qualificare la propria magnanima tolleranza alla libertà, l'ombrello consentito alla contestazione, appunto, lecita perché parvenza e maschera di una libertà inesistente, la beffa, dico, viene svuotata di senso perché non ha più senso la maschera: il Potere si manifesta in tutta la sua maliziosa, malvagia violenza e rinforza il suo anelito incessante alla sopraffazione, al sopruso, al sovvertimento d'ogni possibile rispetto umano, concepito da, tra e per gli umani. Così ora dalla storia del Tavoliere delle Puglie, i fatti del passato mi attraversano e mi fanno assaporare l'antico e sempre nuovo senso della fatica e dell'ingegno che, messi insieme, forgiano la dignità della Persona. Concludo il pranzo con un piatto di formaggi misti associati a marmellata di cipolla rossa e miele d'acacia: con la sua grafia grande e sciolta Massimo mi trascrive i differenti tipi: taleggio di capra, robiola ai tre latti, testùn vaccino al Barolo e il Bagòs, proveniente dalla zona del Bagolino, di doppio sapore nella versione invernale ed in quella estiva, perché con le mucche al pascolo su questi


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monti, in libertà, il latte diventa più aromatico, particolarissimo. L'incontro con gli Amici è previsto per le 19 circa ed io mi son portata dietro il piccolo libro di Giuseppe Faggin, Idealismo classico e civiltà moderna, edito dall'Accademia Olimpica di Vicenza nel mese di ottobre del 1976, con Neri Pozza che cura la stampa. Leggo le pagine 36 e 37 e segno forte: “... ora, con Napoleone, una funzione autoritaria ed egemonica, destinata a mantener sensibile la distanza fra classi e gerarchie sociali... spalancare tutte le porte dell'esperienza estetica e diventare sensibili alle poliedriche manifestazioni dell'arte umana, ritrovando in tutte e in nessuna la espressione esemplare... ci si doveva appellare a tutte le espressioni culturali dei Greci, interrogare i miti più remoti e oscuri, rintracciare i sedimenti di un passato magico, comprendere il senso primordiale della scultura arcaica, perseguire le irradiazioni dell'orfismo nella poesia e nella filosofia, scavare nell'intima natura della tragedia e delle sue componenti... Fra i primi demolitori della visione winkelmanniana il più autorevole ed irruente fu indubbiamente Nietzsche, che invitò ad interrogare proprio la tragedia come la più completa espressione dell'anima greca... Alle radici del 'apollineo' il Nietzsche discopre il 'dionisiaco', cioè il desiderio di ebbrezza, la commozione orgiastica, l'ansia per un'esistenza più profonda ed intensa o, in altre parole, lo spirito della musica, che è turbine interiore...”. Così ha un senso molto chiaro l'altro testo che mi son portata, di minimo peso e di massimo impatto conoscitivo, 'Eccetto Mozart - una passione teologica', con prefazione di Vittorio Mathieu, del teologo e compositore Pierangelo Sequeri, per la Collana 'Aesthetica' per i tipi della Glossa, Milano, del 2006, di cui ti darò presto contezza, perché questo Autore l'hai già ospitato sulle tue pagine, quando ti ho passato la recensione al suo 'All'ombra di Pietro'! Mi riposo un poco, scendo la collina per incontrare gli Amici e Giuseppe mi presenta Manuela, la sua compagna da oltre trent'anni, e la loro comune Amica Lia, che è docente di lingua e letteratura tedesca: l'affabilità permane nella luce dei loro occhi ed è come se ci fossimo conosciuti da sempre. Ci son tante persone, oltre duecento, alla lectio 'NOLI ME TANGERE': Marco Vannini è introdotto dalla bella filosofa Francesca Nodari, alla quale ho dato poi la tua creatura di carta del mese di Giugno, mostrando la recensione del libro di Vannini che tu mi hai pubblicato. E lui? E l'eretico, lo studioso di lingua e scrittura tedesca medievale, mistica e popolare ad un tempo, che si lascia trascinare da Meister Eckhart ed incontra qui a Vicenza proprio Giuseppe Faggin nel 1982? È gentile, gli occhi gli brillano di

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interiore pura, semplice luce, mi firma i suoi libri che gli porgo, gli parlo del 'paginone' dell'altra intervista a lui sul giornale di Vicenza. Mi sorride, chi sa mai cosa pensa, ma io perseguo la mia strada, perché ho chiesto a quelli del GdV che venga resa giustizia, almeno nel campo della dignità e della comprensione profonda, a tutti i truffati e sono oltre 130 mila, delle due banche, attraverso dichiarati esempi che con le parole e con i fatti si ergano contro questo genere di soprusi, esempi di dignità e di trasparenza morale e spirituale. Allora, carissimo, dopo questo incontro pieno di grazia, Manuela si mette alla guida della loro vettura e mi portano su al Convento dei Cappuccini: nel pieno della notte di luna ho fatto loro respirare la storia di questo luogo, ora in piena vitalità, grazie alla determinazione ed all'impegno economico ed etico della proprietaria, signora Rosalba Tonelli. L'hanno conosciuta e salutata, compiaciuti di così semplice, raffinata, tangibile, schietta, dinamica forza d'animo. Ho mostrato loro la celletta di Fra' Angelo, a fianco di quella di Fra' Ruffino, cui si accede dal Chiostro attraverso una doppia porta, con inferriate in ferro battuto e vetro la prima, in legno spesso e forte, antico, la seconda. Dopo averli salutati con grande affetto, sono rientrata ho accarezzato ai bagliori della luna i mattoni della muratura, che emanavano ancora tiepido calore poi, al mattino, sono andata su su, al sommo della collina, per cogliere, dal tronco e dalla sua ampia chioma, la vita, lunghissima del leccio vigoroso, piantato insieme alla fondazione del convento, cinquecento anni fa. Napoleone è sceso in Italia ed ha fatto piazza pulita soprattutto degli ordini monastico-clericali e le vicende di questi luoghi sono incredibili. Per deviare da questi atti di sopruso e di violenza, entrambi progettati razionalmente, mi sei tornato alla mente con immediata intensa associazione, caro Direttore, anche per quello che di te ha scritto Rossano Onano in 'Il primo leccio (con la voce di Ugo) nel vasto orto di Abramo', nel settembre 2015: “... Ho piantato un leccio: perché cresca insieme al bambino. Riccardo, immaginato centenario, potrà sedere felice all'ombra dell'albero...”. Si, perché questo antichissimo leccio è un poco come te e come le radici che con la tua Clelia hai ben saldato nel terreno così pietroso ed assai spesso arido e sanguinante della Storia, attraverso la appropriazione e la prosecuzione di ideali culturali concretamente diffusi, di valori familiari e sociali seriamente condivisi e difesi, di sacrifici severi e costanti, fino ad arrivare alla gioia che abbiamo assaporato nel numero di Luglio 2017, dalle immagini e dalle parole che hai tracciato per il convivio nuziale del tuo Luca, che veramente somiglia ad un antico cavaliere me-


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dievale, e della sua bella ninfa. Anche per questo vostro felicissimo evento hai tracciato una poesia scandita nelle profonde e limpide atmosfere gioiose e cariche di promesse anche erotiche dell'immaginario collettivo, quando thànatos non è stato invitato ed è bandito in esilio, lontanissimo, perché la festa si faccia sponsale. Grazie! Ilia tua Ilia Carissima, le tue lettere meriterebbero altro approccio e spazio adeguato, ma tu conosci il mio lavoro assillante per la preparazione di ogni numero, la mancanza di tempo e lo spazio tiranno; perciò anche stavolta scelgo solo alcuni punti e spunti, lasciando il resto in ombra e chiedendo scusa a te, ma anche all’ attento lettore. “In Ottobre ci sarà il Referendum per l’Autonomia della Lombardia, come per quella del Veneto”: ma ha un senso, oggi, l’autonomia (anche solo economica), in un mondo globalizzato in tutto, quasi pure nella morte? Anziché lottare per l’affratellamento, ci piace ancora costruire barriere, isole che, poi, isole nella realtà non potranno mai essere, perché circondate dalla brutalità che preme da tutti i punti cardinali, più che come onde, come tsunami? Non è chi lotta per l’allargamento che sbaglia, ma chi si affanna per isolarsi e sono costoro che, contrastando e predicando impossibili eldorado, rallentano il cammino dell’amore e avvelenano le sorgenti. L’uomo deve sempre più convincersi che l’Eden imperfetto e feroce è uno solo, che i colori della pelle sono soltanto variazioni della bellezza, che non sarebbe tale se tutto fosse in fotocopia, che uno solo è il piatto, una sola la fonte alla quale abbeverarsi; l’uomo deve convincersi che è uno solo in estensione nei secoli attraverso la discendenza e che, perciò, deve rimanere unito e cooperare per un unico progetto: una sola terra per una sola umanità, unito a uno stesso Dio (di diversi colori, se vuole, come oggi sono i popoli), accomunato da uno stesso slancio. Chiamala pure utopia, ma è attraverso le sane utopie che si è abbandonata la caverna e si è saliti sull’astronave. Chi vuole l’autonomia? Un partito nato dalle tue parti, che ha vestito copricapi con le corna, giocato con le ampolle, come se la storia non fosse passata, come se il sangue non fosse stato sparso per l’unità della nazione. E si legga bene la storia; i tre quarti di quel sangue versato non era né veneto, né lombardo: era sangue calabrese, siciliano, sardo, lucano, campano: sangue di terun, insomma, depredati pure da ogni ricchezza, visto che il Piemonte ha considerato poi questo lembo d’Italia come fosse una colonia, dandogli a forza leggi capestro da

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osservare e negando ogni approccio alla cooperazione: conquistatori e banditi! Un partito - secondo il suo fondatore - “con quel coso/tortoruto e durolloso” (Alpomo, p. 23), che per anni ha gridato “Roma ladrona!”, a quel Mezzogiorno e quel Sud che oggi contribuiscono a salvare le banche di territori che vogliono l’autonomia, come Banca Popolare e Veneto Banca. Le banche! Come le Poste Italiane, per esempio che hanno smarito il loro vero compito, la ragione della loro nascita, distruggendo il servizio della raccolta e della distribuzione della corrispondenza per trasformarsi in finanziaria -, le Banche hanno mutato natura, non prestano più denaro alle imprese in genere e a chi si impegna a creare lavoro, ma a coloro che speculano; le banche rubano il sudore di coloro che si affannano a risparmiare - le cosiddette formiche -, in pratica non dando loro più il giusto interesse, ma facendosi pagare il deposito attraverso una infinità di mafiosi balzelli! Chi deposita paga! Si è andato affermando, negli anni, cioè, il rovesciamento della logica e della morale. Il ricco sciala e il povero risparmia; al povero vien tolto il frutto del suo sudore e il ricco con quel frutto banchetta e crapula! E non è vero che la maggioranza dei Lombardi e dei Veneti vuole l’autonomia; credo e temo, però, che, come al solito, la maggioranza si farà o intimidire o convincere da false prospettive, votando sì o non votando affatto. Il falso fascino dell’eterno richiamo della caverna. Invece di unirsi per eliminare i contrasti e smussare gli angoli, ci si accada passivamente o ci si astiene per moltiplicare le asperità e le divisioni. La crudeltà del “ricco latifondista” - che, “a raccolto avvenuto (...), faceva bruciare totalmente i campi, affinché non ci fosse possibilità alcuna di raccolto delle ‘briciole’, da parte dei poveri braccianti” -, non era di più di quella che oggi pratica il piccolo manipolo di autentici caimani che nel mondo assomma almeno i tre quarti della ricchezza; i poveri di allora potevano almeno recuperare il grano bruciato; i poveri di oggi, spogliati di ogni frutto, del lavoro e di ogni dignità, non hanno che suicidarsi, come è capitato a Michele - e ai tanti Michele - del quale hanno scritto i media e, sulle nostre pagine (P. N. marzo 2017, pag.11) il nostro caro Giuseppe Leone. Quasi una fortuna, la tua, Carissima Ilia, aver potuto conoscere di persona ed abbracciare Giuseppe e la sua Emanuela (sì, Emanuela), ciò che a me non è dovuto per la distanza e l’età che mi condiziona, ma avendo la gioia di ospitarlo da anni sulle pagine di questa mia creatura di carta. Leone, grazie al vostro incontro, ha potuto conoscere Marco


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Vannini e avvicinarlo a Silone come da pezzo pubblicato in questo stesso numero; lui entusiasta di te, tu di lui: ecco i frutti copiosi e dolci della famiglia di Pomezia-Notizie; non già divisioni e odi, ma amicizia e stima, crescita, fratellanza. E termino questa mia in parte sconclusionata risposta. Anch’io, in questo mese di luglio, ho dormito, in occasione del matrimonio di Luca, in un palazzetto antico di Mirabello Sannitico, ristrutturato, stando all’incisione su pietra, nel 2005, ma mantenendo tutta la sua semplicità, la sua bellezza, la sua poesia, la sua storia. Non il tuo “Convento dei Cappuccini” e le sue celle, ma un ambiente che possiede lo stesso fascino. Pareti istoriate dal semplice gioco d’intarsi di pietre, mattoni calce e loro brandelli; scale di pietra consunte; grande salonecucina e piccole stanze; un tavolo lungo e robustoso e forte da castello e graziose sedie impagliate; stampe, particolari di pitture; un tozzo e severo busto in bronzo in una simpatica nicchia; mobili semplici quanto robusti, con dentro bicchieri e pentole e piatti ed altri elementi di cucina e attrezzi di cucina alle pareti; libri e riviste e dépliant; letti francescani; un silenzio e una pace protetti da muri massicci; tende di lino istoriate alle finestre... Un palazzetto ristrutturato, preso in affitto appena per una notte, nel quale, però, son riusciti, senza alcuna alterazione, a inserire il moderno, come può essere il frigo, i termosifoni, il televisore sopra un frusto tavolinetto in una stanzetta soggiorno corridoio. Il passato e il presente mescolati con sapienza, come, forse, il tuo Convento dei Cappuccini e il menu che ti trascrive Massimo, elementi che conservando l’antico, nel nome e negli ingredienti, vengono preparati e riproposti con tutti le attenzioni e gli accorgimenti del nostro tempo. Legare passato e presente, non violentare, non dividere, crescere mantenendo e allungando le radici. Il leccio piantato per Riccardo ha più di sette anni, ormai; i lecci, si dice, possono vivere anche mille anni. Ogni anno che passa, il leccio mette nuovi rami e foglie e si fa bello, allunga le radici, mentre la mia vecchiezza sotto il peso vacilla. Memento, homo! Thànatos, com’era giusto, non è stato invitato alle feste, ma per me non è affatto andato in esilio. Implacabile, spia. Domenico Per mancanza di spazio, rimandiamo al prossimo numero la rubrica “Tra le riviste” e materiale a firma di Giuseppina Bosco, Antonio Crecchia, Leonardo Selvaggi eccetera. Chiediamo scusa.

Pag. 80 AI COLLABORATORI

Si invitano i collaboratori ad inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione), composti con sistemi DOS o Windows, su CD, o meglio, attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è necessario un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (con copia cartacea) Annuo... € 50.00 Sostenitore....€ 80.00 Benemerito....€ 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia....€ 5,00 ABBONAMENTO solo on line: http://issuu.com/domenicoww/docs/) Annuo... € 35 Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 N076 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio


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