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Il romanzo familiare di Susanna Colussi

MAMMA PASOLINI E LE VILLOTTE DI PIER PAOLO La tenerezza (indecente) del canto popolare di Rossano Onano

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poliziotti sono ragazzi, e sono figli di proletari, spiegava Pasolini che simpatizzava per loro. Per questo spirito di distinzione, oltre al fatto che fosse omosessuale, Pier Paolo diventò scomodo al popolo della sinistra, che infatti lo emarginò. Destra e borghesia, non ne parliamo. Quando Pasolini realizzò Il Vangelo secondo Matteo, ascoltavo a Reggio Emilia un professore di lettere condannare il film dal punto di vista, ci teneva a chiarire, della pura resa estetica: era entrato in sala quando Cristo portava la croce e la scena, vista così di primo acchito, gli aveva procurato una imbarazzante freddezza emotiva. Forse aspettava, per commuoversi, il film di Mel Gibson. A Matera, dove mi è capitato di passare alcuni mesi fa, tutti ricordano il film di Pasolini; così come a Brescello, nel reggiano, tutti ricordano il set di Don Camillo e Peppone. Eppure, non mi è più capitato di rivedere Il Vangelo secondo Matteo proiettato in Cineforum, e tanto meno in TV. Mi chiedo cosa ci sia sotto. Del film ho ricordi vaghi, e sparsi. Una figura del Cristo per la verità remissivo rispetto


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All’interno: A Camaldoli: spiragli mistici, alberi, un libro, di Emerico Giachery, pag. 5 J’accuse di Laura Pigozzi, di Giuseppe Leone, pag. 7 Ersilia Di Palo, C’era una volta..., di Liliana Porro Andriuoli, pag. 9 Intolleranza 1960, di Luigi Nono, di Ilia Pedrina, pag. 13 Partire, di Tahar Ben Jelloun, di Giuseppina Bosco, pag. 18 L’ultima poesia di Giusi Verbaro, di Elio Andriuoli, pag. 21 Francesco Leprino per una guerra del tempo, di Ilia Pedrina, pag. 25 Gli spazi mobili della poesia, di Susanna Pelizza, pag. 26 La Lucania negli anni del dopoguerra, di Leonardo Selvaggi, pag. 27 Libri proibiti, di Rudy De Cadaval, pag. 31 Il carcerato, di Antonio Visconte, pag. 35 La valigia dei giochi, di Filomena Iovinella, pag. 36 I Poeti e la Natura (Dino Campana), di Luigi De Rosa, pag. 38 Notizie, pag. 50 Libri ricevuti, pag. 52 Tra le riviste, pag. 53

RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (Aspra terra e creazione fertile nell’opera di Domenico Defelice, di Aurora De Luca, pag. 40); Isabella Michela Affinito (Storia e vita, di Adriana Panza, pag. 41); Isabella Michela Affinito (Briciole, di Adriana Panza, pag. 42); Roberta Colazingari (Voce all’anima, di Leonardo Selvaggi, pag. 43); Roberta Colazingari (Anime al bivio, di Imperia Tognacci, pag. 44); Roberta Colazingari (Percorsi di critica moderna, di Isabella Michela Affinito, pag. 44); Antonio Crecchia (Leonardo Selvaggi. Panoramica sulle opere, di Tito Cauchi, pag. 44); Antonio Crecchia (Alberi?, di Domenico Defelice, pag. 45); Domenico Defelice (Autori contemporanei nella critica, di Isabella Michela Affinito, pag. 47); Domenico Defelice (Il cantare delle mie castella e Testimonio eternamente errante, di Rossano Onano, pag. 48); Domenico Defelice (Danzadelse’, di Luciana Vasile, pag. 49); Luigi De Rosa (Il pianto dell’usignolo, di Antonio Angelone, pag. 50).

Lettere in Direzione (Ilia Pedrina), pag. 55

Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Loretta Bonucci, Rocco Cambareri, Domenico Defelice, Luigi De Rosa, Enrico Ferrighi, Elmys García Rodriguez, Béatrice Gaudy, Antonia Izzi Rufo, Giovanna Li Volti Guzzardi, Teresinka Pereira, Leonardo Selvaggi

all'immagine collerica rappresentata da Matteo; ed anche intellettualmente spento rispetto, mettiamo, allo sguardo inquieto del poeta Alfonso Gatto, reclutato come caratterista nei panni, credo, dell'apostolo Pietro. Ciò che in-

vece mosse il mio sentimento fu la figura della Madonna, raffigurata in gramaglia nera, e vecchia, ai piedi della croce. Mai avevo visto una Vergine così sconciata. Sapevo che Pasolini aveva scelto, per la parte, la propria ma-


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dre, Susanna Colussi: anticipando il pianto che la donna, morta nel 1981, avrebbe fatto nella realtà sul corpo del figlio assassinato. Il profondo legame affettivo che univa mamma Susanna al figlio trova riscontro nella stupenda (angosciante) Supplica a mia madre (da Poesia in forma di rosa) di Pier Paolo: E' difficile dire con parole di figlio ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio. Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore. Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere: è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia. Sei insostituibile. Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai data. … Né Pasolini, né la madre in vita avevano mai superato lo stadio del conflitto edipico. Pier Paolo ne era consapevole: per tutta la vita coltivò la soggezione affettiva alla figura materna come sua caratterizzazione (narcisistica) e insieme come condanna. Susanna Colussi era maestra elementare, una figura importante nella prima metà del Novecento. Il figlio scrisse di lei: “Aveva una visione del mondo idealistica, credeva veramente nella carità, nella pietà, nella generosità. Ed io assorbivo tutto in modo patologico. Era come Socrate per me”. Alla morte della donna, nel 1981, il suo diario segreto fu rinvenuto nella casa dei Pasolini, e poi pubblicato nel 2010 da Rosellina Archinto. Il diario ha pagine di poesia toccanti, relative all'intenso rapporto affettivo con Pier Paolo. La mamma leggeva al figlio le favole, le storie, la poesia: soprattutto le Villotte friulane. Da qui l'imprinting letterario conferito a Pier Paolo. Il quale, per la verità, prenderà presto

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le distanze dall'abundantia cordis della mamma. All'età di sette anni (leggo dall'Edizione Garzanti delle sue poesie) la mamma mi presentò un sonetto composto da lei, in cui si esprimeva il suo amore per me. La poesia finiva con le parole “di bene te ne voglio un sacco”. Il piccolo Pier Paolo apprezzò e ricambiò l'amore espresso dalla madre, ma quanto a poesie intraprese una strada diversa: Fatto sta che non tenendo conto dell'abundantia cordis di mia mamma, ho cominciato come poeta rigidamente “selettivo” ed “eletto”. Mi sfugge l'esatta definizione di questi termini, così contrapposti all'abbondanza di cuore, ma fa lo stesso. Pier Paolo ascoltava affettuosamente dalla mamma le Villotte della tradizione popolare. Negli anni '70 curò per la Garzanti una raccolta antologica di testi poetici popolari delle regioni italiane: Canzoniere italiano. La sezione dedicata al Friuli riporta appunto un campionario di Villotte. Quelle che mamma Susanna leggeva al figlio, la sera, prima di addormentarlo. Le villotte appartengono alla tradizione popolare veneta. Altrove si chiamano strambotti, nel senso di composizioni poetiche di poco valore. Pasolini ne fornisce un campionario ampio. Il contenuto delle Villotte è sempre riferito all'esperienza universale della sessualità e del sentimento. In pratica, sono tessere che, variamente associate, possono raccontare qualsiasi tipo di storia. Ad esempio questa: E jò ti amavi di picinine quand che tu vevis un siet vot àins E ma cumò che tu 'nd' às sèdis Jò o ti ami plio che mai. (Io ti amavo da piccolina / quando avevi sette o otto anni / E adesso che ne hai sedici / io ti amo più che mai). La piccolina è a sua volta cresciuta: Quand ch'i eri fantazzute Mi tirave d'ogni dì, Par quietale la manute mi bastave alore a mi.


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(Quando ero ragazzina / Ogni giorno mi tiravo, / Per quietarla la manina / Mi bastava allora a me). Il giovane non si decide ad offrire la sua mercanzia, ed anzi la disperde: Chel grumàl di che' bambine No lu vèssiu mai vidùt! 'O eri un zòven sensa vicis Come 'l dì ch' 'o soi nassùt. (Il grembiule di quella bambina / non lo avessi mai veduto! / Ero un giovane senza vizi / Come il giorno che son nato). La voce popolare ha sempre cantato con tenerezza i comportamenti legati alla sessualità, compresi quelli considerati sconvenienti dalla cultura ufficiale: nel caso specifico, la masturbazione indotta dalla coatta castità prematrimoniale. Al tempo delle Villotte, naturalmente. L'anima popolare emiliana è in genere meno lirica. Dalle mie parti, a Cavriago di Reggio Emilia, mia nonna si riferiva alla sessualità in modo più ridanciano. Mi metteva a letto e chiedeva: “Vuoi dire le preghiere o sentire la favola dell'indoraculo?” Si trattava di una favoletta strepitosa, dove un uomo girava per i paesi con un carrattino pieno di uova, gridando: “Donne! È arrivato l'indoraculo!” Le donne accorrevano e l'omino le dipingeva nel sedere con tuorlo d'uovo per dare il colore dell'oro, o con l'albume per renderlo d'argento. I mariti, al ritorno, erano della cosa stupefatti e contenti. Era il modo di mia nonna per affrontare in modo leggero il tema della sessualità. Nella mia infanzia, purtroppo è stata la sola. Rossano Onano

TUTTO NELLE TUE MANI Niente più figli, non più famiglie vive e numerose.

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Mai ha deciso il maschio. La donna è stata a popolare il mondo ed è lei che lo muta o lo distrugge; lei ha ottenuto sempre quel che vuole, le libertà e i diritti del momento; all’apparenza schiava della brutalità e dell’ostentazione della forza, con la bellezza e con il suo profumo, le carezze, il sorriso, a collidere ha spinto dai primordi gli ormoni del compagno, le mine del sesso regolando e dando loro scopo ed indirizzo. Guerre, adulterio, aborto, devianze. Tutto e sempre ancor sarà nelle tue mani, tutto, donna, che signoreggi il mondo, nel cataclisma delle tue moine. Tu che fosti in quel lontano dì fatale a dare all’intontito Adamo il frutto. Domenico Defelice D. Defelice: Dramma (1962, olio su tela 33 x 44) ↓


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A CAMALDOLI: SPIRAGLI MISTICI, ALBERI, UN LIBRO di Emerico Giachery

«UOMO, tutto ti ama, tutto ti si fa intorno. Tutto ricorre a te per arrivare a Dio»: da secoli lontani così canta anche per noi, e per me in questi giorni camaldolesi, il mistico tedesco del Seicento Angelus Silesius. Dio mi sembra, in questi giorni, di sentirmelo accanto come una presenza quasi familiare, protettiva, che infonde dolcezza e senso all’apparente banalità del quotidiano, nei momenti di armonia con me stesso e con gli altri, nel constatare il bello e il buono anche nelle cosiddette piccole cose, che poi non sono affatto tali, nei frequenti impulsi di gratitudine che sono forse sommessi e teneri atti d’amore e di preghiera, fuori d’ogni formula prescritta e irrigidita. Ora, ecco una madre che contempla, estatica, la sua bambina di due anni, bellissima, e s’illumina di gioia! In altro momento mi si manifesta l’amore premuroso, diciamo pure meraviglioso, dei giovani che assistono e accompagnano a passeggio alcuni handicappati e dementi. Sento quanto Dio è vicino agli uni e, misteriosamente, agli altri. I luoghi, certo, contano. «Lo Spirito soffia dove vuole, / ma qui dolcemente ha soffiato» (Giorgio Vigolo scrisse per un altro luogo questi due versi, che si adattano perfettamente anche a Camaldoli). La dominante presenza

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del monastero ha reso unica questa esigua isola del sacro in uno sterminato oceano di foreste. Preghiere e meditazioni di monaci, lungo un millennio, hanno, per così dire, impregnato i luoghi di sacralità. (Ricordo quando, raggiunta in giovani anni la Valsainte dopo lungo cammino a piedi, avvertii quanto la presenza così centrale di una Certosa avesse reso “sacra” tutta quella contrada della verdeggiante Gruyère). Silenzio amico. Amico di poeti, di oranti, di mistici. Silenzio in trepida attesa della Parola. Il Casentino saluta dopo decenni il libero viandante che tanto l’amò percorrendolo a piedi in ogni angolo. Gli alberi, da sempre amici, ricambiano la mia amicizia. Li saluto dalla finestra: emergono sullo sfondo delle tegole del Monastero; li sovrasta uno spicchio di cielo e una candida nuvola. «Credimi, troverai cose più grandi nelle foreste che nei libri, gli alberi e le pietre ti insegnano quello che non puoi imparare da maestri». (Sono parole di San Bernardo). Ci sono, per fortuna, libri alleati alla saggezza degli alberi e alle aperture degli orizzonti montani. Ne ho uno che accompagna i miei giorni camaldolesi in piena consonanza con il contesto e con lo stato d’animo. All'inizio dell’anno, un cugino siciliano che in tutta la vita non mi aveva mai telefonato e che non s’interessava in modo professionale alla psicologia del profondo, mi telefonò per dirmi: «Devi assolutamente leggere Sogni, ricordi, riflessioni di Jung». In realtà l’avevo letto, e in qualche punto anche segnato a matita, una cinquantina d’anni fa, ma non ne ricordavo quasi nulla, nonostante il mio vivo interesse di allora per Jung. Forse c’era un senso nella telefonata del cugino. C’è un senso anche in coincidenze apparentemente poco significanti: nessuno lo sa e lo dice meglio di Jung. Certi libri, oso dire, “ci cercano”, e c’è senza dubbio un rapporto necessario tra queste settimane camaldolesi, in questa tarda stagione della mia vita, e il libro di Jung, da lui scritto quando aveva la mia età di adesso. Quanto vorrei poter dire, come Jung, «i miei scritti sono, per così dire, compiti comandati dall’


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interno, sono nati per imposizione del destino»! Tutto può forse acquistare senso, se si osserva con “attenzione d’anima” e lasciando liberamente “respirare” l’inconscio e affiorare qualche messaggio della sua antica misteriosa saggezza. Propizi, a queste illuminazioni interiori, i giorni, come questi, di “sospensione” dall’alienante frastuono mediatico, che ora meglio constatiamo quanto ci defraudi di noi stessi, quanto prezioso tempo di nostra vita divori, quanta “anima” inquini. Il sentimento del “Sacro” lo portiamo nel profondo del nostro inconscio collettivo e ci è senza dubbio proficuo recuperarlo e riviverlo. Perché il libro di Jung è stato così concorde al senso e alla tonalità dominante di questi giorni camaldolesi? Le ragioni sono tante, e forse quelle inconsce sono le più importanti. Anzitutto si fa impellente l’ esigenza, alla mia età avanzata che è esattamente quella in cui Jung scrisse questo libro, di un bilancio di vita. Non certo come inventario, in angusta ottica moralistica, di lecite o illecite azioni commesse, quasi pagella con buoni o cattivi voti da presentare alla frontiera di un Oltre (sul quale Jung si esprime con comprensibile prudenza). Bensì come ricerca di senso della nostra personale vicenda umana nell’ inconoscibile senso del Tutto terrestre e cosmico. «Figlio sono della Terra e del Cielo stellato» sta scritto su una tavoletta d’oro orfica di circa duemilacinquecento anni fa. Emerico Giachery I TEMPI DELL’ANIMA In questo susseguirsi rapido di avvenimenti, impegni ed emozioni, l’anima oggi si ribella e chiede

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una pausa di tregua silenziosa, chiede il tempo del decanto per filtrare le sensazioni nate dagli eventi. L’anima è saggia e sa che solo il tempo fa assaporare a fondo ogni piacere o assopire in dolcezza ogni dolore. Per questo l’anima non ha fretta e resta indietro nel turbinio della vita ed ogni tanto si ferma a meditare il presente o a ricordare il passato, per poi riprendere con più vigore il faticoso viaggio nel futuro. 29 giugno 2017 Mariagina Bonciani Milano

NON VENIRE AL RADUNO Non imbronciarti, amico, se l’altra sera abbiamo cazzeggiato. Ch’altro ci resta per stemperare la malinconia? Non è lontano il giorno che mi vedrai effigiato delle strade e le piazze negli spazi adeguati. Non venire al raduno, non recidere fiori nel tuo orto. Detesto i volti mesti e le doglianze. Ricorda quegli istanti e le risate, boccali sempre colmi, il ghigno tagliente sulla labbra, la luminosità beffarda degli sguardi. Non ti volevo offendere, era un cazzeggio ad arte. Credo perché dispero. Anch’io non so che c’è dall’altra parte. Domenico Defelice


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J’ACCUSE DI LAURA PIGOZZI IN MIO FIGLIO MI ADORA di Giuseppe Leone

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IÀ da tempo nota nel campo degli studi che riguardano le famiglie, il femminile e la voce alla luce della pratica e della teoria analitica; autrice di testi di sicuro valore, come A nuda voce (2008); Chi è la più cattiva del reame? (2012) tradotto in Francia da Albin Michel quattro anni dopo e Voci smarrite (2013), Laura Pigozzi ha pubblicato, nel 2016, nelle Edizioni Nottetempo, Mio figlio mi adora. Figli in ostaggio e genitori modello. Un pamphlet, nel quale la scrittrice, da un lato, ricostruisce un’ identità della famiglia odierna che vanta esempi di nuove tipologie rispetto al passato (famiglie ricostituite, allargate, monogenitoriali, omogenitoriali); dall’altro, consente, fra le righe, di scoprire il suo giudizio personale e fare luce sulla condizione della donna, passata attra-

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verso esperienze di vita vissuta nel groviglio di piaceri e doveri, ora imposti dai processi culturali in atto, ora liberamente scelti. Il tutto in un sapiente intreccio di richiami scientifici e suggestioni letterarie che danno luogo a una prosa vivace ed elegante insieme, quale si addice a un testo scritto, a detta della stessa autrice, “per i ragazzi, anche i suoi, che hanno la necessità biologica, psichica ed etica di sopravvivere al troppo amore dei genitori”. Eccola, allora, sullo sfondo di una società postmoderna e deideologizzata, discorrere sulla famiglia allargata, ricomposta, omosessuale, responsabile, secondo lei, di creare “un modello familiare fondato sull’immediata affettività più che sull’eticità, sull’utero piuttosto che sul mondo, sul legame biologico piuttosto che su quello sociale”, con la conseguenza che uno stile di vita siffatto fa perdere a chi lo pratica il mondo come orizzonte (28). Lo fa citando casi di genitori-Pigmalione: “la madre, fine intellettuale, … che racconta che sua figlia, una bella ragazza bionda, molto sveglia, di soli quindici anni, un giorno le ha gridato: “Non starmi addosso, lasciami vivere! Non è colpa mia se per educarmi hai rinunciato ad avere amici, amori, carriera, a tutta la tua vita! Io non te l’ho chiesto!” (47); “Cristina …”, che “ha passato la vita ad adorare il padre e a essere arrendevole con lui, fino a farsi privare della propria intimità” (53), come rivelano i suoi strani sogni: ora, “di essere chiusa dentro uno sgabuzzino” mentre “urla perché le si apra” e di non riuscire a uscire quando “si accorge che la chiave è all’interno”; ora, “di camminare con i grossi piedi del padre, che si confondevano con quelli del marito” (56). E non solo, anche casi di sindrome di Stendhal e Stoccolma: “Susanna, una donna sposata con figli, che ha perso la madre da poco e che dice: “Io e lei eravamo una coppia stupenda! Stavamo sempre insieme!...” (66-67); “Teresa, un’altra donna di cinquant’anni” che, “convivente da venticinque con un uomo e che si è concessa altre relazioni, alla morte della madre esclama: “Lei era il mio amore!” (67); “Adolfo, un giovane adulto”, separato,


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“tornato a far coppia con la madre”, che “chiede aiuto a causa delle “insostenibili sofferenze” che prova quando litiga con lei” (72); “Marina, una bella donna quarantenne, single” che “non si sentiva a posto” se non andava a trovare praticamente ogni settimana il padre vedovo che viveva in un’altra città” (73). Quello che colpisce, sfogliando le 208 pagine del libro, è l’anticonformismo della scrittrice, un’“intellettuale anomala” che ricorda, molto da vicino, anticonformisti come Lacan, Levi-Strauss e Althusser, intellettuali anomali anch’essi, poco formali nella loro doppia veste di filosofi-psicologi, filosofi-antropologi e filosofi-politici. Com’è poco formale, ora, la psicanalista-musicologa che si occupa di voce, che canta e insegna canto, e non si lascia sfuggire – per dirla con Marisa Fiumanò - l' importanza che ha “per il feto la prosodia della voce materna e di quella paterna, il fatto che quelle voci egli impari a riconoscerle molto precocemente e quindi si inscriva fin d'allora in un gruppo linguistico e culturale predefinito”. Un Carmelo Bene della psicanalisi, si direbbe, se si ricorda che anche l’artista salentino, in Opere (Bompiani 2008), scriveva che “nell’animale umano la percezione del suono precede – ma di tanto! – la sua nascita: questo venire al buio (altro che luce). Nelle acque materne ci-sentiamo: siamo informati dai rumori (elettro)domestici esterni. Registriamo passivamente i grumi d’un discorso che non ci appartiene (che nella vita a seguire – ho detto altrove – non apparterrà mai comunque al soggetto parlante)” (XV). E non solo, – passando poi a parlare di Edipo - che “sua madre, disinvolta criminale, sospende i giochi d’amore con l’“estraneo” suo marito-non più amante, per baloccarsi con un piccolo fallo “tutto suo”, stavolta, da allattare e allevare, sconsiderata; e poi, quando un bel giorno sarà cresciuto, questo fallo, basterà una seconda distrazione a procurargliene un altro ancora “tutto suo”. È la vita. Puttana. Matrice. Spensierata, mette al mondo pensieri, presto incubi sotto la sferza spietata dell’“identità”. Giocasta non ha “colpe”. È la colpa. E la colpa è

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incolpevole” (1179). Certo, non v’è, fra l’artista di teatro e la psicologa, alcuna similitudine nei modi, né nei toni della discussione, né tanto meno nell’uso che entrambi ne fanno del linguaggio. Tanto Carmelo Bene è provocatorio e blasfemo, quanto Laura Pigozzi è argomentativa e tollerante. La sua contestazione non procede mai per paradossi o aforismi, è sempre frutto delle idee chiare e distinte, se può permettersi di chiudere così il suo libro: “La vera filiazione è aver ricevuto dai propri genitori la possibilità di lasciarli per sempre, ma se questa eredità non c’è stata, occorre prendersela” (157). Un’apologia dell’adolescenza, allora, questo Mio figlio mi adora, un chiaro invito ai giovani affinché operino la loro rivoluzione contro la famiglia plusmaterna a vantaggio della civiltà; un ideale, se la Pigozzi lo diffonde con esempi di Gesù che “esortava a rompere con i genitori, a rinnegare madre e padre per essere degni … di un nuovo cammino”; di Fritz Lang, sostenitore dell’idea che “tutte le persone normali dovrebbero scappare di casa”; e di Dario Argento, dell’avviso che “il terrore nasce nel corridoio di casa”, metafora, quest’ultimo, del “corpo della Madre, da cui si teme di non uscire” (156-157). Doveroso aggiungere che il libro si chiude con un ampio elenco di note in cui ricorrono nomi illustri del Novecento, come Jacques Lacan, Claude Levi-Stauss, Chiara Saraceno, Byung Chul Han, Sigmund Freud, Claudio Magris, Pietro Citati, Franco Rella, Vittorio Mathieu, Graziella Magherini, Angelo Villa, Gilles Deleuze Felix Guattari, MarieCharlotte Cadeau e altri non meno prestigiosi che conferiscono ulteriore profondità e autorevolezza a un testo già intenso e ben curato; e una corposa bibliografia di studi, la maggior parte compresi fra gli anni Settanta e oggi, che danno la misura dell’onda lunga di questa conversazione sulla famiglia, in questo tratto di “Società liquida”, per dirla con Bauman, che così ebbe a definire il nostro tempo. Giuseppe Leone Laura Pigozzi - Mio figlio mi adora - Figli in ostaggio e genitori modello. Edizioni Nottetempo, 2016. € 14.00, pp. 208.


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ERSILIA DI PALO C’ERA UNA VOLTA… ‘NU RE E ‘NA REGGINA… di Liliana Porro Andriuoli

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NA rivisitazione dei fatti storici riguardanti la caduta del Regno delle Due Sicilie, che travolse re Francesco II e la regina Maria Sofia di Baviera, i quali di quel Regno ricoprivano il trono, è l’oggetto di una commedia in due atti di Ersilia Di Palo, che da tempo si dedica ad approfonditi studi sui Borbone di Napoli. Scopo primario di questo suo lavoro è stato quello di far meglio conoscere un discusso evento storico, qual è quello della caduta del loro Regno, nella maniera più obiettiva possibile, considerandolo dalla parte dei vinti, senza quelle deformazioni tendenziose dei fatti che sovente vi apportano i vincitori. E lo ha fatto non solo in modo accattivante e piacevole, ma soprattutto “scoprendo […] l’anima dei personaggi coinvolti”, come ben fa notare Magda De Notaris, autrice della Prefazione al libro. La commedia s’intitola C’era una volta… ‘nu re e ‘na Reggina…ed è scritta in un vivace vernacolo napoletano. L’azione è ambientata, a Roma, nel Palazzo del Quirinale, dove il Papa Pio IX aveva ospitato i reali fuggiaschi dopo la disfatta di Gaeta, che aveva segnato la loro definitiva sconfitta. Ad apertura di scena un “Cantastorie” narra gli antefatti, e cioè le imprese più eclatanti del regno borbonico, a partire da quel lontano avo, Carlo, che “di arte e cultura / il suo regno abbellì” e “famoso lo rese” (p. 24), giungendo fino

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ai due protagonisti di questa commedia, Francesco II e Maria Sofia, che di quel regno sono stati ora gli “ultimi regnanti”. All’alzarsi del sipario, un Maggiordomo dà, in dialetto romanesco, il benvenuto al pubblico e, poco dopo, tre cameriste della famiglia reale ci informano, in un sapido vernacolo, dei recenti accadimenti avvenuti in seno alla famiglia. Le tre Donne sono: Donna Nina, pettegola e intrigante; Donna Lucietta, dedita prevalentemente alla cucina e impegnatissima nel preparare i suoi intingoli, che tanto piacciono a re Francesco; e Donna Marietta, la confidente della Regina Sofia. E saranno appunto i loro commenti non solo a descriverci con vivacità ed efficacia l’attuale ambiente di corte, ma anche a farci comprendere quanto accadde nel capoluogo partenopeo dopo la sconfitta borbonica di Gaeta. Non a caso proprio da Donna Nina apprendiamo che Armando de Lawayss, il cavaliere d’onore della regina, è giunto puntuale anche questa mattina, per accompagnarla nella sua passeggiata giornaliera; ma che oggi la regina Sofia resterà nelle sue stanze, perché si sente poco bene. La voce del cantastorie, che “intona le strofe centrali” di una vecchia canzone napoletana, Lo primm’ammore, provoca l’ immediato e malizioso commento di Nina: “È ‘a chiammata di Armand. Ogni mattina le fa ‘na serenata!” (p. 34), il che subito ci introduce nell’ambiente, un po’ pettegolo, della corte in esilio. Irrompe a questo punto sulla scena Donna Lucietta, annunciando che da Napoli è appena giunto un pacco di vettovaglie, dono dei contadini campani, recapitato da un soldato fedele al re Borbone. Non appena Francesco legge il biglietto di accompagnamento (che, benché sigillato, era già stato in precedenza letto da Donna Nina e da Donna Lucietta), ha parole di forte e sincero rimpianto per il Regno perduto, nonché di profonda esecrazione per il tradimento subito; ma anche di dolore per le ripercussioni che gli avvenimenti hanno avuto sul suo popolo. Pesanti davvero, infatti, come apprendiamo dai commenti che fanno tra loro Donna Lu-


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cietta e Donna Nina, sono state le conseguenze su quella parte del popolo che non ha voluto “giurà fedeltà a stu re piemuntese” (p. 37), il quale, dopo la vittoria, ha instaurato una dura repressione contro i giovani renitenti alla leva, fucilati senza pietà, cosicché il forte malcontento venutosi a creare nelle masse ha innescato un incremento dei sostenitori della vecchia monarchia. “Con tono di voce circospetto”, Donna Lucietta confida inoltre a Nina come ogni mattina veda radunarsi in Piazza Farnese volontari provenienti da tutta Europa, sorretti dalla costante presenza della Regina (“A Rigina sta miezo a loro”, p. 39). Sono giovani indignati per l’affronto e la prepotenza subita da re Francesco e, come del resto ha sentito vociferare (“aggio sentuto ‘e dicere”) anche Donna Nina, “’o vonno sustene’ a si ripiglià o’ trono” (p. 40). Poi, quasi in un sussurro, aggiunge che finanche briganti come Ninco Nanco, Michele Guerra e Carmine Crocco, “con le loro bande”, “se songo mise al servizio della riggina Maria Sofia” (p. 40), per sostenere la causa borbonica. A questo punto il Cantastorie evoca i fatti accaduti a Napoli l’anno precedente, il 17 marzo 1861, giorno della proclamazione dell’Unità d’Italia. Proprio a quei fatti fanno tristemente riferimento Lucietta e Nina, lamentando come, ad un anno di distanza, per re Francesco e per Maria Sofia, le speranze di far ritorno sul trono di Napoli sembrino essersi del tutto vanificate, dato che ogni attesa di restaurazione borbonica pare andata in fumo. E ciò, malgrado il grande impegno profuso dalla Regina la quale, proprio in quel momento, sta entrando in scena, sorretta da Donna Marietta. La Seconda Scena del Primo Atto è quasi interamente occupata dal dialogo fra donna Marietta e la Regina. Maria Sofia, che per giunta ora è anche sofferente, parlando con Donna Marietta, lamenta la sua sfortuna per essere andata in sposa, a soli 18 anni, ad un “re fragile e superstizioso”, divenendo sì regina, come era naturale per tutte le ragazze della sua condizione sociale, ma regina, pur-

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troppo, di un reame più “pericolante” che “potente” (p. 44). E così, ad appena 20 anni, la povera Maria Sofia venne “esiliata”; e non solo, ma si dette anche il caso che, nemmeno di Francesco come marito, fosse pienamente soddisfatta. Unica parentesi positiva della sua vita matrimoniale era stata quella del soggiorno napoletano, di cui conserva tuttora molta nostalgia, rimpiangendo non solo le bellezze della città, ma anche l’affetto che il popolo le aveva dimostrato. (E mentre la Regina ricorda il bel tempo passato, la voce del Cantastorie esprime l’attuale tristezza del popolo partenopeo che, nella Chiesa di San Francesco, così prega la Madonna: “Madonna mia, facitela turnà ‘a sta riggina”, p.47). Nella sua confidenziale chiacchierata con Donna Marietta, la regina Maria Sofia accenna anche alle cause che hanno generato questa tragica situazione, che farà ricordare il povero re Francesco II come “l’urdemo re” Borbone sul Regno delle Due Sicilie. Suo suocero, infatti, il re Ferdinando II, nonostante gli indiscussi meriti di buon amministratore, si era dimostrato troppo chiuso alle ventate di novità provenienti dall’Europa e di conseguenza aveva agito con eccessiva durezza nel reprimere ogni istanza democratica: “Per lui Costituzione era uguale Rivoluzione” duramente repressa, tanto che fu soprannominato “re Bomba” (p. 48). E forse, anche in virtù di questo suo drastico comportamento, la situazione era degenerata e il figlio Francesco ne stava ora pagando le conseguenze. È vero che re Francesco II non possedeva, come dice Marietta, la stessa autorevolezza e la stessa “forza” del padre, ma è anche vero che era circondato da generali corrotti (fatta eccezione del Filangieri, che si era sempre dimostrato fedele), che non l’avevano mai sorretto in nessun modo; anzi…. Di ciò, e di altro ancora, si lamenta la povera Regina Sofia con Donna Marietta, esclamando sconsolata: “Proprio su di me doveva calare il sipario della dinastia borbonica” (p. 44). All’apertura del Secondo Atto, nella Prima Scena, ritroviamo nuovamente la Regina Ma-


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ria Sofia, cui si affianca il marito Francesco; e mentre Sofia, sempre sofferente, rimpiange i gioielli che ha dovuto lasciare a Napoli, re Francesco pensa ai milioni di ducati di sua proprietà (li aveva ereditati dal padre Ferdinando) che sono rimasti inesigibili sul Banco di Napoli. Il “cugino” Vittorio Emanuele II sarebbe stato anche disposto a restituirgli quel denaro, ma a patto che rinunciasse a qualunque pretesa sul trono del Regno delle Due Sicilie; rinuncia che avrebbe però offeso la dignità di Francesco, sia come re che come uomo, e che egli pertanto energicamente rifiuta (“… il mio onore non è in vendita. […] ‘a dignità mia vale cchiù d’‘a ricchezza”, p. 57). All’uscita di scena di Sofia e Marietta, fa seguito un lungo dialogo tra re Francesco e il fidato servitore Agostino, col quale Francesco depreca la falsità del “cugino” piemontese, che dapprima gli aveva giurato amicizia, condannando l’impresa di Garibaldi, mentre poi, in segreto, aveva tramato con costui e con Cavour e tessuto una fitta rete di accordi con le Potenze europee, al fine di spodestarlo. Come infatti avrebbero potuto soltanto mille uomini sconfiggere un grande esercito e conquistare un regno potente, se non con il tradimento e la corruzione di molti alti ufficiali borbonici? Avevano ingannato Francesco, diventando conniventi col nemico, finanche i suoi più stretti parenti, come i fratelli del padre, il Conte di Siracusa e il Conte dell’ Aquila. Lo stesso può dirsi di Don Liborio Romano, il suo ministro di polizia, uomo dalle molte facce, che lo aveva convinto “a concedere la Costituzione e a lasciare Napoli”, allo scopo di evitare saccheggi e distruzioni in città. Ed invece, proprio mentre il Borbone partiva per Gaeta, Don Liborio si era alleato con Tore ‘e Criscienzo, “’o capintesta indiscusso d’’a camorra” (p. 62), favorendo l’ingresso di Garibaldi a Napoli. Preso da forte commozione al ricordo di tali avvenimenti e più che mai addolorato, il re legge al fidato Agostino il “Proclama alla cittadinanza”, emanato proprio prima della sua definitiva partenza per

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Gaeta. Fu quello l’ultimo suo atto da re del Regno delle Due Sicilie. (Mentre Francesco sta leggendo il documento, in lontananza, si odono le note dell’Inno borbonico, musicato da Giovanni Paisiello nel 1787). Nella Scena Seconda dell’Atto Secondo giunge un soldato con un occhio bendato che dice di voler parlare con il re: è Rafele Mornile, il militare addetto alle persone di re Francesco e della Regina, il quale durante il duro assedio di Gaeta aveva perso un occhio. E molti erano stati coloro che in quei giorni sotto le “granate piemontesi” avevano perso persino la vita, dato che i fuggiaschi, che si erano rifiutati di sottomettersi al nuovo governo, erano stati duramente colpiti dai vincitori. Commovente ed affettuoso è qui il colloquio fra il re e il soldato Rafele, durante il quale entrambi ricordano quei dolorosi fatti d’arme e soprattutto l’eroica resistenza che avevano opposto i pochi militari fedeli ai Borboni contro le forze preponderanti del generale Cialdini. Rafele rievoca specialmente l’alto esempio dato dalla regina Maria Sofia, la quale aveva dato coraggio ai soldati e aveva consolato i feriti; e ricorda come, proprio per la sua attività, venisse soprannominata “L’eroina di Gaeta”. In questo momento di intensa commozione si leva alta la voce del cantastorie, che recita “O surdato ‘e Gaeta”, un poemetto di Ferdinando Russo, esaltante soprattutto il coraggio della regina: “E a Riggina! Signò! Quant’era bella! / E che core teneva! E che maniere! / Mo na bona parola ‘a sentinella, / mo na strignuta ‘e mana a l’ artigliere…” (p. 69). Francesco prosegue il suo dialogo con Rafele ricordando anche come in quei difficili momenti fosse stato intonato l’inno borbonico, quasi a voler infondere nei soldati il coraggio della disperazione, in un estremo tentativo di riscossa. Interrompe questa scena così ricca di pathos, l’ingresso di Agostino, il quale annuncia che il pranzo è servito, mentre Donna Lucietta decanta la prelibatezza del suo ragù. La regina però tarda a venire, a causa delle sue nausee, che sono indizio del suo stato di


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avanzata gravidanza. (Dal dialogo fitto tra Marietta, Lucietta e Nina, malgrado i ripetuti: “Io nun saccio niente! E a vuie nun v’aggio ditto niente” (p. 75), si apprende inoltre che il nascituro non è figlio di re Francesco, bensì di Armand de Lawayss, l’amante di Sofia). Giunge a questo punto Matilde, la sorella della Regina (che aveva sposato il fratello di Francesco, il conte di Trani), la quale annuncia che la madre loro ha dato disposizione dalla Baviera che Sofia si rechi senza indugio sulle Alpi Bavaresi, dove, nel Convento di Sant’Orsola, potrà dare alla luce il figlio che attende. L’accompagnerà Marietta, mentre Nina e Lucietta rimarranno presso la Corte, col divieto più assoluto di rivelare l’accaduto. A tranquillizzare re Francesco ci penseranno il cugino della moglie (re Massimiliano di Baviera) e la sorella, Sissi, imperatrice d’ Austria. Sarà sufficiente spiegargli che “l’ aria salubre delle Alpi Bavaresi” gioverà alla salute di Sofia più di quella di Roma. Si odono qui le note della canzone di Raffaele Sacco, Te voglio bene assajie, che ben esprimono lo stato d’animo del povero re Francesco, ormai completamente solo. Ricompare a questo punto il Maggiordomo apparso all’inizio della rappresentazione, il quale annuncia, parlando in romanesco, che Sofia ha dato alla luce due gemelle ed il cantastorie conclude, narrando come da Francesco e Maria Sofia nascesse in seguito anche una figlia, Cristina Pia, la quale, però, come le due gemelline, non visse a lungo. Francesco morirà a sua volta il 27 dicembre del 1894, in esilio e in triste solitudine, ad Arco di Trento. A chiudergli gli occhi sarà Sofia, accorsa al suo capezzale. Francesco era nato nel 1836, da Maria Cristina di Savoia, beatificata nel 2014, ultima figlia di Vittorio Emanuele I. Attualmente anche Francesco II, Maria Sofia e Cristina Pia riposano nella Basilica di Santa Chiara a Napoli nella Cappella dei Borbone. Chiude il libro di Ersilia Di Palo un capitolo, Così Matilde Serao ci descrive l’ultimo dei Borbone, nel quale, dopo averci dato alcune notizie sulla morte del re e sul suo te-

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stamento spirituale, ci ricorda come la Serao, benché liberale e antiborbonica, abbia dato l’ annuncio della morte di re Francesco in prima pagina su “Il Mattino” di Napoli (il giornale fondato da lei e da Edoardo Scarfoglio) con queste parole: “Don Francesco di Borbone è morto, cristianamente, in un piccolo paese alpino, rendendo a Dio l’anima tribolata ma serena”; ed abbia concluso dicendo: “Galantuomo come uomo e gentiluomo come principe, ecco il ritratto di Don Francesco di Borbone” (p. 87). La Di Palo osserva poi, a conclusione del suo libro, che verso Francesco II e i Borboni di Napoli vi è stata come “un’esplicita volontà di voler cancellare la memoria storica di un Regno” (p. 89), quello delle Due Sicilie, che pur molte opere notevoli, di carattere sia scientifico che tecnologico, sia sociale che civile, aveva avute al suo attivo, come la prima nave a vapore varata nel Mediterraneo (1818); la prima linea ferroviaria italiana (Napoli-Portici, 1839); la prima illuminazione a gas in Italia (1839); il primo Osservatorio Vulcanologico del mondo, l’Osservatorio Vesuviano (1841). Vanno inoltre ricordati la fabbrica metalmeccanica di Pietrarsa; il Cantiere navale di Castellamare di Stabia; il Polo siderurgico di Mongiana e il setificio settecentesco di San Leucio, oggi patrimonio dell’ UNESCO, oltre al più antico teatro d’Opera d’Europa ancora in attività, il San Carlo (1737) e i molti Conservatori Musicali e i numerosi giornali e riviste pubblicati nella capitale. Non ultima viene poi la più antica Università Statale d’Europa, la “Federico II”, dove Antonio Genovesi istituì la prima Cattedra di Economia politica a livello mondiale. Sono tutte opere, queste, come ben dice la Di Palo, che stanno a dimostrare l’importanza del Regno delle Due Sicilie quale fonte di progresso in Italia e nel mondo. Ed è quanto lei stessa con questa commedia in due atti ha voluto sostenere. Liliana Porro Andriuoli ERSILIA DI PALO: C’ERA UNA VOLTA… ‘NU RE E ‘NA REGGINA…- La vera storia degli ultimi reali borbonici, Francesco II e Maria Sofia - (Grafica Elettronica, Napoli, 2017, € 8,00)


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'INTOLLERANZA 1960':

LUIGI NONO COMPONE UN'OPERA SULLA MALVAGITÀ NON BANALE di Ilia Pedrina

I

L testo sul quale lavoro da tempo è stato pubblicato nel 2011 da Marsilio Editore in Venezia, a cinquant'anni dalla prima assoluta dell'opera di Luigi Nono 'Intolleranza 1960', azione scenica in due tempi, eseguita per la prima volta al teatro La Fenice di Venezia. È un volume inaugurale nel formato da collezione, a pagine spesse, quasi cartonate e le parole in copertina, su sfondo nero, sforzano gli occhi per essere decifrate, in controluce, a differenti colori, anche rovesciate. Le documentazioni originali, le partiture, la grafia del compositore veneziano e di Angelo Maria Ripellino, gli schizzi ed i progetti scenici del pittore veneziano Emilio Vedova sono elemento fondante per comprendere tutto quanto prepara, attraversa e forgia il risultato finale: l'opera nella sua compiuta,

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artistica consistenza. 'INTOLLERANZA 1960 a cinquant'anni dalla prima assoluta' viene redatta a cura di Angela Ida De Benedictis e Giorgio Mastinu, che hanno articolato anche la ricerca del materiale iconografico consultato da differenti archivi diversi: lei, ben addentro alle cose del compositore veneziano, cura anche le traduzioni dal tedesco presenti nel materiale selezionato mentre lui cura anche la mostra associata all'evento, con allestimento di Daniela Ferretti presso lo studio Vedova, a Venezia, dal 28 gennaio al 3 aprile 2011, promossa e organizzata dalla stessa ALNF in collaborazione con la Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, sotto l'Alto Patrocinio del Presidente della Repubblica. Oltre all'Archivio Luigi Nono Fondazione Onlus, l'evento ha avuto anche il prestigioso contributo dell'Ernst von Siemens Musikstiftung, quello della Fondazione di Venezia e della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, mentre la Biennale di Venezia ha partecipato con il suo Archivio Storico delle Arti Contemporanee per opere e materiali messi a disposizione degli studiosi. Il giorno 3 febbraio 2011 quest'opera viene eseguita al Teatro La Fenice, a segnalare, pur a cinquant'anni di distanza, la straordinaria concomitanza di eventi e di situazioni storiche. La struttura del volume si compone di nove sezioni che pongo qui in elenco a partire dai loro autori: Nuria Schoenberg Nono: Premessa; Andrea Landi: Premessa; Cesare De Michelis: Premessa; Prefazione dei curatori; Angela Ida De Benedictis: L'opera nel racconto... Intolleranza 1960 dietro le quinte di un esordio; L'opera si racconta... Intolleranza 1960 nelle voci epistolari dei protagonisti (a cura di A. I. De Benedictis); Giorgio Mastinu: Un “fatto plastico” - Intolleranza 1960 in scena; Intolleranza 1960 a cinquant'anni dalla prima assoluta (a cura di G. Mastinu); Intolleranza 1960 prove sceniche per il 13 aprile 1961 (a cura di G. Mastinu). Ho acquistato il volume all'Archivio Luigi Nono alla Giudecca il 2 luglio 2015 e ci sto ancora lavorando, in particolare per quanto


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riguarda le vicende umanissime che vengono tracciate sia nel contesto dell'Azione scenica del compositore veneziano, sia nella ricca documentazione del carteggio, vera composizione a più voci, stili, personalità, professionalità in divenire. I protagonisti dell'Azione scenica non hanno nome proprio, ma rappresentano una categoria nella e dalla quale cogliere il senso pieno delle vicende, resa maiuscola dalla funzione storica incarnata: un Emigrante - tenore, La sua compagna - soprano, Una donna - contralto, Un torturato basso, Quattro gendarmi - Attori; Coro (Minatori, Dimostranti, Torturati, Prigionieri, Emigranti, Algerini, Contadini). Ho evidenziato con forza i contenuti di pagina 54: “... Forse è 'fatale' che certe cose vive nascano fra contrasti e malesseri, e scontri. L'importante è che siano vive. E le conseguenze, le ripercussioni, lo dimostrano, in questo caso. Ma le 'cose vive' possono lasciare segni molto profondi, traducibili solo nel codice del silenzio. E a nulla valgono le parole che il pittore, come amico e compagno di altre imprese, gli indirizza nuovamente a distanza di quasi un mese il 20 novembre 1961 (Doc. 76) facendo ora leva sulle corde dell'affetto...”. Il pittore è il veneziano Emilio Vedova ben rappresentato con documentazioni scenografiche e di costume dalla pagina 200 in avanti, tutto a cura di Giorgio Mastinu. Angela Ida De Benedictis conosce così bene la materia che può ben permettersi un consapevole andirivieni tra eventi, testimonianze, documenti e loro contenuti, coinvolgendo il lettore in questa incredibile avventura, vissuta a strati di tempo, intersecantesi tra loro, sul terreno mobilissimo e scivoloso delle emozioni provocate, anche se solo dalla lettura e dall'immaginario interiore che l'accompagna. Entro dunque nel vivo del percorso perché l' Azione scenica in due parti su un'idea di Angelo Maria Ripellino Intolleranza 1960, con musica di Luigi Nono, in prima esecuzione assoluta, è già avvenuta al Teatro La Fenice giovedì 13 e sabato 15 aprile 1961, alle ore 21.15: l'amico Bruno Maderna dirige l'Orchestra della British Broadcasting Corporation,

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mentre il coro Polifonico di Milano è diretto da Giulio Bertola, la regia è di Vaclav Kaslik, i costumi e le scene di Emilio Vedova e l'allestimento tecnico di Josef Svoboda; i nastri elettronici sono realizzati nello Studio di Fonologia di Milano della Radiotelevisione Italiana (cfr. la riproduzione del manifesto originale, op. cit. pag. 241). Dopo questo evento e tutte le sue importantissime ripercussioni, Nono guarda oltre ed ha messo in lontananza di secoli quanto è accaduto tra i protagonisti di questa straordinaria vicenda; Vedova scrive a Ripellino cercando di vestire i panni dell'amico di entrambi, del confidente, del costruttore di nuove tessiture, ma il silenzio epistolare e la tensione emotiva tra Nono e Ripellino ha accenti da interpretare seriamente: lo scrittore viene coinvolto nel progetto ed intende elaborare integralmente i due atti, ringrazia Nono dei soldi, vi lavora su. Il tema è quello dell'intolleranza rispetto ai diritti dei semplici, vissuta e subita in prima persona da un emigrante e che viene scandita in quattro differenti circostanze ed atmosfere. Nono poi lavorerà creativamente da compositore, per andare lontano, più lontano ancora, oltre il 'libretto' scritto e forgiato quasi a porre limiti e confini, artistici e creativi certo, ma sempre fissati e poco fluttuanti, flessibili, in evoluzione-rivoluzione, atmosfere ed ambiti liberati nei quali invece Nono si trova a suo agio e vi trionfa. Per avviare a capire come si apre il percorso delle emozioni e del loro spessore allo scopo di orientare il cambiamento interiore dello spettatore-ascoltatore voluto da Nono, ecco il testo dattiloscritto di una poesia di A. M. Ripellino, con segni e note a mano di Nono stesso: VIVERE È STARE SVEGLI Vivere è stare svegli e concedersi agli altri, dare di sé sempre il meglio e non essere scaltri. Vivere è amare la vita coi suoi funerali e i suoi balli, trovare favole e miti


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nelle vicende più squallide. Vivere è attendere il sole nei giorni di nera tempesta, schivare le gonfie parole vestite con frange di festa. Vivere è scegliere le umili melodie senza strepiti e spari, scendere verso l'autunno e non stancarsi d'amare. (Angelo Maria Ripellino, Non un giorno ma adesso, Roma 1960. Testo a stampa con annotazioni di Luigi Nono, poesia intonata nel coro iniziale di Intolleranza 1960. Archivio Luigi Nono, dal testo commemorativo qui preso in esame, pp. 18-19). I segni sono tracciati in pennarello nero e tutto già ha il respiro del processo di scansione per la partitura degli strumenti, delle voci soliste, del coro, delle parti elettroniche che verranno ad avvolgere lo spazio tutto. Lascio la parola a Luigi Nono, così come si offre in forma scritta nel programma di sala del 13 e del 15 aprile 1961 al teatro La Fenice di Venezia. “ 'Intolleranza 1960' è il destarsi della coscienza umana di un uomo che, ribellatosi a una condizione del bisogno -emigrante minatore-, ricerca una ragione, un fondamento 'umano' di vita. Subite alcune prove di intolleranza e di incubi, sta ritrovando il rapporto umano, tra sé e gli altri, e viene con gli altri travolto in un'alluvione. Resta la sua certezza nell' 'ora che all'uomo un aiuto sia l'uomo'. Simbolo? Cronaca? Fantasia? Tutto insieme in una storia del nostro tempo. Priorità della parola sulla musica o della musica sulla parola? Colonna sonora? No. Ma composizione con gli elementi fondamentali di un possibile teatro musicale: elemento visivo e auditivo nelle possibilità dello spazio di realizzazione. Varie fonti sonore nel teatro, dinamismo dell'elemento visivo nella sua possibilità di resa scenica anche simultanea. Mejerchol'd? Schlemmer? Piscator? Certo. Da loro ebbe inizio, variamente, una nuova concezione e realizzazione teatrale, spezzata poi anche da una restaurazione teatrale. Per questo mio la-

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voro è da pensare che la resa scenica alle possibilità della lanterna magika, realizzata a Praga da Alfred Radok e Josef Svoboda (per i limiti di tempo questa tecnica verrà qui usata solo in parte). Il nastro della prima scena del II tempo è stato montato in collaborazione con Bruno Maderna allo studio di Fonologia di Milano della RAI. Il testo è ricavato da 'materiali per un'opera' di A. M. Ripellino. Intolleranza 1960 è dedicata ad Arnold Schönberg. Anche per Die glüchliche Hand. È per me fondamentale il riferimento a questo 'drama mit musik' in quanto la sua concezione e realizzazione, in rapporto all'elemento visivoauditivo, ha aperto una strada nuova per il teatro musicale' (L. Nono, 'Intolleranza 1960', Programma di sala, in op. cit. pp. 20.21). Eugenio Montale era presente alla prima assoluta e ne dà notizia il giorno dopo: “La novità attesa con febbrile impazienza dagli ammiratori di Luigi Nono è apparsa stasera, alla Fenice, sotto la direzione di Bruno Maderna e col concorso dell'orchestra della BBC. Il titolo è 'Intolleranza 1960', autore del libretto lo slavista Angelo Maria Ripellino. Il testo originale del librettista ha subito una drastica potatura: da trentanove a nove pagine, accettando la definizione non di dramma, ma di idea, e il tutto si presenta come un'azione scenica che molto richiede al gioco delle luci, alla lanterna magica e ad effetti elettronici... L'Emigrante è dapprima minatore. Impreca al suo triste destino, respinge le proteste d'amore di una sua donna e si mette in viaggio per tornare in patria. Nelle scene successive egli si trova ad assistere ad un comizio antinazista, viene arrestato, torturato e portato in un campo di concentramento, dal quale riesce a fuggire. Il primo quadro finisce con un duetto tra il fuggiasco e un non meglio identificato 'ribelle'. Nel secondo quadro, l' Emigrante si aggira tra proiezioni, voci, mimi simboleggianti le assurdità della vita contemporanea. La scena culmina in una grande esplosione: la bomba di Hiroshima, commentata dal canto di una donna, la 'compagna' dell'Emigrante, che inneggia alla vita e all'amore e alla fraternità, beni perduti dall'uomo


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imbestiato... Seguono episodi di violenza, immagini di fanatismo razziale, contro cui l' Emigrante e la compagna si scagliano. Infine, i due viaggiatori giungono a un gran fiume in piena, l'inondazione dominando tutto e tutti, mentre la voce di uno speaker dice: 'Il Governo ha provveduto. La colpa è del metano'. Si abbassa una saracinesca, sulla quale sono proiettate parole di Brecht: 'Voi che siete immersi dai gorghi dove fummo travolti, pensate anche ai tempi bui da cui siete scampati. Andammo noi, più spesso cambiando paese, che scarpe, attraverso guerre di classe, disperati, quando solo l'ingiustizia c'era. Voi, quando sarà venuta l'ora che all'uomo un aiuto sia l'uomo, pensate a noi con indulgenza'.” (fonte: Archivio Luigi Nono, E. Montale, Prima Mondiale a Venezia dell'Intolleranza 1960, Corriere di Informazione, 14 aprile 1961, sezione 'Opere' 'Intolleranza 1960', sinossi.) In questo testo pubblicato dalla Marsilio, ricchissimo si presenta l'apparato delle note, che attraversano in sicura competenza i tempi e danno informazioni preziose per collocare scelte, posizioni intellettuali, relazioni ed approfondimenti correlati (Sezioni V e VI). Si tratta di un modo vivo per immergersi nell'evento di quell'epoca, perché da pagina 113 i confini dei testi scritti, sempre molto articolati e dinamici, si allargano e par quasi di entrare direttamente nel farsi degli schizzi, degli appunti, degli schemi, tra fotografie, immagini, costumi, protagonisti, il tutto plasticamente evidenziato con le forze del nero, del grigio, degli altri colori, anche nella grafia dei protagonisti: là dove è lasciato spazio alle partiture dell'opera, interviene lui, il GiGi veneziano, con il suo piglio sicuro nel tracciare parole, note di esecuzione, elementi dell'espressione scenica ed interpretativa. Non è un caso che per quest'opera e per la sua intuizione creativa di fondo, egli si sia lasciato affascinare e quasi calamitare magneticamente e direi anche magmaticamente dal film di David Wark Griffith, 'Intolerance', del 1916 con oltre le due ore di durata, documento senza pari a dar prova di come nelle diverse epoche storiche l'amore debba sempre lottare contro l'

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intolleranza, che definisco come malvagità non banale, intesa cioè volontariamente a deviare la ragione da riflessioni e scelte dettate dal buon senso di specie, se vogliamo mantenere l'animalità all'uomo (cfr. il testo citato e le note, pp. 24-26)! Nel Documento 57 viene riportata una lettera dattiloscritta di Ripellino a Nono senza data e presumibilmente scritta tra il 21 e il 25 febbraio 1961, che qui riporto integralmente: “Carissimo Gigi, sono molto incerto se venire a Venezia. E non per fare i capricci, ma perché, da quel che mi hai detto, mi sembra che del mio modesto contributo ben poco sia rimasto nell'opera. Io non ho nulla in contrario e mi rendo assolutamente conto delle tue ragioni musicali e drammaturgiche. So inoltre che tale è l'eterno destino dei testi per musica, ma appunto per questo forse sarebbe da parte mia presuntuoso voler mettermi in primo piano. In realtà il lavoro è tuo, e non solo per la musica, ma per la concezione, il montaggio, l'impostazione etc. Di mio c'è solo la carcassa di qualche verso. Val davvero la pena che io entri in ballo con l'accademica e superflua denominazione di librettista? Non sarebbe forse più onesto, ora che siamo alle strette e che, con mia gioia, si è risolto il problema del regista, che io mi traessi in disparte? Tu potresti, tutt'al più, mettere sotto il titolo, se lo volessi, la dicitura 'su motivi di Eluard, A. M. R. ecc.'. Con questo non voglio dire che non desidero aiutarti e assisterti, nei miei limiti, sino in fondo. Scusami. Un abbraccio tuo Angelo” (tratto dal testo in esame, op. cit. pag. 99). Per giocare un poco in profondità con i temi del tempo, dei progetti, degli eventi nella quotidianità, delle memorie e degli strati spessi ed evanescenti con cui essi si presentano e preparano ulteriori punti di attracco e di evoluzione-rivoluzione, riporto in tracce il Documento 15, un lungo dattiloscritto del 5 maggio 1960 che Nono invia a Ripellino e che deve dare prova concreta di quanto sia complessa la formulazione, la progettazione, la realizzazione di un progetto, quale può essere quello, nuova carne al fuoco, contempo-


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ranea a tutto il resto, di una rivista letteraria (si ricordi che Nono modifica anche l'ortografia della stesura scritta, con variazioni determinate e mantenute nel tempo): “5-5-60 Giudecca 882 carissimo Angelo hai ragione. ho avuto una intossicazione con rischio di tifo (intossicazione morale romana!!!!!!!!!)... così ho avuto tempo per rimuginare... al diavolo i critici di qualsiasi tipo e mentalità! se loro fossero vivi avrebbero già pensato a raggruppare, ma loro sono sempre a rimorchio e rimorchio pesante. per cui: gruppo ristretto di noi-creatori e via a far saltar la situazione! le uniche forze sono le nostre in noi...basta con preparativi-liste elettorali-alleanze ecct. ma subito al lavoro... la crisi romana m'ha scosso e m'ha fatto capire: lavoro lavoro lavoro produrre produrre e fare. discussioni: al diavolo... inutile cercare padri-senatori della cultura. anche loro sono responsabili della situazione di restaurazione fallimentare attuale (Argan e soci compresi + Mila e amici anche). ma soprattutto: noi. come rifiutiamo alcuni tipi già ufficiali, così dobbiamo essere radicali e non comprometterci con nessuno (vedi soci e amici sopra). ma anche qui, se possibile crear l'occasione per nuovi e giovani menti di studiosi. senza tante storie:penso che la nostra forza è unicamente nella nostra decisione...” (op. cit. pp. 70-71). Le idee cavalcano l'immaginario individuale e di relazione, si accavallano, si scontrano, s'azzuffano in moti d'aria per poi svanire: questo il percorso di progetti come una Rivista letteraria di contrasto e di conflitto radicale con le gerarchie già consolidate, per lasciar spazio al movimento in vortice della creatività, che si dilata a spirale ed incide nella storia. Si, questo progetto svanirà perché Calvino, voluto all'interno del gruppo da Ripellino, si negherà all'impresa e Nono sarà orientato fortemente a tener testa a tutte le tensioni contrarie e rallentanti i suoi sforzi, per concludere il lavoro Intolleranza 1960 in tre mesi, proprio mandando al diavolo tutto il resto! Ilia Pedrina

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PATRIOTIQUEMENT VÔTRES Bianca la collera delle schede elettorali Sangue la collera che esprimono delle violenze poliziesche Blu la collera che vuole un avvenire migliore Béatrice Gaudy Parigi, Francia N. B. I tre colori della bandiera francese sono il blu, il bianco, il rosso.

IL SUO ULTIMO GRIDO SI DISSOLVE FRA NOI La ragazza che tutti vedevamo affacciarsi alla finestra è partita in silenzio, le pietre l’umidore della casa mi portano il suo ricordo, una colomba s’annidò nei suoi occhi, i fiori bianchi rimasero sparsi sul tavolo. Chi pulirà i vetri della sua finestra, i cristalli che s’infuocano nel lungo tramonto, la sua voce sprofondarsi nello spazio di quest’isola, con le braccia distese l’orizzonte abbracciò delle sue gambe, la sua pallidezza fragile gravita nella penombra in questa intima ora del riposo. Sopra il mantello rimangono i resti del suo vestito, il suo ultimo grido si dissolve fra noi, un’altra volta la strada nuda davanti ai miei occhi, le pietre l’umidore della casa, i ricordi. Elmys García Rodriguez Holguin, Cuba Traduzione di Domenico Defelice


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PARTIRE di Giuseppina Bosco

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ARTIRE” è il titolo di un romanzo dello scrittore di origini marocchine Tahar Ben Jelloun, naturalizzato francese, dopo essersi trasferito nel 1971 a Parigi dove conseguì un dottorato in psichiatria sociale. Si impone nel panorama letterario con il romanzo La Nuit sacrèe con il quale ha ottenuto il premio “Goncourt” del 1987 e con il saggio “Il razzismo spiegato a mia figlia” ha vinto il premio “Global Tolerance Award” conferitogli dal Segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan. È giornalista, saggista, poeta, opinionista politico ed è tra gli opinionisti politici, il più accreditato nei dibattiti relativi alle problematiche della società francese, soprattutto per quanto riguarda la presenza delle persone di origini extracomunitarie nelle metropoli francesi e ai temi del razzismo e del fondamentalismo. Lo scrittore , con questo romanzo dallo stile semplice e fluido ma che a tratti diviene retorico, affronta il tema dell’immigrazione e della clandestinità ed ha come protagonista un ragazzo di nome Azel. Il giovane ha poco più di vent’anni, e a scuola aveva studiato Diritto, aveva ottenuto una borsa di studio per i suoi meriti, ma il suo chiodo fisso era quello di partire: lasciare quella terra “che non ne voleva più sapere dei suoi figli”; unica alternativa per colmare la propria disperazione e non cedere alla malavita oppure al fondamentalismo religioso. È significativo che l’autore per la copertina

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del libro scelga un’immagine molto emblematica: un battello a metà tra la costa di Tangeri, avvolta dalla nebbia, e quella spagnola vicina. Il paesaggio attorno all’imbarcazione presenta colori sfumati, sui toni dell’ azzurrino e del grigio, quasi a voler connotare anche il desiderio del ritorno alla propria terra e alle proprie radici. Difatti il titolo “Partire”, nel significato polisemico del verbo francese, può intendere un abbandono definitivo di un luogo o trovare una destinazione diversa e migliore. Analogo significato troviamo nella lingua italiana e spagnola. In inglese ulteriore accezione del verbo “partire” è quella di “deviare da qualcosa”, invece in tedesco, “verlassen” significa sia partire che abbandonare. In ogni caso, la scelta del titolo da parte dello scrittore connota il desiderio di libertà, più immenso e profondo del mare, che induce molti giovani extracomunitari divisi dalle due sponde della costa, una africana e l’altra spagnola, non solo a tradire la propria famiglia, abbandonare gli amici e il proprio Paese, ma anche a scendere a compromessi con la propria coscienza fino al punto, come succede al protagonista, di vendere il proprio corpo. Era la notte del febbraio 1995 quando Azel decise di inseguire il sogno di una vita migliore, alimentando il desiderio di fuggire da Tangeri. Spesso si recava sulla banchina del porto dove ammirava le grandi imbarcazioni che attraccavano e si abbandonava come un bambino ai sogni: “si vedeva con un abito bianco da capitano o da comandante, […] mentre impartiva ordini brevi e precisi. […] l’unica cosa che voleva, in quel preciso istante, era trovarsi in una cabina dentro la quale potersi chiudere e attendere la partenza.[…] un piroscafo si accostò dolcemente alla banchina dell’attracco. Azel aprì gli occhi e aiutò gli inservienti a fissare la scala. Alcuni viaggiatori lasciavano la nave col sorriso sulle labbra. Gli venne voglia di saltarci sopra di infilarcisi e di restarci.>> (cit. pag. 41) Sapeva che la fuga comportava dei rischi. Aveva ancora negli occhi la morte di Noureddine, suo cugino, che nel tentativo di at-


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traversare il mare con l’imbarcazione di fortuna procurata dagli scafisti, uomini corrotti e senza scrupoli, era morto per annegamento. Non riusciva a dimenticare il momento in cui recuperò il cadavere del povero Noureddine : era ancora intatto, ma gonfio. Altri corpi erano stati dilaniati dagli squali. Molte furono le vittime, ricordava bene anche i cadaveri di due donne e di un bambino coperti da un lenzuolo bianco e soprattutto l’odore nauseante che si spargeva nell’aria. Quella volta anche il governatore aveva fatto ingresso all’ obitorio, invitando i giornalisti a filmare la schiera di corpi senza vita di modo da fermare quelle tragedie. Tuttavia, il protagonista, Azel, come molti extracomunitari che ogni giorno sbarcano sulle nostre coste sfidando la sorte, era disposto a correre tutti i rischi del caso, tanto grande era la sua voglia di andarsene: «Ho ventiquattro anni, sono laureato, non ho un lavoro, non ho soldi, non ho una macchina, sono un caso umano, sì, sono anch'io alla deriva, pronto a tutto pur di andarmene, pur di vedere questo Paese solo in cartolina». Il protagonista dunque, pur di raggiungere i suoi scopi, accetta di diventare l’amante del suo protettore spagnolo, Miguel, mercante omosessuale, che gli promette lavoro e fortuna in cambio di una relazione un po’ perversa e tormentata e anche poco corrisposta. Il prezzo che spesso l’immigrato, il clandestino, è costretto a pagare è sempre molto alto: la sua ricerca della felicità, che quasi sempre non arriva, deve fare i conti con la selettività dell’Europa ricca e per nulla inclusiva, in cui sperimenta la discriminazione, la violenza, la “reclusione” nei quartieri ghetto delle metropoli. Tahar Ben Jelloun proietta nel protagonista Azel il suo attaccamento alle radici culturali del suo paese, che però tradisce le aspettative dei propri figli. Così, lo scrittore, da abile conoscitore delle coscienze dei suoi personaggi, è consapevole che essi non sono mai disperati, ma si sentono traditi da una società basata sui privilegi, sulle diseguaglianze e sulla corruzione politica. Amarezza che si evince dalla

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lettera che il personaggio principale scrive al suo paese in un momento di malinconia dopo aver lasciato il Marocco ed essersi trasferito in Spagna: “Caro paese, io non ti lascio definitivamente, mi dai solo in prestito agli spagnoli, i nostri vicini[…] Li conosciamo bene, per molto tempo sono stati poveri come noi, ma poi, un giorno, Franco è morto ed è arrivata la democrazia, seguita dalla prosperità e dalla libertà.” (pg. 72) Anche le figure femminili del romanzo hanno una storia segnata dalla sofferenza. Spesso le donne sono o oggetto di piacere o madri protettive dedite alla cura della famiglia. Di questa duplice condizione femminile, c’è una descrizione in una sequenza del romanzo, in cui si parla delle ragazze marocchine: «[...] la loro pelle è la più dolce, la più voluttuosa che io conosca, credimi, una pelle che sa di cannella, di ambra e di muschio». Emblematiche sono anche le parole di un capo della comunità islamica in Spagna a proposito della relazione uomo-donna, intesa come superiorità assoluta dell’uomo sulla donna, minacciata dai “facili costumi dell’ Occidente: “l’alem parlava in maniera diretta: la furbizia della donna è terribile, è Dio che ce l’ha insegnato e che ci mette in guardia. Sappiate che il male si annida nel corpo e nel cuore della donna, ma anche il bene vi si sa incarnare, pensate alle nostre madri […]” (pag. 92) Tuttavia i personaggi femminili emergono per la loro valenza positiva. Ad esempio la sorella di Azel, Kenza, determinata e padrona di sé, raggiunge il fratello a Barcellona e sposa Miquel, per regolarizzare la sua posizione e sottrarsi alla clandestinità oppure Lalla Zora, la madre di Azel e Kenza, la quale soffre in silenzio la solitudine, accettando il destino dei figli. Se la coralità del romanzo si dipana in quasi tutta la narrazione, la fine sembra un monologo fuori campo di un personaggio divenuto quasi un’ombra, una sorta di fantasma, in una dimensione visionaria simile al regno dell’aldilà dantesco: è il viaggio di alcune figure a limite tra il reale e l’irreale che diventano allegorie del ritorno alle origini e si


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imbarcano in un vascello comandato da un uomo “d’altri tempi”, assistito da una giovane donna, che intona un canto melodioso araboandaluso di una” nostalgia dolorosa”. Si instaura una sorta di circolarità tra due dimensioni oniriche: quella della partenza dalla propria terra e quella del ritorno. Ma la necessità di partire dal proprio paese, sembra dirci l’autore, se intesa come fuga, non costituisce la soluzione: il problema delle condizioni sociali di chi rischia la vita pur di raggiungere l’Europa con la speranza di una possibile realizzazione, dovrebbe essere affrontato tramite la cooperazione europea con i Paesi del cosiddetto Terzo Mondo, affinché siano create in patria le condizioni per il lavoro. Partendo da una politica siffatta si può combattere la migrazione forzata che, fra i vari disagi che produce, spinge i migranti a trovarsi nelle condizioni di “lavorare” anche per la criminalità organizzata, l’unica possibile fonte di sostentamento. Il messaggio dello scrittore, dunque, ancora oggi di grandissima attualità, nonostante le vicende del romanzo siano state ambientate negli Anni ’90, è quello di sostenere il tema della necessità di attuare delle politiche di collaborazione tra gli Stati al fine di estinguere il dramma dell’emigrazione e di tutti i disastri civili e sociali che ne conseguono, attraverso il riconoscimento dei diritti di natura economica e politica e delle condizioni sociali ai Paesi dell’Africa, per garantire ai suoi abitanti i presupposti per “restare” e vivere nelle loro terre natie. Giuseppina Bosco L’IMMAGINAZIONE NON HA FINE Io raccolgo miserie, nessuno mi trasforma. Pesa addosso un sacco fondo, lungo da [sempre. Verità deformi scavate profonde sono [erosioni infiltrate sperdute. Un minuto basta con [taglio affilato, deciso e concentrato a capovolgere

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la piatta durevolezza dei giorni. Le ombre vaghe perverse rispecchiate [dentro le pupille sono divenute il fato nemico, che sadico contro si è stabilito comprimendo i movimenti. Io sono simile ad una casa spaccata, escono lacerati e sconvolti i pensieri, se rimangono dentro si infiammano rabbiosi, rintronano per entro le spaccature: i miei [ pensieri sono nudi, li sanno tutti, si leggono sulla [fronte e negli occhi. Dopo una salita sopra pietre che spuntano [dal terreno tutto seghettato, tanta vita attorno io sento. Gemma rilucente di primavera sulla punta di un ramo nero. Fumigante, appena staccata dall’alveo piena [ e soffice, le punte delle dita lasciano incavature sulla [ pelle. Addormentata come in un nido raccolta. Come pesce guizzante dall’odore della [tamerice lambita dall’acqua dolce del fiume. Aspra e silvestre pari ad una rupe che si sporge in avanti, vedi in basso, nessuno si aggrappa. Prominente nuda, il tempo [trascorso non ti ha corroso. Dura corteccia sopra, il [ muschio si distende con trine verdi ricamate. L’immaginazione vive di vastità e di astrazione, ha i cammini lontani delle idealizzazioni, [ modella figure fruscianti con riflessi nello spazio. Tutta luce in espansione. I pensieri sanno creare la tua presenza, le linee e il tuo silenzio. Ti prendo tutta in una mano, l’ansia che è [ contentezza non si frena e non si tiene dentro. Pure gli oggetti si ridestano con lo sguardo [ del sorriso. Nella freschezza ritrovata ti riscopro, su alti pendii vellutata, intatta trepidante la veste come nuova nella brezza del mattino. Leonardo Selvaggi Torino


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L’ULTIMA POESIA DI

GIUSI VERBARO di Elio Andriuoli

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ATIVA di Catanzaro, ma trasferitasi con la famiglia sin da giovanissima a Firenze, Giusi Verbaro ha assimilato della Calabria e della Toscana l’anima segreta, fatta di smagliante bellezza e di meravigliosa armonia. È quanto appare dai suoi libri, nei quali l’intensità del sentire si unisce al rigore della forma, dandoci testi compiuti e certamente molto validi. Poetessa e saggista, ha fondato alcuni importanti premi letterari, organizzato convegni e creato centri di studi e di lettura. È mancata a Soverato il 27 agosto 2015. Ci piace pertanto ricordarla in questa sede, prendendo lo spunto dalle sue più recenti pubblicazioni, Solstizio d’estate (Manni, Lecce, 2008) e Il vento arriva da uno spazio bianco (Interlinea, Novara, 2013). Ciò che subito si rileva da queste poesie è la sapienza espressiva dell’autrice, la quale riesce a fondere altezza d’eloquio con una diretta comunicatività, in un verseggiare teso a cogliere ciò che racchiudono le apparenze, al di là del loro immediato manifestarsi. Così in Solstizio d’estate la Verbaro sembra come destarsi, dopo le opacità dell’inverno, per cantare la gloria della nuova stagione e i suoi doni. “Ancora un anno. E al centro del suo giro / ancora la frontiera del solstizio: l’state / e i suoi miraggi. I miraggi e gli inganni”. Anche se la nostra poetessa è consapevole degli inganni della vita e dell’“occhio nero / del nemico che insegue”, ciò che la rapisce è tuttavia l’irrompere dell’estate, con i suoi colori e la forza del suo richiamo: “Ancora voce chiama ed io rispondo”.

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È questa forza, promanante dalla calda presenza del sole, che tutte ravviva le apparenze del mondo, a dare un nuovo senso alla vita, che di tale bene tutta s’illumina, sicché ella può levare con fiducia il suo canto: “È la magia che torna col solstizio / al limite più alto dei suoi soli”; “C’è, sempre una finestra spalancata sul mare. / Dentro filtra la luce della luna”; “La casa dell’estate / oggi s’anima e si apre col solstizio”; “L’epifania d’estate / ripropone la trama / coi suoi orditi”; ecc. In questa festa di luce e di colori a tratti riaffiorano però delle presenze venute dall’ Oltre che fanno sostare col loro richiamo: sono i morti che giungono con i passi che non fanno rumore: “Non ingombrano i morti: son fatti d’aria / i loro spazi brevi / e i sussurri sono aliti di vento / tra foglia e foglia”. Nascono così sensazioni furtive, labili, che generano conturbanti pensieri: “Ma batti e batti sempre più s’insinua / il sospetto del tutto già vissuto”, così come nasce il sospetto che “… alla conta qualcuno / ha perso i dadi”. La Verbaro tende a cogliere in questi suoi testi l’ineffabile, con uno stile incisivo e bene elaborato, che certo si è formata assimilando l’influsso dell’ambiente fiorentino, sul quale primeggiava Mario Luzi. Si leggano, ad esempio, i seguenti versi: “Ma quali notti affiorano? Quali tracce / ritornano? Quale grido balugina nel buio?”; “Chi sostiene che il tempo ci smarrisce? / Che ci perde nei giri della corsa?”; e ancora: “Un virgulto di pioppo / che ha l’età di mio figlio. / Crescono in simmetria le due radici. / Crescono foglie e rami. / Emergono altri volti / e nuovi semi: un anno dopo l’altro / s’aprono gemme vive. // Le cose con le cose / in un moto perpetuo, in un perpetuo / rigoglio di vite”. Perentori sono in questo libro certi incipit, quali: “L’enigma è nel tempo. È nel tempo / la resa. Se a resa predispone / ogni cosa che è viva e poi trapassa”. Il motivo del solstizio resta però quello che più volte ritorna in questo libro, intitolato appunto Solstizio d’estate; ed ecco che lo ritroviamo in una poesia che inizia: “Il solstizio di giugno era il punto cruciale / della festa. L’estate che irrompeva / era


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l’inizio, il viaggio. La promessa”. Ma il solstizio indica un culmine al di là del quale inizia il declino (“E già l’età di mezzo trascolora”, dice la Verbaro); sicché un altro ciclo incomincia. S’insinua allora in lei un sentimento di sottile tristezza che permea i suoi versi e li colora di una più assorta pensosità. Si veda: “È così che mi corre incontro un nome. / Uno qualunque. Uno dei nomi persi / per inerzia, per noia”; “la voce di mio padre / è quella che più inquieta e più m’insegue”; “Porta a tratti sgomenti di vigilia / questa notte d’estate”; “Lunga è stata la notte e lungo il viaggio / per i luoghi perduti e le stagioni”: ecc. Ciò che qui domina è allora il gioco sottile della memoria, con i suoi sortilegi, e la natura, amata profondamente in tutte le sue manifestazioni. E si tratta di un gioco memoriale raffinato, che fonde il passato col presente, unendoli in una medesima stretta; un gioco che, a ben guardare, è lo stesso di quello che la Verbaro persegue nel libro successivo Il vento arriva da uno spazio bianco, dove oggetto del ricordo sono la città di Firenze (che domina la prima parte) e la Calabria (che domina la seconda), mentre l’ultima sezione, Angeli, sembra avere un’origine squisitamente letteraria, dal momento che i tre poeti citati in esergo sono Dante, Rilke e Luzi. Ma poi, come sempre accade nella Verbaro, lo spunto iniziale dà luogo a uno sviluppo del tutto autonomo; ed è quanto può dirsi del resto anche per quanto riguarda le epigrafi delle poesie della prima sezione del libro. Qui dapprima è tutto un incalzare di domande: “Resta nell’aria un’eco di parole. Ma chi le pronunciò? / Chi diede un nome al nome?” (Risveglio); “E se fossero i sogni depositari della vita vera, / quella a noi sconosciuta / negata ad ogni segno percettibile?” (La verità di un sogno); “Tutti o nessuno? In nessun luogo o mai? O, forse, in tutti, / i possibili luoghi della terra?” (E se fosse l’amore?). A tale incalzare di domande succede un più pacato meditare sul mistero della vita gettata nel mondo. “Ho sognato di un tempo – che poi non era tempo: era / uno spazio chiuso

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senza indizi / in cui ci si muoveva senza peso” (Il cuore acceso); “La vita e il tempo dici poco e male si accordano: / la prima corre più veloce del tempo, né si adatta ai suoi limiti…” (Primo giorno). S’affacciano a volte in questo libro riflessioni improvvise, che danno luogo a dei subitanei trasalimenti: “A parole ho vissuto / e ho danzato gran parte dei miei giri / con creature di carta, / a cui ho insufflato l’anima a parole” (A lenti rovesciate); così come s’affacciano i dubbi tormentosi sull’utilità di un lavoro che ha costituito lo scopo di tutta una vita: “Nient’altro mi era dato, / se non questo rovello di parole. Queste sillabe sghembe. / Questo giocare tutta la mia vita con i simboli oscuri / che non portano gloria…” (Il ponte): dove spontaneo nasce alla mente il ricordo della storta sillaba montaliana degli Ossi di seppia. Un motivo poi che s’incontra sovente in queste poesie è quello del vento, che può assumere il significato di un’intima inquietudine e che è persino contenuto nel titolo della raccolta. Lo ritroviamo in poesie quali Il rumore del sangue: “… sento spirare il vento di ponente / – un vento inquieto e carico di voci / che arriva sempre da uno spazio bianco”; Il vento: “Il vento. / È sempre il vento che scompiglia i nomi / come fa con le foglie, con la sabbia / mulinandoli in giri vorticosi”; e ancora in Le spore di febbraio: “Affacciarsi nel vento e dal vento / lasciarsi poi scolpire / e levigare come cera molle” e ne I nomi: “Per tutta la notte mi ha inseguita il vento”. Ciò che però maggiormente caratterizza la prima parte di questo libro è la memoria degli anni fiorentini, che l’autrice evoca con particolare nostalgia; e la sua parola si fa particolarmente affettuosa nel ricordo: “Corriamo sorridendo / sui ponti di Firenze: giovani senza peso / né polvere o rimorsi” (Un nome); “Ancora oggi passare per piazza Signoria / e attraversare tutta via De’ Neri / … / mi percuote un tremore, come un’ansia sommessa / … / Mi chiedo se Firenze è solo un sogno” (Firenze); “forse è meglio fermarsi sulla soglia / della vecchia Hostaria di via De’ Neri:


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/guardare le ragazze e ritrovare / quelle che ariose e lievi, nelle piccole gonne, / sottili d’ aria e fiati, passavano danzando” (Via De’ Neri). E nei disguidi della memoria tornano anche le persone amate che non sono più, come colei che abitava, “… carica d’anni, gravata dalla pena / di non volere andare”, in via De’ Mastri, 6 (Lieve come una piuma); o come il padre dell’autrice, che s’affaccia in Il presepe: “… mio padre costruiva / un presepe di muschio / che odorava di bosco e di erbe molli: natale ci fioriva / di favole e di brina”. Tra le presenze che emergono da queste poesie vi è poi anche quella di Virginia, che “scrive, / perduta nel suo grande foglio bianco / … / Nell’ansia sconsolata di parole” (La stanza di Virginia). Hanno, le poesie di questa raccolta, un andamento prevalentemente onirico, come è, ad esempio, quello di Sul treno, dove sintomatico è l’incipit: “Nel sogno il treno sferragliava ansando” e dove ignota è la destinazione; ma dove avviene l’incontro col “Maestro”, certo Mario Luzi, già citato in epigrafe, il quale invita l’autrice ad andare a Siena, per “ricercare tracce di Simone”, cioè del pittore senese Simone Martini. (È noto che questo grande artista è il personaggio chiave del poema di Luzi Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini). “Maestro non andare” supplica la poetessa, ma la figura, che le era apparsa, s’ allontana e si dissolve. Tale andamento onirico della poesia di Giusi Verbaro lo ritroviamo anche in liriche quali I nomi, dove si possono leggere questi versi: “Poi mi trovo smarrita in un interno di cui non so / gli arredi, né riconosco i luoghi”; versi che così seguitano: “Io li ritrovo tutti i volti cari / e ne collego i tratti / restituiti a tanto amato sangue”. Si veda pure Un ritorno: “Per il viaggio – ma verso dove e quando? – era partito in fretta / così, senza bagagli: senza tessere e acconti / … / Nel sogno l’ho rivisto così com’era”. Tra gli elementi di queste poesie vi è poi quello del senso profondo del mistero, che da ogni dove riaffiora, come avviene in Una

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ferma-foto: “Sappiamo che il segreto sta tutto nello spazio / tra la vita e altra vita e che solo la luna / ne conosce la chiave. Ma il mistero / sta scritto in ogni cosa”. Nella seconda parte del libro, La casa sulla scogliera, Giusi Verbaro insegue trascorse stagioni, andando alla ricerca di un senso da dare alla propria avventura terrena, benché l’ impresa le appaia subito ardua e poca luce dal passato le giunga: “La casa sugli scogli si scompone / come gioco di specchi si perde /… / Pietre e mattoni / sono carne viva ma la porta è sprangata” (La casa sulla scogliera); “È questa vecchia casa – così muta e murata / nei silenzi – a custodire enigmi e messaggi” (Gli enigmi. I messaggi). Anche qui affiorano le immagini di persone care ormai scomparse, come quella di Maria Concetta; ma i morti che tornano in queste poesie d’ordinario non hanno nome e il loro affiorare è quello di ombre che assediano l’ autrice con la loro presenza. Si vedano: “Gli ospiti che leggeri ci alitano attorno, / ci sfiorano passando” (Tra la coscienza e il cuore); “Gli ospiti non si annunciano: la porta / è sempre aperta” (Gli ospiti); “I morti hanno una loro quieta astuzia: / trovano mille modi per rivelarsi” (Segnali); “Non brancolano i morti. Non ondeggiano / incerti della via” (Il lume sulla soglia); Gli occhi dei morti a volte hanno più luce / di quanta non ne accolga un occhio vivo” (Oltre il limite). In questo universo onirico tutto diviene incerto ed anche il passato sfuma nell’ombra: “Ma che stanze abitammo? Che amori? / Quali incontri?” (Le stranite stanze) e il dubbio sorge persino sulla realtà della stessa vita nel mondo: “E se poi fosse l’ombra / davvero il surrogato della vita?” (L’ombra). Ecco allora l’affacciarsi di una “realtà altra”, quella degli Angeli, che con la loro rassicurante presenza ci offrono forse un appiglio. Sono costoro degli esseri salvifici, “che conservano memoria / di tempi lunghi e di altri che, a venire, / aprono misteriose dimensioni”; esseri che “ci vivono d’attorno invisibili e alteri” e che “ci sorreggono a volte”; esseri la cui ala “ci sfiora piano” e che sostano


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solo per un attimo presso di noi, prima di “perdersi lievi a un sospiro di vento / che s’ alza nella notte”. Con questi versi si chiude un libro ricco di molta poesia, che s’inserisce a buon diritto tra i più compiuti apparsi negli ultimi anni e che è destinato a dare maggiore notorietà al nome della Verbaro, già peraltro affermatasi nei trascorsi decenni come una poetessa di vaglia. Elio Andriuoli

si trasformino in uomini e donne molto migliori di quelli che fino ad oggi li hanno preceduti.

A LA BIE

Ci abbiamo provato e ci proviamo. Ma non abbastanza.

Les heures susurraient limpides dans le pré Dans mon canot je voguais sur le chant clair de la rivière que les frondaisons des arbres constellées de martins-pêcheurs protégeaient de la siccité de midi Sur les berges en ajoncs embaumées de menthe sauvage de rousses brettes paissaient l’ombre parfumée des noisetiers Le taureau par moments à l’encolure puissante humait l’espace puis rasséréné replongeait son mufle dans les fleurs Plus loin dans la transparence du ciel les monts érigeaient les orgues bleus de leur bois Les lèvres d’un poisson ouvraient le cercle du langage Une libellule se posait sur ma page En écrivant l’hymne d’amour à la vie j’avançais confiante sur le globe incandescent de la lumière Béatrice Gaudy Paris, France

BAMBINI, CRESCETE IN FRETTA ! Canto tutti i bambini del mondo perché, vivendo nella giustizia la loro infanzia, adolescenza, giovinezza,

Anche se non sarà facile, perché non li aiutiamo abbastanza. Dovevamo coltivare la bellezza e la giustizia su questa Terra, dovevamo lottare tutti insieme contro vecchie e nuove miserie, contro vecchie e nuove malattie del corpo e dell'anima.

E purtroppo abbiamo anche perfezionato le Super-Bombe che annientano decine di città in un colpo solo, le guerre chimiche e batteriologiche, le crudeltà del terrorismo e delle rappresaglie sui civili inermi. Prosegue intanto la ricerca del raggio della morte per ripulire la terra a fondo, senza risparmiare nessuno. Bambini, crescete in fretta! Luigi De Rosa ( Rapallo, Genova)

STRESS Nessun fiore in giardino, Luna Rossa, Occhi guardano Il mondo vuoto. La statua della Libertà Avvolta nella foto ... La mia mente è sparsa Cercando di rinunciare Ciò che è stato vissuto. Teresinka Pereira USA Traduzione di Giovanna Li Volti Guzzardi, Australia


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FRANCESCO LEPRINO CON GILLO DORFLES PER ' UNA GUERRA DEL TEMPO' di Ilia Pedrina

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ATTRAVERSO il tempo attraversato dal tempo' è stato il primo lavoro multimediale realizzato da Francesco Leprino su e con Gillo Dorfles nel 2007: in rete colgo le parole stesse del regista per presentare questo secondo impegno 'La guerra del tempo': “Quasi dieci anni sono trascorsi da quando interrogavo Gillo sul suo quasi secolo di vita. Ne era nato un documentario, Attraverso il tempo attraversato dal tempo, che ha avuto una larga diffusione in Università, TV, Gallerie d'Arte, Musei, Istituti Italiani di Cultura e Istituzioni varie. Ora Gillo quel secolo l'ha ampiamente superato (gli anni sono 107), semplicemente restando indifferente al tempo, non entrando in guerra con esso (fosse stato il contrario, il titolo sarebbe stato 'la guerra col tempo'). La guerra, quella reale, trasuda invece dalle poesie che ha scritto in quel difficile decennio (lui sfollato in Maremma al passaggio del fronte), abbandonata la medicina e la psichiatria, da sempre interessato alla musica nuova, allora combattuto fra pittura, poesia e teoria (critica, estetica, filosofia). Di quelle poesie (pubblicate in volume nel 2012 da Campanotto Editore), colte, sagaci, ironiche, perfino felliniane ante litteram, ne ho scelte sedici, seguendo il mio impulso istintivo-naif, la cui lettura ho proposto a Gillo, superando la sua reticenza (con la scusa dei sopravvenuti problemi visivi) con un ingrandimento adatto alla sua vista attuale. Ho farcito queste letture con i suoi dipinti di quel decencennio, con

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brani dall'Arte della fuga di Bach reinventati da due moderni compositori (Ruggero Laganà e Alessandro Solbiati) e con musiche di Franco Donatoni. E poi è nato, quasi spontaneamente, un personaggio che, sfidando le leggi della natura, esplora e oltrepassa ogni confine, perfetto avatar del suo originale. Una fuga a tre voci (poesia, pittura, musica) che rivela un aspetto inedito ai più di Gillo Dorfles, più sfaccettato di un diamante” (Francesco Leprino, fonte Internet: 'Amadeus - Redazione On Line'). Ad accompagnare queste parole una bella istantanea dello scrittore, in cappotto cammello, sciarpa scozzese, cappello nero e grandi occhiali scuri, quasi a firmare il suo murale, dal quale la grande figura par fuoriuscire e concretizzarsi. Il regista Leprino ha ragione: se ci si lascia immergere nell'atmosfera del lavoro, tutto si muove in vortice ed i testi poetici letti dal Dorfles stesso quasi ti obbligano a fermare l' immagine, a tornare indietro per ascoltarli nuovamente, senza lasciare da parte gli avvolgimenti sonori e le forme in movimento, differenziate, coloratissime, dei suoi quadri. Si potrebbe aprire un dialogo, a partire da questo lavoro, per tracciare effetti individuali d'emozioni ed intrecciare prospettive e vissuti, intensamente. Il 5 maggio 2017 quest'opera importantissima è stata presentata in prima assoluta a Milano, allo spazio Oberdan, nell'ambito dell'evento 'Maggio a Milano con Gillo Dorfles', mentre Giancarlo Pontiggia ha introdotto l'incontro e la presentazione del film. Poi le occasioni si sono susseguite senza sosta. In rete si può entrare nel clima di questa creazione a più voci di ampio respiro e di efficace qualità visivo-auditiva, anche se solo nel trailer di poco più di due minuti, quando gli effetti speciali mostrano un anziano che cammina senza sforzo nella luce provocata in riverbero da un'alba-tramonto, che ferma il tempo per lasciarlo scorrere nella vocalità preziosa del poeta che recita se stesso. Ilia Pedrina


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“Una poesia che non riesce a autodefinirsi”:

GLI SPAZI MOBILI DELLA POESIA di Susanna Pelizza ’INCONTRO tenuto alla Spezia lo scorso Febbraio e poi successivamente esposto su “Gli spazi mobili della Poesia” (Italian edition, su e-book) ha visto la partecipazione degli addetti ai lavori, la generazione dieci, giovani poeti intenti a dare un carattere personale a un genere che pare soffrire, ma decisamente non essere al tramonto. Manca un disegno globale di un’ esperienza che si tenta d’incidere nella vita, ma che paradossalmente ne rimane sempre di più slegata (“arte è imporre un disegno all’esperienza e il nostro godimento estetico sta nel riconoscere quel disegno” Alfred North Whitehead). Se Mantovani, Batisti, Pacini si muovono

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sempre all’interno di esperienze neo- sperimentali, Giuseppe Nibali, il giovane poeta autore di “Come Dio su tre croci”, auspica un ritorno alla tradizione. “Dobbiamo incontrarci sulla tradizione, sulle tombe dei morti, dentro le pance enormi e silenziose dell’ origine: questa è la genealogia necessaria (...) Potremo rintracciare un archetipo comune, in mezzo a tutte queste divisioni, un luogo letterario nel quale incontrarci e dialogare” (G. Nibali, op. cit.). L’autore, fondatore del Centro studi di Poesia a Bologna, auspica un “contenitore di genealogie” in cui le posizioni diverse possano, a breve, trovare un punto di unione proprio in questa forza archetipa proveniente dalla Storia. La posizione di Nibali, costruttiva e proposizionalista contrasta con quella di Tommaso Di Dio che intitola il suo intervento così “Poesia non è comunicazione”. In realtà il Di Dio, poi ammette che una certa comunicazione la lirica la deve pur sempre trovare: certo non nell’esperienza informativa che avvicina il testo alla scienza (quindi in una posizione antitetica a quella di Escher), ma in quella più personale della poesia come teatro di espressioni e emozioni private, come luogo di una voce anticomunicativa anche se di forte impatto espressivo-emotivo. Opinabile è quindi la sua visione, perché se è pur vero che il linguaggio aulico è contestualmente differente dal messaggio tecnicoinformativo, è, pur tuttavia, altrettanto vero che non è silenzioso, privato, autoreferenziale. Di Dio vuole un tipo di gestualità orale che comunica solo a se stessa, un tipo di “lirica del cantuccio” priva di finalità letterarie e riabilitative. Gli spazi mobili della poesia risultano eternamente mobili proprio in virtù di questo solipsismo che investe un po’ tutta la nostra arte di oggi (dalla pittura alla letteratura, per arrivare alla critica, slegata e antiteoretica) che si vuole far passare nuovamente attraverso i canoni dell’ originalità, canoni ormai privi di credibilità e invecchiati nel loro continuo ripetersi e che naturalmente non soddisfano più. Susanna Pelizza


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LA LUCANIA NEGLI ANNI DEL DOPOGUERRA di Leonardo Selvaggi Intatta purezza delle ostinazioni rami si spezzano al respiro del vento infuocato, per i campi aridi aperti, lungo i viottoli di argilla e pietre che lasciano la polvere sulle scarpe. I calanchi giallastri, grandi crepe, voragini a picco, in mezzo alle colline che dalle alture vanno ai fiumi, sono profonde ferite della terra, bocche enormi dilaniate che gridano la grande sete. Carogne dirupate dentro, mosche verdastri insidiose che non si danno pace sopra i resti squartati in putrefazione. La Lucania nell’intatta purezza delle ostinazioni e delle attese, esce decantata e sofferente dai legami con una dura realtà, dalle privazioni, da dentro gli insoddisfatti desideri. Irraggiungibile quello che si vuole, invade e sommerge l’animo amareggiato. Come incatenati nelle strettezze di una terra avara, condizioni di vita misere che tiranneggiano soltanto la psicologia compressa e senza respiro. L’asino, ultima suppellettile, trascinato sull’argine dei calanchi, i vermi attorno alle mascelle scarnificate. Invecchiato di fatiche è morto nella desolazione. Lo spirito dei desideri inappagati, ribollente in silenzio dentro il corpo con i tanti stenti, ha le vibrazioni alate al di sopra della superficie simile a piastra che rintrona facendo sentire i propri passi nudi. Il torrente Gravina scavato dalla insistente erosione e dall’irruenza dei temporali. Si presenta con massi accatastati,

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qua e là acquitrini secchi, spaccati, cortecce di argilla accartocciate, è l’emblema della Lucania, un aspetto puro della sua geologia. L’uomo è un’ ombra che si aggira, nella sua rudezza, spoglio di tutto come la terra arsa e sterile sotto il sole che acceca di bagliori. La Lucania trova qui il suo significato, terra sepolta nel silenzio e nella solitudine. Il senso dello sprofondamento, avvolgimento stretto dell’immobile cielo, metallizzato sopra il paesaggio che si vede. I massi danno l’idea di una terra ferma alle origini: la veste intatta naturale, dura, ossificata, raggelata ferrea. L’ uomo è sperso o incrostato vicino alle pietre, attaccato al muschio asciutto. Il tempo della storia pare che debba ancora venire con i suoi artifici. Vanno lenti i miglioramenti delle condizioni economiche e organizzative, come le trasformazioni dei rapporti sociali che tanto incidono sulla redditività del lavoro. I desideri veloci si amplificano, le esigenze si fanno sentire. L’ amore uguale al soffio dell’aria, carezze dolci lungo il faticoso andare per gli accidentati passaggi sul greto; come la levità di zeffiro; come la luminosità vagante delle ninfe il fascino sognante nell’immoto stagnante calore estivo. I voli dell’ immaginazione e le escavazioni dentro gli avvallamenti della magica illusione. Passano le ali ampie d’uccello della fantasia in cerca di cibo radenti il suolo e in subitanee impennate. Le illusioni accese nella lucentezza del sole e le dolci immaginazioni nella freschezza della sera. Le illusioni divenute smorte, le negatività che fanno sfuggire dalle mani quello che si vuole. Con dannazione l’uomo vicino alla terra povera di Lucania quello che si attende non si può avere se non viene la spinta da altre forze, dal rinnovamento dei mezzi, dagli aiuti esterni per snellire, per rendere meno estenuante il lavoro di ogni giorno, l’inutile fatica di Sisifo. Esaltazione ed evaporazione pure dal corpo dell’uomo disteso, appiattito, svuotato di tutto. La Gravina, un torrente che si è fatto con il trascinio pesante e lento dei massi. L’uomo è attorno a questi, quasi ancora la sua presenza primigenia: non ha creato un suo ambiente, non ha costruito nulla in questa na-


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tura brulla e desolata. Siamo avvolti da tetra tristezza, fermi come intagliati sul suolo pietroso di terra indurita. Non si conosce la morbidezza degli oggetti, hanno angoli appuntiti, scheggiati. La natura arida e desertica conosce l’aria assolata e le tenebre dense che riempiono i vuoti. Hai paura di muoverti, le ombre si sovrappongono, si stratificano, paiono le fasce di sabbia e di tufo che si vedono lungo gli argini delle colline e dentro i massi rotolati dall’alto, macigni simili proprio al destino del contadino. Non si vedono orizzonti, non c’è un cammino che ci porti oltre l’angusto spazio dell’ambiente povero che costringe in forzata attesa. Ci si sente irretiti, una forza magica ci tiene compressi. Anche il vino è secco, l’ aggettivo risponde bene, come se non fosse il rosso liquido versato nel bicchiere: farebbe pensare fatto di pezzi di sarmenti che non hanno il vigore verde, flessibile. La natura ci contorna, non ha lontananze, lo spazio, quando non piove da molto, ci soffoca dentro barriere. La Lucania è nei suoi limiti: semplicità primitive, abiti di fustagno che durano una vita. Il sangue aggrumito negli esseri ha il colore della terra. L’uomo nelle attese si consuma Non c’è futuro, i giorni passati non esistono, il presente si brucia come mucchio di foglie ogni sera. Le caverne sono calde ancora di presenze umane, risuonano lontano gli echi. La luce infuocata lungo il greto della Gravina si estende su grandi taglienti lamiere che dall’alto chiudono uno spazio affossato. Le cose amate sono miraggi, lo sguardo illan-

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guidito non va molto lontano. Pensiamo agli aridi steli di piante avide di umido fra gli interstizi delle pietre; la pioggia incanalandosi in stretti passaggi incontra sabbia rovente, viene divorata da fauci di terra affamata, stanca, spossata, stesa supina. La volontà ossessionata trascina, è un trattore rudimentale, è un traino sconnesso, traballante per sentieri incavati, per scoscendimenti. Il cuore, il fegato, i reni, gli organi vitali simili a ruote arrugginite che hanno perso la rotondità, ammaccati per i sobbalzi e i salti sconquassanti. Il petto affaticato del contadino distaccato dal resto. I finocchi selvatici, i cardi dai fiori azzurri, i pinastri salmastri, le canne esili palustri sotto gli argini ombreggiati che fasce umide conservano. L’uomo come loro, asciutto, lesto, gli occhi lucidi, le amarezze per tutto il corpo, i panni arsi, impregnati di sudore. L’aridità fa venire in mente i galli con le penne sulle zampe. Fortemente rappresentative, strette in una sintesi martoriata, le campagne lucane biondeggianti di messi. Solo il grano germoglia in quelle terre solitarie odorose di ginestre. Le riconosciamo dal treno, ci appartengono, sentiamo che dentro i solchi una parte di noi si trova. L’uomo nelle attese vane si consuma giorno dopo giorno, appare frammentato, perde un pezzo ogni sera. Poca linfa tiene unite le sue ossa. Si segmentano, ricordano certe pianticelle esili che sono fatte di tubicini verdi sovrapposti. La carne cotta, flaccida uguale alla pelle svuotata e pendente di alcuni rettili. I giorni si succedono sotto il fardello delle lunghe fatiche di uomini adusti, vanno l’uno dopo l’altro staccati, appesantiti. I pensieri sono angosciati, senza voce, fuggono spersi quasi foglie secche in un’estate lunga, interminabile. I campi immersi nella solitudine, non vedi che qualche contadino, lontana ombra che si confonde con i solchi; la fatica dell’uomo quasi diviene inutile, dalla terra sterile e dalle ripetute siccità le annate vengono cattive. Il contadino si vede appena con i pochi e semplici strumenti di lavoro che premono troppo sulle braccia. La passione ha perso i suoi giusti fremiti, è tumultuosa, vuole risollevarsi dalle condizio-


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ni opprimenti. La realtà è di stenti, le poche esigenze che si hanno si muovono soffocate da insoddisfazioni. Le figure impavide piene di sole sono nel significato di una vita inesorabile, irremovibile. Le linee rette e squadrate. Lo sguardo perso nel tempo, assente, chiuso interiormente, sommerso. La visione pessimistica, i pensieri senza moti, solidificati. Labbra ed occhi segnati ampiamente nella carne, naso forte, pronunciato: la sensazione chiara di avere poco, la natura avara che ti costringe alla rassegnazione. Tutto il corpo levigato sembra marmo. La terra arida dei calanchi Il colore giallastro dei calanchi trova riscontro nello stato psicologico delle persone. Il vento caldo d’estate passa livellando tutto, rendendo della stessa tonalità terra e oggetti. L’aridità è penetrata ovunque, animo e corpo anchilosati legati vanno insieme. Fatiche di tutti i giorni che rendono poco, l’uomo divenuto automatizzato, non ha una meta, si fanno giri a vuoto. Non si conosce il tempo diviso, ma quello interminabile monotono che trascina come fossimo massi. I volti fanno pensare ai rospi impantanati, mimetizzati nelle pozze non si vedono subito, dello stesso colore del fango. La realtà sociale statica per classi. I feudatari inetti, una psicologia di impazienza in chi è inerme. Pure la volontà che è desiderio di fare e di vivere rimane nelle pastoie. La vita prende il ritmo ripetitivo, un andare e venire senza cammino, sempre contro il muro che non si oltrepassa. Già nel ventre caldo della donna il nascituro si porta in sé la tortura di inseguire sogni che non troveranno via di uscita. Le condizioni economiche di una

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terra povera saranno ostacoli non facili da sormontare. Una vita inibita che terrà il corpo con pochi contatti reali, come sbalzato, oppresso da negativa rispondenza ai naturali impulsi. Le notti sono grevi, velami pesanti, tenebrosi. Il futuro è solo un fatto mentale. L’ uomo è davvero un masso, uno di quelli che sono nel greto della Gravina, incuneato pare col muso nella ghiaia. La Lucania dentro i suoi confini vive la sua estenuata forza di sopravvivere, addossata ai rilievi, piegata nei reconditi avvallamenti. Su una pezza nera di campagna guardo l’asino, emblema significante di questi luoghi, divisi in frammenti che si seguono con fisionomia umana; rivestiti in agosto dalle stoppie, con qua e là qualche siepe che concentra i pensieri tristi della solitudine. La terra alluvionale sotto le piogge frana scivolando per i pendii. Una parte cede nei canali, un’altra flagellata, dispersa dall’acqua. La terra è con poche piante e il tempo del presente non esiste: lontane leggende s’ irradiano per la cima dei monti, ad occidente tinto di rosso e di grigio. Gli uomini statici, mimetizzati con la terra arcaica che sono i raggi infuocati rimane inerte e stanca, non vuole nemmeno l’aria fresca delle ombre né lo zampillo sorgivo. Gli sterpi si spezzano sotto le dita. La terra di Lucania si frantuma ai soffi del vento, sotto la pioggia autunnale le sue membra si sfaldano, il suo tempo fuori delle viscere è un relitto mostruoso. Si spogliano le pietre: polvere dei morti, la fanghiglia frammista all’argilla millenaria. Le rare querce giganteggiano negli spazi desertici, sono a significare alla nostra tristezza con sgomento gli sprofondamenti che soffrono i sentimenti della speranza. Nell’aia l’asino ha interminabili giri L’angoscia prende, la voce non si esprime nella bocca socchiusa: espressioni mozzate che provengono dal subconscio martoriato, ricordi distanti, miseria, malattie, raccolti magri. Le visioni vaganti e gli stati d’animo sono ravvolti da una patina di malumore costante. La Lucania degli anni cinquanta con le strade di terra battuta e le case dalle pareti grigie in-


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crostate all’intemperie. I contadini la sera con la mano appesa alla coda dell’asino si trascinano, le membra rotte quasi slegate lungo i viottoli di fango e pietre delle campagne. Momenti di diversione, toni psicologici contrapposti; dai contenuti gravidi di realtà fuoriescono desideri appena avvertibili, esplosioni tacite. Alla festa del patrono la gente si riversa per le strade, con la vicinanza agli altri sensazioni piacevoli, attimi sereni. Ricominciano gli assilli; il contadino pensa ai suoi campi con amore ossessionato; la terra che lo lega con forza magica: il suo tormento, la sua passione. Vuole allontanarsi, emigrare, ma quell’ostinato testardo attaccamento lo tiene fermo, esasperato. Nell’aia le spighe lucide miste alla polvere della paglia pestata: l’asino ha interminabili giri, stordito tirato dalla cavezza attorno al contadino, si muove come una macchina rudimentale. I pensieri sono percossi, tagliati. Annullata la propria sensibilità, gli arti sono meccanici. L’ambiente intorno antico, fermo senza tempo. L’uomo e la terra negli anni dell’esodo verso le città settentrionali d’Italia, per la Svizzera e per la Germania paiono due persone unite insieme con le stesse ferite, le stesse ristrettezze mortificanti. Il tempo per i mutamenti del proprio stato è incatenato; le attese vacue isteriliscono, una specie di peso ogni giorno attorno al respiro. I bisogni dell’uomo si fanno diversi negli anni, ma non hanno riscontro con le possibilità che rimangono sempre uguali. Due mondi separati, la gente misera della campagna e i possidenti che vanno per proprio conto. Ricorre il senso della fatalità di un destino duro. Contrasti di pensieri cupi si intrecciano nella memoria che pare stagnante simile al cielo gelido d’inverno. Alla vista, dietro i vetri della finestra appannata dai vapori, gli speroni delle rocce di montagne dolomitiche: si vedono in lontananza, escono fuori pari ad ossa mastodontiche di carcasse preistoriche. Il respiro delle persone stretto nelle case dove si vive in comunione con gli animali va insieme al fumo dei comignoli che si spande frastagliato sopra gli embrici imbiancati. Il cielo anche se è terso non ha le altezze sidera-

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li, nel silenzio che sa di immensità e di squallore è una cappa che copre l’estensione delle campagne brulle. Le pareti rustiche che conoscono e sentono le voci delle persone, respirano e hanno la pelle come loro, si attende con la stessa ansia di sempre che è compagna dei giorni. Leonardo Selvaggi

FINESTRE SPALANCATE Lungi da pensieri molesti vuole l'anima sostare, nella casa silenziosa, linda ordinata, dell'aroma soffusa del caffè e d'una torta appena sfornata; le finestre spalancate, nell'azzurro spaziare del cielo e nello splendore del sole, nella natura in dormiveglia nella gamma variegata del verde e nei mille colori dei fiori, nei suoni dei rivi, nei trilli d'uccelli, nell'armonia che piuma nel terso danza dell'aere con Fata Poesia e in voli di brio del misto s'inebria di magici effluvi. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo

LA PRIMAVERA NEL GIARDINO I bambini scrivono nella sabbia le parole magiche del loro presente disegnano tra le ghiaie dei cammini di speranza che conducono a domani mentre un colombo tuba acanto alla sua colomba sotto gli alberi in fiore Béatrice Gaudy Parigi, Francia Dalla raccolta inedita Sous le vol du verdier.


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Il Racconto

LIBRI PROIBITI di Rudy De Cadaval

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ONICA, quella volta, era molto eccitata per una lettura che aveva appena terminato. Inconsciamente, ero stato galeotto: avevo trovato quel libro nella raccolta che il procuratore Grillo mi aveva lasciato in ricordo quando aveva abbandonato il suo servizio. Ecco che Monica si era scoperta una frenetica passione per la lettura di libri orridi e proibiti. E poiché non si proibisce “quel” genere di opere, Monica che era sempre stata pigra, aveva trovato in “quel” genere ciò che le stimolava la fantasia ad ogni pagina. O potere incontestato delle opere orride e raccapriccianti! Monica si addentrava in quell’universo di supplizi e di immaginazioni lubriche, diveniva la vittima offerta a mitici e mostruosi Moloch, la sottile figura in fuga attraverso boschi popolati di monaci perversi e pianure costellate di città ingiuste e oscene, la prigioniera di celle umide e maleodoranti, nelle quali il carnefice si appresta a discendere, con gli strumenti del suo lavoro. Monica quel giorno era in preda ad una fantasia di mortale pericolosità. Io avevo sempre temuto quel momento, che scorsi sul viso di lei mentre mi passava attorno al collo le mani avvinte. Io scorsi sul suo viso un pallore e una eccitazione quali finora non ne avevo mai visti… ebbi ancora paura, ma chi si ritirerebbe davanti ad un abisso da esplorare, in fondo al quale risiede la più perversamente splendente gemma? Le dita di Monica mi si strinsero attorno alla nuca; con tutto il peso del corpo ella mi trascinava in basso; infine rimase appesa al collo, e io in ginocchio, e cominciò a parlare. L’abbraccio di Monica mi trascinava ora sul tappeto di volpi rosse che ricopriva tutto il pavimento. Il tappeto era un regalo di lei, come pure tutto quello che mi circondava, le pareti di specchio nero, il grande divano di

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plastica gialla lucida, le piante giganti inanimate che respiravano solo un’aria speciale, densa di ozono. Cademmo sul tappeto, mentre Monica mi sussurrava all’orecchio parole di cui appena afferravo il significato, preoccupato come ero a non essere risucchiato completamente in quella stretta. Quella donna forse mi stava divorando. Implacabile nei suoi pallori, violetta, verde, tutto un prevalere delle ossa sulle rotondità, delle gengive sulle guance, delle unghie sulle dita, aveva riempito la casa di fili che collegavano microfoni ad impianti di registrazione e seguivano ogni respiro dei nostri amori per poi rilanciarli amplificati. E non c’era sosta con lei: tutto era stato serrato e nell’ambiente nessun rumore più poteva entrare. La polvere si accumulava , una polvere che scuriva i vetri neri, i pannelli di legno e la tappezzeria di pelle verde oliva. Una luce diffusa schiariva dappertutto tutto l’appartamento. Questa luce aveva le impercettibili vibrazioni di ciò che è artificiale, filtrava dai pavimenti di plexiglas trasparente, da dietro le pesanti tende di velluto nero, sul tavolo ricoperto di pelle marocchino, dal quale ho frettolosamente raccolto le mie note. Un cane stanco, una tartaruga, un gatto che è stato fatto castrare da Sharett, univano le loro vite lente alle nostre. Il cane era incredibilmente infelice, non aveva mai visto l’aria aperta. Negli ultimi tempi sembrava che avesse deciso di lasciarsi morire… Mi staccai infine dall’abbraccio di Monica, mi trascinai sulle ginocchia in camera da letto. Monica mi seguì protendendo i polsi… Mi gettai sul letto, piegato all’altezza del bacino. Monica mi si appoggiò tra le gambe, con le mani sbottonò la camicia, segnò il petto con le unghie… I nostri vestiti caddero mollemente da una parte e dall’altra di quel letto funereo, che aveva al posto delle Immagini Sacre una testa diabolica che si protendeva sul dormiente con la bocca schifosa di un vampiro della Malesia. E dappertutto intorno animali impagliati, imbalsamati, tenuti sotto spirito, racchiusi in flaconcini d’olio, in provette opache, risultati


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di ricerche tra il mondo animale e quello minerale, prodotti raccolti per collezionisti viziosi da malati artigiani, in botteghe in cui non entra mai nessuno. E nel fondo della grande stanza, dietro le cortine, al risveglio, chi avesse potuto dormire in quei sonni inquietanti avrebbe potuto vedere i pesci ciechi di un gigantesco acquario illuminato da una opalescenza rosea: pesci che giravano in infiniti giri condizionati dal loro passato ancestrale, attorno al Fungo Cinese, che dà la salute. E ogni risveglio – perché chi avrebbe distinto la mattina dalla notte in quell’ opalescente chiarore metallico? – ogni risveglio Monica esigeva che bevessi una tazza di quell’acqua maledetta… Mi ero accorto dello strano comportamento di Monica subito dopo il matrimonio. Il nostro viaggio di nozze si svolse su un itinerario folle e osceno: dal castello diroccato di Tiffauges a una debosciata dimora di rake a Londra, da Stonehenge alla fortezza Csejte sui Carpazzi, già sede degli orrori di sangue della Contessa Bàthory. Il Castello d’Otranto ospitò una nostra notte e una altra la rocca di Montségur ai cui piedi bruciò l’ultimo immane rogo dei Catari. Le cupe stanze di tortura di Norimberga rappresentarono una tappa importante di quel viaggio di nozze; e finimmo poi a Venezia, dove Monica agitata oltre che dire volle visitare le prigioni del Palazzo Ducale, i pozzi, la cella con la graticola. Dappertutto, la sua eccitazione cresceva con le descrizioni dei terribili supplizi, dei drammi di coscienze, di amori e di armi che si erano passati tra quelle decrepite mura, nelle segrete e fra le rovine un tempo possenti, ora romanticamente sfrangiate dalla luce lunare. Sembrava come se Monica avesse letto molto, e ciò che ella non sapeva, io ne ero al corrente, attraverso le mie letture della prima giovinezza che nella biblioteca di Grillo avevano proteso braccia premonitrici a Monica, come la vittima al carnefice tanto invocato. Monica amava le cose morte, essiccate, le muffe e le polveri, tutto ciò in cui la vita si era un tempo insinuata coi suoi succhi volga-

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ri. Quelle testimonianze del passato mi attraevano forse per altre ragioni. Tra antiche pietre, in mezzo ai ruderi e al sussurro di venti millenari, riflettevo di altre società, dove il piacere di pochi era la norma originale, la suprema moralità. Ma Monica aveva delle strane fantasie, e quel giorno mi sussurrò la suprema: la tensione indicibile sul punto di morire, quando tutte le cellule cercano con disperazione l’aria, la vita. Quella maniera di togliere la vita, che è l’ impiccagione, è una lezione di realismo: il tuo stesso peso ti strangola… Monica, follemente eccitata – gli stivali salivano oltre il ginocchio, stringhe inguainavano le cosce e un giustacuore le dava un’aria da ragazzino snello. le natiche tendevano la pelle e sulle mani il colore era un rosso violaceo – i capelli biondi tirati sulla nuca da una correggia e il volto pallido truccato pesantemente sugli occhi; bianco invece sulle guance e attorno alle labbra violette. Quanti avrebbero potuto condiscendere alle fantasie di Monica, vederla entrare in funeste crisi, da cui allontanarsi era solo un lieve rimedio? Come quando ella, che amava teneramente il suo bastardo H., un piccolo animale nero, incrocio di tante razze che di tutte ne ritrovavi le commozioni, era stata presa dal tremore della sua morte. H. giocava dormiva mangiava correva e Monica fissava col suo sguardo sottomarino completamente perduto, prevedendone la morte: per lei l’esserino appena nato era già destinato a una tomba clandestina, in una scatola di cartone interrata in qualche bosco, noto solo a lei, e verso il quale con morbida curiosità si sarebbe un giorno diretta, forse, per slegare i nastri rosati… Allora Monica aveva cominciato a fantasticare, a immaginare come per le tombe dei Faraoni che il cane le sarebbe sopravvissuto, che imbalsamato sarebbe stato sepolto vicino a lei, sul suo petto, tra le braccia conserte e cascate di fiori già appassiti, dai margini rosi dalla lebbra dei petali. Allora altre fantasie le correvano tra gli occhi, i blu del viso, le labbra stirate ed esangui, finché orribili emicranie non la costringevano a desistere. E poi ella si


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lasciava andare morbidamente sul letto lamentandosi in maniera angosciosa, fino a che l’iniezione di zucchero non l’avesse liberata, non le avesse dato quel ritorno alla realtà del nostro matrimonio, che non era semmai se non il trasmigrare da un sogno, a un altro. Il corpo di Monica negli ultimi mesi si era andando ingrassando, ma non era una maternità, si trattava piuttosto come di una disfunzione interna. Ella mangiava come sempre pochissimo, qualche tartina di pane nero imburrata con burro salato della Danimarca, olive verdi di Creta, champagne e ostriche del Baltico. Il suo cibo non cambiava mai, la sua monotonia obbligava anche me, seppure a pasti più volgari, eppure Monica ingrassava, ben presto gli avambracci le divennero grassi e bianchi, le cosce si gonfiarono e anche le caviglie, in tutta questa mostruosa espansione solo la testa restava piccola e bluastra, le mani sottili e percorse da grosse vene azzurre, e i piedi infantili. Allora avvennero le sue principali pazzie. Il cagnolino venne fatto uccidere e accuratamente conciata la sua pelle e il suo pelo divennero un manicotto. Monica vi infilava le mani freddolose anche d’estate e ripeteva: – Senti, il suo calore, è ancora vivo, sarà sempre vivo! – lo guardavo quegli occhi di vetro, la bocca schiusa nell’ultimo stupore dell’ uccisione. Poi morì la tartaruga, di una strana malattia non so se artificiale che la svuotò dall’interno della corazza. Monica sosteneva in estenuanti monologhi che la corazza, il fossile e l’ immoto erano la più profonda verità della tartaruga e di tutti noi, che dovunque non si trovassero l’acqua e la miseria dell’organico risiedeva l’immutabilità, che non per un capriccio le monache defunte del Castello d’ Ischia venivano messe a sedere su dei pozzi nei quali colavano le loro carni putrefatte per lasciare il pulito splendore dello scheletro. Intanto ingrassava. Decise di allontanare tutti i nostri Klimt verdi e trasparenti, quel Boechlin inimmaginabile che poi andrà alla Galleria Whitney, le enigmatiche immagini di Alberto Martini, (e

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la Strage degli innocenti di Sergio Capellini), i Balthus e quell’eccitante dipinto anonimo che rappresenta a mio avviso la vera e propria riproduzione fotografica mentale di una scena necrofila avvenuta in qualche cimitero, chi sa dove, chi sa quando... Ma la mia angoscia allora era lo spiare dello sviluppo della testa. Una mattina svegliandomi la trovai molto vicina a me: la testa sullo sfondo dei lenzuoli neri sembrava molto ingrossata. effettivamente c’erano delle borse sotto gli occhi, tutto il viso sembrava essersi gonfiato sotto la pelle, come quando la polizia vi picchia in celle sotterranee e piastrellate, con asciugamani bagnati e arrotolati. Forse che la misteriosa malattia stava conquistando anche le parti ossee, insinuando i propri liquidi innominabili tra la pelle e il cranio? La spiavo trepidando. Infinite ore colarono, fino al suo risveglio angosciato; questo corpo che una volta era stato esile riaffiorava alle luci del pomeriggio avanzato con un effondersi di macchie bluastre, vaghe luminescenze, torpori inauditi: fino a quanto può scendere una pressione prima di morire? Improvvisamente, come era venuta, la malattia sparì. Il medico sconsolato che l’aveva curata inutilmente, volle abbandonare la professione dopo questo fatto miracoloso e si ritirò in un convento di esausti frati omosessuali ad Alt-Kreuzzug! Ma Monica fu presa da nuovi desideri inconfessabili. aveva provato l’ebbrezza della mostruosità; ora la pelle le pendeva come a certi vecchi cani austeri. La proprietà di quella pelle pareva non essere più sua, le vene e le azzurrità scomparvero, gli occhi si ingrandirono, ella non sbatteva più le palpebre, affrontava la luce artificiale come una scimmia triste. Mi lasciò per circa un mese, era entrata in una clinica dove le avrebbero riportato tutte le pieghe, cucendole, in luoghi nascosti del corpo a tutti fuori che a me. Lo scopo maggiore della filosofia sarebbe, se non ne fosse stato volutamente obnubilato il senso, di dare la giusta separazione tra la noia della ripetizione, del quotidiano, del lavoro e della organizzazione, e la eccitazione sublime dello scialo e della distruzione. Co-


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me potrebbe esistere la seconda se non trascinasse giorni opachi la prima? E chi di tutti noi, nei giorni più atroci di una esistenza prevedibile, non ha sognato di essere la mano che attizzò l’ultimo rogo dei Catari, il pugno di ferro che massacrò la guancia di un papa cattolico, il carnefice che nel chiuso di un campo compiva sulle cavie umane esperimenti blasfemi? E chi non si è mai fatto vittima felice? La vittima attende il suo carnefice, chiede solo che gli sia sensibile e di appartenergli. Il carnefice da parte sua chiede che essa senta il più immaginabile nella propria carne, da cui si riceveranno sottili sinfonie di sopravvivenza. Pellicole vengono impresse a migliaia, inchiostri scorrono per ribadire che non vi sono più dubbi per questa oscura attrazione. Donde proviene, e dove porterà? Monica impazzita per l’ansietà e l’ eccitazione tremava. Col solito rituale, le strinsi i polsi nelle manette medievali che avevamo acquistato per poco in un mattino polveroso in qualche mercato delle pulci africano. Serrai le antiche viti fino a darle la precisa impressione della costrizione.: i filetti arrugginiti entravano impercettibilmente nella pelle, l’ avrebbero segnata di azzurri, violacei. Ciò che un tempo aveva calmato i riottosi, ora dava al corpo di Monica una frenesia che ella non voleva controllare. Monica piangeva, vibrava, era tesa. Il tempo che dovette trascorrere tra l’inizio e la fine dei preparativi, si svolse in questa atmosfera di vibrazione; occhi sgranati fissavano i miei movimenti. Monica era coperta di una sottile pelle qua e là scortecciata. Stivaletti neri le stringevano i polpacci: i legacci di pelle nera erano stati scrupolosamente lucidati. Su quella tuta Monica si era infilata dei lunghi guanti di seta rossa chiusi all’attaccatura interna del polso da un fermaglio a forma di catena. Sui seni premevano due coppette di plastica lucida che riflettevano le luci nella forma del cuneo. I glutei erano fasciati da seta nera lucida che rifletteva la luce artificiale in forme curve. Monica si addentrò nella fantasia di mortale pericolosità. Era salita in piedi sulle sbarre di ghiaccio accatastate e aveva infilato il collo

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nel cappio che io avevo fatto pendere da un gancio del soffitto, messo lì chissà quando, da chi e per quali nefandi progetti. Ella tremava e quel tremito si trasmetteva alla corda di seta arrotolata, scorrevole e micidiale. I tacchi degli stivaletti erano adesso affondati di pochi millimetri nel ghiaccio. Intanto mi stavo organizzando. Avevo indossato una vestaglia di seta cinese, regalo di Monica: un simbolo oscuro splendeva ricamato sul petto, con un incredibile sorriso. Era veramente una vestaglia cinese? Ho serie ragioni per credere che su quella stoffa fosse effigiato il mitico Baronetto, l’idolo dei Templari. Ma non posso anticipare di più su questa circostanza. Montai su un pesante tavolino e mi sistemai proprio davanti a Monica. Da quella posizione, potevo con le braccia circondarle il corpo e raggiungerla da ogni parte. Cominciai a levarle gli oggetti di dosso, seguendo un ordine di procedura. Così dapprima le sfilai i guanti, slacciando le catenelle, e lasciai che gli involucri cadessero sul ghiaccio e che chiazze di umido si allargassero su quella seta. Poi la liberai dalla testa fino intorno alla corda della tuta di pelle e badai a sciogliere i legacci e gli invisibili bottoni automatici finché la tuta non cadde anch’essa sulle sbarre di ghiaccio, reggendosi poi con la tensione dei muscoli del collo al cappio; intanto io facendo forza le sfilai prima l’uno, poi l’altro stivale, dopo avere allentato i legami. Il volto di Monica era violaceo, gli occhi iniettati di sangue, ella soffriva e stava raggiungendo poco a poco l’assoluta precarietà. Tutto si svolgeva in silenzio. Sapevo che doveva esserci una sosta. Tutto si era fino allora svolto in un parossismo anche infame. … Mi allontanai dall’altare del sacrificio e accesi delle foglie di lauro in un bacile disegnato dal perverso von Bayros, e che rappresenta Salomè nell’atto di protendere il vassoio sul quale sarà deposta la testa mozzata del Profeta. Il nauseante profumo del lauro che bruciava lentamente rese il mio cervello infinite volte più potente, più recettivo e lo sentii vibrare all’unisono con una vi-


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brazione universale che avevo sempre saputo esistesse. Sono i momenti privilegiati necessari a chiunque voglia raggiungere la vera scienza. Furono scritti trattati sull’ impiccagione e io credo per concludere che il sistema attualmente usato dagli inglesi non abbia più nulla dell’antico significato di “appendere per il collo finché morte non ne segua”. Ho letto i resoconti che da Maurer sulle impiccagioni nel carcere di Ebensee, e devo dire che il popolo germanico in alcuni suoi esponenti ha cercato di conservare quel tanto di oscuramente simbolico che rappresenta la cerimonia dell’impiccagione. Perché usare questo metodo per dare la morte scientificamente? Non sarebbe più utile e igienico iniettare il veleno oppure una bolla d’aria che provochi il letale e pulito embolo? Eppure di tali contraddizioni è imbevuta la sciocca umanità! Per centinaia di anni, professori e allievi hanno discusso sulla maniera di perfezionare l’impiccagione: rapporto peso-caduta, il tipo di corda, la posizione del nodo, i fattori psicologici, l’ elemento sorpresa del condannato… Quali insulsi macelli si consumano tra cortili di pietra, in mattine nebbiose? Il gelo spezza le ossa del condannato, l’interno del corpo è già svuotato per sempre, l’osceno rituale continua tra parole di fede… Ebbene quale impiccagione più arretrata di quella a cui io stavo lavorando? Corde di seta nera che incidono il collo, schiacciano le vene; non una caduta, non uno strappo, ma le particelle del ghiaccio che si scioglie e ritorna alla Madre Acqua – consapevolezza dovunque. Gemutlich, no? Rudy De Cadaval

IL CARCERATO di Antonio Visconte

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ON Vittorio gestiva un magnifico ristorante sulla collina di Posillipo, meta agognata di turisti e napoletani, che soprattutto nei giorni festivi, tra il verde degli alberi e l’azzurro del mare, venivano a rinfrescare lo spirito con i prodotti tipici della

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nostra cucina. Dalla moglie Matilde aveva avuto due figli, la gioia della famiglia, dediti allo studio e al lavoro, che accrebbero la stima da parte della numerosa clientela verso quel bel luogo di delizie. Dopo alcuni anni venne al mondo il terzo figlio, di nome Leandro, neghittoso e stralunato, che mise a dura prova una fiducia da tempo acquistata con sacrifici e capacità. Don Vittorio si disperava e chiedeva consigli alla consorte, la quale si limitava a dire che i figli sono un dono di Dio e bisogna accettarli così come vengono. Leandro non era né pazzo né scemo, ma i suoi gesti destavano timore nelle persone che gli stavano vicino. Saltava le scale, come Tarzan si arrampicava sugli alberi, imitava il ruggito dei leoni e da vampiro atterriva i bambini, al punto tale che quel rinomato locale divenne una bettola di campagna, frequentata da pochi anziani. Don Vittorio, sempre più esasperato, decise di passare ai ferri corti e andò a denunziarlo ai carabinieri, che lo acciuffarono sopra i tetti, dove si era rifugiato, gli posero la camicia di forza e lo tradussero nel vicino manicomio giudiziario. Con il passare del tempo i medici si accorsero che il giovane non era affetto da quelle anomalie, che il padre aveva voluto far credere e lo trasferirono in un carcere normale, dove trascorse venti anni della sua esistenza senza aver commesso colpe gravi. Il sole non era ancora comparso dietro le sbarre della cella, quando il direttore mandò a chiamarlo. “Cosa vuole a quest’ora, che sto ancora dormendo”, balbettò Leandro, mentre si stropicciava le ciglia. “A quest’ora”, rintuzzò il secondino, “viaggiano soltanto le buone notizie”. “Buone notizie non ne vedo proprio”, ripeteva Leandro. Il direttore gli fece cenno di sedere e trasse dai fascicoli l’ordinanza di scarcerazione, che gli consegnò. “Caro Leandro”, soggiunse, “questo è il tuo giorno di festa, sei un libero cittadino, puoi camminare a testa alta, è finito il periodo di


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detenzione, fra poco uscirai dal carcere e ti auguro di non ritornarci”. Leandro emise un grido, che fece barcollare il direttore, il quale lanciò un pugno sul tavolo. Il quadro del Presidente della Repubblica si staccò dalla parete e gli piombò addosso. Invano quel secondino cercava di trattenere il povero uomo dal compiere altri gesti provocatori. “E dove vado”, sbraitava, “non ho più una casa, i genitori sono morti, i fratelli sposati, qui dentro mangio, bevo e dormo a spese dello Stato, non pago un centesimo, fuori devo pagare tutto. Il vitto è buono, anche le guardie mangiano con noi, un posto come questo dove lo trovo”. “Per la Madonna”, gridò il direttore, “siete tutti uguali, prendete il carcere per un albergo di prima categoria, questo è un luogo di pena”. Leandro passò dalla rabbia al pianto e il direttore si commosse. “Devi capire”, continuò a spiegargli, “che se ti trattengo un altro giorno qui dentro, mi puoi denunziare per sequestro di persona, però un consiglio te lo posso dare, ma non fare il mio nome. Commetti un altro reato e ti spediscono in carcere”. Leandro accettò il consiglio e si mise subito all’opera, ma non riusciva a ritornare nel carcere. Fermava le vetture, intorbidiva l’acqua, rovesciava i bidoni, sgonfiava le biciclette e nessuno lo prendeva sul serio, come il vecchio genitore che ricorse alla legge. Anche i carabinieri ridevano su quelle marachelle. Finalmente il Comune decise di pagargli la retta nella “Casa di Riposo” di Castel Volturno insieme ai personaggi della stessa pasta, dove il poverino terminò i suoi giorni. Antonio Visconte

LA VALIGIA DEI GIOCHI di Filomena Iovinella

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UELLA sua valigia suonava, mentre lei camminava, lungo i binari della ferrovia. Quel lungo marciapiede lambiva

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e seguiva il correre frenetico di gente assonnata e l’arrivo del treno, con il fischio del macchinista in lontananza, annunciava e aumentava la frenesia, in quei corpi che portavano sulle spalle , ancora, il sonno di quell’ ultima notte. Di tanto in tanto parlava e recitava, quella sua valigia. Lei ribadiva di stare in silenzio : “ Stai zitta. Taci!” Dondolava persino, mentre ormai i piedi di Serena, non dovevano far altro che seguire la folla e salire i gradini del vagone. Il posto vuoto, ancora caldo, lasciato da chi scendeva, da chi quel viaggio l’aveva già concluso, salutando la città che la accoglieva come sempre, ogni mattina. Alla valigia non restava altro che lasciarsi dondolare da quel ritmo di ferraglia rotante, che con il suo movimento, tagliava e percorreva il tempo e l’aria stessa, in fretta, perché tutte quelle poltrone andavano di fretta, come ogni giorno. Il manico si aggancia nel pugno di presa della sua padrona e si rimette in linea di cammino. A questo punto la valigia aveva deciso di restare in silenzio, certa e felice che di li a poco, avrebbero fatto il loro ingresso in scena tutti i suoi giocattoli. “Ciao Serena, Buongiorno! E benvenuta anche oggi” sono le infermiere del reparto pediatria che le fanno strada, le tengono la porta d’ingresso, al grande stanzone di degenza dei piccoli. Tra loro anche uno “straniero” colpito da una bomba e trasferito da noi per un ultimo controllo, presso la zia che risiede in Italia al confine con la Francia. Quanta fatica! Quanta burocrazia eppure (una seconda vita) e ce l’ha fatta. La valigia si sente poggiare per terra, il resto lo fa tutto da sola, si apre e lancia fumogeni di colore e di nebbia, a nascondersi, come i veri maghi…. dietro una cortina di illusione. Fiori di carta, matite colorate i primi lanci e poi lui, la mascotte del reparto. Il coniglio grigio e bianco, con in testa il cappello, che copre le lunghe orecchie. I sorrisi luminosi dei bambini accendono l’ attesa e riscaldano il silenzio, salutano ogni mattino…. la loro valigia dei giochi.


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Il verso spiritoso del coniglio dei desideri risuona fino alla stazione e nei cuori dei piccoli lottatori. “Anche questo, non lavoro, mi aiuta a vivere ancora di più …” il saluto di Serena alle operatrici sanitarie di frontiera. Filomena Iovinella (a tutti i volontari del mondo)

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mi fa sentire che Tu mi prendi per mano ed io leggera m’incammino al Tuo fianco. Cav. Giovanna Li Volti Guzzardi Australia

VOLTO DIAFANO Nevicano ancora fiori, ma non su noi che intrecciavamo amore con lo sguardo. Né più odo fruscio di veste fiorita, né guazzo nello specchio piovano dei tuoi occhi.

È SETTERMBRE È settembre: l’aria è fresca, le giornate sono più brevi, canta un merlo sopra un albero: è un vecchio albero con i rami al vento mentre questo giorno si addormenta e sogna.

Ora sei volto diafano. Eppure in me dilaghi come un tempo; inutilmente fuggo la tua ombra che inseguo.

Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, MI

Per questo la notte si rabbuia; nel tuo petto dorme la luna. Rocco Cambareri Da Da Lontano - Ed. Le Petit Moineau, 1970.

OH PADRE MIO! Ascoltami o Padre mio! fammi passare quest’ansia che mi divora, mi stringe il petto e faccio fatica a respirare, mi si arrotola lo stomaco e mi fa male, sento che la testa va in frantumi e vedo intorno a me stelle e lucciole mentre arriva un’aquila rapace che mi porta via con sé. La paura mi attanaglia mentre volo tra monti e valli e poi verso il cielo che mi copre d’azzurro e mi addormendo. Mi addormendo oh Padre mio, è un miracolo che hai fatto tu, ora posso andare incontro a quel girotondo che è la mia preoccupazione in questo momento, ma tu mi hai salvato dal gran tormento che mi lascia sempre esterrefatta. Un respiro profondo oh Padre mio

Ascolto L’assordante silenzio degli intellettuali sulla libertà vigilata di tutti i cittadini E capisco la loro fama Béatrice Gaudy Parigi, Francia

Verde su verde Come in una stampa di Hokusai occorre sapere che il verdone è nel fogliame per dopo attente ricerche visuali finalmente distinguerlo Béatrice Gaudy Parigi, Francia Dalla raccolta inedita Sous le vol du Verdier.


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I POETI E LA NATURA – 71 di Luigi De Rosa

D. Defelice - Metamorfosi (particolare), 2017

DINO CAMPANA (1885-1932) IL MONDO E LA NATURA VISTI ATTRAVERSO LA DONNA

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ino Campana era nato nel 1885 a Marradi, nella “Romagna toscana”. Dopo la maturità si era iscritto, a Bologna, in Chimica pura. Ma non aveva completato gli studi perché non riusciva più ad applicarsi. Non era neppure riuscito a diventare ufficiale, anzi, neppure sergente, perché si erano già manifestati, in lui, fin dall'età di quindici anni, dei seri disturbi nervosi e psichici. In seguito, il suo psichiatra avrebbe confidato alla scrittrice Sibilla Aleramo, amante (tumultuosa...) del poeta, che Dino era affetto da anni dalla sifilide, e che questa aveva causato la gravità dei disturbi mentali. Le consigliava anzi di allontanarsi per non contrarre anche lei l'infezio-

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ne, e di ...lasciarlo in pace. Cosa che lei, dopo un tentativo fallito, si guardò bene dal fare, con esiti infelici per lui. Campana reagì con estrema decisione e irrequietezza alla sua malattia, al suo “male oscuro”, viaggiando e girovagando in Italia e all'estero, facendo i mestieri più umilianti e faticosi, per sostentarsi. Arrivò ad “ubriacarsi” con i suoi vagabondaggi esasperati ed il suo lirismo acceso, febbricitante, fertile fonte di colori e sensazioni estetiche che lo avrebbero poi fatto accostare a Rimbaud. Però è anche vero che non rinunciò mai del tutto alla ricerca (anche se vana) di una indispensabile serenità, di un precario equilibrio psicologico, poetico e mentale. Solo la Poesia può, a volte, fare miracoli, trasformando in oro anche un vile metallo, o in un cielo azzurrissimo anche una fosca nuvolaglia. E sembra proprio di assistere ad un prodigio di gioia, di benessere interiore, di riscatto, leggendo quella bella poesia intitolata Donna genovese: “ Tu mi portasti un po' d'alga marina nei tuoi capelli, ed un odor di vento, che è corso di lontano e giunge grave d'ardore, era nel tuo corpo bronzino: Oh la divina semplicità delle tue forme snelle non amore, né spasimo, un fantasma, un'ombra della necessità che vaga serena e ineluttabile nell'anima e si discioglie in gioia, in incanto serena perché per l'infinito lo scirocco se la possa portare. Come è piccolo il mondo e leggero, nelle tue mani!” Ma alla fine, purtroppo, perse del tutto l'equilibrio e il sollievo momentaneo. Finì internato, a soli 33 anni, in uno di quei luoghi chiamati manicomi, dove, allora, venivano usati anche gli elettroshock... Ne uscì solo dopo la morte, nel 1932. Comunque, una relativa pace (se così si può dire) fu goduta dal poeta proprio nel manicomio di Castelpulci, Scandicci, Per lo meno, cessò la sua vita vagabonda e senza requie. E d'altronde pare che non avrebbe potuto guarire fuori dell'o-


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spedale, visto che era affetto – secondo il suo psichiatra dott. Carlo Pariani – dalla ebefrenia, una grave forma di psicosi schizofrenica, ritenuta incurabile. Fra il 1916 e il 1917 aveva vissuto anche una passione amorosa sconvolgente, che aveva giocato un ruolo importante nella sua malattia mentale. Aveva vissuto in modo intensissimo e distruttivo una relazione con una scrittrice, Sibilla Aleramo (pseudonimo della alessandrina Rina Faccio) autrice di Una donna, un libro autobiografico in cui ella narrava di essere stata violentata a 15 anni, con un tono da eroina femminista ante litteram che le avrebbe procurato una certa notorietà e discrete vendite del libro. L'Amore e la Natura: unica speranza di armonia e di gioia per Campana. La Donna, per il poeta, avrebbe il ruolo insostituibile di mediatrice, di creatura che introduce il poeta nella realtà della Natura. La Donna, che è essa stessa Natura, e fonte interpretativa del mistero della Vita. Tanto da arrivare alla semplificazione assoluta del Mondo, alla quale invita, con modi assai seducenti, anche l'uomo, il poeta. Naturalmente, nel caso di Campana, le modalità violente, ossessive, angoscianti fino allo stremo in cui era stata vissuta questa passione, non gli avevano certo giovato, né tanto meno arrecato serenità, gioia. Quanto meno, sollievo... (Per chi volesse leggere il carteggio intercorso tra Campana e la Aleramo, può essere utile Un viaggio chiamato amore – Lettere 19161918, pubblicato da Feltrinelli nell'anno 2000). Comunque, Campana aveva vissuto anche prima, dal 1913 in poi, una esperienza negativa sul piano mentale, psicologico, che ne aveva scosso le fibre della personalità fin nel profondo. Un giorno del 1913, a 28 anni, a Firenze si era presentato a quelli della Redazione della rivista Lacerba, di Giovanni Papini e Ardengo Soffici, per chiedere loro di aiutarlo a pubblicare il suo primo libro. Ed ivi, ingenuamente, aveva lasciato in lettura l' unica copia del manoscritto della sua silloge, Il più lungo giorno.

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Ogni tanto ne avrebbe chiesto notizie e pareri. Ma niente. Il suo manoscritto era andato smarrito. Né Soffici, né Papini ammisero mai di averlo visto. Per Campana era il massimo della disperazione. Ma nel 1914 si decise a riscrivere, con uno sforzo mentale disumano, il proprio libro, facendo appello alla sua memoria, a foglietti di bozze, etc. E diede vita, con modifiche e aggiunte, ad un capolavoro cui diede un nuovo titolo, Canti orfici. Chi capì immediatamente la grande importanza e novità della poesia di Campana fu Giovanni Boine. Ma apprezzarono molto la sua poesia anche Emilio Cecchi, Giuseppe De Robertis ed Eugenio Montale. Sono numerosi gli ismi che sono nati in seguito sotto l'influenza dei “Canti orfici”, e sono centinaia i poeti che hanno trovato ispirazione, dal Novecento in poi, nelle poesie del “poeta pazzo”. Luigi De Rosa

SEI Con un serto di rose e fiordalisi ed uno d’oleandri e gelsomini coronerò il tuo capo e la tua fronte. Se potessi dal ciel strappar le stelle, ti farei un diadema scintillante e canterei di tua bellezza e pregi. Emana dai tuoi occhi un dolce lume ch’esalta il cor, ferisce e mi tormenta. Bella, più bella e dolce ti rivedo, ma sol con gl’occhi della fantasia. E vorrei che i miei giorni fosser brevi per non soffrire più, per non soffrire. Emerocallide! Luce più chiara della luce, chi può dimenticare? Non fosti, no. Sei. E vivi nel ricordo. Enrico Ferrighi Da Carmina - Ed. Pomezia-Notizie, 1983.


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Recensioni AURORA DE LUCA ASPRA TERRA E CREAZIONE FERTILE NELL’OPERA DI DOMENICO DEFELICE Edizioni Eva Venafro, Anno 2016, Euro 10,00, pagg.147. C’era una volta La casa sulla collina: una casetta poco inclinata all’indietro perché posta sulla sommità di una montagnola somigliante ad una testa umana, che aveva anche due occhi, un naso, le orecchie, la bocca e accanto le stava un mesto drago dalle scaglie verdi quasi sul punto di piangere. Con questa immagine di copertina a colori si presenta il lavoro finale della Dottoressa in Letteratura Italiana, Aurora De Luca, presso L’Università degli Studi di Roma “ Tor Vergata “ discusso per l’Anno Accademico 2014-2015. Un altro saggio dedicato al Nostro Direttore del mensile Pomezia-Notizie, Domenico Defelice, autore del suddetto componimento a biro e pastello datato 1980, collocato appunto sulla copertina del volume. Stando alla titolazione dell’opera significherebbe che proprio dall’ asperità della terra calabra dove è nato, Domenico Defelice ne ha tratto una creatività artistica e letteraria fuori del comune tanto che adesso, dopo molteplici libri da lui pubblicati negli anni – dalle raccolte poetiche ai saggi, alla prosa anche con un’ opera teatrale in tre atti del 2009, dal titolo Silvìna Òlnaro, ovvero un omaggio ad Eluana Englaro –, sono già diverse le tesi di laurea a lui dedicate. Stavolta si tratta di una tesi improntata sull’indole di un uomo che dalla sua terra ha ricevuto soprattutto la caparbietà e il coraggio di continuare sempre sulla strada da lui intrapresa. Non si potrebbe immaginare nemmeno per un secondo l’attribuzione di un’

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altra terra d’origine al Nostro direttore, cioè vederli in maniera separata, perché la Calabria e lui sono la stessa cosa, sono diventati tutt’uno. « (…) Fu bambino educato alla terra, all’aria pungente dei mattini invernali, alla cura del pascolo, al grano coltivato e alla campagna selvatica, al sole cocente di Anoia, di una Calabria che, nel dopoguerra, aveva ben poco da offrire. Il 3 ottobre 1936 è un giorno lieto, Domenico Defelice è alla luce. Le prime parole, i primi balbettii da infante, e poi la poesia. (…) Il dramma sociale lo dilania, percepisce il pianto della Calabria, il pianto dell’intero Sud, dei Sud del mondo, trattati dal Nord come “un compagno d’armi stupido”. » (Alle pagg.12 e 16-17). La prima parte del saggio comprende l’esamina di quattro capolavori letterari di Domenico Defelice: 12 mesi con la ragazza, La morte e il Sud, Canti d’amore dell’uomo feroce e Alberi? La prima è una crestomazia poetica la cui musa ispiratrice è stata Marcella, la donna del suo batticuore, allorquando trasferitosi a Reggio Calabria per motivi di studi Superiori nel rione di Santa Caterina, conoscerà questa ragazza e allora scriverà versi per lei, leggerà e collaborerà anche col periodico Intervallo. « (…) Iniziano anni di intenso lavoro in varie ditte e di grande impegno letterario e culturale: Domenico scrive e dipinge, senza cedere alle pressioni esterne e senza farsi fiaccare dalle privazioni, che premono sul suo animo e sul suo fisico. » (A pag.71). Nella seconda opera è preponderante quel senso di Sud che Defelice ha nelle vene, giacché la sua terra continua a farsi sentire in lui nonostante si sia trasferito oramai, (era il 1964) nella capitale, Roma, a centinaia di chilometri di distanza da Anoia. Anzi, proprio stando a Roma lui si volge indietro per vagliare più attentamente il suo luogo natio e l’intero territorio calabrese, per vedersi ispirato a scrivere liriche colme di dolore e crude constatazioni. « (…) Sale agli occhi un senso di disfacimento, di marcio, di corrotto; è la morte, che agisce come strappo improvviso e netto. Essa non è conclusione della vita, fine di un ciclo, luogo di pace, ma bensì è il male, l’assoluto dolore, il buio di contro alla luce, poiché è una morte ‘coatta’, di sangue, di matta bestialità. Morte e violenza, morte e criminalità, morte e delirio d’onnipotenza. » (A pag.46). Nella terza opera è chiara l’ineluttabilità defeliciana verso un lirismo atroce, che divora senza rigurgitare nulla, che non perdona, che travalica il pudico e poi si ritrova nell’angoscia. « (…) In copertina, a conferma di ciò, c’è un disegno dello stesso poeta, che rappresenta, in un tratto di assoluta tranquillità, scene di quotidiana ferocia: Caino che uccide Abele, il lupo che attenta l’agnello, l’


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agnello che mangia l’erba, le api che succhiano dai fiori, e via così. Citando quanto egregiamente scrive Maria Grazia Lenisa nella presentazione alla raccolta, l’uomo viene ritratto come “grandemente feroce”, nell’idea che “amare sia un modo di divorare e consumare”. » (A pag.52). Nella quarta ed ultima opera indagata ritorna, più travolgente che mai, il canto per la natura e le sue creature soprattutto gli Alberi. In essi lui, il poeta Defelice, scorge gli amicicollaboratori di sempre e li nomina per nome inserendoli nel suo visionario bosco: « In questo Eden terreno, animato e abitato da alberi amici, che si uniscono alle Grazie, per creare bellezza, da altezze che sono cieli puri, vi è Iddio che dispensa Amore e Poesia fin dal principio, quando ancora era Caos. » (A pag.62). La seconda parte della tesi evidenzia la massa di collaboratori che hanno reso quarantenne la rivista Pomezia-Notizie e le numerose lettere scritte e ricevute dal Nostro nel corso degli anni, in cui soprattutto ha diretto il suo mensile. Lettere in cui dà e riceve encomi, consigli, conforti e poi la profonda amicizia con lei, Maria Grazia Lenisa, a cui dedicherà un intero Quaderno della collana ‘Il Croco’ nel 2015, comprendente appunto le epistole. Alla fine una lunga intervista al Direttore segnerà un traguardo biografico, in quanto nelle dieci risposte di Defelice è racchiusa tutta la sua ‘logica’ di poeta, saggista, giornalista, scrittore, critico e artista e quant’altro. Lui, nato in autunno, definisce questa stagione come « (…) una primavera senza ubriachezza, leggermente addolcita, attenuata, quindi, temperata, mitigata. Il colore vario delle foglie lo fanno apparire una stupenda tavolozza. Il paesaggio vuol essere ammirato in lontananza, in prospettiva e possibilmente dall’alto. Ricordo che, da ragazzo, amavo arrampicarmi su snelli, flessibili ed altissimi pioppi per ammirarne da lassù il rutilante splendore. » (Alle pagg.119-120). Isabella Michela Affinito

ADRIANA PANZA TRA STORIA E VITA Edizioni EVA Venafro, Anno 2014, Euro 14,00, pagg.187. Questa pubblicazione è nata per commemorare un genitore più che straordinario di nome Bruno Panza, classe 1920 di Settefrati in provincia di Frosinone. Un libro di quasi duecento pagine che non bastano e non basteranno mai per rammentare tutto di lui, dei momenti tragici e di quelli felici in cui è stato ora amico, padre, fratello, marito, maestro,

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guida, difensore, studioso, consigliere, viaggiatore ed esploratore delle coscienze umane e dei luoghi più remoti, soprattutto di quelli in terra africana. Un uomo, dunque, sagace di cui veniamo a conoscenza grazie alla ricordanza dettagliatamente cronologica – in parallelo con la storia del nostro paese di quegli anni – che ha saputo fare la sua figlia maggiore Adriana Panza, poetessa scrittrice artista che, a differenza delle sue sorelle nate dopo la fine della Seconda guerra mondiale, è stata testimone oculare delle imprese del padre alle volte trovatosi in situazioni terribili in cui lo ha costretto, appunto, l’ultimo conflitto bellico. Un uomo divenuto tale quando in Italia imperversava l’analfabetismo e lui amava la cultura in maniera sconfinata, era di animo pacifico, sempre ricco di idee e di soluzioni valide per accontentare tutti. Era il tempo in cui la massa non si poteva permettere o non si trovava, ad esempio, la comune colla utile in casa per svariati motivi e lui sapeva come prepararla fra le pareti domestiche con la densità giusta sul fuoco della cucina. Amava aiutare chiunque e in tutti i modi, quando un giorno, nella piccola frazione di Arpino, nell’anno 1947-48 andò ad insegnare – era oramai finita la guerra – proprio nella scuola del posto insieme alla sua famiglia e si improvvisò tecnicoelettricista per attivare l’energia elettrica nella casa dei contadini che gli avevano dato la possibilità di affittare un vano al primo piano della medesima loro costruzione. Sapeva risolvere, organizzarsi ed organizzare anche le fughe repentine all’ occorrenza, come quella volta in cui trovò rifugio, sempre insieme alla sua famiglia, in una grotta nei paraggi della ‘città martire’ Cassino, Settefrati e Arpino. Tutte zone purtroppo ad alto rischio perché lì avvenne lo scontro decisivo tra gli Alleati e i tedeschi, che dopo diversi mesi di attacchi batterono in ritirata. Lì un notte giunsero di proposito e con soverchieria, dei soldati tedeschi intenti a prelevare proprio lui, il maestro di scuola Bruno Panza, persona ritenuta utile per portare le munizioni in montagna ai soldati che stavano difendendo il territorio. Ma era un compito da morituri certi, poiché la mulattiera che avrebbe dovuto attraversare veniva continuamente bersagliata dagli Alleati. Quella sera del rastrellamento riuscì a nascondersi molto bene sotto il materasso, disopra il quale stava dormendo la piccola Adriana e dopo che i soldati andarono via senza averlo trovato, lui si caricò sulle spalle la bambina sonnolente per raggiungere nella notte un posto più sicuro, che indicò alla moglie quale luogo dove si sarebbero rincontrati l’indomani. « (…) E si sentì come Enea quando scappò da Troia con il padre Anchise sulle spalle, così era solito raccontare l’accaduto. Infatti doveva allontanarsi al più


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presto da quel paese che lo aveva visto nascere e crescere per salvarsi e salvare la figlioletta, passando per viottoli impervi e poco frequentati onde evitare brutti incontri. » (A pag.52). Lui, uomo di profonda conoscenza non poteva non ricorrere, per spiegare l’accaduto, alla classicità virgiliana per fondersi con la figura e le angosce dell’eroe troiano Enea, il designato la cui stirpe fonderà Roma che si lasciò alle spalle l’incendio doloroso della sua amata città, per emigrare in un altro luogo: l’Italia. In questa mirabile e commovente comparazione c’è il passato e il futuro non di Enea, ma di Bruno Panza che qualche anno dopo la fine della guerra, nel giugno 1950, partirà « (…) con un piccolo gruppo di Cooperatori Tecnici alla volta di Mogadiscio, capitale della Somalia mentre la famiglia lo raggiungerà il 4 gennaio dell’anno dopo. » (A pag.114). Voleva dare di più e non soltanto trasmettere la cultura stando dietro ad una cattedra di scuola. Voleva continuare ad apprendere cose nuove, vedere posti differenti dall’Italia in cui era nato, confrontarsi con altre culture, altri idiomi, altre usanze ed è quello che fece quando mise a disposizione sé stesso con le sue competenze per diventare « (…) Cooperatore Tecnico Italiano al servizio dell’A.F.I.S. (Amministrazione Fiduciaria Italiana in Somalia) allo scopo d’impiantare la Scuola Italiana all’ Estero proprio in quel paese africano che aspirava all’indipendenza. » (A pag.114). Il cammino fu tutto in salita è vero, ma poi lui divenne un ricercatore linguistico per la creazione di una lingua unitaria per l’intera Somalia. Fece un po’ come, a suo tempo, il dottore polacco Lejzar Ludwik Zamenhof (1859-1917) arrivò alla creazione della lingua esperanto, giacché « (…) sentì in tutta la sua gravità il problema delle diversità delle lingue e delle lacerazioni che esso portava. (…) Elaborò così un progetto linguistico, prendendo le radici per la maggior parte dal latino e per il resto da altre lingue, seguendo il principio di scegliere per ogni parola la radice più diffusa e più facile dal punto di vista fonetico e ortografico, e creando un sistema grammaticale razionale, logico e senza eccezioni. » (Dal libro Verso il Fonetismo – Evoluzione della scrittura di Amerigo Iannacone, Edizioni Eva Venafro, Anno 1994, £ 12.000, alle pagg.34-35). È stato proprio nel passaggio da un territorio italiano ad uno straniero, con usi e costumi diversi, lingue diverse dove Adriana Panza si è ritrovata poi adolescente preparata ad assorbire un’altra cultura, altre geografie dissimili dall’Italia tuttavia sempre filtrate dal sapere paterno, che l’hanno portata in seguito a visitare anche la zona segnata dalla linea immaginaria dell’Equatore.

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Stare al fianco del padre è significato per Adriana Panza vincere ogni giorno le proprie paure e salire un gradino alla volta la grande scalea del sapere universale, quello che non ha e non mette barriere tra i popoli e le nazioni. Lei ha assistito alla pubblicazione nel 1974, dalla casa editrice “Le Monnier” di Firenze, il libro di grammatica della lingua somala, quale ausilio indispensabile per l’apprendimento della stessa, col patrocinio del Servizio Cooperazione Tecnica e del Ministero degli Affari Esteri. E anche se Bruno Panza non è diventato – come forse avrebbe di molto desiderato – l’archeologo più impavido ed ecclettico che si conosca, quale Indiana Jones – personaggio nato dalla fantasia del regista e produttore statunitense Steven Spielberg – di lui è stato tutto raccontato abilmente da sua figlia Adriana, che ha voluto in qualche modo porgergli un lunghissimo grazie senza frontiere! Isabella Michela Affinito

ADRIANA PANZA BRICIOLE Ediz. EVA Venafro, Anno 2006, € 10,00, pagg.83. L’alta considerazione per le briciole, e non per la materia che le ha prodotte, fa in qualche modo pensare al valore degli avanzi di una tavola dove si è consumato un pasto e non alle portate vere e proprie che si sono susseguite su quel determinato tavolo. Il preciso accostamento spiega un po’ il dopo delle vicissitudini della scrittrice, poetessa, exinsegnante e artista Adriana Panza, natia di Arpino, che nel suo florilegio ha raccolto e conservato tante briciole, facenti parte di un bene che, purtroppo, non è stato duraturo. Lei adesso ha dato valore alle frammentazioni di quello che un tempo è stato l’ intero contenuto del suo destino: il marito e il figlioletto di otto anni, ambedue perduti in una tragedia avvenuta in circostanze accidentali, ossia a causa di una slavina. Dopo quel tragico evento, lei, metaforicamente, ha sparecchiato nel suo silenzio glaciale quella che ha rappresentato la tavola della radunanza familiare, dell’armonia tra genitori e il figlio in un tempo oramai distanziato dall’accumulo di tanti ricordi, che continuano a pulsare in tante piccole briciole. Potrebbe – ma non lo è – sembrare l’elogio di una ‘natura morta’, ossia quel genere di pittura denominata così nel ‘700 che « (…) ebbe in origine significato spregiativo, contrapposto alla “natura vivente” delle opere a soggetto narrativo, uniche degne di rappresentare la “grande” pittura, in senso accademico. » (Dall’Enciclopedia Tematica Arte, 2° vol., L’espresso Grandi Opere, Anno 2005, a pag.1558). Non lo è perché custodisce in sé un vis-


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suto rimasto vivo, vivente, appassionato, integro. La poetessa è stata in tanti posti, anche grazie alla professione del padre Bruno Panza e della madre, insegnanti in Africa, precisamente in Somalia e non solo, e così da un territorio all’altro ella ha saputo trarre sensazioni, colori, visioni indelebili, sentimenti sciolti e cristallizzati, parole sfuggite alla natura per le condizioni climatiche, per le differenti ambientazioni. Cosicché un giorno ha iniziato a scrivere in versi; quella poesia che più tardi riuscirà a cucire lo strappo avvenuto con la duplice tragedia personale e da cui sono scaturite tante « Malinconiche armonie. (…) Un’onda di ricordi/ invase la mente:/ c’eri tu e c’ero anch’io/ nel nido tutto caldo/ di speranzosi domani/ ora vuoto ora freddo/ solo col mio triste cuore/ che a mano a mano/ nella sofferenza muore. » (A pag.54). Il pasto della sera a questo punto non avverrà più perché mancano i commensali al completo, gli arredi della tavola come erano prima, quelle bottiglie e quei bicchieri che furono tanto cari anche soprattutto al pittore italiano di Bologna, Giorgio Morandi (1890-1964), che nei suoi dipinti li ha resi testimoni di variazioni tonali; li ha personificati evocando la gerarchia familiare, quasi una scala di parenti dal più grande al più piccolo, tutti su una tavola-emblema della condizione semplice e unitaria, sinonimo di continuità e ricezione. Non è mai finito nulla in effetti: è avvenuto solo un passaggio di dimensioni, da questa vita ad un’altra, ma coloro che sono stati un tempo accanto a lei, ad Adriana, adesso perdurano sotto un altro aspetto sempre vicino a lei: nelle foto, nei collage a strappo (papier collé) che realizza con la vivacità inventiva che possiede; multiformità che ha riempito quelle fessure resesi visibili dopo la tragedia di quel giorno del gennaio 1972. L’arte di Adriana Panza è vivace, è sulle copertine a colori dei suoi libri, è geografia che ritorna dei luoghi conosciuti e sparsi per il mondo, è libertà di movimento in tutte le possibili direzioni: dal suo didentro fino alle vertiginose altezze di grattacieli che purtroppo dal 2001 non ci sono più. « Terrore a New York. Un rombo sinistro/ ed ecco l’impatto./ Un fragore infinito/ e la torre s’affloscia,/ s’ accascia, si sfascia./ (…) L’atroce destino dell’uomo/ si compie e l’angoscia/ invade le menti./ La pace è fuggita,/ dove sarà? » (A pag.47). Se fino a ieri regnava il chiasso intorno a quella tavola, l’allegria spontanea di chi era fanciullo, il calore delle pietanze appena servite e magari adesso tutto questo non c’è più non ha importanza, dacché il tempo è una ruota che girando non fa che riecheggiare l’andato miscelandolo col divenire, e viene fuori la farina della propria esistenza. Se in un caminetto resta la cenere vuol dire che c’è stato il fuoco; se su un ta-

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volo restano le briciole vuol dire che c’è stato un pranzo o una cena, o comunque una situazione di ritrovo, basti pensare all’Ultima Cena di Nostro Signore del Giovedì Santo della Sua ultima settimana di vita, allorché Egli spezzò il pane istituendo l’ Eucarestia. Tutto del vissuto di Adriana Panza è importante e, sulla scia nostalgica della scrittrice danese Karen Blixen-Finecke (1885-1962), anche quella calda e lontana terra che ambedue hanno chiamato La mia Africa: Karen intitolando il suo libro autobiografico di grande successo e Adriana denominando una sua lirica che conchiude il florilegio di cui stiamo parlando. « Ho in cuore/ una conchiglia africana/ con dentro un pugno di sabbia/ e voce d’Oceano Indiano./ (…) Ho in cuore/ un amore profondo di popolo amico/ ora smarrito, straziato/ che brama giorni migliori./ Ho in cuore/ un’indomita gazzella che felice correva,/ giovani sogni lasciava su acacie spinose/ tra iene, sciacalli e monsoni roventi. » (A pag.78). Isabella Michela Affinito

LEONARDO SELVAGGI VOCE ALL’ANIMA Totem Editrice, 2017 Con questo suo lavoro Leonardo Selvaggi è come se avesse voluto ricambiare la cortesia verso Tito Cauchi che, nel 2016, gli ha dedicato “Leonardo Selvaggi – Panoramica delle opere”. Il volume “Voce all’anima” mette l’accento sulle potenzialità poetiche e psicologiche di Tito Cauchi, scrittore di origine siciliane, ma che vive ad Anzio. Non solo, attraverso gli scritti di Cauchi, Selvaggi ripercorre gli anni ’70, ’90 e duemila. Anni che Selvaggi classifica, nell’ordine, come turbati da crisi, dalla morte e dalla rinascita. Nella sua lunga carriera di scrittore Cauchi ha pubblicato numerose raccolte poetiche, saggi critici, contribuendo anche a curare la pubblicazione o la critica di altrettante opere in antologie italiane e straniere. La sua caratteristica è sempre stata quella di lanciare spunti, per far in mondo che il lettore venga stimolato alla riflessione su diversi temi, sui mali che si manifestano nella nostra esistenza. Cauchi ha una capacità espressiva semplice e spontanea, in grado di cogliere sentimenti ed emozioni e anche di immedesimarsi in esse. A completare il ritratto scritto di Cauchi ci sono anche nel volume, una serie di simpatiche foto che lo ritraggono da quando era ragazzino fino ai giorni nostri. Roberta Colazingari


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IMPERIA TOGNACCI ANIME AL BIVIO Edizioni Giuseppe Laterza, 2017 Una donna che scrive di un’altra donna. Imperia Tognacci sceglie una protagonista femminile, Annunziata, per il suo romanzo “Anime al bivio”, edizioni Laterza. Nei 51 capitoli riporta le vicissitudini di una famiglia, che attraverso le sue peregrinazioni collettive, in realtà mette a fuoco ogni singola storia individuale. Una famiglia come tante che, ad un certo punto del suo cammino, è costretta ad abbandonare il suo luogo d’origine e sarà anche colpita da un lutto: la scomparsa del capofamiglia. Questo lutto crea in Annunziata un disperato bisogno di ricercare un surrogato del padre scomparso. Questa ricerca si trasferisce non su una o più persone fisiche, ma nella religione, precisamente nella figura di Dio. Per Annunziata, il soprannaturale, il Padre di tutto è l’unico in grado di offrirle un rifugio sicuro, di ascoltarla nei momenti di difficoltà, di proteggerla dalle brutture che la società le riserva, di aiutarla ad andare avanti nel peregrinare della vita. Annunziata cerca nella famiglia religiosa, di cui diventerà parte, quella famiglia amorosa, quelle radici perse nella vita di tutti i giorni. La vita di Annunziata è intrecciata sapientemente dalla Tognacci con la storia dei suoi familiari e viceversa, il singolo si intreccia con il plurale e anche il contrario. Non aspettatevi però, cari lettori, di trovare un’ Annunziata tipo Monaca di Monza, arrabbiata con il mondo e con l’intera umanità, vittima di un’ingiustizia. Lei è comunque una donna che si confronta con le altre donne, che riesce a penetrare profondamente la femminilità, che ama anche coinvolta nelle drammatiche vicende umane. Roberta Colazingari

ISABELLA MICHELA AFFINITO PERCORSI DI CRITICA MODERNA Casa Editrice Menna, Avellino, 2016 “Percorsi di critica moderna” è il secondo volume che Isabella Michela Affinito dedica all’analisi di numerosi lavori di autori di romanzi, poemi, versi, racconti e altro. La Affinito mette le sue riflessioni sui diversi lavori al servizio degli altri, fa in modo che le opere di numerosi scrittori non muoiano, ma restino vive nella curiosità dei lettori e degli studiosi.

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Lo studio si apre con un omaggio-riflessione a due poesie su San Giovanni Paolo II e la prima recensione al volume “Memoria e Identità” dello stesso Karol Wojtyla. Il volume della Affinito contiene molte recensioni tra cui quelle ai lavori di Leonardo Selvaggi, Carmine Manzi, Nunzio Menna, Tito Cauchi, Domenico Defelice, Antonia Izzi Rufo, Luigi De Rosa. La raccolta si chiude con un omaggio al cantautore-poeta Fabrizio De Andrè. Tutte opere alle quali, come scrive la stessa Affinito nella prefazione, dopo averle incamerate e fatte sue “ho voluto restituire…quel dono gratuito col mio esercizio all’analisi di ciò che ho letto; una …magnifica esperienza quella di immettermi nelle pagine di un libro” e diventare tutt’uno con esse. Roberta Colazingari

TITO CAUCHI LEONARDO SELVAGGI Panoramica sulle sue opere Editrice Totem, Lavinio Lido (Roma) 2016, Pagg.316 La recente opera monografica di Tito Cauchi, dedicata a Leonardo Selvaggi di Grassano (Matera), residente a Torino da moltissimi anni, ci consegna un poeta, scrittore e saggista che, da tempo, ha raggiunto i vertici della notorietà in ambito letterario, e per la quantità delle opere pubblicate e per la qualità e varietà delle stesse. Un autore prolifero ed eclettico, che passa facilmente e con esiti ragguardevoli dalla poesia alla narrativa, dal giornalismo alla critica letteraria e d’arte, dallo studio appassionato di autori antichi e moderni alla visione antropologica dell’uomo presente e operante nell’attuale realtà storica, il quale, dissennatamente, si allontana sempre più dalla sua umanità, per approdare allo stato spurio d’una macchina programmata e azionata dall’esterno da cervelli attivi e interessati a persuadere, convincere, manipolare, piegare, assoggettare gli altri alla loro volontà di dominio. Meridionalista attivo e convinto, non ha mai perso di vista la molteplice realtà del Mezzogiorno, adoperandosi di volta in volta di rimarcare i valori ancestrali di un’entità geografica, antropologica, politica, sociale e culturale che non riesce a tenere il passo con il progresso e le innovazioni in atto nella fascia peninsulare che comprende le regioni del Centro-Nord. Tra le ragioni dell’arretratezza, anche l’atteggiamento non certo da “mano tesa” dei settentrionali verso “i terroni” che hanno conosciuta e sperimentata l’amarezza dell’emigrazione e l’ an-


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goscia della diversità sia a livello culturale che economico. Su quest’aspetto, Selvaggi ha rimarcato a più riprese l’esperienza vissuta da esule, “sradicato” e incompreso nella metropoli torinese. Tito Cauchi, accostandosi e investigando criticamente l’opera omnia, o quasi, di Selvaggi, mette in luce le motivazioni di fondo che, di volta in volta, inducono il grassanese a calarsi nei panni del poeta, del narratore, del saggista, del critico delle studioso di problematiche storiche e sociali entro le quali è immerso, quasi a seguire in piena coscienza i richiami del proprio destino di uomo che, per realizzare se stesso, deve scendere a compromessi per vincere la solitudine, l’incomprensione, le sfide esistenziali, per colmare il divario culturale di “partenza” in vista di un luminoso traguardo, lontano ma possibile da raggiungere, facendo di continuo ricorso all’accumulo delle proprie energie vitali, ereditate dalla terra di origine, e sostanziate dalla volontà di dare senso, direzione e concretezza alle proprie aspirazioni, cavalcando fantasia, rassegnazione, malinconia e nostalgia, accettando e superando il dolore dell'esistenza, in virtù del proprio vigore sentimentale e intellettuale. Non è facile ridurre l’esuberante versatilità di un ingegno riflessivo e creativo, qual è quello di Selvaggi, all’interno di un disegno critico che deve di continuo misurarsi con una travolgente forza di natura; a Tito Cauchi va il merito di aver dato una prima ed efficiente sistemazione esegetica al prodotto culturale di un autore a dir poco “esplosivo”; ha tracciato la strada giusta da seguire per una conoscenza ravvicinata e immediata di un operatore culturale che, sicuramente, entrerà di diritto nei circuiti autorevoli della letteratura contemporanea. Sul piano della perizia filologica, qui intesa come metodologia critica dei testi esaminati e della loro sistemazione e correlazione editoriale, Cauchi non ha certo lesinato il necessario sforzo di lettura approfondita, capacità orientativa nel suo lavoro di “fotografo” di una realtà letteraria a lui congeniale, e richiami a parametri valutativi forniti da lettori/critici di indubbia serietà e onestà esegetica. La monografia di Tito Cauchi, in definitiva, si presta a essere interpretata come un ulteriore, significativo premio alla strabocchevole operosità in ambito letterario di un autore che, per il suo valore, di premi ne ha collezionati non pochi. Ultimo, in ordine di tempo, il Premio alla Cultura ottenuto alla V Edizione del “Premio Beato Giustino Russolillo”. Ricavo la notizia da “Pomezia-Notizie”, mensile culturale fondato e diretto da Domenico Defelice – n. 7/luglio 2017. Antonio Crecchia

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DOMENICO DEFELICE ALBERI? Prefazione di Sandro Allegrini – Postafazione di Sandro Gros-Pietro - Genesi Editrice – Torino 2010 Lungo la siepe d’edera che cinge il mio giardino, svettano robinie, vecchi castagni oleandri e pittospori ……………………………il rovere e la solare gaggìa…. È l’Eden favoloso in cui mi serro stanco della città. Con questi versi, indicativi di una lussureggiante realtà naturale, familiare, Domenico Defelice, direttore del periodico mensile Pomezia-Notizie, prolifico e acclarato autore di testi poetici, drammi, saggi di critica letteraria e d’arte, candidato al Premio Nobel per la letteratura (2006), ampiamente storicizzato attraverso una nutrita serie di studi monografici e tesi di laurea a lui dedicati, ci apre il cancello del suo “Orto-giardino” e ci guida “nel lavacro di verde e di profumi”, ove, quotidianamente, la sua mente “s’inebria e poi sconfina / oltre le vaste praterie del cielo”. Immerso nella serena e vivificante solitudine, può vaticinare e figurarsi un mondo diverso, meno soffocato dai mille tentacoli che limitano e frenano la vitale evoluzione dell’uomo, il suo anelito ad elevarsi al di sopra dell’ignoranza, della faziosità, dei condizionamenti ideologici, dell’istinto rapace; c’è, nel poeta, l’aspirazione alla nascita di “un nuovo figlio di Eva”: l’Abele affrancato dalle incrostazioni pestifere di una società votata alla barbarie, all’ odio, al delitto, alle strage, allo sfruttamento, depauperamento, degrado e morte della natura. In compagnia del vento, che gli appalesa il suo “cuore d’oro” e la benevolenza per gli uomini della città, persi e smarriti nella loro tragica condizione di “incomunicabilità”, è dolce al poeta evocare versi e figure di amici e amiche legati al suo mondo utopico e d’arte, con l’uomo “rinsavito, in allegria / che abbraccia suo fratello, odia il delitto / custodisce l’ambiente, non violenta,/ né se stesso soverchia e gli animali”. Ed ecco “all’ombra di un vecchio sambuco” l’ evanescente immagine della poetessa Novella Casadei (1937-2009), quasi in veste di primavera ad annunciare che, per sua magia, “domani peschi e meli fioriranno” e il mondo agreste sarà tutto un tripudio di radiosa luce solare, colori, odori, voli, danze, movimenti frenetici di animali e insetti. Ecco Laura Pierdicchi, poetessa e scrittrice veneziana, fare eco col suo canto alla “musica e brusio


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del rigagnolo”. Tutte “le Grazie s’uniscono agli amici fidati” del nostro poeta, “i prediletti che da sempre / assecondano Erato”, la musa della poesia amorosa e delle danze. Tra i prediletti Maria Grazia Lenisa, “poetessa tra le maggiori del nostro tempo”, raffigurata in una posa icastica, mentre “alza le braccia volta verso il mare / e intona un inno ambiguo / che copre pure il divino d’ironia”. Altre elette figure, emerse dalla letteratura classica: Cinzia, amata dal poeta latino Properzio; Ofelia, vittima delusa di un amore per Amleto; Imelda, figlia di Giovanni da Procida, organizzatore e animatore dei Vespri siciliani, personaggio principale dell’ omonima tragedia di G. Battista Niccolini… e poi altri nomi non sempre identificabili, ma sicuramente relazionabili a un rapporto d’amicizia e di collaborazione che abitualmente esse, poeticamente, intrattengono con l’autore, come Irene, Linda, Armida, Carolina, Gelsomina, Mina, Ilena, Belinda, Letizia popolano le rime di Defelice, danno ai versi una tonalità idilliaca, spazi e forme che stimolano il lettore a rivivere momenti di pura e intensa creatività, di assaporare il fascino del mistero, del magico, del meraviglioso, di riconoscere i moduli di una poesia ispirata, alta, di una religiosità pagana, visceralmente insita nella grande sensibilità e amore nei confronto del mondo naturale, arboreo in primo luogo. Fermarsi a questa valutazione, però, si rischia di sminuire il valore metaforico della versificazione di Defelice. Già nel titolo, la raccolta poetica appalesa la sua ambiguità, l’intenzione di non adeguarsi alla superficialità di un sistema linguistico puramente denotativo. Il poeta, non nuovo a itinerari costruttivi/comunicativi dove un ruolo di rilievo è affidato alla connotazione, pone il titolo sotto forma interrogativa, (Alberi?) quasi a voler stuzzicare la curiosità del lettore, a coinvolgerlo nella ricerca di una risposta, di una chiarificazione esaustiva quale conseguenza di una riflessione pacata, ragionata e condivisibile. Ci provo anch’io. Alberi? No. Non solo alberi nell’accezione fonologica, morfologica, biologica, fisica; non solo “cattedrali” vegetali che accolgono nidi e canti d’ uccelli, ma anche simboli metaforici e allegorici. In termini filosofici, si può dire che gli alberi dell’ area affettiva di Defelice, come quelli in generale, si pongono come elementi non empirici ed entrano nel circuito del suo pensiero e del suo linguaggio con la logica di un isomorfismo naturale, fortemente lirico. La presenza dell’albero è per l’uomo una presenza ancestrale, biblica (e Defelice ci offre un esempio eloquente con la lirica “L’albero del bene e del male”), mitologica, storica, culturale… La Bibbia si

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apre con la presenza dell’Albero dell’Eden, da cui scaturì il peccato originale; nella mitologia la sacralità delle piante è assicurata dalla presenza di divinità nifali: Driadi, Amadriadi, Melie , Ileori, con le loro proprietà di fondersi con i vegetali; la Divina commedia prende il via “in una selva oscura”; da non dimenticare, infine, che gli alberi rappresentano le ramificazioni genealogiche, antropologiche, storiche dell’uomo, che si intrecciano con i significati e i valori della cultura umana. Da tali premesse e chiare determinazioni è possibile scendere in profondità per cogliere i sensi di questa nutrita raccolta di versi di Domenico Defelice, egregiamente tradotti in lingua francese da Paul Courget, che è stato un brillante italianista, amico e traduttore di tanti poeti italiani, me compreso. Organismi viventi, fornitori di frutti e di ossigeno necessario alla vita, essi sono gli interlocutori privilegiati dei poeti: “son carne ossa e cuore” e, quindi, pur nella loro diversità, possono a buon diritto identificarsi con i poeti; anche questi, piante fruttifere, offrono al mondo i loro dorati frutti in forma di versi e all’umanità il loro amore, i sensi dei loro desideri, inquietudini, affanni, gioie e dolori... La simbiosi uomo-albero impregna di sé tutta l’ edificazione poematica di Defelice; un’ edificazione che ha radici profonde ed estese in una personale dottrina ecologica che ha come idea centrale la rinascita, l’epifania, la rigenerazione dell’ uomo e della natura, in stretta e vitale relazione con l’ universo. L’albero è un elemento benefico, utile, necessario, connesso a una lunga serie di attività umane; un pilastro ecologico che è anche luogo ispiratore di eletti sentimenti e del pensiero umano. E qui viene in mente Socrate che, seduto all’ombra di un maestoso agnocasto presso il fiume Ilisso, in compagnia del giovane Fedro, dà all’ allievo un saggio di come devono essere composti “i bei discorsi”, in prosa e in poesia, ispirati dalla conoscenza della “verità”, messi in atto dalla disposizione d’animo che indirizza il pensiero dell’uomo verso l’alto, esattamente come l’albero, sempre teso alla conquista di un gradino superiore della biosfera. Entrando nel merito del complesso impianto versificatorio di cui si fa tutore il libro, al lettore si apre da subito la visione della statura umana, intellettuale, etica e poetante dell’autore, tutto raccolto in se steso, attento all’osservazione capillare del suo “orto-giardino”, in un momento in cui la natura offre i primi percettibili segni di un risveglio atteso, ma già vivo e presente nell’immaginazione del poeta. In uno spazio che è, in primis, luogo affettivo, di riposo, di pause riflessive e meditative, tempio della


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solitudine divinatoria, creativa, si innesta il concetto dell’Eden originario, ossia un orizzonte umano, etico che si dilata oltre i confini della realtà visibile, per includere elementi culturali e temi del pensiero ecologico. Infatti, senza forzature di sorta, in ultima analisi, si può affermare che il libro di cui si parla, oltre alla fisionomia strettamente poetica, evocativa di momenti vissuti in consuetudine e familiarità con gli alberi del giardino o tratti dalla memoria del poeta, si presenta come una lezione di bioetica, di rapporto corretto, umano, filiale con la Grande Madre. Un rapporto religioso tenuto fino a non molto tempo fa dai virtuosi e saggi contadini, sostituito progressivamente dall’indifferenza delle nuove generazioni e, ancor peggio, dall’aggressività distruttiva, attraverso incendi dolosi e tagli indiscriminati di boschi e foreste, messi in atto per assecondare la stupidità e l’ignoranza di individui mentalmente pervertiti o la voracità dell’homo aeconomicus, interessato unicamente al guadagno, a trarre il maggior profitto dallo sfruttamento della natura che gli sta intorno. Che dire, poi, della raffigurazione antropomorfica della natura, del procedimento sinottico che porta a unità morfologica l’uomo e l’albero? Irene, tutt’ uno con l’ulivo; l’albero-Cristo, “nudo, dolente, solo”. L’umanizzazione degli alberi ci viene data dalla loro esultanza “alla carezza e alla nostra voce” ; dalla loro “tristezza” quando si sentono abbandonati; dal loro porsi vittime sacrificali degli “arcigni segantini / con lame scintillanti”, attorniati da minacciose “gru metalliche” e autocarri pronti “a portar via le membra straziate”. Una umanità immobile, fiera, rigogliosa e vitale, che dà stimolo e voce al poeta, con cui si identifica per quella “diversità” che ne fa creature accomunate nella crescita verso l’alto, nel sogno di un abbraccio con l’ arcano sotteso alla celeste sfera. Amiamo gli alberi, diamo ad essi cura e amore in cambio della serenità, della gioia, della pace che essi ci infondono e del benessere che ci procurano; usiamo il linguaggio dei loro fiori, delle loro foglie, dei loro frutti , delle loro chiome svettanti che sono immanenti e eloquenti segnali di armonia, solidarietà, fratellanza; dalla stirpe di Caino nascono gli adoratori del male, impaniati nel delirio di potenza, di conquiste, di guerre, di genocidi e olocausti; proliferano all’ombra dei templi di pietra i seguaci di divinità barbare, irate, aggressive, gli spargitori e divoratori di sangue e di cadaveri, che hanno la morte nel respiro; negli orti-giardini della poesia, cattedrale del sublime, crescono alberi “più virtuosi degli uomini”, perché essi “mai un Caino” hanno “generato” e mai lo genereranno. Antonio Crecchia

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ISABELLA MICHELA AFFINITO AUTORI CONTEMPORANEI NELLA CRITICA Vol. II - Casa Editrice Menna, Avellino, 2016 Pagg. 216, € 20,00 Il volume è dedicato a Giovanni Paolo II, al quale l’Autrice rivolge due liriche che sono due autentiche preghiere. Ma, il papa polacco, acclamato a furor di popolo prima beato e poi santo, è presente più volte nelle recensioni di quest’opera. Infatti, il primo libro ad essere preso in esame da Isabella Michela Affinito è Memoria e Identità, che Giovanni Paolo II ha pubblicato con la Rizzoli nel 2005; poi, per esempio, c’è Nunzio Menna, che, nel suo Amore Amore Amore, del 2005, a lui dedica versi che ne rivelano la stima e l’ammirazione, la grande forza carismatica - capace di accrescere nel popolo la fede - e la sua magnetica testimonianza: “Sei debole come foglia al vento/sei forte come duro marmo/Trasmetti anche a noi/quella forza che a te/ha donato Dio”. Giovanni Paolo II non è il solo santo che incontriamo. C’è, per esempio, Padre Pio, attraverso il bel volume dedicatogli da Carmine Manzi, come ci sono altri libri ispirati alla religione: quello di Pantaleo Mastrodonato, calato nel sociale; o quello di Imperia Tognacci, la quale descrive con intensa partecipazione la più tremenda, misteriosa, eterna notte dell’umanità, durante la quale Cristo in preghiera sul monte degli Ulivi suda sangue, prima di venire arrestato e poi torturato e ucciso in redenzione del genere umano. L’Affinito dichiara che La notte di Getsemani è “Una lunga preghiera poetica che rievoca l’intensa notte meditativa per eccellenza, come se quella notte stesse ancora avvolgendo l’intera città di Gerusalemme!”. Completamente sfasata - almeno attraverso ciò che leggiamo nella recensione - ci sembra la storia del piccolo Nicholas Green, rievocata da Salvatore Lagravanese nel volume L’ape nella mente. L’ autore usa nome e cognome veri, ma trasforma tutto, facendo morire il povero bambino “nella propria terra” scrive Affinito - in “un agguato alla (sua) carrozza”. La vera storia è diversa. Nicholas Green è un bambino statunitense di sette anni, vittima di un attentato avvenuto in Italia, sull’ autostrada Salerno-Reggio Calabria, nei pressi dell’uscita per le Serre e Vibo Valentia, il 29 settembre 1994. La macchina su cui viaggiava con i genitori, diretti in Sicilia, fu assalita da banditi e il piccolo ferito gravemente. Spirerà il primo ottobre 1994 in un ospedale di Messina, dove era stato trasportato. I genitori autorizzarono l’ espianto dei suoi organi, in un tempo nel quale donazioni del genere erano ancora un tabu.


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Tra gli autori recensiti in questo libro, vogliamo ricordarne alcuni, presenti spesso sulle pagine del nostro mensile, del passato e di oggi: Antonia Izzi Rufo, Silvano Demarchi, Leonardo Selvaggi, Gabriella Frenna, Franco Calabrese, Angelo Manita, Adalgisa Biondi, Tito Cauchi, Maria Grazia Lenisa, Luigi De Rosa, l’indimenticabile Francesco Fiumara. Una bell’opera fatta di brani, questa di Isabella Michela Affinito, e che a brani va letta, per poter gustare la limpidezza e la scioltezza dell’indagine e per meditare sui tanti messaggi che ogni autore vuol darci col proprio lavoro. Domenico Defelice

ROSSANO ONANO IL CANTARE DELLE MIE CASTELLA Genesi Editrice, 2017 - Pagg. 64, € 8,00 ROSSANO ONANO TESTIMONIO ETERNAMENTE ERRANTE La simbologia biblica nel primo e nell’ultimo Veniero Scarselli Genesi Editrice, 2017 - Pagg. 88, € 9,00 Due volumetti di Rossano Onano per certi aspetti inusuali, ricevuti insieme, entrambi stampati dalla stessa Editrice, nello stesso mese e nello stesso anno e che abbiamo voluto leggere alternando a un cantare del primo un capitoletto del secondo. Alla fine, una strana sensazione s’era impadronita di noi, un quasi sdoppiamento tra presente e passato, ma con un attacco che, come disco rotto, girava e girava nella nostra testa, senza possibilità di fermarlo, pur riconoscendolo non perfettamente idoneo, né attuale, germogliato in noi senza una vera ragione: “C’era una volta...”. È che, in entrambi, versi e prosa ci son sembrati legati e per certi aspetti sovrapponibili, giacché storie e personaggi - gli antichi abitatori di castelli e il da poco scomparso Veniero Scarselli - hanno almeno un punto in comune: il potere di stimolare l’ immaginazione, di titillare la fantasia. Il ritmo affabulante che Onano crea attraverso la scelta e l’uso sapiente del verso e della rima ne Il cantare delle mie castella e il taglio prospettico e scandagliante in Testimonio eternamente errante, accentuano un’atmosfera favolistica di letture da serate accanto a un camino scoppiettante, senza televisione che gracchia, naturalmente, e meglio ancora se fuori la Natura si scatena: C’era una volta... Solo che le storie di entrambe le opere non sono inventate per attrarre l’attenzione di bambini assonnati, ma fatti di cui s’è occupata prima la Storia e poi la leggenda - per quanto riguarda i cantari -, e uno

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Scarselli fuor del comune, s’è capace, a un certo punto della sua brillante carriera, di abbandonare impiego e agiatezza per ridursi a vivere di poesia e di speculazione nella campagna profonda e tra gli amici animali. I fatti che Onano racconta rievocando i castelli di Le Moiane, Moriano, Bassano, Oramala, Canossa, a volte son più che tremendi - basta citare Goffredo il Gobbo, assassinato mentre defeca -, ma sempre sfiorati dalla leggerezza e dalla soavità, quasi a volerci far capire che su di essi è passata la mano degli anni e dei secoli, durante i quali un popolo narrante li rivestiva ogni giorno di più della patina e della nebbia della leggenda, trasformandoli in quasi favola. Onano ha ottavi e strofe perfetti, quartine e rime in schema ABCB dal ritmo fascinoso, rotto solo alla fine di ogni cantare da un endecasillabo che suona disarmonico a causa dell’armonia che per tutta la storia si è annidata nel nostro cervello. Egli, insomma, da quell’arguto poeta che è, si comporta come un menestrello che per lungo tempo incanta e che poi, alla fine del racconto, si trasforma in folletto dispettoso, per riportare l’uditorio alla realtà attraverso una strimpellata bislacca. Il saggio - come già detto - è per Veniero Scarselli, poeta visionario e che cantava trasformando in fantastico quasi orrido tutto, anche ciò che siamo abituati a vivere - inconsciamente o meno - come ovvia normalità: la nascita, la morte, il mestiere di madre, oltre che le speculazioni filosofiche e scientifiche. Nelle sue visioni truculente Scarselli ci infilava non solo la Natura intera, ma anche Dio. La differenza tra lui ed Onano sta solo nel modo del raccontare. Scarselli è serio, Onano ironico; perciò chiaro e leggero in Onano, affabulante fino ad ottundere le brutalità delle storie; altrettanto chiaro ma spesso inquietante in Scarselli, al punto da rendere impressionante anche ciò che, inconsciamente o meno, si è soliti considerare ovvio e banale. Il nostro apprezzamento per Scarselli non è stato mai totale, né lui ha totalmente apprezzato le nostre cose; ma in una delle sue tante lettere - alcune, oggi, presso la Biblioteca di Anoia (RC) -, egli si felicitava con noi perché, anche noi, e, in pratica, prima di lui (il nostro Scaldapanche! è del 1956), avevamo rivalutato, riportato in auge il poema. Con lui abbiamo avuto qualche attrito e proprio a causa di Onano. Nel gennaio 2010 gli abbiamo ospitato, su Pomezia-Notizie, il lungo saggio “Onano desnudo. Chirurgica esegesi della poesia di Rossano Onano”, ma esprimendogli alcune nostre riserve. Divenne all’improvviso un po’ strano, asserendo di non ricevere più il mensile, tanto che, esasperati, gli abbiamo restituito, attraverso un assegno postale, l’intero abbonamento a solo uno o due me-


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si dalla scadenza. “Onano Desnudo” - dicevamo appare nel gennaio 2010, numero che egli riceve regolarmente, per poi negarlo in una sua del 16 maggio dello stesso anno, quando protesta e giura di non ricevere più Pomezia-Notizie “dall’anno scorso”. “Non so neanche le reazioni del pubblico alla mia “benevola stroncatura” ad Onano. Non sarai mica arrabbiato?” Domenico Defelice

LUCIANA VASILE DANZADELSE’ Ho ballato per Paparone e altre storie Prefazione reticente di Marcello Veneziani - Prospettiva editrice, 2012 - Pagg. 132, € 12,00 La danza, i nonni, la donna, i galoppi della fantasia - Lavoro fascinoso fin dal primo brano. Certe sensazioni dell’Autrice sono state anche le nostre. Suo nonno materno, che preferiva essere chiamato Paparone, ha molte somiglianze col nostro nonno paterno Domenico, anche se d’estrazione culturale ed economica diversa, il nostro essendo stato soltanto un bravo contadino. Pure il comportamento della bambina Luciana ha qualche punto in comune col nostro comportamento infantile, taciturno e introverso, e non solo con genitori - ai quali bisognava dare del voi - e nonni, ma anche con gli estranei. Con nonno Domenico, però, abbiamo trascorso momenti assi belli e profondi, indimenticabili, come le lunghe ore seduti su delle pietre, entrambi silenziosi, senza dirci una sola parola, sullo strapiombo di Ciomba ammantato di ulivi alti e contorti, in fondo al quale scorreva ciarliero il torrente Sciarapotamo. Paparone non parlava con la nipotina, amava la musica classica e su quelle note la bambina Luciana imparava a danzare; nonno Domenico non chiacchierava e amava la musica della natura e del vento, specie quando arpeggiava sulla chioma degli ulivi, nel cui fogliame folleggiavano stormi di passeri. La piccola Luciana ballava; noi, incantati, fermi, il cervello in sfrenati galoppi. Nella nostra infanzia eran tutti taciturni, compresa nonna Annunziata, al contrario della nonna Raffaella dell’Autrice; lei ci accoglieva sempre con un sorriso e rare e smozzicate sillabe; ci riempiva, comunque, di amore e di attenzioni, non levandoci mai gli occhi di dosso, occhi acquosi di felicità per la gioia di averci accanto. Tempi austeri, quelli, nei quali i sentimenti venivano espressi con piccoli atti, atteggiamenti quasi impercettibili, ma che riempivano il cuore di profonda pace; erano proibite le effusioni, considerate segno di debolezza. Il libro di Luciana Vasile non è un saggio antro-

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pologico e non è un romanzo, anche se il primo brano all’apertura d’un romanzo fa pensare e sperare. Invece, dopo averci presentato, con piglio e taglio di narratrice, i nonni materni e la loro casa, la parte dedicata a L’infanzia finisce, concludendosi col breve racconto di un lontano Festival di San Remo. Comprendiamo l’impressione di Marcello Veneziani: “Chi si aspetta un’opera narrativa, un romanzo, resterà probabilmente deluso. Chi si aspetta un saggio (...), non avrà sorte migliore. (...) Queste pagine, invece, sono una specie di diario interiore che si affaccia appunto nel sé”. Un lavoro frammentario, allora, ma forse per questo amabile, seducente, attraente, giacché, in ogni campo, i non finiti (il romanzo mancato, ma che l’ accattivante inizio suggerisce), o le toccate e fuga, aguzzano la fantasia, titillano l’intelligenza spingendole su mari senza confini, come a un critico o a un amante dell’arte le incompiute di Michelangelo. Alla seconda parte - La maturità - preferiamo dare come soggetti l’ipocrisia e l’insincerità nei loro innumerevoli aspetti. Il narrato ha lo scopo di evidenziarle e di esprimere l’ostilità incondizionata per esse dell’Autrice. La Vasile racconta per allegorie: personaggi velati, significati nascosti, riferimenti a fatti e persone certamente reali che, svelati, darebbero solidità ed aperture altre alle tante metafore: il “Falso d’autore”, “Un cuore in condominio”, il tappeto sotto il quale nascondere vizi e disastri interiori. Forse, tutte le bassezze dell’uomo hanno origine, se non dalla connivenza della donna, dalle sue distrazioni. Luciana Vasile approfondisce il rapporto tra i generi per quel che dovrebbe essere, sgombro, cioè, da ipocrisie e dalle tante false conquiste, attraverso le quali si è venuto annullando e corrompendo il ruolo tra i due sessi decretato dalla Natura. Il brano “Scusami uomo” verrebbe voglia di citarlo per intero. Dice, tra l’altro, la donna: “Tua connivente anche quando abusavi di nostra figlia, se non anche dei maschietti. Non ti ho aiutato a capire, a superare con la ragione e il cuore i tuoi bassi istinti.// Se non mi fossi messa sotto i tuoi piedi non avresti potuto calpestarmi”; “Ti ho così indotto a pensare che l’emozione, il sentimento siano sinonimi di debolezza. Non ti restava che rifiutarli, nasconderli sotto la sabbia e sostituirli con il distruttivo silenzio dell’intelligenza del cuore che crea tanto deserto nell’anima”. E veniamo alla terza parte, L’oltre. la più intima, perfino nel rapporto tra religione e fede. È sulla scelta di fede e non di religione che Luciana Vasile si trova a lavorare da anni nel volontariato, aiutando concretamente l’umanità che soffre. Lei non sceglie un credo tipo, perché tutti, indistintamente, hanno dato e danno esempi blasfemi di verità; solo Cristo


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ne è esempio luminoso e concreto: “Gesù si è fatto uccidere per realizzare la sua rivoluzione.// Per essa non ha ucciso, ha amato. Ma uccidere e più comodo di amare.// La Verità è semplice, sotto gli occhi di tutti quelli che vogliono vederla”. Se Danzadelse’ venisse adottato come libro di lettura nelle nostre scuole massificate e mistificate in ogni aspetto e disciplina, avremmo generazioni abitate d’amore vero, più concrete e meno lassiste, certamente meno egoiste. Domenico Defelice

ANTONIO ANGELONE IL PIANTO DELL'USIGNOLO EdiAccademia, 2017 La più recente silloge del poeta Antonio Angelone, di Isernia, è uscita nel giugno 2017, col titolo Il pianto dell'usignolo. Le trentacinque liriche che la compongono sono la consacrazione di ricordi lontani e recenti. Lo stesso Autore, in terza di copertina, si confessa a cuore aperto: “ Il mio sogno poetico finisce qui. Lo scrigno che custodiva gelosamente lontani e recenti ricordi me li ha restituiti meticolosamente tutti, nessuno escluso. Ripongo nella volontà del buon Dio e della diletta Musa, il mio imprevedibile futuro.” C'è l'abbandono (sembra) e la stanchezza per il lungo e accidentato viaggio della vita. C'è la forzata accettazione dell'impossibilità di andare avanti con le energie della gioventù e dell'età matura. Però non c'è nessuna disperazione, anzi! C'è la speranzacertezza di un futuro, anche se imprevedibile. C'è l' abbandono fiducioso nelle braccia dell'Autore di tutto e della Musa ispiratrice dei poeti e degli artisti. Intanto, c'è la rievocazione di tutto un mondo e di tutta una vita di lavoro e di riconoscimenti letterari e artistici. Angelone ha sempre lavorato. Con serietà e scrupolo e senso morale. Ma anche con gioia. Come nei lunghi anni di maestro elementare, coi suoi amati scolari e le loro famiglie. Da pastorello di pecore e caprette a contadino. Da operaio tessile a maestro elementare, quando il maestro era anche una figura ispirata al significato reale della parola magister. Da pittore naif a poeta dialettale molisano e poeta in italiano. Da commediografo a storiografo. Da fondatore a Presidente della Accademia Internazionale “Lucia Mazzocco Angelone” di Isernia e Direttore della rivista “Sentieri molisani” In questa silloge c'è il riassaporamento delle gioie della Natura del suo bel Molise, nonché delle forti e dolci emozioni d'amore per la Donna, vissute sia

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nel cuore e nella mente che nei sensi. C'è una rievocazione in flash-back di una vita esemplare. Non dico che Angelone, metaforicamente, si nasconda sotto le piume di un povero usignolo, affamato di briciole di pane e con qualche acciacco, sorpreso dal freddo nevoso di certi ritmi e di certe procedure della vita di massa contemporanea. No, anche perché Antonio, da forte amante della Natura e della vita sana, si mantiene ottimamente, anche lavorando nell'orto (come acutamente rileva, per inciso, la scrittrice Antonia Izzi Rufo, nelle sue ottime e centrate considerazioni critiche in sede di Prefazione). Però un “pianto” del poeta, anche se metaforicamente e parzialmente, non può essere negato, di fronte alla sparizione, dal palco di ogni giorno, di cieli e palpiti di altri giorni e di altri anni. Mi auguro di essere smentito al più presto dall'uscita di una nuova silloge del poeta nato a Forli del Sannio e residente ad Isernia. (Il che è quasi certo, data la sua proverbiale prolificità). Un altro mannello di poesie angeloniane sempre piene di freschezza e di entusiasmo per la Vita, la Natura, l' Amore. Luigi De Rosa

D. Defelice: Il microfono (1960)

NOTIZIE MEZZA STORIA DI ...CACCA DI CANE! Domenica 13 agosto, a Pomezia, piazza Indipendenza, ora d’uscita prima messa, chiesa parrocchiale di San Benedetto Abate. Ci avviamo per una passeggiata su via Roma e per il solito acquisto dei giornali. Da via Virgilio, due signore con tre grossi cani tutti senza museruola, due a guinzaglio lungo, l’altro completamente sciolto. Uno dei due cani a guinzaglio cammina sulla striscia di giardinetto che reca la scritta erbacea “Città di Pomezia”; annusa,


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scodinzola, poi si mette in posa e scodella una lunga salsiccia. Ci eravamo fermati a guardare, in silenzio, non i cani, ma la giovane quercia da sughero che sta attecchendo bene e il verde rasato e fresco, forse innaffiato da poco, il pensiero al calore delle settimane infernali appena trascorse. La signora del cane salsicciaro mugugna: “Fammela raccogliere subito, perché c’è qui un guardone e rischiamo una multa”. Al nostro fianco, nessuno; un po’ distante, nei pressi della torre, un vigile urbano; quasi di fronte al Comando dei Vigili Urbani, un simpatico operatore ecologico, in giorno di riposo, perciò non in servizio e in divisa. Scusi, signora, ma lei sta dando del guardone a chi? “A lei! Si vergogni, dovrebbe farsi gli affari suoi, non starsene qui a guardare!”. Basiti. Vietato pure guardare? Non l’abbiamo mandata a quel paese perché abbiamo sempre rispettato le signore, anche se non meritevoli, ma le abbiamo fatto capire che, a volte, cani non son tanto chi dovrebbe stare a guinzaglio e museruola, ma chi li conduce. Qui finisce la mezza storia; l’altra metà non la raccontiamo, del vigile che si avvicina e gentilmente ci invita a seguirlo in Comando (ci siam rifiutati; forse s’aspettava da noi una denuncia?) e dell’altrettanto gentile operatore ecologico non in servizio, col quale, poi, s’è chiacchierato a lungo, venendo a conoscenza che di cacche ne raccoglieva a quintali. Molti rospi i sottoposti son costretti a ingoiare dalla mattina alla sera. Se molte cose non vanno, non è loro la colpa. In pratica, ci siam fatta l’idea - forse sbagliata, anzi, sbagliata senza forse, ce l’auguriamo - che nessuno opera liberamente, sulla base dei fatti che lo colpiscono, ma solo se c’è denuncia; mancando la denuncia, ognuno è meglio che non veda e non senta. Sappiamo che l’Amministrazione comunale, pensando al decoro della città, ha speso bei soldini ad approntare Corral/cacatoi per cani (li chiamano in altro modo, ma noi preferiamo chiamarli così), come su via Fratelli Bandiera, su via Catullo eccetera; non sappiamo, ma ci auguriamo a bizzeffe, quante siano le contravvenzioni comminate per il giornaliero spargimento di sconce salsicce per le strade e per giardinetti. Sì, perché questi appositi Corral son sempre vuoti e del tutto puliti se rapportati a certi percorsi stradali - via Virgilio, per esempio - o ad alcuni giardinetti; su certi marciapiedi, prima che passino gli operatori ecologici, occorre fare lo slalom per non schiacciare le piccole e grandi decorazioni e nei fazzoletti di verde, assolutamente bruciati in quest’estate dal caldo implacabile, esse sono ben visibili, alcune ed essiccate da sembrare ciottoli neri, sassi. Un esempio? Giardinetti di via Pier Cre-

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scenzi, di fronte alla scuola dell’infanzia. Insomma, non periferie abbandonate, ma zone che fan parte del cuore della città. Si offende, allora, qualcuno se ironizziamo dicendo che i cani ci cacano in casa? Veramente, un bel decoro per la città. I cani a Pomezia son talmente tanti, che se si mettesse una tassa su ognuno di essi si potrebbe dare un premio per ogni bambino e se si multassero le tante cacche si potrebbero avere, con quel denaro, sempre giardinetti ben curati e freschi. E, prima di tutto, si educherebbe il cittadino, perché gli sconci son sempre frutto di scarsa educazione. A questo punto si potrebbe pensare che noi odiamo gli animali. Al contrario, noi li amiamo molto di più di coloro che dicono di amarli e, senza volerlo, li fanno soffrire. Vivere notte e giorno al chiuso o in angusti spazi - una stanza, un salotto di casa, un balcone, una cuccia, una gabbia (diverso se liberi in campagna, in giardino) -; non miagolare, abbaiare, cantare perché si disturba; pisciare e defecare a orari; sterilizzati se non proprio castrati. Vorrei sapere come e quanto amerebbe la vita uno di questi proprietari di animali se venisse costretto a vivere notte e giorno in ambienti claustrali e a volte legato, a cacare e pisciare quasi a comando, a passeggiare a guinzaglio e con museruola, a non amare e godere del sesso perché sterilizzato o castrato. Anche il falso amore è frutto di scarsa educazione; chi è bene educato ama gli animali nel loro ambiente, non li snatura. Se per molti, oggi, in questa nostra società per certi aspetti rilassata e depravata, un tale discorso risultasse troppo duro, si tengano pure gli animali in cattività - a nostro avviso martirizzandoli -, ma almeno li facciano pisciare e cacare nelle proprie stanze o negli spazi che il Comune ha riservato alla bisogna con i soldi di tasse e imposte, perché anche noi godiamo di diritti, di avere strade e marciapiedi puliti e giardinetti senza schifezze, per esempio. E pretendiamo che chi ci governa questi diritti ce li difenda. Né disconosciamo il dono grande che a volte un animale può rappresentare per un vecchio, un bambino, un ammalato, un cieco; in tali casi, non solo niente tasse, ma dare pure un incentivo. Noi disprezziamo, insomma, l’esagerazione che degli animali oggi vien fatta, a soddisfazione di autentici egoismi, vere e proprie malattie del cuore umano. Anche alla nostra età, il giornalismo preferiamo continuarlo a fare sul campo, in mezzo alla gente, non a tavolino, servendoci delle veline. Ci dice, per esempio, un vecchietto che incontriamo spesso nelle nostre passeggiate: “Mio figlio mi ha comprato il cane, ma è restio a farmi vedere e a farmi stare con suo figlio, il mio adorato nipotino; lui stesso viene


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assai radamente a trovarmi”. Ecco: i vecchi, o quelli in difficoltà varie, li dotiamo o li costringiamo ad acquistare un animale solo per salvarci l’nima, per nascondere nostre grettezze e cattiverie, giacché se a un bambino, a un anziano, a un ammalato, la società non facesse mancare il suo aiuto e il suo amore, assai pochi sarebbero quelli che ricorrerebbero ad un animale per avere conforto e compagnia. L’uomo, cioè, ha smesso di interrogare il suo cuore, dal quale, come dice Cristo (Marco, VII), ha origine tutto, il bene ed ogni sorta di male, compresi “adultèri, fornicazioni, omicidi, furti, avarizie, iniquità, frodi, libidini, bestemmie, superbia, stoltezza”. Se l’uomo ritornasse a interrogarsi, per le strade e per i giardinetti non vedremmo più quasi sempre e solo folle di cani, ma di cani con padroncini educati e più di gente sorridente e di bambini. Domenico Defelice *** XXVII EDIZIONE CITTÀ DI POMEZIA - La XXVII edizione del Premio Letterario Internazionale Città di Pomezia s’è conclusa, l’ultima, come già specificato, a nostra organizzazione. Speravamo nell’Amministrazione Comunale che lo facesse gestire dalla sua Biblioteca. Un Premio così avviato e dal rodaggio di 27 anni, non richiede spese eccessive, almeno che non lo si voglia trasformare; se l’abbiamo gestito noi, che viviamo con una pensione di mille euro al mese, perché un Comune che amministra più di 60 mila abitanti si spaventa? Dopo l’incontro con la Vicesindaco e con la Direttrice della Biblioteca, infatti, non abbiamo avuto riscontri, segno di scarso o nessun interesse per esso. Anche la locale Pro Loco sembrava interessata, ma finora nessuna concretezza neppure da questa sponda. Rimaniamo, comunque, a disposizione di chiunque decidesse d’impegnarsi, confortati dagli echi della Stampa - tutti entusiasti - e dalla gioia dei premiati, orgogliosi di potersi fregiare di un così prestigioso riconoscimento. Leggiamo su Città & City, del 31 luglio 2017: “Si spera che questo appuntamento di livello internazionale, che qualifica Pomezia, continui nel tempo anche con l’aiuto di altri appassionati della poesia e della letteratura”. Scrive Caterina Felici di Pesaro il 10 agosto 2017: “...sono contentissima del premio a me assegnato nel concorso letterario internazionale “Città di Pomezia” 2017. Grazie a lei e ai suoi collaboratori per l’impegno rivolto nel campo dell’arte e della cultura”. Mariagina Bonciani, da Milano, il 10 agosto 2017: “...ricevo il numero di agosto e con piacere trovo allegato il diploma per il 6° premio attribuito alla mia poesia “Pensiero”. Ringrazio vivamente la giuria...”. Da Emerico Giachery - in ferie nell’isola d’Elba e a Camaldoli - il 10 agosto

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2017: “Carissimo, da più parti d'Italia sono arrivati auguri a Noemi, perché dalla tua rivista avevano avuto notizia del suo novantesimo: vedi com'è diffusa la tua rivista e che bella rete d'amicizie intesse! Oggi l'amico Ceccarossi ci comunica sia della pubblicazione del saggio di Noemi, che lui ha letto e molto apprezzato sia dell'assegnazione a me del Premio per la saggistica. Ringrazio di tutto cuore te e la commissione giudicatrice per questo affettuoso e lusinghiero riconoscimento: Noi siamo a Camaldoli per alcuni giorni, dopo i quali torneremo ancora per un po' di tempo e dove troveremo quasi certamente i numeri estivi di "PomeziaNotizie". Dato che qui a Camaldoli, nel Casentino così presente in Dante che combatté a Campaldino e dato che un paio d'anni or sono ho avuto un'esperienza interiore profonda in questi luoghi (a me cari per averli percorsi tante volte a piedi, con lo zaino in spalla quando ero ancora uno scapolo clericus vagans) e l'ho descritta in poche pagine, mi permetto di inviarti in allegato quel testo (...) onorato di vederlo comparire sulla tua rivista.” Antonio Crecchia da Termoli (CB), il 18 agosto 2017: “Carissimo Amico, ho appena ricevuto PomeziaNotizie, con il diploma di assegnazione alla mia persona del secondo premio per la poesia nella XXVII edizione del Premio Città di Pomezia. Un grande onore che mi riempie di viva soddisfazione. “ Giovanna Li Volti Guzzardi dall’ Australia il 21 agosto 2017: “Carissimo Domenico, proprio adesso è arrivata la tua meravigliosa creatura, un dono straordinario dal cielo... Poi la grande sorpresa del mio Terzo Premio, incredibile!...” E allora? Non c’è alcuno cui tutto ciò lusinga? D. Defelice

LIBRI RICEVUTI DANIELA DE ANGELIS e NICOLA TIRELLI PRAMPOLINI (a cura di) - “... ella riunisce in sé la doppia qualifica di apostolo e di esecutore...” Natale Preampolini e le Bonifiche (1915 - 1950) “Il libro presenta - come si legge in quarta di copertina - un’esaustiva antologia di lettere sulle bonifiche dirette da Natale Prampolini (1876 - 1959) dagli anni Dieci agli anni Cinquanta. L’ingegnere reggiano, in queste missive, dialoga con Arrigo Serpieri, Giuseppe Tassinari, Alberto De’ Stefani, Eliseo Jandolo, Carlo Petrocchi, Araldo di Crollalanza, Giovanni Giuriati ed altri protagonisti di quella vicenda che rivestì un ruolo centrale nella politica italiana della prima metà del Novecento”.


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Un libro interessante e intrigante, quindi, assai documentato, grazie alla disponibilità del personale di diverse sedi dell’Archivio di Stato e di prestigiose Biblioteche, riccamente illustrato con cartine e foto in bianco e nero. In copertina, a colori, “Scena di caccia”, un bozzetto del 1935 di Mario Romoli. Emigli Editore, 2017 - Pagg. 192, € 24,00. Daniela DE ANGELIS ha insegnato, oltre che a Roma, all’ Istituto Statale d’Arte “Pablo Picasso” di Pomezia per molti anni. Ha pubblicato diverse opere, tra le quali “La nascita di Pomezia testimonianze orali e fonti d’epoca” (2013), Ferrazzi e l’opera perduta di Pomezia 1938 - 41” (2015). Non possediamo alcun curriculum di Nicola TIRELLI PRAMPOLINI. ** LUCIANA VASILE - Danzadelse’ - Ho ballato per Paparone e altre storie - Prefazione di Marcello Veneziani - Prospettiva editrice, 2012 - Pagg. 132, € 12,00. In copertina, progetto dell’autrice dal quadro Ballerina di Degas, elaborazione grafica di Fabio Balducci, fotografia dell’autrice e di Stefano Giorgi. Luciana VASILE, figli del grande Turi Vasile, è nata a Roma ed è Architetto. Nel 2002 il desiderio di attività nel volontariato l’ha portata in Nicaragua per sei mesi, dove, oltre a progettare e realizzare numerose costruzioni, ha scoperto il piacere di scrivere. Esordiente nel 2004 in Concorsi Letterari per inediti, ha conseguito oltre 120 premi nella prosa e nella poesia. “Per il verso del pelo”, suo primo romanzo (2006), ha ottenuto riconoscimenti in otto premi letterari. Luciana Vasile è membro del P.E.N. Club, Associazione internazionale degli scrittori. ** NICOLA LO BIANCO - In città al tramonto Racconti, Prefazione di Alfio Inserra, Presentazione di Daniela Monreale, Postfazione di Rossano Onano; in copertina, a colori, “Il cavalluccio marino” di Crescenzio Cane, poeta e pittore palermitano - Bastogi Libri, 2017 (?) - Pagg. 144, € 12,00. Nicola LO BIANCO è nato a Palermo, dove risiede. Ha insegnato Letteratura Italiana e Latino nei Licei. Pubblicista, collabora a diverse riviste con recensioni e brevi saggi su scrittori e poeti contemporanei. Molteplici le sue presentazioni di libri di saggistica e poesia. Negli anni ’60, insieme ad altri giovanissimi “ribelli”, è promotore de “I Draghi”, gruppo teatrale di base, che negli anni successivi sarà punto d’incontro di giovani e poi affermati talenti teatrali. Tra le opere teatrali si ricordano: Libertà provvisoria; Cantica del lupo et altre stelle; Bianchi e Neri; I tempi del poeta in piazza; Sanfrasò; La Mandragola del Machiavelli, tradotta in siciliano; Dichiarazione d’amore. Autore di una drammaturgia della Divina Commedia tradotta in sicilia-

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no. Ha vinto premi di poesia “Insieme nell’arte” e “Sicilia danza”. Recentemente gli è stato assegnato il Premio Nazionale di Poesia Himera ed è stato tra i finalisti del Premio G. G. Belli di Roma. Raccolte di poesie edite: Rapsodia del centro storico (1989), Monologo sulla strage degli innocenti (2003), Lamento ragionato sulla tomba di Falcone (2010), I tempi del poeta in piazza (2013).

TRA LE RIVISTE IL CONVIVIO - Trimestrale fondato da Angelo Manitta e diretto da Enza Conti - via Pietramarina-Verzella 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) E-mail: angelo.manitta@tin.it; enzaconti@ ilconvivio.org Riceviamo il n. 69 (aprile-giugno 2017), dal quale segnaliamo: “Ricordando García Lorca”, di Corrado Calabrò; “Sulla poesia di Dumitru Găleşanu Trattato per l’immortalità”, di Carmine Chiodo; “Cioccolata calda”, di Filomena Iovinella; ; poesie di Loretta Bonucci, Giovanna Li Volti Guzzardi; le recensioni di Isabella Michela Affinito, Antonia Izzi Rufo; il Premio per saggistica e teatro inedito “Giuseppe Antonio Borgese” 2018, con scadenza 31 ottobre 2017, per il quale invitiamo a chiedere regolamento completo e scheda di partecipazione al Presidente Giuseppe Manitta, del quale diamo anche la e-mail: giuseppemanitta@ilconvivio.org e il sito: www.ilconvivio.org Allegato, il n. 35 di CULTURA E PROSPETTIVE, di 112 pagine, con gli interventi di: Asteria Casadio, Lucia Bonanni, Angelo Manitta, Claudio Guardo, Carlo Di Lieto, Ando Marzi, Giovanni Tavčar, Domenico Cara, Silvana Del Carretto, Carmine Chiodo, Maristella Dilettoso, Giuseppe Iuliano, Domenico Pisana, Francesca Liuzzo, Antonio Crecchia, Giovanni Sciacchitano eccetera. * IL GIORNALE DI VICENZA - quotidiano diretto da Luca Ancetti - via Enrico Fermi 205 - 36100 Vicenza. Riceviamo il n. 193 di sabato 15 luglio 2017, dal quale segnaliamo, in particolare, l’ intervista che la nostra collaboratrice Ilia Pedrina rivolge (a pag. 54) al filosofo Marco Vannini “La fede resta senza mistica”. “La religione cristiana afferma lo studioso della mistica tedesca - ha perduto il contatto con la verità, viviamo in una società fatta di individui che esistono solamente come consumatori”. www.ilgiornaledivicenza.it Allegato, il n. 29 di Gente, del 25 luglio 2017, direttore Monica Mosca. via Roberto Bracco 6 - 20159 Milano, e-mail: gente@hearst.it


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* ntl LA NUOVA TRIBUNA LETTERARIA - Rivista di lettere ed arte fondata da Giacomo Luzzagni, direttore Stefano Valentini, editoriale Natale Luzzagni, vicedirettore Pasquale Matrone - via Chiesa 27 - 35034 Lozzo Atestino (PD), corrispondenza: c. p. 15 - 35031 Abano Terme (PD). E-mail: nuovatribuna@yahoo.it Riceviamo il n. 127, lugliosettembre 2017, dal quale segnaliamo: “Luigi Pirandello”, di Luigi De Rosa; “Derek Walcott”, di Elio Andriuoli; “Emily Dickinson”, di Liliana Porro Andriuoli; “Giuseppe Prezzolini”, di Pasquale Matrone, del quale si leggono anche molte recensioni, tra cui quella sul saggio di Marina Caracciolo “Oltre i respiri del tempo”. Rivista, come al solito, bella e preziosa, ricca di immagini e di ottime firme, che continuiamo a proporre ai nostri lettori e collaboratori. * KAMEN’ - Rivista di poesia e filosofia, direttore Amedeo Anelli - viale Vittorio Veneto 23 - 26845 Codogno (LO), e-mail: amedeo.anelli@alice.it Riceviamo il n. 51, giugno 2017, diviso in tre sezioni: Letteratura e giornalismo/Dino Terra, a cura di Amedeo Anelli; Poesia/Paolo Febbraro; Materiali/Paolo Poli a cura di Mariapia Frigerio. * L’ORTICA - pagine di informazione culturale, direttore Davide Argnani - via Paradiso 4 - 47100 Forlì - e-mail: centroculturalelortica@gmail.it; orticadonna@tiscali.it Riceviamo il n. 17/118 nuova serie, dell’aprile/settembre 2016. Rivista ricca di articoli, recensioni, poesie, bandi di concorsi. * SOLOFRA OGGI - La Voce di chi non ha voce, direttore Raffaele Vignola - via A. Giannatasio II trav. 10 - 83029 Solofra (AV) - E-mail: solofraoggi@libero.it - Riceviamo il n.5, maggio 2017, dal quale segnaliamo “Un dualismo di poteri”, di Giuseppe Lissa, articolo e tesi che, sfogliati dai riferimenti locali, rispecchia la situazione di tutta la nostra Nazione.. * LA GAZZETTA DI BOLZANO - Dir. Franco Latino, resp. Eugen Galasso - Casella Postale 96 Bolzano 1 - 39100 Bolzano. Riceviamo il n. 48, dicembre 2016. * LA RIVIERA LIGURE - Quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro, direttore Maria Novaro - Corso A. Saffi 9/11 - 16128 Genova - e-mail: info@fondazionenovaro.it Riceviamo il n. 83, maggio-settembre 2017, dedicato a Giovanni Boine: “1917 - 2017. Cent’anni di filosofia boinina”, di Fabio Barricalla; “L’invenzione della Riviera”, di

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Giorgio Bertone; “Giovanni Boine. Ricordo”, di Mario Novaro; “Circolo”, di Giovanni Boine; “ ‘A cà du me pôi grande’ ed altre versioni boiniane”, di Marino Magliani e Natalino Trincheri; “Teatro delle Nuvole: Frantumi e frammenti”; “Notiziario della Fondazione, gennaio-dicembre 2016”; “La memoria di Enzo Maiolino”, di Alessandro Ferraro. * IL FOGLIO VOLANTE/LA FLUGFOLIO - Mensile letterario e di cultura varia fondato e diretto da Amerigo Iannacone, resp. Raffaele Calcabrina via Annunziata Lunga 29 - 86079 Venafro (Is) - email: fogliovolante@libero.it Riceviamo il n.7, luglio 2017, l’ultimo dopo la tragica morte di Iannacone. Incontriamo la firma di Ferruccio Brugnaro, Adriana Mondo, Giuseppe Napolitano (figlio del nostro indimenticabile amico Nicola Napolitano). Siamo certi che questa creatura continuerà ad uscire attraverso l’opera dei figli Eva e Renzo (Eva ha dato il nome all’Editrice, la quale, specie in questi ultimi anni, è cresciuta di molto e, quindi, meritevole di rimanere attiva sul mercato) e i tanti amici che gli stavano intorno, come, appunto, Napolitano, Aldo Cervo ed altri. Di Iannacone seguivamo con particolare piacere la rubrica “Versetti e versacci”, firmata Bastiano. Ecco l’ultima puntata, titolo Il prudente: “Mai usava, per niente,/la parola cuculo: era prudente:/temeva di sembrare balbuziente.” * POETI NELLA SOCIETÀ - rivista letteraria, artistica e di informazione diretta da Girolamo Mennella, redattore capo Pasquale Francischetti - via Parrillo 7 - 80146 Napoli - E-mail: francischetti@alice.it Riceviamo il n. 82-83, maggio-agosto 2017, sul quale troviamo, a diverso titolo, le firme o i nomi anche di nostri collaboratori, come Susanna Pelizza, Mariagina Bonciani, Pasquale Montalto, Isabella Michela Affinito eccetera. * L’ERACLIANO - organo mensile dell’Accademia Collegio de’ Nobili fondata nel 1689, diretto da Marcello Falletti di Villafalletto - Casella Postale 39 - 50018 Scandicci (Firenze) - E-mail: accademia_de_nobili@libero.it Riceviamo il n. 231-233, di aprile-giugno 2017, del quale segnaliamo l’ articolo d’apertura “L’Accademia onora la Vergine Maria (Patrona della Legazione per l’Italia Centrale)”. Tra l’altro, degni di rilievo sono: “Il sangue dei martiri”, di Carlo Pellegrini e “Apophoreta”, rubrica recensiva di Marcello Falletti di Villafalletto. Belle tutte le foto a colori che illustrano l’ intera rivista, nella quale, a pag. 10, viene data notizia della nomina ad Accademico di Domenico Defelice: “Sua Ecc.za il Preside Principe Reggente, in da-


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ta 25 marzo 2017, festa dell’Annunciazione del Signore, in forza dell’articolo 19° dello Statuto Academico, ha nominato “motu proprio” il Dr. Domenico Defelice, Fondatore e Direttore responsabile del mensile “Pomezia-Notizie” ecc., Accademico Honoris Causa conferendogli tutte le prerogative, i diritti e i privilegi previsti. Detta nomina è stata registrata dalla Gran Cancelleria Accademica al Numero 71/HC/17.” Domenico Defelice ha sempre risposto negativamente alle proposte di far parte di molte Accademie, anche famose, come per esempio, l’Accademia Tiberina; questa volta, però, non c’è stata proposta alcuna, ma una decisione personale, spontanea del Preside dell’Accademia Collegio de’ Nobili Dott. Marcello Falletti di Villafal-

letto e sarebbe stata grave scortesia rifiutare. Grazie, allora, al Presidente, che ha deciso così.

LETTERE IN DIREZIONE (Ilia Pedrina da Vicenza, 15/8/2017) Carissimo Direttore di un'orchestra in parole ed immagini che evoca emozioni, ringrazio te e tutti i componenti della Giuria del XXVII Premio Internazionale Città di Pomezia 2017 per avermi assegnato il II Premio della Sezione F! Infatti quale onore essere seconda al professor Emerico Giachery, che tanto stimo ed apprezzo: la sua competenza

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nella critica letteraria, negli approfondimenti tematici, nello scandaglio interpretativo sempre riscaldato da riflessioni non solo intellettuali ma etiche ed estetiche di altissimo livello, il suo stile acuto e vivace che lascia un segno forte nei riverberi della lettura partecipata e mai superficiale dei suoi lavori, tutto ciò è fonte per me di grande orgoglio. Ed in particolare questa Pomezia Notizie, quest'orchestra in parole ed immagini che tu dirigi, questi orchestrali dell'arte che ti stanno al fianco, questo coro di voci e suoni emessi e provocati ha raggiunto nel numero di Agosto livelli di intensa e vibrante artisticità, nella semplicità stilistica e ben articolata di cui ciascuno si fa portavoce. È come se si fosse formato finalmente, e per me accade di goderne per la prima volta, un triangolo particolarissimo, DEFELICE - GIACHERY PAOLINI, senza lati o vertici che prevalgano ma con la medesima somma di 180°, quell'angolo, chiamiamolo 'piatto', che pone tutti sullo stesso piano, perché sei tu a volere così. In apertura la tua dettagliata, modulata memoria 'La vita come Poesia - Peter Russell e il Pratomagno', con testimonianze dirette del Poeta a te, così intense, così cariche di sincera, profonda Amicizia, come quando ti scrive: “Caro Defelice, scrivo per ringraziarLa per il bellissimo e perspicace articolo 'Potenza evocatrice'. Sono lieto avendo un critico così penetrante e allo stesso tempo così simpatizzante...” (documento inedito inserito in Pom. Not. Agosto 2017, pag. 6). Con il tuo lavoro esegetico mi hai dato l'occasione di entrare nella vita straordinaria, autentica, intensa e travagliata di questa Anima bella del Pratomagno: di lui conoscevo pochissimo, ora grazie a te, mi si aprono nuovi orientamenti ed approfondimenti. Ecco poi emergere la voce, intonatissima, di Noemi Paolini 'Odori, sapori, suoni, stili', spigliata, avvezza alle grandi altezze senza mai perdere fiuto e fiato: si muove agilissima nel selezionare ambiti critici intorno a grandi nomi della cultura italiana ed europea e da essi coglie un pretesto assai elegante per confermare le proprie scelte ed intagliare in modo originale il proprio stile: '… mi è piaciuto sentir parlare... di quel 'profondo senso della storia del costume' come di un dono personale, una facoltà innata che nessuna scuola ti può dare (come l'orecchio e il gusto, aggiungo io, coltivabili se ci sono ma non trapiantabili se mancano) e che si fa sempre più raro... Quanto a me - qui il salto è più audace - sono sempre stata tutta protesa con fiuto, gusto, udito (fiuto, gusto, udito mentali, bisognerà dire paradossalmente, in quanto applicati in assenza dell' oggetto materiale) nell'evocazione, spesso attraverso il filtro magico dell'arte, di tempi e di luoghi lontani per lo più


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mai conosciuti...' (op. cit. pag. 13). Allora, carissimo, compiaciuta ed in fermento, mi son messa a cercare, anch'io con il fiuto della memoria di bellezza, Pomezia Notizie del maggio 2016, nel quale viene pubblicata la bella fotografia di Noemi Paolini, a dar pieno sbocco, per tutti coloro che non l'avessero ancora colto, al legame con Emerico Giachery, che firma il gran lavoro 'Elogio delle donne (con preludio onirico-musicale)', la sua 'fotologia dell'anima', come egli ama definire la concretezza della luce gioiosa nella armonica condivisione coniugale, che si diffonde poi tutt'intorno, creando aloni in riverbero intensi e generanti bellezza. Così approdo finalmente a lui, al professor Emerico Giachery, del quale darò in dettaglio approfondimenti e riscontri evocativi, finora in segnalazioni a mano, a margine dei suoi tanti pregevoli lavori: anche lui, come lei, bellissimo, deve avere gli occhi di un azzurro trasparente e deciso, a lasciare entrare a suo agio il mondo, per poi rimestarlo tutto e risistemarlo in modo proprio ed originale. La sintonia con te è assai particolare e mostra autonomia vera nella condivisione dei mezzi e dei fini, per questo il suo “Tempo ritrovato” di un vecchio interprete di testi (I Premio Sezione F al Città di Pomezia 2017) ha dentro la forza di un'eredità preziosa e consapevole, che va a testimoniare una capacità semplice e profondissima di appropriarsi dei testi sui quali ha lavorato e lavora, con grande, intensa vitalità professionale, dinamica perché legata allo scorrere del divenire ed al modularsi sempre nuovo della vita: '… La mia musa prediletta, sia come studioso sia come essere umano, si chiama sintonia. 'Interprete', inoltre, è una definizione in cui mi riconosco e mi identifico pienamente...' (op. cit. pag. 46). Puoi ben capire allora la metafora di questo triangolo di 180° senza lati, carissimo, che è formato dalle vostre tre voci ed ha per confine l'arcobaleno della vita e dell'alleanza, nella concretezza mai evanescente dell'impegno professionale illuminante: l'orgoglio che provo a trovarmi seconda, al seguito del prof. Emerico Giachery, mi stimola a procedere ancora, senza esitazione, verso nuovi e più consapevoli approdi. Anche se in questa sede non cito tutte le altre importanti voci che compongono la tua orchestra, sappi che ho assaporato appieno ogni tema e sua variazione. Infatti il triangolo perfetto ed invisibile si dilata e diventa 'angolo giro a 360°' grazie anche alla testimonianza dell'operosità intellettuale di Giuseppe Leone, che lavora su Marco Vannini e sulla tensione emotiva del Logos giovanneo, quando investe la poiesis, il fare etico e poetico intorno a ' All'ultimo Papa - Lettere...', a simulare armonie e silenzi, isolamenti ed attraversamenti comunicativi, ripensa-

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menti della coscienza nel suo individuale ed originale farsi storia, con parole tutte da interiorizzare. Grazie, perché hai guidato con grande professionalità, stile, partecipazione attenta e responsabile per ventisette anni un percorso di produzioni poeticoletterarie che ha inciso nella Storia della letteratura e del costume, nazionale ed internazionale. Con piena amicizia e gratitudine Ilia AI COLLABORATORI Inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione) preferibilmente attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è gradito un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (copia cartacea) Annuo, € 50.00 Sostenitore,. € 80.00 Benemerito, € 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia, € 5,00 (in tal caso, + € 1,28 sped.ne) Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 N076 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio


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