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Nell’ultima raccolta di Elio Andriuoli
L’OTTIMISMO DELLA CONSAPEVOLEZZA di Franca Alaimo ’AZZARDO della voce di Elio Andriuoli, autore elegante e prolifico, s’inserisce agevolmente nella tradizione letteraria italiana per limpidezza formale e disciplina della versificazione. Il mondo poetico dell’autore genovese, fin dai suoi esordi, è rimasto fedele a sé stesso, senza, tuttavia, cadere nella monotonia grazie all’esercizio della variatio, che rende sempre nuovi temi e nuclei emotivi distintivi attraverso un incessante mutare di sfumature simboliche e percettive in rapporto agli eventi esterni e interiori. Quest’ultimi sono, comunque, disciplinati dalla consuetudine alla lettura dei classici, ché, infatti, pur negli esiti originali, ad un esame metrico e filologico attento, facilmente si individuano le tracce dei maestri: da Virgilio a Dante, da Leopardi a Montale (al quale Andriuoli deve molto per quanto riguarda la qualità lessicale del dettato), passando per un certo “haikaismo” per la preziosità di certi affreschi paesaggistici; mentre l’ evidente sensitività coloristica evidenzia
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All’interno: Kafka e Pirandello, di Giuseppe Leone, pag. 5 Emerico Giachery: Passione e sintonia, di Antonio Crecchia, pag. 8 Gabriella Bianco e la rosa di Monteverde, di Ilia Pedrina, pag. 10 Il profumo amaro di Franca Pissinis, di Luigi De Rosa, pag. 12 Bruno Bartoletti: Il tempo dell’attesa, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 14 Alessandro Testa e La religiosità dei Sanniti, di Antonia Izzi Rufo, pag. 17 Virtù e arcaicità, di Leonardo Selvaggi, pag. 20 Lo studente amaricano, di Rudy De Cadaval, pag. 27 La nobile Signora Adalgisa, di Antonio Visconte, pag. 37 I Poeti e la Natura (Ada Negri), di Luigi De Rosa, pag. 40 Notizie, pag. 49 Libri ricevuti, pag. 52 Tra le riviste, pag. 53 RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (Odi impetuose, di Filomena Iovinella, pag. 42); Elio Andriuoli (Le immagini dell’aria, di Giuliana Piovesan, pag. 43); Ugo Berardi (La scala di Jacob, di Corrado Calabrò, pag. 43); Domenico Defelice (Per il verso del pelo, di Luciana Vasile, pag. 44); Elisabetta Di Iaconi (Tito Cauchi Voce all’anima, di Leonardo Selvaggi, pag. 45); Elisabetta Di Iaconi (Parole ricercate con il cuore, di Pasquale Montalto, pag. 46); Maurizio Di Palma (Haiku in forma di poesia, di Susanna Pelizza, pag. 46); Antonia Izzi Rufo (La scala di Jacob, di Corrado Calabrò, pag. 46); Pasquale Montalto (La scala di Jacob, di Corrado Calabrò, pag. 47). Lettere in Direzione (Ilia Pedrina e Emerico Giachery), pag. 53 Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Rocco Cambareri, Fiorenza Castaldi, Antonio Crecchia, Rosaria Di Donato, Elisabetta Di Iaconi, Luigi De Rosa, Enrico Ferrighi, Béatrice Gaudy, Antonia Izzi Rufo, Teresinka Pereira, Gianni Rescigno, Leonardo Selvaggi
la frequentazione di musei e gallerie, in cui il bello, affidato alle forme e agli accordi cromatici, ridiventa suono nella poesia di Andriuoli che lo ridice poeticamente. In particolare, la sezione “Intermezzo classico”
ricorda la celebre formula oraziana Ut pictura poesis: i miti che vi sono cantati (già oggetto sia dell’arte raffigurativa che di quella letteraria, in un comune tessuto di immagini e di significazioni emblematiche) sottolineano, infatti, il libero flusso di quest’ultime nella percezione visiva e narrativa dell’ autore che li riconduce ad una prospettiva attuale. Di fatto, il mondo mitologico rappresenta un serbatoio di ispirazione inesauribile che non riesce ad essere travolto dalla modernità, se è vero che molti altri poeti contemporanei (e non soltanto italiani), lo accolgono e lo rielaborano. Per quanto riguarda Andriuoli, mi sembrano soprattutto insistere gli esempi di Giorgio Barberi Squarotti, Qua-
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simodo e Pavese. Altra caratteristica costante della produzione poetica di Andriuoli è la musicalità, che accompagna l’impulso lirico e determina la costruzione dei testi. Essa ha il compito di operare una selezione acusticamente attenta ai legami fra le parole, così da lasciarsi dietro non solo la cacofonia linguistica, ma anche la disarmonia etica e pragmatica della società attuale; in altre parole essa si assume il compito di cucire morbidamente insieme la realtà esteriore e le esigenze spirituali di Andriuoli: Per te ancora la vita mi si schiara/ e gli affanni dimentico e il dolore/ mi si volge in letizia; per te sola/il mondo mi sorride afferma, infatti, nel testo “Poesia”. Inoltre, in tutti i testi di quest’ultima silloge (e anche questa non è una novità) è dominante la ‘figura’ della Natura, poiché essa non è solo uno sfondo amabile che decora il dire poetico, ma una presenza viva, quotidiana, che sembra accompagnare il segreto epifanico dell’esistente: essa è, allo stesso tempo, concreta ed impalpabile, luminosa ed oscura: una stupefatta e stupefacente meta-
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fora della provvisorietà della vita. E, così, siamo giunti al nucleo vivo de L’ azzardo della voce: il tempo. Si trova Andriuoli di fronte alla sua vecchiezza e con essa ad una stringente interrogazione sul senso delle cose e della propria vita: tema inevitabile, variamente declinato dai poeti “maturi” d’età e d’esperienza. L’elenco dei nomi sarebbe troppo lungo, ché nessuno vi si sottrae (compresa la sottoscritta), ma, ovviamente, ciascuno ha un suo modo di porsi di fronte alla meta, a seconda di come il suo cuore sia riuscito ad elaborare il sommo lutto e a immaginare l’impossibile. Andriuoli appartiene a quella categoria di poeti, che, apertamente ostili alla cultura nichilista, coltivano il miracolo dell’oltre. Per questo motivo, nonostante ripetutamente l’ autore insista sul tema della fine, il lettore ricava dalla sua poesia una gioia sommessa ma confortante e, più del buio e delle tempeste e delle notti, gli rimangono impressi i molti paesaggi illuminati da una luce frontale e intatta; e più della morte, gli canta nell’ orecchio la vita con tutte la sua magnifica grazia e prodigalità di forme. I termini più ricorrenti sono, infatti, quelli che hanno a che fare con la luce:(luminoso, splende, riluce, barbaglio, mattino, estate, sole), con i colori (bianche nuvole, acque azzurre, fiori, isola smeraldina, verde primavera e così via) ed il respiro ampio della vita (i cieli vasti, gli alberi in fiore, il mare in movimento, l’ amore. Tutto questo non vuol dire che quello dell’Andriuoli sia un ottimismo facile: esso è, piuttosto, una conquista spirituale passata attraverso l’esperienza del dolore, della paura, del dubbio, dello scoramento. Più che ottimismo gli si addice il temine di ferma consapevolezza, di umanità aperta e vigile, pur nella constatazione del dramma e della fragilità umana, quale fu quella di un altro grande poeta suo maestro: Giuseppe Ungaretti. La lettura della poesia di Andrioli diventa, insomma, un’esperienza di cultura, di sapienza e di speranza: essa ha dalla sua parte
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la bellezza colta a pieni sensi (Il cielo ride di pura luce e Il pioppo è tutto un tremito di foglie e ancora: Un profumo/ ci avvolge d’ erbe nuove e dolci frutti/ che l’anima ci penetra), l’amore (quello coniugale raggiunge dei vertici di dolcezza inusitati: Fu ventura/ incontrarsi, portento fu il cammino), lo stupore (Ed è sempre la stessa meraviglia/ d’essere vivi, di guardare il mondo), l’attesa dolentemente quieta della morte (nel meriggio che immobilmente dura, senti che il tuo traguardo ha ormai raggiunto) confortata dalla certezza di un dopo, di un ritorno ai propri morti nella casa comune del cielo. In questo modo egli risolve il rapporto fra la realtà e la poesia: nell’ansia mai appagata di sapere/ penetrare l’enigma remoto/che l’ universo da sempre racchiude. Franca Alaimo 4 febbraio 2017
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L'INFINITO E se l'infinito fosse come le pagine di un libro che sfoglio con il dito il presente il passato e il futuro i molteplici universi tutto sarebbe un lampo un solo attimo nel pensiero creativo di Dio Fiorenza Castaldi (Anzio)
NUBI Creature umane, simili alle nubi! Fragili e provvisorie, andate dietro al vento della vita, liete se il cielo è azzurro, smarrite quando l’aria è tempestosa. Svaporerete un giorno su misteriose zone sconosciute; ma già si formeranno nuvole nuove sul pianeta terra. Elisabetta Di Iaconi
Domenico Defelice - L’urlo delle donne per i loro diritti - Olio su tela, 1964, proprietà Famiglia Savoia, Pomezia (RM).
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FINE D’OTTOBRE Ti allontani lento con un grappolo d’uva fra i rossi tappeti dei viali, mentre perdutamente ti piange il sole stanco. E già s’ode, nell’indugio dei tuoi addii, il frettoloso incedere della calva natura. Rocco Cambareri Da Versi scelti - Guido Miano Editore, 1983
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 18/10/2017 Al Tavolo per Roma Capitale, i Sindacati hanno ribadito che occorre agire su Turismo, Cultura e Scuola. Alleluia! Alleluia! Neppure un accenno al fatto che, Roma, loro la paralizzano ogni giorno, con proteste e cortei. Domenico Defelice
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KAFKA E PIRANDELLO “Falsi filosofi o poeti falliti” di Giuseppe Leone
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AVVERO tanti i temi quando si parla di Luigi Pirandello (1867-1936) e, per di più, se in occasione dei centocinquant’anni dalla sua nascita; tanti, soprattutto se si pensa di selezionarne soltanto uno: dal contrasto insanabile tra persona e personaggio a “l’umorismo” come sentimento del contrario; dal gusto del paradosso alla pietà per la condizione umana di dolore e di pena; dalla frantumazione dell’io in Uno nessuno e centomila al tentativo di ricostruzione nei Sei personaggi in cerca d’autore; dall’ alienazione di Enrico IV, all’incomunicabilità di Così è se vi pare. E non solo, dal Nobel per la letteratura assegnatogli nel 1934 ad altri premi e riconoscimenti, tra i quali: Cavaliere di Collare dell'Ordine equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme e Accademico d’Italia nel 1929. Meglio, allora, parlare dello scrittore, di uno, più che delle centomila altre sfaccettature che lo riguardano. Tanto più se l’ argomento è così allettante, come si evince da questo Kafka e Pirandello di Giuditta Podestà, un
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saggio apparso nel 1956 sulla rivista Humanitas, edita dalla Morcelliana di Brescia, dove la studiosa comparatista “ricostruisce il profilo umano, spirituale e culturale forse delle “due più discusse espressioni cerebrali del ’900” (231). Si tratta di un saggio in cui la Podestà, facendo leva proprio sulla nozione di cerebralismo, trova il modo di contestualizzare la loro opera, se può scrivere che quasi tutta la letteratura di quegli anni, in forme diverse, “denuncia un difetto di vitalità, un allontanamento dalla natura, un processo di impoverimento e di astrazione”, come per esempio avviene in Joyce, che tanto si prodiga con il suo illusionismo verbale, o in Proust alle prese con il “raffinato caleidoscopio del ricordo”, ma anche in Bontempelli che ricorre al realismo magico e in D’annunzio che annega nel suo sensualismo. E proseguendo, fa anche notare come Kafka e Pirandello, proprio in nome del cerebralismo, siano scrittori vittime della crisi del loro tempo, costretti a vivere nell’epoca della disintegrazione e della psicanalisi, tant’è che quando la descrivono – e lo fanno per lo più confessandosi – “lasciano affiorare il subconscio in discorsi sconnessi, in uno stato d’ inerzia e d’incoscienza” (232). Ma non solo, condannati a vivere entrambi “nella morsa di una tradizione che morendo avvinghia ancora i suoi tentacoli, e di un’età nuova che insorge incerta e debole”, vivono nella dimensione dell’uomo “chiuso nel suo solipsismo sforzandosi di “dare l’apparenza della coerenza e della logicità alle sue parole e alle sue azioni” (232). Due scrittori, secondo la Podestà, che, pur discendendo da ambienti così diversi – dall’ “umanesimo latino e cattolico, con qualche sfumatura musulmana, Pirandello”, “dall’ intima coscienziosità nordica e religiosità ebraico-protestante, Kafka”; “l’uno avvezzo fin dai primi anni al linguaggio della classicità greca e del fantasioso fatalismo arabo”, “l’ altro a quello più cupo della Praga medievale, ricca di sognanti volute orientali e di arditi pinnacoli gotici” – risultano “nei loro mondi
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chiusi e nella loro aristocrazia spirituale, così vicini l’uno all’altro!” (238-39). Tanto che a Giuditta non sarà difficile proporre delle similitudini per qualificare alcuni dei loro aspetti umani e poetici: come per Pirandello “la vita dell’anima è imprigionata nella trappola della forma”, così per Kafka “è chiusa nel buio soffocante di una tana, dove lo scavare è vano come il desiderio di evadere”; oppure, come “nel primo è sentito tragicamente il dolore per la vita che fatalmente si fissa nella morte “, così “per il secondo, tragica è l’angoscia con cui l’anima scava dentro al suo vuoto, conscia del suo gioco vano e illusorio” (239). E via via, fino a coinvolgere il loro espressionismo: come “il mondo del primo si raffigura fissato nella rigidità della maschera teatrale”, così “quello del secondo è affidato nei romanzi metarealisti alla cinematografia fantomatica di automi meccanici, che invano si agitano nella ricerca di un assoluto inattingibile” (239). Accostando Kafka a Pirandello, Giuditta si pone nella condizione di poter individuare il disagio spirituale e artistico che ha colto il mondo intellettuale fra Otto e Novecento, in particolare questi due scrittori che più di altri si sono sacrificati per raccontarci che cosa è avvenuto nel mondo storico e morale di quegli anni, fino a diventare essi stessi “lo spec-
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chio cosciente di tutto il negativo, di tutto l’ egoismo, la sensualità, lo scetticismo e lo squallore che è nel mondo” (244). Se hanno potuto fare i cronisti del crollo dei grandi ideali patriottici e politici, lo hanno fatto per via delle loro rispettive tecniche narrative del metarealismo e del relativismo, che hanno portato i due a sfondare la linea di demarcazione che divideva la filosofia dall’arte, finendo così per operare una contaminazione tra le due diverse discipline: da qui, quell’ eccesso di ragione che avrebbe messo nella condizione Kafka e Pirandello di dare “la più esperta e sofferta espressione del moderno pensare, inetto nelle sue sottigliezze e nei suoi vani ardimenti a far presa sull’esistenza concreta e falsamente legato a un’immobile specie razionale” (231). Ma è stato proprio per merito di queste tecniche narrative, ci tiene a precisare la Podestà, se dalla loro arte balzano agli occhi nostri alcune verità che ci rassicurano: che “il ballo di San Vito” della moderna indecisione non può durare eternamente; che siamo in una situazione storicamente necessaria, forse, ma transitoria; che questo inferno dello scetticismo e del dubbio gode ancora del dono divino della libertà; che “gli uomini hanno ancora oggi la possibilità di scegliere nuove vie, di diventare, di trasformarsi”; e che anche “il dolore troverà un significato e una catarsi nella trama dei valori positivi”; mentre “i sentimenti torneranno ad investire la vita, la volontà a tonificarla e a dirigerla verso il progresso” (244). E conclude, affermando che quando all’ uomo, la rappresentazione di Kafka e Pirandello apparirà una dimostrazione per assur-
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do, allora egli avrà superato questa fase di crisi e la filosofia e l’arte saranno rientrate nei loro alvei naturali. Con questo augurio, Giuditta può annunciare che, da questa notte della letteratura è sorta oggi un’arte nuova: quella “della riduzione all’essenziale attraverso valori allusivi nella rappresentazione di un mondo povero e cerebrale” (243), privato del Bene e abbandonato da Dio, che “sembra aver lasciato di sé solo la nozione della sua assenza, in un deserto di aridità infinita” (244). Un vero inno di ringraziamento a Kafka e Pirandello, “geni veggenti balzati dal regno delle tenebre a rivelare i caratteri dell’inferno moderno, che ha bandito dalla vita la fede nell’Assoluto, l’amore altruistico, lo slancio generoso, la buona volontà” (244), capaci, nella sublime tortura, di farsi anche “martiri e confessori”, fino ad acquistarsi un titolo per la sopravvivenza nell’arte e nella letteratura del futuro. Giuseppe Leone Giuditta Podestà - Kafka e Pirandello. Humanitas, XI, Morcelliana, Brescia 1956. Pp. 230-244.
DESIDERIO DI PACE, DESIDERIO D’AMORE (E dicevano che i tempi antichi erano il trionfo della barbarie !) Ma questo mondo attuale non conosce più [ pace, e sembra fuori di testa completamente. Sembra che i nodi epocali irrisolti stiano venendo al pettine tutti insieme e vengono declinate come non mai, con [convinzione, più le parole di morte che quelle di vita. Arrivando all'incoscienza di minacciare all'avversario di turno la Bomba all'Idrogeno e anche peggio. Nel frattempo, si uccide alla spicciolata dovunque, e coi mezzi più feroci. Forse basterebbe cercare la pace
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con sincerità e onestà da tutte le parti, àliquo dato àliquo retento, o lasciando il campo a una luce d'amore a un vapore dolcissimo e azzurro, al cielo di una bella giornata di sole, al sorriso di un bambino reso felice... Ma già mi sembra di sentirli gli urli di protesta di certi sapientoni che parlano, parlano, in tante televisioni: “Questi poeti non capiscono niente, sono sempre fuori della realtà ! La diplomazia serve solo ai vincitori per convincere i già vinti!” Luigi De Rosa (Rapallo, Genova)
ALBERO L'albero ha libertà senza guardare al mondo. Ma il cielo lo vede nella tempesta, e il vento può disturbare la sua pace. Guardo la sua ombra, alla foglia verde, alla scultura dei suoi rami, e io penso, c'è la perfezione in esistenza Teresinka Pereira USA - Traduzione di Giovanna Li Volti Guzzardi, Australia
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 28/9/2017 Il M5S s’è, finora, contraddistinto dall’ isteria della verginità giudiziaria. Alleluia! Alleluia! Poiché, a Roma, la sindaca dovrà essere processata per falso, si può dire, allora, che la nostra Virginia è stata sverginata? Domenico Defelice
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Emerico Giachery: PASSIONE E SINTONIA di Antonio Crecchia
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RIMA di immergermi nella lettura di un libro, è mia vecchia abitudine andare a dare uno sguardo all’indice, a curiosare sugli argomenti trattati, a inquadrare, meglio di quanto il titolo non dica, la sua struttura tematica, per avere un’idea dell’ impegno che mi attende a “masticare” il contenuto di quanto mi è stato gentilmente offerto in omaggio. Molti libri, oltre all’indice tematico, contengono anche l’indice analitico dei nomi: altro eloquente segnale dell’ossatura culturale del volume realizzato dall’autore. L’ultimo, fresco di pubblicazione, e di arrivo sul mio tavolo di lavoro, è il frutto maturo, sostanzioso, uscito da una penna per me ammirevole: quella dell’illustre esegeta («interprete delle opere altrui» come lui ama definirsi) Emerico Giachery. È uno di quei libri a cui non “han posto mano e cielo e terra” ma la sagace intelligenza di un autore che ama confessarsi per quello che è stato e per quello che è nel grande mare della cultura italiana ed europea di questi ultimi sessant’anni. Dire di lui che è un grande italianista e dir poco, se non specifichiamo la portata semantica della parola “italianista”, la quale è riferita a persona di grande cultura, come può essere un docente universitario, qual è stato per tanti anni, appunto, Giachery, in Italia e all’ estero; uno studioso, quindi, “a tempo pieno”, della lingua, della letteratura, in particolare
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italiana, dell’arte, della filosofia, della storia, dei costumi e della civiltà nel suo significato più ampio, che include idee, valori e tradizioni concorrenti al progresso generale dell’ umanità. La statura di uno studioso va misurata attraverso la quantità e la qualità delle sue opere, ma, soprattutto, attraverso la sua “umanità”, il suo impegno di umanista a percorrere e a ripercorrere con “passione”, ossia con acume e amore sconfinato, la storia della nostra civiltà culturale, vista in profondità e in ampiezza che, nel bene e nel male, è pur sempre “europea”. Il libro di cui qui si parla ha un indice analitico di sei pagine, comprensivo di 420 nomi di autori che hanno onorato, con le loro opere, il cammino della civiltà occidentale. Un particolare apparentemente secondario, da “appendice”, ma in realtà significativo del possesso di una erudizione di vaste proporzioni, acquisita nel tempo con lo studio e la ricerca nei più disparati santuari della cultura che sono le biblioteche. Nei dodici capitoli che compongono il libro, Giachery riversa la “summa” delle sue esperienze di vita e di cultore di materie letterarie… Volgendo il pensiero al passato, tornano in mente «incontri, colloqui, letture, luoghi in cui m’integravo con amorevolezza e con arricchimenti di orizzonti anche interiori… Prima di tutto, gli affetti dell’anima e del cuore. La grazia di tante amicizie: straordinarie amicizie che la sorte mi ha donato e che hanno contrassegnato e arricchito interi periodi di vita…». Una vita intensamente e proficuamente vissuta, all’insegna dell’amicizia e della fascinazione di spiriti di elevato valore propositivo e creativo, preludio alla “conoscenza di tanta bellezza”, quale si presenta alla sua visione di studioso il patrimonio artistico-culturale della civiltà occidentale, la cui matrice risiede nella grande fioritura intellettuale del mondo classico greco-latino. Due le direttrici principali della sua vita: “l’ attività di docente e di interprete di testi”; due attività concomitanti, svolte con impegno,
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dedizione e partecipazione, con innegabile “aspirazione alla compiutezza”. Nei testi pubblicati in questi ultimi anni, in cui l’auto-biografismo concorre a umanizzare la pregnanza dei suoi libri, è sempre sottintesa una volontà eroica, una energia intellettuale determinata a vagliare l’oggetto/soggetto del suo amore da ogni angolazione possibile, per assecondare la sua sete di sapere; un sapere mai sterile, ma fecondo, produttivo di assidue comunicazioni, orali e scritte, rivolte con fervore di umanista ai suoi allievi, ai suoi lettori, al pubblico che ama accostarsi a prodotti di elevata cultura, propria degli inesausti cercatori di verità, qual è Giachery, di sempre nuovi “orizzonti” e “incentivi”, che motivano lo studioso a “essere” e a “esserci”, quale protagonista di una esaltante, inesauribile giovinezza culturale, dispiegata dentro modelli ideali di vita e di lavoro. A lettura terminata, il lettore ha la consapevolezza di aver rivisitato, in poco tempo, gran parte della letteratura del Novecento, con i suoi protagonisti principali e secondari, con i loro temperamenti espressivi, con le loro esigenze e mezzi comunicativi, le tensioni linguistiche, stilistiche, gli apporti innovativi. Sicuramente l’intento dell’Autore, progettando questa nuova pubblicazione, non era quella di fare una storia letteraria del Novecento ma di raccontare la sua esperienza di vita, di studioso e d’interprete, dando struttura organica ai migliori e più significativi “reperti e spunti” messi insieme negli anni della maturità, che poi sono quelli della sua “onnivora pretesa di conoscenza”. E sarà proprio quest’onnivora volontà e aspirazione di conoscenza a guidarlo attraverso i sentieri e le stagioni della poesia italiana, con le sue nicchie parnasiche, ove hanno trovato stabile dimora i cultori illustri della nostra civiltà poetica, da Carducci a Zanzotto, da Pascoli a Ungaretti, da D’Annunzio a Montale, da Saba a Pasolini, da Cardarelli a Luzi, da Sbarbaro a Pizzuto… La rassegna è alquanto nutrita di soggetti che hanno contribuito a rinnovare il linguaggio poetico nel corso del secolo appena trascorso e mi pare doveroso ricordare altri
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nomi di poeti, la cui sostanza comunicativa dà corpo a questo interessante volume che ingloba le attività creative, sia pure in modo sintetico, realizzatesi in espressioni artistiche ed estetiche originali e autonome per merito di autori entrati a pieno diritto nella storia della letteratura italiana di buona parte del Novecento, come Campana, Marinetti, Govoni, Rebora, Sereni, Caproni, Palazzeschi, Jahier, Boine, Praga… Le esperienze espressive degli intellettuali appena ricordati, sono contenute nel capitolo avente per tema “La lingua della poesia italiana del Novecento”; pagine dense d’ illuminate e illuminanti osservazioni che rafforzano nel lettore l’immagine dell’autore, dotato di profondo senso d’equilibrio valutativo, aperto alla ricerca e alla riconferma degli alti valori di una civiltà e di una cultura libertaria, oggi minacciati da fanatismi ideologici, dettati dalla barbarie e dalla superstizione. Antonio Crecchia Emerico Giachery: Passione e sintonia - Saggi e ricordi di un italianista - Carocci editore, Roma – Luglio 2015, Euro 20,00
PREGHIERA mite ti so a pregare sotto una radura di stelle come silenzio e fuoco preghiera sciogli ghiacciai e l’acqua mare si fa e oceano all’orizzonte ali d’ulivo la colomba non è più notte scende lo Spirito circonfuso di luce Rosaria Di Donato Da Preghiera in Gennaio - Neobar eBooks.
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GABRIELLA BIANCO E 'LA ROSA DI MONTEVERDI' di Ilia Pedrina
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ABRIELLA Bianco è studiosa seria, dinamica ed appartiene al mondo. Ha punti fermi a Buenos Aires, a Vancouver ed è partita da Venezia, dove è nata, per dilatarne la fascinazione, una città dalle forti passioni, libera e libertaria. Questo lei sostiene tra i suoi tanti altri lavori della mente, della cultura e del cuore, ne LA ROSA DE MONTEVERDI, un romanzo pubblicato in lingua spagnola a Buenos Aires nel settembre 2016 e presentato alla XII Fiera del Libro di Mar del Plata l'8 ottobre 2016. Mi ha inviato il Primo Capitolo 'Chi vuol vedere un bosco', intorno al viaggio di Monteverdi da Mantova verso Venezia, lungo il corso del Po, nell'agosto del 1613 ed il finale, 'Ultimo viaggio', nella traduzione italiana. In apertura ella ricorda le parole di Gianfrancesco Malipiero: “Nel 1927 recavo a Gabriele d'Annunzio un manoscritto eseguito per lui solo, la prima riduzione del Terzo Libro de' Madrigali di Claudio Monteverdi - quattro viole e un violoncello. La stupenda edizione di Tutte le Opere del divino Claudio -onore perpetuo del giovine maestro veneziano - non era ancora venuta in luce, ma io recavo in offerta al poeta che solo, contro tanta ignoranza e tanto oblio, fin dall'agosto 1900 nel suo libro Il fuoco aveva scritto: 'Bisogna glorificare il più grande degli innovatori, che la passione e la morte consacrarono
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veneziano, colui che ha il sepolcro nella chiesa dei Frari, degno d'un pellegrinaggio; il divino Claudio Monteverdi: anima eroica di pura essenza italiana' (Gabriele d'Annunzio, Il fuoco, agosto 1900, Asolo – Il Vittoriale)”. Seguono i versi del 'Divino Claudio', tratti da Il lamento di Arianna 'Lasciatemi morire. E chi volete voi che mi conforti in così dura sorte, in così gran martire? Lasciatemi morire...' Nulla voglio togliere alla preziosa tessitura dell'Opera, ma queste due sezioni delle quali scorro in lettura le immagini ed i differenti contesti già vanno a costruire un clima che si condensa di storia, d'eleganza, di bellezza, di passioni sofferte e sublimi, di morte e resurrezione nel ricordo e nella pratica creatrice. L'Autrice partecipa in prima persona, dall'interno, agli eventi che accompagnano Monteverdi fino a Venezia ed è come se noi seguissimo passo dopo passo i suoi pensieri e le aspettative di una pace più serena dopo il tragico evento della morte di Claudia, la sua giovane sposa, avvenuto prematuramente nel 1607, dopo avergli regalato tre figli, che il fratello Giulio Cesare prenderà a protezione. Cito “...Ohimè il bel viso e Zefiro torna sono due sonetti tratti dal Canzoniere di Francesco Petrarca, uno dei più illustri poeti italiani del Trecento. Il primo si accosta tematicamente al ciclo doloroso di madrigali antecedenti (è il primo componimento che Petrarca dedica all' amata Laura dopo averne appreso la morte) e ricorda sia il brano precedente per l'uso di quel ohimè affidato alle due voci superiori, sia Ohimè, se tanto amate del Quarto Libro. Il secondo invece sembra apparentemente discostarsi dal Lamento: giustamente nominata, analizzata e studiata come una delle più felici e geniali composizioni di Monteverdi, Zefiro torna riprende il tema del contrasto fra la natura gioiosa in rigoglioso fermento e lo stato d'animo triste ed afflitto del protagonista, vittima delle pene d'amore, rese da Monteverdi con arditissime dissonanze nel finale...” (G. Bianco, La rosa di Monteverdi). Egli arriverà
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a Venezia e sarà maestro di cappella nella Basilica di San Marco, impegnandosi a fondo per opere a tema profano come L'Incoronazione di Poppea scritta per il Carnevale 1643 e per altre opere a tema sacro, liturgico, come 'Selva morale e spirituale', stupenda polifonia ardita e delicata ad un tempo, che ha accompagnato la mia lettura di queste pagine e di quelle della narrazione in musica. Questa parte infatti è viva ed affascina perché la scrittrice ha una stesura sciolta, carica di spazi aperti all'immaginazione visiva, all'immediatezza del trasferimento in luoghi e tempi alternativi, evocati con sapiente maestria e tensione d'aspettative ancora ombrate. Per questo le compositrici Monica e Daniela Nasti, docenti al Conservatorio 'Nino Rota' di Monopoli, che già avevano elaborato la musica per il Mozart e Magdalena si sono trovate ancora a loro agio ed hanno offerto impegno e creatività fino a formulare l'azione scenica in musica anche de 'La rosa di Monteverdi', opera che si terrà il 13 dicembre al MAC di Venezia. Dal Lamento di Arianna che ha sciolto corde dell'anima attraverso i secoli, ci si avvia verso Ariadna che è tedesca nella Berlino Est, studia di nascosto la viola con il suo maestro Arnold, appassionato di Monteverdi e con altri giovani all'interno della Versöhnungskirche al numero 4 della Bernauerstrasse; con lui arriverà, dopo la fuga, a Venezia e qui incontrerà Levon, quel giovane armeno triste e misterioso, contaminato dalla bellezza delle icone in argento e dalla musica del divino Claudio: dalla sua mano che dona rose alla tomba del Maestro, presso la Chiesa ai Frari prenderà avvio e luce tutta la sorprendente tessitura degli eventi. Il Recital prevede lei, Gabriella Bianco, come voce narrante, Giulia Saya per Ariadna e Carlo Santagiustina, per Monteverdi e Levon, i musici che interpreteranno i temi dell' Opera saranno Didi Tartari, Domenico Mastro, Giana Iaffaldano, Federica del Gaudio, mentre Giuseppe di Giona ha seguito da vicino le riprese per darne almeno un saggio, in anteprima, in rete. Ilia Pedrina
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LA LUCE DELL’ILLUSIONE L’illusione fermentante soccorre quando i tagli si riaprono, ha una lunghezza interminabile, una veste ondeggiante che non si consuma, è fatta di aria perché vuole spazio, non si dissolve, è luminosa e vigile sui momenti della vita. Non ha pause, si incammina lontano e ritorna. L’illusione. Non la vedi mai ferma, si dilata, ha una struttura filiforme, s’intesse con tutto quello che si trova accanto: con gli oggetti su cui si posa, entra ed esce dalla casa. L’illusione penetra nei più reconditi luoghi, illumina le tenebre; per lei è sempre giorno, non conosce la notte, non la vedi assonnata, sempre desta. Ha movimenti multipli, fa giri e cerchi, traiettorie che nel cielo perdi di vista, va avanti trainata da un punto di luce, neppure la lontananza la sommerge. Le mie idee ti hanno disegnato, un materiale duro e delicato mi è servito per conformarti. Dal blocco di marmo dal martello sbozzato tutta d’un getto sei uscita. Un lavoro minuto di cesello la mano ferma ha fatto dove le parti fini sotto le dita strette si dilatano. Il viso ha preso le sfumature delle cose belle, luce e seta luminosa sulla fronte riempiono di riflessi i manifesti pensieri. La voce da luoghi remoti con echi lontani si intreccia con radici che nutrimento portano per tutte le diramazioni. Sei una pianta cresciuta bene, tronchi e rami aperti. Linfa erompente che scorre in plaghe ubertose ampie. La mia vita ripassata, come tirata dall’ essenziale si è proiettata con forti innervazioni dentro ravvolgendoti con rete protettiva la struttura intera. Leonardo Selvaggi Torino
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IL PROFUMO AMARO DELLA POETESSA
FRANCA PISSINIS di Luigi De Rosa
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OPO quarant'anni di solerte e intelligente lavoro nella Scuola Statale è andata in pensione Franca Pissinis, Direttrice Didattica di scuola elementare (Dirigente Scolastico) piemontese gentile originaria di Santhià (Vercelli), laureatasi in Materie Letterarie all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ma che sognava da sempre di lavorare in Liguria, soprattutto di abitarvi perché innamorata della Riviera. Sogno realizzato perché abita e opera, appunto, sulla Riviera di Levante. Franca Pissinis, pur proclamandosi nel suo curriculum “nata nel 1950” ha ancora un fisico da trentacinquenne che adora rosolarsi al sole, e soprattutto un cuore da ventenne, almeno da quanto appare nella stragrande maggioranza delle sue dolci poesie, specie di quelle dedicate ai fiori, ai paesaggi (specie marini) ai bimbi, agli anzia-
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ni, ai poveri, ai puri di cuore (ce n'è ancora qualcuno...). Finora i suoi libri sono quattro: Ha incominciato a pubblicare con Incontro al tempo (Libro Italiano World, Ragusa 2006). A questa silloge hanno fatto seguito due libri editi con la Genesi Editrice di Torino (Fiore di campo, 2010 e Qualcosa di noi, 2012). L'ultima silloge in ordine di tempo è Come un profumo amaro, edito dalla ANPAI- Tigulliana, Santa Margherita Ligure (Genova) 2017. La Pissinis è socia sia dell'Anpai di Santa Margherita (fondata e presieduta da Marco Delpino, giornalista e scrittore) che dell'Agave di Chiavari, presieduta dalla scrittrice Mirna Brignole. Con le composizioni di “Come un profumo amaro” la poetessa continua il suo discorso di fede nella bellezza della vita e del mondo nonostante la presenza massiccia del Male e del Dolore. E' la fiducia, costi quello che costi, in un Creatore invisibile che ha dato il profumo e il colore ai fiori e alle piante, la freschezza e l'ingenuità ai bambini, la bellezza e la meravigliosa complessità alla Natura terrestre e all' Universo. Che cosa intenda per poesia e poeti; quale sia, per lei, la funzione della poesia (ammesso che la poesia possa avere una funzione, specie nel nostro mondo contemporaneo così infarcito di materialismo e tecnologismo) ce lo dice chiaramente nella composizione intitolata “POETI”: “Poeta/ che alla memoria del tempo/ affidi ogni sogno svanito/ ed il bene perduto/ ravvivi/ al fuoco del sentimento.../ Poeta/ che ascolti il silenzio/ le stelle/ il respiro/ del bosco e del mare/ e con le parole più belle poi canti/ l'amore.../ Parole del vento, le tue!/ Non sai che ben altro è la vita ?” Eppure, che il Male esista, i poeti lo vedono benissimo. E spesso ne soffrono in prima persona. Che il Dolore, prima o poi, non risparmi nessuno, anche lo vedono: la stampa e i mezzi di comunicazione rovesciano ogni giorno negli occhi e nella mente di milioni di persone, i fatti più raccapriccianti, che sembrano esaltare come non mai i concetti di malvagità e di squilibrio, di paura, di ingan-
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no... Eppure i poeti non cedono a pensieri di odio... “Poeta che credi alla voce del vento/ e godi di un raggio di sole/ ti fermi/ a una sponda di rovi, fiorita/ ti siedi/ e scrivi la vita/ in più dolci parole/Parole del vento, chi sa. /Forse non cambi il mondo/ poeta, ma almeno ci provi.” Per quanto riguarda la “filosofia” della poesia di Franca nel campo personale, individuale, credo che ci venga in aiuto la prima delle ventisei delle composizioni di questo libro. Intitolata, appunto, Come un profumo amaro: “Bastava/ una panchina vuota/ ben esposta a sera, o il muricciolo/ che fioria, allegro, di tamerici e di verbena./ All'orizzonte, il mare./ Mi accoccolavo/ all'ultimo tepore/ mezza vestita e mezza no/ pensieri a bada, sciolte le membra,/ in confusione il cuore./ Chiudevo gli occhi, e nell'anima/ cullavo/ il tempo intenso e dolce/ di un sospiro/ nuovo, ogni volta/ eppure tanto antico./ L'ombra dei pini/ mi lambiva appena e, volitiva/ come un profumo amaro/ mi richiamava al senso delle cose./ Tornavo in me convinta, onda che torna a riva./ Guardavo il sole, calmo, scomparire, / stordendomi al frinir delle cicale/ per non sentire il giorno/ che fuggiva.” Luigi De Rosa Franca Pissinis – Come un profumo amaro -Anpai Edizioni Tigulliana - Santa Margherita Ligure (Genova) – pagg. 55- Ediz. fuori commercio.
Non possiamo piantare le nostre tende e le nostre vite su una terra libera Dappertutto l’alta tecnologia della sorveglianza antiuomo La memoria dei nostri avi di Resistenza cacciata da una politica liberticida La seguiamo nell’inquietudine e la tristezza rischiarati dal ricordo della Libertà che vogliamo futura anche Non possiamo pensare a domani senza guardare ieri perché un carcere non è un avvenire Béatrice Gaudy Paris, Francia
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FRAMMENTO Il sole era alto nel cielo limpido azzurro. Mirai verso Oriente i nevai in cui riverberava il purissimo azzurro del cielo. In quel gioco di luce e di colori vidi il tuo viso. Ti riconobbi e respirai nell’aria il tuo ricordo. Giù dalla riva il fiume scorreva, verde fra i monti. Le sue limpide acque mescolavano i sassi bianchi ai neri e i neri ai bianchi. Udii un murmure percettibile appena; e riconobbi in esso la tua voce, lenta, pacata, dolce-suadente. Ti parlai sommessamente, col cuore in gola e piansi. Enrico Ferrighi Da Carmina - Ed. Pomezia-Notizie, 1983.
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BRUNO BARTOLETTI IL TEMPO DELL’ATTESA di Liliana Porro Andriuoli
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UELLA di Bruno Bartoletti è una poesia nascente dalla rivisitazione del tempo passato, volta alla meditazione sulla propria vicenda esistenziale, nel desiderio di far rivivere ciò che fu; ma al contempo è una poesia capace di improvvise aperture sul presente e di fughe nel futuro, alla ricerca di una parola che salvi. Si tratta inoltre di una poesia che nasce da un sentimento dolente della vita, espresso tuttavia con misura e con una musica sommessa e armoniosa, che trova nell’endecasillabo il suo strumento più consono ed efficace. Calzante esempio in proposito è la sua silloge Il tempo dell’attesa, apparsa per i tipi della Società Editrice “Il Ponte Vecchio” di Cesena, nella quale già ad apertura di libro troviamo la lirica eponima, che subito ci immette in un’atmosfera di sofferta mestizia, che è tipica della poesia di Bartoletti. Leggiamo i primi versi: “Io fui. Già il tempo quieta l’acqua / sul non cresciuto porto dell’ infanzia” e gli ultimi: “… fui solo l’apparenza una domanda / pagina bianca inutile sospesa / per completare il tempo dell’attesa”. Come è evidente “il tempo dell’attesa” è qui quello della vita, che non ebbe il compimento sperato e rimase come una “pagina bianca”, come una “promessa”; qualcosa che in qualche modo è privo di una compiuta realizzazione. È questa un’atmosf
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era di sommesso rimpianto che persiste anche nella poesia successiva, nella quale il poeta così si rivolge alla sua vecchia madre: “Un’ ombra, forse, tenue nella sera, / piegata nel dolore dell’addio / … / Così vieni e mi appari, … / … / come l’ombra che scende verso sera…” (A mia madre). Solo un’ombra; ed un’ombra così “tenue”, che “pare … voglia dileguarsi” e presto “scomparire”. A questa poesia fa immediatamente seguito quella in cui viene ricordato il padre, dove leggiamo: “Anche mio padre ora sarebbe al porto / ma il vento è già caduto e turbina / il sonno dell’ ignoto sopra le creste buie / del monte” (Anche mio padre). E si potrebbe ancora proseguire a lungo in questa atmosfera soffusa di tristezza. Notevoli in questo contesto sono ad esempio anche liriche quali Paese di antiche memorie, che costituiscono una rivisitazione del tempo andato e un ritorno ai luoghi amati dell’infanzia, sempre presenti nella mente del poeta. Essi gli ricompaiono con tutto il loro fascino e la loro virtù evocatrice di care, “antiche memorie”, seppure ormai tramutate in immagini di sofferta tristezza, che lasciano intravedere soltanto “scheletri bianchi di querce” e “un sentiero di pioggia, / là dove” la madre appariva “sola sull’uscio all’alba”. E non a caso, a proposito della poesia di Bruno Bartoletti, si è sovente parlato, di un’ispirazione di tipo pascoliano, che troverebbe conferma anche da un’approfondita analisi lessicale. Ma presto ci si avvide che, al di là degli echi pascoliani, o di altri poeti, come Luzi, Leopardi e Montale, vi è in lui un più sottile e sfumato sentimento del dolore del mondo, una più arresa e invincibile malinconia che specialmente traspare da poesie quali Morire così (“Vorrei andarmene in silenzio, / senza dirlo a nessuno, / dentro bianchi fiocchi di neve”); Risuona lento il tocco della pendola (“L’ora è quella stanca della sera / che l’ombra bruca rapida la soglia, / cresce sui muri, chiude nel silenzio / cuori in attesa…”); Ritorno a questa casa (“Qui la mia casa al buio come morta / esce dall’ombra, grigia, in un silenzio / di cupi smarrimenti, di
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abbandoni”). Come può dunque constatarsi s’incontra in Bartoletti non soltanto la poesia degli affetti (emergente esemplarmente dalle poesie dedicate alla madre, al padre, a colei che gli vive accanto, e agli amici), bensì anche quella del ritorno al paese di origine, che troviamo, ad esempio, nell’appena citata Ritorno a questa casa; una poesia che sale di tono specie nella chiusa: “E sono qui, in silenzio, nell’attesa / che già qualcuno a notte fonda, forse, / scenda dai campi, svicoli dall’erta, / mi porti il segno di una redenzione, / ripopoli il calvario di ogni assenza”. Si vedano a tale proposito anche Alla mia terra; Il silenzioso canto della sera; Ritornando a Pietra dell’Uso; ecc. Una tra le più significative di queste poesie del ritorno alle origini è Le Radici, dove il sentimento dell’appartenenza ad un mondo dal quale il poeta si è allontanato con pena, si fa più forte: “Sono tornato qui, tra queste crepe d’erba / e ginestre, dove solo intagli di memorie / trafiggono il cerchio di luce che fugge / all’orizzonte…”. Sempre comunque quello di Bartoletti è un cammino che viene compiuto con disagio e con sofferenza, se egli in una poesia come Tornare qui da tempo può dire: “Tornare qui da tempo è ricucire / il filo dei ricordi, i nostri giorni, / la strada che si perde oltre la riga / nera dei monti” e in Sono i remi abbattuti può soggiungere: “Son qui dentro le dune del mio viaggio, / tra carte e libri, scrivo qualche riga, / m’addentro tra la polvere, parole / nude che svuotano il silenzio / raccolgo dalla cenere”, dove il recupero del passato pare farsi sempre più arduo e sofferto. Si veda anche Il ritorno lacera i ricordi, che così termina: “Non c’è più fuoco tra di noi, / su queste case, né luce uguale. / Il ritorno lacera i ricordi, il tempo / che si frange dentro gli specchi vuoti”. Costantemente troviamo dunque nelle poesie di Bartoletti il sentimento della “perdita” (come bene ha osservato Narda Fattori nella sua postfazione a Il tempo dell’attesa) e della “sconfitta”. Basti leggere, limitandoci a questa silloge, poesie quali Sono i remi abbattuti; E nulla par che muova; Parole sulla cenere;
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Rifaccio questa strada, per rendersene conto. S’avverte inoltre qui come un’eco luziana; ed a conferma di ciò, all’inizio della terza parte della raccolta, intitolata Il nostro viaggio (che segue Il tempo dell’attesa e Le radici), troviamo dei versi di Mario Luzi citati in epigrafe. In questa terza parte del libro viene sviluppato, come indica il titolo, il tema del viaggio, quale metafora della vita. E si tratta di un viaggio arduo e faticoso, compiuto “tra rivoli / di ansie, o nel dolore”, ma durante il quale talvolta “il mondo / appare nella luce e le sue pene / si stemperano nel sole” (Il nostro viaggio). Un viaggio molto lungo, che pare non debba aver fine: “È eterno, non ha fine questo viaggio / e procede a sobbalzi, un giorno e un altro, / sempre uguale…” (Non ha fine questo viaggio); e il poeta ne avverte il monotono dipanarsi nel tempo, dato che soggiunge: “Per ore e giorni e anni. È troppo il tempo / che tra le mani in fretta si è bruciato” (À rebours). Si susseguono in tal modo viaggi compiuti insieme ad occasionali compagni, ciascuno con la sua storia e con il suo segreto affanno: “Davanti a me una ragazza bruna / e un signore distratto, corre il tempo, / nuvole chiare tagliano la luce, / nessuno fa domande …” (In treno). E poco oltre dirà: “Dai vetri guarda la ragazza assorta / nell’ombra che la stringe, l’ uomo dorme” (Ivi). Paradigmatica delle poesie nelle quali si sviluppano questi motivi è À rebours, che ha questo incipit: “Per ore e ore ho fatto questo viaggio / con te di fronte, in complici silenzi, / il treno che mi porta non so dove” e così continua: “Altri compagni, gente che riparte, / chi va chi viene, il treno ha la sua storia”. Il poeta seguita il proprio cammino ed insegue la propria avventura nel mondo, fra gente sconosciuta che parte e “riparte”; fra gente indifferente che “va” e che “viene”, ignara del proprio destino, in un viaggio che pare non debba avere fine: “È eterno, non ha fine questo viaggio / e procede a sobbalzi, un giorno e un altro, / sempre uguale…” (Non ha fine questo viaggio). L’ambiente nel quale egli si avventura non è comunque accogliente e la sua vita, procedendo con fatica, “si ag-
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grappa ad un gesto” (Le favole dei morti), mentre tutt’intorno “Fa freddo” e “Il fuoco è quasi spento” (La raccoglitrice d’erba). Ma poi altre figure e altre voci gli si affiancano, come quella della madre, che affiora dall’ ombra (La voce del silenzio) o quella di un soldato defunto, che gli parla della sua morte: “È terribile non sapere. Di quanti si sono salvati, di quanti là sono rimasti. / Ma io ero il solo a cadere” (Da una lettera di un soldato). Con questa visione di morte, che però contiene in sé il germe di una rinascita (“Chi rimane è per un’altra sorte”), si chiude un libro che è l’espressione di un alto magistero formale, trascorrendo dal ritmo endecasillabico, del quale sperimenta tutte le possibilità ritmiche, ad un verso più ampio e disteso (che troviamo ad esempio in L’uno e l’altro e in Il vecchio Jonathan, oltre che nell’ultima poesia citata), nel quale scopre una nuova misura e nuove possibilità inventive al suo canto. E si tratta di un canto sempre sorvegliato e accuratamente compiuto. Liliana Porro Andriuoli
L’ORA DELL’ANGELO Avevano il capo chino. Il ginocchio piegato sulle zolle. L’ora dell’angelo l’aveva battuta la campana. La luce odorava d’umidore. Si pregava col cappello tra le mani. La fronte sporcata dalla terra. Gli occhi lucidi, il pensiero alla fatica di domani. Le donne - i grembiuli gonfi sulla pancia - drizzavano la schiena. Portavano a casa il cibo della sera. Trilli e voli s’alzavano dai solchi. Andavano gli uccelli a chiudere gli occhi tra la paglia. Il sole era quasi spento sull’orlo delle nuvole. Dell’angelo ognuno sentiva
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l’orma della mano sulla spalla. L’aria di scirocco si calmava. Diventava respiro di silenzio. Gianni Rescigno Da Sulla bocca del vento - Il Convivio Editore, 2013.
NOTTI BUIE Fari sognati nelle notti buie: il rosa del tramonto, le tinte dolci della primavera, i raggi delle stelle, lo sguardo appassionato dell’amore. Attimi rievocati, visioni colorate della vita, in lotta con il grigio che s’aggroviglia intorno al nostro cuore. Elisabetta Di Iaconi Roma
L’ANIMA SORRIDE... Quando splende il sole nell'azzurro del cielo, il vento dorme e tutto intorno è immobile e solo s'avverte il trillo d'un uccello e il canto del ruscello, brilla natura nel suo verde, nei colori dei fiori, e l'anima sorride alla vita. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 24/9/2017 In Germania la xenofobia avanza, l’estrema destra vola in Parlamento. Alleluia! Alleluia! Se questo avviene in una economia col vento in poppa, figuriamoci se il ciclo dovesse rallentare o, addirittura, fermarsi! Domenico Defelice
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ALESSANDRO TESTA LA RELIGIOSITÀ DEI SANNITI di Antonia Izzi Rufo
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ERCHÉ, nel titolo del testo, è scritto “religiosità” e non “religione”? Ce lo spiega l’Autore in una nota dell’ Introduzione: <<Ho preferito il termine “religiosità” anziché “religione” per una precisa considerazione di carattere ermeneutico: molti aspetti legati alla religione dei popoli italici ci sfuggono parzialmente, e altri del tutto… E’ pertanto difficile ricostruire l’ insieme delle credenze e delle pratiche religiose dei Sanniti nella loro completezza e sistematicità… Ho optato per il termine “religiosità” per rimarcare la natura spesso ambigua e incompleta, sfuggente, di non pochi tratti ed elementi afferenti alla sfera religiosa degli Italici, nonché il loro carattere solo ipotetico di non poche interpretazio-
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ni>>. Continua affermando che non è facile, nonostante la ricchezza dei dati archeologici, ricostruire la cultura “immateriale” e religiosa delle genti italiche non latine con lo stesso dettaglio che invece permettono le testimonianze greche e romane: enorme è la disproporzione tra documentazione greca e latina e la documentazione italica… In assenza di “storia”, ricorriamo a fonti interne fornite dall’archeologia e dall’epigrafia>>. Prima di immettermi nell’analisi della raccolta di notizie che Alessandro Testa fornisce come risultato della sua specifica ricerca sulle credenze e sui riti dei Sanniti, riporto qualche particolare su tale popolo italico dell’Italia meridionale il cui territorio si stendeva dalle coste del Tirreno a quelle dell’Adriatico, dal Garigliano all’Apulia e alla Lucania. Fra i monti dell’Itala centrale, nel “Bosco Sacro” delle genti sabine, s’erano radunati tutti i forti abitatori degli Appennini, dai bianchi nevai di Norcia ai verdi colli laziali (Roma ancora non c’era; come sappiamo, fu fondata nel 753 a. C.). Al centro della radura era confitta una lancia: era il loro dio e rappresentava Marte. Così parlò il Gran Sacerdote: ‘Il piccolo territorio lasciatoci dai nostri padri più non ci basta. Dai monti alle valli tutto è occupato…Abbiamo bisogno di altro territorio….’. Si decise per una “Primavera Sacra Sabina”. Furono immolate greggi e mandrie e tutti i giovani che entro l’ anno compivano vent’anni partirono all’ insegna di un toro per andare a fondare una nuova patria. Il toro li condusse, per le giogaie dell’ Appennino, presso le sorgenti del Sangro. Qui si fermarono. Piantarono tende, combatterono contro gli abitanti del luogo, vinsero, li spodestarono. Si moltiplicarono. Dilagarono giù, per le valli del Sangro e del Volturno. Diedero origine così ai “Vestini” del Gran Sasso. ai “Peligni” della Maiella, ai “Marsi” del Fucino, ai “Marrucini” di Pescara, ai “Frentani del Molise, agli “Irpini” di Benevento e ai “Campani”. Più a sud c’ erano Apuli, Salentini, Dauni, Lucani, Messapi, Bruzi e Calabri e in Sicilia Siculi e Si-
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cani. I Liguri pare che siano stati i primi venuti d’Oltralpe a occupare la penisola, ai tempi della preistoria. Ad essi subentrarono, nell’Italia centrale e meridionale, gli Umbri (pure di origine sabina) i quali restrinsero i Liguri nella Liguria. Verso il 1000 a. C. , contro gli Umbri apparvero gli Etruschi i quali si vantavano di essere originari dell’ Italia. Intanto i Romani si scontravano con tutti i popoli che osavano affrontarli e li sconfiggevano. Erano rimasti gli ultimi Volsci fino all’alto corso del Garigliano. Di là c’erano i Sanniti. Questi, derivati -come su affermato - da un’ antica “Primavera Sacra Sabina”, costituivano la più potente popolazione dell’Italia meridionale. Avevano strappato Capua agli Etruschi e Cuma ai Greci. Venuti a contatto con la splendida civiltà greca, si rammollirono. Vi furono guerre tra loro tanto che i Sanniti della montagna si distaccarono da quelli della pianura. Capua chiese aiuto a Roma. Iniziò la “prima” guerra sannitica (343-341) che si concluse con la vittoria dei Romani e dei Greci. Seguì la “seconda” guerra sannitica (326-304) per la conquista di Neapolis. I Romani occuparono il Sannio, si cacciarono nella stretta valle delle “Forche Caudine” e subirono l’ umiliazione di dover passare sotto il giogo, ma il nuovo esercito, comandato da Cursore, li sconfisse. I Sanniti, annientati anche dagli altri popoli, dovettero abbandonare tutti i loro possessi. La “terza” guerra (298-290) vide i Sanniti alleati con Umbri, Etruschi, Galli e Senoni. Furono vinti a Sentino e ad Aquilonia. Roma, per mantenere le nuove conquiste dell’ Italia meridionale, fondò una colonia di 20.000 Romani e Latini a Venosa e con parte delle armi tolte ai Sanniti, elevò sul Campidoglio, a Giove Ottimo Massimo, una gigantesca statua che si vedeva dai monti Albani (Da “Enciclopedia del ragazzo italiano”, Edizioni Labor). Chiedo scusa per essermi dilungata troppo. Degno di considerazione è il lavoro compiuto dal nostro giovane autore, colto e preparato. La sua ricerca, attenta e precisa, scientifica, è ricca di notizie, è curata nei
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particolari: lo conferma la lunghissima biobibliografia degli autori consultati, degli “studi citati”. Noto è il suo modo di procedere: ogni volta che deve scoprire qualcosa, attingere informazioni certe, va direttamente alle fonti: consulta testi, si reca nei luoghi da esplorare per osservare resti antichi, siti archeologici, reperti da esaminare e studiare, valutarne l’ importanza e risalirne alle origini e al periodo storico, oltre che per dialogare con persone informate e competenti. Ricordo che, per la composizione e realizzazione della sua tesi di laurea (un volume di oltre 600 pagine, dal titolo “Il carnevale dell’uomo animale”), si trasferì a Castelnuovo e vi rimase per un anno intero. Divenne l’amico di tutti; si fece voler bene e stimare per la sua serietà, la sua gentilezza, la sua umiltà, il suo familiarizzare con persone di ogni ceto sociale. Quando, alla fine, andò via col suo bagaglio di notizie attinte dalle interviste, dai racconti e dalle testimonianze degli anziani, avvertimmo la stessa tristezza che si prova per la separazione da un congiunto. Torniamo al testo, alla “sfera religiosa” dei Sanniti. La loro religiosità <<era caratterizzata da un alto livello di “annidamento” o “incorporamento”…Era interconnessa alla loro politica, alla vita militare, alla sfera economica, alla memoria sociale, all’arte e, sicuramente, al cordoglio, alle speranze individuali e familiari e all’emotività>> (Dall’ Introduzione). Non esiste accordo completo, tra gli studiosi, sugli aspetti culturali e religiosi delle genti italiche; non si è in grado di ricostruire la loro cultura “immateriale” e religiosa così come permettono le testimonianze greche e latine. Si ricorre, pertanto, alle fonti interne, storiche, dell’archeologia e dell’epigrafia. I Sanniti credevano in più dèi, erano politeisti, così come altri popoli di antiche culture mediterranee ed europee. Vi furono influenze reciproche. Greci, Etruschi e Italici, infatti, vivevano in strettissimo contatto e nelle stesse aree (Tra i tanti ricercatori e critici di cui l’ autore riporta ipotesi e giudizi – che non
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sempre condivide – ricorrono spesso i nomi di Adriano La Regina e Georges Dumézil). Siccome pochi sono i testi e di difficilissima traduzione e non esistono fonti in osco, l’ autore si limita ad analizzare il Sannio Pentro, provincia di Isernia, e le province di Campobasso, L’Aquila e Chieti, un’area in cui sono state trovate le più importanti e significative testimonianze epigrafiche ed archeologiche. Prenderà in esame il periodo compreso tra il VI sec a. C. e i primi anni del I sec. a. C. Le tematiche trattate procedono nel seguente ordine: “Il Ver Sacrum”, “La sfera funebre”, “I luoghi sacri”, “Gli dèi”, “La Tavola Osca”, “Il complesso politico-religioso di Pietrabbondante e la triade divina suprema”, “L’ipotesi comparativa indoeuropea”. Il “Ver Sacrum”, pratica prettamente italica, consisteva nell’offrire in voto tutti i nati, uomini e animali, nella primavera successiva. Gli animali venivano immolati, i giovani, divenuti adulti, erano costretti a lasciare la terra natia e a fondare una colonia altrove. Molti i popoli che ebbero origine da questa pratica (Fonti: Festo e Plinio). Pare che, all’inizio, venissero sacrificati anche gli uomini. Sarà vero? I primi indoeuropei credevano nell’aldilà (V-III millennio a. C.) e nel “post mortem”. I Sanniti praticavano l’inumazione. Distruggevano tutto ciò che era appartenuto ai morti, anche oggetti preziosi. Le pratiche devozionali avvenivano nei “temenos” ed avevano la forma di “sacelli”. Ciò che è sopravvissuto dei Sanniti sono le dimore dei morti. La povertà e semplicità dell’architettura civile e militare contrasta con la ricchezza delle necropoli e dei luoghi di culto. Abbondano i santuari dedicati ad Ercole, così pure le statuette di bronzo coniate per lui. Ercole era la divinità più venerata: non era un semidio, né un eroe, era un dio. Importante reperto la “Tavola Osca o “Tavola di Agnone”, conservata presso il British Museum di Londra, un documento di eccezionale valore per la conoscenza della religione dei Sanniti e di tutti i popoli dell’Italia antica, e utile guida per compiere determinate azioni rituali. Anche
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nella “Tavola” è presente Ercole. Alessandro riporta il nome dei santuari più noti del Sannio, il più importante dei quali era il complesso templare di Pietrabbondante, il Santuario Nazionale dei “Samnites Pentri”, “Il luogo sacro dei Sanniti” (così da un’ iscrizione osca). La vasta area in cui sorgeva il complesso “dovette avere valenza fin dalla più remota antichità se vi si rintracciano tracce di culti arcaici riferiti addirittura al ‘substrato pre-indoeuropeo’ “. Nel tempio maggiore di Pietrabbondante, il ”tempio B”, l’unico esempio italico con la struttura a tre celle, non è stato possibile individuare le tre divinità. La Regina ipotizza che siano “Victoria, Ops e Mamerte, il Marte sannitico, A. Testa, invece, pensa che siano “Victoria Ercole e Ops”. E’ stato Dumézil a precisare che, dopo la prima “migrazione” indoeuropea, s’ebbe, attraverso i secoli, lo sviluppo di culture che era <possibile studiare grazie alla filologia, all’ archeologia e alla storiografia. Le divinità venerate in Pietrabbondante rappresenterebbero le “funzioni” della tripartizione ideologica indoeuropea: Victoria (sovranità), Ercole (forza militare), Ops (fecondità) secondo Testa; secondo l’ipotesi di La Regina: Dius Fidius (sovranità), Victoria (forza militare), Ops (fecondità). Tale triade può essere comparata a quella romana e a molte altre. Vi sono contraddizioni e opinioni discordi sia sulle “funzioni” che sugli dèi. Concludo con l’autore: il santuario di Pietrabbondante rivestiva il ruolo “capitale” nella vita pubblico-religiosa dello stato sannitico; le caratteristiche specifiche di tale ruolo permettono di risalire “all’alveo dell’ originaria matrice indoeuropea”. Tantissime le informazioni scaturite dalla ricerca che Alessandro Testa ci fornisce. Mi sono limitata a “pescare” un po’ qua un po’ là. Certamente avrò tralasciato notizie importanti. Consiglio, perciò, di leggere l’ interessante saggio, anche per una visione unitaria del tutto. Antonia Izzi Rufo ALESSANDRO TESTA - LA RELIGIOSITÀ DEI SANNITI - Cosmo Iannone Editore, pagg. 121, € 14,00, Prefazione di Dominique Briquet.
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VIRTÙ E ARCAICITÀ DI UNA VERA CIVILTÀ DI FRONTE A UN’EPOCA SENZA VALORI di Leonardo Selvaggi I RA effetti e ricordi si esaltano sensi e intelletto. Paesaggi, figure in un contorno ambientale tutto pervaso da sentimenti. Antonio Angelone nelle opere dialettali, poesie e commedie, esprime tutto se stesso e prende respiro nello spazio della Natura in piena libertà ricostruendo tempi e culture del passato con immagini e vivacità di colori. Tutto parte dall’attaccamento alla sua Forlì del Sannio, dai luoghi ove la sua vita si è estrinsecata. In pagine limpide e semplici la sua produzione letteraria, con entusiasmo, fede, amabilità, con sofferta sensibilità e fine penetrazione. Antonio Angelone lo vediamo preso da immediatezza e facile trasporto all’ esuberante generosità nei rapporti con il prossimo. Ha mantenuto fermi nella memoria i vecchi costumi, facendoli rivivere con la naturalezza espressiva del dialetto. Si destano nella mente ancora vive la vicinanza tra animali e uomini, vallate fiorite e balze erbose alla brezza del mattino nel loro splendore. I cambiamenti sopravvenuti non hanno fatto dimenticare nulla. Riemerge il rude, forte ambiente rustico del paese e del Molise, tutto nelle caratterizzazioni che richiamano tempo trascorso e fatti avuti. S’aggira l’ombra dell’ asino, compagno delle fatiche amato, in silenziosa perseverante laboriosità. Un tacito eloquio passa tra Angelone e l’animale da soma, che dalle lunghe mascelle frantuma i pensieri e pazienza attraversando sentieri di pietre e fango. La campagna e le case in un legame stretto. Uomini e donne da mane a sera nei lavori dei campi, pezzi di terre in riquadri di solchi arati con geometrica precisione: formavano figure varie che rispecchiavano fra ombre e luce l’uomo aduso nei panni di fustagno, rinsecchito, assolato con le mani dure come ferro. Tutto un insieme negli spazi
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della Natura dalla intatta e pura floridezza, inestirpabile nei ricordi. Oggi il contadino lavora in giacca a doppio petto con i trattori per poche ore, va in macchina a scavezzacollo per i vecchi tratturi. La passione amalgamava contadini e terra, con infaticabile applicazione si ordinavano i campi, assetati, con mezzi rudimentali. Antonio Angelone lamenta la scomparsa dell’asino, la campagna è desolata, non risuona delle voci di un tempo. Si era tutti presi da progetti di lavoro, saggi e tenaci da sempre. Sembravano, piccoli e grandi, nati insieme, dietro gli animali e lungo i filari delle viti con solerte andatura. Bello era vedere durante la canicola le capre bizzarre sulle rupi nell’aria aprica in ampi spazi. II Nel nostro tempo l’inquinamento si diffonde attorno ai borghi, che fino a pochi anni fa costituivano angoli di paradiso. I paesi abbarbicati ai monti avvolti da coltri di nebbia umida e da fosche esalazioni. Diffusa desolazione, le piante hanno un senso di abbandono, sono come sparse ombre ischeletrite nell’ aridità dei campi. Le persone si trovano separate dagli animali, hanno perso l’aspetto antico, non c’è quel vicendevole passaggio di energie fra di loro che si aveva. Un deserto si è aperto intorno nelle zone del retroterra molisano come in altre parti del centro-meridione, è venuto a mancare nei caratteri tanto calore umano con la smarrita naturalezza dei modi. Il dialetto che Antonio Angelone fa risuonare in versi e in pagine teatrali pare espresso da voci compresse che non vogliono perdere l’ antica energia, son sterpi secchi che si vogliono conservare, pezzi di storia vera umana, di gente umile e dimenticata in tempi tempestosi di miserie e di stenti, di ingiustizie, di lotte di classe, di dannata esasperazione e nel contempo di rassegnazione. Tempi della questione meridionale con Giustino Fortunato, Padre Semeria, Rocco Scotellaro, Raffaele Ciasca, Gaetano Salvemini. L’aria nelle terre di Angelone non odora più di sostanze silvestri e salutari, c’è in cammino un processo di mistificazione. Si è dentro e clausure di un’
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epoca in trasformazione vertiginosa, anche gli animali non vivono più, in gran parte, in libertà nei terreni adibiti a pascolo, sono chiusi in stalle con mangimi artefatti. Periodo di transizione, di malessere, le incertezze e la confusione tengono in uno stato di insoddisfazione. Le idee non sono chiare, non si sa cosa si vuole. Pochi segni rimasti del passato, si vogliono riunire quali membra sparse di un mondo che aveva vitalità di forme omogenee, sempre legate da principi tradizionali, in quasi magica unione, non c’era discontinuità nelle attività dell’ambiente contadino, sempre svolte in modo ritmico, uno spirito di condivisione lo animava. I paesi hanno cambiato veste, camuffati vogliono imitare le città, correre dietro i progressi tecnologici spesso apparenti. Una specie di malanno si avverte, l’ aria come infestata da insetti, grave cappa asfissiante. Il dialetto, dentro cui serpeggiava lo spirito della ruralità, è rimasto in brandelli, misti ad altri elementi disparati, panni lacerati da un’alluvione. III Antonio Angelone in “Poesie dialettali”, nelle commedie “Il matrimonio”, “Il dramma d’amore di Nicola e Loreta”, “La ruota della fortuna” è consapevole che si sono perdute delle particolari energie individuali e collettive, doti mantenute integre. Un’indomabile volontà con cui si riusciva ad andare avanti, senza le strutture che si hanno oggi, con il poco sempre sufficiente, nelle mani parsimoniose tutto era mantenuto con attenzione; il senso della misura e la passione di raccogliere, l’adattamento a tutte le evenienze facevano essere previdenti. Il paese natio non ha più quella scorza protettiva che si teneva sopra. I vicoli in comunanza cordiale non fanno sentire gli odori delle case, paiono slavati dopo una pioggia, portate via le dolcezze domestiche. Si intravede nella memoria la nostra infanzia felice, aggrappata alla gonna della mamma che ruota ampia sui mattoni d’ argilla, le pareti sono soffuse di sapori di origano e di aglio, la focaccia croccante invade con la sua fragranza la casa, un incanto, corpo e in-
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teriorità, affettività sono in estasi. Anche le virtù della solerzia e dell’attività ostinata sono ombre sfrangiate rimaste visibili nella memoria di pochi. Esempi di indefessa laboriosità e di passione nei mestieri, dedizione che si faceva esaltazione spirituale, purezza di estrinsecazione di capacità natie tramandate nelle famiglie, senza avidità e attaccamento agli interessi materiali. Raro l’accumulo di denaro, si viveva per lavorare. Tempi gloriosi per l’ agricoltura e l’artigianato, l’industriosità era tanta, fine intelligenza e praticità correvano fra intelletto e mani. L’occhio vigile seguiva l’esecuzione del lavoro con orgoglio e dignità, quello che si faceva costituiva il meglio, tutto il tempo necessario dedicato. Nei giorni che abbiamo speculazioni, sdegnosità, impreparazione, assenza di organicità e di ordine. Si manca di una visione di insieme, c’è il disamore, inettitudine, la persona non si riversa nell’operato, rimane estranea e frettolosa, calcolatrice, il lucro in primo piano, i lavori fatti in modo rozzo senza un programma. La sensibilità si è oscurata molto. Nel passato la spontaneità della persona era capacità di saper vedere e comprendere, lo sguardo andava lontano, non mancava di finezza istintiva. Lavorando all’intemperie maggiori la spossatezza e i disagi. Ci si temprava, tutto era nulla, le fatiche rendevano gli arti agili e di una meccanicità che era sveltezza e rendimento. IV L’uomo e la Natura hanno rotto gli stretti legami che facevano continuità in reciprocità di amore. Era un ritrovarsi alle fonti alimentatrici e di benessere. Nel Molise come altrove si notano incuria, senso di maltrattamento delle zone verdi, i boschi malati, frane, smottamenti tolgono il tappeto di limo, tutto questo causa sconvolgimenti atmosferici. In altura si incontra qualche raro luogo che vive ancora in atmosfera di beatitudine: sorgenti di acqua pura, piante incontaminate che prendono l’azzurro del cielo. Qualche cappella votiva su spiazzi di montagna, che guarda sulle vallate, protettrice di antichi riti religiosi, di feste che conservano ancora tradizionali co-
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stumanze. Riemergono tracce di levità sentimentale che sanno di innalzamento, di inni all’animo che fanno dimenticare tutti gli affanni, le malevolenze, gli egoismi, le turpitudini di oggi. Tante idee malsane, incomprensioni che il poeta e pittore Antonio Angelone depreca ogni giorno con la sua espressione umile e amichevole, scrivendo pagine poetiche, raffigurando con la sua arte dei colori angoli simbolici, idealizzati che ispirano pace e serenità. I versi scorrono guizzanti tra pietre e pozze trasparenti dall’alto, suoni onomatopeici, pare di vedere la Natura risorta, lontana dal chiasso e dalla mano distruttrice dell’ uomo. Pennellate che sono vibrazioni di una vita trascorsa con semplicità e visi chiari, che trovavi di fronte rilucenti e genuini. In espansione aperti aspetti loquaci, l’animo attraverso gli occhi traspariva con le sue profondità, con le sue vallate di delizie affettive, tenerezze per tutta la persona, gentilezze, buoni modi educati invadevano di sensibilità quando intorno si muoveva. V Come reperti archeologici da recuperare il dialetto di Forlì del Sannio e delle campagne, frantumato, semisepolto. Antonio Angelone ha compiuto un lavoro paziente e minuto, ricompone rottami di una civiltà che era tutta storia di popolazioni e di ritualità, superstizioni, paure, ansie. In genere tutto coordinato, non avvertivano scissioni fra le parti che costituivano un vivo armonioso complesso di persone e cose, piante e campi lavorati che di lontano davano il senso dell’assiduità delle fatiche. Il dialetto è poesia autentica, cultura della vita, testimonianze e fatti che si ricordano, principi morali, modi di essere, ardore, desideri sognati, ramificazioni e simmetria, concomitanze, radici dappertutto, passaggi che portano in ogni luogo. Oggi lo spazio diminuisce, ci si scontra, tenebre e barriere di ogni tipo rendono irretismi ai paesi. Il dialetto tutta passione di vivere tra difficoltà e speranza, articola l’eterna commedia umana, tra ilarità e amarezza, le persone resistenti, indurite dall’aria hanno molto degli oggetti; l’ alimen-
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tazione è di elementi naturali, tutto raccolto dalla terra, le mani preparano con sveltezza e amore. Un linguaggio sapido, che sa di palato, commisto con tutto, non c’è frammentazione nella vita dei contadini, dall’insieme viene la sazietà e la consistenza di ogni cosa. Articolazione ampia, capace di sfumature, di entrare negli anditi più stretti, significando, chiarendo condizioni e stati d’animo. La passionalità amalgama l’intimità e l’esteriore, rimane dentro in un intreccio di istintività e di ostinatezza. Sotto la sguardo merletti e ricami, stoviglie di rame appese al muro, tenute lucide non deterioravano mai. Le case dei contadini si rimuovono nella mente con nostalgia, in simbiosi con le persone: erano semplici, scarne, ma non mancava il necessario, una specie di innervazione legava tutto quello che si considerava utile. Casa e campagna nelle commedie di Angelone fanno gli scenari fondamentali, la vita si svolgeva allargata in spazi e in profondità. Dolci visi di donne, in ovale, fasciati dal fazzoletto, reclinati alla fontana con i panni da lavare, la liscivia faceva candide le lenzuola stese al sole. Femmine giovani e mature nel contempo, vestite strette, i passaggi lunghi per luoghi difficili da prendere, sembravano quelli di un labirinto. Nel silenzio diffuso, addensato si pensavano in vibrazioni magiche intrecciati fatti e persone, una forza di attrazione a lungo raggio creava punti di richiamo dentro cerchi di continuo rinnovati. VI Il dialetto corrisponde alla natura dell’ ambiente rurale, arriva da profondità, attraversa luoghi lontani, ritorna carico, si ferma, fa vedere con icasticità, rappresentatività, realismo, sonorità. Quello che si ha e quello che va con l’immaginazione balza davanti, in faccia ti parla con accenti chiusi squillanti, inarticolati, fluenti, modulati da moti interiori. La gente con primitiva presenza sempre in mezzo, piegata sui campi, attaccata alle case bianche, lunghe fonde, con odore di fumo, sembrano incavate, si infiltrano i raggi del sole di traverso, sulla strada concatenate l’una
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dopo l’altra, il contadino individualista ama la libertà, la sua è vita autentica, operosa, movimentata. La parlata in unico flusso da persona a persona, un libro di fotogrammi interminabile, dentro trovi le giornate e i lavori, voci, animali, distese assolate di terre, sentieri di pietre in scoscendimento, paiono attaccate alle alture. Di certo non tutto quello che riluceva era oro, non erano assenti manchevolezze e difetti. Una vitalità natia fatta di testardaggine fattiva guidava ai superamenti o quanto meno agli aggiustamenti. Le popolazioni agresti aggregate risolvono fra di loro i problemi. In indipendenza producono per sé con un’autogestione che si regola con proprie norme. Per il contadino non ci sono dipendenze, la Natura la sua Provvidenza. Siamo davanti ad una civiltà umana autonoma. L’ uomo moderno è asservito alle strutture, tutto si poggia su una serie di ingranaggi che se si arrestano determinano crisi di sopravvivenza. Un complesso di sistemi meccanici concatenati, un anello rotto può causare un cataclisma, la stessa Natura nell’era tecnologica è in pericolo. Eticità e una propria filosofia nel mondo rurale molisano come in tutto il Sud generavano cooperazione e vicendevoli vantaggi. Antonio Angelone fa capire come abitudinaria fosse la volontà di lavorare in concomitanza. Si ascoltavano i pensieri saggi, si rifletteva su decisioni da prendere chiedendo pareri, rispettando esperienze vissute. Il terzo millennio ha molte disarticolazioni e bizzarrie, ci si aggredisce con false loquele, si spiattellano ingiurie, disdegnosi e vanitosi. Un arrivismo che disunisce in scontri di esasperata violenza. VII Il dialetto di Forlì del Sannio, quello che è rimasto nell’animo del poeta, pittore, commediografo, direttore di “Sentieri molisani” Antonio Angelone portava a vivere nei vicinati, nelle piccole piazze, piacevoli luoghi di incontro, lungo antichi muri discutendo di lavoro e delle situazioni che si avevano. La fisionomia dalle marcate caratterizzazioni, ferme quasi pietrificate. La vita all’aperto, i
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lavori all’intemperie irrobustiscono, i mestieri fatti con passione si leggono sul viso, danno una sagoma particolare all’aspetto fisico. Le persone si ritrovano e si richiamano. Le figure tinte di colori genuini, il bello e il reale si incontrano in quadri di purezza e di essenzialità. Manca l’artificio come pure la manipolazione. Il rude è energia intrinseca che armonizza. C’è una mescolanza di elementi che crea sostanze vitali: si sovrappongono e si sostengono a vicenda. Una specie di dinamismo muove in sintonia interiorità e forza manuale. Questo mondo che vive di autosufficienza e di naturalezza nei tempi che abbiamo è ormai un ricordo. Si sta smantellando una civiltà che aveva molti lati positivi. Un retroterra, lontano dai centri urbani, che si è tutto cambiato, non si riconosce più, una scorza di modernità ha falsificato un sistema di vita di alta dignità, considerato come grande testimonianza di storia di popolazioni con usi e costumi di notevole consistenza morale, sul piano delle attività costruttive con forti spinte psicologiche e di carattere. Altre parti della ricca produzione letteraria di Antonio Angelone,”Fiore d’arancio. Un maestro povero”, “Terre e fragranze”, poesie in lingua e in dialetto, !La vellegna”, “Re vuasce sotta ‘lle sctéll”, “La sperimentazione dei maestri”, commedie. Sono opere che si distinguono per contenuto ed espressività relative sempre a Forlì del Sannio e al Molise, mostrano nostalgia e rammarico per quelle forme di vita che poco per volta sono andate via: erano parti di noi, ricche di insegnamenti e di esempi da seguire, vissute con spirito di sacrificio, con doti di umanità. Sempre infaticabili e fedeli alle tradizioni, radicate di generazione in generazione. Fondamentalità di principi di coerenza. Opere che riscoprono un mondo umano, attivo integerrimo generalmente, nel rispetto di norme ataviche, sperimentate nel tempo con la forza dei sentimenti, il senso della misura, con modi bonari, generosi e in sintonia con l’ambiente naturale e con la struttura sociale. Il dialetto ricostituito nella sua completezza, corrispondente ai fatti narrati, nella sua originaria conformazione. Essenzialità e modi di essere della vita di ogni
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giorno, maestria esperta di artigiani e contadini con capacità inventiva. VIII Abnegazione e amor proprio. Il dialetto esprime la sua spontaneità, impeti interiori e il senso profondo delle diversità. Arriva da naturali cammini, si ricongiunge a presenze di popoli antichi. Sappiamo che gli aborigeni dei grandi Romani sono stati i Sanniti, i Lucani, gli Enotri, i Conni, gli Italioti confederati, gli Spartani e tutti i popoli della Magna Grecia, Lunghe ramificazioni, attraverso la classicità arriviamo alla lingua nazionale. Custoditi gli stessi ritmi di vita, stesse predilezioni, tutto nella passionalità di attaccamento alla propria terra. Un grande merito da riconoscere al mondo rurale; lodevole per fedeltà ai principi e paziente combattività, con fatiche continue migliorati i propri luoghi. Impegno morale e civile nel lavoro letterario di Antonio Angelone. Un vero cordone ombelicale legava ciascuno alla terra natia, con religiosa dedizione si può dire che si è lavorato con le mani e con il cuore. Con sentimento di fratellanza, felici di fare bene con la concordia e con reciprocità di intesa. Un destino unico conteneva tutti insieme,prendendo molto dai contatti con la Natura. Si andava per comuni passaggi. Questo di sicuro è stato la molla che ha dato forza nei momenti di crisi, nelle annate infauste di magro raccolto. Vita vissuta con ardore ed entusiasmo, quasi ispirati da spinte superiori, che le opere di Antonio Angelone fanno conoscere alle generazioni future. “Tre véglié ‘ssuonn”, “Ciccotè”, “Da re semiend alla tréscha”. Nei piccoli paesi una certa genuinità di comportamenti si può conservare, sostanze vere e autenticità possono trovare protezione, con grande vantaggio naturalezze ed essenzialità vitalizzerebbero i nuovi sistemi attuali logoranti e confusionari. Andrebbero valorizzati i sentimenti umani, la vicinanza alle piccole cose garantendo integrità all’uomo senza troppe deformazioni, doti di riflessione, di carattere e di personalità. IX
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Importante conservare i dialetti e le parti migliori della civiltà rurale. Ritroveremmo le nostre radici, chiarezza e profondità in noi stessi. Riferimento alle origini, una maggiore libertà e compattezza nei settori sociali, benessere in reali, naturali rapporti con il vero, senza troppo alienarci dentro le reclusioni massificatrici delle città. Senza esteriorità meccaniche, ma conquistando maggiori spazi di interiorità che conducono a sintonie e corrispondenze. Negli scritti di Antonio Angelone e nelle pitture struggente si sente la nostalgia dell’emigrante. I ricordi della propria terra nelle riviviscenze dialettali frammentate, uscenti come speroni da messe uniformizzate. Forti tracce, rimaste come in un quadro, dalla mente non si staccano: sono concretezze ed elementi di sanità morale in tempi di disgregazione. Ogni giorno la voglia del ritorno, un’angoscia che preme sulla persona, diventa ferita mai guarita con le distanze dell’oceano, opprimenti che hanno reso l’animo diviso, spaccato da feroci strappi di dolore. Immobili figure nel sole interminabile d’estate, fra le messi, i campi rosseggianti di papaveri, odorosi di fieno, lo zirlare dei grilli in armonie ondeggianti come serenate celesti nelle serate di grande splendore. X Dentro i vicinati tutti seduti sui gradini nelle serate di luna ad ascoltare il racconto di fatti straordinari, di leggende e di verità strabilianti. Lo sguardo sottile, le sfumature del dialetto che la lingua non riesce sempre a riprodurre. La ricca produzione letteraria di Antonio Angelone ci offre un completo panorama dei paesi a lui cari. L’animo gli si scuote, tutti i sentimenti sono in movimento. “L’atrajiére, iére e vuojie”, “Felemena lalengacciuta e Alfonz re cengenare”, La banda Centrillo. Brigantaggio postunitario”. Si rinnovano fatiche e patimenti. Tra le tante carenze presenti nel passato non mancano certi modi di essere che oggi in tempi di transizione sarebbero di monito per il futuro. Varietà di toni, evidenza di personaggi, con i loro caratteri entrano nei nostri pensieri. Incisività ed efficacia nelle
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pagine che paiono scolpite. Ogni espressione inquadra un momento di vita, le figurazioni hanno robustezza arcaica. La speranza persistente di tempi migliori come un’eterna primavera che rifiorisce negli animi, che porta dilatazioni e avviluppamenti intorno. I giorni scorrono in stretti ritmi, come catene che non lasciano passare. Attraverso le stagioni i lavori dei campi non finiscono mai. Figure liete e con un fondo di tristezza inafferrabile, vengono vicino. La gente semplice, remissiva, oppressa dalle ingiustizie, dal prepotere dei signori. Si era felici. Si vorrebbe ricostituire il passato che non presentava le problematicità attuali: tanta serenità, bastava niente per essere soddisfatti. L’esteriorità rifletteva quanto si muoveva nel proprio intimo. Senti il pianto sommesso, vedi il lieve sorriso sfuggente, senti i fremiti come gli stati di abbandono. Le piccole astuzie, i modi cauti, l’istintività fine che diventa prudenza, una saggezza minuta che viene da riflessione, tutte le capacità maturate attraverso le durezze sopportate anno dopo anno. Animi disciplinati con un abito mentale fatto di superamenti. Le avversità e le privazioni avevano fatto indurire la pelle. XI È stata buttata di dosso la veste di prima, è cambiata la figura umana, si è esposti a contrasti egoistici. Piena trasformazione: l’ aspetto naturale, schietto è diventato artificioso, la spontaneità moto meccanico. Il volto stilizzato, scatola dai movimenti automatizzati, si va come spinti da un punto all’altro lungo traiettorie geometriche. Si è indurita la figura umana come se una copertura sopra si fosse formata. Non abbiamo comunicativa e vicinanza di rapporti. Porte serrate, recinti chiusi, ognuno si dibatte con i pensieri propri. La sera fredda e inaridita, i paesaggi avvolti da fosco velame. Antonio Angelone ci conduce in un mondo di persone diverse, facili a socializzare, si riesce a concordare e ad appacificarsi sena astiose discussioni. Ritorniamo ai tempi dell’adolescenza, meno ostili e più lineari, senza troppe complicazioni, senza formalismi e in piena libertà espressiva, non ab-
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biamo gli ostacoli che fanno le ipocrisie. Il dialetto abruzzese aspro, leggerlo si ha l’ impressione di passare per i luoghi natii di Angelone, pieni di boscaglie, di sterpaglie e rovi, campi seminati, case linde piene di sole, tra persone che parlano con gesti, con modi suadenti. Espressione trasparente, scorrevole come una matassa che si dipana di continuo, si pensi alle commedie del Goldoni, ogni parola reagisce ed emette altro dire. Antonio Angelone con un metodo didascalico, efficace ci fa capire le caratterizzazioni del passato e ce le fa amare. Tempi forti, impegnati, noncuranti dei disagi, si passa per entro le spine di ogni genere, le mani non si feriscono. Non si chiede nulla a nessuno si è contenti di redditi minimi. C’è un’autosufficienza. La volontà che è senso di sacrificio fa vivere e spinge ai lavori duri. Ci si mantiene nella propria integrità di carattere, il proprio cammino è aperto, segnato da sempre, senza subire influenzazioni che portano a sviamenti. Ciò che sostiene e armonizza sono gli effetti, l’ambiente sano della famiglia, il rispetto delle persone, ci si muove attorno a chi è più maturo, più esperto, si ascolta, pronti ad apprendere, a renderci pratici e utili. Ai giorni nostri le facoltà psicologiche sono in crisi, paura del futuro, perdiamo con l’ inquinamento che si va diffondendo in tutti i sensi, morale e materiale, le ultime sostanze ancora rimaste pure. Soffocati senza stabilità. L’ informatica si avvia a periodi di travolgimento massimo. Le tradizioni e quel poco di artigianato che ci manteneva viva la passione di industriarci con le forze innate, creative, di intelletto e di fantasia, di adoperarci con le proprie mani, decadono. Siamo in crisi morale non soltanto, ma lo stesso corpo si sente senza peso. L’ automazione svilisce. Non si ha né corpo né anima. XII L’ambiente contadino rappresentato da Antonio Angelone, a considerarlo sembra leggendario, irreale: è visto con un profondo senso arcaico, archetipo, della religiosità atavica in tempi di miserie e di fatiche, ma di certezze, di ricerca di sé, di vitalità sempre ri-
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vissute. Sono messe più volte in scena le condizioni economiche delle popolazioni del Molise, le cui risorse dipendevano in gran parte dalla vendita degli animali. Tempi di ristrettezze, ma di serenità familiare, di amore, di attaccamento a tutto ciò che era appartenenza propria. L’inerzia non si conosceva, bisognava ricavare a tutti i costi con le proprie forze il necessario per sopravvivere. Antonio Angelone ha compiuto un lavoro di forte interesse portandoci attraverso il dialetto in un mondo di grandi valori, di efficienti capacità psico-fisiche. Sembra che una vanga smuova terreno, che scavi e metta sottosopra tutto quello che tira fuori per meglio ricomporre il tempo passato. è contento di stare vicino ai resti di vecchie usanze, si sente rinascere, di ritornare in sé. Il suo istinto si espande in quei pochi angoli rimasti inalterati, dove la Natura in limitati tratti pare circoscritta, protetta da barriere che non lasciano passare infestazioni, dove non ci sono violazioni da parte di mano iconoclasta che porta rovina con costruzioni di cemento soffocatrici, che spezzano le visuali e gli orizzonti; i campi tagliati non più feraci prendono aridità, privati dello spazio libero. Il Molise come la Basilicata e altre regioni poco esposte alle rapide trasformazioni tecnologiche tiene ancora qualche parte chiusa nella cornice del passato. Le tradizioni non debbono frantumarsi, sono flusso spirituale di Storia umana che riannoda autenticità di idee e di pensieri. Si vuol salvare quanto più possibile quello che resiste al passaggio sconvolgente della modernità. Si vogliono le parti dell’uomo vero, non falsificato, ritrovare le vecchie voci affievolite che passano come fantasmi. Felice il tempo passato che viveva in atmosfera poetica, lo mettiamo vicino alla nostra epoca per capirlo meglio, per rilevare la forte differenza che passa tra di essi. Viviamo alienati, senza naturalezza, una perdita di energie umane si è avuta nell’epoca tecnologica. Si riflette tutto nel linguaggio corrente e in quello letterario-scientifico. Si comincia ad avere dei danneggiamenti in senso di isterilimento, non c’è eloquenza, l’esuberanza delle immagini e dei colori si annebbia. Un
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certo veleno si diffonde, si perde trasparenza, i contorni li vediamo spezzati, ondeggianti. Le mani cominciano a servirci poco, l’ intelletto non al centro delle facoltà in una unitarietà fisico-psicologica, passa sempre più nelle strutture tecnologiche, un vero smembramento. Pare che la cultura generale si smantella, andiamo con i frammenti, ci delimitiamo in ambiti di specializzazione, in particolari spazi. La Natura intorno che dava immediatezza di contatti la sentiamo sofisticata, lontana, smorta, un paradiso perduto. Leonardo Selvaggi AUTUNNO Ondeggiano fiamme verdi gli eucalipti, guerrieri d’altura in lotta con il vento. Li osservo con l’anima placata del tramonto, negli occhi gli abbagli fitti del sole. Una nuvola sorride con occhi di latte, vaticinando giorni di pioggia e gelo. La campagna soggiace al rito del riposo, con le vigne assalite da grumi d’inedia. L’estro che guida ricami di foglie secche l’anima solleva alla fonte del silenzio per bere gli umori miti della sera. Ho tutto il tempo per decifrare nenie di stelle che vacillano nella quiete alta di una cupola che fa ombra alla terra. Antonio Crecchia Termoli, CB
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 11/10/2017 All’Università La Sapienza di Roma, una dipendente ha ottenuto due giorni di permesso retribuito per il cane ammalato e perché ciò è “un grave motivo familiare personale”. Alleluia! Alleluia! L’animale è parte della famiglia, anzi, sta divenendo l’unica, la sola vera famiglia. Evviva i cani! Abbasso i bambini! Domenico Defelice
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Il Racconto
LO STUDENTE AMERICANO di Rudy De Cadaval
D
OPO aver cercato invano, per mesi, uno studio nelle vie del centro, Cappello, Stella, Pellicciai, Leoni, e dovunque nei dintorni, Nick Brod si decise per uno studio in un attico pieno di finestre, in una sassosa via di sottoriva con biancheria e lenzuola appese attraverso la strada. Una settimana prima, aveva letto un annuncio sul giornale locale di lingua inglese, “Studio da dividere, prezzo conveniente, molti vantaggi, etc. L. Riva” e dopo molte angosce (il tono secco dell’annuncio aveva destato in lui degli incubi che credeva di aver superato da tempo) molte indecisioni e ripensamenti, Brod si era recato all’indirizzo indicato nell’ annuncio, in una fredda mattina di dicembre. Era un edificio di quattro piani, di un giallognolo che verso gli angoli virava al marrone. All’ultimo piano, in uno studio estremamente ingombro di oggetti vari, che odorava di trementina e di pittura ad olio, la vista piena di ispirazione di un cavalletto, illuminato da una luce ferma che veniva dalle tre grandi finestre, mise all’ex studente d’arte, una sorta di febbre di tornare a dipingere. Ma lì aveva dovuto trattare, non con un pittore, come si era aspettato, ma con una pittrice, Lilliana Riva. La pittrice, era una donna magra, il genere inquieto con corti capelli arruffati, bocca violenta, occhi distratti, collo eretto. La donna aveva natiche strette e seni eretti ed era a suo modo attraente, anche se non la si sarebbe potuta dire propriamente bella. Indossava un pesante maglione di lana nera, consunti pantaloni neri di velluto, calze nere e sandali di cuoio macchiati di pittura. Brod e la pittrice si osservarono furtivamente e lui si rese subito conto di avere di fronte a sé il tipo che gli era indifferente, a lui e indistintamente a quelli come lui. Ma dopo dieci minuti, no-
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nostante il disordine che trasudava, e malgrado rispondesse freddamente alle sue esitanti domande, lo studente, sempre avido di strane bellezze e alla caccia di esperienze di ogni genere, si sentì attratto e come affascinato da quella donna. Non cascarci, disse a se stesso conscio dei pericoli che minacciavano lui e il suo desiderio appena riaffacciatosi di creare nuove opere d’arte. Tuttavia era già mezzo innamorato di lei. Non può essere, pensò con disperazione, invece poteva essere. Gli era accaduto altre volte. Alla presenza di lei chiuse tutti e due gli occhi e con tutto il cuore si augurò che non gli succedesse nulla, tremava veramente, e benché facesse di tutto per dividere la sua sorte da quella di lei, era già un uccellino spennato, infarinato, pronto per essere fritto. Brod, protestò con se stesso, urlò contro la propria debolezza, si disse le cose più atroci, ma ciò non gli servì a molto. La risposta gli era ormai familiare: gli piacevano appassionatamente le donne strane. Così Lilliana che nell’annuncio aveva chiesto cinquecentomila al mese per l’affitto, alla fine raddoppiò la cifra, e Brod dovette strapparsi dal cuore i soldi dal primo all’ultimo mese, (avrebbe potuto scappare di notte) più un deposito di duecentomilalire per eventuali danni. Un’ora dopo fece il suo ingresso nello studio con la sua valigia finto-cuoio. Questo accadde al colmo dell’inverno. Dietro le finestre illuminate dal sole freddo c’erano due pini marittimi raggelati e dietro, a breve distanza, splendeva l’Adige ghiacciato. Lo studio, era ben riscaldato, Lilliana aveva insistito a dire - ma il freddo entrava violento dalle larghe finestre -. Sembravano raffiche. Lo studente tremava di freddo ma si sentiva riscaldato dal suo segreto amore per la pittrice. Ci volle quasi tutto il giorno per farsi un po’ di posto per lavorare; circa un terzo dello studio fu quello che gli riuscì di ottenere. Mise le sue tele nella sua parte di parete. Era curioso di osservarle ma gli occhi di Lilliana lo seguivano in ogni movimento, (notò parecchi autoritratti). Benché stesse dipingendo una
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monumentale natura morta. Una fetta di pane e due teste d’aglio. Rimosse collezioni di “Oggi”, pile di cartoline e di lettere ingiallite, e calendari di molti anni prima. Anche una scatola di perugina piena di pezzetti di ceramiche etrusche, una di piccole conchiglie, una terza conteneva medaglioni di vari Santi e della Vergine, lei gli raccomandò di fare attenzione mentre le spostava. Aveva scoperto una brandina pieghevole vicino ad un lavello di pietra nel suo angolo di studio e lì dormì. Lei gli diede un vecchio fornello e una tavola rotta e lui comprò le poche cose necessarie per cucinare. Lilliana gli affittò inoltre un cavalletto. L’appartamento di lei era privato, una stanza all’altra parte dello studio, la cui porta era sempre chiusa a chiave. Gli dava la chiave ogni volta che doveva servirsi della toilette. Le pareti erano sottili e gli strumenti rumorosi. Poteva sentire distintamente il fischio e la corsa dell’acqua, e benché cercasse di far piano, dato che la tazza era sempre ingorgata e colma si sentiva imbarazzato ogni volta che se ne serviva. Di notte se ce ne era bisogno, si serviva del vaso ingiallito e poi lo metteva sotto il letto, una volta o due mentre lo stava usando nel cuore della notte ebbe l’ impressione che lei fosse sveglia e che lo stesse ascoltando. Dipingevano in cappotto, in testa Lilliana portava una babushka, Brod un cappello verde di lana calato sulle orecchie ghiacciate. Lei teneva uno scaldino con il carbone accanto ai piedi e ogni tanto sollevava un piede per riscaldarsi. Il pavimento dello studio di marmo, sembrava una spessa lastra di ghiaccio; Brod metteva due paia di calzini da tennis che sua sorella Bessie gli aveva mandato dagli Stati Uniti. Lilliana, che era mancina, dipingeva mettendo sulla sua mano un vecchio guanto, teoricamente il suo cavalletto era messo in modo che lui non potesse vedere quello che lei stava facendo, ma lui spesso allungava il collo e riusciva a vedere il suo lavoro. La pittrice, con sua sorpresa, dipingeva dando dei colpet-
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ti con le dita, rimirando la sua opera con gli occhi socchiusi. Notò che alternava nature morte con enormi spirali di rosso e oro che esplodendo in tutte le direzioni, alla fine si intrecciavano e finivano in un piccolo crocefisso nero. Una volta che Brod si fece coraggio per chiederle il perché di quella croce, rispose che era il simbolo che dava significato al dipinto. Lui voleva saperne di più ma lei si spazientì. Eh, sospirò, chi può spiegare l’arte. Benché lei rispondesse piuttosto seccamente a tutti i tentativi che lui faceva per conoscerla meglio e malgrado la sua attenzione per lui fosse quasi inesistente, (per lei era come se non ci fosse) il sentimento di Brod per Lilliana crebbe ed era così infelice in amore come non era mai stato in vita sua. Ma era paziente, una virtù persistente. La serviva spesso come poteva, per esempio portando giù dai quattro piani il secchio dei rifiuti, subito dopo la cena, (la portinaia era zoppa e il marito non c’era quasi mai), pulendo lo studio ogni mattina perfino correndo a raccoglierle il pennello il tubo di colore ogni volta che le cadevano, rendendosi utile in ogni momento che lei lo desiderasse. Lei accettava questi piccoli lavori fingendo di ignorarli. Una mattina, dopo aver letto una lettera di molte pagine, appena arrivata con la posta, Lilliana era triste, incapace di lavorare. Si muoveva inquieta, lui era disperato. Ma dopo aver dipinto febbrilmente una larga spirale rossa che continuava uscendo dalla tela, si sedette senza fare niente. Questo attimo di abbandono aumentò la sua bellezza. Le aggiunse una espressione giovanile che di solito non aveva, capì allora che non poteva avere più di ventisette o ventotto anni. Così Brod ispirato dal cambiamento avvenuto in lei, e sperando fosse un presagio di maggior fortuna per lei, si avvicinò a Lilliana sollevò il cappello e le propose, dato che lei usciva raramente, di andare a mangiare, tanto per cambiare, alla trattoria all’angolo “Da Bucia” dove andavano gli operai della zona e dove il vino bianco e la carne erano così deliziosi. Lei, con sua sorpresa, dopo aver gettato uno sguardo ansioso oltre la finestra verso i
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pini marittimi immobili, bruscamente acconsentì. Mangiarono bene, conversarono come esseri umani, benché lei più che altro, si limitasse a dare una risposta alle sue brevi domande. Gli disse che era venuta a Verona da Napoli due anni prima, ma le sembrava fosse passato molto più tempo. Lui la informò che veniva dagli Stati Uniti. Essere così fisicamente vicini a lei, poter respirare il profumo del suo corpo, come quello di un fiore appena sbocciato, eccitò Brod. Sedeva stando immobile, temendo di rovesciare la barca di ciò che era così prezioso per lui. Lilliana mangiò con molto appetito, tenendo gli occhi quasi sempre sul piatto. Una sola volta lo guardò con l’ombra di un sorriso ed egli si sentì beato. Lo studente sognava molti pasti come questo, benché non potesse permetterselo, dato che ogni soldo che spendeva gli era mandato da Bessie. Dopo la zuppa inglese e la mela sbucciata, si pulì le labbra con il tovagliolo, ed ancora di buon umore, propose di andare a piedi verso Piazza Brà e di andare a trovare alcuni pittori suoi amici. -Le presenterò Giovanni Dusi - disse Lilliana, - Con piacere - rispose Brod inchinandosi. Ma mentre stavano camminando verso la fermata dell’autobus, scoppiò un forte vento e Lilliana divenne pallida. – Qualcosa non va?Chiese –Il vento dell’Est-, rispose –Che vento?-L’Occhio del diavolo- rispose con irritazione. –Malocchio-. Aveva sentito parlare di qualcosa del genere. Ritornarono in fretta verso lo studio, le teste abbassate contro il vento impetuoso. La pittrice di tanto si faceva il segno della croce. Una vecchia sura vestita di nero passò all’ angolo della trattoria. Lilliana si voltò sconvolta e mormorando –che jettatura, porca miseria-. Quando arrivarono a casa insistette perché Brod si toccasse i testicoli tre volte, per allontanare il malocchio, ed egli obbedì subito. La sua richiesta lo aveva infiammato, benché mettesse in guardia se stesso, dicendosi che il gesto aveva uno scopo quasi teologico. Più tardi arrivò un visitatore, un uomo che
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veniva a trovarla ogni lunedì e venerdì pomeriggio, finito il suo lavoro di impiegato statale. I suoi visitatori, erano di solito uomini, venivano per qualche minuto e poi se ne andavano inquieti. La maggior parte di loro non li rivide più, fatta eccezione per Gianfranco Mari, un illustratore strabico. Ma quello che si vedeva spesso e che si fermava più a lungo era un austero signore dai capelli grigi e dagli acquosi occhi azzurri, Antonio Polidori, senza denti ai lati della bocca e vecchio abbastanza per poter essere suo padre. Portava una nera fedora inclinata, un consunto soprabito grigio, troppo largo per lui. Salutava Brod distrattamente e ciò lo rendeva immancabilmente geloso. Quando Antonio arrivava, La pittrice lasciava qualunque cosa essa stesse facendo e si ritirava con lui, nella sua camera, che subito veniva chiusa a chiave. Lo studente si aggirava solo per lo studio passando ore terribili.. Quando Antonio riappariva tutto arruffato e se aveva avuto successo, distrutto, Lilliana gli girava la schiena ed il vecchio usciva dalla porta con il volto esitante. Dopo la sua visita, e solo dopo la sua, Lilliana non riappariva nello studio per il resto della giornata. Una volta che Brod bussò alla sua porta per invitarla a cena fuori, gli rispose di usare il vaso perché aveva il mal di testa e stava dormendo. Un’altra volta che Antonio era chiuso nella camera con lei da due ore, Brod posò il suo orecchio geloso vicino alla porta, ma tutto quello che poté sentire furono bisbigli e sospiri. Guardando dal buco della serratura li vide tutti e due seduti sul letto con il cappotto. Antonio stringeva le mani di lei appassionatamente, bisbigliandole qualcosa, il naso arrossato dall’emozione. Il volto di Lilliana era pallido e lontano. Quando lo studente, controllò la situazione un’ora dopo, erano ancora allo stesso punto, il vecchio implorava e la pittrice piangeva. La volta seguente Antonio venne con un prete, un uomo corpulento dal volto ambiguo che respirava a fatica. Non appena apparvero nello studio, Lilliana, rossa di rabbia cominciò a lanciare verso di loro tutto
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quello che le capitava sotto mano, malgrado Antonio cercasse di calmarla. –Sanguisugheurlava, -scorpioni! Parassiti!- fino a che non batterono in ritirata. Tuttavia quando Antonio, sfinito e frettoloso ritornò da solo. Senza una parola si chiuse in camera con lui. Il lavoro di Brod , malgrado tutti i suoi sforzi disperati, andava avanti molto male. Ogni volta che guardava le tele nuove non riusciva a vedere che arlecchini, prostitute, re tragici, frammenti musicali, la malattia e l’orrore. Eppure, la tradizione era la tradizione e che cosa lui avrebbe potuto fare di meglio? Poiché aveva sempre amato la storia dell’arte pensò che avrebbe potuto incominciare con una “Madre con Bambino” ma aveva paura che avrebbe rassomigliato troppo a sua sorella Bessie, dopo tutto c’erano quindici anni che li dividevano. O forse una commovente “Pietà”, il corpo morto del figlio abbandonato come un’ ondata tra le fragili braccia della Madre? Era la maledizione della storia dell’arte. Lottò con immagini che conosceva alla perfezione, benché dettagli dei suoi dipinti migliori gli saltassero nella mente in ogni sfumatura. E se era così, in che cosa consisteva il vero impegno? –A volte vorrei dimenticare tutti i dipinti che ho visto- pensò Brod. Quasi preso dal panico cominciò a disegnare a carboncino “Figure di un ebreo che fugge” ma in fretta cercò di nasconderlo. Dopodiché le idee, tradizionali, o no che fossero, erano piuttosto scarse. –Stupisci te stesso- mormorò a se stesso, pensando se non fosse il caso di ritornare al surrealismo. Considerò anche la possibilità di una serie di “Relazione tra luoghi e spazi”. Costruzioni in cerchi e cubi, il piacere della geometria tridimensionale, astrazioni lineari, solo che non ne sapeva quasi nulla. La maggiore astrazione, pensò Brod, è la tela vuota. Ma un momento più tardi pensò che se la pittura rivela chi sei, perché non si dovrebbe dipingere? Dopo l’incidente del prete, Lilliana stette male per una settimana, a volte stava nella sua stanza a piangere disperatamente. Brod restava in piedi accanto alla sua porta senza sapere
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bene cosa fare. Comunque questo era un preludio allo scoppio dell’attività creativa della pittrice. Uscirono dozzine di lavori dalla sua penna e dal suo pennello. Continuava le sue astrazioni liriche basate sul tema della Croce nascosta, e passava ore a fare buchi con una lunga candela su fogli di cartone bianco (“Buchi spontanei”). Dopo aver mescolato caffè macinato, lucenti pezzetti di specchio rotto, e conchiglie frantumate, soffiò il tutto su carta mucillagine (“Velo nella nebbia”). Componeva dei collage con stracci e carta igienica. Dopo una dozzina di studi lineari, (“Linee discendenti”) fece un esperimento con uno strato d’oro spruzzato di terra d’ ambra, il tutto pettinato ad onde, mentre era ancora bagnato, con un pettine sottile. Lo incorniciò con una cornice nera e lo appese come se fosse un diamante. (“Luce di candela”). Lilliana lavorava intensamente e con impegno, le sopracciglia incrociate, la bocca serrata in una espressione violenta, occhi illuminati, narici palpitanti nella febbre della creazione, e quando volle uscire un attimo dalle sue nuove idee, fece un toro mitologico in argilla rossa “La donna toro”. Dopodiché ritornò alla natura morta, con grappoli di banane infine agli autoritratti. La pittrice qualche volta andava a guardare quello che Brod stava facendo e ricompensava i suoi sforzi. Cambiava linee e figure e a volte copriva con una pennellata tutto il lavoro se questo non la interessava. Gliene interessavano pochi in realtà, ma Brod era estremamente grato di ogni interesse che lei gli dimostrava e arrivò al punto di provocare le sue critiche. Si sentiva il cuore in gola ogni volta che lei si avvicinava per modificare il suo lavoro. Respirava profondamente inebriato il suo profumo di fiore. Lei si metteva il profumo soltanto quando veniva Antonio e ciò amareggiava Brod che immaginava quel vecchio godere della profumata essenza. Ma lui preferiva quel suo odore naturale che, per così dire, lui aveva per grazia, a quell’intruglio che si metteva addosso per il suo vecchio Romeo. Aveva notato che aveva un po’ di pancetta morbida, ma a lui piacevano le rotondità e
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spesso la sognava ad occhi aperti. Pensando di farle piacere raramente, (sognava che lei capisse il profondo amore che lui aveva per lei) lo studente fece alcuni degli esperimenti che Lilliana aveva già fatto: i buchi spontanei, diversi studi di linee ascendenti e due pezzi lirico-astratto-impressionistico di intrecci che finivano con la stella di Davide, ma si accorse che per questi suoi sforzi ebbe, al posto di una maggiore benevolenza, una dose maggiore di disprezzo. Ciononostante Lilliana continuava ad andare a mangiare con lui “Da Bucia”, e più spesso che mai, uscivano insieme anche per cenare. Non diceva praticamente nulla durante i pasti, di tanto in tanto lasciava vagare lo sguardo sugli uomini degli altri tavoli. Ma qualche volta, dopo aver mangiato, era disposta a fare una breve passeggiata con Brod, sempre se non c’era troppo vento. Una volta entrarono all’improvviso in un cinema del centro, dato che detestava di dover attraversare il ponte dell’Adige , oppure poteva farlo soltanto in autobus, sedendo immobile con la testa eretta e fissando un punto lontano. Mentre una volta stavano attraversando il ponte, Brod colse l'occasione per stringere il pugno rigido di lei nel suo, ma non appena ebbero attraversato il ponte, Lilliana si liberò bruscamente dalla sua stretta. Ora le faceva anche qualche regalo, tubetti di colore, pennelli di buona qualità, qualche metro di tela di lino belga. Lei accettava senza fare commenti, gli chiedeva in prestito anche qualche piccola somma, poca roba, diecimila lire oggi, cinquemila domani. E una settimana gli annunciò che avrebbe dovuto pagare una quota extra per l’ acqua e l’elettricità dato che ne usava molta. Lui pagava già di più per un riscaldamento inesistente. Ma Brod benché fosse continuamente angustiato dal problema del denaro, acconsentì. Avrebbe dato la sua ultima lira pur di potersi appoggiare sul suo soffice ventre, ma lei non gli concedeva niente, neppure una carezza. Finché un giorno gli permise di guardarla, mentre disegnava un nudo di se stessa. Impazzì guardando la forma del suo corpo e lo
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splendore della sua pelle. Siccome faceva un freddo terribile, la pittrice si spogliò in due volte. Prima si tolse il maglione e il reggiseno, e guardandosi in un lungo specchio a macchie, disegnò la parte superiore del suo corpo finché questo divenne violetto dal freddo. Rapidamente si riagganciò il reggiseno e infilò il maglione, poi si tolse i sandali e i pantaloni, le bianche mutande rotte sul cavallo, e disegnò la parte inferiore fino all’alluce. Lo studente le chiese il permesso di poterla ritrarre ma lei glielo negò, così dovette cercare di fissare nella mente meglio che poteva l’immagine di quei magnifici tesori: i seni alti e sodi, le natiche strette e ben fatte, le grandi labbra rosse e nascoste, la sorgente e il dolce inizio della vita. Dopo che lei ebbe finito di disegnare e che si fu rivestita, e dopo che si era chiusa con Antonio nella sua stanza, Brod si sedette, quasi senza vita su di un alto sgabello accanto alla finestra piena di cielo azzurro, diventando a poco a poco di ghiaccio nell’ascoltare i vivi accordi di Bach. Le attenzioni dello studente verso Lilliana si facevano sempre più insistenti e lei li corrispondeva con un sempre più evidente disprezzo, o almeno così sembrava. Ciò lo tormentava. Che colpa aveva per meritare un simile trattamento? Forse quella di pagare il suo affitto in tempo? Di farle più regali che poteva, senza tener conto dei due pasti al giorno? Di vivere nel gelo? Di adorare ogni piccola parte di lei, buona o cattiva che fosse? Immaginò che forse era seccata di vederselo sempre attorno. Per una settimana, Brod sparì durante tutto il giorno. Sedeva in fredde librerie, o si aggirava per musei gelidi. Cercò di dipingere o alla sera dopo mezzanotte o al mattino presto, ma la pittrice lo scoprì e ogni sera svitava la lampadina prima di andare a letto. –Non consumi la mia elettricità non siamo in America qui – . Mise una lampadina azzurra e lavorò silenziosamente dalla una di notte alle sei di mattina. All’alba scoprì di aver fatto un quadro azzurro. Brod girava ormai senza meta per le vie della città. Di notte rientrava nello studio per dormire e la sentiva nella sua stanza. Lei aveva un sonno inquieto,
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era piena di incubi e spesso parlava in sogno. Lui sognò che aveva tre occhi. Per due settimane non parlò con nessuno, fatta eccezione per una donna piccola e grassa del terzo piano, e disse quasi sempre la parola no. Brod avendo spesso sentito la musica di Bach salire dal terzo piano aveva cercato di immaginare la pianista, doveva essere una donna dolce e serena, bionda, con un corpo snello e il volto soffuso di grazie e di bellezza. Invece era Marina Di Meana una maestra di pianoforte di mezza età che sedeva al suo vecchio pianoforte verticale. La porta dell’ appartamento era aperta per fare uscire l’odore di cucina, in particolare quello del pesce fritto il venerdì. Una volta, mentre stava salendo dopo aver portato giù il secchio dei rifiuti, Brod si era fermato accanto alla sua porta per ascoltare un passaggio di una partita, e lei lo aveva invitato per offrirgli un caffè e una pasta. Mangiò ed ascoltò Bach. Il grosso sedere di lei si muoveva agilmente sullo sgabello mentre suonava, non troppo male in verità. – Lo spirito- , gli gridò sopra la spalla, -l’ architettura- , e Brod annuì. Da quella volta, quando lo vedeva salire, cercava di allettarlo con la pasta di crema e con Paolo Traversano, che era l’unico a saper suonare. –Come een- gli diceva in inglese, - suonerò per lei, possiamo chiacchierare un po’, tanta solitudine non fa bene a nessuno – . Ma lo studente, che sentiva già il peso della propria solitudine, odiava ancora di più quella di lei. Incapace di lavorare si aggirava per le strade disperato, sentiva la sua anima polverosa in una città di fontane, di rubinetti gocciolanti. Acqua, acqua dovunque grondante, gocciolante, bisbigliante segreti, e amore, ma non per lui. Perché la sua Verona non era così sexy? La Verona di Brod è una Verona senza Verona. Eppure apparteneva a quelli che si struggevano per questo. Salì lentamente la scalinata di San Pietro, sperando di risollevarsi il cuore, guardando sotto di lui i tetti della città, cupole, torri, chiese, campanili, monumenti che facevano la storia e il passato. Tutto era là, pareva di poterlo possedere, ma tutto tornava a sfuggire alla sua anima, e dopo
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tanto tempo si sentiva uno straniero. Allora colpito da un pensiero: si sarebbe mai potuto dipingere questo panorama, esprimere i suoi pregi e aggiungerli ai tuoi, dargli la tua anima. La faccenda si fa estetica! Il cervello di Brod si era scatenato. Una dolce visione di quello che avrebbe potuto dipingere gli passò rapida davanti agli occhi: santi in buona salute e malati, interi o mutilati, in rosso e oro, un nudo e grigio rabbino di Auschwitz. Negri bianchi e neri: che cosa non è possibile quando tutti i colori possono nascere dal tuo pennello? Se è così Lilliana est pulchra. Si rallegrò. Non c’era possesso più intimo di una donna! L’avrebbe dipinta con o senza il suo permesso avesse posato o meno: era come se dovesse dipingere se stesso, avrebbe potuto farlo ad occhi chiusi. Dopo tutto questo amore per lei qualcosa avrebbe dovuto saltar fuori. Si sentiva esaltato. Brod fece la strada di casa quasi correndo. Ci impiegò otto giorni, e fu un’opera d’amore. Tentò di fare un nudo, ma benché conoscesse ogni centimetro del suo corpo non riuscì a metterlo sulla tela. Soffrì fin quando decise di ritrarla come “Vergine con Bambino”. Il pensiero lo stupì e lo eccitò. Brod si mise a lavoro febbrilmente e provò un immediato piacere a dipingere. Lilliana, bella come una santa, reggeva tra le braccia un bambino che rassomigliava a suo nipote Giorgio. La pittrice rendendosi conto naturalmente del suo attivismo, lanciava occhiate curiose dalla sua parte, ma Brod dipingendo nell’angolo vicino all’acquario, teneva il cavalletto girato in modo che lei non potesse vedere. Lei finse che la cosa non la riguardasse. Quando aveva finito di dipingere lui copriva la tela e la teneva d’occhio con cura. Lo studente stava dipingendo Lilliana in uno slancio d’amore per il bambino attaccato al suo seno, il volto consapevole della sua innocenza. Quando il nono giorno, Brod mostrò con apprensione la sua opera, gli occhi della pittrice si rannuvolarono e il suo labbro inferiore tremò. Stava quasi per strappare la tela e buttare tutto in aria quando vide che l’espressione di lei stava cambiando. Lo studente rimase immobile,
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rimandando a dopo ogni gesto, ma tremava visibilmente. Dapprima sembrò sgomenta, un’ombra calò sul suo viso, sembrava distrutta. Gemette senza parole, poi disse singhiozzando –tu hai visto la mia anima – . Si abbracciarono furiosamente, il seno di lei contro il suo petto, Lilliana china sulla sua spalla. Brod baciò il suo volto bagnato e le sue labbra salate, mentre cercava di sganciare il gancio del suo reggiseno. –Aspetta caro, Antonio sta per arrivare- disse. Stava impazzendo dall’ansia e dall’ eccitazione. Antonio che di solito arrivava puntualmente alle quattro, quel venerdì pomeriggio non venne. Sempre più a disagio che le ore passavano, Lilliana sembrò sollevata quando vide le strade divenire buie. Riusciva a fatica a lavorare dopo aver visto il quadro di Brod, sospirava frequentemente e gli lanciava dolci e tristi sorrisi. Alle sei accontentò la sua ansia e si ritirarono in camera, la “Vergine con Bambino” era già appeso sopra il letto di lei, rimpiazzando uno scheletrico autoritratto. Egli ancora era scontento del quadro, gli sembrava avesse una superficie troppo sottile, pensò che la mattina dopo avrebbe dovuto richiederglielo per lavorarci ancora sopra. Ma la concezione meritò almeno una ricompensa. Lilliana preparò la cena. Gli tagliò la carne e lo imboccò, sbucciò l’arancio di Brod e mescolò lo zucchero nel suo caffè. Dopodiché, ad un suo cenno chiuse la porta dello studio e quella della sua camera, si spogliarono e scivolarono sotto le coperte. Come era bello per una volta essere all’interno di quella porta chiusa a chiave, pensò Brod , sentendosi meravigliosamente rilassato. Lilliana però sembrava attenta ai rumori che venivano dal vecchio edificio, persino allo stridio di un pappagallo, al chiasso di bambini che urlavano correndo per le scale e cantando –Ritorna vincitor -. Ma poi si quietò ed abbracciò Brod con calore. Nel bel mezzo di un bacio appassionato, suonò il campanello di casa. Lilliana si irrigidì tra le sue braccia –diavolo, Antonio – . – Andrà via – suggerì Brod. –Le porte sono tutte e due chiuse a chiave- ma era già fuori dal
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letto e si infilò le mutande. Lilliana aperse la porta e poi anche l’altra dello studio. Era il postino che aspettava mille lire dato che una lettera era tassata per eccesso di peso. Dopo aver letto la lunga lettera ed essersi asciugata una lacrima si svestirono e tornarono a letto. - Che cosa rappresenta per te?- domandò - Chi?- Antonio -. - Un vecchio amico, come un padre. Siamo stati molto tempo assieme - Siete stati amanti? - Ascolta, se mi vuoi prendimi. Se vuoi fare domande è meglio che torni a scuola Pensò di pensare ai fatti suoi. - Scaldami, sto gelando – disse. Brod le diede dei colpetti leggeri. Dopo dieci minuti lei disse: -“ gioco di mano, gioco di villano” ti prego di adoperare la tua fantasia – Lui usò la sua fantasia e lei corrispose subito eccitandosi – dolce tesoro- mormorò, lambendogli l’orecchio con la punta della lingua, e dandogli piccoli morsetti. Il campanello della porta suonò. - Per l’amor di Dio non aprire - Brod grugnì. Cercò di tenerla ferma ma già era in piedi che si infilava la vestaglia. - Mettiti i pantaloni - disse baciandolo. Aveva pensato di aspettarla a letto, ma fini col rivestirsi completamente. Mandò lui alla porta. Era la portinaia zoppa, veniva a prendere il secchio dei rifiuti dato che lo studente si era dimenticato di portarlo giù. Lilliana le porse immediatamente il secchio. A letto era così fredda che batteva i denti. Pieno di desiderio Brod la scaldò. - Angelo mio – mormorava. – Amore possiedimi Lui stava per farlo quando lei si sollevò in fretta - la maledetta porta di nuovo! Brod strinse i denti - non sento niente Nella sua vestaglia gialla piena di buchi si precipitò alla porta di casa la aperse e la richiuse di nuovo poi chiuse a chiave quella della camera e scivolò di nuovo nel letto. - Avevi ragione non c’era nessuno Lo abbracciò, e le sue ascelle erano profuma-
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te. Rispose appassionatamente dopo tanti rinvii. - Abbastanza come antipasto – disse Lilliana e gli toccò il suo membro. Sopraffatto, benché lottasse con se stesso per non farlo Brod soccombette alla mano di lei. Benché sperasse di risorgere, il suo fiore appassito morse la polvere, furibonda lei lo spinse fuori dal letto, nello studio lanciandogli i suoi vestiti. - Maiale, bestia, onanista! Perlomeno si lasciava amare. Ogni giorno Brod faceva la spesa, cucinava e puliva la casa per lei. Ogni mattina staccava la borsa dal gancio, ritornava con la borsa carica di verdure, pasta, uova, carne, formaggio, vino e pane. Lilliana voleva tre pasti abbondanti al giorno, anche se gli aveva detto che non gli piaceva più mangiare. L’aveva vista due volte vomitare la cena. Non riusciva a capire cosa le piacesse. Certo non Brod. Dopo che l’aveva servita in tavola era concesso anche a lui di mangiare da solo nello studio. Alle due di ogni pomeriggio lei faceva la sua siesta, e benché avesse ricevuto l’ordine di non far rumore, gli era concesso, tuttavia, di lavare i piatti, scopare e spolverare la camera di lei e pulire la tazza del gabinetto. Lei chiamava e lui correva e andava a prenderle qualunque cosa lei volesse: matite da disegno, assorbenti igienici, spilli di sicurezza. Dopo che si era riposata dal suo sonnellino, pioggia o sole, vento o neve, era costretto a lasciare lo studio affinché lei lavorasse tranquilla ed in santa pace. Vagava, nella tramontana, e vedeva pezzetti di film in cinema uno più freddo dell’altro. Alle sette ritornava in casa per preparare la cena per lei e due volte alla settimana anche per Antonio che sfoggiava un nuovo cappello nero e un meraviglioso cappotto. I suoi umidi occhi azzurri guardavano con pietà lo studente ma non gli rivolgeva la parola. Dopo cena un’altra pila di piatti da lavare, poi doveva scendere a portare i rifiuti. E al ritorno, o con Antonio o sola, Lilliana si era già rinchiusa nella sua stanza. Di lunedì e di venerdì li spiava dal buco della chiave ma lei e il vecchio erano sempre completamente vestiti.
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Brod si era lamentato con lei più di una volta dicendole che la punizione che riceveva era superiore alla sua colpa, ma la pittrice rispose che lui era proprio il tipo di cui non sapeva cosa fare. Infatti per lei era come se Brod non esistesse. E non esistendo, come era possibile per lui dipingere, benché s’imponesse di farlo? Non poteva farlo. Dovunque andasse si sentiva gelato e senza forza. Un freddo intenso che gli avvizziva i polmoni, benché indossasse un nuovo e pesante maglione che Bessie aveva fatto per lui, e due sciarpe di lana attorno al collo. Non era mai più stato caldo dalla sera che Lilliana l’aveva buttato fuori dal letto. Eppure a volte sognava che alla fine avrebbe vinto lui. Una sera, mentre stava uscendo di casa, la pittrice dava una festa per i suoi amici pittori, incontrò Marina Di Meana che stava salendo le scale. - Sembra un pezzo di marmo - gli disse, entri a scaldarsi e a sentire un poco di Bach - . Incapace di dirle di no, continuò a scendere con il secchio in mano. - Ogni uomo ha la donna che si merita - gli urlò dietro. - Chi ce l’ha - borbottò. Pensò di saltare nell’Adige ma quell’inverno era ghiacciato. Una sera, alla fine di febbraio, Lilliana, sorprendendolo anzi quasi sconvolgendolo, gli propose di accompagnarla ad una festa nello studio del suo amico Gianfranco Mari, in via Cattaneo; aveva bisogno di qualcuno che l’accompagnasse al di là del ponte e Antonio era a letto con l’asiatica. La festa era divertente, pittori, scultori qualche scrittore, due diplomatici, un principe e un sociologo indiano, le loro donne, tre ragazze piuttosto di compagnia con il minimo di abiti addosso e senza accompagnatori, una di questa una famosa bellezza dai capelli color rame, occhi luminosi e modi calorosi, sembrava interessata a Brod, solo che lui, abbagliato da Lilliana, che vedeva per la prima volta in un vero vestito da donna, una cosa incantevole, ampia, color rubino. L’ospite strabico aveva provveduto ad una enorme ampolla di vetro piena di vino bollito
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con spezie, e gli invitati affondavano dentro i loro bicchieri di ceramica per riempirli. Tutti, meno lo studente, sembravano divertirsi. Uno o due degli uomini sparirono nelle altre stanze con le loro amiche, gli amici di Lilliana in vena di allegria ballarono un rapido “Shimmy” battendo le mani a ritmo. Lei stava bevendo molto e quando voleva riempire il bicchiere lo chiamava molto educatamente “Arturo”. Pensò come un primitivo al modo in cui avrebbe potuto possederla. La festa era al suo culmine, incominciava a degenerare e si andava al sodo. Brod si accorse che la sua scarpa sinistra era piene di mostarda. Il gatto nero di Mari miagolava al grasso sedere di una signora che aveva una fetta di salame attaccata al vestito. Prima di mezzanotte c’erano già state due liti finite a pugni. Brod si divertì a tutte e due, cercò però di starsene in disparte, per quanto una volta si sentì il collo inzuppato, per colpa di uno scultore che aveva mirato ad un pittore. La ragazza con i capelli color rame, era sempre interessata allo studente, e lo invitò a raggiungerla nella camera da letto di Mari, ma lui continuava ad essere fedele a Lilliana. I suoi occhi erano stregati da ogni movimento di lei. Era geloso dell’illustratore che, ogni volta che si avvicinava a lei le accarezzava il sedere. Uno degli scultori, Sergio Capellini, un uomo snello dal volto scuro, e folte sopracciglia nere e capelli e baffi neri si avvicinò a Brod. - Non ci siamo già visti da qualche parte, caro? - Può darsi - rispose lo studente sudando leggermente - Sono un pittore americano - Perché non dice pittore d’azione?- Sempre in attività - Mi riferisco, naturalmente, all’ espressionismo astratto - Naturalmente, all’incirca perlomeno, di tanto in tanto - Mi pare di aver visto qualcosa di suo da qualche parte, galleria Ghelfi? Erano dei quadri - biomorfici, simmetrici con spigoli in rilievo? Mi ricordo che non erano male - Brod
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ringraziò arrossendo violentemente. - Con chi siete qui? - chiese Sergio Capellini. - Con Lilliana Riva - Con lei ? - disse lo scultore. – Ma è una puttana - Davvero – disse Brod sospirando. - Avete mai osservato le sue opere? - Con un occhio solo. I suoi quadri sono brutti ma è lei che trovo irresistibile - Peccato -. Lo scultore alzò le spalle e se ne andò veloce. Un minuto dopo , scoppiò un’altra lite, durante la quale la testa rossa lo colpì con un vaso cinese. Perdette conoscenza e quando si riebbe, Lilliana e Mari lo stavano svestendo nella camera dell’illustratore. Brod stava provando un piacere quasi travolgente. Mari gli spiegò che lui, lo studente era stato scelto per posare per un nudo che gli avrebbero fatto. C’era stata una discussione fra di loro su chi dei due disegnava meglio i nudi maschili, avevano deciso di stabilirlo facendo una breve gara. Due cavalletti erano stati spinti nel mezzo dello studio; ai due concorrenti era stata data mezz’ ora, gli invitati avrebbero giudicato quale delle due opere fosse la migliore. Malgrado avesse mosso qualche obiezione dato che era una notte fredda, Brod, sentendosi scaldare dal vino acconsentì. Inoltre era molto orgoglioso dei suoi muscoli e pensava che ritraendolo lei, più tardi, avrebbe potuto desiderarlo. E se non stava dipingendo, perlomeno qualcuno stava dipingendo lui. Così la pittrice e Gianfranco Mari, con le loro casacche da pittori, lavorarono per trenta minuti, orologio alla mano. Tutti guardavano silenziosamente, fatta eccezione per quella focaccia dai capelli rossi che, seduta in un angolo, mangiava un panino di prosciutto. Lilliana, sopracciglia incrociate, labbra serrate, disegnava con vigore, a matita; Mari lavorava con calma con i suoi gessi colorati. Gli invitati erano attenti, e l’ indiano se ne andò in casa dopo dieci minuti. Un giornalista si era chiuso in camera da letto con la ragazza dalla testa rossa e non lasciava entrare sua moglie che pestava la porta. Brod, con i piedi nudi su un asciugamano, era avido di vedere cosa
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aveva realizzato Lilliana. Soltanto dopo che fu passata la mezz’ora gli fu concesso di guardare. Mari aveva disegnato uno stormo di cerchi astratti a forma di testicoli. Brod rabbrividì. Ma il disegno di Lilliana, era rappresentativo, non era Brod, anche se naturalmente era stato lui ad ispirarla; era un gigantesco fallo funerario che rassomigliava ad un serpente con la schiena rotta. Lo scultore biondo lo guardò con gli occhi socchiusi, poi sbadigliò e se ne andò via. Ora la festa era finita gli ospiti se ne stavano andando, le luci erano spente, erano rimasti solo mozziconi di candele bianche. Mari raccoglieva i bicchieri di ceramica, svuotava i portacenere, mentre Lilliana vomitava. Lo studente la sentì poco dopo mentre pregava l’illustratore di dormire con lei, ma Mari disse che era troppo stanco. - Io vengo volentieri al suo posto - si offerse Brod. Lilliana furibonda sputò sul disegno del suo infelice fallo. - Non osare venirmi vicino, malocchio, iettatore -. La mattina dopo si svegliò starnutendo, aveva preso un brutto raffreddore. Come poteva andare avanti? Lilliana, non mostrava segno di rimorso né di pietà, continuava a rimbrottarlo urlando - mi hai portato soltanto sfortuna da quando sei venuto qui. Ti lascio rimanere soltanto perché mi paghi bene, ma ti avviso, stammi fuori dai piedi - Ma come posso fare - disse timidamente - Questo non mi interessa - Come posso dipingere ? - Che me ne importa, dipingi di notte - Senza luce - Dipingi al buio. Ti comprerò una scatola di pittura nera - Come puoi essere così crudele con un uomo che ama - Guarda che urlo - gli disse. Uscì angosciato. Più tardi, mentre lei stava facendo il riposino ritornò, prese alcune cose e cercò di dipingere in entrata. Non gli riusciva. Brod camminò sotto la pioggia, sedette per ore sui gradini di San Fermo. Alla fine ri-
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tornò a casa e salì lentamente le scale. La porta era chiusa a chiave. - Lilliana - chiamò timidamente. Nessuno rispose. Per la strada sostò sul lungofiume, guardando in lontananza la cupola di San Giorgio. Forse un filtro, un amuleto, pensò Brod. Quale dei due avrebbe avuto miglior risultato? Perché continuare con questo suicidio? Nel tardo pomeriggio ritornò a casa, avrebbe detto di essere malato, che aveva bisogno di riposo e possibilmente di un medico. Si sentiva la febbre. Certamente non gli avrebbe impedito di rimanere. Invece glielo impedì, e gli spiegò che anche lei stava male. La porta di Marina Di Meana era aperta. Brod fece una breve sosta, poi continuò a scendere, ma lei lo aveva già visto. - Come een - , - Come een Entrò con riluttanza. Lo nutrì con camomilla e panettone. Fece bocconi da lupo mentre lei si voltò per sedersi al pianoforte. - No Bach, per favore, ho un mal di testa terribile ed un sacco di guai - Avete dimenticato la vostra dignità - gli disse - Provate con Chopin che è più leggero - Abbiate rispetto per voi stesso -. Brod si tolse il cappello mentre lei incominciò a suonare un preludio di Bach. Il sedere di lei sussultava ritmicamente sullo sgabello. Malgrado il raffreddore lo stesse opprimendo e respirasse a fatica, quella sera “l’anima” e “l’architettura” lo commuovevano. Si sentì il viso come se stesse piangendo ma era solo il suo naso ad essere umido. Sopra il pianoforte Marina aveva messo un vaso di rose bianche in fiore. Ogni petalo bianco sembrava un piccolo fiore a sé. Se potessi dipingere questi fiori meravigliosi, pensò Brod. Se potessi dipingere qualsiasi cosa. Per Dio se potessi ritrarre me stesso, gliela farei vedere. Colpito da questo pensiero si precipitò di corsa fuori dalla casa. Si diresse verso un negozio e scelse una tonaca e un cappello da prete, immaginandosi già un altro Rembrandt: “Ritratto dell’artista come giovane prete”. Raggiunse lo studio in fretta con il suo volu-
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minoso pacco. Lilliana stava portando il secchio dei rifiuti alla portinaia mentre lui entrava nello studio. Velocemente si cambiò indossando il vestito da prete. La pittrice entrò con aria tempestosa per dirgli di tornarsene fuori, ma quando vide Brod che stava già facendosi l’autoritratto come prete, con un lamento fuggì nella sua camera. Lavorava con fumante intensità e in breve tempo riuscì a creare una notevole somiglianza fra se stesso e il dipinto. Lilliana, dopo essere rientrata furtivamente nello studio, seguiva la sua opera vicina a lui con gli occhi agitati e il fiato sospeso. Alla fine si gettò ai suoi piedi con un grido. - Perdonatemi, Padre, se ho peccato La guardò stupito col pennello in mano ancora gocciolante. - Per favore io… - Oh! Padre se sapeste quanto ho peccato. Sono stata una puttana Dopo aver riflettuto un momento, Brod le disse, - se è così io ti assolvo - Non senza avermi dato la penitenza. E prima dovete ascoltare il resto. Non sono stata fortunata con gli uomini. Sono tutti dei bastardi. O forse sono io che li rendo tali. Se volete la verità, sono io a portare male a me stessa. Tutti quelli che mi amano sono maledetti Brod ascoltava affascinato. – Antonio è mio zio e, dopo molti altri, divenne il mio amante. Lui almeno è gentile. Quando mio padre scoprì la cosa giurò che ci avrebbe uccisi tutti e due. Quando rimasi in cinta avevo il terrore di morire.. Tanto può fare il peccato. Antonio mi disse di far nascere il bambino e di portarlo poi all’orfanotrofio, ma la notte lo buttai nell’Adige. Avevo paura di aver messo al mondo un deficiente… Ora stava singhiozzando, lui indietreggiò. - Aspettate - disse piangendo, - subito dopo Antonio divenne impotente. Da allora mi sta scongiurando di confessami in modo che lui possa ritrovare la sua virilità. Ma ogni volta che mi avvicini ad un confessionale la mia lingua è come fosse paralizzata. Il prete non può strapparmi una parola di bocca. - Questa è stata la mia vita, non chiedetemi il
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perché, perché neppure io lo so - Si aggrappò alle sue ginocchia. - Aiutatemi, Padre, per l’amor di Dio. Brod, dopo attimi di tortura, disse con voce tremante - ti perdono figliola - La penitenza - implorava - prima la penitenza Dopo aver riflettuto le rispose - recita cento Ave Maria e cento Padre - Di più - Lilliana piangeva - di più. Molte di più Aggrappandosi alle sue ginocchia così forte da scuoterle, ficcò la sua testa contro la sua nera patta abbottonata. Si accorse con sorpresa dell’inizio di un erezione. - In questo caso - disse Brod tremando leggermente - meglio svestirsi - A condizione - disse Lilliana, - che teniate i vostri abiti addosso - Non la tonaca, è troppo goffa - Almeno il cappello. - Lui acconsentì. Lilliana si svestì in un lampo. Il suo corpo era estremamente bello, la carnagione splendente. A letto si abbracciarono stretti. Lei strinse le natiche di lui e lui quelle di lei. Dondolando dolcemente lui la inchiodò alla sua croce. Rudy De Cadaval
LA NOBILE SIGNORA ADALGISA di Antonio Visconte
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OPO la costruzione della sontuosa reggia di Caserta, sorsero nel nostro territorio moltissime ville patrizie, non paragonabili certamente alle famose ville venete e neanche alle cento residenze vesuviane, però altrettanto magnifiche e fornite di ogni conforto. Nella parte alta del mio paese San Prisco, che in seguito allo sviluppo edilizio ha superato i diecimila abitanti ed è diventato città, s’innalzavano i solenni bastioni di villa Sanfelice, dove da bambino mia madre mi portava a passeggio, con villa Gianfrotta, Di Monaco e Aiossa, poi diventata Ventrone per via
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di matrimoni con i Ventroni di Curti e ora convento dei Padri Oblati. In questa augusta magione dimorava la nobile signora Adalgisa con tutti i membri della sua aristocratica famiglia. L’appartamento estivo guardava i nostri due monti, il Tifata e la Croce Santa e quello invernale, composto da un solo piano, era situato all’interno della strada principale. Dai suoi tre salotti, il bianco, il rosso e il verde, come i colori della bandiera italiana, la rinomata donna ammirava l’ immensa distesa dei campi, mentre le tre stanze superiori erano adibite a camere da letto. Appena il campanile vanvitelliano della chiesa madre con i suoi dodici rintocchi suonava il mezzogiorno, le stanche contadine aprivano i loro consunti tovaglioli e tiravano fuori un pezzo di pane duro e una cipolla, poi bevevano un sorso di acqua calda, che invano la mattina, sperando che si mantenesse fresca, avevano deposto in una brocca sotto un albero. Alla stessa ora la signora Adalgisa apriva le sue dorate finestre e gridava con quanta voce aveva in canna: “Belle ragazze, beate voi, come mangiate bene!” e l’eco dei monti rimandava indietro il rabbioso lamento. Quella volta le ragazze erano rimaste sole, senza la presenza di don Ciccio l’affittuario, che raccomandava rispetto per la proprietaria del terreno e decisero di fargliela pagare. Non potevano sopportare l’affronto da parte di una donna ricca, che in quelle crude giornate afose insultava il loro misero pasto. Si alzarono di scatto, deposero gli ultimi bocconi sopra un sasso, che fungeva da tavolo, si aggiustarono i capelli con un fermaglio, corsero il breve sentiero, scavalcarono la siepe, saltarono sul marciapiede e gridando: “pezzo di stronza, adesso ti facciamo vedere noi come mangiamo bene”, raccolsero un mucchio di ciottoli, che in quell’arida stagione non mancavano lungo i cespugli e incominciarono a scagliarli contro le imposte. La nobildonna vide la scena da lontano, mai sospettando che quelle monelle osassero tanto, ma quando si accorse del lancio dei primi sassi, fece appena in tempo ad accostare le
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persiane, ad abbassare la zanzariera, a serrare le finestre e intanto strillava: “Procopio, Procopio, correte, correte, quelle villane mi stanno fracassando i vetri.” Il maggiordomo si vestì in fretta, rassicurò la padrona, uscì dal portone, fiancheggiò la villa Sanfelice, la chiesa di Loreto e il palazzo Di Monaco, rasentò il muro del loro giardino, un tempo dominato dal secolare pino, che una notte di vento rase al suolo e giunse sotto il balcone, dove il gran numero di pietre, giacente sulla strada, faceva intravedere la serrata schermaglia. In quel frangente incontrò don Ciccio ed entrambi si recarono dalle contadinotte. “Cosa avete fatto?” chiese il mezzadro. “Non abbiamo fatto niente”, risposero in coro. “E tu Tettella, tu che sei la caposquadra, raccontaci quello che è successo.” “Non è successo niente”, confermò la giovinetta. “E allora parlo io”, intraprese don Ciccio. “Carissimo signor Procopio, vi sembra giusto che la nostra stimabile padrona, che possiede tutto il bene del mondo, cibi squisiti e bevande pregiate, sdraiata tutto il giorno sulla poltrona, debba offendere la miseria altrui?” Il vecchio siniscalco proruppe in un dirotto pianto e tra una lacrima e l’altra che asciugavasi con un fazzoletto ricamato, “amabile don Ciccio”, soggiunse, “e voi altre chi mi ascoltate, quanto pagherebbe la nostra padrona per mangiare anche lei il pane duro con la cipolla.” “Come, come?” risposero sconvolti. “La signora Adalgisa”, riprese Procopio, “è gravemente ammalata. Ogni mattina, sperando di poterlo trovare, perché non si vende in farmacia, mandiamo un nostro servitore nei paesi limitrofi a cercare il latte di asina, un alimento molto leggero ma poco nutritivo e così la manteniamo in vita.” Un velo di tristezza si abbatté sul volto dei presenti. “Questo è il destino dell’uomo sulla terra”, proseguì il vecchio maggiordomo, “il Signore manda il grano a chi non ha il sacco e manda
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il sacco a chi non ha il grano.” “E voi avete ricevuto il sacco e il grano”, rintuzzò il maldestro don Ciccio. “Non v’illudete, gentile don Ciccio”, continuò Procopio, “tutti gli uomini, ricchi e poveri, sono condannati alla sofferenza”, è così mormorando, appoggiandosi al suo bastone, rinchiuse il robusto portone. Era trascorso un anno e le giovani contadine ritornarono in campagna a mietere il grano e a scavare la canapa. Volgevano lo sguardo a quella finestra, che il sole di giugno riempiva di candore, ma non si apriva. Erano sopraggiunti gli eredi della nobile e defunta signora Adalgisa. Antonio Visconte
AUTOBIOGRAFIA Mossi i passi in un chiarore d’ombre. Mi inanellò trepida la donna Malinconia e sciamarono nuvole di rondini. Rocco Cambareri Da Versi scelti - Guido Miano Editore, 1983.
DIETRO LA PORTA DI NOVEMBRE Sono qui a pensarti dietro la porta di novembre dimenticando il tempo. M’imprigiona nell’anima tutti i perché della tua assenza la campana di San Lorenzo che si perde nell’aria senza i tuoi passi. Mi spio nella lontananza a lasciarti baci nelle mani a insegnarti la lingua dei miei occhi che ti gridavano l’amore più forte della mia bocca. Un solo fiocco di neve sfuggito a una nuvola distratta
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mi casca sui piedi ed è mio l’esilio d’un grillo confinato dall’estate su un ramo sfrondato a cantare l’ultimo dolore d’autunno. Entro senza accorgermene straniero nel silenzio di un’altra stagione. Gianni Rescigno Da Sulla bocca del vento - Il Convivio Editore, 2013.
ALL’ULTIMA OMBRA All’ultima ombra fermatevi ad aspettare e riposare… Lungo è stato il cammino e la giornata fu soleggiata e calda e densa di avvenimenti. All’ultima ombra fermatevi a riposare prima di riprendere il cammino … Ancora vi saran calore e sole ed anche nuove ombre di ristoro … e a volte incontrerete pure ombre di dolore. All’ultima ombra fermatevi a riposare. 7 luglio 2017 Mariagina Bonciani Milano
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 16/10/2017 Non studi? Sei un asino patentato? Alleluia! Alleluia! Non angustiarti. Se i tuoi genitori non lo sanno, non potrai venire bocciato. Domenico Defelice
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I POETI E LA NATURA – 73 di Luigi De Rosa
D. Defelice - Metamorfosi (particolare), 2017
LA PIOGGIA E LA FOGLIA DI ADA NEGRI (1870/1945)
A
da Negri nacque a Lodi il 3 febbraio 1870 da famiglia molto povera, il padre vetturino o manovale, la madre tessitrice. Intelligente e assai volenterosa, fu un'ottima maestra elementare, poi nota poetessa e scrittrice. Vicina alle classi sociali più umili ed all'ambiente socialista, che la apprezzava anche per la sua viva attenzione alla “questione sociale”. Fu apprezzata, anche, dal Benito Mussolini dei “primi tempi” (e anche in seguito...) che fu poi favorevole al suo ingresso nella Accademia d'Italia (unica donna ad ottenere questo riconoscimento!). Dopo un breve e fallimentare matrimonio con un industriale tessile (Giovanni Garlanda) si trasferì a Zurigo, dove scrisse, tra l'altro, Esilio, lavoro autobiografico (1914) e la raccolta di poesie Le solitarie (1917), che colpì molto per la viva attenzione alle pro-
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blematiche femminili della donna dell'Ottocento, combattuta tra nuove aspirazioni e vecchi lacci e divieti. (Si veda anche l'interesse suscitato, allora, da “Casa di bambola” di Ibsen...). Seguirono Orazioni, odi patriottiche per la patria, passando, così, dal socialismo al patriottismo. Dopo un'altra silloge, Il libro di Mara, le fu assegnato, nel 1931, il “Premio Benito Mussolini”. Sul piano delle tematiche e della visione di fondo, il trascorrere inevitabile degli anni la fece passare al mondo dei sentimenti e a quello delle memorie. Anzi, il suo pessimismo crescente, che si accompagnava ad una sempre più profonda crisi personale religiosa, la portarono alle soglie dell'oblìo. Morì nel 1945 e fu sepolta a Milano. Il 3 aprile 1976 la sua tomba fu traslata a Lodi, nella Chiesa di san Francesco. Fra le molte poesie di Ada Negri ho scelto una lirica rivolta alla pioggia dell'autunno, per la coincidenza di stati d'animo condizionati dal declino dell'esistenza, dalla stanchezza e dalla tristezza causate da un mondo che cambia (non sempre in meglio), dal desiderio di lasciarsi andare in un tutt'uno con la Natura. In questi versi è espresso, infatti, un incoercibile desiderio di rientrare nell'unità del Tutto, anche sotto forma di una semplice ed umile foglia d'albero. Un'esigenza di fondersi, ma non tanto per dissolversi e sparire, quanto per incarnarsi in un nuovo organismo e ritornare a vivere, anche se in forme nuove e modalità diverse: “Vorrei, pioggia d'autunno, essere foglia che s'imbeve di te sin nelle fibre che l'uniscono al ramo, e il ramo al tronco, e il tronco al suolo e tu dentro le vene passi, e ti spandi, e sì gran sete plachi. So che annunci l'inverno, che fra breve quella foglia cadrà, fatta colore della ruggine, e al fango andrà commista, ma le radici nutrirà del tronco per rispuntar dai rami a primavera.
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Vorrei, pioggia d'autunno, essere foglia, abbandonarmi al tuo scrosciare, certa che non morrò, che non morrò, che solo muterò volto sin che avrà la terra le sue stagioni, e un albero avrà fronde.” Luigi De Rosa
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che dopo una vita passata a lavorare in varie città del Nord (in gran parte leggendo e scrivendo) sono approdato al punto di partenza diventato il mio punto di arrivo. Luigi De Rosa (Rapallo, Genova)
IL TRENO DEL TEMPO IDILLIO Non è veloce il tempo giovanile: spasmodica è l’attesa di realizzare i sogni e le chimere. Siamo su un treno lento e ci emoziona l’ansia dell’arrivo. Centelliniamo i giorni, a quando il treno corre troppo in fretta verso una meta incerta lo manovriamo come un filo frusto che si può manovrare, per allentarlo o per lasciarlo teso. E con la fantasia torniamo indietro a caccia di ricordi sulle rotaie antiche, in un tragitto spesso complicato. Illusione creata da quel Destino che governa il mondo! Elisabetta Di Iaconi Roma
Il colle, i nostri ulivi, i verdicanti ulivi. Il vento che sussurra e corre tra le foglie. Il cielo azzurro, i nostri sogni. Indi la fuga, la fuga dal nostro tempo. Le dolci solitudini e gli amati silenzi. Sete di pace ed ansia d’infinito. Enrico Ferrighi Da Carmina - Ed. Pomezia-Notizie, 1983.
UN CREPUSCOLO INVERNALE A RAPALLO Abbandonato su un pontile deserto tra il quieto singulto dei flutti mi godo (è giocoforza) il mio crepuscolo. Sulla lastra smerigliata dell'acqua sbuffa una non gelida tramontana che vorrebbe portarsi via anche l'ultimo dei miei sogni. Mi sono allontanato dalla lenta folla di turisti anziani impellicciati sul lungomare al chiaro dei lampioni e dal loro interminabile parlottare. Sbocciano luci sull'anfiteatro dell'Appennino. Incomincio a pensare
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 18/10/2917 Per Visco e Bankitalia, Matteo Renzi è allo scontro frontale col suo e gli agli partiti, le Lobby, le Istituzioni. Non sa cucire, sa solo dividere. Alleluia! Alleluia! Sbaglierà ancora il bulletto del PD, ma è l’unico a capire che contro una classe politica stagnante e mefitica; contro Istituzioni vischiose e cristallizzate, nelle quali vive e s’ingrassa l’intrallazzo; per togliere di torno torpore e ferrivecchi, il solo dividere forse non basta e, forse, neppure un terremoto con lo sterzo. Domenico Defelice
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Recensioni FILOMENA IOVINELLA ODI IMPETUOSE Ed. Il Croco/ ‘Pomezia-Notizie’, Supplem. al n°2 (Febbraio 2016), pagg.20. Di quale impeto si tratti non si sa bene, ma già lo si percepisce dalla copertina del Quaderno di Filomena Iovinella. Un ingarbugliato movimento di qualcosa di gassoso che vorrebbe espandersi oltre, ma resta prigioniero nel riquadro della foto. Lei, l’ autrice, ha parlato nei suoi versi di un complicato fuoco, proprio nella poesia d’apertura della silloge che ha imprestato la titolazione al Quaderno stesso, il quale è stato pubblicato come 2° premio conseguito al Concorso Letterario Internazionale “ Città di Pomezia 2015 “. Così, per associazioni di pensieri e sequenze, nascerebbe spontaneo un collegamento con il romanzo, dalla narrazione gotica, Cime tempestose della scrittrice inglese di pieno periodo romantico, Emily Brontë (1818-1848). Sia nel romanzo pubblicato nel 1847, sia nella vita stessa della giovane scrittrice morta a trent’anni, si avverte il senso tumultuoso e a volte insopportabile della natura che altro non era che brughiera sferzata per diversi mesi l’anno dal vento incontrollato. Emily scrisse quel romanzo, che venne pubblicato un anno prima della sua morte, quando dinanzi a lei non c’era altro che la sconfinatezza di una natura avara e selvaggia, per niente ispiratrice. Tutto quello che riuscì a concepire fu soltanto grazie alle sue letture, allo spirito romantico del suo tempo, all’ educazione abbastanza rigida impartita dal padre che svolgeva la sua attività nell’ambito del ministero ecclesiastico, quale rettore anglicano di Haworth. Quello che in lei si radicò profondamente fu l’ agitazione di quell’atmosfera desolata e vasta, troppo
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sconfinata forse per trasmettere emozioni calde e rassicuranti. Ora, dal tumulto del romanzo ai componimenti ardenti della Iovinella, il passo è diventato breve e parallelo, giacché sia nel camino della casa di Emily Brontë; sia in quello del protagonista del romanzo summenzionato – Heathclitff, che una volta arricchitosi ritornò nella casa del signor Earnshaw che lo aveva adottato, per acquistarla; sia nel camino – vero o presunto – di Filomena Iovinella, sussiste la presenza del complicato fuoco, il quale non regala tranquillità, non induce al sonno ristorativo e nemmeno all’immaginazione. « Le porterò con me queste fiamme, universo/ Intorno al cuore mio/ fiamme di complicato fuoco/ ardono di latente e cosciente senso/ che porto con me mio malgrado/ irriverente peso che nel petto/ alterna tutto il bene e tutto il male/ filo scottante di ferro spinato/ filo infuocato di delizia divina/ alternanza voluttuosa di ardore/ suggerisci le parole/ reciti l’ atto teatrale della stagione di fuoco/ muovermi mi fai sulle tavole da palcoscenico/ (…) ». (A pag.4). Si ha l’impressione, leggendo queste poesie, che l’autrice, di origine napoletana ma residente a Torino, non viva una vita conforme a tante altre, conforme alla comune normalità. Oppure, che sia lei alla ricerca di un qualcosa fuori del comune e la fa essere così accentuata a livello creativo e, forse chissà, anche nella propria vita quotidiana. Lei ha studiato da ragioniera, ha anche intrapreso la Facoltà di Economia e Commercio, per poi amare il teatro, la parola, la filosofia, il cinema, la musica. È uscita fuori da quel mondo fatto solo di numeri e calcoli, per spaziare in un’altra Dimensione (itur ad astra). « (…) e quando luce di arrivo nascerà/ impronta in visione di occhio umano/ sigillerà/ successo di cuore e di corpo/ regnerà sovrano/ nella dimensione terrestre/ che tale non più sarà/ tra realtà e sogno il volo d’angelo/ entrerà a far parte/ per riuscire/ dove la dolce ed estenuante attesa/ ha costruito in silenzio e in tormento/ in asperità e in irtà. » (A pag.5). Tutto ciò si chiama trambusto, chiasso dell’ anima, agitazione dei sensi, creatività travolgente: la poetessa non scrive le sue odi alla maniera greca o latina; il suo non è nemmeno un carme saffico. Lei ha bisogno di ispirazioni estreme per poter poi comporre secondo il suo stile, perché lei vive ogni cosa con la massima intensità e probabilmente per questo ha denominato il suo blog, in funzione dal 2011, Gli indistinti confini. Sì, codesto titolo è riconducibile alla distesa arida, di brughi e ginestre, senza perimetro rasserenante che Emily Brontë osservava ogni giorno dalle finestre di casa sua e purtroppo ne restava sconsolata. Il senso illimitato e quello indistinto sono insiti nell’animo di Filomena
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Iovinella che in un certo modo vorrebbe scivolare nella pacatezza, ma alla fine vince sempre il frastuono. « Le energie mi spingono/ verso il magnete/ che infuso di calore disperato/ scava/ lasciando buco di dolore/ nel mezzo di me./ Ci ho messo un po’ a calmarmi/ Ci ho messo un po’ a tornare lucida/ intorpidita dallo schiacciamento/ del bordo dell’intercapedine/ dentro cui/ mi sono rifugiata/ per bloccare l’irruente/ voglia di te./ Ci ho messo un po’ a calmarmi/ chissà domani. » (A pag.9). Isabella Michela Affinito
GIULIANA PIOVESAN LE IMMAGINI DELL’ARIA Biblioteca dei Leoni, Treviso, 2017 Una poesia asciutta ed essenziale è quella di Giuliana Piovesan, quale appare dal suo nuovo libro Le immagini dell’aria, uscito nella Biblioteca dei Leoni nel marzo 2017. Ed è anche una poesia della memoria, che si volge al tempo andato e ne rivive il dolore e il prodigio, su una corda che è essenzialmente quella del rimpianto. “Vestiamo oggi i nostri abiti più belli!//Siamo alla fine pronti: tu a partire,/ed io a restare. Sola ritorno al tempo/che insieme abbiamo attraversato” (Senza di te); “Lunghe notti ho vegliato e giorni / - e tu per me mai un segno // Sciolgo amore gli ormeggi / – e la nostra storia portala con te…” (L’ isola). I versi della Piovesan appaiono come l’ espressione di una vita realmente vissuta, perciò mai si piegano al gioco della pura evasione letteraria. Recano la sofferenza e la fatica dei giorni, dei quali descrivono l’affanno e il tormento. “Il cielo toccavo con le tue dita / mentre amara serravo la bocca / e il mio corpo tutto scendeva / nell’ingrata cicuta dell’ inganno” (Atto d’accusa). C’è sempre un “tu” in queste poesia al quale l’ autrice si rivolge; ed è un’immagine segreta che le si affaccia alla mente e che sempre la stimola e punge. “Neve perenne dorme la tua voce” (Il papavero); “… le tue mani sento in me confuse” (Sillaba); ecc. L’andamento ricorda quello di certe poesie di Anna Achmàtova, ma il tono è ancora più teso e drammatico: “E piangere come potevamo / per una storia che non è stata mai / - fogli in risma extra strong / neppure dall’involucro mai tolti” (C’era una volta). Si veda poi anche la delicatezza con la quale la Piovesan analizza i propri moti dell’animo: “Quel biglietto dimenticato / sarebbe cosa di poco conto / se non fosse per la tua voce, / così fioca e tenera” (Il biglietto).
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Sempre per lei c’è una presenza che torna ed a sé l’incatena: “Una fotografia di te ventenne / - scattata pensa appena ieri, / … / Un ragazzo un po’ spavaldo, / come in realtà tu ancora sei / - andatura sciolta, camicia al vento…” (Scatto). È da notare tuttavia a questo punto che nel libro della Piovesan s’incontrano anche poesie, come Petit F. il giocoliere e Carpe diem variazione, che non nascono dal sentimento amoroso, bensì da una profonda riflessione sulla vita e sul nostro destino. Nella prima è il giocoliere che parla (anche se nelle sue parole l’autrice è comunque presente), raccontando la propria storia, che appare marcatamente allegorica. In essa infatti si narra di un “palloncino colorato” che gli “sfuggì di mano” allorché giocò nella nebbia la sua “ultima manche”. S’udì allora la sua “sonora risata” ed egli si voltò di scatto, ma già discendeva “nell’amaro risucchio” che lo rapiva per sempre. Gli ultimi versi suonano: “Si rida pure di me, ma ora che sono morto,/e morto tutto intero, be’ io sono contento”. Si tratta evidentemente di una poesia molto sofferta, nella quale quel giocoliere viene a porsi come un simbolo di tutta l’umanità di fronte al suo enigmatico destino di vita e di morte. L’altra poesia, Carpe diem variazioni costituisce un rifacimento della nota lirica oraziana, tradotta in chiave moderna e con quella leggerezza di tocco che vale a riprodurre nella nostra lingua l’incanto sottile dell’originale: “Cara, non chiederti quale destino / gli dei abbiano per me e per te deciso / … / Sii saggia, continua a mescere il tuo vino / e raccogli la speranza nel breve suo filo. / Vivi questo giorno. Mentre parliamo, / l’avido tempo è già da noi fuggito”. Un bel libro questo di Giuliana Piovesan, frutto di un genuino sentire e di un’autentica vocazione di canto. Elio Andriuoli
CORRADO CALABRÒ LA SCALA DI JACOB Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2017 Certamente, leggiamo una poesia contemporanea, intrisa del quotidiano di oggi. L'amore per una donna più giovane, per esempio. Tra onomatopeie come in "La carrubbara" ("tradatra'-tradatra'-tradatra") ispirandosi a Palazzeschi, o al Futurismo. E come si dicesse, nel primo ora citato, "E lasciatemi divertire!". Un esercizio fonologico. Ma si parla, in verità, non di divertimento, ma dell'Ultima Guerra. Il rumore delle raffiche di contraerea. Quando, credo, era bambino. Poesia, quindi, contemporanea, dice-
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vamo, ma che parte dal contemporaneo prima di ora. Quello del Conflitto. Ricordo da tramandare, fino a quando saremo vivi, siamo alla quarta generazione. Con i figli ed i nipoti. Per un sano apprendere per maturare. E migliorare. Se si può. Il ricordo di Franco Fortini, sovviene in mente, che sfocia in Ferdinando Camon, figlio di quella guerra, sessantottino, osservatore critico poi. Ciceroniano che ebbe un passato. Morale post-Guerra. L'ultra contemporaneo, si conferma, c'è. Per tornare al "filo unico" di Calabro'. "Politici alla danza della pioggia.../sbattere d'ali/di volatili morenti/(in "Quarta Repubblica"). Si attraversano le varie generazioni dal '45 ad oggi. Come una saga storica, attraverso la poesia. Sul piano compositivo, troviamo il consueto verso libero, che ognuno nei decenni ha differentemente usato, ma strutturalmente non dispersivo, reso solido dai contenuti, non soltanto per la strofa. Ugo Berardi
LUCIANA VASILE PER IL VERSO DEL PELO L’anima nuda di lulla dell’aldilà a colloquio via e-mail con uno scrittore Editrice Nuovi Autori, 2006 - € 15 Questo corposissimo lavoro non sappiamo proprio come definirlo, se romanzo, memoriale, o, addirittura, sproloquio; siamo in presenza di narrati in prima persona di una protagonista-anima e di lettere scambiate per via elettronica tra la stessa ed altri: Grossman, Bianchi, Ludovica, Ludovico, Virgilio, Lulla (Ludovica).... In realtà, tutti questi nomi si confondono, sicché, a un certo punto, sembrano evaporarsi per il lettore, svanire nell’unico suono delle parole e nelle sensazioni che da esse scaturiscono; un vero, autentico turbinio, sicché a un certo punto è irrilevante se ai colloqui o alle schermaglie con la protagonista sia l’uno anziché l’altro; la stessa protagonista muta e Ludovica e il diminutivo Lulla sono, in realtà, la stessa anima. Si parte da una gita tra le bellezze naturali della Sicilia, dalla quale si ricava un sottile confronto psicologico tra il sole e le acque fredde e profonde dell’Alcantara, i cui vortici, le cascate, i laghetti finiscono per avere materialità e assumere valenze d’interiorità, dello spirito. Poi, a dominare, è la figura a tratti inquietante del padre padrone - oggi da denuncia, almeno a Telefono Azzurro -, con la conseguente spinta alla ricerca, nella protagonista, di Maestri “fuori dalle mura domestiche”, il suo “allenatore di ginnastica artistica”, per esempio, col quale la ragazza trascorreva volentieri “oltre ai tan-
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ti anni di palestra, i pomeriggi che si protraevano anche fino alla mezzanotte, tutte le estate della [sua] infanzia-adolescenza alla Scuola Bruno Zauli di Formia, in raduno collegiale estivo”; o Guglielmo, che pare proprio sostituire il genitore, “pronto ad accoglierne i limiti e paternamente a scioglierne i dubbi”, disponibile a fare, cioè, quel che il vero padre non aveva mai voluto o saputo, che i dubbi, anzi, li aggrovigliava e moltiplicava; Guglielmo le indica Dio come guida caritatevole e a Lui si rapporta, padre “mai punitivo sempre misericordioso”. Ancora figura dispotica è la sorella della protagonista, in famiglia denominata “La Simpatica”, che costringe la ragazza - alla quale era stato appioppato il nomignolo di “La Carina” - “varie volte (...) a bere dal bicchiere colmo d’acqua nel quale aveva sputato”. Cattiveria, sadismo sicuramente riflesso anche in lei della rigidezza paterna, il tentativo di liberarsene riversandola sugli altri. Il loro padre naturale, insomma, è stato impossibile nella realtà e vero e umano solo negli scritti, tanto che “La Carina” un giorno glielo rimprovera sarcasticamente: “Ti si può solo leggere, su quei fogli sei splendido! Scrivi quello che vorresti essere!”. È ancora conseguenza di tanta severità patita nell’infanzia che fratello e sorella finiscano con l’ odiarsi e a vicenda rinfacciarsi piccinerie, nefandezze, crudeltà. Si assiste a una vera e propria diga della violenza che crepa e dilaga, a freni inibitori che si sciolgono, privi degli argini della fiducia, della comprensione, del rispetto, dell’amore vero. Il padre che non è presente al matrimonio della figlia, che non l’accompagna all’altare, che la ripudia, è il culmine della inaudita soperchieria che negli anni investe e corrode l’intera famiglia1. La Vasile dimostra come in noi tutti c’è perenne dualismo e come raramente a un grande artista corrisponda pure un grande uomo o un grande padre. Da ciò, tra loro, il “rapporto schizofrenico. Da un lato la smisurata incondizionata stima e ammirazione per l’artista e lo scrittore che non ho mancato mai negli anni di dimostrarti con fatti e parole (...) - gli scrive Ludovica -, dall’altro l’altrettanto grande disapprovazione per il padre”. Ci siamo attardati solo su una parte dell’opera, quella da noi più sentita perché virulenta, cruda. A noi, in realtà, interessa poco filosofare fra anime e aldilà metafisici. Siamo più per le terrestrità. Perché solo il terrestre è concreto (qualunque corpo e ciò che lo contiene), mentre l’anima è eterea, senza spazio e dimensione, fuori, cioè, dalle nostre capacità intellettuali. Fossimo noi l’autrice, ripubblicheremmo il lavoro, eliminando completamente, o accorpandole in calce come appendice, le e-mail, per unire “Memorie Nica” - un quasi introibo - alla bel-
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la e terrificante parte dell’ “Io narrante: Storia con il padre, Guglielmo e Mario”. Nel libro si accenna a luoghi e istituzioni con i quali, in gioventù, abbiamo avuto qualche contatto (a meno che non si tratti di omonomi): l’Istituto San Giuseppe, per esempio, i Discepoli di Gesù, di Zaccaria Negroni - che è stato anche sindaco di Marino, incontrato tante volte, del quale abbiamo recensito diverse opere -, nonché le Piccole Discepole di Gesù, allora con a capo la indimenticabile Madre Agnese, originaria del Molise. Domenico Defelice 1 - Ma in “Paura del vento e altri racconti”, di Turi Vasile (Sellerio, 1999), si scopre che la violenza di quel padre è violenza da lui stesso subita in mille modi da bambino. La violenza, cioè, è di tutto quel tempo, di un’epoca nella quale era norma di vita l’essere severi e prodighi di castighi, mentre il dimostrarsi gentili e perdonevoli veniva considerato mollezza, debolezza, indole di femminetta, che, per un uomo di allora, era il più cocente disprezzo. Abbiamo letto “Paura del vento” e “Per il verso del pelo” in parallelo, assaporando ora dell’uno, ora dell’altro, come, nella nostra infanzia, facevamo con un pezzo di pane casereccio in una mano e nell’altra una fetta di saporito formaggio. Tempi difficili, quelli descritti da entrambi gli autori - padre e figlia -, che alla generazione di oggi possono apparire irreali; eppure, l’uomo trovava ancora intorno a sé la propria misura e il Barone Trifiletti di Ragusa Ibla poteva andare orgoglioso e godere del suo “Circolo di conversazione”, dove era santificato il gusto della parola, e coloro che lo frequentavano “sedevano intorno ai tavoli e parlavano; talvolta alzando la voce, talaltra sommessamente per ottenere il silenzio degli altri”. La gara tra giovani non era a chi si sballava di più, ma a chi sapeva di più; ci si educava alla dialettica con entusiasmo, a volte inventando contrasti solo per il gusto di parlare (“dicevano pressappoco le stesse cose e non si sarebbero capiti mai”). E sì che la retorica era non solo pane quotidiano, ma l’aria stessa che veniva respirata, specie durante il ventennio fascista, non percepito, però, così oppressivo come in effetti era, perché, s’è tutto violenza, “non c’è di peggio”: “Se ci furono la mancanza di libertà e l’oppressione che caratterizzano le dittature, moltissimi di noi non se ne accorsero; l’esaltazione preclude la realtà e non c’è di peggio. Mussolini intanto era diventato l’incarnazione del sogno: riscattava tutte le miserie personali e nazionali; rendeva giganti i nani, atleti gli storpi, invincibili i deboli e dava coraggio alla paura. La sua infallibilità colmava la nostra confusione”. “Paura del vento” è un bel libro di memoria, l’autore mai scostandosi dagli avvenimenti che l’ebbero protagonista insieme alla propria famiglia; quando dalla propria famiglia un poco diverge, il fascino scema.
Il Croco di questo mese è dedicato a: Cav. GIOVANNA LI VOLTI GUZZARDI RICORDI COCENTI Presentazione di Domenico Defelice
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LEONARDO SELVAGGI TITO CAUCHI Voce all’anima Editrice Totem, 2017 Domenico Defelice in prefazione ci dà preziosi accenni su due figure: sull’autore del saggio (l’ eclettico fecondo scrittore Leonardo Selvaggi) e sul poeta Tito Cauchi cui il saggio stesso è dedicato. Il libro segue passo passo l’evoluzione e la formazione di Cauchi, ricorrendo anche a foto e a notizie biografiche. Le cinque suddivisioni del testo comprendono le attività dello scrittore dagli anni Sessanta al Duemila. L’analisi dei testi prodotti è sempre puntuale e precisa. “Prime emozioni” viene presentato come una raccolta “propedeutica in cui si hanno i passi di agglomerazione delle cellule formative del poeta”. Il Selvaggi analizza contraddizioni e stati d’animo del giovane poeta che narra una “confusa mescolanza di sogni e parvenze”. Sentimenti, amicizia, senso comunicativo della vita sono gli elementi che il critico sottolinea in “Conchiglia di mare”, i cui versi gridano anche di dolore. Poesia questa delicata ed equilibrata, fluida e trasparente. Più fantasiosa nella sua contrarietà al materialismo, a tratti drammatica, secondo Selvaggi è la raccolta “Amante di sabbia”. Vi si descrive una crisi morale. Il critico trova accenti di vera poesia nel recensire questa silloge. In “Isola di cielo” prevale la rabbia per l’ indifferenza verso i propri simili e l’analisi della natura umana. In contrasto, restano i sogni “che ci portano a mondi splendidi”. Molto accurate le note di Selvaggi su “Francesco mio figlio”. Il ragazzo vittima di bullismo in questa silloge è descritto in tutte le sue peculiarità (“poesia morale dalle salde convinzioni”). Il volume “Arcobaleno” segna per Cauchi un punto di arrivo per la maggiore sicurezza espressiva e per un particolare “stato di trascendenza del poeta tra terra e cielo”. Principi elevati sono presenti anche nella raccolta “Crepuscolo” mentre “Veranima” ci fa rivivere i momenti autobiografici dell’autore. Tito Cauchi si è dedicato anche al saggio critico (su Angelone, Frenna, Manzi ecc.). Profonda è l’ analisi della vita e delle opere del mondialista Salvatore Porcu, fondatore dell’Ordinismo, propugnatore di giustizia e pace universale. Il volume scritto da Selvaggi nulla trascura delle attività letterarie del nostro che hanno meritato recensioni (tutte catalogate). A conclusione viene riportata la bibliografia dello stesso Leonardo Selvaggi per il
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quale Cauchi ha scritto saggi e numerose pagine di approfondimento. Molto interessante la biografia romanzesca di Tito Cauchi corredata dalle foto. Selvaggi ha davvero composto un ritratto perfetto di questo poliedrico autore. Elisabetta Di Iaconi
PASQUALE MONTALTO PAROLE RICERCATE con il cuore 3° Premio Città di Pomezia 2016 - Ed. Il Croco – I quaderni letterari di POMEZIA-NOTIZIE, 2017 Riflessioni amare, temperate però in varie liriche da un ottimismo di fondo. È questo il senso della silloge che ha meritato il 3° Premio al Città di Pomezia 2016. Domenico Defelice afferma, in prefazione: “La vita va accettata anche se ricca più di affanni che di gioie”, come si evince dai componimenti del poeta. Dalle liriche emergono ritratti di umanità sofferente: i bambini e i vecchi, i giovani uccisi al Bataclan, le vittime delle droghe, delle guerre e delle ingiustizie. Però, in contrappunto, fioriscono versi tutti aperti al sentimento, al canto del cuore, al conforto dell’arte. “Nel silenzio l’Arte magica/ in silenzio trova parole guaritrici”. L’autore “del grande libro della vita” rintraccia un’energia connessa al cosmo: “Sono i giochi e le danze del nostro vivere/ in pace e armonia, in libertà e amore”. Il mondo sognato dal poeta è perennemente in contrasto con terribili eventi (l’Undici Settembre 2001 e il Tredici Novembre 2015): “Date come lance continuano/ a conficcarsi nella memoria”. È sempre più lontana l’invocata parola: “Una parola nuova di speranza/ che fa uso di perdono e misericordia”. Non resta che rinchiudersi in sé stessi, affidarsi alla bellezza della donna, dissetarsi allo scorrere di una salvifica pioggia. Alla base della poetica di Pasquale Montalto c’è sempre la parola, la parola poetica che “Illumina la mente/ e accarezza l’unicità dell’anima”. Elisabetta Di Iaconi
SUSANNA PELIZZA HAIKU IN FORMA DI POESIA Italian Edition su Amazon.it, € 1,82 Il libro di Susanna Pelizza “Haiku in forma di poesia”, presente in formato Kindle ma scaricabile su qualsiasi dispositivo elettronico, è costituito da 71 frammenti che, come dichiara l’autrice nell’ introduzione, si muovono all’interno di “una varia-
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zione dalla norma: non sono dei veri e propri haiku, come delle vere e proprie liriche. Sono, invece, frammenti di pensiero imperfetti che tendono alla perfezione prendendo, dagli antichi Haiku giapponesi, quel senso di liricità in grado di riformulare compattando la materia trattata (la grezza materia riflessiva)” (S. Pelizza, dall’introduzione, op. cit.). Il Haiku, ricordiamo, è una composizione di 17 sillabe distribuita in tre gruppi di 5,7,5, composti a catena da più persone, limitato, inizialmente, nel sec. XIV, alla poesia comico satirica, fu portato a perfezione da M. Basho nel sec. XVII, iniziatore del Haiku lirico. In questo libro, la struttura giapponese viene deviata, dando maggior rilievo allo spazio meditativo del pensiero e alla sonorità lirica creata, anche, a volte, dal gioco fonosimbolico. “Molto spesso il Haiku scompare per effetto di una voluta iterazione riflessiva, cerca altri piani di rappresentazione, il Calembours che serve a spaziare l’immagine come nella lirica 58, S’infittisce/infiltrandosi il Sole tra squarci/d’infinito” (Dall’introduzione, op. cit. S. Pelizza). Viene portato avanti l’indissolubile gioco poetico tra apparenza e realtà, come nei migliori Haiku giapponesi, in cui la visione colta dall’ esterno (come una finestra che si apre all’infinito”) scongiura l’anatema del solipsismo, ma, anche nello stesso tempo viene evidenziato il carattere proprio della poesia, quello di richiamare indirettamente motivi della tradizione, a volte come un vero e proprio “enigma letterario” più che come espressione di sensazioni ed emozioni (Il frammento 69 richiama Epicuro, il 68 la cultura egiziana, il 18 la Scapigliatura). Al di là di quello che il libro effettivamente vuole dire o si propone di significare, i Haiku sono di piacevole lettura (per qualsiasi età), dedicati a quei lettori che vogliono evadere, anche solo momentaneamente, dal giogo assillante dello stress quotidiano. Maurizio Di Palma
CORADO CALABRÒ LA SCALA DI JACOB Primo Premio Città di Pomezia 2017 - Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2017 Diverse le tematiche che Corrado Calabrò affronta nella breve silloge: l'amore, gli affetti familiari, i ricordi, i problemi esistenziali, la natura e le sue immagini idilliche, le riflessioni sulla vita e sul divenire dell'uomo. Nell'incipit della raccolta abbiamo la sensazione di essere in un teatro, in attesa della rappresentazione scenica, che non si fa attendere. Ecco, si apre il
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sipario (nel nostro caso la pagina della prima lirica) ed a "Lui", steso sul letto, trepidante, "accorre improvvisa" "lei", "con due boccioli turgidi di rosa / e l'iPod nelle orecchie trasognate / e resta appoggiata sul gomito nel letto", lo sguardo avido, in sintonia con quello di lui, a pregustare "l'amplesso"...Una immagine realistica, degna di un quadro di Renoir. Ricorrente è il riferimento alla donna e ai sentimenti del cuore: in "Estuario": <<Gonfio di te.../è il corso dei miei pensieri>>; in "Entanglement ": <<Fredda la tua guancia e struccata / sul traghetto, di prima mattina>>; in "Altalena": <<Il mio amore/ sale e scende / come il sole giornalmente>>. L'amore è un sentire che appaga in senso psicofisico, anche se nel suo alternarsi di gioia e sofferenza; e non fa nascere sensi di colpa come, ad esempio, succedeva a Petrarca il quale amava Laura in modo profondo, ma era tormentato da rimorso, perché considerava l'amore terreno deviante dal pensiero di Dio, dell' Aldilà, della salvezza eterna. Triste il ricordo d'un viaggio sul traghetto: mentre, con la sua donna, attraversa il tratto di mare tra Reggio e Messina, scorge la casa, con tante stanze, in cui morì la madre: potrebbe andare a vederla ma non lo fa: <<Così vicina e non ci son tornato>>. C'è rimorso in lui, si rimprovera per essere stato così insensibile, non se lo perdonerà. Un riferimento alla madre lo troviamo anche nell'ultima lirica, "Close your eyes": è in ospedale, in un lettino dal copriletto bianco, come quello del suo letto da bambino. Il pensiero va alla cara genitrice che non è più ma gli è vicina come ombra, come spirito: <<Chiudimi gli occhi, mamma! / io non te li ho chiusi / e per questo li tieni ancora aperti>>. Ricorda la casa di campagna con "l'immenso oliveto e il ronzio delle vespe su fichi di dolcezza che stordiva"; il trasloco, <<Sette città, sette case ho cambiato.../ sette donne in amore ho abbandonato.../ Chi sette volte una donna ha lasciato/non ha presente ed ha perso il passato>>. La natura lo affascina: è rapito da una grande "luna blu sospesa in mezzo al cielo". E non è un miraggio, <<Attimo, rallenta un poco i battiti! >>; che bello <<andare al mare la mattina presto quando, spente le stelle, c'è nell'aria un momento di strana sospensione>>... La vita non è passività, è divenire, è procedere senza voltarsi indietro, è come "la scala di Jacob ", "è una scala eretta in verticale verso il cielo: è una scala che non può finire e bisogna scalarla finché si sente il bisogno di salire" : è l'eredità che il poeta lascia al figlio: << Ti lascio, figlio, una scala di legno; è una scala a pioli fatta a mano.../ devi scalarla come un sesto grado>>: E' una metafora, allude, come afferma Vincenzo Guarracino, "a un sogno innato e inesauribile di ascesa, all'impulso di elevarsi verso spazi altri, tra il basso e l'alto di
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sempre nuove dimensioni". Di quanta modestia è dotato il Nostro! Ecco cosa dice di sé: <<Se fossi poeta / "come sono e fui" / riterrei i versi nella mente / distribuendo alla gente / fogli bianchi>>. Ha voluto parodiare Cecco Angiolieri il quale, però, nella sua poesia scherzosa, vuole ben altra cosa. Antonia Izzi Rufo
CORRADO CALABRÒ LA SCALA DI JACOB Ed. Il Croco -Quaderni letterari di Pomezia Notizie, Ottobre 2017, Primo Premio Città di Pomezia 2017. Corrado Calabrò è uno dei tanti calabresi che si sono guadagnati fama e riconoscimenti in Italia e all’Estero, grazie ad un’assidua e costante attività, e professionale e letteraria, svolta con serietà, impegno e amorevolezza. Nato in una casa in riva al mare nella città di Reggio Calabria, l’impronta della solarità e della terra madre rimarranno temi presenti e ricorrenti del suo lungo percorso poetico. La sua Opera ben figura negli Oscar Mondadori (2002) e ne Lo Specchio (Mondadori, 2009). Le sue poesie sono state tradotte in varie lingue e per meriti letterari ha ricevuto, da varie Università straniere, la Laurea Honoris Causa. La Commissione di Lettura dell’Editrice Pomezia Notizie, nell’ambito del Premio Letterario Internazionale Pomezia 2017, gli ha meritatamente attribuito il Primo Premio, con pubblicazione dell’opera presentata La Scala di Jacob nei Quaderni Letterari di “Il Croco”, di Pomezia Notizie. Calabrò è un poeta che si lascia amare per l’ immediatezza del messaggio che affida ai suoi versi e che arriva dritto al cuore del lettore, affascinandolo e coinvolgendolo, con parole e immagini che si unificano e si ritrovano in un mondo che è quello di tutti, con aspetti e scene tratte dalla vita vissuta e dalla quotidiana realtà, umana e sociale, del nostro essere Persona in cammino. Per quanto mi riguarda i suoi versi attraggono sempre la mia attenzione e risultano essermi molto vicini, specialmente quando sul filo della memoria l’ispirazione indugia e ripropone bellezze del mondo naturale e della donna madre. Ricordo con piacere l’appropriato accostamento che Bonifacio Vincenzi, poeta e scrittore calabrese tra i più validi, nel curare il primo volume di un progetto rimasto incompiuto I Poeti del Musagete (Ed.ni Magnoli di Firenze, Roma, 2003), introducendo la mia poesia e citando Calabrò, riguardo ad un’ispirazione poetica che “centellina i silenzi, l’ alito del tempo, la voce che risuona altrove”, ebbe a dire: “Corrado Calabrò, il grande poeta calabrese, ci
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spinge ad andare più in profondità: Non noi, quello che in noi di noi è morto,/ solo quello ha vissuto” (Corrado Calabrò, Una vita per il suo verso, Oscar Mondadori, MI, 2002). Sul traghetto, un gabbiano ci segue, dice, a pg 6 di questa raccolta La Scala di Jacob, Calabrò: “Si poserà su Reggio o su Messina? / … Si può scorgere forse la casa / con tante stanze in cui mia madre è morta.”. Versi toccanti e che smuovono risonanze nelle profondità dell’anima. Risonanze preziose, a complemento della Silloge, arrivano anche dalle numerose poesie edite nel numero di Giugno di quest’anno dal mensile Pomezia Notizie (pagg.5,27,41,48-50): “E’ come una barca senza chiglia una casa in cui manca la mamma”; “il mare è un rischio ma io non l’ho mai sentito come tale /Il mare va preso come viene/… sentendosi lambire a ogni bracciata/da una carezza che non si trattiene”. E’ la mamma, l’essenza d’ amore, che calma ogni apprensione e indirizza e definisce bisogni e desideri dell’essere umano, a volte determina anche svolte esistenziali fondamentali; e il mare, nella sua metafora materna, ci ha già visti protagonisti per nove mesi nel rapporto col grembo durante la vita pre natale. E il poeta lo sa, ne ripesca la memoria: Lungo è il bisogno d’amore/in chi t’ ha amata. La poesia di Calabrò affascina perché è un viaggio nell’esistenza, nella vita d’ognuno e a diretto contatto con la realtà che ci si trova a vivere nella quotidianità. E il poeta sottolinea la contemporaneità, al passo con i tempi colora e carica d’energia, quello del simbolo e del mito, del sogno e della favola, il grigiore della storia, nella concretezza di uno spazio e di un tempo che è quello che si vive, e che si apre al cambiamento e all’alchimia, come elemento magico che, allo stato attuale della critica letteraria, la Poesia riesce, molto meglio di altri generi artistico-culturali, a trasmettere e a suggerire, accendendo multiformi scintille di bellezza e di luce per un futuro migliore, e nel rapporto con le Istituzioni, che con la Terra e con il Cosmo. E credo questa sia l’essenza di queste diciotto poesie edite come Quaderno n. 128 da Il Croco: “Ti lascio, figlio, una scala di legno; / è una scala a pioli fatta a mano / eretta in verticale verso il cielo: / devi scalarla come un sesto grado.” (cfr. la poesia La scala di Jacob, pg 9), sempre in avanti, nel divenire perenne che la condizione umana si trova a vivere, e “che non può finire / finché senti il bisogno di salire”, assecondando quel desiderio, che ci avvolge e ci trascina, di mettersi in sintonia con l’ energia della Vita e di non smettere di sognare, di immaginare sempre nuovi e diversi scenari di umanità, nella tipicità della parola poetica. Questi versi, caricandosi di grandi simbolismi e
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con la forza della metafora, entrando nel territorio della storia biblica di Giacobbe, restituiscono lo spessore umano e letterario e artistico, nel senso creativo della parola, di Corrado Calabrò. Il poeta che abbiamo imparato negli anni a conoscere e che tutti amiamo e ammiriamo e che tanti contributi innovativi continua a donare alla cultura letteraria contemporanea. E quale augurio migliore di questo verticalismo poetico, di desiderio esistenziale e spirituale di salire verso le cime e le vette più alte dell’esistenza, e da scalare con una scala alla quale di continuo aggiungiamo dei gradini fatti a mano, con le nostre mani, e per correggere e meglio indirizzare il progresso e la democrazia del futuro dell’uomo sulla terra, per il conseguimento di una vita armonica, dove, citando ancora i versi di Calabrò, la cecità non priva della capacità di vedere e la sordità di udire e comporre stupende melodie: “Quello di cui i ciechi sono privi / è la vista a livello cosciente/ non -a livello inconscio- la visione. / non fu un sordo a comporre la Nona?”, pg 8. Così che il poeta, in completa serenità e chiarezza, può allora dire, seguendo i versi di Calabrò, “Ho visto tutto:/ niente esiste per me se non in me. / Ho visto tutto/ ed il tutto era in me:/ in me, frazione unitaria di zero” (cfr. la poesia Frazione di zero a pg. 7). Versi eccellenti di una sincronicità unica e che aprono ad una dimensione nuova del vivere e del concepirsi in questo mondo, alla quale, se ci sta a cuore la costruzione del nostro futuro, dovremmo tutti indirizzarci e il più velocemente possibile. E’ la nostra storia, dell’uomo che lotta con la sua presenza, una storia che si dipana tra passato e presente e per un futuro da cambiare e da costruire, per come è nella peculiarità del cammino dell’uomo, in un viaggio piacevole a accidentato, narrato e che sempre si ripropone attraverso il Mito di Ulisse; sublime la poesia Trasloco (pg. 20-21) che richiederebbe altro spazio di commento, laddove non bastassero questi versi: “Sette città sette case ho cambiato/sette volte le cellule ho mutato/sette donne in amore ho abbandonato. / … / Le upupe in coppia se ne sono andate. / Chi sette volte una donna ha lasciato/ non ha un presente ed ha perso il passato”. Pasquale Montalto
PROGRAMMA Nella mia scuola t’insegnerò a leggere scrivere le parole sulle pagine degli uomini E girando il foglio
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a intendere il sapere di linfa dell’albero Mentre i tuoi piedi nudi baceranno sul libro di pietra il sorriso del fossile Nell’abisso della memoria ti immergerai andando incontro alle creature ignorate che rinchiudono come tesori le leggende precedenti la scissione del primo continente E librandoti in volo di stella t’innalzerai sì lontano nell’etere che approderai alle rive azzurre o rosse di prima di dopo della morte della nascita della Terra
conterai le nocciole che risuonano nei sentieri accidentati Ai pallottolieri di more ai rovi Col tuo dito indicherai le impensabili miriadi di soli nel cosmo di acari sulla tua pelle Sarai stupefatto dal sentimento di bontà più grande del più grande dei mondi Diventerai libero di pensare da te stesso
Nella mia scuola scoprirai che nella siccità del deserto la pioggia fa sbocciare fiori tanti quante gocce Ai lussureggianti tropici forme colori suoni Sotto le pelli cacao o lampo mammelle mimosa o ocra legno Scoprirai uno stesso unico principio Vita Esplorerai l’atlante delle anime quando da un polo all’altro si parlano balenottere e balene I feromoni delle formiche il mormorio dei pianeti E il sangue dei segni il senso di slancio dall’era parietale La ricerca d’esistenza che accomuna le culture Le facce sono come le piante Uguali e diverse
Parigi, Francia In L’ebauche du sens - Traduzione del poeta Nino Briamonte
Nella mia scuola
Nella mia scuola t’insegnerò tutto ciò che io so ignorare Béatrice Gaudy
D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE PROPOSTA DI DARE, A UN ASTEROIDE, IL NOME DI CORRADO CALABRÒ - L’ Accademia delle scienze di Kiev ha proposto all’Unione Astronomica Internazionale di dare il nome di Corrado Calabrò al prossimo asteroide che verrà scoperto. Ciò in considerazione del fatto che il poemetto Roaming di Calabrò (la prima poesia che ha per
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oggetto l’ astrofisica da 2000 anni in qua, da Lucrezio in poi) tratta di un grosso asteroide, la cui orbita lo porterebbe a colpire la Terra, che viene invece intercettato dalla Luna, che ci fa da scudo. Con la drammaticità della vicenda, impressivamente evocata, Roaming, con linguaggio poetico, ci fa presentire, come in sogno, tutta la precarietà e occasionalità del nostro pianeta. Roaming è stato pubblicato in Italia da Mondadori nel libro La stella promessa, Collana Lo Specchio, nel 2009, ed è stato tradotto in molte lingue. Questa la motivazione ufficiale dell’Accademia delle scienze: Corrado Calabrò (b. 1935) is an Italian poet who has regenerated contemporary poetry opening it dream-like to science. His poem "Roaming" tells of a large asteroid that strikes the Moon causing the Earth to wobble. Pomezia-Notizie non può non applaudire. Complimenti! *** PREMIO NOBEL PER LA LETTERATURA A KAZUO ISHIGURO - L’Accademia Svedese ha assegnato il Premio Nobel per la Letteratura 2017 allo scrittore anglo-giapponese Kazuo Ishiguro, con la motivazione che “Nei suoi romanzi di grande forza emotiva ha scoperto l’abisso sottostante il nostro illusorio senso di connessione del mondo”. Nato a Nagasaki l’otto novembre 1954, a 6 anni s’è trasferito con la famiglia in Gran Bretagna, dove si è laureato in Letteratura e Filosofia e ha sposato, nel 1986, la scozzese Lorna MacDougall, dalla quale ha avuto la figlia Naomi. Ha ottenuto tantissimi Premi e Onorificenze. Tra i suoi romanzi: Un pallido orizzonte di colline (1982); Un artista del mondo fluttuante (1986), nel quale viene adombrata la dittatura fascioimperialista del Giappone, con pentimenti e ri-
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morsi; Quel che resta del giorno (1989), uno dei suoi capolavori, dal quale è stato tratto l’ intensissimo film del regista James Ivory, col domestico Stevens, indimenticabile servitore maggiordomo dedito al suo lavoro, animato dalla stima e dalla dedizione piena per gli altri; Gli inconsolabili (1995); Quando eravamo orfani (2000), nel quale affronta il problema della trasmigrazione dell’uomo da un continente all’altro, tema oggi quanto mai attuale e virulento per gli aspetti legati alle migliaia di derelitti che assaltano l’Europa dall’Asia e dall’ Africa; Non lasciarmi (2005), dal quale è stato tratto un altro bel film; Il gigante sepolto (2014), romanzo che assomiglia a un fantasy - oggi di gran moda - ma che lo stesso autore nega, perché solo narrativa fiabesca, attraverso la quale si indagano i destini dell’uomo. Altri due film, ai quali il romanziere ha partecipato come scenografo, sono La canzone più triste del mondo (2003) e La contessa bianca (2005). Tutti i suoi romanzi sono stati tradotti e pubblicati in Italia, sicché Kazuo Ishiguro è autore assai conosciuto e letto. D. Defelice *** APPUNTAMENTI IN BIBLIOTECA - Giovedì 26 ottobre 2017, alle ore 17, nella Sala Conferenze della Biblioteca Comunale “Ugo Tognazzi” di Pomezia, Conversazione con il giornalista Antimo Marandola su: L’antisemitismo: dall’ antigiudaismo all’antisionismo. Il ruolo della Chiesa Cattolica nella Shoah. Mercoledì 22 Novembre 2017, alle ore 16, ancora nella Sala Conferenze della stessa Biblioteca, verranno presentate le due ultime tesi svolte all’ Università di Roma Tor Vergata sull’opera di Domenico Defelice: La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice, di Claudia Trimarchi (Il Convivio Editore, 2016) e Aspra terra e creazione fertile nell’opera di Domenico Defelice, di Aurora De Luca (Edizioni EVA, 2016). Saranno presenti, oltre le due giovani Autrici Trimarchi e De Luca, Il Prof. Carmine Chiodo, dell’Università di Roma Tor Vergata e Domenico Defelice. Ingresso libero. *** INVITO ALLA SCRITTURA - La prof. Gabriella Bianco, dal ricchissimo percorso di scrittrice, pubblicista, organizzatrice per eventi nazionali ed internazionali, ha il piacere di offrire informazioni intorno all'evento INVITO ALLA SCRITTURA, che si dovrebbe tenere nel marzo 2018 a Reggio Calabria. Il programma è già in linea di massima in dirittura d'arrivo ma molto dipende dagli interlocutori calabresi. Gli scritti, tra poesie, pagine di narrativa e scrittura creativa vanno inviati entro il 31 di-
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cembre 2017 all'indirizzo in rete asolapo.italia @yahoo.com. La scrittrice è presidente di questa importante associazione e garantisce la serietà dell'iniziativa, perché ASOLAPO ITALIA è associazione culturale internazionale di poeti, scrittori, artisti, saggisti, musicisti, librettisti. Festeggia i 10 anni dalla sua fondazione (2007-2017) ed è affiliata ad ASOLAPO INTERNACIONAL, che ha sede a Cutzco, in Perù fin dal 1984. Sul sito Internet è possibile trovare altre importanti e più dettagliate informazioni. Ilia Pedrina *** LAMPI GAMMA PER STUDIARE LA STORIA DELL’UNIVERSO - Sfruttare i lampi di raggi gamma per ricostruire la storia dell’ espansione dell’universo. È questo l’obiettivo di un gruppo internazionale di ricercatori guidati da Maria Dainotti, ricercatrice dell’Istituto Nazionale di Astrofisica con borsa Marie Curie presso l’Università di Stanford negli USA. Il team presenta in articolo scientifico pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal i risultati di una indagine statistica volta a individuare e selezionare per questo scopo un particolare sottogruppo di lampi di raggi gamma (Gamma Ray Burst, GRB). I GRB sono i più potenti eventi ad alta energia noti, che durano da pochi secondi a poche ore. Durante la breve fase iniziale di emissione di raggi gamma ad altissima energia, questi eventi rilasciano la stessa quantità di energia che il Sole produce in tutto il suo ciclo evolutivo. Per questa loro caratteristica i GRB possono essere rilevati fino a epoche così remote in cui la loro luce è stata emessa quando l'universo aveva solo un millesimo della sua dimensione attuale. Anche se da alcuni decenni osserviamo e studiamo questi fenomeni, i meccanismi fisici che li producono sono ancora poco conosciuti e diverse sono le teorie che descrivono la loro origine: dall’
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esplosione di supernovae da stelle supermassicce alla fusione di stelle di neutroni, ma anche dal rallentamento di stelle massicce altamente magnetizzate in rapida rotazione. L’interesse degli scienziati per questi fenomeni è legato anche al fatto che la loro potentissima emissione di energia li rende individuabili in epoche molto più remote rispetto alle supernovae, oggi utilizzate come strumenti per misure l’espansione dell’universo. Riuscendo ad accertarne con precisione alcune proprietà, in particolare la luminosità intrinseca di ogni evento osservato, i GRB potrebbero quindi essere utilizzati per ricostruire la storia dell’evoluzione dell’universo fino ad ere cosmologiche ben più antiche di quanto attualmente è possibile. Il team di Dainotti ha osservato che, analizzando i dettagli della fase di “plateau” della emissione nei raggi X meno energetica ma molto più prolungata di lampi gamma, è possibile definire una sottoclasse di GRB di lunga durata in modo tale che si possa stabilire una correlazione molto stretta tra la durata della fase di plateau nei raggi X, la sua luminosità e l'intensità della fase iniziale di emissione, quella che viene definita componente “prompt”. I ricercatori hanno dimostrato che selezionando solo eventi con una lunga e quasi costante fase di emissione X e suddividendo questo gruppo in categorie, se ne può identificare uno, a cui è stato assegnato il nomignolo “dorato” (golden GRB) particolarmente interessante. I lampi gamma che appartengono a questo gruppo presentano emissioni di plateau molto definite e piuttosto costanti nel tempo, tutte piuttosto simili tra loro, proprietà che ne suggerisce l'uso per gli studi cosmologici dove è essenziale conoscere la precisa luminosità dei traccianti cosmologici utilizzati. “Abbiamo indizi di una diversa origine fisica per GRB corti che presentano emissioni estese rispetto alle altre varie classi” afferma Dainotti. “Così, individuare le differenze tra un generico GRB e quelli che appartengono al gruppo dorato può diventare di per sé un metodo cruciale per riconoscere le varie categorie di lampi gamma e quindi portare ad una comprensione più profonda della loro natura". Una comprensione che sarà di grande utilità anche nella nascente branca dell' astronomia delle onde gravitazionali: un certo segnale potrebbe essere associato con chiarezza ad eventi legati a lampi gamma di tipo corto o lungo. ***
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ROSARIO VILLARI CI HA LASCIATI - Il 18 ottobre 2017 è scomparso, a 92 anni, Rosario Villari, nato a Bagnara Calabra il 12 luglio 1925.Storico legato al PCI, sulle cui opere si son formate generazioni di liceali. Ha insegnato in molte università, è stato in politica, fu redattore di Cronache meridionali e ha diretto riviste, come Movimento Operaio e Studi Storici. Tra le tante sue opere: Mezzogiorno e contadini nell’età moderna (1961), Il Sud nella storia d’Italia (1961), Conservatori e democratici nell’Italia liberale (1964), La rivolta antispagnola a Napoli (1967), Storia Medievale (1970), Storia Moderna (1970), Storia dell’Europa Contemporanea (1971), Mezzogiorno e democrazia (1979), Ribelli e riformatori dal XVI al XVIII secolo (1979), Elogio della dissimulazione (1987), La lotta politica nel Seicento (1987), L’uomo barocco (1991), Come è nata l’Italia. Il Risorgimento (1991), Per i re o per la patria (1994), Scritti politici dell’età barocca (1998), Mille anni di storia (2000), Politica barocca. Inquietudini, mutamento e prudenza (2010), Un sogno di libertà. Napoli nel declino di un impero (1585 1648) (2012).
LIBRI RICEVUTI TURI VASILE - Paura del vento e altri racconti - Sellerio editore Palermo, 1999 - Pagg. 168, € 9,30. Turi VASILE è nato a Messina il 22 marzo 1922 ed è deceduto a Roma il primo settembre 2009. Figura storica del cinema italiano - sceneggiatore di Antonioni e Zampa, regista di Totò, produttore tra i più autorevoli (Roma di Fellini, tra i tanti) e anche commediografo. Negli ultimi anni si è dedicato con successo alla narrativa e alla memorialistica, pubblicando con Sellerio, dopo “Paura del vento e altri racconti”, “Un villano a Cinecittà” (1993), per il quale ha vinto il premio Diego Fabbri, sezione cinema, “L’ultima sigaretta e altri racconti” (XIV Premio Nazionale per il Tascabile, 1997), “Male non fare” (1997). ** LUCIANA VASILE - Per il verso del pelo. L’ anima nuda di lulla dell’aldilà a colloquio via e-
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mail con uno scrittore - Editrice Nuovi Autori, 2006 - Pagg. 156, € 15,00. Luciana VASILE, figli del grande Turi Vasile, è nata a Roma ed è Architetto. Nel 2002 il desiderio di attività nel volontariato l’ha portata in Nicaragua per sei mesi, dove, oltre a progettare e realizzare numerose costruzioni, ha scoperto il piacere di scrivere. Esordiente nel 2004 in Concorsi Letterari per inediti, ha conseguito oltre 120 premi nella prosa e nella poesia. “Per il verso del pelo”, suo primo romanzo (2006), ha ottenuto riconoscimenti in otto premi letterari. Luciana Vasile è membro del P.E.N. Club, Associazione internazionale degli scrittori. Altro suo romanzo di successo: “Danzadelse’ - Ho ballato per Paparone e altre storie” (2012). ** ANTONIO VANNI - Plasmodio - Poesie, Prefazione (“Un frullo d’ali scuote la montagna”) di Giuseppe Napolitano; in copertina, a colori, particolare di un acquerello di Stefania Camilleri Edizioni EVA, 2017 - Pagg. 56, € 8,00. Antonio VANNI è nato ad Isernia il 16 dicembre 1965. Poeta dal timbro e dal contenuto particolari, che hanno ottenuto il plauso di critici quali Giorgio Bàrberi Squarotti, Orazio Tanelli, Sara Del Vento, Amerigo Iannacone, Vincenzo Rossi, Pasquale Maffeo, Maria Grazia Lenisa, Paolo Ruffilli eccetera; Nel 1995, Fulvio Castellani gli ha dedicato la monografia “Dai gradini del tempo e del sogno Introduzione alla poesia di Antonio Vanni”. Ha vinto vari premi importanti, tra cui il “Libero De Libero” nel 1997. Ha pubblicato: La nube (1984), Alcadi (1986), Viale dei persi (1987), L’albero senza rami e la luna (1992), Diario di una nuvola bassa (1994, II edizione 2014), L’Ariel (1997), Rosa carsica (1999), Il porto vecchio delle farfalle (2000), Le artemie (2004), La Passeggiata - Racconti brevi (2007). ** ROSARIA DI DONATO - Preghiera in Gennaio - Libro in rete, dedicato a Fabrizio De Andrè e Maria Grazia Lenisa. Dalla nuda umanità nascono il canto e la sete di Dio. Prefazione di Marzia Alunni, Postfazione di Lucianna Argentino - Ed. Neobar eBooks ,2016 (?) - Pagg. 22. Rosaria DI DONATO è nata a Roma, dove vive. Laureata in filosofia, insegna in un Liceo classico statale. Si interessa di poesia, arte, cinema, letteratura; collabora a riviste e a vari siti letterari, tra cui il blog Neobar; presente in numerose antologie, tra le quali: Nuovi Salmi (2012), Voci dai Murazzi (2013), Un sandalo per Rut Oratorio per l’oggi (2014). Ha pubblicato: Immagini (1991), Sensazioni Cosmiche (1993), Frequenze d’Arcobaleno (1999), Lustrante d’Acqua (2008). Scrive Marzia Alunni che i versi religiosi di
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Rosaria Di Donato sono “parole pregne di significati”, che a noi “si offrono come un abbraccio intimo”. Fatti evangelici e preghiere come il Padrenostro - insegnataci dallo stesso Cristo - vengono dalla poetessa romana rivisitati in forma e contenuto per rapportarli al nostro tempo, che ci appare vuoto, divorato dall’odio, dalla violenza, dalla sete di ricchezza, per la quale l’uomo è pronto a calpestare e distruggere tutto, l’innocenza, la purezza, la giustizia, dopo aver prima assassinato se stesso, il suo spirito, la propria anima. In parte è così, o, almeno, è quel che emerge, non la stragrande umanità. Siamo con Lucianna Argentino quando scrive che Rosaria Di Donato “prende spunto per la sua riflessione da storie, che si possono definire dei classici” ed opera “una trasposizione temporale attraverso la scrittura poetica con cui le sintonizza con l’ umanità di oggi”. La preghiera, ieri come oggi, per maturare e correggere. Una profonda fede, la sola che può mutare il nostro interiore, in attesa della parusia. La sua preghiera, infatti, è per tutti, aderente al dettato di Cristo, anche per gli “ingiuriosi/sanguinari/superbi/[che] simili latrano/a cani randagi/diffondendo menzogna/e bestemmia”; “non distruggerli - implora la poetessa -/non ucciderli/vano rendi/il loro agire/che si convertano/e il male più non sia”. Cristo abita ancora fra di noi, è in ciascuno di noi sfiorato dal dubbio davanti a tanti obbrobri e tribolazioni, alla vanità della lotta; non siamo abbandonati; consolanti sono le parole con le quali la Di Donato chiude il suo canto e la promessa di Dio: “...tu sei con me/.../sempre ti ho avuto/in grembo/all’alba dei giorni/ti ho pensato/di Spirito nutrito//non temere il buio/non prevarrà”. Preghiera in Gennaio: il calore dell’amore nel gelo e per il gelo del mondo. (D. Defelice) ** TRILUSSA - Tutte le poesie - Mondadori, I Meridionali paperback, ottobre 2004- Saggi introduttivi. cronologia e commento di Claudio Costa e Lucio Felici - Pagg. I - CLIX / 1 - 1918, € 32,00. Carlo Alberto Camillo SALUSTRI nasce a Roma il 26 ottobre 1871. Non è il caso di dare qui il suo curriculum, essendo poeta noto in tutto il mondo. Morirà a Roma la mattina del 21 dicembre 1950, scrive Lucio Felici nella sua dettagliata “Cronologia”. Il poeta “si sveglia con le membra ghiacciate; chiama la devota governante, che faticosamente lo aiuta ad alzarsi dal letto; sta per sedersi, ma crolla di schianto sulla sedia che si rompe sotto il suo peso. Non cade a terra: resta aggrappato, senza vita, ai braccioli”. Il primo dicembre di quell’anno, Luigi Einaudi lo aveva nominato senatore a vita “per avere illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo letterario e artistico”.
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TRA LE RIVISTE MAIL ART SERVICE - Periodico dell’Archivio di Mail Art e letteratura “L. Pirandello” di Sacile, diretto da Andrea Bonanno - via Friuli 10 - 33077 Sacile (PN). Riceviamo il n. 99, settembre 2017, dal quale segnaliamo: “L’anomala 57esima Biennale d’Arte di Venezia (2017) e le sue stanze con gli specchi alienanti del mondo magico”, di Andrea Bonanno; “La verifica trascendentale è un’ esperienza di cultura: <Van Gogh e la pittura verificale> di Andrea Bonanno”, di Susanna Pelizza. * SOLOFRA OGGI - La Voce di chi non ha voce, direttore Raffaele Vignola - via A. Giannatasio II trav. 10 - 83029 Solofra (AV) - E-mail: solofraoggi@libero.it - Riceviamo il n.8 - 9, agostosettembre 2017, sempre ricco di notizie e di foto, che danno una immagine viva della città e del territorio. * FIORISCE UN CENACOLO - mensile internazionale di Lettere e Arti, fondato nel 1940 da Carmine Manzi, direttore responsabile Anna Manzi - 84085 Mercato San Severino (Salerno) - e-mail: manzi.annamaria@tiscali.it Riceviamo il n. 7 - 9, luglio-settembre 2017, dal quale segnaliamo la copertina a colori: “Giri di parole”, olio su tela di Anna Avossa. Il nostro amico e collaboratore Leonardo Selvaggi è presente con ben tre saggi: “La poesia è andata in frantumi in un mondo senza amore”; “Ocello Lucano della Scuola pitagorica di Metaponto”; “L’ultimo Sud e l’immigrazione”. Di Giuseppe Anziano, anche nostro collaboratore negli anni scorsi, leggiamo “La Via Crucis di Francesco Terrone”. Ecco ancora le firme di Orazio Tanelli, Anna Manzi (tra i suoi “Libri in vetrina”, il volume di Leonardo Selvaggi - Tito Cauchi: Voce all’ anima e di Isabella Michela Affinito - Percorsi di critica moderna, II volume), Carmine Manzi, Antonia Izzi Rufo eccetera.
LETTERE IN DIREZIONE Ilia Pedrina, da Vicenza. Carissimo, oggi è il 6 ottobre ed il giorno si è aperto di gioia, tutta intrisa di volti, di emozioni, di eventi. Ieri sono arrivata a Venezia, al mattino assai presto, per non
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prendermi in ritardo all'incontro con il nostro carissimo Amico Giuseppe Leone: si, hai letto bene! Si è lasciato coinvolgere da me e dal mio fuoco intorno al tema del Festival Luigi Nono alla Giudecca e così ha deciso con Emanuela di immergersi nelle atmosfere magiche della Laguna. Mi informa che verrà su con Emanuela, la sua compagna, Lia, l'esperta di lingua tedesca e Daniela, di Genova, giovane soprano ed io in tempo reale gli scrivo 'Lia, Matelda, Beatrice: tra Dante e il Leone della Locride poca differenza...' L'appuntamento è al Tronchetto, il parcheggio centrale vicino all'imbarcadero ed io mi sento in ansia perché loro arrivano da Pescate, vicino a Como, la strada è lunga e c'è un poco di nebbia, non certo per caso ho portato con me 'Luigi Nono - La nostalgia del futuro - Scritti scelti 1948-1986', il tema è quello dell'incontro inaugurale del Festival, tra poche ore: ha doppio spessore perché dentro c'è di tutto, come segna pagine e memoria, scritto in tutti gli spazi possibili ed in più una borsetta con brillanti cinesi in superficie e borchie che, a dir il vero, contiene poco o niente. Confusione nel disordine più schietto! Mi siedo al Caffé di fronte al Ponte degli Scalzi, dopo aver caricato la Carta Venezia, onde andare avanti e indietro con il battello senza preoccupazioni: di 20 euro il tabaccaio mi dà 6 euro di resto ed io, seduta, mi metto a cercare il bancomat, per poi fare un prelievo consistente perché ho promesso agli ospiti che pagherò loro il battello, 15 euro per quattro. Mi agito perché, gira e rigira con la mano negli angusti spazi, non lo trovo. Telefono a Frank, mi dice che è nella pochette firmata Marella Ferrera, in raso nero, tutta doppia perché è il mio doppio femminile di sempre. Puoi immaginare, carissimo, il mio imbarazzo, con la sicurezza di aver solo il resto di cui sopra per pagare il caffè, che mi costa 3,50. Spero in cuor mio che costi meno e mi metto a riflettere sul denaro che, se manca, ti fa perdere la faccia, ti trasforma le promesse in brutte figure. Il GiGi veneziano però è la forza del mio destino e mi dà il coraggio attraverso il volantino del Festival e la sua bella foto scattata lungo la Fondamenta Grande. I cari ospiti capiranno... L'incontro al Tronchetto è carico di allegria e tutto è dovuto ad Emanuela, perché ha guidato sempre lei, dalle otto del mattino, l'abbraccio con il nostro Amico è bello, i suoi occhi splendono, è la prima volta che arriva a Venezia, dentro ha magia e risvolti in luce di parole dette da chi, prima di lui, si è lasciato sedurre da questi profili. Capiscono il mio disagio, non posso offrir loro nulla di nulla, si son già comprati i biglietti per il battello e la laguna fa il resto, cullandoli in movimento lungo il canale della Giudecca fino al Pontile della Palanca. Per mangiar qualcosa Emanuela ha vista buona e
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sceglie da Majer, con posti a sedere e vetrine cariche d'ogni ben di dio: non posso offrir niente ma almeno mi pago il caffè e la pasta sacher, buonissima, mentre loro scelgono panini innaffiati da Prosecco e Rosato. Li faccio ridere perché gli occhi di Daniela, d'un verde trasparente e magnetico che t'inchiodano al tuo destino da dipendenza, li intendo utilizzare, attorniati dalla sua bella folta capigliatura d'un fulvo ardente, per dare arsura inestinguibile quando si avvicinerà al Kakkiari veneziano, come l' ha soprannominato simpaticamente Nono. Come guida ai luoghi dell'Isola valgo meno di un moscerino, così ci perdiamo in tondo intorno alle immense strutture del Molino Stucky, sul quale ti dirò in un'altra occasione. Stringo il dirti degli eventi, tutti sorprendenti perché scattar foto non basta: è quello che ti rimane dentro e si fa strada nell'esperienza d' avventura che lascia il segno e porta giovamento, quasi medicina. Alla sede della SILOSART troviamo posti a sedere, Nuria Schoenberg Nono inaugura ufficialmente il festival e Massimo Cacciari ne continua il percorso. Poi gli altri relatori, tutti tesi a scandagliare 'La nostalgia del futuro'. Nessun accenno all'Opera che seguirà alle ore 21, a quella composizione, l'EPIMETHEO che il Maestro Gerhard Krammer, qui padrone di casa, ha elaborato ispirandosi al Prometeo di Nono: è Gerhard stesso ad introdurre in lingue diverse, l'italiano, il tedesco, l'inglese, mescolate tra loro dalla passione, il tema di questo protagonista mitico assetato dal Potere e dalle sue sirene e l'evento è prodotto e realizzato in collaborazione con il Festival 'KLANGfruehling' Stadtschlaining-Austria (SILOS). Nemmeno noi potremo apprezzarla in tutta la sua complessità perché pressati sulla via del ritorno: ma la monodia iniziale, le immagini del fondale in video, il complesso evolversi delle linee di sviluppo tematico, nei primi quindici minuti, mi hanno affascinato e mi darò da fare per portare tra i ragazzi del Conservatorio di Vicenza, dopo opportuni contatti, questo lavoro originale e d'avanguardia, ma interno a quella classicità che ti coglie sempre di sorpresa perché ti appartiene, ne sei tu il suo fondo. Usciamo diretti verso La Palanca, là dove si svolgerà l'incontro conviviale ottimamente gestito da Andrea Barina e dal suo gruppo di giovani e mi si avvicina Gabriella Bianco, che Lia ha conosciuto per iniziative culturali. Un imprevisto futuro, preparato da quel passato che ci ha trovato Amiche quando, anni fa, mi ha aperto il suo cuore, offrendomi memorie di vita e di sofferenza, cavalcate meravigliosamente dalla sua arte, vera magia dell'essere veneziani. A suo tempo mi aveva regalato Epistemología del diálogo Pensamiento del Éxodo con a fianco Wolfgang e Magdalena, ora mi attraversa con la notizia degli
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altri 38 libri che nel frattempo ha scritto, con la sua attività di iniziatrice e promotrice d'eventi, come quello che ci sarà a Reggio Calabria, nel marzo 2018, intorno alla Poesia ed alla Scrittura Creativa o quello all'Università di Barcellona del 18 ottobre, o l'altro, il 13 dicembre alla Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari, dove è sepolto Monteverdi, una sua azione scenica La rosa di Monteverdi, con musiche di novella foggia. Affido a Giuseppe la malìa d'una Venezia di notte, con le strade di pece luminescente in moto ondoso: le parole non servono perché l'emozione trabocca, acqua salmastra in vapori che attraversano la mente, acqua della giovinezza del mondo, acqua contro ogni traccia rovente d'ansia e d'angoscia. Emanuela, la grande, bravissima navigatrice, con la vettura tutta stipata perché io sono in forma fisica ampia, ci conduce fin sotto casa e qui, senza ch'io possa addentrarmi nel suo sguardo, ma solo stringermi al suo abbraccio, Giuseppe mi dona Silone e Machiavelli - Una 'Scuola...' che non ha 'Principi', con Prefazione di Vittoriano Esposito e Ignazio Silone scrittore dell'intelligenza. Lei, Emanuela, li guiderà tutti in salvo fino a casa, ed arriveranno alle 3:10 di questa nuova giornata. L'Amicizia, che tu hai nutrito attraverso la tua creatura di parole in canti, in narrazioni, in riflessioni profonde, in grida di sofferto sdegno, efficaci sempre e di pregio, continua ad espandere i suoi contagiosi influssi, per portare ebbrezza e rivoluzione. Ti abbraccio, in gioia. Ilia *** Emerico Giachery, da Roma, mercoledì 11 ottobre 2017: Carissimo, congratulazioni per lo slancio e l'impegno nell'assicurare continuità e regolarità alla rivista e nel conferirle respiro d'orizzonti e varietà di prospettive: non la solita rivista di poesia e letteratura come tante altre, ma uno spazio d'incontro e d'amicizia. Meriterebbe un generoso e disinteressato sponsor, ma a volte uno sponsor può limitare la libertà, che è sempre stata la tua bandiera. Anche nel numero d'ottobre incontro amici (letteratura come amicizia è titolo di un mio vecchio libro, ma soprattutto principio di vita). Vedo da una pagina affacciarsi (e salutarmi) Anna Vincitorio, che in questi giorni presenta a Firenze un suo bel libro. Vedo con piacere ricordato Turi Vasile, personaggio di notevole spessore e di vivissimo ingegno, di cui fui amico e di cui conosco bene anche la figlia Luciana, attiva in tenti campi, che pure vedo presente tra le firme dei tuoi collaboratori. Ma attraverso te vorrei esprimere infinita gratitudine di mia moglie Noemi e mia a Ilia Pedrina, di cui tanto apprezzo la
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collaborazione alla tua rivista, per le sue parole così generose nei nostri confronti. Vorremmo tanto comunicare con lei, ma non abbiamo l'e-mail. Potresti cortesemente fornircelo? Grazie! Alla mia generazione il cognome Pedrina ricorda ottimi volumi scolastici di letteratura italiana universalmente adottati. Che il loro autore, Francesco Pedrina, sia parente della vostra preziosa collaboratrice? Quali notizie di Leonardo Defelice? Certo cresce in bellezza e simpatia. Lo vogliamo collaboratore di "Pomezia-Notizie, per ora almeno in immagine: con una bella foto dalla quale sorride a noi lettori che gli vogliamo tutti bene. Un abbraccio da Emerico (e Noemi) Carissimo Emerico, le tue espressioni di stima e di affetto per la mia creatura di carta mi danno orgoglio e quasi mi commuovono; non è di tutti i giorni apprendere - da un finissimo intenditore come te, coltissimo e sincero - di aver lavorato bene e creato “uno spazio d’incontro e d’amicizia”. Una famiglia numerosa e di valore Pomezia-Notizie, che rischia, però, di chiudere, perché in crescendo rossiniano le tante spese, tra cui la spedizione del cartaceo, il cui costo, per ogni copia, è di un euro e 28. Ho scelto la libertà, è vero, ma che libertà è se ad ogni numero si rischia la chiusura, se il cappio si dovesse stringere a tal punto da soffocarmi? Vivo con una magrissima pensione e non sempre è possibile destinarne una parte per la sopravvivenza di questa creatura che, nel luglio del 2018, compirà 45 anni. Approfitto, allora, per invitare gli amici tutti a una vera e propria catena, simile a quella celebre di Sant’Antonio, perché ognuno si rivolga ai propri amici scrittori e poeti, invitandoli pressantemente a collaborare e ad abbonarsi. Pomezia-Notizie ha bisogno di ulteriori collaboratori e abbonati per non finire, o cadere sotto l’influenza di qualcuno che la utilizzerebbe per altri scopi, a detrimento della Cultura. Non ho avuto l’occasione di conoscere di persona Turi Vasile. Me ne parlava, negli ultimi anni, promettendo di farmelo incontrare, la cara amica Ada Capuana - pronipote del grande Luigi, poetessa, scrittrice, ceramista, attrice -, che, all’interno 19 del numero 107 di via Appia Nuova, curava la Redazione romana di Pomezia-Notizie e teneva, nel periodo primavera -autunno inoltrato, il convivio de L’Assolatella, tra lo studio zeppo di libri e opere d’arte ed il balcone stracolmo d’erbe aromatiche. Lei morta, l’incontro con Turi Vasile non c’è stato. Ora a Pomezia-Notizie collabora la figlia architetto Luciana, della quale abbiamo letto bei romanzi, tra cui Per il verso del pelo, recensito in questo numero.
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Ilia è figlia di Francesco Pedrina, l’autore della Storia della Letteratura Italiana per Licei e Istituti superiori di ogni ordine e grado, adottata anche al “Piria” di Reggio Calabria, da me frequentato. In una cartolina postale, inviata all’editore Francesco Fiumara, direttore de La Procellaria che l’aveva pubblicata, il critico lodava la mia silloge 12 mesi con la ragazza e fu l’occasione della nostra amicizia. A Roma, poi, il grande critico e maestro l’ho incontrato tante volte; quando arrivava da Vicenza, mi pregava pure di aiutarlo nella correzione di bozze, mi portava con sé a farmi conoscere personaggi come Ettore Serra e Carlo Delcroix, scoprendo che, intanto, avevamo già amicizie comuni, Solange De Bressieux, per esempio, poetessa francese, scrittrice e musicologa. A Roma, una mattina, Pedrina arrivò accompagnato proprio da Ilia, oggi validissima mia collaboratrice. Di Francesco Pedrina, nell’aprile 2007, ho pubblicato - in un quaderno Il Croco che
ha ottenuto un bel successo (ne hanno scritto Maria Antonietta Mòsele, Silvana Andrenacci Maldini, Tito Cauchi, Roberta Colazingari, Maria Teresa Epifani Furno, Giuseppe Anziano, Franca Alaimo, Elisabetta Di Iaconi, Laura Pierdicchi, Elena Bono, Gabriella Frenna, Rossano Onano eccetera) - le tante lettere da me ricevute negli anni, Presentazione della stessa Ilia.
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Il nipotino Leonardo è proprio nella fase in cui, non sapendo ancora parlare, distribuisce sorrisi da stella. Eccotene un assaggio nella foto accanto. Ricambio l’abbraccio a te e Noemi, ricordandovi che Pomezia-Notizie è sempre onorata di ospitarvi sulle sue pagine. Domenico
AI COLLABORATORI Inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione) preferibilmente attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è gradito un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (copia cartacea) Annuo, € 50.00 Sostenitore,. € 80.00 Benemerito, € 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia, € 5,00 (in tal caso, + € 1,28 sped.ne) Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 N076 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio