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NATALE LUZZAGNI: TANTO VALE VIVERE BREVE RASSEGNA SUI CASI DI SUICIDIO NEL MONDO LETTERARIO di Liliana Porro Andriuoli
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ATA la sua assidua attività nel campo della grafica e dello studio della Storia dell’Arte, della quale “è un profondo appassionato e conoscitore, oltre che efficacissimo «narratore» in virtù delle sue capacità divulgative”1, ci saremmo aspettati che il primo libro di Natale Luzzagni riguardasse proprio questo campo di studi. E invece ecco che, decisamente a sorpresa anche per parecchi che conoscono Natale, l’ argomento è completamente diverso, dal momento che in esso viene compiuta un’indagine sui casi di suicidio nel mondo letterario. Il titolo, Tanto vale vivere (Venilia Editrice, 2016), è tratto dall’ultimo 1
Stefano Valentini, Prefazione a: Natale Luzzagni, Tanto vale vivere - Breve rassegna sui casi di suicidio nel mondo letterario, Venilia Editrice, Padova, 2016, p. 10.
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All’interno: Amor di poesia, di Emerico Giachery, pag. 7 In dialogo con Marco Vannini, di Ilia Pedrina, pag. 9 Luigi Pirandello era anche un poeta, di Luigi De Rosa, pag. 13 Walter Siti, Bruciare tutto, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 15 Per Maria Grazia Lenisa, di Ilia Pedrina, pag. 19 Antonio Crecchia dai Barlumi alle Foschie, di Anna Aita, pag. 23 La donna di Squarotti, di Antonia Izzi Rufo, pag. 25 Carmine Iossa, l’odissea, la vita, la morte, di Anna Aita, pag. 26 Il vuoto, di Luciana Vasile, pag. 28 Tito Cauchi e Leonardo Selvaggi, di Anna Aita, pag. 29 I pensieri della sera, di Leonardo Selvaggi, pag. 31 Anche il Paradiso ha la sua tristezza, di Rudy De Cadaval, pag. 35 Zio Clemente, di Antonio Visconte, pag. 38 XXVII Città di Pomezia, pag. 40 I Poeti e la Natura (Giacomo Zanella), di Luigi De Rosa, pag. 42 Notizie, pag. 60 Libri ricevuti, pag. 56 Tra le riviste, pag. 58 Lettere in Direzione (Ilia Pedrina), pag. 59 RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (Sensazioni, di Antonia Izzi Rufo, pag. 43); Isabella Michela Affinito (Parole ricercate, di Pasquale Montalto, pag. 44); Isabella Michela Affinito (Fioretti di San Francesco, di Maria Antonietta Mòsele, pag. 45); Elio Andriuoli (Di mare un cammino, di Manrico Murzi, pag. 46); Tito Cauchi (Autori contemporanei nella critica, di Isabella Michela Affinito, pag. 47); Tito Cauchi (Altre stagioni, di Franco Orlandini, pag. 48); Tito Cauchi (Anime al bivio, di Imperia Tognacci, pag. 48); Antonio Crecchia (Salvatore Porcu, di Tito Cauchi, pag. 50); Domenico Defelice (Anime al bivio, di Imperia Tognacci, pag. 51); Domenico Defelice (Altre stagioni, di Franco Orlandini, pag. 53); Salvatore D’Ambrosio (Dialogo infinito, di Giorgio Bárberi Squarotti, pag. 53); Antonia Izzi Rufo (Insolite composizioni - nono volume -, di Isabella Michela Affinito, pag. 54); Maria Antonietta Mòsele (Parole ricercate, di Pasquale Montalto, pag. 55); Susanna Pelizza (Parole ricercate, di Pasquale Montalto, pag. 55). Inoltre, poesie di: Anna Maria Bonomi, Loretta Bonucci, Rocco Cambareri, Fiorenza Castaldi, Luigi De Rosa, Salvatore D’Ambrosio, Enrico Ferrighi, Antonia Izzi Rufo, Ines Betta Montanelli, Leonardo Selvaggi
verso di una poesia di Dorothy Parker, scrittrice, poetessa e giornalista statunitense (nota per lo spirito caustico col quale fustigò i costumi e i vizi del suo Paese), che così suona: “I rasoi fanno male,/i fiumi sono freddi,/l’ acido lascia tracce,/le droghe danno i crampi, /le pistole sono illegali,/i cappi cedono,/il gas è nauseabondo…/tanto vale vivere”. Signifi-
cativa è poi la dedica del libro: “all’amico Saverio/e a tutti coloro/che hanno scelto il buio”. In realtà, quello del suicidio e delle ragioni per cui tante persone che, pur avendo raggiunto la celebrità, “hanno scelto il buio”, è un argomento di notevole interesse, sia dal punto di vista psicologico che sociologico (si
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vedano gli studi di Sigmund Freud e di Emile Durkheim su questa materia). E Natale Luzzagni lo tratta con le doti dello scrittore che gli sono proprie e dello studioso che se ne è appassionato, ricercando anche le cause che più frequentemente portano le persone a compiere tale estremo gesto. Secondo la sua ricerca tali cause risiedono principalmente nella mancanza di salute dell’individuo e nella perdita della persona cara, cui si aggiungono la delusione amorosa e lo stato di estrema indigenza, nonché l’insuccesso professionale (p. 26). Natale ci fa inoltre riflettere sul fatto che dal compiere tale gesto disperato non si sottraggano nemmeno “personaggi famosi”, uomini che hanno ormai raggiunto la celebrità. Perché, come egli ben spiega nel capitolo introduttivo (La vita è una prova di teatro che non ha prove iniziali), non va dimenticato che “dietro ad ogni genialità, ad ogni spirito illuminato, ad ogni fervida sensibilità c’è [pur sempre] un essere umano” che, in quanto tale, è purtroppo “ben più fragile delle eccellenze” da lui create, come artista. L’esempio citato in proposito è quello del celebre pittore Giuseppe Pelizza da Volpedo, il quale, non ancora quarantenne, fu indotto al suicidio dal fatto che, al dolore per la scomparsa della moglie si aggiunse, a breve distanza di tempo, quello causato dal mancato riconoscimento di un quadro che gli era costato più di dieci anni di assiduo e fruttuoso lavoro (p. 38-9), Il quarto stato, oggi conservato al Museo del Novecento di Milano. La rassegna che Luzzagni compie sui casi più notevoli di scrittori suicidi (la casistica presa in considerazione supera le cinquanta unità) inizia con il goriziano Carlo Michelstaedter, il quale, dopo aver completata la stesura della sua tesi di laurea, si tolse la vita con un colpo di pistola (aveva solamente 23 anni) e termina con Stefan Zweig, scrittore, giornalista, drammaturgo e poeta austriaco (era nato a Vienna nel 1881), ma naturalizzato britannico, il quale morì suicida a Petrópolis, in Brasile, insieme all’amatissima Lotte (la sua seconda moglie), per mezzo di un’ overdose di barbiturici. I due corpi furono ri-
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trovati, entrambi vestiti, sul letto. Questo duplice suicidio fu dovuto al fatto che Zweig, perseguitato dal regime nazista, sentiva ormai di essere impotente di fronte allo strapotere degli avversari i quali, travolti dalla follia della loro dilagante barbarie, avevano bruciato nelle piazze le sue opere e avevano distrutto il suo sogno di un’umanità pacifica e vivente in perfetta armonia. Spicca subito, tra i tanti autori di cui Luzzagni ci parla, il nome di Primo Levi, instancabile testimone dell’Olocausto ebraico, per essere stato egli stesso deportato ad Aushwitz, il quale si suicidò a Torino, lanciandosi nella tromba delle scale, in seguito ad una crisi profonda causata dalla malattia e dall’ossessivo ricordo delle atrocità viste e subite. Trova inoltre qui posto il suicidio di Emilio Salgari il quale, autore di tanti romanzi d’ avventura, che ebbero enorme successo specie tra i giovani (e lo hanno tuttora anche fra i meno giovani), si ridusse in miseria a causa dell’instabile salute mentale della moglie (che verrà in seguito persino ricoverata in mani-
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comio). Una causa concomitante fu anche l’ enorme fatica che dovette sostenere per esaudire le richieste degli editori i quali pretendevano da lui un’eccessiva mole di lavoro in tempi brevi. Si uccise con un rasoio in un bosco sulle colline torinesi, non lontano dalla propria dimora. Un caso diverso fu invece quello di Luigi Tenco, cantante affermato, che pose fine alla sua vita con un colpo di pistola alla tempia in seguito alla mancata vittoria, da lui ritenuta estremamente ingiusta, della sua canzone (Ciao amore, ciao) al Festival di Sanremo del 1967. In questa sua rassegna Luzzagni ricorda poi i casi di suicidio dei romanzieri Guido Mor-
selli e Lucio Mastronardi. Quello del primo fu dovuto al mancato riconoscimento del valore del suo lavoro di scrittore. Infatti a poco più di 50 anni era riuscito a pubblicare solo due saggi, mentre dei suoi nove romanzi nessuno vide la luce prima della sua morte, che si procurò con un colpo di pistola. In seguito il successo gli arrise, ma per lui era ormai troppo tardi. Al secondo, furono invece fatali un temperamento estremamente ansioso e un carattere insicuro e spigoloso, che lo portarono, dopo una diagnosi infausta, a gettarsi nel Ticino. E ciò benché non gli fosse mancato per il suo lavoro letterario l’apprezzamento di molti insigni uomini di Lettere, quali Montale
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e Calvino. Fin dal suo primo romanzo, infatti (Il Calzolaio di Vigevano, 1959) ebbe giudizi estremamente positivi da parte della critica: una recensione apparve finanche sul “Corriere della sera”, firmata da Eugenio Montale, critico notoriamente molto difficile da accontentare e poco propenso alle lodi. Emerge poi con molta evidenza dal libro di Luzzagni la contraddizione insita nel gesto estremo compiuto da questi scrittori i quali, pur desiderando l’eternità attraverso le loro opere, non furono capaci di superare la crisi profonda in cui, loro malgrado, erano precipitati. Nella sua ricerca di scrittori famosi che rifiutarono la vita suicidandosi, Natale Luzzagni ha incontrato personalità di grande talento, come Marina Cvetaeva, la quale si impiccò in seguito alle persecuzioni subite dal Governo Sovietico, che non tollerava la dissidenza del marito Sergej Efrom e della figlia Alya. E ciò anche se non le mancò, tuttavia, l’ ammirazione di poeti e romanzieri di spicco, come Boris Pasternàk e Anna Achmatova. Luzzagni si sofferma poi nel suo libro su altri insigni letterati russi di successo che posero fine col suicidio ai loro giorni, come Sergéj Esénin e Vladimir Majakovskij. Il primo di essi s’impiccò (anche se viene da alcuni ipotizzato che sia stato ucciso dai Servizi Segreti sovietici) nella sua stanza dell’Hotel Angleterre di Leningrado, dove il suo corpo venne trovato appeso accanto alla finestra. Noto per la sua vita avventurosa e per la sua relazione con la ballerina statunitense Isadora Duncan, Sergéj Esénin è stato uno dei maggiori poeti del Novecento russo. L’altro grande poeta russo, vissuto in quegli stessi anni, che conobbe e ammirò Esénin, ma ne criticò il disimpegno ideologico, fu Majakovskij, il quale si uccise con un colpo di pistola al cuore all’età di trentasette anni. Fu un poeta e drammaturgo futurista che però, a prescindere dal giudizio che si può dare su tale corrente letteraria, seppe raggiungere alti livelli d’arte. Benché fosse il poeta forse più allineato con il Partito Comunista Sovietico, fu attaccato da alcuni dirigenti per certi suoi scritti; il che lo portò, unitamente ad una delusione amorosa,
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al suicidio. Né poteva mancare in questo libro la presenza di Virginia Woolf, la nota scrittrice britannica, che qui è introdotta con l’affettuoso biglietto che lasciò al marito, prima di entrare nel fiume Ouse, nei pressi della sua abitazione (situata nell’East Sussex, nel Sud-Est dell’Inghilterra) e che viene presentata da Luzzagni come spinta all’estremo gesto da quella “discrasia tra il tempo reale e quello interiore” che trapela da “tutte le [sue] pagine più importanti”, oltre che dalla sua instabilità emotiva. La partecipazione al dramma degli autori da lui presentati è una caratteristica precipua della scrittura di Natale Luzzagni; una caratteristica che ritroviamo, ad esempio, nelle pagine da lui dedicate al rapporto tra Romain Gary, uno scrittore francese di origine ebreo-russa e la molto più giovane attrice statunitense Jean Seberg, che terminò con un duplice suicidio. La Seberg fu infatti trovata morta in una Renault, “accanto ad una confezione vuota di barbiturici”; e l’anno successivo prese la stessa decisione anche Gary. Indossata “la vestaglia di seta rossa” comprata nel pomeriggio, si sparò” un colpo di pistola. Fu trovato accanto a lui un biglietto su cui era scritto: “Nessun rapporto con Jean Seberg. I patiti dei cuori infranti sono pregati di rivolgersi altrove” (p. 129). Si veda anche quanto Luzzagni scrive a proposito di John Allyn Berryman e dello strano comportamento che egli teneva durante il suo insegnamento universitario, sempre compiuto però con esaltante dedizione e con vivo entusiasmo. Allyn viene presentato da Natale come un docente di talento e di eccezionale bravura (con “un bagaglio di conoscenze che altri accademici potevano solo sognare”), il quale teneva con i suoi studenti un rapporto per nulla convenzionale, privilegiando “il superamento di inutili distanze formali per entrare in uno scambio quasi confidenziale di idee e confronti” (p. 132). Se riuscivano a resistere “alla tentazione di un insegnamento più tradizionale” gli studenti “finivano per venerarlo” (p.134) ed erano disposti a tutto pur di non perdere le sue lezio-
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ni. Purtroppo, malgrado le sue non comuni doti, anche Berryman “scelse il buio”, lanciandosi “senza esitare” nel Mississippi, da un ponte di Minneapolis, il 7 gennaio 1972, per motivi che ci sono ignoti. Non manca in questa rassegna di casi di suicidio avvenuti nell’ambiente letterario quello di Pamela Moore, la giovanissima scrittrice statunitense che, sebbene avesse raggiunto la notorietà a soli diciotto anni, con il suo libro Cioccolata a colazione, mise fine alla sua esistenza, sparandosi in bocca un colpo di carabina. Aveva solo ventisei anni. Probabile ragione del gesto: forse il fatto che il suo successo iniziale non aveva avuto un seguito con i libri successivi. Tra gli uomini di lettere che volontariamente posero fine ai loro giorni, ricordati da Luzzagni in questo suo libro, non poteva mancare Edgar Allan Poe, scrittore di genio (ammirato tra gli altri da Charles Baudelaire, il quale se ne occupò in un saggio famoso); uno dei maggiori esponenti del romanzo “gotico” e anticipatore di quello poliziesco (nonché autore di libri molto noti, come Storia di Arthur Gordon Pym), il quale fu trovato in condizioni disperate su un marciapiede di Baltimora e morì poco dopo in un ospedale di questa città in preda alle allucinazioni causate dall’alcool. Un caso di suicidio poi che fece scalpore in Italia fu quello di Cesare Pavese, narratore e poeta, che fu trovato morto in una camera d’ albergo a Torino per aver ingerito una forte dose di sonnifero. Molto conosciuti sono i suoi romanzi Paesi tuoi, La bella estate, La luna e i falò e i racconti di Feria d’agosto, nonché le sue poesie di Lavorare stanca e di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Un altro suicidio che ebbe vasta eco fu quello di Ernest Hemingway, lo scrittore di celebri romanzi quali Addio alle armi, Per chi suona la campana? e Il vecchio e il mare, il quale si uccise il due luglio 1961, sparandosi un colpo di carabina in bocca, a causa di una grave depressione, causata dalle sue precarie condizioni di salute. Non molti anni prima, nel 1954, aveva ricevuto il Premio Nobel. Fra i numerosi altri letterati che “scelsero il
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buio” e di cui parla Natale Luzzagni in questo libro, in Italia vengono poi particolarmente ricordate due poetesse: Antonia Pozzi, nata in una famiglia dell’alta borghesia milanese, la quale si uccise assumendo dei barbiturici e di Amelia Rosselli, figlia del noto antifascista Carlo Rosselli, la quale morì gettandosi da una finestra di via del Corallo a Roma. A questo lungo capitolo intitolato Buio, fa seguito nel libro in esame un capitoletto, Sul Suicidio, che riporta una serie di interessanti Citazioni di autori famosi che espressero il loro giudizio su questo tragico gesto. Da ricordare quella di Giacomo Leopardi, che recita: “E invero, colui che si uccide da se stesso, non ha cura né pensiero alcuno degli altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi e tutto il genere umano” e quella di Francesco De Sanctis, il quale scrisse: “il suicidio fu l’ ultima virtù degli antichi. Nel pieno disfacimento di ogni principio morale e di ogni credenza, essi formarono sotto il nome di Stoicismo una filosofia della morte: non sapendo più vivere eroicamente, vollero saper morire da eroi”. Segue Istantanee, che è una breve presentazione degli scrittori sui quali Luzza-
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gni si è soffermato in maniera più diffusa nel libro, nella quale vengono illustrati dall’ autore “alcuni spunti storici” utili per meglio comprenderli. Si passa quindi all’epilogo (La fredda legge della statistica), dove l’analisi effettuata ci permette di dedurre come nel mondo letterario siano molto più frequenti i casi di suicidio compiuti da giovani che da persone anziane, dal momento che i letterati suicidi ultracinquantenni presentati sono soltanto 18. I due letterati più anziani, che compirono quello che abitualmente si definisce “il folle gesto” in età più avanzata, sono: Sándor Márai, scrittore e giornalista ungherese, che si suicidò all’età di ben 89 anni, “chiuso nel suo dolore di vedovo” (p. 191) e Berton Roueché, “giornalista, romanziere e scrittore statunitense” che si tolse la vita all’età di 84 anni (p. 208), “con un colpo di fucile alla testa”. Segue il capitoletto Opere, con l’elenco delle opere degli autori citati. Da segnalare è poi lo splendido corredo iconografico che arricchisce il volume in ogni sua parte. Le fotografie, tutte molto intense, mettono con estrema efficacia in evidenza il soggetto rappresentato e lasciano quindi intuire diversi lati della sua personalità che altrimenti potrebbero sfuggire. Un pregio importante del volume di Natale Luzzagni è sicuramente quello di aver mostrato degli aspetti del carattere, spesso ignorati, di letterati anche molto noti. L’ impressione che rimane dopo la lettura è comunque che si tratti di un’opera di molto pregio, con la quale l’autore ha raggiunto pienamente le finalità che si era proposte, consistenti nell’ offrire un quadro esauriente, anche se ovviamente non completo, del fenomeno analizzato, cioè del suicidio in campo letterario, riuscendo inoltre, come osserva Stefano Valentini nella sua prefazione, a darci un libro di piacevole lettura, per la qualità della prosa, adoperata con duttilità e freschezza di stile. Liliana Porro Andriuoli NATALE LUZZAGNI: TANTO VALE VIVERE BREVE RASSEGNA SUI CASI DI SUICIDIO NEL MONDO LETTERARIO - Venilia Editrice, Padova, 2016, € 18,00
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AMOR DI POESIA di Emerico Giachery
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A memoria del passato, in questi labili e struggenti anni senili, a volte si fa “musica”: nel senso figurato, ampliato, che questa magica parola può assumere. Tra i motivi “musicali” che s’ intrecciano e combinano nella totale sinfonia della memoria-vita spiccano gli incontri: con persone (donne amate e amici, grandi amici che la vita ci ha donato e che ci hanno arricchiti nell’anima); incontri con luoghi, libri, idee. Con la musica, stavolta in senso proprio (quante opere liriche e quanti grandi concertisti e direttori, compresi Furtwängler e Karajan, ascoltati nel corso di una lunga esistenza!). Con la pittura, “finestra aperta sul mondo”, secondo Leon Battista Alberti: primo e tenace amore Piero della Francesca; poi Masaccio, Antonello, Caravaggio, Vermeer; poi l’ultimo, così generoso e creativo, Ottocento francese e tanto bel Novecento anche italiano. Con il teatro, negli anni ormai lontani delle magistrali regie di Strehler,Visconti, Costa, Squarzina, Ronconi, Enriquez. Con il grande cinema, da Carné e Dreyer a Bergman, De Sica, Fellini . Incontri con la poesia. Sin dalla scuola media: poco meno di settantacinque anni or sono. Le Elegie di Tibullo, studiate a scuola in latino, mi dilettavo a tradurle in plausibili endecasillabi: «Copiose messi e buoni vini, o Dei / a noi donate! Adesso finalmente / con-
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tento del mio poco, in questa calma / vivere sempre io possa…». Non è vero (per fortuna!) che la scuola rende sempre sgradevole tutto ciò che insegna. Negli anni adolescenti del ginnasio eccomi già conquistato dall’ incanto aurorale dello Stil Novo, quale appariva nelle pagine dell’antologia scolastica. La nostra insegnante di lettere ci fece poi leggere in classe Alexandros di Pascoli. Di un poeta, cioè, che avrei frequentato a lungo in età matura, studiando con emozione i suoi manoscritti conservati a Castelvecchio, dedicandogli corsi universitari, un libro intitolato Trittico pascoliano, e persino - infaticabile promeneur solitaire qual ero in quegli anni - visitando a piedi tutte, o quasi tutte, le contrade della terra barghigiana evocate nei poemetti e divenute poi, anche per me, luoghi dell’ anima. Scolaretto quattordicenne già aperto alla poesia, rimasi affascinato dai temi di destino, di musicale mistero, del Pascoli di Alexandros, così diverso dal poeta “ciaramelloso” («Udii tra il sonno le ciaramelle») o “equino” («O cavallina, cavallina storna») incontrato alle scuole elementari; e provai anch’io a scrivere un poemetto intitolato Hannibal, memore delle vite di Cornelio Nepote incontrate in quello che si chiamava ancora ginnasio inferiore. Riuscii ad abbozzarne soltanto due episodi. Nel primo, dall’alto dei Campi d’Annibale, il condottiero contempla estatico, in fondo alla pianura, Roma che sogna di conquistare: «Come splendeva Roma in quell’aurora / fulgida di speranze…». Nell’ altro episodio, il vecchio Annibale, deluso e stanco, si offre, docile, alla morte. A vent’anni chi non ha scritto qualche verso? Può essere capitato anche a me qualche rara volta, senza intenzione di pubblicarli: versi stampati ce ne sono troppi e poi troppi dappertutto. Sull’opportunità di pubblicare versi concordo con John Steinbeck quando dice che le poesie sono come le ostriche: se non sono di qualità eccellente, meglio farne a meno. In una pagina di diario ricordo tuttavia, dono di una notte d’Epifania dei miei trasognati vent’anni, l’inaspettata grazia di sentir nascere versi. Vegliavo ascoltando ritmi inte-
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riori che prendevano forma per evocare – emersa chissà da quale recondito vivaio d’ archetipi – un’immaginaria fanciulla scomparsa allo sbocciare della prima giovinezza. Attorno, un’atmosfera assorta e remota, quasi omerica, tra ancelle e compagne che, ricordandola, filavano. Commento musicale adatto, anche se proveniente da un mondo ben lontano da quello omerico, sarebbe stato quello che introduce e accompagna l’episodio di Senta, tra fanciulle che filano, nell’ Olandese volante, o Vascello fantasma che dir si voglia. «oltre quei monti azzurri»: era uno di quei mesti versi d’addio (alla mia stessa giovinezza?) . “Azzurri” non solo per eco leopardiana, ma per sintonia sia con quel mio verseggiare in “azzurro diesis minore”, sia col colore in cui meglio mi riconosco. Se tuttavia dovessi scegliere, tra i pochissimi scritti nel corso dell’esistenza, un verso-emblema del mio tendere all’Ulteriore e al Divino, opterei per questo verso finale di un breve Notturno dei lontani vent’anni: «Là dove il peso si fa lieve luce». Amor di poesia, nel senso più ampio e ricco del termine, ha accompagnato, nel vario svolgersi di una lunga vita, il mio tentativo di “abitare poeticamente la Terra”. Secondo un autentico umanista dei nostri tempi, James Hillman, «i fondamenti della nostra mente non sono né ideologici, né biologici, né linguistici, ma poetici. Ed è la materia poetica – metafore, simboli, parole – il mistero fondamentale della mente umana». Affermazione stimolante, ma che andrebbe chiarita e motivata. Ogni lettore può provare a farlo secondo la propria esperienza, il proprio discernimento. Per il docente di letteratura, per la sua attività così gratificante (come ha bene mostrato anche il capolavoro di Peter Weir L’attimo fuggente con il compianto Robin Williams protagonista), l’amor di poesia è, naturalmente, vitale alimento quotidiano. La ricerca critica, meditata e complessa, della vigilia studiosa s’invera nel rito gioioso della comunicazione condivisa. Gioioso, il rito, perché celebra una vittoria della parola poetica sul silenzio e sul nulla, facendo rivivere col testo e nel testo un
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significativo grumo di vita e di storia in esso coagulato e in attesa di tornare ad esistere con pienezza nell’atto interpretativo. Emerico Giachery LASCIATECI ESSERE POETI Ora che siamo arrivati fino qui/ e che qui ce ne dovremmo restare lasciateci scrivere di quello che vogliamo/ e che davvero ci interessa dopo le tante delusioni che ci hanno feriti. Lasciateci soli ogni tanto a meditare/ in una pausa della solita vita a vagheggiare cose inesprimibili/ che avremmo potuto godere nella nostra gioventù regalata a tutti. Lasciateci sorridere per una gioia rara/ nel cuore del nostro cuore e lavorare per quello che ci piace visto che il mondo d'oggi ci sfrutta cinicamente pur tenendoci accuratamente in disparte. Lasciateci sognare nel gioco intrigante/ della poesia unica droga. Lasciateci urlare a squarciagola/ contro le centomila storture che in sempre nuove forme disumane/ si riproducono senza sosta lasciateci ripartire/ senza far finta di trattenerci lasciateci ritornare e restare (senza però legarci). Lasciateci rimpiangere/ la Bellezza e la Bontà che troppo spesso vengono cancellate/ e lasciateci adorare quelle che ci sono ancora. Lasciateci viaggiare nell'Universo sconfinato/ per miliardi di miliardi di anni-luce con la navicella della fantasia./ Lasciateci dormire fiduciosi come bambini./ Lasciateci vegliare, con gli occhi sbarrati per il timore e lo sconforto. Lasciateci sperare pur nel groviglio dei dubbi e dei tormenti sempre con l'unica nostra bussola: la Poesia. Luigi De Rosa (Rapallo, Genova)
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IN DIALOGO CON
MARCO VANNINI, ISPIRATO INTERPRETE DELLA TEOLOGIA MISTICA di Ilia Pedrina
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ARCO Vannini riesce ad affascinare anche quando lavora e dà alle stampe il volume 'TESI PER UNA RIFORMA RELIGIOSA', pubblicato nel 2006, con prima ristampa nel 2007 per la casa Editrice Le Lettere, in Firenze. E la fascinazione parte subito dalla voce d'apertura: 'Tutto deve tornare all'Uno Tutto viene dall'Uno e all'Uno deve tornare, se non vuole restare diviso, nel molteplice. Angelus Silesius, Il pellegrino cherubico, V, 1'. Poi, nell'Introduzione, si spalanca subito un portale d'infinita bellezza, quello del Paradiso, XXXIII, vv. 124-226, prima d'ogni altra traccia dell'Autore: “ O luce etterna che sola in te sidi sola t'intendi, e da te intelletta e intendente te ami e arridi! Con questa, che è la sua parola più alta, si conclude il medioevo cristiano: così, infatti, al termine della sua ascesa, dante si rivolge a Dio, eterna luce in sé autosussistente, ma anche movimento e vita, nell'atto dell'intelligenza e dell'amore che unisce in ritmo trinitario il Padre al Figlio, nello Spirito. L' espressione teologica non è qui una astratta costruzione sul divino, priva di ogni rapporto
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con la realtà umana, ma il riflesso di un'esperienza fondamentale: quella luce è la 'vista' stessa dell'intelligenza e dell'amore dell'uomo, che si riconosce all'interno dell''etterna luce': ché la mia vista, venendo sincera e più e più entrava per lo raggio dell'alta luce che da sé è vera...” (Dante, ibid. 52-54)” (Marco Vannini, Tesi per una riforma religiosa, ed. cit. pp. 5-7). Tutto questo testo mostra solida audacia spirituale per attraversare i secoli del potere religioso in Italia e in Europa e snidarne i limiti, le oscure trame per rendere incatenata l'intelligenza dell'amore spirituale, vincolando così, senza respiro, l'anima ad un soprannaturale coniato per essere gestito solo dagli addetti ai lavori. A tutto questo il Vannini si ribella e si mette al lavoro con passione. Allora è chiaro che per la recentissima opera 'CONTRO LUTERO E IL FALSO EVANGELO' l'Autore ha tutto il coraggio necessario a far prendere nuova aria e luce e brividi di vita a quella audacia spirituale, della quale siamo capaci se e solo se superiamo i limiti di una 'egoità' carica di sofferenza. Perché Vannini affronta Lutero con il coraggio di Meister Eckhart? Perché è proprio contro l'Ego maiuscolo, che si erge a legge, che anche Eckhart lavora e scrive ed orienta, dunque Vannini, che nei testi di Eckhart è di casa, è un dotto attivo, che mette a disposizione di tutti, lungo i differenti percorsi delle strade d'Italia e d'Europa, di ieri e di domani, i frutti concreti e validi della sua ricerca e nulla è lasciato al caso. Disponibile, sensibile, dinamico e disinteressato, egli mi ha consentito di entrare con lui nel vivo del dialogo. Ilia Pedrina. Egregio professor Marco Vannini, il Logos si è messo tra noi ed esige con forza il suo spazio infinito. Potrebbe dare di questo antico termine quelle traduzioni, quei riferimenti, quegli utilizzi che l'hanno guidata a comporre quest'opera contro Lutero, carica di luce? Marco Vannini. Il Logos cui faccio riferi-
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mento è il Logos di sempre, quello eracliteo, la “ragione divina, per partecipazione alla quale diventiamo razionali” e poi il Logos di Giovanni, che è Dio e che “pone la sua tenda” fra noi. È anche il Logos cui fa riferimento Eckhart, in particolare proprio nel suo capolavoro, il Commento al vangelo di Giovanni, ove il Logos costituisce l'essenza più profonda, razionale, e divina, appunto, dell'uomo. I.P. Come e perché ha deciso di rendere divulgativo il serio tema legato al profilo psicologico di Lutero e al suo impegno di ingigantire il proprio ego rispetto alla Verità? M.V. Ho preso spunto dal cinquecentenario della Riforma (1517), per il fastidio che mi dava la celebrazione di Lutero come eroe del vangelo e del cristianesimo, cui si associa anche la Chiesa cattolica, mentre ritengo vero il giudizio del protestante Kierkegaard: Lutero ha cercato di sottrarre con frode a Dio il vangelo, sovvertendo tutta la realtà. I.P. Lutero era monaco agostiniano: che cosa permane nei suoi scritti che rimandi un poco al viaggio interiore tanto necessario per cogliere in purezza la virtù e quindi il volto vero
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di Dio? M.V. La tesi principale del libro, per quanto concerne Lutero, è proprio questa: dalla sua formazione monastica, dall'agostinismo e dalla teologia mistica medievale, il Riformatore comprese ed assunse il messaggio fondamentale, quello della rinuncia all'egoità, per fare spazio alla luce divina. Solo che poi, con un passaggio estremamente facile da compiere, questa esperienza si rovescia in una presunzione di verità con la quale l'egoità, che era stata cancellata, rinasce più forte di prima. I.P. Il falso ed il vero: solo due categorie del linguaggio o due ambiti di conoscenza e di investigazione che, se confusi ed impastati male, portano a fuorviare in concreto il messaggio sul quale si sta lavorando? M.V. In realtà il libro parla di Lutero solo in due dei sei capitoli di cui il libro stesso si compone. In un certo senso, il suo titolo più corretto sarebbe quello con ordine inverso: “Contro il falso evangelo e contro Lutero”. Infatti i primi due capitoli sono dedicati alla questione cruciale di cosa significhino davvero evangelo e cosa fede, ovvero in cosa essi rispondano alla verità e in cosa, invece, a menzogne più o meno consapevoli che l'uomo fa a se stesso, prima che agli altri. Solo dopo aver risolto questo problema, si passa a vedere il caso “Lutero”, molto importante storicamente, ma anche emblematico di una fede come menzogna e di un vangelo che invece di essere euanghelion, buona notizia, è, come diceva Nietzsche, dysanghelion, cattiva notizia. I.P. Ho colto una profonda particolare cura e rigorosità nel fissare le radici greco-antiche ed elleniche della ricerca spirituale, che pone la ragione in ricerca, tra virtù e principio in luce della Verità. Perché serve questo viaggio all'indietro? Perché non bisogna lasciar spazi alla mistificazione, al travisamento, alla falsificazione? M.V. Ecco, questo è il punto fondamentale. Non a caso il mio libro dedica i due ultimi capitoli, nonché la conclusione, alla filosofia antica, a Plotino e Porfirio come suo ultimo e più maturo frutto.
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Luglio 2017
Dalla grecità dobbiamo apprendere l'onestà del pensare, il rifiuto delle fantasie spacciate per “fede” e delle teologie su di esse costruite. Molto significativamente, nella sua Lettera a Marcella (che ho appena ripubblicato, ricordando la prima versione di Giuseppe Faggin), Porfirio scrive che sono quattro gli elementi che devono reggere il rapporto dell'uomo con Dio: fede, speranza, amore, ma anche verità. Senza verità, la fede è irrazionale (àlogos, priva di Logos, appunto) e, come tale, si converte subito in empietà. È precisamente quello che è avvenuto a Lutero, di cui perciò sottolineo, come errore principale, l'ostilità contro la ragione, contro la filosofia, e dunque contro tutto il mondo classico - Aristotele, Platone etc. - e contro quegli stessi Padri che su di esso hanno fondato la Chiesa delle origini. I.P. Lei dimostra in questa sua ricerca che Lutero ha lasciato perdere, anzi ha cancellato il percorso che Erasmo e Meister Eckhart avevano tracciato e legato all'interiorizzazione del messaggio evangelico, soprattutto in riferimento alla realtà di Gesù, come emerge dall'evangelo di Giovanni. Anche su questo fronte dobbiamo tornare alla sua personalità contorta e fondamentalmente carnale? M.V. Io non voglio dare un giudizio psicologico e/o morale di Lutero. Altri lo hanno fatto, sia suoi sia nostri contemporanei. A me interessa sottolineare quello che c'è di universale nel “caso Lutero”, perché, come le ripeto, il mio libro non è rivolto contro il Riformatore, ma contro un concetto distorto, bugiardo e fuorviante di fede. I.P. La teologia da un lato, la psicologia, la psicoanalisi dall'altro: si coglie nel suo messaggio quasi un severo invito a liberarsi da questi veri e propri muri contro i quali l'identità si scontra senza cogliere, anzi soffocando la propria anima. È così? M.V. Si, è così. Ritengo che tutto il problema del nostro tempo sia nell'eclissi dello spirito, che la teologia non conosce nella sua realtà propriamente umana e rimanda perciò nella vaghezza dell'immaginazione, dove non ha più alcun significato concreto. La psicologia
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poi - una parola che, guarda caso, sembra greca ma non lo è, e nasce invece proprio ad opera di un teologo luterano! - e ancor peggio la psicoanalisi, ignorano o addirittura distorcono il Grund der Seele, il “fondo dell'anima”, di neoplatonica ed eckhartiana memoria, il che significa l'uomo contemporaneo non conosce se stesso e vaga smarrito nell'alienazione e nel dolore. I.P. Quali motivazioni l'hanno spinta, in questo percorso contro Lutero, a servirsi di Kant, di Hegel, di Nietzsche, ma anche di Simone Weil in brevi tracce, per rinforzare il filone platonico della cultura europea, superando la matrice giudaico-cristiana una volta per tutte? M.V. Non è esatto dire che intendo superare la matrice giudaico-cristiana. Intendo, caso mai, far recuperare alla cultura cristiana quella “fonte greca”, come la chiama Simone Weil, senza la quale la religione cristiana scade al rango di superstizione. In questo senso Platone prima, mistico autentico e fondatore della mistica occidentale (per usare sempre le parole della Weil) e poi la grande tradizione platonico-neoplatonica mi sembra essenziale. Ricordo ancora una volta quello che scriveva Pierre Hadot, il grande storico della filosofia antica di recente scomparso: la mistica è l'unica, vera, continuatrice della filosofia greca, ovvero di quella - potremmo dire - religione del Logos di cui il cristianesimo è stato autentica incarnazione. Il Vangelo, ultima espressione del genio greco (ancora Simone Weil!). I.P. Il canto in versi di Angelus Silesius, una vera fascinazione? M.V. Il Pellegrino cherubico di Angelus Silesius è stato autorevolmente definito “vaso di raccolta della tradizione mistica occidentale”. Ancora più precisamente, però, Silesius è stato definito “versificatore di Eckhart” e, mi permetto di aggiungere, anche di tutta la tradizione speculativa germanica che da lui prende le mosse: la cosiddetta Theologia deutsch, Sebastian Franck, Valentin Weigel, Daniel von Czepko, etc. Tutto questo con un afflato poetico che ha pochi uguali, forse nessuno, nella letteratura occidentale. I.P. Allora tra mistica e poesia dell'anima c'è
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Luglio 2017
come un vincolo d'amore, per tentare di guidare l'immaginazione a percorsi di vita nuova, come ha fatto Dante, ma non solo? M.V. Certamente. Il poeta, il vero, grande poeta è, platonicamente, un “entusiasta”, ovvero un ispirato da Dio, e non parla affatto di se stesso. Soltanto così può essere non psicologo ma psicagogo, guida delle anime. Ma, mi permetto di ripetere ancora una volta, non si tratta solo e tanto di immaginazione, quanto di intelligenza - intelletto d'amore, per dirla con Dante. Seguo l'indicazione che ha offerto a me il prof. Marco Vannini e cito parole in canto da alcuni distici di Angelus Silesius. “1. Ciò che è prezioso dura Puro come l'oro più puro, saldo come una roccia, Come cristallo limpidissimo dev'essere il tuo cuore. 8. Dio non vive senza di me So che senza di me, Dio non può un istante vivere: Se io divento nulla, deve di necessità morire. 12. Bisogna andare oltre se stessi Uomo, se proietti il tuo spirito oltre spazio e tempo In ogni istante puoi essere nell'eternità. 42. Come si fonda Dio? Dio si fonda senza fondo, si misura a dismisura: Se con lui sei un sol spirito, uomo, lo capisci. 43. Si ama anche senza conoscere Amo una cosa sola e cosa sia non so: E per questo l'ho scelta, perché non la so. 55. La sorgente è in noi Non devi invocar Dio! La sorgente è in te: Se non la fermi tu, scorre di continuo. 68. Un abisso chiama l'altro L'abisso della mia anima chiama sempre a gran voce L'abisso di Dio: dimmi, quale è più profondo? 116. La rugiada Ristora il campo la rugiada: ma per ristorarmi il cuore Essa deve scaturire dal cuore di Gesù. 189. È l'uomo a fare il tempo
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Sei tu a fare il tempo! Son i sensi le sfere dell'orologio: Arresta il bilanciere, e il tempo non c'è più. (A. Silesius, Il pellegrino cherubico, Libro I, pp. 105, 108, 109, 115, 117, 119, 139). 136. Dello stesso argomento Esci da te ed entra Dio! Muori a te stesso e vivi Dio! Non essere, ed egli è! Non fare nulla, e il comandamento s'adempie. (A.Silesius, Libro II, pag. 183). 130. Il magnete spirituale e l'acciaio Dio è un magnete, il mio cuore l'acciaio: se una volta lo tocca, sempre si volge a lui. (A. Silesius, Libro V, pag. 314). Ho tratto questa breve sosta dignitosa e salda dal volume di Angelus Silesius IL PELLEGRINO CHERUBICO, testo tedesco a fronte, nuova versione con note di commento, a cura di Giovanna Fozzer e Marco Vannini, pubblicato dalle Edizioni Paoline nel 1989. Dall'Italia di Dante, a cavallo tra il Duecento ed il Trecento, fino alla Germania di Silesius, nel pieno Seicento, canti all'unisono, in luce. Ilia Pedrina
LE NUBI Noi siamo come le nubi, camminiamo con il vento, non sappiamo dove, non sappiamo per quanto, poi ci dissolviamo. Un po’ di qua, un po’ di là, siamo piccole e svolazzanti, a volte grandi e minacciose, noi siamo come le nubi, con tante apparenze, ma nessuna forma, noi siamo come le nubi, eterei. Maggio 2017 Fiorenza Castaldi (Anzio)
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LUIGI PIRANDELLO ERA ANCHE UN POETA (Nel centocinquantenario dalla nascita: 1867 – 2017) di Luigi De Rosa
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UIGI Pirandello, che è morto a Roma nel 1936, due anni dopo che aveva ricevuto il Premio Nobel per la Letteratura, era nato a Girgenti (allora nome di Agrigento) nel 1867. Quindi, quest'anno ricorre il centocinquantenario dalla sua nascita. Dario Franceschini, Ministro per i Beni Culturali, ha costituito, in collaborazione col Comune di Agrigento, un apposito Comitato per la cura di queste celebrazioni, sia in Italia attraverso le Università ed altri Enti Culturali, sia all'estero attraverso gli Istituti Italiani di Cultura. A presiedere questo Comitato è stato chiamato lo scrittore Andrea Camilleri, cittadino onorario di Agrigento, a sua volta in odore di Nobel... Penso che tutti sappiano che Pirandello, un gigante della Letteratura, è stato grande sia come narratore che come drammaturgo. Ba-
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sti citare le Novelle per un anno (più di duecento, ma avrebbero dovuto essere 365) e i romanzi Il fu Mattia Pascal e Uno, Nessuno e Centomila. Ma occorre ricordare anche le commedie Così è se vi pare e Sei personaggi in cerca d'autore. Detto questo, forse non tutti sanno che Pirandello è stato anche un poeta e che ha affiancato la produzione in versi a quella maggiore, curandola e aumentandola dall'età giovanile fino al 1912. Secondo alcuni, la sua produzione poetica sarebbe iniziata addirittura nel 1883, a sedici anni, se non addirittura nel 1880. Infatti, la sua prima raccolta di versi, Mal giocondo, fu pubblicata a Palermo nel 1889 (dalla Libreria Pedone- Lauriel) ma contiene anche una poesia scritta a soli tredici anni, nel 1880. A Mal giocondo fecero seguito altre sei raccolte: Pasqua di Gea – Libreria editrice Galli, Milano 1891; Pier Gudrò, Voghera, Roma 1894; Elegie renane, Unione Cooperativa Editrice, Roma 1895; Zampogna, Società Editrice Dante Alighieri, Roma 1901; Scamandro, Tipografia Roma, Roma 1909; Fuori di chiave, Formiggini, Genova 1912. A queste si aggiunge un'altra pubblicazione, che in verità è una traduzione dal tedesco delle “Elegie romane” del grande Goethe (Giusti, Livorno 1896). Com'è noto, Pirandello conosceva bene il tedesco, si era laureato a Bonn nel 1891 con una tesi...sul dialetto di Girgenti. Appare evidente che le pubblicazioni in versi di Pirandello venivano stampate, per lo più, presso semplici tipografie, a cura e spese dell'autore, o per conto di Librerie, così com'è evidente che, alla lettura di quei versi, risuonanti, a volte, di reminiscenze carducciane e pascoliane, e pieni di parole ovviamente ottocentesche (come “verone”, “veruno”, etc.) non si sarebbe certo immaginato che sarebbe esploso il fenomeno Pirandello scrittore di Teatro, quello scrittore, cioè, che introdotto nell'ambiente letterario romano da Luigi Capuana, sarebbe diventato famoso in tutto il mondo, ed esprimente appieno, sia nei contenuti che nel linguaggio moderno, le problematiche della sensibilità moderna del nuovo
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secolo. Fino a vedersi assegnare l'ambito e prestigioso Premio Nobel per la letteratura, nel 1934. Se in drammaturgia Pirandello è acclamato come profondo rinnovatore dei contenuti e della scrittura teatrale, in poesia egli non introduce novità sul piano stilistico e metrico, affidandosi alla tradizionale lirica classica. Forse nei contenuti (pensiero, sensibilità, etc.) possiamo individuare una nota di chiara distinzione: il poeta siciliano già da giovane antepone all'ipocrisia della società contemporanea, alla vita esteriore fatta di calcolo e convenzioni sociali, la serenità classica del Mito o le pulsioni, profonde e sincere, della sua psiche. Senza eccessivi entusiasmi e abbandoni, però. Perché a parte un felice periodo negli anni giovanili, la vita lo aveva messo a dura prova. Non si dimentichino, soprattutto, le pene e le sofferenze procurategli dalla malattia della moglie e la di lei morte in una casa di cura. Tra le poesie, molte sarebbero quelle interessanti da approfondire e riportare. Ma gli evidenti problemi di spazio non lo consentirebbero, anche perché si tratta di materia richiedente una trattazione e uno studio separati, nel contesto dell'opera di Pirandello. Ritengo comunque utile ricordare, agli amici lettori e scrittori, una specie di interessante autoritratto del grande Autore siciliano: “Io sono così” Quando tu riesci a non aver più un ideale, perché osservando la vita sembra un'enorme pupazzata, senza nesso, senza spiegazione mai, quando tu non hai più un sentimento, perché sei riuscito a non stimare, a non curare più gli uomini e le cose, e ti manca perciò l'abitudine, che non trovi e l'occupazione, che sdegni quando tu, in una parola, vivrai senza la vita, penserai senza un pensiero, sentirai senza cuore allora tu non saprai che fare: un uccello senza nido. Io sono così.” Luigi De Rosa
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SUONI IMPALPABILI (da Nel passaggio di tante lune, 2000) Le parole dei bambini sono suoni che si uniscono ad altri suoni: vento ruscelli ali che sfrecciano lontano. Suoni d’anima impalpabili come il flauto magico di Pan sospeso nella luce.
Des bruits évanescents Les mots des enfants sont des bruits qui se mêlent à d’autres bruits: un vent, des ruisseaux des ailes qui s’éloignent, rapides comme des flèches. Ce sont des bruits de l’âme évanescents pareils à la flûte enchantée de Pan suspendue dans la lumière. Ines Betta Montanelli Trad. Marina Caracciolo
ELEGIA L’acqua fresca di maggio arriva al melo fiorito. Nel silenzio della notte l’ape dimentica le corolle. La luna splende sopra un mare di petali. Frinisce il grillo, gracida la rana nel fossato vicino. Silenzio. Azzurro. Chiarore di luna. O notte d’incantesimi, nel tuo respiro l’Eternità mi coglie. Enrico Ferrighi da Carmina - Ed. Pomezia-Notizie, 1983
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WALTER SITI BRUCIARE TUTTO di Salvatore D’Ambrosio ERTAMENTE c’è stato “tanto rumore per niente”. Nel senso che poi, leggendo le oltre 360 pagine del libro di Siti, vi ho trovato tutto quello che accade ogni giorno nella nostra società post-industriale di alienati, egoisti, web dipendenti, onanisti occulti, misogini che fingono di essere difensori del genere femminile ad oltranza, sostenitori del transgender, creatori di spettacoli televisivi e non, che utilizzano nel modo più a loro conveniente sedicenti artisti tendenzialmente di età minore tale, da provocare consapevolmente o inconsapevolmente(mi auguro) reazione alla concupiscenza di siffatti minori, anche da parte di chi mai si sognerebbe di essere annoverato tra gli amanti della pedofilia. Le reazioni dunque alla stroncatura del libro da parte della Marzano, hanno più il sapore del famoso ”piatto ricco mi ci ficco”, che piuttosto discutere sulla questione del rapporto che deve esistere, nell’intenzione della Marzano c’era, tra letteratura e morale; tra scrittura ed etica. Dal mio punto di vista comincerei con l’ affermare che colui che scrive, quanto meno in democrazia, deve essere libero di scrivere ciò
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che vuole. Potrà poi piacere o no, ma questa è un’altra cosa. Sapete quante volte gli editori hanno detto no a libri che non sono piaciuti. Tantissime volte. Ma non per questo non si sono scritti più libri scomodi, che spesso poi sono diventati dei grandi successi editoriali e letterari. Si dovrebbe tra parentesi, dire anche basta alle scritture pilotate da editori, opinionisti, critici, giornalisti chiamati al mestiere di demolitori o esaltatori di penne spesso buone, ma talvolta non all’altezza. Non è un caso che, per questo motivo, girano da anni sempre gli stessi nomi. Vorrei sottolineare, sempre per la bagarre che ha animato il mese di aprile, che non esiste più la messa all’indice. Riconfermo per questo la mia idea di aver fatto tanto baccano per niente. Chi ha letto il romanzo sa che non è affatto un racconto di Siti sulla pedofilia. C’è dentro, tra le tante cose, anche questa nuova moda, tendenza, follia tra le follie del genere umano. Ma è solo il serpeggiare del travaglio di un giovane uomo, che sceglie di diventare prete nonostante, in ancora più giovane età, abbia pensato che per soddisfare il proprio istinto sessuale, bastasse prendere la prima cosa che gli era più intima, più vicino, più facile da raggiungere: il ragazzetto ingenuo, ma provocatore. Questo suo atto di debolezza sarà la sua dannazione, la macchia che non riuscirà mai più a cancellare. Che anzi si estinguerà solo, nella conclusione del romanzo, con la furia distruttrice del fuoco. Che brucerà, a mio avviso, però solo il corpo contenitore di quel peccato. La cosa più importante, l’anima invece, davanti a Dio arriverà carica di un altro più grave peccato. Eticamente Don Leo è a posto: anche se ha l’animo continuamente lacerato da una infinità di dubbi. Sa che la sua vita di credente è continuamente afflitta da molte prove, ma a un certo punto vacilla e pensa erroneamente alla purificazione con il togliersi la vita appiccandosi fuoco. In questo gesto c’è una incongruenza nel personaggio Don Leo: perché pur avendo di-
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mostrato nel corso del racconto il suo amore per la vita, per ciò che essa è e rappresenta fino alla convinzione che, pur di salvare la vita del fanciullo Andrea, sarebbe stato forse meglio assecondare il desiderio del bambino. Convinto che questo enorme sacrificio, questo grandissimo atto d’Amore non sarebbe stato capito, lo portano poi a fare il gesto del suicidio: che annulla tutto il suo sforzo al recupero, al cambiamento, al nuovo esistenziale. Ricordate Chaplin nel suo film “Tempi moderni?”. L’operaio appartiene talmente al nuovo che sopraggiunge, che finisce negli ingranaggi del moderno macchinario e non ne è stritolato. Ne esce illeso, come se nulla fosse accaduto: continuando nella ripetitività dei gesti e nella vita frenetica di tuti i giorni. Siti in Bruciare Tutto ci dice che siamo tutti Chaplin di questi nostri tempi moderni: inconsapevoli oggetti pronti per essere triturati e continuare comunque a vivere, magari continuando a sbagliare. Don Leo vuole pagare il suo errore; lo farà a modo suo: sbagliando. Ho scritto recentemente, non è per citarmi ma per spiegare, un poemetto sui dieci comandamenti e quando al mio prefatore, un prete ex Vescovo, ho posto il mio dubbio morale se avessi fatto bene a trattare tale argomento, mi ha detto che stavo facendo letteratura non catechesi morale. Era il lettore che secondo la propria cultura, il proprio sentire, in quello che avevo scritto, avrebbe trovato un senso o forse un ammaestramento o semplicemente un’opera letteraria. Lo scrittore, come il compilatore di una qualsiasi opera d’arte, vi porta dentro ciò che è già suo. L’artificio letterario, pittorico, fotografico, un’arte insomma, come principio non si pone come obbiettivo principale altre questioni che in fondo non gli interessano, se non per rappresentare al meglio ciò che sta facendo. La questione sociale, educativa, morale, filosofica, funzionale, semantica, e chi più ne ha più ne metta, verrà in un secondo momento, in corso d’opera, e forse per eccessivo egocentrismo dell’autore: se si è lasciato
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prendere la mano. Nella fattispecie dello scrittore, egli racconta una storia, un fatto, una casualità della vita, un’esistenzialità da cui si potrebbero trarre degli insegnamenti. Ma non è lo scopo principale del suo mestiere di scrittore. Probabilmente alla fine fa tutto ciò, ma non è la sua priorità. Ecco Siti, come fece Saviano tra l’altro a suo tempo con Gomorra, non si limita a sbirciare dietro le quinte della nostra vita quotidiana: le abbatte quelle quinte; tira giù i pesanti sipari di rassicuranti velluti, solleva i tappeti per mostrare tutto quello che fa comodo ficcarci sotto. La moglie che tradisce il marito per fare carriera, il marito che risponde con altro tradimento; il sacerdote che ti invita ad essere casto e invece se la spassa allegramente per anni con una donna, in barba al voto di castità. Un bambino che, conteso tra un padre e una madre, sulla strada della soluzione più semplice della separazione, affina i suoi primi sistemi ricattatori. La sua giovanissima vita appena iniziata è fredda, senza scopo, ossessionata da immagini virtuali che gli corrompono l’animo. Non alla prima occasione, ma continuamente, ad ogni negazione batte i piedi, alza la voce, minaccia di andarsene con chi più lo asseconda. E gli altri chiusi nella prigione del proprio super io, del pensiero dominante che non sarà il primo a cedere, che anzi non la darà vinta a nessuno, come vento soffiano sul fuoco del vizio che ha già preso avvio in quel giovinetto. Non conosce cosa significa essere amato. Meglio: non sa cosa vuole dire Amore nella sua forma alta ed evangelica. E così quando Leo, il prete protagonista del romanzo, lo accoglie, si prende cura di lui, lo segue nelle cose di scuola, facendo e dandogli quello che avrebbero dovuto i genitori, lo smarrimento, la confusione del bimbo è tale che, non riconoscendo questi segnali tra le cose che sono dovute ad ogni vero figlio, pretende dal prete il sesso; poiché è la sola cosa per lui ricollocabile all’amore. Glielo hanno insegnato i genitori, che danno sfogo alla loro carnalità nei momenti di tregua dei loro conflitti, senza
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preoccuparsi della presenza del figlio. Non so se sia stato creato ad arte, all’uscita del lavoro di Siti, un poco di clamore intorno a questo suo nuovo titolo, ma la cosa più antipatica, che ho letto, è che qualcuno si è buttato dentro a tagliargli i panni addosso, senza aver letto nemmeno un rigo. Pecorini, storico amico di Don Milani, intervistato afferma che il libro di Siti è un libro pornografico. Personalmente, visto che ho letto il libro, non vedo questa realtà. Al contrario è un libro che denuncia il disordine del mondo, in riferimento soprattutto a una fanciullezza che può accedere liberamente al mondo della pornografia, per il sopravvenuto incontrollato e incontrollabile progresso della tecnologia. Amo la libertà, che è la cosa più bella che si possegga, ma attenzione all’uso che se ne fa. Il diritto di critica è parte fondante della libertà, ma deve essere onesta: anche negativa, ma onesta. Si crea qualche perplessità, è vero, nel leggere la dedica di Siti a Don Milani. Ma pen-
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so, dopo aver letto con attenzione il libro, che il prete di Siti come Don Milani è un cercatore di verità, di combattente per resistere alla logica dell’appartenenza. Il prete di Barbiana negli anni Cinquanta, parlava di Amore senza rendersi conto che all’epoca la parola concepiva solo quello materiale. L’Amore evangelico non era fatto di esclusioni, questo Don Milani lo sapeva e per questo ha lottato fino a volere fare “indigestione di Cristo”. L’ ostracismo nei suoi confronti esisteva perché dichiarava di preferire una scuola acattolica e aconfessionale, e perché non voleva che vi fossero più esclusi in un paese moderno e laico. Non essere capito in questo, penso avrebbe ferito chiunque. Così Don Leo, il quale però si dimostra meno combattivo. Alla fine infatti è lui a cedere. Don Milani no, anzi darà l’avvio a una grande trasformazione della società italiana sorretto anche dall’adozione delle sue idee, quanto meno inizialmente, dal movimento culturale e politico conosciuto come il “68. Anche se lui muore nell’estate del 1967. Il romanzo di Siti non è un gran romanzo dal punto di vista della storia che narra, ma è un documento interessante sull’attualità, le logiche e i nuovi modi di ragionare; sulla dipendenza delle nostre vite da tutti gli attuali mezzi tecnologici di cui siamo super forniti. Si marcano i dialoghi che utilizzano allocuzioni che un tempo ci avevano insegnato essere parolacce. Ma non mi disturba questo. Viviamo nella disinvolta società del terzo millennio, dove tutti pensano di dovere essere disinibiti senza il rispetto della buona educazione, che è ben altra cosa. E questo forse mi dà grande fastidio. L’autore muove i suoi personaggi nella quotidianità confusa e anarchica che impera e suggerisce con l’atto finale di Don Leo, che è meglio bruciare tutto per poi ricominciare. Ma è anche una scrittura che nell’uso letterario dei modi di dire, di pensare e di agire, che ci vengono anche dalle nuove culture di immigrazione, sottolinea il nuovo e diverso aspetto dell’evolversi alla nostra lingua e po-
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ne spunti di enorme interesse sulla cultura dei prossimi anni; forse anche per questo alla sua uscita, Bruciare Tutto, ha creato un grande fermento di voci dissonanti. Salvatore D’Ambrosio WALTER SITI - BRUCIARE TUTTO - Rizzoli, aprile 2017. € 20
A QUANTE COSE Dedicata a mia madre Ottavia Pastori A quante cose la mia mamma ha dovuto rinunciare per i suoi figli: e or non c’è più; è andata in cielo e anche dal cielo mi protegge e mi benedice.
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che procede seria, decisa. Scamparsi il sorriso e la speranza, anche il desiderio di mirare all'azzurro (che non c'è), al sole (che non appare), al divenire (che s'è arrestato), all'entusiasmo (che s'è afflosciato). Eppure c'è, sotto lo strato di piombo dell'abulia, tanta voglia di volare oltre il negativo, di raggiungere l'arcobaleno, di adagiarsi nella sua cuna colorata di brio e d'ottimismo e andare a cercare Fata poesia. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo
PIÙ BREVE SI FA IL GIORNO (da Il chiaro enigma, 2002) Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, MI
LUCE NUOVA VIENE In questo tempo corrotto, più buio degli anni di piombo, lei dice che aspetta un bambino. La luce nuova che viene a dominare ancora sulle nefandezze del mondo, rinnova la speranza d’ un’ umanità che non può finire. Salvatore D’Ambrosio Caserta
SOTTO LO STRATO... Il cielo è grigio, i monti sono scuri. Aleggia nell'aria un silenzio sospeso, un nonsoché di ambiguo, una tristezza che non si dilata,
Più breve si fa il giorno l’estate, fiore rosso ha perduto i suoi petali accesi. Aria d’autunno spegne trame roventi di pensieri. Calde labbra sulla pelle si faranno attendere. La vita è attesa vana di cose che non tornano.
Il devient plus bref le jour Il devient plus bref le jour l’été, fleur rouge a perdu ses pétales éclatants. L’air de l’automne éteint les trames ardentes des pensées. Des lèvres chaudes sur la peau se feront bien attendre. La vie est une vaine attente de choses qui ne reviennent jamais. Ines Betta Montanelli Trad. Marina Caracciolo
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PER
MARIA GRAZIA LENISA, OLTRE EROS, OLTRE THANATOS di Ilia Pedrina Maria Grazia Lenisa IL TEMPO MUORE CON NOI Collana 'ESPERO' 14 Collana diretta da Aldo Capasso Prefazione di Ettore Allodoli Casa Editrice 'Liguria' Genova Finito di stampare nel mese di Maggio 1955. (dedica autografa) A Francesco Pedrina che, come De Sanctis, ci ha dato una critica non campata nelle regioni iperboree dell'astrazione, ma che ha le sue radici nel saldo terreno dell'esperienza e della realtà. Maria Grazia Lenisa
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in data 14 Giugno 1955 Via Cussignacco 11 - Udine 'Nella prima giovinezza noi siamo dinnanzi al nostro avvenire come dei fanciulli dinnanzi al sipario del Teatro in lieta e viva aspettazione...' Schopenhauer Una breve analisi di alcune primizie poetiche di Maria Grazia Lenisa può condurre con chiarezza a capire la matrice della forza creatrice dei ritmi nei versi e dell'eros vitale che l'accompagna. All'epoca della stesura di questi canti, talora sciolti, talora profondissimi, filosoficamente carichi d'essere e di tempo, ancestrali in doppio e penetranti anche nel lettore, lei ha quasi vent'anni. Ettore Allodoli, che cura la prefazione, viene citato anche dal Pedrina, in un foglietto manoscritto interno al volumetto: “... È vero, e Maria Grazia Lenisa può con fiera istintività - obliando il più fondo tormento di se stessa...”, quasi un appunto dal pensiero alla parola scritta, perché non svanisca l'intuizione, che è da non prendere alla leggera e sulla quale il Pedrina potrà lavorare in sincerità. I dati di ragione sono differenti da quelli che l'anima fornisce attraverso le emozioni, a meno che il logos stesso se ne lasci affascinare e ne venga quasi allagato, adescato, sommerso e fuso senza perdere affatto i propri connotati: allora lo spessore raggiunto dalla parola si dilata e penetra più facilmente nell'orizzonte del vissuto, nell'essere come nel darne esperienza. Il recente evento legato alla morte del prof. Bàrberi Squarotti, sul quale darò traccia in relazione alla sua presenza alla Fondazione Cini di Venezia, ha portato nuovamente in luce la voce poetica dell'ultima Lenisa, quella legata strettamente in vincolo con l'Eros e le sue spire carnali, l'Eros profano da profanare insomma, attraverso Apollo ed il suo incanto in versi liberi: nel bellissimo dialogo su questo tema tra Marina Caracciolo e Domenico Defelice emerge netto il vero punto d'osservazione dal quale cogliere senso. Defelice so-
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stiene: “... È che Squarotti e Lenisa in certi aspetti si somigliavano e si completavano; lei verbalmente più audace e allusiva di lui; entrambi saldamente stretti nella pania del sesso virtuale... entrambi si sentivano attratti dallo stesso tema ed entrambi godevano nel dipingere certi atteggiamenti e certe scene. Non conosco di Squarotti, ma la Lenisa, spinta nella parola e nella finzione, era, nella realtà, nei fatti, nei comportamenti, di una onestà assolutamente inossidabile, granitica. Niente, assolutamente niente di ciò che si può immaginare leggendo i suoi versi...” (D. Defelice, Pomezia Notizie, giugno 2017, pag 56). Allora mi è doveroso tornare, proprio per Maria Grazia Lenisa, alle origini di quella stessa tenacia che spinge a restare in vita ed a declinarla, per lei futura poetessa e scrittrice di talento, attraverso la parola in tutti i suoi aspetti, anche i più crudi e rudi, ruvidi, rudimentali: niente a vent' anni lei poteva conoscere del suo futuro di donna, di madre, di malata terminale, ma nei versi che seguono Eros e Thanatos si nutrono alla stessa fonte, originalissima, della mistica in poesia, alla ricerca della luce. I presenti sono senza chiusura e senza scollamenti, mentre i passati sono davvero remoti, come se ella stesse in realtà parlando di sé in un tempo ancora a venire, ma già pienamente trascorso ed attraversato da emozioni della cui viva concretezza nessuno può dubitare.
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ai recessi dell'anima stupita m'arrestai per troppa luce. Udine, 22 marzo 1953 M. G. Lenisa, op. cit. pag. 24) IL SIMULACRO Giacqui sul letto del desiderio di molti e non fui di nessuno, nel sogno ebbero di me il simulacro dell'illusione. Intatta è la mia verginità come una pesca verde. Udine, 3 gennaio 1954 (M. G. Lenisa, op. cit. pag. 27) DONNA Donna, cosa di carne e d'anima. Tue tutte le epoche dall'inizio del mondo. Eterno il pianto, il sorriso degli occhi tuoi? Tu sei Eva, ella che colse il frutto divino, sentì il piacere inquieto, sentì l'angoscia del suo corpo ignudo, e non mente in te l'origine antica. Ma l'anima è pura dal male dei secoli che l'alimenta, un giglio divino fiorito sopra una palustre canna. Udine, 15 ottobre 1954 (M. G. Lenisa, op. cit. pag. 39)
DUE MOTTETTI a Elpidio Jenco FRAMMENTO SCRITTO IN PRIMAVERA ….. Io vivo donna-fiore e trascoloro se penso che una mano sconosciuta, crudele forse, spezzerà lo stelo. TANKA Finsi mille modi di essere per trovare quella che sono:
IL NUOVO CANTICO Il dialogo tra lo sposo e la sposa si svolge in un prato, l'incontro avviene appena cessata la pioggia, quando l'erba è ancora bagnata e lucente. Lo sposo Quanto son belli i tuoi piedini bagnati di pioggia, il tuo seno è una coppa di vino d'Ebron,
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ove non manca promessa d'ebbrezze. Il tuo ventre ascoso è fecondo come il grano: la tua purezza m'appartiene. T'elevi alta come una verde palma adolescente e la tua bocca ha sapore di mele, infatti sotto il melo t'ho svegliata, ivi morsi il frutto più dolce. Mi hai dato mosto delle tue sorridenti melagrane, non mi guardare negli occhi, mi confondi. La sposa La tua bocca sulla mia bocca, tutta perdermi nel nostro amore: battono febbrilmente le vene nei giovani polsi. Palpita il tuo nome d'ansie di fanciulle, fruscii di vesti a primavera. Ma la mia bellezza che il sole matura come l'uva odorosa sui tralci bruna, traspare il sangue inquieto..... Udine, 24 dicembre 1954 (M. G. Lenisa, op. cit. pag. 43). GENESI Come azzurra vena, filtrando attraverso le rocce umide e brune, pregne d'un secolare segreto) è venuto alla luce il mio canto, di lontano. Con la gioia della donna prima lieta d'un meraviglioso, d'un ridente giardino (oh pomi con entro il mistero del divenire umano), comincia il mio canto. Con la gioia, e con la pena: la remota pena d'un bene perduto, l'angoscia d'una nudità che sé scopre mal nascosta dai bruni capelli. Innocente giardino perduto, perduta innocenza! Oggi il canto non si disgiunge
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dal dolore... ogni pomo ha le sue radici amare. Udine, 30 dicembre 1954 (M. G. Lenisa, op. cit. pag. 46). IL TEMPO MUORE CON NOI Sogno l'ebbrezza d'un vivere senza tempo: L'anno che s'aggiunge all'anno mi rende intensamente vecchia, d'una vecchiezza che non ha rughe liscia come buccia di mela, ma l'anima, invisibile, porta invisibili solchi. Gli anni... Nessuno s'accorge che passano, quando il sangue si carica di brividi, se uno sguardo attraversa la carne innocente. Poi un bacio vi lascia il suo segno e l'ora acquista un tacito sapore angoscioso. Il tempo che nell'infanzia muoveva lento come morbida onda di lago s'incarna nell'uomo e corre col ritmo veloce del sangue, - e lo sentiamo per ogni vena. Sì, il tempo muore con noi. 13 febbraio 1955 (M. G. Lenisa, op. cit. pag.48). L'ESSERE E IL NULLA Chiudi nell'anima l'essere e il nulla, se rinunci alle cose viste: ai fiori, alle rocce torve sul mare. Dentro di te vedi abissali vuoti, che riempie la vastità del tuo pensiero. Non più il fiore t'appare, ma l'essenza più morbida al tòcco (oh l'assurda realtà delle corolle); non la roccia, ma la forza raccolta, che s'addensa nel blocco glabro: l'anima della pietra. Allora coglierai la realtà vera, rinunziando alla luce, che dona colore alle cose, ingannevole forma, e non svela l'essenza. Tu non sarai più fanciullo, il poeta che s'innamora di pochi fili d'erba,
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ma, uomo nella tua matura filosofia, avrai colto l'essere e il nulla. (M. G. Lenisa, op. cit. pag. 51, senza data). Il logos, come spinta dell'intelligenza a scoprire le tensioni anche estreme nelle radici più segrete della vita e della parola, appartiene pienamente a questa giovane studentessa che sta facendo il liceo, che sta studiando filosofia e che ora, negli anni '50 del secolo scorso,
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Il sole caldo ma non cocente, le dolci carezze del vento, lo specchio azzurro del cielo, il silenzio da un trillo soltanto soffuso d'uccello, t'inondano di pace, ti cullano, in un magico ti pongono rilassante dormiveglia. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo
AMICO, NON DISPERARE
riesce a far parlare di sé anche quelli del Realismo Lirico. Ed il logos ricerca la luce che lo orienta e lo sostanzia, verso le plaghe indicibili della Verità: questa è l'eternità dell'anima, questa è la ragione stessa della Poesia. Ilia Pedrina FUORI DELL’USCIO DI CASA E' proprio necessario "fare un viaggio" per riposare, riacquistare energia e riprendere, rivitalizzati l'attività interrotta? L'esperienza insegna che non sempre è così. Si può attingere riposo, soddisfazione interiore senza andare lontano, fuori dell'uscio di casa. Se la ridente giornata di primavera, vestita d'estate, t'invita all'aperto, non esitare. Scacci via i pensieri invadenti, ti stendi su una sdraio e nelle braccia ti rannicchi della tua solitudine.
Verità il pensiero su roccia che s’incava. Bigio cielo, disperi; eppur a te intorno onda d’armoniosa fiducia fluttua tenue. Amico, non disperare: è in te grandezza di bimbo. Rocco Cambareri Da Versi scelti - Guido Miano Editore, 1983
FIUME (da Il chiaro enigma, 2002) Anch’io come te sono onda fremente alveo riarso pietra sommersa da flutti improvvisi. Ramo strappato dal vento macero d’erbe inaridite nel flusso inarrestabile del tempo. Fleuve Moi aussi je suis la vague frémissante le lit brûlé la pierre submergée par des lames imprévues. Une branche arrachée par le vent une pourriture d’herbes séchées dans le flot interminable du temps. Ines Betta Montanelli Trad. Marina Caracciolo
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DAI "BARLUMI" ALLE "FOSCHIE', SEMPRE ATTRAENTE LA POESIA DI ANTONIO CRECCHIA di Anna Aita
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E vogliamo paragonare i versi raccolti in "Barlumi" a quelli di "Foschie", mi viene di dire innanzitutto che nelle seconde dominano rabbia ed impotenza; sono molto più forti, carichi di insoddisfazione e denuncia quando, ad esempio, il poeta si rivolge alle classi dei politici disonesti: "La truppa rampante dei nuovi Mida/ si gode i dorati frutti ammassati/ in anni di frodi e alta dedizione/ all'arte proficua della pirateria statale". E, più avanti, in altra poesia, esplode il dissenso verso chi si fa servire e adulare compiacendosi di "ospiti Grandi Signori, magnati che mangiano senza pudori/ i frutti raccolti con fatica dai lavoratori". Non ho riportato che brevi momenti poetici per illustrare, almeno in parte, quanto sia grande lo sdegno che pressa nell'animo del nostro Poeta, sfiduciato, sconfortato da tanti esempi di malcostume. A tutto questo si aggiunge l’indignazione e, direi anche, il risentimento-cruccio, per i tanti giovani senza coscienza che sfidano la vita correndo; scrive il poeta, lungo "Un nastro dell'asfalto, / così lungo, cosi ampio, così nero/ davanti ai fari/ che sfidano i misteri della notte", per concludere amaramente: "Portano fiori e lacrime le madri/ sulle tombe dei figli". "Un'altra croce", egli versifica ancora, chiudendo un'altra poesia dedicata alla fine di un giovane stroncato in una corsa con la moto, "innalzata nel silenzio/ d'un cimitero chiuso alla vita di domani". Ed ecco, dopo tanto pianto, il sogno di Antonio Crecchia: "... Tornare con la saggezza di Solone,/ la virtù di Socrate, il genio di Platone,/ la libertà d'essere me stesso..." Su questa linea si svolge la prima parte del volume per ritornare, a tratti, alla ben nota tenerezza della poesia crecchiana, poesia in cui la natura dominante gocciola essenze e
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malinconia. Siamo nella sezione "Sinfonie di stagioni" dove ritroviamo quella poesia di più ampio respiro con tenere pennellate che ci fanno sognare. così, mentre il vento si lascia rapire dal profumo delle rose e il campanile si allunga a pizzicare il cielo, ecco che egli esplode in un entusiastico: "Gloria al sole/ che di luce e di calore/ irrora il cuore di maggio". Riesce a scuoterci, il nostro Poeta, ma anche a cullarci, pur nel dolore che ci offre la vita. Sono merletti, le sue parole, trine che hanno il fascino di qualcosa di antico, un qualcosa di sempre vissuto, di mai dimenticato: quel certo non so che, appartenuto o appartenente a tutti noi, che non possiamo non condividere e che egli ci propone attraverso i volti infiniti e sempre sorprendenti della natura: "Nel languore arso della siepe/ il vivido affacciarsi di ciclamini/ in ciuffi spavaldi di allegria/. Rasserena il cuore/ il canto dell'acqua nella forra/ aspersa di teneri vapori/ di muschi e di licheni”/. Prendo nelle mie mani/ il tepore estremo/ di un sole che si avvia al tramonto". Queste le immagini che ci offre Antonio Crecchia, questa la sua eterna poesia. Istanti di felici intuizioni poetiche raccolti nel volumetto “Barlumi” Inizia e procede all'insegna della malinconia la presente pubblicazione ricca di mirabili illuminazioni, uno scoramento in cui i "barlumi" sono brevissimi istanti che si accendono e si spengono immediatamente come un rapido flash. Per far comprendere meglio ciò che vengo a dire, ecco qualche tratto della scrittura: "...Un sospiro si spegne/ Torna il buio"; "...Luce e parola alla deriva"; “...Un breve abbaglio la vita/ nella consunzione delle ore"; "Onde di mestizia/ si rincorrono fugaci/ dentro echi di solitudine"; "Troppo piccola la terra/ per essere visibile/ agli occhi del Cielo./ Lontana, troppo lontana/ la Mente che l'ha creata". Sono pensieri struggenti che piangono il languire della vita, la sua conclusione, la fine di una speranza, la perdita di un'attesa.
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Il nostro Poeta vive nella natura, ad essa si riferisce per esprimere le sue sofferenze, le sue delusioni. Così il chiarore della luna diventa "ingannevole"; una barchetta di carta perde forma nell'acqua; il respiro di alberi antichi diventa soffio di tristezza e mentre tuoni e lampi scuotono la notte, la natura si chiude in un mesto silenzio. Allora? Davvero il nostro Poeta ha perso ogni speranza e non vede che buio? No. A ben leggere non è così. Sono tanti i sorrisi che si rincorrono lungo le pagine: "La primavera ha suoni e voci di sogno"; "L'infanzia corre/ verso i sentieri luminosi della vita"; "Il vento sugge latte di spighe./ Cresce la brama d'un letto di fiori”; “alle carezze del vento porge/ la foglia le sue guance di seta"; al chiarore diffuso delle stelle/ un sentimento alto di pace/ dilaga nei deserti dell'anima". Ed ecco, allora, che anche noi respiriamo, le bocche si aprono al sorriso, ci compiaciamo perché, sia nella gioia che nel dolore, ovunque si legga, ovunque ci fermiamo a riflettere, non troviamo che vera poesia. Sì. Perché Antonio Crecchia che scriva storia, che si esprima in prosa o che faccia saggistica, ha un'anima vibrante che commuove e coinvolge. Lungo la scrittura, che seguitiamo a scorrere, non tutto si ferma a momenti dolenti o sereni, ma scopriamo anche momenti simpatici: "Tortore amiche sul balcone,/ in attesa che la mia mano/ si apra a soccorrere la loro fame”; “...L'aria di ottobre si ubriaca/ dell'allegria dei vendemmiatori; "...1' arcobaleno/ sfoglia i colori della luce e ride/ come un bimbo in dispetto al sole" e momenti preziosi di colloquio amicale e pacifico con la natura quando il nostro Poeta incontra un torrente, un gabbiano in volo, una lucciola o una lucertola o vede campanule sognanti lungo il rio. Un susseguirsi, dall'inizio alla fine, di rilucenti gocce di poesia che accarezzano, ora sorridenti, ora malinconiche, l'anima, colmandola di deliziose riflessioni e di sognanti pensieri. Anna Aita
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ERESIA Perdonami, Signore, l’abbraccio che abbaglia di fanciulla; pure il prorompere di vita è Tuo amore. Ha negli occhi il Tuo azzurro, un lievitare che fu d’Eva. Perdonami, Signore, lo smemorarsi in un grembo. È tutto Tuo dono; anche un corpo denudato tra lampi di biancore. Perdonami, Signore, se amo i paradisi del Tuo inferno, le forme di adolescente - specchio di Tua bellezza. Rocco Cambareri Da Da lontano - Ed. Le Petit Moineau, 1970.
D’AGOSTO Roma ha un silenzio che non è d vivi. Solo passi cadenzati di stormi che vanno alle origini del tempo e a bersi l’eterno in cattedrali. Lontano, fischi di treni conducono a lidi di smeraldo o ai monti, ove aurore dischiudono ebbrezze. Non straniero a me stesso giungono approdi sereni: gli abbracci lunghi della vecchia cara e il giubilo delle cicale e il fiume che snello mormora tra il fresco tenero dei campi. Rocco Cambareri Da Versi scelti - Ed. Miano, 1983
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LA DONNA DI
GIORGIO BÁRBERI SQUAROTTI di Antonia Izzi Rufo
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' senza veli, "nuda", viva, sensuale, terrena, fatta per essere ammirata amata posseduta, per appagare il desiderio erotico dell'uomo, per vivere la vita in eterna luna di miele. Ha un'anima che si esprime nella sua bellezza esteriore e perfezione delle forme, nel suo essere "femmina", nel suo lasciarsi toccare, accarezzare. Non è la schiava, umile serva succube dell' uomo-padrone cui ella doveva rispetto e ubbidienza, in tempi andati, lontani nella memoria; né più colei che viene "usata" solo per la procreazione; non la donna-angelo di Guinizelli, intermediaria tra l'uomo e Dio, che diffonde intorno una luce di paradiso; né la donna idealizzata, concepita più come idea che come angelo, di Cavalcanti; non la donna di D'Annunzio, "la nemica" dai mille volti, la potenza femminile distruttrice delle energie vitali del maschio... La donna di Squarotti si avvicina a Fiammetta di Boccaccio, reale nella sua attiva sensualità?...Non certo a Beatrice, per la quale Dante nutre un amore puro, tutto spirito; sembrerebbe alla donna di Petrarca, ma al poeta di Arquà piace sognare, immaginare, disegnare con la mente, nel suo
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vagare solitario, il bel viso di Laura su un sasso o contemplarla nell'acqua chiara di un tronco di faggio, in una bianca nube o mentre passeggia tra i fiori come una ninfa... La donna di Squarotti ha forme armoniche, è provocante anche nell'abbigliamento, è senza tabù: "...Gonna stretta e brevissima...Cosce nude e chiare...Infinitamente allegra" ( Da 'Barista' ); "Alla ragazza si aprì l'impermeabile e dolcemente / apparve tutta nuda, ancor umida / del piacere della notte bramosa" (Da 'Partenza' ); "Le tonde tette tanto chiare...Erti i capezzoli luminosi e pallidi" (Da 'L'orma' ); "Smarrita, nuda si ritrovò e abbandonata: / si coprì impudica le tettine / senza curarsi del bel liscio pube" (Da 'Arianna' ); "Sulla maglietta bianca le tette brune e tuttavia miti, i fianchi e il pube" (Da 'Lalage' ); "La maglietta chiara e stretta che le tettine illuminavano avide, / cortissima gonna nera e colme le cosce brune" (Da 'Mattina' ); "Rabbrividendo per i tanti insetti che indugiavano a lungo sul mio seno... Steli e petali provocatori a lungo mi toccavano con persuasivo invito... Ero nuda in mezzo alle campagne" (Da 'Il rapimento di Europa' ); "Lì Matelda alzando il volto luminoso, / colse compunta la purpurea mela / più alta dei più alti rami e di ogni frutto, / oh supremo sapore / di piacere e di dolcezza acidula qual è l'amore per tutti, / e adesso anche per me" (Questa poesia fa pensare a "La meta irraggiungibile" di Saffo: "Come rosseggia il pomo dolcissimo, alto, sul ramo alto, il più alto: non se n'accorsero i raccoglitori; no, se n'accorsero; ma non poterono giungere ad esso"). La donna di Squarotti è la donna moderna, disinibita, che cura il suo aspetto esteriore e prolunga la giovinezza, che è maestra nell'arte di amare, la donna che ogni uomo - anche se non lo confessa - vorrebbe per sé. Antonia Izzi Rufo
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CARMINE IOSSA L’ODISSEA, LA VITA, LA MORTE... di Anna Aita
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NA storia da raccontare, un libro che si legge tutto d’un fiato, un uomo nato gracile e malato che la sofferenza continua per la lotta alla sopravvivenza, trasforma in una indistruttibile quercia e, infine, la cronaca della resurrezione: questo il contenuto delle commoventi pagine di Carmine Iossa. Ci troviamo di fronte a un narrato che è l’ esatto contrario di una favola. Anche qui troviamo orchi, diavoli e streghe che giocano un ruolo fondamentale, ma sono vivi e veri: suore incapaci a comprendere, uomini amorali lontani dalla misericordia di Dio, che si divertono a fare del male, senza rendersi conto, o peggio nell’indifferenza più assoluta, nel distruggere fisico e innocenza di bambini senza colpa e senza difese. Nell’avvicendarsi degli eventi c’è di tutto, tranne quell’amore che il protagonista ha sperimentato nei suoi primi quattro anni di vita accanto alla meravigliosa mamma, al papà e alle sorelline. Il sentimento non farà più parte, per lunghi anni, della sua vita; si distruggerà anche in se stesso che non riuscirà più a comprendere e ad amare l’altro. Coccole e tenerezze diverranno solitario presidio dei sogni di cui qualche vago barlume s’intravvedeva ancora nelle pupille smarrite, come in quelle dei tanti altri ragazzini senza speranza, chiusi, insieme a lui, dentro i cancelli del terribile “Serraglio” napoletano. Accade tutto questo a Carmine Iossa, il cui tragico racconto ci costringe a porci un pressante interrogativo: può essere vera una storia come questa? Purtroppo sì! Lo è. È la veritiera, dolorosissima vicenda di un uomo che ce la relaziona “senza peli sulla lingua”. Ci racconta tutto: dalla distruzione, da parte dei tedeschi, della residenza familiare di origine nobiliare; della sua felice, magica dimora do-
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ve razzolavano liberi animali da cortile e dove aveva vissuto i suoi giorni sereni, fino alla prigionia in vari istituti “pseudo-educativi”. La prima, viene vissuta da Carmine presso il collegio delle suore di San Gennaro Vesuviano in provincia di Napoli. Qui, un ingiusto ceffone sferratogli da una delle suore, poco amorose e poco attente, basterà a fargli organizzare una fuga. Inizia, così, in una notte di luna, pensosa e solitaria, il suo percorso su strade sconosciute mentre gli ritornano in mente i perduti amori familiari. È smarrito, l’ impavido uccellino di bosco e così prega: “Luna, almeno tu, hai il sole che ti fa splendere. Se tu, o luna, potessi udire la tremula eco dell’anima, che raminga s’inoltra acuta nella notte, ti chiederei di portarmi fra le braccia di mia madre solo per un attimo...”. Carmine ha soltanto sei anni e tanto bisogno di amore, ma procede imperterrito finché la notte cede il passo al nuovo giorno e il fuggitivo vede spuntare l’aurora: “Dinanzi ai miei occhi”, scriverà tra le pagine, “si allargava il paesaggio in un’armonia che rasserenava la mia anima tanto agitata”. La fuga viene però interrotta dai carabinieri e il nostro protagonista finisce in un altro istituto. In breve, anche questa seconda struttura verrà disertata, non riuscendo, Carmine, a sopportare il peso di alcune ingiustizie subite. Anche questa volta, il ragazzino verrà acciuffato e riportato in caserma per essere trasferito al Real Albergo, il cosiddetto “Serraglio”, tanto famoso e tanto orribile. Qui si apre la parte più sconvolgente di tutta la storia. Carmine dovrà sperimentare, insieme a tanti altri ragazzini, ogni tipo di disagi, cominciando dall’intenso gelo invernale che l’assenza di stufe e l’uso di abiti ottenuti dalla guerra, leggeri e sporchi, rendevano insopportabile, fino ad arrivare ad ogni tipo di angherie e di soprusi. Tutti gli internati erano costretti a battersi con ragazzi più grandi, tra l’ilarità dei secondini che, ben caldi nei loro cappotti, bevevano alcoolici e fumavano ridanciani, incalzando le loro proposte di violenze fisiche e psicologiche. Tutto questo, anziché fiaccarne la forza fisica e mentale, por-
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tava il nostro piccolo protagonista a ribellarsi violentemente, come quando, con potenza soprannaturale, si difendeva dalle proposte e dalle violenze devianti e depravate di alcuni ragazzi di comprovata esperienza. A sorreggerlo, a parte la grande forza di volontà, c’era quella di un ferrato sistema nervoso. Fu proprio quest’ultimo, forse, a salvarlo da due disgraziati più grandi che cercavano di togliergli e pantaloni per chissà quale recondito fine. Il carattere reattivo di Carmine e la forza fisica, che lo portavano a difendere chiunque, gli fecero guadagnare il nominativo di “capo”. Di questa sua particolare modalità caratteriale, beneficò Aldo Rossi che lo nominò suo amico prediletto e protettore. Carmine, sempre freddo e deciso, sciolse finalmente le sue difese e ricambiò l’amicizia. Una breve intesa, in quanto il ragazzino, fragile, insicuro e affetto da una malattia polmonare fu tra quelli che, non riuscendo a sopportare i tanti disagi, ritornò nell’accogliente, amorevole, nella casa del Signore. Nel capitolo XXI del narrato si legge come, finalmente, qualcosa cambi nella mente del piccolo Carmine diventato più maturo. Ed ecco, come annuncia il titolo, la “Maturazione della coscienza”. Siamo nel 1953. Carmine rivisita i suoi comportamenti: decide di essere umile e di abbandonare violenza e odio. Ancora più gradito e di largo respiro è il capitolo XXIII dove si parla della rinascita di Carmine che, come sempre forte e risoluto fa, con la stessa rigorosità con la quale correva per raggiungere la libertà fisica, la su corsa verso quella interiore. Con l’aiuto di Padre Arturo che, scrive il nostro Autore, “fuse pedagogia e teologia con l’amore e la comprensione per illuminare la mia aurora di nuova pace”, Carmine inizia una nuova vita. Non gli sarà facile portare avanti il severo programma impostosi, ma resisterà ad ogni tentazione di disobbedienza e di violenza. Tutto procederà, allora, per il meglio fino a quando riceverà la prima comunione e verrà ammesso agli studi. Sono poche pagine molto commoventi che ci fanno entrare nella psico-
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logia e nella determinazione di questo testardo e risoluto protagonista che abbiamo imparato ad amare. Tramite Don Raffaele, il secondino che tanto lo comprende e lo aiuta, Carmine conosce l’imprenditore Gennaro Troise, fornitore industriale, che lo introdurrà tra personaggi di rilievo, di cui alcuni saranno molto importanti per la sua vita: il Presidente della Corte di Assise che gli pulirà la fedina penale e l’ incontro con Pier Paolo Pasolini che lo aiuterà nella sua ricerca interiore attraverso la letteratura e la poesia. Del suo accostarsi al verso, troviamo testimonianza in questa stessa scrittura: una è dedicata allo sfortunato amichetto Aldo e un’altra, davvero incisiva, s’intitola “L’idea della libertà”. Di quest’ ultima avverto la necessità di riportare qualche verso: “La speranza nuotava nell’idea di grandi spazi,/oltre i limiti delle mura che recintavano i miei algidi respiri”. E più avanti: “Ecco, la mia cara mamma procede, per ricompormi/l’Io spirituale, quindi mi dona le ali per tornare a volare/in un cielo umano”. Mi pare che queste poche righe rendano perfettamente la condizione della prigionia, il terribile freddo sofferto e la gioia di essere finalmente tornato nel tanto anelato grembo materno. Così scrive Carmine: “Un soave influsso, una misteriosa e dolce virtù si sprigionava dai suoi occhi, quando ella mi guardava sorridente. Sembrava che possedesse tutte le gioie della terra e tutti i piaceri della vita./.../ Mia madre desiderava cullarmi nella sua anima per cercare di recuperare gli anni bui della mia vita, troppo tempo per un bambino”. Cosa è rimasto del piccolo Carmine che ci ha fatto tanto penare insieme a lui? Dov’è più la sua inerme innocenza? dove l’ instancabile ribellione? È diventato uomo Carmeniello! Ha rivestito la sua mente di cultura e il cuore di pace. Ha scavalcato la ferocia della vendetta per approdare nella soavità dell’amore. Grazie, Carmine Iossa per averci raccontato questa tua incredibile storia. Anna Aita
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Architettura
IL VUOTO di Luciana Vasile
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' il vuoto, è lo stimolo della mancanza che ci fa mettere alla ricerca, spesso inconsapevolmente. Il pieno è dato ed è immutabile. Il vuoto è in divenire e dipende da noi la sua vita futura. Per un architetto la misura dello stupore è il vuoto. E’ lì che trova l’impulso, autentico e creativo come quello che può provare un bambino e la sua verginità. Dentro di me devo essere vuota, o essere disposta a svuotarmi, per riempirmi, per accettare. Fuori da noi non è così diverso. I luoghi hanno un’anima. Basta saperla ascoltare. La sua magia sembra legata anche dal rapporto fra pieno e vuoto, là dove è il vuoto che disegna il pieno. E’ lui a dare al pieno il suo significato, ne diventa l’aldilà. Ecco qui il ‘minimalismo’ in architettura, come estetica della forma dalla quale trae la sua espressività. Non mi sono mai sentita attratta dal Barocco, ma invece, vengo letteralmente rapita dalla semplice preziosa purezza delle forme geometriche e dalla plasticità della nuda materia quando mi immergo in una Abbazia Romanica. Lì mi sento affascinata, conquistata dal vuoto quando diventa singolare presenza. Un vuoto progettato di grande spiritualità senza solitudine. Non mi sento mai persa o smarrita, ma insieme. Quel vuoto si trasforma in tutto, basta che lo voglia, perché io stessa, seguendo quella sottile traccia, posso riempirlo a mio piacimento soprattutto di significati. Da
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me ridisegnato, diventa il mio vuoto, la mia partecipazione al tutto, la mia invenzione. Nulla mi è imposto, mai ubriaca fra concavità e convessità, linee sagome colori che vorrebbero imprigionarmi nelle loro contraddizioni e nel loro prevaricarsi, dove non posso ribellarmi. Tutto è, non c'è più posto. Una verità obbligata che soffoca. Il pieno deve salvaguardare la sua perfezione, preservarla intatta. Il vuoto non si deve difendere può solo accogliere, è disarmato. Il pieno è completezza ma anche impossibilità. Il vuoto è mancanza ma anche possibilità. Il pieno costringe. Il vuoto è libero. Il pieno si può solo distruggere. Il vuoto si può solo costruire. Il pieno è guerra. Il vuoto è pace. Tutto ciò sembra incredibilmente coinvolgere le nostre emozioni e sensazioni, trascinate ormai nell’energia che si sprigiona da quei vuoti magici. E' pregna di tutta quella che altri esseri umani, nei secoli, hanno lasciato, lì, per noi, per comunicare nello spazio e nel tempo. Mentre ci immergiamo, di quella energia inavvertitamente ci nutriamo. In essa penetriamo e ci completiamo in una perfetta armonia. Miracolosamente il tutto vuoto ci avvolge e ci seduce. Lì, allora, avresti solo voglia di cantare. Perché, come dice il Celano parlando di Francesco d'Assisi, che intonava melodie a voce spiegata anche di sola musica senza parole "...la forma di espressione, il canto, unica può tradurre e diffondere i muti messaggi che salgono dalle cose"… e dalle anime. Luciana Vasile
China di D. Defelice ←
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TITO CAUCHI SCRIVE SU
LEONARDO SELVAGGI di Anna Aita
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RIMA ancora di intraprendere la lettura del libro “Leonardo Selvaggi - panorama sulle opere”, sento il bisogno di sottolineare l’umiltà schietta ed inverosimile di questo letterato dal grande talento che, pur avendo ottenuto riconoscimenti vari, afferma di non aver meritato il Premio alla Cultura, assegnatogli dai giurati del “Premio Letterario Don Giustino” di Napoli. In un momento in cui ci si sente tutti dei padreterni è un atteggiamento che ci sorprende, ci sconvolge, ci lascia basiti per tanta schietta modestia. Un personaggio schivo con il quale ho avuto il piacere di parlare talvolta telefonicamente. Per quanto or ora esternato, devo dire che la pubblicazione di Tito Cauchi mi giunge con lieta sorpresa, felice che, dopo Gabriella Frenna, un altro noto critico si sia dedicato a lui. Inizio, dunque, con letizia la lettura, felice di apprendere come il nostro Esegeta sia stato preso fin dalle prime pagine dalla scrittura del Selvaggi e come, andando avanti, abbia sentito forte l’esigenza di scrivere di lui. Il volume che ne è risultato è diviso in quattro parti. La prima ha un titolo coinvolgente: “Leonardo Selvaggi Poeta ultimo dei romantici”. Ne consegue l’immediata, interessante definizione: un uomo, un poeta che ama. E non si può che restare pienamente concordi dal momento che il Cauchi ci offre, dell’ Autore, “assaggi poetici”, lasciandoci gustare i vari aspetti del suo pensiero e la fluidità nel renderlo in poesia. Troviamo, tra i versi, lo sconcio di una gioventù sbandata, la nostalgia della natia terra lontana, la prorompente sensualità, il pensiero dai robusti fondamenti cristiani, gli eventi del quotidiano che gli pressano dentro, espressi in tutta la loro nuda verità. “Poesia”, definisce il Cauchi a conclusione del capitolo, ricca “di impegno civile, considerazioni psico-sociologiche, fotografia dei tempi...”
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Trapiantato a Torino, dove vive tuttora e lavora in qualità di dirigente superiore presso la Biblioteca Nazionale, Leonardo Selvaggi non resta attratto, né tantomeno affascinato, dalla grande metropoli piemontese. La sua anima è rimasta, da sempre, ancorata alle proprie radici. Non muore in lui, anzi si accresce il ricordo della semplicità della vita agreste, il desiderio di antichi sapori, il pane di grano sottoposto alla macina di pietra, gli odori della credenza. Su queste riflessioni, piace al critico riportare alcuni versi dimostrativi: “...La propria casa ha pareti che ti tengono/in una scatola con dentro quello che ti manca”, righe che commenterà con grande coinvolgimento: “Sono questi ultimi, versi pesanti come macigni, ma pienamente in sintonia con la vita attuale che ci lascia insoddisfatti, per altre maniere, che ci obbligano a riflettere: abbiamo tutto, ma ci manca ogni cosa”. La scrittura procede con l’elenco e il commento delle numerose pubblicazioni di Leonardo Selvaggi offrendo, di ciascuna, notizie e riferimenti. Per citare un esempio tra i tanti, riporterò quanto egli scrive sulla raccolta poetica “Franti pensieri d’autunno”: “I versi scorrono liberi come un fiume in piena inondando le pagine”. E più avanti sottolinea come, nella scrittura, non si possa tanto parlare di pensieri quanto di “sentimenti in frantumi”, tali da formare un mosaico “di cocci sparpagliati”. Uno tra i capitoli più commoventi mi appare “Poetica nell’amore della madre”. Un legame fortissimo sul quale il Selvaggi scrive: “Mia madre dentro un flusso di sangue/nei pensieri/ancorag gio continuo”. Più avanti ci sorprende un pensiero e cioè che,
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talvolta, la poetica di Leonardo Selvaggi non sia poi tanto semplice. “Bisogna imparare a leggere”, commenta l’Esegeta durante lo studio delle pagine che si riferiscono all’opera “Il divorzio e l’amore”, altra scrittura interessante che prende atto di una società soffocante e una città più non a misura d’uomo, condizioni che generano confusione di pensieri, incertezze, difficoltà di valutazione. Alla fine, conclude, non sappiamo più leggere in noi stessi e tanto meno nel nostro prossimo. Nella seconda parte, il nostro critico prende in grande considerazione la sofferenza di un uomo che lascia la propria terra per trapiantarsi nella grande Torino. A questa fanno seguito brani dedicati a Leonardo Selvaggi nel ruolo di critico e saggista. Qui scorrono tutte le recensioni, belle pagine in cui l’Autore analizza e commenta, in maniera piacevole e appropriata, le importanti scritture del Selvaggi su autori contemporanei. Concludono il volume, un bel commento sulla monografia della Frenna e l’elenco delle pubblicazioni del nostro Autore. Commentare, passo dopo passo, tutto il lavoro di Tito Cauchi, non sarebbe cosa facile. Mi fermo qua, sintetizzando nella completezza il mio pensiero. Da tutto l’insieme del lavoro di Tito Cauchi, mi sembra di capire che l’azione culturale di Leonardo Selvaggi tende a ricondurre l’esercizio letterario alle ragioni più segrete dell’uomo. Credo anche che egli sia da considerarsi uno dei più versatili e comunicativi promotori della cultura attuale, sia nel campo della poetica (che affonda sempre le sue radici nelle zone più profonde della nostra coscienza), sia nella prosa dove, con i suoi interventi e la sua spiccata personalità di critico, concorre con rinnovato interesse a favorire la solidarietà spirituale e morale, rivelandosi fiducioso protagonista del sapere. Non posso chiudere questa scrittura senza esprimere una parola di riconoscenza verso l’ Autore che offre a noi, affezionati lettori, una panoramica valida e completa sul personaggio Leonardo Selvaggi. Anna Aita
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ALLE FONTI NATURALI Il vaso nostro è un ancoraggio nel caldo grembo della donna che apre le braccia e ci circonda come la terra per la pianta. Le radici prendono diversità di punti e vari umori, sono labbra che succhiano e denti che strappano. Impensabile come corre in rivoli veloci la linfa lungo gli attorcigliati viluppi dei rami. Ai raggi brillanti i colori bianchi e teneri si vestono di verde e di sfumature tante. Le belle zingare, farfalle svolazzanti, flessuose dentro le lunghe vesti, cogli fragranze e umori acri, mescolanze di lercio e di profumo di rose silvestri. Germogli esuberanti usciti dal solco. Sono vissute all’aperto in un movimento libero come in un bosco, un solo getto alle forme del sinuoso corpo che si apre saltellante al sole. I pensieri estesi e chiari che si allungano in progetti, escono esultanti in realtà attorno ai giorni. Artefatte costruzioni che abbagliano, montagne erte di chiasso, di pareti abbellite: sotto serpeggia per mille vie la dolce fiamma dell’Amore, eterna attrazione che irrora e ci sostiene. Nelle cadute e negli smagliamenti, nelle rotture dell’ordine della vita, di sotto agli intrecci ed ai nascondimenti in esplicita manifestazione esce fuori da un cumulo di rovine il viso dell’Amore a brandelli. Polvere e fumo nell’aria presenti, lo smantellamento dell’istinto che ci trasporta. Secche si sono fatte le fonti naturali, rotto il cerchio che fa stare dentro senza scuotimenti. I campi infestati da rovi lunghi e grassi, da pruni selvatici, non passi dentro. Sull’orlo del letto scomposto come al margine della riva del fiume alluvionato cordoni di sabbia scivolati dall’alto. Leonardo Selvaggi Torino
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I PENSIERI DELLA SERA di Leonardo Selvaggi La sera non esiste A quiete della sera come pausa, distensione è solo uno stato psicologico interiore, una necessità sentita, dopo le fatiche quotidiane, da chi è aduso a ritrovarsi in se stesso, ad esternare la parte più approfondita dei pensieri sulla realtà, sulla propria condizione di vita. Si può dire che in genere per la maggior parte degli individui a causa delle mutate costumanze dell’epoca attuale la sera non esiste; quello stato romantico d’un tempo, di ammirazione della natura nelle ore più estasianti poco per volta è stato frantumato, rivelandosi l’uomo più incline alla materialità e ai particolari interessi egoistici. La grossolanità ha divorato i sentimenti per il bello, ampliandosi lo spazio per i piaceri del corpo. Neppure si avverte quella finezza d’ aria vellutata che dava pieno refrigerio all’ animo: si aveva la sensazione che la superficie della terra si estendesse, che i monti e le valli si facessero più lontani e che lo sguardo scoprisse orizzonti infiniti quasi ci fosse un congiungimento con il cielo, per quel senso di dolcezza serena che la sera portava. Una coltre spessa di umido, l’aria greve densa ed oscura avvolge tutto, sulla lingua il sapore del bruciato per le diffuse cattive esalazioni e l’inquinamento. La sensibilità umana si è affossata, sopra è caduta tanta polvere nera e malevolenza, la sera per la delicatezza dell’ora richiama pochi alle meditazioni, all’ avvertimento di quelle profondità che non hanno limiti di spazio. L’uomo contemporaneo si è rinvigorito, villoso animale, tutto dedito ai suoi movimenti loschi, e la sera è fatta per nascondere le tortuose vie del vizio. La sera per molti è l’inizio di una vita disordinata, di traffici illeciti, escono fuori individui come talpe, di ogni colore, con telefonini intessono rapporti, incontri, organizzano. La sera davvero è la parte del giorno più pesante, la più travolgente, la più crudele. Escono fuori le malvagità, gli individui che non hanno sensibilità e non sono abituati a raffinarsi la
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mente ai processi di selezione degli istinti più bassi, a fare distinzione tra il relativismo-fatti minuti, di baratto, di speculazione e l’altezza dell’assoluto, l’andare fuori dai particolari, superando se stessi. Manca l’aria limpida velata dalle prime ombre; le membra sono appesantite dopo una giornata di vita consumata, angustiata dall’ambiente moderno, dai condizionamenti, dalle macchine, dalla meccanicità dei movimenti, dai modi aridi e ispidi della convivenza sociale. L’irrazionalità delle strutture livellatrici smantella l’animo dell’ uomo. I profitti, l’ingordigia distruggono gli aspetti naturali della vita. L’uomo diventa macchina, automa, asservito. Non conosce la sera. Non la desidera, massificato si perde nella complessità delle cose amorfe. Gli ultimi bagliori di rosso Un tempo la sera dava un senso di libertà; i bambini ragionavano di giochi, li sentivi vicini, attorno alle case piene di famiglie aperte all’amicizia; il piacere spontaneo sempre di stare insieme. I rilievi con le curve chiare all’ orizzonte, fasciato di strisce di vari colori, mantengono le storie dei paesi. Non si vede la serenità del cielo stellato, la purezza dell’aria vespertina che è trama sottile, né le valli che si dilatano digradanti di luogo in luogo. Le case si serrano, paiono di materiale più aspro, ferrigno. Ti fanno attorno un recinto che non puoi oltrepassare. L’aria della sera leggera, quasi raffinata, fatta apposta per il respiro della mente, prima di questi anni tecnologici. Quando ancora non dilagavano liberi gli istinti, risollevati si andava meditando in un’ atmosfera rarefatta, lo sguardo agli ultimi bagliori di rosso in una scia all’infinito. Più lunghi i paesaggi verdi e giallastri, le case di giorno alte e opprimenti, di sera immiserite, languide con le luci fioche, piccoli punti nel mare della natura fresca vivificata. Brillante come perla su un manto azzurro ci illumina Espero, quasi attirandoci e sospingendoci su passi alati. Fra le mani ci si accorge che non è di fine seta come una volta il tessuto della sera. Era un manto che scendeva dall’alto trasparente, largo, vasto intorno, invisibile: ab-
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belliva tutto, una veste di organza che ci faceva, direi, celestiali. La terra dava l’ impressione che si spianasse quasi per dare modo di correre per lunghe mete, spazi da paradiso; i luoghi ondulati, increspati come sciolti, l’orlo dei monti visibile nei giri sulle creste, tutto più allontanato, messo in cerchio, figure rarefatte che si muovono disegnate dalla limpidezza. Oggi gli individui in gran parte hanno perso le caratterizzazioni che fanno la persona, si servono degli abitati fasciati dalle tenebre. Sono lupi, corrono per gli affari e i vizi. I più stravaganti e i più malevoli, forti e aggressivi. Si perde l’altezza fisica e si allungano le mani a forma di tentacoli, brancolano nel buio, il muso interrato, lombrichi affamati. Non ci si ferma ad osservare i cerchi infuocati che abbacinano la vista consumandosi entro gli avvallamenti delle cime. Più non ci si sprofonda nei pensamenti, prima di uscire a misurare i tempi del tramonto dalle strisce di sole allineate sulla parete di casa mentre si tagliano cancellate. Esce dall’involucro delle membra la parte più istintiva, quella che alberga nell’ intestino e nel basso addome, insidiosa assaltando con l’ipocrisia gli altri. Per vie losche alla ricerca del denaro è l’uomo di Hobbes agguerrito, che sa tramestare nel torbido. Nelle ore della sera trova via libera per rincorrere trame intricate, difficili da capire e inconcepibili per le menti che ancora credono alla purezza e alla spontaneità ingenua del proprio sentire. I lupi arrabbiati dai monti e in branchi voraci azzannano il debole. Trasportati dalla fantasia. Il mondo è contornato da fantasmi, da ideali che trovano dimora nell’ animo sublimato. La realtà passa attraverso il filtro dei giusti congegnati concetti. La gente orgogliosa e superba non rispetta il dialogo, ha l’asprezza nel linguaggio e la testardaggine delle presunzioni. La sera è piena di incertezze, sempre rari i pensieri alati, intercomunicanti che passano per i sentimenti. Si fa poco uso di raziocinio, ognuno rimane come blocco chiuso, la poca elasticità non consente compenetrazione reciproca delle idee che passano immediate per l’ in-
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tuizione. Si raffinano i pensieri L’uomo vero, integro va incontro alla sera in qualunque modo. L’uomo solitario, eretto, pieno di sé, le mani legate di dietro, nel suo vestito a doppio petto, austero, la mente libera che spazia esuberante e felice. Si trasporta le sue idee e tutto quello che gli appartiene come il sapiente Biante. I pensieri per le vie deserte si raffinano e sono in fermentazione, si accodano l’uno dopo l’altro eccitati, lievitati in una aumentazione discorsiva. I pensieri sono maturi e fermi nelle convinzioni: certezze di chi ha un suo ambito di riflessione incrollabile e coerente, abitudini disciplinate di uomo equilibrato. L’uomo solitario e socievole, pago e insoddisfatto, mirando alla realtà, sceverando con buon senso i lati buoni da quelli riprovevoli. Tutto questo stato di sensibilizzazione di sera: si pensa al proprio destino, al mondo, alla fine dei giorni, alle speranze: imperturbabili, con passo cadenzato, per entro la rete delle ombre con ancora fili di luce. Per le vie all’aperto, alla frescura dello spazio libero, immerso nelle meditazioni, quasi spiritualizzato, atomo fra quelli nobili nell’etere vaganti. La sera nelle città ce la costruiamo come quella di un tempo, mettiamo dentro la trasparenza per mezzo della sensibilità poetica, alleggerita dagli umori grevi della foschia; distratti non sentiamo i rumori, smorzata la troppa luce accecante. Ma le case e le strade sono incatenate, accatastate, l’una di fronte all’altra, l’urbanizzazione ha tolto il respiro, creando gli sradicati e gli eterni nostalgici dei vecchi paesi ove ancora fino ad alcuni anni persisteva la semplicità della vita, la naturalezza spontanea di certi aspetti del costume. Vai avanti e indietro, i passi come legati per i malleoli da erbe vischiose. La prigionia della città che prende il corpo ed opprime l’animo. Stare fuori è come prendere l’aria secondo l’ espressione dei carcerati, automi affiancati alle pareti degli isolati. La selva delle case divenute scatole asfissianti, sospese, incasellate fra le colonne di cemento armato. Si è legati
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alle comode strutture, rendendosi pigre le nostre iniziative Traiettorie di macchine infinite Le macchine infinite che trasportano uomini secondo fisse meccaniche traiettorie. La sera è asfittica, sbarrate le finestre di casa, si rimane chiusi dentro. Si rivede con nostalgia il volto della luna in cui rispecchiata si riconosceva la presenza della donna amata. Si ritrova la sera che fa sobbalzare sereni e scrostati dalle ambasce diurne. L’inconscio si riversa, si sente il passato con i momenti di sogno vissuti. La sera si trova nella mente, assetata di quiete, di ripensamenti, ricca di pensieri poetici, ribollente di stratificazioni di idee e di fantasia. La sera crea uno stato psicologico di vita elevata, interiore, lontana dalle limitazioni, aperta alle illusioni, alle immaginazioni. In totale astrazione come divelto del tutto dai legami materialistici. La voce mutata ha accenti sonori, diventa flusso continuo di versi, un canto, un inno alla bellezza di quanto sfavilla intorno. La purezza espressiva e la spontaneità figurativa hanno le perfezioni classiche di piena serenità contemplativa. La sera arriva quando lo sguardo lontano va oltre le barriere dei convenzionalismi. Nella memoria dei quadri idilliaci che facevano lieto l’ambiente degli affetti, con le tante sfumature, come colori, come momenti particolari riflessi nella psiche. Fra le pareti della città isolate smarriti il senso della vicinanza e il contatto della concretezza, ma fatue appariscenze ed alienazione. La sera significa tanto il vero e il bello insieme: tutto si purifica e si essenzializza. L’uomo si sveste delle acrimonie, si autentifica con la sua identità. Quando scie di luce fine si abbassano sulle strade uguali a veli di trine, in qualche angolo solitario di antichi rioni dimentichi, attenti a sentire come battiti di cuore o voli di ali librate in alto le vibrazioni dell’io. Incontro alla sera dolce e immota, piena di poesia e di ampiezza spirituale, di paesaggi e di intimità rivissute, alla sera leopardiana che si dilata di monte in monte, di valle in valle fino agli estremi orizzonti. Quelli che vivono presi dai
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guadagni hanno la sera turbolenta, un pantano ingannevole, disteso fra le ombre e le spine. La sera di certo non è fatta per ripensare su quanto si è svolto nella giornata, se con buon senso e lealtà, con nobiltà di sentimenti, soprattutto con onesta dedizione. Seduto presso il limitare della finestra L’uomo di genuina struttura, l’uomo in un unico flusso fra materia e spirito, in rapporto di sintonia con le cose intorno vive la quiete e l’armonia nel silenzio della natura con la sua sensibilità, con la mente fissa alle immagini del passato ricreando gli anni esuberanti, esaltanti di gioia dell’adolescenza. La luce celestina, sfilacciata si coglieva fra le mani, spargendola sulle pagine di immacolata bellezza, seduto sul limitare della finestra in faccia ai monti conosciuti, dalle sagome che la fantasia aveva bene delineato. La sera giunge con le vesti svolazzanti e fruscianti che hanno il colore del cielo all’imbrunire: pare di vedere allontanarsi ondeggianti i volti di dolci figure dalle voci argentine. Smaniosi, sprangata la porta accanto per non sentire le voci chiassose e vuote della televisione, per non vedere le bionde presentatrici che non sanno far altro che offrire giochi, senza preparazione drammatica acquisita e senza dizione fine, improvvisatrici di scene soltanto allettatrici, sbandierando lussuria e frivolezza. Imbonitrici da fiera. La televisione italiana allegrona senza cultura e veri indirizzi pedagogici di istruzione. Sempre gambe accavallate, balenii di intimità merlettate di rosa. In tutti i momenti, anche nelle trasmissioni che avrebbero contenuti seri, davanti allo sfarfallio di corpi femminili dall’incarnato latte-miele azzurrato fra luci e colori. Sono sere laceranti, procurano eccitazione e insoddisfazioni. Tolgono dalla testa quel poco di buono che può ancora esserci. Riempiono di volgarità e luoghi comuni, inaridiscono la sensibilità e il senso di equilibrio. Sere alla televisione che distruggono la struttura umano-sentimentale. Come un litobio ci si chiude dietro le cataste dei libri e riviste. Riemergono sensazioni e tem-
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pi di sogno. Nel paese della giovinezza So bene dove si vuole andare a vivere la sera, nel paese ove si è vissuti con la giovinezza, quando seduti sul limitare delle porte si vedeva passare l’asino immusonito dalle lunghe mascelle, stanco con il suo padrone, diritto alla stalla, desideroso di quiete e di riposo il cesto pieno di fichi tra il verde ruvido delle foglie. Per le strade l’odore del fieno e sulle some il colore della sulla mista all’avena. Le donne pudiche sul basto, con le gambe unite penzoloni da una sola parte, strette nelle calze di lana di pecora. La sera aveva allora un sapore, campagna e paese in una convivenza di passione e di attaccamento. Fatica e odori della sera, contenti di stare seduti nel vicinato amico. Si vive di poche cose, ma felici con se stessi e con l’ ambiente, sentimenti e buone abitudini tradizionali. La natura e la semplicità dell’ uomo; il cielo pare un oceano, lo sguardo rincorre Selene per entro blocchi di nubi biancastre. La sera è l’immenso, entro di esso l’animo esulta, senza città, senza gruppi di giovani uguali ad oggetti in serie, senza oziosaggini, senza strade che ti imprigionano. Affacciati sul passato, mettiamo vicino il presente per ricomporlo, integrarlo spogliarlo degli egoismi e delle stupidate che non piacciono neppure agli idioti. La sera certamente una finestra aperta su una valle lussureggiante con alle spalle tutto quello che si rifiuta. Si vuole solo se stesso e la sentimentalità fine, rafforzata, univoca, provata dalle amarezze, solo la mente che razionalizza gli aspetti della vita. La sera con equilibrio, momenti di sintesi, considerazioni, atteggiamenti di compostezza. Le mani sono amichevoli, la parola diretta al dialogo, lo sguardo spazia vedendo e sentendo. La sera porta al confronto. Viviamo di cose e di immagini, di quadri vivi, di rimembranze: la realtà in tutti gli aspetti interpretata e rappresentata. Illuminato ed immedesimato con la realtà tramite legami che vanno all’unisono. Il cielo fosco, ottenebrato della città e le case che paiono più
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radicate alla crosta terrestre, come se tutto fosse superficie piatta, estensione orizzontale con l’ individuo, pura germinazione uscita dai solchi feraci del terreno. Grande nostalgia di serate vissute nella quiete assoluta. Si ritorna a rivedere nella mente il firmamento punteggiato di stelle, nella grande lontananza infinita. Si stava sdraiato sul muro che recingeva la parte alta del paese. Si era un punto con la propria persona nel centro dell’universo. Allora la sera brillava nello spazio immenso in tutto il creato. Senza peso e senza esistenza, puro spirito. Si direbbe nel nulla eterno, volatilizzati nel mare degli esseri. L’io –microcosmo fa l’ uomo altezza di creazione. Leonardo Selvaggi
REVISIONE DEL PASSATO Inizia il declino ma nessuno lo vuole. Il passato, in agguato, sciorina e stropiccia allarmanti quadri di vita vissuta. Vorresti raggiungere un minuscolo antro per non ricordare il male subito. Vorresti dimenticare, per sempre, la minuscola goccia di pallido bene appena intravisto e mai assaporato. La sera che scende non è illuminata da sereni ricordi. In questa vita del non senso uno scalpitio molliccio accompagna giorni e notti. Anna Maria Bonomi Roma
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IL Racconto ANCHE IL PARADISO HA LA SUA TRISTEZZA di Rudy De Cadaval
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UANDO è incominciata la malattia io avevo compiuto da poco i trent’anni. Eppure, la cosa vi sembrerà inverosimile ma vi assicuro che è assolutamente vera, non avevo mai conosciuto una donna. Perché? E’ difficile dirlo. Potrei parlare di timidezza, di complessi, di paure, di una sensibilità troppo forte che mi impediva di rivolgermi alla franca brutalità delle prostitute; anche – un altro fatto vero difficile a credersi – una certa dose di pigrizia, di indifferenza. La malattia scoppiò subito in maniera clamorosa. Essa colpì, il primo giorno circa il trenta per cento della città. Il quinto giorno non c’era più scampo, l’ unico sano in città ero io. E’ difficile spiegare come in cinque giorni un’intera città (in realtà, come è stato inderogabilmente provato, un intero pianeta) impazzisca. Io ero semplicemente terrorizzato. Non riuscivo a capire se erano pazzi gli altri e io l’ unico sano o viceversa. Ma poi cominciarono le stragi e io smisi di farmi domande. I “melanconici” si unirono ai “maniaci depressivi” per sterminare gli “ebefrenici”. Ma, a vittoria ottenuta, si misero ad uccidersi fra loro. Devo dire a loro merito che durò, l’intera faccenda, meno che una guerra fra persone “sane”; e con assai minore crudeltà. Non vi furono torture, fucilazioni, campi di sterminio. Si combattevano semplicemente, continuando a sparare finché da una parte restavano pochi superstiti e dall’altra assolutamente nessuno. E questo non perché fossero spietati o particolarmente assetati di sangue, ma semplicemente perché non avevano alcuna paura della morte: dirò di più non credo, personalmente, che avessero davvero una chiara conoscenza della morte. Non so veramente per quale miracolo riu-
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scii a scampare a queste distruzioni. Due volte fui arrestato da un gruppo di fanatici ebefrenici, e una volta fui sopraffatto da sette ninfomani scatenate che cercarono di finirmi nel modo da loro preferito: ma furono interrotte a metà della loro opera dall’arrivo di un contingente nemico (non so neppure dire di quale gruppo si trattasse perché approfittai subito della confusione per scappare). Poi mi rifugiai in un edificio in apparenza disabitato. Vi rimasi nascosto per circa dieci giorni e dieci notti, almeno credo, perché alla fine avevo un poco perso il conto delle ore che si succedevano tutte eguali le une alle altre: un tempo senza storia. Non so come non impazzii anche io. Alla fine non resistei più e, con molta circospezione, uscii dal mio nascondiglio. Le strade erano piene di cadaveri, di mosche, di topi, di scarafaggi e di qualche altro animale. Nessun essere umano era visibile. La cosa mi parve impossibile, ma dopo aver girato in lungo e in largo la città, mi resi conto che le cose stavano davvero così. Ero l’ unico sopravvissuto. Allora decisi di andare a cercare altrove la vita. Salii su un’automobile e presi la prima strada, senza scegliere la direzione, girando a caso, dove mi guidava l’ istinto. Fu soltanto quattro mesi dopo, quando avevo ormai percorso migliaia di chilometri, visitato decine di città tutte eguali, che, in un piccolo villaggio de Nord, scoprii quello che ritengo l’unico altro essere vivente, oltre a me, sulla terra. Una donna, meglio una ragazza: a quanto potei capire doveva avere circa sedici anni. Bellissima, spaurita e nello stesso tempo coraggiosa. Vedendomi non fuggì ma mi corse incontro a braccia aperte. Aveva subito intuito che ero “sano” come lei. Mi disse di chiamarsi Magda. La sua storia, stranamente, era simile alla mia. Anche lei era sfuggita alla malattia e alla morte senza sapere perché. Semplicemente non era impazzita, semplicemente non era stata assassinata nel corso delle grandi stragi. Aveva visto impazzire e morire la gente intorno a lei, aveva assistito a scene atroci, ma ogni volta la morte le era passata vicino senza colpirla.
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Parlammo a lungo, quella notte, fino a tardissima ora. Era troppo tempo che né l’uno né l’altra aveva la possibilità di rivolgere la parola a un essere umano ragionevole, troppo tempo eravamo stati soli con noi stessi per poter pensare ad altro quella notte. Ma il giorno dopo, quando mi svegliai per la prima volta pienamente riposato, a mattina ormai inoltrata, lei era presso di me e mi guardava. Arrossì nel vedere che avevo gli occhi aperti e provai un piacere immenso nel vedere quel rossore. Le dissi di avvicinarsi e lei si sedette sull’orlo del mio letto con estrema naturalezza. Poi alzò gli occhi a guardarmi e mi disse - non ho mai fatto l’amore prima di adesso - . Alzai un braccio e toccai, con un dito, il suo ginocchio nudo. Rabbrividì due volte, ma non si mosse. - Ho letto dei libri - aggiunse Magda molti. Li ho trovati nella biblioteca del dottore. Erano molto volgari e mi facevano un poco schifo. Ma credevo di essere sola al mondo. E volevo sapere, almeno per via indiretta, che cosa volesse dire stare con un uomo… Continuava a guardarmi, decisa, serena. Credo di aver provato piacere, qualche volta… Penso di essere riuscita qualche volta a procurarmelo da sola. Ma sono convinta che in realtà è molto diverso da quella che si prova quando si è in due – Provavo una gran voglia di piangere. Parlai, invece, a Magda, della mia vita prima della malattia, della mia feroce solitudine, dei miei piaceri solitari come i suoi. Le dissi tutto, ciò che non avevo mai neppure osato confessare a me stesso. Magda ascoltava in silenzio. Ma vedevo piccoli fremiti trascorrere sulla sua pelle, nei suoi occhi. Una vena della sua gamba sinistra pulsava in modo strano, affannosa. Un angolo del suo labbro superiore appariva come increspato, più un’impressione che una realtà. Le sue mani stringevano convulsamente il bordo della coperta. E improvvisamente compresi. Fu come un’intuizione repentina, inaspettata: ma seppi subito che ero nel vero. Magda mi stava desiderando. Provava un desiderio fisico violento, come quello che
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quel pensiero scatenò dentro di me. Vedevo le onde di quel desiderio, le vedevo materialmente salire su dal profondo del suo corpo, diramarsi in ogni direzione per poi spandersi e sperdersi e svuotarsi alla superficie, nell' epidermide raggrinzita come per freddo o per spavento, nel respiro che a stento tratteneva la sua emozione, nei capelli, biondi e sottili, che tutto a un tratto si erano disseccati e da cui mi pareva sprizzassero invisibili scintille. Appena una parvenza di sudore ombreggiava la sua fronte. Il ritmo del desiderio divenne più intenso, più frequente, come le doglie del parto nell’imminenza dell’evento. E poi, in uno spasmo quasi doloroso, il suo corpo si inarcò, il suo viso ebbe per un breve istante una contrazione, subito di nuovo padroneggiata, e le sue mani, bianche e gelide, si afferrarono alla sponda del letto. Compresi ciò che era accaduto, compresi il piacere subitaneo che l’aveva posseduta e sconvolta e ne fui commosso e felice. Ero io, la causa, io. Finalmente. Magda si stese al mio fianco. Tremava ancora, come se avesse paura, e nello stesso tempo, sorrideva felice. – Caro disse. – Oh, caro. Caro. Caro. Caro. - Io le accarezzavo adagio i capelli e le sfioravo con le labbra la pelle delicata delle tempie, della fronte. E poi dissi il suo nome, Magda, e improvvisamente mi resi conto che era la prima volta. Allora alzai il volto e la guardai e poi lentamente avvicinai la mia bocca alla sua e la baciai. Avevo atteso per tanto tempo questo momento, lo avevo aspettato e sognato. Poi avevo letto infinite volte nei libri la descrizione di ciò che avviene quando un uomo e una donna si baciano. Sapevo tutto e invece non era vero niente. Quando sentii il contatto umido delle sue labbra, e poi intesi i suoi denti aprirsi e sfiorare la mia lingua che andava alla ricerca della sua, quando esse si toccarono e si accarezzarono, compresi che tutto quello che avevano scritto e detto non era vero, compresi che no poteva essere vero, non così, non così forte e bello e alto, non così intenso. Spinsi la lingua più a fondo nella sua bocca e le mie mani erano forti sulla schiena
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di lei, e io sentivo ondate di benessere sciogliersi dentro di me, sentivo antiche costrizioni, costrizioni fisiche, blocchi muscolari, catene di tendini, ogni cosa allentarsi e lasciare il posto a un benessere a un piacere che non credevo possibili, mentre l’unica tensione che ancora resisteva e anzi andava accentuandosi era quella di un desiderio globale, assoluto. Mi staccai da lei e la guardai. – Magda dissi ancora. Lei esitò un attimo poi si alzò e cominciò a spogliarsi adagio, senza guardarmi e senza curarsi di essere guardata, come se sapesse molto bene quello che stava facendo, senza fretta e senza eccessiva lentezza. Presi a spogliarmi anche io, ma i miei movimenti erano più impacciati, le mie dita si affannavano inutilmente intorno a bottoni ostinati, provavo, adesso, un senso preciso di paura. Quando ebbi finito, lei mi stava già attendendo, stesa su un fianco, completamente nuda e tranquilla: si limitò a spostarsi un poco per farmi posto accanto a sé, poi levò un braccio a cingermi la spalla e fu lei questa volta a baciarmi ancora. Per qualche istante rimasi come paralizzato, senza osare toccarla, poi cominciò anche io ad accarezzarla. Strinsi il seno di lei nel palmo della mia mano: prima l’uno e poi l’altro. Quanti uomini avevano compiuto quel gesto prima di me? E adesso io ero l’ultimo, senza scampo, l’ultimo uomo sulla terra a stringere un seno di donna nella sua mano. E dunque il mio modo di stringere quel seno, il mio modo di accarezzare quella ragazza, il mio modo di procurarle e di procurarmi piacere, doveva per forza essere diverso, nuovo, assolutamente, totalmente, sconvolgentemente nuovo. Cercai di ricordarmi tutto quello che avevo letto: e mi impedii di ripetere quei gesti che sapevo che altri avevano già compiuti prima di me. Inventai, dunque, nuovi gesti, inventai nuove carezze, la feci fremere sfiorandola con un polpastrello, la feci urlare avvicinando soltanto le mie mani alla sua lunga schienaruscello, ma senza che la mia pelle prendesse contatto con la sua, esplorai ogni sua minima parte del suo corpo con carezze così strane e
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differenti che la facevano balbettare e piangere e dibattersi. Così adesso so, senza più ombra di dubbio, che tutti quei libri, quelli che pur avendo come tema il sesso e l’erotismo, riuscivano a tenersi lontani dalla volgarità e dal cattivo gusto, e quelli, più numerosi, decisamente pornografici, quei pochi che avevano letto prima della malattia e gli altri che Magda mi fece conoscere poi, quelli della biblioteca del dottore, erano tutti falsi. Ora so che nessuno di quelli che hanno scritto quei libri ha davvero baciato una donna, che nessuno di loro ha tenuto un corpo femminile fra le braccia, che nessuno sa che cosa voglia dire accarezzare o farsi accarezzare. O meglio – certamente hanno fatto tutte quelle cose. Ma le hanno fatte distrattamente, in fretta Magda e io, invece, non abbiamo assolutamente nulla da fare, se non inventare nuove forme d’amore, nuove forme di piacere. Non dobbiamo preoccuparci per il mangiare (abbiamo a nostra disposizione chilometri di cibo in scatola, interi negozi carichi di cibi non deteriorati o deteriorabili: e poi ho imparato a cacciare e a pescare, ci sono gli animali da cortile che hanno invaso, moltiplicandosi, città e campagna, l’unico lavoro che mi sono concesso è coltivare, d’estate, un piccolo orticello tanto per avere qualcosa di fresco e nuovo da mangiare). Così tutto il nostro tempo è dedicato all’amore. A scoprire nuovi giochi per non annoiarci, per non stancarci l’uno dell’altro. Di comune accordo abbiamo deciso di non mettere nuovi figli al mondo, di comune accordo abbiamo deciso di non dare vita a una nuova umanità. Magda ha cominciato a prendere la pillola il mese dopo il nostro incontro e da allora non ha mai smesso. Così possiamo amarci senza preoccupazioni. Ma la sicurezza di non avere figli l’ impossibilità di cambiare partner, potrebbe far nascere in noi la noia, la monotonia, potrebbe disgustarci l’uno del corpo dell’altra. Per questo abbiamo cercato di rinnovare continuamente non soltanto i modi del nostro
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rapporto, le manifestazioni del nostro contatto: ma anche tutte le situazioni possibili. Così Magda ogni tanto parte e si stabilisce in qualche luogo a me sconosciuto entro un raggio di duecento chilometri e poi debbo andarla a cercare e non so mai dove la trovo, perché ogni volta si traveste in modo diverso, da cameriera, da hostess, da grande diva, da milionaria annoiata, da prostituta, e ogni volta recita la sua parte fino in fondo, ogni volta io devo fingere di trovarmi, in una situazione normale, di fronte a una cameriera o a una principessa e fare in modo di convincerla a venire a letto con me. Non solo – ma poi Magda, si comporta con me, durante il rapporto sessuale, proprio come immagina si comporterebbe una cameriera o una principessa, usando lo stesso linguaggio, gli stessi gesti, lo stesso tipo di carezze o di invenzioni erotiche. Oppure, altre volte, sono io che parto, e Magda si finge sola e disperata e alla fine, quando ci incontriamo io sono un bruto, un sadico, un omosessuale, un voyeur, un gentiluomo, un timido innamorato. E ogni volta è una scoperta nuova. Magda dice che sono un uomo meraviglioso ma in realtà il merito è tutto suo. O meglio – il merito è tutto del caso che ha fatto sì che io scampassi dalla malattia e che lei pure scampasse, che entrambi sopravvivessimo per la reciproca felicità. Ma è poi davvero il caso? E soprattutto è poi davvero tutto vero? Talvolta, di notte, mi sveglio con la sensazione che invece sia io a essere pazzo, che nulla sia avvenuto e che ogni cosa sia frutto della mia fantasia malata. Allora sono costretto a uscire subito, a camminare per le strade deserte della città, a toccare i muri delle case che cominciano a sgretolarsi, a recarmi vicino ai grandi cimiteri che Magda e io abbiamo apprestato nei primi tempi, bruciando cataste intere di cadaveri, per evitare la puzza e l’infezione. Guardo tutto questo e provo da un lato la certezza che si tratta di una realtà ben presente, e dall’altra la angoscia che questa realtà mi procura. Perché è vero che io vivo in un nuovo paradiso terre-
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stre con una meravigliosa Eva, ma noi abbiamo già conosciuto tutto e questa conoscenza non si può buttare via. Allora recito dei versi, ad alta voce nella notte – “Anche i tuoi occhi sono morti dopo le avventure, / la tua smorfia è la stessa, è identico il duolo: / tale il vecchio mare sotto il giovane sole, / tale l’antico cimitero dalle tombe sempre nuove! - e poi piango un poco, da solo. Alla fine, riconfortato, torno da Magda che mi aspetta, e che, spesso, ha gli occhi anche lei. Rudy De Cadaval
ZIO CLEMENTE di Antonio Visconte
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PPENA finita la guerra, anche il mio piccolo paese San Prisco iniziava il passaggio dalla civiltà agricola allo sviluppo industriale. Il signor Crispino, che già gestiva un importante negozio di materiale da costruzione, volle lanciare il primo segnale. Sotto l’orologio, al centro del trivio aprì un bar e all’interno una cucina. I due ambienti attiravano molti clienti e tra costoro, come spesso avviene, figuravano le persone difettose, oggetto di continue provocazioni da parte dei molestatori. In un angolino della porta d’ingresso si sedeva zio Clemente, così chiamato in omaggio alla sua età, un vecchietto mite e riservato, che divenne presto la preda dei rompiscatole. Zio Clemente non era nato muto, ma in tutta la sua vita non aveva mai pronunciato una parola. Chiunque entrava, gli rivolgeva una domanda, pur sapendo di non ricevere alcuna risposta. “Sarà una menomazione, ma può essere anche un motivo di saggezza”, argomentava il dottor Messuri, medico condotto, con la sua abilitazione e l’ambulatorio davanti al bar e veniva a sorbire una buon tazza di caffè, che la moglie piemontese non poteva offrire. “Come diceva don Abbondio? a stare zitti non si sbaglia mai”. “Mi dispiace, dottore, se la devo contraddi-
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re”, rispose Angelina, una maestrina elementare, non ancora di ruolo, sempre pronta ad aiutare il marito in casa e al bar, “dobbiamo amare la parola, anche il Signore si fece verbo, per abitare in mezzo a noi, mediante la parola possiamo comunicare, dialogare, consigliare e pregare”. “Toglietevi di mezzo”, proruppe l’avvocato Giovannone, avanzando con la sua mole imponente in mezzo al gruppo, che subito gli fece largo, “voglio svegliare questa mummia, prima che ci pensi la scienza, che avvocato sono, se non riesco a far parlare la gente”, e si avviò defilato verso il vecchietto. “Zio Clemente, quanti anni avete?” gli prospettò Giovannone, e ritornò indietro mortificato, come se avesse perso una causa in tribunale. “Vano pensiero aduni”, direbbe Dante. Gli avventori iniziarono a dileguarsi, quando entrò il ragioniere Michele Rauso. Personaggio singolare. Era nato povero e attraverso mille ristrettezze, aveva raggiunto una buona posizione sociale. Il padre emigrava negli Stati Uniti d’America e sua madre spacciava il corredo alle ragazze prossime a sposare. Se è vero il proverbio che dice, non sono i libri che fanno l’uomo, bensì la pratica, il ragioniere Rauso di esperienza ne aveva da vendere. “Ragioniere Rauso”, riprese Angelina, “vedete se ci riuscite voi a far parlare zio Clemente, molti ci hanno provato e neanche l’avocato ci è riuscito”. Il ragioniere osservava da tempo lo strano individuo e non si dava per vinto. Cercava ad ogni costo di risolvere l’enigma e ora che veniva invitato a nozze, come si dice, non voleva perdere l’occasione. Mise in opera tutta la sua scaltrezza, che nessun paesano gli negava e si avvicinò al vecchietto. “Zio Clemente”, supplicava Angelina, con la sua vocina gentile e accattivante, “cosa vi costa, dite una parola, non fate arrabbiare il ragioniere, rispondete alle sue domande”. “Zio Clemente”, gli manifestò il ragioniere, “cosa fa la televisione?” Zio Clemente si agitò, si scompose, alzò lo
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sguardo in alto, raccolse le sue energie, emise un sospiro, e come un fulmine che velocissimo terrorizza e subito rasserena, storcendo le labbra e sputando il rospo, “Lasca o raddoppia”, mormorò. Scoppiò un tonfo, come se il Napoli segnasse una rete. Correva gente da tutte le parti. Nacque un frastuono generale. Gli ultimi arrivati domandavano spiegazioni, parecchi gli scettici, ma si convincevano attraverso la testimonianza dei presenti. Riconosciamo alla bravura del ragioniere Rauso di avere scoperto la domanda giusta, ma il merito non era soltanto suo. Quella trasmissione superava i Mondiali di Calcio. Le strade apparivano deserte, le città disabitate, mentre le sale cinematografiche sospendevano la proiezione dei film, per collocare il piccolo televisore sul palcoscenico. Mike Bongiorno e la sua valletta, Edy Campagnoli, avevano addirittura soppiantato le feste patronali, così radicate nel nostro territorio. Rappresentavano il mito della ricchezza, che si affacciava alla mente degli italiani con il miracolo economico, dopo il disastro della guerra, al quale neanche zio Clemente poteva sottrarsi, pronunciando le due parole, che cambiarono il volto del nostro paese. Antonio Visconte
TENSIONE Verrò. Verrò. Verrò sull’Elicona, o Muse, tra i lauri sempiterni. Il mito dell’Ellade scoprirò tra le voci indistinte, nel canto, alla vostra armonia. E berrò avidamente al fonte d’Aganippe. Berrò alle tue sorgenti, “Divina Poesia”. Enrico Ferrighi Da Carmina - Ed. Pomezia-Notizie, 1983
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XXVII EDIZIONE PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE CITTÀ DI POMEZIA 2017 Comunicato Stampa Nel ringraziare, per la pubblicità accordata, le Testate (cartacee e on line) che hanno pubblicato, in tutto o in parte, il Regolamento del Premio, si comunica che la Commissione di Lettura del nostro Periodico, dopo un primo esame delle opere pervenute, nei giorni tra il 20 e il 30 giugno 2016, ha selezionato, per le diverse sezioni, i lavori dei seguenti Autori (qui si ricorda quanto il regolamento recita: “Per ogni sezione, qualora i lavori risultassero scadenti, può decidere anche la non assegnazione del premio”): Sezione A (Raccolta inedita, max 500 versi): La scala di Jacob, di Corrado Calabrò (Roma); Nel fiume del tempo, di Antonio Crecchia (Termoli, CB); Suggestioni, di Lina D’Incecco (Termoli, CB); A mio padre, di Filomena Iovinella (Torino); Ricordi cocenti, di Giovanna Li Volti Guzzardi (Avondale Heights, Vic., Melbourne, Australia). Sezione B (Poesia singola, in lingua, max 35
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vv.): “Pensiero”, di Mariagina Bonciani (Milano); “Non avevo ancora finito di sognare”, di Elio Caterina (Modena); “Distillati momenti”, di Giuseppe Cosentino (Oberkotzau, Germania); “Vicini alberi compagni”, di Caterina Felici (Pesaro); “Cerco lontano”, di Franco Orlandini (Ancona); “Misterioso attimo”, di Imperia Tognacci (Roma); “Ho tirato le somme”, di Anna Vincitorio (Firenze). Sezione C (Poesia singola, in vernacolo, max 35 vv.): “’E scelle cadute”, di Isabella Michela Affinito (Fiuggi, FR). Sezione D (Racconto, novella): “Cirella calabra”, di Anna Aita (Napoli); “La bicicletta rossa”, di Maria Assunta Oddi (Luco dei Marsi, AQ); “Al Mariposa”, di Luciana Vasile (Roma). Sezione E (Fiaba): “Un giorno di pace sul pianeta terra”, di Elisabetta Di Iaconi (Roma); “Stefania, Vanessa vanesia”, di Paolangela Draghetti (Livorno); “Il sogno”, di Antonia Izzi Rufo (Castelnuovo al Volturno, IS). Sezione F (Saggio critico): “<Tempo ritrovato> di un vecchio interprete di testi”, di Emerico Giachery (Roma); “Maurice Carême scrive a Federico De Maria lettere d’amicizia vera”, di Ilia Pedrina (Vicenza); “Emigrazione e integrazione”, di Antonio Visconte (Santa Maria Capua Vetere, CE). In una successiva lettura, i componenti la Commissione Lettura decreteranno i vincitori. Questa XXVII Edizione è l’ultima organizzata dal nostro mensile, giacché l’età del suo direttore consiglia il ritiro, a poco a poco, dagli impegni. L’augurio è che ci siano altri disposti a gestirlo, giacché un Premio così importante (si veda anche Premiopoli, di Cinzia Tani, Editore Mondadori) non merita la chiusura definitiva. Il Comune di Pomezia e la Biblioteca sono stati già informati, com’era nostro dovere, ma finora, nessuna risposta. Se sul territorio ci fossero Associazioni interessate (Pro-Loco, Associazione Coloni eccetera), sono invitati di farsi avanti con le loro proposte. Non si chiedono denari, ma l’ assi-
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curazione, l’impegno della sua prosecuzione nel tempo, anche con il nostro aiuto finché le forze ce lo permetteranno. Domenico Defelice Organizzatore del Premio e Direttore di Pomezia-Notizie Vincitori della SEZIONE A delle precedenti edizioni: Pasquale Maffeo: La melagrana aperta; Ettore Alvaro:Hiuricedhi; Viviana Petruzzi Marabelli: Frammento d’estate; Vittorio Smera: Menabò; Giuseppe Nalli: A Giada; Orazio Tanelli (USA): Canti del ritorno; Solange De Bressieux (Francia): Pioggia di rose sul cuore spento; Walter Nesti: Itinerario a Calu; Maria Grazia Lenisa: La ragazza di Arthur; Sabina Iarussi: Limen; Leonardo Selvaggi: I tempi felici; Anna Maria Salanitri: Dove si perde la memoria; Giuseppe Vetromile: Mesinversi; Giovanna Bono Marchetti: Camelot; Elena Mancusi Anziano: Anima pura; Sandra Cirani: Io che ho scelto te; Veniero Scarselli: Molti millenni d’amore; Sandro Angelucci: Controluce; Giorgina Busca Gernetti: L’anima e il lago; Rossano Onano: Mascara; Fulvio Castellani: Quaderno sgualcito; Nazario Pardini: I simboli del mito; Rodolfo Vettorello: Voglio silenzio; Isabella Michela Affinito: Probabilmente sarà poesia; Antonia Izzi Rufo: Sensazioni.
NON HO LACERAZIONI L’amore senza simmetrie che non ha forme esterne né il modo degli altri. Come fiamma non si spegne, ardente nelle attese, si alimenta e si consuma con se stesso in concentrici ritmi. L’amore senza corpo e senza occhi in armonica sovrapposizione, quasi l’amato non c’è, si è fuso in quel fuoco dentro che arde da solo divorando. Il cuore aritmetico freddo cerca
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le combinazioni con i calcoli, vuole oggetti che ordina e sistema con abbellimenti intorno, trasporta e accumula a piacimento. Tutto è materia pesante che sazia l’ingordigia. Fuori degli sbarramenti escono i sentimenti. Un amore grande con ostacoli, irrompente con le mani aperte a correre, come un velo trasparente l’animo si svolge. La vita ha svenduto nella casa le masserizie, non ha giorni e non ha contorni, si purifica ogni momento, tutte le scorie sono cadute. Non conosco la mia estensione, non ho limitazioni; vivo di spazio e di tempo, solidificata l’esistenza. Penso agli uccelli vistosi, li vedo sul pavimento e agli angoli. Non svolazzano in giri pazzi di brio, le loro ali come i pensieri densi, si spingono affaticati nell’aria, paiono carichi portare in luoghi che sanno, senza voce, ma si fanno capire, li vuoi prendere in mano, vengono incontro sulla faccia. Hanno il pessimismo delle persone che circoscrivono, si muovono intorno selezionando, vanno ai riferimenti. Difficili le connessioni, attanagliano le incertezze la mente inerte. Sono i legami della riflessione che sanno di se stessi e dei rapporti con i fatti degli altri vicino ai propri. Per mettere gli argini e dare le mani morbide alle spine ci vogliono dita di ferro. Tutto ha punte acuminate, non c’è niente di squadrato che sta fermo. Ti so sulla spiaggia con gli occhi al cielo, in magica estensione valicando vallate e montagne, trasparenti visioni, frammenti di luce si muovono davanti. Domande e risposte in colloquio con parole fatte d’aria, trasportate nella mente da flussi di sangue. Leonardo Selvaggi Torino
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I POETI E LA NATURA – 69 di Luigi De Rosa
D. Defelice - Metamorfosi (particolare), 2017
GIACOMO ZANELLA (1820-1888) UN PRETE-POETA E L'EVOLUZIONE DELLA NATURA
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on è certo che un giorno Giosuè Carducci abbia detto “Donne e pretinon son poeti”, perché se lo avesse detto avrebbe preso veramente una cantonata. Non v'è chi non veda, infatti, che le poetesse stiano alla pari, anzi, superino spesso, sia in numero che in valore artistico, i colleghi uomini. Così come non mancano i preti-poeti di grande valore (un nome per tutti: David Maria Turoldo). Giacomo Zanella nacque a Chiampo, nel Vicentino, il 9 settembre 1820. Studiò nel Seminario Vescovile di Vicenza. Fu molto importante per la sua formazione culturale la lettura delle opere di Leopardi, ma lo fu anche quella di Foscolo, Parini, Alfieri. Nonostante fosse prete in quell'epoca, e in un ambiente piuttosto conservatore come quello ve-
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neto, fu vicino agli ideali risorgimentali e al patriottismo veneto. Il che lo portò ad essere sospettato dalla polizia e in seguito ad essere privato della cattedra di insegnamento. Cosa che lo fece soffrire molto e fece dirottare i suoi interessi verso l'attività di traduttore, rivelandosi un buon traduttore dei Classici latini e greci. Produsse buona poesia dal 1860 al 1887. Fra i temi da lui trattati, oltre a quelli patriottici (peraltro non al culmine dei suoi pensieri), trattò quelli della campagna, dei lavoratori umili, della famiglia e degli affetti sani e solidi che quasi sempre vi albergano. Soprattutto trattò il tema della Natura. Quanto a questa, non la vedeva come un'apparizione fissa, immobile, rimasta sempre uguale dalla notte dei tempi fino ad oggi. Ma la interpretava in base alla geologia e ai millenni trascorsi, come il risultato visibile oggi di un'evoluzione partita da molto lontano. Creata da Dio, naturalmente, ma soggetta ad evoluzione e trasformazione, indipendentemente dall'attesa dell'Uomo, ultimo arrivato sulla faccia della Terra e nella voragine dell' Universo. Nello stile privilegiò sempre la semplicità, l'impressionismo, la saggezza nello scegliere e soppesare le parole, lungi da una retorica bolsa e inutile (“I secoli migliori per la poesia furono quelli che videro pesare ogni parola”). Aderì alle grandi scoperte della Scienza che stupirono il secolo diciannovesimo purché non escludessero Dio, e viene ricordato particolarmente (anche nelle Antologie scolastiche per gli Istituti Superiori dei nostri giorni) per la sua riuscita – e celebre - poesia “Sopra una conchiglia fossile nel mio studio”, dove viene sintetizzata la sua visione di prete fiducioso nella scienza, che ritiene necessaria una collaborazione tra Scienza e Fede, entrambe ritenute indispensabili per la comprensione della Vita dell'Uomo nell'ambito della Natura. Uno scienziato come l'odierno Stephen Hawking (ateo dichiarato) non piacerebbe certo allo Zanella, così come, all'opposto, non gli piacevano certi fideisti campioni di oscu-
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rantismo. Per Antonino Zichichi (credente dichiarato) e per Margherita Hack il discorso sarebbe diverso, fatte le dovute distinzioni e precisazioni. Sopra una conchiglia fossile, scritta nel 1864, è stata ispirata da una conchiglia marmorea, di pietra, rinvenuta dallo stesso Zanella sopra i monti del Vicentino in una delle sue scorrerie alla ricerca diretta di reperti archeologici, ed usata dallo studioso e poeta come fermacarte. Piacque molto ad Alessandro Manzoni, che volle impararla a memoria (cosa facilitata anche dal ritmo creato dai versi senari, brevi e secchi, e dalle rime, facili e piane). Sul chiuso quaderno di vati famosi, dal musco materno lontana riposi, riposi, marmorea, dell'onde già figlia ritorta conchiglia. E' la prima delle quattordici strofe in cui è strutturata la composizione, che tende a dimostrare chiaramente come l'Uomo, pur “baldo di speme”, non sia che “l'ultimo giunto” che preme le ceneri “d'un mondo defunto”, sopra una terra che è ancora giovane. L obiettivo dell'Umanità deve essere quello di conoscere la stanza che il destino le ha messo a disposizione, e non di inquinarla, deturparla, o addirittura distruggerla, come potrebbe capitare con l'uso massiccio delle armi termonucleari o all'idrogeno o chissà di quale altro tipo ancora. Luigi De Rosa
ACCANTO A TE Quando ti guardo e quando mi sorridi il tuo volto s’illumina di azzurro e d’infinito. Incognito tremor investe le mie membra, e mi confondo. Enrico Ferrighi Verona Da Carmina - Ed. Pomezia-Notizie, 1983
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Recensioni ANTONIA IZZI RUFO SENSAZIONI I° Premio “ Città di Pomezia “ 2016, Ed. Il Croco/Supplem. al n.10 (Ottobre 2016) di ‘PomeziaNotizie’, pagg. 32 Quando è stata insegnante, Antonia Izzi Rufo di Castelnuovo al Volturno in provincia di Isernia, ha accumulato abbastanza sensazioni tanto da redigere, poi, un libro in particolare con la casa editrice Eva di Venafro (IS), in cui ha sviscerato l’ animo della maestra davvero intenzionata ad infondere erudizione e non solo nei suoi alunni, i quali a distanza di anni ancora Continuano a chiamarmi “La Maestra “ (titolo del libro di racconti di sue esperienze nell’ambito scolastico pubblicato nel 2003). Questo è uno dei tanti volumi da lei portati alla luce, poi ci ha aiutato con Riscopriamo Mimnermo e Solone (Il Convivio 2003); con Una rivisitazione di Virgilio (Il Convivio 2003); a capire la celebre poetessa greca Saffo, la decima musa – da lei così indicata – del 2002; insomma lei non si è fermata mai di scrivere tra saggi, florilegi poetici, monografie di personaggi storici nel bene e nel male. Una donna versatile in campo letterario che finora ha pubblicato una sessantina di testi di vario genere. Nel 2016 ha partecipato, nella Sezione Raccolta di poesie, al Premio Letterario Internazionale “ Città di Pomezia“, indetto dall’Editrice POMEZIA- NOTIZIE di Pomezia ed ha conseguito il I° posto con una crestomazia di liriche dal titolo Sensazioni, che esprimono la sintesi del suo percorso letterario svolto finora, la sua personalità di donna moli-
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sana che si è sempre adoperata a diffondere il sapere, e l’ universo fiabesco e reale che lei è riuscita ad erigere e a proteggere semplicemente creandosi una letteratura. « Tutte le nostre conoscenze dirette si riducono a quelle che riceviamo attraverso i sensi; ne consegue che tutte le nostre idee provengono dalle sensazioni. » (Frase del fisico, matematico e filosofo francese Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert (1717-1783) massimo esponente dell’Illuminismo. Dal Dizionario delle idee, dei pensieri e delle opinioni, De Agostini Novara, Anno 2002, a pag.562). Dunque, le idee sono collegate alle sensazioni e l’idea è nella mente, è creatività, ciò che nasce dopo un’elaborazione dell’intelletto, ma è anche il risultato delle esperienze vissute reali o astratte. Tuffiamoci allora nel mondo della Izzi Rufo e scopriamo come « Vorrebbe la mente/ spaziare/ nel libero mondo/ infinito,/ ma costretta si sente/ nell’ambito angusto/ d’una cerchia di monti/ che in una prigione/ la serrano/ e di guardare le vietano/ oltre quel pezzo di cielo/ senza stelle senza luna,/ senza sole,/ che appena, in alto,/ si scorge. » (A pag.22). Lei ha incessantemente reso possibile il connubio tra la natura del suo Molise con la sua scrittura; in pratica hanno camminato insieme sulla carte dove lei ha redatto i saggi, i racconti, le monografie, le raccolte di poesia; in effetti, c’è molto della sua terra in ciò che ha stilato soprattutto nei versi, soprattutto quando lei si è descritta poeticamente. Quel Molise territorio dei Sanniti che per un certo periodo furono più forti dell’esercito romano, tanto da arrivare ad umiliarlo, anche se poi la partita finì in maniera ribaltata. Il Molise con il massiccio montuoso del Matese e nella parte opposta il mar Adriatico, ha infuso negli abitanti suoi figli quell’indole distaccata, nostalgica, perseverante nel lavoro, introversa e fiera. E così sembra anche a noi di sentire in lontananza una « Melodia d’ autunno. Ho un debole, autunno, per te,/ forse perché somigliamo,/ nell’amore per la poesia/ e nella tendenza alla solitudine./ M’induci spesso a meditare/ nella pace rilassante/ dei tuoi giorni sereni,/ nel tuo silenzio discreto;/ ad ammirare rapita/ la tua veste variopinta/ che dona alla natura/ un’aria melanconica di festa./ Nelle mie passeggiate solatie/ mi piace procedere/ sulle foglie scricchiolanti,/ ammucchiate dal vento/ negli argini delle strade,/ e ascoltarne la musica/ prodotta dai miei passi./ Una dolce ascolto melodia/ che il motivetto accompagna/ ch’io vado canticchiando/ e che mi manda in visibilio. » (A pag.28). Isabella Michela Affinito
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PASQUALE MONTALTO PAROLE RICERCATE Ed. Il Croco, Supplem. al n.4 (Aprile 2017) di ‘Pomezia-Notizie’, pagg. 32 Non dobbiamo impressionarci di fronte alla ‘ricercatezza’ delle Parole del dottore poeta calabrese, Pasquale Montalto. Lui ha esaminato molto le vicende interiori attraverso i suoi studi in Psicologia Clinica e Sociologia, ed è riuscito a collegare la sua specializzazione in Psicoterapia Analitica Esistenziale col Movimento della Poesia Esistenziale (MPEm) da lui fondato, che si trova anche su facebook. Allora, proprio dal punto di vista esistenziale ci sembra di camminare su un terreno accidentato e, purtroppo, – lo dicono in tanti – stiamo nel guado di un millennio da cui vorremmo fuggire; quasi un girone dantesco dove l’umanità intera è condannata a sopravvivere subendo la pena quotidiana di uno strano « (…) silenzio sulla guerra,/ sulla morte democratica,/ la pace rinnegata e l’innocenza ingannata;/ silenzio per il lavoro,/ rosso sangue impunito,/ violenza rosa, e sulle anime bianche./ Un fiume d’ingiustizia/ corrode gli argini sociali:/ basta, ora che brucia l’ultima brace,/ ora suona l’ora di aprire la porta/ alla parola buona:/ una parola nuova di speranza,/ che fa uso di perdono e misericordia. » (A pag.17). Il silenzio di Pasquale Montalto deve essere inteso sempre a livello di curativa introspezione, perché ciascuno di noi ha il dovere, anche se di rado, di svolgere un’autosservazione psicologica per comprendere cosa sta facendo per sé e per gli altri di edificante. È importantissimo questo per capire i risvolti che si avranno nel futuro: nessuno deve lasciarsi andare o mollare la presa del coraggio di andare avanti con la consapevolezza di costruire qualcosa di utile ai posteri. C’è un brano appartenente al romanzo della scrittrice inglese, sciaguratamente morta suicida, Virginia Woolf (1882-1941), dal titolo Le onde che riflette, appunto, il concetto altruistico di tracciare un prosieguo di strada per coloro che verranno dopo di noi. « (…) Seduti qui a mangiare, a parlare, abbiamo dimostrato di poter contribuire alla ricchezza del momento. Non siamo schiavi condannati a subire senza tregua sulle nostre schiene ricurve i piccoli colpi di sventura che non vale la pena registrare. Non siamo neppure un gregge, che segue il pastore. Siamo dei creatori. Anche noi abbiamo fatto qualcosa che si aggiungerà alle innumerevoli creazioni delle genti nel passato. Quando, rimessoci il cappello sulla testa, apriremo la porta, avanzeremo non nel caos, ma in un mondo che anche la nostra
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forza sarà servita a soggiogare, a farne parte della via illuminata ed eterna. » (Dal volume Woolf Romanzi – I Meridiani Collezione, Mondadori Milano, Anno 2005, alla pag.980). Non è una presunzione quella di voler fare necessariamente qualcosa da lasciare in eredità alle nuove generazioni dirette o indirette. L’autore ha studiato e studia il fluire delle coscienze umane, come se queste fossero una ripetizione di onde discontinue spinte dal vento contro gli scogli che le annienteranno. Gli scogli sono, metaforicamente parlando, gli ostacoli, le prepotenze, le prove più o meno possibili da superare e le onde, invece, sono le nostre voci interiori, la nostra idea di consapevolezza, la sensibilità acquisita negli anni, la correttezza che abbiamo verso gli altri. In questo modo, tra onde e scogli – e non sempre è detto che debbano vincere gli scogli –, si dipana « Il gioco della vita. (…) che narra di un’energia,/ connessa all’infinito cosmico degli universi/ e che richiama il nostro bambino interiore/ a mettersi in gioco e mostrare il suo talento,/ ogni volta che se ne presenti l’occasione:/ ecco allora due giochi in allegria e leggerezza/ e dei passi, una frase, una figura,/ di una danza che avremo tempo di completare./ Sono i giochi e la danza del nostro vivere/ in pace e armonia, in libertà e amore. » (A pag.9). Quindi, l’elaborazione delle Parole secondo il poeta Montalto sta nell’andare avanti comunque per non interrompere il percorso che l’umanità sta facendo verso la propria liberazione dai drammi esistenziali, dalle brutture in generale, dagli abusi e dall’infelicità sotto tutti i punti di vista. Sottili e fiabeschi risultano i disegni, inseriti nel Quaderno, della pittrice Alice Pinto in arte Alì, che emanano anch’essi un senso di forbitezza specialmente i due volti femminili posti sulla copertina, due ovali contornati da fiori, code di capelli e solitudine insieme: uno con gli occhi chiusi l’altro con gli occhi aperti. Il disegno si chiama Maschere e sono due bellissimi visi di donne fortemente stilizzati che simboleggiano, appunto, un’eleganza estrema raggiunta poeticamente soltanto con il cuore! Isabella Michela Affinito
MARIA ANTONIETTA MÒSELE FIORETTI DI SAN FRANCESCO Ed. Il Croco, Supplem. al n.3 (Marzo 2017), a cura della redazione di ‘Pomezia-Notizie’, pagg.48. È lapalissiano che per poter spiegare a chiunque, tramite la pubblicazione di questo Quaderno letterario, il testo dei Fioretti di San Francesco, versione
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« in volgare italico (con tocchi toscani, senesi ) del testo latino “ Actus beati Francisci et sociorum eius “, opera di Ugolino da Montegiorgio del 1320/1340 », necessariamente si doveva trattare di un autore profondamente religioso nella cristianità. Non è facile spiegare le fiorettature nate intorno alla figura del Santo d’Assisi, pur avendo vissuto lui nella povertà, semplicità, devozione totale a Cristo, perché la sua è stata una vita in cui ogni giorno poteva accadere una ‘meraviglia’, un miracolo e chi è stato accanto a lui infatti in ogni momento si poteva sorprendere. Così fu per frate Leone, frate Masseo, frate Pacifico, frate Elia, frate Giovanni della Vernia, frate Ruffino cugino di santa Chiara, seguaci e compagni del poverello d’Assisi; frate Leone, ad esempio, fu il suo confessore e segretario e, in contrapposizione al suo altisonante nome felino, Francesco lo chiamava ‘frate Pecorella’ per la purezza del suo spirito e schiettezza. La studiosa, sia della vita del santo umbro, sia dell’opera che di lui esalta l’eroicità cristiana, è l’ex-insegnante, artista Maria Antonietta Mòsele natia di Asiago e residente a Pomezia, vicino Roma. Ha pensato di immergersi – se non fisicamente ma nella lettura approfondita del caro libro del Medioevo francescano – in quella naturalezza tipica del Cantico delle Creature, altra opera letteraria medioevale composta proprio dal Santo intorno al 1224, per spiegare i 53 Capitoli, più le Considerazioni attorno al fenomeno Delle Sacre Sante Istimate di Santo Francesco, che compongono l’antologia della stupefacente esistenza dell’umile frate d’ Assisi e così, anche noi adesso abbiamo la possibilità di respirarne la gloria. L’autrice stessa accompagna il lettore fin dalla prefazione, in quanto lei così ha redatto: « (…) Francesco, qui, nel suo peregrinare con i frati, è visto più come contemplatore che predicatore; che vede nella preghiera, nell’umiltà, nell’obbedienza e nella povertà le virtù principali; e si occupa più dei suoi frati, piuttosto che del popolo. Francesco conosce il segreto dei cuori, mediante la preghiera, la meditazione, l’ affidarsi a Dio, ritirandosi nelle selve. Situazioni, queste, descritte con abilità, anche per i dialoghi (spesso divertenti) e con il gusto della teatralità, ma la soluzione è sempre spirituale. » (A pag.2). Capitolo dopo capitolo, leggendo il riassunto in italiano scritto dalla Mòsele, anche a noi ci sembrerà di essere apostoli di messer santo Francesco; ci sembrerà di stare ad ascoltarlo ora sotto il cielo stellato di notte; ora in pieno giorno incuranti del sole, della sete, del procedere in lungo e in largo, giacché pervasi del suo spirito ristoratore e faremo a gara per stargli accanto, per riuscire a sfiorarlo soltanto mentalmente.
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Poi, saremo presi anche noi dalla curiosità di sapere cos’è la perfetta letizia, esattamente come chiese frate Leone, di cui c’è il brano nel capitolo 8°: « (…) San Francesco allora gli rispose che quando sarebbero arrivati a Santa Maria degli Angeli, bagnati, agghiacciati, infangati, affamati, e se, picchiando alla porta di qualcuno, venissero scambiati per ladri, venissero offesi, schiaffeggiati, lasciati fuori nella neve, al freddo, alla pioggia, gettati a terra nella neve e percossi col bastone, e loro due sopportassero tutto con pazienza, lì sarebbe stata perfetta letizia. Ma – continuò, pregandolo di ascoltare la conclusione – siccome anche la pazienza è stata donata agli uomini da Dio, come dice l’Apostolo (san Paolo) ci si può gloriare (=sarebbe perfetta letizia) solamente della croce, della tribolazione e dell’afflizione. » (A pag.8). L’ opera dei Fioretti in sé per sé non è attendibile dal punto di vista dei dati e nomi; tuttavia resta una testimonianza unica in quanto altri prosatori e poeti dei secoli successivi non riuscirono a fare un altro testo letterario che potesse superarla spiritualmente e poeticamente. Tutta l’opera vibra della potenza dello spirito di Dio presente nella persona del cavaliere assisano Francesco di Pietro di Bernardone, noto a tutti come San Francesco d’Assisi: Patrono d’Italia, della Pace, dell’Ecologia, dell’Azione Cattolica, del Turismo e dei Poeti. Isabella Michela Affinito
MANRICO MURZI DI MARE UN CAMMINO Edizioni culturali Internazionali, Genova, 2017, € 20,00 Poeta, giornalista, narratore, traduttore di poesia e di prosa, Manrico Murzi è soprattutto un uomo di cultura che a lungo ha viaggiato per diversi mari e terre, alla ricerca della conoscenza, come l’Ulisse dantesco. Altre volte in passato ha scritto dei suoi viaggi ed anche ora ritorna a noi con un libro dal titolo accattivante: Di mare un cammino, nel quale racconta i suoi molti itinerari, specie nel mediterraneo; un universo del quale conosce a fondo luoghi e culture. È questo un libro di ricordi, da cui riaffiora il passato del suo autore, che evoca persone e luoghi con disinvolta bravura. Ecco allora venirci incontro la figura della scrittrice Liana Millu, sopravvissuta ad Auschwitz, la quale racconta la sua terribile esperienza in alcuni libri di pacata denuncia, come Il fumo di Birkenau e I ponti di Schwerin, cui fece seguito La camicia di Josepha. Ecco emergere l’ immagine del poeta Elio Filippo Accrocca e quella del
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critico Mario Petrucciani, uomo “di grande dottrina”; ecco comparire Vincenzo Cardarelli, finissimo poeta e narratore, noto specie per alcune liriche memorabili, come Adolescente e Sera di Gavinana; Estiva; Passato; Crudele addio; Saluto di stagione; ecc. Ecco apparire le efficaci descrizioni dei luoghi visitati, dei quali Manrico Murzi scopre l’anima segreta, come è di Istambul, dove egli subito avverte la coesistenza di diverse culture e dove legge i versi del poeta Nazim Hikmet, uno dei maggiori del Novecento, la cui voce resta ferma nella memoria. C’è poi la Tangeri di Mohamed Choukri, autore di Pane nudo e ci sono le visite al Pireo, a Delfi, ad Atene, luoghi sacri della civiltà, evocanti ricordi incomparabili di cultura e di arte. Ma, avvenuti in luoghi diversi, gli incontri di Murzi sono stati innumerevoli ed anche di alto livello, come quelli con Eliot a Londra e con Ezra Pound a Rapallo o con Ernest Hemingway durante un viaggio da Cipro a Israele. Altrei incontri che ricorda volentieri Murzi li ebbe inoltre con Diego Valeri e con Adonis, il poeta siriano vivente a Beirut, uomo di alta spiritualità e di vasta cultura. Alcune delle sue pagine più significative il nostro autore le scrive però sul deserto, del quale dice: “Il deserto è poesia allo scoperto, cristallizzazione dei ricordi, calcinazione della vita”. E soggiunge: “Calarsi nel mondo dei nomadi è spesso entrare nel mondo dell’immaginazione, anche se essi tengono in modo stabile rapporti di scambio con gli uomini del mondo organizzato”. Grande è poi la meraviglia che desta nel nostro scrittore la vista delle pitture rupestri dei Tassili, testimonianza di uomini vissuti migliaia di anni prima di noi, che ancora ci trasmettono il loro messaggio. Tra le cose che maggiormente hanno affascinato Murzi nei suoi viaggi vi è inoltre la cucina dei vari popoli, con le sue specialità, come la bugàza e la paghidàkia greche o come la molokèia e il kebab arabi, piatti gustosi, che costituiscono un mezzo d’incontro tra uomini e culture di Pesi diversi e anche un’occasione per meglio conoscersi e comprendersi, fraternizzando in un momento di serenità conviviale. I rapporti di maggiore importanza, quelli che hanno durevolmente inciso sulla sua formazione e hanno lasciato in lui un’impronta indelebile, Murzi li ha avuti però con Giuseppe Ungaretti, che è stato suo professore nell’Ateneo romano La Sapienza e del quale ampiamente parla in questo libro, dove ricorda come lo colpì dapprima il suo modo di leggere i poeti, sillabandone i versi, per farne intendere appieno il senso riposto. Murzi ricorda poi come alle lezioni facesse seguito per Ungaretti la conversazione con gli allievi,
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che avveniva durante il ritorno a casa e che dava luogo ad ulteriori approfondimenti. Ed erano le sue vere e proprie lezioni di vita, oltre che di letteratura. Altri memorabili incontri Murzi li ha avuti specie ad Alessandria d’Egitto, città dove visse Costantino Kavafis, grande poeta greco della diaspora, autore di poesie quali Mura; Aspettando i barbari; I cavalli di Achille; Il dio abbandona Antonio; Itaca; ecc. che sono tra le più alte del Novecento e non di esso soltanto. Ad Alessandria Murzi conobbe Tawfiq al – Hakim, autore di Quelli della Caverna, ma soprattutto conobbe Nagib Mahfuz (premio Nobel per la letteratura nel 1988), del quale tradusse il romanzo Il rione dei ragazzi. Mahfuz è uno dei maggiori narratori di lingua araba, autore di più di trenta romanzi e di più di cento racconti. Murzi ebbe un lungo colloquio con lui in un caffè del Cairo, dove avevano concordato l’appuntamento. Parlarono di attualità e di cose dello spirito e nel congedarsi si abbracciarono, consapevoli che quello era il loro primo ed ultimo incontro. Un altro incontro importante del quale Murzi fa menzione nel suo libro è quello che egli ebbe con Marguerite Yourcenar, scrittrice di grande talento, accolta all’Accademia di Francia e autrice di Le memorie di Adriano. Murzi la conobbe a Venezia e con lei viaggiò verso la Grecia. Della Yourcenar Murzi tradusse una raccolta di poesie, edita in Italia da Bompiani nel 1987. Di molti altri incontri e di viaggi si parla in questo libro, nel quale Murzi racconta le sue esperienze di “poeta giramondo”, come è stato definito. E invero quelle di cui egli ci fa partecipi in Di mare un cammino sono esperienze vissute con lo spirito del narratore e insieme del poeta, nelle quali con grande sensibilità rivive il tempo andato offrendoci pagine tutte godibili, nelle quali la concreta realtà e la poesia trovano una sintesi di indubbia efficacia. E si tratta di pagine che degnamente si aggiungono a quelle, assai numerose, che egli è andato scrivendo nel corso degli anni. Elio Andriuoli
ISABELLA MICHELA AFFINITO AUTORI CONTEMPORANEI NELLA CRITICA II Volume, Casa Editrice Menna, Avellino 2016, Pagg. 216, € 20,00 Isabella Michela Affinito è una autrice fine ed erudita, i cui interessi spaziano dalle lettere alla pittura e alla cinematografia. Dopo una sessantina di opere pubblicate non stupisce questo ennesimo li-
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bro. Ha messo insieme (per una seconda volta) quasi 70 autori, a maggioranza uomini, alcuni recensiti più di una volta. È riuscita in un certo senso a fare interagire poeti e scrittori che figurano su varie testate, trasformando queste in una sola grande rete. Questo lavoro è considerato come parte del suo patrimonio culturale, per la cura dedicata anche alle copertine raffigurate. La critica alla critica è rischiosa, tuttavia ci provo ugualmente. Autori contemporanei nella critica, permette di varcare un cancello, come specifica il sottotitolo, “Percorsi di critica moderna”. Possiamo camminare per due itinerari almeno: in uno, scopriamo il sipario sul panorama letterario perlopiù sconosciuto che man mano viene alla luce, scoprendo ansie e sogni, impegni civili e umani, e temi di vario genere dei nostri tempi; e, nell’altro, varchiamo l’animo dell’Autrice, per i valori da lei maggiormente evidenziati, e quindi scopriamo i parametri su cui fa leva. Argomenti che è bene conoscere se si vuole dare una misura al giudizio critico, che anche noi pronunciamo, tra quello che è il vissuto del nostro intimo io e quello che si riflette nei testi dell’altro, il che vuol dire porsi con rispetto alla lettura degli altri; quindi significa seguirne il percorso. Forse basterebbe prendere un paio di riviste per conosce a grandi linee ciò che si muove all’orizzonte, ma la visione d’insieme focalizzata di un solo critico mette a nudo particolarità proprie del critico stesso; ed entro certi limiti anche il rapportarsi con se stessi in una sorta di rispecchiamento, o di contrapposizione. Certamente quanto detto vale per tutti, critici e scrittori; perciò nel caso specifico, perché le parole non siano solo fiato, proveremo a individuare alcune direttrici. Michela Isabella Affinito inquadra gli autori recensiti per provenienza geografica, professione, formazione culturale, stile e contenuti; come è naturale. Nondimeno, attratta dalla mitologia greca, dal culto della famiglia, dall’amore cristiano, predilige il sogno e l’incanto, trova occasione per citare filosofi, scrittori, pittori e più di tutti Emily Dickinson e Vincent Van Gogh; perciò usa metafore dal lessico pittorico con sfumature e gradazioni, come ama dire. Offre così un ampio panorama sugli Autori. Il posto d’onore spetta a Karol Wojtyla salito al soglio pontificio con il nome di Giovanni Paolo II, divenuto Beato e presto elevato a Santo, con dedica e recensione. L’elenco completo degli autori, in ordine alfabetico, è il seguente: Agnelli Renza, Alaimo Franca, Angelone Antonio, Barzaghi Eva, Battaglia Lucia, Bava Guido, Biondi Adalgisa, Bruno Anna, Calabrese Franco, Cammarata Michelangelo, Cara Do-
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menico, Carfora Ciro, Cauchi Tito, Cellupica Nino, Conti Franco, De Angelis del Medico Antonietta, De Rosa Luigi, Defelice Domenico, Degl’Innocenti Roberta, Delpino Marco (omaggio a Fabrizio De André), Demarchi Silvano, Di Ianni Ida, Epifani Furno Maria Teresa, Fiumara Francesco, Francischetti Pasquale, Frenna Gabriella, Funaro Morabito Concetta, Gelli Licio, Iannacone Amerigo, Ianuale Gianni, Izzi Rufo Antonia, Lagravanese Salvatore, Lenisa Maria Grazia, Lepre Flavia, Liuzzo Maria Teresa, Luongo Bartolini Giuseppina, Lupi Gordano, Mandolfo Santo, Manitta Angelo, Mansuino Flavio Edmondo, Manzi Carmine, Marionni Katia, Mastrodonato Pantaleo, Mastrominico Antonio, Menna Nunzio, Morello Gianna, Mosca Adriana, Mulas Giovanna, Muscarella Vincenzo, Nanni Luciano, Orza Corrado Nunziata, Paraschiva Gilbert, Pumpo Luigi, Risica Giuseppe, Rossi Vincenzo, Sallustio Salvemini Cosmo G., Scarpa Adriana, Selvaggi Leonardo, Somma Luciano, Squeglia Maria, Statello Salvatore, Stracuzzi Giuseppe, Tognacci Imperia, Trimarchi Andrea, Vetromile Giuseppe, Villa Giusy. Tito Cauchi
FRANCO OLANDINI ALTRE STAGIONI Il Convivio Editore, Castiglione di Sicilia (CT) 2017, Pagg. 120, € 12,50 Franco Orlandini è nativo di Ancona (1935), grazie alla sua professione di insegnante ha sviluppato un rapporto speciale con la comunicazione, ha una lunga esperienza di collaborazioni e pubblicazioni letterarie, la più recente delle ultime è la silloge Altre stagioni, con in copertina un suo Paesaggio naturale, appena percepibile, in pastello (così sembra). Nella prefazione, Giuseppe Manitta spiega che le altre stagioni si riferiscono a quelle dell’anima, variegate e vissute in maniera atemporale che si rispecchiano nelle descrizioni e nel suo stile. Difatti nelle visioni di Orlandini è presente il paesaggio fatto di ombre e stati d’animo in perenne attesa, è senza futuro, rimanda all'inconscio. L’ ambiente langue come le onde querule che lambiscono gli scogli; silenzi assurdi evocano lontane presenze, eventi di “naufragi negli abissi”. La superficie del mare mette paura, sembra mortificare le nostre coscienze. Tutto si snoda nel volgere delle albe e dei tramonti, sotto il sole e sotto una cappa di stelle; rifioriscono e sfioriscono le piante. C’è una sorta di osmosi nella natura; cielo, terra, mare e tutte le creature ne sono il linguaggio che a volte non comprendiamo, perché siamo diventati duri d’animo. Il
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Poeta ne aspira la fragranza e ne soffre la desolazione, la trascuratezza, la violenza, le speculazioni finalizzate al profitto egoistico. Poesia intensamente sociale che mantiene toni carezzevoli pur trattando dei drammi che affliggono il nostro tempo, come nell’Africa, terra ricca di materie prime, ma povera socialmente, in cui i popoli sono abbandonati a se stessi. Le descrizioni evocano la desertificazione dei porti trascurati, delle imbarcazioni lasciate a secco, delle darsene vuote. La desolazione si insinua nel cuore: “Per lungo tempo rimase serrato/ della mia solitudine il cancello…/ (…)/ E vennero la tua mano, ed il soffio,/ ad aprire il cancello…” (pag. 34, le sospensioni entro i versi sono nel testo). Eppure le visioni del Poeta sono beatificanti, il lessico è delicato, così: il vento alita, il colore è roseo, le figure appaiono nelle sembianze, le nuvole sono leggere come piume, il suono è prodotto da un auleta, gli zampilli sono tenui, il buio è fatto di penombra, la vista è gratificata da grappoli di glicine, lui è un solingo viandante, mete ed orme sono effimere; e poi ci sono aneliti, riverberi, vane attese, ci sono la nostalgia e più di tutti lo spettro del dubbio. Franco Orlandini invoca la misericordia di Dio perché tocchi il cuore degli uomini, e vengano meno gli arricchimenti a spese dei più poveri, spariscano le droghe, le disparità sociali. Perciò la stagione auspicata è quella dell’anima affinché renda veramente fratelli tutti gli uomini, che “non neghi il sorriso ad ogni bimbo;” (pag. 100). Si rivolge ora alla poesia che non lo ispira, è velato da pessimismo, d’altronde “Nel passato il poeta celebrava./ Ma, nell’epoca nostra,/ chi o che cosa è degno/ d’ essere celebrato?” (pag. 99). Tito Cauchi
IMPERIA TOGNACCI ANIME AL BIVIO Edizioni Giuseppe Laterza, Bari 2017, Pagg. 256, € 20,00 Imperia Tognacci, di professione insegnante, è poetessa e scrittrice di lungo corso, ha collaborato a riviste culturali, guadagnando stima e riconoscimenti di pregio; adesso propone Anime al bivio. Nella prefazione Francesco D’Episcopo richiama, l’attenzione sul nome della protagonista, Annunziata: “letterariamente e religiosamente profetico”, che alla morte del genitore si rifugia nel Padre Celeste, mettendo in discussione il “difficile rapporto tra sacro e profano”. L’editore Giuseppe Laterza nella presentazione dichiara di compiacersi del percorso letterario della Nostra che ha raggiunto mete ambi-
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te. Giudizi concisi, quanto esaurienti. I cinquantuno capitoli hanno un registro narrativo riposante, gradevole ed equilibrato; hanno un andamento narrativo lineare e descrizioni naturalistiche degne di pittura. Immagini ricorrenti sono cielo e mare, simboli di infinito e di evasione. Questo humus si riflette nell’animo dei personaggi, come avverte la stessa Autrice (pag. 12), che si rivela voce critica, nei frequenti interventi razionali psicosociologici; e nelle citazioni letterarie anche in francese, artistiche e storiche, fatte pur con moderazione. L’opera apre con il periodo storico degli Anni Venti del secolo scorso, che hanno segnato la storia dell’Italia, e si conclude con gli Anni Settanta (all’incirca). Imperia Tognacci è puntuale, sia riguardo a località indicate, grandi e piccole, perfettamente identificate attraverso loro caratteristiche, come se mostrassero un’impronta (tanto in Piemonte in prossimità di Vercelli, tanto a Roma in zona Prati e così pure in Belgio soprattutto l’area carbonifera di Marcinelle, tristemente nota); sia riguardo ai personaggi, cominciando dal giudice Giacomo, uomo integro che rappresenta la coscienza critica civile, che non scende a compromessi, sposa Rina, sua governante, dalla quale ha i figli Tina, Tiberio, Vittorio, Laura e Annunziata. L’ultima delle quali, completa la propria parabola della vita, Annunziata si rivela coscienza critica religiosa: prende i voti a Roma, facendo atti di sottomissione fin quando, non potendone più, riesce a farsi trasferire in Belgio; in seguito per ritorsione è fatta tornare in Italia, così si convince di rinunciare all’abito religioso per conflitti interiori “tra sacro e profano” per lo strapotere dell’ordine ecclesiale, pur non mettendo in discussione la fede. E, proseguendo, la Nostra traccia il profilo umano di un ventaglio di figure che girano intorno, come la umana Madre Superiora Lina, belga, e la superba Madre Superiora Monica, baronessa fiorentina sulla quale si alzerà un sipario; le consorelle e alcune collegiali. E ancora, giusto per farne esempio, tratteggia il tempo storico; come quando il Giudice condivide con l’ing. Remo Remigi, amico fin dall’ infanzia, la preoccupazione per l’oppressione politica che mette il bavaglio, a colpi di manganellate da parte di “squadristi”, nell’acquiescenza del Re Sciaboletta, così soprannominato per via della sua bassa statura; oppure quando commenta circa l’ indottrinamento che subivano i bambini da parte del regime fascista; e ancora, come a Roma, per la penuria degli alimenti, perfino i gatti scomparivano dalle strade, e manufatti di metallo, tra cui molte campane, venivano requisiti per gli armamenti. Imperia Tognacci riporta notizie di olocausto di ebrei
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e di altre etnie, una citazione sui “vagoni piombati” diretti alle camere a gas, di Francesco Fiumara (a pag. 82, direttore de La Procellaria, morto alcuni anni fa). L’opera dà uno scossone alle coscienze quanto mai necessario nel tempo attuale attraversato da eventi biblici: se la libertà non ammette lucchetti, se promettiamo il bene tutti i giorni, poi non dovremmo chiudere il cuore a doppia mandata, perciò ci troviamo come Anime al bivio. Basterebbe fermarsi fin qui, perché abbiamo già accennato circa l’epilogo, ma giova rivisitarne qualche passo. Intanto la vita trascorre, i figli del Giudice crescono con le loro aspirazioni e le incombenze quotidiane. Tina, la primogenita, assisteva la madre nella conduzione domestica, non concedendosi distrazioni. Tiberio, conseguito il diploma, parte per l’America, in seguito rientrerà. Vittorio per via della sua somiglianza con Amedeo Nazzari aveva partecipato come sua controfigura. Laura aveva una bella voce di soprano quando cantava le canzoni di Nilla Pizzi, Claudio Villa e di Beniamino Gigli; avrà un rapporto confidenziale con la sorella minore. Annunziata sente la vocazione religiosa, benché suo padre tenta di dissuaderla; fin quando dopo la sua scomparsa, trovato morto a letto, lei varca la soglia del convento della congregazione belga per seguire la vocazione. Trascorrono i sei mesi di postulato, l’anno di noviziato e finalmente giunge il momento della vestizione. Nei primi anni la neo suora segue gli studi del Magistrale, con buon profitto, e intanto si occupa della scuola materna; si ammala di pleurite per mancanza di riscaldamenti, rischiando la polmonite. Ristabilita è piena di iniziative ma non viene per niente incoraggiata. “Ancora pesanti le discriminazioni verso le donne, che non solo non avevano diritto al voto, ma, a parità di punteggio, venivano superate dagli uomini nei concorsi pubblici” (pag. 91). Annunziata richiamava una citazione di Virginia Woolf sulle rivendicazioni femminili, sul pensiero che non accetta lucchetti; rifletteva sulle meditazioni di Sant’Agostino. Per la sua cultura veniva osteggiata dalle consorelle e destinata ad altra classe; tenace si laurea con il massimo dei voti. Nell’Istituto si registrano episodi riguardanti le collegiali e le giovani insegnanti laiche che poi prenderanno le loro strade per l’Italia o all’estero. Abbiamo confidenze pruriginose fra le collegiali. Le suore belghe, tra cui l’amata Madre Generale Suor Lina, vengono collocate nel pensionato, e sostituite da suore fiorentine, snob e classiste. La nuova Superiora, Monica, si rivela autoritaria oltre misura. Fa eccezione suor Adele, nobile fiorentina, che nutriva ammirazione verso Annunziata, perciò
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fa di tutto, per aiutarla a farla trasferire in Belgio, suscitando l’astio della superba e invidiosa Superiora che non mancherà di vendicarsi mettendola in cattiva luce. Difatti suor Annunziata giunta in Belgio, a Namur, alla prima occasione verrà trasferita, a Charleroi, reclamata dalla Superiora della città come assistente delle famiglie italiane e insegnare ai loro bambini. Imperia Tognacci non manca di scrivere con commozione queste pagine. Nel circondario di Borinage, area delle miniere carbonifere, operai italiani lavoravano e vivevano in misere baracche di lamiera, precedentemente utilizzate per ospitare i prigionieri di guerra; secondo accordi fra i due Governi, gli italiani erano cinquantamila, tra contadini e manovali. Suor Annunziata era molto attiva, aveva trovato la sua dimensione vocativa, sentendosi utile, lavorava in condizioni molto precarie e si spostava a piedi sotto qualunque tempo. In quell’area, precisamente a Marcinelle l’8 agosto 1956 avviene una memorabile disgrazia a seguito del crollo in una galleria, in quell’inferno ci furono 262 vittime, la metà delle quali erano italiani. Un lutto italiano che si aggiungeva al naufragio della Andrea Doria (25 luglio 1956). Trascorsi dieci anni in Belgio, Annunziata viene richiamata in Italia, dalla arrogante Superiora Monica per essere destinata a Firenze, non come insegnante ma come sorvegliante: questa era la sua punizione. Dopo qualche anno fu richiesta dalla preside di Terni che reclamava una laureata in Lettere per la scuola magistrale. Sempre ben voluta dalle collegiali veniva malvista dalle gerarchie, finché decide di dismettere l’abito religioso ma di non tradire la sua vocazione missionaria. Anime al bivio, più che il mistero del romanzo, presenta un esempio di analisi psico-sociologica, una denuncia del clima che si respirava durante il regime fascista e anche denuncia di quanto continua ad avvenire nei conventi e nei luoghi dove si eserciti il potere, specialmente a danno dei più deboli e delle donne in particolare. Imperia Tognacci dà una visione realistica della vita, di come si stia sempre a dovere scegliere, grandi e piccoli. È come se avesse scritto con il sangue e con lacrime. Intensa è la partecipazione che l’avvicina alla protagonista, Annunziata, sia come donna, sia nei suggerimenti pedagogici. È parimenti capace di umanizzare alcune figure, viste sotto luce diversa, come nel caso dei primi amori delle giovani donne o della superba superiora Monica. Questa, in effetti, era nata da una famiglia poverissima con una triste storia, perduta la madre in tenera età, aveva avuto le sue esperienze sessuali, adottata già grandicella, era stata destinata al con-
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vento ricevendo una educazione che si doveva al suo nuovo rango di baronessa; come commenta la voce narrante, significando così che siamo tutti vittime del sistema di potere. Tito Cauchi
TITO CAUCHI SALVATORE PORCU Vita – Opere – Polemiche Editrice Totem, Lavinio Lido (Roma) 2015, Pagg. 304, € 20,00 Lavoro attento, meditato, dettagliato, imparziale questo di Tito Cauchi su “Vita, opere e polemiche” di Salvatore Porcu, studioso di problematiche sociali e ideologo dell’Ordinismo, una sorta di filosofia utopica finalizzata alla “convergenza universale”, intesa come unità d’intenti e d’azione di tutti i popoli della terra su obiettivi predeterminati che possono garantire un equilibrio sociale a livello internazionale e quindi la perenne stabilità, dell’ ordine, della disciplina, del benessere, della sicurezza e della pace sull’intero pianeta terra. L’Autore, che ha frequentato lo scrittore e pensatore sardo per due anni e mezzo, da maggio del 2002 a gennaio del 2005, ha raccolto il pensiero del Maestro in un sostanzioso volume che rende giustizia al fervore messianico a un uomo che ha trascorso gran parte della sua lunga vita (è deceduto il 2 gennaio 2005 all’età di quasi novantanove anni) a sollecitare, attraverso gli scritti, l’impegno degli uomini di buona volontà, i governanti e amministratori di tutto il mondo, a farsi paladini di “una rivoluzione pacifica”, finalizzata alla soluzione dei tanti problemi di natura sociale che, superficialmente interpretati e irrazionalmente affrontati dai detentori del potere, producono attriti, disuguaglianze economiche tra individui e gruppi… Modulato in tre parti secondo canoni classici ampiamente consolidati, la monografia ha il pregio della sintesi divulgativa della vita, delle opere e del confronto, non escluso quello polemico, con altri autori. Vita esemplare, volitiva, avventurosa, ricca di fermenti culturali quella di Salvatore Porcu, sardo, nato nel 1906 a Gonnosfanadiga, in provincia Cagliari. Consegue il Diploma di licenza elementare all’età di quattordici anni (6 agosto 1920). Per la sua abilità di scrivano prestò saltuariamente servizio presso studi notarili e nel municipio del paese natale, a titolo gratuito, negli anni 1922-1923, prima di arruolarsi volontario nella Regia Marina Militare all’età di 17 anni. Da buon autodidatta si costruisce una
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solida e organica cultura che gli permette, a vent’ anni, di commemorare, con un articolo, la 1ª Regina di Italia, di conseguire vari attestati professionali, l’abilitazione a “graduato” e di coltivare, segretamente il sogno di diventare uno “scrittore efficacissimo”. Completerà il servizio militare con il grado di ufficiale (guardiamarina) a metà del secolo XIX, e viene naturale credere che, da quel momento dedicherà gran parte del suo tempo alla concretizzazione del “suo sogno”, del suo “desiderio di dare luce, pace, giustizia, scienza vera al mondo”, sorretto “dalla fede” in se stesso e nella convinzione di “essere solo ed unico al mondo”, avendo il “pregio” di essere “diverso da tutti”; un pregio che sarà stimolo a “raggiungere la verità” e a soddisfare “l’ambiziosa sete di conoscenza” che sentiva ardere dentro l’anima. Fedele per il resto della vita all’interiore stimolo a farsi apostolo – come egregiamente documenta Tito Cauchi - di un ideale di “ordine, pace e giustizia” a livello mondiale, fondato sul principio della solidarietà e della fratellanza universale, contro ogni forma di intolleranza, autoritarismo dittatoriale, politicismo sterile e economia che crea disparità fra i membri della collettività internazionale, si dispone a tracciare le linee programmatiche di una teoria sociale, apparentemente utopistica oggi, ma possibile a realizzarsi nel futuro, quando gli uomini avranno preso coscienza di essere tutti, indistintamente, investiti di un dovere morale, categorico, ad operare per il bene comunitario, mondiale, in modo da eliminare divergenze e contraddizioni sul piano sociale, disparità economiche e di classe. A tal fine scrive e pubblica: L’Unione mondiale e la pace (Gastaldi Editore, Milano 1958, pagg. 112); Il pensiero dell’ordinismo (Arti Grafiche N.E.M.I., Roma 1967.pagg.230); I precetti dell’ordine – Codice Morale Universale (Ed. dell’Unione Universale di Convergenza, Anzio 1977); La Convergenza Universale, (Nettuno 1980) - che richiama propositi e concetti già espressi ne Il pensiero dell’ Ordinismo; La divinità e l’indiverso (Supplemento al n. 3/4 della rivista La cultura nel Mondo, Roma 1986); Come eliminare la disoccupazione (Ed. dell’ Unione di convergenza Universale, Nettuno 1997); Con gli assetati di Ordine e Giustizia (Ed. dell’ Unione di convergenza Universale, Nettuno 1999); Per la creazione dell’indispensabile ordine mondiale (Nettuno 2000), tutte opere che, accompagnate da interventi e dibattiti su prestigiose riviste, lo proiettato nella dimensione del filosofo e sociologo di fama internazionale. Accanto al fervore propositivo e divulgativo di idee e concetti tendenti a risvegliare, in primis, la coscienza dei governanti sull’urgenza di porre freno alle tante disfunzionalità
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istituzionali e di affrontare e risolvere problemi inderogabili come quelli dell’equità sociale e della disoccupazione, Salvatore Porcu venne spesso coinvolto in aspre polemiche con soggetti pomposamente naviganti sulle onde nell’ateismo e nell’ anarchismo, per i quali, la soluzione dei tanti problemi che affliggono l’umanità, unicamente imputabili al sistema capitalistico, non possono essere risolti se non con il ricorso alla distruzione delle cause generatrici dei mali che irretiscono e mortificano le classi lavoratrici, le persone e le famiglie che vivono in perenne stato di precarietà economica. Forte della sua fede religiosa e della bontà delle sue idee, l’intellettuale sardo non ha avuto difficoltà a controbattere gli avversari, ancorati al pregiudizio dell’asocialità, dell’amoralità e della “legge del profitto” unilaterale, privato, del sistema capitalistico. Non sempre è del tutto necessario costruire o ricostruire un edificio sociale sulle macerie che si lasciano dietro le “rivoluzioni” che fanno ricorso alla violenza. Ci sono vie e metodi pacifici, ordinati, programmati, concordati per uscire dal pantano in cui le nazioni affondano quando sono governate da gente imbelle, impreparata, egoista, rissosa, inaffidabile e menzognera. Un bel libro, dunque, questo di Tito Cauchi. Corposo e ben strutturato, di piacevole lettura per i requisiti di esposizione chiara, meditata, motivata da istanze di elevato livello culturale, rende onore e giustizia alla figura e al pensiero di un autentico idealista, a un puro di spirito, che ha nutrito per tutta la vita la speranza del “miracolo”, ossia il ravvedimento dei “Grandi” (oggi diremmo dei “politici) che tengono in mano le redini del potere, la loro conversione agli ideali che danno serenità, sicurezza e benessere all’umanità intera, dal momento che i mezzi necessari non mancano: basta saperli utilizzare con ragionevolezza, onestà, equità e senso di responsabilità nell’esercizio delle funzioni regolatrici del benessere generale, superando ed eliminando, con un alto senso del dovere e di propositi altruistici da parte dei politicanti “piglia tutto”, gli alti steccati innalzati tra le caste, le classi sociali più deboli e gli “assetati di ordine e giustizia”. Antonio Crecchia
IMPERIA TOGNACCI ANIME AL BIVIO Edizioni Giuseppe Laterza, 2017 - Prefazione di Francesco D’Episcopo, Presentazione di Giuseppe Laterza - Pagg. 256, € 20,00 Chi ci conosce sa che, fin dall’inizio della nostra attività letteraria, abbiamo deciso d’interessarci cri-
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ticamente dei cosiddetti Minori e moderni (e così ci consideriamo), più che dei Grandi - del passato o del presente -, giacché di questi straripano le biblioteche di tutto il mondo. Perché costoro - i Grandi non hanno bisogno di noi e perché pure i Minori sono importanti; se i Grandi sono i campioni, i Minori sono i gregari e i portatori d’acqua. Anche Lionello Fiumi ci sembra avesse lo stesso concetto: “io non sono già per affermare che tutto va per lo meglio nella migliore delle poesie possibili - scriveva in Parnaso amico -, né che il Novecento ha generato un novello Alighieri; dico che anche Dante aveva intorno a sé cantori che gli sottostavano di parecchie spanne, e che pure questi Guido Guinizelli Guido Cavalcanti Lapo Gianni Dino Frescobaldi Cino da Pistoia vivono e si leggono per ancora con fresco diletto”. Aggiungendo che, tra l’ Himalaya e una collinetta, ci sono moltissimi altri monti e colline di varie altezze e che, perciò, chi non è l’Himalaya, non è detto che debba considerarsi “un ameno collicello (...) e nulla più”. Anche Imperia Tognacci è considerata una Minore e moderna, ma la sua poesia (da Traiettoria di uno stelo a La notte di Getsemani, da Natale a Zollara a Odissea pascoliana, da La porta socchiusa a Il prigioniero di Ushuaia, da Il lago e il tempo a Il richiamo di Orfeo, da Nel bosco sulle orme del pastore a Là dove pioveva la manna) e la sua prosa (dai romanzi Non dire mai cosa sarà domani, L’ ombra della madre e il recente Anime al bivio, al saggio Giovanni Pascoli/La strada della memoria) si leggono e sempre si leggeranno, ne siam certi, “con fresco diletto”. Com’è giusto non svelare la trama di Anime al bivio, altrettanto giusto è assicurare il lettore del caldo coinvolgimento del romanzo e della pluralità di temi in esso trattati o semplicemente accennati. Temi per lo più sociali di un recente passato o ancora attuali e situazioni difficili in una società in continua evoluzione; bene e male che, come sempre, s’intrecciano, prevalendo ora l’uno, ora l’ altro e rendendo le vicende della protagonista Annunziata - e di coloro che nella storia l’affiancano o semplicemente vi compaiono per subito sparire - simili allo scorrere delle acque di un fiume, ora brillanti di luce, ora opache di ombre, sempre e comunque palpitanti di amore. E temi sono, per esempio, il credere erroneamente di avere un assoluto diritto di possesso sopra un parente (figli compresi) o un sottoposto (Giacomo, per esempio, si introduce nella cameretta di Rina e la violenta e qualunque poi sarà lo sbocco della vicenda, nel modo in cui si verifica, sempre di prepotenza e di violenza si tratta); la violenza del fascismo contro ogni forma di democrazia e di libertà
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(le uccisioni dei recalcitranti o di chi semplicemente la violenza denunciava); Lara costretta a chiedere la dispensa e rinunciare ai voti per l’ottusità di una Madre superiore - Monica -, lontana dallo spirito cristiano e vittima, a sua volta, di solitudine e violenza sessuale... Vicende singole o collettive, tutte presentate con naturalezza, senza enfasi e senza retorica, anche quando difficoltà e contrasti sono particolarmente forti, come il tenace rifiuto del genitore perché Annunziata si facesse suora. Tina, Tiberio, Vittorio, Laura, Giacomo: ognuno è vivo nel proprio carattere e nei propri trasporti, tutti protesi a raggiungere un meta, un traguardo; vite brevi o lunghe, positive o negative totalmente o parzialmente, ma vive. Imperia Tognacci non ama attardarsi su analisi ampie e meticolose dell’io; quel che deve dire sta nella leggerezza e nella fluidità del racconto, senza arzigogoli e solennità retoriche. È così allorché narra di Annunziata, la quale, grazie all’opera di altra suora e di un monsignore, non perde la fede, cambia convento e ritrova se stessa e un po’ di quiete; è così quando accenna ai minatori in Belgio e al “lavoro missionario che aveva sognato: il contatto con la povera gente, uomini, donne, bambini, un po’ timorosi, ma contenti di essere compresi nel loro dialetto”; è così per la tragedia dell’8 agosto 1956 a Marcinelle, costata la vita a 262 minatori, dei quali 136 italiani... Tognacci introduce la storia vera nella narrazione romanzata, per dirci che tutto, a ben riflettere, è vita vissuta, mai pura fantasia, mai stacco dal reale. A un certo punto si incontra pure un caro e indimenticabile amico: Francesco Fiumara, il quale, per più di un cinquantennio, ha diretto La Procellaria, rivista tra le più interessanti e prestigiose d’Italia, sulle cui pagine abbiamo incontrato per la prima volta il nome di Imperia Tognacci. In Anime al bivio, la scrittrice riporta, del Fiumara, gran parte di una delle più toccanti poesie: “La lettera del fante”, facente parte della raccolta Le favole hanno occhi di pietra. Infine, in Anime al bivio, costante è il canto della natura, con la sua luce, i colori, il fluire degli elementi, l’anima vivificatrice del vento: “L’imbrunire era il momento che le dava un senso di calma: declinava l’intensità della luce, e anche la natura, come il cielo si intridevano di colori più tenui, dorati come se tutto il creato si concedesse una pausa, nel placarsi della corsa del giorno”; “C’era il sole quella mattina, le foglie degli alberi filtrati dai raggi emanavano luce e un richiamo alla vita, alla gioia. Le erbe, i rampicanti, i fiori, forme di un progetto che si rinnova nel vento che non ha tregua, sembravano invitare a uscire, a immergersi in quell’aria cristallina”.
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Ore di piacevole abbandono, la lettura di Anime al bivio, ma non solo, giacché molte storie narrate strizzano il cuore; certe vicende, infatti, erano ancora realtà negli anni della nostra infanzia e della nostra giovinezza, quando i figli dovevano dare del voi ai genitori, la cui volontà era legge indiscussa; quando molte fanciulle- ancora negli anni sessanta venivano coartate a farsi suore - non per libera scelta com’è di Annunziata - o altre, violentate, costrette a sposare il violentatore nel cosiddetto matrimonio riparatore (viva è pur oggi in noi la ribellione di Franca Viola, la giovane di Alcamo, la prima e vera eroina che denuncia il suo stupratore); quando gli Italiani emigravano all’estero per un tozzo di pane, finendo spesso in fondo al mare (come capita oggi ai tanti affamati che partono dall’Africa) o inghiottiti per sempre nelle budella nere di una miniera. Imperia Tognacci, insomma, narra con leggerezza apparente e ci costringe a pensare. Domenico Defelice
FRANCO ORLANDINI ALTRE STAGIONI Poesie - In copertina, a colori, “Paesaggio”, dello stesso autore - Prefazione di Giuseppe Manitta - Il Convivio Editore - Pagg. 116, € 12,50. Composizioni per lo più brevi o brevissime e un verso nitido e umoroso, animato di tenui brusii; sensazioni labili, che sfiorano appena per poi svanire sostituite da altre. Umidore. Tra i tanti soggetti e oggetti di questi autentiche pitture, a dominare è, infatti, l’acqua, o la sua immagine, o la sua percezione, quasi mirabile sogno “a sfiorare il recinto degli scogli”. “Mi parlava d’un porto senza venti, d’acque verdastre, volto all’Infinito, e verso estreme rarefazioni, dove avvengono approdi, e ancor più le partenze, nel silenzio, senza striscio di gomene o catene.” (Un porto lontano) Un’acqua di mare, ma anche di “Stagni scuri” e di paludi; acque limpide, a volte, come quelle che danno “Riflessi d’altro azzurro” in certi occhi, più spesso corrose, rugginose, da infradiciare e distruggere lentamente, come i “ristagni melmosi delle sponde”. Acquosa, a volte, è pure l’aria, che rende “le vetriate cristalline”. Versi brevi - dicevamo -, che attirano golosi come le ciliege, popolati di ulivi, “giovani pioppi, come piume”, uccelli, la luna, la civetta irridente e queru-
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la, rose, girasoli e grilli, sterpaglie, “cetonie e macaoni” e un vento sempre umanizzato, “che si slancia, scorrazzando”, che incita nuvole e cime; colline ondulate e terra quasi sempre smagata: “Mite la terra, dove acqua e cielo s’amano nella luce del mattino; dove scendono giorni sopra il verde sensibile che fluttua nei suoi prati. Corre coi venti il giorno adolescente, lungo il ruscello, indocile; e gli stormi che tornano alla terra, risaluta su dal sommo dei colli, ove s’affaccia ombra di nubi e rapida dispare. Ma se favella con le foglie e l’acqua, favella assorto, in tutto si propaga la sua serenità virente e d’oro!” (Mite la terra) Non manca l’essere umano (la donna, i fanciulli), ma sono sempre apparizioni leggere, a volte da vere e proprie dissolvenze, giacché la loro presenza è solo intuizione, data dal fruscio d’una veste, dal fruscio dei passi, da un’andatura “lussuriosa e altera”, dal (e si faccia attenzione al verbo) “balenare del (...) velo”; il vecchio che attraversa la nebbia, che esce dalla sua “fonda cantina”, dalla sua afrosa sportella, e se ne va nel suo “frutteto vermiglio”, è concreto, ma, nel contempo, ha proprio la levità di un fantasma. Altro e ultimo tocco da ricordare: la sofferenza che avanza in noi e su noi, tenace e costante, come l’edera che si abbarbica a un vecchio tronco morto. Né manca la nota sociale, per la quale ci sembra particolarmente emblematica, tra le altre composizioni, “La comune casa”. Domenico Defelice
GIORGIO BÁRBERI SQUAROTTI DIALOGO INFINITO Genesi Editrice, Aprile 2017 Ricevo fresco di stampa il cofanetto con i due volumi nei quali, Sandro Gros-Piero, patron della Genesi Editrice, ha raccolto tutto (o quasi) ciò che Giorgio ha scritto di poesia. Opera di oltre 2200 pagine che è citando l’ editore:” il monumento possente e fantastico della Parola”. Opera fondamentale di uno degli uomini della cultura italiana di questi ultimi 60 anni. Opera graficamente semplice, ma elegante nella sua veste editoriale, che rispecchia naturalmente la caratteristica essenziale dell’uomo G.B. Squarotti.
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Chiunque ha scritto di poesia o di prosa, negli ultimi quaranta- cinquanta anni, e ha mandato il suo scritto al Professore Squarotti non è rimasto mai deluso, poiché ha sempre ricevuto, quantunque brevi, delle note alla pubblicazione. Non ha avuto però il Professore, la soddisfazione di godersi l’evento della presentazione, che si è fatta al Salone del libro di Torino, sua città natale, per sopravvenuto decesso ai primi di Aprile. Viene naturale, per tanto, il ricordo di questa personalità della nostra cultura. Il ricordo immediato e più vicino è quello legato alla pubblicazione del cofanetto della Genesi. Allorché seppi dell’evento editoriale, scrissi a Grosso-Piero prenotandone una copia. Contestualmente gli inviai anche la copia della mia recensione sulla sua ultimissima opera: Le finte allegorie; copia che avevo anche inviato allo Squarotti che, contrariamente al suo solito, anziché vergare i suoi ringraziamenti con la sua grafia minuta e chiara, mi scrisse in word testualmente: “caro D’Ambroseo, le sono vivamente grato del messaggio e di quanto dice di me e dei miei scritti. Mi sembra molto persuasivo e giunge particolarmente prezioso. E vero che o scritto molti libri sia di saggi sia di versi. Scrivere e sempre stato per me una gioia e un divertimento, oltre che un sostegno come alternanza rispetto alla confusione e ai drammi della storia. Con vivi saluti”. Rimasi colpito dagli errori di battitura, anche se sapevo che il glaucoma non gli dava tregua. Si era in febbraio di quest’anno. Mi ripromisi di scrivergli per sapere della sua salute. Poi in marzo, sentendomi con Sandro-Gros-Piero che non sapeva dell’ uscita delle “Le finte allegorie”, e mi chiese del recapito dell’editore, ne ebbi i suoi saluti. La cosa mi confortò un poco e non pensai più a cose cattive. Ma non era così. Il nove aprile ebbi la notizia della sua morte; un altro pezzo di bel modo letterario se ne andava via. Restava il ricordo, come ha anche detto Marina Caracciolo, di un gran signore. Vorrei aggiungere: non solo. Aveva anche una capacità. Nelle sue brevi lettere di commento alle opere che ognuno gli inviava, trasmetteva una forza per continuare a scrivere con lo stesso suo divertimento e entusiasmo. “ Caro D’Ambrosio, il Suo poemetto è davvero singolare e molto significativo: splendida l’ascesa al monte sacro e i dieci comandamenti divini sono riscritti per la suprema lezione dei nostri tempi in modo poeticamente maestrevole. Sapienza e poesia sono perfettamente armonizzati. Grazie! Con i più vivi saluti, G.B.S.” Insomma, capite: era lui che ringraziava me. As-
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solutamente eccezionale e lezione di grande umiltà. Ecco, questo è il mio ricordo di un signore sincero della letteratura italiana. Chiedo scusa a Sandro-Gros della mia divagazione, ma lo dovevo a G.B.S. questo breve ricordo di un uomo e della sua preziosissima amicizia. Tornado all’opera della Genesi Editrice dal titolo DIALOGO INFINITO, oltre alla premessa dell’editore, vi è un autentico studio di Valter Boggione, che prende ben 160 pagine, dal titolo: La sete che mai non sazia, che è un esame appassionato e puntiglioso di tutta la produzione di G.B.S. Un saggio di interesse enorme, che puntualizza, dà spunti, spiegazioni che sono possibili solo a chi ha letto e riflettuto attentamente e con la stessa predisposizione d’animo dell’autore dei versi. Vi è inoltre alla fine del secondo volume, la classica e immancabile nota biografica sull’ autore. Vi è anche però un’idea geniale dell’editore: uno spazio definito Saluto Degli Amici, nel quale molti poeti e scrittori noti e meno noti, hanno voluto lasciare un breve ricordo dello Squarotti. Esiste ancora una Tabula Gratulatoria, dove i molti estimatori del Poeta hanno lasciato a ricordo solo il loro nome. Iniziativa editoriale importante da acquisire da parte di chiunque segua la letteratura italiana e la sua evoluzione. Salvatore D’Ambrosio
ISABELLA MICHELA AFFINITO INSOLITE COMPOSIZIONI Nono volume, Poeti nella Società, pagg. 48, Edizione fuori commercio Il testo è il " nono volume" di una serie di raccolte poetiche intitolate "Insolite Composizioni". Nell' illustrazione grafica della copertina è rappresentata una delle tante versioni dei Segni zodiacali, quella del "Sagittario". Il Sagittario è il terzo segno combattivo di fuoco, differente, però, e dall'Ariete e dal Leone. Così l'autrice. <<L'idea dei Segni zodiacali... è nata in me circa un anno prima della mia tesi finale nell'Accademia di Costume e di Moda di Roma.. .Nell'ambito della mia specializzazione nella sezione grafica scelsi i dodici segni dello zodiaco nella versione classicoastrologica... Tra le tante versioni, venne fuori la 'picassiana' interpretazione personale in bianco e nero, ossia la mia serie fortunata dei dodici Segni zodiacali secondo la corrente del Cubismo>>. Le liriche della " fantasiosa collana" scaturiscono dall' "assemblaggio" dei titoli delle stesse, composte dalla poetessa dal 1994 ad oggi. A parte la prima,
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"Le sagittaire cubiste", scritta in omaggio alla copertina, tutte le altre poesie hanno come titolo solo un numero. Prima di entrare nel vivo della poetica dell' Affinito, desidero soffermarmi sulla Poesia, nel suo significato specifico, nelle sue diramazioni, nel suo incidere positivo sull'anima dell'uomo e sul retto comportamento della società. Poesia è ispirazione: un angolo ameno della natura o un nostro simile possono colpire il mondo interiore, produrre emozioni: un pesco fiorito, il mormorio del rivo, un'alba, un tramonto, le rondini in volo nell'azzurro, un cielo stellato, una falce di luna, un bimbo che ti sorride e tende le braccia per farsi abbracciare, baciare, stringere al seno, un'opera d'arte, anche una scena raccapricciante che suscita la nostra compassione o disapprovazione (una persona che soffre, ragazzi sbandati, donne violentate)... Poesia è folgorazione: spunta improvvisa e incide il suo marchio inconfondibile, incancellabile nell'intus. Ognuno di noi viene ispirato in modo soggettivo e in momenti imprevisti, in eventi e luoghi speciali, e sempre con sentimenti che esplodono dal profondo. I poeti ripudiano la guerra e lottano per la pace. La poesia, in ogni caso, in ogni circostanza, ha un'origine unica: la nostra anima. Altrimenti non è poesia. Quale il centro d'interesse della poetessa Affinito, il movente della sua ispirazione? Nell'opera, di cui stiamo scrivendo, la cultura, l'arte, la mitologia, la pittura in modo specifico, tutto quanto è attinente agli argomenti dei suoi studi, della sua specializzazione. Se nella lirica introduttiva ella si limita a descrivere, nei particolari, il disegno della copertina, la donna-centauro che "ha già vinto molte battaglie e deve solo scagliare l'ultima freccia", nelle altre liriche spazia nella memoria e nel vasto campo del suo sapere per condurci in luoghi diversi, per farci incontrare personaggi famosi in ogni campo dello scibile ed ammirarne le opere. C'imbattiamo in una carrellata di nomi illustri, città importanti, personaggi reali e immaginari, capolavori della letteratura, storie di miti, note opere di pittura e scultura: Picasso, Michelangelo, Dante, Leonardo, Canova, Omero, Saffo, Van Gogh, Monet, Proust, Klimt... Firenze, Roma, Creta, Lesbo, Atene... Piazza della Signoria, Cupola di Brunelleschi, le Madonne di Raffaello, la Venere di Milo, Amore e Psiche, la Sibilla Delfica... La Divina Commedia, Alla ricerca del tempo perduto, l'Iliade e l'Odissea, la Bibbia... Il tutto, rielaborato, espresso in stile personale, autentico, si legge con sommo interesse. Antonia Izzi Rufo
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PASQUALE MONTALTO PAROLE RICERCATE con il cuore 3° Premio Città di Pomezia 2016 - Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2017 Introduce queste numerose poesie Domenico Defelice con un titolo molto appropriato e concentrato: “Denunciando i drammi, Montalto canta la vita” con gratitudine, ed anche accettandola nonostante tutto. Il Poeta, ringraziando di avere la vita, ne mette però in risalto i contrasti: gioie e dolori, amore e dolore. Il bambino che è in noi, si rallegra della natura, e, come in un gioco/danza, sente “pace, armonia, in libertà e amore”. Ma, attorno a noi, c’è un mondo ”insicuro e disgregato”/ “Virgolano gli acefali/…/E godono e si beano/ di ogni male di ritorno/…Falsità ingiustizie pastoie/..potere virulento”, cose tutte che “abbattono la speranza” e ci fanno vivere nel terrore. Così accadono massacri, vendette, guerre, devastazioni della natura, squilibri della terra; nonché innocenza ingannata, “morte democratica”, “violenza rosa”, ingiustizie gravi: queste ultime tenute nascoste, nel più rigoroso silenzio. Solamente l’uomo onesto, dalla coscienza retta, dal cuore veritiero, resta saldo nei valori alti, anche se è difficile sia perseverarci, sia trovare amici simili a sé. Ma allora, come comportarsi? Risposta: bisogna parlare di speranza, di rispetto, di misericordia, di perdono, di bellezza la quale, più che essere donna, è sentire “parole/ amiche e sincere”, parole d’amore non del passato, ma del futuro. Perché la vita è magica, è sorpresa, come lo sono la natura e l’arte che riescono a guarire il cuore. Ed ancora, se ascoltiamo dentro di noi, sentiamo “Orme profonde di un Eros/ Che di gioia scoppia nel cuore”. Il Poeta poi definisce l’ immigrazione “globale speranza democratica”; e si rattrista sapendo che i giovani d’oggi parlano in modo molto volgare, ma soprattutto che sono in pericolo per la mancanza di lavoro, per la droga, per atti peccaminosi. L’Autore, da buono psicoterapeuta, in questi versi, ci offre un’efficace cura e un importante antidoto ai mali della vita. Maria Antonietta Mòsele
PASQUALE MONTALTO PAROLE RICERCATE con il cuore Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2017 La poesia esistenziale, quella che ripropone i va-
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lori oltre la scissione Il Croco di Aprile 2017 si apre con “Parole ricercate con il cuore” di Pasquale Montalto (terzo premio città di Pomezia 2016), dottore specializzato in psicoterapia analitica esistenziale, psicologo, psicoterapeuta e fondatore del movimento della Poesia esistenziale (M.P.E.) che con questa silloge rivela l’ importanza di una poesia attinente alla vita, non solitaria e solipsistica, che stabilisce un colloquio con il lettore oltre l’efferato individualismo di oggi. Colloquio dato anche da una chiarezza espositiva, che non scende, però, nel banale prosastico ma si mantiene vigile nella sonorità di rime irrelate come in Terrore “(...) s’invertono i poli/poche sono ancora le parole dell’amore/il cuore rimane infuocato d’ingiustizia” (pag. 15) op. cit. Come il poeta culturale anche quello esistenziale è chiamato verso quel comune impegno di renderci compartecipi delle strutture del sociale e di evidenziare, nello stesso tempo, come la forza lirica possa essere salvifica nel trasmettere i valori come amore, fratellanza e civiltà che sono il vero scopo di fare arte oggi. Montalto è convinto che la poesia può dare ancora molto a un’umanità esacerbata dai conflitti e dai vuoti esercizi della post-modernità affabulativa e incoerente, rieducando gli individui a un equilibrio che la società cancella, in sostanza fare poesia esistenziale significa adoperarsi verso uno scopo psicologico di rinnovo della personalità umana. La poesia rispetto alla narrativa ha in più questo potere: il potere di riabilitare la nostra parte nascosta, rendendoci consapevole di noi stessi e eticamente a reagire in funzione di questa positività. In una dimensione corale la lirica esce fuori dal proprio cantuccio facendosi carico dei problemi reali come ha osservato, nella prefazione, anche Domenico Defelice “La vita, almeno ai nostri giorni, è puntellata da incubi mostruosi, quali la strage al Bataclan di Parigi; la “gente depressa”; i “cadaveri/per le strade cittadine”; le “Vite bucate”, cioè le droghe; l’arte annientata, resa polvere “Sotto il fuoco dei picconi” (espressione, quest’ultima assai efficace, perché evoca armi automatiche che sparano e la ferocia dell’azione). Un mondo violento, insomma, nel quale la “morte democratica” scorrazza ghignante per le “Insicure strade democratiche”. (da “Denunciando i drammi, Montalto canta la vita”, D. Defelice, op. cit., pag. 2). Il canto della vita oltre le barriere, è un canto che ci invita a riflettere sulla funzione della poesia nell’era tecnologica, sull’importanza di una comune fratellanza nella trasmissione di quei valori sentimentali e culturali insabbiati dal progresso. È in questa funzione, oltre l’individualismo che la
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lirica assolve il suo più alto compito. Susanna Pelizza
LIBRI RICEVUTI ANTONIO CRECCHIA - Mythos il fascino del mito antico - Ed. ac <> 2017 - Pagg. 86, e. f. c.. Si tratta di un’autentica storia della mitologia in versi, chiara e accattivante, che riguarda Deucalione, Pirra, Orione, Castore, Polluce, Orfeo, Pan, Siringa, Arianna, Dedalo, Icaro, Giasone, Proserpina, Andromeda, Perseo, Bellerofonte, Pandora, Eracle, Narciso, Aracne, Dafne, Europa, Cadmo, Armonia, Antigone, Alcione, Semele; un vero tuffo nel passato e nel mito, in un tempo nel quale l’umanità era profondamente affascinata dai fenomeni della natura, a tal punto da dare a ciascuno di essi l’immagine di una divinità e la dignità della grandezza e dell’eroismo. (d.d). Antonio CRECCHIA è nato a Taverna (CB) e risiede a Termoli. Sue poesie sono inserite in numerose antologie di prestigio nazionale e pubblicate in diverse riviste letterarie. Ha ancora molte opere inedite - saggi critici e poesie - e gli sono stati assegnati oltre cento premi e riconoscimenti. Socio di varie Accademie, traduttore dal francese - Au coeur de la vie (2000), di Paul Courget; Fragments (2002), di Paul Courget; Diadème (2003), di Paul Courget; Jardins suspendus (2005), di Andrée Marik; Le poémein (2005), di Jean-René Bourlet; Mer-Océan (2006), di Andrée Marik; Sur la plage de l’océan (2008), di Yann Jaffeux -, ha avuto incontri con alunni di vari istituti e con docenti di materie letterarie che hanno preso in esame vari componimenti della sua produzione poetica, esercitando un’accurata e puntuale analisi testuale. Opere a lui dedicate: Il Walhalla di un poeta (2010), di Lycia Santos do Castilla; La maturità poetica di Antonio Crecchia nella rassegna critica di AA. VV. (2015); La sensibilità poetica e critica di A. Crecchia (2017), di Vincenzo Vallone; A. Crecchia: L’uomo, il poeta, il saggista (2017), di Brandisio Andolfi; Crecchia nel giudizio della critica (Vol. I, 2017), di AA. VV.; Crecchia all’esame della critica (Vol. I, 2017), di AA. VV. eccetera. Lungo l’elenco delle sue pubblicazioni. Poesia: Il mio cammino (1989), Soave e gentile mia terra (1992), Parole per colmare silenzi (1993), Tarassaco di nuova primavera (1994), Ascesa a Monte Mauro (1995), Lirico autunno (1998), Lo spazio del cuore (1999), Oltre lo spazio della vita (2003), Frammenti (2004), All’ombra del salice (2004), Ossezia e oltre (2005), In morte del Papa Magno
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(2005), Fiori d’argilla (2006), I giorni della canicola (2008), Nuovi frammenti (2008), I giorni della fioritura (2008), Un po’ per celia, un po’ per arte (2009), Notte di Natale (2009), Luci sul mio cammino (2009), Aliti di primavera (2010), Nei risvolti del tempo (2012), Pensieri al vento (2016), Poesie occasionali (2016), Canti di primavera (2016), Florilegio poetico (2017), Foschie (2017), Barlumi (2017). Saggistica: Dentro la poetica di Rosalba Masone Beltrame (1992, sec. ed. 1993), La dimensione estetica di Brandisio Andolfi tra poesia e critica (1994), Orazio Tanelli (1995), Silvano Demarchi: Un poeta di spessore europeo (2002), La folle ispirazione - Coscienza etica e fondamenti estetici nelle opere di Vincenzo Rossi (2006), L’evoluzione poetica, spirituale e artistica di Pasquale Martiniello (2007), Pasquale Martiniello: Poeta ribelle ad ogni giogo (2008), Carmine Manzi: Esemplarità e fertilità di una vita dedicata alla cultura (2009), La militanza letteraria di Silvano Demarchi dall’esordio ad oggi (2011), Vincenzo Vallone: Valori e ideali, realtà e fantasia (2013), Il mondo poetico di Rita Notte - un’artista della parola (2013), Brandisio Andolfi (2014), Vincenzo Rossi: Un talento creativo al servizio della cultura (2014), Carlo Onorato: La missione sociale educativa di uno scrittore molisano (2014), Lycia Santos do Castilla: La grande matriarca dell’arte espressiva (2016), Itinerario scientifico-letterario di Corrado Gizzi (2017). Ricerca storica: Taverna, ottobre 1943 (1990), Taverna - Dalle origini alla Grande Guerra (2006), Tavernesi nella Grande Guerra (2016). Teatro: Eccidio in casa Drusco (2008), Ius primae noctis (2008). ** AMERIGO IANNACONE - C’ero anch’io - Un’ autobiografia o quasi - Prefazione di Aldo Cervo; in bandelle, nota di Giuseppe Napolitano - Edizioni EVA, 2017 - Pagg. 200, € 15,00. Si tratta di una scorrevole e simpatica autobiografia, più che riferita alla persona, alla nascita e alla pubblicazione dei suoi volumi di versi e di prose, ad iniziare dal primo, del 1980. La parte migliore e succosa sono, più o meno, i primi dieci capitoletti; poi è quasi un assemblaggio di brani propri e di altri, fatto, però, con gusto, sobrio, misurato, affinché non pesi e non stanchi. L’intervento di Iannacone, a legare i vari brani, spesso è veramente estremo. Nel capitoletto “Semi”, il diciannovesimo, esso, per esempio, si riduce a non più di quattro righi. Infine c’è l’ Appendice, con una diecina di interviste, nelle quali Iannacone ha la possibilità di esprimere il suo parere su argomenti di varia natura, comprese le lingue (l’ Esperanto in particolare) e il mondo della scuola. (d. d.). Amerigo IANNACONE è nato a Venafro
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(Isernia) il 1950, dove vive, dove dirige “Il Foglio Volante - La Flugfolio” e le Edizioni EVA. Ha pubblicato: Pensieri della sera (1980), Dissolvenza incrociata (1983), Parliamo un po' di Ceppagna (1985), Esperanto, il perché di una scelta (1986), Eterna metamorfosi - Eterna metamorfozo (1987), Microracconti (1991), Ruit hora (1992), Verso il fonetismo - Evoluzione della scrittura (1994), Mater (1995), La stramma Un artigianato in via di estinzione (1997), Da Babilonia a Esperantujo – Considerazioni sulla lingua internazionale (1998), Testimonianze - Interventi critici (1998), Vincenzo Rossi e i Canti della Terra (2001), Estaciones (2001), L'ombra del carrubo (2001), A zonzo nel tempo che fu (2002), Sera e l'ata sera – Filastrocche, stornelli, proverbi, scioglilingua e altre cosette molisane (2004), Semi (2004), Nuove testimonianze – Interventi critici (2005), Stagioni (2005), Piccolo Manuale di Esperanto (2006), Versetti e versacci (2006), Cronache reali e surreali (2006), Letture e testimonianze - Interventi critici (2006), Oboe d' amore / Ama hobojo (2007), Dall'otto settembre al sedici luglio (2007), Dall'Arno al Tamigi - Annotazioni linguistiche (2008), Il Paese a rovescio e altre fiabe (2008), Luoghi (2009), L'ombra del carrubo La sombra del algarrobo (2009), Parole clandestine (2010), Prefazioni e postfazioni (2010), Poi, (2011), Matrioska e altri racconti (2011), ... E poi il Fiume Giallo (2012), A zonzo nel tempo che fu (2016). ** LEONELLO RABATTI (a cura di) - La vita come poesia Peter Russell e il Pratomagno - Ed. Minimalia, 2016 - Pagg. 64, e. f. c.. Edizione a cura del Comune di Castelfranco Piandiscò. Numerose foto a colori e in bianco e nero e, a partire da pagina 33, liriche del grande poeta, contenute nel volumetto (appena 33 pagine) Pratomagno/nine poems, Italian translation by Pier-Franco Donovan and the author, Pian di Sco’ 1994. Leonello RABATTI è nato a Reggello il 7 novembre 1960, ma vive a Prato. Laureato in Lettere moderne all’università di Firenze, è iscritto all’Ordine dei Giornalisti della Toscana. Suoi testi poetici sono stati pubblicati in riviste e in antologie, come “Poeti di Novecento” (1994) del fiorentino Franco Manescalchi, e, dello stesso, “Nostos - Poeti degli anni Novanta a Firenze” (1997). Collaboratore di varie riviste con poesie, prosa, saggistica e traduzioni di opere di scrittori latinoamericani. Ha fondato l’Associazione Peter Russell, dopo essere stato amico per lunghi anni del poeta inglese che aveva scelto di vivere in un casale - La Turbina - a Pian di Scò (Arezzo) e sul quale ha pubblicato vari contributi. Lettore in pubblico di te-
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sti poetici, conferenziere, curatore di mostre di pittura con relativa introduzione ai cataloghi eccetera. Tra le sue opere di prose e poesie si ricordano: Limite del silenzio (1992 e Destino (1995). ** ISABELLA MICHELA AFFINITO - Percorsi di critica moderna - Autori contemporanei - II Volume - Casa Editrice Menna, Avellino, 2016 - Pagg. 2016, € 20,00. Isabella Michela AFFINITO è nata in Ciociaria nel 1967 e si sente donna del Sud. Ha frequentato e completato scuole artistiche anche a livello universitario, quale l’ Accademia di Costume e di Moda a Roma negli anni 1987 - 1991, al termine della quale si è specializzata in Graphic Designer. Ha proseguito, poi, per suo conto, approfondendo la storia e la critica d’arte, letteraria e cinematografica, l’antiquariato, la fotografia, la storia del teatro, la filosofia, l’egittologia, la storia in generale, la poesia e la saggistica. Nel 1997 ha iniziato a prendere parte ai concorsi artistico-letterari delle varie regioni italiane e in seguito ha partecipato anche a quelli fuori dei confini d’ Italia, tra cui il Premio A.L.I.A.S. dell’Accademia Letteraria ItaloAustraliana Scrittori di Melbourne. Ha reso edite quasi 50 raccolte di poesie e un volume di critiche letterarie, dove ha preso in esame opere di autori del nostro panorama contemporaneo culturale e sovente si è soffermata sul tema della donna, del suo ruolo nella società odierna e del passato, delle problematiche legate alla sua travagliata emancipazione. Con “Da Cassandra a Dora Maar” (2006) ripropone le infinite donne da lei ritratte nei versi per continuare un omaggio ad esse e a lei stessa. Inserita in moltissime antologie, tra cui l’ “Enciclopedia degli Autori Italiani” (2003), “Cristàlia” (2003), “8 Marzo” (2004), “Felicità di parole...” (2004), “Cluvium” (2004), “Il suono del silenzio” (2005) eccetera. Sempre sul tema della donna ha scritto un saggio sulla poetessa Emily Dickinson. Pluriaccademica, Senatrice dell’Accademia Internazionale dei Micenei di Reggio Calabria, collaboratrice di molte riviste, è presente in Internet con sue vetrine poetiche. Tra le sue recenti opere: “Insolite composizioni” - vol, VIII (1972), “Viaggio interiore” (2015), “Dalle radici alle foglie alla poesia” (2015), Una raccolta di stili (15° volume, 2015).
TRA LE RIVISTE IL GIORNALINO LETTERARIO - Organo dell’Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori (A.L.I.A.S.), diretto da Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Avenue - Avondale Heights Vic. 3034 - Melbourne, Australia - www.alias.org.au ;
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giovanna@alias.org.au; daniel@alias.org.au - Riceviamo il numero del Maggio 2017, che colpisce subito per le grandi e belle fotografie a colori (ben 26), riguardanti gli incontri tra la comunità italiana che gravita intorno all’attività culturale di un autentico vulcano siculo-australiano: la Presidente e direttrice, Cav. Giovanna Guzzardi. In molte di queste foto, i protagonisti hanno in mano volumi editi in Australia e in Italia, e riviste amiche, tra cui Pomezia-Notizie, Il Convivio, Il Saggio, nonché la corposa antologia A.L.I.A.S. che si pubblicava annualmente (un vero peccato l’averla interrotta; ma i costi, per attività di questo genere, sono proibitivi per le tasche di chiunque, senza l’aiuto delle comunità e del pubblico). Partecipano, a questo numero, numerosi scrittori e poeti, tra cui: Giovanna Li Volti Guzzardi, Daniel D’Appio, Domenico Favata, Nilla Cosma, Rosa Mondio, Maria Coreno, Carmela Rio, Rina Rosi, Mariano Coreno, Agata Colosimo Bonfà, Teodino Ottavi, Carmela Sacco Perri, Maria Turiano Aprile, Liliana Maruccio Malfitana, Maria Raffaela Agricola, Biagio Presti, Connie Rossitto, Clementina Maddalena Pilla, Emilia Squillace Chiodo, Anna Trombelli Acquaro, Angelo Mario Cianfrone, Giovanni Belanti, Salvatore (Sam) Mugavero, Carmelina Blancato Pelligra, Paolo Mazzarella, Adriana Malfitana, Connie Sorbello Campori, Domenico Defelice, Angelo Manitta, Antonio Angelone, Giuseppe Barra, Claudio Giannotta. * IL PONTE ITALO-AMERICANO - rivista internazionale di cultura, arte e poesia fondata e diretta da Orazio Tanelli - 32 Mt. Prospect Avenue - Verona, New Jersey 07044, 973-857-1091 - USA. Riceviamo il n. 1, estate 2017, nel quale, oltre i vari interventi, in versi e in prosa, del suo Direttore, troviamo una poesia in tre lingue (inglese, portoghese, spagnolo) dell’amica Teresinka Pereira e una nota su “Michele Frenna... Simbolismo e spiritualità” a firma della nostra collaboratrice Antonia Izzi Rufo. Segnaliamo anche “Le donne nella vita di Padre Pio”, di Angelo Maria Mischitelli. * MAIL ART SERVICE - Bollettino dell’Archivio “L. Pirandello”, diretto da Andrea Bonanno - via Friuli 10 - 33077 Sacile (PN). Riceviamo il n. 98, giugno 2017, dal quale segnaliamo: “La 57° Biennale Internazionale di Venezia (2017): sperticati elogi all’Arte viva di contro alla sua fallimentare condizione e gestione”, di Andrea Bonanno; “Andrea Bonanno e Van Gogh”, di Domenico Defelice; “Arte come cultura”, di Susanna Pelizza. * FIORISCE UN CENACOLO - mensile internazio-
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nale di Lettere e Arti fondato da Carmine Manzi e diretto da Anna Manzi - 84085 Mercato S. Severino (SA) - E-mail: manzi.annamaria@tiscali.it Riceviamo il n.4 - 6, dell’aprile-giugno 2017, del quale segnaliamo il lungo saggio di Leonardo Selvaggi: “Estrosità immaginativa in sentimenti di saggezza umana e armonia poetica di Anna Aita”; una recensione di Tito Cauchi; “Nessun uomo è un’isola”, di Anna Aita; “Non calpestate i miei sogni di Marco Delpino”, di Antonia Izzi Rufo eccetera. Elegante la copertina a colori, con la riproduzione di “Spring” di Peppe Rosamilia. Numerose le poesie. Una rivista sempre giovane e che si rinnova di continuo, pur avendo bel 77 anni, una delle più longeve riviste d’Italia, insomma.
LETTERE IN DIREZIONE (Ilia Pedrina, da Vicenza) Carissimo Direttore, il tuo gaudio alla nascita del piccolo Leonardo, stupendo, nelle foto da solo ed in famiglia appena pubblicate nel numero di maggio, ha toccato una misura che tu stesso non conoscevi, prima. “ A Riccardo e agli altri che verranno”, hai scritto in versi a ritmo libero e l'Altissimo ti ha esaudito, prima con Valerio, ora con Leonardo. 'A Riccardo e agli altri che verranno': sì, un tuo canto della maturità e della fecondità del cuore, quando con Clelia avete deciso una scelta dalla quale non vi siete più scostati, nemmeno di poco. Infatti eri consapevole che ne sarebbero venuti altri ed altri ancora, perché feconda di valori è la tua terra e questi lasciano il segno, la traccia indelebile che non viene mai meno, quella dell'Amore. Dopo Riccardo, Valerio e dopo Valerio ora è arrivato Leonardo. Allora un pensiero memore mi è andato lontano, a Plinio il Giovane, che desiderava avere dei figli e non è stato esaudito. Quel Plinio che scrive a Tacito parole d'infinita tristezza e verità intorno all'eruzione del Vesuvio del 79 d. C., prima segnalando in dettaglio quanto era stato possibile raccogliere intorno agli
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eventi che portarono alla morte dello zio Plinio, il naturalista e l'ammiraglio di gran fama il giorno 25 agosto, soffocato dalle ceneri dell'eruzione a soli 53 anni; poi, nella seconda lettera, parlando in prima persona: “... quella notte invece le scosse assunsero una tale veemenza che tutto sembrava non muoversi, ma capovolgersi. Mia madre si precipita nella mia stanza: io stavo alzandomi con il proposito di svegliarla alla mia volta nell'eventualità che dormisse. Ci mettemmo a sedere nel cortile della nostra abitazione: esso con la sua modesta estensione separava il caseggiato dal mare. A questo punto non saprei dire se si trattasse di forza d'animo o di incoscienza (non avevo ancora compiuto diciotto anni): domando un libro di Tito Livio e, come se non mi premesse altro che di occupare il tempo, mi dò a leggerlo ed a continuare gli estratti che avevo incominciati... Il sole era già sorto da un'ora e la luce era ancora incerta e come smorta... Soltanto allora ci parve opportuno di uscire dalla cittadina; ci viene dietro una folla sbalordita, la quale - seguendo quella contraffazione dell'avvedutezza che è tipica dello spavento - preferisce l'opinione altrui alla propria e con la sua enorme ressa ci incalza e ci spinge mentre ci allontaniamo... vedevamo il mare che si riassorbiva in se stesso e che sembrava quasi fatto arretrare dalle vibrazioni telluriche... dall'altra parte una nube nera e terrificante, lacerata da lampeggianti soffi di fuoco che si esplicavano in linee sinuose e spezzate, si squarciava emettendo delle fiamme dalla forma allungata: avevano l'aspetto dei fulmini ma ne erano più grandi...” (Fonte: Internet). Da Plinio il Giovane a Joseph Ratzinger basta un balzo a cavallo della tigre, perché son appena passati 9 anni dalla distruzione del II Tempio sacro di Jerusalem operata duramente dall'imperatore Tito e con Giuseppe Flavio che ti racconta tutto, per filo e per segno. E quel Joshua che era nato a Nazareth, pure della stirpe di re David, sembra trasporti fino a noi il suo bisogno di trovare, in Ratzinger appunto, una nuova penna per dirsi con maggiore e più compiuta schiettezza. Allora, tutta presa da
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questa intuizione, ho quasi traslocato cose da una stanza all'altra della casa per trovare la tua importante recensione al volume 'Gesù di Nazareth', scritto nel 2007 da Joseph Ratzinger, ad un anno dalla nomina a Papa Benedetto XVI. Allora, ti prego, offrila a noi ancora questa tua visitazione del suo testo perché così potrò farne riferimenti precisi ed oculati, in sintonia con 'All'ultimo papa - Lettere sull'amore, la grazia, la libertà', di Marco Vannini. Si, 'A Riccardo e agli altri che verranno' e due son già arrivati in luce: questa Pomezia Notizie è anche per loro, come per ciascuno di noi che veniamo a costruirla, sotto la tua guida, quasi al tuo fianco. Per tutti restano i documenti di un passato che non deve essere dimenticato, soffocato quasi da plumbea cenere definitiva peggiore di quella sputata violentemente dal Vesuvio, definitiva se va a cancellare il bisogno di dignità, di coerenza, di chiarezza razionale e di senso della responsabilità individuale e collettiva che ci deve appartenere in modo inviolabile da alcunché, fosse questo anche l'orientamento del potere che spinge all'obbedienza. Si, per non lasciarci trascinare dalla diffusa contraffazione dell'avvedutezza che è generata dallo spavento... Ti abbraccio con tutto il cuore carico di gioia per la tua bella discendenza. Ilia Carissima Ilia, parecchi amici mi suggeriscono di scrivere altre poesie per Valerio e per Leonardo, come se la poesia fosse un prodotto di volontà. E si stupiscono che io risponda di no, perché finirei pure col ripetermi. Quel fortunato volumetto porta il nome di Riccardo perché Riccardo è stato il primo nipote a venire, ma Valerio e Leonardo sono, per me, esattamente come lui, hanno lo stesso posto sulla mia scala di valori e ogni verso, a suo tempo dedicato a Riccardo, è dedicato oggi a Valerio e a Leonardo e varranno domani per tutti gli altri che Dio vorrà mandarci. La condizione di nonno e nonna, si dice, su-
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pera quella dei genitori, perché si è per due volte padre e madre. Grazie, carissima Ilia, e anche a te un abbraccio. Domenico
D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE INCONTRO CON LUIGI FONTANELLA - Il 7 giugno 2017, alle ore 18.30, nel salone dell’ex CUC di Cava de’ Tirreni, in Viale Crispi 1, l’Associazione “Amici della Terza Età - Antico Borgo -” ha presentato Incontro con Luigi Fontanella. Ha conversato con l’autore Fabio Dainotti, soffermandosi sugli ultimi libri di Fontanella: Lo scialle rosso. Poemetti e racconti in versi, Moretti e Vitali; e il romanzo Il dio di NewYork, Passigli. Coreografie dell’Accademia della Danza di Gabriella e Roberta Avagliano. Coordinatore, Angelo Canora. Luigi Fontanella, ordinario di lingua e letteratura italiana e direttore di dipartimento presso la State University di New York, dirige per la casa editrice Olschki la rivista “Gradiva” e relative edizioni bilingui, per le quali ha avuto il Premio internazionale per le traduzioni; presiede la IPA (Italian Poetry in America). Tra i titoli di Fontanella, che è anche critico, narratore e drammaturgo, ricordiamo i libri di poesia L’angelo della neve, apparso nel mondadoriano Specchio nel 2009, Disunita ombra, uscito per Archinto, RCS, nel 2013 e L’adolescenza e la notte (Passigli 2015, premio Pascoli e Giuria Viareggio); il romanzo Controfigura (Marsilio, 2009); e l’opera critica Italo Svevo. La coscienza di
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Zeno (Giunti 2017).
tuoso da
*** UN GRAZIE DA AURORA DEL LUCA - Caro direttore,/ è giunto il momento dei ringraziamenti verso coloro che si sono avvicinati alla lettura di “Aspra terra e creazione fertile nell’opera di Domenico Defelice” . Tutti si sono prodigati nella lettura e hanno descritto il loro compiacimento verso questo lavoro e onorando me e la figura del poeta e dell’uomo Domenico come era negli obiettivi. E’ stata un’esperienza arricchente sotto tutti i punti di vista che mi ha dato l’opportunità di scambiare opinioni e la stessa scrittura con gli amici di PomeziaNotizie che sempre abbraccia come una “casa” le opere e gli autori che vivono in essa. Quindi rivolgo un grazie per ognuno di voi, per ogni parola o pensiero rivolto al mio saggio che continuerà a parlare di una bella letteratura, una “creazione fertile” appunto. Aldo Cervo, Antonia Izzi Rufo, Nazario Pardini, Maristella Dilettuoso, Salvatore D’Ambrosio, Natale Guzzagni, Marcello Falletti di Villafalletto, Laura Pierdicchi, Elio Andriuoli, Giovanna Li Volti Guzzardi, Susanna Pelizza, Roberta Colazingari, Giuseppe Leone. Spero di non aver dimenticato nessuno e se l’ho fatto chiedo venia, ma siete tutti nel mio cuore! Aurora De Luca 14/06/2017 *** POMEZIA-NOTIZIE DI GIUGNO 2017 - Riceviamo da Emerico Giachery, da Roma, il 13 giugno 2017: Carissimo. "Fino a quando le rondini partiranno / e ritorneranno / ci sarà ancora speranza". Vedi che ho ricevuto il numero di giugno, in cui vedo interessanti articoli (come quello su Marco Vannini, notissimo studioso dei mistici) e importanti presenze di poeti, per esempio di Corrado Calabrò, di grande e attestata fama. Sia, la tua rivista, come le rondini...Sto per partire per il "buen retiro" elbano: casa "con l'anima", sono solito dire, perché casa di famiglia di mia moglie, e arricchita di "anima" anche da noi due, dal nostro amore. Comunque i numeri estivi saranno religiosamente conservati a Roma dalla nostra portiera e li ritroveremo a fine estate. Siamo sempre reperibili on line: il computer ci accompagnerà all'Elba. Ti mando in allegato uno scritto. Se hai uno spazio da riempire nei numeri estivi e non ti sembra troppo "autoreferenziale", è a tua disposizione. Si attiene alla misura delle tre pagine. Auguri di luminosa estate a te, alla tua famiglia, ai collaboratori e lettori della rivista. Ieri è uscita la nuova edizione riveduta e accresciuta di un importante libro di Noemi su Italo Svevo per i tipi di Aracne. La festeggiamo. Un saluto affet-
Emerico Augurando all’amico e a sua moglie Noemi una confortevole estate, accennavamo al lavoro delicato e indefesso che anche quest’anno a noi tocca fare ogni mese, appesantito, però, tra luglio e agosto, dalla selezione del materiale partecipante alla XXVII edizione del Città di Pomezia; e sempre quest’anno, tra giugno e luglio, alla serie di matrimoni e battesimi ai quali dobbiamo essere presente - tutti avvenimenti piacevoli -, compreso il matrimonio più atteso: quello del nostro Luca con la sua bella Annachiara, nel santuario di Castelpetroso, in provincia di Isernia. Oggi, la posta elettronica ci consente di inviare e ricevere praticamente in ogni istante, così l’amico ci rispondeva nella stessa giornata: Capisco benissimo, carissimo Domenico, quanto sia faticoso mettere insieme da soli una rivista così complessa: Auguri di tutto cuore a tuo figlio Luca e alla sua futura sposa. Il Molise è una regione che non conosco, anche se ogni tanto mi giungono messaggi che indicano un desidero di creare incontri di cultura. A volte mi scrive Antonio Crecchia, molto operoso, che ora abita a Termoli ed è sempre tanto gentile con me, a volte mi scrive Rita Notte, che credo abiti proprio a Isernia, a volte mi perviene, anche on line, la "Flug Folio" diretta da Iannacone, che credo abiti a Venafro e ha una piccola casa editrice chiamata Eva. Mi intenerisce questo impegno culturale dei piccoli centri isolati del nostro umanissimo Mezzogiorno: Se tu, o qualcuno della tua famiglia, passate da Marciana Marina nell'Isola d'Elba, fatevi vivi, e staremo un po' insieme (escluso il periodo da fine luglio a ferragosto). Basta chiedere di Noemi, elbana da secoli, e tutti sanno chi è. Ti dirò in un orecchio che Noemi, l'11 di luglio, ossia due giorni dopo il matrimonio di Luca, compirà i suoi vegeti novant'anni! Vale la pena conoscere l'Elba: è molto verde anche per merito della Forestale, che ha lavorato e lavora molto e bene. L'angelico Carmine Chiodo venne a salutarci all'Elba tanti, tanti anni fa. Marciana Marina è stata patria del nostro, forse, maggiore scrittore di mare del Novecento, Raffaello Brignetti: almeno un suo libro, II gabbiano azzurro andrebbe ristampato e rivisitato. A lui s'intitola un importante premio letterario elbano (ha premiato anche Luzi), nella cui giuria sono rimasto per quasi trent'anni. S'è fatta l'ora di andare a letto. Ancora augurio ai futuri sposini. Sono un convinto fautore del matrimonio, anche se mi sono sposato tardi, clericus vagans qual'ero per diecine d'anni, svegliando con un bacio la bella addormentata Noemi che aspettava il principe az-
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zurro, nella fattispecie "rosso", almeno di capelli, anzi ormai grigio. Buonanotte! Emerico L’illustre amico Giachery finirà con l’odiarci e col non scriverci più, perché, senza permesso, gli rendiamo pubbliche lettere che, forse, pubbliche non sarebbero. Ma noi, come Lui, abbiamo tanti legami culturali e moltissimi amici e trovare, nelle sue lettere, nomi e richiami, ci fa egoisticamente perdere di gentilezza e di discrezionalità, vogliosi che anche coloro che ci leggono possano godere di questi suoi autentici vagabondaggi memoriali. Sì, perché Emerico Giachery è stato e continua ad essere, anche in una lettera, anche nella vita quotidiana, un autentico e affascinante Promeneur dell’anima. Gli chiediamo perdono, allora - come anche alla sua gentile consorte -, confidando nella sua mitezza e nella sua magnanimità. Domenico *** UN PREMIO ALLA CULTURA A LEONARDO SELVAGGI - Leonardo Selvaggi ha ottenuto il Premio alla Cultura (ritirato, per suo conto, da Anna Aita) alla V Edizione del “Premio Beato Giustino Russolillo” - Anno 1917 - con la seguente motivazione: “Scrittore, poeta, saggista, ha ottenuto numerosissimi premi ed è collaboratore di importanti testate editoriali. Autore di una sessantina di volumi, nel 1988 gli è stato conferito il Premio Speciale del Presidente della Repubblica per la Letteratura. Il 3 giugno 1989 gli è stata conferita l’ onorificenza di Ufficiale dell’Ordine “Al merito della Repubblica Italiana”. Nasce a Grassano (Matera), Ma risiede a Torino da moltissimi anni. Dirigente superiore del Ministero per i Beni Culturali. Particolarmente gradito all’Associazione, è stato un commento su una delle più note riviste “Fiorisce un cenacolo” del libro “Don Giustino tra storia e poesia”, scritto da Anna Aita e Vincenzo Russo”. *** PREMIATA AURORA DE LUCA - Il 10 Giugno 2017, ad Abano Terme, la nostra collaboratrice Aurora De Luca ha ritirato, durante la cerimonia di conferimento del “Voci-Abano Terme XII ed. Premio Letterario Internazionale del Circolo IPLAC Insieme Per La Cultura”, il Premio di Operatrice Culturale 2017. Il comitato di Giuria, presieduto da Roberto Mestrone, ha ritenuto conferirle l’ambito riconoscimento con una motivazione nella quale si legge: “A testimonianza del talento, del competente e infaticabile impegno per la promozione della Cultura.” Complimenti vivissimi da parte della Direzione e della Redazione del nostro mensile. ***
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DIALOGO TRA DUE CITTÁ - Presso la Biblioteca Comunale “Ugo Tognazzi” di Pomezia - Direttrice Dottoressa Fiorenza Castaldi - giovedì 22 giugno 2017 s’ è svolta una conferenza sul tema: “Dialogo tra due città: Pomezia Portolago, Disegni urbani e paesaggi del Mediterraneo” (Portolago, oggi Lakki, è una cittadina dell’isola greca Lero, fondata dagli Italiani all’inizio degli anni trenta del secolo scorso). Ad introdurre è stato l’Arch. Giuliano Piccotti - Assessore del Comune di Pomezia; hanno relazionato gli Architetti Paola Ria e Lidia Tecla Sivo; è intervenuto l’ Arch. Flavio Mangione - Centro Studi Architettura Razionalista. L’avvenimento ha avuto il patrocinio del Comune di Pomezia (Sindaco dott. Fabio Fucci, vicesindaco Elisabetta Serra), della CE.S.A.R - Fondazione Onlus e del Politecnico di Bari. ***
BATTESIMO - Domenica 25 giugno, alle ore 16,30 è stato battezzato Leonardo DEFELICE. Madrina, la zia Gabriella Defelice. La cerimonia collettiva (le bambine e i bambini battezzati sono stati in tutto sette), officiata dal giovane sacerdote Padre Don Antonio Jorge Do Amor Divino, si è svolta nella chiesa di Santa Maria Regina Mundi, in via Mar Tirreno 4, Pomezia, uno dei più recenti edifici di culto, inaugurato il 10 giugno 2011 e sorto su un terreno donato, il 2 maggio 2004, dalla marchesa Cristina Nannini Pucci di Bar-
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sento. Erano presenti, oltre ai genitori Stefano Defelice e
Astore, nella stessa zona del Santuario. Alla bellissima coppia, ai
Emanuela Vignaroli, il fratellino Valerio, i nonni paterni e materni, la bisnonna materna, parenti e amici i quali, come una vasta cornice gioiosa, hanno poi festeggiato presso il ristorante agriturismo di Campo del Fico.
loro rispettivi genitori - Domenico Defelice e Clelia Iannitto, Nino Pedicino e Maria Carmela Varriano -, ai parenti tutti, gli Auguri di felicità e prosperità da parte dell’intera grande famiglia di Pomezia-Notizie.
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AUGURI AGLI SPOSI! - Il 9 luglio 2017, alle ore 13,15 nella Basilica Minore dell’Addolorata - via Santuario, Castelpetroso (IS), si è celebrato il Matrimonio tra Luca DEFELICE e Annachiara PEDICINO. Gli Sposi, contornati da una gran folla di parenti e amici, intervenuti anche da lontano, hanno, poi, festeggiato presso l’Hotel Fonte dell’
OGGI, NELLA MIA CASA, È FESTA GRANDE A Luca Defelice e Annachiara Pedicino sposi, 9 luglio 2017 Oggi, nella mia casa, è festa grande. Versiamo dalle ampolle, nei bicchieri, vini generosi e forti che imprigionano il sole; nell’allegria si anneghi ogni tristezza, inneggiamo all’amore.
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Riccardo e l’amica Camilla, han recato gli anelli con Valerio, raggiante e accalorato; Leonardo placido dorme... Naufraga l’agile tempio nella verde natura; sotto il sole scintillano le rocce. Oggi per la mia casa è festa grande. Patriarca mi sento, unto e protetto dal Signore. Tamburelli e flauti aprano le danze. Luca ed Annachiara serriamo in cerchio magico. Le salde radici d’Aspromonte ecco s’innestano alle verdi e selvagge Mainarde. Sembra lo sposo un cavaliere antico, una ninfa la sposa. Il mondo è inquieto, è vero, come fuscelli andiamo nel vortice di un vento avvelenato; ma se vi signoreggia amore, un fiore spunterà sopra ogni sterpo; frizzanti saranno i giorni come vino, la gioia un bel ruscello che dilaga. Oggi nella mia casa è festa grande. Lasciamoci irretire dai profumi che versano i boccali e s’odino soltanto risa e canti. Domenico Defelice
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