Pomezia Notizie 2018 1

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Anno 26 (Nuova Serie) – n. 1

€ 5,00

- Gennaio 2018 -

PREMIO STREGA 2017 TUTTO CORRE SUL FILO DELLA MEMORIA di Salvatore D’Ambrosio I è conclusa anche quest’anno la piece dell’assegnazione del premio letterario Strega. Premio come è noto fondato da Goffredo Bellonci oltre settanta anni fa e che trovò l’appoggio di una grande famiglia imprenditoriale, quella degli Alberti produttori del liquore più buono e inimitabile del mondo: lo Strega, da qui la titolazione del premio. Ho definito piece l’assegnazione di questo premio, ma forse sarebbe più opportuno dire farsa. Ovviamente non si sta mettendo in discussione il valore della buona scrittura degli autori partecipanti, quanto le candidature dei testi, che devono appartenere a case editrici che, in lotta feroce, hanno preordinatamente stabilito chi deve partecipare “senza se e senza ma”. Ma tutto questo è cosa nota la quale, tra l’altro, è stata frutto di grandi polemiche e discussioni anche roventi, mettendo qualche anno fa a rischio il premio stesso.

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All’interno: Lorena lontana, di Emerico Giachery, pag. 5 Realtà e desiderio in Rossano Onano, di Gabriella Bortoli, pag. 7 Dall’Università del Missouri..., di Ilia Pedrina, pag. 12 In lotta con l’ineffabilità, di Massimiliano Pecora, pag. 14 Che cosa è l’erba?, di Luigi De Rosa, pag. 18 Il Fondo della Biblioteca “Tognazzi” di Pomezia, di Carmine Chiodo e Aurora De Luca, pag. 19 Gennaro Maria Guaccio, Ritratto di Daniela, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 24 La nonna innamorata va “Oltre le stelle”, di Luigi De Rosa, pag. 27 Carlo Cipparrone, Betocchi vetturale di Cosenza, di Elio Andriuoli, pag. 28 Fu un movimento eversivo il “68”?, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 30 Carmelo Bene, Costanzo e la squilla di Mentana, di Giuseppe Leone, pag. 36 Le infiammate illusioni dell’alba, di Leonardo Selvaggi, pag. 37 Giovanna Li Volti Guzzardi: Ricordi cocenti, di Susanna Pelizza, pag. 40 La copertina rossa, di Anna Vincitorio, pag. 41 L’evangelista, di Antonio Visconte, pag. 42 I Poeti e la Natura (Antonia Pozzi), di Luigi De Rosa, pag. 44 Notizie, pag. 58 Libri ricevuti, pag. 60 Tra le riviste, pag. 61 RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (A mio padre, di Filomena Iovinella, pag. 45); Isabella Michela Affinito (Ricordi cocenti, di Giovanna Li Volti Guzzardi, pag. 46); Anna Aita (Tito Cauchi Voce all’anima, di Leonardo Selvaggi, pag. 48); Elio Andriuoli (Stagliuozzo come strazzata, di Mario Santoro, pag. 48); Tiro Cauchi (A mio padre, di Filomena Iovinella, pag. 49); Carmine Chiodo (La ragazza di Mizpa, di Angelo Manitta, pag. 49); Carmine Chiodo (La chioma di Berenice, di Angelo Manitta, pag. 51); Domenico Defelice (La chioma di Berenice, di Angelo Manitta, pag. 52); Domenico Defelice (Resta mio, di Aurora De Luca, pag. 53); Domenico Defelice (Canti e silenzio, di Giannicola Ceccarossi, pag. 53); Elisabetta Di Iaconi (La scala di Jacob, di Corrado Calabrò, pag. 54); Elisabetta Di Iaconi (Ricordi cocenti, di Giovanna Li Volti Guzzardi, pag. 54); Elisabetta Di Iaconi (A mio padre, di Filomena Iovinella, pag. 54); Maurizio Di Palma (L’eterno ritorno, di Susanna Pelizza, pag. 55); Ilia Pedrina (Il muro del Paradiso, di Roberto Celada Ballanti e Marco Vannini, pag. 55); Anna Vincitorio (La scala di Jacob, di Corrado Calabrò, pag. 56). Lettera al Direttore (Ilia Pedrina), pag. 62 Inoltre, poesie di: Elio Andriuoli, Rocco Cambareri, Fiorenza Castaldi, Salvatore D’Ambrosio, Elisabetta Di Iaconi, Enrico Ferrighi, Francesco Fiumara, Filomena Iovinella, Giovanna Li Volti Guzzardi, Gianni Rescigno, Franco Saccà, Leonardo Selvaggi, Antonio Vitolo

E puntualmente anche questo 2017 ha visto il fiorire di rancori, di dissapori, di invidie e tanto altro, che molte case editrice hanno voluto mettere sulla brace, con tanto fumo e poco arrosto.

Dove il fumo sono le polemiche e l’arrosto la cattiva figura che ci fa la letteratura e soprattutto chi scrive e non trova mai lo sponsor adatto. Ribadisco: nulla da eccepire ai cinque lavo-


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ri, che mi sono piaciuti anche se con diversità di peso. Ma una certa varietà di argomenti avrebbe dato al lettore un appel maggiore per l’acquisto, e un’amenità di argomenti di lettura. Invece tutta la cinquina delle opere finaliste si è inseguita sul filo rosso della memoria, del ricordo di eventi passati, di una gioventù al tramonto che riporta in vita episodi spesso completamente dimenticati, ma che riprendono forma e vigore stranamente, quanto si supera la soglia della volontà a tutti i costi di estraniarsi, di sradicarsi dai legami che indissolubilmente ci tengono inferrettati alla nostra origine, alla nostra educazione familiare, alla nostra formazione culturale e perché no politica. Cinque racconti che percorrono l’Italia da nord a sud. Cognetti il vincitore, con il suo Le otto montagne, ci racconta di montagne vere: di quelle dove nel volgere di pochi minuti può accadere di vedere diversi fenomeni atmosferici. Dal vento al freddo, dalla pioggia al sole più bello che si possa desiderare. E poi i silenzi o le levità più misteriose conservate nel cuore come preziose perle. Parte ragazzo a amare la montagna, il protagonista, e continua fino all’età matura. La possanza e la forza della montagna lo forgiano sotto la guida del padre, che è il vero innamorato della roccia. La montagna con la sua forza misteriosa e i suoi imprevisti pericolosi, rappresenta la vita che ci attraversa tutti i giorni; provandoci tutti i giorni. La montagna è anche libertà, ma la libertà costa spesso cara, e la montagna può prendersi anche la vita. E Bruno, l’amico di infanzia del protagonista, la vita la offrirà volentieri più alla montagna che alla donna della sua vita che pure aveva avuto modo di incontrare. Una lettura piacevole di un racconto che dà forte emozioni, anche a chi non ha una particolare passione per la montagna. Anche la Marasco con il suo La compagnia delle anime finte, qui però scendiamo dalla montagna adagiandoci sul seno di Partenope, accomuna due figure familiari: una madre e una figlia.

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Si lasciano le immensità della montagna per immergersi nelle viscere di una Napoli vera, sanguigna, pulsante di vitalità che da millenni attira gente da ogni parte del mondo. Una città che non muore mai di fame, non ostante registra un tasso di inoccupati molto elevato. Il segreto consiste nel non scoraggiarsi mai. Per campare basta fantasia e un poco di entusiasmo. Allora è facile, per questo, vedere il venditore di accendini, quello di calzini, lo strimpellatore di chitarra con il suo cantante, il venditore di cravatte, di libri per l’infanzia, di gusci per i telecomandi. Ogni vicolo ha la sua economia. Basta non morire della fame: il resto non conta o se conta, conta poco. Anche Vincenzina, la madre di Rosa la protagonista del romanzo, se si dedica a dare denaro a strozzo, lo fa per un’ esigenza di sopravvivenza. Sopravvivere alle delusioni che la vita le ha conservato. Sopravvivere alla ferocia, ai torti, alle indifferenze. Ci fa sentire la Marasco il calore, la febbre di una carne viva di una città che è modernissima e antica nello steso tempo. Partecipa a questo gioco l’autrice stessa che usa spesso la lingua dei vicoli, così potente e comprensibile anche a chi non è nato in quella città. L’altro titolo della cinquina, che si avvale della potenza del linguaggio, è del romano Nucci, che con il romanesco di È giusto obbedire alla notte, realizza un altro splendido affresco della cultura del popolo italiano, che ha la fortuna di vivere nel Paese più interessante del mondo. C’è nel racconto di Nucci un pezzo del Tevere, fiume già culto degli antichi abitatori della città, che con questo racconto rivive della sua forza e del suo mai sbiadito fascino. Lungo il fiume s’incontrano uomini e donne che hanno trovato, o credono di aver trovato, su i suoi margini la risposta a quelle necessità che la città non gli ha saputo dare. La potenza delle suggestioni è tale che si creano storie anche fantasiose o vero simili. Ma la cosa più vera è che ci si adatta a tutto nella vita: pure a vivere su un fiume nelle condizioni


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più scomode possibili. Il fiume è lo scorrere della vita che è fatta spesso di notti interminabili, notti che sono in ognuno di noi e a cui dobbiamo ubbidire, perché non si può fare in altro modo. Però poi passano: l’importante è non perdere la speranza, ché dopo la notte vi è sempre il ritorno del sole. Gli altri due romanzi votati a Villa Giulia e facenti parte della cinquina finalista, sono stati due racconti intorno all’educazione ricevuta sia in famiglia che dalla città dove si è nati e abitato. Alberto Rollo con Un’educazione milanese, fa il resoconto di una generazione e il rimpianto di una città, Milano, che “volle inseguire a ogni costo la modernità”, cambiando profondamente la sua anima. La città operaia vede pian piano perdere la sua cultura industriale, le sue lotte per il giusto a tutti, la perdita dei quartieri periferici ordinati e fatti di gente sana e lavoratrice, la cultura comunista che si arrende insieme a quella cattolica, a quella dei nuovi pirati che non hanno nulla da spartire con la città e la sua storia. Il dio denaro fagocita ogni cosa. Da capitale morale diventa capitale della corruzione. Rollo ci riporta con i suoi ricordi anche a quella Italia semplice di Papa Giovanni, di Dario Fo e del suo Mistero Buffo, dei figli di papà senza spocchia che viaggiavano in fiat 500 portandosi appresso i veri amici. I flirts con le ragazze dei quartieri bene, che raramente poi sposavano. I primi approcci alle discussioni politiche e a tutto il grande casino degli anni di piombo. C’è alla fine della storia l’amarezza di doversi arrendere all’abbandono che regna sovrano, alla città che si imbastardisce, che va alla deriva. Non ostante la sua educazione milanese, l’autore sa che non riuscirà a ridare vita a quella Milano di “ringhiere”, più nel senso dello spirito di amore che legava la gente che vi abitava, che del poco o niente che si spartiva. Più votata al secondo posto si piazza Teresa Ciabatti con La più amata. La storia un poco narcisistica della sua vita

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fino alla morte del padre. Figlia unica e viziata da un padre che guadagna soldi in quantità enorme. Anche in questo romanzo il centro è il rapporto con la famiglia o più precisamente con la figura paterna. Ma mentre nei precedenti autori questa figura è educativa, nel senso che tende a lasciare ai figli una personalità bene delineata, il padre della piccola Teresa è così pieno di sé, che fa della figlia non una persona ma un oggetto da ostentare, al punto da assecondare ogni suo più piccolo desiderio. Fa del denaro il mezzo principale, ma solo per la sua Teresa, perché con gli altri familiari sarà tiratissimo, attraverso il quale fa fluire il suo amore. Teresa però pian piano diventando grande, aumenta anche le sue bizzarre richieste. Sempre soddisfatte. Ciò le plasma un carattere arrogante, indisponente, irascibile. Questa manovrabile figura paterna non le permette, però, di essere ciò che vorrebbe. Ci riuscirà solo alla morte del genitore, quando alla ricerca della sua identità si metterà a scrivere. Userà la scrittura e le parole come terapia. La ricostruzione della storia familiare le permetteranno di fare i conti con l’infanzia che le era sembrata felice: cambierà in questa riflessione qualche atteggiamento, ma sarà cosa marginale. Rimarrà una egocentrica. Alla conclusione queste storie fanno capire quanto sia cambiata l’Italia. Ne viene fuori un Paese rovesciato come l’arato il terreno; che ha perso molti riferimenti; che insegue denaro, sogni, amici utili e non veri come quelli che c’erano un tempo. Tristemente si riscontra un’umanità che non trova che fughe, abbandoni, egoismi; un deserto in un mondo che sembra pullulare sempre più di etnie nuove, ma che manco a farlo a posta, appena giunte, già sanno adoperare quei codici che con immensa fatica si era cercato di rendere inoffensivi, riportandoli nell’alveo del rispetto delle regole del comune vivere civile. Non resta, dunque, che chiudersi nel passato? Alla fine forse è l’unico valore che soddisfa: almeno un po’. Salvatore D’Ambrosio


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LORENA LONTANA di Emerico Giachery

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ONTANA nello spazio. Nel tempo (risaliamo a una sessantina d’anni fa). Un lungo soggiorno, specie se si è soli, in paese straniero, ci rende (se siamo d’ animo aperto e senza pregiudizi) cittadini di quel paese. Ci arricchiamo di orizzonti, anche interiori. E se si tratta di un paese europeo, ci arricchiamo di prospettive e lieviti che esistevano già in nuce – e, per così dire, in attesa – nel nostro dna. Quel vitale germoglio francese già coltivato in anni più giovani si arricchì (anche per virtù di cibi e vini del luogo sempre utili ad ‘acclimatare’) e mi arricchì. Mi sento ormai anche francese, come, dopo ben sette anni trascorsi in terra elvetica, mi sento svizzero. Tre mesi a Vienna e i rinomati vini del Grinzig non bastarono a rendermi pienamente concittadino dell’amato Schubert, nonostante significativi cromosomi austriaci: peccato! La vicinanza di Parigi (tre ore di treno) era una tentazione troppo forte. Quanti fine settimana a Parigi, facendo tappa in un modesto albergo della Rue Racine! Amavo Parigi, con nel cuore il mio carissimo Baudelaire («fourmillante cité, cité pleine de rêves…»), e ne ero riamato. Frequentavo le sue magnifiche librerie. Passeggiavo di notte per il Quartiere Latino, animato come in pieno giorno. A volte a mezzanotte (era in quegli anni un rito caro a molti) andavo alle Halles, chez Robert Vattier, a mangiare la soupe à l’ognon. Mi ricantavo dentro le canzoni, che sapevo quasi tutte a memoria, di Georges Brassens, mio chansonnier preferito, di Edith Piaf, di Char-

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les Trenet (che grande, irripetibile stagione della canzone francese e dell’anima d’ Europa!). Ma Parigi non era la sola meta. Strasburgo, col fascino, anzitutto, della Cattedrale protesa verso il cielo, quasi a consacrare l’incontro tra mondo latino e germanico; e col suo intimo cuore antico chiamato “la petite France”; ma anche con i suoi buoni vini, le sue birre (Bière de l’ancre, Bière du pêcheur), le sue tartes à l’ognon. Colmar: vi cercavo soprattutto il rétable d’Issenheim, capolavoro di Grünewald, ma restai soprattutto affascinato da un’atmosfera domenicale, rimasta unica come per un’arcana sintonia: ricordai, e rivissi, un bel racconto di Ramón Pérez de Ayala, Luz de Domigo, in cui lo sguardo poetico e mistico di un pittore avverte nella luce della domenica un soprappiù di anima che non avverte nella luce degli altri giorni della settimana, nei quali il sole guarderebbe soprattutto altri pianeti, mentre «la domenica il sole guarda proprio la terra; il suo sguardo entra nei pori della terra e tutto palpita». Il ricordo di quelle pagine mi aiutava a immergermi in quell’inaspettato, irripetibile miracolo domenicale: a questo, soprattutto, serve la poesia. Non dimentico Domrémi-la-Pucelle, l’ umilissima casa natale di Giovanna d’Arco, “Jeanne la bonne lorraine”, come Villon la chiamava nella memorabile Ballade du temps jadis. E i Vosgi…ma che ci facevo, girando per i Vosgi in ora crepuscolare? Ricordo, come in sogno, che approdai a una chiesa che aveva uno sfondo trasparente, aperto ai colori del tramonto, sui quali spiccava, nero, il Crocifisso; ricordo la mia emozione quasi mistica. Ne scrissi a lungo a qualcuno, ma a chi? In quegli anni scrivevo, scrivevo: lettere e lettere, anche in treno, nei bar. Lanciavo colombe di messaggi in tutte le direzioni.


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Il sempre apprezzato Eterno Femminino non mi offrì incarnazioni lorenesi di grande fascino. Non so dove il mio collega lettore di lingua danese, che si autodefiniva un Casanova, reperisse le sue prede (non so neppure se fosse realmente il Casanova che diceva e credeva di essere, anche se aveva i presupposti onomastici per esserlo, dato che si chiamava Palle Spore). Le ragazze di Nancy mi parevano, chissà perché, poco attraenti. Una volta, mentre correvo su un marciapiede, ne incontrai - era ora!- una molto carina e repentinamente mi voltai, sbattendo la testa sul palo di un fanale con un bel botto e un bel bozzo. Ci guardammo, e scoppiammo entrambi in una bella risata. Ho cambiato più volte alloggio: nel centro, in una strada prossima a una casa dove aveva alloggiato, nel 1889, Freud, per prendere contatti con colleghi che costituivano la “scuola ipnologica” di Nancy, ai suoi tempi molto nota. Con particolare affetto ricordo il soggiorno in un altro alloggio: una palazzina di periferia con piccolo giardino. C’era una signora, fuggita dalla Cecoslovacchia comunista, con il marito francese e tre simpatici figli, due femminucce e un maschietto, e sette gatti, di cui uno si chiamava Patapon (degli altri sei non ho mai saputo il nome). Sonnecchia in me un estroso clown, che si risveglia a volte, soprattutto quando mi trovo con bambini, e mi induce a mimare elementari spettacoli. Anche in quell’occasione si risvegliò, e diventammo amici. A vent’anni avevo scritto la storia di un ingenuo angelo in missione sulla terra. La tradussi in francese e feci registrare su disco il testo, letto da me col sottofondo musicale del concerto per flauto e arpa K 299 di Mozart. L’impresa riuscì discretamente, e donai il disco ai ragazzi per mio souvenir. Ma resta, per concludere, un ricordo che concerne i gatti. Avevo fatto amicizia, a Roma, col simpatico gatto, di nome Semolino, di una signora triestina, innamorata di Goethe, da cui prendevo lezioni di tedesco. A quei ragazzi gattofili raccontai alcune imprese di Semolino. E una volta, da una località del Cantone di Vaud, probabilmente da Losanna, inviai a

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quei sette gatti francofoni, con la firma e a nome di Semolino, una cartolina raffigurante un gatto col seguente testo: «Ah, qu’il est beau d’entendre mes collègues les chats / miauler à la lune avec l’accent vaudois»: «Com’è bello ascoltare i miei colleghi gatti / miagolare alla luna con l’accento del Cantone di Vaud». Trent’anni dopo, e anche più, passai con mia moglie da Nancy, à la recherche du temps perdu, per rivedere la scintillante Place Stanislas e il museo del liberty (in francese art nouveau): Nancy è una delle capitali del liberty. Non eravamo lontani da uno dei miei alloggi di allora (quello vicino all’ appartamento dove aveva alloggiato Freud). Mi venne in mente di suonare il campanello. La padrona di casa venne ad aprire e mi riconobbe subito senza mostrare sorpresa, come se tanti decenni non fossero trascorsi. “Oh, Emerico!”, disse. Andò a chiamare il marito e cenammo tutti e quattro allegramente in un rinomato ristorante della Rue des Maréchaux. Emerico Giachery Qui sotto, un poeticissimo mosaico di

MICHELE FRENNA (Agrigento, 1928/Palermo, 2012)


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REALTÀ E DESIDERIO NELLA POESIA DI

ROSSANO ONANO di Gabriella Bortoli

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L Quartier Generale di Kesselring. Il nonno di Rossano raccontava che a Cavriago, il luogo di nascita, fosse alloggiato il Quartier Generale di Kesselring, il maresciallo tedesco, e che per questo il paese sia stato bombardato con particolare puntiglio dagli aerei alleati. In seguito Rossano legge la biografia di Kesselring e verifica che ciò che gli è stato raccontato non era reale. Ma per tutto il tempo in cui lo ha creduto quella notizia era vera, era la realtà. L'impatto con la psichiatria: lo zio paterno. Un altro episodio della vita di Rossano è quello che ha acceso l'interesse per la psichiatria. Uno zio paterno era ospite per-

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petuo del manicomio di Nocera Inferiore. Suo padre non ne parlava mai. Lo zio aveva spaccato la testa ad un soldato nemico e ne aveva avuto un trauma che aveva sconvolto la sua mente. A 16 anni Rossano, senza dire nulla in famiglia, prende il treno e va a trovare lo zio. Non l'aveva mai visto. Lui individua quale nipote è, chiede notizie dei familiari, mostrando di sapere bene che alcuni non c'erano più perché erano morti. Nessuna commozione fino ad una frase che lo zio pronunciò: “Nella nostra casa – diceva – anche un filo d'erba che spunta dai mattoni è segno di vita, è la tua storia che si arrampica”. Rossano ne rimase incantato. Lo zio aveva parlato come parla un poeta. Dissociazione ideo-affettiva della schizofrenia. Aveva sentito sulla pelle com'era la dissociazione tra le idee e l'emozione, cioè il fatto che si potesse parlare di cose molto emotive, molto coinvolgenti, senza però essere invasi dall'emozione corrispondente. La più grande lezione di psichiatria sul campo. Inizio della poesia: trattato di psicopatologia in versi. Da “Vernice”: Ho cominciato a scrivere poesia mettendo in versi, per mio uso e consumo, il Trattato di psicopstologia di Minkowski. Quando ci ho preso gusto, più tardi, l'attenzione si è sempre rivolta ai tratti caratteriali abnormi, se non proprio decisamente psicopatologici. L'intento era di descrivere l'emozione senza lasciarmi invadere dall'emozione. E' una specie di imprinting, così faceva lo zio di Nocera Inferiore. A Reggio Emilia Rossano fu il primo psichiatra dislocato dal manicomio al Centro di Salute Mentale sul territorio. Si chiamava Consorzio ed era diretto da Giovanni Jervis. L'idea portante del Consorzio non era quella di rendere i matti idonei al consorzio civile (e non umano!!!), ma quella di rendere il consorzio civile idoneo alla comprensione dei matti. Rossano dice che l'altra faccia della luna del comportamento umano è l'approdo all'identità profonda dell'uomo. Da quando Zeno combatte con le sigarette e Gregor Sampsa


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combatte con gli scarafaggi, la chiave di lettura non è la psicologia, la “normalità, ma la psicopatologia. L'altra faccia della luna è così, ha vertici e precipizi. Quindi ancora la domanda: CHE COSA E' LA REALTA'? Sandro Gros-Pietro scrive, nell'introduzione a “Preghiera a Manitou di Cane Pazzo”, che tutta la poesia di Onano è onirica, è la visione di un'altra realtà, una deformazione continua, un'allucinazione. SOSTENGO CHE LA POESIA DI ROSSANO SIA LA DESCRIZIONE DELLA VERA REALTA', che non è altro che il multiforme gioco di specchi delle realtà soggettive individuali. Ognuno di noi, ascoltando l'altro, si fa un'idea di quale sia la sua visione del mondo e della sua realtà, che non coincide con quello che l'altro pensa di sé. Descriviamo quello che percepiamo, sappiamo e crediamo, ognuno di noi immerso nella soggettività e coinvolto nel conflitto tra i desideri e la possibilità della loro realizzazione. Che cos'è la nostra percezione del reale fisico ed emotivo se non il nostro personale modo di deformare quello che riceviamo come realtà, che non è la stessa per tutti ed è fortemente modellata dalle esperienze emotive e affettive che viviamo precocemente e nel corso della vita? La vera realtà è dunque la realtà deformata, il delirio di ognuno di noi. La Donna-Natura. E' incredibile come moltissime delle descrizioni di donne inquietanti nelle poesie di Rossano siano simili a quelle di Leopardi sulla Natura in “Dialogo della Natura e di un Islandese”, quando descrive la natura come “una donna gigantesca dal volto a mezzo tra il bello e il terribile”. Da Homo non dice, riproposta in Preghiera a Manitou di Cane Pazzo: Sappiamo di naviganti che sono ritornati. / Hanno toccato mari e crateri spenti, prossimi / alla luce viola rapinosa senza connotato / di tempo, esausti, la Terra dalla lontananza / premeva sul cuore come mai. Riferiscono / della visione folgorata, bevono vino / nelle cantine residue, fabulatori. Si tratta, / dicono, di una sagoma azzurra e paurosa / di donna, immensa che

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sorride, spalanca le braccia / tentacolari […] Non so, l'astronauta sospira, so / che sulla mantella riflette mondi e la Terra, e gli occhi / sono terribili e azzurri e non li dimentico / mai […] A differenza che nell'operetta morale di Leopardi, in Rossano il conflitto dell'umanità non è con gli elementi esterni come il gelo, il caldo, l'eccesso di acqua o l'aridità che generano sofferenze fisiche, ma con le istanze interne all'uomo (Es, Super-Io) da cui nessuno può fuggire, e che generano sofferenze psichiche e la percezione di REALTA' MULTIFORMI. La Natura di Rossano è quella delle leggi dell'evoluzione, quella che spinge alla sopravvivenza ad ogni costo per la perpetuazione della specie. Si veda la scena di seduzione in Eva sorride (da Scaramazzo): […] i commensali parlano, accavalla / le gambe mostrando l'intima veste bianca: / oppure l' uomo, casualmente collocato / accanto a lei, solo, rivolto all'intima / veste come alla vasta tovaglia / di un altare, respira, la tenta con una carezza / nascosta, perché nessuno veda: oppure / sono vigili entrambi, nell'esercizio / dell'unico rito possibile perché la storia / continui, ultimo Adamo e ultima / Eva [...] E' la legge cui l'uomo è sottoposto: il desiderio primordiale, sorgente inesauribile, contro la vita in società tragicamente limitata dai doveri. Divieti che sono precedenti alle censure morali culturalmente imposte, perché (da Vernice) c'è una struttura difensiva preesistente al riconoscimento della legge paterna, una specie di legge interna all'individuo, che apporta all'Io le regole necessarie per la sopravvivenza, evitando la distorsione nel caos comportamentale. La personificazione di questa Natura- evoluzione è nelle donne mostruose nelle poesie di Rossano. Natura-evoluzione che immerge l'uomo nella sofferenza, data dall'esistenza di un conflitto fra l'Es, che vuole realizzare i suoi desideri anarchicamente, e il Super-Io che impone censure e divieti. Questa Naturaevoluzione è matrigna, perché immerge l'uomo nelle sofferenze e nei conflitti psichici,


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frenandolo nella sua capacità di godere del mondo e della vita. Ne Il nano di Velazquez, Ventura dice che nelle poesie di Rossano ci sono “donne archetipe, più forti dell'uomo, ferme, espressione della natura feconda e sterminatrice”. Su Vernice: Un amico, Nicola Lo Bianco, ha scritto: “Rossano Onano ha un conto aperto con le donne”. A me pare che la donna rivesta molti significati simbolici all'interno della poesia di Rossano. Il “conto aperto con le donne” risiede all'interno di qualsiasi relazione amorosa: da una parte esiste il pericolo del ripetersi della fusione simbiotica, come con la madre: ESSERE INGOIATI; dall'altra il pericolo della perdita di libertà, alimentata dal desiderio e bisogno dell'altra: ESSERE DIPENDENTI. Nel rapporto uomo-donna è intrinseca la reciproca attrazione, stabilita dalla NATURA per perpetuare la specie. Unica legge potente è quella del desiderio, civilmente diventato innamoramento, con grande pericolo sia della fusione simbiotica (essere divorato dall'altro), sia della dipendenza (grande bisogno dell'altro e del piacere che procura. Dove c'è dipendenza e potere reciproco, c'è pericolo e sofferenza: questo canta la poesia di Rossano Onano con il ritmo dell'ottonario ariostesco. Il cantare delle mie castella. Nell'introduzione al libro, Sandro Gros-Pietro sottolinea l' analogia tra il medioevo di cui parla Rossano e l'epoca attuale in cui non esiste un forte potere centrale che organizzi la vita politica. Nel medioevo era debole l'mpero, oggi è debole l'Europa Unita nell'organizzare e armonizzare i poteri locali. Le spinte centrifughe attuali sono comparate a quelle esistenti nel medioevo, dove il potere di un signore o di un abate o di un vescovo interferiva con la vita dei popoli. Questa analogia è anche nella ricerca del racconto d'effetto, della strega, della maga, della apparizione del fantasma e quant'altro. Le monache viziose, gli efferati delitti, tutto era oggetto di notizia da portare lontano per i cantastorie.

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Rossano è erede di quei cantastorie. In Rossano la natura condanna l'uomo al dolore interiore dovuto al conflitto tra le pulsioni e il divieto. L'uomo può solo dare forma a questo suo dolore con il sintomo, il delirio, l'arte e la poesia. Le cinque castella del libro sono abitate da cavalieri violenti e crudeli e da donne immense e distruttive, gli uni e le altre protagonisti di racconti storici che sono solo pretesto per mettere in scena il vero conflitto. Il quale è rappresentato dapprima nella realtà, come scontro armato tra cavalieri antagonisti, e poi si perpetua tra fantasmi impalpabili, immagine delle istanze psichiche in lotta tra loro. Questi fantasmi che spaventano i passanti sono l'immagine di ciò che ci inquieta: quel conflitto invisibile e profondo, comune a tutta l'umanità, che ci affratella e ci fa piegare il capo, come l'umile ginestra di Leopardi. In questo canto di castelli l'immagine della donna ha un'evoluzione: da donne feroci e sterminatrici a morbide e assolte. Dalla contessa Dorilla a Ivelda, terribili e sacrileghe, fino alla contessa Matilde di Canossa, che ha soddisfatto i propri desideri carnali, tuttavia ottenendo il perdono della Madonna che la accoglie e la copre col suo velo azzurro. Si è conclusa lietamente la storia. Le Moiane. Nelle Moiane senesi, di fronte all'abbazia di Spineto, ad ogni inverno la neve racconta una vicenda terrifica accaduta nel Medioevo. La guerra del Sacramento tra la contessa Dorilla e l'Abate. Quando la Contessa si vestì da prete per celebrare Messa. Durante la consacrazione, un serpente uscì dal calice, diventò gigantesco e la avvolse fra le sue spire, sprofondando con lei entro un dirupo nel quale da allora non cresce più l' erba. L'ABATE: Nel castello alle Moiane / io non porto il Sacramento, / dove vive la Contessa / con la muta degli amanti, / mala gente di mestiere, / di giudei e di briganti. // il demonio l'ha segnata / d'una turpe piega nera / che dal mezzo della fronte / corre fino alla gorgiera.


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NOSTALGIA DELL'INFANZIA: ma una cupa nostalgia / chiama vecchi sentimenti / d'orazione al bambinello / nell'infanzia lieta e sana. L'infanzia è libera dal conflitto, perché da piccoli il desiderio si esprime liberamente e non è ancora formato quel Super-Io che limita l'espressione e la realizzazione dei desideri. Il bambino esprime desideri anche quando non potranno essere soddisfatti, ma già l'espressione del desiderio è accoglierlo, viverlo nella fantasia, non negarlo. Il bambino è sano perché in lui il desiderio è esprimibile, perseguibile, realizzabile nel mondo in cui realtà e immaginazione sono fuse. La donna e il serpente. Nella poesia di Onano spesso la donna appare in compagnia del serpente, a volte semplicemente sotto forma di braccialetto portato al polso. Nelle Moiane, dal calice della contessa Dorilla esce un serpente che l'avvolge e la travolge in un “orrido”. Il serpente come consapevolezza del divieto, del cedimento a un desidero che è proibito e condannato: DIRE MESSA PER SCHERNO. Ecco l'uscita dall'infanzia, con l' uomo condannato al dolore e al conflitto fra due istanze contraddittorie: il desideri e il suo divieto immediato. E' questa la visione dell' orrido: perché mi dai tanti desideri, se mi impedisci di soddisfarli? FANTASMA: Passa bianca fra le mura / una donna in armatura. I fantasmi sono la forma sottile e impalpabile del conflitto che è in noi. Il desiderio vive in noi come sorgente inesauribile, conflittuale con il divieto. Esso dà forma alla mia realtà, che è anche la mia follia. Ed è l'unica che ho. Bassano. Ezzelino da Romano, scomunicato e sconfitto a Soncino da papa Innocenzo, si rende all'inferno strappandosi le bende che gli coprono le ferite. La bionda Ivelda lo respinge. Dall'inferno Ezzelino ritorna ogni notte sulla Rocca di Bassano, in combutta col diavolo per spaventare i passanti. IVELDA: tradisce Ezzelino per PERSEGUIRE LA GIOVINEZZA ETERNA, utilizzando il seme e il sangue dei villani: Poi tor-

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nando alla castella / occhi belli, per amore / ti baciavo mentre il ferro / affondavo nel tuo cuore. DESIDERIO E DIPENDENZA: Amor mio che da quel giorno / come falco quando artiglia / nostalgia di te mi prende / che le viscere attorciglia. Il desiderio non accetta condizioni né limiti dalla realtà. Il desiderio è assoluto, vuole in maniera imperiosa ciò che vuole. Ezzelino è la ferocia del desiderio primordiale, che uccide qualsiasi cosa gli si opponga. La ferita più grande di Ezzelino da Romano è il rifiuto e l' inganno di Ivelda. Ha ucciso la donna che amava, ma non ha ucciso la nostalgia, il desiderio di lei, la dipendenza. Ezzelino rivolge contro di sé la rabbia e l'aggressività. Si toglie le bende dalle ferite per far morire il desiderio. Canossa. Nella quiete di Bondeno, in tarda età e sofferente di gotta, Matilde di Canossa ripensa agli uomini della sua vita: Goffredo il Gobbo, trafitto a tradimento nell'atto di defecare; Guelfo il pingue di Baviera, inetto al talamo e ripudiato dopo tre notti d'astinenza; Enrico Imperatore; Papa Gregorio al secolo Ildebrando di Soana. Matilde muore nel 1115, penitente, seguendo il volo di una colomba cui affida l'anima rivolta a Nostra Donna. PERDONO, PENITENZA, PACIFICAZIONE. Matilde di Canossa pensa a tutti gli uomini che ha avuto, è stata “donna di carnale appetito”. L'imperatore ha a sua volta peccato per appetito di gloria. La penitenza si riassume nell'episodio storico della permanenza per tre giorni e tre notti di Enrico IV fuori dalle mura del castello, implorante il perdono del Papa, da cui è stato scomunicato. Matilde si fa intermediaria fra i due contendenti: l'Imperatore (istanze appetitive, ES) e Papa Gregorio (istanze normative, SUPERIO): Con parla forte e chiara / rivolgendosi a Maria, / le comanda che sia fatta / ad Enrico cortesia. Pacificazione tra i contendenti (fra le due contrapposte istanza psichiche). Ha un sor-


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riso su nel cielo / la pazienza di Maria, / che sapiente dà consiglio / affinché la pace sia. La storia evolve con la soluzione del conflitto. Matilde: piange, e verso Nostra donna / cuore e anima conduce. Cosicché: nuda va 'anima in cielo, / Maria la copre con l'azzurro velo. NUDA. Nessuno penserebbe all'anima con qualche abbigliamento. Ed è proprio questo aggettivo che risveglia il desiderio appena narcotizzato dal perdono. L'aggettivo “nuda”, con quello che risveglia in noi, è la prova che il desiderio è il vero protagonista del “Cantare delle mie castella”. Nell' aggettivo il desiderio si riaccende, mostrando la sua vera natura di angelo alla catena. In fondo. Attraverso gli studi di psichiatria Rossano arriva alla comprensione profonda che la sofferenza umana è innata, perché intrinseca al conflitto fra Es (esuberanza dei desideri) e Super-Io (necessità sociale di soffocarli). Il conflitto non può essere eluso, ma soltanto compreso, accettato e di volta in volta risolto dalla volontà mediatrice dell'uomo. Questa scoperta diventa coscienza, racconto e canto. Canto, perché Rossano scinde volutamente l'emozione dal racconto dei fatti rappresentati. Per proteggere se stesso dal dolore, come lo zio di Matera. Gabriella Bortoli OPERE CITATE: Homo non dice, Il gatto dell'ulivo, 1998 Il cantare delle mie castella, Genesi Editrice, 2017 Il nano di Velazquez, Tabula fati, 2007 Preghiera a Manitou di Cane Pazzo, Genesi Editrice, 2001 Scaramazzo, Genesi Editrice, 2012 “Vernice”, Genesi Editrice, n° 46/47, 2012

DENTRO LE DELIZIE DEL CUORE I Scrivere poesie è come entrare nelle delizie che saziano di ebbrezza il cuore, sopra tappeti d’erba svolazzando come uccelli di primavera, andare per spontanei incontri con l’ampio re-

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spiro che fa spaziare, dilatati gli arti. I cristalli degli occhi prendono gli estremi delle lontananze. La poesia viene da tutte le parti, la tenerezza della pelle arroventata si apre: le sensazioni traggono dal fondo le preziose essenze. È come riversarsi nella folla, amare a prima vista senza scelta, un qualsiasi sorriso assale. Le dure realtà spaccano l’uomo che reclama amore, la sua essenzialità piange dentro le piegature dove è difficile penetrare. Nei recessi dove purificati si sta come pazzi incatenati le voracità ferme non arrivano dilaniate ad affiorare. È come tuffarsi in un mare o slanciarsi uguali a piastrine di luce, sentire suoni, sfiorare superfici. La poesia ha naturalezza di movimenti, fa vedere diverso. Non ha barriere con i sentimenti né remore andando dove vive l’uomo che predilige altezze e dignità. Con fine occhio indovina la virtuosità delle piccole cose che non si vedono, sempre presenti e non capite intorno a noi. II La poesia imperturbabile non teme catene, ha la libertà inafferrabile: la senti addosso, la porti con tutto quello che hai. Ha le sfuggenti linee della figura rincorsa nei sogni, romantico il volto, capelli dissolti sulla fronte, rannodati di dietro. Faccia languida di carne tenera macerata. In estasi fermentante di piacere mantenendosi fra le braccia come fuggendo dall’aria di fuori in tempesta per la porta subito ritornata. Vede con i pensieri in astrazione portati, con il bizzarro folle amore, delicato e dolce si aggrappa come fantasma, senti diafane le dita che passano tra i capelli, ti assale quando gli occhi sono chiusi. Il calore delle braccia che si allacciano. Leonardo Selvaggi Torino


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DALL'UNIVERSITÀ DEL MISSOURI IL PROF.

BONNER MITCHELL NEL 1967... di Ilia Pedrina

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IAMO nell'ottobre del 1967 e all'editore Enrico Trevisini arriva un testo in inglese redatto dal prof. Marion Bonner Mitchell, che dal 1958 insegna Lingua e Letteratura Francese e Italiana all'Università del Missouri. L'analisi è relativa alla STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA di Francesco Pedrina che egli utilizza con i suoi studenti americani. Ne riporto per intero il testo, in una traduzione immediata che ho fatto appena il testo è arrivato per posta: “ Questa Storia della Letteratura Italiana è un testo per studenti delle Scuole Secondarie Italiane. Come la serie di Castex-Surer per la letteratura francese, quest'opera è stata progettata per aiutare gli studenti a prepararsi per i loro esami di stato. Mentre quest'opera si suppone intesa per lettori che sono

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più giovani dei nostri studenti universitari, sarei molto sorpreso se qualche docente americano trovasse il livello intellettuale di quest'opera troppo basso per iniziare i suoi studenti alla letteratura. I giovani italiani incominciano a interessarsi della storia e della teoria letteraria molto prima degli americani. C'è nondimeno una significativa differenza intellettuale tra quest'opera e alcune ben note storie standard: il suo linguaggio semplice e chiaro è molto più accessibile per gli studenti stranieri che la maggior parte delle prose scolastiche italiane. Come si addice ad un'opera, questa è un compendio informativo circa i periodi, i movimenti letterari, ed i singoli autori. Molte figure minori sono trattate con vera competenza, specialmente nei capitoli relativi al 20esimo secolo. L'autore ha dedicato un'insolita grande attenzione alla letteratura contemporanea del dopoguerra, che egli pensa sia insensatamente trascurata nei programmi scolastici. Siccome il libro è stato designato principalmente per essere un compendio, le opinioni critiche dell'autore sono tenute quasi sempre dietro le quinte, mentre egli spesso cita i giudizi dei più famosi critici e storici come Benedetto Croce e Francesco Flora. I lettori dovrebbero prestare la loro attenzione specialmente su una sezione dell'opera in cui veramente è molto evidente la tendenza personale dell' autore. Si tratta della sua discussione sul recente Movimento Ermetico in poesia. Il Pedrina è chiaramente e decisamente un non ammiratore degli ermetici; quei letterati che non condividono i suoi punti di vista dovrebbero integrare le sue osservazioni su Ungaretti e altri poeti con opinioni di differente indirizzo. Quest'opera è assai bene adatta ad essere usata, affiancata da un'antologia, nelle indagini sulla Letteratura Italiana nelle Università Americane (anche l'Antologia dovrebbe pure venire dall'Italia, sebbene nessuna in generale in questo paese sia stata fatta). In Italia studenti dotati certo hanno bisogno di lavorare con libri di storia letteraria e critica più profondi e originali che i nostri. Essi


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hanno inoltre bisogno di una parte completa sulla bibliografia, che quasi totalmente manca qui da noi. Quest'opera può, in altre parole, provvedere ad introdursi molto bene nel campo degli studenti universitari” (M. Bonner Mitchell, University of Missouri, Modern Language Journal, OCT 1967, trad. di I. Pedrina). Nel turbine degli eventi storici di quegli anni, questo studioso, seriamente attratto dalla cultura d'Europa, in particolare italiana e francese, e dai suoi benefici effetti sul pensiero e sulla progettazione di valori senza tempo anche nella sua terra, ha dato testimonianza di rigore e di indipendenza di giudizio dalla parte, sempre, delle giovani generazioni, in lavoro e in ascolto. Nato il 28 novembre 1926 a Livingstone, nel Texas, Marion Bonner Mitchell ha superato con successo tutti i gradi per arrivare al Parnaso accademico sia all'Università del Texas, Austin, sia nell'acquisire il PhD alla Ohio State University, ottenendo un prestigioso affiancamento da studioso a Parigi, città nella quale effettuerà anche il servizio militare come traduttore di dispacci nel corso della Prima Guerra di Corea. Non abbandonerà mai più i suoi profondi interessi per la Letteratura Italiana e Francese del XX secolo e per il Rinascimento Italiano, svolgendo una brillante carriera e diventando così professore emerito, dopo aver educato molte generazioni di studenti americani al culto delle Belle Lettere, anche con studi di Letteratura Comparata. È stato membro di importanti associazioni come la Renaissance Society of America, la 16th Century Studies Conference, l'American Association of Teachers of Italian, il Columbia Discussion Group e membro della Royal Society of Arts. Importanti i legami con amici e parenti, come Naomi Bonner Leyva, dell'Arizona e Thomas Mitchell Hart, del Connecticut. È venuto a mancare il 3 ottobre 2014. Prenderò in mano questo filo destinale che mi porterà a vagliare le sue opere, con sempre crescente, illuminato coinvolgimento. Ilia Pedrina

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Senza titolo Quando dal mare giungerò salutami intanto che i miei piedi sentiranno la terra nuova con la sua polvere che mi prenderà il respiro. Questo punto d’impatto è per realizzare il mio sogno fosse anche da clandestino, ma non lo dire e vieni, vieni perché voglio sciogliermi da questo intrigo di braccia e gambe, da questi fiati stanchi profumati d’acqua di mare e un poco di speranza, spellata da questa acqua rovente inseguita fino a qui: per essere restituito alla mia dignità di uomo e chiamare la mia esistenza: vita. Salvatore D’Ambrosio Caserta

Qui sotto, mosaici di MICHELE FRENNA


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IN LOTTA CON L’INEFFABILITÀ

LA SCALA DI JACOB DI CORRADO CALABRÒ di Massimiliano Pecora

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AL punto di vista della storiografia letteraria, la produzione lirica del XXI secolo, più che quella del secondo Novecento, dimostra il venir meno del principio di distinzione, obliterato, per converso, dall’analisi descrittiva dell’opera del singolo autore. In effetti, delegittimati i criteri di omogeneizzazione delle manifestazioni poetiche, le categorie storiche possono inquadrare le molteplici forme espressive che afferiscono a un momento sociale sospeso tra la rivoluzione delle tecniche di comunicazione, le crisi economiche e le vacue demagogie? Per suffragare quanto ammette Eric Hobsbawm con La fine della cultura. Saggio su un secolo in crisi di identità, osserviamo che lo smarrimento etico dell’uomo contemporaneo è ancora figlio del ventesimo secolo, come avvertiva Patrizia Valduga in Corsia degli incurabili. È in queste condizioni che la poesia deve attendere alla sua funzione civile, anche quando si concede all’egolalismo. A questo onere obbedisce La scala di Jacob, l’ ultima fatica di Corrado Calabrò. Per caso, e in felice deroga a rigidi principi storiografici, la silloge, vincitrice del I premio Città di Pomezia del 2017, replica nel titolo l’immagine che apre il terzo testo di Una guida indiana di Liceo, la raccolta elaborata da Giampiero Neri nel 1982. I due poeti, profondamente diver-

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si per esiti formali ed estrazione intellettuale, amano richiamare i loci communes della nostra cultura, traducendoli secondo finalità inedite. In un certo senso, Calabrò e Neri studiano l’habitus morale dell’uomo del XXI secolo. Accertate le difformità tra La scala di Jacob e il neriano Aspetto occidentale del vestito (1976), i due concordano nel constatare le angosce del mondo contemporaneo, pur osservandole da opposte angolature gnoseologiche: alle prese di posizione del poeta reggino si contrappone l’austero isolamento di Neri; alle tecniche del mimetismo citazionistico e linguistico di quest’ultimo fa da contraltare l’idillio dalla chiusa gnomica di quello. Per quanto abbia segnato il passo, la grande lezione delle Occasioni montaliane ha consegnato la sua ricca eredità sotto forma di predilezione per situazioni contingenti ed emblematiche della disarmonia del mondo. In tal senso e più in linea con Diario del ’71 e del ’72, la Scala di Jacob tradisce una sottile vena polemica. Come interpretare Senza parole di Calabrò prescindendo dalla Lettera a Malvolio di Montale? Se l’istanza reificante – e ‘reificare’ occorre in Precessione, composizione centrale della Scala di Jacob – è un carattere dominante all’interno dell’attuale produzione letteraria, nulla esclude che il realismo venga assunto come un espediente per evocare una sorta di ‘strappo ontologico’, un momento di stasi in cui l’artista contempla, per un breve istante, l’informe e l’ impredicabile, la realtà infinita che va ben oltre il rozzo compromesso dei sensi. Allora chiediamoci in che modo l’autore calabrese possa estromettere l’umana enciclopedia percettiva per riprodurre con una mediazione semiologica un’immediatezza non semiologica. Dei diciotto componimenti di La scala di Jacob, ben tredici ostentano una chiara enfasi elegiaca mentre gli altri deflazionano l’io lirico, occorrente sia sotto forma di marca fatica – «Uè, non fu un sordo a inventare la Nona?» si legge in Incoscienza – sia nelle vesti di un deus ex professo, come nel caso della costruzione pseudo-amebeica di Dov’è tuo fratello?


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A legittimare questa peculiarità concorre Quarta repubblica, brevissimo inserto nel quale, riesumato il topos satirico dello zoomorfismo, l’acrimoniosa e polemica virulenza si produce nell’iperbolico ribaltamento dell’immagine dei volatili impegnati nella meccanica remigazione alare («Sbatter d’ali / di volatili morenti»). In realtà, pur avallando un retroterra neoromantico – parzialmente appurato dall’ammirazione di Calabrò per la produzione di Daniela Fabrizi, autrice di un vero manifesto del neoromanticismo –, l’ ispirazione della Scala di Jacob posa le sue fondamenta su un umanesimo civile che si presta molto ai ricordi di infanzia e al recupero delle tragedie della storia, secondo una prassi invalsa anche in Armi e mestieri di Neri. Tuttavia, per l’autore di La stella promessa resta ben salda, all’origine dell’ impaginazione testuale, la componente impressivo-visiva: Calabrò ama l’alba, il mare, le nature marittime, evocando i brevi inserti paesaggistici con connotazioni afferenti allo spiccato, sebbene non esclusivo, quadro mediterraneo. Da questo punto di vista l’artista dichiara la sua ascendenza novecentesca. Basti considerare la serie Attimo delle Poesie di Filippo de Pisis oppure l’istante meridiano o aurorale cantato da Sandro Penna, riprodotti significativamente in Luna blu, intenso resoconto di un viaggio a Perth. Il ricorso a immagini abusate non diminuisce la novità della Scala di Jacob, il cui dettato si allinea con quanto predicava Montale quando, sul «Corriere della Sera» del 21 luglio del 1964, parlava di «poesia inclusiva» per indicare la cifra dominante del lirismo del secondo Novecento. L’opera di Calabrò, infatti, organizza non solo un regesto della fenomenologia dell’umano, ma si trasborda dal piano della realtà a quello dell’astrazione metacognitiva. Si pensi a Entanglement, brano riproposto con un’impercettibile variante rispetto a quanto apparve nel 2008 sul numero 29 di «Satura». Richiamando l’ entanglement quantistico e perseverando nella rimodulazione semantica di tecnicismi provenienti dal mondo delle telecomunicazioni

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– è significativamente intitolata Roaming la prima parte di La stella promessa, la raccolta pubblicata nel 2009 per il mondadoriano «Specchio» – Calabrò reinterpreta uno dei misteri della natura trasmigrandone i tratti denotativi sul piano del metaforico avvicendamento ubiquitario con cui i ricordi si frammischiano ai drammi familiari e alle incertezze del futuro. La strana musa dell’arte, assiduamente venerata dall’autore calabrese, viene chiamata in causa dal bisogno interiore di ritrarre la dura lotta dell’artista con le condizioni eteroclite dell’ispirazione. A queste, come ci insegnava Paul Valéry nel Corso di Poetica, soggiace il poeta, perennemente dedito al dovere di enunciare una verità intima e universale. Non v’è dubbio che la templarità dello spazio lirico di Calabrò si carichi del tema tradizionale dell’«amore», declinato secondo un’ intenzione civico-moralistica. All’uomo, «frazione unitaria di zero» (Frazione di zero), lo scrittore consegna un messaggio profondo, impiegando un anomalo stratagemma che, per dirla con Montale, rientrerebbe nell’ «inclusività» della produzione post-moderna. L’accenno alla nozione matematica di frazione unitaria coinvolge la sfera semiotica della reciprocità, uno dei tanti valori che non solo costituiscono l’usbergo umanistico del giurista, ma nutrono le invenzioni del poeta reggino, sempre refrattario a soluzioni linguistiche troppo tortuose e peregrine. A conforto di questo assunto riscontriamo che il nitore sintattico e lessematico della Scala di Jacob ben si attaglia all’enigmatico e impoetico registro dei montaliani Diario del ’71 e del ’72 e Quaderno di quattro anni. Sia sufficiente constatare la voluta deminutio che interviene nell’analogia del componimento eponimo della raccolta del 2017: «Siamo portati su una scala mobile». La vieta metafora si traduce, per mezzo della figura della commoratio, nell’epifonematica chiusa che, segnalata dall’ apparente dislocazione tipografica del segmento «finché senti il bisogno di salire» – in una rima desinenziale con il verso precedente


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–, conferisce all’intero brano un andamento pseudo-madrigalesco. Il racconto del Genesi, trasfigurato nella sua polisemica valenza, orna un lascito testamentario: la scala di Giacobbe, da sempre simbolo della vita contemplativa, risponde a una semantica laicale, assurgendo al rango di simulacro della tensione che responsabilizza i padri verso i figli. Tale afflato non manca laddove il gioco delle allusioni è dissimulato dalla sobrietà del registro. Si pensi agli identici contesti che fanno da sfondo a Incoscienza, Disinformazione, S’alzano prima – qui spicca un probabile accenno al celebre lungometraggio Sunset boulevard –, Dov’è tuo fratello? e Quarta repubblica. Ci troviamo di fronte a casi di Gesellschaftslyrik, in cui colui che dice io non è una persona precisa, ma una persona collettiva generica, un io fungibile che vive esperienze individuali (perché dette da una persona singolare), ma non individuate (perché indistinte ed emblematiche). Le scelte stilistiche e tematiche soggiacenti alla Scala di Jacob correggono eventuali derive solipsistiche attraverso l’instaurazione di un dialogo permanente tra il poeta e un oscuro interlocutore che, dotato di virtù sapienziali e maieutiche, decompone l’habitus dell’uomo contemporaneo senza tergiversare in pontificanti arringhe o moralismi d’antan. All’ artista urge cantare la presenza, nella ciclotimica ansietà del quotidiano, di un momento di stasi, di requie – vedasi in tal senso il «rifiato», participio a suffisso zero della quinta strofa di Precessione (Tsunami) – dalla corrività del presente, in cui l’osservatore, con lo schietto senso di meraviglia del fanciullo per le immagini di un episcopio (La carrubbara), si possa abbandonare alle sgomente visioni del destino del mondo. Questa sotterranea ironia è un aspetto comune nella produzione letteraria del secondo Novecento e, nel voler rintracciare gli antecedenti tematici della Scala di Jacob, vengono alla ribalta le ombre dei personaggi che campeggiano in Gesta Romanorum e nelle Case della Vetra di Giovanni Raboni. Non da ultimo, Calabrò, amante della iso-

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colia e poco propenso a recuperare moduli metrico-armonici del passato, deliba interessanti prestiti dalla tradizione più aulica. Citiamo, ad esempio, il gioco straniante di Trasloco che, insistendo sulla ripetizione del numerale «Sette» e del suo correlato, ripropone l’iperbolica aenumeratio della celebre «novella» di nonna Lucia di Davanti San Guido. L’illustre ipotesto carducciano lascia il segno nella compagine soprasegmentale di Trasloco: la catacresi anaforica «sette» non solo occorre in ogni riferimento lessicale, ma costituisce l’abbrivio ritmico per una delle poche poesie a rime derivate della raccolta. In questo andirivieni tra il claustrofobico presente e il futuro carico di attese, la poesia di Calabrò comprova lo scarto mentale che, per dirla con Ezra Pound, ossessiona lo scrittore, stretto tra l’appercezione dell’istante e l’ inesauribile desiderio di catturarne l’ evoluzione. A questo assillo risponde Caro m’è ’l sonno. Il brano, a partire dalla paludata ortografia del titolo, si esibisce quale volgarizzamento del celebre sonetto di Cecco Angiolieri, mascherando, però, un messaggio in apparenza contraddittorio: è nel sogno, nel dormiveglia che la coscienza scruta il futuro e ripensa il passato in immagini collidenti con i desideri e i dolorosi drammi della vita. Prendendo in prestito una metafora amata dal nostro, consideriamo quanto l’argomentazione tematica della Scala di Jacob proceda per ‘precessioni’, aberrazioni che, nel lungo periodo, cambiano i fermi riferimenti dell’ esistenza. In caso contrario come potremmo giustificare le antitesi di Caro m’è il sonno, ascrivibili all’ordine della subnexio per statim? Non è casuale che questa soluzione retorica compaia a conclusione della silloge. L’ ultima fatica della Scala di Jacob riprende uno dei testi di Judi Burnette, una specialista americana nella stesura delle epigrafi tombali. In Close your eyes ogni riferimento alla tradizione viene depauperato dagli scherzosi citazionismi di Calabrò, come dimostrano le allusioni metapoetiche («Luce crepuscolare / poesia crepuscolare») destinate a essere superate dal giudizio dell’autore; ne fa prova la


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correctio «È luce dell’alba o del tramonto?» con la quale l’artista giubila uno dei loci più abusati dalla tradizione. Cosa importa l’ora del giorno? Che valore ha la descrizione del momento? La qualità dell’inserto polemico risiede nell’assunzione degli elementi che infortiscono l’appercezione dell’istante conferendole un significato onnicomprensivo. Nella poesia la luce, assunta quale correlativo oggettivo, è l’isotopia che, agendo da legante tra le più disparate immagini, conduce lo scrittore al ricordo della madre morente. Siamo ben lontani dalla casistica letteraria della fenomenologia della memoria involontaria, superata in favore della condiscendenza verso i quadri del minuto quotidiano. Se vi è un’ associazione mnestica nell’opera di Calabrò questa non traguarda la vita, ma la interroga. Vale perciò chiedersi: è la morte il vero dramma? L’artista, compos sui, resta un dignitoso esempio di chi oppone alla turpitudine dell’esistenza la forza della parola, scandagliata nelle sue più lontane manifestazioni di senso. In questa forma di adamismo – croce e delizia della filogenesi letteraria – Calabrò, come Neri prima di lui, non esita a trovare la sua ispirazione sfruttando le identità etimologiche. Lo dimostra Estuario, dove la coppia allotropica ‘estuario-estuoso’ rimanda all’eruzione dei pensieri che l’autore vorrebbe riportare alla norma della comunicabilità. La forza della lirica, in fondo, giace nell’eterna e frustrata ricerca di un ordine chiaro all’ interno di quell’inviluppo, spesso indecifrabile, di pensieri e di sensazioni che, connaturati agli uomini, solo i poeti sperimentano e cantano a dispetto della perdurante ineffabilità di quanto ancora ignoriamo di noi stessi. Massimiliano Pecora

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ha raggiunto improvvisa. Nei suoi occhi, ove l’anima ancora era rappresa, trascorso è come un vitreo stupore. Perduto dentro i peripli dell’Essere, ascoltava richiami, udiva voci, inseguiva verità remote. Nel volo inconsumato delle ore lo teneva un immemore accadere. Nulla più gli era dato di sapere. Noi, nell’ombra, quaggiù lo guardavamo allontanarsi sempre più, alla terra incatenati ed al suo sogno vano. Si faceva di cenere il suo volto. Cadeva in un miraggio di follia ognora più dolente e più remoto. Ardeva il sole sull’azzurra via, mai stanco di miracoli inventare. Pensieri in noi nascevano di loto nell’abbaglio di un vivido albeggiare. Elio Andriuoli Napoli

AL SORRISO, SPERANZA DEL MONDO

L’AMICO

Sono troppe le parole per la mancanza di un sorriso spento dal fato, ma qui vicino al mare col mantello del monte Stella che mi difende dai fulmini delle perdizioni ritrovo sereno le giovanili stelle della speranza. Non penso che all’eternità, alla resurrezione. Le piante, i rivoli, i muri, i fiumi, le pietre, humus del Creato, ritornano nelle mie membra sfavillanti di grazie sorridono tirando le mie gote verso il solco dell’amore per la vita. Antonio Vitolo

Legato al filo rosso di un’attesa è rimasto l’amico che la morte

Da L’ultimo porto. Genesi di carri e navi, Edizioni del Centro di Promozione Culturale per il Cilento, 2017.

Corrado Calabrò - La scala di Jacob - Opera vincitrice del Città di Pomezia 2017 - Prefazione di Vincenzo Guarracino, Postfazione di Domenico Defelice - Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2017.


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Ripetiamo la domanda a Walt Whitman: “CHE COSA È L'ERBA?” E ad Umberto Eco: che cosa è “Il nome della rosa”? di Luigi De Rosa

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L poeta e scrittore statunitense Walter Whitman (più noto come Walt Whitman) nato a New York nel 1819 e morto nel 1892 a Camden nel New Jersey, raccontava un giorno che un bambino, porgendogli dell'erba che aveva appena raccolto, gli aveva chiesto: “Che cos'è l'erba ?” “Che cosa potevo rispondergli? Non so meglio di lui che cosa sia” confessava Whitman, il famoso autore della raccolta poetica “Foglie d'erba”, pubblicata in varie edizioni dal 1855 in poi (non ci interessano, in questo caso, opere come Oh capitàno mio capitàno, oppure Canto su me stesso...). Abbandonata la scuola a undici anni, Whitman fece prima il tipografo, poi l'insegnante, e infine il giornalista. Il successo delle sue “Foglie d'erba” (“Leaves of grass”), anche per le forti innovazioni democraticopopolari del suo linguaggio pieno di neologismi che si contrapponevano alla poesia tradizionale inglese, non fu immediato ma progressivo. Solo negli ultimi anni vi fu un riconoscimento pieno della sua opera. Le fondamenta della sua visione poetica si rifanno al Trascendentalismo nordamericano di Waldo Emerson, che a sua volta si rifaceva al Trascendentale di Emanuele Kant, cui si ispirò poi anche Nietzsche. Trascendentale che reagi-

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sce al Razionalismo, e che viene considerato unica realtà, preparando, in un certo senso, il terreno al Romanticismo e alla valorizzazione dell'individuo nei confronti della Società e della Natura. Se cerchiamo la voce erba in una comune enciclopedia scopriremo che l'uomo, anche se non è un botanico specialista, conosce numerosi tipi di erba, e che questo termine è il nome generico delle piante erbacee. Ma tra questo e il sapere che cosa sia effettivamente l'erba, ce ne corre. Analogo discorso per la rosa e per tutte le altre cose del mondo della Natura. Che cos'è, nella sua essenza, l'erba? E che cosa è una stella? Anche se conosco perfettamente tutte le proprietà dei componenti di una stella so forse io davvero tutto su che cosa sia una stella? E' chiaro che a ciò può conseguire, per un certo verso, una inconoscibilità sostanziale del mondo. I guai cominciano quando compare sulla scena un uomo o un gruppo che presume di dare una spiegazione e una risposta a tutte le cose e gli eventi della Natura (compreso il mondo umano)... L' aneddoto di Whitman, per associazione di idee, mi fa venire in mente la domanda che un altro poeta, Giorgio Caproni (19121990) si sarebbe posto a proposito della rosa: Cos'è una rosa ?. E anche Caproni si doleva del fatto di essere assolutamente incapace di spiegare cosa fosse, in effetti, nella sua essenzialità, una rosa, indipendentemente dalla fisica, dalla chimica, dalla biologia, etc. Per finire... con una associazione di idee... che c'entra e non c'entra. Che cos'è, in realtà,”Il nome della rosa”? Non si capisce più niente. Questo romanzo del semiologo, saggista e scrittore alessandrino Umberto Eco (scomparso il 19 febbraio 2016 a Milano) ha venduto più di cinquanta milioni di copie in tutto il mondo, eppure il suo Autore ha continuato fino all'ultimo a dichiarare, a dritta e a manca, che era il libro più brutto che avesse mai scritto in vita sua... Luigi De Rosa


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Incontri in Biblioteca*:

IL FONDO << Domenico Defelice>> DELLA BIBLIOTECA <<Ugo Tognazzi>> DI POMEZIA di Carmine Chiodo

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L noto ed apprezzato scrittore, poeta, critico Domenico Defelice ha donato alla biblioteca di Pomezia parecchie sue opere e un nutritissimo carteggio. Da svariato tempo il poeta calabrese (Defelice è di Anoia, paese in provincia di Reggio Calabria; da segnalare che altre lettere sono state donate alla biblioteca comunale del paese natale dell’artista) vive e lavora nel campo dell’arte a Pomezia, e qui dirige il notissimo mensile culturale <<PomeziaNotizie>>. Defelice è stimato e benvoluto da tutti, amici e gente comune per la sua gentilezza e soprattutto per il suo essere un vero poeta, autentico e disinteressato. Molti presenti hanno letto vari versi di Defelice, la

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cui poesia, ovviamente, si è andata affinando e arricchendo nel corso del tempo, ma restando fedele a un preciso scopo: quello di essere reale e non astratta o astrusa. Lo stesso poeta, presentandosi al pubblico che lo seguiva con molta attenzione, ha più volte sottolineato il fatto che nella sua poesia, come, in generale, nella sua scrittura, mira sempre al vero e non sono estranei alla sua vocazione una fortissima passione e sentire che lo inducono a porsi in netto contrasto con mode letterarie effimere, contro la corruzione letteraria, contro ogni uso cervellotico della parola che non è vera poesia, ma solo ragionamento vuoto e scipito. Lo scrivente questa nota ha, poi, illustrato al pubblico ben due monografie attinenti all’ uomo e all’artista Defelice, e autrici sono due intelligenti lettrici, studiose di poesia: Claudia Tirmarchi - assente alla manifestazione per motivi di salute e alla quale tutti quanti auguriamo una pronta guarigione - e la poetessa Aurora De Luca, che ha presentato al pubblico alcuni aspetti della sua opera esegetica. I lavori critici si intitolano rispettivamente: <<La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice” (Claudia Trimarchi, libro edito da Il Convivio, Castiglione di Sicilia 2016, con una bella <<Prefazione>> de noto critico e italianista, poeta Giuseppe Manitta), <<Aspra terra e creazione fertile nell’opera di Domenico Defelice>> (Aurora De Luca, lavoro edito dalle Edizioni Eva di Venafro - IS -,2016). Ci troviamo davanti a due belle e penetranti monografie che ci presentono in profondità un preciso quadro dell’uomo e dell’artista Defelice, le cui opere sono state tradotte come è arcinoto - in tantissime lingue estere, come pure esiste, su di esse, una massiccia e ragguardevole bibliografia critica. Claudia Trimarchi mette bene a fuoco le modalità della scrittura del poeta e segue passo passo, attraverso adeguate citazioni, il pensiero del poeta, come pure le sue diverse scelte espressive e metriche. La stessa cosa si deve dire dell’altrettanto accurato e scorrevole lavoro di Aurora De Luca. Entrambe le studiose af-


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frontano in modo chiaro e condivisibile molte opere dello studioso e non solo le poesie, ma il prosatore, altri punti e versanti che attestano le varie esperienze culturali dell’artista, che nel corso della sua esistenza ha incontrato tanti scrittori, poeti, pittori, e, nel contempo, ha avuto vari riconoscimenti in Italia e all’estero. Giustamente viene pure, tra le altre cose, sottolineato l’impegno culturale di Defelice, che si concretizza nel già citato mensile <<Pomezia - Notizie>> e non solo in esso; insomma, questi due lavori ci rendono tutta quanta intera, e di come si è maturata nel corso del tempo, la personalità di un artista che occupa senz’altro una posizione di primo piano nella letteratura italiana contemporanea. Un poeta, uno scrittore da leggere e meditare, e che i giovani soprattutto dovrebbero conoscere di più. Defelice, cosi molto disponibile verso di essi. Difatti, la sua importantissima rivista conta, tra i suoi collaboratori, molti e preparati giovani. Senz’altro ha fatto bene la Biblioteca di Pomezia ad accogliere i doni artistici e poetici di Domenico Defelice che testimoniano una vita dicata alla poesia e ai Valori autentici di essa. Carmine Chiodo *** È stato un vero piacere conoscere il saggio di Claudia Trimarchi - e Claudia stessa - su un autore contemporaneo, Domenico Defelice, che stimo profondamente e da molto tempo. È stato un vero piacere sapere che, quel Dicembre 2015, la commissione di Laurea avrebbe potuto apprezzare ben due tesi su Defelice. Un vero piacere, perché non se ne parla mai abbastanza di quegli autori contemporanei che sono nella massa ma non sono la massa. Approvo quanto Giuseppe Manitta scrive in prefazione al saggio di Claudia Trimarchi, “[...] spesso la critica si dedica, con fervente passione alle volte, solo ed esclusivamente di autori ‘noti’ per mediazione, ovvero a scrittori che hanno delle qualità intrinseche non spiccate ma per mediazione (editoriale o di altri critici ancora) hanno raggiunto una buona nomea”.

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Prosegue poi Giuseppe Manitta presentando gli obiettivi del saggio di Claudia Trimarchi ovvero un progetto di recupero - o di riconoscimento - della buona letteratura, progetto sorretto dal professore Carmine Chiodo, critico attento unicamente alla qualità delle opere più che al nome del loro autore. Scrive ancora Manitta “Claudia Trimarchi riesce, attraverso una ben consolidata conoscenza della critica e delle opere, a fornire un quadro dettagliato, in particolare inserendo l’ opera dello scrittore lungo due versanti [...]: i luoghi e il tempo. Defelice è uno scrittore che dialoga con il tempo biologico e con quello generazionale, ma anche un uomo radicato nei luoghi”. Non posso non gioire scoprendo che entrambi i nostri lavori si accomunano, certamente sull’autore, ma soprattutto sul metodo e che tale metodo ci ha poi portate alle stesse conclusioni; che quindi dalla lettura, dall’analisi e dalla riflessione sui testi e sulle parole autentiche dell’autore siamo giunte a vederlo nello stesso modo, come un uomo del tempo e nel tempo, di terra e nella terra, di poesia e nella poesia. Mi domando quindi se queste similitudini, di scelta di metodo e di conclusioni, non siano sempre opera di Defelice, il quale, attraverso la sua stessa produzione letteraria, ci ha dato una lezione: di aderire al testo, conoscerlo, comprenderlo, poiché entro quelle pagine vi è il poeta e l’uomo, in qualità e quantità, e dunque la vita. Porgo i miei complimenti a Claudia Trimarchi per questo suo lavoro, completo e approfondito, per la sua capacità ‘organizzativa’ delle parti, poiché so, avendo avuto anche io la scrivania sommersa di “Crochi”, libri, articoli, di che vastità di materiale si tratti. Un lavoro quindi ben congegnato e ben corredato da note esplicative, bello nell’esposizione dei contenuti, connessi ai testi poetici - e non solo - riportati, come gemme, tanto a impreziosire quanto a fare da fondamento. La mia tesi di laurea triennale inizia con speranza. Grandi speranze era un famoso ti-


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tolo dickensiano; ecco le mie speranze erano forse meno grandi, ma sicuramente avevano tutta la voglia di non fallire. Il mio compito, che dapprima poté sembrarmi semplice, si dimostrò cavilloso: tirare fuori l’uomo e il poeta, da tutta una serie di scritti, pubblicazioni, diari, commenti e via dicendo. Per di più, vi era - come ancora adesso - un Domenico Defelice vivente cui rendere giustizia. Non potevo assolutamente fallire. Il compito più arduo è proprio questo: attendere alle aspettative (Oh Altitudo!). Ma, come quasi sempre mi è capitato nel corso della nostra amicizia letteraria, fu Defelice a darmi quella parola di cui avevo bisogno: e la parola fu amore. Speranza e amore fanno una combinazione potenzialmente irrefrenabile quanto letale. Non sbagliava Defelice a dirmi che un lavoro di tesi è come un innamoramento: l’amore ci fa coraggiosi, non spegne le paure ma le rende valicabili. E dunque fu questo l’indirizzo che diedi al mio scandaglio, a maggior ragione perché, mi accorsi, calzava a pennello all’intera opera defeliciana: l’amore in Defelice è “partecipazione rabbiosa alla vita” e la scrittura, la poesia, la pittura, la critica non sono altro che atti d’amore. La sua fu proprio un’Aspra terra e creazione fertile: più la terra lo feriva più l’amava, più la vita gli dava da ‘tirare la carretta’ più l’ amava. Certo, alle volte la odiava pure, ma era sempre un odio commisto alla speranza, quella voglia di veder fruttare una terra che avrebbe potuto fruttare ma non fruttava. Parliamo della Calabria, nello specifico, ma potremmo parlare anche dell’ Italia, o del mondo. Parliamo di tutti quei sud, concreti o astratti che siano, che languono invece di splendere. Era ed è l’amore speranzoso di un figlio verso la propria madre terra, l’amore speranzoso di un amante che alle volte si sente tradito dalla sua sposa, alle volte si sente accolto. Da tutto questo esce fuori la poesia, la poesia come atto sociale e catartico. Defelice è un uomo di terra: genuino, generoso, incorruttibile. Assume in sé quel princi-

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pio che ogni buon contadino conosce bene: la terra è dura, la vita è di terra. Defelice è il poeta della terra che pronuncia queste parole: Ho arato bene il mio orto, l’ho pulito dalle erbacce e dai sassi. L’ho concimato. Poi vi ho piantato un’infinità di ortaggi. È andata avanti solo una rapa. Il mio vicino è un fannullone e un superficiale. La terra la zappa e non la zappa. Le erbacce le lascia crescere a piacimento. I sassi, nel suo orto, fanno il paio con le patate ad asciugare al sole. Egli produce roba in quantità da poterne anche vendere. Tra me e gli altri le cose sono andate sempre come tra me e il mio vicino. Vanno ancora così. Andranno, forse, sempre così.

Questo che ho citato è un passo tratto da L’orto del poeta, precisamente un passo di pagina cinque, risalente all’anno 1958. L’orto del poeta può definirsi il ritratto, in prosa poetica, del nostro; un diario di riflessioni, uno specchio, un luogo dove cercare la somma di sé e dove rompere il proprio ‘lago ghiacciato’. Di ghiacciato c’è ben poco in Defelice, che, anzi, ha sempre avuto uno spirito ‘altamente infiammabile’: intendo dire che un diario è un’arma a doppio taglio, così come lo è uno specchio (pensate agli specchi negli ascensori; delle volte ci imbarazziamo a guardarci riflessi lì dentro - qualcuno poi, ormai, rompe gli indugi, e si fa un selfie). L’ orto del poeta è un libricino - editato da Le Petit Moineau nel 1991 - pari ad una dichiarazione di intenti: lì Defelice scandaglia se stesso e la sua poesia e dimostra la sua verve di uomo incorruttibile, fedele alla parola, schivo nei confronti di quelle cose che si vendono facilmente o scendono a patti con becere contingenze. Nel suo orto vi sono solo frutti genuini: ma non nel senso di aulici o raffinati, non nel senso che per entrare nel suo orto la barbabietola debba essere una signora barbabietola: no, nel suo orto può trovar spazio anche la più povera delle cose, la più sofferta delle verdure, la più malandata, la più acciaccata, la più privata. Nel suo orto può entrarci tutta la terra, tutta la vita nella sua tormentata lotta fra contrari. Nel suo orto può


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entrarci tutta la poesia del dolore e della morte, della rabbia e dell’ironia, della violenza, della sconfitta, della malattia: purché sia poesia, ovvero quell’atto catartico che non si commisera ma che accoglie l’urlo e lo distilla, che lotta, che svela, che dà nome, e che resta estraneo alle dinamiche della moda e degli applausi. Infatti sempre da L’orto del poeta viene questo altro breve passo, risalente all’anno 1987: Chi crede che nell’orto del poeta crescano erbe rare, fiori variopinti, alberi tropicali; chi crede che vi scorrano acque fresche e vi cantino uccelli, non conosce il poeta. Nell’orto del poeta crescono spine, fiori avvelenati e gli alberi proiettano ombre inquiete; nell’orto del poeta scorre il sangue della gente affamata e l’unica voce è l’urlo della rivolta. Nell’orto del poeta, s’intende, non degli innumeri facitori di versi.

Dunque la poesia di Defelice non può non essere l’urlo dell’umanità: io lo definisco il poeta ecumenico, nel senso che in lui si sommano tutte le istanze più umane e condivise in ogni luogo e in ogni tempo. È impossibile, adesso lo so, riassumere in così brevi pagine un’intera personalità che di per sé non può neppure mai definirsi; se dovessi dire qualche altro aspetto pregnante pronuncerei queste parole: preveggenza, ironia, vitalità, sodalità. In tutto l’arco di crescita poetica (e prosastica, e saggistica, e critica, e pittorica - interessante dire che Defelice è autore di numerosi bozzetti umoristici o autoironici), dunque in tutto l’arco di questa maturazione della parola il nostro non abbandona mai le sue istanze fondanti seppur sperimenti vari tipi di versificazione, con risultati espressivi innovativi e sempre conturbanti: dalla poesia elegiaca declinata in endecasillabi a quella in versi sciolti; dai canti d’amore feroce a poemetti poetico-teatrali; dalla poesia di denuncia alla poesia dell’eden. Fui personalmente sedotta, al di là della sympàtheia che tutta l’opera mi genera, da 12 mesi con la ragazza; che è tra le primissime

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raccolte editate da un Defelice giovanissimo, ma già caparbio e irriducibile (uscì per la prima volta nel 1964 ed ebbe una eco importante); tra queste pagine emerge un panismo e una vitalità splendente, un colorismo e una musicalità leggera ma corporea: è la poesia del tempo che scorre e matura (prima ancora di franare) e la poesia dell’amore demiurgico (prima ancora che si faccia adulto e prenda quel sovrappiù di saggezza che, tra i grandi meriti, ha però l’effetto di spegnere i rossori sulle guance). Mi innamorai poi di Odio e amore, testo d’apertura della raccolta La Morte e il Sud pubblicata nel 1971: Paesi del mio Sud aridi sopra i colli, dove la morte giunge all’improvviso come un turbinio di vento caldo! Campagne del mio Sud in voi la morte è cupa e misteriosa, o che balzi terribile dai sassi bruciati dei torrenti, o che celata insidii come una biscia in mezzo alle sterpaglie. Sud, dolce e caro mio Sud! Questo male tuo di morte mi trattiene lontano, m’avvelena l’amore che ti porto.

Non credo di potermi dilungare molto oltre, anche se ci sarebbe da dire ancora per pagine e pagine. Voglio però sottolineare un altro aspetto, che è anche poetico, ma non solo: l’ orto di Defelice è popolato da alberi amici: poeti come lui, oppure critici, oppure professori, o scrittori, o pittori; ma tutti fedeli, tutti sinceri, tutti intellettualmente onesti. Finiamo per circondarci delle cose che amiamo e che ci somigliano e che sanno migliorarci. Amicizia non è sinonimo di ‘circolo di uditori che applaudono’ ma di voci che corrispondono e contrastano; e questo lo dimostra un enorme epistolario (mantenuto in parte proprio qui alla Biblioteca di Pomezia; e in parte a quella di Anoia, paese natale di Defelice); lo dimostra la stessa rivista “Pomezia-Notizie”, che vanta più di 40 anni


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di attività culturale vera, di indagine socioculturale e letteraria vera e non da ‘chiacchiera di salotto’. All’interno della mia tesi vi è una breve intervista; posi a Defelice la domanda sulle amicizie letterarie (ovvero quali autori furono per lui ‘le spalle dei giganti’ da cui guardare): la risposta è tutta splendida, e riassume la sua formazione, ma nella parte finale è davvero sublime: Ma frequentazioni umane prima che letterarie sono state le tante conoscenze dirette, personaggi per me leggendari [...] Ognuno di essi mi ha lasciato più di un dono. [...] Senza queste frequentazioni non so se avrei potuto vivere meglio o peggio, ma di sicuro non avrei avuto la sensibilità che mi distingue e avrei posseduto meno cuore da donare a chiunque m’ha cercato.

Dunque a questo punto concludo con un estratto di poesia, che è il linguaggio migliore per parlare e il modo più autentico di essere, e con un monito: La poesia la traggo da L’orto-giardino (da Alberi?, edito nel 2010): [...] È l’Eden favoloso in cui mi serro stanco della città. Nel lavacro di verde e di profumi la mente mia s’inebria e poi sconfina oltre le vaste praterie del cielo. Qui, solitario anelo la terra meno asfittica e rapace e l’uomo rinsavito, in allegria, che abbraccia suo fratello, odia il delitto, custodisce l’ambiente, non violenta né se stesso soverchia e gli animali. Un nuovo figlio d’Eva, l’Abele dell’affrancamento, l’uomo dell’utopia, che, ignorando il peccato, possa al mondo venire senza pianto. [...]

Il monito invece proviene sempre da L’orto del poeta e recita così: Amate la poesia. La poesia è luce eterna, è il cordone ombelicale che unirà per sempre l’uomo a

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Dio. [...] L’anima è la poesia sono le uniche entità che rimarranno vostre anche dopo la morte. [...] La morte non ha ancun potere sulla poesia. - Anno

1989. Aurora De Luca *Mercoledì 22 novembre 2017, nell’Aula Conferenze della Biblioteca Comunale ‘Ugo Tognazzi’ di Pomezia, sono state presentate le tesi di laurea di Claudia Trimarchi e Aurora De Luca sull’opera di Domenico Defelice. A relazionare sono stati il Prof. Carmine Chiodo, dell’ Università di Roma TorVergata e la Dottoressa Aurora De Luca, autrice di una delle due tesi; assente, per motivi di salute, l’altra autrice, la Dottoressa Claudia Trimarchi. Sono intervenuti, leggendo poesie di Defelice, Maria Antonietta Mòsele, Giuseppe Giorgioli, Emilia Bisesti, Elena Claudiani, Lucia Giammartino. Come già annunciato sul numero del dicembre scorso, riportiamo i due interventi del Prof. Carmine Chiodo e di Aurora De Luca. Le foto ci sono state fornite dalla Professoressa Annachiara Pedicino, docente di musica in una scuola pubblica di Ariccia.


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GENNARO MARIA GUACCIO RITRATTO DI DANIELA di Liliana Porro Andriuoli

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ENNARO Maria Guaccio, autore di diversi, pregevoli libri di narrativa (tra i quali ricordiamo gli Incontri indecisi, apparso in libreria circa un anno fa) si ripresenta ora a noi con un nuovo romanzo, Ritratto di Daniela, la cui protagonista, una giovane donna, spigliata e volitiva, intelligente e molto aperta alla cultura, specie letteraria ed artistica, viene da lui tratteggiata con grande abilità di scrittura, sicché ne emerge un personaggio quanto mai vivo e affascinante. (Una donna che viene qui descritta in modo psicologicamente completo e più a fondo analizzata rispetto a quelle dei racconti precedenti, trattandosi della protagonista di un vero e proprio romanzo: un romanzo che, come lo stesso titolo ci suggerisce, si pone come scopo precipuo quello di disegnare appunto il suo “ritratto”). Quando conosciamo Daniela, ha appena

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vent’anni e sta frequentando con profitto il locale Magistero. Vive con i genitori in una casa con veranda, “nel pittoresco borgo dei Vergini, nel rione Sanità”. Il padre, Edoardo Pucci, direttore dei servizi bibliografici della Biblioteca Universitaria di Napoli ha da poco conosciuto un professore inglese, Robert Buchner, filologo di origine tedesca, docente a Cambridge, il quale è venuto a Napoli, per compiere delle ricerche su Virgilio. I due professori, anche in virtù della comune passione per gli autori latini, simpatizzano subito e così Buchner è spesso ospite in casa Pucci. Ciò fa sì che a loro volta Robert e Daniela possano conoscersi e frequentarsi e, accomunati dal forte interesse che entrambi nutrono per la cultura classica, facciano presto amicizia. Robert, è un uomo distinto, di ottima famiglia, slanciato e di aspetto giovanile, malgrado abbia 22 anni più di Daniela; ama molto il suo lavoro e sta facendo un’ottima carriera. Trascorso alquanto tempo, Daniela pensa di concedersi una pausa dal suo studio universitario e di passare qualche giorno presso la nonna materna Marion, che vive in un cottage non lontano da Cambridge: ha così l’ opportunità di rivedere Robert e di approfondirne la conoscenza. Grande è infatti il fascino che su di lei esercita la sua profonda cultura, ragione per cui ella si sente sicuramente attratta “dalla sua bella mente”, ma vorrebbe capire meglio quali sono i suoi sentimenti verso di lui. Si accorge infatti, che oltre l’ammirazione intellettuale non avverte per lui altro tipo di attrazione e finisce pertanto col respingere le sue attenzioni e col rifiutare la sua richiesta di matrimonio, quantunque Robert Buchner sia molto stimato ed apprezzato dai suoi genitori. Trascorso qualche anno dopo quello dell’ addio a Buchner, troviamo Daniela, già perfettamente calata nel suo ruolo di insegnante in un liceo partenopeo, dove è molto stimata dai suoi allievi, i quali seguono le sue lezioni con vivo interesse. Grande è la sua ascendenza sulle classi a lei affidate, soprattutto sulla componente maschile, tanto che uno degli allievi, Ludovico Pittangeli, un giovane prestante e distinto, benché appartenente ad una


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modesta famiglia (il padre, morto prematuramente, era stato un cancelliere del Tribunale di Napoli), se ne innamora perdutamente. Quantunque sia piuttosto introverso di carattere, è mosso da un sentimento autentico e profondo che lo induce a perseguire con tenacia e determinazione il suo intento, per cui riuscirà alla fine a realizzare il suo sogno di legare a sé Daniela, nonostante sia la sua insegnante di Lettere ed abbia ben quattro anni più di lui. E ciò ai primi degli anni ’60, quando più marcata era la distinzione fra le varie classi sociali. Anche Daniela, attratta dalla prestanza fisica di Ludovico e lusingata dal suo forte sentimento, accetta sulle prime le sue attenzioni: ma teme ad un certo punto di essere andata troppo oltre nell’assecondare le speranze del giovane e, consapevole di aver agito un po' leggermente, si tira indietro. Ciò ferisce profondamente Ludovico, che le scrive una lettera piena di rammarico e di amarezza, sicché il loro rapporto sembra finito, quando un casuale incontro li spinge a riallacciarlo. Anzi, mossi da una forte attrazione reciproca che li getta l’uno nelle braccia dell’altra, decidono di iniziare a vivere insieme, “contro le regole non scritte ma convenute della società di quell’epoca”. È questo il primo passo della loro avventura, che li porterà successivamente al matrimonio, durante il quale sempre più si convinceranno delle loro “affinità elettive”. Tutto ciò è narrato con freschezza e disinvolta scioltezza da Guaccio, il quale guarda con simpatia le sue creature, che segue nei loro viaggi, come avviene in quello a Firenze e poi, dopo il matrimonio, in quello a Venezia, narrati con ricchezza di notazioni e di aneddoti che rendono stimolante la lettura del libro. Così gli anni trascorrono felici per i due sposi, allietati anche dalla nascita di figli, e successivamente di nipoti, benché non manchino, come è destino degli uomini, i momenti di difficoltà e di turbata armonia. Uno di essi si ha nell’ottobre del 1966, in seguito all’alluvione di Firenze, allorché Daniela, spinta da un subito moto di altruismo, non pienamente condiviso da Ludovico, decide di

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recarsi nella città allagata, per recuperare, unendosi agli altri “angeli del fango”, giovani generosi e amanti dell’arte, i tesori delle biblioteche e dei musei che rischiavano di andare perduti. Un altro momento difficile che la coppia deve superare è quello della chiamata alle armi per il servizio militare di leva di Ludovico, che tuttavia si svolge, grazie all’ intervento di Daniela e alle sue conoscenze, prevalentemente a Napoli. Vi è poi una nuova assenza di Daniela da casa, dovuta ad un suo viaggio in Germania con gli allievi, per studiare dal vivo le opere dell’architetto Mies, grande innovatore dell’ arte di costruire gli edifici, come dimostra la sua Neue Nationalgalerie a Berlino, e da lei molto apprezzato. Anche questi motivi di attrito vengono tuttavia sempre felicemente e in breve tempo superati dai due coniugi. Donna volitiva e battagliera, Daniela non aveva mai cessato di amare il suo Ludovico, che l’aveva ricambiata con altrettanto affetto (anche se un qualche turbamento aveva suscitato in lui la ricomparsa di una compagna di liceo, Silvia, che era venuta a lavorare nel suo stesso ufficio e che lo amava da sempre di un amore non corrisposto). Cementava la loro unione, oltre all’attrazione fisica, anche l’ amore per la cultura e specie per l’arte, intorno alla quale s’intrattenevano a lungo a discutere, come per Gaudì e Mies. (Per incidens non si può fare a meno di notare come un pregio della narrazione di Gennaro Guaccio siano proprio i continui richiami culturali inseriti nel contesto, che ravvivano il romanzo e che dimostrano la sua profonda conoscenza in svariati campi). Certo, Daniela appare l’elemento catalizzatore della coppia, che cementa con la sua intelligenza e la sua cultura; ma non bisogna sottovalutare le virtù di Ludovico, il quale con l’amore assiduo per la sua compagna di vita l’aveva assistita e protetta, sorreggendola e coadiuvandola in ogni occasione. La loro unione era stata pertanto particolarmente felice, dato che Daniela e Ludovico si completavano a vicenda. È inoltre da osservare che l’autore in alcuni


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capitoli del suo romanzo fa uso di una tecnica che lo proietta nel futuro, allorché Ludovico, ormai vecchio, dopo la morte di Daniela, è rimasto solo e conduce una vita appartata e priva di gioia. La narrazione acquista allora toni più sommessi e si svolge in un’atmosfera fatta di tristezza e di rimpianto, essendosi spezzato il rapporto affettuoso e vitale che legava i due coniugi. Il che vale a rendere la vicenda di Ludovico e Daniela vera e genuina. Per tornare ora alla parte centrale del romanzo, è da osservarsi che fra i molti interessi di Daniela, occupavano un posto di rilievo i problemi sociali, come quello della prostituzione, e quelli religiosi, come il problema della presenza di Dio nella Storia, da lei affrontato anche con comuni amici, tra i quali un prete. Ma si trattava di problemi di difficile approccio, che davano tuttavia luogo a dibattiti di grande interesse e di notevole impegno. Com’è destino di tutte le coppie di questo mondo, anche per Daniela e Ludovico giunge poi il momento della separazione e quindi della fine del loro rapporto, che si ha con la morte di lei. E si tratta di una separazione non facile, che passa attraverso una lunga malattia, manifestatasi con delle allucinazioni diventate poi sempre più gravi, tanto da estraniarla dal marito e dal resto della famiglia, sino al giorno della morte, avvenuta dopo quattro anni. Rimasto solo, Ludovico trascorre i suoi ultimi giorni dedito alla pittura; assistito da una giovane governante, ma con sempre fisso nella mente il pensiero di lei che mai lo abbandona, sinché un mattino la vede ai piedi del letto e si spegne nella luce del suo sorriso. Una bella storia d’amore, indubbiamente, ma con tutte le caratteristiche per diventare un bel libro, per il modo con cui Gennaro Guaccio la racconta. E non solo perché è scritta con scioltezza e freschezza di stile e con quella partecipazione simpatetica alla vita dei suoi personaggi che la rendono sempre interessante ed autentica, ma anche per il messaggio di calda umanità e di fiducia nella vita che da essa promana. Liliana Porro Andriuoli GENNARO MARIA GUACCIO: RITRATTO DI DANIELA - (LFA Publisher, Napoli, 2017, € 16,00)

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UN LAMPO Un lampo ed è un’immagine che torna. Si fa la vita un volo di pensieri nel vento della sera disadorna da cui affiorano tutti i morti ieri. Un nome e nella mente si ravvivano le smarrite sembianze. Il tempo corre a ritroso, inventando trasparenze sopra il filo dell’ora che trascorre. Di antichi fuochi la mente si adorna nel ridestare le spente parvenze. Elio Andriuoli Napoli

IL NATALE DI OGI Il Natale di oggi è tutta questa solitudine che stanotte intorno mi scintilla. Cerco i tuoi occhi nelle vetrine addobbate, noi due il freddo il fumo delle labbra il tepore dei tuoi baci sulle mie mani screpolate l’albero senza luci e l’argento e l’oro dei nostri passi leggeri nel sogno senza meta. Gianni Rescigno Da Cielo alla finestra - Genesi Editrice, 2011.

FORSE I NAVIGANTI Ora i gabbiani nei grigi mattini sulle spiagge deserte sfiorano barche abbandonate, avidi calano sulla preda che sale sul mare ribollente. Forse i naviganti già hanno raccolto esausta attaccata a una vela la rondine che migrava, affidata alle acque di un oceano una lettera chiusa in una bottiglia. Franco Saccà (1911 - 1974) Da Vento d’autunno


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Antonia Izzi Rufo riscopre il gusto della vita grazie al pronipotino Lucio jr.

LA NONNA INNAMORATA VA “OLTRE LE STELLE” di Luigi De Rosa

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NTONIA Izzi Rufo, la vincitrice del Premio Letterario Pomezia-Notizie 2016, laureata in pedagogia, insegnante da una vita, e autrice di oltre una sessantina di libri tra poesia, prosa e varia, vive a Castelnuovo al Volturno, in provincia di Isernia. Nel 2017 ha dato alle stampe, per i tipi delle Edizioni Eva di Venafro, Oltre le stelle, un volumetto d'una quarantina di pagine, piccolo ma esuberante di tenerezza, di amore, di bellezza. La silloge di venti liriche è ispirata e dedicata al suo adorato pronipotino Lucio jr. Potrebbe sembrare un passaggio obbligato, quello del poeta diventato nonno che si accorga che il mondo non sta finendo, anzi, che la vita umana ha una forza di rinascita e di prosecuzione spettacolosa . Di un poeta che si riscopra, innanzitutto, padre o madre (in fin dei conti, dice al piccolino, “ ...Sei di tutti, parte dell'umanità, non solo di mamma e papà, anche mio: c'è in te un po' di me.”) E di un poeta che, naturalmente, esalti l'oggetto del proprio amore come se fosse l'unico

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bambino eccezionale esistente sulla faccia della terra. (Cosa che è vera.). Nonno (o bisnonno, come in questo caso) che, innamoratosi follemente, anche per una ricorrente legge di natura (e che, come tale, sopporta poche eccezioni) del proprio nipote o pronipote, gli dedica una o più delle proprie sillogi più fresche e felici. Riscoprendo i buoni (i buonissimi) sentimenti, la gioia dei fiori e della Natura, delle care bestiole, la curiosità per il mondo e per centomila cose da imparare, la felicità gratuita per il giocare per giocare, per il sognare per sognare. Le venti poesie di questo bel libriccino, che si apre con una illuminante Prefazione di Giuseppe Napolitano, direttore della Collana La stanza del poeta della Editrice Eva, sono tutte da gustare, magari con un sorriso del cuore oltre che con gli strumenti della critica letteraria. La lirica eponima, Oltre le stelle, ci offre la chiave per l'interpretazione, spiritualmente corretta, di questa tappa nella vita e nella produzione letteraria di Antonia Izzi Rufo: “Riversare su un fiore tutta la mia tenerezza, amarlo d'un amore puro, sano, trasparente, attingere da esso estasi interiore, impulso a volare oltre le stelle del firmamento, è il mio senso di vita, il ritorno alla fanciullezza ed alla spensieratezza, al tempo delle fiabe...” Ma non c'è solo la donna, con tutte le sue doti migliori, a far valere i propri sentimenti, il proprio istinto materno. Concordo con Napolitano quando scrive che in Oltre le stelle c'è anche la maestra, con la sua dedizione a tutti i bambini e la sua onestà intellettuale. E, aggiungo io, il suo studio e l'applicazione – con buon senso e amore – della psicologia dell'età evolutiva. Ma soprattutto qui c'è anche, e in modo determinante, la poetessa. Luigi De Rosa Antonia Izzi Rufo – Oltre le stelle -poesieEdiz. EVA – Venafro (IS) – pagg. 48 – 8 €


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CARLO CIPPARRONE BETOCCHI IL VETTURALE DI COSENZA E I POETI CALABRESI di Elio Andriuoli ’INCONTRO di un giovane poeta con un poeta già affermato può definirsi questo saggio di Carlo Cipparrone, intitolato Betocchi, il Vetturale di Cosenza e i poeti calabresi, apparso nelle Edizioni meridionali tra i libri della Biblioteca di “Capoverso”. E in verità si tratta di un incontro molto fruttuoso, dal momento che valse a dare una maggiore consapevolezza di sé al giovane poeta e ad aprirgli nuovi orizzonti. L’occasione fu offerta da un viaggio compiuto da Betocchi a Cosenza, allo scopo di tenervi una conferenza sulle riviste letterarie in Italia nel primo Novecento. Cipparrone accolse l’ospite al suo arrivo e gli fece da guida nei giorni del suo soggiorno in città, accompagnandolo nella visita dei principali monu-

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menti del luogo, insieme a Nerio Nunziata, un altro poeta cosentino. Nacque così tra di loro un’amicizia che durò negli anni e che diede luogo anche a un carteggio del quale questo libro riporta alcune lettere di molto interesse. I giovani poeti trovarono in Betocchi un padre spirituale e una guida che li aiutò a svecchiare il loro bagaglio culturale, basato essenzialmente sul passato e poco proiettato sul presente, mettendoli anche in contatto con altri letterati del tempo. Oltre al capitolo introduttivo di Carlo Cipparrone, riguardante Le giornate cosentine di Betocchi, che, come osserva Pietro Civitareale nella sua prefazione, vale a storicizzare l’ evento in maniera puntuale e diffusa, si possono leggere in questo libro un altro articolo dello stesso Cipparrone e di Nerio Nunziata riguardante l’incontro (apparso su “Cronaca di Calabria” del 25 novembre 1957) e l’ articolo di Carlo Betocchi (apparso su “Il Popolo” del 12 dicembre 1957), nel quale viene espresso il parere che per un rinnovamento del Sud sia necessaria “una trasformazione della coscienza e del costume sociale” e “una rivalutazione della funzione politica” in quelle terre. Compaiono successivamente in questo libro le poesie Il vetturale di Cosenza di Betocchi, in cui con finezza d’intuito il poeta coglie il disagio di una regione che non era ancora riuscita a trovare se stessa e il suo equilibrio civile e politico; e la lunga poesia Betocchi e la comune strada di Cipparrone, la quale riassume, con sciolta e sicura parola, gli eventi e i pensieri del poeta toscano nel breve tempo del suo soggiorno in Calabria. Segue il carteggio. costituito da una decina di lettere e cartoline postali, delle quali vengono qui riportate quelle di Betocchi, che denotano una viva cordialità di rapporti tra il già affermato poeta e i suoi giovani interlocutori. Compaiono da ultimo due capitoli, I rapporti di Betocchi con i poeti calabresi e I poeti calabresi, nei quali vengono riferiti episodi di vita e si riportano giudizi di Betocchi su questi poeti poco noti, ma pure capaci di pregevoli esiti.


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Viene in particolare ricordato in questa sede Lorenzo Calogero, che visse per lo più appartato e non ebbe in vita i riconoscimenti che avrebbe meritati, pur essendo dotato di indubbie virtù di poeta, come dimostrano l’ assegnazione fattagli del Premio “Villa San Giovanni” nel 1957 e la pubblicazione nella collana dell’Editore Lerici del primo volume delle sue Opere poetiche, apparse postume l’ anno successivo alla morte. Calogero fu apprezzato specialmente da Sinisgalli e da Betocchi, che credettero in lui e ricevette inoltre gli apprezzamenti di Ungaretti e di Montale. Un altro poeta di cui si parla in questo libro è Nerio Nunziata, intimo amico di Cipparrone, il quale nel presentarlo mette in luce il carattere della sua poesia, “interiorizzata e di tono crepuscolare”; il suo innato pessimismo e la sua salda fede religiosa, oltre al suo “linguaggio scarno ed essenziale, ma classicamente colto”, e i il suo costante invito alla speranza. Viene poi Ermelinda Oliva, poetessa e narratrice nata e vissuta a Palmi, dove ha svolto funzioni di docente. Osserva Cipparrone che i suoi versi, “caratterizzati da una schietta religiosità, dalla fede in Dio e da un continuo confronto dell’anima col proprio destino, esprimono ardori e sentimenti naturali, legati alla migliore tradizione romantica meridionale”, come appare specie dalle raccolte pubblicate dall’Editrice Laurenziana di Napoli. La caratterizzano inoltre l’amore per la natura e la schiettezza dell’ispirazione, nonché “un intimismo fortemente permeato di misticismo”. Segue Gilda Trisolini, a sua volta autrice di alcune significative raccolte di versi, in seguito rifluite nel grosso volume La vita divisa del 1992, la quale “muove da una realtà autobiografica tradotta in un contesto immaginativo di simboli e metafore”, con una “particolare attenzione per lo stile”, che dà luogo ad “un canto dai toni elevati, quasi sospeso in una dimensione fuori del tempo” e caratterizzato da una marcata musicalità. Ultimo dei poeti calabresi qui ricordati, è Silvio Veltre, dalla “poesia corposa, ricca d’ umori aspri e vitali e di intense risonanze”,

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che viene annoverato “tra i migliori poeti realisti calabresi del secondo Novecento”. Tra i suoi libri sono ricordati in particolare È tornato Gesù nella mia valle e I morti e vivi e i padiglioni. Un libro di molto rilievo questo di Carlo Cipparrone, non soltanto perché ci rivela alcuni episodi della vita di uno dei poeti più importanti del secolo scorso, qual è Carlo Betocchi, ma anche perché ci offre la possibilità di avere una migliore conoscenza della terra di Calabria e della nuova poesia che in essa è nata. Elio Andriuoli CARLO CIPPARRONE - Betocchi il vetturale di Cosenza e i poeti calabresi - (Edizioni Orizzonti Meridionali, Cosenza, 2015, € 12,00)

BRIGLIE SCIOLTE Il ciangottìo perveniva alle orecchie insidioso, era un vero e proprio supplizio. Rompendo il casto silenzio frusciò su di me e non fui più capace di pensare. La mia memoria diventò un deserto arido di una desolazione indicibile e il Ghibli mi assaliva portandomi via ogni residuo di memoria remota. Adesso libera e a briglie sciolte, vado trottando come un cavallo nel prato, ogni suono è un’esplosione di gioia indescrivibile, diventa un’orchestra di mille violini e sogno! Sono ancora capace di sognare e di aspettare l’alba di un nuovo giorno con tutti i rumori assordanti che mi cantano intorno! Cav. Giovanna Li Volti Guzzardi Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori (A.L.I.A.S.)


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50 anni fa l’Italia divenne adulta

FU UN MOVIMENTO EVERSIVO IL “68”? di Salvatore D’Ambrosio RASCORSI i cinquant’anni tutti i fatti si storicizzano: è cosa convenzionalmente accettata. Siamo dunque a un traguardo, che ci fa comprendere, tra l’altro, quanto siamo diventati non dico vecchi, ma “adulti avanzati”. Eppure sembra ieri; e dico una cosa che ho sempre poco amato profferire. Cadono in questo 2018 i cinquant’anni della rivolta studentesca del 1968. Il bellissimo maggio parigino che infiammò tutte le più belle piazze giovanili del mondo. L’aire, il via, il coraggio di scendere in piazza ci venne da Parigi, ma diciamo che il mosto era già in fermento in quasi tutti i paesi liberi e di avanzata civiltà, e quindi anche in Italia non si aspettò molto a cogliere la buona occasione per rivendicare diritti nuovi e per riaffermare e stendere a tutti quelli preesistenti, ma che in vero erano appannaggio di pochi. Ma il movimento di “liberazione delle masse”, realtà diventata slogan in quel finire degli anni ‘60, partiva in effetti da una situazione socio-politica datata almeno dieci anni prima. Nel 1958 veniva eletto, come successore di Pio XII, Papa Giovanni XXIII: “il Papa Buono”. Non ostante la sua bonarietà, il suo aspetto sereno, pacifico, la sua calma nel parlare e anche nell’agire, questo Papa fu un grande innovatore, sebbene di grande fermezza nei

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principi cattolici irrinunciabili. Accolto con grande calore, dopo l’algidità di Pio XII, dai cattolici innanzitutto, fu apprezzato e in un certo modo seguito, anche da coloro che si tenevano ben distanti dalle cose ecclesiastiche. Aveva un grande carisma: si ricorda ancora il discorso breve ma emozionante e nuovo nelle parole e nell’approccio, che pronunciò dal balcone di S. Pietro appena eletto. C’era, la ricordo ancora, una luna grandissima e luminosissima. Parlò con termini semplici, comprensibili a tutti e per tutti. Fu definito “il discorso della luna”. Disse una cosa fondamentale che ci farà capire, in seguito, quale fosse l’obiettivo principale della sua divenenda pastorale. Disse che tornando a casa tutti i genitori avrebbero dovuto dare una carezza ai loro figli aggiungendo, per dare maggiore forza a questa sua prima lezione di amore, che quella era la carezza del Papa. Il Papa nuovo, dunque, ama la sua gente come gli altri, ma al contrario dei suoi predecessori non nasconde questo sentimento, anzi lo mette in risalto con stile, con gesti umili, con fermezza come richiede il suo Magistero. Si crea un clima che anche noi giovani cominciamo ad apprezzare. Si discute nei nostri incontri di questo Papa in senso positivo, cosa che non si era fatto prima. Lo sentiamo disponibile all’ascolto delle problematiche nuove che, sul finire degli anni “50, cominciavano ad interessare la società italiana. Tematiche come il divorzio, il matrimonio dei preti, dei rapporti sessuali pre matrimonio; di tutte quelle esigenze che una società ritornata a vivere serenamente, avendo ormai messa alle spalle la crisi postbellica, aveva o si prospettava di raggiungere. Ovviamente anche la società con la politica e l’economia in buona salute, diciamo così per una certa amministrazione onesta della cosa pubblica, concorreva alla realizzazione di un clima positivo. Ma si sentiva il rombo del rinnovamento provenire maggiormente, però, dalla chiesa di Papa Giovanni.


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La cosa sua più sensazionale fu quella di indire un Concilio Ecumenico. Per noi giovani fu una delle prime grandi novità. Fino ad allora avevamo sentito parlare di Concilio solo studiandolo nei libri di storia. Adesso la vivevamo la storia. Da quel Concilio verranno cose che modificheranno sostanzialmente la società italiana e tutta la cristianità. Nel 1963 poi, poco prima che morisse, fu promulgata l’enciclica Pacem in Terris: un documento di grande importanza nel quale detta parole fondamentali per il rispetto dell’ uomo, della natura, del creato affinché si viva tutti realmente in pace. Vi sono in questo documento le prime indicazioni inderogabili sul rispetto della donna e del suo ruolo nella società, non solo come madre, ma anche come artefice del progresso civile unitamente al maschio. È intorno alla lettura ragionata di questo documento e di altri fatti, che renderanno densi quegli anni, che avrà un grande impulso il movimento di liberazione della donna, con il “femminismo”. Oggi l’attacco integralista di stampo maniaco-maschilista costante e in progresso, anche nel nostro mondo fatto di scontate e consolidate conquiste civili della donna, sta portando alla situazione odierna, dove si ammazza colei che la cultura del ’68 aveva resa libera da tutte le millenarie sottomissioni. Ha dato il via in quel ‘58, il Papa Buono con la sua politica, a un processo di umanizzazione della società italiana e del mondo, che porterà alla maturazione di idee e di richieste le quali porteranno a una contestazione generale della società ormai fuori tempo e luogo. Sembra strano ma è così. Partirà proprio dalla chiesa l’input che darà l’avvio ad una stagione di rottura con il passato, proiettandosi verso il futuro. Più o meno nello stesso periodo della seconda metà degli anni “50 del secolo passato, un prete di nome Lorenzo Milani, si troverà ad accendere la miccia di una bomba che farà parecchio rumore. Il Milani , cappellano a San Donato di Calenzano, organizza e promuove una scuola

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per operai: possiamo dire una prima scuola popolare dove si andava per imparare a leggere e scrivere e a ragionare. Non l’avesse mai fatto. Regnante Pio XII fu immediatamente punito per avere osato uscire dal gregge dei preti fanatici dell’oratorio, dove tutto è divertimento e poca catechesi e, ancora più, cultura esclusivamente dogmatica. Venne mandato a fare il priore in mezzo alle montagne, nella parrocchia di Barbiana. Siamo nel dicembre del 1954. Un affare per la chiesa fiorentina che lo aveva esiliato, ma un affare anche per lui che, con relativa maggiore libertà, poté seguire il suo desiderio di elevare culturalmente i ragazzi dell’Italia futura. Nel 1958 scrisse Esperienze Pastorali, libro non gradito logicamente e che il Sant’ Uffizio fece ritirare dal commercio. Ma si sa quando il seme è buono e cade sulla terra fertile, i frutti non tardano a venire. Intanto i ragazzi della sua scuola cominciavano a capire di non essere solo pedine senza cervello da muovere a proprio piacimento. La sua era una scuola dove si andava per imparare che si deve saper leggere e scrivere, per non essere “fregati”. Questo suo lungo lavoro formativo, porterà i suoi ragazzi a compilare la ” Lettera alla professoressa” (1967), che sarà la base delle tante discussioni e rivendicazioni che di lì a poco interesseranno la società italiana. Due personalità che, mediante le loro azioni, facevano capire ai giovani italiani che, per cementarsi in libertà e democrazia, dovevano crescere nella cultura. Ma ci fu anche una letteratura e soprattutto una proposta di cambiamento, che veniva dall’area di sinistra, tradizionalmente più incline a guardare verso il futuro. Nei primi anni ’60 uno studente impegnato, come si diceva allora, leggeva, studiava, era abbonato ai Quaderni rossi o ai Quaderni piacentini. Si scoprono e si leggono anche i grandi pensatori dell’ottocento: Freud, Hegel, Marcuse, Nietzsche e altri, ma su tutti prevale la voglia di Karl Marx. Le librerie, soprattutto quelle che furono definite “alternative”, diventano punto di incontro e di serrate e intelligenti discussioni. E a


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volte anche eccessivamente accese, ma mai eversive come si volle fare credere. La cultura innanzitutto, come dicevano Papa Giovanni e Don Milani, ma anche il guru accademico- comunista Lucio Lombardo Radice. La cultura doveva essere di tutti e soprattutto non doveva essere quella che imponevano i padroni, che la desideravano essenzialmente classista, come la divisione della scuola in media per i figli dei signori, e di avviamento professionale per gli altri. Le prime avvisaglie di ciò che sarà poi il movimento del ‘68, si ebbero già con manifestazioni studentesche degli anni ’60 ,’61 e nel ’66 con l’occupazione dell’università di Roma e la morte di Paolo Rossi. Quello stesso 1966, non dimentichiamolo, fece accorrere a Firenze miglia di giovani a salvare la cultura italiana da un tremendo alluvione. Episodio non senza il valore simbolico di quanto forte nelle masse stesse diventando la conoscenza, il sapere, il valore della cultura racchiuso in quei volumi coperti di fango. Con la stessa consapevolezza che la cultura era di tutti e per tutti, il 1° marzo 1968 si ebbero a Valle Giulia i primi scontri generazionali, di cultura e di potere, con la nemica principale della classe operaia: la polizia. Ma Pier Paolo Pasolini, un intellettuale di grande lungimiranza e cultura, non compreso, simpatizzò con i poliziotti, in quanto spiegò che i bersagli principali e di più elevato spessore, erano altrove. Forse aveva anche ragione, ma dimenticava che in maggioranza quegli studenti erano figli di borghesi, che avevano fiutato dove si stava dirigendo il nuovo potere, diventando tutti di sinistra. Reprimere la libertà di manifestare scatenò il desiderio di rivoluzione. Nelle settimane della primavera del 1968, le università divennero i centri dove si scriveva, si ragionava, si propagandava di tutto creando anche una specie di babele culturale. La qual cosa continuava anche fuori dal contesto universitario. Si andava a discutere a casa di gente umile: operai, contadini, sconosciuti, che non si ri-

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vedranno mai più. Si scopre la città di notte, vagando o fermandosi nei posti più strani, sempre con lo spirito di conoscenza. Tutto questo per rompere con il passato dei padri, e creare più legame con le varie componenti della società. Società che andava perdendo i suoi caratteri arcaici durati anni e che si avviava verso la modernità. Sovvertimento di una società stagnante, dunque, rassegnata a una quotidianietà che sfiorava l’indifferenza. Il movimento socio- politico- culturale del ’68, non fu eversivo come più tardi venne etichettato. Tendeva ad abbattere, questo si, vecchi schemi non più in sintonia con le nuove generazioni, ma conosceva bene le trappole nuove che disseminava la modernità a cui si affacciava l’Italia contemporanea. Durò da marzo ’68 a dicembre ’69 la gioiosa macchina messa in moto da giovani menti, che credevano nella possibilità di dare pari opportunità a ogni uomo, qualunque fosse la sua estrazione sociale. Il 12 dicembre 1969 uomini vili di cui non si saprà mai il nome, ripartirono all’attacco per riprendersi quello che per secoli avevano depredato ad altri uomini più miti o rassegnati. Fu una partenza feroce in quel dicembre; una partenza con 17 innocenti bruciati e dilaniati da una bomba. Negli anni a seguire ve ne furono tante altre di bombe, ma sempre con vittime che non avevano nulla da spartire con i giochi di mentecatti del potere. Credettero di bruciare costoro in un attimo, tutto il lavoro di Giovanni XXIII, di Don Milani, Don Dossetti, Aldo Moro, Giorgio La Pira, don Primo Mazzolari, padre Turoldo, padre Ernesto Balducci e tanti altri, che già nel primo dopo guerra avevano dato l’avvio a quel dissenso costruttivo, per fare un’Italia nuova, moderna, cattolica ma nella libertà di scelta; fare rinnovamento comunitario in equilibrio e profondità spirituale non necessariamente di tipo confessionale, bensì sotto l’ eco della misericordia evangelica.


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Non ostante tutto, le personalità citate non riusciranno a fare del dissenso cattolico un’ arma vincente, non tanto per loro, quanto per la chiesa che andava sempre più vuotandosi di umane presenze. Ci riuscirà il Sessantotto “ laico” a sollecitare la Chiesa del Concilio Vaticano II, a ripensare la propria identità in un mondo in grande e irreversibile trasformazione. Solo allora compariranno i nomi dei Boato, Rostagno, Capanna e altri più o meno impegnati a costruire una Nazione civile e libera. Tra il 1969 e il 1978, anno dell’uccisione di Aldo Moro e della sua scorta, il Sessantotto filosofico gradualmente lascia il campo, si arrende, non si riconosce più in quelli che segneranno, fino ai primi anni ’80 indelebilmente, un periodo ricordato come gli anni di piombo, per i morti ammazzati spesso senza neanche una minima valida ideologia politica. Inizia nel nostro paese una stagione sovversiva, con l’intento di riportare all’immobilismo e al conformismo, caratteristiche di un paese che ha sempre rifiutato di fare quei passi importanti per uscire dal suo connotativo provincialismo. Quindi non tanto la freschezza di idee e di propositi del Sessantotto, che fu una ribellione di giovani e soprattutto intellettuali, portarono a una deriva violenta, quanto lo spavento, la paura di quelle classi dominanti alle quali sfuggiva il terreno da sotto i piedi. Terreno che era fatto di privilegi, arroganze, immunità, ribellioni circoscritte al solo loro ambito operativo. Di perdita di poteri. E tutto questo non si creda che fosse solo appannaggio delle destre, rimaste fasciste e xenofobe, sdoganate successivamente da un soggetto di nome Berlusconi, ma che appartenevano in misura uguale anche alle sinistre comuniste. Un certo sdoganamento avverrà anche per queste. Sarà opera di un uomo politico di grande carisma e spessore culturale, benché proveniente da una famiglia borghese, e si chiamerà Enrico Berlinguer. Al di là delle analisi socio-politiche il ’68 fu ed è stato “un grosso favore”, che hanno avuto in modo particolare gli italiani. Con esso sono cresciuti in benessere e libertà fino a allora condizionate

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da una mentalità retriva e contadina, per cui ci si vergognava di qualsiasi espressione di pensiero che non fosse allineata con la Chiesa o con il Partito a essa legato. Quegli anni, per la insolita simbiosi venutasi a creare tra Stato e forze industriali, porteranno a una crescita economica delle classi operaie e di conseguenza a acquisire bene durevoli, come per esempio la casa. Crescerà rapidamente dal ’68 in poi il popolo dei “padroni di appartamenti”. Si diffonderà anche il possesso dell’ automobile, del televisore e di tantissimi elettrodomestici, spesso acquistati e mai utilizzati. I mobili diventano di design e non più artigianali. Sono da esibire come nuovo status. Buttata alle spalle la fame, si rivendicano lignaggi mai posseduti. È l’inizio della trasformazione sociale. Non si creda però che tutto rimase chiuso nel politico e nel sociale come: lavoro per tutti, scuola per tutti, sessualità libera per tutti. Il periodo fu anche una grande stagione di rinnovamento artistico in tutti i sensi. Grandi testi teatrali, musicali, poesia nuova, arte nuova, moda nuova: uno stile di vita diverso, consapevole, maturo, in piena libertà di scelte. È il Sessantotto che fa scoprire e comprendere le potenzialità di un mercato dei giovani. Saranno essi che faranno diventare multimiliardari cantanti, attori, produttori di abbigliamento, cosmetici, profumi, e tutto il rutilante mondo che agisce intorno a questi settori commerciali. La diffusione della cultura del sapere leggere e scrivere, l’analfabetismo in quegli anni è ridottissimo, anche se resiste ancora un 5%, fa fare grandi numeri a settimanali come: Panorama, Espresso, ma anche a riviste tipo Playboy, Men, ABC, che sono gli indicatori del mutamento sostanziale della società italiana. Il benessere diffuso dovuto al boom economico, che in una certa misura dà lavoro a una grandissima maggioranza di italiani, mette a disposizione una economica personale più alta che, unita a una maggiore esigenza


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culturale, avvicina alle svariate forme dell’ arte secondo il gusto personale. Anche l’arte potremo dire quindi che “si arricchisce”. Si scoprono e si pagano molto bene pittori e scultori come: Andy Warhol, Guttuso, Schifano, Pollock, Angeli, Festa, Pistoletto e altri; tanti altri anche del passato come: Modigliani, Van Gogh, De Chirico, Matisse e il già milionario Picasso. Non è però solo una questione commerciale, legata all’agiatezza che è diventata appannaggio di una nuova e diffusa classe, definita media: classe che è venuta formandosi con l’ abbandono della terra da parte dei contadini che vanno in fabbrica e mandano i figli all’ università. La spinta libertaria del Sessantotto produce, anche, un vitalismo processuale artistico dove per fare arte non si adopera più solo il pennello e/o i colori, ma i materiali più strani che, rimettendo in discussione le forme stesse d’ arte, non vogliono azzerare i contenuti storico-artistici, quanto le modalità di presentazione delle opere d’arte. Smitizzare, revisionare per azzerare azioni iconoclaste o radicalismi. Si sente oggi, con sempre maggiore insistenza, qualche imbecille della politica e della cultura attaccare quella felice stagione, attribuendole tutte le colpe: che appartengono invece alla dissennata gestione fatta da incapaci e mediocri, da sempre dediti a fare di tutta l’ erba un “fascio”. La storia si crea nel momento in cui avvengono i fatti, e per le ragioni per cui i fatti sono accaduti. Ridiscutendo con il senno del poi, non avrebbero dovute esserci la Rivoluzione Francese, quella americana, quella di Mao, quella russa, le guerre di Indipendenza, la Breccia di Porta Pia, e tutti gli altri eventi storici che hanno reso migliore il mondo. Qualcuno continua a definire gli anni del Sessantotto sovversivi, gli diamo ragione per quella piccolissima parte della società che ritenne utile armarsi solo per ammazzare; ma gli diamo torto quando vogliono infilarci dentro tutti, anche quella società civile senza la

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quale, soprattutto oggi, non sarebbe possibile andare avanti e che si è sobbarcata a sacrifici e rinunce, e sempre lo farà, per mantenere alto il senso di libertà e di democrazia nel nostro Paese. Furono gli anni dove tutto ebbe un’ autenticità ispirata e carica di speranze, in mancanza delle quali sarebbe finito da un pezzo già tutta l’umanità. Resiste un neo, però: prima di cambiare il mondo, che fu lo slogan che contraddistinse quegli anni, avremmo dovuto cambiare noi stessi. Cambiare la società dal “di dentro”: fu quello che dissi, una mattina di quel maggio 1968, a un’assemblea di Facoltà confusionaria ma entusiasta. Fui subissato dai fischi. Lo slogan allora era: tutto e subito. In poche parole: un passaggio Gattopardesco di poteri e basta. La mancanza di prefissarsi l’obbiettivo del cambio radicale degli atteggiamenti già d’ allora, dobbiamo riconoscerlo, ci fa comprendere perché la società, cinquant’anni dopo, sta andando verso un pericoloso populismo. E ciò sembra confermare, che la storia non insegna quasi niente. Salvatore D’Ambrosio La grafica di pag. 30 è stata elaborata, nel 1968, dai designer Aldridge e Willok per il disco dei Beatles.

Se una sera … Invidiato avevi una Brionvega TS 505, un padre tra Sfax e Nicosia che ti portava in regalo racconti di viaggio. Il posto più bello della città vivevi: abitavi un dove con il mare sotto i piedi, e quella santa finestra del bagno borghese che ti regalava -fortunato- nudità gratis e quotidiana. E noi venivamo a consumarci l’isterico erotismo, quando volevamo. Poi ci mettemmo in tasca chi un biglietto di [ treno,


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chi una raccomandazione per un buon lavoro, chi un pennello o una penna per artista ignoto, chi qualche scena di matrimonio ancora in vita; e scomparimmo. Semi sfocata ho rivisto una sera - non so perchériflessa nella finestra del mio bagno la tua faccia con i tuoi capelli rossi. Ti fioccava ancora sulle spalle tanta forfora, la tua cenere bianca amico di quel maggio rivoluzionario. Ebbi forse la sorpresa dell’accenno di un [sorriso mentre cresceva sotto le dita il rilievo muto di una nuova ruga. Salvatore D’Ambrosio CADUTO E’ IL SOGNO Mi scuoto dalle illusioni, Paradiso di luoghi e di fatti, dissolta la nebbia che ha fatto stare nei sospirati ritorni, sono ricaduto nelle realtà dalle grifagne unghie che di veleno hanno alimentato la mia vita. Stare dentro è come non avere nulla che opprime, l’amalgama fa scorrere in un insieme uguale, un normale andare che non sa discontinuità e dislivelli. Stesso ferreo ritmo, niente che porti a vedere le condizioni opposte. Diviene bella pure la croce, un legame affettivo la tiene ogni giorno sul petto. Neppure le lacrime a dirotto che paiono sorriso aprono momenti allagati dentro i malumori. Sono gli sbalzi della psiche abbattuta che superano la barriera che è davanti. Sei l’uccello che volteggia pazzo, le zampe tirano dietro. Il corpo di pietra ha preso dimora attratto dal luogo ove ti sei trovato capovolto, come il muschio sopra incollato in stretta aderenza. Possono fracassare il cranio, non lo sai.

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Le pause sempre si alternano, fanno leggeri: l’immaginazione furtiva corre nei nascondigli, il vaso di Pandora nella testa pieno di tutto, le piccole cose amate che guardi lieto riempiono il respiro irremovibili. Attraggono le gocce di sangue rimaste punti fermi dove è caduto ciò che con dovizia di virtù è stato costruito prima. Ai sommovimenti Cristo sulla Croce si scuote, le spine sono più profonde. Si spera che il tempo non scalfisca molto né i percuotimenti siano lunghi. L’ansia ha infestato il corpo, è uno stato psicologico di instabilità continua, si teme che la frana rovini ancora; non si vuole l’attesa, deve il tempo in un attimo bruciarsi, avere salti. Le incrostazioni legano, come la ruggine in ferma convivenza con i rottami buttati in mucchi che formano appartenenza propria. Le fatiche inutili di Sisifo, dannazione torturatrice, come ostinarsi sopra l’acqua a fare buchi, all’asino villoso l’interminabile barba. Follie di una vita incastrata dentro ingranaggi rotti. Pervenuto a crisi estreme vai lontano in accensioni immaginative, le bevande amare inondano tutte le parti, il cuore gonfio sotto i piedi, la persona tutta da belluini denti strappata smembrata, a brandelli non la riconosci. Leonardo Selvaggi Torino

MATTINO La ragazza che nel mattino canta è così estasiata che la sua gola palpita come gli uccelli. La guarda il giovane che passa con la gerla del pane fra le case, e allontanandosi a lei sospira, cima fiorita, cielo. Franco Saccà Da Il vecchio battello.


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CARMELO BENE, COSTANZO E LA SQUILLA DI MENTANA di Giuseppe Leone DI tu questi flebili rintocchi …, recitava il primo verso della Squilla di Mentana, una poesia di Giuseppe Aurelio Costanzo, ispirata alla rotta dei garibaldini a Mentana il 3 novembre del 1867, di cui quest’anno ricorre il centocinquantesimo anniversario. Oggi, però, la Squilla di Mentana non ha nulla a che vedere con lo sfortunato evento ottocentesco; al contrario, sono i rintocchi malinconici che ci mandano le parole del direttore del Tg La 7, il quale, invitato non molti giorni fa all’Università di Firenze, ha così risposto a uno studente che gli domandava come diventare un giornalista: Hai un piano B? Una risposta che non lascia altro commento se non quello di dover ammettere che è finito tutto, per dirla con parole di caponnettiana memoria. Tuttavia, io non me la prendo con il giornalista, in lui scorgo il portavoce di un modo di pensare che non coincide necessariamente con il suo: è la voce di una deriva popolare, è “lo sprogetto” di ogni possibilità di progettare, “un ultimatum alla società, la fine del dicibile, la liquidazione della storia e di ogni cultura”, l’estremo saluto a ogni speranza di futuro da parte di una società che non vuole, non pensa, non cerca. È finita la società civile – vien da pensare e con essa la sua forza contrattuale che un tempo in Inghilterra costringeva borghesi e operai a guardarsi negli occhi e a stringere patti che a nessuno sarebbe

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poi venuto in mente di infrangere. Bauman al nostro tempo ha dato il nome di Società liquida, e non per chiamare i cittadini a innalzare tribunali del popolo nelle piazze, ma per giustificare, a cuor leggero, disastri che, in altre situazioni, avrebbero richiesto condanne esemplari nei confronti di chi li ha provocati. La risposta di Enrico Mentana - per diventare giornalista non sono necessari gli studi e le specializzazioni, ma soltanto accessori di fortuna - giunge a ciascuno di noi come una vaga minaccia, che ci lascia nella condizione di color che son sospesi, che non sanno se questi rintocchi vengon da chiesa prossima o lontana oppure sono squilli di bronzi o voce umana. Le guerre, si fa per dire, hanno un pregio e un vantaggio rispetto alla pace, di cui non hanno, però, alcun merito: generano, per contro, dopoguerra ricchi di speranza e di creatività. In tempo di pace, invece, le disfatte sono ancora peggiori, perché lasciano gli uomini con l’animo fiacco, senza rivendicazioni da fare, senza una dignità da difendere, senza più il desiderio di vedere un’alba. Il giornalista, allora, dicendo al giovane studente che il suo domani non lo costruirà, certo, con la propria virtù, non ha fatto altro che ricordarci che viviamo nella corruzione, e lo ha detto in un modo così semplice e sommesso che io non me la sento di dargli contro. Anzi gliene rendo merito per questa verità, seppur così banale; e buon per lui se s’è guadagnata per il nostro tempo, strappandola a Giuseppe Aurelio Costanzo, una prestigiosa insegna come questa. La Squilla di Mentana, appunto, da onorare, purché non si confonda fra le tante nuove insegne pronte a scontrarsi in questa prossima campagna elettorale. Giuseppe Leone


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LE INFIAMMATE ILLUSIONI DELL’ALBA CADONO NEL MATTINO di Leonardo Selvaggi I A tua figura mi si è fermata nella mente all’aria gelida di Latronico, per le strade ripide di ghiaccio, d’ inverno quando si respiravano nella quiete dei vicoli ammantati di neve gli odori di casa commisti di umido e di silenzio. Eri fremente, presa dalle illusioni, tutta emanazione dell’esuberanza, uguale a germoglio, vivido, spontaneo. Il candore puro della pelle in quegli anni della tua giovinezza, ancora chiusi fra le pareti ruvide, incrostate di tempo, nei recinti dei ricordi e delle tradizioni di paese. Mi vedevi con gli occhi azzurri e penetranti, riservato; timidezza e sensibilità mi vestivano, combattuto dalle contraddizioni tra una psicologia sofferta e l’ansia di vivere, sognatore assillato, bruciato dentro un ambiente incatenato dai pregiudizi e le inibizioni. In esaltazione il mio Io si inalberava come un animale selvatico, mi vedevo compresso, svuotato, infiammato, staccato dalla realtà. Mi apparivi un fiore alato, librata leggera fra le case rustiche e svolazzante sopra il selciato delle vie. Mi portavo dentro Torino e mezza Basilicata, estraniato capivo poco la concretezza, l’accesa immaginazione mi trasportava verso i sentimenti dell’ amore, quasi un tessuto di seta mi faceva delicato e trasparente: ero pieno di idealizzazioni. Dentro un fortino la realtà sfibrata e filtrata mi si contornava, perso ogni peso, in evanescenza sulla punta delle dita, sfuggente. La vita in quei giorni di Latronico tutta di dolcezza raffinata trascorreva con un sapore particolare, mi nutrivano molto le lunghe serate dalla fioca luce e le gelide notti, raggomitolato in me stesso. Si stava lontano dal tempo, avvolti dall’atmosfera di una natura tra il verde e l’aspro che prendeva i limiti dei monti vicini, una specie di sprofondamento con protezioni. Si pensava in una so-

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spensione eterea all’amore che uguale a qualcosa di angelico con volo d’uccello doveva scendere nell’animo tutto ovattato con calore quasi materno. In questo recinto il sentimento di nostalgia, faceva la sua parte, dava un abbellimento di tenerezza al presente. Ancora altre evanescenze psicologiche sopra il reale ammassato e informe. L’ indeterminatezza e un senso di astrazione tenevano dentro una fine malinconia. Forse la felicità era a due passi e non la capivamo; siamo andati trasportati di peso quando le nostre ansie ci fasciavano petto e addome. Con la naturalezza del sentire e i modi liberi per te tutti i giorni erano una primavera continua in una veste che anche d’inverno pareva d’organza. Io in una estesa traiettoria di anni sempre con gli uguali pensieri. Incrostata avevo una specie di innocenza lacerata, vivevo di lontananze senza capire le accidentalità che trovavo sotto i passi. La stessa geografia si tagliava con fratture tra Basilicata e Piemonte ove con tristezza vedevo i genitori trasferiti soffocati in una anticipata sepoltura. I miei luoghi di origine li sentivo tutt’uno con la struttura fisica, i modi di essere e la mia connaturata ipocondria. Le misere terre di Basilicata trovavano riscontro con le privazioni e gli stenti vissuti. II La tua figura sbiadita nel tempo mi dà l’ impressione di essere fuggita dal paese amato, si è illanguidita verso distanze introvabili. Vederti su una fotografia mi renderà facile percorrere le masse oscure interposte che hanno livellato, spaccato il cuore, deluso la purezza delle nostre idee. Anni passati che hanno avuto la furia della tempesta facendo rovinare quanto di ostinato si muoveva nella mente. Si sono aperte voragini, rotolando tutto in basso, frantumato. È rimasto intatto il nostro equilibrio, i modi non si sono scalfiti, mantengono la loro resistenza, l’ immutabilità del carattere, impavidi con la coerenza riaffermata. Le apparenze ci sono state d’inganno, abbiamo pensato che i principi in noi radicati anche gli altri li avessero, e sia-


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mo andati con gli occhi vaganti. L’animo nostro si è trovato in situazioni d’incastro: rinsecchito tutto, un’arida landa si è fatta dentro. Siamo rimasti senza amore. L’ esibizionismo e le vanità hanno tolto i colori e la splendidezza del nostro viso. Opposizioni e volontà irredita, discontinuità la vita interiore ha trovato con il mondo di fuori. Come dentro corteccia dura la giovinezza costretta nelle angustie non ha camminato con gli anni, abbandonata alle illusioni che si infiammano all’alba e sfumano al mattino. Sempre in lotta con se stessi, tenendosi aperte le fratture della persona, riempite di vita sognata e di insoddisfazioni; lunghi strati arsi e coste desolate hanno contornato il corpo che ha perso la snellezza e l’alterezza propria. Ruggine e chiodi incarnati sulla fronte e per tante parti di noi che hanno vissuto di crisi, il vuoto e i desideri sfuggiti. Le mani, la pelle del grembo, gli occhi socchiusi abbandonati sul collo e fra i capelli. L’amore in piena libertà che vive di immediatezza e di incontri, in indipendenza di spirito, che fa rifluire le idealizzazioni senza psicastenie e sofismi. L’amore senza le inquadrature formali, fatto di corpo e di interiorizzazioni. Pensiamo a quello in spontaneo moto degli esseri viventi che si muovono in armonia con la natura. La voglia irrefrenabile di scuotersi da quell’ammasso di anni amorfi che hanno reso il viso ammorbato: diversi tanto da quelli che la felicità portano stampata in faccia. Di correre con quell’ansia antica che è rimasta senza movimenti e senza arrivi con dentro una smania di vivere e di amare. Riconoscersi negli occhi, ritrovarsi dopo aver attraversato profondità interiori e valicato barriere, avvallamenti, cammini intricati serpeggianti per anfratti dirupati: fra la gente che si affolla e si disperde, che arriva e si allontana fremente, accavalla i piedi spingendosi con il deretano per non ritardare, piena di trepidazione e di fretta. Un via vai dal treno che si è fermato nella stazione, ancora ansimante, affaticato dopo corse lunghe e pesanti. Risvegliarsi penetrando come lancia dentro le tenebre del tempo che si è

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messo in mezzo quale grande masso, che ha offuscato di amarezza gli irrealizzati giorni, rimasti dilaniati, tenuti sospesi. III Abbiamo la volontà indomabile e le programmate giornate, tanti progetti divenendo una macchina che si muove con ordine senza recedere. Siamo ostinati con movimenti geometrici, ripetitivi. Sordi, materializzati sopprimendo gli aridi, inconsistenti pensieri che sanno di alienazione. Abbiamo sfoltito la razionalità minuta divenuta vacuo cerebralismo. La naturalezza del contatto del corpo che annusa gli odori della pelle: avvicinarsi all’altro corpo aggrappandosi, prendendosi per mano, portarlo con sé come preda nella tana. I sentimenti con dentro flussi di sangue e il desiderio di stare insieme. Il moto del libero andare, come nel vento, i capelli sparsi nella corsa furiosa, il fazzoletto al collo in un diffuso alone di azzurro. Mi sono trovato avvolto da fitta polvere innalzatasi da una commistione di oggetti franati, in luoghi che si sono scomposti, fra frantumazioni di fatti, patimenti portati addosso, con impulsi soffocati. In profondità inavvertibili con voci lontane, in un avvolgimento di tacita attesa interminabile. Contorto ciò che si è voluto con il moto sentimentale dell’animo: sempre andato via dalle mani, inafferrabile, fra le discontinuità e le asprezze che si sono avute vicine. I desideri senza volto, quasi senza corpo con la facile vicendevole compenetrazione, il calore dell’ altra persona che ti copre con la leggerezza delle piume, in un nido ove senti lambirti con impercettibile soffio di respiro. La voglia di sentire parlare per telefono ha fatto vedere squarci di carne vivida con larghe ferite, aperte passioni frenate, il tormento come squassamento delle membra in continua esagitazione. Usciti dalle compressioni psicologiche a riprendere le native forze, nelle più intime inclinazioni connaturate, verso la libertà scrostandoci ancora dalle sovrapposizioni e incertezze, dalle vicinanze spinose che non conoscevano il cammino in ampiez-


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za con l’andatura leggera gonfia, frusciante per i viali lunghi in esaltazione di sé, nel respiro primaverile, festosi in una giornata che fa risorgere e riprendere i significati propri del nostro esistere. Ritrovare il candore degli anni liberi, riunendo i frammenti di sé dopo i momenti ottenebrati avuti, di smarrimento senza essere nel pieno della nostra esistenza, svincolandoci da intrecci di confuso ammassamento, senza sentire la felicità della compenetrazione e della fusione, in sintonia-simbiosi che fa l’ingrandimento di sé, amplificazione uguale ad emanazione intimistica, travaso dell’uno nell’altro in uno scambio di energie, aggiungendo e riformando con gli slanci delle illusioni. Trovarsi come in un sogno, in effusione libera romantica, in contatti estasiati, di corsa ad incontrarsi in spontaneità di afflato con il volto pieno di lontananze. Attraverso passaggi di trasformazione, verso forme nuove, quelle genuine e natie della persona che vanno con le attrazioni avvertite come effluvi magici, di tepore, quasi senza vedere l’altro: in un frenetico, entusiastico felice trovarsi faccia a faccia, spinti da altre forze, per entro i veli diafani, i colori consumati, gli sguardi sprofondati. L’irrealizzata vita portata negli anni per le contrarietà che hanno ridotto i piedi doloranti, negli scoscendimenti e per le alture. I passi dal ritmo continuo ostinato fino alla cima, sopra come decantato, in un’ ascensione sublimata. I burroni di sotto con la forza di attrazione hanno preso; rotolato tra le spaccature e gli sterpi, sfinito a brandelli, svuotato, i panni lacerati. IV Una emanazione spirituale, una figura evanescente dopo i cammini fatti, fradicio, inaridito assetato con una giovinezza volatilizzata. La voglia di distendersi di rifarsi al nutrimento di caldi contatti, un allinearsi su membra generose, attingere sostanze di miele e di dolcezze. Buttato sul viso, le mani con avidità materna attorno al collo, pazzo d’amore. La vita avversa ci ha denudato, una specie di tempesta ha smantellato quello

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che si possedeva. Giorni che passano lungo traiettorie di ferro, ci serve un fiume di pazienza per avere la vita sopportabile. Ora più fragili, corrosa la pelle; si ha bisogno di morbida copertura, di una mano che passi sopra uguale a medicamento emolliente, prenda ogni piccola parte e la curi. I patimenti hanno aperto varchi ampi, occorre passarci dentro per ricucire gli strappi avuti. Ci siamo persi, sbandati raggomitolati lungo l’orlo del letto. Quasi ai margini di una spiaggia desertica. L’aridità del cuore appiattito fa andare distratti con i pensieri abbattuti. Abbiamo bisogno di voci che scorrano per riconfortarci. La durezza dei giorni meccanici ci ha trasportato frastornati. L’ erosione ci scarnifica, immoti attorno il tempo di patina copre l’epidermide, il respiro pare stretto da una morsa: come le case grigie stiamo all’intemperie, nessuna difesa dalla pioggia che scrosta l’intonaco, che sbianca il viso sempre più lontano, non lo riconosci, perde le proprie sembianze, s’ incava sparendo da quei tratti che davano vivezza e sorriso. Le case ci paiono strette, le pareti fattesi quasi di lamiera. Il tempo fermo ci preme sulle tempie, non abbiamo spazio, minimizzati ogni giorno. Per le strade la desolazione ci avvinghia da quando il duro strato di malumore fa stare distanti da se stessi, in uno stato di immobile attesa la persona tutta intera raffrenata. Ora nelle notti che ci comprimono al pensiero di essere stati percossi dalle realtà dure le illusioni si accendono come barlumi lungo strade nuove, attorno alle nostre forze che riprendono le proprie spinte. Vogliamo le illusioni consistenti, forti decise come la realtà, non debbono frantumarsi dissolte appena la luce del giorno si diffonde intorno abbagliandoci. Le strade che ci hanno fatto smarrire si sono infossate, contorte, hanno legato i passi soggiogandoci. Confusi, ancora increduli. Come un richiamo, una voce dentro di noi impercettibile, calda di passione si afferra addosso, scorre nelle latebre dell’animo, per gli anditi e i passaggi di tutta la persona. Leonardo Selvaggi


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Estrema semplicità non immune da una voluta eleganza formale

GIOVANNA LI VOLTI GUZZARDI: RICORDI COCENTI di Susanna Pelizza

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L Croco di Novembre 2017 si apre con i “Ricordi cocenti” di Giovanna Li Volti Guzzardi che ha conquistato il terzo posto al concorso “Città di Pomezia 2017”. Molti conoscono la Guzzardi come “una formatrice di coscienze” (tanto per usare un termine del Fortini), il suo valore nell’ impegnarsi a promuovere la cultura all’estero, in particolare in Australia, dove vive. Questa raccolta è uno spaccato di vita vissuta e nell’introduzione il Defelice tende a sottolineare “il verseggiare spontaneo e così lineare e piano da sfiorare la prosa; è segno di estrema spontaneità e urgenza, così pressante da non permettere sosta, ripensamenti, aggiu-

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stamenti letterari che, pure, sarebbero necessari: siamo in presenza dell’estrema semplicità del cuore e dell’assenza di ogni ricercatezza” (da “L’altalena di sentimenti e slanci” D. Defelice, op. cit.).Eppure, al di là dell’ estrema semplicità del suo verseggiare, c’è un’ eleganza formale data dalle rime interne ed esterne, dal valore ritmato del pensiero che libero naviga nel suo modulato da assonanze e consonanze. “Un calmo e leggero venticello/mi accompagna come un fratello (...) del mare mi fa compagnia/tutto è un concerto d’ allegria/(...) coi calici colmi d’acqua di fonte/per festeggiare il bacio/che con brio ci dà in fronte” (da “Venticello” op. cit. pag. 11). Il valore cadenzato di questi versi serve ad accompagnare il lettore in un’atmosfera quasi magica, irreale, molto simile per alcuni versi, ai moduli paesaggistici dei verseggiatori settecenteschi. Ma la lirica della Guzzardi non è, come sembrerebbe, una lirica di evasione: il suo “inno al creato” è un impegno collettivo, volto a spronare il prossimo in direzione di quell’amore Universale in cui, ognuno di noi, nessuno escluso, è invitato a partecipare anche, con il semplice impegno dell’essere poeta. “Abbracciare il tempo e dondolarlo/ accarezzarlo, rispettarlo, coccolarlo/amare sempre all’infinito tutto il creato./Amare, solo amare e donare amore!/L’amore!” (da “Solo amare op. cit. pag. 9). In un tempo in cui si è “perso il valore storico del fare poesia”, in cui molto spesso lo stesso genere cade, cedendo alla “banalità collettiva” di “vuote canzonette intimistiche”, la particolarità di questa autrice sta nel combinare, bilanciando, la melodia lirica con presupposti etici e morali che restituiscono, alla lirica, il suo altro valore civile. Susanna Pelizza

Il Croco di questo mese (il n. 131) è dedicato a: LINA D’INCECCO SUGGESTIONI Presentazione di Domenico Defelice


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Il Racconto

LA COPERTINA ROSA di Anna Vincitorio

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NA grande sala piena di confusione; gruppi più o meno numerosi, un parlare fitto. Poteva anche essere importante ma non afferrava le parole che si susseguivano ora lente, ora concitate. Avvertiva quel senso di spiazzamento che dà la solitudine. Cosa ci faceva lì? Lo strano era che a volti sconosciuti si susseguivano occhi, sorrisi già incontrati in un passato indefinito. Riaffiorano una spiaggia deserta dalla rena rosata, qualche ciuco nel verde e un volto assopito; immagini di una giovinezza lontana ormai perduta. Perdute anche le occasioni di un dialogo. Lei si aspettava risposte dai lunghi silenzi. Immaginava chiarimenti, scuse oppure un regalo imprevisto. Niente. Queste visioni scompaiono e lei si vede in fuga con una bimba tra le braccia avvolta in una copertina rosa. Non ne scorge il volto ma ne percepisce il calore. Spuntano soltanto i piedini. Corre via. Deve. La strada è lunga. Disseminati, campanili, piazze, fontane e, sotto i piedi, ciottoli dissestati. Avverte brusio dietro di lei, non persone ma ombre che si allungano, anch’esse senza volto. Stringe più forte la bambina; ne avverte il respiro. Deve restare coperta. Sono in fuga; da chi, da cosa? Davanti agli occhi le macerie e il fragore di una guerra lontana nel tempo, poi un treno che fischia sbuffando, allontanandosi sempre più. Ma, da dove? Non lo sa. Stringe la piccola sempre di più; non parla, non piange; è pesante ma avvinghiata a lei. Ancora, le pare di riconoscere una strada, una casa e balocchi, tanti, intorno a un lettino di metallo cromato. Voci: “la Befana di Rino, di Angelina, di nonno Antonio…” Si rivede giovinetta, timida, quasi senza amici, tra pile di libri che le fanno compa-

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gnia nelle lunghe domeniche di una tiepida primavera. Non sa se sogna o è desta ma davanti a sé si snoda la sua vita. Dolori, poi amori incandescenti a sprazzi e acqua di fiume, di lago, di mare. Non se ne può separare; l’aiutano a vivere, a ricordare o a dimenticare quando il carico diviene troppo pesante. Stringe sempre a sé la bambina e va avanti. Rivive gli attimi struggenti della sua giovinezza, la gioia della maternità, il buio che segue al naufragare di un sogno. Talvolta annaspa in acque giallastre e non trova approdi; in altre ha davanti un alto muro; deve superarlo ma ha sempre la bambina tra le braccia che ha bisogno di aiuto. Intorno a lei strade sconnesse, solchi colmi di terra. Dove andare? A un tratto si accorge di non avere più la copertina. L’ha persa, ma dove? Era l’unica protezione per la bimba che ora è scoperta. Davanti, sempre il muro e non può scavalcarlo. Guarda smarrita la bambina. Ha due grandi occhi. Le sono familiari. In un album di vecchie foto, ecco: è là. Adesso tra le braccia ha se stessa che vorrebbe proteggere e non può; la copertina sdrucita, poi persa, i suoi tentativi di vivere e di salvarsi. Però la bambina anche se scoperta resta avvinghiata a lei. Ritorno all’infanzia perduta per ritrovarsi. Ma è anche un’altra bambina frutto del frutto della sua vita che lei non può abbandonare. Deve salvarla, ricostruire i suoi sogni, le certezze. L’adolescenza è una brutta bestia se non si controlla e la salvezza può darla solo un incondizionato amore. Sei lontana fisicamente da me “piccina”, ma il mio pensiero è con te e nei tuoi occhi sono riflessi i miei occhi; ci ritroveremo, calcando i sentieri della gioia. Le mie braccia forti, allontaneranno il male da te, le delusioni, la sconfitta. Sei grande e piccola insieme, ma ti accolgono le mie braccia. Il filo sottile che ci unisce ti riporterà alla tua vita. Fa freddo. Il cielo si è abbuiato. Sono rannicchiata sul divano. Quanto tempo ho dormito? Ma era tutto vero? Aspetto che il telefono squilli. Anna Vincitorio


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L’EVANGELISTA di Antonio Visconte

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L mio collega, Arturo Tescione, più giovane di me di qualche anno, aveva frequentato ugualmente il liceo classico di Santa Maria Capua Vetere e l’università Federico Secondo di Napoli, laureandosi in lettere classiche, mentre io, destinato alla carriera giornalistica, preferivo le lettere moderne. Arturo quindi era diventato un ottimo insegnante di latino e greco, non già alla maniera come l’intendiamo oggi, bensì profondo conoscitore di quella letteratura e dei suoi intramontabili autori. A queste eccezionali doti intellettuali univa un pessimo carattere, frutto delle sue origini contadinesche, aggravate dalle debolezze, che non gli mancavano. Rozzo e scontroso, irriverente della religione, ateo e donnaiolo, i suoi discorsi erano impastati di volgarità, perciò cercavo sempre di evitarlo quando lo incontravo per la città, ma dopo alcuni anni c’ imbattemmo sopra la corriera che andava alla periferia di Napoli e lo trovai completamente cambiato. Arturo era diventato un santo uomo, docile e premuroso, credente e puritano e le fattezze di Marilyn Monroe, la sua vecchia star, non le potevo neanche nominare. Mi parlò della sua vita. Aveva sposato una donna di quelle parti, che praticava la fede evangelica e aveva avuto un figlio, di nome Spartaco, in omaggio alla storica tradizione della Capua Antica. Chi non conosce questo immortale gladiatore, di origine tracia, l’attuale Romania, che combatté contro la repubblica romana e poi sconfitto, fu crocifisso con i suoi gregari lungo le vie consolari? Tra gli inconvenienti del matrimonio, bisogna annoverare anche questo: se sei ateo, tua moglie ti fa diventare credente e se sei credente, ti fa diventare ateo, e in poche parole ti sottrae la personalità e così capitò al collega Arturo. Avvenne, quindi, il diavolo ci mette lo

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zampino, che nella classe una sua alunna era figlia di prostituta. Quale occasione più ghiotta si poteva presentare ad Arturo, onde togliere quella povera donna da una esistenza peccaminosa e riportarla sulla buona strada? Ne parlò con la moglie Margherita ed entrambi si accesero di sacro ardore davanti ad una novella Maddalena, convertita dal Signore. “È vero che tua madre è una prostituta?” chiese Arturo alla giovane alunna. “Non è vero”, rispose la ragazza alterandosi, “e se non la smettete, vado dal preside e gli racconto tutto”. “Non devi andare dal preside”, ribatté il professore, “ma riferisci a tua madre di fissare un appuntamento con mia moglie Margherita nella chiesa evangelica. Vi è un Signore che l’aspetta, come aspettava me, che ero peggiore di lei, e mi ha cambiato”. “Mia madre non ha nulla da cambiare”, gridò la scolaretta, “è una donna onesta, e dite a vostra moglie che si facesse i fatti suoi”. “Non ti vergogni”, insisteva Arturo, “ti piace di essere una figlia di prostituta”. La ragazza incominciò a piangere e riferì ogni cosa ai genitori. La mattina seguente, un uomo e una donna si piantarono accanto alla scuola e appena il professore Arturo uscì dalla macchina, davanti alla scolaresca che varcava il cancello, “pezzo di mascalzone”, strillarono, “adesso ti facciamo incontrare noi con Gesù”, e così blaterando, lo afferrarono per un braccio e lo caricarono di calci e pugni, lasciandolo a terra tramortito. “Cosa succede?” chiesero i colleghi. “Questo cretino”, obiettò la donna, “non la smette ogni mattina d’insultare mia figlia, affermando che è figlia di prostituta”. “Ma guarda un po’”, mormoravano le professoresse, “con tanti problemi che ci creano gli alunni, il collega Arturo trova pure il tempo di occuparsi delle vicende familiari”. Convertire una persona diventa un mestiere rischioso e molti missionari ci rimettono la vita. Arturo Tescione aveva bisogno di


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una donna normale, ma trovò una moglie più impertinente di lui, perché la religione è bella quando viene praticata da una mente sana, nel caso contrario diventa una tragedia. Antonio Visconte

TI CHIAMO, ANGELO Peccato mortale tanto è feroce contro l'innocente indifeso pit bull rabbiosi verde il colore dei sorci livido sangue affiora sulla pelle e ancora pulsante il cuore inverte il battito la spada la spada angelo luminoso dove sei ... Angelo! Fiorenza Castaldi Anzio (RM)

NATALE DI GUERRA Sono passati torvi e frettolosi quest’anno i vecchi Magi, e il loro dono fu di pietra falsa nelle grotte di mille presepi. Non ebbero tempo di piegare il ginocchio nell’umiltà della paglia e del muschio come nei giorni antichi; preferirono il trotto verso radure di morte inalberando bandiere nemiche sulle torri dei popoli. Così l’incanto s’è rotto del vecchio mistero, e Betlemme ha sapore di favola perché la stella ha deviato il corso verso sentieri crepitanti d’armi. Contro giogaie deserte si frange l’appello dell’Angelo

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ora che i lupi hanno sgozzato gli agnelli e sgomento di morte è nei pastori di buona volontà. Calde le canne del recente fuoco che ha ucciso i fratelli, ancora si costruiscono presepi, sognando Re buoni e cori d’angeli per le contrade del mondo. Francesco Fiumara Da Le favole hanno occhi di pietra.

LO SCAVO SEGRETO Senza finzioni o maschere a velarci, ci riscopriamo veri nel lungo soliloquio con noi stessi. Si affollano alla mente fatti lontani e dubbi mai risolti col desiderio assiduo di frantumare i lacci dell’inconscio. E dallo scavo eterno, con le sorprese e con le rimembranze, si manifesta un volto, si può intuire un luogo scolorito. Ricolma le giornate questo segreto gioco con noi stessi. Elisabetta Di Iaconi Roma

LIBERTÀ Non si fa mai abbastanza per te, struggente libertà ti si perde così in fretta insolitamente, quasi impercettibilmente sei rapita, dal più scaltro dei ladri e bisogna, doverosamente ricominciare. Non si fa mai abbastanza per te, impalpabile libertà soffio monumentale di gesto di civiltà illustre senso e dissenso di tutto. Non si fa mai abbastanza per te, preziosa, sottile libertà. Filomena Iovinella Torino


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I POETI E LA NATURA 75 di Luigi De Rosa

D. Defelice - Metamorfosi, 2017

L' “INVERNO” DI ANTONIA POZZI (1912 – 1938)

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ì, avete letto bene: 1938. Perché la poetessa lombarda Antonia Pozzi è morta a soli 26 anni, suicidandosi con una confezione di barbiturici, non reggendo alla fine del suo amore con Paolo Cervi, il suo ex docente di latino e greco al Liceo Classico “Manzoni” di Milano. Antonia era nata il 13 febbraio 1912 a Milano, da una famiglia alto-borghese, padre avvocato affermato e potente, madre contessa, colta e portata per le arti. I Pozzi, oltre alla casa lussuosa in via Mascheroni, possedevano anche una bella villa di campagna a Pasturo, in Valsassina, nel Lecchese. Appare quindi “normale” che Antonia, delicata e sensibilissima, molto intelligente e seria, non solo

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conoscesse bene i classici e le lingue (francese, inglese e tedesco) ma anche praticasse vari sports (sci, nuoto, equitazione, escursioni in montagna). Fino al Liceo, tutto “normale”. Al Liceo si innamorò perdutamente, profondamente, del suo professore di latino e greco, e la sua vita ne fu sconvolta. Soprattutto perché il padre avvocato, contrarissimo a questo amore, fece di tutto per far allontanare da Milano il docente. Quante studentesse si innamorano di un loro professore? Ma qui l'innamorata non era una superficiale, ed era una poetessa...che prendeva le cose d'amore molto sul serio. Fatto sta che la fine della sua storia d'amore la fece precipitare ( forse insieme ad altre cause psicologiche) nell'abisso della disperazione, e cercò di trarre qualche sollievo alle sue sofferenze scrivendo poesie. Poi si tolse la vita. Alla sua morte non aveva pubblicato nessuna poesia. Erano sparse in quaderni. Quanto al suo concetto di Poesia, “...la poesia ha questo compito sublime: di prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci romba nell'animo e di placarlo, di trasfigurarlo nella suprema calma dell'arte, così come sfociano i fiumi nella vastità celeste del mare.. La poesia è una catarsi del dolore, come l'im-


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mensità della morte è una catarsi della vita...”. Trasfigurazione, calma dell'arte, catarsi. Concetti che salvano, secondo un testo critico “severo” del 1945 di Eugenio Montale, la poesia della Pozzi da un certo psicologismo di natura, musicalità, estetismo e sentimentalismo da cui sarebbero affetti i versi di molte donne-poeta. Ma qui il discorso si farebbe lungo, e pieno di voci contrastanti... Le parole precise di Montale: “...Anima musicale e facile a perdersi nell'onda sonora delle sensazioni, la Pozzi stava già superando lo scoglio della poesia femminile...i rischi della cosiddetta “spontaneità”...col lavoro di penetrazione e di stile...” Fatto sta che la Pozzi chiedeva conforto alla Poesia. E, per mezzo di questa, alla Natura. Trovando corrispondenza in questa, e nelle stagioni (in particolare nell'Inverno) ai suoi stati d'animo tormentati. Rileggiamo insieme l' “Inverno” della sua anima: Fili neri di pioppi fili neri di nubi sul cielo rosso e questa prima erba libera dalla neve chiara che fa pensare alla primavera e guardare se ad una svolta nascono le primule. Ma il ghiaccio inazzurra i sentieri la nebbia addormenta i fossati un lento pallore devasta i dolori del cielo. Scende la notte nessun fiore è nato è inverno anima è inverno. Luigi De Rosa IL CROCO I Quaderni letterari di POMEZIA-NOTIZIE il mezzo più veloce ed economico per divulgare le vostre opere. PRENOTATELO ! (Tel. 06/9112113)

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Recensioni FILOMENA IOVINELLA A MIO PADRE Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, dicembre 2017 Accodarsi ad un affetto fino allo scadimento e ancora oltre, è cosa ardua per tutti. Seguirlo per raccontarlo ad altri e in forma di versi è ancora più difficoltoso, perché intervengono gli stati d’animo suscettibili ai ricordi che una figlia conserva nell’ ampio baule della propria memoria. Avevamo già incontrato in campo poetico l’autrice partenopea Filomena Iovinella, residente a Torino con la famiglia che lei si è creata già da diversi anni, nel 2016 con la pubblicazione, sempre a cura della redazione di ‘Pomezia-Notizie’, del Quaderno “ Il Croco “ dal titolo Odi impetuose. Stavolta la sua silloge riguarda una figura familiare a lei molto cara, su cui ha versificato senza badare allo spazio che avrebbero occupato le sue liriche e al tempo impiegato per crearle tenendo legato il pensiero al padre, così lontano oramai e così vicino allo stesso tempo. Ventuno poesie in tutto più un breve racconto iniziale che aiuta il lettore ad entrare nelle viscere di sentimenti appisolati e svegli, irrisolti e appassionati, tanto da averle fatto raggiungere il quarto posto al Concorso Letterario Internazionale “ Città di Pomezia 2017 “. Filomena Iovinella in versi ha preparato un emblematico cortometraggio autobiografico che inizia come un viaggio in auto per una strada che « (…) si arrampica su di un’altura che diventa un castello incantato che guarda tutti dall’alto. Anche me, piccola, tanto fanciulla da ritornar bambina, in quel ricordo indelebile della mia acerba vita di figlia, che cerca ora un riscatto nella visione di una pelli-


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cola restaurata di un celeberrimo film in bianco e nero, della dolce e inquietante vita e ti rivedo tra le lacrime di un altro momento di quel giorno di gloria. » (A pag.4). Chissà se in questo atteggiamento di fare poesia esiste un dialogo immaginario tra l’autrice e suo padre in termini trascendentali; e se questo dialogo fatto in versi vada oltre le liriche presentate nel Quaderno. Chi lo sa? Ma è davvero importante sapere questo? La certezza assoluta è che è esistito ed esiste ancora un amore filiale che insegue una scia luminosa giacché « (…) sulla linea d’orizzonte/ ti siedi per guardare/ quando la sua luce sorge/ ti riscaldi e ti arrossi/ sei la faccia della meraviglia/ sei straordinario, avventuroso/ modello da seguire/ persino adesso, di ora in ora. » (A pag.16). Si parla di un genitore, è vero, ma non viene specificato nulla di lui di quando era in vita, che professione ha svolto, le scuole che ha frequentato, con chi è trasvolato a nozze, i viaggi che ha compiuto e gli amici che ha incontrato. Quindi, tutto di lui è stato sublimato soltanto che « Tra i monti e le nevi/ delle vette della Liguria/ ti abbarbicavi con la tua/ divisa militare/ a trasportare le masserizie/ che facevano parte/ della logistica di leva/ tra i cingolati/ che non hai mai/ dimenticato. » (A pag.18). Questa figlia, ora nella piena maturità e consapevolezza, grazie alla sua predisposizione artistica rievoca un uomo che ha conosciuto molto bene perché l’ha

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cresciuta, amata, educata, protetta e quant’altro: suo padre, appunto. Lei non sapeva che un giorno l’ avrebbe descritto in versi insieme ai flash back della sua infanzia, giovinezza; avrebbe descritto un amore incontenibile non tanto per le gesta importanti compiute dal padre, quanto per la semplicità con cui si svolgevano le giornate in sua compagnia. « (…) Ci portavi d’estate, erano pomeriggi di domenica/ avevi e vestivi lo stile tipico/ anni settanta./ Arrivavamo nella nostra auto di famiglia/ colore verde oliva./ Ci ritrovavamo a scattare foto/ in un’epoca ora, di altro tempo/ ci tenevi per mano, sorridevi/ ti preoccupavi e ci proteggevi. » (A pag.17). Neanche stiamo qui a misurare la lunghezza di ciascuna lirica per quantificare l’affetto sostanziale dell’autrice; non è il numero dei versi a far pesare di più o di meno su di un’ipotetica bilancia il suo amore filiale, bensì la tematica nell’insieme che l’ autrice ha scelto per omaggiare suo padre. Qui si parla della luna, del freddo dei ghiacciai, delle catene, di un celeberrimo film di Roberto Rossellini del 1945, interpretato dalla grande Anna Magnani, Roma città aperta, pellicola-simbolo del neorealismo, di fiori come l’orchidea e i gigli, di desiderio di riposare, di fiumi, di sogni, di musica e di un accessorio d’abbigliamento tanto utile, quanto importante come le « Scarpe vuote che camminano da sole/ nella stanza,/ prima erano ai piedi del letto/ ora, se ne vanno a spasso/ in una scena di fantasia/ le pianelle, da sole in movimento/ mancano i tuoi passi di peso,/ papà/ il tempo, intanto, nella camera/ inonda il cielo e copre tutta l’atmosfera/ nella bolla enorme di azzurro/ dominio, verità, definizione./ Mentre sento ancora i passi/ venire, parlando, verso di me. » (A pag.14). Isabella Michela Affinito

GIOVANNA LI VOLTI GUZZARDI RICORDI COCENTI Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, Novembre 2017. Chi non ha conosciuto mai la poetessa, definiamola italo-australiana, nata nell’entroterra in provincia di Catania, Giovanna Li Volti Guzzardi? È un nome oramai che è veicolato oltremodo e oltreoceano nel vero senso della parola; dal Mar Mediterraneo è andata nella terra dei marsupiali, il più piccolo dei continenti circondato dall’Oceano Indiano e dall’Oceano Pacifico. Dal 1964 lei si trova in Australia, un paese ancora in parte da scoprire, immenso, affascinante, ultramoderno e contestualmente legato alla civiltà degli aborigeni seppure ridotti a pochi rimasti, loro così capaci di orientarsi


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senza l’uso della bussola e attenti ad ogni fenomeno naturale. Tutto è successo senza metterci l’ intenzione: un fatidico secondo viaggio di nozze nel paese dove la sconfinatezza è una cosa normale, l’ Australia appunto, e poi la decisione di ambedue i coniugi di rimanervi per lavorare, per fare volontariato, per espandere la propria famiglia, per creare l’ Accademia Letteraria Italo Australiana Scrittori – A.L.I.A.S., per divulgare la nostra meravigliosa Lingua Italiana in un territorio così ricettivo e fecondo. Nel raccontare questa storia sembra tutta infarcita di gioia e soddisfazioni grandi, come quello del prestigioso riconoscimento “Cittadina dell’anno 1995” da parte del Comune di Keilor e l’ insegnamento per oltre venti anni dell’italiano ai bambini di ogni provenienza geografica, in qualità di volontaria. Ad un certo punto avviene, come per tutti coloro che per un motivo o per un altro si ritrovano a vivere non nella terra in cui sono nati, uno svisceramento di tutti i sentimenti accumulati per anni nel proprio cuore, un rovesciamento al di fuori degli entusiasmi patiti e di Ricordi cocenti. È difficile sovrapporre le nuove abitudini a quelle acquisite sin dalla nascita; vedere l’oceano ed immaginarlo un mare nostrano non tanto smisurato; ammirare la natura forse in parte selvaggia e credere che si tratti di flora ridente e coltivata amorevolmente. È impossibile obliterare le scelte fatte in determinate circostanze quando « (…) Volevi che diventassi anch’io musicista/ e professoressa, ma io ti ho delusa,/ ho lasciato la scuola per sposarmi,/ tu eri triste e preoccupato per la mia decisione,/ e per giunta ti ho lasciato per andare/ in un altro mondo. In Australia sono andata/ per il viaggio di nozze e tornare presto,/ invece ci son rimasta ed ho distrutto/ la gioia di mamma e papà e i miei fratellini./ Gioielli rari che ho portato sempre nel cuore/ e la malinconia ha sostituito la nostra allegria./ Una giungla d’amore e di dolci sentimenti,/ trasformati in lacrime e dolore,/ una tragedia per il nostro cuore./ Genitori stupendi e sempre elegantissimi lontani,/ che mi mandavano sempre soldi, vestiti,/ libri e regali per non soffrire,/ i miei fratellini che ho lasciato disperati,/ uno di sedici anni e l’altro di sette anni/ che piangevano, stringendomi con amore,/ gioia e tantissima malinconia/ e la vita è continuata senza più allegria! » (Poesia d’apertura con lo stesso titolo della raccolta, alle pagg.4-5). Qui non si stanno leggendo delle poesie comunque esse siano state concepite; qui si sta penetrando dentro una spiegazione legittima da parte di una donna che ha amato senza distinzioni, senza riserve, che ha accettato il distacco dalla propria terra natia, dai propri genitori per andare a spargere amore per la letteratura, per l’

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arte, per la nuova famiglia che ha creato insieme al marito, per lo spirito pionieristico. Non si può chiedere a Giovanna quale patria abbia amato di più, o quale mare le è piaciuto maggiormente, o quale persona le sia rimasta di più nel cuore. Sarebbe come voler decidere in assoluto il fiore più bello tra tutti quelli che esistono in natura. Allora, in alcuni passi l’autrice da poetessa è diventata scrittrice di lettere struggenti, dove ci ritroviamo smarriti di fronte a tante ardimentose sue scelte: « (…) La mia gioia è stata sempre trattenuta/ dal pensare ai miei tesori lontani./ Siamo spesso andati a trovarli/ colmi di gioia e felicità,/ ma tanto pianto nel lasciarci di nuovo./ Come si fa a cancellare uno strazio del genere?/ Non c’è rimedio, è una malattia inguaribile!/ È bella l’Australia, sono stata felice,/ ma il mio cuore ha sempre pianto/ per la mia Italia e i miei dolci tesori lontani,/ per sempre distanti migliaia e migliaia/ di miglia da me e dal mio cuore! » (Alle pagg.20-21). A questo punto bisogna riconoscere che talmente grande è stata la sofferenza provata da Giovanna, che proprio grazie alla poesia si è esternata ed è diventato estro letterario. Le sue sono liriche sofferte, cariche di crucci interiori, ma che proprio per questo hanno permesso all’autrice di liberarsene ogni volta scrivendole, fino a raggiungere un equilibrio seppure temporaneo. È incredibile leggere una sua poesia datata 8 gennaio 2017 che sa di piena estate, di natura rigogliosa, di colori e questo perché nell’ altro emisfero, mentre da noi è pieno inverno, lì è estate accesa. « (…) Nel mio giardino le piante/ si godono il bel sole e tanto caldo,/ un caldo estivo,/ che le fa anche sbadigliare,/ le ho portato un bel sorriso e tante carezze,/ sono rimasta ad ammirarle/ ed ho notato ancora di più la loro bellezza. » (a pag.16). Sulla copertina del Quaderno di Giovanna Li Volti Guzzardi, vincitore del 3° Premio al Concorso Letterario Internazionale “ Città di Pomezia 2017 “, c’è un disegno a biro e pastelli colorati del direttore della rivista ‘Pomezia-Notizie’ – che ha realizzato il florilegio – Domenico Defelice, in cui è visibile il volto raggiante di Giovanna con altri tre volti di adolescenti e infante presumibilmente suoi nipoti e pronipote Ella Rose. Quest’ultima è nata nel luglio 2016 e quindi adesso ha già compiuto un anno ed è il trastullo della bisnonna Giovanna. « (…) Quanto è bella questa bambola preziosa,/ ci fa giocare e divertire e diventiamo/ anche noi bambini coi suggerimenti che ci dà/ per la nostra felicità,/ e siam felici di gridare ai quattro venti/ che l’amore dei bisnonni/ è molto più grande di quello dei nonni! » (A pag.29). Isabella Michela Affinito


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LEONARDO SELVAGGI TITO CAUCHI Voce all’anima Editrice Totem, Lavinio Lido (Roma) 2017, Pagg. 168, € 20,00 Leonardo Selvaggi interpreta per noi la poetica di Tito Cauchi Direi che il testo di Leonardo Selvaggi (l'eletto della critica e dell'opera letteraria in genere), dedicato a Tito Cauchi, si introduca in maniera alquanto complessa. Ma subito la scrittura si distende, si fa leggera: l'Esegeta racconta pensieri e versi chiarificando la poetica di un Autore che lascia emergere in una luce illuminante, e scolpite in un linguaggio adeguatamente fluido, i motivi concreti o romantici della sua ispirazione. Leonardo Selvaggi, notissimo critico, poeta e scrittore, è personalità da tutti stimato per la preziosa saggistica e la gradevolezza del notevole numero di opere pubblicate. In questo viaggio nelle praterie sconfinate dell'animo di Tito Cauchi, ci accompagna, con una presentazione, Domenico Defelice, altro validissimo esponente della letteratura contemporanea. Il fondatore e direttore dell'ottima rivista culturale "Pomezia Notizie", riferendosi al critico Selvaggi, così si esprime: “Saggi di scavo sociale e Medaglioni come questo di Tito Cauchi - nitidi e ultra sfaccettati, polposi perché aggrovigliati alle sue vicende personali e al suo intenso modo di sentire, dove è difficile discernere la divisione netta tra il contenuto dell'opera investigata e il proprio vissuto, le sue più intime scansioni”. E, più avanti, ecco il suo netto pensiero sull’Autore recensito: “Cauchi, come la generalità dei poeti, non scrive trattati sociologici: accenna e, così facendo stimola ad affrontare mali che rendono inquieta la nostra esistenza: l'amore con tutti i suoi imposti contorcimenti da coloro che traggono profitto anche dalle manifestazioni più intime e sacre della persona ...” Nella scrittura, Leonardo Selvaggi dispiega il pensiero poetico dell'Autore in tante sfaccettature della vita: nell'ambito del quotidiano, nei risvolti dell'ansia, negli “amori fugaci che stimolano vacue sensazioni e illusorie divagazioni”, nei tormenti inevitabili di un'esistenza precaria e quando Tito Cauchi sperimenta il dolore più disperato alla morte violenta che lo priva del figlio.* Il mondo affettivo resta nei versi del Poeta "rifugio sicuro", l'acquietarsi dell'anima dopo le violenze esterne, l'illusione di giorni sereni, il luogo dove baluginano, come attimi di luce, immagini lontane. Talvolta, sottolinea il critico, la sofferenza, le contraddizioni, l'incomprensione degli accadimenti ambigui e crudeli nel mondo, rendono duro e slega-

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to il verso del Cauchi, talaltra i pensieri si stemperano o si amalgamano diventando voce appassionata e libera. Comunque, sono versi che hanno il loro peso inducendo a meditare sulle mete dell'esistenza umana, sulle sue gioie, gli amori, i dissapori, i periodi sereni o affannosi nonché sulle sofferenze fisiche e spirituali alle quali, volente o nolente, l'umanità è sottoposta. La pubblicazione è disseminata di versi che il nostro critico ha scelto per farci assaporare e comprendere al meglio l'intensità dei sentimenti di un animo sensibile e gentile. Un dono meraviglioso ch'egli ha voluto offrire all'Autore e a noi tutti, amanti della sua scrittura. Dalla copertina, sguardo simpatico e comunicativo, Tito Cauchi ci osserva benevolo. Anna Aita *[NdR] il figlio è di cari suoi amici, nei quali Tito Cauchi si è immedesimato.

MARIO SANTORO STAGLIUOZZO COME STRAZZATA (Associazione Culturale Il Cigno, Stagliuozzo (PZ) € 15,00) Poeta, narratore, critico letterario, Mario Santoro è un uomo di Lettere che ha al suo attivo una vasta produzione sia nel campo della creazione artistica che in quello della più varia cultura, con un particolare interesse per l’attività volta al recupero degli usi e dei costumi della sua Terra, la Lucania. Ne è un esempio questo grosso volume (di ben 460 pagine) che egli ha di recente dedicato a Stagliuozzo, una frazione di Avigliano, dal titolo Stagliuozzo come strazzata. Non bisogna dimenticare, parlando di questo libro, che Santoro è nato a Miracolo, comune che fa parte del comprensorio di Avigliano e quindi è particolarmente edotto della materia che tratta. Ma cos’è la “strazzata”, cioè la “stracciata”? Essa può definirsi come una “focaccia della tradizione gastronomica del mondo rurale aviglianese, che risale agli inizi del 1800” e che viene così chiamata perché strappata con le mani dai commensali, ciascuno dei quali prende la sua porzione. Può essere variamente composta, potendo contenere una frittata, peperoni o prosciutto e provolone, secondo i canoni tradizionali; ma potendo comparire anche in molte altre varianti. Essa è comunque sempre particolarmente saporita e costituisce un piatto tipico lucano, tanto da dare luogo persino ad una sagra locale, arricchita da molte attrazioni. Pizza di forma circolare, con un grosso buco al centro e impastata con pepe macinato fine, la


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“strazzata” fa concorrenza agli hamburger e può costituire un pasto innaffiato con il vino Aglianico, che si produce nella zona. Servita un tempo persino nei festini nuziali, la “strazzata” è oggi oggetto di particolare interesse, per favorire il rilancio turistico in comuni quali Lagopesole e Avigliano, oltre che Stagliuozzo e Miracolo che, come osserva l’autore, per la bellezza del paesaggio e per la qualità della vita, costituiscono dei veri “posti dell’anima”. In verità Mario Santoro considera questi luoghi con lo sguardo affettuoso di chi vi è nato e ad essi ha legato la sua vita, con tutte le memorie e i sortilegi delle età trascorse, sicché calda si fa la sua voce nel nominarli e le pagine nelle quali egli si sofferma a parlarne acquistano un valore altamente evocativo e il ritmo che è proprio della poesia. Così è di Un viaggiatore verso Stagliuozzo, dove s’incontra la fontana restaurata di Miracolo; così è di Il viaggiatore e la chiesetta dell’Incoronata, un capitolo in cui questo tempio appare in tutta la sua suggestiva semplicità e purezza di linee; così è di Il viaggiatore e la scuola, nel capitolo in cui avviene l’incontro con il mondo dell’insegnamento e nel quale si evocano chiare stagioni perdute. Ma lungo è il cammino che compie il nostro viaggiatore, il quale compie moltissime tappe, per andare alla ricerca di antiche usanze, adoperando anche di ricco materiale fotografico e dei disegni particolarmente efficaci di Pasquale Zamparella. Ne emerge un mondo ignorato dai più, con i suoi riti e le sue leggende, che si rivela di notevole interesse specie per la carica di schietta umanità di cui è portatore. Il libro si dimostra in tal modo non soltanto molto ampio e diffuso, ma anche bene articolato, per cui diviene estremamente utile allo scopo della conoscenza e della conservazione di usi e costumi locali, che senza un’opera di ricerca e di valorizzazione andrebbero sicuramente perduti. Meritorio è stato pertanto questo vasto lavoro di Mario Santoro, il quale si è adoperato allo scopo di conservare ciò che vi è di genuino e di valido in un mondo che tende sempre più a farsi asettico e senz’anima. Elio Andriuoli

FILOMENA IOVINELLA MIO PADRE Ed. Il Croco/ Pomezia-Notizie dicembre 2017, Pagg. 28 Mio padre, di Filomena Iovinella, è raccolta vincitrice del 4° Premio Città di Pomezia 2017. Già dal titolo traspare il tema degli affetti familiari. Di questo argomento, da una parte Domenico Defelice,

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curatore del Premio, sottolinea la delicatezza e la necessaria maturazione del dolore soprattutto quando vengono a mancare le persone amate; spiegando, altresì, che la variabilità del metro ne denota il ritmo interiore. Dall’altra parte, la Poetessa, nella sua Anteprima, srotola una pellicola che la riporta alla fanciullezza rivolgendosi al tu pronominale che sottende il padre. Ciò detto, ritengo che la poetica degli affetti sia un campo scivoloso. Merito della Poetessa è l’ essere riuscita a non cadere in espressioni sdolcinate e a rendere l’unitarietà alla silloge nel continuo dialogo con il genitore. Così nella poesia d’apertura “io bambina/ (…)/ Lasciami per sempre, in questa stanza/ fuori dalle tante malinconie, papà.” È un susseguirsi di evocazioni del genitore, esaltandone la figura; il padre è paragonato all’acqua pura di sorgente, alla luce che la illumina e la guida. E troviamo particolari che arricchiscono la biografia dell’Autrice a partire dagli anni Settanta, quando il padre teneva per mano le due figliolette. Faccio mie le sue parole rivolte al padre, cosi paragono le due sorelle ad una Orchidea e a un Giglio. La memoria procede con tanta delicatezza e si conclude con la stessa intensità: Filomena Iovinella vorrebbe dormire fra le braccia del padre e sognare. I ricordi, pur della sofferenza, sono come una dolce carezza al cuore ed è questo che eleva la poesia a elegia. È vero che i poeti non badano alla logica, perciò capita che il lettore è portato a comportarsi come un funambolo per comprendere alcune parti velate di una patina, quelle parti che possono sembrare criptiche, ma sono compensate dalla piacevolezza del suono e dall’alea del mistero. Tito Cauchi

ANGELO MANITTA LA RAGAZZA DI MIZPA (Το κορίτσι της Μίσπα), con traduzione greca di Giorgia Chaidemenopoulou, Il Convivio Editore 2017, pp. 80, € 9,00. Angelo Manitta, come è arcinoto, è un infaticabile critico letterario, poeta, romanziere: una delle personalità più significative della letteratura italiana contemporanea. Varie sue opere sono tradotte pure in lingue estere come questa, La ragazza di Mizpa, e ancora in lingua slovena è stata di recente tradotta La chioma di Berenice. La ragazza di Mizpa è un canto molto riuscito ed omogeneo in ogni sua parte. In esso si trovano quelli che sono i quattro elementi della natura: acqua, aria, terra, fuoco, presentati con apporti metaforici, che rendono viva la stessa opera e mostrano


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a chi legge una continua presenza di similitudini e analogie, simboli che sono usati dal poeta per indicare e rendere visibile lo stato interiore di un genitore che ha perduto la propria figlia. Ma ciò che colpisce in questo felice canto è il fatto di come Angelo Manitta mostri i sentimenti di quel padre infelice, ricorrendo ad elementi naturali o a oggetti reali: fiumi, aspetti o elementi della natura, oppure al loro susseguirsi con tutto ciò che determinano. Un canto, questo, che prende interamente l’ attenzione di chi legge sin dal primo momento. In quest’opera l’Autore trae lo spunto dal capitolo del libro dei “Giudici” (Gc. 11, 29-40). La storia è ambientata e si svolge a Mizpa, che si trova in Palestina, dove, in epoca lontanissima, Jefte sacrifica l’unica sua figlia dopo aver conseguito la vittoria sugli Ammoniti. Orbene, ciò che colpisce chi legge questo canto, questa poesia, sono le immagini che vi si incontrano, e si tratta di immagini «dinamicamente belle». Questo per esprimere, per mostrare ulteriormente lo stato interiore, il mondo sentimentale di quel padre, il suo dolore per il sacrificio della figlia, ma pure l’atteggiamento di questa che ha piena consapevolezza di dover morire. Certo monti, foglie, piante, fiori, neve, per esempio, sono veri e propri simboli che dicono ampiamente il dolore che avverte l’anima del padre, il suo stato interiore. Comunque ci troviamo davanti a un’opera armonica ben congegnata e tessuta. E al riguardo non mi resta che fare delle opportune citazioni: «Il

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sole fende il cielo, / la luna si sazia di stelle. / I giorni e le notti scandiscono / il tempo alla ragazza / di Mizpa, che percorre sperduti / sentieri. Un altare di muschio / spegne la sua ansia, ma la quiete / s’ ammanta di morte[…]» (p. 22, La ragazza di Mipza). Ciò che ancora si deve sottolineare in questa silloge è il ritmo poetico sempre aderente alle cose rappresentate, un ritmo che mette bene in evidenza lo stato interiore del padre e della figlia, i loro dubbi, i loro tormenti: «La mia anima è divisa a metà: / quella dell’uomo che mi spinge / all’oblio e quella di padre / che mi spezza il cuore» (La mia anima, p. 28); «Speravo giorni felici, / ma la spada tagliente dell’esistenza / danza sulle mie carni sfaldate.» (Soffio fugace, p. 34); «Anch’io vorrei librarmi in cielo, / planare con le ali polverose sui grattacieli / di latta e di cartone, corrodere il ferro / rombante dei ponti, bere l’acqua / pura dei fiumi, succhiare il nettare / e sparire nel vuoto se l’imperterrita rete, / che non riesco a schivare, mi si rivela elastica / tela intrecciata da indocile mano» (Immaginazione, p. 46). Ovunque è presente la natura, e nel contempo riflette quelli che sono i pensieri dolorosi del padre e della figlia: «Ma l’aridità / della sabbia cinerea è l’aridità/ dell’essere umano»; «[…[Ed abbraccio tramonti / per ascoltare sospiri / d’usignoli e penetrare con gli occhi / nudi paradisi di lacrime, / mentre vecchie gazze squittiscono / sui tesori nascosti» (Immobile stilita, p. 14). Ecco ancora il padre che parla con se stesso, padre disperato, e poi la ragazza che non potrà più trovare gioia nel vedere i colori dell’arcobaleno, oppure in primavera non percepire, sentire gli odori delle piante che sono in fiore, perché ormai sono sopraggiunte sensazioni di morte. Ormai nell’anima regna il gelo. Il tutto viene espresso sempre con belle, varie e pregnanti similitudini. In questo canto c’è un continuo mescolarsi di vita e di morte, come pure s’alternano varie e mutevoli sensazioni, emozioni, suggestioni, dolori, segnali di distruzione e di morte. Ecco ancora l’ agave ferita, tra i sassi «adamantini dell’Etna», il «crudele Averno», e poi ancora sentimenti che si mescolano con la paura, il citiso fiorito che «inonda l’aria e i sogni»; «ma il ruscello non risale la china / anzi travolge petali / d’oleandri e adorna ninfee / che soffiano su mobili felci /o si pascono d’oblio, musiche / d’astri in quell’attimo / sfiorano voli di farfalle / e sciolgono paure di elfi / tra albe desiderate e smorfie / pallide di muri» (Cocci di vaso, p. 48); «trilli di grilli fluttuanti / nel buio […]» (Crogioli di speranza, p. 52); «viso di fiore / di malva»; «sospiri di melograno»: ecco alcune immagini di questo canto di vita e di morte che si conclude con la poesia Attesa: «[…] Intanto robot annullano / vo-


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raci immortalità e cieli / stellati s’adornano di freschezze / e mandorli fioriscono tra danze / sacre di silfi» (p. 74). Carmine Chiodo

ANGELO MANITTA LA CHIOMA DI BERENICE (Berenikini žametni lasjè), con traduzione slovena di Ivan Tavčar, Prefazione di Denis Poniž, Il Convivio Editore 2017, pp. 64, € 8,00. Dopo la pubblicazione de La ragazza di Mizpa in lingua greca, ugualmente originale per temi e linguaggio è anche La chioma di Berenice, tradotta in lingua slovena da Ivan Tavčar e prefata da Denis Poniž (Il Convivio Editore, 2017). In questo poemetto, che tratta un tema affine alle classiche composizioni di Callimaco e di Catullo, spiccano la abilità e la bravura del poeta, oltre che la sua cultura e sensibilità, nel dar vita a metafore che formano versi assai originali. Con la presente opera Angelo Manitta ci fa viaggiare nello spazio, e quindi ecco

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pianeti, galassie, costellazioni, e ciò con la piena consapevolezza di effettuare un viaggio «indietro nel tempo, cioè attraverso la storia» (come si legge nella chiara e condivisibile Prefazione di Ivan Tavčar e Denis Poniž, p. 6). In questo viaggio si incontrano «chiome torbide / di stelle» che si «cristallizzano in luminarie di corone» (Il sole danzando, p. 6). Inoltre nell’opera sono presenti grandi uomini scomparsi (si tratta per esempio di scrittori, regine, gente comune), ma il poeta nel suo viaggio, che si snoda in 108 canti, di cui uno è La chioma di Berenice, incontra «le diverse forme dell’azione, del sentimento, della coscienza e dell’emotività umana (la pace, la guerra, l’amore, la fede, l’ateismo, la giustizia, l’ingiustizia, l’odio, la speranza)[…]», come ancora si legge nella citata Prefazione. Ma in quest’opera, dal titolo Big bang, si notano anche altri personaggi storici e mitici (Cristo, Rama, Orfeo, Prometeo, Berenice appunto, Adamo, per esempio) e profeti come, per fare solo qualche nome, Salomone, David, la regina di Saba, San Pietro, San Paolo e tanti altri. Senz’altro questo viaggio di Angelo Manitta è straordinario e affascinante, e un viaggio di tal natura viene fatto nella mitologia e nel cosmo per approdare poi alla fonte originaria, prima del Creato. L’opera si chiude con una intensissima visione di luce: «Ecco, è la a chioma della nostra / regina che dall’alto protegge / i nostri destini, è luce / eterna di profumi divini» (Conone scopre la chioma, p. 56). Dall’opera vien fuori tutta la cultura, la sensibilità, la maestria, la personalità di Angelo Manitta, il quale è senza alcun dubbio un poeta colto, istruito, conoscitore profondo della mitologia, del cuore umano e dei destini umani, un poeta per il quale il linguaggio, come si nota qui, ha qualcosa di sacro. Intensi e sentiti versi, inoltre, che dicono ampiamente, attraverso strofe classiche ma di accentuazione e musicalità moderna, quelli che sono i destini umani, quella che è la storia dell’uomo. Si tratta insomma di una opera valida ed equilibrata nelle sue parti; opera anch’essa originalissima per impianto, temi e stile. Manitta sa leggere e scrivere nella storia del passato, nell’uomo e nel suo cuore, sa vedere bene le sue azioni, sentimenti, sogni, che sono d’ogni tempo: «Il fasto d’uno sposalizio, canto / d’Imene che unisce gli uccelli / dell’aria con i terrestri volatili / adunchi, smorza i veli / del tempio[…] Si rincontrano i cuori, e l’amore, / dapprima sopito, si tramuta / in ebbrezza, […]» (Tolomeo III sposa Berenice, p. 42); «Tutto è concluso all’ombra / d’un brumoso palazzo: l’accordo / è fatto. La sposa non sa nulla. / Si spengono le luci della sera» (Il Padre Magas, p. 32); «L’amore è sbocciato d’un tratto, / sorto come fiore che solleva / il capo dalla


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brina pesante / della notte»; «Maledetto chi il ferro inventò, / ma premono ai confini i nemici / e si muovono i Carri ruotanti, […]» (Tolomeo parte per l’Assiria, p. 46); «Le novelle spose non dispregiano / i piaceri di Venere, ma maledicono / le separazioni violente di chi ha colto / la verginità d’una seconda notte» (Il pianto di Berenice, p. 48). Sentimenti, forme di vita, pensieri, emozioni, tormenti, attimi di vita che affermano e documentano l’eterna esistenza dell’uomo. Il poeta sa fare poesia parlando dei miti, espressi con versi, con parole di alta qualità poetica che mettono a nudo l’uomo d’ogni tempo. «La mia storia non è una storia comune, / perché i miei genitori non sono / persone comuni. Hanno pensato / alla grande, hanno calpestato / emozioni, ma hanno raggiunto / la meta. L’amore è venuto / di soppiatto, inaspettato: ho saggiato / le grazie del vento scita» (Berenice racconta la sua storia, p. 30). Angelo Manitta è chiaro e incisivo, e i suoi versi sono sempre limpidi e fluidi, pieni di sostanza umana. Ci rende partecipi alle varie manifestazioni della vita dell’uomo e della sua storia attraverso il tempo. Secondo me è questa la nota precipua non solo di quest’opera poetica ma di tutta la sua poesia. Carmine Chiodo

ANGELO MANITTA LA CHIOMA DI BERENICE BERENIKINI ŽAMETNI LASJÈ Trad. slovena di Ivan Tavčar, Prefazione di Denis Poniž - Il Convivio Editore, 2017 - Pagg. 62, € 8. Nella Prefazione, Ivan Tavčar e Denis Poniž ricordano che La chioma di Berenice non è che un brano assai piccolo del lavoro immenso - 50 mila versi - che Angelo Manitta ha composto nell’arco di 30 anni, in parte pubblicato, in parte inedito, ma che dovrebbe apparire nella sua completezza assai presto. In attesa dell’opera integrale (Big bang. Canto del villaggio globale, che Giorgio Bàrberi Squarotti ha già definito una “grandiosa e ricchissima opera, folta di reinventati personaggi della storia e della letteratura... un poema unico nei nostri tempi per complessità e invenzione”), “Questo canto di Berenice - scrivono il traduttore e il prefatore - (che porta il nr. 79), tradotto qui in lingua slovena, può essere letto indipendentemente dagli altri”, anche se parte di “Un affascinante viaggio attraverso la mitologia, la storiografia e la visione cosmica, fino ad arrivare alla fonte originaria stessa del Creato”, abbracciando, cioè, passato e presente e proiettandosi pure nel futuro. Il poemetto è strutturato in quartine e il metro è

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libero, anche se a prevalere è il novenario. Il racconto mitologico s’intreccia con la storia in un crescendo di tensione e musica. Tema dominante è l’ amore, che “dapprima sopito, si tramuta/in ebbrezza”, specie s’è spontaneo, non imposto. A noi sembra che la vicenda a Manitta serva per affrontare problemi che non sono stati soltanto del passato, perché ancora vivi nella gran parte del mondo che definiamo arretrata, in realtà ancora non sufficientemente corrotta, abbastanza lacerata dalla nostra (in)cultura occidentale. Tali problemi sono, per esempio, i matrimoni combinati (“Tutto è concluso all’ombra/d’un brumoso palazzo”), che anche in Italia erano la quasi totalità fino alla metà dello scorso secolo; le ragioni di stato, per le quali ancora oggi in molte nazioni si uccide; i diritti calpestati delle donne “oggetto da spostare/da un angolo all’ altro” o d’egoistico possesso (solo in Italia, quasi ogni giorno ne viene massacrata una); la bellezza e la potenza dell’amore quando è vero e naturalmente sbocciato; il distacco tra persone care che, quando non avviene per volontà libera e reciproca, ma per costrizioni varie - comprese quelle economiche -, ad ognuno corrode anima e corpo (esempio sotto i nostri occhi ogni giorno, le tante famiglie smembrate, lacerate dei migranti); la guerra e le sue conseguenze: “La guerra uccide i miei sensi - grida Tolomeo in partenza per l’Assiria -.//Maledetto chi il ferro inventò,/(...)/Maledetti siano i Calibi//che sventrano le montagne e forgiano/l’implacabile ferro. Maledetto sia/Giove che mi separa da un giovane/amore per nitriti di cavalli”; la guerra è la nostra più grande e universale calamità, della quale non sappiamo privarci, la terra essendo continuamente incinta di crudeli burattinai. Ripetiamo, insomma, a noi sembra che Manitta si serva della storia e della leggenda per intessere in versi il suo credo di uomo moderno e pensoso. Passioni (non manca il sesso: “il giovane sposo coglie/la sua verginità in risse notturne”), sentimenti, emozioni, sono il succo della sua poesia, nella quale non manca la natura come dovrebbe essere, non inquinata, cioè, non scannata: “il biancospino emana/sospiri di candore, sfumato,/nell’aria profumata della sera,/nella cintura d’un fuoco celeste”; “sentieri di isole di fiori”; “corimbi sfioriti degli autunni”; il “fiore che solleva/il capo dalla brina pesante della notte”. La bellezza della natura è sempre termine di paragone per ogni altra bellezza: il corpo di Venere ha la “pelle bianchissima//di spuma marina”; i seni, a seconda se sodi o flosci, sono “turgide colline o spianati/sentieri”; gli “occhi di giada”; i capelli “onde marine inanellate//d’azzurro o cupe tempeste”. Angelo Manitta è un bravissimo e preparatissimo


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ricercatore e saggista, innamorato della storia e della mitologia e questa sua qualità non poteva non nutrire anche i suoi versi, che, quindi, debbono essere apprezzati anche per tale rigoroso aspetto. Egli del passato è nostalgico, ma perché macerato dalla violenza dell’uomo d’ogni tempo - il passato, sappiamo bene, non è stato mai idilliaco -, guarda al sogno come a un velo, una maschera che la violenza odierna - più studiata e raffinata - possa rendere meno tenebrosa e soffocante. Il mito, a nostro parere, gli serve per meglio sopportare e vivere il dramma estenuante della vita. Domenico Defelice

AURORA DE LUCA RESTA MIO Una poesia al mese 2018 Il Convivio Editore, 2017, Pagg. 54, € 7,00 Anno nuovo, nuovi calendari. Tra i tanti che abbiamo ricevuto in dono, troviamo interessante il Resta mio di Aurora De Luca, che oltre a una poesia per ogni mese dell’anno, contiene una Antologia poetica di altre diciannove composizioni, il cui tema dominante è l’amore; un bel canzoniere, insomma, che si distende in immagini traslucidi, pastose, cariche di metafore ardite da rasentare, a volte, la follia del sentimento ardente e puro, motore pulsante di ogni sana giovinezza. Questo della De Luca è il canto di un menestrello senza canovaccio, che strimpella lo strumento del momento, sempre vario perché deve rivestire la parola, anch’essa varia, che esprime le sensazioni nel loro continuo e rapido crearsi - istante per istante, non c’è tempo per la sosta -, libere, irrazionali anche, sicché non si è finito di assaporarne una che già si sovrappone la successiva, in una vera catena della dissolvenza. Una autentica ubriacatura di colori e suoni che la punteggiatura, non sempre a sufficienza, accentua il già accennato senso dello scorrere veloce e di follia, a partire dalla prosa d’inizio, che “Esce mescidata al roco sottofondo del respiro e al roco rombo del petto”. Mutevole è pure il soggetto al quale il canto è rivolto. A volte è concreto, un lui o un lei ben distinti; quasi sempre è confuso alla natura, impastato ai colori e ai profumi della stagione; altre volte il lei e il lui sono una cosa sola, talmente fusi da suggerire stralunate quanto audaci visioni: “Gli si avvicina la mia pelle di lillà,/vicina resta in quel posto di terra fertile,/nella sua mano di acqua e semina,/vicina gli resta”. A parte l’Antologia - dove il canto è più vario -, i componimenti, posti a rappresentare lo scandire dei

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mesi, hanno immagini e a volte anche odori che, concatenati, disegnano l’andamento di un poema. Veicolo che trasporta nel tempo e nello spazio è il vento, che troviamo a gennaio, ma anche in agosto, impregnato della “salsedine di mare”, che svanisce (il vento o la salsedine?) nei capelli della donna, “nella mia aria - dice la poetessa - a dissolversi/salsedine che resta come altra pelle sulla mia pelle”. Febbraio ha il profumo e la bellezza del mandorlo fiorito, “mio pane spezzato,/mio tutto intero,/.../mio sogno succoso”. Assolati bagliori a giugno, quando gli occhi dell’amore sono “mattina” “di brina/e di luna bianca” e “Nella coppa cucullata dei (suoi) palmi/riposano assolati/i baci che s’erano spersi nella notte”. Ottobre è tutto nella plastica quando odorosa immagine della vendemmia, della pigiatura dell’uva e della carnosità della sua polpa che si lega dannunzianamente alla pelle: “Sono rimasta con l’odore di te/come della vendemmia i piedi”. Un calendario d’amore giovane e folle, il solo degno d’avvolgere il mondo. Pomezia, 12 dicembre 27. Domenico Defelice

GIANNICOLA CECCAROSSI CANTI e SILENZIO CANTOS y SILENCIO Prefazione di Antonio Bonchino, Postfazione di Emerico Giachery - Ed. Ibiskos Ulivieri, 2017 Pagg. 70, € 12,00 Non saremmo onesti se non dicessimo che il libro ci abbia sconcertati in prima lettura, forse perché non andiamo matti per la poesia intimistica, forse per altre ragioni. Verità è che, giunti in fondo alla trentesima quartina e dopo gli entusiasti due interventi di Antonio Bonchino e Emerico Giachery, in noi c’era molta perplessità, poche le suggestioni e quasi assente le emozioni. Poesia troppo traslucida, elaborata, con troppa insistenza di lima. Siamo ritornati sulla Postfazione di Giachery e, come per magia, abbiamo trovato la giusta chiave di lettura: “chi percorre in su e in giù la breve silloge - avverte il raffinato intenditore -, ha spesso la percezione che ogni quartina è molto “se stessa”, ha una sua intensa autonomia, richiede una sosta pensosa”. Una sosta. Abbiamo riposto il volumetto e ci siamo immersi in altro lavoro; poi l’abbiamo ripreso il giorno dopo e non più leggendo tutte le quartine, con voracità, da affogare, ma una ogni tanto e neppure in ordine, alla rinfusa. Abbiamo scoperto delle preghiere, lo scavo interiore, la novità e la chiarezza del linguaggio, tante emotività, belle immagini,


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versi pastosi e solari, ricchi d’echi. Canti e Silenzio è un breviario dell’anima e come tale va letto. Allora, siamo assolutamente d’accordo con Bonchino, d’essere, cioè, di fronte a “una piccola opera preziosa”. Domenico Defelice

CORRADO CALABRÒ LA SCALA DI JACOB 1° Premio Città di Pomezia 2017 Ed. Il Croco/I Quaderni Letterari di PomeziaNotizie, 2017 Recensire Corrado Calabrò, voce notissima nell’ambiente letterario, non è impresa semplice. Numerosi critici si sono occupati in modo approfondito delle sue tante sillogi e pertanto si esita ad esprimere pareri su un poeta così famoso. Limitiamoci perciò alla silloge che ha meritato il 1° Premio al Città di Pomezia 2017. Nelle venticinque liriche sono presenti i nodi essenziali della poetica e della tematica dell’autore. Sfilano davanti ai nostri occhi ritratti di donne, paesaggi marini, osservazioni sulla contemporaneità con i suoi problemi. Una lirica che colpisce il lettore è senz’altro La scala di Jacob, metafora della scalata verso il cielo: “Ti lascio, figlio, una scala di legno;/ è una scala a pioli fatta a mano/ eretta in verticale verso il cielo:/ devi scalarla come un sesto grado.” Ricordi di guerra costruiscono acute sensazioni auditive con l’uso insistito dell’onomatopea. Poesie brevi, intense nella loro drammaticità, disegnano il ciclo della vita. Calabrò sorprende per il senso visionario delle storie che ci racconta: flash evocatori di facce, sentimenti e ricordi. Talvolta usa l’arma dell’ironia per sdrammatizzare una situazione insopportabile. Una raccolta di immagini incisive compone questa silloge da leggere, rileggere e meditare. Elisabetta Di Iaconi

GIOVANNA LI VOLTI GUZZARDI RICORDI COCENTI 3° Premio Città di Pomezia 2017 Il Croco – I quaderni letterari di Pomezia-Notizie, 2017 Un mondo di affetti, di slanci, continuamente rievocato dall’autrice siciliana, residente da anni in Australia, è contenuto in questo Croco che ha meritato il 3° Premio al Città di Pomezia 2017. In estasi davanti ai colori dei fiori, alla bellezza

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della nipotina, al sentimento d’amore, Giovanna Li Volti Guzzardi ha un solo cruccio: di essere divisa tra due innamoramenti (l’amatissima Italia e la splendida Australia). La sua silloge è un diario sentimentale e, al tempo stesso, un epistolario diretto a parenti e amici. E lei, che si occupa della diffusione della nostra lingua, che è fondatrice dell’Accademia Italo-Australiana Scrittori, di amici ne ha moltissimi. Tocca qua e là temi dolorosi come l’emigrazione o la malattia; ma tutto viene stemperato in un’atmosfera sognante. Ecco un esempio da Oggi è Natale: “Oggi che bella giornata Santa,/ è Natale con 36 gradi/ e un sole che splende/ e Gesù Bambino da ogni pericolo/ ci difende,/ ci stringe al suo cuore/ e c’inonda d’ amore.” Come osserva Domenico Defelice in prefazione, “siamo in presenza dell’estrema semplicità di cuore e dell’assenza di ogni ricercatezza”. Elisabetta Di Iaconi

FILOMENA IOVINELLA A MIO PADRE 4° Premio Città di Pomezia 2017- Ed. Il Croco – I quaderni letterari di Pomezia-Notizie, 2017 Filomena Iovinella, campana trapiantata a Torino, dopo un lavoro da contabile, ha sentito forte l’ urgenza di dedicarsi alla letteratura e al teatro. Dal 2012 in poi pubblica poesie, racconti e un romanzo, collezionando prestigiosi premi. Questo Croco (4° Premio al Città di Pomezia 2017) è una raccolta originalissima dal punto di vista stilistico. In un fuoco di artificio di metafore l’ autrice cerca di attenuare il grande dolore provato alla scomparsa del padre. Certe liriche sono fotografie di momenti vissuti (Sulle rive del fiume, Tra i monti militare, Ave Maria); ma tutto il poemetto vuole ribadire l’ eccezionalità di questa figura protettiva: “Hai portato a me/ tra le pareti di casa mia/ la dimensione più fragile/ e più forte/ che io mai potessi conoscere”. Metabolizzato il dolore, la Iovinella vede il genitore sulla luna nel suo “incedere immenso”, vicino al sole “là dove sorge/ sulla linea d’orizzonte”, mentre scivola in una “barca di legno”. Si rivede tra le sue braccia (“e a mio padre dedico/ in questo giorno il vino genuino/ della vita/ che mi ha dato”). Con un immaginario terzo occhio guarda “il nuovo luogo” dove “è libero e sereno”. Con versi spezzati che seguono i moti del cuore, l’autrice costruisce una poesia che, come scrive Domenico Defelice in prefazione, possiede un “suo fascino selvaggio”. Elisabetta Di Iaconi


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SUSANNA PELIZZA L’ETERNO RITORNO Amazon.it, € 2,96 È un romanzo di fantascienza, il nuovo lavoro della Pelizza (scaricabile su qualsiasi dispositivo elettronico), ambientato sul pianeta Marte milioni di anni fa, quando la terra era ancora in uno stato primordiale. Qui si sviluppa la storia d’amore tra Alex, consigliere comunale di Clonad, la prima città dei clonati, e Armida, sua sorella adottiva, in uno scenario apocalittico, dato dall’arrivo imminente degli asteroidi che minacciano di distruggere il pianeta ma, anche, dall’inevitabile guerra tra Robot, che vogliono la libertà, clonati (da anni sul piede di guerra per l’immobilità delle ricerche scientifiche sulla clonazione, irrisorie nei confronti del loro grave problema, la brevità della vita) e umani. I due riusciranno alla fine a fuggire su una navicella diretta verso la terra: qui troveranno qualcuno che li accompagnerà verso quello che è il loro destino (il finale è a sorpresa). Il luogo, quindi, richiama un ipotetico mondo del futuro, costruito con riferimenti terrestri e marziani (Clonad si trova in Gran Bretagna a sua volta situata nella regione del Tharsis Montes, il satellite Deimos diventa una centrale di rifornimento per navicelle in viaggio interstellare ecc.). Al di là della visione apocalittica della Pelizza, per cui sia i buoni propositi umani come quelli nefasti della supremazia, del dominio, sono condannati alla “fatalità del caso” (l’arrivo imminente degli asteroidi che distruggerà il pineta), da questo originale romanzo se ne può trarre una conclusione abbastanza ottimistica: l’uomo non può farcela da solo, le vie per la sua salvezza sono tre, l’amore (è proprio l’amore che permetterà ad Armida e Alex di fuggire e salvarsi), la fede (l’incontro con la mente Universale sulla terra), la Cultura (i codici, nel Bunker della navicella di viaggio, per accedere alle diverse porte da aprire, sono forniti solo dai libri di poesia, presenti nella biblioteca di bordo). “L’eterno ritorno”, quindi, si presenta come un libro di fantascienza ma che affronta temi molto attuali dove è facile intravedere quei meccanismi che sono oggi, purtroppo, la causa di molti problemi. Maurizio Di Palma ROBERTO CELADA BALLANTI MARCO VANNINI IL MURO DEL PARADISO Dialoghi sulla religione per il terzo millennio Lorenzo de' Medici Press, Firenze 2017 (euro 12,00)

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Ricevuto in dono dal prof. Marco Vannini, questo lavoro a due voci è governato da 'philìa', da quella antica caratteristica del legame in dialogo tra intelletti in sintonia, di platonica memoria, che ha fatto dire a Dante: '….Guido i' vorrei che tu e Lapo ed io/fossimo presi per incantamento.../e quivi ragionar sempre d'amore...'. In apertura, quasi una memore dedica, viene riportato un brevissimo dialogo: 'Gentile: Chi è il Dio che adori? Cristiano: Non lo so. Gentile: Come puoi adorare con tanta serietà ciò che non conosci? Cristiano: Adoro perché non conosco.' (Niccolò Cusano, Il Dio nascosto. Dialogo tra un Gentile e un Cristiano). Nell'Introduzione scritta a due mani scopriamo che questa invisibilità della gioia proviene proprio da Niccolò Cusano, dal suo De visione Dei (1453) ed ha forza magnetica al punto tale da far proseguire nel percorso con tensione avvincente. Infatti questi due studiosi affrontano temi importantissimi con la semplicità dei convincimenti ben assimilati e fondativi di una prospettiva di pensiero solida ed efficace: -analizzare il nostro tempo e le sue sgomente ansie e vuoti di verità con la coerenza di chi ha un solido sostrato culturale e spirituale; -esso è come humus fertile ed indispensabile, provenendo dalle antichissime radici fondative del pensiero occidentale, con tutte le integrazioni e le aperture all'Oriente, utili a dimostrare il denominatore comune della vita e della riflessione umana, quale è la spiritualità ragionante; -tale denominatore comune è la ricerca di senso e di assoluto nello spirito e nella sua divina matrice; -questa 'sete' d'assoluto è sete inesauribile di Dio e della sua fonte sorgiva, il Bene; -proprio in funzione di questa esigenza, posta nel fondamento della nostra anima, i due studiosi si mettono in dialogo e proprio philìa tra loro consente il rispetto delle caratteristiche e dei convincimenti di ciascuno, posti specularmente in rispecchiamento: infatti i loro percorsi si intrecciano sostanziando una coralità nella citazione di Autori e contenuti che articola questo affresco interessante. E balzano così in primo piano Hegel, Eckhart, Hadot, Platone, Weil, Jaspers nel particolarissimo dialogo con Bultmann, senza dimenticare l'antica offerta di senso che Niccolò Cusano ha posto nel suo 'scritto vertiginoso', il De visione Dei, come lo definiscono i due Autori. Oltre la breve Introduzione e il Prologo, questo


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percorso si snoda in tre tappe: DIALOGO PRIMO La religione e lo 'spirito del tempo' (pp. 13-36); DIALOGO SECONDO Religione, fede, ragione (pp. 37-64); DIALOGO TERZO Religione e religioni (pp. 65-94), per poi chiudersi in un Epilogo che tocca le corde del canto poetico e delle memorie care (pp. 95-96). All'ombra del grande pino marittimo, nel giardino dell'anima, sulla costa della Versilia, i due Amici si aprono al dialogo ed intercettano a vicenda, in parole, grandi temi che rendono palpitante il nostro tempo: la finalità è trasparente ed individuabile come schietta direzione della riflessione sui dati dell'esperienza concreta: cercare di limitare l'angoscia e la mercificazione degli scambi di relazione attraverso la crescita di una consapevolezza assai antica, quella di tener nel dovuto conto lo spirito. Tra mistica e filosofia, dunque, appare chiaro che l'intento è quello di evitare la mitologizzazione dell' ego, quel principio di appropriazione che distorce ogni approccio relazionale perché minato all'interno dalla dualità: se si fa infatti riferimento al principio di creazione dell'uomo da parte di Dio, si crea, si determina un principio prima del quale nulla era, ma se io sono fatto ad immagine e somiglianza di Dio, allora questa dualità scompare e deve scomparire anche l'io, talora scritto così maiuscolo, 'IO', da soffocare la storia ed i suoi eventi, che vengono così alterati a causa di una paranoica ipertrofia, immessa nelle azioni. La stesura scorre snella l'uno rimanda all'altro le proprie riflessioni e le posizioni si alternano nel dare senso e significato a questa partitura. “In quanto movimento dell'intelligenza verso l'Assoluto, la fede è distacco da ogni finitezza, e perciò non fornisce presunti saperi su Dio, sul mondo sull'eternità o che altro, ma solo conoscenza dello spirito nello spirito...” (M.V, op. cit. pp.5758), e quindi a Hegel. L'Amico Roberto, di fronte alla proposta di piena simbiosi tra spirito e libertà aveva già detto, carico di tensione empatica: “Caro Marco, qui lambisci il fondo che ci unisce più profondamente e che, se me lo permetti, è il 'sigillo dello spirito' recato sulla nostra philia: alludo alla questione della 'libertà' nel suo rapporto con la 'religione'. Non dimentico che la nostra amicizia è nata dalla tua lettura del mio lavoro sul 'pensiero religioso liberale', in cui tu generosamente hai trovato qualcosa che sentivi vicino a te e ci accomunava. Sul tema della libertà religiosa e dello spirito ci siamo incontrati...” (R. Celada Ballanti - M. Vannini, Il muro del paradiso. Dialoghi sulla religione per il terzo millennio, op. cit. pag. 46). Nell'Epilogo, per sostanziare meglio questa philia, una poesia di Eugenio Montale, Nel giardino, citata per intero.

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In copertina una bella istantanea dell'Abbazia di San Galgano a Siena, a cielo aperto, non brandelli di ruderi ma testimonianza vitale di quanto rimane dell'antica opera nata dalle mani di uomini di lavoro e d'arte: è visibile la terra, l'erba che cresce all'interno di questa architettura senza tetto, perché il cielo possa rappresentare così il terzo orizzonte. Alla quarta e a tutte le altre ennesime dimensioni hanno pensato i due Amici. Infatti questi dialoghi sono avventura, non comportano note né sono possibili riassunti: si entra in ciascuno di questi momenti lunghi perché venga costruito un unico ininterrotto colloquio; perché emerga la serietà delle problematiche etico-storiche portate alla luce e la forza intellettuale utilizzata per darne chiarificazione; perché si colgano possibilità aperte ad interrogativi, ad interiorizzazioni, a gioie date da estasi indotta: solo così si arriverà a ricostruire uno slancio spirituale verso la libertà, del pensiero e dell'anima, ponendo però, primo ed ineliminabile passo, la verità come unica apertura alla ricerca di Dio. L'atmosfera che si viene a creare è un poco quella di tanti momenti di dialogo tra i personaggi della vita in Atene tra i giovani che vanno alla scuola di Socrate, o quella tra gli studiosi di origine araba, ebraica e spagnola a Safed, in Palestina, o quella che tanto mi ha attratto nel dialogo tra i due rabbini nel libro dello Splendore, lo Zohar. Qui i due Amici ci aprono le porte del Paradiso, oltre il muro, e ci accolgono in un convivio a più voci e temi e passi di danza a scolpire il vuoto e ad intensificare la ricerca. Ilia Pedrina

CORRADO CALABRÒ LA SCALA DI JACOB Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2017 Il crescere degli anni ci avvicina sempre più al ricordo della giovinezza. La donna, negli occhi del poeta con i simboli dell’era attuale: l’iPod. Ascoltare altri suoni, altre voci e il non comunicare. Davanti a lui bellezza e lontananza. In lui, sogni; in quella Lei, estraneità. Corrono i pensieri come la vita percorsa negli anni; ma cosa resta? “Ho visto tutto/ ed il tutto era in me; in me, frazione unitaria di zero”. La chiave di lettura del testo è La scala di Jacob, chiaro richiamo alla Genesi: il sogno di Giacobbe, la scala che si proietta nel cielo e gli angeli che scendono e salgono. La visione di Dio, le sue promesse. Ma quella di Corrado Calabrò è diversa: la scala è di legno, in verticale. Rappresenta la vita


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con le sue difficoltà crescenti. Bisogna affrontarla. Lui ha percorso questo cammino e forse non ha trovato soluzioni. Il figlio dovrà anch’egli affrontarlo. Non c’è un Dio a porgere la mano; solo in noi salvezza o sconfitta. Il poeta ama la vita che è formata di attimi. Vanno colti così come la luna: “Enorme blu/ non capita due volte nella vita/ di vederla sospesa in mezzo al cielo;/ di vederla e non crederla un miraggio”. Le esperienze dure della guerra ormai lontana sono indelebili, troppo forti da smaltire nella mente di un bambino. Restano i fragori e il ricordo dei morti. Messaggio che penetra nel cuore del lettore, lo coinvolge come la grande onda dell’oceano che tutto travolge: “lo spazio tempo è ridotto a un solo evento”. La natura è compagna del poeta: “solo ronzio di veste/ su fichi di dolcezza da stordire”. La quotidianità, le cose che restano, poche, dopo il ripetersi di eventi. Sette, poi sette e ancora sette. Rimpianti; un agire diverso avrebbe forse prodotto diverse realtà. “S’alza improvvisa una frotta di passeri/ volano altrove le upupe allarmate”. Questa poesia che ha nome Trasloco, illustra il trascorrere della vita e ad ogni passaggio qualcosa si perde. Nella casa deserta resta solo un divano e nel cuore? Solo rimpianto per una serie di scelte che hanno prodotto quel senso di vuoto. “Le upupe in coppia se ne sono andate./ Chi sette volte una donna ha lasciato/ non ha un presente ed ha perso il passato”. Il poeta ha rimpianti come tutti; sente sfuggirgli la vita e si attacca ai ricordi di bambino. La luce è crepuscolare come la poesia. Il bianco copriletto dell’ospedale; il timore della morte vicina e la richiesta imperiosa alla madre: “chiudimi gli occhi, mamma!/ Io non te li ho chiusi/ e per questo li tieni ancora aperti”. Nella raccolta si percepisce una nota di ironia e pessimismo: in genere il poeta più volte si celebra e s’impone con la forza della parola. Corrado Calabrò in Caro me l sonno pone in dubbio sia il suo essere che l’essere stato poeta e ritiene che meglio sarebbe trattenere i suoi versi nella mente “distribuendo alla gente/ fogli bianchi”. Anna Vincitorio

RITRATTO Frammenti d’arcobaleno nei capelli che t’incoronano; luce liquefatta il tuo volto; madonna

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dipinta nei graffiti. Tu: tarlo che consuma, calamita che rapisce, vertigine di dolcissimi abissi. Le tue mani: dieci germogli, raggiera di carezze, tastiera paradisiaca, mille catene. E i tuoi occhi, chi intarsiò i tuoi occhi? quale iddio si trastullò a primavera, accese zampilli di rugiada e ridere di beati? E quale demone una sirena irresistibile alla voce, l’estate nel sangue? Rocco Cambareri Da Da lontano - Ed. Le Petit Moineau, 1970.

FR4MMENTO (da non ti scorderò) ............. E ti rivedo sempre, dovunque, nella mia ansia infinita. Sei bella come il sogno di una notte d’Oriente. I tuoi occhi segnano sul volto un orizzonte di luce. Hanno riflessi di madreperla i tuoi denti e brillano tra il rosso vivo delle tue labbra. La tua pelle riluce come diamante puro, al sole. E le tue mani? Oh, le tue mani! Hanno il candore dei gigli e son ricolme del dono della grazia. Enrico Ferrighi


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ANEMONE Anemone silvestre, delicato fiore, che splendi là dove più batte il sole. Anemone dai bei colori. Alunna delle Grazie! ecco il tuo nome. Sei figlia dell’azzurro e della luce, ride negli occhi tuoi la primavera. Estatico ti miro e una canzone nasce nel cuore che non può morire. E sempre ti rimembro. Sempre. Ancora. Enrico Ferrighi Verona Da Carmina - Ed. Pomezia-Notizie, 1983.

D. Defelice: Il microfono (1960)

NOTIZIE UN PREMIO A LUCIANA VASILE - Il giorno 19 novembre nell’accogliente spazio del caffè letterario Mangiaparole in Roma si è svolta la cerimonia di premiazione del IV Premio Mangiaparole - sezione poesia dove Luciana Vasile si è classificata II° vincendo così la pubblicazione con la casa editrice Progetto Cultura per la sua raccolta inedita “Libertà attraverso... eros, filia, agape”. Motivazione della giuria del premio : “Un verso spezzato, breve, secco ma ricco di contenuti. Una raccolta che, partendo dall'intimità del vissuto, raggiunge la totalità dell'esperienza umana, ricordando che il rapporto fra gli uomini, sotto qualsiasi forma

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si manifesti, resta la cosa più importante!" Condividere è un miracolo Moltiplica la gioia Divide la sofferenza Breve sinossi dell’opera di Luciana Vasile “LIBERTA’attraverso”… eros, filìa, agape. Solo chi è libero ama. E’ capace di vero amore solo chi si è reso libero nel profondo della sua interiorità. Per questa raccolta di poesie una sorta di postulato, oserei dire, una affermazione che pur non potendo essere dimostrata va presa per vera. E’ premessa che diventa ricerca scavando nel sé, per liberarlo dai lacci, dai condizionamenti della società del benessere, dalle false mete, dalla violenza delle intransigenti moralità, dalle barriere che procurano cecità, da tutto ciò che rende prigionieri e non dà la possibilità di esprimersi e muoversi nel cammino della vita quando siamo schiavi, prima di tutto, di noi stessi e dei nostri desideri. L’inabissarsi nel sé senza paura di percorrere la sofferenza attraversandola, per poterne uscire finalmente liberi. Un atto d’amore - che presuppone coraggio - nei confronti di se stessi e, di conseguenza nei confronti degli altri. Lo spazio interiore come prima e unica palestra nella quale abbiamo il diritto e il dovere di allenare ed esercitare i nostri muscoli: le emozioni e i sentimenti che attivano l’ intelligenza del cuore. Tutto ciò che si impara a fare con se stessi lo si applica anche al rapporto con l’Altro. E così una libertà alla quale si può arrivare solo attraverso l’Amore, così come i saggi antichi padri greci lo intendevano e lo distinguevano: eros, filìa, agape, che, oltre al “sé”, sono le sezioni di questa raccolta. eros : l’amore passionale fra due esseri filìa : l’amicizia, le affinità elettive, le mete, l’ impegno nel sociale, ciò che accomuna pensieri e attività di più individui. agape : l’amore universale, per tutti, anche coloro che non si conoscono, ma che esistono e verso i quali ci sentiamo responsabili. Quell’amore che nulla chiede e tutto dà. Dal cui dono non ci si aspetta niente in cambio, neanche il risultato del nostro impegno, perché anche quello potrebbe risultare un condizionamento. Questo amore, questa libertà, forse utopia ma anche unica speranza perché, come ha detto lo scrittore uruguaiano Galeano: L’utopia è come l’orizzonte. Fai due passi e si allontana di due passi, fai dieci passi e si allontana di dieci passi. A cosa serve allora l’utopia? Serve a camminare. *** UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILA-


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NO,CONVEGNO DI STUDI INTERDISCIPLINARI SCRIVERE LA TERRA, ABITARE L’ UTOPIA TRA COMUNITÀ E MIGRANZA – 5-6 dicembre 2017 - In una fase di profondi mutamenti della matrice antropogenetica studiosi afferenti a diverse discipline e ambiti di specializzazione si incontrano per dare corpo all’utopia di scambiare pensiero in uno spazio bonificato dai narcisismi delle piccole differenze. Dall’universo quantistico alla cosmologia di Benjamin; dalle riflessioni sull’ ambiente e lo spazio urbano alle scritture della decolonizzazione; dal poetare tra due lingue a una rilettura dei concetti di natura e di patria il filo rosso che attraversa i contributi è la ricerca di forme di autorealizzazione solidale a partire dal dibattito sull’antropocene ai fallimenti insiti nella natura umana. Le trasformazioni linguistiche, paesaggistiche, sociali, filosofiche e letterarie del mondo che ci circonda vengono tematizzate e rilanciate per promuovere confronti, ibridazioni e incroci proprio in quella uni-versitas dove il sapere va sempre più emancipandosi dagli steccati disciplinari per puntare a una complessità della ricerca che liberi energie innovative al cui centro è il corpo vivente della terra e degli animali che la abitano. In queste due giornate la riflessione si concentra sull’animale umano che parla e scrive il pianeta con le orme dei propri passi, che migra e fonda comunità per accogliere differenze e rifiutare la violenza; che lotta con la mano che semina idee perché all’arma che cancella la vita preferisce la matita, il polpastrello, il lampeggiare del cursore su uno schermo in cui leggere e comunicare il mondo. *** PREMIO SUPERGA A IMPERIA TOGNACCI - Il 26 novembre 2017, è stato assegnato a Imperia Tognacci, nei saloni dell’Hotel Royal di Torino, il Premio “Superga”, riconoscimento alla carriera per il romanzo “Anime al bivio”. Motivazione: La feconda attività letteraria di Imperia Tognacci, nata a San Mauro Pascoli e residente a Roma, è iniziata editorialmente nel 2001 con la pubblicazione della raccolta poetica “Traiettoria di uno stelo” e con il saggio “La strada della memoria”, dedicato a Giovanni Pascoli, suo illustre concittadino, cui ha fatto seguito una serie di altre opere in versi e in prosa, fino al recente romanzo “Anime al bivio”, caratterizzato da un acuto scavo psicologico dei personaggi e da un’ esposizione narrativa condotta all’insegna di una chiarezza che rende oltremodo avvincente la lettura dell’opera stessa. *** NUOVA LAUREA DI AURORA DE LUCA Rocca Di Papa, 16/12/2017 - Caro Direttore,

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mi perdoni la tardiva risposta, ma come può immaginare erano gli ultimi giorni caotici a ridosso della mia laurea il 15 dicembre alle ore 14,00, con tanto di pioggia e vento, ma non capaci di sminuire la densità delle emozioni. La sua lettura (per "Resta mio") è sempre attenta e puntuale con lo sguardo rivolto alla profondità delle cose e che sa cogliere i nodi autentici di una poetica legata ad un periodo recente della mia vita. E' con immensa gioia che le comunico il termine gioioso della mia laurea magistrale in letteratura italiana filologia moderna e linguistica con grande soddisfazione. Il risultato si poteva prevedere dal curriculum di studio che in questa magistrale mi ha concesso anche una borsa di studio per meriti, ma è stata bella la presentazione del Prof L. Rino Caputo e la Prof.ssa Paola Benigni che hanno curato la mia tesi dal titolo "Poesia, mi confesso con te", L'opera di Antonia Pozzi. Lui, il Prof Caputo ha ricordato a tutti la mia tesi precedente sull'Opera di Domenico

Defelice e ha spiegato al pubblico che anche questa seconda tesi è già un saggio ricco di approfondimenti dove si possono avvicinare gli studiosi che vorranno avere altre visioni su la Pozzi. Mi ha presentato anche come poetessa (ma una che non scrive soltanto in verticale) come valore aggiunto. Le allego una foto di ieri per condividere l'emozione... (...) L'abbraccio con molto affetto e stima, a presto Aurora Alla cara Aurora i complimenti e gli auguri della Direzione e di tutta la grande famiglia di PomeziaNotizie. *** INCONTRI IN BIBLIOTECA - Presso la Biblioteca Comunale “Ugo Tognazzi” di Pomezia - diretta con intelligenza e entusiasmo dalla Dottoressa Fiorenza Castaldi e con l’opera di validi collaboratori - nel mese di dicembre 2017, tra le 16,30 e le 18,30 si sono svolte Letture animate per bambini dai 4 agli 8 anni, a cura di Barbara Peticca. E pre-


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cisamente: mercoledì 6 dicembre, lettura di “L’Arcobalena”; mercoledì 13, lettura di “Piccola Macchia”; mercoledì 20, lettura di “Aspettando Babbo Natale”.

LIBRI RICEVUTI MARINA CARACCIOLO - Otto saggi brevi - In copertina, a colori, particolare di “Madonna con bambino e coro di angeli” (1477) di Sandro Botticelli - Genesi Editrice, 2017 - Pagg. 88, € 10,00. Premio I Murazzi per l’inedito 2016 (Dignità di stampa). Motivazione di Giuria: Degli Otto saggi brevi della studiosa torinese Marina Caracciolo, ben sette portano in primo piano la figura della donna o come vittima quale appare nel ciclo favolistico di Barbablù o meglio ancora come autrice interprete di capolavori di scrittura come avviene nei casi di Isabella Morra, Juana Inés de la Cruz, Irène Némirovsky, Anna Ventura, Natalie Babbitt. Un ulteriore saggio riguarda il libro La scomparsa di Majorana di Leonardo Sciascia. Marina CARACCIOLO è nata a Milano ma fin dall’infanzia risiede a Torino. Presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’ Ateneo torinese ha studiato Storia della Letteratura italiana moderna e contemporanea con Giorgio Bárberi Squarotti e si è laureata con lode in Storia della Musica. Dopo aver insegnato alcuni anni nei licei, è diventata consulente di redazione per diverse Case Editrici. Con la UTET ha collaborato all’ opera in 6 volumi “Musica in scena. Storia dello spettacolo musicale” e al “DEUMM. Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti”; al volume “I Mozart in Italia”, a cura di Alberto Basso (2006). Per le sue pubblicazioni ha ricevuto recensioni su quotidiani e periodici, tra cui “Amadeus” e “Il Sole 24 Ore” e qualificati premi, come “Mario Pannunzio” (2001), “Premio alla Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri” (2005), Premio speciale per la Critica Letteraria Rocca di Montemurlo” (2005), Per la poesia inedita, il “Premio Speciale della Critica-Mario Tobino” (2008), Premio “Over Cover Scriba” (2008). Traduttrice dal francese e dal tedesco, ha scritto prefazioni, saggi brevi, moltissime recensioni. Inserita in monografie e antologie. Ha pubblicato: Gianni Rescigno: dall’essere all’infinito (2001), Brahms e il Walzer. Storia letteraria critica (2004), Oltre i respiri del tempo. L’universo poetico di Ines Betta Montanelli (2016). ** GIANNICOLA CECCAROSSI - Canti e Silen-

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zio/Cantos y Silencio - quartine/cuartetas - Prefazione di Antonio Bonchino, Postfazione di Emerico Giachery; in copertina, a colori, “La Reproduction interdite” di René Magritte (1898 - 1967). Ed. Ibiskos Ulivieri, 2017 - Pagg. 70, € 12,00. Giannicola CECCAROSSI è nato a Torino il 18 agosto 1937 e vive a Roma. Figlio d’ arte (il padre Domenico era un grande musicista solista), si dedica alla poesia da molti anni. Proprio con il padre realizza nel 1970 il poemetto “Per i semi non macinati” per corno (Domenico Ceccarossi), voce recitante (Arnoldo Foà), coro e orchestra d’archi, musica di Gerardo Rusconi. Nello stesso anno vince il “Premio Nazionale di Poesia Reggiolo”. Dopo un lungo periodo dedicato alla carriera manageriale, inizia nel 1999 a partecipare a concorsi letterari aggiudicandosi numerosi primi premi, tra i quali: Città della Spezia, Il Porticciolo, Histonium, Città di Portovenere, Apud Montem, L’ Aquilaia, Giuseppe Stefanizzi, Nicola Mirto, Il Maestrale, Santa Margherita, Poetico Musicale, San Valentino, Le Cinque Terre, Padre Raffaele Melis, Amarossella, Mario Tobino, Città di Santa Maria a Monte, Franco Bargagna, Aeclanum, Il Quadrato, La Gorgone d’oro, Città di Bitetto, San Domenichino, Olinto Dini, L@ Nuov@ Mus@, Nosside, Santa Maria in Castello, Raffaello Cioni, Antica Sulmo, Il Litorale. Inoltre Premio all’ Eccellenza (“Voci” Abano Terme) e Premio alla Carriera (“San Domenichino”). Ha pubblicato: Poesie (1967), Ora non è più tempo (1970), Le dieci lune (1999), Frammenti (2000), I fiori nella schiena (2000), La terra dentro (2001), I gridi nella mano (2002), È appena l’alba (2008), Aspetterò l’arrivo delle rondini (2011), Ed è ancora così lontano il cielo (2012), Casa di riposo (diario) (2013), Dove l’ erba trasuda narcisi (2014), La memoria è un grano di sale (2015), Fu il vento a portarti (2015), Birkenau (2016), Un’ombra negli occhi (2016). ** ANTONIO VITOLO - L’ultimo porto. Genesi di carri e navi. San Mauro Cilento Poesie 2013 2015 - a cura di Osvaldo Marrocco; Introduzione di Katrin Petillo; la foto a colori in copertina e quelle in bianco e nero nel testo sono di Federico Scarpa Ed. Centro di Promozione Culturale per il Cilento, 2017 - Pagg. 76, s. i. p. “La poesia di Vitolo (...) seppur talvolta in maniera ermetica (...), è pura, essenziale, d’intenso valore allusivo, simbolica e capace di evocare sensazioni straordinarie mediante luoghi, immagini, profumi - scrive Katrin Petillo nella Introduzione -. Attraverso la parola poetica, l’ autore penetra nell’essenza più segreta delle cose e dell’uomo, all’interno di una verità che gli faccia intravedere la misteriosa presenza del divino non solo nella vita di ogni giorno ma anche in quella


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della natura e dell’universo intero”. Innamorato del Cilento e, in particolare, di San Maruro Cilento, egli ha sempre tentato di storicizzare, attraverso le ricerche e la poesia, luoghi, cultura, personaggi che questo territorio rendono quotidianamente grande e anelante alla pace. A tal punto che la stessa Amministrazione, il primo giugno del 2016, ha ritenuto di dovergli concedere la “Cittadinanza Onoraria” con una lunga, lusinghiera, motivata motivazione. Le dodici fotografie di Federico Scarpa, che corredano il testo, sono anch’esse poesia e immortalano paesaggi e manufatti straordinari, veri e propri monumenti. Oltre il volto della statua della Madonna Addolorata, segnaliamo quelle di pagina 37 e 72 per l’armonia e la quiete che ispirano, nonché la chiesetta di pag. 49, con quel cielo e quelle nuvole che annunciano, nel contempo, tempesta e speranza. (ddf) Antonio VITOLO, medico, nato nel 1961. Dal 24 agosto 2016 è cittadino onorario di San Mauro Cilento. Poeta, scrittore, saggista, ha vinto numerosi e importanti Premi e sulla sua opera hanno scritto positivamente tanti poeti e critici. Ha collaborato a “Parole in soffitta”, ricerca sul dialetto olevanese di Maria Gabriella Cestaro (2006); è stato inserito nell’ “Albo degli Scrittori”, pubblicato sotto l’egida dell’UNESCO (2010) con prefazione di Maria Luisa Spaziani. Leonardo Selvaggi (nel 2007) e Osvaldo Marrocco (nel 2016) hanno pubblicato due saggi sulla sua opera. Ha pubblicato: Un pensiero per la speranza (1993), Rimembranze (1995), Un giorno nel passato (1997), Ode all’ amata (1998), Oltre il buio della mente (1999), Tracce salmastre rosso amaranto (2007), L’amore mai dimenticato (narrativa, 2008), Bardo al crepuscolo (2010), Il respiro dell’addio - Il rapporto madrefiglio nella poesia di Gianni Rescigno (saggistica, 2012), Saluto mareggiato (2015). ** ANGELO MANITTA - La chioma di Berenice/Berenikini žametni lasjè - Trad. slovena di Ivan Tavčar, Prefazione di Denis Poniž - Il Convivio Editore, 2017 - Pagg. 62, € 8,00. Angelo MANITTA è nato il 3 febbraio 1955 a Castiglione di Sicilia. Ha conseguito la laurea in Lettere presso l’ Università di Catania con una tesi su Il fu Mattia Pascal di Pirandello. Docente nelle Scuole Medie, collabora a diversi giornali. Negli ultimi anni ha ottenuto numerosi riconoscimenti in manifestazioni letterarie ed ha fondato nell’anno 2000, oltre alla rivista Il Convivio, anche l’Accademia Internazionale Il Convivio. Tra le pubblicazioni si ricordano: Fragmenta (poesie), Catania 1981; La basilica S. Maria della Catena e S. Giacomo Apostolo in Castiglione di Sicilia (saggio), Eigraf Marconi, Castiglione di Sic.1990; Verzella e le sue contrade (sag-

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gio), Catania 1991; Lettera ad Orazio (letterasaggio) in ‘Caro Piero’, Padova 1994; Donne in punta di piedi (poesie), Riposto 1995; Santa Maria della Catena venerata a Castiglione di Sicilia e oltreoceano (saggio), Messina 1996; Come una favola (narrativa), Catania 1997; Castiglione di Sicilia dai beni culturali ai beni ambientali (saggio), Randazzo 1997; Profili d’artisti: Nunzio Trazzera (catalogo), Giarre 1998; La ragazza di Mizpa (poesia), Roma 1998; Giacomo Leopardi pessimista ma... non troppo (saggio), Catania 1998. Giulio Filoteo di Amadeo e Antonio Filoteo Omodei scrittori siciliani del Cinquecento (breve saggio), Accademia degli Zelanti e dei Dafnici, Acireale 1998; Dei, eroi e isole perdute (narrativa), ed. Mursia, Gruppo Elemond Scuola, Milano 2001; Antonio Filoteo Omodei e Giulio Filoteo di Amadeo scrittori siciliani del Cinquecento (saggio), ed. del Comune di Castiglione di Sicilia, Catania 2001; Teorema d’immagini, antologia dell’Accademia Internazionale Il Convivio, a cura di A. Manitta, Catania 2001; Dame, cavalieri e paladini (narrativa) ed. Mursia, Milano 2003; Castiglione di Sicilia. Un “Presepe” tra l’Etna e l’Alcantara (2004); A partire da Boccaccio... La novella italiana dal Duecento al Cinquecento (2005); Capitoli, Consuetudini e Usi Civici di Castiglione di Sicilia e in appendice Randazzo e Linguaglossa (2008); Il Giobbe di Antonio Sarao. Poema eroico del romanticismo siciliano (2009); Orbite d’ellissi. Big Bang-Sistema solare (2010) eccetera.

TRA LE RIVISTE IL CONVIVIO - Trimestrale di poesia arte e cultura fondato da Angelo Manitta e diretto da Enza Conti - via Pietramarina-Verzella 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) - E-mail: angelo.manitta@tin.it; enzaconti@ilconvivio.org Riceviamo il n. 70, luglio- settembre 2017, dal quale segnaliamo l’intervista a Tuomo Pekkanen, a cura di Angelo Manitta (la stessa che leggiamo in Cultura e Prospettive); “Lorenza Rocco Carbone Profili di donne”, di Corrado Calabrò; “Giovanni Perrino Dorso d’asino. Possibili rallentamenti”, di Giuseppe Manitta; “Guido Zavanone Percorsi della poesia”, di Angelo Manitta; “L’orca”, di Filomena Iovinella; “Sulla spiaggia deserta”, poesia di Caterina Felici; “Donna albero”, poesia di Isabella Michela Affinito; ancora le poesie di Loretta Bonucci e la traduzione in inglese, de “I tuoi occhi” di Angelo Manitta, di Giovanna Li Volti Guzzardi; i


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medaglioni, su alcuni pittori, di Enza Conti; “Imperia Tognacci, Anime al bivio”, di Adalgisa Licastro; le firme, ancora, di Antonia Izzi Rufo, Aurora De Luca eccetera. Allegato, il n. 36 (Lugliosettembre 2017), di CULTURA E PROSPETTIVE, di pagine 192, con la partecipazione di: Asteria Casadio, Ugo Piscopo, Angelo Manitta, Fabio Russo, Carlo Di Lieto, Giovanni Tavčar, Domenico Cara, Francesco Felis, Rocco Giudice, Adalgisa Licastro, Giuseppe Gianpaolo Casarini, Claudio Guardo, Aldo Marzi, Silvana del Carretto, Raffaella Iacuzio, Giuseppe Manitta, Carmine Chiodo, Nazario Pardini, Tito Cauchi. * LA RIVIERA LIGURE - quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro, diretto da Maria Novaro - Corso A. Saffi 9/11 - 16 128 Genova - E-mail: info@fondazionenovaro.it Riceviamo il n. 84 (settembre-dicembre 2017) dedicato a Camillo Sbarbaro, con interventi di: Pino Boero, Veronica Pesce, Fernando Galardi, Adriano Sansa, Davide Puccini, Maria Teresa Oremgo, Alessandro Ferraro. * SOLOFRA OGGI - La Voce di chi non ha voce direttore Raffaele Vignola - via A. Giannatasio II trav. 10 - 83029 Solofra (AV) - E-mail: solofraoggi@libero.it - Riceviamo il n. 11, novembre 2017, dal quale segnaliamo il pezzo d’apertura “Cristo <è più forte della Camorra>”, a firma di Gerardo Magliacano. * L’ORTICA - Rivista diretta da Davide Argnani via Paradiso n. 4 - 47121 Forlì - E-mail: centroculturalelortica@gmail.com; orticadonna@tiscali.it Riceviamo il n. 18/119, ottobre 2016 - marzo 2017, nel quale leggiamo: “Marie de France”, di Claudia Bartolotti; “I mondi di Gianfranco Zavalloni ecologia ambientalismo arte e poesia”, di Davide Argnani; “Anniversari”, di Marilena Fonti; Intervista a Giulia Niccolai, di Marcello Tosi; Versi inediti di FrancyDafne (Francesco Tuccia); “Rovistando riviste dal mondo” (Anterem, Erba d’Arno, Fermenti, Ilfilorosso, Il foglio letterario, Il segnale, Kamen’, La Riviera Ligure, L’area di Broca, L ’immaginazione, Mail Art, Notiziario CDP, Pik Wick, Poesia, Pomezia-Notizie, Zeta, Comme en Poesie, Florilège, Inedit/nouveau, Libelle), a cura di Davide Argnani; “Equipollente”, versi di Yvon Le Men nella traduzione di Giorgio Casadei Turroni; “Cinzia della Ciana, Passi sui sassi, Arcidosso, Effigi, 2017” di Giuseppe Patota. Infine, la rubrica “Concorsi”. Ricordiamo ai nostri lettori che l’ abbonamento annuo alla rivista è di € 15,50, sostenitore € 26, socio € 26, socio sostenitore € 35 - versamento su c. c. p. n. 15042476 intestato a L’ Orti-

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ca, via Paradiso n. 4, 47121 Forlì. * IL FOGLIO VOLANTE/LA FLUGFOLIO - Mensile letterario e di cultura varia fondato da Amerigo Iannacone e diretto da Raffaele Calcabrina; direttore di redazione Giuseppe Napolitano - via Annunziata Lunga 29 - 86079 Venafro (Is) - e-mail: napolitano.giuseppe@ymail.com - Riceviamo il n. 12, dicembre 2017, del quale segnaliamo “Ho sognato Amerigo Iannacone”, di Isabella Michela Affinito. Altri contributi in ricordo di Iannacone sono a firma di Patrick Sammut, Umberto Cervo, Michele de Gaetano, Giovanna Li Volti Guzzardi. * SENTIERI MOLISANI - Rivista di Lettere e Scienza, organo dell’Accademia internazionale Lucia Mazzocco Angelone - via Caravaggio 2 - 86170 Isernia. Direttore editoriale, Antonio Angelone; direttore responsabile, Massimo Di Tore; e-mail: sentieri.molisani@gmail.com - Riceviamo il n. 3 (51), settembre-dicembre 2017, nel quale Mario Landolfi recensisce il romanzo “Anime al bivio” di Imperia Tognacci. Altre firme di nostri collaboratori: Antonia Izzi Rufo, Leonardo Selvaggi (“La Lucania negli anni del Dopoguerra”), Luigi De Rosa (“Giovanni Descalzo”), Gabriella Frenna, Isabella Michela Affinito, Giovanna Li Volti Guzzardi.

LETTERA AL DIRETTORE (Ilia Pedrina, da Vicenza, il 15 dicembre 2017) Carissimo, ti scrivo a caldo, dal mio 'seggiolone' nella Carrozza 9 Premium del Frecciarossa, dopo aver salutato negli ampi spazi liberty della Stazione Centrale di Milano i cari amici comuni Giuseppe Leone e Manu e la bella soprano Daniela. Li ho ancora una volta incitati a partecipare con me al Convegno 'Scrivere la terra, abitare l'utopia tra comunità e migranza', una due giorni, il 5 e il 6 dicembre alla Statale di Milano, nell'Aula Crociera Alta di Studi Umanistici, in un contesto con stupende architetture d'antichissimo cotto che emanano scansioni di colore al modifi-


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care della luce del sole. In rete si potrà trovare a breve la sintesi di questo importantissimo evento. Ad un certo punto di questa mia stesura a te, mentre nel contempo sto leggendo 'Il lavoro intellettuale come professione' di Max Weber, nelle pagine in cui tratta del differente percorso accademico degli studenti universitari in America ed in Germania, interrompo perché arriva il giovane addetto ad offrire cose buone ai viaggiatori: caffè, the, succhi, aggiuntine salate o dolci e acqua, acqua sempre, in bottiglina e non si paga, di certo: in Classe Premium non si paga in quanto è già abbastanza salato il costo del biglietto. Poi c'è anche il settore 'Business' e 'Silenzio', perché non ci siano pericolose infiltrazioni del quotidiano rispetto alle forti ideazioni di viaggiatori speciali, legate alla moltiplicazione non certo di pani e pesci per chi ha fame, ma di formule valide ad affamare economicamente senza scampo ed in direzione già prestabilita ed incanalata. Mi rifugio nella dolcezza dello sguardo intenso e della bella relazione di Rosalba Maletta, che mi ha regalato un pacchettino da aprire a casa: 'L'isola delle scimmie. Musil a Roma. Letteratura e antropogenesi', un vero, appassionato invito a scoprire questo autore dai molti volti contemporaneamente fusi in alterità da scandagliare, soprattutto negli eventi che rimangono tali mentre aprono ogni lato alla metafora: loro, le scimmie, gerarchicamente disposte, sono all'interno di un contenitore ed il nostro guardarle è estraneo alla loro condizione, perché non possono venire da noi, a causa del limite. Possono però, dall'alto, salire e vedere il tramonto al Pincio, oltre Villa Borghese. Ordinerò gli appunti e porterò avanti approfondimenti. Ho portato con me anche il piccolo volumetto di Massimiliano Tomba Attraverso la piccola porta Quattro studi su Walter Benjamin, finito di stampare nell'aprile 2017 per i tipi della Mimesis /'Filosofie', dedicato al figlioletto Carlo, '...con l'augurio che possa trovare la sua piccola porta...'.

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Dedicherò tutto il 2018 alle investigazioni sulla Giustizia, sulla Libertà, sul ruolo che potranno ancora avere i cittadini rispetto al Potere. Il prof. Tomba, al quale grazie a te ho dedicato riflessioni che van sempre prese e riprese in mano, perché frutto di un lavoro in divenire, sottolinea il ruolo centrale delle posizioni etico-politiche di Walter Benjamin, di questo ebreo tedesco, cresciuto in tempi duramente avversi, angelo dalle ali spezzate, con la forza dentro di rimanere bambino, perché questa è dimensione di innocenza che affina ogni relazione e consente di portare giustizia, sconvolgendo tempo spazio e materia e dando onore e nuova vita ai vinti del passato. Tanti gli autori citati, contemporanei ed amici del Benjamin, Rosenzweig, Scholem, Bloch e altri ancora. Massimiliano Tomba, in quattro differenti tappe intrecciate tra loro, intende dimostrare che il nostro tempo deve cambiare in profondità, spingendo il singolo ad agire su se stesso: il progetto è quello di contrastare nella modernità sia il soggetto che la realtà nella quale le esperienze sono condizionate e prestabilite, senza lasciar spazio al respiro. Se W. Benjamin è fuori dal suo tempo per esser dentro al flusso senza tempo del divino, caricato dalle angosce della Storia fino a perdersi e ad interrompere il proprio respiro, M. Tomba ne asseconda la forza spirituale e rivoluzionaria e ne traccia figure che animano stabilmente i nostri progetti, resi azioni reali; la nostra interiorità, che si esplica come sguardo sul reale e come volto offerto agli altri; il nostro stesso pensare che di tutto questo si carica e viene portato a concretezza e conoscenza vera. Dalla parte dell'Angelo, della felicità, del pericolo da individuare e da affrontare, affinché nell'istante si apra la piccola porta dalla quale può entrare il Messia. Ti darò altri particolari nel corso di queste esplorazioni che ho già non solo nella mente. Anche le opere di Giuseppe Leone su Machiavelli e Silone, oltre ai lavori di Gramsci, di Carl Schmitt, di Labriola, di Danilo Dolci, ed altri ancora, con tra loro quelle di Luigi Nono, pensatore e guida, mi saranno di valido aiuto. Anche in questo caso una volata, da Vicenza a Milano, partenza, arrivo e ritorno nella stessa giornata, perché non posso portare pesi con le braccia massacrate dall'incidente che mi avrebbe visto stesa piatta piatta sotto le ruote di un camioncino: non mi è più possibile per ora sollevare pesi oltre i tre chili e questo è un pesante limite per chi ama viaggiare e stare ad osservare altri mondi e scrivere, scrivere, scrivere. Farò riprendere in mano la cosa e ti dirò della mia compagna di scuola elementare a Povolaro, che, venuta improvvisamente a mancare nel maggio del 2009, mi ha protetto nel novembre dello stesso anno, con la sua dolcezza di bambina, di


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moglie e di madre! La mia è una certezza senza dubbi di sorta. Le dedicherò le mie 'Epistole sulla spiritualità', ancora inedite. Carica di gioia, condivisa negli abbracci e nel cuore con gli amici di Pescate, ti penso in un devoto, sincero orgoglio. Ilia tua

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In questa pagina, ricordiamo, a dieci anni dalla scomparsa, il grande pittore, nostro amico, GIUSEPPE MALLAI (Bonacardo 1945 - Milano 2007) con due delle sue splendide tele: “Donna e Cavaliere (cm. 50 x 70) e “Ritratto di Valentina” (cm. 130 x 130) ← AI COLLABORATORI Inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione) preferibilmente attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è gradito un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (copia cartacea) Annuo, € 50.00 Sostenitore,. € 80.00 Benemerito, € 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia, € 5,00 (in tal caso, + € 1,28 sped.ne) Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 N076 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio


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