ISSN 2611-0954
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Anno 26 (Nuova Serie) – n. 10
€ 5,00
- Ottobre 2018 -
Ricordo di
SILVANO DEMARCHI di Liliana Porro Andriuoli
I
L 23 agosto è mancato a Bolzano, dove era nato il 15 febbraio del 1931, Silvano Demarchi. Poeta, narratore e saggista è stato uno dei più validi uomini di Lettere della sua Regione, nella quale ha esercitato anche le funzioni di Preside e di Presidente della Dante Alighieri. Nel 1982 gli è stato assegnato il Premio per la Cultura della Presidenza del Consiglio. Molte le sue pubblicazioni, sia di narrativa, delle quali ricordiamo: Quasi una fiaba e altri racconti (EdiNord, Bolzano, 1979); Gli anni di Lucio (La Bancarella, Schio, 1981); L’ incanto del bosco (Manfrini, Trento, 1981); I frutti dell’Eden (La Bancarella, Schio, 1982); Il richiamo della montagna (Manfrini, Trento, 1983); Incomunicabilità (Forum/ Quinta Generazione, Forlì, 1989); Racconti ed aneddoti burleschi (Cronache Italiane, Salerno, 2009); Il lato buffo delle situazioni (Ivi, 2011), →
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All’interno: Giustizia e vendetta, di Emerico Giachery, pag. 5 Luigi Nono e Alvise Vidolin, di Ilia Pedrina, pag. 9 Maria Grazia Lenisa, Il canzoniere unico, di Rosaria Di Donato, pag. 12 Domenico Defelice e il suo “Orto del poeta”, di Luigi De Rosa, pag. 14 Il debito pubblico (3), di Giuseppe Giorgioli, pag. 17 Ritorno in Basilicata, di Leonardo Selvaggi, pag. 20 Asinara, di Anna Vincitorio, pag. 26 Dentro una copertina, di Filomena Iovinella, pag. 27 L’antenna innamorata, di Caterina Felici, pag. 29 I Poeti e la Natura (Cesare Pavese), di Luigi De Rosa, pag. 30 Notizie, pag. 43 Libri ricevuti, pag. 46 Tra le riviste, pag. 47
RECENSIONI di/per: Elio Andriuoli (Sono la foce e la sorgente, di Lorenzo Pittaluga, pag. 32); Isabella Michela Affinito (I preludi, vol. V, di Pietro Nigro, pag. 33); Isabella Michela Affinito (Paul Valéry, di Pietro Nigro, pag. 34); Isabella Michela Affinito (Giovanna Maria Muzzu la violetta diventata colomba, di Tito Cauchi, pag. 35); Andrea Bonanno (Giovanna Maria Muzzu la violetta diventata colomba, di Tito Cauchi, pag. 36); Roberta Colazingari (Mi interrogarono le muse, di Isabella Michela Affinito, pag. 37); Elisabetta Di Iaconi (Giuseppe Piombanti Ammannati e “Pomezia”, di Domenico Defelice, pag. 38); Giuseppe Giorgioli (AmOressia, di Fabio De Agostini, pag. 38); Antonia Izzi Rufo (Fiori di lillà, L’albero parlante, di Antonio Angelone, pag. 39); Manuela Mazzola (Scherzetto, di Domenico Starnone, pag. 40); Maria Antonietta Mòsele (Cercando dilà, di Fabio De Agostini, pag. 41); Ilia Pedrina (Lo specchio delle anime semplici, di Margherita Parete, pag. 42).
Lettere In direzione (Ilia Pedrina), pag. 48
Inoltre, poesie di: Elio Andriuoli, Mariagina Bonciani, Loretta Bonucci, Rocco Cambareri, Domenico Defelice, Silvano Demarchi,, Luigi De Rosa, Elisabetta Di Iaconi, Filomena Iovinella, Antonia Izzi Rufo, Giovanna Li Volti Guzzardi, Teresinka Pereira, Gianni Rescigno, Franco Saccà
che di saggistica, delle quali sono da segnalare: Vita e poesia di Vincenzo M. Rippo (Ponte Nuovo, Bologna, 1975); Guida allo studio di Ungaretti (EdiNord, Bolzano, 1976); Valori ritmici e tonali nella poesia di Cesare Pavese (Annali Università di Feltre, 1979); L’orizzonte platonico dell’estetica (Piovan, Abano Terme, 1980); Studi sulla poesia del Novecento (Ivi, 1983); La parola
pura (Ivi, 1983); Questioni di estetica (Latmag, Bolzano, 1987); Il pensiero teosofico nella filosofia antica (Piovan, Abano Terme & Sirio, Trieste, 1988); Poesia e iniziazione da San Francesco a Dante (Ivi, 1989); L’Io interiore (Piovan, Abano Terme, 1989); Scrittori nel tempo (Latmag, Bolzano, 1994); Poeti minori dell’Ottocento italiano (Venilia, Padova, 2009); ecc.
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Altrettanto numerosi pure i suoi libri di poesia, il primo dei quali è Una stagione (Rebellato, Padova, 1968). Sono venuti poi: Il paese dell’anima (Ivi, 1976); La luce oltre il sentiero (Italscambi, Torino, 1981); Il senso perduto delle cose (Piovan, Abano Terme, 1985); Il mito e i giorni (Forum/Quinta Generazione, Forlì, 1989); Radici lontane (Ivi, 1993); Echi profondi (Il Ponte ItaloAmericano, New York, 1995); Le strade alte del cuore (Ivi, 1998); Luci al crepuscolo (Le Mani, Recco-Genova, 2006); Poesie scelte, 1990-2006 (Ivi, 2008); Sogno e realtà (Ed. Accademia Internazionale Lucia Mazzocco Angelone, Isernia, 2009); Poesie scelte, 2006-2011 (Le Mani, Recco-Genova, 2012); E poi la notte (Cronache Italiane, Salerno, 2011); ecc. Silvano Demarchi ha anche tradotto in italiano alcuni poeti tedeschi nelle sue antologie Lirica tedesca (Piovan, Padova,1973/1974) e Lirica tedesca moderna (Bolzano, 1977). Poeta di limpida vena, Silvano Demarchi si è sempre distinto per la sua immediatezza e comunicatività, unite ad un dettato particolarmente sorvegliato e ad una notevole profondità di pensiero (laureato in filosofia si è infatti sempre dedicato allo studio di questa disciplina, pubblicando numerosi libri). Un tipico esempio di queste sue doti è la poesia Che senso ha? che compare già in uno dei suoi primi libri (Il paese dell’anima), dove si legge: “Che il non-essere esista / accanto all’essere, / è cosa che da sempre sgomenta. / Ma se usciti / dalla vita, dovremo svanire, / che senso ha / questo gioco di specchi sullo stagno? / E intanto, la lenza tra le mani, / nella notte del cuore, attendiamo // un sobbalzo”. Un particolare rilievo assume pertanto in lui la tematica filosofico- esistenziale, che troviamo, ad esempio, in poesie quali Prigioniero di immagini (ancora da Il paese dell’ anima): “Prigioniero di immagini, in un mondo / che è copia, ma vivo, reale, / ogni giorno mi è dato fuggire / e la morte, il dolore, il nesso / delle cose più non indago”. Per il sentimento stupito di esistere, che pure si trova in lui, si
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legga Dove l’acqua del Liri (Ivi). Fu al contempo un poeta di formazione classica, quantunque avesse una sensibilità del tutto moderna. Sovente infatti Demarchi s’ispira alla voce dei poeti latini e greci, dai quali trae l’eleganza formale e il senso dell’equilibrio e dell’armonia, come avviene in Disincanto (una poesia di Radici lontane, una delle sillogi della maturità), che reca un’epigrafe catulliana: “Miser Catulle, desinas ineptire”. E si legga Convivio (sempre da Radici lontane), che termina con questi versi: “Correva il mio pensiero al Simposio / di Platone”. La sua è comunque una poesia legata alla concreta realtà, dalla quale ogni volta parte e dalla quale riceve il suo costante nutrimento; benché sia sempre tesa a superarla, per cogliere qualcosa che la trascende e della quale essa è soltanto l’emblema. Si prenda, ad esempio, una poesia come Marocco (Ivi). L’incipit è immediato: “A Marrakech, / bardato di ciotole e sonagli, / ci veniva incontro / il banditore d’acqua, / e nella piazza accanto al souk / era frastuono di festa perenne”. Qui il poeta subito ci immette nell’ambiente che ha appena visitato e che l’ha fortemente colpito; e la poesia seguita su questo tono, sino alla chiusa, quando la meditazione s’affaccia improvvisa: “Nelle tappe dell’ineguagliabile viaggio, / a ogni paese mi ero assuefatto / che già mi pareva di avervi vissuto”, dove compare il motivo del déjà vu, frequente in Demarchi, convinto che l’uomo possa talora ricevere i messaggi di precedenti esistenze, come appare anche da altre poesie, quali Lettera dal Pireo (Ivi), dove leggiamo: “Perché la parola non può dire / le profonde esperienze già vissute? / Ancestrali voci che alla vista / delle cose emergono”. Un notevole sviluppo trova inoltre nella poesia di Silvano Demarchi il tema del viaggio, compiuto sia per terra che per mare; un viaggio che talvolta assume anche il significato di viaggio della vita. Così egli a Praga si lascia affascinare dalle “verdi acque” della Moldava (Sera a Praga, da Echi profondi) e a Lisbona, in riva al Tago, rie-
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voca le grandi imprese dei sommi navigatori lusitani (Il tuo terremoto, Lisboa, da Il battello d’argento). Così al Pireo, in Lettera dal Pireo (poesia sopra citata), ascolta il “vocio gioioso” della gente e guarda le ragazze che “impettite passano / con i canestri sopra il capo”. Forte è in lui anche il sentimento della natura, che un po’ dovunque si ritrova nelle sue poesie, ma che più vivo s’affaccia ad esempio in Rossa la sera (da Il senso perduto delle cose), dove compaiono “nubi d’amaranto e odorosi grappoli / d’acacie” e Sui prati una libellula (Ivi), dove quest’ insetto dal saettante volo “s‘arresta / sospeso / vibrando / sopra il fiore falciato / del trifoglio”. Larga eco ha pure in Demarchi la tematica religiosa, che può essere quella dell’assenso e dell’attesa, come avviene in Il paese dell’anima per poesie quali M’inquieta stasera e Segretamente Lo guardo o per Ti ho atteso nella notte. Poesie del dubbio e del dissenso s’incontrano invece nella sezione Il Dio oscuro (da Il senso perduto delle cose) o in quella intitolata Il Dio celato (da Echi profondi). Altre poesie d’ispirazione religiosa le troviamo in Le strade alte del cuore. Anche la tematica etico-sociale trova ampio spazio in alcuni suoi libri della maturità, quali Echi profondi e Le strade alte del cuore, dove egli descrive con particolare raccapriccio le atrocità generate dalla guerra e dall’odio tra gli uomini. Particolarmente toccanti sono infine, in una così varia tematica, le poesie dedicate ai defunti, come è quella scritta per il fratello scomparso, A mio fratello (da Le strade alte del cuore) o quella dedicata alla madre, con la poesia Madre, in Il battello d’argento. Delicatissime sono infine le poesie da lui dedicate alla moglie mancata al suo affetto e raccolte nella silloge E poi la notte, dalla quale leggiamo: “Ti chiamavamo passerotto / al campo da tennis / quando l’amicizia / non era ancora amore. / Così lieve il tuo passo, / così dolce il tuo sorriso…// Ora vivi nei ricordi / perché è destino / che ogni umana forma si dissolva”.
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Un poeta autentico Silvano Demarchi, per la profonda umanità del suo sentire e per la schiettezza e verità della sua parola. Ora che non c’è più, maggiormente ne intendiamo il valore. Liliana Porro Andriuoli Poesia di Silvano Demarchi PASSO MANGHEN Da ragazzo salivo a Passo Manghen per vedere la vallata stendersi ai miei piedi dove esile, candido un rivolo sobbalzava tra i sassi. A Passo Manghen non c’era anima viva, solo qualche capriolo s’aggirava nella radura, qualche fagiano dorato svolazzava da un albero all’altro. Così riempivo il cuore di quel silenzio e stavo in ascolto, fino a quando dalla rupe cadeva la sera; m’affrettavo allora a rientrare nella capanna che odorava di pino e i boscaioli erano già seduti attorno al fuoco. (da Miraggi, Cronache Italiane, Salerno, 2011)
LA NOTTE TI AVRÀ Presto la notte ti avrà e il mondo parrà che declini e tacerà il battente dell’uscio che fiorivi. Anche un addio è morire. Lasciami almeno una reliquia, il fermaglio a cuore dei capelli; stasera - la ultima - che canti l’usignolo prima che tra noi solo sarà silenzio. Rocco Cambareri Da Versi scelti - G. Miano, 1983
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GIUSTIZIA E VENDETTA di Emerico Giachery ’arcaico “occhio per occhio dente per dente” avrebbe senso solo come risarcimento con un bene equipollente (sempre che se ne trovino) al danno cagionato. La punizione come vendetta è un’idea barbarica che con la giustizia in senso evoluto e civile ha ben poco a che vedere. “Voglio vendetta, anzi giustizia”, ha detto in questi giorni una madre napoletana ai giornalisti, riferendosi all’investitore (e uccisore) di suo figlio e mostrando chiaramente, con quell’affrettato “anzi”, che vale quasi un “ossia”, quanto strettamente sentisse vicini i due concetti. Se io (in quanto giudice di un legittimo tribunale, mai come individuo!) punisco secondo vigenti leggi un omicida con la morte, posso compiere un atto di dissuasione nei confronti di eventuali altre persone intenzionate a uccidere. Compio un atto che si suole definire: “dare un esempio”, un esempio forte, di cui però molti studiosi contestano la reale efficacia. Nella sostanza, tuttavia, si tratta di un atto non di “giustizia”, bensì di vendetta. La vendetta perpetua il male, non lo sana; aggiunge male al male. Se l’omicida è colpevole perché la vita umana è sacra, e perché il toglierla è in assoluto un male (altrimenti che senso avrebbe punirlo?), la condanna a morte non fa che compiere a freddo un altro atto di male assoluto. Il verbo “giustiziare”, escluso dal mio vocabolario, vorrei fosse escluso da ogni coscienza. L’inevitabile aspetto “afflittivo” della pena,
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mai però da applicarsi con oltraggio alla dignità umana del condannato, deve sempre essere accompagnato da un intento rieducativo (articolo 27 della Costituzione italiana),che sarebbe del tutto annullato dalla pena capitale. Esso ha senso come riparazione morale nei confronti della società e delle sue leggi: una società civile deve poter credere nella certezza del diritto; e l’idea di riparazione ha indubbio valore etico. Riparazione più evidente se accompagnata da un lavoro utile alla collettività. Il carcere preventivo, usato per evitare inquinamento di prove o fuga, non dovrebbe riservare a chi non è da considerarsi colpevole finché un tribunale non lo avrà riconosciuto tale, alcun trattamento afflittivo, tranne una sorveglianza che gli impedisca di comunicare con l’esterno e di allontanarsi, unico motivo della provvisoria detenzione. Come però avviene in molti casi, l’inquisito ristretto in carcere, riconosciuto innocente e assolto da una Corte, si trova ad aver subito per mesi o anni le stesse umiliazioni e sofferenze riservate ai condannati, così penose nei nostri sovraffollati penitenziari. In un passato recente accadeva spesso che il carcere preventivo durasse dieci anni. Il detenuto, anche se gravemente colpevole, è anzitutto un essere umano, e come tale deve sempre essere considerato, qualunque reato abbia commesso: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”, recita il citato articolo 27. Il Patto internazionale sui diritti civili e politici dell’ONU del 1966, entrato in vigore nel 1978, insiste su questo punto, oltre che sulla funzione riabilitativa del trattamento penitenziario. Purtroppo non sempre questi sacrosanti principi vengono applicati. Certo da quei principi era molto lontana la bonaria “Italietta”, la stessa che si commoveva leggendo “Cuore” di De Amicis. L’anarchico Giovanni Passanante, che a Napoli aveva attentato alla vita di Umberto I con un piccolo coltello procurandogli soltanto un graffio, fu rinchiuso in una buia cella sotterranea nella torre della Linguella di Portoferraio, invasa dall’umidità, e tenuto per
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più di due anni in pesanti catene. Impazzì e finì la vita nel Manicomio Criminale di Montelupo Fiorentino. Aveva commesso un crimine ritenuto orribile: un tentato regicidio ai danni del “re buono” (buono almeno secondo una certa divulgazione di maniera), il quale aveva comunque conferito al generale Bava Beccaris un’onorificenza al merito per avere ristabilito l’ordine facendo sparare col cannone sui dimostranti che protestavano per la tassa sul macinato. Infierire su un essere che è completamente alla mercé e non è in condizioni di difendersi, è una delle azioni più abominevoli. Meno grave, certo, ma in ogni caso moralmente odioso, esercitare con arroganza il potere su persone dipendenti o di condizione sociale inferiore, che non possono reagire. Una grande nazione come gli Stati Uniti non avrebbe dovuto per nessuna ragione non soltanto avallare ma neppure considerare lontanamente possibile il trattamento inflitto ai prigionieri islamici a Guantanamo, per non dire degli incredibili abusi commessi dagli statunitensi nelle prigioni irachene. Sono, purtroppo, fatti che avvengono ovunque. Ma governi che si dicono civili dovrebbero intervenire con la massima energia e punire esemplarmente i responsabili. Si possono a volte trovare giustificazioni machiavelliche per azioni riprovevoli considerate necessarie per scopi più alti. Ma è difficile pensare che possa nascere un bene da un’azione in sé vile e perfida, come uccidere un ostaggio con odio e ostentato compiacimento trionfalistico. Pochi ricordano che tra le massime glorie d’Italia e d’Europa spicca il trattato Dei delitti
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e delle pene di Cesare Beccaria. Certo, l’ importante sarebbe attuarne sempre i principi. Ma è comunque fondamentale che i documenti sui diritti umani esistano e che si possa far riferimento ad essi, anche se la maggior parte degli stati riuniti diversi anni fa a Durban per sancirli abbia di fatto boicottato la conferenza, specialmente per quanto concerne i diritti tanto conculcati della donna; anche se la stessa Europa, che in tutti i suoi stati, con l’eccezione della Bielorussia, ha abolito la condanna a morte (il primo governo al mondo ad abolire pena di morte e tortura è stato nel 1786 il Granducato di Toscana) sia stata così tiepida nell’esigerne l’applicazione da tutti i membri dell’ONU. Per fortuna esistono, e si danno da fare come possono, associazioni come Amnesty Imternational e Nessuno tocchi Caino. L’ opinione pubblica ha avuto una parte importante nell’ aumento continuo dei paesi contrari alla pena di morte. Almeno in questo, se non nelle prese di posizioni ufficiali, la cultura europea ha certo avuto un merito notevole. In pochi decenni, da sedici si è passati a più di cento paesi che hanno abolito la pena capitale. Scandalose eccezioni restano: la Cina, dove la pena capitale è praticata con deprecabile larghezza, nell’ordine di molte centinaia all’anno, diversi paesi islamici, in particolare l’Arabia Saudita e l’Iran, e alcuni degli Stati Uniti, per esempio il Texas, dove l’abolizione della pena di morte è così impopolare, che gli uomini politici locali non hanno alcun interesse a sostenerla, perché se ne sostenessero l’abolizione difficilmente verrebbero eletti. Un episodio molto significativo è però accaduto in occasione della condanna a morte in uno degli stati meridionali degli Stati Uniti. I familiari della vittima, che spesso chiedono sadicamente di assistere all’esecuzione, stavolta hanno detto: “se lo uccidete, non è per conto nostro; noi non vogliamo essere complici di questa esecuzione”. Un problema a parte è quello del tirannicidio. Se fosse riuscito il complotto contro Hitler, il quale sfuggì all’attentato, quasi protetto da quelle forze demoniache di cui era com-
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plice e strumento, si sarebbero risparmiati infiniti lutti e sofferenze. Sulla legittimità di quel complotto si erano espressi, mentre lo andavano preparando, anche religiosi, sia cattolici sia protestanti, tra cui il teologo protestante Bonhoeffer che pagò con la vita. Nella logica perversa della guerra esiste la ritorsione. Forse necessaria? Non so. Il suo uso continuato nell’interminabile conflitto israeliano-palestinese non sembra però aver dato risultati risolutivi. Posso esprimere soltanto personali opinioni, buone tutt’al più per discorsi da caffè o da scompartimento ferroviario, perché è impossibile a chi non conosce da vicino i fatti esprimere un parere fondato in materia. Quali che fossero le pressioni dell’alleato sovietico per indebolire il morale del nemico sul fronte orientale, non mi è facile pensare al massacro compiuto dall’aviazione britannica sull’inerme Dresda, splendida città d’arte patrimonio della cultura universale, a guerra ormai quasi finita, se non come a un crimine contro l’umanità, che fece più vittime della bomba atomica. All’inizio della seconda guerra mondiale era stato coniato il tristissimo verbo “coventrizzare” per denotare la distruzione totale di una città mediante bombardamento aereo. L’aviazione tedesca aveva raso al suolo la città inglese di Coventry. Erano gli anni della battaglia aerea d’Inghilterra, quando la coraggiosa ed efficiente difesa della Royal Air Force cominciò a far capire quanto fosse illusorio il mito di una fulminea vittoria tedesca. Mussolini aveva chiesto a Hitler “l’onore” di poter bombardare Londra con l’aviazione italiana. Forse l’onore di una nazione può cercare occasioni più nobili e costruttive per manifestarsi! Da uno scritto di Paolo Mieli apprendo che
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tra la fine del 1922 e l’inizio del 1923 si era riunita all’Aia la Commissione Internazionale di Giustizia tra le grandi potenze per definire le leggi belliche sull’uso dell’arma dell’ aviazione. Purtroppo sulla tesi degli Stati Uniti, che proponeva di consentire di limitare i bombardamenti aerei al solo “teatro delle operazioni di guerra” prevalse la tesi britannica, appoggiata dalla Francia, che ampliava l’area destinata al lancio di bombe a generici “obiettivi militari”, e così apriva di fatto la via ai peggiori abusi. Se le tesi americane fossero state accolte, forse, come in gran parte era stato rispettato il patto del 1925 che bandiva l’impiego dei gas e delle armi chimiche, le città d’Europa sarebbero state in gran parte risparmiate. Chi avrebbe immaginato che proprio gli Stati Uniti, che avevano proposto la soluzione più umana e più saggia, avrebbero poi fatto uso così largo e indiscriminato dei bombardamenti aerei? Uno dei punti di forza più ardui e luminosi del messaggio cristiano è certo quello del perdono, che può richiedere una grandezza d’animo non facile da conquistare, ma che interrompe la catena del male, impedisce che il male si propaghi, opera una sublime igiene spirituale. Penso, come davvero esemplare, all’atteggiamento della famiglia di Vittorio Bachelet dopo l’insensato assassinio di questo eletto personaggio da parte delle Brigate Rosse. Se qualche migliaio di persone avesse oggi la nobiltà d’animo di comportarsi come la famiglia Bachelet nei punti caldi del mondo, ci sarebbe un po’ di speranza di uscire da questa tremenda spirale di odio e di morte. La misura di quanto siamo scristianizzati in un paese come il nostro, che si considera cristiano, la valuto a volte dalla scarsa popolarità e stima di cui gode il perdono. Penso, per esempio, a certe odiose e peggio che inopportune interviste televisive a parenti dopo fatti di sangue o sentenze in tribunale. Che nei familiari ci sia rabbia e risentimento, è più che umano. Ma la parola “perdono” pronunciata a volte dall’intervistatore, che non fa che enunciare uno specifico dovere cristiano, viene accolta con malanimo come fosse un in-
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sulto, e non dicendo, per esempio: “non mi chieda questo, ora, sono troppo ferito, non ce la faccio, è ancora troppo presto”, che sarebbe l’atteggiamento più umano e comprensibile. La risposta più comune è. “Ma che perdono! Non se parla neanche. Mai! Deve soffrire, deve soffrire tanto, deve soffrire tutto quello fatto soffrire a noi”. La risposta più civile, che si avvicina a un’idea di giustizia istituzionale, e non attinge solo a impulsi di vendetta spacciati per giustizia, è molto più rara: “È giusto che si renda conto del male che ha fatto, così non farà male ad altri”. Non sono giurista né filosofo del diritto. Il mio parere è quello dell’uomo della strada. Credo che le istituzioni non possano assicurare al cittadino molto di più di quanto adombrato nella seconda risposta. Chi non ha rispettato la legge deve pagare il suo debito. La legge deve essere fatta rispettare. Si deve inoltre evitare che un individuo pericoloso, almeno finché può risultare tale, possa rappresentare una minaccia per la società. Tutto ciò che riguarda l’intimità della coscienza (che terrificante approssimazione e spesso contraddittorietà nelle perizie psichiatriche giudiziarie!) resta comunque misterioso, insondabile. Il giudizio di un tribunale resta fatalmente esterno: non può essere che così. La società ha il diritto di difendersi, ha il dovere di stabilire leggi per difendere i cittadini e i loro diritti. Il magistrato ha il delicato dovere di applicare le leggi nel modo più equo e più umano, senza lasciarsi condizionare da umori dell’opinione pubblica e da pressioni politiche del momento, che con la giustizia nulla hanno a che vedere. L’ imparzialità comporta un inevitabile carattere di razionalità che può sembrare astrattezza, ma che rappresenta una garanzia per il cittadino. Niente di peggio che la passionalità del giudizio, così frequente, purtroppo, nelle giurie popolari, non sempre preparate a esprimere un giudizio sereno e imparziale. Il sistema delle leggi è un sistema improntato a una logica, non certo matematica, semmai umanistica, se vogliamo, antropologica, sociale, ma pur sempre logica, e a suo modo rigorosa. Ad
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attenuarne il rigore possono intervenire motivati atti di clemenza singoli o collettivi, decisi in circostanze particolari dalla collettività. Per oltrepassarne l’imperfezione non c’è che l’Amore, non certo la fuorviante passionalità. Con l’Amore incontriamo una giustizia tutta diversa, non fiscale, non cavillosa, ma opulenta di perdono, di grazia effusa, di palingenesi. Con la Giustizia lievitata in Amore siamo però usciti dalla Città Terrena e siamo entrati nella Città Celeste, che è Città dell’ Assoluto Amore. In essa il significato dell’ austera parola Giustizia, è, si spera, diverso da quello arcigno, legalistico, tribunalesco, di cui troppo spesso si colora nella nostra litigiosa Città Terrena. Forse in questa nuova accezione è più vicino a quello di Armonia: congruenza distributiva in cui ogni ente, ogni livello, trovi la propria legittima collocazione, il proprio senso nel tutto. Vi dovrebbe regnare (se proprio vogliamo ricorrere ad approssimative metafore umane) non un giudice, ma un direttore d’orchestra che corregge stonature o dissonanze per instaurare la pienezza della polifonica Armonia. Emerico Giachery
NON HANNO CASA I POETI Non hanno casa i poeti. Vegliano il sonno del sole, seduti sotto cielo. Gianni Rescigno Da Sulla bocca del vento - Ed. Il Convivio, 2013.
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 30/08/2018 Lucia Bergonzoni, sottosegretaria ai Beni Culturali, ha dichiarato, a “Un giorno da pecora” su Rai1, di non aver letto un libro da almeno tre anni! Alleluia! Alleluia! Tre anni non da pecora, insomma, ma, forse, da somara. E il colmo è che sta ai Beni Culturali! Domenico Defelice
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LUIGI NONO E ALVISE VIDOLIN: UNA PROFONDA AMICIZIA ANCHE 'ELETTRONICA' di Ilia Pedrina
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UIGI Nono, al lavoro per Prometeo. Tragedia dell'ascolto: un'opera totale, proiettata dal passato al futuro. Alvise Vidolin, maestro del suono Live Electronics al Dipartimento di Elettronica Informatica all'Università di Padova: il 26 marzo 2018 ha scelto gli spazi dell'Archivio Luigi Nono alla Giudecca per offrire tutte le matrici acustiche originarie per mettere in atto questa composizione che, una volta ascoltata, ti prende dentro e non ti abbandona più. Luigi Nono gli è amico e si fida di lui, come giovane ricercatore di effetti acustici d'avanguardia, nel lavoro di gruppo che sotto la sua guida sperimenta e porta a compimento il Prometeo: così ora per tutti noi Alvise Vidolin testimonia il significato profondo di aver lavorato con lui, nella costruzione di percorsi elettronici dal vivo, sia per voce umana che per strumenti. Lo ascolto. “Prometeo è l'opera di Luigi Nono che meglio di altre racchiude la forza del suo pensiero musicale degli Anni '80 e che condensa la ricerca vocale, strumentale e con il live electronics di quest'ultimo periodo della sua vita. Quando si pensa al mito di Prometeo è inevitabile collegarlo alla tecnologia e indubbiamente in quest'opera di Nono la tecnologia
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è molto presente, ma la cosa che sorprende è l'assenza di 'effetti speciali' a tutto vantaggio di una integrazione dell'elettronica nel linguaggio musicale, per ampliare le potenzialità espressive di voci e strumenti. L'amplificazione, a titolo di esempio, non è utilizzata per 'aggredire' l'ascoltatore bensì, al contrario, per farlo entrare in un mondo sonoro tutto sconosciuto, fatto di suoni in pianissimo, al limite della soglia di udibilità, ma che grazie all'amplificazione possono essere ascoltati ed utilizzati musicalmente come ha fatto Nono con grande maestria. Non è un caso che la parola che più si coglie nelle due ore abbondanti di musica del Prometeo, sia la parola ascolta. E saper ascoltare è la dote primaria di un musicista! Durante le prove musicali di Io, frammento da Prometeo (1981) - il primo lavoro a cui ebbi la fortuna di collaborare al live electronics - ciò che lui mi chiese con maggiore insistenza durante le prove non fu solo un'azione esecutiva, ma soprattutto di ascoltare la musica spostandomi in diversi punti della sala (il Palazzetto dello sport di Venezia, all'Arsenale), come se lui avesse bisogno di più orecchie per cogliere tutte le mille sfumature che lo spazio acustico può dare alla musica. Pertanto, l'ascolto in questa dimensione estrema della dinamica musicale che tende al silenzio, rivela la ricchezza timbrica della genesi del suono. Da un punto di vista fisico, il timbro della maggior parte degli strumenti, compresa la voce, diventa sempre più puro al diminuire della dinamica, per tendere al suono sinusoidale; ma questa purezza viene arricchita da una maggiore varietà di 'effetti collaterali', che si differenziano da strumento a strumento mettendo in evidenza le instabilità del processo generativo. Da un lato è quindi più facile 'con-fondere' le sorgenti, come fa Nono nell'Interludio I di Prometeo, in cui le voci di contralto, flauto, clarinetto e tuba si intrecciano senza poter distinguere chi canta e chi suona, oppure al contrario è possibile mettere in evidenza aspetti estremi della esecuzione in pianissimo che evidenziano ancora di più i caratteri degli strumenti rispetto ai colori tradizionali. È questo il caso dei cosiddetti suoni
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eolien che hanno esiti molto differenziati, ad esempio, fra flauto e clarinetto. Ma, come si accennava sopra, la dimensione del timbro nella musica di Nono è strettamente legata a quella dello spazio, inteso come elemento fisico-architettonico al cui interno organizzare lo spazio musicale e la sua espansione elettronica. Ed ancora una volta è l'opera Prometeo a definire in modo esplicito l'idea noniana di spazio. In un'opera votata all'ascolto, lo spazio non è più lo spazio teatrale con scene, costumi e scelte registiche, ma è uno spazio acustico progettato - in questo caso dall'architetto Renzo Piano - per contenere ed esaltare la drammaturgia dei suoni. E non a caso il titolo completo dell'opera è Prometeo. Tragedia dell'ascolto. In essa non c'è un fuoco, una direzionalità, non ci sono elementi visivi se non la visione di ciò che ne consente l'ascolto. La Struttura ideata da Piano, pertanto, ha avuto la funzione di rendere udibili le intuizioni musicali di Nono, com-
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preso lo sviluppo della dimensione verticale, come egli spesso ricordava 'Si pensi alla Basilica di san Marco o a Notre-Dame di Parigi... L'infinita differenza architettonica di questi 'templi'! E tuttavia va rivelato che, in quasi tutti, i cori, le cantorie, gli organi erano disposti a mezza altezza: la musica era eseguita nello spazio in alto...' Nella chiesa sconsacrata di San Lorenzo, dove Prometeo fu eseguito nel 1984, il risultato fu sorprendente: la struttura collocata ad un'altezza di 3 metri dal pavimento e che lambiva le pareti della chiesa, conteneva quattro gruppi orchestrali e un piccolo coro diretti da Claudio Abbado e il gruppo di solisti diretti da Roberto Cecconi, molti dei quali avevano già lavorato con Nono negli anni immediatamente precedenti, in lavori come Das atmende Klarsein (1981), Io, frammento da Prometeo (1981), Quando stanno morendo. Diario polacco n. 2 (1982), Guai ai gelidi mostri (1983). I solisti erano tutti trasformati elettronicamente dallo Studio Sperimentale di Friburgo (il laboratorio di Live Electronics che Nono frequentò assiduamente in quegli anni, impegnato in studi, sperimentazioni e realizzazione di parte del lavoro compositivo, alloggiando spesso nella vicina Foresta Nera). Il pubblico era seduto nella zona centrale della struttura, mentre i musicisti erano collocati attorno e disposti su tre livelli differenti di altezze. Io curavo la parte informatica dell'opera realizzando una sezione di suoni di sintesi in tempo reale alla quale avevamo lavorato con Nono assieme ai ricercatori dell'Università di Padova dal 1983. In quegli anni i computer erano ancora grossi dispositivi utilizzati in ambiti istituzionali di ricerca scientifica o per scopi amministrativi e pertanto non era facile portare nelle sale da concerto la cosiddetta computer music. Grazie ad una collaborazione fra il LIMB della Biennale di Venezia, l'IRCAM di Parigi e il CSC dell'Università di Padova, avevamo sviluppato il Sistema 4i (un minicomputer dotato di processore audio) relativamente semplice da trasportare e che diventò nel Prometeo il mio 'strumento'. Lo suonavo dal vivo con Sylviane Sapir,
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azionando un banco di potenziometri e una selezione di tasti della tastiera del computer; il suono veniva diffuso in San Lorenzo da altoparlanti disposti sotto la struttura per ottenere una provenienza lontana ed avvolgente dei suoni elettronici. Quando Nono sentì il risultato delle sperimentazioni effettuate nel piccolo laboratorio di Padova proiettato in questo grande spazio di San Lorenzo, decise di iniziare l'opera proprio con i suoni di sintesi del Sistema 4i e per me fu un momento di grande soddisfazione. Dal 1984 ad oggi la tecnologia ha fatto passi da gigante e fa sorridere pensare ai mezzi informatici con cui è stata realizzata questa produzione: oggi un qualsiasi personal computer, ma addirittura uno smartphone ha risorse infinitamente maggiori di quelle che avevamo noi per Prometeo. Ma l'insegnamento più importante che ho ricevuto da Nono nel corso dei dieci anni di collaborazione e amicizia è che il pensiero è molto più importante dei mezzi. E non è un caso che il suo ultimo lavoro (Post-prae-ludium per ottavino BAAB-ARR; non scritto in musica) sia un pezzo per ottavino solo che intona un unico suono mobile nello spazio. Quando il pensiero musicale è forte, i mezzi possono essere anche ridotti al minimo; si può raggiungere persino il silenzio per far emergere la musica. Invece il più delle volte (e purtroppo anche ciò succede nella didattica) ci si limita a sviluppare giochi compositivi accademici, curare gli aspetti artigianali del solo rifare il già fatto, privilegiare l'appagamento emotivo della 'coazione a ripetere' per raggiungere il compiacimento del pubblico. Al contrario Nono guardava agli infiniti possibili di Giordano Bruno: gli infiniti 'altri' soli, gli 'altri' sistemi planetari che portano a nuovi 'pensari' e a nuove musiche”. Alvise Vidolin si proietta nel futuro portando a tutti noi queste memorie di eventi con al fianco Luigi Nono e gli altri suoi musicisti e cantori, oltre agli ideatori di spazi e di immagini, per testimoniare esperienze da far vivere come attuali, per dare senso e significato alla sua eredità di pensatore etico che rivoluziona
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lo spazio del suono, perché compositore veneziano, nazionale ed internazionale, fedele alle antiche innovazioni della tecnica corale e strumentale, pienamente uomo del nostro tempo, da lui caricato di futuro. Grazie, Alvise, anche per questo. Ilia Pedrina
AUSTRALIA 25 MILIONI! L’Australia splende di euforia per una splendida notizia. Tanto splendore che la incorona di bellezza reale, con i suoi gloriosi successi e benessere ha conquistato il mondo intero, meraviglie mozza fiato ad ogni passo, con dolce sorpresa è arrivata a 25 milioni di abitanti, tutti contenti, tutti allegri e soddisfatti, tutti pronti a trascorrere giornate ad ammirare estasiati tante sontuose meraviglie, che sorgono dappertutto. Chi arriva qui, non vuole più andare via, è la fragranza della tranquillità, dell’accoglienza, della bontà, del profumo dell’amicizia e del buon umore che abbraccia tutti nell’amore universale. 25 Milioni, tutti benedetti dal nostro Signore. Albe e tramonti spettacolari che fanno squillare le campane del cuore. Arcobaleni coloratissimi che fanno rullare la mente in mirabili trionfi di armonia. Cieli azzurrissimi e soleggianti, colmi di stelle brillanti e la luna che ci abbaglia nella notte serena. Preghiamo Iddio di darci sempre la pace e la serenità e allontanare sempre la malvagità. 6 – 8 – 2018 Cav. Giovanna Li Volti Guzzardi Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori (A.L.I.A.S.)
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MARIA GRAZIA LENISA IL CANZONIERE UNICO di Rosaria Di Donato
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L Canzoniere Unico, a c. di Angelo Manuali (Ed. BastogiLibri/Poesia, 2016, pp. 723), raccoglie le opere poetiche edite ed inedite di M. Grazia Lenisa dal 1998 al 2008. L’imponente antologia contiene anche alcune importanti pagine critiche di autori che hanno seguito nel tempo la produzione della poetessa di Udine e alcune testimonianze della stessa. Un lettore appassionato trova in tale volume notevole materia di riflessione e di studio, ma come scrive l’Autrice nel testo L’Inedito Postumo: Volge le spalle Antico al suo futuro, la forma scende dal ripido foglio che s’avvicina il giorno del cordoglio e come bara la letteratura risucchia il nome, lo risputa fuori in lunghi elenchi, nutriti di morti. L’inedito, o poeta, che lasciasti, a crescere il tuo nome, la tua storia, è solo un espediente editoriale e le parole come mosche intorno alla trappola oleata della morte sono quel ‘niente’ che ti rese in vita importante per gli altri. Ed ancora t’attardi per un prima, non sai per quanto, finché serve al gioco d’un potere importante e non vale per molto la tua ‘gloria’, valse quel tanto che ti tenne in vita, dono d’amore per cui si riattiva solo se altri ti ama o s’avviva un bisogno d’amore.1 Leggendo la fiorente produzione della Poetessa negli ultimi dieci anni della sua vita, ancora più intenso fluisce l’amore per la sua
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scrittura e dalla sua scrittura che mai si è risolta in un mero esercizio stilistico o in un vuoto sperimentalismo linguistico. La poesia della Lenisa scaturisce a pieno titolo da l’amor che move il sole e l’altre stelle e accende nell’animo il desiderio dei versi, di bellezza, di contemplazione alta che solo l’arte può soddisfare. Non si tratta di estetismo, né di eccentricità, ma piuttosto di originalità e di eclettismo nell’ambito di un percorso poetico unico e denso sia dal punto di vista artistico che umano. Il Canzoniere Unico è dedicato a Giulio Palumbo, poeta e mistico nella Pasqua celeste della sua vera rinascita2. Penso che questa dedica non sia casuale, ma indicativa della peculiarità più importante della poesia della Lenisa che è insieme provocatoria e religiosa: una sfida audace alla vita e alla morte, un desiderio di immortalità e di salvezza che si incarna nelle metafore ardite e nelle identificazioni esistenziali, prima ancora che letterarie, dell’Autrice con le sue creature. Le parole sono strumenti che smantellano la consuetudine, folgori irriverenti che illuminano il buio del perbenismo, sferzate di sagace ironia che smantellano tabù ancestrali. E’ come se la
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sofferenza, il calvario della malattia acuissero il desiderio di luce nella tensione verso l’Assoluto che si ri-frange come in un gioco di specchi dall’autore al lettore e che sfocia nei mille rivoli di parole acuminate che lacerano l’apparenza per giungere alla verità. C’è un bisogno di fede e di autenticità nella Nostra che scardina uno ad uno i limiti della condizione umana per giungere al dialogo con Cristo che autorizza il Poeta a creare mondi, a ri-creare l’universo stesso come fonte inesauribile di vita. Perché è un canto alla vita quello che la Lenisa celebra nei suoi versi e una testimonianza d’amore alto e sublime che non disdegna la materia, ma che la feconda dall’interno investendola di passione e instaurando relazioni tra le persone e le cose, tra l’umano e il divino, tra la sofferenza e la gioia che superando il tempo, nella pagina, si fanno eterne, diventando indissolubili fino a configurare un cosmo. Non si tratta di invenzione letteraria, ma della vita stessa dell’ Autrice realizzata nel segno dell’amicizia e del profondo coinvolgimento umano con gli altri e con le esperienze esistenziali assaporate ed accolte sempre come primizie, come fatti unici ed irripetibili, come doni. Particolare è l’incontro con Cristo di cui la poetessa si professa innamorata pazza e a cui dedica un libro che non finisce mai: Così m’invento le preghiere e faccio il Canzoniere Unico,/l’ironia diviene poesia che bolle, Amore, voglia di paradiso/in terra.3 Per M.G. Lenisa la Poesia è come un brivido che attraversa la vita e che la rende degna di essere vissuta; mille metamorfosi accompagnano la sua scrittura che segue sempre un ritmo spezzato, ma sonoro, profondo che scuote la coscienza e l’intelligenza, che insegue la Bellezza e la gloria del Parnaso e di esse s’inebria sempre fino all’ultimo battito del cuore. E’ la sua una sensibilità alta che gioca e trae diletto dal canto e dalla melodia della parola. Acuta lettrice del presente e del passato, ha profuso nei suoi versi la vitalità di un sogno che è divenuto realtà: comporre con umiltà, impegno e altruismo un mondo in cui l’Innocenza regna sovrana e in cui tanti si
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possono ri-conoscere e ri-trovare. La fantasiaconcreta di M. G. Lenisa (consentitemi l’ossimoro) dona a ciascuno di noi uno spazio in cui crescere e respirare, un terreno fertile da cui trarre nutrimento e ispirazione. Non è stato vano scrivere versi se mediante essi il Sublime traspare. Senz’armi Troverò chiusa la porta del cielo, Maddalena dubbia. “Poco ti sarà perdonato perché poco hai amato”. Molto ho scritto – è vero -. Mi prende in giro Dio perché combatto senz’armi.4 Rosaria Di Donato Roma, 24 giugno 2018 1 - Lenisa M. G., Canzoniere Unico, pag. 203. 2 - Op. cit., pag. 5. 3 - Lenisa M. G., Il mio letto, Op. cit. pag. 21. 4 - Lenisa M. G., Amorose strategie, Op. Cit., pag. 392.
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Coerenza d’artista attraverso gli anni
DOMENICO DEFELICE E IL SUO “ORTO DEL POETA”, INNO D'AMORE PER LA POESIA di Luigi De Rosa
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EGGERE oggi, a circa trent'anni dalla sua pubblicazione, il volume di Defelice “L'orto del poeta” (Le petit moineau, 1991, Roma) può provocare un'emozione autentica e stupefacente. I giudizi, le riflessioni, le prese di posizione artistica, morale, intellettuale nei confronti di accadimenti e fenomeni sociali della nuova Italia repubblicana sembrano scritti oggi, a ragion veduta, anziché nel 1958 e negli anni
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successivi fino al 1989, cioè di volta in volta, nel succedersi delle esperienze. Per il lettore è facile constatare che lo scrittore Defelice è stato, quasi su tutto, un ottimo analista, un anticipatore intellettualmente onesto, e in un certo senso un “profeta”. Basta constatare, dopo tanti anni, come abbia azzeccato giudizi e previsioni sulla natura effettiva di partiti e movimenti, trasformazioni (e degenerazioni) del costume sociale e individuale, dal tempo della sua giovinezza ai nostri giorni. Sì, perché nel 1958 e negli anni Sessanta, Defelice era ancora un giovanotto (è nato nel 1936) che aveva lasciato la sua pur amata Anoia nel Reggino (terra delle origini e degli affetti) per guadagnarsi, con tenacia incredibile e con sacrifici, il suo posto al sole nella grande Roma e nel mondo. Ma anche negli anni Settanta era un quarantenne attivissimo. Innanzitutto, per mettere le cose in chiaro, Defelice proclama la propria natura di poeta. E per farci capire quali sono i veri connotati del suo particolarissimo orto, ci esprime con sincerità quali sono le idee e i sentimenti della sua mente e del suo cuore. Sia nei confronti della Poesia in se stessa che nei confronti degli altri poeti. Ed anche nei confronti di coloro che poeti non lo sono neanche lontanamente, e nei confronti del mondo delle cose pratiche e materiali. A 22 anni, infatti, scrive, con quel suo stile diretto e gustoso: “Ho arato bene il mio orto, l'ho pulito dalle erbacce e dai sassi: L'ho concimato. Poi vi ho piantato un'infinità di ortaggi. E' andata avanti solo una rapa. Il mio vicino è un fannullone e un superficiale. La terra la zappa e non la zappa. Le erbacce le lascia crescere a piacimento. I sassi, nel suo orto, fanno il paio con le patate ad asciugare al sole. Egli produce roba in quantità da poterne anche vendere. Tra me e gli altri le cose sono andate sempre come tra il mio orto e quello del mio vicino. Vanno ancora così. Andranno, forse, sempre così.” Nel 1976, a quarant'anni, scrive: Amici poeti si stupiscono: “sei un artista generoso,
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scrivi di noi sicuro di non essere mai ricambiato”. Poveretti! Sconvolgo il loro metro!...” E che fare poesia non sia per lui un ripiego o una semplice soluzione consolatoria lo dimostrano le sue parole di tre anni dopo: “Poesia! Sentite che voce rasserenante, soave, chiara, delicata e, nel contempo, turgida, suggestiva, saziante ! Leggerla è già addolcire l'animo, colmare il vuoto del cuore. Meditarla è spegnere una gran sete pur continuando a sentirsi assetati. Quando i versi non arrivano a dare tutto questo, o parte di tutto questo, non son poesia, e chi scrive oscuro e arido disonora se stesso e il nome di poeta.” Il vero poeta è talmente fertile ed utile anche agli altri, che perfino il Dolore che Dio gli manda “non rimane mai sterile.” La Poesia sfugge alle comuni leggi del mondo materiale. A maggior ragione, quindi, si pone in una sfera di superiorità disinteressata. “Ricordate: i pochi beni terreni che hanno posseduto Dante e gli altri grandi, un istante dopo la loro morte sono stati di altri. Della loro poesia nessuno mai ha potuto impossessarsi e, tramite essa, questi autentici Fari riempiono di luce il mondo ancora oggi e “finché il sole/ risplenderà su le sciagure umane””
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Il 1985 è l'anno nel quale risultano scritte numerose considerazioni interessanti e confessioni ragionate, come le seguenti: “ I poeti “minori” sono importanti e indispensabili quanto i “grandi”, la cui strada è lastricata del sudore e delle intuizioni dei portatori d'acqua, il genio non essendo mai qualcosa di misterioso e irrazionale, ma il frutto della maturazione di tutta una società, il catalizzarsi di una coscienza generale che il poeta è naturalmente portato a riassumere.” A questo punto non possiamo non ricordare che nel 1973 Defelice ha fondato una rivista mensile, Pomezia-Notizie, di cui è direttore editoriale, oltre che “responsabile” in quanto giornalista, e che tale rivista, di cui è l'anima, funge anche da palestra delle sue capacità naturali di critico, oltre che di poeta e scrittore. Defelice è stato anche critico fin dai primordi della sua carriera artistico-letteraria; anzi, ha cominciato come critico d'arte, quando andava “per quadri”. Ma lasciamo a lui la parola, continuando a sfogliare il suo sapido “orto”: “Il poeta ha la coscienza fermentata notte e giorno dall'arte.” “Poesia in veste classica o moderna? La forma in cui si manifesta è il risultato di tante cose legate all'intimo del suo autore. Non è il poeta, infatti, che si adatta alla forma, ma la forma al poeta.” “Amare i poeti e accompagnarsi ad essi è realizzare il regno dello spirito.” “Il vero poeta ha l'animo traboccante di melodie e d'amore.” “La politica è il nudo vissuto; l'arte e la poesia sono la meraviglia, il sentimento, l'illusione, l'amore” “I poeti sono l'avanguardia del progresso, le antenne del futuro sintonizzate sul nostro tempo, il motore dell'affrancamento dei popoli, la maturazione delle coscienze, il legame tra l'umano e il divino. I poeti sono lievito per le masse e il loro canto è foriero di tempesta.” “La poesia è il vero termometro dell'intimo dell'uomo.” In altre parole, la vera Poesia è tutt'altro che avulsa dalla vita dell'uomo e del mondo. Non
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si tratta di limitarsi a strimpellare il mandolino della propria solitudine e a cantare delle canzoncine superficiali e sterili. Come magistralmente ha scritto Defelice nel 1986, “ Chi crede che nell'orto del poeta crescano erbe rare, fiori variopinti, alberi tropicali; chi crede che vi scorrano acque fresche e vi cantino uccelli, non conosce il poeta. Nell'orto del poeta crescono spine, fiori avvelenati e gli alberi proiettano ombre inquiete; nell'orto del poeta scorre il sangue della gente affamata e l'unica voce è l'urlo della rivolta. Nell'orto del poeta, s'intende, non degli innumeri facitori di versi”. Il poeta non disdegna la consapevolezza dei veri problemi che affliggono la vita umana. “Nella mente del poeta passano ombre inquiete, vi scorre il sangue della gente vessata dalle dittature d'ogni colore e delusa, angariata, depredata da mafie e da furbi.” E' notorio l'impegno morale appassionato di Defelice contro la vigliaccheria delle mafie di ogni tipo e colore, contro le ingiustizie storiche inflitte al Sud, e contro i fenomeni odiosi di iniquità e disamore in danno dei deboli e degli infelici. Così come il poeta non può restare a crogiolarsi masochisticamente nel dolore, ma deve assaporare la gioia interiore provocata dalla Poesia: “Arduo è seguire il poeta quando leva l'àncora. Gli antichi dicevano che il poeta era innamorato delle belle muse e avevano ragione. Il poeta con la poesia gioca, discorre, passa il tempo smemorato, proprio come con la sua donna preferita, con la sua divinità.” A proposito di Divinità. Defelice, che è un credente, non ha alcuna remora ad illustrare il rapporto stretto che esiste fra la Poesia e il Divino: “Il poeta è un essere candido e ricettivo ed è alla purezza e disponibilità che la divinità affida i suoi messaggi. Per questo egli ne è tramite.” “ In principio, non c'era l'uomo nel mondo, ma il Caos; in principio, però, Dio aveva già creato nel mondo la Poesia. Poesia era la luce, la bellezza, l'armonia, il fuoco, il vento... Poesia era la scintilla con la quale
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Dio accendeva le galassie.” “ La Poesia è la voce dello Spirito: Lo Spirito è l'io al quale ci rivolgiamo continuamente, che ci risponde, ci interroga, ci approva, ci rimbrotta. Come lo Spirito, anche la Poesia è eterna.” “Amate la Poesia: La Poesia è luce eterna, è il cordone ombelicale che unirà per sempre l'uomo a Dio. La Poesia è lo splendore che irradia la vostra anima e che nessuno vi potrà mai togliere e neppure offuscare. L'anima e la Poesia sono le uniche entità che rimarranno vostre anche dopo la morte. Quando, infatti, la vostra anima avrà abbandonato il corpo, tutti i vostri beni materiali passeranno ad altri. Solo l'anima sarà vostra in eterno e con essa la Poesia. Sarà la Poesia che, anche dopo secoli dal vostro distacco terreno, illuminerà ancora il mondo della vostra luce. La morte non ha alcun potere sulla Poesia.” Luigi De Rosa
CONSUNTIVO DI POETA -2Con la Letteratura ho sempre adorato l'Arte, specie la Musica e la Pittura, attraverso i secoli, inebriandomi l'anima di suoni e di colori. Ho ricercato con accanimento il senso della vita ma non posso dire di averlo trovato se non in un mare di dubbi e di distinguo snervanti. A volte mi sono lasciato vivere senza curarmi di trovare un senso ( e forse, proprio per questo, mi è sembrato di averlo trovato). Non gli studi appassionanti di filosofia, scienze umane, Poesia, non le esperienze e relazioni importanti mi hanno dato più gioia ( o almeno sollievo) quanto lo sguardo luminoso e allegro di un bambino, o di una donna felice. Luigi De Rosa Rapallo, Genova
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IL DEBITO PUBBLICO di Giuseppe Giorgioli
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EI precedenti numeri ho illustrato i vari sprechi e privilegi della politica, che hanno contribuito alla creazione di un debito pubblico intollerabile. Berlusconi dovette dimettersi nel 2011, essendo l’Italia sull’orlo della bancarotta e si fece un Governo di emergenza nazionale, con Monti capo del governo. Monti mise ulteriori tasse senza colpire i vari sprechi e privilegi. Dopo le elezioni del 2013 il capo del Governo Enrico Letta aveva pensato che era necessario capire come si spendevano i soldi pubblici e come poter ridurre la spesa pubblica. A tale scopo chiamò nel suo governo un esperto Carlo Cottarelli, del Fondo Monetario Internazionale per attuare la Spending review. Essendo convinto che il modo per sistemare i problemi economici italiani è la riduzione della spesa pubblica così da poter realizzare le promesse agli elettori che i politici non riescono a mantenere, anche se eletti sulla base di queste (vedere l’attuale Governo di Salvini e Di Maio), ho pensato di approfondire tali questioni, leggendo un libro di Carlo Cottarelli: CARLO COTTARELLI - LA LISTA DELLA SPESA - La verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare (Universale Economica Feltrinelli/Saggi, maggio 2015, 9 €, pagine 203 Brossura, ISBN 9788807888281) Sabino Cassese afferma: “Dovrebbe essere una lettura d’obbligo per politici e amministratori pubblici”. Chi è Carlo Cottarelli? Carlo Cottarelli è nato a Cremona nel 1954 è un economista italiano. Si è laureato a Siena e alla London School of Economics. Ha lavorato in Banca d’Italia, all’Eni, al Fondo Monetario Internazionale e attualmente ne è il Presidente. Il 28 maggio del 2018 è stato proposto come capo del governo dal Presidente Mattarella per portarci a nuove elezioni. Ma, come è storia recente, ritornò al Fondo Monetario in quanto dopo un accordo fra la
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Lega ed il M5S si formò il Governo Conte. Ha scritto numerosi articoli e saggi accademici. Con Feltrinelli ha pubblicato anche “Il macigno” (2016). “Se non si può si fa senza”, cioè il livello di spesa “giusto” dipende da quello che ti puoi permettere. E’ l’adagio che Carlo Cottarelli ha scelto come motto durante i dodici mesi trascorsi a Roma con il cappello di commissario della spending review. Cottarelli affermò: “Nell’ottobre 2013 sono arrivato a Roma con una nomina triennale, ma l’accordo era che sarei rimasto un anno. Fare il pendolaretransatlantico con Washington, dove vive la mia famiglia, era abbastanza complicato. E dodici mesi dopo ho ritenuto di aver dato abbastanza contributi in termini di nuove idee. Certo, quell’anno è stato difficile. Non facevo parte della macchina della pubblica amministrazione, per cui certe informazioni non mi arrivavano e certi disegni di legge non mi venivano fatti vedere prima. Mentre ero lì che cercavo di tagliare la spesa, passavano provvedimenti che la aumentavano. L’ho detto pubblicamente. “ Ma la scelta di tornare negli Usa è stata legata a motivi personali. Carlo Cottarelli ha goduto per qualche tempo di grande attenzione mediatica. Dal suo lavoro dovevano arrivare milioni di euro per le esauste casse dello Stato italiano. Al termine del suo mandato è stato invitato in tutte le televisioni e intervistato da tutti i giornali. A distanza di mesi, Cottarelli affida a questo libro le sue riflessioni, i suoi ricordi, le sue diagnosi per cercare di spiegare al grande pubblico uno dei grandi misteri dell'Italia: quell'enorme calderone che è la nostra spesa pubblica. Senza tecnicismi ma non tralasciando nulla di importante, Cottarelli ci guida nei meandri del bilancio statale, facendoci scoprire man mano il grande meccanismo che regola la nostra vita di cittadini, un meccanismo di cui abbiamo solo una vaga percezione, al tempo stesso minacciosa. Dove vanno a finire tutti i soldi che paghiamo con le tasse? Davvero spendiamo troppo per i servizi pubblici? Perché si finisce sempre a parlare di ta-
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gli alle pensioni? Sprecano di più i comuni, le regioni o lo stato centrale? Perché tutti i politici dicono che taglieranno gli sprechi e nessuno lo fa mai? Ma gli altri paesi come fanno? Un libro per fare le pulci alla macchina statale italiana, al di là dei luoghi comuni e delle polemiche giornalistiche... Il merito principale di questo libro è la semplicità con cui viene trattato un argomento complesso come quello della spesa pubblica italiana. Il libro infatti è accessibile a tutti, anche ai non addetti ai lavori. L'autore spiega le diverse voci di cui si compone l'immensa spesa pubblica dell'Italia, sfatando anche alcuni luoghi comuni. Unico neo la scelta di non usare grafici e tabelle: forse alcune sarebbero state utili per illustrare i dati con maggiore immediatezza. Il libro si compone di un’introduzione e di 14 capitoli. Nell’introduzione Cottarelli dice che l’intento di questo libro è di fare chiarezza sulla spesa pubblica in Italia: ci sono troppe esagerazioni sia in un senso (“tutta la spesa è uno spreco”) che nell’altro (“se si taglia la spesa pubblica si distrugge il welfare state”). Dice Cottarelli, è utile spiegare, in termini semplici ma precisi, quanto si spende, come si spende, quanto è già stato fatto e quanto resta da fare. E’ importante anche confrontare la spesa pubblica con il PIL e con quella degli altri Paesi. Nel capitolo 1 si fa presente che la spesa pubblica è assorbita per il 43% dalla spesa previdenziale, (tra l’altro per pensioni erogate a ultra-sessantenni sempre crescenti di numero, per numerose pensioni calcolate con il metodo retributivo anziché contributivo), un quarto per le amministrazioni centrali (come ministeri e vari enti pubblici), un quinto per le regioni (spesa sanitaria e dipendenti regionali). I comuni spendono l’8% del totale e le bistrattate provincie solo l’1%! Ultima osservazione: occorre tagliare la spesa in modo molto mirato, cercando di non colpire le amministrazioni già virtuose, ma concentrandosi su quelle che sprecano, il che non è facile!
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Successivamente egli tratta i seguenti argomenti: La frammentazione degli acquisti da parte dello Stato, dimostrando che un’unificazione delle centrali di acquisto può comportare molti risparmi, comprando beni e servizi a prezzi più bassi. il problema delle auto blu. Per l’amministrazione statale si hanno circa 1.500 auto blu contro le 80-90 della Gran Bretagna; 4270 per gli enti locali (regioni, provincie, comuni, ASL, ecc…). Cottarelli illustra come limitare questi sprechi. Spese militari, che ammontano a circa 1,2 del PIL. Altri paesi spendono intorno all’1,3 del PIL. Quindi, i risparmi che possono essere fatti sono limitati. Sprechi nella pubblica amministrazione (enti pubblici, ACI, troppi immobili, Ict, ecc…). Sprechi dei comuni con numero troppo elevato delle società partecipate (cioè a partecipazione statale), pari a 8.000! Fra cui l’Atac e l’Ama di Roma! Dipendenti del pubblico, cioè di circa tre milioni di lavoratori. Il rapporto fra dipendenti pubblici e forza lavoro in Italia è del 15%, non molto lontano come percentuale da ciò che si ha in altri paesi. Ma è alto il livello retributivo di alcuni dirigenti pubblici, fino a 600.000 € annui! Il governo Monti mise un tetto di 300.000 €! Cottarelli inoltre fa presente che i presidi delle scuole sono pagati poco, circa 67.000 euro lordi (dati del 2012). Successivamente Cottarelli ammette di non poter rivaleggiare con chi ha affrontato l’argomento in passato e cita il libro La Casta di Sergio Rizzo e Gianantonio Stella: concorda con gli autori sul fatto che i nostri politici sono in numero troppo elevato, che hanno privilegi, pensioni e stipendi troppo alti. Lo stesso discorso di sprechi vale per il Quirinale ( 250 milioni di euro come spesa contro i 50 milioni di Buckingham Palace!), per le Regioni, i Comuni e via dicendo. Per quanto riguarda il capitolo 11 “I soldi alle imprese”, non ci sono molti risparmi da
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fare trattandosi di cifre pari a 32 miliardi, il 2% del PIL. Ulteriori considerazioni: Spese per assistenza elevate dovute a falsi invalidi, rette di accompagno anche per chi è benestante. Cottarelli poi nota che le spese sanitarie incidono per 110 miliardi, pari al 7% del PIL, e che sono inferiori a quelle di altri paesi europei. Si potrebbe fare qualche risparmio curando le persone in ambulatorio (day Hospital) anziché in ospedale, diminuendo il numero di parti cesarei, che rispetto ad altri paesi sono in numero più consistente. Il 60% degli iscritti al Servizio Sanitario Nazionale è esente dal pagamento del ticket! Sarebbe meglio se le tasse sul lavoro fossero più basse, i giovani non fossero disoccupati e i pensionati non avessero bisogno di risparmiare per sostenere figli in età lavorativa. Infine, conclude elencando gli ostacoli che si devono affrontare per ottenere la riduzione della spesa pubblica. Giuseppe Giorgioli (3 - fine)
SE NON DARE TUTTO Voglio darti tutto quello che possiedo ora che posso, fino alla fine per non lasciare niente in questo cuore malato di stupore sgorga e scivola come sorgente goccia dopo goccia il corso d'acqua che lo ha rapito e portato da te nulla può, se non dare tutto. Filomena Iovinella Torino
IN UN PORTO SICURO Sulla spiaggia sconvolta dalla forza furiosa del vento che livella la sabbia, addensandola in piccole dune,
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è arduo soffermarsi. Con la corsa incostante le nubi anneriscono il cielo. La memoria di antiche tempeste mi riporta ai momenti che vivevo con cuore sereno, quando c’era il conforto di trovarmi in un porto sicuro. Elisabetta Di Iaconi Roma
LA PARETE DI ROCCIA La parete di roccia splende al sole accecante nell'ora mattutina. Mostra al cielo le innumeri ferite infertele dal tempo: fenditure, crepe, dirupi e qualche nicchia dove sola e libera l'aquila fa il nido. Ciò che serba nel suo cuore profondo la parete di roccia non rivela: forse cela il segreto arduo del mondo. Di ere primordiali ormai remote il misterioso abbaglio e l’avventura. Passano bianche nuvole nell'alto, mosse da un vento che seco le porta veloce, all'assalto delle cime. La parete di roccia le contempla e a tratti un'ombra svaria sul suo volto ammaliato da un sublime incanto. Pare stupire, tesa nell'ascolto di una voce lontana che a lei sale tra la fuga dei pini e degli abeti. Rotola un masso. Per aeree scale si moltiplica l'eco del rimbombo, alla corsa che a valle lo conduce, in un fiume di schegge. Nel mattino, legata al suo immutabile destino, come ravvolta dentro un aureo manto, inseguendo il miraggio che la tiene (sono i ruscelli le sue bianche vene) la parete di roccia è tutta luce. Elio Andriuoli Napoli
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RITORNO IN BASILICATA di Leonardo Selvaggi
I
N questo ritorno alla mia Basilicata mi vengono in mente, quasi con istinto violento, i versi del romantico poeta tedesco Friedrich Holderlin: “Lasciami intanto andare a cogliere bacche selvagge, o materna mia terra”. Sento oggi più che mai l’importanza di amare la propria terra, di ripercorrere i passi di una volta. Qui il passato è ancora vivo, chiuso in una corteccia che resiste contro le assurdità e le stravaganze dei tempi nostri. Nella natura selvaggia, fra gli anfratti, abbarbicate sui pendii aridi della Basilicata si ritrovano ancora costumanze semplici, ambienti ancora fermi in una cornice di integrità morale. Lo stato idilliaco, la vita di questi paesi nel respiro naturale dei campi. Mi sento oggi rappacificato, dimentico di essere un animale randagio che ha perso la propria dimora, di essere un cosmopolita ansioso con le radici spezzate. Ma so bene quanto infelice sia l’ immigrato, quanto triste sia la sua condizione di avere l’animo diviso, di vivere sospeso, privo del suo regno. Dove si è nati è bello anche morire; le lacrime incontrano il fratello. La madre è tanto presente nel paese, lei è sui gradini di casa con il grembiule, con il fazzoletto in testa vicino alla porta, ha grosse calze di lana sulle pietre della strada. La riconosco la terra di Basilicata nel caldo rappreso del meriggio, sotto l’ulivo, di fronte alla capra in ascolto fra le canne. Ritrovo in gran parte l’esistere primitivo, le voci umane avvolgono le cose sotto i semplici balconi. Vecchie che hanno cancellato i segni dell’età, bambini agili, quasi selvatici. La luce radente il terreno scopre il giallo macerato degli steli e tratti erbosi nei ripiegamenti del vello superficiale. Con lo sventolio dei tendaggi entra la stagione e il bizzarro sole: le mosche vanno dentro e fuori, c’è un sentore di vischio, di fichi al sole, di uva dolce punzecchiata dalle vespe. Giornate interminabili di luglio nell’ aria tersa. La riconosco la terra di Basilicata, rimasta quasi intatta come negli anni passati. Gli oggetti non si consumano, invecchiano
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soltanto. La creta rovente della pignatta ha cotto le fave, queste spappolate dal guscio approntano la minestra. Dalla brace si espande il sapore della cotogna. Si beano le rondini di svolazzi; in evoluzioni si adagiano a ricevere sul petto bianco il cielo. L’asino di sera, passa quasi borioso con il contadino al lato, sembra lui il padrone previdente per le provviste, sulla groppa, di ortaggi e di frasche. Riconosco la Basilicata in questa meravigliosa plaga, distesa nel golfo di Policastro; una parete biancheggiante di case è Maratea, la Dea del mare. Ancora l’asino, risuona il suo lungo raglio nella stagnante solitudine della campagna, una voce roca e sonnolenta che si nasconde dietro il frascame del pagliaio. Sulle piante nude dondola l’uccelloneve, tratteggiando degli esili fischi svolazza in mezzo all’inverno, per la vigna abbandonata; nella solitaria pausa, desolati i campi, gli alberi dalle braccia ritte come messe in croce. Il caldo scioglie la terra e le foglie, per l’aria c’è un profumo denso di colori. Il gracchiare delle cornacchie si è udito scrosciare ad un tratto come pioggia sullo spiazzo; gli uccelli neri hanno vociato passando sul tempo del luogo. Ho imparato a riconoscere i miei corregionali anche lontano, a Torino. Fra tutti gli immigrati tanto significative sono proprio le mamme lucane; fanno ricordare quelle dipinte da Carlo Levi; addolorate e sagge negli scialli, colori sfrangiati di vesti lacere. Tanta tristezza a vederle, strappate da quel contorno casalingo che le faceva padrone. Loro sanno stare con il muso appuntito e dignitosamente compunto. Sono femmine di mondo, patite sotto mariti testardi, forse più duri dei muli. Riconosco i compaesani nelle frasi dialettali, entro cui riscontro il modo angoloso di fare, il tatto delle grosse dita; fra la gente spiccano per la prestezza selvatica degli arti inferiori. Leggo i loro visi, nell’irruenza di una ragione sensitiva significano il substrato del mio inconscio. Distinguo la terra pietrosa e la fatica: la Basilicata dentro i suoi confini vive la nobile forza di sopravvivere, addossata alle rocce, piegata nei reconditi avvallamenti ove fiori-
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sce il cardo e risplende il giallo della ginestra. Molta parte di questa regione la riconosco dove la terra alluvionale frana scivolando per i pendii, cede nei canali, flagellata, dispersa dall’acqua. Dove la terra è con poche piante e il tempo del presente non esiste: un lontano leggendario s’irradia per la cima dei monti, ad occidente tinto di rosso e di grigio. Gli uomini statici, mimetizzati con la terra arcaica. Dove, sotto i raggi infuocati, rimane inerte e stanca: non vuole nemmeno l’aria fresca delle ombre, né lo zampillo sorgivo. Gli sterpi si spezzano sotto le dita. Dove la terra si frantuma ai soffi del vento, si spogliano le pietre. Guardo le terre dei contadini di questi luoghi divise in frammenti che si seguono con una fisionomia umana; rivestite in agosto dalle stoppie, con qua e là qualche siepe che concentra i pensieri tristi della solitudine. In Basilicata, più che altrove, ancora ci si nutre di tradizionali sentimenti. Storia patria, virtù e intelligenze di illustri personaggi, ma anche ricordi e affetti per le cose più umili e vicine a noi. Bello ripercorrere le proprie radici, sentirle vive, legate al proprio cuore. Filosofia e virtù umanistiche che costituiscono una fonte di vitale essenza insita nella natura stessa di questa terra. I paesaggi rudi e meravigliosi, ancora in gran parte incontaminati, ancorati ad un silenzio atavico, creano un legame indissolubile con i suoi abitanti. La terra di Basilicata povera, ma ricca di risorse umane, la vedo particolare nella sua struttura geologica e conformazione, la vedo piena di tacita animazione, una grande madre in panni stinti che soffre per i figli lontani. La sofferenza patita, le inibizioni di ogni tempo, che hanno tenuto repressi i sentimenti e le passioni, facendoli covare nell’intimo per maturarsi in idealità e forze esplodenti di operosità, di intelligenze pure, di eroismi. Una consostanzialità drammatica con la madre terra per le radici sanguinanti rimaste nei luoghi natii, una madre che aleggia come spirito di guida sicura e onnipresente. La cultura dei lucani è senza addentellati pratici, senza nozionismi, è una cultura che è vita, si identifica con le esperienze
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maturate giorno dopo giorno. Una cultura in senso umanistico, che vuol significare misura, equilibrio, saggezza. Scuola e vita, norma e costume. A Melfi, a Rionero, a Maratea, a Grassano, a Valsinni, Latronico, Pomarico, Ferrandina trovi persone dotate di autocritica, laboriosi, taciturni. Una cultura che senza essere molte volte scolastica è sicuramente un dato di civiltà, espressione dello spirito. Le persone sono schiette, spontanee, genuinamente aperte; cresciute isolate e quindi avulse dalle eccentricità proprie delle società evolute. Questo spiega l’amore alle cose eterne quanto il mondo, alla campagna, agli usi antichissimi. Si spiega il dignitoso contegno che conosce la rassegnazione, l’amara esperienza del bisogno. Nella maggior parte gli abitanti sono indenni dalle angustie dell’ automatismo, qui si respira pienamente la libertà quella vera, fatta di rapporto concreto con l’ambiente. Il lucano è egocentrico, forte, tozzo; nonostante certe forme di imitazione rimane pur sempre, direi, primigenio; è in lui connaturato il senso etico della vita. Di certo non allignano tecnica e meccanicismo che snelliscono le membra, dando una sagoma standardizzata, tipi longilinei, piallati secondo un solo modello. Lungo le strade serpentine, nei pittoreschi paesini dai ricordi illustri, nei dirupi, nelle grotte abbandonate si ritrovano tracce di civiltà antica, numerosi i castelli normanni-svevi, belle le cattedrali di Matera, Acerenza, Venosa, Rapolla, Melfi, Anglona. Il paesaggio lucano accidentato, di vari aspetti, a volte pare quasi sprofondato in una lontananza metafisica. Certamente non potrà essere livellato né amorfo come i luoghi del Piemonte, della Lombardia o dell’Emilia, ove il verde regolare è tappeto steso con alberi schierati in file, uguali a plotoni inquadrati. Fra le montagne e i boschi, fra le fiumare e le sterpaglie i ricordi sfumano nel mito, la realtà si colora d’immagini poetiche, realtà e leggenda si mescolano. Ritornare alla propria terra per riconsiderare la propria esistenza; una ventata d’aria pura per ridare a sé stessi consistenza, vitalità rivalutando l’ambiente di appartenenza, di storia e d’arte, aggirandosi
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per i tanti luoghi che ricordano passato e di uomini celebri. Sono le testimonianze di cultura e di grandezza morale sempre resistenti nel corso dei secoli che ci rendono sicuri. Gli animi si fanno fecondi di benessere, riprendendo conoscenza del patrimonio civile della propria terra, riscoprendo la gente fra cui si è nati, ricca di fondamenti propri. Da Isabella Morra di Valsinni, poetessa straordinaria per profondità di sentimenti e purezza di stile, da confrontarsi con Gaspara Stampa e Vittoria Colonna, a Luigi la Vista di Venosa, morto sulle barricate napoletane nel radioso mattino del 15 maggio 1848. Questo giovane lucano dagli occhi azzurri, come un angelo apparso sulla terra per suscitare negli uomini un alto senso di religiosità e di amore per gli ideali. Di sensibilità leopardiana, tutto preso in un intenso lavoro intellettuale; la sua vita fu un sogno di gloria e di rivoluzione. Egli morì come Goffredo Mameli, a ventidue anni, lasciando ai posteri un retaggio imperituro di grandezza spirituale e generosità eroica. Mario Pagano, un altro martire lucano dell’ indipendenza e della libertà, esperto giurista di Brienza che nei “Saggi politici” ha saputo definire la “vera idea della libertà civile” difendendo la funzione della legge in quanto essa “favorisce e difende la libertà, ne frena il solo abuso. Anzi, senza legge la libertà ne rimane oppressa: poiché trionfa la violenza e viene impedito altrui l’uso delle proprie facoltà”. Ricordiamo Nicola Sole nato a Senise il 31 marzo 1821. Poeta classico e nello stesso tempo romantico, vicino al Monti, al Berchet, al Rossetti. Nella lirica amorosa è più ispirato e approfondito. Giacomo Zanella disse di lui: “Nicola Sole supera di gran lunga tutti gli altri poeti napoletani per certa elaborata eleganza di verso che piacque all’Aleardi di imitare”. Il Lucano per sua natura predilige una visione d’insieme delle cose del mondo, tratta i problemi spirituali che attengono alla vita dell’uomo nella sua più autentica essenza. Abbiamo il grande filosofo Ocello, vissuto forse ottant’anni prima di Socrate, gli viene attribuito il famoso libro “Della natura dell’ universo”. “L’universo, egli dice, non può
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essere distrutto, perché è stato sempre , ed è stato sempre, perché se avesse cominciato, non sarebbe ancora”. Sentiamolo ancora: “Noi il mondo non l’abbiamo veduto nascere, né migliorare, né crescere, né deteriorare, né decrescere; continua sempre lo stesso, sempre nella stessa maniera, sempre uguale, sempre simile a sé; dunque è eterno”. “Se l’universo potesse essere distrutto, ciò avverrebbe o da una causa esteriore più forte che esso non è, ovvero da una causa interna: ma non può essere da una causa esteriore distrutto, perché fuori di esso non è altro che il nulla, essendo esso il tutto; né anche può essere distrutto da un principio interno, perché bisognerebbe che questo principio fosse più grande e più potente del tutto, il che torna impossibile”. La sua figura lontana nel tempo, leggendaria, si espande in tutti i luoghi della sua terra. Una voce filosofica che risuona in tutti i meandri dell’antica Basilicata. I grandi di questa Regione hanno avuto la semplicità dei contadini: come questi vedono il legame naturalistico tra terra e persone in una simbiosi ombelicale, panteistica. Lo stesso linguaggio ha un’arcaicità profonda, presenta stratificate le psicologie delle passate civiltà; un linguaggio umoroso, pieno di parole inespresse: metafore, cose e immagini in una sequenza di trasfigurate realtà vissute. Sofferenza e speranza, trasporto passionale poiché i lucani sono possessivi e generosi, rustici, nel senso migliore della parola; credono all’amore nelle sue varie forme, sentimento eterno che coinvolge tutta l’opera dell’uomo e lo spinge a superare le traversie delle giornate. Molti hanno la virtù di essere ingenui, come fanciulli con il senso dell’assoluto, proprio dell’egocentrismo netto e lineare. Sempre spiriti forti che hanno fede nelle esperienze dei padri, nella gente saggia. Umili ed illustri, in nessun posto come in questa regione, vivono in uno stesso afflato, con dentro una comune matrice esistenziale. Gli abitanti di queste terre se paiono legati in un’unica incrostazione, in una medesima forma di costumanze, pure ognuno, si può dire, ha il suo destino, un umore proprio, forgiato dalle fati-
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che, dalla volontà testarda di estrinsecare il proprio io. Non certo ci troviamo davanti a gente dalle forme standardizzate, dalle espressioni sterili, senza fantasia e fredde. Come la Basilicata ha una geografia sofferta, compressa fra due mari, feconda e arida, piena di luci, dalle notti profonde stellate, così la sua gente è vivace, diversificata, piena di contraddizioni, dalla psicologia combattuta, sognatrice e tenace. Questa terra dai vari aspetti va studiata e amata. L’apporto più costruttivo alla sua conoscenza storica e sociale è stato dato da Sergio De Pilato nella sua attività infaticabile. Fu egli un oratore forbito e brillante, conferenziere arguto, spirito gentile, galantuomo vero, dalla bontà innata. Nei suoi scritti regionali si occupò con serietà e passione dei memorialisti e dei viaggiatori che trattarono della Basilicata e delle influenze che la terra di origine esercitò sui poeti più illustri, da Orazio a Tansillo a Stigliani. In verità, la civiltà greca e latina fuse, integrate da altre culture hanno cementato la struttura intellettiva degli uomini di questa regione, quasi solidificato come roccia i pensieri saggi; hanno dato alle idee una elasticità e una policromia di contenuti. Incontriamo Pasquale Materi di Grassano, discepolo insigne di Enrico Ferri. Spirito versatile ed agile, alimentato da fonti di cultura multiple. Sa affrontare i temi più svariati in scritti di grande respiro, come “La vita e il destino””, tema fra i più formidabili che abbiano tormentato l’umanità. Un’opera, questa, trattata con la massima ampiezza e libertà spirituale. Il temperamento di Pasquale Materi latino-umanistico trova pieno riscontro in quella matrice di costume, di vita culturale che in Basilicata ha reso possibile la presenza di una sana moralità, scevra di alienazioni, di alterazioni psicologiche proprie di questa epoca materialistica. Abbiamo detto che amare la propria regione vuol significare soprattutto conoscere la sua storia, ricercare notizie e documenti, e soprattutto avvicinarsi ai grandi storiografi come Giacomo Racioppi. A lui si deve l’avvio dell’indagine completa sui fatti politico-sociali della Basilicata, con
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metodo scientifico, trattando alcuni aspetti essenziali quali il feudo, l’economia pubblica, la lingua dialettale. Un altissimo riconoscimento gli viene dalle parole che il Croce scrisse in appendice alla “Storia del Regno di Napoli”: “alle Storie generali del Regno converrebbe aggiungere quelle delle singole provincie; ma non tutte ne hanno di tali da meritar di essere segnalate, com’è per la Basilicata la “Storia della Lucania e della Basilicata” di Giacomo Racioppi”.Tutti i luoghi parlano di un proprio passato, nelle sere solitarie per i paesi arroccati s’aggirano fantasmi e pare di sentire voci nelle penombre che richiamano avvenimenti e remote storie. Popoli antichi, reami e dominatori, gente parca e laboriosa. Chiaromonte, contea fino ai tempi di Carlo II d’Angiò; Terranova, che nel XIV secolo fu contea dei Sanseverini; Montescaglioso, Tricarico, antichissime e cospicue città nel dominio dei Greci; Ferrandina, edificata e resa grande dagli Aragonesi; Pisticci, Montalbano, Novasiri, regioni anche oggi di rara ubertà, che prima facevano parte di quel suolo che fu la vera Magna Grecia con Eraclea e Metaponto. Passiamo per Pietrapertosa posta su rocce dolomitiche, che sembrano sperdute nel cuore della Lucania. Qui nacque Francesco Torraca, il grande critico di Dante, vanto dell’Università di Napoli. Italianità ed europeismo negli scritti di questo glorioso corregionale costituiscono il sentimento più forte che animò tutta la sua vita operosa di studi. Francesco Torraca faceva lezione restando in piedi: la sua severa figura già s’imponeva all’uditore. I suoi corsi erano monografie ricche di particolari, svolti con chiarezza, i suoi discepoli lo amavano, sentendosi affascinati dalla sua altisonante parola. Veramente dobbiamo andare fieri di questa terra per i suoi tanti personaggi famosi, che hanno onorato la patria. La povertà della gente, le angustie prodotte da una terra avara, gli stenti e le amarezze quotidiane, l’attaccamento testardo al lavoro, la parsimonia, la paziente natura delle persone con poche risorse economiche, la virtù del sacrificio hanno in ogni tempo aguzzato l’intelligenza e affinato lo spirito.
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La generosità, come esaltazione eroica della mente del nostro Beato Giustino de Jacobis, nato a S: Fele. Si dimostrò missionario zelantissimo senza risparmiarsi fatiche e sacrifici per la salvezza delle anime e senza neanche curarsi dei pericoli della sua salute. Un altro candido fiore di spirituale bellezza, che non poteva restare in mezzo al deserto del mondo il Beato Bonaventura di Potenza. Fu l’ispiratore e lo scrutatore di anime; portò alla santità del Vangelo, oprò miracoli, divise il pane ai poveri. Fu visto in estasi per la passione santa di Gesù Cristo, oprò la pedagogia dell’umiltà e dell’ubbidienza. Abbiamo il Santo: Gerardo Maiella di Muro Lucano, discepolo e contemporaneo di S. Alfonso Maria dei Liguori. Gerardo si diede ad una santa follia: quella della Croce; si finse pazzo, si mortificò in mille modi per imitare Gesù Crocifisso, centro di tutta la sua vita. Ottenne tra tante grazie il dono singolare di una perfetta purità di anima e di corpo. Ebbe estasi, la virtù di profezia, fu artefice di guarigioni ottenute con la sua ardente preghiera. In questa sintetica panoramica di biografie e di considerazioni su fatti e caratteristiche della Basilicata non possiamo dimenticare Emanuele Gianturco, giureconsulto, avvocato, legislatore. Sentendolo parlare si era attratti da viva simpatia per lui, che non diceva cosa che non fosse improntata a dignità e idealità elevate, a gentilezza ed austerità esemplari. Assetato di giustizia, era pronto a dedicare tutto se stesso ad ogni buona causa. Aveva la più grande fiducia nei luminosi destini d’Italia, perché il nostro popolo è laborioso, austero, pronto al sacrificio. Di grande levatura intellettuale e morale, sapeva posporre al supremo interesse della Patria i vantaggi egoistici. È vissuto poco più di cinquant’anni ed ha compiuto opere gigantesche nella scienza, nella politica, nell’arte. Ha lasciato tanta orma superba in tutti i campi nei quali ha profuso la sua geniale attività, che bene è stato qualificato “l’ uomo dalle molte anime”. Ma il grande Lucano, che insieme con la genialità ha portato con sé insoddisfazione, ansie, animo pessimista, amore alla patria, rispecchiando appieno la
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natura di tanti suoi corregionali, è Francesco Lomonaco. La sua opera poderosa di scrittore patriottico si congiunse armoniosamente alla sua illuminata, serena e austera opera di umanista. Vari lustri prima di Mazzini, fu il grande banditore dell’Unità italiana; in seguito alla vittoria di Napoleone a Marengo, Lomonaco passò da Ginevra a Milano e divenne amico di Manzoni e di Foscolo su cui esercitò una notevole influenza spirituale. Disse di lui il Torraca: “Nato in uno dei più solitari borghi della Basilicata, dove l’amore dello studio, per tradizione secolare, fu conforto alle asprezze della natura, ai colpi della fortuna, all’incuria dei governi, uscito da quella razza gagliarda che pare tenga del monte e del macigno, Francesco Lomonaco dalla più tenera età concepì la passione del sapere e l’abito della meditazione”. Più volte abbiamo detto che in Basilicata l’uomo semplice, aduso alle fatiche si trova amalgamato con il filosofo e lo studioso, poiché uniti da una stessa matrice di sensibilità, insieme si battono per uguali aspettative. Rocco Scotellaro, il poeta proletario, è forse il simbolo più rappresentativo di tutti noi, nati in Basilicata. Ha dato coscienza alle sofferenze, ha fatto sentire nei suoi versi la problematica del Mezzogiorno, dando valore poetico nuovo alla parola, che diventa mezzo immediato di esistenza e di libertà. In “Contadini del Sud” per la prima volta a chi parla e scrive di sé, questo sé esiste e ha valore e realtà, hanno valore le cose, gli oggetti quotidiani, gli affetti, i valori rimasti fino a ieri nell’inespressione. Nel breve scritto ”Per un libro sui contadini e la loro cultura” Scotellaro dice così: “I contadini dell’Italia meridionale formano ancora oggi il gruppo sociale più omogeneo e antico per le condizioni di esistenza, per i rapporti economici e sociali, per la generale concezione del mondo e della vita”. Nel poeta di Tricarico troviamo eccezionale fermezza d’animo e maturità di giudizio, e insieme una straordinaria capacità di comunione con gli altri. La sua infanzia difficile, la sua giovinezza tormentata l’hanno condotto a combattere con i contadini della sua terra, per il riscatto da un passato feudale.
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“C’è un momento di fede comune, come di felicità comune”. “La forza iniziale di ognuno condiziona la spinta comune”. Leonardo Selvaggi
TUTTA UNA VITA
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con tanti fiori, tanta erba verdissima, tante speranze, tanto amore. Ora sono qui, con tutti i sogni persi nelle vie degli anni abbondanti e colmi di tanta tristezza, ma coi ricordi dolcissimi di tanti successi e tanta bellezza. 9 – 7 – 2018 Cav. Giovanna Li Volti Guzzardi
Tutta una vita è racchiusa per me in quegli istanti in quelle ore vissute in tua presenza anche se distanti, anche se silenziosi, ma vicini forse nel reciproco e muto affetto.
Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori (A.L.I.A.S.)
NOTTE D’ANSIA
Tutta una vita è racchiusa per me in quei momenti, in quelle ore in cui sentivo la dolce voce tua e del tuo violino. Tutta una vita così in quel breve tempo ho vissuto con te. Tutta una vita. Altro non chiedo: già mi basta di ciò il caro ricordo. Mariagina Bonciani Milano
Lenta s'è svolta la notte, al suono monotono di stanche stille di tempo pigro, nell'ansia di battiti anomali del cuore, nell'attesa, lunga, della luce del giorno. L'alba è sorta, infine, rosea, ancora velata di buio, ed un respiro, profondo, di sollievo, dal riso è spuntato dell'anima. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo (IS)
ANNI ABBONDANTI
DICHIARAZIONE
Trascino i miei anni nel giardino divelto degli anni, vedo ombre che si aggirano di notte per le strade tutte curve, dagli alberi dalle sagome strane solo i pipistrelli si dondolano beati a testa in giù, gli altri uccelli dormono beati tra le foglie ingiallite di un autunno recalcitrante, l’autunno dei miei tanti anni. Tanti anni trascorsi nel fiorire di tante primavere, con tanto sole, tanti sogni e dolci chimere. Quanta gioia nel correre tra i prati,
Vivo nel dissenso con la mia razza con il mio paese con il mio esilio con il mio ambiente con i miei amici con il tempo in cui sono nata con i prezzi di mercato con il mercato azionario con tutte le chiese e tutti i cittadini votanti del pianeta. Firmo, Teresinka Pereira USA - Traduzione di Giovanna Guzzardi, Australia
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Il Racconto
ASINARA di Anna Vincitorio
T
RA le mani acqua e cristalli dal cangiante turchese. L’occhio spazia verso torri lontane dalle orbite vuote: quella di isola Piana, di La Pelosa. Si delinea sempre più l’isola a ferro di cavallo. Gli antichi dicevano che era abbracciata da Ercole. I pescatori che l’abitavano non ci sono più. Furono mandati via quando l’isola diventò un carcere e si fermarono a Stintino, borgo situato in una rada abbastanza profonda – piccola valle sommersa. Sono sola. Intorno a me giovani coppie con bambini, ragazzi abbronzati. Parlo con Agostino che guida il catamarano mentre prepara il sugo di pesce per la pasta. Occhi scuri che guardano verso un dove. Ama il silenzio del mare; le sere solitarie spesso per sua scelta gli consentono di vagare col pensiero verso gli orizzonti più lontani dell’isola dove nidifica il gabbiano corso. È chiamata zona A di riserva integrale. Quando non è in mare, percorre angusti sentieri dove impera l’euforbia arborea (macchia mediterranea) e, sul limitare esterno, ciuffi di fiordaliso spinoso tipico dell’Asinara. Qua e là l’elicriso dai fiori di un giallo paglierino diffonde un lieve aroma. Due gli approdi all’isola: Piana dei Fornelli e Cala reale. Il catamarano si ferma nella
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quiete azzurra di quest’ultima. Natura brulla, rocce segmentate in blocchi irregolari. Domina sul dirupo il Castellaccio, forse costruito dai Doria o dai Malaspina. Le dune proteggono gli anfratti. Questi luoghi trasudano storia recente. Case come spettri, archi di pietra sono braccia aperte verso un nulla di macchie verdi disseminate e, per confine, il mare oggi calmo e assolato ma testimone di passate tempeste, di bestemmie, di rauchi singhiozzi. Qua e là vagano indifferenti asini bianchi (albini) e grigi. Questi ultimi sono di razza sarda e con la fronte crociata. Si visitano le carceri. Edifici di nudo squallore con inferriate e vetri spaccati e sporchi. Negli anni 75/80 era carcere di massima sicurezza. Applicazione dell’art. 41 bis per i brigatisti come Curcio e, negli anni 92/98, per i mafiosi: Cutolo, Bagarella, Totò Riina. Per lui fu allestito un bunker privato dove la luce arrivava indirettamente. C’erano poi carceri separate per i condannati per crimini sessuali. Erano tenuti lontano dagli altri detenuti. Raccoglievano legna, coltivavano le vigne. Attualmente all’interno c’è l’osservatorio faunistico. Dal 1998 l’isola dell’Asinara è Parco Nazionale. Dall’isola ci sono state soltanto due evasioni: Matteo Boe e Michele Turas. La fuga avvenne nel 1996 dalla parte ovest dell’isola calandosi dalle falesie; un gommone con le mogli li aspettava. Michele è stato latitante diversi anni. Mi ritorna alla mente un altro carcere, quello di Ventotene, costruito da un architetto austriaco, di forma circolare e con impossibile ogni tentativo di fuga. Lì furono detenuti Altiero Spinelli e Sandro Pertini. Loro però difendevano dei valori di libertà contro l’ideologia fascista; erano patrioti, non efferati criminali. Costeggiando il mare sulla destra a poche centinaia di metri, una chiesetta e la casa delle tartarughe. Provengono da diverse parti come Corsica, Calabria… ferite e sono amorevolmente curate da una équipe specialistica assistita da volontari. Ogni tartaruga è adagiata in una vasca di acqua marina. Lì, piano piano riprende le forze. Ritornerà poi libera
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negli spazi immensi del mare. C’è una caretta caretta sui sette Kg. Si muove dolcemente, poi appoggia la testina sul fondo. A poca distanza da una realtà di morte e di violenza il recupero di una vita. È un paesaggio dalla suggestività desolante. Non ci abita nessuno ad eccezione di Enrico Mereu, solitario artista; le sue opere di notevole valore sono disseminate anche nell’isola. Un trenino verde sferragliante ci porta attraverso l’unica strada a suo tempo costruita dai detenuti. Nella macchia appaiono corna cervate e, attutite dalla lontananza, le corse sfrenate dei cinghiali. È tutto naturale e al contempo selvaggio. Si avverte una violenza repressa ma non domata, quella degli spietati detenuti degli anni di piombo. Ci avviciniamo alla Casa della Memoria. Nel caldo del primo pomeriggio si apre davanti a noi un largo piazzale. Si attraversa un lungo corridoio con anguste celle contrassegnate da numeri progressivi; piccole finestre in alto, un lavabo, un pitale; sul letto un vestito. Poi oggetti da lavoro, utensili per cucinare. Quello che colpisce di più e un’ampia stanza; dall’alto penzolano vestiti che ondeggiano nel vento; sembrano impiccati. Hanno un’anima prigioniera che grida nel silenzio degli anni. Non ci sarà libertà. Il mare è vicino ma irraggiungibile. Mi sento a disagio, oppressa dai fantasmi di uomini che un tempo furono anch’essi bambini innocenti. Dopo, la caduta nel pozzo del Maelstrom1. Arranca il trenino tra le falesie ad ovest e le irregolari ondulazioni di pietre e verde ad est. Baie che all’improvviso inondano lo sguardo di turchese. Sott’acqua qua e là alghe, spiagge di polvere bianca e un gruppo di case a Cala d’Oliva estremità nord. Un panfilo si allunga sull’acqua e dietro una casa rossa. Qui, negli anni ‘80 Falcone e Borsellino si riunivano per costruire le loro tesi di accusa per i mafiosi. Non posso non ricordarli, vivi sempre nel cuore di chi crede nella giustizia. Poco oltre l’ossario Austro-ungarico. Lì giacciono i soldati che non si son potuti salvare. Due piccole chiesette costruite per grato
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ricordo. Davanti, la caletta dell’ossario con una incredibile acqua di tenera avvolgenza. Poi si riparte; il ritorno prima del tramonto. Sono sul soffice prato dell’albergo. Stanca ma con dentro di me tanti pensieri, emozioni. Nel silenzio, mentre il cielo si tinge di rosso, accanto alla mia casetta è seduto un uomo. Anche lui molto giovane come Agostino. Ha tra le mani un tablet che diffonde le parole di The River di Bruce Springsteen2. Mi avvolge una sommessa magia; ritorno indietro nel tempo – anni 70-80. Ero giovane ma quel ragazzo vicino a me prova adesso le mie stesse emozioni. Mi sorride. Poi mi parla. È partito solo, dopo la fine di una storia a distanza. Il suo conforto è nel silenzio; ascoltare parole. Anche per lui come per me e per altri solo la compagnia di un invisibile compagno al richiamo del mare. Non c’è un’età precisa per l’amore né per il dolore ma può esserci il conforto della poesia. Non ci scambiamo nemmeno i nomi. Domani un aereo ci riporterà alla realtà. Firenze – 10 agosto 2018 Anna Vincitorio 1 - Corrente marina tra le isole Mosken e Moskënsöy nelle Lofoten. Citate in un racconto di E.A. Poe. 2 - Cantante rock – esordio nei primi anni ’70.
DENTRO UNA COPERTINA Il mondo dei giovani di Filomena Iovinella
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I svegliò smaniosa, era in preda ad una strana ribellione, voleva volar via, si ficcò dentro la copertina di una rivista patinata. “Ehi! Ma tu cosa ci fai qui?” “Sono venuta a vedere da vicino” “Più che da vicino dentro direi, stiamo in prova a breve si sfila” “Questo trucco sugli occhi è molto bello” “Sono stata in sala trucco per tre ore” “Voglio fare questa vita” “Ti sei svegliata strana stamattina” “Direi proprio di si, voi siete la rivista preferita di mia madre, posso indossare un
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abito?” “Fai pure, vai dietro a quel paravento” “Mi sento grassa, infatti non ci entro in questo tubino” “Tesoro mio non si mangia qui” “Credevo fosse una scusa” “No! E’ vero mia mamma non mi parla da anni” “Dici sul serio?” “Certo! Cosa credi, entrare in una copertina non è come starci sopra, devi scendere a compromessi e abbandonare gli amori” “Si ama tanto qui?” “Non si ama affatto” “Io voglio un ragazzo e amare” “Allora hai sbagliato copertina, qui devi amare solo te stessa” “Io ho questo problema non mi amo” “E’ un problema comune, devi superarlo” “Ti pare facile, guarda cosa ho fatto?” “Sei entrata in un’illusione, lo vedo” “Perché tu ti senti vera?” “Io lo sono, sono verissima” “Vado a fare un giro” “Vedi di non perderti devi riuscire dai miei capelli cotonati altrimenti resti bloccata, io tra poco vado via” “Non ci metto molto, vado e vengo”. Cammina a passo spedito tra le sedie e gli specchi sono tutti distratti e frenetici sanno quello che vogliono, sono decisi, non danno segno di cedimento, corrono come matti. Si sente la musica, un po’ si danza sul tempo, inciampando tra una scarpa e un collant. Ha sempre sognato di vivere da protagonista, e truccarsi è una sua passione. I colori sono li a portata di mano e si impiastriccia il volto letteralmente, sono tutte creme che si stendono sulla faccia e non vanno via, restano fino a sera. Appare diversa, non si riconosce ma si piace. Cammina su e giù davanti allo specchio si guarda di lato, davanti, di schiena, non può crederci. Quel passo che quando è entrato sembrava impacciato è diventato sicuro, deciso, scandisce il ritmo alla camminata e porta con sé l’abito, come se fosse la cosa più importante al mondo, solo l’abito: lei è quel pezzo di stoffa che sta prendendo vita. In questo posto animano i vestiti, pazzesco, pensa a voce alta dentro di sé come eco, dritto in pancia, quei colori e quelle stoffe parlano, hanno vita propria, per non citare poi i gioielli. File e file di collane appese, si avvicina mentre muove il bacino con più verve e ne indossa una. E’ pesante quella collana, strati e strati di catena con in fondo un pendolo
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enorme che luccica. Perfetto! Una diva! Lei, una diva! Hurrà. Una mano la prende da dietro per i capelli la strattona e la trascina: “Ti avevo detto che dovevi tornare, se non entri subito nei miei capelli cotonati resti bloccata qui, signorina, puoi non farlo, sono fatti tuoi!” “Ma che vuoi, lasciami, sei gelosa di me? Non me ne voglio andare e non ti credo è una stupidaggine quello che mi dici” “Pensala come vuoi, poi resta a te” Un vento fortissimo arriva da una porta aperta, all’improvviso si trova scaraventata addosso alla modella e questa la prende e la butta nei capelli….ohhhhhh ed eccola a casa. Filomena Iovinella
LA MONTAGNA DEGLI ALBERI MORTI Per me bambino selvaggio era la montagna degli alberi morti. Alta più di dieci piedi, tronchi cavi e rami alla rinfusa da mio padre accatastati negli anni. Teschi scorticati, buie caverne, arti spezzati contorti aggrovigliati, regno di tarme e formiche multicolori, uno scricchiolio, uno svolio, un rincorrersi estenuante. A sera si affacciavano ricci e topi dal ventre bianchissimo. Di qua, di là l’aria annusavano prima della corsa verso l’erba e gli anfratti. Seduto sopra una pietra d’estate godevo la sua ombra e scrivevo versi sulle lunghe e decorate foglie del noce, la mente persa ad altre montagne e pianure e mari sconfinati. Domenico Defelice
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La Fiaba
L’ANTENNA INNAMORATA di Caterina Felici
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NA giovane antenna televisiva, unica sul tetto di una vecchia, povera casa, fra tegole grigie macchiate dal tempo, si sentiva malinconica e sola. Guardava le sue sorelle lontane, insieme su ville e palazzi, in allegra compagnia. Avrebbe voluto essere fra loro. Non lontano da lei, sul tetto della casa, il grosso, solitario comignolo, dalle molteplici rughe, le crepe degli anni, spandeva nell’aria fuliggine e fumo. Abituato a dominare sul tetto, guardava infastidito la giovane antenna, che nel vento cantava malinconiche nenie, gli sorrideva gentile e gli parlava, cercando amicizia. Ma il comignolo, amante della sua solitudine, insofferente, non l’ascoltava. Lei lo guardava tristemente, quasi con tenerezza e gli perdonava il suo comportamento: capiva che, abituato alla sua solitudine, egli non aveva forse mai provato il piacere dell’ amicizia e dell’amore.
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Il comignolo sbuffava nervoso il suo fumo vedendosi sovrastato da lei, che gli toglieva in parte la visuale del cielo, di case lontane. Passò vario tempo, l’antenna s’innamorò dello scostante comignolo; lo guardava con civetteria, scintillante di sole, impallidita dalla luna, ornata di ghiaccioli nell’inverno. Si sentiva giovane e bella. Ma il comignolo pensava al suo perduto dominio sul tetto, forse invidiava di lei l’altezza, le braccia lucenti su cui cantavano gli uccelli, fra cui sembravano impigliarsi le stelle. L’antenna lo guardava con dolcezza e soffriva; nel vento cercava di piegarsi verso di lui per stargli più vicina. Il comignolo la osservava con interesse: però, anche se provava un po’ di affetto per lei, era incapace di sorriderle, dimostrarle amicizia. E l’antenna guardava le sue sorelle lontane, avrebbe voluto confidarsi con loro, avere consolazione per le sue pene. Passarono mesi. Un giorno grosse nuvole apparvero nel cielo serrandone l’azzurro, trasportate dal vento che diventò fortissimo, aggressivo, e nel suo vortice l’antenna si piegava, urlando di dolore e di paura, illuminata dai bagliori dei lampi. Udì, confusa, la voce del comignolo che la chiamava. A un tratto sentì un dolore lacerante, capì di spezzarsi; poi cominciò a rotolare sul tetto. Aggrappandosi alle tegole con le sue braccia di metallo, riuscì ad avvicinarsi al comignolo, ad abbracciarlo per un attimo, prima di cadere in terra in pezzi. Cominciò a piovere. E sul comignolo, che aveva capito di amare l’ antenna perdendola, la pioggia si confondeva con le lacrime. Passò del tempo… E in un bel giorno luminoso di sole la giovane antenna, guarita da bravi specialisti, ritornò sul tetto. Che gioia per lei e per il comignolo! Piangevano di commozione. Vissero a lungo insieme, amandosi profondamente. Caterina Felici
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I POETI E LA NATURA – 84 di Luigi De Rosa
Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)
Lo “steddazzu” e la solitudine calabra di
Cesare Pavese (1908 – 1950)
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esare Pavese era nato nel 1908 a Santo Stefano Belbo (Cuneo). Nel 1930, a soli 22 anni, si laureò in Lettere all'Università di Torino, con una tesi sul poeta americano Walt Witman. Nel 1934, a 26 anni, iniziò a collaborare con la Casa Editrice Einaudi, e assunse la direzione della rivista “La Cultura”, al posto di Leone Ginzburg, arrestato dalla polizia fascista. Ma un anno dopo fu lui stesso ad essere arrestato per i suoi rapporti con il gruppo anti-
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fascista “Giustizia e Libertà”. Fu inviato al “confino” per un anno, a Brancaleone Calabro, e lì visse una vita ancor più solitaria, lontano dal mondo, dalla vita sociale. Scrisse poesie della solitudine, anche se alla solitudine interiore era già stato costretto dalla vita dei contadini delle sue Langhe. Già da bambino, comunque, era stato colpito dalla infelicità della solitudine, a causa della morte prematura di suo padre, di un fratello e di una sorella. Tanti eventi luttuosi che avevano trasformato sua madre, vedova coi figli a carico, in una donna arcigna e tirannica dalla quale era scomparso ogni minimo accenno alla tenerezza, specie nei riguardi di quel suo figlio timido e introverso. Trovarsi quindi, ancora giovane, catapultato nell'ambiente naturale di Brancaleone Calabro aveva significato per Pavese l'obbligo di rituffarsi nel gorgo amaro della solitudine. Gli scritti di quel periodo sono poi stati pubblicati ne “Il quaderno del confino”, a cura di Mariarosa Masoero (Edizioni Dell'Orso, Alessandria 2010). Ma nella Natura sonnolenta del suo luogo di isolamento forzato, fisico e culturale, Pavese trovò anche, grazie alla Poesia, un sollievo spirituale insperato. Una lirica particolarmente riuscita mi sembra quella dedicata allo steddazzu, alla stella diana, all'astro del mattino che dà inizio, si fa per dire, a una nuova giornata, nella quale non accade nulla come non è accaduto nulla nei giorni già trascorsi, e non accadrà nulla nei giorni che verranno. In un trionfo di solitudine e di immobilità, di tacita comunione col mare. Inattività quasi fatalistica del Poeta nel quadro di una statica indifferenza della Natura. Quello fra il poeta e la Natura è un rapporto di coabitazione fisica e spirituale con il mondo della solitudine e del silenzio. “ L'uomo solo si leva che il mare è ancor buio e le stelle vacillano. Un tepore di fiato sale su dalla riva, dov'è il letto del mare e addolcisce il respiro. Questa è l'ora in cui nulla può accadere. Perfino la pipa tra i denti pende spenta...”
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In Pavese poeta, che ha contribuito ad arricchire la letteratura italiana al pari del Pavese narratore e saggista, vengono tenuti lontano il Simbolismo ed altre tendenze, l'Ermetismo, il Crepuscolarismo. La metrica classica italiana è abbandonata, sull'esempio di certa poesia americana, e i versi diventano sempre più “lunghi”, diventano “narrativi”, col rischio di risultare a volte prosastici e discorsivi se la temperatura dell'ispirazione poetica tende ad abbassarsi...Basti leggere le raccolte Lavorare stanca (I mari del sud) e Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Ma riprendiamo il testo dello steddazzu: “...Non c'è cosa più amara che l'alba di un giorno in cui nulla accadrà. Non c'è cosa più amara che l'inutilità. Pende stanca nel cielo una stella verdognola, sorpresa dall'alba. Vede il mare ancor buio e la macchia di fuoco a cui l'uomo, per fare qualcosa, si scalda; vede, e cade dal sonno tra le fosche montagne dov’è un letto di neve. La lentezza dell'ora è spietata, per chi non aspetta più nulla... L'uomo solo vorrebbe soltanto dormire. Quando l'ultima stella si spegne nel cielo, l'uomo adagio prepara la pipa e l'accende.” Sembra prematuro di quindici anni, quel desiderio di “dormire”: Ma è un dormire figurato. In realtà Pavese già covava il suo “vizio assurdo”, quello di sparire, di morire... E l'ultimo verso ci ripresenta la nota iconografia del poeta in pubblico che si accende la pipa... Noi, i posteri, lo sappiamo che cosa sarebbe successo al poeta Pavese da lì a quindici anni, nel 1950. Quindi, dopo la Resistenza, da lui seguita con un certo distacco, la caduta del Fascismo, l'instaurazione della Repubblica e del sistema parlamentare, dei Partiti e Movimenti, con gli scandali e controscandali pubblici negli anni successivi. Pur al culmine del successo letterario in quanto freschissimo vincitore del Premio Strega con La bella estate; angosciato dal perdurante vizio assurdo; deluso e frustrato nella ricerca spasmodica dell'amore appagante di una donna; deluso e
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frustrato dalle losche mene della politica, anche all'interno del P.C.I. cui si era iscritto nel 1945, Pavese si sarebbe dato la morte coi barbiturici il 27 agosto 1950, solo e disperato, in una camera dell'Albergo Roma, in piazza Carlo Felice a Torino, a pochi passi dalla Stazione di Porta Nuova. Luigi De Rosa
IL GIOCO Avvolta dalla brezza che sussurra, mi sento un meccanismo nella fabbrica immensa del creato. Una carezza sfiora il corpo che gradisce il vento fresco. La mente sta tentando di scoprire le regole del gioco. E scorre un’altra estate. Elisabetta Di Iaconi Roma
NOSTALGIA Nostalgia per le cose belle che mi sono accadute, nostalgia per il tempo passato in fretta e ha portato via la mia giovinezza, e oggi sono nuova. Loretta Bonucci Triginto di Mediglia ZAGARE Lenta bianchissima una pioggia di zagare. La terra ha un solo profumo. Anche il mare è terra: ha lo stesso profumo. Gianni Rescigno Da: Sulla bocca del vento, Il Convivio Editore, 2013
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Recensioni LORENZO PITTALUGA SONO LA FOCE E LA SORGENTE Italic, Ancona, 2015 “Se è vero che la malattia psichica determina spesso una sensibilità particolare, … di questa sensibilità Lorenzo si fa testimone”. È questo l’ inizio della prefazione di Marco Ercolani all’ Antologia poetica, uscita postuma, che raccoglie le poesie scritte da Lorenzo Pittaluga dal 1984 al 1995, recante il titolo Sono la foce e la sorgente. Fu Lorenzo Pittaluga un giovane affetto da disturbi mentali, nato a Cremeno di Sant’Olcese, nei pressi di Genova, nel 1967 e morto suicida, gettandosi nel vuoto, nel 1995, pochi giorni dopo il Natale, durante un ricovero psichiatrico. Aveva innato il bisogno di esprimersi per mezzo delle parole e in particolare attraverso quelle della poesia, di cui pubblicò alcune plaquette, tra le quali sono da ricordare Arca di fiume (1992) e Le ore della sete (Campanotto, 1994). Postume sono uscite altre raccolte: L’indulgenza (A cura di Marco Ercolani e di Elio Grasso, 1997); La buona lentezza (Campanotto, 1999); Al termine di noi (Joker, 2009, con acquerelli di Claudia Sansone); ecc. Ora l’Antologia poetica, Sono la foce e la sorgente, a cura di Marco Ercolani, con postfazione di Filippo Davoli, di cui qui si tratta, è valsa a dare una visione più completa dell’opera di questo poeta che, superando le difficoltà della malattia, ha saputo efficacemente esprimersi, dando un senso alla sua breve vita e lasciando una traccia del suo passaggio sul mondo. Molti dei suoi versi recano infatti un’impronta
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personale e s’accendono di immagini che colpiscono la mente di chi li legge; il che è segno della loro validità. Si veda, ad esempio, Sorgente, che rivela un’autentica ansia espressiva: “Sei uscito dall’occhio / buio che non scorse viso – // ti leggi dentro // le miriadi all’ascolto / ti diranno che sei / … / Adesso segui l’impercettibile / disegno, // Sembreranno confuse le parole. / Ti muovi bene – sei sorgente”. Si legga anche l’incipit di Consola, che ben vale a darci l’idea della sua sensibilità: “Apprendi la luce / dalla mano che carezza”. Surrealista potrebbe definirsi la poesia di Lorenzo Pittaluga, quale appare da testi come In definitiva, che ci offre per lo più una sequenza di immagini suggestive, quali: “Il quadrato rosseggia / ormai è solo una / cornice cinerea” e che così si chiude: “La vendetta e la paura / si disperdono: / in definitiva solo questo volevo dire / niente è più tondo di questo quadrato”. Si legga anche Bacio, che così inizia: “Diverrò vocale tersa, sillaba / alabastrina, parola che giunge / all’inganno dell’amore”. La poesia di Pittaluga la si deve allora cercare (e la si trova) nel gioco felice delle immagini, che colpiscono, al di là del loro significato, per il sentimento che trasmettono di compiuta armonia, come avviene in Seno, dove si legge: “È una notte questa che io / chiamo errore di dita / intrecciate su alte colline”. E ancora: “Le mie ombre muoiono sull’uscio, / le albe si comprimono in fiabe”. C’è in Lorenzo Pittaluga la consapevolezza delle proprie doti espressive: “Sono potenza e respiro. sono / l’unico poeta uscito dalla / placenta della terra desolata” (Poeta: si noti nell’ultimo verso il riferimento eliotiano). E c’è la volontà di comunicare agli altri i propri sentimenti: “Su questa mia scrittura testamentaria / ti giungesse come un barbaglio / o un fuoco minimale e accorto” (Qui). In Scritture poi così si esprime: “Le scritture, le mie, naturalmente / nate postume, celano la forma / del riposo, del denso incantamento”, dandoci in questo incipit tre compiuti endecasillabi che costituiscono una riprova della sua buona conoscenza della metrica, che si può constatare anche altrove. Lorenzo Pittaluga infatti maneggia il verso con sicurezza, passando dall’endecasillabo regolare a versi ipermetrici, come avviene nell’incipit di Stelo o nella chiusa di La casa. E si veda l’intreccio di vari metri presente in La forma. Efficace è poi l’ iterazione in Prendimi per mano, che si apre con un tono sommesso e termina con una violenta esortazione. C’è pure in lui l’andamento discorsivo e colloquiale, che è proprio di Perché, per fare una poesia: “Perché, per fare una poesia, / mica ci
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attacchi la lingua / al sugo delle parole che scrivi”; ma c’è anche il tono sommesso di altri versi, quali quelli di Dormiveglia: “Dormiveglia del bimbo / che moltiplica l’incognita di quel sì. Partivano i pensieri verso / radici d’olmo e clessidre esauste”. Sempre comunque c’è in Pittaluga una ricerca di armonia, attraverso un ritmo che può essere più disteso, come avviene in Bacio: “Diverrò vocale tersa, sillaba / alabastrina, parola che giunge / all’ inganno dell’amore” o più veloce, come avviene in Di porta in porta: “Di porta in porta / mi cerchi; bussi / piano per non svegliarli, / origli ma non mi senti: // io sono altrove”. Rapide nel loro giro, le Quartine 1992–1993, che tendono più che mai alla sintesi, nell’ansia di una compiuta espressione, come avviene in Colore: “ Verranno nuovi poeti / e saranno i nostri figli / a cui abbiamo dato nozioni / e colore esatto”. Le ultime poesie del libro, quelle di Sulla soglia, contengono nuovi spunti, ma allo stesso tempo costituiscono come un addio al mondo e alla vita da parte del giovane, che avverte come “distante” quel mondo che gli sfugge. Certo Pittaluga fu un poeta che dovette lottare con la malattia che gli assediò la mente, ma che è riuscito ugualmente ad esprimersi in maniera efficace. A leggere i versi che egli ci ha lasciati ci avvediamo che la sua vocazione poetica non fu immotivata, ma autentica, si che nelle sue pagine, spesso tormentate e ribelli, qualcosa di lui ancora vive. Elio Andriuoli
PIETRO NIGRO I PRELUDI vol.V Il Convivio Editore, 2017, € 14,00, pagg. 151. Al di là dello spazio di tempo che un determinato esercizio epistolare possa occupare, l’importanza delle lettere scritte per una persona – e in questo caso un autore – viene percepita più tardi negli anni. In questo V° volume della collana personale dal titolo I Preludi, del poeta saggista scrittore professore di lingue siciliano Pietro Nigro, a differenza dei precedenti contiene un fascio di missive redatte da Nigro durante il suo periodo universitario a Catania, dal 1957 al 1961. Periodo assortito anche da viaggi all’estero per integrare la lingua francese soprattutto, compiuti da lui in Svizzera e in Francia. Ci sono tanti aggettivi possibili capaci di descrivere la maniera con cui ha redatto le sue numerosissime lettere, da cui si ricostruisce il vissuto giovanile di quel ‘felice’ momento, persino (se si fanno bene i calcoli in lire dalle cifre riportate ogni volta, rap-
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presentando un vero e proprio ossequio alle doti paterne del ragioniere, professore di matematica Salvatore Nigro) la spesa complessiva per il materiale di studio, per le spese d’alloggio, quelle per lo svago, le tasse universitarie, i regali da portare ai familiari e via dicendo. Stupisce, innanzitutto, l’originale freschezza con cui viene affrontata ogni cosa, ogni problematica, ritardi, intemperie varie come quella volta di fine novembre ’57 « […] Uscito da casa, con una pioggia torrenziale, sono sfuggito appena ad un temporale mai finora visto, rifugiandomi in un filobus. Alla pescheria, alla Porta Uzeda, a quanto mi è stato detto, l’acqua è arrivata ad un livello incredibile. Personalmente ho visto dal filobus tutte le strade che percorrevamo completamente allagate compresa la via Etnea. Per mia fortuna il filobus si è fermato dinanzi al Palazzo delle Scienze per cui in due salti, (figurati: essere costretto a fare di corsa 20 metri, saltando come un grillo) vi sono entrato. […] “ Ci voleva questa giornata per conoscere coloro che intendono frequentare seriamente le lezioni. Avete affrontato un nubifragio pur di venire “. » (Alle pagg. 19-20). L’intera raccolta epistolare costituisce un paradigma da imitare per chiunque si trovi fuori casa e desidera comunicare coi parenti, familiari per metterli al corrente del proprio quotidiano. Lui, Pietro Nigro, nel 1957 aveva diciotto anni ma non era maggiorenne perché mancavano ancora tre anni, secondo la legge precedente, eppure aveva una padronanza delle situazioni comunque gli si presentavano, da sbalordire noi di questo terzo millennio. Sapeva dove andare, quali discorsi fare, come risolvere nel tempo libero, come risparmiare per l’ alloggio qui in Italia e una volta trovatosi al di là delle Alpi, come comportarsi in caso di precaria salute, come riempire pagine e pagine di scritti personali che inviava regolarmente a casa dove c’erano i suoi genitori, le sue due sorelle, Ada e Giovanna, e la carissima nonna, alla quale non mancava mai di inviare baci e abbracci a bizzeffe, con affetto Pietro. Metteva al corrente tutti loro per filo e per segno senza badare al tempo da impiegare per redigere il prezioso ‘dono’ da trasmettere ai suoi cari, perché lui voleva essere sincero prima con sé stesso e poi con loro, non nascondere nulla della sua vita all’università svoltasi nella provincia catanese. « […] Rispondendo alle tue domande posso dirti che mangio da re. Due etti di pasta… duecento di carne o di tonno o altro pesce pregiato (ho raddoppiato la dose: ma se i soldi bastano impieghiamoli bene). Come frutta mangio un po’ tutto: pomi, pere, fichi secchi, noci, banane. Quest’oggi eccezionalmente per il pranzo vi ha pensato la signora Mila-
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nese. Come primo un piattone di ceci che lei ha ricevuto da suoi antichi clienti. Come secondo, tonno (lo ha comprato lei, in quanto il suo gatto ieri ha voluto farmi compagnia; cioè, mentre la signora era assente, il gatto s’era divorato metà del tonno che avevo comprato). Comunque la signora molto gentilmente ha voluto riparare al danno… mio e suo. » (A pag. 21). Anche se si tratta di un’epoca molto distante da quella attuale, più o meno la vita di uno studente universitario è fatta proprio così, come lui l’ha descritta: un andirivieni tra la sede degli studi e l’ alloggio, frammisto da altre faccende utili da svolgere e poi la sera qualche intrattenimento serio che, a quei tempi, consisteva nell’andare a vedere il piccolo schermo presso qualche bar munito di questo innovativo elettrodomestico, dove mandavano in onda il Musichiere, o il Festival di Sanremo, Canzonissima, o gli sceneggiati tratti dai romanzi di scrittori famosi. Oppure andava al cinema, e al teatro per assistere alle opere liriche come l’Iris di Mascagni, la Francesca da Rimini di Zandonai, la Sonnambula di Bellini. Ma la cosa più strabiliante di tutta la collezione epistolare è il passaggio in cui c’è la relazione al quadro della Gioconda di Leonardo, osservata durante la sua visita al museo del Louvre di Parigi, dove giunse nel settembre 1961 dopo un viaggio in treno in cui conobbe anche una ragazza del tutto rassomigliante a Giovanna Moriella, colei che diventerà poi sua moglie nell’agosto del 1964. « […] Quanto riguarda “Monna Lisa” di Leonardo non ci sono parole per descriverla. Le guide francesi non finivano di descriverne il sorriso enigmatico, ma a mio parere è poco enigmatico; con un esame attento del quadro ho notato che visto da diverse posizioni mutava atteggiamento. Ora sembrava piangere, ora sembrava allegra, ora seria, ora enigmatica, sì ma di un enigma spiegabile se ci rivolgessimo alla filosofia. Esprimeva il mistero che ci circonda, l’indefinibile e incomprensibile possibilità di un mondo creato da Dio e ricreato dall’uomo, ma da cui la donna “Monna Lisa” è la portatrice. » (A pag. 84). Isabella Michela Affinito
PIETRO NIGRO PAUL VALÉRY (In appendice: Paul Valéry, l’amateur de poèmes) Tindari Edizioni, Patti (ME), 2009, € 10,00, pagg. 117 Docente di inglese nei Licei, Pietro Nigro si è espresso anche soprattutto in francese per il compimento del suo saggio sulla figura intellettuale del-
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lo scrittore poeta Paul Valéry (1871-1945). Per l’ autore è stato un viaggio nelle ragioni interiori dell’ uomo che prima è stato poeta, poi abbandonerà la poesia per immergersi nella saggistica e, pur avendo sempre sostenuto che non era un filosofo, affrontò con impegno questa disciplina oltre alla critica, alla pittura, alla linguistica. Il volume è stato redatto bilingue, nel senso che si procede con la lettura dei vari capitoli, ma ogni tanto oltre all’italiano ci sono brani in francese, frasi, che anche per chi non conosce la lingua fanno lo stesso da guida. È stato un lavoro di ricerca innanzitutto, infatti, Pietro Nigro ha consultato la bibliografia del Centro di Studi Valeriani dell’Università Paul Valéry di Montpellier, luogo dove studiò alla facoltà di Diritto lo stesso Valéry, e l’Istituto Centrale per il catalogo Unico Indice SBN consultabili via Internet. Ricordiamo che nel giugno del 1962, Pietro Nigro di appena ventitré anni discusse la tesi finale per la Laurea in Lingue e Letterature straniere all’ università di Catania, presentando un saggio proprio su Paul Valéry e che, nello stesso anno, iniziò la sua carriera di insegnante al Liceo Classico. La lunga dissertazione inizia con lo spiegare la corrente, sia letteraria che artistica, del Simbolismo sorta ufficialmente nel 1886 con la pubblicazione del relativo Manifesto ad opera di Jean Moréas (1856-1910), poeta francese nato ad Atene, che studiò anche lui Diritto ma a Parigi, dove poi si stabilì del tutto. Questo per inquadrare le direttive principali entro le quali mosse i primi passi letterari Paul Valéry. Il Simbolismo non aveva radici nelle esperienze oggettive e naturalistiche, bensì in quelle delle idee, soggettive dell’artista e/o letterato. Nella storia dell’ arte appartennero Vincent Van Gogh, Paul Gauguin, il gruppo dei Nabis, Gustave Moreau, Odilon Redon. Che poi questa corrente facilmente divagava anche nel decadentismo, come nella grafica in bianco e nero dell’inglese Aubrey Beardsley, e in Italia con il pittore, esponente del Divisionismo, Giovanni Segantini. « Si formarono i differenti rami d’una medesima corrente, ma il cui scopo era unico: fuggire la realtà finita, le leggi mentali. Una certa religiosità, un’ inquietudine metafisica, un bisogno di evasione dalla prosaicità del reale invasero la mente di questi uomini nuovi. Per i simbolisti la poesia, e l’arte in genere, è unico strumento di comprensione e di conoscenza, unica interprete della realtà. » (A pag. 6). In seguito, proprio grazie a questa pietra miliare del simbolismo, nascerà il surrealismo incentrato sul sogno, sulle visioni reali o presunte e via dicendo.
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L’autore Nigro ha messo in evidenza, ripetendolo più volte, un episodio fondamentale durante il quale il poeta francese Valéry adottò un cambio di rotta: la notte fra il 4 e 5 ottobre 1892 a Genova, luogo dove solitamente trascorreva dei periodi di vacanza giacché c’era la zia, sorella della madre Fanny Grassi, che era italiana, durante un forte temporale decise drasticamente di lasciare la poesia. Una crisi intellettuale dovuta presumibilmente a delusioni sia in campo sentimentale, sia in quello letterario. In pratica voleva sentirsi svincolato per agire su più fronti contemporaneamente. C’era in lui la vocazione per l’indagine che lo portò allo studio per la matematica e alla stesura del saggio sulla figura poliedrica di Leonardo da Vinci. « Ma con Leonardo non vuole solo dare la rappresentazione tangibile del superuomo, ma piuttosto estrinsecare ciò che più lo assilla e cioè il bisogno di toccare lui stesso il vertice delle possibilità umane. Negli istanti di massima lucidità si chiede di che cosa la sua mente sia capace. Egli vuole sperimentare queste sue capacità e vi si immerge con una dedizione meravigliosa. Come Leonardo aveva sezionato trenta cadaveri e aveva scrutato in essi ogni organo, così Valéry seziona l’idea e trova il segreto dell’uomo pensante e del mondo. In ambedue l’autopsia costituisce il metodo fondamentale di investigazione per accertare la posizione, i rapporti, la composizione di ogni cellula o muscolo, parola o idea. » (Alle pagg. 25-26). Ci sono in alcune opere di Valéry tracce della classicità greca, come nel poema La giovane Parca (La Jeune Parque), quella figura mitologica che si rifà al gruppo delle Moire greche. Erano tre sorelle, le filatrici che reggevano il filo della vita umana e a loro piacimento potevano tagliarlo, quindi mettere fine all’esistenza di ciascun individuo. Poi, in Frammenti di un Narciso (Fragments du Narcisse) ritrova il personaggio che « […] ha amato il suo Io, ha cercato di congiungersi con esso, ma lo ha visto svanire in un tremolio d’acqua. » (Alle pagg. 40-41). Inoltre, nell’opera Eupalinos ou l’Architecte si comprende il grande amore di Valéry per le costruzioni antiche del mondo Mediterraneo prima della nascita di Cristo. « […] Se osserviamo il Partenone nel quale sembra che gli architetti abbiano voluto trasmettere la sicurezza politica di quel tempo, la gioia della vittoria, la gratitudine agli dei; e il tempio di Nettuno a Paestum nel quale il senso volumetrico delle forme architettoniche, regolato dalla rigorosa legge dei rapporti, determina uno degli effetti più complicati e più severi dell’architettura greca; o i templi di Agrigento dalla severa solennità ». (A pag. 46). Ci voleva proprio un testo così, capace di svelare
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il recondito di un ingegno conosciuto solo dagli addetti ai lavori, quindi non da tutti. Andava spiegato lo stile e le ragioni di un uomo che visse fino alla Seconda guerra mondiale, avendo avuto modo di vivere i notevoli cambiamenti prima e fra le due guerre mondiali che caratterizzarono il Novecento. La critica moderna deve molto e soprattutto a questa grande mente scrutatrice e appassionata del perfezionismo, a modo suo. Isabella Michela Affinito
TITO CAUCHI GIOVANNA MARIA MUZZU La violetta diventata colomba Editrice Totem di Lavinio (Roma), 2018, f. c., pagg. 92 Il professore poeta saggista Tito Cauchi, grazie alle sue preziose dissertazioni soprattutto a carattere monografico, ci ha presentato negli anni personaggi della letteratura contemporanea anche non propriamente famosi, ma che hanno lasciato comunque un segno tangibile coi loro scritti. Vogliamo ricordare il suo saggio su Salvatore Porcu, quello su Ettore Malosso, su Carmine Manzi, su Leonardo Selvaggi, su Alfio Arcifa, sul mosaicista Michele Frenna e adesso sulla poetessa scrittrice sarda Giovanna Maria Muzzu. Quando l’autore ritiene giunto il momento della stesura di una trattazione sulla vita e le opere di un personaggio a lui caro, vuol dire che al di là del materiale cartaceo o di altro genere raggruppato per il suo certosino lavoro, c’è stato l’incontro umano fra lui e la persona da perpetuare nel suo saggio. Un incontro replicato nel tempo e coltivato come una piantina aromatica indispensabile per la preparazione di conviti speciali, dove è stata mescolata l’ amicizia con la scrittura, la bevanda di Bacco con il racconto delle proprie vite, la poesia coi ricordi della cara terra natia. Era il 2001 quando iniziò l’ epistolario tra il professor Cauchi, e a volte anche con postille di sua moglie Concetta, e l’autrice sarda Muzzu, molte missive scritte a mano e quelle digitalizzate fino al 2008, che ora costituisce l’ apparato finale del saggio in questione. « Mio carissimo e gentilissimo amico, io mi rivolgo a lei per ringraziarla della bellissima recensione che ha fatto al mio libro Il passato allo specchio. Mi volto indietro e mi sento come se un’altra ora abbia preso il posto della Giovanna che lei ha descritto con mani d’artista, come se lei mi avesse conosciuto da sempre, e io resto muta, anche se vorrei dire molto di più. […] » (A pag. 60). Non è poi tanto surreale la comparazione tra la
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scrittrice sarda del primo Novecento, Grazia Delèdda (1871-1936), con l’attuale Giovanna Maria Muzzu: due donne che seppure distanti nel tempo – la Muzzu è nata nell’agosto del 1941 –, essendo entrambe nate sull’isola della Sardegna hanno narrato il paesaggio, le tradizioni rurali, la malinconia di coloro che sognano il continente, la condizione femminile e il riscatto esistenziale alla maniera del grande scrittore russo Dostoevskij. La vita di Giovanna Maria Muzzu è stata costellata da eventi poco felici, per non dire tragedie. Iniziò ad andare a scuola tardi, verso i nove anni, perché doveva aiutare in casa i genitori contadini, che avevano sei figli (compresa lei) da crescere e l’edificio scolastico era molto distante da dove abitava, circa due ore di strada. Comunque, riuscì a conseguire il Diploma di Maestra d’Arte e a sposarsi con Nicola più grande di lei di dieci anni. C’era stato un giovane prima del marito, Bastiano, il primo amore fortemente contrastato dalla sua famiglia e così lui andò via dall’ isola. Purtroppo, Nicola è venuto a mancare nel 1982 e lei è rimasta sola coi suoi tre figli; dall’anno successivo la tragedia del marito incomincia a scrivere, prima un diario, poi una serie di sillogi che il saggista Cauchi ha recensito una per una, riportando la relativa immagine di copertina del libro in bianconero, la descrizione minuziosa dei contenuti e stilando paragoni oltremisura. « […] Maria forse ha smesso di ridere, mai di sorridere, non sta a leccarsi le ferite; se qualche lacrima le solca il viso, non lo dà a vedere, non ne ha fatto clamore. Non è, quindi, lagnosa, anche se ne avrebbe le ragioni. I suoi ricordi la fanno convivere con i morti; in un certo senso, è la vita che ci prepara alla morte. Lei non filosofeggia dicendoci questo pensiero, né dicendoci che la vita c’è data in prestito; ma sa e dichiara di affidarsi alle mani del Signore. » (Alle pagg. 30-31). Sottolineiamo che la scrittrice premio Nobel nel 1926, Grazia Deledda, imparò l’arte della narrazione da autodidatta, leggendo i romanzi d’epoca e d’appendice. Fu una donna forte come tutte le donne sarde e quando si stabilì a Roma da sposata, rimase sempre estranea ad ogni tipo di mondanità. Col tempo e dopo le varie pubblicazioni dei suoi libri, Giovanna Maria Muzzu ha coltivato immensamente il dono della Fede arrivando nel 2004 a redigere un Quaderno, della collana “Il Croco” di ‘Pomezia-Notizie’, contenente delle lettere che altro non sono che Messaggi dall’alto o dal profondo dell’io?, giunti a lei nel tempo quaresimale del 1999, incorniciati poi dalla mirabile prefazione della professoressa Marina Caracciolo, in quel mo-
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mento divenuta direttrice della collana “Il Croco”. « […] Sono parole molto belle, colme di una deprecazione amorevole e giusta, semplicissime, talvolta volutamente “illetterate”; pensieri su cui chinarsi a riflettere in profondità per accostarli, con umile saggezza nel cuore, alla luce chiarificante e salvifica delle Sacre Scritture. » (Dalla prefazione al Quaderno letterario Messaggi dall’alto e dal profondo dell’io?, a cura di Marina Caracciolo). Con gli anni e dopo le pesanti vicissitudini, Giovanna Maria Muzzu è voluta diventare Suor Maria, ovvero una Suora laica col desiderio di aiutare i giovani dai dieci anni, l’età che aveva l’ultimo suo figlio, Franco, quando restò orfano di padre, fino a quando saranno maggiorenni. Quindi, ha destinato dei locali della sua casa per questa sua missione e, allo stesso tempo, è riconoscente oltremodo verso il professor Cauchi – le sue lettere nel saggio ne sono la testimonianza – per la divulgazione delle note critiche ai suoi libri esposte nel trattato, che hanno contribuito e contribuiscono a far conoscere la scrittrice poetessa sarda, innamorata della sua terra e soprattutto di Dio! Isabella Michela Affinito
TITO CAUCHI GIOVANNA MARIA MUZZU La violetta diventata colomba Editrice Totem, Lavinio Lido (Roma), 2018. La poesia di Giovanna Maria Muzzu fra dissidi interiori e la loro sublimazione La recente monografia del noto critico Tito Cauchi, stampata dall’Editrice Totem di Lavinio (Roma) nel giugno del 2018, dal titolo Giovanna Maria Muzzu – La violetta diventata colomba presenta una essenziale ricognizione sulla produzione poetica della suddetta Autrice fin dalla sua prima pubblicazione del 1988 Una collana di perle fino alla raccolta del 2008 dal titolo “Fra cielo e terra”, edita da Il Croco/Pomezia-Notizie del poeta Domenico Defelice. Di ogni silloge poetica il Cauchi riesce ad intuire dell’Autrice la movenza autobiografica caratterizzata da un mosso eloquio lacerato da un acceso sconforto e da una plumbea disperazione di un io segnato da una condizione precaria di stenti, miserie e da tristezze perduranti. L’affollarsi dei pensieri, che turbina nella mente della poetessa sarda, nata a Calangianus in provincia di Sassari, sa di un annichilimento autentico e sincero di un io contrapposto ad una fremente e desiderata apertura ad una rinascita vitalistica nel segno dell’amore verso la natura e verso Dio.
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Nella silloge poetica Una cascata di diamanti, edita nel 1990 dall’Editrice Tigullio-Bacherontius di Santa Margherita ligure, di fronte al crollo delle illusioni, il pessimismo le fa pensare alla morte: “Il morire talvolta è una salvezza”. Il conflitto fra tensioni vitalistiche e pensieri di morte sottintende però l’uscita dall’inautenti- cità e l’attivarsi dell’ assolutezza del sogno della rinascita di una dimensione personale più gratificante e più rispondente a quell'amore che ella dà senza alcun riscontro da parte degli altri. Onestamente il Cauchi parla di “Uno stile semplice, lineare, né stucchevole, né di maniera, che tuttavia non stanca”(p. 21). Quello dell’Autrice è un dettato espressivo limpido e scorrevole, segnato da una fresca spontaneità e sincerità della sua anima e da un’acuta sensibilità di indagare il suo mondo intimo e, nel contempo, di sapere contemplare con una inusitata tenerezza le bellezze della natura, riuscendo alla fine ad esprimere dei risultati densi di un alto contenuto morale, umano e fortemente religioso, al di là della retorica, dei voli paradossali di un intellettualismo esibizionistico e di un qualsivoglia manierismo d’accatto. La voce della Muzzu è intonata all’immediata testimonianza e confessione della condizione di tristezza del suo cuore, che cerca un urgente appiglio alla riedificazione di una inedita identità esistenziale e poetica. Ricorre nei versi della poetessa una certa inadeguatezza nei riguardi dei problemi esistenziali e terreni, sicchè afferma la poetessa che “in ogni posto mi sento un’intrusa”, compensata però da una fede sincera in Cristo e verso qualsiasi sofferente ed infelice tormentato, che le fa dire: “Tu, Signore, hai fatto sì che fossi violetta o colomba. Una creatura della terra e una del cielo”. In più è presente in lei il “diritto – come annota il Cauchi – ad appropriarsi dei propri sentimenti, delle proprie passioni, in una sola parola della propria persona, a dispetto di pregiudizi” (p. 26). Interessante è la silloge poetica dal titolo Fra cielo e terra, edita da Il Croco nel giugno del 2008, con la prefazione del Cauchi, che lo stesso definisce come un “dialogo interiore di Giovanna Maria Muzzu in una esaltazione libertaria del proprio Io”, come un sincero e fremente slancio d’amore verso “l’ umanità intera, un appagamento dell’anima e una pace interiore che sa di vittoria, una ricomposizione degli affetti più intimi e un ritorno alla vita” (p. 56). Impreziosiscono il volume le pagine dedicate all’ epistolario (2001-2008) fra la poetessa e il critico Cauchi, che rivela indubbi pregi informativi per la lettura dell’estesa produzione della Muzzu, nel rivelarne principalmente la sofferta solitudine solamen-
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te psicologica e non metafisica, risolta con la risoluzione e ricomposizione dei suoi dissidi interiori in forza di un acceso amore e bontà offerti a Cristo e a tutte le persone bisognose che attendono un sognato riscatto delle loro condizioni esistenziali. Nell’insieme il percorso poetico della poetessa si può leggere come un diario di confessioni della sua anima, ma anche come una sua commisurazione insistente, seppure moderata, del suo Io nei riguardi delle irrazionalità disumanizzanti dell’ esistenza che si riversano nella sua coscienza e, nel contempo, essa le dirige sulla ricerca di un significato spirituale più appagante e più vero. Il libro, alla fine, del Cauchi affascina per il suo seguire con le sue annotazioni critiche obiettive, il transito di un’anima, quello della poetessa, che dalle oscurità contraddittorie dell’esistenza si è elevata alla sublimazione e alla purezza di una catarsi del suo sentimento e della vita. 7/09/2018 Andrea Bonanno
ISABELLA MICHELA AFFINITO MI INTERROGARONO LE MUSE Bastogi, 2018 Da brava artista la Affinito chiede aiuto alle muse per far si che la sua arte del poetare sia prolifica e giusta. In “Mi interrogarono le muse…” la poetessa, ispirandosi alla creatività del pittore Giorgio De Chirico che tanto le ha lasciato nell’animo, fa in modo che le Muse degli antichi miti vengano a lei. Attraverso la fantasia in un sabato immagina che ad una ad una esse la interroghino… “Ero preparata a cominciare dall’epoca classica, la storia dei miti…”. Lasciando che scorra “…la penna laddove i pensieri tracciano un solco ed essa vi semina inchiostro…”. E’ come se la scrittrice avesse bisogno, per portare avanti i suoi versi, di un riconoscimento virtuale dalle Muse, un esame di maturità della sua arte: “…Lei ha lasciato la sua decollata colonna per raggiungere chi scrive, chi è solo e vuole esprimere l’inesprimibile, lei ha capito lo stato in luogo di un poeta.” Perciò si sente veramente onorata e soddisfatta di conoscere “…il volto delle nove sorelle, padrone di ogni possibile ispirazione…di essere stata accettata dalle Muse”. Forse che desideri anche la Affinito diventare una Musa ispiratrice? Una cosa è certa, il volume, è un continuo dialo-
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gare con esse e, alla fine la scrittrice lascia spazio anche ad una parte critica ospitando i suoi tre saggi su Antonia Izzi Rufo, su Gianni Rescigno e naturalmente su De Chirico. Roberta Colazingari
DOMENICO DEFELICE GIUSEPPE PIOMBANTI AMMANNATI E “POMEZIA” Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, settembre 2018 Il calabrese Domenico Defelice dedica a Pomezia, sua seconda patria, dove si trasferì negli anni Settanta, uno studio particolareggiato, ricco di interessanti informazioni, che dà l’idea di una tesi di laurea. Potrebbe sembrare che la città pontina, fondata nel 1938, per la sua modernità non abbia nessun vanto da esibire. Chi legge il saggio di Defelice deve ricredersi. Si viene a sapere tutto dei progettisti (architetti e ingegneri di chiara fama) che hanno costruito la città. Sono nomi di eccellenza degli anni Venti e Trenta. Inoltre l’autore cita una piccola schiera di studiosi (tra i quali Pietro Bisesti, Antonio Sessa, Daniela De Angelis) che hanno composto libri sull’ argomento. Sorprende che anche scrittori, ceramisti e artisti abbiano creato per Pomezia pubblicazioni e oggetti di gran valore. Il nostro Direttore inoltre ha potuto avvalersi di epistolari gelosamente conservati. Sempre questa sua felice abitudine di tenere da parte le lettere ricevute (e spesso la copia di quelle inviate) ha permesso al lettore di addentrarsi con prove documentarie in periodi poco esplorati del passato. Uno di questi geni ignorati è il toscano Giuseppe Piombanti Ammannati, morto quasi centenario nel 1996, autore di statue, di manufatti in ceramica, oltre che di componimenti letterari, per la cittadina pontina. Nel Croco di settembre il corredo iconografico ci consente di vedere con i nostri occhi la produzione dedicata dall’artista a Pomezia (purtroppo quasi ignorata dalle autorità locali). Riporto un piccolo estratto delle note di Defelice: “Giuseppe Piombanti Ammannati è uno degli artefici più efficaci legati al tempo della bonifica dell’Agro Pontino Romano. Pomezia, al suo sorgere, era un borgo agricolo-pastorale e Giuseppe Piombanti, nelle sue opere, ha cercato di esaltare il lavoro dei campi, la sacralità della famiglia, il culto delle tradizioni e della divinità e le qualità migliori che hanno, da secoli, reso grande e ammirato, in tutto il mondo, il popolo italiano.” Molte opere dell’artista si trovano al Museo di
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Faenza. Interessante la querelle sulla mancata acquisizione, da parte dei vari sindaci pometini, della statua creata per Pomezia (una donna con in testa le spighe di grano e nel grembo la frutta), acquisizione fortemente caldeggiata dall’artista stesso mentre era ancora in vita. Defelice nelle pagine conclusive così scrive: “Attuare il sogno dell’artista è, adesso, sempre più difficile; le sue opere non si sa dove siano, se presso un qualche Ente o in mano a privati; il Maestro è morto e l’acquisizione della statua (o delle statue, perché non può essere trascurato “il Mimmo di Pomezia”) non sarebbe più, di certo, a costo zero”. Elisabetta Di Iaconi
FABIO DE AGOSTINI AmORESSIA Arlem editore, Roma, 1998, L. 28.000, pagine 238 Brossura, ISBN 88-86690-17-7 La Direttrice della biblioteca dott.ssa Fiorenza Castaldi mi dice che la signora Fontana, vedova del regista – scrittore Fabio De Agostini ha donato alla biblioteca gran parte delle opere letterarie del marito. Mi presta un libro (AmORESSIA) al fine di dare un mio parere. Lo leggo e ho pensato di farne una breve recensione. Chi è Fabio De Agostini? Fabio De Agostini è nato il 12 ottobre 1926 a Viù, in provincia di Torino, in Piemonte. E’ stato sceneggiatore e ha lavorato dal 1946 al 1954 come aiuto regista per lungometraggi. Ha diretto il film per bambini “Lauta mancia”. Negli anni '70, ha prodotto altri film, tra cui “Le lunghe notti della Gestapo”. Ha scritto i seguenti libri: AmORESSIA , Smolny (Finalista Premio Viareggio Opera Prima), Il breve passo (candidato al Premio Strega), I promessi sposi degli anni 40 (già Premio Sangemini Inedito), Solstizio di tenebre, I Gattini Ciechi, Fuga in avanti, Forse un Sogno (candidato Premio Strega), Cercando Dilà. AmORESSIA è composto da 8 capitoli: i capitoli dispari (1,3,5,7) parlano della storia dell’ingegner Verri, mentre quelli pari della storia dell’ingegner Arri. Trattasi di storie parallele non convergenti di due manager in carriera che certe circostanze spingono in suspense sulle tracce dei rispettivi padri rimossi, e facenti parte della generazione turbolenta e dimenticata degli anni ’60 e ’70. Il primo capitolo descrive il viaggio a Ginevra dell’ing. Verri per una promozione di carriera, che gli viene comunicata dal capo dei capi Frank Base-
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vi. Gli viene detto che prenderà il posto di un altro per diventare capo della sede italiana. Fra l’altro viene a conoscenza che Frank Basevi in tempi remoti aveva conosciuto sua madre… Successivamente, in Italia, nella villa al mare, scopre con suo figlio scritti di suo padre, la cui fine è coperta dal mistero. Il figlio Alex ha battezzato suo nonno “nonno Mistero” e vuole saperne di più, contrariamente a suo padre, che si pone il problema se sia giusto rivangare un passato, ormai sepolto. Emergono scritti riguardanti le manifestazioni studentesche del ’68, le storie di Renato Curcio delle B.R. e della fine traumatica dell’editore – scrittore Giangiacomo Feltrinelli (morto facendo esplodere un traliccio dell’Enel a Milano). Si trovano riflessioni sul mondo del lavoro: dalla classe operaia (tute blu) si è passati ad una classe che lavora con le tastiere e le dita anziché con le braccia e il martello…, è un nuovo tipo di sfruttamento del neocapitalismo. Il secondo capitolo tratta la storia dell’ing. Arri Moser, che, non trovandosi a suo agio nei rapporti con il suo superiore, viene convocato dal Direttore del personale Dottor Raiter. Prima di andare dal Direttore del personale viene lasciato all’improvviso dalla moglie Mya. Il direttore del personale gli prospetta di andare in missione presso un’isola vicino alle Seychelles, dove l’azienda aveva una segreta base di lavoro e che poi è stata abbandonata dopo un incidente. Arri parte per l’isola con un radiotelefono per comunicazioni con l’azienda, e con un PC. Arri scopre che anni addietro vi aveva lavorato suo padre, che è morto in un’esplosione. Egli scopre inoltre vari documenti, relativi all’azione politica di suo padre… Inaspettatamente vengono con l’ elicottero un dipendente dell’azienda, accompagnato da sua moglie Mya. Con uno stratagemma essi ripartono mentre Arri sta dormendo e portano via tutti i ricordi di suo padre. E’ un libro d’introspezione psicologica, di ricordi. Ci si pone la domanda se è giusto scavare nel proprio passato…: “Forse, senza conoscere o immaginare il passato non può esistere nemmeno il piacere o la speranza del futuro?” Giuseppe Giorgioli
ANTONIO ANGELONE FIORI DI LILLÀ, L’ALBERO PARLANTE EdiAccademia, Isernia 2018 - Pagg. 52, s. i. p. Antonio Angelone è un sentimentale dotato di fervida immaginazione, oltre che prolifero e noto artista, autore di moltissime opere di narrativa e poesia, e anche di pittura. Tutti i generi letterari gli
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sono congeniali, ma la sua predilezione va agli argomenti riguardanti la natura e le sue meravigliose bellezze e ai lavori agresti, in particolare, all’attività multipla dei contadini di paese che si occupano della coltivazione dei campi, della raccolta della legna nei boschi, dell’allevamento del bestiame (ovini, bovini, porcini, animali da cortile) e di tante altre mansioni legate alla campagna e all’agricoltura. La maggior parte delle sue opere è improntata al ricordo e alla descrizione delle sue esperienze personali e a quelle della comunità degli abitanti del suo borgo di cui riscopre usi e costumi, credenze e superstizioni, miti, riti e leggende. Quando si leggono i suoi libri si ha la sensazione di trovarsi in ambienti d’Arcadia, tra pastori, greggi e fauni, di ascoltare belati e suoni di zampogna insieme allo stormire del vento tra le foglie e al gorgogliare di sorgenti montane, di aspirare profumi d’erbe aromatiche, fiori campestri, aria ossigenata. E non solo: di scoprire, sotto l’ombra di querce centenarie o di faggi o sulla riva di qualche torrentello, due innamorati che amoreggiano mentre le pecorelle brucano l’ erba e il cane, discreto, complice, li sostituisce nella guardia del gregge. Vi sono descritti amori veri, amori infranti, amori infelici e tutti di una stupefacente realtà. Sembra di leggere le pagine dell’ ”Arcadia” di Sannazzaro o delle “Georgiche” di Virgilio o di altri autori antichi greci e latini. E perché non evidenziarlo? Vi ritroviamo anche personaggi delle fiabe dei Grimm e di Perrault e di altri scrittori per l’infanzia. Ed ora riassumiamo, in breve, il racconto “Fiori di Lillà”, ovvero “L’albero parlante”. E’ una splendida giornata di maggio. C’è aria di festa intorno. La natura ha indossato di nuovo il suo vestito di erbe fresche e fiori variopinti e il sole, più alto, diffonde ovunque, benefico, i suoi raggi più caldi e più luminosi. Le rondini si sbizzarriscono in voli sfrenati e riempiono il cielo di allegri garriti, le rane emettono assordanti gracidii sui bordi degli stagni e i giovani, entusiasti del ritorno della primavera, si cimentano nei primi tuffi nelle acque azzurre, e ancora un po’ fredde, del mare. In un lontano paese di collina un pastorello, sdraiato all’ombra d’una quercia della “Valle della Cornacchia”, mentre controlla il gregge che bruca avido l’erba novella, mette in moto la sua fantasia e pensa al suo futuro: riuscirà a realizzarsi nei sogni, nei suoi progetti? Il terreno, in contrada “Crocetta”, di fronte al paesello, fertile e soleggiato, è coltivato a frumento. Nel mese di giugno il raccolto e la mondatura del grano sono affidati a gruppi di ragazze le quali, con i loro canti, rallegrano, a distanza, tutto il circondario. Un po’ più lontano, invece, c’è il mare presso il quale affluiscono, ogni anno,
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migliaia di turisti. Nel paesello si sono stabiliti due giovani sposi con la loro graziosa bimba i quali abitano in un edificio che sorge su un pendio che si protende verso il mare. L’originalità della struttura e le nenie che la mamma canta alla figlioletta hanno attirato l’attenzione dei turisti i quali si succedono senza interruzione nella casa e sostano delle ore nell’ampio giardino divenuto anche parco-giochi dei bambini. La bambina cresce, bella e florida. Un brutto giorno il papà muore. La vedova se ne torna, con la pargoletta, nel borgo natio. In questo paese si crede alle streghe e al loro potere malefico: di notte rubano i bambini e li trasformano in animali o in alberi. Per impedire che possano farlo, devono contare i fili della scopa che ogni mamma, di sera, mette dietro l’uscio. Quella sera la donna dimenticò di porre la scopa dietro la porta e così la strega entrò e rubò la bambina, la portò in giardino e la trasformò in alberello di Lillà. Grande fu il dolore della povera mamma. Si rivolse subito ad Aristea che era creduta strega, ma questa non era tale. In sogno seppe quanto era accaduto. Abbracciò l’albero di Lillà e gli prodigò tutte le cure necessarie. La stessa cosa fece Giovannino, il suo nuovo compagno, il quale piantò un melograno lì vicino. Dopo qualche tempo fu la fata Mellina, che abitava in un castello con il principe Zurlino, a ridare al Lillà le sembianze umane. La ragazza riprese le sue consuete abitudini. Di lei s’innamorò un pastorello, ma il giardiniere Giovannino impediva a questi di avvicinarsi alla fanciulla. Ancora una volta fu la fata Mellina ad operare la trasformazione. Dopo altre peripezie, incontrò il pastorello Gelsomino e si sentì felice. In questo fu aiutata dalla musa Calliope che consigliò i due innamorati di proseguire il cammino verso la “Vetta”, ultima meta ambita dove c’era un mondo mitico ornato di fiori , piante straordinarie e odorosi allori e dove benemerenze poetiche sarebbero state loro concesse dall’alto del Parnaso. Così come sempre, anche questo racconto si conclude con una “Vetta” “a un passo da raggiungere”: è la “Vetta del Parnaso”, metafora dell’ideale artistico che il nostro autore s’è prefisso di realizzare ed ha quasi raggiunto, anzi, ha toccato grazie alla sua stragrande produzione e alla sua notorietà. Antonia Izzi Rufo
DOMENICO STARNONE SCHERZETTO Einaudi, 2016 - Pagg. 164, €17,50 I fantasmi fanno il nido nel futuro Domenico Starnone è attualmente uno dei più brillanti scrittori italiani, nasce a Napoli nel 1943, è
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stato insegnante e redattore delle pagine culturali de “Il manifesto”. Ha scritto racconti e romanzi sulla vita scolastica da cui sono stati tratti : “La scuola” di Daniele Lucchetti, “Auguri Professore” di Riccardo Milani e “Fuori classe” che è una serie televisiva. Nel 2001 ha vinto il Premio Strega con il romanzo “Via Gemito” e nel 2005 il Premio Castiglioncello con “L'abilità”. In questo romanzo narra di un uomo, Daniele Mallarico, stanco fisicamente e psicologicamente, che esamina gli istanti della sua vita attraverso la convivenza forzata di quattro giorni con il nipotino, nella casa che un tempo era la sua. L'uomo da vent'anni vive a Milano e torna a Napoli controvoglia, per aiutare la figlia Betta che si trova ad un convegno universitario insieme al marito, sforzandosi di salvare quello che rimane del loro matrimonio: “e mia figlia, la mia unica figlia, che mi aveva imprigionato senza che me ne rendessi conto nel ruolo del vecchio nonno”. Nell'arco di questi quattro giorni, il nonno ed il nipote imparano a conoscersi, a rispettare i propri spazi, qualche volta a vivere teneri momenti, ma quasi mai riescono a tollerarsi.Tornando a Napoli, investito dalla potenza dei ricordi, dei successi, ma anche dalle sue mancanze, tenta di lavorare ad un racconto. L'impatto con i luoghi dell'infanzia e della vita matrimoniale, lo portano a rimettere tutto in discussione, anche la sua creatività. I disegni che lui riteneva eccellenti, ora gli paiono mediocri. L'autore scompone in piccoli fotogrammi e con dei flashback la vita del protagonista: l'infanzia, la vita con la moglie, il ruolo di padre, di nonno e quello di illustratore, dando al lettore la chiave per poter carpire il senso di una vita forse troppo caotica e veloce, che rende Mallarico troppo distante e troppo manchevole da tutti i punti di vista. Starnone con la sua capacità linguistica ed il suo potere comunicativo, ci costringe, attraverso l'ironia di un gioco al massacro con il nipote, a ragionare sul senso della vita. E' un romanzo in cui si esaminano i rapporti familiari: le relazioni tra un uomo anziano egoista, solo da troppo tempo, la sua unica figlia che non vede mai ed il suo nipotino, preciso, forbito, che desidera solo giocare: “Quanto parlava, quella mattina, e con quale proprietà”; La storia si dispiega in una battaglia tra la rabbia di invecchiare e la fiducia prorompente nel futuro. Il romanzo è scorrevole grazie all'abilità narrativa e colloquiale del suo autore. Ci sono momenti esilaranti nei dialoghi tra i due: “Mio padre ti dà un pugno”, “ A tuo padre, se gli faccio buh, si caca sotto” [...]“Non sapevo se avevo mai riso così, di sicuro non ne avevo memoria”; [...]Si trattava ora di fare il
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cavallo. Dovetti mettermi, soffiando e gemendo, a quattro zampe. Mi si arrampicò addosso, si sistemò a cavalcioni e tenendomi per il pullover passò a darmi ordini di grande competenza: al passo, al trotto, al galoppo. Se tardavo ad obbedirgli mi assestava colpi nelle costole coi talloni strillando: al galoppo ho detto, sei sordo?” Lo scrittore ci stimola, pagina dopo pagina, a continuare la lettura; è un'altalena di emozioni tra la paura e lo smarrimento del vecchio artista: “Di quel lavoro avrei bisogno, e non per il denaro – ma perché mi spaventava sentirmi senza urgenze lavorative. Erano almeno cinquant'anni che passavo da una scadenza all'altra, sempre sotto pressione, e l'ansia di non riuscire a far fronte degnamente a questo o a quello, cui seguiva poi il piacere di avercela fatta con successo, era un'altalena senza la quale – me lo confessai finalmente con chiarezza – soffrivo a immaginarmi” ma anche la forza incontenibile dell' ingenuità e del talento del giovane nipote. Lo scherzetto vero e proprio, infatti, prende vita, quando Mario disegna per il nonno. E' un disegno bellissimo, fatto inconsapevolmente dal bambino: “Non capiva nemmeno ciò che aveva disegnato e colorato poco prima”, che il nonno avverte come una crudeltà verso il suo amor proprio, il suo essere artista, ma anche e soprattutto verso la sua esistenza che è prossima a finire. Il vecchio illustratore che sta perdendo la sua scintilla artistica ed il suo ruolo nella società, si sente inerme, inutile di fronte alla bravura del bambino che con naturalezza e con estrema facilità gli dona un disegno migliore del suo. E' uno scontro di generazioni, il vecchio deve cedere al giovane. Il nonno pensa ad un futuro prossimo, in cui lui non ci sarà più e alla vacuità di tutte quelle cose che ora gli paiono importanti, ma che andranno perse insieme alla sua esistenza: “I fantasmi fanno il nido nel futuro” . Manuela Mazzola
FABIO DE AGOSTINI CERCANDO DILÀ Fondazione Pro Helvetia, 2006 - Pagg. 96 Dello scrittore regista di cinema e teatro Fabio De Agostini ho letto “Cercando dilà”, libro di narrativa che racconta, tutto in terza persona, le vicende/esperienze immaginarie e forse anche reali, vissute durante un coma/pre-morte (in seguito ad un infarto reale) dal protagonista che “di qua” (cioè del mondo reale) si chiama Fabio, il quale si sdoppia in Effe oppure F. “di là”(cioè nel mondo ultraterreno), ma sempre dell’Autore si tratta. Egli è contempora-
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neamente regista – davanti la macchina da presa – e attore, dietro la stessa macchina. Innanzitutto – egli dice - che non ci si accorge del momento del trapasso, per cui si crede di vivere, ma si è già morti, come fosse un inganno. “Di là”, non c’è sensazione fisica del proprio esistere; ci si trova in uno strano spazio/tempo, simile al sogno, in cui sembra di essere vivi, se pure in modo diverso. Effe – di là - si sente solo e vorrebbe anche se per un attimo, tornare in vita dalla moglie Lì, ma sa che non è possibile. Una ”Voce” gli fa da guida, mentre con una carta - tipo bancomat – può girare liberamente osservando tutto ciò che gli sta attorno: treni, carri, auto, arene: tutti colmi di gente incidentata, insanguinata, urlante. Poi gli appare un prato-cimitero di bambini semivivi mai nati, neonati, fra i quali gli sembra di vedere il suo bambino (l’Autore, in realtà, non ha avuto figli). Poi ancora, vede il Limbo e il Purgatorio “prigione temporanea”. Abituandosi a poco a poco a stare in quel posto, il “di qua” per lui diventa dove sta, e il “di là” è il mondo reale! Contemporaneamente, il protagonista fa alcune considerazioni, ricordando una sua teoria filosofica, il “Pensiero Incongruo”, per cui in noi esistono insieme razionalità e caos istintuale. Egli si autodefinisce agnostico, in quanto troppe domande esistenziali non hanno risposta. Sa che chi nasce, inevitabilmente morirà, per cui preferirebbe essere un seme-embrione senza vita, che si annienta: ma capisce che non è possibile e che bisogna accettare la vita e la morte. Egli, pensando intensamente a suo padre – morto molto tempo prima – lo sente così vicino, da sentirsi lui stesso il proprio padre, in una specie di metempsicosi, in cui lo spirito vitale passa da un corpo all’altro. Egli inoltre suppone che l’ antimateria possa essere un componente dello spirito, del pensiero. Qua e là, egli cita Socrate (saper di non sapere), Dante (l’Inferno), Kafka (Metamorfosi). E’ contro le guerre, il vandalismo, la droga, il globalismo, l’ indifferenza. Il libro termina col suo risveglio dal coma, in ospedale, accanto alla moglie Lì che gli parla stringendogli la mano. Riporto le parole del testo: < Fabio pensa che è tornato di qua. – Dove sono?Cerca di sorridere: - Scherzavo – mormora.” > Quante altre riflessioni troviamo in quest’opera anche in appendice – che sembrano delle massime. Ad esempio, quando muore un proprio famigliare, si pensa o anche alla propria morte, oppure all’ immortalità dell’amore per chi è morto. Ancora: l’arte, la cultura e l’amore esprimono il vertice del senso della vita.
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Il lavoro dall’inizio alla fine è condotto con grande logica e coerenza, accompagnate anche da trovate argute e volutamente assurde, da un senso di ironia, soprattutto nell’ambivalenza e nell’equivoco dei “di qua” e “di là”. Maria Antonietta Mòsele MARGHERITA PORETE LO SPECCHIO DELLE ANIME SEMPLICI Testo medio francese a fronte - Traduzione di Giovanna Fozzer, Introduzione e note di Marco Vannini - Edizioni Le Lettere, Firenze 2018, € 24,50 Giovanna Fozzer e Marco Vannini si sono messi nuovamente alla prova su Le Miroir (Mirouer) des simples ames anienties et qui seulement demeurent en vouloir et desir d'amour, che nella sintesi italiana dà Lo specchio delle anime semplici, della giovane Margherita Porete, contemporanea di Dante ed arsa al fuoco vivo con questo suo libro il 1 giugno 1310, a Parigi. La prima edizione risale al 1994, per la San Paolo di Cinisello Balsamo, nella quale compare la 'Prefazione storica' di Romana Guarnieri, grande erudita alla quale farò riferimento, come consiglia M. Vannini nell'Introduzione (pp. 6-42), per capire con maggiori dettagli tutto il percorso della vicenda che ruota intorno a Margherita, alla sua nobile anima di giovane attenta alla vita dello Spirito, al suo canto che tanti problemi seri ha dato alla 'chiesa piccola', come lei stessa definisce la struttura ecclesiastica del suo tempo. Se ci si lascia sprofondare in questo testo medio francese, ricorrendo poi anche, se si vuole, alla ottima traduzione di G. Fozzer, perché antico e più 'vocalico' rispetto al francese contemporaneo, ma ben comprensibile, emerge come la narrativa in dialogo di voci sincere ti accompagni in questo percorso: L'Ame, L'Aucteur, L'Amour, Le Divin Droit, La Verité, La Courtoisie, L'Entendement de Divine Lumiere, La Saincte Eglise la Petite, Le Saint Esperit e altri protagonisti a cui Margherita dà voce e fremiti di tenera ed appassionata ricerca nella variata alternanza di interventi che, ben dosati e limpidamente esposti, compongono i 122 capitoli, tutti introdotti da breve sintesi di approccio, per il lettore. Tale intreccio di voci che incarnano il nobile, semplice percorso verso l'Anima che, pura e resa niente d'altro per riflettere come specchio la luce di Dio, fa pensare, come ben sottolinea G. Fozzer in Specchio di grazia e conoscenza (pp. 43-59), la cui traduzione emana adesione anche spirituale al testo, assai coinvolgente, ad una rappresentazione scenica: “...Anche Margherita Porete, nel suo Specchio delle anime semplici, fa appello non di rado agli 'ascoltatori di que-
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sto libro' (cap. 59,28), o riferimento agli 'uditori che leggeranno questo libro' (cap. 37, 31) e sappiamo che di diffondere e 'leggere' ad altri il libro le fu fatto divieto che giunse fino al rogo. Vi sono nel libro passi che potrebbero far pensare a una lettura a più voci o almeno a una sola voce che facesse uso d'inflessioni e di toni differenziati per caratterizzare meglio i singoli personaggi; né è difficile immaginare che le canzoni e certe chiuse rimate fossero anche cantate. Comunque, all'epoca di Margherita si dava grande importanza alla lettura ad alta voce, anche da parte di un singolo 'attante', con un effetto di pause e di sospensioni, di rallentando ed accelerando, d'accenti, di ritmi e d'inflessioni: una lettura ben diversa da quella silenziosa a cui siamo abituati noi. La vivezza del dibattito tra 'Amore', 'Ragione', e 'Anima', ne Lo Specchio ha talvolta movenze teatrali di gioco scenico, per la coloritura drammatica e ironica dei personaggi...” (G. Fozzer, Specchio di grazia e conoscenza, in Lo Specchio delle anime semplici, op. cit. pag. 43). Margherita Porete ha il coraggio della perfetta e gioiosa letizia che viene offerta alle anime libere, come dunque testimonia Lo specchio delle anime semplici (pp. 76-457). Un esempio a caso, in scrittura originale, stimolante e fonte di riflessione talora ardita: LXXIIJ CHAPPITRE Comment il convient mourir l'esperit ainçoys qu'il perde sa voulenté [Raison] - Hee, pour Dieu, dit Raison, dame Amour, je vous prie que vous me diez pourquoy il convient l'esperit mourir ains que il perde sa voulenté. Amour - Pource, dit Amour, que l'esperit est tout rempliz d'espirituelle voulenté, et nul ne peut vivre de vie divine tant comme il ait voulenté, ne avoir souffisance, se il n'a voulenté perdue. Ne jusques ad ce n'est l'esperit parfaictement mort, qu'il ait perdue le sentement de son amour, et la voulenté mort, qui vie luy donnoit, et en ceste perte est le vouloir parfaictement rempli par souffisance de divine plaisance. Et en telle mort croist la sourmontant vie qui est tousjours ou franche ou glorieuse...” (M. Porete, op. cit. pp. 268-270). Termini illuminati che aprono piccole porte attraverso le quali passa la luce della Volontà Divina e qui la Verità mette alla prova l'Anima, quasi le fa un esame a resoconto poetico che richiede risposte come passaggi progressivi, verificabili e proponibili come esercizi dello spirito: la volontà soggettiva, individuale, deve morire per lasciare spazio a ciò che la riempirà oltre il suo possibile stesso. Tale è il divino piacere di dare libertà e gioia, come Margherita stessa promette a tutti coloro che, perplessi, si
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mettono in cammino alla ricerca del paese della libertà: ICY S'ENSUIVENT AUCUNS REGARS POUR CUELX QUI SONT EN L'ESTRE DES MARRIZ, QUI DEMANDENT LA VOYE DU PAYS DE FRANCHISE (dal cap.123 al cap.139). Il testo va capito e tutto converge, mirabilmente a questo scopo: la Scheda Biografica (pp. 61-62), la Nota Bibliografica, nella quale veniamo a conoscenza che '… Alla fine del sec. XV risale l'unico ms francese, F XIV 26, conservato a Chantilly, Musée Condé, di cui Romana Guarnieri, ha dato l'edizione diplomatica (vedi infra 3), ripubblicata poi a fronte dell'ed. critica latina di Paul Verdeyen...' (pp. 63-71), l'Addendum (p. 73), che elenca le opere presenti nelle ricche note al testo, la Nota della traduttrice (p. 75). Libertà, dimensione viva d'esperienza, da costruire percorrendo a piedi la strada indicata da Margherita Porete, giovane saggia, dottissima, dall'anima elegante e nobile, finemente e riccamente ornata da Dio stesso: questo lo Specchio delle anime semplici, il suo grande dono. Ilia Pedrina
D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE LUCIANA VASILE PREMIATA IN CALABRIA E PUBBLICATA DAL CORRIERE DELLA SERA - La nostra collaboratrice romana Luciana Vasile è stata superpremiata, domenica 19 agosto 2018, in Calabria al Concorso Internazionale Salvatore Quasimodo per il cinquantenario della morte (fra tutte le sezioni circa cinquemila partecipanti). Le sono stati assegnati ben tre premi in tre sezioni: Libro edito di poesie: recente pubblica-
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zione LIBERTA’ attraverso Eros Filia Agape; Libro edito di racconti: DANZADELSE; Racconto inedito: DICOTOMIA. Uno stralcio/sintesi del racconto è uscito lo scorso 3 agosto sul Corriere della Sera nella RUBRICA SessoeAmore a firma “Ludovica”. I nostri complimenti alla bravissima e straordinaria Luciana. *** RICORDO DI SILVANO DEMARCHI - Carissimo Domenico, ti comunico che l’amico scrittore, poeta, teosofo e filosofo Silvano Demarchi, a te ben noto, non è più tra noi. A comunicarmi il suo decesso è stato il nipote Dott. Carlo Bertorelle, direttore della rivista letteraria “Il Cristallo”, aggiungendo il comunicato stampa da lui diramato alla stampa locale e leggibile sul sito Web www. altoadigecultura.org, che allego. A lui, nel 2011, dedicai la monografia “La militanza letteraria di Silvano Demarchi dall’esordio a oggi” (edizioni Cronache Italiane Salerno, pagg. 225). Un abbraccio. Antonio Crecchia e-mail del 29 agosto 2018 La morte di Silvano Demarchi (23 agosto 2018) - Silvano Demarchi ci ha lasciati la sera di due giorni fa, dopo una breve malattia. Negli ultimi anni si era ritirato per le condizioni precarie della salute e aveva smesso la sua ricerca poetica e letteraria, non senza aver dato alle stampe le ultime raccolte di poesia e gli ultimi saggi filosofici e satirici. Faceva parte del comitato direttivo del Centro di cultura dell'Alto Adige da circa due decenni, ma la sua presenza sulle pagine de “Il Cristallo” è stata praticamente continua fin dalle origini della rivista:
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scrittore che ha arricchito intensamente la cultura anche dell'Alto Adige, con l'auspicio che la sua figura e le sue opere siano conosciute anche dalle generazioni più giovani. Giorgio Negri - presidente del Centro di cultura dell'Alto Adige Carlo Bertorelle - direttore della rivista “Il Cristallo” Bolzano, 25 agosto 2018
con saggi estetici e di critica letteraria sugli antichi e sui contemporanei, con analisi e traduzioni della lirica tedesca, con recensioni e commenti. Questa è stata solo una parte delle attività locali del poeta e scrittore, che era nato nel 1931; la sua versatile creatività lo aveva portato a contatti ed esperienze in varie città d'Italia e d'Europa, dove aveva ottenuto numerosi riconoscimenti e premi letterari. La sua linea poetica, legata al “gruppo di Rapallo” e alla figura, tra gli altri, di Aldo Capasso, si può ricondurre a quello che viene definito il realismo lirico. Più di 16 raccolte poetiche (a partire da Una stagione, uscita da Rebellato nel 1968) e varie opere di narrativa, oltre alla saggistica e alle traduzioni gli sono valsi i molti riconoscimenti, certamente non ricercati per il carattere schivo e poco incline ad ogni tipo di pubblicità. E' stato senza dubbio il punto di riferimento più significativo della pattuglia di poeti altoatesini che dagli anni Settanta si è raccolto attorno alla rivista “Latmag” e all'Associazione scrittori altoatesini. Esprimiamo gratitudine e cordoglio per la perdita di Silvano Demarchi, insigne studioso, intellettuale e
A ricordarlo degnamente in questo numero è la nostra preziosa collaboratrice Liliana Porro Andriuoli, che su Demarchi, in passato, ha scritto molto. Le opere di De Marchi sono numerose, sia in prosa che in poesia. A proposito di poesia, l’abbiamo anche invitato alcune volte a partecipare con una sua silloge al Premio Internazionale Letterario Città di Pomezia, da noi gestito fino all’anno scorso. “Caro prof. Defelice - ci scriveva da Bolzano il 20 marzo 2005 -, La ringrazio per l’invito a partecipare al Premio Città di Pomezia, ma al momento ho tutte cose già edite. Colgo l’occasione per esprimerle i più sinceri auguri pasquali. Silvano Demarchi”. E il 21 aprile 2010, sempre da Bolzano: “Eg. Dr. Domenico Defelice, con riferimento alla mia ultima lettera in cui dicevo che avrei partecipato al “Premio Pomezia”, (…), disdico quanto ho scritto, non inviando le poesie, in quanto sono in attesa di un imminente ricovero che non so quanto duri. Ho quindi altri pensieri! Voglia scusare e gradire un cordiale saluto, Silvano Demarchi”. Lettere e cartoline, le sue, sempre stringate, senza fronzoli, miranti all’essenziale: “Eg. e caro dr. Defelice - ci scriveva il 14 ottobre 2010 -, La ringrazio di cuore per la bella e articolata recensione che ha voluto dedicare al saggio di Lilina Porro Andriuoli sulla mia narrativa…”. Alcune delle sue lettere sono state da noi donate a Biblioteche pubbliche (almeno cinque, per esempio, sono in quella di Pomezia). (D. Defelice) *** ANCORA RICONOSCIMENTI A MARIAGINA BONCIANI - Caro Domenico - ci scrive il 18 settembre 2018 -, anche questo mese POMEZIANOTIZIE mi è giunta tempestivamente, con la mia poesia e con altri articoli interessanti e belli (De Rosa, Selvaggi ...) e altrettanto belle poesie (Giovanna Li Volti Guzzetti, Teresinka Pereira...) Non posso citare tutti, anche se tutti i tuoi collaboratori sono eccezionali. Lunga vita a questa bella rivista. (…). Giorni fa ho avuto comunicazione che il mio libro "SOGNI" , col quale ho partecipato al premio "Poesia, Prosa e Arti Figurative" è stato dichiarato dal CONVIVIO "Libro d'Argento 2018" e che con due poesie ("All'ultima ombra" e "Viene la poesia")
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sono arrivata finalista al Premio "Massa città fiabesca 2018". Scrivere poesie è piacevole, (…). Mariagina *** PRESENTAZIONE DEL VOLUME “DAVVERO COSTUI ERA FIGLIO DI DIO!” - Saba-
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to 6 ottobre 2018, alle ore 17.30 al Circolo FANIN di Figline Valdarno, via Magherini Graziani, 3, presentazione del libro del Preside dell’Accademia de’ Nobili, Prof. Marcello Falletti di Villafalletto, dal titolo "Davvero costui era Figlio di Dio! (Mt 27,54)", Anscarichae Domus Accademia Collegio de' Nobili Editore, Novembre 2017. Dopo il Saluto da parte del Presidente del Circolo: Arch. Giovanni Manuelli, le dotte e approfondite relazioni sono state del Rev.do Dott. Don Carmelo Mezzasalma, della Comunità di San Leolino di Panzano in Chianti, e della Dott.ssa Carla Battistini. Ricordiamo che, dell’interessante opera, Pomezia-Notizie se n’è già interessata con gli interventi di Domenico Defelice e del prof. Tito Cauchi, rispettivamente nei numeri di maggio e di agosto di quest’anno. *** MOSTRA PERSONALE DI FLAVIO GIOIA L’Associazione Coloni Fondatori di Pomezia, con il proprio settore artistico “La Spiga d’Oro”, ha organizzato la personale d’arte del pittore Flavio Gioia. La mostra, presentata da Umberto, figlio dell’autore scomparso, è stata allestita presso la piccola galleria d’Arte di Piazza Indipendenza 25, a Pomezia. La rassegna artistica, di chiara linea classica e paesaggistica, è stata inaugurata sabato 22 settembre 2018 alle ore 17, con il classico taglio del nastro tricolore da parte degli artisti alla presenza del Presidente dell’Associazione Coloni, della Coordinatrice della Spiga d’Oro e dei tanti amanti dell’arte e della cultura del territorio. L’esposizione delle opere si è protratta dal 22 settembre al 2 ottobre 2018 ed è stata visitata da centinaia di cittadini.
CI RITROVIAMO A SERA Ogni alba ci parve ristoro alla nostra fatica. Poi che ci illudemmo ancora trovare in noi e nelle cose un nuovo senso d’amore. Ma caduto di nuovo il peso del giorno, ci ritrovammo a sera soli a trascinare - sotto archi di stelle la pena che mai ad alcuno dicemmo sigillata nel cuore. Franco Saccà Da: Domenico Defelice - Franco Saccà poeta ecologico - Ed. Pomezia-Notizie, 1980.
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LIBRI RICEVUTI PIETRO NIGRO - Paul Valéry (In appendice: Paul Valéry, l’amateur de poèmes) - Tindari Edizioni, 2009 - Pagg. 122, € 10,00. ** PIETRO NIGRO - I preludi - Vol. V - Prefazione di Giuseppe Manitta - In copertina, Pietro Nigro al Teatro Romano di Lyon (Francia) nell’agosto 1960 - All’interno, altre 27 foto in bianco e nero - Il Convivio Editore, 2017 - Pagg. 152, € 14,00. Pietro NIGRO è nato ad Avola (Siracusa) l’undici luglio 1939 e risiede a Noto (SR). Ha insegnato Inglese nei Licei. Presente in Dizionari di Autori Italiani, in Storie della Letteratura Italiana e in molte Antologie. Ha vinto Premi importanti e di lui si sono interessati qualificati critici, come Giorgio Bàrberi Squarotti, Leone Piccioni, Lucio Zinna eccetera. Tra le sue opere: Il deserto e il cactus (1982), Versi sparsi (1960 - 1987) (1988), Miraggi (1989), L’attimo e l’infinito (1995), Alfa e Omega (1999), Altri versi sparsi (2001), Riverberi e 9 Canti parigini (2003), Astronavi dell’anima (2003), I Preludi (vol. I, 2003 ?), I preludi (dagli “Scritti giovanili”) volume II (Pensieri - Racconti - Poesie -, 2005). *** ADA DE JUDICIBUS LISENA - Omaggio a Molfetta nel Centenario dell’Università Popolare Molfettese - Terza Edizione - Presentazioni di Giovanni De Gennaro e Gianni Antonio Palumbo; in copertina, a colori, “Labirinto di scale”, olio su tela (cm 80 x 100) di Marisa Carabellese - Edizioni La Nuova Mezzina, Molfetta, 2017 - Pagg. 202, s. i. p.. Ada DE JUDICIBUS LISENA è nata e risiede a Molfetta. Laureata in Lettere Classiche, ha insegnato nelle Scuole Superiori della sua città. In poesia ha pubblicato: Versi (1983), Fiori di campo (1984), L’inquieto fluire del tempo (1984), La cortina dei cedri (1986), Questo ritmo sommesso (1989), Note ai margini di una pena (1991), Quasi un diario (1992), Il dolore, il sorriso (1995), Poesie 1980 - 1996, La pioggia imminente (2000), Omaggio a Molfetta nel centenario dell’Università Popolare Molfettese (2002, prima edizione), Segno d’ aria (2003), I musici di Haudin (2015). ** CARLO DI LIETO - Corrado Calabrò e “La materia dei sogni” - Prefazione di Antonio Filippetti, Introduzione di Lorenza Rocco; in prima di copertina, a colori, “La donna e il mare nella poesia di Corrado Calabrò”, di Vanni Rinaldi; in quarta, a colori, “Venere dormiente”, di Giorgione; nella prima bandella, a colori, foto di Di Lieto e Calabrò; tante
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le illustrazioni in bianco e nero all’interno - Roberto Vallardi Editore, 2018 - Pagg. 392, € 15,00. Carlo DI LIETO vive e lavora a Napoli. Docente di Letteratura italiana presso l’Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa” di Napoli, è assiduo collaboratore delle riviste “Ariel”, “Misure Critiche”, “Riscontri”, “Silarus”, “Vernice”, “Nuova Antologia” e fa parte della Redazione di “Gradiva”, oltre che di “Vernice” e de “Il Pensiero Poetante”. Ha a suo attivo pubblicazioni inerenti al rapporto Letteratura/Psicanalisi e saggi critici, in chiave psicanalitica, sulla produzione pirandelliana, su Carducci, Leopardi e Pascoli, sulla poesia Otto-Novecento e su quella contemporanea. Critico militante, collabora a quotidiani con articoli letterari. Inoltre, ha scritto saggi su Papini, Bonaviri, Colucci, Mazzella, Calabrò e Fontanella e le seguenti monografie: “Pirandello e <la coscienza captiva>” (2006), “La scrittura e la malattia. Come leggere in chiave psicanalitica <I fuochi di Sant’Elmo> su Carlo Felice Colucci” (2006), “L’identità perduta”. Pirandello e la psicanalisi” (2007), “Pirandello Binet e “Les altérations de la personnalité” (2008), “Il romanzo familiare del Pascoli delitto, “passione” e delirio” (2008), “Francesco Gaeta la morte la voluttà e “i beffardi spiriti” “ (2010), “La bella Afasia”, Cinquant’anni di poesia e scrittura in Campania (1960 2010) un’indagine psicanalitica” (2011), “Luigi Pirandello pittore” (2012), “Psicoestetica” il piacere dell’analisi” (2012), “Leopardi e il “mal di Napoli” (1833 - 1837) una “nuova” vita in “esilio acerbissimo” (2014), “La donna e il mare. Gli archetipi della scrittura di Corrado Calabrò” (2016). Vincitore per la saggistica del 1° Premio del XLI Premio Letterario Nazionale, “Silarus” 2009, del 1° Premio Letterario internazionale 12a edizione “Premio Minturnae” 2009 e del 1° Premio Letterario Internazionale per la saggistica “Emily Dickinson”, XVII edizione 2013-2014. Componente della giuria del “Premio Corrado Ruggiero”, per la poesia e la narrativa italiana; socio dell’Accademia Internazionale “Il Convivio” e dell’Unione Nazionale Scrittori e Artisti. I suoi testi sono in adozione presso l’Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa” di Napoli, l’ Accademia di Belle Arti di Napoli e presso la Cattedra di Lingua e Letteratura italiana dell’Università Statale di New York. Dirige la collana “Letteratura e Psicanalisi” della Genesi Editrice e dal 2013 è componente la giuria del Premio Nazionale di Poesia, Narrativa e Saggistica “I Murazzi”. ** FABIO DE AGOSTINI - Il breve passo - Romanzo, Prefazione di Grytzko Mascioni; in copertina, a colori, particolare di “Euridice”, di Mario Sironi; in
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prima bandella, ritratto dell’autore a firma di Vincenzo Travi - Edizioni Edelweiss, 1985 - Pagg. 160, s. i. p. Fabio DE AGOSTINI, morto di recente, era nato a Viù, il 12 ottobre 1926. Giornalista e autore di documentari. Dal 1947 al 1955 assistente per lungometraggi presso autori e registi come Mario Bonnard, Géza von Radvànui, Joseph Losey, Sergio Grieco, Giacomo Gentilomo. Dal 1959 ha scritto sceneggiature per molti firms, adattamenti radiofonici (La Califfa di A. Bevilacqua, Carta d’autunno di G. Mascioni, Il Gioco del Monopoly di G. Orelli eccetera), teatro (Giorno dopo notte giorno dopo, Il futile motivo, I vostri giorni, Bang amore sul muro del suono, Notoriamente, L’ ingorgo, E del potere le segrete stanze, La pelle del presidente, Ipotesi donna eccetera) e molti romanzi, tra cui: Smolny, Solstizio di tenebre, Il breve passo (1985), I promessi sposi degli anni quaranta (1988), Forse un sogno (1996), AmOressia (1998), La deriva di Paolo K. (2000), Le bolle visionarie del suo periodo ipotetico (2004) eccetera. ** FABIO DE AGOSTINI - I promessi sposi degli anni quaranta - Edizioni Edelweiss, 1988 - Pagg. 188, s. i. p. ** FABIO DE AGOSTINI - Forse un sogno - Ed. Il Ventaglio, 1996 - Pagg. 136, L. 24.000. ** FABIO DE AGOSTINI - La deriva di Paolo K. In copertina, “Il doppio segreto” di René Magritte ARLEM Editore, 2000 - Pagg. 174, L. 26.000. ** FABIO DE AGOSTINI - Le bolle visionarie del suo periodo ipotetico - In copertina, a colori, “Giano”, acrilico di Vincenzo Travi - Grafica 891 srl, Roma, 2004 - Pagg. 174, € 8,00. ** Padre MAURO MARIA MORFINO - Fasce e sfasci - Foto di copertina e descrizione a cura di Federico Ledda - Pagg. 16, s. i. p.
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 20/9/2018 Trump, alla Spagna e all’Europa: per fermare il flusso dei migranti, “costruite un muro nel Sahara”. Alleluia! Alleluia! Nella sua testa, masso informe, egli non ha che muri e chiusure. Domenico Defelice
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TRA LE RIVISTE IL FOGLIO VOLANTE/La Flugfolio - Mensile letterario di cultura varia fondato da Amerigo Iannacone, diretto da Raffaele Calcabrina, direttore di redazione Giuseppe Napolitano - via Annunziata Lunga 29 - 86079 Venafro - IS. ilfogliovolante@gmail.com - Riceviamo i numeri 5, 6, 7, 8, 9, rispettivamente dei mesi maggio, giugno luglio, agosto e settembre 2018. Tra le tante firme, quelle di nostri collaboratori, come: Isabella Michela Affinito, Antonia Izzi Rufo, Teresinka Pereira, Antonio Crecchia, Tito Cauchi (che traduce il russo Adolf P. Shedchikov) eccetera, oltre Giuseppe Napolitano e Antonio Vanni. * LA GAZZETTA DI BOLZANO - Periodico di informazione arte cultura attualità, diretto da Franco Latino, responsabile Eugen Galasso - Casella postale 96 - Bolzano 1 - 39100 Bolzano - Riceviamo il n. 49, dicembre 2017. * I POETI NELLA SOCIETÀ - Rivista letteraria, artistica e di informazione diretta da Girolamo Mennella, redattore capo Pasquale Francischetti - via Parrillo 7 - 80146 Napoli - E-mail: francischetti@alice.it - Riceviamo il n. 90, settembre-ottobre 2018, con le firme, a diverso titolo, di nostri collaboratori, tra cui: Anna Aita, Isabella Michela Affinito, Susanna Pelizza, Maurizio Di Palma.
IL PORTO NEL VENTO Sono tornate nuovamente le sere che con il mare agitato il traghetto tarda ad arrivare. Nel porto battuto dal vento gente che attende congiunti, amici, e il mare guardando che ribolle e il cielo nuvoloso, trepida. Ma ecco che sbattuto dai flutti il traghetto finalmente appare. Nessuno ha tempo, come altre sere, in fretta verso le case avviandosi, di ascoltare il venditore di castagne; nell’aria quel suo grido, il fumo che lo avvolge. Franco Saccà Da: Domenico Defelice - Franco Saccà poeta ecologico - Ed. Pomezia-Notizie, 1980.
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LETTERE IN DIREZIONE (Ilia Pedrina, da Vicenza) Bentornato, carissimo Amico, dalle meravigliose Terre di Sardegna, tra festeggiamenti di sponsali da fiaba e spazi infiniti, dai colori decisi, con profumi nell'aria ventosa che risvegliano i sensi! Vi ho pensato in intensa gioia condivisa e i vostri piccolini tra altri e tanti piccolini, sotto lo sguardo vigile e fiero di adulti innamorati. In tanti luoghi bellissimi dell'Italia e per tanti gruppi familiari i momenti così si moltiplicano senza misura se e solo se c'è rispetto per la forza interiore, per la dignità, per la vita vera delle Persone, che ha senso quando viene riconosciuta e difesa, non quando viene posta a livello di pura vita animale, di organismo vivente. Pensando a te che guardi lontananze, oltre il tuo hortus conclusus, ho trovato la tua testimonianza 'alleluiante' del giugno 2016, datata 26/4/1016: “L' Austria sta chiudendo il Brennero e pretende di controllare treni e auto sul territorio italiano. Alleluia! Alleluia! Inaudite tanta arroganza e sfacciataggine. E l'Italia che fa? Si lecca le ferite? Domenico Defelice” (Pomezia Notizie, cit. pag. 8). L'Austria controlla, la Svizzera controlla, l'Ungheria prende decisioni, la Romania non vuole entrare nell'Euro, che già sta impoverendo alla grande, il Regno Unito se ne esce dall'Europa dopo essere stato pagato e supplicato perché vi entri a far parte e l'Italia non solo non fa, non solo si lecca le ferite senza mostrare che sono ferite lacerate che portano dolori lancinanti, ma viene fatta oggetto di
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reprimenda-deprimenda che stento ancora a credere pensabili e possibili. A oltre due anni di distanza dal tuo grido, urlo che vuole scuotere, ecco pubblicata sul Giornale di Vicenza di martedì 11 settembre, a firma di Federico Guiglia, la riflessione su due colonne 'Se l'Onu accusa di razzismo', circa la decisione di Michelle Bachelet, ex presidente del Cile, ora Alto Commissario dell'Onu per i diritti umani, di mandare ispettori Onu in Italia per controllare la situazione sull'incremento di atti di intolleranza e di razzismo: egli ricorda che l'Italia, nella sua stessa Costituzione, precisa di riconoscere pari dignità a tutti, senza distinzioni di razza, “…ben vent'anni prima che gli Stati Uniti smantellassero la segregazione dei loro stessi connazionali di pelle nera. Il 'no al razzismo' è un principio di vita scolpito nella Repubblica. Ma la motivazione della missione speciale è da leggere. Perché si prenda di mira il divieto d'ingressi del governo italiano alle 'navi di soccorso Ong'. Come se i porti francesi e spagnoli, greci e maltesi fossero, invece, spalancati all'universo. Come se l'oggetto dolente fosse il transito lecito di persone libere, mentre il tema sollevato dai governi italiani è l'opposto: distribuire in tutta Europa chi scappa da guerra e fame... Gli ispettori andranno pure in Austria...”. L'Italia è la spina nel fianco di chi non accetta che qui, da noi, ancora, ci siano Persone libere di pensare, di riflettere sugli eventi individuali, familiari e collettivi, in grado di porre sul tappeto concrete soluzioni positive, con capacità previsionale ampia di connessioni dinamiche congiunte; che qui, da noi, ancora, si accetta di faticare per vivere, pur di rispettare le leggi e la Costituzione che le deve ispirare; che qui, da noi, ancora, si ha il coraggio di dire le cose come stanno nella realtà, ben prima che questa realtà venga falsata e costruita ad arte, virtualmente, per angosciare, sottomettere, annientare psicologicamente ogni possibile capacità di reazione e per uccidere, con fuoco amico o fuoco organizzato e premeditato fa lo stesso. Si chiama 'strategia della tensione', quel terrorismo psicologico che il nostro Codice Civile punisce come reato. Ti renderò
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ragione di quanto ti scrivo, carissimo, perché in questo nostro tempo, durissimo, ci sia un occhio vigile per questi fatti e l'altro, anzi tutti e due insieme, per cogliere la nostra Terra come Paradiso... L'occhio vigile allora potrebbe essere il nostro terzo occhio! Ti abbraccio, con tutto il cuore e con tutti e 'tre' gli occhi su questa tua storica ed appassionata voce vera per tutti, che ci consolerà raccontandoci l'altro mondo, quello della gioia, dell'amore famigliare, delle belle esperienze tra Amici. Ilia Carissima, povera nostra Italia avvilita, bistrattata, offesa, svillaneggiata, abusata! Viene il vomito dinanzi alla montagna d’ ipocrisia, a livello mondiale, nei nostri confronti. L’Italia accusata di nazismo e di razzismo e di ogni altra vigliaccheria e nefandezza, da coloro che il nazismo e il razzismo, le vigliaccherie e le nefandezze li praticano regolarmente tutti i giorni. L’ONU, nato per redimere le controversie e assicurare la pace universale, non ha mai adempiuto questo suo compito. Le guerre, nel mondo, sono all’ordine del giorno, come le violenze e le ingiustizie d’ogni genere. Forte coi deboli, debole coi forti, l’ONU si barcamena e si gingilla nelle burocrazie più abiette e inconcludenti e nei logorroici quanto vuoti conciliaboli, nei proclami da editto seicentesco, nei buchi neri delle ipocrisie. Dovrebbe autosciogliersi per incapacità se avesse un briciolo di orgoglio. La Francia non solo chiude le frontiere e i porti, ma, a Ventimiglia, per fare un esempio, i suoi gendarmi violano la nostra sovranità, entrano spavaldamente in territorio italiano per rincorrere e perquisire migranti indesiderati. Una plateale arroganza che, in altri tempi, di sicuro avrebbe scatenato una guerra. La Spagna sta quasi attaccata all’Africa. Sarebbe la rotta più facile, più svelta, meno pericolosa per arrivare in Europa. Ma lì non c’è folla, non arrivano barconi; le Or-
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ganizzazioni non governative - che lucrano sul traffico dei migranti, che non campano d’aria - non rovesciano i loro carichi di dolore. Perché? Perché la Spagna ha innalzato muri e reti altissime e la guardia civile non si fa tanti scrupoli se deve sparare sui disgraziati che tentano l’avventura. Vogliamo proseguire? Germania (è del 22 settembre scorso l’ultima notizia del suo gran cuore, della sua umanità aperta alla fraterna accoglienza: la decisione di espellere dal proprio territorio, tutti gli Italiani privi di lavoro!), Austria, Paesi Bassi, Paesi dell’ex Patto di Varsavia, Svezia, Norvegia, Olanda…Ognuno sta chiuso nel proprio egoismo, attentissimo ai propri interessi, sordo alle ragioni dell’Italia lasciata sola a sbrogliare l’intricata tela dell’immigrazione e non solo africana. Gli USA pretendono di esportare democrazia solo a loro uso e consumo e lo fanno da decenni a suon di bombe ed altri micidiali gingilli; la Cina fa man bassa di tutto, in Africa, rastrella ogni tipo di ricchezza, ma non aiuta a costruire e a migliorare, lasciando dietro sé il deserto; fa, insomma, tale e quale hanno fatto per secoli Francia, Spagna, Inghilterra e gli altri Paesi coloniali. Qui mi fermo, Carissima. Italia avvilita, bistrattata, offesa, svillaneggiata, abusata, senza che le tante nostre facce di gomma targate Pd, Forza Italia e centinaia di altre coloratissime sigle, sorte come funghi per divorare pubblica ricchezza -, alzino la voce per difenderla; la alzano per rincarare la dose, invece, dovendo far dispetto al Governo 5Stelle-Lega insediatosi da pochi mesi. Destra e Sinistra che, al potere per decenni, sono state sempre prone ai voleri e alle manovre di tutti gli altri Paesi europei che hanno sempre e solo agito - e continuano ad agire - per i propri interessi, sordi alle esigenze della casa comune. Sì, l’Italia, con costoro, ipocritamente era meno sbeffeggiata, ma perché muta, in ginocchio, accondiscendente ai voleri altrui dietro il compenso di qualche elemosina.
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L’Italia deve svolgere tutti e onestamente i propri compiti interni e internazionali; deve abbattere il suo mostruoso debito pubblico; deve ingaggiare una lotta all’ultimo sangue contro le cinque mafie che appestano il suo territorio; deve combattere la corruzione stratificata a ogni livello; poi, però, deve farsi rispettare ed è da considerarsi traditore colui che non la difende per meschini interessi elettorali o di bottega quando viene svillaneggiata ed attaccata dall’esterno. E vengo al principio della tua lettera, inviandomi la quale mi invitavi ad essere “generoso di notizie della [mia] esperienza in terra di Sardegna”. Lo faccio in modo succinto, anche perché, data l’età, non ho avuto e non ho sentito gli
entusiasmi degli altri viaggi nella stessa isola, per me sempre favolosa, quando vi scrissi perfino il poemetto To erase, please?. Dovevamo essere a Sassari solo per il matrimonio della nipote Carmen con un bravo giovane siciliano il 26 agosto; invece s’è deciso di partire prima, trascorrendovi più d’una settimana. Clelia ed io, Gabriella, suo marito Roberto e Riccardo, abbiamo pernottato nell’ Agroturismo “Il sogno di Alghero” (tre cani sempre tra i piedi perché coccolati, meglio: adottati da Riccardo; piscina in mezzo agli ulivi ed altre piante da frutto, giuggiole comprese!), cambiando ogni giorno, però, spiaggia e luoghi da visitare. Alghero è città stupenda, naturalmente invasa dai turisti - in particolare di lingua
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spagnola e portoghese -, con strade pulite, negozi splendi e ricchi, palazzi antichi e monumenti. Le spiagge dei dintorni, tutte favolose e affollate. Viaggiavamo la mattina presto. Alla guida, Roberto con a fianco Gabriella; dietro, Clelia, Riccardo nel mezzo ed io. Giornate intense, anche se, nei pomeriggi, quasi sempre acquazzoni. A sera, a cenare nei ristoranti, un po’ stanchi di sole e di chilometri, l’ animo colmo d’immagini indimenticabili. Tra i luoghi visitati, non posso non nominarti Bosa (il 19 agosto), con le sue stradine medievali, il suo alto Castello Malaspina, il fiume Temo. Il giorno dopo, tappa al nuraghe Santu Antine di Torralba, con il fosso circolare, i suoi massi enormi e ferrigni, i bui e inquietanti camminamenti, gli ambienti quasi da soffocare, i pozzi, le prigioni, le feritoie di possente fortezza a dominio del vasto e assolato territorio… Non ho potuto fare a meno di pensare alla vita che si svolgeva giorno e notte in entrambe le rocche (il castello, il nuraghe), le tante lotte cruente, i drammi, le carneficine, la durezza e la spietatezza della vita di allora e rapportare il tutto ai nostri giorni, quando le lotte e le spietatezze non sono di meno, solo che portano nomi diversi. In altri viaggi, in passato, sempre nell’isola, m’è venuto spontaneo dare spazio all’ironia e pensare a personaggi come Alpomo e Perfiria Malandera, o la maga Catabirro di Arturo dei colori. Stavolta non più, la mente, forse a causa dell’età, ancorata solo e sempre a tragedie e a dolori.
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Un giorno siamo stati anche a Stintino. Località bellissima, panorami mozzafiato, ma dove - a mio parere - si sta esagerando in materia di protezione dell’ambiente. Sulla spiaggia si devono usare tassativamente le stuoie (da ciò, il relativo mercato!) per timore che la sabbia rimanga attaccata agli asciugamani e involontariamente portata via! Prima di allontanarsi, occorre almeno sciacquarsi i piedi; vietato portar via una
qualche conchiglia rinvenuta morta e vuota sulla battigia. Guai a mettere piede sulle dune… Per un attimo, in me s’è fatta viva l’ironia. Ho pensato di scrivere una breve scenetta comica: un giovane, “ecologico” come il mio Arturo, pur essendosi docciato prima di allontanarsi dalla spiaggia, si accorge, in albergo, che un granello di sabbia gli è rimasto annidato tra le pieghe del suo
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mignolo pedestre. Decide di autodenunciarsi. Viene interrogato a lungo e aspramente. Impaurito, confessa colpe non commesse, come l’aver calpestato una duna, l’aver urinato sopra una fratta, l’aver involontariamente scorreggiato, l’aver scattato diecine di fotografie. Si placa solo appena è severamente condannato! Ho allontanato la divinità ironica e bizzarra e non ho scritto niente, ricordandomi che il giorno prima, a Bosa, visitando la Cappella Palatina di Nostra Signora de Regnos Altos, avevo pregato per le tante stramberie e le tante stoltezze che, invece di unire e infondere amore, spingono a furbizie e dileggi. E forse anche per aver letto, la notte, prima di prender sonno, nella calma stellata e musicata dai grilli dell’Agroturismo, il quadernetto riti-
rato proprio nella chiesa di Bosa, scritto da padre Mauro Maria Morfino, vescovo di Alghero-Bosa: “Fasce e s-fasci”, che invita a, tutt’altro che all’ironia, in cui è contenuta la “Anafora di San Giovanni figlio del tuono”, che si usa “nella chiesa copta etiope” e che sprona oltre il pedestre: “…Tu sei la luce che distrugge le tenebre, la candela che illumina il mondo intero, la fondazione inamovibile, la fortezza che non può essere distrutta, la nave che non può affondare, l’abitazione che non può essere minacciata, il facile gio-
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AI COLLABORATORI
go, il fardello leggero…” (p. 16). È l’età, Carissima, è l’età che tenta di condizionarmi, di scacciare il mio innato spiritello ironico! In Sardegna, in quei giorni, c’erano pure Luca con la sua bellissima Annachiara, in
un paese vicino ad Alghero (mi sembra Olmedo); Stefano ed Emanuela con i loro due vivacissimi e splendidi Valerio e Leonardo, in una località nei pressi di Sassari. Sabato 25 agosto, incontro allegro e corale, anche con molti parenti venuti dal Molise e da altre parti d’Italia, nell’albergo Carlo Felice di Sassari. Il giorno dopo, lo stupendo e favoloso matrimonio di Carmen e Antonio con relativa abbuffata e il lunedì successivo, mentre Luca e Annachiara allungavano la sosta nell’isola, Clelia, io, Gabriella, Roberto, Riccardo, Stefano, Emanuela, Valerio, Leonardo, imbarcati sul traghetto, stanchi e felici. Nella traversata di andata e ritorno, l’allegro saluto dei delfini. Domenico
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