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Anno 26 (Nuova Serie) – n. 2
€ 5,00
- Febbraio 2018 -
PAVESE E SILONE Compagni di viaggio di
VITTORIANO ESPOSITO di Giuseppe Leone
E
RA da tempo che mi domandavo perché mai Cesare Pavese e Ignazio Silone avessero avuto così tanta attenzione da parte di Vittoriano Esposito. Non l’avevo mai chiesto a lui direttamente mentre era ancora in vita, cerco di capirlo, ora, ritornando alla sua opera, quando ricorre il sesto anniversario dalla sua morte, avvenuta il 14 febbraio 2012, ad Avezzano, sua città d’adozione, dove si era trasferito dalla nativa Celano e dove insegnò per lunghi anni nel Liceo Classico Torlonia. Mi chiedo che cosa avranno avuto di speciale e in comune per entrare nei suoi gusti e nelle sue grazie: il primo, già nel ’53, quando Vittoriano, ancora giovane e studente all’ Università di Roma, gli dedicava la sua tesi di laurea, sotto la prestigiosa e autorevole guida di Natalino Sapegno e Alfredo Schiaffini; il secondo, al tempo della maturità del critico celanese, che scriverà per lui un’infinità di saggi. Su queste sue passioni letterarie, fra le tante altre coltivate nell’arco della sua lunga vita intellettuale, ha cercato di rispondere, in →
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All’interno: Il mio David Copperfield, di Noemi Paolini Giachery, pag. 5 L’itinerario di Ungaretti, di Emerico Giachery, pag. 7 Ida De Michelis e la guerra di Dante, di Carmine Chiodo, pag. 12 Franca Viola, di Domenico Defelice, pag. 15 Carmelo R. Viola e la dignità del rifiuto, di Ilia Pedrina, pag. 17 Un uomo solo al comando, di Rossano Onano, pag. 19 Quel vago odore di minestra, di Pierpaola Ferrazza, pag. 21 Il tempo dell’uomo e del personaggio, di Massimiliano Pecora, pag. 27 Sulla poesia di Elvira Condò Gazzolo, di Luigi De Rosa, pag. 30 Un silenzio frequentato dalla leggerezza dell’oltre, di Marina Caracciolo, pag. 31 Enrico Rovegno: Il cielo è paziente, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 33 Matteo Dalena: Puttane antifasciste, di Giuseppina Bosco, pag. 36 Nino Ferraù in un saggio di Domenico Defelice, di Isabella Michela Affinito, pag. 39 La dimensione volatile, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 41 Gli anni senza limiti, di Leonardo Selvaggi, pag. 43 Nunziata Matrona, di Antonio Visconte, pag. 47 I Poeti e la Natura (Giovanni Maurilio Rayna), di Luigi De Rosa, pag. 49 Notizie, pag. 62 Libri ricevuti, pag. 64 Tra le riviste, pag. 67 RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (Fra dramma e sentimento poetico, di Vittorio “Nino” Martin, pag. 50); Elio Andriuoli (Roma mi somiglia, di Serena Maffia, pag. 51); Tito Cauchi (Suggestioni, di Lina D’Incecco, pag. 52); Roberta Colazingari (A mio padre, di Filomena Iovinella, pag. 53); Domenico Defelice (Otto saggi brevi, di Marina Caracciolo, pag. 53); Domenico Defelice (Lentamente, di Veronike Jane, pag. 54); Aurora De Luca (La scala di Jacob, di Corrado Calabrò, pag. 55); Aurora De Luca (Otto saggi brevi, di Marina Caracciolo, pag. 55); Giuseppe Giorgioli (Al di là di ogni ragionevole dubbio, di Raffaella Fanelli e Roberta Milletari, pag. 56); Ilia Pedrina (Oggi si è adempiuta questa scrittura, di Franco Mosconi, pag. 58); Nazario Pardini (Oltre le stelle, di Antonia Izzi Rufo, pag. 61). Lettere in Direzione (Béatrice Gaudy, Emerico Giachery, Ilia Pedrina), pag. 67 Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Loretta Bonucci, Rocco Cambareri, Domenico Defelice, Luigi De Rosa, Enrico Ferrighi, Francesco Fiumara, Béatrice Gaudy, Domenico Gnoli, Antonia Izzi Rufo, Teresinka Pereira, Gianni Rescigno, Franco Saccà, Leonardo Selvaggi qualche modo, lo stesso Vittoriano, dicendo, a proposito di Pavese, di aver avuto sempre “un debole” per uomini e scrittori in apparenza “perdenti”; tanto che “ce n’è voluto del coraggio, o dell’incoscienza, per affrontare un lavoro di laurea nel clima delle polemiche suscitate dal suicidio dello scrittore; e, relativamente a Silone, di voler essere ricordato – cosi chiedeva, rivolgendosi a Maria Assunta Oddi - “come uomo-siloniano,
in un’urgenza che egli avvertiva come rapporto di ‘osmosi’ vitale tra l’autore pescinese e la propria interpretazione”. E in effetti, questo Silone di Vittoriano, oltre che il risultato di una ricerca squisitamente letteraria, è stato anche e soprattutto il frutto di incontri-scontri e confronti con una critica italiana ostile all’autore di Fontamara, culminata nel primo e nel secondo “caso” Silone, e “di una critica letteraria creativa –
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è sempre la Oddi che scrive – perché nata da un processo di “empatia” intellettuale e morale capace di unire il fruitore e l’opera nel mondo dell’utopia intesa come ricerca assoluta di una solidarietà fraterna”. Tornando a Pavese, va detto che Vittoriano non l’ha mai abbandonato, nonostante l’urgenza Silone, anzi vi è ritornato, più volte, sulla sua opera. Lo ha fatto nel ’68, pubblicando una prima parte di quella sua tesi, col titolo Problematica esistenziale in Cesare Pavese (Gugnali, Modica) e con lo pseudonimo Amato Amans, usato negli scritti giovanili; nel ’74, con Pavese poeta e la critica, un saggio, dove Vittoriano, in disaccordo con la critica del momento, caldeggiava la tesi di un Pavese grande come narratore, ma ancora più grande come poeta; e nel 2001, con la seconda parte della tesi col titolo Poetica e poesia di Cesare Pavese, nella quale il critico abruzzese intenderà richiamare l’attenzione su una questione, grazie a una sua lettura, a suo dire, controcorrente, sostanzialmente ideologica, e non stilformalistica. Ma, che cosa univa i due scrittori, in che cosa si somigliavano così tanto, secondo Vittoriano? Li univa, innanzitutto, la loro vita spesa in quella zona di frontiera fra città e campagna: fra Torino e le Langhe, Pavese; tra il Fucino e il mondo, Silone; e quel loro stile inquieto, sempre oscillante fra realismo e simbolismo nel primo, fra verismo e surrealismo nel secondo; un modo che a Vittoriano, “critico militante che ha saputo guardare alla letteratura non come canovaccio concluso di regole da osservare o trasgredire, o come “morta gora” di passioni e di vita, ma come luogo mobile e sempre aperto della coscienza”, non doveva certo risultare estraneo. Da qui, la scelta di questi due autori che Vittoriano poteva eleggere a sua rappresentazione, per sintetizzarne così la visione che egli aveva di sé come intellettuale legato alla sua terra d’origine che non rimane per nessuna ragione regionalista: “A noi preme,
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però, – scriveva - non restar prigionieri di una visione prettamente provinciale o regionale delle vicende artistiche e culturali dell’Abruzzo, sì piuttosto stabilire o suggerire eventuali rapporti tra la letteratura abruzzese e la letteratura italiana e, per le personalità maggiori, anche la letteratura europea nel suo complesso”. E perché no, anche americana, viste le pregevoli traduzioni di Pavese su autori come Whitman, Hemingway, Steinbeck, Gertrude Stein. Due scrittori in fieri, allora, intellettuali in progress, proprio come in progress è stata sempre l’attività letteraria di Vittoriano: dall’iniziale poetica del Semplicismo alla Critica, genere per lui di affinamento spirituale e processo conoscitivo che lo porterà spesso a domandare e a domandarsi sulla moralità del critico militante: se “vagliare solitamente autori e opere con un metodo di assoluta serenità senza sfiorare i limiti della inutile mitizzazione e senza sfociare nel gusto acremente stroncatorio”. Era chiara allora la scelta del critico su Pavese e Silone: essi gli davano una nuova e più precisa idea di intellettuale, quale Vittoriano veniva chiarendo a se stesso nella temperie culturale dell’immediato dopoguerra, così varia e complessa, qualcosa di più che non la semplice corrente neorealistica, che gli andava assolutamente stretta. “Alle sue radici – scriveva, riferendosi a quell’epoca - vi sono ragioni ben più profonde, di natura etico-civile e insieme estetico-letteraria, che vanno dalla nozione vittoriniana del “mondo offeso”, alla sofferta riscoperta della dimensione “umana” del vivere; dall’urgenza della parola come veicolo di verità, alla speranza d’una società più libera e più giusta”. E non solo, “non basta dire ch’esso nasce in opposizione polemica al disimpegno della letteratura fiorita fra le due guerre; e che si risolve tutto in un sondaggio fotografico della realtà sociale del tempo”. Si diceva del debole di Vittoriano verso gli uomini apparentemente “perdenti”, convinto, com’era, che la morte finisca per ri-
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pagarli delle ingiustizie e delle sofferenze patite nella vita. Cosa verificatasi in parte per Pavese, perché egli, all’indomani dalla tragica scomparsa, divenne una sorta di mito per i giovani della sua generazione; non per Silone, però, verso il quale la morte ha finito per dispensare nuove e più pesanti offese: su tutte, l’accusa infamante di spia dell’Ovra fascista. Due scrittori, allora, Pavese e Silone, complementari l’uno all’altro, ma complementari, essi stessi, a Vittoriano, disposti lungo una linea di sviluppo umano e letterario, in bilico fra mito greco e moderna antropologia culturale, il primo; fra cristianesimo e marxismo, il secondo; tutti e due con sullo sfondo una cultura italiana in transumanza dai monti d’Abruzzo e dalle Langhe alle piane distese d’Europa. Giuseppe Leone
Storni e nere cornacchie sopra il sorbo e il nespolo grigio. Fari nel cupo fogliame i gialli dell’arancio e dei kaki. Dal castagno piovono ricci e sotto il peso dei frutti dondola il vecchio melo.
AUTUNNO BIZZARRO
Sospiravi antichi dolori e con lo sguardo li trasmettevi ai Santi di carta messi in fila sul comò tra luci di cerri fiori di campo il debole vento della tua gonna.
Autunno, fantastico, bizzarro, messaggero di male sottile, all’inverno e alla fine incammini illudendo con profumi e colori d’effimera e vistosa primavera: il giallo del soffione, il viola screziato della malva, i ciclamini delicati e schivi, il bianco d’una sparuta margherita, lo sbocciare improvviso di rose, il sole che insolito scotta, l’ombra che rabbrividisce e nugoli di zanzare e mosche voraci e fastidiose. Autunno bizzarro, arlecchino sleale, che a respiri lunghi e pieni inviti nei mattini di rosati velami. Dopo la sagra riposano i tini e il mosto lento e solenne fermenta. Tra le stoppie dell’aia schiamazzano passeri. Un pioppo pennella l’azzurro.
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Autunno sarcastico e vile, che ci consegni all’inverno o d’improvviso ci abbatti con una sferzata di gelo. Domenico Defelice
NEI SOLCHI ODORE DI SOLE Tra veglia e riposo riascolto la tua parola: lontana quasi sempre canzone d’amore.
Sapevi che la notte li avrebbe mossi dalla carta per farti ascoltare promesse di grazie. Passava la luna sul tuo pensiero sempre umido, attenti a risalire alla luce di domani. Sapevi che t’avrebbe scottato i piedi la terra. Ma caparbia continuavi ad annusare nei solchi odore di sole diventato polvere. E scoprivi affidavi ad acini di rosario altri dolori. Gianni Rescigno Da Sulla bocca del vento, Ed. Il Convivio, 2013
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IL MIO DAVID COPPERFIELD di Noemi Paolini Giachery
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E nella frequente ricerca del tempo perduto - operazione alla mia età frequente e più agevole quando richiama tempi remoti - mi domando quali sono le letture infantili che hanno lasciato una più viva traccia nella mia memoria e, forse, nella mia stessa formazione, emerge prepotentemente in primo piano un romanzo di grande pregio e importanza letteraria, un vero capolavoro, ma che ha esercitato su di me il suo fascino e il suo influsso in anni infantili per ragioni che, almeno nella mia coscienza, andavano ben al di là di un possibile valore d’arte (e sì che il richiamo estetico si era fatto sentire molto precocemente nella mia educazione sentimentale). Si tratta del capolavoro di Charles Dickens, il David Copperfield, che lessi probabilmente a undici o dodici anni ma di cui avevo già conosciuto la trama attraverso il ben noto filmetto inglese degli anni trenta, che ancora oggi ogni tanto mi rivedo con delizia per merito di qualche TV privata. Nel libro ritrovavo la storia di personaggi già conosciuti e amati. Del David adulto, che rivisto in età matura mi sembrò molto slavato, mi ero, sugli otto anni, addirittura innamorata,
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tanto che la sua immagine riprodotta su un giornale fu da me circonfusa con il prediletto colore viola, così poco amato dagli attori, e, contemplata sul balcone di casa, mi sfuggì di mano e calò volteggiando nel cortile: forse in quell’occasione l’illusa infanzia scoprì con sgomento l’inafferrabilità delle chimere. Dirò per inciso che avrei fatto meglio a rivolgere la mia attenzione all’elegante e affascinante Fred Bartolomy cioè al David bambino. L’ immagine prestata ai personaggi dagli attori del film restò acquisizione definitiva e non potrei ormai più vedere, per esempio, una zia Betsy con un viso diverso e meno simpaticamente bisbetico e cavallino di quello che, nel film, riusciva a spaventare e cacciare l’odiato patrigno di David e la sua orribile sorella, ma sapeva anche sorridere con sorniona tenerezza a chi meritava il suo aiuto e il suo apprezzamento. Non un’esperienza letteraria dunque ma esistenziale l’incontro con quel mondo indimenticabile tanto da fondare, ora lo so, una costellazione di archetipi: non solo luoghi comuni ma situazioni archetipiche, figure archetipiche (quando mi domando se anche un libro meno genialmente creativo avrebbe potuto esercitare su di me un tale potere devo rispondere con la mortificazione dell’esteta colta in fallo che questa ipotesi non si può escludere). È significativo il fatto che in età adulta non mi sono mai curata di acquisire attraverso letture critiche una conoscenza culturalmente fondata e matura del grande libroarchetipo. Che mi resta di quella che potrei considerare una scuola di vita se non pensassi che una vera formazione dovrebbe non solo blandire le nostre naturali inclinazioni ma smuoverci anche con salutari scossoni? Ha a che fare con quell’incontro la mia attuale acquiescenza in un riposante Eden borghese come approdo e premio di una lotta per la vita intesa non come conquista del successo economico ma come superamento delle insidie materiali e morali del vivere? O era nella mia natura di conservatrice? E il mio acceso amor di giustizia o anche il mio impasto di vittimismo e di allegria mi viene forse dalla storia del
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piccolo David perseguitato ingiustamente e poi trionfalmente e allegramente salvato dalla zia, e dalla storia - di segno uguale - del buon avvocato Wickfield, padre della esemplare Agnese, salvato in una godibilissima scena madre dalle vessazioni e dagli imbrogli del subdolo Uriah Heep che esce di scena svergognato e rabbioso? O queste storie non facevano che assecondare e accontentare degli stimoli naturali e neppure veramente originali già presenti nella ingenua - ma non troppo bambina di allora? Allora il fatto che nel romanzo la giustizia non trionfasse per tutti ma solo per pochi privilegiati e che masse di bambini poveri continuassero indifesi a soffrire maltrattamenti e sfruttamento cercavo di rimuoverlo o di non crederlo più possibile ai nostri tempi. Rimozione che evidentemente ancora oggi mi consente di vivere senza partire in missioni benefiche benché la realtà macroscopica di questi obbrobri sia ormai lampante. Nel libro mi seduceva certamente anche il fascino delle atmosfere, di quegli interni ovattati e porcellanati dell’Ottocento inglese in cui era così bello trovare calore e conforto dopo un lungo e tormentoso cammino nella tempesta. Contava anche, credo, già allora il piacere dell’umorismo. O il gusto di qualche originale stravaganza non tale però da turbare l’ordine e la quiete di piccoli mondi privati. Per esempio la fiducia della zia nei consigli del simpatico ma folle Mister Dick. O i fantasiosi estri oratori del signor Micawber. Non mi era estraneo neppure il fascino di Steerforth, il raffinato seduttore della giovane Emily. Certo è che ogni tanto nella vita incontro persone che mi fanno pensare al signor Dick (un mio amico poeta per esempio) o a Micawber o, qualche volta purtroppo, anche a Uriah Heep. Il protagonista era meno caratterizzato e mi ha consentito e mi consente tutt’ al più, come del resto all’autore, identificazioni in prima persona. Altri libri hanno contato nella mia infanzia, soprattutto libri che, più che presentarmi figure indimenticabili, mi hanno immesso in atmosfere lontane ma non semplicemente
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immaginarie, anche se l’immaginazione coloriva certamente l’evocazione libresca. Parlo del fascino di tempi passati (il futuro della fantascienza mi è stato sempre estraneo) o di luoghi lontani specialmente illuminati dalle luci radenti del nord. Mi sono illusa, e mi illudo di possedere un particolare fiuto per percepire atmosfere lontane nel tempo e nello spazio. Ma non lo potrò mai dimostrare. Noemi Paolini Giachery
NELLA NEBBIA Da fiori che non vedi t’arriva profumo. Da tigli abeti pini da interi boschi intruglio di resina e terra. Da erba arsa da marcio di foglie da stoppie bruciate essenza di fumo che s’attacca alla gola e ti droga. Immagini tutto: le rane lo sciacquio dei loro tonfi nei fossi il passo dei cani il fiatare la rincorsa d’amore; stelle ovattate filtrare la luce respiri d’azzurro e sei preso dal tuo calpestio che d’altr’anima sembra aggirarsi e spiare. Case vie sentieri muro tutto da indovinare. Anche il cuore di chi aspetta e non sa da che punto preciso t’avvicini. Non sa quando toccherà la toppa e girerà la chiave. Gianni Rescigno Da Sulla bocca del vento - Ed. Il Convivio, 2015.
LUNA Nelle tenebre costellate di stelle la Luna illumina il tempo Indica il momento propizio a ciascuna delle attività agricole e marittime Il ritmo luminoso delle sue forme veglia sulle culture Béatrice Gaudy Parigi, Francia
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L’ITINERARIO DI UNGARETTI di Emerico Giachery A un’intervista rilasciata da Ungaretti nel 1969 all’Istituto Italiano di Cultura a New York, rimasta inedita sino ad alcuni anni or sono e tuttora pochissimo nota, vale la pena di riportare alcuni passi come introduzione all’itinerario: “Della mia infanzia ricordo soprattutto il deserto: lo spazio immenso, invalicabile, anche se invalicabile si dice dei monti, insomma non traversabile se non con grandi difficoltà perché il caldo è feroce e ti prende dalle piante dei piedi e brucia sino ai capelli. Questo bruciare continuo è un continuo stato di voluttà anche fisico. È un bisogno di sfogarsi anche carnalmente. Il nulla da una parte e dall’altra l’ affermazione sessuale della propria esistenza. Questo apre in qualche modo il cielo della mia poesia e del mio modo di sentire. C’è poi l’idea dell’esilio, l’idea cioè che il mio paese non è quello; è lontano, è sempre fuori, è in un altro posto: è qualcosa che io devo ritrovare. Il mio paese era Lucca”: paese evocato e sognato a lungo negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza ad Alessandria d’Egitto, ma non “conosciuto se non attraverso i discorsi della mia gente che mi circondava in Egitto, soprattutto della mia mamma, che aveva una
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bellissima lingua - quella lucchese - e dalla quale ho imparato l’italiano”. E ancora: “Prima della mia esperienza in Francia, c’era dunque il deserto, l’assenza, il nulla e il miraggio che è nel deserto, ma che c’era anche in me. Il mio miraggio era rappresentato da quel paese che non conoscevo e che m’ era presente attraverso il racconto di mia madre. Insomma c’è la lontananza, il mito irraggiungibile, e il rincorrerlo continuamente senza mai raggiungerlo. Questo è il primo moto della mia poesia”. E altrove dirà: “sono nato ai limiti del deserto e il deserto è il primo stimolo della mia poesia. È lo stimolo d’origine”. Il deserto reale, ma nello stesso tempo, in modo inscindibile, simbolico e allegorico, resterà paesaggio originario, “protopaesaggio” del suo spirito. L’immensità dell’orizzonte illimite (“la piana sterminata”), la scarna solitudine del deserto, l’abbaglio della sua luce smisurata, i motivi del nomadismo, del miraggio, lieviteranno, spesso fondamentali, nella sua opera poetica. L’approdo del giovane in Europa sarà ricco di pathos, fecondo di conseguenze. Anzitutto, l’apparizione della patria tanto sognata all’ alba, dopo una notte di navigazione. Poi, la magica apparizione dei monti: “Vedeva per la prima volta i monti / Consueti agli occhi e ai sogni / Di tutti i suoi defunti”. Così nella rievocazione poetica; e in prosa: “Quel paesaggio instabile, mutevole d’attimo in attimo: scomparso, e, al suo posto, la montagna: la montagna che sta ferma contro il tempo. Fu quello un fortissimo stupore, forse il più forte che ricordi”. Ma l’incontro con l’Italia non è che una sosta del viaggio verso l’agognata meta che è Parigi: “Questa è la Senna / e in quel suo torbido / mi sono rimescolato / e mi sono conosciuto”. Parigi in quegli anni faro e crogiuolo di cultura nuova, grande crocevia delle arti: Parigi dove Ungaretti scopre il valore dell’ architettura, segue i corsi di Bergson e di Bédier, frequenta poeti e scrittori come Apollinaire, Breton, Aragon, Rivière , Paulhan, Desnos, artisti come Picasso, Braque, Delaunay, Modigliani, Soffici. La Grande Guerra alla quale parteciperà
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volontario, rappresenterà un’esperienza cruciale per l’uomo e per il poeta: “trovai, partecipando alle sofferenza di tanta umanità nelle trincee, il segreto umano, il mistero poetico, il segno della mia poesia”. In piena guerra, nel 1916, vedrà la luce il primo volumetto di poesie: Il Porto Sepolto, titolo che non soltanto evoca la discesa del poeta nelle profondità dell’essere per poi risalire “alla luce con i suoi canti” e disperderli serbando nell’intimo “quel nulla d’inesauribile segreto”, ma anche allude implicitamente alla città natale, in cui l’antico porto, secondo il ricordo dell’amico versiliese Enrico Pea e dello stesso Ungaretti, poteva scorgersi “ancora intatto sotto quelle acque placide”. Subito dopo la guerra, nel 1919, ecco Allegria di Naufragi: il titolo originale e drammaticamente contraddittorio esprime la forza inesorabile della vita che, pur serbando pia memoria di tanti scomparsi e di tante sofferenze (nel cuore del poeta “nessuna croce manca”), continua, e offre imprevedibili riserve di coraggio e di slancio per ricominciare: “E subito riprende / il viaggio / come / dopo il naufragio / un superstite / lupo di mare”. Per indicare il cammino della vita (che in Ungaretti si compie in un’ operavita, un opera concepita e sentita integralmente come Vita d’un uomo) la metafora del viaggio, della navigazione risale certo alla notte dei tempi. Le poesie di Il Porto Sepolto e di Allegria di Naufragi, instancabilmente rielaborate, formeranno L’Allegria, primo volume di Vita d’un uomo: il libro di Ungaretti a tutt’oggi più caro ai lettori, specialmente giovani, affascinati da quella parola “scavata” nell’esistenza “come un abisso”, ma anche “limpida meraviglia” che sembra reinventare il linguaggio e il mondo, capace di dilatarsi nel respiro dell’orizzonte (il celeberrimo “M’illumino d’immenso”) e di farsi spoglia come pietra del Carso. L’analogia e la sinestesia, già largamente presenti nella poesia europea e anche in quella nostrana, soprattutto in quella di Pascoli, sono strumenti per scomporre e ricomporre il mondo, per immergersi nella sua molteplicità, per esprimere momenti di illuminante stupore. La parola, ri-
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scoperta dal fondo in tutta la sua vergine pienezza, che è pienezza umana, “grumo” di intima umanità, è anche “grido unanime”, condizione fraterna: “Di che reggimento siete / fratelli? / Parola tremante / nella notte / Foglia appena nata”. L’Allegria si conclude con Preghiera, in cui, attraverso le varianti di una travagliata elaborazione formale, il discorso poetico, già franto in brevi e dense monadi, tende a ricostruirsi in più tradizionali armonie. È un testo incentrato nel futuro, “tempo lirico”, tipico tempo ungarettiano dell’ annunzio, di un’attesa che è evocazione di assenze, del protendersi continuo verso un’ irraggiungibile meta che qui, come spesso altrove, è edenica innocenza: “Quando mi desterò / dal barbaglio della promiscuità / in una limpida e attonita sfera // Quando il mio peso mi sarà leggero // Il naufragio concedimi Signore / di quel giovane giorno al primo grido”. Il primo libro di Vita d’un uomo si chiude dunque con un’intensa sinestesia: il “grido” iniziale del giovane giorno è un’ impetuosa irruzione di luce, luce assoluta di una sognata palingenesi. Sentimento del Tempo (prima edizione fiorentina 1933) è l’arduo libro centrale della maturità nutrito dall’esperienza di chi attraversa il mezzo del cammin di nostra vita e acquisisce il “sentimento del tempo”, la coscienza amara del limite. Non più “cieli alti della gioventù” e “libero slancio”, ma “dolorosi risvegli“ e “curva malinconia”. Anche, però, acquisizione di “misura”, di virile ma non pacificata saggezza. Il nuovo paesaggio, fortemente sintomatico, è ora Roma con certi suoi classici dintorni: paesaggio intriso di antichi miti, cosparso di suggestive rovine, ma anche contrassegnato da opere d’arte cristiana che culminano in Michelangelo, da cui, secondo Ungaretti, deriva la tensione del barocco. Sono gli anni in cui il poeta, lasciata la diletta Parigi, vive, tra notevoli ristrettezze economiche, a Roma, poi a Marino, nei Castelli Romani, a quei tempi ancora intatti nello splendore del manto arboreo (selve in cui avrebbero potuto apparire ninfe, a quanto diceva Ungaretti); poi di nuovo a Roma. Roma
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città dell’estate, città dall’anima estiva, abbagliata dal biancore scabro dei travertini, città d’anima barocca. E il barocco assomiglia a una colma estate. L’estate è uno dei centri di Sentimento del Tempo. Estate violenta, inesorabile, che sembra riattizzare la memoria dell’ originario deserto africano: “Strugge forre, beve fiumi, / Macina scogli, splende, / È furia che s’ostina, è l’implacabile, / Sparge spazio, acceca mete, / È l’estate e nei secoli / Con i suoi occhi calcinanti / Va della terra spogliando lo scheletro”. Accostamenti di grande arditezza, accanita ricerca di condensazione espressiva caratterizzano questo libro in cui da suggestive evocazioni di atmosfere mitiche (con un gusto tutto moderno e libero che può a momenti ricordare il cosiddetto “classicismo” di Picasso) si approda alla religiosità angosciata degli Inni che rappresentano probabilmente il culmine di Sentimento del Tempo. In essi la voce del poeta spesso sonda e cerca nel vuoto, parla a una divinità per lo più inaccessibile e remota. C’è però almeno un momento in cui la religiosità sembra ancorarsi a un approdo esplicitamente cristiano, ed è La Preghiera: “Da ciò che dura a ciò che passa, / Signore, sogno fermo, / Fa’ che torni a correre un patto. // Oh! Rasserena questi figli. // Fa’ che l’uomo torni a sentire / Che, uomo, fino a te salisti / Per l’infinita sofferenza. // Sii la misura, sii il mistero. // Purificante amore, / Fa’ ancora che sia scala di riscatto / La carne ingannatrice”. A Roma Ungaretti abiterà per il resto della vita, salvo l’importante parentesi degli anni trascorsi in Brasile insegnando letteratura italiana all’università di San Paolo. Anni in cui lo colpirà il lutto più doloroso per la scomparsa del figlio novenne Antonietto. In questo periodo matura in parte il terzo libro, il più caro all’autore: Il Dolore, apparso nel 1947. Il titolo, ancora una volta profondamente significativo, non può non richiamare l’Allegria con cui ha senz’altro legami. L’Allegria nasce dalla prima guerra mondiale, Il Dolore dalla seconda. L’Allegria contiene un celebre testo, I fiumi. È il primo bilancio della vita di un poeta che, in una notte della Grande Guerra
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(“ora ch’è notte / che la mia vita mi pare / una corolla / di tenebre”), evoca i quattro fiumi che contrassegnano e scandiscono il suo destino: il Serchio degli antenati lucchesi, il Nilo dell’infanzia e dell’ardente prima giovinezza, la Senna della conoscenza di sé attraverso (soprattutto) l’assimilazione della nuova cultura d’Europa, l’Isonzo della drammatica esperienza bellica. Il Dolore contiene Mio fiume anche tu, in cui Ungaretti, in una notte della seconda guerra (“Ora che notte già turbata scorre”), si ricollega esplicitamente al motivo dei fiumi, e ai quattro del primo bilancio aggiunge il quinto fiume, il nuovo fiume del suo destino (ma anche simbolo del destino d’Europa, della civiltà occidentale): il “Tevere fatale”, fiume della missione di Enea e di quella di Pietro, fiume virgiliano e cristiano. Esiguo per mole, Il Dolore è tuttavia libro complesso. Il dolore, intanto, che con motivata pertinenza risalta nel titolo, si manifesta su due versanti: quello privato (per la morte del fratello e soprattutto del figlio) e quello comune, collettivo per l’offesa recata all’uomo e alla civiltà nella crudelissima seconda guerra. Due paesaggi, anche stavolta reali e insieme simbolici, vi si contrappongono: paesaggio brasiliano esotico e paesaggio romano, nostrano. Il primo segnato dalla dismisura di una natura violenta e selvaggia, il secondo improntato a misura umana, impregnato di civiltà più che bimillenaria. L’eccesso del primo viene espresso con mezzi stilistici di rilevante efficacia: “I molti, immani, sparsi, grigi sassi / Frementi ancora alle segrete fionde / Di originarie fiamme soffocate / Od ai terrori di fiumane vergini / Ruinanti in implacabili carezze, / Sopra l’abbaglio della sabbia rigidi / In un vuoto orizzonte, non rammenti?”. In questo paesaggio di pietra, su un’ araucaria quasi dantesca, anch’essa come di pietra, “delirante muta” e dannata, anzi “più delle altre dannate refrattaria”, sale “di ramo in ramo”, lieve come un uccello, il fanciullo Antonietto, intimamente antitetico, per la sua fresca, musicale dolcezza, alla disumana oltranza di una natura che lo soverchia e stronca: “Grazia, felice, / Non avresti potuto non
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spezzarti / In una cecità tanto indurita / Tu semplice soffio e cristallo, // Troppo umano lampo per l’empio, / Selvoso, accanito, ronzante / Ruggito d’un sole ignudo”. A quei “molti, immani, sparsi, grigi sassi” si oppongono i “pietrami memori” di Roma, all’ araucaria (Pinus brasiliensis) contorta e dannata si oppone l’araldica sagoma del pino nostrano, romano che sorge tra quelle pietre memori e che Ungaretti ritrova tornando dal Brasile in patria, nel pieno della seconda guerra, con l’emozione di Ulisse che tocca la terra di Itaca. Le pietre di Roma sono cariche di memoria non solo classica ma anche, e soprattutto, cristiana. L’inno che Il Dolore innalza all’ umanesimo cristiano sentito come civiltà dell’umana misura e della speranza s’incentra nella figura del Cristo: “Cristo, pensoso palpito, / Astro incarnato nelle umane tenebre, / Fratello che t’immoli / Perennemente per riedificare / Umanamente l’uomo”. Il vivo germe contenuto nel testo ricordato di Sentimento del Tempo, La Preghiera, attinge qui la sua pienezza. La Terra Promessa, quarto momento di Vita d’un uomo, vede la luce nel 1950, ma la gestazione dell’opera attraversa molti anni cruciali della vita e dell’attività letteraria di Ungaretti. Si può dire che La Terra Promessa occupi nell’opera poetica di Ungaretti un posto affine a quello occupato dalle Grazie nel contesto dell’opera foscoliana. “Opera frammentaria” la definisce lo stesso poeta, subito però aggiungendo che ogni opera è sempre frammentaria e incompleta rispetto alla pienezza e compiutezza dell’opera ideale vagheggiata dall’artista. Ancor più esigua per mole di quanto non fosse Il Dolore, La Terra Promessa è il libro più “difficile” di Ungaretti, frutto di un impegno formale anche più accanito del solito che ripropone (come sempre con gusto libero e moderno) forme di antica tradizione poetica come la sestina petrarchesca o il madrigale tassesco. Se Sentimento del Tempo poteva definirsi il libro dell’estate e del meriggio questo è il libro dell’autunno e del tramonto. La vita di Ungaretti è entrata ormai nell’autunno e anche tutta una civiltà,
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secondo il poeta, è pervenuta all’autunno, al tramonto. La Terra Promessa (altro titolo pregno di significato che potrebbe forse contrassegnare l’intero itinerario di questo poeta ulisside in continua ricerca dell’Oltre) avrebbe dovuto originariamente intitolarsi Penultima stagione: “Era l’autunno che intendevo cantare nel mio poema, un autunno inoltrato, dal quale si distacchi per sempre l’ultimo segno di giovinezza, di giovinezza terrena, l’ ultimo appetito carnale”. Il motivo autunnale s’incarna nel personaggio (che è anche alter ego del poeta) di Didone: Didone, abbandonata da Enea (che rappresenta la forza della giovinezza ebbra di destino e tesa ad approdi lontani), con sgomento avverte come il colmo della vita si stia allontanando da lei, mentre sopravvive intatto il desiderio, simile a luce di crepuscolo che continua a rischiarare l’ orizzonte occidentale dopo che il sole è tramontato: “La sera si prolunga / Per un sospeso fuoco / E un fremito nell’erbe a poco a poco / Pare infinito a sorte ricongiunga”. L’ Eneide (scrive Ungaretti) “è sempre presente nella Terra Promessa” in cui anche appare Palinuro, che qui incarna la “disperata fedeltà” alla ricerca dell’ agognato approdo: “Va, al timone della sua nave, Palinuro in mezzo al furore scatenato dell’impresa cui partecipa, l’ impresa folle di raggiungere un luogo armonioso, felice, di pace: un paese innocente, dicevo una volta”. L’autocommento del poeta sembra implicitamente ribadire il legame fra tante immagini omogenee che si corrispondono a distanza di anni: il nomade, il girovago, il lupo di mare, l’ulisside, Enea, Palinuro, sino agli anni tardi in cui ricompare “il vecchio capitano” che “va tranquillo” verso un porto in cui “balugina” una luce d’amore. Siamo ormai, dopo Un Grido e Paesaggi (1952), alla raccolta poetica del 1960, Il Taccuino del Vecchio: “Verso meta si fugge: /Chi la conoscerà? // Non d’Itaca si sogna / Smarriti in vario mare, / Ma va la mira al Sinai sopra sabbie / Che novera monotone giornate”. Ecco dunque, in questa poesia degli anni tardi, ricomparire il deserto: “Si percorre il deserto con residui / Di qualche immagine di
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prima in mente,// Della Terra Promessa / Nient’altro un vivo sa”. Questo tardo deserto sembra sempre più metafisico, allegorico; privo ormai della violenta pienezza di luce e dell’erotica fascinazione del deserto dell’ adolescenza e della prima giovinezza. È deserto di “monotone giornate” di vecchiezza, in cui le oasi di poesia si vanno facendo, dopo Il Taccuino del Vecchio, sempre più rade e spoglie. L’ultimo gesto poetico, a breve distanza da quello che Ungaretti aveva definito nel Taccuino il “gran silenzio” della morte, è una sorta di trittico, parte in prosa, parte in versi. Nel primo pannello del trittico, Ungaretti rigenera in un’immagine di fresca giovinezza il ricordo di una vecchia nutrice croata che l’ aveva tenuto in braccio nella remota infanzia: “Di continuo ora la vedo bellissima giovane nell’oasi apparire, e non potrà mai più desolarmi il deserto dove da tanto erravo”. Il secondo pannello del trittico incomincia così: “Si volge verso l’Est l’ultimo amore”. Il ritorno alla nutrice e il rivolgersi verso l’ origine simboleggiata dall’Oriente chiudono il cerchio di un destino, di un esemplare destino di poeta. Emerico Giachery
I GIORNI INNALZATI LONTANO I La vita rifatta intensa e unificata, i frammenti delle spaccature non ci sono più. La poesia presenta alleggerito il mondo di fuori, colorato, tutto preso insieme, le opposizioni divenute incontri. Le realtà che erano ispide con slanci vengono a noi allineate. Un fiume con tutto dentro amalgamato, i [ pensieri insieme ravviati e ordinati una sola massa. Nessuno più ci conosce come se evaporati non stessimo sulla terra, ci soccorre la poesia. Flebile e dura, salta sopra, con dolcezza vicino: ha parole che sembrano canto, il suo arrivo [ alato, invisibile ombra vestita di traforato manto.
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Fermi rimasti come prima, non andati ai [ cambiamenti deformanti, lustrati di fuori, turgidi di grasso e di fango dentro. Siamo pietrificati, come resti antichi seminterrati. Gli arti irrigiditi non sanno più la porta. Soltanto le streghe ci sono intorno, le loro braccia sono sbarre di contro. II La poesia viene furente per difenderci, porta altre mani, altri mezzi. Sa bene che cosa abbiamo avuto: i nostri giorni passati e le fatiche fatte per tenerci lindi, la casa ordinata e l’amorevole continuo correre, [ l’aspetto nobilitato e la sempre composta andatura di carattere e di presenza. La poesia ama il dolore che in tanta massa [ abbonda nella vita, è compagna fedele, non se ne [ allontana. Nel dolore allarga i pensieri che trovano [ cammini profondi. Il dolore non ha mete da raggiungere, ma [ strettoie e fissità di punti, intensità soltanto scavate nei recessi più lontani. Da questi ci si innalza infiammati trovando alimento per estesi oblii. Si perviene ad attimi di splendidezza, a serene [ interiorità fattesi felici. Un attaccamento morboso fa [ correre dal dolore come fosse nostro, colloquiando lo alleggeriamo distratti, il dolore va per conto suo, si divide. Leonardo Selvaggi Torino
La libertà di espressione non può essere sola libertà di recitare quello che è gradevole agli orecchi del potere La libertà di espressione non può essere soltanto parzialmente libera La libertà di espressione è o non è ma non può essere soltanto a metà Béatrice Gaudy Parigi, Francia
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IDA DE MICHELIS e LA GRANDE GUERRA DI DANTE di Carmine Chiodo
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LLA prima guerra mondiale parteciparono combattenti con la stessa divisa e altri, quelli del Friuli e del Trentino, invece indossavano l’uniforme austriaca e vennero fatti prigionieri da eserciti alleati di quella che sarebbe poi divenuta la loro nuova patria. Per quanto attiene alle scritture di guerra e di prigionia dei soldati austroungarici di lingua italiana ecco un testo modellato sulla <<Divina Commedia>>, in cui si immagina che Dante visita il campo di raccolta di Kirsanov (in Russia), e il sommo poeta si presenta a questi soldati come guida <<nel loro purgatorio di scampati alla morte e alla durezza della reclusione. Nelle parole e nei versi del poeta è rintracciata la materia condivisa grazie alla quale riconoscersi come nuova entità identitaria>>. Orbene questa <<Divina Commedia>> è ben commentata e illustrata da Ida De Michelis, che pubblica per la prima volta il testo che è una riscrittura della <<Divina Commedia>> composta da un soldato italiano di divisa austriaca nel 1916, durante la prigionia in Russia. <<L’esperimento parodico presenta un interesse innanzitutto culterologico: esso infatti mostra quali fossero i paradigmi letterari identitari di questi combattenti e quale ruolo di riferimento avesse Dante nel loro autoriconoscersi come italiani>> (v. <<Breve premessa>>, p. 9). Per raccontare la loro
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esperienza di prigionia, i due autori ricorrono alla <Divina Commedia>> dantesca, ponendosi cosi in perfetta linea di continuità con il Risorgimento: e allorquando sono fatti prigionieri e riuniti a migliaia nello stesso campo di Kirsanov, i soldati di <<sentimenti irredentistici svestono la divisa austroungarica e riscoprono nella lingua e nella letteratura italiana un forte elemento unificante>> (cito sempre da <<Breve premessa>>). I due autori sono Ermete Bonapace e Silvio Viezzoli, e i loro testi, rispettivamente: <<Del Purgatorio>>, canti 1 e 2, in <<La nostra fede>> n. 3, 25 marzo 1916 e della <<Divina Commedia rifatta >>, Canti 1- IV, in <<La nostra fede >> n 6,1aprile 1916, 12 maggio 1916, sono trascritti dalla <<Nostra fede>> (A), copia che si trova nell’archivio della Biblioteca della Fondazione del Museo storico del Trentino. Il primo autore della <<Divina Commedia irredenta>> è Ermete Bonapace (1887-1943), scultore trentino che nelle sue memorie dichiara il suo rapporto ambiguo con l’Austria attraverso il filtro dell’<<Aida>> di Giuseppe Verdi: <<la musica dell’Aida si impresse nel mio spirito in circostanze del tutto straordinarie. Ne provai grande emozione, i dolori di Aida mi parvero i miei, non potevo essere né con l’Austria né contro l’Austria e non sapevo come lei se dovevo invocare i sacri numi per l’amante o per il padre>>. Il secondo autore della parodia della <<Divina Commedia irredenta>>, Silvio Viezzoli (1889-1977), nelle sue memorie scrive: <<Sui Carpazi, pochi giorni prima che fossimo fatti prigionieri, circolava la voce che l’Austria avrebbe mandato al fronte russo quindicimila bersaglieri, che noi aspettavamo di giorno in giorno>>. Nelle scritture di guerra e di prigionia di questi soldati, gli italiani prigionieri nel campo di raccolta - già detto di Kirsanov - era diffuso <<il ricorso a tutte le possibili risorse letterarie (lingua e retorica) in loro possesso: ai ricordi di scuola (le letture scolastiche, <<I promessi sposi>> di Alessandro Manzoni, la <<Divina Commedia>> di Dante ), alla religione (il vangelo, la liturgia, le preghiere) ai fogli volanti dei cantastorie, ai libretti dell’
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opera lirica (le opere, innanzitutto di Verdi, <<Aida>>, <<Nabucco>>, <<Ernani>>, <<Otello>>). Ermete Bonapace scrive prima di tutto per dire la verità e denuncia le falsificazioni da parte degli alti comandi; con Bonapace anche altri meno consapevoli annotatori di fatti di guerra scrivono per salvarsi e salvare la propria memoria. Anche Silvio Viezzoli, istriano di Pirano, laureato a Firenze, docente di francese, ha scritto i propri ricordi di prigione. Egli adopera nelle sue memorie un filtro risorgimentale. <<Le mie prigioni>> di Silvio Pellico. Comunque, sia Bonapace sia Viezzoli, in modi e tempi diversi – uno più liberamente durante la prigionia, a guerra ancora da fare, l’altro col senno del poi, <<a guerra e Italia concluse –riconoscono entrambi alla letteratura, un triplice, importante modello culturale. La letteratura si offre innanzitutto come filtro per narrare le incredibili novità che la guerra e la prigionia stavano facendo vivere e con loro a milioni di soldati di tutto il mondo>> (pp. 33-34). Ma la letteratura è pure spazio estetico di riflessione, e in guerra i ricordi letterari possono servire a sopravvivere all’orrore, a resistere all’abbruttimento, alla resa intellettuale. E in ultimo la letteratura è <<patrimonio collettivo d’identità, al di là delle strumentalizzazioni politiche: per questi soldati, per i quali la resistenza coincide storicamente con la nuova autodefinizione di italiani, la letteratura è servita a salvarsi ed esistere>> (p. 34). Per gli italiani combattenti in divisa austriaca, Dante riemerge come riferimento identitario ineludibile, con gli orrori tetri ed estremi e la concretezza corporale finanche comica dell’<<Inferno>>, e poi le attese e la speranza del <<Purgatorio>>, la luce del <<Paradiso>>. La <<Divina Commedia irredenta>> è una scrittura affermativa e non si pone come un documento di aperta polemica anti-austriaca, se non in pochi luoghi, a differenza di un altro testo: la parodia <<Umana>> di Gino Gamerra apparsa nel 1915, un testo nettamente antigermanico come tanti altri opuscoletti periodici o propagandistici dell’epoca.
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Vengono riscritte le terzine di endecasillabi di Dante per raccontare l’epos di un altrove che è al contempo presente prefigurazione del provvidenziale, prossimo futuro. Di Dante e della sua <<Commedia>> si sceglie principalmente il riferimento alla Cantica dell’ <<Inferno>>, ma con le frequenti trasposizioni di situazioni purgatoriali, Cosi Viezzoli nel suo Canto 1(1-9) presenta in tal modo i luoghi di cui parla, nominando il preciso toponimo di Kirsanov <<Chirsanovo>>: <<Evvi un sito oltre i monti ed oltre i mari,/lontano in mezzo ad infinita neve /contro la qual non Valgono ripari,/L’immenso pian che quelle in sé riceve/non ha traccia di via né di verdura;/tutto s’asconde sotto il manto greve,/E perduta in cotale fosca pianura/la città che Chirsanovo s’appella /fra tal desolazione siede secura>>. Il Bonapace definisce i prigionieri irredenti <<sospesi>>, e li presenta come abitanti del Limbo piuttosto che del Purgatorio: <<ed al Maestro: <<Chi son quegli offesi>> rivolto domandai <<lassù tapini?>> Ed egli a me. << Costoro son sospesi,/non sono austriaci e non sono italiani /non son soldati e non son borghesi:/Austriaci son detti dai profani/e grigio hanno in dosso il saio/ma l’anima di lor li fa romani,/ Del soldato sopportano ogni guaio,/ ma lor arme, come puoi ben vedere,/è per lor la gamella ed
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il cucchiaio>>. I prigionieri visitati e interpellati da Dante sono persone vive, a differenza delle anime dell’oltretomba, mentre il solo Virgilio compare come ombra (<<Non per me, che son ombra, per te temo>>, Silvio Viezzoli (I, canto), mentre Dante stesso condivide sensibilmente l’esposizione a odori, sapori, rumori, sbalzi di temperatura della vita del campo. E’ ovvio che il tema politico è centrale pure in questa commedia, e da esso si parte per lanciare invettive (<<Ohi Russia vitupero delle genti /che quel paese là dove il ’Da’ stona quanto io vidi in te e quai tormenti>> (<<Ermete Bonapace, <<Purgatorio>>,1. 48-51), e poi ancora apostrofi: <<O vista atroce, ancor lo dico ansante per compassion, e tu lettor commosso / udirai ch’ivi stava lagrimando / un fratel mio, e si teneva addosso /un peso enorme, e dibatteva i denti;/ ed a me parea dicer. ‘Più non posso?>> (sempre Bonapace, <<Del Purgatorio>>, 1,43-48). Non mancano le profezie: <<Mentre la grande Madre è in gestazione/lor si contrastan la prima genitura /di Giacobbe ed Esaù a imitazione>>) (Bonapace, <<Del Purgatorio>>, 2, 25-27). Come nella <<Commedia>> di Dante anche in questa <<Commedia irredenta>> si fondono poesia e impegno etico, poesia e profezia politica. Inoltre – come scrive la studiosa - <<gli appelli al lettore svolgono a loro volta una funzione essenziale per il fine ultimo che gli autori sentivano come prioritario al momento della stesura della parodia di questo testo, concepito anche per sopravvivere al tempo>> (p. 54). Nelle terzine, talora metricamente imperfette ma non sempre incatenate in quanto se ne vuole preservare la struttura metrica dantesca con tutta la sua efficace narratività, spesso sono riprese da Dante rime e lemmi facilmente riconoscibili per un lettore italiano. Il plurilinguismo del testo appare scelta non neutrale di avvicinamento, tramite l’accostamento tra le forme dialettali delle terre irredenti e l’italiano letterario. Inoltre il Viezzoli nella versione post-bellica, monda il testo degli elementi che linguisticamente sono meno puri e più aggressivi, e alleggerisce pure gli eventuali riferimenti di natura politi-
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ca o religiosa. Per fare un esempio, nei versi del canto 1 cambia un intero verso che contiene un lemma volgare: <<O sante Muse, or più non si cogliona >> con <<Ma la matera e il fine lo perdona>>, mentre nello stesso canto, ai versi 85-9O, compare un caso in cui la censura non è più esclusivamente linguistica ma anche di contenuto: <<Non molto dopo innanzi della vista /mi si parò uno stuol lungo di fanti,/ ma non parea ch’ andassero a conquista ,/ malcontenti parevan tutti quanti:/ tal mormorava e tal malediceva /a tutte le madonne e a tutti i santi>>. In fin dei conti la <<Divina Commedia irredenta>> è un testo determinato dalla occasione in cui nasce ma ha pure un valore storico <<non solo in quanto operazione parodia di riscrittura letteraria ma anche come documento della notorietà e diffusione testuale della Commedia dantesca presso questi nuovi italiani della Prima guerra mondiale. In quegli anni, insomma la letteratura nella sua specificità epistemologica ed espressiva ancora rivestiva un ruolo fondamentale nella cultura nazionale e nella coscienza di quegli uomini come individui e come collettività, perfino di fronte alle urgenze drammatiche delle loro vite a cospetto della grande Storia>> (pp. 56-57). Carmine Chiodo Ida De Michelis, La grande guerra di Dante, Letteratura e identità nazionale, Voland, Roma 2016. Le poesie di De Rosa di questo numero hanno per titolo generale ACCORDI E VARIAZIONI
VERSO LA FOCE Il fiume della nostra vita può fluire, a volte, più pesantemente, e per troppe dolorose sventure si può anche intorbidare. Ma alla fine tornerà trasparente come filo gelato di sorgente quando si fonderà con un mare aperto e profondo, senza più il limite, laggiù, di un orizzonte. Luigi De Rosa Rapallo, Genova
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FRANCA VIOLA di Domenico Defelice
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RANCA Viola ha compiuto settant’ anni. Molti si domanderanno chi è e perché mai la ricordiamo. Perché è stata ed è una eroina, ritornata, dopo l’atto eroico, alla vita d’ogni giorno, senza darsi arie e senza sfruttare la notorietà che l’ha vista protagonista per anni sulle pagine di tutti i giornali. Franca Viola è nata in Sicilia il 9 gennaio 1948 e nel 1965, il 26 dicembre, ad Alcamo, venne rapita e stuprata da un giovane delinquente e mafioso del luogo: Filippo Melodia. Assieme a lei era stato rapito anche il fratellino Mariano, di 8 anni, subito rilasciato. La giovane venne tenuta segregata per giorni, liberata dalle forze dell’ordine e l’ aggressore arrestato assieme ai complici. Allora la legge riconosceva il cosiddetto matrimonio riparatore; cioè, se lo stupratore sposava la vittima, avrebbe evitato condanna e galera. Franca Viola fu la prima ragazza siciliana a ribellarsi a tale costume: rifiutò il matrimonio riparatore, denunciò l’aggressore e, durante il processo, si difese strenuamente, facendo condannare il delinquente a più di
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dieci anni. Detta così, la vicenda, ai nostri giorni, può sembrare quasi banale. Ma, allora, e in Sicilia, ribellarsi, come ha fatto Franca Viola, era un vero atto eroico. Quel tipo di condizione sociale era accettato da tutti, la stessa legge era a favore del rapitore-stupratore e, se verrà modificata dopo pochi anni, lo si deve proprio alla vicenda e al coraggio della ragazza. Ribellarsi, in quel tempo, per una ragazza significava non solo rischiare di rimanere zitella per tutta la vita, ma essere ritenuta da tutti quasi una appestata. Basta pensare che la donna ebbe tutti contro, compresi i preti del luogo, una parte della Chiesa e la quasi totalità della stampa. A difenderla, per fortuna, c’è stato suo padre, Bernardo Viola, un coltivatore diretto, che non solo fu solidale con la figlia nella denuncia, ma l’è stato accanto durante tutto il processo e nella vita, sebbene l’abbiano minacciato con le armi, distrutto il suo vigneto e bruciarono l’annesso casolare. Eroe anche lui, dunque, al par della giovanissima donna. Franca Viola, col suo dramma e la sua battaglia, ha difeso coi fatti, non con le sfilate e le chiacchiere, i diritti delle donne e cambiato il costume siciliano, resistendo in anni difficili nel continuare a vivere in un am-
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biente a lei completamente ostile, che notte e giorno le riversava addosso ondate di fango. E, per fortuna, la vita, poi, l’ha premiata. Ha trovato, infatti, chi le ha voluto veramente bene - Giuseppe Ruisi -, s’è sposata nel 1968 e ha avuto due figli. Siamo stati tra i pochi a difenderla, a scagliarci contro la canea che da ogni parte e giornalmente l’azzannava. Sembrava impossibile che potesse vincere. Sul settimanale Epoca (n. 802), Ermanno Sutterle la definiva “un avamposto che resiste”. “Ma resisterà quell’avamposto? - ci domandavamo, non scettici, ma realisticamente osservatori dell’ambiente e del pensiero del tempo, il 12 febbraio 1966 - L’esercito del vizio è forte, agguerrito e crudele. Ma non c’è dubbio che se tutti ci mettessimo con l’idea di combatterlo, esso verrebbe sconfitto e finirebbe così lo schifoso branco di sciacalli, lo spregevole clan di rapaci che si chiama mafia. Franca Viola: anche se la nostra vigliaccheria non ci permette ancora di gridarti in tutta spontaneità la nostra ammirazione, sappi che il cuore e l’animo degli onesti uomini del Sud - la maggioranza - sono rivolti a te come alla nostra eroina e il rispetto che ti portiamo è racchiuso negli occhi inumiditi di tutti coloro che leggendo la tua storia si son commossi, hanno pianto. Grazie, Franca!”. In questo febbraio 2018, mese nel quale si celebra ogni anno la festa di San Valentino, il santo dell’amore - dell’amore vero, non di quello che si sbrodola e si strombazza in televisione e su tutti gli altri media, per poi finire regolarmente il giorno dopo tra le più turpi volgarità -, a Franca Viola, settant’anni di gioventù, visto che il cuore non invecchia, gridiamo ancora una volta Grazie! Grazie perché sei stata e sei la vera eroina, quella che combatte consapevole degli ostracismi e delle violenze cui va incontro e vince e, dopo la vittoria, ritorna alla vita normale, come se nulla fosse, come se per anni, su di lei e la sua famiglia, non si fosse abbattuta la bufera. Grazie, Franca! Domenico Defelice
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SEPARAZIONE - IN UNA MILANO DEL DOPOGUERRA Mi rivedo bambino spaurito in una Milano '45 ostile e, per me, incomprensibile, tenuto nervosamente per mano da mio padre offuscare di lacrime, in silenzio, i miei occhiali da sole troppo grandi, soffocanti, mentre mia madre si allontana per sempre. Luigi De Rosa Rapallo, Genova
TRENO FERMO IN CAMPAGNA Il treno da Milano si fermò tranquillo in aperta campagna. Case sparse, indumenti di donne e bambini ad asciugare, verde picchiettato di papaveri, capellini finissimi di pioggia da nuvoloni orlati di rosso. Il nostro viaggio da Milano alla Liguria mi emozionava a tal punto da farmi battere il cuore per una dolorosa felicità. Luigi De Rosa Rapallo, Genova
A SOAVE (Cittadina scaligera) Amo i tuoi silenzi, terra del sole, le tue colline ammantate d’ulivi e le convalli ornate di vigneti. Amo le torri e le vetuste mura, i tuoi vicoli ombrosi, i bei palazzi, le vie alberate e le tue chiese antiche. Amo la gente semplice e cortese, la tua storia i ruderi i tuoi colori. Amo il tuo cielo luminoso azzurro. Enrico Ferrighi Da Carmina - Ed. Pomezia-Notizie, 1983.
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CARMELO R. VIOLA E LA DIGNITÀ DEL RIFIUTO CHE MALEDICE di Ilia Pedrina
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ORNO indietro nel tempo, ma è come se aprissi una voragine di giusti risentimenti in un presente che esige riflessioni profonde. Nel giugno 2011 su questa stessa nobile, dignitosa Rivista, Carmelo R. Viola firma lettere di fuoco permanente che vanno a formare tre colonne tutte intrise di verità non soggettiva, cioè individualisticamente accorpata alla meglio: sarei tentata di ricopiare integralmente questo testo quasi otto anni dopo, per appenderlo poi, ingrandito, su colonne e palazzi, in ogni città e provincia, paesino e contrada, nelle terre d'Italia e d'Europa. Il tema è La guerra criminale contro la Libia - RICUSO CHI MI GOVERNA - alle pagine 25 e 26, scandita in 9 punti che sono pugnalate frontali, non certo come quelle, ben organizzate dai congiurati, che hanno colto Cesare di sorpresa, mentre si recava in Senato. Parto dalla sua firma, dalla sua identità di cittadino 82enne che maledice non utilizzando una giustizia sommaria e senza senso alcuno, ma appellandosi alla coscienza ed alla
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capacità di difendere la dignità del rifiuto se politica, nazionale e internazionale, arriva ad essere sinonimo di passività nella ossequiosa sudditanza. “9) Sono padre e vecchio, ho perso recentemente una figlia. So che significa per un genitore essere privato di un figlio e di tre nipotini, pluriomicidio che certamente viene recepito come una vittoria da parte di novelli barbari alla Gengis Khan... 8) Con l'uccisione di un figlio di Gheddafi e dei suoi tre bambini, i raid italiani targati NATO (altro che mafia!), persistenti, avrebbero dovuto cessare ma i responsabili preferiscono confermare le azioni criminali fra le più repellenti. 7)Ritengo i responsabili dell'aggressione alla Libia - da Washington a Bruxelles a Roma dei criminali della peggiore specie. 6) Gheddafi si è detto disposto a trattare pur essendo dalla parte della ragione e ciononostante l'aggressione non ha fine come se già in partenza non fosse contraria a tutte le convenzioni internazionali oltre che all'imperativo categorico della coscienza. Per di più, per l'Italia l'aggressione... è totalmente contraria all'art. 11 della Costituzione, che per i responsabili semplicemente è come se non esistesse (del resto come anche la Costituzione nel suo insieme). 5) Gheddafi ha diritto di difendersi come ogni Stato - da insurrezioni armate. Si tratta probabilmente di un gruppo di sobillati, prezzolati ed illusi da chi ha interesse di mirare ai pozzi di petrolio e al tesoro aureo di Gheddafi, esattamente come l'avrebbe il nostro Stato se i sicilianisti (ed io potrei essere uno di questi), con maggiori motivazioni si ergessero contro il potere centrale, il cui esercito verrebbe scagliato -legittimamente- contro gli stessi... 4) Gheddafi non ha aggredito il nostro paese, quindi nessun diritto di autodifesa può essere accampato. 3) Con Gheddafi esisteva un patto di pace fra il suo paese e il nostro a cui riservava un trattamento di maggior riguardo. 2) Gheddafi ha fatto da un'accozzaglia di tribù un popolo per la prima volta. Ha costruito enormi infrastrutture come autostrade e perfino un acquedotto sotto la sabbia del deserto per portare l'acqua alle tri-
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bù più lontane. Ha incrementato l'industria del petrolio e lo scambio commerciale con l'estero. Ha quasi raggiunto il 100% dell'alfabetizzazione, ha costruito innumeri università, ha dotato il suo popolo di un tenore di vita probabilmente superiore a quello nostro...1) Né ONU né NATO sono preposte a fare da giudici e giustizieri di eventuali capi di Stato indegni, altrimenti sarebbero già dovuti intervenire in Italia... (Carmelo R. Viola, La guerra criminale contro la Libia – Ricuso chi mi governa, Pom. Not. Giugno 2011, pp. 25-26). Egli ha coraggio e vince ogni fiacca dipendenza dalle informazioni dei media, spesso autodifesa per non agire, scrive di getto, come lui stesso sostiene, secondo la voce della sua coscienza 'e la reazione emotiva che si prova quando si vede torturare un bambino...'. Tutti, è chiaro, possono capire perché questa Rivista è nobile e sta dappertutto in casa, da trovare, da scoprire, leggere e rileggere, in una casualità preparata da fili destinali. Da ieri a oggi, per un domani che non soffochi dignità e capacità di rifiutare soprusi ed ingiustizie, false verità portate avanti con troppa disinvoltura, per inventare una realtà che condiziona all'inazione. Allora, come prova inequivocabile di quanto ha sostenuto con coraggio Carmelo R. Viola, ricopio direttamente dalla fonte in rete: “... Il 20 ottobre 2011, risultando vana ogni ulteriore resistenza nella difesa di Sirte, nella quale si era asserragliato contestualmente alla caduta di Tripoli, Mu'ammar Gheddafi tentò di guadagnare il deserto per continuare la lotta, ma il convoglio in cui viaggiava fu individuato dai droni, inviati dal Presidente degli Stati Uniti Obama e attaccato da parte di aerei militari francesi. Raggiunto da elementi del CNT, Gheddafi fu ferito alle gambe e catturato vivo. Dopo essere stato ripetutamente pestato e brutalizzato, fu ucciso con un colpo di pistola alla testa; i suoi ultimi momenti di vita furono registrati dai presenti all'avvenimento in numerosi video... (fonte Wikipedia, voce Mu'ammar Gheddafi). Come se si potessero ricomporre, tornando all'indietro, i mille cocci di un'antica anfora
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preziosa, andata volontariamente in frantumi, da questa invocazione vigorosa, tutta diretta a salvaguardare la dignità del singolo nella sua capacità di opporsi ai soprusi vigliaccamente passati per azioni di pace, onde portare in ogni dove una democrazia sfilacciata da ogni lato, parte un monito rigoroso ed irrinunciabile. Questa è preghiera, anàtema della ragione e dello spirito, affinché questo tempo si apra alla concretezza di percorsi umani, in nome d'una speranza che non illude. Nel 2011 si era appena aperto per me il tempo duro delle 'Lettere al Direttore', della ricerca che è esperienza senza aspettative, in ascolto della presenza di una Verità che si cela sotto velo leggerissimo e, pure così, sono in pochi a coglierne il palpito esigente, che trasforma; il tempo duro dei viaggi in Italia e in Europa, perché quella ricerca trovi in luce l'incontro con coloro che non conosci, sicura che con te hanno il denominatore comune della speranza che fa respirare; il tempo duro della vita intensa che si apre al cammino senza corsa, alla forza dei semi senza morte, al fascino della parola che conquista la tua ragione, ne fa calare le difese ed apre alla gioia. Carmelo R. Viola è ora tutto questo: esperienza, cammino, dignità in lotta. Ilia Pedrina
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Quando la storia (sempre) si ripete
UN UOMO SOLO AL COMANDO (DA FIRENZE!) NEL MEDIOEVO PADANO Lambertesco de' Lamberteschi e le belle Consuetudini di Rossano Onano
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NA quartina volgare. La storia si ripete, sempre e dovunque. Per questo motivo le antiche vicende accorse in un luogo, mettiamo Reggio Emilia nel '200, presentano interessanti analogie con le vicende odierne del nostro paese. Fra' Salimbene da Parma, nella sua Cronaca relativa all'anno 1242, ci ha tramandato i quattro versi che un anonimo compositore scrisse per salutare l'arrivo a Reggio di Lambertesco de' Lamberteschi, fiorentino, cui il Comune affidava la carica di Podestà: Venuto n'è 'l liòne de terra Florentina per tener raxòne in la città Regina. Per la storia letteraria, l'esile composizione rappresenta il primo documento redatto in lingua volgare reggiana. Medioevo bipolare. A Reggio, come in tutte le città comunali, l'architettura politica era del tutto sovrapponibile alla nostra, attuale. Le decisioni erano prese, insieme, da tutti i cittadini, riuniti a Parlamento nella piazza della città. Il Parlamento eleggeva i Consoli, cui spettava il potere esecutivo, l'amministrazione della giustizia e il comando dell'esercito. Le cose, esattamente come oggi, non sempre funzionavano bene, Accadeva talvolta che una parte politica oppure una singola famiglia influenzassero il Parlamento (“mazzette”), con l'elezione di Consoli favorevoli alla propria causa, ed avversi alla causa della parte rivale. Quando ciò avveniva il Parlamento, con un sussulto di dignità, conveniva di assegnare i poteri esecutivo e giudiziario a un
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personaggio influente venuto da fuori, ovvero estraneo alle parti in causa, cui veniva conferito il titolo di Padestà. Nella data che ci interessa (1242) le parti in causa, a Reggio come in ogni comune d'Italia, erano rappresentate dai Guelfi, simpatizzanti del Papa, e dai Ghibellini simpatizzanti dell' Imperatore Romano, che era poi lo svevo Federico II “stupore del mondo”. L'analogia coi tempi attuali consiste nel fatto che le due parti politiche in lotta rappresentassero istanze progressiste, oppure conservatrici. Bisogna intendersi sui termini: nel Medioevo “progressisti” erano i Guelfi, favorevoli al Papa che favoriva le libertà comunali avverse all' Imperatore; “conservatori” erano i Ghibellini, favorevoli all'Imperatore che restava garante del vecchio ordinamento feudale. Alla sensibilità moderna il fatto che la Chiesa fosse progressista può sembrare strano, ma nel Medioevo era appunto così. Un uomo solo al comando. Il conflitto fra Guelfi e Ghibellini, a Reggio nel XIII secolo, procedeva per bande di famiglie parteggianti per l'una o per l'altra fazione. Lo stemma araldico della città, si badi bene, aveva ed ha tuttora un acronimo di solenne classicità: SPQR, Senatus Populusque Regianorum. Spossato dalle continue lotte intestine, il Senatus Populusque decise di ricorrere a una figura super partes cui affidare il titolo di Podestà. Lambertesco de' Lamberteschi, che abbiamo visto approdare in città accompagnato dalla simpatica quartina in lingua volgare, fu insignito del titolo. Lambertesco non era Guelfo e non era Ghibellino, ovvero non era colluso con alcun partito politico; era esperto in fatti amministrativi e giudiziari: era, diremmo oggi, un “tecnico” chiamato al governo. L'analogia con recenti avvenimenti di casa nostra è evidente. Lambertesco veniva da Firenze, un uomo solo al comando: volendo, un'altra analogia. La bella libertà. Il Podestà fiorentino lasciò una traccia importante nella storia di Reggio. La città era allora percorsa da pro-
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cessioni di frati scalzi in contrapposizione al Vescovo che viceversa portava il piviale dorato, gli uni e l'altro contrapposti alla fazione della nobiltà feudale, con esito in faide sanguinose fra le parti seguite da riconciliazioni clamorose subito dopo smentite da nuove faide e nuove contrapposizioni. Lambertesco cominciò a mettere ordine alle cose. Tutte le case e le possessioni poste in Reggio entro i confini delle fosse nuove e fino a mezzo miglio dalla città vennero trasformate in allodiali, oppure vendute a prezzo giusto secondo la stima del Comune. Lo stesso Comune destinò lavoratori salariati a quelle terre che, per incuria, fossero rimaste incolte (quando si dice: creare nuovi posti di lavoro!). Costruì una nuova strada fra la palude che congiungeva Reggio a Reggiolo. Soprattutto, Lambertesco elesse una commissione di giudici, militi e mercanti a che redigesse il Breve delle Consuetudini, documento innovativo nella storia del diritto italiano. Per la prima volta Milites et Pedites (cioè nobili e plebei) erano ugualmente garantiti e protetti dalla legge. La commissione redasse le Consuetudini in lingua volgare, che tutti ma proprio tutti capissero: la storia del “volgare reggiano”, insomma, si apre con un documento di libertà. Le belle Consuetudini. Non solo tutti i cittadini erano considerati uguali e liberi, si richiedeva loro indistintamente morigeratezza. Le Consuetudini regolavano la vita cittadina secondo ordinamenti che la coscienza moderna giudica alquanto discutibili. Ad esempio, il numero degli invitati a nozze doveva limitarsi a dieci. Non si trattava di pauperismo, ma di una misura di ordine pubblico: il banchetto di nozze, con l'assembramento di ospiti sbevazzanti, si tramutava spesso in occasione di lite fra cittadini convenuti di contrapposta fede politica. Le belle Consuetudini mostrano il loro contenuto altamente civile e progressista laddove, documento d'avanguardia in Italia, sottolineano formalmente la fine del vincolo feudale per i lavoratori della terra. Era disposto
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nel libero Comune l'allodio obbligatorio: il possesso fondiario era per la prima volta definito libero da ogni diritto altrui. Un capitolo successivo chiariva: chi avesse dimorato in città con la propria famiglia per dieci anni, non poteva più essere molestato per causa di servitù. Ciò che oggi chiamiamo: diritto di cittadinanza. Li antenati reggiani si erano già posti il problema dell'integrazione. E lo avevano risolto ex lege con una misura drastica, faccenda tuttora in discussione nelle civilissime contrade d'Europa. Impero ed Europa. Quale sia stata la fine di Lambertesco de' Lamberteschi non è dato sapere, né quanto sia stata efficace o duratura la pace imposta d'autorità alle fazioni contrapposte dei Guelfi e dei Ghibellini. Già nel 1244, due anni dopo le belle Consuetudini, i Ghibellini capeggiati dalla famiglia dei Sessi uccidono presso Reggiolo il Console dell'arte della lana. Gli uomini soli al comando, solitamente, durano poco. Nel 1263 è documentato che Jacopo Sessi, ghibellino, riveste a Reggio la carica di Podestà. Piuttosto, siamo prossimi al '300. Guelfi e Ghibellini continuano a scannarsi senza rendersi conto che l'Impero, concepito a garanzia della pace universale, viene a poco a poco confinato alla sola Germania. D'altra parte il Papa, schiaffeggiato da Sciarra Colonna, sarà costretto all'esilio di Avignone di fatto ridotto a cappellano del re di Francia. Crolla l'Impero, e si affermano gli stati nazionali cui non interessa combattere l'Impero che non c'è perché impegnati a combattersi fra loro. L'intera Europa è devastata dalle guerre, dalla carestia, dalla miseria e dalla furibonda pestilenza del '48. All'idea dell'Impero, garante di unità e pace, il secolo scorso ha sostituito l'idea dell'Europa. Oggi a forte rischio di disfacimento. Si spera che la storia, quanto agli esiti possibili, non si ripeta pedissequamente. Vero è che il '300 è anche il secolo di Giotto, di Dante Petrarca e Boccaccio. Almeno sotto questo aspetto, speriamo. Rossano Onano
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QUEL VAGO ODORE DI MINESTRA di Pierpaola Ferrazza
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' una fredda e nebbiosa mattina di marzo. L'inverno è stato particolarmente lungo quest'anno e la primavera tarda a farsi sentire. La signora Agostina, che tutti chiamano solo Tina, seduta davanti alla finestra sulla sua vecchia sedia a dondolo, sta aspettando che la minestra d'orzo e patate finisca di cuocere. Dovrebbe uscire per comperare latte, pane, formaggio e quant'altro serve nella dispensa di una donna anziana che vive da sola, ma non ne ha voglia. Per oggi la minestra d'orzo può bastare. Il suo odore ha ormai invaso tutta la casa; si tratta in realtà di un minuscolo appartamento di edilizia popolare, tre stanzucce piccole ma accoglienti, che Tina ha cercato di arredare al meglio, pur con le sue sempre esigue risorse, prima di sarta, e ora di pensionata. Questo è il suo nido, dove solo lei è regina da quando la figlia si è sposata, ma è anche la sua tribolazione quando la solitudine prende il sopravvento e si fa sofferenza. E' allora che quelle stanzucce vuote, silenziose, si animano dei ricordi della vita – ormai in gran parte vissuta -, con i rimpianti, i dolori, le gioie che ogni vita porta con sé. E anche oggi, sarà per quel vago odore di minestra che ha pervaso tutta la casa e che le ricorda altre case e altre minestre, sarà per la fredda giornata e per la nebbia che avvolge ogni cosa e attutisce ogni rumore, Tina si ri-
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trova a pensare a un'altra mattina di marzo, altrettanto fredda e nebbiosa, ma molto più drammatica e straziante, di cinquant'anni prima. E' il marzo 1947; sul molo Carbon del porto di Pola una moltitudine di persone, di ogni età e di ogni ceto sociale, sta per imbarcarsi sul piroscafo Toscana; il freddo è intenso, la banchina del molo è ricoperta di neve ghiacciata e poche di quelle persone hanno voglia di parlare, perché il viaggio che stanno per intraprendere non è una vacanza, ma un esodo forzato. Il freddo che avvolge i loro corpi è lo stesso freddo che hanno nel cuore; donne, vecchi, bambini, tutti sanno che quello è un viaggio senza ritorno. Stanno per lasciarsi alle spalle anni di sofferenze, privazioni, paure causate dalla guerra e ora sono alla resa finale, con l'abbandono delle case, degli affetti e delle cose più care, e anche dei morti. Stanno per lasciare una città martoriata, distrutta, ferita; quella città così amata, bella come nessun'altra col suo mare, i suoi scogli, le testimonianze di un passato glorioso come l'Arena, l'Arco dei Sergi, il Duomo, il Tempio di Augusto, e quelle di un presente forse meno prestigioso, ma ora, comunque, care al ricordo di tutti, come l'Arsenale e il cantiere navale di Scoglio Olivi. Migliaia di persone spaesate, che trascinano borse e fagotti con le poche cose che riescono a trasportare, in fila per ore, i piedi congelati dal freddo e le mani intirizzite, in attesa che le Autorità esplitino tutte le formalità prima dell'imbarco. Anche Tina e suo marito Duilio sono qui, due numeri nella conta degli sfollati, due persone come tante, che come tante stanno in silenzio, in attesa del proprio turno. Non sanno immaginare a quale vita stanno per andare incontro, se avranno un futuro, quale sorte toccherà a loro, profughi giulianodalmati, una volta arrivati in Italia. Già, l'Italia. Tina si alza, guarda fuori dalla finestra asciugando la condensa che si è formata sui vetri e va a girare la minestra che sta sobbollendo. Per un attimo sembra che i ricordi l' abbiano abbandonata, ma poi la forza di quel-
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le emozioni e di quei sentimenti ricattura la sua mente. Tina si rivede nuovamente lì, sul molo Carbon del porto di Pola, il 2 marzo 1947. A Pola ha vissuto fin da piccola, lei italiana, quando il padre Pietro, di fede socialista, all' affermarsi del fascismo aveva dovuto abbandonare le colline e le vigne dell'amato Piemonte per la salvezza propria e della famiglia, ed era giunto in Istria, trovando lavoro, insieme ai due figli maschi, in uno degli stabilimenti che producevano cemento. Tina, allora bambina, non ha conosciuto altra città che Pola, e Pola è la “sua” città. Le prime amicizie, i primi innamoramenti, il grande amore, tutto è nato a Pola e forse tutto sta per finire a Pola. Dopo che Pola e tutta l'Istria sono state assegnate alla Jugoslavia, Tina, e questo è veramente un paradosso, si ritrova a dover fare a ritroso il viaggio fatto dal padre quasi trent' anni prima, e tornare, con in tasca il certificato di profugo rilasciato dal Comitato di Assistenza per l'Esodo del C.N.L., nel paese di origine. La prima volta era stato il fascismo a costringerla all'esilio e, ora che il fascismo è stato sconfitto, sono i comunisti di Tito a fare altrettanto. Soltanto ieri Tina e Duilio si sono recati nel palazzo del Comitato a ritirare i certificati e il contributo di quattromila lire, date a titolo di sovvenzione per l'esodo; stamattina hanno lasciato per sempre la casa che li ha ospitati nell'ultimo periodo, dopo che la casa dove vivevano precedentemente era stata distrutta dal bombardamento del 1944, lasciando la porta aperta per chi verrà a occuparla. Sul muro della cucina hanno lasciato però l'ultimo saluto, vergato con vernice nera, alla città amata che non sarebbe più stata italiana, quasi un grido di rabbia e di dolore: “W l'Italia”. Al molo Carbon hanno appuntamento con fratelli e cognati: la partenza sarà meno dolorosa se potranno affrontarla insieme. Finalmente, tra urla, schiamazzi, pianti e tanta tristezza si sono imbarcati, prima destinazione Trieste e poi Venezia.
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E mentre il Toscana si allontana dal porto, mentre la città scompare lentamente alla vista, Tina ripensa a quegli anni; anni di guerra, certo, ma anche anni di vita, belli e spensierati prima della guerra, dolorosi e difficili poi. Stringe la mano di Duilio; entrambi non riescono a parlare: i loro sogni si stanno infrangendo come le onde che battono contro la chiglia della nave e poi scompaiono. Per un attimo Tina sembra voler fuggire da quei ricordi che la fanno soffrire; si alza dalla sua vecchia sedia a dondolo, va in cucina, alza il coperchio della pentola e subito lo riabbassa, quasi a voler impedire che il vapore che fuoriesce dalla pentola le riporti alla mente ciò che è doloroso ricordare. Ma ormai, per oggi sarà impossibile dimenticare. La casa è vuota e silenziosa. Tina torna a sedersi davanti alla finestra e, quasi contro la sua volontà, i ricordi riaffiorano nuovamente, prepotenti e nitidi, incancellabili. La sua mente e il suo cuore non possono dimenticare chi da Pola non ha potuto fuggire, le persone care che resteranno per sempre in quella terra: sono Grazia e Censa, la nipotina e la cognata che il 9 gennaio 1944 sono rimaste sotto le macerie della loro casa a causa del bombardamento a tappeto fatto dagli alleati angloamericani contro l'occupazione tedesca. Tina rivive ogni istante di quella mattina, l'urlo delle sirene, la paura, la corsa verso il rifugio, ma soprattutto ricorda la disperazione per aver inutilmente esortato Censa a seguirla con le bambine, mentre era riuscita a portare con sé in rifugio soltanto Nadia, l'altra nipote di quattro anni, salvandole così la vita. Inutilmente Censa, resasi conto che la città stava per subire un bombardamento a tappeto, aveva poi cercato di mettersi in salvo con l'altra figlia, Grazia, di soli due anni, ma la sua decisione tardiva non le aveva salvate. La città era stata pesantemente bombardata e come nelle sequenze di un film, Tina rivede lo spettacolo che si era presentato ai suoi occhi molte ore dopo, all'uscita dal rifugio, dopo il cessato allarme. Cumuli di macerie, le vie quasi irriconoscibili, la loro casa distrutta e Grazia e Censa sotto quelle macerie.
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Ricorda l'abbraccio di Duilio, anche lui sopravvissuto al bombardamento, e lo strazio di suo fratello Giovanni, padre di Grazia e marito di Censa, per quelle morti inutili e insensate. Ma che cosa c'è di sensato in una guerra? Il vento di tramontana è implacabile questa mattina e sul ponte del Toscana la sua forza è ancora maggiore. Tina e Duilio non riescono a muovesi, ma non è il freddo a inchiodarli lì, è la volontà di assaporare e “vivere” fino in fondo quell'ultima sfocata immagine della città che lentamente si allontana. Pola ormai non è più italiana e l'esodo è compiuto. Nella stiva del piroscafo è imbarcata e torna in terra italiana anche la bara del patriota irredentista Nazario Sauro, avvolta nel tricolore, e con lui quelle di altri patrioti. Abbracciata a suo marito Duilio, Tina ripercorre con la mente gli ultimi drammatici mesi che hanno vissuto e tutti gli avvenimenti che inevitabilmente li hanno portati a decidere per l'esodo. Tra questi c'è certamente la strage di Vergarolla del 18 agosto 1946. E' una calda e bella domenica d'estate. E' stata indetta una manifestazione sportiva, con anche gare di nuoto, e nessuno degli italiani che vivono a Pola vuole mancare a questo evento che “L'Arena di Pola” ha reclamizzato come una manifestazione di italianità. Infatti in quel periodo, e già dal maggio 1945, tutta l' Istria era stata occupata delle truppe di Tito; soltanto Pola, che era amministrata dalle truppe britanniche per conto degli alleati, era l'unica parte d'Italia ancora fuori dal controllo titino. Tina e Duilio si stanno vestendo per andare, come tanti, alla spiaggia di Vergarolla, per vivere una giornata serena, all'insegna della normalità. Un boato improvviso fa tremare i vetri delle finestre. Alcune mine esplodono durante la manifestazione. Tina e Duilio, insieme alla cognata Maria e ad Aristide, fratello di Tina, si precipitano a Vergarolla perché Luciano, il nipote amatissimo, è già lì con alcuni amici. Finalmente lo vedono tra la folla terrorizzata: anche lui è impaurito, incapace di rendersi conto di ciò che è successo, ma salvo. L'esito della strage è pesantissimo: al-
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meno settantacinque morti e diverse decine di feriti. Gli autori della strage sono rimasti sconosciuti, ma da quel momento per la quasi totalità degli italiani di Pola la scelta dell'esodo diventa obbligata. Il clima pesante dei mesi precedenti, con la contrapposizione feroce tra filo-italiani e filo-jugoslavi, aveva avuto il suo epilogo con questa strage. Dunque a Pola nessuno, che avesse aspirazioni di libertà di pensiero e di libertà politica, poteva sentirsi sicuro, soprattutto dopo la partenza degli alleati. Dopo la strage di Vergarolla la Camera del Lavoro aveva proclamato uno sciopero generale, con una altissima adesione. Tina ricorda con un sorriso che in quell'occasione aveva cucito le coccarde tricolori per tutti i suoi parenti; avevano sfilato per le vie di Pola con le coccarde sul petto. E come loro, tutti coloro che avevano voluto ribadire la loro “italianità”, un concetto forse ora per noi inconcepibile, e il loro essere parte della città di Pola. Il Toscana si trova ormai in mare aperto e all'orizzonte non si vede altro che una linea grigia, quasi indistinguibile, a separare acqua e cielo. E' meglio andare sottocoperta; il freddo è pungente e anche il mare, da Tina così amato, ora è grigio e inospitale. Come inospitale si rivelerà la terra che doveva accoglierli e che, per loro, a differenza degli istriani d'origine costretti anch'esse all'esilio, è la “loro” terra. In Italia questi profughi non vengono visti di buon occhio, per l'errata convinzione che, se hanno preferito lasciare tutto pur di non sottomettersi a un regime comunista, allora significa che son tutti fascisti. Così non è, ovviamente, e ognuno ha la sua storia. Tina sa che per oggi sarà difficile sfuggire ai ricordi, e forse non lo vuole nemmeno. Sono loro a tenerle compagnia e poi, si sa, il nostro passato, per quanto doloroso, siamo noi, e per Tina è importante non dimenticare. D'altra parte certe esperienze sono impossibili da dimenticare; si può dimenticare il terrore provato quando centinaia di bombe venivano sganciate sulla città di Pola, il dolore per la morte di Grazia e Censa, oppure la paura di
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essere prelevati dalle proprie case la notte per essere fatti sparire nelle foibe, così come è capitato a tanti dei loro conoscenti? Tina è convinta che a salvarli da questa fine orribile sia stato il matrimonio di suo fratello Aristide con una donna istriana, Maria. Più volte infatti era bastato l'intervento di sua cognata Maria, il suo parlare slavo come i titini, per salvarli da perquisizioni e situazioni potenzialmente pericolose. Ora Maria non c'è più, ma è sempre forte la sua presenza nei ricordi di Tina, con il suo aspetto indiscutibilmente “slavo”, la sua crocchia bionda, la statura imponente e la severità un po' teutonica nell'educazione del figlio Luciano. Uno squillo di telefono interrompe il flusso dei ricordi di Tina. E' immancabile la telefonata quotidiana di sua figlia e, dopo averla rassicurata che va tutto bene, Tina riprende il filo dei suoi pensieri. Tante immagini riaffiorano alla sua mente, come se fossero dei flash-back di un film in bianco e nero. Rivede il Cantiere Scoglio Olivi, cioè l'Arsenale Navale; le cosiddette Scuole CREM (Corpo Reale Equipaggi di Marina); la sede del Reggimento San Marco; rivede l'Arena, che ha fatto da sfondo alle tantissime fotografie, portate via da Pola in un borsone sgualcito e che ora riempiono una scatola dei ricordi conservata come un bene prezioso in un angolo dell'armadio. Rivede le case di Via Premuda, che venivano chiamate “le baracche” ma che in realtà erano palazzine in muratura in cui lei e Duilio avevano vissuto per qualche anno; ricorda Valcane, la sua spiaggia, gli stabilimenti balneari e quel mare blu nel quale ancor oggi, malgrado la sua età, vorrebbe immergersi. Proprio lì aveva imparato a nuotare con il fratello Giovanni e per entrambi l'amore per il mare non era mai venuto meno. Ma poi, accanto a questi che sono bei ricordi, Tina ripensa al clima di odio che man mano, come un magma oleoso, si era insinuato nei cuori delle persone, un tempo amiche; ripensa al clima di ostilità sempre più palpabile, alla paura di essere eliminati solo per il solo fatto di essere italiani e alla scelta finale dell'esodo. Scelta condivisa con altre
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migliaia di persone, ma non per questo meno drammatica. La città di Pola si era quasi svuotata: su 32.000 abitanti, oltre 28.000 avevano scelto di andarsene, pur sapendo che sarebbe stato per sempre. Forse, per chi era nato in quelle terre il distacco era stato ancora più doloroso e certamente l'accoglienza che l'Italia riservò poi a tutti questi profughi rese ancora più drammatica la vita di quelle persone. Vennero tutti smistati in campi profughi sparsi per l'Italia, avversati e individuati, loro, come nemici. Tina e Duilio finirono, con altre famiglie, in un campo profughi allestito in un sito militare chiamato “Cansa”, un'ex caserma, con una sistemazione che avrebbe dovuto essere provvisoria e che invece si protrasse per diversi anni. Una situazione di precarietà e disagio, che però aveva stimolato la solidarietà tra le famiglie che vi risiedevano e che aveva visto nascere anche qualche duratura amicizia, come quella con Rina; dopo tanti anni di vita alla Cansa entrambe hanno avuto l'assegnazione di un alloggio popolare e ora sono vicine di pianerottolo; insieme trascorrono intere giornate, a cucire, chiacchierare, ricordare... Anni difficili, anni di povertà e, purtroppo, anche di malattia. Duilio, dopo pochi mesi dall'arrivo in Italia, si ammalò gravemente e alla fine Tina rimase da sola, con la figlia di pochi mesi da accudire e a cui provvedere. Tina però non si perse d'animo, ora aveva una ragione per continuare a lottare e per quella figlia lavorò, lavorò fino a vederla diplomata, poi impiegata con un lavoro sicuro, e infine sposata. Da quel momento in poi avrebbe potuto riposare. I ricordi si sono mangiati le ore della mattina. Tina si alza, spegne il gas e scodella la sua fumante minestra d'orzo e patate. Ora saranno le notizie del Telegiornale a tenerle compagnia. UN PO' DI STORIA PER CAPIRE Le vicende dell'Istria sono molto complesse, ma sostanzialmente fino alla fine del XVIII secolo la sua storia si identificò con quella
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della repubblica di Venezia il cui dominio ebbe fine nel 1797 con il trattato di Campoformio. 1815: Congresso di Vienna: Pola passa all' Impero Austriaco che, persa Venezia che viene assegnata all'Italia, ne fa la propria base militare navale e fa costruire l'Arsenale. Con la scoppio della I guerra mondiale Pola viene dichiarata zona di guerra e subisce molte incursioni italiane. Alla fine della prima guerra mondiale l'Italia ottiene la sovranità sulla Venezia-Giulia, e Pola, con lo sbarco delle truppe italiane a Fasana il 5 novembre 1918, diventa una delle nuove province italiane. La città era già sede dell'Arsenale della Regia Imperiale Marina austro-ungarica che, dopo l'avvento del fascismo, venne ceduta all'industria privata col nome di “Cantiere Scoglio Olivi”. Avvento del fascismo: i militari italiani mettono in atto una feroce repressione etnica nei confronti della minoranza slava, croata e slovena. Si persegue con ferocia un progetto di italianizzazione di quelle terre, con il progetto di cancellare l'identità culturale e linguistica di quelle popolazioni. Viene proibito l'uso della lingua slava, cambiati tutti i toponimi delle città, rimossi tutti i funzionari pubblici di etnia slava, deportati e uccisi tutti gli oppositori. Si può spiegare così la nascita del forte sentimento di odio verso gli italiani. 1943-1945: occupazione tedesca. Contro di essa l'8 settembre 1943 il IX Corpus sloveno (IV Armata jugoslava) essendo venuto a conoscenza dell'armistizio e approfittando dello sbando delle truppe italiane, attraversa le Alpi Giulie per dilagare nel Carso e in Istria, puntando su Gorizia, Trieste, Fiume e Pola. La riconquista da parte dei tedeschi del territorio giuliano avviene tra il 9 settembre e il 15 ottobre. La provincia di Pola, insieme a Gorizia, Trieste e Fiume, sono incluse nel Litorale Adriatico, nominalmente sotto la sovranità italiana, ma di fatto sotto amministrazione militare tedesca. Nascono le prime formazioni partigiane italiane, ma osteggiate
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dai partigiani slavi, ostili agli italiani. 9 gennaio 1944, ore 11,30: Pola subisce la prima incursione aerea con bombardamento a tappeto alleato (Regno Unito e Stati Uniti) contro l'occupazione tedesca. Malgrado i molti rifugi presenti in città, i morti sono oltre 79. Dal 9 gennaio e fino al 15 marzo 1945 la città venne più volte bombardata dall'aviazione angloamericana poiché Pola era una delle più importanti basi di sottomarini dell'Adriatico. Primavera 1945: dopo la ritirata dei tedeschi, Pola è invasa dalle milizie partigiane jugoslave. Il Comitato Popolare di Liberazione annuncia l'avvenuta annessione di Pola alla Jugoslavia. Iniziano le persecuzioni nei confronti degli italiani, e si realizza in questo periodo (1945-1947) l'orrore delle foibe, vero tentativo di genocidio, che per decenni si cercò di occultare. Si stima che siano stati oltre ventimila gli italiani infoibati in quel periodo, di cui si perse ogni traccia. 6 giugno 1945: l'accordo Alexander-Tito dichiara Pola come exclave, raggiungibile solo via mare, all'interno della Zona A della Venezia-Giulia, di occupazione alleata. Il resto dell'Istria e Fiume sono assegnati invece all' occupazione militare jugoslava. 12 giugno 1945: gli Alleati entrano a Pola. Rinascono tutti i partiti, associazioni, sindacati italiani, già soffocati dal fascismo e poi repressi dai nazisti e dai titini. Viene ricostruito il tempio di Augusto, semidistrutto dai bombardamenti, e il Duomo. 22 marzo 1946: arrivano in città i commissari (un russo, un francese, un inglese e un americano) della Commissione per lo studio dei confini della Venezia-Giulia. In quella occasione in Piazza Foro si confrontano una manifestazione spontanea della popolazione di Pola per l'Italia (in maggioranza) e una manifestazione filo-jugoslava, composta per lo più da persone venute dai paesi dell'interno della Jugoslavia con pullman organizzati dai comunisti. Nell'area urbana di Pola, quella occupata dagli anglo-americani, la popolazione è italiana per quasi il 90%. Alla Conferenza di Parigi, cioè nell'estate
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del 1946, appare chiaro che il compromesso avrebbe assegnato l'Istria e Pola alla Jugoslavia. Gli italiani restano increduli. 25 giugno 1946: la Camera del Lavoro proclama uno sciopero generale, con altissima adesione. 3 luglio 1946: si costituisce il Comitato Esodo di Pola. 12 luglio 1946: il Comitato Esodo di Pola comincia la raccolta delle dichiarazioni di coloro che intendono lasciare la città. 28 luglio 1946: diffusi i dati: su 31.700 polesani, 28.058 avevano scelto l'esilio. 18 agosto 1946, domenica, ore 14,15: strage di Vergarolla (a Vergarola). Esplodono alcune mine navali durante una manifestazione sportiva: almeno 75 morti, molte decine di feriti, responsabili sconosciuti. In quel periodo l'Istria era rivendicata dalla Jugoslavia di Tito, che l'aveva occupata fin dalla primavera del '45. Pola era invece amministrata in nome e per conto degli Alleati dalle truppe britanniche, e quindi era l'unica parte dell'Istria al di fuori del controllo jugoslavo. La manifestazione (gare natatorie) aveva l'intento di mantenere una parvenza di connessione col resto dell'Italia. “L'Arena di Pola” reclamizzò l'evento come una manifestazione di italianità. L'idea dell'abbandono di Pola da parte della maggioranza della popolazione era maturata già mesi prima della strage per la feroce contrapposizione tra filo-jugoslavi e filoitaliani. Ora l'alternativa era rimanere nella propria città in balìa di un potere che non offriva nessuna garanzia per la propria sicurezza personale né per la libera espressione del proprio sentire politico, oppure abbandonare tutto e prendere la via dell'esilio. Nell'inverno 1946-1947 il CNL di Pola convinse il governo italiano a inviare la motonave Toscana e altri sei motovelieri per il trasporto delle masserizie della moltitudine di persone in procinto di abbandonare Pola. Altri venti vagoni ferroviari sarebbero partiti ogni giorno per l'Italia, attraversando tutto il territorio istriano, già in mano jugoslava. Il 20 marzo 1947 il piroscafo Toscana compì
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il suo ultimo viaggio, accompagnando le ultime partenze. Tina e Duilio partono da Pola il 2 marzo 1947. Su 31.700 abitanti, 28.058 avevano lasciato la città. Il 15 settembre 1947, all'entrata in vigore del Trattato di pace, il governo militare alleato si trasferì a Trieste e la città di Pola passò all' amministrazione jugoslava. La città venne ripopolata da slavi provenienti da fuori, e cambiò il nome in Pula. Dal 1991, con la dissoluzione dello stato jugoslavo, Pola entra a far parte della Repubblica Croata. Dal 2005 ogni 10 febbraio è stato indicato come “Giorno del ricordo” dedicato alla commemorazione dei morti e dei profughi italiani perché in tale giorno, 10 febbraio 1947, il Trattato di Parigi assegnò l'Istria, Fiume e Zara alla Jugoslavia. Pierpaola Ferrazza Pierpaola Ferrazza ricorda la madre Tina, profuga istriana. Ho visto una sola volta la signora Tina, nei primi anni '70. Era una persona straordinaria, agguerrita e nello stesso tempo mansueta. Già allora mi parlava delle foibe, argomento all'epoca sconosciuto. Ma tutti i profughi istriani sapevano, e raccontavano. La cultura ufficiale, vigliaccamente, fingeva di non sentire. (Rossano Onano).
SONO VOLATI GLI ANNI (ma sono rimaste le illusioni) Sono volati gli anni. Dalla Liguria sono partito tante volte per destinazioni di lavoro sempre diverse. E vi sono tornato tante volte. Nel frattempo sono invecchiato, ma in cuore mi è rimasta l'illusione che si possa sempre ricominciare una nuova vita. Luigi De Rosa Rapallo, Genova
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ISOGONIE STORICO-NARRATIVE
IL TEMPO DELL’UOMO E DEL PERSONAGGIO nell’Arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon e in Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo. di Massimiliano Pecora CCANTO alla meta-narratività un’ altra caratteristica della letteratura postmoderna è rappresentata dal modo in cui la finzione si approssima al contesto storico a cui afferisce. In Seeds of Time Fredric Jameson osservava quanto fosse difficile sceverare letterariamente la significazione dello spazio privato da quella dello spazio sociale. In fondo, sembra dirci il critico americano, la polisemia della comunicazione letteraria si staglia sempre all’interno di una sorta di terra di nessuno, un luogo nel quale i social texts e l’intrigo del racconto si incontrano. Con una felice scoperta, la studiosa Linda Hutcheon ha osservato che soprattutto i romanzi del tardo Novecento replicano i carat-
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teri dell’historiographic metafiction, una forma diegetica nella quale il plot è innervato dai caratteri della storiografia. In ragione di questo assunto l’interpretazione del testo verrebbe a includere non solo la comprensione della storia e dell’intreccio romanzeschi, ma tracimerebbe sul piano della Storia ufficiale, incrementando i limiti temporali della vicenda raccontata. In sostanza, la dimensione storica della narrazione amplifica il processo della significazione letteraria. Alla prova dei fatti, la letteratura del XX e del XXI secolo avrebbe inverato in toto le osservazioni aristoteliche contenute nel XXIV capitolo della Poetica, laddove lo Stagirita sottolineava quanto la poesia potesse traguardare il resoconto filogenetico con la rappresentazione della messe dei sentimenti di chi vive e fa la storia delle comunità. Non possiamo dimenticare, del resto, quanto i débrayages e gli embrayages, costellando l’andatura narrativa dei Promessi sposi, confondano la voce del narratore con le parole dell’anonimo e con quelle degli ipotesti e delle fonti da cui la rappresentazione prende le mosse. Basti solo pensare all’etopea del cardinale Federigo Borromeo, consegnataci dal quel celebre XXII capitolo, nel quale le osservazioni sui costumi del Seicento si intrecciano con la descrizione del profilo storico di un attante che, per quanto di rilievo, resta un personaggio secondario nell’ economia del plot manzoniano. Notevoli, poi, sono i casi da registrare nella contemporanea produzione poetica di lingua italiana: dal Montale delle Occasioni al Penna di Stranezze, passando per Autobiografia e Casa e campagna di Umberto Saba, etc. Tuttavia, per quanto attiene alla prosa, siamo ben lontani dal registrare le svariate manifestazioni tipologiche della forma romanzesca quando questa affida pienamente alla Storia e alla storiografia una funzione narrativamente propulsiva. Quindi domandiamoci come, nelle loro occorrenze, il tempo della storia ufficiale e quello della storia rinegoziata dal racconto agiscano nella finzione narrativa. È questo, in sostanza, l’asse portante e innovativo dell’ informato lavoro di Giuseppe Episcopo, L’ ere-
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dità della fine. Attraverso l’analisi di una notevole bibliografia scientifica, il saggio, pubblicato nel 2016 per Franco Cesati Editore, tenta una ‘sutura epistemologica’ tra l’ inscrizione della fiction nella Storia e il «perpetuo presente spaziale» (passim) che occupa Gravity’s Rainbow (1973) di Thomas Pynchon e Horcynus Orca (1975) di Stefano D’Arrigo. Le due opere non costituiscono solo due grandi casi letterari, ma sono due importanti emblemi del processo di sovrapposizione che, intervenendo tra la mimesi narrativa e l’ intreccio, Paul Ricœur studierà attentamente nei tre ambiziosi e fondamentali tomi di Temps et récit (1983-1985). Al centro dei due romanzi, le vicende dei protagonisti e la tragedia della seconda guerra mondiale si intersecano l’una con l’altra. Sia che si tratti dello Slothrop di Pynchon o del N’drja Cambria di D’Arrigo, ci troviamo di fronte a due agenti di un processo fenomenologico nel quale le vicissitudini biografiche e quelle della Storia si coagulano in un’unica e ‘iper-verisimile’ entità narrativa. Sarebbe troppo facile caricare di una valenza simbolica o messianica le avventure di queste vittime della seconda guerra mondiale; tantomeno potremmo scomodare il processo dell’allegoresi figurale, travalicando così, le singolarità dei due protagonisti. In Gravity’s Rainbow e in Horcynus Orca le modalità con le quali la narrazione si articola possono essere assimilate, per dirla con Ricœur, a una lunga e difficile ‘conversazione triangolare’ tra la storiografia, la critica letteraria e la filosofia fenomenologica. Il neostoricismo novecentesco ci ha ben dimostrato che la dialettica relazione tra contemporaneità e non-contemporaneità resta di capitale importanza nella comprensione dei fenomeni diacronici: per la Storia, al pari di quanto accade per un racconto, il criterio argomentativo del post hoc ergo propter hoc è insufficiente e, spesso, irrilevante. Su un piano artistico e letterario, passato, presente e futuro sono tre tempi che, al vaglio dell’ esperienza, non si esauriscono in intervalli dalla certa durata, ma si stratificano coinvolgendo aspetti eterocliti della sfera dell’umano – si
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pensi alla sessualità e alla cultura tecnicoscientifica per Pynchon e al mito e all’ onomaturgia per D’Arrigo. Equiparando narrazione storiografica e invenzione letteraria, faction e fiction, il narratore imprigiona la griglia temporale della rappresentazione con quella della Storia, salvaguardando la relazione di dipendenza causale tra il piano del racconto e il materiale che questo raccoglie. Appare ovvio che tale strategia agisca in deroga a qualunque processo di adduzione argomentativa, favorendo, nel contempo, una particolare forma di diegesi nella quale, all’ unisono, storia e racconto conferiscono a un momento episodico un carattere necessario e ineludibile. Sulla scorta delle argomentazioni di Ernst Bloch e di Reinhart Koselleck, questo procedimento dovrebbe consustanziare un sistema formale posto a garanzia dell’attendibilità delle avventure dei personaggi narrativi e a sostegno della significazione del racconto. In realtà, ad agire nei due romanzi di Pynchon e di D’Arrigo è «la qualità del presente» (passim), un tempo che viene da un lato presentificato dalla Storia e dall’altro acquisito attraverso la rappresentazione del vissuto degli attanti. Secondo Episcopo, nell’interpretazione del processo temporale di Gravity’s Rainbow e di Horcynus Orca, vale chiamare in causa un’altra importante questione: che ruolo assume il mito nella strategia della finzione storiografica? Nell’analisi metastorica fornita dai due romanzi compare un oscuro testimone del tempo della rappresentazione. Sia che venga alluso dal ‘bric-à-brac’ della «scrivania di Slothrop» (pp. 81-94) sia che si depositi nelle vertiginose ‘peripezie visive’ di ’Ndrja e dei pescatori carriddoti (pp. pp. 161-177), lo spazio asincrono del mito è onnipresente. Se, come afferma Ernst Cassirer nel secondo volume della Filosofia delle forme simboliche, i principi di causalità e di oggettività accomunano la teoresi empirica e il mito, le gesta dei due anti-eroi – cos’altro sarebbero i protagonisti dei summenzionati romanzi? – acquisiscono un plusvalore epico, alimentato onto-
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logicamente da un intermezzo cronologico illimitato e, paradossalmente, costretto nell’ intorno degli anni del secondo conflitto mondiale. Per spiegare meglio l’interessante constatazione di Episcopo, riconduciamoci alla geometria ellittica di Bernhard Riemann, nella cui teoria il parallelismo si dà in forma di convergenza tra rette antipodali. Il ricorso a questa immagine ben traduce quanto avviene all’interno delle categorie narrative di Gravity’s Rainbow e di Horcynus Orca: il tempo del romanzo e il tempo della Storia si possono deformare senza ingenerare collisioni o strappi sul fronte della diegesi; essi si trasfigurano reciprocamente in un unico spazio narrativo. Avvalendoci della nozione matematica di ‘mappa conforme’, potremmo ammettere che nella letteratura postmoderna, specie nei due capolavori di Pynchon e D’ Arrigo, ogni relazione causale che insiste tra l’evento descritto – che assuma connotazioni storiografiche o pertenga alla sfera del personaggio poco importa! – e le sue diverse occorrenze resta immutata, coinvolgendo, però, un’altra sfera temporale, un altro intervallo di diversa ampiezza alla cui rappresentazione concorrono le più disparate scelte nomenclatorie e linguistiche. Sulla scorta di ciò, possiamo constatare l’ esistenza, nel romanzo postmoderno, di un paradosso statutario: laddove la narrativa del XX secolo plaudiva all’inutilità delle categorie della mimesi e della diegesi, al crollo delle teorie storiografiche e all’ assimilazione della cultura high-brow con la cultura low-brow, l’ analisi delle anisocronie narrative, sembra affermare Episcopo, rivelerebbe una nuova forma di rappresentazione letteraria, nella quale il tempo della Storia si riappropria del bagaglio esperienziale dell’ individuo che, per quanto vittima di forze preponderanti, confida ancora nella letteratura per sopravvivere a se stesso e alla limitatezza della propria sorte. Massimiliano Pecora Giuseppe Episcopo, L’eredità della fine. ‘Gravity’s Rainbow’ di Thomas Pynchon e ‘Horcynus Orca’ di Stefano D’Arrigo, Firenze, Franco Cesati Editore, 2016, pp. 1-206; ISBN 978-88-7667-554-6
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LA MANO DI DIO (per Teresa, che dal Perù è tornata a Milano per assistermi in occasione del mio doppio intervento di glaucoma e cataratta all‘occhio destro) E’ la mano di Dio che in questi giorni ti rimanda a Milano, dove vieni con amore ad assistermi l tempo di questa nuova mia tribolazione. E’ la mano di Dio, con l’intervento pietoso di Maria l’Immacolata, da noi sempre pregata ed onorata nelle due sue rappresentazioni di Virgen del Carmelo e di Madonna di Fatima, per le apparizioni. Ma c’è anche quell’alito di amore del mio Spirito Santo prediletto che quotidianamente prego e sempre mi aiuta e mi sostiene e mi dà forza nei momenti difficili e mi ispira, Lui che Spirito è, Lui che è Dio. Mariagina Bonciani Milano
COS’È UNA RISA? A Giorgio Caproni ( 1912-1990) Caproni, Poeta amico, anch'io, nel mio piccolo, in una o l'altra sera mi addormenterò, deluso, per sempre, dopo avere scritto, in versi o in prosa, per una vita intera, senza essere mai “ riuscito a dire cos'è, nella sua essenza, una rosa”. E se l'uomo non può conoscere e capire l'essenza di una piccola cosa vivente, precaria, come può capire la Vita, o, addirittura, il Dio che sembra assente ? Luigi De Rosa Rapallo, Genova
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SULLA POESIA DI ELVIRA LANDÒ GAZZOLO di Luigi De Rosa
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ARLARE (e, ancor più, scrivere) della poesia di Elvira Landò Gazzolo non è affatto facile. Innervata da un linguaggio che sembra semplice ma si rivela sempre più complesso e polivalente man mano che si procede nella lettura delle cinquantotto liriche componenti la sua ultima silloge, ”Note e notte”, edita da Internòs di Chiavari (Genova). Essa tratta, con originalità e finissimo stile culturale, temi eterni come amicizia, amore, gioia, passione, bellezza, infelicità e strazio, non cedendo mai a scivolamenti d'ala o pause esclusivamente raziocinanti (anche se l'intelligenza intellettuale vi domina). Il ragionamento poetico di Elvira tende comunque, anche se con dolce amore, non tanto ad offrirsi, quanto a pretendere di essere conquistato e posseduto. Benito Poggio, nella sua centrata “Introduzione” a questo libro, ha sintetizzato il suo pensiero in un brano che secondo me non è possibile non citare, tanto la sua esegesi analitica è precisa, quasi puntigliosa, e, nel contempo, profonda, appassionata, avvinghiata al testo poetico: “Quella di Elvira Landò, a mio parere, è una poesia lenta e mai precipitosa, è una poesia originale e nuova che prende chi vi immedesima e la assapora perché intinge dall'anima
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e dalla mente le parole e le trae dal proprio vissuto più intimo e reale, più maturo e sofferto. Ma, come poesia inusuale, è anche un' arma sincronica e diacronica, che pur fondendo realtà e bellezza, sa di dolore e di speranza, di natura e di amicizia, Una poesia, dunque, mi sia consentito dirlo, a tutto tondo e che abbraccia tanto il mondo del pensiero e della razionalità quanto quello dell'emozione e del sentimento.” D'altronde, anche questo fa parte della preparazione culturale della professoressa Landò, vincitrice sia della cattedra di storia e filosofia che di quella di storia dell'arte, e curatrice, all'inizio degli Anni Duemila, di cataloghi importanti come quello del Museo Lorenzo Garaventa e di quello del Museo del risorgimento, entrambi a Chiavari. Fra le molte poesie di questa silloge più felicemente riuscite, un'attenzione particolare dedico alla bella poesia eponima (“Note e notte”), ricca di umanità e di arte, ispirata ad una fine poetessa amica (Danila Boggiano): la composizione, nel suo genere, è un capolavoro di sensibilità e di partecipazione, sia dal punto di vista della poetessa che da quello della madre. Essa è collocata materialmente solo alla fine del libro, nella parte delle “Dedicate”, ma permea di sé tutto il resto dell'opera, comprese le liriche in cui si esprime il trionfo dei colori, dei futili ma preziosi “coriandoli”, e la gioia come interfaccia del dolore, della struggente visione estetico-spirituale della vita. Un'esaltazione particolare della magica bravura di Elvira nel giostrare coi “coriandoli” e coi colori (tra l'altro, è anche pittrice) è messa in rilievo da Vittorio Civitella nella sua “Postfazione”, non meno appassionata ed entusiasta della “Prefazione” di Poggio nella esegesi poetica, con l'aggiunta della sua speciale sensibilità di storico per i fatti, per le cose, per i ragionamenti. E ne esce non tanto un saggio, quanto “una sintesi degli umori profondi determinati dalla lettura e dalla compitazione delle liriche (di Elvira).” Luigi De Rosa Elvira Landò Gazzolo – Note e notte – Ed. Internòs – Chiavari (Genova)-pag.119- euro 12
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«UN SILENZIO FREQUENTATO DALLA LEGGEREZZA DELL’OLTRE» di Marina Caracciolo
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N questa sua più recente opera poetica, l’Autore realizza una sintassi inventiva e formale in parte diversa rispetto alle due sillogi precedenti, Un’ombra negli occhi (2016) e Fu il vento a portarti (2015): al posto di un discorsivo e malinconico divagare sullo spartiacque che separa il mondo reale dal mistero dell’inconoscibile, qui compaiono, annodati a un solo filo, tre decine di brevi testi, tutti armoniosamente conseguenti e complementari, e pur tuttavia indipendenti e staccati l’uno dall’altro. «Ogni quartina – scrive Emerico Gachery nella postfazione – è molto “se stessa”, ha una sua intensa autonomia, richiede una sosta pensosa». Le 30 quartine (cuartetas nella traduzione in spagnolo approntata dall’Autore) possono essere viste come una galleria di piccoli e preziosi quadri, dove all’interno di ciascun dipinto il poeta rintraccia e raffigura, con pennellate rapide ma sempre delicate, il suo mondo di idee e di pensieri, di luci e di ombre, di immagini e suggestioni in grado di dare nitida forma al suo fantasticare nel momento stesso in cui misteriosamente trasfigurano una realtà che a tratti si svela, ma solo in parte, negandosi di continuo ad un’aperta, totale rappresentazione di sé medesima. Questi «Canti e Silenzio», d’altronde, solo a prima vista si allontanano dalla consueta ars poetica di Giannicola Ceccarossi. Le analogie con Un’ombra negli occhi, ad esempio, affiorano evidenti già nella struttura della silloge: anche qui – come là – siamo di fronte a una composizione tripartita e rigorosamente simmetrica. Dieci quartine per ciascuna delle tre parti. Come in una collana di trenta perle (e non a caso Antonio Bonchino parla nella prefazione di un’ «alta oreficeria formale» che gli ricorda lo Jugendstil), ogni decina di ele-
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menti è separata da quella successiva da una specie di fermaglio, un pregiato ornamento costituito da uno splendido esergo. Il primo, un verso del mistico persiano Jalāl al Dīn Muhammad Rūmī, recita: «La brezza dell’alba ha segreti da dirti». Ecco, la porta si è aperta, siamo già entrati nell’universo poetico di Ceccarossi. Il verso citato, pur appartenendo a un poeta del XIII secolo, ci sembra invece una creazione originale del nostro Autore. Come scrive il romanziere spagnolo Carlos Ruiz Zafón: «I libri sono specchi: riflettono ciò che abbiamo dentro». Forse senza saperlo lui stesso, Ceccarossi ha trovato in questa antica poesia un suo «specchiato sembiante», una pura e dolcissima immagine che è perfetta controfigura della sua anima lirica. La luce soffusa dell’aurora pare sul punto di svelare arcane verità mentre avvolge in un meraviglioso sortilegio le orme del poeta, che da qui, appunto, comincia il suo itinerario. E così, nell’esergo della seconda decina di cuartetas, è Antonio Machado a prestare la sua voce al poeta: «Io non conosco leggende di antica letizia / ma vecchie storie di malinconia». E sono proprio antiche storie di malinconia a divenire leggendarie in versi come La solitudine è fascio d’erba che avvolge e frastorna Accanto al respiro un nodoso albero senza fronde In questa Natura spoglia e deserta, il poeta percorre il suo cammino colmo di meraviglie e irto di dubbi; il suo difficile viaggio verso «lo specchio dell’anima», per scoprire e riscoprirsi, per trovare e ritrovarsi. Egli brama una pura luce di verità che diradi ogni nebbia: ma arduo è il raggiungerla, poiché a più riprese pare velarsi, negarsi ostinatamente, come un enigma insoluto e insolvibile. La ricerca spirituale del poeta – che abbraccia nei suoi versi l’incanto della Vita come le rive ignote e oscure dell’Ultraterreno, le dolci o amare memorie come le vaghe speranze, le brume caliginose come l’azzurro di un terso cielo estivo – si aggira in una soffice nuvola
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di silenzio. Non un silenzio cupo, vuoto, ma piuttosto una sorta di dimensione sospesa in cui si affollano, sommessi, mille pensieri e invocazioni. Non parlerò Lascerò nell’oscurità le mie paure Molte Come le preghiere Nel suo cammino egli attraversa una dolorosa penombra, ma tende quasi con impazienza a sfociare in solari certezze, su erti sentieri che conducono a una terra nuova, dove «tutto è chiarore». I dubbi sull’Oltre assillano ancora e sempre i pensieri del poeta. Egli cerca per ogni dove una scintilla di pace che doni serenità al suo spirito, e la trova nei petali di un fiore, in voci di farfalle, nel vento e nella notte, in una nidiata di aquiloni come in mille fiumi di mirto. Ma la fitta, pesante nebbia stenta a svanire; la foschia continua a velare la luce limpida degli astri. Il poeta anela alla gioia, ad una felicità che non debba perire, ad un balsamo che lenisca e cancelli ogni ferita Sarò fanciullo in estate E a mani giunte pregherò che i soffi del vento non mi lascino altri graffi sulle dita L’evanescente inconsistenza delle illusioni urta e si sgretola contro l’inesorabile caducità delle cose. «È la pietra una fronte su cui gemono i sogni», recita il verso di Federico Garcia Lorca che introduce la terza parte della raccolta, le ultime dieci quartine. – Quanto vivrò ancora? –, si chiede il poeta: Il cerchio si sta chiudendo all’ombra degli aranci. Ma la volontà di superare il dramma dell’umana provvisorietà si rivela infine più forte e lascia prevalere la speranza in una diversa continuità dell’esistere, tanto da dire con fermezza: Io volo verso l’infinito /e forse oltre. In questo volo più alto si strapperanno i lacci del contingente, si chiuderanno le piaghe dolorose ancora aperte, saranno spezzati
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per sempre i rami secchi della memoria… Come già nel lungo finale (Meditativo) che conclude la precedente opera poetica (Un’ ombra negli occhi) le ansie e i dubbi si placano alfine nella certezza che il futuro è pace e altri echi, così, in questi «Canti e Silenzio», nell’ultima quartina si legge: Io ci sarò sempre /Anche dopo. I sogni che gemono contro una fronte di pietra sono dunque sopravvissuti, sono riusciti a sconfiggere dubbi e disillusioni, sono rimasti oltre l’ultimo orizzonte, oltre la vuota aridità del nulla. Hanno ottenuto la loro rivincita a dispetto di ogni amarezza, poiché, dice il poeta Di giorno in giorno sfumano le illusioni mentre sciolgo suoni e ricordi Poi la neve mi lascia nel cuore un’orma fresca d’amore Marina Caracciolo CANTI e SILENZIO - CANTOS Y SILENCIO. Quartine - Cuartetas (Poesie di Giannicola Ceccarossi. Prefazione di Antonio Bonchino. Postfazione di Emerico Giachery. Ibiskos-Ulivieri, Empoli 2017).
SOTTO LO STRATO Il cielo è grigio, i monti sono scuri. Aleggia nell'aria un silenzio sospeso, un nonsoché di ambiguo, una tristezza che non si dilata, che procede seria, decisa. Scomparsi il sorriso e la speranza, anche il desiderio di mirare all'azzurro (che non c'è), al sole (che non appare), al divenire (che s'è arrestato), all'entusiasmo (che s'è afflosciato). Eppure c'è, sotto lo strato di piombo dell'abulia, tanta voglia di volare oltre il negativo, di raggiungere l'arcobaleno, di adagiarsi nella sua cuna colorata di brio e di ottimismo e andare a cercare Fata Poesia. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo
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ENRICO ROVEGNO: IL CIELO È PAZIENTE di Liliana Porro Andriuoli D familiares s’intitolava il precedente libro di versi di Enrico Rovegno, apparso nel 2005, e Altri versi ad familiares è il titolo della prima sezione del suo nuovo libro Il cielo è paziente, uscito nel 2016, quasi a voler indicare e far rimarcare una linea di continuità nella propria ispirazione. (Non vanno d’altra parte dimenticate nemmeno poesie quali A mio padre III e A mia figlia del precedente libro, Sul dorso del pesce, risalente al 1988). E non a caso, anche in questa sua nuova silloge, Rovegno dedica diverse delle sue liriche più riuscite alla moglie e ai figli e di recente anche alla nipotina Maddalena, confermando, nel parlare della sua famiglia, non soltanto la sua capacità di resa poetica, ma anche la sua profonda umanità e la ricchezza del suo sentire. Si veda a tale proposito, tra le poesie dedicate ai figli, innanzi tutto quella con la quale il libro si apre, A Giovanni per i suoi diciotto anni, dove troviamo versi quali: “Ch’io possa dire tutto il bene di te / figlio mio, che tu possa sentire / quanto è forte l’amore che ci lega”. Si veda pure la poesia Per Maddalena, dedicata alla nipotina che muove i primi passi: “E però quello che veramente mi stupisce / è che ci sia, che esista, che sia giunta / a rischiararci la vita inaspet-
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tata”. E, tra le poesie dedicate alla moglie Roberta, si veda Uno di due, dove si legge: “Penso che io ti ho amata molto prima / che mi si svelasse a pieno il tuo mistero, / prima che ballassimo insieme qualche lento, / prima che aspettassimo l’alba a passo Sella”, versi nei quali l’amore è espresso in maniera convincente ed affettuosa. Ma non soltanto verso i congiunti Rovegno esprime il proprio affetto, bensì anche verso il suo prossimo, come dimostrano alcune poesie, piene di tristezza e di dolore, da lui dedicate ad amici scomparsi. Prima tra tutte va citata Lamento per Alcide, dove scrive: “Così lo so, risorgeremo, / ma umano e di noi vivi è il lamento, / e stasera sgorga per te il mio lamento, / apre le ali sulla corrente calda del dolore”. Si legga anche Lettera per un amico, nella quale il poeta piange la scomparsa di qualcuno che gli fu molto caro, troppo presto mancato al suo affetto. Poeta intimamente cristiano, Rovegno non può infatti annullare il dolore che avverte per la perdita dell’amico, seppure è convinto che alla nostra morte non tutto finisca, ma faccia seguito un’altra vita, eterna e più perfetta della prima. È quanto può ricavarsi anche da una poesia come Dopo le Ceneri, che così termina: “Noi siamo luce / chiamata per amore a farsi storia / … / noi siamo luce / che tende senza sosta a un’altra luce”. Nella seconda sezione del libro, Prosopopee (e altro), troviamo poesie dall’ andamento schiettamente meditativo, come Parole di avvento (Attesa di Simeone), dove la voce del poeta si fa più tesa, nell’invocare Dio, perché venga e doni a tutti noi la sua pace e il suo ristoro, come accade nella preghiera di Simeone: “Vieni Signore, anche senza le celesti rote / e le beate schiere di serafini in volo, / … / vieni negli interstizi del tempo / e accendi il fuoco dell’eterno, / vieni Signore, ad abitare ancora in mezzo ai tuoi / … / Sono in attesa del tuo passo leggero. / Vorrei essere sveglio e pronto / quando infine verrai alla mia porta”. S’incontra inoltre spesso in queste poesie il sentimento della nostra pochezza, che si ri-
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scatta però nella Fede in un Regno nel quale ogni ingiustizia sarà sanata ed ogni sofferenza lenita, sicché il dolore del mondo è visto come uno strumento di purificazione necessario per raggiungere la Gioia Eterna. A sorreggerci, comunque, c’è sempre la bellezza, che “intona il suo canto sottovoce” e “ci danza intorno con ali di farfalla” (La figura nel tappeto). Ed è una bellezza che si manifesta ovunque nel Creato, come nella “brezza che increspa appena il mare all’ alba”, nel “saluto della tua bambina”, nel fischio del merlo, nei “primi accordi della sonata «Al chiar di luna», ecc. (Ivi). Di sovente poi la meditazione del poeta si rivolge anche ad avvenimenti consueti ed a comuni situazioni della nostra quotidiana esistenza, come accade in Parole nella sera, scritta in occasione del compimento del suo sessantesimo compleanno; una poesia nella quale, consapevole che ormai parecchi sono gli anni che si è lasciato alle spalle, Rovegno così si esprime pensando allo “scatto dell’età”, recentemente avvertito: “… è come d’improvviso cambi il suono, / non più canto allegro di ruscello / o quieto mormorio del fiume sotto il ponte, / di colpo è rombo assordante che t’inghiotte / e tutto nel suo gorgo già scompare”. Ovunque poi, nelle poesie di questa seconda sezione, troviamo notazioni che ci portano a riflettere, come avviene in Variazioni sul tema dell’anima, dove leggiamo: “Ho ripreso la mia anima / per i suoi molti tradimenti: / non puoi – le ho detto – continuare / a inseguire le volpi piccoline / di tutti i desideri…” o come avviene in L’ impennata, dove si legge: “Lo scarto vero, l’ impennata / sarebbe infine la scelta d’andare / lungo la strada che non sai / per raggiungere il luogo che non sai, / confidando che giusto sia il richiamo”. Di carattere più specificatamente meditativo è qui Filosofi al bar, che inizia: “L’ essere stesso / prende dal divenire la sua forma” e così continua: “E siamo proprio noi quel fiume dove mai / la stessa acqua bagna chi s’immerge: / tu sei le storie che hai vis-
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sute, / le esperienze che mutano col tempo”. Cartoline, la sezione successiva, la terza, contiene poesie che fermano istanti di vita, durante un viaggio che sempre si rinnova. Così è, ad esempio, per la visione incomparabile dell’oro del duomo di Monreale (da Monreale); o per quella “della laguna Grey dove si arenano / iceberg verdeazzurri alla deriva” (Dalle Torres del Paine); o per quell’altra, scritta da Siviglia, che si dischiude incomparabile, allorché il poeta sale “in cima alla Giralda / rampa dopo rampa fino al campanile” (da Siviglia, Cattedrale). Si tratta di momenti colti con particolare bravura, che inducono anche alla meditazione, come avviene nella “cartolina” da Marina di Massa, dove leggiamo questi versi: “la vita è stata un lampo, mi ripeto, / un flash che illumina i contorni / di tutte le storie che fanno la tua storia, / punto di luce dentro il buio del non essere”. La penultima sezione del libro, I nomi e gli anni, contiene poesie nate dal ricordo di un tempo ormai lontano, come è per quelle che rievocano la signorina Costa e la signora Coppola, ormai scomparse, ma sempre ferme nella memoria di Rovegno, così come è ferma nella sua memoria La rotonda di Ravenna, con “il posto delle automobili a pedali / in fondo a corso Garibaldi, / in vista al mare” (VII). Così è pure delle poesie dalle quali si affacciano i campioni delle corse automobilistiche di quando Rovegno era ragazzo: Fangio, Taruffi, e Nuvolari, nonché delle corse ciclistiche: Nencini, Vito Favero, Baldini, ecc. Altri ricordi riguardano conoscenti, come la Banzatti, amica di una zia dell’ autore o i compagni di un tempo andato, con i quali assiduamente giocava. Il libro si chiude con la sezione Il Finis, nella quale più tesa si fa la parola del poeta nell’evocare stagioni perdute: “Soltanto ora forse capisco / che non fu un gioco / partecipare alla caccia, / non fu passare il tempo, / ma piuttosto che tutto era disposto / per un altro agguato: / il sogno di un kairòs / a portata di mano o di sguardo” (Rivelazione).
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Gli ultimi versi della raccolta suonano come un canto di vittoria e di speranza: “Anche accecato dal lampo / dei mille verdi desideri, / ritroverò la strada: / non riderà per ultimo Berlicche” (Il Finis). È questo il messaggio che Enrico Rovegno ha voluto darci con Il cielo è paziente: una parola di consolazione e di fiducia nell’avvenire, che allo stesso tempo costituisce una severa lezione di stile. Liliana Porro Andriuoli
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non ci sono mani che possono dare. Senza appesantimenti che tengono in masse attaccate e fuori dagli stagni infidi volando dalle squame e dalle pietre che sono [ addosso. I patimenti hanno fatto a pezzi il corpo, abbiamo come un ritorno indietro, alle aperte forze primigenie che corrono per i luoghi profondi dell’animo. Leonardo Selvaggi Torino
ENRICO ROVEGNO: IL CIELO È PAZIENTE (Edizioni Gammarò, Sestri Levante, € 14,00)
ROSA BIANCA SUL CIGLIO DEL FOSSATO LE NATURALI ATTRAZIONI I La naturalezza allinea le asperità che non fanno muovere, s’infiltra in ogni angolo, cosparge di levità tutti i luoghi. La vedi intatta, di permanente forma, fa respirare come l’aria pura, niente la deturpa, la limpidezza è la sua veste. Sembra immobilità, ma è immediatezza di movimenti, corre dove c’è spazio e alla luce: attratta dal bene aprendo vie per stare insieme. Non ci sono ostacoli che fermano dietro ai [giochi in mezzo al cortile nelle ore della sera: le voci eccitate che si afferrano per le mani con uguali fremiti, si attraggono lanciate per nuovi giri, verso i nascondigli delle ombre dietro i muri. II Le ginocchia piegate sul letto, schietto slancio di vicinanza e di contentezza semplice. Da dentro escono le parole del cuore, spinte che fanno andare incontro. La vita senza scorie leggera che viene libera, per prove dure rimaneggiata. Un lavoro di filtro ha compresso detergendo dagli umori tetri, una trasparenza di sottili trame si è avuta. Vedi dentro, non hai davanti l’inerzia del masso opaco. È un dono che nessuno ha fatto,
solitudine splendida sospesa sul futuro e sul passato. Quanto al nostro presente è come un funambolo che esita sopra una corda tesa. Luigi De Rosa Rapallo, Genova
DOV’È DIO? Talun si crede di trovare Dio nell’umane vicende, sulla terra; fatica vana, inutile, desìo: l’ira del forte l’innocente atterra. Altri lo fan presente nella guerra che al vinto sempre fa pagare il fio, ma da insensato il vero non afferra: tra i figli in lotta non combatte Dio. Chi crede ch’Egli sia nel tribunale, su quella croce ov’è inchiodato Cristo, sappia che Cristo è giudice imparziale. Nessun lo cerca invece in fondo al cuore: ivi c’è Dio, che inteso ma non visto, condanna l’empietà, spinge all’amore. Francesco Fiumara (1915 - 2007)
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MATTEO DALENA PUTTANE ANTIFASCISTE di Giuseppina Bosco L saggio di Matteo Dalena “Puttane antifasciste” è uno studio di notevole importanza, in quanto l’autore è riuscito attraverso questa interessante ricerca storica a dare voce a ventisette donne iscritte nel casellario giudiziario come prostitute clandestine perché, quando erano arrestate, si abbandonavano ad imprecazioni e insulti contro il regime e lo stesso duce. Per tale motivo venivano recluse oltre che per l’oltraggio alla pubblica moralità anche come antifasciste e, peggio ancora, come sovversive. Le loro piccole storie, per nulla conosciute e condannate all’oblio, vengono così alla ribalta. Spesso la storia ufficiale nega alle donne il ruolo di protagoniste di avvenimenti centrali nella storia d’Italia, dando solo spazio agli uomini, così come è avvenuto per la Resistenza. Molti storici hanno dato testimonianza di questo processo, mettendo in evidenza il ruolo meno visibile delle partigiane in armi rispetto a quello degli uomini, soprattutto perché alle donne venivano attribuiti compiti logistici e di assistenza, mentre agli uomini competeva lo scontro armato. Allo stesso modo non è stata mai fatta menzione, come esempio di antifascismo femminile, di Marion Cave Rosselli, moglie di Carlo Rosselli, che ha avuto un ruolo di primo
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piano nell’esilio del marito. In un saggio storiografico, infatti, la storica Patrizia Gabrielli descrive l’antifascismo italiano << e il modo in cui viene trattato dagli storici – come un “tempio della virilità”, in cui le donne erano, per forza, invisibili. Quando riuscivano a comparire, venivano presentate esclusivamente sotto la figura di “vedova sacrificale” o di “mater dolorosa”, ma mai come individui impegnati nella lotta antifascista per scelta personale. Ciò è dovuto, in larga misura, al fatto che in Italia, la storia del fascismo e dell’antifascismo sia stata scritta da storici politici che si sono focalizzati esclusivamente sulle organizzazioni tradizionali e sul loro comando, da cui le donne furono escluse.>> (1) Le storie di queste donne venute alla luce grazie alle ricerche di Dalena e di cui si conoscono i nomi, (Giuseppina Coribello, Filomena Borrelli, Italia Vizzaccaro, Cunegonda Longini, Teresa Pavonello, Agata Agosta, Maria Marocchi, Agnese Adeloni, Francesca Accietto, Maria Borzachiello, Romana Chiesa, Elisa Cortesa, Francesca Frasca, Paolina d’Alfonsi, Annunziata Manganelli, Palmira Borio, Vittoria Polo, Grazia Granata, Libera Hriaz, Adele Roscaccio, Giuseppa Capasso, Maria Degli Esposti, Celestina Brandelion, Irma Molinari, Michelina Ciocci, Emilia Carnevali, ecc…), sono per lo più storie di emarginazione, sofferenza e di autodeterminazione. E, come dice l’autore,<< sono donne che hanno vissuto anzitutto del proprio corpo, oggetto di attenzioni, discorsi, ispezioni, e catalogazioni da parte di clienti, medici, agenti di pubblica sicurezza, militi e poi giornalisti, burocrati, questori, pretori e prefetti. Tutti questi maschi>>.(2) E il filosofo M. Foucault sostiene, <<Perché qualcosa di esse giungesse fino a noi è stato tuttavia necessario che un fascio di luce le illuminasse anche solo per un istante. […] quel che le strappa alla notte in cui avrebbero potuto, e forse dovuto rimanere, è l’essersi scontrate con il potere: se ciò non fosse avvenuto, nessuna parola verrebbe probabilmente a ricordarci il loro fugace percorso.>> (3) Queste ventisette donne escono
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invece dalle carte del Casellario Politico Centrale per diventare le protagoniste di esistenze marginali e infime che dimorano nei bassi vicoli delle città: nel rione S. Lucia a Napoli, nel centro storico degradato di Cosenza e nei rioni di Roma. In uno di questi “bassi dell’amore venduto”, al Vicolo II, come ci documenta Matteo Dalena, <<Portata a spalla da una guardia di pubblica sicurezza riemerge, logora e malata, dalle tenebre di una stamberga, Filomena Verletti da San Giovanni in Fiore. Ha solo sedici anni, è sifilitica e priva di mezzi di sussistenza se non quelli forniti dalle proprie, tenere carni.>> Inoltre, l’autore ci rende noto che, oltre ai fascicoli esistenti della polizia politica che nel 1926 fu l’OVRA, diretta da Arturo Bocchini, l’attuale inventario digitale del CPC facilita le ricerche di tutti gli schedati <<per nome, cognome, luogo di nascita, colore politico e soprattutto mestiere.>>, per cui centotrentadue risultano <<le donne schedate come “prostituta” in tutta Italia, altre quattro nella forma “meretrice” e la maggior parte di esse entra nel CPC nel periodo compreso tra il 1927 e il 1934.>> Queste donne, se accusate di essere solo prostitute, <<dovevano essere sanzionate per misure di pubblica moralità, per “adescamento al libertinaggio”,[…] se invece si scagliavano contro il regime, venivano perseguite in linea politica.>> Bastavano poche parole, del tipo <<Carogna Mussolini, per colpa sua voialtri ci arrestate!>> (frase pronunciata da Adele Roscaccio) oppure <<Se ammazzano Mussolini non mi arresterete più!>> (frase pronunciata da Maria Degli Esposti).(5) per ritenerle delle pericolose sovversive. Dalena, inoltre, documenta che per queste donne, non vi era solo il rischio del confino, in lande desolate soprattutto del meridione, ma anche della reclusione nei sifilicomi, cioè strutture dedicate alla cura di patologie veneree; altre, a cui veniva diagnosticata una “demenza paranoide”, invece, venivano rinchiuse in manicomi fino alla morte. È stata proprio questa la sorte di Maria Degli Esposti, prostituta bolognese schedata come anti-
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fascista nel 1928 e che nelle carte di polizia viene bollata come “ebete”. Evidentemente per i funzionari di polizia Maria aveva tratti fisionomici che tradivano l’idiozia di cui, secondo le autorità, era succube. Per la polizia Maria infatti presentava tutte quelle caratteristiche che doveva avere una prostituta nata: non aveva pudore, era dedita all’alcol e vendeva il proprio corpo. «Si tratta dell’esempio più lampante di come in epoca fascista le teorie di Lombroso e dei post lombrosiani sulla cosiddetta “donna delinquente” fossero penetrate nei metodi di polizia scientifica» dice Dalena.>>(5) Evidentemente questo connubio prostituzione – mala vita è funzionale ad un potere che sorveglia e punisce le forme irregolari di attività clandestina perché sfugge al controllo fiscale e sanitario e per questo le prostitute sono considerate ”pericolose”, ”sguaiate”, ”fomite di sporcizia e malanni”. Invece le case tollerate anche dal Regime presupponevano un gerarchia verticale in cui il tenutario/a, spesso “una ex prostituta affitta o è proprietaria dei locali occupati dalle meretrici”, le quali erano sottoposte al controllo periodico sul loro stato di salute ogni due giorni dall’autorità di pubblica sicurezza. Dunque se l’Italia fascista tollera la prostituzione perché alimenta l’ideologia macista del regime, è però necessario sottoporla ad una serie di “misure di contenimento” e “divieti”. Resta dunque il fatto che quelle donne “dalla dubbia condotta morale, non ubbidienti all’autorità familiare”, molto indipendenti possono “compromettere la stabilità sociale”. il destino di queste donne sarà il confino e i campi di detenzione femminile oppure il manicomio che è << luogo di esclusione e reclusione insieme […] che si riempie di donne psicologicamente sane ma bollate come libertine, indocili, irose, smorfiose, madri snaturate, ninfomani, erotiche, […] civettuole, cattive, petulanti, esibizioniste.>> (6) non per nulla brave donne, madri e mogli fasciste. Funzionale allo stato fascista, rifacendosi all’ analisi di M. Foucault in “Sorvegliare e punire”, era il controllo di forme di devianza, con le conseguenti misure coercitive, per evitare
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<<ogni forma di perturbazione nella società orizzontale, nella società civile>> (7) con ripercussioni nella classe dirigente della società verticale, nelle istituzioni giuridiche ed economiche. Giuseppina Bosco 1: Isabel Richet, “Marion Cave Rosselli and the transnational women’s antifascist networks”, Journal of Women’s History, Volume 24, Number 3, Fall 2012, pp. 117-139. (Article) 2: “Puttane antifasciste nelle carte di polizia”, M. Dalena, Collana Memorie, Ilfilorosso Editore 2017., p. 12 3: op. cit., nota 14: M. Foucault, “La vita degli uomini infami”, Il Mulino, Bologna 2009, p. 21 4: ACS, CPC, b. 1661 5: op. cit, p. 65-66 6: op. cit, pag. 126 7: M. Foucault, “Sorvegliare e punire”. Nascita della prigione, Einaudi, Torino, 1996
TECNOLOGIA DEL POETA ( Benedetto sia il cellulare, se...) Affondare la bocca in una rosa gonfia di pioggia e di profumo lontano dai telecomandi della pubblicità televisiva. Ma benedetto sia il telefono cellulare se con un'allegra suoneria ti raggiunge in ogni luogo dell'anima per donarti un saluto affettuoso! Luigi De Rosa Rapallo, Genova
FUORI DELL’USCIO DI CASA E' proprio necessario "fare un viaggio" per riposare, riacquiatare energia e riprendere, rivitalizzati, l'attività interrotta? L'esperienza insegna che non sempre è così. Si può attingere riposo, soddisfazione interiore senza andare lontano,
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fuori dell'uscio di casa. Se la ridente giornata di primavera, vestita d'estate, t'invita all'aperto, non esitare. Scacci via i pensieri invadenti, ti stendi su una sdraio e nelle braccia ti annicchi della tua solitudine. Il sole caldo ma non cocente, le dolci carezze del vento, lo specchio azzurro del cielo, il silenzio da un trillo soltanto soffuso d'uccello t'inondano di pace, ti cullano, in un magico ti pongono rilassante dormiveglia. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo al Volturno, Is
GHIACCIO CUORE Mi dici parole che bruciano speranze estreme. Il cuore è pendolo che batte mezzanotte. M’offri seni che sognavo dispiegate vele rigonfie e riviere i fianchi per distesi abbandoni. Puro miraggio è il dono del tuo ventre vasto che accarezzavo tenero marmo da levigare. Ora so che rechi solchi d’innumerevoli arature. Ma non importa penare per te che uguale sorridi se rantola moribondo o tripudia un cuore. Neppure ti sfiora l’abisso dove rotolarono mie primavere. Rocco Cambareri Da Da lontano - Ed. Le Petit Moineau, 1970.
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NINO FERRAÙ IN UN SAGGIO DI DOMEICO DEFELICE di Isabella Michela Affinito
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ORSE nei momenti in cui è capitato di stare insieme all’amico letterato, Nino Ferraù, non poteva immaginarsi l’ autore di questo saggio, il giornalista saggista poeta Domenico Defelice, che da lì a parecchi decenni più tardi ci sarebbe stato alquanto materiale adatto per raccontare chi è stato veramente Nino Ferraù e quale contributo abbia dato alla poesia contemporanea del Novecento. Purtroppo, il poeta galatese – nato nell’ ottobre del 1923 a Galati Mamertino in provincia di Messina – Nino Ferraù, ha raggiunto appena la soglia dei sessant’uno anni dacché
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la sua vita è stata stroncata da un infarto verso il Natale del 1984. È stato un grande amico del Nostro Direttore Domenico Defelice, basti leggere i testi delle lettere presenti in Appendice al Quaderno, scritte da Ferraù sin dal 1966 poi fino all’anno della sua prematura scomparsa. Lui diceva che viaggiava molto come quando era giovane e che incontrava sul continente sempre tanta gente, altri letterati come lui e che da lui volevano presentazioni di libri, prefazioni, giudizi critici, o semplicemente la sua compagnia di persona che non ha mai invidiato nessuno, tanto che ha affermato: «Chi mi uguaglia lo sento fratello, chi mi supera lo riconosco maestro. » (A pag.56). Non è stato un animo inquieto in cerca di che saziarsi, bensì un ricercatore di sentimenti dimenticati, di valori resistenti ai venti contrari. Ha scritto tanta poesia per spiegare la sua Sicilia, la sua gente, il suo modo di intendere l’Amore, la donna, le donne che ha amato e che l’hanno amato smisuratamente fino a ricevere dalla poetessa bolognese Eugenia Golinelli, anch’essa facente parte della sua corrente poetica denominata Ascendentismo, in dono la casa che divenne la « sede del nostro movimento per l’Italia settentrionale. » (A pag.50). All’inizio è stato condirettore della rivista fondata da Francesco Fiumara, ‘La Procellaria‘, con la quale si è fatto le ossa come si suol dire; in seguito è divenuto il direttore della sua rivista ‘Selezione poetica‘, che ha visto il transito di parecchi letterati del suo periodo tra la fine degli anni ’50 proseguendo per gli anni ’70, ma che come il suo direttore, purtroppo, non ha avuto una vita longeva. « (…) Selezione poetica, come sai, esce in due o tre numeri antologici annuali, poiché amministrativamente pesa quasi tutta sulle mie economie e io non desisto dal mio principio di non renderla un carrozzone aperto a chiunque, purché paghi. Infatti perdo tutti quegli abbonati che pur dimostrandosi generosi nel promettere contributi, mi mandano poesie non abbastanza valide per essere pubblicate. Essi credono che basti soltanto la ge-
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nerosità per essere ospitati in una rivista, ma per me occorre sopra tutto essere poeti. » (Da una sua lettera dell’agosto 1973, a pag. 51). Nino Ferraù è stato, dunque, giornalista, poeta, scrittore, critico, membro di giurie di concorsi letterari e anche pittore-grafico. Amava il bello in tutte le sue forme, il giusto, la regola, le proporzioni ideali secondo i canoni greci, lui che aveva nel sangue la millenaria eredità ellenica perché « (…) In Sicilia si nasce già contaminati da miti e leggende e Ferraù, come accennato, non fa eccezione; ne è talmente imbevuto, che mai sente il bisogno di raccontarli per filo e per segno, di descriverli minuziosamente, partendo dal presupposto che siano patrimonio universale, che tutti, come lui, debbano conoscerli; si limita, perciò, ad accennarne, ammantando in essi, calando, in essi, anche le proprie vicende. » (A pag.39). Quando il poeta Ferraù si trovava nella sua terra sembrava soffrire di mancanza di spazio, nel senso che la sua mente e la sua fisicità avevano bisogno di più aria intorno; e quando poi spaziava per il continente si sentiva attrarre dal suo luogo natio come un metallo attirato inevitabilmente dalla calamita. Così fu per tutta la sua vita. In questo suo instancabile andirivieni componeva sviscerando le sensazioni del momento e comprendendo che il mondo è sempre stato lo stesso, al di là delle mode vigenti, del progresso, delle tradizioni di ciascun popolo della terra; per cui è arrivato a concepire una poesia altamente significativa che spiega le verità valide dovunque e per sempre: « La Bellezza è soltanto nei musei./ Soltanto nei cimiteri è la Pace./ La Giustizia la praticano solo i vermi/ che in egual modo trattano il cadavere/ dei baroni e dei servi./ La Libertà passeggia incontrastata/ in un paese che si chiama Sogno,/ non segnato nella carta geografica./ La Mansuetudine odora/ di sangue d’agnello/ e scorticata pende dai ganci/ delle macellerie./ L’Onore è esposto al banco dei mercati/ trafitto dall’ asta/ d’una bandierina di carta/ che segna il prezzo./ La Verità/ abitualmente nuda/ sconta
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la sua condanna/ per oltraggio al pudore./ La Bontà/ con regolare processo/ è in croce./ Il Genio/ in esilio./ Il Merito/ sul rogo./ Sempre al potere/ i mostri. » (A pag.26). Ha viaggiato tanto, è vero; è stato amico del poeta di Modica Salvatore Quasimodo, del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, del pittore metafisico Giorgio De Chirico; ha reinventato il culto per la donna amandone molte senza creare rivalità fra loro e in questo modo voleva, desiderava risalire ‘il fiume’ procedendo controcorrente per sperimentare la limpidezza che si avverte ritornando alla fonte iniziale e così ha dato origine all’Ascendentismo, a cui presero parte altri letterati italiani sia donne che uomini. Chissà cos’altro avrebbe fatto se non fosse sopraggiunta improvvisa la sua morte: nessuno potrà mai dirlo; ci resta di Nino Ferraù la sua ineguagliabile poesia così siciliana, così italiana, per niente ermetica e rimpinguata fino all’impossibile d’amore vero! Isabella Michela Affinito Domenico Defelice: NINO FERRAÙ - Ed. Il Croco, Quaderno Letterario Supplemento al n.11 (Novembre 2016) di ‘Pomezia-Notizie’, pagg. 60, € 8,00.
ACIDO ALFA LIPOICO Come un tamburo gioco nervosamente a chiamarti per marciare, o ti sveglio con il gallo alla lotta del giorno il tuo fisico nutrimento, pieno di acidi, cammina attraverso le cellule, scala la natura del cervello, quindi non muori d'amore. Presta attenzione a questo: il tuo futuro è nelle tue mani! Il cuore è solo una sussidiaria. Teresinka Pereira USA - Traduz. di Giovanna Guzzardi, Australia
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LA DIMENSIONE VOLATILE E INTIMA DELLA MENTE di Salvatore D’Ambrosio
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due numeri dei quaderni letterari di Pomezia -Notizie “IL CROCO” relativi a Novembre e Dicembre 2017, e quello di gennaio 2018, hanno dal punto di vista della produzione lirica, una matrice comune. Le autrici, Giovanna Li Volti Guzzardi, Filomena Iovinella, Lina D’Incecco, sebbene poi vedremo con una centralità di pensiero e sentimenti diversi, trattano una materia cara ai poeti: il ricordo e le suggestioni. Prima di procedere dobbiamo dire una cosa che tutti sappiamo: lo scrivere poesia, come lo scrivere in generale, è qualcosa che scaturisce dalla mente. Ma cosa è la mente? Istintivamente siamo portati a apparentarla con il cervello, ma non è così. Il cervello è un organo come il cuore o il fegato, mentre la mente è una dimensione volatile e intima, sebbene non possa sussistere senza cervello. Se per caso si subisce una lesione al cervello, la mente ne risente per cui questa non può fare a meno del cervello. Però è la mente che interviene con le sensazioni e gli stimoli che provengono dall’ ambiente. E questi sono il frutto di una parte della sfera mentale elevatissima che è la coscienza. Capita spesso di fronte a episodi tragici come quella dei migranti morti in mare, di ascoltare dei commenti tali che fanno dire: “ma sei senza coscienza”. Questo si spiega perché la coscienza non è qualcosa che è dentro di noi, ma è qualcosa che è dentro e fuori di noi. È memoria, rapporti con il mondo, impressioni durature, colori, profumi, positività, ma anche negatività. Ne scaturisce che le responsabilità, le decisioni morali, non potrebbero avere luogo senza la memoria. Le
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sensazioni, i ricordi, la felicità e tutte le altre umane manifestazioni della memoria hanno un’unica matrice: l’attività dell’anima. Aristotele, Platone, Cleante di Asso e altri stoici e filosofi antichi, avevano sostenuto che l’anima soffriva le stesse sofferenze del corpo e viceversa, per cui un ricordo può provocare sensazioni come fuoco di fiamma. Giovanna Li Volti Guzzardi titola la sua silloge vincitrice del 3° premio Città di Pomezia RICORDI COCENTI, e nei suoi versi i sentimenti e gli affetti, divenuti bagaglio indelebile della sua mente, sono cresciuti e si sono accumulati nel corso degli anni in virtù del suo sentire interno e esterno. È il suo continuo esercitare l’animo e la coscienza che le fa apprezzare ogni dono sensitivo che le viene elargito. Una giungla d’amore e di dolci sentimenti,/trasformati in lacrime e dolore,/una tragedia per il nostro cuore. Il dolore dell’anima diventa dolore della carne. L’immateriale si fa materiale. Addirittura in Nessun odore, le sue pene d’ animo le vuotano la mente di sensazioni come odori, appetito, che si volatilizzano. La mente non è più in accordo con l’organo cervello. Persiste però la coscienza di sé che poco a poco le restituisce l’apertura dell’animo alla gioia. La silloge della Li volti Guzzardi è tutto un susseguirsi, pur nella semplicità espressiva del verso, di rimandi mentali da esternare e compartecipare agli altri. La mente e il corpo sono commiste tra loro e per la Guzzardi sono, come diceva Cartesio “un sol tutto”. Come accade in Filomena Iovinella. Anzi direi che nella sua silloge A MIO PADRE, vincitrice del 4° premio Città di Pomezia 2017, c’è oltre che alla sua mente e corpo, anche il corpo del padre che non è più presente. Nell’ anteprima titolata “La fragilità della gloria”, c’è tutto il concetto della mente che registra per sé ciò che è volatile e insignificante per altri: “Si sente persino l’odore della cucina di quel cibo genuino dell’ora di pranzo …”. C’è ancora il dolore “ di terrena corporalità fallimentare”.
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Poi la memoria dei fatti vissuti con la persona amata e che, per di più, l’ ha generata travalica la mente stessa e la conduce a una presa di coscienza che le cose non sono più come un tempo. L’ attivazione della coscienza prendendola per mano le “riempie l’anima di serenità …”. E il suo animo si apre alle sensazioni al punto tale che si fanno materia, generando un terzo occhio al centro del suo corpo, per gustare l’effimero della mente anche nell’oltre. C’è tutto l’umano, la materia, il giornaliero che Filomena possiede di quella presenza che ora è assenza colorata di freddo. Tutto è vuoto, le scarpe, la riva di un fiume, i sogni; e si avverte un grande freddo: Iceberg,Vicino al sole, Grotta. E in Ave Maria l’anima sofferente dal distacco paterno, si fa carne sofferente nell’estremo saluto della … carne/ dalla mia …, che è come strappata via, lacerata. La mancanza dell’affetto paterno la rende nuda nel corpo e nella mente. Le interiorità della mente di Lina D’ Incecco, ci dicono invece che spesso esse sono la sommatoria delle esteriorità del mondo. E la sua silloge SUGGESTIONI, secondo premio Città di Pomezia 2017, è la narrazione della sua interiorità che si è nutrita costantemente dell’esterno. Da queste convinzioni scaturiscono le narrazioni in versi di episodi che Heidegger chiamava Dasein, cioè essere nel mondo. Concetto notato anche da Defelice che, nella presentazione del Quaderno del Croco della D’Incecco, dice:”… è poetessa che non si perde in smancerie e in vani quanto assurdi scavi dell’io e guarda all’uomo come creatura in un mondo …” E il mondo si presenta quale è: bello, brutto, incomprensibile il più delle volte, ma che fornisce alla mente e al corpo
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proprietà della stessa realtà. Realtà che arrivano alla mente che taciturna “ muoveva il cuore/e come onda/ avvolgeva l’ animo/ predisposto alla contemplazione”. Ecco la presenza allora di tutti gli elementi indispensabili al poeta: la mente, il cuore, la coscienza, l’anima e il corpo, che è il tramite di ogni cosa. Però bisogna essere attenti, ecco la contemplazione a cui fa riferimento la poetessa, perché se la moltitudine delle sensazioni vengono tutte assieme, esse impediscono ogni attività dello spirito. Essendo, poi, spirito e mente due concetti estremamente labili, tutto può finire in una grande confusione e la mente non fa più, per il tramite della poesia, cammei /con la materia/ delle emozioni/… Salvatore D’Ambrosio
IL BATTELLO Era un battello dalle vele rosse e dal porto del piccolo paese la spola faceva lungo le coste. Il ponte, i suoi colori, ai ragazzi la fantasia accendevano. Atteso ogni suo arrivo la gente sul molo veniva a fare mercanzia. Così per anni. Giace ora tra le carcasse a riva su cui passare si vedono uccelli del mare. Franco Saccà (1911 - 1974)
INTELLIGENZA ARTIFICIALE Presto delle macchine penseranno al posto degli umani Presto delle macchine vivranno al posto degli umani Obsoleti gli umani non avranno più altro da fare che spegnersi quali macchine Béatrice Gaudy Parigi, Francia
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Febbraio 2018
GLI ANNI SENZA LIMITI di Leonardo Selvaggi Il lenzuolo disteso all’aperto. GUALE momento di chiusura meccanica della serranda, gli automi stanno attenti non vogliono che entri più luce di quella voluta. Io ho lasciato aperto il balcone; non mi sono sentito questa sera la pelle addosso, la penombra come lenzuolo mi ha tenuto ravvolto, diafana con il candore mobile dell’aria. Ho portato l mio sonno per la strada, trasportato incontro a quelli che di notte la rabbia esplodono, gridando forte la loro ferite ubriache. Nella luce adombrata felpata taglio la sagoma come da fili invisibili orlata, i passi miei leggeri davanti alla panchina. Il vento inaspettato che viene dalle montagne penetra nella camera, spingendo fasce di sole. Freschezza mobile nella casa, aridità attorno a letto che è muto senza amore, le pareti hanno poco da dire. Il matrimonio di mio padre che si portò la sposa da un paese vicino. Il falco che dilania la gallinella, messi gli artigli entro le piume intatte, il becco si bea traforando l’intestino. La voracità impaziente attraversando la serata inoltrata. La pioggia tempestosa che interrompe il corteo significa dovizia di piaceri, fatiche di una vita intera. Non c’era bisogno che la suocera guardasse il lenzuolo disteso all’aperto, fatica invece ci voleva invece ad aprire i petali del fiore che il profumo resistente teneva stretti geloso di se stesso. All’inizio poco cammino e tanto ardore ad andare verso l’orizzonte. Dopo gli anni lo spazio si è allungato alle spalle, ci si guarda intorno per paura in cerca di sicurezza. La solita storia di quelle cose che non si possono comprare. Si annidano dentro di noi ricchezze che farebbero nuovo il mondo delle persone. L’egoismo è una barriera di cecità e di malvagia acrimonia verso gli altri. I principi che tanto calore umano detengono potrebbero immettere in ciascuno fiamme di vita, benessere totale come flussi di felice comunione con quello che è intorno a noi. Espressioni artificiose con il gusto del macabro, parole vote che vogliono creare ef-
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fetto in chi ascolta. Gioco di contrapposizione sia nel contenuto che nella disposizione delle parti scritte con un enorme capolettera all’ inizio dell’articolo che sa di falsa idolatria. Affossamento della semplicità d’animo che vede con immediatezza ed equilibrata commisurazione il vero. Il sesso troppo usato e barattato in tanti modi, non ha sapore, un meccanico sovrapporsi, quasi il corpo fattosi di metallo, la pelle munta rinsecchita non ha più goccia di linfa. Faccia rotonda con il sorriso dell’occhio che ha sapore ancora di latte, cammina rientrata nel grembo; qualcosa rimasta a metà che appena si regge, risente l’ ultimo contatto con il calore mantenuto. Una giumenta distesa di lato ricca di glutei e fianchi; tutta la sagoma divisa in simmetriche parti, si scova l’occhio dell’insieme nel taglio che scopre la carne fumigante e sapida. È poesia quando il corpo si fa sintesi; spirituale la fusione legati, in un solo flusso si conducono il sangue e il respiro. Punto del sistema, sincronia del tutto, la bocca che sugge dall’ altro essere, quale aggancio voltaico, superandosi il particolare in un afflato continuo con le cose che esistono. Non puoi contraddirla, gira la groppa, recalcitra e dice di no, tira avanti la mula, si va d’accordo, due bestie che si seguono, ma non si fanno confronti. Cammino con le mie fisime, la cavezza strappata per terra. La meccanicità puntigliosa non lascia adito a liberi giudizi. L’afa ha fatto un miracolo, sono ritornato indietro, la scioltezza dei pensieri segue i desideri che l’istinto dei primi anni sbandiera correndo dietro fantasmagoriche illusioni, i programmi e gli impulsi giovanili, i fremiti si scuotono dai duri irragionevoli pregiudizi. Figlio di famiglia, gli umori mutevoli; la stanchezza e la rabbia degli arti che vogliono svincolarsi. Cominciano le dimore fuori del paese, le strettezze finanziarie non valgono rispetto al libero girovagare dei pensieri dietro le sensazioni che non hanno compressione, svolazzano nei luoghi diversi, selvatiche e timorose di prendere il miele dai bei fiori della primavera cominciata. Il piacere sognato di stare con me stesso, le attese nella tarda sera alla luce del co-
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modino. Appena dopo il concorso, l’orgoglio di poter avere un modo di essere. L’esuberanza incontenibile, manca la serenità per gestirla e goderla, è una fiammata che mi percorre, non so prendere le occasioni e sono sfuggente. Ma l’accensione della mente dà le ali alla fantasia delle espressioni. Penso avido che gli anni sono senza limiti, la carriera può riempirsi. I viaggi all’intorno della residenza; la passeggiate della gioventù all’ora del primo pomeriggio, una policromia di facce, la magia delle simpatie mette il chiodo fisso sui lineamenti di certi virgulti freschi appena spuntati, sono flessibili e fugaci al primo getto del verdeggiante odore. Le letture nella camera, la sedia e il letto perché da una posizione di amabile indolenza; i padroni di casa e la cucina. Il piatto mi distende e mi tiene distratto, mescolo pietanze e immagini che ho delineate, rifaccio il sapore della minestra con altri ingredienti, capelli, guance piene e rosee, ci mangio sopra. C’è una voce appena incrinata che passa dolce dalle narici, penso che nel cuore chiusi tanti silenzi se ne stanno prigionieri. Una vita contrariata, nemmeno l’ approssimazione ha potuto avere: un contatto di pensieri indovinati lascerebbe passare fuori quelle patite nascoste lacerazioni. L’uomo iconoclasta A Torino si impara l’italiano dice la bibliotecaria seria agguerrita che vede l’istituto in una deprecabile debolezza di servizio. Viso reattivo, vitreo, la pelle tirata. Il Sud, terra di dialetto e di mafia. Si vuole tagliare tutta una parte ubertosa del Settentrione che difende i recinti della razza e le bandiere delle leghe. Sarei lieto che un giorno ci sfrattassero da questa residenza e finisse un’ipocrita convivenza: chiarezza gridata e padroni di esprimersi, rilevando le differenze marcate che fanno essere stranieri. Gente come rami che dritti s’ergono lungo il tronco. I riti con tanto intreccio superstizioso legano i villaggi alla vita. Qui La barbarie dell’egoismo che è l’ emblema della modernità; una lancia brandita contro i simili. Pietra la carne assetata e disa-
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giata che asciutta senza umori morbosi riveste la spalla lunga ossuta e nerastra dell’uomo d’ Africa. Sguardo silenzioso fatto di allungato muso d’animale. Io sono con la mia vita di ogni giorno lamentata, eterno presente in ogni momento. Al funerale la ragazza appoggiata alla colonna si alza sui tacchi dentro l’ impermeabile bianco amidato. Per il morto la celebrazione è canto già del paradiso nella chiesa di Gubbio. L’uomo iconoclasta uccide il passato, una crassa visione ha dell’utile. Oggi la civiltà è sbriciolata, senza vita. Ho intravisto davanti al palazzo dei Consoli l’ ombra dell’uomo molto vicino alle forme adamitiche, è rimasto impresso sui blocchi di pietra dura; attorno ai marmi c’è un odore indomabile di purezza, sfrecciano le ali dei colombi. Felicità dalle finestre del medioevo spaziando lo sguardo nell’aria ventilata dell’Umbria. Si proiettano con lo scalpello i lineari pensieri che sono ricami bianchi splendenti eterni nel tempo. Le monumentali costruzioni storiche sono cementate dall’immagine appassionata dell’artigiano che curvo con il deretano prominente e le braccia arcuate solleva il grosso peso. Scalinate e volte, archi e portali sono ancora caldi della mano che vi ha lavorato. I napoletani che non hanno programmi, l’stinto li spinge ad agire per fatti minuti, tutti per la soddisfazione momentanea. L’indolenza è la matrice della loro filosofia; le prospettive che non concepiscono, il loro movimento senza complessi, liberi e irregolari; disordinati sono nella stanza che si rimescola, un insieme di cose e circostanze. Lontani dalla problematicità vanno avanti spontanei, diversi da quelli che invece ad ogni passo incontrano ostacoli, presi da irretismo e meticolosi all’eccesso, l’ azione più semplice li trattiene per l’assenza di quella praticità che fa risolvere tutta la gestione dei particolari atti del momento. Temono sempre che vi sia dell’illecito, tanto stretta è la minuta riflessione raziocinante. Vedono possibili rappresaglie, immaginarie difficoltà che sono proprio di patologici stati privi di flessibilità mentale. I napoletani vuoto hanno il subcosciente, niente di disagio farebbe lo schiamazzo dei bambini al loro son-
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no facile. Zoccoli per le scale, reggiseni alle maniglie, la cucina riversata sulla tavola. Le parole arrotolate quasi impastate tra palato e denti escono dal naso simili a maccheroni senza incavatura. Le forme libere La pioggia annulla le dimensioni, attornia lo spazio proprio circoscritto. Le lontananze del cielo, che vedono l’uomo cellula vivente dispersa, si sciolgono. Sotto la furiosa pioggia le raffiche di colate di acqua all’ozono. La terra porosa inzuppata si sazia, la terra irrorata si chiude nel momento più vivo, l’aridità astrale, i desideri della luna non ci sono più. Le piante le vediamo muoversi. La vita dell’ uomo un grande calice che sente tutto quello che c’è, il mondo è tutto in un quadrato, intercomunicabilità con le persone. L’ ingordigia della tettoia che raccoglie acqua precipitosa, si ingolfa il tubo della grondaia. Le nubi di nero carbone, metri di acqua addensata scenderanno, le case segmentate dalla caduta della pioggia si fanno baracche e noi siamo affacciati sul limitare, le persone si fanno coabitazioni di contatti. Pure il linguaggio è denso di allegorie perché prende più significati sintetici, si fa figurativo. Dopo la pioggia il sole di luglio dà una spinta ai germogli per nuove crescite, gli animi felici, il corpo ferace per lo stato di benessere da cui è invaso. Al mercato la commistione delle persone accodate, sentendo il calore di chi mi segue. La spinta delle femmine prosperose e vivaci mi piace. Le vesti diventano trasparenti, il sangue è un flusso scorrevole per quella maggiore dinamicità che la pioggia ha portato all’ epidermide. Il calore e il sorriso più facile uniscono in subitanea simpatia. L’occhio verginale delle fanciulle scintilla. Pare che la pioggia abbia innaffiato la pianta dell’uomo, le sensazioni come rami si distendono e le foglie di vista più acuta, l’udito amplificato ha preso le antenne. Ripulita la pelle eccitata al tatto delle mani, trovo il mondo ristretto, grande per le articolazioni della mente, i tentacoli degli sguardi. Al mercato del paese, per l’intestino dello
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spazio che fra le bancarelle si allunga le donne si affollano, debbono comprare per abbellirsi, riempire i cassetti, ornare la casa. Lo sguardo a uncino va dove vuole, squadra le forme, seleziona e si mette dove la rosea morbidezza si gonfia. Le gocce sospese per l’aria e sulle superfici riflettono la lucentezza del mattino purificato, spandono iridescenze dappertutto. I momenti succeduti alla pioggia si lievitano di esuberanze; fermentazione delle spoglie bagnate, la carne accaldata si intravede dalle vesti umide. Le forme libere, snellite danno movimento sagomato, flessuose le anche, liete le natiche, la pioggia caduta ha acceso i colori del viso. I capelli di odore selvatico sciolti e divisi sulla simmetria della faccia. I pali del corpo di sudorazione acre. Si sente la femmina in quest’ aria gravida di calore. Dalle nubi torbide sono eruttate esplosioni di tuoni; saettate di fulmini hanno dilaniato la pelle del sacco pieno fino a traboccare, squarciato in più punti. La pioggia si è infiltrata per tutte le fessure, la terra ha richiuso le secche crepe ed ora spugnosa ribolle di germi attorno alle radici. I solchi neri ubertosi, le rosse zolle sgretolate per coprile di vello nutrito il terreno degli orti. Il verde degli sguardi è lucido come quello delle foglie di stagione, gli arti deambulano leggeri come quelli degli animali usciti dai ripari con la pelle gocciolante, si scuote tutto il corpo che ritrova la nuova energia. Le parole umorose salgono dal cuore, si incrociano con voluttà e pienezza viscerale. Le persone strette si sorpassano, si fermano rimescolate perché è intasato il poco spazio che si snoda da un capo all’altro del mercato. Mi sento un bambino e posso fare tutto, non ci sono limiti convenzionali. La libera spontaneità rigogliosa. Il bancone delle sottovesti e di indumenti intimi mi spingono l’immaginazione; vedo le sagome nude come piante ombreggiate di rami e fiori. Allora la fila di corpi vedi quasi lunghezza tortuosa di un serpente, la pelle unica allungata con sfumature varie, chiazze cromatiche lucide. Fusione amalgamata di un solo corpo che si attorciglia, si taglia e si ricompone. Mi sono trovato bloccato, ho dietro
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il tronco dell’uomo, senza rinnovo e ricambi ciclici, duro e secco, davanti la soffice gomma del deretano di una donna, mista di bruno e di biondo, il collo snello della gazzella che saltella, la stretta sinuosità dei fianchi. Nel cervello mi sento la terra piena di pioggia, le radici che si muovono spingendo la linfa alle foglie. La massa si rimuove da giovanili spinte corporee. Il sereno stato vegetativo al caldo terso che vivifica tutto, aprica aria che ha scrostato i giorni fermi. Leonardo Selvaggi
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a gli sportelli della fantasia. Preparo la valigia, indi mi metto dentro il vagone, sento il fischio, e via! Cosi, stando in poltrona e senza spese, viaggio innanzi e indietro il Bel Paese. Ponti sonanti su cupi burroni, erti dirupi e digradanti clivi e un vario verdeggiar per tutti i toni di roveri, di pampini, d'olivi, campi arati da vigili coloni, argentee righe di cadenti rivi, e torri e casolar, chiese e paesi stesi nel piano o sui ciglion sospesi.
ROSA ROSA La rosa color di rosa strapazzata dal vento penzola sul mare mosso che schiaffeggia gli scogli. Ma alla fine vincerà la bellezza, la pace, anche se è un'illusione, come tutto. Luigi De Rosa Rapallo, Genova
LA SIGNORA SENECTUS MI HA INGANNATO Dapprima in modo ambiguo, subdolamente soft, poi sempre più sfacciatamente, la signora Senectus mi ha ingannato rendendomi, con gli anni, suo prigioniero. Ma io confesso in modo ingenuo: il mio cuore, i miei sogni, la mia modesta poesia non saranno mai preda della signora Senectus. Luigi De Rosa Rapallo, Genova
AGLI SPORTELLI DELLA FANTASIA Il viaggiar sarebbe il mio diletto ma costa troppo; per economia talora uso di prendere un biglietto
E là m'arresto ove chiamar mi sento da qualche gloria, ove cresce un alloro: martella la campana d'un convento, ecco la Gancia nella Conca d'Oro; ondeggia il segno di San Marco al vento, ecco il doge che sale il Bucintoro; piano, fratelli, non alziam la voce, ché dormono i titani a Santa Croce. Cerco palagi e chiese; di memorie cacciator solitario, il piè rivolgo ai marmi sculti, alle dipinte storie e il gran volume di nostra arte svolgo. Poi, tutto quello che è bello, le glorie tutte in un fascio nel pensier raccolgo e chiudo gli occhi e sogno alla ventura l'itale glorie dell' età futura. Domenico Gnoli (Roma, 1838 - 1915)
SIAMO MARE ARIA TERRA Siamo mare aria terra viaggi di pensiero cuori delusi affacciati alla finestra della notte. Per prendere forza dalla vita le rubiamo gli occhi. Gianni Rescigno Da Sulla bocca del vento - Ed. Il Convivio, 2013.
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Il Racconto NUNZIA MATRONA di Antonio Visconte ’AVVOCATO Giuseppe Marrocco sedeva indaffarato sull’ampio seggiolone, dietro la vistosa scrivania ingolfata di fascicoli, mentre sentiva squillare il campanello. Il sole era al tramonto e da poco aveva aperto lo studio. Gli archi maestosi del palazzone riflettevano i languidi bagliori di una giornata settembrina. “Vai ad aprire e vedi chi è”, intimò al segretario. “Non mi ha voluto dire né il nome né il cognome, aggiunse Cicciotto, “si tratta di un affare delicato e vuole parlarne direttamente con lei”. “Lasciala entrare”, e una donna quarantenne si accomodò davanti al penalista. Il volto languido e lo sguardo estatico denotavano, in chi la guardava, che veniva a proporre una richiesta oscena. “Mi dica tutto”, intraprese Marrocco, “innanzitutto come si chiama e da dove viene”. “Sono Nunzia Matrona e vengo da Capodrise. Ho saputo che lei è un avvocato di forza”. “Faccio del mio meglio, e allora?” “Devo esporre querela contro Alfonso Capone”. “L’imprenditore?” “Sì, proprio lui”. “E per quale motivo?” “È un porco, non la smette di molestarmi, io sono una moglie onesta, mi stimava tutto il paese e guai se mio marito viene a conoscere una faccenda simile, ci scappa il morto”, e proruppe in un dirotto pianto, che neanche l’ avvocato riusciva a frenare. “Signora Matrona”, aggiunse Marrocco, “quanto lei afferma, mi fa cadere dalle nuvole. Alfonso Capone risulta una santa persona, completamente dedito alla famiglia e agli affari”.
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“Per me è solo un depravato”, gridava la donna. “Basta, vediamo che si può fare”. “Non si può fare niente”, borbottava Matrona, “lo voglio vedere in galera”. “In galera un personaggio che non veste questi pani”, lamentava l’avvocato, “comunque adesso gli telefono”. “Non ho mai visto questa donna, la solita truffaldina, che va in giro a spillare i soldi alle persone perbene, mi dia i suoi connotati, che presento subito la controquerela”. “Caro Alfonso”, ribatté Marrocco, “i connotati sono pronti, ma lei non troverà mai un avvocato che la difende. Questi tipi di processi risultano già perduti in partenza. I giudici non vogliono sentire ragioni, danno sempre la prevalenza alle donne. Chi ci rimette adesso è lei, si sparge la voce, lo viene a sapere sua moglie, aumentano i sospetti. Meglio un accordo e mettiamo tutto a tacere. La mia cliente vuole un risarcimento di venti milioni di lire”. “Facciamo dieci milioni”. “La mia cliente non è d’accordo”, specificò il civilista e Matrona, senza batter ciglio, intascò l’intera somma richiesta. Questa truffa, che le permise di raccattare un forte capitale, non fu né la prima né l’ ultima della signora Matrona, ma il tempo passava anche per lei e divenne una vecchia deforme, a stento adagiata sopra una sedia a rotelle. Ritornò dall’avvocato Giuseppe Marrocco che intanto era andato in pensione e aveva lasciato lo studio al figlio Germano. Diversamente dal padre, che si buttava a capofitto negli imbrogli, il giovane professionista credeva fermamente nei valori della giustizia e, prendendo le difese del misero malcapitato, volle tentare il processo. “Con la vecchiaia aumenta la prudenza”, esclamò rivolgendosi al padre, ma che giovane sono se non affronto il rischio?” Guido Ventriglia, proprietario di un grosso supermercato, a fianco di una splendida moglie e con tante giovani commesse che gli giravano intorno, poteva mai perdere la testa per una donna in tali condizioni?
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“Quella brutta vecchiaccia”, espose al cliente, “le faremo pagare tutte le truffe che ha ingaggiato a danno degli innocenti imprenditori del nostro paese”. Germano non aveva fatto tesoro dell’ esperienza del padre, un poco come i giovani di oggi, che vogliono agire da soli. Il giudice la pensava diversamente e riteneva che le degenerazioni sessuali sono infinite come le vie del Signore. Si molestano i bambini e non si salvano neanche le vecchie. I depravati cercano di provare sempre nuove emozioni. Ancora una volta Nunzia Matrona vinse la causa, si aggiudicò un lauto indennizzo e acquistò l’appartamento per l’ultima nipote. Antonio Visconte
È sera: il cielo è coperto di nuvole, gli alberi si svestono della loro veste verde. Un piccione tuba solitario sopra il tetto: dintorno è silenzio: è il silenzio autunnale.
Loretta Bonucci
SI AVVICINA
Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, Mi
I VECCHI
Loretta Bonucci
Domani è un giorno nuovo, è un giorno che mi darà nuove speranze e sorriderò alla vita, che oggi c’è
e domani può mancare, ed è bello amare, per sentirsi più completi e il tempo passa presto e la vita è una favola breve.
Si avvicina l’autunno: l’aria è tiepida, le giornate sono più brevi e malinconico è il mio cuore quando la natura si addormenta.
È SERA
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Siamo poveri troppo poveri di forze Signore per camminare diritti sui dolori. Siamo vecchi col pensiero che pesa l’amore negli occhi: quella lacrima ch’ogni tanto ci sfugge per brillare un attimo nella luce e subito nettata dal dorso della mano. Siamo carichi di preghiere di parole tutto mai pronunciato a voce chiara. Siamo ciechi ormai perché dentro ci splende un altro sole. Quello tuo Signore che si trova alla fine e mai pensavamo d’averlo dall’inizio. Gianni Rescigno Da Sulla bocca del vento - Ed. Il Convivio, 2013
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I POETI E LA NATURA – 76 di Luigi De Rosa
D. Defelice - Metamorfosi (particolare), 2017
LA NATURA NELLA POESIA DI GIOVANNI MAURILIO RAYNA
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o conosciuto di persona, anni fa, il poeta-sacerdote Rayna, nato nel 1931 a Savigliano (Cuneo) dove è un'autorità sia nel campo ecclesiastico che in quello poetico-artistico. L'ho conosciuto ad un Premio letterario in Liguria, alla cerimonia di premiazione di un suo libro di versi (è stato premiato numerose volte in Concorsi di poesia sia nazionali che internazionali). Da allora non mi ha mai fatto mancare l'invio da Savigliano, ogni anno, di una sua nuova silloge. L'ultima, quella relativa al 2017, è intitolata Viandanti dell'eterno (Bonaccorso editore, Verona) ed è, come le numerose precedenti, accuratissima sia nel contenuto letterario e spirituale che nella veste grafica, come tutti i suoi libri, illustratissimi, eleganti, e ricchi di citazioni edificanti. Anzi, quest'ultimo libro ha un fascino particolare, perché festeggia il Sessantesimo Anno di Poesia di don Rayna.
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La passione per la poesia è veramente inestinguibile, se lo spinge a scrivere, tra l'altro...”dedico queste composizioni a quanti hanno letto e amato le mie poesie. A tutti voglio dire: cercatemi sempre e soltanto nelle mie poesie e mi troverete. Ricordatemi con le mie parole, le sole che possono dire come ho vissuto, come ho pregato, come ho sofferto e amato” Gli fa eco Renato Scavino, che in una sentita e illuminata Prefazione esorta i lettori a leggere queste liriche: “...La poesia di don Rayna persuade, guida, ammonisce, ammaestra, educa, consola. La sua lettura perseverante rende la vita più amabile e virtuosa. E' la salute dell'anima, il balsamo dello spirito, ma va trattata con il rispetto che si deve alle cose importanti...va presa nelle giuste dosi e nei momenti adatti, ad esempio nella quiete della giornata finita...” Aveva voglia a dire e ripetere, Giosuè Carducci, Donne e preti non son poeti. Si era poi ricreduto sulle donne quando era rimasto impigliato senza scampo nella rete troppo dolce di Annie Vivanti, ma non aveva mai cambiato idea sui preti-poeti. Purtroppo per lui, direbbe qualcuno, non aveva conosciuto (né... avrebbe potuto farlo... per ovvii motivi cronologici) un David Maria Turoldo o un Maurilio Rayna. Ci sono preti poeti e preti non poeti, così come ci sono laici poeti e laici non poeti. Non sembra necessario sollevare un polverone e scomodare Benedetto Croce e i suoi seguaci, o Altri ancora, sulla reciproca autonomia, nell'ambito della unità dello spirito umano, tra Arte, Religione, Filosofia. E, aggiungiamo, Morale, Scienza, etc. Molte liriche di don Rayna sono state tradotte in varie lingue estere, tra cui il coreano e lo spagnolo, il francese, il tedesco e il fiammingo. Direttore di periodici, egli collabora a giornali e riviste, è fondatore del Circolo Culturale “Clemente Rèbora” e membro permanente della giuria del Premio letterario Massimiliano Kolbe, di Savigliano. Anche i titoli di libri e poesie sono la conferma dell'immenso, profondo amore del
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poeta Ràyna per la Natura. Tra i libri, da Fiori di ginestra del 1957 a Noi siamo come d'autunno, da Il grande fiume a L'ombra degli alberi verdi (1973), da Le magnolie nei giardini sono in fiore, a Conchiglia disabitata, a Prima neve d'autunno (1979), ad Hortus conclusus, a Giunchiglie sull'argine (1986), a Voglio svegliare l'aurora (1990) a Cattedrale degli abeti (1991), a Il colore dell'alba, a Il mistico giardino, a Guidami oltre, luce gentile, a Quando torna la luce, sui passi della notte, ad Alla quercia di Mambre (2002) a Dal seno dell'aurora (2014). Una particolare segnalazione, per la eccezionale bellezza grafica e artistica, meritano i volumi L'ottavo giorno (2008), Le sette lucerne (2010), Dai fondali azzurri del cuore (2011). Tra le poesie dell'ultima silloge, Spezzate le catene (2017) inizia con una sorta di dichiarazione programmatica: “Amo la forra umida e verde che d'intorno m' abbraccia e quest'ombra che preclude la luce del mattino. Amo la roccia selvaggia e il paesaggio rupestre che l'uomo non profana con mano impura. Amo la natura libera, amo il canto degli uccelli lontano dai cacciatori...” Purtroppo, la Bellezza vitale è destinata a lasciare il passo, prima o poi, alla Morte. E questo della Morte è un pensiero ricorrente, incombente. Solo la Poesia può illudersi di tenere testa allo strapotere della Morte, avvalendosi di uno strumento potente, la Natura. Si veda la lirica Quando trapasserò (da notare: “trapasserò”. Non : “morirò”): “Quando trapasserò adagiatemi sulla coltre rosa dell'aurora verso il sole nascente.. E nelle mani mettetemi un lapis perché scriva ancora l'ultimo verso, prima di varcare la sponda incontro all'eterna Poesia !” Luigi De Rosa
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Recensioni VITTORIO “NINO” MARTIN FRA DRAMMA E SENTIMENTO POETICO Il Convivio Editore, Anno 2016, Euro 10,00, pagg.63. Chissà se qualche lettore, assiduo o non ancora, delle poesie di Vittorio Martin abbia fatto caso alla mancanza del punto per tutto il decorso della poesia, delle sue poesie, cioè messo solo alla fine di ciascuna. In pratica, il Martin poeta è un autore che vuole spiegare in versi ‘tutto e subito’ senza indugi, senza creare pause che andrebbero ad affievolire la subitaneità dei suoi concetti. In questa sua nuova scelta poetica il tema dominante è il dramma attentamente esaminato sotto varie angolazioni. Lui, Vittorio detto ‘Nino’, è da considerarsi cittadino del mondo in quanto ha viaggiato moltissimo per via delle numerose esposizioni dei suoi quadri, in Italia e all’estero, e pur abitando in un paese, Stevenà di Caneva, che non è provincia, le sue considerazioni sono come dire universali, vanno bene per chiunque e in qualsiasi posto. Detto questo, entriamo nel vivo del dramma o meglio dei drammi di cui ha versificato, dal meno grave al più grande. Lui stila continui paragoni tra il mondo di ieri e quello attuale; in questo modo nascono in lui sensazioni così forti che in qualche modo vanno trasmesse, se non sulla tela almeno sulla carta. Dopo aver osservato la smania giovanile, e non solo, di comunicare prettamente tramite l’inseparabile cellulare o lo smartphone, ha composto una poesia per ritrovare giustamente Il senso vitale. « La piaga si allarga/ difficile rimarginarla,/ disagiati dal benessere/ sbandati nel
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nulla,/ come all’era primitiva/ difficoltà a parlare,/ affamati solo di messaggi/ in qualunque luogo,/ un telefonino padrone/ al posto del cuore,/ dimenticati gli sguardi/ l’approccio d’amore,/ comunicare sembra impossibile/ dobbiamo invertire la rotta,/ ridare senso alle parole/ oltre al semplice suono,/ traducendole in opere/ capaci di illuminare,/ questa è la primaria etica/ che ad altri potrebbe sfuggire. » (A pag.14). Qua e là, fra una lirica e l’altra ha voluto inserire dei suoi bozzetti in bianco-nero che esaltano le tematiche perlopiù riguardanti il sociale, gli emigranti, l’inquinamento, la povertà di ieri e quella di oggi. Sì, perché lui che ha conosciuto il dopoguerra con le ristrettezze e i disagi di quel malridotto periodo, e adesso è in grado di descrivere la differenza che intercorre tra il povero di ieri col povero di oggi. « I poveri aiutavano i poveri/ animati da gesti di carità,/ vedere un mendicante bussare/ non era strano dove abitavo,/ chi si presentava alla porta/ si offriva ciò che si aveva,/ qualche avanzo restava/ pane, polenta o formaggio,/ per dissetarsi dall’arsura/ chiedevano un bicchiere d’acqua,/ l’inedia per la carestia/ li riduceva pelle e ossa,/ stringeva il cuore vedere/ tanta fame errante,/ borbottavano acide parole/ senza incolpare nessuno,/ straziavano l’anima le storie/ di miseria del dopo guerra. » (A pag.26). Allora c’è, ad esempio, la figura di un pellegrino col mantello e il lungo bastone da viaggio simile a quello posseduto dal personaggio biblico Mosè quando attraversò più volte il deserto, che sta ad evidenziare la lirica accanto che parla del dramma dell’emigrazione. Poi, ci sono uomini con bambini visti di spalle, un uomo sulla panchina che si regge la testa fra le mani e dietro di lui i fumi scuri delle ciminiere che si espandono nell’aria, ragazze in compagnia o da sole, sedute per terra o in ginocchio. Insomma, l’universo di Martin è vastamente simile alla panoramica moderna dove i protagonisti sono la gente comune, gli anziani, gli stranieri e coloro che in mezzo a tutti rimangono, per paradosso, inequivocabilmente soli. « Muto singolare dialogo/ fatto solo di sguardi,/ l’ausilio dell’immaginario/ gioca col passato,/ l’apparizione del sogno/ fantasmi della fantasia,/ lo specchio afferra/ traduce fedele il colloquio,/ disciolto nel ricordo/ richiamato al reale,/ sospensione del respiro/ dialoghi sottintesi,/ ne fissa l’immagine/ metafora di saggezza,/ che fugge e invita/ la continua mutazione,/ ricco e curioso stupore/ evocazione del tempo perduto,/ della memoria creativa/ e silenzi meditativi. » (A pag.58). Isabella Michela Affinito
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SERENA MAFFIA ROMA MI SOMIGLIA Passigli Editore, Firenze, 2017, € 10,00 “Roma mi somiglia, è una ragazza stanca / seduta sulla sponda larga della Tiberina / a sgambettare al tempo e ai turisti / che la fiumara è il mio presente e il mio futuro / forse saprò ancora piacerti o piacere al tempo”: sono questi gli ultimi versi del libro di Serena Maffìa Roma mi somiglia, apparso nel gennaio 2017; una raccolta di poesie nella quale l’ autrice parla del suo legame con questa città, in cui si identifica. Ma Roma non rappresenta soltanto per Serena la città. In essa c’è anche l’uomo che ella ama di un amore violento, carnale, che non si placa e non perdona, ma che è anche capace di delicate espressioni, emergenti da versi limpidi e schietti, come può facilmente constatarsi sin da una prima lettura di questa silloge: “Amo le tue spalle grandi e spaziose / amo le tue braccia incredule, accoglienti, / amo il tuo petto profumato / le tue parole barbare / ma ciò che più amo di te / è il sorriso che nasce spontaneo sul volto…” (Stupideria d’amore). Ecco che allora l’amore per l’uomo cui è legata e quello per la città in cui vive si fondono per la nostra poetessa in un unico amore, che dà luogo ad aperture liriche di molta efficacia e spontaneità, come questa che qui riportiamo: “Ieri Roma mi tirava la mano / Piazza Venezia era un mare di sole / e i gabbiani vele di nave / io e lui gatti in cerca di fresco / tra sanpietrini e pergolati immaginari…” (Tra capperi e capitelli). C’è in Serena Maffia il canto aperto, come in La canzone dell’amore; e c’è il gioco dell’iterazione, come avviene in Taccuino, dove nelle tre strofe che compongono la poesia identico è il movimento: “Quell’alito di vento frivolo / … / Quella promessa di sogno / … / Quell’abbraccio dimenticato”. Ma ciò che alla fine più conta è la piena del sentimento, che affiora con genuina schiettezza da queste pagine e con quella forza che induce Davide Rondoni nella sua prefazione al libro a definirlo “selvatico e violentemente inquieto, capace di gesti rapaci e di altrettanto improvvise tenerezze”. Ed è quanto appare se confrontiamo poesie quali Bisogno di te (“Ho bisogno di te / della tua virilità / del riverbero dei tuoi occhi / che espande i miei seni / come campi di frutti succosi”) con altre poesie, quali Lunatica (“I tuoi richiami somigliano a sospiri / sono sorrisi mentre / pronunci il mio nome”). Torbida e limpida, fresca e rovente la poesia di Serena Maffìa non è però ignara di momenti di assorta meditazione, quali quello dell’incipit di Terra di vita: “Quando sarà il momento / vorrei andarmene
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col sorriso / per ringraziare la Natura dei doni / Tu fai in modo che io non soffra…”. Ciò che comunque sempre affascina e rapisce Serena è la città, che da questi versi emerge fervida e viva, con i suoi richiami e le sue seduzioni; il suo incomparabile incanto e la sua meravigliosa bellezza, così come la donna che affascina e rapisce con il suo aspetto e la sua parola. Basta ascoltarla: “Roma alla sera profuma di Roma / e non esiste stupore al tramonto / che quello di Roma, bella, dorata dal sole / quando i volumi ritagliano i marmi / che diventano mari e navi e / scale e ponti come farfalle / Michelangelo calmo, a capo chino / cieco ma sazio di cieli / sopra campi di fresia e di gelsomino” (Roma). Immediata ci giunge così la sua voce; ed è una voce dai molti echi. Elio Andriuoli LINA D’INCECCO SUGGESTIONI Ed.Il Croco/ Pomezia-Notizie, Gennaio 2018, Pagg. 24 (Secondo Premio Città di Pomezia 2017) Lina D’Incecco, insegnante molisana, al secondo posto conseguito al Premio Città di Pomezia dell’edizione 2016, adesso può aggiungere, un bis per l’edizione 2017, con la raccolta intitolata Suggestioni. Concordo in linea di principio con quanto afferma nella presentazione Domenico Defelice che giudica l’opera “una cronaca vivificata dal crogiolo del cuore, dall’amore, che cessa d’esser tale per assurgere a simbolo, a storia, a fatto memorabile.”; tuttavia nutro alcune riserve come spiegherò più avanti, sempre nel rispetto dovuto. La Poetessa risulta efficace senza dubbio nelle descrizioni di cose e di persone penetrando nell’ intimo. Le poesie hanno verso libero e sono di media lunghezza; le prime presentano un marcato richiamo sociale, spesso sono pura prosa, quasi impersonali; mentre le successive mi sembra evidenzino una voce interiore (anche senza il pronome). Non nascondo, fin da adesso, la mia predilezione per le seconde. Vero è che la poesia e quant’altro che possa essere utile alla comunicazione, vadano promosse; ma giungere alla sensibilità dei fruitori per “suggestioni”, rischia di spettacolarizzare ancor di più eventi di per sé penosi. Difatti la poesia d’apertura è dedicato ad ‘Ailan, il piccolo siriano’, il cui incipit recita: “Il mare ti ha deposto/ sulla spiaggia./ Ora piccino, dormi/ riverso sulla sabbia”. Seguono componimenti del tenore “Tre bimbi Rom/ bussano alla porta”; ne ‘I senza lavoro’ “Molti si perdono nell’alcool,/ diventano
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barboni”; musicanti ambulanti che “esibivano senza pudore/ la loro precarietà”; temi arcinoti che non possono non condividersi. In altri luoghi seguono la “Strada silenziosa/ che gode della pausa/ del pranzo”; la contemplazione di un “arabescato di voli”; a ‘Ferragosto’ “Sosta la luna/ sul velluto del cielo”; ‘La damina colorata’ che “celebrava l’estate/ ed un’età senza tempo.”; ‘La siepe’ che “Scorre sui filari/ dei tronchi lungo il viale/ e segna il limite/ tra il selciato e il cielo.”; il ‘Cammeo’ e i gioielli che “Attirano sguardi d’amore./ Così la poesia fa cammei/ con la materia delle emozioni”. Mi prendo la libertà di fare delle digressioni. Si verifica che ai concorsi letterari, uno per tutti, lo Strega, si giunga grazie a sponsor (editori) che si combattono per mero calcolo di mercato e tutti si confrontano come in un’arena di gladiatori. Si verifica pure che ci si accosti agli autori notevoli, con maggiore riguardo, e ci si fa obbligo di recensirli e rilevarne anche minutaglie, per trarne reputazione riflessa, trascurando quasi del tutto i meno noti o gli sconosciuti. Con quanto sopra, ho voluto dire che dinanzi a giudizi spesso categorici ed enfatizzati come marchi pubblicitari, mi sento scalzato, disorientato. Dico che se è vero che possono farsi fotografie d’arte, tornando a Suggestioni e alle due tematiche di cui sopra, paragono le prime a fotografie e le seconde a dipinti. Comprendo le buone intenzioni di Lina D’Incecco e quanto sia generalmente scontata la solidarietà umana verso i casi dolorosi sopraindicati; ma non so quanto giovi alla Poesia insistere su fatti di cronaca. Di una raccolta possiamo spendere poche parole o farne scorrere un fiume; così pure su una singola poesia; ma questo finirebbe per trasformarsi in esercizio retorico. La società dell’immagine ha accelerato le “suggestioni” indotte dalla televisione, specialmente quella del colore; e gli echi ripetuti ne hanno amplificato la portata. Tutto quello che non vediamo, anche se ne abbiamo notizia, passa in secondo ordine: decine o migliaia di vittime si verificano tutti i giorni senza provocare rumore, anche perché si è finiti con l’assuefazione. Nulla togliendo alle migliori intenzioni, a volte, si rischia di seguire una moda. È il caso del piccolo Aylan, siriano, con la maglietta rossa riverso sulla battigia della costa turca nel settembre 2015, che ha commosso tutto il mondo. Poeti, artisti e persone di cultura hanno riempito spazi vuoti su questa piccola vittima; mi piange il cuore pensando al fratello Galip: maggiore, sì, ma di età di soli cinque anni, vittima pure lui della stessa sorte, del quale non mi pare ci si sia spesi a parlare con pari diffusione. Comunque la Poetessa ha
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il merito di avere aperto un’agorà in cui confrontarci. Tito Cauchi
FILOMENA IOVINELLA A MIO PADRE Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2017 La perdita di una persona cara è sempre difficile da accettare, se poi quella persona è un genitore credo che lo scompenso sia ancora più forte, anche per una persona matura. La Iovinella dedica questo suo lavoro in versi al padre scomparso, che l’ha lasciata volando sull’ arcobaleno. Il vuoto della perdita per chi resta non si placa mai, forse si può ammorbidire, ma il pensiero è sempre lì, rivolto a colui che non c’è ma in realtà è sempre accanto a noi e ci guida nel resto del nostro percorso terrestre. Lo scrivere aiuta a sopportare meglio il distacco, a cercare di comprendere che in fondo noi su questo mondo siamo solo di passaggio. Lo scrivere dei bei ricordi passati insieme è una catarsi, un modo per fortificare la nostra anima ad accettare il trapasso e a continuare la nostra vita. La Iovinella si ritrova bambina accanto al padre, che la proteggeva dalle brutture della vita. Questi insegnamenti paterni le sono rimasti nel cuore e certamente anche lei avrà fatto altrettanto con i suoi due figli… “Le tue parole sono balsamo per chi ti circonda e a me mandi raggi di guida. Non sono i miei occhi a vederti e in quelli mi manchi tanto ma ti vedo lo stesso nella luce della tua guida”. Poesia per omaggiare, poesia per superare la malinconia e la tristezza, poesia per rialzarsi e rivedere la luce, anche se in una parte del nostro cuore la ferita, ovattata, resta. Roberta Colazingari
MARINA CARACCIOLO OTTO SAGGI BREVI Genesi Editrice, 2017 - Pagg. 88, € 10,00 Otto saggi - dei quali alcuni, come quelli sulla scomparsa di Majorana e sul romanzo della Babbitt, già apparsi sulle pagine del nostro mensile, rispettivamente nel luglio e nel marzo 2016 - danno vita all’elegante volumetto vincitore del Premio Letterario “I Murazzi 2016” e pubblicato dalla Genesi di Torino. Si tratta di due saggi con protagonisti uomini Barbablù e Majorana - e sei con protagoniste donne
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- Hildegard Von Bingen, Isabella Morra, Juana Inés de la Cruz, Irène Némirovsky, Anna Ventura e Natalie Babbitt -, di ampiezza varia, ma tutti di solare chiarezza e particolare fascino, per stile e contenuto. Il più vasto è il primo, quello su Barbablù, che svolge un tema quanto mai attuale: del marito, o del parente, assassino. Il femminicidio non è solo di oggi, in passato, anzi, pure giustificato dalla giurisprudenza attraverso il cosiddetto delitto d’onore, ma è divenuto, via via, quanto mai esecrabile per una giusta maturazione delle coscienze e per l’ ampio spazio che la donna vittima e sfortunata occupa ogni volta sui mezzi di comunicazione. Basta pensare che solo in Italia la statistica dice che se ne uccide almeno una ogni giorno. Le storie e le fiabe sul celebre personaggio Barbablù son fiorite in tutto il mondo, in particolare in Francia e il Germania. La Caracciolo ne ricorda alcune, ma, in particolare, si sofferma sulla vicenda narrata da Giles de Rais, rilevandone contatti, contrasti e sfasature, alla luce di quanto sulla vicenda raccontano Charles Perrault, Johann Ludwig Tieck, i fratelli Grimm, Maurice Maeterlinck, Anatole France, Béla Balàzs e via elencando. La saggista mette pure in risalto le varie trasposizioni musicali che la storia ha subito nel corso dei secoli, ogni volta diversamente interpretata, sfasata, contrastata, rielaborata. Il capitoletto su Hildegard von Bingen è dedicato, dalla Caracciolo, a “Maria Grazia Lenisa donna di grande fierezza e di acuto intelletto”. La madre badessa del convento benedettino di Disibodenberg occupa “Un posto di assoluto rilievo (...) nell’ ambito della storia della musica del Medioevo”, con sacre rappresentazioni, saggi e altre opere importanti, come Ordo virtutum, Liber divinorum operum, Liber vitae meritorum e una enorme quantità di lettere ai più grandi e potenti personaggi del suo tempo. Nell’opera mistico-teologica Scivias “l’ autrice racconta in ventisei visioni la creazione del mondo e dell’Uomo, il sorgere e l’evolversi della Chiesa attraverso la Storia, la redenzione dell’ umanità per opera del Cristo e in ultimo il compimento della Parola di Dio alla fine dei tempi”; il saggio Phisica è “dedicato ai poteri terapeutici della Natura (in esso descrive più di 450 specie tra piante e animali) e in quello - forse il suo più famoso - intitolato Causae et curae, Hildegard ci sorprende per la specifica conoscenza ed esperienza dei vari aspetti del mondo naturale”. Anche in questo lavoro, come già in quello su Barbablù, spunta la passione della Caracciolo per la musica, soffermandosi sempre sull’aspetto con intuito e delicatezza.
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Non meno affascinanti sono gli altri saggi; in tutti - compresi quelli per le narratrici Némirovsky e Babbitt e il Majorana che s’è interessato di fisica e scienza -, la Caracciolo evidenzia una poesia e una musica - materialmente presenti o latenti - che sono fibrillazione dell’animo, quando non vera e propria dettatura divina, come nel caso della von Bingen. Si potrebbe affermare, perciò, che poesia e musica sono temi dominanti in tutti i saggi, perché linfa che ha sempre nutrito vita e opere di tutti gli otto grandi personaggi. Nella Morra, per esempio, abbiamo una poesia legata più alla voce che alla scrittura, perciò canto, musica, e la Caracciolo, infatti, sottolinea “la flessibile, straordinaria musicalità e la padronanza espressiva dei suoi versi”; nella de la Cruz abbiamo studi approfonditi su “diverse branche del sapere (...) dalle scienze alla musica alla poesia”, sicché i suoi “Villaneicos”, in particolare, sono “(canti destinati alle grandi feste religiose) che vengono poi eseguiti durante le funzioni liturgiche nelle cattedrali delle principali città del Messico”; Majorana aveva accarezzato la poesia e la musica delle galassie attraverso le sue intuizioni e le sue formule; Némirovsky scrive il racconto L’enfant Génial che è “una sorta di inno elegiaco elevato all’ eccezionale fascino della musica e della poesia”; Ventura “va ben oltre la superficie delle cose e l’apparenza degli eventi” e la Babbitt, infine, ci frastorna con “l’incantevole bellezza della Natura, le voci meravigliose degli uccelli, gli attraenti colori delle erbe e dei fiori”. Otto saggi che si leggono con vera delizia, in cui non sappiamo se ammirare di più la leggera scorrevolezza del dettato, la solarità o la sagacia dell’ indagine. Domenico Defelice
VERONIKE JANE LENTAMENTE Romanzo - Printed in Poland by Amazon Fulfillment - Poland Sp. zo.o, Wroclaw Una storia cruda fin dalle prime battute. Racconto specchio di gente violenta, divisa tra i singoli individui e tra ogni individuo e il proprio io; una intera società corrotta fin nelle radici e nell’aria che respira, sicché inevitabilmente lo sono anche la lingua e i suoi termini; “uniti”, per esempio, semplicemente “Vuol dire uniti nella falsità, nell’ipocrisia dei legami di sangue, nell’omertà dell’inganno e della vergogna, nel tradimento della dignità umana e della fiducia. Una sorta di inversione evolutiva in cui da uomini si diventa bestie da branco, pronti a
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sbranarsi l’un l’altro per accaparrarsi la preda denaro”. Vanessa Morelli - la protagonista - ha dovuto lottare con ambiente e persone fin dalla più tenera età. Con l’ambiente, perché, al posto del fruscio di foglie e canti d’uccelli, era dominato da “metallici echi di freddi e ferrosi macchinari”; con le persone, perché rigide, a partire dal genitore, “uomo duro”, “d’altri tempi”; a partire dal nonno, talmente “uomo burbero, freddo e violento”, da violentare le proprie figlie. Violenti anche i fratelli della madre, pure loro stupratori e mafiosi. Una violenza seriale e diffusa, insomma, frutto anche di un retaggio stratificato da secoli, che non permetteva tenerezze e che, a volte, costringeva l’uomo, che disgraziatamente le possedesse, a mascherare amore e disagio interiore dietro l’aggressività. Non vi raccontiamo le storie, le devianze, le evoluzioni quasi sempre in negativo dei tanti personaggi: Carmelo, Rosaria, Matteo, Vittorio, Caterina, Gaetano, Anna, Filippo, Annunziata, Giuseppe, Maurizio, Laura, Andrea, Rachele, Matilde, Franco, Angelica. Non ci interessa neppure il loro ruolo in rapporto a Vanessa Morelli, né chi di essi supera gli altri in abiezione e grassazioni. Il libro va letto, non raccontato. Se si vuol conoscere la vera violenza, bisogna leggere Lentamente, gustare goccia a goccia i tanti veleni. Per sapere della alienazione, bisogna leggere Lentamente. Bisogna leggere Lentamente per imbattersi nella vera ipocrisia, nell’ arrivismo e in tutti e sette i peccati capitali. Matrimoni quasi sempre frutto di calcoli e di fuitine; pratiche esoteriche, stregonerie varie, riti stomachevoli (fare assumere, all’uomo del desiderio, il sangue mestruale ridotto in polvere e mescolato a bevande!); la donna mai da amare, da possedere brutalmente sempre, specie se bella e florida, non essere umano, semplicemente oggetto, cosa. Lentamente è libro che scuote e a tratti inorridisce. La persona onesta, nell’ambiente del romanzo, malavitoso e corrotto, semplicemente soffoca. Vanessa Morelli è come il fiorellino che stenta a non farsi stritolare dalle erbacce e rari sono i momenti per esempio, i primi quattro anni di vita - che la gratificano. Violenza al sommo grado. E la speranza? Per fortuna conosciamo - e anche la protagonista conosce un’altra società - che, poi, è la maggioranza -, che riconcilia e sprona a vivere. A questa appartiene Roberto, il “vero amore”, colui che, “lentamente”, le ridona le ali: “Oggi ricomincio a vivere lentamente - conclude Vanessa -, perché nessuna cicatrice può fermarmi bensì guidarmi, perché il mio vero io è un bagaglio che porto nel cuore, non quello che gli altri vedono in me”; Roberto, final-
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mente la persona giusta, che fa pensare: c’è la violenza, c’è la delinquenza organizzata, ci sono esseri abietti che, solo a guardarli, ci fanno sentire sporchi, unti, ma c’è, per fortuna, anche chi ci fa benedire la vita. Coraggio, allora. Ci sono antidoti a “odio, rabbia e frustrazione” e sono amore, lotta, speranza. Domenico Defelice
CORRADO CALABRÒ LA SCALA DI JACOB Ed. Il Croco, i Quaderni Letterari di PomeziaNotizie, 1° Premio Città di Pomezia 2017. Camillo Sbarbaro parlava di effervescenze, che sarebbero le cose che un poeta riesce a carpire, ma rapide a svanire quasi alla velocità della luce. Tutto è teso verso il limite tra ciò che esiste ed un momento dopo non esiste più. E il poeta è lì, a cercare di svelare, in quell’attimo di tempo, un accadimento di bellezza - che comprende anche il suo contrario - tra l’esserci e lo svanire. Per quanto sia vero che le grandi questioni restano e restano grandi, esse accadono e agiscono in modi diversi, e il poeta, ancora una volta, è lì a cercare di non diminuire in nulla l’esteriore o l’ interiore, altresì a rivelarlo così fortemente quasi da rompere gli schermi, o il pennino con cui scrive, o l’anima di chi legge. Corrado Calabrò è proteso verso l’illimite, come scrive Vincenzo Guarracino, e si muove entro due realtà opposte: quella quotidiana, contemporanea, tecnologica, multiforme e quella non tangibile che diremmo appartenere all’anima. Due realtà opposte, sì, ma che non sopravvivono l’una senza l’altra. La scala di Jacob prima di salire scende, ovvero si innalza dalla realtà terrena – e dalla realtà ondeggiante come il mare, elemento mai assente nella poesia di Calabrò - per accedere ad un ultraterreno che, prima d’essere un regno celeste, è il regno dell’ anima. La poesia può farsi sulle esperienze di vita, e da queste prende il suo verso. Lo stile di Calabrò rispecchia questo ‘stare nella vita’ e alterna bagliori lirici a passi descrittivi e prosastici. Una poesia in continua ricerca, come la vita stessa, non di approdi ma di punti di contatto tra il finito e l’infinito, tra il fuori e il dentro: punti in cui l’uomo possa comunicare con se stesso e poi con l’umanità che lo circonda. «È una scala che non può finire», scrive l’autore, perché si accresce in ogni verso andando avanti. Ivi si concentra la vita, nelle sue mirabolanti bellezze e
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nelle sue terrificanti contorsioni: i drammi del contemporaneo mondo, tra compromessi e marciume, tra sacro e profano, si distillano nell’amore, nella natura, il maschile entra in contatto con il femminile, si respingono, si attraggono. Per ognuna di queste tematiche stili e rese differenti (lirico, descrittivo, onomatopeico, epigrammatico, evocativo) che però restano nell’armonia complessiva, come in un dolce amaro piatto: ecco servita la vita. Aurora De Luca
MARINA CARACCIOLO OTTO SAGGI BREVI Genesi Editrice, Torino, Luglio 2017. Premio I Murazzi per l’inedito 2016 (Dignità di stampa) Interessanti gli Otto saggi brevi di Marina Caracciolo, e pieni di spunti. Piccole iniezioni di sapere su argomenti largamente conosciuti e puntualmente non approfonditi. Eppure, alcune dinamiche qui indagate meritano d’essere portate avanti poiché, come sempre avviene in letteratura, rivelano molto più, quasi un modo d’ essere, un modo di pensare e di vedere socioculturale. Non a caso gli otto saggi hanno come protagoniste donne, sia sotto forma di personaggi di fiabe che come autrici e/o teste pensanti. Del femminile non si può smettere mai d’ indagare, ciò che è stato, come è, come sarà: è una forma in evoluzione, costretta, suo malgrado, entro argini che la deviano. Il primo breve saggio s’apre nelle stanze del famigerato Barbablù. Fiaba o realtà? Entrambe. Narrazione che oggi può leggersi attraverso vari piani interpretativi: il rapporto uomo donna, la sottomissione, la gabbia, il rapporto con la libertà e ancora e ancora. Narrazione che nel tempo si capovolge, e chi era creduto carnefice diviene vittima. Dunque, una forma in evoluzione. «Non vedo le cose con gli occhi esteriori, né le ascolto con le orecchie esteriori, non le percepisco attraverso le vie segrete del mio cuore, né con l’ ausilio dei miei cinque sensi; le vedo soltanto con il mio spirito[...]» scrive la mistica badessa Hildegard von Bingen, “la più grande testa femminile del XII” secondo la poetessa e saggista Armanda Guiducci. Seguono altre teste femminili sublimi e laboriose: la poetessa Isabella di Morra pre-leopardiana; la poetessa messicana Juana Inés de la Cruz; la giovane geniale Irèn Némirovsky; la poetessa Anna Ventura; la scrittrice ‘magica’ Natalie Babbit; e infine il breve saggio su Sciascia “La scomparsa di Majorana”.
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Marina Caracciolo ha delineato in breve profili di donne sconosciute ai più, ma grandi e capaci. I loro nomi provengono da epoche lontane e da epoche vicine: sono accomunate tutte da un forte sentire, da un indomito volere, che ha impedito loro l’ annullamento totale che, se non la società stessa, avrebbe operato il tempo. La Caracciolo concorre a mantenere sveglia la loro memoria attraverso otto saggi ben scritti, accurati, ben dosati. Ne esco più ricca, più curiosa e più orgogliosa. Aurora De Luca
RAFFAELLA FANELLI ROBERTA MILLETARI AL DI LÀ DI OGNI RAGIONEVOLE DUBBIO Aliberti Editore, Edizione brossura 2011, pagg. 238, € 16,50 Mentre stavo in biblioteca di Pomezia chiedo alla Direttrice se avevano un libro che avevo cercato qualche volta in due – tre librerie di Roma senza esito positivo e cioè il libro sul delitto di via Poma “Al di là di ogni ragionevole dubbio”. La Direttrice cortesemente esaudisce la mia richiesta e me lo fa avere tramite un’altra biblioteca della Provincia. Nel 2007 feci su questo argomento un articolo su Città&Città dell’ Avv. Ravel. L’inizio di questo mio articolo era il seguente: “Scrivo questo articolo in quanto fin da giovane leggevo libri gialli e durante la mia vita, proprio perché appassionato ai fatti insoluti e misteriosi (vedasi caso Montesi, delitto Fenaroli, mostro di Firenze, Uno bianca, Cogne, Marta Russo, ecc.), ho sempre seguito sui giornali quotidiani e su libri queste vicende non per una curiosità di tipo morboso, ma per riuscire a capire la dinamica delle indagini: infatti i gialli da me preferiti erano quelli di Agatha Christie. Ho letto sul “Messaggero” di oggi, 7 gennaio, la riapertura delle indagini sui casi Olgiata e Via Poma, per il ritrovamento di nuove macchie di sangue ed il contemporaneo progresso delle tecniche nel fare l’analisi del DNA, che consentono adesso di riuscire a leggere tracce praticamente invisibili. A questo punto vorrei fare un’osservazione: ho sempre avuto l’impressione che la Giustizia di fronte a delitti efferati voglia cercare immediatamente il colpevole per dare una immagine di efficienza, con il rischio di trovare così un “capro espiatorio” in modo da accontentare l’opinione pubblica. In tal modo si perde la capacità di riflessione/analisi che
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le circostanze richiedono e si fanno indagini a senso unico e non a tutto campo!” Ciò premesso faccio una breve recensione di questo libro. Raffaella Fanelli è una giornalista d’assalto che voleva andare in fondo a un mistero che si trascinava da più di vent’anni. Roberta Milletari è la moglie di Raniero Busco. Un giorno i giudici le hanno detto che suo marito era il mostro che uccise la fidanzata Simonetta Cesaroni il 7 agosto 1990. Nessuna delle due credeva che quell’uomo mite e dagli occhi azzurri fosse colpevole. E quando si sono incontrate hanno deciso di indagare insieme, arrivando a scoprire un’altra verità. Una verità che può riaprire il processo: tale verità è contenuta in questo libro. Nella prefazione Umberto Brindani afferma: “ Non sembra più sufficiente che la giustizia trovi un colpevole. Ci vuole il colpevole con l’articolo determinativo. Sono molti i casi in cui una o più persone sono state condannate senza arrivare a delle certezze, oltre ogni dubbio. Sono verdetti che danno la sensazione di aver raggiunto una verità in qualche modo casuale. C’è un solo modo per capire la situazione di un innocente in galera. Supponiamo che l’innocente in galera sia uno di noi: io che scrivo; tu che leggi.” Fu davvero Raniero Busco a uccidere Simonetta Cesaroni? Alla vigilia del processo d'appello, nuovi, clamorosi elementi allungano ombre sul delitto di via Poma. Li ha raccolti la giornalista Raffaella Fanelli, e per la prima volta li rivela in questo libro. Dettagli scioccanti che potrebbero smontare pezzo per pezzo le tesi dell'accusa e la ricostruzione di ciò che avvenne il 7 agosto 1990 Particolari mai emersi a processo, come i trucioli di segatura rinvenuti sotto i calzini della vittima, che cambierebbero completamente la scena del crimine. Il libro è composto di 31 capitoli e di una prefazione di Brindani. Il delitto di via Poma è il nome con cui storicamente si ricorda l'assassinio di Simonetta Cesaroni, un fatto di cronaca nera avvenuto martedì 7 agosto 1990 nel palazzo di via Carlo Poma n° 2 a Roma, tuttora irrisolto. Il giorno 7 agosto 1990 Simonetta Cesaroni si fa accompagnare verso le 16 alla stazione della metro Subaugusta in auto dalla sorella Paola. Simonetta andò a lavorare presso l’ufficio dell’Associazione Italiana degli alberghi della gioventù (A.I.A.G.), in via Poma, n.2. Alle 20 il padre Claudio è preoccupato perché Simonetta non è ancora tornata a casa. Alle 20:45 la sorella Paola rientra a casa e comincia a rintracciare
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il datore di lavoro di Simonetta dottor Volponi. Il telefono del dottor Volponi risulta occupato e pertanto alle 21:10 Paola Cesaroni citofona a casa del dottor Volponi, che dice di non aver ricevuto una telefonata da parte di Simonetta alle ore 18:30, come concordato, e che Simonetta doveva lavorare al massimo fino alle 19:30. Volponi non conosce l’ indirizzo dell’ufficio, dove Simonetta lavorava. Dopo varie ricerche riescono a trovare l’indirizzo e, sempre più preoccupati Paola e il fidanzato, accompagnati da Salvatore Volponi e suo figlio Luca si presentano in via Poma alle 23 e 30. Troveranno la ragazza morta, massacrata con ben 29 coltellate, nell’ultima stanza dell’ufficio. Alla vista del cadavere Volponi esclamò: “Bastardo!”. Nel corso degli anni furono svolte svariate indagini e ipotizzate varie piste investigative, e ha visto tre persone accusate del delitto tra il 1990 e il 2011: dapprima Pietrino Vanacore (Monacizzo, 1932Torre Ovo, 2010) portiere dal 1986 al 1995 del palazzo teatro dell'omicidio, poi Federico Valle (Roma, 1972), nipote dell'architetto Cesare Valle che viveva nel palazzo, ed infine Raniero Busco (Roma, 1965) all'epoca dei fatti fidanzato di Simonetta Cesaroni, che all'epoca del processo, vent'anni dopo il delitto, è sposato con Roberta Milletarì e padre di due figli. Nel libro vengono riportate tutte le fasi del processo contro Raniero Busco, difeso dall’avvocato Paolo Loria e tutte le anomalie riscontrate nella conduzione dell’accusa. Per esempio a pag. 51 si fa la seguente riflessione: “ Giuseppa De Luca, moglie del portiere Vanacore, durante la sua deposizione al processo, conferma di avere aperto la sera del delitto dopo avere riconosciuto Volponi, mentre Volponi nella sua deposizione nega di essere stato prima di quella sera negli uffici di via Poma. Uno dei due mente è ovvio, ma l’accusa di falsa testimonianza è scattata solo per chi ha fornito l’alibi a Raniero Busco.” Nella descrizione delle varie testimonianze durante il processo emergono molte incongruenze e contraddizioni circa l’ora del delitto, circa le varie telefonate fatte dall’ufficio, teatro del delitto, prima della scoperta ufficiale del cadavere! L’11 gennaio del 2007 viene rinviato a giudizio Raniero Busco perché il DNA trovato dopo anni sul reggiseno di Simonetta è il suo. Ciò è stato possibile per i progressi fatti dalla ricerca sulle analisi del DNA (tecnica del luminol). E’ particolarmente strano e ambiguo il comportamento dell’avvocato Caracciolo durante l’ interrogatorio della giornalista Fanella, descritto nel capitolo “Il mio incontro con l’avvocato Francesco Caracciolo Di Sarno”. L’incontro si svolge nella
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residenza dell’avvocato a Tarano. L’avvocato nega di aver conosciuto Simonetta e di aver ricevuto la telefonata dall’ufficio di via Poma la sera del delitto. Poi, all’improvviso, perde le staffe e caccia fuori di casa la giornalista quasi con la forza! Si pensa a questa ipotesi: per il pm Ilaria Calò, il portiere Vanacore durante un sopraluogo scopre il delitto e alle 20 fa quattro telefonate. Due telefonate a Caracciolo Di Sarno, presidente dell’Aiag, una a Corrado Carboni, direttore del Comitato Regionale, e una a Salvatore Volponi, datore di lavoro di Simonetta. Perché Vanacore avrebbe fatto quelle telefonate? Perché, secondo il pubblico ministero, potrebbe aver immediatamente sospettato il coinvolgimento diretto di uno di questi tre personaggi nell’ omicidio. Tutto questo e altro ancora potrebbe essere chiarito durante l’interrogatorio di Pietrino Vanacore, ma il portiere tre giorni prima della sua deposizione, al suo paese, Torre dell’Ovo, il 9 marzo 2009, si suicida!! In modo strano con una pietra legata al collo e una caviglia legata ad un albero in mare e in punto dove era poco profondo! Il TEMPO del 10 marzo 2010 esce con questo titolo in prima pagina: “E’ AFFOGATA LA VERITA’ “ e con un articolo di fondo di Mario Sechi. Dal mio punto di vista, dopo aver letto la dinamica sul giornale, mi ha fatto ricordare il suicidio (?!) simile a quello di Roberto Calvi, trovato impiccato a Londra sul ponte dei frati neri. Proseguendo nella lettura evidenzio il fatto che il primo poliziotto a vedere il cadavere di Simonetta è stato Sergio Costa, funzionario del Sisde (Servizi segreti) e genero dell’ex Prefetto Parisi. Caso strano che al piano superiore di via Cavour, dove si trovava la sede nazionale dell’Aiag, vi abitava per l’ appunto l’ex Prefetto Vincenzo Parisi. Una società, la Dolmen International srl, con sede a pochi metri da Largo Argentina, si occupava di scambi finanziari poco chiari con l’Africa, i Paesi dell’Est e il Sudamerica. La Dolmen aveva una società gemella in via Poma. Da cui l’ipotesi che Simonetta poteva aver visto sul Computer su cui lavorava alcuni dati sensibili e segreti sia del Sisde che della Dolmen. Altro caso strano è che la perizia sul pc dove lavorava Simonetta è stata affidata alla Ditta Inserio, che aveva fornito i programmi in uso al pc. La società Inserio aveva legami con il Sisde e l’ immobiliare Gradoli, già proprietaria di un’unità immobiliare in via Gradoli, 96 (vicino all’ ubicazione dell’ appartamento in cui nel 1978 fu tenuto prigioniero dalle BR l’On. Aldo Moro!!). Tutto ciò potrebbe far pensare che si doveva per forza trovare in Raniero Busco il “capro espiatorio” di una situazione ben più grande e che doveva a tutti i costi essere insabbiata, come del resto è succes-
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so per tanti gialli irrisolti di questo Paese (Ustica, strage di Bologna, …). Raniero Busco è stato condannato non tenendo conto anche di questi indizi: sulla porta della stanza dove è stata uccisa Simonetta erano presenti tracce di sangue di tipo A, mentre Busco ha sangue di tipo 0. Quando è stato scoperto il cadavere alle 23:30 vengono trovati gli stracci umidi: quel giorno di caldo torrido a Roma fa presumere che non essendo gli stracci asciutti l’operazione di pulizia della stanza si era conclusa poco prima del ritrovamento del cadavere. E allora come si spiega con il fatto che Busco alle 19:30 stava a Morena per riparare la sua auto; se fosse stato lui a compiere il delitto e la successiva pulizia, non era compatibile l’orario. Busco aveva già dimostrato il suo alibi e il suo non coinvolgimento nel delitto vent’anni prima ed era stato escluso come colpevole, anche se il suo alibi non fu documentato. Per trovare tracce di Raniero Busco l’accusa ha fatto fare una perizia costosissima sul reggiseno di Simonetta alla luminare Victoria Lareu di Santiago di Compostela. La perizia così diceva:”Non possiamo confermare né scartare la presenza del profilo genetico di Busco per cui l’analisi è da considerarsi NON CONCLUDENTE”. Il libro si conclude con un capitolo “le date di via Poma” e con una commovente lettera di ringraziamento all’avvocato Loria, scritta da Raniero e Roberta Milletari. Il 26 gennaio 2011 alle ore 16,08 viene condannato in primo grado di giudizio Raniero Busco a 24 anni di reclusione ed al pagamento di 100 mila euro alla sorella di Simonetta e di 50 mila euro alla madre di Simonetta. Ma la sentenza è stata ribaltata in appello il 27 aprile del 2012, con l’assoluzione piena (per non aver commesso il fatto): le tracce di DNA vengono ritenute circostanziali e compatibili con residui che avrebbero potuto resistere a un lavaggio blando della biancheria (la madre di Simonetta dichiarò di lavare soprattutto a mano con sapone da bucato), mentre il morso si rivela essere un livido di altro tipo. Viene inoltre confermato l'alibi di Busco, che si trovava al lavoro. A seguito di ricorso in Cassazione della Procura, viene fissata la prima udienza del processo di legittimità il 26 febbraio 2014, data in cui le toghe del terzo grado di giudizio hanno definitivamente assolto Busco. «Sette anni della mia vita sono stati distrutti - ha detto l'uomo al termine della lettura della sentenza - Posso capire cosa prova la famiglia, che dopo 24 anni non c'è un colpevole. Ma tutti dovrebbero comprendere anche il mio dramma. Adesso voglio essere lasciato in pace». Il delitto, dunque, resta senza colpevoli.
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Questo libro sembra essere un giallo di Agatha Christie, mancante dell’ultimo capitolo in cui Hercule Poirot trae le sue conclusioni smascherando l’ assassino. Giuseppe Giorgioli
FRANCO MOSCONI “OGGI SI È ADEMPIUTA QUESTA SCRITTURA” (Lc 4, 21) Collana 'Quaderni di Camaldoli', EDB, Bologna, 2008, Euro 11,80 - I Edizione ottobre 1994 Franco Mosconi, monaco camaldolese dal 1964, esperto di teologia patristica e monastica, con titolo conseguito al pontificio Ateneo sant'Anselmo di Roma, è stato vice-priore dell'eremo di Camaldoli per dodici anni ed è ora all'eremo di San Giorgio di Rocca di Garda, in provincia di Verona, mi onora della sua Amicizia. Tanti i suoi lavori legati allo studio ed all'approfondimento delle Scritture, ma qui siamo di fronte ad un viaggio particolare, che si presenta come un cammino in dieci passi, intensi e concatenati tra loro, tutti tesi a predisporre interiormente l'incontro con il Maestro, il Messia, l'Interprete della Scrittura che si è fatto egli stesso Scrittura. Sono indelebili i momenti nei quali ravviso il totale abbandono dell'Autore alla volontà dell'Altissimo, quasi che, commentando i capitoli scelti, si confidi al lettore con sincerità, dando testimonianza della sua gioia: '...Questo modo di leggere la Scrittura fa si che la parola di Dio diventi orizzonte esistenziale, permanente, che ci porrà in grado di esprimere giudizi sulla realtà, di saper discernere in modo sapiente... Dio è per definizione l'Invisibile, colui che l'uomo non può vedere. Non può nemmeno raffigurarselo... Ma se Dio è l'Invisibile, tuttavia l'uomo può udirne la Parola, e la religione biblica è fondata sulla rivelazione di Dio, di un Dio che parla. Dio parla all'uomo, lo chiama ad un rapporto di comunione di vita con sé e perciò l' ascolto diventa di primaria importanza da parte dell'uomo...' (F. Mosconi, Oggi si è adempiuta questa Scrittura, Lc 4-21; op. cit. pag. 5). Allora la Scrittura, per Franco Mosconi, è orizzonte esistenziale, permanente, per questo avvia un discorso di lettura e di approfondimento che invita a fare esperienza della Parola, che è esperienza vera della speranza. Ecco le scelte operate, in dieci 'lectio' concepite come le tappe successive della salita al Sacro Monte, alla sommità del quale contemplare la fede di Gesù nel Padre: l'Autore apre ciascuna di esse con un'ispirata preghiera, affinché il canto dell'anima accompagni la conoscenza, illuminandola, e la renda così fertile nel nostro cuore: I La tri-
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logia lucana d'apertura: battesimo, genealogia, tentazioni di Gesù (Lc 3, 21-4,12); II Gesù compimento delle profezie (Lc 4,14-30); III “Costituì Dodici” (Mc 3,13-19); IV Tu sei il Cristo (Mt 16, 13-28); V Il mistero di Maria (Gv 2, 1-12); VI I discepoli di Emmaus (Lc 24, 13-35); VII L'esperienza cristiana di s. Paolo (At 22, 3-16; Fil 3, 316); VIII Capisaldi della vita cristiana in Paolo (Fil 3, 4-14; 2 Cor; Eb; Gal); IX Il cieco di Gerico (Mc 10, 46-52); X Le parabole della misericordia (Lc 15, 1-31). In tutto sono 145 pagine di luce, che va a toccare ogni aspetto della nostra vita, anche là dove l'ombra sembra più spessa, quasi impenetrabile. Traccio queste riflessioni con sullo sfondo i canti del Magnificat di J. S. Bach e, in sovrapposizione contemporanea, il parlato di Franco Mosconi per la Notte di Natale, che mi ha inviato in dono: un richiamo intenso alla gioia, all'esultare segreto della mente e del cuore. “… Il Natale è la festa memoriale della nascita di Gesù, nel quale Dio stesso ha preso dimora tra di noi. Quel Gesù che oggi contempliamo nella fragilità di un bambino, è parte concreta, irrinunciabile della storia umana. Lo si accolga o meno, rimane carne della nostra umanità...”. Dei dieci passi di questo cammino senza tempo, a partire dalla speranza come esperienza di vita, che trova nel volto di Gesù il proprio rispecchiamento, in sincera libera scelta, riporto alcune testimonianze, da accogliere nel segreto del pensiero quando si fa conoscenza vera: la sua è Parola che chiede scelta e scelta di vita, in un tempo fuori del tempo dell' uomo, per fargli respirare, qui ed ora, la concretezza di quel volto. “... Si delinea così un altro aspetto: Gesù, oltre a essere il vero Israele, è il vero Adamo, il nuovo Adamo; Gesù realizza quella vocazione che l'uomo non è mai stato in grado di realizzare. Si può dire che l'uomo non era mai stato all'altezza della sua vocazione: la somiglianza con Dio l'aveva persa per la sua volontà di autosufficienza, di affermazione di sé, per l'incapacità di fidarsi pienamente di Dio... Gesù è il secondo Adamo, che ridona all'umanità la possibilità di realizzare i suoi compiti, il suo destino, il suo vero cammino (I, pag. 15). ... Gesù, terminata la lettura di Isaia, arrotola il volume, lo consegna all'inserviente e si siede, ma gli occhi di tutti sono fissi sopra di lui. 'Allora cominciò a dire: -Oggi si è adempiuta questa Scrittura, che voi avete udita con i vostri orecchi-... Che per noi l'invito a cogliere l'oggi non resti vano!... Recuperiamo il senso dell'oggi di Dio, dell'occasione di salvezza offertaci, affinché il Signore non passi invano. Che il Signori trovi in noi una grande e attesa disponibilità (II, pp.31 e 35).
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...C'è una dialettica tra parola e silenzio: Dio parla da una parte, nel silenzio; dall'altra l'esperienza di lui porta al silenzio tutto il resto. L'oggi della Parola è sempre in questo contesto: 'Oggi se udite la sua voce non indurite i vostri cuori (Sal 95, 8). L'indurimento del cuore è come un frastuono che impedisce a Dio di agire. Nella misura in cui invece la linea della storia viene tracciata attraverso il dialogo tra Dio e l'uomo, la Parola del Signore è sempre nuova, è un oggi sempre diverso, perché l'uomo si arrende a Dio... Il discepolo di Gesù supera l'atteggiamento deluso di molte vite che si sentono sprecate, che non interessano a nessuno, e proclama che Gesù e il Vangelo sono speranza di pienezza, perché lo sperimenta nella sua vita; capisce che Gesù è speranza di pienezza di vita e sa che tutto questo non è il risultato degli sforzi umani, anche se ci vogliono, ma è un dono... Se viviamo questa esperienza, possiamo dire che di fronte a una società che sogna soltanto cose, che si esalta per ciò di cui dispone, che vive i rapporti anche nella prepotenza, che è solo tesa verso risultati economici, siamo un'alternativa e collaboriamo a correggere il volto sfigurato dell'uomo (III, pp. 38, 44 e 45). … La domanda di Gesù 'Voi chi dite che io sia?' è rivolta ai discepoli, ma è rivolta anche a me, nel mio oggi... La domanda che Gesù rivolge ai discepoli e a noi mira a conoscere quanto siamo innamorati di lui, quanto siamo legati a lui... La fede è un rapporto personale con Gesù, uno stare vicino a lui, ascoltarlo, guardarlo, amarlo, per seguirlo, obbedirgli; è un cammino di amicizia, di amore, per tutta la nostra esistenza... (IV, pp. 54-55). … Maria è stata una donna di non molte parole, nascosta, e dalla morte del Messia in croce è entrata ancor più in questo atteggiamento. Questo silenzio, inaugurato sotto la croce assumendo la nuova maternità, non è passività, ma è un atteggiamento di pienezza interiore, è una sola parola, un solo messaggio, una presenza univoca. La Vergine del silenzio dice e ridice: 'Fate quello che egli vi dirà'. Questo è il suo testamento: 'Fate quello che egli vi dirà'. Maria è presente come donna e madre, è sempre presente anche lei come Dio nel silenzio. Il silenzio di Maria è l'eco del silenzio di Dio... (V, pp.79-80). … I discepoli di Emmaus si allontanano da Gerusalemme, lasciano gli Undici e se ne vanno con tristezza indicibile. Hanno perso il loro maestro, hanno perso il loro profeta; non hanno più speranza: 'Noi speravamo'. Se ne vanno verso l'oscurità. Compiono il cammino inverso di quello compiuto da Gesù, lasciano Gerusalemme. Sono senza intelligenza, sciocchi e tardi di cuore nel credere, per-
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ché non ricordano le parole dette da Gesù. Quante volte Luca sottolinea che occorre ricordare, occorre serbare nel cuore le parole pronunciate da Gesù... È la teologia di Luca presente nel c. 24: non il vedere i segni, i miracoli, i prodigi, ma l'ascolto della Parola fa nascere la fede. Per Luca sono le parole di Gesù stesso l'elemento discriminante e fondante della fede, il loro ascolto, il ricordo della Parola... Gesù mangia con i due discepoli a Emmaus, poi ancora nel cenacolo... la parola e il pasto: è attraverso questi due elementi che si fa l'esperienza piena di Cristo. È il massimo consentito: il Cristo lo si incontra nel povero, nell'ospite, nel pellegrino, ma il vertice massimo dell'incontro personale con lui si ha quando con lui mangiamo. È l' oggettività del sacramento: la Parola e il pane... (VI, pp. 85, 87 e 94). … Non c'è dubbio che la conversione sia il fondamento di tutto l'impegno missionario di Paolo, si potrebbe anzi dire che Paolo non si sia mai convertito per diventare semplicemente cristiano, ma per diventare apostolo: non c'è un Paolo solo, cristiano, ma insieme sempre all'inizio apostolo. Il suo incontro con Gesù Cristo diventa subito un impegno di predicazione, di testimonianza apostolica... Paolo dice: c'è una giustizia che io mi procuro con le mie mani e c'è una giustizia che deriva dalla fede in Cristo. Paolo ha abbandonato la prima per ricevere la seconda. Paolo con ciò ha cambiato il significato della sua vita. Con ciò si cambia il significato della religiosità: prima si pensava alla propria vita come a un possesso, che da buoni manager si cercava di rendere il più ricco possibile, ora si è passati a considerare la vita come un dono, non come un possesso, non una vita che proviene da se stessi, ma dal Signore, vivere per il Signore... Nel volto si mostra la vera identità di una persona. Paolo è stato sorpreso dal Cristo glorioso. La gloria nella Bibbia è anche bellezza, la bellezza di Dio. Dio oltre che onnipotente e onnisciente è anche bello, di una bellezza luminosa e incorruttibile. Paolo nella gloria di Cristo ne ha visto il volto e se ne è innamorato... (VII, pp. 98, 103, 105-106). … Per Paolo l'atteggiamento corretto della sua e della vita di ogni cristiano, anche della nostra, è la consapevolezza di non essere mai arrivati. Pensare di essere arrivati sarebbe arroganza, presunzione e toglierebbe l'impegno del cammino. La vita del cristiano è e rimane un pellegrinaggio, un esodo, un cammino... Paolo ha davanti a sé Gesù Cristo. Camminerà tutta la vita per raggiungerlo e non si lascerà avvilire dai fallimenti, dagli insuccessi, dagli abbattimenti anche psicologici: la meta irremovibile continuerà a determinare la sua corsa...
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(VIII, pag. 115). … Bartimèo apprende che passa Gesù Nazareno. Cieco, ai bordi della strada, sente del brusio e si informa. Non è quanto gli viene riferito in sé che fa suscitare la fede in lui, eppure gli basta e si mette a gridare: 'Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!'. Pensandoci bene, troviamo molti elementi, in queste poche parole, che sono anche una preghiera. È il solo caso in Marco in cui in un'invocazione c'è anche una risonanza liturgica. Le grida e la ripetizione mostrano l'insistenza e la perseveranza di chi non si lasca scoraggiare dagli oppositori. Il grido ripetuto suppone la fede: non si può pensare che uno qualunque guarisca dalla cecità. Bartimèo crede che Gesù ha il potere di rendergli la vista, in fondo attende questo dalla sua pietà: 'Abbi pietà di me!'... Di fronte a Gesù la preghiera di Bartimèo non è più l'appello generico: 'Abbi pietà di me!', ma diventa una domanda esplicita: 'Che io riabbia la vista!'. Il tono è quello di un'umile richiesta, anche se audace... Il racconto lascia a Bartimèo l'iniziativa di mettersi al seguito di Gesù sulla strada. Essa si presenta come effetto della sua fede; è la logica della fede, che dopo averlo spinto a chiedere la guarigione e a slanciarsi verso di lui buttando via il mantello, gli fa capire quanto ora il dono della vista accordata gli richieda. Il recupero della vista gli apre così la possibilità di seguire Gesù: in esso riconosce una sua chiamata e dà la sua risposta... (IX, pp. 126-127 e 129). … Quando un uomo rinasce in Gesù, torna a vivere dalla grazia di Dio nella sua piena dignità: è dono di Dio, Dio stesso vibra, è coinvolto, c'è festa in cielo, la festa di Dio. Questa è lode continua di tutti coloro che sono stati toccati, guariti, incontrati dalla misericordia di Dio che salva. Il lebbroso torna da Gesù lodando Dio; il cieco di Gèrico, nella versione di Luca, segue Gesù lodando Dio; il paralitico porta a casa il suo lettuccio nella gioia. La gioia poi si allarga, diventa festa della gente, liturgia di tutti, un coro di gioia per il Vangelo. Tutto ciò rappresenta per noi un invito a ritrovare un clima più evangelico, di maggiore fiducia nel Signore. La nostra vita interiore è fragile, basta poco per ferirla, si degrada, si abbruttisce. Il Signore però non ci lascia vagare come sbandati, in preda al nostro male: egli è sempre disposto a donarci la guarigione, a renderci partecipi della sua vita, ci vuole come testimoni della sua gioia...(X, pag. 139)”. Nel tempo intenso della meditazione ognuno di noi potrà riandare ai passi scelti da don Franco Mosconi in queste 'lectio', per orientare il cammino e vivere l'esperienza della speranza. Ilia Pedrina
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ANTONIA IZZI RUFO OLTRE LE STELLE Edizioni Eva, 2017. Pag. 53. € 8,00 Riversare su un fiore tutta la mia tenerezza, amarlo di un amore puro, sano, trasparente, attingere da esso estasi interiore, impulso a volare oltre le stelle del firmamento, è il mio senso di vita, il ritorno alla fanciullezza ed alla spensieratezza, al tempo delle fiabe, al luccichìo intermittente delle lucciole che rincorrevo a piedi nudi, nelle lunghe serate di giugno, con la schiera dei bambini di “via Piana”, la mia strada (Oltre le stelle). Fiore, tenerezza, amore, impulso a volare, ritorno alla fanciullezza, serate di giugno: tanti ingredienti lessico-emotivi che costituiscono il focus, il nerbo portante del canto di Antonia Izzi Rufo. Il tutto in una poesia testuale che, a pag. 20 del diacronico succedersi del racconto, si potrebbe porre come momento incipitario con valore eponimo dell’ opera. Versi sciolti, di eufonico impatto, di varia misura che, vòlti ad agguantare e concretizzare gli abbrivi di una poetessa tutta volta a dire di sé, della vita, dei ricordi, dei sogni, delle vertigini paniche, della Bellezza, traducono un’anima ora in fiori bellissimi, ora in cielo e mare, ora in luccichii intermittenti di lucciole, ed ora nel sorgere del sole nelle rose dell’aurora. Un viaggio in un mare aperto di luce e di speranza; di rinascita per i bocci che simboleggiano il candore di un bimbo; di una creatura attesa come la nascita del Bambino Gesù: si tratta del nipotino di Antonia a cui ella dà tutta se stessa, anima e corpo, con la voce di una poesia armonicamente fluente, e con la dedizione spirituale di una maestra che per tutta la vita ha vissuto nei suoi ragazzi il motivo di esistere. Ma ora c’è la sua carne, il suo sangue, ci sono gesti e mossette destinati a tramandarla con la loro freschezza in grembo al seno di Giove, come dicevano i Greci. C’è anima in questo racconto, c’è dolcezza, c’è partecipazione, c’è emotività che dai piccoli gesti trasferisce il poema oltre le stelle. Dal miracolo della nascita “trepidanti ed estatici/ assistiamo al miracolo/ che già in noi si compì/ ed ora in lui si rinnova” (Un uomo); alla grandezza dell’universo: “… Sei piccolo ma grande,/ quanto l’intero universo,/ …/ Sei di tutti, parte dell’ umanità, / non solo di mamma e papà, / anche
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mio; c’è in te un po’ di me” (C’è in te anche un po’ di me); al battesimo: “… Mattiniero il dì s’è destato,/ preludio di primavera alle porte,/ e in un cielo di limpido azzurro/ ha iniziato il suo giro col sole…” (Battesimo). Ed è il cielo, la Grazia, la potenza epifanica della natura a venire in aiuto alla poetessa per aiutarla a trasferire in poesia tutta la sua intensa umanità. Il racconto prosegue con l’Impareggiabile scultura vivente in cui si esalta la bellezza del fiore più bello del mondo; e attraverso Le gioie di una vita, La guancia di un bimbo, Il suo (tuo) linguaggio, Per il suo (tuo) primo compleanno, Sintonia,… si giunge all’ultima lirica in cui la poetessa si chiede il “perché” di tanta tenerezza del cuore: (…) È debolezza la mia? non dovrei mostrare freno, discrezione, contegno morale, rimuovere l’eccesso, tenermi in disparte per non provocare reazione in chi ha priorità assoluta d’amare e godere del più nobile dei sentimenti? Chiedo venia al Bimbo e ai suoi cari e prometto di celare, non cancellare, il mio spontaneo, anomalo sentire. È cosa difficile trattare in poesia un argomento tanto sentito senza cadere nel retorico o nel mellifluo; la Rufo evita tutto questo affidandosi alla spontaneità di un linguismo mantenuto fra gli argini che contengono l’irruenza della corrente. Nazario Pardini
Un’opera del mosaicista Michele Frenna →
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D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE IL ROMANZO DI CALABRÒ PRESENTATO IN SPAGNA - Riceviamo e volentieri pubblichiamo: Queridos amigos: El 3 de enero de 2018, a las 19.00 horas, tendrá lugar la presentación del libro Leda. Acuérdate de olvidarla, de Corrado Calabró, publicado por el Grupo Editorial Sial Pigmalión, en el Salón de Actos del Archivo Histórico Nacional (C/. Serrano, 115, 28006 Madrid, República Argentina). Intervendrán en el acto: Severiano Hernández, subdirector general de los Archivos Estatales del Ministerio de Educación, Cultura y Deporte; Arturo Lorenzo, director del Instituto Cervantes de Milán; Lucia Coco De Carolis, traductora de la obra; Basilio Rodríguez Cañada, presidente del Grupo Editorial Sial Pigmalión; y Corrado Calabró, autor de la obra. Les esperamos. Grupo Editorial Sial Pigmalión - C/. Bravo Murillo, 123, 6.º D, 28020 Madrid Teléfono: 91 535 41 13 - Correo electrónico: editorial@sialpigmalion. es Blog: http://editorenvilo.blogs pot.com http:// sialediciones.blogspot.c om Facebook: http:// www.facebook.com/pag es/SIAL-Ediciones/ 235143067848. Corrado Calabró (Reggio Calabria, 1935) ingresó muy joven en la magistratura del Consejo de Estado del
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que fue designado presidente adjunto. Desde 2005 es presidente de la Autoridad para las Garantías en las Comunicaciones (AGCOM). Su primer volúmen de poemas, Prima attesa (Guanda, Parma, 1960) fue escrito entre los die- ciocho y los veinte años. A este le siguieron otros muchos volúmenes, entre los cuales cabe citar los siguientes: Agavi in flore (SEN, Nápoles, 1976); Vuoto d’aria(Guanda, Milán, 1979 y 1980, tres ediciones); Presente anteriore(Vanni Scheiwiller, Milán, 1981); Mittente sconosciuta (Franco Maria Ricci, Milán, 1984); Rosso dAlicudi(Mondadori, Milán, 1992, tres ediciones, que reúne todos los libros publicados hasta entonces); Lo stesso rischio-Le méme risque (Crocetti, Milán, 2000); Le ancore infeconde (Pagine, Roma, 2000). En 2002 Mondadori publicó en la colección «Oscar», bajo el título Una vita per il suo verso(dos ediciones) una exhaustiva muestra de su poesía, con un importante prólogo de Dante Maffia. En 2009 salió, publicado también por Mondadori, La Stella promessa. Sus libros Poesie d’amore (Newton & Compton, Roma, 2004) y T’Amo di due amori y antología temática de sus poemas de amor (con un CD que contiene 19 poemas leídos por el actor Giancarlo Giannini, Vallardi, Milán, 2010), confirman el éxito también de público de Calabró. Existen numerosas traducciones de sus libros: tres al español; dos al francés, inglés, húngaro, sueco y ucraniano; una al rumano, ruso, serbio, portugués, griego, polaco y danés. Leda. Acuérdate de olvidarla. Provoca asombro una obra que devuelve la Roma de los viejos y nuevos ricos de los años setenta. El autor se regocija perfilando un cuadro en el que todo parece inventado y casi inverosímil, pero la hábil administración de los trazos empuja al lector a reconocer hechos y personajes que habían levantado años atrás la curiosidad del ciudadano medio por sus escandalosas vicisitudes. La implicación es absoluta y compleja, y no exclusivamente intelectiva. Un espíritu distinto mueve la trama de fondo de la novela. En las páginas dedicadas a la pasión el amor pierde toda aura de confortante espiritualidad. Los protagonistas, Leda y Alceo, son dos cuerpos que se encuentran y encajan. Sus vidas sufren un desplome, un terremoto que tiene algo de fatalidad y de sobrecogimiento. Toda la novela es un peán a la primacía de lo físico. El hombre y la mujer viven una experiencia extrema y violenta: encontrarse y amarse comporta desde un punto de vista narrativo la descripción de un acontecimiento primario y absoluto. Amar tiene algo de terrible y grandioso fuera de cada certeza y de cada contención. Un rito dionisíaco así como nos lo había entregado
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originariamente Catulo. Cuando, a continuación, empieza a crecer sobre sí misma, la trama se mueve a lo largo de un recorrido que contamina la pureza de los cuerpos con las torturas de la mente. La espléndida Leda de fetiche de gozo sexual se convierte en la obsesión de una sospecha continuada y acaba siendo una presa, tal vez cómplice. Es una presencia altiva y secreta, totalmente identificada con las dotes superiores de un cuerpo de marmórea perfección clásica. Alceo es el amante por antonomasia, el Hombre que quiere dominar las pulsiones de la Mujer. Pero el «juego» a tres se desliza por un plan de atrevimientos cada vez más fuertes y el que lo ha sugerido y encaminado se encuentra poco a poco en una situación de creciente incomodidad. Llega el momento en el que Alceo, atrapado por el mecanismo que ha puesto en marcha, tiene que enfrentarse a una Leda que reclama perentoriamente su propia autonomía de acción. En este punto Alceo tiene que tomar nota de su derrota. Desde su interior brota el imperativo salvífico y antagónico: ¡Acuérdate de olvidarla! Carlo A. Madrignani Il poeta Corrado Calabrò è stato pure presentato alle Giubbe Rosse di Firenze - Piazza della Repubblica 13/14 R - sabato 13 gennaio 2018, alle ore 17,30. *** L’ACCADEMIA COLLEGIO DE’ NOBILI Istituzione storico-culturale fondata nel 1689 e presieduta dallo scrittore Dott. Marcello Falletti di Villafalletto - ha organizzato e svolto una Giornata accademica, a Gragnano di Lucca, Domenica 28 gennaio 2018, così articolata: Chiesa di S. Maria Assunta in Cielo, ore 10.30, Santa Messa celebrata dall’ Acc. di Grazia Conv. Don Emilio Citti; ore 11.30, Presentazione del libro di Marcello Falletti di Villafalletto “Davvero costui era figlio di Dio! (Mt 27,54)”, Anscarichae Domus, Firenze 2017, con la Prefazione di Dom. Bernardo F. Gianni, Abate di San Miniato al Monte di Firenze. Ad introdurre è stato l’ Acc. Nob. Comm. Luca Parenti, Legato dell’Italia Centrale; a presentare, l’ Acc. di Gr. Conv. Don Emilio Citti. Ha letto il Nob. dei Conti Comm. Claudio di Villafalletto, Gran Cancelliere. Alle ore 12.30, infine, Incontro conviviale nel teatrino parrocchiale. *** I CONCORSI DE “IL CONVIVIO” - Premio Internaz.le Poesia, Prosa e Arti figurative e Premio teatrale Angelo Musco Il Convivio 2018 - Scadenza: 30 maggio 2018 - L’Accademia Internazionale Il Convivio, in collaborazione con l’ omonima rivista, bandisce la XVIII edizione del Premio Il Con-
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vivio 2018, Poesia, prosa e arti figurative e la XIII edizione del Premio Teatrale Angelo Musco, cui possono partecipare poeti e artisti sia italiani che stranieri con opere scritte nella propria lingua o nel proprio dialetto (se in dialetto è richiesta una traduzione nella corrispettiva lingua nazionale). Per i partecipanti che non sono di lingua neolatina è da aggiungere una traduzione italiana, francese, spagnola o portoghese. Premio Poesia, prosa e arti figurative, Scadenza: 30 maggio 2018. È diviso in 7 sezioni: 1) Una poesia inedita a tema libero in lingua italiana (cinque copie) 2) Un racconto inedito di massimo 6 pagine (spaziatura 1,5) (cinque copie). 3) Romanzo o saggio inedito (minimo 64 cartelle) (tre copie). 4) Raccolta di Poesie inedite, con almeno 30 liriche, fascicolate e spillate (diversamente le opere saranno escluse) (tre copie). 5) Libro edito a partire dal 2008 nelle sezioni: 1) poesia, 2) narrativa, 3) saggio (tre copie). Non si può partecipare con volumi già presentati nelle edizioni precedenti del Premio Il Convivio. Saranno considerati editi solo quelli forniti di codice ISBN. 6) Pittura e scultura: si partecipa inviando due foto chiare e leggibili di un’opera pittorica o scultorea. 7) Opera musicata (poesia, canzone, opera teatrale, ecc). L’opera è accettata solo ed esclusivamente se accompagnata da un DVD o CD (una copia). Per le sez. n. 1, 2, 3, 4 e 6 è possibile inviare per e-mail una copia corredata di generalità e recapiti – per i romanzi è richiesta una breve sintesi - all’indirizzo e-mail: angelo.manitta@tin.it, enzaconti@ ilconvivio.org. Premio Teatrale Angelo Musco - Scadenza: 30 maggio 2018. È diviso in 2 sezioni: 1) Opera teatrale inedita in qualunque lingua (anche dialettale, ma con traduzione italiana) (tre copie); 2) Opera teatrale edita in qualunque lingua o dialetto. (tre copie). Saranno considerati editi solo quelli forniti di codice ISBN. Premiazione: Giardini Naxos (ME): 28 ottobre 2018. Si può partecipare a più sezioni, ma con una sola opera per sezione, dichiarata di propria esclusiva creazione. Delle copie inviate, una deve essere corredata di generalità, indirizzo, numero telefonico ed e-mail, le altre copie devono essere anonime se inedite, se invece edite non è da cancellare il nome dell’autore. Per informazioni e invio opere Redazione de Il Convivio: 1) Premio “Poesia, Prosa e Arti figurative”, Via Pietramarina Verzella, 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) - Italia. 2) Premio teatrale “Angelo Musco”, Via Pietramarina Verzella, 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) Italia. Le opere inedite devono restare tali fino al giorno della premiazione. Premi: Coppe, targhe e diplomi. La partecipazione al concorso è gratuita per i soci dell’Accademia Il Convivio. È richiesto
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invece da parte dei non soci, per spese di segreteria, un contributo complessivo di euro 10,00 indipendentemente dal numero delle sezioni cui si partecipa (o moneta estera corrispondente) da inviare in contanti o bonifico. Le copie inviate per e-mail vanno corredate della copia del versamento di partecipazione. Per ulteriori informazioni tel. 0942986036, cell. 333-1794694, e-mail: angelo.manitta @tin.it.; enzaconti@ilconvivio.org . Il sito: www.ilconvivio.org Il presidente del Premio Angelo Manitta *** LILIANA SEGRE SENATRICE A VITA - Un plauso al Presidente della Repubblica per aver nominato, il 19 gennaio 2018, Liliana Segre Senatrice a vita (e scriviamo Senatrice e non Senatore, perché le donne dovrebbero essere orgogliose di mantenere sempre la loro condizione; i loro diritti si devono difendere non cambiandole di sesso: perciò senatrice, poetessa, professoressa eccetera; il vezzo cattivo di mettere tutto al maschile a noi non è mai piaciuto). Nata a Milano il 10 settembre 1930, deportata ad appena 13 anni, ha avuto la famiglia distrutta, ha lavorato nei campi di concentramento nazisti, trasferita più volte. Liberata dagli alleati, dopo anni di silenzio ha deciso di testimoniare il suo dramma, affinché la gioventù sappia e non si abbiano più a verificarsi fatti così dolorosi e inquietanti che hanno coinvolto milioni di innocenti. Le leggi razziali, i campi di concentramento, le uccisioni in massa, sono tra gli avvenimenti più atroci che la storia non potrà mai dimenticare. Il Senato, a nostro avviso, dovrebbe essere totalmente spogliato della politica e trasformato in Pantheon moderno delle donne e
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degli uomini illustri viventi. (ddf)
LIBRI RICEVUTI VERONIKE JANE - Lentamente - Romanzo, Printed in Poland by Amazon Fulfillment, Poland Sp. z.o.o., Wroclaw, 2017 (?), Pagg. 172. Il romanzo - si legge sul retro di copertina -, ambientato principalmente in un quartiere degradato della “Vecchia Sicilia”, ripercorre le vicende familiari della protagonista che narrando in soggettiva ti accompagna a braccetto nel suo percorso. Un racconto cruento, surreale, violento, ai confini con la realtà, dove il contatto con quel vissuto non può non scuoterti. Una narrativa efficace e diretta che arriva a segno: un pulp realistico come di chi ha toccato con mano certe aberrazioni e le svela denunciandole al mondo. “...perché nessuna cicatrice può fermarmi bensì guidarmi, perché il mio vero io è un bagaglio che porto nel cuore...”. Veronike JANE, nata a Catania nel 1980, vive da anni a Roma. Per volere della madre ha frequentato l'Istituto Alberghiero sezione Ricevimento, contestualmente, negli stessi anni ha seguito due corsi semestrali regionali di Decorazione Pittorica e Disegno dal Vivo. Nel 2006 per circostanze fortuite ha avuto il piacere di conoscere il filosofo, poeta e letterato, Valeriano Massimi, che a suo modo l'ha spronata a concludere i suoi scritti. Oggi è mamma a tempo pieno, continua a scrivere, viaggia appena può per non chiudersi nelle ripetizioni e prendere ispirazione dal mondo, ha trasferito le sue conoscenze di decorazione pittorica nel cake design. Di recente, dopo nove anni di revisioni, ha pubblicato il suo primo libro “Lentamente” (novembre 2017), in attesa di pubblicare gli altri inediti nel cassetto. Usa uno pseudonimo perché le piace raccontare storie vicine al vissuto, esperienze di vita che se non sempre direttamente le sue, sono comunque di amici o amiche che le sono stati o le sono tutt'ora vicini. Tiene dunque a mantenere il “segreto professionale” e anche un certo mistero che la contraddistingue, pertanto informazioni troppo dettagliate che possano ricondurre alle persone che tutela non ama darle. ** PIERO ANGELA - Il mio lungo viaggio 90 anni di storie vissute - Mondadori, 2017 - Pagg. 224 € 19,00. Con questo libro, Piero Angela, che ha viaggiato nel corpo umano, nella preistoria, nel passato e nel futuro, portandoci ogni volta con sé, ci accompagna in un viaggio diverso, attraverso due secoli e molti continenti, in mezzo a mille peripezie,
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incontri, scoperte e avventure: la sua vita. Il principe della divulgazione televisiva, l’ autore di decine di bestseller che hanno svelato a tre generazioni di italiani la bellezza della scienza, stavolta ha scritto un libro diverso: “Non un libro di divulgazione scientifica, ma un raccolto personale dedicato al pubblico che da tanti anni mi segue nel mio lavoro, spesso con vero affetto... Il libro racconta le mie esperienze di lavoro, il ‘dietro le quinte’ di oltre mezzo secolo di televisione... Ma per la prima volta rispondo anche a certe domande che spesso mi vengono rivolte in occasione di incontri o conferenze, e che riguardano la mia vita, la mia formazione, gli inizi in RAI, il pianoforte, persino la mia infanzia”. Testimone oculare di due secoli, ci racconta in modo vivido l’Italia degli anni Trenta e Quaranta, gli anni esaltanti del miracolo economico, la nascita della televisione, la sua straordinaria carriera di giornalista: prima cronista, poi inviato, poi inventore e conduttore di programmi che hanno contribuito a diffondere tra gli italiani una cultura scientifica. Nel libro ci sono decine di aneddoti e di incontri che ne fanno una lettura godibilissima. Ma c’è soprattutto un grande insegnamento, particolarmente prezioso per i giovani che lo venerano come un mito: la passione di sapere e la voglia di scoprire possono portare molto lontano nella vita, e fare di chiunque una persona speciale. Piero ANGELA è nato il 22 dicembre 1928 a Torino. Autore di innumerevoli programmi televisivi dedicati alla scienza, alla storia e all’ economia, fra i quali “Quark” e “Superquark”. Per la sua attività gli sono stati assegnati molti premi importanti e conferite decine di lauree honoris causa. Ha scritto moltissimi libri, tradotti in varie lingue, sugli argomenti più diversi, dalla biologia alla psicologia, dalla fisica agli sviluppi tecnologici, dai sistemi complessi all’evoluzione umana, dall’ astrofisica ai problemi ambientali, fino ai suoi ultimi bestseller, tutti editi da Mondadori: Ti amerò per sempre (2005), Energia - La sfida del secolo (2006), Perché dobbiamo fare più figli (2008), A cosa serve la politica? (2011), Viaggio dentro la mente (2014), Tredici miliardi di anni (2015). ** ALESSANDRO PETRUCCELLI - Una cartella piena di fogli - Prefazione di Geno Pampaloni; in copertina, a colori, illustrazione di Alberto Ruggieri - Editori Riuniti, 2017 - Pagg. 192, € 16,00. Nuova edizione del romanzo, pubblicato per la prima volta nel 1990 dagli stessi Editori Riuniti e poi da Interlinea nel 2001. Narra di due giovani diplomati che avendo spedito per caso la domanda vengono chiamati a Roma per ricoprire l’incarico di rilevatori del censimento. I due ragazzi partono dal loro
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paesino di campagna, situato nel retroterra del sudpontino, carichi di speranze e di aspettative e con l’ intento di rimanere impiegati nella capitale. Nel portare e ritirare i moduli, hanno modo di penetrare nelle case, conoscere le condizioni delle famiglie, avere contatto con persone di ogni tipo. Di fronte a ciò che vedono o ascoltano non rimangono indifferenti. Infatti, ora mostrano la loro disponibilità verso i tristi casi umani, ora si entusiasmano davanti ai segnali di simpatia, ora sono ironici o critici nei confronti dei modi e degli atti che offendono i valori in cui credono. Non nascondono, poi, il diletto che provano di fronte alle opere d’arte e alle immagini di bellezza che la Città Eterna gli fa incontrare. Il libro, sponsorizzato dall’Istat in occasione del censimento del 1991 e vincitore di vari premi (Presidenza del Consiglio dei Ministri; Città di Avellino 1991; Città di Leonforte 2002; Città di Pomigliano d’Arco 2004; Città del Tricolore 2015), oltre a rappresentare il mondo segreto che si nasconde dietro le porte (è stato definito “Spoon River di viventi”, “Viaggio nell’umanità”, “Commedia umana”), richiama fortemente l’attenzione sulla disoccupazione giovanile e sul bisogno improcrastinabile dei giovani di impegnare le loro energie. Questo leggiamo sul retro e nelle bandelle. Quadri e personaggi sono veri, c’è, nel libro, la Roma degli anni sessanta-settanta e anche di prima e vere sono le molte storie. Anche noi, per esempio, abbiamo pranzato e cenato spesso alla mensa militare e con lo stesso stratagemma. C’era, prima del locale mensa, anche un bravissimo orologiaio, del quale ci siamo serviti spesso. Anche noi abbiamo inserito pubblicità per ricerca lavoro sul Quotidiano Il Messaggero e nelle case di allora e per le strade si viveva proprio così. Non c’era il reato dello Stalking e alle ragazze si faceva la posta e i complimenti senza venire denunciati. Si era più civili di adesso nel porgere complimenti e nell’accettarli o rifiutarli. C’erano, allora, ancora tanti valori. (ddf). Alessandro PETRUCCELLI, nato a SS. Cosma e Damiano (Lt), vive a Formia. Laureato in Lettere, ha insegnato negli istituti superiori, è autore di vari romanzi e vincitore di molti premi. Tra le opere pubblicate (oltre a racconti illustrati come “La mucca Sposella”, “L’uomo solo e la formica”, “L’asino Giacchino”): Un giovane di campagna (1976), Due compleanni e una città (1985), Il pensionando (1999), La favola dell’uomo senza amici (2006), La lettera e il viaggio (2014). ** CARLO CIPPARRONE - Betocchi Il vetturale di Cosenza e i poeti calabresi - Prefazione di Pietro Civitareale - Edizioni Orizzonti Meridionali, 2015 Pagg. 136, € 12,00. Carlo CIPPARRONE è nato
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nel 1934 a Cosenza, dove ha sempre vissuto, ad eccezione di un lungo periodo dell’infanzia, trascorso tra Sondrio, Roma e Reggio Calabria. Sue poesie sono apparse su varie riviste e su numerose antologie. Ha collaborato alle pagine culturali dei quotidiani L’Arena, Avanti!, Il Corriere di Sicilia, La Calabria, Gazzetta del Sud, Il Quotidiano della Calabria, La Provincia Cosentina, Calabria Ora e ha condiretto la collana di poesia “Prisma” per la Orizzonti Meridionali e “Prisma Antologie”. Fa parte della redazione della rivista di scritture poetiche “Capoverso”, da lui fondata con altri poeti cosentini. Due antologie di suoi versi sono uscite in edizione bilingue in Polonia e negli USA: Czas, ktòry nadejedzie/Il tempo successivo (traduzione e introduzione di Pawel Krupka, postfazione di Alessandro Ghignoli (Varsavia, 2006) e Mirror of Glances/Specchio degli sguardi (traduzione di Martha Bache-Wiig (New York, 2009). Raccolte poetiche: Le oscure radici (1963), L’ignoranza e altri versi (1985), Strategie nell’assedio (1999), Il poeta è un clandestino (2013). ** VITTORIO “NINO” MARTIN - fra dramma e sentimento poetico - Poesie, Prefazione di Giuseppe Manitta; illustrazione a colori di copertina e disegni in bianco e nero all’interno dello stesso Martin - Il Convivio Editore, 2016 - Pagg. 64, € 10,00.Vittorio “Nino” MARTIN è nato a Stevenà il 10 agosto 1934. Pittore e poeta autodidatta (suo padre era un calzolaio). Artista poliedrico, dinamico, tecnicamente raffinato. Le sue poesie sono state tradotte in francese, spagnolo, inglese, tedesco, friulano. Gli sono state dedicate oltre 160 copertine su libri e riviste ed è stato recensito da centinaia e centinaia di firme importanti, su giornali, periodici e riviste specializzate. Tra le sue tante pubblicazioni, ricordiamo, alla rinfusa: “Scritti e Schizzi”, “Parole e Disegni”, “Carta e Penna”, “Versetti e Bozzetti”, “Ieri e Oggi”, “Storie e Memorie”, “’Na s’cianta dhe storia”, “Stevenà e dintorni”, “Oltre la nebbia”, “Contrasto”, “Stevenà luci e ombre”, “Intrecci”, “Briciole di fantasia”, “Capricci”, “Mosaico”, “Passato Presente”, “Una luce nel buio”, “Spiragli di Luce”, “Gocce di vita”, “Di segni e di versi”, La stanza dell’anima”, “Silenzio dei sogni”, “Itinerario passionale”, “Stevenà amore mio”, “Scorie”, “Dal guscio della memoria”, “La voce del Poeta” (CD), “Pause di vita” (CD), “...Il piacere di scrivere...” (2015). ** LUCA TELESE - Cuori contro. Le ferite sempre aperte di una stagione di piombo - Sperling & Kupfer, 2017 - All’interno, un gruppo di foto a colori o in bianco e nero - Pagg. 482, € 19,50. Dalla
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prima bandella: Estremisti pazzi o criminali, sognatori dal grilletto facile, terroristi neri e rossi, politici in carriera; ma anche un coro di vittime, eroi dimenticati, madri, sorelle o fratelli che hanno perso quello che amavano di più, subendo discriminazioni e ingiustizie. Dopo il successo di Cuori neri, diventato un vero caso editoriale, Luca Telese ha scritto un altro libro-verità pieno di tesori nascosti, di testimonianze inaspettate, di rivelazioni sulle ultime inchieste. La storia della destra eversiva italiana e quella della sinistra rivoluzionaria si arricchiscono di nuovi retroscena che gettano una luce sugli angoli bui di tanti misteri italiani. Ma Cuori contro non è soltanto un resoconto di sangue e di lotta armata, è soprattutto una riflessione sul senso della memoria e della riconciliazione in un Paese sempre in bilico fra generosità e amnesie”. Luca TELESE è nato a Cagliari nel 1970. Giornalista, scrittore, autore e conduttore televisivo. Dopo diversi anni a Matrix su Mediaset, collabora ora con La7. Per Sperling & Kupfer ha diretto la collana “Le radici del presente” e pubblicato, tra l’altro, Qualcuno era comunista (2009), Gioventù amore e rabbia (2011), Cuori neri (2006, 2015). ** BRUNO VESDPA - Soli al comando - Da Stalin a Renzi, da Mussolini a Berlusconi, da Hitler a Grillo. Storia, amori, errori - Mondadori, 2017 Pagg. 502, € 20,00. Bruno VESPA è nato a L’ Aquila nel 1944, ha cominciato a 16 anni il lavoro di giornalista e a 24 si è classificato al primo posto nel concorso che lo ha portato alla Rai. Dal 1990 al 1993 ha diretto il Tg1. Dal 1996 la sua trasmissione “Porta a porta” è il programma di politica, attualità e costume più seguito. Per la prima volta nella storia, vi è intervenuto un papa, Giovanni Paolo II, con una telefonata in diretta. Tra i premi più prestigiosi, ha vinto il Bancarella (2004), per due volte il SaintVincent per la televisione (1979 e 2000) e nel 2011 quello alla carriera; nello stesso anno ha vinto l’ Estense per il giornalismo. Fra i suoi più recenti volumi pubblicati da Mondadori ricordiamo: Storia d’ Italia da Mussolini a Berlusconi; Vincitori e vinti; L’Italia spezzata; L’amore e il potere; Viaggio in un’Italia diversa (2008); Donne di cuori (2009); Nel segno del Cavaliere. Silvio Berlusconi, una storia italiana (2010) Il cuore e la spada (2010); Questo amore (2011); Il Palazzo e la piazza (2012); Sale zucchero e caffè (2013); Italiani voltagabbana (2014); Donne d’Italia. Da Cleopatra a Maria Elena Boschi storia del potere femminile (2015), C’ eravamo tanti amati (2016).
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TRA LE RIVISTE MAIL ART SERVICE - Bollettino dell’Archivio “L. Pirandello” di Sacile, diretto da Andrea Bonanno - via Friuli 10 - 33077 Sacile (PN) - Il n. 100, dicembre 2017, reca, tra l’altro, l’intenso articolo “Erotica di Maria Grazia Lenisa e l’avvincente ricognizione volta a sublimare l’amore”, di Andrea Bonanno. Bonanno non è la prima volta che si interessa del mondo poetico della grande scrittrice friulana, ma questo suo nuovo articolo appare in occasione della ripubblicazione, nel 2015, per i tipi di LietoColle, di Erotica, uno dei suoi libri più noti, tradotto in francese, all’apparire della prima edizione, da Paul Courget. Segnaliamo anche “Il neoumanesimo che insidia l’aura poetica”, di Susanna Pelizza. Su una delle recenti opere della Pelizza: “Sintesi di storia della Letteratura italiana dalle origini fino ai nostri giorni” (Italian Edition Amazon.it), leggiamo la recensione a firma di Maurizio Di Palma. * SOLOFRA OGGI - La Voce di chi non ha voce direttore Raffaele Vignola - via A. Giannatasio II trav. 10 - 83029 Solofra (AV) - E-mail: solofraoggi@libero.it - Riceviamo il n. 12, dicembre 2017. Articoli stringati, tanti i collaboratori, numerose le foto in bianco e nero. * IL FOGLIO VOLANTE/LA FLUGFOLIO - Mensile letterario e di cultura fondato da Amerigo Iannacone e diretto da Raffaele Calcabrina, direttore di Redazione Giuseppe Napolitano - via Annunziata Lunga 29 - 86079 Venafro (Is) - e-mail: ilfogliovolante@gmail.com Riceviamo, inviatici dall’amica Isabella Michela Affinito, i numeri 11 e 12 - novembre e dicembre 2017 -, dai quali segnaliamo le firme di: Amerigo Iannacone, Giuseppe Napolitano, Aldo Cervo, Isabella Michela Affinito (la poesia “Quando il foglio volava...” e il ricordo “Ho sognato Amerigo Iannacone”), Giovanna Li Volti Guzzardi, Teresinka Pereira eccetera. * LATMAG - Rivista culturale, direttore Franco Latino, responsabile Eugenn Galasso - via Torino 84 - 39100 Bolzano - Riceviamo il n. 76, settembre 2017, nel quale incontriamo la firma di un nostro amico e negli anni scorsi collaboratore: Silvano Demarchi, poeta, scrittore e saggista.. * IL SYMPOSIACUS - rivista diretta da Pantaleo Mastrodonato - via La Marina 51 - 76011 Bisceglie (BT) - Riceviamo il n. 4, ottobre-dicembre
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2017, del quale segnaliamo “La poesia è andata in frantumi in un mono senza amore”, di Leonardo Selvaggi. * ILFILOROSSO - Rivista fondata da Francesco Graziano, diretta da Luigina Guarasci, responsabile Pasquale Emanuele - via Marinella 4 - 87054 Rogliano (CS) - E-mail: info.ilfilorosso @gmail.com Riceviamo il n. 63, luglio-dicembre 2017, del quale segnaliamo l’immagine di copertina: Case su case, di Lella Buzzacchi e le firme di Enzo Ferraro, Pietro De Leo, Matteo Dalena, Pasquale Emanuele, Franco Araniti, Luciano Nanni, Domenico Cara, Francesco Varano, Angiolo Bandinelli, Ivan Pozzoni, Eva Modinù, Joaquin Pasos, Lella Buzzacchi, Michele Lalla, Vincenzo Guarracino, Antonella Jacoli, Alessandro Ramberti, Luigina Guarasci, Massimo Conocchia, Antonella Jacoli (che si interessa di “Il cantare delle mie castella”, di Rossano Onano), Alessandra La Neve, Lucia Bonacci, Inga Conti, Antonio Nesci. * CAPOVERSO - Rivista di scritture poetiche delle Edizioni Alimena Orizzonti Meridionali, direttore responsabile Saverio Basile - viale della Repubblica 297 - 87100 Cosenza - e-mail: alimenaf@libero.it - alimena.franco@gmail.com - Riceviamo, e per la prima volta, il n. 34, lugliodicembre 2017, inviatoci da Carlo Cipparrone. Nelle 112 pagine, incontriamo le firme di: Saverio Bafaro, Pietro Civitareale, Mario Melis, Elio Andriuoli, Lidia Are Caverni, Carlo Cipparrone, Domenico Cipriano, Tommaso Kemeny, Giuseppe Langella, Valentina Neri, Nijolé Daujotité, Raffaele Piazza, Ottavio Rossani, Alessandro Salvi, Pino Corbo, Rosa Elisa Giangoia, Pawel Krupka, Sandro Montalto, Paolo Procaccini, Marys Rizzo eccetera.
LETTERE IN DIREZIONE Ci scrive BÉATRICE GAUDY - Parigi, 22 Dicembre 2017/ Buongiorno caro Domenico,/Grazie tante per “Pomezia Notizie” di dicembre e “Il Croco”. Sono felicissima che i miei poemi siano pubblicati nella rivista - dubito che quello sulla Catalogna riesca ad essere pubblicato in Francia dove in genere le ri-
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viste preferiscono le poesie che non alludono all’attualità mentre la poesia è fatta per parlare di tutto, cioè anche dell’attualità -. Le “Memorie gioiose di un vecchio docente” di Emerico Giachery sono molto simpatiche. Pochi sono i professori ad impegnarsi così nella loro missione. Ho tuttavia un’amica dotata di questo bel carattere. Non insegna a degli studenti di università, ma a dei bambini che hanno tra 11 e 15/16 anni. Lei dedica dei tesori di sensibilità et d’intelligenza per svegliare queste giovani menti alla lettura, poco fa alla poesia e alla pittura. Mi domando come sia percepito dalle lettrici “Il primo dramma del bambino” di Antonia Izzi Rufo. Da una parte, moltissime madri non hanno la scelta tra lavorare e non lavorare, e spesso tornano al lavoro con tristezza. Dall’altra, numerose sono anche le madri a preferire lavorare per delle ragioni varie: si annoiano a casa, o non si sentono rispettate nello stesso modo dalla società. Occorrerebbe uno stipendio materno che lasci la scelta alle madri, e... una minore disoccupazione perché è difficile ritrovare un lavoro dopo un’ interruzione di più anni per occuparsi dei figli. È un problema complesso. Leonardo Selvaggi ha avuto un’ottima idea di evocare il percorso di vita di San Giuseppe Cottolengo. Anche degli atei possono essere commossi da una vita così dedicata ai poveri. E poi, sempre, si leggono delle ottime poesie in Pomezia-Notizie. Quelle di Enrico Ferrighi, di Antonia Izzi Rufo, di Antonio Crecchia sono forse quelle che ora mi parlano di più. Non ho ancora letto “Il Croco” di Filomena Iovinella, ma nei “Ricordi Cocenti” l’amor patrio di Giovanna Li Volti Guzzardi è commovente; tuttavia spero che lei abbia trovato delle compensazioni profonde nel suo secondo paese di vita. Natale è ormai vicinissimo. Glielo auguro pieno di felicità e di poesia. Con amichevoli saluti. Béatrice Gaudy Gentile e cara Amica, pubblico la Sua lettera non solo perché re-
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cherà gioia agli autori che Lei cita dopo aver letto i loro lavori, ma anche per dirLe grazie della puntualità con la quale sfoglia il mio mensile e per augurarLe un 2018, da poco incominciato, strapieno di salute e di ogni altro bene. Neppure le riviste italiane sono così espansive con le poesie d’attualità. Pomezia-Notizie fa eccezione e non solo per questo. Forse è uno dei tanti motivi per cui è economicamente “povera”, sicché, ogni numero, da quando è nata 45 anni fa, è come se fosse l’ultimo. Ora ci si son messi di mezzo anche Poste Italiane per complicar le cose e rendere difficile la sua esistenza. Ho dovuto ricorrere al Piego di Libri per la spedizione, che costa un euro e 28 per ogni copia, un costo da soffocare. E mi si comunica, ora, che il Piego di Libri è valido solo per il territorio italiano, per cui, se vorrò continuare a spedire all’Estero Paesi europei compresi - dovrò spedire con tariffa Lettere, in pratica spendendo, per ogni copia, più di undici euro! Per l’Estero, insomma, il cappio è già stretto e ciò significa che non potrò più farLe pervenire il cartaceo, perché la cassa di Pomezia-Notizie, sempre in rosso, non me lo permette. Non potrò spedire più, insomma, in Francia, in Germania, in Russia, in Cina, in USA, in Australia eccetera e perciò ne approfitto per chiedere pubblicamente venia ai tanti amici lettori e collaboratori che non riceveranno più il mensile. Chi è munito di e-mail continuerà a riceverlo attraverso tale mezzo, gli altri potranno sfogliarlo attraverso http://issuu.com/ domenicoww/docs/ Mi dispiace che Lei, Cara Béatrice, non abbia la posta elettronica, perché mi piacerebbe continuare a pubblicare le Sue poesie e a farLe leggere Pomezia-Notizie. Docenti, come Emerico Giachery e come la sua Amica, non sono solo pochi, sono assai rari. Io ho sempre sostenuto che se, in Italia, si legge poco, è colpa principalmente dei docenti, che alla lettura non sanno avvicinare, anzi, allontanano. Ognuno di noi ha esperienze, avendo frequentato le scuole e perciò è inutile insistere sull’argomento, inasprire la piaga.
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Sono d’accordo con Lei che alle madri dovrebbe essere assegnato uno stipendio affinché possano sentirsi libere se lavorare o accudire i figli e il marito. Molti matrimoni si sfasciano e molti traumi infantili hanno origine dalla donna “costretta” a lavorare, perché l’uomo percepisce poco o addirittura non lavora, perché il lavoro l’ha perso o non l’ha mai avuto. La disoccupazione, la mancanza di lavoro è la piaga più atroce dell’ odierna società. Un uomo senza lavoro, o con lavoro precario, è un uomo che perde la dignità e da questa disgrazia ne discendono altre e ugualmente gravi che investono tutti, compresi donne, bambini, anziani. Occorrerebbe abbassare di molto l’orario di lavoro, affinché più lavoratori possano rientrare in circolo; occorrerebbe ripensare sull’accumulo della ricchezza, perché è disonesto, è criminale che, nel mondo, una minoranza infima di autentici caimani si accaparra di più del 90% di essa. Il problema del lavorare sì lavorare no della donna è stato sempre trattato su PomeziaNotizie, innescando sempre un vespaio, perché spesso gli interventi sono stati fraintesi. Ricordo quelli di Salvatore Porcu, di Leonardo Selvaggi e di Antonia Izzi Rufo, appunto. Arrabbiarsi, inveire, sbraitare, come spesso s’è fatto, non contribuisce alla soluzione del problema, che esiste, è inutile foderarsi gli occhi con le fette di prosciutto per non vederlo. L’amica Giovanna Li Volti Guzzardi è da una vita macerata da due amori: quella per l’ Italia, dove vivono ancora i suoi cari, e quella per l’Australia, dove risiede e dove ci sono altre persone altrettanto care. La nostalgia non l’abbandonerà mai, ormai, ma la Patria vera, non quella spirituale, “è là ove si vive”, come diceva un poeta del quale, in questo momento, non mi sovviene il nome. I Quaderni Il Croco di Pomezia-Notizie sono sempre apprezzati e ricercati, perché scelti, perché recano sempre messaggi. Si legga, allora, appena può, anche A mio padre della Iovinella e se ne desidera uno dedicato alla sua poesia me lo faccia sapere, lo prenoti, si-
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curo che i lettori di Pomezia-Notizie lo riceveranno come un bel dono. Domenico *** Riceviamo da EMERICO GIACHERY Roma - 1l 12 gennaio 2018: Grazie, carissimo, per l'affetto e la benevolenza con cui accogli i miei scritti. Stavolta mi rallegra trovarmi nella rivista assieme a Noemi, anche lei "ungarettologa" e "ungarettografa": abbiamo anche scritto insieme un libro "a due voci" e a capitolo alterni, che ha avuto un discreto successo ed è esaurito da anni,Ungaretti verticale. Sai che sono un po' "onirologo" : più di una volta ho sognato Ungaretti; una volta facevamo un tratto di strada insieme ed era affettuoso, paterno con me. Una volta (l'unica della mia vita!) marinai la scuola (era l'ultimo anno di liceo) per andare ad ascoltare Ungaretti che faceva lezione all'Università. Quel giorno commentava L'infinito di Leopardi. Naturalmente, in seguito, iscrittomi alla Facoltà di Lettere, lo ascoltai più volte. Aveva un pubblico non solo di studenti, ma anche di signore, di poeti e intellettuali. Le belle studentesse attiravano molto la sua attenzione (come dargli torto?). Usciva con un codazzo di seguaci e, al bar dell'Università offriva il caffè a tutti. Poi si imbarcava sul tram (allora era la Circolare Rossa, oggetto di una tarda poesia di Cardarelli) e se ne torna a casa. Allora abitava nel quartiere di San Saba. A Noemi, che in anni giovani gli aveva fatto recapitare un suo saggio su di lui, donò una preziosa edizione fuori commercio, Editore Bucciarelli di suoi testi (Apocalissi e sedici traduzioni) con tagli originali di Fontana e una lusinghiera dedica autografa. Immagina con quanto amore conserviamo quel dono! A me accadde che, dopo una conferenza su Ungaretti che tenni a Modena, il direttore della Banca di Modena, che negli anni di guerra era stato suo vicino di casa a Roma, mi regalò un volume di traduzioni ungarettiane di Shakespeare con correzioni autografe dello stesso traduttore, cioè di Ungaretti. Vedi come Ungaretti è presente tra noi! Un affettuoso
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augurio di buon "fine settimana" anche da parte di Noemi Emerico *** Riceviamo da ILIA PEDRINA, da Vicenza, il 16 gennaio 2018: Carissimo, oggi 16 gennaio, nel pensare con profonda devozione al mio Papà, leggo più e più volte le parole intense che hai scritto in onore del tuo, Uomo vero della Terra e del Sud: da questo numero specialissimo di Pomezia Notizie del giugno 2011, dalla pagina 38, trascrivo versi animati da emozioni che non rimangono in superficie. A MIO PADRE Ieri, nel volto di un vecchio, in un giardino di periferia, mi sembrò di vederti ma le mani tue non aveva dal gelo aperte come melograni. Malato anche lui d'altre terre. - Il dolore - mi disse, -uguale è sotto qualunque emisfero. Tale il pianto dei bimbi -. Poi silenzio, lungo, al par di quelli che sembrava dividerci dopo i primi saluti nei nostri rari incontri. -L'ami? -, mi chiese. - Amarlo? Se amar si può il sangue che fluisce nelle turgide vene -. -Allora lo spazio che vi separa non colma la lettera espresso, la voce del telefono -. - Non colma -. -Così coi miei figli. Noi del Sud soffriamo tutti degli stessi mali -. Scomparve dietro un sentiero artificiale. “Aspetta, aspetta, parliamo ancora... fa tanto bene...” D'istinto alzo le braccia... Ma non osai: all'effusione blindato è il cuore del meridionale. Seduto in faccia al tramonto, pensai alla tua casa aperta e fredda, alla pena per l'erba sotto la sferza del vento. Triste,
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sentivo nel petto, a ondate, un tuo canto non triste: “Morena del cuore! Con un bel cielo sereno anche il torrente più cupo si tinge d'amore”. Era il 1977 e tu hai dato alle stampe questo particolarissimo volumetto 'Canti d'amore dell'uomo feroce', che presenta la tua capacità di utilizzare la parola con le vibrazioni dell'intelletto d'amore e di lotta, anche nel ricordo, che è dimensione della nostalgia e del rivivere l'esperienza in un tempo altro dall'evento, senza perdere forza nello sguardo e nell'adesione alla realtà. Alla pagina 10 di questa Pomezia Notizie del giugno 2011, così particolare, così ispirata e concretamente originale e costruttiva, dopo aver analizzato con serietà e pieno coinvolgimento l'opera di Papa Joseph Ratzinger - Benedetto XVI - 'GESÙ DI NAZARETH. Dall'ingresso in Gerusalemme fino alla resurrezione', Lib. Ed. Vaticana 2011, scrivi: “... Gesù è vissuto a contatto continuo con l'uomo, ha ammaestrato, ha calato nell'uomo il divino servendosi della Parola e di immagini terrene e quotidiane. Le sue Parabole infatti hanno solidi legami col reale, non sono mai astratte o fantastiche e la parola è corporea, robusta, anche se del tutto semplice. Dal libro di Benedetto XVI risulta un Gesù luce che si diffonde su tutta la terra, che irradia e penetra l'animo dell'uomo. La terra e l'uomo, dopo la sua vicenda umana, non saranno mai più come prima, lievitati e resi sapidi dalla sua testimonianza, dalla sua dolcezza, dalla sua mitezza, dall'amore coinvolgente. La luce di Gesù non può essere né nascosta né neutralizzata; ad essa nessuno può resistere...”. Preziose tante altre pagine nelle quali si parla del tuo importante lavoro sull'amico scrittore e poeta Nicola Napolitano, il n° 99 de 'Il Croco' (aprile 2011), che andrò ad analizzare in dettaglio, quando anch'io potrò sottolineare il valore storico, letterario, estetico di lettere che nella confidenza fanno emergere
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le caratteristiche di philìa, dell'amicizia profonda e duratura che costruisce legami in sincerità. Quasi dono del vento d'inverno, stamane ho trovato in cassetta il tuo plico con il numero di gennaio 2018, altra rinnovata meraviglia. Da ieri a domani questo tuo impegno, che non ha misura, diventa Storia e Storia di testimonianze d'amore, per le arti come per la vita, credimi: i tuoi profili mentali, i tuoi intendimenti progettuali, per costruire conoscenze ed interpretazioni storiche, nell'organizzare i differenti contributi ed andare a forgiare la Rivista, trovano corrispondenza nel risultato che entra nel tempo e riverbera i suoi effetti anche oltre. Grazie, con tutto il cuore. Ilia Carissima Ilia, veramente una finezza d’animo il ricordare tuo padre e il mio; il mio contadino verace; il tuo verace letterato; entrambi, uomini che hanno fermamente creduto nella propria distinta missione, sacralmente adempita fino in fondo. Ecco i versi che ho dedicato al tuo Papà nel fortunato volumetto che tu richiami, nella terza sezione intitolata “Canti per i vivi e per i morti”: Te ne andasti, te ne andasti! Discorri ancora di primavere e di fanciulle? Laura dolce ti fa lacrimare? Beatrice t’india? Del cuore di Renzo e di Lucia hai penetrato più d’ogni altro il vero. Dell’amico Cefas, dell’umana ferocia e dell’intatta terra “più silenziosa e pura della luna” schivo cantore, svelasti l’armonia. Raro critico onesto, all’omerico eroe di Valcordevole senz’odio di parte t’inchinasti. Veramente per te la poesia non ebbe mai steccati. La lista dei morti s’è allungata quasi a contenerli tutte quelle persone care di allora, parenti e amici amati quanto i parenti. Sono andati via per sempre non solo mio padre e mia madre, ma anche Solange, Maria Gra-
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zia, don Eleuterio, Ada, Franco, Geppo... Intorno, ora, ho un autentico deserto e non passerà molto, Carissima, che anch’io li seguirò nel gran viaggio, come scrivo in “Non venire al raduno”, in Pomezia-Notizie del settembre 2017, e che dovrebbe far parte della silloge Le parole a comprendere: Non è lontano il giorno che mi vedrai effigiato delle strade e le piazze negli spazi adeguati. Sui manifesti dei morti, cioè! E fai bene a sfogliare, di tanto in tanto, la nostra creatura di carta che, nel prossimo luglio, compirà 45 anni. Son certo che ne parlerete, che ne parleranno, perché in Italia, e non solo, so che le si vuole un gran bene. Ed io ne sono orgoglioso. Grazie anche a te, con il cuore. Domenico ___________________________________ Ricordiamo l’amico mosaicista
MICHELE FRENNA (Agrigento 1928 - Palermo 2012)
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