ISSN 2611-0954
mensile (fondato nel 1973) Direzione e amministrazione: Via Fratelli Bandiera, 6 - Tel. 06/91.12.113 - 00071 POMEZIA (Roma) - Fondatore e Direttore responsabile: DOMENICO DEFELICE – e-Mail: defelice.d@tiscali.it – Parziale distribuzione gratuita (solo il loco) – Attività editoriale non commerciale (art. 4, D.P.R. 26.10.1972 n. 633 e succ.ve modifiche) - Per abbonamenti: annuo, € 50; sostenitore € 80; benemerito € 120; una copia € 5.00) e per contributi volontari (per avvenuta pubblicazione), versamenti sul c/c p. 43585009 intestato al Direttore - Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 213/93 del 23/5/1993 - La collaborazione, sempre gratuita, in parte è libera, in parte è per invito. Ogni autore si assume la responsabilità dei propri scritti - Manoscritti, fotografie e altro materiale, anche se non pubblicati, non vengono restituiti - É ammessa la riproduzione, purché se ne indichi la fonte. Per ogni controversia, foro competente è quello di Roma.
Anno 26 (Nuova Serie) – n. 3
€ 5,00
- Marzo 2018 -
Figure esemplari del nostro tempo.
UNA MODERNA SHEHÉRAZADE:
AMEERA AL-TAVEEL di Marina Caracciolo
E
BBENE no, Signori, non stiamo parlando delle Mille e una notte, delle fantastiche storie di Aladino e della lampada magica, oppure del principe Kalender e della nave di Sindbad. Eppure Ameera (leggi: Amira) al-Taveel, il cui lunghissimo nome completo è Ameera bint Aidan bin Nayef AlTaweel Al-Otaibi, proprio come Shehérazade è un’affascinante principessa araba, figlia del principe Aidan bin Nayef, appartenente a un ramo cadetto della Casa reale saudita. Ameera è nata a Riyad, il 6 novembre 1983. I suoi genitori si sono divisi e lei ha vissuto la sua infanzia con la madre e i nonni nella capitale saudita. Divenuta una donna decisamente molto bella, per l’eccezionale avvenenza e per il portamento elegante avrebbe potuto diventare un’attrice di Hollywood o anche una delle modelle più ambite e pagate dai più celebri stilisti. Quando è ancora molto giovane, durante un’intervista per un giornale scolastico, Ameera incontra al-Walid bin Talāl – nipote del defunto re Abdullah –, ricchissimo imprenditore →
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
Pag. 2
All’interno: Mario Rigoni Stern, di Luigi De Rosa, pag. 4 Gli scacchi, i motoneuroni, di Giuseppe Leone, pag. 7 Antonio Crecchia, gli occhi di un poeta, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 10 In convento con Imperia Tognacci, di Anna Aita, pag. 12 Lo sfollamento di Carlo Olivari, di Luigi De Rosa, pag. 14 Francesca Diano tra memorie di vita, di Ilia Pedrina, pag. 15 Pawel Krupka, interessa ancora la poesia?, di Domenico Defelice, pag. 18 Filomena Iovinella, A mio padre, di Susanna Pelizza, pag. 20 Raoul Maria De Angelis, di Franco Liguori, pag. 21 Fabrizio Santi, di Massimiliano Pecora, pag. 24 Attaccato alle cose, di Leonardo Selvaggi, pag. 28 Pietro Civitareale, cartografie di un visionario, di Elio Andriuoli, pag. 31 Corrado Calabrò, La scala di Jacob, di Isabella Michela Affinito, pag. 33 Almeno un giorno: per ricordare, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 35 Il botto, di Antonio Visconte, pag. 40 I Poeti e la Natura (Salvatore Di Giacomo), di Luigi De Rosa, pag. 42 Notizie, pag. 56 Libri ricevuti, pag. 58 Tra le riviste, pag. 59 RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (Suggestioni, di Lina D’Incecco, pag. 43); Isabella Michela Affinito (Logos in Prime emozioni, di Tito Cauchi, pag. 44); Isabella Michela Affinito (Ardita salita, di Vittorio “Nino” Martin, pag. 45); Tito Cauchi (Insolite composizioni, vol. 12°, di Isabella Michela Affinito, pag. 46); Elisabetta Di Iaconi (Suggestioni, di Lina D’Incecco, pag. 47); Maurizio Di Palma (Frammenti poetici, di Susanna Pelizza, pag. 47); Rosaria Ferraro (Parole ricercate, di Pasquale Montalto, pag. 47); Antonia Izzi Rufo (Anime al bivio, di Imperia Tognacci, pag. 48); Veronike Jane (Nino Ferraù, di Domenico Defelice, pag. 49); Laura Pierdicchi (La scala di Jacob, di Corrado Calabrò, pag. 50); Laura Pierdicchi (Ricordi cocenti, di Giovanna Li Volti Guzzardi, pag. 50); Laura Pierdicchi (A mio padre, di Filomena Iovinella, pag. 50); Laura Pierdicchi (Suggestioni, di Lina D’Incecco, pag. 51); Giorgio Poli (Anime al bivio, di Imperia Tognacci, pag. 51); Liliana Porro Andriuoli (Occasioni, di Bruno Rombi, pag. 52); Anna Vincitorio (Poesie scelte, di Michail Lermontov, pag. 54); Anna Vincitorio (Occasioni, di Lina D’Incecco, pag. 55). Lettere in Direzione (Ilia Pedrina), pag. 60 Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Loretta Bonucci, Rocco Cambareri, Fiorenza Castaldi, Domenico Defelice, Elisabetta Di Iaconi, Enrico Ferrighi, Francesco Fiumara, Filomena Iovinella, Antonia Izzi Rufo, Giovanna Li Volti Guzzardi, Teresinka Pereira, Gianni Rescigno, Franco Saccà
(attualmente con un patrimonio di circa trenta miliardi di dollari), presidente e amministratore delegato della “Kingdom Holding Company”, una delle più potenti holding del mondo. I due si sposano dopo poco tempo
(lui ha quasi trent’anni più di lei), ma il matrimonio purtroppo non dura e fra loro viene pronunciata sentenza di divorzio nel novembre del 2013. Ameera e al-Walid restano tuttavia amici ed anche stretti collabora-
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
tori in molteplici iniziative, sia economiche sia soprattutto filantropiche e umanitarie, a livello internazionale. Persona spiccatamente moderna ed emancipata, Ameera è sostenitrice del movimento per la liberazione della donna (in arabo Tahrīr al-mar’a) in Arabia Saudita: per esempio guida l’automobile, a dispetto delle leggi che nel suo Paese lo vietano alle donne; e se indossa spesso in pubblico il velo islamico (lo hijāb, che copre soltanto la testa e le orecchie) non esita tuttavia a mostrarsi il più delle volte con abiti tipicamente occidentali. D’altro canto, basta scorrere le numerosissime fotografie che la ritraggono su internet, per osservare come la sua innata e vera finezza la conduca a lasciare del tutto da parte scollature esagerate, spacchi vertiginosi o fogge oltremodo eccentriche e vistose; con ciò implicitamente dimostrando che l’ autentica bellezza femminile non viene mai valorizzata, né tanto meno accresciuta, da grossolane o indecorose esibizioni. Ameera, che è anche donna di notevole cultura, si è laureata con il massimo dei voti, magna cum laude, in Business Administration, presso l’Università statunitense di New Haven. La fondamentale occupazione della principessa saudita è l’attività filantropica. In qualità di vice presidente e capo del comitato esecutivo della Fondazione “Al-Walid Philanthropies”, e in più come presidente di “Time Entertainment”, Ameera supporta un largo ventaglio di progetti umanitari sia in Arabia Saudita sia nel resto del mondo. Il suo ruolo di primaria importanza le permette di sostenere e di finanziare programmi finalizzati alla riduzione della povertà, agli interventi di soccorso in casi di catastrofe, al dialogo tra le religioni, al costante miglioramento della condizione femminile, nonché alla creazione di opportunità di lavoro per la gioventù disoccupata. Nell’intento di osservare e comprendere da vicino i problemi a cui poter far fronte, la principessa viaggia molto e, a tutt’oggi, ha già visitato più di 70 Paesi nel mondo. Fra le varie operazioni ha
Pag. 3
inaugurato un Villaggio Orfanotrofio in Burkina-Faso, ha guidato – insieme al suo ex marito – una missione di soccorso in Somalia, e ha attraversato il Pakistan per fornire aiuti alle vittime delle inondazioni e per incentivare l’istruzione. Con il principe Filippo di Edimburgo, consorte della regina Elisabetta, ha creato il Centro di Studi Islamici “Principe Al-Walid bin Talāl”, presso l’Università di Cambridge, sostenendone i primi passi con una cospicua donazione in dollari. Negli Stati Uniti, la principessa ha fatto sentire spesso pubblicamente la sua parola tramite network e quotidiani di primissimo piano. Si è sempre battuta e continua a battersi ovunque contro l’indigenza e la mancanza d’istruzione, consapevole del fatto che soltanto con la radicale eliminazione di queste due piaghe si ottiene un reale, effettivo progresso della società. In proposito è stata più volte citata su importanti settimanali come il Newsweek e su noti blog come il Daily Beast e l’Huffington Post. Ameera al-Taweel, che pare sia – fra le più giovani – la figura oggi di più alto profilo tra le 100 donne amministratrici e delegate di impresa nel mondo arabo, onora e invero dà lustro ed esempio a tutto l’universo femminile, anche a quello occidentale, nel dimostrare intelligenza, cultura, grazia e generosità, e nel porre ininterrottamente la sua immagine come la sua opera al servizio di imprescindibili esigenze umane, sociali e culturali. Marina Caracciolo
IL CROCO I Quaderni letterari di
POMEZIA-NOTIZIE Il mezzo più sicuro, rapido ed economico per divulgare le vostre opere. Prenotate un numero individuale. Poesia o Prosa sempre un autentico successo
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
A dieci anni dalla scomparsa del grande scrittore vicentino
MARIO RIGONI STERN, DA “SERGENTE NELLA NEVE” A CANTORE DELLA MONTAGNA di Luigi De Rosa
T
UTTI ricordano lo scrittore vicentino Mario Rigoni Stern perché autore di quel drammatico racconto di guerra, autobiografico, della ritirata di Russia (1942), pubblicato poi da Einaudi nel 1953 con il titolo “Il sergente nella neve” nella collana I Gettoni, diretta da Elio Vittorini. Ma forse non tutti conoscono i numerosi, affascinanti libri sulla flora e la fauna, specie delle sue montagne, che ha scritto dopo il ritorno in Italia, sul suo amato Altipiano di Asiago, e che ha pubblicato, sempre con Einaudi, negli anni successivi. L'alpino-scrittore, che da ragazzo aveva frequentato la terza Avviamento Professionale, ha dimostrato una conoscenza tale della fauna e della flora alpestre da vedersi assegnare, nel 1998, dall'Università di Padova, la laurea honoris causa in Scienze Forestali e Ambientali. “Sono nato alle soglie dell'inverno, in montagna – aveva detto un giorno - e la neve ha accompagnato la mia vita”. Mario Rigoni, terzo di otto figli, era nato il 1° novembre 1921 ad Asiago, da una famiglia di commercianti soprannominata Stern.
Pag. 4
Dopo la terza avviamento aveva lavorato nella bottega di famiglia, e a soli 17 anni si era iscritto alla Scuola Centrale Militare di Alpinismo di Aosta. Da militare aveva combattuto ai confini con la Francia, in Albania, in Grecia, e alla fine in Russia (1942-43) col grado di sergente maggiore e, per necessità belliche sopravvenute, anche con responsabilità di comando del suo plotone. Della tragica esperienza della ritirata di Russia ci ha lasciato una testimonianza di primissima mano nel suo celebre racconto autobiografico Il sergente nella neve, scritto nel 1944 nel campo di concentramento tedesco di Hohenstein, dove era stato rinchiuso come IMI (internato militare italiano), dopo l'armistizio italiano dell'8 settembre 1943, per essersi rifiutato di combattere nelle file della Repubblica Sociale di Salò. Da questo Lager sarebbe poi stato liberato dai soldati russi lanciati verso la conquista di Berlino. Il manoscritto sarebbe poi diventato un libro con l'editore Einaudi, la prima volta nel 1953. L'alpino reduce da tante battaglie, stremato dalla fame, dalla necessità di dormire almeno qualche ora, dal gelo, dalla sporcizia (morsi dei pidocchi compresi) ripiegherà, ubbidendo all'ordine di ripiegamento generale di tutta l' Armata italiana in Russia (A.R.M.I.R.) abbandonando, una notte, il proprio caposaldo su una riva del Don, nel paese dei cosacchi, per giungere, dopo un'odissea tragica, sempre a piedi, fino all'Ucraina e alla Polonia. E questo sempre camminando, di giorno e di notte, portando in salvo gli uomini rimasti del suo plotone, fra mille agguati con mitragliatori e mortai da parte di soldati e partigiani russi. E sempre camminando con atroce dolore, riducendosi con le scarpe a pezzi, coi piedi fasciati solo di stracci trattenuti da filo di ferro e con piaghe infette. Camminando senza tregua, senza cedere alla tentazione di sdraiarsi nella neve per non congelarsi e non alzarsi più. Che giorno è oggi ? Dove siamo ? Non esistono né date né nomi. Solo noi che si cam-
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
mina. Solo agli ufficiali è dato di cercare di sapere i nomi dei villaggi attraversati e delle località successive, con l'ausilio di carte e bussole, nel caos generale. (A fine guerra si apprenderà che l'Italia, fra morti e feriti, e congelati, e prigionieri, ha perso nella ritirata di Russia poco meno di duecentomila soldati). I soldati italiani devono continuare a camminare, pena la morte, e resistendo ad attacchi ed agguati senza sosta, fino alla grande battaglia di Nikolaevka scatenata dai russi riorganizzatisi dopo il fallimento di Hitler e della sua Operazione Barbarossa contro l'Unione Sovietica. Ma a Nikolaevka, nonostante le loro pessime condizioni, gli italiani respingono valorosamente il poderoso attacco nemico, e si aprono un grosso varco per proseguire nella loro ritirata dal territorio russo. In sole 126 pagine, con una prosa secca e asciutta, concreta ed efficace, Rigoni Stern si rivela scrittore autentico ( anche se Vittorini, il direttore della collana Einaudi, all'inizio lo aveva definito “scrittore non di vocazione”, influenzato da certa letteratura italiana borghese, da salotto) Con queste 126 pagine di neve e di sangue, Rigoni Stern fa vivere al lettore un'autentica tragedia della storia, descrivendo una umanità impazzita, costretta ad uccidere in un gelo da tregenda (anche quaranta sottozero...) tra difficoltà materiali e morali di ogni genere. Salvando sempre, comunque, e questo va sottolineato, la dignità dell'uomo, anche nelle circostanze più estreme ed impreviste. E nel racconto sono numerosi gli episodi di umanità come quello in cui, un giorno, italiani e russi, pur trovandosi inopinatamente faccia a faccia, all'improvviso, magari mentre gli uni mangiano a tavola, in un'isba, una minestra calda, e gli italiani, senza saperlo, entrano e, nonostante lo sbigottimento di tutti, nessuno impugna le armi per sparare. Anzi, gli italiani vengono rifocillati dalle contadine dell'isba e possono uscire incolumi, ringraziando (Spaziba...). Sembra incredibile. Ma è accaduto. Secondo il sergentmagiù Rigoni, che pur era fascista da giovanissimo, i russi avevano
Pag. 5
ragione perché erano stati aggrediti e invasi, in casa loro, da eserciti stranieri (italiani, tedeschi, ungheresi, etc.) e combattevano per difendere le loro case, le loro terre, le donne, i vecchi e i bambini. E questo Rigoni lo scrive senza equivoci e incertezze. Così come non nasconde il suo dolore di fronte al comportamento di soldati tedeschi, in ritirata anch'essi coi loro panzer, così come in episodi di uccisione di donne e bambine (tutte nude nella neve, più bianche dei gigli sull'altare e della stessa neve, peraltro arrossata) o di razzie di vettovaglie in magazzini ed isbe. Ma nasconde a malapena il suo sgomento, non trovando spiegazioni. Nel dopoguerra, molti anni dopo il ritorno a casa (anche questo tra disavventure d'ogni genere), e precisamente nel 2003, fu proposta la sua candidatura a Senatore a vita da parte di Associazioni ambientaliste e della Montagna. Ma egli, da Asiago, fece immediatamente sapere: “Non abbandonerò mai il mio paese, le mie montagne, per uno scranno in Parlamento. Non è il mio posto. “ Ma è proprio alla fine de “Il sergente nella neve”, alla 126.ma delle 128 pagine del racconto lungo-romanzo-diario di guerra, che assistiamo alla nascita del secondo Rigoni Stern dal tronco e dal ceppo del primo. Leggiamo: Ecco, ora è finita la storia della sacca, ma della sacca soltanto...Tanti giorni poi abbiamo ancora camminato. Dall'Ucraina ai confini della Polonia, in Russia Bianca. I russi continuavano ad avanzare. Qualche volta si facevano delle lunghe marce anche di notte. Un giorno quasi perdetti le mani per congelamento, perché mi ero aggrappato a un camion ed ero senza guanti. Vi furono ancora tormente di neve e freddo. Si camminava reparto per reparto, e a gruppetti. Alla sera ci fermavamo nelle isbe per dormire e mangiare. Tante cose ci sarebbero ancora da dire, ma questa è un'altra storia. Un giorno mi accorsi che era arrivata la primavera! Si camminava da tanti giorni. Era il nostro destino: camminare. E mi accorsi che la neve sgelava, che nei paesi attraverso i quali si
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
passava c'erano delle pozzanghere. Il sole scaldava e sentii cantare una calandra.. Una calandrella che cantava primavera. Desiderai l'erba verde, sdraiarmi nell'erba verde e sentire il vento tra i rami degli alberi. E l'acqua tra i sassi... Non dimentichiamo che Rigoni Stern era nato nel 1921, e che quindi in Russia e nel Lager, quando ha vissuto e scritto la propria drammatica avventura, aveva soltanto 21-22 anni. Negli anni successivi, tornato alla cosiddetta vita civile, ha scritto anche altri libri importanti a completamento e maturazione della sua esperienza di scrittore. Soprattutto libri nei quali vi è il trionfo della Natura, che si rivela, una volta per tutte, l'autentica protagonista del suo raccontare, senza il tono saccente di certi scrittori che la Natura la conoscono magari solo teoricamente, ma con la disponibilità mentale e sentimentale di un umile, affascinato co-protagonista. Ricordo, qui, Il bosco degli urogalli (1962), Quota Albania (1971), Ritorno sul Don (1973), Storia di Toenle (1978 – Premio Bagutta e Premio Campiello), Uomini, boschi e api (1980), L'anno della vittoria (1985), Il libro degli animali (1990), Arboreto salvatico (1991), Le stagioni di Giacomo (1995 – Premio Grinzane Cavour), Sentieri sotto la neve (1996), Inverni lontani (1999), L'ultima partita a carte (2002), Aspettando l'alba e altri racconti (2004), Stagioni (2006), Racconti di caccia (2011), Il coraggio di dire no (Conversazioni e interviste dal 1963 al 2007, a cura di Giuseppe Mendicino, 2013). Questi sedici libri, tutti editi da Einaudi, sono di importanza fondamentale per capire a fondo l'animo del Rigoni Stern “borghese”, montanaro, adoratore della Natura. Con Stagioni, in particolare, si riscoprono suoni e profumi, colori, sensazioni ed emozioni che la nostra vita di cittadini impigriti, condizionati dalle “comodità” e dalla tecnologia, non ci consente più di assaporare. Specialmente d'inverno, la stagione più amata da Rigoni Stern, anche sotto un manto di neve la Natura vive. E nelle pagine dello scrittore di Asiago si possono incontrare il francolino di monte,
Pag. 6
le volpi, i caprioli, le lepri, i gufi delle nevi. Quanti cittadini non sanno neppure che aspetto abbiano queste bestiole? E quanti non conoscono l'emozione delle malghe, dell'alta quota, dei boschi, delle vecchie, autentiche ricette di cucina...Perfino molti scrittori non sono capaci di descrivere con competenza e passione gli aspetti della Natura nelle varie stagioni, altri si limitano a vivere di nostalgia del tempo andato e se la cavano a malapena con l'interpretare superficialmente gli aspetti del mondo urbano e tecnologizzato in cui vivono. Un giorno, Rigoni Stern ebbe a scrivere, tra l'altro: “Elio Vittorini mi scoperse Sergente nella neve e ancora tale sono rimasto per tanti. Da allora ho letto anche della tristissima neve di Kolyma, di quella rosso-nera di Stalingrado, di quella di Leningrado che non copriva i bulbi dei Giardini d'inverno ma le migliaia di cadaveri dei civili morti di fame durante l'assedio. In questi giorni è nevicato molto e sul mio tetto, sopra quella di dicembre, c'è più di un metro di neve fresca: sono isolato dal paese. Da un libro traggo un foglio dove Andrea Zanzotto mi ha trascritto a mano una sua poesia: “Gelo. Stagione del candore - / per le più variate nevi / mille stelle sorelle / verso me prendono il cammino.” Per la prosa de “Il sergente nella neve” non ho difficoltà a prendere in considerazione un Rigoni Stern neo-realista ante litteram, come sostengono alcuni critici. Anche per la sua “cinematograficità”, per la decisa importanza del vedere e guardare nel suo modo di raccontare e nelle immagini oggettive della vita d'ogni giorno. Ma per molti passi dei suoi libri successivi, faccio fatica a non considerare Rigoni Stern un poeta: Un poeta in prosa, ecco. Un lirico della Natura, e in particolare, della Montagna. Mario Rigoni Stern è sopravvissuto a tutti i guai fisici e morali cui lo hanno sottoposto le varie guerre che ha combattuto. Solo un tumore al cervello lo ha stroncato, facendolo morire a 87 anni, il 16 giugno 2008. Naturalmente ad Asiago, su quell'amato Altipiano dei Sette Comuni che gli aveva dato i natali. Luigi De Rosa
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
GLI SCACCHI, I MOTONEURONI e la doppia sfida di
Alberto Fontana di Giuseppe Leone
G
IÀ presidente nazionale della Uildm (2004-2013), di Ledha (la Lega per i diritti delle persone con disabilità) e delle Fondazioni Serena e Aurora; attualmente membro del consiglio d’amministrazione di Telethon e della commissione centrale di beneficienza di Fondazione Cariplo nonché presidente del centro clinico Nemo, Alberto Fontana ha pubblicato, allo scadere del 2017, nelle Edizioni Mondadori Electa, Le regole dei motoneuroni. Storie di vita da raccontare. Un romanzo scritto a margine della sua attività dirigenziale nell’ambito delle malattie neuromuscolari, nel quale l’autore racconta, da un lato, la propria condizione di paziente affetto da atrofia muscolare spinale; dall’altro, “vite di amici e fratelli anch’essi messi a confronto con la sfida di una malattia del motoneurone (7-8), che, ancora a sua detta, “sono solo un piccolo pezzo della ricchezza che ha ricevuto in questi anni e di cui è grato” (10). Il tutto, sullo sfondo di una partita a scac-
Pag. 7
chi con il padre in un’amena “porzione montana dell’Appennino tosco-emiliano”(21), attraverso un fitto rimando di riflessioni e sentimenti che affiorano e vivono di un calore umanissimo, autentico e a tratti straripante seppur ben controllato sul piano espressivo; e in uno stile, che, senza ricercare moduli sofisticati, riesce raffinato e incisivo, castigato e insieme agilissimo, in una eleganza sobria e pura, che sa conciliare la saggezza del pensiero antico con la sensibilità del mondo moderno. Eccolo, allora - mentre afferma di compiacersi di “vedere il filo rosso che intreccia le sessantaquattro caselle con le vicende dell’ uomo … e fare i conti con l’eredità simbolica dello scontro tra il bene e il male …” (18) iniziare il racconto, a partire da Daniele, amichevolmente Dani, conosciuto nella comunità d’accoglienza per persone disabili. “Lui, scanzonato, ironico, con la battuta pronta e il sorriso furbo, (l’autore) un adolescente desideroso di conoscenza e avventura; una coppia di alfieri in grado di chiudere velocemente qualsiasi partita!” (40); Marco e sua madre Maria, la regina, a cui lo scrittore volentieri avrebbe presentato, se avesse potuto, il filosofo Epitteto, per inculcarle alcune delle sue concezioni: “rammenta a te stesso che ami un essere mortale, che ami un essere che non ti appartiene: ti è stato dato momentaneamente, non è incoglibile. Che male c’è se, mentre baci il tuo bambino, bisbigli: “Domani morirai?” (72); Aldo, che vive al terzo piano e che subito abbina al cavallo, “che ha un bel caratteri no, e sta solo aspettando il momento giusto per denunciare la cooperativa edificatrice che gli ha affittato la casa costruita in edilizia convenzionata, con l’accusa che la falda gli avrebbe causato la malattia del motoneurone di cui è affetto (77); infine, Monica che gli ricorda la Torre, com’essa irraggiungibile, imprendibile e incapace di farsi scheggiare dalla bruttezza della malattia che negli anni l’ha imprigionata. Lei è rimasta intatta nella sua bellezza come la Torre d’avorio del Cantico dei cantici… Prima dell’arrivo della malattia quando i suoi motoneuroni decisero d’ inter-
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
rompere il segnale di funzionamento agli organi, Monica viveva la sua vita incurante del destino che aveva già programmato dentro il suo corpo il blocco fatale … Era avvocato e le sue giornate si dividevano tra il lavoro, nello studio associato del centro di Milano e un appartamento nella seconda circonvallazione della città…” (103-104). Quello che colpisce, sfogliando le 134 pagine del romanzo, è come Alberto Fontana, da esperto esponente del terzo settore, con una professionalità orientata ai temi della disabilità, della sussidiarietà e della sanità, impari, nel breve volgere di un libro, il non facile mestiere dell’artista. Lo apprende grazie alla capacità di trasferire subito in metafora il gioco degli scacchi che gli consente di trasformare frammenti della sua biografia e di altri pazienti e amici in momenti di estatica contemplazione, corredati di dotte citazioni con rimandi a Wittgenstein, a cui rimane grato perché lo “ha aiutato a pensare che non esiste una necessità in forza della quale un fatto debba accadere perché un altro è già accaduto” (38); a Montaigne, al suo libro La cicatrice, “che mette in luce i meccanismi cui gli autori fanno ricorso per rappresentare la bugia, una costruzione linguistica sempre in bilico, costantemente minacciata anche dal più piccolo dei lapsus”; a Schopenhauer, a quel suo “velo di Maya ingannatore, che avvolge il volto dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista né che non esista” (65); a Sartre, filosofo-letterato del quale ricorda la frase più famosa di A porte chiuse, non come un inno alla misantropia, ma come l’amara constatazione che siamo quello che pensano gli altri e che alla fine non resta che ac-
Pag. 8
cettare i giudizi e la percezione che gli altri hanno di noi” (89-90). Tutti pensieri e aforismi che a prima vista non sembrerebbero avere a che fare col mondo concezionale dell’autore, ma che a ben vedere, a lettura ultimata, risulteranno schegge di un pensiero unico, personale, persino le similitudini poetiche di Saffo e Omero, come queste: “c’è chi dice sia un esercito di fanti. C’è chi dice sia una flotta di navi sulla nera terra la cosa più bella, io invece dico che è ciò che si ama”; oppure “Come stirpi di foglie, così le stirpi degli uomini; le foglie, alcune ne getta il vento a terra, altre la selva fiorente nutre al tempo di primavera; così le stirpi degli uomini: nasce una, l’altra dilegua” (100). E non solo, anche le analogie di Gozzano come la Signora vestita di Nulla (50) o le massime in cui Saramago lamenta il difetto delle parole di spiegarci solo a metà il loro significato (105) non ci allontanano poi così tanto dal sentimento di malinconia che soffia un po’ ovunque nelle pagine del romanzo. Soprattutto in quelle finali, quando la partita sembrerebbe ormai svanire nella malinconia del padre che ha perso e di Alberto che dovrà lasciare quei luoghi e ritornarsene a Milano, “accompagnato”, per di più, “da tutte le storie del passato che la partita con papà (gli) ha permesso improvvisamente di far tornare alla memoria” (122). Sembrerebbe, almeno fino a quando Alberto non si convince che, se nella realtà la partita è finita, non sono finiti nella vita i suoi insegnamenti e le sue regole, a condizione che i ricordi siano compagni di viaggio discreti “come coccola al cuore”; e non troppo ingombranti da legar(lo) a un passato che (gli) toglie la forza e la magia di affrontare la vita, nel qui e nell’ora, perché è su questo che dev(e) fare affidamento” (123). Sull’hic et nunc, appunto, sul quale lo scrittore piazza il più esemplare degli arrocchi. Scrivendo questo romanzo, non compone un libro sugli scacchi e neppure sulla disabilità e sulle malattie del motoneurone, crea, invece, un’opera sull’uomo e la sua moralità, come ciascuno abbia deciso di muovere se
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
Pag. 9
stesso sulla scacchiera della propria vita, nella ferma convinzione che “ogni pezzo ha una storia, che assume però il suo significato solo quando si mette in gioco con la storia degli altri”. Giuseppe Leone
ed il nulla fra le mie dita.
Alberto Fontana - Le regole dei motoneuroni - Storie di vita da raccontare - Mondadori Electa Milano 2017. € 17,90. Pp. 134.
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 12/02/2018 Il 5 marzo, quando si avranno i risultati elettorali e si procederà alla formazione del nuovo Governo, Pomezia-Notizie sarà già in circolazione. Mentre scriviamo, sappiamo soltanto che l’Italia è ancora immatura come Nazione, divisa in fazioni rissose, lontana da ciò che dovrebbe rappresentare il suo bene: due schieramenti, da alternarsi al potere, onesti da non discreditarla mai all’estero, uniti nell’ordine e nella pace sociale all’interno. Carabinieri che vengono picchiati brutalmente da una parte politica; definire fascista chi semplicemente vuole sicurezza e lavoro; imbracciare le armi e sparare - anche se con un tricolore in mano! -, affermando di farlo per la Patria, son tragici segni d’infantilità, non di pienezza d’un Popolo. Per non turbare il clima elettorale, negli ultimi mesi, abbiamo rinunciato agli “Alleluia”, ma non intendiamo abbandonare l’ironia. Così, sperando nel miracolo d’un cambiamento morale e politico, chiudiamo con un’acida battuta! Un prete è sul letto di morte ed esprime il desiderio di avere al suo capezzale un Senatore e un Deputato. Il Parlamento acconsente e i due chiedono al morente il motivo della strana richiesta, perché, in genere, sono Senatori e Deputati a domandare del prete, non viceversa. “Semplice”, risponde l’interpellato, “è che intendo morire come Cristo, in mezzo a due ladroni!” Giacché molti prevedono un certo ritorno, invitiamo a rileggere, chi ne avesse voglia, il nostro poemetto L’Italia di Silmàtteo, apparso a puntate, su queste pagine, dal marzo 2014 al gennaio 2015, con l’ultima puntata nel gennaio 2017! Domenico Defelice
LA STUFA Appiccicata alla stufa elettrica mi sento bruciare ogni tanto mi devo scostare poi presa dal freddo debbo riavvicinarmi il corpo un continuo avanti-indietro l'anima si attacca a te, poi se ne discosta, non sopporta, tanto brucia, ma poi insoddisfatta torna e tanto ti desidera che si allontana e continua la danza a due la corrente è alternata prima io, poi tu... Fiorenza Castaldi (Anzio)
LA FARFALLA AZZURRA Vedevo svolazzare a me dintorno una magnifica farfalla azzurra. Cercavo di coglierla in una breve sua pausa nel volo. Credevo di averla finalmente colta con le mie dita tremanti mentre stanca si riposava. Ma ormai la bella farfalla azzurra era sparita. Ed io rimasi con la mano protesa nel vuoto
Mariagina Bonciani Milano
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
ANTONIO CRECCHIA GLI OCCHI DI UN POETA TRA LE FOSCHIE DEL MONDO di Salvatore D’Ambrosio
D
UE raccolte, edite in proprio nel 2017, erano misteriosamente rimaste sepolte tra l’accumulo dei testi sul mio comodino: intoccabile geometria per la disperazione di mia moglie. In verità non erano state trascurate, in quanto le avevo lette e alcune pagine anche rilette. Un’idea di quello che volevo dire all’amico Antonio, a tale proposito, me la ero anche già fatta. Poi la inarrestabile inondazione di altro che, per chi poeta accumula versi/come la formica: non è mai pago. Pur sapendo che non gli basterà una sola vita per consumare tutto l’ accumulato. Viene da dire beata la cicala che, pur non rivedendo la stagione successiva, si bea però di quella in cui spende la vita, senza BARLUMI (di speranze) e FOSCHIE (autunnali): tanto per parafrasare i titoli delle due sillogi di Crecchia. Leggendo la silloge BARLUMI, il cui lemma vuole significare luce debole, incerto bagliore, ma anche parvenza, indizio, segno: si coglie tutta l’incertezza che stringe in una morsa l’attuale condizione del nostro vivere. Il Poeta con le sue composizioni brevi, a volte brevissime di due soli versi, sembra voglia epigrafare l’attualità. “Muore l’ansia nel rame della sera”. Immagine molto bella e con-
Pag. 10
vincente del tramonto che porta, con la sera, la serenità e la fine di tutte le traversie della giornata. La luce debole serotina che porta l’ indizio, il segno di una nuova speranza nel domani che verrà e che non è la fine ma l’ inizio di altri giorni che verranno e verranno ancora, e si spera per tanti altri anni. Antonio Crecchia, di nascita Tavennese (CB), prolifico autore e traduttore, divide la sua silloge Barlumi (di pagine 44), in due parti che seguono sostanzialmente lo stesso file rouge: la ricerca del vero o quanto meno l’incerto bagliore che da esso si propaga. Mentre Foschie (di 94 pagine), ha liriche più lunghe ma è perfettamente allineata con l’ altra citata raccolta. Inoltre ogni poesia ha un emblematico titolo. Nella più breve raccolta, sia la prima parte, titolata Barlumi, che la seconda chiamata Petali incolori, hanno una funzione civile: sebbene sia scritto chiaramente nei versi lo smarrimento dell’uomo, nell’osservare la contemporaneità. La stessa cosa avviene in Foschie, per cui qui ne parleremo come un’unica fusione. Di due una, in quanto il peso della quotidianità è valutato con la stessa parola poetica. La cosa che costantemente è presente nei versi delle sillogi, è la narrazione delle sensazioni che legano la luce e la mente umana. “Una luce improvvisa/ solca rapida il cielo … ; il sole riposa sul fiore …; seguo la maestà del sole/nel suo percorso di fuoco …” Cerca Crecchia, senza egolatria, di spiegarci una cosa vecchia quanto il mondo: la constatazione della fugacità della vita “nella consunzione delle ore”. Il susseguirsi delle liriche brevi e brevissime, come abbiamo accennato in Barlumi, non hanno titoli. Una distinzione però, fortemente connotativa, è il colore rosso in cui è scritta la lettera d’ inizio di ogni componimento. Colore che richiama all’attenzione; al sentimento che è stato speso in ogni verso; all’amore con il quale ogni singolo verso è stato composto; al cuore che si rispecchia in tutti componimenti. Ma il rosso è anche il colore della passione,
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
che per dirla come Cartesio ha sede nell’ anima, che a sua volta prende “ordini”, secondo il filosofo francese, da una ghiandolina sistemata in un non ben definito luogo. Noi diremo più semplicemente che è l’ intelligenza umana, sommata alla sensibilità d’ animo, che ci porta a cogliere aspetti della nostra vita che ci fanno riflettere, procurandoci dolori e a volte grandi gioie. E la persona che può fare meglio questo lavoro, è il poeta. La bellezza e la freschezza delle sillogi, sta anche nel fatto che Crecchia non adopera parole incomprensibili, vocaboli che ti impegnano a leggere con il conforto di un dizionario. C’è il racconto della vita e delle cose semplici, con qualche punta di nostalgia: ” il canto del mietitore/ un ‘eco d’altri tempi”. Non riscontro intenti moralistici, che d'altronde non sono nel carattere e nel sentire autentico dell’amico Crecchia, bensì un doveroso inchinarsi alla Grande Mente che ci permette ogni giorno di godere di preziosi doni. Nella stesura delle sue sillogi non riesco a leggervi derive solipsistiche. Anche perché al centro delle sue deduzioni, c’è tutta la paziente registrazione dell’ attuale che, messo in paragone consciamente o inconsciamente con il passato, sgomenta e “ Inarrestabile la furia del tempo./Sulle rovine della storia posa/il sigillo del suo fuoco rovente.” Ma il Poeta riesce a trovare, non ostante le foschie e i barlumi del mondo, squarci di luce che gli aprono visioni di serenità. Alta, allo zenit del fulgore,/Vega è luminosa profezia/d’eterna universale armonia. Per contro però c’è la coscienza che, sollecitata dalla ghiandolina cartesiana, si proietta come un falco al di sopra di ogni cosa, getta uno sguardo al futuro e riscontra attese che sebbene costruiscono castelli di pensieri,/ sono senza porte né finestre. Barlumi di cose di cui non avremo mai prove. Aberrazioni, silenzi, invariabilità della condizione umana, malinconia, degrado, arroganza luciferina, assilli che procurano isostenia. Ma c’è in questo offuscamento, in questa visone non chiara, appannata, non tanto per
Pag. 11
personale convinzione, quanto per la contraddittorietà della metafora della vita, sempre la presenza di un barlume di luce il quale illumina anche la scena più buia. Ciò non ostante persistono una vena di tristezza e Veli di solitudine, che l’Artista combatte con la parola. Non a caso le sue oltre trenta sillogi, non sono un monumento al suo ego scrittorio, quanto l’esigenza dello scrivere che ”è come cara malattia, ed è dolorosamente felice il viaggio che (…) sta conducendo alla parola, che permette di guardare e, ogni tanto, vedere” (Lello Agretti-Percorrenze-2017). Il magma pulsante dei pensieri trova, nella quiete del caldo rifugio della solitudine, la parola pronta a fare dell’evidenza delle cose semplici o anche complesse della vita, ogni volta, una storia nuova da raccontare. E la parola a cui Antonio tiene molto, come tutti i poeti, deve portare alla rottura dell’ austerità piena del silenzio e offrire sempre l’opportunità di aprire alla comunicabilità. Antonio Crecchia fluttua tra le foschie e i barlumi del presente e delle attese future, dandoci solo un breve assaggio, a volte vago o indecifrabile, delle sue sensazioni che la mente, la coscienza e l’animo gli suggeriscono. E non gli è dolce naufragare in questo mare, anzi lo sarà forse solo “quando l’ usignolo canterà sulla siepe/tra i fiori lattescenti di campanule/e la gazza farà compagnia alla faina”. Ma saranno solo barlumi di speranze e attese che si diradino le foschie? Salvatore D’Ambrosio IL SORRISO D’UN BIMBO Strale il sorriso ti giunge d'un bimbo, l'intus colpisce, in estasi esplode, amore, emozione, empatia e in alto ti spinge, oltre le stelle del firmamento, nel paradiso dei tuoi sogni. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo al Volturno, Is
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
IN CONVENTO CON
IMPERIA TOGNACCI LEGGENDO IL ROMANZO “ANIME AL BIVIO” di Anna Aita
L
E scritture che lasciano entrare nell' ambito di un monastero hanno sempre un fascino particolare. Forse la possibilità di scrutare tra mura proibite allo sguardo profano, di scoprirne abitudini, di avvertire il profumo e la grandezza dell'amore del nostro Padre Celeste che governa le giornate, ma anche la piccolezza delle miserie umane che hanno qui, certamente, un sapore molto più irriverente e imperdonabile. Dopo aver letto, con molto interesse e partecipazione, la rilevante, intrigante pubblicazione di Orazio Tanelli, "Il monaco di Macchia", che ci racconta un tratto affascinante della sua storia personale, ecco ancora un invito ad entrare in convento, accompagnati, pur se in maniera molto diversa ed impersonale, dalla nota scrittrice Imperia Tognacci. Questo, libro tra le mani, il primo motivo che rende viva l'attesa. Se poi ci ritroviamo dinanzi ad una scrittura piana, gradevole, a tratti avvincente, ecco che la voglia di leggere prende possesso delle nostre anime, invitandoci ad occupare con entusiasmo i momenti di libertà disponibili. E le pagine si sommano copiose. In un ambiente stretta-
Pag. 12
mente religioso, come già sottolineato, c'è sempre qualcosa di riservato che stuzzica, attrae, coinvolge e che Imperia Tognacci ben ci relaziona: gelosie, pettegolezzi, morbosità, invidia. E c'è, in questo contesto, innanzitutto l'amore, amore verso Dio certamente, ma anche un altro tipo di passione, qualcosa di umano ed incontrollabile che, come ci rammenta la scrittrice citando Dante, "al cor gentil ratto s'apprende": la cosiddetta attrazione fatale. "Un volto, una voce", leggiamo testualmente, "può risvegliare interiormente una scintilla dell'amore universale. Puoi forse evitare che un raggio di sole ti attraversi, che il vento ti avvolga, che una musica risvegli qualcosa nel profondo di te? Puoi fermare il cuore che sembra impazzito?" È per questo e per tanti altri momenti della scrittura, in cui l'Autrice esprime in maniera esemplare i turbamenti dell'animo femminile, che Francesco D'Episcopo, prefatore al volume, così si esprime: "La Tognacci si rivela, letterariamente e umanamente, specialista dell'amore e delle sue infinite declinazioni e il suo mondo di donna le consente di penetrare nei meandri più superficialmente profondi di una femminilità che la letteratura ha sempre cercato di fermare.” La scrittura della nostra Autrice è particolarmente descrittiva. Ci accompagnano, durante la lettura, immagini davvero suggestive: "Il buio che dall'infinito scende e tutto incalza, scolora e uniforma, l'aveva avvolto nella quiete delle cose aperte all'universo"; e più avanti: "La campagna distesa nel sole di giugno li accoglieva, con le stoppie abbacinate, le aie con il giallo dei pagliai, l'altalena, le chiocce seguite dai pulcini, le stalle, le strade polverose costeggiate da biancospini ...; e ancora: " ...E mentre lo ascolta ha il sentore del profumo di salsedine e di praterie. Le sembra di vedere distese di sabbia, come morbida cipria, l'oceano melodioso come una canzone, e, in un cielo blu, navigare, come candide vele, nuvole spinte dal vento che ha conosciuto voci di antiche civiltà imprigionate tra consunte pietre..."
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
Troviamo, tra le righe, anche l’esperienza di una donna intelligente, saggia, che ci regala riflessioni raccolte lungo una vita fatta di pensiero e di cultura. Eccone qualcuna: "Libertà è lotta interiore, riuscire a respingere le ombre e mantenere la propria luce"; "...c'erano ancora sentimenti veri che non conoscono razze, distanze geografiche, politiche, ma ci ricordano che tutti noi nasciamo da un unico grande grembo: quello dell'umanità"; "Lo sguardo non mente, risponde a un'attrazione magnetica, ti porta istintivamente a ricercare un altro sguardo .Il pensiero piega l'ala nel cuore di chi si ama". La storia, qui raccontata, vede protagonista Annunziata che decide di perseguire la via della fede e della carità entrando in monastero. Le difficoltà di una vita fatta di preghiera, sacrificio, amore e, soprattutto rigide regole, si estendono nel racconto, seppure in situazioni diverse, a quelle di altre consorelle. Così viene raccontato il dramma vissuto da Lara cui viene negato il permesso di accorrere presso il letto della madre morente o quello di altre suore, rimproverate per essersi legate troppo nell'amicizia, definita dalla reverenda madre "morbosa". Ogni comportamento umano, sottolinea la scrittrice, ha una sua ragione di essere, che sovente viene da molto lontano. Annunziata è sempre ligia al dovere in ogni circostanza che la vede impegnata. Anche come insegnante. Inaspettato il finale che vede chiudersi le porte del convento, all'uscita definitiva della nostra protagonista. Più che la storia, appena accennata, ho inteso mettere in luce la bravura della nostra scrittrice che tende a tradurre in ritratti esemplari le osservazioni compiute nel territorio della propria vita interiore. La Tognacci non intende giudicare ma soprattutto comprendere, registrare la realtà qual è e, più spesso, penetrare, sotto le apparenze, la natura umana e riconoscere le complesse ed ingannevoli forme nelle quali si svolgono le relazioni sociali. Anna Aita
Pag. 13
È PIOVUTO È piovuto: l’aria profuma di odori campestri. La natura ha il volto pulito, ed è bello guardare il cielo imbronciato, in questa sera che declina. Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, MI
QUANDO È NATA IN ME POESIA? Forse, CERTAMENTE, nel momento in cui i miei occhi si sono specchiati, per la prima volta, nella luce del sole. Io, non ne ero cosciente, non me ne sono accorta, ma ho avvertito la presenza di qualcosa di straordinario che dentro mi esplodeva, l'emozione che accelerava i battiti del mio piccolo cuore, un nonsoché di celestiale che mi illuminava, creava estasi nel mio candido microcosmo. Da quel momento è sempre stata in me, con me, la mia dolce, fedele amica. Non la vedevo, ma la percepivo, la sentivo; non conoscevo il suo nome e la chiamavo "Illusione", "Sogno", "Tenero giaciglio", "Zampillo d' amore"...Discreta, invisibile, mi prendeva per mano e mi conduceva sui prati fioriti, nei boschi, sulle prode dei rivi; mi cullava sulla superficie molle del mare; mi lanciava in volo nell'alto dei cieli, brividi di piacere mi provocava nello spirito e nel fisico. E poi s'è mostrata in tutta la sua avvenenza, in tutto il suo splendore, in tutta la sua magica realtà e mi è restata accanto guida costante, conforto, ispirazione. "Voce dell'anima", "Alito divino" ora la chiamo. Senza di lei mi sentirei inutile, infelice, morta in vita. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo -
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
LO SFOLLAMENTO DEL POETA
CARLO OLIVARI (originalità di stile e contenuti) di Luigi De Rosa
M
IO sfollamento è il titolo dell'ultimo libro di Carlo Olivari, che vive a Genova dopo anni di docenza nei
Licei. “Mio”. Il possessivo tout court, come il “mon” francese. E così per le preposizioni. Niente articolate, ma solo quelle semplici. E i verbi, usati prevalentemente nel participio (presente o passato) e nel gerundio. E le iterazioni insistite, con la tenacia e la passionalità di uno spirito traboccante di malinconia, di sdegno morale, di nostalgie e di rimpianti. Ma l'elenco delle singolarità stilistiche di Olivari sarebbe troppo lungo. Resta il fatto che certe sue poesie sono immediatamente riconoscibili, lasciano il segno, più di quelle di tanti altri poeti ufficialmente osannati come innovatori. Mio sfollamento è un poemetto che sostanzia la Prima delle due Parti dell'ultimo libro di Olivari, e trae lo spunto e l'ispirazione dai ricordi personali del poeta, di quando ai primi degli Anni Quaranta (1942-1943), in piena Guerra Mondiale, dovette sfollare (fuggire) con la famiglia, dai bombardamenti angloamericani sui centri abitati, dalla natìa Sori (vicino Genova) ad un luogo più sicuro e defilato. Tra gente soffocato, vuota e inerte, foglie secche su strada, ed ossa, ed ossa, vile in seguito, dimenticata. E le inizianti bombe nella notte. E rivolgendosi direttamente A Spineto ricorda squarci di vita nel luogo agreste, in fuga dai bombardieri, Dal padre lontano, e dalla madre, da Sori, caro a me, ora, per distanza, di buoi, e d'uomini rudi, per vigne assolate, e i campi, le voci brusche, esse, dialettali, risuonanti.
Pag. 14
Stormi ostili, metallici, da alto, a tratti, poi strani dileguantisi. E allegria, a me estranea, della vendemmia, di bimbi, e di vecchi più piena allegria, me in strano isolamento respingente. L'originalità di Olivari non consiste solo in tanti piccoli accorgimenti tecnico-espressivi nella costruzione del discorso poetico (come, ad esempio, anche l'anteposizione del genitivo...) ma nei contenuti, come nella carica di passionalità lucida e disincantata con la quale affronta le vicende della vita individuale, e i rapporti di armonia e di affetto, specie con soggetti di genere femminile, trasfigurati, verso i quali è particolarmente attento e tenero. Vedi, ad esempio, la poesia dedicata A Stellina Come là in indefinita nuvola, così luminosamente limpida, brillando, brillando tu, ovunque, nell'aria, nelle lunghe tenebre, e a prima luce, nei prossimi barlumi d'aurora, sola e azzurra, a spegnersi delle stelle. Reale tua bionda forma tra noi, tua nuvola, a te unita, nell'immensità. Raramente la gioia si rivela, comunque, piena e soddisfacente, perché il senso della provvisorietà e della morte incombente si insinua subdolo fra le trame della vita. Perfino la Natura (ad esempio, il possente Mare) è più forte dell'essere umano, che vive tra le malattie del corpo e dell'anima per arrivare un giorno alla morte. Da tutto ciò si evince in modo solare la fondamentale importanza della Poesia, e, più in generale, della Letteratura. Luigi De Rosa
GIORNO DEI SANTI Schiere beate gridavano: “Pace al mondo frenetico!” Mai tanto inermi mi apparvero i guerrieri. Rocco Cambareri Da Versi scelti - Guido Miano Editore, 1983.
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
FRANCESCA DIANO TRA MEMORIE DI VITA E ATTIVISMO INTELLETTUALE di Ilia Pedrina
B
ELLA, coinvolgente, dall'intelligenza dinamica, convergente e divergente ad un tempo, Francesca Diano è voce e scrittura del nostro tempo e lo attraversa con radici che affondano nelle terre della Grecia antica e della Locride, oltre che nei rocciosi fondali marini, ai quali si avvinghia il corallo. Ricordo il suo Papà, il prof. Carlo Diano, insigne grecista alla Facoltà di Lettere e Filosofia a Padova, poi per più mandati Preside della stessa, affascinato dalla cultura greca, dai suoi ritmi, dai suoi poeti, dai suoi pensatori e non solo; attratto a vivere con piglio originalissimo le esperienze letterarie d'Italia, di Svezia, di Danimarca e d'altri luoghi; dalla ironica, intelligente libertà di pensiero, chiunque fosse al governo, libertà energica ed incisiva che tutta si esprimeva nelle sue lezioni al Liviano, affollatissime, e ti marchiava memoria e prassi con il suo sorriso, schietto, audace, divertito, con il suo passo condiviso tra tanti giovani studenti, contagiati dalla sua rettitudine. Avrò modo di raccogliere materiale e testimonianze ancora lucide, ma l'attenzione su Francesca Diano è ora da privilegiare. Nasce a Roma nel 1948 e ad appena due anni si trasferisce con la famiglia a Padova,
Pag. 15
città d'arrivo e di più articolata realizzazione dell'avvincente percorso paterno. Si laurea in Storia della Critica d'arte con Sergio Bettini ed avvia un percorso di studi e d'insegnamento a Londra e all'Università di Cork, in Irlanda, cogliendo preziosi stimoli per scandagliare le riserve auree della cultura di quelle terre. Ne nascono traduzioni esemplari, come quelle di Alois Riegl, Thomas C. Croker, e poi di Sudhir Kakar, Kushwant Singh, Susan Vreeland, Geraldine Brooks con tanto altro ancora onde poi intrattenere legami professionali con case editrici come Cappelli, Neri Pozza, Donzelli e Guanda. Annoto dalla sua scrittura sincera, mentre traccia elementi di memorie d'adolescente: “... Nella vecchia foto scattata in quella che era allora la nostra nuova casa - mio padre l'aveva comprata di corsa in pochi giorni, perché quella in cui vivevamo stava crollando sotto il peso dei libri - Neri e Lea stanno chiaccherando con mio padre. Diano sta ridendo, di quel riso aperto e a pieno cuore che gli era proprio e Lea Quaretti, che si vede di profilo, sorride. Neri Pozza osserva mio padre con quello sguardo severo che da bambina mi intimidiva e mi faceva ricordare l'orco delle favole, anche per quei suoi sopraccigli imperiosi, folti e neri a contrasto con i folti capelli bianchi. Sul tavolino la bottiglia di Johnny Walker che non mancava mai in casa, insieme al Curvoisier, perché il cardiologo aveva detto a mio padre che era un vasodilatatore. Il ricordo più antico che ho di lui e di Lea è a Bressanone... ma l'immagine più vivida è di un giorno di gennaio nella loro casa di Cortina. Avevo 16 anni ed eravamo a San Vito di Cadore per le vacanze di Natale. Neri volle vedere mio padre e andammo a trovarli. Il salotto si apriva su una grande vetrata con una vista mozzafiato. C'era un signore che a me pareva vecchio, ma in realtà era poco più che quarantenne. Sedeva sul bracciolo della poltrona di Lea e per tutto il tempo che rimanemmo non pronunciò quasi parola. Giocherellava con la collana di perle che Lea Quaretti aveva al collo. Mi parve un tipo molto singolare e affascinante perché pur come fos-
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
se estraneo a tutto e a tutti, pareva trovarsi benissimo in quel suo isolamento e nessuno si meravigliava di questa sua quasi astratta presenza. Si chiamava Andrea Zanzotto...” (fonte Internet, IL RAMO DI CORALLO, blog di Francesca Diano, traduttrice letteraria e scrittrice). Tra le altre importanti vicende che Francesca Diano condivide con tutti, è presente il ricordo delle tante pubblicazioni di suo padre con l'editore vicentino Neri Pozza e il particolare curioso che quest'ultimo lo compensava delle fatiche letterarie con valanghe di libri, non con denari! Nello stesso sito dice di lei e della sua preziosissima bacchetta rabdomantica: “Mi piacciono i poeti-narratori e i poeti-filosofi. Mi piacciono i poeti che, con una lingua che la vita ha filtrato attraverso il setaccio dell'esperienza e della sete di conoscenza, della cultura e della curiosità, dell'esplorazione di se stessi attraverso il mondo, esprimono quel che hanno lasciato decantare dentro di sé come enorme quantità di materia e ne rinarrano la quintessenza. Mi piacciono i poeti che hanno una poetica e una visione del mondo da cui spiccare il volo, capaci di lasciarsele alle spalle senza paura del vuoto. Mi piacciono i poeti la cui lingua, come la loro voce, è chiara, limpida, musicalissima, (dove poesia senza musica?) spoglia di ridicoli orpelli, termini obsoleti cercati sul dizionario e barocchismi, che son buoni solo per i poeti wannabe e solamente servono a mascherare l'assenza di pensiero e di idea e un deserto di sordità poetica. Capaci di una lingua raffinatissima e colta e scolpita. Mi piacciono i poeti che non hanno bisogno di volgarità, modernità a tutti i costi, finti sperimentalismi vecchi come il mondo perché la vera novità è quella dello sguardo che hanno sul mondo e su se stessi; libero, non legato a mode, a trend, a scuole e che sanno rendere il Passato Presente, eppure sanno uscire dal presente. Bisogna essere grandi per essere limpidi e chiari. Il che non significa semplici...” (fonte Internet, ibid. sezione 'Salvatore Martino - Manoscritto trovato nella sab-
Pag. 16
bia. Inediti'). Francesca ringrazia Salvatore per averle consentito di pubblicare in rete alcune sue poesie e ne prepara l'approccio con una sintesi accurata del Poeta e delle sue pubblicazioni. I poeti 'wannabe' sono tutti quelli che vogliono essere poeti e non lo possono essere perché a loro manca l'indipendenza dello sguardo sul mondo, l'autonomia della fascinazione interiore che guida quello stesso sguardo, la padronanza della lingua che dice le emozioni e che si modula come canto e a quello stesso sguardo dà forma e contenuto a testimonianza dell'evento, quell' evento che la poesia rende arte. Francesca sceglie con entusiasmo i suoi compagni di viaggio e condivide, con rinvigorita energia, i tesori dell'arte e della lingua, anche altra, che via via viene scoprendo. Come ha fatto per James Harpur, presente in Italia a fine maggio 2017 e il suo San Simeone Stilita curandone la pubblicazione italiana con testo originale a fronte per la Proget Edizioni, passi certi questi adatti a preparare la pubblicazione della sua ricca antologia Il vento e la creta - Selected poems 1993-2016, con testi anche relativi alle sue traduzioni dai classici e opere in prosa; come ha fatto per tutta la produzione della scrittrice indiana Anita Nair e i suoi romanzi Il custode della luce affiancato da L'arte di dimenticare e da La ferocia del cuore per Guanda Editore, oltre a Cuccette per signora con la casa editrice Neri Pozza. Corre l'anno 2010 e Francesca Diano, fin da giovanissima attratta dalla letteratura e dal folklore d'Irlanda, come ne dà testimonianza il suo percorso professionale, pubblica La strega bianca - Una storia irlandese, quell' esordio letterario che la vede in sogno ed in cammino tra la verità di eventi dall'ancestrale malìa e la costante ricerca di una circolarità liberatoria che faccia coincidere fine ed inizio, nella fantasia come nella religiosità della scrittura. Poi arriva il tempo della raccolta di racconti Fiabe d'amor crudele, Edizioni La Gru 2013 e la raccolta poetica Bestiario, Vicenza, Nero Cromo, 2017. Sono i più recenti passi di un vincolo che risale agli anni '80 del secolo scorso e che l'ha vista penetrare con
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
audacia e passione nel folklore e nella tradizione orale irlandese, dando vita in traduzione, per la prima volta in Italia e proprio per i tipi dell'editore Neri Pozza, a Racconti di fate e tradizioni irlandesi di Thomas Crofton Croker, originale pioniere del folklore irlandese e amico dei fratelli Grimm. Le è stato conferito per il racconto Le Libellule, nel 2012, il 42° Premio Teramo. Per lei dunque mi avvince la necessità e mi spingo a parlare di attivismo intellettuale, perché attraverso la sua presenza in rete, come un ramo di corallo, ogni testimonianza è in continuo fermento e cresce in variazioni imprevedibili, mantenendo solidi ancoraggi a fondali misteriosi d'infinita bellezza, da non sradicare mai e da articolare ancor più con la forza d'un coraggio che ha il sapore intenso e disarmante della sfida. E vera sfida, tra le altre, è quella sua di invitare alla ripubblicazione delle opere di Carlo Diano, fin da ieri voce del futuro. Tanto altro ci dirà lei stessa, quando si aprirà a questi e ad imprevedibili versanti del dialogo, quell'offerta di sé che avrà le dimensioni magiche della concretezza e della fantasia d'arte, per riportare vigore a quella 'internazionale dell'intelligenza', come la definiva Marcello Dudovich, che è la sinergia della produttività creativa e di cui proprio questa Rivista è piena prova. Ilia Pedrina
Pag. 17
e lancia mille bestemmie. L’irrequieta coppia di tortore gira e gira tubando; poi, affiancati e stretti come a farsi coraggio, quattro tondi ed immobili occhi fino all’ultimo assistono alla scena da sopra il filo della corrente. A sera cercheranno altro asilo. Un fumoso e scoppiettante falò brucia le verdi frasche; il camion s’è già porto via cataste di rami e tronchi. Ora la capanna, fuori dall’ombra, ha una luce spettrale; un nero e massiccio soprattetto d’aghi le rimane dei pini. Domenico Defelice
PUNTO E VIRGOLA (Scherzo freudiano) Una voce dal Sud, un picco riarso, una pentola ossidata crivellata, una madre, un mendicante; un robot, un astronauta, un passato di stracci, un presente passato, un oscuro futuro stellato;
IL TAGLIO DEI PINI Tempo d’inquietudine ed insonnia da che ho deciso il taglio dei pini, severi ed alti gendarmi della vecchia baracca. Ventisette ottobre duemiladiciassette, venerdì di passione. L’arcigno segantino, che s’arrampica lesto come un gatto, colpito al braccio da una pigna verde, con occhi ardenti fulmina la chioma
un jux-box per sola moltitudine, una pazzia multicolore, un lampo nella notte, uno scoppio di risa dopo pianto, un germoglio, un tonfo di foglie, fertilità, deserto; un cumulo di giorni sorseggiati al minuto secondo, il tutto del niente senza Amore, senza Dio. Rocco Cambareri Da Da lontano - Ed. Le Petit Moineau, 1970.
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
PAWEL KRUPKA INTERESSA ANCORA LA POESIA? di Domenico Defelice
S
I parla e si scrive di costante disinteresse della gente verso la poesia. I libri non si vendono; le opere in versi si pubblicano in numero di copie sempre più limitato; circolano raramente nelle scuole e tra gli studiosi, esaurendosi, sempre più, nella cerchia ristrettissima dei soli amici dello stesso autore. Le analisi son tante e diverse, ma, secondo Pawel Krupka, una sola risponde a verità: quella che la poesia di oggi non è più tale, se non in rari casi, ma prosa in colonna, prosa mascherata e, per conseguenza, i lettori, che stupidi non sono, preferiscono rivolgersi all’originale, anziché alla finzione, al mascheramento. “Basandosi sulla produzione letteraria che viene pubblicata e presentata come poesia, è difficile definire le caratteristiche che permettano di distinguerla da altri generi letterari. L’unico criterio adottato è la sua forma tipografica: passa per poesia, in genere, ogni scrittura interrotta e separata in singoli versi”, scrive Krupka, in un breve quanto acuto saggio su Capoverso, n. 34, lugliodicembre 2017. La gente, cioè, messa davanti a un’opera in normale prosa e ad una in pseudopoesia, intelligentemente sceglie la prima e compra e legge romanzi, racconti, opere teatrali, saggi e via elencando, disinteressandosi dei finti versi. A noi il saggio di Krupka è sembrato chia-
Pag. 18
ro, lucido e centrato e abbiamo deciso, perciò, di proporne alcuni brani ai nostri affezionati lettori. Di Krupka, in verità, non abbiamo letto altro al di là di questo saggio intitolato “A chi serve oggi la poesia?” Sappiamo, comunque, ch’è polacco, che è nato nel 1963, che è poeta, prosatore e saggista, che si interessa anche di musica (è cantautore) e che di professione fa il diplomatico, tanto è vero che, attualmente, si trova in Lituania, in missione diplomatica per conto del suo Paese. Scrive Krupka: “Quale redattore, critico, traduttore e membro di giuria in concorsi di poesia, leggo centinaia di opere, presentate come poesie, scritti da autori di ogni generazione, provenienti da vari Paesi europei, e constato che la maggior parte di queste opere non presentano caratteristiche essenziali di linguaggio o di struttura che le distinguano dai generi epici o drammatici. Per millenni, cominciando da Omero, Pindaro e Saffo, la poesia si è distinta da altri generi di letteratura per il suo linguaggio e la sua struttura; mentre la narrativa, la saggistica e il teatro hanno adoperato sempre la lingua naturale, cioè quella usata correntemente per comunicare, la poesia ha elaborato una lingua artificiale, definita dai linguisti come “metalingua“, anche se composta da elementi della lingua naturale. Le caratteristiche essenziali di questa “metalingua” poetica si sono sviluppate nei secoli su due livelli: quello strutturale e quello semantico. La differenza strutturale tra il linguaggio poetico e quello naturale si esprime principalmente nella sua sonorità, nei suoi ritmo e musicalità particolari, diversi dalla lingua parlata. (...) La poesia, infatti, a differenza della narrativa, è stata sempre un’arte uditiva, affine alla musica e sempre da questa accompagnata. Nell’ antichità e nel medio evo, né la carta né la penna hanno mai fatto parte degli attributi del poeta, diversamente dagli strumenti musicali.” Pertanto, afferma ancora Pawel Krupka, “la poesia non si legge, si ascolta. I versi di poesia stampati non sono altro che lo spartito di un brano musicale. La poesia, come la musi-
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
Pag. 19
ca, comincia ad esserci quando viene detta a voce. Sul piano semantico, invece, la caratteristica principale della poesia è stata sempre quella di adoperare un linguaggio metaforico che altera i significati dei vocaboli e delle espressioni proprie del linguaggio naturale. Tale caratteristica la poesia del primo Novecento, che aveva abbandonato la sonorità delle epoche precedenti e si era avvicinata di più alla lingua parlata. (...) Nel secondo Novecento, la poesia si è spogliata del linguaggio metaforico e lo ha sostituito con elementi della lingua naturale e, in conseguenza di ciò, è andata progressivamente a confondersi con altri generi letterari, funzionando di volta in volta come mini-racconto, mini-saggio e mini-copione. Questo fatto ha determinato anche il cambiamento dei suoi supporti. Tradizionalmente, il supporto della poesia era stata sempre la voce, spesso accompagnata da uno o più strumenti musicali. Nel Novecento, la voce è stata sostituita dalla carta. Oggi - conclude Krupka - i versi di poesia non si “cantano” ma si “leggono” “. Troviamo interessante quanto vero quel che afferma l’autore polacco e pensiamo che, se Dante, Leopardi ed altri, continuano ad ammaliarci, è perché, alla base del loro canto, non c’è solo contenuto, ma una vera e propria tempesta d’armonie che ci investe. La poesia e la musica, insomma, sono la stessa cosa, come non sono la stessa cosa, la poesia e la prosa. Se mascheriamo la poesia, il lettore, giustamente, si rivolge al romanzo, al racconto, al saggio: insomma, all’originale, non all’ imitazione! Domenico Defelice
ci fanno crogiolare di gioia e ci rinfrescano i muscoli e il cuore. Certi giorni ci allietano i 18-20 gradi, lo sanno tutti che qui l’estate è a puntate, e quando arrivano i 40 gradi facciamo fatica a sopportarli, l’aria condizionata è la nostra risorsa, non è possibile correre sempre al mare il caldo si deve sopportare. Se pensiamo al freddo dell’inverno lo vogliamo bene e ci accontentiamo di farci abbronzare e accogliere il caldo asfissiante. Melbourne sorride sotto il sole cocente dell’estate, meno male di avere la fortuna di essere sempre a puntate!
GENNAIO A MELBOURNE
qui nasceva il tempo ogni mattina ci faceva scendere alle narici il fiume d’aria della vita ci regalava altri giorni perché scrivessimo sulle foglie la nostra corsa di fanciulli con un titolo dal passato mai rimosso creature nate per caso dalle sorgenti della sera. Gianni Rescigno
Melbourne è splendente di sole, un sole che brucia la pelle e colora Gennaio di splendore, è l’estate e certi giorni i suoi 44 gradi ci buttano addosso la voglia del mare... E si corre tra le onde che ci accolgono beate,
21 – 1 – 2018 Cav. Giovanna Li Volti Guzzardi Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori (A.L.I.A.S.), Avondale Heights, Melbourne, Australia
DALLE SORGENTI DELLA SERA Noi eravamo creature nate per caso dalle sorgenti della sera che con un abbraccio senza luci riuniva tutte le pene d’una giornata di fatica le nostre ombre su pareti vecchie ritratti scattati dalla luna filtrata da imposte spaccate da calura anime sognanti fra tremolii di pensiero andanti dai dirupi delle valli a cime di montagne
Da Sulla bocca del vento - Il Convivio Editore, 2013
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
Oltre il bisogno di comunicare, il bisogno di significare:
FILOMENA IOVINELLA A MIO PADRE di Susanna Pelizza O detto, molto tempo fa, che “in tempi moderni, in cui manca una critica edificante, trasformata, molto spesso nella gadameriana fusione di orizzonti, dove l’esperienza di significare è stata sovvertita dal bisogno di comunicare, dove la progettualità è stata trasformata nel desiderio di immediatezza e improvvisazione, da un empirismo che risemantizza gli stessi concetti di centro e periferia, insomma in un periodo in cui si perdono le verità definitive, il poeta più che sperimentare il “disincantamento del mondo” (Max Weber) deve nuovamente ricercare quella conoscenza che proviene dall’esperienza del sapere” (S. Pelizza su Il Club degli Autori, Novembre-dicembre 2001) e non solo, dopo aver letto “A mio padre” di Filomena Iovinella (silloge arrivata 4 al premio città di Pomezia 2017) posso aggiungere a sostegno di questa tesi, che anche il valore legato agli affetti, alla famiglia, è un valore di conoscenza e fonte di sapere. Una poesia tutta incen centrata, quella di Iovinella, sulla capacità rorobubusta, fondante, onto-
H
Pag. 20
logica della parola di “costruire” e non svanire, un mondo di richiami, ricordi, amori... “La parola può tutto, (...) nulla può sottrarsi al suo impero, ha una capacità fondante, ogni volta di una nuova mitologia” diceva T. Landolfi in Opere (Rizzoli) e l’autrice sa educare, far riflettere il lettore su quell’amore che ogni figlia dovrebbe avere per il proprio padre e che, naturalmente, non si esaurisce con la morte. D. Defelice accentua “la concatenazione dei tanti tasselli, formati dalla ventina dei brani, che rendono l’inquieta silloge un commosso canto funebre in lode del padre e nel contempo, una sua glorificazione, tale da poter venir ricordato solo in positivo e come simulacro cui rivolgersi negli inevitabili marosi della vita” (D. Defelice “Trasgressione formale e ricordi come catarsi” op. cit. pag. 2). Lo spezzare continuo della struttura “per assecondare l’urgere delle intime pulsioni” come rileva il Defelice, lo vedo come una qualità propriamente poetica che s’innesta all’interno di un percorso, a volte un po’ piatto, che tende alla narrazione. Ma sono soprattutto le immagini e le metafore che danno valore all’opera come “Profumo di Orchidea/rosso di fiori variopinti/luce, fuocherello saltellante/sei nozze di un passato lucente” (in “Sei profumo di orchidea” op. cit. pag. 19) a riconfermare, quindi, un tipo di lirica non “evanescente” e sensoriale, ma fortemente incentrata a ricostruire mnemonicamente un mondo d’immagini da cui ripartire. Susanna Pelizza
AMABILE VISIONE Fuori da ogni logica, sei la tua mente respira attimi di dissennatezza inebriante e a quell’amato bene che lascia ogni volta il cuore ridere nel tempo questa logica, furente d’amore giunge necessaria e potente. Filomena Iovinella Torino
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
Lo scrittore calabrese
RAOUL MARIA DE ANGELIS, a 110 anni dalla sua nascita (Terranova da Sibari, 1908) di Franco Liguori
I
L 4 maggio del 1908, 110 anni or sono, nasceva a Terranova da Sibari, paese della bassa valle del Crati, ricco di memorie storiche sibarite, Raoul Maria De Angelis, uno dei maggiori scrittori della letteratura calabrese (ma anche italiana ed europea) del Novecento. De Angelis, il cui vero nome era Giovanni (Raoul Maria è il suo nome d’arte), nacque, dunque, in una terra carica di storia e di leggende magnogreche: la Sibaritide. Lui stesso è orgoglioso di essere nato in questi luoghi, se così scrive : “Non per niente il mio paese d’origine è Terranova da Sibari, nell’ antica Magna Grecia: paese ora sulle colline, ma un tempo nella grassa pianura popo-
Pag. 21
lata da ulivi, spighe, viti e torme di cavalli avvezzi alla danza”. Ma De Angelis era fiero anche delle origini di sua madre, albanese nata a Lungro, che influì non poco sulla formazione del figlio. Il richiamo della terra d’ origine di sua madre lo spinse, quand’era ancora ragazzo, a imbarcarsi clandestinamente per l’ Albania ma, scoperto, da Valona venne immediatamente rimpatriato. A Catanzaro De Angelis frequentò le scuole medie e il liceo, quindi si iscrisse all’Università di Roma, laureandosi in giurisprudenza. Nel 1929 iniziò la sua carriera giornalistica in qualità di inviato speciale per conto di vari quotidiani italiani, come “Il Giornale d’Italia”, “Il Messaggero”, “Il resto del Carlino”, “Il Tempo”. Fu anche redattore capo del settimanale “L’Italia letteraria”, diretto da Massimo Bontempelli, dove uscì a puntate, nel 1936, il suo primo romanzo: “Inverno in palude”. Tre anni dopo, nel 1943, apparve “La peste a Urana”, romanzo che sollevò molto clamore per la nota polemica con Albert Camus, autore de “La peste”, accusato di plagio da De Angelis. L’operosità letteraria di De Angelis fu molto intensa e lo portò a scrivere altri romanzi come “Oro verde” (1940), “I briganti” (1950), “Panche gialle” (1950), “I camosci arriveranno” (1957), ma anche opere teatrali, come “Abbiamo fatto un viaggio” e “La bottega del tempo”, e racconti brevi, come “Apparizioni del Sud” (1954). Al 1952 risale anche una raccolta di liriche: “Poesie”, che raccoglie il meglio della lirica dello scrittore terranovese. De Angelis è morto a Roma il 5 marzo 1990. La cittadina che gli ha dato i natali, Terranova da Sibari, lo ricorda ogni anno con un concorso letterario riservato agli studenti delle scuole calabresi. L’importanza di De Angelis narratore è stata riconosciuta già cinquant’anni or sono dal grande critico Francesco Flora, che, nella sua “Storia della letteratura italiana” (Mondadori, 1967) così scrive : “De Angelis s’è rivelato uno dei nostri narratori più fertili e arditi, e nella varietà dei suoi tempi ha serbato uno stile preciso e tuttavia immaginoso, che sa essere (ed è merito maggiore) terra nativa ed
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
Europa nel medesimo tratto”. Un lusinghiero giudizio è anche quello espresso su De Angelis da Giacomo Prampolini, autore di una celebre “Storia universale della letteratura” (Utet, 1952), per il quale “liriche e tumultuose rapsodie appaiono i romanzi del calabrese R.M. De Angelis, dotato di una fantasia sensuale e barbara che interpreta miticamente la natura, ondeggiando fra realtà e favola”. Il romanzo più celebre del Nostro è senz’altro “Inverno in palude”, pubblicato da Mondadori nel 1936 e ristampato nel 2001 dall’editore Marco di Lungro. L’opera è ambientata in Calabria e, più precisamente, nella sua Terranova da Sibari, ed ha come protagonista don Angelo Gruerio, un personaggio di stampo verghiano, che abdica alla lotta perché vinto. Secondo la testimonianza dello stesso scrittore, Gruerio rappresenta “tutte le famiglie calabresi che si trovavano improvvisamente impaurite dai nubifragi, dalle piene, dagli incidenti naturali che circondavano le pianure e le colline e, quindi, il paese di Terranova”. La “palude”, invece, per De Angelis, “rappresenta un male naturale, ma un male mitico, perché praticamente è la cancrena della terra, e più tardi sarà la peste come la cancrena, come distruzione non solo della carne ma anche dello spirito e di ogni possibilità di accedere ad una vita migliore”. Scrive giustamente Costantino Marco che Inverno in palude “può considerarsi un evento letterario, che apre la cultura locale ai venti dell’ esistenzialismo europeo”. Nel romanzo, il paese con la sua storia, con i suoi rioni, con le sue memorie crea uno scenario suggestivo. Vengono raccontati i piccoli fatti di paese e vengono vissuti, questi fatti, con la più alta dignità. Il ritorno alla terra come radici, come appartenenza, ci rivela una straordinaria atmosfera; i personaggi si muovono con molta libertà; gli umori, gli stati d’animo, le malinconie sono narrate con mano leggera e con eleganza. Scrive ancora Costantino Marco nella sua introduzione al romanzo, da lui stesso pubblicato nel 2001, che “in De Angelis troviamo atmosfere magiche di una terra del cuore in cui l’uomo soffre di una condizione
Pag. 22
più radicale di quella economica”, “l’ indigenza cronica di una terra avara e spietata fa da sfondo alla penitenza esistenziale dei protagonisti, maschere tragiche o grottesche di uno scenario a tratti apocalittico”. Un’altra opera su cui ci piace soffermarci, da calabrese, in questo nostro “ricordo di R.M. De Angelis” è la raccolta di racconti “Apparizioni del Sud”, edita nel 1954 dalla casa editrice S.E.I. di Torino, e ristampata dall’editore Rubbettino nel 2012, con una lucida introduzione critica di Vittorio Cappelli. Si tratta di 19 “racconti all’antica”, come li chiama l’ autore stesso nel sottotitolo dato all’opera; racconti che hanno tutti ambientazione calabrese, a conferma della relazione di De Angelis con i luoghi natii. “Ladri di sale” s’intitola il racconto d’apertura del libro, che tratta dei pastori della zona del Pollino i quali, avendo bisogno di molto sale per la preparazione del loro formaggio, non potendolo avere mai a sufficienza dalla salina statale di Lungro, sono costretti a rubarlo nottetempo, ingannando la vigilanza delle guardie di finanza. Interessante è anche il racconto “Zingaresca”, che descrive la vita degli zingari, che un tempo girovagavano per i nostri paesi, accampandosi alla meglio nei luoghi periferici degli abitati, e mentre gli uomini lavoravano il ferro in improvvisate officine, le donne se ne andavano in giro a indovinare la fortuna alle persone, avendone come compenso un coppo d’ olio o qualche altro prodotto alimentare, come salumi o formaggi. Non mancano in questi racconti gli spunti autobiografici, come accade in “Colombi per nozze”, il cui protagonista è Giovanni, l’alter-ego di De Angelis. Difficile sarebbe esaminare tutta la vasta produzione narrativa di De Angelis (e non è questa la sede!) che, a quasi trent’anni dalla morte dell’autore (1990), si rivela straordinariamente moderna, vitale ed interessante. Non si può fare a meno, però, di soffermarsi brevemente sull’opera che esprime al massimo livello le sue doti di narratore: il romanzo “La peste a Urana” (Mondadori,1943), che ha dato corpo a un caso letterario clamoroso (la polemica con Albert Camus ) ed ha costituito il
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
momento magico della notorietà europea dello scrittore calabrese. Il romanzo è incentrato sulla figura di un adolescente, Giovanni, e sulle circostanze eccezionali - l’infuriare di un morbo – che lo allontanano dalla famiglia e dall’ambiente originario, cioè dalla vita cittadina e dai doveri scolastici, e lo avviano all’ esistenza romanzesca, alla vacanza e alla natura. Giovanni, in cui l’autore si identifica, è attratto dall’eros; è un libertino e, come tutti i libertini, è amorale, è un eversore, che calpesta regole e convenzioni. Si tratta di un’ opera narrativa di chiara ispirazione decadente, incentrata su un personaggio-emblema, l’ antieroe Giovanni, la cui storia si svolge in due località immaginarie, Urana e Lupigna (la città e la campagna), dietro le quali si riconoscono reali località calabresi (Catanzaro e Cosenza). Ci piace chiudere questo nostro “ricordo” di De Angelis, nel 110° anniversario della nascita, con questo giudizio del grande critico Carlo Bo, che, nel 1951, sulla “Fiera Letteraria”, così si esprimeva: “Chi tenterà un giorno la storia del nuovo romanzo italiano, non potrà fare a meno dell’opera di Raoul Maria De Angelis, e questo perché il lavoro dello scrittore calabrese ha un rapporto preciso con le ispirazioni e i sentimenti del nostro tempo vero”. Non possiamo che sottoscrivere questa valutazione di Bo, a distanza di oltre mezzo secolo, perché, in effetti, De Angelis non può non essere riconosciuto, per i tratti di originalità pregnanti della sua narrativa, come un protagonista della narrativa e della cultura italiana del Novecento. Franco Liguori
VALENTINO CON AMORE È abbastanza avere un cuore lui può pensare meglio che la mente; avere gli occhi quelli possono vedere come uno specchio, per condensare
Pag. 23
l'orgoglio della memoria, mani per cercare un viso da accarezzare Con amore: dove c'è il tempo che ci dà Paradiso! Teresinka Pereira USA - Traduzione di Giovanna Guzzardi, Australia
IL ROMANZO La nostra vita scrive minuto per minuto il suo romanzo. Rare le frasi liete, tanti i quinterni di malinconia. Un fiume di comparse circonda il personaggio principale, che oscilla tra i dilemmi e l’avventura nuova di ogni giorno. Nei volti della gente la narrazione scarna di una storia che rimarrà segreta. Elisabetta Di Iaconi Roma
MEZZANOTTE Mezzanotte. Amarezza della vita immensa come il cielo che non vedo da questa mia prigione, ed il pensiero smarrito dietro un grido che si perde in mari senza limiti, in tempesta. Angoscia senza nome che si accende dietro i volti di quanti conoscemmo, in orizzonti aperti a primavera sopra campagne verdeggianti al sole, in questa notte, pace non concede. Dolore che mi giunge tra le sbarre, sempre nuovo di gente sconosciuta, frana questa mia vita e sono come foglia portata da rabbioso vento per cieli che non sanno la speranza. Franco Saccà Da: Domenico Defelice - Franco Saccà poeta ecologico, Ed. Pomezia-Notizie, 1980.
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
FABRIZIO SANTI UN’INVENZIONE POSTMODERNA IL JOOTSING NARRATIVO del Quadro Maledetto e del Settimo manoscritto di Massimiliano Pecora
Q
UALI elementi concorrono nella determinazione di un romanzo bestseller? Al di là dell’analisi delle politiche del mercato editoriale, questa domanda andrebbe così riformulata in relazione al genere letterario di maggior tiratura: perché mai il lettore del mystery thriller si sente coinvolto nell’avvicendamento di un intreccio che vellica le sue facoltà interpretative? Nei Limiti dell’interpretazione e nei diversi saggi della raccolta Sulla letteratura, Umberto Eco ha distinto due figure nel processo di fruizione del romanzo: il lettore semantico, un chiosatore interessato alla comprensione della trama; il lettore estetico, desideroso di afferrare i meccanismi sottesi dalla costruzione del racconto. Tale discriminante, però, sembra venir meno allorquando la struttura semio-narrativa comporta, sul piano del narratum, investimenti assiologici legati alla sfera dei procedimenti cognitivi degli attanti, mescidando, come accade per le narrazioni fantastiche, historia, res ficta e argumentum. In termini strutturalistici potremmo affermare che, nell’opposiz ione ‘Natura’ vs. ‘Cultura’, è giocoforza che la letteratura del mistero
Pag. 24
produca un discorso in cui il lettore è spinto a superare ogni ingenuità e ad ambire alla comprensione del meccanismo semiotico germinato dall’ibridazione della categoria del ‘verosimile’ con quella del ‘meraviglioso’. In tal senso, il thriller fantastico presenta un insieme di situazioni che, per quanto possano rispondere a leggi proprie, non esulano dal campo della conoscenza della realtà fenomenologica che ci circonda, pur proponendo un nuovo schema di interpretazione del mondo. Per inverare questa constatazione analizziamo due recenti best seller della collana «Nuova Narrativa Newton» della casa editrice romana Newton Compton Editori. Pubblicati nel 2015 e nel 2016, il Quadro maledetto e Il settimo manoscritto di Fabrizio Santi non offrono, se non a un esame superficiale, un repêchage dei luoghi comuni del ‘romanzo del mistero’, ma si collocano all’ interno di quella particolare sottoclasse del genere fantastico che Tzvetan Todorov, nel terzo capitolo della Letteratura fantastica, ha designato col nome di ‘strano puro’. In entrambe le opere vengono narrati avvenimenti che, per quanto si possano spiegare razionalmente, appaiono straordinari e insoliti grazie a una peculiare sintassi narrativa. Docente di Lingua e cultura inglese, studioso di musica colta e di logica dei processi inferenziali, lo scrittore romano non ha mai nascosto la sua predilezione per Il nome della rosa e Il pendolo di Foucault. In realtà, né l’ assunzione ipotestuale dei romanzi di Eco né, tantomeno, il ricorso a un trito e semplificato repertorio delle simbologie iconologiche e crittologiche esauriscono la vena creativa di Fabrizio Santi. Nel Quadro maledetto e nel Settimo manoscritto si rinviene un dato narratologicamente incontrovertibile. Prendendo in prestito alcuni concetti della semiotica greimasiana, possiamo osservare che in entrambi i romanzi l’ oggetto di valore è rappresentato solo parzialmente da un dipinto e da un codice. La vera quête consiste nel decifrare i meccanismi di significazione che qualificano questi straordinari ‘oggetti del desiderio’, eletti al rango di
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
‘opere aperte’, brain frame nei quali il lettore è chiamato a integrare quanto di indeterminato e di sfuggente soggiace all’interpretazione dei due manufatti. Santi sa bene che la suspense è la condizione necessaria di ogni thriller, sebbene l’ intensità delle emozioni descritte, l’apprensione e l’euforia, l’eccitazione e la climax ansiogena dei suoi romanzi rappresentino la premessa di un messaggio più profondo. Nonostante ciò, Il quadro maledetto e Il settimo manoscritto possiedono due importanti caratteri del thriller postmoderno: il gioco dell’ironia intertestuale, rinvenibile negli smaccati riferimenti a Conan Doyle e a Howard Phillips Lovecraft, si offre anche come inserto metanarrativo; il double coding occorre sia nel processo citazionistico sia nel colto paludamento ortografico-linguistico invalso per riproporre stralci di antichi testi crittografati e steganografati. Inoltre postmoderni sono la mescidazione e lo slittamento dei registri linguistici, come attestano le marche tipiche dell’italiano dell’uso medio – con soluzioni desunte dall’Umgangssprache – e la consueta sintassi del parlato medio-colto, impiegate, però, allo scopo di denotare i meccanismi logico-causali che sovrintendono all’azione dei personaggi. A questo proposito, la diminuzione, tra il primo e il secondo romanzo, dei turn ancillaries dimostra quanto operi, nella tecnica narrativa del nostro autore, un processo di rastremazione dei preziosismi lessicali – si pensi a un lessema come «lucore», subito sostituito dai più comuni «bianco» e «luminoso» nelle descrizioni del Quadro maledetto –, concentrati solo nelle ékphrasis figurative e nelle impressionistiche descrizioni atmosferico-coloristiche. Si aggiunga che l’impalcatura extradiegetica dei due romanzi e la distribuzione dell’intreccio concedono poco alle metalessi e alle sequenze che possono rallentare il ritmo narrativo. Un esempio basti per tutti! Nel Settimo manoscritto le vicende ancillari e secondarie rispetto al continuum del plot sono relegate all’interno di brevi capitoli i cui peritesti recano precise ed esaustive indicazioni spazio-temporali.
Pag. 25
È proprio nell’esplicitazione delle procedure dell’intreccio che lo stile di Santi si fa più diretto. Lo dimostrano la chiara aenumeratio dei codices descripti citati nei romanzi, la presenza di una sorta di capitolo eponimo in ognuna delle due opere e l’abbondanza dei dicta, tutti espedienti narrativo-linguistici probabilmente desunti dai grandi capolavori dello ‘strano puro’ di Dino Buzzati: si pensi a testi quali Eppure battono alla porta, L’ umiltà e Riservatissima al signor direttore, racconti dominati, in deroga alla tensione drammatica, dall’equivoco verbale e dall’ironico scambio di persona. Per quanto evidenti siano i debiti con la tradizione letteraria italiana, l’ autore del Quadro maledetto e del Settimo manoscritto ha il merito di aver riqualificato il ruolo romanzesco del personaggio ragionatore. Theodor Klinsmann e Giulio Salviati – non sfugga, per il protagonista del Settimo manoscritto, il colto riferimento al celebre interlocutore del Dialogo sopra i due massimi sistemi – sono spinti alle indagini dal ‘demone del razionalismo’, dal bisogno di eleggere a verità naturale il principio secondo il quale tout se tient. Il desiderio di individuare un ordine chiaro nella successione degli indizi rinvenuti li costringe a raccogliere moltissime e spesso fuorvianti informazioni. Ebbene sono queste ultime a fare il romanzo, sanzionando il vero motore della quête, dal momento che i due ragionatori soggiacciono alla tentazione dei filosofi analitici: adorano costruire quelle che Daniel Dennett ha chiamato ‘pompe dell’intuizione’, schemi inferenziali antitetici a ogni forma di vieto occamismo e alle strumentazioni concettuali del senso comune. Tuttavia, nel novero dei modelli cognitivi adottati, Klinsmann e Salviati spesso esitano ad abiurare un precostituito modello logico, a meno che non vengano costretti dalla necessità di adoperare la ‘pompa dell’intuizione’ più adeguata allo scioglimento del mistero. Solo in quel momento si riveleranno abili inventori di jootsing. Individuato e designato da Douglas Hofstadter nel 1979, lo schema jootsing si
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
fonda sulla capacità di compiere uno sforzo creativo che modifichi o sovverta il sistema delle credenze adottato dallo scienziato. Più volte, nell’economia del racconto, la logica si rivelerà insufficiente, come ci suggerisce Santi allorquando, nel Quadro maledetto, ripropone, con esiti stranianti, la regola del modus ponens all’acme di una situazione tragicomica. Vale ricordare che Klinsmann e Salviati non sono degli investigatori, ma frustrati cultori di procedure inferenziali poco utili alla comprensione del mistero; non potendosi permettere il lusso dello scetticismo, essi diventano vittime di tante speculazioni, di cui solo la più improbabile assumerà un valore cogente, come dimostra l’ argumentatio ad excludendum adoperata da Salviati per comprendere l’inutilità della ricerca dell’ archetipo nella tradizione manoscritta dell’ Unicum. Degno teatro di queste disfatte della ragione è Roma, il cui misterioso e fantastico immaginario si sposa con le intense e malinconiche
Pag. 26
contemplazioni paesaggistiche poste ad apertura di ogni capitolo dei due romanzi. La capitale viene scelta come il luogo-simbolo delle risoluzioni degli enigmi in ragione del suo patrimonio culturale, senza il quale non sarebbe possibile il reperimento di indizi lontani nel tempo. A ciò si aggiunga che la frenetica vita urbana distoglie Klinsmann e Salviati dalle rêverie razionalistiche in cui spesso sprofondano, mentre la comprensione iconologica delle architetture cittadine permette all’autore di chiamare in aiuto dei suoi ragionatori tutte le sfere del sapere. Nel secondo romanzo, ad esempio, Lorenzo Ghiberti, un fisico di fama internazionale, omonimo del celebre artista e scrittore del XV secolo, elogia il Salviati come l’artefice del popolare poliziesco Una mano nell’ombra; all’origine delle indagini di Klinsmann troviamo per ben due volte, nella prima parte del Quadro maledetto, precisi riferimenti all’antropologia, eletta a ‘pompa dell’intuizione’ per comprendere la nascita della leggendaria origine del dipinto misterioso. In sostanza, i protagonisti dei due romanzi non esitano ad adoperare uno sterminato bagaglio culturale per contemplare, come il nietzschiano Ghiberti del Settimo manoscritto, il «cuore della materia», senza però compiacersi, a differenza di personaggi come Dupin e Holmes, delle proprie doti speculative. A riguardo citiamo un interessante omaggio alla metaletteratura postmoderna. In un momento centrale della vicenda del Settimo manoscritto, Salviati sottolinea quanto la sua creazione letteraria, il commissario Mainardi, sia solo un personaggio che agisce all’ interno di un meccanismo fittizio. Contro ogni luogo comune, per i nostri ragionatori l’ intuizione non è un prodigio, non un’epifania, ma il risultato inatteso di un processo inferenziale spesso frustrato dal corso degli eventi. Novelli Guglielmo da Baskerville e Casaubon, Klinsmann e Salviati richiamano i tratti di Adso e di Belbo, i coadiutori dei due detective del Nome della rosa e del Pendolo di Foucault. Stretti nella tebaide del razionalismo e insofferenti verso le inconcludenti costruzioni della logica, Klinsmann e Salviati,
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
nel corso delle loro avventure, comprenderanno che le astrazioni speculative sono i veri elementi allotrii delle loro esistenze. Nei due romanzi, del resto, l’indagine, mai conclusa in sé stessa, prosegue ben oltre il ritrovamento dell’oggetto di valore. Gli ultimi capitoli del Quadro maledetto e del Settimo manoscritto rappresentano una narratologica ‘cadenza di inganno’ che prelude alla contemplazione di un mistero ben più profondo di quello appena risolto. Raffinatamente allusa con elegante dissimulazione, compare, a chiusura delle due opere, una curiosa rivisitazione postmoderna della teoria neurologica di Karl Pribram e di David Bohm: se all’uomo non è concesso il privilegio di percepire un ordine implicito nell’universo, allora i giochi prospettici, le manipolazioni crittografiche e le fallaci costruzioni del pensiero sono vani tentativi di anatomizzare empiricamente un sistema onnicomprensivo di informazioni e di relazioni demiurgiche che solo l’ampiezza del processo di significazione artistica permette di rilevare e – a voler adoperare il lessema più frequente nei romanzi di Santi – di intravedere. Massimiliano Pecora Fabrizio Santi, Il quadro maledetto, Roma, Newton Compton Editori, 2015, pp. 1-321, ISBN 978-88541-8588-3; Fabrizio Santi, Il settimo manoscritto, Roma, Newton Compton Editori, 2016, pp. 1-335, ISBN 97888-541-9481-6
PRESTO DOVRÒ SALIRE AL CIELO Guardavo il cielo e l’orizzonte era sempre lontano. Oggi guardo la terra e l’orizzonte tocco con mano. Presto dovrò salire al cielo. Attacca, allora, o Dio, le ali ai miei talloni stanchi e della terra che con me trasporto fanne nobile strame pei tuoi celesti e sterminati campi. Domenico Defelice
Pag. 27
“BEVVI NEL TUO BICCHIERE” Bevvi nel tuo bicchiere il tuo ultimo vino. Le labbra accostai all’orlo, quasi in un rito d’amore, e ti guardai negli occhi. Tremò la mano sollevando il calice. Entrò il tuo sangue nelle mie vene. Enrico Ferrighi Da Carmina - Ed. Pomezia-Notizie, 1983.
IL TUNNEL Noi percorriamo il tunnel della vita in trepidante attesa d’un’accogliente luce nell’uscita. Affrontiamo perplessi il tunnel complicato d’ogni giorno, ma, prima della notte, s’accende il lume che ci dà speranza. Elisabetta Di Iaconi Roma
LA LUNA CIRCOLAVA SUI PAGLIAI La luna circolava sui pagliai. Noi ombre nell’ombra d’una nuvola. E così all’orecchio t’avvicinavo il fiato. Era tutto un battito di cuore. Parole incomprensibili ripetevi al mio respiro e non ti piaceva la luna che rideva. Circolava sui pagliai si fermava s’intrigava. L’avresti accecata con le dita perché dava luce a ciò che preferivi restasse nell’oscuro. E non vedevi l’alba che scendeva a poco a poco. Cancellava la luna dalla paglia. Gianni Rescigno Da Sulla bocca del vento - Il Convivio Editore, 2013.
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
ATTACCATO ALLE COSE di Leonardo Selvaggi Un tardo pomeriggio treni sono rari, lunghe attese nei carri per bestiame, seduti per terra negli angoli oscuri fiaccati da un appetito che invade isterilendo l’intestino intero. Nelle difficoltà totali viene provvidenziale per via di qualche permissivo ferroviere la sensazionale possibilità di salire su un carro per merci, pieno di ampi tronchi. Salgo felice del viaggio avventuroso, il più bello mai fatto, lungo il Basento da Ferrandina a Grassano. Mio compagno è un falegname di trent’anni, di statura piuttosto bassa; straordinaria capigliatura quasi un mantello di riccioli sottili e cresciuti a forma di trapezio. Oronzo sale prima lui per darmi una mano, troviamo la posizione ferma in cima al carico ferroviario. I miei capelli vanno con il vento nell’ultima ora del giorno, svolazzano con le sensazioni fantastiche alate, si vuole che duri tanto questo stato di delizia. La chioma di Oronzo si gonfia, è un ombrello legato alla testa. La linea segue il greto del fiume assetato, cosparso di pietre arse; lucidi rivoli di traverso passano esili e si stagnano ai margini delle rive, si fanno profondi e verdi sotto l’ombra delle acacie. Nell’aria la purezza dell’animo adolescente, lo spirito va in tutto il corpo, l’esuberante gioia fa vibrare le membra fattesi ombre che corrono sull’argine dei binari. La chioma di Oronzo di ruvida canapa brizzolata si apre ancora. Rivedo ora il mio compagno sui tronchi fra le latebre degli anni come un corsaro, una figura che si muove dentro l’ebbrezza e i sogni di allora. Oronzo lo trovo mescolato ai mille fatti che hanno sedimentato la persona, immagine finissima scavata nelle interiora. La limpidezza di quella sera, il respiro nello spazio purificato: quel viaggio che fu un miracolo per i miei desideri bizzarri non si è mai fermato in mezzo al primo tempo della vita fino ad essere lontananza impercettibile in direzione opposta, che ha soffocato la bellezza di un ricordo. Montagne di rifiuti e di cose scolorite si sono sollevate. Io sono rimasto posso dire con uguale
I
Pag. 28
struttura, mi sono passati tutti avanti, mutate le forme in gran parte coperte di malsana atmosfera. E non sono un pessimista, come sembro, voglio rimanere attaccato alle cose che avevano un significato schematico fermo, quando una sacralità si diffondeva un po’ dappertutto: buttare per terra una mollica di pane voleva dire gravissimo peccato, calpestare l’immagine di Cristo. Penso ad Oronzo, a quei momenti avuti insieme, la sua capigliatura mi fa ridere. Un tardo pomeriggio inconsueto irreale, disegnato su pagine velate che sotto le dita non si sentono. Il treno merci interminabile stridente sotto la stretta di freni arrugginiti, pesante quasi di terre esotiche arriva nella mente mentre sto nella cattedrale di Erice, ai suoni dell’organo che vagano divenuti sostanza, lontani e vicini come portati dal vento. Lontano lembo della penisola. Plaga di dimenticanza. Sento vicino il brusio di una comitiva il cui dialetto conosciuto spicca bene nella terra siciliana. L’allegria del gruppo, snellezza delle secche forme vestite chiaro. Le femmine protendono il muso, pettegole conoscono i fatti più minuti e nascosti che si trasmettono con l’infida diavoleria del serpente. L’armonia funebre attraversa distanze che solo l’animo sa misurare, la profondità di tutto; la simpatia che passa da persona a persona: delicatezza di donne paesane commosse dietro il feretro, ti invadono con gli occhi lacrimanti. La chiesa che esce unico blocco di ricami dal tufo: la dura resistenza del selciato delle strade in riquadri uniformi quasi rustico esteso mosaico. I massi che sostengono luoghi antichi innalzati nell’aria rarefatta del tempo, l’orizzonte è il mare. Il caldo che manda in alto le nubi dell’evaporazione, quadrati ai acqua allagano la piana di Trapani, l’ immobile distesa di luce sulle saline. Uguale stile da sempre Ha la faccia del topo, con pieni poteri avanza verso una devastazione, rigoroso piano finanziario per risanare la baracca sconquassata. Tutti i componenti delle Camere non si sentono, satolli di politica inetta che ha permesso ruberie di ogni tipo: i desideri famelici
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
sono colmi, l’intestino ingolfato fa pesante il respiro. Una dittatura per i deboli, per chi è andato avanti sopportando le stereotipate figure governative: casa e lavoro, dietro il peso monotono grigio, l’abito onesto ripulito e dignitoso davanti agli altri. Lo Stato dilaniato da roditori di vario aspetto, ipocrisia e iattanza. Amministratori in astratto, hanno spadroneggiato sulle carte calcolando i propri interessi. Mai interventi decisi e concreti, mai lavoro metodico di gestione. Un piano di sistematico impegno vedendo la città come il campo da dissodare e da guardare perché subdoli danni non vengano alla sua struttura. Il sindaco deve girare per le strade e prendere nota di quello che è irregolare, va tenuto d’ occhio il degrado da arginare. Marcisce l’ immondezzaio che si accatasta nei giardini. Non è stato messo un mattone per i nuovi marciapiedi, i tronchi degli alberi sono stanchi di tanto abbandono invasi dai germogli parassiti. Fabbriche di studenti, l’artigianato ridotto ad una larva; viene l’arricchimento dallo squilibrio dei mestieri a chi non soffre concorrenza. Caterve di funzionari e operatori occupano sterili uffici, impiegati fantasmi hanno fatto carriera con prosopopea, noia presuntuosa. Il viso pieno caratterizzato da barba ben disegnata, l’importanza di teste vuote e la faccia dura che non teme nulla, assenti la riflessione e il senso della moderazione cosciente. Gli occhi piccoli sul naso lungo, hanno trovato la strada solita quella percorribile senza pietrame e polvere che soffoca e fa le ossa rotte nel tragitto. Passa sui corpi fragili che si flettono sotto il piede, morbidi tutti insieme quasi un tappeto che fa l’unico percorso. Le altre strade non si vede dove aprirle, i visi ambigui sfuggono alle istanze nei momenti di crisi. Il cammino si fa sempre in mezzo alla gente semplice disposta a sacrificarsi, che parla lamentandosi, ma capisce che per gli altri bisogna andare con la volontà di aiutare. Le situazioni migliori si costruiscono, non possono essere forzate. I campi che si allineano rivestendo le colline sono arati e una freschezza nera hanno, pronti di nuovo a ricevere il seme per i germogli. Aridi e asciutti
Pag. 29
con poca vegetazione intorno, ma dentro hanno strati fertili, caldi e riserve che possono ancora nutrire le radici. La mano dell’uomo saggio, con la cultura vera che prende tutto dalle fondamenta di se stesso, senza vizi e sano, che vive per lavorare, che vive il tempo senza artifici. I meccanicismi fanno la persona vuota, lontana dall’ambiente e dall’ insieme che solo è forza comune genuina, base essenziale, substrato vitale. Gli altri illanguiditi si vestono di innocenza, sono muti vengono fuori con altri umori. Erano prima ad ingrassarsi nelle stalle da trame nascoste collegati, erano le vacche piene solo pancia non molto lunghe di corpo, ma con larghe corna che a stento sono uscite dagli stipiti quando sono fuggite all’aperto. Le corna del clientelismo ramificato fino ad essere una tessitura del vivere di tutti i giorni. Carte imbrattate false che sono soldi rubati. Agave spilungona ed inclinata sopra foglie carnose, rami dal doppio tessuto del fico d’India, profondo e forte l’umore del terreno. Tronchi elefantiaci, corteccia che è pelle di animali preistorici. Non c’è un punto che non dia una spinta. Piene e rotonde esuberanze che si vogliono prendere nelle mani, che crescono col vento e il movimento delle gambe. La feracità è dappertutto, contrapposte forze si colpiscono, equilibri instabili in pericolo, frammistione di elementi, propulsioni sotterranee. Una patina nera che rende vischiosa ogni superficie. Palazzi a più balconi che come scale vanno in altezza sovrapponendosi, gareggiano a chi più riesce a svincolarsi dal peso. Si vogliono congelare i pochi movimenti che sono stati quelli delle formiche, tappare ogni fuoruscita di libero sfogo. Proteste subitanee da chi ha espresso veleno e volontà di amare la vita. Da chi è andato con uguale stile da sempre; lineari, mai un cambio di rotta. Il moto della vita e il gioco innocente delle illusioni che hanno dato alimento al cuore. Il modo cauto di agire e nel contempo costante la difesa di se stessi, l’attesa che tutto si riassetti secondo il giudizio che manovra le riflessioni proprie. La logica provvidenziale che riordini le cose secondo una giusta collocazione.
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
Erbaccia cresciuta tanto Il nome di Eva sentito dalla camera d’ albergo mi ha rifatto le idee prima intuite. L’ ingranaggio che prende tutto con brutale impeto, gli argini puliti dalle erbacce con le fiamme; i campi bruciati non hanno più stoppie: quel calore che distrugge ogni infettante parassita si incontra con la pura sostanza che rinvigorisce degli strati non rimossi dall’ aratro. Siamo a quel primordiale scontro tra il serpente e la mela, la caduta e tutta la messa in moto della spinta peccaminosa che abbatte e risospinge in una altalena continua; miseria e risalita, giornata di luce ed ansia che stringe l’animo. Aria unta e saporita, capelli che si fanno con il viso. Le cose sono buone nel punto in cui mature stanno per cadere nella putrescenza. I viali dei giardini corrosi dall’ acqua, scarnificati dicono quante piogge sono corse. L’erba che si arrampica prende l’ umidità che inzuppa i blocchi divenuti farinosi. Alberi ciclopici che hanno fiumi di linfa, tronchi paralleli come sostegno cadono dai rami lunghi e s’innervano per un più ampio intreccio di circolazione. Radici intorno si muovono corpose a forma di cetacei. Le foglie di acanto si sbriciolano. Architravi stanno per spezzarsi. Per tutelare la salute dei palazzi storici prima cosa è curare il tetto e il deflusso delle grondaie. La geometria urbanistica delle piazze, delle entrate artistiche delle strade; cornici sopra pilastri, le aquile sempre il simbolo della storia che vince. L’inferriata incastrata nella ruggine che ha rifuso il metallo difende l’erbaccia cresciuta tanto e in altezza fino a nascondere la possente presenza della scultura. I gambali dell’eroe ricoperti di squame difensive, l’aspetto di forza armata di mezzi primitivi, prima pietra di fondazione, baluardo di principi. Oggi il potere di dominare con orgoglio lasciando tracce è caduto nella melma dell’indolenza. Solo il lusso dei mezzi voluttuari e i facili intrallazzi della spartizione del denaro pubblico. Morto il piacere di seguire i messaggi sulle ali del sentimento e della forza della propria identità. Persa la via dell’inizio, sviliti dalla confusio-
Pag. 30
ne. Frutto di incrocio, spezzato il parallelismo della continuità. I minuti curati con lo stomaco rifocillato dalle smaglianti leccornie, il godimento del sesso e la smania di correre maledetta che è vuotaggine interiore. Bifolchi ingentiliti dai permanenti occhiali a tracolla, cafoncelle che non hanno un grammo di buon senso. Lerciume mi pare questo livellamento che non può rendere l’elevazione della Croce nelle notti incerte. Queste non si addicono alla persona che morsi non sente sul petto. Tigri le donne alla festa del matrimonio impettite per l’eleganza di oro e di trine. Il collo duro e gli occhi che non si muovono, attestate ad una altezza di superbia. Nella chiesa di S. Cataldo a Palermo vesti diafane, un foglio che appena adombra le carni. La ragazza dalla chioma che arriva all’osso sacro ha un fastidio perché stretta la striscia intima fa uscire fuori la seconda valva e di tanto in tanto, quando il prete parla dell’amore-amicizia dei coniugi per raccontarsi le cose profonde, con le unghie rosse cerca di allentare lo striminzito indumento. Il velo bianco sul viso fanciullo già avvizzito si trascina senza entusiasmo, sembra che si rifiuti di legarsi al corpo. Leonardo Selvaggi
DOLCE RISVEGLIO Dolce è stato il risveglio stamane accompagnato dalla sensazione della cara presenza del padre che sorridendo mi abbracciava e baciava. E intanto dolcemente diffondeva nell’aria la radiosveglia il suono di un violino nella partita per violino solo numero uno in si minore di Bach. Simbolo di un’altra cara presenza. Luminosa mi appare la giornata. Mariagina Bonciani Milano
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
PIETRO CIVITAREALE CARTOGRAFIE DI UN VISIONARIO di Elio Andriuoli ’INCISIVITÀ del dettato poetico è stata da sempre la caratteristica precipua delle sillogi di Pietro Civitareale; e la ritroviamo anche in questa sua nuova raccolta Cartografie di un visionario, sin dalle prime poesie del libro, dove s’incontrano versi quali: “Stasera sono / anch’io solitudine” (Appunti per un diario, 2); “Oggi la città altro non è / che un fiacco rosario di pioggia” (Ivi, 5); “Se il miracolo è nell’attesa / tu sei il mio miracolo” (Il mattino alle spalle, 1). Essenzialità e asciuttezza espressiva, dunque, che dà luogo a un periodare nervoso e veloce, costituiscono le virtù primarie di questo poeta, che ha felici esiti sia nella poesia amorosa (“Sotto le scaglie del cielo / il tuo corpo langue acceso” (Ivi, 3); “Ti guardo, ma di te esiste / soltanto la luce degli occhi / contro lo specchio del cielo” (Ivi, 8), che in quella di carattere meditativo, come avviene, ad esempio, nei poemetti in prosa di Terrestrità dell’essere (“Sempre si ritorna con qualche ferita e lo sgomento di non riconoscersi nei consueti specchi”) o in altre sezioni del libro, quali Le vie della ragione (“Ogni cosa è il suo contrario, 4; “Si dice che il passato / consoli più del
L
Pag. 31
futuro, 7). Molto efficace è comunque in Civitareale il gioco delle immagini, che conferiscono forza e nerbo ai suoi testi: “Plagiati da un amore assoluto, / espugnammo il sonno, / ci affidammo al cammino” (L’inverno dei nostri anni, 1); “Paesaggio vago / come il respiro, / l’ala del falco stagliata / contro il bianco del cielo” (Come un presagio, 3); “Sono tornati gli uccelli / a beccare le nere / ferite della terra” (La nostra storia, 7), così come è efficace il momento nostalgico ed emotivo: “Ma non ci vedranno più / su queste strade, su questi / sentieri, dove ogni gioia / aveva il nome della terra” (Ivi, 2). Diffuso è inoltre in Civitareale l’amore per la propria patria abruzzese, così come è costantemente presente l’amore per la natura, madre benigna e soccorrevole: “Ciò da cui ci allontanammo / non fu la pietra arsa dal sole / né il volo regale dell’aquila, / ma gli ulivi che imbiancavano / nel vento le siepi dove il settembre / disseminava la rossa allegria / dei corbezzoli…” (Soltanto uomini, 1). E si legga anche: “Il vento soffia / non si sa da dove, / sui lillà che sporgono / dalle siepi del giardino, / fra le alte erbe / dove s’agitano / campanule e narcisi” (Come un presagio, 6). Ma in questo poeta s’incontra anche la riflessione sulla poesia e sulla sua funzione; così come sulla difficile convivenza umana: “Niente come la poesia / aiuta a ritrovare la verità / della nostra stessa memoria” e “Piantammo / la nostra storia / sopra un cumulo d’ossa, / in una terra desolata / nel cuore del mondo” (La nostra storia, 4 – 6). C’è poi in Civitareale il tema del fuggire del tempo, che s’affaccia ad esempio, in Dietro le parole: “Sempre qualcosa della vita / si perde nella morsa / di un angusto tempo” (1); così come c’è il pensiero dell’avanzare dell’età; “L’uomo lapidato dagli anni / si guarda intorno / e si chiede se il mondo / è ancora quello di sempre” (Dietro le parole, 5) e c’è il rimpianto per le occasioni mancate: “… vi sono contrade / dove i nostri passi si persero / decifrando l’alfabeto del cielo” (Ivi, 9). Intatta rimane però la fede nella parola poe-
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
tica e nella sua virtù salvifica: “Per salvarci ci nascondemmo / dietro le parole, convinti / che la poesia ci insegnasse / a riconoscere la verità” (Ivi, 10). Più lieve e dolente si fa poi la voce del poeta nelle ultime sezioni del libro, nelle quali egli pare darci il suo commiato, prima di avventurarsi in regioni sconosciute e remote. Ne Il peso degli anni Civitareale si rivolge alla compagna della sua vita, per malinconicamente considerare la fuga dei giorni che li hanno visti insieme: “Sono passati anni da quando / sei entrata nella mia vita / con la ferma dolcezza d’un vento / primaverile” (1). Il tempo li ha sfiorati con la sua grande ala ed essi non sono più quelli del loro primo incontro; ma la donna che gli è accanto l’ incoraggia: “Non conta ciò che è stato - ella dice ma ciò che sarà” (5) e ad essa il poeta pare consentire, guardandola con un rinnovato desiderio: “sei / ancora l’enigma che intriga / anima e sensi” (7). In un alternarsi di luci e di ombre Civitareale si avventura così sui sentieri della vecchiaia, sicché accanto ad affermazioni quali: “Noi / … / crediamo / che la vita non cessi mai / d’offrire i suoi doni” (Il falso cielo, 4), ne troviamo altre come: “D’un tratto un peso insopportabile / s’è fatta la nostra solitudine” (Ivi, 5). L’età raggiunta è ormai quella della saggezza, nella quale s’apprende La lezione del silenzio, che invita alla meditazione e nella quale il cuore è come pacificato. “Ed ora aspettiamo che lo strepito / che ci assorda si dilegui /e un cielo di dolcezze / scenda sul nostro cuore. // Così l’anima, consolata, potrà / trasmigrare oltre il tempo” (Ivi, 3). E se è vero che talora il silenzio di chi ci vive accanto “pesa come una condanna”, è anche vero che talora: “… viene il ricordo / che blandisce il cuore / come una carezza” (Le nostre somiglianze, 1), così come è vero che sempre Ancora un giorno si dischiude con il suo “spicchio di sole sull’acqua” (1). L’atteggiamento di Civitareale è quello di un saggio che attende la morte che verrà con calma e serena aspettazione: “Quando verrà, sarò qui / ad attenderla con la luce / negli oc-
Pag. 32
chi e il cuore pacificato” (6). Una visione stoica della vita, dunque, espressa con ricchezza di immagini e con quella limpidità di eloquio che da sempre contraddistinguono questo poeta, per il quale è estremamente importante che la parola conservi le sue “virtualità salvifiche”, giungendo fraterna a tutti gli uomini. Ed è questo che caratterizza la vera poesia, qual è quella che Civitareale ci ha dato. Elio Andriuoli PIETRO CIVITAREALE: CARTOGRAFIE DI UN VISIONARIO - (Di Felice Edizioni, Martinsicuro TE, € 12,00)
SI AVVICINA Si avvicina l’autunno: l’aria è tiepida, le giornate sono più brevi e malinconico è il mio cuore quando la natura si addormenta. Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, MI
DOLCE DONO Tenerezza di te mi riconduce alla tua casa quando il vento spira ed i canneti mormorano ai fiumi nelle stellari notti la tua voce. Si rinnova così questa mia pena di perduti orizzonti e il canto in gola ha il tremore che sanno a primavera i tigli, a sera, con la prima luna. Somigli ad una immagine di cielo folgorato di azzurro e la speranza che in me si accende nel profondo cuore (le umbre colline esultano nel sole), è come dolce dono al mio ritorno. Franco Saccà Da: Domenico Defelice - Franco Saccà poeta ecologico, Ed. Pomezia-Notizie, 1980.
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
CORRADO CALABRÒ LA SCALA DI JACOB di Isabella Michela Affinito NTRODOTTI nell’atmosfera onirica per mezzo della biblica scala di Giacobbe, adesso non ci poniamo più la domanda su chi siano davvero quelle figure diafanizzate che, elegantemente e senza tempo, scendono e salgono per quei gradini infiniti di cui era costituita la rampa che univa Cielo e Terra. Al di là dei molti significati attribuiti sia alla rivelazione fatta in sogno a Giacobbe, in una notte che faceva parte del viaggio che stava compiendo verso la Mesopotamia per fuggire da Esaù; sia al dipinto del 1790 del pittore poeta incisore inglese William Blake, dal titolo Il sogno della scala di Giacobbe custodito nell’odierno al British Museum di Londra; ebbene, travalicando gli spirituali concetti in essi contenuti è il caso di parlare di un altro tipo di scalinata e di un altro genere di situazione, spostandoci nella nostra contemporaneità. Si tratta di immaginare i versi di questa silloge di Corrado Calabrò, vincitrice del I° premio al Concorso Letterario Internazionale “ Città di Pomezia 2017 “, come se fossero dei gradini su cui salire e scendere per rendersi conto che tutto può succedere a questo mondo, come, ad esempio, il non essere tornato più nella casa della madre, luogo dai tanti ambienti contestualmente vicino e lontano, amato ed evitato ogni volta che c’era da attraversare lo Stretto di Messina. « (…) Quanto sono vicine le due sponde!/ Si può scorgere forse la casa/ con tante stanze in cui
I
Pag. 33
mia madre è morta./ Quello ad angolo sembra un suo balcone./ To leave or not to live?/ Così vicina e non ci son tornato. » (A pag.6). La troppa affezione a volte gioca brutti scherzi: aver carezzato con gli occhi ogni casa che si affacciava sul mare dello Stretto come se fosse stata l’abitazione vetusta dove la madre è passata a miglior vita, ed avvertire una vicinanza tenera persino da un balcone fatto ad angolo. Dicevamo che tutto può accadere: è infatti capitato al compositore tedesco, Ludwig van Beethoven, di comporre musica nonostante l’acquisita cofosi che si fece totale negli ultimi dieci anni della sua vita all’inizio dell’Ottocento, quando l’ultima sua Sinfonia, la Nona, conosciuta come l’Inno alla Gioia, la sentì realizzata solo interiormente. Tutto può accadere al di là dei sensi: « Da studi sul cervello sembrerebbe/ che quello di cui i ciechi sono privi/ è la vista a livello cosciente/ non – a livello inconscio – la visione./ Uè, non fu un sordo a comporre la Nona? » (A pag.8). Non sappiamo di preciso in quale parte della scala ci troviamo, se più vicini alla terra o più vicini al cielo; comunque sia si procede bene su questa ‘gradinata’ di versi, che disvelano le necessità di un poeta rivolto ai dolori di ieri e a quelli di oggi. Corrado Calabrò ha unito tante tematiche assieme, una carrellata di contesti che invece di scorrere da destra verso sinistra, procedono dall’alto verso il basso e viceversa proprio come quelle figure asessuate, stilizzate, dal lungo abito fluttuante che si distinguevano per tutta La scala di Jacob. « Siamo portati su una scala mobile,/ ne scorriamo i gradini stando fermi/ fino a che rientra l’ultimo scalino./ Ti lascio, figlio, una scala di legno;/ è una scala a pioli fatta a mano/ eretta in verticale verso il cielo:/ devi scalarla come un sesto grado./ Ogni gradiente ne genere un altro/ perché è una scala che non può finire/ finché senti il bisogno di salire. » (A pag.9). Qui si parla di una scalea come di un testamento da lasciare in consegna e insieme a ciò anche il desiderio di salirla senza stancarsi
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
mai; fintantoché si farà questo la vita non termina: un obiettivo dietro l’altro, un progetto dopo l’altro per arrivare fin sull’Olimpo della propria realizzazione interiore. Dalla minuziosa descrizione, come vissuto in prima persona, dell’evento tragico dello Tsunami al momento del Trasloco quale ultima occasione per vedere più da vicino cosa si lascia tra ricordi e natura, animali e stanze oramai denudate. « Ultimo giorno prima del trasloco;/è rimasto soltanto un divano/nel grande vuoto del seminterrato./(…) Sette città sette case ho cambiato/sette volte le cellule ho mutato/sette donne in amore ho abbandonato./Nelle finestre a livello del prato/ passano due testine incoronate./ Vengono in questo mese tutti gli anni/ vengono in coppia le upupe regali./(…) Ultima notte nella casa vuota,/ mi stendo sul divano con un plaid./ Le upupe in coppia se ne sono andate./ Chi sette volte una donna ha lasciato/ non ha un presente ed ha perso il passato. » (Alle pagg.20-21). Isabella Michela Affinito CORRADO CALABRÒ - LA SCALA DI JACOB - Prefazione di Vincenzo Guarracino, Postfazione di Domenico Defelice - Ed. Il Croco/ Pomezia-Notizie, Ottobre 2017
Pag. 34
accarezzato ho a lungo la ruvida scorza - vecchia pelle screpolata come quella delle tue mani del pesco, dell’ulivo incurvata e dolente gruviera, del pero che s’ostina a generare un solo frutto all’anno. A loro da tempo racconto quel che a te mai ho detto, con loro non ci sono mai stati i tanti innaturali silenzi. E ieri, invece, ho taciuto. Senti come ribisbigliano il noce e l’olmo, come confabula il pioppo. Forse, fra noi, riprenderà l’intesa. Un refolo la vita, un tempo interminabile. Te ne andasti chiedendo perdono. D’essere stato solamente buono, di non averci lasciato ricchezza? C’incontreremo fra poco e parleremo. Terribile se così non fosse, se solo fosse questione di chimica. Domenico Defelice
MICHELANGELO E LA PIETÀ PADRE DA PADRE A PADRE Mi guardo allo specchio distratto; anche se mascherato da una appena accennata barbetta, ecco che affiorano i tratti del tuo viso senile e di tuo padre. Padre da padre a padre. Da qualche tempo mi specchio sempre più spesso, da quando fastidioso nugolo di mosche ingarbugliati pensieri di tutto e di nulla mi vorticano e mi avvolgono, nebulosa incolore. Ieri, la prima volta, mi ha assalito l’accidia, non ho combinato un bel nulla in casa, nello studio; nell’orto
Nel duro masso di Carrara gemeva prigioniera la Pietà. Egli la vide splendida e dolente. Con escoriate e sanguinanti mani a libertà la trasse e l’adorò. Non Ercole né Antèo e nessun cavaliere gentile erguagliò tale impresa. Nessuno spezzò mai le muraglie possenti dell’informe per dare ali di vita alla bellezza. L’Arte soltanto: acuto occhio di Dio che penetra la roccia e fa consistere ciò che prima non era. Francesco Fiumara Da Da queste ombre - Rubettino, 1995.
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
Il Racconto
ALMENO UN GIORNO: PER RICORDARE di Salvatore D’Ambrosio
G
ILDA negli anni della sua gioventù, coincidenti con quelli del fascismo all’apice della sua stagione politica, ossia tutti gli anni trenta del novecento, tra i tanti lavori che le erano capitati di fare fu anche archivista alla Cirio. Fu per lei quel periodo un’esperienza felice. All’epoca la ditta partenopea era nelle mani della famiglia Signorini, e Gilda ci stava molto bene con loro. Era una persona perbene il Signorini e al contrario dei padroni di oggi non stava rinchiuso nel suo ufficio ma sempre tra gli operai e le altre maestranze della ditta. Gilda lo incontrava spesso nell’archivio ed una volta lui si fermò a parlarle per delle bolle che non si riuscivano a trovare. Fu quella anche l’ occasione per esternarle la sua stima. Lei aveva sentito in merito delle voci circa il particolare riguardo che la direzione nutriva nei suoi confronti, ma essendo una persona molto discreta e semplice non aveva prestato alla cosa che una fuggevole importanza. Ne era però contenta perché sapeva che era considerata una persona seria, non sfacciata come le altre ragazze sempre pronte a civettare con qualsiasi maschietto dell’ufficio. Poiché tutte le ragazze di buona educazione cercano sempre amicizie vicine al loro modo di pensare e di agire, Gilda fece amicizia con due sorelle del suo stesso ufficio, di cui una era la sua capo ufficio. Le sue colleghe ed amiche erano Anna e Miriam Salomone. Due belle ragazze alte, con bei fianchi, con gambe da sogno, rossicce di capelli e con occhi azzurri. Erano ciò che nella vita avrebbe voluto essere lei. Gilda si sentiva sempre un punto inferiore agli altri, eppure non era poi tanto bassa. Era intorno al metro e sessantacinque, che per una ragazza della sua generazione (era nata nel primo decennio del secolo
Pag. 35
scorso) non era poi un’altezza da sottovalutare. I capelli mossi erano di un bel castano scuro e la carnagione di un rosa cammeo, che spesso si accendeva di tono specie sugli alti zigomi, tutte le volte che si sentiva imbarazzata. Era molto timida ed un colloquio che prendeva certe pieghe le procurava un rossore che la faceva molto più attraente. Aveva occhi chiari tendenti al verde con dei riflessi nocciola. Il naso giusto e snello. La bocca carnosa della giusta larghezza le consentiva quando sorrideva di mostrare i bei denti bianchissimi, tutti in linea a formare un arco perfetto. Ogni suo sorriso era inoltre sottolineato da due fossettine sulle guance che attiravano molto. Aveva parecchi corteggiatori, ma questo non la convinceva che era una ragazza simpatica e piacente. Sarà stato per il carattere timido, riservato o per il fatto che era di corporatura non grassa ma forte sui fianchi e le cosce, che si sentiva meno piacente delle altre. L’amicizia con le sorelle Salomone la portava ad incontrarsi con loro volentieri per delle lunghe passeggiate per la città. Al trio, che a volte per indisponibilità di una delle Salomone diventava un duo, non sfuggiva nessuna vetrina. I negozi di scarpe e borse, l’autentica passione di Gilda, erano i più visitati. Se comprava un vestito nuovo, per esempio, non lo indossava fino a quando non aveva trovato le scarpe e la borsa adatte, e rispondenti alle sue esigenze. Stavano bene insieme le tre amiche. La sintonia era perfetta, d’altronde lei aveva il dono di saper mettere tutti a proprio agio. Non si pensi, per questo, che fosse di carattere accondiscendente, anzi succedeva che era sempre lei che l’aveva vinta. Accadeva perché era sincera, non artefatta. Se aveva ragione era così e non perché aveva imbrogliato per averne. Le sue amicizie erano poche ma per sempre. Non tradiva e non faceva doppi giochi poiché l’amicizia per lei era un moto dell’animo più che l’esigenza di avere qualcuno con cui uscire o parlare. Anna e Miriam l’apprezzavano molto per questo e le davano la loro fiducia. Era la sola infatti a sapere che loro, sebbene nate in Italia da genitori italiani e cresciute per anni come milio-
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
ni di altri italiani, erano di religione ebraica. La cosa non le sembrava anormale, aveva infatti conosciuto altri ebrei e un suo zio parroco spesso le aveva parlato di loro come persone da rispettare anche se avevano un culto diverso. Il fascismo, d’altronde, pur nei suoi aspetti particolari nella difesa dell’italianità, non aveva mai attuato discriminazioni nei confronti di questi cittadini di religione ebraica. Sapeva di negozianti, di professionisti, di gente che svolgeva normalmente e serenamente qualsiasi attività senza problemi. A Napoli poi non vi erano che pochi gruppi di famiglie ebraiche e non vi era per niente antisemitismo. D’altronde nella città dei sentimenti non poteva essere altrimenti. Non capiva perciò questa ritrosia delle sue amiche a far sapere la cosa, ma la sua fedeltà le poneva un’accettazione del silenzio senza condizioni. L’altra grande passione di Gilda era il cinematografo, come si diceva allora, che frequentava sovente insieme alle sue amiche. Erano momenti particolari in cui sognava o soffriva come i personaggi che apparivano sullo schermo. Anche in quelle occasioni, oltre che sulla storia del film, si concentrava sui particolari dell’abbigliamento delle attrici bisbigliando, ora a sinistra ora a destra, nell’ orecchio delle amiche le sue osservazioni in merito. All’uscita finalmente poi diceva che dovevano cercare quelle scarpe o quella borsa o quel vestito perché così si portava. Andava avanti la loro amicizia, cresceva, era sempre più salda e forte. Oltre che al lavoro, alle passeggiate, al cinema, alle chiacchiere in casa di amici, le tre ragazze, come tutte le altre, dovevano partecipare a sfilate, parate, esercitazioni ginniche, saggi e a tutte quelle altre imposizioni volute dal regime. Per la loro età facevano parte delle cosi dette Giovani Italiane. Erano felici, partecipavano con entusiasmo a quelle esibizioni forzate, ma erano giovani e avevano per questo una visione ottimistica di quello che facevano. Di li a poco si sarebbero, invece, trovate tutte seppellite da un cumulo di macerie di ogni tipo e specie. Per ora la vita pulsava di gioventù e loro, senza esagerazioni, ne approfittavano. D’estate Gilda
Pag. 36
ospitava le sue amiche nelle proprietà che la sua famiglia possedeva a Seiano, sulla costiera sorrentina. Vivevano di mare e di sole quasi tutta la giornata. Riempivano le borse di frutta, caldo pane che facevano in casa, e del prodotto del sacrificio del maiale che a mala voglia si era fatto ammazzare in dicembre, e partivano vocianti le due Salomone con Gilda e le sue sorelle, formando un gruppo di sette giovani donne serene strette da un vincolo che nessuno avrebbe potuto spezzare. Una stradina tutta in discesa le portava alla marina attraversando appezzamenti di terra ricchi della tipica vegetazione della costiera. L’ olivo era il padrone assoluto, ma vi erano noccioli, carrubi, imponenti alberi di noci della famosa varietà di Sorrento. A perdita d’ occhio aranceti e limoneti facevano brillare al sole le loro lucide verdissime foglie e i frutti dorati che anche d’estate arricchivano gli alberi. Gilda volava su quei gradini che portavano al mare e gridava, come quando da bimba giocava con le amiche, che quell’ aranceto era suo, quegli olivi del tal compare, quei noccioli del confinante Alfredo. In un baleno si arrivava alla spiaggia di sassi dove si posavano le borse ed i vestiti che coprivano i costumi indossati a casa, poi tutti in acqua per raggiungere gli scogli a nuoto. Era brava Gilda in acqua: filava come un delfino. Era sempre la prima a conquistare la meta. Dopo il bagno tornavano a riva dove consumavano la colazione, poi un po’ stanchi si appisolavano non prima di aver canticchiato qualche canzoncina alla moda. Ritornavano non prima delle cinque del pomeriggio per cenare e poi in giardino per restare a parlare e progettare il futuro o ascoltare i racconti dei vecchi che non erano mai emarginati ma considerati parte del gruppo. Quelle giornate a volte venivano fermate in scatti fotografici, l’altra passione a cui Gilda non rinunciava. Infatti portava sempre con sé la Leika. Diverranno quei frammenti di vita in bianco e nero l’input, nei momenti di nostalgia che coglie tutti, specie quando gli anni si sono accumulati, per fare momentaneo ritorno al passato. In fondo le fotografie sono la più efficace
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
macchina del tempo. L’estate del 1938 fu diversa fin dalla partenza da Napoli. Non ostante ci fosse l’entusiasmo delle altre volte e lo stesso affiatamento, c’era come quando nevica o c’è la nebbia un’atmosfera ovattata, una calma irreale, una voglia a stare in silenzio. Anche le auto e i trams sembravano non produrre rumore. Quando arrivarono a Seiano la casa, che pure era abitata da più persone, sembrava muta. Il mare piatto era tutt’uno con il cielo e non si sentiva il piacevole rumore dei sassi alla marina. Serpeggiava qualcosa di strano, indefinibile, che metteva un disagio senza che in sostanza vi fossero motivi per averne. Erano sensazioni indefinibili che procuravano un nervosismo senza essere nervosi. Vi furono un paio di giorni così. Quella strana atmosfera si ruppe quando Giacomo, il fratello di Gilda, in una soleggiatissima e meravigliosa mattina, che solo la costiera sa dare, portò come sempre il giornale e lo mise sul tavolo in cucina. Le ragazze come di consueto amavano fare colazione insieme, perché così potevano organizzare la loro giornata. Miriam era quella che si buttava per prima sul giornale, e mentre scorreva le righe nere ascoltava il parlare delle altre assentendo con dei piccoli suoni gutturali. Quella mattina scorreva il giornale in silenzio. La cosa inconsueta fece avvicinare la sorella Anna e l’ amica Gilda che affacciatesi nella pagina, che lei aveva tirata sul viso, furono quasi tramortite dalla notizia. Stupefatte e perplesse ora leggevano tutte e tre che il ministero della cultura popolare aveva pubblicato un manifesto in cui si affermava il concetto biologico della razza italiana, sancendo l’estraneità ad essa degli ebrei. Chiusero il giornale e si guardarono in silenzio per lungo tempo, nessuno trovava parole per commentare il fatto. Si scossero all’ingresso di Giacomo che reclamava il giornale. Gilda con noncuranza disse che l’aveva utilizzato per incartare delle verdure che aveva dato a Giginetto. Questi era un povero sventurato senza nessuno, che era molto povero e che senza la famiglia di Gilda sarebbe già morto da un pezzo. Il fratello replicò che non vi aveva dato neppure uno
Pag. 37
sguardo. La sorella gli rispose che come al solito si erano spesi solo degli inutili centesimi per notizie senza importanza. Invece non erano stati mai spesi così bene quei soldi. Adesso concordarono che bisognava stare molto attente a quel che si diceva, fare attenzione a qualsiasi sfumatura dei discorsi, sia loro che quelli degli altri. In quel momento Gilda comprese il perché della richiesta di silenzio che le era stata fatta qualche anno prima dalle sue amiche. Era dal 1933, le confidarono le sorelle, che arrivavano nelle loro comunità dalla Germania notizie allarmanti nei confronti degli ebrei. Due anni dopo, aggiungevano, iniziava poi, a causa delle continue persecuzioni sancite con delle leggi ratificate a Norimberga, anche la migrazione degli ebrei dalla Germania verso i paesi tolleranti. Miriam ed Anna parlavano sommessamente raccontando, per la prima volta, cose tristi all’amica ed implorandola di perdonarla di non avergliele mai fatto sapere, ma era stata una scelta per non farla soffrire. Gilda ascoltava mentre le gote cammeo le erano diventate color porpora. Era uno di quei suoi momenti di imbarazzo. Protestava, diceva che di tutto questo lei fino a quel momento non ne sapeva nulla. Del resto tutti gli altri italiani non ne sapevano nulla. Erano cronache ufficialmente taciute. Ora che cominciava a sapere ed a soffrire per le sue amiche piangeva, ma bisognava continuare la vita di sempre con indifferenza, anche se sapevano che non sarebbe stato cosa facile. La politica fascista per la difesa della razza faceva osservare Gilda, sebbene i soliti facinorosi desiderosi di emergere e di conquistare un posto al sole, come recitava un loro usatissimo motto, sarebbe stata, ne era certa, per fortuna “all’ italiana”. Parlava così per rincuorare le sue amiche e soprattutto se stessa, e aggiungeva che non c’era da preoccuparsi. Infatti nei mesi successivi qualche buona notizia non mancava. Stranamente accadeva che, mentre le leggi razziali del 1938 escludevano dalle scuole allievi ed insegnanti israeliti, limitavano i diritti sulla proprietà, limitavano o vietavano l’ esercizio delle libere professioni, l’iscrizione
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
alle organizzazioni fasciste, il matrimonio tra razze diverse, ed altre simili sciocchezze, dall’altra parte tra il novembre del 1938 ed il luglio del 1939 si stabilivano dei criteri di attenuazione di quando si affermava, nei confronti di quei cittadini israeliti che si erano particolarmente distinti in atti patriottici nelle guerre combattute dall’Italia, o per essere stati promotori ed avanguardisti nella causa fascista. Queste informazioni che le giungevano, non tanto attraverso i giornali quanto dalle circolari che le passava una delle sorelle che era segretaria presso una Casa del Fascio, rasserenavano un poco Gilda e davano una speranza alle amiche che nulla sarebbe successo e che sarebbero state insieme fino a diventare vecchie e seccanti, come amavano spesso ripetere. La vita delle tre amiche, apparentemente convinte da questi aspetti contraddittori, continuava normalmente. Al mattino come sempre al lavoro con lo stesso impegno, senza mostrare l’angoscia che adesso le teneva legate più e oltre che alla profonda amicizia; nei giorni di festa a spasso, al cinema o altrove. Fingevano che tutto fosse come prima: tutti gli italiani fingevano. La storia, invece, si stava orientando in una direzione disastrosa per l’Italia. Qualche segno che si stava preparando qualcosa le tre ragazze lo ebbero già nel gennaio del 1940, quando parteciparono ai prelittoriali femminili del lavoro. Come donne, cosa inconsueta, si sentivano improvvisamente al centro dell’attenzione, si sentivano come indispensabili alla pratica sociale. Nei prelittoriali di quell’anno, oltre che alle normali gare di dattilografia, stenografia, cultura fascista, si facevano concorsi di radiotelegrafia, bachicoltura; si insegnavano le tecniche per allevare animali da cortile, raccogliere olive, guidare un camion o un trattore. Tutte pratiche destinate un tempo agli uomini. Questi cambiamenti rivolti soprattutto a donne come loro della borghesia o dell’aristocrazia, le mettevano in uno stato di preallarme. Non sapevano spiegare cosa si nascondesse, ma tutto ciò le rendeva ancora più guardinghe. La risposta ai loro interrogativi le veniva data da giornali ai primi di giu-
Pag. 38
gno del 1940, quando essi parlarono di una mobilitazione civile. Una circolare, nel frattempo, giungeva presso l’azienda dove lavoravano; in essa si specificava che era abolito l’uso delle sirene in tutte le ore del giorno. Restavano valide invece quelle di allarme che si dovevano provare tutte le domeniche alle ore dieci del mattino. Ci si avviava seriamente alla guerra. La prima prova delle sirene veniva effettuata domenica 8 giugno 1940, tutti parteciparono comprese loro tre. Ora le amiche davano la caccia alle notizie provenienti da Roma in modo sistematico. Si sapeva che il duce doveva parlare alla Nazione, la qual cosa avvenne due giorni dopo l’esercitazione delle sirene. Mentre loro erano al lavoro la città era in fermento, una enorme folla convergeva in piazza Plebiscito dove dagli altoparlanti ascoltava elettrizzata e al limite del parossismo la voce del duce che dichiarava l’ ingresso in guerra. L’ardore incosciente di quella folla la faceva pagare cara ad un milione di napoletani. Le cose presero subito una brutta piega. Il fratello di Gilda, Giacomo, sebbene figlio unico di madre vedova, e quindi in altri tempi esonerato dai servizi militari, dovette partire per il fronte in Africa Orientale e lì restava per sempre in quanto, messo a guardia di un deposito di munizioni, veniva colpito da una granata inglese che centrando il bersaglio faceva saltare anche il poveretto. Non fu trovata che la sola piastrina col numero di matricola. La tragica perdita dell’adorato unico fratello segnava la cara Gilda per tutta la vita. Non si darà mai pace per la sua morte, ma soprattutto per l’ impossibilità di avere un qualche resto a cui portare un fiore. Non ostante il dolore bisognava però pensare ai vivi ed in modo particolare alle amiche ebree. Dalla Germania, attraverso canali che conoscevano solo le sorelle Salomone, arrivavano notizie che i giornali non pubblicavano o perché dovevano tacere o perché, come poi si scoprirà, nel resto del mondo non si conoscevano affatto. Sapute le novità ne mettevano al corrente Gilda. Le notizie che le venivano riferite non erano buone. Ora non si permetteva più a nessun ebreo di lasciare la
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
Germania, la Polonia o un qualsiasi altro territorio occupato dove vi era la presenza nazista. Nessuno sapeva quale era la loro sorte. Si diceva di deportazione in campi tipo riserve indiane, dove erano momentaneamente tenuti in attesa della fine della guerra per poter poi tornare alle loro case. Gilda le consolava dicendo di stare calme, di non temere, in Italia tutto era diverso e poi nessuno era a conoscenza del loro segreto. Intanto però Napoli pullulava di soldati tedeschi che avevano fatto della città una specie di convalescenziario. Tutti i feriti tedeschi venivano in convalescenza a Napoli. La città mal sopportava questi padroni e li trattava con indifferenza continuando a svolgere le proprie attività, i propri traffici, le proprie feste. Una domenica le tre amiche a passeggio per la città come sempre, si imbattevano in una pattuglia di tedeschi nei pressi della galleria Principe Umberto ubicata di fronte al Museo Nazionale. Le ragazze in genere l’attraversavano per raggiungere più brevemente via Bellini. Quel giorno i soldati non volevano che l’attraversassero e con i mitra spianati ed in tedesco gridavano qualcosa che loro non capivano. Più si avvicinavano e più i militari gridavano e si facevano minacciosi: sembrava quasi volessero sparare, quando un napoletano di passaggio che capiva quella gente le avvertì di non fare altri passi perché altrimenti le avrebbero uccise. Avevano avuto per la prima volta paura di quei soldati e soprattutto se avessero voluto ficcare il naso nei loro documenti. Li sentivano diversi: inspiegabilmente ostili. Decidevano da quel giorno di non uscire più, di ritrovarsi in casa ora dell’uno ora dell’altro per fare giorno per giorno il punto della situazione. Stavano in ufficio una mattina intente al loro lavoro, quando sentirono alcuni colleghi commentare una notizia che ignoravano. Il fascismo, nell’ambito dell’amicizia italotedesca, stava arrestando cittadini di origine ebraica. Rimasero di pietra e si guardarono senza battere ciglio. Nel consiglio serale che tenevano decisero di continuare a non destare sospetti e quindi di recarsi come di consueto al lavoro. Le sorelle scosse dalla notizia co-
Pag. 39
minciavano ad aver paura e volevano nascondersi. Gilda le sconsigliò. L’azione, si determinò, sarebbe stata più deleteria in quanto avrebbe creato sospetti. Tra le mele buone si sa a volte c’è anche quella un poco bacata. Passarono alcuni mesi di relativa tranquillità, anche se la città era un’immensa trincea. Stavano immerse nelle loro pratiche, una mattina, quando uno degli addetti alla direzione veniva a prelevare le sorelle Salomone in quanto desiderate dal direttore. Anna e Miriam prima di allontanarsi si diressero verso Gilda e le diedero ciascuna un bacio sulla guancia. La cosa destò curiosità ed anche perplessità negli altri colleghi, ma poi ognuno reclinò di nuovo il capo sulle proprie scartoffie. Solo Gilda non riuscì più a lavorare, il sangue le si gelò nelle vene soprattutto a quel bacio delle amiche. Tormentata da mille pensieri aspettava il ritorno delle ragazze per sapere il motivo di quella chiamata improvvisa. Temeva, temeva ora Gilda, non sapeva ma aveva delle strane premonizioni. Il direttore non mandava mai a chiamare, era lui che scendeva in archivio se voleva sapere qualcosa. Pensava a chi avesse potuto fornire la conoscenza delle cose che solo lei e le amiche sapevano. Aveva la mente tormentata da mille se. Avanti a tutti vi era quello del suo consiglio di non nascondersi. Aveva sbagliato, si doveva fare come avevano pensato Anna e Miriam. Dovevano scappare, nascondersi; forse in chiesa dallo zio canonico non ci sarebbe andato nessuno a cercarle. Mentre pensava alle cose più brutte cominciò a serpeggiare per l’ufficio e per l’ intera fabbrica un’agitazione, un mormorio, un trambusto che portò presto tutti a spostarsi dalle loro scrivanie, a correre ai vetri delle finestre che davano nel cortile di ingresso. Volevano sapere, vedere, qualcosa avevano intuito tutti. La camionetta tedesca però era già partita con il suo carico. Solo allora Gilda scoppiava in un pianto sommesso che rivelò agli altri l’atroce verità. Le si strinsero attorno, la consolavano, qualcuno di sentimenti più profondi, avendo capito quale segreto avesse custodito per tanto tempo, le diceva
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
parole di elogio e di ammirazione. Le colleghe l’accarezzavano dicendole che a Napoli non poteva accadere nulla alle due sorelle, che sarebbero ritornate tra qualche ora o al limite dopo qualche giorno. Gilda a differenza loro sapeva cose che non le davano speranze. Fu così, non seppe più nulla di Anna e Miriam. Seguirono dei giorni tremendi per Napoli, per Gilda e per i cittadini. L’anno 1943 non fu dimenticato facilmente. I bombardamenti da parte degli alleati, che erano venuti per liberare, produssero danni alla città tali da renderla un cumulo di macerie. Inoltre vi furono rastrellamenti e violenze da parte dei nazisti che compirono ogni genere di nefandezza contro un popolo che sebbene a malincuore lo aveva sopportato. Le cose poi finirono e Gilda, come gli altri, ritornava alla vita, si sposava ed aveva due figli: un maschio ed una femmina. La femmina si chiamò AnnaMiriam. Quando negli anni si cominciò a parlare apertamente del periodo della guerra ed in modo particolare del nazismo e delle sue nefandezze, Gilda non si perdeva un servizio televisivo dove si facevano vedere filmati di deportati ebrei, nella speranza assurda di poter individuare tra quei visi quelli delle sue amiche. E mentre guardava piangeva e spiegava tutto ai suoi bambini, che ascoltavano attenti. Una volta mentre leggeva sul suo settimanale preferito un articolo sul fascismo, apprese che erano stati ottomila gli ebrei italiani che il regime portò alla morte consegnandoli ai nazisti. Mise in quel conto le sorelle Salomone. Gilda visse quasi novant’anni e parlò per una vita ai suoi figli prima ed ai nipoti dopo delle sue amiche tante e tante volte, quasi come in un colloquio diretto con loro. E parlava anche del fratello svanito in una guerra che non si doveva fare. Negli ultimi anni della sua vita diceva ossessivamente che si doveva ricordare ciò che era accaduto, che come si festeggiava la festa della mamma, del papà, degli innamorati, si doveva fare un giorno del ricordo per tutti quei poveri morti con la sola colpa di essere di credo diverso. Ammaestrava i nipoti dicendo che il vero cristiano non
Pag. 40
guarda al colore della pelle, alla religione che ognuno pratica, o se uno è ricco o povero, ma deve vedere di fronte a sé sempre e solo esseri umani da amare, perché solo così la terra troverà la pace. Ogni anno i pronipoti nel giorno della memoria, il 27 gennaio, le portano sulla tomba delle rose rosse, anche se lei morì nel mese delle viole che amava tanto, e lasciano un sassolino alla maniera israelita. Salvatore D’Ambrosio
IL BOTTO di Antonio Visconte
R
AMMENTARE la tragedia delle due guerre mondiali, dopo che gli storici ne hanno riempito intere biblioteche, non servirebbe neanche a trasmettere un monito alle future generazioni. Con lo sviluppo della tecnologia, l’uomo è diventato ancora più feroce e non combattono gli eserciti, bensì viene presa di mira la popolazione civile, massacrando indifferentemente le donne con i bambini. I lutti e le macerie, seminate dai conflitti, rendono amaro anche il dopoguerra. Quante vedove senza marito, quanti figli senza genitori, quanti feriti e mutilati e innocenti comunità avvelenate da armi chimiche. In tale periodo, cessato il massacro e stipulata la pace, mi capitò questo fattaccio, non paragonabile alle autentiche stragi, però dimostra che con le ostilità soltanto i furbi ci guadagnano. Un tripudio di folla festante accolse in San Prisco, proveniente da Caserta, la quinta armata del generale Clark. - Chi fu il primo - direbbe il poeta latino Tibullo -, che inventò le orribili armi? Come fu crudele e veramente spietato! Da allora cosa è cambiato, se non in peggio? I soldati inglesi scavano le trincee davanti al monte Tifata, che già aveva conosciuto l’ epopea di Annibale e le difendono con i sacchetti imbottiti di terra, gli americani invece piazzano cannoni dinanzi alla Croce Santa, la collina più bassa. Ci accoglievano con corte-
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
sia, offrendoci dolci e cibarie, mentre gli inglesi ci respingevano gonfi di odio. Contavo appena otto anni e insieme ai miei coetanei ammiravo i militari estrarre i proiettili dalle casse, fissarli nelle culatte, tirare l’ ordigno e lasciarlo partire. Molte bombe saranno cadute nelle acque del fiume Volturno, che scorre dietro le due alture. A quella vista si accese in me l’amore per i fuochi. Il dio Marte mi aveva letteralmente soggiogato. L’ odore degli spari mi mandava in visibilio. Con la conquista di Cassino e la distruzione di Montecassino, dopo l’assalto alla baionetta presso Mignano Monte Lungo, l’esercito partì alla volta di Roma e lasciò sul terreno una notevole quantità di polvere inesplosa. Era contenuta in bustine di tela e presentava la forma delle nostre specialità, pasta, spaghetti, bucatini e cappellini, questi ultimi i più pericolosi, che bruciavano rapidamente, senza concedere il mezzo per scappare. La pasta rimase a lungo dentro le zolle, che avevano ospitato l’artiglieria e divenne il mio svago giornaliero. La raccoglievo acino per acino e la facevo esplodere dentro un cartoccio. Nascosti dietro la siepe, nelle prime ombre della sera, quando il silenzio avvolgeva la tranquilla contrada, uno scintillio di cento colori ci donava la gioia che la guerra ci aveva negato. Se il campicello era seminato, bisognava sfuggire alla sorveglianza del padrone. In breve tempo divenni un esperto nell’arte della pirotecnica, confezionando e usando i fuochi d’artificio. Perché non trasferirmi dalla campagna in paese e collocare la rampa di lancio sulla mia terrazza. Ne avrebbero guadagnato anche i miei piccoli amici, che a quell’ora uscivano dalla bottega del mastro e potevano godersi lo spettacolo senza recarsi in periferia. La bomba incandescente correva da un capo all’altro della ringhiera, scaricando nell’ etere, tra gli applausi della folla, le sue impetuose scintille. Disgrazia volle, di non aver reperito un filo di ferro. La fiamma bruciò lo spago e il cartoccio, legato ad una cannuccia per lo scorrimento, finì sulla ghiaia e urtò contro la porta della camera da letto di zia
Pag. 41
Caterina, così chiamata secondo l’usanza, riducendo il vetro in frantumi. Tra il fumo e il rumore, simile ad una belva scatenata, scoppiò il botto. Lo spavento divenne enorme, ma zia Caterina conosceva le mie monellerie. Afferrò la scopa, uscì di casa, ridotta ad una vaporiera, con quel bel letto, apparecchiato fin dal mattino, attraversò la strada, imboccò il vicolo, varcò il portone, percorse il cortile e salì le scale, fino a raggiungere la terza stanza del nostro appartamento, senza trovare ostacoli, perché all’epoca non si usavano le chiavi, e iniziò invano le sue ricerche. La fortuna mi volle salvo. Mi ero rannicchiato accanto a un mobile, proprio alle sue spalle. Bastava soltanto che si girasse, per rompermi la testa con la scopa. Infuriata e amareggiata ritornò indietro, ma la mia famiglia le comprò il vetro nuovo e l’ operaio provvide a sistemarlo nel telaio bruciacchiato. A chi giova la guerra? Non piango lutti atroci, però mi fece perdere tempo in uno svago stupido e insignificante, che mi danneggiò la stima del vicinato. Meglio avrei agito a studiare di più e a conseguire un migliore risultato scolastico. Antonio Visconte Domenico Defelice: Composizione floreale↓
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
I POETI E LA NATURA - 77 di Luigi De Rosa
D. Defelice - Metamorfosi (particolare), 2017
IL MARZO CAPRICCIOSO DI
SALVATORE DI GIACOMO (1860 – 1934)
M
arzo: nu poco chiove e n'ato ppoco stracqua torna a chiovere, schiove: ride 'o sole cu ll'acqua. Arrivati a questa puntata, ed entrati nel settimo anno di vita di questa mia rubrica, sembra maturo il momento per un'altra puntatina nella poesia dialettale (che ha un suo nobile e importante posto nella storia della letteratura italiana), dopo la puntata su Trilussa del marzo 2017. E tenendo conto delle mie origini partenopee (anche se sono cresciuto in Liguria e vivo a Rapallo), faccio ricorso ad un celebre poeta, saggista e drammaturgo napoletano (lui sì, napoletano verace), Salvatore Di Giacomo. Come è noto, Salvatore era stato costretto dal padre Saverio (che era medico, e teneva i cordoni della borsa...) ad iscriversi alla Facoltà di Medicina. Ma un giorno del 1880, a una
Pag. 42
lezione di anatomia all'Università, disgustato dalla vista orripilante di parti di cadavere umano, Salvatore buttò all'aria camici bianchi e testi di Medicina, e si abbandonò alla sua vera passione, la letteratura. Scrisse molte poesie in dialetto, che poi vennero musicate e divennero celebri canzoni. L'epoca d'oro della canzone napoletana poggia, infatti, sui nomi di E.A. Mario, Libero Bovio e Salvatore Di Giacomo. Nella poesia Marzo il poeta paragona la sua donna, Caterina, al mese notoriamente più capriccioso che esista, a cagione delle sofferenze d'amore che lei gli procura per la sua incostanza e mutevolezza di umore e...di intenzioni amorose. Anzi, nel portare avanti la sua similitudine tra essere umano e fenomeni della Natura, il poeta arriva a paragonare se stesso ad un uccellino freddoloso che, sopra il terreno bagnato, aspetta ansiosamente che la sua bella si decida a far uscire il sole... ed i cui stati d'animo si immedesimano con quelli delle alternantisi condizioni meteorologiche: Mo nu cielo celeste, mo n'aria cupa e nera, mo d''o vierno 'e tempeste, mo n'aria 'e Primmavera.
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
Pag. 43
N'auciello freddigliuso aspetta ch'esce 'o sole, ncoppa''o tterreno nfuso suspirano 'e viole... E' nell'ultima strofa che il poeta svela i veri protagonisti della sua similitudine meteo: Catarì, che vuò cchiù? Ntienneme, core mio, Marzo, tu 'o ssaje, sì tu, e st'auciello songh'io. Di Giacomo collaborò al “Corriere del mattino”, diretto da Martino Cafiero, e instaurò una profonda amicizia con Roberto Bracco. Poi passò alla “Gazzetta Letteraria” diretta da Vittorio Bersezio. Nel 1884 pubblicò con l'editore Tocco la sua produzione dialettale, sotto il titolo Sonetti. In pochi anni pubblicò altre raccolte di versi: 'O Funneco verde (1886), A munacella (1888), Canzoni napoletane (1991). L'anno dopo fondò la rivista “Napoli nobilissima”, insieme a Benedetto Croce. E fu proprio il grande filosofo e critico Benedetto Croce a sdoganare, con un suo studio sulla rivista La Critica, il suo nome di poeta di primo piano nella letteratura italiana ufficiale, liberandolo di quella nomea di “poeta dialettale” che in quell'ambiente suonava come una deminutio rispetto ai poeti in lingua. Dopo aver ricoperto l'incarico di Bibliotecario di varie Istituzioni Culturali, nel 1929 fu nominato Accademico d'Italia. Morì per una malattia alla vescica il 5 aprile 1934, nella sua casa di Chiaia. L'unico dispiacere che lo assillò fino all'ultimo fu quello di essere ricordato, nei pubblici locali, più come l'autore della canzone Marechiaro che come l'autore di Ariette e Sunette o di Assunta Spina. Eppure non aveva fisime, era un semplice. Ad esempio, per andare a mangiare, evitava le trattorie di lusso e preferiva osterie nascoste, senza pretese, ove potesse restare a sognare, tra una pietanza e l'altra. Luigi De Rosa
Recensioni LINA D’INCECCO SUGGESTIONI Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2018 Quante volte abbiamo sentito la frase che ci avvertiva di non dare retta alle suggestioni, perché esse interferiscono con le azioni, col nostro agire, dissestano. E poi chi è quell’omino rimasto impigliato, pur senza farsi male, nel recinto di filo spinato posto ad immagine di copertina del Quaderno della poetessa molisana Lina D’Incecco? Il disegno in bianconero è del direttore del mensile ‘Pomezia-Notizie’ che ha portato alla pubblicazione il sunnominato Quaderno, Domenico Defelice, curatore dell’ introduzione alla silloge, che ha scelto una scena più o meno esaustiva nello spiegare il momento della grande influenzabilità tale da causare persino un arresto della volontà. Per esempio, uno dei casi patologici di suggestionabilità è stato, nella storia del teatro, Il malato immaginario, la figura del protagonista della celebre commedia di Molière – andata in scena per la prima volta a Parigi nel 1673 – Argante, appassionato sostenitore di tutte le medicine che fino ad allora si conoscevano e magnetizzato dalla medicina in generale, tanto che alla fine il fratello Beraldo gli consiglierà di diventare dottore, come rimedio estremo, visto che in quel campo era alquanto acculturato. Ma tornando alle Suggestioni di Lina D’Incecco, il processo della stimolazione nel bene o nel male, proviene dal mondo esterno, « (…) dalla cronaca – cioè, da quel che sulla strada si svolge; cronaca raramente piacevole e leggera ». (A pag.2). Il pas-
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
saggio dai telegiornali al nostro animo, dai quotidiani all’infiltrazione nel guscio della nostra sensibilità, avviene il più delle volte in automatico senza che ce ne accorgiamo, perché basta una foto a ipnotizzare la capacità razionale che possediamo. E questo è il caso di Ailan, il piccolo siriano; una semplice e più che drammatica fotografia è riuscita a sconvolgere l’opinione pubblica mondiale, giacché « Il mare ti ha deposto/ sulla spiaggia./ Ora piccino, dormi/ riverso sulla sabbia,/ la maglietta rossa,/ i calzoncini neri./ La tua piccola sagoma/ riportata dai media/ è impressa nei nostri occhi./ Dolore, stupore, angoscia/ accomunano tutti/ e l’ amarezza per la Siria./ Un agente/ ti ha preso tra le braccia/ come un fagottino inerme./ Sei tornato alla tua terra./ Grazioso bimbetto,/ sei stato la mascotte/ di quell’innumerevole schiera/ di fuggiaschi/ in cerca di scampo. (…) » (A pag.4). Non si può, di fronte a questo genere di notizie, rimanere immuni dalla carica turbativa da esse emanata, per cui si rimane inesorabilmente ‘impigliati’ nel recinto della nostra impossibilità di poter fare qualcosa di utile, affinché non accada più la medesima triste vicenda. L’autrice deve essere una donna molto attenta a ciò che succede fuori, nella società ed è per questo che i temi scelti da lei per la versificazione provengono da ciò che si svolge oltre le sue mura domestiche. È difficile versificare su temi scottanti come la disoccupazione, il razzismo, gli zingari, eppure lei lo ha fatto nella maniera più normale, anche se non è ovvio per coloro che « Vagano nella strada,/ si trascinano nei parchi,/ sembrano strani bonzi,/ il passo stanco,/ lo sguardo assente/ portano sulle spalle/ il peso delle sofferenze./ Hanno perso il lavoro./ Una voce cruda, inesorabile/ li ha licenziati./ Spesso perdono casa e famiglia/ e il loro ricettacolo/ è un furgone/ oppure una brandina/ ed un posto a mensa/ per mangiare./ (…) Nella società/ loro sono gli scarti. » (A pag.9). La crestomazia poetica di Lina D’Incecco, entrata nel Quaderno letterario della collana “ Il Croco”, si è classificata al 2° posto del Concorso Internazionale “ Città di Pomezia 2017 “, indetto dalla redazione, appunto, del mensile ‘Pomezia-Notizie’, per lo spessore delle argomentazioni trattate e la delicatezza con cui sono state ritmate in versi. A proposito di ritmo, lei ha menzionato il cantautore emiliano Sugar Fornaciari alias Zucchero, l’autore di canzoni rimaste nella storia della musica leggera come Donne del 1985 che ha portato a Sanremo, Senza una donna incisa insieme a Paul Young nel 1991, Miserere del 1992 duettato con il tenore italiano purtroppo scomparso, Luciano Pavarotti. Diciamo che il successo del cantante natio di Roncocesi, in provincia di Reggio Emilia, è dovuto sì alla sua bravura ma so-
Pag. 44
prattutto alla sua immagine di uomo col cilindro ad ogni ora del giorno, mai fuori moda e « (…) una tempra di fuoco;/ chitarra, tamburo e batteria/ tutto si fonde con la voce./ Suoni nuovi che sgorgano/ dalle sue emozioni./ Forza della natura/ che tutto amalgama/ in una Kermesse/ col frenetico esplodere/ di colori e luci./ Lui, l’uomo col cilindro/ il mago prestigioso/ della canzone. » (A pag.12). Isabella Michela Affinito
TITO CAUCHI LOGOS in PRIME EMOZIONI Edizione a cura dell’autore, Anno 1998, pagg.32. Una conseguenza letteraria necessaria per rassettare i contorni dello stile di un poeta, Tito Cauchi, e fare luce per il suo prosieguo sulla strada della scrittura. È stata un’idea brillante l’aver pubblicato, anche in proprio, una sorta di Quaderno per raccogliere metaforicamente i frutti della seminagione avvenuta qualche anno prima, con la pubblicazione della crestomazia poetica dal titolo Prime Emozioni, Ed. Le Petit Moineau di Roma, 1993, pagg.61. Ci troviamo nel mezzo della parola ordinatrice, Lógos, che ha generato, dopo un’attenta analisi della raccolta di poesie Prime Emozioni di Tito Cauchi, riflessioni di vario genere da parte dei lettori e così dopo cinque anni da quell’evento il poeta, nato a Gela in Sicilia e residente ad Anzio, ha pensato di rendere pubblica la « (…) conclusione di un dibattito virtuale a distanza fra un gruppo di letterati intorno alla mia pubblicazione relativa alla silloge poetica Prime Emozioni. (…) Se c’è qualcosa che eccelli nella comunicazione, credo che questa, più di tutte sia la parola, come espressione del sentire e del comprendere. Per dirla con una voce greca, il logos, nel suo significato più semplice di parola appunto, ma anche nel senso più ampio di discorso. » (Dalla Presentazione dibattito virtuale). Stiamo parlando degli anni ’90 ma l’esamina sulle poesie o su qualsiasi altro scritto non è sottoposto a scadenze; è stato un modo per continuare a dialogare sui motivi che hanno originato quel libro, Prime Emozioni, in cui sono state riunite le liriche composte veramente quando l’autore era giovanissimo e si stava plasmando il suo animo. Nel momento in cui è uscita la raccolta e poi divulgata, tante sono state le testimonianze di lettura gradita da parte di altri autori più o meno noti, nelle quali dichiarazioni sono rimaste le parole che in qualche modo hanno aiutato a ‘crescere’ poeticamente Tito Cauchi, per l’appunto. Lui si è lasciato ‘guidare’ da questi consigli critici e addirittura si è sentito in dovere di redigere,
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
all’interno del Quaderno, una pagina di cospicui Ringraziamenti. « Se qualcuno si incomoda a scrivermi merita, minimo, un cenno di riscontro; se poi qualcuno mostra apprezzamenti nei miei riguardi, o che è lo stesso, nei riguardi del mio lavoro, merita certamente un ringraziamento; se poi ancora, ricevo suggerimenti e insegnamenti, mi incombe il dovere di un ossequio. Ed io, l’ingrato che sono, non ho fatto nulla; adesso non so se posso rimediare. Mi onoro in questa mia fatica, fare figurare accanto al mio, tanti nomi illustri. Mi auguro di fare cosa gradita e di non farne un uso improprio. Più di ogni altra persona vorrei ringraziare il prof. Domenico Defelice, l’editore che mi ha accolto nelle sue file, con cura e pazienza. » (A pag. 4). Andando avanti nella lettura del Quaderno, ci si accorge che non tutti i giudizi critici redatti sono stati concordi fra loro e questo è stato un bene, dacché significa che ciascun lettore della raccolta poetica Prime Emozioni, ha vagliato i versi secondo un proprio punto di vista e così è venuta fuori una critica eterogenea e innanzitutto spontanea. Siffatto è accaduto, ad esempio, al saggista poeta scrittore Leonardo Selvaggi di Torino, che più di tutti si è espresso con una lunga dissertazione, poi, pubblicata sul mensile ‘Pomezia-Notizie’ di Dicembre 1995. « (…) Poesia nelle sue appena percettibili avvisaglie, nello stato di incubazione, nel travaglio espressivo, quando non ancora manifestativi i temi e le parole, ma il brillìo già negli occhi e nei moti dell’animo generoso. Poesia nell’impatto che hanno i sensi sulle cose che ci sono intorno, da quella trasparenza, trasfondibilità che ha la mente pronta a dilatarsi, a farsi sostanza spirituale. Da quella possibilità di incontro e di fondersi con il contatto, con gli occhi, con le mani. Il raffronto con gli altri e l’affondamento avvertito del peso della vita sopra la membrana del corpo sensibile. » (Alle pagg. 12-13). Comunque sia andata, oggi il poeta Tito Cauchi si prodiga anche soprattutto come critico letterario, saggista, riverberando la luce ricevuta dagli altri autori mediante l’esercizio, appunto, del raffronto ravvicinato grazie alla lettura dei testi resi editi da ciascuno. La lezione del Lógos non è mai terminata e continua, continuerà a dare i suoi gustosi frutti per tutti. Isabella Michela Affinito VITTORIO “NINO” MARTIN ARDITA SALITA Editrice Menna, Avellino, 2017, € 15,00, pagg.80. Il nome di Vittorio (detto Nino) Martin, in qualità di poeta e non soltanto di artista, veicola oramai da
Pag. 45
diversi anni a questa parte. Il suo stile letterario si è fatto sempre più votato alla concretezza e ai valori umani, anche se – e questo fa parte del suo orientamento interiore – zampillano ogni tanto momenti difficili legati alle problematiche sociali e generazionali. Lui è sempre stato un cultore preciso e appassionato della sua terra d’origine, della sua caleidoscopica Stevenà, luogo dalle interminabili ispirazioni sia artistiche, sia letterarie. Diciamo che l’ autore non si è mai stancato di ritrarla in tutte le situazioni stagionali e mentre riportava su tela i suoi incantevoli scorci paesaggistici, con o senza la neve, con o senza alberi, con o senza le persone natie del luogo che hanno rafforzato la storicità del paese, al contempo ha ricevuto dai suoi soggetti, umani o del mondo vegetale o dell’architettura urbana friulana, veneta, etc., continui spunti per la sua versificazione. La prefatrice della nuova scelta poetica del Martin, Claudette Da Re, del Belgio, ha constatato che « (…) Stevenà e l’area limitrofa favoriscono in Vittorio Martin un profondo amore per i tempi trascorsi. Da qui la presenza quasi dominante nella sua opera del passato, interpretato in chiave moderna, in cui storia locale e esperienza autobiografica divengono lo stesso composto di una situazione poetica espressa stilisticamente in un ambito che cerca l’equilibrio di tensioni tradizionali tra immaginazione e fraseggio usuale, dove la morte è libertà pacifica e la memoria forma ideale di conoscenza: condizione di vita e di poesia. » (A pag.3). Una condizione assunta diverso tempo fa, che risale agli anni giovanili di Martin attratto sia dal fattore straniero, per via delle sue esposizioni fuori dei confini nazionali; sia dal fattore primigenio insito nella sua terra che gli ha conferito un determinato modo di vedere le cose e le persone, un particolare carattere ora alquanto generoso, ora votato al comando nel senso che ha diretto lui la sua vita, ora teso alle preoccupazioni dell’intera collettività. Vittorio Martin è anche il cultore dei ritratti femminili: le sue donne sulla tela sono sempre giovani, un po’ timide con lo sguardo abbassato o di spalle o intente a camminare, a leggere, a guardare attraverso i vetri delle finestre, comunque aggraziate e con qualcosa di esotico sull’epidermide ben visibile, giacché nella sua innumerevole produzione pittorica molti sono i nudi femminili che ostentano una bellezza chiara, ondulata, superante l’anatomia stessa, la morbida fisionomia per sottolineare spesse volte un dramma interiore. « La bellezza è un faro/ di luce nella notte,/ da essere ammirata/ confusa con l’essere amata,/ difficile tracciare i confini/ tra bellezza e amore,/ la femmina dal viso d’ angelo/ col cuore gelido di pietra,/ sono segni evidenti,
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
però/ non fermarti alla persona,/ va ancora più oltre/ da far volgere lo sguardo,/ nella direzione del creatore/ a quel dito che indica la luna,/ così è il faro che attira l’attenzione/ ma non ci accorgiamo degli scogli,/ imbambola le persone/ e la nave va a picco,/ la meravigliosa eredità/ sono briciole di saggezza. (A pag.18). L’Ardita salita presumibilmente si riferisce alla mole di lavoro svolto sia dal poeta, sia dal pittore, sia dal grafico, sia dallo scultore Martin che è sempre stato alacre e attento a non perdere nessuno spunto utile per le sue ulteriori opere. Numerosi sono stati i critici che si sono occupati di recensire i suoi libri di poesia e le sue tele. Abbondanti sono state le sue raccolte poetiche pubblicate da importanti case editrici, come ‘Carta e Penna’ di Torino, ‘Casa Editrice Menna’ di Avellino, ‘Il Convivio Editore’, il Cenacolo Accademico Europeo ‘Poeti nella Società’ di Napoli, ‘A.L.I. Penna d’Autore di Torino’, e sillogi stampate in proprio giacché Vittorio Martin si è dimostrato negli anni anche un ottimo grafico. « (…) Questo artista ha compreso (e l’ altezza dei risultati odierni sta a dire che l’ha compreso precocemente) come non possa aversi vera pittura ove manchi il supporto del disegno: il quale disegno da artisti insigni di tutti i tempi (basterebbe fare i nomi di Michelangelo e di Leonardo, del Bernini e di Rodin, e quello di Picasso) fu considerato opera autonoma, completa – in se stesso. La mano di Martin è così rapida, così sicura, nel tracciare il segno sul foglio di carta (che poi quel segno si trasferisca o no sulla lastra o sulla pietra, divenga o no acquaforte o litografia, è un fatto esclusivamente tecnico.) » (Dalla quarta di copertina del libro a cura di Dino Menichini). Isabella Michela Affinito
ISABELLA MICHELA AFFINITO INSOLITE COMPOSIZIONI 12° Vol., Ed. Cenacolo Accademico Europeo, Poeti nella Società, Napoli 2017, Pagg. 48, Edizione fuori commercio. Insolite composizioni 12° volume, è una raccolta di Isabella Michela Affinito, artista frusinate dai molteplici interessi, come l’illustrazione in copertina sta a dimostrare. Le poesie sono tutte nominate “Composizione di titoli” numerate in sequenza dalla 246 alla 268; esse sono precedute da due componimenti titolati, questi sì, aventi funzione introduttiva, e dalla prefazione curata dalla stessa poetessa. Inutile sottolineare che le numerazioni seguano un’ architettura preordinata. Il numero ordinale della raccolta ci fa compren-
Pag. 46
dere, se ce ne fosse bisogno, che trattasi del proseguimento di un discorso e comprendiamo dai preamboli che la presente raccolta è dedicata al segno dell’Ariete che in francese – precisa la Poetessa - è detto Le Bélier Cubiste. Spiega che l’ Ariete, pur essendo, come è noto, segno di Fuoco che inizia la serie zodiacale, ha voluto, invece, usarlo come termine di mezzo della serie stessa (n° 12). Essendo la Nostra una cultrice della classicità, qui descrive la donna in copertina come immagine dell’Ariete che, a suo dire, è una novella argonauta; così ne evoca il mito, per concludere, in omaggio alla donna di copertina, che “L’Ariete/ non pensa, attacca perché/ il pensiero non rientra/ nella sua energica natura.”. Mi è sembrata necessaria questa premessa, per ricreare l’habitat poetico dell’Affinito. Chi abbia avuto modo di conoscerla attraverso opere precedenti, sa che il suo humus è impregnato delle sue conoscenze sulle Arti grafiche e pittoriche. L’ excursus poetico è narrato in prima persona pronominale come un poema, in cui Ella assume varie forme, nel fascino del mistero e della fantasia del mito mai morto, che consente di entrare nel suo animo, ove “vedove foglie/ attraversano il ponte di questa vita” (comp. 246 e 248). La lettura richiede meditazione e abbandono. Possiamo attingere a piene mani nel caleidoscopio delle immagini rievocate. Figure di personaggi che appaiono come per caso, ma che poggiano su un substrato di conoscenze e di esperienze, così le maschere a Venezia, i poeti solitari, pittori come il Canaletto, il Tintoretto, Raffaello, Chagall, ecc. che non sono semplicemente citati ma sono caratterizzati, o una “Lettera ad un/ soldato,/ lettera all’ Italia,/ lettera a me/ stessa che chiede/ giorni colorati” (comp. 249). Una vasta platea di simboli, di personaggi mitologici, dèi, ninfe, eroi, antichi poeti Omero, Esopo, ecc., dinanzi ai quali il lettore potrà smarrirsi, ma poi capirà che sono metafore di finezze espressive. È come se Isabella sognasse e uscisse dal sogno, per entrare in un altro sogno come Michela. Isabella Michela Affinito nelle sue molteplici forme, si identifica nella novella argonauta, è la donna-albero, la donna-farfalla, la donna- tramonto, la donna-uccello, è la Nike alata. “io sono colei che/ non ha attimi perché/ le mani attendono/ altri poeti in riva/ al mare.” (comp. 259). Il suo è il mondo degli artisti e dei poeti: “vivo un libro,/ posseggo radici/ lunghe fra gli/ alberi-amici.” (comp. 263), è l’Arianna della poesia. Ma la sua natura umana, bisognevole, reclama la Madonna. Questo viaggio nella interiorità, non si direbbe che un verseggiare che attinga a piene mani nel
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
mito antico, rievocando colori e fiori, pittori come l’amato Vincent Van Gogh e poeti come l’ ammirata Emily Dickinson, le cui vite sono un paradigma, per certi aspetti, di alte aspirazioni e di solitudini: “in questo tempo/ d’argilla dove/ i poeti sono soli.”(comp. 264). Ma c’è di più: nei due grandi personaggi nominati, rappresentanti la pittura e la poesia, lei si identifica e si pone alla ricerca di una ragione, per dare corpo alla sua corazza da combattente Ariete, e trova un’occasione per dare senso alle sue lacrime: “ho pianto/ insieme alle anime/ d’ autunno.” (comp. 265), lacrime che si confondono con le gocce di pioggia e quindi sono nascoste. Insolite composizioni 12° volume di Isabella Michela Affinito, è una raccolta veramente di insolite composizioni, poiché non ricalcano alcun modello e sono cariche di simboli scelti con intelligenza nei quali l’eclettica Poetessa trasferisce le molte sue emozioni nell’eterna lotta tra Eros e Thanatos, dalla quale lotta è certa di uscirne vittoriosa come la Nike alata. Lei stessa diventa donna-Arte e, come l’Arte, non muore mai, anzi si eterna. Tito Cauchi LINA D’INCECCO SUGGESTIONI Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2018 Lina D’Incecco, professoressa di francese in pensione, residente a Termini in Molise, ci propone una serie di poesie su temi che l’hanno emozionata e che emozionano i suoi lettori. Già la lirica di apertura, dedicata al piccolo siriano Ailan il cui corpo venne deposto dal mare su una spiaggia dopo un naufragio, ci fa riflettere. Seguono altri spunti ripresi da una realtà poco serena (bimbi Rom, una ballata che ricorda il massacro di 100 indiani, i disoccupati). La D’Incecco trova accenti particolarmente efficaci nelle descrizioni (una strada di notte, la tramontana, un volo di rondini) e nell’incanto che le suscita la musica (di Zucchero, di due musici, di un concerto di flauto dolce). Alcune figurine che l’ autrice rappresenta ci restano impresse nella memoria (le suorine, la damina colorata). In tutti i temi trattati la versificazione e semplice, il lessico è raffinato, anche per l’impiego di un linguaggio originale. Ecco un esempio: “Viale dei tigli/ colonnato/ di alberi spogli,/ rami che scrivono/ al suolo/ arabeschi di ombre./ Lo incalzano in alto/ le nubi/ volubili, bianche.” Elisabetta Di Iaconi
Pag. 47
SUSANNA PELIZZA FRAMMENTI POETICI Amazon.it 0,99 euro Questa breve raccolta (17 pagine) affronta la poesia, con la convinzione che, nonostante i tempi, da essa se ne può trarre sempre pur qualche giovamento, se non altro un diverso modo di pensare. Lontani dall’estenuante soggettivismo moderno e vicini, quindi, al concetto culturale di brevità ed essenzialità, i Frammenti pongono l’originalità della lirica proprio nella sua “capacità meditativa”, di riflettere nella visione impersonale delle cose. Come nei “Haiku in forma di poesia” (Amazon.it, 1,82 euro) l’immagine è “una finestra spalancata sull’infinito”, effettuata attraverso l’analogia e un modo di procedere paratattico, dove una frase succede a un altra, senza nessi logici e lasciando nelle pause, ampio spazio all’interpretazione. I Frammenti scongiurano l’anatema dell’ individualismo, nella ricerca di una semplicità del dire oltre l’affabulazione, puntando sulla sperimentazione linguistica propria del poetico oltre il prosastico. “Contro l’ingorgo del post-moderno e tanto per usare una frase di W. Szymborska, fatto di parole per spiegare parole (da Basta così, Adelphi) i Frammenti restituiscono, o tentano di restituire, quello spazio mentale, necessario per il lettore che vuole evadere, momentaneamente, dal giogo assillante delle preoccupazioni quotidiane” (Dall’ introduzione, Susanna Pelizza, op. cit.). Non vogliamo tracciare delle teorie poetiche, ma siamo convinti che anche questo sia uno dei tanti contributi che la lirica, oggi, può offrire. Maurizio Di Palma
PASQUALE MONTALTO PAROLE RICERCATE Con il cuore Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2016 Il bel Quaderno letterario, edito da Il Croco, col numero 127, di Pomezia Notizie, tra l’altro Premiato nel Città di Pomezia 2016, che porta un’incisiva Prefazione di Domenico Defelice, e che raccoglie le Parole Ricercate Con il Cuore del poeta di Acri (CS) Pasquale Montalto, mi è piaciuto tantissimo. Contiene poesie veramente belle, che mi hanno da subito colpito l’animo e sempre più mentre leggevo: stamattina appena sveglia e ancora a letto. Quello che più mi piace del Prof. Montalto è che dice le cose con verità e senza inganno. Scrive d'amore e fa sognare, ma descrive anche l'odio e l'orrore che ne consegue.
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
Devo ammettere che quando leggo le poesie di Montalto mi si apre davanti un mondo fatto di emozioni e di “Cuore”, come dice il sottotitolo di questa accorata raccolta. Soprattutto la poesia VITA l’ho letta tante volte e l’ho trovata meravigliosa, anche perché esprime il mio stesso sentire. Emozionanti i versi quando dicono “La vita non ti chiede, / la vita arriva, / ti prende per la mano/ e ti trascina; / sussurra l’impenetrabile/ mormorio del cuore (…) / Ora il mio cuore/ alla Vita dice Grazie ….” ( pg. 4-5). Altre poesie che mi hanno fatto emozionare sono: Cuore, l’Arte, Pioggia e Bellezza. Queste poesie per me sono un vero nutrimento e mi aprono a tante immagini. Immagino che l’Autore di queste splendide poesie sia un uomo riservato, che riesce a stare anche da solo, lasciando però aperta la porta del cuore, per permettere alla poesia di arrivare, fino a travolgerlo, creando così una bellezza che non lascia indifferenti, perché ogni verso esprime la passione dell’incontro. Ecco i versi: “Non posso sostituire/ la magia della vita/ Posso invece fare silenzio/ per sentire, ascoltare, / Incontrare la parola del cuore/ che subito porta comprensione” (pg. 7). Il fulcro della raccolta "Parole ricercate", secondo me, sta proprio in questa poesia Cuore, e nei versi che la compongono, che danno preziosi suggerimenti: fare silenzio per sentire, ascoltare e incontrare la voce delle nostre parti più vere e profonde. Da questo dialogo di fiducia, con il cuore e in un nuovo modo d’intendere il silenzio, la strada della Vita certamente diventerà sempre più luminosa e meno tenebrosa, anche perché gli avvenimenti della vita, che sembravano non avessero un senso, ne troveranno uno. La lettura di questa bella Silloge poetica mi ha aiutata a prendere coscienza che il segreto per vivere pienamente è quello di nutrirsi dell’amore sincero del cuore, per scambiarlo con le persone che ci vogliono bene, nel tempo silenzioso del rispetto reciproco, pieno e ricco di emozioni, e nel quale "ricercare" le parole “del cuore”, quelle che concorrono a farci stare bene e portare sollievo alla nostra anima. Grazie all’Autore per aver scritto e averci fatto dono del suo mondo poetico. E’ anche mio desiderio dedicare altro tempo per meditare e entrare più in profondità alle emozioni che scaturiscono dalla lettura di queste poesie, perché leggere, scrivere, cercare e vivere il senso pieno della parola poetica, mi accorgo che è sempre più importante, fondamentale per vivere bene e in pace con sé stessi. Un grande Grazie a Pasquale Montalto per le emozioni che è stato capace di suscitarmi attraverso la lettura delle sue poesie. Rosaria Ferraro
Pag. 48
IMPERIA TOGNACCI ANIME AL BIVIO Edizioni Giuseppe Laterza, 2017 - Pagg. 252, € 20,00 - Premio Superga. “Anime al bivio” è un romanzo classico, lineare, senza colpi di scena, proprio come i romanzi di una volta, e si legge per rilassarsi, spesso con una certa “suspense” per arrivare al “the end” (piuttosto lontano) e sapere se la vicenda si conclude secondo le nostre aspettative (a lieto fine) o in altro modo. È scritto in un linguaggio molto semplice, quindi accessibile a tutti. Narra la storia di una famiglia, con tute le diramazioni che la collegano a parenti prossimi e lontani, ad amici e a tutti gli altri protagonisti che s’incontrano nel corso della lettura. Si tratta della famiglia del magistrato Giacomo, della sua compagna Rina e dei suoi figli Tina, Tiberio, Vittorio, Laura e Annunziata. Il nucleo familiare abita in territorio piemontese (molti sono i riferimenti alla regione e alle sue caratteristiche e, fra le personalità in vista, ai Savoia, al re Vittorio Emanuele III di cui Giacomo è amico). I fatti narrati si svolgono nel periodo della seconda guerra mondiale (1939 - 1945), del fascismo, e si protraggono anche oltre, toccando l’inizio della restaurazione. Le vicende storiche e le vicende dei protagonisti s’intersecano tanto che si può affermare, senza ombra di dubbio, che la narrazione sia il pretesto che permette alla Tognacci di recuperare, raccogliere notizie belliche, usi e costumi superati e trasmetterli ai lettori, ai contemporanei (arretratezza, miseria, fame, sporcizia, malattie incurabili, paura, deportazione, bombardamenti, intere città distrutte, ponti crollati, ferrovie dissestate, persecuzione, torture fisiche e psicologiche, uccisioni in massa, mancanza di libertà...). L’ attenzione dell’autrice, oltre che su tutti i personaggi, di ognuno dei quali dà dettagliate informazioni, si concentra, in modo preminente, su Annunziata, ultima figlia di Giacomo. La ragazza, graziosa, intelligente, seria, incline a prodigarsi per gli altri, nonostante i saggi consigli e l’opposizione dei genitori, del padre in particolare, decide di entrare in convento e di vestire l’abito monacale. È una lunga e dura esperienza la sua: impara, a proprie spese e senza ribellarsi, quanta ipocrisia, quanta cattiveria e invidia regni nell’animo di alcune sue consorelle che vivono e pregano, come lei, tra le buie e fredde mura della loro “prigione”. Le affidano, nei primi tempi, compiti diversi: insegnare nella scuola primaria, sorvegliare, dalla mattina alla sera, le collegiali. Ella, però, svolge anche altre attività: rinnova gli ambienti (le aule scolastiche) e li fa tornare come nuovi, dipinge, suona musica classica per allietare le ragazze e continua gli studi universitari per
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
laurearsi. Tranne qualche suora e la Madre Superiore Monica, le vogliono bene tutti. A proposito di suore e conventi, la Tognacci conosce molto bene le regole delle Congregazioni Religiose e la vita - giacché ne descrive con tanta precisione l’andamento - che in tali strutture si conduce; ammirevole, nondimeno, la sua capacità (da vera psicologa) di penetrare nell’intimo delle anime votate a Dio, intuirne i sentimenti di fede ed evidenziarne le tendenze volte al bene e quelle volte al male. Ed ora torniamo a Suor Annunziata. Non tollera le ingiustizie e le malignità della Superiora nei suoi confronti e si fa trasferire nella “Congregazione Belga”. Affronta disagi e sacrifici ingenti, ma riesce a farsi stimare e amare da tutti quanti la circondano. Non si può non ricordare, fra l’altro, la sua grande disponibilità nell’aiutare le famiglie degli italiani morti nell’incendio della miniera. La Tognacci recupera altre notizie da trasmettere: l’ondata di migrazione degli italiani nel Belgio, dopo la fine della seconda guerra mondiale (sembra di leggere, in “Cuore” di De Amicis, dell’emigrazione degli italiani in America). Eccola di nuovo, la “nostra eroina”, in Italia, a Terni, dove può concedersi, finalmente, un po’ di riposo ma non sfuggire agli insulti della Superiora... Decide così di andare via, non ne può più: “Era il giorno di Sant’Anna. Mentre ancora tutti dormivano, lasciò silenziosamente la grande casa passando per una uscita secondaria. Nessuno se ne accorse. La porta del convento si chiuse”. Antonia Izzi Rufo
DOMENICO DEFELICE NINO FERRAÙ Ed. Il Croco/I quaderni letterari di PomeziaNotizie, 2016 - Pagg. 60, € 8,00 Un saggio ricco di sfumature quello di Defelice il quale consente al lettore di immergersi nell’ illuminante mondo di Ferraù, un mondo dominato dall’ Urgenza del tempo che lo porta ad essere sempre protagonista, con stile ed estrema eleganza del suo breve, ma intenso vissuto. Con i tanti rimandi, le estrapolazioni poetiche e frammenti del suo vissuto, il saggio passo a passo valorizza la profondità di un personaggio cardine della poesia italiana dell’epoca moderna, artista a tutto tondo, fondatore dell’Ascendentismo, accresce il desiderio di conoscenza di ciò che lo riguarda. Significativa la forza che Ferraù dà alla morte, una morte che non lo spaventa e sente sempre vicina, un’istanza che lo spinge ad avvalorare l’amore verso chi gli è vicino e un giorno, in un prossimo
Pag. 49
futuro nemico non ci sarà più. Questa consapevolezza lo spinge a vivere il qui ed ora con grande intensità, ne è uno dei tanti esempi una poesia che scrive ai genitori: Padre, madre, non è merito mio Se già tanto vi amai. Per tanti anni pensai Come se ogni anno della vostra vita Dovesse essere l’ultimo. E questa idea bastava A rendere il mio affetto assai più forte E crescente con gli anni, i giorni e l’ore. Devo solo al pensiero della morte Tutta la forza messa nell’amore.. …. Resta di fatto uomo dalla spiccata sensibilità, attento alla Natura e ai suoi cicli, uomo viandante, rispettoso delle donne e dell’amore. Come ci sottolinea Defelice: Ferraù ha guardato sempre il mondo e le sue attrazioni come “un panorama/visto da un treno in corsa”. Il suo orgoglio è di aver rispettato la Natura, di non aver distrutto nulla e di aver lottato per la Pace, per “strappar l’arma al pugno del soldato”. Si vede “come un fiore/ che troppo s’è goduto il sole”, destinato “d’ appassire presto”, “trucidato dalla luce”. E così, in questo suo incedere verso le alte sfere della mente, a pescare in cielo i pensieri, che si distacca e si eleva dal terreno e compie la sua catarsi. Bello infine l’omaggio che Defelice offre ai suoi lettori pubblicando le epistole a lui indirizzate dall’amico Ferraù, un regalo che esalta ancor più l’ animo dell’Uomo che era e che lì, nei suoi scritti sempre si ritrova. “A mio figlio” Presto saprai Che il cuore d’un poeta Non vive sol per scrivere Ma scrive e scriverà Per sopravvivere. Finché son vivo, mi vedrai in casa come la nave al porto, quando sarò morto, non sentirti sperduto e senza meta: apri i miei libri e lì mi troverai. Presto saprai Che il figlio d’un poeta Non è orfano mai. Veronike Jane
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
CORRADO CALABRÒ LA SCALA DI JACOB Il Croco – I quaderni letterari di Pomezia Notizie, 2017 Il primo Premio Città di Pomezia 2017 è stato vinto da Corrado Calabrò con la silloge La scala di Jacob; un poeta la cui fama ha oltrepassato i confini nazionali, e un punto di merito per il Direttore della Rivista se questo noto personaggio ha pensato di partecipare al Premio. La lirica che dà il titolo alla silloge s’ispira alla Bibbia, e precisamente al sogno fatto da Giacobbe nel quale gli appare una scala che sale fino al cielo, sulla quale salgono e scendono angeli. Una perfetta metafora per aprirci il suo animo, sempre teso a qualcosa di nuovo e sempre pronto a esplorare il proprio sentire. Calabrò vuole dirci di continuare, passo dopo passo, e andare avanti senza mai fermarsi. Egli spazia dal verso breve e conciso alla metrica di largo respiro, con la quale può ampliare il tema ed enunciare fatti drammatici, come nella bellissima lirica “Precessione (Tsunami) " dove il dramma è reso in modo sublime. Oppure in “La carrubara” dove racconta un episodio di quando ragazzo ha dovuto assistere all’orrore della guerra. Pur nella brevità di questo lavoro (dovuta alle esigenze del Premio) possiamo avvicinarci alle tematiche a lui care. Tra queste molto importanti sono la donna, gli affetti familiari e l’amore che tutto ingloba. Il ruolo della donna è stato fondamentale nelle sue vicende personali e mette in risalto il suo essere in balia delle emozioni e degli eventi, come spiega in “Trasloco”: “Sette città sette case ho cambiato / sette volte le cellule ho mutato / sette donne in amore ho abbandonato.” Non mancano neanche i momenti ironici che determinano il saper cogliere la leggerezza anche nei problemi seri, come in “Incoscienza” che tratta di studi sul cervello e termina con il verso “Uè, non fu un sordo a comporre la Nona?”. Calabrò dunque ha una grande esperienza esistenziale, che gli ha donato emozioni positive ma anche sofferenze, scalfendo giorno dopo giorno il suo animo di poeta ma anche procurandogli il materiale per la poesia. Solo con il gioco delle emozioni, infatti, s’innesca il bisogno di dire e più una vita è vissuta intensamente più spazio si apre per la creatività poetica. Lui ha vissuto e continua a vivere totalmente, tanto da sentire il bisogno di dire: “Ho visto tutto: / niente esiste per me se non in me.”. Laura Pierdicchi
Pag. 50
GIOVANNA LI VOLTI GUZZARDI RICORDI COCENTI Ed. Il Croco/ di Pomezia Notizie, 2017 Giovanna Li Volti Guzzardi ha meritato il 3° Premio Città di Pomezia 2017 con la silloge Ricordi Cocenti. E’ da molti anni che la poetessa è attiva nel mondo culturale e ho già avuto modo di leggerla. Ciò che contraddistingue la sua poetica è il sentimento di nostalgia che la pervade da quando, sposandosi, ha lasciato la famiglia e il paese natio per trasferirsi con il marito in Australia. Anche questa silloge è pregna di ricordi, come si evince dal titolo. Sono immagini deliziose della sua infanzia in un paesaggio ameno. Una bellezza prorompente che si trova solo nel suo Bel Paese. Tra gli affetti familiari la figura paterna ha avuto un ruolo molto importante, come si può leggere nella lirica che dà il titolo alla raccolta. L’emozione irrompe in un fiume di parole che si snodano in una struttura dal largo respiro e tracciano nei dettagli la figura paterna, l’allegria che si diffondeva nella casa accompagnata dalla musica amata dal padre; il quale faceva concerti d’opera. Un amore totale che abbraccia pure la madre e i fratelli. Una famiglia idilliaca fino a che, proprio lei, rompe la felicità con la sua partenza per la lontana Australia. L’animo di Giovanna Li Volti Guzzardi è colmo d’amore e la continua alternanza tra la realtà e il ricordo provoca continue intense sensazioni. Anche la natura è molto importante per la poetessa, che s’ immerge tra il profumo di fiori, il venticello, le fronde e il profumo del mare. Giovanna ha pure il suo giardino privato, dove si gode la bellezza delle sue piante: “… il mio giardino è la festa dei profumi e dei colori, / tanta frutta dolcissima, / tante piante stupende, / tanti fiori splendenti!”. In ogni modo prevale sempre la nostalgia per l’infanzia passata con i suoi cari e la poetessa crea bellissime scene del tempo passato. Con questa raccolta entriamo nel mondo di Giovanna Li Volti Guzzardi scoprendo i suoi pensieri più intimi, il suo sentire, le gioie e i dolori. Si apre totalmente, senza remore, per farci scoprire la bellezza del suo animo. La sua è una coscienza limpida che accoglie l’esistenza con il sentire simile a quello di un bambino. Laura Pierdicchi
FILOMENA IOVINELLA A MIO PADRE Ed. Il Croco / Pomezia Notizie, 2017 Il quarto Premio Città di Pomezia 2017 è stato as-
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
Pag. 51
segnato alla silloge A mio padre di Filomena Iovinella, personaggio poliedrico poiché, oltre alla poesia, ha pubblicato racconti, favole e un romanzo. S’interessa inoltre di musica, cinema e teatro. Attualmente sta frequentando proprio un laboratorio teatrale. Questa sua raccolta è dedicata totalmente alla figura paterna, per lei molto importante, che è venuta a mancare lasciandola nel dolore e nella solitudine. Sono liriche di breve/medio respiro che rendono un’emozione intensa, ma nello stesso tempo sono misurate dal ragionamento e dalla visione di una possibile luce oltre le tenebre. Molti sono i ricordi che si affacciano alla sua memoria e che le fanno rivivere momenti felici del tempo passato: “Ci ritrovavamo a scattare foto / in un’epoca ora, di altro tempo / ci tenevi per mano, sorridevi / ti preoccupavi e ci proteggevi.”. La malinconia e il dolore sono, però, sempre in agguato e Iovinella si trova a essere in uno stato di continua alternanza. E’ in questa condizione che può succedere il miracolo de “Il terzo occhio” e si può comprendere qualcosa oltre la materia: “Non sapevo si sarebbe illuminato / il terzo occhio al centro del mio corpo.”, e ancora: “Le tue parole sono balsamo per chi ti circonda / e a me mandi raggi di guida. / Non sono i miei occhi a vederti / e in quelli mi manchi tanto / ma ti vedo lo stesso nella luce della tua guida.”. E’ in questa dimensione che Iovinella può trovare una certa serenità, parlando con il padre e confidandogli ciò che sente nel profondo. Inoltre, si rifugia nell’ora del sogno, dove può dimenticare la stanchezza quotidiana e dove può avvicinarsi a una visione fantastica: “I sogni hanno le ali / di piuma profumata / ultimamente / danzano in onirici stati / di voce di caldo al di là / di annessa, vicinanza di te”. Questa raccolta è nata dall’urgente bisogno di onorare il padre e cercare una catarsi nella scrittura. Solo chi ha provato il dolore del distacco può comprendere appieno. Filomena Iovinella, alla fine, si rivolge alla Madonna quale unica Madre che può accogliere in grembo sia la sua anima sia quella del padre: “E tu, mio padre saluto la tua carne / dalla mia nell’inno all’Ave Maria.”. Laura Pierdicchi
poetessa spazia in ogni direzione e fotografa ogni problematica. La D’Incecco partecipa agli eventi della nostra società, che spesso purtroppo sono portatori di dolore e di miserie umane. Per esempio, la lirica che apre la silloge tratta del bambino siriano trovato annegato sulla spiaggia dopo un viaggio della speranza. Un angelo cui hanno spezzato le ali, e rende appieno una struggente pietà per la vita recisa senza nessuna colpa: “Ora piccino, dormi / riverso sulla sabbia, / la maglietta rossa, / i calzoncini neri. / La tua piccola sagoma / riportata dai media / è impressa nei nostri occhi.”. Tra le odierne miserie vi è pure la condizione dei Rom, dove bambini innocenti sono costretti a mendicare e a conoscere solo le leggi di chi li comanda. Oppure ancora la poetessa prende spunto da una ballata per ricordare il crudo episodio dell’ uccisione di cento indiani indifesi da parte di soldati americani: “Vecchi, donne, bambini, / mentre gli uomini / erano alla guerra. / Furono sorpresi e trucidati.”. La D’Incecco continua a mettere il dito nella piaga del sociale rilevando anche la situazione di coloro che si trovano senza lavoro e cadono nel degrado, costretti a chiedere un pasto caldo e a diventare loro malgrado degli scarti umani. Troviamo però dei momenti più leggeri, nei quali la poetessa si lascia avvolgere da una certa liricità e sa cogliere la bellezza e la serenità di una serata speciale: “Un trillo partiva dal tetto / un altro repentino rispondeva. / Era un duetto d’amore / e scriveva nell’aria / la legge eterna della natura.”. Oppure vi sono dei ritratti molto delicati, come quello della “Damina colorata” e delle “4 Suorine”, dove si evidenzia la semplicità di queste figure femminili. Altre liriche si soffermano sulla bellezza della natura con vivide immagini del quotidiano e prevale un ricordo di “Ferragosto” dove risalta la spensieratezza del periodo feriale con il “trambusto festoso /di incontri e saluti” , e dove poter “ritrovare la gioia / di un tempo fanciullo.”. Nel complesso, Lina D’Incecco ha saputo delineare una visione variegata della nostra attualità e del sentire esistenziale. Laura Pierdicchi
LINA D’INCECCO SUGGESTIONI Il Croco – I quaderni letterari di Pomezia Notizie, 2018
IMPERIA TOGNACCI ANIME AL BIVIO Ed. G. Laterza
Nella raccolta Suggestioni, con la quale Lina D’ Incecco ha meritato il 2° Premio Città di Pomezia 2017, troviamo diversi temi poiché lo sguardo della
Pistoia, 6.7.17 Gentile scrittrice, terminata la lettura del suo ampio romanzo le trasmetto alcune poche considerazioni delle tante pos-
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
sibili. Innanzi tutto ha trovato un titolo che sintetizza efficacemente la materia: i suoi personaggi ma soprattutto la protagonista appaiono sospesi tra sottomissione e autodeterminazione, un conflitto lacerante che si svolge nell'intimità della coscienza. Mi sembra poi che il suo romanzo possa situarsi all'incrocio di alcuni sottogeneri: romanzo storico (di una storia abbastanza recente che si spinge fino ai nostri giorni), familiare (specie nella prima parte), di genere (per l'attenzione dedicata all'universo femminile, frutto di un'adesione piena ai comportamenti e ai valori di quel mondo). Anime ai bivio presenta un ritmo narrativo ricco di pause e lentezze; ciò mi sembra in linea con una poetica romanzesca che, oltre al narrare storie, avverte il profondo bisogno di riflettere, di analizzare un po' tutto, ma in particolare il mistero della vita e dell'amore con cui tutti gli uomini hanno a che fare. Ovviamente un romanzo d'avventura (o d'azione) avrebbe richiesto tutto un altro andamento. In un lungo romanzo ci sono 'pagine avvincenti e altre meno stimolanti e il suo non fa eccezione, tuttavia il dato strutturale della lunghezza appare non estrinseco ma legato ad una decisa necessità diegetica. Infine l' elemento linguistico-espressivo. Su questo piano noto un discorso piano, sintatticamente essenziale e lineare; mancano quegli scarti e scatti che catturano l'attenzione e si fanno apprezzare, ma che in definitiva vanno a danno dei fatti ed eventi che si vogliono narrare. Anche se qua e là è dato cogliere qualche svista o scivolata di non grande importanza (ad un certo punto si attribuisce a Luigi XIV un detto che invece va attribuito a Carlo V), il suo lavoro è da considerare pienamente riuscito non solo per i motivi che mi sono sforzato di enunciare sopra, ma anche per la dedizione totale ad un mondo ideale e valoriale che si coglie in tutti i capitoli del romanzo. Voglia quindi accettare le mie più sincere congratulazioni.
BRUNO ROMBI OCCASIONI (Ismecalibri, Bologna, 2016, € 12,00) Con un titolo di chiara ascendenza montaliana, Occasioni, Bruno Rombi ha voluto offrirci le sue nuove poesie, recanti la traduzione a fronte in francese di Monique Bacelli; il che dà luogo, ancora
Pag. 52
una volta, ad un libro bilingue. Apparso nel 2016, Occasioni si apre con una Prefazione in italiano di Rosa Elisa Giangoia e si conclude con una Postfazione in francese di Philippe Leuckx. Come s’intuisce dal titolo vi sono contenute poesie che nascono dai più diversi eventi, per trovare la loro unità in virtù dello stile fluido e incisivo con il quale sono state scritte. “Il tempo ha il colore della notte / sullo specchio di mare / che rifrange / in scaglie colorate di vetro / tremolanti / gli scorci senza fine / d’una collina addormentata” (Il tempo). È questa la prima poesia della raccolta, e subito ci dà la misura della sicurezza espressiva raggiunta dall’autore. Quanto al loro contenuto, è da dirsi che, come bene osserva Rosa Elisa Giangoia nella sua Prefazione al libro, queste liriche sono permeate dalla “soffusa malinconia [nascente] dal senso del congedo” che in esse è racchiuso. E infatti uno dei primi testi della raccolta, L’ultimo tratto, ha questo incipit: “Lasciate che l’ultimo tratto / del mio cammino / sia percorso in punta di piedi / in ascesa solitaria / col sole di fronte che bruci / gli ultimi desideri terreni”. E poco oltre troviamo un’altra poesia, Ora che Voi… che costituisce un pacato colloquio con la Morte: “Ora che Voi vi avvicinate / furtiva, / come tutte le cose ambigue, / e tentate il passo sul filo del silenzio / forse l’ascolto che debbo / alle voci / si fa più impellente e più arduo”. Ancora più esplicitamente “l’ombra della morte” fa la sua apparizione nella poesia Cancellazione, dove tangibilmente si percepisce la sua angosciosa e insidiosa presenza, che segue l’uomo durante tutto il percorso del suo cammino terreno (“s’aggira col suo passo felpato, ma costante”). Si legga inoltre a questo proposito una lirica come I giorni della vita, nella quale più intenso pare farsi il sentimento del tempo che fugge, e quindi dell’avvicinarsi dell’estremo traguardo: “Mi sfuggono fra le dita, / come granelli di sabbia, / i giorni della mia vita”. Più serene appaiono invece altre poesie di questa raccolta, nella quale compare il Rombi vitale e partecipe degli eventi del mondo esterno, che conosciamo da sempre, specie nelle poesie in cui s’ affaccia la natura, da lui sentita con particolare intensità, come avviene in La mimosa: “Che splenda, come su questo / fianco di Pieve, / non c’è altra mimosa. / Le cicale / vibrano al sole / sul precipizio di case / e la scacchiera di mare / mossa da un ignoto giocatore. / Sa di salsedine calda / l’aria”. C’è qui una vera e propria immedesimazione del poeta con il paesaggio circostante, che egli avverte come cosa propria e nel quale si confonde. E non solo alla natura si rivolge Bruno Rombi nelle sue poesie, ma molto spesso anche agli uomi-
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
ni, che avverte come fratelli: è quanto avviene, ad esempio, in testi quali Voi, carbone, in cui si rivolge ai minatori della sua Terra, la Sardegna, con espressioni piene di affetto e di partecipazione alla loro sofferenza: “Trasformati anche voi in carbone / da una vita ormai languente / sul suo frontespizio, / minatori del mio Sulcis, / tentate l’oscura Morte / dalle adunche braccia / per un giorno ancora / degno d’essere vissuto”. Ritorna qui il motivo del legame del poeta con l’isola natale, che era affiorato sin dalle poesie di Canti per un’isola, il terzo libro da lui pubblicato. Così come ritorna, anche in queste più recenti poesie, quel sentimento dell’umana fratellanza, che gli è proprio e che ormai conosciamo da tempo. Si veda ad esempio la poesia Non v’è mare…, dove s’affaccia il compianto per i morti in mare nel tentativo di raggiungere le nostre coste per cercarvi un rifugio dalla guerra e dalla fame. Qui Rombi trova i suoi accenti più commossi e ispirati nel contemplare con gli occhi della mente le innumeri tragedie che si consumano poco lontano da noi e che spesso vengono considerate con freddo distacco: “Se i corpi sommersi dall’acqua / riposano sul fondo del mare, / in attesa che qualcuno li ripeschi / e li riporti alla luce, / le anime, come gli uccelli, / son libere e volano via”. La poesia si era aperta con questi versi: “Non v’è mare che possa contenere, / per quanto profondo esso sia / le anime di tanti fratelli…”. Vi sono poi in questo libro (di natura prevalentemente intimistica, se si eccettuano alcuni testi di risentita poesia civile, come quello or ora citato dei migranti e quello precedente dei minatori sardi) alcune poesie nelle quali Bruno Rombi pare avvertire con maggior forza il peso degli anni e vivere con maggiore affanno la propria crisi esistenziale, come accade in I giorni della vita, una delle poesie sopra citate, che è anche una delle più riuscite della silloge per l’immediatezza con la quale si apre e per le emozioni che suscita. Ma, per quanto concerne la pena che a volte l’opprime, si legga specialmente Solitudine, così amara e senza una luce che rischiari l’orizzonte breve del suo cammino: “Solo, su un masso di solitudine, / assaporo l’assenza da me stesso: / dal me di prima che marciava / a passo felpato, o correndo / incontro al futuro”. Troviamo inoltre in Occasioni le poesie ispirate da altri poeti, come il senegalese Léopold Sédar Senghor, Saint-John Perse (premio Nobel per la lettratura nel 1960), il peruviano Vallejo e Pablo Neruda (premio Nobel nel 1971), che Rombi ha molto amati e con i quali ha avuto pertanto una lunga consuetudine. Nella prima di queste poesie, Che fai tu? (Imitazione da Senghor), il nostro autore si pone delle
Pag. 53
domande: “Che fai tu? Che facciamo?”; domande che s’affacciano in lui e restano senza risposta (come s’affacciano in tutti noi nel considerare il nostro vano agitarci “in quest’ampio deserto cittadino / in mezzo a grattacieli e a sotterranei”, alla ricerca di uno scopo che da sempre ci sfugge). La conclusione è: “E la risposta suona come un gong / che rimbombi nell’aria all’infinito / e la cui eco nel nulla si disperda”. Il corso del mondo costituisce un’imitazione da Saint-John Perse. La poesia è giocata dapprima in chiave ironica: “Se questo è il corso del mondo / ed io non ho che a dirne bene / ne dirò che la città è fondata / ma che mancano i cittadini. / … / Ora incontro soltanto delle ombre / … / come se il gioco continuo, del vivere, / non prevedesse che parvenze…”. La conclusione della poesia è però quanto mai problematica, dato che termina con questi versi: “Per cui non ci resta che chiederci: / «Ma noi, chi siamo?»”. Sempre ad imitazione di Saint-John Perse è Il male viola, che così inizia: “Vient, de ce coté du monde / un grand mal violét sur les eaux. / E nessuno comprende / perché è viola, questa volta, il male, / e non rosso come il sangue / di mille stragi umane…”. L’incipit è conturbante e sorprende per la visione di quel “grand mal violét” che si affaccia minaccioso “sur les eaux”, venendoci incontro; “simbolo”, come osserva Rosa Elisa Giangoia, di tutto ciò che “a poco a poco offusca il nostro esistere fino a spegnerlo”. La poesia così continua: “Siamo solo attenti ai piaceri / dell’inferno che ci accoglie”, dove il poeta lancia il suo anatema contro l’ingordigia e l’ indifferenza umane nei confronti del prossimo, per terminare con una forte critica del comportamento dei propri simili e delle loro illusioni: “impavidi ancora crediamo / d’essere padroni della Terra, / illusi d’ una longevità maggiore / dei mostri antidiluviani” (Il Male viola). Il che costituisce un notevole esempio di poesia civile. A Pablo Neruda s’ispira invece La Sardegna nel cuore (Imitando Neruda di La Spagna nel cuore), una poesia nella quale Bruno Rombi ritrova gli accenti forti e risentiti, che già altre volte da lui abbiamo ascoltati, per denunciare la condizione di estremo disagio dei suoi conterranei: “Isola sommersa dall’interminabile/ martirio per colpa / di un esercito crescente di miopi / che non vuole vedere, e non avversa / chi distrugge il senso / della mia terra”. E ancora; “m’aggiro tra le rovine / e in un tormento, che cresce / a dismisura”. Qui è il Rombi della “vena civile” che ancora una volta s’affaccia e che parla per tutti coloro che non hanno voce per farsi ascoltare.
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
Ad imitazione di Vallejo è Malinconia, che inizia con due versi di questo poeta, che suonano: “Melancolia, saca tu dulce pico ya; / no cebes tus ayunos en mi trigo de luz”, tradotti da Rombi: “Malinconia, ritira suvvia il tuo dolce becco, / non pascere la tua fame nel mio grano di luce”. L’immagine è ardita e il nostro poeta ne approfondisce il significato, dicendoci che, quantunque non sia un buon agricoltore e troppo pretenda dal suo piccolo campo, tuttavia la sua fame di verità gli farà raggiungere dei proficui risultati: “Forse non sono un buon agricoltore / e troppo pretendo da un campo / come il mio, piccolo piccolo. / Ma ho fame, da tempo, / della verità del pane”. Molti e significativi sono gli altri spunti (o “occasioni”) che emergono da questo libro, come è ad esempio del senso di colpa che affiora da Ubriachi, dove s’affaccia l’urgenza morale che l’autore ha particolarmente spiccata e per la quale si indaga e si tormenta: “Ci laviamo spesso le mani / col vino / per coprire le macchie / di sangue / che abbiamo versato / ferendo un amico”. Qui il Rombi sembra far riferimento al nostro abituale tentativo di sottrarci al richiamo della coscienza: “Ebbri del tasso alcolico / ricordiamo soltanto / volutamente / che forse abbiamo troppo bevuto”. Altre volte invece l’ispirazione nasce in lui, come abbiamo detto sopra, dalla prefigurazione della morte (si vedano le già citatate posie L’ultimo tratto e Ora che Voi…); un pensiero, al quale si contrappone però, come speranza di eternità e di sopravvivenza, quello di Dio, che in questo libro esplicitamente s’affaccia in una poesia intitolata La presenza di Dio, che offre a Rombi un appiglio e un conforto. Il poeta ne avverte la vicinanza ed è in Lui che trova il proprio Punto di riferimento e la propria salvezza: “Sento Dio aleggiare in questo spazio / dove la luce brilla senza fonte. / … / e sempre più splendente / è la presenza di Dio / onnipotente”. Tra le poesie di Occasioni ce n’è una intitolata Il gatto maestoso, che non si può tralasciare, perché sembra essere il simbolo del dolore e della morte che incombono su tutti gli esseri viventi e che colpiscono quando meno li si attende. “C’è un gatto maestoso nei dintorni / che miagola sempre più forte / in cerca di un topo smarrito / che non ritrova la tana”. E in quel povero topo (che “un po’ fa pena e commuove” e nei suoi disperati “tentativi / di trovare un pertugio / ove sfuggire al gatto” che maligno l’insegue) s’identifica l’autore, che come lui cerca disperatamente di sottrarsi alla morte; una morte che incombe come un macigno: “Ora il gatto è silente, in posta, / davanti alla tana”. Chi guarda la scena dal di fuori non sa se partecipare al dramma del topo o stare dalla parte del gatto. Il dramma in-
Pag. 54
fatti non lo tocca e “forse pensa sia soltanto un gioco / come la vita”. E invero la vita è innocente e crudele al tempo stesso nelle sue manifestazioni che si susseguono senza un perché, se non quello puro e semplice del loro fatale accadere. Il che ci induce a riflettere sul mondo e su ogni creatura. A lettura terminata ci accorgiamo di aver incontrato un libro vario e profondo, un libro nel quale troviamo gioia e tristezza, rassegnazione e speranza, ma nel quale sempre s’incontra il soffio della poesia, che dà pace ed esalta. Ed è per essa che il nostro autore si salva e trova il suo compimento. Liliana Porro Andriuoli
MICHAIL LERMONTOV POESIE SCELTE quaderni di Erba d'Arno - dicembre 2017 Appare il bianco di una vela sola dentro la nebbia sopra il mare azzurro... Non si può parlare di Michail Lermontov se non inserendolo nel contesto romantico. È un poeta ricolmo di spiritualità, di passione e distacco a un tempo, di follia e di realtà, di protesta e ribellione alle leggi umane e divine. Si accosta a Byron; con lui in parte si identifica. Ne aveva colto lo scetticismo, la disillusione e la romantica melanconia. Michail rientra nel cuore della grande Russa, madre di solitudini, di steppe, di lotte e anche d'ingiustizie. La sua ammirazione profonda per Puskin morto dopo un duello che doveva vendicare il suo onore ferito: "Il poeta è caduto - ostaggio dell'onore -/ è caduto per malvagia calunnia/ con il piombo nel petto, con sete di vendetta,/ chinando la testa orgoglioso!... È stato ucciso... come il cantore, ignoto ma amabile,/ vittima della sorda gelosia/ che lui cantò, con forza e a maraviglia,/ come lui abbattuto da un'impietosa mano." Anche Michail morì in un duello che lui stesso provocò. Le sue accuse verso la Corte, fonti di intrighi e indiretta causa della morte di Puskin, lo fecero arrestare e per ben due volte mandato nel Caucaso... Michail è un giovane brillante, alter ego di Puskin ed esponente anche lui del romanticismo russo. Ci sono, tra i due poeti, analogie e differenze. Analogie nella libertà e modalità di vedute. Esilio per Puskin, Caucaso per Lermontov. Maggiore originalità in Puskin; il suo canto primitivo del popolo russo, legato alla tradizione. Questi concetti poi furono elaborati dalla cultura e immaginazione, divenendo realtà viva della letteratura russa. Fantasioso, ascetico e mondano a un tempo e avido di piaceri. La sua spiritualità è filtrata attraverso la carne. Raf-
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
finata cultura francese e impetuosa natura africana. Nella sua personalità si identifica ogni uomo; è anche lui un lupo nella steppa in chiave romanticoidealista, punto d'incontro tra realtà, fantasia, cielo e polvere. Dal - Prigioniero del Caucaso -: "Non piangere, anch'io son perseguito dalla sorte,/ ho provato anch'io la tortura del cuore: Io non ho conosciuto l'amore riamato,/ ami solo, soffri solo/ e mi spengo come una fiamma fumosa,/ dimenticato tra questi deserti burroni./ Morrò lontano.../ Gli occhi della notte si oscurano..." In Lermontov, a parte la pubblicazione delle liriche dopo la sua morte, veniamo trascinati da una fantasia che, partita da esperienze di vita, si libra nei sogni. Lui vive e sogna in più mondi, dettati dai suoi mutevoli stati d'animo. Per conoscere un poeta bisogna leggerlo e carpirne l'essenza isolandolo dal contingente. La sua visione dell'angelo: particolare. Nella mezzanotte il volo dell'angelo che cantò una canzone tranquilla. Una giovane anima ascendeva al cielo, anima colma delle tristezze del mondo. Quest'anima può essere quella del poeta e il suono del canto diviene compagno dell'animo; vivo il desiderio del poeta di affrancarsi dal dolore nell'avvicinarsi a Dio nelle braccia dell'angelo. Il poeta giovane e impetuoso ha amato molto le donne. Un amore che non sempre è dato essere completamente realizzato ma resta nella sua anima come sogno. Anche se uomo attento al mondo e ai suoi carichi, lui indugia, penso, per sopravvivere, su momenti di pura astrazione poetica. Ai suoi occhi "appare il bianco di una vela sola/ dentro la nebbia sopra il mare azzurro!..." Immagini nitide ma scaturite da un sogno maturato negli occhi di Michail. La vela è giostrata dalle onde e "Ahimè non cerca la felicità,/ dalla felicità nemmeno fugge". È quell'alternarsi di contraddizioni dell'uomo imprigionato nel sogno ma consapevole di una realtà che non gli darà gioia. La vela-uomo ha sotto la profondità del blu-celeste e, sopra, i raggi dorati del sole. Masochista l'uomo-vela ricerca la tempesta "come se la tempesta fosse quiete". La sua lirica talvolta diviene prosastica ma sempre ricolma della calda melanconia dello spirito russo. I laghi come mare, i fiumi lenti, il volo degli uccelli divengono parte vibrante dell'animo del poeta. Ha amato la vita, più donne ma presente in lui l'immagine della Madre di Dio a cui si affida - lui, "viandante in un mondo vuoto". In lui carnalità e spirito. Ha vissuto per un periodo breve, intensamente ma l'intensità non era sempre fisica, solo presunta e ingigantita dalla sensibilità estrema della sua anima. È come se la donna di cui lui sente il bisogno non
Pag. 55
possa essere scissa dalle profondità celesti del mare o dalla leggerezza delle nuvole "eterne erranti". La sua essenza: corpo e anima fusi in un bisogno di luce, di conquista, di erranza fuori dallo spazio e dal tempo. È giovane e muore giovane e le immagini femminili delle sue liriche rimarranno vivide in lui - figure mimetizzate tra sogno e realtà. Parla anche di una roccia gigantesca, forse il duro dell'esistere. Sulla roccia ha dormito una nuvola che poi è volata via nell'azzurro; ma qualcosa sempre rimane sulla vecchia roccia. Gli attimi densi di gioia anche se poi svaniscono, lasciano una traccia come la rosa che fiorisce un solo giorno ma conserva il suo profumo. Poeta di realtà, di sogni. Il tutto permeato nelle acque del mare o di fiumi come il Térek in Georgia. E questa natura equorea è sempre da lui legata alla figura femminile. Voce di donna attraverso nebbie forse del sogno, desiderio, passione. Amplessi e suoni, bizzarri e selvaggi. Poi, con la luce del giorno, il nulla. Sono sogni ricorrenti del poeta o realtà lontane che lui fissa nel verso? Probabilmente il presagio di una vita breve e il commiato da realtà vissute o solo immaginate che gli hanno però permesso di lasciarci versi immortali in un mondo troppo spesso arido e ingiusto. Anna Vincitorio LINA D’INCECCO SUGGESTIONI Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2018 Lina e la parola Svela se stessa semplicemente senza parole altisonanti. È respiro d'anima il suo parlare. Persone appartenenti a categorie sociali diverse. Gli eventi: bimbi Rom guardati dai più con diffidenza; talvolta la loro morte per incendi dolosi è notizia che non fa seguito più di tanto. Se invece muore un bimbo importante, il telegiornale si dilunga nel servizio TG3 regionale. Ma la morte di un bimbo è sempre atroce; è un fiore reciso al suo aprirsi e se lo raccolgono gli angeli con le loro ali non ci sarà differenza tra stracci e ricami. Così, vecchi canti di un'America meno buonista di quanto non si creda ha permesso massacri di innocenti indiani e, al giorno d'oggi, episodi reiterati di crudele razzismo mai debellato. Fa tristezza chi è senza lavoro ma quante volte uno di noi volge lo sguardo altrove per non vedere la fame e, ancora, la muta rassegnazione di un mendicante? Così i barboni. Una vita di strada e una morte precoce per il freddo, l'inedia, fra strette pareti di cartone. C'è chi li aiuta, chi si commuove davanti a un video...ma
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
poi? A questa immagine Lina reagisce e la sua parola si sofferma sulla star Zucchero. Questo nome la ripaga di tanta indifferenza. Così i musicanti per strada. Curiosità ed emozione. La stessa che si prova nel guardare i Madonnari che febbrilmente colorano i selciati. Poi, nella lettura in fondo alla plaquette, si delineano figure: la donna colorata, quattro suorine azzurre, la descrizione di una siepe e la bellezza di un cammeo. Forse volutamente immagini che suscitano gioia e colorano il vissuto per superare le tristezze di un mondo crudele dove la pïetas è sconosciuta. Importante è vivere, osservare e fare qualcosa. Scrivere aiuta il poeta e chi lo legge. Queste le mie impressioni scaturite dalla lettura di Suggestioni. Anna Vincitorio
D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE SUPPORTO WEB ISSN - A partire da questo numero, i lettori di Pomezia-Notizie troveranno a destra, sopra la testata, il Codice ISSN (International Standard Serial Number, cioè, “numero di riferimento internazionale per le serie”), rilasciato dal Consiglio Nazionale delle Ricerche - Centro nazionale ISSN di Roma. Esso consente una identificazione universale del periodico, anche nel caso in cui esistano più pubblicazioni dello stesso titolo. Un altro segno distintivo del nostro mensile, che nel prossimo luglio, compirà ben 45 anni! Il codice assegnato è: ISSN 2611-0954. *** L’ACCADEMIA COLLEGGIO DE’ NOBILI
Pag. 56
FESTEGGIA LA VERGINE MARIA - Il Legato dell'Italia Centrale, Acc. Nob. Comm. Luca Parenti, con il Luogotenente Acc. Cav. Francesco Caccavelli e il Console Acc. Cav. Luciano Filippelli, hanno organizzato una giornata accademica per festeggiare e venerare la Patrona della Legazione, la Vergine Maria, al Santuario di Maria Theotokos a Loppiano, dai Focolarini, a INCISA (Firenze) per domenica 15 aprile 2018. Vi sono invitati tutti gli Accademici. Al momento, non abbiamo programma dettagliato, ma ci complimentiamo per la bella iniziativa, anche con il Presidente della nobile e antica istituzione - fondata nel 1689 -, Dott. Marcello Falletti di Villafalletto. *** Una serata di poesia: “RICERCA DI SENSO A MILANO”, con FABIO DAINOTTI, è stata organizzata, dall'Associazione La Conta, con ingresso libero e gratuito, lunedì 19 febbraio 2018 alle ore 21,00, al CAM Ponte delle Gabelle, in Via San Marco, 45. FABIO DAINOTTI ha letto alcune delle sue più belle poesie, sintesi splendida di una profonda ricerca poetica, sviluppata nel corso del tempo. Era presente, alla serata, Donatella Bisutti, poetessa, che ha presentato ed interagito con il poeta. Dainotti è poeta tutto da scoprire ed estremamente colto, innanzitutto per la sua approfondita conoscenza di Dante e per tanto altro ancora. Ha insegnato a lungo italiano e latino nei licei e la sua attività culturale, sia pur discreta, è da sempre assai vivace. Fabio vive nell’entroterra della Costiera Amalfitana ed è stato a Milano solo per la serata di cui sopra. Fabio Dainotti (Pavia, 1948), presidente onorario della Lectura Dantis Metelliana, di cui è stato per anni presidente e direttore, condirige l’ annuario di poesia e teoria “Il pensiero poetante”, di cui sono stati pubblicati, presso la Genesi di Torino, i primi quattro numeri: “Angeli” (2001), “Il viaggio” (2004), “Enigma” (2011), “Il mito” (2017). Ha pubblicato vari libri di poesia, tra l’altro: L’araldo nello specchio, Avagliano editore, 1996; La Ringhiera, Book, 1998; Ragazza Carla Cassiera a Milano, Signum, 2001; Un mondo gnomo, Stampa alternativa, 2002; Ora comprendo, Edizioni Scettro del Re, 2004, Selected poems, Gradiva, 2015. È presente, come critico e come poeta, in numerose riviste di settore (“Capoverso”, “Misure critiche”, “Vernice”, “Gradiva”) e antologie. Come traduttore, è presente nel volume Poeti cristiani latini dei primi secoli, Mimet-Docete, 2017. Come conferenziere, ha parlato su argomenti di letteratura, particolarmente di interesse dantesco e commentato canti della Divina Commedia. Ha tenuto reading di poesia. Ha curato la pubblicazione presso Bulzoni de Gli
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
ultimi canti del Purgatorio dantesco (2010). *** WALTER RESENTERA - LE FIGURE SUI MURI - La città di Feltre ha allestito nelle sale della Galleria d'Arte Moderna 'Carlo Rizzarda', dal 30 Dicembre 2017 al 29 Aprile 2018 la Mostra Walter Resentera - Le figure sui muri, suddivisa in otto sezioni: La pittura murale; Il periodo milanese; La biografia; L'attività di illustratore; L'attività di cartellonista; Walter Resentera/Marcello Dudovich; L'attività di illustratore; Illustri modelli; Galleria di ritratti. Tutti questi contributi sono efficaci per portare testimonianza di tutto il percorso artistico e professionale del geniale pittore, degli ambienti di vita e di lavoro, dei contatti e delle relazioni di successo. Allievo e collaboratore di Marcello Dudovich, padre della sua futura sposa, Walter Resentera (Seren del Grappa 1907-Schio 1995) ha dato vita e vitalità grafica ad alcuni tra i più noti manifesti di propaganda del regime fasci-
sta. Nel produrre cartelloni pubblicitari per note ditte dell'epoca, come l'industria farmaceutica Carlo Erba, i magazzini La Rinascente a Milano, la ditta di produzione discografica Homocord, o la fabbrica di costumi Dazza e quella famosissima dei cappelli Borsalino e ancora per la birra Pedavena, egli compone immagini e pitture murali che rimangono impresse e sono prova della sua dinamica originalità grafica, che utilizza l'immediatezza di colori in contrasti ben dosati e la spazialità imponente delle forme, agili, scattanti, cariche di vitalità e di capacità seduttiva. Tiziana Casagrande, conservatrice dei Musei Civici di Feltre, ha curato la mostra ed ha realizzato il Catalogo Walter Resentera - Le figure sui muri Cierre edizioni, Sommacampagna (Vr) 2017 (Euro 30,00), con 232 pagine a colori e con saggi di Roberto Curci, Giovanna Ginex, Marta Mazza e Anna Villari, Piero Delbello, Tiziana Casagrande, Michela Tessari, Chiara Rech, Giuditta Guiotto e Gianpaolo Resentera. Tutto il percorso è
Pag. 57
ben documentato in rete e stimola un contatto diretto, una presa d'esperienza dal vivo, per diventare un poco protagonisti di un nostro recente passato carico di vivacità autentica, che contamina verso invitanti decisionismi produttivi. Ilia Pedrina *** GIORGIO AGAMBEN AL PREMIO NONINO - Al Premio Nonino 2018 Giorgio Agamben è 'Maestro del nostro tempo'. Il Premio Nonino è giunto alla sua 43esima edizione e sempre si snoda tra i prodotti speciali della viticoltura delle terre friulane e d'altrove e la produzione letteraria, etico-politica di pensatori e scienziati che segnano il nostro tempo. La sua giuria è assai autorevole, è presieduta dal Nobel V. S. Naipaul ed ha scelto, nella cerimonia d'assegnazione del Premio Internazionale Nonino che si è tenuta presso le Distillerie Nonino di Ronchi di Percoto (Udine) il 27 gennaio scorso, il poeta e romanziere albanese Ismail Kadarè e il filosofo Giorgio Agamben, che si è visto insignito dell'ambito titolo di 'Maestro del nostro tempo'. La sezione speciale del Premio, il 'Risit D'aur' (Barbatella d'oro) è stata assegnata al progetto benefico internazionale 'P(our)', fondato nel 2016 da Alex Cratena, Ryan Chetiyawardana, Jim Meehan, Simone Caporale, Monica Berg, Joerg Meyer e Xavier Padovani, un gruppo affiatato che ha come motivazione forte quella di costituire una comunità globale di baristi, sommelier, mastri birrai distillatori e produttori che si sentano stimolati ad innovare il mondo ed il modo del bere. Per Ismail Kadarè, poeta, saggista romanziere e sceneggiatore nativo di Argirocastro in Albania, la sintesi è stata quella di identificarlo quale 'aedo innamorato e critico del suo popolo' perché prende in mano il passato balcanico e ottomano e ne misura grandezze e tragedie. Preferisce l'esilio a Parigi, perché non accetta né di servire il potere, né di vivere nel silenzio ed in ogni suo lavoro predica la libertà religiosa. Il Premio gli è stato consegnato dal poeta Claudio Magris, a lui legato da intima sintonia e rigore. Per Giorgio Agamben, filosofo ed autentico innovatore nel rapporto tra individuo, cultura, società e suoi simboli, quando si mettono in relazione con il Potere, riporto tratti della motivazione presente in rete e che apre tutto il suo dettagliato percorso biobibliografico: “Le sue indagini, sempre in cerca delle fonti, spaziano dal linguaggio alla metafisica e dall'estetica all'etica. Giorgio Agamben si definisce un epigono, considerate le sue intense esperienze con il fiorire del libero pensiero; costruisce sull'esempio di Mi-
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
chel Foucault, delle sue idee e intuizioni, una biopolitica e crea il concetto dell'Homo Sacer, un essere umano la cui vita è sacra, il che significa che può essere ucciso ma non sacrificato... Agamben spesso traduce la sua filosofia in pura poesia immersa nella natura; ascoltate la sua mirabile descrizione tratta dal suo ultimo libro Autoritratto nello studio: 'L'erba è Dio. Nell'erba - in Dio - sono tutti coloro che ho amato. Per l'erba e nell'erba e come l'erba ho vissuto e vivrò.' (fonte Internet alla voce 'Premio Nonino 2018') Il Premio gli è stato consegnato dallo scienziato portoghese Antonio R. Damasio, già Premio Nonino, luminoso investigatore del rapporto tra neuroscienze, psicologia e filosofia. Di alcuni testi di Agamben che ho già scandagliati darò presto notizia in specifiche recensioni. Ne vale la pena, ma qui ed ora riporto una brevissima traccia di quanto ha scritto il 23 gennaio 2016, ad un
paio di mesi di distanza dai fatti del Bataclan a Parigi, per IlSole24Ore e pubblicato in traduzione di Riccardo Antoniani con titolo 'Guerra allo Stato di Diritto': '… Lo stato di eccezione s'iscrive oggi nel processo che sta trasformando le democrazie occidentali in qualcosa che bisogna ormai chiamare 'Stato di sicurezza' (Security State, per dirla con i politologi americani). Il termine 'sicurezza' si è talmente integrato nel discorso politico che possiamo affermare che le 'ragioni di sicurezza' hanno stabilmente preso il posto di quel che una volta s'intendeva per 'ragion di Stato'. Benché questa nuova forma di governo non possa più essere spiegata nei termini del moderno Stato di diritto, un'analisi della sua natura è tuttora mancante...' (fonte Internet, alla voce 'Giorgio Agamben). All'epoca ero a Parigi per l'esecuzione del Prometeo di Luigi Nono alla Philarmonie de Paris e la Gare du Nord
Pag. 58
pullulava di militari bianchi e neri, con divisa e mitra o in borghese, in sosta o in movimento, sospettosi sempre ma quasi storditi da incarnazioni che non li identificavano. Tragedia vera è stata ascoltare i loro silenzi nella forzosa frenesia dell'ubbidire. Ilia Pedrina
LIBRI RICEVUTI ANGELO MANITTA - Big Bang Canto del villaggio globale - Poema, Prefazione di Ugo Piscopo - Volume di grande formato (21 x 30 circa), suddiviso in 12 Libri e in 108 Canti, per circa 50.000 versi, più una vasta “Antologia critica sui libri già pubblicati” con recensioni e saggi di: Giorgio Bárberi Squarotti, Gisella Padovani, Graziella Granà, Vittoriano Esposito, Pietro Civitareale, Vincenzo Rossi, Alessandro Lattarulo, Gabriele Di Giammarino, Bruno Sartori, Fernando Dusi Rocha, Orazio Tanelli, Domenico Cara, Carmelo Aliberti, Carmine Chiodo, Giuseppe Mario Tufarulo, Carmine Manzi, Roberto Bramani Araldi, Claudia Manuela Turco, Domenico Defelice, Gilberto Mazzoleni, Carlo Di Lieto, Paolo Ruffilli, Lucio Zinna, Gianfranco Longo, Otilia Dorotea Borcia, Norma Malacrida, Vittorio Verduci, Antonio Crecchia, Nazario Pardini, Eugen Evu, Luigi De Rosa, Marco Baiotto, Vincenzo Vallone, Angelo Manitta, Lorenza Rocco, Robert Botto, Maria José Fraqueza (tanti con più interventi), uno sterminato indice dei nomi, l’ Indice generale, per complessive 814 pagine - € 50,00 - Il Convivio Editore, 2018. Angelo MANITTA è nato il 3 febbraio 1955 a Castiglione di Sicilia. Ha conseguito la laurea in Lettere presso l’ Università di Catania con una tesi su Il fu Mattia Pascal di Pirandello. Docente nelle Scuole Medie, collabora a diversi giornali. Negli ultimi anni ha ottenuto numerosi riconoscimenti in manifestazioni letterarie ed ha fondato nell’anno 2000, oltre alla rivista Il Convivio, anche l’Accademia Internazionale Il Convivio. Tra le pubblicazioni si ricordano: Fragmenta (poesie), Catania 1981; La basilica S. Maria della Catena e S. Giacomo Apostolo in Castiglione di Sicilia (saggio), Eigraf Marconi, Castiglione di Sic.1990; Verzella e le sue contrade (saggio), Catania 1991; Lettera ad Orazio (letterasaggio) in ‘Caro Piero’, Padova 1994; Donne in punta di piedi (poesie), Riposto 1995; Santa Maria della Catena venerata a Castiglione di Sicilia e oltreoceano (saggio), Messina 1996; Come una favola (narrativa), Catania 1997; Castiglione di Sicilia dai beni culturali ai beni ambientali (saggio), Ran-
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
dazzo 1997; Profili d’artisti: Nunzio Trazzera (catalogo), Giarre 1998; La ragazza di Mizpa (poesia), Roma 1998; Giacomo Leopardi pessimista ma... non troppo (saggio), Catania 1998. Giulio Filoteo di Amadeo e Antonio Filoteo Omodei scrittori siciliani del Cinquecento (breve saggio), Accademia degli Zelanti e dei Dafnici, Acireale 1998; Dei, eroi e isole perdute (narrativa), ed. Mursia, Gruppo Elemond Scuola, Milano 2001; Antonio Filoteo Omodei e Giulio Filoteo di Amadeo scrittori siciliani del Cinquecento (saggio), ed. del Comune di Castiglione di Sicilia, Catania 2001; Teorema d’ immagini, antologia dell’Accademia Internazionale Il Convivio, a cura di A. Manitta, Catania 2001; Dame, cavalieri e paladini (narrativa) ed. Mursia, Milano 2003; Castiglione di Sicilia. Un “Presepe” tra l’Etna e l’Alcantara (2004); A partire da Boccaccio... La novella italiana dal Duecento al Cinquecento (2005); Capitoli, Consuetudini e Usi Civici di Castiglione di Sicilia e in appendice Randazzo e Linguaglossa (2008); Il Giobbe di Antonio Sarao. Poema eroico del romanticismo siciliano (2009); Orbite d’ellissi. Big Bang-Sistema solare (2010), La chioma di Berenice (2017) eccetera. ** RENATO GRECO - Se quale sia il mio idioma Riflessione critica di Giulia Notarangelo - Ed. L’artedeiversi, 2017 - Pagg. 252, s. i. p. Renato GRECO è nato nel 1938 a Cervinara (Av) e vissuto fino alla maturità classica ad Ariano Irpino. Nel 1955/56 a Matera istitutore del Convitto “Duni”. Dal ’57 al ’67 a Milano dove lavora alla Olivetti di Adriano e dove abita con la moglie dal ’66. Dal ’67 tre anni a Napoli un anno a Firenze e due anni in giro per l’Italia con tappe a Firenze e a Milano. Nell’ intanto si laurea in legge. Dal ’71 a Bari quadro nella filiale di questa città. Nel ’77 è di nuovo a Milano dopo altri periodi a Firenze. Fino al 1987 a Milano quadro marketing centrale. Ritrasferito a Bari va in pensione nel 1992. Ha vinto molti concorsi in Italia e legge poeti del ‘900 presso due Università Popolari a Modugno e a Bari. Redattore della rivista “La Vallisa” dal 1997. Ha scritto più di 46 volumi di poesia, oltre che numerose Raccolte Antologiche, alcune pubblicate anche all’estero. Ricordiamo, per esempio, i volumi dal 2005 in poi: “Barlumi e altro” (2005), “Memoria dell’acqua” (2006), “Fermenti immagini parole” (2006), “In controcanto” (2007), “Ma quale voce da lontano” (2007), “Poemetti e sequenze - vol. I” (2007), “Di qua di là dal vetro” (2007), “Quaderni palesini - Poesie dell’estate 2001” (2008), “Poemetti e sequenze vol. II” (2008), “Se con trepide ali” (2008), “Favole per distrarsi” (2009), ”Per scenari di-versi” (2009), “Piccole poesie” (2010), “Inventario” (2010), “Din-
Pag. 59
torni di Nessuno” (2011), “Contiguità, distanze” (2011), “Vicinanze” (2012), “Un brusio d’anime” (2012), “Colloqui e amabili fraseggi” (2013), “Il vero dello sguardo” (2013), “La parola continua” (2013), “Finzioni e altri inganni” (2014), “Variabili geometrie” (2014), Mattinali e tramonti dell’opera compiuta (2015), Quaderni Palesini (2015). Autore anche di molti saggi su Salvatore Quasimodo, Vittorio Bodini, Cristanziano Serricchio, Enzo Mandruzzato, eccetera. Tante le antologie in cui figurano sue poesie. Tra i critici che si sono interessati di lui, citiamo solo alcuni: Pasquale Martiniello, Michele Coco, Enzo Mandruzzato, Stefano Valentini, Vittoriano Esposito, Daniele Giancane, Lia Bronzi, Donato Valli, Sandro Gros-Pietro, Renzo Ricci, Giorgio Bárberi Squarotti, Giuliano Ladolfi, Emerico Giachery, Roberto Carifi, Gianni Antonio Palumbo, Daniele Maria Pegorari, Roberto Coluccia, Ettore Catalano.
TRA LE RIVISTE KAMEN’ - Rivista di poesia e filosofia, Libreria Ticinum Editore, direttore responsabile Amedeo Anelli - viale Vittorio Veneto 23 - 26845 Codogno (LO) - e-mail: amedeo.anelli@alice.it Riceviamo il n. 52, Gennaio 2018. La parte Filosofia è dedicata a Dino Formaggio; la parte Poesia a Nikolaj S. Gumilëv; la parte Letteratura e giornalismo/Albert Camus è a cura di Sara Calderoni. * IL CONVIVIO - Trimestrale fondato da Angelo Manitta e diretto da Enza Conti - via Pietramarina-Verzella 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) e-mail: angelo.manitta@tin.it; enzaconti@ ilconvivio.org Riceviamo il n. 71, ottobre-dicembre 2017, del quale segnaliamo “La figura umana e poetica di Giorgio Barberi Squarotti attraverso la corrispondenza con Giuseppe Piazza”, di Giuseppe Piazza; “Eleonora Rimolo Temeraria gioia”, di Giuseppe Manitta; “Massimo Morasso L’opera in rosso”, di Angelo Manitta; e poi le firme di Carmine Chiodo, Corrado Calabrò, Antonio Visconte, Antonio Crecchia, Antonia Izzi Rufo, Domenico Defelice, Vincenzo Guarracino, Isabella Michela Affinito eccetera; tra i recensiti, troviamo gli amici: Leonardo Selvaggi (“Tito Cauchi, Voce all’anima”), Isabella Michela Affinito (“Insolite composizioni” e “Percorsi di critica moderna II Volume”), Antonia Izzi Rufo (“Oltre le stelle”), Giovanna Li Volti Guzzardi (“Ricordi cocenti”), Corrado Calabrò (“La scala di Jacob”), Filomena
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
Iovinella (“A mio padre”). Carmine Chiodo si occupa anche del “Fondo Domenico Defelice” istituito presso la Biblioteca Comunale “Ugo Tognazzi” di Pomezia. Allegato, il n. 37 (ottobre-dicembre 2017) di CULTURA E PROSPETTIVE, di ben 200 pagine, con interventi di: Monica Ramò, Francesco D’Episcopo, Asteria Casadio, Fabio Russo, Emanuele Occhipinti, Adriano Cerri, Lucia Bonanni, Anna Marras, Serena Spanò, Guglielmo Manitta, Giuseppe Giampaolo Casarini, Angelo Manitta, Domenico Cara, Giuseppe Rocco, Claudio Guardo, Silvana del Carretto, Pippo Virgillito, Carmine Chiodo, Antonio Iacopetta, Maria Elena Miignosi Picone eccetera. * ntl LA NUOVA TRIBUNA LETTERARIA - Rivista di lettere ed arte fondata da Giacomo Luzzagni, direttore responsabile Stefano Valentini, editoriale Natale Luzzagni, vicedirettore Pasquale Matrone - via Chiesa 27 - 35034 Lozzo Atestino (PD) - email: nuovatribuna@yahoo.it Riceviamo il n.129 (gennaio-marzo 2018), dal quale segnaliamo: “Desideri in fuga”, di Natale Luzzagni; “Vincent Van Gogh”, di Anna Vincitorio; “Mario Rigoni Stern”, di Luigi De Rosa; “J. Wolfgang von Goethe”, di Elio Andriuoli; “L’epopea di Gilgameš”, di Liliana Porro Andriuoli. Tra i recensiti da Stefano Valentini, troviamo Nicola Lo Bianco (“In città al tramonto”) e Rossano Onano (“Testimonio eternamente errante”). Non ci stanchiamo di consigliare i nostri lettori ad abbonarsi e a collaborare a questa rivista elegante e interessante, una delle migliori d’Italia. * FIORISCE UN CENACOLO - Rivista di lettere e arte fondata nel 1940 da Carmine Manzi, direttore resp. Anna Manzi - 84085 Mercato San Severino (SA) - e-mail: manzi.annamaria@tiscali.it Riceviamo il n. 10-12, ottobre-dicembre 2017, nel quale troviamo le firme dei nostri amici e collaboratori Leonardo Selvaggi, Tito Cauchi, Isabella Michela Affinito. * L’ERACLIANO - organo dell’Accademia Collegio de’ Nobili - fondata nel 1689 -, diretto da Marcello Falletti di Villafalletto - Casella Postale 39 50018 Scandicci (FI) - E-mail: accademia_de_ nobili@libero.it Riceviamo il n. 237/239, del X-XIXII 2017, ricco di cronache e belle foto a colori di cerimonie inerenti l’antica e prestigiosa Accademia. Segnaliamo l’articolo di testata: “Una serata non solamente augurale”; l’Attività accademica; “Una valle montana vista da Thermignon”, di Gian Giorgio Massara; “Gli italiani: un popolo sempre polemico e animoso!”, di Marcello Falletti di Vil-
Pag. 60
lafalletto; “Santo Stefano martire”, di Carlo Pellegrini; e, come sempre, la rubrica “Apophoreta”, recensioni di libri e riviste di Marcello Falletti di Villafalletto. * POETI NELLA SOCIETÀ - Rivista letteraria, artistica e d’informazione, diretta da Girolamo Mennella, redattore capo Pasquale Francischetti - via Parrillo 7 - 80146 Napoli - E-mail: francischetti@alice.it Riceviamo il n.86, gennaio-febbraio 2018, in cui troviamo, a vario titolo, le firme di Mariagina Bonciani, Susanna Pelizza, Anna Aita, Isabella Michela Affinito eccetera.
LETTERE IN DIREZIONE Ilia Pedrina, da Vicenza, il 15/02/2018 Carissimo Direttore ed Amico, la tua terra di Calabria vibra di luci naturali, bellissime e d'ombre umane durissime, dal notturno cuore. Il giorno 26 gennaio 2018 sul Giornale di Vicenza il giornalista Dennis Dellai ha intervistato Carlo Celadon, sequestrato da individui della 'ndrangheta e trasferito forzatamente in Aspromonte per 831 giorni (dal 25 gennaio 1988 al 5 maggio 1990): il giovane all'epoca aveva 18 anni e la sua prigionia viene ripercorsa, attraverso risposte a domande sempre cariche di rispetto empatico, toccando momenti di profonda e forse non ancora sopita sofferenza della memoria. Cito: “(D. Dellai):… Cosa ricorda esattamente di quella sera? (C. Celadon): Il buio fuori, erano le 19, e quegli uomini mascherati che entrarono dalla porta che dava sul giardino. Di solito la chiudevamo, ma
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
quella sera era aperta... Ricordo i kalashnikov puntati e poi il momento in cui mi caricarono nel bagagliaio dell'auto... Mi chiesi quanto sarebbe potuto durare. Non pensai che avrei potuto morire, ma credo sia umano. Ci si aggrappa alla vita in certi momenti... Se avessi saputo prima quanto sarebbe durato, probabilmente non ce l'avrei fatta. In quegli anfratti, in quelle grotte già il pensiero di stare qualche giorno mi faceva impazzire... (D. Dellai): Qual è stato il momento più brutto della sua prigionia? (C. Celadon): Ce ne sono stati vari, ma posso dire di aver avuto tanta paura la volta che si allagò la grotta per un temporale. L'acqua mi era arrivata all'ombelico, ero legato con le catene e continuava a piovere. Mi vedevo già annegato, invece poi fortunatamente il temporale si placò... (D. Dellai): È andato in vacanza dove aveva vissuto quel dramma? (C. Celadon): Si, non ci vedo nulla di strano. Io non ce l'avevo con i luoghi o con la gente di là. Mio padre, durante il sequestro, si era fatto addirittura molti amici in Calabria, quando ci andava per cercare di avere contatti con i miei carcerieri. Aveva conosciuto titolari di trattorie e agriturismo, era diventato loro amico e quindi poi siamo tornati a trovarli insieme...” (Il Giornale di Vicenza, Cronaca, pag. 21). In evidenza, nel sottotitolo, Carlo sostiene: “Mai un briciolo di umanità dai miei carcerieri, mi raccontavano falsità per mettermi contro la famiglia. In Aspromonte ci sono tornato. Non provo rancore”. Da quanto ti ho riportato, carissimo Amico, che hai nella mente e nel cuore, sempre, la tua Calabria, la tua Anoia e la sua gente, le loro mani provate dal lavoro e non dal sopruso; i loro occhi adatti al sole ed alle tenebre in modo sacrale e familiare; il loro temperamento, conformato al sacrificio e alla durezza destinale, ma anche le genuine intelligenze di scrittori, poeti, intellettuali ed artisti di grande spessore, puoi entrare nelle spirali angosciose di questa esperienza che credo superata proprio grazie ad una profonda spiritualità, pur nella giovanissima età di Carlo; ad un paziente adattamento mai passivo alle
Pag. 61
terrificanti condizioni alle quali veniva sottoposto il suo corpo, che alla fine della prigionia era quasi reso atrofico nella muscolatura; ad una forza della rappresentazione che si sostituisce al buio e consente di tener ben adesa la psiche al corpo, senza abbandonare mai il gancio vitale che le avvince. Ho trovato il coraggio di superare il pudore e di parlarti di questa vicenda proprio a partire dai tuoi tanti strali infuocati che hai diretto con incredibile coraggio, da sempre, verso la gente della mafia, da ogni dove si generi e trovi terreno per incistarsi e dal tuo più recente rilievo forte dato alla vicenda vissuta da Franca Viola: “...Franca Viola è nata in Sicilia il 9 gennaio 1948 e nel 1965, il 26 dicembre, ad Alcamo, venne rapita e stuprata da un giovane delinquente e mafioso del luogo: Filippo Melodia. Assieme a lei era stato rapito anche il fratellino Mariano, di 8 anni, subito rilasciato. La giovane venne tenuta segregata per giorni, liberata dalle forze dell'ordine e l'aggressore arrestato assieme ai complici. Allora la legge riconosceva il cosiddetto matrimonio riparatore; cioè se lo stupratore sposava la vittima, avrebbe evitato condanna e galera. Franca Viola fu la prima ragazza siciliana a ribellarsi a tale costume: rifiutò il matrimonio riparatore, denunciò l'aggressore e, durante il processo, si difese strenuamente, facendo condannare il delinquente a più di dieci anni... In questo febbraio 2018, mese nel quale si celebra ogni anno la festa di San Valentino, il santo dell'amore - dell'amore vero, non di quello che si sbrodola e si strombazza in televisione e su tutti gli altri media, per poi finire il giorno dopo tra le più turpi volgarità -, a Franca Viola, settant'anni di gioventù, visto che il cuore non invecchia, gridiamo ancora una volta Grazie!...”. Il tuo impegno etico rinvigorisce chi ti legge: uomo feroce, ami il lavoro e l'amore; lotti contro il male intriso nei fatti e nelle parole, anche in quelle legate alla politica; spingi, negli scritti come nei versi, a tener desta la coscienza, perché la difesa della dignità abbia una sua chiara visibilità, nella dimensione individuale e col-
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
lettiva. Per questo ho superato il pudore che mi accompagnava perché legato a una vicenda terribile e spietata, vissuta all'epoca, quando con la mia piccola famigliola abitavo in piazza Aracoeli n. 27, con sofferta trepidazione. Attraverso te e questa tua severa, importante Rivista che dà testimonianze sempre vigorose, un grazie a Carlo Celadon, per la sua forza interiore. Riconoscente e commossa, ti abbraccio. Ilia Ilia Carissima, ricordando la stagione dei sequestri di persona, apri nel mio cuore una ferita mai emarginata: quella della violenza endemica nella mia Calabria, oggi ancora non meno virulenta del passato. Il diciottenne Celadon non fu l’unico e il più noto sequestrato trasferito in Aspromonte,
basta ricordare l’altro giovane, Paul Getty III (1956 - 2011), rapito il 10 luglio 1973 e liberato il 17 dicembre 1974, al quale fu pure mozzato un orecchio (“il taglio del mio orecchio - ha confessato -, come lo strappo d’un foglio”). Sento vergogna e rabbia quando penso alla ‘ndrangheta e alla mafia in generale e la mia lotta contro la delinquenza e la violenza è stata costante negli anni e lo sarà fino ala fine e oltre. Già ne L’orto del poeta, infatti, in un brano del 1966 avvertivo della progressiva, inarrestabile diffusione mafiosa dal Sud in altre regioni; nel 1974 scrivevo che “La mafia è un’organizzazione di gente vile”, che opera nell’ombra e contro i più deboli e indifesi e nel maggio 1973, in una poesia dedicata all’amico più mansueto ch’io abbia mai conosciuto: Franco Saccà, immaginavo che, dopo la morte, lui ed io
Pag. 62
saremmo diventati “Perenni divinità vigilanti”, in grado di difendere “il nostro unico amore” - la Calabria - e “disperdere/nembi ora noi flagellanti”, cioè, le forze del male, della delinquenza organizzata. Come la delinquenza, anche il rispetto, l’ospitalità e l’amicizia sono proverbiali in Calabria, tenaci e indistruttibili come l’ amore e come l’odio. Sono tante le testimonianze, oltre quella del padre di Carlo Celadon, ma qui voglio ricordare, per sdrammatizzare un poco, ciò che Paul-Louis Courier (1772 - 1825) scriveva alla propria cugina, Madame Pigalle, il primo novembre 1807 (in Lettres de France et d’Italie). Sperdutisi, lui e il suo compagno, in un bosco calabrese, trovarono, a sera, ospitalità in una “famille de charbonniers”. La stanza a pian terreno nella quale li hanno fatti accomodare, era un vero e proprio arsenale: “fusils, pistolets, sabres, couteaux, coutelas”. Li portarono, poi, a dormire sul piano nobile, in alto, ma mentre il compagno piombò subito nel sonno, Courier stava con gli occhi aperti nel timore che venissero assassinati. Un racconto veramente impressionante, alla Alan Poe ! Ma lascio la parola al protagonista: «...Le souper fini, on nous laisse ; nos hôtes couchaient en bas, nous dans la chambre haute où nous avions mangé. Une soupente élevée de sept à huit
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
pieds où l'on montait par une échelle, c'était là le coucher qui nous attendait, espèce de nid dans lequel on s'introduisait en rampant sous des solives chargées de provisions pour toute l'année. Mon camarade y grimpa seul et se coucha tout endormi, la tête sur la précieuse valise. Moi déterminé à veiller, je fis bon feu, et m'assis auprès. La nuit s'était déjà passée presque entière assez tranquillement, et je commençais à me rassurer, quand sur l'heure où il me semblait que le jour ne pouvait être loin, j'entendis audessous de moi notre hôte et sa femme parler et se disputer ; et, prêtant l'oreille par la cheminée qui communiquait avec celle d'en bas, je distinguai parfaitement ces propres mots du mari : Eh bien ! enfin voyons, fautil les tuer tous les deux ? A quoi la femme répondit : Oui. Et je n'entendis plus rien. Que vous dirai-je ? je restai respirant à peine, tout mon corps froid comme un marbre ; à me voir, vous n'eussiez su si j'étais mort ou vivant. Dieu ! quand j'y pense encore !… Nous deux presque sans armes, contre eux douze ou quinze qui en avaient tant ! et mon camarade mort de sommeil et de fatigue ! L'appeler, faire du bruit, je n'osais ; m'échapper tout seul, je ne pouvais ; la fenêtre n'était guère haute, mais en bas deux gros dogues hurlant comme des loups… En quelle peine je me trouvais, imaginez-le, si vous pouvez. Au bout d'un quart d'heure qui fut long, j'entends sur l'escalier quelqu'un, et par les fentes de la porte, je vis le père, sa lampe dans une main, dans l'autre un de ses grands couteaux. II montait ; sa femme après lui ; moi derrière la porte ; il ouvrit ; mais avant d'entrer il posa la lampe, que sa femme vint prendre. Puis il entre pieds nus, et elle de dehors lui disait à voix basse, masquant avec ses doigts le trop de lumière de la lampe : doucement, va doucement. Quand il fut à l'échelle, il monte, son couteau dans les dents, et venu à la hauteur du lit, ce pauvre jeune homme
Pag. 63
étendu offrant sa gorge découverte, d'une main il prend son couteau, et de l'autre… Ah ! cousine… Il saisit un jambon qui pendait au plancher, en coupe une tranche, et se retire comme il était venu. La porte se referme, la lampe s'en va et je reste seul à mes réflexions. Dès que le jour parut, toute la famille à grand bruit vint nous éveiller, comme nous l'avions recommandé. On apporte à manger, on sert un déjeuner fort propre, fort bon, je vous assure. Deux chapons en faisaient partie, dont il fallait, dit notre hôtesse, emporter l'un et manger l’autre. En les voyant je compris enfin le sens de ces terribles mots : fautil les tuer tous les deux ? et je vous crois, cousine, assez de pénétration pour deviner à présent ce que cela signifiait.»... La mia Calabria, d’amore e d’odio, carissima. Il Meridione mai potrà affrancarsi dalla miseria se prima non si affrancherà dalla delinquenza, cappio che da sempre stringe il collo della gente onesta, la gran maggioranza. Ma a sconfiggere la ‘ndrangheta non potranno essere solo i calabresi, ci vuole lo Stato, perché non si può lottare e vincere con la corda e con il coltello alla gola. Al mio paese, ricordo, anche per un semplice certificato anagrafico occorreva rivolgersi all’uomo “d’onore”, cioè, al più disonorevole degli uomini. “Sud, dolce e caro mio Sud! Questo male tuo di morte mi trattiene lontano, m’avvelena l’amore che ti porto”. Ti abbraccio. Domenico
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2018
Pag. 64
← Domenico Defelice: La casa rossa (a pag. 63) e qui, a fianco, tre particolari de La giara, dello stesso Autore.
AI COLLABORATORI Inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione) preferibilmente attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è gradito un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (copia cartacea) Annuo, € 50.00 Sostenitore,. € 80.00 Benemerito, € 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia, € 5,00 (in tal caso, + € 1,28 sped.ne) Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 N076 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio