ISSN 2611-0954
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Anno 26 (Nuova Serie) – n. 4
- Aprile 2018 -
€ 5,00
Nel terzo anniversario dalla sua morte (2015-2018)
SECONDO
GIANNI RESCIGNO LA VITA È “UN SOGNO CHE SOSTA” di Luigi De Rosa
C
ON l'amico poeta Gianni Rescigno ci sentivamo spesso al telefono, da Rapallo alla sua Santa Maria di Castellabate (Salerno) e viceversa. Parlavamo delle sue liriche e del libro che stavo scrivendo sulla sua produzione poetica di una vita (libro poi uscito nel 2016 con la Genesi di Torino, col titolo La grande poesia di Gianni Rescigno). Parlavamo anche di poeti viventi, di critici, di estimatori, della vita nel caotico mondo d'oggi, dell'importanza degli affetti familiari, e di tanti altri argomenti e problemi di carattere letterario, psicologico, etico o filosofico. Spesso, come amava lui particolarmente, di carattere religioso. Ma la morte si è disinteressata di tutto, e all'improvviso, nella notte del 13 maggio 2015, come una frustata inattesa e dolorosa, se l'è portato via. Strappandolo non solo agli amici lettori e agli estimatori che nel corso degli anni avevano scritto entusiasticamente della sua poesia, ma soprattutto alla moglie Lucia Pagano, ai due figli Giampiero (avvocato) e Rosamaria (insegnante →
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All’interno: Guglielmo Petroni e Lucca, di Emerico Giachery, pag. 4 La lunga notte del ’43, di Giuseppe Leone, pag. 7 Per Gillo Dorfles, di Ilia Pedrina, pag. 9 Renato Fiorito: Andromeda, di Carmine Chiodo, pag. 12 Rosa Elisa Giangoia: Magna Roma, di Lilian Porro Andriuoli, pag. 14 Per Meleagro il Siro si muovono voci d’Italia, di Ilia Pedrina, pag. 18 Giustino Fortunato, di Leonardo Selvaggi, pag. 22 Nennella Verde, di Antonio Visconte, pag. 27 Lo scuolabus, di Filomena Iovinella, pag. 28 I Poeti e la Natura (Giosuè Carducci), di Luigi De Rosa, pag. 29 Notizie, pag. 43 Libri ricevuti, pag. 47 Tra le riviste, pag. 48 RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (Sintagmi poetici, di Gianni Ianuale, pag. 30); Isabella Michela Affinito (Percorsi di lettura per Domenico Defelice, di Sandro Allegrini, pag. 31); Elio Andriuoli (Emersioni, di Carolina Cigala, pag. 32); Roberta Colazingari (Suggestioni, di Lina D’Incecco, pag. 33); Maria Luisa Daniele Toffanin (L’ultimo porto, di Antonio Vitolo, pag. 34); Salvatore D’Ambrosio (Anime al bivio, di Imperia Tognacci, pag. 35); Maurizio Di Palma (Sulla poesia e sull’arte, di Susanna Pelizza, pag. 37); Emerico Giachery (Otto saggi brevi, di Marina Caracciolo, pag. 37); Giuseppe Giorgioli (Io non posso tacere, di Piero Tony, pag. 38); Antonia Izzi Rufo (È questo un figlio?, di Giuseppe Napolitano, pag. 39); Maria Antonietta Mòsele (A mio padre, di Filomena Iovinella, pag. 40); Maria Antonietta Mòsele (Suggestioni, di Lina D’Incecco, pag. 40); Susanna Pelizza (Suggestioni, di Lina D’Incecco, pag. 41). Lettere in Direzione (Ilia Pedrina, da Vicenza), pag. 49 Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Loretta Bonucci, Rocco Cambareri, Marina Caracciolo, Fiorenza Castaldi, Paul Courget, Rudy De Cadaval, Domenico Defelice, Luigi De Rosa, Salvatore D’Ambrosio, Enrico Ferrighi, Francesco Fiumara, Antonia Izzi Rufo, Giovanna Li Volti Guzzardi, Gianni Rescigno, Franco Saccà come il padre) al nipote Antonio Romanelli (laureato in biologia). L'ultimo libro di Rescigno è rimasto Un sogno che sosta (Gènesi 2014). Il significato del titolo è enunciato dalla poesia eponima, che fa anche da esergo all'inizio: “Da dove venimmo là torneremo: questa vita un sogno che sosta tra acqua e vento caduta di foglie e festa di fiori”. I primi due versi hanno talmente “fulminato” Sandro Angelucci (l'autore dell'Intervento
critico che precede la Prefazione di Mariella Bettarini) da fargli scrivere, tra l'altro: “La parola di Rescigno è schietta, subitanea, immediatamente recepibile, perché la semplicità, nella stessa, non è un punto di partenza ma una mèta caparbiamente conquistata... La terra, il mare tremeranno, si frantumeranno ancora, ma sarà sempre un sogno che sosta a metterci in salvo...” Parliamo della vita, della morte, dell'anima. Ma in modo semplicissimo e piano, senza raggomitolamenti filosofici, senza nessuno di quei trucchetti metafisici, a volte tanto roboanti quanto vuoti. Nulla a che vedere coi
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concetti del drammaturgo madrileno Pedro Calderon de la Barca, vissuto fra il 1500 e il 1581, anche se viene spontaneo, di fronte al titolo della sua opera (La vida es sueno) riandarvi col pensiero. La poesia di Rescigno è tutta in un'altra plaga, altra dimensione, altra atmosfera. Situazione che è stata acutamente evidenziata da Mariella Bettarini quando nella sua prefazione, tra l'altro, scrive: “Qua, tuttavia, un sogno che sosta tra acqua e vento. Ecco dunque che il sogno si arricchisce, si innerva ma anche si complica di/con realtà naturali come acqua e vento, elementi che introducono nella vita reale, fatta, certo, di sogni, ma anche di dolori, di ricordi e rimpianti, di stupori, di domande e domande al tempo, a sé, a Dio, cui si volgono spesso, confidenti, il pensiero e i versi del poeta...” Non posso fare a meno di ricordare qui il “discorso all'anima” fatto da Rescigno: “ La pioggia dei miei occhi ora forse è la voglia di chiuderli in pace con me stesso, al momento giusto, quando dirò terminato il discorso di sincerità alla mia anima”. E la vita, secondo Rescigno, è quella che uno dei suoi scolaretti gli spiega essere la vita... E la morte, la morte... “L'anima fiato di Dio dentro di noi: questa è la vita. Quando se ne va non ci muoviamo più non pensiamo più: questa è la morte.”. Così mi spiegava Andrea scolaro di prima elementare ultimo banco fila di centro. Anche fra i numerosi maestri elementari (molti dei quali ho avuto la fortuna, nella mia vita, di conoscere) che hanno scritto pagine di grande letteratura traendo ispirazione dagli interventi dei propri scolari, credo che Gianni Rescigno occupi un posto di preminenza. Per quanto riguarda in particolare la morte,
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vista come l'interfaccia della vita, non va dimenticato che Rescigno pensa anche alla morte dei poeti. Anzi, a scorrere la sua amplissima produzione lirica, non è raro imbattersi in versi nei quali egli si interroga sulla funzione dei poeti nella nostra società e nel nostro mondo, raccomandando, anche, i suoi “colleghi” al buon Dio perché non faccia mancare loro il proprio sostegno, tenuto conto che essi, in sostanza, siano “grandi” o siano “piccoli”, con la loro presenza e la loro poesia contribuiscono...con Lui a fare scorrere meglio il fiume incessante della Creazione.. Ad esempio, nella composizione Quando se ne vanno i poeti balza ancor più in evidenza la bontà e la solidarietà del poeta Rescigno, in cui la speranza incrollabile non si lascia fiaccare dalla visione di una realtà socio-culturale odierna poco attraente... “Non fanno notizia i poeti quando se ne vanno. Già da vivi se guardi la notte li vedi camminare tra le stelle.” Solo un artista genuino può lasciare un segno indelebile con pochissime parole... Luigi De Rosa
PROFUMO DI VIOLE Ti sono davanti con tutti gli anni d’amore. È il giorno delle mimose ma non ho dimenticato di portarti le viole. Le prime che hanno aperto gli occhi ai piedi dei castagni. Allora te le poggiavo sul petto. Altre te le seminavo tra i capelli. Però subito te le rubava il vento della corsa. Bruciavo di desiderio nel rincorrerti. E quando ti prendevo anche il tuo nome si tramutava in profumo di viole sulle labbra. Gianni Rescigno Da Sulla bocca del vento - Il Convivio Ed., 2013.
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GUGLIELMO PETRONI E LUCCA CITTÀ D’AMICIZIA E DI BELLEZZA di Emerico Giachery
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EL nostro mestiere è inevitabile che si finisca per diventare amici di scrittori. Anch’io, naturalmente, mi onoro di annoverare tra gli amici poeti e narratori. Alcuni, forse i più, sono diventati amici proprio attraverso la letteratura. Nel senso che ho prima conosciuto le loro opere; ne ho scritto o parlato; ho voluto conoscerli anche di persona o loro hanno voluto conoscere me; continuo a seguire da amico la loro attività. È naturale che mi capiti spesso di discorrere con loro di letteratura. E se a volte l'occhio che li legge e la penna che ne scrive sono occhio e penna d'amico, non vuol dire che la benevolenza faccia velo. Vuol dire invece che uno strumento ottico affettuoso può scoprire aspetti e qualità essenziali che uno strumento del tutto asettico potrebbe a volte non scorgere. Ed è principio che vale (si capisce) non soltanto in materia di critica letteraria. Per lo più ho avuto occasione di ricordare
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amici poeti. Stavolta ricorderò un amico soprattutto narratore, Guglielmo Petroni, e in un prossimo numero di “Pomezia-Notizie” ricorderò un altro amico narratore a torto dimenticato: Nino Palumbo. Guglielmo Petroni, sul quale pure ho avuto modo di assegnare una tesi di laurea discussa alla presenza dell’autore e che concerneva il poeta, che aveva pubblicato già nel 1935 Versi e memoria , apprezzato al suo apparire. Ma più è ricordato come narratore. Diversi anni or sono è stato ripubblicato (credo per iniziativa di Giorgio Luti) il suo libro più noto, Il mondo è una prigione, premio Selezione Campiello: secondo Natalino Sapegno «una delle prove più alte della letteratura di quel periodo». A parlarmi di lui e a farmelo conoscere fu Felice Del Beccaro, lucchese doc e mio fraterno amico, del quale, anche a costo di allontanarmi per un po’ dalla progettata evocazione di Petroni, non posso qui non parlare, se è vero che il motto “letteratura come amicizia” alimenta sempre più i miei inchiostri e la pietas amicale fiorisce nel mio spirito. Come non cogliere a volo l’occasione per ricordare, almeno in una breve parentesi, quest’uomo e letterato della migliore Italia che due anni or sono è stato solennemente commemorato nella sua Lucca? Ricordarlo per la sua serena umanità, per l’equanime estraneità ai maneggi che imperversano nel mondo letterario e accademico, per l’ operosità assidua e silenziosa accompagnata da schietta modestia. Pure, avrebbe avuto qualche ragione di cui menar vanto: per esempio della partecipazione alla Resistenza in Lucchesia; o del fecondo insegnamento all’estero in cui aveva allevato e formato illustri italianisti come Gérard Genot, Philippe Renard, Peter de Meijer; o, ancora, delle tante iniziative di cultura, tra cui la direzione, per oltre vent’anni, della benemerita “Rassegna lucchese”, la fondazione, con Renzo Negri, della rivista “Italianistica”, l’impulso dato agli studi collodiani e soprattutto agli studi pascoliani, ai quali dedicò il meglio delle sue energie e capacità di italianista. Il suo sogno di raccogliere e pubblicare l’ intero epistolario di
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Giovanni Pascoli non si è purtroppo realizzato. Era stato stimato amico di molti letterati italiani e stranieri, tra cui Mario Tobino, al quale aveva dedicato il primo “Castoro” della serie di cui aveva commentato per Mondadori Il clandestino. (Fu lui a farmi incontrare Mario Tobino in una trattoria della campagna lucchese). Con Felice (il nome di battesimo aveva una sua motivazione lucchese, riprendendo quello di Baciocchi, principe consorte di Elisa Bonaparte sovrana di Lucca) quante serate trascorse, soprattutto a Barga e a Lucca, in disteso affabile conversare! A Barga, negli annuali incontri settembrini delle letture pascoliane - da lui con la collaborazione di Bruno Sereni ideate e per molti anni dirette e pubblicate - che mi indussero ad approfondire la conoscenza della poesia pascoliana e dei ridenti dintorni di Castelvecchio, tante volte percorsi in lungo e in largo a piedi in solitarie escursioni interminabili tra l’uno e l’altro dei “buoni villaggi” cantati da Pascoli. Oppure a Lucca, nell’ antica casa di Felice nel cuore del centro storico, che a un certo punto non poté più contenere la smisurata e sempre crescente biblioteca di circa quarantamila volumi (ora donata dagli eredi a un’istituzione cittadina), costringendo lo studioso a cercare più ampi spazi extra moenia nel suburbio di San Concordio che accoglieva la vecchia dimora, stoltamente lasciata distruggere alcuni anni fa, degli avi paterni di Giuseppe Ungaretti, del quale Del Beccaro era stato buon amico. Non altrettanto amico di Ungaretti si considerava Guglielmo Petroni, di pasta meno tenera di Del Beccaro. La sua avversione non era però dovuta a ragioni letterarie o personali. Era l’intransigente antifascismo di Petroni - che gli aveva causato la prigionia e le torture a Via Tasso, poi a Regina Coeli, dove pure subì interrogatori e violenze, e dove fu salvato in extremis dall’arrivo degli alleati - a rendergli invisi i trascorsi non certo antimussoliniani di Ungaretti. Lo stesso antifascismo di Petroni aveva, accanto ad altri motivi, prodotto la rottura della vecchia amicizia con Ardengo Soffici (molto legato tra l’altro proprio a Ungaretti). La rottura andò di pari pas-
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so, per ragioni che sarebbe lungo spiegare, con la brusca rinuncia di Petroni a una pregevole attività di pittore di cui pochissimi conoscono l’esistenza, e che era stata incoraggiata da Rosai, Carrà, Carena. Nella casa romana di Via Ravenna (in uno scritto di molti anni fa Giorgio Montefoschi ricordava la precedente abitazione al terzo piano di Via Alamanno Morelli) Petroni aveva conservato uno solo (che mi mostrò) dei molti quadri dipinti in giovinezza, non ricordo se dispersi o addirittura distrutti dallo stesso autore. All’immagine gentile di Lucca si lega soprattutto il mio ricordo di Petroni, anche se il più delle volte sono stato a trovarlo nell’ abitazione romana dove lo scrittore, da bravo lucchese, amava preparare con le proprie mani un ottimo castagnaccio. A una Lucca di leggenda, librata in limpida luce ottobrina, assoluta, metafisica, simile a una Gerusalemme celeste, si associa il ricordo più vivo che serbo di lui, che per ore e ore, instancabile nonostante l’età, volle accompagnare mia moglie e me - rievocando e illustrando minutamente particolari e personaggi - in tutti i luoghi della città significativi per la sua fanciullezza e adolescenza. Ci fece tra l’altro conoscere un negoziante ottuagenario suo amico d’infanzia, ancora nella vetusta bottega della centralissima Via Fillungo. Era una bottega che conservava integri l’aspetto e la struttura di taberna romana, quale era stata nell’antichità, e alla quale, negli anni verdi di Guglielmo, era stato contiguo il negozio di calzoleria di suo padre. Lucca, infine, era teatro principale di un tardo libro autobiografico di Petroni, Il nome delle parole. Questo libro mi aveva conquistato, anche perché lasciava spazio a un tema non frequente in narrativa, tema per me ricco di fascino e che concerne molto da vicino il mio essere-nel-mondo, il senso della mia vita: quello del valore formativo delle epifanie rivelatrici di civiltà- bellezza, del nutrimento vitale che può donare il volto storico-estetico di una città. E Lucca, la Lucca di Petroni e del libro Il nome delle parole, racchiusa nello scrigno delle sue mura, è in tal senso esemplare, e la splendida facciata
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di San Michele, riprodotta sulla copertina del libro, ne rappresenta in pienezza l’emblema. Concludo il suo ricordo con un passo dai suoi Scritti lucchesi, editi da Maria Pacini Fazzi nel 1987, con prefazione di Daniela Marcheschi, lucchese genuina e insieme cosmopolita: «Qui dunque una fontana ottocentesca, un palazzetto rinascimentale armoniosissimo, una severa chiesa medievale, una splendida chiesa romanica, nella loro diversità formano un assieme armonico il quale più che alla logica corrisponde a operazioni tra loro lontane nel tempo, ma unificate da un quasi misterioso clima unitario che proviene dal secolare comportamento lucchese che difficilmente può essere disatteso». Di lui nel 2011, sotto l’ egida dell’Accademia lucchese di scienze, lettere ed arti, è stato ripubblicato da Maria Pacini Fazzi Editore, con un valido saggio introduttivo di Paolo Vanelli, La morte del fiume, Premio Strega 1974 (il fiume è il Serchio). Emerico Giachery
RIDEVO ALLO SPETTACOLO La luna dilagava sulle vecchie capanne di lamiera e paglia. Si andava rasoterra i vecchi come leoni alla posta bestemmiando il chiaro inopportuno. Arrivarono da dietro la collina gli aerei come falchi in picchiata sull’allodola. E fu l’Apocalisse. Sdràiati in mezzo all’erba! mi strattonava Annunziata. Innocente, ridevo allo spettacolo. Domenico Defelice
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LA SEULE JOIE Sur cette terre ingrate où tout nous asservit aux tâches sans grandeur, aux orgueils inutiles, où l’homme, à des enjeux le plus souvent futiles use un esprit dément pour s’affirmer qu’il vit; où l’injustice croît, où le mal règne en maître, où chacun, semblant faire à son frère un cadeau, au moindre différend lui plante dans le dos le couteau qui lui sert d’arme pour se repaître; que nous resterait-il si, de coeur et de chair, l’amour, mêlant nos corps, loin du fracas du [monde, ne nous inondait pas, dans un intime éclair, de cette joie unique, amicale et profonde, qui, répondant au voeu suprême du désir, nous donne l’ample extase et le goût d’en mourir! Paul Courget LA SOLA GIOIA Su questa terra ingrata dove tutto ci prescrive impegni senza grandezza, di orgogli inutili, in cui l’uomo, a imprese così spesso futili, usa uno spirito demente per affermare che vive; in cui l’ingiustizia cresce e il male moltiplicarsi, dove ciascuno, fingendo di fare un dono al [fratello, al minimo litigio gli pianta nel dorso il coltello che gli serve sovente come arma per cibarsi; che ci resterebbe mai, se di cuore e di carne, [ l’amore unendo i nostri corpi, lontano dai rumori del [ mondo, non ci inondasse affatto, in un intimo schiarire, di questo gaudio unico, amicale e profondo, che, corrispondendo al voto supremo [ dell’appetire, ci dà l’ampia estasi e il gusto di farci morire? Trad. Antonio Crecchia Dalla raccolta: Diadème, con traduzione a fronte di A. Crecchia, Ed.ac 2003
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“LA LUNGA NOTTE DEL ’43” di Giuseppe Leone
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EMBRANO non essere passati affatto settantacinque anni da quell’8 settembre quando l’Italia perse di colpo la sua unità politica, divisa fra un Nord caduto sotto la dominazione tedesca e un Sud in mano agli alleati. Inutile dire che questa è l’impressione che m’hanno lasciato i risultati delle recenti elezioni politiche. La vittoria della Destra al centro-nord e dei Cinquestelle al sud mi rimanda alle due Italie dell’immaginario collettivo, a quella ricca e aristocratica che combatte con le armi divine di Venere e all’umile Italia contadina che si difende con bastoni e forconi. Ho letto l’intervista a Tomaso Montanari su La Stampa del 6 marzo, nella quale lo storico dell’arte invita Renzi ad appoggiare Di Maio, piuttosto che arroccarsi, stando all’ opposizione, “in una piccola Repubblica di Salò”. In pratica, Montanari, citando Salò, evoca al partito democratico l’8 settembre e la resistenza al fascismo che ne derivò all’ in-
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domani. Un chiaro incitamento a rimanere nell’agone politico, piuttosto che riflettere sulla sconfitta, lontano da impegni governativi. Io non so se sia un’opinione saggia, la sua, di appoggiare i Cinquestelle, mandando i democratici a servire in casa loro. Certo, non si tratterebbe di un esodo di lunga durata, ma di una semplice scampagnata, pur sempre pericolosa però, perché potrebbe distrarre la Sinistra dal prendere atto di questa sua epocale sconfitta onde creare i presupposti per una rinascita, che non può aver luogo se continua a rinunciare alla ricerca e allo studio. Innanzitutto, no a rifondazioni. Marx, Engels o altri filosofi che hanno ispirato il socialismo della prima ora hanno fatto il loro tempo ed è difficile che abbiano ancora respiro per soffiare sopra i giorni nostri. Ne ha spiegate bene le ragioni Heidegger, scrivendo che l’uomo deve al tempo in cui vive le idee per giocarsi la sua vita e la sua fortuna. Si fondi allora una nuova sinistra, studiando il pensiero e l’opera di una decina di autori, soprattutto, del nostro tempo. Si imiti pure, intendo solo nel metodo, il Woityla dell’ enciclica Fides et ratio, quella sua proposta ai cattolici di cercare il perfetto credente nelle letture di quei teologi cristiani che, nell’ antichità, nel medioevo, nel mondo moderno, in Occidente e in Oriente, “si segnalarono come grandi filosofi": Si individui, allora, il perfetto uomo di sinistra nelle letture, più che di soli filosofi, di quegli scrittori o poeti che si distinsero come pensatori. Non mi dispiacerebbe se fra questi si leggessero anche i nomi di Leopardi, Silone, Camus, Kafka. Montanari, invece, suggerisce al partito democratico di far nascere un governo per fare “una legge elettorale secondo la Costituzione e un programma minimo per gestire il tempo necessario per tornare a votare. Non facile, ma non impossibile: bisogna sedersi intorno a un tavolo e provare a parlare, per non buttare l’Italia in mano alla destra fascista”. Questo è quanto pensa lo storico dell’arte. A me piacerebbe che la strada da percorrere,
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per i democratici, fosse quella di stare all’ opposizione e poter finalmente riflettere, studiare e ricercare. Penso che non vi sia via migliore che questa, se davvero si vuole impedire al Paese di buttarsi a destra, sempre che in quel che rimane della sinistra ci sia ancora la volontà di opporsi. Giuseppe Leone
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Ma il mio amore, più fiero, più duraturo e [ più forte, prepara alla tua memoria, oltre i limiti della morte, il diadema d’oro in cui la tua gloria non si oscura. Trad. Antonio Crecchia Dalla raccolta: Diadème, con traduzione a fronte di A. Crecchia, Ed.ac 2003
PROFUMA IL SILENZIO ANCORA DIADÈME De tous ceux qui s’en vont en refermant le livre où s’inscrivit un sort banal et quotidien, dans la suite des temps il ne demeure rien qui les rappelle au monde et les fasse revivre. Mais toi, jamais la nuit future, sous le givre de l’hiver sans printemps qui glace les tombeaux, n’éteindra ton sourire et l’éternel flambeau de ta beauté puisque c’est elle qui m’enivre. D’autres ont pu, pliant leur faiblesse à ta loi, t’apporter leur tribut de tendresse et de foi: aucun pourtant n’a su te vouloir immortelle. Mais mon amour plus fier, plus durable et [plus fort, prépare à ta mémoire, au-delà de la mort, le diadème d’or où ta gloire étincelle! Paul Courget
Ricordo, amavi tanto le violette Insolitamente azzurro il cielo, del mese corto e amaro nessun velo, solo nuvole bianche come barchette. Ricordo, amavi tanto le violette Gli occhi nocciola belli, incerta la mano che sfiorava i capelli, pace al cuore mai non mi dette. Ricordo, amavi tanto le violette Ancora, ancora sento amaro, del giorno di febbraio di sole raro, il profumo di quel fiore fatto a mazzette. Ricordo, amavi tanto le violette Salvatore D’Ambrosio Caserta
DIADEMA Da tutti quelli che se ne vanno, il libro serrando, in cui si inscrive una sorte benevole e quotidiana, nella successione dei tempi nulla rimane che li ricordi e li faccia rivivere al mondo. Ma a te, mai la notte futura, sotto la brina dell’inverno senza primavera che ghiacci l’urne si spegnerà il sorriso e la fiamma eterna della tua bellezza, poiché è lei che l’anima affina. Altri han potuto, soggiacendo alla tua volontà, recarti il lor tributo di tenerezza e di lealtà: qualcuno, però, non ha saputo volerti imperitura.
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 5/3/2018 Nel nostro ordinamento giuridico, c’è il reato di voto di scambio, a nostro avviso, ridicolo. Alleluia! Alleluia! Promesse che poi non si mantengono - come la tassa piatta, il salario minimo, il reddito d’inclusione eccetera -, non sono per raccattar voti? Il M5S, con il suo reddito di cittadinanza, nel Sud Italia ha fatto man bassa! Cosa faranno ora i nostri solerti e fantasiosi magistrati, indagheranno tutti i partiti? Domenico Defelice
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PER GILLO DORFLES SI È FERMATO SOLO IL TEMPO DELL'OROLOGIO di Ilia Pedrina
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l silenzio è ricordo. Dentro al vaso violetto, Spirali di fumo Profumato di miele; Mentre nell'anima Si snodano altre spirali: Tra immagini lucide Stinte figure che occhieggiano, E dentro le pause Di questo fluire Intonse memorie Greggi azzurri d'anni, Sollevo con tocco dolce Perché non dileguino Coi rintocchi d'altre campane, Che già segnarono la fine D'una vita o l'inizio d'un sogno, Perché il ricordo resti ancorato A queste impronte leggere
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Fatte d'umori e d'ansie Di profumi aeri ed ambigui, Di sensazioni vibratili, Nelle papille profonde Dei nostri nervi, o forse più addentro Nei recessi inesausti dell'Io”. Gillo Dorfles Ringrazio Francesco Leprino, che ama le immagini, i suoni, i colori e l'anima di chi li sa cogliere e trasformare in esperienza, per avermi donato il dvd LA GUERRA DEL TEMPO - POESIE DI GILLO DORFLES DEGLI ANNI '40 LETTE DA LUI MEDESIMO (Documentario, 2016-2017, 44', commento alle poesie di Luca Cesari) al cui interno è presente anche ATTRAVERSO IL TEMPO ATTRAVERSATO DAL TEMPO UN SECOLO CON GILLO DORFLES (Documentario, 2007, 62', conversazioni con Gillo Dorfles, Francesca Alfano Miglietti, Aldo Colonetti, Arnaldo Pomodoro, Lea Vergine in collaborazione con Vannetta Cavallotti). Per Gillo Dorfles si è fermato solo il tempo dell'orologio, il 2 marzo appena passato, a Milano: è ora entrato davvero '... nei recessi inesausti dell'Io'. Proprio perché egli li ha individuati come 'inesausti' c'è spazio anche per quella sete che fa avanzare l'anima verso l'eternità ed è in questa dimensione che lo si coglie, ora, ascoltando la sua voce che, schietta, recita le poesie degli Anni '40 del secolo scorso, attraversa il tempo per oltre un secolo ed ogni spazio che immagini ed immaginazione possono offrire, collegate con il suo incedere slanciato, in prima linea. Le sue città? Trieste, che lo vede nascere il 12 aprile 1910 e fa da cornice alla sua infanzia: mansueto e precocemente intellettuale, prova anelito ad essere scanzonato e poco consono all'ubbidire, come fanno i bravi bambini, natura che emergerà poi, distintissima e originale. Di questi spazi, tra le altre cose, ricorda “Saba afferra con stizza le mie poesie, che gli ho portato da leggere, affermando a priori che non possono valere niente. Invece, con mio stupore, nel leggerle brontola un po' sec-
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cato 'Bel, bel ti xe molto abile...'. Poi però si corregge: 'Ti manchi de cuor, no xe vera poesia. Però le podessi aver successo: per la modernità dei versi...” Genova, che lo vede crescere e dopo anni gli offrirà la cittadinanza onoraria, proprio in quel Palazzo Tursi, dove i suoi genitori si erano sposati; quella Genova, più di terra che di mare, dove frequenta con assiduità la Pasticceria Rainguti, perché tra colori e sapori dei differenti bon-bon c'è lei, la giovane Leda Rainguti, a cui egli, spontaneamente associa i differenti pasticcini soprattutto alle mandorle. Milano, che lo accoglie negli Anni Trenta, studente all'Università Statale ed asseconda il suo dinamismo intellettuale e creativo, fuori da ogni classe dal profilo prevedibile, lasciandolo investigare sulle sue architetture istoriate del Liberty, quasi a volersi accalappiare buona parte della sua anima percettiva, lasciando che si alimenti in libertà di passioni che hanno dentro storia e futuro. Infatti alla Statale, con Enzo Paci nascerà AUT-AUT, una rivista di Filosofia e di cultura che si fa breccia tra i ricercatori d'avanguardia, tra chi ha naso e fiuta il futuro della riflessione, del linguaggio, del gesto che nell'arte prende e piglia tutto - ed io ci sono dentro fino al collo e oltre, perché a Padova nel bel mezzo degli Anni '60 c'è il prof. Dino Formaggio, emerito ed allievo di Antonio Banfi: ha la cattedra di Estetica e il veneziano Massimo Cacciari diventa suo assistente, poi sarà la volta di Stefano Zecchi, per approdare poi al giovane Giangiorgio Pasqualotto, che, dopo anni, mi farà da controrelatore, all'Università del Liviano, per il mio lavoro ancora inedito 'L'arte come corpo e come segno in Maurice Merleau-Ponty -, rappresentando la possibilità di aprire la ricerca oltre la scelta stessa di specifici campi di indagine. E poi ancora altrove, verso altre architetture ed incontri, in Italia e nel mondo, inseguito, apprezzato, contaminante, per affascinare e stupire, con l'originalità che sgorga sincera dalla terra, quando non ha confini. L'ironia? Una difesa, un sorriso che ti scherma e ti consente un approccio un poco
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indifferente, un poco pastoso, un poco rispettoso dell'altro a distanza ma molto in luce, per stare di fronte al mondo. I suoi libri? Tantissimi e tradotti in lingue lasciando ammaliati i traduttori stessi. I suoi lavori in segni e in forme plastiche? Tantissimi e carichi di rotondità e di colori, quasi a voler mostrar voglia di naufragare tra loro senza bisogno di mirare ad approdi, perché là lui, nelle forme cave e nei colori, ci si trova benissimo. Le sue memorie? Tantissime e spesso sottoposte a censura, ad autocensura perché, portato a cogliere il lato ironico delle vicende di vita, smussa questa esuberante, disarmante sincerità e si tiene dentro il meglio. Scrive Francesco Leprino nel retro di copertina del dvd, ad accompagnare il Documentario del 2007, da cui ho tratto queste gocciole di memorie, affinché Gillo Dorfles diventi semplicemente 'Gillo': “Ho conosciuto l'uomo, e come tale l'ho interrogato. Del teorico e dell'artista avevo idee per sentito dire. Mi è piaciuto che il teorico e l'artista man mano prendessero forma ai miei occhi partendo dall'uomo, un uomo che schernendosi, censurandosi nel privato, racconta il mondo e, non avvedendosene, racconta profondamente di sé. Quest'uomo apparentemente freddo, attratto da tutto ciò che è freddo (i gelati, l'acqua da bere quasi ghiacciata, la neve della montagna...) rivela un nucleo di fuoco incandescente, contenuto e dominato senza sforzo con la classe dello schermitore, col distacco del ballerino classico, per il quale anche la più piccola caduta di stile equivale a un affondo di spada, a uno scivolone sul palcoscenico. Una classe d'altri tempi, verrebbe da dire, se non fosse che questi tempi sono i suoi tempi, come lo erano i primi decenni del secolo scorso, proprio perché Gillo Dorfles il tempo lo ha attraversato come una grande spugna, e ne è stato dialetticamente attraversato, causando una sorta di relatività spaziotemporale che immunizza dallo scorrere del tempo, come accade ad Achille che non raggiungerà mai la tartaruga. Forse in virtù di questo, Dorfles osserva con adolescenziale candore e curiosità l'ultimo fenomeno del
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rock, l'ultima tendenza della moda come l'ultima formula dii ardita avanguardia artistica. La stessa golosa curiosità attira il suo sguardo sui cappelli e le scarpe, come sulle vetrine delle pasticcerie, sedotto dalle leccornie che fanno colpo di solito sui bambini” (Fonte: Francesco Leprino, DVD La guerra del tempo, Produzione artistica 'Al Gran Sole, con il contributo di Maria Grazia Mazzocchi e Maria Candida Morosini, 2017). A Paestum, nel Museo Archeologico Nazionale è conservata la lastra dipinta con un giovane che si tuffa, colta dalla Tomba del Tuffatore, 480-460 a. C. e Dorfles se ne imprime dentro lo slancio verso il mare senza fondo della vita e ne ricava forme e colori quasi in sovraimppressione dinamica a guizzo. Abbraccio le sue parole, che il regista Francesco Leprino mi offre in ascolto, con sonorità alle quali la voce stessa di Gillo si fonde e, con sullo sfondo, proprio la ripresa originale di questa antica immagine greca che ritrae il giovane in efebìa mentre si tuffa nel vuoto. Le dono in scrittura, riconoscente: “... non ci sarà più antichità, ci sarà solo futuro.” Ilia Pedrina VIENE LA POESIA … Nel silenzio e nella solitudine viene la Poesia, come un’amica discreta che conosce qual è il momento giusto per parlare. Viene al mattino con le prime luci e porta i ricordi dei sogni della notte; viene di notte e allora porta coi ricordi di un tempo le speranze del domani.
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Viene e s’impone. E subito la notte si fa giorno e ricomincia il lavoro di scrivere il pensato, oppure si fa giorno il mattino e ricomincia la vita. Mariagina Bonciani Milano
SE TI RIVEDO, ANIMA MIA Se ti rivedo, anima mia Se ti rivedo per le strade andare alla ricerca di un bene perduto ( e rivedo la pioggia sulla città dolente nella sera nello stupore dei primi fanali) io più non ti conosco. Se ti rivedo nelle notti amare (mentre la luna scala le colline) in dura lotta con un disperato sognare o nelle albe di immoto stupore spiare il volto del mare turchino nel sole malato mattutino, anima mia, più non ti riconosco. Luigi De Rosa (Rapallo)
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 7/3/2018 Forza Italia ha sempre agito, di nascosto o alla luce del sole, per fare accordi con altri partiti; ora, che Salvini sta comportandosi allo stesso modo, Berlusconi s’agita perché ogni trama fallisca. Alleluia! Alleluia! I mali dell’ Italia continuano ad essere i personalismi, i troppi galli che intendono dominare nel pollaio, nessuno disponibile a collaborare un gradino più sotto per il bene della Nazione. Domenico Defelice
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RENATO FIORITO ANDROMEDA di Carmine Chiodo
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PPREZZO molto Renato Fiorito come scrittore e poeta in quanto ci dà sempre opere di sostanza e di profondo pensiero, espresse con una esemplare limpidezza di linguaggio che mostra chiaramente come Renato Fiorito abbia una sua poetica, un suo modo di guardare alla vita e alle cose che la circondano, all’universo, alla storia umana. È noto che la letteratura contemporanea ci offre tantissimi scrittori, tantissimi poeti ma non certo tutti meritano di essere letti, ascoltati, citati; per lo più ci troviamo davanti a dei verseggiatori, taluni troppo letterari e quindi sterili, verseggiatori che non hanno elaborato un loro pensiero originale e si lasciano andare a imitazioni inutili e trite di poeti celebri, oppure ancora, che scrivono versi oscuri perdendosi in metafore e similitudini cerebrali che lasciano il tempo che trovano. Invece Renato Fiorito con la sua poesia e la sua scrittura mostra di essere uno scrittore e un poeta nel vero senso della parola, in quanto riesce a darci una sua visione della vita e delle cose, mai apparendo oscuro o lambiccato o frigidamente letterario. La sua poesia scorre fluida e scintillante e, ciò che più conta, ha un ritmo narrativo e un impianto che invoglia il lettore ad andare sempre avanti nella lettura. Andromeda racconta dell’universo, dei suoi splendidi e inspiegabili fenomeni, di ciò che è
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energia, materia, gas, galassie, stelle, sole e via dicendo. In essa emerge una tensione tra la condizione umana e i fenomeni che regolano questo meraviglioso e maestoso universo: “Dentro ogni galassia c’è un buco nero/ che assomiglia alla morte./ Gas, stelle, pianeti vi ruotano intorno/ prima di sparire.// Anche noi scompariamo/ seguendo il corso degli astri./ Senza rumore consumiamo/ l’energia che ci muove.” (Galassie – pag.19). Fiorito sa dunque cantare l’infinito e guardare al dispiegarsi delle forze che muovono l’ universo, ricavandone considerazioni che attengono alla condizione umana e al suo desiderio di “comprendere l’incomprensibile”, consapevole che su questa strada: “nessun credo contraddice gli altri/ ma tutti procedono sull’irta strada della verità” (pag.11). Per capire meglio la poetica di Fiorito, è utile soffermarsi sui versi in cui egli ci pone davanti al mistero dell’universo e alle leggi che lo governano e, insieme, alle responsabilità assunte dall’uomo nel suo rapporto con il creato: “L’energia è tutto./ Qualsiasi cosa crediamo/ il cielo continuerà a girare/ seguendo il suo disegno astrale/ che non ha noi come centro/ e tuttavia non ci prescinde.” (La terra - pag.24); e più avanti: “Non è innocente l’homo sapiens./ È la forza più devastante sulla terra./ Si fa spazio massacrando uomini e bestie./ In una parte del cervello ha Dio/ nell’altra un’anima violenta e primitiva/ che lo fa sopravvivere o morire.” (I primi uomini – pag.40). Sono bastevoli queste citazioni per dare un’ idea di come questa poesia sia ammirevole e originale, poesia che chiamo - è da ribadirlo di pensiero, un pensiero poetante che genera versi di una chiarezza e di una espressività straordinarie, e quindi poesia ricca di contenuti e di verità: “Attraverso i millenni viaggiò l’uomo./ Quelli che morirono prepararono il terreno ad altri./ Non riporta la storia la crudeltà dei vincitori/ né il dolore degli sconfitti./ Il tempo e le catastrofi coprono ogni cosa. (I primi uomini – pag.41); oppure: “Servivano ad arrampicarsi le mani,/ aggrapparsi ai rami e raccogliere frutti./ Senza di loro non
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avremmo afferrato, trasformato,/ scritto. Niente segni, niente strumenti,/ niente carezze. Niente tu, niente io (I primi uomini – pag.36). Versi narrativi che sanno intrecciare la vita del cosmo a quella umana, indagando le loro relazioni: “Siamo abitanti passeggeri./ Tragedie cosmiche/ ci legano al medesimo destino./ Abbracciati gli uni agli altri/ prendiamo sulle spalle la nostra croce/ pur sapendo che non ci salveremo. (In cerca di Dio - pag.48). C’è dunque nell’opera una bella e sorprendente filosofia poetica, se così posso dire, nel senso che, pur nella complessità degli argomenti, non ci troviamo di fronte a concetti difficili, passi o riflessioni oscure e cervellotiche, ma piuttosto folgorazioni chiare e poetiche, come queste che seguono, che emozionano chi legge: “Oltre lo spazio, in universi possibili/ di cui nulla sappiamo, dimorano i sogni/ e le anime hanno memoria del loro bagliore./ Le parole dette non sono perdute./ L’ombra di una donna,/ divenuta tutt’uno con quella di un uomo,/ risale dal nulla come una bolla d’aria/ e ritrova l’antica dolcezza. (Epilogo - pag 71); e poco prima: “Chi avrà sognato ritroverà i suoi sogni./ Chi avrà amato ritroverà l’amore./ Polvere di stelle, siamo riconsegnati all’eterno,/ fusi con la grande energia che tutto unifica,/ pronta a riesplodere tra miliardi di anni. (Epilogo - pag.70). Poesia piacevole da leggere, che stimola ulteriori riflessioni e ci affascina nello stesso tempo: Andromeda disseminò il cielo di stelle. Il giorno dopo non c’era più nulla. (pag.71). In <<Andromeda>> molte le situazioni, molti i pensieri che si presentano e rendono complessa ma chiara questa nuova creazione di Renato Fiorito che volge lo sguardo, la sua attenzione al cielo e alla terra, agli uomini, alle cose, ma anche ai progressi scientifici, ai viaggi spaziali: “Raggi laser spingono veicoli dotati di vele/ alla ricerca di vite complesse” (Viaggi interstellari - p.62), oppure all’ attualità dei disastri ecologici causati dall’eccesso
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di sfruttamento delle risorse: “Aiutate i cormorani e gli altri uccelli/ per salvarli da morte sicura/ e costruite acquari/ per dare riparo ai pesci/ a cui è stata rubata/ ogni via di salvezza.// Perché la terra è ferita/ E dal suo ventre violato/ Sgorga sangue nero e morte/ mentre i potenti della terra,/ ingordi e arroganti fino a ieri,/ allargano le braccia/ non sapendo trovare rimedio/ al male che ci hanno fatto. (Le tragedie - pag. 38). Questa nuova silloge testimonia ampiamente la maturità interiore, artistica e stilistica dell’A. che con molta sensibilità, perizia, equilibrio, naturalezza sa costruire i suoi versi ed esprimere il suo io poetante; ciò lo rende un poeta profondo, serio, coerente e non un semplice e vacuo verseggiatore, Che sia così lo dicono pure i versi che cito: “Non siamo fatti per durare./ Ogni superbia è ridicola./ Ogni preghiera inutile./ La vita di uno serve agli altri,/ la vita degli altri è una cosa con la nostra. (Pag.30 – L’origine della vita); E in altra parte: “Interrogarci sul nostro destino,/ trovare risposte alle eterne domande,/ andare oltre la realtà imperscrutabile/ per capire ciò che la scienza non dice/ e spingere più indietro il mistero. (In cerca di Dio – pag,45). Scrive Fiorito: ““Dove la scienza non basta c’è la filosofia/dove la ragione si ferma giunge il cuore”. Ed ecco allora i versi che evocano i grandi pensatori della storia dell’ umanità: Parmenide, Eraclito, Platone, Giovanni Evangelista, Kant, per dire che nessuna verità è assoluta e che il destino degli uomini è non smettere mai di cercare: “questa/ è la sola verità di cui siamo capaci,/ Senza di essa resta la barbarie”(In cerca di Dio - pp.45-46). È dunque questa la sintesi del poema e la sua ragione, poiché in esso c’è scienza quanto basta, c’è filosofia, c’è anche ragione, ma soprattutto c’è cuore. Restiamo dunque veramente affascinati dai versi che nutrono Andromeda e danno alla silloge unità e dimensione sinfoniale che ogni lettore può interpretare in base alla sua sensibilità e cultura. Carmine Chiodo Renato Fiorito, Andromeda, Giuliano Ladolfi Editore 2017
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ROSA ELISA GIANGOIA:
MAGNA ROMA di Liliana Porro Andriuoli
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NSEGNANTE di materie letterarie nei licei, ora in pensione, Rosa Elisa Giangoia si è per lunghi anni dedicata alla ricerca didattica e alla promozione culturale tenendo corsi di aggiornamento per docenti e svolgendo attività di consulente degli assessorati alla cultura della Regione Liguria e della Provincia di Genova. Attualmente si occupa specialmente di critica letteraria, come redattrice della rivista “Xenia”, ma ha anche al suo attivo romanzi, testi teatrali, sillogi di poesia, recensioni e saggi critici. I suoi interessi si estendono inoltre alla gastronomia letteraria, per la quale ha pubblicato A convito con Dante (Il Leone Verde 2006); e recentemente ha curato, insieme a Maria Cristina Castellani, il volume di racconti Dieci inviti a cena (Erga 2016), nel quale è presente con C’ero anch’io! (Dedicato a Petronio Arbitro), in cui immagina che sia già stata “inventata la macchina del tempo” e le sia possibile catapultarsi “nel bel mezzo del banchetto di Trimalcione, quello raccontato da Petronio nel Satyricon”, dove rappresenta con vivacità ed estrema bravura un certo ambiente volgare e di pessimo gusto dell’antica Roma, compiendo una feroce satira di costume. La sua più recente pubblicazione, Magna Roma - L’alimentazione al tempo degli anti-
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chi romani (novembre 2017), riguarda proprio questo settore e presenta, come già le prove precedenti, un non piccolo interesse, per la vasta competenza che l’autrice dimostra di possedere in questo campo, oltre che per la virtù dello stile che sempre contraddistingue i suoi scritti. Il libro inizia con una dettagliata descrizione delle “abitudini” degli antichi Romani nel campo dell’alimentazione, sia per quanto riguarda le ore del giorno in cui abitualmente assumevano il cibo sia per quanto concerne gli ambienti dove pranzavano. La prima colazione era in genere abbastanza nutriente, seppure, talvolta costituita dagli avanzi del pasto della sera precedente; seguiva il prandium che consisteva in uno “spuntino veloce” non solo per coloro che lavoravano in campagna ma anche per coloro che vivevano nelle case rustiche. Chi invece a quell’ora si trovava in città per lavoro, aveva la possibilità o di “fermarsi in un locale pubblico (taberna o popina)” o “di comprare qualcosa dai venditori ambulanti”. Quando poi a Roma furono costruite le terme, quello divenne il luogo preferito per trascorrere il tempo dell’ intervallo del lavoro: era infatti un luogo adatto sia per un rilassante bagno o per un benefico massaggio, ma principalmente per “allacciare relazioni sociali” o addirittura concludere affari. Per i Romani, ci informa ancora la nostra autrice, il pasto più importante e sostanzioso era costituito da quello serale: la cena o coena, che variava molto a seconda del livello sociale a cui apparteneva la famiglia. Nelle famiglie più abbienti veniva preparata in cucina, ma consumata, spesso anche in compagnia di ospiti, nel triclinio (triclinium), che corrispondeva alla nostra attuale sala da pranzo. Consisteva in un locale “bene illuminato e arredato con cura”, per lo più decorato con mosaici e affreschi, dove intorno ad un tavolo di legno o di marmo erano disposti tre letti (donde il nome), su ognuno dei quali erano distese tre persone. (Triclinium, nome di origine greca, significa appunto “letto a tre posti”). Intorno ad un tavolo potevano quindi
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trovar posto nove persone. Se il numero di invitati era superiore si preparavano altri tavoli, con altri triclini. Nelle famiglie più ricche, secondo l’usanza greca, si mangiava distesi su questi letti, appoggiati sul gomito sinistro; in quelle meno abbienti soltanto il padre pranzava disteso, mentre moglie e figli mangiavano seduti. L’assegnazione dei posti veniva fatta dal padrone di casa, che faceva sedere accanto a sé le persone di maggior riguardo. Con il passare degli anni, però, le abitudini dei romani cambiarono; e così, con il progredire della potenza dello Stato ed il conseguente raffinarsi del gusto, si passò dall’ alimentazione parca dei primordi alla raffinatezza delle età successive. Il culmine si raggiunse nella cucina di Marco Gavio Apicio, un uomo colto, per il quale, come afferma l’autrice, “l’arte della cucina e il piacere del cibo, inventati e coltivati, diventano uno stile di vita che dà senso e compimento al vivere”. Per diversi secoli l’eredità di Apicio non ebbe né celebri né numerosi proseliti, ma con l’Umanesimo e il Rinascimento ritornò in auge, specie presso i Medici di Firenze. Con il matrimonio di Caterina, poi, approdò alla Corte di Parigi, dove, nel tempo, si trasmise dagli ambienti nobili fino agli strati sociali meno abbienti. Non ebbe invece analoga sorte in Italia, dove si cercò sempre di conservare una tradizione di maggiore semplicità, e solo più tardi, attraverso i “recuperi culturali la lezione di Apicio” è giunta fino a noi. La nostra autrice passa successivamente a parlarci di alcuni alimenti particolari, di cui si cibavano i Romani, iniziando dall’importanza che essi attribuivano al Garum, una salsa di pesce molto apprezzata, in quanto conferiva una sapidità ai cibi che i Romani gradivano particolarmente e che pertanto “entrava nella maggior parte delle [loro] preparazioni, sia salate che dolci”. Molto apprezzate ed usate erano inoltre le erbe, in particolare il “silfio”, una pianta con la quale venivano insaporite le carni e il vino, nonché le spezie, come i chiodi di garofano, la senape e il pepe, da noi ancora oggi in uso.
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Essenziale per la nutrizione umana è senz’ altro il pane ed un capitolo del libro viene dedicato da Rosa Elisa Giangoia ai cereali ed appunto al pane, quantunque la panificazione, come subito ella ci ricorda, abbia avuto presso i Romani un inizio piuttosto tardo, al contrario di quanto avvenne invece presso gli Egizi e i Greci. La prima forma di panificazione da loro praticata fu quella della “focaccia lievitata, forse un fondo [dell’antica] polta1 disseccata e arrostita”. Per preparare il pane si faceva uso inizialmente del farro e della spelta (che, “prima della macinazione dovevano essere leggermente torrefatti per essere liberati dalla pula”) e solo successivamente (fine del V sec. a. C.) si passò ai grani duri o teneri, di qualità migliore, in modo che fosse possibile liberarli più facilmente “dalla pula dopo la trebbiatura”. Per ottenere la farina, ovviamente, si ricorse inizialmente alla “mola” e subito dopo all’utilizzo “del mulino”, azionato prima dall’ uomo ed in seguito “da un asino o da un cavallo”. Nelle grandi fattorie di campagna si usavano invece i mulini ad acqua, sfruttando così l’energia idraulica. Successivamente si passò dalla panificazione domestica a quella dei panettieri, i famosi pistores, che al tempo di Augusto operavano in ben 329 panetterie. A chiusura del capitolo la nostra autrice riporta alcune ricette prese dal De agri cultura di Catone e dalla Naturalis Historia di Plinio. Largo uso facevano gli antichi romani anche di latte e formaggio; e un’interessante ricetta a base di formaggio, qui riportata, la troviamo nel Moretum, un poemetto dell’ Appendix Vergiliana, che consiste in una raccolta di componimenti poetici attribuita a Virgilio. Quanto alle carni, la Giangoia ci informa che molto diffuso nell’antica Roma era il maiale e ci offre alcune ricette, come il BotelLa polta (puls), l’antica base dell’alimentazione romana, consisteva in una densa zuppa in cui entravano farine diverse, grani di cereali selvatici, leguminose, e anche qualche pezzetto di carne di maiale (p. 25). 1
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lum (Salsicciotto); le Lucanicae (Luganighe) e i Farcimina (Ripieni). Ma molto in voga erano anche il Porcellum assum (maiale arrostito) e il Perna (Prosciutto in crosta di pane). Facevano parte dell’alimentazione romana pure il montone, la pecora e la capra, mentre, data la scarsità del foraggio, poco diffuso era il bue, che veniva adoperato specialmente nei sacrifici e nelle feste, come quella dei Saturnali, per la quale si offriva il manzo arrostito (Assaturam). Molto in voga presso i romani era poi il pollame, con le oche, i piccioni e le galline, spesso presenti “nei sacrifici e nei riti a scopo divinatorio”. Apprezzati erano inoltre i tacchini, le cicogne e i fenicotteri. A seguire troviamo delle interessanti ricette, come quella del Ficatum (Fegato d’oca), del Pullum Frontonianum (Pollo alla Frontone) e del Pullus tractogalatus (Pollo con pasta e latte). Ci viene anche detto come i Romani ingrassassero il fegato delle oche ingozzandole “di fichi con una specie d’imbuto”. Particolarmente elaborata è poi la ricetta della Patina apiciana (Il piatto di Apicio), con sfoglie di pasta che si ponevano in un tegame, alternandole ad un ripieno. Largo uso a Roma, specie nei tempi più antichi, veniva inoltre fatto di selvaggina, come cinghiali, lepri, ghiri (serviti con miele e noci), anatre selvatiche, pernici, tordi e beccafichi, nonché lumache. Fanno qui seguito le ricette: Aper ita conditur (Così si cucina il cinghiale); Ghires (Ghiri); Cocleas (Chiocciole); Cocleas assas (Chiocciole arrosto); ecc. Anche i pesci e i frutti di mare comparivano nella cucina romana, ma fecero il loro ingresso soltanto più tardi, dato che nei tempi antichi i Romani praticavano essenzialmente la pastorizia e poco la pesca. Fra i pesci maggiormente apprezzati nella loro cucina vi erano il luccio e l’orata, l’anguilla e il tonno, la triglia e la murena, “che veniva cucinata alla griglia oppure bollita e accompagnata con diverse salse”. Vi erano inoltre i crostacei e i frutti di mare, le ostriche, i mitili, i polipi, le seppie gli scampi, i granchi. L’autrice ricorda anche come nell’Italia Meridionale, in Spagna e in Asia Minore ve-
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nissero organizzate delle vere e proprie industrie per la conservazione e la distribuzione del pesce, come il tonno salato. Non mancano a conclusione alcune ricette di salse per condire il pesce fritto (frixo), bollito (elixo) e arrostito (asso); e fra le diverse altre non manca nemmeno il Minutal Marinum (La zuppa di pesce). Essendo un popolo di agricoltori, i Romani avevano quasi tutti, specie nei tempi più antichi, un orto (Hortus) in cui coltivavano ortaggi e fiori. E Virgilio, nelle Georgiche, ci parla appunto di Corico, un vecchio dalla semplice vita, che possedeva pochi iugeri di terra, ma che per lui “uguagliavano nell’ animo le ricchezze dei re” ed “aveva tigli e rigogliosi pini, / e di quanti frutti, al nuovo fiorire, il fertile albero / si fosse rivestito altrettanti in autunno portava maturi”. Molto diffuso era poi in Roma l’uso delle verdure, tanto che, come ci fa osservare la Giangoia, Plauto nella sua commedia Pseudulus definisce i romani dei “mangiatori di erbe” e Catone, nel suo De agricultura, si sofferma in particolare sull’ abitudine di mangiare il cavolo. Apprezzate erano anche le rape (rapae), i tartufi (tubera), i carciofi (cìnara hispida), la zucca (cuctuttavia urbita) e le fave (fabae). Da cui le ricette, tra le quali la Patina de asparagis (Piatto di asparagi), i Fungi faruli (Funghi di frassino) e l’Epytirum (Epitiro). Quanto alla frutta, era usuale a Roma nei primi tempi cogliere i frutti selvatici, come le more, le fragole, i pinoli, le castagne, le nocciole. Successivamente si iniziò a coltivare mele e pere, uva e fichi, pesche e melograni, albicocche e ciliegie, cedri e limoni, mandorli e cocomeri, ecc. Fra le ricette della frutta ricordiamo la Patina de peris (Piatto di pere) e la Patina de persicis (Piatto di pesche). Per quanto riguarda i dolci, l’autrice ci avverte che a Roma l’ingrediente fondamentale per dolcificare era il miele, la cui produzione in Italia era abbondante, mentre lo zucchero, essendo prodotto in Egitto, era molto caro, sicché veniva usato solo durante il tardo impero e soltanto in medicina. Tra le ricette dei dolci vengono poi ricordate quelle del Savil-
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lum (Savillo), quella dei Mustacei (Mustacei), dei Dulcia domestica (Dolci domestici) e specialmente quella della Cassata (Cassata), a base di frutta e di succo di more. Quanto alle bevande, il vino, dato il carattere sacro che gli si attribuiva, veniva bevuto solo in occasioni rituali per le libagioni. Inoltre “nei tempi più antichi gli uomini non potevano bere vino prima di aver compiuto trent’anni”, mentre “per le donne vigeva la proibizione assoluta”. Inoltre, avendo il vino prodotto dai Romani, per lo più un’alta gradazione alcolica veniva prima diluito con acqua in un cratere e poi versato “in coppe molto larghe” affinché “eventuali depositi” potessero rimanere sul fondo. Veniva conservato in anfore chiuse con tappi di sughero opportunamente sigillate. Il vino più famoso a Roma era il Falerno, ma erano molto apprezzati anche l’Albano, il Sabino e il Vino di Sorrento. Variamente prodotto, il vino, presso i Romani, era spesso aromatizzato, mischiandolo a varie sostanze, tra le quali la resina. Viene poi fatta menzione dalla Giangoia di due testi letterari: la Satira II di Orazio, nella quale si tratteggia la figura di Nasidieno, un personaggio piuttosto noioso e pedante perché vantava eccessivamente i suoi cibi (qui in particolare una murena sapientemente preparata) e la Satira XI di Giovenale, nella quale il poeta invita l’amico Persico a recarsi a mangiare da lui in campagna, dove consumeranno una cena frugale, molto diversa da quelle in uso nella società romana al tempo degli imperatori Traiano e Adriano. Chiude il libro il Menù di Trimalcione, tratto dal Satyricon di Petronio Arbitro, dove viene descritta una cena compiuta “all’ insegna dell’eccessivo e dello spettacolare”, come ci fa osservare l’autrice del libro, la quale si diffonde sull’argomento. Terminata la lettura si ha l’impressione di aver compiuto un’incursione nel mondo culinario romano in modo particolarmente approfondito, così da comprenderne meglio i costumi alimentari; il che costituisce una parte non piccola del bagaglio culturale e dello stile di vita di una civiltà della quale noi siamo gli
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eredi diretti. Molti capitoli del libro sono sapientemente illustrati da riproduzioni di affreschi e altri reperti provenienti da luoghi archeologici campani. Liliana Porro Andriuoli
ELUARDIANA Un grappolo d'astri riluce su immensi vetri. Lontano cinguetta ancora un uccello sperduto. Vorrei fuggire nella notte odorosa fare un fuoco di foglie secche, come te, Paul, come te l'azzurro mi sta abbandonando. Luigi De Rosa (Rapallo)
NEVICATA DI MARZO ... E questo tardo sfavillio di neve con la sua luce candida, vetrosa l'americana Goshen mi rammenta e il fulgido berillo che ha il suo nome. E' freddo al tocco, e limpido qual specchio ma dentro ha vivi lampi e dolce fuoco che splende in meraviglia di colori... Marina Caracciolo Torino
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 10/3/2018 Il M5S ha fatto di tutto perché Roma non avesse le Olimpiadi, ora, però, è d’ accordissimo che quelle invernali le abbia prossimamente Torino. Alleluia! Alleluia! Due pesi e due misure. La coerenza, cioè, di questi duri e puri sta andando all’ ammasso, dove, via via, finiranno tutte le buone o cattive intenzioni che, negli anni, li hanno fatto crescere. Domenico Defelice
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PER MELEAGRO IL SIRO SI MUOVONO VOCI D'ITALIA di Ilia Pedrina
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U Meleagro ci dice Francesco Pedrina: “Nacque a Gàdara, nella Palestina, verso il 130 a. C. e fiorì agli inizi del I secolo. 'Atene della Siria' chiama Meleagro la sua città natale. In realtà, era un centro di studi assai fiorente, dove spiriti orientali si fondevano con la cultura ellenica. Di Gàdara era il cinico Menippo e, un po' più giovane di Meleagro, Filodemo: insieme costituiscono la triade gadarese, che largo influsso esercitò sulla cultura ellenistica e latina... Oltre che nella città natale, visse a lungo anche a Tiro. Divise i suoi giorni fra lo studio, la poesia e la vita galante. Come poeta egli chiude l'età ellenistica con una nota di grazia voluttuosa...” (F. Pedrina, Musa Greca, ed. Trevisini, Milano, 1964, pag. 906, nuova edizione pag. 738). Manara Valgimigli consegna al Pedrina, a Padova, un giudizio attento e luminosissimo su quest'opera, dopo averla ricevuta in dono: “C'è uno scrittore qui dentro, che ha saputo rielaborare originalmente la vasta materia. Un libro del genere, per la letteratura greca, non era ancora apparso nei nostri licei”. Si incontravano al Caffé Pedrocchi, il gigante dall'anima attraversata dal dolore e il 'giovanotto' che, dopo aver attraversato tutta la Letteratura Italiana dalle origini al nostro tempo, affronta con entusiasmo tutta la Letteratura Greca, in una 'Antologia di poeti e prosatori greci con profili degli autori e pagine critiche organicamente scelte per un Disegno Storico- Este-
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tico', la cui prima edizione porta questa dedica 'A Ilia/la mia figlietta/il mio idolo/la mia collaboratrice': trascrivevo a macchina le pagine critiche che nascevano dalla sua ispirazione coinvolgente sul Beato Colle della villa di Brazzacco, in provincia di Udine, dopo che lui mi svegliava presto presto, chiamandomi dal giardino: 'Ilia, è nato Eschilo! Ilia, è nata Saffo! Ilia, è nato Archiloco!' Per ciascuno degli Autori un grido di gioia per il profilo critico che ne era nato. Commossa ed ubbidiente, mi sono divertita adorandolo senza sforzo ed ora lo ringrazio e resto un poco con Meleagro e con queste Voci d'Italia che dicono di lui. Il più giovane dei tre è Carlo Diano (Vibo Valentia 1902-Padova 1974) ed ha respirato a pieni polmoni arie europee anche quelle fredde del Nord; gli fa seguito Francesco Pedrina (1896-1971), per poi lasciare il diritto di 'primogenitura', nella genealogia degli appassionati della scrittura poetica, a Manara Valgimigli (San Piero in Bagno,1876, all'epoca in provincia di Firenze-Padova 1965), allievo del Carducci all'Università di Bologna e amico di Renato Serra e di Pietro Panzini. Mi riprometto di dire di loro più compiutamente in altro momento, perché ora prendo il via, al galoppo su Asfodelfi, con Eros che ti spinge al cimento e ti percuote i fianchi: verso Meleagro il Siro - ma ora Gàdara è in Giordania - e la sua Eliodora, quasi tre Grazie in lei, ad abitarle il cuore, per la quale l'alba arriva sempre troppo presto perché lui, il poeta, con lei vorrebbe notte e amore e grazia, sempre. Preparativi (Antologia Palatina, V. 147) Πλέξω λευκόϊον, πλέξω δ'απαλήν άμα μΰρτοις νάρκισσον, πλήξω καί τά γελώντα κρίνα, πλήξω κάι κρόκον ήδυν· επιπλέξω δ'υάκινϑον πορφυρέην, πλέξω κάι φιλέραστα ρόδα, ώς άν επί κροτάφοις μυροβοστρύχου ΄Ηλιοδώρας έυπλώκαμον χαίτην άνϑοβολή στέφανος. Intreccerò il garofano bianco e insieme coi mirti il tenero narciso e i ridenti gigli;
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intreccerò il croco soave e ancora il purpureo giacinto, intreccerò la rosa diletta agli amanti, perché la mia corona infiori le tempie a Eliodora sui riccioli belli dell'olezzante chioma. (POETI GRECI-MELEAGRO a cura di R. Cantarella, Nuova Accademia Ed. Mi, pp. 526-527). La traduzione è di Raffaele Cantarella, che sceglie in apertura al bel volume pubblicato nel 1961 parole di Hölderlin: 'was bleibet aber, stiften die Dichter', come a dire che i poeti raccolgono in canto tutto ciò che sfugge alla presa e che rimane come al fondo, in segreta attesa. Allora una corsa alle pagine degli Epigrammi, quel volume che Carlo Diano firma nella cura e nella traduzione per l'editore Neri Pozza di Vicenza, finito di stampare in copie numerate il 10 dicembre 1966, con litografia di Tono Zancanaro in rosso fuoco, offerta 'Per gli amici di Angelo Carlo Festa, là dove le forme si fanno offerta di deliranti aspettative nella solitudine di un sovraffollamento di segni, che tracciano volti e corpi in nudo tutti immediatamente fusi tra loro e decifrabili, quasi come i sonagli alle caviglie nude, piccole perle vuote a dominare un silenzio carico di Eros. Carlo Diano traduce così questo epigramma: “FIORI PER ELIODORA Intreccerò le bianche violaciocche, intreccerò il narcisso delicato coi mirti, intreccerò i gigli che sorridono ed il croco soave ed il cupo giacinto, e intreccerò le rose che amano l'amore perché sopra le tempie d'Eliodora dai riccioli stillanti di profumo la mia corona copra fiore a fiore l'onda della sua chioma.” Meleagro, Epigrammi, trad. di Carlo Diano, Neri Pozza editore, pag. 76. In effetti φιλέραστα ρόδα è presentato con
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aggettivo e sostantivo al plurale ed amare l' amore è proprio delle rose, secondo questa stupenda e corretta resa stilistica. Il Pedrina, in Musa Greca, sceglierà la versione del Cantarella perché l'altra l'avrebbe fatto sostare a lungo, molto a lungo sulla fascinazione del Poeta per la sua Eliodora e vi si sarebbe perso, in una infinita dimensione smemorante, perché l'effetto è realmente musicalissimo. Meleagro ama, rincorre ciò che le forme belle gli offrono in luce, si lascia sedurre e comprende quando Eros lo rende prigioniero e lo squassa dentro. Dice ancora di lui il Pedrina: “... Con Meleagro l'epigramma torna quasi esclusivamente all'amore. Quasi tutti i motivi tradizionali sono ripresi con variazioni non di rado indovinate, per cui il motivo stesso sembra attingere la sua espressione definitiva. L' Eros, che ha tentato tanti poeti, non perde certo con Meleagro del suo mordente. È ancora bimbo in braccio della madre, e già, trastullandosi, si gioca ai dadi l'anima del poeta (A. P. XII, 47). Questi tenta resistergli ma alla fine deve dichiararsi vinto: Eccomi a terra: tu calcami, o fiero dèmone, il collo; ti conosco, so il tuo piede pesante e duro, so gl'infuocati tuoi strali. Ma l'anima mia se di fiamme saetti, più non ardi nulla: è già tutta cenere. (XII, 48) Una schermaglia che dura tutta una vita. Un velo di ironia leggera e galante dà spesso agli epigrammi di Meleagro una grazia madrigalesca. Certo egli non ha il segno sicuro di Asclepiade, non avviva innanzi ai nostri occhi le figurette deliziose che in quello si incontrano ad ogni passo: nessun rilievo particolare, nessun atteggiarsi della persona distingue Eliodora da Zenofila o da Anticlea, Demo, Fanio (la sua galleria di ritratti femminili ha un volto solo), ma in compenso è più intensa in Meleagro la rappresentazione della vita interiore, degli alterni moti della passione, per cui amore, gelosia, sogni, illu-
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sioni occupano quasi da soli la fantasia del poeta di Gàdara... Ma non è nell'amore dolcezza grande che possa durare: o vi subentra la stanchezza, o, assai più propizia alla poesia, il dubbio sulla fedeltà della donna amata. L'inquietudine amorosa, il sospetto che non lascia requie e ruba i sonni notturni, l'immagine di lei che ora sembra sciogliersi in lagrime per il desiderio del lontano, ora atteggiarsi a un pensiero infedele, sono ritratti da Meleagro con rara verità psicologica: O notte, o sempre in me desto desiderio di Eliodora, dolci puntigli e pianti su le malvage aurore: dell'amor mio rimane ancora un vestigio? Si scaldan sull'immagine fredda memori i baci suoi? Ha sempre quelle lagrime compagne al suo letto? Ne' sogni ingannatori, al seno stringemi e bacia mai? O forse ha nuovi amanti, giuochi nuovi? Che tu non li vegga giammai, lucerna; e sempre siile custode fida. (A. P. V, 166, trad. di G. Mazzoni)” (F. Pedrina, op. cit. nuova ed. pp. 738-740). Per ovvie ragioni di spazio non riporto il testo greco, ma per quest'ultimo epigramma mi addentro nella traduzione di Carlo Diano: “NOTTE INSONNE O Notte, o desiderio che non dorme d'Eliodora, o tormento, o schiena sinuosa, lacrime di dolore e di piacere, rimane qualche cosa del mio amore e una fredda immagine riscalda il bacio del ricordo? Ha per compagno del suo giaciglio il pianto, ed inganno dell'anima la mia ombra nel sogno, e la bacia e la stringe tra le braccia? O già l'amore è un altro e si rinnova al suo giuoco il piacere? Se è così, o lampada, tu non far luce mai e non assistere a un simile spettacolo. Te l'ho affidata, e siile custode.”
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(Meleagro, Epigrammi, op. cit. pag. 86) Carlo Diano, il grecista di Vibo Valentia, allora chiamata Monteleone Calabro, che, giovane orfano di padre, arriva a Napoli, conosce Benedetto Croce, senza diventare mai 'crociano'; per poi approdare a Roma e condividere con Giovanni Gentile, senza mai avere la tessera del partito in tasca, autonomia intellettuale e profondo rispetto per la cultura, la filosofia, i testi e la loro resa in lingua 'altra'; per giungere infine a Padova, in un segreto disegno destinale, tra i giovani sempre, senza essere stato mai giovane, ci dice, in questo bellissimo volumetto ormai introvabile: “... Di che cosa vivesse, non sappiamo. Forse di commercio. Perché da Gàdara sarebbe andato a stabilirsi a Tiro? Se avesse dovuto contare solo sulle Grazie e le Muse, vi sarebbe morto di fame. E dovette accumulare una certa fortuna, se poté avere tante donne che, a quello che ne traspare dai suoi versi, non erano certo da gente spiantata. Questo spiega anche come, nella sua vecchiaia si sia potuto ritirare a Cos e divenirne cittadino. Che è il tratto più significativo della sua vita, e testimonia insieme con la vibrazione sincera che è nei suoi migliori epigrammi la passione che egli ebbe dell'arte, e come egli soffrì e gioì non solo d'amore, ma anche di poesia. Cos, a parte Ippocrate, era l'isola dei poeti... A Cos si andava da ogni parte della Grecia per ammirare le pitture di Apelle e l'Afrodite di Prassitele. Fu lì, credo, che egli ebbe l'idea di unire ai propri gli epigrammi più belli dei suoi contemporanei e dei suoi predecessori in una raccolta, a cui diede il nome di Stèphanos, o Corona. La prefazione in distici che noi leggiamo ancora, e nella quale sono enumerati i nome di trentasette poeti, ci dà anche la ragione del titolo.
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Ogni poeta infatti viene messo in relazione con un fiore. Accresciuta da aggiunte sempre più numerose in età romana, cristiana e bizantina, è oggi incorporata nell'Antologia Palatina e in quella fatta nel XIII secolo da Massimo Planude...” (C. Diano in op. cit. pp.104105). Meleagro (130 a.C.- 60 a.C. circa), anche se di padre greco, chiama se stesso 'siro' ed a chi non è in accordo con lui, denigrandolo, spiega che si ha una patria comune a tutti noi e questa è il mondo. A ciascuno il desiderio di incontrare il testo greco che ha dato vita a queste due interpretazioni, del Mazzoni e di Carlo Diano, differenti d'esperienze e di stile, portando al fianco un Eros senza tempo, addomesticato dall'intelletto per sua libera scelta. Non potrà chiamarsi che Eros, perché l'intelletto è solo intelletto d'Amore: 'was bleibet aber, stiften die Dichter'. Come in un dono, che è offerta di sé. Ilia Pedrina
ITALIA E AUSTRALIA NEL CUORE Mi sono alzata cantando come una gazza, saltando come un canguro, arrampicandomi come un koala, camminando dondolandomi come i pinguini, strisciando nell’erba verde dei giardini, che meraviglia, Melbourne eletta la città più felice del mondo, per sette anni consecutivi è la città più vivibile al mondo, ora anche la più felice! Il cuore balla la tarantella, pensando all’Italia che è la nostra mamma e ci entusiasma con la sua ninna nanna, che è incisa nel cuore e non si cancella. Ecco all’improvviso una notizia straordinaria: Catania eletta la più bella città d’Italia! Che emozione, non mi resta che volare e atterrare sull’incantevole Etna e da lì ammirare le due città del mio cuore. Melbourne e Catania bellissime, che m’infiammano d’amore!
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Il mio pensiero vola sempre in Italia, la sogno notte e dì con tutta l’anima, ma svegliandomi son contenta di trovarmi qui. Il cuore e la mia mente son sempre viaggiando, Italia – Australia in ogni momento, e così si cancella il mio tormento. 25 – 2 – 2018 Cav. Giovanna Li Volti Guzzardi Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori (A.L.I.A.S.), Melbourne, Australia
STA ARRIVANDO Sta arrivando la sera: il solo pian piano scompare, l’aria è tiepida e gli uccelli abbelliscono il cielo, l’armonia del giorno finisce e declinano i tanti colori del giorno. Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, MI
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 15/3/2018 Adriana Faranda, Barbara Balzarani, Mario Moretti, Valerio Morucci e altri, son coloro che si son macchiati di delitti orrendi o che li hanno ispirati, insanguinando l’Italia. Ora, nel 40° anniversario del rapimento e dell’ uccisione di Moro, diluviano e pontificano dai Media, ricercati e vezzeggiati da giornalisti che disonorano la professione, perché, amplificando la voce e le idee degli assassini, è come uccidere ancora, dei carnefici divenendo complici. Domenico Defelice
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Il grande meridionalista lucano GIUSTINO FORTUNATO di Leonardo Selvaggi I E questioni meridionali per trent’anni si sono agitate nell’animo di Giustino Fortunato, uno dei più singolari uomini del Parlamento italiano, nato a Rionero in Vulture nel 1848, morto a Napoli il 1932. Suo pensiero fondamentale la convinzione che la plebe, gente assoggettata al potere, misera, appesantita dagli stenti fosse assai migliore delle classi dirigenti. Fu un uomo schivo, taciturno, gravato da pensieri meditabondi, l’ uomo della tristezza meridionale, addolorato per le precarie condizioni dei contadini, pressato dalla sua analitica, profonda, sofferta compenetrazione con la diffusa povertà del Mezzogiorno. Hanno questa tormentata matrice psicologica tutti i suoi atteggiamenti politici, di studioso, il suo pessimismo, il rancore e la rabbia. La sua desolata solitudine di fronte alla demagogia, all’inerzia della classe politica. Giustino Fortunato da tutti gli stu-
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diosi a lui contemporanei stimato, considerato un grande storico, un uomo dalla forte sensibilità. La sua voce lamentevole corre per le vaste campagne deserte, intrise di paludi malariche, lungo le fiumare acquitrinose. Le piogge invernali catastrofiche per i colli franosi, le lunghe siccità estive dai venti affocati sono i nemici dei raccolti invano sperati. Non si può pensare a delle intraprese né ad una attività di cooperazione, c’è un isolamento ed una quasi inesistente capacità di rapporti sociali: tutto condizionato da una mancanza di capitali, dai dissesti geologici in gran parte causati dai terremoti. Una lotta per la vita senza forza, come incatenati prende proprietari e proletari, borghesi e contadini. Il nostro è un uomo senza illusioni e fatalista contro gli inveterati pregiudizi, positivista, ostinato osservatore, rilevatore coraggioso della vera realtà delle terre meridionali. Per Giustino Fortunato non si doveva parlare a vuoto, ma sulla base delle esistenti condizioni della gente più massacrata. Per lui la politica non deve servirsi degli occhi chiusi, ma di giuste commisurazioni, quello che si vuole realizzare deve corrispondere ai mezzi a disposizione. I punti concreti dell’azione politica che poi dovevano essere i veri principi basilari per un retto cammino governativo consistevano nel non programmare molti lavori pubblici superiori alle possibilità dell’Erario italiano, nell’ elargire generose elemosine in cui spesso si risolvono le cosiddette leggi speciali, ma si volevano grandi sgravi e liberi commerci. Per lui sono stati chiodi fissi la riforma tributaria che era soprattutto questione di moralità e l’ efficacia rigeneratrice del regime unitario, che con il senso di giustizia e di uguaglianza in tutte le parti d’Italia doveva portare ad un certo livellamento e, secondo i principi di una equilibrata pedagogia politica, al riscatto e al risollevamento di quelle che erano le infime condizioni di vita. Nemico del Regionalismo, del decentramento amministrativo; le autonomie locali potevano degenerare in particolarismo sociale e politico, potevano creare frammentazioni lasciando le zone meridionali in un abbandono maggiore. Doveva scorrere
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da Nord a Sud come un unico fiume di provvidenze e di leggi per alimentare tutti, rinsanguare specie le parti sclerotiche, disseccate, compresse quasi in posizioni di prostrazione. II Giustino Fortunato nel 1873, terminati da più di due anni gli studi universitari vissuti con ardore in un clima vivo e fulgido di patriottismo e di ricerche, si era iscritto nella sezione napoletana del Club Alpino Italiano. Più volte aveva percorso i dintorni di Napoli, descrivendoli con il pieno trasporto dell’ ammiratore di bellezze naturali. Ora si mette a peregrinare attraverso gli Appennini per osservare da vicino le reali condizioni del Mezzogiorno, da studioso meridionalista, assillato dai vecchi problemi sempre insoluti. Erano questi balenati nei pensieri di Cavour, solo il nostro grande lucano, dopo mezzo secolo di Unità, li ripropone in forma seria, con ostinazione, con la preoccupazione continua per le precarie, dure situazioni di vita della gente delle campagne. Il suo è un impegnato e attento lavoro di indagine, “sola vivendi cupididate ductus”, con metodo e intelligenza raccoglie dati e informazioni. Ha in animo di illustrare tutto l’Appennino meridionale che per un ventennio dai Sibillini all’Aspromonte percorrerà con perseveranza, convinto sempre più della relazione fra la geografia fisica e la geografia politica. G. Fortunato è un solitario, senza prosopopea, tutto preso dalle meditazioni, è un uomo schivo, non sa stimolare le forze politiche per dare sostegno al suo programma. Infinita era la sua malinconia da cui veniva preso nelle silenziose ore di contemplazione dei calanchi della Basilicata, dalle argille scagliose, delle acque stagnanti lungo il corso dell’Ofanto. Incontenibile lo sdegno verso i partiti, era il suo atteggiamento di un uomo colto, tutto d’un pezzo, nella pienezza delle idee e dei principi lineari: un’unitarietà di vedute e immediatezza di pensieri lontano dal senso della sopraffazione e della faziosità. Per lui le situazioni reali volevano corrispondenza di riflessioni. Idee solenni le sue, luminose, piene di dottrina, di idealismo filosofi-
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co, di conoscenze storiche. Risalta come costante matrice di tutte le sue discussioni l’ aspetto educativo, moralistico dell’azione politica del grande meridionalista. G. Fortunato ha una concezione deterministica, come dice Croce; trova risposta ai suoi interrogativi nella povertà della terra meridionale. Le condizioni fisiche dei paesi influiscono su quelle storiche. Fattore dello sviluppo dei popoli è il clima. Queste asserzioni e convinzioni si trovano nelle “Pagine storiche”. Il nostro si scaglia con virulenza contro i proprietari inoperosi che vivono di rendita, i nobili ignoranti, i professionisti avidi di arrivismo. Nell’ inchiesta parlamentare sui contadini del Sud, di cui fu relatore Nitti, si dava ragione al Fortunato: non si poteva non vedere la miseria e l’ inferiorità naturale delle terre del Mezzogiorno, che non costituivano affatto un paradiso terrestre secondo certe vecchie, irreali, idilliache concezioni. Certamente, come sosteneva il Croce, la formulazione del problema meridionale proposta dal Fortunato per la sua organica ampiezza e incisività contribuiva ad una completa intelligenza della storia napoletana. Anche Napoleone Colaianni dimostra grande interesse riassumendo le posizioni espresse dal nostro nei suoi due volumi di scritti e discorsi politici in relazione ai problemi fondamentali che abbiamo qua e là accennato: l’unitarismo, l’antirivoluzionarismo, il conservatorismo illuminato. III Grandi le capacità analitiche manifestate da G. Fortunato quando di volta in volta esaminava i vari aspetti della questione meridionale. Le idee erano molte, ma difficile sempre giungere a quella risolutrice, a quell’idea che facesse da motore per un’azione condotta con coerenza e saldezza essendo mancati concordanza di vedute e gli interventi opportuni e adeguati. G. Fortunato interprete dei costumi della Lucania e conscio dello spirito di sacrificio che dominava le persone umili e laboriose sosteneva pure che bisognava produrre di più, consumare meno, risparmiare molto. Nel 1921 uscì il volumetto “ Dopo la guerra
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sovvertitrice” ove si riprendono i motivi della solitudine e del pessimismo del parlamentare di Rionero, che rappresentano il tormento di un uomo sconfortato da perenne amarezza pensando ai contadini che si trovavano come oppressi da cause ineliminabili. Giustino Fortunato analizzò con acume la crisi derivata dalla guerra, crisi del liberalismo e della classe dirigente, e l’impoverimento della struttura statale: da tutto ciò doveva venir fuori il fascismo di cui fu un nemico acerrimo insistentemente. Dalla parte di Gobetti, sostenitore della rivoluzione liberale, si voleva migliorare la classe dirigente, renderla attiva per il popolo e la politica nazionale. I principi sono morali, si vuole un cittadino sano con una classe atta ad operare realisticamente, i principi altamente vitali e democratici contro l’ ignavia dei governanti. Lo storico lucano nemico dei grandi partiti di massa e della lotta tra proletariato e borghesia. Fondamentale il ritorno alle antiche memorie, al ricordo dei nomi secolari e venerati, come si rileva dalla prefazione alla sua traduzione di trentadue odi e del Carme secolare di Orazio. L’ antirivoluzionarismo del Fortunato aveva il significato di fine psicologia. Una saggezza e una onesta pedagogia in ogni suo atteggiamento e riflessione in piena chiarezza e trasparenza lineare in contrapposizione con la troppa iattanza e confusione di idee, anche la dottrina democratica diveniva una vuota predica. Bisogna andare avanti con assennatezza e giudizio. Si avvicina a Giustino Fortunato con indipendenza critica il discepolo Guido Dorso, fondatore del “Corriere dell’Irpinia” e autore del foglio di riflessione sull’ impoverimento delle masse contadine del Sud “La rivoluzione meridionale” che pubblica nel 1925. Mette in evidenza che il suo maestro era convinto sempre di un fatto: i meridionali non costituiscono un popolo inferiore, anzi tutt’altro, sono vivaci, pazienti, resistenti, ostinati nelle fatiche, infelice invece la gran parte del Mezzogiorno specie la Basilicata, pietrosa, secca, improduttiva, boscaglie e piante silvestri in abbondanza proliferano. Da sfatare subito il mito virgiliano della fecondi-
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tà meridionale. Si trattava semplicemente di fantasia poetica, quello che contava era il risultato degli studi geologici, geografici, storici e agrologici. IV Giustino Fortunato per cultura discende dalla scuola liberale che aveva teorizzato la felicità nazionale, con accorato impeto interiore esprime la necessità di riparare alle ingiustizie storiche dell’Unità, se si vuole arrivare a delle concretezze favorevoli specie per i ceti inferiori. Le sue pagine destano ancora oggi profonde emozioni. Il Croce lo riconosce come il maggiore dei meridionalisti, grande storico, pertinace osservatore della realtà, ma contrario, lo ha affermato più volte, alla sua concezione naturalistica di ricondurre la miseria del Mezzogiorno esclusivamente all’ aridità del suolo. Per inquadrare meglio la posizione di G. Fortunato di fronte alla questione meridionale ricordiamo quella nettamente contrapposta di A. Gramsci. Questi voleva educare i ceti popolari, le classi minute per portarle fuori dalla dittatura borghese. Si voleva il dominio del proletariato, mentre G. Fortunato non aveva mai riconosciuto alle forze popolari capacità autonome. Al grande meridionalista lucano vengono apprezzate le sue qualità eccellenti di uomo riservato, saggio, politico perseverante, misurato e deciso per la sua strada. Conservatore reazionario intelligente. Tutti hanno fatto tesoro della sua vasta esperienza, un’influenza sempre più intensa ha esercitato sulla cultura non ufficiale, ma piuttosto su quella più seria e meno compromessa col fascismo. Piero Pieri afferma che G. Fortunato ha titoli eccezionali, basta considerare gli scritti sulla Valle di Vitalba per riconoscergli un posto importante fra gli storici di mestiere. Anche il Gentile dà valore alla sua prosa storica artisticamente superiore. Walter Maturi nel quadro della ricca, immensa, luminosa cultura napoletana pone il Fortunato accanto al Croce e allo Schipa. Certamente diverse sono le posizioni dei tre storici di fronte al problema del Mezzogiorno. Lo Schipa spera nei provvedimenti di un gover-
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no illuminato, il Croce nella libera iniziativa degli individui, il Fortunato in provvedimenti statali e individuali. Nessuna illusione da farsi, la questione meridionale rimaneva sempre di difficile soluzione. Lo storico lucano più che guardare a re e ministri, ribadiamo, guarda le condizioni geografico-economiche, dalle quali discendono quelle sociali e politiche. La grandezza gloriosa di G. Fortunato, fatta di chiarezze e di evidenze, di intuizioni e di dignità umana, avevo capito tanti anni addietro, quando sono andato per una passeggiata turistica a Rionero per vedere il cratere del Vulture con dentro i laghi di Monticchio. Una presenza colossale di studioso mi apparve, irradiata per tutta la Basilicata e il Mezzogiorno intero, quando ho visitato la sua immensa biblioteca. L’uomo dalla dirittura morale e dalla sfolgorante forza spirituale dominatrice nel silenzio e nelle continue battaglie durate tutta una vita. La sua voce desta commozione dai banchi del Parlamento, s’innalza e si diffonde come tuonando per lunghe distanze, prendendo tutto lo spazio che si vede. V Giustino Fortunato ha riempito con la sua umanità la storia del Mezzogiorno, ha intessuto rapporti articolati ed estesi con la cultura del suo tempo, ramificandosi la sua intelligenza fino a raggiungere gli studiosi più eminenti, da Salvatorelli ad Ansaldo, dall’ Anzillotti a Sepegno, da Cortese a Niceforo. Movimento di idee, fervore di dibattiti e polemiche. Tesi in opposizione come quella di Gramsci che avrebbe voluto un Risorgimento accompagnato con una rivoluzione contadina. La classe borghese si era sempre rifiutata di allearsi con le forze popolari. La mira fondamentale dei comunisti in relazione alla Questione meridionale era quella di realizzare l’ alleanza politica tra operai del Nord e contadini del Sud per avere presenze nuove nel potere di Stato. Tutti hanno saputo vedere la profonda e complessa natura del meridionalista lucano. Il suo sapere ha interpretato l’ anima di tutto un popolo, partecipando alle sofferenze, alle fatiche intristite, quelle piene
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di estenuazioni che fanno vivere una vita dannata. Lo vediamo girare per le campagne, come luce intramontabile per le aridità della natura selvaggia del Sud, su tutti i luoghi come ombra vagante, per i paesi arroccati sugli Appennini, laceri e marci alle intemperie. Monumento eretto per l’eternità a testimonianza perenne di una grandezza intellettiva sempre viva tra passato e presente, proteso con tutte le speranze e le attese verso un avvenire più aperto alla comprensione e al bene comune. Il sogno di una classe politica intraprendente, impegnata con abnegazione a vincere gli ostacoli che si frappongono alle condizioni infelici delle zone depresse. Nella mente e nelle lotte di G. Fortunato fermentano i ricordi degli avi, l’intelligenza rustica dei contadini, le parentele, le leggende, le tradizioni, la sopportazione, l’attaccamento, le poche cose. Tutto quello che dà forza e resistenza, quasi sostegno alla fragilità della vita, alle sue ristrettezze, ai malesseri, auspicando fra le generazioni continuità e passaggi di flussi vitali dentro gli indistruttibili legami. G. Fortunato oggi più che mai si sentirebbe oppresso dalla solitudine dei suoi pensieri, dalla stessa sincera purezza delle sue posizioni politiche. Siamo oggi ai movimenti devoluzionistici, si vuole tornare alle condizioni preunitarie dell’infelice periodo storico italiano subito per secoli. Persistente sempre l’ irrazionale differenziazione dei ceti, dovuta alle fortune economiche realizzate e alla povertà causata dalla fatalità e dai casuali movimenti della sorte. I contadini del Sud con pochi mezzi, ma con tanta forza e ricchezza nella loro umana struttura psico-fisica. Assistiamo nell’epoca nostra allo smantellamento del soggetto umano, portato in un processo meccanico di automazione che raccoglie sudicia materia e i frantumi della spersonalizzazione. Abbiamo i dominatori sulla cosa pubblica, non gli spartitori per uguali assegnazioni, confusione e finzioni democratiche. Sorriso ipocrita, gentile falso di arroganti, astuti spadroneggiatori. La forza fisica ha sempre la meglio nelle lotte arrivistiche. Per le trasformazioni sociali frammentate da volontà ope-
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rative, mai organicità di mentalità combattive per un vero progresso che tra passato e tempi moderni tenga legami di continuità con tutto ciò che di buono, di migliorato esista. Le ristrettezze fanno il cervello sottile, con le speranze e le illusioni spingono in avanti. Tutto manovrato da un volontarismo che seziona, appiana, toglie le ombre e si fa strada. Il contadino lucano G. Fortunato nei suoi anni di attività politica ce l’aveva nel cuore, lo conosceva con il suo sfolgorante movimento interiore: il corpo secco, assottigliato, anche se incolto con l’intelligenza pronta, lucida, acuta. Per Giustino Fortunato la razza lucana sembrava uscita in piena corrispondenza di aspetti come emanazione della terra brulla, quasi a dire, con poca carne, solo ossa, come le rocce, le pietre, gli speroni delle montagne. Leonardo Selvaggi
VOLTO DIAFANO Nevicano ancora fiori, ma non su di noi che intrecciavamo amore con lo sguardo. Né più odo fruscio di veste fiorita, né guazzo nello specchio piovano dei tuoi occhi. Ora sei volto diafano. Eppure in me dilaghi come un tempo; inutilmente fuggo la tua ombra che inseguo. Per questo la notte si rabbuia: nel tuo petto dorme la luna. Rocco Cambareri Da Versi scelti - Guido Miano Editore, 1983.
QUANDO PER TE È PRIMAVERA? Quando stanca di mondo nello spazio rientri del tuo nido, accogliente
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discreto permissivo, privo di voci e presenze, libera di fare ciò che vuoi, di tornare te stessa spoglia di maschera, nudo lo spirito in sosta il pensiero; quando un raggio di sole sfida le tenebre, ti penetra dentro e ti fa sorridere. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo AL Volturno, IS
LA NOIA Mi annoia, tanto mi annoia il tuo fermo volere il tuo condizionato potere il tuo nascosto sentire il tuo riverberato ingentilire mi annoia il tuo reiterato concepire idee sempre uguali senza mai inveire il tuo grazioso parlare senza mai gridare la tua anima assopita e soddisfatta che non cerca se non l'idea di sé stessa. Fiorenza Castaldi Anzio, RM
BEI SOGNI DEI VENT’ANNI Bei sogni dei vent'anni quando ci bastava un profilo visto e non visto tra una mare di volti a lievitare il cuore di vane speranze. Ho acceso un fuoco in riva al mare, come allora mi son purificato. Cenere resta delle nostre illusioni, cenere calda che un soffio disperde. Luigi De Rosa (Rapallo)
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Il Racconto
NENNELLA VERDE di Antonio Visconte
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L mare appariva splendido sotto un cielo divinamente azzurro. Facevano il bagno in un pantano, che la voce popolare soleva chiamare “il lago di Ciccariello”. Osservando quella immensa distesa d’acqua, che mi veniva addosso, come una madre accarezza il figlio, il mio animo esultava di gioia. “Vieni a sederti accanto a me”, sussurrava Nennella. “Non posso”, le rispondevo, mentre mi dilettavo sulla sabbia morbida. “Questa è la prima e l’ultima volta che ti porto con me e ti pago il viaggio, sei nato fesso e fesso rimani”, riprendeva la ragazza, rimasta sola sulla spiaggia poco affollata, a prendere la tintarella. Nennella apparteneva alla famiglia Verde, composta da persone generose e amicali, che abitavano nel vicolo delle monache, vicino a mia zia Olimpia, l’ultima sorella di mia madre Maria, quindi fu gradevole stringere con loro una simpatica amicizia. Alla bontà dell’animo non corrispondeva una sanità mentale e a malapena gestivano una importante rivendita di giornali con sperperi e disavventure. La giovane ventenne aveva scoperto Ischitella, una località marittima facile a raggiungere dalla città di Aversa, evitando il circuito napoletano. Con graziose cabine in legno rudimentale sorgevano i primi stabilimenti balneari e uno spogliatoio per i meno abbienti. Il richiamo all’isola d’Ischia rendeva il lido altrettanto seducente. Legato alle ataviche tradizioni, il paese si mostrava saldamente puritano. Le attrici cominciavano a cambiarlo col nudismo e i divorzi. La censura svolgeva bene il suo intervento e la pornografia non compariva negli spettacoli. La Chiesa ci offriva un modella di castità nella santa figura di Maria Go-
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retti ed io vivevo secondo i castigati valori del mio tempo. Ragazzo dodicenne stavo sempre in parrocchia, servivo la Messa, mi vestivo da chierichetto, tiravo i mantici dell’organo e don Ferdinando mi elogiava per la mia bravura. Abbassando insieme le due asticelle, si bloccava il suono e l’organista s’infuriava. Nennella comparve sull’arenile in costume intero, ma il suo fascino destava invidia agli dei. In mezzo alle bagnanti tarchiate e bruneggianti, lei appariva bionda e slanciata. Non ancora aperto il villaggio svedese alla Baia Domizia, questo prototipo faceva scalpore. Credendola una turista straniera, che veniva da una nazione lontana, la notavano e l’ ammiravano e nessuno l’abbordava. Bisognava saper parlare e sapersi presentare in un ambiente poco emancipato. All’improvviso Nennella si alzò, e con una mano stringeva la tovaglia che aveva disteso per terra e con l’altra afferrò il mio braccio. “Vieni, Antoniuccio, facciamo l’amore”. “Non voglio venire”, balbettavo. “Vieni in cabina, ché nessuno ci vede”. “Non voglio venire”, ripetevo piangendo, “è peccato, mi devo confessare”. “Ti credevo un uomo e sei un bamboccio, non sei ancora uscito dal guscio dell’uovo”, strepitava Nennella, lasciandomi il braccio indolenzito, “faremo i conti a casa”. “Se ti prude il mazzo”, proruppe una donna seduta sopra una sdraia, “trovati uno stronzo della tua età e lascia stare un’anima innocente”. “Non fate casino”, ingiunse il bagnino. Giammai rimpiansi la bella occasione perduta, poiché ben presto avrei recuperato, portando le amiche in cabina, ma quella primitiva innocenza mi accompagnò per tutta la vita. Incontravo Nennella nel negozio e riflettevo sulla precarietà di ogni umana bellezza. A stento si ricordava di me e del mare di Ischitella neanche l’ombra. Antonio Visconte
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LO SCUOLABUS di Filomena Iovinella
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LI occhi erano appena aperti e già giocavano allegramente tra i dolci del mattino, la tavola imbandita e i profumi della cucina. Faceva ancora freddo e la mia alleata per quelle mattinate era la morbidosa sciarpona che si prendeva tutto il collo, invadendolo, saliva anche a coprirmi la bocca. Non guardavo attraverso la finestra, ma restavo ferma con l’orecchio ad attendere quel suono. Il clacson dello scuolabus fermo al lato della strada, in piazzetta, come i film dei registi famosi a girare una scena ambientata nel passato, magari con abiti diversi. Io invece sono di oggi con i miei capi d’ abbigliamento attuali e le mie manie di giovane minions: con le cuffie, il cellulare e il profilo instagram. Salgo sul bus colore del cielo, azzurro sbiadito. Mi metto seduta e mi guardo in giro, gli zaini prendono più vita delle persone, sono oggetti strani che rimbalzano e finiscono nel vano contenitore, in alto, sulle nostre teste. I due posti fanno stare vicini, indifferenti ma vicini ugualmente. L’autista è ad attendere, fino a quando non si mette seduto sulla sua poltrona da guidatore e si ode quel delizioso rumore di motore, narrandomi sul dove sono, guardo fuori dal finestrino e vedo il mio piccolo mondo allontanarsi, non riesco ad afferrare molto, ma le sensazioni della campagna si avvicinano e la prima strada di periferia si fa largo tra le ruote di quello scuolabus… d’altri tempi. Mi sta portando via e intanto la mia vicina ha il cellulare tra le mani e quella davanti a me, dorme. Io sono sveglia e non voglio arrivare, mi piace il viaggio dello scuolabus, ogni mattina, come la colazione calda con i biscotti. L’odore del mio primo viaggiare per le strade di un tempo da ricordare, lungamente, mentre invecchierò alla ricerca di sensazioni genuine. Scatto una foto del corridoio di quel mezzo di trasporto e la cambio in bianco e nero,
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la riporto già al passato, mentre in fila scendiamo perché siamo arrivati. La mia amica mi abbraccia dalle spalle e mi pianta un bacio sulla guancia quasi all’altezza dell’ orecchio e me lo fa fischiare, mentre felice mi confida di essersi innamorata e mi mostra la foto del ragazzo dai quattrocento like che le scrive su instagram. Filomena Iovinella IL GABBIANO Vola il gabbiano sgraziato e ululante nel cielo in tempesta si posa su uno scoglio e poi riprende il volo inquieto tra le nubi cerca in basso trova tra le immondizie umane una fugace gioia torna verso il mare bianco di schiuma cerca la sua natura volteggia tra gli alti pennacchi gli sembra di essere nei grandi spazi ma...brutale la fame lo assale e ritorna a odorare i resti putridi e fetidi degli uomini serpenti. Fiorenza Castaldi Anzio, RM
ESODO Si vedevano al meriggio, oltre cuspidi di monti, uccelli a torme migrare sotto fulgidi cieli. Muti restammo l’esodo a guardare. Rabbrividimmo al vento della sera, e in sogno ci vedemmo nomadi andare per paesi di sole. Franco Saccà Da: Domenico Defelice - Franco Saccà poeta ecologico - Ed. Pomezia-Notizie, 1980.
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I POETI E LA NATURA – 78 di Luigi De Rosa
D. Defelice - La casa del pipistrello (biro, 2018)
IL SOLE E LA VITA, IL BUIO E LA MORTE “PRESSO UNA CERTOSA”, DI
GIOSUÈ CARDUCCI
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on pensiamo immediatamente ad un Carducci troppo solenne (e a volte retorico), cattedratico, roboante, storico, patriottico. C'è anche un Carducci delicato e sensibile, musicale, innamorato della Natura e della naturalezza. E non ci sono solo i “bei vermigli fior” del verde melograno di “Pianto antico”, o le cime alpine innevate di “Mezzogiorno alpino”, o i ben noti “cipressetti” di “Davanti san Guido”, e così via. C'è anche il Carducci di RIME E RITMI, o in particolare di “Presso una Certosa”. Dove, per Certosa, non dobbiamo intendere un Convento di frati, appunto, certosini. Ma un Cimitero, un camposanto, coi suoi immanca-
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bili cipressi, dal cui “verde pertinace” “...tra le foglie gialle e rosse dell'acacia, senza vento una si toglie.” Cosa c'è di più delicato e disperato di questa “foglia” che ad un certo punto si stacca, pur in assenza di vento, senza lotta e senza più resistenza? Questa foglia svola via con la levità di un fremito leggero (“par che passi un'anima...”). E dove va a finire?. Va a perdersi, ad annientarsi in “un velo argenteo di nebbia sul ruscello che gorgoglia” L'unica forza che può improvvisamente e clamorosamente dissipare questa “umidità”, questo disfarsi, questa morte, può essere soltanto il sole, il simbolo della vita trionfante: “Improvviso rompe il sole sopra l'umido mattino, navigando tra le bianche nubi l'aere azzurrino: si rallegra il bosco austero già del verno presàgo.” In definitiva, la vera, profonda preoccupazione del poeta è quella per la propria vita, a fronte della vecchiezza che ormai lo tiene sempre più prigioniero con le sue défaillances, i suoi acciacchi e le sue malattie sia fisiche che morali. E per tenere lontano il pericolo dell'inaridimento della vena poetica e della forza dell'ispirazione, al poeta non resta che invocare lo spirito di sopravvivenza dei poeti, che poi è la Poesia stessa, impersonata dal più grande cantore di tutti i tempi, Omèro. Un poeta come Carducci, in particolare, che era stato soprannominato un omerìda sia per i suoi studi che per la sua predilezione per uno stile
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espressivo rude e schietto come quello degli Antichi, non può che invocare il “padre Omèro”: “A me, prima che l'inverno stringa pur l'anima mia, il tuo riso, o sacra luce, o divina poesia! Il tuo canto, o padre Omèro, pria che l'ombra avvolgami !” Si noti che questa poesia, la penultima della Raccolta “Rime e ritmi”, è stata scritta nell'autunno del 1895, quando Carducci aveva circa sessant'anni (era nato nel 1835 a Valdicastello nella Versilia lucchese, e sarebbe poi morto a Bologna nel 1907, dopo la conquista, come primo italiano, del Premio Nobel per la Letteratura). Erano anche tempi in cui, in genere, la vecchiaia si sentiva prima. Ma Carducci, diciamolo pure, anche negli anni della maturità, era fisicamente e moralmente un leone. E diciamo che questa angoscia per un temuto calo delle sue forze poetiche e letterarie, sa più della viva sensibilità di un artista che di una percezione di autentica crisi. Luigi De Rosa
CIELO CELESTE Cielo celeste attraverso i vetri e trasognate grida di gallo in lontananza: un autocarro romba nel polverone. Ogni mattino è un sole di speranza. Luigi De Rosa (Rapallo)
GIOVINEZZA (Tanto tempo fa) Nuvole vaste calanti in silenzio in voragini di silenzio. Bocca orlata di luce che dà il brivido, immensità d'amore era la vita e sottile angoscia che tesse migliaia di fili indivisibili. Luigi De Rosa (Rapallo)
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Recensioni GIANNI IANUALE SINTAGMI POETICI LER Editrice di Marigliano (NA), 2008, € 15,00, pagg.77. Il valore aggiunto di questa ulteriore pubblicazione da parte del Presidente dell’Accademia Internazionale Vesuviana, il poeta scrittore Gianni Ianuale, sta nella via di mezzo, nel riscattato equilibrio tra due espressioni letterarie: la poesia e la prosa. Il sintagma del poeta partenopeo nasce nella familiarità dei suoi giorni vissuti appieno, nei quali egli ha saputo trarre le incalcolabili ispirazioni sostanziali tali da poter raccontare poi a noi storie poetiche frammentarie e, proprio per questo, fascinose e interessanti. Ha augurato Maurizio Orsi nella sua postfazione, che da questi gruppi di elementi linguistici « […] gli altri possano prendere spunto e sappiano farne l’uso più appropriato e coerente per la loro espansione lirica, siano essi scrittori o poeti affermati, oppure aspiranti tali o semplicemente puri amanti del Divino piacere di esprimere se stessi con la parola o tali sintagmi, potranno altresì attingere da quest’opera e nello stesso tempo confrontarsi con gli altri. Che siano le versificazioni contenute in questa raccolta la loro guida e, lo siano sempre e comunque in ogni occasione. » (A pag.74). In pratica, è un volume di abbondanti incipit che rappresentano ragguardevoli percorsi da intraprendere con la volontà di svilupparli via via con la scrittura, sia essa narrativa, poesia, epistolario, etc. Potremmo paragonarlo, ma forse lo è davvero, un corso d’animazione alla scrittura creativa dove si sa
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come si comincia ed è sconosciuta la fine, giacché l’espansione del discorso letterario è lasciato all’agire del pensiero del relativo autore. Prendiamo, ad esempio, la frase « Come potrei offenderti se amo la preghiera più di me stesso » (di pag.72); rappresenta l’ideale ambientazione per lo svolgimento di un qualcosa di religioso, a prescindere dal tipo di credo, sia esso cristiano, mussulmano, buddista o altro. L’abilità adesso di un letterato in cerca di spunti, consiste proprio nel continuare oltre trasmettendo le sensazioni sorte attorno a questa frase di Gianni Ianuale. Vengono in mente, a questo proposito, gli alti concetti dell’antichissima dottrina del Tao, il cui 22° capitolo – 81 in tutto – così recitava: « L’incompleto diverrà completo./ Il curvo diverrà dritto./ Il vuoto diverrà pieno./ Il logoro diverrà rinnovato./ Il poco farà guadagnare./ Il molto farà perdere. » Oppure, in attinenza al riscattato equilibrio summenzionato tra poesia e prosa, dal capitolo 5° « […] Le troppe parole si esauriscono presto./ È meglio tenersi nel mezzo. » (Dal volume Laozi Tao Il Libro della Via e della Virtù, Stampa Alternativa di Roma, Anno 1998). Il prefatore, invece, di quest’opera, Angelo Del Vecchio, parla di educatori, di pedagogia di ieri e del Novecento, cita S. Giovanni Bosco che tanto si era occupato dell’apprendimento dei ragazzi che non dovevano essere abbandonati a se stessi, bensì andavano spronati con il gioco, lo studio, l’ apprendistato per il lavoro. « […] Avvicinare i giovani discenti alla poetica vuol dire appassionarli, struggerli, ammaliarli con onomatopee, non per chiuderli in un comportamentismo skinneriano, non perché attendiamo una risposta dinanzi ai nostri stimoli, ma semplicemente perché questi versi slegati e messi insieme in un’ottica prosastica di sintagmi più che di emistichi poetici possa fruire materiale e sensazioni di un verso incompiuto, di una poesia che, a dirla con il cantautore Roberto Vecchioni, è lì sulla scrivania attendendo che tu possa concluderla. » (Alle pagg.15-16). Non è difficile comprendere tutta questa sequela di frasi che dovrebbero collegarsi con altre frasi di scrittori o poeti in cerca di muse o almeno delle loro ombre, per poter redigere non un capolavoro ma qualcosa di simile. In mezzo a tanto chiasso di incominciamenti, ci sono le meravigliose fotografie a colori della romana Lorella Diamantini, la quale ha cercato di inquadrare momenti di ineffabile spensieratezza infantile e di sfavillanti coppie carnascialesche veneziane. L’infanzia e l’adolescenza raccontata dagli scatti fotografici della Diamantini, sono costituite dalla presenza di ragazzi e ragazze che vivono leggiadramente il periodo della loro giovanissima età.
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Due fanciullini in tuta da ginnastica, con tanto di solide scarpette, che si abbracciano con gioia calpestando un tappeto di foglie gialle: sono l’infanzia dorata nell’autunno aureo. Oppure, il volto rilassato di un adolescente che dorme di fianco su una sedia a sdraio a righe blu e arancione; o dei ragazzini in abbigliamento dell’antico Oriente, con alle spalle reali scenografie egiziane come la Sfinge di El Gîza che raffigura il faraone Chefren, gli alberi da palma e le dune di sabbia del deserto. « […] Un binomio vincente quello di IanualeDiamantini, che alimenta salmi d’infinito là, dove il silenzio dà voce ad impalpabili incanti e sublima concetti che solo Iddio sa esternare nella coscienza di artisti come quelli odierni. » (Alle pagg.75-76). Isabella Michela Affinito
SANDRO ALLEGRINI PERCORSI DI LETTURA PER DOMENICO DEFELICE Prefazione di Angelo Manitta, Il Convivio, 2006, € 10,00, pagg. 158 Capita per un lettore, per un intenditore, per un simpatizzante, di conoscere un autore soltanto perché magari per le mani gli è passato un suo libro, o più di qualcuno e allora, facendosene un proprio concetto positivo o negativo, crede o crederà poi di sapere tutto su di lui. Avere la cognizione pressappoco globale di un autore ricercato significa ben altro e non si tratta di leggere qualche sua opera letteraria, anche di generi diversi qualora ce ne siano; bensì vuol dire trovare le ragioni iniziali che lo hanno spinto a scrivere quei suoi determinati libri; scavare in quei genetici intendimenti da cui sono scaturite le relative sue pubblicazioni. Certo, il lettore in generale non è un critico e nemmeno un saggista; è una persona nella norma che desidera apprezzare la letteratura che ha scelto in quel momento per lui, sia essa prosa, poesia, narrativa, epistolario, diaristica, grandi biografie, documenti storici, racconti fantastici o altro ancora. E proprio per il fatto che il lettore, come sua azione di fondo, svolge l’ardua attività di leggitore magari necessita, per riuscire a recepire fino in fondo lo stile di un suo autore preferito, di qualcosa che sia un concentrato della produzione letteraria dell’ideatore che intende approfondire, e contestualmente di un’ attendibile ‘cartina di tornasole’ che evidenzi tutte le motivazioni e accadimenti che hanno mulinato attorno ai libri messi in circolazione, appunto, dall’ autore. Stiamo parlando di un saggio, più che elaborato, più che autorevole, scritto dallo studioso di filologia latina e greca, di paleografia, della critica
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testuale, dialettologo, ma soprattutto minuzioso saggista, Sandro Allegrini, meglio rimasto alla mente attraverso il ritratto a colori della magistrale artista Serena Cavallini (in quarta di copertina del saggio). « […] Il saggio ha una struttura lineare e tratteggia gli elementi essenziali di molte opere defeliciane. Si tratta quasi di tanti piccoli saggi che, insieme, lasciano intravedere la figura nitida ed imponente del poeta. Ogni breve studio è introdotto dall’espressione di qualche noto personaggio, una notazione che illustra il concetto che il critico vuole esprimere sul poeta, quasi come in un libro aperto, proprio come lascia intendere la copertina, ideata e realizzata da Serena Cavallini, autrice anche degli altri disegni illustrativi del volume. […] Tutto questo ci porge, con un linguaggio lineare ed immediato, oltre che con perspicacia critica, Sandro Allegrini, in un percorso emotivo e artistico del poeta anoiano, senza stancare il lettore, ma rendendolo partecipe dell’umanità dell’autore. » (Dalla lunga Introduzione di Angelo Manitta). Le opere poetiche defeliciane poste da Allegrini sotto la sua ‘lente d’ingrandimento’ sono: Piange la luna, Con le mani in croce, Un paese una ragazza, 12 mesi con la ragazza, La morte e il Sud, Canti d’amore dell’uomo feroce, Nenie ballate e canti, To erase, please?, Alpomo, Resurrectio e Alberi? Si scoprono tante cose in questi attenti testi d’ esamina attorno alla schietta poesia di Domenico Defelice. Fatti che riguardano la sfera personale dell’autore, come quel suo amore giovanile nei riguardi di Marcella, la moderna “Laura” petrarchesca, protagonista indiscussa della crestomazia poetica 12 mesi con la ragazza del 1964. E fatti che, invece, ci fanno capire che « […] Defelice non è uomo di temperamento astioso, ma non è nemmeno persona da tirarsi indietro rispetto alla polemica, anche feroce, quando deve difendere le proprie convinzioni in assoluta buona fede. » (A pag.42). Proprio come accadde quella volta in cui il poeta regista friulano, Pier Paolo Pasolini, si trovò a descrivere non benevolmente i figli della Calabria e Domenico Defelice paragonò il poeta al « […] demonio: “o tu che sotto l’abito nascondi/ orecchie lunghe e coda“. » (A pag.42). Le opere in prosa, sempre defeliciane, valutate da Allegrini sono: Arturo dei colori, L’orto del poeta, il saggio Francesco Fiumara, Poeti e scrittori d’oltre frontiera, Pagine per autori calabresi del Novecento. Solo così, scorrendo con gli occhi questi chilometrici Percorsi di lettura per Domenico Defelice, si può giungere alla conoscenza effettiva dell’autore di Anoia, apprezzare la sua faticosa scalata verso la
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celebrità interiore che è quella che conta di più; l’ appagamento personale per ciò che è riuscito a fare nel corso dei diversi decenni d’attività letteraria e non solo, anche soprattutto in qualità di direttore del mensile, da lui fondato nel 1973, ‘PomeziaNotizie’. Il nome di Domenico Defelice, proprio a ragione della vastità della sua produzione letteraria, è legato a tantissimi altri nomi di personaggi illustri del panorama contemporaneo e del secolo andato, il Novecento. Nomi che sarebbe titanico riferirli tutti in una volta, ma ne basta uno per dare spessore ad entrambi, quello di Maria Grazia Lenisa, che il Cielo ha rivoluto con sé nel 2009. Ella è rivissuta in due pubblicazioni recenti che il direttore Defelice le ha dedicato, precisamente due Quaderni della Collana “Il Croco”, ambedue del 2015, stampati a cura della redazione di ‘Pomezia-Notizie’. E chiudiamo con le medesime parole di Sandro Allegrini a proposito del suo scrupoloso lavoro di saggista attorno e dentro le pubblicazioni di Domenico Defelice: « […] In questo senso spero di poter essere qualificabile come un corretto critico-lettore delle opere di Defelice, senza avere la presunzione di fornire una visione ortodossa e congelata, ma casomai con l’intento di rilevarne l’immagine dinamica ed elastica, oltre che la straordinaria modernità. » (Alle pagg.11-12). Isabella Michela Affinito
CAROLINA CIGALA EMERSIONI Spazio Cultura Edizioni, Palermo, 2018, € 12,00 Sin dalla sua prima raccolta di versi, Respiri, apparsa nel 2015, Carolina Cigala aveva dimostrato di possedere uno stile incisivo ed essenziale, tendente alla rapida sintesi, che le consentiva di fermare sul foglio le sue intuizioni poetiche in maniera asciutta ed efficace. Ed ecco che ora ella si ripresenta a noi con un nuovo libro, Emersioni (2018), nel quale riprende il discorso interrotto, con uguale fermezza e asciuttezza di voce. L’essenzialità è dunque la caratteristica primaria della sua scrittura poetica; e non a caso la troviamo anche nei disegni di Sergio Fermariello, che illustrano efficacemente il volume. Si tratta pertanto di una cifra che è propria di questa poetessa, la quale è portata a concentrare al massimo le sue meditazioni esistenziali, nascenti da una visione piuttosto pessimistica del mondo, che sa però a tratti illuminarsi di più serene visioni. Ma ascoltiamola: “Vienimi incontro assenza. / Guardami / sono qui / invisibile” (14/03/2015); “Si scio-
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glie il ghiaccio dell’abbandono” (22/03/2015); “Oggi è solitudine / amaranto nero. / Figlio ascolta la mia voce muta” (27/05/2015); “Ti saggio ti odoro ti accarezzo / notte di mille notti” (19/07/2015); ecc. Si nota in questi testi un alternarsi di luci e di ombre (in verità più ombre che luci); e tuttavia, se anche la vita può apparire alla nostra poetessa come l’ “Interminabile traversata di un miraggio / che non sostiene la sete” (02/03/2015), è pur vero che ella può dire: “Cresce azzurro nei tuoi occhi” (15/08/ 2015) e “Quando mio figlio entra / la casa perde gli angoli” (01/01/2016). E si veda anche una poesia come quella datata 18/01/2016, che sembra oscillare tra affermazione e negazione, se inizia con versi che paiono di consenso alla vita, i quali contrastano con il dubbio nascente nella chiusa: “Ti ho / nei morsi di una mela / nell’insonnia dei pesci / nelle ore che non attraversano. /Allora perché sono / annuncio senza incontro in questo specchio / straniero che mi ospita?”. C’è poi in lei anche un mai vinto amore per la natura, che si scopre in versi quali “Cresce erba oltre il confine” (05/10/2015) o “Onde si inarcano / dorsi ansimanti che fuggono nostalgie” (09/03 /2016) o ancora: “Il mattino sulla deriva del passato / felicità vagabonda” (19/05/2016). Ciò che però offre alla Cigala un solido appiglio che vince ogni affanno, è la poesia, se ella può dire: “La poesia spoglia il freddo / e fa piangere il sole” (20/09/2016). La poesia infatti fa nascere nella mente della Cigala sempre nuove immagini e desta in lei felici aperture, quali: “Vie di luce aprono pareti” (14/10/2016) o “Minuti che non trovano sentieri / si estinguono nella stazione del cuore” (05/07/2014). E se la poesia le suggerisce talora immagini di sofferenza e di morte, quali: “Tempesta in città. / Rami raspano il selciato, come tentacoli disperati” (10710/2016) o “Nella lama la stilla di uno strazio” (15/11/2016), è pur vero che, come già nella sua prima raccolta di versi, anche in Emersioni, oltre all’amore per la natura, nella quale si rispecchia, Cristina Cigala, trova un appiglio importante nel rapporto umano, che costituisce per lei un sostegno efficace nelle traversie della vita. Ecco allora emergere il “tu”, che rappresenta l’altro da sé cui rivolgersi per trovare conforto e salvezza: “Entrare nel tuo sapore e amarti / dove i fantasmi ammansiti come cappe di giglio / adornano la nostra incosciente allegria” (05/05 /2016); “Sei il cibo raro che inseguo / goccia di un’anima che agita il mio sangue” (15/08/2016); “Il tuo viso un punto esatto / in un interno” (05/09/2016). Non soltanto negazione troviamo dunque in Caro-
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lina Cigala, ma anche affermazione. La sua è infatti una poesia complessa, che scaturisce da molto pensiero e che tenta di dare delle risposte agli enigmi del fuggire del tempo e della morte, ma soprattutto a quello dell’infelicità dell’uomo. La sua è pertanto una poesia certamente non facile, che nasce come diretta esperienza dei giorni e che tende ad escludere tutto ciò che è vano sentimentalismo (non il vero sentimento) o vuota ridondanza. Sono, le sue, parole che scaturiscono dal profondo, essenziali ma intense e ricche di significato. Se talvolta possono apparire oscure è perché in esse si è raggrumata con maggior forza la meditazione, da cui è nato il testo. Ciò che veramente conta è però il messaggio che con queste liriche la Cigala è riuscita a trasmettere, che è quello della necessità per chi fa poesia di trovare la parola compiuta ed intensa che interamente lo esprima. Con Emersioni può dirsi che ella abbia raggiunto un nuovo valido approdo nella sua costante ricerca di gettare un ponte tra sé e gli altri, che è poi lo scopo precipuo di ogni vero poeta. Elio Andriuoli LINA D’INCECCO SUGGESTIONI Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2018 Semplici suggestioni quelle vergate da Lina D’ Incecco su il Croco di gennaio 2018. Il suo sguardo si posa sul semplice, sulla vita di tutti i giorni, sugli eventi di cronaca seguiti al tg e anche sulle cose banali. Una scrittura semplice anch’ essa… perché per lei: “…la poesia fa cammei con la materia delle emozioni e lo scalpellino delle parole”. Una scrittura vibrata in sottofondo (ma anche palesemente) dalla musica che sembra far “sentire” tutto meno grave (vedi le liriche “Song”; “Concerto di flauto dolce”, “Zucchero”, “I due musicanti”). La sua penna è mossa da fatti di cronaca e da quotidianità: “Il mare ti ha deposto sulla spiaggia. Ora piccino, dormi riverso sulla spiaggia…” (Ailan, il piccolo siriano); “Dissociati e fieri sono gli alieni delle nostre società” (Rom); “Passano vicino a noi ma non li vediamo. Nella società loro sono gli scarti” (I senza lavoro). Nonostante queste brutture, la poetessa è però positiva “…fuori un cielo nuovo arabescato di voli…Era un duetto d’amore e scriveva nell’aria la legge eterna della natura”, perché il mondo e l’ uomo sono belli e favolosi anche se non sono perfetti. Roberta Colazingari
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ANTONIO VITOLO L’ULTIMO PORTO Genesi di carri e navi Centro di Promozione Culturale per il Cilento, 2017, P. 75 La silloge poetica “L’ultimo porto – Genesi di carri e navi” di Antonio Vitolo può essere letta come una meditazione, permeata di un’intensa spiritualità, sulla vita nei suoi diversi percorsi: quotidiani, esistenziali, religiosi, affettivi nello sfondo paesaggistico di ampio respiro del Cilento. Terra amata e qui rivissuta anzi divenuta parola-poesia, come ben afferma il poeta: chi sono io se non i luoghi nelle parole! Quindi una poesia dei luoghi contenitori di valori ancestrali, in particolare religiosi. Intensa è la devozione in San Mauro Cilento alla Madonna Addolorata: Oltre l’ordito d’oro / si offre, il Cristo morto, / alla mente del peccatore. // Visibilmente adornato di preghiere / il manto nero della Vergine, / è trono per il paradiso. … E sentito è il rito della processione dai fedeli il cui animo riacquista serenità e il cuore batte all’unisono … s’ affratella all’amore della marcia / che va in crescendo nel sole / sfumando di colore… quasi divina partecipazione della natura all’evento. Luoghi quindi contenitori di umanità che si fa sentimento del comune dolore del paese lenito però dal legame spirituale, ma che si trasforma anche in gesti quotidiani compiuti nelle case: Le mani impastano / i profumi e le spezie / nella madia rasa di farina. … o nel tempo di mosto… Assapora cheto il cuore / la fragranza del nettare di vino. Gesti ripetuti in altri tanti rituali come quello della preparazione dei fichi che attendono la frescura, sui piatti di canne ovali / nel pergolato – reticolo di malvasia …. Rituali rievocati dal poeta con forza realistica in profumi, sapori, odori, sudori che rinsaldano le radici e hanno dentro un senso d’eterno nella comune memoria dei padri da affidare al dopo. In questi luoghi si muovono anche persone incontrate nella sua professione di medico, nella sua empatia con l’altro. Emerge l’ attenzione per le problematiche esistenziali giovanili ed altre, per la figura ad esempio così incisiva del deportato e del suo sofferto vissuto e del … tempo anelato del ritorno - l’arco il profumo di casa mia. / Piccola, tenera ed umile realtà per l’ultimo deportato. Perché la casa è fra tutti i luoghi l’oasi mitica, tempio delle tradizioni, dei valori comuni e degli affetti. Cito i versi di Riabbraccio che ben evidenziano questi temi amati dal poeta, resi sempre con una nota di colore naturalistico. Qui la casa diviene sinonimo di persona, sentimenti e di paesaggio: Colonne di aranci s’inalberano nell’aria / cavalcano d’olezzo pungente le rughe. / Il passo è stanco, al-
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lenta, / s’appresta la casa. / È lei, più vicina, / raccoglie / oltre gli occhiali invecchiati / il tuo arrivo / sorride, saluta, si torna a sedere. / Ti fermi, la baci sulla fronte, / la mano ti carezza, / finalmente ti senti al calore / profumato del focolare di casa. Antonio è piegato in un ascolto continuo del tempo, della storia con le sue vittime recenti, del mistero delle cose raccolto oltre la finestra bizantina, sulle pietre pulsanti come cuori. E pure si nutre della bellezza del creato che diviene poesia intima rievocata con note realistiche attraversando la foresta dei lillà… con il bosco di castagni tinti dai colori della macchia mediterranea… ; o ricordando suggestioni di altri angoli incantati con riflessi di cielo, crespature di mare, colori di corbezzoli e melograni, rivissuti con linguaggio autentico, limpido ma carico di simboli. Il suo pensare poetico, sempre profondo, partecipe, si sofferma anche sui suoi affetti come punto centrale della vita, resi con senso di pudore, in cui l’umano e la natura si fondono armoniosamente in un respiro d’eterno, pur avvertendo il poeta fortemente la propria fragilità: … Si nascondono tra i tuoi capelli / i riflessi ambrati del tramonto / gli occhi riflettono il mio animo impaurito / s’ aprono finestre di respiro – le tue labbra – / morbido colore sul mio petto riposano. / La pelle salata dal sole s’arrende / i toni del sereno danzare s’ innamorano / la quiete stellata finalmente ci sorprende. Sosto in particolare sui punti sopracitati perché sono quelli che più mi hanno catturato, ma tanti altri meriterebbero un’ulteriore analisi perché la sua poesia è veramente copiosa di valori che sollecitano continue riflessioni. Quindi questo libro è davvero una meditazione che diviene un canto d’ amore per questa terra d’adozione che ancora crede negli ideali atavici (fede, onestà, solidarietà…) in cui impegnarsi nel lento svolgersi delle ore dei giorni. Aleggia intorno sempre la coscienza del divino che sublima il tutto e annuncia la continua ricerca di verità, di etica come modus vivendi, come vita intesa quasi preghiera, tanto forte è in essa la tensione trascendentale. Una preghiera che si ricompone nell’incipit del libro: L’ultimo porto, / varco per il cielo, / è fiamma di redenzione. / Al di là del timore / evapora la paura. / Ora è gioia / che dal buio traspare. / Il corpo, per una vita / ramingo e consunto, / si ricongiunge all’anima / rincasando / dove la destra / dell’Onnipresente / giace. In questa silloge c’è tutta la terra del Cilento ma c’è anche la storia di ogni uomo, dell’umanità nel suo andare e nel suo ritrovare l’ultimo porto quale ricovero dove dimorano gli animi buoni. I sentimenti, le memorie, le riflessioni, i messaggi del poeta sono sempre chiari, incisivi espressi con linguaggio essenziale, realistico, calibrato nell'uso del verso libe-
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ro, in un ritmo musicale che è il canto segreto acceso in fondo al cuore. Interessante è la motivazione per la Cittadinanza Onoraria conferita l’1 giugno 2016 ad Antonio Vitolo dal comune di San Mauro Cilento, nei punti qui riportati: Per aver colto gli autentici archetipi della nostra condizione umana e sociale che è intimamente saldata con una visione “religiosa” della vita, altrove non più reperibile; Per aver “cantato”, nei suoi versi, la cultura, la storia, il quotidiano dei volti e la genuinità espressiva del nostro popolo; Per aver portato questo territorio in numerosi consessi letterari della cultura italiana odierna, tramite le sue tre pubblicazioni, rendendolo, per questo, “illustre” per la sua valenza umana e per il suo bagaglio di valori e di ideali di vita. Esprimiamo gratitudine a Vitolo per questo inno ai valori della sua terra, alle sue radici di cui è da sempre devoto custode. Maria Luisa Daniele Toffanin
IMPERIA TOGNACCI ANIME AL BIVIO Laterza - Aprile 2017 Quando lo scontro è femmina Un modo al femminile. Ebbene si, la Tognacci racconta in Anime al Bivio un mondo di contraddizioni, di gelosie, di cattiverie, di sopraffazioni, di autoritarismi, rivalità, invidie, antipatie, della banalità del male verso il prossimo. Un prossimo che però, nel suo racconto, è fatto esclusivamente di donne. Ma non di donne chiuse nel tra-tran quotidiano per cui forse, lo stress del giorno a giorno, dell’ora a ora, dell’avvicendarsi sempre uguale dei giorni, le potrebbero portare a quella miseria umana del gesto di invidia o di gelosia. No, nel romanzo gli attori principali si muovono in un ambiente che dovrebbe, data la spiritualità a cui si sono votati, escludere ogni forma di umana miseria, debolezza, precarietà morale e mentale. Le vicende e i personaggi della Tognacci agiscono all’interno di una struttura religiosa, di un convento che nella fattispecie è quello di suore che si consacrano a Dio, ma anche al sollievo dei sofferenti, degli esclusi, degli ultimi. Sono queste donne delle elette, le chiamate da una forza inspiegabile che le rende avulse dal ricercare gli umani piaceri, e dal considerare il prossimo come un impiccio, ma piuttosto un fratello da curare, da sostenere, da aiutare nel momento del bisogno. Sono coloro che abbracciano una vita di spiritua-
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lità e rinunciano a tutte le normali aspirazioni di chi si concede una vita vissuta fuori, nel mondo: tra la gente. Un racconto semplice questo della Tognacci. Per alcuni versi è anche la narrazione di vicende scontate, che non hanno nessuna originalità nella sostanza. Sono cose accadute in un passato abbastanza recente. È il rispolvero della felicità del vissuto. E non è escluso che tutto, anche se con sfumature diverse, possa riverificarsi. Anzi la vita ci ha insegnato che tutto si ripropone ogni giorno. A volte anche con le stesse sfumature, con le stesse identiche vanità senza che l’uomo ne abbia ricevuto alcun guadagno. Il sole sorge, il sole tramonta/ e si affretta a ritornare là dove nasce: versi del Qoèlet dal Vecchio Testamento scritti secoli orsono, ma attualissimi. La vanità dell’uomo che si affatica, per lasciare poi tutto su questa terra, perché nell’oltre non servono, sono senza significato. La Tognacci cerca di farlo capire nella stesura del romanzo. Eppure la scrittrice nel suo Anime al Bivio, ha in mente qualche cosa di diverso, qualcosa che piuttosto ha a che vedere con la dimensione del mondo femminile. Sa che sta raccontando cose note, ma non è questo che le interessa. È l’indagine su quel mondo di donne contro che le sta a cuore, che vuole capire, scoprire e se possibile vedere come va a finire. Nella lettura delle oltre 250 pagine, incontriamo: il potere, la morale, la passione, il senso dell’ umano, il male, il bene, la cronaca dei giorni, la storia che abbiamo attraversato. E tutto ciò, mirabilmente, la Tognacci lo fa vivere e lo rivive attraverso il linguaggio scritto. Una domanda dovrebbe sorgere spontanea in ognuno di noi: si può pensare senza la parola? Spontaneamente diremmo che si può, ma chi saprebbe cosa abbiamo in mente? Per contro, abbiamo valutato le conseguenze che potrebbe portare il parlare senza pensare? Questo direi che lo facciamo spesso, anche in buona fede e sbagliando quasi sempre. La Tognacci conosce molto bene queste cose e soprattutto conosce la dimensione pragmatica del linguaggio. Sa che attraverso la scrittura esplica il suo pensiero, conoscendone anche la portata e i limiti, e guai se non fosse così. La sua padronanza del pensiero e della parola, sono i punti che si agganciano all’uncinetto della sua scrittura per poter costruire la maglia dell’ intreccio narrativo, che si concretizza felicemente nella rappresentazione di quel mondo femminile che sta raccontando. Così già dal primo capitolo si cominciano a deli-
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neare i profili delle diverse donne che popolano il romanzo. Rina, per esempio, lo è senza dubbio più delle altre. Lei è, come tante, la vittima della eterna fame lupesca che l’uomo ha nei confronti della donna. Una figura, Rina, di ragazza semplice con la soggezione novecentesca della fantesca nei confronti del proprio datore di lavoro. Ho evitato la parola “padrone”, perché nessuno essere umano può essere etichettato come un oggetto di proprietà di un altro essere umano. Proprio per questo suo sentirsi in un certo senso “inferiore” consente all’uomo che le dà lavoro, e che si reputa un magistrato corretto al punto tale da pensare, nell’ osservare le cartelle del suo archivio, che vi “è un travaso continuo nell’anima umana del male”, di prendere con la forza ciò che invece la morale, di cui si anima, gli dovrebbe impedire. Ecco la famosa occasione che fa l’uomo ladro. C’è poi Annunziata, figlia di quel magistrato che ha irretito la madre, anche se poi forse l’ha sposata, ma il matrimonio non avrebbe dovuto essere il gesto per mettere a posto la coscienza, ma essere funzionale al rispetto che si deve alle donne, specie se sottoposte. Comunque Annunziata è la figura femminile centrale del romanzo. Annunziata si sente, si trova, è spesso anima al bivio. Ma possiede una determinazione che le consente di scegliere sempre la strada giusta. Nella lotta con l’avversione paterna, che è buono all’apparenza ma che ha in fondo una visione della donna di stampo maschilista, ad acconsentire alla sua vocazione di religiosa, combatte con forza e senza rassegnazione fino a vincere la sua battaglia, anche se non subito. Il centro del racconto della Tognacci è proprio la grande spiritualità, commista con l’amore per il prossimo e il senso di giustizia, che riempie la figura di Annunziata di luce particolare. Saranno proprio queste sue doti che le creeranno grandi sofferenze nell’animo, fino a farle comprendere quanto sia grande la fragilità del bene. Virtù etiche come coraggio, giustizia, e così via, esigono condizioni che colui che le pratica di per sé non può assicurare. Questo perché eventi al di là del nostro controllo possono influenzare in senso positivo o negativo la nostra vita e la nostra etica. Come avverrà nella monaca di manzoniana memoria, o come avviene nel comportamento della Madre generale Monica, del racconto della Tognacci. La coartazione, la perdita di libertà per imposizione di funzione di prestigio, non per scelta ma per “carriera”, per potere, porta alla perdita del senso del reale. Si cade senza accorgersene nella banalità del ma-
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le. L’animo si sente gratificato e sollevato solo quando arreca un disagio ad altri esseri umani. Le angherie, le sopraffazioni, il disconoscimento del valore di Annunziata da parte della sua superiora, la strenua avversione di una donna per un’altra donna, non fanno danni eticamente alla giovane suora, ma la spingono a cercare il senso di positività che vuole dare alla sua vocazione altrove, meglio se lontano dall’Italia. Ci riuscirà trovando in un uomo, il Vescovo, quella comprensione dei fatti che a prima vista dovrebbero essere avulsi a una mentalità maschile. Così non è invece perché, contrariamente a quanto si crede, sono spesso gli uomini che meglio capiscono le donne. La nostra Annunziata viene, per sua richiesta e con l’appoggio del Vescovo, trasferita in Belgio, ma in quel paese avrà a che fare, tra le altre cose, con le donne di Marcinelle, che avranno dalla loro parte ben più tragiche cose da digerire. Sebbene appena tratteggiate, le donne dei minatori attraverso la penna della Tognacci esprimono molto bene un’altra condizione femminile, fatta solo di privazioni e sofferenze, e le più sfortunate segnate anche da una vedovanza, a una età immeritata. Ma anche in quella che fu la tragedia belga, soprattutto italiana, della metà novecento, suor Annunziata troverà il bivio giusto nel quale incanalarsi. Sarà la strada della condivisione e della passione per quella sventurata umanità, che le darà un poco di sollievo in quel suo lungo e difficile cammino. Ma si sa, chi pratica il difficile esercizio del bene sorretto dall’amore senza interessi, scatena tutti quegli animi dove c’è la più profonda assenza del bene. Questa mancanza, diceva S. Agostino, è quella che determina la presenza costante del male nel mondo. Stranamente è sempre il male che vince. Non ostante le lotte, le sofferenze, le umiliazioni, ma anche le dimostrazioni di essere persone di cultura, di alto valore morale, di dedizione, di modestia autentica, non si riesce a evitare quel bivio che la vita sempre ci pone davanti. Succederà così che Annunziata getterà la spugna, si arrenderà ai detentori del potere, ai sopraffattori, ai modesti e mediocri del suo e di questo mondo, che sempre daranno filo da torcere a coloro che fanno della loro vita una missione, per giungere davanti al Supremo con il sacco pieno, nella speranza di avere un poco di sconto per le tante penalizzazioni accumulate, a volte anche inconsapevolmente. Anche questa volta, la suorina Annunziata, posta davanti a un bivio farà la sua scelta lasciando per sempre la vita conventuale. Ma io però ritengo che
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questa volta la scelta è sbagliata. Questo perché credo che bisogna sempre arrivare fino in fondo. E poi perché è nella lotta che si vede il valore del campione. E chi si dedica alla vita spirituale, deve essere maggiormente strenuo lottatore. La Tognacci pur non scoprendo nulla di nuovo, pone in evidenza la delicata problematica dei conflitti, spesso taciuti, che regnano nell’apparente silenziosa tranquillità dei conventi. Evidenzia nettamente la forte contrapposizione esistente tra le donne che scelgono di vivere lontano dalle cose del mondo, ma che spesso hanno comportamenti proprio della gente del mondo. Dimostrando che in fondo, non ostante la prossimità con il Grande, sono e rimangono persone che fanno della contrapposizione più che uno strumento di crescita, una via per imporre idee e poteri anche se sbagliati. E inoltre, della solidarietà una parola vuota e soprattutto vana, quando vogliono far credere che ne esista una femminile, molto diversa da quella del maschio. Ma che in fondo poi così non è, mettendo allo scoperto quelle che sono le vulnerabili irrazionalità femminili più profonde. Salvatore D’Ambrosio
SUSANNA PELIZZA SULLA POESIA E SULL’ARTE Amazon.it, € 0,99 “Molti sono gli articoli apparsi in un arco di tempo più o meno lungo e che rappresentano la testimonianza, non solo, di una volontà di teorizzare il concetto, alquanto complesso del poetico, ma, anche di una necessità di riconoscere, quanto meno presentare il “sommerso”, l’intricato sottobosco letterario, fatto di quelle buone, ma audaci piccole riviste (...) con la convinzione che la dimensione del panorama letterario vada inquadrata nella sua “globalità”, come ha giustamente ritenuto un noto professore di letteratura italiana, Giuliano Manacorda” (Dall’introduzione, Susanna Pelizza, op. cit.). Così introduce il testo la Pelizza, concernente una serie di articoli pubblicati dal 1999 al 2017 sulle seguenti riviste Penna d’Autore, Virgole, Il Club degli Autori, L’Attualità, Nuova Impronta, Orizzonti, Pomezia-Notizie, Mail-art-service, La Nuova Tribuna Letteraria, ritenuti interessanti dallo scrittore Giorgio Bàrberi Squarotti che in una lettera all’autrice affermava “Ho letto i suoi vivi interventi sulla poesia di oggi, che delineano una poetica lucida e fervida e mi dispiace che non abbia voluto raccoglierli in un volume” (G. B. Squarotti, Torino 23 febbraio 2014).
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Ora, finalmente inseriti in un volume, rappresentano un materiale importante per qualsiasi studioso che voglia cimentarsi con l’intricato meccanismo letterario di oggi. Il quadro che ne viene fuori è dato, anche, dall’ esigenza di uno schieramento e di attacco nei confronti della falsità con cui riviste già affermate padroneggiano il sistema culturale, con i soliti noti nomi e i soliti stereotipati vuoti concetti, per cui affermare la ricerca su riviste minori, minime, come dice il Manacorda diventa, non solo necessario ma indispensabile (“Con la convinzione che il panorama letterario sia costituito, non soltanto dalle linee emergenti sulla superficie, ma dal suo spessore in profondità, donde prendono ragione e alimento anche i fatti destinati a primeggiare” G. Manacorda, op. cit.). La Pelizza ha voluto raccogliere i suoi scritti come testimonianza di un tempo in continua transizione, a volte spogliato dei suoi valori più veri, cercando di vedere, al di là del caos, una riqualificazione linguistica, nella stessa ripresa artistica e poetica. Maurizio Di Palma
MARINA CARACCIOLO OTTO SAGGI BREVI Genesi Editrice, 2017 - Pagg. 88, € 10,00 Cara e gentile Collega, anzitutto mi compiaccio per le Sue recensioni all’ amico Giannicola Ceccarossi, sia su “PomeziaNotizie” sia su “Quaderni di Arenaria”: mi sembra che Lei abbia còlto (e poi finemente descritto) il cuore lievitante di quella poesia. Ma ancor più il mio vivo e congratulante interesse per gli Otto saggi brevi, che hanno ben meritato il quartetto angelico sulla copertina e il Premio “I Murazzi” presieduto dall’amico Gros-Pietro. Il saggio su Barbablù è veramente esemplare: un piccolo capolavoro di “letteratura comparata” nel senso più ampio e completo, una ricerca appassionante che spazia attraverso inaspettati orizzonti, arricchiti, nel Suo caso, dalla specifica cultura musicologica. Confesso che non conoscevo l’opera di Bartòk (Il castello del Duca Barbablù), musicista che pure ho amato una quarantina di anni or sono. Storia della cultura, la Sua, che penetra nell’anima profonda dell’Europa e vi incontra profondi archetipi (una delle “Vestali” di Jung, che ebbi modo di conoscere nella sua casa sul lago di Zurigo, MarieLouise von Franz, amava immergersi nel mondo delle fiabe tanto da scrivere diversi libri sull’ argomento).
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“Femminista” – non in senso politico – quale mi professo, ho seguito con piacere la linea “femminile” del Suo libro, ripensando a un bel libro di tanti decenni or sono, Donne in poesia, di Maria Luisa Spaziani. Ma qui non trovo solo poetesse, tra cui Anna Ventura, che conobbi, forse solo per via epistolare, nei miei anni abruzzesi, e la sfortunata Isabella di Morra, in cui Lei trova, con ragione, accenti che preludono a Leopardi. Trovo un personaggio straordinario come Hildegard von Bingen, che spicca come una grande luce nel suo XII secolo. Credo sia sua la frase: symphonialis est anima: frase pertinente al saluto affettuoso che invio per congedarmi con Lei (o con te?), musicologa, storica della cultura, raffinata interprete di poesia. Emerico Giachery
PIERO TONY IO NON POSSO TACERE Confessioni di un giudice di sinistra. Un magistrato contro la gogna giudiziaria Formato Brossura, Editore Einaudi – Stile libero Extra, 2015, pp. X – 134, € 16, ISBN 9788806225391 Ho trovato interessante leggere questo libro - denuncia – per capire i problemi legati alla giustizia, descritti da un Magistrato Piero Tony, già sostituto procuratore generale di Firenze, presidente del tribunale per i minorenni della Toscana e da ultimo procuratore capo di Prato, che ha deciso di andare in pensione con due anni di anticipo per essere libero di protestare contro un fenomeno tutto italiano, quello dei magistrati che spesso hanno trasformato gli strumenti di indagine in armi puntate contro i cittadini, usandole poi per combattere battaglie politiche. Il suo è un racconto sconcertante, ancor più venendo da un giudice “certificato e autocertificato di sinistra”, poiché rivela l’esistenza di un virus capace di minare la giustizia del nostro Paese. Un virus che però può – e deve – essere combattuto. In sintesi questo libro rappresenta i mali della giustizia italiana raccontati dall'interno: supplenza politica, processo mediatico, protagonismo. Il libro è costituito da un’introduzione a cura di Claudio Cerasa e da cinque capitoli. Piero Tony è nato a Zara nel 1941, è entrato in magistratura nel 1969 a ventotto anni, ha avuto una sua importanza per la requisitoria con cui ha smontato punto per punto la sentenza di primo grado emessa dalla Corte di Assise su Pietro Pacciani, durante il processo d’Appello per i delitti del mostro di Firenze. E Claudio Cerasa, attuale direttore del Foglio, cita proprio questo fatto nell’Introduzione,
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riportando un articolo di Montanelli sul Corriere della Sera “La coscienza di un giudice”, 8 febbraio 1996. Tony ribalta la sentenza di colpevolezza di Pacciani perché basata su prove basate su sensazioni, impressioni, istinti emotivi; pertanto, nonostante fosse il giudice dell’accusa ha chiesto l’assoluzione per Pacciani. Piero Tony in questo libro racconta l’ orrore del processo mediatico, la magistratura vittima della politica, la politica vittima della magistratura, l’illusione della terzietà del magistrato e la chimera dell’indipendenza della magistratura. Nel Capitolo primo “La supplenza” Piero Tony, dopo una breve biografia, fa alcune riflessioni sulla supplenza della magistratura, affermando che il magistrato spesso fa politica e cita come esempi magistrati che sono diventati ministro oppure presidente del Senato. Pertanto, la magistratura ha ceduto alla tentazione di trasformarsi in una forza politica, esercitando nella vita pubblica del nostro Paese una clamorosa e incomprensibile supplenza in servizio permanente effettivo. In Italia il processo non è più un semplice processo, ma è una gogna mediatica. Parte della magistratura ha cominciato a muoversi come un partito vero, si è arrogato il diritto di essere paladina della moralità. Vengono spesso pubblicate carte relative ad intercettazioni, protette dalla Privacy, e spifferate ai quattro venti in barba ai divieti (articolo 114 del codice di procedura penale). Cause vengono ad arte rinviate per anni. Piero Tony sottolinea anche che ci sono tanti magistrati bravi, ma ricorda che ne basta uno, che strumentalizzi le funzioni del proprio ruolo per mettere a rischio il sistema. Nel Capitolo secondo “Le correnti” si tratta della non terzietà di alcuni magistrati, collusi con la politica. Fra i vari esempi si cita il fatto che se Berlusconi non fosse entrato in politica non avrebbe ricevuto tutte le attenzioni giudiziarie che ha ricevuto. Anche nel caso Ruby, che avrebbe dovuto essere in linea teorica un normale processo di concussione e prostituzione minorile, è evidente che l’ex Presidente del Consiglio ha avuto un trattamento speciale. Nel terzo Capitolo “La grande lentezza” si evidenzia il fatto che la durata media di un processo in Italia è troppo lunga: per un processo civile ci vogliono 6 anni e per un processo penale otto anni. La prima vittima di tale lentezza è l’art. 27 della Costituzione: “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Come si fa ad avere un trattamento rieducativo a circa dieci anni dal fatto, quando all’autore, che non è stato recidivo nel frattempo, che si è formato una famiglia con un lavoro onesto, mantenendo dei figli, la giustizia dice che deve andare in carcere per un reato commesso dieci anni
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prima! Piero Tony si pone il problema di come riformare la giustizia: come, ad esempio, l’amnistia per reati leggeri, la punibilità per un magistrato che sbaglia, l’abolizione del rito abbreviato, che spesso crea un’ingiustizia, l’aggiornamento di codici e normative non più adeguate ai tempi,… Nel Capitolo quarto “La discrezionalità (ovvero la morte della terzietà)” si tratta dell’abuso che spesso si fa delle intercettazioni, che possono coinvolgere la privacy di persone estranee ai fatti, solo perché hanno avuto la sventura di parlare al telefono con una persona indagata. Nelle indagini si abusa spesso anche di altri strumenti: come l’uso dei pentiti, l’ uso della custodia cautelare… L’art. 112 della Costituzione stabilisce che il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’ azione penale. Ciò vuol dire che il magistrato, venuto a conoscenza di una “Notizia di reato”, senza valutare se sia fondata o meno, ha l’obbligo di iniziare l’indagine. Pertanto il magistrato non può esercitare una sua discrezionalità, ma deve agire secondo un procedimento meccanico: io ricevo (la notizia di reato), dunque agisco. Spesso le inchieste si fanno con le teorie: si afferma che il colpevole deve essere per forza una data persona, solo per indizi, impressioni o altro, senza avere le prove certe. Le conclusioni non si dovrebbero trarre utilizzando la formula del “secondo me è colpevole”, ma dicendo “queste sono le prove per cui questa persona è colpevole”. Il libro si conclude con il quinto capitolo “ La riforma che non c’è (eppure sarebbe così facile)” dove si evidenzia un processo avente per oggetto i minori per cause di presunti abusi sessuali: Piero Tony proscioglie gli indagati in quanto il fatto non sussiste. Ma questi indagati erano fatti sembrare dei mostri solo per l’emotività causata dalla gogna mediatica! Altra gogna mediatica che cita Piero Tony è spesso presente nei processi riguardanti la trattativa Stato – mafia. Seguono ancora altre riflessioni interessanti sull’ assoluzione di Pacciani, sulla situazione di Adriano Sofri. Piero Tony, facendo questi esempi auspica l’ abolizione dell’appellabilità da parte del pm delle sentenze di assoluzione o di proscioglimento non viziate da motivi di legittimità (art. 606 c.p.p.), soprattutto alla luce di quell’ “al di là di ogni ragionevole dubbio” introdotto, non certo a caso, dalla legge n.46 del 20 febbraio 2006 o legge Pecorella. Piero Tony evidenzia che nel nostro ordinamento esiste ancora l’ergastolo e si chiede: può tendere alla rieducazione una pena senza fine? Piero Tony è d’accordo con Papa Francesco: fra ergastolo e pena di morte c’è poca differenza! Concludendo, oltre a tante riforme della giustizia,
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due punti, che sono strutturali, andrebbero riformati: il profilo professionale dei magistrati e la separazione delle carriere. Giuseppe Giorgioli
GIUSEPPE NAPOLITANO È QUESTO UN FIGLIO? Edizioni Eva 2012, pagg..94, € 8, 50. <<E' questo un figlio? >>. Importante domanda alla quale, soltanto chi ha provato l'intimo piacere di godere del dono (ricevuto dal fato? Dal cielo?) di una "sua creatura", può rispondere. E' la domanda che nel colmo della felicità, dello stupore, dell' emozione si pone Giuseppe Napolitano nell'attimo in cui si trova tra le braccia quell'esserino palpitante di vita, tenero, bellissimo, "creato da lui", quel miracolo di vita, continuazione della sua vita, l'ennesimo anello legato agli infiniti anelli di vita, dato che la vita non si estingue ma produce vita all'infinito. Il tuo sentire, Giuseppe, è stato anche mio, è, è stato e sarà di tutte le persone che, come noi, come me e te, hanno "generato vita". Noi uomini, noi tutte creature dell'universo, siamo vita che la morte non distrugge ma favorisce, rinnova, in eterno. Chiedo scusa della "parentesi", della parafrasi, ma la domanda mi ha colpito nel vivo e non ho potuto fare a meno di rispondere. Il libricino, "E' questo un figlio? ", è stato scritto da Giuseppe Napolitano per i dieci anni della figlia Gabriella e pubblicato dalle Edizioni Eva nel 2012. Racchiude tre sillogi (tutte dedicate a Gabriella e a Irene): "La saggezza di questi anni", "Insieme a te io sono nato ancora" e "Ultime" (Alla fine del testo c'è un'Appendice con le testimonianze a "Insieme a te io sono nato ancora" ). La prima raccolta, di dodici poesie, è stata scritta nel periodo dell'attesa ed è dedicata al "figlio che verrà". Impossibile descrivere ciò che prova il poeta e il futuro padre; certe emozioni, certe sensazioni bisogna viverle per poterle dire con parole. Egli, il prossimo papà, immagina il momento in cui ci sarà l'evento, in cui la nuova vita farà il suo ingresso nel mondo, in cui egli potrà vedere con i suoi occhi, toccare con mano l'essere che sta per schiudersi alla luce: ne pregusta il piacere, incommensurabile, che proverà, che già prova, nell'immaginazione. Il suo pensiero non va soltanto al nascituro ma anche a colei che lo porta in seno: <<Ti chiamerà "mamma" e sarà mio figlio - il nostro frutto di bene accumulato a lungo - >>. Le venticinque liriche della seconda raccolta dicono, e con la medesima intensità che scopriamo nella prima, quanto grande sia, è, la felicità che trabocca dall'animo del Nostro. Nell'imbarazzo della scelta, ripor-
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to solamente la lirica "Insieme a te io sono nato ancora": <<Le parole che ora nascono - a te sola come siano dedicate - / sono la stessa linfa che mi nutre / che tu mi versi frutto e mia radice / ora non sai ma quando lo potrai / comprendere non dimenticherai / perché nascendo vita mia un'altra / vita mi hai dato con tua madre / se insieme a te io sono nato ancora>>. Antonia Izzi Rufo
FILOMENA IOVINELLA A MIO PADRE Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2017 Filomena Iovinella risulta vincitrice del 4° Premio Città di Pomezia 2017 con la silloge poetica “A mio padre” pubblicata sul Quaderno letterario “Il Croco” di dicembre. Ella inizia la numerosa serie di poesie con una descrizione in prosa, esprimendosi , volutamente, in maniera ora chiara, ora velata – stile che usa poi in tutti i suoi versi - del grave incidente stradale, causa della morte di suo padre, pur essendo stato subito portato in ospedale. La poetessa, “linfa di quell’albero (Il padre)”, dedica tutte queste liriche al suo amato genitore, “paterna luce d’incanto”, parlandogli sempre in prima persona, e descrivendo innanzitutto il grande dolore per averlo perduto per sempre: “le mie lacrime/… Graffio di rigolo salato/ a scavare la guancia/ il distacco/ schermo di buio e luce…” Poi, pur nella tristezza, “in fondo agli occhi lucidi”, ella – quasi a consolarsi - si rivede bambina nella stanza di suo papà, mentre egli apre la porta cigolante… E dove ora le sue scarpe vuote “vanno a spasso/ in una scena di fantasia/ …Mentre sento ancora i passi/ venire, parlando, verso di me.” Però, ella ora immagina di vederlo come se camminasse ”sul suolo lunare”. Quanti ricordi riaffiorano, qua e là: la musica del pianoforte; le gite al fiume, lei e la sorella, bambine, tenute per mano dal caro papà; le sue scalate in montagna, vestito da militare… In questo dolore, anche suo padre la sa confortare “con acqua di sorgente…” dicendole che dove ora sta, si trova bene: “sono caldo nel suo nucleo (dell’ iceberg)/ avvolto in questo ghiaccio/ di puro paradiso.” La figlia/poetessa riprende a parlargli: “Non sono i miei occhi a vederti/ e in quelli mi manchi tanto/ ma ti vedo lo stesso nella luce della tua guida.” “Nei sogni … sento la tua vicinanza.” E, anche se di notte, le sembra di vedere nel sole e in una certa stella, il padre che le sorride e che la rincuora.
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Ella è grata al padre per averle donato la vita che è canzone, musica e profumo che la sollevano fino al cielo, da lui, in quanto lo pensa lassù, in Paradiso. E in chiesa, al suono dell’organo, gli dice: “ti riporto con me per qualche istante/…in un prolungato addio.” Lo stile è molto libero e sciolto, ricco di immagini originali e spesso anche ermetiche, in un alternarsi del profondo dolore attuale e dei dolci, cari ricordi del passato. Maria Antonietta Mòsele LINA D’INCECCO SUGGESTIONI Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2018 “Il Croco” di Gennaio 2018 ci presenta, quale vincitrice del 2° Premio Città di Pomezia 2017, Lina D’Incecco con le poesie “Suggestioni”. La Prefazione è di Domenico Defelice il quale rileva che quasi tutte queste liriche sono ambientate sulla strada. Infatti - dopo aver commiserato i migranti che perdono la vita nella traversata del Mediterraneo la Poetessa prova grande compassione osservando la gente che frequenta la strada: mendicanti Rom che chiedono l’elemosina anche bussando alle porte delle case; barboni “scarti della società” e disoccupati che, non trovando lavoro o avendolo perduto, vagano disorientati senza meta; ambulanti che girano fra i tavolini dei bar - le sere d’estate - suonando dolci armonie, ma nascondendo nella voce roca la loro tristezza; un vecchio intirizzito dal freddo e furioso vento di tramontana – nelle gelide sere d’ inverno - che si affretta ad allontanarsi, dopo aver portato fuori il cane. Fortunatamente, la strada non presenta solo aspetti che fanno pena, ma – sempre per il vivo senso di osservazione della Poetessa – sa offrire momenti di quiete all’ora del pranzo, che permettono di intravvedere, fra le terrazze e le antenne delle case colorate e lucenti, in alto un meraviglioso cielo azzurro, e in basso, un mare altrettanto blu. Come non notare, all’angolo della strada la “damina colorata”, avanti con gli anni, curatissima, con “al guinzaglio/ un cagnolino bianco”? Sulla strada ci sono anche i Song che, con chitarra e armonica, raccontano cantando le ingiustizie sociali. E Zucchero “l’uomo col cilindro/ il mago prestigioso/ della canzone” che con la sua band rallegra gli spettatori. E a ferragosto, tutti in fila gioiosi a comprare il gelato da leccare, come quando si era bambini!
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Invece, d’autunno, il viale principale presenta solo tigli spogli. La poetessa, sensibile com’è, ammira anche il “duetto d’amore” fra due uccellini che si richiamano: “un trillo partiva dal tetto/ un altro repentino rispondeva” al di qua della tenda della stanza. Qui non si tratta solo di “sensazioni”, ma di sentimenti che nascono nel cuore dell’Autrice dall’ osservare il paesaggio, la gente e la natura nei suoi molteplici aspetti. Mi piace come la Poetessa conclude la sua silloge: come il cammeo, cesellato da un abile orafo, diventa oggetto d’arte, così le emozioni abbinate ad adeguate parole, diventano poesia artistica: come la sua, chiara, ricca dei sentimenti di un animo nobile. Maria Antonietta Mòsele LINA D’INCECCO SUGGESTIONI Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2018 La materia delle emozioni e lo scalpellino delle parole Ho voluto iniziare la recensione di questo testo di Lina D’Incecco (che ha vinto il 2° premio città di Pomezia 2017), proprio con una sua frase tratta dall’illuminante introduzione che ne fa Domenico Defelice (in “La strada, la cronaca, la poesia” da Suggestioni op. cit.) per affermare, ancora una volta, che “non esiste una poesia senza forma, così come non esiste un edificio senza struttura” (Susanna Pelizza da Il Mestiere del poeta, Amazon.it, 099, aforisma 197) perché “se è vero che la poesia è specchio della realtà del tempo è pur vero che, nel momento in cui dà spazio a una forma, a un pensiero, ha il compito di promuovere un’idea, di indicare una via” (Susanna Pelizza, idem, aforisma 204) e l’ idea in D’Incecco è ben visibile così come la sua struttura, leggera, lirica, colloquiale. Dalla parte dei “diseredati”, come molta parte della nostra odierna produzione lirica che ha abbandonato le “dislocazioni frasali” degli ultimi sperimentalismi post-neoavanguardia ormai ripetitivi e obsoleti, la poesia con la D’Incecco si avvia verso un discorso più diretto con la gente, che non disdegna, però, il lirico, come espressione aulica di un sentire più dimesso: “Strada silenziosa/che gode della pausa/del pranzo/quando la gente non passa/ed i rumori sono smorzati” (da La Strada, pag. 10, l. d’Incecco, op. cit.). Pochi versi, che descrivono pochi tratti di una visione colta nel silenzio, attraverso pause infinite e spazi pittorescamente espressivi “In fondo un rettangolo azzurro/incassato tra i muri/lo sguardo vi-
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goroso del mare/in cui immergere i pensieri” (idem). La poesia è un richiamo fatto di ossimori e analogie (come in Richiamo “Entrava la sera/nella stanza/colorava di rosa/la tenda” op. cit. pag. 15) dove ognuno è invitato a partecipare con le proprie suggestioni e dove la fantasia è uno sguardo equilibrato tra le cose che ci circondano incastonata in quelle parole che tutti noi conosciamo, patrimonio collettivo di un’umanità intera che si ritrova nel linguaggio lirico, poiché “si è insieme a Robert Hughes in difesa dell’inestimabile, di una contemplazione della bellezza, volta in senso umanistico” (da Il Mestiere del poeta, op. cit., aforisma 170). Susanna Pelizza
SCOMPARTIMENTO Un libro aperto un cellulare. Il treno che danza sulle rotaie. Audaci sguardi da denudare. Lussuria danza sulle rotaie. Si chiude il libro e il cellulare. La brama scorre sulle rotaie. Il treno entra nella caverna. Quando poi esce sorride il mare. Sazie le mani sazia la bocca. Lungo la riva il treno galoppa. Un tocco al trucco uno al collare. Galoppa il treno tra cielo e mare. Riaperto è il libro e il cellulare. Il treno danza sulle rotaie. Domenico Defelice
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AVEVI LE MANI FREDDE
MA LA MONTAGNA SORRIDE
Le mani avevi fredde, piccolo e grande amore.
Chi enumera gli anni del fiume? Chi ne ricorda la remota origine? Soltanto i monti, coevi, che gli fan siepe ai fianchi.
Te le scaldai al fuoco del mio spirito inquieto.
Rinnovando armenti l’uomo vive e muore su quelle rive di sempre, che lo conobbero armato di ronciglio e vincastro.
E la fiamma arse sulle mie labbra. Ricordi, Sandra? Ripagami ora con il tuo sorriso. Enrico Ferrighi Da Carmina - Ed. Pomezia-Notizie, 1983.
CHISSÀ DOVE SONO I MORTI Chissà dove sono i morti se ancora per sentieri scendono agli uomini e ad ottobre vanno alle vigne in cerca di grappoli spersi per prenderne sole diventato dolcezza del tempo. Chissà se a febbraio tremano sotto le stelle con le mani ghiacciate nel vento per ascoltare i nostri respiri e vedere le case scolorite dagli anni tastare il polso dei vecchi rubargli il pensiero che scorre nel sonno. Chissà se hanno dimenticato i ciliegi sposati da marzo le frustate alle noci le tempeste con voci d’aiuto in scrosci violenti affogate. Chissà se tra noi e loro è stato messo l’abisso un muro un’ombra come lastra di pietra che copre i ricordi per sempre. Gianni Rescigno Da Sulla bocca del vento - Ed. Il Convivio,2013.
Ricorda paure di piena nemica: alberi spiantati, acque nere, morte. Ma la montagna sorride di sopra ai tumuli infantili di quel suo bimbo che gioca. Francesco Fiumara Da Date anche a me l’ulivo, 1954.
GLICINI
Un giorno dovrò render conto di una pigna di glicine celeste dovrò rendere conto alla natura di una pigna di glicine celeste che alzatomi strappai caddero fiori di glicine celesti sulla mia povera testa, nera. Una pioggia improvvisa, cara per chi non aveva mai alzato il capo, prima a contemplare quei fiori di glicine celeste. Rudy De Cadaval Da: Domenico Defelice - Rudy De Cadaval una vita per la poesia - Istituto Editoriale Moderno, 2005.
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D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE PREMIO SI ACCENDE IL BORGO - Il Laboratorio Centro Storico organizza la quinta edizione 2018 del Premio Letterario Nazionale Si Accende il Borgo suddiviso in tre sezioni: SEZIONE A: Silloge Poetica Inedita, a tema libero, in lingua italiana, o in dialetto con traduzione a fronte, o in lingua straniera con traduzione a fronte (un massimo di 30 componimenti); SEZIONE B: Poesia a tema ‘Il Borgo’ Un componimento inedito in lingua italiana, o in dialetto con traduzione a fronte, o in lingua straniera con traduzione a fronte; SEZIONE C: Narrativa Breve Inedita, genere e tema liberi, in lingua italiana (un massimo di 3 cartelle, carattere Times New Roman, corpo 12, interlinea 1,15, margine normale). La partecipazione è rivolta a tutti. I concorrenti provenienti da Istituti Scolastici verranno valutati in modo individuale. Per i concorrenti fino ai venti anni la partecipazione è gratuita. La tassa di lettura è pari ad Euro 15,00 (quindici) per le sezioni B e C; ad Euro 20,00 (venti) per la sezione A. La quota si può versare: bonifico bancario a favore del Circolo IPLAC Insieme Per La Cultura: IBAN IT47OØ6175 Ø3268ØØØØØØ67468Ø – BIC CRGEITGG presso la BANCA CARIGE S.p.A. AG. 8 di ROMA; indicare: nome e cognome del partecipante e causale: Iscrizione Premio “Si Accende il Borgo – V edizione 2018”; in contanti insieme al plico, ma non si risponde di eventuali smarrimenti da parte dei servizi postali; in
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contanti alla Segreteria – c/o Enoteca Letteraria, Via delle Quattro Fontane n° 130, 00184 Roma, (indicare il nominativo del ricevente sulla scheda di partecipazione). Si può partecipare ad una sola sezione con una sola opera. La partecipazione può avvenire entro il 25 maggio 2018, farà fede il timbro postale. Il plico dovrà contenere: opera anonima inedita, con cui si intende partecipare, in cinque copie. In busta chiusa: copia di pagamento, breve curriculum (massimo dieci righe), scheda di partecipazione compilata in ogni suo punto. Inviare il plico a “Si accende il Borgo – V edizione 2018” c/o Enoteca Letteraria, Via delle Quattro Fontane 130, 00184 Roma. Giuria: SEZIONE A (Silloge Poetica): Critico Franco Campegiani; Scrittrice Aurora De Luca¸ Avv. Marina Poci. SEZIONE B (Poesia a tema ‘Il Borgo’): Critico Franco Campegiani; Avv. Marina Poci; Scrittore Roberto De Luca. SEZIONE C (Narrativa Breve): Scrittore Roberto De Luca; Scrittrice Manuela Minelli; Aurora De Luca. Premio Laboratorio Centro Storico Dal Buio alla Luce: Scrittrice Aurora De Luca. Premio CFAE Donna e confine: (...). Premio IPLAC Originalità e Creatività: Scrittrice Manuela Minelli. Premio Parco dei Castelli Romani Natura e Tradizioni: Geologa e Guardiaparco Cinzia Barbante. Premio IlMamilio.it Musicalità e Sentimento: Giornalista Valeria Quintiliani. Premi previsti: Premio Assoluto Sezione A, Silloge Poetica: Pubblicazione* dell’opera vincitrice a cura di Enoteca Letteraria; Attestato e Motivazione, Prodotto tradizionale frascatano. Premio Assoluto Sezione B, Poesia a tema ‘Il Borgo’: Opera artistica; Attestato e Motivazione, Prodotto tradizionale frascatano. Premio Assoluto Sezione C, Narrativa Breve: Opera artistica; Attestato e Motivazione, Prodotto tradizionale frascatano. *La Pubblicazione gratuita prevede un numero di 20 copie, entro un anno di tempo. La prima presentazione del libro pubblicato avverrà da Enoteca Letteraria. Premi speciali previsti: Premio Laboratorio Centro Storico Dal Buio alla Luce: Omaggio offerto dal Laboratorio all’opera che meglio sappia rappresentare l’armonia dei contrari. Premio CFAE Donna e confine: Omaggio offerto dal Circolo all’opera che meglio sappia evocare il femminile, in un’ottica di confine o di ‘sine fine’ (tale opera verrà tratta dall’intero carnet di opere pervenute redatte da donne dalle Sezioni A e B; dall’intero carnet di opere pervenute redatte da ambo i sessi dalla Sezione C). Premio IPLAC Originalità e Creatività: Omaggio offerto dal Circolo all’opera che spicchi per motivi originali e spunti creativi, esiti sperimentali o ambientazioni
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inusitate. Premio Parco dei Castelli Romani Natura e Tradizioni: Omaggio offerto dal Parco all’opera che meglio rappresenti il panorama naturale e tradizionale. Premio IlMamilio.it Musicalità e Sentimento: Omaggio offerto da IlMamilio.it all’opera che meglio metta in scena e indaghi l’Io. *Attestato, Motivazione e Prodotto tradizionale frascatano a tutti i Premi Speciali previsti. La giuria si riserva, qualora ne ravvisasse necessità, di istituire Premi Giuria relativi alle Sezioni A, B, C; inoltre, per la scelta del Premio Assoluto della Sez.A, verrà stilata una rosa di cinque finalisti. Cerimonia di Premiazione: La Cerimonia di Premiazione si svolgerà mercoledì 5 settembre 2018 all’Auditorium delle Scuderie Aldobrandini di Frascati (Piazza Guglielmo Marconi, 6, 00044 Frascati RM) e avrà inizio alle ore 16.30. Durante la Cerimonia di Premiazione si metteranno in scena tutti i testi premiati, con scenografia, accompagnamento musicale e voci intepreti: è la festa dell’arte, essa è protagonista. Per tale motivo la partecipazione alla Cerimonia di Premiazione è rivolta non solo ai premiati ma a chiunque voglia godere dello spettacolo. Solo i vincitori saranno informati dalla segreteria del Premio, in tempo utile, per partecipare alla Cerimonia di Premiazione. L’invito ufficiale non dà diritto al rimborso delle spese di viaggio e di soggiorno. L’ assenza alla cerimonia di premiazione non dà diritto al premio, che di fatto non verrà consegnato. Tutti i risultati e le comunicazioni di avanzamento del premio verranno pubblicate sulla nostra pagina Facebook. L'organizzazione si riserva la facoltà di apportare modifiche al presente regolamento, dandone tempestiva informazione. Seguiteci su : Si Accende il Borgo e Laboratorio Centro Storico per ulteriori info scrivere a: delucaroccadipapa @libero.it *** MARINA VALENSISE he rivolto un Appello - il 25 febbraio 2018 - a tutti i partiti perché venga data “più forza alla cultura”. L’Appello, oltre che ad essere pubblicato sulla quasi totalità della Stampa, è stato firmato da tanti artisti e intellettuali, tra cui i nostri amici e collaboratori Emerico Giachery e Noemi Paolini Giachery. Ricordiamo che la Valensise è fondatrice di Vale e direttrice dell’Istituto di Cultura di Parigi. Facciamo anche nostro l’ Appello, anche se siamo quasi sicuri che cascherà, come al solito, nel vuoto, perché la Cultura raramente si presta all’illecito arricchimento e al potere, cui mirano, oggi, tutti i nostri partiti, dal più grande al più piccolo. Ecco cosa dice il testo: "A scuola gli allievi prendono a coltellate i professori e i loro genitori li
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prendono a calci. Nei musei, si oscurano i nudi di Schiele e le bambine di Balthus. Nelle università si riscrive la storia, e nei teatri si riadattano i classici ai pregiudizi contemporanei. Per le strade, il pestaggio sostituisce il confronto delle idee, mentre sul web spopolano l'insulto e la condanna preventiva. In tutto il mondo, negare la cultura genera nuova violenza, ma in Italia si aggiunge il rischio della dissoluzione civile". "Urge perciò – continua l’appello - un impegno a tutto campo per puntare sulla cultura, purtroppo grande assente della campagna elettorale. Restituiamo all'Italia il suo ruolo di culla della cultura e della civiltà. Rilanceremo l'Europa guidandone la rifondazione, restituendo non solo dignità ai cittadini, ma futuro a chi sente di esserne privo. Cultura è aver cura, è il motore della crescita civile, è coscienza del patrimonio inestimabile di cui siamo depositari, a cominciare dalla lingua che parliamo, dai monumenti fra i quali viviamo, dai centri storici e dal paesaggio che ci circondano". I firmatari scrivono inoltre: "Puntare sulla cultura significa valorizzare i tesori ricevuti in dono dal passato e farli rivivere per consegnarli alle nuove generazioni, col senso pieno di comunità che accompagna chi ne è consapevole. Ritornare alla cultura vuol dire, dunque, pensare nuove strategie per educare e ispirare i più deboli, grazie ai prodigiosi strumenti che abbiamo a disposizione. È questo uno fra i primi compiti che spettano a chiunque, dopo il 4 marzo, avrà responsabilità al governo o all'opposizione. Abbia cura della cultura e dei diritti dei cittadini, attinga anche alla competenza e all'energia delle migliori risorse del paese, e valorizzi nell'interesse di tutti un immenso capitale da preservare con passione". *** LECTURA DANTIS METELLIANA - Martedì 6 marzo 2018, alle ore 18, presso l’Aula Consiliare del Comune di Cava de’ Tirreni, ha avuto inizio la XLV edizione della Lectura Dantis Metelliana. Il ciclo di conferenze si svolgerà per sei settimane nei mesi di marzo e aprile. La prima di esse si è tenuta il 6 marzo: il prof. Federico Sanguineti, dell’ Università di Salerno, ha commentato il canto IX dell’Inferno. Il secondo appuntamento, il 13 marzo, ha avuto per protagonista il prof. Raffaele Giglio, dell’Università di Napoli “Federico II”, che ha commentato il canto X dell’Inferno. Il 20 marzo, la prof.ssa Silvia Zoppi, dell’Università di Napoli “Suor Orsola Benincasa”, ha “letto” il canto XI. Il 27 marzo Fabio Dainotti, presidente onorario della Lectura Dantis Metelliana, ha commentato il XII canto dell’Inferno. Il 10 aprile, il prof. Davide Canfora, dell’ Univer-
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sità di Bari, commenterà il XIII canto della 1° cantica. Il 12 aprile a parlare sarà il professor Marco Galdi, della Università di Salerno, che tratterà il tema: “Dante e il diritto”. Nella stessa data, il 10 aprile, la Lectura Dantis del 2018 si concluderà con la consegna del Premio di laurea “Fernando Salsano”, per studi e ricerche in ambito dantesco. *** RECA LA GIOIA P. N. - Ci scrive da Milano Mariagina Bonciani, il 10 marzo c. a.: Carissimo Domenico, ricevo anche stavolta con notevole anticipo sulla solita data il numero di marzo di POMEZIANOTIZIE, e come al solito al suo arrivo ne ho immediatamente iniziato la lettura con avidità, perché non mi stancherò mai di ripetere che questa rivista è un vero, piccolo e prezioso scrigno che invita alla lettura per la sua chiara grafica, la bella carta, il comodo e non invadente formato, e poi, ma soprattutto, per il suo contenuto, perché chi la conosce sa già che conterrà articoli interessantissimi scritti da autori di valore che sanno scrivere senza annoiare mai. Ho subito letto Ameera Al-Taveel di Marina Caracciolo e Rigoni Stern di Luigi De Rosa (un autore, questo, che seguo con passione per i suoi articoli sui Poeti e la Natura), e poi le tue poesie "Il taglio dei pini", che mi ha commosso - l'ho riletta più volte !), "Presto dovrò salire al Cielo, (il più tardi possibile, mi raccomando!), "Padre da padre a padre" (sentimenti e sensazioni da me condivisi per madre e nonna), la magnifica "Michelangelo e la Pietà" di Francesco Fiumara ... e poi ho dovuto interrompermi per preparare il pranzo. Ma so già che prima o poi riprenderò in mano la rivista per leggere Selvaggi, tutte le altre poesie e articoli, e le recensioni... e saranno momenti di serenità e di piacere, perché anche se non conosco personalmente tutti i tuoi collaboratori li considero amici che mi tengono compagnia e mentre li leggo mi sembra di essere parte di una grande famiglia. Scusami se mi sono lasciata prendere dal romanticismo (o dall'entusiasmo ?) dilungandomi troppo. Vedo pubblicata anche la poesia che avevo mandato per aprile (...), e vorrei sapere se (...) le poesie che compariranno in POMEZIA-NOTIZIE saranno considerate edite o se potrò continuare ad inviarle come inedite ai concorsi (di solito, come in questo caso, tu sei il primo a riceverle). Ti faccio tanti cari auguri e ti abbraccio con riconoscenza per il tuo meraviglioso lavoro. Mariagina Carissima Amica, fa piacere apprendere che P. N. reca gioia col suo arrivo e che invogli alla lettura. Da parte nostra, in ogni numero, cerchiamo di dare il meglio che pos-
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siamo. L’articolo d’apertura di Marina Caracciolo è stato un vero successo (l’otto corrente, per esempio, ci scriveva Ilia Pedrina, da Vicenza): “Grazie, carissimo Amico, grazie perché proprio due ore fa mi è arrivato il tuo plico con tre copie a colori della bellissima Principessa: ho letto subito il dono che ha fatto a tutti noi la cara e bravissima Marina. Lei, così approfondita esperta della musica e della scrittura, anche quando canta la bellezza femminile, accanto a quella dei paesaggi e delle architetture antiche, ha saputo darci un profilo luminoso di questa vera protagonista del nostro tempo, AMEERA ALTAVEEL, carica di gioia negli occhi e nel cuore, generosa e sensibile con chi necessita dei suoi doni. (...)”. Le poesie che vengono pubblicate (ma tutto il materiale, non solo le poesie), si considerano edite; possono, però, essere inviate e pubblicate altrove, purché se ne indichi la fonte, così come chiaramente specificato sotto la testata, in prima pagina. Anche le tue poesie sono state sempre apprezzate dai lettori e tu ne hai avuto prova attraverso le tante recensioni che hanno ottenuto i Quaderni Il Croco che ti abbiamo dedicato. Perciò sono certo che continuerai a voler bene a Pomezia-Notizie e a collaborarvi. Anche a te un caro e fraterno abbraccio. Domenico *** LE SETTIMANE MUSICALI AL TEATRO OLIMPICO DI VICENZA - A Vicenza, nella serata del 15 marzo 2018, presso lo Spazio Scarpa di Palazzo Brusarosco-Zaccaria, sede della Biblioteca Internazionale 'La Vigna', il Presidente prof. Mario Bagnara ha presentato al pubblico il connubio tra questa prestigiosa istituzione e l'evento Le Settimane Musicali al Teatro Olimpico, giunto quest'anno alla sua XXVII edizione. Colgo dalla locandina di invito del Presidente: '… Gli ospiti saranno intrattenuti dalla violinista Sonig Tchakerian che racconterà il mistero di cui è impregnata la musica di Bach. Questa primizia di stagione sigla una nuova collaborazione de Le Settimane Musicali con una tra le istituzioni più illustri della città; due realtà vicentine accomunate dal desiderio di animazione culturale attraverso un'offerta di assoluta qualità con proposte che sanno coniugare le diverse forme artistiche e le ricchezze del territorio, dall'architettura all'agricoltura alla musica con la riscoperta dei documenti antichi e dei linguaggi contemporanei …'. Nella Quadreria, al secondo piano del Palazzo, campeggiano alle pareti i grandi tappeti di Cleto Munari, disegni in lino su campo in lana: i lavori per questi modernissimi spazi realizzati dall' architetto Carlo Scarpa sono stati a lui commissionati dall'avvocato Ettore Gallo, proprietario del Pa-
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lazzo poi venduto integralmente a Demetrio Zaccaria, industriale e mecenate di altissimo livello. Per i convenuti l'orgoglio di essere presenti a questo fortunato connubio tra suoni, spazi d'arte, sapori. A partire dal 'Mistero Bach', rappresentato dalle sue partiture manoscritte per violino, Sonig Tchakerian, la silhouette in nero ed il violino tra le mani agilissime, i piedi nudi su grande, morbido tappeto rosso ad intercettare, ovattato, il ritmo del cuore incandescente della terra e trasferirlo in sé, ha proposto la Partita n. 2 in Re minore, nelle scansioni a danza di Allemande, Courante, Sarabande e Gigue, per lasciare poi, in pieno raccoglimento, l'esecuzione della Chaconne alla seconda parte della serata, dopo che il pubblico è stato invitato dal Presidente Mario Bagnara a prendere passione forte per tanti dei preziosi volumi, in tutto 62.500, che compongono il patrimonio della Biblioteca sui temi della cultura e della vita contadina, dell'arte viti-vinicola e gastronomica, nell'ampia sala del Palazzo, posta al primo piano. Sonig ci ha detto che Brahms, di fronte a questa partitura, sosteneva che, se l'avesse scritta lui, sarebbe morto dalla felicità e ci ha insegnato che l'ispirazione apre ai suoni percorsi di un'attualità originale e vibrante, una polifonia immanente che va all'interno di orientamenti armonici nella doppia direzione oltre che del tempo ritmico, anche in quella del tempo d'esperienza, tra ieri e domani, quasi che il fiume del divenire potesse proprio avere due flussi d'acqua contemporaneamente, verso la foce e verso la sorgente, alterando così le leggi di natura e di gravità e tu ti trovi in questo moto increspato in stasi contemplativa, là dove si sospende il tempo e si genera la Grazia. Ilia Pedrina *** INCONTRO SUL TEMA DELLA SINTASSI ALGEBRICO-MATEMATICA - Con il patrocinio dell'Istituzione Europea 'A EUROPEAN MARIE SKŁODOWSKA-CURIE RISE PROJECT' si è tenuto presso l'Università di Vienna, dal 26 al 28 febbraio 2018, il secondo incontro di lavoro e di ricerca sul tema della sintassi algebricomatematica applicata all'intelligenza informatica e alla ricerca tecnica nei più rivoluzionari campi della medicina, dell'aeronautica militare, della progettazione logico-algoritmica. L'acronimo SYSMICS, con il quale è possibile visualizzare in rete tutto il materiale prodotto dai ricercatori, sta a sintetizzare 'Syntax meet Semantics - Methods, Interasctions and Connections in Substructural logics', vale a dire 'La Sintassi incontra la Semantica – Metodi, Interazioni e Connessioni nella logica Substrutturale', quella cioè che ha sorpassato la logica classica. Il materiale è scaricabile e se ne può avere un'idea
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non sommaria leggendo le sintesi degli studiosi addetti ai lavori e scorrendo non certo in fretta i contributi che, grazie a loro, le varie Università nel mondo hanno portato ad elaborazione, partendo dalla logica classica e dalla teoria matematico- algebrica nella sua sintassi di presentazione simbolica per arrivare via via alla teoria della verificabilità e falsificabilità degli assiomi, adatta a provarne l' efficacia: anche questi territori, tutti da investigare, sono parte del nostro mondo. Ilia Pedrina *** POMEZIA-NOTIZIE DELLO SCORSO MARZO LETTA DA UN GRANDE AMICO - Riceviamo da Emerico Giachery, di Roma, l’11/3/2018: Carissimo, la tua rivista portata avanti con tanta generosa fatica si apre a sempre nuovi orizzonti. Vi incontro presenze che, per una ragione o l'altra, mi sono care, e perciò percorrere le pagine della tua rivista è un po' come ritrovarsi in un cenacolo di amici per conversare insieme di cultura. Incontro, anche in effigie, sia Antonio Crecchia, gran gentiluomo, studioso attento, poeta e scrittore, figura centrale della cultura in Molise, sia Pietro Civitareale, poeta in lingua e nel dialetto intensamente espressivo della sua Vittorito, nell'alta valle peligna; noto studioso, inoltre, di poesia italiana e neodialettale non soltanto abruzzese, ma anche romagnola, in un ottimo libro di pochi anni or sono. Per quanto ne so, l'Abruzzo e la Romagna sono tra le miniere più ricche di pregiatissima poesia neodialettale. Ilia Pedrina è una presenza sempre gradita e ha sempre molte cose interessanti da dirci. Stavolta mi parla di Francesca Diano, figlia di Carlo Diano (evocato anche da Ilia Pedrina), che considero un grande personaggio che è più che giusto ricordare. Nel 1983 si celebrò a Venezia e Gardone il centenario della nascita di D'Annunzio. Diano vi fece una relazione che mi affascinò e ne scrissi con entusiasmo in un rendiconto su "Lettere italiane". Diano mi scrisse molto cordialmente che ero l'unico ad aver capito il senso della sua relazione e mi inviò in dono il suo geniale libro Linee per una fenomenologia dell'arte, che mi fu utile, con i concetti di "forma" ed "evento, per un'analisi approfondita della Vita Nuova che portavo avanti in quegli anni. Sarei molto lieto se alla figlia Francesca pervenisse, magari con l'intermediazione della cara Ilia Pedrina, questo rapido ricordo di suo Padre. Vedi quanti felici incontri, attraverso il tempo e lo spazio, possono nascere per merito della tua rivista?. Buona primavera, buona Pasqua, con un po' d'anticipo, da
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Emerico (non senza Noemi naturalmente!) Grazie, Carissimo Emerico! Son sicuro che il caro Elio Andriuoli e la cara Ilia Pedrina comunicheranno la tua lettera rispettivamente a Pietro Civitareale e a Francesca Diano, dei quali non possiedo gli indirizzi. Grazie per la stima che tu e tua moglie portate alla mia assai modesta creatura di carta, che sta per giungere alla soglia dei 45 anni! Domenico *** GIORNATA MONDIALE DELLA POESIA - Il 21 marzo 2018, alle ore 19, presso il celebre Caffè Greco di Roma (A. D. 1760), l’Associazione Internazionale dei Critici Letterari con sede a Parigi, nella persona del suo presidente Neria Di Giovanni ha promosso l’evento “Giornata mondiale della poesia”, premiato con la medaglia di rappresentanza dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, diretto dal poeta Angelo Sagnelli, che, tra l’ altro, ha presentato il suo ultimo libro: “Il Tempo è l’energia della materia”, dedicato proprio all’Antico Caffè Greco di Via Condotti, Roma. La rappresentanza dei poeti contemporanei italiani è stata arricchita dalla presenza di altre nazioni. I poeti ospitati dall’Antico Caffè sono stati: Emmanuele Francesco Maria Emanuele, Alfio Mongelli, Antonio Lera, Franco Ferrarotti, Francesco Gallo Mazzeo, Luca Filipponi, Luciana Vasile, Manal Serry, Neria De Giovanni, Pierfranco Bruni, Salvatore Provino, Salvatore Martino, Stefania Lubrani, Samir Al Quaryouti, Vittorio Maria De Bonis, Daniele Mancini, Ennio Calabria, Ernesto Lamagna.
LIBRI RICEVUTI MARIAGINA BONCIANI - Canti per una mamma e altri ancora - Prefazione di Enza Conti; in copertina, a colori, “Dal Belvedere, in basso Forio d’Ischia”, acquerello di Mara Corfini - Il Convivio Editore, 2018 - Pagg. 48, € 8,00. Mariagina BONCIANI vive a Milano dove è nata nell’aprile 1934 e si è diplomata in Ragioneria nel 1953, ma ha sempre prediletto le materie letterarie e le lingue. Conoscendo il francese e lo spagnolo ed avendo perfezionato soprattutto lo studio dell’ inglese, ha lavorato, dal 1953 al 1989, come segretaria di direzione, capo ufficio e corrispondente presso tre diverse ditte nel settore import-export. Ama la lettura, i viaggi e la musica classica. In pensione dal 1989, per alcuni anni si è dedicata alla madre inferma,
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smettendo di viaggiare, ma studiando pianoforte, russo e greco antico. Non si è mai sposata. Da qualche anno ha iniziato a presentare nei concorsi letterari le sue poesie, ottenendo sempre riconoscimenti e premiazioni. Molte sue poesie sono state pubblicate in antologie e riviste. Nel 2010 ha pubblicato nei quaderni “Il Croco” della rivista “PomeziaNotizie” la silloge “Campane fiorentine”, accolta con entusiasmo dalla critica e nel 2011, sempre per “Il Croco”, la silloge “Canti per una mamma”. Nel 2012 è uscita presso le Edizioni Helicon la sua raccolta “Poesie”; nel 2015, “Sogni” e, nello stesso anno, “Ancora poesie”. Sue poesie vengono regolarmente pubblicate nella suddetta Rivista e sulla Rivista “Silarus”. Vince il primo premio al concorso “Città di Avellino - Trofeo verso il futuro” 2013 con la silloge “Poesia e musica”, edita nel 2014. E’ presente nei volumi: “Letteratura Italiana Contemporanea” (2013), “Il Fascino della memoria” (2013), “Poeti contemporanei - Forme e tendenze letterarie del XXI Secolo” (2014), a cura di Giuseppe e Angelo Manitta, “L’emozione della bellezza” (2015). ** VITTORIO “NINO” MARTIN - Ardita salita Introduzione di Claudette Da Re; in copertina a colori e in bianco e nero nel testo, opere dello stesso Martin - Casa Editrice Menna, 2017 - Pagg. 80, € 15,00. Vittorio “Nino” MARTIN è nato a Stevenà il 10 agosto 1934. Pittore e poeta autodidatta (suo padre era un calzolaio). Artista poliedrico, dinamico, tecnicamente raffinato. Le sue poesie sono state tradotte in francese, spagnolo, inglese, tedesco, friulano. Gli sono state dedicate oltre 160 copertine su libri e riviste ed è stato recensito da centinaia e centinaia di firme importanti, su giornali, periodici e riviste specializzate. Tra le sue tante pubblicazioni, ricordiamo, alla rinfusa: “Scritti e Schizzi”, “Parole e Disegni”, “Carta e Penna”, “Versetti e Bozzetti”, “Ieri e Oggi”, “Storie e Memorie”, “’Na s’cianta dhe storia”, “Stevenà e dintorni”, “Oltre la nebbia”, “Contrasto”, “Stevenà luci e ombre”, “Intrecci”, “Briciole di fantasia”, “Capricci”, “Mosaico”, “Passato Presente”, “Una luce nel buio”, “Spiragli di Luce”, “Gocce di vita”, “Di segni e di versi”, La stanza dell’anima”, “Silenzio dei sogni”, “Itinerario passionale”, “Stevenà amore mio”, “Scorie”, “Dal guscio della memoria”, “La voce del Poeta” (CD), “Pause di vita” (CD), “...Il piacere di scrivere...” (2015), “fra dramma e sentimento poetico” (2016). ** ISABELLA MICHELA AFFINITO - Insolite composizioni - 12° Volume - in copertina, “Le Bélier Cubiste”, grafica dell’Autrice; in calce, brani critici di: Tito Cauchi, Antonia Izzi Rufo, Maria
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Antonietta Mòsele, Cinzia Latini, Salvatore D’ Ambrosio, Adriana Panza - Ed. Poeti nella Società, 1972 - Pagg. 48, e. f. c. - Isabella Michela AFFINITO è nata in Ciociaria nel 1967 e si sente donna del Sud. Ha frequentato e completato scuole artistiche anche a livello universitario, quale l’ Accademia di Costume e di Moda a Roma negli anni 1987 - 1991, al termine della quale si è specializzata in Graphic Designer. Ha proseguito, poi, per suo conto, approfondendo la storia e la critica d’arte, letteraria e cinematografica, l’antiquariato, la fotografia, la storia del teatro, la filosofia, l’egittologia, la storia in generale, la poesia e la saggistica. Nel 1997 ha iniziato a prendere parte ai concorsi artisticoletterari delle varie regioni italiane e in seguito ha partecipato anche a quelli fuori dei confini d’ Italia, tra cui il Premio A.L.I.A.S. dell’Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori di Melbourne. Ha reso edite quasi 50 raccolte di poesie e un volume di critiche letterarie, dove ha preso in esame opere di autori del nostro panorama contemporaneo culturale e sovente si è soffermata sul tema della donna, del suo ruolo nella società odierna e del passato, delle problematiche legate alla sua travagliata emancipazione. Con “Da Cassandra a Dora Maar” (2006) ripropone le infinite donne da lei ritratte nei versi per continuare un omaggio ad esse e a lei stessa. Inserita in moltissime antologie, tra cui l’ “Enciclopedia degli Autori Italiani” (2003), “Cristàlia” (2003), “8 Marzo” (2004), “Felicità di parole...” (2004), “Cluvium” (2004), “Il suono del silenzio” (2005) eccetera. Sempre sul tema della donna ha scritto un saggio sulla poetessa Emily Dickinson. Pluriaccademica, Senatrice dell’Accademia Internazionale dei Micenei di Reggio Calabria, collaboratrice di molte riviste, è presente in Internet con sue vetrine poetiche. Tra le sue recenti opere: “Insolite composizioni” - vol, VIII (1972), “Viaggio interiore” (2015), “Dalle radici alle foglie alla poesia” (2015), Una raccolta di stili (15° volume, 2015), “Percorsi di critica moderna - Autori contemporanei” (2016). ** GIANNI IANUALE - Sintagmi poetici per una ricerca espressiva e figurativa del linguaggio in versi - Premessa di Mario Fizzarotti, Prefazione di Angelo Del Vecchio, Postfazione di Maurizio Orsi, fotografie a colori all’interno di Lorella Diamantini, presentata da Biagio Di Meglio - LER Editrice, 2008 - Pagg. 80, € 15,00. Gianni IANUALE, napoletano, fondatore della “Polivalente Internazionale U.A.O.C.” e Presidente dell’Accademia Internazionale Vesuviana, è autore di numerose opere, tra le quali: Profili (1983), L’ariete vincente (1986), Messaggi d’amore (1988), L’ultimo canto (1994),
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Viaggio nell’amore (1995), Lasciatemi cantare l’infinito (1996), Cadenze elegiache (1998), Sinfonia di un amore (1998), Nella notte degli angeli (1998), L’altra anima del cielo (2000), Nella magia di Shönbrunn (2002), Ho incontrato un angelo (2002), Pensieri sotto la luna (2003), Un’anima azzurra (2003), Il mistero delle parole (2004), Conchiglie di luna (2005), Santi lumi del cielo (2005), Stelle di seta (2006), La forza della fede (2006), Il cigno di Athena (2007), Gli angeli... una pioggia di stelle (2008).
TRA LE RIVISTE MATERIALI DI ESTETICA - La Rivista Materiali di Estetica, fondata nel 1999 come voce dell'Università di Milano nel campo assai vasto dell'Estetica, autonoma rispetto alla Filosofia ma con essa confinante e straripante tra le altre discipline della cultura nazionali ed internazionali, ci propone in rete nella sua Terza Serie, il Numero 4 del Febbraio 2017: FRANZ KAFKA. UN FRAMMENTO GIOVANILE SULL'ESTETICA. Traduzione con testo a fronte. A cura di Rosalba Maletta e Gabriele Scaramuzza. In copertina una stampa di Hiroshige, un paesaggio essenziale e sfumatissimo, con campi bianchi e cifre in lettere al modo giapponese, verticali. Nel Sommario l'Introduzione (R. Maletta), il Materiale (Ungedrucktes von Franz Kafka/Un inedito di Franz Kafka-Franz Kafka Max Brod) e I Testi (F. A. Clerici, E. de Conciliis, K. Fingerhut, S. Kamińska, E. Lucca, R. Maletta, M. Ophälders, S. Peron, R. Pettoello, S. Sanna, G. Scaramuzza, H. R. Sepp, J. Skolnik, R. Taioli, J. Vogl). A conclusione In Memoriam - Per Massimo Bonfantini (17 marzo 1942-19 febbraio 2018), del quale Emilio Renzi scrive: “… Aveva studiato filosofia alla Statale di Milano, con Enzo Paci e Ludovico Geymonat... Aveva seguito a Bologna Umberto Eco... Eco amava ricordare che Massimo aveva affrontato la traduzione e interpretazione degli scritti di Ch. S. Peirce 'come un leone in amore' Una dedizione che, dopo prove precedenti, sarebbe culminata nel 2003 con la pubblicazione della raccolta completa delle Opere nella collana 'Il Pensiero Occidentale' dell'Editore Bompiani..”(E. Renzi, Mat. di Est pag. 255). Una fotografia del giovane Franz a fianco dell'amico Max Brod, al quale è assai legato al punto da affidargli materiale in scrittura, li ritrae sorridente e scanzonato il primo, più meditativo e pensoso il secondo, il sorriso appena accennato, entrambi a torso
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nudo al mare, con sullo sfondo sabbia e cabine (ibid. pag 3). Mi scrive Rosalba in e-mail (1 marzo 2018): '… Hai visto la foto dei due amici? Brod con l'aliyha negli occhi, già scruta all'orizzonte la terra di Israele e Franz scava dentro il rimirante, gli rivolta l'inconscio come un guanto senza che quello se ne accorga. Da queste letture si esce cambiati!...'. In concreto, nel manoscritto in corsivo databile intorno alla metà di marzo del 1906, come ben ci spiega G. Scaramuzza, Franz spiega all'amico Max perché non frequenta le sue lezioni di Estetica, che vagliano l'identità e la sintonia tra il Bello e il Nuovo: in modo accurato, consequenziale, conciso dice che non si trova in accordo con lui, perché non solo non vuole essere tra coloro che lo lodano, mostrandosi passivi e favorevoli alle sue posizioni per interesse, ma anche non intende affrontare questi temi senza argomentare, in modo dialettico con dettagli forniti in elenco scolastico. Altra importante ragione per leggersi il tutto è il dato fondamentale: nel frammento in tedesco, al punto c), Kafka scrive '… Der hauptsächliche Beweis für die neue Ansicht ist eine allgemeine physiologische, nicht nur ästetische Tatsache, und das ist die Ermüdung. ('… La prova principale della nuova opinione è un dato di fatto fisiologico, non meramente estetico ed esso è la stanchezza...' - ibid. pp. 8-9). Brod pubblica questo frammento inedito sul settimanale Die Zeit N. 43 del 22-10-1965 ma si dovrà aspettare il Kafka in italiano con la pubblicazione Confessioni e diari (1972) a cura di Ferruccio Masini nella traduzione di Ervino Pocar, il quale, a quel tempo, tradusse 'psicologico' anziché 'fisiologico', modulando, come ben ci spiega R. Maletta, in una certa direzione la ricezione stessa dello scrittore ebreo di Praga. Si può allora ben capire perché ho scaricato molto materiale e mi sono messa a lavorare, ringraziando in cuor mio, e non solo, Rosalba Maletta, tutti questi studiosi e la tecnologia digitale che mi ha consentito quest'altra avventura, di cui certo darò più profondi dettagli ed espansioni: in tutto oltre 250 pagine, che portano il contributo di accademici di vaglia, giovani che si mettono alla prova per dare un profilo più forte, coerente e circostanziato all'interpretazione di questo testo importantissimo e finora trascurato, nel versante della lingua originale e in quello delle traduzioni che vi si sono affiancate, moltiplicato per tutte le successive analisi che il materiale fa scaturire e per gli sviluppi di vita e d'esperienza letteraria dei due amici, in un'Europa che si trova, ancora ignara, nell'anticamera del proprio primo abisso. Ilia Pedrina * SOLOFRA OGGI - La Voce di chi non ha voce -
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direttore Raffaele Vignola - via A. Giannatasio II trav. 10 - 83029 Solofra (AV) - E-mail: solofraoggi@libero.it - Riceviamo il n. 2, febbraio 2018. Articoli stringati, tanti i collaboratori, numerose le foto in bianco e nero. In prima e in seconda pagina, un servizio su “I solofrani abitano nella valle conciaria? Che cosa direbbe il compianto poeta Carmine Troisi ai Solofrani, ai sacerdoti e ai politici?”.
LETTERE IN DIREZIONE Carissimo Amico, eccomi a te: stamane, il 14 marzo, trentesima giornata del Pi greco, quel simbolo matematico che in rete Google festeggia con un simpatico formulario ad immagini: se io prendo la circonferenza di un cerchio e la divido per il suo raggio ottengo un numero finito, il 3, ma con tanti altri numeri dopo, per la precisione 27. La Geometria aritmetico-simbolica è venuta incontro anche a Dante e ne ha forgiato mirabilia, in onore del 3, del 3x3 e di quelle undici sillabe nelle quali così spesso mi sprofondo. I poeti hanno bisogno di misura, tu lo sai bene, carissimo, ed amo veramente il ritmo dei tuoi endecasillabi, quando si lasciano intercettare e danno luce tra versi sciolti, per dare misura alle tue emozioni, ai profili dei tuoi pensieri, alle considerazioni portate in campo dal tuo contatto con la vita, la natura, la cultura, il mondo. E proprio oggi, in rete, colgo la notizia che è morto Stephen Hawking, mente eccelsa tra matematica e astrofisica, mondo e sofferenza, calcoli quantistici e previsioni all'avanguardia, Dal Big Bang ai Buchi Neri. I suoi meriti? Tanti! Aver divulgato la passione che gli animava le corde della mente e del cuore, anche quando quelle vocali non gli son servite più, allo scopo di captare segnali provenienti dall'universo ai suoi inizi; aver condiviso il bisogno inesauribile di guardare il cielo ed interrogarsi, da poeta delle cifre e degli strumenti sofisticati che riducono le distanze astrali e ce le ri-
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conducono agli occhi, in un'impressionante prossimità; aver mostrato oltre le parole, con i fatti, come si affronta una malattia seria, severa, menomante, con quell'energia vitale che l'intelligenza realizzata sempre ti fa individuare e provare dentro, senza confini, che si autoalimenta perché legata alla gioia, quella pura, quella che anche Dante ha provato nel tracciare il suo Inno a Dio che, colto da Aristotele come primo Motore Immobile, diviene in lui, per tutti noi, '...Amor che move il sole e l'altre stelle', dimensione infinita del rapporto tra il pensiero, lo sguardo sulla realtà, e l'investigazione sugli interrogativi che essa pone, su Dio stesso come Amore. Tu, respirando quegli antichi ritmi della ricerca spirituale, come ne 'L'orto-giardino', ti fai portatore di senso: '...Un nuovo figlio d'Eva, l'Abele dell'affrancamento, l'uomo dell'utopia, che, ignorando il peccato, possa al mondo venire senza pianto...'. Si, 'possa al mondo venire senza pianto', un endecasillabo che sigilla armonia e si interiorizza senza sforzo. Nei tuoi versi sai cogliere l'anelito della rivoluzione a partire dall'interiorità; colleghi le parole tra loro, in canto, provocando fermento nelle rappresentazioni che via via si modificano; presenti una speranza tangibile, che abbia per questo, proprio in quanto speranza, la forza di riscrivere nascita, relazione, mondo: il Paradiso terrestre diventa un Eden al
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quale aspirare attraverso le dure prove della vita, quando la poesia, come non luogo fisico ma profondamente simbolico, ti canta dentro e la offri alla luce. E se le parole si sciolgono in modo discorsivo, ne nasce un inno alla gioia, quale si incontra nel tuo 'L'orto del poeta' profondamente rinnovato ed attualissimo: “Amate la poesia. La poesia è luce eterna, è il cordone ombelicale che unirà per sempre l'uomo a Dio...”. Manara Valgimigli, grande e insigne studioso di Lingua e Letteratura Greca, di Lingua e Letteratura Italiana, che s'incontrava spesso con Papà al Caffè Pedrocchi a Padova, proprio in relazione a Dante, al Dante di Francesco De Sanctis, scrive: '… E Dante immette sé, uomo vivo, in questo mondo di morti, e con sé vi gitta dentro l'altro mondo, il suo mondo, della tradizione romana e della passione politica sua e della sua gente. Allora si compie il miracolo della poesia...' (M. Valgimigli. Discorsi e saggi - F. De Sanctis, in Poeti e Filosofi di Grecia, vol II, Interpretazioni, Collana La Civiltà Europea, fondata da Giovanni Gentile, G. C. Sansoni Editore, Firenze, 1964, edizione a cura dii Maria Vittoria Ghezzo, pag. 633). Così, quasi sfiorando i confini di Poesia, anche Stephen Hawking ha dilatato il suo sguardo sul cosmo e ne ha tratto scienza nuova, attraverso quel coraggio che solo l'entusiasmo riesce a darti dentro, in modo permanente. Ed 'entusiasmo-en theò einai' è parola che deriva proprio dalla lingua greca e vuol segnalare come corrispondente semantico la condizione dell'essere dentro Dio stesso!
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Così, quasi penetrando nel cosmo coloristico dei suoi disegni e dando voce all'emozione, Gillo Dorfles, che si è spento a Milano il 2 Marzo, un mese prima di compiere 108 anni, ha costruito il suo Eden, in nome della Poesia, della Critica Letteraria e d'Arte: doveva fare lo psichiatra e la sua anima l'ha portato altrove, nel mondo delle parole in ritmo che dicono passioni, scelte reali tra ogni possibile opportunità della vita, imprevista sempre e sempre rinnovata, ciclicamente, nelle albe e nei tramonti del tempo. Allora questa tua, questa nostra Rivista, creatura palpitante d'intelletto e d'amore, si apre alla scienza e si muove nel mondo, offrendo generosi messaggi di ricerca e di partecipazione nella costruzione del futuro. Grazie, perché diffondi cultura, poesia ed arte, scienza, energia ed amicizia rinnovati costantemente dal tuo profondo discernimento. Ilia tua, riconoscente. Ilia Carissima, son d’accordo con chi mi dice che le tue non sono lettere nel vero senso del termine, ma pretesti per trattare argomenti vari, a volte attuali, a volte meno, ma sempre di un certo livello, e condivido pure l’idea che meriterebbero, in futuro, una raccolta in volume. La festa del Pi greco, che si svolge, ormai, da trent’anni, va coinvolgendo sempre più i giovani di tutto il mondo, in una gara fantastica, che ha, come traguardo, l’amore sempre più crescente verso la matematica e la scienza. Solo in Italia e solo quest’ anno, il 14 marzo ha visto interessate migliaia
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di scuole, con 1240 gruppi dirigenti (ogni gruppo formato da 30 studenti) e 8.500 partecipanti alla gara. Sono certo che, negli anni a venire, almeno di qualcuno dei partecipanti si dovrà parlare, perché son giovani d’ingegno e dimostrano che di matematica e scienza non si debba aver paura, anzi, occorre apprezzarle e farle apprezzare, raccontandole con semplicità, come ha fatto Stephen Hawking, morto, guarda caso, proprio il 14 marzo e, il 14 marzo, nel 1879, nasceva pure Einstein! Hawking si dichiarava ateo e tu lo definisci “poeta delle cifre e degli strumenti sofisticati”. Lui non diceva il vero, perché, secondo me, i poeti non sono né atei, né credenti secondo la vulgata, ma i migliori fili conduttori tra scienza e fede, tra l’uomo e Dio. Hawking si recò più volte in Vaticano, a incontrare prima Giovanni Paolo II e poi Ratzinger, al quale chiese - e ottenne - di essere benedetto. Lui diceva di fare scienza, non teologia e, in particolare, quella che vuole un Dio tappabuchi, al quale ci si rivolge ogni qualvolta non si riesce a spiegare le cose. Nel 2016 incontrò anche Papa Francesco, quando ha accusato un malore e venne ricoverato al Gemelli di Roma. Ammalato di Sla, non risulta abbia mai odiato la vita, abbia mai pensato o perorato il suicidio o l’eutanasia, ma ha sempre diffuso quel che tu chiami “energia vitale” e “gioia, quella pura, quella che anche Dante ha provato nel tracciare il suo Inno a Dio”. Hawking è poeta che ha penetrato i segreti dell’Universo e, come Dorfles, come tutti i poeti, “ha costruito il suo Eden, in nome della Poesia”, che ha ali divine e vola sempre alta sopra il fango del mondo. Scienza e Fede e Poesia, carissima, non sono state mai separate; ciascuna, a suo modo, ha mirato e mira a raggiungere il cuore del Cosmo e, quindi, il cuore di Dio, il Big Bang - o, meglio, i tanti Big Bang, perché, secondo Hawking, prima dell’Universo che conosciamo, ce ne sono stati altri, tra buchi neri ed esplosioni -. Ma l’origine? Il prima, cioè, dell’uno o dei tanti Big Bang? Il Prima, perché si stenta a cre-
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dere che tutto possa essere scaturito dal Nulla. Perché non la scintilla di Dio? Il mistero è destinato ad essere eterno; l’uomo, giammai potrà chiarirlo del tutto, né con la Scienza, né con la Fede e neppure con la Poesia, che, tra Fede e Scienza, è quella che corre più veloce. Domenico ___________________________________ AI COLLABORATORI
D. Defelice: L’urlo delle donne (olio,1964)↑ e Dramma (olio, 1962) ↓
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