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ISSN 2611-0954

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Anno 26 (Nuova Serie) – n. 5

- Maggio 2018 -

€ 5,00

ORFEO ALL’UNIVERSITÀ di Giuseppe Leone

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EGGERE che un signore ottantenne discuta la sua tesi di laurea in filosofia è una notizia che, se non è ricorrente, non è neppure così tanto rara. Tuttavia capita. Ciò che non capita mai, invece, è leggere una motivazione come quella che ha dato Italo Spinelli quando ha voluto spiegare il perché della sua tardiva iscrizione all’Università. Dopo una vita spesa come meccanico di trattori nella provincia modenese, eccolo attendere agli studi di filosofia, perché non riusciva a trovare pace alla perdita della moglie dopo 52 anni di matrimonio. Queste le sue parole, dettate a Claudio Del Frate sul Corriere della Sera del 12 aprile scorso: “Nel 2014 è venuta a mancare mia moglie Angela. Un tumore al polmone, dei più cattivi, se l’è portata via in pochi mesi … Lei è stata quella che mi ha sempre sostenuto, con l’amore e in senso materiale, anche nei momenti difficili, che ci sono stati. Da quel giorno ho cominciato a chiedermi: “La rivedrò?”, “Dove è finita?”. O ancora: ”Ce l’abbiamo davvero un’anima?” Insomma, dovevo trovare una risposta alla morte di mia moglie”. E una risposta l’ avrebbe trovata, dopo averla cercata per un quinquennio “nei libri di Platone, Aristotele, Tommaso Moro, Pascal e in un percorso rigoroso come gli studi universitari” fino al coronamento della laurea nell’ ateneo di Macerata, dove ha trovato, a sua detta, “un ambiente entusiasmante sia con gli studenti che con i professori, di cui uno di loro dopo un esame gli ha detto: “Ha insegnato più cose lei a noi, che noi a lei”». Quali siano queste più cose non è dato sapere, perché nell’articolo non si fa menzione, potrei dire, invece, le cose che ha insegnato a me: che lui è una versione moderna di Orfeo che non si reca più all’inferno per incontrare la sua Euridice, ma va all’università per ritrovare nei libri la sua anima; che i libri sono stati per lui oltretomba, vasi di Pandora, metafisica, altro che un motivo di →


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All’interno: Incontro con Nino Palumbo, di Emerico Giachery, pag. 3 La meravigliosa primavera di Rigoni Stern, di Luigi De Rosa, pag. 6 Il cavallo bianco di Santa Giovanna, di Rossano Onano, pag. 8 Forestiero e il dialetto, di Carmine Chiodo, pag. 11 Erotica di Maria Grazia Lenisa, di Andrea Bonanno, pag. 13 Carmelo Bene nei ricordi di Bruno Putignano, di Giuseppe Leone, pag. 15 Piera Bruno: Alla soglia dell’oltre, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 17 Aurora De Luca, Resta mio, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 21 Natale Luzzagni: Tanto vale vivere, di Elio Andriuoli, pag. 23 Dove i fiumi scorrono lenti, di Luigi De Rosa, pag. 25 Gentile e gli scritti per Il Corriere della Sera, di Ilia Pedrina, pag. 27 Angelo Manitta e il Big Bang, di Domenico Defelice, pag. 31 Si riuscirà a bloccare la piena?, di Antonia Izzi Rufo, pag. 34 Dalla coppia possessiva e violenta..., di Pasquale Montalto, pag. 35 Il mio sabato, di Leonardo Selvaggi, pag. 41 Il precursore, di Antonio Visconte, pag. 45 I Poeti e la Natura (Quasimodo), di Luigi De Rosa, pag. 47 Notizie, pag. 61 Libri ricevuti, pag. 63 Tra le riviste, pag. 65 RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (Lo specchio e la vita, di Luigi De Rosa, pag. 48); Isabella Michela Affinito (Appartenenza, di Sandro Angelucci, pag. 49); Isabella Michela Affinito (È questo un figlio?, di Giuseppe Napolitano, pag. 50); Tito Cauchi (Canti per una mamma, di Mariagina Bonciani, pag. 51); Tito Cauchi (Dentro la vita, di Caterina Felici, pag. 52); Tito Cauchi (L’ultimo porto, di Antonio Vitolo, pag. 52); Domenico Defelice (Davvero costui era figlio di Dio!, di Marcello Falletti di Villafalletto, pag. 53); Domenico Defelice (Come un’ombra piena di luce, di Elena Gambusera, pag. 54); Elisabetta Di Iaconi (Anime al bivio, di Imperia Tognacci, pag. 54); Maurizio Di Palma (Visioni culturali, di Vito Sorrenti e Susanna Pelizza, pag. 54); Giovanna Li Volti Guzzardi (Canti per una mamma, di Mariagina Bonciani, pag. 55); Emilio Pacitti (Foschie, di Antonio Crecchia, pag. 56); Ilia Pedrina (Il ramo di corallo, di Francesca Diano, pag. 56); Ilia Pedrina (Religione totale, di Jan Assmann, pag. 58); Susanna Pelizza (Percorsi di critica moderna, di Isabella Michela Affinito, pag. 60); Orazio Tanelli (Canti per una mamma, di Mariagina Bonciani, pag. 60). Lettere in direzione (Ilia Pedrina), pag. 65 Inoltre, poesie di: Anna Aita, Elio Andriuoli, Mariagina Bonciani, Loretta Bonucci, Rocco Cambareri, Salvatore D’Ambrosio, Antonia Izzi Rufo, Gianni Rescigno, Franco Saccà

rimpianto per la concorrenza portata dal computer; che essi sono oracoli che, se interrogati, non mentono; che sono anche, come si legge da qualche parte, “bussole nel confuso presente”. E mi ha ancora insegnato quanto sia più utile leggerli, anziché scriverli; e se non scriverli, riscriverli, come pensava anche Carmelo Bene quando volle giustificare le sue riscritture teatrali. Boezio chiamava consolazione questo amore per la filosofia, sia pure; per me, la di-

chiarazione di Italo Spinelli non solo è un’intelligente motivazione allo studio, ma anche una forma di una vera e più sana religione, questa volta non più in combutta con la ragione umana, ma in armonia con essa, per dare, assieme, un calcio alle superstizioni. Motivando così la sua iscrizione all’ università: “volevo scoprire dov’è finita mia moglie morta”, Spinelli ha spiegato assai meglio che mille Open day le ragioni dei libri e dello studio. Giuseppe Leone


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INCONTRI CON

NINO PALUMBO: UN NARRATORE DA RICORDARE di Emerico Giachery

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REVE, ma intensa e caramente viva nel ricordo (anche per la scoperta della Liguria e di molti luoghi evocati da Montale), la mia stagione d’insegnamento nella bella Facoltà di Magistero di Genova, dove operavano galantuomini della “buona Italia” e valorosi italianisti come Fausto Montanari, Cesare Federico Goffis, Mario Puppo. In quel periodo alcuni giovani studiosi mi esortarono a incontrare Nino Palumbo, che abitava su un colle tra gli ulivi di San Michele di Pagana, nelle immediate vicinanze di Rapallo. Dall’ampia vetrata del suo studio lo sguardo spaziava sul luminoso orizzonte del Tigullio. Palumbo viveva di collaborazioni diverse e a volte precarie, scontando con una condizione economica modesta e incerta per sé e per la famiglia la coraggiosa decisione, sostenuta con illuminata generosità dalla consorte Donatella, di rinunciare a una solida e ben remunerata attività di commercialista a Milano, e dare ascolto alla vocazione che sentiva come ineludibile, optando per la difficile libertà dello scrittore che vive soltanto della sua penna. Dei narratori contemporanei di cui mi è accaduto di scrivere, Palumbo, dopo Giuseppe Bonaviri, è certo quello che ho frequentato più a lungo e alla cui opera ho dedicato mag-

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giore attenzione critica. Numerosi i nostri incontri, le nostre conversazioni, passeggiando per le ridenti contrade tra Rapallo e Portofino, o per il centro storico di Roma, o in Lucania, dove Palumbo aveva dato vita a un premio di narrativa meridionalistica con effettiva e attiva partecipazione popolare: il “Premio Pomarico”, che per l’esaurirsi dei finanziamenti cessò di esistere dopo la prima edizione, vinta da Saverio Strati col romanzo Il diavolaro, tutt’altro che privo di risonanze di Mastrodon Gesualdo. In una di tali fervide chiacchierate, per lo più di argomento letterario, dissi a Palumbo che mi aveva colpito la rassomiglianza tra l’ arrivo a Milano, nel suo felice romanzo Pane verde, del tappezziere Amitrano (che nella realtà altri non era se non il padre dello scrittore) con la famiglia, e l’arrivo, in quella stessa città, di Rocco con i suoi fratelli nel celebre film di Luchino Visconti Rocco e i suoi fratelli. Senza volerlo l’avevo punto sul vivo. Mi confidò che quell’episodio del suo racconto era apparso, non molto tempo prima del film, in una rivista abbastanza nota e diffusa, e perciò lo scrittore aveva creduto di riscontrare nella sceneggiatura del film gli estremi del plagio e ne aveva parlato con un amico avvocato. Questi gli aveva risposto pressappoco così: «Molto probabilmente hai ragione tu, ma ti sconsiglio di metterti contro persone come quelle. Sono potenti, e troverebbero il modo di schiacciarti senza pietà. E in ogni caso non la spunteresti, non riusciresti a far valere le tue ragioni». A dire il vero, per il film di Visconti si parlò piuttosto di un influsso di personaggi di Testori dal volume Il ponte della Ghisolfa, ma il riscontro concerneva, ritengo, soprattutto le importanti scene del pugilato. Leggiamo, in ogni modo, cosa ne ha scritto lo stesso Visconti: «In queste mie necessità si sono poi inseriti altri motivi: alcuni che risalgono alla Bibbia e a Giuseppe e i suoi fratelli di Mann, altri che s'identificano nella mia ammirazione per lo scrittore Giovanni Testori ed il suo caratteristico mondo ed, infine, ad un personaggio dostojewskiano che, per più aspetti, rassomiglia interiormente al Rocco


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del mio film: il Myskin de L'idiota, il rappresentante più illustre della bontà fine a se stessa». Da un’altra delle nostre chiacchierate può ricevere lume un minuscolo problema di titolo, che un accreditato critico e storico della letteratura italiana del secondo dopoguerra si era posto. Il libro Oggi è sabato e domani è domenica, Canesi 1964, fu ristampato dall’ editore Bastogi nel 1981 col titolo La mia università. Perché l’autore aveva voluto cambiare il titolo? Non credo proprio che volesse far passare per nuovo un libro non nuovo: non era nella sua etica di scrittore. E in ogni caso, perché mai aveva scelto, per intitolare un libro di racconti, proprio il titolo dello scritto che è, se così si può dire, “meno racconto” degli altri che formano il libro, il titolo del meno conforme al “genere letterario” del racconto? Mi fa piacere chiarirlo perché sono convinto che proprio la nostra dialogante amicizia abbia avuto qualche parte in questa scelta. Il racconto La mia università scelto per intitolare l’intero libro è una narrazione scopertamente, direttamente autobiografica: un ragazzo del Sud (naturalmente lo stesso Nino) a Milano, in un giorno di crudo inverno, decide che se vuole farsi una cultura deve trovare il coraggio di entrare in una pubblica biblioteca e intraprendere la lettura dei classici, specialmente italiani, a cominciare addirittura dalla Vita Nuova. Ha la fortuna di incorrere in un bibliotecario intelligente e paziente che va incontro con paterna benevolenza al volenteroso ragazzo, gli mostra il funzionamento della biblioteca e lo inizia alla lettura dei testi essenziali per la formazione di una cultura letteraria. Questa fu la prima “università” di Palumbo, il quale sapeva che apprezzavo diversi suoi racconti, ma che quello mi era particolarmente caro, dato che glielo avevo elogiato più volte. E lui, annunciandomi l’imminente riedizione del libro col nuovo titolo, mi disse che questa scelta era stata fatta proprio in omaggio alla mia predilezione. La quale era dovuta non soltanto al mio crescente interesse per le narrazioni autobiografiche nei confronti di quelle di mera invenzione

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(con pochissime eccezioni di scrittori sommi), ma anche e soprattutto all’evocazione così intensa di quella Milano invernale, in cui si aggirava quel ragazzo meteco un po’ smarrito che nella cultura letteraria andava cercando la stesso, la propria identità. Un tema come questo (a parte quelle luci d’inverno che forse mi ricordavano un’ avvincente e celebre pagina di Le grand Meaulnes di Alain Fournier) trovava in me viva risonanza in quegli anni di insegnamento aquilano, spesso affiancati da incontri su temi pedagogici, presieduti e animati dal venerando e affabile maestro Luigi Volpicelli, del quale divenni amico. In quegli anni mi accadeva ogni giorno di constatare, non senza commozione, quanta speranza e sete - speranza e sete di autentica promozione umana - suscitasse, in tanti di quei giovani spesso discesi da isolati borghi montani, la cultura, la nostra vecchia, carissima e difficilmente sostituibile cultura umanistica. E ciò smorzava certi ricorrenti dubbi sul senso del nostro mestiere di interpreti professionali della parola scritta dai grandi, infondeva coraggio a continuare con amore il nostro lavoro di appassionati comunicatori di humanitas e di bellezza. In quegli stessi anni aquilani invitavamo a volte gli scrittori a trascorrere con noi una mattinata che si concludeva di solito con una tavolata cordiale in trattoria alla quale partecipavano anche gli studenti più interessati. Ricordo, per esempio, l’amico carissimo Giuseppe Bonaviri (un geniale scrittore davvero da non dimenticare e che forse prima o poi ricorderò su “Pomezia-Notizie”) in felicissima forma, che, proprio nel magico giorno dell’equinozio, inaugurò con noi la primavera e ci illustrò con fervore creativo aspetti sconosciuti del suo mondo poetico. Da quella visita scaturì, tra studenti e collaboratori, rinnovato interesse per la sua opera. Fu veramente un evento indimenticabile. Ricordo anche la giornata di studio che dedicammo al grande poeta lucano Albino Pierro, anche lui mio fraterno amico durante un quarto di secolo, con studiosi convenuti da più parti d’Italia. Quella volta, la prosecuzione pomeridiana dell’ in-


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contro mattutino ebbe luogo con un pubblico più che dimezzato soprattutto dagli effetti di un ottimo vino peligno che aveva irrorato troppo generosamente la mensa. La volta che invitammo Nino Palumbo, gli studenti presenti erano stati così bene addottrinati dai seminari preparatori guidati con perizia da Liliana Biondi, a quei tempi ancora assistente e poi divenuta cattedratica, che alla fine dell’ intensa mattinata, lo scrittore disse sorridendo: “Ma sulla mia opera ne sapete molto più di me!”. Non mancarono conseguenze positive di quell’incontro. Qualche allievo fu indotto a studiare gli scritti di Palumbo in vista di tesi di laurea, e soprattutto la dottoressa Biondi dedicò a lungo, e con risultati concreti, affettuose attenzioni critiche alla sua opera. Sia pure con minore dedizione di Liliana Biondi, anch’io ho studiato la narrativa di Palumbo, specialmente in un ampio scritto intitolato Una tappa significativa dell’opera di Nino Palumbo e compreso nel bel volume miscellaneo di omaggio critico allo scrittore, pubblicato purtroppo soltanto qualche mese dopo la sua scomparsa: La stagioni di Nino Palumbo, Bastogi 1981. In esso prendevo le mosse da un problema, discusso da più di uno studioso, che mi pareva centrale: quello dello sfasamento delle varie esperienze di Palumbo rispetto agli idola dominanti in questo o quel momento della moda letteraria. Posso aggiungere, tra parentesi, che questo sfasamento appariva come un merito agli occhi di chi, come me, predilige gli scrittori e i critici che sanno “resistere” ai condizionamenti delle mode e alle pressioni spicciole dell’attualità, senza peraltro ignorarne l’esistenza e le ragioni. Quelle mie pagine mi sembrano oggi per più versi lontane: non prive, spero, di sudate risultanze critiche e di tensione problematica, ma impacciate, quasi scolastiche. In esse cercavo di verificare, tappa dopo tappa, il progressivo svolgersi e articolarsi della coerenza solitaria di Palumbo per arrivare a un’ analisi ravvicinata, pluridimensionale, del romanzo del 1977 Il serpente malioso, il suo scritto più complesso ed elaborato, diverso nettamente da

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tutti i precedenti. Sfasato non meno dei precedenti rispetto alle mode, nato dopo un lungo silenzio e travaglio, in parte forse anche dovuto alla pausa di riflessione sollecitata in diversi scrittori dalle vistose esperienze della neoavanguardia, Il serpente malioso mi parve allora “più maieutico che sistematore”, quasi dinamico crogiuolo in vista di un’attività futura, che già mi pareva cominciasse a ribollire in quelle pagine. Un giudizio, dunque, che implicava un augurio e un presagio. Che però, per l’immatura e imprevista scomparsa dello scrittore - dovuta, per quanto ne so, a colposa insipienza di medici - non ebbe purtroppo modo di avverarsi. Emerico Giachery

LONTANANZE Si sentono a volte dei … perduti, le voci all’improvviso. D’istinto a direzione del misterioso appello volgi il passo, quasi in scatto di rinnovata affettiva prossimità. Vaga l’occhio ma non trova; brividi di tenerezze infantili si perdono in frane di acqua in gola, con il rischio di annegare. Sei qui e domani altrove, con la stessa presenza di quelle ragioni, che nate nella mente scolorano ma resistono nel cuore. Ristabilisce a un tratto, un caduto silenzio, le distanze con l’incorporeo segno. Salvatore D’Ambrosio Caserta


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LA MERAVIGLIOSA PRIMAVERA DI

MARIO RIGONI STERN (1921 - 2008) di Luigi De Rosa

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UTTI ricordano lo scrittore Mario Rigoni Stern, nato ad Asiago (Vicenza) nel 1921 e morto solo dieci anni fa, nel 2008. Lo ricordano soprattutto come narratore di guerra. Per Elio Vittorini, direttore della collana I Gettoni della Einaudi, era diventato “Il sergente nella neve”, l'autore del drammatico racconto autobiografico sulla ritirata di Russia (a piedi!) del 1942. Ma forse non tutti sanno che, una volta tornato a casa, sull' adorato Altipiano di Asiago, avrebbe scritto i suoi libri più belli sulla Natura in montagna, specialmente quello intitolato Stagioni. (Einaudi). Lo scrittore, che da ragazzo aveva frequentato solo la terza Avviamento Professionale, si sarebbe visto un giorno conferire dall'Università di Padova la laurea honoris causa ( in Scienze forestali e ambientali) per la sua eccezionale conoscenza della fauna e della flora alpestri. “ Non sempre al 21 di marzo arrivano le rondini, ormai sono poche anche loro, ma di certo è una grande data perché la durata del giorno e della notte è uguale in ogni punto della Terra: potrebbe essere un'idea per affratellare tutti gli uomini almeno in quel giorno...” Comunque, prima delle rondini

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arrivano le allodole, le ballerine bianche, i fringuelli, i merli di bosco. Il tasso si risveglia, e dove la neve si discioglie compare il fiore che tanto piace agli orsi che escono dal letargo, il farfaraccio bianco. Il giorno di san Marco c'era poi – ricorda lo scrittore – l'arrivo dei rondoni. Immancabile. Mai un anno che non ci fosse, dopo che il nonno Toni aveva scritto una cartolina al capo dei Rondoni, ad... Alessandria d'Egitto, perché ritornassero in Italia, ad Asiago, perché stava tornando il caldo. “ A questi ricordi aprilanti, di giochi, di rondoni, di prati bianchi di crochi, di ragazze, di sagre, di cuculi, devo pur aggiungere che sempre in questo gioioso mese hanno avuto fine le mie tragiche esperienze di guerra: così era stato in Albania, così in Russia per due volte, così in Germania nel 1945. Aprile è sempre stato il mese che dava inizio al mio ritorno a baita. Che tu sia benedetto.” “Qualche notte il termometro scende sotto lo zero e il terreno dell'orto è ancora gelato nel profondo, anche se i segnali sono chiari: in qualche solivo i crochi imbiancano i prati e le api raccolgono polline da crochi e da amenti di salicone; il nettare lo trovano sulle eriche che rosseggiano ai bordi dei boschi.. E' dolce e alacre il brusìo del loro volo: un invito anche per noi a lasciare le poste invernali e uscire all'aria di marzo.” I merli e i tordi fanno o rifanno il nido, e l' usignolo torna da molto lontano per passare le notti di luna piena a cantare per amore. Da ricordare che vi è un altro uccello che, quando canta ha appassionati ascoltatori. E' il tordo. Il maschio infatti, canta nel crepuscolo per la sua compagna, con una voce flautata e melodiosa, tanto che tutti gli abitanti del bosco lo ascoltano. E prima di mettersi a cantare ha l'accortezza di andarsi a posare lontano dal suo nido, in modo da non rivelarne l'ubicazione... Dove i raggi del sole scaldano di più, i galli di monte, stimolati dall'istinto amoroso, si preparano per le arene di canto e per le lotte di supremazia. E' il momento dell'urogallo, o cedrone, il vero re della foresta, più del cervo.


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Le femmine vengono attirate dai colori delle piume, dagli atteggiamenti di forza e di sfida, e arrivano a frotte, pur non mostrandosi fino all'ultimo. Quando non resistono più al richiamo della natura, e quando un gallo resta il trionfatore sul campo, dopo che i rivali se la sono svignata, allora si concedono, poi si ritraggono, si riconcedono, tra un arruffìo di ali e di piume. Il bosco è vasto, ed è bello. E' come un grande libro, un'enciclopedia su piante e animali che senza sosta si rinnovano, nello scorrere di migliaia di anni. “L'albero, anche se può vivere più di un secolo, è breve cosa nella vita della foresta : alberi densi di verde e d'argento, pecci alti come colonne con i rami rastremati lungo il tronco dal peso della neve di tanti inverni, larici feriti dal fulmine hanno vite personali, ma l'insieme è millenario...” Non mancano gli scoiattoli, ed altri animali, nei ricordi di Rigoni Stern : “Venivano all'alba; dalla finestra del bagno vedevo muoversi i rami, franare la neve e poi veder apparire i due saltellanti folletti; agili e sicuri come io settant'anni fa scendevo a corda doppia in palestra di roccia. Ogni mattina, prendono un pezzetto di pane secco o una crosta di formaggio, risalgono sul tettuccio e lassù, seduti, fanno colazione. E' piacevole osservarli; è il mio spettacolo del mattino. Con la neve e il freddo venivano pure gli ospiti aligeri: cince dal ciuffo, pettirossi litigiosi, lucherini ansiosi di costruirsi il nido, peppole, fringuelli. Tutti coabitanti coraggiosi di questo sito. Un giorno andai dal venditore di sementi a comperare miscele per granivori. Tutti mangiavano tutto.” Il libro “Stagioni” si occupa anche dell'Estate, dell'Autunno e dell'Inverno. Soprattutto di quest'ultimo, per il quale Rigoni confessa la sua predilezione naturale. Altri libri sono dedicati da Rigoni Stern alla sua amata Natura: ricordo Il bosco degli urogalli, Sentieri sotto la neve, Uomini, boschi e api, Arboreto salvatico, Aspettando l' alba. Luigi De Rosa

Pag. 7 LAURA E IL MARE

Ascolto la musica del mare e penso a te, Laura. Una bambina vestita da donna. Sempre sorridente, sempre fiduciosa. “Non mi piace la tua tosse, Laura. Fatti visitare!” E lei mi tranquillizzava: “Non preoccuparti!”, mi diceva convinta, “Passerà... vedrai che passerà. Guarirò e torneremo a Cirella. In riva al mare”. Il mare! Amava tanto il suo mare. Amava Cirella. Mi dicono che non ci sei più, che sei volata in cielo, che bisogna salutarti per l’ultima volta. Sembra un incubo, un viaggio irreale. La chiesa è vuota. Non c’è nessuno ancora. L’attesa è lunga. Infine, arrivano una bara, della gente, dei fiori. Guardo la cassa. È bella, lucida, elegante. Vi adagiano un mazzo di fiori, poi un altro e un altro. Deposito anch’io il mio fiore: una rosa rossa, bellissima. Il simbolo di te, della tua vita, del tuo profumo di donna ancora bella e attraente a ottant’anni. Laura! Fuori della chiesa, zampetta, apparentemente serena, Liù, la tua cagnetta, la tua compagna, il tuo amore. Ha sofferto tanto insieme a te. Che ne sarà di lei? Volevano sopprimerla. Ormai era un fastidio, un peso. Ma il medico pietoso non ha voluto. E vive ancora. Forse, nel suo dormire, sogna la sua “mamma” che le voleva tanto bene. Tu coccolavi lei e lei coccolava te: un amore immenso. Le faccio una carezza, un’altra, un’altra ancora; in tanto dolore sono felice di vederti, Liù! Addio, Laura! Vivrete sempre nel mio cuore: tu e la voce del mare. Anna Aita Napoli


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A proposito di sante e streghe

IL CAVALLO BIANCO (MA ANCHE NERO) DI SANTA GIOVANNA) di Rossano Onano

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na bellezza composta. Di un antico film conservo, nella memoria, una sola immagine: Ingrid Bergman legata al palo, occhi mistici al cielo, bruciata al rogo in qualità di strega. Si trattava di Giovanna d'Arco al rogo, 1954, regia di Roberto Rossellini. Le esperienze visive (e affettive) precoci restano nella memoria come un imprinting, condizionando il modo di percepire le situazioni analoghe per tutto il resto della vita. Ingrid Bergman era di una bellezza composta, piaceva infatti all'America puritana prima che l'attrice si trasferisse in Italia per sostituire Anna Magnani, che bellezza puritana non era, nel cuore di Rossellini. Credo risalga a questa precoce esperienza visiva il mio vizio di associare la bellezza femminile, puritana e composta, alla nascosta inquietudine demoniaca. Le sante e le streghe. Scorrendo la storia delle inquisizioni, ci rendiamo conto di come la santità e la stregoneria, nell'immaginario collettivo, originariamente coincidano. Nella fase primitiva di ogni religione, si crede che alcuni individui possiedano la capacità di agire, con parole e rituali (“magia”) sulle forze occulte della natura, per placarle o riceverne

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aiuto. Nelle religioni rimaste a livello magico, tali individui sono ancora denominati indifferentemente “santoni”, oppure “stregoni”. Hanno significato magico le prime Veneri paleolitiche, dall'enorme ventre di pietra, rappresentanti la vitalità della natura e la capacità femminile di contenere, appunto nel ventre, il seme di questa vitalità. La storia occidentale non parla di “santoni” o “stregoni”, parla di “sante” oppure “streghe”. La confusione fra queste due condizioni risiede nello stesso nucleo mitologico della nostra cultura, dove Eva è nello stesso tempo madre di tutti i viventi (attributo sacrale) e causa del peccato che allontana l'uomo dalla perfezione divina (attributo demoniaco). Oltrepassata la fase mitologica, la confusione è rimasta, mantenendo in ogni caso le sante e le streghe nell'aura della loro esclusiva relazione con Dio: le sante, per votare a Lui la loro esistenza; le streghe, per rinnegarlo, con ciò stesso riconoscendone, implicitamente, l'esistenza e gli attributi. Scorrendo la storia dell'Inquisizione, troviamo spesso i giudici disquisire intorno a un dubbio sostanziale: questa donna che stiamo processando (perché di donna inevitabilmente si tratta) è una strega?, è una santa? Il più famoso processo in questo senso riguarda Giovanna d'Arco, condannata al rogo come strega, più tardi redenta come santa e attuale protettrice della terra di Francia. Re Carlo e mamma Isabella. Giovanna nasce nel 1411 a Domremi, sulla riva sinistra della Mosa, i cui cittadini parteggiavano per il partito di Orléans, per il quale la Francia doveva appartenere ai francesi. Il villaggio accanto a Domremi, Mercei, teneva per la parte di Borgogna, che vendeva la Francia all'Inghilterra. I borgognoni erano, diciamo così, “collaborazionisti” con il nemico. Tipo Vichy, per capire. Fra i giovanotti di Domremi e di Mercei finiva spesso a botte. Non è dato sapere se Giovanna abbia partecipato alle zuffe. Sappiamo per certo, invece, che all'età di 17 anni la giovinetta si presentò a Roberto di Baudricourt, capitano dell'esercito francese, chiedendo d'essere accompagnata dal re di


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Francia. “Ho visto l'arcangelo Michele, quello con la spada fiammante, e in aggiunta Santa Caterina e Santa Margherita. Costoro mi hanno dato il compito di salvare la Francia”. “Tutto quello che io ho fatto di bene alla Francia – compare scritto agli atti del processo – io l'ho fatto per ordine del mio Signore, e tutto ciò che so, lo so unicamente per sue rivelazioni. Fu per ordine suo ch'io son andata dal re Carlo VII, figlio di Carlo VI”. I traduttori hanno usato qualche volta la parola “Dio” in luogo di “Signore”. E' un errore, ha fatto notare la studiosa M. A. Murray, ancora nel 1963 convinta che Giovanna d'Arco appartenesse veramente a una congregazione di streghe. “Signore” è l'appellativo che appunto le streghe utilizzano per indicare il demonio. Alla coscienza moderna appare discutibile che Dio manovri il suo apparato di angeli e santi per incitare gli uomini alla guerra. Ma erano altri tempi, il rude soldato Baudricourt introdusse Giovanna alla corte del re di Francia. La fama della ragazzina mandata da Dio doveva essere giunta all'orecchio di Carlo VII, che mise alla prova Giovanna vestendo di panni semplici e rimanendo confuso fra i cortigiani. Giovanna non ebbe esitazioni, si diresse verso di lui dicendo: “Saluto il re di Francia”. Si vuole che re Carlo fosse convinto, da quella circostanza, che la contadinella di Domremi fosse veramente ispirata da Dio. Le cose non sono andate esattamente così. Le cronache dell'epoca riferiscono che il re prese in disparte Giovanna e si intrattenne a parlare con lei. Gli astanti videro il volto del re illuminarsi di gioia. Giovanna aveva pronunciato queste parole: “Io ve lo dico da parte del mio Signore: voi siete il vero erede della Francia e il figlio del re”. Carlo VII era tormentato dal dubbio di non essere figlio legittimo di Carlo VI: la sua mamma Isabella era donna di leggendario libertinaggio. Carlo VII, insomma, si lasciò convincere ascoltando ciò che esattamente voleva ascoltare: lui era figlio legittimo, e di conseguenza Giovanna doveva essere inviata da Dio. La Pulzella d'Orléans. Carlo VII, in quan-

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to abituato a leggere le cose a modo suo, e sempre a proprio vantaggio, era persona di testa fine. Capì subito che la fanciulla di Domremi, così come aveva suggestionato il rude capitano Baudricourt, avrebbe ugualmente acceso l'animo dei soldati di Francia, e le affidò nientemeno che il comando dell'esercito. Giovanna, spada in pugno, mosse alla volta di Orléans, assediata dagli Inglesi. La battaglia infuriò per tre giorni sotto le mura della città; fino a quando, alle otto di sera del terzo giorno, Giovanna entrò in Orléans montando un cavallo bianco. Sembra che il colore del cavallo sia una invenzione dei biografi, per conferire alla fanciulla guerriera un alone di purezza. Nel successivo processo per stregoneria, il Tribunale preferì attingere a testimonianze dirette, le quali garantirono che il cavallo era di manto nero, colore del demonio. Le successive imprese di Giovanna, da allora Pulzella d'Orléans, stanno a metà fra la storia documentata e la leggenda. E' accertato che a Lagny vinse e catturò Franquet d'Arras, capitano borgognone di parte inglese, e lo consegnò al sindaco della città. Franquet fu impiccato, contro la regola che impone rispetto verso il nemico sconfitto in battaglia. Santa o strega? Giovanna continuò la lotta contro gli Inglesi con accanimento maggiore rispetto a quello di re Carlo, nel frattempo incoronato a Reims legittimo re di Francia. A Compiègne, presso Parigi, dopo accanita battaglia la Pulzella fu sconfitta e fatta prigioniera da Giovanni di Lussemburgo, capo dell'esercito borgognone. Giovanna ispirava ancora un terrore profondo agli inglesi, che la consegnarono a un Tribunale ecclesiastico come persona sospetta di magia e sortilegio. Giovanna non poteva essere giustiziata come guerriera sconfitta in battaglia: un capo di imputazione, per accreditarla di stregoneria, era appunto il fatto che la Pulzella aveva contribuito all'impiccagione di Franquet d'Arras, sconfitto dopo leale combattimento. Soltanto una strega poteva accedere a un grado così alto di crudeltà, sostennero i giudici, per ciò


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stesso obbligati a non rispondere alla stessa maniera. Frattanto, giungeva notizia che Compiègne era stata venduta agli inglesi. Giovanna fu presa da tale scoramento che si precipitò dall'alto della torre di Beaurevoir, e fu rinvenuta nel fossato, ferita ma viva. Roba da strega, appunto. Ma occorrevano altri indizi. Intanto, si appurò, montava un cavallo nero. Nel corso del lungo processo, la Pulzella nulla fece per allontanare i sospetti che gravavano su di lei. Continuò a dire di avere agito sempre seguendo il consiglio del suo Signore, cosa che la sospettosa signora Murray continua a ritenere sospetta. Anche perché venne fuori la faccenda del famoso albero di Domremi, denominato l'albero delle Dame e delle Streghe. Equivalente, da noi, al famoso Noce di Benevento. La Pulzella confessò di avere frequentato l'albero posando ghirlande sui rami, però da bambina. Quanto a San Michele: “Quando vi appariva, era nudo?”, chiesero i giudici, maliziosi. Giovanna: “Credete voi che Dio non abbia di che vestirlo?”. Sfrontatezza da strega. Mancava ancora la pistola fumante. Questa venne trovata riguardo al capo d'imputazione principale: Giovanna sovvertiva l'ordine naturale delle cose perché, essendo fanciulla, indossava unicamente abiti maschili. Per tutto il corso del processo Giovanna preferì comparire in Tribunale vestita da uomo. La moglie di Giovanni di Lussemburgo, che aveva simpatizzato con lei, cercò di dissuaderla: benedetta ragazza, guarda che le cose vanno a finire male, datti una regolata. Anche alcuni giudici pietosi fornirono lo stesso avvertimento. Sul finire della lunghissima fase

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inquisitoria Giovanna dismise il suo comportamento altezzoso, e firmò una carta ove si impegnava “a non portare più vesti da uomo, né armi, né capelli corti”. La pistola rischiava di non essere più fumante. Per due giorni Giovanna vestì abiti femminili. I guardiani, di notte, le nascosero le gonne. Al risveglio, la ragazza fu costretta a nascondere la propria nudità indossando nuovamente le vesti da uomo. Eretica, e bugiarda. Giovanna fu condotta al rogo come strega sulla Piazza del Mercato di Rouen, il mattino del 30 maggio 1431. Indossava una veste femminile. Carlo VII nulla fece per recare soccorso alla Pulzella. Oramai incoronato re di Francia, e in fase di tregua armata con gli inglesi, conveniva anche a lui porre distanza fra sé e la bellicosa giovinetta di Domremi. Quello di Giovanna fu essenzialmente un processo politico. Medjugorje. La politica, come al solito, spiega molto bene le cose, nello stesso tempo complicandole. La psichiatria, apparentemente complicata, invece semplifica. Di fronte a un paziente che dice: “Ho sentito la voce del Signore”, nessuno psichiatra risponde: “Non ci credo”. Risponde invece: “Io ci credo che tu hai sentito”. Per lo psichiatra realtà oggettuale e realtà virtuale hanno la stessa dignità. Il passo successivo sarà comprendere (far comprendere) se la voce sia stata effettivamente pronunciata dal Signore, oppure se la voce è stata pronunciata dallo stesso soggetto che l'ha udita. Nel caso specifico, Giovanna avrebbe effettivamente ascoltato la voce del Signore, dell'arcangelo Michele, di Santa Caterina e Santa Margherita. Ma le voci sarebbero state pronunciate dalla stessa Giovanna, invasata d'amore. La stessa spiegazione varrebbe per chi vede, mettiamo la Madonna, mettiamo a Medjugorje. Naturalmente, esiste il sospetto che qualcuno nomini la Madonna senza vederla, né fuori di sé né dentro di sé. Per puro interesse di bottega. Ma questo è un altro discorso. Rossano Onano


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FORESTIERO IL DIALETTO DEL TIRRENO COSENTINO di Carmine Chiodo

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OME dimostrano le sue pubblicazioni (<<Proposta per una grammatica calabrese>> (1985-1989), <<Il lessico dei pescatori>>, 2005), <<Il lessico botanico>>, 2014), e ora <Il lessico zoologico>), Giuseppe Forestiero è un attento e accurato studioso e ricercatore del dialetto del Tirreno casentino (Forestiero è di Cetraro (CS), ma vive e lavora a Roma, ove ha insegnato al <<Nazareno>> di Roma, appunto, latino e greco. Anche questo volume è ben curato e fatto, molto chiaro e svolge considerazioni e approda a conclusioni pertinenti e condivisibili. Come ha messo in evidenza e scritto la prefatrice (v. <<Il dialetto: un linguaggio che conquista>>) in questa opera di Forestiero, che attiene al lessico <<zoologico vengono sottolineate le difficoltà che si incontrano attualmente in una ricerca sul dialetto. Il dialetto parlato ai nostri tempi è confuso, corrotto da molte espressioni che sembrano dialettali, ma che in realtà non lo sono. Siamo di fronte alla nascita di neologismi nell’ambito di una lingua che cambia, si rinnova, cosi come la società in cui viviamo>>. Questo nuovo lavoro di Forestiero mira alla conservazione del dialetto e vi sono accolte oltre 2000 parole che attengono alla nostra fauna. Da vario tempo, e in modo appassionato e scrupoloso, lo studioso si occupa di dialetto calabrese, e non poche sono le difficoltà legate pure al reperire soprattutto ottimi e attendibili collaboratori mentre i giovani non sanno più il dialetto, quel dialetto dei loro padri e nonni. Nell’allestimento di questo nuovo volume, Giuseppe Forestiero si avvale di dizionari e di lessici afferenti al dialetto calabrese e di altri supporti culturali. Lo scopo che l’A. si prefigge è quello di compilare un lessico del Tirreno Cosentino <<per salvaguardare un patrimonio linguistico che, col passare del tem-

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po rischia di andare inesorabilmente perduto>> (v, p. 6). Forestiero esamina pure altre realtà linguistiche, come quelle paretimologiche e lavori di altri studiosi anche accademici, e ancora volge la sua indagine ad altre discipline: la botanica, la zoologia, l’anatomia per esempio. Perciò nel lessico figurano certe volte riferimenti ad opere e ricerche di altri ricercatori, ciò anche per una esigenza di chiarezza e di accortezza, di precisione, oltre a dare ad altri studiosi utili notizie e stimoli per ulteriori indagini, soprattutto dove si sono manifestate differenti tesi o opinioni, sia tra i collaboratori del Forestiero sia tra gli specialisti del settore, come ancora in alcuni casi, e per taluni termini, sono dati i termini scientifici, oppure citazioni di parole riportate da altri lessici. Con molta onestà e scrupolo scientifico sono fornite le fonti dalle quali sono tratti alcuni termini e ovviamente non manca Rohlfs con il <<Dizionario dialettale delle tre Calabrie (1932-1939)>> e il nuovo dizionario dialettale delle Calabrie oppure ancora sono nominate le ricerche etimologiche su voci e frasi del dialetto calabrese e lucano (Napoli,1885) di Teodoro Cedraro (dell’opera di questo studioso esiste pure la ristampa Forni di Bologna del 1983), e poi ancora figurano altri studiosi, Luigi Accattatis e Jhon B. Trumper, per citare solo alcuni nomi. In questo terzo volume lo studioso ha <<cercato di organizzare meglio le didascalie relative ai segni grafici adottati>> (p. 11), ciò per non disorientare chi legge. Comunque nell’ampia e puntuale introduzione a questo volume, l’A. dichiara le fonti di cui si è servito per ogni dialetto. Da dire ancora che Forestiero per essere più accurato e preciso ha consultato pure altri studi e lavori, cito ad esempio quello di Luigi Paternostro, attinente al Pollino. Invece per quanto riguarda i nomi dei pesci si è tenuto presente l’elenco riportato da Enzo Fera in <<Amantea: la terra gli uomini i sapori>> (Cosenza, Pellegrini, 2000). Questo terzo volume presenta anche proverbi che hanno come soggetti animali, specialmente quelli domestici. Forestiero ne riporta alcuni che si dicono a Cetraro, ma so-


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no anche noti in altri paesi. Bonifati, Diamante, Grisolia: <<Aspetta ciùcciu miu la pàglia nova/Aspetta asino mio la paglia nuova>>: <<A fantasia du ciucciu è la gramigna/ La fantasia dell’asino è la gramigna>>; <<Si stime lu cani pp’amuri du patruni /Si stima il cane per amore del padrone>; << U vòju dice curnutu all’asinu/Il bue dice cornuto all’ asino>>, per citarne alcuni. Ai proverbi si possono affiancare pure espressioni caratteristiche che hanno come riferimenti alcuni animali: << Pare na papera - Sembra una papera>>, <<Si na zicca - Sei una zecca>>, detto per persone petulanti. Ancora nel lessico sono segnalate forme impiegate un tempo per dare dei comandi agli animali e si tratta di espressioni molto interessanti - come fa notare lo studioso - quelle impartite ai buoi, come quelle di tipo <<arrè!>>. per fermarli appunto, o agli asini, tipo <<àaaa! E <<iii>> per farli avanzare oppure <<isc>> per farli fermare. Come viene giustamente detto sono delle forme interiettive <<facilmente riconducibili ad una matrice greca o latina> (p. 15). Viene portato come esempio <<àaudi!>> che è la forma dell’imperativo latino di <<audio>> (ascoltare), il comando io!, che viene dato all’ asino per incitarlo a camminare, <<dà tutta l’ impressione di risalire all’imperativo latino eo (andare), <<isc! >> potrebbe risalire alla forma greca che in italiano vale per <<fermati!>>, che è l’imperativo del corrispondente verbo greco (v: per questi aspetti p. 15 del libro). Comunque l’esame delle parole riportate nel lessico hanno determinato altre riflessioni e considerazioni che lo studioso indica nella introduzione al suo lavoro. Ad esempio si possono rilevare dei termini universali quali <<ciàvula – cornacchia>>, <<crapa - capra>>: si tratta di termini che, pur nelle differenti forme a livello locale, danno <alla zona una forte connotazione identitaria dal punto di vista linguistico e smentiscono l’opinione diffusa che si debba parlare di dialetti diversi nelle varie località del Tirreno Casentino>> (pp. 5-10). Cosi ancora se si considerano i nomi di uccelli si trovano termini di particolare interesse: ad esempio <<spinza = fringuel-

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lo>>, <<zivula = specie di fringuello>>, <<pica = gazza). Viene fatto pure notare che esistono molte voci per definire l’allodola: <<calandra (Cetraro)>>, <<cucciàrda>> (ancora Cetraro, San Nicola Arcella); <<gràdula>> (Aiello Calabro); <<cucugliàta >> (Cetraro). Convincenti sono pure alcune definizioni etimologiche ,come nel caso, per esempio, del termine <<scilla>> (Cetraro), <<ala>>, dal latino <<axilla>>: questo termine latino di <<Axilla >> ha dato poi origine alla parola italiana <<ascella>>; il termine <<milogna>> (tasso) riprende il latino <<melos>>, inoltre la parola <<tasso>> è di origine germanica. Altri termini appaiono generici e alcuni hanno una origine onomatopeica come il termine <<vombacu>> (Belvedere Marittimo); origine onomatopeica perché richiama il ronzio dell’insetto con le sue varianti pure indicate. Ancora di altri termini non è sempre possibile stabilire il significato e l’incertezza terminologica – viene fatto rilevare - è ancora più evidente se si prendono in considerazione gli uccelli notturni . E’ veramente un problema-come avverte il ricercatore – l’ identificazione di alcune specie, soprattutto quelle degli insetti , di uccelli, di rettili ma chi consulterà il presente lessico <<avrà modo di constatare che i nomi dei pesci costituiscono un vero e proprio rompicapo>> e anche al riguardo sono forniti gli opportuni e specifici esempi. Difatti c’è tra i collaboratori di Forestiero che considera <<l’occhjàta>> simile al sarago, o alla spigola, chi dice che rassomiglia ancora al dentice, oppure all’orata. In conclusione, Giuseppe Forestiero anche con questa sua nuova ricerca si pone come uno dei studiosi più attendibili del dialetto del Tirreno Cosentino. Un’opera che è scientifica e nello stesso tempo divulgativa che mira, tra le altre cose, ad attirare i giovani nello studio delle varie forme del dialetto che va sempre di più scomparendo ma che per fortuna è studiato, indagato, riproposto da validi e appassionati studiosi e cultori di esso. Carmine Chiodo Forestiero - Il dialetto del Tirreno cosentino - vol: III, Il lessico zoologico, Cosenza, Progetto 2000, 2017, pp. 160, € 10,00


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EROTICA DI

MARIA GRAZIA LENISA E L’AVVINCENTE RICOGNIZIONE VOLTA A SUBLIMARE L’AMORE di Andrea Bonanno

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REDO che non possa riuscire difficile, a proposito di questa silloge poetica dal titolo Erotica, ristampata da LietoColle nel 2015, per nessuno il potere riscontrare che l’inventività lenisiana si snoda attraverso delle serrate commisurazioni, già presenti del resto in Terra violata e pura, ovviamente date in senso intuitivo e poetico, aventi l’obiettivo di poter rivelare dei significati sovrapersonali tra l’io-donna e l’ immaginario erotico collettivo esistenziale, sull’ effervescenza vitalistica ed energetica di una Parola/Poesia che in concreto dà l’abbrivio ad un processo di liberazione dai pregiudizi imposti e da inveterate menzogne derivanti dalla delirante ipocrisia di una società contraddittoria e fallimentare. In questa silloge poetica dal titolo Erotica, non è operante e ravvisabile alcuna sacralizzazione nei riguardi della Parola, che rimane solo un “inventario del giorno”

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(Ruoli), ossia uno strumento che può svelare delle acquisizioni oggettive, sempre aperto ed inesausto alla maniera bruniana e né maggiormente nei riguardi dell’erotismo fisico, che viene inteso come elemento di gioia, da liberare e rigenerare dai suoi feroci ed inquietanti rigurgiti di una aggressività spesso letale. La Lenisa mira a poter stroncare per sempre i pregiudizi, le idee mistificanti e le ricorrenti contraddizioni che gravano sulla condizione attuale dell’uomo e della donna, per poter ripristinare un loro amore puro, che in Arianna in Parnaso è detto che “non ha cuore nella mischia / dei corpi” e con esso liberare la bellezza dagli orrori della vita e dall’anima della donna, carica di perduranti violenze e di orribili soprusi. Così, dopo le molte sillogi poetiche edite antecedenti, che avevano visto la poetessa ancora giovane aderire al Realismo lirico, teorizzato dal compianto Aldo Capasso, come movimento di opposizione all’ermetismo declinante, nel nome di una poesia basata sulla immediata espressività del sentimento, libera da movenze mimetiche realiste e incentrata sulla dicibilità spontanea di un sentimento sincronizzato con i palpiti delle cose, si ha con Erotica, pubblicata prima in Francia nel 1979, nello stesso anno poi in Italia e, infine, riedita nel 2015, una prima fase di quella ricognizione commisurativa, la cui finalità riconosciuta da Toe Mercurio consiste in “una ri-generazione (amorosa, etica, ontologica, cosmica) (che) è in sintesi l’ergon dell’opera lenisiana”, sulla quale “spazia apparentemente fredda – l’ironia della poetessa, scrive il Defelice, che ha ben rilevato di Erotica fondamentali aspetti espressivi di un “erotismo rigenerato”7 . In effetti, Erotica costituisce un inedito tentativo della poetica lenisiana per liberarsi dalla giovanile e calcata effusività sentimentale commista a delle caratterizzazioni idilliache e, nel contempo, dalle tentazioni simboliche anacronistiche e da ogni sorta di assunzioni e velature estetizzanti. Così, nel sentire l’ urgenza di una poesia come pura energia vitali-


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stica (erotica, appunto), disciplinata da un pronunciato rigore classicistico, l’apre ad una pagina inedita, secondo quanto si è detto, il cui però linguaggio sensuale è stato percepito unicamente come conturbante dalle ipocrite coscienze di un moralismo imbevuto di un lascivo materialismo, nell’ottica di un poetico confronto della sua anima nei riguardi di una laica esplorazione della verità, nel dare l’ ostracismo a tutti i significati precostituiti e a tutte le menzogne banalmente consolatorie. Al di là della nientificazione montaliana e dell’annichilente ed esasperata scissione (spaltung) dell’io di tanti poeti del Novecento, fermi ai perduranti e falliti tentativi per accertarne una labile presenza o l’assenza, l’ io lenisiano, per lo più scandito come una voce impersonale o solamente accennata, dà luogo ad una ricognizione commisurativa sulle interrelazioni fra la vitalità inventiva dell’ energia della Poesia (erotismo dell’Arte) e le insulse configurazioni dell’eros fisico sorretto da un aberrante e feroce maschilismo. La suddetta silloge, nell’offrire una dizione piana e pacata, rifuggente da qualsiasi espressionismo urlato, delle eccelse immagini sostenute da scansioni ritmiche solenni, dissacra, con il darsi di una ironia bonaria, tutti i conformismi, gli svisanti significati di una fallace tradizione e le mistificanti menzogne seduttive diramate da tutte le insulse ideologie. Le sillogi de Il corpo individuale, de Il Dio anarchico e del Momento collettivo trattano della pesantezza dell’uomo (A piedi nudi): “Da secoli il tuo peso / che mi soffoca / sono fatta leggera dai rimorsi”, dei ruoli familiari, del sesso dell’angelo, dei miti infratti, dell’ incomunica-bilità dei due sessi, del sentire con il corpo i vivi palpiti della terra, della frigidità, della ferocia e della vanità esibizionistica e lucifera dell’uomo. Con l’intento di pulire a secco l’anima e lo sguardo si apre l’ altra sezione de Il Dio anarchico, in cui pregevole è la lirica dal titolo Voltata pagina: “Tieniti – disse- uomo / il prestito della tua costola”, come l’altra Chiamateci donne: “Noi, sgravate di tutto, un’ora ci basta / a dichiarare guerra, distruggere in noi / fedeltà a

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ciò che non s’ama”. L’iniziale poesia del Momento collettivo si apre con la seguente confessione della poetessa: ”Ho tolto la pelle dell’anima / per essere nuda”, che scopre l’incipit della ricognizione verificale e con l’altra lirica Il Dio che ti fece ne svela il fine: “Rinasci nuova finch’è è nuovo / l’uomo, …”, perché possa mutare anche la valutazione di ciò “che in altri tempi / si credeva un mostro”, come un grave peccato. Allora, è ben scoperta la tendenza, attivata e perseguita di continuo dalla poetessa, di una consapevole sublimazione ed umanizzazione dell’amore e dell’essere umano, sia donna che uomo, in tali liriche che emanano un’ intensa ed abbagliante luce di un suasivo spessore poetico, avallato da una dizione delicata, composta e melodica, per un canto officiato ad uno sperato riscatto della subalterna condizione della donna, reclamante per i due sessi un reciproco e solidale rispetto e una condizione paritaria, nel segno di un vero amore e di una profonda tenerezza dell’anima. Andrea Bonanno

ETERNITÀ La luce che rinnova la sua brace qui, stasera, in quest'ampia ansa del fiume, e filtra tra le nubi i suoi tesori, i filari degli alberi ravviva, mentre dorata e liquida discende ad abbracciare tutta la pianura. È tardi. I gelsi sognano. Le foglie sono un tenero invito. E tu sorridi alla pace che viene. E' qui l'eterno sembri dire, nel mentre alta ti stagli in un cielo che tutta ti racchiude. Questo mai più non sarà stato. (Brucia il tramonto in un lento arco i suoi voli). Questa è la nostra ferma eternità. Elio Andriuoli Napoli


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CARMELO BENE nei ricordi di Bruno Putignano di Giuseppe Leone

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ON una foto in copertina che ritrae un giovanissimo Carmelo Bene in giacca e pantaloni alla zwava, Bruno Putignano ha pubblicato, nel 2013, per i tipi della Libreria Pensa Editrice di Lecce, Carmelo Bene. Magia di un sogno. L’infanzia - L’ adolescenza. Un romanzo, a sua detta, per onorare l’amico nel decimo anniversario dalla sua scomparsa. col quale è stato anche compagno di banco nell’istituto dei Padri Scolopi di Campi Salentina in provincia di Lecce, dalla prima media alla maturità classica. Ne illustra “l’incredibile percorso artistico e letterario del geniale amico nel quale poteva già “constatare la sua spiccata propensione verso l’arte, espressa già con dovizia di particolari talvolta al limite dell’incoscienza …” e quel “suo inebriante percorso interiore da cui scaturiva un’intelligenza al di là del comune sentire”, tale da consentirgli di comprendere “a livello istintivo lo scibile umano … impensabile in un ragazzo di appena 13 anni”. Il tutto attraverso sette capitoli, nei quali l’ autore ricostruisce l’infan zia l’adole scenza, la personalità nonché l’itiner ario artistico nella poe-

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sia, nella letteratura, nella filosofia, nell’ arte drammatica, di un compagno di scuola che sarebbe diventato uno dei maggiori interpreti del teatro mondiale del Novecento. Eccolo, allora, immergersi nel mare magnum dei suoi ricordi e portare alla luce spaccati di vita studentesca di questo ragazzino “piccolo di statura, (da)gli occhi mobili e sempre svegli, lo sguardo profondo e penetrante; (che) tendeva spesso a isolarsi nelle prove d’esame, tanto da apparire “egoista e introverso” (9-10). Ne descrive qualità e caratteristiche che si ritroveranno operanti e attive nelle future creazioni artistiche del genio salentino. Di lui, Putignano rivela che “subiva mutamenti di umore improvvisi (15); che era abile ed ingegnoso ad intonare una voce diversa da quella che possedeva variando di converso il timbro (20); e che, della poesia, di cui già a quell’età era un lettore fervente e appassionato, forniva un’analisi diligente in ogni sua parte (21); che diventava a volte ironico e burlesco, mordace e sferzante deliziandosi in espressioni satiriche e sentimentali (21). Ma non solo, racconta anche che “per vivere gli era sufficiente l’“Immediato” (23); che “studiava poco e quel poco … lo apprendeva ascoltando la lezione o dalle nostre ripetizioni” (28); che “un giorno chiese al professore d’italiano di essere interrogato su di una poesia che non faceva parte del programma di quell’anno scolastico” (31); e ancora, che “salì sulla sedia … si concentrò adeguatamente, inspirò profondamente … e declamò la poesia A Silvia” (35);); che “dopo qualche giorno manifestò il desiderio di recitare un atto di Giulietta e Romeo” (39); oppure, dopo avere “all’improvviso avvertito di possedere una bella voce, che lanciò le note di E lucean le stelle” (43) e “annunciò che avrebbe cantato Core ‘ngrato” (45); infine, che era appassionato del cinema (50), per il quale pensava già a una sua diversa maniera di farlo (57). E passando, poi, alla personalità, ne sottolinea l’ego smisurato (70), la mania di “obbligare gli astanti ad osservare con attenzione il suo dire” (73) e la megalomania, che gli fa-


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ceva dire, già a sedici anni, “diventerò un grande” (75); ma anche virtù, come la capacità di osservare “gli avvenimenti della vita fino all’analisi completa del tutto e al discernimento necessario” (91); l’attenzione, che “si sostanziava come presenza di un’idea fissa imposta alla coscienza dal mondo esterno” (97); la percezione, che permetteva a Carmelo di apprendere “con facilità istintiva” (103) e l’intelligenza “vivissima” (104), coadiuvata da spirito critico (112) e memoria, “asse portante della sua personalità, da cui poter trarre gli strumenti interessati e preordinati al fine di raggiungere i suoi desideri” (120). Quanto poi, al suo itinerario artistico nella poesia, nella letteratura, nella filosofia e nell’ arte drammatica, lo scrittore cita i nomi degli autori maggiormente amati dall’artista, perlopiù letterati e poeti dei programmi scolastici, accanto ad altri, come Baudelaire, Poe, Dostoevskij, Hemingway, Melville, Shakespeare, riferendo di ciascuno di essi i commenti di Carmelo, dai quali traspariva una mente prodigiosa già in pieno fermento e attività. Quello che colpisce, allora, sfogliando le 632 pagine di questo ponderoso volume “che tratta tutto di lui” (69), almeno relativamente alla prima giovinezza, è l’enorme mole di informazioni, in certo senso esclusive e inedite, se si considera che Putignano è cronista in zona franca di Carmelo Bene - si fa per dire – che non dispone di altre fonti letterarie e bibliografiche se non la propria testimonianza. Una condizione, questa, che potrebbe giustificare in qualche modo la totale assenza di note che attestino la provenienza delle fonti e delle affermazioni in questo testo, che non è un saggio, ma neppure un romanzo, come provocatoriamente lo definisce l’autore stesso. Del romanzo, in particolare, mi pare che ne abbia molto poco e Putignano, forse, avrebbe reso al suo lavoro maggiore giustizia se l’avesse definito un diario o più semplicemente “ricordi”, poiché a questo sembra rimandare l’opera, formalmente, anche a certi dialoghi di Platone e a certo Cicerone delle Tusculane.

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Tutto meno che un romanzo, allora, questo libro che forse sarebbe piaciuto a Carmelo Bene, insofferente com’era dei rituali della critica italiana. Sarebbe piaciuto per l’aspetto barocco del suo stile e il barocco, moda stravagante e paradossale, piaceva a Carmelo, soprattutto a lui, che era un poeta di contestazione. Ma gli sarebbe piaciuto sicuramente per un particolare che lo riguarda, per la presenza-assenza di cui gode in questo testo: tutte le volte che si parla a proposito di questo o quel poeta, di questo o quel filosofo, Putignano dosa i commenti sulle opinioni che furono del geniale artista. Eccone un esempio: “Nell’ opera Carmelo notava un linguaggio più leggero” (152); “A parere di Carmelo, il carme era un’opera mirabile” (154); “Ma l’arte, a parere di Carmelo era sempre visibile” (207); “Disse che era nato a Reggio Emilia” (222); “In quest’opera Carmelo notava come …” (224); “Riteneva Carmelo che di tutta l’ opera…” (391); “Affermava Carmelo che il personaggio …” (416); “L’opera che lo rese famoso … che, a parere di Carmelo, costituiva …” (425); “Nelle rappresentazioni i contenuti essenziali, spiegava Carmelo, erano…” (515); “Iniziò a parlare tra di noi di quest’opera” (525); “In questa tragedia Carmelo notava pagine …” (613). Un ossequio, allora, non un romanzo, questo testo di Putignano; uno scritto con protagonista un maestro, non un semplice amico; un riconoscimento, non un elogio; un’ evocazione, non una commemorazione. Tutte queste cose insieme per dire che se lo scrittore ha esagerato nel chiamare questo suo libro romanzo, non s’è affatto sbagliato nel sottotitolo a definirlo Magia di un sogno. Suo o di Carmelo? Di tutti e due, direi: suo, perché con questo libro lo scrittore realizza il desiderio di ricordare l’amico, covato, nella sua mente, per moltissimo tempo; di Carmelo Bene, perché solo raramente è stata riconosciuta la genialità della sua arte. Giuseppe Leone Bruno Putignano - Carmelo Bene Magia di un sogno- L’infanzia – L’adolescenza Libreria Pensa Editrice, Lecce 2013 - € 22.00. Pp. 632


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PIERA BRUNO: ALLA SOGLIA DELL’OLTRE di Liliana Porro Andriuoli

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OPO alcuni anni di silenzio, con un libro di versi bilingue italianoinglese, intitolato Alla soglia dell’ Oltre (De Ferrari, Genova, 2017), è tornata a noi Piera Bruno, poetessa e narratrice di talento, operante da molti anni i Liguria. (La traduzione in inglese è opera dell’anglista Benito Poggio, che è anche poeta e critico letterario, ben noto per la sua recente ed apprezzata traduzione di Spoon River). Un evento, la pubblicazione di questo nuovo libro da parte di Piera Bruno, che da lungo tempo attendevano tutti coloro che hanno seguito per quasi quarant’anni la sua produzione letteraria. Sicché, se ora la stessa Bruno nella Presentazione dell’autrice può scrivere di sentirsi “lieta, quasi commossa” per aver donato “alle lettrici e ai lettori che non l’ hanno dimenticata” questi suoi testi, ella non immagina certo, nella sua proverbiale modestia, quanto altrettanto lo siano anche quelle “lettrici” e tutti quei “lettori” che hanno sempre seguito con vivo interesse e grande affetto

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il suo ormai lungo iter letterario. E non sono certo pochi i “lettori” e le “lettrici” che dai primi anni ’80 ricordano ancora oggi poesie quali 1945: Antonio, in cui un dramma viene narrato con estrema spontaneità e concisione (“A cavallo del breve muretto / la piccola mano armata di un sasso / l’ignoto mistero tentavi / dell’ordigno di guerra: / … / ammonivi: «Conterò fino a tre. / Attenti allo scoppio»; ma non / giungesti a finire la conta…”) o 1973: Isabella, che racconta di un altro destino spezzato per una fatalità del tutto imprevedibile: quella di un disastro aereo, nel quale a morire (“hostess perita nella sciagura”1) è una sua amica, casualmente incontrata solo pochi giorni prima. Come non sono pochi coloro che ricordano Val di Zelve2, una poesia che ci conduce a Zelve (un paesino della Cappadocia non lontano da Göreme, cittadina famosa per i suoi “camini delle fate”), dove è possibile godere la vista di un paesaggio incantato, aperto su montagne di tufo rosato che conferiscono a quel luogo un fascino veramente “fuori del tempo”. Oggi è completamente disabitato, ma nei tempi antichi Zelve era un villaggio rupestre, con chiese e abitazioni scavate nella roccia. E proprio in virtù di quel suo lontano passato, in cui era noto per essere un importante centro religioso, ed in virtù di quelle chiese e di quei monasteri, Zelve presenta attualmente un grande interesse non soltanto culturale, ma anche turistico. La Bruno così lo ricorda: “Nel velo dei mandorli in fiore; / … / sembrano argento i camini / e le guglie rupestri / inviti fuori del tempo / le soglie ecclesiali”. E nemmeno sono pochi quelli che ancora oggi ricordano l’emozione in loro suscitata dalla lettura della prosa introduttiva di Petit Rien3, dove si legge: “Per nove giorni, trascorsi in unica dolorosa sequenza, ho interrogato l’anima e umiliato la ragione, ho tortura1

Entrambe le poesie sono apparse sulla silloge: Tempo rubato, Genova, Sabatelli 1981. 2 Liguria quasi una patria, Edizioni Sabatelli, Savona 1983. 3 Genova, Ed. Ecig 1990.


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to il presente e dissepolto il passato, per inventare l’alibi, l’errore, il piccolo nulla sufficiente a trattenere mio padre su questa terra”; oppure a ricordare versi quali: “La notte ha coltelli / e stiletti / ha lame acute e smerigli di vetro” (La notte ha coltelli). E molte altre ancora potrebbero essere le citazioni in proposito. Mi sembra ad ogni modo che già da queste poche esemplificazioni si possa arguire l’esattezza del giudizio di Bruno Arcurio, il quale, a proposito di Petit Rien, ha scritto: “Tutto [nella poesia di Piera Bruno] è ammirevolmente organato e compatto. Ruota con i rintocchi e con lo stillicidio di quelle ore, in quel luogo di dolore per una lunga settimana di un autunno mortale e si dilata, si affaccia su ricordi di vita ora lieti ora tristi sempre nella direzione vittoriosa dell’ essere, del voler essere”4. E si può anche facilmente comprendere come Graziella Corsinovi nella sua Prefazione allo stesso libro abbia potuto dire: “Accanto ad una potenza espressiva che ci sorprende talvolta come un’onda di irruente divenire lirico, è presente un registro di immagini di raffinatezza preraffaellita, in cui traspare sia la trasposizione culta del reale sia una levigatezza sognante che è un altro cotè dello stile della Bruno”. Ma lasciamo il passato e veniamo a questo nuovo libro di Piera Bruno, forse più precisamente a questa sua Antologia, dal momento che, accanto a poesie di data più recente, ne figurano alcune già pubblicate in sillogi precedenti, ma che qui meglio le possiamo gustare nella pregevole traduzione in inglese di Benito Poggio. Si nota subito che la principale caratteristica di quest’Antologia è quella di un assorto rammemorare, dato che in essa la Bruno torna più volte con la mente al tempo andato, facendo riaffiorare così volti ed istanti preziosi della sua vita. Poesia di luoghi visti ed amati, dunque, quella qui raccolta, come del resto quella di tutta la produzione di Piera Bruno; ma anche poesia di care memorie legate a persone con le quali ha avuto consuetudini di 4

Quarta di copertina di Petits Riens.

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vita; ed infine poesia di meditazioni sul presente e sull’Oltre, da cui trae spunto per delle liriche profonde e intense. Se tutto ciò appariva chiaro sin dai suoi primi libri, lo appare ancor più oggi da questo suo recente, Alla soglia dell’Oltre, dove troviamo raccolta una scelta cospicua della sua produzione. È, ad esempio, quanto emerge da Viale Priocco: Anni Trenta (racconto), nel quale alla mente della Bruno ritorna il cancello d’ ingresso di una bella villa piemontese (il “palazzo sul fondo, / magione di ricchi, stupore alla povera gente”) e rivede una graziosa bimbetta che, con le “manine alle stecche del cancello”, guarda ammirata i fiori illuminati dal “sole marzolino”, fioriti lungo i lati del sentiero che “ascende/al fasto azzurro e bianco del palazzo sul fondo”. Ed anche oggi ripensando a quel momento rivede il “tripudio” di quei “petali … violetti aurati” e, lasciandosi trasportare sulle ali del ricordo, riode ancora la voce di quella bimba che, con l’ irresistibile curiosità dei bambini della sua età, chiede alla mamma il nome di quegli splendidi fiori, sbocciati lungo il viale della villa. “Son viole del pensiero” era stata la risposta della madre. Ma lei ne era rimasta “contrariata” non essendo riuscita a capire cosa significasse “pensiero”: ed a nulla era servito il tentativo materno di renderglielo più facilmente comprensibile: “Ardue parole e la bimba davanti/al bel giardino ancora non le intende / e l’irrisolto nodo consegna / al suo futuro. / Germoglio di mistero nel trionfo / di lucide crome, di voli di aromi le viole: / celato, non lasso blandimento / alla pietra del pensiero”. In modo analogo si riaffaccia alla mente di Piera Bruno il ricordo di altri luoghi dove più o meno a lungo ha soggiornato, come è di alcune località della Libia (di Tripoli e in particolare de L’oasi di Tagiura) e il ricordo della Turchia, dove ha lavorato come addetta all’ Istituto Italiano di Cultura e uzman di Letteratura italiana nella Facoltà di Lettere ad Ankara. E specialmente la Turchia è il Paese che le è rimasto maggiormente nell’anima e che sovente riaffiora in lei con il ricordo di magiche città e di meravigliose contrade.


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Si vedano ad esempio i versi in cui ricorda Ankara: “Angeli biondi e grigi / colombi iridati nell’aureo / tramonto scorrono il cielo. / Poi, ad un cenno si annerano / i suoni della vigilia / e la città cede al sonno” (Kurban Bayram: Ankara). La poesia è scritta per una festività tipicamente islamica, il Kurban Bayram, che ricorda il mancato sacrificio di Isacco. E si vedano anche i versi in cui a essere ricordata è Istambul, l’antica Costantinopoli, con il suo Corno d’Oro, la cui immagine emerge con meravigliosa evidenza dai versi dell’incipit della poesia omonima: “Andare in un mare d’argento / in lenta calma verso la soglia / sbalzata d’oro che si allontana / al fruscio della barca che avanza…” e forse ancor meglio da quelli dell’explicit: “…il Corno d’Oro / sovviene tra mente e menzogna / disegno di Immenso sutura / all’anello spezzato di un / sogno…”. Vivo è anche in lei il ricordo di alcuni luoghi di particolare fascino e suggestione, per le antiche età che evocano, come quelli in cui sorgono le Chiese rupestri: “Nella notte di Ürgüp il cielo inclina / sotto il peso delle stelle” e poco oltre così termina: “Vanisce la notte di Ürgüp, si apre l’azzurro, / la fuga dell’ aria difende dal tempo // gli odori di pane di latte di madri di bimbi / le orme dei miti animali i santi distesi; / deflagra al tuo cenno amica parola, audacia / di rito che s’infutura”. Siamo qui a Ürgüp, paese che, durante il periodo bizantino, è stato il centro del patriarcato di Cappadocia e ai nostri giorni è uno dei centri turistici più importanti della zona, proprio in virtù di quelle sue caratteristiche “chiese rupestri”, ricavate nella roccia (si veda anche la poesia già precedentemente citata Val di Zelve). Tra le memorie dei vari luoghi in cui Piera Bruno è vissuta non potevano mancare quelle della Liguria dove, pur essendo lei piemontese, “ha studiato ed ha vissuto la sua lunga vita”. L’amore per questa regione affiora ad esempio in Liguria quasi una patria, una poesia che riprende il titolo di una delle sue prime sillogi e dalla quale questa regione emerge in tutta la sua bellezza: “Gerani fioriti

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a gennaio / in un balcone sospeso dove / all’ esalare dell’ombra / la bruma del mare si volge / a flabello di luce”. Il paesaggio ligure emerge qui con immediata efficacia. Ma la bellezza che la Bruno vi coglie con la sua poesia non è puramente esteriore; si tratta bensì di una bellezza che tocca l’interiorità e si fa profondo sentire, perché parla al cuore di chi sa guardarla: “… gerani / sbocciati d’ inverno, / gemme smorenti in un’ora / eppure viatico dolce / sul lubrico varo e rito / fraterno al cammino / del non-ritorno”. Molte altre sono poi le poesie sulla Liguria che avevamo letto in passato e purtroppo qui non sono inserite. Si veda ad esempio Gènes, una poesia dedicata a Genova e scritta da Piera Bruno direttamente in francese: “Quelques églises rue garibaldi / le tertre de carignano l’emblême / byzantin de Saint Georges sur / les portails d’ardoise les filigranes / rouges noire azur…”, versi dai quali la città emerge in tutta la sua suggestiva bellezza. E si veda ancora un’altra poesia in italiano, dedicata a La Lanterna, che di Genova è il simbolo, la quale così inizia: “Figura d’aria una Lanterna siepi / diverse sovrasta gru ponti container / castelli di nave e non teme la sfida / di antenne e di asfalto l’opaco cemento”. Entrambe le poesie sono tratte dalla miniantologia Segni, Lettere e suoni5, pubblicata dalla Bruno nel 2002. Il riaffacciarsi della vita vissuta non poteva però riguardare soltanto luoghi visti ed amati, ma doveva necessariamente comprendere anche le persone che le erano state vicine negli anni, com’è della presenza di una figura maschile che fa ritorno dal passato e che si affaccia nella poesia Feria di Ramadan, la quale inizia con questo verso: “Ridendo del tuo riso fanciullesco” e si sviluppa con sicurezza di tocco, tra sorriso e tristezza. Ma il ricordo può anche avere per oggetto un evento tragico, come quello della morte di un soldato, che troviamo nella poesia intitolata Al primo caduto nella guerra del Golfo (un titolo che ricorda Sereni), dove quel fatto suscita un sen5

De Ferrari.


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timento di pietà per quella morte; una pietà tuttavia mista all’indignazione di fronte alla crudeltà della guerra: “Marcescente di sangue la terra lo rigetta. / E intorno l’erba annera: obolo ambiguo, / robiginoso mito l’ultimo asfodelo. / Chiazza malfida sulla sabbia anche / lo spasimo del primo designato”. In questo libro, tutto strutturato, come abbiamo detto, sul motivo del ricordo, s’ incontra anche il doloroso rimpianto di amici che hanno varcato la soglia dell’Oltre, emergente da poesie quali 1978: B.C. da cui affiora l’ immagine di un “collega alla Metu”, ucciso dagli avversari politici: “Nel nome della libertà ti uccisero. / In classe”. Né manca il ricordo di grandi creatori di opere d’arte ormai scomparsi, come il regista Frank Capra, che così altamente seppe parlare al suo spirito: “Delle speranze che davi in bianco / e nero il pubblico ringrazia. / Io mi congedo da te e temo / il vissuto domani…” (In memoria di Frank Capra: Congedo). Anche le ultime due poesie del libro rievocano sin dai loro titoli due persone care all’ autrice: il nonno e il padre. Nella prima la Bruno ricontempla luoghi nei quali lei e il nonno vissero, e la sua mente tutta s’accende nel loro ricordo: “Spalancata corolla l’albero / del melo e soli accesi / i frutti. Nel cobalto del cielo / l’esperta filigrana annoda / piume e fronde, ridisegna / un abbrivio di rondini in volo” (Nel giardino del nonno). Nella seconda poesia è l’immagine del padre che riaffiora, con il rintocco dei bastoni che li sorreggevano nell’ascesa, e che ancora oggi hanno una profonda eco nel suo cuore: “Alla cadenza uguale dei nostri / passi umani – non ha misura il rintocco / del bastone che ci sorregge…” (Al Monte Antola con mio padre). Con questi rintocchi si chiude un libro che colpisce profondamente il lettore per il suo messaggio di sofferta e pensosa umanità. Un’ultima osservazione merita la poesia Ansia di Paradiso in cui la voce della Bruno diviene più intensa e dalla quale emerge quell’“insaziabile fame di verità” e quell’ “inesauribile sete di Assoluto” di cui parla Benito Poggio nella sua Prefazione alla rac-

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colta; un’ansia di trascendenza che in realtà trapela anche da diverse altre poesie di questo libro. Infatti, come giustamente osserva Poggio, quella della Bruno è “una poesia che sa di anima, di evasione dal limite e di tensione metafisica”: “Fossi certa che esiste un Paradiso / … / … lo vorrei viale di platani, / i tronchi saldi, senza scaglie lucidi” (Ansia di Paradiso). Né poteva inoltre mancare in questa raccolta una poesia che contiene come il presentimento della morte, contemplata però non con sgomento, ma con distacco, come è di Un giorno: “Un giorno che non so quanto vicino / ma non importa / i miei occhi si spegneranno al luminìo / di una notte di agosto…”. Puntuali ed efficaci appaiono qui le traduzioni di Benito Poggio che conferiscono maggior risalto ai testi in lingua. E di questo avviso è anche Piera Bruno, la quale, nella sua Presentazione, scrive in proposito: “Le sue traduzioni hanno colto con assoluta proprietà, non scevra di apporti di ricercatezza formale, visioni e memorie a vantaggio di «varietà» e sostanza testuale”. Oltre che alla traduzione, un cenno va fatto anche all’“estesa e sagace” Prefazione di Benito Poggio, secondo il quale “con particolare e profondo acume critico”, “ha passato in rassegna, con assoluta cognizione di causa, le più cospicue motivazioni del poetare” di Piera Bruno, “cogliendone anche le valenze più celate”6. Vorrei concludere questo mio ricordo della poesia di Piera Bruno con un giudizio espresso da Enrico De Nicola: quella di Piera Bruno è una poesia “caratterizzata da una ripresentazione di linguaggio attenta e proficua e ricca di suggestioni esotiche, non certo proposte come motivo eccentrico di richiamo, ma piuttosto come efficace occasione per dilatare in latitudini inusuali l’essenza sofferta del nostro tempo e la solitudine dell’uomo7”. Liliana Porro Andriuoli PIERA BRUNO: ALLA SOGLIA DELL’OLTRE De Ferrari Editore, Genova, 2017, € 14,00 6

Le espressioni virgolettate sono di Piera Bruno, da Presentazione dell’Autrice, p. 6. 7 Alla soglia dell’oltre, Briciole di critica, p. 84.


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AURORA DE LUCA RESTA MIO POESIA DI SILENZIO E SUONO di Salvatore D’Ambrosio

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H, la bellezza degli anni con lo sguardo rivolto al futuro, che fa pensare e dire di ogni cosa sei mio, e soprattutto: RESTA MIO (Convivio Editore, 2017). Resta mio tempo sopra ogni cosa. Resta infinito, in movimento, ma immobile al tempo stesso: perché le cose che sono accadute e continueranno ad accadere rimangano cristallizzate, ferme in un tempo che sia inequivocabilmente il mio. Il tempo si conta a ore, diventa poi quello dei giorni, che diventano mesi e questi calendari. I calendari ci grideranno poi che nessun tempo è infinito e si cercherà di vendemmiare/ tempo d’attesa e acini di stagioni. Un dono inatteso e originale è stato il calendario poetico, che Aurora De Luca mi ha spedito per il nuovo anno 2018. Sono 52 pagine divise in due parti. Nella prima : Una poesia al mese, accanto allo scandire dei giorni, pochi brevi versi con l’intenzione, non sempre centrata, di raccontare gli umori del

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relativo mese. Troviamo così, come in un Cantico delle Creature, la conoscenza del vento che libero va per i posti del mondo, ritornando sempre carico di nuovi profumi di terre lontane. Troviamo le attese e le aspettative di un mandorlo in fiore, l’ubertosità del ritorno della ciclica primavera in Marzo, o ancora la fantasmagoria di colori di cui si veste Aprile, o della calma struggente che porta il vento di Maggio. La brina delle fresche e infinite mattine che sembra regalarci Giugno; la luce tagliente di Luglio che offende la vista; la salsedine di Agosto che riveste di nuova pelle i corpi persi, fosse anche solo col pensiero, tra mani adorate e adoranti. Settembre, poi, che già fa pregustare l’ approssimarsi dell’autunno, dona la tranquillità di un campo messo a maggese, incolto ma conservato fino alla prossima raccolta di gustosi frutti. Poi, come per ognuno, arriva il momento della vendemmia di Ottobre che spoglia di ogni cosa, ma lascia indelebile l’odore del trascorso. Cadono infine in Novembre gli ultimi frutti, che anche se non colti tornano alla terra dalla quale sono nati. C’è poi in Dicembre, come accade in ognuno, questa voglia nostalgica del mare. In questo mese il mare è struggente e bellissimo. Direi che è il tempo in cui i poeti lo amano di più. Il mare d’inverno ci porta lontano con la voglia di abissi da scalare; ci riempie di pietà e di tenerezza per tutte le cose che vengono a spiaggiarsi sul labile confine, dove esso è arrivato con la sua forza di vita in movimento. Tutto questo però Aurora lo dice metaforicamente, ponendosi ella stessa in confronto con i mesi. Da Gennaio a Dicembre si veste dei panni delle varie stagioni. Ella è vento di labbra che sussurrano parole d’amore e non necessariamente. È botticelliana primavera, immobile nella sua bellezza che attende qualcosa che forse non verrà. Si sente umifera terra pronta a farsi arare. Mentre la sua pelle profuma del fiore dei suoi


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anni e, al vento del desiderio, va oltre il pudico rossore: colorandosi di viola. Così è: salsedine, campo incolto, profumo e sapore di terra, frutto di pianta cedevole della sua stessa sostanza alla terra da cui proviene. Nuvole, baci, respiri, slanci, sale, occhi adoranti, sguardi puri che vanno oltre il cielo della gioventù. Questo bellissimo dono natalizio ha poi una seconda parte che raccoglie, sotto Antologia Poetica, 19 liriche, quasi tutte già pubblicate, che sono idealmente la continuazione delle metafore espresse in quelle affiancate ai vari mesi. Non si rispetta però una continuità, un filo, un afflato; bensì c’è un roco sottofondo del respiro … un roco rombo del petto. Troviamo in queste poesie la vera Aurora, ossia la giovane donna innamorata non solo del suo uomo, ma la donna innamorata delle parole che si concretizzano in poesia. Ci leggo l’amore per la natura, che è forte quasi a costringerla a un legame più profondo e sentito rispetto a quello per la persona amata. Ama il silenzio e il ritmo; i ghiacciai e i deserti; i mari e le praterie. Perché lei dice che è del tutto umano questo canto. Ci esorta la Poetessa ad essere nuvola che si muova; a condurre la vita come una giacca fatta sulla nostra misura, poiché abbiamo impastati e scissi tutto dentro. Siamo e dobbiamo essere frutto della nostra stessa essenza. Siamo umanità che deve tendere a restare tale. A restare noi stessi, essere silenziosa alleanza di tempo e ore. Bisogna non dimenticare, dice Aurora, di essere cellule passeggere, poiché la nostra vita non è che un attimo, per cui si deve operare affinché rimanga qualcosa di buono nelle nostre mani. E perché no, anche da lasciare a coloro che verranno dopo. C’è la speranza in questa sua piccola antologia, la volontà di essere vita nuova sulle macerie di un mondo che, almeno all’ apparenza, sembra avere perduto ogni legame con la realtà umana. Si avverte l’urgenza di essere amati e di amare. Senza questo sentimento non si va da nessuna parte. Ci dice che è su questa terra

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che dobbiamo spenderci nell’amore, perché se non lo si fa adesso e qui, non ci sarà un altro posto dove poterlo manifestare, eternare. L’amore, quello eterno, non è solo e da confondersi con quello che vede protagonista sempre e solo la carne, specialmente giovane e che ha le sue urgenze. L’amore è un dono di tutti, ma deve avere la A maiuscola. Deve nutrirsi anche di silenzi, poiché è tramite questi che ci avviciniamo alla conoscenza del tempo senza averne paura. Ma non basta il silenzio; esso va ascoltato e solo allora ci si accorge che è carico di suoni e di voci, a volte impercettibili da sembrare un po’ troppo lontani. L’errore, inoltre, consiste nell’affidare troppo spesso alla carne la sublimità di quell’aura che ci circonda, dimenticando che la materialità, di cui siamo fieri, ad ogni passo ci impedisce di vederla. Una soluzione Aurora ce la suggerisce in apertura del suo poemetto. Ma più che una soluzione credo sia una sua profonda convinzione, che poi è convinzione di tutti quelli che scrivono, che manipolano parole, che hanno urgenza affabulatoria. Queste strane creature che sono neri di parole, come dice la Poetessa e che hanno necessità di lasciare segni nei cuori in cui abit(an)o, sono i poeti che, pur di far vivere la poesia, accettano qualsiasi emarginazione, qualsiasi dolore o sofferenza, qualsiasi scherno, qualsiasi umiliazione purché viva Poesia. Dunque poesia; pensiero; elevazione dell’ animo oltre la povertà delle quotidiane azioni; sentimento; coraggio di dire anche inascoltati. Inchiostro al posto del sangue affinché il poetare, il verso, resti sempre elemento vitale in chi scrive, in chi si fa fratello di Calliope, Talia, Erato, Euterpe: abbandonandosi a loro a secondo dello stato d’animo del momento. Del più profondo sentire. Resta mio, è il grido della De Luca, e ha quasi il sapore di un grido di dolore, d’ implorazione affinché, in primis lei, non venga mai abbandonata dal dire tutto il dicibile, con il tramite della parola scritta poetica. Salvatore D’Ambrosio


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NATALE LUZZAGNI: TANTO VALE VIVERE di Elio Andriuoli

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EL dicembre 2016 è apparso in libreria un volume di Natale Luzzagni dal titolo Tanto vale vivere, che tratta del suicidio nel mondo letterario; un argomento che subito appare di molto interesse e che è stato trattato dall’autore con competenza e serietà di analisi. Il suicidio, in quanto fuga dalla vita e quindi sua ripulsa, è stato variamente considerato nei secoli. Presso i Romani rappresentava una dimostrazione di coraggio e di integrità morale da parte di coloro che non volevano rinunciare alla propria libertà, come fu il caso di Catone Uticense. Dopo l’avvento del Cristianesimo il suicidio venne inteso come un grave peccato contro Dio e i suoi doni, sicché Dante pone i suicidi nel settimo Cerchio dell’Inferno, dove incontra Pier delle Vigne, che fu al servizio di Federico II di Svevia e Giudice della Magna Curia Imperiale, uccisosi, secondo Dante, a causa delle false accuse rivoltegli di abuso delle sue funzioni, che provocarono l’ira dell’Imperatore, il quale in seguito ad esse lo fece accecare. L’episodio però rimane incerto. Ciò che invece appare palese è il diverso modo di valutazione de suicidio da parte di Dante, il quale condanna il gesto compiuto da Pier delle Vigne perché mosso da un risentimento personale, generato dal torto subito, mentre esalta il suicidio di Catone (che Dante pone a guardia dell’ingress o nel Purgatorio, benché fosse anche lui suicida) perché co-

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stui si tolse la vita per sottrarsi alla vendetta di Cesare, da lui avversato, che minacciava le libertà repubblicane. Oggi si ha maggiore indulgenza verso i suicidi, pur considerando sempre il loro gesto come abnorme e insano. Del suicidio si sono occupati insigni studiosi, come Sigmund Freud, neurologo, psicoanalista e filosofo austriaco, che ne ricercò le cause e la possibile prevenzione, mentre altri, come Emile Durkheim, sociologo, antropologo e storico delle religioni francese, lo hanno considerato dal punto di vista sociologico. Ciò che conduce al suicidio è comunque, come osserva Luzzagni, innanzi tutto la malattia senza speranza; ma non minore importanza nell’indurre il soggetto a privarsi della vita sono la perdita di una persona cara, la delusione amorosa e l’insuccesso professionale. Sovente poi il suicida agisce per compiere un atto di protesta o comunque per attirare l’ attenzione degli altri su di sé. Natale Luzzagni ha scelto cinquantasette poeti e narratori che hanno concluso la loro vita con il suicidio, appartenenti per lo più al Novecento, a cominciare da Carlo Michelstaedter, goriziano, del quale Luzzagni riporta una lettera alla madre in cui l’autore dimostra un alto sentire. Segue Emilio Salgari, il cui suicidio viene fatto risalire all’eccesso di lavoro al quale questo scrittore dovette sottoporsi per esaudire le richieste degli editori, nonché alla pazzia della moglie, che provocò il suo tracollo finale. Di Primo Levi, già deportato ad Auschwitz in quanto ebreo, Luzzagni evoca il suicidio, da lui compiuto lanciandosi nella tromba delle scale del palazzo torinese nel quale abitava. L’evento fu raccontato diffusamente da Guido Vergani in un articolo su “Repubblica”. Vengono poi Guido Morselli, Lucio Mstronardi, Franco Lucentini e tanti altri, sui quali qui non possiamo soffermarci per ragioni di spazio. È da segnalare però il capitolo che Luzzagni dedica a Lucio Mastronardi, per l’ accuratezza dell’analisi e la completezza dell’informazione. Nel capitolo che ricorda la figura dello scrittore Franco Lucentini, suicida per una grave malattia polmonare, c’è


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inoltre l’evocazione commossa di chi partecipa all’altrui sciagura con umana pietà e con autenticità del sentire. Luzzagni dimostra infatti di compenetrarsi pienamente con i personaggi che evoca, come è il caso di Marina Ivanovna Cvetaeva, della quale fa riemergere la vicenda che la portò al suicidio; vicenda fatta di violente passioni e di conflitti insanabili col Regime sovietico, che tuttavia non le impedirono di toccare altissimi traguardi d’arte. Così è pure di Virginia Woolf, scrittrice di grande talento, della quale Luzzagni fa rivivere la “morte per acqua” e della quale viene presentata l’immagine con fine intuizione psicologica. In questa galleria di scrittori suicidi non poteva mancare Edgar Allan Poe, autore di racconti e poesie che ebbero grande risonanza, come I racconti del mistero e Il corvo. Qui viene presentato nel momento finale della sua vita, che si concluse tragicamente, in seguito ad un’intossicazione da alcool, come per lo più si crede. Sul suicidio per impiccagione di Sergej Esenin, grande poeta russo, vissuto dal 1895 al 1925, si nutrono non pochi dubbi, per le circostanze in cui avvenne, che fanno piuttosto pensare ad un omicidio per ragioni politiche. Quanto a Vladimir Majakovskij, poeta anche lui di molto valore, aderente al Partito Comunista Sovietico, è invece accertata la morte volontaria, per mezzo di un colpo di pistola al cuore, benché anche in questo caso dovettero giocare un ruolo decisivo le condizioni della società sovietica negli anni successivi alla Rivoluzione di ottobre. Un suicidio che ebbe molta risonanza fu quello di Ernest Hemingway, che si uccise con un colpo di fucile in bocca. La sua morte fu certo dovuta alle precarie condizioni di salute in cui si trovò negli ultimi tempi della sua vita, dato che a lui non mancarono i riconoscimenti letterari, culminati con il Premio Nobel conferitogli nel 1954 per il suo libro Il vecchio e il mare. Altri suicidi, come quello dello scrittore Arthur Koestler, scrittore ungherese naturalizza-

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to britannico e quello dello scrittore polacco Jerzy Kosinski, naturalizzato statunitense, furono causati dallo sradicamento dalla loro Terra di origine. Sono anche da ricordare, tra i casi di suicidio di cui parla Natale Luzzagni, il quale mette in luce di ciascun autore la personalità e le ragioni del gesto compiuto, scrittori quali Jack London, Yukio Mishima, Henry de Montherlant, Cesare Pavese, Sylvia Plath, Antonia Pozzi, Amelia Rosselli, Sara Teasdale, Stefan Zweig, ecc. Luzzagni inserisce poi nel suo libro una serie nutrita di pensieri, tratti da autori celebri, sul suicidio, come questa di Albert Camus: “Bisogna amarsi molto per suicidarsi” o quest’altra di Lucio Anneo Seneca: “Non importa morire presto o tardi, ma morire bene o male; morire bene significa sfuggire al pericolo di vivere male” Seguono le Istantanee, ritratti di suicidi tendenti a fissare la loro personalità in modo da far meglio comprendere le ragioni della loro rinunzia alla vita. Il libro si conclude con alcuni dati statistici sui letterati suicidi, che riguardano il sesso e le modalità con le quali si uccisero, cui fa seguito l’elenco delle loro opere. Precede il volume, di oltre trecento pagine, una prefazione di Stefano Valentini, che ne mette in luce egregiamente il senso e il valore, consistenti innanzi tutto nella capacità dimostrata dal suo autore di “riportare rigorosamente i fatti biografici con il piglio e la vivacità di un racconto d’invenzione”; il che rivela anche in lui non comuni virtù di narratore. Accompagnano Tanto vale vivere una fitta serie di immagini riguardanti gli autori trattati, colti in maniera da darci un’idea piuttosto esaustiva della loro personalità. Ne risulta un’opera di notevole pregio, che indaga a fondo un argomento di non poco interesse, per la sua specificità e per l’ampiezza della ricerca compiuta. Elio Andriuoli NATALE LUZZAGNI: TANTO VALE VIVERE.BREVE RASSEGNA SUI CASI DI SUICIDIO NEL MONDO LETTERARIO - Venilia Editrice, Padova, 2016, € 18,00


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Un’Antologia letteraria dedicata al Poeta lucano

Leonardo Sinisgalli dal suo conterraneo

Francesco De Napoli

DOVE I FIUMI SCORRONO LENTI di Luigi De Rosa

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RA i libri usciti negli ultimi tempi, ce n’è uno particolarmente prezioso per i cultori esigenti di Poesia e Letteratu-

ra. Si tratta di “Dove i fiumi scorrono lenti”, un’Antologia letteraria a cura di Francesco De Napoli che scandaglia e illumina l’ universo umano, poetico e intellettuale di Leonardo Sinisgalli. Grazie all’opera di De Napoli, scrittore e poeta amico di Evtushenko, critico letterario e saggista, fondatore e presidente del Centro Culturale “Paidèia” di Cassino ( e direttore dell’omonima rivista), nonché grazie alle Edizioni Mondostudio, una giovane Casa editrice di Cassino specializzata in testi universi-

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tari, il patrimonio bibliografico su Leonardo Sinisgalli si è arricchito di un volume che studia, in modo originale e completo, l’opera del Poeta-Ingegnere nato a Montemurro, Potenza, il 9 marzo 1908 e morto a Roma, di infarto, il 31 gennaio 1981. Sinisgalli è noto come il Poeta delle due culture (quella classica e artistica, e quella scientifica e tecnologica). Nel vasto panorama della critica, non sempre le idee sembrano molto chiare in proposito. Era un grande matematico che scriveva anche belle poesie? O era un poeta particolarmente versato nella scienza e nel moderno design pubblicitario? De Napoli così sintetizza il suo punto di vista: “Sinisgalli, fin da ragazzo, fu intimamente combattuto da due passioni in apparenza contrapposte: da un lato l’amore sviscerato per le materie scientifiche e per la matematica in particolare, dall’altro l’irrefrenabile fascino esercitato su di lui dalla poesia e dalla letteratura. Il giovane Leonardo dovette ben presto rendersi conto che quella temuta antinomia costituiva per lui non tanto una frattura, bensì l’affascinante, originalissima fonte iniziatica di imponderabili intuizioni e approfondimenti critici e creativi. Capì di disporre di strumenti di ricerca assolutamente nuovi ed insperati, in grado di trasfondere linfa vitale sia alla sua genialità di artista che agli studi scientifici, tali da introdurlo in un campo misterioso – anzi, “misterico” – fino a quel momento inesplorato.” Il libro si compone di tre Parti. Nella Parte Prima, al saggio introduttivo di De Napoli, di settanta pagine, seguono quelli di Michele Martinelli (A Matera e Provincia nel nome di Sinisgalli), di Maria Antonietta Di Mase (Ricordando Leonardo Sinisgalli), di Mario Santoro (La poetica sempre attuale di Leonardo Sinisgalli), di Gilberto Antonio Marselli (L.S. Un ricordo e una doverosa speranza ), di Tommaso Di Brango (Utopia e progettazione. La formazione di L.S.), di Giacinto Spagnoletti (In Galleria a Milano con Sinisgalli. Rievocando Mengoni e la stella delle Muse), di Assunta De Crescenzo (Lo scriba e


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la memoria. Le prose narrative di L.S.), di Brandisio Andolfi (La Lucania nella poesia di L.S.), di Alfonso Cardamone (Nota per un omaggio a L.S.), di Biagio Russo (Le poesie tecniche (e nascoste) di Sinisgalli e i poeti lucani nel “Semaforo” di Civiltà delle Macchine), di Paolo Ruffilli (Incontri romani con L.S.), e, sempre di Ruffilli, Intervista a L.S., di Giorgio Bàrberi Squarotti (Sinisgalli e il passero e altro), di Angelo Lippo (L.S. L’occhio del poeta e la critica d’arte), di Maria Luisa Spaziani (Lite per un aggettivo: Quasimodo e Gatto nel racconto di Sinisgalli), di Carmine Chiodo (L.S. nella lettura critica di Gaetano Mariani) e di Carlo Vulpio (Belliboschi-Texas : Sinisgalli non abita più qui). Subito dopo i Saggi (che occupano 247 delle 381 pagine del libro) la Parte Seconda dell’opera ospita POESIE DI SINISGALLI, tratte dal curatore dalle raccolte più significative. Da 18 Poesie (All’insegna del Pesce d’Oro, Milano 1936) possiamo leggere la seconda e l’ottava; da I Nuovi Campi Elisi (Mondadori, Milano 1947) la bellissima Lucania, più Le lunghe sere e Santo Stefano 1946; da La vigna vecchia (La Meridiana, Milano 1952 – Mondadori, Milano 1956) sono tratte le poesie da Quadernetto alla polvere, La vigna vecchia, Libritti, Giuoco di monelli, Autobiografia I, II, III e IV, Canto di una fanciulla in attesa delle nozze, Un uomo canta sdraiato sotto un albero, Dispetto, Altro Dispetto, Un giovane canta nel mese di aprile la Domenica delle Palme, Ninna nanna, Notti di febbraio, L’albero di rose, Scherzo notturno. Infine, da Dimenticatoio (Edizioni del Labirinto, Matera 1978) sono tratte Il sole e la luna, La foga del vento, Solitudine, Il sogno, A Sandro Penna, Poeta, Bambino, Dietro le mura, I paesi, Castagni, Esperienza, L’equilibrio, Cara vita. La Parte Terza del libro (“Omaggio poetico a Leonardo Sinisgalli”) ospita poesie di altri autori contemporanei, che con i loro versi hanno inteso offrire un omaggio al grande poeta lucano. Qui il curatore ha pubblicato poesie di Angela Ambrosini, Brandisio An-

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dolfi, Ferdinando Banchini, Giorgio Bàrberi Squarotti, Alfonso Cardamone, Walter Chiappelli, Francesco De Napoli, Ada De Judicibus Lisena, Luigi De Rosa, Tommaso Mario Giaracuni, Amerigo Iannacone, Paolo Iarossi, Angelo Lippo, Tommaso Lisi, Gabriella Maddalena Macidi, Roberto Maggiani, Michele Martinelli, Rossano Onano, Albino Pierro, Antonio Piromalli, Nicola Prebenna, Paolo Ruffilli, Edio Felice Schiavone, Rocco Scotellaro, Giovanni Tavcar, Gerardo Vacana. Le poesie sono corredate dalle note biobibliografiche relative ai rispettivi autori. Il libro ideato e curato da Francesco De Napoli è stato accolto come opera di eccezionale valore perché fa il punto della critica e della cultura militante su un Poeta di indiscusso prestigio nel panorama letterario italiano ed europeo del Novecento. Esso si evidenzia anche dal punto di vista della grafica, elegante e maneggevole nonostante le circa quattrocento pagine, ed è ricchissimo di illustrazioni, anche rare e inedite, che contribuiscono in modo efficace a completare il ritratto di Leonardo Sinisgalli uomo, poeta e intellettuale di primo piano. Luigi De Rosa Francesco De Napoli (a cura di) – Dove i fiumi scorrono lenti – L’universo umano, poetico e intellettuale di Leonardo Sinisgalli – Antologia letteraria – Mondostudio Edizioni – pagg. 381, € 26.

L'INSIDIA Non temere da te fuori l'evento che uccide: della vipera il veleno, la scheggia che perfora le tue carni, la folgore che taglia la tua via. Sono il male dei giorni; puoi scansarli con un poco d'astuzia e di destrezza. L'insidia è dentro: è quella che t'inchioda al tuo destino, che cancella il tempo; che ti fa cavo e privo d'ogni bene e innanzi della morte ti dispoglia d'ogni ardore ed annulla in te la gioia. Elio Andriuoli Napoli


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GIOVANNI GENTILE E GLI SCRITTI PER IL CORRIERE DELLA SERA DAL 1927 AL 1944 IN UNO STUDIO DI GABRIELE TURI di Ilia Pedrina

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O affrontato con estremo interesse il piccolo volume Giovanni Gentile Scritti per il 'Corriere' 1927-1944 edito dalla Fondazione Corriere della Sera, 2009 a cura del prof. Gabriele Turi, insigne e dotta presenza storica all'Università di Firenze. Trascrivo alcuni momenti importanti del suo percorso di studioso: “Docente presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Firenze dal 1973... Professore Ordinario dal 1987... Dirigo dal 1982 la rivista di storia contemporanea 'Passato e presente' e, dal 1995, il bollettino 'la Fabbrica del libro... Le mie ricerche, dedicate in origine alle insorgenze antifrancesi in Italia, si sono poi concentrate sulla storia delle istituzioni culturali, degli intellettuali e dell'editoria nel secondo '800 e nel '900, con particolare attenzione al periodo fascista. Attualmente mi sto occupando di alcuni aspetti e momenti dell'abolizione della schiavitù negli ultimi due secoli.” (G. Turi, Curriculum, Università degli Studi, Firenze, sezione 'Servizi on line'). Oltre ad aver firmato contributi di prestigio su riviste, Atti di Convegni e testi a più

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firme, assai nutrito è davvero l'elenco delle sue pubblicazioni, tra cui metto in evidenza Giovanni Gentile. Una biografia. Torino, Utet, 2006 (I Edizione Firenze, Giunti, 1995); Lo Stato educatore. Politica e intellettuali nell'Italia fascista, del 2002 e Il nostro mondo. Dalle grandi rivoluzioni all'11 settembre, del 2006 entrambi per Laterza, Roma-Bari. Con Il Mulino di Bologna pubblica Il fascismo e il consenso degli intellettuali, del 1980; Casa Einaudi. Libri uomini idee oltre il fascismo, del 1990; Viva Maria. Riforme, rivoluzione e insorgenze in Toscana (1790-1799), del 1999; Il mecenate, il filosofo, il gesuita. L' “Enciclopedia Italiana” specchio della nazione del 2002. Tutto questo percorso, qui riassunto solo in parte, presenta ricerche ancora insuperate sui temi trattati e ci consente di rilevare preziose indicazioni di verità testuale e storica che forse possono apparire sconvolgenti rispetto all'acquisito assetto delle terminologie, economicamente utili al cervello per consolidare etichette e non lasciar più spazio alla ricerca come impresa indispensabile dell'intelletto. Come si può notare, ho parecchia strada da percorre per approfondire questo importantissimo studioso contemporaneo ma è da come sono avviati i primi passi che si può portare avanti un solido cammino. Così parto da Giovanni Gentile - Scritti per il 'Corriere' 19271944, documento vivace e storicamente validissimo per la cui composizione Gabriele Turi opera una selezione degli scritti di Giovanni Gentile prodotti per il Corriere. Tale selezione è dettata dalla profonda conoscenza acquista sull'argomento che gli consente di soffermarsi sulle considerazioni che il grande filosofo siciliano ha esposto con chiarezza in relazione ai temi del rapporto tra Stato e Chiesa, a quelli relativi alla formazione scolastica ed all'istruzione superiore e universitaria, fino a toccare aspetti della costituzione e della costruzione di uno Stato laico, totalitario, lungimirante anche in politica estera. La mia prima lettura risale al 27 luglio 2009 e questa seconda, a partire dal 9 aprile 2018 la dedico alla memoria di Carlo Diano, allie-


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vo e grande, devoto estimatore di Giovanni Gentile (è stato proprio il prof. Gabriele Turi, gentilissimo, a darmi indicazione di lettere di Carlo Diano a Giovanni Gentile, 25 in tutto, dal 1924 al 1944, presenti alla Fondazione Giovanni Gentile in Roma). Gli articoli scelti in questo testo sono dodici: La questione romana ( 30/IX/1927, pp.6166); Nuovi documenti sulla questione romana ( 16/X/1927, pp.67-72); Il regime e l'istruzione (20/III/1929, pp. 73-79); L'istruzione media, l'Università e il Regime (21/III/1929, pp.80-87); Fuori dell'equivoco (4/IX/1029, pp.88-94); Lo stato e l'educazione nazionale. La fine dell'A.N.I.F (15/II/1931, pp. 95-102); L'Associazione fascista della scuola (6/III/ 1931, pp.103-109); Beati possidentes? (11/ III/1931, pp.110-116); Non mormorare (1/IV/ 1931, pp.117-122); Alla soglia dell'Anno XII (27/X/1933, pp. 123-129); L'unità di Mussolini (15/V/1934 pp.130-137); Ricostruire (28/ XII/1943, pp.138-142). Segue la pubblicazione di una Lettera di Giovanni Gentile, la sezione Apparati - Elenco degli articoli e degli interventi di Giovanni Gentile nel “Corriere della Sera”, dal primo lavoro su Benedetto Spinoza (21 febbraio 1677 - 21 febbraio 1927) all'ultimo del 16 gennaio 1944, cioè alla Lettera di Giovanni Gentile ad Ermanno Amicucci (a proposito delle polemiche suscitate dall'articolo 'Ricostruire'). Gabriele Turi si riserva un ampio spazio introduttivo GENTILE AL 'CORRIERE': STORIA DI UNA COLLABORAZIONE, scandito attraverso passi di grande impatto documentativo e ciò fornisce una sintesi interpretativa obiettiva: La politicità di un intellettuale (pp. 9-23); Una proposta fallita (pp. 23-29); Stato e Chiesa (pp. 30-34); Fra due direttori (pp. 3540); Educazione fascista (pp. 40-50); Mussolini e la patria (pp. 50-54). Per tutti i precisi riferimenti inseriti in queste sezioni il prof. Turi indica nelle note il ricorso all'Archivio Storico del Corriere della Sera, serie Carteggio personaggi, fasc.522: Gentile Giovanni; l'Archivio della Fondazione di Giovanni Gentile per gli studi filosofici in Roma; l'Archivio Ugo Ojetti alla Biblioteca Nazionale Centrale

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di Firenze. Entro nel vivo dell'introduzione e cito dalla prima sezione: “La collaborazione di Giovanni Gentile al 'Corriere della Sera' è solo un episodio della sua multiforme attività, ma riveste un rilievo specifico per l'autorevolezza del quotidiano e per la continuità del discorso sviluppato da un intellettuale che aveva compiuto le sue scelte di fondo prima dell'adesione al fascismo. I messaggi che Gentile affida al giornale dal 1927, dopo aver tentato invano di collaborarvi nel 1915, hanno un valore culturale e politico che è comprensibile appieno solo se facciamo un passo indietro, rivisitando in breve la sua figura. Polemiche e interpretazioni ideologiche hanno accompagnato la riflessione e l'attività del Gentile nel corso della sua vita e soprattutto dopo la sua morte nel 1944. Letture politicamente interessate, proposte soprattutto in occasione del sessantesimo della morte, hanno voluto presentare in lui un modello di 'pacificatore' tra fascismo e antifascismo: sono letture che dicono molto sul clima italiano odierno, nulla sul Gentile che ci interessa indagare. Nessuno può pretendere di inseguire una impossibile imparzialità - come ci ha insegnato la cultura del Novecento, di cui Gentile fu un rappresentante di primo piano -, ma è compito di ciascuno affrontare l'argomento con spirito laico, senza prospettive teleologiche... La parte più significativa della sua opera di organizzatore culturale si è realizzata durante il fascismo, a partire dalla sua partecipazione al primo governo Mussolini come Ministro della Pubblica Istruzione e dall'adesione al PNF nel 1923... La politicità - secondo la formula desanctisiana dell'unità di scienza e vita - è propria di tutta la riflessione dell'intellettuale Gentile fin dalle origini come impegno civile indipendentemente da precise opzioni politiche...” (G. Turi, Gentile al 'Corriere': storia di una collaborazione', in op. cit. pp. 9-11). Si è di fronte ad una scelta interpretativa chiara: il Gentile ha una '...concezione organicistica e illiberale dello Stato e della società...' (ibid.) e quindi se si sta dalla parte del Gentile che armonizza in sé, consapevolmen-


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te, percorso filosofico e scelte politiche, si deve pervenire ad una ancor più capillare interpretazione del suo percorso intellettuale e civile, teorico e pratico. Detto con schietta semplicità, secondo me egli non ha cambiato 'giacchetta' quando ben si sapeva che i destini dell'Italia erano già stati decisi altrove, a Casablanca, e ci si sarebbe serviti proprio dell'Italia per un'azione di invasione e quant'altro, già nella mente dei firmatari e di cui ancora, pesantemente, subiamo le conseguenze. Operando per ragioni di sintesi una virata di bordo, affascinante ma necessaria, arrivo agli articoli che Giovanni Gentile firma per il 'Corriere'. I primi due, La questione romana (CdS, 30 settembre 1927) e Nuovi documenti sulla questione romana (CdS, 16 ottobre 1927) sono relativi alla questione durissima del rapporto tra Stato e Chiesa, perché il giornale L'osservatore romano aveva mostrato chiaramente l'intenzione giuridica di tornare in possesso dei territori portati via dall'Italia allo Stato Pontificio: Gentile in questo ambito esige la massima chiarezza e non sarà nemmeno d'accordo con la firma del Concordato. Infatti due anni più tardi, il 4 settembre 1929, egli firmerà per il Corriere l'articolo Fuori dell'equivoco, di cui qui traccio accesi riferimenti: “... Ad analizzare un po' la psicologia degli scrittori che fanno coro su questo motivo, tra giornalisti, filosofi, ecclesiastici e schiere diverse di più o meno improvvisati pubblicisti, verrebbero fuori delle cose piuttosto amene; ma accadrebbe anche di fare talune osservazioni malinconiche, che mi parrebbero di una certa importanza, sia rispetto alle ideologie che si vengono formando, sia rispetto ai caratteri che si corre pericolo di creare in Italia se non si fa presto a mettere un po' d'ordine e di chiarezza nelle idee circolanti... Dopo l'11 febbraio sono avvenuti in verità fatti così eloquenti, così significativi, così nitidamente unilineari che c'è da restare sbalorditi a vedere che non si sia ancora capito e si continui a vivere, in perfetta buona fede, nell'equivoco... La religione cattolica confermata bensì più solennemente che mai

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religione dello Stato; ma intesa per necessità in modo alquanto diverso da come l'intende la Chiesa. Non in sé stessa, come religione, è ovvio; perché nell'interno della religione cattolica, affinché essa sia quello che è per la sua natura, lo Stato non può entrare, non ha competenza. Ma la sua competenza sorge quando si tratta non più della religione in se stessa, ma della Chiesa (in cui la religione vive) nei suoi rapporti con lo Stato. Campo distinto e differentissimo dal primo, e nel quale non si potrebbe negare la competenza dello Stato, senza venire alla conseguenza che uno Stato oltre la Chiesa non c'è e quindi non è possibile alcun Concordato... Lo Stato fascista si proclama totalitario; ma essa è totalitaria all'ennesima potenza, e investe e tende a governare fin il respiro degli uomini...” (G. Gentile, op. cit. pp. 88-92). Come si può evidenziare da queste prime tracce, Giovanni Gentile ci si presenta impiegando il tono schietto e vivace, critico e competente, aggiornato e saldamente ancorato ai propri convincimenti, senza però evitare di comprendere con reale benevolenza i diversi 'tipi umani' (voglio qui ricordare che Padre Agostino Gemelli, figura di riferimento per il giovane Giulio Andreotti, si è tanto impegnato per portare avanti la stesura e la successiva applicazione delle leggi razziali, forse perché gli Ebrei, allora, non erano ancora considerati 'nostri fratelli maggiori', come ha sostenuto Papa G.Paolo II). Per concludere questo approccio iniziale alla scelta degli articoli di Giovanni Gentile per il Corriere, colgo ancora dall'introduzione del prof. Turi una loro interpretazione sintetica che servirà da stimolo per approfondire il tema dei rapporti tra lo Stato e l'istruzione scolastica, con le innovazioni portate avanti nella Riforma Gentile del 1923 e durate fino al 1962. Cito. “Il ragionamento presente in Beati possidentes?, assieme a quello contenuto in Non mormorare, è lo stesso che -con tattica rovesciata- sta alla base della proposta gentiliana di imporre ai docenti universitari il giuramento di fedeltà al fascismo, attuato con decreto


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28 agosto 1931. Nel pieno dello scontro con la Chiesa per il ruolo che aveva l'Azione cattolica nell'educazione, Gentile rivendica il diritto dello Stato di educare i giovani 'con assoluta indipendenza dal magistero ecclesiastico', e individua nell'obbligo del giuramento un mezzo per cancellare, anche nell'ambito dell'istruzione, la differenza fra iscritti e non iscritti... La scuola nel '23 soffriva d'un certo sbandamento. Perché le riforme che allora si venivano maturando e il nuovo spirito che investiva tutto l'organismo scolastico dovevano scrollare e distruggere un assetto che leggi, programmi, istituzioni, congressi, federazioni, giornali di classe erano venuti da un ventennio saldamente costituendo in Italia: un assetto caratterizzato da uno stato giuridico, che aveva bensì accresciuto il sentimento della dignità dell'insegnante, ma aveva finito col mettere la scuola non solo fuori ma contro lo Stato, vuotando lo Stato del contenuto morale che esso deve avere, e la scuola della sua funzione nazionale, che è come dire universale e umana. Effetto del positivismo agnostico e del vuoto liberalismo...” (G. Turi, ibid. pag. 50). Mi andrò a leggere di certo il suo libro Il mecenate, il filosofo, il gesuita. L' “Enciclopedia Italiana” specchio della nazione, per capire meglio un intellettuale di grande respiro come Giovanni Gentile ed un periodo della storia italiana, quello del Fascismo, tenendo ben fermo nella mente che le leggi razziali sono state firmate dal re prima che dal primo ministro e soprattutto che assai preponderante è stata la presenza di validissimi studiosi ebrei all'interno della stesura della stessa Enciclopedia. Ilia Pedrina

Quando una rivista chiude, tutti se ne rammaricano. Ma, quando è in vita, perché non aiutarla?

Pomezia-Notizie rischia di chiudere. Versamenti volontari sul c. c. p. N° 43585009 intestato al Direttore

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IL GIORNO Il giorno si addormenta: cala il buio; dintorno è quiete, il cielo si è oscurato, la natura racconta fiabe all’usignolo che si è attardato a cantare: la terra respira con me che sono lieta del giorno vissuto. Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, MI

OGGI, È PRIMAVERA! Hai mutato d'incanto l'aspetto, mia natura, stento a riconoscerti. Scomparso l'opaco del cielo e il suo pianto noioso, invadente, intermittente. Un azzurro al suo posto, limpido, da un sole caldo solcato, luminoso, un sole che spande sul mondo il sorriso e la gioia. Peschi fioriti sulla terra, mandorli ciliegi biancospini, erba tenera sui prati, margheritine, primule sulle prode dei fossi e ovunque mammole dal profumo soave che zefiro nel terso spande dell'aria. Di nuovo pingui, in coro con gli uccelli cantano i rivi. In tanti odori e colori, una foto stupenda nell'anima incidono gli occhi. Quest'abito radioso, ricamato di fiori ed effluvi, l'hai indossato per l'arrivo della primavera e la rinascita, nei cuori degli uomini, della speranza. Grazie, mia generosa, adorabile natura. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo


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ANGELO MANITTA BIG BANG di Domenico Defelice

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N volume di grande formato (cm. 21 x 30 circa), 12 libri e 108 canti, per almeno 50.000 versi. In calce, una corposa Antologia critica, con l’intervento di una quarantina di firme, alcune più volte, per complessive 812 fitte pagine! Leggere e recensire un lavoro del genere fa veramente tremare le vene e i polsi. Ne è consapevole lo stesso Autore, il quale afferma: “Forse il lettore che si avventura nella lettura di questo poema, si troverà come in una foresta, rimarrà spaesato di fronte ad una poesia che esce fuori dagli schemi tradizionali e da un consolidato sistema letterario”. Un lavoro incentrato sull’utopia universalistica, frammentario, con centinaia e centinaia di quadri che simboleggiano orizzontalmente l’intero mondo e l’ universo e, verticalmente, l’umanità, che viene abbracciata tutta, anche se in modo non strettamente cronologico, iniziando con Piazza San Pietro e i funerali di Giovanni Paolo II e terminando con Adamo ed Eva, Orfeo ed Euridice, l’uomo sapiens e Lucy, “la madre dei viventi”. Un’opera strutturata in modo singolare, nel tentativo di un amalgama paratattico, dove, cioè, una figura succede a un’ altra, ma son tutte slegate, o, se legate, solo

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momentaneamente da nessi più o meno logici, sicché possono essere incasellate e interpretate in assoluta libertà. Ed è dopo averla letta e vagliata frammentariamente che quest’ opera colossale può venire apprezzata nella sua interezza. Frammenti che il poeta spesso cuce con interventi personali e con diversi altri escamotages. Un poema reale e immaginifico, particolare e distintivo da ogni punto di vista, rivoluzionario e modernissimo. Non è poema classicamente inteso, il quale avrebbe avuto, in genere, a parte stile e linguaggio e un metro unico, personaggi occupanti l’intera trama, dall’inizio alla fine. “Oggi pochi folli - precisa Manitta - si sognerebbero di scrivere un poema alla maniera classica, anche se camuffato sotto vesti modernissime”. Big Bang ha migliaia di soggetti e, quindi, di personaggi e ognuno ha spazi limitati, separato dagli altri, isolato; episodi su episodi, personaggi diversi, piccoli e medi poemetti, fra di loro poco o niente influenzati. Poema insolito, chiaramente evidenziato dallo stesso autore nella sua ampia Nota e, fin dalla copertina, mettendo il termine tra parentesi e in minuscolo, mentre in risalto è, invece, “Canto”, sebbene nel sottotitolo. Canto, allora, è il termine che più si addice, potendo esser breve o - come in questo caso - lungo e lunghissimo, formato da una o da centinaia e migliaia di lasse, tutte legate fra loro o scompaginate, a gruppi, o ognuna in sé conclusa. Non una, ma tante storie infinite, che tutte “vanno interrogate e accolte e sentite come un concerto polifonico vivo e in svolgimento”, afferma Ugo Piscopo, il quale aggiunge che, in quest’opera di chiara e di cristallina bellezza, “Il collante di tutto è la luce” e con la luce ha termine, come ha termine, con la luce, la Divina Commedia dantesca. Piscopo si interessa magistralmente della struttura, del tipo di numerazione - quella romana e quella araba -, delle infinite analogie, del significato di certi numeri, come il tre, il 12, il quattro, evidenziando i tanti legami che l’opera ha, dal punto di vista non solo contenutistico e filosofico con la letteratura d’ogni tempo.


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Avendo avuto occasione di leggere almeno alcune sue precedenti versioni, possiamo notare che Angelo Manitta ha fatto in questi anni un sapiente lavoro di lima e di organizzazione del testo; son sparite imperfezioni che ci avevano fatto storcere il naso e l’intero lavoro è migliorato in nitidezza e scioltezza. Manitta non ama fare né cronaca, né biografia; affronta personaggi e temi dal suo punto di vista e la narrazione è piegata sempre a quelle che sono le sue interiori esigenze, sicché dello svolgimento lineare della vita dei suoi protagonisti spesso c’è poco, quando non veri e propri cambiamenti. Antico o recente, il personaggio viene attualizzato e in un certo senso manipolato per dar corpo ai tanti problemi, ai tanti subbugli che mantengono agitato l’intimo dell’artista. Giovanni Paolo II, Wałęsa, Gorbaciov, Deng Xiao Ping, Fidel Castro, Bil Clinton, Pirandello, Lana Turner, Borsellino e via a un elenco sterminato, raramente si presentano così come il gran pubblico li conosce, perché riplasmati in parte dal fuoco interiore del poeta. Da ciò, le tante oscurità e le elucubrazioni che spesso si incontrano. Prendiamo, per esempio, uno dei primi personaggi che incontriamo: Giovanni Paolo II: di biografico si hanno solo lampi, se non proprio intuizioni; la guerra, la giovinezza, l’esperienza teatrale, il lavoro, il nazismo, il vescovato, il papato, il Giubileo eccetera, son sì brani della vita del grande Papa, ma senza la cronaca e la biografia: temi, più che altro, nei quali Manitta affonda il suo pensiero, vi mescola il suo interiore, la sua interpretazione; più chiaro e più aderente alla cronaca dei fatti - e, quindi, più comprensivi, meno ermetici -, sono i brani in cui il poeta tratta della Lettera agli artisti scritta dal papa polacco, del suo Testamento, ed è in tali casi che, mancando la speculazione esclusiva, incontriamo la vera poesia, nella quale bellezza, fluidità, semplicità, umanità interiore si fondono. Dove Manitta si trova veramente a suo agio, è quando tratta di legende e di miti. Son temi, questi, da lui studiati a lungo e a fondo e nei quali gli è più facile e congeniale adat-

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tarci il suo pensiero, la sua morale, innestare problematiche attuali, manifestare il suo concetto etico di vita, visto che “Il tempo e la storia non hanno/morale”, come lui stesso afferma. I diritti delle donne, il femminicidio, l’ecologia, non son temi d’attualità ai tempi, per esempio, d’una Berenice; eppure, Manitta ve li cala e impone, con naturalezza e passione, con autorevolezza. Nel mito lui ci naviga come il bimbo nella placenta. C’è tutto in questa vasta opera manittiana, in gran parte caotica e in gran parte ordinata, così come è stata - o come continua ad esserla ancora? - la situazione del Big Bang. O dei Big Bang? Perché, secondo il grande scienziato, esploratore delle origini dell’Universo, Stephen Hawking - che non troviamo, però, tra i personaggi del libro - i Big Bang sono stati più di uno, prima di quello che ha dato origine all’Universo che conosciamo e sul quale indaghiamo: una moltitudine di esplosioni, la maggior parte delle quali scomparsa in buchi neri. Poesia, dunque, questa di Angelo Manitta, che, trattando di ogni cosa, vuol dare l’immagine proprio di caos e, nel contempo, di legge e d’ordine. Oscurità e luminosità. E non mancano sarcasmo ed ironia, mai retorici, ma doloranti e pietosi. Il delinquente che opera nell’onestà delinquenziale!; “La politica (...) andata a farsi friggere./ (...) Tutto fritto, s’espande nell’aria//un delicato odore di cibi consumati/in cene d’occasioni”; politici che si rifugiano “in uno squallido/bordello di puttane, che loro chiamano/escort, e sempre fumano canne,/e sempre sono suonati”; il Parlamento che è “piatto/di sodomiti e di gay che governano, di puttane//che fanno i ministri”; l’aria mefitica che si respira nel Nord Italia attraverso i fumi delle fabbriche: “La verde Padania fiorisce/rose di fantasiosi fumi” (a meno che non si tratti di un refuso e “fiumi” sian diventati “fumi”); Veltroni che predica il suo amore sviscerato per l’Africa e che si distrae “all’ombra/d’una mosca primaticcia che spazza l’aria”!... C’è ferocia, anch’essa dolorosa, quando pensa ai “bambini abbandonati da perfide/madri ci-


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vette”. Una poesia che fustiga tendenze e costumi, che loda le tante virtù, che affronta e mette in evidenza gli infiniti problemi di una società in una evoluzione veloce e caotica. Passato e presente, che si scontrano e si fondono; aspirazioni, vittorie, sconfitte; una umanità godereccia e dolorante; la bellezza e il suo più orribile contrario... Tutto, insomma, un vero “villaggio globale”. Domenico Defelice ANGELO MANITTA - BIG BANG Canto del villaggio globale - Poema, Prefazione di Ugo Piscopo, Nota dell’Autore, ampia Antologia critica Il Convivio Editore, 2018 - Pagg. 812, € 50,00.

LIBRI Ho letto molti libri in vita mia. Molti erano belli e affascinanti, altri istruttivi, altri avvincenti, altri divertenti ed altri tristi. Ho letto molti libri e li ho gustati. Molti li ho amati. Ma il più bel libro che io abbia letto mai è certo quello della mia vita, con tutte le persone che ho conosciuto, i posti che ho visitato, le sensazioni che ho sperimentato le gioie e i dolori che ho provato le musiche che ho ascoltato e le vicende che ho vissuto. Ho letto molti libri in vita mia e li ho gustati. Molti li ho amati. Ma il più bel libro che io abbia letto mai è certo quello della mia vita. Per questo spesso lo rileggo, sfogliando i miei ricordi. E penso che forse ognuno riflettendo potrebbe dir fra sé la stessa cosa, perché di ognuno, in fondo, è la vita un romanzo. Mariagina Bonciani Milano

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ARMANDO E IL MARE Armando il mare ce l’aveva nel passo, dondolio preso all’onda con sale che gli bruciava occhi e polmoni. Fiatava e rantolava risucchi. Parlava di Spezia e confondeva il Ligure col Tirreno. Per lui tutt’un’acqua era il mare: un’acqua senza nomi. Acqua che sbatte acqua che corre che si strema va in bonaccia riposa. Acqua che dorme si sveglia s’inerpica tocca l’aria ridiscende si schianta. Fu a marzo che un’onda (era insolita) gli sommerse il pensiero. Lo trascinò in quell’unica stagione d’amore che negli abissi s’eterna. Là dove dimora il Cristo a braccia spalancate per gente che ha sale nel fiato e passo di mare. Gianni Rescigno Da Sulla bocca del vento - Ed. Il Convivio, 2013

AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 5/4/2018 La televisione iraniana ha pixellato le mammelle della lupa presente nello scudetto della Roma, perché... scandalose! Alleluia! Alleluia! Di cero, dalle parti di Teheran, cagne, mucche, pecore, capre e via elencando, porteranno il reggiseno, avranno tutte il seno coperto! Domenico Defelice


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SI RIUSCIRÀ A BLOCCARE LA PIENA? di Antonia Izzi Rufo

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' soltanto da un ottantennio (più o meno) che il comportamento dei giovani di una volta, agli antipodi di quello dei ragazzi moderni, è cambiato quasi del tutto. Ai giovani d'altri tempi, quelli che precedettero e seguirono la seconda guerra mondiale, era concessa una libertà molto limitata, quasi nulla. Essi dipendevano in tutto, e per tutto, dai genitori, dai maestri, dai superiori, dalla società. Non erano padroni di se stessi, non potevano esercitare il libero arbitrio né prendere decisioni e iniziative se non sotto il controllo e con il consenso di coloro che su di essi esercitavano una vigilanza e un potere assoluti. E se non ubbidivano, se non sottostavano alle imposizioni, se non seguivano le regole, venivano puniti severamente. Erano degli automi, "pecore" direbbe Neatzsche, oggetti da plasmare. La famiglia obbligava i figli a scegliere la professione o il mestiere che essa riteneva più adatto, più utile, senza tener conto delle naturali predisposizioni di ognuno di essi; nel matrimonio li induceva ad accoppiarsi con il partner che essa considerava conveniente nel campo economico, li costringeva, insomma, ad essere insoddisfatti e infelici per tutta la vita. Nella scuola "si insegnava il verbo a suon di nerbo"; in essa vigeva il principio di autorità, si istruiva più che educare, si comprimeva la spontaneità, la libertà di pensiero e di azione, si esigeva l'ubbidienza con la forza, con la severità esagerata, con la mancanza di amore e comprensione. In chiesa s'insegnava il catechismo facendo imparare a memoria preghiere e precetti senza capirne il significato né lo scopo, e anche, per giunta, in lingua latina. Fu dopo la fine della seconda guerra mondiale, dopo il ritorno dalla deportazione e durante il periodo della ricostruzione che le cose cambiarono: il contatto con gente più emancipata (per le popolazioni del centro-sud della nostra penisola, in particolare) dette ai giovani la possibilità di "aprire gli occhi", di uscire

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dall'ambito ristretto nel quale s'erano sempre mossi passivamente, di riflettere e paragonare il loro modo di vivere con quello di giovani di regioni più progredite, all'avanguardia rispetto alla loro terra rimasta indietro nel progresso e nella civiltà, e di reagire: cominciarono così a svincolarsi dalle oppressioni che li schiacciava, che non permetteva loro di procedere liberamente, di prendere in mano le redini della loro formazione e programmare l'iter ad essi più congeniale e si adeguarono sempre più al "modus vivendi" dei cittadini più evoluti che presero come esempi da seguire ed eguagliare. Il cambiamento è stato radicale, ha portato ad una svolta positiva ma, proprio perché avvenuto in fretta, bruscamente, s'è rivelato eccessivo, antitetico rispetto alla superata tradizione: si è passato da una labile libertà ad una "libertà indisciplinata" che bandisce controlli, manda alla deriva, provoca danni viepiù gravi, disastri ai quali non è facile rimediare. I genitori hanno perso il potere primitivo, devono non solo sostenere economicamente e, nei limiti del possibile, moralmente i figli, ma sottostare ai loro voleri, esaudire le loro richieste, non contraddirli, assecondarli senza discutere (a parte le eccezioni). Come in famiglia, così nella scuola: i professori non possono rimproverare gli alunni né mettere loro voti bassi altrimenti vengono richiamati dalle autorità scolastiche e denunciati dai genitori.. Dove siamo arrivati! Si riuscirà a bloccare la piena, ad ottenere l'ipotetico equilibrio di cui necessita l'umanità per procedere serena e in pace? Con la buona volontà e la collaborazione di tutti. Antonia Izzi Rufo NOTTE D’ESTATE A quest’ora per i sentieri della mia vecchia valle qualcuno va errando nella luce della luna, accorda nella dolcezza la fisarmonica, si perde lontano nella bianca scia. Franco Saccà Da Vento d’autunno - Ibico, 1962.


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DALLA COPPIA POSSESSIVA E VIOLENTA ALLA LIBERTÀ DI STARE IN COPPIA PER TRASFORMARSI E ACQUISIRE IDENTITÀ RINNOVANDO I MODELLI DELLA CULTURA ANTROPOLOGICO SOCIALE: l’aiuto che ci viene offerto dal cinema attraverso le immagini filmiche. di Pasquale Montalto

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L film, della regista spagnola Iciar Bollain, Ti do i miei occhi (2003), affronta una tematica forte e delicata, nonché tristemente attuale, come è quella della violenza sulla donna, soprattutto a sfondo sessuale, e in particolare nel rapporto di coppia. Una violenza a volte conosciuta, perché consumata nel tessuto sociale e in alcuni casi anche con motivazioni politiche, ma nella più grande maggioranza delle volte sconosciuta e nascosta, perché consumata all’interno dell’intimità familiare e nel chiuso mondo delle mura domestiche, in quella casa che dovrebbe proteggere e offrire sicurezza e che invece il più delle volte, quando la situazione degenera, porta prima tanta sofferenza e dolore e poi, se non si ha il coraggio di uscire allo scoperto e denunciare alla giustizia gli abusi e le violenze subite, una sicura morte, che rimane tra l’ altro spesso impunita, perché gli aguzzini carnefici assassini riescono molto spesso a farla franca, complice una giustizia sommaria e forse a volte essa stessa vittima inconsapevole di una cultura diretta e incentrata su di una natura troppo maschilista. Un film che suscita forti emozioni e che lascia senza parole, senza fiato, tanto nuda e cruda è la realtà che presenta, raccontata in un linguaggio soft ma preciso, che non offre spazio al dubbio sul ruolo violento che l’uomo svolge nei confronti della donna, in ambito matrimoniale, di coppia e familiare. La donna così ferita e oppressa, sottomessa, oggi, più che in ogni altra epoca storica, cerca in ogni modo le strade del riscatto e dell’affrancamento emancipati-

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vo riguardo alla forza violenta e insensibile dell’uomo. Un film che mette completamente a nudo la violenza e la distruttività dell’uomo verso la donna, verso i suoi cari e l’ordine creativo e di bellezza dell’intera società. Un film che cerca di sollevare qualche velo sulla drammatica questione della violenza tra l’uomo e la donna, all’interno della coppia e nel sociale, e lo fa con tatto, con parsimonia di invettive e scene drammatiche, ma con decisione, cercando l’impatto emotivo più che quello visivo e dimostrativo plateale, per come può scaturire da scene reiterate di aggressione, grida e violenza fisica, lasciando invece alla sensibilità individuale l’intuizione del dolore patito e passato attraverso le pause e i silenzi, la rapidità di movimento nelle decisioni, dettate da repentini cambiamenti d’umore e che richiedono il coinvolgimento totale, trasmettendo e lasciando trapelare tutto il calvario attraversato da Pilar, così come dal piccolo figlio Juan, suo malgrado e nonostante le attenzioni protettive della madre, costretto ad assistere alla violenza tra i genitori e a seguirne gli eventi, come ad esempio essere svegliato dalla madre nel cuore della notte, per uscire di casa, mezzo addormentato e infreddolito, e cercare rifugio a casa di Ana, la sorella minore, altra donna protagonista nel film, raffigurante il lato nascosto e inespresso di Pilar, quello emancipativo e deciso, capace di difendersi e che vuol affermare e proporre come cultura sociale di giustizia civile preventiva, di denuncia e per vincere la piaga endemica di continue vittime innocenti tra le donne. Ti do i miei occhi è il titolo che nasce da un gioco intimo e erotico con la propria compagna, escogitato creativamente da Antonio e Pilar, i protagonisti del film, per rinsaldare il matrimonio e la comunicazione, l’apertura, la sincerità e la fiducia, nell’ambito della coppia. E Pilar, su questo livello affettivo, risponde totalmente e pienamente, senza riserve, senza veli. Si, ti do i miei occhi, è la promessa del cambiamento che si rinnova, più di una volta, e che acceca col suo amore. Denudandosi e donandosi in ogni parte al compa-


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gno della sua vita, Pilar esprime al suo uomo il profondo bisogno di essere accolta, accettata, come femmina e come donna, anche per essere sostenuta e difesa, ogni volta che dovrebbe presentarsi la necessità, e per condividere l’evoluzione del cammino insieme. “Si, ti do le mie braccia, le gambe, le dita, il mio seno … ti do i miei occhi” dice Pilar nella pienezza del godimento dell’amore, rispondendo alle richieste possessive e vogliose di Antonio. Ed è come se dicesse: all’interno di questo gioco erotico, di totale abbandono e comprensione, spazio e simbolo protettivo della realtà della vita, posso offrirti tutto, anche la mia anima, prendendo gli occhi come simbolo e specchio dell’anima. Nella sua spontanea, innocente e indifesa sincerità, Pilar è una donna vera, che vive coscientemente la difficile condizione in cui versa la sua coppia e il legame familiare con il figlio, ma nutre la mal riposta speranza di poter risolvere, attraverso l’enunciazione di atti e decisioni di cambiamento radicale (il desiderio illusorio, di andare via lontano da tutti, insieme a Antonio, che promette di cambiare nel rapporto di coppia: “andiamocene lontano io e te, mandiamo in aria il negozio e mio fratello … e mia madre … mandiamo in aria tutto quanto”), come con un colpo magico di spugna, tutte le incomprensioni e le violenze subite in nove anni di matrimonio. Si scoraggia certo, quando, rispondendo al suggerimento di separarsi da parte della sorella, dice “Di che campo, d’aria?”, rendendosi conto dell’importanza fondamentale del lavoro per l’acquisizione della propria autonomia e indipendenza, ma non si perde d’animo e non molla un attimo il suo insano legame con Antonio, di attaccamento alla falsa fiducia che insieme con lui può, comunque vadano le cose, farcela a risalire la china. Troppo marcato era invece ormai diventato il solco del piano evolutivo e coscienziale tra Pilar e Antonio, troppa la distanza nella crescita maturativa che li divideva: lei attenta e partecipativa, emotivamente coinvolta, sensibile, aperta all’arte e alle novità, all’intimità dell’amicizia con le colleghe di lavoro e alla

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vita sociale; lui, materialista, scialbo, maschilista nel non permettersi il minimo di ascolto nelle emozioni, consuetudinario nel vestiario e nel comportamento, scontroso nel suo relazionarsi in un pensiero educativo assoluto con gli altri, incapace di contattare le parole del proprio cuore e riprodurle, scriverle, in una narrazione terapeutica e creativa, perché troppo preso dalla quotidianità e dai suoi bisogni, dalla necessità di accomodarsi secondo regole dettate dalla tradizione e dalle convenzioni del mondo materno, da convinzioni culturali e sociali radicate che fanno della donna un essere inferiore, capace solo di occuparsi della casa e dei figli, relegata al ruolo di casalinga. L’uomo si presenta invece come il capo indiscusso della famiglia, che ne è il padrone e in quanto tale spetta sempre a lui l’ultima parola. Quello che salva Pilar è che, oltre a inseguire la fiducia espressa di cambiamento da parte di Antonio, che si rivelerà invece la punta più velenosa e menzognera dalla quale urgentemente distaccarsi, lei mantiene soprattutto un forte legame interno di contegno, dignità, eleganza e stima verso sé stessa e che, nella realtà operativa della sua quotidianità, alimenta costantemente ascoltandosi in silenzio e andando incontro alla verità profonda della voce del suo SE’ personale, convinta dentro che al momento opportuno non avrà esitazioni e che avrà la forza e il coraggio, la determinazione d’animo, di (ri-)prendere le redini della sua vita e di operare le giuste decisioni e scelte, così da poter offrire alla Vita le risposte che aspetta e che lei da sempre custodisce nel suo cuore di donna, ferita, mortificata, possessivizzata, ma anche libera e desiderosa d’amore, di inseguire i suoi desideri e ritrovare il suo vero progetto esistenziale, in appagante socialità corale. Colpisce indubbiamente la profonda accettazione, da parte di Pilar, della condizione di immobilismo e di totale dipendenza, quasi di sudditanza, dal marito, che, come una pericolosa sabbia mobile avrebbe potuto inghiottirla e seppellirla nelle viscere della terra, non fosse stato per il filo, sottile ma forte, del dialogo


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continuo e profondo che lei riesce a mantenere con la luce interna del suo SE’ personale, che silenziosamente e con grande dolore la guida e le suggerisce il momento opportuno per dare spazio alle sue decisioni. Pilar, in un silenzio che rasenta il vittimismo di un testardo masochismo, accetta, comunque non in termini passivi, la difficile sofferenza che si trova a vivere. E lo fa con amore e con tanta speranza, che, strada facendo, poi vedrà gradualmente sgretolarsi fino ad infrangersi, costringendola a ricredersi, fino a prendere la difficile e unica decisione plausibile di separarsi dal suo uomo e da una violenza distruttiva che blocca la sua emotività, il suo pensiero e tutto il suo essere. Dopo essere stata esposta, messa alla gogna, finalmente, Pilar decide di scrivere la parola fine alla sua sofferenza, realizzando che con quell’uomo non c’è più nulla da fare. Non così invece con i suoi progetti d’autonoma indipendenza e il sogno di conquista della propria libertà. E’ come se Pilar, rischiando per sé stessa, avesse voluto portare all’estreme conseguenze il suo rapporto con Antonio, verosimilmente per confrontarsi e scoprire veramente se la scelta di lasciarlo, come decisione irrevocabile, fosse veramente la scelta migliore per sé o potesse esserci qualche altra alternativa. Probabilmente nel caso di Pilar e Antonio la scelta migliore era la separazione legale, come suggeriva, fin dall’inizio, la sorella Ana. Ma le strade esistenziali per scoprire la bellezza e la verità dell’amore sono tante e infinite, come tante e infinite sono le storie delle persone che le percorrono, nell’autentico interesse di fronteggiarne gli avvenimenti, sia avversi che favorevoli, ma sicuramente indirizzati sulla strada della crescita personale, del gruppo sociale e ambiente di vita. Pilar è certo che si è costruita da sé e attraverso scelte difficili e coraggiose e in completa e perfetta adesione alle leggi della vita, incarnando così il simbolo artistico di un femminile che vuole incontrarsi con l’uomo, senza nulla rifiutare, ma tenendo dritto il timone sul valore della vita e il compito assegnato di creare bellezza immortale, come è appunto

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quella che traspare dal suo cammino con Antonio, un vero e proprio inferno, ma che Pilar riesce ad attraversare e per uscirne indenne e arricchita, da vera artista cosmica. In questi nostri tempi di femminicidio, vero e proprio calvario per le donne, diventa anche forte e utile l’imperativo, importante e giusto, di poter avvisare e aprire maggiormente gli occhi della donna, dicendo esplicitamente che, dinanzi a maltrattamenti, soprusi e forme variamente aggettivate di violenza fisica, psicologica e esistenziale, portate avanti nei loro confronti, è necessario rompere da subito il gioco del rimando, riguardo a decisioni che richiedono risposte immediate, senza allungare troppo la corda, soprattutto quando si presenta già assottigliata e che potrebbe spezzarsi in qualunque momento e in punti imprevedibili e ingestibili. Quando c’è violenza, offesa alla persona, non si deve rimane un attimo in più a pensare ed è necessario prendere la decisione giusta, svincolandosi da una situazione potenzialmente pericolosa e lasciando l’altra parte, sia in un rapporto di coppia che matrimoniale e familiare, per avviare un processo di separazione legale e civile, possibilmente in un confronto aperto di decisioni consensuali e secondo i canoni delle leggi democratiche, ridandosi esistenzialmente la libertà e per intraprendere ognuno nuovi cammini nel grande territorio della vita, (ri)aprendosi così a nuove possibilità e occasioni, sempre presenti nella vita di ognuno. C’è da sviluppare la saggezza di una cultura antropologica centrata sul rispetto della persona e il riconoscimento della ricchezza insita nella diversità del mondo femminile, che non chiede di rinunciare al proprio peculiare modo di essere, quanto continuare a mantenersi disponibile verso le occasioni trasformative che la vita offre, riguardo a condizioni umilianti che, in riferimento a Pilar la protagonista principale del film, annientano, annullano e schiacciano l’identità personale, facendole perdere ogni dignità e umanità. Lei, Pilar, non vuole scontentare nessuno, diventa preda del senso di colpa e del dubbio persecutorio, che la fanno allontanare da ogni idea trasformista:


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come può lasciare il marito, cosa sarà di lei, del figlio e del marito stesso?. La proposta che le viene dalla sorella la lascia perplessa: vorrebbe, sa che separarsi è la cosa migliore da fare, ma non può, è trattenuta dalla tradizione della cultura materna e dai lacci del passato. Soffre terribilmente ma si tiene tutto dentro. Poi sul terrazzo con la madre, custode designata del suo vestito da sposa, che propone lo stesso modello di vita alla sorella, in prossimità del suo matrimonio e che invece si ribella e non lo vuole, chiamando in causa proprio l’infelicità matrimoniale della sorella, in uno scatto d’ira, finalmente, ritrova lo spazio dell’amor proprio e di una sana stima di sé, che le rammentano la propria dignità di persona e la caricano della giusta energia per poter gridare, in piena libertà, prima interiormente “BASTA” rispetto all’ingerenza degli altri nella sua vita e poi all’esterno, dicendo: “State zitte tutte e due” e ritraendosi, come rifiuto, dall’invito d’abbraccio traditore e coprente, perché minimizzante, della madre, che vorrebbe ripristinare il falso modello di “lavare i panni sporchi in famiglia” senza lasciar trapelare nulla fuori. “Quello che dovresti fare e riappacificarti con Antonio e tornartene a casa” è tutto ciò che riesce a dire la madre, in una riproposta di modello culturale ormai superato e involutivo, di nessuna utilità, rispetto al punto nel quale ormai si ritrovava Pilar. Testarda e incurante dell’evidenza del cattivo stato psicologico della figlia, la madre, giocando la carta degli affetti, per come consolidati nella cultura della famiglia tradizionale, cerca ancora una volta di legarla e ancorarla alla memoria stantia e imbalsamante del ricordo illusorio (“Non ricordi com’era carina Pilar, così piccola, con quella faccina sognante”). Ana, la sorella, emancipata e al passo con le nuove idee di modernità, senza nessuna voglia di travisare la verità, una realtà dove era chiaro lo stato di sfaldamento del legame matrimoniale tra Pilar e Antonio, incalza la discussione e cerca di favorire il confronto tra la madre e la figlia, dicendo: “Cosa sono tutte quelle cadute, con ricoveri di urgenza? Cosa aspetti

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a raccontarci tutto, che sia troppo tardi, che non possiamo più aiutarti? Perché non dici cosa sono tutte quelle cadute dalla scala, non guardi dove cammini o che cosa succede? ... Sto dicendo che Pilar ha avuto troppe tendiniti, troppi strappi muscolari, e ha rischiato di perdere un occhio e quel gran figlio … le ha spostato un rene con un calcio”. E’ questa la triste realtà che non si vuole vedere e che non può essere accettata, la fine del legame matrimoniale, lo sciogliersi di un vincolo concepito come indissolubile ed eterno, perché significa riconoscere la libertà decisionale della persona, come rottura degli schemi della cultura e dell’ideologia educativa tradizionale ricevuta, per incamminarsi verso strade incerte e dolorose ma libere e piene d’amore. Un film forte, dai contrasti marcati e stridenti, decisi, su di un confronto di coppia che si muove al confine, tra la vita e la morte, e che per fortuna finisce bene, grazie anzitutto alla maturità agita da parte di Pilar, alla decisione di lasciare andare il peggio di sé e di evitare lo scontro diretto, la guerra, con l’ uomo amato, Antonio, suo compagno e marito. Pilar decidendo per sé e per la propria libertà cambia radicalmente la strada di contrasto con l’aggressività distruttiva e con l’odio del marito, evitando il terreno minato nel quale questi voleva trascinarla. Antonio, piano piano, rimane “contaminato”, piacevolmente influenzato, dai modi gentili e silenziosi di Pilar, di come porta creativamente avanti la propria vita, risvegliando in lui il desiderio di maggiormente conoscere e avvicinarsi a questa parte vitale agita dalla moglie, così che accetta di lasciarsi aiutare e decide di seguire un percorso di crescita, entrando a far parte di un gruppo di uomini che vogliono trasformare il rapporto con le loro mogli, guidati da uno psicologo. In breve tempo fa tanti progressi e apprende che c’è un modo diverso di rapportarsi e dialogare con la moglie, che implica un diverso modo di pensare e ascoltare i sentimenti, vivere la propria interiorità e l’intimità nella coppia. Poi però si scoraggia e riprende la solita strada, fatta di


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assoluti che non possono essere messi in discussione, pena lo sgretolarsi di una stabilità personale che fonda le sue certezze sul passato e sulla cultura tradizionale che da esso deriva. Antonio sente il bisogno di tornare a indossare la sua deposta corazza caratteriale, non riesce a capitalizzare l’aiuto ricevuto e nel momento che Pilar chiede la sua adesione ad un progetto di rinnovamento, invece di accogliere e accettare il nuovo, ripristina il vecchio schema di un pensiero anacronistico, ormai in disuso e dismesso. Antonio rimanda l’occasione di affidarsi completamente ad una guida, abbandonarsi all’aiuto sincero dell’ altro, arrendersi e abolire i suoi convincimenti irrazionali, per aprirsi alle novità, deponendo le armi della violenza. La realtà sempre si impone e ritorna con le sue leggi, che sono poi leggi della vita: Antonio non ha gli stessi ritmi e tempi di Pilar, non ce la fa a porre in essere cambiamenti veloci e definitivi; non è determinato nel rinnovamento delle pieghe profonde del proprio essere, che alcune scelte richiedono. Il cambiamento ripromesso e auspicabile non viene perseguito fino in fondo e ai primi ostacoli si ferma, si blocca. Antonio resiste e rimanda il confronto, che pur dovrà considerare nel suo proposito di diventare veramente uomo, rimanendo a soffrire le pene dell’inferno all’ interno del rapporto matrimoniale. Un inferno che lo tormenta e lo domina con le sue fiamme, sempre più accese di cattiveria e di odio, causa di un dolore che dovrà poi essere rivisitato. Infrange così, come ultimo atto di odio distruttivo rimosso, la sicurezza e la stima che Pilar con il suo lavoro era faticosamente riuscita a conquistarsi: gli strappa, in un raptus d’ira furenta, i vestiti di dosso. Vestiti del rinnovamento, belli e puliti, eleganti e curati, come per un primo incontro d’amore, indossati da una donna, sua moglie, che ormai non riusciva più a controllare. Pilar, in un estremo bisogno di regressione e richiesta di protezione, si fa la pipì addosso e si arrende. Si arrende dinanzi ad una nudità che lungi dall’essere colta e protetta e vissuta, viene invece esposta alla gogna e derisa, fatta oggetto di scandalo,

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di annientamento psicologico e indicata come nemico da combattere a tutta la piazza, alla gente passante che non sa e rimane colpita da quello che vede. Una scena tremenda, orrenda, di un dolore indicibile e inarrivabile, che si vorrebbe non accadesse mai nella vita di nessuno: strappare il cuore, l’anima, ad una persona con la forza e mostrarla come trofeo ai passanti nella piazza, ad un pubblico voglioso e assetato di esibizionismo, di sesso e corporeità. A questo punto Pilar prende la sua decisione radicale: la separazione legale da Antonio, senza più voltarsi indietro. La decisione ultima e tanto sofferta di separarsi dall’uomo che ha amato, per lasciarlo al suo destino, se mai vorrà prendere coscienza della distruttività e dell’ odio che è capace di generare, per incamminarsi su costrutti identitari diversamente fondati su presupposti di libertà e di bellezza. Ma per ora tocca a lei fare questo cammino. E Antonio lo capisce. Rimane in silenzio. E qui forse intuisce che anche per lui è possibile l’alternativa. Dopotutto c’è sempre un’ altra possibilità. Pilar decide di non rimanere un attimo in più in casa con Antonio, alla mercé dell’ uomo che ama, di non fare più la vittima, né di soffrire masochisticamente, trovando alleanza nel gruppo delle sue amiche. Decide di rimettere i panni della bellezza strappata con prepotenza e violenza e per onorarli con la sua anima bella e leale, perché possa iniziare da subito a risplendere di luce propria e non più riflessa sotto il controllo familiare e matrimoniale. Pilar, in tal modo, infrange il tabù che sia l’uomo a detenere il potere di imporsi con la forza e che sia sempre lui, senza mai denudarsi, ad avere il diritto di mettere a nudo e spogliare la donna a suo piacimento, ricorrendo nel caso di opposizioni, alla forza fisica e alla brutalità dei calci e pugni: l’uomo che strappa i vestiti di dosso alla donna, la spoglia per umiliarla e assoggettarla, piegarla alla propria volontà e al proprio piacere. In realtà è l’uomo che viene denudato, facendo scorgere la propria brutalità e mostruosità e mettendo in luce la sua strenua opposizione al


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cambiamento, per un rinnovamento, nello sforzo di superare i possibili traumi vissuti durante le precedenti fasi della vita. Una nuova cultura è allora necessaria, dei nuovi miti devono essere creati, uomini nuovi e una nuova società deve nascere, con un nuovo popolo, dove i riferimenti siano diversi e le decisioni e le scelte non nascano dai veleni esistenziali, accumulati nei sotterranei dell’animo, quanto piuttosto dal desiderio di creare una bellezza nuova e inedita, sconosciuta e inespressa, di realizzare prioritariamente e nella libertà la propria vita come dono. La stessa libertà, come valore guida, che sceglie Pilar nel film e che la conduce verso la sua salvezza, anche per costruire un futuro sicuro e diverso per il figlio. C’è da ribaltare strati e strati di una cultura non più funzionale alle scelte esistenziali dell’uomo moderno. C’è da rinnovare la mentalità e gli schemi di pensiero di un modo di pensare e di ragionare, abbandonando vecchi e svianti riferimenti. Il rapporto tra l’uomo e la donna è tutto da costruire, non più tra sventure e sciagure, ma nell’accettazione e nella conoscenza di mondi diversi, superando le incomprensioni e facendone motivo e possibilità di incontro. Una nuova identità di uomo si affaccia sulla scena della storia umana, accentuando e sveltendo processi identitari e di personalizzazione, proprio come suggerisce il regista in questo film, ripercorrendo la storia di coppia tra Pilar e Antonio. Pasquale Montalto

DEL SILENZIO LE AMATE ALCHIMIE

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pure ha sparpagliato semi d’esperienza. Ali dorate avere ai limiti dell’aria dove muove il piede, chiedendosi dove lasciare i troppi pesi o se, del filo delle palpebre molto spesso chiuse, dipanare l’intricata matassa. Spaventa il sommesso brontolio del cuore nell’immensa vastità del silenzio: sconfitto a tratti da echi di voci, troppo lontane. Salvatore D’Ambrosio Caserta

DESIDERIO Mi è pace l’itinerario alberato del ritorno. Il guanciale è tra plenilunii che spiovono su ondulati miei cari colli. In inverno la pioggia danzava sul capo fanciullo e stralunavo come tordo in fondi oliveti. D’estate era oceano la luce. Ho desiderio di lucciole, di poggiare in un trivio e sostare - lago quieto che ha aromi e intorno biancheggiare di zagare. Rocco Cambareri

Incastri di pensieri si cercano dove geometrie cosmologiche del silenzio conducono con passo leggero verso geografie sconosciute. Il viaggio è breve e lento, o a volte rapido e nervoso, di chi cerca e quasi sempre non trova soluzioni di arcane sciarade, quantunque dell’effimero percorso della vita

Da Versi scelti - Guido Miano Editore, 1983

Per fare un giornale, ci vuole coraggio, ma è più difficile farlo vivere. Composizione, bozze, carta, stampa, confezione, buste, spedizione eccetera. Se volete che

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IL MIO SABATO di Leonardo Selvaggi La mattina dell’ufficio L sabato significa stato psicologico e condizione magica dell’illusione, lo spazio di tempo per la speranza di avere altre cose: ripetere il ritorno sulla sommità con quanto desiderato. In piena libertà lungo il sentiero che con aerei disegni orla le vallate di sotto. Lo stato di sogno, del dolce languore che porta dentro di noi la sottile insoddisfazione. Il sabato è una pausa che ci fa riconsiderare il senso del non essere e vedere la dura realtà con la mente ovattata. Lo stato che si vive è sempre in equilibrio instabile. Tanti giorni che vediamo da un vetro trasparente, il tempo dell’adolescente, la vita come continuità di alternanze. Il corpo che ritrova la ripresa e così la caduta del giorno, la dolce raccolta sera e la mattina come ritorno della rinnovata prova. Il mio sabato dura con fatica, vivo alla giornata: saturazione piena, incrostazione sulla pelle, non ho più il lungo percorso che si perde ad ogni passo, ci sono le lontananze fosche di un futuro che non si vede. Una fermata, esauste le ossa non hanno più il movimento libero. I binari tagliati in frammenti è un andare e ritornare sui propri passi; camminare a ritroso, i ricordi irrorati dalla pioggia di primavera trasparenti e rinvigoriti, le gocce colorate sospese, freschezza sul viso. Si va avanti con titubanza, l’ orizzonte che ha avuto sempre una coltre nebbiosa, ora è un tratto chiaro, un segmento entro i suoi punti. Lo frantumo pezzo per pezzo, cerco di rubare ancora altri tasselli che ricompongo all’arrivo del sabato. Duro sarà quando il segmento non sarà più rivissuto per tratti; allora mi troverò sulla sua lunghezza indeterminata che nasconde l’insaputo momento rovinoso. Una successione di giorni che non avranno differenze, tutte domeniche illanguidite e rese anonime da un livellato indolente movimento. Non più due vestiti che si dividono e vanno insieme come due binari, la mattina dell’ufficio, il pomeriggio della mia

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persona con i pensieri che intessono le idee e convinzioni, tutto il mio modo di essere d’un blocco. Si riannodano ancora gli attuali momenti ai vari passaggi del tempo trascorso. Come in un cesto tra calde piume gli anni luminosi dell’adolescenza, le illusioni che si tengono sempre accese; senza fine l’ampio spazio, entro scorre il fiume delle scintillanti sensazioni. Il contatto di fuori, la vicinanza della natura. Quasi essere alato succhio di nettare della vita e la fantasia si prende più di quello che il reale delle cose può offrire. Amplificato tutto, anche i velati nascondimenti l’ immaginazione porta fuori scoperti. La si fa longeva perché gli altri che ti corrono dietro danno un po’ i loro anni. Quando i binari sono divaricati senti la sola tua vita che non ha nessuna aggiunta. È la tua esclusiva brevità. Uno svolazzo che non ti aspetti, un soffio vellutato che palpa le gote, un taglio nello spazio vicino. Leggerezza che avvolge con parole pure, rende penetrabile l’intimo e ci si ripiega su di esso. È tutto l’io, nessuna proiezione verso l’esterno, la provvidenza arricchisce se stessi di tutto. Una luce che rischiara su parole dolci, profonda e diffusa per i nascondimenti che si fanno altari di pace. La serenità si copre di intoccabile difesa, le scorie cadono giù per terra. È fuori tutto il malessere che tagliato si dirupa dalla perfetta psicologia sulle realtà che in agguato tramano insidie. Su questo terreno aspro di contrapposizione si muovono i concetti che mi sono abituali dei miei pomeriggi. Ripeto che il ruolo dei beni culturali deve estrinsecarsi ampiamente in promozioni di professionalità ed in programmi di occupazione. Campo florido di premesse realizzatrici la cultura classica del Mezzogiorno dalle Puglie alla Sicilia con la presenza multiforme delle tradizioni storiche. Far rivivere con l’attività di restauro gli antichi emblemi di arte e di attività di popolo. L’Europa, poi, che sta per prendere la sua definitiva struttura dinamicizzante per tutti i paesi aderenti non può non servirsi delle storiche civiltà mediterranee ricche sempre di potenziali energie. Le biblioteche degli enti locali debbono avere un processo di ridimensionamento come centri


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di ramificazione di contatti, di rapporti vivi nell’ambito degli assessorati alla cultura. Le biblioteche devono rimanere gli strumenti di formazione: attraverso i vecchi fondi bibliografici rivalutati di antiche famiglie riscopriremo forze nuove che possono dare spinta e vita, significati di autentica documentazione per l’uomo. Far risorgere un costume sano con una società concreta, operativa. C’è la necessità di tornare alle proprie basi fondamentali. Da una fase retorica andare verso limiti chiari di azione che possano circoscrivere l’ambito dei veri beni culturali su cui intervenire. Oltre tutto rifare il tessuto sociale con il senso della misura, smantellare ogni forma di aberrazione umana che si estrinseca con sperperi ed egoismi parossistici. Turismo e cultura. Richiamare forme di attività passate in disuso. Gli enti locali più propriamente sono nello spirito dei beni culturali, trovano nel loro contesto la presenza di rapporti veri. Si tratta di ripercorrere la strada che porti all’ individuazione sempre più accentuata dei centri storici e dei corredi particolari di memorie. Incontenibile inibizione Struttura del corpo fatto di parti liberamente intercorrenti. Non ci sono sacche indurite che sono pesi né perdita di verde in un prato sassoso che fosse, disarmonico con ciuffi d’erba e rialzi. Poi i nervi si tirano facendo pressione sulla muscolatura. La circolazione ha flussi diseguali non ben concomitanti. La base uniforme non c’è, i legami vanno un po’ da sé per un corpo che sembra rattoppato o manipolato senza rifiniture. I pensieri sono molte volte ferite e impulsi che gli organi fanno cigolare e alterare. Basta andare indietro, alle case desolate immobili con le rustiche pareti, i selciati e i muretti che delimitavano angoli chiusi. La origini della natura. Solo l’ essenziale germoglio del seme in mezzo al campo argilloso poco dissodato. Come steli aridi degli interstizi, duri i sentimenti e i legami fra le persone severi schematici. Scarna la vita come il paesaggio. Torvo lo sguardo del genitore se non vedeva i sette figli composti e alli-

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neati attorno al focolare. I ragazzi dai rozzi vestiti ispessiti sono uomini raccorciati con quel dialetto denso come olio d’oliva o vino delle colline assolate. Una voce mista tra femminile e virile, polposa vibrante verginale e tutta genuina spontanea senza finzioni. L’ espressione aperta e visibile, onomatopeica e specchio di tutto. La molta neve caduta ha fatto cupole intatte sulle forme delle case, manti gonfi di lana sulle strade. Un silenzio pieno comprime i vuoti, permanente attesa nei cuori, sempre pronti a dare. I visi accesi. Mia madre è un monumento, vi aleggia attorno tutto quel tempo naturale. Ha sapore di pane di grano macinato dalla ruota di pietra, porta l’odore della casa in ordine. Si mangia pane e coltello per dire che c’è poco; l’ appetito produce gusto. E poi sempre la parlata che è quasi un assaporare i suoni e adagiarsi sulle cose significate; ci vuole prendere in bocca quello di cui si ragiona per mettere dentro l’umore di se stessi. Un connubio vero tra quello che fa il luogo e quello che vicino sta alla persona. La forza maschile domina e le femmine soggette sanno fare tutto, i polsi nodosi sono resistenti per i lavori tutti fatti a mano. Diventano virtuose con l’ago e l’ uncinetto; l’abilità magica della fata. I ricami sono intrisi e caldi di sogni, il fiato silenzioso si intesse col filo per farlo profumato e compatto, quasi vivificato. La bocca si inclina sulle forme variopinte dei disegni di lana, sulle rose di filo che si uniscono in successione simmetrica; il pensiero parla tacito, distratto nella casa. Le parti intime strette da impenetrabile pudicizia, uno scrigno colmo di tesori. Il paese era piccolo e neppure lo si conosceva tutto, ma si sapevano i fatti delle persone, la comare del cuore e le vicine raccontavano quello che sentivano dire. La vita è un insieme di case amiche che se stanno a gruppi, allineate, l’una in faccia all’altra si guardano con gli occhi dell’unica finestra posta sull’architrave. Tutte diverse come le persone dalle caratteristiche e segni propri. Una lunghezza di storie tramandate che si infioravano di sapore di leggenda. La vita non aveva la fragilità che si sente oggi. La generazione attuale vede i mali degli


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altri che confortano e convincono: quello che si ha è una ricchezza della provvidenza e ci si contenta sul momento, ma sempre corrosi da un desiderio di non si sa cosa. La presenza di mia madre si aggiungeva a quella degli altri, un solo magma che si incrostava e niente faceva limite, era un’unica pasta lievitata che si dilatava con la interiore pacifica e ingenua consistenza di se stessi. I caratteri docili perduravano dentro l’involucro della pazienza remissiva. Un atteggiamento quasi di tutti. Ma a volte si annida smorta una vena di ribellione cresciuta negli anni, repressa che non può infervorarsi all’improvviso in momenti di eccessiva incontenibile inibizione. Allora l’ira s’inalbera, le parole si scagliano contro astiose ed esulcerate. Qualcuno per natura più incline alla violenza: aveva sentito parlare di truci episodi del tempo dei briganti e quello più brutale quando andava in bestia gli veniva in mente spinto da una rabbia cieca: la fine fatta da Angela Ricotta. Donna imprudente e di gelosia malvagia aveva rivelato il rifugio ove erano tenute nascoste le belle figlie di una famiglia perbene del paese. Le appetitose fattezze, il roseo candore di purezza intatta, la loro giovinezza profumata come i fiori dai calici ancora chiusi, di gocce di miele i petali soffusi. Solo gli artigli di un nibbio avrebbero la preda fresca e fumigante intravista di fine sapore insozzato; le piume del manto bianco come velo di immacolata fragranza con insaziabile brama scomposto. I briganti prendono durante le loro razzie tutto quello che scovano. Per il bottino più piacevole che si possa avere Angela Ricotta si fa mezzana traditrice. Trascinata per le strade, trucidata a pezzi, furioso va dietro di corsa mezzo paese, festanti i ragazzi percuotendo i coperchi delle pentole. Il guardaboschi a cavallo va per il paese spavaldo, uomo rozzo e di modi pesanti. Ai legami con Stella di famiglia fra le più onorabili nessuno voleva credere. Ci si ostinava che era una delle sue spacconate di prepotenza; il cavallo fra le poche case passava percuotendo sulle discese di acciottolato i ferri degli zoccoli. Lui il dissacratore del contegno morigerato che in genere tutti gli abitanti hanno.

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Proveniente da altri luoghi si sentiva libero. Una scommessa per tutti i suoi conoscenti. Quasi un colpo di scure inferto alla integra compostezza della famiglia offesa; una sera alcuni aspettano nell’ombra all’estremo del paese su cui si affaccia il balcone della donna amante: per comprovare la verità della prodezza un lume acceso il gradasso avrebbe fatto comparire fuori della ringhiera. La diceria si fa certezza, non si può tenere come peso soffocante questo atto di improntitudine feroce. Il guardaboschi attraversa la piazza, si ferma alla fontana per abbeverare il cavallo, due ragazzi eccitati dal suo aspetto ridicolo per la balbuzie che fa le parole sconnesse e stentate. Derisione e gioco, spruzzi di acqua sulla faccia, insistenti gli insulti e le provocazioni che lo fanno esasperare e andare fuori di sé. Gira irritato sulla bestia dissetata per il vicolo verso casa. Trova la vendetta che esplode, la morte portatagli dal fornaio del paese, vengono sferrate coltellate furenti, il guardaboschi cade agonizzante: accusa i due ragazzi della fontana. L’omicida vero in agguato per espletare il misfatto commissionato se la passa liscia, aveva leccato il sangue della lama, in questo modo sarebbe rimasto sconosciuto il suo gesto. Pazze di piacere Il fresco delle sere estive nella penombra della strada, una tenerezza amorosa dilaga le sottili emozioni: sentire le voci femminili, quelle espressioni che erano vibrazioni di ogni punto del corpo. Un parlare di nascosto, taciti invisibili incontri di sguardi e di accenni. Ad ogni piccola fatica ci si illanguidisce, liquefatte le riflessioni, tanto è il travaso che tiene dietro ad uno stato d’animo sensibilizzato. Sui gradini con le vicine, inavvertibili trepidi contatti, parole pieghevoli ad ogni dolcezza. Le feste popolari ai Santi nelle chiese dei boschi. A Sant’Antonio abate sulla montagna mai andato, ho imparato di lontano a distinguere il luogo dalla sua forma trapezoidale; mio zio Innocenzo che in paese chiamano il re del Giappone perché di statura bassa, con sorriso permanente sulla faccia, il modo


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immediato di fare amicizia per la sua semplicità, lui mi parlava delle caverne dei briganti, di oro trovato in grossi recipienti. Il cervello si abbaglia guardando l’esuberanza delle ragazze avventurate sull’altalena appesa ai rami dell’ulivo, sbilanciandosi libere in ebbrezza sventagliata, disarticolate con le gambe denudate, le chiome scarmigliate, il viso rubicondo, pazze di piacere agreste il giorno del lunedì dell’Angelo con le ciambelle lucide cotte attorno alle uova, la minestra sapida di finocchietti selvatici e tutte le torte dal ricco strato dentro di formaggio e salciccia, le focacce infarcite di foglie di cipolla fresca e di uva passa. Fra poco non ci sarà più spazio sui marciapiedi; io che sono l’autentico pedone fra i pochi, mai pensato alla patente di guida mi tocca passare stretto lungo i muri. Le macchine sono aumentate a vista d’occhio, la ragazzetta s’infila dentro, sul manubrio salta come capretta, accompagna le curve con l’ inclinazione della testa; solo piacere e divertimenti, i piatti non li vuole lavare e la casa puzza di chiuso. L’auto sarà uscita dagli incontri svolazzanti già esperta sul corpo sfibrato del vecchio amico. Adulatrice esibizionista di furberia mascherata da ingenua adolescenza al primo sboccio. Le persone ormai non camminano, poco amore per la campagna, case nei piani alti, il cuore di metallo. Ampio lo stomaco aperto sempre a prendere ogni tipo di mangiare sofisticato. Avidi di carne gonfia di animali che non vanno all’aperto sui prati a brucare l’erba, chiusi nelle stalle o nelle gabbie, funzionanti apparati meccanici. Per prendere i mangimi chimici percorrono solo il tempo sintetico stretto dell’aumento del grasso, senza il libero sviluppo. Sul brusio di gente alla vigilia della festa numerosa venuta al mare vedo volare curiosi per guardare in basso i gabbiani, il collo bianco fisso ruotando adagiati in abbandono quasi sull’aria ventilata per la luminosità del giorno. Passa un giovanottone dall’orecchino spingendo una carrozzina carica di un neonato, segue una giovane dalla minigonna, gli arti inferiori tutti fuori pare che sprigioni calore da ogni foro.

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Pelle rossiccia Di ritorno da un viaggio per la Svizzera fino alle cascate di Sciaffusa, nella stazione di Lmbrate pensando a Torino, abbandonato su una panchina. Il malumore si gonfia all’ umido della notte, vela d’ipocondria le belle traversate fatte in un paese che dà respiro con le sue tradizioni, pause serene. La città ove dimoro, solo materiale peso di contrapposizione, cintura stretta attorno alla vita che è assenza piena di corrispondenza. Per loro niente va bene, quello che tu fai guardano con ipocrito sorriso. La pelle rossiccia di tanti, suocere puntigliose hanno un minuto modo di fare, parole astiose, vedono i buchi più piccoli, il pelo nell’uovo. Quella elasticità che congloba un insieme di fatti dando soluzione per un fondo di base dialogato. Aciduli, pronti nel momento che non vuoi per rinfocolare i diverbi che vanno lasciati maturare nel loro stesso alveo. Una prestabilita cruda contrarietà, vischiosa sadica erosione per tutto quello che manifesti. Davanti ad un accaduto o situazione che farebbe subito parlare vai vicino al muso prominente preso da strappi di sensazioni per avere un segno di colloquio, trovi la solita repulsione conseguente al dialetto diverso. È più facile tirare fuori gli intestini e non un cenno di accondiscendenza. Tutti signori comodi e solleciti a seguire i cambiamenti della moda. Divenute persone delicate, le chiavi penzoloni dalle dita, aprono la macchina lustra. Penso all’asino odoroso di fieno, legato vicino al portone, attende il padrone per andare in campagna; la giacca di velluto, i pantaloni duri, le mani callose per i lavori pesanti. Tutto semplice e la naturalezza dei modi attonati con l’ambiente; si riconoscevano le persone, le trovavi a portata di mano; oggi quella corteccia vivida che faceva il viso e la parola si è staccata ed è venuta fuori una pelle senza espressione, nessun segno che contraddistingue; la macchina ha mascherato la sua vecchia storia, quella vera del paese. Tutti livellati nella città che non va per il sottile, dentro il reggimento anonimo più bello si fa certamente l’ignorante di fresca e ingenua forza. Bisogna andare nei posti da dove si è


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venuti per ritrovare il giudizio concreto su di sé da chi ci ha visto per tanti anni e ha conosciuto il carattere e il costume dei primi parenti. Sono sceso dal treno per la stessa avarizia di accumulare passeggiate in altri luoghi. In un tragitto mi faccio il programma delle fermate. Corro dalla stazione verso il centro storico. Sono a Tortona, non sapevo che fosse di qui Don Lorenzo Perosi, domando a tanti per andare al punto della sua esistenza dove più si concentrano il suo respiro e ricordo. Attorno alla cattedrale la storia antica e facendo il giro più volte mi sembra di risentire le sonate sacre del geniale sacerdote. Leggo la targa che mi parla di Cristierna di Danimarca, ultima duchessa di Milano che alla dotale Tortona conferì di sé bontà, gentilezza, regale liberalità. Leonardo Selvaggi

DISSOLVENZA Due mele cotogne sode e rubiconde, caro fruscio di veste come lei fiorita; ora oltre le ande le ilari anche. Prensile e tattile solo la sembianza: essa pure fuggita. Rocco Cambareri Da Versi scelti - Guido Miano Editore, 1983 AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 13/4/2018 Lo show di Berlusconi, all’uscita dal colloquio con Mattarella, mentre Salvini riferiva, è vergognoso, umiliante, puerile, avvilente e forse anche un tantino mafioso. Alleluia! Alleluia! Sconfitto alle elezioni rispetto alla Lega, non riesce a ingoiare che altri, anche per accordo da lui sottoscritto, possa rappresentare il Centrodestra e fa capricci peggio che un bambino. Domenico Defelice

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Il Racconto

IL PRECURSORE di Antonio Visconte

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N quel periodo, dagli anni trenta agli anni cinquanta, frequentavo il teatro San Carlo di Napoli, per dare sfogo alla mia passione per la musica lirica e sinfonica. Lo storico tempio era diretto da Francesco Canessa, autorevole critico musicale, che già si era distinto in tale settore con il suo spessore di uomo colto e pratico. A differenza di altre strutture, che mirano soltanto agli incassi, il valido impresario portava sulla scena le opere di autori sconosciuti e altrettanto interessanti, considerando le loro peculiarità tecniche e armoniche. Molto spazio alle commedie del Settecento napoletano, sempre attuali per la loro atmosfera frivola e galante. Una cultura a buon mercato, onde avvicinare le nuove generazioni al melodramma di ieri e di oggi. Il professore Uccella, erede del grande scultore Raffaele, che intitola una scuola della mia città di Capua Vetere, organizzava i torpedoni per gli abbonati alla stagione operistica, però l’amico Peppino Campanella mi ospitava nella sua macchina, non facendomi mancare le accurate osservazioni su ogni esecuzione. Non ricordo per quale motivo mi consigliò d’iscrivermi come socio nel Circolo Artistico di piazza Trieste e Trento, a pochi passi da piazza Plebiscito, pur sapendo che non sono un giocatore. In quelle dolci serate autunnali, mentre il mare luccicava di mille colori e le stelle sembravano fiammelle, durante una festa danzante al Circolo Ufficiali, conobbi la marchesina Tilde D’Amato, che aveva la madre anziana e alle otto di sera doveva rincasare. Volentieri mi fidanzai con lei, in quanto non mi chiedeva il matrimonio, dal momento che già ritornava da una esperienza sbagliata, ma dovetti abbandonare il celebre palcoscenico e optare per il cinema, considerati gli orari più concilianti.


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Nel ridotto della quinta fila del famoso teatro, conobbi Cesare Mincione, un omino basso e tarchiato, rossigno nel viso e nella chioma, che fungeva da maschera e intrecciai con lui una sincera amicizia. Sapendo che voleva aprire una scuola di musica, crebbe il mio interesse, almeno tra gli alunni qualcuno avrebbe suonato le mie non poche composizioni. L’avvocato Giuseppe D’Albore di Casapulla, città rinomata per i geni musicali, presidente della provincia di Caserta, ci fece delle promesse, che andarono a vuoto. Dopo alcuni anni, al corso Garibaldi di Napoli, dove abitava, incontrai l’amico Mincione, alquanto attempato e sempre sulla breccia e gli rivolsi alcune domande. “Maestro”, gli chiesi, “dove siete stato in questo frattempo?” “Sono stato in un bellissimo posto, dove vanno gli uomini illustri e i benefattori dell’ umanità”. Non gli sollecitai altre illazioni, per non mortificarlo, ben conoscendo il magnifico posto a cui si riferiva il maestro, poiché i giornali avevano diffuso la notizia. Tutto cominciò quel pomeriggio, quando una ragazza aveva ottenuto un impiego e le serviva il diploma di ragioniere. “Al più presto”, precisò Cesare. “In un anno ce la facciamo?” ribatté la ragazza. “Anche prima”, assicurò il maestro, “perché aspettare tanto?” “Benissimo, ho trovato la scuola giusta”, mormorò Concettina. “Adesso, vai a casa e portami un anticipo”, affermò Cesare, “e domani a mezzogiorno vieni a ritirare il diploma”. “Ma voi scherzate?” “Qui dentro si fa tutto sul serio”. Concettina divenne di fuoco, appannò la vista, scolorì il volto, arruffò i capelli e credendo di aver commesso un reato, soltanto a varcare quella soglia, iniziò a correre giù per le scale, mentre Cesare, ancora in vestaglia, gli saltava dietro, gridando di fermarsi. Giunsero i carabinieri e riscontrarono che il povero uomo falsificava anche la laurea nelle diverse

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discipline. Cesare non era un pentito, anzi si gloriava di essere stato rinchiuso nel carcere per due anni. Del resto cosa aveva fatto di male? Aveva indirizzato i giovani al lavoro, senza far perdere il tempo sui banchi di scuola. A dire il vero, mi viene proprio la voglia di non dargli torto. Antonio Visconte

IERI OGI Ieri si partiva con la valigia di cartone. Oggi si va a Milano con i sogni tra le nuvole. Si spera che qualcuno t’apra un buco per dormire e la paga ti lasci qualche euro per panino e companatico. Siamo i figli di quella gente che dopo vent’anni tornò nei posti dove concimò solchi con sudore di fatica e da lontano si fregiò di nero la camicia per la prematura morte delle madri. Abbiamo visto abbiamo sentito ciò che dai nostri padri fu visto e fu sentito. In questa terra sono aumentati i nomi degli innocenti sulle lapidi. Invitano i vivi a maledire e a fuggire. Le loro ombre vagano di giorno. Di notte emettono lamenti per i vicoli di Scampia e di Palermo. Qui per un motorino un cellulare uno sguardo fisso a una fanciulla scintillano coltelli sotto il sole. Si esce e non si sa se si rincasa. Sembra che il vento espanda gridi; odor di sangue si moscoli al bruciar di giugno nelle piane all’arso fieno delle bufale al dolore imprigionato di chi piange. Gianni Rescigno Da Sulla bocca del vento - Il Convivio, 2013


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I POETI E LA NATURA – 79 di Luigi De Rosa

D. Defelice - La casa del pipistrello (biro, 2018)

A cinquant'anni dalla morte del poeta

QUASIMODO E IL MITO DELLA SICILIA GRECA

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er Salvatore Quasimodo, che era nato nel 1901 a Mòdica (e di cui ricorre, in questo 2018, il cinquantenario dalla morte) la Sicilia rappresentò per tutta la vita un autentico mito, un mito di bellezza e di pace, di soddisfacimento interiore umano e integrale, a dispetto delle “forze oscure” che lo turbavano nella vita quotidiana al Nord. S'era sistemato a Milano dopo aver abbandonato gli

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anni frustranti del lavoro al Genio Civile (era geometra) in giro per l'Italia, e si inseriva sempre più a fondo nell'ambiente letterario che contava. Forte, anche, della tranquillità economica derivantegli dalla cattedra di Italiano conferitagli al Conservatorio Giuseppe Verdi (che mantenne fino alla morte, nel 1968). Ma, al pari di Montale, che, pur inserito al Corriere della Sera e nell'ambiente letterario milanese, giudicava Milano “un conglomerato di eremiti”, soffriva di solitudine e restava tenacemente avvinto ai suoi ricordi di un'infanzia siciliana forse più favoleggiata che vissuta. E questo ancor più dopo le sue bellissime traduzioni dei LIRICI GRECI. Quella di Quasimodo, comunque, non è una Sicilia reale. Ma è un'isola da paradiso perduto, di corsi d'acqua e di piante da sogno, fuori del tempo. Un'isola da trionfo della Natura. E dai rapporti umani teneri e affratellanti. “Isole che ho abitato verdi su mari immobili...” cantava, in “Cavalli di luna e di vulcani”, nella Raccolta intitolata “ Ed è subito sera” (Mondadori 1942). “Ed è subito sera” veniva alla luce dopo una produzione poetica molto importante (Acque e terre, 1930 – Oboe sommerso, 1932 -) e sarebbe stata seguita da altre sillogi importanti, ospitate nella collezione “Lo Specchio” di Mondadori. Ricordiamo Giorno dopo giorno (1947), La vita non è sogno (1949), Il falso e vero verde (1954), La terra impareggiabile (la Sicilia, appunto...) 1958. L'opera completa (Tutte le poesie) sarebbe uscita nel 1960. Tra i critici di valore che si sono occupati della poesia di Quasimodo non possiamo non fare almeno un cenno a Sergio Solmi, Carlo Bo, Giorgio Bàrberi Squarotti, Ferdinando Giannessi, Bòrtolo Pento. E poi, il Premio Nobel. Accenniamo qui solo di sfuggita al vespaio di polemiche suscitato nell'ambiente letterario dall'assegnazione dello stesso a Quasimodo. Secondo molti, la Commissione svedese aveva preso una topica, tanto per cambiare, perché, secondo loro,


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c'erano tanti altri poeti più meritevoli di essere insigniti del prestigioso Premio... (Se ne occupò Emilio Cecchi su “Il Corriere della Sera”, in un articolo riprodotto su Belfagor nel 1960). Ma torniamo alla Sicilia vagheggiata da Quasimodo, quella di Cavalli di luna e di vulcani. Senza mai dimenticare che vi sono... due Quasimodo, due maniere, Prima, quella rappresentata dall'Ermetismo e poi quella del poeta “impegnato” socialmente, moralmente e politicamente, contro la guerra e la violenza. Un esempio della prima maniera è proprio questa poesia di “Ed è subito sera”. Mentre come esempi della seconda maniera si portano “Sei ancora quello della pietra e della fionda” e “Come potevamo noi cantare”. “Isole che ho abitato verdi su mari immobili. D'alghe arse, di fossili marini le spiagge ove corrono in amore cavalli di luna e di vulcani. Nel tempo delle frane le foglie, le gru assalgono l'aria: in lume d'alluvione splendono cieli densi aperti agli stellati; le colombe volano dalle spalle nude dei fanciulli. ….................................. Per te dovrò gettarmi ai piedi dei potenti, addolcire il mio cuore di predone. Ma cacciato dagli uomini, nel fulmine di luce ancora giaccio infante a mani aperte, a rive d'alberi e fiumi: ivi la latomìa d'arancio greco feconda per gli imenei dei numi.” Fin dal tempo degli antichi greci, la latomìa era una cava di pietre da taglio. Ed una molto importante si trovava a Siracusa... Luigi De Rosa

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Recensioni LUIGI DE ROSA LO SPECCHIO E LA VITA Edizioni del Centro Culturale MAESTRALE di Sestri Levante ((GE), 2006, € 7,00, pagg.118 Forse è stata la quintultima poesia dell’assortito florilegio dal titolo Lo specchio e la vita di Luigi De Rosa, a far scattare un possibile collegamento col cinema precisamente con un film melodrammatico uscito nel 1959 del regista statunitense di origine danese, Douglas Sirk (1900-1987), autore del remake Lo specchio della vita, già uscito in precedenza nel 1934 grazie all’altro regista John M.Stahl (1886-1950). È stata una pellicola cinematografica improntata sulle immancabili incomprensioni generazionali, quello tra madre e figlia sviluppato su due binari paralleli in quanto, potremmo dire in positivo e negativo, oltre al rapporto madre in carriera/attrice teatrale e figlia, c’era il rapporto governante nera con la propria figlia che si spacciava per bianca, quindi rinnegava la sua vera origine e conseguentemente non mostrava stima verso sua madre. La poesia che ha fatto nascere tutti questi allacciamenti è La mia mamma era più bella di un’attrice e, ricordiamolo, che la protagonista del film di Douglas Sirk fu l’attrice Lana Turner con la figlia adolescente Sandra Dee. La bellezza femminile sembra proprio sia stata posta al centro dell’attenzione, così per il regista che realizzò il film-remake, così per l’autore di Rapallo, nato in Campania, Luigi De Rosa che non ha mai nascosto un suo antico dramma familiare indubbiamente dal peso specifico assai rilevante. Scorrendo questa poesia di vago sapore hollywoo-


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diano, si viene a conoscenza in breve dell’intera vita del poeta partenopeo, cresciuto in Liguria, Luigi De Rosa, innamorato di un ricordo che col tempo ha assunto la forma di una cartolina che non è stata mai spedita. La cartolina è diventata depositaria delle verità di un affetto filiale mai esternato perché non c’è stato il tempo per farlo: lei, la madre, è andata via dalla sua vita quando lui era ancora un fanciullo e quindi non poteva comprendere cosa stava succedendo davvero tra sua madre e suo padre. Ma con la luce e la maturità di poi, è riuscito a versificare ciò che di bello si è potuto recuperare da quell’esperienza; innanzitutto la bellezza materna dislocandola nella dimensione addirittura cinematografica, presumibilmente perché cinema e sogno hanno molto in comune. « La mia bellissima mamma (era più bella di un’attrice)/ quando mi partorì/ aveva solo sedici anni./ (Il mio colto papà seminarista/ soltanto diciannove)./ Il loro matrimonio non fu felice:/ appena la guerra finì/ non si rividero più./ Fino alla soglia dell’Università/ crebbi, più che con mio padre,/ (sempre assente perché rappresentante/ di commercio per necessità)/ con la sua seconda moglie./ Per me furono anni di guerra,/ solitario e ribelle/ ero sempre pronto a fuggire,/ affascinato dalle cose belle./ Poi non so cosa ho amato di più/ (oltre alla fiamma della poesia):/ se l’avidità della conoscenza/ o il calore del sentimento,/ se il sorriso dell’ironia/ o la fame di giustizia,/ se la passione sensuale/ o l’amore globale e coinvolgente. » (A pag.103). Questo è stato un aspetto dell’esistenza del poeta De Rosa che, ripeto, l’ha messo visibilmente in versi senza falsi raffreni. Continuando a rimirarlo nello specchio della sua vita, ci sono le situazioni esterne che lo hanno visto in viaggio per svariati motivi e ovunque toccasse terra c’era un rimando alla sua Liguria, ai nuovi affetti venutisi a creare, e sempre con e nella poesia si sono intrecciati i fili, trama e ordito, per un canovaccio tutto da interpretare fino alla piena maturità e oltre, allo svolgimento dei ruoli anche di responsabilità come il provveditore agli studi nella città di Trieste, ad Alessandria, a Torino, a Savona, a Bergamo. Nei momenti di distacco dal lavoro avveniva l’autosservazione per capire e per capirsi, indipendentemente dall’immagine che lo specchio riverberava, anzi Nel buio ci si vede meglio. « Nella mia vita multiforme c’è stato/ anche il tempo in cui cambiavo/ quasi ogni notte l’albergo e la città/ per incontrare sempre nuove persone,/ laureate, importanti,/ ma ascoltavo sempre un identico discorso/ decrepito come una reliquia faraonica/ anche se gabellato come il nuovo/ discorso di un nuovo ordine, mondo, cosmo./ Per fortuna la notte, preziosa come un gioiello,/ mi portava il soffice

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buio del guanciale/ dove affondare, nel sogno,/ disinganni e incomprensioni,/ e pregiudizi, vanità, stoltezze. ». (A pag.68). La mappa geografica delineata in versi dall’autore presenta qua e là percorsi che non portano in veri e propri luoghi, ma in posti dove lui è stato ora in ansia, ora in solitudine, ora turbato dalla tragedia di Cernobyl, ora malinconico, ora pronto a ripartire di nuovo considerando il fattore esterno quale potenziale fonte di ispirazioni per altri suoi componimenti e così sono nate liriche quali Autostrada di Liguria sospesa in cielo, Notturno da Pugnochiuso, Sull’autostrada per Piacenza, Amica mia Venezia, Lettera da Taormina, Convegno in Costa Smeralda ed altre. Ci sono stati anche tuffi endogeni in cui lo specchio non è riuscito a penetrare, strettoie interiori dove solitamente confluiscono i dubbi, i rimpianti, le domande del presente, e ad un certo punto la necessità di scoprire la vera dimora di chi scrive in versi, che da qualche parte deve esistere e non è certamente fatta di cemento e mattoni, nido al di fuori dello spazio e del tempo in cui avviene l’ elaborata alchimia delle parole. « Eppure ci sarà quel marchio invisibile/ quella piccola brace inestinguibile/ - in qualche parte dell’ “anima”/ come melopèa, ecolalìa struggente- / che sempre versa e sempre si rinnova:/ dov’è la casa del poeta?/ Tu dici, ridendo, che è questa,/ a due piani ma stile chalet,/ protetta da alti pini collinari/ in una folla di piante e di fiori,/ ai margini di un bosco che digrada/ fino alle sponde di un torrente amico./ Ma io nego, sorridendo,/ perché ad un’altra “casa” alludevo. E tu lo sai. » (A pag.82). Isabella Michela Affinito

SANDRO ANGELUCCI APPARTENENZA Eed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2006 L’Appartenenza è un segno di autenticità che non si può né ignorare, né cancellare. In una società tribale, ieri come oggi, i segni d’appartenenza ad essa sono chiari in ciascun individuo che la costituisce: a modo loro i pellerossa, gli indigeni dell’America del Nord, erano distinguibili per gli atteggiamenti, usi, costumi e linguaggio; in India le varie caste hanno conservato nei millenni le loro denominazioni d’appartenenza ed è impossibile confonderle o entrare e uscire da una casta all’altra a scelta della singola persona, che con i propri sforzi vorrebbe socialmente svincolarsi. Cosicché rimane una parola-vincolo che il poeta e critico letterario reatino, Sandro Angelucci, ha ri-


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marcato innalzandola a titolo di una sua silloge poetica premiata con il 2° posto al Concorso Città di Pomezia 2005. In un certo qual modo questa parola così pregna di significato possessivo – talché vuol dire far parte, essere inserito in un insieme – se la si dovesse chiarire geometricamente la sua figura corrispondente è il cerchio. Soltanto esso, preso così com’è nella sua situazione piana di figura con uno spirito vitale indistruttibile, autorigenerante, libera di ruotare sempre, senza nemmeno un angolo, delimita uno spazio dentro il quale può starci l’idea ordinata di una tribù, di una classe sociale, di una serie di oggetti omogenei, di numeri, eccetera. La omogeneità sta perfettamente nel cerchio per rappresentare un’ appartenenza e con ciò si spiega anche il senso del limite insito in essa. Dove c’è l’appartenenza c’è anche una linea di demarcazione abbastanza evidente, oltre la quale termina il diritto di proprietà, di comprensione. Non a caso si dice ‘far parte di una cerchia…’. Invece, in maniera più esigua di riferimento alla materia il poeta Angelucci ha così voluto intendere la sua Appartenenza: « Al cuore, mirate al cuore./ Basta con i sorrisi/ stampati sulle labbra,/ con le parole/ incommensurabilmente vuote./ Dammi la tua rugiada, o rosa,/ tu bianca come la neve,/ disseta i miei pensieri/ monda, detergi il mio dolore./ Lo so, conosco l’utopia/ ma questo cuore preme/ contro i polmoni./ No, non è la mia la vita/ che non mi vuole./ Io appartengo/ al senso di una rosa,/ al suo profumo/ bianco come la neve. » (A pag.8). Per l’ autore è importante l’aspetto regale e nello stesso tempo casto della rosa, in particolare la rosa bianca. Questa soleva simboleggiare la fine della vita terrena, la morte con tutto il suo misticismo nascosto nell’atto del trapasso e nell’arte sacra la rosa è stata posta tra le braccia o le mani delle sante e della Beata Vergine Maria. Ma accanto alla forte sensazione dell’appartenere a qualcuno e/o a qualcosa, il poeta Angelucci ha avvertito uno stato di instabilità, di evidente oscillazione che egli paragona ai cavalloni irrequieti del mare. E allora ha composto, quasi per rimanere in equilibrio, Io come un naufrago. « (…) E in questa dissonanza/ io, come un naufrago,/ m’agito e mi contorco/ nel nulla che contrasta con il tutto/ e il brutto/ che si oppone al bello./ Tra questi flutti,/ dove sembra svanire la speranza,/ io mi mantengo a galla/ sicuro dell’appiglio/ al quale ancora/ e prima o poi dovrò affidarmi./ Perché c’è un’altra terra/ per le mie radici/ e un altro cielo/ per i miei germogli. » (A pag.4). Anche noi siamo elementi di un insieme e questo insieme non l’abbiamo scelto noi ma la sorte, che

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non predilige nessuna appartenenza nessuna categoria, sistemandole tutte sullo stesso piano, anzi disponendo i rispettivi cerchi, liberi di ruotare, in uno spazio privo di tono quindi reso poetico da Sandro Angelucci. Isabella Michela Affinito

GIUSEPPE NAPOLITANO È QUESTO UN FIGLIO? Edizioni Eva di Venafro (Is), Anno 2012, € 8,50, pagg.93 « Non è difficile diventar padre; essere un padre, questo è difficile. » Frase che è stata scritta dal poeta e disegnatore tedesco Wilhelm Busch (18321908), che soleva pubblicare i suoi poemetti da lui illustrati. (Tratta dal II° volume de L’UniversaleCitazioni, in collaborazione con le garzantine, La Grande Enciclopedia Tematica, Garzanti Libri di Milano, Anno 2004, a pag.671). Questa silloge, è vero, piroetta attorno alla figura di Gabriella, la figlia del poeta, traduttore, codirettore dell’Edizioni Eva di Venafro, Giuseppe Napolitano, a sua volta figlio del noto Nicola Napolitano, preside professore poeta e scrittore campano. Quando è uscito dalle stampe il presente volume, lei, Gabriella, aveva soltanto dieci anni, una primissima tappa determinante su cui poggiare un’ emblematica pietra fatta di considerazioni in versi. Anzi, non è stata la prima pietra, perché l’autore aveva già pubblicato delle precedenti sue raccolte di poesie fin dal periodo in cui giunse la meravigliosa notizia del suo arrivo, quindi crestomazie come Passi, Passaggi, Insieme a te io sono nato ancora e poi È questo un figlio? Giuseppe Napolitano, nato a Minturno e residente a Formia, con un titolo ha posto un quesito non solo a sé stesso, ma a tutti i lettori che lo apprezzano e lo apprezzeranno ancora di più leggendo la scelta. Quesito a cui non è facile rispondere, perché il figlio, in questo caso la figlia Gabriella nata nell’ aprile 2002, rappresenta un’edificazione importante, agognata a lungo, che fa riflettere per le tante circostanze trascorse prima di vederla realisticamente e, da una parte, il poeta si sente estraneo alla sua generazione proprio per essere diventato padre fuori dai soliti canoni temporali. « I miei compagni di scuola hanno nipoti/ dell’età di mia figlia: l’ho saltata/ una generazione e più non posso/ recuperare/ - neanche se rincorro/ nel domani un po’ di ieri – ho perso treni/ che non ripassano e più non saprei/ come inseguire/ ne avessi la forza…/ che manca invece come l’entusiasmo/ di quei tempi avventurosi e insieme/ timorosi di insuccesso: odiavo


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i no/ – impedimenti vergognosi a subire – / ma per fortuna anche l’ultimo treno/ l’ho perso – e mi avrebbe portato/ chissà dove chi sa… » (Da “E poi…”). Si tratta della sensibilità di un padre più unica che rara, attraverso la quale sono passati al vaglio gli anni dell’infanzia di Gabriella, bambina che in qualche modo ha avvertito subito di avere un genitore attento, ricolmo di gratitudine, pronto sempre a festeggiare una data ricordevole, che insieme sono diventate occasioni giuste per comporre ulteriormente così nulla è andato perduto della piccola Gabriella, spunto per una personale filosofia in versi. Mentre lei cresceva, giocava, piangeva, si dimenava, sorrideva, correva, l’autore seguiva tutte queste innocenti azioni riscoprendo in sé la forza di ‘rinascere’ una seconda volta ed ha trovato, tra le tante, le parole adatte per descrivere questo incanto: « Le parole che ora nascono –/ a te sola come siano dedicate/ – sono la stessa linfa che mi nutre/ che tu mi versi frutto e mia radice/ ora non sai ma quando lo potrai/ comprendere non dimenticherai/ perché nascendo vita mia un’altra/ vita mi hai dato con tua madre/ se insieme a te io sono nato ancora » (Da “Insieme a te io sono nato ancora”). È una gioia trabocchevole che stupisce e attira consensi, che riferisce le iniziali esperienze di padre forse ancora incredulo di essere diventato tale; il quale si ritrova fanciullo a giocare col suo simile in un mondo dove il tempo non conta e i numeri sono solo delle cifre indicative, dietro cui c’è un’altra realtà più disinvolta e veridica. Tante sono le angolazioni in cui viene ‘ritratta’ Gabriella: nei colori, al telefono, con la mamma Irene, con i nonni, al pianoforte, persino nel suo atteggiamento di non preferire i folleggi. Sì, perché è accaduto in alcuni momenti che si sono invertite le parti tra genitore e figlia: lui magari voleva suscitare attimi di scherzi e sorrisi, mentre lei giocava « (…) a far la grande/ e seria e mi rimproveri se provo/ ridendo a stemperare un tuo problema/ ma io non so non voglio immaginare quando/ avrai davvero voglia di sorridere al dolore/ e il tuo pagliaccio accanto a te più non sarò. ». (Da “A Gabriella che non ama gli scherzi”). Nell’ultima parte del libretto c’è l’Appendice con le Testimonianze degli amici di sempre che, a proposito della sua paternità e in riferimento alla sua silloge precedente quale regalo per il primo compleanno di Gabriella, hanno redatto dei pensieri più o meno lunghi per immortalare il felice evento e qualcuno ha anche commentato qualche sua poesia. Perlopiù sono lettere congratulatorie di amici che lo stimano e hanno condiviso con lui la condizione di genitore-poeta.

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« È Gabriella la vera Poesia! Figlia-sorpresa per il padre-poeta che l’ha attesa da sempre, cercata in mille modi, sognata, voluta… anche inconsapevolmente! (…) Sacralità degli affetti che tocca il cuore di chi ha la fortuna di viverli! ma anche di chi riesce ad accedervi “leggendo”. Non che la paternità sia un tema “nuovo”, ma è la novità di questo padre a catturare il lettore! Padre-poeta, appunto, che così come ha condiviso esperienze e sentimenti di ieri, spezza il pane-parola dell’oggi sulla tavola sempre imbandita dell’Arte. L’arte vera, quindi, quella che sfocia dalla sensibilità pura, dalla capacità di donarsi con le parole. » (Dallo scritto di Sandra Cervone, a pag.74). Isabella Michela Affinito

MARIAGINA BONCIANI CANTI PER UNA MAMMA e altri ancora, Il Convivio Editore, Castiglione di Sicilia (CT) 2018, Pagg. 48, € 8,00 Mariagina Bonciani, milanese di nascita e di residenza, ormai in pensione, si dedica alla poesia, e la raccolta Canti per una mamma e altri ancora, segue la scia delle precedenti opere rivolte agli affetti. Così, giustamente, Enza Conti nella prefazione, semplice e lineare, ne richiama i sentimenti che la Poetessa rivolge “alla devozione sacrale verso la figura materna” e nel rapporto madre-figlia identifica la genitrice, la nonna e la Madre Celeste; la critica, richiamando il Cardarelli, rammenta che i ricordi sono un mezzo per “sconfiggere” la morte di chi ci lascia. Sono sentimenti scontati, ma hanno il pregio della fluidità, di soffusa tenerezza anche con picchi di struggente liricità; l’animo è mantenuto sereno, segno di raggiunta decantazione. I versi si lasciano gustare per limpidezza, come è detto sopra, in un ininterrotto dialogo in cui affiorano al “cuore” pensieri e immagini, quasi per l’intera raccolta nei “canti per la mamma”. Nel gioco degli specchi, con cui apre la raccolta, abbiamo in chiave metaforica l’origine della metamorfosi figlia-madre, madre-nonna, madre delle madri (Madonna) e, infine, il ritorno a se stessa, la cui vita è stata dedicata alla genitrice; ma con la differenza che non ci sarà alcuno a riflettersi in lei (qui è la nota struggente). Con passo narrativo racconta di avere accompagnato la genitrice verso la strada del Padre, per raggiungerlo “la sera del 9 maggio 2010 giorno della Mamma”; di sentirla di presso dicendole: “per gli ormai numerosissimi anni/ che ti gravavano le spalle/ eri tornata ad esser/ bambina” (pag. 21). Mariagina Bonciani fa pubblica am-


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missione del conforto che la sostiene: il pensiero che la madre è stata accudita amorevolmente, oltre che da lei, anche dalla dott.sa Larissa, da suor Maria Arcangela, dalla boliviana Sonia, dalla peruviana Yanet. Come una bambina, non tralascia di ricordare il padre che la salutava con un “bacio silenzioso” mentre lei nel dormiveglia fingeva di dormire. Librandosi mi pare di avvertire, in “altri ancora”, la freschezza giovanile di un sogno d’amore non realizzato (lo dico a costo di avere frainteso, in Inghilterra), mentre lui suonava Bach e poi Granados. Giunti fin qua, devo ammettere che nella mia mente echeggiavano i versi di questa raccolta; così, non dandomi pace, ho verificato che si tratta di una riedizione di quella stampata con Pomezia-Notizie, nel supplemento del Croco di marzo 2012 (la cui mia recensione è stata pubblicata nel mese successivo nella stessa Rivista). Tutto ciò spiega l’ aggiunta al titolo di “altri ancora”. Tito Cauchi

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Andrea, esperto di economia e finanza, e sua moglie Laura, sono insegnanti e genitori di tre figli Federico, Chiara e Giada; nomi che cito perché sento nella Nostra il compiacimento del rinnovo generazionale. Vive il presente per non restare imprigionata nel passato, sorseggia il sorriso, l’amicizia, i buoni sentimenti, ama la natura, il verde e i colori dei fiori; ma è ugualmente capace di raccogliersi in solitudine, così commenta quanto sia faticosa la vita, e posando lo sguardo osserva “vecchi poveri/ curvi a rovistar nei rifiuti” (pag.11). Il cielo è visto attraverso una pozzanghera, una sorta di riflessione da fenomeno fisico a considerazione metaforica, così commenta quanto la vita fatta di dolori faccia maturare; così riflette su una coppia di canarini che per amore rinunciano alla libertà, preferendo stare insieme nella gabbia. Caterina Felici ci ha condotto Dentro la vita, sia pure di uno squarcio; ed è quanto basta. Tito Cauchi

CATERINA FELICI DENTRO LA VITA Longo Editore, Ravenna 2017, Pagg. 80, € 12,00

ANTONIO VITOLO L’ULTIMO PORTO Genesi di carri e navi Edizioni del Centro Promozione Culturale per il Cilento, Acciaroli (SA) 2017, Pagg. 76

Cinque sezioni per trenta poesie a fronte conducono alla silloge Dentro la vita, di Caterina Felici. Il libro non riferisce notizie biografiche dell’ Autrice, tranne l’avere ricevuto consensi critici per le sue precedenti opere e l’essere stata insegnante (di cui troviamo traccia nei versi in chiusura). Tuttavia, per quanto possa tornare utile, la presente raccolta semina alcuni riferimenti che, escludendo l’ invenzione letteraria, possono ritenersi di rilievo autobiografico. In breve la Nostra sembra essere cresciuta a Zara, a Barcagno (pag. 59) e, dopo lo sfollamento, essersi trasferita a Pesaro; il padre era colonnello, la madre amante dell’orticello; la Poetessa ha imparato da loro l’arte della semina anche in senso metaforico; le sorelle, Ione e Igina, ormai si sono spente. Tornando alla poesia possiamo dire che la versificazione è semplice e fluida, di lunghezza variabile. Credo che risulti più efficace nelle brevi, anche se talvolta sembra citare massime e precetti, mentre talaltra nelle più lunghe indugia nelle descrizioni di stampo memoriale e narrativo; in generale sono interessanti le chiuse come quando afferma: “Sei vivo veramente/ se hai il senso della vita” (pag. 9). Rivolge un elogio alle donne nella giornata mondiale loro dedicata, chiamandole “un inno alla vita”. È orgogliosa dei suoi nipoti cresciuti secondo sani principi; così Roberto è diventato documentarista;

Nell’introduzione di Katrin Petillo alla silloge L’ultimo porto di Antonio Vitolo, avverto una gran voglia di compenetrazione, per via delle molte citazioni del testo, ed a ragion veduta per la esemplarità dei versi, sia per l’estetica, sia per i contenuti esistenziali tendenti a “intravedere la misteriosa presenza del divino non solo nella vita di ogni giorno ma anche in quella della natura e dell’universo intero”. Il libro è a cura di Osvaldo Marrocco, con copertina e illustrazioni all’interno di Federico Scarpa; viene pubblicato dall’Associazione Culturale “Eleousa” di San Mauro Cilento (Salerno) in cui è fortemente venerata la Madonna Addolorata. Le poesie sono un omaggio al Cilento, scritte ivi nell’ arco di tempo 2013-2015; testi e illustrazioni sono preceduti da citazioni dell’Autore il quale è legato fortemente al territorio di San Mauro Cilento di cui è diventato cittadino onorario nel 2016. Antonio Vitolo (classe 1961), probabilmente per la sua professione di medico, comprende le sofferenze umane e capisce che in alcune situazioni l’ uomo trova quello smarrimento che lo fa dubitare di tutto ed è perciò che, grazie alla sua fede, l’ Autore scuote i propri simili a non disperare. Apre con la poesia eponima, il cui incipit fa da nastro trasportatore e sintesi del suo pensiero: “L’ultimo porto,/ varco per il cielo,/ è fiamma di redenzione.”. Osserva il vapore uscire dalle labbra, gode della bel-


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lezza del paesaggio agroalimentare ameno e faunistico, assapora le primizie, sente su di sé l’aria gelida che si mescola con gli odori salmastri; ivi trova ristoro. Il Poeta respira profumi e aromi forti a Casalsottano, osserva il mare di Mezzatorre trasparente come l’anima dei suoi abitanti, sembra assistere alla processione dell’Addolorata “Visibilmente adornato di preghiere/ il manto nero della Vergine,/ è trono per il paradiso.” (pag. 23). Al tempo della vendemmia sente “la fragranza del nettare di vino.” (24), cammina fra i vicoli della sua fanciullezza. Porta a esempio la sanmaurese Wanda De Rosa “Ancella di Cristo donò se stessa./ La comunione con Maria e l’Onnipotente,/ dolce conforto per l’ anima,/ fu via per la santità anelata.” (41), ricorda don Peppino Diana il prete vittima della camorra nel 1994. Antonio Vitolo sa che viviamo in un mondo martoriato di tanti mali, ricorda l’attentato terroristico avvenuto a Parigi del 13 novembre 2015. Il sottotitolo della raccolta recita Genesi di carri e navi, il che mi suggerisce da una parte la processione di carri sacri e di pescherecci, dall’altra parte, le macchine da guerra. Perciò, perché le sue parole non siano di solo inno al suo Cilento, indica e invoca “l’ ultimo porto” per la salvezza del genere umano: “Oh Altissimo Signore!/ Ti prego purifica il mio egoismo/ rendimi nell’animo contrito.” (51), invita a farsi guidare dal bene per sconfiggere il male e per affratellare gli uomini. Nondimeno, per quello che vale, il suo spazio interiore mi sembra senza tempo, vicino al metafisico, specie se guardiamo le illustrazioni. Tito Cauchi

MARCELLO FALLETTI DI VILLAFALLETTO Davvero costui era figlio di Dio! Mt 27,54) - (Vere Filius Dei erat iste!) Anscarichae Domus Accademia Collegio de’ Nobili Editore, MMXVII, Pagg. 112, € 10,00 Un bel libro di meditazioni? Un bel libro di Preghiera? Un bel saggio sulla Passione e morte di Gesù esplorando alcuni aspetti della sua missione sulla terra? Tutto questo e altro, perché Marcello Falletti di Villafalletto si pone - e ci pone - interrogativi comuni a quasi tutti i cristiani che non vivono passivamente la fede e leggono costantemente Vangelo e Sacre Scritture. A lui, oblato benedettino, tali interrogativi vengono suggeriti durante la partecipazione a un triduo pasquale. Uno dei primi è: quello che noi cristiani facciamo, è veramente sentito, profondamente par-

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tecipato, o semplicemente dettato dall’abitudine e dalla tradizione?. Meditare ed approfondire dovrebbe essere nostro compito costante, se vogliamo che la nostra fede non si riduca ad una manciata di cipria che nasconda scetticismo e vuoto. Dom Bernardo Francesco M. Gianni OSB, nella sua Introduzione, parla di “tempi apatici e appiattiti” e, quindi, poco propensi alla meditazione ed agli esami interiori. Ecco alcuni dei tanti perché che sostanziano quest’opera: “Appare (...) duro da capire perché Dio non cerchi, o crei un nuovo mezzo, meno cruento [della morte in croce del suo Unico Figlio], per rinnovare il patto di amicizia” col popolo eletto e col credente in genere; “Viene da domandarsi perché il Padre voglia sacrificare il Figlio in un modo cruento: tanto da mettere, fortemente in evidenza, la crudeltà che è andata crescendo nel profondo della mente umana?”; “...il prodigioso concepimento di Maria”; perché “il mistero sembra essere il concetto fondamentale di tutta la Sacra Scrittura”; “Perché un Padre, seppur Dio, sceglie per l’unigenito suo Figlio, una morte tanto orribile; così disumana; umanamente ingloriosa; se non ingiuriosa e umiliante agli occhi di uomini mortali?”. Alcune di queste domande sono similari, quasi ripetitive, una specie di fissazione, se non derivassero dalla sete di verità, di libertà, di conoscenza. “L’ uomo - appartenente e proveniente da quel popolo scelto ed eletto da Dio - ha il diritto e sacro dovere - afferma Marcello Falletti di Villafalletto - di porsi non solamente domande, ma pur non ricevendone alcuna risposta concreta o, per quanto, la sua complessa umanità, non riesca completamente a comprendere: non deve, tanto meno, accogliere tutto passivamente”. È giusto non svelare le conclusioni alle quali approda l’Autore, lasciare al lettore la curiosità e il piacere della scoperta; ma è pure giusto ricordare che gli stessi discepoli di Gesù mai hanno compreso bene le parole del Maestro, se non dopo la sua morte e resurrezione; fino all’ultimo hanno immaginato e sperato che le cose andassero diversamente di come poi si sono svolte; solo dopo han compresero l’arcano che li aveva sconvolti, lo stesso che aveva sconvolto Maria e Giuseppe. Ma tutti? Forse, no: “Chi invece aveva intuito pienamente (/...) fu proprio Giuda”, uomo scaltro e ladro, gestore della povera cassa del piccolo gruppo, poi traditore, poi pentito, che morirà impiccandosi. Quest’agile, elegante e accattivante tascabile è composto, oltre che dalla già citata dotta Prefazione dell’Abate Bernardo OSB, da una dettagliata Introduzione, da tre capitoletti (“Gerusalemme e l’ ultima cena di Gesù”, “Passione e morte di Gesù”, “Al


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termine”) e da sei poesie: tre dedicate alla Madonna, una a Mirco - nipote dell’Autore -, una possiamo dire all’Amore e, l’ultima, una toccante preghiera a Dio. Opera quasi inquieta, perché - ribadiamo - seminata di domante e argomentazioni, ripetitive perché assillanti, comunque supportate da citazioni dai Vangeli, dalle Lettere degli Apostoli, dalle Encicliche papali e da un sensibile poeta come Danilo Masini. Domande e risposte che, nei momenti più urgenti, si distendono quasi in forma di intervista: l’ Autore che chiede dando il tu e il Cristo che gli risponde. Sono domande che esprimono la nostra sete di libertà, che ricercano la libertà e la verità; la libertà, però, non può essere mai fuorviante, altrimenti finisce col trasformarsi “in complessa e vessatoria schiavitù”. Domenico Defelice

ELENA GAMBUSERA COME UN’OMBRA PIENA DI LUCE Edizione Riva (Grafiche Riga srl, Annone - LC), 2015 - Pagg. 60, s. i. p. Un insieme di chiaroscuri, dove tutto è sfumato; dove, a dominare, è il silenzio, più interiore che reale; dove si alternano le dissolvenze; dove, l’amore, è “come un vecchio rugoso amico”, dalla mano che sa trasmettere dolcezze, anche se “arrossata e screpolata”; dove, la donna, “è come un canto/senza tempo” e “la vita è un dono” da apprezzare “Nel bene e nel male”. La poetessa ama talmente la natura, l’ammira, l’ assapora, da vivere quasi in sospensione, in un continuo stordimento, “col fiato sospeso”: alberi, prati, fiori e rovi - perfino le erbacce, assai odiate dai contadini -, odori, mare e montagna, il fiume e il lago, il cielo, il tramonto, vengono da lei centellinati come dolcissimo liquore, in una comunione di silenzio e solitudine, ricercati e, perciò, come già detto, interiori (“silenzio dell’anima”. Quel che l’ ambiente suggerisce, lei metabolizza e amplifica. Elena Gambusera ha talmente affinato la sua sensibilità, da percepire e gustare la pace che “rimbomba” e la serenità nel suo contrario: nella tempesta di lampi e tuoni, cioè, e nel furioso scroscio della pioggia; da abituare i propri occhi a comportarsi come una sensibile e raffinata macchina fotografica, i quali, ad ogni battito di ciglia, ad ogni scatto, non fanno che fissare e immagazzinare un’ immagine nel forziere del cuore. Come un’ombra piena di luce risponde in pieno a quel che la stessa poetessa ci scrive di suo pugno sotto il frontespizio della copia ricevuta in dono:

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“per sentire i pensieri/e non perdere l’identità/il segreto è il silenzio”. Un invito, insomma, a saper leggere la natura in sintonia col nostro interiore. Domenico Defelice

IMPERIA TOGNACCI ANIME AL BIVIO Edizioni Giuseppe Laterza Imperia Tognacci, narratrice di razza, presenta un nuovo romanzo, pregevolissimo per ambientazione, intreccio e profonda analisi psicologica del personaggio principale di Annunziata. La scrittrice tratteggia la condizione femminile in modo esemplare, descrivendo la complessa vita di una donna dedita al Signore. Non sono facili i rapporti umani per una suora colta e intelligente, più volte oggetto di invidie nei vari conventi che la vedono impegnata nella sua missione spirituale. Nonostante l’eroismo dimostrato, la sua è un’ esistenza drammaticamente impossibile da sopportare. Il finale porta a conclusione l’idea germinata inizialmente nella mente del lettore (il suo sofferto ritorno alla vita secolare). Il lungo peregrinare di Annunziata è però preceduto dall’esaltazione della sua vita familiare, della figura del padre, del suo amore per la natura. Molte sono le pagine soffuse di poesia nonché le descrizioni attente di città d’Italia e del Belgio, ove la protagonista si muove spesso come insegnante, guida di novizie, o confortatrice di afflitti (come nel disastro di Marcinelle). Le belle pagine del libro si susseguono, suscitando l’interesse del fruitore, che si immerge nel ritmo e nelle problematiche della narrazione fino all’ ultima frase. L’apprezzamento per un’opera di questo tipo non può che essere entusiastico. È un romanzo che lascia il segno nella mente e nel cuore. Elisabetta Di Iaconi

VITO SORRENTI - SUSANNA PELIZZA VISIONI CULTURALI Il Convivio Editore, 2016 Decisamente originale è questo testo, uscito presso le edizioni Il Convivio (Novembre 2016) con la postfazione di Giuseppe Manitta che accentua l’ idea di creare “un dialogo tra l’aspetto testuale (...) e la consistenza argomentativa che permette di individuale quali siano i tratti salienti di questo processo culturale che Vito Sorrenti e Susanna Pelizza portano avanti (...) I due poeti riescono a rimodulare e a riproporre schemi e strutture retoriche signifi-


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cativi, leggendo al contempo il mondo contemporaneo” (G. Manitta dalla Postfazione, op. cit.). Giudicata dallo stesso prof. Andrea Bonanno come un’opera “...nell’educabilità ai valori morali soffocati e dispersi dalla volgarità del presente, dal cinismo dei mass-media con i suoi orripilanti vuoti e degenerazioni, i suoi disarmanti e stereotipati appelli e rivendicazioni esaltatrici dell’effimero e del materialismo” (A. Bonanno su “L’Attualità”, Marzo 2018) il libro manifesta una sua particolare personalità, nel commentare strutturalmente ogni singola poesia delle 20 presentate (10 per ogni autore) e, quindi, nel rendersi differente dal comune coro di poesie sdolcinate e sentimentali, prive di riferimenti intellettuali, presente nel nostro attuale panorama letterario. Se riprende, per esempio, la poesia “Amor di te m’attrista” di Vito Sorrenti, nella stessa frase che dà inizio alla sequenza lirica (preceduta da un breve commento dei due autori) c’è un’ espressa aulicità che richiama il magico stile stilnovistico e l’alternanza di settenari, ottonari, decasillabi ecc. accuratamente analizzati nel testo, porta a creare asticci fono-semantici di indubbio valore letterario. “La scrittura poetica è un’azione dinamica che si traduce in una struttura, perciò il Sorrenti non fa esplodere il testo, bensì lavora sul significato facendo erompere il testo” (da “Amor di te m’ attrista”, Visioni Culturali, op. cit.). Il libro reagisce allo stile minimalista proposto da G. Vattino con “Il pensiero debole” (Feltrinelli), dando prova di un’estrema abilità nel riproporre la “forma arcaica” come “luogo d’incontro di una cultura non al tramonto”. È un esempio Il Bove di Susanna Pelizza, dove i primi versi ci trasportano nelle magiche atmosfere di Myricae “Passa a tratti su/larghi strati un/bove/dagli strani tratti/dal ceruleo occhio/insipido e reo./Porta sulla groppa/anni e anni di tonfa angoscia/senza sosta fatica/con l’aratro il peso greve/accumola tosto.” (S. Pelizza Il Bove, op. cit.) dove lo stesso aratro si presenta come “una porta spalancata su un vasto orizzonte di rimandi letterario” e lo stesso “accumola” si evidenzia come “una distrazione voluta per effetto allitterante” (concetto espresso anche in Distrazioni vol. 2, Amazon.it Susanna Pelizza, costo 0,99). “L’ allegoria vuole educare e insegnare, non stravolgere ed estraniare, formare una coscienza in grado di agire intellettualmente su una società incolta e senza principi” (Dall’Introduzione, S. Pelizza, Vito Sorrenti, op. cit.). Visioni Culturali si presenta, quindi, come un’opera unica nel suo genere, come “un esperimento”, come dice il Manitta nella postfazione, che “si inserisce proprio nel tornare a scrivere la poesia riproponendo un valido orizzonte letterario”. Maurizio Di Palma

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MARIAGINA BONCIANI CANTI PER UNA MAMMA e altri ancora Il Convivio Editore. Copertina di Mara Corfini. Prefazione di Enza Conti. € 8.00. Una graditissima inaspettata sorpresa, ha colorato di gioia questa splendida giornata d’aprile, di caldo autunno Melbourniano. Un nuovo libro della fertile e bravissima Poetessa Mariagina Bonciani. “CANTI PER UNA MAMMA e altri ancora.” Il Convivio Editore, Collana di Poesia “Calliope” con prefazione di Enza Conti. La meravigliosa copertina realizzata dall’Artista Mara Corfini, con un bellissimo Acquerello: “Dal Belvedere in basso Forio d’Ischia” che incanta con i suoi vivaci colori da abbagliare, regalandoci la sensazione della primavera posatasi sul libro. Le poesie della nostra dolcissima poetessa, sono tutte create dal suo animo delicato e genuino, colmo d’amore, un amore infinito per la sua cara mamma sofferente, che l’ha lasciata in una grande e incolmabile tristezza. Lei le ha dedicato il libro e i suoi versi la coprono dei dolci suoi indimenticabili ricordi: A poco a poco/ ti allontani sulla strada che porta/ alla casa del padre./ Sempre più lentamente/ trascini i piedi ormai lenti da anni/ e che un tempo/ muovevi veloci. Da: A poco a poco. Pagg.12. Ogni lirica è colma di purissimi sentimenti, che danno la spinta ad immergersi in questa commovente lettura, che accarezza l’anima, ricordando l’ amore immenso verso la mamma, questa grandiosa creatura creata da Dio per amare, solo amare in ogni momento della sua vita. Altre sue delicate poesie, arricchiscono queste pagine, che ci deliziano col suo gesto d’amore in ogni pensiero sparso tra i fogli, e fanno di questo libro uno scrigno prezioso, da tenere stretto al cuore. La bravissima Mariagina, mi ha dato la stupefacente soddisfazione di avere in dono tutti i suoi stupendi libri, che fanno bella mostra nella mia libreria e che tutti hanno letto e possono sempre rileggere e inebriarsi delle sue liriche, le sue poesie sono fiori profumati, posseggono un afflato magico che cattura il lettore, che beato e completamente assuefatto dai suoi magnifici versi, legge e rilegge e diventa un suo grande ammiratore. Le sue poesie son tutte splendide e meravigliose, non solo quelle dedicate alla sua cara mamma, tutte danno emozioni infinite, che fanno vibrare le corde del cuore come violini in un concerto divino. Siete tutti invitati a leggere questo libro, che vi entusiasmerà e vi farà vivere momenti memorabili e indescrivibili.


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Grazie con tutto il cuore dolcissima Mariagina, per questo bel dono, che ha fatto felice me e i miei carissimi amici poeti, scrittori e pittori dell’ A.L.I.A.S. Giovanna Li Volti Guzzardi Melbourne, Australia

ANTONIO CRECCHIA FOSCHIE Ed. Ac. Termoli, 2017 - Pagg. 105, s. i. p. Sorprende e piace il motto: “Chi si perde dietro la poesia ha già perso tutto e non cerca più nulla”. È chiaro che il soggetto che agisce, perdendosi dietro la poesia, e il poeta; ed è altrettanto chiaro che il poeta, nella sua espressione lirica, trova pieno appagamento, tanto da non cercare più nulla. E sarà proprio così, se anche Carducci nel suo “congedo”, afferma che “Il poeta è un grande artiere, che al mestiere fece i muscoli d’acciaio: capo ha fier, collo robusto, nudo il busto, duro il braccio e l’occhio gaio”. E dopo una lunga pittura di elaborate forme e nobili aneliti, conclude: “Per sé il povero manuale fa uno strale d’oro, e il lancia contro al sole: guarda come in alto ascenda e risplenda, guarda e gode, e più non vuole” (sed de hoc, satis egimus. E veniamo alla silloge poetica dal titolo FOSCHIE. Provo a leggere l’ultimo pezzo della prima sezione. Si coglie subito il grido sconsolato racchiuso in quella preghiera: “Non chiedermi”. È il poeta che preferisce l’assopimento, anzi il letargo, e invoca la sacralità del silenzio. Le immagini che seguono sono taglienti ed impietose. La parola è l’ascia che sbozza il legno e incide la spirale della perversione imperante, simile a sfinge ghignante che però al vento dell’alba partorisce una luce di primordiale innocenza. In pochi versi, tutto il bene e tutto il male dell’umanità. Anzi, nella chiusa, quella mestizia che nasce dalle ombre della notte potrebbe cessa-

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re; ma la stasi, se pure ci sarà, è paragonabile al dormiveglia di una volontà appesa a quel ramo sterile della vita. Non poco coraggio occorre per il tentativo di arrivare alla traduzione concettuale dei nessi fraseologici e delle immagini balenanti. Il poeta, però, appare fermo su tre punti: 1) Il desiderio del suo letargo. 2) La spirale della perversione che impera come una sfinge ghignante. 3) La mestizia imprigionata nelle ombre di una notte senza fine; e l’immaginazione che sprofonda in un baratro senza fondo. Segue, a questo punto, un’attenta “spigolatrice” alla ricerca, qua e là, delle corrispondenze. Le dieci beatitudini sono al primo posto e lasciano respirare aria pulita nella grazia di un sonno ristoratore; ma nel contempo riescono a dare esperienza del peso della croce e dell’acerbità del destino. Non scarsa di corrispondenze è pure “L’onda del divenire”. In essa è significativo il valore semantico della parola “onda”, non usata a caso dal poeta perché egli serenamente ha il coraggio di osservare la realtà dell’attimo, e di riconoscere in essa l’accozzaglia dei detriti “logori e corrotti” del passato, dai quali però nascerà il futuro. Per quanto attiene alla “spirale della perversione”, non c’è penuria di brusche sferzate. Da “L’emblema della notte” a “Segreti occhi di rapaci” ed altri pezzi di consimile tenore, il poeta non dismette le sue “frange nere di tristezza”, ed appunta tutto l’impegno a scavare le occasioni del male; fino a quando, nella chiusa di “Segreti occhi di rapaci”, assume l’aria e lo spirito di una sfinge ghignante. Forse, a questo punto, si può fare una semplice sommatoria; ed allora si vedranno le magiche particelle ricomporsi per tornare ad essere FOSCHIE. Perché l’incanto del poeta sembra essere stato quello di una lirica generalmente caliginosa, il cui pregio è da una parte la opacità diffusa, e dall’altra parte la decisa volontà di catarsi. Emilio Pacitti

FRANCESCA DIANO IL RAMO DI CORALLO Blog in rete Ringrazio Francesca Diano per aver ricordato Maya Angelou, voce poetica dell'Afroamerica (Saint Louis 4 aprile 1928-Winston-Salem 2014), scrittrice famosissima negli Stati Uniti, sincera e schietta, dignitosa, potente protagonista del nostro tempo, attraverso un semplice ed intenso augurio di


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buon compleanno su 'Il ramo di corallo', proprio il 4 aprile 2018. Bill Clinton ha voluto questa Afroamericana come 'inaugural poet' nel giorno del suo insediamento alla Casa Bianca. Lei sceglie di leggere 'On the pulse of the morning' che qui riporto integralmente in traduzione. LA PULSAZIONE DEL MATTINO 'Una Roccia, un Fiume, un Albero Ospitanti di specie scomparse da tempo, Segnavano il mastodonte, Il dinosauro che ha lasciato ricordi rinsecchiti Del suo soggiorno qui Sul suolo del pianeta, Ogni chiaro allarme del suo fato che rapido incombeva È perso nelle tenebre del tempo e della polvere. Ma oggi la Roccia ci grida a gran voce, chiara e potente, Venite, potete stare sul mio Dorso e guardare il lontano destino che vi attende, Ma non cercate il cielo alla mia ombra, Non vi offrirò quaggiù nessun nascondiglio. Voi, creati appena meno degli Angeli, siete rimasti acquattati troppo a lungo Nel buio che ferisce Troppo a lungo siete rimasti A muso duro nell'ignoranza, Riversando dalla bocca parole Pronte in armi al massacro. Oggi la roccia grida a gran voce, potete stare su di me, Ma non nascondetevi la faccia. Oltre il muro del mondo, Un fiume canta uno splendido canto, venite a riposare accanto a me. Ognuno di voi è un paese rinchiuso fra confini Delicato e stranamente inorgoglito Eppure costantemente sotto assedio. Le vostre lotte armate per il profitto Hanno lasciato colletti di rifiuti sul Mio lido, correnti di detriti sul mio petto. Ma oggi vi chiamo alla mia riva, Se smetterete di studiare la guerra.

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Così dicono gli asiatici, gli ispanici, gli ebrei. Gli africani e i nativi americani, i Sioux, I cattolici, i greci, i francesi, i musulmani. Gl'irlandesi, il rabbino, il prete, lo sceicco, Il gay, l'etero, il predicatore, Il privilegiato, il senzatetto, l'insegnante. La sentono. Tutti loro la sentono La voce dell'albero. Oggi il primo e l'ultimo di ogni albero Parlano all'umanità. Venite da me, qui accanto al fiume. Piantatevi vicino a me, qui accanto al fiume. Per ognuno di voi, discendenti di qualche Viaggiatore passato, c'è stato un pagamento. Voi, che mi avete dato il mio primo nome, Tu Pawnee, Apache e Seneca, Tu nazione Cherokee, che ti sei riposata con me, Poi, costretti a marciare con piedi insanguinati, Mi lasciaste al servizio di altri cercatori Avidi di guadagno, affamati d'oro. Voi, il turco, lo svedese, lo scozzese, il tedesco... Voi gli ashanti, gli youruba, i kru, Comprati, venduti, rubati, che arrivaste in un incubo Pregando per un sogno. Ecco, radicatevi accanto a me. Sono l'albero piantato accanto al fiume, Che non sarò rimosso. Io, la roccia, io il fiume, io l'albero Io sono vostro - i vostri viaggi sono stati pagati. Alzate il viso, avete un acuto bisogno Che questo mattino luminoso sorga per voi. La storia, nonostante il suo straziante dolore, Non può essere annullata e, se guardata con coraggio, Non ha bisogno di esser rivissuta.

Venite, vestiti di pace e io canterò i canti Che il Creatore mi ha dato quando io E l'albero e la pietra eravamo un'unica cosa. Prima che il cinismo vi marchiasse a fuoco la fronte E quando ancora sapevate di non sapere nulla. Il fiume canta e seguita a cantare.

Alzate gli occhi al Giorno che per voi sta spuntando. Generate di nuovo Il sogno. Donne, bambini, uomini, Prendetelo fra le vostre mani, Modellatelo secondo il vostro Più privato bisogno. Scolpitelo a formare La vostra immagine pubblica. Sollevate i cuori. Ad ogni nuova ora nuove possibilità Per nuovi inizi.

C'è un'autentica brama di rispondere al Fiume che canta e alla roccia sapiente.

Non rimanete legati per sempre Alla paura, aggiogati in eterno


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Alla brutalità. L'orizzonte si tende, Offrendovi lo spazio per nuovi passi verso il cambiamento. Qui seguendo il pulsare di questa bella giornata Potrete avere il coraggio Di alzare gli occhi verso di me, La roccia, il fiume, l'albero, il vostro paese. Tanto per Mida che per il medicante. Così ora per voi come allora per il mastodonte. Qui, sul pulsare di questo nuovo giorno Potreste avere la grazia di alzare gli occhi e scorgere Gli occhi della sorella, Il viso del fratello, il vostro paese E dire semplicemente Molto semplicemente Con speranza Buon mattino. (Maya Angelou, On the pulse of the morning, sito 'Il ramo di corallo', trad. di F. Diano) Il testo originale di questo stupendo inno alla vibrante forza della vita ha una sua musicalità che, spontanea e ritmicamente scandita, porta l'interiorità del lettore a smuovere consolidati assetti di sicurezza ed a lasciarsi portare ai confini del limite, oltre ogni male: '...Lift up your eyes upon/The day breaking for you./Give birth again/ To the dream....'. Due le altre poesie inserite in questo contesto augurale: ALONE e PHENOMENAL WOMEN. F. Diano ci informa che una delle sue autobiografie I Know Why the Caged Bird Sings (So perché canta l'uccello in gabbia) racconta vicende terribili della sua infanzia e adolescenza ed è proprio il terreno diretto dell'esperienza, del desiderio profondo di uscire dalla sofferenza, della vitalità della lotta ad essere messo in canto e a farla rendere vicina e presente proprio come un Angelo, che intona toccanti elementi di vita con la sua voce poetica di donna. Ilia Pedrina

JAN ASSMANN RELIGIONE TOTALE ORIGINI E FORME DELL'INASPRIMENTO PURITANO Lorenzo de' Medici Press, Collana 'La Lucerna', Firenze - 2017 - pagine 127, € 12,00 Lo studioso tedesco di origini ebraiche Jan Assmann, già noto al pubblico italiano per una accurata analisi delle origini della tradizione mosaica nell'opera Mosè l'egizio. Decifrazione di una traccia di

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memoria (Adelphi, 2000) e per altri importanti titoli in traduzione, si cimenta ora in un più chiaro ed attualissimo contesto: il bisogno esclusivo del rapporto di un popolo con Dio e la conseguente necessità formale di distinguersi da popoli, fedi e credenze d'altro genere. Il volume Religione totale. Origini e forme dell'inasprimento puritano, con titolo originale Totale Religion. Ursprünge und Formen puritanischer Verschärfung, Pincus Verlag Ges. M.B. H, Vienna, 2016, viene curato da Elisabetta Colagrossi, che ne presenta i territori d'investigazione a tutto tondo in una Prefazione dal titolo “Religione totale” e violenza religiosa, scandita in cinque passi brevi ma significativi: Monoteismo sul lettino: da Freud ad Assmann; Attraversare l'origine. Decostruzione e sfondamento; Monoteismo della fedeltà, monoteismo della verità; Caso d'emergenza e religione totale; Per una contro-metamorfosi del monoteismo esclusivo (pp. 5-15). A Vienna nell'aprile del 2016 Jan Assmann elabora una Premessa all'opera per dettagliare le matrici conoscitive dei suoi lavori sempre in via di approfondimento e di precisazioni, anche tenendo conto dei riscontri di pubblicazioni proprie e di colleghi esperti, che aprono dibattiti sollecitando ricerche di piena attualità, quali sono quelle legate al tema del monoteismo e della violenza ad esso connessa: il suo ringraziamento va a '...l'Internationale Foschungszentrum Kulturwissenschaft (IFK) di Vienna, che mi ha invitato per un semestre nel 2004 e che ha reso possibile, nel 2016, il mio attuale soggiorno a Vienna, grazie a una Fellowship concessa ad Aleida Assmann. Particolarmente riconoscente sono anche al docente di dogmatica della Facoltà Teologica Cattolica dell'Università di Vienna, Jan-Heiner Tück, che negli ultimi anni mi ha regolarmente accolto per incontri, colloqui e conferenze, dandomi così l'occasione di ripensare e sviluppare continuamente i temi e le tesi qui trattate. Perciò questo libro è dedicato a lui.' (Jan Assmann, op. cit. pp. 19-20). Il contesto di questo interessante percorso è così composto: Introduzione. Politeismo e linguaggio della violenza (pp. 21-26); Capitolo Primo. Monoteismo e linguaggio della violenza (pp. 27-58); Capitolo Secondo. Violenza e contro-violenza: l'aspetto tragico del patto con Dio (pp. 59-78); Capitolo Terzo. La religione totale e il caso di emergenza religioso (pp. 79-104); Conclusione. Vie d'uscita dal linguaggio della violenza (pp. 105-114). Seguono le sezioni Indice dei nomi (pp. 115-118) e Bibliografia (pp. 119-126). L'Autore è così addentro a questi temi che ti trasmette una passione investigativa tenuta costante-


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mente attiva, affinché si capisca bene ed ancor meglio quanto sta accadendo sotto i nostri occhi: non che gli altri dei dell'antichità fossero pacifici, di certo, ma i popoli ne interiorizzavano la potenza e la condiscendenza. Con Mosè si snoda invece un terreno durissimo di contrapposizione rispetto al popolo egiziano e di distinzione basata sul patto di alleanza che d'ora in avanti imporrà senza mezzi termini un'autorità anche di violenza. Infatti in 'Monoteismo e linguaggio della violenza' J. Assmann spalanca la nostra riflessione alla dimensione della rivelazione “… come un salto e una rottura rivoluzionaria, la più radicale che si possa pensare. La permanenza di 430 anni di Israele in Egitto rompe la continuità rispetto alla precedente età dei patriarchi, l'uscita dall'Egitto è una rottura con tutte le tradizioni egiziane acquisite nel frattempo, la rivelazione della Legge sul Sinai è un nuovo inizio totale... Il salto di cui qui si tratta, la rivelazione, con cui Dio libera dall'Egitto un popolo di schiavi, per condurlo nel compiuto mondo nuovo dell'alleanza con Dio, è presumibilmente il salto più radicale che la cultura abbia mai fatto e riguarda proprio la svolta dal poli- al monoteismo e a ciò che noi intendiamo oggi come 'religione'... Nel suo libro Ist die Zeit aus der Fügen (2013), Aleida Assmann ha posto in risalto la semantica e la retorica della rottura come un segno caratteristico della modernità e scrive 'L'esplosione della modernizzazione si ebbe con l'esodo dall'Egitto'...” (J. Assmann, op. cit. pag 28). Tra questa doppia convergenza di intenti, di studi e di ricerche portate avanti da Jan e Aleida Assmann si snoda tutto il testo, in quanto entrambi sono in pieno accordo quando si pone come denominatore comune all'interpretazione di documenti ed eventi la forma del ricordo, la modalità con la quale, per cogliere e dare spessore alla nostra identità, di singoli soggetti come di popolo, rinforziamo la memoria del passato, diamo ad essa connotati e direzione ed in base a tutto questo ci impegniamo a ricordare ancor più fermamente e ad agire. Poco oltre, Assmann sostiene “... Il 'ritorno della religione' che viviamo da qualche decennio, è unito nel modo più angosciante a violenza, senso di minaccia, odio, paura e produzione di immagini di ostilità. Perciò non possiamo evitare la questione di un possibile rapporto tra monoteismo e violenza...” (J. A. op. cit. pag 29). Gli altri due capitoli si snodano a rinforzare questa prospettiva inserendo fatti concreti: gli schemi in tre colonne presentati alle pagine 64 e 65 Testo/Evento/Conseguenza (punizione)- del capitolo 'Violenza e controviolenza: l'aspetto tragico del rapporto con Dio' forniscono prove inconfutabili di quanto impartito da Mosé e di quanto invece, con Aronne, gli Ebrei desiderano per sé e per la loro fe-

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licità, cioè dar forma al dio-vitello d'oro e tornare in Egitto, a mangiar bene, con 'nostalgia di pesce e carne...', senza preveder che dietro ordine di Mosè i leviti uccideranno tremila uomini, perché il patto, appena concluso, non va trasgredito, con, a seguire, altri calcoli fitti di morti. Infatti, nella terza colonna, il ritmo è fisso, stereotipato, quasi ossessivo nella sua crudeltà: 'Dio punisce... Dio punisce... Dio punisce...' (op.cit. Ibid). Il concetto di alleanza, di patto diretto tra Dio e il suo popolo deve fortemente legarsi alla memoria per sé e per tutta la possibile discendenza, numerosa quanto i granelli di sabbia, quindi è vincolante la risposta di fedeltà assoluta ed indistruttibile che deve necessariamente seguire questo concetto, tra prove pratiche ed assenzaastinenza da errori. Si rinforza la distanza rispetto a ogni altra possibile alternativa e lo 'inasprimento puritano' diventa modalità storica per dimostrare quella originaria alleanza, che è il patto con Dio, quel Dio che si autodefinisce come 'geloso', e quella conseguente fedeltà totale: allora ci troviamo di fronte alla 'Violenza come compimento della Scrittura e come servizio divino', paragrafo interno a 'La religione totale e il caso di emergenza religioso' ed assai importante per rilevare l'utilizzo che J. Assmann fa di una categoria investigata dal grande giurista tedesco Carl Schmitt, quella di 'stato di emergenza', con sospensione di tutte le libertà costituzionali per il pericolo che la totalità della popolazione corre (periodo nazional-socialista nella Germania dopo Weimar), trasformata qui da Assmann in 'caso di emergenza', in momenti particolari nel percorso storico di un popolo, quello Ebreo: Assmann cita e commenta passi biblici da Esdra, Neemia con riprese dal Deuteronomio. Cito: “...Con la semantica della fedeltà e della gelosia stabilita nel canone giunge ad effetto nelle sue conseguenze politiche e sociali la forza polarizzante della religione monoteistica... Religione totale -per sottolineare ancora una volta questo punto- non indica una religione determinata, ma uno stato di aggregazione o un grado di intensità religiosa che diverse religioni possono assumere ...” (J. A. op. cit. pag. 88). O beati o dannati, così si prefigura la soluzione finale di tutto il mondo reale, che si può parzialmente sintetizzare col termine 'Apocalisse'. Allora l'Autore arriva a precisare meglio: “...Per 'caso di emergenza' nel senso di Carl Schmitt non si deve intendere una situazione storica reale, bensì la costruzione di scenari di minaccia ad opera di forze interessate. Spesso in questi scenari entrano fatti assolutamente reali, spesso però (come nel caso delle 'armi di distruzione di massa' di Saddam Hussein), sono solo dicerie inventate. Si tratta soprattutto di costruire immagini di nemici per motivare e legittimare la


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violenza come difesa. Ci si vede costretti alla difensiva e giustificati ad ogni azione violenta di resistenza. L'apocalisse rappresenta la forma estrema di un siffatto scenario...” (J.A. op. cit. pag. 103). In 'Vie d'uscita dal linguaggio della violenza', la Conclusione, questo Autore dottissimo ed appassionato offre al lettore, riprendendo in mano la parabola dei tre anelli, che Lessing ha tratto proprio dal nostro Giovanni Boccaccio, l'opportunità di riflettere su tutto il percorso attraversato e questo gli dà la possibilità di citare papa Benedetto XVI, nel discorso al parlamento tedesco del 22 settembre 2012: “ … Il cristianesimo, dice il papa, al contrario di altre grandi religioni (…) non ha prescritto allo Stato e alla società un diritto per rivelazione, un ordinamento giuridico derivato dalla rivelazione. Ha invece indicato nella natura e nella ragione le vere fonti del diritto...'. I diritti dell'uomo sono un frutto non della Bibbia ma dell'Illuminismo europeo, che inizia nel mondo antico... Religione e Illuminismo sono unite nel fine: pace e giustizia nel nostro pianeta minacciato...” (J. A. op. cit. pag. 111). Quando il prof. Jan Assmann verrà in Italia, (ed il prof. Vannini, curatore della Collana La Lanterna mi terrà informata, me l'ha promesso!), sarà mio dovere aprire con lui e con la sua signora proprio i connotati dell'Illuminismo, non sempre del tutto trasparenti. Ilia Pedrina

ISABELLA MICHELA AFFINITO PERCORSI DI CRITICA MODERNA II Volume - Casa Editrice Menna “(...) Un fiore o un libro/piantano sorrisi come semi/che germogliano nel buio” diceva E. Dickinson (in Poesie, Giunti editore, introduzione di A. Quattrone), di certo è un bel seme quello piantato dall’Affinito nel suo ultimo lavoro dedicato agli “Autori contemporanei nella Critica”, un’opera che si caratterizza subito per l’impegno, l’amore e la cura con cui, la nota critica e poetessa, si dedica, da anni, allo studio di autori noti nel mondo della letteratura e del giornalismo (come S. Salvemini), ma messi un po’ da parte dalla critica ufficiale, sempre parziale nelle sue vedute egoistiche. Un bellissimo florilegio di nomi e di opere, tutto accuratamente intessuto di commenti e di analisi che rileva l’ importanza della lettura, prima che della scrittura. Miguel De Unamuno ha detto “leggere molto è uno dei cammini che conducono all’originalità: uno è tanto più originale e peculiare quanto più conosce ciò che gli altri hanno detto” (M. De Unamuno in “Aforismi per ogni giorno dell’anno” di Roberto Marinaccio, Amazon.it).

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Originale lettrice l’Affinito sa esplorare l’animo umano, con la convinzione che un libro (secondo la Dickinson) “germoglia le nostre coscienze”, Invitandoci a riflettere e a pensare. La lettura va oltre la scrittura, così come quando interpreta la metafora dell’amore, in “Amore, amore, amore e non solo” (Menna) di Nunzio Menna, attraverso la fotografia messa in copertina “l’amore è puntare gli sguardi nella medesima direzione, più che guardarsi direttamente negli occhi” (I. M. Affinito, op. cit., pag. 17) frase, di certo, non nuova ma di A. De SaintExupèry “Amare non è guardarsi l’un l’altro, è guardare insieme nella stessa direzione” (in “Terra degli uomini” A. De Saint-Exupèry da “Dammi mille baci e ancora cento” Le Garzantine su ebook), ma rielaborata, riformulata e, in ultimo, rivissuta dalla stessa Affinito con originalità. Sono opere datate (alcune messe ancora con il prezzo in lire) dissalate al mare dell’oblio e fatte rivivere nell’ originalità di una critica sempre pronta ad esplorare: un’ operazione che nasce dalla scrittura, certo, ma soprattutto da una lenta, laboriosa, accurata e, non in ultimo, fondamentale lettura. Susanna Pelizza

MARIAGINA BONCIANI CANTI PER UNA MAMMA ED ALTRI ANCORA Il Convivio Editore, 2018, pp.46 Questa raccolta di poesie si avvale di un ottimo acquerello di Mara Corfini pubblicato in copertina e l’introduzione di Enza Conti. Le poesie dedicate alla Mamma vennero già premiate e pubblicate da Domenico Defelice nel quaderno “Il Croco” nel 2011 nell’ambito della rivista “Pomezia-Notizie” . I componimenti sono semplici, spontanei ma espressivi, così come può essere l’amore filiale per una madre. Le parole facili fanno pensare sia alla poetica pascoliana del Fanciullino sia ai chiaroscuri crepuscolari: “Saliva una nebbia grigiastra/dal fondo già buio della valle”. E’ il sogno che accompagna la poetessa con la madre ad un’altura dalla quale si scopre un vasto panorama nello scintillio azzurro del mare. Ora pare che la madre ancora intraprende un viaggio onirico con la figlia: in realtà la mamma è già passata a miglior vita la sera del 9 maggio 2010, giorno della Mamma. Gli affetti filiali sono rivolti anche alla nonna e al padre che nel sogno, la mattina, dà un bacio a Mariagina così come faceva quando era bambina. In queste poesie della Bonciani la forza della memoria emerge con grande delicatezza: i ricordi


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rivivono l’affetto e l’amore di sempre: (cfr. “La Dottoressa”, “Tre madri”, “Suor Arcangela”). Piuttosto umile e riservata, fragile e romantica, Mariagina (ora in pensione) è ricca di sentimenti sinceri sia verso la madre che verso tutta l’umanità in un afflato che abbraccia un mondo più grande di lei. Orazio Tanelli VERONA, N.J. – U.S.A.

D. Defelice: Il microfono (1960)

NOTIZIE Premio Nazionale “HISTONIUM” 2017 - Ad “Anime al bivio”, di Imperia Tognacci, Secondo Premio Assoluto - Motivazione della Giuria e recensione di Luigi Alfiero Medea - Un romanzo che si riallaccia in qualche misura alla tradizione classica, per il ritmo che segue il lento fluire della riflessione e della esposizione ben strutturata dei ragionamenti. Convince di questo testo l’ampia ricognizione che la protagonista attua all’interno di sé, della vita, delle sue dinamiche, e non ultimo della realtà altrui. La qualità e la profondità che l’ autrice si pone come obiettivo, il senso morale, il valore del sentire, del donarsi, del rinunciare, il tendere verso un superamento del proprio limite umano, il senso del divino, sono motivi di rilievo ed esposti con incisività. La sua è una ricerca tutto tondo, che impegna il lettore in ulteriori, esistenziali, ricerche e riflessioni.” Questa la motivazione della Giuria. La narrazione, a mio parere, è molto stimolante sia per la coerenza stilistica sia per lo spessore dei contenuti. Essa approfondisce soprattutto il problema della difesa della propria dignità contro qualsiasi tentativo di annientamento o di contraffazione. La prima testimonianza viene offerta da Giacomo, magistrato del Regno d’Italia, padre di cinque figli, che accetta piuttosto di essere trasferito dalla

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Valsesia a Roma, presso il Ministero dei Lavori Pubblici, pur di non aderire al partito fascista. Anche con la ferita nell’anima, mentre impacchetta carte, documenti e libri, egli riflette sulla importanza esistenziale della sua decisione: “questa decisione è una fuga dalla prigione in cui si vuole rinchiudere la mia libertà, è vivere, tenere accesa la luce del proprio essere in tanta oscurità. C’è del buono in ogni partenza.” E accetta la dolorosa e punitiva imposizione con indomito coraggio per affermare il suo percorso interiore, anche se la sua scelta impone un sacrificio a tutta la famiglia, costretta a lasciare la bellezza e la pace del paese natio. Ma è soprattutto la storia dell’ultima figlia di Giacomo, Annunziata, a dominare la maggior parte delle pagine del libro (anche se le vicende di altre donne si intrecciano alla sua). Costei, che ha sete di assoluto, dopo l’improvvisa morte del padre, nonostante l’iniziale opposizione della famiglia, sceglie di entrare in convento, proprio nel periodo più buio dell’Europa, che si va coprendo di lagher e di persecuzioni razziali. La vita della protagonista si trasforma, però, in una continua sofferenza, perché deve combattere certi atteggiamenti della superiora e delle consorelle, che non vedono di buon occhio che lei parla in confidenza con il papà di un’alunna della scuola. In questi momenti, nota l’ autrice, l’abito monacale sembra a Suor Annunziata una prigione con le mura che si stringono attorno a lei sempre di più fino a soffocarla. Qualche volta la protagonista, parlando a se stessa, si sfoga così: “Vorrei ribellarmi a questa vita che si esaurisce nella scuola, ma non posso, perché ormai mi sono convinta che è la mia e che sono nata solo per questo. E’ difficile diventare donne, esserlo veramente, complete, silenziose, nella gioia, nel sorriso, nell’oblio di sé”. Anche se non si ribella esternamente, lei continua, però, ad osservare la vita di convento con spirito critico, in particolare perché prova un forte disagio nel constatare uno scarto “fra l’ambiente di vita attuale e gli insegnamenti inculcati in lei nella sua infanzia e adolescenza”. In altre parole non rifiuta la fede, ma la deformazione della fede. Un pensiero diventa soprattutto un chiodo fisso nella sua mente: “Fino a che punto dobbiamo andare contro noi stessi? E’ giusto annullarci? Ci deve essere un’altra possibilità. Devo cercare una strada che mi permetta di tener fede ai miei voti, ma assolutamente devo andarmene da qui”. Convinta, così, che “occorre spingersi fino all’ estremo per affermare la propria dignità”, fa il possibile, provocando un forte disappunto alla Superiora di Roma, per essere trasferita nella Casa Madre del Belgio. Qui ha la possibilità, dopo un periodo di


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lavoro poco stimolante di diventare assistente delle famiglie italiane, presenti a Charleroi, per l’ insegnamento dei bambini. Un impegno missionario, questo, che lei ha sempre sognato (“il contatto con la povera gente, uomini, donne, bambini, un po’ timorosi, ma contenti di essere compresi nel loro dialetto”) e che la porta ad essere testimone della tragedia di Marcinelle dell’8 agosto1956, in cui 262 minatori perdono la vita. Il rientro in Italia per ubbidienza diventa per suor Annunziata una vera e propria punizione “per costringerla a chiedere perdono in ginocchio”. Ma quando il vaso è colmo, basta una goccia per farlo traboccare. E per la protagonista non resta altra via di uscita che fare le valigie e andare via definitivamente dal convento. *** DUE EVENTI A VICENZA - A Vicenza, il 6 e il 7 aprile 2018 si è svolta una 'due giorni' di intenso respiro, tra aspetti della seduzione e caratteristiche della norma, individuale e sociale. Questa l'accesa sintesi di due eventi di straordinaria importanza, il secondo accolto nelle coinvolgenti atmosfere del primo, tra le Gallerie di Palazzo Leoni Montanari, dove è in corso la mostra a cura di Federica Giacobello e interna al percorso 'Il tempo dell'Antico': La seduzione - mito e arte nell'Antica Grecia dal 15 febbraio 2018 al 13 gennaio 2019. Si tratta del grande tema CLASSICI CONTRO 2018, DIKE-ΔΙΚΕ Ovvero della giustizia tra l'Olimpo e la Terra, a cura di Alberto Camerotto e Filippomaria Pontani, dell'Università Ca' Foscari di Venezia, sezione Dipartimento di Studi Umanistici, in collaborazione con l'Associazione Italiana di Cultura Classica di Venezia, il Comune di Vicenza e i Licei classici di Vicenza, Bassano del Grappa, Schio, Valdagno, Thiene. Come vivere oggi gli Autori definiti 'Classici' ed aprire in maniera inedita le tensioni interne ai loro testi, per poter andare contro la corrente consolidata di un'acquisizione stereotipata, fissa e passiva? Il percorso è ben documentato in rete e presenza privilegiata di questa edizione 2018 è stato il compositore e musico NIKOS XANTHOULIS, dell'Opera di Atene. Ecco in elenco gli altri protagonisti, con Introduzione a cura di Valeria Stocchiero e Dino Piovan ed il saluto iniziale di F. Cacciabue (Casa circondariale di Vicenza): C. Pelloso (Un. di Verona - 'Dike nell'epoca arcaica: alle origini della soggettività giuridica') e Marcello Fracanzani (Un. di Udine L'identità e i diritti fondamentali). Alla sera della prima giornata, al Teatro Olimpico, si sono susseguiti gli interventi di Andrea Cozzo (Un. di Palermo - 'La giustizia è fondamentale ma non basta'); E. Milanesi (Giornalista, Padova - 'Se la giustizia non

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urtasse, non verrebbe lesa'); C. Clementi (Dir. del carcere di Bologna - 'So come gli uomini in esilio si nutrano con sogni di speranza'), conclusi con MUSICHE PER DIKE, Preludio e due intermezzi Eumenidi/Antigone/Iliade eseguite da Nikos Xanthoulis, profondamente ispirato, con il commento ai testi di F. Pontani: si è stati immersi in vibrazioni ed echi in una cornice senza tempo, il Teatro Olimpico, forma ed evento di una civiltà, tanto per ricordare Carlo Diano, che nel suo testo Forma ed Evento ha aperto proprio il tempo storico della civiltà greca a tutte le forme possibili che la convergenza intellettuale e l'esplorazione filologica consentono, onde dar vita a nuovi ed originali eventi, sempre carichi di grande tensione creativa, quale può essere considerata appunto questa edizione di Classici Contro: questa 'due giorni' sembra per me proprio avere i connotati di un silenzioso ringraziamento alle sue prestigiose intuizioni. La giornata successiva, sabato 7 aprile, ha visto al lavoro a Palazzo Leoni Montanari F. Giacobello (Un. Statale di Milano-'La Dike di Afrodite: Seduzione nel mondo antico'); A. Meriani dell'Un. di Salerno e N. Xanthoulis, vero musico apollineo, che si sono presentati insieme per affrontare il tema 'Suoni e strumenti della musica greca'; A. Mcclintock (Un. del Sannio-'Immagini della Giustizia: Dike, Nemesis, Fides'); G. Forti (Un. Catt. di Milano'Ifigenia e la giustizia: ricognizioni su Goethe'), del quale ho preso appunti serrati, perché è stata una relazione ricca di stimoli per approfondire questo gigante della Letteratura tedesca. Poi, alla sera, ancora al teatro Olimpico si sono alternati M. Manca (Un. di Torino-'Cos'è giusto, cos'è legale. Socrate, Le Arginuse, Antigone - e un po' Marco Cappato'); G. Carillo (Un. Suor O. Benincasa, Napoli-'Di cosa è espressione il nomos?'); G. Canzio (Primo Presidente emerito della Corte di Cassazione-'La Dike degli antichi e la Giustizia dei moderni'), per concludere poi con 'Dike, con gli occhi di Zeus' Azione teatrale degli studenti del Liceo Classico A. Pigafetta di Vicenza a cura di Daniela Caracciolo, Francesca Leto, Letizia Tonello. Grande l'impatto culturale di questo straordinario percorso, ben supportato da articoli ed interviste pubblicati sul quotidiano della città: Dike, i suoi volti, i suoi strumenti, per designare atti di forza e provocare asservimento alla Legge? La Giustizia affianca il Potere o ne provoca, per contrasto generativo l'esplosione? Quale lo sguardo di cittadini del mondo, in epoca di globalizzazione, sul monopolio di una giustizia operata attraverso la violenza, che ha per norma l'uso arrogante delle armi e l'impiego di esseri umani, i soldati, che potrebbero fare dell'altro? Come interiorizzare questi contenuti incrociati, così intensi,


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così attuali, senza che spingano le nostre azioni a cambiare il corso degli eventi, dando nuova forma alla Storia? Ilia Pedrina

LIBRI RICEVUTI SONIG TCHAKERIAN - PIETRO TONOLO Vivaldi Seasons and Mid-Seasons, Orchestra di Padova e del Veneto, prima faccia; Antonio Vivaldi, Le quattro stagioni, Il cimento dell’ armonia e dell’inentione, Op. VIII - Sonig Tchakerian violin, Pietro Tonolo sax, Orchestra di Padova e del Veneto, seconda faccia. CD, presentazione di Alberto Cantù. Brani: Primavera, Oziando; Estate, Tempesta; Autunno, Nostalgia; Inverno, Fuori stagione. Solisti: Fabio Paggioro, violin; Gianluca Baruffa, violin; Alberto Salomon, viola; Mario Finotti, cello; Daniele Roi, harpsichord tuonofono (French harpsichord, Taskin copy). Recording: 3/2014 at the Scuola della Carità, Padova; Producer and art director: Fabio Framba; Sound engineer, recording and editing: Fabio Framba; Sonig Tachakerian plays a violin Gennaro Gagliano, Napoli, 1760, Pietro Tonolo plays Borgani saxophones.www.sonigtchakerian.it;www.pietrotonolo. com ; Universal Music Classic & Jazz, a division of Universal Music Italia srl, 2015. Il CD ci è stato inviato da Ilia Pedrina. Sonig TCHAKERIAN, italiana di origine armena, ha iniziato a suonare il violino giovanissima con il padre. Trasferitasi in Italia, si è diplomata con Giovanni Guglielmo e si è perfezionata con Salvatore Accardo a Cremona, oltre che con Franco Gulli a Siena e con Nathan Milstein a Zurigo. Premiata ai concorsi Paganini di Genova, ARD di Monaco di Baviera, Gui di Firenze è tra i pochi violinisti ad eseguire dal vivo l’integrale dei “Capricci” di Paganini, registrati anche in cd nel 2003 per Arts. La sua discografia comprende le “Sonate Op. 23, 24 e 47” di Beethoven, inserite da Deutsche Grammophon nella Beethoven Collection (2010), il “Concerto” di Barber e la “Serenata” di Bernstein (Amadeus, 2006), l’integrale dei concerti di Haydin (Arts, 2001), il “Concerto n. 5” di Vieuxtemps e il “Rondò capriccioso” di Saint-Saëns (Audiophile Sound, 1997), l’integrale per violino e pianoforte di Ravel (AS disc, 1991). Importanti le sue collaborazioni con Argerich, Canino, Lucchesini, Prosseda, Redaelli, oltre che con la Royal Philharmonic di Londra, la Bayerischer Rundfunk di Monaco, la Verdi e i Pomeriggi Musicali di Milano, le orchestre del San Carlo di Napoli e dell’Arena di

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Verona, I Solisti Veneti, l’Orchestra di Padova e del Veneto, con direttori quali Bellugi, Chailly, Gatti, Janigro, Oren, Scimone, Tchakarov. Molti i compositori che hanno scritto per lei: Ambrosini, Boccadoro, Campogrande, Dall’Ongaro, Mosca, Perocco, Sollima. Assieme al marito, G. B. Rigon, ha fondato le Settimane Musicali al Teatro Olimpico di Vicenza i cui concerti sono regolarmente trasmessi da RAI Radiotre. Dal 2009 le è stata affidata la prestigiosa docenza di violino nell’ambito dei corsi di perfezionamento dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia a Roma. Nel 2008 ha avuto l’onore di suonare alla presenza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, al Palazzo del Quirinale in diretta per RAI Radiotre. Suona un magnifico violino di Gennaro Gagliano, costruito a Napoli nel 1760. ** ELENA GAMBUSERA - Come un’ombra piena di luce - Poesie - Stampa con HP Indigo da Grafiche Riga srl, Annone (LC), 2005 - Pagg. 60, s. i. p. L’Autrice ci scrive, tra l’altro, il 23 febbraio 2018: “...Sono iscritta e partecipo alle riunioni di “Guarda c’è un libro nell’albero” dove abito e che mensilmente introduce dibattiti su scrittori o eventi storici./Il mio tempo è pieno, porto in giro per mostre ricami dell’arte povera fine ottocento ai tempi nostri inserendo anche miei lavori./Invio un libro di mie poesie, semplici parole, ma anche premiate./Sposata, tre figli e una nipotina, mi tengo impegnata riempiendo il silenzio che mi circonda e che adoro.” ** GIOVANNI DINO - Nessuno va via - Poesie, Nota dell’Autore, interventi in prefazione di Lina Riccobene ed Emilio Diedo; in copertina, a colori, olio di Carlo Puleo e, in quarta, giudizio di Dante Cerilli - Ed. Pagine lepine, 2017 - Pagg. 48, s. i. p. Dal 2 ottobre 2009, da quando la sua Anna se ne è andata, vinta da un carcinoma ai polmoni, Giovanni Dino non riesce a darsi pace e neppure la sua grande fede è sufficiente per attenuare il suo immenso dolore. Lasciato inesorabilmente solo a tirare su i due figli Luca e Laura, egli si sente schiacciato dalla tragedia e si lamenta come gli antichi biblici profeti, che si rivolgevano a Dio narrandoGli gioie e tribolazioni, interrogandolo su “i tanti tanti tanti/come e perché”, nella consapevolezza che tutto viene e a Lui tutto ritorna. Però, una volta trapiantati in questo mondo, la vita non si disdegna e sarebbe pur giusto viverla nella normalità per il tempo consentito. Anna per il poeta se ne è andata apparentemente: “M’abiti ancora corpo e mente col fuoco di tutti i vulcani”, le grida e l’invoca; pur non potendola più toccare, accarezzarle i capelli, stringerla al suo cuore, la sente continuamente a sé “vicina/quando apro


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gli occhi al mattino/sto alla guida della tua auto/annaffio le piante sul balcone”, le domanda: “dimmi almeno come stai/cosa c’è dove ti trovi”, pur consapevole che non riceverà risposta, “perché dalle palafitte alla luna/nessuno ha raccontato ciò che ha visto”. Poesia, comunque, che si distingue per la pacatezza della narrazione, pur trattandosi di versi tristissimi, che lo stesso poeta mai avrebbe voluto scrivere. (ddf). Giovanni DINO è nato a Palermo nel 1959, ma vive e opera a Villabate (PA).Ritiene sua vera scuola le tante esperienze di vita con persone di diversa levatura sociale e culturale e la loro amicizia. Ha frequentato corsi di teologia e studi biblici dedicandosi ad approfondimenti filosofici sul Bene e sul Male, sul Bello e sul Buono, a studi sulla poesia nazionale contemporanea dal dopoguerra ad oggi e su poeti palermitani, molti dei quali conosciuti e frequentati. Cattolico, aperto ecumenicamente verso tutte le fedi religiose. Ha curato: Indice Generale 1986 - 2003 “autori della rivista Spiritualità & Letteratura” (2003), Editoriali di Spiritualità & Letteratura (2006), Nuovi Salmi (con G. Ribaudo, 2012), I poeti e la crisi (2015). Presente in antologie di poesie e dizionari vari, collabora con periodici e riviste letterarie. Ha pubblicato: La parola sospesa (1995), Ritorneremo (I Cavalieri dello Spirito) (1998), Anima di gatto (2002), E ritorno a te (2004), Un albero che nutre la terra di cielo (2007), 11-12-13 (con Nicola Romano, 2013), La nascita di una idea (2015). ** ISABELLA MICHELA AFFINITO - Mi interrogarono le muse... - Prefazione dell’Autrice (sue sono pure le foto in bianco e nero all’interno del testo), Introduzione di Angelo Manuali; in copertina, a colori, lavoro grafico dell’Autrice realizzato a collage e pennarelli acrilici su cartoncino nero lucido Bastogi Libri, 2018 - Pagg. 110, € 13,00. Isabella Michela AFFINITO è nata in Ciociaria nel 1967 e si sente donna del Sud. Ha frequentato e completato scuole artistiche anche a livello universitario, quale l’ Accademia di Costume e di Moda a Roma negli anni 1987 - 1991, al termine della quale si è specializzata in Graphic Designer. Ha proseguito, poi, per suo conto, approfondendo la storia e la critica d’ arte, letteraria e cinematografica, l’antiquariato, l’ astrologia, la storia del teatro, la filosofia, l’ egittologia, la storia in generale, la poesia e la saggistica. Nel 1997 ha iniziato a prendere parte ai concorsi artistico-letterari delle varie regioni italiane e in seguito ha partecipato anche a quelli fuori dei confini d’ Italia, tra cui il Premio A.L.I.A.S. dell’ Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori di Melbourne. Ha reso edite quasi 60 raccolte di poesie e due volumi di critiche letterarie, dove ha preso in

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esame opere di autori del nostro panorama contemporaneo culturale e sovente si è soffermata sul tema della donna, del suo ruolo nella società odierna e del passato, delle problematiche legate alla sua travagliata emancipazione. Con “Da Cassandra a Dora Maar” (2006) ripropone le infinite donne da lei ritratte nei versi per continuare un omaggio ad esse e a lei stessa. Inserita in moltissime antologie, tra cui l’ “Enciclopedia degli Autori Italiani” (2003), “Cristàlia” (2003), “8 Marzo” (2004), “Felicità di parole...” (2004), “Cluvium” (2004), “Il suono del silenzio” (2005) eccetera. Sempre sul tema della donna ha scritto un saggio sulla poetessa Emily Dickinson. Pluriaccademica, Senatrice dell’ Accademia Internazionale dei Micenei di Reggio Calabria, collaboratrice di molte riviste, è presente in Internet con sue vetrine poetiche. Tra le sue recenti opere: “Insolite composizioni” - vol. VIII (2015), “Viaggio interiore” (2015), “Dalle radici alle foglie alla poesia” (2015), Una raccolta di stili (15° volume, 2015), “Percorsi di critica moderna - Autori contemporanei” (2016). ** MARCELLO FALLETTI DI VILLAFALLETTO Davvero costui era figlio di Dio! (Mt 27, 54) (Vere Filius Dei erat iste!) - Prefazione dell’Abate Dom Bernardo Francesco M. Gianni OSB - Anscarichae Domus Accademia Collegio de’ Nobili Editore, MMXVII - Pagg. 112, € 10,00. Marcello FALLETTI DI VILLAFALLETTO, laureato in Lingue e Letteratura Straniera, è poeta, saggista e storico. Presiede l’Accademia Collegio de’ Nobili, fondata nel 1689. Ha ricevuto il Premio Nazionale Letterario Artistico “Elio Vittorini” (Messina, 1979) e il Premio Paolo VI “Una poesia per la pace” (Ercolano, Napoli, 1989).Dirige il periodico L’Eracliano ed è fondatore e presidente del Premio Internazionale di Poesia “Danilo Masini”; collabora attivamente a giornali e riviste; ha redatto recensioni e prefazioni critiche a libri di numerosi autori. Tra le sue opere: Inter Nos (liriche, 1982), In quel tempo... (poesie e spigolature, 1989), I SavoiaAcaia, Signori del Piemonte (1990), Legendo oro, orando contemplor (1995), La storia e l’araldica (1998), Accademia Collegium Nobilium (2000), San Pancrazio in Val d’Ambra, camminando lungo i millenni (2002), Un salotto per gli amici (2002), Un uomo che seppe contare i propri giorni (2006), Dove sta la verità storica?!, Appunti e riflessioni sulla presunta appartenenza degli ultimi due marchesi di Barolo alla Massoneria (2006), La redenzione della donna: Giulia Falletti di Barolo (2007), Capitoli e Regolamenti (2009), La poliedrica figura di Carlo Tancredi nei Diari di viaggi (2009), La Chiesa di San Michele Arcangelo di Ponte Buggianese


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(2013), Canton Glarus, Cento Anni della Missione Cattolica Italiana (1912 - 2012) (2013) eccetera. ** AA. VV. - Poeti italiani del nostro tempo - Premio Internazionale di Poesia “Danilo Masini” (Sogno o Realtà) - 11a Edizione 2016 - Prefazione di Marcello Falletti di Villafalletto - Ed. Anscarichae Domus, Firenze 2017 - Pagg. 148, € 10,00. Ecco gli autori antologizzati. Sezione poesia inedita: Fabiola Confortini, Maria Laura Ghinassi, Aldo Ripert, Fulvia Marconi, Mario Aldo Bitozzi, Pierluigi Fiorella, Maria Cristina Renai, Alessandro Inghilterra, Vito Dimola, Anna Maria Olito, Giovanni Bubbico, Ines Scarparolo, Stefania Calesini, Giovanni Tavčar, Vittorio Morrone, Daniele Boganini, Lolita Rinforzi, Maurizio Bacconi, Fiorenza Perotto, Paola Carmignani, Claudia Degli Innocenti, Rita Muscardin, Antonella Ammendolia, Roberto Baraldi, Alessandra Benassi, Leda Biggi Graziani, Bruno Bini, Alberto Boldrini, Enrico Cacciato, Tommaso Caruso, Luigi Cipolletti, Maria Letizia Codutti, Natascia Congera, Giovanni Cordero, Alessandro Corsi, Teresa Cuparo, Mirco Del Rio, Marie-Françoise Demortier, Luciano Fani, Francesco Fattorini, Mita Feri, Cecilia Ferretti, Fenice Rita Francalanci Tognetti, Santo Gaetano Galati Rando, Alberto Gatti, Giuliano Gemo, Guido Giovannetti, Isidoro Grasso, Romualdo Guida, Giovanni Ingino, Marko Kurtinovic, Daniela Lotti, Maria Luisa Luraghi, Noemi Mallardi, Alessandra Mannini, Marcello Mommarelli, Daniela Monreale, Paolo Montaldo, Anna Maria Mustardino, Maria Luisa Orsi Sigari, Giuseppe Perrone, Giulia Quaranta Provenzano, Rosaria Ines Riccobene, Giuseppe Romano, Francesco Rosaspina, Enea Solinas, Giovanna Spitaleri, Simonetta Teglia, Angelo Vedramel. Sezione poesia libro edito: Luciano Fani, Claudio Tugnoli, Giorgina Busca Gernetti, Roberta Bagnoli, Franco Casadei, Anna Santarelli, Stefano Martin, Maria Grazia Rossi, Maria Enrica Braggion, Paride Mercurio, Alessio Arena, Clara Bianchi, Adalpina Fabra Bignardelli, Giannicola Ceccarossi, Fulvia Diotti, Maria Elia, Imma Melcarne, Franca Prosperi, Lolita Rinforzi, Andrea Sesoldi, Ambra Manuela Tremolada. Sezione poesia inedita giovani: Melissa Storchi, Jasmine Maglie, Gabriel Tagliabue, Gaia Mizzon, Maria Casaro, Filippo Pacini. ** MARIA ANTONIETTA MOSELE GIORGIOLI L’Antico Testamento della Sacra Bibbia - Roma 2018 - Tipografia Tambro, Pomezia - Pagg. 210, e. f. c. Maria Antonietta MOSELE Giorgioli è nata ad Asiago il 16 giugno 1947, ma risiede a Pomezia. Docente in pensione, è particolarmente attiva nel Sociale e si dedica pure alla pittura e alla critica.

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Collabora a Pomezia-Notizie con recensioni da molti anni e dal dicembre 2002, ha curato, per il mensile, la rubrica “Letti per voi” (l’ultima puntata è del giugno 2011). Tra le sue opere ricordiamo: Parlando asiaghese (1996), Fioretti di San Francesco (2017).

TRA LE RIVISTE FIORISCE UN CENACOLO - Mensile internazionale di lettere e arti fondato nel 1940 da Carmine Manzi, direttore responsabile Anna Manzi - 84085 Mercato S. Severino (SA) - e-mail: manzi.annamaria@tiscali.it Riceviamo il n. 1-3, gennaio-marzo 2018, dal quale segnaliamo: “Partigiano d’amore di Giovanni Galli” e “Le mie parole per gli altri di Rosangela Zoppi Tirrò”, di Leonardo Selvaggi; “Ultimo impossibile amore di Bruno Vezzuto” e “Le maschere di Aldo Marzi”, di Anna Aita; “Ultima voce poetica del 300”, di Antonio Vitolo; “Filomena Furno sull’orlo dell’anima”, di Tito Cauchi; “Vittorio Martin artista del cuore di Carmine Manzi”, di Isabella Michela Affinito, che risulta pure tra i vincitori (4° posto) della sezione “Poesia in lingua” della 57a edizione del Premio Nazionale Paestum 2017. Segnaliamo ancora alcuni brevi interventi dell’amico Orazio Tanelli, dagli Stati Uniti d’America. * MAIL ART SERVICE - periodico dell’Archivio di Mail Art e Letteratura “L. Pirandello” di Sacile, diretto da Andrea Bonanno - via Friuli 10 - 33077 Sacile (PN). Riceviamo il n. 101, marzo 2018, dal quale segnaliamo “Betocchi, il vetturale di Cosenza e i poeti calabresi del poeta Carlo Cipparrone”, di Andrea Bonanno e “Differenza tra “pittura colta” e “pittura culturale” “, di Susanna Pelizza, invitando, inoltre, gli appassionati d’arte e di letteratura, a visitare il sito: www.andreabonanno.it

LETTERE IN DIREZIONE (Ilia Pedrina da Vicenza) Carissimo Amico, oggi è il 15 aprile e voglio condividere con te e con tutti i nostri cari compagni di viaggio un ricordo che deve restare memoria indelebile nella nostra coscienza di Italiani: il 15 aprile 1944 alle ore 13:30 Giovanni Gentile sta


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rientrando a casa, in macchina, ma non è alla guida: è già quasi arrivato alla sua abitazione a Firenze e viene colpito da chi si passa per studente e fa in modo tale che la macchina si fermi ed il professore abbassi il finestrino, senza timore alcuno perché rispetta chi studia. In cinque? In sei? Ci si copre l'arma con dei libri, perché si ha bisogno di fingere, chi non ha coraggio si sente obbligato a fingere, simulatori e dissimulatori ad un tempo. Il filosofo muore poco dopo, ma aveva già cominciato a morire molto prima, quando, come nell'articolo 'Ricostruire' apparso sul 'Corriere della Sera' il 28 dicembre 1943 e riportato nel libro a cura di Gabriele Turi, Giovanni Gentile - Scritti per il 'Corriere' 1927-1944, sostiene: '… Anglofili e germanofili, antifascisti e fascisti, italiani sbandati e italiani orientati e fermi al posto di combattimento discuteranno di chi sia stata la colpa, e quale sia la strada per tornare alla luce. Ma urge su tutti, problema di vita o di morte, la necessità della ricostruzione, perché tutti vivono la tragedia del presente, da cui bisogna uscire al più presto possibile; sentono tutti, ormai, il morso implacabile della guerra... Non sentono tutti che l'onore non è una parola vana, ma il bisogno insopprimibile di non rinnegare se stessi? Anche una grande fiamma può diventare una piccola favilla; ma anche questa, se non si spegne, può tornare a dilatarsi in un vasto incendio. I popoli non muoiono se alle sconfitte sopravvive indomita la loro volontà di indipendenza. In questa volontà è la vita. Non distruggere tale volontà, questa la condizione per non perire... Quindi la funzione essenziale della cultura, che è arte, scienza e genio, ma è tradizione; e come coscienza profonda di questa, unità fondamentale comune, bisogno di concordia degli animi, rinvio di tutto quello che può dividere, cessazione delle lotte, tranne quella vitale contro i sobillatori, i traditori, venduti o in buona fede, ma sadisticamente ebbri di sterminio...'. Si, 'sadisticamente ebbri di sterminio' allora come ora. Così Giovanni Gentile sapeva già, in tutto se stesso, quale futuro lo avrebbe aspettato e mai è venuto meno alla dignità di essere e di sentirsi Italia-

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no, rinnovato dentro dalle tappe raggiunte di estremo valore culturale, per l'Italia, l'Europa, il mondo, oltre ogni partito o governo. E quando il giovane Diano gli scrive dello sbarco in Sicilia e della sua angoscia per i parenti a Monteleone Calabro, mi sei venuto subito agli occhi, nell'immagine che i tuoi versi mi hanno scolpito dentro, quando hai pubblicato lo scorso aprile queste memorie di te bambino tra l'infermo delle cose: Ridevo allo spettacolo La luna dilagava sulle vecchie capanne di lamiera e paglia. Si andava rasoterra i vecchi come leoni alla posta bestemmiando il chiaro inopportuno. Arrivarono da dietro la collina gli aerei come falchi in picchiata sull'allodola. E fu l'Apocalisse. Sdràiati in mezzo all'erba! Mi strattonava Annunziata. Innocente, ridevo allo spettacolo. L'altro giorno mi risponde il prof. Gabriele Turi, con estrema gentilezza mi informa delle lettere di Carlo Diano a Giovanni Gentile, dal 1924 al 1944, depositate presso la Fondazione Giovanni Gentile di Roma, 25 in tutto. Allora mi metto in ricerca, leggo le sue lettere e cartoline e capisco che il giovane Carlo dai ventidue anni in avanti ha avuto Giovanni Gentile come Maestro da venerare, padre spirituale di quel logos che è intelletto ed anima ad un tempo, mostrandosi in cammino con quella tensione che si prova quando si intende mostrare riconoscenza, nell'esser all'altezza della fiducia e del rispetto ricevuti. Informo Francesca Diano: lei era al corrente della loro esistenza, ma non ne sapeva la collocazione. Allora si commuove ed io non le sono da me-


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no. A quell'epoca, e non solo, la conoscenza era parte integrante della vita ed il dedicarsi ad essa con scrupolosa attenzione in ricerca era attività non soltanto legata al fare carriera. I disagi, le ansie, le angosce hanno accompagnato la vita e determinato le scelte, profonde, sempre coerenti, preziose e lungimiranti, senza tempo, come quelle di Carlo Diano e di tutti coloro che, come lui, in ogni tempo, hanno avuto ed hanno il coraggio di affrontare la vita. Ho un nodo alla gola che vorrà ancora tempo per sciogliersi, e mi terrò al fianco ampi spazi donati alla meditazione sugli eventi di cui siamo nostro malgrado testimoni. Ti abbraccio con tutto il cuore. Ilia tua Ilia Carissima, il delitto Gentile fu delitto politico e delitto di mafia, giacché dittature e mafie sono la stessa cosa. Il delitto Gentile è tipico dei delitti mafiosi: l’ agguato, il mimetismo, la vigliaccheria. Giovanni Gentile (Castelvetrano, 30 maggio 1875 Firenze, 15 aprile 1944), filosofo, pedagogista, politico, è stato cofondatore dell’Istituto dell’ Enciclopedia italiana e l’artefice, nel 1923, della più grande, importante e intelligente riforma della Pubblica Istruzione, giacché, quelle che son venute dopo, hanno solo distrutto e imbastardito, non costruito. Gentile era un uomo di cultura e onesto, gli altri cattivi politici di carriera ed ignoranti. Basta citarne soltanto uno: Luigi Berlinguer, la cui riforma (si fa per dire!) del 10 febbraio 2000, viene, sì, a volte ricordata ancora, ma per gli... strafalcioni. Non vorrei scandalizzare. Giovanni Gentile non è stato un vero fascista; era uno dei tanti professori, intellettuali, professionisti eccetera che, per vivere ed attuare le proprie idee, aveva aderito ad un potere che, diversamente, non permetteva di agire. Pochi sono stati quelli che hanno avuto il coraggio di rinunciare alla carriera e ad altro (in qualche caso anche alla vita, gli eroi), schierandosi apertamente contro la dittatura (perciò non c’è stata gran meraviglia se, caduto il fascismo, son diventati tutti e all’improvviso democristiani e comunisti!). Non vorrei scandalizzare. Se non fosse stato assassinato, se fosse vissuto, anche Giovanni Gentile, come i tanti e come i più, avrebbe rinnegato il fascismo dei delitti, degli arresti, delle leggi razziali e di tant’altro. Lui era talmente fascista, da non meritare, al suo funerale del 18 aprile 1944, nella Ba-

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silica di Santa Croce a Firenze, la presenza di un qualche gran fascista che contasse veramente, ma di una gran folla che lo stimava e l’amava. Gentile venne ucciso non perché fosse fascista, ma perché grandissimo uomo di cultura ed è la cultura a mettere in imbarazzo dittatori e mafiosi d’ogni tempo. Giovanni Spadolini, che di Gentile è stato allievo, retoricamente si domandava, su Italia e civiltà del 27 aprile 1944, “perché mai i nemici di Italia scegliessero quasi sempre, per i loro crimini, in seno al fascismo stesso gli uomini più onesti, conciliativi, obiettivi, capaci e stimati, individui tutti o di specchiato valore o di raro ingegno, e risparmiassero e lasciassero anzi prosperare in pace i settari e i fanatici, quando non addirittura gli arrampicatori, gli screditati, gli incapaci e i filibustieri”. Perché “i nemici di Italia”, quelli veri, sono i dittatori e i mafiosi e non possono prendersela con i loro sodali: i settari, i fanatici, gli arrampicatori, gli screditati, gli incapaci e i filibustieri: cane non mangia cane. E si rispondeva: “la verità è che i primi, anche se nel fascismo rappresentano la tendenza più temperata, tali da sembrar in apparenza deboli e incerti, sono invece il massimo lievito e la massima garanzia della ripresa nazionale e solo per questo sono invisi al nemico”. Non intendo scandalizzare e rischiare di venire accusato di apologia del fascismo, in una società come la nostra, crudele e violenta, ma anche grandemente ridicola, se ha paura dei fantasmi. Il fascismo - non i fascisti e mafiosi - non è stato del tutto negativo. Nella mia famiglia il fascismo non è stato mai amato. In casa, nella stanza da pranzo (un eufemismo!), alle pareti, oltre una grande stampa delle anime del Purgatorio divorate dalle fiamme, ed un’altra con una donna bellissima ed elegantemente vestita, vicino a una balconata di un fantastico giardino, con alberi altissimi e fiori, c’era la grande stampa del dipinto di Giuseppe Pelizza da Volpedo. Mio padre, per non aver preso la tessera del fascismo, dal ducetto locale fu spedito al confino, nell’Agro Pontino Romano. Era il tempo della Bonifica. A Cisterna ebbe modo di conoscere Achille Starace (Gallipoli, 18 agosto 1889 - Milano, 29 aprile 1945), il quale - raccontava mio padre - meravigliato, gli chiese: “Peppe, come mai ti hanno confinato?”, e lo mise a dirigere una mensa per gli operai. Avrebbe potuto rimanere a lavorare, facendosi raggiungere dalla famiglia, ma la nostalgia della terra d’origine lo vinse. In paese, non venne più disturbato, anzi, quasi riverito. Il fascismo non è stato amato dalla mia famiglia e neppure da me. Scrivevo nel 1958: “I fascisti farebbero bene a tacere. Le madri italiane ancora piangono dinanzi ai ri-


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tratti dei figli periti nell’ultimo disastro. No alle dittature! Vivere affamati, meglio, ma liberi di poter dire e operare senza tema di niente e di nessuno...” (L’orto del poeta, pag. 9). Non intendo scandalizzare. Mentre son da esecrare tutti i fascisti veri, perché dittatori e mafiosi, non così certe realizzazioni del fascismo. L’architettura non è da condannare (esempio, l’EUR di Roma); non è da condannare l’arte; non è da condannare la difesa della maternità e della donna (ma si ribadisce, ed è vero, che c’era un interesse e uno scopo); non è da condannare la cultura. Gentile era un uomo di cultura, vissuto in quel periodo, non un vero fascista; non ha avuto il coraggio di combatterlo a viso aperto - e anche questo è vero - e si è adeguato solo un po’ di più di come e quanto fecero migliaia di docenti e di professionisti in ogni campo, accettando una parte attiva per meglio realizzare progetti che gli stavano a cuore, come i già ricordati Istituto della Enciclopedia Italiana e la mai superata Riforma scolastica. Infine, Carissima, vivo in una città che è l’ultima edificata dal fascismo, fatta sorgere dal nulla e in un tempo che oggi - data la soffocante burocrazia non basterebbe neppure per ottenere un piccola licenza di venditore ambulante. Pomezia ha circa 70 mila abitanti e gli edifici più graziosi che possiede sono ancora e solo quelli costruiti dal fascismo: la piazza elegantemente semplice, da richiamare le tele di De Chirico; la torre, la chiesa di tufo come il palazzo comunale e del fascio (che ancora reca le colonne con il balconcino dal quale si concionava nelle adunanze), la scuola con ampia palestra; le case di giallo antico e tutto messo su senza ruberie - o senza ruberie eccessive - e senza scandali. E veniamo alla mia poesia, per la quale mai avrei immaginato un tale successo. Decine di telefonate e più di una e-mail, tutte di plauso, che ringrazio. Ecco, per esempio, ciò che scrive il caro e fraterno Giuseppe Leone: “Davvero bella, caro Domenico, la tua lirica Ridevo allo spettacolo, una perla nel numero di aprile della rivista. Appena 13 versi, quasi un sonetto, ma quanti ne sono bastati per una rappresentazione della realtà umana, fatta brillare in una moltitudine di ossimoriche esplosioni: la vita e la morte, la guerra e la pace, la ferocia e la mitezza, il coraggio e la paura, la rabbia e la gioia, la storia e l’attimo. E come se non bastasse, la luce e le tenebre, la bonaccia e la tempesta, la fanciullezza e l’età matura, l’innocenza e la colpa, il riso e il pianto, l’idillio e la tragedia, il silenzio e il rumore. E ancora, il sacro e il profano, la similitudine e l’analogia, l’arte e il caos. Un idillio, un quadretto e un lied a un tempo: tale è apparso alle mie orecchie e alla mia vista que-

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sto tuo capolavoro.” Non nascondo d’essermi commosso. Domenico

AI COLLABORATORI Inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione) preferibilmente attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è gradito un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (copia cartacea) Annuo, € 50.00 Sostenitore,. € 80.00 Benemerito, € 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia, € 5,00 (in tal caso, + € 1,28 sped.ne) Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 N076 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio


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