ISSN 2611-0954
mensile (fondato nel 1973) Direzione e amministrazione: Via Fratelli Bandiera, 6 - Tel. 06/91.12.113 - 00071 POMEZIA (Roma) - Fondatore e Direttore responsabile: DOMENICO DEFELICE – e-Mail: defelice.d@tiscali.it – Parziale distribuzione gratuita (solo il loco) – Attività editoriale non commerciale (art. 4, D.P.R. 26.10.1972 n. 633 e succ.ve modifiche) - Per abbonamenti: annuo, € 50; sostenitore € 80; benemerito € 120; una copia € 5.00) e per contributi volontari (per avvenuta pubblicazione), versamenti sul c/c p. 43585009 intestato al Direttore - Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 213/93 del 23/5/1993 - La collaborazione, sempre gratuita, in parte è libera, in parte è per invito. Ogni autore si assume la responsabilità dei propri scritti - Manoscritti, fotografie e altro materiale, anche se non pubblicati, non vengono restituiti - É ammessa la riproduzione, purché se ne indichi la fonte. Per ogni controversia, foro competente è quello di Roma.
Anno 26 (Nuova Serie) – n. 6
€ 5,00
- Giugno 2018 -
ERMANNO OLMI POETA DELLA SACRALITÀ DELLA TERRA E DELLE IMMAGINI di Ilia Pedrina
A
SIAGO e i suoi Sette Comuni. Ermanno Olmi e Mario Rigoni Stern, due Amici nel nome di questa terra, e delle immagini interiori che provoca e sa far sedimentare. La regia di un intenso narrato in immagini e la scrittura della storia, degli eventi, delle relazioni, in tempi di guerra e di pace: questi i due campi di indagine da approfondire e da condividere. Ermanno Olmi ha ora raggiunto l'Amico, nelle lande del cielo, affinché le pareti del villaggio di cartone si consumino per far entrare luce, là dove i prati sono sempre verdi. Nessuno dei due si è più sciolto da Asiago e dai suoi sette Comuni. Il primo, Olmi, arrivato dalle terre del Bresciano per incontrare nel 1959 Rigoni Stern, l'autore de 'Il sergente nella neve' e mettere in immagini il suo percorso di vita e d'esperienza, rimane affascinato dall' uomo, dalla sua anima, dalla sua terra, scegliendola poi come dimora per sé e la famigliola.
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
Pag. 2
All’interno: Scene di vita politica italiana, di Giuseppe Leone, pag. 5 Luce di Lunigiana, di Emerico Giachery, pag. 6 Wilhelm Worringer, di Massimiliano Pecora, pag. 9 L’impegno culturale di due professionisti, di Antonio Crecchia, pag. 12 Cristina Rossetti tradotta da Franca Maria Ferraris, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 15 Magna Roma di Rosa Elisa Giangoia, di Luigi De Rosa, pag. 19 Giuseppe Leone e i temi etico-politici in Machiavelli e Silone, di Ilia Pedrina, pag. 22 Novità librarie, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 27 Il 18 novembre 1953, di Leonardo Selvaggi, pag. 29 La casa, di Anna Vincitorio, pag. 35 Era un ragazzo del ’99, di Anna Vincitorio, pag. 36 L’accattone, di Antonio Visconte, pag. 38 I Poeti e la Natura (Heinrich Heine), di Luigi De Rosa, pag. 39 Notizie, pag. 51 Libri ricevuti, pag. 53 Tra le riviste, pag. 55
RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (Anime al bivio, di Imperia Tognacci, pag. 41); Isabella Michela Affinito (Visioni culturali, di Susanna Pelizza e Vito Sorrenti, pag. 42); Elio Andriuoli (Scritti d’arte, di Domenico Camera, pag. 43); Tito Cauchi (Lentamente, di Veronike Jane, pag. 44); Tito Cauchi (La chioma di Berenice, di Angelo Manitta, pag. 46); Tito Cauchi (Io e gli autori di Poeti nella Società, di Isabella Michela Affinito, pag. 46); Tito Cauchi (Mi interrogarono le muse, di Isabella Michela Affinito, pag. 47); Aldo Cervo (Giorno dopo giorno, di Antonia Izzi Rufo, pag. 48); Filomena Iovinella (Ritratti, di Isabella Michela Affinito, pag. 49); Maria Antonietta Mòsele (Ritratti, di Isabella Michela Affinito, pag. 49); Ilia Pedrina (Atene contro Gerusalemme, di Simone Weil, pag. 50). Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Loretta Bonucci, Rocco Cambareri, Salvatore D’Ambrosio, Caterina Felici, Francesco Fiumara, Béatrice Gaudy, Filomena Iovinella, Antonia Izzi Rufo, Teresinka Pereira, Gianni Rescigno, Franco Saccà
Insieme hanno compreso il resto del mondo anche a partire da questa terra, che offre solidità ancestrale e sacralità radicale, sublimandone ogni pesantezza, perché le radici, per far crescere forte e sana la pianta, hanno bisogno di terra e di rocce oltre la terra, a far da sostegno nei periodi di forte dilavamento. Ringrazio dunque con tutto il cuore il caro prof. Luigi De Rosa, che su queste pagine, nei numeri di Marzo ( A dieci anni dalla scomparsa del grande scrittore vicentino - Mario Rigoni Stern, da 'Sergente nella neve' a cantore della montagna' pp. 4-6) e di Maggio (La meravigliosa primavera di Rigoni Stern (1921-
2008)' pp. 6-7), ha ricordato in modo appassionato ed attento lo scrittore asiaghese, quasi a preparare ora questo mio semplice approccio. L'8 maggio 2018 Ermanno Olmi prende il largo sulla barca solare ed avviene l'incontro amicale tra i due, oltre la vita. Tra i tanti lavori in immagini portati a vita da Ermanno Olmi, scelgo il DVD 'Il villaggio di cartone', prodotto nel 2012 da Luigi Musini, da Cinemaundici e Rai Cinema, con musiche di Sofia Gubaidulina, per misurare, con discrezione e con quella profonda capacità di ascolto che mi ha provocato, l'intimo dono del suo fare Poesia attraverso l'azione, attra-
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
verso la terra, le relazioni, il mondo. Una chiesa svuotata e inservibile viene vissuta intensamente in modo nuovo e mai prima prevedibile: tutto ruota intorno al grande crocifisso di legno e a chi non si arrende e resiste, accettando gli altri, i loro problemi, le tensioni, le relazioni, le nuove terre attraverso i volti che le rappresentano, i nuovi mondi interni, perché nel vuoto della chiesa entrano i clandestini e il vecchio prete non cede, non se ne vuole andare, perché ha una fede dentro che gli rimane carne addosso, se vuole continuare a vivere. Allora lascia aperta la porta così chi ha bisogno potrà entrare; lascia che si accumulino cartoni e cose, bisogni e parole, progetti, ricordi, emozioni, angosce, interrogativi di protagonisti che vengono da lontano; lascia che la vita di ciascuno di loro prima sconosciuti e talora ostili, si costruisca senza regole fuori dell'esperienza stessa, fissate al di fuori del giorno e della notte, inutili in tutta la loro oscenità, proprio perché al di fuori della scena della vita reale. Trascrivo le parole di Ermanno Olmi, a far da matrice del film, attraversando il suo sguardo, le movenze delle sue mani, i suoi silenzi. “Mi è capitato un paio di anni fa un inconveniente, un inciampo nel senso non metaforico perché sono caduto e mi sono procurato una frattura che mi ha costretto a letto per 70 giorni, immobile. Io avrei dovuto fare un film documentario girando tutte le sponde del Mediterraneo, per vedere cos'era rimasto delle grandi culture classiche del centro del mondo, l'unico centro del mondo che è stato il Mediterraneo, prima della scoperta delle Americhe. E qui è fiorita quella cultura di cui l'Europa è depositaria. Pensa a quante straordinarie energie intellettuali si sono sprigionate in questo grande lago che è il Mare Mediterraneo. Volevo vedere cos'era rimasto di queste culture, nella loro specifica funzione di attualità. Ogni cultura, se ha davvero una sostanza fatta di menti che hanno sublimato il pensiero, ogni cultura mantiene sempre la sua attualità. Allora volevo vedere in quale casa abitiamo, noi che siamo cittadini del Mediter-
Pag. 3
raneo. E mi è capitato l'inciampo, per cui ho dovuto stare a letto. Non solo. Ma questa mia frattura ha aggravato la mia situazione al punto che mi sono reso conto che non avrei più potuto fare un film itinerante così impegnativo. Allora ho fatto un ragionamento semplicissimo. Ho detto: 'Quello che io speravo di trovare immaginandomi questo giro, anziché andare io nei luoghi di esplorazione, convocherò qui, accanto al mio letto, ciò che in qualche modo immaginavo di poter trovare. E così è stato e ho scritto non, come dire, un film realistico, perché non poteva essere drammaturgia realistica. Ho scritto un Apologo. Il villaggio di cartone, titolo, si riferisce appunto a questa finta realtà che è la ricostruzione in teatro di un evento; si riferisce a quella realtà che riguarda persino lo stesso uomo come individuo, vivendo noi in una società ormai talmente convulsa e confusa, abbiamo perso anche l'orientamento individuale, non sappiamo più bene quel che veramente desideriamo o se è un desiderio che ci viene da qualcosa che ci hanno imposto dal di fuori. Di cartone sono le istituzioni, le chiese: noi viviamo da uomini di cartone in una realtà di cartone. 'Diabasys' cos'è? È un antico vocabolo greco che significa appunto 'la parola che si fa atto', quindi la parola che si fa gesto, azione. La grande differenza tra la parola che rimane pensiero e la parola che si fa azione è che qualsiasi pensiero deve avere come conseguenza necessaria l'azione... Se diventa azione ecco che il pensiero raggiunge il suo scopo. Quindi 'Diabasys' è l'unica cosa del film che non è di cartone...Spiegando agli altri cosa vuol dire 'Diabasys' metti in atto un pensiero che si fa atto... introduci una sorta di nuova abitudine a ragionare proprio su questo... (il suo parlare è interrotto da immagini dirette, con parole del protagonista che intende tornare indietro, con la sua famiglia, in dialetto africano 'L'Africa può ancora ricominciare. Qui può solo finire' -n. di I.P.). Anche qui faccio riferimento al cartone. Tu vivresti in un villaggio di cartone? La precarietà è tale, di una tale evidenza, che dici 'No, se voglio vivere, quanto meno mi faccio una
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
capanna!'... I furbi del mondo occidentale, cosiddetto avanzato, stanno acquistando interi territori di zolle africane, dove la terra produce i frutti del sostentamento... Perché questi grandi potentati vanno a investire i loro denari in Africa e non qua? Allora tu dici che sono un pessimista... Nessuno vuole più investire non solo in Italia, ma anche in Europa perché è un villaggio di cartone e ahimè quell'emigrante che torna in Africa con la sua famiglia probabilmente dovrà affrontare tra un po' l'urto di violenza e di stupidità che questi potentati vogliono mettere in atto nei confronti dell'Africa, perché per guadagnare un po' di denaro che quando è tantissimo e tantissimo, è sempre un po' di miserabile denaro, cosa credono di fare?... Perderanno anche loro e in termini molto più gravi di quanto stiamo perdendo noi adesso... La carità non ha bisogno di istituzioni... Quando la carità è un rischio, quello è il momento della carità... La carità ha soprattutto bisogno della disposizione di mente e di cuore di coloro che vedono realtà di sofferenza e sentono il dovere di porsi come complici al sostegno di coloro che sono in stato di sofferenza... Colui che vede l'altro che soffre, deve diventare complice di colui che soffre, se no la carità è l'elargizione anche di un dono importante, però tu stai per conto tuo che io sto per conto mio. La carità deve essere un atto d'amore, se no è un'elemosina. Per essere un atto d'amore, devi essere complice dell'altro... L'amore non ha etichette... Per quanto riguarda la composizione del gruppo, io ho voluto, proprio perché è un Apologo, dichiarare alcuni generi di presenze: la ragazza è decisamente una terrorista, che promuove atti eroici con la pelle degli altri; il ragazzo... rimane affascinato da quella ragazza... la terrorista ha una sua negatività, ma guai a farne delle categorie, perché in quella negatività certi principi di ragione ci sono.... Allora l'Apologo tende a mettere in scena personaggi che hanno funzione di agire nell'Apologo, quindi sono personaggisimbolo. In questa nostra società che io ho voluto configurare di cartone proprio per dichiarare in maniera esplicita e totale lo stato
Pag. 4
di fragilità fisica e morale della nostra società... questo è il mio segno di speranza: che gli uomini, in buona fede, in genuinità di spirito, abbiano la buona volontà di spalancare le porte, quella volontà che anche la Chiesa, troppo spesso, non ha.” (Fonte: DVD Il villaggio di cartone, sezione Intervista a Ermanno Olmi). Per chi lo desidera, la rete multimediale offre infiniti materiali per conoscere dettagli e opere di questo prezioso esempio di umanità schiva e pensierosa, sorridente nell'azione consapevole dettata dalla ragione, quando si lascia allagare ed allargare dallo spirito.. L'ho lasciato parlare e ho trascritto il suo dire. Per me Ermanno Olmi, Poeta delle immagini, nella sacralità della terra e delle relazioni del cuore, ha messo in atto il suo pensiero ed ha spalancato le porte all'Amore perché “... per fare del bene non serve la fede, il bene è più della fede...”. Solo così i prati torneranno verdi, anche qui. Ilia Pedrina
IL MONDO Ho rivisto me stesso fanciullo in un monello roseo di gioco. Tra una e altra capriola stringeva forte una palla, una grande grandissima palla. Recava fra le mani calde il suo mondo, il mio mondo. Rocco Cambareri Da Versi scelti - Guido Miano Editore, 1983.
Fa un vento di prateria nella capitale un blu di campagna tra gli edifici sul quale si smaltano nel sole i fiori bianchi dei meli. Béatrice Gaudy Parigi, Francia
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
SCENE DI VITA POLITICA ITALIANA fra truffe anni ’50 e burle odierne di Giuseppe Leone
“R
IDERÀ riderà riderà”, cantava Little Tony negli anni Sessanta, scandendo il ritornello di una orecchiabilissima canzone francese, tradotta per lui in italiano da Mogol. Ripeteva “riderà” ben 24 volte. Tante, ma assai poche al confronto delle volte che riderà chi ha ideato la legge elettorale con cui si è votato il 4 marzo 2018 in Italia. E chissà per quanto tempo ancora, dopo aver già tanto riso per la dabbenaggine di coloro che l’hanno votata in parlamento; per i suoi grotteschi verdetti che hanno creato vincitori sconfitti e sconfitti vincitori; e per i goffi, estenuanti sforzi dei neoeletti nel tentativo di formare un nuovo governo. Una burla, quant’altre mai, questa legge elettorale, degna del miglior Boccaccio. Che non fosse più tempo di Commedie dantesche o di Prìncipi machiavelliani non era difficile capirlo. Ma che i nostri tempi fossero così vicini allo spirito del Decamerone, questo, proprio, nessuno era pronto a scommetterlo. Si sapeva che fosse possibile ridere anche durante i terremoti, ma non nelle campagne elettorali. Tuttavia, non tanto al Decamerone mi rimanda questa burla, quanto a uno scherzo che molti anni fa, nel mio paesino d’origine, uno spiritoso e spassoso barista perpetrò ai
Pag. 5
danni di due suoi anziani clienti che giocavano a briscola, inserendo due assi di bastoni nello stesso mazzo di carte. Avvenne che la briscola fosse proprio bastoni e i due giocatori si trovassero alla fine con un asso di bastoni a testa. “Cala le mani” (posa le carte) , “no calale tu” (no posale tu), fu la conclusione, tra le risate di coloro che vi assistevano. Proprio come Salvini e Di Maio, pronti a ritenersi vincitori della tornata elettorale. Ho vinto io, no, ho vinto io. Sarò io presidente, no sarò io. Cartesio, che era una persona seria, invitava gli uomini a dubitare anche davanti alle certezze lapalissiane, soprattutto quando tutto sembrava chiaro e distinto. E se la ragione che mi guida è governata da un genio maligno? si domandava. Ma oggi la classe politica italiana non si pone più questo genere di domande, perché anch’essa è sempliciona, come tanta parte del suo elettorato. E così, nei primi di marzo si è andati a votare con il Rosatellum (rosatello), tanto che ne è venuto fuori un voto spumeggiante, ma non per far brindare il vincitore, semplicemente per festeggiare la messa a riposo di un’ altra legge elettorale, la famigerata legge truffa del ’53, che quest’anno ha raggiunto l’età pensionabile dei 65 anni. Un brindisi col botto, allora, quasi a menar vanto che la legge elettorale raramente in Italia è il risultato di un dibattito sereno e distaccato, quale dovrebbe maturare a ogni inizio di legislatura, ma è solo un disegno “acerbo” di fine mandato, un regalo avvelenato che i governi uscenti fanno a coloro che i sondaggi e i pronostici indicano come i nuovi probabili vincitori. E fin qua tutto sembrerebbe plausibile e normale, anche il mito insegna, ma ciò che, questa volta, ha reso insopportabile questa legge elettorale è stata la sua vocazione al burlesco. La legge truffa era una cosa “seria”, perciò tragica, quest’ultima no, è comica. E il comico brucia di più, perché è irriverente e fa ridere. Giuseppe Leone
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
LUCE DI LUNIGIANA di Emerico Giachery
L
A Lunigiana, questa contrada toscana così peculiare, costellata di castelli, tutta da riscoprire, che sfuma nella Liguria e nel Parmense, non sarebbe diventata uno dei miei “paesi dell’anima” senza l’ incontro con Loris Jacopo Bononi. Di lui mi parlò il suo editore (il cui padre aveva avuto la ventura di pubblicare niente meno che Italo Svevo): Carlo Alberto Cappelli, un bolognese simpatico, come lo sono del resto molti bolognesi, aveva appena pubblicato Diario postumo di Bononi: ci teneva moltissimo, e mi pregò di scriverne con attenzione. Lo feci, su una simpatica rivista di amici. Che inviai subito a Cappelli. Bononi volle subito incontrami nella sede romana della Pfizer, di cui era direttore scientifico. Eravamo coetanei. Diventammo subito amici. Si aprì così, per me, la via di Lunigiana. Il libro di Bononi fu accolto con vivo interesse. Pasolini lo salutò come “libro dell’anno” e sottolineò la distanza dai modelli e dalle vigenti correnti letterarie di quest’opera apparentemente “senza radici”: «Potrebbe essere stato scritto sulla luna. E si badi, esso è concretissimo: il paesaggio italiano splende in tutto il suo vecchio fulgore. Insomma penso che il nome di Bononi, uscito da zone non letterarie, vada a collocarsi accanto a quello dei Piccolo, dei Pizzuto, dei Lampedusa». Gli altri due libri della Trilogia, Miserere dei e Il poeta muore, forse il più bello dei tre, non ebbero, per quanto ne so, adeguata risonanza nel mondo letterario. Né credo che in un bilancio, anche articolato,
Pag. 6
del Novecento letterario qualche studioso ne terrà conto. Eppure autorevoli esperti, come Cesare De Michelis, hanno definito la Trilogia «un unicum nel panorama della recente letteratura, una gemma che aumenta di luminosità col passare degli anni». Se un giovane, o non giovane, volesse dedicarsi allo studio di questo straordinario personaggio, oltre ad interessanti contributi in internet ed eventualmente ai carteggi conservati nell’archivio di Castiglione del Terziere, potrebbe ricorrere alla Introduzione a Bononi (1978) del conterraneo Vasco Bianchi e all’amplissima e complessa monografia di Giuseppe Fontanelli, Il solo segno. La “Trilogia” di Loris Jacopo Bononi (1996), dotata di completa bibliografia, frutto di anni di ricerche, scavi e raffinatissimi collegamenti. Dopo la sua morte alcune sue poesie sono state pubblicate, con una mia prefazione, dalla casa editrice lucchese Pacini Fazzi. Di altre edizioni postume di suoi scritti non ho notizia. Più di una volta lo ha commemorato la sua terra amatissima, di cui ha studiato e documentato la storia con inesauribile passione: «da quando mia madre per prima colse il mio primo sorriso, poi tutti gli altri, sempre, io li ho rivolti alla mia terra». L’attività dello scrittore non è che uno degli aspetti di un personaggio per più versi straordinario: medico, scienziato, mecenate, oratore affascinante. Il contatto con la sofferenza delle creature umane si approfondisce negli anni trascorsi come medico condotto nella Valle del Lucido, dove tanti anni dopo (ne sono stato testimone) era ancora ricordato e salutato con gioia dagli antichi pazienti. In lui si fondono, come afferma l’illustre storico Cesare Vasoli, le “due culture” di solito separate, la scientifica e l’umanistica: la vocazione del microbiologo e farmacologo a livello universitario e la passione del bibliofilo. Degli amatissimi libri dirà: «sento che senza di loro sarei vuoto, che non avrei senso». E ancora: «I libri sono la moltitudine del cuore, la solitudine della parola che non abbiamo detto, l’evidenza del nostro pensiero, il tesoro che abbiamo perduto, la voce che abbiamo fatto
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
tacere, l’udito e la vista che non abbiamo esercitato. Essi sono il nostro postumo, la testimonianza contro o in favore di noi, che siamo i loro autori, i loro custodi, i loro carcerieri, i loro liberatori, siamo capaci di fuggire insieme a loro, perché sappiamo che loro non ci abbandoneranno, neppure quando saremo famosi, neppure quando avremo fame». Al centro della sua storia d’uomo, il grande sogno realizzato: la ricostruzione del castello di Castiglione del Terziere nel comune di Bagnone, e di una parte del borgo attiguo. Castiglione: «un piccolo paese con un passato illustre e con un presente di consapevolezza». Il castello, in origine appartenuto ai Malaspina, era divenuto poi sede di una sorta di governatore inviato dalla Signoria fiorentina, e quando Bononi lo restaurò era un rudere del tutto abbandonato. Ebbi la ventura di assistere al “battesimo”, per così dire, del castello restaurato, con un vasto pubblico e un bellissimo concerto di musiche medievali eseguite dal complesso parmense “Ildebrando Pizzetti” (rientrato a Roma scrissi di slancio a Bononi una lunga lettera rievocando l’evento). Seguirono, negli anni, la ricostruzione del Castello di Gavedo sul colle di Groppoli presso Mulazzo, legato soprattutto alla memoria dei Brignole-Sale, e il restauro, nella natia Fivizzano, dello splendido Palazzo Fantoni dell’ ultimo Seicento. In esso Bononi allestì il Museo della Stampa, che riceve visitatori anche da paesi lontani, e prende il nome da Jacopo da Fivizzano, che usò i primi caratteri italiani di stampa nella sua città tra il 1470 e il 1474. A questo museo si collega idealmente un’opera di Bononi pubblicata nel 2000: Libri & destini. Stampatori, libri, librai in Lunigiana di Lunigiana attraverso i secoli nel mondo. Il restauro del castello di Castiglione del Terziere, nel pieno rispetto delle strutture originarie, più che una semplice ricostruzione, può considerarsi una sorta di creazione. Alle pietre memori di tanta storia Bononi ha saputo infondere un’anima, un’anima antica e moderna insieme, creando il prestigioso centro di cultura intitolato a Niccolò V (pontefice
Pag. 7
lunigianese e dottissimo umanista), dotato di una biblioteca di circa centomila volumi, tra i quali un prezioso incunabolo. E di un archivio, ricco di documenti di storia locale, carteggi e innumerevoli manoscritti, tra i quali una lettera di Leopardi al Conte Carlo Pepoli. Si può dire che ciascuno degli innumerevoli oggetti rari presenti nel castello abbia un significato diretto o indiretto relativo alla sua storia lontana o prossima. Migliaia di visitatori, tra cui numerose scolaresche, vi sono passati, guidati quasi sempre dallo stesso proprietario che ne illustrava le peculiarità e la storia con pazienza e passione. Difficile immaginare un edificio storico più intensamente “vissuto” in tempi moderni da chi vi abitò da poeta, umanista e mecenate, e quasi da principe rinascimentale, e vi trascorse gli ultimi anni, spesso tormentato da infermità coraggiosamente affrontate, scrivendo di getto, nel silenzio della notte, una dopo l’altra, innumerevoli poesie mai rivedute e rimaste inedite: centinaia, forse migliaia. Poesie come questa, scritta il 24 ottobre 2012, ossia meno di un mese prima del trapasso, e dedicata a mia moglie e a me (cui spesso inviava online testi appena scritti) con la frase «E a chi? se non a voi tanta malinconia» : «È rimasto un sospiro di vento / di tanta bufera / Le foglie sono cadute violentate / quando ancora aspiravano al sole / L’autunno / è stato preda di sconquassi celesti / e brucia nella coscienza / di non averne più a lungo ammirato / il lento disperdersi / supino sulle barene / Proni / sono già in letargo / certi agglomerati di spine / della passione di Cristo / residui nel
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
cuore / in chi ne piange la sofferenza // Si sfiocca tanta malinconia / dalla memoria / al soffio dei ricordi // Ti ho amato / tanto / di un cuore forte ostinato / e a volte con tenerezza / che ancora mi commuove / Rassomiglio ora a un romeo / fradicio stanco / che non sa più di essere / vita chi sei? Ha perduto l’immagine e la forza / del suo transìre // Chissà? Quale destino ci attende». E quale destino attende, senza il suo principe, lo splendido castello che domina la Val di Magra, con le sue opere d’arte, la sua biblioteca, il suo archivio? Emerico Giachery
Pag. 8
Devo decidermi a togliere questa risacca di lei dalla mia mente, queste onde forza otto che lacerano il mio corpo e l’innocenza che non ho mai perso. Non amo raggi di luce bieca e la pietà vile che rimuove ogni speranza. Non voglio che lei sia la mia ombra pagana, la mia porta chiusa, il legno arido nel mio ruscello. Non voglio la violenza dei suoi silenzi. Salvatore D’Ambrosio
IMPROVVISO
Caserta
Stasera all’improvviso ti sento fortemente qui presente. E allora mi ritrovo ancora là, in quella stanza, a sospirare e piangere, mentre tu suoni dall’altra parte della parete. E sento che se tu avessi osato per primo rompere la catena, ti avrei seguito e, forse fra molte difficoltà, avremmo insieme potuto avere una casa nostra ed una nostra vita. Mariagina Bonciani
SAGGEZZA Tu che vivi solo uno spuntare di sole Sciogliti da tutto quello che non ti è essenziale Solo la tua effimera volontà nelle metamorfosi dell’infinito Béatrice Gaudy Parigi, Francia
ATTESA
Milano
LE PAROLE VALGONO Oh se le parole amate si fissassero con filo di ferro, o fossero piombate nel piombo fuso, o incise nella pietra di Mosè; potrei strapparmi la pelle vuota della mia carne, per riempirla con la sua dolcezza e nuotare calmo nel suo sangue.
Attendo e non so che cosa: è una attesa, vana, è una attesa astratta, ma dà speranza al mio cuore e intanto passano i giorni e l’attesa continua ancora. Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, MI
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
Spigolature metodologiche. WILHELM WORRINGER E GLI ALBORI DELLA CRITICA D’ARTE
DI ROBERTO LONGHI Massimiliano Pecora N cosa consiste, in letteratura, l’attività della descrizione? A decostruire etimologicamente il termine, ci troviamo di fronte al prefisso de- che richiamerebbe un aspetto importante della logica della mimesi: ogni rappresentazione non ripropone speculari relazioni identitarie, ma necessita del concorso di esperienze possibili per manifestarsi pienamente. Se questa considerazione di massima vale per la narrativa, a maggior ragione appare adeguata per un quid di marginale che la sussume e, allo stesso tempo, può escluderla. La vivida rappresentazione per verba di un dipinto, la sua descriptio, costituisce una rappresentazione di rappresentazione o, più propriamente, come sosteneva Pier Paolo Pasolini, una «descrizione di descrizione», collocata in posizione liminare rispetto al figuratum e alle condizioni storiche e artistiche che lo avrebbero ispirato. Ebbene, in virtù di quali istanze è possibile costruire un testo che, sal-
I
Pag. 9
vaguardando la sua referenzialità, veicoli una precisa posizione ermeneutica? La teoria tipologica dei generi letterari appare inadeguata quando ci si domandi quali siano stati i prodromi dell’opera di Roberto Longhi, artefice, come osservano Gianfranco Contini e Alfonso Berardinelli, di quella «critica di contatto, filologica e descrittiva» che assume la sua validità non solo per la storia dell’arte, ma anche per la storia della letteratura italiana. Per il critico di Alba i futuristici paradigmi del ‘sintetismo verbale-figurativo’ e delle ‘equivalenze verbali’ non sono vacue petizioni dell’avanguardia, ma rispondono a una ferma presa di posizione che, contemperando la soggettività del giudizio con la perspectiva pingendi per verba, delega alla pagina scritta la funzione di regesto di un ragionamento analitico e retoricamente persuasivo. Se, per impulso crociano, Longhi è fedele al taglio monografico delle ricerche, le sue osservazioni richiamano la persistenza di alcuni moduli lineari e coloristici lungo tutte le epoche della storia dell’arte: ammessa l’ ‘intuizione lirica’ quale motore dell’opera d’arte, egli cerca di coonestarla attraverso una descrizione che si proietti dal particolare del figuratum ai figurata di ogni tempo. Nel tentativo di istituire un legame tra teoresi e prassi, l’afflato lirico dell’occhio longhiano si dispiega in una rappresentazione ‘storicorabdomantica’ fatta di ‘logogrìfi’ verbali e votata a restituire l’opera alla vista del lettore. Perché tale ‘sinolo’ possa realizzarsi la perspicuitas della parola deve ipostatizzare una componente universalisticamente empatica che accomuna il giudizio dell’esegeta a quello del destinatario, con quest’ultimo collocato nella duplice veste di lettore del saggio d’arte e di ammiratore del figuratum. Ebbene, verifichiamo storicamente un poco probabile, ma attendibile antecedente che avrebbe ispirato l’impostazione ermeneutica preliminare alle scelte stilistico-letterarie di Longhi. All’anno seguente la pubblicazione di Piero della Francesca (1927) risale un’importante considerazione di Emilio Cecchi: alieno, ma forse non immune dalle «astrazioni e descri-
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
zioni sociali e letterarie alla Taine o alla Burckhardt […]; o estetizzanti del Pater», Longhi elabora una prosa «romantica, mista di astratte modernità, di vestigia paesane ed incastonature del più raro antiquarismo». E ancora Cecchi ammira il Longhi più complesso, di non facile lettura. Perché? Al di là della comune predilezione per la ‘prosa lirica’ e aulica, Cecchi e Longhi condividono il gusto per l’analisi della realtà oggettiva, raffinatamente riportata e tradotta dal poemetto del primo e dal «logogrifo» del secondo. Nonostante alto sia il debito nei confronti di Note d’arte a Valle Giulia, è pur vero che lo studioso d’arte si avvale di un portato teorico ben più forte di quello di Cecchi. Per il nostro autore, i grandi precursori della letteratura artistica come Denis Diderot, Charles Baudelaire, Eugène Fromentin, Walter Pater, John Ruskin e Bernard Berenson fungono da modelli per la coniazione di una nuova tipologia testuale dotata di un bagaglio stilistico che comporta l’adozione ab origine di un patrimonio lessicale dal sicuro profilo etimologico e dalla forte valenza metaforica. Inoltre, grazie ai riflessi del dannunzianesimo e ai preziosismi vetusteggianti, la pagina longhiana può ottenere due scopi in un’unica forma d’espressione: interpretare i caratteri della composizione pittorica e teorizzare la storia dell’estetica a questa sottesa. Il pensiero, l’impressione e lo sforzo teorico si fanno, così, messaggio verbale. Il primo Longhi, quello di Mattia Preti, di Breve ma veridica storia della pittura italiana e soprattutto di Piero della Francesca forma la sua educazione nell’Italia degli anni 1900-1917 e, in particolare, tra il 1906 e il 1911, a Torino. Si tratta della città che ha conosciuto l’esilio desanctisiano e del maggior centro del positivismo nazionale. Le due istanze, quella del pensiero di De Sanctis – alla cui conoscenza il nostro autore viene spinto da Umberto Cosmo – e dell’indagine eruditofilologica trovano un adeguato connubio nel futuro interprete di Caravaggio. Ben prima della cristallizzazione crociana del concetto di «forma» in «intuizione pura», Longhi elegge
Pag. 10
a suo imperativo epistemologico la critica in re, non solo tesaurizzando gli insegnamenti della scuola storica e del metodo attribuzionistico di Giovanni Morelli, ma dissimulando i precetti del purovisibilismo e di Bernard Berenson in vista del superamento del vecchio metodo analitico del ‘catalogo ragionato’. Tuttavia valga citare un’altra e più sotterranea fonte del metodo-stile di Roberto Longhi. Al momento della sua formazione, egli compulsa i testi di Alois Riegl e il saggio Astrazione ed Empatia (1907) di Wilhelm Worringer e partecipa alla conferenza di Aby Warburg tenutasi alla Biblioteca Hertziana di Roma nel 1912. I filosofi succitati costituiscono modelli basilari per la saggistica compresa tra gli anni che vanno dal 1912 fino all’importante biennio 1927-28, allorquando, con l’amico Emilio Cecchi, il critico piemontese dirige «Pinacotheca» e ha difficili rapporti con il crociano e futuro rondesco Alfredo Gargiulo. Dalla teoria del Kunstwollen di Riegl, ad esempio, Longhi ricava grandi esempi di traduzione analitico-formale dei principi dello storicismo hegeliano, mentre l’Einfühlung worringeriana è eletta a crivello epistemologico per corroborare oggettivamente le ragioni del carattere universalistico del giudizio estetico. Di ciò il risultato più evidente è testimoniato nel ’14, quando l’ autore di Piero della Francesca inventa la formula della «sintesi prospettica di formacolore» a proposito delle opere dell’artista di Borgo di San Sepolcro. Infatti è dalla polemica antipositivista di Worringer che il soggettivismo interpretativo di Longhi si libera del timore di cadere nell’arbitrarietà, qualificandosi come strumento per la scienza del giudizio artistico, per la Kunstwissenschaft. Così, chi volesse rintracciare un legame tra l’ espressione «Piero è egizio nelle sue madonne» e i «cubizzare» del nostro autore con le considerazioni worringeriane di Arte Egizia (1927) troverebbe la prova di quanto l’illustre studioso italiano abbia spostato l’asse portante della teoresi della scuola tedesco-viennese sul piano delle ricche e solenni soluzioni linguistiche. Per molti aspetti la nota formula
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
del Piero della Francesca, «sintesi prospettica di forma-colore», può apparire un’ evoluzione epistemologica dell’effetto estetico che, secondo Worringer, discende dalla forma della materia. Mentre nella concezione della rappresentazione figurativa di marca hegeliana scompare il fattore pragmatico, Longhi lo ritrova nelle teorie estetiche legate alla visione immanente del fenomeno artistico. Tuttavia, siamo sicuri che lo studioso rifiuti apertamente l’estetica crociana a favore del purovisibilismo, come sostiene Ezio Raimondi in Barocco moderno? In fondo, nel pensiero del filosofo napoletano le due attività, teoretica e pratica, sono tutt’altro che indipendenti l’una dall’altra. Questa considerazione spiega l’ atteggiamento di chi, come Longhi, attorno agli anni tra il ’23 e il ’26, riflette sul fatto che, per dirla con Worringer, l’arte si produca nella sua dialettica reale e non nell’ esemplificazione astratta di momenti sovrastorici ed eterni. Se l’estremo errore di Astrazione ed empatia risiede nell’aver misconosciuto l’ autonomia del linguaggio artistico allora la correzione longhiana acquista un merito rilevantissimo. Proviamo a inverare questo assunto, a partire dalla constatazione che della bibliografia di Worringer solo il saggio del 1907 era stato acquisito e severamente annotato dal critico italiano. In Pino sul mare (1921) di Carlo Carrà, ammirato nel ’25, Worringer vedeva il connubio delle ricerche aperte da Cézanne con l’autentica espressione della classicità italiana. Siamo negli anni in cui il pittore piemontese, oltre a un recupero del linguaggio plastico di Giotto e di Masaccio, è teso ad affermare, sulle pagine di «Valori Plastici», quel principio di idealizzazione geometrica del reale sostenuto da Worringer e sancito dalla grande monografia Piero della Francesca di Longhi che, nel suo Carlo Carrà (1937), non lesina rapidi e significativi richiami ad Astrazione ed empatia: «mentre Cézanne con quel suo trepido accostamento di “cocci complementari”, attinge una melanconica beatitudine artigiana dove par che si scaldino […] le vetrate gotiche e gli arazzi del Trecento; mentre
Pag. 11
Seurat, dopo aver […] rettificato volumi e spazi quasi come un Piero rinato […] Carrà […] li riscopre poeticamente come brani, giunture ed accenti da comporre in un canto che ha da trovare il suo tono in una inclinazione dell’animo» [corsivi miei]. E nella monografia del 1937, a proposito di Pino sul Mare, rinveniamo una cursoria e pregnante osservazione: «qui l’intensità di indicazione spaziale nella casuccia di sbieco, nell’albero moncherino già si propaga patetica in un paese senza più presenze umane visibili né suppellettili esoteriche, anzi ristretto a quattro parole di natura, scandite e radianti come in un’illuminazione poetica di Ungaretti». Nella «commossa carpenteria» di Carrà Longhi scopre e conferma la veridicità dell’analisi di Worringer, pur trasfigurandola su un piano rappresentativo linguisticamente più elevato, sul modello di quanto aveva compiuto nell’articolo pubblicato su «La Voce» del 10 aprile del 1913, I pittori futuristi. In quest’ occasione lo studioso italiano, mettendo in discussione i precetti dell’«estetica partenopea» e dimidiando l’eccessiva sufficienza della critica crociana nei confronti della pittura di Soffici e compagni, proponeva un’ argomentazione intrisa di lirismo e suffragata da un’impaginazione retorica tutta fondata sulle declinazioni dell’adtestatio rei visae e sulle diverse occorrenze delle clausole ritmiche. In nome di questa personalistica svolta in seno all’idealismo troppo universale e troppo assoluto, la disamina del figuratum non poteva abiurare lo stile e la plurivocità evocativa della mimesi letteraria, dal momento che solo la letteratura permette di codificare e di presentificare al massimo grado la potenza estetica e percettiva soggiacente alle più alte interpretazioni delle opere dell’ingegno umano. Massimiliano Pecora
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
L’IMPEGNO CULTURALE DI DUE EMERITI PROFESSIONISTI DELL’ARTE INTERPRETATIVA di Antonio Crecchia
D
A due carissimi amici romani, professionisti dell’arte scrittoria, e in particolare di quella esegetica, i coniugi Noemi Paolini e Emerico Giachery, mi è giunto, graditissimo, un opuscolo stampato di recente su carta pregiata che mette in risalto la preziosità di un documento celebrativo di un incontro letterario svoltosi all’Aleph di Roma. Il titolo: Due all’Aleph. Ho notato subito la dominanza semantica di quel Due iniziale. Due personaggi umanamente semplici, generosi, aperti al dialogo con chiunque, eternamente innamorati l’uno dell’altro, della vita e della bellezza che aleggia intorno a loro, dentro i monumenti letterari, d’arte, musica e poesia, fino a farne oggetti di appassionata ricerca, studio e contemplazione. Chi li frequenta direttamente, li osserva e li studia da vicino, o a distanza nell’atto di immede-simazione nei loro pregevoli scritti, coglie anzitutto il candore e la bellezza delle loro anime, la levatura intellettuale, l’ esemplarità della vita dedicata all’ insegna-
Pag. 12
mento e alla cultura, dentro e fuori le sedi istituzionali, con una costanza che non conosce pausa o stanchezza. Due Autori autorevoli e affermati nel mondo delle lettere. Due intellettuali che hanno costruito il loro indiscusso prestigio letterario per mezzo di quelle virtù ancestrali - saggezza, dottrina, forza morale, fascino carismatico - che si portano dentro come doni divini. Nel mio angolino di mondo appartato, da spettatore occasionale di eventi letterari che in qualche modo sollecitano la mia partecipazione, sia pure marginale, mi faccio sempre un dovere d’accogliere con vivo interesse opere di amici scrittori e poeti di cui godo stima e fiducia. Posso anche aggiungere che il titolo dell’opuscolo si richiama a un’altra opera collaborativa dei coniugi Giachery: Pas de deux, (letteralmente: Passo a due, quasi a semplificare l’armonia di cuore, di anima e d’intelletto che regna tra i due Autori), scritta per commentare la poetica di Alberto Caramella (Editore Vecchiarelli, 2000). Opera, dunque, divisa in due parti e scritta a due mani, da Due emeriti professionisti dell’ arte dialettica, dell’arte cioè di saper pensare ed esporre le proprie argomentazioni con estrema convinzione e rigore logico. La prima parte, comprensiva di quattro moduli espressivi, a firma di Noemi Paolini, Docente in quiescenza d’italiano e latino nei licei di Roma, ci permette di entrare nell’ intimità dell’Autrice, nella sua indole di donna
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
che si porta dentro, fin da bambina, “un senso di colpa” e “la paura di sbagliare”. Il senso di colpa, “difficile da spiegare”, viene fatto risalire, con tutte le cautele del caso, in parte alle redarguizioni ricevute dai genitori per innocenti monellerie d’infanzia, in parte a un tragico evento luttuoso che l’ha privata della sorellina Anna Maria di appena tre anni. “La paura di sbagliare”, ossia l’assenza di assoluta certezza di fare, operare sempre e comunque entro la sfera della perfezione – tratto psicologico comune a tante persone – viene generalmente fatto risalire anch’essa all’infanzia e, fra le sue cause, non viene escluso l’ambiente familiare estremamente protettivo, e quindi possibile inibitore delle potenzialità artistico-creative e capace di bloccare “propositi e molte iniziative”. Noemi Paolini, comunque, non ha mancato di raggiungere obiettivi importanti sul piano professionale, coniugale, culturale e letterario. Rilevante nella sua attività d’indagine riflessiva ed ermeneutica la dedizione allo studio di Giambattista Vico, Giovanni Pascoli, Giuseppe Ungaretti, Italo Svevo, Alberto Caramella, e Dolores Prato di cui ha commentato tutte le opere. La sua levatura di saggista, al pari di quella dell’illustre consorte, di cui si parlerà in seguito, ha raggiunto dimensioni internazionali. Nel secondo modulo è stato inserito una sua annotazione critica su “Italo Svevo”, di cui si considera “quasi l’alter ego”, scritta a Oberin (Auna di Sopra – Bolzano) il 15 agosto 1990. Il tema di fondo è imperniato sulla “scrittura” biografica ed estetica del narratore triestino Italo Svevo (pseudonimo di Aron Hector Schmitz – 1861-1928), di cui la Nostra si è occupata a più riprese, con letture critiche approfondite e “diverse” dalle tante che sono state pubblicate da quando l’autore de La coscienza di Zeno (1923), suo terzo romanzo, grazie al fiuto dello scrittore irlandese James Joyce e di Eugenio Montale, raggiunse successo e fama a livello internazionale. Seguono una riflessione che prende le mosse dal passaggio di una cometa - oggetto fisico - (potrebbe trattarsi del corpo celeste de-
Pag. 13
nominato Shoemaker-Levy 9 che nel luglio del 1994 si schiantò sul pianeta Giove, oppure della cometa Hale-Bopp che fu visibile ad occhio nudo dall’estate 1996 all’autunno 1997) con sconfinamento nella metafisica, e l’offerta in lettura di quattro testi poetici, tratti dalla raccolta “Pensieri a dondolo”, con cui Noemi ci dà un saggio della sua “sensibilità musicale” e delle buone “intenzioni ironiche o semiserie”. Si sa che le buone intenzioni, intese come disposizione d’animo verso la progettualità e l’esecuzione di un’opera che sta a cuore, sortiscono quasi sempre effetti positivi sul piano della realizzazione. E poiché la brava Noemi alle “buone intenzioni” associa non poca “sensibilità musicale”, ci consegna testi poetici che rivelano la misura di vedere, sentire, avvertire e descrivere la realtà che la circonda, con una correlazione di serena e pacata armonia interiore, un pizzico di brio, di spigliatezza gioviale e giovanile che trovano corrispondenza nello stato d’ innocenza dell’universo, nella sua “suprema bellezza”, sia esso cosmico, sia ambientale, familiare, umano. Quattro testi in cui l’ intelletto poetico dell’Autrice alza il volo sulle note di Schubert, e tra “un dolce andare” e “un dolce guardare” la vecchia casa e la natura pacificata dell’amata e incantevole isola d’ Elba, approda alla speranza di incontrare Dio, “per parlare con Lui di Schubert / e della bellezza del mondo”. Emozionante, non c’è che dire. Da buon cavaliere educato al rispetto della femminilità, Emerico Giachery, per l’ occasione, si ritaglia uno spazio comunicativo più ristretto (sette pagine e cinque righe) rispetto a quello di Noemi (quattordici pagine e sette righe), in cui fa il resoconto dell’intervento tenuto nella sede dell’Associazione culturale Aleph nell’autunno del 2017. Da intellettuale navigato e conscio di “abitare poeticamente la Terra” con l’intensità e la passionalità del consumatore e produttore di alta cultura, pone sul piatto della bilancia esistenziale il suo saper pensare (retaggio della dialettica socratica), operare e vivere con una forte dose di “ottimismo”, di slancio ideale verso i valori
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
che rendono la vita gioiosa e felice e, in pari tempo, orientano a “superare pregiudizi, alimentare benevolenze, accendere attenzioni”. E di tali disposizioni d’animo, a giudicare dai suoi scritti, ne ha avute davvero tante, sempre sorretto da “benefico umorismo”, definito con geniale espressione carica di significati “l’ala sorridente dello Spirito”. In una poesia a lui dedicata in occasione della festività di Pasqua 2012 (testo inserito nella raccolta Nei risvolti del tempo Ediemme, Cronache Italiane, Salerno 2012) lo definii “l’arpa eolia”, per la musicalità e verticalità d’eloquio che appalesa nei suoi saggi, pur non trattandosi di scritti poetici, ma di arte esegetica. Con tale attività egli ha arricchito la cultura italiana, pubblicando una lunga serie di volumi, in cui sono condensate le sue riflessioni critiche, quasi rivelazione di un amoroso spirito di ricerca di “verità e di luce”, una rarità interpretativa che va ben oltre l’arida vivisezione dei testi con i bisturi degli “ismi” di moda. Dall’elogio dell’umorismo, la cui essenza “è amore”, dedizione, nel senso di offerta di sé, delle proprie facoltà intellettive e spirituali per scopi nobili e altruistici, Emerico Giachery passa ad esporre la sua esperienza con la poesia, o meglio: il suo “amor di poesia”. Amore antico, maturato già in giovanissima età tra i banchi di scuola, e successivamente “inverato e incarnato soprattutto nell’ insegnamento”: lungo e appassionato esercizio professionale di docente di letteratura svolto in varie Università d’Europa (Nancy, Berna, Ginevra,) e d’Italia (Cagliari, Macerata, Genova, L’Aquila, Roma), sempre considerato e attuato come “rito”, ossia con reverenziale e “liturgica sacralità”. Liturgia scolastica in cui si coniugano e si armonizzano funzione didattica e funzione interpretativa dei testi della letteratura italiana (e non solo). Questo l’iter professionale di Giachery, ampiamente documentato con una quarantina di pubblicazioni e ricordato con la sua franca e familiare “chiacchierata” dedicata a Noemi, “dono e luce”, all’Aleph di Roma; un omaggio esteso all’Eterno Femminino, quale “frutto di grati-
Pag. 14
tudine da tesaurizzare con gioia”. Antonio Crecchia
OLTRE LE OMBRE DELLA SERA All’imbrunire stavi sempre là in un angolo di luce del tramonto. Le ombre piano piano ti coprivano le spalle: foglie di ciliegio già calme ad accogliere la notte. Il volto sollevato, negli occhi tutti gli anni d’abbandono alla preghiera e il sole che svaniva sulle punte delle dita acquasanta sulla mia fronte prima di partire. Tra me e te madre il silenzio, il dolore del distacco: una parte di vita che finiva l’altra che chiudeva la valigia e se ne andava oltre le ombre della sera. Gianni Rescigno Da Sulla bocca del vento - Ed. Il Convivio, 2013
IL “DOPO” DEI VECCHI I vecchi non pensano il "dopo", lo rimuovono. Nel loro dilemma interiore, se chiudere con la speranza o continuare a sognare il futuro, quest'ultima scelgono via. Costante, invadente lo spettro ad essi s'impone della "fine", ma lo scacciano, lo rigettano: della morte non osano affrontare l'enigma, nei travagli si tuffano decisi della vita, nelle illusioni, pur consapevoli della realtà drammatica, tragica del loro destino. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo al Volturno, IS
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
LE POESIE DI
CHRISTINA ROSSETTI NELLA TRADUZIONE DI FRANCA MARIA FERRARIS di Liliana Porro Andriuoli
P
OETESSA dallo stile altamente musicale e dal profondo sentire, Christina Georgina Rossetti, nata a Londra il 5 dicembre 1830 da una famiglia di origini italiane e ivi morta il 29 dicembre 1894, viene considerata una delle più importanti voci poetiche dell’Ottocento inglese, spesso inserita “nel solco della grande tradizione della lirica religiosa”1, per quanto di notevole livello siano anche le sue poesie d’amore, per le quali non è ritenuta inferiore a Elisabeth Barrett Browning, che tanto successo ebbe ai suoi tempi con i Sonnets from the Portuguese (1850). Di lei si è occupata da non molto Franca Maria Ferraris con un libro, Tutto il cielo è splendente2, nel quale ha pubblicato un cospicuo numero di poesie della Rossetti, da lei compiutamente tradotte, con testo a fronte. Nella Nota Introduttiva al volume la stessa autrice così presenta il suo lavoro: “È rovistando in uno degli scrigni più raffinati dell’ Ottocento inglese che, tra le opere poetiche di Christina Rossetti, sono state scelte e tradotte le poesie contenute in questa raccolta. Un lavoro di traduzione nato dal desiderio di conoscere meglio l’animo e il pensiero di questa famosa poetessa […] i cui versi, non sempre facili a una prima lettura, richiedono un’ attenzione approfondita per essere compresi e gustati nella giusta misura”. Ed è proprio con il “desiderio di conoscere meglio l’animo e il pensiero di questa famosa poetessa inglese” che ho letto le poesie della Rossetti, tradotte da Franca Maria Ferraris, delle quali qui mi voglio occupare. È subito da dirsi che le traduzioni della Fer1
http://www.treccani.it/enciclopedia/christinageorgina-rossetti/. 2 BastogiLibri, Roma, 2016, € 12,00.
Pag. 15
raris appaiono fedeli all’originale, di cui rendono con efficacia la tensione e le immagini, dandoci così un’idea piuttosto compiuta di questa poetessa, la quale seppe unire l’ intensità del sentimento allo splendore della forma. Ma soprattutto la Ferraris pur avendo spesso saputo riprodurre con fedeltà il sapiente intreccio delle rime della Rossetti, è stata anche capace di rinunciare ad una traduzione rigorosamente fedele per meglio comunicare al lettore l’intensità del contenuto (come appare evidente in talune poesie delle sezioni sulla Natura e nelle poesie d’amore, ma talora anche in quelle di carattere religioso- devozionale di questo suo libro). L’immagine di Christina Georgina Rossetti che ne scaturisce evidenzia la sua composta tristezza, che si manifesta un po’ dovunque nelle sue poesie, le quali sanno cogliere i più lievi moti dell’animo. Particolarmente intensa e frequente è in esse la partecipazione alla vita della natura, che viene per lo più percepita come un’entità vivente, con la quale occorre continuamente confrontarsi e dalla quale si possono ricevere infinite sollecitazioni: “Ma un tralcio d’edera cogliete per me, / Per me, anzitempo appassita” (Canzone); “Vorrei essere un piccolo uccello / Che spicca il volo senza essere visto” (Un desiderio); “Un albero bambino piantai quand’ero giovane: / Ma ora l’albero è cresciuto e io sono invecchiata” (Un Amico Silenzioso); ecc. Ed è appunto alle poesie sulla natura che la Ferraris dedica la prima Sezione del libro, intitolata Natura e Vita. Compaiono qui poesie in cui la natura si anima, rivelando una sua vita segreta: “Nutre un fuoco non percepito né visto: / Questa terra vecchia nel tempo” (Evento); “Un vento freddo agita la nuda siepe, / La fa germogliare e rifiorire” (Sopporta
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
la Durezza). Ma a questa forza dirompente della natura, capace di rinnovarsi ogni anno e riacquistare tutto il suo splendore, fa spesso da contrasto l’inarrestabile declino dell’uomo, che col tempo invecchia e muore: “Noi che viviamo, rapidamente siamo dei trapassati” (Evento). Di una donna poi Christina dice: “Il tempo vincerà la corsa che corre con lei / E la nasconderà lontano in un sudario” (La Bellezza è Vana). Ne deriva dunque un sentimento di resa e di sottile mestizia, che tuttavia riesce a riscattarsi per il godimento che alla Rossetti offrono le bellezze del Creato, come bene emerge da queste efficaci traduzioni. In ogni caso il motivo dell’inarrestabile fuga del “tempo”, che implacabile continua la sua “corsa”, viene ripreso dalla Rossetti anche in diverse altre poesie, incluse dalla Ferraris nella sua antologia. Nella prima Sezione ad esempio la poetessa dice: “Sempre il tempo fluisce incessante” (Parallelismi della Vita) ed ancora aggiunge: “il tempo viaggia verso l’eterno” (L’Uno per l’Altro), sicché il suo animo pare polarizzato su tale misterioso evento, quantunque contrastanti siano i pensieri che esso suscita in lei. A volte, infatti, pur procedendo “lungo l’ardua via della vita”, si volge indietro e si sofferma a guardare gli accadimenti del proprio passato, rivivendoli nella dolcezza del ricordo3, convinta che “Tutto allevia e addolcisce nell’oggi la distanza” (Guardarsi indietro). Più spesso però l’incessante scorrere del tempo che tutto travolge, genera in lei una sottile angoscia, come appare in La nota chiave, la poesia di Natura e Vita che degnamente chiude questa prima Sezione. Qui, nell’incipit, Christina con accorata nostalgia dice: “Dove sono le canzoni che conoscevo, / Dove le note che ero solita cantare?”. È questo un movimento che avevamo già trovato in Villon (“Mais où sont les neiges d’antan?”) e che viene ora ripreso dalla Rossetti con naturalezza e con lo stesso pungente rimpianto: “Penso di rado possa esi-
Si veda, d’altra parte, a tale proposito anche la poesia Ricordare, riportata dalla Ferraris nella seconda Sezione, Amore e Morte, di questo libro. 3
Pag. 16
stere cosa più triste / Dell’inverno dei miei anni”. Tuttavia, benché la Rossetti s’attristi per il veloce scorrere dei giorni ella non ignora i momenti di serenità, che s’affacciano ad esempio in poesie quali Un Compleanno, dove troviamo versi che denotano in lei addirittura uno stato di “felicità”: “Ma più di tutto il mio cuore è felice / Perché il mio amore è tornato a me”. Compare qui infatti un’altra tematica che occupa un posto importante nella poesia di Christina Rossetti, quella amorosa; non a caso Amore e Morte è il titolo (un titolo che ricorda Leopardi) di questa seconda Sezione del libro. Sull’onda del sentimento amoroso si legga anche Confluenze: “Come i fiumi cercano il mare, / Molto più profondo di quanto essi non siano, / Così la mia anima cerca te, / Lontano…”. Quello della Rossetti non è però un amore senza esitazioni e ripensamenti, come emerge da Amore dal Nord, una poesia nella quale ella sembra incerta tra due amori: quello nato in una “dolce terra del Sud” per un uomo affettuoso e gentile, “amato tra aprile e maggio”, e quello per un “forte uomo del Nord”, che l’aveva presa tra le sue “bianche braccia” e l’aveva portata via sul suo cavallo. Di costui ella dice: “Con parole seducenti egli mi legò, / Con vincoli d’amore seguita a trattenermi; / Non ho avuto finora forza né cuore / Né desiderio o volontà per dirgli no”. È questo, del resto, uno dei suoi molti contrasti tra opposti sentimenti che trapela dalle sue poesie. D’altra parte noi sappiamo che la sua vita sentimentale fu infelice. Ebbe due corteggiatori, il pittore James Collinson, quando aveva circa 18 anni, e dopo un decennio lo scrittore
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
Charles Bagot Cayley; ma in entrambi i casi non arrivò al matrimonio. Da tutte e due queste esperienze, tuttavia, ella trasse l’ opportunità di analizzare il suo animo; il che le fornì un’ampia materia di canto. Le rimase comunque il desiderio di essere ricordata dall’amato anche dopo la fine della loro relazione, dal momento che in Ricordare (poesia già citata) leggiamo questi versi: “Ricordami quando non più giorno dopo giorno / Potrai parlarmi del nostro futuro che sognavi”. E con questa poesia la seconda Sezione, Amore e Morte, si conclude. Fanno seguito le poesie di From Sing Song tra cui è da notarsi Quali cose sono pesanti? per la profonda riflessione che racchiude: “Quali cose sono pesanti? Il dolore e la rena del mare. / Quali cose sono brevi? L’oggi e il domani” o anche Chi ha visto mai il Vento? che così inizia: “Chi ha visto mai il Vento? / Né io né tu”. Non lo vediamo, è vero. Eppure esiste: chi scuote “le chiome” degli alberi? Chi agevola la caduta delle foglie e in autunno ne fa un morbido tappeto? Nella varia tematica della poesia di Christina Rossetti presentata in questo libro non poteva mancare il filone religioso, al quale la nostra brava traduttrice dedica la Quarta Sezione, intitolata appunto Poesie Religiose, dove troviamo testi quali O Signore, quando Tu mi chiamasti, in cui la poetessa, dopo aver riconosciuto la propria inadeguatezza e i propri demeriti, prega Dio perché la redima, o Non giudicare secondo le apparenze, dove chiede al Signore che le faccia vedere al di là delle nude apparenze ciò che di più profondo esse celano. Molto sentito è inoltre dalla Rossetti il comandamento di amare e quindi di soccorrere il prossimo sofferente che troviamo in poesie come “Guarda”, io sto alla porta e busso e Disprezzato e rifiutato, dove tale comandamento viene riaffermato con particolare veemenza4.
Pag. 17
Un inno che costituisce un abbandono alla volontà di Dio è poi la poesia eponima, Tutto il cielo è Splendente, che chiude la Sezione: “Tutto il cielo è ancora splendente / Nella luce del sole meridiano: / Affrettati, luminoso sole, affrettati al tramonto; / O vita che te ne vai, hai vissuto. / Io scelgo ciò che una volta scelsi, / Voglio ciò che una volta volli: / Del suo lutto solo il cuore è consapevole; / O impetuoso cuore, sta quieto infine”. Dalle poesie finora citate appare evidente come quella della Rossetti sia una poesia prettamente intimistica, che nasce dalla solitudine e dalla rinuncia, ma come sia al contempo anche una poesia del forte legame con la natura e dell’assiduo colloquio con Dio. Ed appare altresì evidente come tutto ciò venga espresso attraverso un linguaggio elaborato ed intenso. Scrive Mario Pratz5, parlando di Cristina Rossetti, che la sua “vita monacale, di pratiche ascetiche e di scrupoli puritani, non poté soffocare in lei la vena del canto”. Un canto che si presenta, egli aggiunge, “semplice fino ad essere ingenuo, triste fino ad essere lugubre” e nel quale “ricorre insistente l’idea della morte” e nel quale tutto è visto “attraverso un velo di sogno e di rimpianto”. La scelta antologica di Franca Maria Ferraris si chiude con la traduzione di Quattordici sonetti e con Italia, io ti saluto, che costituisce un omaggio alla Terra di origine della Rossetti. I sonetti sono di stampo amoroso e recano in epigrafe ciascuno due versi: uno di Dante ed uno del Petrarca. Nascono quindi da un nucleo d’ispirazione letteraria, ma subito s’avverte che l’autrice è qui mossa da un’ autentica passione, da un vero urgere del sentimento, che nessun artificio può cancellare. Come è per le sue poesie d’ispirazione religiosa, si tratta di testi percorsi da un’alta spiritualità, che però non esclude l’ardore dei sensi, che pure a tratti vi compare. Tuttavia la vicenda amorosa che in queste poesie è rac-
4
Forse è il caso di ricordare in proposito che, come ben dice la Ferrari nella Nota biobibliografica di Christina Rossetti, Christina svolse opera di volontariato in un Penitenziario per “Fallen Women” per la redenzione di giovani pro-
stitute. 5 Storia della letteratura inglese, Sansoni, 1951, p. 330.
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
chiusa non ebbe un felice esito, se il quattordicesimo sonetto così si conclude: “Giovinezza e bellezza sono fuggite via, che resta ormai? / Il desiderio di un cuore rimasto solo, / Di un silenzioso cuore il cui silenzio desidera e ama; // Il silenzio di un cuore che cantò le sue canzoni / Quando giovinezza e bellezza facevano d’estate il mattino, / Quelle canzoni che il silenzio dell’amore più non potrà cantare”. La poesia Italia, Io ti saluto chiude il libro, con un sofferto distacco dell’autrice dal Paese dei suoi avi, che ella poi sempre porterà nel cuore: “Torno dal dolce Sud al Nord / Dove sono nata, cresciuta e dove morirò / … / Il paese per metà mio non vedrò più, / Non ne udrò la parlata per metà familiare, / Amen io dico, al tetro Nord ritorno”. Un lavoro certamente molto utile questo di Franca Maria Ferraris, che vale a far meglio conoscere da noi una poetessa di sicuro talento, la quale ancora oggi, nonostante il lungo tempo trascorso dalla sua morte, si legge con moto diletto e interesse. Liliana Porro Andriuoli
CATALANO Com’è bello questo popolo che empie le strade della sua capitale come pulsa il sangue nel cuore della patria Com’è nobile questo popolo che supera le sue divergenze di opinioni e di aspirazioni per unirsi nella difesa della libertà Com’è grande questo popolo che non ha nessun’arma se non il pacifismo Béatrice Gaudy Parigi, Francia
CIELO Da quando crediamo nel futuro spirituale dei cieli?
Pag. 18
Il cielo è ancora romantico per gli amanti e i poeti, ma pone domande alla nostra ignoranza. La verità è: il cielo è il campo per voli interplanetari e l'autostrada in cui gli alieni verranno a scoprire gli abitanti della Terra. Teresinka Pereira USA - Traduzione de Giovanna Guzzardi, Australia
STACCARSI Staccati dalle rispettive realtà in una feroce onda colossale la crisi emotiva che ci ha invasi porta a staccarsi, per qualche tempo ha generato la paura del sempre e del dentro il crepaccio della distanza ragguardevole figura, le nostre mani tese a ricercarsi ad afferrare quell’amato bene che lascia ogni volta il cuore ribelle anche la rabbia più cruenta si rispecchia, nei nostri cuori bollenti. Filomena Iovinella Torino
SERA ESTIVA Odorosa la sera dell’estate di trifoglio mietuto e di mentastri calma si adagia sugli arsicci prati; trilli d’uccelli e dondolio di greggi cullano al sonno la rovente terra e v’è nell’aria timido un accordo di grilli che si apprestano a cantare. Senso d’amore in me vasto s’accende; l’accoglie il cuore con dolcezza nuova, sorride il sogno di sentirmi solo in questa dolce pace smisurata. Franco Saccà Da: Domenico Defelice - Franco Saccà poeta ecologico - Ed. Pomezia-Notizie, 1980
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
Una saporosa ricerca letteraria e gastronomica di
ROSA ELISA GIANGOIA “MAGNA ROMA” COME MANGIAVANO GLI ANTICHI ROMANI... di Luigi De Rosa
F
IGURA di rilievo nel panorama culturale e letterario italiano, Rosa Elisa Giangoia, già Docente di materie letterarie nei Licei, è narratrice, poetessa e critico letterario nella Redazione delle importanti Riviste genovesi Sàtura e Xenia. Collabora, inoltre, a numerose altre Riviste e tra i suoi volumi figurano romanzi (In compagnia del pensiero -1994- Fiori di seta -1998 - Il miraggio di Paganini – 2005 -) saggi critici (Appunti di poesia, 2011) sillogi poetiche ( Agiografie floreali, 2004 – Sequenza di dolore, 2010, La vita restante, 2014). Ma ha dimostrato anche un interesse particolare, crescente, per il rapporto fra letteratura e cibo. Già nel 2006, infatti, ha pubblicato in volume un saggio dall'accattivante titolo di A convito con Dante su come si mangiava nel Medioevo. Dopo aver curato, insieme a Maria Cristina Castellani, un volume di racconti (Dieci inviti a cena, 2016) e dopo avere scritto numerosi articoli sui ricettari di cucina come genere letterario, eccola proporre ai lettori il libro Magna Roma – L'alimentazione al tempo degli antichi romani - Nemapress Edizioni – Alghero-Roma, novembre 2017 – pagg. 98, euro 12). A parte il titolo, la cui prima parte (Magna Roma) si concede a un simpatico doppiosenso sulla parola magna nel senso di “grande”, di potente, ma anche di “mangia” nel senso del verbo (nel modo indicativo o imperativo) in gergo romanesco, il tono generale con cui viene esposto l'argomento (come e che cosa si mangiava al tempo degli antichi romani) è quello della ricerca colta e, con citazione delle fonti e delle opere di Autori celebri come il
Pag. 19
De agri-cultura di Catone o la Naturalis historia di Plinio, o le Georgiche di Virgilio. Il tutto, però, in un contesto agile e gustoso, con un dovizioso apparato di ricette che, anche nello spirito della ricerca culturale, si possono realizzare e gustare anche oggi, con qualche adeguamento laddove sia proprio ritenuto ...necessario. Alla migliore riuscita del libro sul piano teorico e pratico contribuiscono, quindi, da una parte un testo scientifico- letterario particolarmente curato e dall'altra un grande numero di ricette con la loro valenza tecnico-pratica (oltre che culturale). E, questo, studiando come si nutrivano gli abitanti della Roma arcaica (contadini e guerrieri) cioè in modo frugale e salutare, o quelli della Roma potente e imperiale, dai costumi rilassati e tendenti alla ricerca del piacere e del lusso anche a tavola, subendo l'influenza della Grecia (Graecia capta ferum victorem coepit). Mangiando, cioè, come il ricco e colto Marco Gavio Apicio, cuoco non per mestiere ma per il piacere di crearsi piatti sempre nuovi e sempre più succulenti e rari. Come dice la scrittrice Giangoia, con “l'arte della cucina e il piacere del cibo, inventati e coltivati, che diventano uno stile di vita che dà senso e compimento al vivere...”. In seguito, con lo strapotere dell'Impero Romano, mangiando, addirittura, come l'esuberante, eccessivo, vizioso Trimalcione. Il libro si chiude, proprio, con un brano del romanzo Satyricon di Petronio Arbitro, quello in cui viene descritta la “Cena di Trimalcione”, con le portate più “spettacolari”, come le definisce l'Autrice. La struttura del libro è così articolata: Dopo una breve premessa su I ROMANI A TAVOLA (Le abitudini, dall'aglio ai cibi eleganti, dal pater familias al cuoco Apicio, l'eredità di Apicio) seguono due parti trattate nei minimi particolari, GLI ALIMENTI e LE BEVANDE. Con un'ultima parte dedicata a CENE LETTERARIE (con un invito a cena e la già citata Cena di Trimalcione). Si mangiava nel triclinio (sala da pranzo), spesso con ospiti della famiglia, sdraiati sul gomito sinistro, su letti intorno al tavolo di
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
marmo o legno, ciascuno con tre posti. Se il numero dei commensali superava il nove si aggiungevano altri tavoli ed altri triclinii. Se la coena riguardava esclusivamente la famiglia solo il pater mangiava sdraiato, mentre i figli e la moglie mangiavano seduti. Agli inizi, i romani non conoscevano il pane come lo intendiamo noi, ma solo una specie di focaccia lievitata di farro e spelta. Poi venne la panificazione vera e propria (sia domestica che dei pistores, panettieri). Al tempo dell'imperatore Augusto c'erano a Roma ben 329 pistores. Tra le carni, predominava il maiale (porcus), anche perché, come ci ricorda la Giangoia, quasi tutti avevano in campagna almeno un maiale che allevavano con grande facilità, in quanto mangiava qualunque cosa, anche i rifiuti...Solo il maialino da latte (la porchetta) veniva mangiato fresco, mentre la carne dell'animale adulto per lo più veniva conservata per tutto l'anno sotto sale. I Romani ...importavano anche grandi quantità di salumi dalla Gallia, famosa soprattutto per la produzione di prosciutti...” Seguono numerose ricette per cucinare il maiale, estremamente particolareggiate. E' più che lecito, al recensore e al lettore goloso, il pensare, ad un certo punto, che la professoressa-ricercatrice, la scrittrice appassionata della civiltà classica, sia anche, per conseguenza, una curiosa e raffinata cuoca che non esita a realizzare, nella sua coquina privata e moderna, più d'uno dei piatti di cui propone la preparazione... Riprendendo con le carni, vengono citate anche quelle di montone, di pecora e di capra. Meno consumata quella di bue e di mucca, dato che questi animali venivano utilizzati principalmente per le fatiche dei lavori dei campi. (Quindi, si beveva anche meno latte di vacca, e più latte di pecora e di capra). Per il pollame ci viene ricordata la predilezione dei romani per le oche, i piccioni, i tacchini, le beccacce e le galline sultanine. Poco mangiate erano le galline, alle quali si chiedevano soprattutto le uova. Una citazione importante è riservata anche alla selvaggina per la sua derivazione dalla pratica della caccia nella
Pag. 20
primitiva vita nomade e pastorale. Ampio spazio quindi alla preparazione del cinghiale, della lepre, dei ghiri, delle anitre selvatiche. Per quanto riguarda i pesci e i frutti di mare è ovvio pensare che essi non fossero particolarmente importanti nei tempi più antichi, dato che i Romani erano più attaccati alla terra e alla pastorizia che al mare e alla pesca. Ma in seguito, con l'espansione, le conquiste, l'Impero, anche i pesci diventarono molto importanti nella alimentazione dei cives romani.(Il poeta Giovenale parla di un rombo enorme che era stato regalato all'imperatore Domiziano...). “Fra i pesci maggiormente apprezzati – scrive la Giangoia a pag.57 – c'erano la murena, che veniva cucinata alla griglia oppure bollita e accompagnata con diverse salse, lo scaro, il grongo, l'anguilla di mare, il tonno, di cui si apprezzavano la ventresca, la coda e il petto, il lupo di mare, il luccio o lupo di riviera e l'orata (aurata). A questi si possono aggiungere il muggine e la triglia (mullus), lo scorpione marino, la torpedine e la sogliola...” Quanto ai frutti di mare e ai crostacei, quasi sconosciuti nell'antichità, arrivarono al proscenio nell'età imperiale, mangiati sia crudi che cotti (non si parlava di inquinamento marino...). Problemi venivano procurati dalla conservazione dei prodotti marini. “Sovente il pesce conservato male andava in decomposizione, ma i Romani apprezzavano il pesce decomposto secondo speciali procedimenti che costituiva l'allec o hallec, sovente cibo dei poveri e degli schiavi.” Grande importanza viene annessa dall'Autrice di questo pregevole libro alle verdure. Basti pensare che in antico ogni Romano era anche il coltivatore del proprio hortus. Ma i Romani, a differenza che in altri settori, restarono sempre dei “mangiatori di erbe”, come li definiva Plauto. Almeno per quanto riguarda i ceti popolari, con eccezioni fra i ricchi e gli abitanti del “pieno centro”. Gli ultimi capitoli sono dedicati alla frutta, ai dolci, alle bevande. Per le bevande, diciamo subito che quella
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
maggiormente presente sulle mense romane era...l'acqua, anche perché il vino di allora aveva una gradazione troppo alta (16--18 gradi) e veniva allungato, in proporzione di due litri d'acqua per un litro di vino. Gli uomini non potevano bere vino prima dei trent'anni. Per le donne, il divieto di berlo era assoluto. Tra le verdure erano, oltre alle carote, assai gradite le rapae e i ravanelli, e molte radici a noi sconosciute. Molto mangiati erano anche le cipolle e l'aglio (quest'ultimo venne gradualmente abbandonato dai ricchi per via dell'alito... pesante) così come i lampascioni (che si mangiano ancora oggi in Puglia, Calabria e Basilicata) che erano ritenuti afrodisiaci. Cavoli, carciofi, insalata, bietola, cucurbitae, ceci, fagioli e fagiolini erano anche molto diffusi. Ma soprattutto, ai Romani piacevano i funghi. Tra la frutta, le preferenze andavano a mele, pere, uva, fichi, ciliege, mandorle, datteri, meloni e angurie. Erano anche molto gradite le confetture di vari frutti, specie di mele cotogne. Quanto ai dolci, la scrittrice ci ricorda che non era molto netto il divario tra cibi salati e cibi dolci, ma che comunque l'ingrediente fondamentale era il miele, abbondante in Italia (famoso quello di Hybla in Sicilia) .e molto apprezzato quello greco. Per dolcificare erano utilizzati anche i datteri e il defrutum, un mosto cotto fino a ridurlo a un terzo. Anche per i dolci, Rosa Elisa Giangoia dona ai lettori numerose ricette, e per un dolce in particolare, la cassata, ci racconta di averla preparata personalmente. (v. pagg. 78-79): “Di questa torta abbiamo solo questo splendido affresco che ce la mostra in tutta la sua eleganza su un'alzata di vetro ( nella villa di Poppea a Torre Annunziata). Con un po' di fantasia è comunque possibile realizzarla, facendo attenzione ad utilizzare solo quegli ingredienti disponibili in epoca imperiale. Personalmente l'ho realizzata in due varianti, una con frutta secca ed una con frutta fresca. Nel primo caso ho lavorato del formaggio molle con del miele fino a renderlo soffice e
Pag. 21
spumoso, poi ho aggiunto dei pezzetti di fichi secchi, oltre a noci, nocciole, mandorle e pinoli, tutti pestati e sminuzzati. Nel secondo caso ho aggiunto pezzetti di frutta fresca, come ciliege, albicocche, prugne e pesche. In entrambi i casi ho poi preparato della pasta di mandorle, pestando le mandorle nel mortaio, anche se è difficile cedere alla tentazione di usare un apparecchio elettrico! L'ho amalgamata con albume d'uovo e colorata di rosso con del succo di more. Poi ho foderato una tortiera con una sfoglia di pasta di mandorle (è meglio mettere prima un foglio di pellicola) ho riempito con il composto di formaggio e frutta e ho sovrapposto un altro foglio di pasta di mandorle. Occorre poi lasciarla per qualche ora in frigorifero, prima di toglierla dalla tortiera, sistemarla su un piatto e decorarne il centro con una piccola composizione di frutta, secca o fresca. Il risultato è ottimo in entrambi i casi. Penso che di qui sia derivata la cassata rustica siciliana, modificata poi dall'arrivo dello zucchero, grazie agli Arabi, per dolcificare il formaggio e preparare la frutta candita.!” Luigi De Rosa LA SIGNORA BEFANA Quella mattina scese premurosa la vecchia dai lontani suoi abituri ed a ciascuno mise qualche cosa sotto la cappa dei camini oscuri. Ma nel vederla, o Dio, che orrenda cosa! Volea più bene ai ricchi che agli oscuri figli della miseria dolorosa, che soffrivano il freddo nei tuguri. Appena la incontrai per la sua via le dissi: Vecchia ingrata, come mai? Sorpresa mi guardò con ironia. Befana d’ingiustizia, brontolai, donna beffarda e senza cortesia; t’odio se amare il povero non sai! Francesco Fiumara Da: La rima e la raspa, La Procellaria Ed., 2006
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
GIUSEPPE LEONE AFFRONTA TEMI ETICO-POLITICI IN MACHIAVELLI E SILONE di Ilia Pedrina
C
ON Giuseppe Leone, studioso, scrittore attento e proficuo, si va oltre le investigazioni dettate dagli approfondimenti di Letteratura Comparata, proprio perché egli sceglie autori e sonda filoni di riflessione assai originali. Per dimostrare questa tesi, prendo qui in esame due suoi lavori interessanti, vivaci, attualissimi: IGNAZIO SILONE SCRITTORE DELL'INTELLIGENZA, con dedica 'A mia madre' (Lecco, 1994) e SILONE E MACHIAVELLI UNA “SCUOLA...” CHE NON CREA “PRINCIPI”, con Prefazione di Vittoriano Esposito e dedica 'Alla mia compagna Emanuela, per il suo prezioso aiuto' (Centro Studi 'Ignazio Silone', Pescina, 2003). Affinché i dittatori non abbiano una 'scuola' che li forgi al fuoco dell'arroganza e del sopruso, della violenza organizzata e dell'indottrinamento che non lascia alternative al pensiero, della parola mascherata da verità e della gestione del bisogno di sudditanza e sicurezza, insito in tanti che si fanno poi acclamatori - questi gli elementi che formano il fuoco al quale vengono temprati gli 'aspiranti'! -, Giuseppe Leone sa con esperienza scegliere dove direzionare la sua attenzione, che investiga in modo instancabile e produce frutti duraturi. Infatti è necessario cogliere l'attimo,
Pag. 22
quando esso si presenta condensato di tensione e materialmente fissato in opere da scandagliare con intelligenza: questo mi accade affrontando insieme questi due testi. Quell'attimo, colto in avvio del mio percorso, condensa in sé, evocati da queste due opere, suggerimenti, riferimenti, approfondimenti ed avventure di spessore eccezionale, ai quali qui solo accenno e che vado immediatamente a verificare, utilizzando Massimiliano Tomba, quando presenta in rete Ernst Bloch ('… qualcosa di anteriore che viene a mescolarsi con il presente...) e Walter Benjamin (… critica Bloch perché intende portare tappeti e tendaggi mentre la casa sta andando a fuoco...). Il Tomba, il grande studioso di Karl Marx, di Bruno Bauer, di Walter Benjamin, di Ernst Bloch, che ha già trovato spazio in questa stessa Rivista, ci conferma: la posizione reazionaria del 'si stava meglio quando si stava peggio' tutta rivolta alla apologia del passato è tutta da scartare o al suo interno c'è qualcosa che può essere salvato? E ha senso confrontare la temporalità stratificata differenziata ed ineguale, '...vivono nello stesso presente ma non hanno la stessa temporalità...': non si possono sincronizzare gli orologi, se il mandato non è quello di un semplice e banale appuntamento al caffè? Interrogativi che sono provocazioni reali, perché la non-contemporaneità apre profonde possibilità altre, che vanno individuate e chiarificate, in quanto bisogna rimontare gli elementi presi dal passato secondo altre modalità e prospettive, funzionali e forse profondamente più efficaci rispetto al previsto. Questa strenua impresa, a mio avviso, porta avanti Giuseppe Leone: padroneggia il materiale preso in considerazione e sa lavorare con acuto senso dei tempi storici, ravvicina distanze dilatando il presente ed inserendovi considerazioni che forgiano le coscienze, le quali, si sa, hanno bisogno sempre di rinnovare il loro vigoroso ardore. Anche se il 'provocatore' è lo scrittore preso in considerazione ed affiancato ad altri è del passato, Leone scrive per questo tempo, lasciando con i suoi testi in sé tensione per organizzare e far ben
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
ingranare gli strumenti di bordo che servono per conoscere ed evitare precipizi. 'Fata invenient viam' mi ha scritto appropriandosi del suo doppio, che è l'antico Virgilio. Allora, se Virgilio riesce a dettare leggi e gusto, nella scrittura come nella poesia, così Machiavelli e Silone, qui resi contemporanei nella loro differente capacità d'attrazione, sono i protagonisti di un viaggio quasi interattivo, se si ha un pieno utilizzo delle capacità immaginative per arrivare a sintesi di etica, di filosofia politica, di introspezione psicologica, di abbandono nella solitudine, di ricerca d'una via per dare senso alla relazione, tra i pochi come tra i molti, per vagliare e non certo in isolamento le configurazioni del Potere, sia esso politico o religioso. Dal primo testo citato Ignazio Silone scrittore dell'intelligenza colgo la citazione da Paul Eluard, che anticipa la dedica alla madre: 'Parlo di un tempo redento Dai becchini della ragione Parlo della libertà Che finirà per persuaderci Nessuno avrà paura del domani Non solleva polvere la speranza Nulla accadrà mai invano' (Paul Eluard) e capisco che l'Autore intende farci entrare nell'intimità del suo lavoro intellettuale, affinché non dimentichiamo il debito di grazia in relazione alla nostra 'materna foce', riprendendo in sé un passato che è fiaccola a luce persistente non intermittente: “Il presente volume è la seconda edizione di un saggio dall' omonimo titolo, stampato nell'aprile del 1978, quattro mesi prima che l'autore morisse... Silone è scrittore dell'intelligenza e anche le risposte che vengono date intorno alla sua produzione puntualmente soddisfano una mia curiosità che ispirò a suo tempo quella prima edizione. 'Se la società romana', scrissi allora nella prefazione, 'ha avuto in Virgilio l'autore che, studiando i meccanismi sui quali questa fondava la sua fortuna, ha indicato all'uomo il comportamento da tenere per raggiungere la salvezza; e se la società medievale ha avuto anch'essa, in Dante l'inter-
Pag. 23
prete che, osservando le aspirazioni di questa, ha mostrato all'uomo le strade per il soddisfacimento, ha avuto la società liberalcapitalista l'autore che, guardando attentamente nel cuore di essa, ha additato all'uomo, inserito in questa società, la via della salvezza?” (G. Leone, Ignazio Silone scrittore dell'intelligenza, Prefazione, pag. 9). E poche righe oltre egli avverte, con severa consapevolezza di dire il vero: “... La carenza di adeguati giudizi critici espressi su di lui e la sua opera da una parte, gli inopportuni revisionismi dall'altra, tesi a immiserire e ridurre l'ispirazione dello scrittore a spiccioli motivi quotidiani di sopravvivenza, mi impongono di non tener conto di quanto si è detto intorno a Silone dopo l'agosto a lui fatale” (G. Leone, op. cit. pp. 9-10). L'opera si compone di due parti: Parte Prima: Cenni critici sullo scrittore (pp. 1337); Parte Seconda: Ignazio Silone scrittore dell'intelligenza (pp. 41-90). L'Autore ci immette subito nel contesto teso ed angoscioso di Secondo Tranquilli, vero nome dell'Abruzzese, rifugiato nel 1930 in Svizzera e reduce da una frattura politica pesantissima, quella legata al suo abbandono del Partito Comunista Italiano. I romanzi presi in considerazione e sintetizzati in modo interrogativo, sospeso, sovrapposto, inframezzato da elementi siloniani di scrittura autobiografica in mascheramento, partono da Fontamara, attraversano Vino e pane, per arrivare a Il seme sotto la neve, a Una manciata di more, a Il segreto di Luca, a La volpe e le camelie, fino a Uscita di sicurezza e La scuola dei dittatori. Due sole citazioni, a dare la misura dell'intarsio originale e preziosissimo che Leone riesce a elaborare perché si capisca Ignazio Silone come scrittore dell'intelligenza, che non è certo puro attributo o facoltà lineare. Pietro Spina, protagonista de Il seme sotto la neve, è costretto a sfuggire alla polizia rifugiandosi in una spelonca quasi sotto terra nei pressi del luogo dove abita la nonna: da questo osservatorio speciale, in solitudine, trascrive nella memoria e nella traccia grafica
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
(gli originali delle opere di Silone saranno su carta dattiloscritta) la scoperta di un'intimità profondissima tra la zolla di terra e la sua identità di isolato e di braccato. Cito frammenti di quanto è riportato nel testo di G. Leone: “... Durante lunghe ore d'immobilità ho avuto dunque davanti ai miei occhi... come unico orizzonte, quel pezzo di terra. La terra non l'avevo mai vista così da vicino. Non avevo mai pensato che una zolla di terra, osservata da presso, potesse essere una realtà così viva, così ricca, così immensa, un vero cosmo, un insieme, inestricabile di montagne valli paludi gallerie, con ignoti e in massima parte sconosciuti abitatori... Quale avvenimento emozionante fu per me un mattino la scoperta, in quella zolla di terra, d'un chicco di grano in germoglio... quella zolla di terra, con quel piccolo debole tesoro nascosto, minacciata da tanti pericoli eppure vivente, finì per acquistare ai miei occhi il mistero la familiarità la santità d'un seno materno... E sentivo la mia esistenza così labile, così esposta, così in pericolo, come quella del piccolo seme abbandonato sotto la neve e, nello stesso tempo, come la sua la sentivo così naturale, così vivente, così importante, anzi la sentivo come la vita stessa nella sua umile dolorosa sempre pericolante realtà...”(G. Leone, op. cit. 58-59). L'altro momento di riflessione, assai intenso, è come un insistente ridire la verità su questo letterato, Silone, che con i suoi testi oltrepassa la funzione della scrittura-romanzo: “... Silone, ripetiamo, veramente sono le sue opere che lo testimoniano, ha scritto per capire i meccanismi che opprimono l'uomo e, di conseguenza, ha cercato l'antidoto per distruggerli. Per questo ogni suo romanzo è un fucile con coscienza, rivolto contro tutti i poteri della terra, a differenza dei 'fucili con occhi' di Pablo Neruda, che avrebbero dovuto colpire soltanto i generali... Dopo aver disposto i suoi romanzi, contro tutti i poteri della terra, Silone fa la sua 'Uscita di sicurezza'... In questa 'Uscita di sicurezza' lo scrittore, attraverso il filo della memoria, riporta, alla sua contemporaneità, personaggi, vicende e
Pag. 24
cose come testimonianza di fedeltà tra ciò che è stato e ciò che è. È questo di Silone un singolare viaggio che, per la sua unicità lo accomuna non a quello di Ulisse, ma al viaggio di Enea e di Giobbe. È un viaggio di ritorno sì, ma si conclude con un nuovo inizio. Dopo aver ricordato che 'lo scrivere non è stato e non poteva essere (per lui) salvo qualche raro momento di grazia, un sereno godimento estetico, ma la pensosa e solitaria continuazione di una lotta dopo esser(si) separato da compagni assai cari', rievoca, accanto a fatti della sua infanzia e della sua adolescenza, alle sue prime esperienze nel partito, agli incontri che incisero sulla sua formazione, i momenti difficili che lo condussero alla seria decisione di abbandonare il Partito comunista...” (G. Leone, op. cit. pp. 70-71). Passo ora al secondo testo Silone e Machiavelli - 'Una Scuola...' che non crea 'Principi', con Prefazione di Vittoriano Esposito, Premessa incisiva e giustificativa dell'Autore e le seguenti parti: Parte Prima: La scuola dei dittatori (pp. 11-27); Parte Seconda: Analisi critica (pp. 29-38); Parte Terza: Fortuna critica de 'La scuola dei dittatori' (pp. 3953); Parte Quarta: Il Principe (pp. 55-61); Parte Quinta: Analisi critica e comparata dei due testi (pp. 63-82). L'Autore affronta Silone e Machiavelli ed aiuta a capire entrambi i versanti di metodo che emergono dalla loro scrittura etico- politica: per quello di Machiavelli, Leone utilizza le osservazioni di Vittore Branca, tratte dal Dizionario critico della Letteratura Italiana ('...In una situazione, un avvenimento, in una personalità Machiavelli isola la componente tecnica, enuclea il problema del calcolo dei mezzi rispetto a determinati fini e valuta la giustezza o meno del calcolo e quindi la coerenza e la risolutezza con cui i mezzi sono stati adoperati. Ciò che lo interessa non è il fine di un'azione ma la sua dinamica...'); per l'altro egli utilizza l'interpretazione di Giuseppe Cambiano, tratta dall'Introduzione dei Dialoghi di Platone: infatti la forma del dialogo, dice Cambiano, '...non deve decidere la verità o la falsità di una proposizione in base
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
alle sue conseguenze, ma in base a un'altra proposizione alla quale essa è riconducibile. L'ipotesi non è da provare ma serve per provare...' Allora il Nostro interviene: “... si ricerca in questo caso se la tecnica della dittatura risponda a determinate condizioni, cioè se sia simile a una scienza e di conseguenza sia insegnabile, imitabile. Dunque una disputa a distanza fra Machiavelli e Silone, per decidere se esista una tecnica politica per conquistare, difendere e mantenere uno stato...”(G. Leone, Sezione 'Analisi critica e comparata dei due testi', op. cit. pp. 78-79). Nei testi dell'uno e dell'altro, sapientemente citati dal nostro Autore, emerge una vera antropologia senza tempo, tuttora verificabile, ma portata alla forma letteraria del dialogo platonico in Silone, che offre la sua carne, il suo volto, il suo respiro a Tommaso il Cinico, quando si confronta, in Svizzera, con coloro che, come Mister Doppio Vu e il prof. Pickup, americani, vogliono istituire una 'scuola per dittatori' negli Stati Uniti. Entro in quella parte del testo, che potrebbe sfuggire ma che rappresenta Giuseppe Leone al lavoro su un Silone in divenire, quasi colto nel suo stesso fare progettazione e scrittura etico-politica. Cito. “... Quando Mister Doppio Vu, congedandosi, invita Tommaso per un soggiorno in America, questi risponde: 'certamente mi assocerò ai vostri avversari per combattervi'. Silone dichiara di riprendere la lotta contro il fascismo perché la politica, per lui, in questo momento, è sinonimo di lotta per la libertà in un mondo umiliato dalle tirannie. Ora urge la lotta politica attiva e non ci sarà posto per scrivere una 'Scuola della libertà', un libro da qualche tempo nei progetti dell'autore. Terminata 'La scuola dei dittatori', aveva anche immaginato il seguito: 'Una volta partiti da Zurigo Mister Doppio Vu e il prof. Pickup, Tommaso il Cinico viene espulso dalla Svizzera e non riesce a raggiungerli. Il suo caso viene esaminato dal Comitato internazionale dei Rifugiati e alla fine gli è consentito di imbarcarsi a Marsiglia per un paese democratico del Sud America. La nave è piena di ebrei tedeschi e austriaci e Tommaso è l'uni-
Pag. 25
co cristiano. Per tutta la traversata del Mediterraneo, la nave è seriamente minacciata dai pirati. Il viaggio è pieno di avventure e quando la nave arriva finalmente a destinazione c'è stato un pronunciamento fascista nelle ultime 24 ore. Benché sudamericano, il dittatore ha senso dell'humor e discute dei problemi della dittatura, ora con un rabbino, ora con Tommaso il Cinico. Altre interminabili discussioni si aprono tra i prigionieri. Il contenuto dei dialoghi fra il dittatore, Tommaso e il rabbino proviene in gran parte dal materiale che intendeva utilizzare per il secondo volume de La scuola dei dittatori. L'idea di scrivere tornerà dopo la pubblicazione de Il seme sotto la neve e nel memoriale dal carcere svizzero dice: 'Arrivato quasi al termine del mio romanzo, avevo cominciato allora a scrivere un altro libro: La scuola della libertà come continuazione positiva e contrapposta a La scuola dei dittatori. Studiavo Pestalozzi, Vinet, Calvino, la Storia civile e religiosa della Svizzera, la filosofia italiana di Bruno, Vico e Croce, quella americana di John Dewey, il diritto di George Gurvicht e ne approfittavo, nello stesso tempo come nutrimento della mia anima, come fonti per il mio nuovo libro: La scuola della libertà''. Un libro così intitolato non verrà mai scritto da Silone, ma i libri che egli comporrà dopo questo proposito e dopo le letture di Pestalozzi, Vinet, Calvino... Bruno, Vico, Croce etc. fanno nascere la convinzione che la promessa sia stata ugualmente mantenuta...” (G. Leone, op. cit. pp. 78-79). In ogni epoca storica è possibile il verificarsi di certe condizioni limite: il presente è insopportabile per molti strati della popolazione; i giovani di estrazione sociale prima al centro del potere, non hanno prospettive, perché è stato favorito da particolari eventi il declassamento di questa classe sociale ed allora si volgono allo sbando o a destra o a sinistra, cercando di avere un 'padre' diverso da quello vero; i contadini o sono poverissimi o non sono più proprietari dei mezzi di produzione e vivono la necessità di una maggiore stabilità della loro condizione, per procedere a lavora-
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
re la terra per raccoglierne i frutti, standosene assai lontani da ogni rivoluzione; il ceto medio, impoverito, cerca qualcuno al quale subordinarsi per garantirsi posto di lavoro e forse stipendio A destra, a sinistra oppure al centro, ovunque si volga l'attenzione, le problematiche sociali spingono a delegare le responsabilità per ottenere in cambio sicurezza, anche a costo di ridurre la propria libertà d'azione. Il prezioso stimolo intellettuale ed etico-politico offerto da Leone in questi due testi ci consente un vissuto interno al ritorno alla temporalità di Machiavelli e di Silone, per questo la qualità del lavoro svolto e dei percorsi tracciati è originale, difficilmente imitabile, seriamente impegnativa e vigorosa, in quanto fornisce ingerenze obbligatorie della riflessione morale sui dati raccolti attraverso la lettura, dimostrando con rara semplicità l'atemporalità dell'impegno letterario e proprio etico-politico dei due. Di questi due lavori scrupolosi di Giuseppe Leone sottolineo la qualità della scelta dei temi da prendere in esame e l'originale piega interpretativa dei percorsi tracciati e imparo. Imparo, perché, mi si creda, se ne ha sempre bisogno, a dire no ad ogni mito, che si profili all'orizzonte con taumaturgiche possibilità di salvazione; imparo a dire no ad ogni elogio che vada ad osannare un'epoca felice che, se esiste, in breve tempo si dilegua ed è comunque irripetibile; imparo la capacità dinamica di vivere il mio tempo nella contraddizione, senza retrodatare possibilità di cambiamento che in Machiavelli e Silone sono la forza vitale e segreta da ricavare dai loro testi, quando vi sarà contatto diretto ed originale; imparo che Giuseppe Leone, da par suo, ha forzato la mano perché dal suo lavoro di analisi e di critica comparativa emerga tutta la contemporaneità delle riflessioni dell'uno e dell'altro, intensamente, profondamente, differentemente analizzati. Egli ha penetrato fino alle radici la scrittura letteraria d'Italia, lavorando su Autori, come Ignazio Silone, che si sono sentiti addosso una precisa dignità, ereditata da percorsi di secoli, a partire proprio da genti e territori
Pag. 26
aspri e senza speranza: egli vuole così che si ritorni a Paul Eluard, a scegliere quella libertà che conosce il sapore della speranza, se ne appropria e comprende che realmente la speranza non solleva mai polvere. Intreccerò questi sapienti elementi forti di riflessione portati a vita dall'Autore con le tensioni interne ai testi di Carl Schmitt, di Luigi Ferraioli, di Michele Ranchetti, di Renato Solmi, di Danilo Dolci, di Antonio Gramsci, di Piero Gobetti, di Goffredo Fofi e di tanti altri ancora perché, a parte il primo dell'elenco, gli altri sono tutti Italiani. Ilia Pedrina STAZIONE DI CAMPAGNA Ho, a volte, dentro di me la grande tristezza delle stazioni di campagna, quando il segnale che annunzia il treno a lungo suona e non c’è nessuno. Franco Saccà Da: Domenico Defelice - Franco Saccà poeta ecologico - Ed. Pomezia-Notizie, 1980
Giallo il sole che fertilizza la terra Giallo il polline che semina le piante Gialla la luce della speranza Gialla la volontà della libertà E misero dei poliziotti dei fucili e dei cestini per uccidere il colore giallo Béatrice Gaudy Parigi, Francia N. B. I Catalani che reclamano la liberazione dei politici pacifici che sono incarcerati per le loro opinioni dall’ottobre 2017, hanno scelto quale simbolo un nastro giallo. Questo colore è chiaramente diventato odioso al potere spagnolo che perfino lo proibisce a volte. Così, il 21 aprile 2018, le persone che volevano assistere alla partita di calcio della finale della Copa del Rey, a Madrid, sono state costrette di lasciare nei cestini tutti i loro vestiti di colore giallo, ed anche quelli sui quali era stampata la parola libertà
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
NOVITÀ LIBRARIE L’anonimato che deresponsabilizza o che fa vendere? di Salvatore D’Ambrosio
S
PESSO gli scrittori hanno giocato a nascondersi dietro nomi inventati o anagrammati, come Renato Fucini che si firmò Neri Tanfucio. In tempi più vicini a noi ricordiamo una tale Melissa P. o Elena Ferrante. Il 30 aprile se ne è aggiunto un altro di scrittore che opera sotto anonimato. Con La Colpa è uscito per l’edizione DeA Planeta un romanzo del cui autore non si sa nulla se non il nome, forse inventato: Ghirghis Ramal, e che è probabilmente italiano; o più decisamente, visti i temi trattati nel romanzo, di area islamica. Stando a quello che si dice in giro, lo stesso editore non conosce l’identità del suo “pubblicato”. Niente da eccepire forse, ma l’ interrogativo è: perché ci si nasconde? Proviamo a dire la nostra facendo delle ipotesi. Premettiamo che La Colpa, narra di un ragazzo immigrato egiziano, di un giovane omosessuale di area islamica, di attentati da fare in giro per l’Europa, di conflitti intimi che incominciano a sorgere in coloro che spinti da esigenze di carattere economico e non solo, vanno alla ricerca, fuori dai loro paesi di origine, di identità moderne e fuori dagli schemi prestabiliti da una società arcaica strettamente legata ai dogmi coranici. L’ omosessualità e il terrorismo, per esempio, sono considerati dagli osservanti puri, una grave offesa alla fede. Come grave offesa, al potere supremo del padre, che nell’ambito della famiglia rappresenta anche il potere re-
Pag. 27
ligioso, è il rifiuto di sposare l’uomo o la donna che il capo famiglia ha scelto per loro. Non sono da ignorare i casi, fortunatamente non tantissimi, di islamici migrati nel mondo che al rifiuto o anche alla sola dichiarazione di amare un ragazzo o una ragazza diversa dalla loro concezione piramidale della famiglia, si ritrovano con la gola tagliata. Commettendo quello che per noi occidentali è il crimine più incomprensibile e odioso: la violenza della morte data con le proprie mani e contro la stessa carne che è stata da noi stessi generata. Nel romanzo di Ghirghis Ramal si scopre la contraddizione di una popolazione che si sposta, anche con grandi sacrifici di ogni genere, dalle proprie origini per cercare un modo come elevarsi dall’indigenza e sbarcare il lunario affidandosi al capitalismo, e un’altra parte che ha le stesse caratteristiche di quella che migra, cioè di giovani e giovanissimi, ma che pensa invece di distruggere il capitalismo occidentale con azioni che non detta la religione coranica, ma la rabbia “anti” che li avviluppa. I temi che il romanzo affronta sono di una delicatezza e di una conflittualità estremi. E questo significa che l’autore conosce molto bene la materia che tratta e soprattutto il pensiero di certi ambienti vicini ai Fratelli Musulmani. Ecco come cominciano ad affacciarsi le ipotesi di avere adoperato un nome- non nome, che garantirebbe relativamente, una sicurezza personale all’autore. Non dimentichiamo che il mondo islamico non accetta di buon grado certi modi di essere descritto. Deve ancora nascondersi Salman Rushide, perché non ha ancora salva la vita. Egli coraggiosamente, e forse anche ingenuamente, pensò che non stava offendendo nessuno nel mentre raccontava fatti storici certi. Ma si sa l’uomo spesso non accetta la verità storica, perché se ne è creata un’altra a proprio uso e consumo. Insomma gli fa più comodo dire le cose in cui crede o vuole credere. Quindi una delle ragioni dell’anonimato o delle false generalità, è la deresponsabilizzazione in quanto chi ha scritto potrebbe essere uno, nessuno,
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
centomila. Ma ciò non la trovo una cosa del tutto sbagliata: in quanto la parossistica esaltazione del mondo attuale, che ha tolto ogni barlume di lucidità un poco a tutti, anche a quelle menti che pensano di essere fuori da condizionamenti, darebbe al lettore non solo la possibilità di una giusta e legittima critica, ma anche l’opportunità di attaccare autore e editore accusandoli di razzismo, di oscure trame politiche, di anti questo o anti quell’ altro. Verrebbe da chiedersi del perché allora uno scrittore si cimenta con temi delicati e complessi. La risposta è semplice: se non lo fa uno scrittore chi lo deve fare. Egli narra aprendo le menti, analizzando situazioni, ipotizzando soluzioni. E finisce tutto lì, in quelle pagine che ha scritto. Per le altre cose, le soluzioni ai problemi per esempio, spetta semmai al politico o chi per esso. Facilmente si osserva che ciò che un autore spesso scrive trova riscontro nella realtà in cui si vive; è cosa del tutto normale poiché la caratteristica principale di un narratore, è quella di osservare i comportamenti della società in cui vive. Egli stesso vive di situazioni che non gli sono estranee. Le assimila, le digerisce, ci lavora di fantasia. Soppesa i pro e i contro, vede oltre il muro di certe convenzioni, di certi aggiustamenti. Lo scrittore sa, dice, ma non può fare. Per l’azione spetta ad altri. Il suo è un mondo di realtà che stranamente a volte prende corpo dalla fantasia. La quale senza volere trova riscontri nella realtà. Potremmo dunque dire che egli è deresponsabilizzato da una realtà che sovrasta spesso la fantasia. Ma se così è, perché camuffarsi con nomi di fantasia? Perché la società attuale, che pure si gloria di definirsi libera e democratica, in effetti è di una intolleranza disdicevole. Avete mai provato gentilmente a dire a un vostro condomino che il suo cane sarebbe più corretto non farlo defecare davanti al portone? Se la risposta è si, penso che conoscete anche il seguito della faccenda. Per la sicurezza per-
Pag. 28
sonale o per le cose che ci appartengono, si tace, si fa finta di nulla, si diventa ipocriti, si fa buon viso a cattivo gioco. Da queste considerazioni si capisce la riottosità dell’autore a dichiararsi apertamente. E lo si può comprendere, specie quando si affrontano argomenti esplosivi che chiamano in causa: la religione, il sesso, le libertà personali. E fino a qui potremo dire: va bene. Poiché noi però siamo dei diavoletti malignetti, si presenta subito l’altro aspetto della faccenda: la vendita di un prodotto in cui l’editore ha investito denaro. Scatta allora l’operazione di marketing. In un mondo globalizzato dove non esistono più quelle due o tre case editrici che un tempo monopolizzavano le firme buone, o quanto meno accettabili al punto da far vendere ciò che loro stampavano, prende il via l’operazione che io chiamo “mistero”, “camuffage”. A tavolino si decide di organizzare le cose in modo che si accenda la curiosità nel lettore. Il camuffamento, il mistero deve essere tale che nella rete, però, non devono cadere i soliti pesciolini - lettori abituali frequentatori di librerie, ma anche il più possibile numero di curiosi che potenzialmente si definiscono lettori-non abituali, ma che spinti da una incontenibile voglia di scoprire, di sapere cose, lascia in libreria degli euro che fanno tanto bene all’editore e all’autore. Anche in questo non ci trovo niente di male, ma accade spesso che certe letture diventano così noiose e insignificanti che fanno rimpiangere i soldi spesi e scagliare il volume, cosa che mi è capitata, il più lontano possibile. In un gesto incontenibile di stizza, non tanto per i pochi euro spesi, quanto per avere abboccato all’esca come un pesciolino senza esperienza. Il libro non l’ho ancora letto, penso che sarà interessante, ma ho letto già prima della sua uscita, che è stata fissata per il 30 aprile, tutto il battage messo sul misterioso autore, che mi ha spinto a queste considerazioni. Salvatore D’Ambrosio Ghirghis Ramal - La colpa - DeaPlaneta, pagg. 430, € 16.
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
IL 18 NOVEMBRE 1953 di Leonardo Selvaggi I 'illusione pulsa sulle mani che calcolano l'arrivo del tempo diverso. Piove a dirotto a Torino, l'acqua vien giù a raffiche trasversali lustre; il cielo a chiazze nerastre tempestose. A salti sulle pozzanghere riempite all'improvviso, già la capigliatura fradicia, il viso lavato ed eccitato. Corro con il tram, ma lui che mi ha visto con la coda dell'occhio riparte indifferente, per un metro non ce l'ho fatta. I tranvieri, razza detestabile, automi come le ruote sui binari, di sguardo oscuro; vanno con i paraocchi dei muli. Vedono i semafori e la traiettoria metallica, non hanno altri moti. Una studentessa usciva di scuola, impettita e svolazzante, attraversava davanti al muso del tram fermo, è andata sotto. Pensi a Napoli, le carrozze di tutti sferragliano festose nel folklore di città, sono giostre piene di chiacchiere, raccolgono persone ad ogni punto. I tram di Torino sono pesanti di ferro, che filano diritto, vi si parla poco; passano infreddoliti in autunno lungo i viali spogli, quasi stringendosi nei panni arruffati di dietro come spinti dal vento. Mente meccanica, vocabolario ridotto; una tosse stizzosa di gola eccitata per questa gente passa per tubercolosi.
L
II Ho una scontentezza negli occhi; umori compressi, spleen, animo esulcerato, la poca voglia di adattarsi. In fondo al tram appoggiato al vetro vedo le strade della città in una sequela di strati; l'immigrazione ha fatto allargare il cerchio del campo, tanti venuti di fuori, espatriati, si domandano le provenienze sentendosi frammenti vaganti e si cerca il compaesano per non soffrire la lontananza quasi da oltre i confini. Mi passano sensazioni e immagini di inverni di paese, l'aria greve di bianco nevoso, mentre nella sua trasparenza grigia s'espande il fumo dei comignoli, che è una voce muta: le nuvolette ora rade ora a
Pag. 29
fiotti baldanzose sono i segni della vita di famiglia. Torino in piena estate è una conca di afa insopportabile, ove ti muovi a fatica: le si addice davvero, come un vestito su misura, il freddo nebbioso. Sotto i porticati l'aria fosca umidiccia, acre e pungente, mai morbida, che ti avvolge in una specie di coltre è forse piacevole. L'avvallamento della città dell'immigrato si distende e si allunga quando si parte. E correre nel treno vuol dire fugare lo stato amorfo della psiche, eccitare lo spirito che in altri posti diventa io integro e non soffre le lontananze, proteso verso l'orizzonte che di cerchio in cerchio cammina. III Il tempo furtivo, mille giorni come uno solo; i pensieri corrono veloci, passano per trame diverse di ricordi. Il tempo umano si è frantumato anche per Maurizio, il vecchio che veniva vicino alla corriera a salutarmi. Lui di pelle rossiccia e delicata in faccia, portava la ferita, che gli sarà sempre rimasta aperta, dell'emigrazione. Gli anni passati in America avevano roso il cuore per il dramma della nostalgia, dello smarrimento oltre oceano, nella New York devastatrice di ogni senso della misura. Stravaganze disumane, morte del calore artigianale, delle tradizioni fatte di vicinanza di uomini. Sembrava senza interiora, rinsecchito per lunga conservazione; invece il cuore era gonfio di malessere per le traversie passate. Pertanto era diventato forte; tutto cuore sofferto, animo sensibile e buono; cosmopolita aveva superato i confini che tengono misero l'uomo tra egoismi e luoghi particolari. Un piemontese smantellato, rifatto in altra forma, vicino all'uomo soltanto. Non si riconosce con la borgata, niente linguaggio autoctono; parla invece con gli occhi lucidi, con le mani generose trepidanti che vengono incontro. Nell'intimo un vuoto, un abisso da colmare. Lui le persone le vedeva come di aiuto alla sua condizione di continua crisi, allora premuroso per fare qualcosa, la sua presenza cara di offerta. Era ossessionato da una paura, la solitudine; il terribile tarlo che attecchisce ov'è tristizia nei rapporti, ove ci sono
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
orgogli che proliferano a catena. Le diavolerie che serpeggiano, maldicenze preconcette, la società di oggi dà l'impressione di essere facile per gli incontri, invece è un sistema meccanico, che niente dà di spontaneo, nessuna purezza di cuore; artificiosità fredda che si interpone negatrice di amicizia. L'amabile Maurizio, un uomo diverso in mezzo ai quattro gattoni spelacchiati di Gonengo. La frenesia di fare all’amore è rimasta ossessiva e inibita; non si è in loro svaporata per non aver avuto la donna del matrimonio. Questa riesce a staccare il sesso dalla immaginazione, facendolo piatto e artigianale. Rimasto come vizio nel cervello c’è il lavorio intimo di relazionarlo ad ogni viso e sguardo femminile. Di questo stato ci sono i segni anche sul fisico, una ruvidezza e modi goffi; scontrosi non sanno uscire dal recinto. Il mondo finisce nei loro posti, una vita ripetitiva da essere un moto meccanico di automi. L'americano lo vedevo una pianta stagionata da sfidare ogni limite. Riconquistata la semplicità del bambino pareva essere ritornato anche all'inizio dei giorni. Ma pure il lungo cammino ha la fine. IV Nella strada di tutti i giorni, un bambino ha il colore dell'aria di Torino. Guardo il cielo che sembra pronto alla pioggia e mai si scioglie, ha una stitichezza cronica, sforzi inutili con le brache in mano. Le nuvole sono impatinate negli strati inquinati. Arida la terra come gli animi, secca giallastra; gli orti senza esuberanza sono tirati su dalle razioni d'acqua, quasi di allevamento. Sopra e per terra il grigio della cenere. Un uomo con il giornale sotto l'ascella, mai visto, a due passi dal mio quadrato, si infila nella porta quasi un topo; avido automa di notizie del mondo. L'inafferrabile contatto, noncuranza delle naturali vicinanze, aerea amicizia con la gente. Il linguaggio quando è lo stesso davvero è un fatto di sangue. Intima appartenenza con l'essere, radici di terre simili, storie legate a matrici comuni. Allora il linguaggio risuona nell'animo e incontra quelli che ti sono accanto, seguendoli nelle giornate. Ogni atteggiamen-
Pag. 30
to è un segno di conoscenza; loro parlano per tutti, i suoni si estendono e riempiono lo spazio, tu ti trovi insieme. Quando il parlare è diverso, le fisionomie si accavallano; amorfo trasmutarsi di persone, sempre altri; furtive comparse, scialbe figure come croste di pareti. Gli individui sono un gregge, che nella giornata si scompone; gli elementi separati sono tagli meccanici che ritornano nel moto dell'aggregazione. V La barriera, che riprende l'animo dopo una pausa di giorni, è la stazione di Alessandria. Verso sera o la mattina il paesaggio è sempre uguale in tutti i mesi. Un diffuso grigiore argentato che sa di freddo e di solitudine. I tanti binari e i cavi elettrici in frastagliati raccordi segmentano lo spazio tenebroso. Lo sguardo non va oltre le prime piante della campagna circostante. Il treno si è fermato appesantito di metalli. Ho la sensazione del deportato; i visi addossati dall'apertura di un carro merci. Fili spinati nella foschia recingono la prigionia. Quel colore argentato che sembra venire da una sottile pioggia l'ho notato tutte le volte, mi incatena anche oggi ritornando da Roma. Alessandria, limite allo spazio della luce, ai paesaggi ripercorsi, ai miei estenuati desideri di andar via da questi luoghi sempre estranei, che non mi sono mai entrati nella testa. Lo spiazzo della stazione è una vasta piattaforma di scambi e passaggi di treni; il basamento livellato si allarga in tanti gruppi di binari, le costruzioni sono allineate e distanti. Alessandria, non ti ho mai visto le case e gli abitanti, ti conosco fermo sul treno; vedo quel velame rugiadoso di sottile nebbia filtrare in tutti gli angoli. Arrivato dopo molte ore di viaggio, corpo svuotato e pesante, trasportato. Alessandria, il tuo nome ha significato di repulsione, la mente che si frammenta, lo stillicidio dei giorni che mi ha cavato l'anima, quel malessere che rigonfia dentro, i sentimenti quasi sfilacciati formano un solo impasto liquido. Gli occupanti del vagone immusoniti, la faccia nel giornale, ognuno ha le sue cose, diritti al loro posto rigidamente. Due si-
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
gnore ossigenate si son messe a parlare in dialetto, ogni tanto una parola in lingua, quasi per provocarti. Uno sdegno che mi prende allo stomaco. Dialetto arido, schematico, che rispecchia la mentalità calcolatrice. Si sottolineano sfumature, diverse parole si ripetono, un umorismo che appena affiora. Il linguaggio va simmetrico con il viso secco slavato. I miei paesani, pelle ruvida e loquaci, parlano tutti insieme eccitati come risvegliandosi, poi si fermano silenziosi. Le due piemontesi chiacchierano da due ore di continuo, due cicale dal suono metallico; un dialogo egoistico a due, pettegolo. Non voglio capire nulla, non voglio tradurmi nessun vocabolo. L'estraneità è totale. Per loro il dialetto è un segno per distinguersi e separarsi dai terroni. Il dialetto dei miei paesani ha il sapore della campagna e di ogni cosa della vita. Quelle donne viste a Crotone, visi di mamme care, piene di cuore amoroso, dai modi suadenti e incoraggianti. Usano ancora vesti antiche, camiciole bianche pieghettate. La parola dialettale è un'espressione che si mastica gustosa per il palato. Da Roma in giù sono tutti paesani, non mi pongo il problema dei luoghi. Vedo rispecchiati nei visi i vari moti dell'animo, parole tacite, incontri di simpatie. VI Mi piace vedere il giorno morire, le sfumature si aggiungono, strati su strati diventa carico il cielo fino a precipitare, perdendo ogni chiarore. La sera ha tutto il suo velame sparso per terra, cammini senza rumore, è il silenzio che vuole un nascondimento per tutte le cose. Escono gli spiriti; un popolo di ombre che vagano. Nei giardini le statue aprono gli occhi nel buio, escono dall'involucro di pietra, il viale ne è pieno. Ci siamo appesantiti, sempre insoddisfatti anche quando i momenti di vita erano ben costruiti quasi fatti apposta. L'asino ha un passo che trascina, non ci si cura più delle pene: cada dove vuol cadere. Importa più niente. Tutta la volontà usata giorno dopo giorno, sempre uno sdoppiamento fra lo stato psicologico e le realtà duramente esigenti. A puntellare di continuo le parti in crisi, per re-
Pag. 31
sistere e rispondere a quanto l'intimo imponeva coerentemente. VII La città d'agosto, i pochi che si vedono rimuginano nella quiete pensieri stravaganti, l'illusione spazia eccitata. Tanti rimasti si sono riuniti nei giardini di Porta Nuova, la stazione che ha divorato quasi una città intera, magico punto di evasione per paradisiache dimore. Ho visto fra loro uno, allampanato vestito di nero, proprio Dracula. Lo sguardo del meridionale ti legge in faccia, gli occhi penetranti vanno in fondo per l'esofago. C'è una filosofia del vivere in mezzo a circostanze disagiate che fanno stare l’uomo smembrato, le angustie, le irregolarità, le cose come sono venute, le famiglie frammentate dai litigi. Il viso dell'immigrato ha sempre un'ombra di tristizia fine che si mescola con la lucentezza di un sorriso accennato. Il piemontese è lineare, la pelle del viso è quella del corpo; davanti a lui una lontananza di soggetti, l’alfabeto schematico. Il linguaggio non ha le forti radici della interiorizzazione. Il posto in fabbrica, ad agosto in montagna; una vita ripetitiva che intorpidisce la mente, le ferie un compito, non c’è slancio a quell'evasione che si desidera in tutti i mesi di routine; i parenti hanno il loro luogo, il bacio meccanico quando si vedono. Ancora il bronzo delle campane parlano del paese, di morti, di bufere, di invernate passate. C'è qualche duro piemontese che vede simile al mulo in avanti, ti scruta come un animale strano. C’è il Rocciamelone con striature di neve, vecchio come l'uomo, messo con la dura ossatura di traverso; la montagna e l'uomo, due compagni che stanno vicini da sempre. VIII Il velluto e i pantaloni di cotone duro, tesi con le giacche aperte per lungo tempo fanno sentire l'odore del paese, la paglia delle stalle. Il fiato degli animali poco distanti dal letto alto voluminoso, che prende tanta parte al centro della casa. I meridionali camminano con la testa tirata su, con aria baldanzosa. Si ha l'
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
impressione che nell'andatura sollevino un po' troppo i tacchi, forse come gli asini che fanno sentire i ferri dello zoccolo. Gli ampi gesti della mano. Mio padre alla stessa ora del mio ritorno pomeridiano rivedo pontificare nel gruppo, esuberante e vanitoso per le bravure che racconta. In pochi minuti è già stampata l' autobiografia. I meridionali gareggiano nelle vanterie, glorificandosi delle cose fatte. La condizione di immigrati crea un orgoglio di autodifesa e quasi una vendetta è il camuffarsi in finte posizioni sociali. Il sentirsi isolati, la rabbia che germina in se stessi, la lontananza che li fa pensare diseredati. Poi il discorso del clima è diventato una malattia incancrenita; la cappa pesante in tutte 1e stagioni, ma specie d'estate invade ogni angolo, anche all'ombra la senti come fascia che si incolla sulla fronte. Non c'è quell'aria appena mossa ossigenata che senti refrigerante stando fuori. IX Io sono facile ad avere chiodi fissi, i rifiuti ostinati. Posso essere come la cenere spenta per tanti anni, all'improvviso in escandescenza con la furia del matto. Posso farmi rodere vent'anni da ferite rimaste vive; architetto vendette totali e gridate di chiarimenti in piazza, denunce pubbliche fino ad affiggere manifesti, si fa per dire, per le vie, avere una svolta finalmente, cancellare quello che ho mal digerito. Vado trovando chi mi accende la carta dietro il sedere, come dicono al mio paese. I sentimenti sono intoccabili, non si piegano, esplodono da resistente fuoco recondito. Testardo, non passo sopra i principi che sono invalicabili, barriere che contornano il carattere, li vedo torri di guardia e guida per la condotta che non cambia di ogni giorno. Il campanilismo è istinto del particolare, vano il lavoro servito solo a se stessi, affinamento non c'è né trasparenza per andare verso gli altri. L'aria di cenere gelata isola i gruppi lesti nell'andare, il largo della piazza non ha interconnessioni; rimani con te solitario, la parlata degli altri è senza morbidezza. Non riesci a sapere nulla del vicino accanto; l'ho sentito
Pag. 32
per anni amorfo e arido alla parete che lo chiude. In questa regione il colore della nebbia ti viene addosso. Ti sanno del condominio quando sei pronto a fermare la porta al loro passaggio. Fuori dell'angolo non ti conoscono più. Corre l'alienato meccanico flusso di macchine e uomini. Il corso è saturo di veleno, una montagna mobile di lamiere. La sera è una lama fredda sul vetro, trafora per entro le membra tarlate. X Non c'è un cortile che non abbia il suo laboratorio. L'atmosfera autentica di città industriale; un diffuso velame nebbioso, freddi lunghi, abitanti frettolosi sulle biciclette, tram che sferragliano pesanti. Le lamiere che risuonano battute dai martelli soffocano le voci umane. Il lavoro è un astratto assillante fantasma che non dà tregua, che tiene dentro gli stabilimenti incatenata la città, quasi senza vita per le strade. Si allarga la periferia divoratrice di manodopera. I meridionali smarriti a Porta Nuova, si diramano per la città soli, in un’altalena di sfiducia e volontà di affrontare i sacrifici che si conoscono nei loro paesi. Adusi ai lavori con poco lucro e alla denutrizione; li vedi ossuti e bassi. Riconosci da lontano la loro sagoma; occhio di amicizia, compagnia di facile aggregazione. I compaesani aumentano alla giornata, l'intreccio dei richiami, si proliferano i gruppi. XI I meridionali che scendono a Porta Nuova visti come uomini primitivi, pieni di toppe, miserabili analfabeti. Simili alle bestie nelle masserie, abituati a dormire nelle mangiatoie, in promiscuità con i muli e le pecore. Tutti gli stessi ad un unico livello. Amici delle capre per i dirupi abbarbicate, sui pendii a brucare la salicornia. Nessuno che potesse trasformarsi e prendere aspetti ripuliti. Ma non era per niente vero che Cristo s'era fermato ad Eboli, si poteva dire il contrario: cominciava il suo cammino proprio da qui per ritornare in Palestina. Cristo passava per dove la povertà e la sofferenza erano di casa. La sensibilità della
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
persona tutta protesa a dare e ad operare, abituata a sentire ed a sopportare, piena di spontanea riflessione, con il cuore ampio, poche cose e tanti patimenti. Cristo scalzo con le mani verso il prossimo; l'uomo buono, pieno di essenzialità e vicino alla sostanza, alla pura creazione nuda e divina. L'uomo nella sua essenza, solo natura e semplicità remissiva non toccata dalla malizia. Nei campi liberi e spogli, nelle case dove il respiro ha la parola con le pareti; l'uomo all'alba, al tramonto, le sue meditazioni nel silenzio delle ansie. Eboli già si affacciava ad un'altra aria, le case più comode, più mezzi per sostenersi; si profilava di lontano l'ascesa al consumismo. La modernità come conquista del benessere che prendeva spazio andando sempre più verso le regioni settentrionali. Cristo si abbelliva, perdeva l'aspetto della penitenza, anche le spine meno acuminate e la Croce dura di legno nero pesante sembrava non avere più la visione di una volta. Il peso dei peccati dell'animo fragile si alleggeriva con il materialismo che oscurava la mente, e più torva si faceva la faccia per l'egoismo. XII Il meridionale è forza genuina con le mani resistenti; sopporta per l'amore della casa che lo sorregge, ostinato vuole fare da solo: non è portato a chiedere, ha la fiducia in se stesso, si lancia a braccia aperte e nelle circostanze critiche lo vedi avvicinarsi. I meridionali non vanno per le lunghe, sbrigativi danno l’ impressione di essere disordinati. Le facce levigate e ben stirate dalle creme non vanno oltre il recinto e il moto ripetitivo che fanno la propria vita una perfetta geometrica programmazione. Curano i dettagli, non lasciano fuori nulla per quel metodico quotidiano modo di fare. Le frasi rifinite e circoscritte, l’una dopo l'altra, con brevi contenuti, sempre la superficie e il tono esterno che ricopre e una parola che pure non ha tanto significato la ribadiscono e la modellano come fosse un fatto vissuto molto. Tutte le virgole sono al loro posto, non esce un capello dalla riga che divide in simmetria l'ordine delle cose.
Pag. 33
XIII Gli extracomunitari si sono sovrapposti ai meridionali, questi ormai conosciuti e definiti nei loro tratti paiono quasi dimenticati dopo tante frantumazioni avute nelle diatribe dei confronti e dei rifiuti. Tutti i contorni di una razza a sé, si conoscono come sono e non si bada più alla loro presenza, anche perché meno si distinguono, persa la caratterizzazione originaria di contrapposizione. Scoloriti e minimizzati nei lunghi anni di immigrazione, la pelle e le parole hanno preso per molti il colore della residenza poiché consumata in parte o smantellata la matrice dei legami natii. Ma la frattura con i piemontesi è rimasta sempre; come le scarpe strette che indolenziscono i piedi, un radicato astio. Ci si becca ogni volta che riemergono le simpatie e i disagi in passato vissuti insieme. I nuovi arrivati fanno novità, anche le leggi li favoriscono, si va sempre a salti, incuriosisce il particolare senza badare a migliorare sistematicamente i rapporti con tutti. Differenziazione, pregiudizi e le gelosie di superiorità non si sradicano, sono una cancrena che non ha guarigione in una costituzione che atavica non lascia cadere le sue punte acute. I meridionali hanno di mezzo la matrigna. Anche le monache sono con un cuore chiuso verso di loro, non piace tanto quell'umore fantasioso e quel sorriso parlante che si mette dentro gli occhi, imbarazzante, un certo peso la loro presenza. Le monache linde e attillate con gli spilli che ripassano le pieghe, il colore della faccia come carta ricoperta di pelle e il corpo costretto trapassato nel nero delle vesti. I meridionali che nella religione mettono passione istintiva, un afflato pagano di costumanza con i santi miracolosi e le monache che hanno la sonora preghiera che va con l'organo astratta per le navate, le voci oranti argentine che sono un prodotto fine delle loro bocche intonate. I meridionali sono rozzi e battono i pugni sul petto, reclamano insistenti l'aiuto dei santi come quando si chiede qualcosa ad un parente. I meridionali per queste monache paiono non appartenere alla famiglia di Cristo. In terra di
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
missione impressi ricordi di paesaggi sfolgoranti e terribili, l'inclemenza di una natura brutale. La miseria e il dolore degli indigenti distrutti dalle epidemie; la morte in agguato feroce come una tigre che azzanna l'uomo vinto dal male. La dedizione delle monache operose illuminate dalla luce di Cristo messo in croce con le spine più lancinanti, le braccia distese al martirio più atroce. Loro vedono sotto il colore della pelle oscura nascosta e viva la misteriosa ombra di Dio. XIV Una diceria da leggenda correva per Torino sulla verginità di abitudini portata dai loro remoti paesi. Di innocente, genuina ignoranza avvolgeva i meridionali la diversità dei loro mezzi di vita, la rusticità delle case e soprattutto di queste la diretta vicinanza con la campagna. La loro era libertà e insofferenza per tutte le comodità che i torinesi adulavano. Non sapevano nella cameretta da bagno la vasca e sul resto delle strutture igieniche facevano una gran confusione. Tanti per i bisogni corporali si erano serviti della stalla e con i rifiuti facevano più doviziosa la fragranza del letame o si aveva il recipiente mobile che a sera tarda veniva riversato dove finivano le case. L'orinale con pudicizia avvoltolato dall' ampio grembiule si svuotava quando i vicini non vedevano. E a Torino i meridionali secondo i malevoli che andavano per l’ assoluto, riempita a metà di terriccio la vasca, vi piantavano i pomodori; un modo affettivo che riportava all'orto ricco davanti casa di melanzane e cetrioli. Per il loro eloquio erompente che sapeva di naturale getto di umori e zampillanti sapori dialettali non poteva essere che un nemico il telefono , una museruola vera al bisogno di dire tutto senza artificiose reticenze, senza nascondere nulla di quello che rinfocolava nella mente. E si diceva che il telefono i meridionali hanno imparato ad usarlo dopo un po' di tempo, solevano prendere la cornetta dalla parte del filo, capovolta. Abituati a stare sulla piazza a tu per tu gridando in una ridda di parole, con la faccia dell'altro davanti aperta e trasparente come specchio; la
Pag. 34
casa che fa avere i piedi per terra, l'uso di passeggiare con gli stessi amici che senza colloquiare si capivano per le strade di notte. Tutto si dicevano, era come stare muso contro muso, rimescolare da una gola all'altra i rigurgiti e imbeccare il mangiare all'uccello. La loro libertà nell'aia, di far girare l'asino bendato per pestare il grano falciato, di cantare con le cicale nella canicola di luglio per stordire la bestia che continua il suo moto meccanico senza avvertire di essere stanco. La libertà e la solitudine, non sopportano l'ombra di traverso proiettata dal vecchio albero, tutto il sole sull'aia rotonda fra le stoppie luccicanti. Loro simili al mulo che lancia calci disarcionando chi tenta di saltargli addosso; il mulo vizioso non addomesticato al lavoro si butta matto per terra con la pancia allargata e le zampe ferrate pericolose, a strofinarsi la schiena sul selciato, a mescolarsi col fango e la polvere roteando sopra la spina dorsale. Il piacere di sbizzarrirsi con tutto in aria e di dare sfogo al moto infocato ed effervescente di ogni parte del corpo. XV Berlusconi può dire bene Forza Italia dagli spalti di Palazzo Chigi e del Parlamento per i progressi ottenuti e per l'alto prestigio del nostro Stato nel mondo. La seconda Repubblica adolescente, anche le parole hanno il candore dell'ingenuità, senza reticenza dicono tutto con franchezza. Grandi programmi e sicuri di fare secondo le promesse. Dalla gran parte dei balconi di Torino sventola il tricolore, quasi tutti hanno una bandiera; la sua sacralità di un tempo, il simbolo della Patria, oggi si conserva in ogni angolo e pronti ad inalberarla. È un pezzo di stoffa colorata, lo strofinaccio per le mani o la tovaglia. Prima era raro trovarla perché macchiata di sangue, perché bruciava a sentirla vicina sulle barricate. Sentimento di esultanza, grido di gioia, ferite lancinanti al petto nell'assalto al nemico. Si conosceva appena, era sulle pagine di storia: il tricolore baciato nel momento della fucilazione. Ci sarà stato un moto insurrezionale che a furor di popolo con morsi e con la rab-
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
bia ha cacciato l'invasore. Ed è morto un bambino in questa festa nazionale, ha avuto il cuore spaccato da una mano forsennata che inneggiava con pugni frenetici alla vittoria dell'eroico Baggio. Il trionfo italiano ai mondiali contro il Niger ha fatto esplodere per le vie confusione e chiasso; disgusto per l'esagerazione di un campanilismo volgare ed insulso. A Torino una serata da ricordare per bassezza e decadenza di civiltà. Leonardo Selvaggi SETTEMBRE Aggiorna e la metropoli ferve di tute turchine. È giorno ancora, gioia nuova ché l’autunno pure è vita: rompe l’inerzia d’afa, affretta l’ore, il canto e lo splendore delle piogge ravvicina. Rocco Cambareri Da Versi sparsi, Guido Miano Editore, 1983
Una china di Domenico Defelice ↓
Pag. 35
Il Racconto
LA CASA di Anna Vincitorio I percorreva una via un po’ tortuosa e in salita; una svolta e un cancello. Grandi pini reclinavano la loro vaporosa chioma; sotto, un prato ben curato e oleandri in ordine sparso. Un lungo specchio d’acqua tra l’azzurro e il verde rifletteva un cielo ventoso. Quattro palazzine tutte eguali tra il bianco e il rosa e vaste terrazze per lo più infiorate. All’interno le storie dei vari abitanti si intrecciavano come una sottile tramatura di tappeti di pregio. Un appartamento, da un po’ di tempo ha le persiane abbassate ma chi c’è ancora non può non ricordare. Le ha viste crescere e allungarsi i loro lisci capelli. Quei grandi occhi bramosi di vita che si sperdevano oltre gli spazi azzurri. Non importano i loro nomi, chiunque si potrebbe ravvisare. Amici, tanti; un alternarsi gioioso. Qualche nota di violino spersa nelle ombre della sera. Persone: una famiglia. La casa ricorda un vecchio coniglio di peluche che per lungo tempo ha accompagnato una bimba dai lunghi capelli chiari. Occhi decisi che agguantavano i sogni che avrebbero voluto sfuggirle. Vestiti, tanti e una silhouette in movimento. C’era poi un quadro. Non immagini ma tante medaglie. Ognuna un applauso festante al ricadere sul tappeto; gare su gare e il sogno accarezzato di una gloria ancora lontana. Nel frattempo lei ha tanto bisogno di tenerezza. Lunghi i suoi capelli scuri e chiari occhi che riflettevano ombre, luci: un enigma. Bisogno di dire, magari nascosta col telefono nel bagno. Le crisi di una famiglia rimangono avvinghiate nel cuore di un giovane. Può gridare a sproposito, buttarsi febbrilmente in qualsiasi attività o scegliere il silenzio. Lontano, oltre gli alberi, si spande l’odore di un oceano mugghiante che non rassicura ma affascina e travolge come i desideri irrealizzati. Velieri alla deriva. Si
S
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
susseguono anche momenti esaltanti come la graduation della sorella maggiore che si muove leggera in un abito rosso con accanto il suo amore. Poi la sua stanza resta vuota. È lontana tra le nebbie a studiare. Lì finisce il suo amore. L’altra offusca di lacrime la verde magia dei suoi occhi; sul suo sogno di gloria scende il silenzio e degli applausi, solo il ricordo e le sfavillanti medaglie. La ricerca di una nuova identità. Volere a tutti i costi essere. Ma chi, cosa? Amici, tanti. Buoni, cattivi, veri, falsi. Allora un cammino fatto di email, Facebook, balli sfrenati nelle discoteche ma sempre affiora una mesta tenerezza interiore e un limpido desiderio di amore. È difficile da comprendere un adolescente e, i genitori, anche se presenti, sono troppo spesso imprigionati dai loro dissapori, dal loro non facile accettarsi e dai dialoghi serrati si giunge ai silenzi. Una bella signora dal luminoso sorriso esce, poi ritorna con i cani e non. La casa la guarda, le vuol bene e vorrebbe che quel sorriso non si smorzasse; ma come? Ancora si susseguono le stagioni. Quel caldo salotto dal camino scoppiettante non risuona di voci: si diffondono note malinconiche che vorrebbero catturare la vita di un recente passato che sfugge. Sul divano arancio un guanciale conserva l’impronta di una testa. S’intravede un lungo capello. I raggi del sole sprigionano luci cangianti sul cassettone cinese dai rossi riflessi. È tutto perfetto ma sembra come voglia comunicare qualcosa. Peccato! Ancora un poco e non sarete più qui. Presto questi oggetti saranno imballati, i quadri staccati e i vestiti di tante feste e momenti gioiosi imprigionati in scatoloni. Una coppia di anziani abiterà questa casa piena di luce. Ci sono cambiamenti per tutti loro ma ritornerà il sorriso sulle loro labbra e dell’oceano rimarrà il verde ricordo. Li attendono però nuovi soli, speranze e il calore della terra natale che aprirà loro le braccia. Firenze, 3 dicembre 2017 Anna Vincitorio
Pag. 36
ERA UN RAGAZZO DEL ‘99 di Anna Vincitorio RA un ragazzo del ‘99 rientrato da quella guerra dura e spietata. La sua giovinezza si era scontrata con il corpo a corpo a colpi di baionetta; la morte dell’uno era la vita per l’altro. Ancora nelle orecchie il rombo dell’artiglieria nemica; scarso il cibo per la sua giovane fame e spesso la gavetta era infestata d’insetti. Doveva ora essere solo un ricordo. Si trovava a Napoli, in una fine serata al San Carlo. Aveva cantato come comparsa nel Rigoletto. Splendida voce, un bell’aspetto illuminato da quei cangianti occhi verde azzurro che tradivano le sue origini pugliesi; capelli fulvi e la pelle chiarissima retaggio dei suoi lontani progenitori normanni. Sete di vita accompagnata però da scarsi mezzi e due fratelli minori di cui occuparsi. Il padre, eminente medico veterinario del regime si era risposato e viveva a Roma con la nuova moglie e la figlia. Loro, di Apricena, li considerava ormai grandi e autosufficienti; ma così non era. Francesco cercava di occuparsi in qualunque modo pur non rinunziando a frequentare l’ambiente intellettuale della Napoli bene. Una sua foto esposta da Ruggiano in Via Roma: paglietta, completo spezzato e un’aria assorta. La foto era per la sua nonna adorata e lontana. Nella dedica: “alla mia nonna, venerandola”. Il fotografo la teneva in vetrina perché faceva da richiamo. Una signora, vedova da poco e frequentatrice dei salotti napoletani, colpita da quel bel volto assorto, passando dal fotografo chiese del giovane e cercò di provocare un incontro. Avvenne una sera nel salotto della contessa M. Amelia, il nome della signora non propriamente giovane, esibiva gioielli di pregio, attaccò discorso con Francesco. Lo aveva sentito cantare e voleva lezioni di mandolino. Quelle belle ballate piene di sentimento, per lei una gioia apprenderle e per lui, insegnarle, un’occasione di guadagno. Lui ne aveva bisogno. Iniziarono a frequentarsi. La ciocca
E
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
maculata nei capelli di Amelia, quelle sottili rughe intorno agli occhi contrastavano con la sete di bellezza e di amore ricercate da Francesco. Nel salotto della contessa su un antico tavolino dalla patina calda e dorata, c’era la foto di una ragazza. Morbidi capelli bruni, uno sguardo tra l’ingenuo e il birichino e uno splendido sorriso. Lui si sentiva preso da quella immagine pur non sapendo nulla di lei. Amelia quando lo vedeva assorto nei pressi della foto si abbuiava ma la sua forza era nelle promesse di aiuto e di una calda amicizia. Francesco si trovò invischiato in una relazione che non sapeva dove lo avrebbe portato. Amelia decise per entrambi. Parlò d’amore, di chiacchiere ripetute che ledevano la sua onorabilità di vedova; occorreva che la relazione si concretizzasse nel matrimonio. Lui avrebbe potuto coltivare i suoi interessi. Amava la letteratura e leggeva soprattutto poeti; nello stesso tempo lei avrebbe provveduto ad aiutarlo per gli studi dei fratelli. Un matrimonio riservato dove le grida di passione sgorgavano solo dalle labbra di lei e dai sussulti del suo corpo appagato. Passò qualche tempo. Una sera erano su una carrozzella che li conduceva verso la Villa Comunale. Lei sbiancò a un tratto e si accasciò. Il cuore aveva ceduto e il suo ultimo sguardo colmo di gratitudine fu per Francesco. Lui si allontanò da quella casa e non portò con sé che qualche libro e ricordi dolci-amari di tempi lunghi e di sogni spezzati. Si era chiusa per sempre una fase della sua vita…e ora? Ricontattò gli amici, trovò un lavoro utile anche per distrarsi dagli eventi recenti ma era divorato dall’inquietudine e dal bisogno di vivere intensamente. Nel frequentare nuovamente il salotto della contessa M. il suo sguardo indugiava sulla foto della ragazza sconosciuta. Chi era? Doveva almeno incontrarla. Il tempo trascorso aveva acceso in lui un crescente desiderio d’amore. Riuscì a sapere chi era e dove abitava. Viveva in una città più a sud col padre funzionario, alcune sorelle e un fratello militare di carriera. Era stata a Napoli lo scorso anno ospite della contes-
Pag. 37
sa. Nella foto, la dedica: “Per mio ricordo – Pina”. Francesco di quella immagine aveva costruito una storia, colmandola di desideri pulsanti. In lui una forte voglia di vivere e di amare con l’impeto e il furore dei suoi giovani anni. La lontananza e il non sapere quasi niente delle fanciulla accrescevano in lui il desiderio. Riuscì a procurarsi l’indirizzo e scrisse una lettera magistrale al padre di lei rivelando le sue serie intenzioni e il prossimo viaggio verso Taranto, la città dove risiedevano. Una casa tradizionale, profumata di spezie che risvegliò in Francesco il ricordo della madre perduta, degli aranceti della sua infanzia. Al suo arrivo, Pina si nascose dietro a una tenda. Voleva osservarlo bene prima di incontrarlo; alle sorelle disse: “Sembra uno spilapippo” – termine dialettale per indicare un uomo molto snello –. Era lusingata ma anche intimorita dall’audace ingresso di Francesco, finora sconosciuto, nella sua casa. Dopo alcuni incontri, lui non resse al desiderio e, approfittando della momentanea assenza delle guardie del corpo (le sorelle onnipresenti di Pina), la strinse a sé con passione, carpendone la bocca un po’ tremante e restia. Fu un breve fidanzamento, poi le nozze e il viaggio verso Napoli. Il fischio del treno accompagnava lo sguardo di Francesco che avvolgeva la sua sposa ancora turbata. Si lasciava alle spalle tranquille certezze verso l’ignoto. Una vita di sposa con amplessi forti che un po’ sconvolgevano la sua innocenza e a cui seguivano il silenzio appagato e il sonno di Francesco. Imprevisti mutamenti di lavoro e in lui il desiderio crescente di una vita avventurosa in Africa verso nuovi orizzonti. La guerra e il suo desiderio di guadagnare le stellette di ufficiale lo indussero a partire. L’ex ragazzo del ‘99 la notte guardava le stelle africane scrivendo lettere appassionate alla moglie, Lei si sentiva orfana nella casa sotto la collina e, mentre il suo ventre cresceva, cantava ballate tristi e preparava il corredino. Il sogno africano di Francesco si concluse prima del previsto. Non la sposa accanto a lui a guardare il deserto e una vita avventurosa ma il ritorno forzato per una malattia contratta in Africa:
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
l’ameba. Abbronzato dal sole ma con negli occhi la fine di un sogno, Francesco rientrò a Napoli nelle brume di una calda serata di primavera. Solo le braccia di Pina avrebbero potuto addolcire la delusione provata per aver dovuto abbandonare quella terra lontana. Una vita un po’ dura. Difficoltà nel lavoro per la sua opposizione al fascismo; poi lo scoppio della guerra nel ‘39 e dopo qualche anno una possibilità di fuga e un nuovo inizio verso il Nord. La casa venne chiusa, i mobili in un deposito, la loro bambina lasciò le adorate amichette, il nonno e quel giardino davanti casa sede dei suoi giochi e profumato di gelsomino e di arancio. Una mattina presto un treno li portò via: una vita nuova, diversa, forse più appagante ma negli occhi di Francesco e di Pina la visione della Napoli gioiosa, beffarda, profondamente umana e quel Vesuvio svettante il cui pennacchio di fumo non avrebbero più rivisto. Firenze, 27 gennaio 2018 Anna Vincitorio
L’ACCATTONE di Antonio Visconte
R
AIMONDO Panissa era un asino, tanto da essere respinto alla licenza liceale e costretto a ripetere la terza classe, eppure è riuscito a diventare preside di una scuola media statale. Poiché le persone venali sono anche le più cretine, il preside Raimondo non riuscì mai a rinnegare se stesso. Assumeva una badante per un mese e dieci giorni e poi la licenziava, pagandole soltanto il mese e non i dieci giorni. Le povere donne si sentivano umiliate e sporgevano denunzia ai carabinieri. “Anche con me si è comportato allo stesso modo”, riferì Teresa. “Ma tu puoi fargliela pagare a quell’ accattone”, affermò Luisa.
Pag. 38
“Che devo fare”, chiese Teresa. “Sei fortunata, Carmine, il tuo fidanzato, appartiene alla malavita, raccontagli il fatto e sa lui cosa deve fare”. “Ma non è la legge che mi deve difendere?” “In questo paese comanda il più forte”. Teresa aggiornò il fidanzato sulla truffa che il preside Raimondo compiva a danno delle badanti e Carmine ci guazzò dentro, assicurandole che avrebbe risolto il problema. “Vai armato, ma non sparare”, consigliò Teresa, “in carcere non ti voglio più vedere”. Carmine si mise la pistola in tasca e di buon mattino, dicendo di voler parlare con il maresciallo, si presentò nella caserma dei carabinieri. Notava una forte animazione per il trasferimento dei detenuti, ma in sostanza la situazione appariva tranquilla. Teresa invece non appariva tranquilla. A sua insaputa si trovava legata ad un uomo responsabile di duplice omicidio, ma poi si era convinta che solo Carmine poteva difenderla. Non dovette aspettare molto prima di essere ricevuto. “Fate entrare il signor Carmine”, intimò il maresciallo al piantone, “una nostra conoscenza, ci porta buone notizie”. “Buongiorno, maresciallo”, bisbigliò Carmine. “Di che si tratta?” avanzò il maresciallo. “Quella solita storia del preside Raimondo, che non paga lo straordinario alle badanti, questa volta ci è capitata anche la mia fidanzata”. “Avete portato la denunzia”. “Ho portato la pistola”, gridò Carmine. “State fermo”, supplicò il maresciallo, “dopo venti anni di carcere, non avete ancora imparato a rispettare la legge?” “La legge sono io”, ribatté Carmine, “avete una montagna di denunzie e tutte inevase. Aspettate che le badanti tornino a casa o si trasferiscono in altre parti, per darla vinta a quell’usuraio del preside Raimondo. “Non mi posso muovere”, sibilò il maresciallo, “ho altri impegni, la giustizia è lenta ma efficace”. “Se è lenta non è efficace”, sopraggiunse
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
Carmine. “Adesso alzatevi e andate via, non mi aspettavo da voi questa presa di posizione”. Il povero Carmine, nonostante le minacce a mano armata, consegnò a Teresa il triste fallimento della su missione. “Adesso ci vado io”, proruppe Teresa. Era ancora giovane e bella. Indossò un abito eccentrico, fino a mostrare le mutandine nere. Il maresciallo vide, intravide, si accese, si riscaldò e salendo subito in macchina con Teresa, si recarono dal preside Raimondo e lo costrinsero a pagare, fino all’ultimo centesimo, lo straordinario, che spettava alle badanti. Il nostro Carmine rimase di stucco. Come poteva immaginare che la donna possedeva un’arma più potente della su pistola”. Antonio Visconte
Pag. 39
I POETI E LA NATURA – 80 di Luigi De Rosa
D. Defelice: biro e pastello ↓
D. Defelice - La casa del pipistrello (biro, 2018)
L' “ORMA SULLA SABBIA” DI HEINRICH HEINE (1797- 1856)
Q
uesto mese facciamo una puntatina nella Letteratura Tedesca. E precisamente nel periodo tra la fine del Romanticismo e l'inizio del Realismo. Puntiamo direttamente su Heinrich Heine (nato a Dusseldorf nel 1797 e morto a Parigi nel 1856) considerato da molti il più grande poeta tedesco dopo Goethe. E comunque il più importante poeta e letterato del suddetto periodo. Il rapporto fra il poeta Heine e la Natura è quanto di più tragicamente semplice ed univoco si possa immaginare. Di fronte agli organismi ed ai fenomeni della Natura l'Uomo, e quindi anche il Poeta, è un Nulla. O meglio,
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
è una semplice “orma sulla sabbia”, destinata a scomparire entro breve tempo. Altro che Re della Natura! Si legga la poesia “Come un'orma sulla sabbia”: “Prima di noi sugli stessi albereti è passato il vento, quando c'era vento, e le foglie non parlavano in maniera diversa da oggi. Passiamo e ci agitiamo invano. Non facciamo più rumore al mondo di quanto ne facciano le foglie degli alberi o i passi del vento. Tentiamo dunque con costante abbandono d'offrire il nostro sforzo alla Natura e di non chiedere più vita di quella dei verdi alberi...” Questa constatazione proviene da un uomo che era nato in una famiglia ricca di commercianti ebrei di Dusseldorf, senza problemi economico-finanziari. Ma con un'infinità di problemi fisici e psicologici, nonché di malattie serie, come quelle che la vita non gli risparmiò, tanto da immobilizzarlo a letto negli ultimi otto anni di vita (dai 51 ai 59 anni di età) assistito dalla moglie anche se con lei aveva ormai da tempo rapporti solo formali (e visitato periodicamente da un'amante appena diciannovenne...). “Inutilmente sembriamo grandi (continuava nella poesia in esame) Ma eccetto noi, niente al mondo proclama la nostra grandezza né ci serve se non la desideriamo.” E' ribadito il concetto della fragilità e precarietà della vita umana, destinata a scomparire (così com'è destinata a scomparire anche questa Natura da noi conosciuta). Ma si sa che fra gli studi di diritto e di letteratura intrapresi nel 1817 sotto l'egida del grande Schlegel figurano anche quelli, approfonditi, di filo-
Pag. 40
sofia. Nelle sue approfondite ricerche intellettuali e teoretiche (sul piano pratico e lavorativo aveva già constatato il proprio fallimento...) arrivò ad abiurare, nel 1825, all'Ebraismo e a convertirsi al Cristianesimo (ma al luteranesimo tedesco) e nel contempo si laureò in giurisprudenza a Gottinga. Alla Massoneria sarebbe stato iniziato dall'età di 47 anni. A 35 anni iniziarono a colpirlo gravi e ricorrenti crisi depressive. Si trasferì in Francia dove frequentò personaggi come Honoré de Balzac, Victor Hugo, Georges Sand e Alfred de Musset, senza trascurare gli emigrati tedeschi come Lassalle,Wagner, von Humboldt. Nel 1835, dopo l'uscita del suo libro Storia della religione e della filosofia, tutte le sue opere vennero proibite in Germania. Tra le sue opere ricordiamo Intermezzo lirico (1883), Impressioni di viaggio (1826-1831), Libro dei canti (1827), Notti fiorentine (1827). Nei quattro volumi del Salon (18341840) sono trattati temi politici. Heine fu a volte attaccato duramente, come scrittore e pensatore, da letterati e studiosi, ma rispose sempre per le rime, perché aveva un temperamento polemico graffiante e, lavorando seriamente e in buona fede, non tollerava di essere addirittura insultato. Dopo il libro di poesie Romancero (1850), in cui descrive le sofferenze causategli negli ultimi anni dall'atrofia muscolare spinale, o sclerosi multipla, scrisse ancora di Giudaismo e Cristianesimo, di liberalismo e comunismo. Nel frattempo si affacciavano alla ribalta europea nuovi pensatori e nuovi temi, fra cui quelli della Sinistra Hegeliana, e Karl Marx e Friedrich Engels con il loro “Manifesto del Partito Comunista”. Ma non c'è filosofia o politica che tenga. Prima o poi la sincerità, anche in Poesia e in Letteratura, fa sentire all'Uomo, sul collo, il fiato della fine inevitabile dei Sogni: “Se qui, vicino al mare, con tre ondate la mia orma sulla sabbia il mare cancella, che farà sull'altra spiaggia dove il mare è il tempo?” Luigi De Rosa
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
Recensioni IMPERIA TOGNACCI ANIME AL BIVIO Edizioni Giuseppe Laterza di Bari, Anno 2017, Euro 20,00, pagg.252. Era il 1959 quando l’attrice teatrale e più conosciuta sul grande schermo, natia di Bruxelles, Audrey Hepburn (1929-1993), interpretò il ruolo di una giovane monaca di nome Gabrielle nella pellicola cinematografica firmata da Fred Zinnemann, che le regalò la terza candidatura al Premio Oscar, dal titolo La storia di una monaca. La sintesi della vicenda era che la suora, di origine belga, alla fine rinuncia all’abito per uscire definitivamente dal convento, a causa del clima troppo soffocante di regole e punizioni al suo interno e comprenderà che per svolgere la funzione di missionaria fra gli ammalati e i bisognosi nel Congo Belga, sarebbe stato meglio senza la veste religiosa. Detta così, si tratta di una delle tante scelte che l’ individuo compie nel corso della propria esistenza; ma andando nel dettaglio delle aggrovigliate vicissitudini interiori, la scelta monacale ha origine misteriosa, al di là dell’avallo o meno familiare, è una strada che certuni intravedono di solito in età giovanissima quando probabilmente ai gusti della massa si preferiscono altre cose, che magari gli altri scartano, come la lettura dei testi nella solitudine, il contatto diretto con la natura in cui si rimira in maniera stupefacente la presenza divina, il senso della compassione e della giustizia difesa a tutti i costi, non soltanto per sé stessi ma a livello universale. « […] Sentiva qualcosa che prendeva forma in lei, qualcosa che le faceva capire la nullità di tutte quelle cose di cui parlavano Laura e le sue amiche: vestiti, maquillage, gli atteggiamenti per attirare l’
Pag. 41
attenzione dei “fusti”, e le confidenze sui loro innamoramenti non la interessavano più di tanto. Si sentiva come chiamata a qualcosa di diverso che la orientava verso l’esempio delle suore infermiere. » (A pag.47). Ciò che accadde nell’intimo della protagonista, Annunziata, del romanzo della scrittrice poetessa di San Mauro Pascoli e residente a Roma da molti anni, Imperia Tognacci, ha dei sottili ma visibilissimi fili di collegamento con l’opera monumentale dello scrittore tedesco Hermann Hesse (1877-1962) dal titolo Il gioco delle perle di vetro, pubblicato per la prima volta in Svizzera, dove Hesse ottenne la nazionalità nel 1924, precisamente nel 1943 in piena Seconda guerra mondiale, mentre nel 1946 lo scrittore venne insignito del premio Nobel per la letteratura. C’è sempre un protagonista che intraprende la strada dell’ascetismo con lo studio indirizzato anche soprattutto alla pedagogia, all’insegnamento della musica e quant’altro, nell’ambito di uno stato ideale di nome Castalia, rivisitazione utopica dell’ ambiente conventuale nel lontanissimo 2400 dove il protagonista compie la salita nella gerarchia interna fino a raggiungere la « […] carica suprema di Magister Ludi, al vertice dei massimi maestri dell’Ordine iniziatico. E qui si manifesta, vieppiù rapidamente, la crisi interiore, che l’uomo Josef sente crescere dentro di sé, incapace di rimanere nell’asettica, rarefatta atmosfera di misticismo aristocratico, che promana dal maestrato. Chiede di essere trasferito in un centro periferico come semplice insegnante; nell’impossibilità di attuare questa soluzione di ripiego compie il grande salto della sua vita, che correva fino ad allora sui sicuri e rigidi binari del sistema castalico. Abbandona il gran maestrato e l’Ordine e torna in città ». (Dal Grande Dizionario Enciclopedico – Dizionario dei personaggi letterari 2° vol. UTET di Torino, Anno 2003, a pag.1019). Tornando al romanzo della Tognacci, la protagonista effettuerà diversi cambi di conventi, raggiungendo anche la casa Madre in Belgio dove sarà testimone dell’immane tragedia di Marcinelle nell’ agosto del 1956: l’incendio scoppiato dentro una miniera di carbone che costò la vita a duecentosessantadue operai. Durante lo scorrere dei capitoli, fino al cinquantunesimo, del romanzo Anime al bivio, oltre alle mirabili descrizioni geografiche e artistiche dei luoghi citati, c’è la filigranata descrizione introspettiva che l’autrice fa per conto della coscienza di Annunziata, la sua creatura di carta a cui ha conferito un dialogo strategico che si svolge perlopiù nel suo animo. Anche in questo caso si fa luce un’altra
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
correlazione, stavolta con l’Amleto di Shakespeare, quando nel suo celebre monologo spunta la contesa fra l’essere e il non-essere in bilico sulla bilancia dell’autoanalisi. Lei è consapevole di voler dare molto sia a livello umano che didattico alle ragazze interne al convento, bisognose di istruzione ed educazione; ora figlie di persone benestanti, ora figli dei minatori in Belgio, ora ragazze che avevano alle spalle famiglie indigenti, o genitori separati, o ragazze madri. Insomma, pian piano avverrà un’evoluzione mistica che le farà tornare alla mente le crude ma decise parole del padre (di Annunziata) contrario alla sua decisione di entrare in convento: « […] Hai riflettuto sulla difficoltà di convivere con persone eterogenee? Conosco la tua lealtà e onestà, ma anche la tua determinazione, non sopporterai pettegolezzi, chiusure e rivalità che offuscano lo spirito, e che, purtroppo prolificano nei conventi. Sei assetata di conoscenza, hai una spiccata intelligenza, ampie vedute, ti troverai a vivere anche con persone ottuse e farai fatica ad accettarle. » (A pag.246). L’ultima frase a chiusa del libro, rievoca magistralmente la scena finale del film interpretato da Audrey Hepburn, che rivestitasi degli abiti civili lascia il convento dietro di sé allontanandosi per sempre dai turbamenti, restrizioni, solitudini di qualsiasi genere, invidie malcelate, ripensamenti, per ritornare nel mondo così com’era, col proposito di impiegare le proprie forze e cognizioni per aiutare gli altri ma in maniera diversa, dopo la parabola monacale che con le sue regole ha spiegato il concetto assoluto del fatidico ‘bivio’. « […] Ci sono infinite soluzioni d’amore che Dio ci consente. Siamo come un punto da cui passano infinite rette, la scelta è solo nostra. » (A pag.67). Isabella Michela Affinito
SUSANNA PELIZZA VITO SORRENTI VISIONI CULTURALI Il Convivio Editore, Anno 2016, Euro 11,00, pagg.79. L’apparato critico di cui è provvisto il saggio di carattere poetico – scritto a quattro mani – dal poeta Vito Sorrenti, residente a Sesto S. Giovanni in provincia di Milano, e dalla nota insegnante poetessa Susanna Pelizza di Roma, testimonia la passione incontrollata per la letteratura da parte dei due autori summenzionati. Il poeta generalmente, quando redige una sua creatura in versi, lo fa in maniera spontanea seguendo i dettami del cuore e magari a lui stesso
Pag. 42
sfuggono significati intrinseci, ai quali spetta ad altri occhi e ad altre menti la fatidica interpretazione. Dai grandi testi letterari ai quadri famosi di artisti di ogni epoca storica, la lettura dei contenuti, approfondendo l’intenzione degli autori che li hanno consegnati all’intera umanità, è monopolio dei critici, nel senso che essi ‘vedono’ ciò che ad altri sfugge ed è per questo che, ad esempio, la celeberrima Monna Lisa-Gioconda di Leonardo, attraverso la lente d’ingrandimento degli esperti della storia dell’arte, e non solo, ha dato molteplici spunti interpretativi e tesi di scuole di pensiero che, ancora oggi, proseguono la lettura dell’opera artistica attribuendone altri chiarimenti. In effetti, è proprio l’ illustrazione letteraria dei testi poetici, in questo caso del libro della Pelizza e Sorrenti, che risolve gli arcani presenti quasi in ogni verso di liriche tratte qua e là da pubblicazioni varie di ambedue gli autori. In pratica, essi hanno ‘giocato’ sull’esamina vicendevole oltrepassando il margine di sé stessi come semplici poeti, aprendosi nuovi orizzonti in cui far convergere la profondità dei loro testi, con la scia delle loro linee di fuga. Nell’Introduzione – anch’essa scritta a quattro mani – hanno chiamato in causa il pittore olandese Piet Mondrian (1872-1944), la cui opera dal titolo sintetico Composizione 1921, ha fatto da immagine di copertina a colori del saggio in questione. Mondrian non è stato un pittore da considerare all’ altezza del genio o dal talento eccezionale; la sua arte si è distinta per la ricerca della combinazione giusta: « […] L’artista, per Mondrian, non ha il diritto di influenzare emotivamente e sentimentalmente il prossimo; se arriva a scoprire una verità ha il dovere di dimostrare come ci è arrivato; se può dimostrarlo, ha il dovere di portare quella verità a conoscenza di tutti, di fare in modo che possa essere spesa nella vita civile della comunità. Malgrado talune divergenze, il suo programma non è molto diverso da quello della Bauhaus. » (Dal volume Mondrian, Collana “I Maestri dell’Arte Moderna”, Skira-Centauria di Milano, Anno 2017, a pag.78). Per ‘combinazione giusta’ si è inteso che lui ha avanzato ipotesi creative inaspettate e innovative per il suo tempo, nei primi del Novecento, quando stavano imperversando le avanguardie artistiche come il Cubismo, il Surrealismo, l’Espressionismo, il Futurismo e la sua arte fece parte del Neoplasticismo « […] che privilegiava una pittura basata sugli elementi della linea, del piano e dei colori primari, su una forma d’arte astratta, essenziale, geometrica. » (Dal volume Mondrian, Collana “I Maestri dell’Arte Moderna”, Skira-Centauria di Milano, Anno 2017, a pag.21). Tornando alle Visioni Culturali di Pelizza- Sor-
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
renti, è da confermare che è avvenuto un egregio esperimento letterario, o meglio più esperimenti, se si sommano assieme tutte le esperienze critiche presentate nel volume. Ogni poesia analizzata è stata preceduta da un’introduzione che, ogni volta, ha scardinato i recessi più inaccessibili e poi, il testo poetico vero e proprio, commentato quasi verso per verso. Prendiamo, ad esempio, la poesia Italia mia di Susanna Pelizza: « […] Uno dei compiti del poeta culturale è quello, anche, di promuovere dei valori, in cui, nonostante i tempi, credere: quindi, se da una parte la poetica assolve il compito di “storicizzare” la memoria collettiva (con gli stilemi), di portare a conoscenza un patrimonio (anche linguistico) che la tradizione custodisce, dall’altra compito del poeta è quello di promuovere, ancora, dei valori in cui credere. Il Sorrenti con “l’ espressività” rendeva “vivo” quel bisogno di essere solidali nei confronti del prossimo, la Pelizza, con questo sonetto acrostico, porta avanti il concetto di una “Comunione dei Popoli” che è l’aspirazione della Poetica del Culturale. Per cui si parlerà di “multiculturalismo” e non di “multilinguismo”, la “cultura dell’altro” interviene come forma di “arricchimento interiore”. » (Dall’introduzione alla poesia a pag.55). Ambedue gli autori hanno creduto nell’ innovazione degli stili in letteratura, al non retorico spirito critico, all’insegnamento culturale senza frontiere, senza impatti scioccanti e senza reiterazioni inutili. Il risultato è stato più che aulico, più che plastico, più che moderno! Isabella Michela Affinito
DOMENICO CAMERA SCRITTI D’ARTE Il Canneto Editore, Genova, 2016, € 12,00 Oltre che autore di alcune pregevoli raccolte di versi: Su questa terra (Sabatelli, Savona, 1970); La stessa strada (Edizioni di “Resine”, Genova, 1974); Frecce di carta (San Marco dei Giustiniani, Genova, 1981); Qualche segno (Edizioni del Leone, Venezia, 1989); Cronaca di un passaggio (San Marco dei Giustiniani, Genova, 2002); La pietra e le nuvole (Interlinea, Novara, 2009), Domenico Camera è anche autore di un’assidua ricerca nel campo della critica d’Arte, conseguente alla sua lunga frequentazione di pittori e scultori, che ha dato luogo a una serie di puntuali interventi critici in questa materia. Egli in verità si definisce per modestia “un poeta prestato alla critica d’Arte”; ma i suoi giudizi in questa materia sono qualcosa di più delle annota-
Pag. 43
zioni di un semplice dilettante, come dimostra questo suo libro, apparso nel dicembre del 2016, intitolato Scritti d’Arte, nel quale egli ha raccolto i “Ritratti” di 27 pittori e scultori la cui opera viene analizzata con cura e con acutezza d’intuito, così da cogliere le peculiarità proprie di ciascuno di essi. Come dice l’autore nella sua Nota introduttiva, questo libro costituisce “una selezione attenta e meditata dei suoi scritti d’Arte, che abbraccia un arco di tempo che va dal 1962 al 1999, con l’unica eccezione dell’ultimo scritto, che è del maggio 2016. Troviamo in questi Scritti d’Arte una vera e propria Galleria dei pittori e degli scultori nati in Liguria nel Novecento, cominciando da Giannetto Fieschi, del quale Camera mette in luce “il sentimento della morte” che scaturisce dalle sue opere e “la certezza del transitorio” che le caratterizza, per seguitare con Adele Zandrino, “pittrice dalla sensibilità grande e di attenta e sicura scuola”, nonché di profonda sensibilità nell’affrontare temi come quello della Maternità; con Valdieri Pestelli, che “ha popolato il mondo di figure” con la sua attività di scultore, improntata dalla sua “natura malinconica e pacata” ed anche dal suo assiduo amore per la vita; con Stelvio Pestelli, scultore “sicuro nel mestiere, che conosce alla perfezione, modesto nell’operare quotidiano”, capace di trasmettere “sicurezza e serenità”; con Giovanni Grasso, pittore “sinuoso, romantico, esasperato alla maniera Liberty” e incisore di “rara abilità e pazienza”; con Bruno Liberti, pittore capace di attuare “una perfetta fusione di antico e moderno” e di “distruggere la primitiva forma per ricostruirla con altre misure”; con Giovanni Garozzo, pittore dalla “produzione complessa e ricca di suggestioni”, che ha avuto fruttuosi contatti col neorealismo. A costoro fanno seguito Pier Canosa, pittore dalle molte immagini, che predilige l’opera grafica e dalla “mano esperta” e sicura; Luigi Maria Rigon, che ha saputo creare “personaggi che vanno oltre la realtà … per diventare favole aperte al surreale”, ma che ha anche prediletto le immagini di atleti, tennisti, nuotatori, colti nell’atto del loro sport prediletto; Alberto Nobile, pittore in cui “tutto è pervaso da una sotterranea sensualità “che investe sia il paesaggio che il ritratto, sia il nudo di donna che la stessa morte e che diventa “dannazione e trasfigurazione insieme, primo scacco e prima leggenda!”; Carlo Merello, pittore caratterizzato dalla “varietà dei temi affrontati e degli stili” nel quale “le suggestioni e i richiami culturali hanno accompagnato anni densi di lavoro”; Natale de Luca, che “da un figurativo sobrio e sicuro” è passato “all’ambito della neo-figurazione … e infine all’informale”,
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
con pregevoli risultati; Mario Schiaffino, la cui pittura è “abitata da grandi spazi, attraversata da intuizioni paniche, scossa da ondosi movimenti e sostanziata da colori vividi e fulgidi”. Troviamo infine Giuseppe Trielli, le cui opere sono “legate da un motivo radicale e profondo – la ricerca del tempo e il suo effetto sulle forme di vita” che si manifesta in due modi diversi: quello degli “animali arcaici” e quello della “testimonianza della statuaria” e Walter Tomaselli, nel quale dominano “la maestria nel disegno” e “il sentimento del colore”, accompagnati da “un mestiere sicuro, sostenuto dall’intelligenza creativa e da una sottile, allegra ironia”. Naturalmente dei pittori e degli scultori esaminati dal Camera ne abbiamo citati soltanto alcuni, ma i lettori del suo libro potranno scoprirne molti altri di pari bravura, costituenti una Galleria che ha il merito di valorizzare l’opera compiuta negli anni da artisti seri e tenaci, con un assiduo e proficuo lavoro. Elio Andriuoli
VERONIKE JANE LENTAMENTE Amazon Fulfillmment, Printed in Poland, forse 2017 o 2018, Pagg. 172 Lentamente, di Veronike Jane, è romanzo dedicato al padre “l’uomo più coraggioso che abbia mai conosciuto” e al compagno che è il suo “sostegno”. In esergo cita un pensiero di Pablo Neruda che viene replicato in chiusura del libro e contiene la voce eponima; quindi “lentamente” apre e chiude il libro (ogni cosa a suo tempo). L’Autrice in anteprima avverte che trattasi di opera di pura fantasia; tuttavia è una storia talmente realistica che farebbe dubitare delle sue stesse generalità che porterebbero a far pensare ad uno pseudonimo; la stessa pagina di chiusura, sorta di epilogo, in corsivo e in normale, farebbe credere a due voci sovrapponibili. La storia si svolge prevalentemente ad Agrigento, di cui lo scrivente ha respirato l’aria, ha connotazioni impressionanti, riguarda una cerchia famigliare in un contesto sociale e morale degradato, falso e mafioso, che soffoca i buoni sentimenti sul nascere, un concentrato di violenze e di miserie umane, purtroppo dei tempi nostri. Il libro è scritto molto bene, in forma autobiografica, è scorrevole e coinvolgente; la voce narrante è della protagonista Vanessa, i cui genitori provengono da famiglie numerose. Suo padre, Vittorio Morelli, ultimogenito di genitori innamorati, era nato in piena seconda guerra mondiale (1941), all’età di sedici anni rimase orfano della madre e l’anno
Pag. 44
successivo anche del padre; volenteroso studia distanziandosi dai fratelli e diventando un abbiente commerciante. Sua madre, Anna, è la primogenita di Carmelo Santonocito, pregiudicato e degenere, che cresceva le sei figlie a base di bastonate e di abusi sessuali; e i due ultimi due nati maschi, Filippo e Gaetano (zii della narratrice), non erano di meno del padre, tanto che da adulti delinquono; tutto ciò avveniva con la consapevolezza della moglie Caterina (nonna) che, sottomessa, ne subiva le violenze. Il nonno materno, era macellaio, scannava e squartava le bestie incurante della presenza dei bambini (futura madre e zii della narratrice) e litigava con la moglie senza alcuna remora. Il divario fra le due famiglie, Morelli e Santonocito, costringe i due futuri genitori della protagonista Vanessa, alla fuga (fuitina) per unirsi in matrimonio: Vittorio 19 anni ed Anna 17 anni. Nel 1970 il padre della nostra narratrice ritenendo favorevole un’offerta di lavoro a Torino, vi si trasferisce con la famiglia andando ad abitare in periferia, in un appartamento poco confortevole. La madre, volendo contribuire alle finanze della casa, trova lavoro come cuoca affidando i bambini ad una domestica. Durante l’assenza del marito per motivi di lavoro, di notte avvengono strani eventi che da una parte mettono paura alla donna e dall’altra provocano gelosia nel marito. La residenza dura poco, così ritornano in Sicilia; ma altri inferni stanno per iniziare. Ad Agrigento si aprono scenari poco edificanti, tante storie che seguiremo. La madre di Vanessa, volendo continuare a lavorare, affida ai parenti consanguinei la sorveglianza dei bambini, sennonché il proprio fratello Filippo, neo sposino, zio dei bambini, viene sorpreso dalla propria madre, Caterina, e nonna dei bambini, mentre tenta di abusare della nipotina Rosaria di otto anni, sorella della narratrice. I parenti tutti uniti tacciono conoscendo il vizietto del consanguineo, fin quando la madre della piccola non ne viene a conoscenza facendo le sue rimostranze. Rosaria, ormai cresciuta, stuzzica gli appetiti degli uomini; va a vivere con Giuseppe con disapprovazione dei genitori. Per amore materno la genitrice va a trovarla, accompagnata con l’auto, dal proprio fratello Gaetano, zio della ragazza. In breve la figlia confessa che il compagno la picchiava ed era diventato un delinquente al seguito dello zio che a sua volta aveva anche lui il vizietto. Comunque sia il giovane compagno Giuseppe, spara sfigurando il boss mafioso, finendo in galera. Rosaria viene riaccolta in casa e, corteggiata da Maurizio, sposa il giovane con la benedizione della famiglia. Il padre Vittorio, comprendendo di che pasta fossero il cognato Gaetano e l’intero gruppo parentale della
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
moglie, ne prende le distanze. Matteo, fratello di Vanessa, era la pecora nera della famiglia; sposa Laura, una donna problematica, la quale dopo dieci anni lascia il marito, che a sua volta rientra nella casa di famiglia. Andrea, l’altro fratello, si innamora di Rachele Caruso, ragazza scurrile che vestiva come una cubista; i due fuggono per mettere le famiglie davanti al fatto compiuto, sennonché, la giovane era vergine e aveva avversione ai rapporti sessuali. Comunque i due vanno a vivere presso la famiglia di lei; ma il padre della donna, assistendo ad uno schiaffo da parte del compagno all’indirizzo della figlia, accoltella il giovane. La coppia, comunque, dopo breve domicilio a Siracusa, ritorna ad Agrigento andando ad abitare in un appartamento assegnato loro dal Morelli. Vittorio Morelli accresce il capitale grazie alla sua fabbrica e trasferisce la famiglia nella zona industriale; vittima di imbrogli, debitore di gratitudine per essere stato salvato dagli usurai, ignaro dei loschi affari, offre disponibilità al cognato Gaetano di parcheggiare nella sua proprietà un TIR, frutto di rapine e sequestri. Cognato ricercato dalla giustizia che, con tutta la famiglia, ripara per un certo tempo in casa dei Morelli, ove anche i suoi figli spadroneggiano forti di essere piccoli boss. Il padre della piccola Vanessa dichiarò fallimento e la sua famiglia visse tempi bui, senza minimi servizi, senza possibilità di sfamarsi e con la minaccia della zia materna Matilde, donna pia, quanto bigotta, che lanciava anatemi mortali, avendo in precedenza prestato del denaro al cognato. Ricevono l’aiuto dal titolare di un’officina meccanica, certo Antonio che, impietositosi, fornisce loro il necessario allacciandone l’abitazione alle proprie condutture e cavi elettrici. Purtroppo un giorno il meccanico viene ucciso, per vendetta da parte di una famiglia di malavitosi. Lo zio Gaetano, dopo tre anni di carcere, viene rimesso in libertà godendo di grandi benefici in quanto pentito, con tanto di comfort, un compenso di centomila euro, e gode di un progetto di protezione a cura dello Stato. Le famiglie dei suoi consanguinei, vengono avvertite per mettersi al riparo da eventuali vendette dei mafiosi denunciati; nessuno si era premurato di dare l’allerta al Morelli che, difatti, veniva intimorito e doveva sottostare a minacce e al silenzio, pena la vita. Così, sofferente al cuore, muore. Viene vegliato da tutti i parenti, da amici e dai suoi dipendenti. Vanessa allora frequentava le Medie, era grassottella e veniva contrastata tanto dai compagni, quanto da alcuni insegnanti; era testimone silenziosa di quanto avveniva. La madre prese le redini
Pag. 45
della famiglia con energia; Rachele, cognata, diede alla luce una bimba e Rosaria scoprì di essere in attesa, ma dopo alcuni anni si separerà e troverà un nuovo rapporto in Giovanni, un siciliano rientrato dall’ America. La famiglia di Vanessa, ancora per alcuni mesi, veniva vessata dagli “ex compari” dello zio mafioso; sua madre e i suoi fratelli, ormai grandi, venivano denunciati per favoreggiamento, vittime senza colpa, fin quando accettano la protezione dello Stato offerta come parenti di un pentito. Destinazione Perugia, in un primo tempo la famiglia viene accolta dalla zia Annunziata, gemella di Gaetano. Vanessa inizia il 15-mo compleanno con una nuova identità. Altra tegola cade sulla madre, poiché su richiesta del fratello mafioso, ingenuamente gli aveva portato la pistola del defunto marito, dalla Sicilia, così si vede denunciata per avere custodito e trasportato un’arma non propria, viene condannata a tre mesi con la condizionale. Matteo, fratello della narratrice, si unisce con una rumena, Ramona, che scombussola gli equilibri dei Morelli. Andrea, l’altro fratello, lasciatosi con Rachele, si unisce ad una ungherese, Katia, già madre di due bimbi che gli darà il piccolo Vittorio. Vanessa, ormai ventenne, cresce con una sorta di disvalori; pronta ad avventure amorose, rimane cinque anni con Marco, ma non ne era entusiasta, finendo per lasciarlo e ritornare dalla madre. Nel frattempo frequenta altri uomini, comprende di essere entrata in un “processo distruttivo”, ricorrendo a psicoterapeuti, senza risultati. Era diventata solo una donna da letto, fin quando, quasi trentenne, sua madre le fece conoscere un medico ortopedico, Roberto, del quale lei rimane affascinata legandosi a lui per la vita. Veronike Jane ha descritto tanti eventi dotati di realtà propria interconnessi, facendo un grande romanzo. È presente in varie occasioni con considerazioni di varia natura: psicologica, sociologica, giuridica, morale; commenta che il dolore si porta nel cuore, perciò il lutto non si può ostentare e farlo pesare sugli altri. Di un romanzo, generalmente, non si svelano né il finale, né alcuni intrecci; ma non mi sono sentito di tacere della panoramica fatta, anche perché non ho scopo promozionale ma solo un invito alla meditazione. Lentamente è anche una sorta di manuale di psico-sociologia applicata e di indirizzo politicosociale, dove comunque, fra tanta disperazione e negatività, si fa spazio una piccola donna, Anna, madre della narratrice, quasi sempre in secondo piano. Abbiamo conosciuto la Sicilia peggiore, ma il congedo apre alla fiducia. Tito Cauchi
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
ANGELO MANITTA LA CHIOMA DI BERENICE BERENIKINI ŽAMETNI LASJÈ Il Convivio Editore, Castiglione di Sicilia 2017, Pagg. 64, € 8,00 La chioma di Berenice è un poemetto di Angelo Manitta, docente di lettere, promotore culturale instancabile. Il libro di formato tascabile, ha traduzione a fronte in sloveno a cura di Ivan Tavčar, Berenikini žametni lasjè,; la copertina raffigura delle costellazioni. Denis Poniž, nella prefazione, spiega che l’Autore siciliano ha scritto negli “ultimi trent’anni un lavoro monumentale, che ci descrive un lungo viaggio immaginario” attraversando la storia umana. L’opera complessiva è costituita da 50.000 versi raccolti in 108 canti, e questo, di cui ci occupiamo, è il numero 79. Devo confessare che alla prima scorsa delle pagine, mi sono trovato spiazzato, ricevendo visioni fantasmagoriche, oniriche, estasianti, una sorta di ubriacatura dionisiaca, di sperdimento. Man mano mi si è delineato un quadro d’insieme, ma ugualmente nebuloso. Il testo va meditato, costringe a passi indietro. Protagonisti sono gli astri, difatti l’ incipit recita: “Il sole danzando su primavere/ d’ amore scende da colline/ di sangue./ Il cielo s’ intorbida/ di nubi di porpora…//…// Chiome torbide/ di stelle si cristallizzano in luminarie/ di corone. La danza si tramuta in miraggio…” Il sole è di tutti, illumina in ogni parte il pianeta terra ed è testimone di quanto accade, guerre e amori; così si celebra un connubio che si riflette in cielo eternando il nome della sposa. La voce poetante fa riferimenti ad alcuni miti ed eventi storici; invoca Venere, descrive amplessi: “Le labbra emettono suoni,/ divino specchio di un’anima/ soffusa di baci, su onde di mare che imitano capelli” (pag. 20); racconta di incesti, di fidanzati, pretendenti, di donne promesse in matrimoni per rinsaldare il potere e rappacificare i popoli, e che: “il giovane sposo coglie/ la sua verginità in risse notturne.” (pag. 24); racconta dei sacrifici di tori, dei capelli biondi offerti alla divinità, di guerre che separano mariti e mogli, di mancate maternità, del marmo freddo rimasto a rispondere. Gli astri si umanizzano, prendono corpo di gambe, seni, capelli ondulati, parlano. Così la nebulosa di stelle (la chioma) prende voce dichiarando di chiamarsi Berenice (costellazione) spiegando che è “Il figlio della memoria, il tempo,// e il figlio dell’ aria, l’amore” (pag. 19). Vengono evocati avvenimenti dell’età ellenica (intorno al III sec. a. C.). Precisamente, Berenice racconta di sé: “La mia storia non è una storia comune:/ oggetto di scambi
Pag. 46
politici,/ pedina di rapporti commerciali,/ (…//) L’ amore è venuto/ di soppiatto, inaspettato: ho saggiato/ le grazie del vento scita”. (30). È figlia di Magas, re di un’area dell’Asia Minore, e di Apame; diventa sposa di Tolomeo III a sua volta figlio del re d’Egitto Tolomeo II e di Arsinoe. Da quanto precede possiamo apprezzare di Angelo Manitta, l’avere messo insieme, la storia terrena e quella celeste, alla maniera classica. Affascina e stordisce insieme la sua capacità nel formare metafore, nel rendere antropomorfi gli astri, nel fare zoppicare (enjambement) alcuni componimenti iniziali quasi a imitare il singhiozzo e, finalmente, a farci ascoltare la voce umana. La storia narrata procede dalla costellazione (La chioma) alla donna (di Berenice); ma per renderla a me più vicina, me la ribalto dalla donna alla costellazione, perché sono le vicende umane a inventare miti, leggende e ad attribuire il nome. Avendo letto alcune opere precedenti dell’Autore c’era da aspettarselo, ma chi non lo conosca, ribadisco, potrà avere l’impressione di uno smarrimento. Credo che gioverebbe una nota introduttiva per guidare il lettore, digiuno di storia, specialmente della mitologia antica; altrimenti l’opera rimane indirizzata solo ad una ristretta cerchia. Preferisco pensare che il Nostro ci abbia restituito la dimensione umana dei protagonisti, gli aspetti religiosi e le macchinazioni degli uomini e dei popoli, rendendoli più vicini al nostro tempo, e soprattutto la sembianza di una donna bella e bionda, “regina che dall’alto protegge/ i nostri destini, è luce/ eterna di profumi divini”. Tito Cauchi
ISABELLA MICHELA AFFINITO IO E GLI AUTORI DI POETI NELLA SOCIETÀ II volume, Cenacolo Accademico Europeo Poeti nella Società, Napoli 2018, Pagg. 84, e. f. c. Isabella Michela Affinito, frusinate (nata nel 1967), cultrice delle arti figurative, poetessa e saggista, dal 1999 è critica letteraria del Cenacolo Accademico Europeo “Poeti nella Società”, presieduto da Pasquale Francischetti, e in tale veste ha scritto una antologia critica giunta al secondo volume, con il titolo Io e gli Autori di Poeti nella Società. L’ opera comprende trentuno recensioni a libri o a singole poesie di autori, che hanno pubblicato con questo Cenacolo Accademico, alcuni dei quali considerati più di una volta. Non è dato sapere se le recensioni siano state già pubblicate su riviste o altrove.
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
Ad ogni buon fine indico gli scrittori recensiti (secondo l’ordine di trattazione): G. Mennella, T. Piccolo, R. Carfora, E. Papandrea, N. Ortoli Tubelli, E. Lunardi, S. Lagravanese, L. Panzone Natale, M. C. La Torre, G. Rescigno, L. Tucci, L. Mazzotta, M. T. Cortese, L. Tribaudino, R. Degl’Innocenti, A. Dibuono, G. Zedda, V. Caccamo, M. R. Sorrentini, M. S. Brancatisano, B. Turco, M. Cerignoli, A. Mariniello, V. N. Martin, L. Selvaggi P. Francischetti, A. Papalia. In seconda copertina l’Autrice scrive “Quando si diventa autori di qualcosa, si perde un po’ di umano per acquistare un frammento divino!”e nella prefazione annuncia che i pensieri, che ci vengono per sua voce, possono “considerarsi un cenacolo moderno, un posto non geografico ma umano, proprio come specificò Filippo Tommaso Marinetti”. Appassionata dell’Arte richiama l’Ultima Cena di L. da Vinci, avvertendo di corredare le sue recensioni con le illustrazioni delle copertine di riferimento, soffermandosi su alcuni nomi e facendo risaltare quello del Presidente Pasquale Francischetti per il suo prestigioso impegno culturale. Fin da queste tracce possiamo aspettarci una cura particolare al suo lavoro e immaginare un profilo umano di primo piano. Dal momento che esistono antologie simili alla presente, penso che esse si differenzino per vari motivi, e, per quello che più mi sembra rilevante, almeno nel caso presente, è che le recensioni definiscono, aldilà dei contenuti, le caratteristiche estetiche della Nostra, i suoi interessi culturali, le sue ideologie. Difatti mi pare di osservare che lei si soffermi sull’Arte tutte le volte che ne abbia occasione, come pure di richiamare autori e riferimenti a supporto dei temi trattati, e soprattutto a trovare un confronto in parallelo, facendo rilevare i valori che fanno da perno al libro e all’autore esaminati. Così indica le cause giuste, l’autentica armonia, l’ ispirazione-sogno, una sorta di amarcord; raccomanda a evitare falsi pudori, invita alla tenerezza, osserva che il dolore lascia segni, nutre sentimenti elevati, commenta che il vuoto dentro di noi si riempie di effimero. Faccio una digressione. Capita di tanto in tanto che alcuni si augurano che non vengano stampati più libri, da parte di nuovi poeti e scrittori (sconosciuti), per non abbattere alberi e non sprecare carta; può darsi che per alcuni sia vero. Naturalmente questo varrebbe per gli altri e non per loro che per dirlo avranno scritto e stampato un libro o un articolo. È facile per le persone che hanno raggiunto la notorietà scrivere qualunque cosa e sentirsi acclamati; basterebbe un po’ di umiltà per compenetrarsi e capire cosa muove gli altri a scrivere, affrontando
Pag. 47
anche notevoli sacrifici. Tutto sommato penso sia preferibile scrivere un libro, che educhi possibilmente alla riflessione e ai sentimenti, pure alla buona, piuttosto che darsi a vizi e giochi che abbrutiscano e addormentino le anime. “Conosci te stesso” stava scritto all’ingresso di un tempio al tempo di Socrate, per comprendere meglio se stessi e gli altri; perciò ben vengano nuove opportunità di confronto e la Nostra l’ha fatto con garbo facendoci entrare in questo cenacolo. Parlando degli altri riveliamo noi stessi; e nel caso della nostra Isabella Michela Affinito, rileviamo il suo rispetto per gli altri, che non è cosa da poco, oggi. Grazie a persone come la nostra scrittrice-poetessa i nomi degli autori recensiti vengono maggiormente diffusi, se poi vengono raggruppati creano una sorta di sfera vitale, per chi scrive e per chi legge, disinteressatamente, senza aspettarsi gratitudine. Tito Cauchi
ISABELLA MICHELA AFFINITO MI INTERROGARONO LE MUSE… BastogiLibri Roma 2018, Pagg. 112, € 13,00 Isabella Michela Affinito, con il suo ricco patrimonio di libri pubblicati si rivela poetessa e saggista, esperta della cultura classica e delle arti figurative, perciò possiamo aspettarci una sua realizzazione musiva della copertina e un titolo come quello seguente: Mi interrogarono le muse… (con puntini di sospensione), i cui componimenti sono un continuo riferimento alle muse e al mondo classico. In esergo alla raccolta leggiamo citazioni sul mistero della poesia, due dell’Autrice e una del poeta argentino Jorge Luis Borges (1899-1986). La Nostra, nella prefazione, si intrattiene sull’ origine dei Miti, spiegando che la statua in copertina e il punto interrogativo ivi posto, “alludono alla fatalità di un avvenimento, di un evento.” Il titolo è come una piuma “sul grande libro aperto dell’ Umanità”; Lei si interroga su chi andrà a posarsi quella piuma che è la creatività. Si sofferma in particolare sulle nove muse dell’Arte, nate dal seme di Zeus e partorite (a seconda delle narrazioni) da Mnemosine o da Armonia o da Gea. Affascinata di Giorgio De Chirico (1888-1978) ricorda che il grande pittore italiano, greco di nascita, rappresentò la musa reinterpretandola in termini umani, dando inizio a quella corrente artistica denominata Metafisica; spiega altresì che nelle rappresentazioni del Maestro si osservano la “taciturnità” e la “religiosità universale”. Inoltre, avverte di avere posto in chiusura due recensioni una ad Antonia Izzi Rufo e una a Gianni
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
Rescigno aventi attinenza al tema da lei trattato, la cui lettura è giovevole insieme al suo breve saggio su De Chirico. In sostanza ciascuno può formarsi una propria Musa, anche senza nome, abbandonarsi a lei, pur rimanendo fedele se stesso. I componimenti, in numero di quarantacinque, sono “un susseguirsi di testi dialoganti che si sviluppano con un ritmo e una musicalità suggestivi che coinvolgono lasciando nella mente una sensazione di grande serenità.”, come afferma nell’introduzione, Angelo Manuali su cui concordiamo (il quale rende il tempo verbale del titolo all’indicativo presente). La Poetessa ci introduce nel Parnaso, regione della Grecia, ove belavano le capre sacre ad Atena, nutrendo con il loro latte dee e muse, e con la poesia d’apertura racconta: “Litigiose fin/ dall’infanzia forse/ Erato ha detto a/ Calliope che non/ era bella, ma/ sono cresciute sorelle/ tra le tuniche e le parole/ qualcuno ha cercato di/ dividerle,/ (…)// Sono soltanto nove ma/ accostate insieme formano/ una costellazione.”. Non sa resistere alla tentazione di indugiare sulla descrizione di opere d’arte e sulla cultura classica greca e latina. Osserviamo fin da adesso lo stile contenente un continuo enjambement; e man mano incontreremo parole che si presentano con alta frequenza, in particolare il ‘peplo’ che “In fondo è solo una/ tunica fermata in vita/ con tante pieghe che/ scendono precise dove/ ritrovare la Storia!” (pag. 77); o parole non comuni e specifiche dell’architettura come lionate, metope, triglifi, pronao, viridiarum; e non manca di citare i grandi scultori greci, pittori e poeti che hanno cantato l’amore come Ovidio. Indugia su come si origina la poesia, sull’ ispirazione che si avverte, nell’attesa del tocco della guida, spiegando che a volte non si riesce ad esplicare i moti interiori, altre volte ci prende la mano. Desiderosa di sconfinare nello scibile umano, riconosce le molteplici forme dell’uomo, fiduciosa di essere accolta dalle muse. Ama la vita e l’affascina la bellezza rappresentata dagli scultori, le statue fanno rivivere le gesta di eroi. “Noi poeti,/ noi artisti, noi figli delle/ muse che hanno/ edificato un regno/ prezioso e disabitato,/ (…)/ … guardiamo/ colorarsi l’ortensia/ (…)/ Non siamo soli e/ scriviamo, dipingiamo,/ recitiamo sull’esempio/ di Melpomene, danziamo/ come Tersicore perché figli/ delle muse e delle loro/ idee.” (pagg. 46-47). Isabella Michela Affinito esalta le parole grazie alle quali si possono scalare alte vette, ma riconosce il valore pure del silenzio. Afferma che i poeti amano le parole in tutte le loro cromature e nello stesso modo cercano e costruiscono termini per “esprimere l’inesprimibile”, per descrivere sentimenti nelle storie d’amore come nelle favole. Per-
Pag. 48
ciò avverte, con chiaro riferimento al famoso “essere o non essere”: “Qualcuno si è/ fermato a contemplare/ un teschio e a domandarsi/ la radice dell’essere in/ seno a una tragedia/ dal sapore danese, ma/ la mia prosa è un’altra/ e va riletta dopo/ l’ennesimo intenso respiro.” (pag. 66). Bisogna convenire che la poesia, in generale, suscita emozioni diverse a seconda di come viene assimilata: declamata o ascoltata o letta mentalmente. Nel caso della Nostra l’uso del tempo remoto del titolo, Mi interrogarono le muse, mi fa pensare ad una protagonista della narrazione in un tempo lontano, nel Parnaso; tuttavia Isabella si descrive appartenente al nostro tempo, in una sorta di cenacolo musivo ove, congedandosi, assicura: “La musa e la sibilla per/ me sono sorelle non/ germane, ho regalato/ identici pepli ad/ entrambe e poi sul/ far della sera ho/ composto un vaticino/ poetico per loro.” La lettura scorre veloce e avvincente e meriterebbe un più approfondito commento. Sperando di non esagerare, penso che Isabella Michela Affinito abbia realizzato un’opera che permette di entrare nell’ humus dell’antica Grecia, rendendocela più a portata di mano. In particolare, con le dovute cautele, mi pare di trovarmi dinanzi ad una lettura che mi ricorda la Teogonia esiodea, solo che oltre agli dei e agli eroi, abbiamo in primo piano le muse. Credo che non guasti completare il quadro se indichiamo le nove muse, dee ispiratrici, denominate secondo l’etimologia: Calliope, poesia epica ed elegiaca “dalla bella voce”; Polimnia, canto sacro “dai molti inni”; Clio, storia “colei che rende celebri”; Tersicore, canto corale “che si diletta della danza”; Erato, poesia erotica e dell’imitazione mimica “che provoca il desiderio”; Euterpe, poesia lirica della musica “colei che rallegra”; Melpomene, tragedia “colei che canta”; Talia, commedia “la festività”; Urania, astronomia “la celeste”. Tito Cauchi
ANTONIA IZZI RUFO GIORNO DOPO GIORNO Il Convivio Editore, marzo 2018, pagg. 96, poesia, euro 12,00. "Giorno dopo giorno" è testimonianza di un interiore, panico relazionarsi con gli elementi del creato, vissuti e goduti in pienezza in ogni loro manifestazione. Vi si coglie il felice interagire di un animo, ben reattivo al risorger di sentimenti e passioni e memorie coi meravigliosi, ineffabili volti della Natura Madre, dei quali - piace ricordarlo - sovrabbonda l'incantevole sito di nascita, di resistenza e di ispirazione della inesauribile poetessa molisana di
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
Castenuovo al Volturno. L'andamento linguistico espressivo della silloge - nella quale si insinuano talvolta anche dubitanti interrogativi, qualche umanissimo scoramento e senso della solitudine - fluisce "trasparente e terso" come le acque incontaminate delle paradisiache Mainarde allo sciogliersi delle nevi. Donne. Non so se in questa corrispondenza in versi con famosissime figure femminili d'ogni tempo, dalla biblica Eva alla risorgimentale Anita, abbia - la Izzi Rufo - seguito consapevolmente, o per una interferenza inconscia, le orme delle ovidiane Heroides. L' elemento formalmente interessante, che balza all'attenzione del lettore, è la capacità di modulare il registro linguistico su quello dell'ambito letterario di provenienza delle Eroine, dal Religioso all'Omerico, dal Dolcestilnovista al Romantico. Il che conferma referenze artistiche dell'Autrice.. Aldo Cervo
ISABELLA MICHELA AFFINITO RITRATTI Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2018 Nei viali alberati della poesia dell’autrice si descrivono le grandi stanze delle gallerie d’arte. Gli affreschi esistenziali e poetici sull’impronta di quelli pittorici e letterari. Un bacio artistico di mirabile bellezza. Le immagini si riempiono di vita, perché l’arte non muore mai (mi viene da dire) e puoi risvegliarla ogni volta che lo desideri. Mi preme sottolineare che è appannaggio di tutti, tutti possono evadere e farsi trasportare dall’incanto di un’opera d’arte, ogni volta, che l’urgenza del quotidiano, lo esige e lo richiede, è questione d’esercizio. L’esigenza mirabile della poetessa Isabella Michela Affinito mi ha rapita molto e riporto i punti di poetica che lo hanno fatto, maggiormente, in me. “ prendo/profili non comuni/anche se non umani/e ne faccio/un ritratto….” “ di bronzo con le/ sopracciglia importanti…..” “Frida amava gli/scialli avvolti mille volte/attorno alle sue visioni…” “ finalmente la grazia/finalmente il sorriso/ e quei ritratti…..Leonardo li/prese e li fece volare…” “ la solitudine che/si incontra nelle teorie/ dei portici…” Lentamente con i passi leggeri, tra i versi, ci si incammina tra le stanze e i corridoi dei Musei: Leonardo, Modigliani, Frida, Ingres, De Chirico ed omaggio alla poetessa russa Achmatova, entrata a pieno titolo tra i pittori, insieme a Proust e Wilde. Poesia di intenso amore e fame di cultura, avvolta in un soffio d’aiuto, a condurre per mano, nella dimensione del significante, di ogni singolo artista.
Pag. 49
Porterò con me, come guida all’arte i “Ritratti” di Isabella Michela Affinito tra le stanze: dei Musei Vaticani, degli Uffizi di Firenze, del Moma di New York, del Louvre di Parigi, del National Gallery di Londra. Filomena Iovinella
ISABELLA MICHELA AFFINITO RITRATTI Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2018 Ad illustrare il titolo “Ritratti - silloge poetica pubblicata su “Il Croco” di maggio 2018, Quaderno Letterario di Pomezia-Notizie - Isabella Michela Affinito ha disegnato un viso di donna, eseguito a cera e pennarelli, affascinante come le poesie che troviamo all’interno. Presenta l’opera Domenico Defelice che esalta la sensibilità profonda e sottile della Poetessa. Un nutrito florilegio di “ritratti” delinea qui non solamente figure reali, mitologiche ed immaginarie – naturalmente appartenenti tutte all’arte - ma anche luoghi, cose, sensazioni, sentimenti ed aspirazioni. Innanzitutto troviamo una sfilata di illustri pittori, fra i quali Leonardo da Vinci (di cui vengono menzionate alcune opere, fra cui La Gioconda dal “volto ancora da/ capire”); Frida Kahlo che descrive ”le schegge di una guerra/ iniziata e mai vnta”; Van Gogh dal “linguaggio/ interiore fatto di dolore e/ non di parole”. Circa l’opera di Boldini, l’Autrice immagina di sostituirsi per un attimo alla modella Madame Max, dipinta in tutta grazia ed eleganza. Del resto, Ella si farebbe un autoritratto con poesia “alla/ maniera delle/ donne di Vermeer/ tra la musica e/ le cadenze quotidiane…” ; oppure anche un autoritratto secondo le fasi della luna che corrispondono ai periodi creativi e non, di se stessa. Cita pure De Chirico e Modigliani; di Ingres dice che fa “sembrare/ le donne/ tutte muse/ delle dee…”. Una delle liriche/ritratto è riservata a Saffo “orgogliosa di aver/ amato l’Amore e/ le sue sfumature”. Altro ritratto è dedicato ad Anna Achmatova che scrive di “tombe vuote senza granito,/ di salici piangenti senza/ più lacrime!” Dalla mitologia, vengono descritte ” le Danaidi, anzi “forse la più bella” fra esse, che “ha amato senza/ amare…” La ninfea è definita/dipinta come “fiore dell’apparenza/ che sull’acqua galleggia/ per una missione/ imperscrutabile”. Mentre la Primavera verrebbe ritratta dall’Autrice come una dama del ‘700 veneziano. La Poetessa non manca di ritrarre Madonna Po-
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
vertà col “saio/ che un dì significò/ accettare l’ Assoluto,/ con la semplicità di chi/ non aveva altro/ che se stessi.” Sorprende che la Poetessa/Pittrice riesca a descrivere in poesia un’opera pittorica, ancora in nuce, quasi facendola ”vedere”, immaginare già compiuta, in anteprima, a noi! Il suo gusto artistico, del tutto originale, lo apprezziamo sia nelle sue espressioni, sia nella configurazione dei versi. Maria Antonietta Mòsele
SIMONE WEIL ATENE CONTRO GERUSALEMME Traduzione e cura di Marco Vannini - Lorenzo de' Medici Press, Collana 'La Lucerna', Firenze 2017 - Pagg. 112, € 12,00 La pensatrice francese Simone Weil, di dirette ascendenze ebraiche e di educazione laica, fa il pelo ed il contropelo, senza mezzi termine, al testo della Torah, affinché si capisca bene di che pasta son fatti gli Ebrei, come Popolo e come Religione. Vado con ordine e mi attengo ai testi introdotti, tradotti e curati da Marco Vannini per questa interessantissima composizione: L'Iliade o il poema della forza (pp. 25-51); Da 'La pesanteur et la grâce (pp. 57-61); Lettera a Huguette Baur (pp. 69-74); Lettera a Xavier Vallat (7980); Lettera a Jean Wahl; Israele e i Gentili. La nota d'Introduzione (pp. 7-17) si suddivide in tre brevi sezioni ed è un compiuto insieme di riferimenti e sintesi che aiutano il lettore ad affrontare poi la scrittura della Weil: Verità e menzogna; “Conosci te stesso e conoscerai te stesso e Dio”; Cristianesimo e grecità. Seguono importanti note biografiche e bibliografiche con indice dei nomi (pp. 104-111). Il curatore sceglie, quasi a dedicare a Simone Weil questa nuova sé stessa successiva alla vita, alcune tracce significative: “Tutti i nostri mali spirituali derivano dal Rinascimento, che ha tradito/il cristianesimo per la Grecia, ma, cercando nella Grecia qualcosa di diverso/dal cristianesimo, non l'ha compresa. La colpa è del cristianesimo stesso,/che si è creduto altro dalla Grecia./Si può porre rimedio a questo male solo riconoscendo/nel pensiero greco tutta la fede cristiana” Simone Weil. Il porre con forza Atene contro Gerusalemme è caratteristico di questa giovane ebrea che vorrebbe per sé solo tenerezza, dolcezza, dotta intelligenza illuminata, antiche virtù sublimate pure, quasi inattaccabili, perché spesso al di fuori della nuda vita. La sua forza nella parola scritta le deri-
Pag. 50
va proprio da questa sua capacità d'intelligenza di forzare la mano contro la sua stessa origine 'razziale', dando quasi un colpo secco d'accetta ad ogni radice che rimanga in lei, oscuramente, animata da linfa. Come unico assaggio traggo parole dalla lettera della Weil a Huguette Baur, sua allieva quando insegnava a Roanne nel 1933-34, che l'aveva invitata a trovare protezione presso la sua famiglia. Cito: “Anche la morte è una cosa grande e bella. C'è un poema indiano, intitolato Bhagavad-Gitâ (è tradotto in francese), risalente a circa ventiquattro secoli fa, in cui si dice che chiunque, al momento della morte, pensa esclusivamente a Krishna (ovvero a Dio), è salvato. È bello amare l'universo mentre lo si lascia. Finché si è vivi, all'amore che si ha per gli esseri e per le cose si mescola il pensiero delle gioie che se ne possono trarre. Al momento di morire, se si muore in un sentimento d'amore - e l'amore di Dio è la stessa cosa dell'amore dell'universo, delle sue leggi, di tutti gli esseri pensanti che vi si trovano – è necessariamente un amore puro. Il più alto grado di purezza l'uomo può raggiungerlo solo al momento della morte... Non ho mai cercato la sventura (malheur), anche se ne sono stata spesso e vivamente tentata. Non ho creduto di doverlo fare... Conviene considerare come una grazia tutto quello che la sorte ci apporta, felicità o infelicità, vita o morte. C'è un'altra cosa cui, credo, voi non avete pensato. Il contagio, il prestigio della vittoria che consiglia di imitare i vincitori, la pressione dei vincitori, l'esasperazione causata dalla miseria, e diversi altri fattori, stanno per portare quasi sicuramente in Francia, in un tempo assai breve - durante l'inverno, penso- una forma più o meno accentuata di razzismo. In questo caso io mi troverei tra i paria. Tutto considerato, me ne dispiace; sembra stupido soffrire per qualche cosa che non si è scelta e a cui non si è legati. In conclusione, però, il fatto è che lo sarei. Non ho alcun mezzo per sottrarmi a ciò. Quel che posso fare, è non far subire il contagio di questa sventura a quelli che non hanno ricevuto per nascita tale maledizione, anche e soprattutto se sono così generosi da non temere questo contagio...”(S. Weil, Atene contro Gerusalemme, op. cit. pp. 69-71). Parole intense, per ringraziare l'allieva della sua generosità, per proteggerla da ritorsioni, per maledire ancora una volta la propria origine. Ho intrecciato l'approccio a questa grande scrittrice francese, veramente amata dal clero cattolico d'ogni ordine e grado e da tanti altri ancora, con l' approfondimento di tre testi particolari, di cui darò notizie congiunte in tempi futuri, quasi a forni-
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
re sostegno e supporto attraverso contributi eterogenei, a quanto la giovane studiosa e ricercatrice andava elaborando nel suo tempo storico: GIUSEPPE FAGGIN: Dai Greci a Maometto - Libertà e dignità dell'uomo nelle grandi visioni del mondo, ed. Accademia Olimpica, Vicenza, 1996; GIUSEPPE FAGGIN: Plotino - Con Antologia plotiniana, Ed. Āsram Vidya, Roma 1993; ŚVARAKṚṢṆA: Le strofe del Sāmhkya, ed. Boringhieri, Torino, 1960-1968. Il risultato è stato costruttivo, perché approfondisce, corregge, amplia, interconnette il contributo intellettuale di questa eccezionale creatura con voci che dall'antico passato fino a quello a noi più recente ne richiamano e reclamano la presenza. Oggi è il 14 maggio 2018: a settanta anni dalla fondazione dello Stato di Israele mi riservo, proprio a partire da Atene contro Gerusalemme, uno spazio di riflessione che apra il contatto con questa importante voce del nostro tempo. Il modo e il ruolo del corpo, così come si presenta dal 'per sé' agli altri, portano testimonianza della propria capacità di lotta, anche nel rifiuto dell'animalità che vi abita: la mentalità femminile della Weil è quella totale della guerriera ebrea posta da una forza superiore, indistinta e forse via via assumente i tratti del Cristo, a guida di eserciti con soldati senz'armi e senza odio, che conquistano solo la sofferenza, il disagio, l'abbandono, per trasformarli attraverso il dono di sé: lei ha scelto l'azione in prima linea, vale a dire la Diabasys, la parola che si fa azione, gesto, scrittura. Ma utilizzare il processo dell'insinuare la colpa, contro Gerusalemme e contro Roma - salvando, certo, qualcosa - come elemento di condanna, che non è solo presa di distanza, annulla l'analisi di fattori storici che andrebbero invece scandagliati ed analizzati finemente: la sua intelligenza conflittuale appassiona perché abbraccia la grecità e il suo Cristo in divenire, catarsi vera dalle parole al distacco necessario, all'impegno totale, finché si ha vita. Quelli della Weil? Testi da portare in borsetta, in fabbrica, sui campi di lavoro e negli altri tanti luoghi della vita, in altre parole da lasciare ad essi uno spazio interiore che richieda conferma per essere via via purificato. Nella nota bibliografica Vannini avverte: “Gli scritti weiliani sono stati pubblicati quasi tutti postumi, a partire dall'immediato dopoguerra, quando alcuni intellettuali francesi, come Albert Camus ne riconobbero lo straordinario valore...” (M. Vannini in op. cit. pag. 106) È vero: il volume n. 5 della collana La Lucerna ha dato riverberi inediti. Ilia Pedrina
Pag. 51
D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE LE ARCHITETTURE PALLADIANE VICENTINE OSPITANO DAVID CHIPPERFIELD - David Chipperfield, architetto londinese di fama internazionale, sarà ospitato negli spazi della Basilica Palladiana, con i suoi lavori d'ispirazione individuale e di gruppo: David Chipperfield Architects Works 2018 - Basilica Palladiana, Vicenza, 12 maggio 2018-2 settembre 2018. Venerdì 11 maggio gli sono state dedicate quattro pagine del giornale cittadino, che hanno avvolto tutto l'insieme con sue considerazioni interessanti . Nato nel 1953
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
sotto il segno del Sagittario il 18 dicembre, comprende presto il prezioso valore del lavorare in gruppo, così nel 1984 dà vita alla società David Chipperfield Architects, proprio a Londra. Da questo momento il successo non si arresterà più e prestigiosi saranno i riconoscimenti internazionali, anno dopo anno: il suo gruppo aprirà sedi di rappresentanza a Tokyo (1987) e a Shanghai e le differenti menzioni dei premi connessi con le ideazioni progettate e realizzate sempre vanno a sottolineare la rispondenza del risultato alla semplicità delle linee portanti, al loro intimo contatto con le culture ed il territorio di appartenenza della forma realizzata, alla profonda intesa dinamica con i committenti pubblici e privati. Traggo dal suo intervento apparso sul Giornale di Vicenza espressioni e valutazioni tecniche di grande spessore, quasi un invito a vivere direttamente l'esperienza del rinnovamento abitativo: “L'architettura ci circonda come sfondo e talvolta come elemento fondamentale delle nostre vite. Contribuisce a costruire le nostre memorie. È sempre presente, che noi ce ne rendiamo conto oppure no. Come ogni cosa si presenta in dimensioni e qualità diverse... Siamo liberi o abbiamo scelto di essere liberi di esplorare nuove idee e possibilità, di sfidare i vincoli ormai apparentemente obsoleti dei nostri predecessori. Questa nuova libertà espone a nuove responsabilità. Ci forza a ridefinire i nostri limiti e le nostre priorità... In questa mostra abbiamo messo insieme parte dei nostri progetti attuali, recentemente completati o in via di sviluppo... Fotografie e immagini di progetti realizzati non possono sostituire l'esperienza stessa. Per questo abbiamo provato a offrire di più penetrando all'interno del processo progettuale, mostrandolo non come la manifestazione del genio individuale ma piuttosto come un metodo di interazione e collaborazione che è disordinato e non prevedibile Un processo che ha lo scopo di trovare idee attraverso una conoscenza approfondita del luogo e del suo significato...” (D. Chipperfield, fonte citata, testo tratto dal catalogo Electa Architettura legato alla mostra). Nicola di Battista, architetto, per anni direttore della rivista Domus, firma sulle stesse pagine un profilo dell'amico e collega, suo coetaneo e ne fa risaltare la differente modalità di approccio rispetto alla superficialità di tanta produzione nel settore: “... Un lavoro, quello di Chipperfield, che, viceversa, si fonda sulla ricerca paziente di una buona architettura, sulla volontà di dare la massima qualità possibile alla sua opera utilizzando tanta competenza ma anche tanto buon senso..” (N. Di Battista, fonte citata). Tante le realtà culturali e scolastiche coinvolte per
Pag. 52
dar vita con un percorso interattivo alla partecipazione creativa degli studenti, proprio interno al fare e al progettare strutture, come in una presa di contatto che apre all'osservazione e alla valutazione sia degli spazi che ti circondano, sia dei loro possibili mutamenti grazie all'immaginazione. Ilia Pedrina *** NON HO SOLUZIONE PER LA SPEDIZIONE ALL’ESTERO - 11 maggio 2018, tempo fresco e piovoso a Parigi/ Buongiorno caro Domenico,/Spero che stia bene, col sole del cuore, ed anche quello del cielo. A Parigi, tra due periodi freddi (5° nel pomeriggio), abbiamo avuto alcune giornate splendide in aprile e all’inizio di maggio, in aprile proprio quando gli alberi fruttiferi fiorivano e molti Parigini erano partiti per le vacanze scolastiche. Andare a scrivere al sole sull’erba del giardino pubblico vicino fu per me un grande piacere. Invece mi dispiace di non potere accedere a “Pomezia-Notizie” su Internet. L’apparecchio a volte prestato da un amico (una “tablette”) non funziona benissimo, quando funziona. Ci sono delle cose che non posso leggere, in particolare tutto quello che è PDF. Per i siti dell’ISSUU, il problema è diverso: l’apparecchio si mantiene sul sito solo qualche istante, e poi torna alla “page d’accueil” (non conosco il suo nome in italiano, il mio dizionario non è abbastanza recente per conoscere le parole proprie agli apparecchi connessi a Intenet). Poi, bisogna cercare di nuovo il sito dell’ISSUU, e così via. Non è possibile leggere oltre due linee di seguito, a volte nessuna. Davvero, no, non è possibile leggere in tali condizioni. Avevo già provato per leggere alcuni numeri di “Pomezia-Notizie”, e, se non sbaglio, per un’ altra rivista. Ma non riesco sui siti dell’ISSUU. La decisione della Posta italiana di aumentare pazzamente il prezzo dei francobolli per l’estero è davvero una disgrazia. Tuttavia, Le mando alcuni nuovi testi. Nel giardino pubblico, al sole, ho anche tradotto una ventina di poemi sul tema dei pericoli delle nuove tecnologie. A parere mio, Internet è interessante e utile, perfino entusiasmante per tutto quello che è pubblico o da pubblicare, per tutto quello che è culturale. Ma per tutto il resto è pericoloso. Da tempo scrivo talvolta su quest’argomento. Ora che la tecnologia è onnipresente, almeno nelle grandi città, mi pare utile di riunire questa ventina di poemi (ancora da dattilografare in italiano). Le auguro un bel seguito di primavera col cinguettio degli alberi e il profumo colorato dei fiori. Con amichevoli saluti. Béatrice Gaudy
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
Cara Béatrice, la salute, grazie a Dio, va; come può andare per uno che ha valicato l’ottantina, ma va. È che, a dispetto degli alberi fruttiferi che continuano a fiorire, a Parigi come a Roma, come altrove, la Primavera vera e propria non esiste più; così, tra continui cambiamenti di clima, cielo limpido e nuvolaglia, pioggia e vento, anche più volte nella stessa giornata, non un solo mio osso riposa. Ho nostalgia della Primavera dell’infanzia, allorché, nella contrada Baldes di Anoia, nella mia Calabria, c’era ancora un vero stacco di mesi tra inverno ed estate, alberi e campi fioriti, sentieri dove pullulavano piccole sorgenti ad ogni passo, piccole grotte dalle quali s’affacciavano i granchi, farfalle e libellule ed altre creaturine alate a non finire (anche le fastidiose zanzare, al cui morso ero vaccinato). Oggi, inverno ed estate son quasi attaccati e l’organismo ne soffre. E beata lei che può recarsi nel giardino pubblico “a scrivere al sole sull’erba”. Vivo in una cittadina nata nel 1938 - di età più giovane di me! -, dove il verde pubblico non è abbastanza, ma c’è, però quasi del tutto impraticabile. Pomezia ha circa 70 mila abitanti e fra poco, andando di questo passo, i cani supereranno le persone. Il Comune, giustamente, ha creato una serie di corral (li chiama in altro modo, ma io mi intestardisco a chiamarli così), perché possano andare a correre liberamente e a depositare i loro escrementi, ma i padroni degli animali si ostinano a disertare questi appositi luoghi e a portare i cani a fare pipì e pupù su marciapiedi e verde pubblico. Non ho soluzione per quanto riguarda l’invio di Pomezia-Notizie all’Estero. Europa compresa, che esiste, ma solo per legiferare baggianate, come la lunghezza dei cetrioli e delle zucchine ed il peso delle alici che si possano pescare; nulla per i veri problemi che assillano gli Europei: l’ordine pubblico; i servizi in generale, postale compreso; la giustizia; la difesa comune e via elencando. Ogni Stato, in tutto ciò, continua a fare come gli pare e Poste Italiane pretendono, per la spedizione di Pomezia-Notizie, in Francia come altrove al di fuori del territorio italiano (dove neppure scherza, visto che pago un euro e 28 a copia!), una tariffa che supera i dieci euro, cioè, più di due volte il costo del periodico stesso! ISSUU, a quanto mi risulta, fa un buon servizio. In Italia nessuno mi ha mai segnalato problemi e, devo dire, neppure dall’Estero. Le sue difficoltà, perciò, Cara Amica, dipenderanno solo dall ’apparecchio. Se lei ne avesse uno adatto e una e-mail, il mensile potrei farglielo avere anche in allegato. Abbandoni, allora, il tentativo col suo va e viene
Pag. 53
sconclusionato e il ritorno, quasi ad ogni rigo, alla “page d’accueil”, cioè alla pagina che l’ha accolta iniziando la lettura in http://issuu.com/ domenicoww/docs/ : continuare in questi termini, sarebbe solo demenziale. Se pubblicherà i suoi “poemi”, non manchi di farmene dono: leggerei volentieri. Cordiali saluti. Domenico Defelice
LIBRI RICEVUTI FORTUNATO ALOI - Per lo Stato contro la criminalità - “Il tema della criminalità è all’ordine del giorno nazionale. Oggi più che mai. Istituzioni, sociologi, criminologi e mass-media si occupano di questa “scottante” materia ed, in particolare, va ribadito, in questi ultimi anni dal momento che a questo male (da qualcuno definito “cancro sociale”) si attribuisce gran parte della responsabilità del mancato decollo del Mezzogiorno. Anzi si sottolinea che, in alcune aree del Sud, lo Stato è stato espropriato del suo potere, della sua “sovranità”, essendo le stesse “occupate” dalla mafia. Di qui una serie di analisi sul male sociale in questione, di cui l’indicazione di terapie per debellare questo male storio! (...), perché in molte delle analisi condotte in materia si fa riferimento ad un fenomeno che interessa la storia del nostro Paese ed, in particolare, quella parte di essa che attiene all’Unità d’Italia, al modo di realizzarsi del processo di costituzione della nazione italiana.” - Luigi Pellegrini Editore 2017 - Pagg. 88, € 10,00. Fortunato ALOI (conosciuto come Natino Aloi), è nato a Reggio Clabria l’otto dicembre 1938 ed è stato per anni docente nei vari licei della Città. Sin da giovanissimo ha operato nel mondo della politica, da quella universitaria alla realtà degli Enti locali. Ha percorso un lungo itinerario: da consigliere comunale nella sua Città ed in altri centri della provincia (Locri) a consigliere provinciale, da consigliere regionale a deputato. Come parlamentare (per quattro legislature) ha affrontato temi di diverso genere ed in particolare si è occupato, con grande impegno, di scuola, cultura e di Mezzogiorno. Ha ricoperto l’ alta carica di Sottosegretario alla P. I.. E’ stato coordinatore regionale della Destra calabrese, ed anche Segretario per la Calabria del Sindacato Nazionale (CISNAL). Presidente dell’Istituto Studi Gentiliani per la Calabria e la Lucania, è componente la Direzione nazionale del Sindacato Libero Scrittori Italiani. Giornalista pubblicista, collabora a diversi giornali ed è attual-
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
mente direttore del periodico “Nuovo Domani Sud”. Autore di numerose pubblicazioni di storia, pedagogia, saggistica, politica e narrativa. Ha ottenuto riconoscimenti di valore scientifico come il “Premio Calabria per la narrativa” (1990) per il volume “S. Caterina, il mio rione” (Ed. Falzea); il Premio letterario “Nazzareno” (Roma) 1983 per l’ opera “I Guerrieri di Riace” (Ed. Magalini) ed il Premio “Vanvitelli” per la saggistica storica (1995) per il volume “Reggio Calabria oltre la rivolta” (Ed. Il Coscile) ed il Premio Internazionale “Il Bergamotto” (2004). Altri suoi lavori: La Questione Meridionale: radici, inadempienze e speranze (1985), “Cultura senza egemonia (Per un umanesimo umano)” (1997), Giovanni Gentile ed attualità dell’attualismo” (2004), “Tra gli scogli dell’Io” (2004), “<Neutralismo> cattolico e socialista di fronte all’intervento dell’Italia nella 1a guerra mondiale” (2007), “Riflessioni politico-morali e attualità dei valori cristiani” (2008), “Piccolo Taccuino di Viaggio” (2009), “La Chiesa e la Rivolta di Reggio” (2009), “Vox clamantis... Come può morire una democrazia” (2014). ** ANTONIA IZZI RUFO - Giorno dopo giorno e Donne - Prefazione di Giuseppe Manitta - Il Convivio Editore, 2018 - Pagg. 96, € 12,00. Antonia IZZI RUFO, insegnante in pensione, laureata in Pedagogia, è nata a Scapoli (IS) e risiede a Castelnuovo al Volturno (IS), frazione di Rocchetta. Ha pubblicato opere in prosa e poesia, saggi e altro, circa una sessantina di testi finora. Ha vinto moltissimi Premi Letterari. Noti critici ed esponenti della cultura nazionale e internazionale hanno scritto di lei, tra gli altri Costas M. Stamatis, Paul Courget, Giovanna Li Volti Guzzardi, Giorgio Barberi Squarotti, Massimo Scrignòli, Enrico Marco Cipollini, Marco Delpino, Angelo Manitta, Sandro Angelucci, Emilio Pacitti, Luigi Pumpo, Carmine Manzi, Aldo Cervo. Tra le tante sue opere, che sarebbe troppo lungo enumerare, si ricordano: Ho conosciuto Charles Moulin (1998), Ricordi d’infanzia, ricordi di guerra (1999), Tristia - Ovidio (1999), Saffo, la decima musa (2002), Per una lettura della “Vita Nuova di Dante” (2004), Catullo, il poeta dell’amore e dell’amicizia (2006), Il poeta e l’ emozione (2009), Dolce sostare (2010), Dilemma (2010), Perché tu non ci sei più (2012), Felicità era... (2012), Paese (2014), Voci del passato (2015), La casa di mio nonno (2016), Sensazioni (2016), Oltre le stelle (2017). ** GIUSEPPE NAPOLITANO - Inner Grammar/Grammatica interiore - Chinese Translation by Lee Kuei-shien, According to the English Ver-
Pag. 54
sion by Jason R. Forbus - Volturnia Edizioni, 2017 - Pagg. 96, € 12,00. Giuseppe NAPOLITANO è nato a Minturno (Lt) il 12 febbraio 1949 e vive a Formia. Laureato in Lettere a Roma, ha insegnato nei Licei ed è Presidente dell’Associazione culturale “La stanza del poeta”. Si dedica alla promozione della letteratura e in particolare della poesia. Ha partecipato a diversi Incontri internazionali di poesia in Francia, Macedonia, Spagna. E’ tradotto in francese, spagnolo, inglese, rumeno, tedesco, albanese, greco, esperanto. Assai lungo l’elenco delle sue pubblicazioni. Ricordiamo: Momenti (1970), Dentro l’orma (1978), Maschera (1978), Se incontri un po’ di ieri nel domani (1989), E poi.../Et puis... (1991), Creatura (1993), Poesia/non poesia (1994), Gaeta. 17 cartoline (1996), Parola di parole (1998), Cuore di sabbia (1998), Partita (1999), Equilibrio variabile (2000), Passaggi (2002), Sestine di Campodimele (2002), Insieme a te io sono nato ancora (2003), Alla riva del tempo (2005), Il tempo trovato (2006), Vola alta, parola (2007), Via crucis (2008), Antologia (2008), Misura di vita (2009), Genius loci (2009), È questo un figlio? (2012) eccetera. ** AA. VV. - I Poeti Extravaganti Termoli 2017 Presentazione (“La nave dei poeti è rimasta in porto”) di Giuseppe Napolitano - Ed. EVA, 2017 Pagg. 88, € 8,00 - Sono antologizzati: Amerigo Iannacone, Umberto Cerio, Rossella de Magistris, Virginia Notarpasquale, Adele Terzano, Gilda Cieri Stramenga, Virginia Macchiaroli, Luciano D’ Agostino, Giuseppe Napolitano, Francesco P. Tanzj, Irene Vallone, Ludovica Tozzi, Gabriella Nicole Valeria Napolitano, Antonietta Caruso, Antonio Vanni, Luigi Rosati, Angelo Marolla, Silvana Amato, Luigi Peternolli. ** DANIELA DE ANGELIS - Il mondo di Natale e Marianna Prampolini la collezione d’arte - Gangemi Editore international Arte, 2018 - All’interno, più di 190 tra foto e riproduzioni - Pagg. 128, € 24,00. Daniela DE ANGELIS ha insegnato, oltre che a Roma, all’ Istituto Statale d’Arte “Pablo Picasso” di Pomezia per molti anni. Ha pubblicato diverse opere, tra le quali “La nascita di Pomezia testimonianze orali e fonti d’epoca” (2013), Ferrazzi e l’opera perduta di Pomezia 1938 - 41” (2015), Natale Prampolini e le Bonifiche (1915 - 1950) (2017). ** LUCIANA VASILE - Libertà attraverso. Eros Filìa Agape - Introduzione di Franco Ferrarotti Edizioni Progetto Cultura, 2018 - Pagg. 96, € 12,00. Luciana VASILE, figli del grande Turi Vasile, è nata a Roma ed è Architetto. Nel 2002 il de-
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
siderio di attività nel volontariato l’ha portata in Nicaragua per sei mesi, dove, oltre a progettare e realizzare numerose costruzioni, ha scoperto il piacere di scrivere. Esordiente nel 2004 in Concorsi Letterari per inediti, ha conseguito oltre 120 premi nella prosa e nella poesia. “Per il verso del pelo”, suo primo romanzo (2006), ha ottenuto riconoscimenti in otto premi letterari. Luciana Vasile è membro del P.E.N. Club, Associazione internazionale degli scrittori. Tra le sue opere: Per il verso del pelo. L’anima nuda di lulla dell’aldilà a colloquio via email con uno scrittore (2006), “Danzadelse’ - Ho ballato per Paparone e altre storie” (2012). ** ANTONIO VITOLO - Varco amato - Canto di Cuore - Livelli e bolle d’aria - (Poesie e pensieri su San Mauro Cilento: 2016 - 2017) - Prima presentazione di Enzo Fauci, seconda presentazione di Noemi Manna - Edizioni Il Saggio, Centro Culturale Studi Storici, 2018 - Pagg. 54, € 8,00. Antonio VITOLO, medico, nato nel 1961. Dal 24 agosto 2016 è cittadino onorario di San Mauro Cilento. Poeta, scrittore, saggista, ha vinto numerosi e importanti Premi e sulla sua opera hanno scritto positivamente tanti poeti e critici. Ha collaborato a “Parole in soffitta”, ricerca sul dialetto olevanese di Maria Gabriella Cestaro (2006); è stato inserito nell’ “Albo degli Scrittori”, pubblicato sotto l’egida dell’UNESCO (2010) con prefazione di Maria Luisa Spaziani. Leonardo Selvaggi (nel 2007) e Osvaldo Marrocco (nel 2016) hanno pubblicato due saggi sulla sua opera. Ha pubblicato: Un pensiero per la speranza (1993), Rimembranze (1995), Un giorno nel passato (1997), Ode all’ amata (1998), Oltre il buio della mente (1999), Tracce salmastre rosso amaranto (2007), L’amore mai dimenticato (narrativa, 2008), Bardo al crepuscolo (2010), Il respiro dell’addio - Il rapporto madre-figlio nella poesia di Gianni Rescigno (saggistica, 2012), Saluto mareggiato (2015), L’ultimo porto. Genesi di carri e navi. San Mauro Cilento Poesie 2013 - 2015 (2017).
TRA LE RIVISTE ntl LA NUOVA TRIBUNA LETTERARIA - rivista di lettere ed arte fondata da Giacomo Luzzagni, Direttore responsabile Stefano Valentini, editoriale Natale Luzzagni, vicedirettore Pasquale Matrone - via Chiesa 27 - 35034 Lozzo Atesino (PD), C. P. 15 - 35031 Abano Terme (PD) - e-mail: nuovateribuna@yahoo.it - Riceviamo il n. 130, aprile-giugno 2018, dal quale segnaliamo: “Salvatore Quasimo-
Pag. 55
do”, di Luigi De Rosa; “Angel Zárraga”, di Natale Luzzagni; “Ursula Le Guin”, di Stefano Valentini; “Hermann Hesse”, di Liliana Porro Andriuoli; “Antonio Ligabue”, di Rossano Onano; “I Minnesänger”, di Elio Andriuoli; “Nero su bianco”, di Anna Vincitorio. Rubriche varie, recensioni (tra le quali: “Caterina Felici, Dentro la vita”, di Giuliano Federici), interviste eccetera. * POETI NELLA SOCIETÀ - Rivista letteraria, artistica e di informazione, diretta da Girolamo Mennella, redattore capo Pasquale Francischetti - via Parrillo 7 - 80146 Napoli - e-mail: francischetti@alice.it - Riceviamo il n. 87, marzo-aprile 2018, con firme, a diverso titolo, di nostri amici o nostri collaboratori, tra cui: Isabella Michela Affinito, Pasquale Montalto, Vittorio “Nino” Martin, Susanna Pelizza. * NUOVO DOMANI SUD - Periodico di informazione politica e culturale diretto da Fortunato Aloi, responsabile Pierfranco Bruni - via Santa Caterina 62 - 89121 Reggio Calabria - Riceviamo i numeri 1 e 2, rispettivamente del gennaio-febbraio e del marzo-aprile 2018, dai quali segnaliamo: “Mezzogiorno annunci e prospettive”, di Fortunato Aloi; “Mezzogiorno ed emigrazione”, di Domenico Ficarra; “Celebrata a Reggio la XXX Edizione del premio “Giuseppe Calogero 2017”; <<‘A turnata elettorali>>, poesia di Mimmo Versaci; “Femminicidio - rosso, bianco, nero, per la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne 2017”, di Francesco Guadagnuolo; il sonetto “Non tutta a musica poti piacìri”, di Orazio Raffaele Di Landro eccetera. * SENTIERI MOLISANI - Rivista di Arte, Lettere e Scienze - direttore editoriale Antonio Angelone, responsabile Massimo Di Tore - via Caravaggio 2 - 86170 Isernia - E-mail: sentieri.molisani@ gmail.com - Riceviamo il n. 1 (52), gennaio-aprile 2018, nel quale, a diverso titolo, troviamo molti nomi di nostri amici e collaboratori, tra cui: Imperia Tognacci, Isabella Michela Affinito, Antonia Izzi Rufo, Leonardo Selvaggi, Orazio Tanelli, Luigi De Rosa, Giovanna Li Volti Guzzardi, Gabriella Frenna. * L’ERACLIANO - organo mensile dell’Accademia Collegio de’ Nobili - fondata nel 1689 -, diretto da Marcello Falletti di Villafalletto - Casella Postale 39 - 50018 Scandicci (Firenze) - E-mail: accademia_de_nobili@libero.it - Riceviamo il n. 240/242, del I - II - III - MMXVIII. Segnaliamo: “A Gragnano di Lucca: presentazione dell’ultimo lavoro lette-
POMEZIA-NOTIZIE
Giugno 2018
rario del nostro presidente” (Marcello Falletti di Villafalletto); Una donna protesa verso il cielo (Maria Teresa Santalucia Scibona), di Marcello di Villafalletto; San Mattia Apostolo, di Carlo Pellegrini; Apophoreta, rubrica di Marcello Falletti di Villafalletto, nella quale vengono recensiti libri e riviste, tra cui Pomezia-Notizie del marzo 2018, un elogio inaspettato, che ci ha commosso. * IL CONVIVIO - Trimestrale di Poesia Arte e Cultura fondato da Angelo Manitta e diretto da Enza Conti - via Pietramarina-Verzella 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) - E-mail: angelo.manitta@tin.it ; enzaconti@ilconvivio.org - Riceviamo il n. 1 (72), gennaio-marzo 2018, dal quale segnaliamo: “Corrado Calabrò alle “Giubbe Rosse”. Incontro omaggio per i suoi sessant’Anni di attività e del suo genetliaco”, di Fabia Baldi; “Tra Etna e Alcantara: Castiglione di Sicilia”, di Giuseppe Manitta; “Il nuovissimo continente”, poesia di Giovanna Li Volti Guzzardi; “Sei sempre con me”, poesia di Filomena Iovinella; la rubrica “Pittura”; le numerose recensioni a firma di Isabella Michela Affinito (tra cui quella su “Dentro la vita”, di Caterina Felici), Antonia Izzi Rufo, Luigi De Rosa (a “Oltre le stelle” di Antonia Izzi Rufo), Aurora De Luca, Anna Aita; ancora Adalgisa Licastro (“Canti per una mamma e altri ancora”, di Mariagina Bonciani), Rita Notte (“Poesie occasionali”, di Antonio Crecchia), Domenico Defelice (“Suggestioni”, di Lina D’Incecco) eccetera. Allegato, il n. 38 di CULTURA E PROSPETTIVE (gennaio-marzo 2018), con le firme di: Claudio Toscani, Ugo Piscopo, Otilia Dorotea Borcia, Angelo Manitta, Monica Ramò, Giuseppe Gianpaolo Casarini, Teodoro Lorenzo, Franco Orlandini, Claudio Guardo, Domenico Cara, Pietro Nigro, Aldo Marzi, Silvana Del Carretto, Pippo Virgillito, Carmine Chiodo, Raffaella Iacuzio, Carmen Moscariello, Mario Landolfi, Antonio Creccia eccetera.
IL MIO TEMPO GUARITORE Simile a un albero nella tempesta, avvertivo perdita di foglie, dolore di rami spezzati, ma ero certa del mio robusto tronco, delle forti mie radici saldamente abbracciate alla terra,
Pag. 56
di un futuro tempo guaritore di ferite. Caterina Felicci Pesaro
AI COLLABORATORI Inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione) preferibilmente attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è gradito un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (copia cartacea) Annuo, € 50.00 Sostenitore,. € 80.00 Benemerito, € 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia, € 5,00 (in tal caso, + € 1,28 sped.ne) Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 N076 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio