ISSN 2611-0954
mensile (fondato nel 1973) Direzione e amministrazione: Via Fratelli Bandiera, 6 - Tel. 06/91.12.113 - 00071 POMEZIA (Roma) - Fondatore e Direttore responsabile: DOMENICO DEFELICE – e-Mail: defelice.d@tiscali.it – Parziale distribuzione gratuita (solo il loco) – Attività editoriale non commerciale (art. 4, D.P.R. 26.10.1972 n. 633 e succ.ve modifiche) - Per abbonamenti: annuo, € 50; sostenitore € 80; benemerito € 120; una copia € 5.00) e per contributi volontari (per avvenuta pubblicazione), versamenti sul c/c p. 43585009 intestato al Direttore - Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 213/93 del 23/5/1993 - La collaborazione, sempre gratuita, in parte è libera, in parte è per invito. Ogni autore si assume la responsabilità dei propri scritti - Manoscritti, fotografie e altro materiale, anche se non pubblicati, non vengono restituiti - É ammessa la riproduzione, purché se ne indichi la fonte. Per ogni controversia, foro competente è quello di Roma.
Anno 26 (Nuova Serie) – n. 7
€ 5,00
- Luglio 2018 -
ANTONIO e DANIELA MAGLIO IL CASTELLO, IL BORGO, LA PASTA E FAGIOLI Il teologo salernitano e la storia di Formigine di Rossano Onano
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L paese natale è la mamma, si ama senza necessariamente esternare pubbliche manifestazioni di affetto. Il paese adottivo è l'amante, richiede un atto esplicito di sottomissione affettiva. Antonio Maglio, salernitano, insegnante e teologo, laureato presso l'Università
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Nell’interno: “Tòrnati dentro…”, di Ilia Pedrina, pag. 5 Fortunato Aloi e la criminalità, di Domenico Defelice, pag. 8 Nella mente, di Antonio Crecchia, pag. 11 Edda Fossi: Elena - Solo per amore, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 14 Il Serchio poetico di Pardini, di Maria Grazia Ferraris, pag. 18 Sulla poesia di Antonia Izzi Rufo, di Luigi De Rosa, pag. 21 Ricordo di Ines Betta Montanelli, di Marina Caracciolo, pag. 23 Lettera di un professore a un maturando, di Giuseppe Leone, pag. 25 L’influenza di Gentile su Roberto Longhi, di Massimiliano Pecora, pag. 26 Il diritto stampa, di Leonardo Selvaggi, pag. 30 Pulcinella, di Antonio Visconte, pag. 33 Premio Città di Pomezia (XXVIII edizione), pag. 34 I Poeti e la Natura (Dino Campana), di Luigi De Rosa, pag. 39 Notizie, pag. 52 Libri ricevuti, pag. 56 Tra le riviste, pag. 57 Lettere in Direzione (Ilia Pedrina), pag. 57 RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (Profili critici, di Tito Cauchi, pag. 40); Isabella Michela Affinito (La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice, di Claudia Trimarchi, pag. 41); Isabella Michela Affinito (L’indignazione poetica, di Leonardo Selvaggi, pag. 42); Elio Andriuoli (Bamboo Blues, di Eugenio Lucrezi, pag. 43); Tito Cauchi (Il Messia, di Antonio Visconte, pag. 44); Tito Cauchi (Ritratti, di Isabella Michela Affinito, pag. 45); Roberta Colazingari (Ritratti, di Isabella Michela Affinito, pag. 46); Domenico Defelice (Giorno dopo giorno, di Antonia Izzi Rufo, pag. 46); Domenico Defelice (Libertà attraverso, di Luciana Vasile, pag. 47); Luigi De Rosa (Nessuno va via, di Giovanni Dino, pag. 47); Elisabetta Di Iaconi (Ritratti, di Isabella Michela Affinito, pag. 48); Antonia Izzi Rufo (Preghiere, di Francesco Terrone, pag. 49); Ilia Pedrina (Il canto del pane, di Daniel Varujan, pag. 49); Susanna Pelizza (Ritratti, di Isabella Michela Affinito, pag. 50); Luigi Reina (L’ impermanenza, di Anna Maria Basso, pag. 51); Anna Vincitorio (Anime al bivio, di Imperia Tognaacci, pag. 52).
Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Loretta Bonucci, Rocco Cambareri, Elisabetta Di Iaconi, Caterina Felici, Antonia Izzi Rufo, Ines Betta Montanelli, Teresinka Pereira, Gianni Rescigno, Francesco Salvador, Leonardo Selvaggi Pontificia Lateranense e presso la Facoltà teologica dell'Emilia Romagna, dal 1980 stanziale a Formigine (MO), manifesta il proprio amore per la città adottiva pubblicando (Edizioni Il Fiorino di Modena, 2017), un volume di straordinaria eleganza: Storia di Formigine e del suo castello. L'eccellente corredo fotografico è di Antonio Tumminia. Da bravo papà, Antonio associa a sé la firma della figlia Daniela, nata a Modena nel 1982, laurea in ingegneria ambientale. Antonio Maglio è persona di lodevole discrezione: e tuttavia, reclama a sé il titolo di Cavaliere del Reale Ordine di Cipro, detto “della spada e del si-
lenzio”, fondato nel 1193 a Nicosia da Guy de Lusignan nientemeno, a protezione delle vedove e degli orfani, al servizio della Chiesa Cattolica Apostolica Romana. Considerando l'attuale tendenza dell'uomo alla sciatteria, annotiamo con benevolenza questo fiero attestato di nobiltà caratteriale. L'interesse di Antonio e Daniela Maglio è rivolto a Formigine, comune in provincia di Modena, 34.000 abitanti al gennaio 2017. Lo stemma del comune riporta una quercia su campo azzurro, a riassunto dei valori di longevità, vigoria e forte attaccamento alla terra che la comunità annovera per sé. Lo stemma fa riferimento alla
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vocazione agricola del territorio: con le ghiande i popolani producevano una farina che poi veniva fatta lievitare per ottenere un pane addolcito con patate o miele selvatico, cibo da gente miserevole e forte. Formigine, come toponimo, trae origine dal latino forma, che corrisponde a “fossa d'acqua, a definizione di un territorio all'origine acquitrinoso. Antonio Maglio ha i suoi dubbi, e rispolvera il Campanini-Carboni dei nostri anni liceali, dove forma ha il significato di “aspetto, immagine, bellezza”, che infatti suona meglio all'orecchio. Non manca chi fa risalire il toponimo al latino formido, nel suo significato di “paura, orrore, spavento”. Antonio, da bravo teologo, dice la sua, attribuendo significato panico alla locuzione, che deriverebbe da “timore religioso”: la Paura, insomma, intesa come divinità. Fatto è che i reperti danno Formigine abitata già in età neolitica, mentre i primi modelli di organizzazione sociale risalgono al XVI secolo a.C., età del bronzo: le terramare (“terre amare”) sono gruppi di capanne costruite su palafitte nelle vicinanze dei corsi d'acqua. Arrivano poi gli Etruschi, i Galli e naturalmente i Romani, ma è nell'843 che Formigine compare per la prima volta nella storia, menzionata nei documenti come semplice locus, piccolo insediamento di persone, a differenza delle villae contigue (Cassinalbo, Magreta) già riconosciute come centri abitati rurali di una certa importanza. Secondo il Muratori, Formigine non è quasi che una strada, ove tuttavia gli sparuti abitanti sono dediti alla caccia: abbondano i cinghiali, i caprioli e soprattutto le rane. Rivado, leggendo, alla mia infanzia, quando nelle pozze d'acqua della campagna reggiana abbondavano ancora i girini, oggi scomparsi. Le rane costituivano un piatto prelibato della cucina reggiana. Mio padre, sardo pervenuto nella nostra pianura nei guerreschi anni '40, considerava i reggiani in qualche modo barbari, perché appunto si nutrivano di rane e soprattutto macellavano cavalli e somari, dalle sue parti considerati intoccabili. In compenso, mio padre mangiava le lumache, ed era per questo considerato barbaro dai bravi campagnoli reggiani. La vocazione
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agricola del territorio padano si sviluppò dopo il 1500, con la scoperta dell'America che portò i nuovi prodotti (mais, patate, pomodoro) che crescevano perfettamente nel terreno alluvionale frattanto divenuto terreno fertile. La storia guerresca di Formigine ha inizio ai primi del 1200, quando Modena fa costruire sul sito un campo militare, con la denominazione latina di castrum, ovvero castellum (“fortezza”). Il Muratori riporta la prima attestazione scritta sulla fondazione del castello: eodem anno (1201) Castrum Formiginis aedificatum fuit per Commune Mutinae. Modena era infatti denominata Mutana o Mutnia, ovvero “sarcofago, cimitero”, a memoria del luogo di sepoltura, nel 397, del vescovo Geminiano: quello che salvò Modena dalla razzia degli Ungari, pregando il Padreterno di nascondere la città sotto una fitta coltre di nebbia. Gli Ungari non videro la città, e passarono oltre. C'è da dire che il vescovo Prospero, nella vicina Reggio Emilia, non fece da meno, nascondendo a sua volta la città sotto la medesima coltre di nebbia. La fondazione del Castellum di Formigine ha un fondamento storico: il castello fu edificato da Modena nel 1201, a seguito della sconfitta subita ad opera dei Reggiani, nella guerra intervenuta fra le due città sull'uso e possesso delle acque del fiume Secchia. Da modenese acquisito, Antonio Maglio giustamente non enfatizza l'episodio. Da reggiano, mi sono documentato ed enfatizzo io: volse in fuga i Modenesi a Formigine il capitano Cassolio Cassoli, reggiano, uomo d'armi fra i più valorosi del suo tempo. Verità storica vuole che i Modenesi si presero la rivincita nel 1325, con la battaglia di Zappolino, contro i Bolognesi , sempre per l'utilizzo dell'acqua del fiume Secchia. Sassolo della Rosa, a capo dei Reggiani accorsi in aiuto dei Bolognesi, fu sconfitto e fatto prigioniero. I Modenesi entrarono vittoriosi in Bologna, con la conquista di un vecchio secchio di legno utilizzato per attingere acqua dal pozzo: la famosa “secchia rapita” del Tassoni. Quando si trattava dell'acqua, insomma, Modena e Formigine ci andavano giù pesanti. La storia è maestra di vita (Montale non è d'accordo: la storia non è maestra, perché l'uomo ripete sempre i medesimi errori). Maestra o no che
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sia, la storia fornisce comunque una indicazione precisa, anticipando il futuro: oggi, le guerre sono determinate dal possesso e dall'utilizzo del petrolio; domani, a parere degli etologi, le guerre saranno determinate dal possesso e dall'utilizzo dell'acqua. Come nel Medioevo. Il castello di Formigine entrò successivamente a far parte del Ducato Estense (1395), con l'intermezzo di una specie di appalto ai Pio di Savoia che durò fino al XVII secolo. Nel 1799 i Francesi di Napoleone entrarono in Formigine al suono dei tamburi, saccheggiarono il borgo con il sequestro di farina fieno bestiame e vino, adattarono la Chiesa di S. Pietro a stalla per i cavalli del quartier generale, raccolsero una somma di danaro depredando le chiese di oggetti d'oro e d'argento, fusi in verghe nel piazzale antistante il ponte levatoio del castello. Nel 1860, con l'annessione al Regno d'Italia, Modena perse il suo ruolo di capitale. Formigine entrò a far parte delle vicende italiane; le quali, nel 1945, portarono allo sventramento quasi totale del castello, raggiunto da un terrificante bombardamento aereo. Nell'immediato dopoguerra, uno dei primi atti della nuova Amministrazione fu l'acquisto del castello dai legittimi proprietari, i conti Gentili, per adattarlo a nuova residenza municipale attraverso un'ampia ricostruzione delle parti gravemente danneggiate. I lavori di restauro, dopo l'atto d'acquisto del '46, ebbero termine già nel 1949. Oggi, una velocità operativa di questo tipo sembra assolutamente impensabile. Non esiste castello che non sia provvisto del suo bravo fantasma. Quello di Formigine riporta una leggenda, o forse un avvenimento reale tramutato in leggenda. Si tratta di un fantasma struggente. Nel castello era nato un bambino, figlio del giovane nipote del Barone e di una nobildonna. Essendo figlio del peccato, una magnana (levatrice) aveva provveduto ad abbandonare il neonato nel bosco circostante il castello. A questo punto la leggenda diverge: secondo alcuni, il bambino sarebbe stato raccolto e adottato da un allevatore di porci; nella seconda versione, più patetica, la magnana avrebbe cercato di nascondere il
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bimbo all'interno del castello. Il bambino le scivolò di mano, precipitando nel fondo del pozzo. Ancora oggi, nelle notti di luna piena, dal fondo del pozzo la voce flebile di un bambino piange chiamando la mamma. L'inconveniente non impedisce l'attuale uso istituzionale del castella, sede del Consiglio Comunale, provvisto di sale di rappresentanza per esposizioni e conferenze. La Rocchetta, parte più antica del castello, è sede del Museo e Centro di Documentazione storica, con reperti che raccontano la storia del sito, dal secolo X ad oggi. Non solo il castello, anche il borgo ha le sue brave leggende. L'ostessa di Traversetolo dava troppa confidenza agli ospiti. Il marito la rimprovera. “E' solo per mantenere i clienti”, si difende la donna. Come tutte le leggende, la vicenda fra moglie e marito va a finire male, ma questo non importa. Ha importanza invece la ricetta che la brava ostessa propinava ai clienti: pasta e fagioli soffritta con aglio, granelli di pepe schiacciato con il batticarne, lardo, pancetta e insaporita con salvia, prezzemolo e rosmarino finemente tritati. Sfido uno chef stellato, mettiamo Cracco o Cannavacciuolo, a proporre oggi qualcosa di meglio. Un bravo papà merita, sempre, una brava figliola. A Daniela, figlia di Antonio, spetta il capitolo della trasformazione fiabesca del castello, ad uso rassicurante del figlio Andrea. La mamma porta a spasso il bambino per le cupe stanze del maniero. Andrea mostra qualche esitazione: Il castello mi fa paura, è enorme e scuro. La mamma: Vedi le finestre?, servivano a controllare che non si avvicinassero i nemici, nel castello siamo al sicuro. Appunto: il castello come luogo di difesa fobica verso le insidie del mondo. Non è esattamente ciò che tranquillizza un bambino. La mamma se ne avvede, e cambia registro: Correndo per le stanze, i bambini giocavano a nascondino, a '1, 2, 3 stella', sulle panchine le bambine giocavano con le bambole, nel cortile i maschietti giocavano a calcio. Il cupo maniero trasformato in un rassicurante parco giochi. La storia guerresca è lontana, gli occhi di Andrea si illuminano. Rossano Onano
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“TÓRNATI DENTRO, NELLA MUSICA CHE SEI!”: L'ENIGMA DI EROS NELLA MENTE E NELLE PAROLE DI DIOTIMA di Ilia Pedrina
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IOTIMA. Non solo un nome. Dalla bocca di Socrate, nel dialogo di Platone, il Symposium, escono in parole elementi di un immaginario narrato e trattenuto nella mente degli ascoltatori attraverso profili e contenuti legati al tema di Eros. È esperienza reale quella della quale Socrate rende partecipi tutti i convitati? È interessante sondare quali stratificazioni vengano elaborate insieme ed in ciascuna singolarmente, affinché sia portato ad effetto un contesto di sogno che ha reso Diotìma figura del mito e narrato in traccia per un anelito alla bellezza del gesto di seduzione, in tensione. Dalla parola all'immagine delineata e da questa, attraverso l'ascolto del racconto di Socrate, alla condivisione fantastica di un vissuto irreale, ipotizzato sul piano della costruzione di senso del Mito ma contemporaneamente poeticamente condiviso tra i presenti alla ritualità del Dialogo, affinché il tema dell'Amore diventi argomento di riflessione e di audace sfida senz'armi. Platone è poeta, prima che filosofo ed ha aperto la storia della scrittura artistica ai più incredibili risvolti: esiste una Bellezza assoluta, sciolta dalla Forma e dall'Evento all'interno del quale è possibile intercettarla? È consentito all'essere umano, vita mortale tra le altre vite, assaporare la dimensione della Bellezza che è Armonia, mantenendosi adeso al suo essere incarnato? Quale spessore dare al Symposium, occasione culturale di conversazione a tema e progetto di ricerca per far andare oltre la riflessione, il ragionar a turno, tra considerazioni tecniche e prospettive profondissime? Diotìma, ή ταυτά τε σοφή ην, sapiente in questa ed in molte altre cose, accoglie Socrate, ascolta i suoi interrogativi, ne provoca un
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interno abbandono: le sue parole sono semplici ed antiche, danno poesia, di ritmi, d'immagini, d'intersezioni carnali e cosmiche ad un tempo. L'indigenza e l'ingegno, Πενία e Πóρος, coniugati insieme, ebbro l'uno e inconsapevole, desiderante l'altra nella completa privazione ma piena già dentro della bellezza del desiderio stesso, danno consistenza all'amore, non divinità ma forza cosmica, elemento assoluto 'formante', lo chiamerebbe Luigi Nono, dilatandone la forza al suono che proviene dal silenzio e ad esso tende sempre a ritornare. Infatti anche nella composizione Fragmente-Stille an Diotìma le 'formanti' per lui sono i principi generanti le complessità armoniche dissonanti e reciprocamente intersecate, matrici della molteplicità prismatica delle composizioni, anche a partire dalla Poesia. Ora, complice Eros compiaciuto, a Diotìma Socrate e la cornice del Symposium non bastano più perché vuole incontrare la Storia. “Tórnati dentro, nella musica che sei!”: questo l'invito che Diotìma offre al poeta armeno Daniel Varujan, dopo averlo accarezzato ed abbracciato a lungo, una volta uscita dal suo tempo, che è tempio del mito, lontano e sacralizzato senza sosta; “Tórnati dentro nella musica che sei!”: questo l'invito che Diotìma offre a tutto il suo Popolo Armeno, mandato a morte perché la violenza è carne e corpo dell'invidia, della gelosia, della corrotta arroganza che programma a tavolino ogni sorta di violenza. “Tórnati dentro, nella musica che sei!”: questo l'invito che Diotìma offre a ciascuno di noi, perché ci allontaniamo dalla malvagità e possiamo assaporare l'abbandono ai ritmi interiori dell'anima, evocati da questa esperienza. Diotìma vuole ora ascoltare il suo canto, che va oltre l'Occidente e l'Oriente per entrare nell'armonia nata dalla vita e dall'ingegno, dalla privazione e dal desiderio, dalla misura in ritmi e rime, dall'Amore e dalla bellezza che la lingua esprime, accende ed asseconda, nella sofferenza che un dolce pensiero può un poco lenire. Diotìma ascolta. Benedizione Un pugno di grano nel tuo palmo
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lascia ch'io metta, valoroso figlio mio, valoroso figlio mio, cintura del mio fianco; lascia che nelle tue braccia di contadino passi il sangue di venti tori, e grazie alla tua statura di cipresso possa tu erigere le colonne di venti case; e quando solo con le tue dita seminerai il tuo grano possa tu raccoglierne come il numero delle stelle. Un pugno di grano sulla tua testa lascia che io versi mio adorato nipotino, mio adorato nipotino, mio bastone fiorito; lascia che sulla tua fronte si incidano cento salmi di saggezza, e sulle tue spalle si posi il tabernacolo della purezza; e quando un giorno visiterai la tua mandria che verso il tuo palmo pieno d'orzo si protendano mille montoni. Un pugno di grano sui tuoi capelli lascia che faccia piovere, nipotina, mia rosa, nipotina, mia rosa, corona della mia tomba; lascia che sulle tue guance brillino ogni primavera nuovi papaveri, e nei tuoi occhi nuotino ogni estate nuovi raggi; e quando pianterai un ramo di salice che ogni aprile tu possa vederti verde sotto la sua ombra.
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che la candela della nostra sera non si spenga tra le colonne della chiesa, e quando anche noi saremo deposti nel sepolcro che sotto di noi la terra, Anna, possa essere morbida.� (1) DiotÏma ascolta, si ascolta dentro. Solo io so che lei si insinua, non vista, tra spettatori estatici, con Eros a farle luce ed ombra insieme, nelle forme antiche della Tebe palladiana. Il desiderio di generare nella Bellezza, questo Eros le sussurra e condivide il canto del Poeta, che risuona come preghiera, come un canto della terra e del cielo. Croce di spighe (Sull'altare della Vergine) Ti offro, Madre, le primizie dei miei raccolti. Consacrale sul tuo altare dove, da secoli, le cere bionde dei miei alveari diffondono luce e lacrime. Tu, santa protettrice delle terre dei miei padri ai quali hai concesso l'immortalità del Paradiso; il bocciolo hai reso fiore, la speranza un'Aurora che sorride alla mia capanna. Tu, questa croce di spighe, intrecciata con le mie mani, accetta, Madre. In mezzo al mio grano esse oscillavano come vergini dai capelli rossi, traboccanti di sole e mature.
Un pugno di grano fra i tuoi seni lascia che semini, mia bella nuora, mia bella nuora, amore mio lontano; lascia che nel solco del tuo letto una spiga germogli in un'intera fila, e nella culla che dondoli dormano le aurore gloriose; e quando mungerai quaranta vacche che nei tuoi secchi il latte cagli come argento e il colostro come oro.
Sotto la mia falce, con la brina ancora sul capo, cadono come un raggio mietuto dalla luna: Nessuna allodola ha distrutto col becco le loro fila intatte.
Un pugno di grano, un pugno di grano, ah mia cara vecchia, Anna mia, anche sulle nostre teste lascia che piova. Lascia che il sole dell'autunno non geli sulla neve dei nostri capelli;
L'ho intrecciata con le mie speranze, coi miei desideri: la linfa dei campi, il fuoco del sole, il lampo del vomere e lo slancio del mio braccio virile,
Io le ho intrecciate, chioma su chioma, nella croce di tuo Figlio ferito a morte il cui sangue, fuoco santo di ogni Pasqua, bevono i nostri solchi.
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la preghiera dei miei nipoti. Madre, benedici questa croce di spighe; e dona ai miei campi un'estate d'oro e una primavera di perle; più i miei granai saranno colmi, più le fiaccole daranno luce al tuo altare. Fa, ti prego, che - come nei giorni antichi quando di campo in campo verrai a passeggiare le spine non sfiorino i tuoi piedi, ma solo papaveri frementi come il nostro cuore. (2) Diotìma ascolta, si ascolta dentro. Ora sa. Diotìma ascolta. si ascolta dentro. Ha cancellato il suo tempio protetto, ha dimenticato Socrate e le fragilità di un pensiero in ricerca. Diotìma ascolta, si ascolta dentro. Ora sa che il poeta armeno Daniel Varujan ha tensione desiderante del corpo e dello spirito, quella che va ad animare i suoi versi, quella che apre ad un livello superiore, là dove la giustezza metrica anela a dar corpo, forma, forza alla sapienza e alla giustizia dell'essere e dell'agire; quella che sa superare la sofferenza e lo strazio d'ogni inaspettato frantumarsi violento della gioia. Allora Diotìma lo ascolta, si ascolta dentro, piange e prega. Ilia Pedrina (1) Daniel Varujan, Il canto del pane, a cura di A. Arslan, testo armeno a fronte, ed. Guerini e Associati, 2004, pp. 121-123. (2) Daniel Varujan, Il canto del pane, op. cit. pp. 91-93.
SCENDETE FRA NOI Scendete fra noi il tramonto arriva anche se non l’aspetti del tempo è rimasto ma solo in centesimi Uscite dalle aule di parlamenti indicibili voi grandi fratelli
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andate sulle strade non come ologrammi non cercate più risposte afone assurde Dite la verità voi incapaci d’amore di umanità I vostri discorsi esempi di saggistica spicciola messa lì a incantare gli ovini Anche per voi apparirà un piccolo dolorino a cui seguirà un controllo medico e una sentenza “tumore maligno” e dunque potevate anche degnarvi di scendere fra la gente a cercare dialoghi quando c’era tempo ma vi sentivate troppo forti immortali. Francesco Salvador Da Una fragile eternità - Casa Editrice Menna, 2018.
PRESUNTUOSO Pensi di valere; sei un’esile fiamma di candela esaltata dal buio, sommersa dalla luce. Caterina Felici
REDINI A volte pensiamo d’avere in mano salde redini mentre da altre siamo guidati. Caterina Felici Pesaro
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FORTUNATO ALOI, LO STATO, LA CRIMINALITÀ di Domenico Defelice
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ORTUNATO Aloi - conosciuto come Natino Aloi -, per anni docente nei Licei, è nato a Reggio Calabria l’otto dicembre 1938. “Sin da giovanissimo - leggiamo nella bandella del volume Per lo Stato contro la criminalità - ha operato nel mondo della politica, da quella universitaria alla realtà degli Enti locali. (…) da consigliere comunale nella sua Città ed in altri centri della provincia (Locri) a consigliere provinciale, da consigliere regionale a deputato. Come parlamentare (per quattro legislature) ha affrontato temi di diverso genere ed in particolare si è occupato, con grande impegno, di scuola, cultura e di Mezzogiorno. Ha ricoperto l’alta carica di Sottosegretario alla P. I.. È stato coordinatore regionale della Destra calabrese ed anche Segretario per la Calabria del Sindacato Nazionale (CISNAL), dirigente responsabile Ufficio Nazionale Scuola del MSI-DN, Presidente dell’Istituto Studi Gentiliani per la Calabria e la Lucania ed è componente della Direzione nazionale del Sindacato Libero Scrittori Italiani”. Giornalista pubblicista, collabora a diversi giornali e dirige il periodico Nuovo Domani Sud. L’abbiamo incontrato personalmente nel dicembre 2013 ad un Convegno di Studi su Geppo Tedeschi, ad Oppido Mamertina, e ci ha dato, poi, gentilmente, un passaggio sulla
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sua macchina fino a Reggio Calabria. Oratore brillante; mentre noi abbiamo svolto il nostro ruolo leggendo gli appunti, egli ha parlato a braccio, dimostrando non solo capacità di linguaggio, ma preparazione vasta, allargando il suo discorso dallo scrittore e poeta calabrese a tutto il Futurismo. Numerosi sono e premi e i riconoscimenti che ha ricevuto nel corso degli anni e le opere pubblicate, tra le quali ricordiamo: “I fatti del ’70 - Reggio: Rivolta di popolo”, “La valorizzazione della lingua italiana”, “Giovanni Gentile ed attualità dell’Attualismo”, “Il ritorno di Gentile (a settant’anni dalla morte)”. In Per lo Stato contro la criminalità sono contenuti discorsi e interventi in Parlamento, e nel Consiglio Regionale, tutti vertenti sulla criminalità in genere e in specifico su quella calabrese. In Calabria, solo “dopo avere risolto la pesante questione” della ndrangheta, si può “avviare un concreto ed autentico riscatto”. Noi siamo stati sempre tra coloro che hanno considerato e considerano la criminalità quale “cancro sociale”, al quale attribuire “gran parte della responsabilità del mancato decollo del Mezzogiorno”. Perché non si può operare con cappio al collo o il coltello alla gola della delinquenza che giornalmente, nel Sud, spadroneggia e non da oggi; ricordiamo sempre con vergogna e ira il giorno in cui, nella nostra infanzia, per avere un certificato anagrafico con una certa urgenza, al mio paese è stato necessario rivolgersi all’uomo d’ onore, cioè al più disonorevole degli uomini. Fortunato Aloi sembra essere del nostro stesso parere e che, cioè, nessun progresso è permesso al Sud se non prima si debella e radicalmente la delinquenza organizzata. “Si pensi - scrive - che, per consentire la costruzione della trasversale tra lo Jonio ed il Tirreno è stato necessario che il prefetto emanasse un provvedimento che prevedeva effetti analoghi al coprifuoco”. La metastasi è ormai spaventosa e si allarga di continuo, invadendo non solo l’Italia intera, ma numerose altre Nazioni dell’Europa e del mondo. Individuare cause e soggetti non è né facile, né difficile, nel senso che serve prima, a monte, una rigenerazione culturale ed etica dell’intera socie-
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tà, perché ne sono implicati gli apparati dello Stato: forze dell’ordine, magistratura, politici, amministrativi; inviare sull’Aspromonte carabinieri a cavallo o altre forze dell’ordine, senza un vero piano e una vera volontà di operare e reprimere, è solo “un fatto di parata e non certo un intervento teso ad assolvere veramente il compito della salvaguardia dei principi e della difesa dell’ordine pubblico”. Della metastasi criminosa del Sud ne è responsabile principalmente la politica. La criminalità non la si combatte né con le parole, né con i seminari, ma creando lavoro e ricchezza (chi lavora, è più difficile che possa diventare manovalanza delle tante cosche). Invece, sembra che i gruppi di potere che veramente contano - quello economico e quello politico - si siano alleati per soffocare ogni libertà e ogni onesta iniziativa; così, la delinquenza si è fatta soffocante, in grado di strangolare l’Europa e altre nazioni. Le organizzazioni criminali, mai veramente combattute, dal Sud, infatti, hanno prima invaso l’Italia e poi colonizzato il resto del mondo. Occorre produrre ricchezza nel Mezzogiorno, abbattendo le differenze con il Nord. Il Sud ha bisogno di lavoro, non di assistenza e la stessa Europa lo deve capire, perché anche l’Europa ha commesso lo stesso nostro errore: assistere le aree disagiate senza la creazione di lavoro. Basta pensare alla concentrazione della ricchezza, anche in Paesi emergenti, ma tutti intorno alla Germania. La mafia non la si è voluta combattere mai veramente, perché - Aloi si pone retoricamente la domanda dandosi l’affermativa risposta “funzionale al potere” - e ricordando che, spesso, “in prossimità delle elezioni, di punto in bianco, coloro che erano cittadini delle patrie galere, venivano rimessi in libertà quindici giorni prima e diventavano così capi elettori dei partiti di governo”. E detto ciò da uno ch’è stato all’interno dell’apparato dello Stato, sia come parlamentare, sia come componente di Governo, sia negli organi del territorio calabrese, fa pensare e anche rabbrividire. D’altronde, è la verità. La mafia e altre organizzazioni criminali potrebbero essere
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smantellate definitivamente se lo Stato, con i suoi poteri, avesse veramente interesse a farlo, non il contrario come è sempre avvenuto. Perciò non solo Stato assente, ma Stato connivente. Tutti i brani che compongono quest’opera di Fortunato Aloi sono datati, ma nessuno ha perso la sua efficacia, perché, negli anni, nulla è cambiato se non in peggio. Le istituzioni regionali sono state un miglioramento o un peggioramento nel rapporto tra Stato e territorio? Il nostro pensiero è che è stato un peggioramento, se non altro perché ha dato adito allo Stato di disinteressarsi di alcuni fondamentali problemi adducendo la responsabilità agli Enti locali e, questi, a loro volta, imputandola allo Stato. Così, tra alibi e alibi, rimbrotti reciproci, si è arrivati alla situazione attuale, la peggiore di quanto si potesse immaginare, nella quale - ripetiamo - interi territori sono esclusivamente in mano della criminalità, come la Calabria. Negli “anni ottanta”, in Calabria, “c’era veramente un clima di invivibilità”. E prima? E dopo? Prima degli anni ottanta, abbiamo condotto una inchiesta in proposito, dalla quale è scaturita, poi, quella nostra stringata ma efficace silloge La morte e il Sud (1971), che ha ottenuto tanto successo, da interessare perfino La Fiera Letteraria. La situazione, da allora, è forse cambiata? No, è solo peggiorata e oggi la velenosa caligine della delinquenza pesa più che mai su tutta la regione, tanto da non venire più denunciata per rassegnazione e sfiducia. “Non è compatibile - scrive Aloi nel 1993 che, mentre la stagione delle riforme sta investendo la Camera, il Senato ed altri settori, la Regione Calabria resti ancor nel limbo”. Aloi riconosce il dovere dello Stato - non solo della Regione - quando afferma: “Pertanto, rimuovere in Calabria i motivi di difficoltà in cui debbono operare alcune forze professionali, culturali ed economiche credo sia uno dei doveri principali che dovrebbe avvertire lo Stato italiano”. E ancora: “…se la questione reggina, come quella meridionale, non diventa d’ordine nazionale, tutte le nostre fatiche ed i nostri impegni potrebbero diventare vani” - no, non potrebbero, sono vani! -; “…è
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necessaria una presa di coscienza da parte dello Stato, da parte del Governo!”. Ma ciò non è avvenuto in passato, né è nei programmi degli attuali partiti, ognuno affogato nei propri dilemmi di potere, non nella volontà di risolvere problemi cruciali che da sempre assillano la gente. Sarebbe necessario potenziare scuola e cultura, per accrescere nella popolazione il senso dello Stato e l’amore per la legalità. E di tutto questo, negli attuali partiti, non c’è traccia. Aloi, infine, ricorda che il potere di uno Stato non può mai discendere dalla sua violenza, ma “dall’autorevolezza culturale”, ciò che noi in toto sottoscriviamo. Domenico Defelice FORTUNATO ALOI - PER LO STATO CONTRO LA CRIMINALITÀ - Luigi Pellegrini Editore, 2017 - Pagg. 88, € 10,00
PATRIMONIO DELL’UMANITÀ Scopro ogni giorno un nuovo luogo dichiarato dall’UNESCO Patrimonio mondiale dell’umanità. Penso che per questo o quel motivo ogni metro quadro di questa nostra bella Terra meriti di essere protetto e conservato. Mi domando quando ci renderemo conto veramente del grande privilegio che ci è dato di vivere su questo pianeta vagante fra le stelle, che rischia di terminare il suo viaggio proprio per colpa nostra, disintegrandosi con il suo carico di bellezze naturali e artistiche. Perché non dichiarare il mondo intero Patrimonio dell’Umanità Universale ?
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E cercare tutti di conservarlo sempre con amore, perché soltanto con l’amore e la bellezza si salverà questa nostra … umanità. Mariagina Bonciani Milano
ALLA TERRA I NOSTRI RESTI La terra divoratrice apre e chiude le labbra, fauci in stretta aderenza sciolgono i molli umori, succhiano alimenti. Pietre e terra rossastra, ingoiati resti spezzati, corpi caduti. Sepolture sempre, sogni e figure, case sprofondate. La terra prende scorie e rottami, abbisogna di riempirsi, aspra e assestata, lacrime e dolcezze fuggire dentro le profondità tenebrose. Un sole sopra di ferro che riversa sangue splendido, subito in fretta a sommergere la fossa. Tutto ammassato, pulito e disteso, non c’è un segno della giornata caduta. Chi è andato via è arrivato in fondo in un baleno. Strati sconosciuti, non vedi chi ci ha abbandonato. Siamo ritornati indietro, la terra fermentante tiene la nostra inesistenza. Si apriranno i solchi vaporosi, friabili, nuovi semi per la vita. Brillii, esaltazioni, frutti maturi, sole dorato sopra i corpi all’inizio del cammino, nuove primavere ridenti, risvegliate dal limo della continuazione. Leonardo Selvaggi Torino
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 3/6/2018 Dal palco, Luigi Di Maio ammonisce i suoi: “Fermi, fermi, fermi! Non occorre più fischiare. Da oggi, il Governo siamo noi!” Alleluia! Alleluia! Èia èia! Alalà! Domenico Defelice
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NELLA MENTE Nuova opera polisenso di Rita Notte di Antonio Crecchia
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L concepimento di questo nuovo lavoro letterario-artistico di Rita Notte è maturato nel corso del mese di dicembre 2017, “aspettando Natale”, e portato a termine nella seconda decade di marzo. Un parto invernale, con caratteristiche riflessive, diaristiche, discorsive, poetiche, e l’inclusione di significative foto di denso valore artistico. Un libretto dal taglio snello e consistenza polposa e seducente che s’impone all’attenzione del lettore per i riflessi che il pensiero produce con l’osservazione attenta all’interiorità dell’ essere, alla storia, alla fenomenologia naturale, al variare ed evolversi nel tempo e nello spazio. Questo incessante lavorio speculativo evidenzia l’importanza primaria dei due tratti della personalità: la mente, sede dell’ intelletto, e del cuore, luogo dei sentimenti; dalla loro armonizzazione, dalle ragioni dell’amore che s’inverano nella mente, nasce l’opera d’arte. Il discorso, quindi, va imperniato anzitutto sull’aspetto tecnico, il quale ben collaudato in precedenti prove letterario-artistiche, si impone per la varietà dei linguaggi e delle tematiche messi in atto dall’Autrice. Al lettore attento non sfugge la componente filosofica, ossia la discorsività concettuale volta a rilevare la coerenza dialettica nell’ affrontare problematiche di natura intellettuale. Nella esplicazione dell’immagine di copertina, si percepisce una volontà d’indagine psicologica e filosofica volta alla conoscenza del profondo, di quell’ego che è all’origine della nostra identità; una identità sempre da approfondire e conoscere meglio nei suoi aspetti
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sintonici e distonici, nelle sue aperture verso l’altro, il mondo, la luce e la verità, ma anche nelle sue chiusure e spinte prevaricatrici. Rita Notte, in perenne sintonia con il suo Io, trova, nel “monologo interiore”, la spinta a impostare con se stessa un discorso dianoetico, il quale, nel momento in cui l’espressività si fa funzionale alla comunicazione, acquisisce i caratteri dell’eticità ed esprime il suo potenziale educativo. La Nostra sa anche, però, che fermarsi a scrutarsi dentro, a volgere gli occhi della mente soltanto al proprio io, significa in qualche modo contemplare e compiacersi del proprio narcisismo. E Rita, cultrice dei propri doni intellettuali, della propria vocazione a essere soggetto e oggetto della storia, si proietta in quel mondo ideale in cui il sogno acquista fede nella speranza che, in futuro, il mondo intero sia unito e solidale. Da qui la sua condivisione, in omaggio ai “Beatles”, del canto di John Lennon (Imagine, 1971). Noi che siamo nati nel riottoso calderone del XX secolo, ribollente di odi, nazionalismi, colonialismi, fondamentalismi religiosi, egoismi e folli demagogismi per sete di potere, abbiamo conservato nella memoria l’ immagine devastante del crollo delle Torri Gemelle di New York. Ecco “l’immagine” che Rita ha di quel “September 11th”: “In un attimo il vuoto, il buio, il silenzio”. Un attimo di oscurità, di terrore, di caos. Il mondo si rende conto della fragilità e deficienze della civiltà moderna, di continuo esposta al potenziale distruttivo detenuto da regimi politici che fanno dell’antago-nismo il dio da onorare in guerra e in pace. Non può dirsi “sognatore” colui che pensa che dall’ oscurità può nascere “un’intensa luce”: una luce di fratellanza, di solidarietà, di benessere per tutti e di pace. Da qui, sulla scia del canto di John Lennon, l’invito degli studenti della Classe IV T.A.M.A. - I.S.I.S.S. “Guglielmo Marconi” di Vairano (Prof.ssa Rita Notte) rivolto al mondo che spera: Sopravvivi sperando sopravvivi lottando in cammino con noi in cammino con noi
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“You may say we are dreamers” Ma non smettere mai di sentire, andare, amare Segui la via del bene lasciando quella del male. Idealismo? Sì, idealismo antico, platonico se vogliamo, che è alla base di ogni sana cultura, di ogni civiltà che guarda al futuro con gli occhi aperti e sorridenti della speranza. Ah, il vecchio geniale saggio Platone, quanto è stato obliato, smemorato da coloro che hanno nelle mani il potere di educare i giovani! Se consideriamo che l’aspirazione alla virtù, che compendia concetti educativi quali la libertà, la saggezza, il bene, la giustizia, la misura, il coraggio, la bellezza, la temperanza, la santità, è stata mortificata, calpestata e corrotta dai tanti mistificatori viziati dentro i tanfi della demagogia politica, si affaccia “l’immagine” perversa e satanica di un mondo senza pace e senza amore, di caste e mafie operative per fini personali o di parte, ingorde e voraci, insensibili ai problemi reali che mettono giorno dopo giorno a dura prova l’esistenza di milioni di persone. Siamo, ormai, in presenza di una rovinosa ricaduta nel ventre più oscuro del medioevo. Allora Chiesa e Impero, Guelfi e Ghibellini, Bianchi e Neri, opulenza di pochi, stenti e miseria di intere nazioni, guerre e epidemie sempre in agguato, vittime in crescita esponenziale. Oggi, l’era delle discordie politiche, dei fondamentalismi sanguinari, delle ideologie populiste, della violenza gratuita, delle persecuzioni razziali, con conseguenti eccidi, genocidi ed olocausti, del bullismo degenere, figlio del permissivismo e della diseducazione programmata. L’esercito della filibusteria umana prospera e si accresce sotto una logora e nauseante bandiera in cui campeggiano insipienza, irresponsabilità e malaffare. Amarezza, delusione, sfiducia nelle istituzioni, incredulità e impotenza a fronte di tanto cinismo e ottusità di mente e di cuore. “Dalla radio una voce distaccata, dal tono metallico, continua a dire di scontri, di agguati, di guerra e violenza, di truffe, di mani cattive che ordiscono la ragnatela del male. Viene immediato e spontaneo chiedere il per-
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ché” (pag. 38). A questo quadro, in cui si affollano i tratti più deprimenti delle attuali vicende umane e sociali, Rita Notte reagisce con l’affabilità delle creature che hanno nutrito la propria anima e la propria esistenza con l’ accostamento quotidiano alla mensa del Vangelo, assumendo il cibo della Parola che illumina e innalza, sazia del Bene e della letizia di vivere in solidale comunione con il prossimo e il creato. Già, il CREATO: spazio e rifugio sconfinato della “mente”, “scoperta che seduce tutti sensi”, che abbaglia la nostra Artista e le offre le occasioni per intuirlo nella sua immensità, leggerlo con la mente, descriverlo con la parola, fissare sul calendario del tempo i particolari che si rivelano ai suoi occhi quali segni dell’ineffabile mistero della vita e dell’arte vivificatrice, stimolatrice di nuove scoperte e intense emozioni. In un suo recente messaggio, accompagnato dalla foto di un vecchio capannone in disordine, simbolo di uno Stato-baraccone in rovina, abbandonato a se stesso, alla mercé di un vandalismo politico becero, arrogante e irresponsabile, la Nostra ha scritto: “Povera Italia"! È così che io la vedo da troppo tempo, ormai!”. Condivido, in un momento di crisi profonda della politica dei partiti, privi del senso dello Stato, il pensiero della Scrittrice, comune a tante persone che assistono al vertiginoso progredire della decadenza di questa bella e amata Italia, ridotta, come ai tempi di Dante Alighieri, a un “bordello”, preda di corvi e avvoltoi, invasa da clandestini e delinquenti provenienti da tutto il mondo, incoraggiati a raggiungere le nostre sponde dai moderni negrieri-masnadieri-speculatori interessati a colossali profitti, tali da soddisfare la loro insaziabile spudorata brama di denaro e di ricchezza. Coloro che hanno decretato il ritorno dell’Italia alla barbarie, dovrebbero nascondere la faccia per la vergogna; invece, ridono! Ma si sa: “risus abundat in ore stultorum” (il riso abbonda sulla bocca degli stolti). In conclusione, la scelta di una letteratura caratterizzata da una varietà di stili e di componenti rappresentative di sensazioni e im-
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magini scaturite dall’osservazione diretta della realtà o da istanze che nascono “nella mente”, non manca di produrre nel lettore un interesse culturale in presenza di limpide prose, spunti di natura filosofica e psicologica, aforismi che rivelano convinzioni e verità di ordine conoscitivo e morale, appunti di conversazioni a distanza, poesie che convalidano e inverano l’acquisizione concettuale dell’ Autrice, secondo cui, nella trasparenza del dettato lirico come nella rappresentazione delle proprie emozioni, scaturite da metodica osservazione e introspezione, “si fondono luce e colori, ingenerando una sinfonia armoniosa che nutre e rallegra generosamente l’anima”; il tutto incorniciato e arricchito abbondantemente da scatti fotografici, rivelatori di realtà e riflessi, di verità e bellezza. Antonio Crecchia
TEPORE Ho iniziato il percorso dentro la nicchia calda dell’estate. Traccio una traiettoria con gli occhi spalancati sul mistero, con gli altri viaggiatori. Sto attraversando tutte le stagioni con l’arma del coraggio, per dare un senso all’avventura strana. Sarò sbiadita frase nel colossale libro della storia, ma serberò il tepore di quell’impronta estiva dell’inizio. Elisabetta Di Iaconi Roma
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che racchiudono i segreti di tutta la mia vita, che l'eco emettono ancora della voce dei miei avi. Sarà dolce, per me, uscire dalla mia casa, "partire", per sempre, con l'immagine negli occhi delle cose che mi furono utili, che mi fecero compagnia, di tutti voi, che amai, ricambiato>>. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo al Volturno, IS
MACCHINES Cosa sarebbe di noi senza le macchine scrivere, pulire la casa, andare a fare acquisti o andare in chiesa; misurare l'acqua o il sangue nelle nostre vene, per inviare messaggi per via aerea, salire ai piani alti accendere le luci, tagliare il legno e convertirlo in fertilizzanti all'erba ... Cosa sarebbe di noi senza il microfono per proiettare la voce e dire: Ti amo! Teresinka Pereira USA - Traduzione di Giovanna Li Volti Guzzardi, Australia
COME L’OSTRICA <<Non mi portate in ospedale, a finire i miei giorni>> implora il vecchietto impotente e malato <<Io sono come l'ostrica. Non mi staccate con la forza dalle pareti che mi protessero dal freddo e dal vento,
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 2/6/2018 Aliscafo per Capri: due turisti tedeschi rubano il portafoglio a uno di Napoli. Alleluia! Alleluia! Un Napoletano scippato dai Tedeschi! S’è capovolto il mondo! Domenico Defelice
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ELDA FOSSI ELENA – SOLO PER AMORE di Liliana Porro Andriuoli A sempre nell’immaginario collettivo il nome di Elena è collegato ad una donna di grande bellezza e di straordinario fascino, pur se dai costumi non propriamente irreprensibili e capace di sedurre irresistibilmente coloro che cadevano nelle sue reti. Molto di lei si è scritto, da Omero a Euripide; e numerosi altri poeti, nei secoli successivi, ne hanno ricordata la figura, ora difendendola ora accusandola per il suo agire. Colpevole o innocente? Il dibattito sulla colpevolezza o l’innocenza di Elena è stato oggetto di numerose prese di posizione nella letteratura del mondo antico. Qualcuno sostiene che Elena ha seguito l’affascinante principe troiano perché rapita da lui in modo violento, qualcun altro perché travolta dal potere di Afrodite e dell’Amore a cui nessuna creatura vivente può opporsi. Da un punto di vista schiettamente psicologico, si è occupata di lei anche Elda Fossi in un interessante libro intitolato Elena – Solo per amore, nel quale ha cercato di penetrare l’ animo dell’antica regina di Sparta, per meglio comprenderla, seppur nell’ottica della sua innocenza, in quanto vittima di Afrodite. Il li-
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bro, che è suddiviso in quattro parti (Elena di Sparta; Elena di Troia; Il ritorno e L’isola bianca), precedute da un’Introduzione, costituisce appunto un approfondimento della personalità di questo tanto discusso personaggio, che in realtà è più complesso di quanto si potrebbe dapprima pensare. Nell’Introduzione al libro la Fossi ci presenta Elena, sposa di Menelao, nel suo tempo e nella sua reggia in Laconia, nel pieno del suo potere di Signora della casa, con tutti gli agi che quella società, colta e raffinata, recante ancora “tracce dell’antico matriarcato”, offriva ad una donna della sua condizione. Sembra quindi naturale che, un po' per l’ ambiente in cui viveva, un po' per la considerazione in cui nel suo mondo era tenuta e un po' per la libertà e i poteri di cui godeva, Elena fosse particolarmente disposta ai piaceri della vita e che, pertanto, fosse altrettanto facilmente “disposta all’amore”, che a lei si presentò nelle vesti di Paride, il bellissimo principe giunto da Troia, ospite del marito Menelao, per un rito di purificazione. La regina di Sparta fuggì infatti con lui, rischiando addirittura la morte (a quell’epoca infatti “il tradimento era pagato con il sangue”), e lo fece, sostiene Elda Fossi, unicamente “per amore, o per la follia di Afrodite, che, a ben guardare, sono la stessa cosa” (p. 14 - 15). Oltre alla sua grande avvenenza, Paride d’ altra parte, godeva anche della protezione della stessa dea dell’amore. Aveva ottenuto da lei tale privilegio in seguito al giudizio, da lui espresso per volontà di Zeus, nel quale aveva preferito Afrodite ad Hera e ad Atena. Tale giudizio si era reso necessario in seguito alla sfida di Eris, la dea della discordia, adirata per non essere stata invitata alle nozze di Peleo e di Teti. “Alla più bella!” aveva detto Eris, lanciando il pomo aureo tra i piedi dei convitati e Paride, allora pastorello sull’Ida, chiamato a pronunciarsi, aveva offerto il pomo ad Afrodite, che per compensarlo gli aveva promesso l’amore della più bella delle donne: Elena, appunto. “C’è sempre”, commenta in proposito l’ autrice, un momento, anche se breve come un battito di ciglia, in cui l’uomo può scegliere la
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sua strada, nel bivio che porta a destini diversi” (p. 67). E Paride aveva fatto la sua scelta: il suo destino ormai era segnato, così come lo era il destino di Elena, la quale però aveva seguito Paride più per il volere della dea che per un suo libero atto di volontà. Ed è appunto ciò di cui ella si accorgerà nel momento in cui la Fama avrà per sempre disonorato il suo nome. La narrazione è condotta dalla Fossi in prima persona e ad intervenire non sono solamente gli eroi Achei e Troiani, ma continua fin dall’inizio del romanzo si avverte alle loro spalle la presenza degli dei dell’Olimpo, sempre pronti ad interferire nelle faccende umane, a favore o a sfavore degli uni o degli altri. Elena inizia il suo racconto (Parte Prima) con i preparativi che vennero fatti per le sue nozze: molti infatti erano i pretendenti che si contendevano la bella figlia di Giove e di Leda1. Dopo che Odisseo aveva legato i principi e i re intervenuti con un patto che li vincolava a sostenersi reciprocamente in caso di una guerra, già prevista, contro Troia2, la città che precludeva agli Achei i mari e le terre di Oriente, la scelta cadde su Menelao, fratello di Agamennone, re di Micene. Arriviamo così al pretesto per cui si giunse alla fatidica guerra: il ratto di Elena da parte di Paride, il quale fu favorito nella sua impresa anche dall’imprevista e improvvida assenza di Menelao, che si era dovuto recare a Creta per partecipare ai funerali del nonno Catreo. Afrodite aveva in tal modo mantenuto la promessa fatta al giovane, legando Elena a lui con un amore irresistibile. “La dea ci amava entrambi, ci possedeva entrambi e avrebbe protetto quell’amore che si intesseva sempre 1
Secondo la versione più diffusa del mito Elena era figlia di Zeus e di Leda, sposa di Tindaro, re di Sparta. Zeus si era presentato a Leda sotto forma di cigno e dalla loro unione sarebbe appunto nata Elena. 2 È ormai opinione generalmente condivisa che le cause che portarono alla guerra di Troia furono di ordine economico-commerciale, dal momento che il controllo delle rotte navali verso l’Oriente era nelle mani dei Troiani, i quali facevano pagare ai Greci alti pedaggi per il transito.
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più forte”; di questo Elena non dubitava minimamente e fu così che si abbandonò a quel sogno giovanile che la travolse. Ecco come la bella regina di Sparta ricorda la sua prima notte con Paride: “Quella notte, accanto al respiro del mare scuro inondato dai raggi della luna, fummo Elena e Paride, fummo Afrodite e Ares, e conoscemmo come amano gli dei” (p. 70). E così, proprio in virtù di quell’ amore, Elena abbandonò la sua vita di regina di Sparta, il marito, la figlioletta Ermione, i genitori e i parenti, per affidarsi a Paride e fuggire con lui a Troia. Nella seconda parte (Elena a Troia), la più corposa e complessa del romanzo, viene narrato l’arrivo a Troia dei due amanti, dove trovano accoglienza per volere di Priamo; e dei conseguenti e immediati preparativi di guerra da parte degli Achei, decisi a vendicare l’ offesa del ratto della bella regina di Sparta. In Grecia si ha a questo punto il sacrificio di Ifigenia, (nipote di Elena, in quanto figlia primogenita di Agamennone e di Clitennestra, sua sorella), compiuto dal padre, per placare l’ira di Artemide e propiziare così la partenza della flotta verso la Troade. Le vicende belliche e il difficile rapporto tra Elena e Afrodite, che Elena inizia ad avvertire sempre meno amica e sempre più come la dea che si è servita di lei per ricompensare Paride del giudizio dato in suo favore in occasione della contesa con Era e Atena, costituiscono la materia che Elda Fossi tratta con sicurezza e competenza in questo avvincente libro, che ha come protagonista appunto Elena. Il racconto procede fluido e ricco di particolari, attinti dal vasto patrimonio della mitologia greca (poemi omerici e opere di poeti successivi), che ci permettono di ricostruire compiutamente quel mondo tanto lontano da noi, ma soprattutto ci permettono di meglio comprendere la psicologia di quel personaggio tanto discusso che è Elena. Particolarmente efficaci e molto ben sviluppate appaiono le pagine dedicate alla lunga guerra degli Achei contro i Troiani; pagine nelle quali nette si stagliano le figure degli eroi guerrieri: Achille, Agamennone, Diomede, Aiace, Odisseo, Ettore, Sarpedonte, ecc.,
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che con le loro vicissitudini ne segnano i momenti cruciali; e spontaneo è soprattutto l’ intrecciarsi dei miti, che l’autrice evoca con disinvolta bravura. Numerose e altrettanto felici sono anche le notazioni psicologiche che colgono, nel loro evolversi, tutte le sfumature dell’animo di Elena, la quale rivà alla sua avventura e ne intravede le luci e le ombre, che col passare del tempo si fanno sempre più fitte, insinuando nel suo cuore dubbi e pentimenti circa il suo operato, sicché ella precipita in una vera e propria crisi esistenziale dagli sviluppi inattesi. Ecco alcuni dei suoi più frequenti rovelli interiori: “Credevo, lasciando Sparta dove ero regina, […] che l’amore sarebbe rimasto per sempre tra noi, sempre immutato, per sempre immutabile” (p. 87); “Quanti anni sono passati, lentamente e crudelmente, e la vita che doveva essere una luce d’oro nutrita da Eros è divenuta solo una apoikia, un dimorare lontano dalla patria, un esilio” (p. 97); “Voglio andare via da questo luogo di morte e di dolore […] dagli sguardi che, pur senza parole accusano e disprezzano me Elena, e Paride, più odiato della peste nera per aver portato Troia a questo [punto], per i piaceri del talamo” (p. 147). Determinante sia per l’esito della guerra che si combatte sul campo e sia per l’esito di quella che si combatte nell’animo di Elena è il duello fra Menelao e Paride, che avrebbe potuto essere risolutivo della contesa, ma che invece, a causa dell’intervento di Afrodite, sopraggiunta inopinatamente nella mischia per salvare Paride dai colpi del suo avversario, si risolve in una farsa. E così, mentre Elena è ancora intenta a guardare dall’alto delle stanze del palazzo di Priamo gli eroi Achei che, seppur sconcertati, continuano il combattimento, la Fossi ci informa come, alle spalle della sua protagonista, sotto le sembianze della “più abile filatrice” spartana, che era rimasta nel Palazzo e non aveva seguito Elena a Troia, si faccia avanti la stessa dea Afrodite, che con voce invitante le propone di raggiungere Paride “nel talamo profumato”. E ci informa pure su come, al netto e sdegnato rifiuto di Elena, quella voce da invitante diventi
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minacciosa e, in tono intimidatorio, le ingiunga: “non sfidarmi più, Elena, […] o farò perire in un solo giorno la bellezza di cui tanto ti vanti” (p. 116). Elena allora cede, ma al contempo acquista una maggiore consapevolezza, accorgendosi di come ora tutto sia cambiato: del suo sentire verso Paride non è rimasta che “l’attrazione di Eros” (p. 116). Dopo la morte del valoroso Ettore ad opera di Achille sempre più prossima si fa la fine del conflitto e il momento della caduta di Troia, per la cui descrizione è inevitabile il richiamo all’Eneide virgiliana. Seguono alcuni episodi di particolare importanza, come quelli della morte di Achille, ucciso da una freccia di Paride e quello della morte di Paride, ucciso da una freccia di Filottete. Da notarsi è che l’ultimo pensiero di Paride sarà per Elena, che però ormai non l’ama più, sicché egli muore solo. Gli eventi si susseguono veloci, con il furto del Palladio da parte di Odisseo, che lo sottrae a Troia, trafugandolo dal tempio di Atena; la finta ritirata degli Achei sulla flotta, al di là dell’isola di Tenedo; il tradimento di Sinone e l’ingresso del cavallo di legno in Troia, dopo la terribile morte di Lacoonte e dei suoi due figli; l’incendio e la distruzione della città. Con la morte di Priamo e il ritorno di Elena nelle mani di Menelao la seconda parte del romanzo volge al termine. Molto efficace è qui la scena nella quale Elena riesce a placare l’ira dello sposo offeso, precipitatosi nella sua stanza ancora invasa dal fumo della città in preda alle fiamme. Ella riesce a sottrarsi quasi miracolosamente alla sua spada, già tesa a colpirla; ma forse c’è da dire che la sua salvezza era stata già in precedenza decisa, in alto loco, perché per ragioni politiche “al gran re [Agamennone], come a Menelao, serviva Elena innocente” (p. 180)3. D’altra parte tutti 3
È da ricordare a proposito della presunta innocenza di Elena, che Euripide, nell’omonima tragedia, sostenne che non lei andò a Troia, ma un suo simulacro, mentre la vera Elena fu condotta da Ermes in Egitto, per voler di Era, dove rimase fino alla conclusione della guerra, con la distru-
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ormai erano convinti che fosse impossibile “resistere agli dei”, sempre partecipi delle cose umane. Ne era convinta Elena stessa che, per volere di Afrodite, era fuggita con Paride; ma lo aveva sperimentato anche Menelao che, malgrado il suo coraggio e la sua superiorità nell’uso delle armi, non era riuscito ad uccidere Paride, scomparso all’improvviso dal campo di battaglia per l’intervento di Afrodite. Di notevole efficacia sono anche le pagine che descrivono il ritorno degli Achei in patria (Parte Terza), preceduto dallo scontro tra Elena ed Ecuba, fatta prigioniera, che accusa la spartana di essere stata lei la causa della rovina di Troia e della sua famiglia. Di uguale efficacia sono le pagine successive dalle quali emerge la figura di Cassandra, con le sue raggelanti profezie riguardanti la morte sua e quella di Agamennone. E così, dopo un viaggio inizialmente tranquillo, ma funestato verso il suo termine da una violenta tempesta, scatenata da Poseidone, sempre avverso agli Achei, Elena potrà finalmente riprendere la sua vita di un tempo, quale regina di Sparta. Qualcosa però è ormai profondamente mutato in lei, rendendola più consapevole di sé e più inquieta. Nell’ultima parte (la Quarta) incontriamo la protagonista, ormai passata a miglior vita, nell’Isola bianca, l’Isola dei Beati, dove viene accolta perché “figlia di Zeus” e quindi sottratta all’Ade, che ospita i comuni mortali: “E sono arrivata qui in un sogno di nebbia dorata, non so come, né so da quanto tempo” (p. 212). Ed è proprio qui, nell’Isola dei Beati che Elena, camminando sui “bianchi sentieri di morbida sabbia”, incontra Afrodite, nella quale si è da sempre identificata, ma che ora ha le gelide fattezze del marmo e la guarda con distacco. Successivamente incontra Persefone, la Regina dell’Ade, con la quale ripercorrendo la propria vita, scoprirà il perché del suo fallimento. Persefone le spiega infatti come il suo zione di Troia. Solo all’arrivo di Menelao, il suo legittimo sposo, poté poi, attraverso complicate avventure, far ritorno con lui in patria.
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errore sia stato proprio quello di aver “amato Afrodite oltre la misura”, identificandosi nella dea a tal punto da perdere la sua vera personalità. Gli uomini che l’hanno amata pertanto non “stringevano fra le braccia” lei, Elena, ma l’immagine che lei stessa aveva “costruito” (p. 219). Elena comprende allora di aver avuto un cuore “diviso” tra molti amori e di non aver compreso sino in fondo neppure l’amore di Paride, che morì senza averla accanto, ma con il suo nome sulle labbra. Forse non era stata dunque Afrodite a tradirla, ma era stata lei, Elena, a tradire Afrodite. Per trovare veramente se stessa Elena avrebbe dovuto invece, le spiega ancora Persefone, cadere nella “Ruota delle Rinascite” e rivivere così la propria vita, tenendo conto delle esperienze compiute; ma solo Zeus, da lei invocato, avrebbe potuto concederle tale privilegio. Si conclude in tal modo un romanzo mitologico che l’autrice definisce di “mitopsicologia”, perché in esso il mito viene analizzato a fondo allo scopo di scandagliare l’animo dei personaggi, per comprenderli appieno. Un libro intenso e profondo questo di Elda Fossi; ma anche un interessante romanzo che, pur essendo ambientato nel mondo della Mitologia greca classica, e da essa attingendo la fabula, è scritto in maniera vivace ed avvincente, così da far ritornare ancora fra noi, con le sue attese e i suoi amori, una donna famosa dell’Antichità. Dopo Persefone. La luce del buio e L’ ultima sirena, questo suo nuovo libro sta ancora una volta a dimostrare le non comuni doti di scrittrice che Elda Fossi possiede. Liliana Porro Andriuoli ELDA FOSSI: ELENA – SOLO PER AMORE (Moretti & Vitali Editori, Bergamo, 2013, € 14,00)
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Il SERCHIO POETICO DI
NAZARIO PARDINI di Maria Grazia Ferraris
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L Serchio pur essendo un fiume di tutto rispetto è certamente un fiume meno famoso del suo fratello Arno, ma non meno felice quanto a citazioni, poesia, dipinti, emozioni artistiche. .. Lo citava Dante, ricordandone la frescura, Ariosto nelle sue Satire, D’Annunzio, che nell’Alcyone, alla ricerca della foce scrive: “Il Serchio è presso? Volgiti all'indizio. Ecco la sabbia tra i ginepri rari, vergine d'orme come nei deserti. Si nasconde la foce intra i canneti? La scopriremo forse all'improvviso? Ci parrà bella? No, non t'affrettare! ….Liberi siamo nella selva, ignudi su i corsieri pieghevoli, in attesa che il dio ci sveli una bellezza eterna. Non t'affrettare, poi che il cuore e ' colmo.” E il Pascoli in Odi e Inni, che appartengono al «periodo pisano» del poeta, e costituiscono l'espressione più tipica della sua «poesia civile», così lo canta : “Te vidi, quando sceso, negli umili tuoi giorni di magra, dal monte, parevi arrossire del ponte: del ponte grande, tu sottil rivolo, roseo per una nuvola rosea, cui chiesero, il giorno, le polle, che le ravvenasse, e non volle… …la sera, o Serchio, mentre sul candido tuo greto fitte squittian le rondini, dicevi: «Oh! in quest’afa d’estate le mie spumeggianti cascate!… Vo mogio mogio: povero a povere genti discendo, piccolo a piccoli poderi che sembrano aiuole, ma che ora inaspriscono al sole.” Anche il grande Ungaretti così lo rievoca: “Questo è il Serchio/ Al quale hanno attinto/ Duemil’anni forse/ Di gente mia campagnola/ E mio padre e mia madre….” Scriveva Ungaretti rievocando i fiumi che hanno segnato la sua vita: …” Questa è la mia nostalgia/ Che in ognuno/ Mi traspare/
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Ora ch’è notte/ Che la mia vita mi pare/ Una corolla/Di tenebre” Perfino il pittore incisore Giuseppe Viviani, di non perduta e riconosciuta fama, che viveva tra Bocca di Serchio e Boccadarno, terra di pescatori e di venditori ambulanti, dove andava a caccia col suo immancabile fucile e i suoi amati cani, solitario e autodidatta, e negli anni Cinquanta si definiva Il Principe di Boccadarno senza Corona, con sudditi ambulanti, e penna facile …. dedicava alla sua terra, oltre gli incantati dipinti e le incisioni, le acqueforti, le litografie, i disegni e aveva dedicato anche frammenti lirici, dimostrando di possedere, tra le tante capacità artistiche, anche quella della parola poetica: “Là dove placido trascorre il Serchio, acque remote, brividi e luci, dell’Universo! luoghi che ancora restano al mondo, perché tristezza, almeno un angolo, abbia giocondo! …Ventilar di canneti garosi di star cheti cheti, come quest’acqua che al ciel apre le braccia.. Ora una nuvola, ora quell’altra s’abbassan quasi, a toccar l’acqua, poi, d’un balzo, pregne d’odori, portano al sole umidi umori. Capanne vuote in su la foce, vedo ombra densa, di placido velluto nero dalle finestre, che non han vetri, non vi dimorano dentro i poeti?” Pure lo scrittore Guglielmo Petroni, vincitore del premio Strega 1974, dedicava al fiume il suo romanzo La morte del fiume, non alla ricerca di un idillico tempo perduto, ma recuperando il passato e le sue esperienze, per farle diventare una conoscenza nuova, consapevole, e coglieva nel fiume e nel suo divenire la comprensione delle ragioni profonde dell’esistenza. Il Serchio è il fiume di N. Pardini. In una breve conversazione Pasquale Balestriere, a commento della sua ultima poesia “Nausicaa sul Serchio”, (pubblicata sul blog Alla volta di Lèucade di luglio, 2017), gli contesta benevolmente e scherzosamente la dislocazione: “Nausicaa sul Serchio no! A fa-
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tica lo concedo alla tua immaginazione (che del resto chiami in causa già dal primo verso), alla forza della tua fantasia poetica….”; …dice, rispondendo, Nazario Pardini: “… non volevo assolutamente defraudare Nausicaa delle sue ischitane origini, e poi al Serchio, fiume piccolo e di poco conto per i giochi della bella odisseica fanciulla. Il fatto sta che mi trovavo giorni fa sulla bocca del mio fiume, e stavo osservando le sue acque che si spengevano quietamente nel mare, e tutto attorno rovi e pinete. Una natura selvaggia e primitiva. “Quasi quasi la nobilito con una reminiscenza -anche se parecchio personalizzata- omerica" ho pensato. Ed in breve ho veduto Ulisse uscire affaticato dal mare, e la principessa con le ancelle giocare a palla sulle rive. "Perché non trasferire il tutto in poesia" mi sono detto. Ed ecco Nausicaa sulle rive del Serchio, fuori da ogni contesto culturale, che in questi casi ritengo piuttosto dannoso. Ho sempre immaginato che alla foce del Serchio nel punto in cui il mio fiume sfocia in mare ci fossero fanciulle arzille e gaie a stendere il bucato sopra i rovi che si assiepano attorno. E che nel fosco delle pinete zeppe di frescura ci fossero, sepolti dalle foglie, naufraghi a riposare nell’attesa di essere destati dalle grida delle stesse fanciulle intente al gioco. In ogni luogo delle mie canzoni ci sono Nausichee a ricordare lo splendore degli anni. Il bello dell’amore. il fulgore del bello. … … Il fiume si disperde e quieto è il mare, le cui onde carezzano le sponde con dolce melodia. Da quell’acque esce spossato Ulisse, naufragato, spoglio di panni e salvo dagli affanni. Si addormenta in disparte, ricoprendo di foglie sparse il corpo affaticato…. … Fuggono le ancelle in qua e in là stupite dalla insolita presenza di un uomo logorato dai marosi. Ma Nausicaa resta. A lei si volge, rapito dal fulgore dei suoi occhi, Ulisse sbigottito, frastornato:
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“Sei donna o dea? Incantevole visione?...” Per un nuovo sentir che la percorre lei gli si scioglie, sorpresa dalla vista di un divino apparire, dalla grazia di un fisico scolpito dai salmastri…. Una sperimentazione ardua, interessante, di un “sincretismo poetico che mescola e fonda l’antico con il moderno in un’operazione mitopoietica di recupero e di ri-creazione”. Il nostro pensiero ha bisogno di questa pulsazione… La mitopoiesi ("creazione del mito") è un genere narrativo nella letteratura moderna dove viene sintetizzata una mitologia fantastica dall'autore. Queste nuove mitologie, invece di emergere dopo secoli di tradizione orale sono create in un breve periodo di tempo da un singolo autore o da un piccolo gruppo di collaboratori. E puntualizza del resto con grande consapevolezza N. Pardini: “ L’arte, categoria dello spirito antecedente alla funzione della ragione, si fa tale, se interviene con forza suasiva tutta l’esplosione dell’ anima, tutto l’afflato del sentire, tutto il potere immaginifico, e il corale supporto dell’ ambiente con le sue lune, le sue colline, il suo mare, le sue albe e la sua sera, con il vento che accende il mattino, o coi filari dove l’alba verserà quel suo fresco vino turchese a nutrire una teoria filosofica.” “Che cosa sia la poesia, poi, è certamente uno degli interrogativi più annosi della storia dell’uomo. La sola certezza comunque è che necessita, volenti o nolenti, di realtà individuali, di singole esperienze, di vicissitudini ed emozioni personali, per aprirsi dal memoriale all’immaginario, dalla vita al gran senso. Si fanno avanti il sogno, la fantasia, la realtà che non riescono comunque mai a liberarsi del tutto dal bagaglio del memoriale che ci portiamo dietro sempre più vago e nostalgico, vita scampata all’oblio e per questo degna di esistere. E quello che ci tormenta è proprio il pensiero del suo destino. Chi lo affida ad una fede religiosa, chi al puro sogno, chi ad una fede poetica, e chi, laicamente, ad un’isola quale potrebbe essere quella di Leucade, tentativo foscoliano come terapia al morbo del dubbio.”
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Già N. Pardini si era cimentato con l’ immagine poetica di rara bellezza del suo fiume, l’immagine della vita, cui si mescolano immagini visioni mitiche dal sapore onirico in una prospettiva di sogno: Acqua che riflettesti i miei canneti… ti perderai tra poco nel clangore/ dell’irruente mare… ... Non t’inganni/ il profumo allettante; presto vane/ saranno quelle immagini di sponde… ... Ed i tuoi panni/ scoloriranno in cuore al tanto vasto/ vorticare del nulla…. II lato preminentemente fantastico del poetare pardiniano è scandito con un’intensa sollecitazione della memoria, vi appare intensa e ricercata l’espressività lessicale che per sensibilità e stile prefigura il risultato compiutamente raggiunto, attraverso stilemi e sinergie di varia natura. La forma, l’equilibrio, la misura, la partecipazione alla ragione morale di una poesia contemporanea, sono esplicitati, nella metafora del fiume che scorre, anche se indica senza enfasi nella mancanza di quiete le carenze dell’uomo moderno, la sua incapacità a rendersi partecipe di quel mito, che resta ormai dimenticato, in disuso. Maria Grazia Ferraris
al vecchio nido dove si custodiscono i ricordi.
È NOTTE
Da Versi scelti - Guido Miano Editore, 1983.
Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, MI
IMMAGINE AMICA M’è dolce nel silenzio dialogare con la tua immagine amica. Ma perché, quand’è giorno, la lucciola svanisce irreale? Rocco Cambareri
SALSEDINE Giovanilmente il mare all’aereo, amplesso di pace si protende. La sabbia cancella orme, amori fugaci di ieri. C’è un tendere statico di labbra riarse, nella chiarezza vivida. Su facce di cristallo si scioglie la salsedine. Rocco Cambareri
È notte: brillano le stelle nel cielo, sembrano fiammelle e fanno luce ai passanti per la via e fanno compagnia agli innamorati che indugiano a tornare nelle loro case, e intanto il tempo vola e arriva l’ora di tornare
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SULLA POESIA DI
ANTONIA IZZI RUFO “GIORNO DOPO GIORNO E DONNE” di Luigi De Rosa
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EL marzo 2018 è uscito un altro libro di poesie di Antonia Izzi Rufo. Per i tipi de “Il Convivio Editore”, con prefazione di Giuseppe Manitta e una premessa della stessa Autrice. La Izzi Rufo, già insegnante con laurea in Pedagogia, risiede a Castelnuovo al Volturno (Isernia) e ha pubblicato, nella sua lunga “carriera” di poetessa e saggista, una sessantina di opere (tra raccolte di poesie, prose, saggi ed altro) e ancora adesso continua a professare il suo amore incondizionato per la Poesia e la Letteratura (piacevole e importante un suo saggio su Vittorio Alfieri del gennaio 2017 – Eva Edizioni – Venafro). La sua recente silloge è intitolata Giorno dopo giorno e Donne, e comprende 54 liriche alle quali si aggiunge una sezione (“Donne”) con 12 composizioni “celebrative”, ispirate e
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dedicate, ciascuna, ad una Donna d'eccezione, celebre e caratterizzante un mondo e un'epoca (una, addirittura, alla Madre per antonomasia, a Maria, madre di Gesù). La Natura è la prima (non l'unica) fonte ispiratrice di questa nota poetessa molisana, che un giorno è stata chiamata, addirittura, da Aldo Cervo, la “Ninfa delle Mainarde”. E non solo la Natura in se stessa, con la bellezza affascinante dei suoi fenomeni, e con la sua ricchissima vita, indipendente da quella dell'Uomo. Ma anche i motivi scaturenti dalla vita umana in sé, singola o associata, dentro il Mistero perenne e insondabile dell'Universo. Motivi che da una vita fanno pulsare il cuore e volare la fantasia di Antonia Izzi Rufo. Mi limito qui a ricordare il ciclo del Sole, e quella meravigliosa tavolozza di colori e sfumature che è il Cielo, per non parlare del miracolo quotidiano dei fiori, degli animali, dell'avvicendarsi delle stagioni. E per non parlare, soprattutto, dei sentimenti umani tra cui, importantissimi, l'Amore e l'Affetto, e la Solidarietà, l'Apatia, la Nostalgia, la Speranza, nel gioco del Tempo (passato, presente e futuro) sentimenti che solo un poeta vero, autentico come Antonia, può rendere con tanta angoscia e gioia. A proposito dell'Amore, è interessante quel risalto dato alla “sofferenza” d'amore, come nei quattro versi della lirica intitolata “Tortura interiore”: “La sofferenza più grande/ è comprimere l'affetto/ per chi si ama/ e vuole essere amato”. Due parole, poi, sul “linguaggio”. La poesia della Izzi Rufo non si esprime con un linguaggio forzatamente “originale” e “strano”, con parole o costruzioni troppo rare, o addirittura con compiaciuti passatismi o neologismi. Ma è rivestita di parole semplici e comprensibili, che hanno il proprio valore in se stesse e nel contesto verbale, ma soprattutto nella realtà (fisica o immaginata) da cui scaturiscono. Al punto da far riandare, col pensiero, ad una certa “poesia onesta”, come si ritrova, nella letteratura italiana, in poeti come, ad esempio, il triestino Umberto Saba, in cui sono predominanti l'amore per i luoghi di nascita e di vita, l'amore per i propri familiari, l'amore per i buoni sentimenti e, in generale,
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per un mondo di solidarietà generosa e di sincerità che troppo spesso non ha nulla (o quasi) da spartire con quello che viviamo e dobbiamo sopportare “giorno dopo giorno”. La verità è che la Poesia, per Antonia Izzi Rufo, pur così invocata e adorata, non è un semplice ripiego consolatorio contro le ferite brucianti della solitudine, che pur colpiscono la sua delicata sensibilità femminile. Ma è il suo modo naturale di rapportarsi – in modo creativo - alla vita del mondo contemporaneo, così complessa e spesso così inesplicabile e disancorata da valori-chiave. La poetessa non dimentica mai, comunque, che anche l'adozione di un linguaggio limpido e comprensibile comporta la necessità di un'attenta auto-vigilanza e di un severo labor limae, per evitare i rischi, sempre immanenti, di “sciatteria” formale. Sulla scorta del proprio bagaglio di cultura personale, di intelligenza, di intuito, nonché delle proprie esperienze di vita e, cosa importante, sulla base di un nocciolo duro di sana educazione da lei ricevuta e da lei trasmessa ad altre generazioni, Antonia Izzi Rufo affronta il mondo e lo esprime con una poesia naturale e schietta, e con una fantasia che vola al di sopra degli ostacoli e delle difficoltà. Luigi De Rosa
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per dare sfogo al fuoco dell’estate lasceremo che vi ristagni l’onda della [brezza. Noi avremo fiumi di profumi effusi da spighe già mature aculei di mirto foglie triturate da calore. T’insegnerò a chiedere a qualcuno (forse al carro del destino che dall’alto trascina sirene a scogli in sonno sprofondati) quanto esattamente costi alla natura l’immenso cielo ricamato. Cielo di San Giovanni. Cielo di sole a ruota. Di luna grassa. Padrone di un solo colore: l’azzurro nato già da maggio su ali spalancate di farfalle. Gianni Rescigno Da Sulla bocca del vento - Il Convivio, 2013
CIELO DI SAN GIOVANNI T’insegnerò a guardare la luna quando il cielo sarà tutto suo e i grilli avranno la notte per platea. Sarà il silenzio a battere le mani: noi della terra nascosti dietro i fichidindia a spingere lo sguardo là dove l’aria scende a palpiti lungo i raggi delle stelle. T’insegnerò che il cielo di San Giovanni è fatto di miracoli, che il tempo delle vigne e del grano è pronto a dare pane e vino alla fatica. Noi che avremo camicie aperte
CAMMINERÒ Ritroverò le impronte dei miei passi stampate sulla rena. Riascolterò parole che il vento ha frantumato coi suoi strali. Rivedrò tanti volti dentro la seta rossa del tramonto. Camminerò veloce lungo i viali delle giornate liete. E sarà un nuovo viaggio al ritmo di orologi senza tempo. Elisabetta Di Iaconi Roma
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RICORDO DI INES BETTA MONTANELLI di Marina Caracciolo
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I è spenta il 2 giugno scorso la poetessa spezzina Ines Betta Montanelli, lasciando un grande rimpianto in tutti coloro che conoscevano la sua splendida persona e che ammiravano la sua poesia, una delle voci più pure, genuine e insieme raffinate della lirica contemporanea. Come aveva scritto Giorgio Bárberi Squarotti, i suoi componimenti poetici sono «poesie bellissime che rifanno vive e presenti le figure, le vicende e le esperienze della memoria con una straordinaria sapienza di immagini e di ritmi per il conforto del sacro. Tutto quello che è accaduto si fa puro e luminoso di grazia e di verità». E c’è invero una grande luce piena di grazia nella poesia di Ines, spesso interiore e spirituale ma anche concreta e visibile nello stupendo trascolorare di albe e di tramonti che avvolge l’indimenticabile paesaggio della sua amata Lunigiana, da lei immortalata, fra le altre raccolte, in quel gioiello che è il suo libro Nel passaggio di tante lune (2000). Ines è stata giustamente soprannominata “dolce vestale del tempo e dell’anima”, in quanto autentica custode di memorie imperdibili, sia liete sia dolenti, su cui sempre vegliava come fossero un fuoco sacro (ci scalderemo al fuoco della memoria / custodita come la speranza ...), una fiamma che mai doveva estinguersi, perché insieme con essa sarebbero allora andati persi fondamentali
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capitoli di vita. La sua è «una poetica di immagini e visioni – ha scritto Giuseppe Benelli – che aprono costantemente nuovi possibili scenari di senso. In questo modo la sua poesia tratta i grandi temi ... ma lo fa senza darlo a vedere, con semplicità e senza ombra di retorica». La semplicità e la dolcezza erano le qualità fondamentali di Ines: sembrava percorrere il sentiero della poesia con passi lievi, avvolta in un soffice manto di velluto o in un delicato velo di tulle. Senza eccessi, senza enfasi, la sua poesia era contemplativa e colloquiale, con una coesione e un equilibrio espressivi in grado di dare valore perenne a un tesoro di commossi raccoglimenti e di vibranti emozioni, di avvenimenti semplici e pur solenni, di ricordi e di affetti gelosamente conservati e fiduciosamente confidati. Per la limpidezza del suo dettato e per lo splendore della sua intuizione lirica, Ines Betta Montanelli è stata ammirata non solo dai grandi critici ma anche dai grandi poeti contemporanei, come ad esempio Mario Luzi, che ravvisava nel suo dire «tocchi di naturale e profonda intelligenza e armonia». La sua parola poetica aveva il raro potere di far emergere da profondità misteriose una fila di figure ed eventi, sogni e paesaggi, gioie e rimpianti, che proiettava in uno spazio cronologicamente individuabile ma tuttavia inscritto in una superiore, sentimentale incastellatura senza tempo. Un incanto capace di «congiungere le nostre emozioni con la dimensione che vive oltre le cose» (Benelli). Una delle emozioni che ritorna più volte nella sua poesia, in specie – ovviamente – nelle raccolte più recenti, è il turbamento provocato dal pensiero dell’ignoto, il dubbio e l’angoscia di fronte al mistero oscuro dell’ Oltre. Ma anche in questo caso un sovrano equilibrio riesce a superare ogni tormento con una sorta di «splendida fantasticheria» (Stefano Valentini) in cui miraggio ed ombra, malinconia e serenità finiscono per stringersi in un unico indissolubile nodo: è l’ultima poesia della sua ultima raccolta, una sorta di testamento in cui, mentre parla della morte, in realtà la poetessa rievoca più che mai la bel-
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lezza e Il profumo della vita: Per quel viaggio ignoto da cui nessuno torna, con me, nella mano del cuore, vorrei portare un po’ della mia terra: una foglia di vite e tre di ulivo, un ciuffo di mimosa e uno zufolo di canna musica di figlio, mio sole. E per quel buio tormentato vorrei una luce d’amore un libro di poesie, pennello e tela. E se il mio partire avverrà quando la natura assopita ancora non s’ingemma, con me vorrei portare alloro e rosmarino, sempre verdi, ché mi resti addosso il profumo della vita. Marina Caracciolo *** Pomezia-Notizie si associa al dolore della Famiglia della poetessa e scrittrice. Ines Betta MONTANELLI abitava a Prati di Vezzano, in provincia di La Spezia, aveva 81 anni. Era nata alla Spezia da antica famiglia pontremolese. Da giovanissima viene attratta dalla poesia che coltiva negli anni. Inserita in varie antologie poetiche. Vincitrice di numerosi concorsi nazionali di poesia, fra i quali si ricordano il Gran Premio “Histonium d’oro” di Vasto (CH), il “Penisola Sorrentina” di Sorrento, il concorso di Raidue “Ci vediamo in Tv” di Paolo Limiti con la pubblicazione della poesia premiata su “Lo Specchio” de “La Stampa” di Torino. Finalista più volte al concorso “Lerici Pea”, nel settembre 2001 ha conseguito il Premio Speciale della Giuria “Lerici Pea 2001 - Poeti nel Golfo” (Medaglia d’oro). Nel luglio 2001 ha conseguito il Primo Premio assoluto per la sezione libro edito, col volume Nel passaggio di tante lune, al Premo “Histonium di Vasto (CH). Ha inoltre conseguito il terzo premio al concorso “David” di Carrara nel 2003. Membro di Giuria in vari premi letterari. Inserita in “La Spezia nella poesia del 900”: studio “Progetto Giovani ‘93” realizzato dall’Istituto Domenico Chiodo. Nel 1997 è stata presentata a “La Versiliana” presso il Caffè dei Pinoli di Pietrasanta da Giuseppe Cordoni e Patrizia Hartmann. Nel 1998 ha ricevuto il Premio alla carriera nel concorso “Val di Vara”. Ha tenuto incontri di poesia con le scuole. “La Tribuna Letteraria” di Padova le ha dedicato pagine critiche
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con pubblicazione di alcune poesie. Nel 2003 la Genesi Editrice di Torino le ha dedicato alcune pagine critico-antologiche sulla rivista “Vernice”. Nel novembre 2003 le è stata conferita una targa alla cultura all’interno della cerimonia di premiazione della XV edizione del concorso “Iniziative Letterarie” di Milano. Di lei hanno scritto critici e letterati di chiara fama, tra i quali: Mario Luzi, Giorgio Bárberi Squarotti, Maria Grazia Lenisa, Ferruccio Battolini, Loris Jacopo Bononi, Elena Bono, Giuseppe Benelli, Paolo Bertolani, Sirio Guerrieri, Vittoriano Esposito, Elio Andriuoli, Ninnj Di Stefano Busà, Sandro Gros-Pietro, Giovanni Sbrana, Paolo Bassani, Giovanni Petronilli, Isabella Tedesco Vergano, Gianni Rescigno, Ada De Iudicibus Lisena, Franca Vannucci, Anna Ventura. Tra i suoi volumi pubblicati: Dal profondo (1981), Sete di stelle (1986), Trasparenze (1989), Radici d’acqua e terra (1993), Nel passaggio di tante lune (2000),Il chiaro enigma (2002). Lo specchio ritrovato (2004). Marina Caracciolo le aveva dedicato il saggio Oltre i respiri del tempo. L’universo poetico di Ines Betta Montanelli (2016).
COME GLI AIRONI Nella notte i pensieri si dilatano e a poco a poco come gli aironi danzano in soffitti d’aria e vanno oltre le mura opache che deprimono, oltre il silenzio che in lontananza si fa voce, là dove il fiume odoroso di mirto e di ginestra placido scorre. Il gioco dell’infanzia traboccante di fascino e di mito a volte nel sogno si ripete e giorni - echi di sillabe perdute ridono nel sole che accarezza mari di spighe e di voli. Nel sogno riaffiorano i volti che ancora non sapevano e mentre un bagliore di cielo ora li pervade - noi brancolando nel buio ci perdiamo in vani soliloqui, in fremente attesa d’eterna Luce. Ines Betta Montanelli Da Oltre i respiri del tempo, di Marina Caracciolo - Bastogi Libri, 2016.
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LETTERA DI UN PROFESSORE A UN MATURANDO di Giuseppe Leone ARO studente, ora che sei giunto alla fine della tua fatica scolastica, mi auguro che il lungo studio t’abbia fatto uomo. Stai per concludere un viaggio iniziato quando avevi sei anni. Io non so se di ciò tu sia cosciente, né ti chiedo se sia contento. Qualcuno non è né l’uno né l’altro, altri si rammaricherà che il tempo sia trascorso così velocemente, altri ancora sarà preoccupato per l’incertezza del futuro; e forse nessuno è felice dei bottini messi a segno nel campo della cultura. Come può avvenire che proprio tu non sia soddisfatto, dopo un viaggio così lungo attraverso i tempi e i luoghi della conoscenza umana? Non hai davvero visto niente, né saputo nulla? Ricorditi di me che t’ho insegnato a non dimenticare. In questi anni sei passato attraverso la saggezza del mondo, non sciuparla, iscrivendoti in facoltà che promettono prestigio e occupazione, o lamentandoti di avere studiato invano, se non trovi il tuo posto di lavoro. Avrai le tue ragioni ora per dirlo; ma avevi torto ieri quando t’eri messo a studiare per questo scopo errato. Studiare giurisprudenza per Di Pietro è costruire tetti sopra fondamenti malsicuri, mentre maledire le conoscenze appena apprese è mettere i sensi contro l’intelletto. Non si studia per fini estranei alla propria natura, si studia costruendo sul suo suolo. Nell’ antico mondo romano, allo studente come te veniva fatta indossare una toga bianca e così candidato si presentava nel giorno degli esami. Quel giorno era importante perché segna-
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va il suo passaggio dall’umorale e incostante adolescenza a una più stabile e matura giovinezza. Sarà così anche per te, ora che la società dei consumi, annullando i confini delle età, ti ha condannato a vivere nell’unica e sola stagione dei sensi? Potrà essere se tu, presentandoti a questo appuntamento, risveglierai l’intellettuale che è in te. Solo così piegherai al tuo volere la realtà di domani. Che cos’è la realtà quando non è la realizzazione dei tuoi sogni? Quando il suo stile non è espressione tua? È casa altrui. E tu andresti a studiare in facoltà che assicurano fortune e ammirazione, fra gente forestiera, per costruire in esilio il tuo sapere? Riconosci la necessità del lavoro, ma riconosci di più la necessità dello studio, con la prima “dipenderai dal futuro”, con la seconda asservirai l’avvenire. Dopo questi esami, tu te ne andrai da me. E so che nel tuo zaino, tra i libri che porterai con te, hai messo già l’Iliade. Come i suoi eroi, anche tu partirai per la tua “guerra”, dove spenderai la tua giovinezza e il tuo vigore. Ma non dimenticarti l’Odissea. Non ti sorprenda senza questo libro il giorno in cui comincerai il viaggio del ritorno. A quel giorno stai attento, perché non passi senza che tu te ne accorga. Non trascorrerà invano, se tu ti ricorderai di questa mia premura. Scorgendo per tempo il viaggio del ritorno, troverai che il mio insegnamento non è stato privo di significato. Pure a tanta distanza di tempo e lontananza di luoghi, capirai che la scuola non semina solo per il giorno dopo. Questi esami sono solo il tuo primo raccolto. Ritienilo il più bello, perché è puro: è quello che ti ha procurato la tua anima, a cui il corpo non ha impresso i morsi della sua necessità. Non rattristarti, pensando che quelli futuri potrebbero non avere uguale merito. Dovrai solo non dimenticare l’onesta fatica del primo. Se pure il secondo tu motiverai con le stesse ragioni ideali, il grande Virgilio ha già pensato a esprimere la nostra gioia: “Tu ascendi ai grandi onori… a me rimanga allora l’ultima parte di una lunga vita o respiro bastante a cantare le tue imprese”. Giuseppe Leone
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Nuances ecdotiche.
L’INFLUENZA DI GIOVANNI GENTILE NELLA FORMAZIONE DI ROBERTO LONGHI Massimiliano Pecora
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EL 1938, riprendendo la materia di Teoria e storia della storiografia, Benedetto Croce constatava che la «critica dei libri di storia va incontro alle medesime o alle analoghe difficoltà della critica dei libri di poesia». Successivamente, ribaltando con La storia come pensiero e come azione quanto aveva asserito quarant’anni prima nella Storia ridotta sotto il concetto dell’Arte, il filosofo napoletano individuava nella storicità la discriminante tra le opere d’arte e quelle mosse dal bisogno di ritrarre la realtà. Nonostante l’evidente inversione di rotta, non possiamo fare a meno di domandarci perché, nell’imperante côté neoidealistico del primo Novecento italiano e in deroga alle posizioni crociane, non siano mancati i tentativi di storicizzare i giudizi estetici. Paradossalmente, in quel torno di anni, la storia dell’arte veniva messa in discussione proprio dall’ hegelismo, che pure l’aveva eletta a sapere complesso e autonomo, come riconosceva Paul Valéry nel Discorso sull’Estetica (1938). Nel nostro paese, e per una via filosofica diversa da quella che aveva ispirato le considerazioni del poeta francese, sorgeva un modello ermeneutico fondato, ab imis, sull’ indistinguibilità tra il fatto artistico e l’ attività del soggetto pensante: in quanto pura soggettività, l’ opera, secondo i dettami
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del neoidealismo, resisteva alle mutazioni e ai cambiamenti del gusto, travalicando ogni possibile sistematizzazione storiografica. È su questo aspetto che, fin dai primordi delle loro formulazioni, il pensiero di Benedetto Croce e quello di Giovanni Gentile differiscono profondamente. Il filosofo di Castelvetrano, infatti, aveva sostenuto la sostanziale identità metafisica tra causa ed effetto dell’atto artistico nel quale la materia e la forma si coniugano e si consumano nell’ intimità della coscienza del soggetto che muove da sé a sé. Pertanto, sic stantibus rebus, se la funzione della filosofia consiste nel chiarire l’attività dello storico, la realtà del mondo e dell’arte, in quanto frutto dell’autocoscienza del soggetto pensante, ricadrebbero, per citare la seconda parte della Teoria generale dello spirito come atto puro, nel dominio della storia. Il continuo ripiegamento del passato nel presente – frutto di ciò che Gentile battezza col nome di autoctisi – trova i suoi maggiori sviluppi sul terreno dell’interpretazione figurativa. Contrariamente a quanto accade nella crociana dialettica dello spirito, per il filosofo siciliano l’arte germina da un processo che pone l’Io al centro di ogni sapere. Per verificare l’ importanza di questa posizione teoretica consideriamone le tracce disseminate in alcune significative pagine di Roberto Longhi. All’altezza degli anni tra 1910 e il 1916 lo studioso di Alba aveva ben compreso il portato del crocianesimo, riconoscendogli il merito di proporsi come critica della forma del fatto artistico. Che questa predilezione abbia lasciato segni duraturi lo invera quanto Longhi scrive in Arte italiana e Arte tedesca, saggio recensito favorevolmente su «La critica» del maggio del 1942: «dai benedettini fino all’ invasione degli ultimi greci nella nostra pittura dugentesca, l’arte libera e alta dell’ occidente latino esisteva tuttavia ed accoglieva, dal IX all’XI secolo, quasi in unità ecumenica, tutti coloro che parlano una sola lingua figurata e, fra questi, anche i tedeschi». Il breve estratto è da intendersi fededegno testimone di una matura e consolidata posizione ermeneutica. Al di là del paludato «dugentesca» – allusivo cenno all’erudito lavoro
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di Francesco Novati, Freschi e minii del Dugento, ben noto al giovane Longhi – la correptio «quasi in unità ecumenica», per l’assenza dell’indeterminativo colloquiale, prova quanto sia impellente nel nostro autore la necessità di conciliare i dettami dell’ idealismo con una forma di critica che travalichi la minaccia di limitanti condizionamenti storici. Questo spiega l’affermazione di principio che campeggia nel saggio del 1942: «l’ arte è un insieme di valori in atto». Abbandonata ogni dissimulazione, la parola «atto» chiama in causa una particolare declinazione del neoidealismo. È curioso, ma non privo di notevole interesse, il dubbio che, in nota all’articolo di apertura della rubrica «Plausi e botte», Giovanni Boine si poneva circa l’adesione di Roberto Longhi alla filosofia di Giovanni Gentile. Il riferimento interessava l’articolo longhiano Pittori futuristi, scritto per «La Voce» dell’aprile del 1913, nel momento più interessante nella definizione dell’attualismo. A ribadire, ben oltre la congiuntura cronologica, l’influenza di Gentile sull’estetica longhiana, valga osservare che nel 1942, con Storicismo e Storicismo, il filosofo di Castelvetrano aveva realizzato il superamento del dualismo tra ‘logo astratto’ e ‘logo concreto’, non solo ricorrendo a quanto era stato già asserito in testi quali la Prolusione del 1907, L’atto del pensare come atto puro (1911) e Logica del sapere come teoria del conoscere (1923), ma proponendo la visione di un mondo che non è mai fatto, «perché tutto il passato sbocca e si attua (in quella forma che è la sua, e in cui esiste) nel presente; la storia, nel ritmo incessante del suo divenire, nell’atto sempre vivo del suo prodursi». Ebbene, l’attenzione per gli atti di relazione germinati dal soggetto pensante e l’ interpretazione a parte subiecti sono proprio le componenti essenziali della critica di Longhi, votata a rilevare l’immanenza del prodotto figurativo. Le continue allocuzioni al lettore, disseminate nei Pittori futuristi, rispondono alla precisa volontà dell’estensore, teso a distinguere il portato degli ‘atti lirici’ dalle strutture statiche e dinamiche dei figurata: «Volendo
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usare scherzosamente il linguaggio della filosofia corrente in Italia bisognerebbe dire che questo valore geometrico delle linee si basa sopra uno pseudoconcetto che ha come presupposto il concetto puro di intuizione estetica»; «una semplice curva irregolare nel passare da concava a convessa sfuma nella nostra mente miriadi di visioni […]. Questo valore estetico immanente delle linee è stato ben compreso dai futuristi che, […], l’hanno arbitrariamente congiunto con un valore espressivo di stati d’animo particolari […]». Irrisa l’inconcludenza epistemica dell’‘intuizione lirica’ di Croce, Longhi riconosce il lascito delle considerazioni gentiliane, mostrandosi convinto del fatto che l’arte non si trascende se non con l’arte. A una cursoria analisi dei due passi summenzionati, desta attenzione il lessema «sfuma», ricorrente, sia pure con una precisa connotazione storiografica, anche in Arte italiana e arte tedesca. La parola rivela il processo estetico in forza del quale il critico ha ascritto alla curvatura ottico-geometrica della linea futurista un particolare valore, non avulso dall’esame strutturale del figuratum: adoperata nell’accezione tecnico-metaforica di ‘contornare’, la ‘sfumatura analitica’ di Longhi agisce come un brain frame degli stadi dell’ autocoscienza dell’Io artistico, suggerendo come la disamina non possa prescindere dalla concretezza assoluta del reale del pensiero, al pari di quanto Gentile aveva già sostenuto nell’Atto del pensare come atto puro e andrà poi riaffermando nella Filosofia dell’arte del 1931: «All’arte non fa difetto la concretezza della vita e del reale [...]. Nell’arte bensì la vita e la realtà è lo stile, l’uomo […]. La storia occorre alla critica per l’interpretazione dell’arte, ma non le serve punto pel vero e proprio giudizio in cui la critica consiste. Occorre una diversa preparazione filologica per mettersi in condizione di capire […], ma ottenuta che sia tale preparazione, quando si tratta di ascoltare [e di osservare, nel caso longhiano, n. d. a.] la voce dell’artista […] si scoprono distanze minime […] l’arte, per sua natura, è la celebrazione della molteplicità, o, se si vuole, dell’individualità della stessa vita
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spirituale. Giacché è evidente che lo spirito si unifica, ma non è meno evidente che tutte le determinazioni e differenziazioni, tutte le divergenze e i contrasti e insomma tutte le lotte non sono se non, anch’esse, attestazioni di vigore spirituale». Si aggiunga che a garantire l’ allontanamento di Longhi dall’estetica di Croce aveva contribuito Adriano Tilgher che, proprio a Torino, negli anni della formazione universitaria del futuro critico, si era fatto latore di una forma di ‘scetticismo storicistico’ in aperta opposizione a ogni concezione unilineare e progressiva della storia. Nella monografia Arte conoscenza e realtà (1911) e per tutto il periodo compreso tra il 1912 e il 1915, l’ intellettuale resinese aveva tentato una sutura epistemica tra le esigenze del pragmatismo e quelle dell’idealismo. Stretto tra queste due maglie, quella del liminare attualismo gentiliano e quella del bergsonismo radicale di Tilgher, Longhi poteva ben comprendere quanto il crocianesimo fosse in ‘retroguardia’ rispetto alle nuove esperienze filosofiche del magmatico panorama culturale dell’Europa degli anni 19111925. Inoltre, in linea con questi riscontri, come possiamo non confermare l’incidenza di Gentile quando notiamo che, per «La Voce», gli articoli della polemica Intorno all’ idealismo attuale e i Pittori futuristi compaiono nello stesso anno? Del resto, la collaborazione di Longhi alla rivista fiorentina si data a partire dal 1912 e rappresenta un momento importante per la sua carriera. Nello stesso anno vede la luce il Manifesto tecnico della letteratura futurista, il documento che teorizza la decostruzione del testo letterario e il potenziamento della tecnica analogica. Per quanto figlio del futurismo, Longhi si adegua all’aspetto meno eversivo del fenomeno marinettiano e non esita a trasferire su un piano euristico le nuove tendenze che agiscono all’interno della poesia italiana del primo Novecento. Basti pensare a quanto le urgenze di un presente convulso e straniante condizionino la poesia di Clemente Rebora, costituendo un antecedente per il nostro autore: la raccolta Frammenti lirici è del 1913 e non è un caso
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che il poeta avesse deciso di dedicare il suo volume «ai primi dieci anni del secolo ventesimo», quasi a dimostrare quanto l’ imminenza dei cambiamenti sociali e culturali del nuovo secolo premesse verso una nuova ricerca della verità. Aggiungiamo che, nella raccolta reboriana, occorrono metafore ardite, dittologie e perfino participi passati con suffisso zero, vale a dire gli stilemi caratteristici delle presentificanti descrizioni delle opere della tradizione pittorica, richiamate nel saggio che, per la sua genesi, merita un posto a sé nell’opus di Longhi: Breve ma veridica storia della pittura italiana. Dopo la laurea ottenuta, tre anni prima, a Torino, con una tesi su Caravaggio e le ascendenze veneziane della tecnica luministica, il giovane studioso era giunto a Roma per frequentare un corso di perfezionamento presso la cattedra dell’illustre storico dell’arte Adolfo Venturi. Nel frattempo Longhi insegnava Storia dell’Arte presso i licei Torquato Tasso e Ennio Quirino Visconti. Per venire incontro alle esigenze dei suoi migliori allievi compilò, tra il 15 giugno e il 4 luglio del 1914, una sorta di silloge che riassumesse, in poche formule essenziali e in termini facilmente assimilabili, il corso delle lezioni impartite dalla cattedra. Molto più tardi, al testo, pubblicato postumo nel 1988, verrà riservata un’allusione nelle Avvertenze per il lettore degli Scritti giovanili, primo volume della raccolta dell’opera omnia del nostro autore. L’implicita struttura dialogica di Breve ma veridica storia della pittura italiana, sorta di saggio di ‘storia delle forme’, testimonia la necessità di fare leva sul potere evocativo delle immagini. Le denotazioni diventano correlativi oggettivi per quell’Einfühlung che il critico vuole persuasivamente comunicare agli allievi: il giovane professore, che non può fare a meno di essere un uomo del suo tempo, deve preoccuparsi di stabilire e rendere la particolare orditura formale delle opere figurative con perspicue descrizioni. In questa restituzione del potere iconico del linguaggio verbale – nella scelta della parola così come nell’organizzazione della sintassi del discorso – va riconosciuta la cifra dominante dell’ in-
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tera produzione longhiana, nella quale la percezione e l’indagine sono aspetti di un unico momento o, per dirla con Gentile, dell’ autoctisi dell’Io. Guardando all’attività artistica dei secoli passati con l’occhio di chi contempla l’arte del presente, Longhi si comporta come un rabdomante delle forme: il destinatario di Breve ma veridica storia della pittura italiana non solo veste, in prima istanza, i panni dell’osservatore dei dipinti menzionati, ma viene invitato a rilevare le componenti visive che, per innegabile evidenza, costituiscono la prima articolazione del linguaggio della pittura: «l’arte non è imitazione della realtà, ma interpretazione individuale di essa. Questo concerne il fatto artistico in genere sia letterario che figurativo: bisogna adunque scendere a un’altra distinzione essenziale: la distinzione tra arte figurativa e letteratura». Il critico rileva che, mentre il poeta utilizza il linguaggio verbale per trasfigurare l’ essenza psicologica della realtà, il pittore opera una trasfigurazione dell’essenza visiva: «Io», scrive, «non ho tentato che di spiegarvi l’espressività del linguaggio pittorico. Non si tratta di parole – cariche di significazione psichica e storica – ma di forme, di linee e di colori: non si tratta di un libro da leggere, ma di una tela da guardare». Come la poesia ci obbliga a scoprire in che modo un autore possa intervenire su tutti i piani del linguaggio, così la critica dell’arte figurativa comporta la creazione di un ipertesto di parole, di opere e di percezioni, tutte avvinte nel sinolo dell’interpretandum. Con largo anticipo rispetto alla «storia delle cose» professata da George Kubler nella Forma del tempo (1962), Longhi ci dimostra che, a dispetto dell’esegesi iconologica e simbolica, le forme strutturali e lineari dell’ opera figurativa non solo sono percepite indipendentemente dal significato veicolato, ma resistono alle trasformazioni che intervengono nei grandi intervalli cronologici della storia. In tal senso, se è inutile ordinare i momenti del tempo nella loro successione siderale, la vera preoccupazione dello storico consiste nella scoperta della natura del pro-
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cesso di mutamento che coinvolge un elemento figurativo costante. Per Longhi, come per Kubler, appare limitativa l’analisi esemplata sulla definizione di generiche scuole pittoriche poiché, nella produzione di almeno dieci secoli, si sono succeduti un gran numero di tentativi di classificazioni stilistiche: il quesito che uno storico dell’arte si trova ad affrontare riguarderebbe la possibilità di inverare uno schema di catalogazione fondato su una serie di «cose», cioè una successione di valori artistici in atto. È molto probabile che in virtù di questa personale e sottaciuta adesione all’attualismo Longhi si sia spinto a correggere le analisi di Bernard Berenson, come testimonia la lettera del 4 settembre 1912 che apre il carteggio tra il giovane studioso e l’anziano mentore. Mentre per il critico lituano l’opera d’arte, ingenerando l’illusione di toccare la figura rappresentata, costringerebbe l’osservatore a proiettare la sua esperienza estetica su una scala rappresentativa di ordine reale, l’ interpretazione longhiana della teoria dei «valori tattili» riconduce a quanto Gentile aveva già enunciato nella prolusione tenuta alla Regia università di Palermo nel 1907. Si legga dal Concetto della Storia della filosofia: «così c’è una storia dell’arte, una storia del costume, una storia dello Stato, una storia delle istituzioni economiche. Ma, non c’è dubbio, vi ha pure una storia generale […] la storia avente per oggetto la produttività dello spirito in generale». Ora, confrontiamo il passo summenzionato con quanto Longhi scrive a Berenson: «La visione dell’artista figurativo è anzi tanto più maravigliosa in quanto ci libera dalla comunale ossessione della esteriorità corporea e stabile del mondo, creandola e facendola propria nell’arte, e imponendosi ad essa». In tal modo il futuro autore di Officina ferrarese e di Caravaggio assicurava la solidità metodologica delle sue analisi, animate dalla medesima urgenza di chi non si limita a restituire il passato dalle polveri degli archivi, ma lo contempla nell’attesa – mai profetica – di quanto noi uomini saremo in grado di concepire con la forza del nostro intelletto e della nostra arte. Massimiliano Pecora
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IL DIRITTO STAMPA di Leonardo Selvaggi ’arricchimento delle collezioni che debbono tenersi aggiornate, senza che vi sia una minima lacuna a vantaggio delle ricerche e degli studi, ha trovato per la Biblioteca Nazionale di Torino il primo sostegno nelle Costituzioni del 1729. Queste stabilirono l’obbligo per tutti i tipografi degli Stati del Re di Sardegna di depositare una copia degli stampati e l’obbligo ai professori dell’Università di consegnare una copia dei loro scritti al termine dei corsi. Quando il R.D. 20 gennaio 1876 denominò la Biblioteca “Nazionale Universitaria”, titolo e caratteristica che riassumono insieme la sua storia e la sua odierna funzione, allora si è sentita maggiormente la necessità di incrementare le sue raccolte nel modo più razionale per venire incontro alle svariate esigenze di una multiforme utenza. Non si tratta soltanto di servire professori e studenti, ma di “rappresentare, nella sua continuità e generalità, il progresso e lo stato della cultura italiana e straniera”. La Biblioteca Nazionale Universitaria rappresentava anche egregiamente la cultura piemontese in quanto, in conformità all’Editto Albertino del 26 maggio 1848, riceveva per Diritto di stampa le pubblicazioni uscite dalle tipografie di tutti i circondari comprendenti le quattro province del Piemonte, diritto che la legge 7 luglio 1910 limitò alle pubblicazioni della provincia di Torino. Alle sopra accennate antiche disposizioni si rifanno le vigenti leggi, che stabiliscono la consegna di quattro esemplari di ciascuna pubblicazione alla Prefettura della provincia nella quale ha sede l’officina grafica ed un esemplare alla locale Procura della Repubblica. “Dei quattro esemplari ricevuti la Prefettura trattiene uno per l’adempimento delle funzioni di sua competenza e trasmette gli altri tre, rispettivamente, uno alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, una alla Bibliote-
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ca Nazionale Centrale di Firenze e uno alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma”. La Prefettura, inoltre, trasmette l’esemplare trattenuto alla Biblioteca pubblica del capoluogo della provincia. La normativa corrente per quanto riguarda il controllo dell’ obbligatorietà di consegna da parte di ogni stampatore si è dimostrata sempre di poca efficacia. In questi ultimi anni si è avvertita la necessità di rivedere le leggi correnti applicate in modo sporadico, mettendosi in evidenza l’importanza della consegna obbligatoria soprattutto ai fini di avere presso gli Istituti bibliotecari la presenza in modo tempestivo di tutte le pubblicazioni, integrità di documentazione e soddisfacimento del bisogno di cultura sempre più sentito da ogni cittadino. Le Biblioteche hanno costantemente lottato perché le leggi vigenti venissero applicate spontaneamente senza dover ricorrere a pressioni. Se non ci sono stati dei grossi problemi da parte delle grandi case editrici, invece, lacune continue si riscontrano, per non dire assenza totale, in riferimento a tutto quello che viene stampato presso le altre officine grafiche. Si vuole una nuova legge che sia ad uso delle Biblioteche tenendo presente che il loro compito principale è quello di raccogliere la produzione editoriale nazionale, di conservarla, farla conoscere, garantendone nel tempo la completezza e la specificità allo scopo di contribuire a documentare la storia culturale italiana. Una nuova legge sul deposito degli esemplari d’ obbligo terrà conto delle raccomandazioni che gli organismi internazionali competenti hanno avanzato nel quadro dei progetti di cooperazione tra Biblioteche. Vedrà, inoltre, più decisamente nella fruizione dei beni librari lo strumento autentico di un effettivo miglioramento sociale, promuoverà senza dubbio una maggiore collaborazione con gli Editori. Gli inadempimenti sono tanti dopo i solleciti più volte ripetuti, molte officine grafiche inviano in dono l’opera richiesta evadendo così la legge del Diritto stampa. Spesso le
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opere arrivano dopo un anno dalla loro edizione. Gli Editori sono restii ad inviare opere di pregio e costose; arrivano regolarmente e puntualmente gli scolastici e le ristampe, ma non le opere di carattere saggistico. Ormai la normativa è vecchia ed obsoleta, è di intralcio alla corretta crescita delle documentazioni. Occorre una legge adeguata e che non trascorrano altro tempo ed altri disservizi. L’ obbligo del deposito spetta anche agli Enti pubblici e agli organismi della Pubblica Amministrazione, oltre che ad Editori privati. Per i controlli necessari sulla consegna è opportuno che la Divisione editoria del Ministero dei Beni Culturali e Ambientali abbia dei compiti ben precisi nel cooperare con le Biblioteche per promuovere i dovuti procedimenti legali. Ogni volume, che sia di molte pagine e splendidamente illustrato o semplicemente un opuscolo di pochi fogli, un semplice depliant, va conservato, esso documenta un momento culturale, costituisce una fonte preziosa di sviluppo storico. Sfuggono del tutto alle norme del Diritto di stampa i cataloghi di mostre, in gran parte prodotti di editoria finanziata, cioè con spese a carico del committente sia esso un Ente pubblico, una Banca o lo stesso artista. Pertanto i cataloghi di mostre, che oggi più che mai si fanno strumenti importanti di recupero di fondi rari e preziosi per contenuto storico-bibliografico, sono presenti in Biblioteca in modo carente, dispersivo. Le Biblioteche sono gli strumenti autentici della diffusione della cultura. Primario è il ruolo che rivestono nel processo della valorizzazione del libro. L’esemplare d’obbligo che dovrebbe essere consegnato subito, prima che arrivi nelle librerie, troverebbe nella Biblioteca il luogo ove il processo di interazione e di sviluppo della documentazione per il diritto del cittadino ad averlo disponibile per la consultazione si rende effettivamente operante. Occorre per l’arricchimento della Biblioteca, dunque, tempestività e nel contempo sistematicità. Anche il materiale minore rimane disperso, rappresenta esso strumento importante per la storia della città
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e della provincia: manifesti artistici, pubblicazioni a carattere commerciale, statistico. Assente del tutto il materiale grafico. Un’ altra grande lacuna è data dalla impossibilità di avere ordinato in Biblioteca tutto ciò che viene edito dagli Enti locali. Occorre che vi sia un coordinamento fra le Biblioteche destinatarie del Deposito obbligatorio: uno scambio di materiale bibliografico può consentire di conservare quello che corrisponde effettivamente alle proprie esigenze. Una utilizzazione molto razionale della legge del Diritto di stampa, perché permetta di avere tutto quello che serve senza appesantire il funzionamento con collezioni inutili. Si ha il caso del CNR che rimanda allo stampatore quel materiale bibliografico che non risponde alle sue finalità di studio. La consegna degli esemplari d’obbligo costituisce un dovere verso il grande pubblico che si serve delle Biblioteche e deve riguardare l’editore promotore di cultura. Le Biblioteche rappresentano il luogo naturale ove le pubblicazioni vengono largamente conosciute e messe in ampia circolazione. L’integrità della documentazione si rende oltre tutto necessaria per gli orientamenti specialistici che assumono gli studi. Opportuna la disponibilità dei cataloghi, questi debbono essere fatti uniformemente e sempre aggiornati. Sono strumenti primi per l’ informazione e indispensabili per consentire i relativi riscontri rispetto ai volumi pervenuti in Biblioteca. Nuove norme che permettano i dovuti controlli. Non si deve continuare con i soliti sistemi empirici che non fanno per niente scomparire le difficoltà di reperimento del materiale bibliografico stampato nell’ambito della provincia. La verifica dell’effettivo possesso delle opere è tanto più complessa quanto più indietro nel tempo va esteso il controllo. Passato un certo numero di anni non è più realisticamente esigibile una consegna d’obbligo, quand’anche il libro sia ancora disponibile. Si deduce da ciò la necessità di riscontri regolari sulla base di cataloghi editoriali corrispondenti, nel momento giusto e quindi fruttuosi. Avere dalla
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propria parte degli articoli di legge non significa che i libri entrino in Biblioteca. I vari passaggi e il rimando di responsabilità vanificano la nostra ricerca di un interlocutore sul piano legale. Certamente se gli Editori dovranno sentire il dovere di far pervenire immediatamente, appena edite, le loro pubblicazioni, è necessario d’altra parte rendere motivata la loro azione altamente culturale. Debbono le Biblioteche con maggiore impulso valutare la loro funzione documentaria e di tramite. Occorre incentivare le esigenze editoriali, evidenziare con esposizioni le nuove accessioni provenienti dal Deposito legale, prendere iniziative che facciano vedere la Biblioteca come sede privilegiata per manifestazioni legate all’editoria. La consegna degli esemplari d’obbligo va basata su una nuova legge chiara ed efficace, rendendo possibili rapporti diretti di collaborazione; l’ aggiornamento, l’informazione, la conservazione della documentazione sono il risultato di reciproche attività, di contatti intessuti costantemente sul territorio ove la Biblioteca agisce, e non solo con gli Editori, ma anche con gli Assessorati alla cultura della Regione, Provincia e Comune che oggi si fanno promotori di manifestazioni di grande interesse per la crescita delle collettività con pubblicazioni, mostre, convegni. Il Diritto stampa deve farsi responsabilmente automatico, spontaneo: le esigenze di lettura e di informazione si sono ampliate. Diciamo che esso costituisce un aspetto importante della tutela del bene librario, finalità questa essenziale per la continuità delle tradizioni culturali. Una legge adeguata e rispondente allo spirito dei tempi, specie per una Biblioteca Nazionale che ha la precipua funzione di coordinamento e di promozione. Attraverso il costante, coerente aggiornamento del suo patrimonio trova senz’altro la via per un maggiore potenziamento delle sue peculiari finalità. La Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino dovrà sempre più essere un’istituzione culturale rinnovata nelle tecniche e nella funzionalità operativa per adeguarsi alle necessità dei nuovi compiti che le
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vengono assegnati dallo sviluppo degli studi. Incrementare la cultura corrente significa soprattutto partire da quella promossa nel suo territorio per arrivare a quella nazionale e straniera negli aspetti più rappresentativi. La cultura corrente, si sa, permette poi di mantenere saldi i legami con i fondi storici che vanno di continuo valorizzati. Con l’ automazione i documenti si renderanno immediatamente disponibili, con conseguente sviluppo della ricerca, una più dinamica circolazione di tutto il patrimonio culturale in Piemonte. Se estesa e diffusa si fa l’ informazione, soprattutto i dati relativi alle edizioni che vengono dal Diritto stampa non debbono essere lacunosi, essi debbono passare per i terminali proprio nel momento in cui vengono alla luce. Allora veramente possiamo dire che gli Editori sono i protagonisti dell’automazione e pertanto del progresso civile, sono loro che danno la sostanza agli archivi del sistema bibliotecario nazionale che si amplifica sempre più, e amplificazione, vogliamo ancora ribadirlo, in questo caso vuol dire soltanto sistematica completezza, primaria doverosità a servizio dei nostri studiosi come di quelli degli altri paesi. Soprattutto una stretta connessione di responsabilità deve esistere tra stampatore ed Editore. Nell’ambito di ogni provincia spetterà far eseguire le norme relative all’uno come all’altro e non solo, invece, allo stampatore secondo quanto oggi si esige. Sappiamo che le opere sfuggono all’obbligo del Deposito se vengono stampate fuori della provincia di Torino. Si propone, sulla base di aggiornati elenchi di Editori e stampatori, la necessità che l’esemplare destinato alla Biblioteca Nazionale venga consegnato senza il tramite della Prefettura. Questo garantirà per gli Editori e la comunità degli studiosi il vantaggio che venga conservata tutta l’attività culturale promossa nell’ambito della Città e Provincia di Torino rendendo sistematicamente possibile, senza lacune, la sua storicità negli anni. Leonardo Selvaggi
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Il Racconto
PULCINELLA di Antonio Visconte
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N omino quasi cinquantenne, basso e tarchiato, dal viso torvo e con un cappellaccio in mano, si aggirava per via Mazzini, chiedendo l’elemosina ai passanti. Proveniva da un paesino alla periferia di Caserta, arroccato sopra il cocuzzolo di una collina, che davvero sembra un presepio. Indossava la veste bianca e la maschera nera del celebre personaggio partenopeo, ma la città non lo seguiva e il povero uomo era costretto a ripiegare su Napoli. In quelle notti dorate, mentre il mare ripeteva la solita armonia e il cielo dispiegava il suo manto di stelle, il nostro artista cantava e danzava, accompagnandosi al tamburello rotondo dai sonagli stridenti, ma il sogno s’infranse al primo scoglio. Un gruppetto di ragazzacci lo attendeva al posto convenuto e gli strappava il misero bottino, che aveva realizzato con tanto strazio. Il povero uomo saliva dentro un vagone ferroviario e si addormentava per svegliarsi alla stazione di Bari e poi ritornava indietro. Le donne delle pulizie avevano imparato a conoscerlo e anche il bigliettaio non lo svegliava, sapendo che non aveva nulla da pretendere da un guitto, che non possedeva niente. Dopo aver abbandonato la maschera di Pulcinella, il nostro uomo ritornò in provincia e continuò a chiedere aiuto all’arte la quale, se è vera, è sempre povera e si aggiudicò il nome di Franco Cipriani, organizzando gli spettacolini per i bambini e solo i bambini gli volevano bene. La moglie lo aveva abbandonato e le due figlie si vergognavano di lui. Dormiva sopra le panchine della villa comunale e la mattina cercava un bar per lavarsi e farsi la barba, e non di rado anche la doccia. Quel pomeriggio sedevamo ad un tavolo del bar Margherita, quando il cameriere ci invitò ad andare via. “Qui non potete stare”, almanaccò. “Ma noi vogliamo consumare”, ribattei.
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“E andate a consumare in un altro posto”, bisbigliò, “questo è un locale di lusso. Mi dispiace per voi, siete un professore e ve la fate con certi soggetti”. Ci accolse una panchina circolare, con una rosea pianta al centro e i fiori intorno, davanti alla chiesa di San Sebastiano, il patrono della città. Notavo la gente che andava a pregare e nutrivo un senso di disprezzo. “Non hanno proprio niente da fare, per perdere tempo inutilmente”, riflettevo a bassa voce, “le religioni sono tutte fantasie dell’ uomo, che vuole perpetuare la debole esistenza”. Non ero più quel ragazzino dodicenne che frequentava la parrocchia e serviva la messa, ero diventato un ateo perfetto e mi affidavo alla ragione. Sulla mia formazione avevano influito gl’insegnanti del liceo, in buona parte miscredenti e laicisti. D’improvviso, come Paolo di Tarso sulla via di Damasco, sollevai le braccia al cielo e mi buttai in ginocchio per terra. Non diversamente dal grande santo, Pulcinella aveva cambiato la mia vita. Nessuno ci era riuscito. Né il papa con le dotte encicliche, né gli evangelisti con i poderosi sermoni, né i musulmani con i severi digiuni, né i buddisti con le atroci immolazioni, mi avevano restituito la fede. La folla osservava il fenomeno senza capire il significato. Non a tutti è riservato un attimo di ravvedimento. Cosa era successo? Sopra un foglietto, mezzo stropicciato, il nostro uomo aveva stilato una sua poesiola: “Un tempo Pulcinella aveva una casa, un tempo Pulcinella aveva una famiglia, un tempo Pulcinella aveva una moglie, un tempo Pulcinella aveva le figlie”, e via di questo passo. Subito dopo aveva appuntato un suo proverbio, che così declamava: “Iddio esiste, perché il mondo non l’abbiamo creato noi!” Aveva perfettamente ragione. Quale genio poteva affermare un simile assioma? Quale saggio poteva negarlo? Siamo ospiti su questa terra. Un Dio infinitamente buono ci ha offerto una dimora, senza chiederci neanche la pigione. Cerchiamo almeno di riconoscerlo e glorificarlo, ciascuno secondo la sua religione. Antonio Visconte
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XXVIII Edizione CITTÀ DI POMEZIA Cari Lettori e Collaboratori, anche se in ritardo - dovuto agli adempimenti burocratici per il passaggio della Gestione da Pomezia-Notizie al Comune -, ecco, qui, di seguito, il Regolamento per la partecipazione alla XXVIII Edizione del Premio Letterario Internazionale Città di Pomezia 2018. Comprendo che il tempo a vostra disposizione, per la preparazione e l’invio dei lavori, è assai limitato rispetto alle passate edizioni, ma conto ugualmente sulla vostra presenza qualificata e numerosa. Si prega di leggere il Regolamento, attenendosi scrupolosamente ad esso, anche sul sito Internet del Comune di Pomezia: www.comune.pomezia.rm.it, Ci sono, rispetto al precedente, sostanziali modifiche. La mia gratitudine e un caro saluto a tutti, nel nome della Cultura e della Poesia. Domenico Defelice
CITTÀ DI POMEZIA Città metropolitana di Roma Capitale SISIPO Sistema integrato di Pomezia Biblioteca Museo Centro Studi Sisyphus biblioteca-museo XXVIII Premio Letterario Internazionale Città di Pomezia Anno 2018 per opere inedite in lingua italiana Bando di concorso Il Centro studi specialistici SISYPHUS biblioteca-museo, operante all’interno del Sistema Integrato di Pomezia bibliotecamuseo (SISIPO) indice e organizza un con-
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corso letterario per opere inedite in lingua italiana. Il concorso prende la denominazione di Premio Letterario Internazionale Città di Pomezia, recuperando l’attività e lo stigma delle precedenti manifestazioni curate da Domenico Defelice di cui è possibile leggere la breve biografia intellettuale unitamente a una rassegna parziale dei membri dell’ Albo d’oro del Premio nell’allegato C, accluso al presente bando. Il premio si articola nelle seguenti sezioni: A – Raccolta di poesie o poemetto (per un massimo di 500 versi), da inviare con titolo, pena esclusione; B – Poesia singola (per un massimo di 100 versi); C – Poesia in vernacolo (per un massimo di 35 versi), con allegata versione in lingua italiana; D – Racconto o novella (per un massimo di 6 cartelle, considerata cartella un foglio di 30 righe per 60 battute cadauna, per un totale di 1800 battute); E – Saggio critico su temi letterari, storici, artistici e archeologici (per un massimo di 6 cartelle, come sopra). Il Premio, assegnato a opere letterarie inedite in lingua italiana che si distinguano per qualità, nell’intenzione degli organizzatori è, in primo luogo e in accordo con gli scopi per cui è stato indetto e reiterato, il riconoscimento e lo spazio di visibilità offerto agli autori premiati. Le opere dei primi classificati di tutte le sezioni saranno pubblicate integralmente nella collana dei Quaderni Sisyphus dell’ omonimo centro studi specialistici. Inoltre, nei giorni seguenti alla designazione dei vincitori, potranno essere divulgate le interviste ai primi tre premiati nelle cinque sezioni predette (si veda il punto 19 del regolamento concorsuale). A confortare la correttezza etica e deontologica del premio concorre la presenza di una giuria di comprovata competenza che, nella più totale gratuità, valuterà i testi in concorso, non conoscendo i nomi dei partecipanti. Lettura e valutazione anonime, effettuate
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pro bono, sono la garanzia che l’autore dell’opera non sarà stimato nel suo lavoro complessivo, ma solo in ragione di quanto presenterà in occasione del concorso: né il suo nome né le pubblicazioni al suo attivo potranno in alcun modo influenzare la valutazione. Ogni giurato assegnerà un punteggio all’insaputa dell’operato degli altri giudici e, pertanto, libero dal vincolo di suggestioni altre (si vedano gli articoli 16 e 17 del seguente bando concorsuale). Il giusto e meritato Premio sarà, di conseguenza, l’ inclusione nel proprio curriculum di un riconoscimento ottenuto fuori da una qualsiasi ottica clientelare e da qualsivoglia forma di mecenatismo. In ragione di ciò segue il contestuale Regolamento, la cui pur parziale inosservanza comporterà l’esclusione immediata e irrevocabile dal concorso, senza che il Centro Studi Sisyphus bibliotecamuseo sia tenuto a darne comunicazione. La giuria del Premio, presieduta da Domenico Defelice, è così composta: Franco Di Filippo (scrittore, giornalista) Maria Antonietta Mosele (saggista) Massimiliano Pecora (critico letterario, saggista) Fiorenza Castaldi (bibliotecaria, esperta di letteratura) Gloria Galante (archeologa ed esperta di arte antica) Le opere dovranno essere inviate, secondo le indicazioni prescritte nel regolamento, entro e non oltre il 16 settembre 2018. Il regolamento del Premio può essere consultato sul sito Internet del Comune di Pomezia: www.comune.pomezia.rm.it, nell’ area tematica della biblioteca. La biografia intellettuale di Domenico Defelice può essere consultata sul sito Internet del Comune di Pomezia: www.comune. pomezia.rm.it, nell’area tematica della biblioteca. Regolamento 1. La partecipazione è aperta a tutti gli scrittori, purché maggiorenni ed è completamente gratuita.
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2. Il tema di ciascuna sezione è libero. 3. È possibile partecipare a una sola sezione con una sola opera in lingua italiana e nel rispetto dei criteri e degli obblighi di seguito indicati. Per le sezioni in cui sono risultati vincitori, sono esclusi i partecipanti delle precedenti edizioni del Premio. 4. In nessun modo deve essere possibile associare l’autore all’opera proposta in concorso. È consentito partecipare solo con un’opera inedita ovvero: mai premiata, classificata, menzionata, segnalata a questo o ad altri Premi e/o Concorsi; mai pubblicata o divulgata, in toto o in parte, o con altro titolo né a mezzo stampa né sul web (siti personali, privati, social network, eccetera) né su altro supporto pubblicistico, dotato o meno di codice isbn o issn. Inoltre, l’opera non deve essere mai stata presentata in precedenti edizioni di questo Premio e deve rimanere inedita, non premiata, non classificata, non menzionata, non segnalata, mai associabile all’autore, in qualsivoglia contesto, fino alla pubblicazione ufficiale e definitiva della classifica da parte della Giuria del Premio. 5. Sezione A. Si partecipa con una raccolta di poesie inedite o un singolo poemetto, per un massimo di 500 versi, frutto del proprio ingegno, in un’unica proposta per mezzo delle apposite modalità di spedizione specificate nell’allegato A. La raccolta e il poemetto saranno valutati come un’unica opera da ogni giurato che, quindi, assegnerà un solo voto. Ognuna delle poesie va separata dalle altre per mezzo di un segno separatore (ad esempio, un asterisco) o da un titolo. Le poesie possono essere a tema indipendente l’una dall’altra oppure legate da un unico tema. Le poesie devono essere e rimanere inedite in qualsivoglia formato pubblicistico fino al momento della designazione dei vincitori, così come stabilito dal punto 4 del presente regolamento. 6. Sezione B. Si partecipa con una poesia inedita, frutto del proprio ingegno, inviata secondo le modalità prescritte in allegato A. Il testo deve avere un numero massimo di 100 versi, esclusi titoli, eserghi, spaziature e numerazioni di strofe. Il tema della poesia è
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a libera scelta dell’autore. L’opera deve essere e rimanere inedita in qualsivoglia formato pubblicistico fino al momento della designazione dei vincitori. È fatto severamente divieto di inserire nell’opera qualsivoglia riferimento che possa ricondurre al suo estensore e ideatore. Per il resto cfr. articolo 4 del presente regolamento. 7. Sezione C. Si partecipa con una poesia in vernacolo inedita, frutto del proprio ingegno, inviata secondo le modalità prescritte in allegato A. Il testo deve avere un numero massimo di 35 versi, esclusi titoli, eserghi, spaziature e numerazioni di strofe. Il tema della poesia è a libera scelta dell’autore. L’ opera deve essere e rimanere inedita in qualsivoglia formato pubblicistico fino al momento della designazione dei vincitori. È fatto severamente divieto di inserire nell’ opera qualsivoglia riferimento che possa ricondurre al suo estensore e ideatore. La versione in lingua italiana del testo vernacolare deve seguire il testo originario, mantenendo inalterato, come per modello, il carattere di originalità. Per la traduzione vale quanto osservato sia in relazione al modello vernacolare sia in relazione all’articolo 4 del presente regolamento. 8. Sezione D. Si partecipa con un racconto breve e inedito, frutto del proprio ingegno, proposto secondo le specifiche modalità dell’allegato A. Il racconto dovrà essere non più lungo di 6 cartelle per un totale di 1.800 battute, spazi inclusi, esclusi l’eventuale esergo e il titolo, fatto salvo il criterio secondo il quale ogni spazio, anche inutilmente inserito dall’autore, verrà conteggiato a verifica del criterio normativo stabilito. È fatto obbligo di inserire, nell’apposito campo dedicato, il titolo dell’opera, pena l’ esclusione dal concorso. Il racconto deve essere e rimanere inedito in qualsivoglia formato pubblicistico fino al momento della designazione dei vincitori, così come stabilito dall’articolo 4 del presente regolamento. È fatto severamente divieto di inserire nell’ opera qualsivoglia riferimento che possa ricondurre al suo estensore e ideatore. Per il resto cfr. articolo 4 del presente regolamen-
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to. 9. Sezione E. Si partecipa con un saggio breve e inedito, frutto del proprio ingegno, proposto secondo le specifiche modalità dell’allegato A. Il testo dovrà essere non più lungo di 6 cartelle per un totale di 1.800 battute, spazi inclusi, fatto salvo il criterio secondo il quale ogni spazio, anche inutilmente inserito dall’autore, verrà conteggiato a verifica del criterio normativo stabilito. È fatto obbligo di inserire, nell’apposito campo dedicato, il titolo dell’opera, pena l’ esclusione dal concorso. Il saggio dovrà vertere su un argomento afferente alle diverse declinazioni della letteratura (da quella antica finanche alle forme della letteratura fantastica) includendo testi ben noti, di chiara fama, pubblicati nei canali ufficiali e chiaramente citati all’interno dell’opera e su argomenti storici, artistici, archeologici, con particolare preferenza per la storia, la storia dell’arte e l’archeologia del territorio laziale. Il saggio presentato in concorso non può essere un rimaneggiamento di quanto già pubblicato in qualsivoglia formato pubblicistico, ma deve essere e rimanere inedito fino al momento della designazione dei vincitori, così come stabilito dall’articolo 4 del presente regolamento. È fatto divieto di inserire, all’interno dell’opera proposta in concorso, i propri dati e/o qualunque indicazione riconducibili all’autore. 10. Le opere conformi alle modalità prescritte nei precedenti articoli del presente regolamento non devono essere manoscritte, pena l’esclusione dal Premio. 11. Non è possibile proporre opere in concorso con modalità diverse da quelle previste dall’allegato A. 12. Le opere vanno proposte in un’unica copia, entro e non oltre le ore 24.00 del giorno 16 settembre 2018. In nessun caso si accetteranno opere fuori dal termine di scadenza prescritto. 13. Prima di inviare la propria opera in concorso, secondo le modalità stabilite nell’ allegato A, è necessario fare la massima attenzione a che il testo inserito sia aderente alle proprie attese e alle richieste del presente
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regolamento, poiché le opere inviate non potranno in alcun modo essere modificate. L’ autore è tenuto sua sponte a verificare il corretto invio e l’avvenuta ricezione dell’ opera presso il destinatario specificato nell’ allegato A. 14. Il giudizio della Giuria è insindacabile. 15. La Giuria del Premio è nominata dalla direzione del Centro Studi Sisyphus biblioteca-museo. 16. Ogni giurato, escluso il Presidente, assegna alle singole opere un punteggio espresso in trentesimi. Per ogni sezione sono considerate vincenti le opere che totalizzano i punteggi medi più elevati e comunque superiori a 23,000 (nella media si tiene conto di tre cifre decimali al fine di ridurre la possibilità degli ex aequo). 17. Se nessuna opera raggiungesse il punteggio minimo di 23/30 il Premio non sarà assegnato. Si rende noto che, nel caso in cui nessuna opera raggiungesse il punteggio minimo sopra indicato, è facoltà del Presidente invitare tutti i giurati a rivedere le proprie valutazioni sulle opere (anonime all’atto d’esame) che hanno ottenuto il maggiore consenso in termini di valutazione media. 18. La Giuria ha facoltà di segnalare e menzionare opere non vincitrici in concorso. 19. I primi tre classificati per ogni sezione potranno, a insindacabile decisione del Presidente, coadiuvato dai membri della giuria, essere intervistati e le interviste pubblicate nella collana dei Quaderni Sisyphus. 20. Ogni giurato garantisce la più totale imparzialità di valutazione. I giurati, fino alla data della designazione dei vincitori, non conosceranno la classifica finale né i nominativi degli eventuali vincitori. 21. Verranno rilasciati, per i primi tre classificati di ogni sezione, appositi diplomi attestanti la partecipazione al Premio. 22. Per qualunque richiesta o chiarimento riguardo al Premio, è possibile scrivere a: premioletterario@comune.pomezia.rm.it. Il Centro Studi Sisyphus biblioteca-museo non è tenuto a rispondere qualora le richieste siano inerenti a questioni già esplicitate
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all’interno del presente bando di concorso e del presente regolamento. 23. Le opere non rispondenti ai requisiti richiesti dal presente bando saranno escluse dal Concorso, senza che sia dovuta alcuna comunicazione all’autore. 24. Ogni tentativo degli autori, partecipanti al Premio, di influenzare la valutazione dei giurati, comporterà l’esclusione immediata dal Premio dell’autore e della sua opera, con l’interdizione a partecipare a questa o a future edizioni del Premio. 25. Ogni autore, con la sua partecipazione, proponendo la propria opera in concorso, dà il consenso e concede i diritti al Centro Studi Sisyphus biblioteca-museo di pubblicare gratuitamente, nelle apposite modalità a mezzo stampa, in forma singola e/o collettiva o in qualsiasi altra forma non lesiva della dignità letteraria, insieme al proprio nome, cognome e città, l’opera proposta in concorso, senza che sia dovuto alcun compenso relativamente ai diritti d’autore o qualsiasi altra richiesta. L’opera e i dati dell’autore a essa relativi (nominativo e città) rimarranno pubblicati nel presente e nel futuro. 26. Per ogni questione non contemplata/regolata da una norma del presente bando di concorso, sarà la direzione del Centro Studi Sisyphus biblioteca-museo, previa, eventuale, ma non obbligatoria, consultazione con la Giuria, a decidere. 27. Ogni autore, con la sua partecipazione, proponendo la propria opera in concorso, sottoscrive e accetta integralmente e incondizionatamente il contenuto del presente bando; dichiara che l’opera proposta in concorso è inedita, di propria stesura, frutto del proprio ingegno e non lede in alcun modo i diritti d’autore ed editoriali propri e/o di terze parti; concede, inoltre, il trattamento dei dati secondo le disposizioni della legge sulla privacy D. Lgs 196/2003 e s.m.i.. Questi dati saranno utilizzati unicamente per comunicazioni riguardanti il concorso e/o per comunicazioni a carattere culturale e informativo relativamente alle iniziative del Centro Studi Sisyphus biblioteca-museo. Allegato A. Modalità di invio.
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Ogni autore può partecipare a una sola sezione. Le opere non manoscritte, pena l’esclusione, inedite e mai premiate, senza firma, prive di qualsivoglia riferimento all’autore, devono pervenire via e.mail, a: premioletterario@comune.pomezia.rm.it. L’indirizzo e.mail del mittente non deve contenere il nome dell’autore o qualunque indicazione riconducibile all’autore, ma deve, invece, contenere il titolo o parte del titolo dell’ opera, pena l’esclusione. Il nome dell’autore, associato al titolo dell’opera, unitamente a un breve curriculum di non oltre dieci righe, alla copia del documento di identità dell’estensore, con allegata dichiarazione di autenticità dell’ opera, di cui si riporta fac-simile nell’allegato B, dovrà essere inviato per posta, in raccomandata semplice. Farà fede il timbro postale. La busta chiusa dovrà recare la dicitura “Non aprire”, “Oggetto: Premio Letterario Internazionale Città di Pomezia” e dovrà essere indirizzata a: Centro Studi Sisyphus biblioteca-museo c/o Comune di Pomezia Ufficio Protocollo, Piazza Indipendenza 8 – 00071 POMEZIA (RM). La data di scadenza per poter partecipare al Premio è il 16 settembre 2018. Allegato B DICHIARAZIONE DI ORIGINALITÀ DELL’OPERA
Il/La sottoscritto/a________________________________ ___________________________________ nato/a a _____________________ il _______________ residente a _________________________ in via ___________________________________ ___________________________________ ______ consapevole delle sanzioni penali ex art. 76 del DPR n. 445/2000 cui il sottoscritto incorrerà in caso di dichiarazioni mendaci DICHIARA
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che il testo oggetto della cessione dei diritti di utilizzazione di opere dell’ingegno: TITOLO del TESTO è originale ed autentico, e non lede in alcun modo diritti di terzi, in ossequio alle disposizioni Internazionali, Comunitarie e legislative di cui alla legge 633/1941, in materia di diritti d’autore e successive disposizioni normative né costituisce violazione di norme penali; è frutto del proprio lavoro, non trascritto, o copiato da altre fonti, fatta eccezione per quelle esplicitamente citate; Luogo, Data Firma
Allegato C
Albo d’oro del Premio per la sezione A. (…) Pasquale Maffeo, autore di La melagrana aperta; Ettore Alvaro per Hiuricedhi; Viviana Petruzzi Marabelli con Frammento d’estate; Vittorio Smera con Menabò; Giuseppe Nalli, autore di A Giada; il critico italo-americano Orazio Tanelli per Canti del ritorno; la poetessa e saggista francese Solange De Bressieux, autrice di Pioggia di rose sul cuore spento; Walter Nesti con Itinerario a Calu; Maria Grazia Lenisa con La ragazza di Arthur; Sabina Iarussi con Limen; Leonardo Selvaggi per I tempi felici; Anna Maria Salanitri con Dove si perde la memoria; Giuseppe Vetromile per i suoi Mesinversi; Giovanna Bono Marchetti, autrice di Camelot; Elena Mancusi Anziano con Anima pura; Sandra Cirani per Io che ho scelto te; Veniero Scarselli con Molti millenni d’amore; Sandro Angelucci per Controluce; Giorgina Busca Gernetti con L’anima e il lago; Rossano Onano per Mascara; Fulvio Castellani con Quaderno sgualcito; Nazario Pardini, autore di I simboli del mito; Rodolfo Vettorello con Voglio silenzio; Isabella Michela Affinito per Probabilmente sarà poesia; Antonia Izzi Rufo con Sensazioni; Corrado Calabrò per La scala di Jacob.
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I POETI E LA NATURA - 81 di Luigi De Rosa
D. Defelice - La casa del pipistrello (biro, 2018)
I COLORI DEL CIELO E DEL MARE IN “Viaggio a Montevideo” di DINO CAMPANA
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ffascinante o ammaliante, potrebbero essere le parole giuste. Il linguaggio del poeta Dino Campana (nato nel 1885 a Marradi e morto nel 1932 a Scandicci) è a dir poco affascinante, originale, con le sue ritmiche iterazioni, le sue parole vibranti di sfumature indefinibili, di una musica veramente nuova nel quadro letterario dell'Inizio Novecento. Non per nulla le sue poesie avrebbero riscosso il plauso e l' ammirazione di un manipolo di critici autorevoli, con Eugenio Montale in testa. Si pensi ai Canti orfici, del 1914.
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Dopo un'infanzia insoddisfacente, a causa dei cattivi rapporti familiari con la madre, troppo severa e compulsiva, e per giunta eccessivamente legata al figlio minore, Dino conseguì la maturità e si iscrisse all'Università di Bologna, in Chimica pura. Purtroppo dai quindici anni in poi fu colpito da ricorrenti “disturbi nervosi”, che non ne danneggiarono gli studi ma in seguito gli impedirono una vita serena e normale. Allora per cose di questo genere si veniva spesso rinchiusi in manicomio (dove la vita era un inferno) e se si tentava la fuga quando si veniva ripresi si veniva arrestati. Inutile dire che egli provò più volte a fuggire. Venne anzi preso da una forte frenesia di viaggiare, non riuscendo a trovare mai un ubi consistam soddisfacente. Per capire il suo stato d'animo di perpetuo sofferente (che trovava sollievo soltanto nel mondo dell'arte) basta leggere una sua stupenda lirica, intitolata “Viaggio a Montevideo”. Dove si riscontra il suo tocco felice nel rendere l'atmosfera di profonda malinconia della Natura, che si trasfonde pari pari nell'anima del poeta; l'attrazione irresistibile del viaggio verso l'ignoto, il fuoco tiepido o rovente dei colori di un tramonto e di un crepuscolo, fino al buio notturno: “Io vidi dal ponte della nave i colli di Spagna svanire nel verde dentro il crepuscolo d'oro la bruna terra celando...” A proposito di ubi consistam. Perfino questa poesia si chiude senza l'arrivo a Montevideo, come programmato nel titolo, ma bensì a Buenos Ayres (come annotato di proprio pugno dallo stesso Autore). Del resto i suoi viaggi erano da poeta, non certo da turista borghese con tanto di programmazione nei minimi dettagli. La poesia di
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Campana è pur frammentata, come per inquadrature e sequenze “cinematografiche”, ma è comunque dotata di una potente efficacia visiva e rievocativa, che conferisce alla composizione una inedita unità ed organicità. “Illanguidiva la sera celeste sul mare: pure i dorati silenzi ad ora ad ora dell'ale varcaron lentamente in un azzureggiare... Lontani tinti dei varii colori dei più lontani silenzii ne la celeste sera varcaron gli uccelli d'oro: la nave già cieca varcando battendo la tenebra coi nostri naufraghi amori battendo la tenebra l'ale celeste sul mare.” A questi versi ne seguono altri che sono scritti volutamente in corsivo, come se fossero brani di un “giornale di bordo”inseriti dentro il testo dal poeta viaggiante (anche questa è una novità “strana”, della quale non si hanno riscontri similari in tutta la letteratura italiana): “...Andavamo andavamo per giorni e per giorni: le navi gravi di vele molli di caldi soffi incontro passavano lente: sì presso di sul càssero a noi ne appariva bronzina una fanciulla della razza nuova, occhi lucenti e le vesti al vento! “ cioè una giovane donna sudamericana, dalle carni bronzee sia per la razza che per la giovinezza trionfante... “Ed ecco selvaggia a la fine di un giorno che apparve la riva selvaggia là giù sopra la sconfinata marina e vidi come cavalle vertiginose che si scioglievano le dune verso la prateria senza fine deserta senza le case umane del continente nuovo e apparire la capitale marina. Per chiudere con dei versi dai chiari accenni allo stile futurista: “Limpido, fresco ed elettrico era il lume della sera e là le altre case parevan deserte laggiù sul mar del pirata...” Luigi De Rosa
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Recensioni TITO CAUCHI PROFILI CRITICI Editrice Totem di Lavinio (Roma), Anno 2015, Euro 20,00, pagg. 173. La scelta dell’opera artistica La Primavera del pittore italiano Sandro Botticelli, come foto a colori sulla copertina di questa raccolta di critiche del presidente del Premio Nazionale di Poesia Edita “Leandro Polverini” 1a Edizione 2011, Tito Cauchi, di certo non è stata una casualità piuttosto un chiaro auspicio di ‘primavera rinascimentale’ rivolto a tutti i partecipanti del concorso. Nel 1482, il pittore fiorentino Botticelli, realizzò, appunto, con tempera grassa su tavola il noto capolavoro di 314 x 203 cm, probabilmente commissionatogli da Lorenzo il Magnifico per le nozze del cugino con Semiramide Appiani, plurisignificante a livello allegorico ed era il tempo anche di Michelangelo, di Leonardo, di Raffaello, Bramante, con le capitali dell’arte che erano Firenze e Roma. « La Primavera denota il profondo virtuosismo intellettuale di Botticelli e la sua incessante attività speculativa che ama ricorrere al gioco letterario dell’allegoria per liberare la forma da qualsiasi legame con uno spazio e un tempo definibili e riconoscibili. L’annullamento della profondità dello spazio e il moltiplicarsi delle cadenze ritmiche, a somiglianza delle parole nella poesia, conducono l’artista verso la dissoluzione della forma plastica e dello spazio prospettico a favore della linea e della bidimensionalità. » (Dal Volume Botticelli-La Primavera della Collana Cento Dipinti Rizzoli di Milano, Anno 1998, a pag. 10). Nell’Umanesimo, a cui seguì il Rinascimento,
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scaturì il forte sintomo del risveglio intellettuale in concomitanza con il concetto della centralità dell’ Uomo, l’esaltazione dell’umano sul divino, della natura sulla ragione e questo lontanissimo pensiero, che coinvolse tutte le Arti, è stato ripreso in modo appropriato dall’autore della raccolta di sue recensioni, il professore saggista poeta siciliano e residente a Lavinio vicino Roma, Tito Cauchi, con l’oculata scelta dell’opera botticelliana, per celebrare il senso della rinascita dell’ingegno e creatività di tutti gli autori che coi loro libri di poesia hanno aderito al Premio. Infatti si partecipava con opere edite, ovvero libri a tutti gli effetti e alla fine del concorso c’è stata la cerimonia di premiazione del 27 novembre 2011 presso l’Hotel Lido Garda di Anzio, dove sono stati donati in premio una decina di quadri d’autore, considerato il fatto che non c’era stata alcuna tassa di partecipazione al concorso. Il presidente, critico letterario Tito Cauchi, non si è lasciato sfuggire l’occasione di ‘entrare’ in ciascuna situazione editoriale per esaminare le creature di carta dei partecipanti; compito che si è sentito di svolgere per capire e capirsi di più al di là della classificazione raggiunta da ognuno di essi. « […] Detto senza pretesa, i Poeti sono testimoni del nostro tempo, indicatori degli umori, come lo sono la cartina al tornasole o il termometro; la composizione anagrafica e geografica dei poeti, si rivela un segnale della coscienza sociale del Paese. Indietro nel tempo non si può andare, ma leggere è come vivere più vite. Abbiamo voluto riconoscere a ciascuno il proprio valore, convinti che la poesia meriti di essere diffusa e che i Poeti si riconoscano l’un l’altro, pure nei difetti, perché in fin dei conti i poeti sono esseri umani. La classificazione non deve essere intesa in senso preclusivo; ma solo come uno degli aspetti della dimensione poetica. » (Alle pagg. 7-8). In tutto sono settantacinque note critiche, ognuna occupanti quasi due pagine e terminano con lo scritto, in breve, della Motivazione della Giuria, più o meno dieci righe, e a chiusura delle due pagine l’immagine, sulle tonalità del grigio, della copertina del libro premiato e disquisito. Un lavoro distintivo che senz’altro ha aiutato a diffondere i nomi di tutti gli autori-poeti conosciuti e non, anche perché alcune recensioni sono state poi pubblicate su riviste del settore come ‘PomeziaNotizie’, ‘Sìlarus’, ‘Il Convivio’, ‘Le Muse’. Diciamo che il vero premio è stato proprio l’ elaborazione personalizzata dell’esamina atta anche a catalogare lo stile poetico di ciascun partecipante, così si sono evidenziate le sezioni della poesia concettuale, della poesia crepuscolare, della poesia informale, della poesia sociale, simbolista, mistica,
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orfica, ellittica, minimalista, ermetica, astratta, intimistica, sperimentale, cosmica, didascalica, esistenzialista, impressionista, espressionista, onirica, naturalista, allegorica, metafisica, della memoria, realista. Isabella Michela Affinito
CLAUDIA TRIMARCHI LA FUNZIONE CATARTICA E RIGENERATRICE DELLA POESIA IN DOMENICO DEFELICE Il Convivio Editore, Anno 2016, Euro 13,00, pagg. 133. Ciò che fa moderna e caratterizza una tesi di laurea è la sua progettualità, che inizia con un consulto voluto dallo studente, ormai alla fine del suo corso di studi, al docente-relatore prescelto dallo stesso studente. La progettualità è un insieme di direttive, suggerimenti, collegamenti, diramazioni, ma soprattutto parte da una base che, nel caso della tesi di laurea, deve essere un argomento equivalente anche ad un nome attorno al quale ‘costruire’ il saggio, la tesi finale del laureando. Il nome, poi, del personaggio verso cui rivolgere l’attenzione per l’accurata analisi, inevitabilmente porta seco il periodo storico in cui egli è vissuto, vive ed ha svolto il suo operato, degno di valutazione altrui. Dal periodo storico, inoltre, si diffondono le propaggini nella direzione di personaggi secondari legati in qualche modo al personaggio principale, per motivi inerenti alla sua attività. Insomma, un gioco di scatole cinesi o della bambola russa, la cosiddetta grande bambola iniziale matrioska, apribile, dentro cui ci sono altre simili ad essa e così in ciascuna, via via di dimensioni sempre più ridotte. Capire fin dall’inizio come stendere il progetto per la tesi finale è arduo per qualsiasi relatore che debba instradare, o per lo meno consigliare un certo percorso da svolgere, ed è questa la seconda tesi di laurea supervisionata dal professore critico letterario Carmine Chiodo, che, ricordiamolo, è stato anche il relatore della precedente tesi di laurea della dottoressa in Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea all’Università degli Studi di Tor Vergata di Roma, Eva Barzaghi, dal titolo Domenico Defelice: Introspettivo coinvolgimento poetico letterario dell’animo umano, diventato libro a tutti gli effetti presso l’Editrice Totem di Lavinio-Roma, nel 2009. Stavolta, il percorso è risultato davvero più intricato: non c’è più l’elaborazione più o meno complessa attorno ad un’opera, a più opere specifiche
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letterarie sempre del giornalista, saggista, critico d’arte e letterario, poeta, scrittore, direttore del mensile Pomezia-Notizie da lui fondato nel 1973, Domenico Defelice; bensì parallelismi, innesti, intersecamenti eruditi da parte dell’autrice Claudia Trimarchi residente a Frascati, che ha svolto un lavoro d’articolata progettualità, facendo incrociare, traversare più opere contemporaneamente tutte riferibili all’attività di Domenico Defelice poeta, ma soprattutto di onesto critico. « […] Addentrarsi nella lettura dei saggi di critica letteraria e di critica d’arte redatti dal Defelice è un po’ come entrare nel suo orto, passeggiare tra le multiformi varietà di quelle “erbe-medicamento per l’anima e virenti energie” di cui parlava l’Allegrini; l’attività critica defeliciana infatti, si compone per lo più di saggi monografici che non sono frutto di lavori commissionati ma sorgono spontaneamente da un incondizionato amore per la poesia e per la pittura congiunto alla necessità culturale, ma anche morale e sociale, di dar voce a scrittori ed artisti contemporanei ingiustamente relegati nel silenzio a causa dell’odierna realtà critico-editoriale che, più che inseguire “soltanto e Verità e Bellezza”, è votata al dio denaro. » (A pag. 93). Dopo la qualificata prefazione del direttore Giuseppe Manitta, ci sono quattro lunghi capitoli – ognuno con una titolazione autonoma – dove sono avvenuti i passaggi evolutivi della letteratura defeliciana: dal suo distacco dalla terra natia, svoltosi in maniera graduale e poi definitiva col suo stabilizzarsi a Pomezia nel 1970, a La concezione di una critica onesta. Lui comunque rimarrà ed è un uomo del Sud, territorio che ha sempre difeso a spada tratta e di cui ha molto versificato. « […] Il meridionalismo tipico delle prime composizioni, che trova nella silloge poetica “La morte e il Sud” la sua più alta espressione, si universalizza quindi nelle opere più mature, in cui “è possibile ripercorrere – scrive Sandro Allegrini nella Prolegomena del suo magistrale saggio “Percorsi di lettura per Domenico Defelice” (Ed. Il Convivio, 2006) – la nostra vicenda nazionale, dal dopoguerra agli anni del boom, da tangentopoli alla malasanità, in perfetta adesione alla convinzione di Eliot: Il grande poeta, nello scrivere se stesso, scrive il suo tempo”. » (A pag. 27). Claudia Trimarchi ha vagliato i libri di poesia di Domenico Defelice che risalgono al 1957 con Piange la luna, Con le mani in croce del 1962, sempre de La Procellaria Editrice; poi, man mano ci sono le pubblicazioni degli anni ’70 con La morte e il Sud del 1971 e Canti d’amore dell’uomo feroce del 1977, avente la presentazione della compianta saggista poetessa Maria Grazia Lenisa. Fino ai no-
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stri giorni con la raccolta poetica dedicata al nipote Riccardo (e agli altri che verranno) del 2015. Poi, ci sono le opere di prosa, di saggistica, gli articoli apparsi sia sul mensile di Pomezia-Notizie, sia su altre riviste e i saggi, da parte di altri autoricolleghi che negli anni si sono moltiplicati, perché la rilettura delle opere defeliciane è sempre stata affascinante e rigenera le menti ogni volta. La tesi-libro si conclude con un profilo su Domenico Defelice uomo e letterato; e i doverosi ringraziamenti al professore relatore Carmine Chiodo, allo stesso Defelice « […] per la disponibilità, la vicinanza, il premuroso interessamento manifestato nei confronti del mio lavoro di ricerca, e per l’affettuosa accoglienza che, insieme alla moglie, Signora Clelia Iannitto, mi ha riservato durante i numerosi incontri presso la propria abitazione a Pomezia ». (A pag. 129). Infine, anche un sentito ringraziamento ai genitori di Claudia, ai tre suoi fratelli e alle impareggiabili amiche e compagne di viaggio, Agnese Debora Laura ed Eleonora, che hanno sostenuto l’impegno di Claudia, la quale sembrava avesse interrotto gli studi, poi grazie ad esse ha ripreso in gran forma per laurearsi definitivamente, consegnando alla stampa editoriale dell’Accademia Internazionale “Il Convivio”, della provincia di Catania, questo brillante risultato! Isabella Michela Affinito
LEONARDO SELVAGGI L’INDIGNAZIONE POETICA Ed. Il Croco, Supplemento al n°11 (Novembre 2005) di ‘Pomezia-Notizie’ Un’osservazione effettuata al di là della finestra del proprio mondo personale è bastata per far suscitare, in Leonardo Selvaggi, un relativo sdegno che andava comunque messo per iscritto e vediamone il motivo. Il poeta, saggista, scrittore dalla comunicativa zelante, collaboratore di innumerevoli riviste del settore, Leonardo Selvaggi, nell’ordinario non si è mai accontentato di esprimere semplicemente i suoi pensieri in poesia, terminando poi con un alone di sé più o meno indelebile. Ogni sua ‘fatica’ poetica è stata per lui (e in effetti è comprovato) una dimostrazione di forza per la miglioria, per il ritmo della metamorfosi, la snellezza dei concetti, la ponderosità dei propositi e, in questo caso, c’è anche, non in negativo, un’immisurabile dose di irritamento, a priori ritenuto dall’autore ineliminabile così da aver potuto egli affrontare un argomento che oggi riguarda chiunque: la vivibilità umana.
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Vivere si sa non è stato mai per chiunque né semplice, né ludico, per un’umanità in continua evoluzione, cosa che ha richiesto continui adattamenti a differenti stili di vita a seconda se trattasi – parafrasando il titolo del capolavoro del grande scrittore russo Lev Tolstoj – di periodi pervasi dai venti di guerra o di pace. Ma stavolta, soverchiando le circostanze solite che potrebbero essere influenzate dalla politica, dai contrasti mondiali, dalla povertà, dalla civilizzazione più o meno radicata in una nazione, la globalizzazione, etc., il risultato della lunga osservazione di Leonardo Selvaggi si ferma sulla soglia minima di vivibilità tollerata dal consorzio umano di questo nostro terzo millennio. Noi di codesto complicato millennio, nato da poco, siamo i testimoni di un tempo non più scandito e variegato dalle normali quattro stagioni; forse perché è di andamento più breve, più avaro di ore e di sereni accadimenti. « Il cielo incupito, il celeste infinito/ come crollato, un velo nero/ stretto attorno. Tutte le glorie,/ le miserie, le storie, i monumenti/ gli ori ravvolti. Spenta la luce/ degli astri, si è annullato il cielo./ Solo l’uomo in solitudine smarrito. […] L’occidente massa greve con striati/ filiformi bagliori. Un’aria minacciosa,/ divorato lo spazio senza cammini./ Il petto una voragine, frantumazione/ del destino umano dissolto,/ le labili trame/ dell’interiore sentire/ nelle lontananze sperse. » (A pag. 15). Pare che il poeta Selvaggi abbia passato in rassegna l’intera umanità, cerchiando qua e là fatti e situazioni non propriamente felici che pesano sugli animi non solo di chi li sta vivendo. Allora, questo genere di malcontenti scaturiti da notizie tragiche internazionali sono diventati molteplici versi, che spiegano la condizione ufficiale del mondo e dei suoi abitanti. Si vive è vero, ma differentemente da un passato che arrideva a molti, mentre l’oggi è propizio a pochi. L’ambiente della metropoli sembra andare contro chi l’ha creato; cresciuto in larghezza e altezze vertiginose schiaccia l’individualismo e alza barriere verso coloro che non ce la fanno a restare nel sociale per tante ragioni, i quali sfortunatamente finiscono per albergare in gallerie di solitudini. « […] La città senza angoli e facciate/ reclinata tutta per le disordinate strade./ Accavallata, lercia aggrovigliata./ Pare spesso un greto accidentato/ di pietre incuneate nell’argilla./ Rifiuti e scatole arrugginite alle rive./ La solitudine non ha voci,/ desolate lande infestate./ Carni a morsi, i nuovi arrivati,/ ingordi divorano l’aspetto/ chiaro del nostro viso. Nugoli di insetti/ inzuppati di melma, luoghi
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scomposti,/ dimenati fatichiamo a tirare i propri/ brandelli. La fine delle case non si vede,/ tagliate col muso infossato/ come cadute contro massi/ emersi contro i passi. » (A pag. 19). Ragionevolmente l’autore ha aperto un difficile varco, suggerendoci con la sua scelta poetica ‘indignata’ di fare qualcosa a favore dell’umanità, che poi siamo noi stessi chiamati a meditare sulla nostra cocente realtà! Isabella Michela Affinito
EUGENIO LUCREZI BAMBOO BLUES Nottetempo, Milano, 2018, € 10,00 Un libro di “occasioni, memorie e rapporti” definisce Eugenio Lucrezi il suo nuovo libro di versi, Bamboo Blues, apparso nell’aprile del 2018 (Nottetempo, Milano), con una lettera di Mario Persico, il quale nota come in esso l’autore crei un “incastro di sostantivi che si adeguano o si contrappongono nel tentativo di tener conto di altri aspetti del reale”, generando un amalgama “estremamente interessante”. Certo è che in questo libro Eugenio Lucrezi appare come un raffinato ed espertissimo artefice del verso, da lui scandito con grande abilità e precisione, come si evince, ad esempio, dalla chiusa di 14 luglio 2015 (summer song), che suona: “Plutone, se ti affacci, non ha mosso / la sua ruga di ghiaccio. Si deforma, / spasmodica, la sonda. Poi si perde” o quella di L’arte della conversazione: “Tramortito, rinasco, se ritrovo / a fondo valle, nelle morene, / il sospirato bip del tuo segnale, / sambernardo cordiale; e se considero / l’inservibile arnese della voce”. Tra memorie classiche, che hanno in Lucrezi radici profonde (“Due volte almeno ti bagnerai, / ti bagni nelle mie e dal greto / prendi battesimo nella medesima acqua…”, Lago di Misurina) e assorte meditazioni sul presente (“… non ciascuna / vita si attende pollini, ci sono / vite che a gambo, dritte, non trionfano”, La pace) procede questo libro, che alterna vari metri, dall’endecasillabo, che è il verso portante, con il quale l’autore sortisce sicuri effetti ritmici, al settenario, che dell’endecasillabo è una componente; dal quinario all’ottonario e così via. Si leggano, ad esempio, i seguenti versi: “Superata la cima, il colle spiana / al primo sole” (Disgelo); “Batticuore sensibile che spacca / questa pietra magnifica” (Magnificenza); “Sera d’estate, torna il peso rapido / delle nubi all’ingrosso, che si stringono / nella gamma del grigio, gonfie d’acqua” (Salina), sino a giungere ai versi più agili e lievi di Us open: “La tromba delle scale, / l’imbuto del cortile, scac-
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chi d’aria respirano” e ai ritmi veloci di Loversleep: “Tendine si frappongono / tra i respiri e l’esterno. // Tu respiri tranquilla / a saldo dell’eterno. // Percepire benessere / soffiare via la pena. // Non sai se il fresco o il caldo / temperano la scena” o magari a quelli più sommessi di Salina, che inizia: “Basto e millenni / non basta la fatica”. Ciò che muove Lucrezi è sovente il dato culturale, come avviene in Sapìa, che reca in epigrafe un verso del Purgatorio dantesco: “come fe’ ‘l merlo per poca bonaccia” (Canto XIII, v. 123). Sapìa, si sa, è posta da Dante nella Cornice degli invidiosi, dove sconta la sua pena, e dove incontra il Poeta che, attraverso il suo arduo viaggio nell’Aldilà, va purificando la sua anima, per ascendere alla Suprema Visione di Dio. Quel motivo del merlo che, nell’immaginario popolare, aveva creduto che fosse già giunta l’estate per l’aprirsi di una breve giornata di sole, è ripreso da Lucrezi il quale inizia la sua poesia con questi versi: “Poca bonaccia è il guado / del merlo al vasto cielo” e la chiude con questi altri: “Non c’è colpa nell’essere / un merlo. Caso mai / è una colpa invidiarlo”. Altre volte a muovere Lucrezi a cantare è l’urgere delle parole, che nascono in lui, come avviene in Paradiso, dove si trovano questi versi: “Sai che non puoi tentare una ventura / con animo di volpe che leggera / lascia sul manto passi inapparenti. / Fuggono ad una ad una le figure, / anche quelle viziate dalla luce / in una posa illogica, di affanno”, Numerose sono poi le “occasioni” che si offrono al poeta per il suo canto, come quella del ricordo di Maria Callas, che s’incontra nella poesia intitolata Nel giardino: “C’è un loggione che freme, che si chiede / dove ti affondi quando te ne vai” o quella della visita a una mostra del Pontormo e del Rosso Fiorentino: “Il Rosso vira al nero … Pontormo va per cieli” (Su Rosso e sul Pontormo a casa Strozzi). Da ultimo la poesia che dà il titolo alla raccolta, Bamboo Blues, che trae lo spunto da uno spettacolo il quale, secondo quanto dice nella sua Notizia Lucrezi, “pare porsi quale odierno paradigma, straniato per inconciliazione e urgente per forza di sprigionate energie d’urto, di quell’antica guerra tra l’ Apollineo e il Dionisiaco che chiamiamo poesia”. Questo testo, che è dedicato a Pina Bausch, in mortem, si caratterizza per l’ampio movimento iniziale: “Non credo a quel che vedo, la fotografia / scattata quasi a caso, di pomeriggio, / a te che prendi il vento negli ariosi / capelli, e ad Agropoli muovi un impercettibile / passo di danza, torcendo / appena un poco il busto mentre alzi / le braccia all’altezza del viso che si profila / di spalle nel cielo caricato / di sole e di calante azzurrità commossa…”. Un bel libro questo di Eugenio Lucrezi, che si ca-
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ratterizza per la varietà delle soluzioni ritmiche e per la profondità dei pensieri. Elio Andriuoli
ANTONIO VISCONTE IL MESSIA Edizioni Quintessenza, Caserta 202, Pagg. 190 Antonio Visconte, casertano di San Prisco, classe 1935, docente di materie letterarie, latinista, critico d’arte, compositore musicale, in veste di poeta, è autore de Il Messia. Nella premessa, Gerardo Zampella puntualizza che il poema è «costruito con intento pubblico, ossia l’urgenza di registrare la corruzione dei tempi» e che la sua poesia dà voce direttamente ai personaggi «proprio come Milton ma anche come Dante.» Avverte che l’opera si compone di 14.400 endecasillabi sciolti raccolti in ottave distribuite in 45 canti di 40 stanze ciascuno e che il protagonista si chiama Tore che attraversa duemila anni di storia. Il poema prende le mosse da una piazza napoletana dalle “borboniche statue” di Ferdinando e Carlo, ai piedi delle quali si trovano alcuni ragazzi tra cui Pietro e Paolo, i quali entrano nel Pantheon romano ivi riportato. Dal tempio esce un bel giovane alto e biondo che su richiesta dei due giovani si presenta come Salvatore, figlio di un falegname. È chiaro che in analogia ai Vangeli si rinnova in chiave moderna l’incontro del Messia con i due apostoli. Da qui in poi si fanno salti cronologici mettendo insieme eventi di varia natura, forse come se si volessero contestualizzare. Si richiamano la catastrofe del Vesuvio che sommerse Pompei, Stabia ed Ercolano, i martiri del Colosseo; e via via personaggi storici e luoghi fino ai nostri giorni. Abbiamo richiami alla Sicilia, a Palermo (lido di Mondello, monte Pellegrino, santa Rosalia, ecc.) e ai giudici ammazzati, al grande processo che vide Andreotti, e alla sorte subita da Aldo Moro; ai senzadio. Si richiamano il processo di Norimberga, i testimoni di Geova, la Russia mostruosa, la Cina immensa; la chiesa e Manzoni, Abramo e i sacrifici umani, il valore della vita; la valle dei templi di Agrigento; Siracusa che rivaleggiava per potenza e bellezza con Atene; Michelangelo e il giudizio universale. Le fucilazioni ad opera dei tedeschi a Marzabotto, le vittime delle Fosse Ardeatine, i fratelli Cervi, Domenico Visconte fucilato a San Prisco, ecc. ecc Il Messia dice di volere scegliere quattro evangelisti che non siano Luca, Marco, Matteo e Giovanni. Potrebbero essere il Poverello d’Assisi (S. Francesco), la Santa di Siena (Caterina), Angelo Ron-
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calli (Papa Giovanni XXIII), ed uno come Salomone, per esempio il personaggio Antonio Visconte orfano di padre che viene avviato agli studi dalla madre, vedova, Maria Pardo. Si richiamano ancora antichi romani e popoli partenopei; si nomina la guerra ultima che distrusse la basilica del paese e opere d’arte, ma “nessun ordigno s’abbatté sulle case”. Enea, Anchise e la fine di Troia. Mazara del Vallo e i pescatori siciliani e tunisini, e i raffronti con personaggi antichi (Orazio, Filodemo epicureo, Attilio Regolo, Dante Alighieri) e ancora personaggi notevoli di ieri e d’oggi (Coppi e Bartali, Indro Montanelli ed Enzo Tortora, De Gasperi e Togliatti; Kruscev). Riferimenti dell’Antico Testamento e ancora Maria e Marta, filosofi, papi, potenti del mondo, gli uomini dell’Unità (per esempio Francesco Crispi) e chi voleva dividere l’Italia (Aldo Bossi) e cenni sull’Armistizio (8 settembre 1945) e l’ epilogo delle fucilazioni e delle impiccagioni in Italia, e la bomba atomica in Giappone. Scrittori come Paolo Pasolini, politici, cantanti, la diga Assuan in Egitto, Adamo generato da Eva. E così di seguito. Antonio Visconte, sicuramente esperto di tecniche letterarie, supera ogni schema di narrazione. Vero è che generalmente, in tutte le opere, si scopre almeno un quid di interessante, ma in questo caso per scoprirlo si mettono a dura prova le capacità intellettive di un comune lettore. Leggere questo libro diventa una scommessa poiché presenta una mistura temporale in cui personaggi e riferimenti vari appaiono all’improvviso senza un nesso logico, almeno all’apparenza. Versi, ottave, stanze e canti sembrano, almeno alla prima lettura, una sorta di storia universale non ordinata in senso cronologico, né per temi, né per categorie. Il libro Il Messia, si apre e si conclude con Pietro e Paolo ai quali si aggiunge l’umanista “tuttologo Antonio Visconte” che spiega di non essere abbastanza noto e perciò “il poema erudito non trova editore”; e seguono altre cose come lo scorrere di un film di Tinto Brass. Tito Cauchi
ISABELLA MICHELA AFFINITO RITRATTI Il Croco/ Pomezia-Notizie Maggio 2018, Pagg.44 Isabella Michela Affinito è poetessa che mette a frutto i suoi studi artistici fatti anche a livello universitario, dell’approfondimento di storia e critica d’arte, letteraria e cinematografica, oltre ad avere vari altri interessi, riuscendo a pubblicare circa sessanta opere, impreziosendone le copertine con le sue elaborazioni. Questa raccolta, Ritratti, riguarda personaggi dell’arte, della letteratura e della mito-
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logia, una sorta di omaggio alla loro storia sotto l’ aspetto antropologico. Domenico Defelice avverte, nella nota introduttiva, che “sbaglierebbe chi si aspettasse solo ritratti di esseri umani.”, poiché la Poetessa “si cimenta con successo nel darci quelli di cose e di luoghi” riuscendo con la sua sensibilità a rendere palpabile l’insondabile. La poesia dell’Affinito richiede, nel lettore, un substrato culturale particolare, nondimeno la versificazione piana e sciolta è gradevole riuscendo ad evocare lo spirito dell’autore esaminato e delle figure rappresentate, e a parlare di sé attraverso i suoi interessi fino a farsi un autoritratto. La Poetessa si abbandona con trasporto ed estasi alle sue riflessioni, ai suoi “ritratti”, entrando nelle motivazioni psicologiche, sentimentali oltreché storiche e leggendarie dei personaggi e degli eventi. Dall’incipit abbiamo un saggio della sua scelta poetica, difatti leggiamo: “Prendo/ Muse smarrite/ scese dalla/ cima del Parnaso,/ (…)/ basta solo accennare/ il mio gesto/ di ritrarre la forma/ conosciuta o quasi.” Osservo un modo di porgersi delicato e romantico insieme che evoca, per esempio, le leggendarie Danaidi che, per ordine paterno uccisero il proprio marito, rifiutandosi una sola principessa “che ha amato senza/ amare l’unico superstite/ della strage compiuta dalle/ quarantanove complici sorelle!” Nei suoi ritratti trova occasione per menzionare altri riferimenti che ne amplificano il senso, così, per esempio, negli autoritratti di Frida Kahlo “i fiori attorno/ a lei la facevano apparire/ come la nuova Flora/ nel giardino non dipinto/ dal Botticelli, ma da sé”; così le dame leonardesche “solo una/ donna dipinta rimase con lui/ fino in Francia” (pag. 10) e le “donne sedute in/ un tepore di gialli/ e di bruni.” di Amedeo Modigliani; così pure i richiami dei grandi amori come quello di Paolo e Francesca. Riesce a fare emergere la dimensione umana, per esempio di Medusa, trasformata da Athena, “Lei prima/ era stata fanciulla,/ mortale come i/ mortali non poteva/ non amare”; così pure dello scrittore inglese Oscar Wilde, che “girovagava in cerca/ della novità e del diverso,/ dandy più che alla moda/ (…)/ Uno spirito inquieto dal/ nome di Dorian Gray” (34-35). E non poteva mancare di ricordare gli autoritratti del pittore olandese Vincent Van Gogh con quel viso smagrito provato dai fallimenti, la cui vicenda umana suscita tanta commozione. In tutto ciò mi sembra che la Poetessa si senta vicina a queste figure. Isabella Michela Affinito nei suoi Ritratti, dà un volto di donna alla primavera, alle maschere di Venezia, alla malinconia, alla povertà nella Madonna scalza. Edifica un monumento alla donna, alla qua-
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le riconosce una funzione di eternità e di purezza: “Ti rifarei senza tempo/ fuori dal mondo,/ lontana dal buio. Ti/ includerei in un luogo/ sempre baciato dalla luna/ dove ogni cosa è pura,/ cristallina ed eterna.” (pag. 32). Donna è pure la luna nelle sue fasi con la quale si identifica e ritorna nel suo mondo classico: “Sul mio ritratto/ aleggia l’aria/ di Delfi con le/ sue acque d’argento/ fuso e la porta di Rotterdam” (36) Chiude con l’omaggio alla poetessa russa Anna Achmatova più volte ritratta da Modigliani, la quale scriveva di “tombe vuote senza granito,/ di salici piangenti senza/ più lacrime!” Tito Cauchi
ISABELLA MICHELA AFFINITO RITRATTI Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2018 Come un pittore con il suo pennello e con i suoi colori si specializza in ritratti e da essi riesce a tratteggiare l’anima delle persone che sta rappresentando, così la poetessa Isabella Michela Affinito usa la penna e i versi per dare vita ai suoi volti. Volti che sono a volte in carne e ossa, di donne e uomini, di persone importanti che hanno fatto la storia oppure miti: “…Prendo muse smarrite …prendo figure di pietra…prendo profili non comuni anche se non umani e ne faccio un ritratto…”, ma anche semplicemente regala un volto alla Primavera “…Avrai le mani lunghe, bianche e superbe di doni…”, alla Luna “Un melograno tagliato fino all’inverosimile…”, all’antico, alla melanconia. Ecco allora apparire davanti a noi durante la lettura la figura di Frida Khalo “…Frida amava gli scialli…lei apparteneva a tutti i mondi…”, quella di Proust, di Oscar Wilde “…lui girovagava in cerca della novità e del diverso…impersonale e ribelle: Oscar Wilde!”, ma anche di una ninfea, di Danaide, di Saffo “…l’ultima sorella delle muse orgogliosa di aver amato l’amore e le sue sfumature” e così via. La Affinito con queste liriche sembra quasi concepisca la poesia e i versi come parte integrante di se stessa e, nello stesso tempo, la unisce alle altre sue esperienze usando profondamente i suoi sensi. Quando posa la sua penna su un foglio è come se la sua mente cominciasse un lungo viaggio, lasciandosi cullare dalle sensazioni, viaggiando in lungo e in largo, attraverso le figure umane, i luoghi, la natura, l’universo e perfino alle cose inanimate lei regala un’anima! Un viaggio dentro e fuori la realtà, in cose, persone, luoghi e leggende che solo chi è dotato di grande sensibilità e cultura può riuscire a fare. Roberta Colazingari
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ANTONIA IZZI RUFO GIORNO DOPO GIORNO e Donne Prefazione di Giuseppe Manitta - Il Convivio Editore, 2018 - Pagg. 96, € 12,00 Sebbene siano la Natura e gli affetti la fonte principale dell’ispirazione di Antonia Izzi Rufo, soggetto virulento di questa silloge a noi sembra la Poesia personificata, di carne e d’ossa, la Musa, la Fata, come lei usa definirla più e più volte. Una presenza viva e piena “di brio e sorrisi”, che in lei suscita di continuo la “voglia d’amore”. A volte, l’incontro quotidiano tra la poetessa e la Musa sembra venire offuscato da qualcosa d’indicibile, d’inestricabile, da quei misteri che l’uomo sempre s’è posto e ai quali mai è giunto né giungerà - a soluzione, e, allora, la Poesia “alito vitale” - si agita, preme più del solito, implora, fino a che il velame non si squarci, finché la caligine non si dissolva ed entrambe possano riallacciarsi, pronube un qualunque altro elemento, persino “un gelido tramonto d’inverno”. Stacchi del genere ne troviamo spesso, perché la poetessa - donna sempre dominata da un “eccesso d’amore” - è continuamente in fibrillazione per l’umanità che le sta attorno, si pone domande sull’inizio e la fine dell’Universo, si assilla, insomma, rendendosi inquieta senza volerlo: “…angoscia, inquietudine,/problemi difficili da risolvere,/visione negativa della vita./Spazzare vorrei tutto quanto mi tormenta,/liberarmi del greve che mi schiaccia/e riposare, finalmente,/col sorriso sulle labbra e nell’ anima”. E a miracolarla è proprio la sua Musa, la sua Fata, che le “sorride radiosa/ e (le) tende, entusiasta, le braccia”. La Musa è: “Il primo pensiero del mattino,/l’ultimo della sera,/anche di notte,/nell’intermittenza del sonno, è ascoltare il tuo canto”. Un amore vischioso, tenace, col quale la poetessa vive eternamente “in amplesso”, tale che lei stessa, a volte, non se lo sa spiegare: “Perché sì forte mi possiedi, Poesia?”. “A M….”, indolente, senza lavoro e senza ideali, Antonia Izzi Rufo dice per spronarlo: “Vuoi sapere qual è l’amor mio?/La dolce, divina Poesia”. Quale che sia l’età della poetessa, una cosa è certa: i versi son giovanili, perché giovane è il cervello che li crea: “Irruzione di pensieri nella mente/come lava di vulcano in eruzione”. Siamo in presenza di un laboratorio, un’officina continuamente sonante, dominata dalla voce stimolante della Musa, della Fata. Domenico Defelice
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LUCIANA VASILE LIBERTÀ attraverso/Eros Filìa Agape Nota introduttiva di Franco Ferrarotti - Edizioni Progetto Cultura, 2018 - Pagg. 96, € 12,00 Di filosofia scrive Franco Ferrarotti nella “Nota introduttiva” e, a ben osservare, anche la stessa Luciana Vasile nella “Nota dell’autrice”. Ma noi filosofi non siamo, né ci infervoriamo oltremodo per essa - pur apprezzandola, anzi, pur rimanendone sempre affascinati -; così, in fatto di poesia, amiamo porre l’attenzione sul ben altro che in essa c’è, la filosofia non potendo essere tutto. L’interessante volumetto Libertà attraverso è scansionato in quattro parti: Sé, Eros, Filìa, Agape, tutte saldamente ancorate al soggetto Amore. In Sé, domina l’amore personale. Se uno non si ama, se non è felice di sé e con se stesso, non può sprigionare energia positiva e amore per gli altri. San Francesco di Sales raccomandava: “Soyez doux avec vous mêmes” e Cristo ce ne dà un esempio altissimo con il comandamento che racchiude tutti gli altri: quello di amarci vicendevolmente, che significa prima volerci bene personalmente e poi fra noi e poi con tutti quelli che ci stanno attorno. Il pericolo è la chiusura a bozzolo: “Bisogna essere diversi/a noi contrari/per completarci/stringerci le mani/camminare insieme/eppure in libertà”. La piena, la vera libertà è condividere tutto con gli altri, essere in mezzo agli altri, essere gli altri. Rispuntano, nei versi, temi dalla Vasile ampiamente già trattati in prosa, nei suoi romanzi, come la durezza con la quale è stata allevata e che, in lei, ha generato “timori e colpe/angosce e insicurezze/…/frustrazioni” e vergogne. Li troviamo anche nei brani “Vi ho lasciati liberi” e “Il metro”, nei quali più cruda è la rimembranza. E c’è scavo interiore: “Mi sforzo/nel buio abisso interiore/mi abbandono/si apre un foro azzurro” e la Poesia, in lei “sepolta/inconsapevole”, diviene grimaldello per scassinare il suo io e portare in superficie amore e bellezza. Le quattro sezioni non sono graniticamente separate; ci son brani, come “Solo” della sezione Sé, che sono anche Filìa e Agape. In Eros dominano versi caldi di passione e di rimpianto. Per intensità e trasporto, per plasticità di ambienti e tempi, “Nove mesi” è pagina completa, affascinante, da antologia. Tale sezione è romanzo a brani di un amore intenso e perduto, pieno di fuoco, con venature un po’ rese opache dagli anni - perché, a volte, sentenzia la poetessa, “Il tempo, falce tagliente, soffoca la poesia” -, ma nel cui interno la lava score sempre vivida, perché non si spegne mai del tutto un incendio vulcanico; così, per esempio, la montagna di baci, dal
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reale si trasferisce e si ripete nella mente, nel desiderio mai adusto: “Non avevo mai baciato/fra barba e baffi/Stanotte è successo… in sogno”. Confessioni anche audaci, ardenti, spontanee ed è qui che troviamo la meglio poesia di Luciana Vasile; quando, invece, subentra la ragione (si legga “Con me, in me”), essa si fa complicata, spesso astrusa, artificiale; le immagini divengono ardite - a volte, fin troppo -, le metafore ricercate. Ciò si verifica a partire da Filìa, col dire lambiccato, “sdraiato nel pensiero/di densa fantasia”. “Cammino la mischia” e il discorso diviene cronaca (“Fango”, “In Nicaragua”), vera o apparente filosofia (“Non penso mai all’aldilà”), s’impone il sociale - tutto da condividere, da ammirare, comunque -, la denuncia, la pietà (“El barrocho”) e le esperienze nelle secche di povertà e di degrado sudamericano - “nel rovescio del mondo” -, ma il tutto, allora, svilisce la poesia, che resta a livello di invettiva, di stimolo, proposta (“Non possiamo FARE noi, niente/per lui?”), di aspirazione, di narrato, spesso di sarcasmo e d’ironia; non d’umorismo, che, secondo Thomas Carlyle, “sgorga dal cuore più che dal cervello, la cui essenza è amore; la cui soluzione non è nella risata, ma nel quieto sorriso che viene da maggiori profondità”. Il sarcasmo della Vasile viene dal cervello più profondo, ma è tagliente e anche rabbioso, giacché lei non riesce assolutamente a sopportare le tante ingiustizie. La conclusione è che, leggere Luciana Vasile, sia in prosa che in poesia, è un continuo sentirsi scuotere, non ci si può addormentare; i contrasti son tanti e tali che, voltata l’ultima pagina, c’è bisogno di fermarsi e meditare a lungo e, poi, ci si sente appagati. Occorre sedimentare quel che, con forza, la poetessa ci ha rovesciato dentro. Forse, e per questo, ha ragione chi, dominante, vede in lei la filosofia. Domenico Defelice
GIOVANNI DINO NESSUNO VA VIA Pagine lepine, 2017 Secondo Giovanni Dino la vita non finisce del tutto. Ma si “trasforma”. Giovanni e Anna, giovanissimi (lei circa 16 anni, lui circa 21) si conoscono frequentando la Parrocchia, si innamorano, si scoprono fatti l'uno per l'altra, si sposano e mettono su una felice famiglia, hanno due splendidi figli. Tutto sembra consacrare la loro gioia di coniugi e genitori, ma dopo una trentina d'anni scoppia la bomba che mira a distruggere il loro piccolo ma immenso Universo. Anna viene colpita da un cancro inesorabile, un
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carcinoma polmonare che non le lascia scampo e la uccide all'età di soli 45 anni, gettando nello strazio il suo Giovanni che si trova, all'improvviso, davanti alla voragine del lutto, della solitudine e della distruzione, con due figli da accudire ed educare senza l'aiuto fondamentale della sua adorata moglie. Giovanni Dino è uno studioso ed un poeta palermitano (di Villabate) noto nel panorama culturale e letterario contemporaneo. Nel giorno stesso della morte di sua moglie Anna scrive la prima delle sedici composizioni (“2 ottobre 2009 – ore 8,40”) che andranno a costituire il poemetto “Nessuno va via” che vedrà la luce, comunque, soltanto nel 2017, come Supplemento fuori Collana delle “Pagine Lepine”, fondate e dirette da Dante Cerilli a Supino, in provincia di Frosinone (dantecerilli @gmail.com). Il testo poetico è preceduto da una Nota dell'Autore e da due scritti, appassionati, di Lina Riccobene (“Nessuno va via”) e di Emilio Diedo (“Un pianto, canto di poeta”). Il sigillo lo appone in quarta di copertina il direttore, Dante Cerilli, quando scrive, tra l'altro: “Il viatico terreno di Giovanni Dino è l'amore per la defunta moglie: esso diviene l'energia propulsiva che dà motivo e ristoro al dolore e alla sofferenza del distacco: Un cammino lento, passo dopo passo, quasi sublimando il male ...per respirare la sua evanescenza dal quotidiano ...il suo vero spirito, spirito di colei che, fatta altra sostanza, gode di ogni migliore bellezza a dispetto della caducità provocata dalla malattia, caducità tutta umana. Eppure Giovanni Dino, retoricamente, sembra essere già convinto che il bene sarà esclusivamente nel compimento dell'amore per Dio che è amore più alto dell'amore terreno...”. Tutto vero. Eppure ciò che maggiormente mi ha colpito nei versi di Giovanni Dino è la protesta forte, urlata, di un cattolico (che si dichiara comunque aperto a tutte le fedi religiose) contro l'operato di Dio (in sostanza...”egoista”...) di un Dio che, pur potendolo, non ha mosso un dito per impedire una morte ed un lutto così atroci, strappando Anna al marito e ai figli senza un valido motivo apparente che non sia il richiamo all'onniscienza e all'onnipotenza del Creatore... Ma subito dopo il poeta credente si rimangia l'ira (“sono incazzato”...) per riconoscere “Non sei sordo al cuore che ti implora/ alle preghiere che bussano al cielo/ e non è assenza il tuo silenzio...” Comunque il poeta è inconsolabile, non trova pace. Anche se come uomo si riscopre fragilissimo, come poeta non accetta quello che per lui rimane un atto che lo ha distrutto: “Ma ora che è con te/ se sei tu a saziarti dei suoi occhi delle sue parole gentili/ donami almeno i perché di questo disegno/ ribalta lo spleen che ammala le ore/ che come paludi
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mi stanno addosso./ La sua morte ha scoperchiato il tetto della mia casa/ la quiete della mia famiglia. / Una montagna ha schiacciato per sempre/ la serenità dei miei figli...”Uno scontro, in verità, del tutto inutile, una battaglia titanica dall'esito scontato. Almeno, per l'uomo. Perché il poeta non riesce ad arrendersi. Tanto si arrovella e cerca un contatto con la sua amatissima Anna che crede di intravvederlo, e intrasentirlo, questo contatto. Un modo per sentirla ancora vicina, anche se in modo diverso da prima. Nonostante le affermazioni di Giovanni Dino mi lascino alquanto dubbioso (perché se la possibilità di tali contatti fosse reale, sarebbe quantomeno sconvolgente...) lascio la parola allo stesso autore, che in sostanza, nella sua Nota di apertura ci spiega il titolo (e lo spirito) del suo poemetto: “Il fenomeno morte fin dall'antichità è stato narrato e interpretato da tutte le culture e religioni, le quali ci dicono delle cose ma senza farci entrare troppo in confidenza con l'argomento. Di sicuro la vita non finisce con la morte, e tra qui e di là, dove i nostri morti vanno a vivere, un trasparente cordone a loro ci tiene legati, pur tuttavia non possiamo più vederli. Ho sperimentato personalmente diverse volte di aver sentito il profumo di mia moglie, percepito la sua presenza o riconosciuto un suo intervento in particolari momenti della mia vita, ovvero sentito di ricevere un suo messaggio anche per mezzo di altre persone che con me discorrevano. La fisica suggerisce che niente finisce e si distrugge, anzi che “nulla si crea e nulla si distrugge”, ma si trasforma, e che tutto ritorna allo stato primordiale per poi continuare a vivere in altre dimensioni.” Che pensare? Luigi De Rosa
ISABELLA MICHELA AFFINITO RITRATTI Ed. Il Croco/ Pomezia-Notizie, 2018 Isabella Michela Affinito, esperta d’arte, di moda, di design, autrice di 60 sillogi poetiche e di libri di critica letteraria, è voce nota alla famiglia di Pomezia-Notizie. Questa sua originale raccolta di ritratti va sfogliata con attenzione. In quest’opera tutto si fa ritratto: sculture, personaggi realmente esistiti (Frida Kahlo, Modigliani, Ingres, Van Gogh, Anna Achmatova, Oscar Wilde); ma anche sentimenti astratti come la malinconia, o elementi della natura (la primavera, la luna). Particolarmente interessanti sono le figure ritratte nei dipinti di pittori famosi. “Chi era la/ Belle Ferronière?” Si chiede l’autrice di fronte al quadro di Leonardo.
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“Di chi erano quegli/ occhi luce del Rinascimento?”; “Quei ritratti avevano/ molto da dire con/ le mani, coi pensieri/ ingabbiati che volevano uscire”. Ed ecco il ritratto della ninfea di Monet “È il fiore che non/ sente alcuna/ stagione/ il fiore/ dell’ apparenza/ che sull’acqua galleggia/ per una missione/ imperscrutabile”. In un quadro di Boldini del 1896 c’è Madame Charles Max abbigliata “con figurino d’alta moda parigino”. Le figurazioni sono moltissime in questa silloge piena di colori e di simboli. In realtà Isabella cerca se stessa, come ben evidenzia la lirica “I ritratti della luna”. “Sei stata luna piena,/ quando ho creato/ di te/ … ho lavato le mie mani/ nella salsedine del tempo”; “Sei stata luna calante,/ quando mi si affollavano/ i ricordi più antichi”; “Sei stata luna nuova,/ quando mille idee/ nascevano a flotte”; “Non ti chiamerò/ più luna/ ma me stessa!”. In tutta l’opera si evidenziano la sensibilità e la capacità dell’autrice di indagare sull’animo umano. Elisabetta Di Iaconi
FRANCESCO TERRONE PREGHIERE Brignoli Editore, pagg. 128, poesie, 2017. L’ingegnere, scrittore e poeta Francesco Petrone è conosciuto non solo in Italia, anche in altri stati della nostra Europa, in altri continenti. Il suo nome si legge in moltissime Riviste letterarie e culturali, note in campo nazionale e internazionale. L’ argomento precipuo, ricorrente, che emerge da ogni suo scritto è quello della fede, una fede sentita, sincera, profonda che egli s’impegna, con tutto se stesso, di trasmettere al prossimo, agli altri perché ne traggano conforto, perché si rendano meritevoli, degni di assurgere alla vita eterna; una fede incentrata sull’amore per tutti gli esseri viventi, per la natura, per Dio. Fede e amore procedono in sintonia, l’una non esclude l’altro. Quale il mezzo? Un comportamento esemplare, all’insegna dell’umiltà e della bontà, dell’onestà, della preghiera. Preghiera è sinonimo di poesia. “La poesia si fa preghiera” quando è vera poesia, quando spunta dal cuore e incide in noi positivamente, quando “ogni suo verso esprime amore a Dio”, quando riesce a “scongiurare le brutture del mondo”. Così Gianni Ianuale nell’ Introduzione: <<La preghiera, come la poesia, la poesia come la preghiera, per Francesco Petrone è Vita, Amore, Libertà, Comunione di bene, e soprattutto ‘Humanitate Valori’>>. La preghiera, così come la poesia, è voce interiore che rigenera, ricarica d’energia, allevia il peso delle angosce, tra-
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sforma il dolore in estasi,in piacere dello spirito, rende sopportabile l’aspro cammino della vita; preghiera e poesia hanno in sé del magico: diradano il male, che s’insinua subdolo nell’animo degli uomini, e al suo posto fanno sorgere il bene, diffondono luce salvifica. “Preghiere” s’intitola l’ultima opera del Nostro. Eponima è la prima lirica della silloge, “Dio, Amore autentico e fedele”: <<Quando/ osservo il cielo/e vedo/stelle cadenti/illuminare e descrivere/i confini dell’universo,/il mio cuore/si rallegra, la mia vita/si riempie di gioia./Il vento caldo /diventa/meno impetuoso,/i mari/si lasciano attraversare/da immense/colonne d’acqua./I fiori,/ quei fiori di campo,/diventano più colorati,/ diventano più profumati e dolci,/diventano amore, /quell’ amore autentico e fedele/di nome Dio >>. C’è, in questi versi straordinari, semplici ma incisivi, la natura tutta, meravigliosa opera di Dio, e c’è il poeta in estatica contemplazione, affascinato da tutto quanto, intorno a lui, è bellezza, vita che freme parla respira, effonde profumi, c’è il poeta che recita, con l’ anima, una muta preghiera di ringraziamento al Creatore del Tutto. Ogni lirica è una preghiera di gratitudine al Signore. Ama egli, il poeta, la notte che “avvolge con il suo silenzio”, il “fresco mattino” con il cinguettio degli uccelli, “il vento caldo che rapisce i suoi pensieri”, la vita tutta che si manifesta in “desiderio di viverla in ogni attimo”. Vi sono poesie dedicate agli amici, altre alle festività religiose, altre ai luoghi da lui visitati. Ve n’è una, pure molto bella, scritta in dialetto, che ha ottenuto il “Primo Premio” nel concorso di “Poesia Paestum 2016”, “Femmena senza core”: <<…Dice ca saje amà…nò… nun può amà / manco te stessa; / tu sì sulamente na femmena…/ na femmena senza core! >> (Somiglia alla famosa canzone napoletana “Mala femm’na”). Il testo contiene alcune fotografie che ricordano avvenimenti importanti e, in ultimo, diverse note critiche, “brevi rilievi critici”, sull’autore. Antonia Izzi Rufo
DANIEL VARUJAN IL CANTO DEL PANE A cura e con introduzione di Antonia Arslan. Testo armeno a fronte - Edizioni Guerini e Associati, 2004 (V Edizione) € 13,50. Daniel Varujan è poeta armeno da conoscere, da attraversare, da mantenere dentro, in quegli spazi privilegiati dell'anima che sconfinano nelle profondità dell'estasi. Antonia Arslan, docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea all'università di Padova, nell'Introduzione (pp. 11-30), ci accompagna per mano e ci consente di entrare nel suo
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mondo, nella sua poesia, che è canto popolare ed universale ad un tempo. La scrittura armena posta a fronte delle traduzioni fatte con Chiara Haϊganush Megighian, laureata a Venezia in Lingua e letteratura armena moltiplica il fascino segreto che dal solo vedere senza saper leggere arriva a tracce note alla nostra lingua, che provocano una strana, magica sintonia, musicale e partecipe. Nella Nota che segue (pp. 31-34) la studiosa Antonia Arslan sostiene : “Il canto del pane è una raccolta incompiuta. Iniziata negli anni 1913-14, interrotta dalla morte del poeta e uscita postuma nel 1921, dopo essere stata riscattata ad alto prezzo dal sequestro dei servizi segreti turchi tramite l'agente armeno Arshavir Esayan, raccoglie ventinove poesie in sequenza, che dovevano venir completate - secondo il piano di Varujan - da altre sei i cui titoli vennero ritrovati in un quaderno di appunti. Ho aggiunto al testo una trentesima poesia, Antasdan (Benedizione per i campi dei quattro angoli del mondo), pubblicata nel 1914 in un libro di lettura per le scuole, che è per i lettori armeni una delle sue più celebri, conosciuta da tutti e mandata a memoria dai bambini... La poesia di Varujan - che è stato definito il più grande esploratore delle possibilità della lingua armena presenta infatti per il traduttore notevoli difficoltà. La sua è una lingua amplissima e colta, che assume tutte le ricchezze della grande tradizione armena, integrandola però con moltissime sfumature del linguaggio parlato, con risultati poetici di sorprendente efficacia. Nel suo personalissimo stile, vocaboli 'alti' e illustri entrano in risonanza, illuminandosi e potenziandosi a vicenda, con la robusta concretezza e varietà della terminologia attinente alla vita della campagna e alla natura anatolica, straordinaria per precisione e forza evocativa... La traduzione si è mantenuta il più possibile fedele al testo, soprattutto rispettando l'accuratissima tessitura varujana di richiami e ripetizioni dei termini-chiave di molte poesie, con effetti di scansione musicale in precise posizioni all'interno dei singoli versi. Seguendo un modo di procedere squisitamente orientale, a Varujan piace molto ripetere lo stesso vocabolo per enfatizzarlo e trarne il massimo risultato espressivo... Tutto verrà brutalmente annientato dallo sterminio della nazione armena, che inizia proprio con l'arresto, nella notte fra il 23 e il 24 aprile 1915, dell'élite armena di Costantinopoli. Scrittori, intellettuali, uomini politici armeni, fra i quali Varujan, vengono prelevati nelle loro case e deportati verso l'interno. Varujan verrà ucciso a colpi di pugnale il 26 agosto di quell'anno. Muore a 31 anni, nel pieno fiorire della sua splendida maturità: prima dell'arresto aveva in mente di proseguire Il canto del pane con Il canto del vino e di scrivere
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un poema epico ispirato alle epopee popolari e alle leggende armene (A. Arslan, Nota in D. Varujan, Il canto del pane, pp. 31-34). Seguono, una dopo l'altra, aperte da Alla Musa, le poesie con testo armeno a fronte (pp. 35-137). Nel canto poetico di Daniel Varujan, nato a Perknik in Anatolia nel 1884, l'Occidente di Venezia e di Gand, di poeti e cantori che da qui egli sceglie e ama, prende forma e vita nuova, più vigorosa e profonda, consentendo espansioni e fusioni, grazie al suo modo altro di vivere la Poesia, che donano estasi. Ilia Pedrina
ISABELLA MICHELA AFFINITO RITRATTI Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2018 “Panteismo descrittivo nel verso sciolto di Isabella Michela Affinito” “Libera di vagare negli spazi interstellari, nel cosmo, nei satelliti come nel sottobosco più arduo, nelle radici più profonde di un albero, la duttilità presenta evidenti metafore classiche che sono, quasi, una sorta di “spezzatura” del linguaggio colloquiale, al quale, sembra apparentemente affidare gran parte della sua produzione. Domina l’asindeto, in molte poesie, che cercano un collegamento tra astratto e concreto (…). Il reale è una realtà interiore resa materia d’interpretazione di un senso Universale, il discorso poetico diventa un assemblaggio di luoghi, anche letterari, di frasi addizionate da una corrispondenza di senso, che manifestano una loro particolare “referenzialità” con il mondo esterno. È l’applicazione di una retorica interiore, di una nuova retorica che si affina sul sentimento e su una lingua che procede per analogie” (da “Panteismo descrittivo nel verso sciolto di I. M. Affinito” in “I Contemporanei. Antologie di Autori Italiani”. S. Pelizza, Amazon.it. costo 1,21). Ho voluto iniziare con questo preambolo tratto da una delle mie ultime pubblicazioni per spiegare la silloge “Ritratti” (Il Croco, maggio 2018) che rivela, come ha acutamente osservato il Defelice, nell’ introduzione “Ritratti di cultura”, “congetture e ipotesi”, le cui congetture stanno negli accostamenti arditi, sempre presenti in questa poetica, tra immagini interiori e realtà esterna, tra classico e profano, in un gioco di accavallamenti, nel flusso dinamico di una visione inarrestabile. “Prendo/muse smarrite/scese dalla cima del Parnaso/prendo/satiri alla cacia/prendo/figure di pietra/ricoperte/per lo più/ dalle foglie/prendo/profili non comuni.” (da “Ritraere” in “Ritratti” op. cit. pag. 3). L’ enjambement
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e l’iterazione sono i veri protagonisti di questa silloge che rende omaggio ai nomi illustri del mondo della cultura, come Van Gogh, Rodis, Chagall, Monet, Proust, Wilde ecc. Una dimensione culturale che viene vissuta in chiave personale, resa fluida attraverso un gioco linguistico descrittivo ma volutamente iterativo e accessibile a un pubblico, ormai, disabituato alla cultura e, invece, sempre di più incline alle mode sdolcinate del momento. È una poesia, quindi, che parla di cultura, che fa della cultura dono da offrire come “pane” al popolo affamato e, nello stesso tempo, drogato dai riti della spettacolarità e sappiamo quanto bisogno, oggi, c’è di cultura. Isabella si veste di cultura, fa della cultura un proprio spazio di vita. Le immagini si assottigliano, in un gioco di corrispondenze interne, dono da offrire ai lettori è il dono fluido di una saggezza che proviene dal passato e per fluidità non intendo l’oscurità ermetica, bensì la sapienza descrittiva colta nel rilievo delle metafore. “Rotonde foglie/ adombrano/lo stagno conservandolo/muto…/sono mani/grandi su cui/nasce un fiore/per sempre uguale/La decadenza/gli è lontana/l’immobilità vicina/l’arte l’ha reso/impressionista” (da “Ritratto di Ninfea”, op. cit. pag. 16). Siamo molto lontani dal discorso esistenzialista, fragile di un soggetto minoritario tipico del post-moderno, dalla relatività linguistica di un’espressione dislocata, ma, anche dalla prosa post-neoavanguardia del Sereni. Con l’ Affinito la poesia si fa esperienza di cultura, affondando il bisturi proprio là dove il dente duole: la mancanza di una cultura in una società massificata che ha perso l’importanza del mito, delle forme classiche e di espressioni sapienziali come momenti di riflessione e di congiunzione con ciò che inevitabilmente sembra, ormai perduto nel tempo… Susanna Pelizza
ANNA MARIA BASSO L’IMPERMANENZA Romanzo, Lecce, Manni Editore, 2018, pp. € 14.00. Con L’impermanenza Anna Maria Basso, già attiva sul fronte della poesia, esordisce nel mondo della narrativa con voce propria, ben definita, in nessun caso determinata dalle mode. Romanzo biografico per statuto di genere, si muove lungo un tracciato segnato dalla vicenda di un intellettuale, Pietro Vanni, protagonista quasi suo malgrado, alle prese con un’esistenza priva d’entusiasmi, sempre in bilico tra sostanza e forma, partecipazione e rinuncia, dovere ed essere. Un soggetto “vagante” che la Basso trasforma in personaggio del nostro tempo (soggetto “vivente”) facendolo muovere dentro un
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contesto di culture differenti (alcune non ancora pronte all’integrazione), che si danno la mano nel ricercare una possibilità di coniugazione comune del positivo riconoscibile, in ragione della civiltà da promuovere o da garantire: di quella orientale, all’apparenza statica (Nepalese in specie, colta tuttavia nel pieno di un interno sconvolgimento finalizzato a ottenere risposte alle crescenti rivendicazioni), e di quella occidentale (metropolitana) dinamica e onnivora, con i suoi riti e i suoi miti soprattutto in assenza di rilevanti fattori di comunione. Quella di Pietro è storia di un’ascesa lenta e tormentosa, quasi ferma al crocevia di un’esistenza priva di stimolazioni, fortemente segnata da esperienze familiari non confortevoli che nel romanzo assumono forza rappresentativa di rilevante valore simbolico, oltre che testimoniale. La scrittrice se ne serve per scortare il personaggio tra i due gruppi costituiti: il primo - dal quale fugge - presso l’ Osservatorio delle Piramidi insediato dal CNR ai piedi dell’Himalaya, sul versante nepalese, animato altresì da guide locali, sherpa, portatori ed agenti d’ agenzia che danno un peso all’esistenza; il secondo – cui non vorrebbe conformarsi – sostenuto delle micro-comunità garantite dal guscio protettivo delle dimore borghesi che accolgono la piccola corte internazionale di amici ritrovati e forse di un amore. La rigenerazione, appena preannunciata di Pietro, tra prologo ed epilogo, che costituiscono il protettivo guscio formante della storia, recuperata con analessi coraggiosa, è affidata alla capacità di partecipazione e all’intuizione del lettore, piuttosto che allo sviluppo della serie di particolari legati al suo modo di interpretare l’esistenza e di relazionarsi al resto del mondo che gli palpita intorno in forma da lui inaccettabile. La scrittrice dissemina con parsimonia le informazioni che rimangono sempre funzionali alla pura articolazione della materia anch’essa compattata nella struttura modulare che organizza l’intreccio in paragrafi compatti letterariamente nobilitati da opportuni ausili retorici assunti dalla grammatica di genere. Non una maturazione naturale o un intimo trasalimento, ma una malattia detterà la strada per la metamorfosi di Pietro. Quel “viaggio” d’ esplorazione e di scoperte che il giornalista avrebbe dovuto compiere per conto del giornale, viene lasciato alla cura della voce narrante che se ne assume il compito con appassionata partecipazione coinvolgendo il contesto, con sensibilità e gusto raffinati che tengono lontana la narrazione sia dal facile esotismo che dai moduli consacrati dalla tradizione del genere. In quest’ordine di considerazioni, L’ impermanenza può apparire veramente un romanzo “speciale”: parsimonioso nella sua completezza, lineare e
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articolato insieme: una storia singolare nella sua levità, quasi occasione per una prova di scrittura liricamente intessuta. Letto d’un fiato ti lascia con la stessa sensazione di attesa di un evento che sai non potrà realizzarsi perché tutto è già definito, tutto è transitato e continua a scorrere: tutto è impermanente. Luigi Reina
IMPERIA TOGNACCI ANIME AL BIVIO Editrice Giuseppe Laterza, Aprile 2017 Testo di un’autrice profondamente impegnata nella scrittura come risulta dai ben dettagliati cenni biografici. La storia di una famiglia. Il padre, Giacomo, magistrato. Il suo impegno, la sua libertà di pensiero e il non sottomettersi al fascismo, lo porteranno da Quarona a Roma costringendolo ad una attività diversa e certo meno consona al suo modo di essere. Un breve spaccato sul fascismo: pochi tratti incisivi: il ritrovamento nella terra del campo del corpo di un deputato ucciso dagli squadristi. Le sue parole di opposizione e denuncia avevano provocato il suo eccidio. L’autrice usa uno stile fluido e nella sua narrazione non prevalgono tanto l’intreccio o gli accadimenti quanto descrizioni talvolta liriche degli stati d’animo dei personaggi. Nel testo si nota soprattutto lo scorrere di pensieri, parole, interrogativi in cui chiunque potrebbe ritrovarsi. Imperia Tognacci nel romanzo manifesta se stessa attraverso i personaggi, le sue convinzioni, la sua fede e al contempo interrogativi sulla stessa. Le storie dei vari Tiberio, Lara etc… sono brevemente tratteggiate. Niente di particolarmente coinvolgente. Il focus del testo è Annunziata, la figlia minore di Giacomo, dotata di forte volontà. In lei profondamente avvertito il bisogno di immergersi nella fede anche se combattuta. Il suo brillante evolversi negli studi seguito dall’abbandono del mondo e il farsi suora in convento. Necessità di donarsi, di offrire le sue competenze nell’ insegnamento. In lei però, sempre insopprimibile un desiderio di libertà che contrasterà con le regole pesanti di una convivenza religiosa. Un ministro di Dio dovrebbe essere illuminato e aperto ai bisogni di chi gli è di fronte. Annunziata che rimane fedele a se stessa e coerente nelle sue convinzioni, incontra difficoltà in convento soprattutto nei rapporti con la Reverenda Madre Monica legata strettamente alle regole. Forti le pagine che parlano della giovinezza di Monica in campagna. Fu strappata alla corporale passione per il convento. Questa imposi-
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zione di vita casta in contrasto col suo volere essere donna, l’avevano trasformata in una donna dura, intransigente, ben lontana dalla pietas cristiana. Annunziata riuscirà ad ottenere l’allontanamento dal convento e compiere la sua missione in Belgio. La vicinanza con gli immigrati italiani, la reciproca condivisione dei disagi ma poter finalmente offrire amore, conforto nei momenti più cupi di quel grigio paesaggio. Si parla della tragedia di Marcinelle. Un incredibile numero di morti soffocati dal fumo nero di una miniera. Poi il ritorno in Italia di Annunziata richiesto espressamente, riapre in lei tutti gli interrogativi che si era già posta in precedenza. Riandava col pensiero alle parole del pappagallo dell’ormai lontano ricordo della casa paterna: “Guarda con i tuoi occhi, pensa con la tua testa”. Il suo ego complesso mal si adattava a regole bigotte e limitatrici della libertà di pensiero e di azione. Lascerà per sempre il convento. Tanta vita alle spalle, tanto impegno e sensibile umanità. Si riapre per lei una porta sul mondo. Posso concludere dicendo che ho trovato nel romanzo una sciolta eleganza descrittiva dei luoghi, degli stati d’animo. Il testo lascia aperti interrogativi su quesiti non strettamente legati al periodo storico in cui si snodano gli eventi ma tuttora presenti in chiunque sia dotato di coscienza sensibile e di umanità. Anna Vincitorio
D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE PHILIP ROTH NON C’È PIÙ - Nato a Newark, il 19 marzo 1933, lo scrittore americano è morto a Manhattan il 22 maggio 2018. Diceva di non voler cambiare la cultura con i suoi romanzi, ma, com’è naturale, nei suoi lavori esprimeva opinioni, idee (sua, per esempio, è stata l’iniziativa del 1973, di
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convincere 14 scrittori americani a quasi adottare 14 cechi praghesi ostaggio dell’allora regime comunista), consigli di particolare interesse, e sono quelli che, senza squilli di tromba, in modo soft, ma efficace, penetrando nella società, modificano in profondità ogni cosa, comportamenti e sapere. Ha scritto almeno una trentina di romanzi, tra i quali: Addio, Columbus (1959), Il lamento di Pontnoy (1969), Il seno (1972), Il grande romanzo americano (1973), I fatti (1988), Pastorale americana (1997), Il complotto contro l’America (2004), Why Write (2017). Un narratore affascinante, non privo, spesso, di grottesco e comicità, attraverso i quali faceva risaltare la tragicità dell’esistenza. Nei 2012 aveva deciso di ritirarsi dal pubblico, che lo costringeva ad essere sempre presente in incontri e seminari, in biblioteche, teatri, università. Diceva di volersi godere la vita privata. Ma i suoi romanzi continuarono ad essere best seller e lui sulla cresta del successo. In fondo, egli è stato ironico anche in questo: fingere di godersi la pensione, macinando celebrità e ricchezza. I suoi lavori non sono né banali, né superficiali. Ha fatto anche il politico e anche il cinema ha avuto da lui impulsi e successi, se è vero che almeno otto delle sue opere sono alla base di altrettanti film. D. Defelice *** BIG BANG A BUCAREST - La recente opera di Angelo Manitta - un poema di 50 mila versi, un volume di grande formato e di 814 pagine (Il Convivio Editore, 2018 € 50,00) - - è stato presentato, il 3-4 di questo mese di luglio, a Bucarest, presso l' Istituto italiano di Cultura. I nostri complimenti all’amico, non solo poeta, ma validissimo saggista e storico, affascinato dai miti. *** PREMIATA MARIAGINA BONCIANI - La nostra collaboratrice da Milano, Mariagina Bonciani, ha ricevuto, ultimamente, diversi premi, tra i quali: due menzioni d’onore, per il volume “Sogni” e per la poesia “Farfalla azzurra”, a Poppi, al concorso Casentino e, a metà maggio, a Marina di Massa, una menzione di merito per la poesia "All' ultima ombra". Le nostre più vive congratulazioni. *** GIACHERY, TOSTI, PEDRINA, GENTILE… - Grazie, grazie per le generose, affettuose parole che mi dedichi e sono felice di ricordare con te Federico Tosti (anche quando insegnavo all'Aquila, città di montagna, molti lo conoscevano e ricordavano). Io ero proprio un ragazzo e passavo a prenderlo in bicicletta alla FATME, dove lui lavorava, e si chiacchierava "biciclettando" insieme attraverso la città. Nonostante i miei quasi novant'anni potrei
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recitarti a memoria alcuni sonetti del primo (e migliore) dei suoi libri: L'ometto e la montagna. Sono folgorato dalla smisurata cultura di Ilia Pedrina, che tra l'altro si occupa di Gentile, grande personaggio, purtroppo connivente con la dittatura. Ma i suoi alunni universitari lo ricordavano con grande affetto e simpatia. Quando Gaetano De Sanctis, grande storico dell'antichità, dovette lasciare l'insegnamento per non aver giurato fedeltà al fascismo, Gentile si adoperò per trovargli un degno posto e uno stipendio all'Istituto di Storia Antica (di De Sanctis sono stato allievo e mi glorio di aver preso Trenta e lode al suo esame di Storia greca: allora volevo fare l'archeologo, poi cambiai idea). Si dice che tra quelli che imposero a quell'imbecille di Fanciullacci di sparare a Gentile ci fosse, per odio politico, anche Concetto Marchesi. Non ho letto molto di Gentile : La filosofia dell'arte e alcuni dei bellissimi saggi su filosofi italiani del Rinascimento. Ma ho fatto in tempo a fare il ginnasio e il liceo con la sua riforma ancora in essere, e le debbo moltissimo per la mia formazione. A te e ai tuoi cari, soprattutto a Leonardo, auguro, anche a nome di Noemi, una luminosa estate Emerico Emerico carissimo, eccomi, al solito, a rendere pubblica la tua bella lettera. Colpa tua, che non mi scrivi le solite banalità, ma apri, ogni volta, la cannella dell’anima e i ricordi fluiscono leggeri. Io non ti lodo, ma esprimo solo quel che i tuoi scritti mi suscitano nella mente e nel cuore. In “Abitare poeticamente la terra”, ripeto, tu scrivi che “Non certo esempi di vita (…) si debbono chiedere ai poeti, come i fedeli chiederebbero ai santi, bensì pagine in cui i limiti della persona empirica sono trascesi e redenti, illuminazioni di verità poetica che possono accompagnare, arricchire di sapore il nostro abitare la terra” e io penso che simili “esempi di vita” non solo vadano chiesti ai santi e ai poeti, agli scrittori, ma a tutti gli uomini – e tu, in effetti, lo fai -, anche ai più ignoranti, perché solo rispondendo ad essi positivamente, l’umanità potrà trovare armonia e pace, e preservare la Terra, bene comune da tramandare intatto alle generazioni future. Tosti, in quegli anni della mia giovinezza romana, abitava al 153 di via Sicilia (io, in una pensioncina di via Emanuele Filiberto) e i suoi volumetti erano per me un vero godimento. Oggi, purtroppo, non li ho più, avendoli donati a biblioteche pubbliche, assieme a migliaia e migliaia di altri volumi: “La casa sulla montagna”, per esempio, edita da Gastaldi nel 1952, è andata alla Biblioteca della Parrocchia di San Benedetto Abate di Pomezia, ma non so a quale altra Biblioteca (Pomezia, Anoia, Zagabria,
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Genova eccetera) sia capitalo “L’ometto della montagna”. Tosti meriterebbe d’esser tolto dall’ oblio, studiato e ristampato, non soltanto nostalgicamente ricordato da te e da me. “Notte ar Gran Sasso: Semo arrivati in cima a la Portella/che già moriva lentamente il giorno,/l’ultimo sole su le vette, intorno,/brillava ancora e in cima a la Maiella.//Cala la notte: appare qualche stella/ner cielo. Su da Campo Imperatore/er vento porta er canto d’un pastore/e, triste, er sòno de la ciaramella.//Io comincio a sognà! L’occhio, smarrito/vaga e se posa tra ‘ste cime belle/e su Campo Pericoli fiorito,//Pallide e fredde guardeno le stelle/mentre se perde, in mezzo all’infinito/silenzio, er pianto de le ciaramelle.” Ilia è un autentico vulcano e ben dici che abbia una “smisurata cultura”. Credo che, da bambina, oltre a studiare con passione, aiutasse il padre, il grande critico Francesco Pedrina - l’autore della Storia della Letteratura Italiana sulla quale io mi sono formato assieme a milioni di altri giovani -, nel copiare o battere a macchina i lavori, tra cui l’inarrivabile antologia per i Licei Musa Greca. È una collaboratrice tra le più apprezzate del nostro mensile, e spazia dalla filosofia, alla poesia, alla letteratura in genere, alla musica. L’ho incontrata una sola volta, a Roma, assieme al suo Papà e, tramite loro, ho potuto conoscere Ettore Serra, Carlo Delcroix ed altri grandi personaggi. Gentile, secondo il mio parere, non è stato mai un vero e convinto fascista. Allora, pochi furono gli intellettuali che hanno avuto il coraggio vero di dire no alla ditatura e rinunciare, così, a carriera ed altro, in certi casi anche alla vita. Fu aderendo al fascismo che egli ebbe l’agio di concretizzare l’ Istituto della Enciclopedia Italiana e la mai superata Riforma della Pubblica Istruzione. Come scrivo sul numero dello scorso maggio (p. 67), sono convinto che, se non fosse stato assassinato, avrebbe rinnegato la dittatura come fecero migliaia di professori, di professionisti e di gente comune, divenendo, improvvisamente, o comunista e democristiano! Leonardo, tramite me, ti è grato. Adesso cammina, un po’ traballante, ma cammina. Ancora non parla, ma ama immensamente la musica ed è innamorato del computer, sforzandosi a battere sui tasti con i ditini, a smanettare col mouse, a ballare ascoltando le canzoni per bambini: L’elefante con le ghette, La vecchia fattoria, Il leone si è addormentato!... Anche a te e alla tua Noemi un’estate serena. Domenico *** Premio Internazionale di Poesia “DANILO MASINI” 12a Edizione 2018 - L’Accademia Collegio de’ Nobili e Il Circolo “Stanze Ulivieri” in
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collaborazione con il Comune di Montevarchi, l’A.C.S.I. di Arezzo e la Famiglia dei Baroni Spanò dei Tre Mulini di Reggio Calabria promuovono la 12a Edizione del PREMIO INTERNAZIONALE di POESIA “Danilo Masini”, fondato da Marcello Falletti di Villafalletto, che avrà per tema: “La globalizzazione fra immigrazione e accoglienza”. Commissione giudicatrice: Presidente Onorario Maria Teresa Santalucia Scibona, Poetessa Presidente emerito del MOPOEITA di Siena (Movimento per la diffusione della Poesia in Italia); Presidente Marcello Falletti di Villafalletto, Preside dell’ Accademia Collegio de’ Nobili; Segretario Generale Claudio Falletti di Villafalletto; Componenti: Libera Bernini, Lucia Lavacchi Burzi, Giorgio Masini, Anna Medas, Lea Pesucci, Luisa Raffaelli, Alberto Vesentini. Il Giudizio della Giuria è inappellabile. Danilo Masini, scrittore, poeta, giornalista, nonché precursore di tutti gli sport nel Valdarno, nacque a Montevarchi (Arezzo) il 7 dicembre 1905, dove morì il 27 maggio 1995. È una figura di spicco della cultura del Novecento. Il Premio ha lo scopo di diffondere le sue opere e di tramandarne la memoria. REGOLAMENTO - Il concorso letterario si articola in due sezioni: a - Sezione Poesia inedita: Il concorrente dovrà inviare da 1 a 3 liriche in lingua italiana che non superino i 40 versi ciascuna. Ogni poesia in 7 copie dattiloscritte o al computer, di cui sei anonime e una sola firmata e recante in calce generalità, indirizzo, recapiti di telefono (fisso e mobile) ed e-mail. Le copie al computer dovranno essere in Times New Roman, dimensione 12. b Sezione Libro edito di poesia: Occorre inviare 5 copie del volume riguardanti opere edite nel periodo gennaio 2008 – luglio 2018 di cui una recante all’interno firma, indirizzo, recapito telefonico (fisso e mobile) e indirizzo e-mail dell’autore. POESIA A TEMA LIBERO - Per le sezioni: Poesia inedita e Libro edito si partecipa con le stesse modalità della poesia a tema. I testi in lingua straniera dovranno recare la traduzione in italiano. Non vi sono limiti di età. Gli elaborati, in forma cartacea, dovranno essere inviati entro e non oltre il 18 settembre 2018 alla Segreteria Generale del Premio presso Accademia Collegio de’ Nobili, Casella Postale 39 50018 SCANDICCI (Firenze). Farà fede il timbro postale di partenza. Il contributo di partecipazione e spese di segreteria è fissato in € 20,00 per ogni sezione alla quale s’intende partecipare da inviare, unitamente agli elaborati: in contanti o Bonifico a Accademia Collegio de’ Nobili codice IBAN: IT86 V076 0102 8000 0003 1214 505. Per i giovani, che non hanno compiuto il 18° anno di età, alla data di scadenza del bando, non è prevista alcuna quota di
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partecipazione (indicare la data di nascita e inviare fotocopia del documento d’identità). Gli elaborati dovranno giungere alla Segreteria a mezzo posta ordinaria o raccomandata, e corredati di quanto richiesto dal Regolamento. L’organizzazione non risponde di eventuali disguidi, ritardi postali o smarrimenti. Si prega vivamente di non aspettare, se possibile, gli ultimi giorni per inviare i plichi di libri, ciò onde evitare ritardi. Si prega di non spedire tramite corriere espresso. La Segreteria del Premio comunicherà l’esito del concorso solamente ai vincitori ed ai finalisti. La partecipazione al Premio non impegna l’Organizzazione ad obblighi di qualsiasi genere o natura. La Cerimonia di Premiazione si svolgerà a MONTEVARCHI (Arezzo), città natale del Poeta Danilo Masini, SABATO 1 DICEMBRE 2018 - ore 17.00 presso il Circolo Culturale “STANZE ULIVIERI”, Piazza Garibaldi, 1. I Premi saranno consegnati durante la suddetta cerimonia personalmente ai vincitori o ai loro delegati (delega scritta). I premi non ritirati personalmente o per delega non saranno spediti, né saranno spediti i Diplomi. PRIMO PREMIO Sezione Poesia inedita: € 250,00 del Circolo Stanze Ulivieri. PRIMO PREMIO Sezione Libro edito di poesia: € 250,00 dell’Accademia Collegio de’ Nobili. Nella ricorrenza del Centenario della Prima Guerra Mondiale (1915-18) viene indetta una Sezione Speciale con il seguente tema: “Ultima Guerra d’Indipendenza Nazionale” per il riscatto, la libertà e la Pace e per rendere doveroso omaggio ai tanti giovani che vi parteciparono o vi persero la vita, che si articolerà nella seguente maniera: PRIMO PREMIO Sezione Poesia inedita: € 250,00 per concessione della Famiglia dei Baroni Spanò dei Tre Mulini di Reggio Calabria. PRIMO PREMIO Sezione Libro edito di poesia: € 250,00 per concessione della Famiglia dei Baroni Spanò dei Tre Mulini di Reggio Calabria. PREMIO SPECIALE offerto dalla Famiglia Falletti di Villafalletto. Per stimolare l’interesse e la maggiore ricerca scientifica in favore di malattie genetiche e rare, saranno assegnati Premi Speciali (targhe) in memoria di due ragazze scomparse prematuramente: TIZIANA PACCHI (n. 24 gennaio 1970 – m. 27 gennaio 2009). GIOVANNA CECCARELLI (n. 24 giugno 1978 – m. 9 gennaio 2018). Ai vincitori d’ogni sezione saranno assegnati trofei, targhe, medaglie, opere d’arte e libri, nonché diplomi-ricordo. Ai vincitori d’ogni sezione sarà pubblicata l’opera nel mensile “L’Eracliano”. La Segreteria procederà nel 2019, alla pubblicazione di un volume antologico delle opere meritevoli, ne sono già stati editati 11, come per i precedenti concorsi, da ANSCARICHAE DOMUS Accademia Collegio de’ Nobili editore. (Sarete contattati a suo
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tempo). L’invio degli elaborati al Premio costituisce per ogni concorrente dichiarazione di conoscenza e accettazione totale del suo Regolamento. Gli elaborati inviati non si restituiscono e potranno essere pubblicati dagli Organizzatori del Premio senza che i Poeti abbiano nulla a pretendere come diritti d’autore. L’invito alla Cerimonia di Premiazione non impegna l’Organizzazione a rimborsi di spese, né produce obblighi di qualsiasi genere o natura nei confronti dei concorrenti. L’Organizzazione si riserva di apportare al Regolamento, tutte le variazioni necessarie per cause di forza maggiore. Per informazioni telefonare o inviare e-mail ai seguenti numeri: cell. 339.1604400 Cell. 329.7235669 Email a: accademia_de_nobili@libero.it Sito web: www.premiopoesiadanilomasini.it - Tutela dei dati personali: Ai sensi del D.Lgs. 196/2003. *** OLIMPICO DI VICENZA - Siamo all'interno della XXVII Edizione delle Settimane Musicali al Teatro Olimpico. Sabato 9 giugno 2018 alle ore 21 la violinista Sonig Tchakerian ha dato forma e vita ad un altro evento straordinario ed originalissimo: Le Terre di Nairì - Parole e suoni d'Armenia, un intreccio affascinante e profondo tra musiche armene, testi poetici ed in prosa di Autori Armeni. Affiancata dalla pianista Stefania Redaelli e dall'attore armeno Paolo Kessisoglu, attraverso una profonda intesa creatasi tra loro e che comunica fascinazione, Sonig Tchakerian è arrivata a realizzare un evento di rara intensità: testi di Vahram Mavian, Daniel Varujan, William Saroyan sono stati colti ed avvolti magicamente, con profonda intuizione artistica, dalle musiche di Arno Babadjanyan, di Komitas, di Grigor Hakhinyan, di Aram Khachaturian. Le poesie di Daniel Varujan tratte dalla sua opera pubblicata postuma Il canto del pane, lette con devozione appassionata da Paolo Kessisoglu, Benedizione e Croce di spighe, sono state fuse, pur separatamente, alle composizioni di Komitas, Grunk e Cinares per la prima, Andunì per la seconda. A concludere l'evento, per diluire un poco l'incredibile effetto empatico evocato, non potevano mancare le parole del cantore e poeta armeno Charles Aznavour, che Kessisoglu ha donato al pubblico, meritando applausi riconoscenti. Ilia Pedrina
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LIBRI RICEVUTI EMERICO GIACHERY - Abitare poeticamente la terra - Edizioni Nuova Cultura, 2018 - Pagg. 48, € 9,00. Emerico GIACHERY, già ordinario di Letteratura italiana moderna e contemporanea nella II Università di Roma-Tor Vergata, dopo avere insegnato negli Atenei di diverse città italiane e straniere, tra cui Ginevra. Una trentina le opere pubblicate. Tra le altre: “Metamorfosi dell’orto e altri scritti montaliani”, 1985; “Nostro Ungaretti”, 1988; “Verga e D’Annunzio; Ritorno a Itaca”, 1992; “Dialetti in Parnaso, 1992; “Letteratura come amicizia”, 1996; “Luoghi di Ungaretti, 1998; “Ungaretti “verticale” “ (in collaborazione con Noemi Paolini), 2000; “La parola trascesa e altri scritti”, 2000; “L’avventura del sogno”, 2002; “Albino Pierro grande lirico”, 2003; “Gioia dell’interpretare. Motivi, Stile, Simboli”, 2006; “Belli poeta di Roma tra Carnevale e Quaresima”, 2007; “Abitare poeticamente la terra”, 2007; “Ungaretti ad alta voce ed altre occasioni”, 2008; “Voci del tempo ritrovato”, 2010; La vita e lo sguardo (2011); “Sintonie d’interprete” (2012), “Ungaretti e il mito” (2012), “Per Montale” (2013) “Passione e Sintonia Saggi e ricordi di un italianista” (2015), “Con Dante” (2016). Alcune “Lecturae Dantis (Inferno XIII, Purgatorio X, Paradiso I e III)” sono state pubblicate di recente con l’aggiunta di cd contenenti la lettura vocale dei canti fatta dallo stesso lector. ** NOEMI PAOLINI - EMERICO GIACHERY Due all’Aleph - Roma, 2018 - Pagg. 24, e. f. c.. Noemi PAOLINI, saggista, vive a Roma - leggiamo sul sito Literary -. Nata da famiglia elbana, nella Capitale ha sempre vissuto e operato. Il suo interesse culturale si è molto presto rivolto alla dimensione dell’arte e in particolare della poesia (in senso lato) e della musica, in una ricerca particolarmente attenta alla portata conoscitiva che nell’arte si manifesta attraverso i valori formali. Significativo è il precoce amore, al tempo del liceo, per Giambattista Vico, poi scelto come argomento della tesi di laurea. Il grande filosofo aveva tra l’altro il merito di "aver riconosciuto il valore della poesia come forma di conoscenza autonoma rispetto alla conoscenza concettuale, e di essersi così affrancato dai limiti del razionalismo cartesiano". Nella sua attività sia di insegnante sia di interprete e critico letterario l’impegno della studiosa si è sempre concentrato, soprattutto attraverso l’analisi testuale, sulla rivendicazione di questo alto valore in opposizione a metodologie ideologiche a lungo vigenti e ancora dure
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a morire: da una parte un formalismo astratto e asettico che aveva svalutato la dimensione semantica preparando il nichilismo di certa ermeneutica, dall’altra una poetica ostinatamente realistica che aveva ridotto il “senso” al rispecchiamento di una improbabile “cosa in sé”. Per la studiosa il “senso” della poesia e dell’arte in genere è invece arricchito proprio dall’apertura polisemica e ossimorica del messaggio (parola che va liberata dalla compromissione politica e moralistica). Tardivo è stato il matrimonio con Emerico Giachery con il quale ha poi collaborato anche alla stesura di due libri. Tardiva la pubblicazione dei suoi studi critici e di qualche breve scritto autobiografico incentrato prevalentemente sull’ “iniziazione” alla cultura. Bisogna dire che nell’ossimoro vivente riconoscibile nella sua personalità (e forse nella personalità di tutti noi) il carattere perentorio e spesso vivacemente polemico delle sue prese di posizione convive con una profonda coscienza del limite e della soggettività del pensare individuale. Si definisce, con una formula che ha inventato per il suo Svevo, “recensore autobiografico”. Ha pubblicato: Vita d’un uomo: fenomenologia d’una ricerca ([1988]), Italo Svevo. Il superuomo dissimulato (1993); L’artefice l’orafo la bellezza (1997); Il volto bivalente. Saggi di letteratura italiana (1997), “Pas de deux” per la poesia di Alberto Caramella (2000, in coll. con E. Giachery), Ungaretti “verticale” (2000, in coll. con E. Giachery), Luoghi, tempi e oltre. Divagazioni di un’ egotista (2001), In cerca della “pianta uomo” (2003); Le “mani tese” di Dolores. I romanzi di Dolores Prato (2008), Le ragioni dell'ovvio (rileggendo Svevo, Pascoli, Ungaretti, Montale) (2011). Oltre a molti saggi su riviste. ** FRANCESCO SALVADOR - Una fragile eternità - Poesie - In copertina, a colori, “Casa con torre”, di Vittorio Nino Martin - Casa Editrice Menna, 2018 - Pagg. 64, € 10,00. Francesco SALVADOR è nato a Vittorio Veneto nel 1967. Vive a Padova, dove insegna in una scuola primaria. Presente con le sue liriche in giornali, riviste e periodici. Inserito in molte antologie collettive e suoi elaborati si trovano anche in siti internet. Fra i tanti premi vinti: “Atheste” (2008), “Ager Nucerinus” (premio speciale, 2009), “Città di Pomezia” (sezione B, 2013). Tra le sue opere ricordiamo: Volo di una rondine (2007), Infiniti paesi (2008), Liriche scelte (2009), L’arredo del silenzio (2011), Non oltre il cielo (2013), Da Israele all’Ucraina (2014). ** PANTALEO MASTRODONATO - Novelle symposiache - In copertina, Omero raffigurato da Augusto Leloir (1841) - Symposiacus editrice, 2018 -
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Pagg. 136, s. i. p.. Pantaleo MASTRODONATO ha studiato in molte città italiane ed estere. Compiuti i suoi studi in Linguistica e Filosofia classica presso l’ Università di Montpellier, ha in atto dei lavori di studi e ricerche presso la stessa. La sua insaziabile sete di verità e di giustizia lo condusse nel 1972 ad una profonda crisi religiosa, propugnando da allora in poi i valori di un cristianesimo genuino scaturito da un sistematico approfondimento biblico per una imparziale valutazione dell’epoca presente. Dirige la rivista “Il Symposiacus”. Tra gli ultimi suoi lavori ricordiamo “Leucotea (Mimologia)” (2014), “Enciclopedia Palatina” (antologia, 2014), “La force du divin dans le monde” (2014), “Cavalcata al Symposium” (2016). ** PANTALEO MASTREODONATO - Tersicore Raccolta di poesie - I canti del rifugio, Stampa Symposiacus, 2018 - Pagg. 40, s. i. p.. ** TITO CAUCHI - Alfio Arcifa Con Poeti del Tizzone - Editrice Totem, 2018 - Pagg. 256, e. f. c.. Tito CAUCHI, nato l’ 11 agosto 1944 a Gela, vive a Lavinio, frazione del Comune di Anzio (Roma). Ha svolto varie attività professionali ed è stato docente presso l’ITIS di Nettuno. Tante le sue pubblicazioni. Poesia: “Prime emozioni (1993), “Conchiglia di mare” (2001), “Amante di sabbia” (2003), “Isola di cielo” (2005), “Il Calendario del poeta” (2005), “Francesco mio figlio” (2008), “Arcobaleno” (2009), “Crepuscolo” (2011), “Veranima” (2012), Palcoscenico” (2015). Saggi critici: “Giudizi critici su Antonio Angelone” (2010), “Mario Landolfi saggio su Antonio Angelone” (2010), “Michele Frenna nella Sicilianità dei mosaici” (monografia a cura di Gabriella Frenna, 2014), “Profili critici” (2015), “Salvatore Porcu Vita, Opere, Polemiche” (2015), “Ettore Molosso tra sogno e realtà. Analisi e commento delle opere pubblicate” (2016), “Carmine Manzi Una vita per la cultura” (2016), “Leonardo Selvaggi, Panoramica sulle opere” (2016). Ha inoltre curato la pubblicazione di alcune opere di altri autori; ha partecipato a presentazioni di libri e a letture di poesie, al chiuso e all’ aperto. E’ incluso in alcune antologie poetiche, in antologie critiche, in volumi di “Storia della letteratura” (2008, 2009, 2010, 2012), nel “Dizionario biobibliografico degli autori siciliani” (2010 e 2013), in “World Poetry Yearbook 2014” (di Zhang Zhi & Lai Tingjie) ed in altri ancora; collabora con molte riviste e ha all’attivo alcune centinaia di recensioni. Ha ottenuto svariati giudizi positivi, in Italia e all’estero ed è stato insignito del titolo IWA (International Writers and Artists Association) nel 2010 e nel 2013. E’ presidente del Premio Nazionale di Poesia Edita Leandro
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Polverini, giungo alla quinta edizione (2015). Ha avuto diverse traduzioni all’ estero.
TRA LE RIVISTE IL GIORNALINO LETTERARIO - organo dell’ Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori (A.L.I.A.S.), fondatrice e direttrice Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Avenue - Avondale Heights 3034, Melbourne, Victoria, Australia - Email: alias@alias.org.au - Riceviamo il numero del novembre 2017, ricchissimo di fotografie a colori (ne abbiamo contate 27), e le firme, a vario titolo, di: Giovanna Li Volti Guzzardi (poesie e racconti), Daniel D’Appio, Emilia Squillace Chiodo, Mariano Coreno, Maria Turiano Aprile, Connie Rossitto, Maria Coreno, Anna Trombelli Acquaro, Angelo Mario Cianfrone, Clara Modonesi, Liliana Marcuccio Malfitana, Enza Di Giorgio, Carmela Sacco Perri, Nilla Cosma, Maria Raffaella Agricola, Carmela Rio, Silvana Eadie, Mimma Strangis, Salvatore Sam Mugavero, Carmelina Blancato Pelligra, Claudio Giannotta, Antonio Angelone, Angelo Manitta e - con il racconto “Naufragio” - Domenico Defelice.
LETTERE IN DIREZIONE (Ilia Pedrina, da Vicenza) Dolci Amiche, carissimi Amici di Pomezia Notizie, quarantacinque anni son passati in un soffio, anzi ne siamo dentro pienamente, in un tempo elastico e coinvolgente. Il nostro Defelice ha saputo tener testa agli anni più torbidi della nostra storia, locale, nazionale, internazionale ed ha risposto con forza, decisione, competenza ad un mandato intellettuale, morale e storico scelto con lungimiranza. I suoi compagni di viaggio, delle origini, sono sempre con tutti noi, anche se passeggiano ora per altre verdi lande: ne riconosciamo e ne riveliamo l' incancellabile dignità, di scrittori, poeti e poetesse che hanno inteso tessere con questa sua bella creatura un dialogo infinito. Il Simposio di Platone è dialogo datato nel 416 a. C. anche se il contesto è relativo ad anni successivi, quale ripresa letteraria e di stesura ammiccante: Agatone vince il Premio di Poesia, festeggia con gli
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Amici, tra cui c'è anche Socrate, che riferisce del suo incontro con Diotìma, la donna di Mantinea e poi, alla fine, arriva Alcibiade, il suo giovane amante, ebbro di bellezza e di vino e capisce subito che il tema sul quale ci si confronta è Eros, in turbinoso fermento o in astratta, cosmica rifrazione armonica vincolata dalla Bellezza. La sua lettura è assai interessante, sembra cristallizzata in un passato edenico che non si riproporrà mai più (questo per i nostalgici che vivono solo di passato!), le pubblicazioni ed i film che ne sono stati ricavati si contano a mille e oltre. Qui il Simposio dura ancora: il parlare di ciascuno, a turno ed insieme, mese dopo mese, s'intreccia abilmente e prepara nuovi e più preziosi approfondimenti, per la letteratura e la critica del testo, dal passato al futuro; per la poesia, la musica, la riflessione filosofica, l'analisi e l'interpretazione artistica, l'esercizio della giustizia e del libero pensiero, affiancato da operazioni di scavo analitico nelle zone più oscure dell'essere a questo mondo; per l'intimità della confidenza tra noi, Amiche ed Amici di questa semplice, straordinaria coralità in scrittura; per il viaggio ed i nuovi volti della ricerca scientifica e della produttività letteraria; per la prospettiva del tempo e degli eventi dalla parte dei piccoli, nuovi nati proprio a questo mondo carico di contraddizioni e di complessità difficili da cavalcare senza perdersi d'animo ma anche ubertoso e stracolmo di bellezze; per i protagonisti d'Italia, d'Europa e del mondo che dal passato emergono ed arrivano a farci luce, grazie a chi li sa ascoltare e ne ripropone la voce, schiettamente, al di qua d'ogni possibile deformazione. Che cosa rappresenta Pomezia Notizie per ciascuno e per tutti noi presi insieme? In un momento come questo nel quali i poteri estranei alle nostre forze tentano di vincolare e stringere in maglie d'acciaio il libero pensiero, Domenico Defelice è il nostro punto di forza in questa autonomia del pensare, dello scrivere d'arte e quant'altro, del vivere vero e tutto questo costa sacrifici, ricompensati alla grande, davvero, dall'essere insieme nella nostra molteplice, originale differenza. Manteniamo in vita questa straordinaria occasione culturale! Infatti in continuità storica, cantàti, presi e ripresi dentro la scrittura d'interpretazione e d'azione, ancora su Pomezia Notizie quelli del Realismo Lirico con alla guida Francesco Pedrina e Aldo Capasso: Solange De Bressieux, Elena Bono, Maria Grazia Lenisa, Giuseppe Gerini, Nino Ferraù, Francesco Fiumara, Riccardo Marchi, Armando Meoni, Ettore Serra, Federico De Maria, Salvatore Rizzo, Lionello Fiumi, Giulio Caprin, G. A. Borgese, Nicola Napolitano e tanti altri che attendono d'essere esplorati, passati anche, come lo stesso Carlo Delcroix, all'
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amicizia illuminata ed al vaglio critico- interpretativo del nostro Direttore, nei Quaderni Letterari 'Il Croco'. Ma nulla si ferma e tutto si apre al nuovo, in dismisura: ho fatto un piccolo breve calcolo, per difetto. Ipotizzando ogni numero di 60 pagine, con i vostri lavori sempre originali, diversi, attraenti nei contenuti e nello stile, senza considerare i Quaderni 'Il Croco', abbiamo all'anno 720 pagine, che, dilatato per i 45 anni di pubblicazione (Luglio 1973Luglio 2018), fa arrivare il conteggio a 32.400 (trentaduemilaquattrocento) pagine e le due versioni, in cifre ed in lettere, danno somma 9, il doppio volto del 3, numero simbolo del grande candelabro ebraico, ma, tra loro emerge il 5, la somma dei primi due, cifra del Pentagramma e del Pentateuco, delle nostre 5 dita, riproposte nel doppio per due, tra l'Unità e la Tetrakis matrice aurea. Si, la perfezione continua a consentirci di mantenere coraggio e dignità a cavallo della tigre, perché il 45 è un numero perfetto, contiene il prodotto della pentadica, carismatica struttura poligonale, il 5, con la doppia potenza, il 9 appunto, profondissima, della triade, timbro d'ogni realtà e d'ogni suo orgoglioso superamento. Si, l'orgoglio l'hanno anche i numeri ed invadono le forme che da milioni d'anni si riproducono dai più semplici esempi ai più complessi movimenti orbitali dei corpi astrali, tutti con una loro regola e forma e ritmo, anche minerale. Ed arriviamo ora ai miei viaggi, in Italia e in Europa, con voi tutti nel cuore, con Pomezia Notizie e quant'altro in valigia, per conoscere, incontrare ed amare, assaporare, osservare, pregare ed accarezzare, informare e mantenere in traccia, soffrire e gioire, lungo un decennio che sembra moltiplicarsi all'infinito: da Firenze, per gli Amici di Michele Ranchetti Roberto Righi e Bianca Torricelli, per Sebastiano Ranchetti con Haizel Davidson, la sua mamma, per Marco Vannini e la dolce Sabine Moser; da Pescara, per D'Annunzio, Michetti e le loro atmosfere abruzzesi; da Pisa, per la Carmen di Bizet e Carlo Goldstein; da Parma per la splendida Lydia Alfonsi; da Verona e Roverchiara per Lionello Fiumi e Agostino Contò; dall'Eremo di San Giorgio in Bosco per Franco Mosconi ed i suoi Amici; da Milano per Roberto Mordacci, Rosalba Maletta e la cara zia Carla Cartone, egittologa; da Cologne ancora per Marco Vannini; da Bolzano per il giovane Fausto Massaria, di cui dirò cose disperate e dolcissime; da Venezia per Aron Shai e Tiziana Lippiello, Patrick Brunie e Martine, Nuria Schoenberg Nono con Alvise Vidolin, Veniero Rizzardi e quelli dell'Archivio Luigi Nono alla Giudecca; da Bologna per Luigi Nono; da Vicenza, tantissime volte, per memorie familiari e sociali, per Sonig Tchakerian, Titta Rigon, Francesco Leprino, Enrico
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Pisa, Mario Bagnara e per tutti gli eventi più coinvolgenti; da Padova per Piero Bilotti, Massimiliano Tomba e Giulio Petrocco; da Ferrara per l'Ariosto, Lorenzo Mazzoni ed altro ancora; dal Vittoriale degli Italiani per G. B. Guerri; da Genova e Savona per Aldo Capasso, Florette Morand Capasso e Giovanni Farris; da Roma per quelli della Gregoriana, per Stanìs Nievo e Mariella Vivaldi. E poi ancora da Londra, Marsiglia ed Edimburgo per Shlomo Sand, da Parigi, Berlino ed Amsterdam per Luigi Nono, da Monaco per Moses Zuckermann, da Luzern per Pierre Boulez, da Bruxelles e Coxide per la bellissima Jeannine Burnie ed il suo amato Maurice Carême, da La Grave per Marivie Agudo con la scusa di Olivier Messiaen, da Lione e da altrove ancora per Luigi Nono, se il conto preciso non mi torna. Si, tutto questo per me, per voi di Pomezia Notizie, nuova e splendida Città del Futuro e per gli altri ancora, che verranno e leggeranno, com'è prefigurato nel prezioso volumetto del nostro Defelice 'A Riccardo e agli altri che verranno', confusi insieme, con tutti gli altri non nominati a far da sfondo, in forma mobile e in risalto, perché nessuno di loro è e sarà mai isola sospesa nel vuoto. Le mie lettere a lui, all'Amico Defelice, al confidente d'intelletto e d'azione che rappresenta se stesso alla guida di tutti noi, all'uomo del nostro tempo nelle prove della lotta, d'arte e di scrittura, anche di satira politica, d'attiva intrapresa letteraria e di rigoroso cipiglio morale che avversa ogni sopruso e corrotta malversazione, all'Amante d'Eros turbinoso, ma anche dell'Eros cosmico e familiare, sono testimonianza sincera d'una fiducia che non conosce limiti perché condivisione d'esperienze e comprensione talora in rispecchiamento. Nelle sue risposte a me un volto storico, un Amore, una vita: anche con Defelice dunque in viaggio tra scritture, musiche, genti variate di luoghi e paesaggi, per oltre 10 anni di collaborazione e 48 di conoscenza ed amicizia. Questa è la vera ricchezza. Allora un brindisi a Pomezia Notizie, più volte definita giustamente creatura di carta e di vita, un brindisi unico nel suo genere perché questa nostra coppa non contiene sostanza liquida che ha fine e per la quale esiste l'ultimo sorso. Essa ha in sé, nella forma del cavo delle due mani, le nostre vite, le nostre passioni, le nostre azioni con, al loro interno, ingegno e creatività di fatto e di progetto, di cui avere sempre sete. Si, un brindisi ed in dono una lirica di Daniel Varujan, pubblicata nel 1914 in un libro di lettura per le scuole medie: Antasdan (Benedizione per i campi dei quattro angoli del mondo) Nelle plaghe dell'Oriente sia pace sulla terra...
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Non più sangue ma sudore irrori le vene dei campi, e al tocco della campana di ogni paese sia un canto di benedizione. Nelle plaghe dell'Occidente sia fertilità sulla terra... Che da ogni stella sgorghi la rugiada e ogni spiga si fonda in oro, e quando gli agnelli pascoleranno sul monte germoglino e fioriscano le zolle. Nelle plaghe dell'Aquilone sia pienezza sulla terra... Che nel mare d'oro del grano nuoti la falce senza posa, e quando i granai s'apriranno al frumento si espanda la gioia. Nelle plaghe del Meridione sia ricca di frutti la terra... Fiorisca il miele degli alveari, trabocchi dalle coppe il vino, e quando le spose impasteranno il pane buono sia il canto dell'amore. Grazie, carissimo Direttore, Poeta ed Amico, grazie! Ilia, con tutti voi, insieme. *** Si è scelta quest’unica lettera corale della cara Ilia Pedrina, da Vicenza, in rappresentanza di tutti quei
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Ballottaggio del 24/06/2018 a Pomezia:
M5S 68,8% Se ha meritato, o meno, la nostra fiducia, si vedrà operando. Intanto, positivo, il
NO a ferrivecchi e ruggine!
AI COLLABORATORI
collaboratori e quei lettori che si son ricordati, anche con telefonate ed e-mail, del compimento dei 45 anni della nostra Pomezia-Notizie, giovane e matura insieme. Al Direttore, nella circostanza, non rimane che accettare, con orgoglio, ringraziare e… tacere!. Se Pomezia-Notizie è cresciuta e ha viaggiato per anni in tutto il mondo, lo si deve alla penna di migliaia di validissimi collaboratori e alla fedeltà di affezionati lettori. Il numero di 32.400 pagine è fascinoso e forse esagerato, perché, fino al 1990, allorché PomeziaNotizie si interessava quasi esclusivamente della Città (non è mancata mai, però, la poesia, non son mancate mai le recensioni, mai mancata la pittura), le pagine erano assai di meno. Sempre fitte fitte, è vero, e con carattere relativamente piccolo, mai vistoso, da raccogliere materiale in abbondanza; il formato, poi era tabloid, più grande. E, allora, rapportato al formato libro attuale, forse il conteggio della cara Ilia non è lontano dal vero. Grazie, carissima Amica; grazie cari Amici, per il bene che portate a questa creatura di carta. Vi auguro e mi auguro di poter viaggiare insieme ancora per anni nel mondo meraviglioso e pacifico (veramente - purtroppo - non sempre e non tanto!) della Cultura e dell’Arte. Domenico
Inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione) preferibilmente attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è gradito un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (copia cartacea) Annuo, € 50.00 Sostenitore,. € 80.00 Benemerito, € 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia, € 5,00 (in tal caso, + € 1,28 sped.ne) Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 N076 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio