ISSN 2611-0954
mensile (fondato nel 1973) Direzione e amministrazione: Via Fratelli Bandiera, 6 - Tel. 06/91.12.113 - 00071 POMEZIA (Roma) - Fondatore e Direttore responsabile: DOMENICO DEFELICE – e-Mail: defelice.d@tiscali.it – Parziale distribuzione gratuita (solo il loco) – Attività editoriale non commerciale (art. 4, D.P.R. 26.10.1972 n. 633 e succ.ve modifiche) - Per abbonamenti: annuo, € 50; sostenitore € 80; benemerito € 120; una copia € 5.00) e per contributi volontari (per avvenuta pubblicazione), versamenti sul c/c p. 43585009 intestato al Direttore - Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 213/93 del 23/5/1993 - La collaborazione, sempre gratuita, in parte è libera, in parte è per invito. Ogni autore si assume la responsabilità dei propri scritti - Manoscritti, fotografie e altro materiale, anche se non pubblicati, non vengono restituiti - É ammessa la riproduzione, purché se ne indichi la fonte. Per ogni controversia, foro competente è quello di Roma.
Anno 26 (Nuova Serie) – n. 11
€ 5,00
- Novembre 2018 -
GABRIEL GARCIA MARQUEZ ERA ANCHE UN POETA di Luigi De Rosa
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ENSI allo scrittore colombiano Gabriel Garcia Màrquez (1927-2014) e non puoi fare a meno di pensare al suo romanzo più noto, quel Cien años de soledad scritto a quarant'anni (nel 1967) che, insieme ad altre opere importanti, gli è valso il Premio Nobel per la Letteratura nel 1982 e una fama mondiale e perdurante nel tempo. Un romanzo poderoso, di circa seicento pagine, venduto in più di cinquanta milioni di copie,
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All’interno: Giochi di scuola, di Noemi Paolini, pag. 5 Viandante nei luoghi della poesia pascoliana, di Emerico Giachery, pag. 7 Monica Lanzillotta Il museo dell’innocenza, di Carmine Chiodo, pag. 10 Mangiafuoco di Dana Neri, di Massimiliano Pecora, pag. 13 Francesco Mosconi e Salvatore Natoli, di Ilia Pedrina, pag. 16 La crisi della Sinistra italiana, di Giuseppe Leone, pag. 19 Francesco D’Episcopo: Napoli “città creativa”, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 21 Carlo Di Lieto: Corado Calabrò, di Domenico Defelice, pag. 23 Donatella Di Cesare Marrani: L’altro dell’altro, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 25 Claudio Monteverdi e un nuovo Ulisse, di Ilia Pedrina, pag. 27 Ada De Judicibus Lisena, Omaggio a Molfetta, di Domenico Defelice, pag. 29 Pasquale Balestriere: Assaggi critici, di Elio Andriuoli, pag. 31 L’inquietudine della bellezza, di Manuela Mazzola, pag. 33 Intervista a Andrea Biscàro a cura di Manuela Mazzola, pag. 34 La vita che costa fatica, di Leonardo Selvaggi, pag. 37 I Poeti e la Natura (Domenico Defelice), di Luigi De Rosa, pag. 40 Notizie, pag. 49 Libri ricevuti, pag. 51 Tra le riviste, pag. 52 RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (L’odore dell’anima, di Maria Debora Bevenga, pag. 41); Isabella Michela Affinito (Cartoline da Gaeta, di Giuseppe Napolitano, pag. 42); Isabella Michela Affinito (Stupore, di Silvano Demarchi, pag. 43); Roberta Colazingari (Giovanna Maria Muzzu la violetta diventata colomba, di Tito Cauchi, pag. 44); Roberta Colazingari (Giuseppe Piombanti Ammannati e “Pomezia”, di Domenico Defelice, pag. 44); Elisabetta Di Iaconi (Giovanna Maria Muzzu la violetta diventata colomba, di Tito Cauchi, pag. 45); Giovanna Li Volti Guzzardi (Giuseppe Piombanti Ammannati e “Pomezia”, di Domenico Defelice, pag. 45); Manuela Mazzola (Nino Ferraù, di Domenico Defelice, pag. 46); Maria Antonietta Mòsele e Giuseppe Giorgioli (I gatti ciechi e Zopping - Gli spazi di una vita, di Fabio De Agostini, pag. 47); Maria Antonietta Mòsele (Giuseppe Piombanti Ammannati e “Pomezia”, di Domenico Defelice, pag. 48).
Lettere in Direzione (B. Gaudy, T, Cauchi, I. Pedrina), pag. 53
Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Corrado Calabrò, Rocco Cambareri, Domenico Defelice, Luigi De Rosa, Salvatore D’Ambrosio, Elisabetta Di Iaconi, Caterina Felici, Francesco Fiumara, Béatrice Gaudy, Wilma Minotti Cerini, Gianni Rescigno, Franco Saccà, Leonardo Selvaggi
tradotto in venticinque lingue, che ha conferito a Marquez la statura di un gigante della letteratura mondiale. Un'opera che narra le vicende di una famiglia colombiana, i Bue-
ndìa, che fonda una località immaginaria (Macondo), e che attraverso sette generazioni ricalca e reinterpreta la storia di una Colombia reale e magica nel contempo. La me-
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tafora della vita e della morte, del sesso e dell'amore, della dolcezza e della violenza. La metafora di tutto un Sudamerica ancora vittima di miserie e arretratezze ma intriso di voglia di riscatto e di gloria, di piacere di vivere e di ingiustizia sociale crudele, che sembra rovesciabile, nell'immediato, solo con sommosse, rivoluzioni e guerre civili. “Cento anni di solitudine” è il romanzomanifesto del cosiddetto realismo magico, uno stile narrativo (in cui si ravvisa l'influenza di Franz Kafka) in cui si intrecciano e si fondono gli elementi quotidiani più realistici con quelli più fiabeschi e irrazionali (comprendenti perfino clamorose resurrezioni dalla morte e ascensioni al cielo in un volo di farfalle). Un romanzo che è stato giudicato secondo – in tutta la letteratura di lingua spagnola – soltanto al Don Quijote de la Mancha di Miguel de Cervantes Saavedra (15471616). Un modo originale e singolare di esporre al mondo le problematiche di un Sudamerica sconosciuto, tenero e violento, romantico e cinico, che ha conquistato milioni di lettori. Perfino l'ex Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton era un grande ammiratore dei libri di Marquez nonostante i pessimi rapporti intercorrenti fra USA e Cuba e l'aperta, calorosa amicizia dello scrittore con Fidel Castro e con Che Guevara. Per non dimenticare che un altro presidente statunitense, Barack Obama, ha scritto nel 2014 che “con la morte di Gabriel Garcia Marquez il mondo ha perso uno dei suoi più grandi scrittori visionari e uno dei miei preferiti sin da quando ero giovane.” (Che ne dirà Donald Trump ?). °°°°° Ma oggi desidero appuntare l'attenzione non tanto sul Marquez narratore e autore di numerose opere (oltre a “Cento anni di solitudine”) come “L'amore al tempo del colera”, “Cronaca di una morte annunciata”, “L'autunno del patriarca” “Nessuno scrive al colonnello”, etc., quanto sul Marquez poeta. Sul Marquez, cioè, più intimo e scoperto, più vicino al singolo lettore, più scoperta-
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mente vulnerabile dai sentimenti e dalle angosce, meno maestro di scrittura e di architetture letterarie ma più uomo di tutti i giorni e meno scrittore-monstre, più lirico e meno socio-politico. A titolo di esempio (ma gli amici lettori sapranno sicuramente approfondire meglio l'argomento) non posso non ricordare alcuni suoi versi e alcune sue frasi contenenti un misto di saggezza, di magniloquenza (retorica?), di scetticismo fatalistico alternato a romanticismo e, nonostante tutto, ad inguaribile ottimismo: “Sempre c'è un domani e la vita ci dà un'altra possibilità per fare le cose bene, ma se mi sbagliassi e oggi fosse tutto ciò che ci rimane, mi piacerebbe dirti quanto ti amo, che mai ti dimenticherò.” (“Sempre c'è un domani”) Il tema dell'amore è dominante, sia a livello individuale che collettivo: “C'era una stella sola e limpida nel cielo colore di rose, un battello lanciò un addio sconsolato, e sentii in gola il nodo gordiano di tutti gli amori che avrebbero potuto essere e non erano stati.” (“C'era una stella sola”) Il tema dell'amore viene cantato ripetutamente, sia in versi che in prosa, dilatandosi fino al “voler bene”, che deve presupporre il rispetto e la cura continua dei sentimenti di affetto: “Tieni chi ami vicino a te, digli quanto bisogno hai di loro, amali e trattali bene, trova il tempo per dirgli mi spiace, perdonami, per favore, grazie, e tutte le parole d'amore che conosci.” (“Tieni chi ami vicino a te”) “Per il mondo tu puoi essere solo una persona, ma per una persona tu puoi essere il mondo”.
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L'importante, manco a dirlo, è saper scegliere la persona (ed avere anche fortuna, in questa scelta): “Nessuna persona merita le tue lacrime, e chi le merita sicuramente non ti farà piangere.” In un mondo simile non può non assurgere a grande importanza anche l'amicizia: “Un vero amico è chi ti prende per la mano e ti tocca il cuore, sempre”. Fermo restando che comunque (ci ricorda lo scrittore) al di sopra degli amici o dei componenti la coppia di innamorati, resta sempre pendente la questione filosofica generale, quella sulla interpretazione del mistero della realtà: “A me basterebbe essere sicuro che tu e io esistiamo in questo momento.” Luigi De Rosa
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ma il mondo tutto nei particolari: i picchi, gli anfratti, le foreste e gli oscuri abissi del mare. E poi il Cosmo, dove è perenne lotta tra titani, galassie contro galassie, stelle contro stelle e pianeti e buchi neri mai sazi. Anche noi verremo risucchiati, pulviscolo spregevole, se lievi non saremo più che luce puri e candidissimi sì da sfiorare il pensiero di Dio. Domenico Defelice
ARIA TUTTA SORRISO
Chi ama non urla.
Lungo il sentiero di trifoglio e gramigna ho raddrizzato una lumaca rovesciata. Grazie sembrava dirmi con i suoi tentacoli impazziti.
L’amore non si nutre di parole, ma d’attenzioni e silenzi. Quando l’animo canta le parole le dicono gli occhi e qualche furtiva carezza.
Sole improvvisamente dolce, aria tutta sorriso e tra le canne di bambù salmodiante l’usignolo in preghiera. Domenico Defelice
È l’odio ad urlare, la vendetta, e, non sempre, il dolore. Domenico Defelice
LA SCALA DI JACOB
CHI AMA NON URLA
L’ESTREMO VIAGGIO
Siamo portati su una scala mobile, ne scorriamo i gradini stando fermi fino a che rientra l’ultimo scalino.
Ho prenotato - raggiante mi dici un viaggio per i miei ottant’anni. Vedrò le Antille con la mia consorte. Ti manderò una cartolina.
Ti lascio, figlio, una scala di legno; è una scala a pioli fatta a mano eretta in verticale verso il cielo: devi scalarla come un sesto grado.
Sai che ho perso la voglia dei viaggi. Fra non molto sarò costretto a farne uno lunghissimo, dalle congetture estremamente accidentato.
Ogni gradiente ne genera un altro perché è una scala che non può finire
Se non è tutto fantasia e chimica vedrò non solo le Antille,
Da La scala di Jacob, opera vincitrice del Premio Internazionale Letterario Città di Pomezia 2017. Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie.
finché senti il bisogno di salire. Corrado Calabrò
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Alle elementari di ottanta anni fa.
GIOCHI DI SCUOLA di Noemi Paolini
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NA grande occasione di affermazione per la piccola esibizionista che ero mi era offerta dal gioco delle “belle statuine” che mi permetteva di esibire la mia fantasia teatrale - in quei casi prevalentemente tragica - in atteggiamenti a mio parere originali e ricchi di particolare pathos: le Niobi e i Galli morenti, i Laocoonti di classica memoria dovevano apparire goffi e imbambolati a confronto della sublime intensità che sentivo di esprimere stravolgendo - credo - occhi e mani e assestandomi in posizioni di precaria stabilità. Se mi fossi guardata dall’esterno spero proprio che avrei cambiato opinione e avrei riso di me. Il senso del ridicolo infatti non mi mancava se di solito, al ritorno da scuola, gratificavo i miei con buffe cronache mimate. Degno di imitazione in chiave comica era uno dei giochi scolastici, certamente il più stupido e il più antipedagogico in un repertorio che non brillava per intelligenza e capacità di divertire. Era “il gioco del silenzio”. Quando la maestra doveva, o voleva, allontanarsi dall’aula, una bambina era incaricata di dare l’avvio al gioco. In piedi, presso la cattedra, scrutava con occhio severo e indagatore la scolaresca (orrenda parola dell’orrendo lessico connesso alla scuola). Davanti a lei ogni bambina, aspirando a essere scelta come la più silenziosa, viveva drammaticamente il problema di riuscire a richiamare l’attenzione in totale assenza di possibili segnali acustici. Non essendo poi il silenzio che si richiedeva consistente nel non aprir bocca - un valore
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graduabile, bisognava distinguersi e colpire sul piano visivo. Allora le creature esasperavano espressionisticamente la posizione cosiddetta di “riposo”, che in quel tempo non era rappresentata dalle canoniche “braccia conserte” ma dalle “braccia dietro la schiena” (un sociosemiologo zelante potrebbe scorgervi un ulteriore segno dello spirito repressivo dell’“era fascista”, come potrebbe leggerlo nello stesso genere di gioco, a non voler accertare la sua origine che a me risulta anteriore). La conduttrice assaporava il suo potere prolungandolo e godendo degli spasimi delle piccole Giovanne d’Arco al rogo che la guardavano con occhi supplichevoli serrando le labbra o piuttosto serrando il labbro superiore sopra l’inferiore.. L’occhio della dominatrice si soffermava ogni tanto su una compagna che allora aumentava le contorsioni come lambita da lingue di fuoco, ma presto era sadicamente distolto per illudere sadicamente un’altra vittima. A un certo punto bisognava pur scegliere e allora un ditino, l’indice, si arcuava ritmicamente a gancio e la convocata d’un balzo conquistava il suo luogo e il suo momento di potenza. La scena si ripeteva fino al nuovo cambio della guardia. In altre occasioni di momentanea assenza della maestra la bambina in carica esercitava il suo potere con un gessetto in mano destinato a segnare sulla lavagna, divisa in due parti da una riga verticale, i nomi delle “buone” e delle “cattive”. Una sorta di giudizio universale non meno gratuito e imprevedibile di quello cui si andava incontro in un altro gioco, il “gioco dei colori”. Un’oligarchia al potere stabiliva segretamente quali colori assegnare all’Inferno e quali al Paradiso. Poi il convocato in giudizio doveva scegliere un colore e, basandosi sulle associazioni dell’ iconografia e del simbolismo tradizionali, di solito diceva: “celeste” o “azzurro” o “bianco”. Ma spesso l’occhiuto e furbesco tribunale aveva deciso altrimenti e alla fine del gioco il poveretto si trovava dannato per l’eternità mentre in cielo salivano contenti i più furbi o i più esperti delle nascoste insidie i quali avevano scelto il rosso o il nero. “All’Inferno!”
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era la clamorosa e ghignante sentenza dei giudici mentre si rivolgevano dalla parte degli sprovveduti. Rivolti poi dalla parte dei furbi sentenziavano benignamente: “Al Paradiso!”. Quanto a me restavo per lo più fedele ai miei colori per così dire “araldici”, il verde e il viola, disposta a dannarmi per la loro bellezza. Perché, mi chiedo, quel moralismo punitivo che ci affligge - o ci affliggeva - fin dalla prima infanzia e forse dall’alvo materno, quel moralismo che anche in una canzoncina per bambini imponeva rimorso e pentimento a un pennino reo di aver macchiato un foglio (“il pennino allor capì / troppo tardi si pentì”), quel moralismo che spesso si prestava a divenire arma di ricatto per il potere, non doveva risparmiare neppure la pura e disinteressata contemplazione dei colori? Anche in seguito, del resto, la supervisione, da parte di moralisti e ideologi assetati di potere, della libera fantasia creatrice di bellezza mi risultò sempre difficile da sopportare. Tanto più che i criteri che la ispiravano mi sembravano molto spesso arbitrari e irragionevoli. Talora mi turba il grave sospetto che un giudizio universale possa essere del tutto a sorpresa e fuori di ogni logica umana e che tutto quello che umanamente considero un valore possa risultarmi nullificato. Ma in tal caso, in verità, nulla “mi risulterebbe”, di nulla io saprei perché la condanna al nulla riguarderebbe anzitutto me, il mio amato io individuale e per applicarla basterebbe la triste legge di natura e non servirebbe alcun giudizio. E in verità una tale, così probabile, ipotesi mi piace meno dell’arrivo dei “quattro angioloni” belliani “co le tromme in bocca”. Perché se gli angioloni arrivassero davvero e il giudizio avesse luogo, non potrebbe essere che alto, magnanimo e consolante per tutte le fragili creature, anche per quelle che ebbero la sventura di essere cattive. E non suonerebbero certamente il tremendo Dies irae ma musiche di Bach e di Händel che solo angeli del cielo riescono a suonare senza gli inevitabili stridori delle trombe umane. Noemi Paolini Giachery
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ENIGMI Come le fratture di una rupe, il mio corpo nasconde cicatrici che la vita indifferente, riverbera a piene mani, in questo vivere fragile tra esaltazioni e lame taglienti. Eppure, da qualche parte, dentro, c’è una fanciulla che danza, che ride e batte le mani al ritmo del tempo della giovinezza. A volte il mio corpo dolente la zittisce, ma regge poco la tregua, perché all’interno risuona come eco una melodia senza tempo ,e tu l’ascolti come si ascoltava l’oracolo di Delphi quando la Pizia risolveva enigmi. Wilma Minotti Cerini Pallanza-Verbania (VB)
CONSUNTIVO DI POETA - 3 Dopo una lunga, travagliata navigazione sono arrivato fino a qui da dove un giorno ero partito e da dove, prima o poi, ripartirò verso l'eternità dell'Ignoto. Aspetto, e sono pronto. Ogni giorno può essere quello decisivo. Navigando ho incontrato tanto amore ma anche disamore, e passione e indifferenza, e gioia e dolore, sempre anteponendo il donare al ricevere. Mi sono inebriato della Natura anche perché ho conosciuto l'amarezza senza fondo della solitudine interiore di fronte a un certo mondo tanto privo di saggezza quanto avido d'amore. Luigi De Rosa (Rapallo, Genova)
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VIANDANTE NEI LUOGHI DELLA POESIA PASCOLIANA
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di Emerico Giachery
BARGA è la patria di quasi tutta l’opera mia quel ch’ella valga: Il mio cuore è indissolubilmente legato a quelli di Barga e Castelvecchio». Così affermava Giovanni Pascoli, che, lasciata l’amena pianura della «Romagna solatìa, dolce paese», cercò e trovò e piantò nuove radici in Lucchesia. In un remoto settembre, vagando qua e là per la Toscana, col solito sacco in spalla e con animo d’antico viandante, avevo raggiunto Barga dopo una buona marcia, attirato, soprattutto, proprio dalle memorie pascoliane. Nel percorrere, tra «uno splendore di pannocchie gialle / per tutto, alle finestre, nelle altane» (così il poeta nel suggestivo poemetto Il soldato di San Pietro in campo), il viottolo che da Barga conduce a Castelvecchio, traversando il torrente Corsonna e costeggiando infine la cartiera, mi aveva sorpreso una voce proveniente dal folto di un vigneto in piena gloria settembrina. Era una voce di bambina e parlava inglese. Di quel paese mi innamorai subito. Ne scrissi così: «ammirevole contrada, con la sua natura tra agreste e montanina, col suo aperto respiro d’orizzonti, i colli boscosi cosparsi di borghi; i raggianti tramonti dietro le apuane; le belle opere robbiane; l’ordinato e civile paesaggio umano culminante nell' acropoli della Cattedrale millenaria». Quell’armonico angolo di mondo diventò però a pieno titolo “paese dell’anima” soltan-
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to quando vi tornai per le “letture pascoliane” ideate dal fraterno amico Del Beccaro, che mi è molto gradito qui ricordare e che riaccese in me il vitale ma sonnecchiante interesse per Pascoli. Era un momento favorevole per immergersi negli studi pascoliani, che stavano rifiorendo in varie direzioni: di sociologia del gusto, di psicologia del profondo (anche con l’apporto di contributi biografici a volte sorprendenti), di indagini simbologiche, di riscontri della presenza significativa e operante di Pascoli nella poesia italiana del primo Novecento, di strutture metriche, di fenomenologia del tempo e dello spazio (penso al bel Pascoli antico e moderno di Cesare Federico Goffis, a torto forse un po’ dimenticato). Momento forte nel dilagare di studi pascoliani sollecitati dal centenario della nascita fu il conciso saggio, sostanzialmente linguistico, di Gianfranco Contini, presentato al pubblico del Piccolo Eliseo di Roma, dove la rigorosa coerenza tecnica del discorso critico indusse ad alzarsi in punta di piedi e a fuggire alla chetichella alcune brave signore, lettrici sentimentali del Pascoli funerario o larmoyant, che non trovava posto nella rassegna di Contini. Ero dunque ben pasciuto di fresca bibliografia pascoliana quando Del Beccaro mi invitò a Barga per leggere e commentare in pubblico il lungo poemetto La morte del Papa, di cui è protagonista una vecchina di monte realmente esistita, nota per la sua convinzione che sarebbe morta lo stesso giorno del Papa allora regnante, Leone XIII. Si chiamava Teresa Agostini, e raggiunse il traguardo dei cent’anni. In quell’occasione fu festeggiata da tutto il paese con la banda in testa. La lettura di giornali del tempo che raccontavano l’episodio mi immerse in atmosfere pertinenti. Soprattutto mi avvinse il contatto diretto molto emozionante, nella biblioteca di Casa Pascoli a Castelvecchio, con i numerosi manoscritti inediti, preziosi per lo studio delle varianti che consentono di partecipare al processo creativo. Alla tomba della vecchina di monte ho vo-
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luto rendere omaggio nel minuscolo camposanto di Sommocolonia, gentile villaggio appollaiato su una collina. Al ritorno, essendo ormai scesa la sera, persi l’orientamento, e vagai a lungo tra gli infiniti e labirintici sentieri dei carbonai del passato, in mezzo ai castagneti e agli sterpi, saltellando di balza in balza, attaccandomi a solidi rami, in mancanza delle tropicali liane di Tarzan, eroe forestale della mia infanzia. Avessi avuto un telefono cellulare! Non erano ancora in uso: mi trovai come il personaggio di un film dei fratelli Marx, che si precipitò a telefonare allo sceriffo, ma non poté farlo perché si accorse che il telefono non era ancora stato inventato. Ma…Ma ecco, inaspettata, affacciarsi la luna. Una magnifica luna piena. Ritrovai la via di Barga e rientrai, graffiato e assetato, all’ albergo. Mi diverte anche ricordare la “domenica canina”. Avevo progettato di fare una gran passeggiata per raggiungere tutti, o quasi, i luoghi evocati da Pascoli in poesie d’area barghigiana, compreso Renaio, località sul Serchio, dove avrebbe abitato uno dei figli della “vecchina del Papa” :«il Ciampa, il mi’ figliolo di Renaio». La passeggiata fini col trasformarsi in un’ispezione del tutto involontaria ai cani dei dintorni di Barga. Non sapevo che la domenica i buoni villici scendevano a valle e lasciavano le loro fattorie in gestione ai cani da guardia, ma soprattutto non sapevo che questi cani, sciolti, fossero “in libera uscita” , ossia liberi di uscire dai recinti dei poderi. Ognuno di loro mi veniva incontro abbaiando con pervicace impegno, e facendo la voce feroce, incurante del mio tono affabile e delle mie sincere affermazioni di cinofilia. Io restavo fermo come un albero, a distanza di sicurezza, poi indietreggiavo a piccoli passi e uscivo dall’ territorio di giurisdizione canina per incorrere nella circoscrizione governata da un nuovo cane sciolto, e così via, per un bel po’ di volte. Mi dicevo: “can che abbaia non morde”. Ma i cani, loro, lo conoscono questo adagio, e soprattutto lo condividono? Anch’io mi considero un “cane sciolto”, ma in un senso tutto diverso, e sarebbe stato inu-
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tile rivolgermi a quei cani così zelanti con l’appellativo “caro collega”. A un dato momento mi apparve un’ edicola sacra con un Crocifisso. Mi ricordai che una cara amica lontana soffriva perché impedita nel muoversi, e pregai per la sua salute, con fervore e tenerezza. È bello pregare così, anziché snocciolare prolisse e prefabbricate giaculatorie. Ero ormai sulla via del ritorno. Anche stavolta tornai illeso, cani permettendo, all’albergo. Descrissi la “domenica canina” in una lettera a Bruno Sereni, direttore del “Giornale di Barga”, che spesso, a mia insaputa, pubblicava sul suo periodico le lunghe lettere che gli scrivevo a proposito di impressioni barghigiane. Non so se la lettera canina sia stata pubblicata. Cominciò una stagione pascoliana e barghigiana della mia vita. Riscoprivo e riassaporavo a fondo quei luoghi, e ad un tempo mi si rivelavano in luce più piena certi settori, prima non degustati e non intesi a dovere, dell’opera di Pascoli. Facevo mie, in tal modo, due attraenti pagine (l’una, per così dire, immediata, l’altra mediata e insieme illuminata dalla parola poetica) del gran testo che la vita ci offre da leggere, e, nei limiti del possibile, da interpretare. Due concomitanti (e ancor meglio interdipendenti) incontri, due epifanie. Incontri ed epifanie sono, del resto, privilegiati modi di conoscenza del nostro vivere. Una particolare alleanza tra poesia e vita mi si rivelò in ore, ancora una volta, settembrine, per me davvero incantate. Ore trascorse sulla terrazza-giardino di Villa Libano, prossima (e da ciò il nome) a un gigantesco cedro del Libano – divenuto inseparabile dall’ immagine di Barga – che domina il Piazzale del Fosso e che appare nel brioso dipinto di uno stimato artista locale, Alberto Magri. Pascoli, come sappiamo da un breve carteggio pubblicato non molti anni fa, vi aveva messo piede quando la villa era proprietà dei Cardosi Carrara, che vi avevano anche sistemato una filanda. La terrazza è circondata da luminoso orizzonte dominato dalla Pania. A quell’orizzonte volgevo ogni tanto lo sguar-
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do, mentre attendevo con emozione a ripercorrere sparse annotazioni di lettura, a dare ritmo e ossatura a spunti interpretativi che cominciavano a cantarmi nella mente, e che avrei dovuto comunicare di lì a poco al pubblico barghigiano. Caldo, partecipe pubblico se mai ve ne fu, che volle seduta stante, quasi “a furor di popolo”, invitarmi a tornare per leggere un altro poemetto d’argomento non meno barghigiano, Italy, il “canto dell’Italia raminga”: l’ umile e doloroso epos degli emigranti. Due anni dopo infatti, ripresi la via di Barga, dopo un’intera estate dedicata ad auscultare ogni minimo passaggio del non breve poemetto per sorprendervi le germinazioni creative attestate dalle varianti manoscritte conservate nell’archivio di Casa Pascoli a Catelvecchio, per sintonizzare il mio strumento interpretativo con il fluente tessuto di richiami simbolici che ne è poi la vera, animata struttura. Ora mi era divenuto chiaro il possibile significato simbolico di quella voce, sospesa tra i campi, di fanciulla invisibile che parlava inglese. Era come la voce di una terra di emigranti, e mi faceva venire in mente la piccola Molly anglofona che è al centro del poemetto. In quell’occasione ebbi la ventura di incontrare a Castelvecchio, nella loro casa, due coniugi ottuagenari, reduci, come tanti figli di Lucchesia, da lunghi anni di emigrazione negli Stati Uniti. La moglie, una Caproni, discendeva dal famoso Zi Meo “salcigno” evocato nel Ciocco (Bartolomeo Caproni, lontano parente della famiglia del poeta Giorgio Caproni) e ricordava che, quando era bambina, il poeta era solito accarezzarla sui capelli. Per una strana coincidenza, quel giorno diluviava, proprio come nella scena iniziale del poemetto: «Pioveva, prima adagio, ora a dirotto». I coniugi mi raccontarono qualche loro vicenda di emigrati, e, con mia sorpresa, citarono a memoria larghi passi di Italy. La poesia pascoliana sembrava così ricongiungersi alle sue autentiche radici terrestri e davvero ‘apparteneva’ a quel popolo. L’incontro col pubblico barghigiano fu
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dunque rivelatore. Quel pubblico era destinatario, per così dire, immediato, privilegiato di quella poesia. Destinatario in modo tanto più vivo e ricco, tanto meno astratto di quanto non apparisse l’astratto e ipotetico “pubblico” di certe uggiose elucubrazioni sociologiche, di moda qualche anno fa, sul pubblico e sul destinatario dell’opera. Sembrava che si ricostituisse un diverso circuito tra letteratura e vita, non certo indispensabile all’intendimento del testo, ma che ad esso aggiungeva comunque un soprappiù di emozione non facilmente misurabile, e in ogni caso non estranea alla vita del testo, al suo senso. Pascoli aveva del resto teorizzato e auspicato, nel più celebre e acuto dei suoi scritti di poetica, Il fanciullino, una poesia partecipe alle vicende degli uomini e anche del cosmo di cui siamo figli, per lasciare in dono «più vita di prima». Emerico Giachery
TERRA Scempio si è fatto della sua veste e del fuoco adesso è nuda preda; né la consola il fiato della luna. Insaziabili rapaci si nutrono ancora all’offerta delle sue mammelle, diventate dell’orgia consumistica pelli disseccate. Eppure noi, come sollevati dalla sua polvere a carne e ossa, gli apparteniamo: ma non cresce lo stesso, il senso di colpa per ogni violenza consumata. Sigilla l’orecchio l’arrogante umano predominio e non sente il grido di dolore che si alza continuo dal suo ventre, in difesa di ciò che resta della sua bellezza. Salvatore D’Ambrosio Caserta
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MONICA LANZILLOTTA
IL MUSEO DELL’INNOCENZA di Carmine Chiodo
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ONICA Lanzillotta, docente di Letteratura Italiana moderna e contemporanea all’Università di Cosenza, è autrice di ottimi volumi su tale letteratura, e ora ci dà questa super-monografia che descrive e analizza esaustivamente la vita e l’opera di Edoardo Calandra, pittore, illustratore di libri, archeologo, drammaturgo e scrittore. La stessa studiosa nella <<Premessa>> al volume scrive che ha <<cercato di dar conto dei rapporti che istituisce sia con l’ ambiente artistico e letterario italiano ‘fin de siècle’ sia con la cultura subalpina sia con quella francese>> (p. 11). Non viene trascurato nessun elemento e aspetto e tutto concorre a dare un quadro preciso e accurato, capillare, minuto dello scrittore piemontese, le cui opere - come scrive ancora la studiosa nella <<Premessa>> - <<hanno registrato, sul versante critico, un’attenzione ininterrotta, conquistando anche critici illustri, come Croce>>, che immortala lo scrittore in più d’uno dei suoi <<medaglioni>> della letteratura della <<Nuova Italia>>. Viene ancora osservato che come critico si è interessato all’opera di Calandra pure Gianfranco Contini, che gli ha assegnato un posto non di rilievo nella Scapigliatura piemontese, e lo pone accanto a Faldella, ad esempio. Monica Lanzillotta analizza in modo preciso e filologico le opere di Calandra, escludendo, per motivi di spazio, quelle teatrali. Comunque, le opere sono esaminate da un punto di vista narratologico e sono tenuti presenti gli studi di Genette, come pure in questo esame non viene trascurata la prospettiva geografica, e ancora, successivamente, viene dato ampio risalto a luoghi, edifici, istituzioni che sono messi in scena da Calandra (v. p. XIII della <<Premessa>>). La studiosa e esperta ricercatrice segue, quando il caso lo richiede, la critica psicanalitica e sta molto attenta a certi avvenimenti, episodi, fat-
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ti che hanno caratterizzato la vita di Calandra sulla quale quei fatti e avvenimenti hanno avuto una grossa, e certe volte, forte influenza. In sostanza viene descritto molto bene il mondo interiore dello scrittore, <<la cui immaginazione è ossessionata dalla morte della madre e dal complesso edipico>> (p. XIII), e <<l’irrevocabilità della morte è scongiurata attraverso la museficazione, per cui>> Monica Lanzillotta ha esaminato la narrativa di Calandra lavorando sui <<piccoli indizi>> (le citazioni si trovano sempre nella <<Premessa>>), ricorrendo pure a una critica simbolica, ma anche con incursioni in quella antropologica e – l’ho già detto – psicanalitica, guardando alle tesi e indagini di Freud, Bachelard, Winicott, Durand e Orlando. Difatti queste indagini di studiosi e pensatori sono da usare in quanto si prestano molto bene a penetrare quello che è l’immaginario simbolico di fine Ottocento. Questa magnifica monografia è frutto di studi e di meditazioni decennali, e finalmente disponiamo di un ricco e valido volume che getta nuova luce sulla vita e sulle opere dello scrittore, e nel contempo ci indica, ci mostra come pure va letta e interpretata la sua produzione narrativa. La letteratura di Calandra è molto radicata nel territorio piemontese, e nella sua narrativa ecco apparire la valle di Susi, e in particolar modo il tratto di territorio che collega Avigliana ai monti, pure esaltati da Alessandro Manzoni. Edoardo Calandra nacque in un piccolo comune della provincia di Cuneo, Morello, e i personaggi dello scrittore si muovono da Morello appunto a Torino e viceversa (vanno via dalla regione per lo più per essere presenti nella guerra contro o con la Francia, ad esempio). La studiosa sottolinea come la villa di Morello, Morello e i suoi dintorni, sono elementi fondamentali della geografia letteraria di Calandra (in quanto correlativi della sua infanzia e dei suoi avi, In una vera e propria fissazione al passato: in essi, come scrive Mantovani, lo scrittore ritrova <<la radice ancor viva del presente>> (p. 146). La critica, la analisi critica di Monica Lanzillotta è precisa, minuziosa, convincente e poi ancora si appoggia sulla
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bibliografia che nel corso del tempo si è avuta su Calandra che esordisce come scrittore, alla fine del 1883, con tre prose: <<Occhio sui bimbi>>, <<Reliquie>> e <<La bell’Alda>>, e anche su queste opere la analisi critica procede sicura e pertinente, convincente. Ecco ancora che sono ben analizzate altre opere di Calandra: novelle ambientate a Faliceto (siamo nel 1886), piccolo villaggio che secondo i suoi abitanti <<era una volta una bella e popolosa città chiamata Condonatale>> (p. 321). Di ogni novella della raccolta (<<A Stupinigi>>, << Il Decaduto>>, <<Rodolfo>>, ad esempio) è dato un accurato commento critico. La stessa cosa vale per il racconto del 1888 <<Le masse cristiane>>, e poi riedito nel volume dal titolo <<Vecchio Piemonte>>, con <<Reliquie>>, nel 1889; poi segue il romanzo <<La contessa Irene>> del 1889, ambientato in epoca contemporanea, tra il 1884 e il 1886: Monica Lanzillotta viaggia criticamente assai bene nella produzione artistica e narrativa dello scrittore di Morello, ed ecco ora è la volta del romanzo <<Pifferi di montagna>>, pubblicato nel 1887, insieme con il racconto <<Un paladino>>, perché contengono alcuni personaggi comuni a entrambi. Altre opere calandriane esaminate sono <<Vecchio Piemonte>> (già segnalato; e qui sono contenuti vari racconti, e l’opera poi venne riedita nel 1905 con l’aggiunta di tre altri racconti); invece nel 1906 vede la luce l’opera <<A guerra aperta>>, formata da due racconti, <<La Signora di Riondino>> e <<La Marchese Falconis>>; mentre a fine novembre 1908 viene pubblicato il romanzo <<Juliette>>. Nel dicembre del 1898 venne dato alle stampe il romanzo intitolato <<La bufera>>, e viene dedicato <<Alla memoria di mio padre>>. Questo romanzo viene considerato come uno dei romanzi << maggiori degli ultimi anni dell’Ottocento>> e nel contempo ha avuto molto successo. <<La Bufera>> << potrebbe essere definito un romanzo cronistorico sia per l’ideologia antiprogressista di Calandra sia per il periodo in cui è ambientato, che è un periodo di transizione: infatti le parti
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contrapposte (repubblicani e monarchici) sono al contempo oppressori e vittime, subiscono e commettono ingiustizie e violenze >> (p. 848). Il romanzo si inizia nel maggio del 1797 e termina nel maggio del 1799, vale a dire nel periodo che va <<dai primi moti rivoluzionari contro la monarchia sabauda all’ abdicazione di Carlo Emanuele IV, chiudendosi sull’arrivo degli Austro-Russi che costringono i Francesi ad abbandonare Torino>> (p. 849). Il romanzo prende il titolo spiega Monica Lanzillotta - <<da un evento atmosferico, la bufera, che tradizionalmente è simbolo dell’inizio e della fine delle grandi epoche storiche, perché gli dèi creatori e distruttori dell’Universo sono dèi della tempesta. Zeus per i Greci, Bel per gli Assiro babilonesi, Donasi per i Germani, Thor per gli Scandinavi, […], Dio per i Cristiani>> (p. 891). Dopo le attente e minuziose pagine dedicate alla <<Bufera>> ecco le prose e i racconti pubblicati <<alla spicciolata e in stato di abbozzo>>: <<Figurine eleganti>> del 1885; il racconto <<Il conte Ugolino>> del 1886, <<Letargo>> del 1888, <<Da morte a vita>> del 1892 ad esempio, e poi la prosa <<All’ esposizione di belle Arti. Una lezione>>, e poi segue il racconto <<Idillio>>, la novella breve <<Il pavone>> la brevissima prosa <<Ricordo>> (1900), e il romanzo incompiuto <<Prospero Venturini>>, pubblicato tra il 29 dicembre 1901 e il 15 gennaio 1905. Il romanzo è ambientato nel 1814, e protagonista è appunto Prospero Venturini, un giovane che prende la decisione di andare a Torino, distaccandosi per la prima volta dal paese, per scordare Lucia, la donna di cui è molto innamorato e che ama un altro. Altre opere analizzate sono, per esempio, <<Il gran forestiero>>, << Pippo il Ghiotto>>, il testo dedicato ai bambini <<Privilegio di capelli e barba>> (del 1909), e qui lo scrittore si sofferma a descrivere appunto come all’epoca fosse una vera e propria cerimonia il taglio dei capelli e il soggetto <<della prosa ci riconduce al feticismo dei capelli, che prende rilievo nelle opere precedenti>> (p. 1131);.ecco ancora la prosa <<Piccoli ricordi>>, una prosa auto-
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biografica, <<La guerre d’Italia>> una cronaca autobiografica, il racconto <<Un vaccaio>> del 1909, e tante altre opere. Il bel libro della Lanzillotta esamina molto bene quella che è la lingua e lo stile che è proprio <<della narrativa archeologica>> di Calandra. Qui viene ad apertura detto che molto insistente è il numero delle librerie presente nella narrativa di Calandra, che è cresciuto tra le librerie dei famigliari, feticizzandole: <<la sua scrittura può essere considerata museificazione dei libri dei famigliari>> (p. 1153). Il linguaggio della moda <<è centrale in Calandra anche perché è scrittore storico archeologico>>, la sua lingua viene qualificata dalla studiosa come infantile, sia perché lo scrittore è attratto precipuamente dalle rappresentazioni dei dettagli minuti sia perché per restituire le emozioni di gioia di dolore, sorpresa, meraviglia, incredulità, rassegnazione, e via dicendo dei personaggi, impiega massicciamente imprecazioni, onomatopoe e interiezioni (con diverse oscillazioni fonicografiche), quasi anticipando le tecniche narrative del moderno fumetto: le parole dello scrittore sono <<cose vive>>, che manifestano <<la loro consistenza sonora e grafica, sono rigurgito infantile>> (p. 1171). Orbene, termina il super-volume una completa e ricchissima bibliografia. Arricchisce il volume anche una serie di disegni dello stesso scrittore. Ancora vengono date <<Note linguistiche>> su Edoardo Calandra scritte dal fratello Davide (pp. 1243 - 1245). Grazie a Monica Lanzillotta di averci dato questa ineccepibile e bella monografia sullo scrittore piemontese. Carmine Chiodo Monica Lanzillotta, Il museo dell’innocenza, La narrativa di Edoardo Calandra, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2017, pp. 1318,
OH, MONDO ! Il mondo, ah il mondo! Cosa ha conosciuto realmente il mondo? Caini e tanti Abele; i giorni e le notti di fango e sangue impastati nelle trincee;
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treni piombati, gas e gradi Fahrenheit. Secoli e millenni perduti in stupide violenze, unica linfa che non porta niente. La più tremenda quella fatta senza armi, senza esercito, senza una ragione. Troppo, oh mondo, troppo interesse solo per l’alloro, volutamente ignorando le più basse cose commiste con il male. Inorridito impaurisci, oh mondo, solo di fronte agli occhi calmi, alla trasparenza, all’incorruttibilità del sentimento che brucia più del ferro, più del fuoco; davanti all’arma che ha un solo codice d’accesso: l’amore, con i suoi tonfi, i battiti e le soste che lasciano scintille, luci, atomico calore senza regalare serti da tenere sul capo, ma libertà senza resa da qualsiasi prigione. Salvatore D’Ambrosio Caserta
SULLA SPIAGGIA, DOPO LA TEMPESTA Cessata la tempesta. Smarrita osservo il mare giallo di sabbia sconvolta sul fondo, a riva bave di schiuma, cumuli di conchiglie e pietre, rami marciti, qualche pesce morto: ricordi di furiose onde, specchi di violenza avvenuta che turbano l’anima. M’aggredisce l’odore acuto d’alghe, agitate prima dall’acqua e dal vento. Gli occhi scrutano avidi il cielo ove la povertà d’azzurro, serrato dalle nubi, è sollievo di sereno. Caterina Felici Pesaro
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LA TELEOLOGIA ETICA DEL ROMANZO DI FORMAZIONE OSSERVAZIONI CRITICHE SU
MANGIAFUOCO DI DANA NERI di Massimiliano Pecora
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EL Dizionario etimologico della lingua latina Antoine Meillet e Alfred Ernout riferiscono i lemmi adoleo e adulescens al verbo alo, ‘nutro’. Per quanto nominalistica e aleatoria, questa filiazione rende ragione del fatto che, nella transizione dalla fanciullezza alla maturità, l’individuo compie la sua costruzione morale attraversando una simbolica terra di nessuno, stretta tra le innocenti curiosità infantili e la stanca disillusione dell’età adulta. È in tale trapasso che si colloca Mangiafuoco, il primo romanzo di Dana Neri. L’autrice, poetessa, nonché studiosa di Virginia Woolf, inventa un’i nteressante figura: Fiamma, fin dai suoi tratti fisiognomici, incarna l’ardore di chi si vota a esplorare i fondamenti della propria identità culturale e psicologica. Diviso in cinque parti – ognuna intitolata e riferita al campo semantico del fuoco –, il racconto è infittito da una serie progressiva di inserti monologanti che innervano il continuum diegetico. Queste digressioni, tuttavia, non indulgono agli stilemi tipici del journal intime né ai registri consueti delle epistole fittizie e sine nomine, ma sostengono la rappresentazione delle etopee dei personaggi. Nel suo immaginato schwelle dialog con l’ombra del padre defunto, ad esempio, Fiamma concede molto di se stessa, al pari di Lorenzo, Elife e Sara, quando, spinti dagli eventi, matureranno un preciso bilancio delle loro esistenze. In tal modo Neri ribalta il canonico storytelling del romanzo di formazione fin dall’esordio del narratum. Del Bildungsroman, Mangiafuoco condivide pochi tratti: il titolo univerbato, che, però, non reca il nome di battesimo del protagoni-
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sta, contrariamente ai tradizionali modelli di Agostino, L’isola di Arturo ed Ernesto; un credibile contesto di matrice borghese; le ambientazioni dalle precise coordinate storicogeografiche. Inoltre, nel romanzo di Neri, il narratore, nella sua onniscienza, traccia la parabola di una ragazza che, impegnata a plasmare una chiara e fondata concezione dell’ esistenza, ironizza sul grigio destino dell’ umano consesso in cui vive. Fiamma è dramatis persona del conflitto che alberga in chi, soffocato dalle urgenze del presente, tesaurizza il lascito morale delle sofferenze passate. È questa la principale ragione che altera la dimensione sincronica degli eventi di Mangiafuoco. Combattuta tra gli slanci del cuore e la prosaicità del quotidiano, Fiamma è artefice di un’assennata quanto personale teleologia. Già scaltrito, questo round character si impegna a inverare le sue scelte morali, ponderandole attraverso il doloroso ricordo delle proprie disgrazie. In Mangiafuoco, infatti, il baricentro della narrazione muove da un trauma personale per giungere al dissolvimento dei tormenti e delle contraddizioni che ci impediscono ogni promessa di felicità. Del mondo degli adulti Fiamma conosce le crudeli ipocrisie e, al contrario degli eversivi provocatori dei romanzi generazionali degli anni Ottanta e Novanta, rimarca la sua orgogliosa diversità con timide adesioni alla cultura dello steampunk. Su questa linea l’autrice reinterpreta le posizioni ideologico-culturali di Pier Vittorio Tondelli e di Enrico Brizzi. Diversamente da Alex, il protagonista di Jack Frusciante è uscito dal gruppo (1994), i personaggi di Mangiafuoco tollerano il ‘Mcmondo’ contemporaneo, pur tenendolo a dovuta distanza: Fiamma, Elife, Lorenzo e Sara non hanno bisogno di perturbamenti, di svolte repentine nel corso delle loro esistenze, perché ogni mutamento è figlio della loro acuta sensibilità. Agli antipodi dei giovani protagonisti dei romanzi di Niccolò Ammaniti – si pensi, soprattutto, al trittico Io non ho paura, Come Dio comanda e Io e te – adattano se stessi alle
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circostanze, perpetuando una forma di stoicismo sui generis, fondato sulla fusione delle virtù etiche con i primari piaceri dell’uomo. Domandiamoci, però, in quale occasione si realizza questo ‘sinolo’ morale ed esistenziale Nel formale recupero degli sparuti loci communes del Bildungsroman, Mangiafuoco contiene alcuni versi mutuati dalle raccolte della stessa Neri. Istituendo un’ipotetica consorteria tra Fiamma e la significativa figura di Alda Merini, l’autrice elegge il lirismo a motore del racconto, come si deduce dalla dimostrazione ontologica esemplata dalla clocharde Blu a proposito dell’ispirazione poetica: «la Poesia cresce e basta». La sapiente sentenza – evidenziata dal ricorso all’ antonomasia vossianica – demistifica il vulnus atavico dell’inutilità della poesia nella società odierna, riprendendo analetticamente una fiabesca invenzione di Daniel, padre della nostra eroina e ubiqua entità fantasmatica del romanzo. A riprova di ciò, consideriamo quanto valga per Fiamma l’invenzione paterna di Nessundove, un curioso personaggio in grado di donare speranza laddove la vita la deprime. Trasformata in un esercizio di auto-analisi psicologica e dotata di una funzione eteronoma, la poesia sostiene le fragilità degli uomini. Lontani da scopi di compiaciuto egotismo, i versi di Fiamma-Neri celebrano il dolore e, catarticamente, lo trasformano nel principio da cui muove la ricerca di un destino migliore. Adeguato a questa concezione appare il riferimento al Kintsugi, l’arte giapponese di riparare in modo univoco e prezioso ciò che il caso o il destino hanno rotto. Questa tecnica, in qualità di allegoresi dell’esercizio poetico e di analogon del processo di maturazione intima dei nostri personaggi, viene simbolicamente opposta alle fallacie con cui gli uomini giustificano la loro irresponsabile condotta – come si può constatare nello scambio epistolare tra Fiamma e Lorenzo. All’interno di splenetiche scenografie costruite alla maniera di Edward Hopper e di Paul Auster, le vicende di Mangiafuoco ci parlano di nevrosi e di solitudini, ma anche di come l’empito lirico si trasformi in un radica-
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le atto d’accusa verso squallidi e corrotti modelli comunitari. Grazie all’ispirazione artistica, Fiamma compie la sua personalissima adaequatio rei et intellectus, superando la frizione che insiste tra il subcosciente dei suoi interlocutori e la realtà che essi vorrebbero vivere. Di ciò troviamo un’interessante testimonianza nell’episodio in cui l’autrice analizza il razionalismo di Elife e lo confronta con il soggettivismo della nostra eroina. Mentre la prima spiega il profumo della pioggia con la teoria del petricore, Fiamma assume il fenomeno fisico come un ‘vettore’ di percezioni alle quali associare un ricordo e uno stato d’animo. Al pari dell’errante protagonista del tondelliano Autobahn – guidato dalle sensazioni olfattive –, i personaggi di Mangiafuoco finiscono sempre per sostituire al primato del pensiero quello del corpo, eletto a malato testimone di un disagio interiore. Del resto, la somatizzazione dei sentimenti, per tutto il romanzo, non costituisce un tema, ma un vero motivo diegetico. Lo prova la vicenda di Elife, il cui nome parlante potrebbe contenere un riferimento al brit pop rock. Ottenuta attraverso inusuali concordanze numeriche, la rassicurante metodicità di quest’adolescente è talmente sovvertita dal prorompente assillo dei sentimenti da ingenerare un sub-plot narrativo. Nel breve capitoletto onomastico che raccoglie la confessione dell’amica di Fiamma, l’autrice richiama, in esergo, il verso 46 della II satira di Giovenale: con «defendit numerus» Neri cita solo il nucleo sintattico dell’intera proposizione, «sed illos | defendit numerus iunctaeque umbone phalanges». Mentre l’occorrenza intransitiva di defendere si adatta al convinto razionalismo di Elife, le ragioni dell’espunzione aggiungono un’altra risonanza. L’ipotesto giovenaliano, chiamando in causa la Lex Scantinia de Venere nefanda, denunciava l’ ipocrisia sociale che vedeva nelle donne le principali imputate della decadenza dei costumi. Questo dimostra quanto le costruzioni razionali e le consuetudini dei consessi umani si rivelino incapaci di contenere un innocente
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desiderio omoerotico: anche Elife deve inventare il suo ‘kintsugi etico’ per saldare i frammenti del suo subcosciente in una personalità appagata e altruista. Ancorato a un’idea di felicità molto vaga, ogni soggetto di Mangiafuoco riflette sulla parabola della propria esistenza. Il romanzo diventa, così, l’espressione corale delle contraddittorie fattezze della famiglia italiana, desacralizzata dall’impoverimento morale della ciclotimica società del XXI secolo. Per rappresentare tutto ciò Neri, nonostante la sua profonda conoscenza del novecentismo letterario, non asseconda gli stilemi narrativi del cut-up, preferendo salvaguardare la mimesi dell’inner space attraverso le forme più tradizionali del discorso riportato. Un controesempio, però, va rinvenuto nella conversazione tra Fiamma e sua madre, posta a chiusura della prima parte del romanzo. In occasione di un rapido incontro, la discussione, abborracciata in un bar, è racchiusa dalla dittologia «Fingere e mentire», collocata in apertura del dialogo e poi, a mo’ di clausola, ribadita dallo zeugma «Fingere e mentire, questa è la soluzione». Abbattute strategicamente le complicazioni del discorso indiretto libero, la scrittrice impone l’assoluta sincerità alle confessioni di tutti i personaggi, derogando il tipico tratto del romanzo generazionale: al ‘tu’ indeterminato – di pervasiva occorrenza, ad esempio, nella Solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano – si sostituisce il ‘tu’ allocutivo di un feroce alter ego che, da giudice inflessibile, esige la massima chiarezza per le dichiarazioni dei suoi imputati. In tal modo Neri ci dimostra che l’arte obbliga l’autore a una precisa posizione etica, come aveva già profetizzato Michail Bachtin nel saggio Arte e responsabilità (1919): se pur frustrata dagli accadimenti sociali, la comunione tra il mondo della vita e quello della cultura consente di cogliere, negli abomini dell’esistenza, un momento di pace. Questo spiega perché le digressioni liricizzanti di Mangiafuoco vadano distinte da ogni manifestazione di compiaciuta e solipsistica deriva. Basti citare, a titolo emblematico, l’episodio della morte di Blu:
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consapevole di essersi pigramente abbandonata alla disperazione, l’amica di Fiamma compone il suo epicedio citando la prima delle Lezioni americane di Italo Calvino e rimproverandosi, così, di non aver prestato fede al conforto della letteratura, la principale forma d’arte in grado di sopravanzare ed eternare l’inesorabilità di ogni tragedia. Con i racconti della silloge In sonno e in veglia Anna Maria Ortese ha dimostrato che, per quanto sia un utile antidoto alla sofferenza, la poesia, lungi dall’esaurirsi nella rêverie di un’età perduta, è il più alto strumento adoperato dall’intelletto per indagare i recessi dell’animo. È in questi termini che va interpretata la mutazione intima di Sara. In quest’occasione, Fiamma, ben lontana dal cedere a una forma di depressione anaclitica, interroga la madre formulando una domanda tanto ingenua quanto terrificante: perché rimuovere la gioia quando questa muore con la persona amata? Con Mangiafuoco Neri fa della letteratura lo spazio in cui albergare un preciso intervento etico: alla stregua dei personaggi dei Sonnambuli e degli Incolpevoli di Hermann Broch, la nostra protagonista mette a nudo una profonda verità. Interloquendo con la madre, Fiamma svela il problema essenziale sotteso ai modi con cui comunichiamo agli altri qualcosa di noi stessi. La protagonista di Mangiafuoco sa che, per quanto sia problematica, la narrazione di se stessi non è una semplice façon d’écrire, un cappio di fabbricazione umana, ma una specie di atto di bilanciamento tra la verità e le convenzioni che ci governano. Perché si compia, questo processo dialettico necessita dell’esercizio introspettivo maturato dalla pratica letteraria. Questa sola, infatti, ci eleva dai tormenti – lo insegna il mito dell’Araba Fenice, ricordato in apertura dell’ultima parte del romanzo – e nutre il sogno di un nuovo eliso, ambito sia dagli adolescenti sia dagli uomini rotti alle turpitudini della vita. Massimiliano Pecora Dana Neri, Mangiafuoco, postfazione di Iacopo Melio, Londra, MutatuM Publishing, 2018, pp. 1293, ISBN 978-1-9999216-1-3
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FRANCO MOSCONI E SALVATORE NATOLI: NON È VANO SPERARE! di Ilia Pedrina
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N Maestro dell'Anima e un filosofo si presentano in una delle sfide consapevoli, storiche e spirituali più importanti del nostro tempo nel volumetto SPERARE OGGI, nella collana Cattedra del confronto, casa editrice Il Margine, del 2012, con ottima Prefazione di Milena Mariani e Dibattito a far da chiusa a queste 61 pagine di equilibrata, sognante, concreta esperienza. Si tratta di procedere ed operare con l'intelligenza e con il cuore, per Salvatore Natoli, e con una profonda, acuta, totale immersione nella Parola, per dom Franco Mosconi, una presa diretta, faticosa ma alla fine luminosa, con la nostra complessa realtà, che è tempo durissimo. Un testo assai denso che si legge senza interruzioni e poi lo si torna ad attraversare più e più volte, per cogliere, almeno in parte, ciò che ha preparato e reso possibile questo loro prezioso risultato, quasi un dialogo che alla fine emerge in modo semplice e convincente. Franco Mosconi ama la Parola, sceglie pochi versetti da Isaia, al cap. 35 e si lascia affascinare dall'ispirazione che l'antico ebreo scioglie in poesia profetica, in preghiera, in canto dell'Anima, per dar corpo a visioni che caricano l'immaginario dei sopravvissuti e danno loro energia “ '...Si rallegrino il deserto e la terra arida,/esulti e fiorisca la steppa./Come fiore di narciso fiorisca;/si canti
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con gioia e con giubilo/'... Le previsioni sul futuro del nostro pianeta non sono rosee; per qualcuno sono addirittura catastrofiche: la realtà sociale, politica ed economica del mondo si presenta carica di tensioni che non si sa come si possano risolvere... Isaia è vissuto in uno dei periodi più difficili della storia del suo popolo. Gerusalemme e il suo meraviglioso tempio sono distrutti; le persone più capaci, le più preparate sono state deportate in Babilonia; la città santa è ridotta a un cumulo di macerie. Sono rimasti i vecchi, i malati, i bambini. E su tutto regnano il silenzio e la morte... È proprio davanti a queste rovine che il profeta pronuncia il suo oracolo pieno di ottimismo. È un uomo sensibile, ha l'animo
del poeta e si esprime con immagini deliziose... Il poeta scorge i 'personaggi' che prendono parte a questa processione: in testa, come guida, avanza la felicità perenne, seguita dalla gioia e dall'allegria. All'orizzonte s'intravvedono due sagome oscure, due nemici che fuggono sconfitti: la tristezza e il pianto. Queste parole sono la smentita di Dio nei confronti dei profeti di sventura...” (F. Mosconi, Una speranza radicata nella fede, in F. Mosconi-S. Natoli, Sperare oggi, Cattedra del Confronto, ed. Il Margine, Trento, 2012, pp. 18-20). Dal poeta-profeta Isaia Mosconi passa alla concretezza del Dio che vive, al Gesù della Parola incarnata, al suo modo di essere con-
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diviso, dalla moltitudine come dal singolo, cui dà sempre incoraggiamento. Arriva a parlare un poco di sé e delle meraviglie che la Parola come Pasto ha provocato in lui, da quando ad essa si è affidato, studiandola con rigore e nutrendosene senza sosta, nobilitato dalle sue semplici, intense scelte di vita e d'esperienza: “... Lui è il Consolatore, come lo chiama Giovanni. Mi dà speranza, perché io non sarò giudicato considerando se avrò raggiunto la perfezione dell'ideale o se sarò stato promotore di liberazione o attore di eroismi, ma se avrò percorso la mia strada con lealtà, con molte cadute e con altrettante riprese, tenendo sempre gli occhi fissi alla Terra promessa... Mi dà speranza un Signore che mi assicura che il mio desiderio di amore è già amore, che il mio desiderio di preghiera è già preghiera, che il mio desiderio di incontrarlo è già incontro...” (F. Mosconi, in op. cit. pp. 30-31). Amplio la citazione di pagina 25: “...Ho sempre impressa nella mente la figura del figlio di Vittorio Bachelet...” con semplice, commossa empatia e riporto le parole di Giovanni Bachelet, all'epoca venticinquenne, pronunciate al funerale del padre nella chiesa di san Roberto Bellarmino in Roma, due giorni dopo l'assassinio avvenuto il 12 febbraio 1980: “... Preghiamo per i nostri governanti, per il nostro presidente Sandro Pertini, per Francesco Cossiga, per tutti i giudici, per tutti i poliziotti, i carabinieri, gli agenti di custodia, per quanti oggi nelle diverse responsabilità nella società, nel Parlamento, nelle strade continuano in prima fila la battaglia per la democrazia con coraggio e amore. Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri.” (Fonte Internet, V. Bachelet). In rete, evidenziati, i termini 'perdono' e 'vendetta'. Salvatore Natoli, storico del nostro tempo, filosofo che situa la sua ricerca all'interno dell'essere che interroga e si interroga, orgo-
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glioso difensore della libertà laica di credere e di sperare, ama il Logos e l'avventura infinita di una consapevole interpretazione della realtà che raccolga tutti i tempi in uno, anche se storicamente differenziabili: firma 'Speranza e cura del presente', secondo percorso vero in questo piccolo libro che affida allo sguardo degli altri il suo destino: “... Noi speriamo, ma cosa accade dentro di noi quando speriamo? La parola greca per dire speranza è elpis: nella radice della parola v'è questo gruppo elp, che ha a che fare con il verbo velle e con la parola voluptas: la speranza si radica nel nostro istinto di vita, noi speriamo, prima ancora che cognitivamente, biologicamente. La vita vuole insistentemente se stessa. È quello che Spinoza chiamava il conatus conservandi... La dinamica della speranza appartiene, quindi, al nostro tessuto naturale biologico, prima ancora che cognitivo. Siccome poi l'uomo è un essere intelligente e razionale, trasforma questa spinta naturale in sentimento, in proiezione, in movimento verso l'oltre, poiché tutto ciò che tende ad espandersi, tende all'oltre. In tal senso, la speranza è una variante, quasi un sinonimo del desiderio... Baruch Spinoza, un filosofo che non vedeva di buon occhio la speranza, scrive: 'La speranza, infatti, non è niente altro che letizia incostante sorta dall'immagine di una gioia futura o passata, del cui accadere dubitiamo'... La dimensione umana per coltivare la speranza è trovare nel presente le buone ragioni del nostro sviluppo e della nostra crescita. La sana speranza nasce dalla cura del presente, è in germoglio perché se non c'è il germoglio, se non c'è la cura del presente, c'è il salto in avanti, che è quel meccanismo irrealistico attraverso cui non si affronta il disagio, ma si cerca di aggirarlo. E se non si affronta il disagio e si cerca di aggirarlo, qualsiasi 'guru' ingannatore ci può illudere e ci può asservire, giocando con le nostre speranze...” (S. Natoli, op. cit. pp. 35-40). L'unto del Signore e il laico nobile d'animo, semplice, si trovano insieme, per consolare, per orientare, per riflettere. Entrambi al servizio dei molti, quando ciascuno di loro viene
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preso singolarmente e accompagnato a costruire giorno dopo giorno quella fiducia nella reciprocità dell'offerta che costituisce la base vera della speranza e che spinge l'impossibile a farsi strada ed a trovare compimento proprio attraverso quella forza desiderante di vita e d'amore che abita l'anima. Per unire temi, tensioni, immagini tra poesia e pittura del canto interiore, che vive nella condivisione, scelgo alcune parole che Serena Nono segna a spiegare le immagini da lei dipinte olio su tela dal 2002 al 2017, scelte per la Mostra alla Galleria Isolotto in Firenze: “... La figura sola o in relazione con l'altro. La relazione attraverso il gesto o lo sguardo. Vicinanza, silenzio, occupare lo spazio, predisporsi all'accoglienza, alla compassione. Sentire insieme, patire insieme, amare insieme. Il corpo come veicolo di emozione, sentimento, offerta. Corpo-pensiero, corpo-vita. Le figure sole: solitudine come condizione in cui si ascolta, ci si ascolta. Le figure con lanterna, viandanti. Cercano la strada e la possono illuminare nel buio, nel buio dell'oggi. Luce che nel buio, guida. Tentativo di trovare una strada...” (Fonte Internet: Serena Nono in Virgilio Sieni, Centro Nazionale di Produzione). Anche se i colori sono oscurati da pennellate nette ed esigenti, sicure nel graffiare ogni possibile quiete, le forme palpitano e il nostro sguardo ne penetra il pathos, lasciandosi animare, in un abbandono che salva. Ilia Pedrina
LA DANZA DELLE API Danzano nella mia mente le api nel ricordo. Danzano seguendo un loro schema le api gialle del ricordo nella luce arancione del sole, danzano stando immobili sulla tela bianca di un quadro. Le api gialle danzando nella mia mente mi riportano agli anni
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della mia prima giovinezza, quando l’autore del quadro divideva con me i banchi della scuola media. Per più di mezzo secolo han danzato e ancora danzano, le api gialle, mentre cerco la locandina gialla-arancio di quella, forse prima, sua “personale”. Anni sessanta, o giù di lì … l’avevo conservata ed ogni tanto la ritrovavo fra le vecchie cose. Ma se anche ora non la ritrovassi, la vecchia locandina, le api gialle continueranno a danzarmi nella mente, come quel giorno che il quadro mi colpì coi suoi colori, la sua luce, il suo titolo e la sua forza espressiva. Mariagina Bonciani Milano
Smascherata l’Unione Europea appare il viso terribile dell’Unione degli Egoisti indifferenti alla vita alla morte delle povere persone che guidate dalla stella della speranza hanno voluto sfuggire la miseria o che furono costrette dalla guerra dalle bombe dalle atrocità ad attraversare il Mediterraneo E tutte le maschere di sostenitori dei Diritti Umani così cadute rimangono piantate ai confini di ogni paese quali muri Dall’alto di questi muri i dirigenti dell’U. E. guardano affondare i valori dell’Europa con i migranti Che l’Italia se la sbrogli per salvare tutto e tutti! Béatrice Gaudy Parigi, Francia
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LA CRISI DELLA SINISTRA ITALIANA Non so se Totò oggi avrebbe fatto la battuta: “E poi dice che uno si butta a Sinistra!” di Giuseppe Leone
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ALVINI e Di Maio non hanno sconfitto la Sinistra, ma loro sono nati dalla sua sconfitta. Non hanno creato il populismo, ma il populismo ha creato loro. Sono proposizioni frutto di analisi prese a prestito da La scuola dei dittatori di Ignazio Silone qui adattate a situazioni di vita politica attuale. In effetti, la crisi della Sinistra in Italia non si origina con Salvini e Di Maio, comincia a manifestarsi già con Berlusconi, al momento della sua vittoria alle elezioni politiche del 1994. Da allora, la Sinistra ha cambiato posizioni e prospettive, finendo per rimanerne frastornata, già incapace di capire quale diavolo o “piccolo diavolo” la stesse disorientando. S’è trovata, da un momento all’altro, a dover cambiare ideologia e linguaggio per difendere istituzioni, prima d’allora, terreno e campagna elettorale della Destra, quali: lo
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Stato, la Costituzione, la Magistratura, la Finanza, il Presidente della Repubblica, i Governi Tecnici. E quando non lo ha fatto in prima persona, lo ha fatto anche appoggiando questi ultimi, con il risultato che quelle scelte ogni volta significheranno il sacrificio di centinaia di migliaia di voti, fino a quando non sono stati milioni nell’ultima tornata elettorale del 4 marzo scorso. E così la Sinistra ha incominciato a implodere, proprio dal giorno in cui, per opporsi al ciclone Berlusconi che ha sferrato un attacco senza precedenti contro le istituzioni dello Stato, in particolare contro la magistratura, s’è schierata a difesa di esse e dei loro apparati, assumendo posizioni moderate e conservatrici, a dispetto di una storia secolare che l’aveva sempre vista in trincea a favore, ora, del riformismo, ora, della rivoluzione. Ma si può dire che Berlusconi abbia distrutto la Sinistra? Sempre che non si intenda che lui l’abbia fatto con il piglio dello statista e con tanto di strategia politica. Questo no. L’unica sua strategia è stata la difesa delle sue aziende e il selvaggio attacco alla magistratura. Al resto ci ha pensato la Sinistra stessa, già in precarie condizioni di salute dopo la caduta del Muro di Berlino e dell’Unione Sovietica nonché i successivi strappi interni ai
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suoi vertici nel passaggio dal partito comunista al partito democratico della Sinistra fino alla più recente formazione del PD. E Renzi? non gli accredito neppure un pregio, gli riconosco solo difetti, ma non la colpa di aver determinato la decadenza di questa Sinistra, ne ha semmai accelerato il corso. Quando è arrivato lui, i giochi erano già fatti. Paradosso: è sembrato persino di sinistra, quando ha sottoposto a Referendum la riforma della Costituzione il 4 dicembre del 2016 o quando ha detto no ai Cinque Stelle per la formazione, assieme ai democratici, di un eventuale nuovo governo nazionale. Questo non è che il mio pensiero sulla sconfitta della Sinistra in Italia. Non so che cosa ne pensi il Partito Democratico. So, invece, quello che vorrei che non pensasse: che il numero 4 porti male. Giuseppe Leone Nella foto di pag. 19, Totò ne I sette re di Roma.
DUBBI Non riusciamo a sciogliere il dubbio, ancorato alla gomena del porto come un vascello che non trova la sua libertà. La notte un sipario oltre il quale si cela l’ignoto dell’ignoto La morte è un oltre vita o è la vita un’apparente morte! Andare oltre …. oltre cosa? TU sei celato a noi, perché ognuno possa cercarti? Oppure noi TI celiamo per la paura di trovarti? I nostri cm. di vita possono sciogliere l’enigma? Forse gli atomi in dissolvimento saranno liberi da ogni barriera,
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quando la luce di lontani soli si saranno arresi alla ricerca. Nella notte un Leviatano immenso apre la bocca e mangia le stelle e vomita colori che ancora ci pervengono ai nostri occhi supplenti dell’Acatama. I buchi neri sono draghi che assorbono e che succhiano l’anima di soli rotanti, forse un’infinita potenza del male. Se non ci fosse la dolcezza, l’armonia e la bellezza che vive un mondo suo al di fuori dell’uomo, a rinnovare la speranza, potremmo presumere, con presunzione, che forse è tutta un’enorme provetta, dove un chimico potente esperimenta, guarda e attende …. che tutto muoia Wilma Minotti Cerini Pallanza - Verbania (VB)
FILO D’ERBA Sono filo d’erba sulla bocca del vento cielo che respiro acqua che mi agita il vivo il morto della terra.
SIETE TUTTI VENUTI Siete tutti venuti con me nel mio pensiero e finché non finirà il mio tempo tenterò con arcobaleni di parole di toccarvi il cuore all’altro capo della vita. Gianni Rescigno Da: Sulla bocca del vento, Il Convivio Ed., 2013.
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FRANCESCO D’EPISCOPO: NAPOLI “CITTÀ CREATIVA” di Liliana Porro Andriuoli ELLA preziosa Collana “Pamphlets”, della Casa Editrice Helicon (AR), diretta da Francesco D’ Episcopo, è apparso da non molto un volumetto, ad opera dello stesso Direttore, intitolato Napoli “Città creativa”, che contiene una compiuta immagine di questa città, colta nel carattere estroso dei suoi abitanti, che vale a renderla unica e quanto mai attraente. D’Episcopo ama profondamente Napoli, città del padre (pur essendo egli molisano di nascita e per parte di madre), nella quale ha insegnato per lunghi anni Letteratura italiana e Critica letteraria e letterature comparate, presso la locale Università Federico II; la conosce pertanto come pochi altri, sicché l’interpreta in questo suo pamphlet da par suo, certo in maniera quanto mai avvincente. Innanzi tutto il mito di “Città «regale»”, che possiede una propria “arte del vivere”, perseguita con Genio e passione, sia dallo scugnizzo che dall’uomo di cultura, senza remore o riserve. Città, dice D’Episcopo, “antidepressiva per eccellenza”, che “ti accoglie e avvolge nelle sue sinuose malizie e nelle sue perverse manie” e nella quale il tempo è una convenzione approssimativa, anche per il fatto che “molti napoletani non usano l’orologio, ma si affidano alle improbabili meridiane del proprio cuore e della propria mente”, per cui in questa città “è consigliabile non dare mai un appuntamento preciso, dal momento
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che le conseguenze potrebbero rivelarsi incalcolabili”. Tutto vero; ma non va poi nemmeno dimenticato che Napoli è una città che, “anche nei momenti più difficili, nonostante tutto, [è] sempre capace di miracoli”. Il che l’autore ha personalmente sperimentato in occasione di un “pranzo di lavoro”, a casa di “uno studioso napoletano”, per il quale si “raccomandava estrema puntualità”, con un orario “assoluto e inflessibile: le ore 13,20”. Quel giorno l’orario d’incontro fu rispettato, ma solo alle 14,30 “«apparve» la consorte dell’amico” con qualche rassicurazione sul “nostro … futuro”. Dopo una “buona mezz’ ora” da quel suo ingresso si sentì però un “rumore immenso” provenire dalla cucina, dovuto a un piccolo crollo, a cui la padrona di casa seppe tuttavia porre rimedio, con prontezza e senza scomporsi. Il pranzo fu infatti servito poco dopo (per la precisione alle 15,30) e fu sicuramente “un pranzo memorabile per varietà di portate” e per l’ amabilità degli ospiti, i quali conclusero piacevolmente l’incontro alle ore 19,30. C’è inoltre a Napoli una strana filosofia, quella del “caso”, per il quale “nulla è prevedibile e regolare” e persino i bus possono recare la “surreale formula di «occasionale»”. Ma c’è anche un’estrema libertà di pensiero, per la quale “il napoletano critica sino all’estremo qualsiasi situazione, qualsiasi scelta, soprattutto se imposta dall’alto”. Nel suo acuto esame del carattere dei napoletani D’Episcopo poi osserva che nella loro città il pettegolezzo, “l’inciucio appunto, […] diventa una piacevole pausa dalla noia della vita”, costituendo comunque “una parentesi creativa, dove tutto è possibile” e dove il racconto “non può essere che epico, enfatico, persino estremo”. Grande è a Napoli – prosegue il nostro autore – la forza della meraviglia, dato che “il napoletano ama meravigliare e meravigliarsi, persino di se stesso”. Per lui “il mito si impossessa della realtà, la domina e la
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sovrasta” e può durare all’infinito. “Mio padre incantava, quando parlava, quando recitava, quando «si trasformava» per interpretare un canovaccio, che si inventava al momento, sulla scia degli abiti che trovava per caso”: sono queste le parole con le quali D’Episcopo introduce il paragrafo del suo volumetto intitolato Il personaggio incantatore; mentre in Parole e voci scrive: “Qui da noi […] non si parla piano, come altrove, ma si grida, contro ogni regola di privacy, di appartatezza. […] Lo stesso rapporto tra casa e strada è stretto”. Il pamphlet si chiude con due paragrafi sul Natale e sul Presepe nei quali è racchiusa tutta la meraviglia del bambino che l’autore fu di fronte a quegli eventi, visti con gli occhi di allora: “A Napoli il Natale era il più bello del mondo. La tavolata della Vigilia, anche nelle famiglie più povere, era un evento eccezionale […] A casa dei miei nonni, genitori di undici figli, la tavolata era infinita”. “Era il trionfo dell’amore famigliare […] poi, allo scoccare della mezzanotte, il Bambino, nudo e infreddolito, veniva deposto nella mangiatoia”. Qui l’atmosfera diviene evocativa e la parola si fa più leggera, nel ricordo del tempo che fu, come accade nel paragrafo intitolato Il presepe, che inizia: “Mio zio faceva il Presepe e lo attrezzava, alla maniera del protagonista eduardiano di Natale in casa Cupiello…. Mi chiedevo quanta fatica comportasse quella ingenua e meravigliosa fantasia”. L’Epilogo e il Post scriptum contengono degli squarci di vera poesia, nei quali la voce diviene un sussurro nel riandare indietro negli anni. Ed è una voce che rimane a lungo nella memoria. Ne risulta un nobile omaggio che D’ Episcopo rende alla città del suo cuore, e un prezioso libretto offerto con disinvolta eleganza ai suoi affezionati lettori. Pregevole l’edizione, che reca in copertina il Palazzo dello Spagnuolo di Ferdinando Sanfelice, esempio cospicuo dell’ architettura barocca napoletana. Liliana Porro Andriuoli
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LE ATTESE Tu sei Lucensea, mi scrosti di dosso la fuliggine delle cose mal sopportate, idealizzi la realtà alienante sorda ed amorfa. Solitudine che si accende di amore platonico nell’aria aperta della Natura. Le piante della valle riempita di cielo, il timo, la lavanda, il rosmarino. Su un giaciglio il tuo corpo in una mano, trepidante pieno. Felice del tatto della tua pelle, che mi ridona il tempo divorato. Quante volte ho chiuso la finestra, mi sentivo le labbra bruciate; quanti veli si sono stesi sulle tante sere. Stanco delle giornate che passano accodate, stanco dello stesso bicchiere nella credenza ripulito. Ho voglia di bere allo zampillo di fonte lambendo con la lingua i fili sbriciolati dell’acqua. Ho amato le facce languide contro i vetri gelati delle case le grosse calze di lana delle fanciulle di paese. Sguardi trasognati, piccoli quasi mortificati sull’incarnato di forme corpose. Le mie pagine parlano di attese, gli stati di riflessione che si ripetono alla fine del giorno sempre mi hanno detto che dovevi venire. Leonardo Selvaggi Torino
Les gazouillis des oiseaux au jardin Au plaisir que tu prends à les ouïr tu ressens combien dérisoire et futile est le plus souvent l’apport des nouvelles technologies Tellement plus essentiels ces gazouillis qui ont des millénaires Béatrice Gaudy Paris, France
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CARLO DI LIETO CORRADO CALABRÒ E “LA MATERIA DEI SOGNI” di Domenico Defelice sogni, “nella poesia di Calabrò, diventano forza motrice, da un lato, e, pulsione erotica, dall’atro”. Ha ragione Carlo Di Lieto: il sogno sta alla base della poesia di Corrado Calabrò, al par della donna e del mare, che il poeta riveste costantemente di sogno, perché, nella realtà, entrambi son difficili da gestire, al par - secondo noi, anche se un gradino inferiore -, della luna, del vento. “L’agnizione della sua poesia - afferma Di Lieto - ha come nucleo agglutinante la bellezza muliebre e il mare: è una specola privilegiata, da cui è visto il mondo fenomenico, con studiata attenzione, dopo aver rimosso ogni legame con la storia”. Ne La scala di Jacob, il sogno l’abbiamo già nel titolo, e, in quest’opera, il poeta veste di sogno, attraverso una narrazione piana, non urlata, non concitata, anche avvenimenti dal sogno ben lontani, come un tsunami (“Da cinque giorni rivolto cadaveri”); il metallico e ossessionante gracchiare d’una mitragliatrice (“La carrubbara”); un “Trasloco”, che non è mai avvenimento superficiale, se, ogni volta, a quei luoghi, a quelle case, a quei vicini, a quegli animali, è come se lasciassimo un pezzo di cuore. Il sogno è alla base della poesia di Corrado Calabrò, perché, in realtà, esso è alla base di tutta la grande poesia, è la stessa poesia ad essere sogno. Il poeta effettua sempre un’altra creazione parallela alla realtà, mondandola, però, inconsciamente, dalle ne-
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gatività che il suo Io profondo rifiuta; creazione amata e fascinante, perché vestita d’ utopia; è come se il poeta rifiutasse l’esistente e si creasse, per vivere, una realtà a suo modo più giusta e più perfetta. Il saggio di Di Lieto ci trascina proprio in questo mondo parallelo. Ma, nel volume, di quasi trecento pagine, l’indagine psicoanalitica del critico campano ne occupa soltanto centoquaranta, il resto essendo un’ampia antologia di poesie, di saggi dello stesso poeta, di numerosi contributi critici pro Calabrò-Di Lieto in rapporto al saggio La donna e il mare (Rea, Lajolo, Satta, Canali, Gerosa, Bonura, Dyerval Angelini, Luzi, Savarese, Bruni, Limone, Cimatti, Bo, Giorgetti, Pecora, Spaziani, Morace, Guidi, Maffia, Di Biase, Andriuoli, Porro Andriuoli, Minore, Amoroso, Baldi, Chiellino, Ricciardi, Di Pietro, Rocco, Toscani, Rega, Piscopo, Iacuzio, Mazzella, De Stefano, Prebenna, Franchini, Stefanelli, Cantilena, Reda, Dama, Borgese, Giordano, Paolillo, Landi, Occhipinti, Pedicini, Camelia, Pezzella, Toma, Ariola, Nicolai, Angelo Manitta, Giuseppe Manitta, Baldi, Alviggi, Pandolfo, Pignatelli e sempre che non ce ne sia sfuggito qualcuno), sicché consente a chiunque d’indagare e approfondire a prescindere dal bel saggio dello stesso Di Lieto. Un lavoro scientifico, diverso dalla critica letteraria comunemente intesa, che svela particolari, nel poeta calabro-romano, originali e ai più sconosciuti. È così nuovo, che volerlo recensire è come banalizzarlo, il tentativo di riportarlo sul piano della critica generica, annullando gli aspetti cognitivi e tecnici che sono peculiari alla sua struttura, l’assoluta estrosità, la sua fascinazione, la magia. Calabrò è veramente un fortunato, avendo incontrato, sul suo cammino poetico, un critico come Di Lieto. L’Es, nella poesia di Calabrò, è come una vera e propria droga, tanto da creare “la paura della dipendenza”. L’Es è diverso dall’Io, ma hanno punti di contatto. Non è detto che dove ci sia l’uno non possa esserci l’altro; entrambi, a nostro parere, possono convivere (Freud sembrerebbe pensarla al contrario:
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“dov’era l’Es, deve subentrare l’Io”). E sono gli scarti fra i due a creare fusione, sprigionando energia, dando origine alla realtà parallela e quindi al sogno. L’Es e l’Io sono come l’aria che respiriamo: ci sembra unica, ma non è formata da un solo elemento. E la poesia di Calabrò - scrive Di Lieto - è proprio come l’aria, perché “capace di collegare il pensiero simmetrico a quello asimmetrico, la coscienza al fondo magmatico dell’inconscio, il pensiero stesso all’emozione dell’arte”. L’Es e l’Io, da soli o insieme, comunque, non sono intercambiabili come lo è lo spazio eisteiniano. Che la leva del transfert da realtà a sogno sia, di volta in volta, il mare, la donna, il vento o la luna, ha rilevanza relativa, giacché tutti, di volta in volta, rispondono all’esigenza interiore del poeta; sono, in una parola, predestinati, perché già presenti nel suo DNA e alla giusta pressione per emergere. Questi elementi sono realtà esistenti nelle profondità dell’Io, che nella maggioranza delle persone rimangono latenti, perché atrofizzate, e che nel poeta, invece, si aprono un cammino ed emergono come la lava da un vulcano. Tra tutti, è certamente l’amore-donna ad avere più energia propulsiva ed è l’amore-donna a riportare a unità ciò che, in fondo ora all’Io, ora all’Es del poeta (ma anche a ciascuno di noi), è dualità. Nell’intervista da Calabrò rilasciata proprio a Di Lieto (Pomezia-Notizie, maggio 2015), è lo stesso poeta ad affermarlo. Le due metà in cui è diviso l’uomo, secondo Platone, sono in continua ricerca dell’unità. Se, poi, tutto ciò si avveri o meno, è altra cosa, ma è certo che noi ci sentiremo insoddisfatti “finché non si realizza l’ incontro, l’incastro”. Questa realizzazione avviene solo attraverso il sogno. È il sogno che tiene, non la realtà: “in un gioco a rimando di specchi - afferma il poeta -, molti sono gli inganni dei sensi e vi è annidato ogni giorno il rischio della delusione, se non della disillusione”. È il sogno il collante delle due metà, “delle due mezze arance che fremendo si riconoscono e si fanno una”. Il sogno è dormiveglia e, paradossalmente, per il poeta, la verità più vera.
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C’è, nello stile versificale di Calabrò, una specie di tum-tum quasi monotono, di martellio, una cadenza accentuativa come di passi verso un non so dove, la cui foce è lo svelamento; foce - o finale - di ogni periodo, o strofa, o lassa, perché, come l’onda marina, riprende e si annulla, riprende e si annulla, in un continuum anestetizzante. Si legga piano e soffermandosi sugli accenti fonici, cioè posando la voce, per esempio, sulle sillabe: “i” di passivo, prima “a” di distanza, “e” di tempo eccetera, sempre dalla nona in poi: “puntano al porto con moto passivo/lasciando colmare la distanza/dal semplice trascorrere del tempo.//Incontro a qualche cosa è spostamento,/trapasso senza traccia e senza forma:/tratto a tratto le annuncia e le sottende/un suono lamentose, quasi umano”. Un suono, qui lamentoso, altrove diverso, ma quasi sempre una ben chiara e determinata cadenza. È in questo ondare, che quasi obnubila, che si mescola e si nasconde l’universo di Calabrò e che Di Lieto svela: “La levità eterea del verso”; le relazioni dell’amore; il “fantasma indecifrabile” che può condurre anche a qualche - rara - oscurità o a voci onomatopeiche e futuriste (il “Tradatrà-tradatrà-tradatrà” della “carrubbara”, per esempio); il “misterioso invisibile”: “Un universo interiore che, per transfluenza - scrive Di Lieto -, costituisce un varco “nella crosta dell’essere” e costituisce uno snodo nella forma che lo delimita”. Quasi tutta la poesia di Calabrò ha questa cadenza, un andare e un venire che la caratterizza e la rende unica. La poesia di Calabrò - conclude Di Lieto “nasce da un piacere preliminare, che interagisce con la sua coscienza inquieta” ed è da tutto ciò - secondo noi - che derivano le tante narrazioni che la rendono varia, compresa l’ironia e le vene di languore, di malinconia, di dolcezza e di tenerezza che ci ammaliano. Fantasia e sogno, entrambi saldamente legati al reale. Domenico Defelice CARLO DI LIETO - CORRADO CALABRÒ E “LA MATERIA DEI SOGNI” - Roberto Vallardi Editore, 2018 - Pagg. 392, € 15,00.
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DONATELLA DI CESARE MARRANI L’ALTRO DELL’ALTRO di Salvatore D’Ambrosio ’acquisto per la lettura di questo libro di poco più di 100 pagine, mi è venuto dal titolo cadutomi sott’occhi nel mio girovagare in libreria. E soprattutto dalla parola ”MARRANI”. L’etimo normalmente è rivolto a persone fellone, di poca parola: e poiché questa è un’epoca di mancatori di parole, si mestatori, di mentitori spudorati che non fanno che il proprio interesse, ho pensato finalmente qualcuno si è deciso coraggiosamente a denunciarne qualcuno di questi “marrani”. Ho preso l’opuscoletto e dalla quarta di copertina mi sono reso conto che si trattava di ben altro. Anzi questo “altro” ha suscitato in me ancora maggiore interesse. Ho acquistato il libro e alla fine eccomi qua a parlarne. Ovviamente il Marrano ho capito subito era cosa rivolta ad altri, e molto più seria. L’autrice Donatella Di Cesare, insegnante di Filosofia teoretica e di Ermeneutica filosofica rispettivamente a Roma e Pisa, esamina in questo suo saggio la triste e sconcertante posizione degli ebrei costretti nella penisola iberica a convertirsi forzatamente al cristianesimo, pena la morte o l’esilio. Il libretto ha ventisette paragrafi per una migliore individuazione e scansione temporale dei fatti che
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si vanno ad analizzare. La storia che ci racconta l’autrice, parte da una data precisa: il 24 giugno 1391, allorquando nella giuderia di Siviglia fecero irruzione i soliti scalmanati non raziocinanti, capeggiati dal solito portavoce di odio anti ebraico. E per lo stesso copione che si leggerà secoli dopo, la necessità della purezza di sangue; l’irruzione provocherà quattromila morti. I primi di una lunga serie che sono convinto non sia ancora finita. Con il suo discorso storico- ricostruttivo, la Di Cesare ci fa capire che alla luce di siffatti truci eventi, molti ebrei passarono spontaneamente al cattolicesimo, senza attendere costrizioni. Ma questo passaggio non li rese “nuovi cristiani” come da desiderio degli spagnoli. Anzi l’emarginazione assunse anche forma di dispregio o quanto meno di inferiorità cattolica in quanto questi conversos provenivano da una radice di religione non cattolica, non ostante gli ebrei portassero avanti la tesi che il primo cristianesimo era il loro. E non avevano tutti i torti in quanto provenienti da zone in cui era nato, vissuto e morto il Cristo. Poteva andare bene agli spagnoli persecutori questa teoria, ma i nuovi cattolici convertiti a suon di bastonate dovevano confutare la tesi che il Messia era ancora da venire. La conversione per non morire, per necessità, li etichetta ingiuriosamente come Marrani (porco in lingua spagnola). L’ebreo allora si camuffa, finge sentimenti cristiani ma non dimentica le cerimonie e i riti della sua religione, che pratica in segreto nel suo animo. A tale proposito la Di Cesare, ci dice della edificazione da parte di questi “nuovi cristiani” di un castello interiore, accennando alla storia della mistica di Teresa d’Avila, partendo dal 1485 allorché il padre sottoposto con tutta la famiglia all’autodafé fu costretto ad abbandonare Toledo e a rifugiarsi ad Avila. Interessante per gli spunti, anche la presenza marrana a Amsterdam; in seguito alla fuga iberica. Come è da approfondire il paragrafo dedicato alla figura di Bento (Baruch) Spinoza, di
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origine sefardita, che introduce il marranismo nel pensiero della modernità occidentale: come dice la Di Cesare. Spinoza ritorna con il pensiero all’affrancamento degli ebrei dagli egizi, considerando che la libertà conquistata li spingerà a non offrila ad altri, ma tenersela per sé concependo in tal modo il primo senso di democrazia. Paragrafo questo molto di sfuggita, ma interessante da approfondire. Diventa criptico, agisce di nascosto e guardingo l’ebreo non più ebreo, ma nemmeno cristiano. Non manifesta in pubblico, e spesso anche in privato, tranne che in presenza di persone di sicurissima omertà, le proprie angosce religiose. Diventa di una doppiezza etico - religiosa che connoterà nei secoli il marrano e il marranismo. Il marrano ci dice la Di Cesare fu “l’altro all’interno” o meglio “l’altro dell’altro”. E cioè che pure essendo ebreo non era ebreo, così come dai cristiani non era considerato cristiano, quantunque egli si impegnasse ad esserlo. Ciò li condanna, dice la Di Cesare, alla dualità che porta quegli ebrei, spesso, a dimenticare i riti e le preghiere della primigenia religione. Così come non fu mai creduto fervente cattolico, anche se di fatto spesso lo era. Condannato a vita e nei secoli. Vive costantemente nella paura del tradimento, nella paura dell’altro e di se stesso; forgiando nei secoli una figura di persona opaca, nascosta sotto i suoi stessi panni, strisciante lungo le strade e mai deciso ad affrontare la vita a viso aperto. Diventa come dice la Di Cesare: vigile perché proviene dal sospetto. Impara l’introspezione che lo condurrà ad essere un politico essenzialmente. Ma, ci racconta nel suo saggio la Di Cesare, per effetto di tutta la sua millenaria sofferenza, il marrano diventa e resta anarchiviabile. La lettura del testo ci pone dei quesiti di un certo rilievo anche alla luce dei fatti storico-politici dell’ebraismo odierno. Ci sono e chi sono i Marrani di oggi? Cos’è il marranismo nel contesto del XXI secolo? Il ricordo del passato vive e resiste ancora e resisterà anche nel futuro? Il ricordo deve esistere come contrasto all’oblio in vista di un
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fine di giustizia? È la disperata anacronia marranica, che si porta fino ad oggi con l’ebraicità attuale, che porta alla pratica di una disperata resistenza al tempo “del Calendario Dominante”? È la dualità, il sospetto, la mancanza di fiducia acquisita nei secoli che definisce il comportamento attuale degli ebrei nei confronti degli arabi palestinesi? O è anche da parte loro una sorta di marranismo nei confronti del diverso che si cerca di assoggettare, come lo fu per loro, obbligandoli a convertirsi al loro credo, non tanto religioso, quanto politico-sociale, togliendogli la terra e ogni altra identità? Non dovrebbe chi nei secoli ha vissuto e stratificato terribili esperienze, capire e “andare verso”, in aiuto di chi oggi vive il disagio di sentirsi cacciato, marranizzato? Le 100 pagine di Donatella di Cesare, con una interessante appendice per ulteriori approfondimenti, aprono come si può capire, una riflessione ampia non tanto e solo sui fatti storici ormai inamovibili, quanto su fatti che dovrebbero essenzialmente portarci, con la nostra “democratica modernità”, verso soluzioni comuni e condivise: facendo a meno delle armi. Se così non avviene ancora oggi che siamo proiettati nel terzo millennio, allora non dico di non parlarne, ma comunque non sappiamo di cosa stiamo parlando, e che la storia infondo non ci ha insegnato assolutamente nulla. Salvatore D’Ambrosio DONATELLA DI CESARE: MARRANI - L’altro dell’altro - Einaudi-2018
BELVEDERE Una formica sul mio piede immobile Indifferente al mio invito rifiuta di scendere nell’erba Con vista panoramica sul giardino essa prende il sole Béatrice Gaudy Parigi, Francia Dalla raccolta inedita Sous le vol du verdier
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CLAUDIO MONTEVERDI E UN NUOVO ULISSE TRA LE VIE DELLA TEBE PALLADIANA di Ilia Pedrina
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ER Conversazioni 2018 al Teatro Olimpico di Vicenza, Margherita Dalla Vecchia mostra il suo stile nell'abitare gli spazi palladiani: organizza e realizza con pieno successo, come direttore dell'Orchestra barocca Il Teatro Armonico e maestro al cembalo, al fianco di Deda Cristina Colonna, creatrice della mise en éspace tra le vie della Tebe olimpica, IL RITORNO DI ULISSE IN PATRIA-SV 325, la prima opera veneziana di Claudio Monteverdi (1567-1643), composta per il Carnevale del 1640, con prima esecuzione a Venezia, al Teatro San Giovanni e Paolo su libretto di Giacomo Badoaro, che parte da Omero (Odissea, Libri XIII-XIV) e ne fa scaturire un testo poeticamente ispirato. Carattere non virtuale il porre in apertura all'opera la personificazione di elementi destinali interpretati musicalmente e sorretti da illuminate anticipazioni creative assai originali: l'Humana fragilità (A. Miguelez Rouco contralto), il Tempo (G. Florian -basso), la Fortuna (T. Tommasi-soprano), l'Amore (C. Graziadei- soprano), quasi a creare, nel procedere estensivo di questa 'tragedia a lieto fine in un prologo e tre atti', un clima antico rivisitato con gocce d'ironica consapevolezza. Quattro divinità, Giove (E. D'Anguanno tenore), Giunone (C. Baggio -soprano), Minerva (Jimin Oh -soprano), Nettuno (J. Coca Loza -basso) si dibattono, protese a gestire gli eventi e, al loro interno, i protagonisti del mito e della storia. Riporto dal piccolo programma di sala: “… La motivazione gli viene fornita dall'amico Giacomo Badoaro... il quale scrive una lettera al compositore proponendogli questo testo, scritto proprio per attirarlo a riprendere la composizione di opere e stimolare la sua immaginazione superando così il lungo pensionamento da questo genere. Scrive Badoaro: 'Al molt'ill.re Claudio
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Monte Verde […] che ha fatto conoscere al mondo qual sia il vero spirito della musica teatrale [...]che nel calore degl'affetti vi è gran differenza da un sol vero a un sol dipinto'. Badoaro si riferiva alla ormai nota abilità del compositore di commuovere il pubblico con le tanto espressive rappresentazioni delle emozioni umane e sapeva di aver prodotto un libretto di grande valore per il suo amico... Più di ogni altra opera monteverdiana qui risorge il potere drammatico della tragedia antica. Così questa esecuzione nel Teatro Olimpico, costruito nel Rinascimento proprio per la ripresa del dramma classico, non potrebbe essere più adeguato per rappresentare quest'opera”. Sono parole di Ellen Rosand, nota musicologa americana, docente emerita alla Yale University tra il1992 e il 2014, ben addentro a Monteverdi, perché esperta di musica e cultura veneziana del Seicento. Undici i protagonisti che incarnano l'umana fragilità e che presentano ironici e talora sofferti risvolti nella ricerca di una pace, che sia anche patria stabile perché territorio degli affetti. Su tutti risalta Ulisse (F. Zanasi -tenore), che carica ogni suo intervento di appassionate modulazioni in difficile dissonanza, come intende sottolineare la partitura, quando le emozioni tendono al massimo le corde della mente e del cuore, mentre Penelope (M. De Liso mezzosoprano) coglie devotamente nel suo grembo canoro il personaggio e ne offre modulazioni originali, raccolte e decise ad un tempo, là dove narrazione e musica trovano accenti di sintesi d'effetto sapiente, assicurato. Nella tensione condivisa con il vecchio mendicante, ora rivelatosi come suo padre, Telemaco (E. D'Aguanno-tenore) mostra di sapersi sdoppiare tra il giovane d'Itaca ed il capo di tutti gli dei, Giove, rendendo al meglio le espressioni armoniche che costituiscono questo suo giovane profilo. I protagonisti minori, come Ericlea, Eumete, Melanto, Eurimaco, Iro, Antinoo, Pisandro, Anfinomo, sono adeguatamente messi in rilievo nella partitura di quest'opera stupenda perché matura, densa d'orgoglio e di competenza tecnica ideativa che ha fornito nutrimento a schiere di compo-
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sitori a lui successivi. Monteverdi si lascia conquistare dall'amico librettista: ne emerge un'analisi della situazione classica, tra guerre provocate con l'inganno, distruzioni ed eccidi resi possibili e programmati da volontà che qui si dibattono su piani altri rispetto al reale onde creare lontananze tra l'Olimpo e il Mondo, con al centro l'Ulisse come uomo del Rinascimento, che viaggia, esplora, attualizza il passato attraverso l'arte scenica e la musica che l'intelletto muove verso inesplorati approdi: Monteverdi chiede a strumenti e voci di assecondare le sue emozioni più ardite, nuove ed antichissime ad un tempo, quali il desiderio d'amore nell'ansia del ritorno e nell'aspettativa di respirare i familiari affetti; i moti violenti del sopruso e della prevaricazione associati a quelli della vendetta e del ripristino della legalità; il riconoscimento dell' identità attraversata dal tempo, quando i volti cambiano ma le emozioni stratificano stabili trame, ineludibili. Assecondato dal testo, Monteverdi, dopo anni di attività come maestro di cappella a San Marco fin dal 1613, in quest'Ulisse fa emergere per ogni interprete vocalità d'altissima resa, giocati su semitoni che si susseguono, difficili, quasi ad inarcare nel vocalizzo stesso l'espressione a vincoli monotonali: su tutto scelgo un momento leggero, minore, ma non meno ardito, intenso di questo capolavoro, da interiorizzare nel doppio aspetto della musica-poesia, che tratta d'amore fugace nel duetto tra Melanto ed Eurimaco, 'Melanto - Duri, e penosi/son gli amorosi/fieri desir./Ma alfin son cari,/se prima amari/gl'aspri martir./Chè s'arde un core, d'allegrezza è il foco,/né mai perde in amor chi compie il gioco/ Chi pria s'accende/procelle attende/da un bianco sen./Ma corseggiando/trova in amando/porto seren./Si piange pria, ma alfin la gioia ha loco,/né mai perde in amor chi compie il gioco. Eurimaco - Bella Melanto mia/graziosa Melanto,/il tuo canto è un incanto/,/il tuo volto è magia./Bella Melanto mia,/è tutto laccio in te ciò ch'altri ammaga,/ciò che laccio non è, fa tutto piaga... Melanto, Eurimaco (a due) Dolce mia vita sei,/lieto mio ben sarai,/nodo
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sì bel non si disciolga mai./' (da C. Monteverdi, 'Il ritorno di Ulisse in patria', Atto I, scena II, Libretto di Sala, Conversazioni 2018, 71° Ciclo di Spettacoli Classici, Teatro Olimpico, Vicenza). Da questi ai più alti, sublimi accenti in alternanze vocali a contrappunto che avvolgono l'opera, tutto ha una sua funzionalità artistica che permane inalterata attraverso il tempo. Un accorgimento scenico che nella sua linearità è in perfetta armonia con la struttura palladiana: un doppio semicerchio mobile ad agganci e a gradoni, su cui si muovono gli interpreti, cavee lignee progettate da A. Zocchetta e realizzate da A. Pernigotti: su di esse svetta statica la sagoma regale, riccamente ammantata, senza testa. Alla fine dell'Opera il rosso manto avvolgerà le spalle d'Ulisse, re nell'Itaca ritrovata e liberata. Ilia Pedrina
STAZIONI Stazioni illuminate le date che controllano il percorso, del treno della vita. Giornate liete, feste e compleanni, momenti di dolore: brevi fermate nel continuo andare. Calendario importante per le creature umane sulla terra, ciascuna col suo apporto dentro il grande progetto della storia. Elisabetta Di Iaconi Roma
LA PRIMA PAROLA DEL GIORNO La prima parola del giorno il vento. E se ne vanno i morti dal pensiero. IL GIORNO PIÙ LUNGO Sempre più chiare le cose. È la vecchiaia il giorno più lungo Gianni Rescigno Da: Sulla bocca del vento, Il Convivio Ed. 2013.
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ADA DE JUDICIBUS LISENA OMAGGIO A MOLFETTA di Domenico Defelice ’è stato mai autore che, in poesia o prosa, non abbia cantato la sua città o il suo paese di origine? Forse no, perché il luogo delle nostre radici rappresenta un aspetto di amore grande, a volte non meno intenso di quello verso le persone care. In entrambi i tipi di amore, però, il sentimento viscerale che si prova rischia di ottunderci, di allentare o distruggere ogni nostra sorveglianza e di scadere, così, nell’agiografico, nella sdolcinatura, nell’affettato e a volte nel ridicolo, producendo versi e prose scadentissimi e sciatti. Ciò non succede alla De Judicibus Lisena, la quale - come afferma Gianni Antonio Palumbo - “non cede mai al patetismo”. Quest’Omaggio a Molfetta ha raggiunto, nel 2017, la terza edizione; la prima è del 2002 e la seconda, con l’aggiunta di nuove poesie, di cinque anni dopo, del 2007. Non ci sono immagini da guida turistica. La città si scansiona attraverso il ricordo di persone e cose che hanno plasmato la vita dell’autrice: la mamma, il nonno, la nonna, il padre, amici, la musica, il paesaggio, il vento, il mare… Sono loro a darle volto e sostanza,
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perché le case, le strade, le piazze, in loro assenza, è come se fossero abbandonate alla polvere e alle erbacce; loro agiscono, vivono, condizionano; la città è il frutto del male e del bene dei suoi abitanti, delle loro azioni e degli avvenimenti. Ciascuno le dà una immagine a sua somiglianza con l’attualità della vita quotidiana scandita istante per istante. Elementi tutti vivi, tanto è vero che, nei vicoli, “arioso è il respiro della pietra”. Ciò non vuol dire che la città non sia anche paesaggio e scogli monumentali “che emergono da sospiri di coscienza./Scogli in enigmi di mare,/protesi al loro sole” e campagna che, quando non vivono da soli, fissano certezze e divengono pietre miliari di un perenne cammino. La città è ricordo e relazioni, sicché anche avvenimenti esteriori e lontani, investendo ed emozionando chi ci vive, la impregnano e la sostanziano come se fossero propri. C’è, quindi, nella città della De Judicibus Lisena, una continua metamorfosi tra creature umane, luoghi e cose; anzi, un entrare e un uscire dall’ambiente e dalle cose con reciproca osmosi, scambi continui che Gianni Antonio Palumbo definisce “l’ecumene degli esseri”, sicché “Natura è la poetessa stessa”. Così, se storia di Molfetta è da considerarsi, essa è fatta di tasselli sciorinati e da ricollocare, di attualità innestata al passato e di un interno, di un intimo perennemente proiettato verso l’esterno, gli altri, il futuro e viceversa. La Molfetta che ci viene adombrata, infatti, è di continuo fermentata da voci e avvenimenti che giungono dall’altrove, non dal suo centro. È dall’esterno che la De Judicibus Lisena la guarda, da una casa nel verde, “Nella conca silenziosa degli ulivi” - forse non la villa in cui lei adesso abita -, da una “campagna/che sommessa (la) accoglie” e che seduce “la vicina città,/le pallide case”. Lì, in quella campagna e a quella casa convergono i venti, il mare e le sue onde, mare che rappresenta - confessa la poetessa - “La mia estate”, mare “laggiù alla cala/abbraccio di scogliera”, mare a volte rinnegato: “Poi la
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campagna mi prese/mi avvolse come un mallo./E la ragazza-onda/che ancora mi oscilla dentro/rimpiange l’incanto antico,/l’amore quasi tradito/oggi quasi rimorso”. In quei luoghi arrivano i tanti fascini e i tanti richiami del mondo; tutto, lì, sosta e si sostanzia, impregna di sé umanità e cose, per poi ripartire, “Nomade, ambiguo./Come un amore segreto/che mi venga a trovare/mi avvolga e turbi/poi mi debba lasciare”. Ombelico del mondo, quindi, e piattaforma d’atterraggio (i ricordi) e di lancio. Quel verde e quella casa sono, per la poetessa, la siepe leopardiana, attraverso cui si aprono vastità e il canto del “potatore di ulivi” si dilata, esce dal contingente, sale “sul fumo di frasche” e si smaga in “ansia di spazio”. Un esterno fiume che trascina feste, la guerra con i suoi orrori e i suoi drammi (“…il figlio più giovane,/soldato in un sommergibile/sul mare, chissà dove…”), i familiari tutti in onde di continui flash back; un fiume che lambisce il cimitero dove i morti dormono placati sotto i verdi alberi. È tema ricorrente quello della città vista dal di fuori, da lontano, da una casa con “La veranda protesa sugli ulivi”, tramite la quale la poetessa “Navi(ga) un mare d’alberi”: “All’orizzonte lontano/scintilla il mare/…e ville e ponti e sentieri,/la chiara città, la ferrovia,/vigneti e margini di pietra,/a distanza l’argento degli ulivi…”; “Silenziosi i brividi dei treni illuminati/e i fuochi che sciamano/da una festa della città vicina”…. Le vecchie case si animano di suoni e di spiriti dalla voce dialettale; di bracieri ardenti; di madie colme d’odoroso impasto; “di arcolai/risate rosari/gemiti di dolore più indifeso./Tutto ciò che è memoria/tutto ciò che è passato/mi appartiene - dice la poetessa -: in altissima spirale/qui a me torna/un antico palpitare di vita,/pulviscolo brusio/di esistenze infinite./Vecchie case,/vene di un lunghissimo/ormai spento fluire,/onde di un umbratile respiro,/case imbevute di grigiore/ trasognate nel respiro del tempo,/pensosa tenerezza/del nostro destino”. Omaggio a Molfetta è poesia anche degli alberi. Non ne facciamo l’elenco, ma il più
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presente è l’ulivo, metaforizzato e metamorfizzato. Attraverso la sua immagine si aprono e vivono figure quasi mitiche, ne vengono introitate o almeno sfiorate tante, compresi genitori e nonni, tutti, comunque, continuano a rimanere dei “mondi segreti”. E poi c’è il fico con il suo deliziosissimo frutto, forse, nell’Eden, il vero oggetto del peccato di Eva: “Fioroni, turgidi fiori,/la mia gente vi chiama colombi,/verdi colombelle dal dolcissimo seno/messaggere di calde giornate”. Altri emblemi del territorio sono le pesche piccole e “gialle come l’arsura”, “l’arancio (che) s’ illumina,/il gelsomino d’inverno”, il mandorlo, il fico d’india… Figura che rimane particolarmente impressa è Corrado, che ha fatto il marinaio sognando la campagna e che, dopo aver lasciato le petroliere, cura con grande amore la villa dell’ autrice. La campagna è dominante e da essa salgono e si diffondono profumi: della zagara, del gelsomino, della mimosa, de “Le rose/di un volubile dicembre”, dei “papaveri/come festa di bandiere”. Il contrasto tra questo interno e l’esterno è molto forte. La tentazione sarebbe di chiudersi a tutto, serrarsi dietro il cancello della villa e “gettare la chiave”. La poetessa, però, non ce la fa a fingersi sorda, a non recepire e non dar voce ai tanti avvenimenti che premono da ogni parte, a tutti i dolori del mondo. Non può non pensare all’indifferenza dei più, che, al massimo, di tanto in tanto, sono investiti da una “commozione sterile”, sicché gli animali ci danno lezione, dimostrandosi più “umani” di noi: “se un cane piange/guaiscono tutti i cani in catene”. Di questa sua intensa partecipazione trattano, in particolare, le nove poesie di “Sangue ancora sangue”, ma non solo quelle. C’è, ancora, nella poesia di Ada De Judicibus Lisena, l’ invettiva civile, che troviamo, in particolare, nel gruppo intitolato “Un amore amaro”. Domenico Defelice Ada De Judicibus Lisena - OMAGGIO A MOLFETTA Nel centenario dell’Università popolare molfettese - Terza Edizione, Edizioni La Nuova Mezzina, Molfetta, 2017 - Pagg. 212, s. i. p.
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PASQUALE BALESTRIERE:
ASSAGGI CRITICI di Elio Andriuoli
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OETA di limpida vena, Pasquale Balestriere è anche un fine saggista, come dimostrano questi suoi Assaggi critici, apparsi presso la Genesi di Torino nel maggio 2018. Il libro si apre con un ampio saggio su Quinto Orazio Flacco, che abbraccia l’intera sua opera, con una particolare attenzione per le Satire e per le Odi, nelle quali questo poeta diede il meglio di sé. Balestriere nota come in Orazio sia dominante il pensiero della morte, accanto a quello dell’amore, con il quale compiutamente si fonde: “Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi / finem di dederint, Leuconoe…” (Non indagare – è vietato saperlo! – quale termine di vita gli dei abbiano assegnato a me, quale a te, o Leuconoe…”). E si tratta di un pensiero – quello della morte – che il poeta placa cercando di cogliere l’attimo fuggente (“carpe diem”) e conducendo una vita equilibrata, dedita ai piaceri della mensa (“vina liques”) e con il conforto del sentimento dell’amicizia, altamente intesa, come quella che lo legò a Virgilio, Tibullo, Mecenate. Nota Balestriere come “Il convito e la donna costituiscano per Orazio due momenti
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di vita fondamentali, perché spesso risolutori, sia pure temporaneamente, di stati d’ animo angosciosi”. E invero molte furono le donne amate da Orazio, da Lidia a Cloe, da Glicera a Lalage (che “parla e sorride dolcemente”), ma a nessuna di esse egli si legò in maniera indissolubile, essendo geloso della propria libertà. Ebbe forte il senso della misura e una “risentita moralità”, che confluirono in una poesia complessa, nella quale hanno notevole rilievo la dottrina stoica e quella epicurea, armonizzate però da un “bonario e sorridente scetticismo”. Orazio fu certamente un grande poeta, per la sua capacità di condensare in pochi versi la commedia (e la tragedia) umana, con parole che per la loro incisività permangono nella memoria di chi le ha lette anche una volta soltanto. Balestriere si è poi occupato de L’orfismo di Dino Campana, con un saggio nel quale fa riferimento al culto misterico, di cui si trova traccia in Pindaro, Empedocle e Platone. Egli mette bene in luce lo stretto legame che c’è in Campana tra “vita e poesia, quotidianità ed estasi, serenità e pazzia”, che “si fondono senza soluzione di continuità”, rilevando inoltre come la sua sia una poesia “visionaria”, attraversata da “un guizzo d’ umanità inquieta” e da “folgorazioni improvvise”. Segue uno studio su La scrittura poetica di Giorgio Bárberi Squarotti, nel quale si evidenziano le doti di comunicatività e di naturalezza di questo autore (che è anche un insigne critico), la cui poesia è dotata di un “grande spessore culturale e di acutissima e affinata sensibilità”. Da essa emerge inoltre “l’amara coscienza della vanità della storia” che è “sottesa ad ogni … momento creativo” e nella quale “la figura femminile sembra incarnare il momento centrale dell’ avventura poetica”. Vengono poi alcuni scritti su Paolo Ruffilli, che prendono in esame i libri Affari di cuore (in cui ci troviamo di fronte a “un’anatomia dell’amore pervicacemente
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indagato … attraverso un’esplorazione che si configura come una vera e propria descensio ad inferos”) e Natura morta (dove troviamo un “dettato antilirico, con radicamenti filosofici nel pensiero antico e moderno”); Un’altra vita (nel quale l’autore dimostra di saper dominare “la materia narrativa con saggezza e sagacia di scrittura, creando atmosfere a volte quasi incantate”) e L’isola e il sogno (un romanzo che tratta degli ultimi giorni di vita di Ippolito Nievo, il quale morì nel naufragio dell’Ercole, una nave che s’inabissò al largo dell’isola d’Ischia nella fase ancora viva dell’Epopea Garibaldina). Notevole è qui “la bravura del narratore nella splendida rappresentazione dell’incalzare della tempesta e del precipitare della situazione”. Per amore, solo per amore, di Pasquale Festa Campanile (vincitore del Premio Campiello 1984), un romanzo il cui protagonista è San Giuseppe, padre putativo di Gesù, viene invece valutato negativamente da Balestriere, perché in esso “il processo di umanizzazione dei personaggi “è condotto con mano incerta, con eccessive concessioni a tinte forti e plebee” e con “evidenti cadute di stile”. Dell’anima e del cuore di Maria Ebe Argenti, narra in limpidi versi l’esperienza di una malattia che le ha fatto attraversare il tunnel dello smarrimento e dello sconforto, sino a pervenire al “riacquisto graduale della serenità”. Di questo libro si occupa Pasquale Balestriere, con un’indagine molto convincente. Egli passa poi a parlare del poemetto di Carla Baroni Rose di luce, che ha per protagonista un vecchio, ricoverato in un ospedale, che “intreccia un dialogo con la morte”, servendosi di un linguaggio permeato da un’alta tensione metafisica e profondamente umano. S’incontrano poi nel libro di Balestriere una Nota su Ver sacrum un libro di Franco Campegiani, che rievoca le migrazioni di giovani dalle città italiche, allo scopo di formare nuove colonie, filiazioni della madrepatria; una Lettura di Dove l’erba trasuda
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narcisi, di Giannicola Ceccarossi, una silloge poetica nella quale “l’afflato religioso … s’annida in ogni verso” e la lettura di La luce o del gioco delle memorie di Umberto Cerio, in cui “la luce, scoperta, inseguita, afferrata, posseduta … rappresenta l’ aspirazione della condizione umana” a sconfiggere le tenebre della morte. Vengono successivamente uno scritto su Nazario Pardini poeta, studiato attraverso il suo libro Alla volta di Leucade, opera di “alto nitore formale”, che ci dà l’esatta misura delle notevoli doti espressive di questo autore; e una Nota su Pardini lettore ed esegeta, quale emerge dalla prefazione di Balerstriere al volume Lettura di Autori contemporanei dello stesso Pardini. Ecco poi un’altra Nota di lettura a Un sogno che sosta di Gianni Rescigno, poeta di “forte espressività” e di “prorompente interiorità”; uno scritto su Le effemeridi di Serena Siniscalco, poetessa milanese che traduce la vita in versi, attingendo dal quotidiano con genuina sensibilità; un commento a Oltre lo smeriglio, compiuta silloge di Antonio Spagnuolo, nella quale questo poeta stabilisce un colloquio con l’Oltre per ritrovare la sua Euridice, la moglie da non molto scomparsa; la Postfazione a Inventario di settembre di Umberto Vicaretti, una raccolta di poesie nella quale la vita è cantata in tutto il suo “drammatico e inconfutabile splendore”. Chiudono il libro uno scritto su L’accento nella traslitterazione del greco antico, una questione di corretta pronuncia e un saggio Sulla poesia nel quale Balestriere perviene alla conclusione che la poesia “deve innanzi tutto emozionare attraverso un processo di svelamento di una realtà «altra» … che si manifesta agli occhi meravigliati e commossi del lettore per mezzo della capacità rivelatrice della parola”. Un libro di notevole pregio questi Assaggi critici di Pasquale Balestriere, che si fa notare per l’interesse degli argomenti trattati e per l’efficacia con la quale l’autore li espone. Elio Andriuoli PASQUALE BALESTRIERE: Assaggi critici Genesi Editrice, Torino, 2018, € 10,00
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L’INQUIETUDINE DELLA BELLEZZA di Manuela Mazzola
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INO a qualche decennio fa, in molte case italiane, si poteva trovare il dipinto di Madame Rimsky-Korsakov. Da bambina, anche io, avevo questo piccolo quadro che era della mia bisnonna. Lo guardavo con occhi incantati: era una donna bellissima, il suo abito era meraviglioso ed i suoi occhi erano velati da un'inquietudine che mi affascinava. Ero molto curiosa di conoscere la sua vita. Finalmente l'occasione mi è stata fornita dal libro di Andrea Biscàro che ha tracciato un quadro completo di Varvara Rimsky-Korsakov e lo ha fatto attraverso l'incrocio di diverse fonti: giornali, lettere, libri, testi dell'epoca scritti da conoscenti ed amici della nostra protagonista. E, grazie all'aiuto di una grafologa, ha analizzato la personalità di Varvara mediante la sua grafia. Biscàro con una scrittura precisa ed attenta, aderente alle fonti, ci regala un ritratto narrativo di una delle più affascinanti figure femminili di tutti i tempi. Questo qui soto è il dipinto che si trova a Parigi al Musée d'Orsay, ed è di F. X. Winterhalter (Parigi, 1864).
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Varvara Dmitrievna Mergasov nacque a Varsavia il primo febbraio 1833, rimase orfana molto presto e fu cresciuta dalla nonna, circondata da mille attenzioni. Ebbe un'ottima istruzione: lesse tutto quello che poteva leggere, in russo, in inglese, in tedesco ed anche in italiano. Amava il ricamo, la musica ed il canto. Era una ragazza molto bella, alta e slanciata, aveva un innato fascino, il suo corpo era flessibile ed aggraziato. Apprezzava la mondanità ed era sempre al centro dell'attenzione. Sposò Nikolaj Sergeevic e proprio insieme a lui ispirò Lev Tolstoj in Anna Karenina. Tolstoj nel suo romanzo, accanto alla protagonista Anna, raccontò anche di Varvara e Nikolaj, cambiando il loro cognome in Korsunskij. La coppia amava la vita di società ed “Erano visti insieme regolarmente ai balli, frequentavano i migliori saloni e andavano molto d'accordo”.[...] “Questa infatti è una storia dove la musica e il ballo rappresentano una plateale espressione del desiderio al suo culmine”[...]Il ballo è il ritmo della vita!”. Però, purtroppo, forse per colpa della spregiudicatezza e l'indipendenza a cui anelava Madame Korsakov, la coppia si divide. Sta di fatto che lei con il suo amante lasciano la Russia e si stabiliscono a Parigi. La città era il tempio della moda, dei salotti, dello sfoggio della superficialità e degli amanti. La nostra protagonista si trova benissimo in Francia, mette in mostra la sua classe, la sua bellezza attraverso vestiti, gioielli e l'intreccio sapiente di opportune relazioni sociali. “A Parigi, si ride degli dei, dei re, dell'amore, si ride del gusto, si ride delle illusioni, si ride persino quando si soffre, e quello che non si accetta è la serietà, e tutti hanno la pretesa d'averla”. Varvara incantò il mondo parigino, ebbe un successo travolgente, venivano pubblicati articoli su di lei, sui suoi abiti e gioielli. Molti si innamorarono di lei, tanto che la chiamarono “Venere Tartara”. Ma dai documenti che ci sono giunti, emerge anche una sensibilità e forse un'inquietudine che nasce da una società che non tratta le donne nello stesso modo in cui considera in-
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vece gli uomini. “Come si sbagliano su quasi tutte le donne! - scrisse -. Ben poche sono giudicate secondo il loro carattere e apprezzate per i loro meriti. […] Le si accusa, le si assolve non secondo la loro effettiva condotta, ma in base alle apparenze! Le si invidia, le si biasima; le si misconosce sempre...”. La società del Secondo Impero era una società in trasformazione, le donne dell'epoca con i loro modi di comportarsi anticipavano la cosiddetta “emancipazione femminile” e Varvara, forse, cercava la sua. In Russia, però, il modello della famiglia era patriarcale: i figli erano sottomessi ai genitori e la moglie al marito, non solo, l'adulterio maschile diventava quasi motivo di vanto, quello femminile, se avveniva, doveva essere taciuto. Per una donna come Madame Korsakov, vissuta da sempre nel lusso e nella piena libertà, rimaneva difficile accettare queste limitazioni. La sua cultura, la sua vena artistica, in qualche modo dovevano essere lasciate libere di esprimersi. Da quando si stabilì a Parigi visse con estrema leggerezza, al centro del mondo, dettando le leggi della moda. Ammaliò molti uomini che le dedicarono poesie, quadri, pagine di giornali. Essere desiderata per lei era fonte di vita: “Io sogno, leggo, penso, scrivo, faccio passeggiate sia a cavallo che a piedi; sono amata, credo di avere degli amici. [...] in una parola, sono felice; è una vera felicità, posso dirlo senza esitazioni”. Da tutti gli scritti analizzati dall'autore, dall'esame della grafologa, risulta nell'animo della protagonista un vuoto esistenziale, un forte bisogno di esternare le proprie emozioni, con la pretesa che gli altri debbano ascoltare per forza; una personalità inflessibile, non c'è capacità di adattarsi alle circostanze. Ogni suo pensiero diventa un capriccio che deve essere assecondato e con la sua capacità di ammaliare e di affascinare ci riesce. “Madame Korsakov fu sempre generosa con la stampa: diede loro ciò che entrambi volevano, ossia visibilità per lei e notizie speziate per loro. Una collaborazione non pianificata, ma istintiva”. Era una donna in continua ricerca, forse con
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la speranza di riempire un vuoto dell'anima, forse dovuto all'incapacità di adattarsi alla società dell'epoca, che non ha saputo saziare la sua curiosità, una curiosità che nasce da una cultura e da una intelligenza particolari. Una donna forse che non riusciva mai a sentirsi appagata completamente. “In quella donna c'era qualcosa di ardente, passionale, che non trovava via d'uscita, ma talvolta prorompeva sotto forma d'una bizzarra mascherata”. Quell'inquietudine che velava i suoi occhi, però la rese affascinante, accattivante e nello stesso tempo ammaliante agli occhi del mondo a lei contemporaneo, ma anche a tutti quelli che si ritrovano, nel corso del tempo e delle generazioni, davanti al suo dipinto a Parigi. Manuela Mazzola Andrea Biscàro - L'amante di se stessa. Vita di Madame Rimsky-Korsakov - Graphe.it ,2018 - Pagg. 176, € 15,00
Intervista a cura di Manuela Mazzola ad
ANDREA BISCÀRO L'autore del saggio biografico è uno scrittore e ricercatore indipendente, ha collaborato con il mensile “Storia in Rete” e collabora con il “Civico20 News. La rivista online di Torino”. Ha curato inchieste sul caso Moro, Girolimoni, Diabolich; ha tracciato profili biografici di Cléo de Mérode, Evelyn Nesbit, Sherry Britton, Pamela Moore, Emilie Hogqvist, Suzy Solidor e Carolyn Jones. E' autore di :“Buffalo Bill è arrivato a Torino”, Neos, 2011; “Il Maciste di Porta Pila. Storie di immigrati e del Re Maurizio”, Neos, 2013; “Strada Facendo, ricordando il commissario Montesano”, Daniela Piazza Editore, 2016. Come è nata in lei la voglia di scrivere? Su quali autori si è formato? La “voglia di scrivere” non nasce come desiderio o passione. È una necessità, radicata in me sin dall’adolescenza. Ritengo non si abbia voglia quanto bisogno di scrivere. Sin da ra-
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gazzo mi sono accostato al mondo di F. S. Fitzgerald, a quello sociale di Steinbeck, Erskine Caldwell, Betty Smith. In cima alla lista, la letteratura francese e lei, Françoise Sagan, il mio riferimento letterario per eccellenza. Indimenticabili le notti (leggere di notte è sublime) trascorse con Françoise Mallet-Joris, Simome De Beauvoir, Michèle Perrein, Violette Leduc, Raymond Radiguet, CharlesLouis Philippe. È un fascio di carne ed anima che vive e si fa amare, ogni volta che riapro quei capolavori. Per quale motivo ha scritto un libro su Madame Rimsky-Korsakov? L’ho “incontrata” nell’estate del 1996, a Parigi. Entro al Musée d’Orsay e mi imbatto nel suo ritratto. Non so nulla di lei. Me ne innamoro. Passano gli anni, scrivo, curo inchieste per il mensile “Storia in Rete” e vado spesso al Musée d’Orsay, anche per rivedere Madame, come sono solito chiamarla. Quattro anni fa ho deciso: dovevo saperne di più. Da lì è iniziata la mia ricerca. Può spiegare ai lettori il perché di questo titolo, “L'amante di se stessa”? Perché Madame Rimsky-Korsakov si voleva bene, possedeva una buona dose di autostima. In un archivio francese ho rintracciato una sua lettera scritta a Théophile Gautier. Al fine di entrare quanto più possibile nel lato umano di Madame, ho fatto analizzare lo scritto dalla dottoressa Lidia Fogarolo, eccellente grafologa. Il risultato, associato al frutto delle mie ricerche convenzionali, mi ha permesso di sfilare la maschera dal volto di questa contraddittoria e affascinante donna. Madame è una persona che, per indole e comportamento, seduce e attrae e lo fa generando stupore, mai smarrimento e condanna, rimanendo in equilibrio tra i costumi del suo tempo. La figura di Madame Rimsky-Korsakov potrebbe essere paragonata ad una donna moderna, se sì per quale motivo? Non saprei. Piace alle donne del nostro tempo. Diverse mi hanno scritto in tal senso, sul-
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la mia pagina Facebook di scrittore e in privato. Madame era una creatura mondana, amante dell’apparire, della moda, al contempo legata al suo lato culturale. Sposata, con tre figli. La storia col marito non funziona: si separano senza traumi. Coi figli va a Parigi, il marito rimane in Russia e i loro rapporti rimarranno affettuosi. Ha un amante senza dare scandalo. Ritengo che nel relazionarsi con gli uomini fosse più dominante che dominata. Che dire: moderna? Per dirla con Victor Hugo, “è quel mare che ho dentro che mi crea forti tempeste”. Ieri come oggi, oggi come ieri… La biografia di Madame Korsakov è il risultato di un lavoro attento e minuzioso. Ha effettuato una ricerca su giornali dell'epoca, libri, lettere autentiche della protagonista, su cui, poi, è stata fatto un'esame di grafologia. Quanto tempo ha impiegato nella ricerca? E' soddisfatto del suo lavoro? La biografia è frutto di una complessa ricerca negli archivi informatici della Biblioteca Nazionale di Francia, Istituto di Francia, Sorbona, Nizza. Non solo: ho trovato materiale anche nella mia città, Torino, presso la Biblioteca del Museo del Risorgimento. Dalle prime ricerche alla correzione delle bozze con l’editore, circa tre anni di lavoro. Sono estremamente soddisfatto. Il libro è curato nel suo insieme, a partire dalla copertina, frutto della sensibilità del mio editore, Roberto Russo. Il libro è stato pubblicato dalla casa editrice Graphe.it, come è avvenuto il vostro incontro? In maniera curiosa: faccio fare la perizia grafologica della lettera di Madame alla dottoressa Fogarolo. Diventiamo amici, le parlo del libro che sto scrivendo, lo legge, le piace, in breve conosco il suo editore ed è fatta. Il libro piace anche a lui e insieme iniziamo questa avventura. In questo momento storico come vede il rapporto tra letteratura ed editoria?
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Direi che l’editoria dovrebbe essere a servizio della letteratura, ma al giorno d’oggi sembra essere più attenta all’hic et nunc: pertanto, non di rado si tende a puntare sul “fenomeno” che vende tanto e subito (vedasi i libri sugli/degli Youtubers) più che sul testo letterario. Ma il tempo è gran signore e alla fine quel che resta è la letteratura… Tutti i suoi lavori si basano sulla ricerca e lo studio di fatti realmente accaduti. Pensa in futuro di scrivere un romanzo di fantasia? In effetti, amo la realtà, ventaglio di emozioni, sensazioni, contraddittorietà uniche. Ad una presentazione del libro di Madame, una lettrice mi avvicina, dicendomi, con garbo: “perché non prova a scrivere qualcosa di suo?”. Vi è la sensazione che la saggistica non appartenga all’anima del suo autore. Non è così. In ogni mio libro c’è molto di me, eccome! Non so se in futuro scriverò un romanzo, dei racconti. Non mi pongo la domanda. Seguo unicamente l’onda interiore. STATI D’ANIMO Siamo creature fragili e dolenti, col desiderio assiduo di allontanare pene esistenziali. Ricerchiamo ogni mezzo, per superare l’intimo tormento: l’abbandono alla fede, la gioia calda d’un amore vero. Stati d’animo alterni, compagni della vita di ogni giorno, in un segreto abbraccio sanno adeguarsi ai battiti del cuore. Elisabetta Di Iaconi Roma
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L’UOMO-FRUTTO Quando vespertino il vento dolcemente ha scosso l’albero un uomo ne è caduto il ventre tondo tondo come un frutto il ventre tondo da tutti i frutti appena mangiati Béatrice Gaudy Parigi, Francia
ELEGIA Il tempo scorre fra le mie dita ed io non so fermarlo. Ormai, avvolto nel silenzio, sull’omero il peso di lunghi giorni, tornerò ai sentieri dell’infanzia; anche se nuvolosa, è sempre il cielo azzurro del ricordo. Prolungherò il cammino in oltretomba in cerca di mio padre e quando parranno vere le sembianze mi legherò al braccio suo solerte. Per un attimo, scorderò d’essere stato implume in un nido pensile su ramo che dondola al vento. Poi poserò nella natia contrada ov’è intatto, nei crocicchi, il chiacchierio della mia gente e, insepolto, il cuore. GIORNO DEI SANTI Schiere beate gridavano: “Pace al mondo frenetico!” Mai tanto inermi mi apparvero i guerrieri. Rocco Cambareri Da: Versi scelti, Miano Ed., 1983.
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LA VITA CHE COSTA FATICA di Leonardo Selvaggi Luce di conforto EALTÀ e spirito, cose concrete e riflessione si intrecciano nelle poesie di Giovanni Galli. E i versi si posizionano quasi verticalmente, sono raggi che si ramificano in continua progressione. Sono un’autentica sorgente pura e danno la convinzione più assoluta che il vero mondo che nobilita l’uomo è quello che si porta dentro, rafforzato dalla fede, dalla perseveranza a superare tutte le asprezze del nostro cammino. Una volontà morale di capirsi, di considerare il prossimo con una visione sofferta della realtà. Quasi un impulso ad amalgamarsi, a trasportarsi l’uno nell’altro, a condividere gli stati di disagio per l’immediata comunione dei rapporti. I patimenti che diventano il normale nutrimento non finiscono. Calde compagne le pene, come un riparo dall’ intemperie, piene di affetto stanno accanto, sono di tutti i giorni, non le lasci quasi fossero momenti felici. La raccolta “Partigiano d’amore” si intesse di stati di sofferenza. Certamente triste sarà il momento in cui non ci sarà dato neppure il dolore in stretto rapporto con la volontà di combattere, quando il cuore compresso non avrà più quella delicata lamentevole voce, tutta vibrazione dall’interiorità tormentata. L’amore è carità per il poeta, è grande come lo spazio che ci sovrasta, come l’azzurro infinito, trincerati come si è da ogni forma di prigionia; esso fa sognare la vittoria sulla inerme materia che incatena. Ai sentimenti drammatici che trovano le radici nei più reconditi recessi della persona, agli spasmodici desideri di libertà dal dolore si accompagna costantemente la sicurezza che Dio ci guida verso la meta luminosa della salvezza. Dal sacrificio e dal sangue sparso sgorga sempre una speranza, la fatica della coerenza; non ci abbandona la voce del Signore. La preghiera non deve essere egoistica, ma rinnovo di impegno morale e impulso alla lotta per migliorare la propria vita e riaccendere la fiamma interiore.
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La fede, ancora eterna, luce di conforto. La mano piagata del Cristo rappresenta simbolo e garanzia per incamminarci sulla retta via. La sempre rinnovata sofferenza di chi ci guida a superare le angustie dei patimenti ci dona l’immancabile spiraglio. L’amore nel senso più amplificato della parola è partecipazione, desiderio fremente di uscire dal chiuso del proprio io. Il partigiano d’amore nella sua coerente e resistente militanza sa cogliere armonia e palpiti di gioia, sa entrare nell’intatta forza primigenia del creato. La sensibilità del poeta interpreta la sofferenza umana con serenità, un’autonomia personale, una sublimazione dello spirito al di sopra del particolare angusto recinto della vita di ogni giorno. Le ali dell’amore che debella l’egoismo volano verso il superamento di se stessi sempre protesi a mirare lontani orizzonti. Certamente l’animo rinvigorito può sorridere sentendosi trasfigurato, diretto alle alte mete dell’immensità. I cerchi dello spazio si amplificano per librarsi nei grandi cieli. Le poesie di Giovanni Galli costituiscono un’intensa psicologica esperienza di vita interiore e consentono immediatezza di rapporti con la realtà del mondo. Un militante della vita, forte dei principi della fede: tutti i giorni una conquista; la vita che costa fatica, ma sempre una felicità con tutti i suoi percorsi accidentati, tanto è l’attaccamento alle cose convinti della divinità dell’esistere. Torno bambino Il moderno falso progresso che nega l’esistenza di Dio, il materialismo che rende l’uomo oggetto meccanico di quest’epoca consumistica nulla fanno al poeta che grida nella piazza a tutti gli increduli la sua invincibile pienezza spirituale. “Ha sete di cielo, Signore,/ l’anima mia”. Dopo le tormentate ricerche, le delusioni di una giornata vissuta con le attese di sempre G. Galli non perde il candore innato dicendoci: “Torno bambino/ a pregar, sul far della sera,/ con mia madre accanto./ Folle in tumulto/ e aspre colpe infrango.” Non desiste dai suoi propositi di uomo
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semplice, il suo costume immutabile mostra la trasparenza di sempre. “Su rive d’ inesorabile fiume/ cercherò, fino alla morte,/ capanno di pace a mille canne./ Sfinito,/ il sottobosco pietoso/ sarà giaciglio. / affiderò a voi, morate zolle,/ misero testamento di cercatore/ senza pepite/ per comprare angoli luminosi/ da Jesus di Giudea.” Non possiamo rimanere inerti, il richiamo del divino Amore ci sollecita: dobbiamo correre a Lui, il nostro Salvatore, perché l’animo si apra ispirato dalla parola sublime. Fonte di purezza, fonte di giustizia la sua voce ci illumina come raggio presente in ogni dove. “Parli nel giorno, nelle tenebre,/ nell’aurora, nel tramonto,/ nel canto della pioggia,/ nella furia dei venti.” In simbiosi con noi è la bellezza della natura nella integra veste divina. Essa vive eternamente la luce della Provvidenza, la misteriosa, infinita armonia. L’uomo anche se preso nelle maglie del maligno, non può disperare, dice il poeta. Il dolore, lo smarrimento, la solitudine non annientano quella voce intima sottile che come nuovo sole riemerge sopra le ferite segnate dai patimenti sopportati. “Ho camminato per boschi e valli,/ senza sosta,/ tra rovi dolorosi e viscido muschio./ Ho vegliato per selve e balze/ accanto al fuoco/ gracchiar di civette,/ ululati di lupi.” Ascoltiamo ancora Giovanni Galli: “Cadaveri erranti/ parlano (ardimentosi uomini)/ credendo ruscelli le sorgenti, / rami le radici, /corpi l’ombre/ destinate alla salvezza.” “Tu sai tutto di noi./Perdona la cecità/ che non scopre/la Tua parola/nell’arsura delle nostre fucine,/ nelle arterie dei nostri villaggi.” Le passioni della carne sono tormenti, significano insoddisfazione; il piacere è fugace ha la fragilità del corpo imperfetto. Il poeta sotto la pelle delle debolezze umane ritrova resistente lo spirito che oltre le catene della monotona vita si slancia nella lucentezza dell’ aria. “Ha fame/ di candido amore/ l’insaziabile carne.” L’ansia di vivere, di correre per un viaggio ricco di fermate. Andare in altri paesi, conoscere uomini diversi, il cuore di altra gente per espandere il proprio sentimento e
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trasfondere i fremiti che vengono dai recessi più inavvertibili. L’amore è costume e sensibilità che vanno conquistati; la felicità è sempre di fronte a noi, è l’altro volto che poteva essere nostro se il passo fosse stato fatto con maggiore giudizio. Quanto più forte è il senso disperato della fine, tanto più luminosa e pronta è la speranza. In questa contrapposizione è il destino dell’uomo, la sua dignità, la perseveranza con tutti gli slanci pur di puntare all’aspra cima. G. Galli, vero partigiano d’amore in tutti i momenti, in ogni circostanza vive la gioia nelle estenuazioni del sacrificio. “L’aria fredda/ ora sferza il volto,/ nevischio turbina/ minaccioso impregna/ chiodi e corde alla parete./ Mi ha preso con sé/ la cordata laica/ fidando nel cuore montanaro/ che palpita/ sul candido ghiacciaio/ eterno di silenzi.” Quasi la drammaticità di certe situazioni fisiche e psicologiche di sofferenza aprono la mente a più profonde considerazioni: una realtà che va vissuta poiché da essa emana un interiore significato per le cose del mondo. La via dell’amore Ma soprattutto ci viene una lezione di comprensione umana e di coerenza. Mai come in certi momenti si intende l’importanza dell’ amore: una parola che si esprime sovente, ma non si sa quanta ampiezza di emozioni essa racchiude. L’amore che è luce, che porta a considerare se stessi slegati da ogni forma di egoismo. Si va per l’assoluto, vedendo la propria persona quasi senza peso, diafani, forti solo della consapevolezza spirituale. Il poeta che segue la via dell’amore si proietta con libertà nel mondo che ci circonda, vive nell’armonia con gli altri, nella straordinarietà del creato, quasi assicurandosi il contatto con Dio, anche nelle miserie terrene. Ma tanta sensibilità si ha nell’intimo, una luce particolare che fa ripiegare se stessi con meditazione sul mondo esterno. Il mondo interiore si estende a dismisura per chi lo vive. Le espressioni allegoriche che costruiscono il tessuto delle poesie creano in uno stile lapi-
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dario e nel contempo ritmico il legame tra realtà e aspirazioni. La vitalità del profondo io sempre conduce il nostro poeta ad ascoltare la voce del Salvatore: “Sulla tua via/ assetato di pace eterna.” La via di chi ama deve essere una traiettoria di sicura meta: il cammino faticoso di ogni giorno ci porti verso i bagliori che rifulgono sopra la vetta del monte. Le strade di tanti sono cosparse di violenze e di antagonismo che vedono il fratello nemico. G. Galli dice ”Spargi, Signore, sulle vie/ purezza di vero pentimento.” Lui ha vissuto giorni amari con il cuore “ebbro di battiti” in “silenzioso tormento”. Allora sa quanto preziosa è la vicinanza di qualcuno che sa sostenere le poche forze che vacillano. Il cuore si dilata e si riempie di amore solo se incontra rispondenza di dialogo, simpatia e sincronia di momenti comuni considerati. La sensibilità fa vibrare le corde più sonore. Tristezza, quando si parla in un deserto di ipocrisie, quando le persone hanno il cuore di pietra, nessuna alimentazione sentimentale. Solitudine, quando la faccia che ci sta di fronte è metallica e le forme artificiose del vivere ci portano su un binario forzato imponendo visioni limitate senza respiro e voli di fantasia. Animi mummificati, come porte chiuse lucidamente laccate, senza sguardo interiore, sepolcri imbiancati. Il nostro con la raccolta “Partigiano d’amore” lascia un messaggio che è tutto appassionato auspicio. Nella vita di oggi disamorata e piena di acrimonie, con l’assenza assoluta del prossimo e l’egoismo che raggiunge livelli parossistici, niente sincero e disinteressato accordo d’amicizia, l’uomo saggio e disponibile, ispirato da principi di rinnovato cristianesimo, abbia la volontà di azione per costruire la speranza negli animi derelitti. Si rafforzino i pochi frammenti di bene che vagano dispersi nella grande onda tempestosa con la prospettiva di un domani che ci faccia vedere più ravvicinato il cielo, risollevati da questa terra tenebrosa che ha dimenticato gli ideali, ammorbata dal malessere dell’alienazione. Leonardo Selvaggi
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Poesie di Franco Saccà TUTTO È MEMORIA Verranno gli uccelli a dissetarsi e non troveranno che pietre. Dilegueranno impazziti d’arsura fiume che ora aneli l’abbraccio del mare, il maligno suo seno. Non formano armonia le cose. Segue ognuno il suo tempo, il suo destino. E tutto è memoria: sangue che aggruma, vento. ANCHE TU Anche tu, proteso a una fede, padre mio varcavi la montagna per inchinarti alla Vergine. Oh, luna di settembre alta e tranquilla, sentieri solitari ridestati da organetti schiusi in allegria, preghiere, nenie, risate. Se dalla strada mi annunziavi il tuo ritorno, l’anima trasaliva, s’illuminava. Ha mutato il sorriso in amarezza l’effigie che mi portasti un giorno in dono. LA LUNA CHE STA PER TRAMONTARE La luna che sta per tramontare piccola s’è fatta come un cirro. Mi tornano nella mente le antiche albe che dalle veglie rincasando con i compagni estenuata così la vedevo, e i galli si udivano che spingevano il giorno. Franco Saccà Da: Domenico Defelice - Franco Saccà poeta ecologico - Ed. Pomezia-Notizie, 1980
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I POETI E LA NATURA – 85 di Luigi De Rosa
Domenico Defelice - China del 1959
“LA MORTE E IL SUD”, l'anima del paesaggio calabrese nella poesia di
Domenico Defelice
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o già parlato in precedenza, del rapporto speciale del poeta Domenico Defelice con la Natura, elemento che Defelice ha sempre considerato una componente essenziale della sua poetica, anzi, la chiave interpretativa del Mondo e dell'Universo. Nella puntata n. 2 sono gli Alberi, veri e propri personaggi “umanizzati”, a sostenere l'assunto del poeta calabrese di Anoia, mentre nella puntata n. 38 il discorso si allarga ad un piano naturalistico-letterario, con l'esaltazione del sodalizio umano e artistico che Defelice instaura e solennizza con alcuni poeti amici, vicini al suo modo di concepire la vita e il mondo. Oggi vorrei ricordare un prezioso volumetto uscito - per i tipi della Defelice Editore - a
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Roma, nel “lontano” 1971, una silloge di poesie intitolata La morte e il Sud (con traduzione a fronte in spagnolo di Nicolàs del Hierro e revisione della traduzione di Roberto Carmona) dove lo scenario particolare della Natura calabrese assurge al rango di una coprotagonista drammatica, anzi, tragica. Se nel volume Alberi? (Genesi editrice, Torino 2010), titolo volutamente col punto interrogativo a sostenere l'”umanità” degli alberi, la Natura viene descritta e agisce come una protagonista della lotta generale per la sopravvivenza, qui la Natura sembra quasi partecipare a una “mentalità” e tradizione cogente di violenza impietosa e ineludibile, contro la quale il poeta esprime la sua indignata condanna. Infatti non ci può essere in Defelice, poeta dell'amore e del rispetto per la vita, che una condanna netta e recisa della mentalità della vendetta assassina e intimidatrice, della complicità omertosa, della ferocia, che tutto possono essere definite tranne che “cristiane” o, almeno, “laiche-razionali”. Un rifiuto senza appello, ben sintetizzato dalla poesia Odio e amore che apre la raccolta ed è il manifesto autentico del poeta che manifesta il proprio dispiacere nel non poter godere appieno della sua terra d'origine, che pure tanto ama, da bravo e affettuoso figlio: “Paesi del mio Sud aridi sopra i colli, dove la morte giunge all'improvviso come un turbinìo di vento caldo! Campagne del mio Sud in voi la morte è cupa e misteriosa, o che balzi terribile dai sassi bruciati dei torrenti, o che celata insidii come una biscia in mezzo alle sterpaglie. Sud, dolce e caro mio Sud! Questo male tuo di morte mi trattiene lontano, m'avvelena l'amore che ti porto.” Soltanto amore, e soltanto nostalgia, esprime invece la lirica Il mio paese: “Il mio paese è verde
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di ulivi e di aranceti: d'estate l'acqua fresca lo disseta ed ha terra di grano. Ara piano, fratello contadino: il mio spirito è già fra queste terre ove il merlo risponde al tuo richiamo quando gela il trifoglio e il pettirosso appare in mezzo ai mirti. La mia vita randagia conosce ormai da tempo l'ansie delle tue primavere, conosce il profumo dell'autunno. Non disprezzarmi perché andai lontano: le mie ossa nutriscano la terra inaridita al canto di cicale. S'ì, ch'io viva ! Ch'io viva ancora nel muschio dei sentieri, nel pesco, nell'ulivo, nel papavero rosso dei tuoi campi.” Luigi De Rosa
BORGO Inerti gore su selciati rotti son trastullo di bimbi, e il tempo caria i muri delle case. Su piaghe d’asina sonnolenta, raduno di tafàni: tristezza di monotono soffrire! Pigrizia di sole sull’umide vie, e mamme stanche che seni disciolti concedono ai poppanti. Sosta nel tempo d’uomini e di cose, qui, dove tutto si rifà ai primordi. Francesco Fiumara Da Date anche a me l’ulivo, Ed. La Procellaria, 1954.
Recensioni MARIA DEBORA BOVENGA L’ODORE DELL’ANIMA Aletti Editore di Roma, 2004, € 13,00, pagg. 79. Non è stato facile narrare qualcosa che va al di là della dignità umana. Sono in tutto tre racconti collocati in epoche eterogenee e che proprio per questo potrebbero in apparenza non avere nulla in comune; invece, il lettore capirà che l’autrice ha sparso in essi sementi originari della stessa specie. In primo luogo il senso della giustizia ammanta ognuno di essi (racconti) come si trattasse del pesante tessuto di uno stendardo però calato dall’asta, giacché i protagonisti e/o i personaggi secondari, non assaporano il lieto fine: così per il barone Guillaume di Montignàc del 1566; per il nucleo restante della famiglia Guier del 1759 e per il professor Gabriel che insegnava Filosofia del diritto alla facoltà di Giurisprudenza a Buenos Aires nel 1979, al tempo della reale dittatura militare che durò dal 1976 al 1982. Maria Debora Bovenga si è cimentata nel campo letterario esternando parte del suo bagaglio culturale inerente la Giurisprudenza, dato che si è laureata a pieni voti in quest’area della dottrina universitaria. Lo stesso volume presenta in chiusura la motivazione riguardante il sostentamento dell’ associazione “Nessuno tocchi Caino” – per l’eliminazione della pena di morte nel mondo e delle torture –, con parte del ricavato della vendita dell’opera. Lei è una donna versatile, ha attraversato campi svariati dell’ Arte tra il teatro e la pittura su tela – presumibilmente prima della sua laurea – ma soprattutto si è dimostrata sensibile interprete dei dolori dell’uomo
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a livello universale, il quale da solo non può comprendere le smisuratezze delle illegalità che ancora oggi imperversano ovunque. Allora, coraggiosamente, oltre a svolgere la sua professione riguardante ciò che per anni ha studiato, la Bovenga ha redatto questo libro in difesa di coloro che non ce l’ hanno fatta, o non ce la fanno considerando anche i tempi attuali, a procedere sulla strada rettilinea che solca la società, per motivi anche estranei a loro stessi. I motivi possono essere tanti per ‘spiazzare’ qualcuno, colpevole o innocente che sia, e dunque ci voleva un volume così per capire che non si è soli e che il senso della giustizia è e resterà sempre insopprimibile. « […] Per quanto le consorterie togate continuassero a far finta di nulla, la pratica giudiziaria cominciò a mutare gradualmente, al punto che alcuni processi furono svolti pubblicamente, specie quando gli interessati erano ricchi e influenti; in questi casi l’esigenza di evitare l’errore letale era maggiormente sentita: l’eguaglianza sociale era ancora lontana, ma questa è un’altra storia. » (A pag. 54). La forma scorrevole dei racconti convoglia subito nel periodo storico descritto, facendo diventare un corpo unico il lettore coi personaggi, abolendo le barriere spazio-temporali, così le ragioni del bene si comprendono maggiormente e, nonostante il finale negativo subìto dal barone Guillaume di Montignàc dei Paesi Bassi, che doveva consegnare una missiva importante a Madrid, l’autrice ha trovato il modo di riscattarlo con l’alto desiderio di paternità. Infatti, mentre moriva per « […] una condanna occulta cui seguì un’esecuzione dissimulata. Fatte numerose valutazioni, si decise di farlo morire in modo apparentemente naturale » (a pag. 33), in un posto della campagna francese, dove aveva sostato circa un anno prima, stava nascendo suo figlio da Agnés la figlia del locandiere. Per un dottore in Legge è fondamentale la conoscenza della storia sotto tutti i punti di vista, dacché ripercorrendola in lungo e in largo si revisionano gli errori di uno o di molti, a livello politico o religioso o quant’altro. La curatrice dell’Introduzione Flavia Weisghizzi, ha così scritto: […] Questo libro nasce da lontano, dai banchi di scuola, dalle aule universitarie in cui l’autrice si innamorava della storia della procedura penale, è cresciuto con lei e, come lei, è cresciuto. » (A pag. 8). Noi certamente di questo terzo millennio vediamo, in senso lato, proiettata a terra un’ombra più lunga della storia rispetto a chi è vissuto, altresì, nel Medioevo, nel Rinascimento, nel Barocco, comunque prima di noi, e in quest’ombra scura tutt’ora sono racchiusi anche soprattutto i tormenti umani che molti hanno subìto senza il ricorso di alcuna
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clemenza. Il fatto più eclatante è rappresentato dal frate domenicano di Nola, ordinato sacerdote, Giordano Bruno (1548-1600), filosofo e scrittore ‘scomodo’ divenuto in seguito simbolo del libero pensiero, andato in fumo nel rogo che lo vide morire condannato per eresia precisamente nel febbraio del 1600. Presumibilmente l’odore delle anime di coloro che sono periti per errori processuali o volontà distorte, nel corso dei secoli si è frammisto all’ effusione dell’imparzialità autentica ancora da sopraggiungere e « […] i racconti di Maria Debora Bovenga, in fondo danno una speranza, la speranza che, nonostante tutto, le parole abbiano un valore. » (A pag. 8). Isabella Michela Affinito
GIUSEPPE NAPOLITANO CARTOLINE DA GAETA Ediz. Eva di Venafro (IS), 2015, € 8,00, pagg. 78. Sognare il mare non è difficile, ma riedificare con la fantasia e le parole un luogo di mare antico del tempo di Domiziano, Antonino Pio, Cicerone, che da queste parti avevano fatto costruire le proprie ville patrizie, passato sotto il dominio dell’Impero d’Oriente nell’Alto Medioevo come Gaeta – dal latino Caieta la nutrice dell’eroe Enea la cui stirpe fondò Roma – allora la situazione è un’altra: in questo caso si dipana all’istante un ventaglio di scatti fotografici costituiti dai versi sia del professore, poeta, operatore culturale, traduttore, direttore de la stanza del poeta per l’Edizioni Eva, che ha pubblicato la medesima eterogenea crestomazia, Giuseppe Napolitano; sia di poeti « […] stranieri, ospiti a Gaeta in varie occasioni e ispirati dal paesaggio, dall’ambiente umano, dalle memorie storiche » (alle pagg. 7-8) che hanno lasciato vergate sui fogli le loro vivaci ‘sensazioni gaetane’. Ancora, immaginiamo l’autore Napolitano che nel centro più vetusto, a ridosso del castello medioevale e quindi del monte Orlando, va alla ricerca delle ‘tracce’ delle muse gaetane che in loco avevano la loro eterea dimora, tra le vie serpentine e strette sussiste la zona di Sant’Erasmo e da qui lui ha ‘inviato’ l’ennesima sua cartolina dietro la quale ha confidato: « Io sono uno che confessa amore… […] A Gaeta ho insegnato venticinque anni nello Scientifico “E.Fermi”; a Gaeta ho anche vissuto nove anni, il tempo di sposarmici e farci nascere mia figlia – altri amori. » (A pag. 75). Dichiarazioni, impressioni, ricordanze, momenti d’attualità culturale con lo svolgimento di manifestazioni importanti, concorsi internazionali, tutto
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all’insegna della valorizzazione del volto, modellato dalla salsedine da millenni, di Gaeta, quale porto di Formia in età romana, che tuttora continua a far germinare ispirazioni nei cuori italiani e stranieri, perché il suo ambiente ha visto il dominio normanno, gli Aragonesi, Spagnoli, Borboni, i benedettini che fondarono il loro Santuario della Montagna Spaccata, altro posto suggestivo legato sia a leggende che a verità ascetiche. Gaeta sa di un piatto composito, guarnito di olive originarie, in cui tutto ciò che s’aggiunge piace a chiunque. « […] Ci sono posti in cui la vita fluisce/ serena e poi dura più a lungo/ - posti ove meglio l’animo è disposto/ a cogliere del mondo i ritmi i suoni/ interni che si schiudono in parole/ e immagini: così Alfieri e Bernari/ e Cassieri fra gli altri e Goliarda/ - vengono qui e non se ne vanno più// Ce ne sono che la penna e il pennello/ fanno scorrere/ vivere…// ai posteri… ma intanto la Città del Golfo/ parla per noi – voci e colori/ vive » (A pag. 47). Non bastava una descrizione geografica, artistica, gli scorci ad acquerello o ad olio dei pittori che sono transitati e transitano per Gaeta vecchia e nuova; ci voleva un florilegio anche di più voci per ‘scansare’ la sabbia depositatasi laddove Gaeta è più in ombra, meno ascoltata e acclamata. Ci voleva un gioco di più emozioni, dal Portogallo alla Francia, alla Tunisia, alla Macedonia, al Marocco, alla Nuova Zelanda. Sono alcune delle patrie dei poeti le cui liriche sono state pazientemente tradotte dal professore Giuseppe Napolitano e qui inserite, sempre dedicate alla città di mare della provincia di Latina. Immaginiamo questi poeti stranieri sparpagliati per Gaeta e dintorni, anch’essi alla ricerca del presunto sandalo di Calliope venuta senz’altro da queste parti, magari anche in compagnia delle sue otto sorelle e di Apollo che qui aveva un tempio in epoca remota, e poi vederli (i poeti) comporre versi a dismisura elogiando l’aria che hanno respirato, le montagne che fanno da cornice, i pescatori i marinai, qualcosa di greco e di arabo insieme. « […] Sanno di gelsomino le notti di Gaeta/ e la luna tutta intera cresce attraverso il cielo./ Lentamente le barche fino all’aurora/ si spengono – spingono l’acqua alla collina/ di Formia e intanto nell’oscura magia/ della spiaggia c’è un poeta che recita/ Rimbaud nel silenzio delle onde./ È la voce di Moncef – la voce del deserto/ che salva i pescatori dal naufragio/ e li guida alla costa fino alle grandi rocce. » ( Jaime Rocha del Portogallo pag. 62). Alla fin fine è stato come se ogni autore avesse creato un tassello, poi si sono riuniti ed hanno cercato di farli combaciare sotto la direzione del professore Giuseppe Napolitano, che magari ha ideato
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il tassello fondamentale. È venuta fuori questa silloge-mosaico che ha ridato, dà vita a nuove sembianze gaetane al di là della tristezza o gaiezza che possono esserci nella mediterranea bellezza unica di Gaeta! Isabella Michela Affinito
SILVANO DEMARCHI STUPORE Edizioni del Centro Studi Letterari “Eugenio Frate”, 2000, Fuori commercio, pagg. 62 Adesso che si è diffusa l’infelice notizia della dipartita del professore di Filosofia e materie letterarie, è stato anche preside, poeta, saggista, traduttore, gli è stato conferito il Premio per la Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri nel 1982, Silvano Demarchi di Bolzano; ebbene, adesso nell’ ambito di chi l’ha conosciuto personalmente o soltanto attraverso le sue numerosissime opere letterarie, nasce spontanea l’esigenza di riavere tra le mani almeno qualcuno dei suoi libri per salutarlo l’ultima volta in maniera non consueta, bensì con l’ ingegno e la riesamina. Lui era nato nel febbraio del 1931 – quindi testimone ancora fanciullo dell’ultimo conflitto mondiale – ce lo ricorda una sua memorabile breve poesia in cui addirittura ha precisato l’ appartenenza del Segno zodiacale, grazie al quale ha avuto chiare intuizioni a livello universale ed è stato altamente versatile: dalla narrativa alla poesia, all’ insegnamento, alla saggistica, ad occupare il ruolo di direttore della rivista “Nuovo Contrappunto”, ad essere anche Presidente della “Dante Alighieri “ della sua città nel Trentino Alto Adige. «Nato di febbraio/ sotto il segno dell’Acquario/ caro ai poeti/ schivo appartato/ irrimediabilmente scettico/ ho vissuto tra gli uomini/ la mia solitaria estraneità. » (A pag. 13). Dunque, in piena folla si sentiva estrapolato dal gruppo, forse perché la sua sete di ricerca era fuori del comune o forse per quell’alone saturniano che non l’abbandonava mai – ricordiamo che il pianeta-governatore dell’ Acquario per eccellenza, Saturno, è votato per tradizione alla calma conservatrice, alla concentrazione, allo stoicismo e al riserbo – che gli ha fatto amare il senso del dovere e la vita intellettuale innanzitutto. Demarchi ammirava il poeta americano dell’Ottocento, Walt Whitman (1819-1892), autodidatta, diventò giornalista-collaboratore con diversi periodici. È stato quel poeta della silloge Foglie d’erba « […] Vediamo nell’erba la vita e la crescita. Ecco il senso di questo titolo a prima vista semplice, in realtà geroglifico: si tratta di cap-
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tare nel più minuscolo degli organismi ciò che esso diverrà, il suo futuro, il suo futuro perenne e ricorrente. Le poesie di “Foglie d’erba” si allargano come cerchi concentrici. » (Dal volume Walt Whitman-Foglie d’erba, Collana La grande Poesia del Corriere della Sera di Milano, Supplem. al quotidiano, Anno 2004, a pag. XII). In effetti, c’è molta natura tra i versi demarchiani e nomi di luoghi anche extraeuropei, a testimonianza dei suoi tanti viaggi all’estero incontrando l’ ignoto e l’inafferrabile, vivendo fatti e amicizie inattese all’insegna dell’altra preminente ascendenza da parte di Urano, co-governatore dell’ Acquario. «Lo conobbi a un caffè di Ankara,/ facemmo subito amicizia./ Per una strana sensazione pareva/ che già ci conoscessimo. Lui, giovane/ di pelle bruna, cordiale più che mai/ e istintivo. Trascorremmo una sera/ tra suoni di cembali, nenie e battere/ di tamburelli./ Poi, se ne andò a Konya/ a visitare le reliquie di Maometto,/ a farsi trasportare dalle danze circolari/ dei Dervisci, che ripetono i movimenti/ dei pianeti./ Così di lui non seppi nulla/ ma non si cancellò dalla memoria/ che oggi lo richiama. » (A pag. 44). Lo Stupore – dalla denominazione della crestomazia demarchiana – insinuatosi tra i versi dell’autore bolzanino, è di tipo ancestrale e privo di perimetri: c’è meraviglia per qualsiasi cosa, per qualsiasi colore, per qualunque paesaggio da lui osservato, per qualsiasi silenzio diffusosi per le stanze, nelle città notturne, sul lago di Como, tra le chiome degli alberi, tra le stagioni andate, nei luoghi dissimili dal suo posto d’origine. «Terra di Siena, giallo/ Napoli, blu di Prussia/ li mescolavo sulla tavolozza/ per disegnare paesaggi irreali/ di contro ai giorni scoloriti.// Avevo cuore di libellula/ e un canto nuovo nelle vene. » (A pag. 16). Lui, Silvano Demarchi, è vero non c’è più, ma in cambio ci ha lasciato L’erbosa speranza in tutto ciò che rinnovandosi desta meraviglia e non solo nei bambini, ma soprattutto in chi crede che, come disse qualcuno, in natura niente si crea e niente si distrugge, ma tutto si trasforma! Isabella Michela Affinito
TITO CAUCHI GIOVANNA MARIA MUZZU La violetta diventata colomba Ed. Totem , 2018 Il volume scritto da Tito Cauchi è un omaggio alla poetessa e scrittrice Giovanna Maria Muzzu. Sia Cauchi che la Muzzu sono uniti da una profonda amicizia nata attraverso una serie di episto-
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le. Il volume ripercorre le raccolte poetiche della Muzzu e termina con alcune lettere scambiate proprio con lo stesso Cauchi. Un’amicizia rimasta nel tempo e rafforzatasi grazie alla passione per la scrittura. Un legame così profondo, anche con la consorte di Cauchi, poteva non meritare un omaggio scritto, in cui si ripercorre la carriera di amante della parola della Muzzu? Cauchi ha colto nel segno, già dal sottotitolo del volumetto “La violetta diventata colomba”. Già… la violetta… un esile fiorellino che colora i prati, attaccata alla terra grazie alle sue radici che si allungano così come si allunga la pianta dalle belle foglie a cuore color verde vivace. In effetti la Muzzu non ha mai abbandonato la sua Sardegna, le sue origini, il suo paesaggio sono dentro di lei e non l’abbandonano mai nemmeno durante il suo poetare. Nonostante non abbia potuto continuare gli studi (le piaceva tantissimo) perché doveva badare ai fratellini più piccoli (questa era la condizione femminile nell’isola!), la Muzzu si è presa la rivincita. Costretta a rinunciare al futuro che desiderava, ha trovato sfogo nella scrittura. Ha iniziato a scrivere…con una scrittura semplice ma profonda, ricca spesso di amarezza che però l’ha fortificata negli anni. Ecco allora che la violetta si stacca dai mali terreni e diventa pian piano colomba, simbolo di pace che indica saggezza. La scrittura fortifica l’ animo e, in alcuni casi, anche la fede personale. Questo è accaduto alla Muzzu diventata da un po’ di tempo Suor Maria, suora laica degli orfani e dei deboli. Roberta Colazingari
DOMENICO DEFELICE GIUSEPPE PIOMBANTI AMMANNATI E “POMEZIA” Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie 2018 E’ una sorta di difesa, più che personale, quella di Defelice nei confronti dell’artista fiorentino Giuseppe Piombanti Ammannati ciò che troviamo su Il Croco di Settembre 2018. Già, perché Ammannati e Pomezia sono “sentimentalmente” legati non fosse altro che per le opere che l’artista (scultore, pittore e ceramista) ha lasciato alla città. La città, però, o meglio le Amministrazioni che si sono succedute sembra si siano dimenticate di questo grande personaggio che tanto aveva a cuore Pomezia. Così Defelice ripercorre la storia della città pontina, fondata nel 1938, con i suoi abitanti che nelle
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feste si vestivano con costumi particolari che rievocavano l’abbondanza della terra appena strappata alla palude. L’abbondanza delle donne del luogo, con le ceste in testa piene di frutta hanno lasciato un segno in Ammannati che, ispirato, ha dedicato a Pomezia una sua statua che porta il nome della città. Ma diverse sono state le creazioni lasciate in eredità a Pomezia: le xilografie (30 cartelle), “La frutta di Pomezia”, in maiolica, “Le api di Pomezia”, “Il mito di Pomezia” ed appunto “Pomezia” che simboleggia una donna con in testa un fascio di grano e nel grembiule una vasta scelta di frutta, con un bimbo in braccio e vicino ai piedi una lucertola. Come si può vedere Ammannati fu un’artista amante della terra, delle creature che la popolano e dei suoi frutti, immerso nella natura. Tutto ciò che crea è perennemente a contatto con la terra e con tutto ciò che gli ruota attorno. Sicuramente un personaggio molto legato alla Bonifica dell’Agro Pontino Romano, che nelle sue opere ha sempre messo in risalto il lavoro nei campi, la famiglia, il popolo italiano. La raccolta di Defelice contiene anche alcune epistole scambiate con l’artista, una poesia intitolata Santo Natale 1965 e un racconto “Chiacchiere”. Servirà tutto questo a scuotere gli animi delle Amministrazioni presenti e future affinché la cultura (e con essa le opere di Ammannati) non sia lasciata da parte a prender polvere? Attendiamo fiduciosi una risposta… Roberta Colazingari
TITO CAUCHI GIOVANNA MARIA MUZZU La violetta diventata colomba Di Tito Cauchi – Editrice Totem Tito Cauchi, anche in questo recente volume su Giovanna Maria Muzzu, impiega un metodo critico preciso, che nulla lascia al caso. La conoscenza diretta dell’autrice, nonché le sue lettere, accuratamente conservate, aggiungono una nota in più all’esame delle opere della scrittrice sarda, dal vissuto difficile e doloroso. I testi esaminati sono ripresi in parte dalle sue recensioni pubblicate da POMEZIA-NOTIZIE. Da “Una collana di perle” in poi emerge una scrittura semplice, una forte emozione, un abbandono alla fede. Dice Cauchi: “Si percepisce una gran voglia di dichiarare i propri pensieri, senza finzioni letterarie; la voce è mantenuta silenziosa dentro un cuore sofferente e provato che finalmente trova il suo naturale sbocco nei versi lunghi
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e generalmente musicali … si avverte il diritto di rivendicare la sua persona contro pregiudizi ambientali, come per riscattare la condizione di donna figlia, sposa, madre e ancora donna con tutte le sue accezioni.” Tutte le opere della Muzzu sono autobiografiche. I versi “sanno di drammaticità vera, genuina, istintiva”. Cauchi analizza con precisione, scandagliando l’animo dell’autrice che rievoca ogni momento di una vita difficile: la povertà, la vedovanza, i figli, il lavoro. La Muzzu “molto modestamente ha voluto raccontare un suo personale diario”, nel quale compare anche il suo amore per i luoghi della provincia di Sassari (specialmente per i Monti Limbara). “Dio è sempre presente … sta nelle cose, nei tratteggi dei personaggi, nelle contemplazioni … il senso di religiosità impregna tutta l’opera”. Qua e là emerge “la società raccontata”. L’elenco dei saggi riportati nel libretto termina con la citazione del quaderno letterario Il Croco del 2004 e degli ultimo tre libri (2006-2008), che narrano “uno spirito indomito … una rivalsa sugli eventi che anno determinato una vita di sofferenza”. Saggio esaustivo e completo, come sempre, questo volumetto di Cauchi. Elisabetta Di Iaconi
DOMENICO DEFELICE GIUSEPPE PIOMBANTI AMMANNATI E “POMEZIA” Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2018 Il CROCO di Settembre 2018 di Domenico Defelice, è qualcosa di straordinario, di stupefacente, da conservare nei meandri del cuore per il contenuto così inebriante, interessantissimo e commovente, da far rimanere senza parole. Il nostro grande Domenico Defelice, ci dice che Pomezia è stata fondata nel 1938 e abitata da gente venuta d’altrove. Ha attirati migliaia di lavoratori che da borgo pastorale si stava velocemente trasformando in uno dei poli più industrializzati del Lazio. Una città così giovane da ammirare, infatti con questa bella presentazione viene a tutti la voglia di visitarla, abituati alle nostre città millenarie, Pomezia fa venire a tutti l’acquolina in bocca, credo sia la città più giovane d’Italia. Auguri Pomezia, sei giovane e bella e avrai tutto il bene di cui il nostro Dio ti colmerà. Grazie, carissimo Direttore, Prof. Domenico, di questa importante notizia.
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Ma il batticuore continua con l’apprendere la grande delusione del proficuo scultore Ceramista Giuseppe Piombanti Ammannati. Nato nel 1898 a San Lorenzo a Colline, Firenze, si può dire che ha trascorso tutta la sua vita tra scuola e arte. Nel 1918 ha la cattedra di Storia e Arte della Ceramica alla Scuola d’Arte della Ceramica di Sesto Fiorentino. Nella stessa scuola insegna ancora ceramica nel 1925 e dal 1934 ne è Direttore. La sua Arte della Ceramica è grandiosa, bisogna leggere tutta la sua vita dedicata a questa sua meravigliosa passione, descritta così magicamente dal nostro Prof. Domenico Defelice. Giuseppe Piombanti Ammannati, ha creato una statua su Pomezia, una statua dal titolo, Il Mimmo di Pomezia, Le api di Pomezia, La frutta di Pomezia, lui è un artista che ama tanto Pomezia e le ha dedicato parecchie sculture, che avrebbe voluto fossero esposte proprio a Pomezia, ma è stato illuso, sia dai Sindaci che dai politici, tante promesse e non si è risolto nulla. Su IL CROCO, possiamo leggere tutte le lettere che si sono scambiati in tanti anni il nostro Artista Piombanti Ammannati e il nostro Direttore di Pomezia-Notizie Domenico Defelice, tante lettere, tante illusioni, un dramma irrisolto che fa tanto male al cuore. Le opere non sono mai arrivate a Pomezia, neanche l’imponente statua su Pomezia alta m. 1,50. Lui è morto con questo immenso dispiacere. IL CROCO, di 60 bellissime pagine, chiude con una poesia e un racconto del ceramista, pittore, scultore, poeta scrittore, ecc. In quarta di copertina, la bella foto a colori di un angolo della piazza di Pomezia. In copertina la foto dell’artista. A pagina 2, a colori, la piazza di Pomezia. Tra le pagine, sono tante le foto delle ceramiche e pitture che fanno bella mostra, per essere ammirate da tutti gli amici di POMEZIA-NOTIZIE. IL CROCO di settembre 2018 è un capolavoro da leggere e rileggere e tenere esposto nella nostra libreria, per poterlo far leggere ai nostri cari lettori. Riportiamo un brano della poesia di Giuseppe Piombanti Ammannati: SANTO NATALE 1965 Il Monte Fontesana/ ha toppe bianche sulla groppa;/ le querce della proda, del campo bacio,/ hanno foglie secche/ ancora attaccate/ a i ferrigni, ispidi, rami: /la fontanella della sorgente/ getta acqua da un beccuccio/ borraccinoso, dentro il foro centrale/ del vetro di ghiaccio steso /sulla pozzanghera sottostante/ incavata nella terra, gorgogliando / è Natale e in questo dì/ un tempo lontano,/ nacque il Divin Messia/ in una stalla. Da SANTO NATALE 1965 pag. 54-55. Giovanna Li Volti Guzzardi
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DOMENICO DEFELICE NINO FERRAÙ Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, novembre 2016 Il garbo dello scrittore Nel saggio su Nino Ferraù, Domenico Defelice ci consegna una rilettura più agile delle sue opere, analizzandone diversi passaggi ed il quadro che ne esce fuori è quello di un “poeta gentile”. Nino Ferraù è stato un'artista completo: poeta, scrittore, giornalista, critico, pittore e grafico. Nacque a Galati Mamertino in provincia di Messina nel 1923. Aveva la capacità di descrivere concetti molto profondi mediante poche battute; in lui non c'è cinismo o compiacimento nell'offendere, ma anzi profonda pietà per le persone più indifese; molti dei suoi componimenti sono a sfondo pedagogico; è sempre stato attento ai temi sociali, tra cui il rispetto della nostra Terra, degli animali e denunciava il problema della droga nei giovani. Dalle sue opere trapela, ancora oggi, una grande sensibilità verso gli esseri viventi. Anche l'amicizia fu centrale nella sua vita, infatti, fu l'unico a vegliare la bara di Salvatore Quasimodo per una notte intera. Si evince dai suoi componimenti il rispetto della vita in tutte le sue forme e sfaccettature e lo faceva sempre in maniera delicata. Era un'artista che entrava nell'immaginario dei suoi lettori in punta di piedi, senza far troppo clamore, restandoci poi per sempre. Anche quando parlava dell'amore verso l' altro sesso, non era mai banale o volgare. Non si sa se fosse anche un musicista, ma il suono dei suoi versi si avvicina molto a quello di una melodia. Nel lavoro di critica di Defelice vi è un perfetto equilibrio tra leggerezza e ricercatezza dei termini usati; impreziosisce il testo con parole accurate, poetiche ed usa anche molti termini tecnici inerenti la poesia come esergo, silloge, esegesi e chiusa gnomica. Il concetto che l'acqua tenda a scendere e ch'essa è più pura alla sorgente, lo troviamo, con esiti diversi, ma con quasi identici termini, nella chiusa gnomica di una sua poesia. La sensazione che ne nasce è quella di uno scrittore che è padrone della materia; nella sua poesia, i passaggi son spesso repentini, veri e propri flash che accelerano la fluidità del componimento e danno poco alla vista e molto all'immaginazione, assecondando il compito cardine della poesia, che non è quello del descrivere minuziosamente, ma di dar campo libero al galoppo della fantasia di chi ne usufruisce. Il lettore viene accompagnato per mano e si immerge totalmente grazie alla naturalezza con
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cui l'autore dispiega ogni argomento, e mediante la precisione con cui riesce ad unirlo al verso del poeta stesso. L'ordine con cui svolge l'attenta analisi dei testi di Ferraù, nasce da una cultura ed una professionalità che traspare tra le righe e si dipana tra i concetti. Sei versi con immagini paniche, che tendono alla dolcezza e alla pace, ma con termini che con esse stridono (rocce, freccia) anche nella durezza della consonante “c”, presente nella poesia ben sedici volte. Il critico Defelice mostra una capacità evocativa scrivendo espressioni come: “una fusione candida”, “un'altra stupenda spatolata”; la silloge è un mosaico di luoghi e di affetti. Alla leggenda il poeta accenna, conturbato dall'arcana atmosfera di suoni, di frescure e di luci in un contrasto che turba. Per mezzo di un testo dinamico e veloce, si muove tra metafore ed espressioni che ricordano l'arte della pittura, costruendo una cornice esaustiva intorno all'opera e al mondo interiore del poeta Ferraù. L'autore ci guida nell'introspezione del artista: Ferraù sente Dio nell'uomo e dappertutto. Dio, essendo autore di tutte le cose e di noi stessi, è, di tutte le cose e dello stesso uomo, l'indiscusso padrone. Quello della preghiera a Dio in piena luce, è motivo ricorrente nel poeta. La forza del lessico che sceglie mostra l'essenza dell'artista: due mondi da sempre in contrasto e col quale dei due sta il poeta è evidente, come chiaro è l'invito alla solidarietà, all'aiuto reciproco, attraverso la domanda retorico-sarcastica e la sferzata del verbo “segare”. Defelice, naturalmente, è il direttore di questo mensile, la sua è una lunga carriera che inizia collaborando con diverse testate come “La Procellaria”, “l'Avvenire” e da allora non si è mai fermata. Ha scritto molti componimenti poetici, saggi critici e racconti. Nel 2006 l'IPTRC (The Internatonal Poetry Translation and Research Centre / The Journal of World Poets Quarterly – Multilingual – Cina) lo propone per il Premio Nobel della Letteratura; Orazio Tanelli della Rutgers University di New York (USA), gli dedica un volume Domenico Defelice; nel 2006 Sandro Allegrini scrive Percorsi di lettura per Domenico Defelice; nel 2009 Leonardo Selvaggi scrive Domenico Defelice e le sue opere etico-sociali; Eva Barzaghi scrive una tesi di laurea presso l'Università Tor Vergata di Roma, “Domenico Defelice: introspettivo coinvolgimento poetico-letterario dell'animo umano”. I suoi lavori sono stati tradotti in francese, inglese, spagnolo, rumeno, russo, cinese, coreano ed è stato inserito in antologie prestigiose, tra le quali
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Azimut, Urania, World Poetry, L'altro Novecento, Calabria Italia Prima. Domenico Defelice in maniera garbata e delicata descrive il momento più alto per un poeta e lo fa attraverso parole semplici che rivelano l'importanza dell'ispirazione poetica: [...]Quando noi riusciamo a descrivere perfettamente, è perché, in quell'istante, dominiamo la situazione; se a dominarci, invece, continua ad essere il fatto sociale, l'emozione insomma, ecco che le parole vengono a mancare. I poemi più belli, qualcuno ha già affermato, sono quelli mai scritti. Manuela Mazzola
FABIO DE AGOSTINI I GATTI CIECHI Romanzo politico - Beta Editore, Roma, 1992 Pagg. 222, Brossura FABIO DE AGOSTINI ZAPPING – GLI SPAZI DI UNA VITA Grafica 891 srl editore, Roma, 2003, 27 €, pagine 918 Brossura La Direttrice della biblioteca dott.ssa Fiorenza Castaldi mi presta altri due libri (I Gattini Ciechi e Zapping – Gli spazi di una vita) del regista – scrittore Fabio De Agostini al fine di dare un mio parere. I Gattini Ciechi, composto da 4 Parti, è in pratica il seguito di un altro romanzo di De Agostini “Breve Passo” e continua la storia dei membri della famiglia Di Lanzo tra Italia e Svizzera durante la seconda guerra mondiale per trattare il primo periodo del dopoguerra. I luoghi dove si svolgono gli avvenimenti sono principalmente Roma, marginalmente Milano e la città svizzera ticinese Leysin. Affronta dal di dentro il dilemma profondo della doppia identità svizzera – italiana. Il protagonista del libro è il figlio di Alessandro, Dario. I “gattini ciechi” sono la metafora di quella generazione, che, formatasi intellettualmente e politicamente negli anni della seconda guerra mondiale, si è impegnata con generosità e cecità per la costruzione di un mondo nuovo… “Talvolta – scrive De Agostini – all’improvviso Dario è sorpreso da un profondo senso d’inutilità e di vuoto, essendo prigioniero di se stesso, vedendo l’abisso fra la propria dimensione sociale e l’infinita complessità dell’universo. “ Questo romanzo rappresenta anche una cronaca familiare, in cui si intersecano importanti avvenimenti quali: la strage delle fosse ardeatine, la liberazione, l’ occupazione degli americani di Villa Torlonia, le orge degli americani a base di sesso e whiskey (in
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un’orgia gli americani scaraventano una ragazza dal terzo piano di un albergo di via Veneto!), le varie manovre di esponenti del PCI per cercare di prendere il potere (Dario è un attivista del PCI), il referendum con cui si instaura la Repubblica. Ho trovato un certo interesse nella lettura per la descrizione dei vari luoghi della Roma dell’epoca. ZAPPING – GLI SPAZI DI UNA VITA - Il libro, composto da 24 capitoli, rappresenta riflessioni e spiegazioni – a posteriori - sugli impegni e sull’imponente lavoro del proprio passato. Queste riflessioni personali, sociali e storiche comprendono un arco di tempo di cinquant’anni (dal dopoguerra al 2003), in cui l’Autore dichiara di aver evitato compiacenze narcisistiche, lamenti su occasioni perdute, consolatorie divagazioni sul tempo che fu, affrontando anche l’avversa sorte e l’invidia di amici e nemici. Nel riordino di tutti i documenti (videocassette, lettere, saggi critici, bobine, libri, appunti e scritti per riviste e giornali, ecc.) Fabio De Agostini è stato aiutato dall’ archivista Mario Cusa. Viene data un’informazione approfondita sui suoi lavori: sceneggiature di films (tratti da romanzi suoi e non), testi radiofonici, televisivi e teatrali, romanzi, saggistica, scritti su tematiche sociali, quali il femminismo, l’aborto, la droga, il sesso, le mode, il razzismo, nonché sulla politica, la religione, la filosofia, l’archeologia, su esperienze di continui viaggi di lavoro e di conoscenza in Italia e all’estero. Ha partecipato a molti concorsi cinematografici (Venezia, Cannes, Lugano, New York) ottenendo riconoscimenti non sempre soddisfacenti; però ha venduto parecchi suoi films. Ottimo il rapporto con i registi, italiani e stranieri, del suo tempo, testimoniato dalle molte lettere delle loro risposte. Uomo di vasta cultura e di altrettanto vasta produzione, è pure un teorico dello stile del film e del doppiaggio, di cui ha lasciato un’infinità di scritti. Tra i vari e molteplici argomenti trattati in questo libro, segnalo in particolare: La recensione del film per bambini “Lauta mancia”, storia delle avventure di un cane alano che non riesce più a ritrovare la villa da dove si era allontanato; I problemi con la censura; Descrizione del contenuto del film “Belle d’amore”; La descrizione del libro “Solstizio di tenebre”, da cui deriva il film “Le lunghe notti della Gestapo”, in cui un gruppo di nazisti cospira contro Hitler per impedire l’entrata in guerra della Germania contro la Russia. Durante un’orgia con varie prostitute questo gruppo di dissidenti verrà massacrato dai nazisti con dei mitragliatori. Ora tocca al lettore farsi un giudizio su di lui. Maria Antonietta Mòsele e Giuseppe Giorgioli
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DOMENICO DEFELICE GIUSEPPE PIOMBANTI AMMANNATI E “POMEZIA” Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2018 Il Quaderno letterario “Il Croco” di settembre 2018 è scritto da Domenico Defelice, dedicato a “Giuseppe Piombanti Ammannati e Pomezia” : così il titolo. Strutturato in parti distinte, questo libretto comincia con cenni su Pomezia e sul suo territorio, iniziando non soltanto dai grandi lavori per la bonifica pontina del secondo dopoguerra, ma ricordando anche le antiche, mitiche e leggendarie origini dei suoi eroi, quali Enea, Turno, re Latino, ecc. L’Autore ha conosciuto Pomezia, anzi il suo mare di Torvaianica, inizialmente venendo da Roma durante le gite domenicali con gli amici; in seguito, da effettivo cittadino e residente con la propria famiglia. Ha potuto, così, seguire nel tempo, la trasformazione di questo piccolo centro inizialmente agricolo, fino a diventare città industriale, poi commerciale, ed ora con i generalizzati problemi di lavoro. Vengono citate le principali opere effettuate via via: Chiesa parrocchiale e Palazzo comunale (con i relativi costruttori ed artisti), il grande Cimitero tedesco, l’aeroporto militare di Pratica di Mare che sorge presso l’antica Lavinium e il Borgo medievale dei principi Borghese; nonché il recente Museo archeologico: il tutto descritto in forma oggettiva, ma anche simpaticamente personale. Segue un’interessante biografia di Giuseppe Piombanti Ammannati: scultore e ceramista fiorentino, insegnante e poi direttore della Scuola d’Arte di Urbino. Moltissime le sue opere, fra cui dieci xilografie sulla Vita di Cristo; poi fantasiose maioliche policrome – vincitrici di importanti concorsi – raffiguranti “la frutta” e “le api di Pomezia”; ma soprattutto il “putto-mito di Pomezia” detto pure “mimmo di Pomezia”, statua maiolicata, alta 90 cm., raffigurante un robusto bambino che porta sulle spalle una grande quantità di frutta: <simbolo del lavoro di questa gente italica>. Ma l’opera intitolata specificamente “Pomezia” è il vero e proprio capolavoro-simbolo di questa città: una statua alta 1,50 m., di un solo pezzo, cotta a gran fuoco, policroma, smaltata e invetriata, unico esemplare, che rappresenta una donna con sul capo un piccolo fascio di spighe, col grembiale colmo di frutta, sostenuto a gran forza da un putto, mentre un altro bambino si aggrappa voracemente ad una mammella. Anche questa statua indica il frutto del faticoso lavoro che ha dato prosperità, abbondanza, vita e prolificità ai pionieri pometini. Grande desiderio dell’Artista sarebbe stato la col-
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locazione all’interno del Palazzo comunale di queste opere, pure se acquistate ad un prezzo simbolico: prova ne sono le molteplici e reiterate lettere di richiesta inviate a Defelice (conosciuto durante un importante Convegno culturale a Chieti) – nel corso addirittura di una quindicina d’anni! - e qui riportate fedelmente. Ma, nonostante la diretta presa visione di tali opere del Sindaco allora vigente, non si è mai più parlato né deliberato sul loro acquisto. L’ultima lettera dell’Ammannati risale al 1991; dopo di che, assoluto silenzio, dovuto alla successiva morte dell’Artista. Non si sa per certo se tutte le opere siano state collocate nel Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza. Questo carteggio epistolare si chiude con l’amara delusione dei due interlocutori, soprattutto di Defelice il quale, nonostante il suo prolungato interessamento diretto alle Autorità locali, non è riuscito a far accogliere qui le sculture espressamente dedicate a Pomezia; ma si augura che qualcun altro possa riuscire in tale intento. Maria Antonietta Mòsele
D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE POMEZIA 2019 CITTÀ DELLA CULTURA Il sindaco Adriano Zuccalà ha annunciato che Pomezia si candiderà per il titolo di “Città della Cultura 2019”. Il progetto “Illuminiamo le fondazioni” tenterà di mettere al centro e di approfondire la nostra storia e i legami che uniscono Pomezia ad Ardea, a Roma, a Çanakkale, antica città di Troia in Turchia. Prevede itinerari archeologici (attraverso, per esempio, l’importantissimo nostro Museo di
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Lavinium, oggi diretto dalla Dottoressa e archeologa Gloria Galante), rievocazioni storiche, mostre, ricerche didattiche, concorsi fotografici, premi letterari (per esempio, la 28a edizione del Premio Internazionale Letterario Città di Pomezia), avvenimenti sportivi. Da quel che apprendiamo, al Progetto hanno lavorato la Biblioteca Comunale di Pomezia “Ugo Tognazzi”, diretta dalla Dottoressa Fiorenza Castaldi; il già citato Museo Archeologico Lavinium; la Sovrintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma; la provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale; la Città Metropolitana di Roma Capitale; l’ Assessorato allo Sport, Politiche Giovanili, Grandi Eventi di Roma Capitale; la Fondazione Roma Sapienza; la Fondazione CE.S.A.R. - Centro Studi Architettura Razionalista; l’Ordine degli Architetti di Roma e provincia e le Associazioni del territorio. Pur essendo assai difficile, non possiamo non tifare perché si possa raggiungere l’ambito riconoscimento. *** LUCIANA VASILE A PALAZZO SANTA CHIARA DI ROMA - Giovedì 18 ottobre, alle ore 18,30 in Palazzo Santa Chiara - piazza di Santa Chiara 14, 00186 Roma - è stata presentata la raccolta di poesie di Luciana Vasile: LIBERTÀ attraverso Eros Filìa Agape. Sono intervenuti, oltre l’Autrice, Marcello Carlino e Luigi Celi. Introduzione e letture di Angelo Blasetti. Pubblico scelto, numeroso e attento. *** DUE PREMI ALLA POETESSA MARIAGINA BONCIANI - E-mail del 10 ottobre di Mariagina Bonciani da Milano: Caro Domenico, ormai POMEZIA NOTIZIE arriva con regolare celerità e da alcuni giorni sono già in possesso del bel numero di ottobre, dove ho letto subito e condiviso le riflessioni del tuo interessantissimo scambio di lettere con la bravissima Ilia Pedrina, e le pagine e la poesia di Luigi De Rosa che parla del tuo "Orto del Poeta", e la tua poesia sulla Montagna degli alberi morti, e quella di Giovanna Li Volti, che mi ha fatto venire la voglia di visitare l'Australia ...e c'è anche la mia (…) ancora una volta devo comunicare che la mia poesia "All'ultima ombra" è stata premiata, stavolta al "Santa Margherita Ligure Franco Delpino" 2018, Primo premio per la poesia inedita, e con altre mie due poesie ha ottenuto il nono premio ex-aequo alla XVa edizione del Premio Internazionale Poesia "Fantasmino d'Oro", 2018. Non mi resta che (…) abbracciarti con fraterno sentimento. Mariagina ***
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Padre PETER PAUL SANDANHA è stato nominato Vescovo di Mangalore, città indiana di circa 400mila abitanti . Peter Paul Sandanha, 54 anni, è stato per anni nella parrocchia di San Benedetto Abate di Pomezia, svolgendo attività pastorale sul territorio e lasciando di sé un grato ricordo. Ordinato sacerdote il 6 maggio 1991. Uomo di vasta cultura, è Presidente del Consiglio Scolastico di St. Philomena College Puttur. Nel 2005 ha ottenuto il dottorato in teologia presso la Pontificia Università Urbaniana di Roma e a Roma ha studiato negli anni dal 1999 al 2005. Presso la stessa università egli è professore di Teologia dogmatica dal 2010. Papa Francesco, il 14 marzo 2015, lo ha nominato Consultore della Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi. Siamo certi che, presentandosi l’ occasione, egli non mancherà di rivisitare la nostra Parrocchia, dove è ricordato e stimato. *** PREMIO INTERNAZIONALE CITTÀ DI POMEZIA - La ventottesima Edizione del Premio Internazionale Letterario Città di Pomezia - la prima ad essere gestita direttamente dal Comune - si avvia alla conclusione. Martedì 30 ottobre, nel pomeriggio, riunione degli interessati per lo spoglio dei lavori, le valutazioni e la definizione dei vincitori. Poi, sabato 24 novembre, nel pomeriggio, Premiazione nella Sala Consiliare, alla presenza delle autorità e del pubblico che vorrà intervenire. Si ringraziano il Sindaco Dott. Adriano Zuccalà, il Vice Sindaco dottoressa Simona Morcellini e tutta l’Amministrazione per l’interessamento, gli organizzatori - tra cui la dottoressa Fiorenza Castaldi, responsabile della Biblioteca Comunale “Ugo Tognazzi” - e si ricorda che la Giuria è composta da: Franco Di Filippo - scrittore e giornalista -, Maria Antonietta Mòsele - saggista -, Massimiliano Pecora - critico letterario, saggista -, Fiorenza Castaldi - bibliotecaria, esperta di letteratura -, Gloria Galante - archeologa ed esperta di arte antica - e presieduta dal nostro direttore responsabile Domenico Defelice. *** SETTE NUOVI SANTI - Il 14 ottobre 2018, papa Francesco, in Piazza San Pietro in Roma, ha elevato agli altari sette nuovi santi: Mons. Romero, nato nel 1917 a El Salvador e assassinato mentre celebrava messa nel 1980, beatificato nel 2015; Don Vincenzo Romano, nato nel 1751 a Torre del Greco (NA), morto nel 1831, beatificato nel 1963, si adoperò per la rinascita della cittadina distrutta dal Vesuvio nel 1794; Suor Maria Kasper, nata nel 1820 a Dernbach, morta nel 1898, fondatrice delle Povere Ancelle di Cristo, beatificata nel 1978; Don Francesco Spinelli, nato a Milano nel 1853, morto
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nel 1913, fondò le Suore Adoratrici del Santissimo Sacramento, beatificato nel 1992; Suor Nazaria Ignazia, nata nel 1889 a Madrid, morta nel 1943, fondatrice delle Missionarie Crociate della Chiesa, beatificata nel 1992; Nunzio Sulprizio, nato in Abruzzo nel 1817, sopportò eroicamente con fede e coraggio una grave malattia, beatificato nel 1963. Tra i sette, dopo Mons. Romero, il più noto è Paolo VI (papa Montini), nato a Brescia nel 1897, eletto papa nel 1963, morto a Roma nel 1978, beatificato nel 2014. Fu il papa del post Concilio. Nel 1978 si offrì alle Brigate Rosse in cambio di Aldo Moro, poi giustiziato. Fu sempre in mezzo ai poveri e agli operai, celebrando le messe del Natale, per esempio, tra i baraccati di Roma e l’Ilva di Taranto. Pomezia lo ricorda per la sua visita del 29 agosto 1965, allorché la cittadina si avviava ad essere il principale polo industriale della provincia di Roma. Grande fu, in quella occasione, il concorso degli operai per omaggiarlo e nella chiesa parrocchiale di San Benedetto Abate venne applicata una targa marmorea a ricordo dell’avvenimento. *** Premio Nazionale Paestum, CINQUANTOTTESIMA EDIZIONE 2018 - L’Accademia di Paestum bandisce la 58° edizione del PREMIO NAZIONALE PAESTUM, aperto a tutti* LE SEZIONI: • Poesia in lingua (a tema libero) • Poesia in vernacolo (a tema libero) • Racconto breve (a tema libero) • Fotografia (a tema libero). Alle prime due sezioni si può concorrere con uno o più elaborati editi o inediti. Ciascuno dei componimenti partecipanti va inviato in 5 copie chiaramente dattiloscritte, di cui una sola firmata e con l’indirizzo dell’autore. Si consiglia l’invio a mezzo raccomandata. Ogni poesia non deve superare i 40 versi; il racconto breve deve essere contenuto entro le 4 cartelle dattiloscritte a spazio due. Il tema è libero. Alla sezione Fotografia si può concorrere inviando una foto formato 50 x 70 in unica copia con busta a parte contenete i dati anagrafici e l’indirizzo dell’ autore. I lavori vanno inviati entro il 15.12.2018 al seguente indirizzo: Segreteria Premio Nazionale Paestum – Via Trieste n. 9 - 84085 Mercato S. Severino (SALERNO) – Italy Il contributo per le spese organizzative è di euro 20 per tutte le sezioni. La quota di partecipazione va inserita nella busta contenente i lavori. I partecipanti sono tenuti ad allegare la seguente dichiarazione: “Dichiaro che l’opera è esclusivamente di mia creazione ed autorizzo al trattamento dei miei dati personali per quanto attiene le procedure organizzative del concorso. Dichiaro inoltre di non essere stato tra i primi classificati dell’ultima edizione del “Premio Nazionale Paestum”. Si precisa che i premi non ritirati non saran-
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no spediti. Le fotografie saranno esposte in occasione della cerimonia di premiazione. I risultati del concorso e la cerimonia di assegnazione del Premio saranno ampiamente diffusi attraverso i vari mezzi di comunicazione e riportati nella loro stesura integrale della rivista Fiorisce un Cenacolo, organo ufficiale dell’Accademia di Paestum, promotrice e organizzatrice del premio. Per informazioni: concorsi@accademiadipaestum.eu *non possono partecipare i vincitori che si sono classificati al primo posto nella precedente edizione del concorso per la medesima sezione, eventualmente possono concorrere nelle altre sezioni. *** I SETTI CAVALIERI DEL SOLE - Apprendiamo, con piacere, che il volume di favole e filastrocche, di Paolangela DRAGHETTI, stampato dalla DELTA3 Edizioni nel 2013, ha ricevuto un Primo Premio a Rovigo, la cui cerimonia s’è svolta il 14 ottobre scorso. Complimenti vivissimi alla nostra collaboratrice di Livorno. *** PREMIATO YU HUA - Lo scrittore cinese Yu Hua ha vinto l’ottava edizione 2018 del Premio Internazionale Bottari Lattes Grinzane con il romanzo Il settimo giorno, edito dalla Feltrinelli. L’opera è stata tradotta in italiano da Silvia Pozzi. Yu Hua ha 58 anni ed è considerato uno degli autori più rappresentativi e letti nella odierna Cina. Altro suo libro di successo è Vivere!, del 2009, dal quale è stato pure tratto un film.
LIBRI RICEVUTI RENATO FILIPPELLI - Tutte le poesie. A cura di Fiammetta Filippelli, Prefazione di Emerico Giachery e Postfazione di Francesco D’Episcopo; Riflessioni a chiusura delle silloge raccolte, di Fiammetta Filippelli; Il percorso di vita e di poesia, di Pierpaolo Filippelli; in prima bandella, giudizi critici di: Romano Luperini, Raffaele Nogaro, Giuseppe Leone, Mario Sansone; Album fotografico di 23 immagini; CD allegato con poesie scelte (1956 2001) recitate dallo stesso Renato Filippelli con musica di Mauro Niro - Gangemi Editore/ International Publishing, 2015 - Pagg. 528, € 24,00. Renato FILIPPELLI è nato a Cascàno di Sessa Aurunca (CE) il 19 febbraio 1936 ed è morto a Formia il 20 maggio 2010. Frequenta il Classico di Sessa Aurunca e scrive poesie che vengono apprezzate da scrittori e poeti di fama, tra cui Corrado Govoni. Si laurea in Lettere Moderne, a Napoli, nel 1960. In-
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segna in vari Istituti Superiori, tra cui l’Istituto Magistrale di Formia, e nell’Università Orsola Benincasa di Napoli. Si sposa nel 1963 è ha tre figli: Fiammetta (1964), Pierpaolo (1968) e Chiara (1970). Fonda Premi letterari, tra cui il Minturno, del quale è Presidente fino alla morte. Presidente e componente di giuria di molti altri. Collabora a numerose riviste con saggi, recensioni e altro; vince premi importanti e di lui scrivono le migliori firme. Opere pubblicate (poesia e saggi): Vent’anni (1956), L’On. Gaetano Ciocchi nella luce della poesia (1957), Il cinto della Veronica (prefazione di Edoardo Gennarini, 1964), Il cristianesimo di Gian Battista Vico nell’ interpretazione di Paolo Brezi, 1970), Ombre del Sud (prefazione di Emerico Giachery, 1971), Presenze dannunziane nella lirica del Novecento (1971), Ritratto da nascondere (prefazione di Fernando Figurelli e disegni di Vittorio Moriello, 1975), Giornale come Antologia per la scuola media, insieme a Raffaele Sirri, 1978), L’Italiano com’è. Educazione alla lingua e grammatica ragionata (1980), Requiem per il padre (prefazione di Rosario Assunto, 1981), L’ieri e l’oggi dell’uomo (Antologia per le medie superiori, 1984), L’itinerario della letteratura nella civiltà italiana (Storia della Letteratura per le scuole superiori, 1988), Antonio Marcello Villucci ed io (1988), La Compromissione, ovvero il dramma dell’ intellettuale moderno tra storia e meta-storia (1991), Plenilunio nella palude (1997), Viaggio letterario nell’Italia europea (2000), Viaggiare nell’ Italiano. Corso di Educazione linguistica (2000), L’eredità letteraria (Storia e Antologia della Letteratura Italiana per le scuole superiori, in collaborazione con la figlia Fiammetta, 2004), Dai fatti alle parole (2006), Spiritualità (prefazione di Mons. Raffaele Nogaro, 2012). ** RENATO GRECO - Quaderni palesini - Sesto volume - Poesie inedite dell’estate 2006 - Prefazione di Giulio Greco - Giuliano Landolfi Editore, 2018 - Pagg. 164, € 15,00. In calce vengono riportati giudizi critici di: Italo Bonassi, Maria Grazia Lenisa, Pasquale Martinello, Michele Coco, Marco Ignazio De Santis, Enzo Mandruzzato, Stefano Valentini, Vittoriano Esposito, Daniele Giancane, Lia Bronzi, Donato Valle, Sandro Gros-Pietro, Renzo Ricci, Giorgio Barberi Squarotti, Giuliano Landolfi, Emerico Giachery, Roberto Carifi, Gianni Antonio Palumbo, Daniele Maria Pegorari, Rosario Coluccia, Ettore Catalano, Marcello Ariano, Gerardo Santella, Rossano Onano, Luigi Lafranceschina, Anna Ventura, Francesco Dell’Apa, Luciano Nanni, Giulia Notarangelo, Marcello Ariano, Giovanna Colonna di Stigliano, Pasquale Tempesta, Enrico
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Castrovilli. Renato GRECO è nato nel 1938 a Cervinara (Av) e vissuto fino alla maturità classica ad Ariano Irpino. Nel 1955/56 a Matera istitutore del Convitto “Duni”. Dal ’57 al ’67 a Milano dove lavora alla Olivetti di Adriano e dove abita con la moglie dal ’66. Dal ’67 tre anni a Napoli un anno a Firenze e due anni in giro per l’Italia con tappe a Firenze e a Milano. Nell’ intanto si laurea in legge. Dal ’71 a Bari quadro nella filiale di questa città. Nel ’77 è di nuovo a Milano dopo altri periodi a Firenze. Fino al 1987 a Milano quadro marketing centrale. Ritrasferito a Bari va in pensione nel 1992. Ha vinto molti concorsi in Italia e legge poeti del ‘900 presso due Università Popolari a Modugno e a Bari. Redattore della rivista “La Vallisa” dal 1997. Ha scritto più di 46 volumi di poesia, oltre che numerose Raccolte Antologiche, alcune pubblicate anche all’estero. Ricordiamo, per esempio, i volumi dal 2005 in poi: “Barlumi e altro” (2005), “Memoria dell’acqua” (2006), “Fermenti immagini parole” (2006), “In controcanto” (2007), “Ma quale voce da lontano” (2007), “Poemetti e sequenze vol. I” (2007), “Di qua di là dal vetro” (2007), “Quaderni palesini - Poesie dell’estate 2001” (2008), “Poemetti e sequenze - vol. II” (2008), “Se con trepide ali” (2008), “Favole per distrarsi” (2009), “”Per scenari di-versi” (2009), “Piccole poesie” (2010), “Inventario” (2010), “Dintorni di Nessuno” (2011), “Contiguità, distanze” (2011), “Vicinanze” (2012), “Un brusio d’anime” (2012), “Colloqui e amabili fraseggi” (2013), “Il vero dello sguardo” (2013), “La parola continua” (2013), “Finzioni e altri inganni” (2014) “Variabili geometrie” (2014), “Mattinali e tramonti dell’opera compiuta” (2015), “Un nuovo aprile” (2018). Autore anche di molti saggi su Salvatore Quasimodo, Vittorio Bodini, Cristanziano Serricchio, Enzo Mandruzzato, eccetera. Tante le antologie in cui figurano sue poesie. Tra i critici che si sono interessati di lui, citiamo solo alcuni: Pasquale Martiniello, Michele Coco, Enzo Mandruzzato, Stefano Valentini, Vittoriano Esposito, Daniele Giancane, Lia Bronzi, Donato Valli, Sandro Gros-Pietro, Renzo Ricci, Giorgio Bárberi Squarotti, Giuliano Ladolfi, Emerico Giachery, Roberto Carifi, Gianni Antonio Palumbo, Daniele Maria Pegorari, Roberto Coluccia, Ettore Catalano. ** ANGELO AUSTRALI - La banda Frasseti - Racconto; Prefazione (“Una fuga liberatoria”) di Giuseppe Baldassarre; in copertina, a colori, disegno di Nilo Australi - Edizioni Circolo Letterario Semmelweis, 2018 - Pagg. 32, s. i. p.. Angelo AUSTRALI è nato a Figline Valdarno, dove vive, nel 1954. Poeta, scrittore, saggista, giornalista. Nume-
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rosissime le sue opere, tra le quali ricordiamo: Zia Oria (1979 e 2003), Racconto di Natale (1979), Roscio (1980), Regioni preflesse (1981), L’usignolo di provincia (1982), C’è di quello che non costa (1982), Non essere il centro ma una parte del tutto (1983), Sul filo dell’unità (1983), La rinunzia (1984), Spartaco e Cannabis (1985 e 1999), Il mio nonno barbiere (1986), Le lucciole (1987 e 1996), Eugenio Centini. Dolore e sogno (1988), Andrea (1988), La piazza (1988), Magalodiare (1989), All’ ora di pranzo (1990), L’ombra del cielo (1990), L’ esempio di società (1990), Voglia di ascoltare (1993), 1945/1993, L’impronta della sinistra a Figline Valdarno (1993), I grandi navigatori (1996), In piazza c’era un pozzo (1996), Il treno che porta al passato (1996), Cinema di carta (1996), Vittoria (1999), Il paesaggio reinventato (2000), Senza memoria la vita è solo cartapesta (2001), Le torri di avvistamento piantate dal nonno (2001), Fai attenzione alle palle vaganti (2002), I sogni in Tv (2002), L’autostrada del sole (2003), Ma l’anima non muore (2004), La collanina rossa del Valdarno (2005), Dalla foce alla sorgente (2005), Perché sono rimasto tra le lucciole (2006), Farfalla colorata (2006), Non ci sono troppe vie di fuga (2007).
TRA LE RIVISTE ILFILOROSSO - semestrale di cultura, direttore Luigina Guarasci, responsabile Valter Vecellio via Marinella 4 - 87054 Rogliano, Cosenza - email: info.ilfilorosso@gmail.com - Riceviamo il n. 64, gennaio-giugno 2018, con le firme di: Maria Luisa Albamonte, Antonio Avenoso, Franco Araniti, Lella Buzzacchi, Enza Capocchiani, Domenico Cara, Valeria Carmen Cauteruccio, Mariangela Chiarello, Antonio Conte, Inga Conti, Matteo Dalena, Pietro De Leo, Pasquale Emanuele, Enzo Ferraro, Francesco Graziano, Luigina Guarasci, Salvatore Jemma, Michele Lalla, Daniela Lucia, Antonio Maglio, Nazario Pardini, Paolo Ragni, Jean Robaey, Annalisa Saccà, Crescenzio Sangiglio, Piero Zucaro. * MAIL ART SERVICE - Bollettino dell’Archivio “L. Pirandello”, di Sacile (PN), diretto da Andrea Bonanno - via Friuli 10 - 33077 Sacile (PN). Riceviamo il n. 103 del settembre 2018, dal quale segnaliamo l’articolo “Ferdinando Ferracini, un patriota veneto nel Risorgimento italiano di Fiorella Botteon: una rivitalizzazione del sentimento patrio degli italiani”, di Andrea Bonanno, rubriche varie,
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e “La pittura culturale” di Susanna Pelizza. * NUOVO DOMANI SUD - Periodico di informazione politica e culturale diretto da Fortunato Aloi, responsabile Pierfranco Bruni - via Santa Caterina 62 - 89121 Reggio Calabria. Riceviamo il n. 5, settembre-ottobre 2018, con le firme di: Fortunato Aloi, Sebastiano Dieni, Carmelo Bagnato, Domenico Ficarra, Lino Di Stefano, Giovanni Praticò, Nicola Catalano, Mimmo Versace, Francesco Guadagnuolo, Monnalisa Marino, Nietta D’Atena, Antonio De Marco, Osiride Avenoso, Luigi Franzese.
LETTERE IN DIREZIONE (Béatrice Gaudy il 18 - 9 - 2018; Tito Cauchi; Ilia Pedrina) Parigi, tempo dolce Buongiorno caro Domenico, Grazie tante per il numero di agosto di “Pomezia-Notizie” nel quale ho la grande gioia di vedere pubblicati i miei poemi. Come sempre, questo numero è pieno di testi seducenti e forti. I poemi che mi commuovono di più sono “La lettera del Fante” di Francesco Fiumara, “Vita nella vita” e “Compleanno” di Antonia Izzi Rufo, “Tramonto” di Caterina Felici, “Le montagne” di Loretta Bonucci, “Spergiuro” di Teresinka Pereira, “Dopo la pioggia” di Franco Saccà, “Dove comincia il mare” di Nico Orengo, e l’autunnale poema di Gianni Rescigno che traduco: LES FEUILLES SERONT PAROLES Quand il pleuvra les feuilles seront paroles. Seule l’eau les entendra mourir. Gianni RESCIGNO I racconti sono anch’essi seducenti. Aderisco del tutto al modo di percepire la vita di Antonia Izzi Rufo nel “Lunedì del Pesce” [del Paese; è stato un nostro refuso. n. d. d.]. Non si è mai soli nella natura. Invece, si può patire la solitudine in una grande città, nei
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“deserti sovrapposti” come diceva Albert Camus se non sbaglio. Ricco di sentimenti e di pensieri è il racconto “Il figlio della mondana”. La vita dei figli delle prostitute non doveva essere facile nelle piccole città. Forse era un po’ diverso nelle grandi città dove spesso i vicini non si conoscevano tra di loro. Lo sguardo sulle persone cambia del tutto dal momento in cui non sono più povere. È triste, ma è sempre stato così. A proposito de’ “Il debito pubblico” di Giuseppe Giorgioli: si può probabilmente dire lo stesso di molti paesi. A volte, gli Stati aiutano molto i ricchi, anche. Anche Lei ha delle parole durissime sulla società nella sua risposta ad Ilia. Ahimè! Ha ragione Lei. Pensavo che alcuni paesi dell’Unione Europea si fossero svegliati e decisi ad aiutare l’ Italia ad accogliere i migranti. Invece, no. E il rischio per i migranti di annegare nel Mediterraneo è ormai più importante. È terribile. Leggendo un poco i giornali italiani, mi sono accorta da più anni che alcune informazioni stentavano a varcare le Alpi, malgrado l’Internet. Ma ora diventa un vero problema, a parer mio. Per il 95% dei Francesi, la guerra contro la Libia è una faccenda finita e l’hanno un poco dimenticata. Rari sono gli articoli che sottolineano il legame tra questa guerra e il numero dei migranti che sbarcano in Italia da cinque anni. A dire il vero, fino all’estate, la grande maggioranza dei Francesi ignorava perfino che l’Italia stava affrontando da più anni un’immigrazione africana importante. Evidentemente, i Francesi ignorano quanti migranti sono stati salvati e quanti sono accolti dall’Italia. Invece, i mass media hanno molto parlato delle elezioni italiane e di Matteo Salvini. A causa di quello detto da loro e dal presidente della Repubblica Emmanuel Macron, è da temere che molti Francesi pensino gli Italiani razzisti. Tuttavia, alcuni Francesi approvano Salvini e vorrebbero che la Francia chiudesse le sue frontiere come l’Italia chiude i suoi
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porti. Ignorano che la frontiera con l’Italia è già chiusa. È un po’ la storia della nuvola da Tchernobyl che sta ripetendosi. La nuvola da Tchernobyl non varcava la frontiera francese. Nello stesso modo, certe informazioni rimangono all’estero. Ciò detto, ci sono dei migranti anche in Francia. Quelli che vengono dai paesi dell’ Europa dell’Est non sono chiamati migranti dai mass media perché sono europei, ma sono percepiti lo stesso dai Francesi perché non capiscono il francese. Sembra che ci sia in Europa un’onda di xenofobia, ma forse è piuttosto un miscuglio di sentimenti diversi dalla xenofobia. C’è il problema della disoccupazione, enorme in alcuni paesi - importante in Francia da tre decenni -. E poi, vari popoli europei paiono sentirsi minacciati nel campo culturale. Questo sentimento ha, a parer mio, delle cause varie, ma molte persone pensano soprattutto all’immigrazione perché da un ventennio alcune musulmane mettono il velo, quindi la loro religione è visibile per la strada, e inoltre da alcuni anni c’è il fanatismo criminale dei terroristi. Ma a parer mio, il sentimento di vulnerabilità culturale dei vari popoli europei ha molte cause legate ai migranti. Occorrerebbe agire su queste cause. A Parigi, l’estate è stata molto bella, non caldissima, ma bella con poche piogge, e spesso con un dolce sole. Suppongo che anche a Pomezia ha fatto un bel tempo, forse perfino caldo, ma è probabilmente lo stesso ogni anno a causa della latitudine. Le auguro un cambiamento di stagione piacevolissimo. L’autunno vicino è bellissimo per chi prova piacere a passeggiare nella natura. Con amichevoli saluti. Béatrice G. Quale gioia e quale entusiasmo apprendere che le poesie di suo gusto sono state più d’ una. Non è facile per ogni numero effettuare scelte nel rispetto di temi e contenuti, ma anche delle tendenze e degli stili, perché non
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credo di avere strumenti e capacità di giudizio. Vado, comunque, ogni volta, d’istinto e di cuore. La sua traduzione farà felice la signora Lucia Pagano, moglie dell’indimenticabile Gianni Rescigno, improvvisamente scomparso nel maggio del 2015. Se dovesse effettuarne altre di traduzioni - così come costantemente facevano nostri amati e illustri collaboratori che ci hanno lasciato: Solange De Bressieux, Paul Courget, per esempio -, i lettori di Pomezia-Notizie gliene sarebbero grati. Il problema dei migranti oggi è sopravvalutato da tutti gli Stati del nostro continente, perché, accentrandosi la ricchezza sempre più nella mani di pochi e aumentando dappertutto la disoccupazione, si è dominati dall’ angoscia, dall’ egoismo e dalla paura. Nessuno si rende conto che, se non governato, il problema rischia di frantumare definitivamente l’Unione Europea. L’Italia non è stata mai razzista e neppure egoista. Non lo è stata e non lo è per sua natura - la storia dovrebbe insegnarci qualcosa -, perché da millenni, sul suo territorio, si sono avvicendati popoli e popoli (perfino molti imperatori dell’antica Roma erano di provenienza straniera); non lo è stata e non lo è, perché in maggioranza cattolica apostolica romana e quindi portata all’amore fraterno e all’accoglienza; non lo è stata e non lo è, perché memore delle nostre passate emigrazioni, delle quali son testimonianza le folte comunità italiane in Usa, nel Canada, in Argentina e in altre parti del mondo. L’Italia non dimentica e non discrimina. Se protesta tardivamente, avrebbe dovuto farlo prima -, è perché, da sola, non potrà mai far fronte a un fenomeno epocale e inarrestabile, mai potrà decentemente accogliere milioni e milioni di disperati di un continente - l’Africa - per secoli depredato da popoli colonialisti come la Francia. La Francia è da tempo che gioca sporco nei confronti dell’Italia. La Francia accusa di razzismo e di non accoglienza l’Italia, quando è stata proprio la Francia che, prima, ha chiuso le proprie frontiere e, a Ventimiglia,
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addirittura, i suoi gendarmi hanno impunemente quanto provocatoriamente varcato il confine italiano per fermare e perquisire emigranti. La Francia non può dare lezioni all’Italia: per il suo passato coloniale (naturale sarebbe, perciò, che sul suo territorio ci fossero più emigranti che altrove); per il suo livello d’aggressività (la guerra contro la Libia è alla base di questo odierno dilagare di emigranti, che l’Italia di quegli anni aveva quasi del tutto arginato); perché finge ipocritamente di non conoscere la realtà e che, cioè, a fronte dell’accoglienza di qualche migliaia di migranti, l’Italia ne ha ospitati e continua ad ospitarne centinaia e centinaia di migliaia. Se gran parte dei Francesi è all’oscuro della verità, è colpa dei suoi media che disonestamente l’hanno occultata, ma anche dell’ Italia, la quale, per qualche elemosina, per pusillanimità, per quieto vivere, non ha mai sufficientemente protestato, abbassando, invece, sempre la testa ogni qualvolta c’era, invece, la necessità di alzare la voce. Ora è tardi e inutile che la Francia e altri s’indignino perché l’Italia va dicendo basta. Il popolo italiano è esterofilo per natura e ha sempre amato il popolo francese. La Francia farebbe bene, allora, a riconoscerlo e ad unirsi all’Italia per cambiare questa Unione Europea, memore che la sua eventuale distruzione sarebbe nociva ad entrambe. Invece, che fa la Francia? Continua nelle sue quotidiane provocazioni. È del 15 ottobre 2018 la dimostrazione, attraverso filmati, della sfacciata, tracotante ipocrisia della Gendarmeria francese - tanto è vero che Parigi ha sentito il dovere di scusarsi - che a Claviere, con i suoi furgoni van, scaricava, in territorio italiano, migranti, compresi minori non accompagnati. La Francia si sente forte? Usi il suo potere non per svillaneggiare, un giorno sì e l’altro pure, l’Italia, ma per sedersi assieme intorno a un tavolo, convincere altri Paesi a farlo, e risolvere, insieme, nell’ interesse di tutti, il cancrenoso problema. Consentire che la sua Gendarmeria usi la prepotenza, si comporti verso l’ Italia con spudora-
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tezza, alla stregua di briganti e banditi, non le fa certamente onore. Carissima Béatrice, godiamoci queste ultime e luminose giornate autunnali, prima del freddo e del buio dell’inverno. L’autunno è stato da me considerato sempre una primavera attenuata: i prati che inverdiscono dopo i bruciori dell’estate e si ripopolano di fiori (oh, il giallo sterminato dei crochi e il rosea screziato delle malve, la pudica, riservata bellezza dei ciclamini!); gli alberi che si adornano di dorature cangianti e di saporiti e dolci frutti (arance, mandarini, limoni, kaki, mele variopinte); le tante e dolci malinconie e gli odori dei mosti: “son nato in autunno,/sotto umile tetto,/ed ho nell’animo malinconia del tempo” (in Un paese e una ragazza, 1964). Naturale, dunque, ch’esso mi scorra nelle vene. Anche a lei, Béatrice, più che amichevoli saluti. Domenico *** Gela, 25 settembre 2018 Caro Domenico, Come tu sai, negli ultimi dieci anni ho diradato le mie visite in Sicilia, per occupazioni e impedimenti vari; così l’ultima settimana di luglio, dopo quattro anni d’assenza, mi ci sono recato. Pensavo di restarvi un paio di settimane, al più fino a ferragosto; limitarmi a compiere qualche doverosa visita e dare conforto a parenti da poco colpiti da lutto e rivedere fratelli, parenti, amici e poi ripartire per riprendere gli impegni lasciati in sospeso. E, invece, il soggiorno si è prolungato più del previsto. Uno o due giorni dopo essere arrivato a Gela, fra i tanti necrologi letti, apprendo della dipartita di un mio professore di ginnastica (Umberto), del quale in seguito diventai collega: non mi rimaneva che salutarlo al suo funerale. Qualche giorno dopo, vengo a sapere che è venuto a mancare il poeta Federico Hoefer (2 agosto), le nostre vite si erano incrociate sul finire degli anni Sessanta e inizio anni Settanta, essendo entrambi dipendenti
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del locale Stabilimento Petrolchimico, con funzioni diverse; chi lo ha conosciuto per lavoro o amicizia me ne ha parlato con grande rammarico. I giorni si sono avvicendati con un susseguirsi di necrologi e di elenchi che mi aggiornavano dei tanti, troppi, amici che sono venuti a mancare, vuoi per fattori naturali, vuoi per l’eredità lasciata dal Petrolchimico: il benessere apparente al costo dei tumori. Calpestando il basalto delle strade ne riconoscevo gli angoli, le scalinate, le piazze: ne ascoltavo gli echi lasciati tanti anni fa, affioravano ricordi, nomi, visi; portavamo tanti sogni e aspirazioni. Ragazzi prima e giovanotti dopo, andavamo dietro le giovanette; le feste da ballo erano rare occasioni per avvicinarci; chissà adesso che fine hanno fatto le signorinelle, saranno invecchiate anche loro, saranno nonne o forse non ci sono più. La voglia di continuare un discorso con un caro amico (Pino), interrotto nel corso degli anni e ripreso ogni volta che rientravo, stavolta è stata soffocata, il dialogo non si è potuto riprendere. La viglia di Ferragosto è stata funestata dal crollo del Ponte Morandi a Genova, che ha avuto una vasta eco, tanto per l’evento eccezionale, quanto per le quarantatré vittime di varie provenienze da comportare lutto nazionale e patemi d’animo in molte famiglie; i pensieri si fanno cupi. Qui il sole si avverte più che a Roma; immergersi nell’acqua del mare diventa l’unico sollievo; nel pomeriggio, fino al tramonto, è quasi impossibile fare quattro passi, e quando li fai, tra i richiami del tempo passato e le prospettive del futuro, ricevi brutte notizie. Non ho avuto l’animo di dare mie nuove agli amici che mi attendono, lasciando credere che me la sono spassata tra un bagno e l’altro, tra un lauto pranzo e un cenone, fra sorrisi e convenevoli, anche per non appestare l’aria di chi mi stava intorno. Ed è così che man mano che trascorrono i giorni, si supera il ferragosto, si avvicina la fine del mese, e si prolunga la permanenza. Dei più anziani, abbiamo preso il posto, e i giovani che ci seguono hanno altri interessi, essi pagano lo scotto che i tempi e la natura
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pretendono. Ma anche settembre è foriero di eventi, così ci si attarda in attesa della festività della Santa Patrona (giorno 8, Madonna dell’Alemanna), si temporeggia per desiderio che manifestano i parenti per intrattenerci, si indugia con quei quattro amici rimasti, ci si rianima pensando che altri amici stanno ad aspettarci. Diventa raro parlare di poesia, di storia locale; non incontro come una volta le menti più vivide presso le librerie storiche o nei parchi pubblici adesso privi di fascino. Non mi rimane che sentire e ripetere con stanchezza, luoghi comuni sulle antiche vestigia della città, sul malgoverno, sui costumi che vanno mutando; argomenti stantii; meno male che alcuni libri ne parlano. E intanto la data del rientro si allontana; una sorta di calamita ti incanta per quel sembra rinverdire, ma non puoi lasciare andare via come se non ti riguardasse quello che ti sta abbandonando. Da quando mia moglie ed io siamo arrivati, oltre al naturale svago, siamo stati al capezzale di una nostra zia, in rappresentanza della nostra cerchia familiare, e a sostegno affettivo verso i cugini, accompagnandola nell’ultimo respiro (21 settembre), nelle esequie e nell’ ultima dimora. In questi frangenti viene spontaneo sondare il proprio animo, avvertire emozioni contrastanti che mi attraversano la persona. In quello stesso spazio fisico, quasi due anni addietro è spirato lo zio; quattro anni fa, in letizia abbiamo fatto alcune foto alla zia e alla madre di mia moglie; e quarantacinque anni fa, si spegneva mia madre; abbiamo rivissuto, quasi nella stessa maniera, la triste ricorrenza. Se tocco tali argomenti non è per fare il nostalgico, il malinconico, ma perché questa è la vita, seppure si parla di morte; ciò è troppo duro da digerire. Nel bene e nel male, nel benessere e nelle ristrettezze economiche, quello era il tempo in cui l’allegrezza era contagiosa in tutto il vicinato. Quello era lo spazio in cui non mancava l’armonia, la musica, il canto, l’estro artistico. In situazioni diverse, io e mia moglie, vi abbiamo trascorso l’ infanzia, l’adolescenza, la prima giovinezza.
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Il testimone passava di generazione in generazione, automaticamente, oppure se ne preparava il passaggio. L’ultimo baluardo alle tradizioni parentali se n’è andato, l’ultima spiaggia d’arrivo è stata inghiottita dalla mareggiata, l’ultimo scoglio si è insabbiato, non c’è più. Le radici tendono ad allontanarsi dal ceppo, i rami tendono a rinnovarsi, la chioma ad allargarsi. Dai semi hanno vita altre piante, altri ceppi: è la natura che detta le sue leggi; la cura di un albero è affidata al potatore saggio, all’ orticoltore giudizioso; ma è compito di un giardiniere illuminato mantenere curata l’intera coltura. I frangiflutti posti, hanno restituita quella “sabbia color paglia” di Gela, decantata da Salvatore Quasimodo, che dà sollievo alla pelle e che offre ancora un arenile accogliente che fa sognare. Continuare sull’ argomento rischia di cadere nella retorica. Spero tu stia bene unitamente ai tuoi cari, ciao T. C. Ecco, caro Amico: hai fatto quello che io, per ragioni diverse, non ho fatto, né riesco a fare, da ch’è morta mia madre (giugno 2003): rivisitare il mio paese e la mia terra, innaffiare, così, d’affetto e d’amicizia, le mie, ormai, stanche radici. Cerco, pure, nel possibile, di non pensarci, per non distruggermi in nostalgie. Ma quando il richiamo è insopportabile, ho preso l’abitudine di navigare in rete, idealmente calpestando le strade e i vicoli di Anoia. Le immagini a colori mi aiutano a percorsi adagio, passo passo, a soffermarmi sui particolari: ecco la bignonia sul cancello della casa che fu dei miei genitori; il vecchio Municipio di fronte, cadente, dai vetri rotti, sì che le rondini vi entrano e vi escono e vi costruiscono i nidi; le case dei pochi amici di un tempo - posso avvicinarmi alle loro porte fino a leggervi i numeri!… Mi pare, insomma, di camminare in un passato-presente, senza pensare che le persone che vi abitavano forse non ci sono più, i giovani magari emigrati e gli anziani ormai a dormire nel vecchio cimitero, del quale percorro tutto il
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muro lungo la via che porta ad Anoia Superiore, soffermandomi dinanzi al cancello per la recita di un requiem. Dopo aver costeggiato la bella, aerea villa, sosto davanti alla vecchia scuola elementare e ricordo i compagni, il maestro che, anziché l’abbecedario, m’insegnava ad andare in bicicletta, ad arrampicarmi sulla pertica o sulla fune, a gareggiare alla corsa nella piccola palestra all’aperto; in aula, ogni mattina, sul pavimento freddo, ci costringeva a lottare ciascuno col proprio compagno di banco, poi i vincitori fra loro fino ad arrivare al vincitore assoluto, al quale veniva, a volte, consegnato un piccolo diploma con una figura d’atleta verdastro e, mi pare, il simbolo del fascio. In quella scuola sono entrato ignorante e tale ne sono uscito. Aveva tante altre cose da fare, il maestro, e raramente stava con noi. Mentre nelle altre aule si lavorava, noi stavamo sempre soli, nelle belle giornate in palestra a sfotterci reciprocamente, a raccontare barzellette, a inventare filastrocche, a duellare con le mosche che a nugoli ci torturavano. Risalendo Corso Umberto, ecco la chiesa del Carmine, sugli scalini della quale, con gli amici, ho trascorso tanti pomeriggi; e poi la chiesa nuova, e poi lo spiazzo dov’era l’ufficio postale e dove abitava la maestra degli ultimi anni, l’unica a farmi apprendere qualcosa. Non seguo un tragitto studiato sulle mappe di Google, ma viaggio a casaccio; è un percorrere senz’ordine; vie e vicoli, strade paesane e di campagna, svoltando di qua e di là, ripetendo più volte tratti già perlustrati. Alla fine, però, mi trovo sempre sulla via poderale San Francesco e poi sulla provinciale per Galatro, tra colline, boschi, agrumeti, nella speranza, vana, d’individuare il cancello d’ entrata di Baldes, l’Eden della mia fanciullezza, i due casolari su piccoli promontori nel mare di ulivi e d’aranceti. Mi sembra, ma non son certo sia quella, di intravedere la collina dalla terra rossa, sopra la quale mi perdevo tra macchie di ginepro e lentischio, in cerca di nidi e, in primavera, a passare sotto i veri e propri archi di trionfo delle verdi e profumatissime vecce.
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La tua lettera, Carissimo, gronda tristezza, non dico rassegnazione, e c’è l’assedio della morte (Umberto, il tuo “professore di ginnastica”; il vecchio poeta Hoefer; il tuo amico Pino; tua zia…) . Non aiuta certamente a vivere pensando troppo a tutto ciò. Nessuno di noi può evitare il viaggio estremo, ma è ottima filosofia, s’è possibile, passare, ogni giorno che c’è dato, come se fossimo eterni. Non sapevo che tu e Federico Hoefer - da me ricordato nel numero di settembre - siete stati, in passato, entrambi dipendenti del Petrolchimico. L’insediamento è considerato bestiaccia da alcuni - fonte di gravi malattie -, risorsa da altri, perché fonte di lavoro, in una terra - la Sicilia, ma così è anche nella mia Calabria - dove è stato sempre scarso - perciò prezioso più dell’oro - e tale continuerà a esserlo finché dominio di Mafia - di Ndrangheta in Calabria - e non si permette alla gente di osare, aprire commerci, attività varie, respirare, insomma, senza essere continuamente taglieggiata, minacciata. Se si eliminasse questa cancrena - perniciosa più di quella procurata dal Petrolchimico -, ti assicuro che ci sarebbero altre fiorenti attività e meno pericolose, perché i Siciliani hanno idee, inventive, capacità, genialità. Ritornando per qualche mese alle tue radici, hai deciso di non dare nuove ai tuoi tanti amici, ed essi si sono giustamente preoccupati. A inviarmi e-mail, a telefonarmi chiedendo di te, sono stati in tanti, tra i quali ti ricordo Andrea Bonanno e Pasquale Montalto. Li ho rassicurati tutti pregandoli di aspettare il tuo ritorno da Gela. La vita nelle province italiane ancora oggi scorre a rilento rispetto a Roma, sì ch’è normale sentire “ripetere con stanchezza, luoghi comuni sulle antiche vestigia della città, sul malgoverno, sui costumi che vanno mutando”. Il rimestare tra le polveri del passato e le tante brutture del presente può sembrare rituale stanco e inutile, ma può essere anche humus fertile per il nostro interiore se sappiamo ben dosarlo. Non è strame, ma buon concime, del quale han bisogno i “semi” che danno “vita” ad “altre piante, altri ceppi”.
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Allora, il mio augurio, Carissimo, è che le tue belle figlie possano, quanto prima, darti quei frutti che rallegreranno la tua vita e quella della tua Concetta: vitamine e nuovo slancio per i tanti anni che vi restano. Domenico *** Carissimo Direttore ed Amico, se l'avessero lasciato a poeti, musici, artisti anche di strada di campi di terre di mari di monti di campus il '68, senza altre sostanze che le giovani desideranti gioie di fare, di sapere, di vivere, non si sarebbero perse capacità, idee, progettualità profondissime ed ora lasciate forse al serpente. Gli studenti da Berkeley si ribellano in agitazioni e si astengono da tutto, fanno l'amore, non vogliono fare la guerra e nasce così il simbolo del Movimento Anarchico Pacifista. L'onda arriva in Europa e dalla Cina Mao Tze-Dong dice la sua. Tragedie individuali e collettive e qualcuno resta a guardare, così, per vedere come l'onda procede e quali strutture trascina con sé, in alto mare, comprese quelle dell'Io e delle sue minime basi. Per il II Festival Luigi Nono alla Giudecca 'Luigi Nono-il '68- La Musica (3-7 ottobre 2018) si torna indietro nel tempo e nel Film di famiglia di Serena Nono, per qualche minuto visibile in rete, il Gigi Veneziano è alla guida di un corteo di giovani, studenti e operai insieme, artisti coinvolti e persone che con lui hanno creduto, hanno sperato, hanno inteso agire sul piano politico, economico, delle idee. Lui è morto a 66 anni, consumato forse anche dalla sua generosità senza limiti; la Rossanda se n'è andata a Parigi, dopo essere stata allontanata dal PCI; qualcuno ci dice che l'Europa è tramontata. Dopo aver letto a caratteri cubitali sulle pareti del Liviano a Padova il manifesto femminista 'L'utero è mio, me lo gestisco io!', ho riflettuto un attimo, mi son detta 'ma se è tuo, gestiscilo come credi, senza dirlo a tutti!' e mi sono resa conto che si era passati dalla culla di una Chiesa da atti impuri, minime pagliuzze nell'occhio del confessato, alla culla del Partito, che chiede fedeltà, ubbidienza, pensare unidirezionale, tanto che appunto Rossana Rossanda, Una ra-
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gazza del secolo scorso, se n'è andata a respirare a Parigi arie migliori, come del resto Toni Negri! Il mio '68 continua, giorno dopo giorno, a fianco di operai che non hanno diritti e che, sempre che abbiano un lavoro, devono accettare condizioni che hanno senso deviato, distorto, irragionevole; giorno dopo giorno, a fianco di artisti di ieri e di domani, che vogliono sollevare l'immaginario e riuscire a far respirare ancora, offrendo loro le mie ore intense di studio e di riflessione; giorno dopo giorno, a fianco ed all'interno di una Natura che reclama attenzione, rispetto, condivisione empatica per poterci restituire vita e vita vera. Sperare oggi: si, carissimo, diventa quasi obbligo interiore da consolidare perché efficace, salutare, vitale. Tu hai reso concreta e costante la speranza, dentro di te, come preghiera d'ogni tuo, d'ogni vostro giorno di vita, dall'alba a notte fonda, e fuori di te, come volontario progetto d'arte poetica e come forza propulsiva nelle azioni cariche della tua assunzione di responsabilità, che le porta a compimento. Il tuo '68 è tutto in Un silenzio che grida, opera di critica di un poeta che interpreta: questo il tuo vero modo di lottare, da entrambi i versanti della vita con la Poesia al suo interno, del pensiero e dell'azione. Poi, a cinque anni di distanza dal '68, nel 1973, la dimostrazione concreta di questo intendimento, la creazione in progetto e la fondazione di questa stupenda voce corale, di Poesia, d'Arte, di Scienze, POMEZIA NOTIZIE, una coraggiosa sfida alle idee fittizie, ai progetti vaghi e senza ossigeno, ai giudizi carichi di arroganza e delirio, attraversando difficoltà d'ogni genere, animato proprio da quella speranza che è nel tuo oggi, d'ora come d'allora. Grazie, perché sei testimonianza concreta e coerente di come pensare, costruire, articolare in vita percorsi che lasciano traccia indelebile, attraversate dal coraggio puro di mettere a nudo tutti i guasti di un Potere stanco, manomesso, guasto e senza scrupoli, per il quale la voce 'Democrazia' è solo un insieme inarticolato di lettere. Anche tu fai sperare, oggi. Ilia tua, riconoscente.
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Carissima Ilia, non è del tutto vero che il ’68, se lasciato nelle mani solo di poeti, scrittori ed altri artisti, avrebbe sortito risultati diversi e migliori o, come tu scrivi, “non si sarebbero perse capacità, idee, progettualità profondissime”. È la rivoluzione più vicina a noi e ancora tutta da approfondire. Il ’68 è stato uno sconvolgimento abbastanza esteso, sofferto altrove più che da noi, dove ne abbiamo avuto solo la coda, cioè quando altrove si stava già spegnendo. Più che regolare, giacché noi copiamo, seguiamo, non cavalchiamo e diamo impulsi. Un periodo controverso. Pasolini difendeva i poliziotti e viveva la stagione con diffidenza; Ungaretti ne era affascinato, entusiasta; Elsa Morante sognava rivoluzioni di bambini; ha fine il Gruppo 63; numerosi gli sperimentalisti, come Italo Calvino, Luigi Malerba; cantautori come Morandi, De André; pittori come Schifano, Agnetti, Vaccari, Simonetti, Angeli, Mariani, Filippi, Pettena, Mazzucchelli... Gli elenchi sarebbero vastissimi, sia dei poeti, degli scrittori, dei pittori, dei musicisti. E mi riferisco solo agli italiani, perché i calibri, in ogni campo, li troviamo quasi tutti all’estero. In quegli anni non vi furoreggiava solo la Rossanda. Ricordo una manifestazione di belle quanto sguaiate ragazze al Magistero di Roma - a fianco al Museo delle Cere e a Santa Maria degli Angeli, in piazza Esedra -, che gridavano accaldate “la fica è mia!” e agitavano il libro manifesto Porci con le ali, di Marco Lombardo Radice e Livia Ravera. Il ’68 fu una rottura di schemi antiquati, ma, mal gestito e mal compreso, ha prodotto e lasciato solo danni. Il mondo culturale e artistico era lacerato. Quando, nell’ottobre del 1964 sono entrato per la prima volta in un’aula, gli allievi s’alzarono all’unisono, in silenzio, rimanendo quasi sull’attenti finché non li ho pregati di sedersi. L’insegnante era un dio. Qualche anno dopo, quell’autorità, che era da mitigare, è stata completamente abbattuta e le scuole son diventate una specie di bordello, le cui conseguenze non sono an-
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cora finite. La donna, che aveva sofferto la totale schiavitù, che doveva essere difesa e aiutata a conquistare i suoi diritti, è stata lasciata sola a cavalcare volgarità e libidine; ha smarrito se stessa e gli scrittori e gli artisti hanno caricato a testa bassa in questo scempio. Liberarsi di tutto, storpiare tutto, ridicolizzare tutto, ma tutto gattopardescamente, nell’esteriorità e nella finzione, in fondo, però, tutto come prima. Anche la lingua snaturata inutilmente: non più cieco, ma non vedente; non sordo, ma non udente; non sconfitta, ma flessione e anche non poetessa, ma poeta. Già, Poeta! Una donna a sentirsi dare un appellativo da maschio avrebbe dovuto ribellarsi, difendere la sua dignità e la sua femminilità, invece di sentirsi orgogliosa. Una falsa rivoluzione, allora, per molti versi, pilotata, come al solito, dagli interessi dei caimani; un finto cambiamento, come tu affermi: il passaggio da una autorità a un’ altra, dalla Chiesa cattolica apostolica romana a un’altra chiesa, quella dei Partiti. Ho cercato sempre di denunciare l’imbroglio, percorrendo una strada quanto più equilibrata possibile e il tuo Papà se n’era accorto, allorché, il 21 giugno 1968, tra stima e canzonatura - Francesco Pedrina sapeva anche essere ironico -, mi regalava il suo saggio su Giuseppe Gerini con la dedica: “A Domenico De Felice,/il cui demone poetico non/ impazza né traligna”. Una prova del mio tentativo di equilibrio, è il quasi proclama - così qualcuno l’ha definito in apertura del saggio Un silenzio che grida, lodato e condannato, perché non d’accordo col marcio passato, ma neppure con il presente - quello di allora e quello di oggi - che distrugge senza costruire. Domenico
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