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50ISSN 2611-0954

mensile (fondato nel 1973) Direzione e amministrazione: Via Fratelli Bandiera, 6 - Tel. 06/91.12.113 - 00071 POMEZIA (Roma) - Fondatore e Direttore responsabile: DOMENICO DEFELICE – e-Mail: defelice.d@tiscali.it – Parziale distribuzione gratuita (solo il loco) – Attività editoriale non commerciale (art. 4, D.P.R. 26.10.1972 n. 633 e succ.ve modifiche) - Per abbonamenti: annuo, € 50; sostenitore € 80; benemerito € 120; una copia € 5.00) e per contributi volontari (per avvenuta pubblicazione), versamenti sul c/c p. 43585009 intestato al Direttore - Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 213/93 del 23/5/1993 - La collaborazione, sempre gratuita, in parte è libera, in parte è per invito. Ogni autore si assume la responsabilità dei propri scritti - Manoscritti, fotografie e altro materiale, anche se non pubblicati, non vengono restituiti - É ammessa la riproduzione, purché se ne indichi la fonte. Per ogni controversia, foro competente è quello di Roma.

Anno 27 (Nuova Serie) – n. 11

€ 5,00

- Novembre 2019 -

CRITICA “EPISTOLARE” di Emerico Giachery

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RMAI non si scrivono quasi più lettere, avendo a disposizione la possibilità di inviare messaggi on line che giungono in tempo reale, senza doversi affidare ai recapiti lenti e dubbi delle Poste odierne. In anni giovani, e anche meno giovani, ho scritto centinaia di lettere. Scrivevo quasi dovunque: nei caffè, sui treni, nelle stazioni, nelle biblioteche. Tutti messaggi affidati al vento della vita, dispersi, scomparsi. C’è però un’eccezione: le lettere scritte ad Albino Pierro, col quale intrattenni un’amicizia durata un quarto di secolo. Per festeggiare i suoi settantacinque anni, Pierro volle che raccogliessi le molte mie lettere a lui, quasi sempre concernenti giudizi su sue opere, in un volume pubblicato dalle edizioni Osanna di Venosa e intitolato L’ interprete al poeta, che ebbe una diffusione superiore al previsto. Il mio dovere di critico e interprete “ufficiale” l’ho nel 2003, pubblicando per le edizioni Genesi dell’ amico Gros Pietro il volume Albino Pierro grande lirico. Ma resto affezionato a quella “critica epistolare” così connessa alla vita vissuta, così poco accademica. Vorrei proporne qualche pagina ai cari lettori di “Pomezia-Notizie”. Scelgo stavolta, ritenendo che potrebbe essere pubblicata nel mese dedicato al ricordo degli scomparsi, alcune parti di una lettera scritta a Pierro, che mi aveva inviato il suo libro Sti mascre, il 2 novembre del 1982, dalla mia casa vuota per la recente scomparsa di entrambi i miei genitori, a poche settimane di distanza l’uno dall’altra. Se i lettori vorranno, un’altra


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All’interno: Marinetti e le avanguardie, di Luigi De Rosa, pag. 5 Ricordo di Orazio Tanelli, di Domenico Defelice, pag. 9 Cheng Guo, di Domenico Defelice, pag. 15 Emerico Giachery, Scrittura e destino, di Antonio Crecchia, pag. 18 Renato Filippelli scrive a Francesco Pedrina, di Ilia Pedrina, pag. 20 Marina Diano torna alla ribalta, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 24 Giovanni Zaupa, Andrea Gregori…, di Ilia Pedrina, pag. 28 Domenico Defelice, Le parole a comprendere, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 31 Un testamento-messaggio, di Fabio Dainotti, pag. 34 Candido, di Antonia Izzi Rufo, pag. 36 Tang Shi, di Domenico Defelice, pag. 37 Agliè e Guido Gozzano, di Leonardo Selvaggi, pag. 41 “…Questa massa va rimossa!”, di Ilia Pedrina, pag. 44 I poeti e la Natura (Mario Novaro), di Luigi De Rosa, pag. 46 Notizie, pag. 54 Libri ricevuti, pag. 53 Tra le riviste, pag. 53

RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (Le parole a comprendere, di Domenico Defelice, pag. 48); Elio Andriuoli (Memorie d’autunno, di Maria Gargotta, pag. 49); Salvatore D’Ambrosio (Mythos, di Antonio Crecchia, pag. 50).

Lettere in Direzione (Béatrice Gaudy, Parigi), pag. 52

Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Rocco Cambareri, Antonio Crecchia, Ada De Judicibus Lisena, Luigi De Rosa, Salvatore D’Ambrosio, Béatrice Gaudy, Antonia Izzi Rufo, Manuela Mazzola, Ilia Pedrina, Gianni Rescigno, Leonardo Selvaggi

volta sceglierò una diversa lettera di “critica-vita” scritta a Pierro mentre ero appoggiato a un masso dell’isola d’Elba, con vista mare. Ma ecco il testo (parziale) della lunga lettera a Pierro. “Carissimo Albino. Dalla fonda stanchezza che mi invade e mi avvolge trovo un filo di forza per scriverti. In questo giorno dei Morti, il più pio dei giorni. Nella mia casa c'è un piccolo sacrario dove ardono ceri dinnanzi a due cari ritratti che il mio pensiero accarezza con infinito musicale amore. Vorrei ci fosse più silenzio, intorno, come ce n'è in me; dovrebbe vietarsi ogni rumore

della strada. Sospendere il fiato, perché la voce dei morti è un sussurro. È forse un caso che la mia penna scorra oggi per te, proprio in questa notte dei morti, per te che sei il più pio poeta della presenza dei morti, più pïo dello stesso Pascoli, credo, perché più corale la tua voce che è quella della tua gente, di una civiltà che fa posto con amore alle presenze dei morti? Esiste, poi, il caso? La tua poesia è "lampada ch'arde soave", lucerna proprio alle presenze scomparse, nostre care e di tutti, della tua gente e dei tanti ignoti e remoti che nessuno ricorda più, magari da millenni, salvo forse


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il buon Dio che, si spera, tutto accoglie e raccoglie. Tu li vegli tutti, i defunti della terra, li vegli con amore. E non è, dunque, un caso che proprio stasera mi chiami a te il tuo pacco non aperto prima d'ora, e che io trovi i tuoi versi nel respiro che meritano, cosi soli e intensi. Anche Sti mascre testimoniano della scabra densità a cui sei giunto in queste ultime raccolte, della qualità suprema, ormai quasi costante, che rende difficile scegliere, indicare preferenze tra le diverse raccoltine che di tanto in tanto raggiungono il lettore. Maschere tragiche, certo, di una tensione disperata, che non so come si riesca a sopportare vivendo, e a tradurla in parola. Grido: parola tematica (lo disse Folena, se ben ricordo) e quasi genere letterario. Di espressionismo credo che qualche critico abbia parlato, per questo canto-grido che richiama all'audacia lacerata di quella immagine della cacciata dall'Eden negli affreschi del Carmine: un grido, quello di Masaccio, davvero "creaturale" che sfida tutti gli equilibri e le proporzioni auree dell'armonico Quattrocento; cristiano, esistenziale grido. E la tua modernità paradossale, anche "materica" come suggerisce arditamente Contini, di quella scheggiata e metallica materia dai possibili imprevisti bagliori, che ormai ben conosciamo, non consiste in una tematica attenta ai grandi moti della storia e della cultura d'oggi, ma in questa inesorabile concentrazione, nella dissonanza e scabrezza e in quella lampeggiante luce di delirio, di follia evocatrice d'immagini, che ti apparenta ai pittori espressionisti, ai volti spiritati e contorti di un Ensor, alle visioni terremotate di Soutine, ai musicisti atonali, a una dimensione cioè che di solito nulla ha a che vedere con l'animus stesso della poesia in dialetto (fatte eccezioni come il Belli, anche lui a tratti cosi "creaturale", o espressionistico), né con la tradizione di quel centrale villaggio lucano di cui un po' tutti abbiamo parlato. Di qui la tua originalità, quasi direi a volte involontaria, il tuo mistero. Ci sono dunque momenti del Pierro più

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alto, che non finisce di sorprendere, nuovo per la forza di certe immagini straordinarie pur nella costante tematica, pur nella ben riconoscibile tonalità comune a tanta altra tua poesia: "Po’ quanne si fè notte pure 'a lune / 'a puurelle /, i'è gghianche com' 'a nive a lu pinzere / ca sti cose d'u munne /, e fussere pure i stelle, / tele e quèle a nûie si n'ann'a ì,/ come nd'u verne i frunne". Ossia: "Poi quando si fa notte anche la luna / la poverella, / come la neve è bianca al pensiero/ che queste cose del mondo,/ e fossero pure le stelle, / tale e quale a noi dovranno andarsene ,/ come d'inverno le foglie". S'è fatto tardi, in questa notte dei morti, dei carissimi morti vicini e presenti col loro dolce silenzio colmo d'amore (nostro, loro, divino, cosmico amore), dopo il giorno glorioso dei Santi che ci parla di un pleroma glorioso e operante attraverso l’eternità: è giusto che si succedano le due ricorrenze della comunione, della totalità, dell'insieme, dell'abbraccio immenso fra tutte le sfere dell'essere. Dopo i miei lutti sono anch'io più vicino a quella condizione di presenza-assenza, al mondo degli scomparsi o forse (speriamolo con tutta l'anima) soltanto degli invisibili. Dolcemente, piamente vicino, in colloquio che sempre risorge e che mi è più caro di ogni altro. Sento questa religione della memoria, che so essere anche la tua, come uno dei punti più alti, e che non è separazione dal mondo ma un diverso e più ricco rapporto col mondo, più filtrato e più puro, ma forse più autentico e fecondo di amore. Me li porto con me i miei penati come Enea portava Anchise, e il loro peso mi è lieve, non impaccio ma sostegno a proseguire per quel che mi resta del cammino: ancora misterioso, certo, ma quanto arricchito da quelle presenze, dal senso delle loro vite che, per quanto posso, cerco di ritrovare in quintessenza e di accarezzare in me, e di transustanziare in una mia vita più ricca. Quel mio poter esser loro vicino, tanto vicino nei momenti supremi, senza ostacoli né remore; e la misteriosa grazia e bellezza che saliva dal


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fondo pacificato e raggiava in sorriso celeste sul volto estremo, scarnificato, di mia madre prima che entrasse in coma; e poi lo stringersi di mio padre a me nelle ultime settimane per offrirmi intero e scoperto il senso della sua esistenza: tutto ciò non ha prezzo, mi colma, mi inonda. Dovrò solo assimilarlo col tempo. E quanto più vicino mi sento a Dio, alla sfera del divino, ora! Grazie per la compagnia che mi fai stasera con la tua pagina dolorosa e luminosa. Ti abbraccio Emerico

*** Carissimo Emerico, Ti sono grato per la lettera a Pierro, giacché, anch’io, sono un patito della lettera, e continuo a scriverle e a mandarle per posta, anche se, poi, spesso non giungono a destinazione. Proprio perché amo immensamente la lettera, nel corso degli anni ne ho pubblicato una gran quantità di quelle ricevute (delle migliaia da me scritte e spedite no, perché non ho mai conservato traccia); accenno, per esempio, a quelle di Maria Grazia Lenisa (Quaderni Il Croco n. 118, luglio 2015), di Francesco Pedrina (Il Croco n. 68, aprile 2007), di Solange De Bressieux (Il Croco n. 70, novembre 2007) di Nicola Napolitano (Il Croco n. 99, aprile 2011), di Eleuterio Gazzetti (Il Croco n. 111, maggio 2013), di Giuseppe Piombanti Ammannati (Il Croco n. 133, del settembre 2018) eccetera, proprio nella speranza che, leggendole, i lettori di Pomezia-Notizie – oggi, per lo più, tutti “elettronicizzati” - riprendessero anche loro ad amarle assieme alla bella tradizione di scriverle. Se avrò tempo e la capacità di decifrarle (non sempre la grafia è comprensibile) e copiarle, avrei intenzione di far conoscere anche le centinaia inviatemi dal grande e indimenticabile amico Peter Russell. Cari saluti. Domenico

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NON SONO PIU' QUEL LUIGI DE ROSA Non sono più chi sono stato né mi so dire chi ora io sia né chi sarò domani. Quest'affaire di identità mi ha seccato sempre in cerca di definirmi nel foglio e nell'anima, come in un gioco di punto e croce indeterminato. Ma se a qualcuno servisse didascalia o reperto, di me una targa, una reliquia, allora dicasi che sono ciò che ho scritto e non altro. Luigi De Rosa (Rapallo)

Letzte Freiheit Mein letzter Flug auf einem Schiff mit Flügeln; unter mir festliche Treffen mit funkelnden Lichtern, lachende Leute. Vom Wind getrieben, geht weg meine Seele. Ich habe nichts mehr. Manuela Mazzola (Ultima libertà. Pomezia-Notizie, gennaio 2019; p. 35. Traduzione in tedesco di Marina Caracciolo)

PIÙ DELLE PAROLE Più delle parole non ti posso regalare, Signore, forse poche di preghiera molte con lo splendore delle tue meraviglie. E così faccio più luminoso il giorno, più scintillante lo specchio della luna. Gianni Rescigno Da Il vecchio e le nuvole, BastogiLibri, 2019.


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A 110 anni dalla nascita del Futurismo (1909-2019)

MARINETTI E LE AVANGUARDIE IN POESIA -

IL FUTURISMO di Luigi De Rosa

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IÙ di un secolo fa, e precisamente il 20 febbraio 1909, veniva alla luce il Manifesto del Futurismo, tramite un articolo su Le Figaro di Parigi scritto e firmato da Filippo Tommaso Marinetti, scrittore e poeta nato ad Alessandria d'Egitto il 22 dicembre 1876. Si trattava di un Movimento artisticoculturale letterario di pura matrice italiana, intenzionato a rivoluzionare il mondo dell'Arte e della Letteratura sostenendo a spada tratta tre concetti chiave come dinamismo, modernità e tecnica. E mettendosi in frontale contrasto con qualsiasi forma di tradizionalismo nell'Arte. Altri movimenti affini nacque-

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ro in Europa, negli U.S.A. e in Asia. Tra i pittori che aderirono al Futurismo ricordiamo Umberto Boccioni, Giacomo Balla, Carlo Carrà, Gino Severini, Luigi Rùssolo. Tre anni dopo, lo stesso Marinetti scrisse il Manifesto tecnico della letteratura futurista. “Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa, canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri, incendiati da violente lune elettriche, le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti, che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichìo di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l'orizzonte; le locomotive dall'ampio petto che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d'acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta. E' dall'Italia che noi lanciamo pel mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria, col quale fondiamo oggi il Futurismo, perché vogliamo liberare questo paese della sua fetida cancrena di professori, di archeologhi, di ciceroni e di antiquari. Già per troppo tempo l'Italia è stata un mercato di rigattieri. Noi vogliamo liberarla dagli innumerevoli musei che la coprono tutta di cimiteri innumerevoli.” Più di un lettore potrebbe anche sorridere a tali affermazioni di entusiastico ma anche ingenuo fervore di rinnovamento. Ma si pensi alla letteratura italiana qual era sempre stata, fino allora, nella sua maggioranza e quotidianità, tranne poche grandi eccezioni. E Marinetti continua, nel suo Manifesto: “La letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità pensosa, l'estasi ed il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno.” Tutto ciò era sorretto


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da un appassionato disgusto per le idee del passato, specialmente per le tradizioni politiche ed artistiche. D'ora in poi avrebbero dominato l'amore per la velocità, la tecnologia e la violenza. Non i cieli sereni ma le perturbazioni atmosferiche; non i mari calmi ma le tempeste paurose. Non i villaggi tranquilli ma le città industriali, le ciminiere, le folle di lavoratori attivi; non la dolcezza della Natura ma il trionfo della tecnologia dell'Uomo sulla Natura. Non il Passatismo o Stucchismo, ma il Futurismo. Gli artisti passatisti o stucchisti venivano osteggiati perfino fisicamente nelle loro performances. Altre volte capitò invece il contrario. Ad esempio, in occasione del Discorso contro i Veneziani di Marinetti fu il pubblico presente ad aggredire e prendere a botte i Futuristi. In effetti il Fondatore, in un discorso al Teatro La Fenice, era andato giù molto pesante contro Venezia “passatista” e i suoi abitanti: “...Affrettiamoci a colmare i piccoli canali puzzolenti con le macerie dei vecchi palazzi crollanti e lebbrosi...Bruciamo le gondole, poltrone a dondolo per cretini.” Fino a definire la Laguna “un immenso acquaio, un deposito di escrementi liquefatti...Vergognatevene! Vergognatevene! Mentre noi prepareremo una grande e forte Venezia industriale e militare sull'Adriatico, gran lago italiano.” Naturalmente, per esprimere i nuovi contenuti ci sarebbe voluta una letteratura dalle forme completamente nuove: occorreva non solo spazzare via le biblioteche, i musei e le accademie, cimeli del passato da cancellare, ma anche adottare forme di eloquio e di scrittura assolutamente nuove. Veniva quindi dichiarata guerra alla grammatica, all'ortografia e alla punteggiatura. La poesia, in specie, avrebbe dovuto essere il trionfo della libertà, della sregolatezza e del movimento, con la negazione totale della sintassi tradizionale, la modificazione delle singole parole e la loro disposizione grafica sulla pagina in modo da suggerire e rafforzare le immagini suscitate dalle stesse. Tra le parole d'ordine del Futurismo lettera-

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rio: BISOGNA DISTRUGGERE LA SINTASSI SI DEVE USARE IL VERBO ALL'INFINITO SI DEVE ABOLIRE L'AGGETTIVO SI DEVE ABOLIRE L'AVVERBIO OGNI SOSTANTIVO DEVE AVERE IL SUO DOPPIO ABOLIRE ANCHE LA PUNTEGGIATURA ABOLIRE LE CONGIUNZIONI ABOLIRE LE SOSTE ASSURDE DELLE VIRGOLE E DEI PUNTI UTILIZZARE UNA GRADAZIONE DI ANALOGIE SEMPRE PIU' VASTE NON VI SONO CATEGORIE DI IMMAGINI NOBILI O GROSSOLANE: LO STILE ANALOGICO E' PADRONE DI TUTTA LA MATERIA E DELLA SUA INTENSA VITA BISOGNA CREARE STRETTE RETI DI IMMAGINI E DI ANALOGIE BISOGNA DISTRUGGERE L' “IO” NELLA LETTERATURA BISOGNA SOSTITUIRE LA PSICOLOGIA DELL'UOMO, ORMAI ESAURITA, CON L'OSSESSIONE LIRICA DELLA MATERIA (metalli, pietre, legno, etc.) Il Manifesto tecnico della letteratura futurista, dopo essere uscito nel 1912 riapparve nel 1914 sulla rivista fiorentina Lacerba di Ardengo Soffici e Giovanni Papini (la stessa nella cui Redazione sembra che si fosse persa la copia unica , manoscritta, dei “Canti orfici” lasciati in lettura dal povero Dino Campana...). Nello stesso 1914 (ormai il mondo stava per piombare nella Prima Guerra Mondiale...) uscirono altre due riviste, Il Centauro e La difesa dell'arte, nonché un libro il cui titolo (e il contenuto) la dice lunga, Zang Tumb Tumb. Zang Tumb Tumb è un poemetto sull'assedio di Adrianopoli nel 1912, durante la prima guerra balcanica. Nel volume si dà ampio spazio alle varianti tipografiche, con varie dimensioni e localizzazioni dei caratteri. Sono aboliti i nessi sintattici, gli articoli, gli av-


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verbi e gli aggettivi. Si fa un grande uso dei suoni onomatopeici per riprodurre esplosioni, spari, raffiche. L'effetto sul lettore, a distanza di un secolo, può variare dalla constatazione di un'incondizionata ammirazione per l'Autore a quella di un senso di una penosa frustrazione, peraltro subìta come necessaria ad un certo ammodernamento della Letteratura italiana. Il lettore che voglia provare un assaggio di questo tipo di scrittura (Poesia?) può leggere il volume Zang Tumb Tumb. (La battaglia di Adrianopoli, 1914). Cento anni fa si scriveva anche così. In nome del Futuro. Anzi, del Futurismo. Quanto ai poeti aderenti al Futurismo, si riunivano attorno alla rivista “Poesia”, fondata anch'essa da Marinetti, nel 1905, quattro anni prima del Movimento. Tra le loro tematiche preferite la guerra, la velocità e il futuro. Fra di essi, oltre a Marinetti e a Paolo Buzzi, ricordiamo Aldo Palazzeschi, il notissimo creatore de La fontana malata (quella del clòffete, clòppete, clòcchete...) nonché altri poeti (almeno per una parte della loro produzione) come Luciano Fòlgore, Ardengo Sòffici, Corrado Govoni. Perfino Salvatore Quasimodo, da giovane, fece il futurista (vedi la poesia “Sera d'estate”, apparsa nel 1917 a Firenze sulla rivista “Italia futurista”). Il nostro discorso, pur veloce come si addice a una moderna (non futurista) Rivista Culturale, non sarebbe completo se non accennasse alla glorificazione della Guerra da parte del Futurismo e dei Futuristi, che la consideravano addirittura l'igiene del mondo. (E di queste purificazioni ne abbiamo avute ben due, disastrosissime, nel giro di pochi anni...). Del resto, i Futuristi erano nazionalisti, e il loro accostamento al Fascismo divenne quasi inevitabile. Tanto che dal Dopoguerra in poi, dal 1946 in poi, la critica ufficiale ha decretato un marcato ostracismo nei riguardi del Futurismo. Ostracismo che a dire il vero sembra in questi anni più recenti essersi affievolito, come uno dei numerosi altri segnali di revisionismo. Dopo la morte di Boccioni, volontario nella

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Grande Guerra, e dopo la fuoruscita dal Movimento di Carlo Carrà e Gino Severini, vi fu un Secondo Futurismo, ma la sua parabola decadde fatalmente con la morte dello stesso Marinetti, avvenuta a Bellagio nel 1944. Molti artisti restarono comunque fedeli al Movimento anche nella seconda metà del Novecento. L'ultimo futurista a morire è stato Osvaldo Peruzzi, nel dicembre del 2004. Possiamo dire che con lui il Movimento si è storicamente estinto. Luigi De Rosa Da “ZANG TUMB TUMB” (L'assedio di Adrianopoli) di F. T. Marinetti: “ Ogni 5 secondi cannoni da assedio sventrrrare spazio con un accordo ZZZANG TUMB TUM ammutinamento di 500 echi per azzannarlo sminuzzarlo sparpagliarlo all'infiniiiiito nel centro di quel zzzang tumb tumb spiaccicato (ampiezza 50 kmq) balzare scoppi tagli pugni batterie tiro rapido Violenza ferocia re-go-la-ri-tà questo bassso grave scandere strani folli agitatissimi acuti della battaglia Furia affanno orecchie occhi narici aperti! attenti! forza! che gioia vedere udire fiutare tutto tutto taratatatatatata delle mitragliatrici strillare a perdifiato sottto morsi schiaffi trak trak frustate pic-pac-pum-tumb-pic-pac-pumtumb pic-pac—pum-tumb bizzarrie salti (200 metri) della fucileria giù giù in fondo all'orchestra stagni diguazzare buoi bufali pungoli carri pluf plaf impennarsi di cavalli flic flac zing zing sciaaack ila-


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ri nitriti iiiiii...scalpiccii tintinnii 3 battaglioni bulgari in marcia croooc craaac (lento due tempi) Sciumi Maritza o Karvavena ta ta ta ta giii tumb gliii tumb ZZZANG-TUMBTUMB (280 colpo di partenza) srrrrrrr GRANG-GRANG ( colpo in arrivo) croooccraaac grida degli ufficiali sbatacchiare come piatti d'ottone pan di qua paack di là cing buuum cing ciak ( presto) ciaciacia- ciaciaak su giù intorno in alto attenzione sulla testa claak bello! E vampe vampe vampe vampe vampe vampe ( ribalta dei forti) vampe vampe vampe vampe vampe ( ribalta dei forti) laggiù dietro quel fiume Sciukri Pascià comunica telefonicamente con 27 forti in turco in tedesco allò! Ibrahim! Rudolf! Allò allò! Attori ruoli echi suggeritori scenari di fumo foreste applausi odore di fieno fango sterco non sento più i miei piedi gelati odore di salnitro odore di marcio timpani flauti clarini dovunque basso alto uccelli cinguettare beatitudine ombrie CIP CIP CIP brezza verde mandre DONDAN-DON-DIN-BEEEE Orchestra i pazzi bastonano i professori d'orchestra questi bastonatissimi suonare suonare Grandi fragori non cancellare precisare ritagliandoli rumori più piccoli minutissimi rottami di echi nel teatro ampiezza 200 kilometri quadrati tumb- tumb- tumb- tumb- tumbtumb Maritza Tungia sdraiati fiumi illustri ho sete acqua acqua e un ferito vi lava la sua gamba insanguinata ascoltando fruscìi e gluglìi di lagrime ricordi verdi sss ggg Monti Ròdopi ritti alture palchi loggione 2000 shrapnels sbracciarsi esplodere Esplodere esplooodere esplooodere fazzoletti bianchissimi pieni d'oro tum -tum- tumb 2000 granate strappare con schianti schianti schianti schianti schianti schianti capigliature nerissime spillonate di fosforo tumrumb-tumbrumbrumbrumbrumb l'orchestra dei rumori di guerra gonfiarsi sotto una nota di silenzio tenuta nell'alto cielo pallone sferico dorato sorvegliare i tiri” ------------------------

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LA PECCHIA Una pecchia, avida, s'intrufola tra i gelsomini gialli della balaustra. E io, avido di sole e di dolcezza, la seguo. Luigi De Rosa (Rapallo)

Il libro si compone di quattro parti: la prima, preponderante, è la eponima; le successive sono di denuncia espressa in forma di satira, derisione e scherno. […] Molto bene appropriate sono le parole associate alle circostanze che per paranomasia, per suono, colori ed immagini, ci rendono partecipi di emozioni universali. […] Per la piccola Elena Petrizzi morta nel 2011, ‘involontariamente abbandonata’ dal padre, stritolato dall’ansia del lavoro, ricorda il conforto che si trae dalla consapevolezza che i suoi organi hanno aiutato tre bambini a vivere. […] Domenico Defelice, in più occasioni, ci regala visioni veramente stupende di colori e suoni da sogno, che ci restituiscono il fanciullo nostro smarrito. […] Domenico Defelice non si smarrisce, rimane fedele a se stesso in tutte le opere. Tito Cauchi Da Fiorisce un cenacolo, aprile giugno 2019


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Ricordo di

ORAZIO TANELLI di Domenico Defelice

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RAZIO Tanelli è morto il 2 ottobre 2019 a Verona, N. J. (U.S.A.); era nato a Macchia Valfortore in provincia di Campobasso il 10 marzo 1936. Dopo le elementari nel proprio paese, frequentò il ginnasio a Larino e il liceo classico a Salerno. Ha prestato il servizio militare a Trieste e per un breve periodo ha frequentato l’Università La Sapienza di Roma nella facoltà di lettere e filosofia, con docenti come Mario Praz per l’inglese, Giovanni Macchia per il francese e Ugo Spirito per la critica estetica ed è lì che ha conosciuto Giuseppe Ungaretti, anche se non è stato un suo allievo. Nel dicembre del 1961 Tanelli emigrò negli Stati Uniti, stabilendosi nella cittadina di Ve-

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rona, nel New Jersey. Qui ha continuato gli studi nell’Università di Seton Hall, nel Collegio di Upsala e nell’Università di Rutgers, nella quale ha conseguito il dottorato in lingue e letterature straniere discutendo una tesi su Dante: “Miti classici nella Divina Commedia” (1975), che, inseguito, verrà pubblicata. Ha insegnato italiano, latino, francese e spagnolo per più di vent’anni nei licei e nelle università americane, senza smettere mai di dedicarsi, però, allo studio della letteratura italiana, pubblicando numerosi articoli di critica letteraria sia su riviste americane (“La follia di N. Y.”, “Il Progresso Italo-


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Americano”, “La Parola del Popolo”, “Il Pensiero di St. Louis” - di alcune di queste, come “La follia di N. Y.”, egli ne diverrà direttore responsabile) che su quelle italiane: (“La Procellaria”, “Il Volturno”, “Il Tizzone”, “Il Galeone”, “Molise Oggi”, “Casandrino”, “Aeropago Cirals”, “Comunità”, “Risveglio del Molise e del Mezzogiorno”, “Il Pungolo Verde”, “Pentagramma”, “Le Ragioni Critiche”, “Pomezia-Notizie” eccetera). Molte le opere pubblicate, tra le quali: “Il mito dell’Ulisse dantesco” (1975), “La questione meridionale nella narrativa molisana” (1977), “La tecnica narrativa di Gadda nella Madonna dei filosofi” (1978), “I giocolieri della vita” (in coll., 1979), “Scintille di umanità” (in coll., 1980), “Peccato originale” (poesie, 1980), “La poesia di Francesco Lalli” (1980), “La poesia di Antonio Fiorentino” (1981), “Mito e realtà nella poesia e nella narrativa di Sabino d’Acunto” (1981), “Poesie Molisane” (1981), “Monografie del nostro Novecento” (saggi inediti), “Il monaco di Macchia Valfortore” (romanzo autobiografico pubblicato dopo molti anni), “Poeti e scrittori molisani” (inedito), “Domenico Defelice” (saggio monografico, 1983), “Canti dell’ esule” (1984), “Canti del ritorno” (1986, edito da Pomezia-Notizie, opera con la quale Tanelli vinse, in quell’anno, il Premio Internazionale Letterario Città di Pomezia), “Canti del Sud” (1987), “Canti d’oltre Oceano” (1994, opera edita da Il Ponte Italo-Americano, rivista da lui fondata e che ha diretto fino a qualche anno fa) eccetera. Orazio Tanelli amava anche la musica e suonava la fisarmonica, con la quale ha spesso allietato le feste tra amici. Non sembrava, ma, di certo, era quasi un timido, certamente un riservato. La nostra amicizia risale alla nostra giovinezza e lui è stato il primo a interessarsi di noi in modo approfondito con una monografia di ben 160 pagine; ci siamo scambiati molte lettere; è stato ospite nella nostra casa di Pomezia nel luglio del 1985, quando l’abbiamo accompagnato a visitare la nostra città e gli scavi archeologici di Pratica di Mare e, poi, a Fiumi-

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cino a imbarcarsi sull’aereo per gli Stati Uniti. Era insieme a figli e parenti. Con Lui, insomma, oltre una salda amicizia, abbiamo avuto quasi una spirituale fratellanza. Eppure, è stato sempre restio a farci leggere le sue opere. Ricordiamo di aver avuto in dono - ma non se direttamente da lui o dall’amico Francesco Fiumara - solo “La poesia di Antonio Fiorentino”, edito da La Procellaria e da noi recensito su Pomezia-Notizie del maggio 1982. È, questo - scrivevamo -, un prezioso volume di testimonianze critiche che il Tanelli ha curato con perizia dopo aver focalizzato e con chiarezza la personalità e l’arte del poeta di Amato (Catanzaro) il quale, pur risiedendo da molti anni in Canada, non riesce a dimenticare la propria terra natia e ne anela il ritorno. Fiorentino è stato maestro di banda; ha amato, dunque, e praticato la musica e chi ama la musica non può che essere anche poeta, perché l’armonia è elemento essenziale della poesia. Non si spiega, quindi, perché molti stupiscano nel costatare come in un emigrato - che a scuola non è potuto andare oltre la terza elementare, ma che ha frequentato e con profitto la scuola della vita - i versi dedicatori e spesso d’occasione abbiano, pur nella loro estrema semplicità, ritmo e il sapore, non più provato ma non dimenticato, di certi prati, terre, primavere, affetti… In Fiorentino non può esserci nulla senza l’amore totale e granitico per la famiglia, la patria e la fede. “Poeta popolare - scrive il Tanelli - che non si deve giudicare con i canoni dell’ estetica” ma guardando “al contenuto, alla carica grande di umanità e di socialità che la pervade”.


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*** Nell’esule Fiorentino, egli vedeva se stesso. Non si contano gli autori che si sono interessati, negli anni, di Orazio Tanelli e delle sue attività divulgative e letterarie, sia in articoli su riviste e giornali, sia in saggi monografici. Ecco alcuni stralci di giudizi appari su Pomezia-Notizie: “L’Italia, con il suo sole, il suo verde, il suo mare, i suoi paesaggi, ma anche con la sua miseria, il suo terrorismo, i suoi problemi, è il primo amore del poeta ed è quello che resterà il più grande e profondamente inciso - scrive Americo Iannacone (P.-N. -, settembre 1982) - (…) Il sentimento di amore-odio per la terra d’origine diventa quasi un’ossessione. Ma questa terra non risulta sfigurata dal ricordo e dalla nostalgia. È bensì viva e reale in tutti i suoi aspetti”… Canti dell’esule “Questa testimonianza poetica mira a distruggere il miraggio dell’America libera, ricca, accogliente - scrive Solange De Bressieux (P. N., aprile 1985) -. È scritta, posso dire, col sangue del cuore. Le parole sono schiette, talvolta violenti. La lezione implicita è: piuttosto soffrire la fame al focolare che mendicare lavoro concesso con sdegno”. “Dante l’aveva ben detto a suo tempo. Ma chi ascolta i moniti degli altri? Ciascuno apprende a vivere a proprie spese!”… Poesie Molisane “Profondità, gaiezza, luce, idilliaca problematicità esistenziale in una purezza di immaginazioni, focalizzate nel tessuto morale di

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una etica, oggi, quasi eroicamente esemplificata” - scrive Maria Fabrizio Lalli su Pomezia-Notizie del maggio 1982 -. (…) La tematica del proprio paese natale sfuma e si precisa nel mosaico vario della regione. (…) Il bisogno di Dio è un’altra tematica che percorre, in modo ora più ora meno evidente, quasi tutte le poesie della silloge di questo fine e sensibile poeta”… Domenico Defelice “In questo libro - scrive Pasquale Di Petta, su P. N. dell’agosto 1965 - Orazio Tanelli presenta tutta l’opera di Domenico Defelice con una limpidezza e con un acume che lo rivelano un critico di talento. (…) Egli (…) affonda con sicurezza il bisturi della critica nelle motivazioni, nei sentimenti, nelle idee, nei pensieri più reconditi dell’autore, cercando di penetrarli fino alle radici più profonde”… “(…) Tanelli ci ha fatto capire - scrive Velella Mora, su P. N., ottobre 1985 - che in Defelice non c’è separazione tra l’uomo e il poeta”… E Vincenzo Ciallella, su P. N., dicembre 1985: “Il prof. Orazio Tanelli, infaticabile lavoratore della penna sia come autore che, soprattutto, come critico, ha dato prova di nuovo delle sue doti di penetrazione psicologica e di adeguata pertinenza e conoscenza in questo ricco ed esauriente libro sulla produzione letteraria di Domenico Defelice”. “Ancora uno splendido lavoro di Orazio Tanelli - è la volta di Laura Biondo Balzarini, sullo stesso numero -, che si aggiunge ad altri numerosi e validi da lui condotti con spirito infaticabile. (…) Orazio Tanelli è oggi il nostro poeta regionale più rappresentativo, non forse per altre aree nazionali, ma di certo all’estero e a un livello altamente qualificato”… Pasquale Montalto (idem): “…uomo colto e sensibile, dotato di grandi capacità critiche ed introspettive, [Orazio Tanelli] da tempo ormai presente nel vasto panorama della cultura italiana, ha saputo guadagnarsi credibilità, grazie alla sua serietà e professionalità che, unite ad una penna scorrevole e misurata, lo


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potano ad esprimersi con equità ed equilibrio letterario”… Giovanni Perrino: “…Orazio Tanelli, noto studioso italo-americano, che ha al suo attivo numerose pubblicazioni di vario genere”… Sara Del Vento: “…Tanelli è molisano ed anche lui è figlio d’una terra dove “ogni zolla custodisce il seme antico dell’amicizia” (per dirla sempre alla mia); e pure in lui l’ attaccamento alle origini è autentico, tanto che il dolore per le radici spezzate ne fa un esule piangente in terra straniera”… Elvira Tirone: “…Sono le tante piccole gemme che Orazio Tanelli mette in luce invitandoci a leggere i poeti emergenti da una folla quasi anonima di letterati”… Canti del ritorno Con quest’opera, Tanelli vince Il Città di Pomezia. In essa - scrive Solange De Bressieux, su P. N., aprile 1987 -, “dominano ancora le memorie della partenza, della doglia dell’esilio, però l’esule ha ritrovato le sue radici; insieme con la donna amata, può evocare la cornice familiare, i vivi e i morti che celebra con una pia compassione; contemplare il paesaggio molisano abbellito dai fiori cari: viole, ginestre; visitare la vigna abbandonata, invasa dai cardi ed ortiche”… E Renata Todeschini, P. N., aprile 1988: “La grande metropoli, con la freddezza dei suoi prorompenti grattacieli, non è riuscita e non riuscirà a togliere dal cuore di Tanelli questo vecchio amore per la propria terra, questo struggente ricordare…” Nel numero di settembre 1988 dello stesso periodico, è Pasquale Montalto a interessarsene: “L’autore, per la sua fluidità di pensie-

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ro, la ricchezza d’immagini e di stimoli culturali che trasmette attraverso i suoi scritti, l’ impegno puntuale e costante sui fatti della letteratura contemporanea e per le chiare posizioni sull’ideologia, spesso trascurata e distorta, della problematica meridionale, è ormai più che noto negli ambienti culturali italiani, francesi ed americani”… Canti del Sud “La poesia di Orazio Tanelli - scrive Rudy De Cadaval su P. N., agosto 1988 - si è rivelata, fin dall’inizio, un viaggio a ritroso, alla ricerca di se stesso e delle proprie radici, nella speranza dichiarata, ma nella consapevole impossibilità di ritrovare lungo il percorso la cosa che salva dal nulla, la giustificazione dell’avvenire, la risposta alla negazione della storia”… *** E potremmo continuare ancora a lungo col proporre giudizi, perché gli articoli su Tanelli - e anche di Tanelli - da noi ospitati nel corso degli anni sono stati veramente tanti. Accennavamo anche alle monografie su Orazio Tanelli. Una delle tante è quella di Guerino D’Alessandro: “La poesia di Orazio Tanelli”, edita a Cassino nel 1985. Riportiamo un brano del giudizio di Solange De Brezzieux, apparso in P. N., aprile 1986: “Ambedue [Tanelli e D’Alessandro] oriundi dal Molise, ambedue credenti, appassionati per la verità, la giustizia, la fratellanza, ambedue dotati di una intuizione eccezionale, adatta a scoprire i segreti del subcosciente così come le sfumature dello stile”… Altra è stata quella di Ninnj Di Stefano Busà: “Il valore di un rito onirico”, per la quale ecco quanto noi scrivevamo su P. N. del gennaio 1990: Il mondo letterario italo-americano (per essere più precisi: degli italo-americani residenti negli Stati Uniti), già onorato da scrittori e poeti come J. A. Alifano, A. Giovannitti, J. Tusiani, M. Pane, N. Caradonna - tanto per citare alcuni nomi - ha ricevuto senz’altro ulteriore decoro da quando è apparsa la voce di Orazio Tanelli, autore di numerosi volumi di


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poesia, di prosa e di critica letteraria e direttore responsabile della rivista La Follia di New York. A questo poliedrico autore, Ninnj Di Stefano Busà ha dedicato un ampio e interessante saggio, che già nel titolo: Il valore di un rito onirico, evidenzia uno dei temi fondamentali dell’opera tanelliana e cioè il ricordo, la memoria della sua terra d’origine (il Molise) e il contatto che un tale sogno ha con la realtà americana e con la quale lo scrittore oggi si trova a fare i conti. Secondo l’autrice del saggio, Orazio Tanelli rappresenta, con il suo dolore e il suo continuo scavo alla ricerca delle radici e dell’ infanzia, la più emblematica figura di esule, colui che la necessità porta a collaborare alla creazione di ricchezza nella nazione che lo ospita, ma che ha il cuore proteso al ritorno alla patria lontana, anche - e forse più - allorché si accorge che col passar degli anni un tale avvenimento si fa sempre più impossibile. Così egli vive in un continuo duello tra il reale e il sognato ed è la frizione tra queste due esistenze a fornire materia incandescente all’ eternarsi del suo canto. Ninnj Di Stefano Busà insiste poi nel collocare Orazio Tanelli nella schiera dei meridionalisti, e perché nato in un paese che fa parte del meridione d’Italia, e perché legato culturalmente a poeti e scrittori che vivono e cantano i drammi del Sud. L’analisi è giusta e doverosa. Tuttavia, essendo questo della Di Stefano Busà un lavoro quasi di partenza, non già di arrivo nello studio dello scrittore italoamericano - e non già per incompletezza, ma perché essendo giovane e impegnato Tanelli ci darà ancora centinaia di opere -, ci preme consigliare i suoi futuri critici a non insistere troppo su questo tema se non vorranno rendergli un cattivo servizio. Un autore del suo calibro, infatti, non può essere ingessato in un tale schema. Il messaggio letterario tanelliano - come quello di altri autori a forza ficcati dalla critica in questo angusto recinto - è così complesso da assumere valenze universali più che regionalistiche. E, d’altronde, la sua creatività, pur essendo legata a scavi interiori e a drammi e fatti che trovano matrice nel meri-

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dione, diventa valida solo in quanto è capace di esulare dal personale e dal contingente per toccare l’eterno e l’universale, altrimenti rimarrebbe nella sfera dei tanti piangersi addosso, non avrebbe storia. E può un poeta, uno scrittore come lui, non avere storia? Dunque, in avvenire, si cerchi meno meridionalismo e più universalità nella sua produzione letteraria. Il saggio della Di Stefano Busà è scritto con linguaggio semplice e nello stesso tempo appropriato e ben articolati e chiariti sono i temi intorno ai quali si sviluppa il messaggio tanelliano. Oculata è stata pure la scelta - come il commento - delle poesie inserite in supporto del saggio e che danno al lettore la possibilità di farsi un’idea abbastanza concreta della geografia poetica e letteraria di Orazio Tanelli, dall’autrice così sagacemente esplorata. Domenico Defelice *** Nel porgere, alla Famiglia, le nostre condoglianze e quelle dei lettori e dei collaboratori di Pomezia Notizie, ecco, a seguire, qualche testimonianza (e altre ne ospiteremo, se ci perverranno, nei prossimi numeri). Poetessa Mariagina Bonciani, Milano: Carissimo Domenico, sono rientrata da un denso fine settimana a Portovenere-Le Grazie, dove nel corso di una bellissima cerimonia ho ritirato il 3° premio


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per poesia inedita conseguito con la mia poesia "FORSE", che nel frattempo è comparsa nel numero di giugno di Pomezia-Notizie. Come vedrai dall'unita locandina, alla cerimonia era collegata la presentazione di un libro, il che mi ha dato l'occasione di incontrare con molto piacere la mia amica fiorentina Mara Corfini, insegnante d'arte e pittura in pensione e acquarellista di pregio, che ho conosciuto anni fa in quanto è la rappresentante per l'Italia del PONTE ITALO- AMERICANO. Da lei ho avuto purtroppo la triste notizia della scomparsa di Orazio Tanelli, avvenuta il giorno 2 corrente, dopo che lui stesso aveva chiesto di lasciare l'ospedale ed essere riportato a casa. Inutile dire che la notizia ha gettato un velo di tristezza sul sole che splendeva in quei giorni a Portovenere. Non conoscevo Orazio personalmente, ma dopo che abbiamo iniziato una sia pur rada corrispondenza lo avevo sentito al telefono in questi ultimi tempi ed avevo visto sue foto e filmati di anni fa inviatimi da Mara, lo avevo chiamato diverse volte prima del suo ricovero, ringraziandolo per la recensione fatta al mio libro, facendogli coraggio, e ormai oltre che come persona dottissima, sensibile e di grande onestà e rettitudine lo consideravo caro amico, di cui già sento la mancanza. Avrei voluto scriverti fra qualche giorno a ricevimento del numero di ottobre, che immagino stia già arrivando, ma questa notizia non potevo tardare oltre a comunicartela, anche se forse ti è già pervenuta da altre fonti. Non ho scritto ultimamente perché sono stata impegnata con la lettura, essendomi arrivato da Torino il tuo libro " Parole a comprendere" (Ho molto apprezzato la prima parte!, il resto mi ha divertito, ma soprattutto ho letto con vivissimo interesse i risvolti e l'ultima di copertina - magnifica, sentita poesia -, che tante cose mi hanno detto di te, che io ignoravo e per le quali ti faccio un'infinità di congratulazioni e complimenti), e da Avellino il libro di Isabella Michela Affinito, III volume dei Percorsi di critica moderna, con tutte le belle e fantastiche recensioni, fra cui quella dedicata al mio "Poesia e Musica", che ho molto ap-

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prezzato e per la quale vorrei far giungere all'Autrice, a mezzo POMEZIA-NOTIZIE, il mio vivo ringraziamento per l'attenzione riservatami e il gradimento per il suo personalissimo modo di lettura e commento dei testi. Non mi resta che segnalare che in occasione del Premio 2019 MASSA CITTA' DI FIABA sono arrivata fra i finalisti designati "Poeti di valore" con le poesie "La danza delle api" e "Meravigliosi suoni", già comparse in POMEZIA-NOTIZIE, (ma purtroppo non ho potuto essere presente alla premiazione) ed allegarti una poesia per novembre. Mi ha mandato poco fa un messaggio Mara, che sapendo che stavo scrivendoti mi chiede di inviarti un saluto da parte sua, al quale aggiungo il mio, con un caro abbraccio. Mariagina

TRESOR DÓU FELIBRIGE È un libro come una chiave la chiave dei campi e perfino dei canti la chiave della libertà di essere sé Béatrice Gaudy Parigi, Francia N. B. Il “Tresor dóu Felibrige” è l’ insuperabile dizionario della lingua d’Oc di Frederic Mistral (1830 - 1914). In francese la chiave dei campi è quella della libertà, in particolare quella della libertà di partire senza avvisarne nessuno. “Champs” (= campi) e “chants” (= canti) si pronunciano nello stesso modo.


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CHENG GUO di Domenico Defelice

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HENG Guo, è una eccellente poetessa della Cina contemporanea. Il suo vero nome è CHENG Yan ed è nata nell’ ottobre del 1968 in Zhenyuan County, la prefettura autonoma delle nazionalità di Miao e Dong, nella Provincia di Guizhou. Ha iniziato a scrivere poesie nel 2005, oltre a dipingere, suonare strumenti a corda e interessarsi di calligrafia. Le sue poesie sono apparse su importanti riviste nazionali come The Stars, The Poetry Periodical, New Poetry, Green Wind, Mountain Flowers eccetera e svariate volte ha vinto premi di poesia in concorsi sia a livello provinciale che nazionale. Ha pubblicato una raccolta di poesie intitolata Words, a Beam of Light Saved in the Heart e alcune delle sue opere sono state incluse in antologie nazionali ed estere. Ora risiede nella città di Kaili, Prefettura autonoma delle nazionalità di Miao e Dong, Provincia di Guizhou , P. R. Cina.

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Cheng Guo è la seconda poetessa che presentiamo ai nostri lettori - dopo Zhang Ye, apparsa sul numero di settembre 2019 - con tre allucinati brani: “The Dark Night”, “Crawl” e “Restriction”, versione inglese di Zahng Zhizhong. Li definiamo “allucinati”, perché, in genere, l’atmosfera è da racconti quasi paurosi e fantastici, come quelli che, nella nostra infanzia, abbiamo ascoltato dalle nonne e che miravano a tenerci buoni, catturando la nostra attenzione e un po’ spaventandoci. Se vogliamo accostare Cheng Guo a qualche autore straniero, quello a lei più vicino è senz’altro Edgar Allan Poe; come in lui, troviamo nella poetessa cinese metafore diversamente interpretabili, perché, in quanto oscure, lasciano al lettore, all’interprete, la libertà di costruire il quadro d’insieme, o, almeno, di perfezionarlo. “La notte oscura” risponde in pieno a un tale assunto, con tutte quelle immagini fantastiche che infondono brividi: lo “sgorbio”, o lo scarabocchio “di fuoco”; i passi “verso la congiuntura profonda”; l’uccello che “sonnecchia a mezz’aria” e il tutto immerso nella litania del “canto funebre”. Dicevamo di libertà interpretativa. Lo scarabocchio di fuoco che viaggia nella notte, può essere lo spirito di un defunto che abbandona la terra, o anche lo stesso Uccello che gravita nell’aria. Tutto il brano è incentrato sulla morte, il suo insondabile mistero è il suo specchio, l’accompagno lugubre il “canto funebre”. Anche in “Crawl” abbiamo metafore che non è facile collegare. A una prima lettura, sembrerebbe agevole penetrarne il quadro, poi ci accorgiamo che occorre ingegnarsi a ricostruire il discorso, magari mutando qualcosa: “Se/La mia pietà/È la tua vita promessa;/Allora/Voglio essere” eccetera, acquista un senso più esplicito e compiuto trasformandolo in “Se la tua vita promessa è la mia pietà, allora” eccetera. Insomma, abbiamo incontrato più di una difficoltà in questa poetessa e senza poter rintracciare una tematica di fondo. Le immagini sono suggestive, ma tendono spesso a vivere


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indipendenti. Nel brano “Restriction”, il gruppo delle aquile che viaggia silenzioso, in alto, nel cielo, sembra irreale, quasi un insieme limitato se “restricted” lo leghiamo a insieme; acquista una leggera e quasi diversa sfumatura se lo leghiamo, invece, a giocattoli. Cheng Guo ha rapidi passaggi e muta spesso di numero il soggetto, come in “Restrizione”, dove passa da “eagle/aquila” singolare al plurale “they…”, “they…”, per poi passare ancora al singolare: “L’uccello non può raggiungere//Il posto dove vuole andare”.

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Which you have kissed in the dream. Restriction They fail to see How the eagle soars in the sky, They do not make any noise, (They are a group of restricted playthings) The heart is wheeling, the wings are trembling melancholy, The posture of their soaring — Wants to stride over my body.

The Dark Night There is scribbling of fire in the night, Those who die in the night do not dread the dark night.

Perching in the blue sky, The bird cannot reach The place where it wants to go. (Translated by ZAHNG Zhizhong)

The night approaching, Many steps are toward the profound juncture.

LA NOTTE OSCURA

The night is with the prelude of time, A dirge often begins from now.

Nella note c’è uno sgorbio di fuoco, Chi nella notte muore non teme l’oscurità.

Forget the name of everybody, Time only remembers the edge of time.

Si avvicina la notte, Molti passi vanno verso la congiuntura profonda.

Reaching the dark night, a night bird slumbers in the mid-air. With the energy of lifetime to approach the sky, and the sky darkens. Crawl Crawl Is another posture — To look up to the starry sky. Softer than embrace; More true than kiss.

La notte è insieme preludio del tempo, Da ora spesso inizia un canto funebre. Dimentica tutti i nomi, Il tempo ricorda solo il margine del tempo. Raggiungendo l’oscura notte, un uccello notturno sonnecchia a mezz’aria. Con la vitale energia si approssima al cielo e il cielo s’oscura. STRISCIARE

If My piety Is your lifetime promise; Then I want to be an ant On the ground, Crawling in the white cloud —

Strisciare È un’altra postura Alzare gli occhi al cielo stellato. Più morbido dell’abbraccio; Più vero del baco.


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Se La mia pietà È la tua vita promessa; Allora Voglio essere una formica Sulla terra, Che striscia nella nuvola bianca Da te baciata nel sogno. RESTRIZIONE Non riesco a vedere Come l’aquila voli nel cielo, Non fanno alcun rumore, (Sono un insieme di limitati giocattoli) Il cuore ruota, le ali tremano malinconiche, La postura della loro impennata Vuole camminare sul mio corpo. Appollaiato nel cielo blu, L’uccello non può raggiungere Il posto dove vuole andare. *** Noi non conosciamo la lingua Cinese e questa nostra versione deriva dalla versione inglese di Zahng Zhizhong, perciò, una traduzione della traduzione; e, se, come abbiamo altre volte affermato, una traduzione è sempre un tradimento, questa nostra è, dunque, tradimento doppio! Siamo alla presenza, insomma, di una poesia suggestiva e un po’ suggestivo ha voluto essere anche il nostro commento. Altri, ne siamo certi, che vorranno entrare nella poesia di Cheng Guo, lo faranno per porte e finestre diverse, tutte e sempre, comunque, giustificate. Domenico Defelice ___________________________________ * È in me il consolatore del lago sconvolto di Tiberiade: le stesse mani ora drizzano

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la prora della navigazione, non più ignota. E dal monte delle Beatitudini pare udire suoni d’amore rotolarsi come perle nella valle. Imbruna come se fosse l’alba. Dalla finestra, Roma mi zampilla un crescendo di chiarori e neon fantasmagorici. Le guglie sono alte, più alte nel cielo, che ha cessato di piangere. È vero, Signore, che vinci le tenebre. Già l’orizzonte si uguaglia al germoglio di luce dei tuoi occhi, quasi cristallo che rifletta biade. Palpita il mio cuore, vela gonfia d’azzurro. Rocco Cambareri Da Versi scelti - Guido Miano Editore, 1983.

UN AMOUR De l’eau saumâtre bleue coulait dans mes veines, j’étais une jeune fille marine qui vivait sur les rochers des jours éblouissants qui tressait ensemble algues et cheveux et qui au large enviait les voiles. Puis la campagne me prit m’enveloppa comme un brou. Et la jeune fille - onde qui oscille encore en moi regrette le charme ancien, l’amour presque trahi aujourd’hui presque dissipé. Ada De Judicibus Lisena Traduction de Béatrice Gaudy, Paris, France.


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EMERICO GIACHERY SCRITTURA E DESTINO di Antonio Crecchia

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VEVO letto e recensito questo snello e significativo saggio di Giachery subito dopo il suo arrivo, più di dieci anni fa, ma per motivi inspiegabili, non trovo tra le tante cartelle contenenti prefazioni e recensioni la mia impressione di lettura. Consta di sole quaranta pagine, ma rilevante per i dati che fornisce circa “i sogni” coltivati dall’illustre “interprete”, fin dai suoi primi anni di vita, quando già “masticava” i simboli dell’alfabeto a lui proposti in gustosi biscotti in “forma di lettere”. La precoce confidenza con i caratteri della scrittura, lo porteranno a manifestare, all’età di quattro anni, le sue inclinazioni per le arti musive, scrivendo, “in stampatello… due scombussolate canzonette in rima”. Per rispetto all’Amico che mi onora della sua amicizia, e in vista di una raccolta in volume di tutto ciò che riguarda la nostra “corrispondenza di senso letterario”, rileggo il libretto, in cui l’autore produce dettagliati chiarimenti sui vari interessi letterari, sulla volontà di aprirsi, giovanissimo, la strada al successo con la consuetudine e la pratica della scrittura. Cominciò a comporre “poesie e poemetti” all’età di dodici - tredici anni, suggestionato dalle “Odi Barbare”, dalle “Elegie di Tibullo” e da “episodi guerreschi dell’Iliade”. Accantonato il sogno della poesia, di cui restano poche tracce, in endecasillabi sciolti, il

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Nostro si presta a comporre racconti, commedie e “persino un dramma mitologico”; tutte prove, però, interrotte “dopo poche pagine: macerato di velleità frustate, di progetti infranti”. Resta, completo, un dramma scritto nel 1942, in piena età adolescenziale, mai rappresentato. Dall’adolescenza alla giovinezza il passo è breve; crescono, però, le esperienze culturali e di vita; si infittiscono e si ampliano le frequentazioni dei diversi campi del sapere; si rinsaldano le convinzioni sulle proprie potenzialità espressive; si accede alla maturità e, quindi, a scelte più razionali e meno illusorie. Fa capolino il “sogno narrativo”, del quale, “resta traccia in un libretto azzurro pubblicato da un piccolo editore: Il libro di Zefferino, che comprende tre racconti più brevi e uno un po’ più lungo”. Il libro ebbe un buon successo tra gli amici, ma non un seguito, ragione per cui anche “il sogno narrativo ebbe fine”. Tra le vocazioni perseguibili c’è anche “la saggistica letteraria”; strada difficile, tortuosa e impervia, con incontri continui e imprevisti di opere e personaggi antichi e moderni. Giachery vi si immette da protagonista, onorato e stimato da una moltitudine di studenti e studiosi. Nel suo prestigioso ruolo di docente universitario, con tenacia alfieriana si impegna, giorno dopo giorno, a crearsi il vanto di “interprete di testi e fatti letterari”. E di questa luminosa e fervida attività, il lettore può consultare decine e decine di testi, frutti maturi della sua saggezza ed esperienza interpretativa, in cui si colgono le vibrazioni della sua anima di fronte al miracolo dell’arte scrittoria, in poesia o in prosa, il calore del “suo” fuoco intellettuale e la smisurata dimensione memoriale, in cui sono raccolte esperienze di vita vissuta, di studi, di approcci a esemplari libri di saggistica, familiarità, incontri, letture e commenti dei grandi autori del Novecento, tra cui Verga, D’Annunzio, Ungaretti, Fierro e altri. Una vita intensa la sua, ricca di risorse e apporti comunicativi, di ricerca di valori umani e artistici atti ad accrescere e completare la saviezza dell’individuo nel suo andare


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per le vie segnate dal destino, in pienezza di coscienza e di libertà. Gioia di vivere, ricercare, pensare, scrivere, amare, comunicare, impregna di sé il cammino esistenziale di questo insigne studioso, che fa della vita e della scrittura le ragioni salde e imprescindibili di un’attività culturale che non conosce soste, che procede in conquiste sempre più ampie e profonde dello spirito, fino allo stadio attuale, inteso come “compimento interiore”, meta suprema dei suoi sogni: il traguardo che segna l’apice di una evoluzione artistica di effetti duraturi. In questa prospettiva si pongono i saggi “La vita che dà barlumi” (Gallo&Calzati, 203), “Abitare poeticamente la terra” (Carpena Edizioni, 2007). Altre prove, uscite dalla raffinata penna dell’instancabile e appassionato esegeta, sono raccolte in nuovi preziosi testi, quali “Sintonie d’interprete” (Loffredo Editore, 2011, pagg. 144) e “Con Dante” (Appula Editua, 2016, pagg. 206). Antonio Crecchia SCRITTURA E DESTINO di Emerico Giachery - Edizioni Nuova Cultura – Roma, gennaio 2005

IL CATINACCIO dal Rifugio Ciampedìe m.2000 La funivia che sale al Ciampedìe ci lascia quasi al bordo del dirupo che a sinistra precipita a valle. Ma alla destra ampio è il pianoro verde che ci accoglie folgorante nel sole. E all’incantato nostro primo sguardo si offre ininterrotta una corona di alti monti rocciosi. Davanti a noi si innalza il Catinaccio con le sue cime e con le torri snelle delle tre Coronelle e tutto intorno in cerchio è un susseguirsi di cime e vette fino al più lontano e maestoso gruppo del Sella. Una seconda funivia giunge salendo dall’opposto pendìo e tale impianto nasconde in parte le Coronelle

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a chi guarda da un lato. Bianche nubi nel cielo muove il vento. Torna lo sguardo ancora al Catinaccio e quasi sento chiudermi la montagna in un abbraccio. Mariagina Bonciani Milano

AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! La nuova formazione politica renziana è l’ennesima dimostrazione del concetto malato che oggi abbiamo di Democrazia. Polibio distingueva la forma di “oclocrazia”, la quale, più che governo di massa, significa governo di demagoghi, che della massa si servono. Un frantume della dittatura, insomma. La vera democrazia, in ogni campo, dovrebbe essere il governo della maggioranza, non già delle minoranze, delle sfumature. Sarebbe opportuno che, in politica, ci fossero solo tre Contenitori: di Sinistra, di Destra, di Centro. Le minoranze, nei Contenitori, dovrebbero avere la massima libertà di lottare per affermare le proprie idee e tentare di diventare maggioranza; fin quando ciò non avviene, non possono essere loro a decidere, a dettar legge, a minacciare di staccarsi e fare gruppo a sé, disconoscendo la maggioranza, altrimenti siamo alla brama di potere, al personalismo, al narcisismo, all’ aspirazione alla dittatura (non per altro, la prima scissione nella Sinistra aveva come scopo la “dittatura del proletariato”, cioè di una parte!). Deleterio, per la comunità, è il comando di “tutti” come quello di uno solo. Nelle democrazie rappresentative, il Parlamento è luogo deputato perché le differenze possano scontrarsi, ma poi bisogna sempre raggiungere una sintesi per il bene della Nazione e le minoranze dovrebbero smetterla da un continuo sabotaggio. Domenico Defelice Dal quotidiano Il Messaggero, di mercoledì 9 ottobre 2019 e, altra versione, sempre sulla stessa testata, il martedì 15 ottobre.


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RENATO FILIPPELLI SCRIVE A

FRANCESCO PEDRINA E GLI DEDICA 'IL CINTO DELLA VERONICA' di Ilia Pedrina

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L testo della lettera in chiara grafia, cui manca l'angolo in alto a sinistra, è semplice, carico di emozione e di schiettezza. E' inserito nel volumetto di Renato Filippelli IL CINTO DELLA VERONICA- LIRICHE, che l'Autore dedica 'Alla memoria/ di Marco Ruperti/ Maestro ed amico', con Prefazione di Edoardo Gennarini, scritta a Napoli nel giugno 1964, per i tipi del Centro Artistico Internazionale, nella Collana Poetica EDELWEISS. Riporto: "Maestro, questo mio piccolo libro, vien pure a domandarLe un'opinione critica, qualche consiglio e qualche rigo di recensione (se Le rimane un po' di tempo da dedicare anche ai poeti oscuri, che amano sinceramente la Poesia). Ma sopra tutto viene per farLe un omaggio: e dunque voglia gradirlo, quale che sia la sua misura artistica. In una circostanza come

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questa, dirle che sono un Suo ammiratore può parere una frase convenzionale: e non è che la verità. Son professore di Lettere in un istituto superiore e per l'anno venturo ho già consigliato l'adozione del Suo testo di letteratura da cui trassi grande giovamento durante i m[iei] anni di Liceo. Mi risponderà? Io spero di si. Ho speranza che lei mi dia un'ulteriore prova che la squisitezza dell'anima coesiste solitamente con la superiorità dell'ingegno. Suo Renato Filippelli Via Balbo, 5 Scauri (Latina)” I segni di ieri: il Pedrina a fine testo riporta nuovamente l'indirizzo del Filippelli, certo per scrivergli a lettura avvenuta, così sottolinea i momenti di vera poesia, in biro rossa. POI TI SCOLPIVI IL VOLTO DELL' ATTESA... E quando oscura nostalgia d'un silenzio più fondo, ci induceva a cancelli ampi di chiostri, sempre chinavi il capo, ad ascoltarmi il cuore. Poi ti scolpivi il volto dell'attesa. Dicevi: "Ho una verginità di sogni e di parole da offrire alla morte. Un canto sordo si fa grande: è un ma-


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re..." Evocavi le vergini defunte convenire nei vesperi ai giardini: bianche colombe intorno ai pozzi, e orare: ricamare il silenzio... (R. Filippelli, op. cit. pag. 18) E il Pedrina traccia di getto: "Tra le liriche più suggestive di questa raccolta. la visita ai chiostri per nostalgia 'd'un silenzio più fondo' già ci dispone l'animo alle ardenti parole: 'Ho una verginità - nuova di sogni e di parole - da offrire alla morte.' Anche l'evocazione delle vergini defunte che convengono nei vesperi ai giardini, 'bianche colombe intorno ai pozzi', a orare, aggiunge grazia al quadro" (F. Pedrina, ibid. autunno 1966). Ed io aggiungo a matita, il 22 agosto 2019, quando ho trovato tra le carte questo piccolo libro, che il Poeta sa entrare nella soglia che separa l'essere Madre e l'essere Figlio, per ricamare il silenzio di quella intesa ancora certa perché viscerale. Si, sono lente e profonde le emozioni che ti dilatano spazi e suoni e chiedono contatto in canto, al tramonto. I miei sono segni di oggi, in intersezioni che hanno all'interno esperienze e mondi. Poi ancora: LA PIOGGIA HA MELODIE LIEVI D'INFANZIA Ed ecco che discendere odo passi di pioggia misteriosa sulla mia notte, e sono il solco aperto. La tua pietà, mio Dio, ha questa notte voce d'acqua piovana: io ciò comprendo per non so qual miracolo d'amore che in me rivive, e il mio silenzio ha voce, Signore, nella tua paternità. la pioggia ha melodie lievi d'infanzia: canti sommessi su tastiere d'organi, sepolti nelle chiese dei miei monti. E mi rinfresco a fiotti di memorie... (R. Filippelli, op. cit. pag. 47). Sottolinea il Pedrina: "Sembrano tutti canti della vigilia: d'una vigilia fatta d'esili sogni e d'armonie velate..." (F. Pedrina, ibid.). Poi, appena oltre, per la lirica-poemetto TRASFIGURAZIONE FRANCESCANA, tutta segnata, traccia: "Ti coglie non so che castità d'ac-

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cento veramente francescana. Un pellegrinaggio al Subasio, dell'anima nelle forme antiche, spirituali, indelebili" (F. Pedrina, pag. 50). Torno indietro di alcune pagine per sostare su: TUA MADRE EBBE SOPORE DALLA LUNA Tu fosti concepita sulle rive del Tirreno, di sera colma, a rombo di vento e di marea. Tua madre ebbe sopore dalla luna e dalle mie parole: fu come l'erba dove passa il vento. O mia creatura, abbi pietà di quella smemorata bellezza oscuramente offerta al tuo presagio. Abbi pietà per quando non saprai che maledire. (R. Filippelli, op. cit. pag. 15) Scrive il Pedrina senza ripensamenti: “Il cuore della lirica è nella strofetta centrale: 'Tua madre ebbe sopore dalla luna/e dalle mie parole:/fu come l'erba dove passa il vento'. Versi che paiono nati, non 'sulle rive del Tirreno', ma sui lidi di Lesbo” (F. Pedrina, ibid.). Anch'io vi sosto in sospensione e colgo intenso intreccio tra vibrazioni da padre a figlia, in un dialogo senza che ci sia chi ascolta, e con un fremito che sa di lontananze e di grazia generante vita. Di seguito alla pagina 16, per E TU DISCENDI CON UN PASSO D'ARIA... il Pedrina scrive: “Queste liriche nascono sempre in un'atmosfera trasognata, quasi in un eliso dove le ombre vestono ancora carne umana. Palpiti sommessi e verginali carezze: 'Fiato sommesso d'un silenzio:/fine carezza spenta sui capelli./E attonita sorridi'”. Poi per COME TRONCHI DIVELTI ALLA DERIVA, che riporto per intero: L'anima nostra è andata col vento. Tu l'hai detto. Noi siamo come tronchi divelti alla deriva verso una spersa rada a rifiorire (R. Filippelli, op. cit. pag. 17), il Pedrina sottolinea: “Qui


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l'afflato è più caldo, quasi tragico” (F. Pedrina, ibid.). I segni di oggi: ottimo e ben articolato il lavoro del prof. Tito Cauchi LA POESIA DI RENATO FILIPPELLI, pubblicato su questa importante Rivista nel Gennaio 2019, a dettagliare tutto il percorso del Poeta (Cascàno di Sessa Aurunca, 1936), a partire dalla sintesi del volume TUTTE LE POESIE, comprendente otto sue raccolte in versi, là dove IL CINTO DELLA VERONICA (1964 - Sua madre) appare per secondo. Scrive il prof. Cauchi: "Trovo freschezza d'ispirazione, genuinità di sentimento, rievocazione di bimbi allegri, paesaggi marini di Gaeta, prati del Volturno, logge di Monte d'oro, il colle di Munazio. Il Poeta si sente trasportato nel giardino degli ulivi del Getsemani, osserva il rinnovarsi delle stagioni. Il pensiero della morte lo porta a un lungo dialogo con la madre..." (T. Cauchi, La poesia di Renato Filippelli, in Pom. Not. gennaio 2019, pag 27). Ma tale lavoro attento è stato preparato da Domenico Defelice, nel dicembre 2018, quando con fine attenzione attraversa le pagine del volume che raccoglie tutte le opere del Filippelli, curato ed a lungo amato, prima ancora che veda la luce, dalla figlia Fiammetta: RENATO FILIPPELLI - TUTTE LE POESIE, a cura di Fiammetta Filippelli, Gangemi Editore 2015, con Prefazione di Emerico Giachery, Postfazione di Francesco D'Episcopo, Note, 'Il percorso di vita e di poesia', che porta la firma del figlio Pierpaolo, un volume di oltre 500 pagine con all'interno il supporto informatico della registrazione delle poesie recitate dallo stesso autore. Sostiene il Defelice: “Ogni silloge rappresenta un brano del cammino e del costante maturare poetico di Renato Filippelli e rispecchia credo e pensiero in ogni suo specifico momento... Non c'è motivo o tema che sia appannaggio di una sola silloge, tutte ne sono fermentate... Tasselli che tocca al lettore cogliere e assemblare, rilevare via via i sottili cambiamenti perché tutto in progress, contenuto e stile, tutto in maturazione...” (D. Defelice, Renato Filippelli - Tutte le poesie, Pom. Not. Dicembre 2018, pp.

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19-21). Un'esperienza che lascerà sicuramente il segno e mi spingerà ad un contatto più intimo e consolidante con questa importante voce del Realismo Lirico. Nel tracciare questo percorso articolato e profondo sono spinta ad inviare all'Amico Franco Mosconi, monaco camaldolese di grande ispirazione profetica, poeta egli stesso nell'esegesi biblica di intenso spessore, la lirica COME SEPPERO IN ME NUDO IL TUO CUORE (al padre). Egli, ricambiando con simpatia, mi inoltra una sua Omelia, intensissima. Allora qui, ringraziandolo pubblicamente, dedico proprio a lui, a dom Franco Mosconi, questa voce pura ed assetata d'Infinito: IN TE, PRINCIPIO OSCURO... Troppo di te, mio Dio resiste alla mia sete, per le aperte vene della terra, sotto scogliere di granito, deserte come lastrici di tombe, le tue braccia d'acqua gelide e pure vanno a cingere paesi che non so. Aneliti di labbra screpolate da venti di salsedine, oh potess'io bagnare nell'intatto fiore della tua vita sotterranea. E smemorar del giorno: cruda luce sulla putredine di cose: in te, principio oscuro, aggricciarmi nell'attesa, vergine d'ogni storia, alle soglie del miracolo, come un feto maturo, prima che la sua carcere si schiuda. (R. Filippelli, op. cit. pag. 46) E il Pedrina, quasi ammaliato e sopraffatto, prima di vergare la nota a pagina 47, sottolinea in biro rossa E smemorar del giorno, seguito da vergine d'ogni storia: per questo si sente spinto a scrivere 'Sembrano tutti canti della vigilia: d'una vigilia fatta d'esili sogni e d'armonie velate...'. Un Dio antico, ancestrale, che palpita nella vita stessa dell'anima, sconvolge il Poeta ed il suo canto scorre come lacrime d'innocente lontananza.


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Lavori ad intarsio, dal passato verso il futuro, trame che hanno emozioni tese a tessere l'immaginario spirituale della creazione poetica portandolo ad alti livelli, in una quotidianità che si carica di senso. In copertina linee parallele, talune a distanza più ravvicinata, all'altezza d'un immaginario Ventre Universale sembrano gonfiarsi e deviare verso destra, in tre differenti scansioni, per poi riprendere il loro corso verticale: qui, in questo spazio si apre e si avvia la scrittura del giovane Renato e testimonia il dono: A Francesco Pedrina, Maestro, con sincero cuore. Renato Filippelli Autunno del '66. Ilia Pedrina

L'ALTARE DEI SOGNI Arde il fuoco ancora della vita sognata, i fantasmi dei desideri sono lucciole nella sera lungo le siepi della strada. La storia mia parte di qui, tornerò a risentire i miei giorni ardenti di evasioni, di qui la vita mia tutta, con le mani da solo, ostinato. Si è diramato il cammino pensato, fattosi pure a caso. Le incitazioni severe facevano intimorire. L'angolo idilliaco mi vedeva a tutte le ore nel vestito a doppio petto, gli occhiali bianchi, le dita sul mento per lo sguardo aguzzo oltre i limiti segnati. Le vie traverse e i giri viziosi. Gli umori e le idee uscivano fuori dall'involucro, flussi magici stagnanti all'ombra delle piante. Dentro enucleato tutto il futuro fino ad oggi che mi trova sull'erta arrampicato dopo trasversali tragitti in un'evaporazione di tempo consumato lontano. Trascino i giorni rubati con mia madre, l'altro punto di intreccio della storia, a strapiombo con le gambe dalle rocce taglienti a strati sopra le profondità incuneate nel grande vallone. L'altare degli inizi, ero l'intellettuale povero con la frenesia degli studi,

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abituato a distillare i pensieri passati per le parti del corpo, abbeverati nell'ambiente: si alzavano in volo, non avevano i piedi per terra mi tenevo come sbalzato per aria. Ho saltato una generazione, di sotto all'altezza del passaggio mi ha visto andare l'intransigenza delle condizioni avare. Frantumazione di tutto quello che stava attorno, l'animo mi divideva per moti diversi, le titubanze dell'adolescenza cresciuta nel rigore assillante: squilibrio tra bambino e adulto, fratture e tratti interrotti. Leonardo Selvaggi Torino

AUTUNNO 2019 Festa di sole e di luna calante. Giorni tiepidi nella culla iridata dell’autunno che scorre limpido, senza scosse né molesti fragori, se non quelli che scuotono altrove villaggi e città martoriate dal fuoco di bombe e granate, che negano ai bimbi di dormire in culle d’affetti, di quiete, di pace ignota ai tristi signori della guerra, voluta per orinare su lembi infelici di terra altrui, con la felicità dei malati di mente, in spregio alla libertà di Popolo che rispetto reclama, e dignità di vivere franco dal Caino fratello. (16.10.19) Antonio Crecchia Termoli (CB)

DANS LES YEUX DE L’ESPRIT Tout est vivant dans les yeux de l’esprit : lèvres paroles pas sur les voies tracées par l’amour entre les étoiles. Gianni Rescigno Traduction de Béatrice Gaudy, Paris, France.


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CON UNA TESI DI

MARINA DIANO TORNA ALLA RIBALTA LA SCRITTRICE PARTENOPEA FABRIZIA RAMONDINO di Liliana Porro Andriuoli

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ONNA di vasta cultura, Fabrizia Ramondino (Napoli 1936 – Gaeta 2008), è stata una delle personalità di maggiore spicco della cultura napoletana durante la seconda metà del Novecento ed anche oltre. Si è occupata, come dimostrano diversi suoi saggi, di problemi sociali e politici ed ha scritto numerosi romanzi, racconti ed un libro di poesie (Per un sentiero chiaro). La sua figura di scrittrice emerge pienamente tra l’altro dagli Atti del convegno che si tenne alla University of London nel gennaio 2010, usciti nel 2013 con il titolo «Non sto quindi a Napoli sicura di casa» identità, spazio e testualità in Fabrizia Ramondino, a cura di Adalgisa Giorgio1. Di molto interesse ci sembra pertanto il fatto che, tra le pubblicazioni apparse nel 2018, nella collana «Il merito di Napoli», dedicata dall’Editore Rogiosi a giovani laureati, figuri un libro, intitolato Fabrizia Ramondino tra Napoli e il mondo, che riporta l’attenzione del pubblico su di lei, considerandola come una figura d’intellettuale di sicuro valore. Il libro, a firma di Marina Diano, rappresenta una sintesi della sua tesi di laurea in Letteratura Italiana, conseguita presso l’Università Federico II, discussa con il Prof. Francesco D’Episcopo (a.a. 2013-14). Non ci stupisce certamente che il relatore sia Francesco D’Episcopo, un critico che tanto tempo della sua attività letteraria ha dedicato

alla valorizzazione degli autori meridionali, riportando alla luce molti talenti nascosti o dimenticati. Materia di questo studio è dunque la vita e l’opera letteraria di Fabrizia Ramondino, una scrittrice dalla «personalità multiforme [e] in continua trasformazione» che si arricchisce dal confronto con culture differenti dalla propria», come puntualmente osserva Marina Diano. Sin dalle prime pagine del volumetto in esame apprendiamo che Fabrizia Ramondino, napoletana di origine, visse giovanissima in Svizzera e successivamente a Maiorca, una terra da lei molto amata, i cui ricordi confluiranno successivamente nel libro Guerra di infanzia e di Spagna2, un lungo romanzo nel quale la scrittrice rivelò appieno, come ben dice Marina Diano nel libro in esame, il suo «stile diretto e appassionato, ricco di digressioni immaginifiche e rimembranze sentite». Fu poi in Francia, a Chambéry, dove studiò letteratura, per tornare a Napoli, dopo la morte del padre, nel 1950. Qui scrisse Storie di patio3 e il romanzo Althénopis4, «occhio di vecchia», nome col quale i tedeschi definivano Napoli durante la seconda guerra mondiale, trovandola così imbruttita rispetto alle descrizioni ottocentesche di Mozart e di Goethe. Si tratta di un romanzo «a metà strada tra il racconto autobiografico e la finzione narrativa», come ben precisa ancora Marina Diano. Tra il 1963 e il 1964 Fabrizia Ramondino compose un poemetto dal titolo Alla maniera delle «Sette opere di misericordia» di Michelangelo da Caravaggio, nel quale sette, come le opere di misericordia dipinte dal grande Maestro, sono i luoghi che la nostra scrittrice

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Torino, Einaudi, 2001. Torino, Einaudi, 1983. 4 Torino, Einaudi, 1981. 3

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Perugia, Morlacchi Editore, 2013, p. 393.

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prende in esame e fa risaltare, offrendoci «un’ istantanea della realtà del suo tempo» (Diano), con un analogo realismo, specie nella descrizione dei luoghi più tipici e pittoreschi della città. Vennero successivamente le pagine di diario di Taccuino tedesco5, dal quale emergono città come Francoforte e Monaco di Baviera. In seguito la Ramondino fu a Roma; e nel 1956 di nuovo a Monaco. Fece ritorno a Napoli verso la fine degli anni ‘50, dove promosse la nascita dell’Associazione «Risveglio Napoli», allo scopo di istruire i bambini analfabeti dei quartieri poveri. Agì pure a favore degli operai, dei disoccupati e di molti bisognosi di assistenza. Nel 1965 morì la madre Pia Mosca, con la quale Fabrizia aveva sempre avuto un rapporto difficile. Fece seguito il matrimonio con Francesco Alberto Caracciolo, un «artista solitario e riflessivo». L’unione non fu però duratura: fu infatti da una nuova relazione che nacque la figlia Livia, che divenne, crescendo, una grande ballerina; attività questa che Fabrizia Ramondino avrebbe voluto intraprendere da giovane. Venne poi il 1968, con la sua ventata di rinnovamento sociale, che la vide attiva presso il Centro Coordinamento Campano. Il 1980 fu invece l’anno del terremoto dell’Irpinia, che provocò danni e lutti, descritti dalla Ramondino in Star di casa6, dove in proposito leggiamo: «La terra ci aveva traditi, respinti lontano dalle più remote pieghe materne». Dadapolis-Caleidoscopio napoletano7 fu il frutto di una collaborazione con l’amico tedesco Andreas Friedrich Müller ed è del 1989: «si presenta come un collage di testi, redatti da viaggiatori illustri di ogni epoca e paese in 5

Milano, La tartaruga, 1987; edizione ampliata: Taccuino tedesco 1954-2004, Roma, Nottetempo, 2010. 6 Milano, Garzanti, 1991. 7 Torino, Einaudi, 1992, con F. Andreas Müller. La scelta del titolo prende le mosse da «Dada», quel “movimento artistico e letterario novecentesco, che sovverte ogni regola”.

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vista del capoluogo campano». In esso compare una suggestiva descrizione della città di Napoli, colta nel suo spirito più autentico, misto di religiosità e di Eros, fascinazione e smarrimento, solarità e tenebra. Sulla stessa linea di Dadapolis, anzi ad esso in un certo senso speculare, è Vedi Napoli, un libro pubblicato nel 1995, che contiene le fotografie realizzate da Antonio Murgeri per la Mostra del 1995 a Zurigo, che colgono alcuni aspetti caratteristici di questa città, la quale diventa, come osserva la Ramondino, «il luogo emblematico di una generale condizione umana nel nostro tempo». Seguono altre interessanti osservazioni della scrittrice come quella sull’importanza del Salotto negli appartamenti napoletani: un locale «funzionale allo sfoggio del proprio perbenismo» e quindi opposto al «Soggiorno moderno, aperto, disarmato, ibrido». E si tratta di pagine cui si uniscono nella descrizione della città quelle sul burattinaio Bruno Leone, il quale «Non solo produce artigianalmente i burattini, per i suoi spettacoli, ma veste lui stesso i panni di Pulcinella, dando vita a spettacoli che affondano le loro radici nell’antica tradizione popolare». Intanto, col trascorrere del tempo, molti sono i suoi libri che vengono letti ed apprezzati anche all’estero, specie in Germania, dove la Ramondino fa ritorno periodicamente, quasi eleggendola a «meta prediletta delle sue peregrinazioni»; terra dalla quale trae molti fermenti culturali. Dell’anno 1995 è In viaggio8, un libro che raccoglie tutti i suoi itinerari, compiuti sino agli anni ‘90. Ritroviamo qui, fra l’altro, nel capitolo intitolato Ricerche, Maiorca, la tanto amata isola delle Baleari. Ma troviamo anche un nuovo stato d’animo della scrittrice. Allorché la famiglia dalla villa di Son Battle si trasferisce in città, «quella casa, luogo di magici ricordi» diviene infatti essenziale per recuperare un tempo felice della propria esistenza, emblema di uno stato d’animo irripetibile, di cui sta acquistando consapevolezza e che è 8

Torino, Einaudi, 1995.


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ben rappresentato dalla celebre frase di Rimbaud: «Je est un autre». Una frase che, secondo Marina Diano, dà appunto testimonianza dell’«amara consapevolezza moderna della scissione, della divisione di se stessi e del mondo». Negli anni novanta la nostra scrittrice napoletana si trasferì a Itri, «una cittadina arroccata sui monti laziali», tra Formia e Gaeta. Fu qui che, tra l’altro, scrisse Morte di un matematico napoletano, unitamente al regista Mario Martone. Si tratta di un testo che ha per argomento il suicidio di Renato Caccioppoli, uomo di «straordinario talento» per le scienze matematiche. Il suicidio avvenne a Napoli, l’otto maggio 1959, con un colpo di pistola alla nuca: una morte analoga a quella di Carlo Cirillo, un caro amico della scrittrice, per la quale ella fu colpita nel profondo. Caccioppoli del resto la Ramondino l’aveva conosciuto personalmente e ne aveva avvertito le affinità spirituali. Nel 1997 la scrittrice pubblicò Polisario. Un’astronave dimenticata nel deserto9, frutto di un viaggio compiuto sempre con Matrone nel deserto algerino, dove il regista aveva girato un documentario sul popolo Sahrawi, trasposto in parole dall’autrice, la quale paragona «la genuinità» di quel popolo ai nostri «corrotti costumi occidentali». Un sofferto resoconto del soggiorno presso il «Centro Donna Salute Mentale» di via Gambini è Passaggio a Trieste10, un diario nel quale la Ramondino medita «sul malato mentale e sul trattamento che gli viene riservato dalla società». Segue Intermezzo d’ agosto, dove la nostra scrittrice tratta di un soggiorno a Itri, «in compagnia delle donne di via Gambini, ma separata da loro doppiamente: dalla nostalgia, da un lato, dalla scrittura, dall’altro». Un tentato suicidio fornisce invece la materia de L’isola riflessa11, romanzo ambientato a Ventotene, dove «la scrittrice fa di prigio-

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nieri, eremiti, e pirati i personaggi favoriti del suo racconto, le cui storie si intrecciano al suo trascorso individuale». (Tra questi personaggi spicca Sandro Pertini, che fu prigioniero in quest’isola perché avverso al Fascismo). Il suicidio di cui qui si tratta è quello tentato dalla Ramondino nuotando in mare aperto verso Santo Stefano; suicidio che però non ebbe il suo compimento perché la salvò un imprevisto e la forza della corrente che la ricondusse a riva. Fu tuttavia questa un’ esperienza che valse a riconciliarla con la vita, sicché, ella conclude il suo quaderno con parole di rinnovata speranza: «Oggi c’è una grande luminosità e vedo l’isola dal continente, distinguendola fra le altre così come ogni nomade del deserto distingue l’una dall’altra oasi e la realtà dell’oasi dal miraggio». Giunta quasi al termine della sua attività letteraria, Fabrizia Ramondino raccolse anche le sue poesie, scritte tra il 1956 e il 2002, in un libro intitolato Per un sentiero chiaro, apparso presso l’Editore Einaudi nel 2004. Sono liriche, queste, nelle quali ella parla di sé e della sua vita, colta nei momenti tristi o lieti, con semplicità e profondo sentire. Il suo ultimo libro fu un romanzo, La Via12, che narra la storia di un capitano di mare, il quale, dopo una vita trascorsa sugli oceani, si ritira a vivere in un paesino situato sui monti, dove la sua vicenda s’intreccia con quella degli abitanti del luogo. Ed è con questo capitano che la Ramondino si identifica nel suo soggiorno ad Itri. È forse il caso di aggiungere che, come ben precisa Gianpasquale Greco nella sua Postfazione al libro, «Più che una scrittrice napoletana, Fabrizia Ramondino va considerata scrittrice dei napoletani, quasi avesse messo non solo la penna ma gli occhi e la sua stessa vita al naturale servizio dell’antropologia napoletana e delle sue visioni ed estensioni nell’italianità. […] Il lavoro di Marina Diano, che ne ricostruisce agevolmente vita e opere, al netto di un’aggiornatissima bibliografia cri-

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Roma, Gamberetti Editrice. Torino, Einaudi, 2000. 11 Torino, Einaudi, 1998. 10

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Torino, Einaudi, 2008 (in libreria il giorno dopo il decesso).


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tica, dona al lettore l’opportunità di approcciare una troppo poco conosciuta scrittrice, passata fino ad ora per il vaglio della critica ma non per quello, più importante e, spesso, definitivo, del pubblico». Spero pertanto che da questa mia breve analisi del libro di Marina Diano la figura di Fabrizia Ramondino sia emersa netta e in tutte le sue sfaccettature, offrendo l’immagine di una scrittrice di talento, la quale negli anni è andata sempre più approfondendo le sue tematiche. L’oggetto principale della sua ispirazione è stato però essenzialmente la città del suo cuore, Napoli; ed è ciò che Marina Diano ha messo bene in luce, dandoci un’immagine della nostra autrice compiuta e convincente: il che era poi l’intento cui mirava. Liliana Porro Andriuoli Marina Diano - Fabrizia Ramondino tra Napoli e il mondo (Rogiosi Editori, Napoli, 2018, € 14,00)

FINALMENTE HO CAPITO Misteriosamente sopraggiungono fatti nella vita, come una polmonite, magari in aprile, per significarti la particolarità (per difetto dei ricordi che abitano a volte in altre vie) di una presenza ritenuta insulsa in certi vasi sul balcone e del sistematicamente estirpare erba che invece l’attimo di abbandono per la malattia ha fatto venire su in un conforto profumato. Adesso assommi viene il senso finalmente torna a te la paziente dedica paterna che riempie la stanza, stordisce, e come il mare che ritorna voce nella sua conchiglia

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godi il puzzle che si ricompone. Intorno è silenzio, mentre il solo respiro e l’appartenenza è il vaso bianco, con dentro il dolore e il grande peso dell’assenza. Salvatore D’Ambrosio Caserta

Gemälde Ich habe die Welt in schwarz und weiß gemalt weil ich sie so gesehen habe: Liebe und Hass Demut und Stolz Güte und Bosheit. Hart und starr, rief ich meinen Gemälden zu. Jetzt kennt mein Universum so viele Farbtöne, es ist weich und ausgeglichen, den Winden gehorsam. Heute weine ich nicht mehr, ich zische nur noch. Manuela Mazzola (Quadri, di Manuela Mazzola. PomeziaNotizie, ottobre 2019; p. 32. Traduzione in tedesco di Marina Caracciolo)

Le lingue sono come gli uccelli come gli insetti come tutti gli animali: dappertutto nel mondo spariscono a tutta velocità per fare posto alla lingua abêtissante del profitto materiale immediato e della propaganda statale Béatrice Gaudy Parigi, Francia N. B. abêtissante : che istupidisce


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GIOVANNI ZAUPA E 'LA CATENA PALLADIANA:

ANDREA GREGORI, IL PALLADIO, E OLTRE...' di Ilia Pedrina

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'incontro con Giò, il mattino inoltrato del 14 ottobre, agli inizi di Corso Fogazzaro, è decisamente inatteso e subito l'intesa si apre a confidenze che attraversano i secoli. Mi informa, illuminandosi, che finalmente è stato stampato per le Edizioni Del Faro di Trento nel febbraio 2019, LA CATENA PALLADIANA: ANDREA GREGORI, IL PALLADIO E OLTRE..., quel materiale che gli stava così a cuore e che il 'suo' prof. Lionello Puppi, espertissimo del Palladio, non ha fatto in tempo a vedere: a passi verso Piazza dei Signori, lungo Corso Palladio mi porta in vita lui, Andrea Gregori, probabilmente originario di Pianezze sul Lago di Fimon, e i suoi artefici per orientamenti ed arti pratiche, tra Antenore Pagello munifi-

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co magnate dell'epoca e i soci di Pedemuro. Grazie alla sua passione dinamica ed aperta proprio a far capire in profondità contesti e situazioni, mi sciorina in breve le ragioni dell'opera, che già erano nei suoi disegni andando oltre le precedenti pubblicazioni -su questa stessa Rivista, in passato, sono state pubblicate una mia intervista a lui e recensioni ai volumi Sole, Luna, Andrea Palladio, Terra e Fortuna (2006) e Pallade Armata. Nel contesto di Andrea Palladio (2008)- e apparendo ora come loro conseguenza: ha in mente tutto, come se fosse contemporaneamente in due tempi, spazi, relazioni differenti e convergenti perché qui, ora, rimangono i simboli, i segni in forme degli intendimenti plastici di quel quasi ignoto Andrea Gregori che poi diventerà 'Palladio', anche nell'eco della 'catena evangelica' di Aurelio Dall'Acqua, memore di Gioacchino da Fiore e committente dei soci suddetti. Infatti mi spiega che per questo ha voluto che, nel titolo, la parola 'catena' fosse in corsivo. Un cerchio con la Croce Gigliata, tratta dallo Scudo d'oro del Sole di Francesco I -moneta usata anche dal suddetto Antenore- completa lo schema di una serliana, ossia arco siriaco, che risulta infine una croce solare, come nel tipo copto. Mi dice che, per questo, ha inserito fuori testo immagini di schemi della Croce Etiope e di una archeologica Croce Copta. Notiamo a lato, su sfondo bianco, ovviamente in rosso, il Giglio fiorentino tratto però dal Fiorino del 1475. Sul retro i simboli dell'Arma Strozzi e dell'Arma Soderini, a ricordare gli esuli repubblicani Fiorentini, che tenevano la loro roccaforte in Vicenza, a partire dal cardinale Soderini, vescovo della città col gradimento politico del duca di Ferrara. Diversi confratelli dei Serviti, dalla Casa Madre di Firenze, come le Mantellate serve di Maria della Beata Giovanna Soderini, soggiorneranno nel convento di Santa Maria dei Servi, nella Piazza delle Biade, che chiude la Piazza dei Signori. Il portale eseguito dai soci di Pedemuro, posto sulla facciata della loro chiesa, avvia una stagione di rinnovamento artistico cui concorre il giovane Andrea, non ancora palladio, nel


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non lontano convento di San Michele, degli eremiti agostiniani, ora scomparso. Qui era preminente il teologo Anselmo Botturnio protettore di profeti, amico del vescovo Girolamo Schio -deposto in morte nel sepolcro palladiano-, e almeno conoscente di Giangiorgio Trissino, probabilmente dai comuni trascorsi ferraresi alla corte della duchessa, e pia, Lucrezia Borgia. Gli offro un caffé d'orzo, è dimagrito per le vie della dieta ipoglicemica, io ordino una brioche alle noci, perché tanto il ragazzotto del Bar Moplen sa già quello che voglio. Lui guarda allarmato quando tendo la mano per prendere due bustine di zucchero di canna della Julius Meini 1882, allora ritiro immantinente la mano e gli confido con sguardo dolce ed impegnato che quella sarà l'ultima brioche, non della giornata, alla Zeno Cosini! Gli anelli della 'catena' servono, hanno senso profondo proprio perché il testo si sviluppa in tre anelli distinti e consequenziali, giusta lo schema gioachimiano in relazione ai tre periodi di genesi e manifestazione del fenomeno palladiano: Primo anello: l'età dei padri nelle premesse al fenomeno palladiano, ossia attraverso la generazione della lunga guerra iniziata dalla Lega di Cambrai, compreso il padre del nostro Andrea; Secondo anello: l'età del Palladio nelle opere e nel sistema, dalla maggior età dell'architetto alla sua morte, in cui si documentano soprattutto opere palladiane legate alla serliana; Terzo anello: l'età dell'avvio dello spirito architettonico palladiano, inteso dalla manifestazione di uno stile post-palladiano, marcato dalla serliana, viventi, in città, due figli del Palladio e come premessa al futuro palladianesimo. Adesso il discorso cade su di una donna protagonista, Elisabetta della doviziosa famiglia Grimani, 'amica, e non soltanto, di Antenore Pagello...', ammogliato in casa Trissino, nella di lei vedovanza. Costei era giunta da Venezia, arriva qui per via di matrimonio con il combattente Nicolino Trissino e porta in dote distese di laguna, di scarso valore unitario, di cui Antenore cura la vendita e il reinvestimento nel vicentino. Tra i veneziani emerge Pietro Maria Michiel,

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vicino di Antenore, fratello di un Capitano della città, e protettore dell'efficiente sacerdote Francesco Gregori di Pianezze del Lago. Con Venezia non mancano i suoi partigiani durante la lunga e incerta guerra che ha devastato la città di Vicenza. Lo stesso nostro Antenore e Giovanni Cavazzolo, subordinato al padre castellano e poi speziale, ma soprattutto per noi, procuratore del sossanese Bartolomeo Cavazza nella causa contro il suo apprendista Andrea, trasferitosi col padre, ora berrettaio, a Vicenza da Padova. E i notai? Quelli non devono mai mancare perché conoscono il latino e redigono gli atti che poi lui, Giò Zaupa ti andrà scovare in Archivio, quindi servono e serviranno, di padre in figlio. Questo che arriva a Vicenza è Alferio da Presenzano, in provincia di Caserta, oggettivamente propinquo a Sessa Aurunca patria di Agostino Nifo, già professore in Padova e meglio affermato in Napoli, mentre ci suggerisce sullo sfondo la memoria del circolo di Genazzano dei Colonna. Circostanze che possono aver colto il gradimento di Giangiorgio Trissino che gli affida la conduzione della ristrutturazione del suo possedimento in Cricoli, dove contestualmente mette mano alla villa in cui terrà la sua Accademia. Nel pomeriggio, quando mi consegna il prezioso lavoro, l'attenzione cade sulla riproduzione del grafico del notaio Gian Filippo Valle (1526, b. 355), emerso dall'Archivio Storico di Vicenza. Una sintesi criptica che lascia intendere un percorso ascendente di salvezza verso Cristo-Sole, che completa e sovrasta una croce a 'tau', a partire da una falce di luna, probabilmente mariana, di Terra dunque, e attraverso un rapporto di croce solare e Luna, uniti a una 'tau' trasversale. Un percorso mistico coerente e forse anche una precisazione, ma iniziatica, di quella che ormai comprendiamo come una croce in forma di serliana, cui sembra davvero alludere il dilettante di architettura Paolo Antonio Valmarana, componendo la tragedia di Santa Barbara, protettrice anche degli architetti, martire per aver affermato la Santissima Trinità col simbolo di tre finestre. Ne viene una prospettiva teurgica


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interessante, anche per l'universale architettura di Vincenzo Scamozzi, che officia una serliana, modello dell'anzi detto momento postpalladiano. Il corpo vivo dell'opera, in tutto 174 pagine, seguite da ben 255 pagine di note fittissime ai tre Anelli, in caratteri minimi, una miniera in cielo e luce aperti alla grande, offre la misura dell'intelligenza investigativa di questo studioso, non soltanto sul versante architettonico rispetto alle sue ricerche, ma prima e soprattutto sul terreno sociale, culturale, finanziario, politico e religioso dell'epoca. Nel retro di copertina, su sfondo blu e cornice simbolica a tre anelli in 'catena', riporto non senza grande coinvolgimento: “...Fra tutti, si conferma ed accresce l'importanza di Antenore Pagello. Partigiano di Venezia, impegnato nell'amministrazione pubblica, e cultore d'arte, manifesta per primo l'intenzione che Andrea divenisse il Palladio. Ciò avveniva accanto al consolidato partito francese, rappresentato dai fuoriusciti fiorentini, stabilitisi in città. In una prospettiva che giunge fino al beneficio ecclesiastico francese dei Porto, sullo sfondo dell'eresia e dell'impegno militare dei Thiene coi francesi, alla fine dell'esperienza repubblicana in Toscana. Il tutto accompagnato dalle manifestazioni architettoniche, laddove mentre si precisano alcuni termini di opere palladiane, si riordina e affronta con maggior precisione la problematica del lascito culturale del grande architetto, ossia del progetto civile di coloro i quali ne hanno voluto l'affermazione”. Si aprono collegamenti a groviglio quando, mentre Giò si allontana per tornare a casa, riprendo a studiare Il modernismo di Antonio Fogazzaro pubblicato dal prof. Paolo Marangon nel 2011, perché all'interno c'è una dedica ben precisa dell'Autore: 'A Ilia nel ricordo di un grande maestro, M.Ranchetti Vicenza, 11 ott. 2011 E Michele Ranchetti, dotto a dismisura, studioso e docente di Storia della Chiesa, a Firenze è ancora di casa... Ilia Pedrina

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ASSURDITÀ Ora che sto per lasciare questo mondo, perché sono avanti, molto avanti negli anni, perché sono malata, perché le mie forze, integrali, sono per cedere, mi aggrappo alla vita, da cui non vorrei mai staccarmi, a questa vita eterna che dura nel tempo, "fu, è, sarà", che si rinnova, ma non per me. Antonia Izzi Rufo (Castelnuovo)

JEUNE JE REVAIS DE BIEN AUTRE CHOSE A présent me frappe la fatuité des lucioles dans l’obscurité printanière la fragilité des feuilles et de la terre dans les déluges automnaux. Ils symbolisent la précarité de la vie comme en un film toujours déjà vu mais que l’on oublie. Luigi De Rosa Traduction de Béatrice Gaudy, Paris, France.

Der Schrei des Herzens Mein Schrei zur Einsamkeit bricht in die Dunkelheit: Im Nichts schwebend, kämpft er ohne Waffen gegen die Welt. Sein eindringliches Echo verfolgt mich, und wenn ich kein Herz hätte würde es mich zerstören. Manuela Mazzola (L'urlo del cuore. Pomezia-Notizie, gennaio 2019; p. 32. Traduzione in tedesco di Marina Caracciolo)


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DOMENICO DEFELICE LE PAROLE A COMPRENDERE Significanza, stile, forza della parola di Salvatore D’Ambrosio

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UESTA raccolta di Domenico Defelice, come sapientemente dice nella notazione finale Emerico Giachery, non è una semplice raccolta di versi, ma “un libro di vita in senso chiave”. Non so se volutamente o per caso, la silloge è una partitura in quattro movimenti, per dirla con linguaggio musicale. E come osserva Giachery, vi ritroviamo un accostamento alle stagioni della vita: che si dissolvono poi “nel mare dell’Eterno”. Certamente è una voce, meglio dire un parlare alto, contro la continua Babele che impera in questi nostri frenetici anni. Un tempo tutto si acquietava con le campane della sera. La notte raschiava con il suo silenzio tutto il frastuono del giorno. Ci si svegliava ricaricati; quasi felici di un nuovo giorno.

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Da molto tempo non è più così: anche nelle notti vi è un continuo ribollire di umanità scontenta, che non sa in quale direzione andare. Un’umanità vociante che spende fiumi di parole, spesso inutili, di cui stenta a comprenderne il significato, ma soprattutto il senso. Ma per dimostrare che “ si è”, che “si esiste”, bisogna inevitabilmente dire: fosse anche una sciocchezza; anzi per creare la giusta confusione, la giusta Babele di parole, meglio se quello che si dice è una banalità, una cosa che serve solo a dare aria al cavo orale. Sempre più spesso si sente dire che in democrazia tutti hanno il diritto di parlare. Ciò è vero e sacrosanto, ma mi chiedo se tutti lo debbano fare per forza, senza ritegno e soprattutto quando quello che dicono, non ha nulla a che vedere con la libertà di parola. Bassa ombra e sole alto./ Prima che mi aggredisca, / decapito l’orgoglio appena nato. Ecco bisognerebbe fare così: come dice in questi versi Defelice. Ma è solo una pia illusione. Le parole anche a vanvera rendono forti. Trovano sempre qualcuno che se ne fa un credo, una ragione. Una bandiera da sventolare, da piantare sulla collinetta della propria balordaggine. Questo magari perché sono convinti, che la parola è un insieme di lettere aggregabili da chiunque. Invece non è così, perché un insieme di lettere non è una parola, lo diventa solo quando rispettando certe regole si dà a quelle lettere un senso compiuto. Marco Malvaldi, scrittore e ricercatore dell’università di Pisa, in un suo recente scritto sul linguaggio, afferma che esso è un “meccanismo cognitivo di tipo computazionale in grado di generare dalle parole (insieme limitato) un insieme illimitato di espressioni gerarchicamente strutturate che sono le frasi”. Umberto Eco affermava che il segno, lettere ordinate in parole, non è solo un elemento che entra in un processo di comunicazione, ma è anche un’ entità di un processo di significazione. Mancante quest’ultima, la comunicazione si riduce a un processo di stimolo-risposta, punto e basta. Ma il Defelice ci dice qualcosa in più: Singolarmente o in


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prosa/ sempre inadeguate sono/le parole a comprendere/il senso della vita e delle cose. La parola, dunque, che è l’atto concreto mediante il quale il parlante esercita le leggi della parola, non deve possedere solo un significato e uno stile connotativo che necessita per la differenziazione tra coloro che operano con il linguaggio scritto (poeti, scrittori), ma deve avere anche uno stile nell’uso del segno, da distinguerlo e/o rappresentarlo. Inoltre le parole devono possedere, e spesso la possiedono, una forza tale da essere iconiche, ovvero essere in grado di rappresentare anche concetti astratti. Ma soprattutto raccontare, o meglio mettere a fuoco aspetti quotidiani, situazioni, azioni che apparentemente non significano nulla, ma che invece influenzano i comportamenti, i modi di pensare, di agire, di vivere. Ecco egli stesso nella parte prima della silloge fa riferimento alla parola: Fiat!/Fu la Parola, a riempire/il vuoto … / Fu la Parola a confortare l’umanità … Riveste grande importanza la parola, dunque, per Defelice. Ne ha fatto, infatti, la ragione della sua vita; è stata la molla che lo ho fatto scattare nel preciso istante in cui decise di lasciare la sua terra di Calabria. E nonostante ci ha lavorato come Vulcano con il ferro e il fuoco, restano ancora misteriose per lui le parole. Restano sempre inadeguate per un interprete, anche come lui, che media da tempo l’universo semantico e pragmatico. La sua raccolta-partitura in quattro tempi, è un continuo di sostanza, contenuto e forma. Il percorso si snoda simbolicamente attraverso i tempi musicali dell’adagio, andante, moderato, allegro. Non necessariamente identificabili con l’impaginazione del volume. Voglio dire che nella prima parte non troviamo solo versi assimilabili ad un adagio, come potrebbero essere quelli di Basterà pronunciare una parola, o Dormi Serena, o La luna. Troviamo, anche per esempio, in Pomeriggio d’Aprile con il riferimento a Bach, un accostamento a un tempo moderato.

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L’allegro potremmo assimilarlo ai versi della seconda parte, che sembra un divertimento ma non lo è affatto. Tanto è che lo stesso Defelice titola: Ridere (Per non piangere). La parola, e quindi lo scrivere, è una sua necessità non per mostrare quanto sia acuto osservatore, o quanto sia bravo nel padroneggiare il lessico, o quanto peso ha lasciato in lui il trascorrere degli anni. Gli servono le parole, per dire cosa accade dentro di sé quando è di fronte alle fantasmagorie imprevedibili della vita. Il segno semico è forte e splendidamente connotativo in lui, soprattutto nel momento in cui deve essere espresso: “… e il volto gli si colorò d’infanzia”. C’è in questo verso una forza iconica meravigliosa, pur nella sua semplice composizione dei lemma. Nella sua nota introduttiva Sandro GrossPietro, osserva che in Defelice la funzione riflessiva e transitiva esercitata dal “segno” è doppiamente valida: bisogna comprendere le parole, ma sono anche le parole che ci comprendono. Ciò è vero in quanto il verbo “comprendere” ha significato di capire, intendere un pensiero, una comunicazione di comportamenti osservabili, o anche di esperienze interiori inosservabili, ma che, facendo tramite le parole, possono essere manifestate. Ma accade pure, come sta avvenendo magari in questa recensione, che l’elemento esplicito del verso che stiamo interpretando, non corrisponda effettivamente a quello che l’autore aveva nella testa. Non c’è, ovviamente, mai la sicurezza di aver compreso bene le parole, che sono un insieme aperto. Ci può essere sempre la possibilità di un nuovo senso, che a seconda delle circostanze può saltare fuori e rinnovare, dare vitalità a parole che pensavamo obsolete, cristallizzate. D’altronde viviamo in mezzo alle parole. Volendo essere precisi, dobbiamo dire che viviamo insieme ad esse, in quanto la parola è composta dal cum (insieme) e prehendere (afferrare, prendere). Ciò non ostante potremmo dire con la Murdoch, che il pensiero non coincide con le parole, e aggiungerei questo sempre; ma le pa-


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role occorrono assolutamente. Nelle quattro parti del libro avviene precisamente questo. Le parole della prima parte si compongono in modo da restituire ricordi, dolcezze di un tempo felice, per effetto della selettività della memoria, ma che in fondo avevano una loro durezza: a cena, pane e cicoria; mio padre è stanco ed ha sempre/le mani sanguinanti; mia madre, attenta vivandiera, non mangia; il sonno pieno d’incubi. Quelle stesse parole organizzate in modo diverso prendono un altro senso, come le note musicali che sebbene solo sette, possono dare un’infinita discorsività. Ecco allora la gioia del tesoro degli amici, della nascita dei figli e successivamente dei nipoti. Per non parlare del sapere ascoltare dell’ Autore delle voci dei pioppi, degli uccellini, del filo d’erba che fruscia e lo richiama a tenerlo in considerazione. Ma come abbiamo accennato le fantasmagorie della vita sono tante e non sfuggono alla sua arguzia, e soprattutto alla sua sferza. Il segno linguistico prende, nel corso della silloge, una strada diversa, ma rimane distinguibile come stile della poetica del Defelice. Ecco quella parola Bach che abbiamo trovato nella prima parte, diventa il pretesto per un accordo con cognac. Come il volo, con il mezzo più consono a farlo, cioè l’aereo, si fa per taluni con il crack. Verità. Segni le parole in questa parte, che dicono verità: altra strada obbligata per chi ha a che fare con le parole. Verità che sono, come le chiama Gros-Pietro, pasquinate, che avevano ed hanno l’ obbiettivo di svegliare le coscienze addormentate dalla politica marpiona. L’artista veicola la verità, formula idee che escono dalla vaghezza attirando l’attenzione sui fatti, che non possono più essere ignorati. E la gente, che lo ama, ha … deciso di dargli ragione! E ci leggiamo, nonostante tutto, un’amara rassegnazione. Nell’ultima parte del libro ci dà un saggio della sua capacità di manovrare le parole e di come esse si lascino docilmente condurre in questo suo gioco.

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Ci dimostra, come abbiamo inizialmente detto, che non basta aggregare delle lettere per fare una parola di senso compiuto. Ma che è il senso compiuto che noi vogliamo dare a quell’insieme di lettere che fa la parola. “Par olè parole,/ in vece paro le/ orlape lorape praole,/ praleo prolae praole,/ orapel plaroe che così/ disfatte e fatte,/ ne divengan rappe di chine”. Credo a questo punto che è inutile aggiungere altro. Ci ha dato l’Autore per l’ennesima volta una lezione sull’uso delle parole e della difficoltà a comprenderle, se non sono utilizzate nel modo giusto. L’uso corretto di esse ci allontana dunque, specie in questi novelli tempi, da una probabile nuova Babele dalle conseguenze estremamente pericolose. Questo perché, come diceva la filosofa irlandese Murdoch (1919-1999), le parole sono il luogo dove viviamo non solo come esseri umani, ma anche come spiritualità che hanno dei doveri morali. Salvatore D’Ambrosio DOMENICO DEFELICE - LE PAROLE A COMPRENDERE - Ed. Genesi- Aprile 2019

GRANDI ERANO GLI ALBERI Grandi erano gli alberi alte le case: così ingigantiti me li godevo gli occhi al cielo supino sull’erba. Ascoltavo le campane di tutte le chiese: parlavano e le parole mi entravano nel nascondiglio dell’anima. Blu stellato il buio della notte mi si adagiava sui sogni e tra le lenzuola sudate riscaldato dalle corse del giorno mi appariva lontano l’uomo di oggi. Gianni Rescigno Da Il vecchio e le nuvole, BastogiLibri, 2019.


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La poesia pensante di Stelvio Di Spigno

UN TESTAMENTOMESSAGGIO IN UN LIBRO DI GRANDE FASCINO, La nudità di Fabio Dainotti

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O avuto nuovamente tra le mani dopo qualche tempo e ho riletto con grande piacere il libro di poesie di Stelvio Di Spigno intitolato La nudità (peQuod Editore, 87 pagg., 12 euro). Sul limitare del libro si legge una dedica: “Agli amici delle Marche”, che richiama esplicitamente e volutamente la dedica leopardiana: Agli amici di Toscana. Leopardista, Stelvio Di Spigno ha licenziato alle stampe uno studio, un’analisi psicologica cognitivo- comportamentale su Leopardi; anche Di Spigno, come il grande Recanatese, scrive una poesia che si nutre di un ricco sostrato filosofico, una poesia pensante, dunque. Ma questo sostrato diventa esso stesso poesia, non resta un elemento allotrio. Si nota una volontà di canto disteso in questi versi lunghi, che superano la misura dell’endecasillabo, assumendo un andamento gnomico e sentenzioso in alcuni testi; si veda in tal senso Fondamenti. E in cui affiora a tratti un gusto espressionista; ad esempio in La resa, dove leggiamo di “palazzi deformi”. La sezione Lo specchio di Dite è il vero centro ideale, se non esatto e geometrico, della raccolta, per la presenza dei moti-

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vi fondanti e ricorrenti. Perciò partiremo da questo per le nostre osservazioni sparse, in margine a una poesia di grande fascino, ma non facile, per la cui comprensione utilissimo viatico si rivela la postfazione di Fernando Marchiori. Si assiste a una volontà di resistere come “una diga allo sbandare”, in un atteggiamento contemplativo che consente di vedere l’erba crescere, Ungaretti ne percepiva il rumore, lungo i bordi. Ma c’è un senso di stanchezza nel verso incipitario di Desiderio: “Avrò anche vissuto milioni di vite”, un numero iperbolico che fa pensare al celebre “J’ai plus de souvenirs que si j’avais mille ans”. E c’è una ricerca: della pace anche al di fuori del religioso, con una volontà di comunicare, in “un libro aperto”, anche con chi ha procurato il lutto dell’abbandono e ora vive una vita normale, ma abitando la separatezza. Volontà di comunicare che si percepisce già nelle Introduzioni che aprono la raccolta (e chi frequenta la semiologia non ignora l’ importanza delle parti incipitarie, delle soglie). Ebbene la primissima lirica, che reca il titolo Fine settembre, mette in scena il grido delle rondini, latrici di un messaggio indecifrabile, messaggere di un oltre misterioso, in quanto abitatrici di uno spazio intermedio fra cielo e terra. Vanno dove si disperdono altre voci questi stormi di rondini, che si apprestano a un viaggio per poi ritornare, mentre “le parole non hanno ritorno”. Lettere inverse è il titolo emblematico della poesia successiva, dove chi dice io nel testo avrebbe “molto da dire”, ma si limita come le rondini ad “attraversare l’aria”, rimpiangendo leopardianamente quanto perde “proprio in quel momento / sentendo che è trascorsa…/ questa bocca cucita sulla vita…/ quando si passa infiniti”. E anche in Fiore di notte, l’aspirazione è quella di “ascoltare le parole che si dicono nel sonno”. Ma ritorniamo alla volontà di resistere. Che la diga di cui sopra abbia dei cedimenti e che questi non siano privi di dolcezza si evince dalla bellissima Animazione, che ha per tema l’identità, mutevole e proteiforme, ma anche la visione. Efficace è lo spostamento del punto di vista dall’io lirico alla sera uma-


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nizzata: “chissà cosa prova la sera, quando scende, ma poi/non è vero che scende: cambia colore, toglie la luce/ma non è altro che noi che la guardiamo”. C’è poi il tema del disperdersi, che attraversa l’intera raccolta: “io divento/la madre nel parco, l’uomo che va in barca, la sera quando scende”; si pensa al concetto di “retorica” e alla dispersione nel mondo teorizzata da Carlo Michelstaedter nella sua tesi di laurea, con argomenti che precorrono la filosofia degli esistenzialisti. Ma ciò che colpisce è anche il bisogno del soggetto lirico di essere amato: il desiderio di essere “un essere indifeso, per essere sicuro che così/ lo si ama”. Dove l’essere indifeso rimanda a una temperie neocrepuscolare. Il pensiero di un lascito morale anche in Carità, una poesia suggestiva, dove ricompare, in un’atmosfera vagamente simbolista, una sorta di libro del mistero con una “dedica in segreto”. Il desiderio di nascondersi “dietro un sipario” e di “chiudersi per sempre lontano dal suo mondo” ritorna in Ruolo. Quest’uomo di pena, per dirla con Ungaretti, destinato a non correre più rischi, in una sorta di senilità, appare votato alla rinuncia, all’assenza di desideri, all’ atarassia, e a “una solitudine ignota” (Meta); del resto già in Verso Nord, si legge: “mi riposo come un vecchio già da giovane”, e nel testo già citato Fiore di notte leggiamo: “e come giovani stanchi o vecchi imbambolati/vivremo per sempre innocenti”. Titolo quasimodeo ha la sezione Giorno dopo giorno, che ripresenta, nella poesia Limine, il consueto gioco di nascondimenti e svelamenti già nell’immagine della luna “che appare e scompare” e poi nell’explicit. E torna anche in Moderato con violenza la “voglia di annullarsi”. Una tessera quasimodea è “fatto d’aria”, in Canone fraterno. Mentre un vittimismo pascoliano si affaccia in Fiducia: “Il registro di tutta la mia vita: noioso, senza senso/senza amori”. In La vita in lontananza, penultima sezione, tornano tematiche esistenzialistiche: già nella prima lirica, si parla di “caduta nel buio senza ritorno”, un’ansia di fronte allo spalancarsi di un buio abisso, di uno iato aperto sotto i nostri piedi, che recla-

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ma gli strumenti d’indagine propri della critica psicanalitica. Si riscontra altresì una ironia gozzaniana nei confronti dei medici e delle loro prescrizioni: “sorriderei quasi se dopo non fosse mestieri pagarli”, scriveva il poeta piemontese, come gozzaniana è la ricostruzione di un piccolo mondo antico che fa pensare all’amica di nonna Speranza, con “le zie dell’Ottocento” e la regressione all’infanzia (L’innocenza). Ma è soprattutto la consapevolezza di essere- per- la morte che si fa insistente: “che stavo morendo e che io lo volevo”. Si direbbe quasi una “nostalgia della tomba”. (Nella precedente sezione, intitolata Geografie variabili, si vagheggia una morte per acqua, in quel “corpo annegato”). Poesia metaletteraria è Beach girls: dove si accenna anche a un “bacio…non dato”. E c’è anche la percezione di un mondo esterno ostile, abitato da gente che non parla la stessa lingua. Tra i due poli opposti della ricerca del successo e dell’ aspirazione all’ autenticità sembra muoversi Milano centrale. La lirica che chiude l’intera raccolta, Ai poeti del secolo 21, oltre che un testamento - messaggio, è anche una invocazione al lettore, un riecheggiamento del “mio simile mio fratello” di baudelairiana memoria; l’ultimo verso suona così ed è una chiusa potente: “mentre siamo niente, fratello, siamo niente”. Questa negatività in realtà è una richiesta d’aiuto, rivolta ai poeti, sentiti come fratelli; una ricerca di solidarietà: negatività dialettica, si direbbe, ripetendo una formula utilizzata per Montale. Fabio Dainotti

ROSA ROSA NEL VENTO DI GENNAIO Rosa rosa che penzola nel vento nevoso di gennaio sospesa a picco sullo sciabordìo dell'onda calda promessa di soave bellezza nel gelo ottuso che ci circonda. Luigi De Rosa (Rapallo)


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CANDIDO di Antonia Izzi Rufo

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ONO due le opere che portano il titolo di “Candido”: quella di Voltaire e quella di Sciascia. Quella di Voltaire risale al periodo dell’ “Illuminismo”, quella di Sciascia ai tempi contemporanei. Le due opere somigliano nel titolo, nel carattere del personaggio, Candido, e si differenziano nei “tempi” in cui furono scritte e negli “usi”. Infatti, “Candido” di Voltaire è ambientato nel periodo in cui visse l’autore, periodo diverso dall’attuale. Le leggi di una volta non erano quelle di oggi, le punizioni che si infliggevano allora erano crudeli: oggi si è più umani, si ha più rispetto dell’uomo. Noi lettori ci sentiamo rabbrividire quando leggiamo di come venivano puniti, a quei tempi, gli uomini. Voltaire (Marie Arouet) nacque a Parigi nel 1694. E’ ritenuto il successore di Racine e di Corneille. Subì carcere ed esilio. Scrisse moltissime opere. Negli ultimi anni assistette, a Parigi, alla rappresentazione di “Irene”. Ebbe grande successo. Morì nel 1778. Leonardo Sciascia nacque a Ricalmuto nel 1921 e morì a Palermo nel 1989. Scrisse moltissime opere. Ricordiamo, tra le altre, “Consiglio d’Egitto”, “Todo Modo”, “La scomparsa di Majorama”, “Candido” (una parodia). Quale la trama di “Candido o l’Ottimismo” di Voltaire? Protagonista dell’opera è Candido che vive nel castello tedesco del barone Tunder-ten-tronkh. Suo precettore è il filosofo Pangloss, il quale insegna che viviamo nel migliore dei mondi possibili (si riferisce alla filosofia di Leibniz che Voltaire critica ferocemente). Sorpreso a baciare Cunegonda, la

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figlia del barone, Candido viene scacciato dal castello. A questo punto cominciano le sue disavventure e le sue peregrinazioni in varie parti del mondo. Infine egli ritrova Pangloss, il meticcio Cacambo, il filosofo pessimista Martino e sposa Cunegonda, sebbene questa sia diventata un po’ brutta. Tutti insieme vivono in una masseria a Costantinopoli. Discutono di tanti argomenti finché concludono che la cosa migliore da fare è lavorare, ‘coltivare il nostro giardino’ afferma Candido. Importante è il capitolo in cui Candido risiede nell’Eldorado, il paese dell’oro. Candido va via con numerosi gioielli e può risolvere diverse situazioni difficili. La trama di “Candido” di Sciascia: Candido nasce in una grotta quattro giorni dopo il bombardamento della città dei genitori, dall’otto al nove luglio del 1943 (era in corso la seconda guerra mondiale). Il padre dice che “ non è suo figlio” per cui la madre è costretta ad andare via di casa con un altro uomo. Candido ha molte disavventure. Infine s’innamora di Francesca e vivono insieme. Ritrova la madre, continua a girare per il mondo e poi si stabilisce, con Francesca, a Parigi. Ospita il suo amico del cuore don Antonio. Quale la conclusione di Candido? “Bisogna coltivare il giardino”, ossia si deve lavorare per vivere tranquilli. Cunegonda fa degli ottimi dolci, Pasquina cura la biancheria, la ‘Vecchia’ l’aiuta, il frate fa il falegname… Sia Voltaire che Sciascia approdano allo stesso risultato: non si può vivere senza uno scopo, senza lavoro; lavorando si conduce una vita, non nell’ozio e nella noia, ma nella serenità, nella visione ottimistica del futuro. Antonia Izzi Rufo


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TANG SHI di Domenico Defelice

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A carta, per sua natura, è elemento silenzioso ed è così importante da immaginarcelo respirare e vivere come

noi. Per spontanea evocazione, l’immagine adombrata dal poeta ci suggerisce raccoglimento, ch’è meno possibile, oggi, raggiungere con altri mezzi di lettura, sempre più a nostra disposizione e sempre più sofisticati. Il foglio di carta, insomma, è considerato un vero e proprio amico, silenzioso e discreto, che ci permette di meditare e di crearci a catena immagini e perfino storie intere. Che il foglio di carta sia vivo, Tang Shi non ha dubi e, infatti, ce lo presenta animato da un “vento fresco” che lo penetra. La carta è simbolo di progresso per l’intera umanità. Le tante vicende della storia, alle quali il poeta appena accenna, sono giunte a noi solo attraverso la carta; è attraverso la carta che abbiamo potuto conoscere miliardi di esseri umani e le loro vicende, altrimenti persi inesorabilmente nella notte del tempo,

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nell’abisso insondabile dell’ignoto; noi stessi, se saremo ricordati nel futuro, lo dovremo alla carta (“Quante persone che vengono dopo respirano/il loro passato la nostra realtà”), così come lo stesso poeta, il quale, attraverso le opere pubblicate - e, quindi, attraverso la carta -, entrerà nel fiume immenso di personaggi e storie (“In quegli occhi perplessi e liquidi/Ci sono i miei sogni impetuosi/ C’è la mia fede più grande”…). Trattando della carta, Tang Shi non può fare a meno di ricordare il suo inventore* - presentato come “un vecchio in abito lungo”, i capelli ormai del “Colore della neve di montagna bianca e pura” -, il tempo in cui è vissuto, i suoi contemporanei (“Troppi nomi/Ricordare chi sono/Nessuno lo sa”). Né, in questa lirica, possiamo ignorare la straordinaria immagine della strofa finale, nella quale la carta viene confusa con la nuvola e viceversa ed entrambe con l’oceano: nella nuvola abbiamo acqua e pioggia; sulla carta, la parola e, quindi, il pensiero. Carta e pensiero, oceano entrambi. Suggestiva e pregna d’intima tristezza, la “Giornata di pulizia delle tombe”, con quelle bandierine, quel “vessillo di carta” che, inevitabilmente, riporta a “La carta nel tempo”, e quelle immagini delicate e fortemente evocative delle lacrime “più pesanti di un ramoscello di fiori di pesco”, le nubi che incessantemente rotolano e il cinguettio degli uccelli. Un rito di comunanza tra vivi e morti (basta pensare, in Italia, a quelli del due novembre) e un trascorrere del tempo plasticamente reso in quel perenne viaggio delle nuvole. Tang Shi ha una particolare predilezione per le gocce e ne sa rendere efficacemente le magie, delle quali le più cariche ed estese ci sono apparse quelle della rugiada che “trattengono un piccolo cielo”. La voce goccia, in questi tre brani, vi appare più volte: dalla “goccia d’acqua” alle “gocce di pioggia” di “La carta del tempo”, alle “gocce di rugiada”, ripetute ben quattro volte, quasi un mantra, in “I fiori dormono…”.


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The Paper through Time A piece of silent paper Possesses rectangular breath white And contains all

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is the ocean Of countless raindrops The beetling thought and white paper Stop me from confiding. Tomb-sweeping Day

A spell of cool wind has penetrated The paper the thinnest back in the world Contains the most abundant history reality future In the expanse of paper I look for Cai Lun the inventor of paper an old man in long gown His grey hair has become The color of snow mountain white and pure His contemporaries I do not know Too many names To remember who is who Nobody knows I see an old man in blank expression Sitting on a huge piece of paper All around him is vastness and hollowness How many later comers are breathing Their past our reality In those perplexed and liquid eyes There are my soaring dreams There is my most faith There is a huge world in a drop of water Is howling waves The stream of language is intermittent My story is flowing In the white dreariness of paper He who has curdled blood Stays together with all old people The strained paper has ripped A string of sober outlooks Those tranquil nights are hard To restore my noisy thinking

They sleep in graves, and they dream a collective dream in cinerary caskets They continue to let their thought bright, to take green grass As their flourishing words, from night to night, to seep out of the earth of graves. Only those who are alive Regardless of their devoir, to awaken them on Tomb-sweeping day year after year But they like this, and it gladdens them to meet their relatives in incense And paper banner. When tears are heavier than a twig of peach flowers In the twitters of several birds, dirges are rolling and tumbling ‌ The Flowers Sleeping While Holding Dewdrops The flowers sleeping while holding dewdrops Seem to be contemplating while holding a minute sky At this time, I can not help thinking about the bending posture of flowers Thinking about the woman with a baby in her arms Thinking about transparent missings Thinking about the drippage and breaking of dewdrops As well as how hard-earned is the hope of love And how difficult it is to maintain it

A kind of smallest indignation disappears In the invisible sky how can I Break through into the blurry horizon

There is often undeviating wind blowing here There is often pelting rain soaring Flowers are shaking, dewdrops are shaking As if the whole sky is shaking, however A group of astringent fruits Are clambering with force along sturdy trunk And the arm of interlaced branches and twigs

In a piece of contemplative cloud cramming

The flowers sleeping while holding dew-


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drops, the flowers under moonlight Have dreamed the heaven is dripping with a host of crystalline enjoinments Countless faces with dry fruits Are all tears La carta nel tempo Un pezzo di carta silenziosa Possiede respiro rettangolare bianco E contiene tutto

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Una specie di piccola indignazione scompare Come posso io, nel cielo invisibile , Sfondare l'orizzonte sfocato In un pezzo di nuvola contemplativa piena c'è l'oceano Di innumerevoli gocce di pioggia Il pensiero prominente e la carta bianca Mi impediscono di confidarmi. Giornata di pulizia delle tombe

Un incantesimo di vento fresco è entrato Nella carta più sottile del mondo Contiene il futuro più abbondante di storia Nella carta distesa cerco Cai Lun l'inventore della carta, un vecchio in abito lungo I suoi capelli grigi sono diventati del Colore della neve di montagna bianca e pura I suoi contemporanei non li conosco Troppi nomi Ricordare chi sono Nessuno lo sa Vedo un vecchio con espressione vuota Seduto su un enorme pezzo di carta Tutto intorno a lui è vastità e vacuità Quante persone che vengono dopo respirano Il loro passato la nostra realtà In quegli occhi perplessi e liquidi Ci sono i miei sogni impetuosi C'è la mia fede più grande C'è un mondo enorme in una goccia d'acqua Le onde mugghianti Il flusso del linguaggio è intermittente La mia storia scorre Nel bianco candore della carta Colui che ha coagulato il sangue Sta con tutti gli anziani La carta strappata ha lacerato Una serie di prospettive sobrie Quelle notti tranquille sono dure A ripristinare il mio pensiero rumoroso

Dormono nelle tombe, e sognano un sogno collettivo in urne cinerarie. Continuano a lasciare che il loro pensiero luminoso, vaghi sull’ l'erba verde e le loro fiorenti parole, di notte in notte, filtrino dalla terra delle tombe. Solo quelli che sono vivi Indipendentemente dal loro dovere, per risvegliarli il giorno della pulizia delle tombe, anno dopo anno. Ma a loro piace questo, e li rallegra incontrare i loro parenti nell’incenso. E il vessillo di carta. Quando le lacrime sono più pesanti di un ramoscello di fiori di pesco Nei cinguettii di diversi uccelli, le nubi rotolano e rotolano ... I fiori dormono mentre trattengono le gocce di rugiada I fiori dormono mentre trattengono le gocce di rugiada Sembra che siano in contemplazione mentre trattengono un piccolo cielo In questo momento, non posso fare a meno di pensare alla posizione dei fiori Pensare alla donna con un bambino in braccio Pensare alle mancanze trasparenti Pensare al gocciolamento e alla rottura delle gocce di rugiada E anche a quanto duramente guadagnata è la speranza d'amore E quanto sia difficile mantenerla.


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C'è spesso un vento che soffia indisturbato qui C'è spesso una pioggia battente che si libra in aria I fiori tremano, le gocce di rugiada tremano Come se l'intero cielo tremasse, tuttavia Un gruppo di rigidi frutti Si arrampica con forza lungo il tronco robusto E il braccio di rami e ramoscelli intrecciati I fiori dormono mentre trattengono le gocce di rugiada, i fiori al chiaro di luna. Hanno sognato che dal cielo cola una incommensurabile gioia cristallina Innumerevoli facce con frutta secca Sono tutte le lacrime Tang Shi, è un illustre poeta e critico della Cina contemporanea, il suo nome originale è Tang Derong. È nato a Rongchang County di Chongqing nel 1967. È dottore in ingegneria gestionale. Ha curato diverse raccolte di poesie, come Short Poems by Contemporary Chinese Young Poets, Guided Reading in Contemporary Chinese Poetry 1949-2009, e Selected Poems di Contemporary International Poets. Le sue raccolte di poesie e prosa pubblicate includono Walking Toward That Tree, Flowers Have Not Come to Autumn, Walking Throking Throughout Myriads of Mountains of Souls, Flowers and Echoes, To Serve Everyone Well, The Light of Ants (cinese-inglese), The Paper Through Time (cinese-inglese-greco), e The Happy Village, ecc. Le sue poesie sono state tradotte in oltre dieci lingue, e alcuni pezzi sono inclusi nel libro di testo per gli studenti universitari. Tra i premi da lui vinti ci sono il Premio Poesia 1° Premio del Gruppo Editoriale Cinese, il Premio Internazionale Greco di Letteratura e Arte, titolo di uno dei dieci migliori giovani poeti della Cina contemporanea, titolo di miglior poeta internazionale, ecc. Questa traduzione di Tang Shi in Italiano è di Lidia Chiarelli. Domenico Defelice *Cai Lun, nato a Guiyang circa il 50 a. C.. Eunuco, entrato alla corte dell’imperatore Ho Ti nel 75; nel 105 inventò la carta e, pe tale invenzione, l’ imperatore gli concesse numerosi privilegi, oltre a un tito-

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lo nobiliare. Prima di tale invenzione, in Cina si scriveva su stuoie di bambù e su fogli di seta opportunamente trattati. Cai Lun inventò o perfezionò molto altro. Morì suicida nel 121.

Poesia visiva Un ammasso di fiori a ciuffi compatti, dai vivaci, teneri e vibranti colori - ornamento di bianca dimora – s’offre al passante con civetteria dilagante e al dispositivo fotografico di Rita, che non aspetta da altri l’invito a farsi protagonista d’uno scatto con dito d’artista abile e signorile, ma ammaliata dall’incanto visivo e dal profumo che intorno si spande, fissa in una diapositiva, a ricordo perpetuo d’un lembo di natura esplosiva, un’immagine rara, di aulente poesia. Antonio Crecchia Termoli, CB Versi scritti a commento di una foto dell’artista, scrittrice e poetessa molisana Rita Notte, di Isernia.

Niemandsland Unter den Schreien der Möwen werde ich in einem Traum fahren und morgen im Niemandsland ankommen. Mit zusammengebissenen Zähnen und geballten Fäusten werde ich um mein Leben kämpfen. Manuela Mazzola (Terra di nessuno. Pomezia-Notizie, febbraio 2019; p. 32. Traduzione in tedesco di Marina Caracciolo)

RIEN NE S’EFFACE Rien ne s’efface de la vie : une voix chaque nuit te le dit pendant que du haut gouttent sur ta tête et sur tes épaules les souvenirs. Gianni Rescigno Traduction de Béatrice Gaudy, Paris, France.


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AGLIÈ E GUIDO GOZZANO di Leonardo Selvaggi I IAMO ad Agliè, centro agricolo del Canavese nella provincia di Torino, per visitare i luoghi di Guido Gozzano. Dalla strada comunale un viale porta diritto verso il Meleto tenuta con la villa abitata dal poeta. Non ci sono palazzi, molto spazio libero, solo rare cascine con campi di granoturco. Siamo vicino al laghetto del parco di cui si parla nelle poesie, è oggi uno stagno, in mezzo esiste l'isolotto con alberi secolari, rimangono le rovine dello chalet ove Gozzano allevava le crisalidi e trovava ispirazione per le sue composizioni. Si vive ancora la freschezza della Natura, l’ambientazione di pace attorno al prato ricco di trifoglio, descritto nella raccolta "La via del rifugio". Ci avviciniamo alla villa, ai fianchi, rose, glicini e vecchi meli da cui il nome della tenuta. Arrivati nel cortile sostiamo sotto le magnolie secolari, siamo di fronte alla facciata che con i disegni liberty

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dà una visione di antico e di romantico. Entrando nella sala da pranzo e nelle altre stanze, abbiamo una sensazione di vivere momenti felici in una dimora signorile, a mezzo chilometro da Agliè, alla periferia del paese in aperta campagna. La villa nel 1909 venduta dai Gozzano ad un abitante di Agliè con residenza a Roma. Rimane disabitata per lungo tempo. Nel 1940 viene acquistata da un'ammiratrice di Guido Gozzano la signora Edvige Gatti Facchini che cerca di renderla simile nel modo più possibile a quella di cui si parla nelle poesie. Ricostruito il salotto di nonna Speranza con le sue "buone cose di pessimo gusto". Alla sua morte venduta di nuovo. Siamo nel 1971, tutto riportato all'antico splendore. Leggiamo dei versi che ricordano tutta la parte che circonda la villa, scritti nella Pasqua del 1901, quando la madre era sola, rimasta vedova. "Non turbate il silenzio./ Tutto tace verso la donna rivestita a lutto;/ la campagna, lo stagno, il cielo,/ tutto illude la dolente"... Caro al poeta crepuscolare era il giardino incolto davanti alla villa, si dice nella poesia "Analfabeta": "Biancheggia tra le glicini leggiadre/ l'umile casa ove ritorno solo"...Oh il piccolo giardino ormai distrutto/ dalia gramigna e dal navone folto"... Nella biblioteca si conservano i documenti e le fotografie più significative della famiglia e il busto in creta del poeta. Nella camerettastudio vediamo ricordi del viaggio in india, collezioni di farfalle e alcune riviste con articoli scritti da Gozzano. II Al piano superiore, le camere da letto, una di esse è quella di Guido Gozzano. Sul comodino c'è ancora il ventaglio di cui il poeta si serviva negli ultimi giorni della sua vita e il cuscino su cui reclinò il capo nel momento della sua morte. Andando per Agliè vediamo la villa Mautino. dimora della famiglia materna, "O casa fra l'agreste e il gentilizio,/ coronata di glicini leggiadre"... "dalle panciute grate secentiste"...Di questa villa, ricca di stampe del Risorgimento e del Romanticismo europeo, raccolte dal nonno, il senatore Mau-


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tino, piaceva l'iscrizione sulla facciata che ancora oggi si legge a ricordo del ritorno in Agliè della bandiera che aveva rappresentato gli abitanti alla cerimonia tenuta a Torino il 4 novembre 1847 per festeggiare “ il Re Carlo Alberto che volle con nuove e savie riforme aprire ai suoi popoli un'era novella". La villa conserva oggi assai poco di quella che fu la bella casa secentista. Le stanze, in cui Guido Gozzano declamava le sue poesie. attualmente sono occupate dai concimi del consorzio. Continuando la passeggiata per Agliè, troviamo casa Gozzano che apparteneva al nonno paterno. Qui nacque nel 1839 il padre del poeta, l'ingegnere Fausto. Nelle poesie si parla di questa abitazione e specie del parco, chiamato il "Parrasio". Altro luogo amato è il castello che rappresenta la parte più importante, grandiosa e storica di Agliè. È descritto in una poesia con echi dannunziani. Prendiamo alcuni versi che paiono di maggior significato: “Dai tuoi muri turriti da la forte/ ossatura dei fianchi da i bastioni/ le bertesche gittavano la morte/ sui signori feudali, sui baroni/ vogliosi di posar la mano predace/ su nuove terre e avere nuovi blasoni”… Gozzano del Castello illustra la storia e parla dei personaggi che gli hanno dato lustro. Il nucleo originario [XII sec] fu edificato dai conti San Martino. Fino al 1500 il Castello conserva l'aspetto di fortilizio. Nel 1646 il conte Filippo di San Martino, consigliere della reggente Cristina di Francia, attua la prima trasformazione attribuibile all'architetto Amedeo di Castellamonte. Nel 1763 diviene possedimento di Benedetto Maria Maurizio duca di Chiablese, secondogenito di Carlo Emanuele III. Si attua una riqualificazione degli appartamenti ducali. Nel 1822 entra nei possedimenti del re Carlo Felice. Si hanno altre ristrutturazioni. Oggi è sede museale. Gozzano è attratto soprattutto dal parco dove "tutto tace", con le immagini della fontana, del cigno. Lo stesso tema della poesia "Il viale delle statue", ammirate le "creature sublimi di marmo" che consolano il suo " tedio infinito". Nel parco appaiono i fantasmi della nonna e del poeta Byron che ella adorava. Troneggia il Castello

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nella sua maestosità di aristocrazia e di bellezza autentica. III Un altro splendido luogo, villa Amarena, che rappresenta solo un insieme di ricordi e di immagini colti qua e là creati dalla fantasia. È introvabile come la signorina Felicita. Agliè vive la presenza di Guido Gozzano e la sua poesia che sa di dolce, diafana atmosfera settembrina, nell’ora crepuscolare, soffusa di pace contemplativa. Gozzano non si curava di descrivere la realtà com’è, la rendeva inesistente, fondeva elementi di tutti i luoghi di Agliè; i "Sonetti del ritorno" ci danno chiara l'idea di questo modo di vedere le cose e gli ambienti vissuti, tutti presi in un alone di indefinito. "La clausura dei tralci mi rimorde/ l'anima come un gesto di rimprovero:/ da quanto tempo non dischiudo il rovere/ di quei battenti sulle stanze sorde!/ Sorde e gelide e buie,. .Un odor triste/ è nell'umile casa centenaria di cotogna, di muffa, di campestre..." La salma di Guido Gozzano venne trasferita ad Agliè, nella tomba della, famiglia paterna, Nel 1951, per desiderio del fratello Renato, le spoglie del poeta furono sistemate nella cappella Mautino, all'interno della chiesa di San Gaudenzio. Sulla lapide l'epigrafe dettata da Carlo Calcaterra, amico e ammiratore. "Ha qui pace Guido Gozzano che nel suo Canavese trovò "La via del rifugio" e dai Colloqui" con gli uomini salì purificato a Dio! Riportiamo versi di tanta tenuità e bellezza; "Ho goduto il risveglio/ dell'anima leggiera:/ meglio dormire, meglio/ prima della mia sera"... [Salvezza] "Ben io vorrei sentire sulla fossa/ della mia pace il pianto di quel bimbo./ Piccolo morto, la tua morte è bella!" [La morte del cardellino]. In via Duchessa Isabella, vicino alla cappella di S. Anna, sorge il monumento a Guido Gozzano in un piccolo parco. Costituito da un lastrone di marmo, sulla cui sommità in calotta di bronzo è scolpito il busto dei poeta: Guido Gozzano-poeta nel ricordo degli ammiratori, amici, concittadini vive. Agliè MCMXXX111. il busto in bronzo è opera dello scultore Bistolfi.


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IV Gli abitanti di Agliè. gente di campagna, durante la vita del poeta lo consideravano poco, lo vedevano un signorotto. Dopo si sono accorti di aver perso una persona di grande sensibilità e nobiltà d'animo , cui devono gran parte della loro popolarità. Nel '51, ad Agliè, per visitare il monumento e i luoghi gozzaniani, venne il ministro della Pubblica Istruzione, Antonio Segni, divenuto poi Presidente della Repubblica. Riferiamo altri versi presi di qua e di là per inquadrare sempre meglio la poetica di Guido Gozzano. "Il tuo paese attende il tuo ritorno./ tempi migliori ti saran concessi,/ se in dolce pace finirà la guerra./I nostri voti affrettano quel giorno:/ tra belle vigne e biondeggiar di messi,/ritornerete, figli della terra!" [Ai soldati alliadesi combattenti]. "O pàpera, mia candida sorella,/ tu insegni che la morte non esiste:/ solo si muore da che s'è pensato". [La differenza]. Il padre originario di Gozzano sul lago d'Orta, possedeva una casa ad Agliè dove di tanto in tanto era solito recarsi. La madre, figlia del senatore Mautino, risiedeva a Torino, si vedeva spesso ad Agliè nella casa paterna. Qui i genitori di Gozzano si conobbero e si sposarono. Ad Agliè la famiglia del poeta acquistò la casina del Meleto per venire a trascorrere le vacanze. Gozzano conosce ed ama questo paese fin dalla sua prima infanzia. Trascorre una giovinezza serena e spensierata, appartiene ai gruppo dei giovani intellettuali torinesi. Frequenta la facoltà di Giurisprudenza, ma non si laurea. Preferisce frequentare le lezioni di letteratura italiana del professore Arturo Graf e comporre i suoi primi versi che iniziano una svolta nella poetica del primo '900. La sua vita tranquilla termina presto, si ammala di tubercolosi, deve soccombere al male con rassegnazione, senza speranza di guarigione. Nel 1907 i medici lo consigliano di recarsi in una località montana, a Davos in Svizzera. Il poeta sceglie il mare. A S. Giuliano inizia una relazione epistolare con la giovane, nota poetessa, Amalia Guglielminetti, di cui diviene l'amante. La relazione finisce nella primavera del 1908. Gozzano si sposta continuamente

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da Torino ad Agliè. a Ronco Canavese, alla Riviera Ligure. Il 16.2.1912 si imbarca per l'India, dove spera di migliorare la salute. È a Colombo e a Bombay. Ritorna in Patria. Nell'estate del 1915 per l'ultima volta soggiorna al Meleto, non più come padrone ma come ospite. Guido Gozzano, nato a Torino il 19.12.1883, è considerato un poeta crepuscolare, anche se la sua poesia non ha delimitazioni di corrente. Si vuole reagire ai toni solenni della poesia in voga. Con l'unificazione d'Italia, subentra una vita tranquilla e borghese. I Crepuscolari si ispirano a questo periodo pigro, monotono, sonnolento. Le poesie hanno un tono sommesso, piene di sfumature e di sentimento. Una poesia attenuata, non chiassosa né solare. Poesia che non vede gli ideali politici del tempo, è piena di sensibilità interiore, spesso esasperata da sofferenze. La poesia di Gozzano ha dell'ironia e dell'attaccamento alle cose del tempo passato, agli affetti. Le opere abbracciano un po' tutti i generi letterari, dalla poesia al racconto, alla favola, alla cronaca, al soggetto cinematografico. "La via nel Rifugio" del 1907, pubblicata presso Streglio di Torino. Ha successo, nello stesso anno viene ristampata. Tra il 1907 e il 1911 compone i "Colloqui", il suo capolavoro, pubblicato da Treves di Milano. In questo periodo inizia il poemetto sulle farfalle, rimasto incompiuto. Collabora ai giornali "La gazzetta del popoìo", "La Stampa", 'Il momento" e alle riviste "La rassegna italiana", "La donna"; "La lettura", "L illustrazione italiana". Il viaggio in India fa scrivere dei racconti, usciti su "La Stampa" e nel 1917, dopo la sua morte uniti con il titolo "Verso la cuna del mondo". Nei 1914-15 scrive alcune poesie sulla prima guerra mondiale, nel 1916 porta a temine il soggetto per il film su S. Francesco d'Assisi. Ispirate ai ricordi di infanzia due raccolte di novelle: "L'altare del passato" e "I sandali della Diva". Scrive per l'infanzia "Rime per bimbi", e due raccolte di fiabe "La principessa si sposa" e "I tre talismani". Muore a Torino il 9 agosto 1916, il giorno della presa di Gorizia. Leonardo Selvaggi


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Il Racconto

“... Questa massa va mossa!” Dialogo serio a due con tutto il resto intorno di Ilia Pedrina

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EMPI, luoghi, eventi si disegnano verificandosi a partire da lui che studia, pensa e agisce e lei, che gli fa da 'segretaria', tenuta sempre segreta perché nessuno possa chi sa mai dire qualcosa. Lui vuole disegnare la conduzione del Mondo Occidentale in modo nuovo e deciso, lei vuole ascoltare, per capire. Gli dice: 'Serve guardare all'indietro e misurare se già alcune circostanze e modi e tipi di guide si sono già presentati alla ribalta?' 'Tu stai scherzando ed io di scherzare non ho né tempo né voglia: o le donne sono come dico io e si trasformano, cambiando radicalmente in nome ed in funzione del futuro assetto dei Popoli e degli Stati, o rimangano in disparte, in attesa di questo cambiamento sul quale darò istruzioni nel dettaglio e del quale mi sento tanto fiero!' Lei sta in silenzio, lo osserva, sa che non scherza, soprattutto quando lui si alza di scatto dalla sedia e sgombera ogni superficie dalle cose che vi si sono sopra adagiate, non da sole di certo, tutto torvo in faccia, cupo più d'un gufo arrabbiato con la notte. Da anni ha successo, grande assai, e i giornali ne parlano sempre, a favore e contro: vive altrove se si tratta di agire per modificare la Storia delle Forze Politiche e, nella propria terra, per lavorare senza stanchezza su quel Programma che ha in mente. Il suo disegno dà fastidio anche a chi è in accordo con lui, e sono in molti: odiano la sua sicurezza, la sua determinazione, il suo modo di contrastare i ragionamenti più semplici e coerenti perché relativi alla comune gioia di vivere, di lavorare, di guadagnare qualcosina

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per qualche divertimento. Ad essi vuole portare una sostituzione definitiva, affinché la Storia prenda un'altra piega: si sente chiamato a questo compito da Forze Superiori, che lo rendono convito in profondità del suo Progetto. Lei sa che alcuni lo seguono distrattamente, altri lo considerano seriamente, scegliendone le direttive ed agendo al suo fianco: dai primi lui si sente tradito e minaccia, maledice, provoca; dai secondi invece si aspetta proprio quelle azioni di lotta che solo loro riescono a portare avanti, a coordinare, a rendere efficaci. Solo così la Storia delle Forze Politiche può trovare trasformazione radicale, provocando quel cambiamento che lui ha organizzato in un preciso Programma. 'Bisogna essere quasi ossessionati dal Programma, che si deve imporre al di sopra di ogni motivazione, di ogni possibile scelta, al primo posto rispetto ad ogni qualsivoglia alternativa, che va demolita perché deviante!' Dopo queste parole, pronunciate sinceramente e severamente, con voce schietta, lui la guarda ben sapendo che lei il Programma lo conosce nei particolari. Tante volte intorno hanno architetture d'alberghi all'estero, ambiti ampi per gli incontri programmati con scrupolo e con così tanti partecipanti che moltissimi lo ascoltano stando in piedi: è questo riscontro che lo ossigena davvero e gli basta un manipolo, che ora è davvero consistente, per rendersi conto che il Programma vale. '… La massa va mossa!' 'Cosa intendi dire?' 'Come se tu non l'avessi capito, in tutti questi anni! Sei tu che devi rispondere a te stessa, non io, perché io la risposta la conosco già perché l'ho costruita minuziosamente! Ti voglio vicina perché non sei né simbolo né mito e sai ascoltare: ho bisogno di te perché hai capito più di me che il Programma non viene da me...' 'Lascia che ti ricordi quello che ha detto un caro amico. L'uno, il Capo, dice all'altro, che lo vorrebbe diventare: È proprio necessario andare verso il popo-


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lo? Ci tieni tu a questo Popolo, t'importa veramente? E l'altro, che capo lo diventerà a breve: 'No, a me non importa, ma, sai, è la politica!' Così il Capo è forzato a rispondere: 'Ah, già, è vero, è la politica, come sempre...'. Tu sei intransigente, duro, assolutamente sciolto da ogni possibilità di venire corrotto, questo, lo sai, ti avvantaggia ma l'essere umano è prismatico, la massa poi... La massa va mossa, perché attende sempre qualcosa di nuovo e di diverso, per poter poi cambiare rotta subito dopo: tu non accetti che la massa sia, nella sua superficie e nei suoi strati più sotto, sempre lì pronta a prendere andamenti imprevedibili. Tu questo non lo accetti! Per questo la massa ha bisogno di te, del tuo Programma, della forza che riesci a comunicare, anche se fanno fatica a capire, a subire e, subendo i tuoi ordini, ad agire!' Tra i due tutto il resto intorno sa di sangue, di lotte, di sacrifici, di vittime che si lasciano ammazzare perché vinca l'Idea; di assetti sicuri in una zona del Mondo mentre nell'altra tutto stenta a decollare; di falsità perpetrate alla bisogna adatte solo a sconfiggere il cambiamento perché la finzione venga vissuta come Verità prima di tutto fuori dal palcoscenico. I suoi scritti sono tradotti in tante lingue, lui non ne è fiero perché, una volta diffuso negli altri Stati, il suo Programma rischia di frantumarsi dentro traduzioni che frammentano la forza rivoluzionaria della lingua originale: la Storia delle Forze Politiche ha preso un andamento come altalena instabile e lascia tutti senza parole, perché intorno non c'è aria di Rivoluzione e quasi quasi manca anche l'aria! Ilia Pedrina (Ogni riferimento a personaggi ed eventi è puramente casuale)

NON ABBIAMO IL PARADISO Il cielo arido, non ci sono angeli che passano né le porte del Paradiso

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nel tepore felice si aprono. Il cielo è metallica lastra che chiude lo spazio. Né gli atomi leggeri dal turbinio dell'immenso sono trasportati. Tutto sedimentato sulla superficie della terra. A strapiombo le vette, ispide altezze difficile a raggiungerle, le mani non hanno forza e il peso gravita in basso abbarbicato alle croste indurite, alle pietre levigate dall'arsura. Acque stagnanti, isole rare si fanno nella distesa brulicante; esseri viventi e piante in grovigli allacciati si muovono dentro una rete. Terra e cielo in posizione parallela non si trovano né si mescolano per essere sostanza a livelli degradanti. L'uomo perde lo sguardo eretto, curvo con le mani in avanti: ha solo un regno, attaccato alla matrice di nascita si nutre di essa. Il cielo freddo di vetro chiuso non allarga passaggi all'uomo elevato che si dibatte nel rovo degli altri, rintronando le parole ritornate indietro. I simili di fronte le corna ricurve spostano arroganti, difesi in tal modo nelle giornate egoiste un'andatura solenne, forza dimostrata spingendosi impettiti. Colore denso tiene la terra, anche il giorno sembra ottenebrato. Tirano diritte le persone riconoscendosi solo per giri concordati. La pelle aspra al tatto non è gentile soltanto mascherata da toni che otturano; corpi pieni e rotondi si connettono lungo roteante fascia compatta. Dalla landa con sopra gente e case solitarie braccia deboli si alzano agitandosi, si spezzano nude, nel cammino che si fa a vuoto lacerate dalle spine delle voci false. Tentennanti le grida sulla riva opposta vedono il cielo perso nell'azzurro cupo. Leonardo Selvaggi Torino


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I POETI E LA NATURA – 97 di Luigi De Rosa

Domenico Defelice - Metamorfosi (2016)

IL PAESAGGIO DI LIGURIA NELLE POESIE DI MARIO NOVARO (1868- 1944)

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cagli la prima pietra chi neghi di aver pensato Mario e non aver pensato subito anche Angiolo Silvio. Si tratta in effetti di un piccolo “caso” nella letteratura italiana del Novecento. Due fratelli che sono stati entrambi poeti, scrittori e imprenditori nella stessa Azienda. Di famiglia ligure benestante, con un'ottima preparazione liceale e universitaria, autori di poesie e di libri, di principii politici ed etici affini (il nascente socialismo), impegnati entrambi nella direzione della Rivista letteraria La Riviera Ligure, con rapporti letterari approfonditi coi collaboratori (tra cui Pascoli,

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Sbarbaro, Boine, etc.) e nella conduzione, oculata, dell'impresa di famiglia Olio Sasso, intestata alla madre Paolina Sasso (che ebbe e crebbe altri quattro figli oltre a Mario e Angiolo Silvio). Lasciamo ad altri momenti e ad altre occasioni l'approfondimento (del resto già fatto egregiamente da altri, e particolarmente da Maria Novaro, che presiede e guida con abile mano e passione inesausta la Fondazione Mario Novaro, che ha sede a Genova. (v. fondazionenovaro.it). Oggi ci occuperemo di uno solo dei due fratelli, e anche brevemente, in sintonia con lo spirito di questa rubrica. Mario Novaro era nato a Diano Marina, in provincia di Imperia, il 25 settembre 1868. (Sarebbe poi mancato a Ponti di Nava (Ormèa) il 9 agosto 1944). Si laureò in filosofia all'Università di Berlino, nel 1893, e l'anno seguente ottenne la laurea anche all'Università di Torino. Pur dedicandosi con modernità e intelligenza alla attività imprenditoriale, partecipò all'evoluzione culturale e letteraria italiana anche come direttore de La Riviera Ligure fino al 1919, anno in cui cessò le pubblicazioni. (Quest'anno è ricorso il centenario). Raccolse tutte le sue poesie in un libro intitolato Mùrmuri ed Echi (1912), pubblicato da


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Ricciardi a Napoli, ristampato poi numerose volte, fino all'edizione definitiva a Milano nel 1994, a cura di Giuseppe Cassinelli, con Premessa di Pino Boero e Maria Novaro (All'insegna del Pesce d'Oro). Per l'inserimento di Mario Novaro in questa rubrica, è stato per me interessante, in modo particolare, l'approccio del poeta al paesaggio ligure, al linguaggio da lui utilizzato, al tocco pittorico lieve e quasi incantato. Inutile pensare al Montale che verrà, e al meriggiare pallido e assorto presso un rovente muro d'orto. Qui la Natura, il paesaggio ligure, trasmette non un senso di lotta aspra nella ricerca del significato della realtà, ma preferibilmente un senso di dolcezza consolatoria. Le tinte sono delicate, i toni languidi, sembra di assistere ad una serie di quadri e scenari dolci e solenni allo stesso tempo. Nella poesia “Aria di primavera” la luce è definita giovine. Il cielo è puro, anche se “ragnato” da “soffici nuvole bianche”, e non manca l'alterna voce del mare. Mare che in un'altra poesia (Pentecoste) è “turchino con sparse vele”, mentre le nuvole sono chiare, e il respiro degli uliveti è mite. “ Oh come tutto sarebbe felice se potesse vanire nel blando suono delle campane.” Non manca la luna sul mare. E l'acme della delicatezza viene raggiunto nel finale della poesia “Sospiro”: “...E Venere la seguiva in un incanto di raggio e cielo più terso: mormorava il mare alla riva: e in un bruno pallor l'aria odorava gonfia di primavera: mentre gli uccelli fra le rame dei pini ancora muti aspettavano il giorno.” Luigi De Rosa

NON È DOLCE IL MARE DI OTTOBRE A LAMPEDUSA Viene a raccogliersi umanità qui:

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sulla tragica utopia della liquida frontiera che spaventa meno, tragicamente meno della miseria. Viene gemma fradicia d’ acqua, e trova ancora chi picchia sodo anche qui e adesso che è rinchiusa in una scatola di pino laccato bianco. Il fortunato è lui in quel contenitore. Lui che se ne è andato pulito, immacolato come quel bianco, con la fortuna di avere conservato nel petto un cuore puro. Non gli ha dato quel legno il tempo d’indurirlo, come le perle che in quel mare sognava di trovare. Si allinea il sopruso e nella conta la somma dichiara l’umano tradimento. In silenzio si contano quelle bare bianche, diventate “le nostre perle”; e non si saprà mai a quale divinità deve pagare il reato di essere sopravvissuto, chi vorrebbe soltanto essere dentro una vita normale anche da ultimo e con in gola l’ amaro di un mare, che uccide in ottobre: a Lampedusa. Salvatore D’Ambrosio Caserta

Ein Blick Die Dampftröpfchen fließen auf das große Fenster herunter. Ein unschuldiger Blick beobachtet sie und versucht zu verstehen; aber die Liebe, die sie in ihrem Herzen hat, lässt es nicht zu und lässt sie träumen. Manuela Mazzola (Uno sguardo. Pomezia-Notizie, marzo 2019; p. 15. Traduzione in tedesco di Marina Caracciolo)


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Recensioni DOMENICO DEFELICE LE PAROLE A COMPRENDERE Genesi Editrice di Torino, Anno 2019, Euro 14,50, pagg. 138. Forse il concetto dell’incomprensibilità, nel suo significato più arcaico, deve essere sorto in quel fatidico momento d’arroganza verso il Cielo, nella regione meridionale della Mesopotamia nel tempo biblico post-diluvio universale, allorquando degli uomini, che avevano migrato verso Oriente, decisero di stabilirsi definitivamente lì e vollero edificare una torre capace di sfidare la stessa volta celeste. La sfida altro non era che superbia mascherata, che Dio volle punire instaurando l’incomunicabilità tra le persone-operaie addette alla costruzione della mitica Torre di Babele, col miscuglio dei linguaggi e così nei millenni il termine ‘babele’ è divenuto sinonimo di caos. E non poteva che essere questa memorabile circostanza, dipinta sulle vetrate policrome del Duomo di Milano, a fare da immagine di copertina della nuova crestomazia poetica di Domenico Defelice. L’uomo affida alla parola la possibilità di manifestare il suo didentro; sono i suoni articolati della sua voce che diffondono la compagine interiore bella o brutta che sia, comunque la convogliano all’ esterno, verso gli altri nostri simili. Il progresso ci ha dato e ci darà infiniti modi per far veicolare le parole, ma il valore di ciascuna di esse viene infuso da chi e come le adopera, in modo particolare i poeti sono e resteranno i ‘detentori’ delle parole usandole principalmente per spiegare sé stessi, in relazione al ventaglio degli infiniti stati d’animo da essi contemplati.

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Ma non sempre con i lemmi e i vocaboli è facile farsi capire. Ci vogliono altre qualità come l’onestà, il chiamare le cose per nome senza fraintendimenti, una giusta dose d’ironia da mettere tra una lacrima e l’altra del nostro tempo macchiato di crimini, oltraggi e intolleranze d’ogni genere, il sentimento della nostalgia per ripescare dal passato vicende lontanissime dai toni frizzanti dell’infanzia, anche se non propriamente spensierata. «[…] Ognuno con la sua ciotola grigia/ seduti in cerchio sotto il fico moro./ Mio padre è stanco ed ha sempre/ le mani sanguinanti/ dal gelo e dagli sterpi screpolate;/ mia madre, attenta vivandiera, non mangia,/ sazia della nostra fame mai placata./ Nessuno parla; nel giorno/ tutti abbiamo faticato./ L’ultimo raggio arrossa i nostri visi/ e d’improvviso ci avvolge un mare/ d’ombre sotto il cielo/ appesantito d’astri. […]» (A pag. 25). Sembra che, in questo florilegio defeliciano, le parole siano servite per distenebrare una parte di vita che finora era rimasta silenziosa nel posto dove il sole non era più tornato a illuminare, da quando l’autore lasciò la sua terra calabra per divulgare la ‘parola’ altrove, nel perimetro della capitale (Roma) lottando, tra le altre cose, contro le ingiustizie, i mutismi e gli immobilismi degli altri. È sceso alacremente in campo per partecipare anche alle guerre giuste degli altrui, non per il senso lato bellicoso ma perché «Fu per la guerra/ - per la guerra d’amore –/ che l’uomo non si arrese,/ inventando la ruota/ la freccia ed il coltello.// Fu per la guerra/ che castelli innalzò,/ regge, palazzi e grattacieli.// Fu per la guerra/ - e per la donna –/ che scavò nel profondo della scienza,/ che se stesso odiò, costellando/ la terra di sacelli.// Fu per la guerra./ Poi, nei riposi,/ anche Marte rideva/ ed era bello.» (A pag. 30). Ogni volta che Il Nostro ha sentito d’evidenziare un evento realmente accaduto con un suo riverbero scritto lo ha fatto, consapevole di andare comunque a schierarsi da qualche parte, così è stato per il caso di Eluana e il concetto di fine vita, che scrisse il dramma in prosa in tre atti nel 2009 parafrasandolo col titolo di Silvìna Òlnaro. E quando si è trattato della politica italiana, il poeta Defelice non ha avuto peli sulla lingua e con parole audaci ha ‘scardinato’ le porte dei Palazzi per descrivere, senza mezzi termini, cosa è diventata La manovra, compito che ogni anno si ripresenta sempre più ardimentoso da fare da parte dell’esecutivo del momento. «La manovra è troppo dura?/ La batosta è dolorosa?/ Il tuo reddito è meschino?/ La gran fame ti tormenta?/ Lascia perdere la lagna,/ corri tosto in Parlamento./ Lì è tutta una cuccagna./ Con una spesa assai modesta,/ lì si beve e lì “se magna!”/ […]Di


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pollo il petto? Di manzo una bistecca?/ I ristoranti dei parlamentari/ felici te li servono di botto/ al costo veramente eccezionale:/ solo due euro appena e sessantotto! […]» (A pag. 102). Quante possibilità e direzioni interpretative possono dar luogo le parole quando sono ben collocate, nel posto e nell’occasione giusti, per essere capite da tutti, poeti e non, scrittori e non, giornalisti e non e via dicendo. Domenico Defelice, negli anni, ha usato tanti linguaggi diversi, è vero, rimanendo comunque fedele ai suoi propositi iniziali di uomo del Sud che voleva e vuole un’Italia più bella, senza orpelli inutili, più umana e più madre dei suoi italiani. Una genitrice che non sia soltanto leggi da rispettare e tributi da pagare, ma una presenza sincera pronta alla consolazione e al sostegno sul modello, anche approssimato, della figura inconfutabile di Maria, la Madre di Nostro Signore. «Infanzia dorata/ di rinunce estreme e di certezze./ Commosso imploravo la Tua immagine/ in ginocchio sulla pietra gelida/ nella morbida penombra della chiesa. […] Allorché la vita oggi declina/ e più bisogno avrei delle certezze/ i dubbi mi tormentano,/ la mente a brandelli si trascina/ tra spine dolorose/ d’una strada minata dagli abissi.// Ti prego, o Madre, non abbandonarmi!» (A pag. 37). Isabella Michela Affinito

MARIA GARGOTTA MEMORIE D’AUTUNNO (Editore Rogiosi, Napoli, 2019, € 14,00) La storia di un ritorno alle origini, con il quale si ricongiungono la fine e l’inizio di un’umana avventura, potrebbe definirsi il nuovo romanzo di Maria Gargotta, Memorie d’autunno, nel quale la protagonista Sophia fa ritorno da Palermo a Napoli, città in cui era nata e nella quale aveva trascorso la sua giovinezza. Erano passati trentacinque anni da quella partenza e molte cose erano accadute da allora; ma oggi che una grave malattia l’aveva colpita e minacciava di cancellarle per sempre la memoria, un medico le aveva consigliato di andare alla ricerca della propria giovinezza, per ritrovare se stessa e forse ottenere la guarigione desiderata. Sophia aveva compiuto in tal modo un viaggio a ritroso nel tempo, tornando ad abitare nel suo appartamento del Vasto, un quartiere di Napoli ormai in decadenza e mal frequentato, ma nel quale aveva ritrovato Arianna, l’amica dei suoi anni giovani. Il fatto veramente straordinario è però che presto Sophia incontra nelle vie di Napoli Elios, l’uomo

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che ella aveva amato e con il quale riannoda la sua relazione con l’ardore di un tempo. L’Elios che Sophia incontra non è però una figura reale, bensì il frutto della sua immaginazione; una proiezione del suo inconscio, con la quale s’ intrattiene e parla, credendola una creatura vera come quella che aveva conosciuta ed amata. Elios presenta pertanto una certa analogia con Giuditta Guastamacchia, la protagonista del precedente romanzo di Maria Gargotta, dal titolo I fantasmi sono innocenti, la quale possiede però una ben diversa natura e consistenza. Nel riandare al proprio passato Sophia rivive gli anni dell’Università, con la loro felice scoperta di un mondo nuovo e con le sollecitazioni della contestazione studentesca che lo aveva accompagnato. Ricontempla ora quegli anni con “gli occhi della nostalgia”, rivivendone lo slancio e l’ardore. A quasi settant’anni di distanza però le mani a tratti le tremano e la sua mente vacilla, non essendo più la stessa di allora. Ancora si entusiasma tuttavia per i sogni di ieri e per tutte le sue favolose attese. Nei suoi colloqui con Elios, che aveva conosciuto nell’ambiente universitario. Sophia parla sovente del loro amore di un tempo e ricerca le ragioni della sua partenza da Napoli, che l’aveva allontanata da lui. Era stata quella una decisione presa avventatamente, più per un impulso improvviso che in seguito ad una saggia ponderazione; e le sue conseguenze avevano poi segnato tutto il restante corso della sua vita. La colpa di Elios era stata quella di non averla saputa trattenere, per lasciarle la piena libertà di decidere del proprio destino. Tornando a Napoli Sophia ritrova quell’amore, così come ritrova la sua città, nei suoi aspetti più tipici e segreti: ed anche questo è un amore struggente. Elios, come lo vede Sophia, è “folle e logico, sognatore e pragmatico, capace di ascoltare e di raccontare e poi amante di silenzi quieti, che non vogliono essere disturbati” (83). Sophia invece era sempre stata “una ragazza strana, solitaria e poco interessata a ciò a cui è interessato il mondo” (81), sicché Elios può dirle: “vivi questi momenti, in cui siamo insieme, e non farti troppe domande, non pensare a ciò che sarà, a cosa è stato” (83). E può raccomandarle di “vivere nel presente”. L’analisi che la Gargotta fa della personalità di Sophia è molto sottile, specie allorché si sofferma sulle sue contraddizioni, come quella riguardante la sua partenza da Napoli, avvenuta con sofferenza e quindi senza un’effettiva convinzione. Una partenza che era stata poi la causa della sua infelicità. C’è in seguito l’acuirsi dl male, che conduce alla morte Sophia, anche se intermezzato da una breve ripresa, durante la quale ella compie il recupero del


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suo passato. Tale morte avviene a Napoli, su di una panchina di via Caracciolo, alla presenza del mare, che qui acquista il valore di un vero e proprio personaggio. Sophia va comunque incontro alla morte con fermezza, dopo aver vinto le sue paure e con la consapevolezza di aver ritrovato in Elios la ragione della propria vita e quindi il proprio riscatto. Un libro scritto con scioltezza e freschezza di stile questo di Maria Gargotta, la quale sa guardare a fondo nell’animo del suo personaggio, come già aveva fatto nei suoi libri precedenti, e con quel tocco di intima umanità che da sempre la contraddistingue. “L’amore aiuta a vivere e a durare, / l’ amore annulla e dà principio”: sono questi due versi tratti da Primizie del deserto di Mario Luzi, con i quali il libro si chiude: ed appare quanto mai significativo che con essi abbia fine una storia che ha per sottotitolo Una vita d’Amore (e oltre), quasi a voler significare che l’Amore, quello vero, è ciò che ci introduce nell’Eternità. Di molto interesse appaiono in tutto il contesto certe descrizioni dei tesori di Napoli, come quella del quadro del Caravaggio raffigurante Le Sette opere della Misericordia, situato nell’omonima Cappella, o quella del Cristo velato situato nella Cappella Sansevero. Il libro termina con una Postfazione di Francesco D’Episcopo, nella quale quest’insigne critico ci fornisce una chiave di lettura del romanzo, definendolo “un diario à rebours e in progress di un sentimento, di una passione, che è talmente entrata nelle fibre più intime e intense del corpo e dell’anima della protagonista, da diventare vera sostanza di vita”. Un libro importante per lo studio psicologico che vi è compiuto, e che costituisce un nuovo tassello che viene ad aggiungersi alla pregevole serie di romanzi che Maria Gargotta ci va donando in questi ultimi anni. Elio Andriuoli

ANTONIO CRECCHIA MYTHOS Il fascino del mito antico Edito in proprio - 2017 Se dovessi dire che, con questa pubblicazione, Antonio Crecchia riprende la via del linguaggio poetico classico, gli farei un poco di torto nel senso che lui, nella sua opera letteraria, quella strada non l’ha mai abbandonata. La sua cultura è talmente forte e radicata nella classicità, che tutti i suoi lavori ne sono felicemente imbevuti.

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Ragione per cui questo suo lavoro “sul fascino del mito antico”, sottotitolo del volumetto MYTHOS, risponde a una sua profonda esigenza. Esigenza che nasce dalla voglia di un ritorno a una umanità nuova, che facendo tesoro degli errori passati costruisca il nuovo su basi e modelli diversi, lasciando fuori i vizi e i mali. Utopia di mortale che potrebbe trovare una rispondenza però, nel servire una sola forza quella del Bene, non solo come fanno uomini mitici che chiamiamo eroi, ma che dovremmo fare tutti. Purtroppo non è stato così neppure al tempo, evocato qui da Crecchia, degli dei, dei miti e degli eroi. Anche in Mythos, Crecchia ci mostra come l’ amore, la vendetta, la gelosia, il tradimento, la ricchezza, la speranza, sono state elargite da una mano divina che agisce, molto spesso, in modo disuguale. Secondo i capricci del momento. A simpatie o antipatie. Ci racconta allora Crecchia, accorgendosene perfettamente, del mondo di oggi che gira, ruota, invecchia ma è come ai “ primordi della civiltà”. Sceglie con cura, non a caso, i miti antichi di cui ci vuole raccontare. Vuole parlarci, tramite queste sue scelte, dell’uomo contestuale che possiede il fuoco, il ferro, i doni del cielo e della terra. Ma nonostante tutto non si cura di mantenerseli ben protetti, non dissipandoli avidamente. Così, per esempio, nei versi di Deucalione ci racconta della superbia umana allorquando gli dei lo resero padrone del fuoco, scatenando l’ira di Giove che mandò un diluvio a distruggere ogni cosa. Solo in quella desolazione, l’uomo chiede aiuto, giustizia, che non gli viene negata dagli dei e che gli danno anche la possibilità di ricominciare. Ma da umano, passato il primo momento, ricadrà negli stessi errori. Ci parla anche di Demetra: la madre della terra fertile, oggi finalmente presa in considerazione. Soprattutto se finalmente si parla dello scempio che si è fatto del suo “fulgore” e della sua “florida” presenza, che dona frutti utili al nostro sostentamento. È proprio di questi giorni, la mobilitazione di grandi masse giovanili, che hanno finalmente capito di come sia importante, per le generazioni future, coltivare il mito della terra. Ci parla del mito di Arianna e del suo filo, che altro non è che il perdersi dell’uomo, di non saper più ritrovare la via, fino a quando non verrà qualcuno a aiutarlo. In Aracne vediamo la inutilità spesso degli uomini a tessere tele nelle quali imbrigliare i suoi simili. Spesso però la loro tessitura risulta fragile e pronta a rompersi al minimo soffio di vento e bisogna ricominciare daccapo. Così come in Bellerofonte ci


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vedo un mito di oggi: la bella respinta che accusa di aver ricevute insidie e mette il malcapitato nella condizione di affrontare Chimera (la magistratura). Dovrà sudare il misero per riscattarsi e mostrare la sua innocenza. Questa mia visione, del senso dei versi del suo libro, è anche annotata nella sua breve introduzione, egli infatti dice: Mito come allegoria, evocazione di una realtà da svelare nel suo significato più recondito. Il lavoro di Crecchia, se si sapesse fare realmente buona scuola, sarebbe utilissimo sia nello studio del greco, del latino, dell’italiano, mettendo a confronto i vari testi e contestualizzandoli. Verrebbe fuori, potremmo dire, con una certa levità un confronto tra l’antico e il moderno, con lo scopo di mostrare alle nuove generazioni che, in fondo, un mito sia esso anche attuale, è sempre in rapporto, come dice Crecchia, con la cultura. Ma ciò non avviene, o se avviene in rarissimi casi è per opera di docenti fortemente motivati, più che a svolgere il semplice programma, a fare degli allievi dei colti capaci di discernere in piena libertà di pensiero. Salvatore D’Ambrosio

ROSS IL SELVAGGIO (Decasillabi quinari a rima interna variata e sciolta in onore del nostro mitico Rossano Onano) Ross il selvaggio, pien di coraggio, senz’ancoraggio all’arrembaggio va delle pupe. Esse son belle, astute e snelle, simili in volto, lor nulla è tolto: anzi le ammanta di gioia, incanta! La pelle brucia anche di notte, fuor della cuccia han l’ossa rotte. Umili e leste ti fan le feste, nulla ti chiedon quando ti vedon tutto concedon. Se non sei avvezzo, ti fan buon prezzo, per poi portarti da quelle parti ov’Eros chiama ogni tua brama a farsi avanti per pochi istanti! Si, quelle parti che nulla temon ma molto fremon: il dado è tratto! Per quell’impatto scatta la molla Che tutto incolla, a destra e a manca I fiordi infianca, per dar lor luce

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mentre li cuce. Il suo accessorio in parlatorio è per novizie fuor di calvizie, con belle chiome tu lo sai come, spuntan dal velo: senza quel telo già tue le avresti! Far lo potresti come guerriero Con sguardo fiero! Darlo sì intero In man, foriero di falsi amplessi, qui, fra i due sessi… Pietade imploran ma non arretran: dal basso all’alto pronto è il basalto a fender l’aria in forma gaia: quanta primizia senza mestizia! Fuor dal convento Tira altro vento… Il verbo emette su temi noti, formule erette calcoli ignoti sul pian di Psiche: la mente ammette distratti vuoti! Più non ragiona, più non guadagna, conto non torna alla lavagna: la somma pende, il Vero impazza il Falso estende, come ramazza, polvere e nebbia in ogni dove. Nulla più intende di simil prove, con Freud altrove. Torniamo indietro di qualche metro per rivedere il suo sedere: esso è rotondo e dà buon sfondo, mentre cammina là su in collina, al panorama che pure il brama come sua cosa quand’egli posa. Gambe tornite fan da colonne e, se inquisite, fremon le donne che al passo ‘l vedon: tutto gli cedon, la borsa e il guanto, i seni e il manto. Se c’è una cosa che il mondo chiede è la poltrona ov’egli siede: le terga posa in modo arcano! Qualcuno osa? Lo sforzo è vano… Di una catena lunga e ben fissa meglio è una rissa (non sempre è asceta, spesso è poeta!) a dar gran spazio al cor mai sazio. Egli sopporta facendo scorta d’energia e forza sotto la scorza. Tutto lo vedon, tutti gli cedon Il passo mesti, vinti e già pesti. Egli ritira la lancia in resta:


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il volgo mira queste sue gesta con pura fede perché a lui crede… Or batte il cuore di gran furore Cerca un rifugio senza sospetti. Dove lo trova? Là sopra i tetti quei dell’Olimpo dai quali guarda in tutta quiete albe e tramonti e pace miete! Ilia Pedrina Vicenza

Mein Geist Der Geist eines Mannes lastet auf meinen Gedanken und ich bin wieder ein kleines Mädchen, das nach ihm sucht, der in den Träumen derer verschwand, die ihn liebten Manuela Mazzola (Il mio fantasma, Pomezia-Notizie, luglio 2019; p. 39. Traduzione in tedesco di Marina Caracciolo)

NEL GOLFO DEL TIGULLIO Una liquida lastra rossoazzurra ingoia il sole, in punta a Portofino, in un tiepido tramonto di gennaio. Agavi, fichidindia, pini si protendono da terrazze e giardini. Ma perché ? Se un giorno o l'altro dobbiamo scomparire da questo palcoscenico, perché è così traboccante di luce, di dolcezza, di intimo splendore? Luigi De Rosa (Rapallo)

Non è la Marcia su Roma di sinistra memoria Ma piccolo passo dopo piccolo passo ad ogni repressione di manifestante si riduce il cammino che giunge al fascismo Béatrice Gaudy Parigi, Francia

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Un nome predestinato per soffiare non il caldo o il freddo ma su delle infinite distanze la luce millenaria di una terra Béatrice Gaudy Parigi, Francia N. B. Frederic Mistral (1830 - 1914): Poeta, novellista, drammaturgo bilingue (lingua d’Oc francese), anche autore dell’ incomparabile dizionario occitano - francese “Lou Trésor dóu Felibrige”, e uno dei fondatori del Felibrige, ricevé il Premio Nobel di Letteratura nel 1904.

LETTERE IN DIREZIONE (Béatrice Gaudy, Parigi, 9 ottobre 2019) Parigi sotto la pioggia Buongiorno caro Domenico, Grazie tante per il numero di settembre della Sua rivista. “Pomezia-Notizie” non parte mai in vacanza, è qualcosa di impressionante e molto piacevole per i lettori! Eppure, una rivista richiede molto tempo, un lavoro molto importante ogni mese. Credo che non ci sia un numero di “Pomezia-Notizie” in cui io non rimarchi almeno un poema di Gianni Rescigno, ottimo poeta. I suoi sono sempre tra i poemi che preferisco. Da adolescente, quando ho scoperto Baudelaire, ero affascinata dal poema “L’homme et la mer” eccellentemente tradotto da Luigi De Rosa, l’avevo fissato sulla porta della mia camera. Il Suo “Girasole” è magnifico. Interessante e pieno di simpatia, perfino di empatia, è “L’Italia, grande nel mondo…” di Leonardo Selvaggi. Noto l’evocazione dell’ ostacolo rappresentato dal dialetto italiano dei luoghi dove arrivavano i migranti non partiti all’estero. Lo stesso avveniva spesso in Francia ai Francesi che lasciavano la regione natìa. Ma il fenomeno della migrazione, sia


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all’interno del paese, sia all’estero, è probabilmente stato molto più importante in Italia. Migrare è sempre molto difficile quando la causa ne è la miseria, la disoccupazione, un regime politico, o una guerra. (…) Senza piacere, constato il ritorno della freschezza, ma ogni stagione ha i propri fascini. Nella prima parte dell’autunno, sono i fogliami, i profumi dei sottoboschi, a volte il cielo nuvoloso. Nella natura e nella cultura, Le auguro delle belle passeggiate. Con amichevoli saluti. Béatrice Gaudy Gentile Amica, Le sono grato - e sono orgoglioso - per la lettura attenta e costruttiva che Lei sempre fa di Pomezia-Notizie. Il troppo orgoglio è un peccato, ma un po’ serve a caricare le batterie e andare avanti. Saranno contenti gli autori che Lei cita e le sue traduzioni danno gioia (le troverà sparse in questo numero) e la ringrazio a nome loro; in particolare, Ada De Judicibus Lisena mi prega di dirle della sua contentezza, come la ringrazia Lucia Rescigno Pagano per la versione di poesie del defunto marito Gianni Rescigno. Sebbene ancora il sole splenda e nel mezzo della giornata faccia caldo, la Natura si prepara al sonno dell’inverno. Al mattino l’aria è frizzante, le foglie iniziano a colorarsi, i prati son ritornati verdi e coperti di gialli crochi, del roseo della malva. Ieri, in una campagna che conosco, c’era, sotto gli alberi e tra le foglie, un autentico mare di ciclamini, un vero paradiso! Cari saluti. Domenico

LIBRI RICEVUTI PAOLO MIELI - Le verità nascoste. Trenta casi di manipolazione della storia - Rizzoli, 2019 Pagg. 330, € 19,50 - Leggiamo sul retro copertina: “Le verità possono essere definite tali solo quando

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siano state trovate prove inconfutabili dell’assunto. Sospetti o arbitrari capovolgimenti non possono e non dovrebbero finire in un libro di storia, a meno che non siano chiamati con il nome più appropriato: ipotesi.” Paolo MIELI è nato a Milano il 25 febbraio 1949. Giornalista e storico, negli anni Settanta allievo di Renzo De Felice e Rosario Romeo, è stato all’”Espresso”, poi alla “Repubblica” e alla “Stampa”, che ha diretto dal 1990 al 1992. Dal 1992 al 1997 e dal 2004 al 2009 è stato direttore del “Corriere della Sera”. Dal 2009 al 2016 è stato presidente di RCS Libri. Tra i suoi saggi per Rizzoli, “Le storie, la storia” (1999), “Storia e politica” (2001), “La goccia cinese” (2002), “I conti con la storia” (2013), “L’arma della memoria” (2015), “In guerra con il passato” (2016), “Il caos italiano” (2017), “Lampi sulla storia” (2018). ** GABRIELLA FRENNA - Come voli d’aironi. Omaggio a Michele Frenna e Leonardo da Vinci nel cinquecentenàrio della morte - Magi Editore, 2019 - Pagg. 96, € 10,00. I commenti all’interno del libro sono di Luigi Ruggeri, nato a Patti (Me) nel 1955. Gabriella FRENNA è nata a Messina e risiede, fin dall’infanzia, a Palermo. E’ sempre stata affascinata dai narratori, dal modo di scrivere e di trasportare il lettore all’interno delle loro creazioni. Dalla dipartita dal mondo terreno della sua amata sorella maggiore, si è interessata alle opere che proiettano l’animo umano verso il mistero del divino. Esterna con poesie, racconti e scritti critici, il suo desiderio di addentrarsi nell’essenza conosciuta, di proiettarsi verso il mondo trascendentale e di evidenziarlo insieme con la propria visione realistica. Collabora con riviste nazionali e straniere e fa parte della scuola critica del Prof. Vincenzo Rossi. Ha pubblicato: “La serie dello zodiaco nell’ elaborazione musiva” (2002); “Il fascino della valle” (2003); “L’Eremo Italico di Carmine Manzi” (2004); “La rosa” (2005); “L’anima lirica e storica di Brandisio Andolfi” (2007); “Generosa Natura” (2008); “Arcano splendore – Arcane splendour” (2008); “L’anelito spirituale di Ernesto Papandrea” (2009). Nel 2006 è stata edita “La critica di Leonardo Selvaggi sull’arte e sulla letteratura frenniana”, “Il Croco” (2010) eccetera.

TRA LE RIVISTE IL CONVIVIO - Trimestrale fondato da Angelo Manitta e diretto da Enza Conti - via Pietramarina-Verzella 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) -


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E-mail: angelo.manitta@tin.it ; enzaconti@ilconvivio.org - Riceviamo il n. 78, lugliosettembre 2019, dal quale segnaliamo diversi interventi in ricordo di Andrea Camilleri, a firma di Evgenij Solonovič, per esempio, Giuseppe Rando, Giovanni Perrino. Poi un lungo articolo su Giacomo Leopardi e la giurisprudenza, di Vittorio Capuzza e, di Corrado Calabrò, “Il tentativo di assoluto di Kjell Espmark”. Ancora articoli di Giuseppe Manitta, Aldo Marzi, Angelo Manitta, Enza Conti (almeno dieci medaglioni di pittori); il racconto “Maria Domenica” di Manuela Mazzola; le recensioni di Isabella Michela Affinito, Angelo Manitta, Maristella Dilettoso eccetera, le poesie di Vittorio “Nino” Martin, Aurora De Luca. Del nostro direttore Domenico Defelice è l’articolo di pagina 30: “Un’Italia da basso impero in Big Bang. Canto del villaggio globale di Angelo Manitta”. * THE WORLD POETS QUARTERLY - Rivista bilingue (inglese-cinese), Dr. Zhang Zhi - P. O. Box 031, Guanyinqiao, Jiangbei District, Chongquing City, P. R. China - E-mail: iptrc@126.com - Riceviamo il n. 95 (n. 3 dell’otto agosto 2019), la cui copertina a colori è dedicata alla poetessa Qiuling (Hong Kong) con testi a pag. 32; seconda di copertina, pure a colori, a Mohidil Shermanova (Uzbekistan), con tre componimenti; terza di copertina, a colori, alla pittrice cinese Lu Xia, con foto e quattro opere; in quarta di copertina, pure a colori, foto di J. Michael Yates (Canada), con testi a pag. 5; Elisabetta Di Iaconi (Italia), con testi a pag. 21; Eduard Harents (Armenia), con testi a pag. 18; Chen Hongwei (Cina), con testi a pag. 13; Khosiyat Bobomurodova (Uzbekistan), con testi a pag. 16; Salvatore D’Ambrosio (Italia), con testi a pag. 7; Asror Allayarov (Uzbekistan), con testi a pag. 4; Shao Xiuping (Cina), con testi a pag. 45. Altri autori inclusi: Namita Laxmi Jagaddeb (India), Kurt F. Svatek (Austria), Toth Arpad (Romania), Cláudia Brino (Brasile), Nadia-Cella Pop (Romania), Domenico Defelice (Italia), Rubina Andredakis (Cipro), Paramananda Mahanta (India), Dominique Hecq (Australia), Hu Ping (Cina), Germain Droogenbroodt (BelgioSpagna), Huang Yazhou (Cina), Shihab M. Ghanem (UAE). Poeti cinesi: Xu Chunfang, Choi Lai Sheung, Zhu Likun, Li Zhiliang, Qin Chuan, Liu Janbin, Li Chenghong, Wang Aihong, Mu Lan, Song Janping, Yang Jun, Ye Shuishan, Yang Qingei, Tan Qinghong, Zhou Yuming, Shao Hiuping, Psyche, Liu Dianrong. E poi ancora: Duan Guang’an (Cina), Zhang Zhizhong (Cina) eccetera. *

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L’ORTICA - Pagine d informazione culturale, diretta da Davide Argnani - via Paradiso 4 - 47121 Forlì - E-mail: orticadonna@tiscali.it - Riceviamo il n. 22/23, ottobre 2018 - marzo 2019, con poesie, recensioni, la rubrica dei concorsi.

D. Defelice: Il microfono (1960)

NOTIZIE PRESENTATO VIAGGIO ESISTENZIALE DI


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LUIGI DE ROSA - Il critico prof. Francesco De Nicola, Docente di Letteratura Italiana Contemporanea all'Università di Genova, ha presentato l'ultimo libro di poesie "Viaggio esistenziale" di Luigi De Rosa il 19 ottobre 2019 alla Biblioteca Internazionale di Rapallo e il 15 novembre alla Biblioteca Civica di Sestri Levante. Il volume, edito da appena pochi mesi da Gammarò Edizioni (pagg. 222, € 18,00) e del quale il Prof. De Nicola ha scritto la Prefazione, è in programma per altre presentazioni a Genova ed altre sedi. *** PREMIO MARIO NOVARO - “LA RIVIERA LIGURE” 2019 A MARINO MAGLIANI - Martedì 1 ottobre 2019, ore 17 Biblioteca Universitaria di Genova Sala conferenze, ex Hotel Colombia, Via Balbi 40. A introdurre l’incontro sono stati Vittorio Coletti, professore emerito dell’Università di Genova e Giacomo Revelli, scrittore; a consegnare il Premio, Maria Novaro, Presidente Fondazione Mario Novaro. Il Premio Mario Novaro - “La Riviera Ligure”, giunto alla XXVIII edizione, è stato assegnato quest’anno allo scrittore Marino Magliani. Lo scrittore Giacomo Revelli e il professor Vittorio Coletti hanno messo in luce valore e caratteristiche della produzione letteraria di Magliani. Il Premio Mario Novaro - “La Riviera Ligure”, istituito nel 1991 dalla Fondazione Mario Novaro, è destinato a un intellettuale ligure, o attivo in Liguria, che con la sua opera abbia esaltato i valori della cultura in qualsivoglia forma o linguaggio espressivo. Il premio, costituito da una scultura in ceramica modellata dallo scultore Umberto Piombino, riproduce il logo della Fondazione: una rondine. Marino Magliani à nato nel 1960 a Dolcedo, in Val Prino, nell’entroterra di Imperia. Dopo avere vissuto per anni tra Spagna e America Latina, alla fine del Novecento si è trasferito in Olanda, dove tuttora risiede. Ha pubblicato oltre una ventina di opere (romanzi, racconti, poesie), a cui si aggiungono una decina di traduzioni e sceneggiature. Definire Marino Magliani scrittore e traduttore è corretto, ma non basta. Altrettanto interessanti sono le esperienze che lo hanno condotto a queste attività, descritte nelle sue pagine con una sincerità distribuita con discrezione e rispetto per il lettore. I suoi libri sono la controimpronta lasciata dalla vita, come i fossili portano i segni della foglia. I viaggi di Magliani costituiscono l’esilio volontario di un uomo che si definisce “iscritto al club regale della marginalità”. La prima marginalità è il crisma della nascita avvenuta in un ospizio. La seconda è l’ infanzia trascorsa in campagna, con un padre che molti scambiano per nonno e il dialetto come lingua

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madre, poco presentabile in città. La terza è il collegio scelto volontariamente per scappare dalla malinconia. La quarta è l’incubo del servizio militare, con il diritto al congedo troppo a lungo frenato dall’ ottusità della burocrazia, nonostante il padre stia morendo. Un dolore decisivo. L’esperienza è così devastante che trascina Magliani in un abisso da cui esce lasciando l’Italia, per approdare prima sulle spiagge catalane, poi nella pampa argentina, infine in Olanda, dove scarica aringhe e traduce, scegliendo una città – Zeewijk - che a un certo punto, guardando la cartina sulla pensilina del bus, scopre essere il calco perfetto della Liguria. Gli ambiti umani e geografici che attraversa diventano oggetto di infinita ispirazione per la sua produzione letteraria, vagliati dall’intuito affinato dormendo sotto le barche in Costa Brava, intrecciando una relazione epistolare con Antonio Tabucchi, osando affrontare l’ inquietudine da cui è impossibile scappare qualunque panorama si scelga di abitare. Com’è impossibile, per Magliani, non riportare ogni luogo e ogni persona, alla matrice della terra che non ha mai dimenticato, “la Liguria capovolta di noi esiliati che la spiamo da qui”, dal freddo dell’Europa del Nord. Alcuni titoli nella produzione di Marino Magliani: L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi (Exorma, 2017), Soggiorno a Zeewijk (Amos, 2014), Amsterdam è una farfalla (Ediciclo, 2011), Quella notte a Dolcedo (Longanesi, 2008), Il collezionista di tempo (Sironi, 2007), tra i romanzi; Sudeste di Haroldo Conti (Exorma, 2018), Casamatta (El Blocao) di José Díaz Fernández (Miraggi, 2018), Acqueforti di Buenos Aires (Del Vecchio, 2014), Ultima rumba all’Avana di Fernando Velazquez Medina (Il Canneto, 2014), La moglie del colonnello di Carlo Alberto Montaner (Anordest, 2012) fra le traduzioni; La ricerca del legname (Tunuè, 2017) e Sostiene Pereira (Tunuè, 2014), fra le sceneggiature di graphic novel; la raccolta poetica All’ombra delle palme tagliate (Amos, 2018). Nelle precedenti edizioni il Premio Mario Novaro “La Riviera Ligure” è stato assegnato a: Fabio Luisi (2017), Maurizio Maggiani (2016), Gianni Berengo Gardin (2015), Giuseppe Conte (2014), Camilla Salvago Raggi (2013), Victor Uckmar (2012), Adriano Sansa (2011), Boris Biancheri (2010), Ligustro (Giovanni Berio, 2009), Giuliana Traverso (2008), Umberto Albini e Vico Faggi (2007), Eugenio Carmi (2006), Massimiliano Damerini (2005), Lucio Luzzatto (2004), Giuliano Montaldo (2003), Edoardo Sanguineti (2002), Enzo Maiolino (2001), Elena Bono (2000), Ivo Chiesa (1999), Vittorio Gassman (1998), Francesco Biamonti (1997), Renzo Piano (1996), Teatro della Tosse (1995), Luciano Berio (1994), Beatrice Solinas Donghi


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(1993), Alessandro Fersen (1992), Emanuele Luzzati (1991). Info: Fondazione Mario Novaro, c.so Saffi 9/11 16128 Genova - Tel. 010/5530319 - info@fondazionenovaro.it *** FRANCO SACCÀ RICORDATO ALLA BIBLIOTECA COMUNALE DI REGGIO CALABRIA - Lunedì 30 settembre 2019, alle ore 16:45, presso la Biblioteca comunale “P. De Nava” di Reggio Calabria, nell’ambito del ciclo di incontri sui “Miti e suggestioni nelle voci del Sud …del mondo, Sez. A. Piromalli”, il Centro Internazionale Scrittori ha ricordato il poeta, scrittore e giornalista Franco Saccà (1911 – 1974). La relatrice prof.ssa Maria Florinda Minniti, docente di Italiano e Latino al liceo scientifico “L. Da Vinci” di Reggio Calabria, componente del Comitato Scientifico del Cis, ha fatto una approfondita analisi di due volumi del poeta Saccà “Incontro nel sole” (1950), prefazione di Guglielmo Calarco, Ed. Siclari e “Sotto le stelle” (1942), Ed. Morello. La lettura di brani scelti è stata a cura della dott.ssa Cecilia Saccà. L’incontro è stato coordinato da Loreley Rosita Borruto, presidente del Cis della Calabria. Franco Saccà di S. Pantaleo di Reggio Calabria (1911 – 1974) è stato un autore prolifico. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo: “La strada dell’illusione, 1933; “Il sentiero degli oleandri”, 1940; “Sotto le stelle”, 1951; “Il vecchio battello”, 1968; “Poeti calabresi”, 1956. *** PRECISAZIONE A “LETTERE IN DIREZIONE” numero ottobre 2019, pagine 35/36: Gentile Direttore, come avevo chiesto in un messaggio del 26 settembre, vorrei pubblicare nel numero di novembre una correzione alla mia lettera pubblicata nel numero di ottobre. NOTA: Nella lettera pubblicata nel mese di ottobre, nelle considerazioni finali al punto 1, pag. 36, una serie di errori nella consultazione dei dati da internet rende in-

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comprensibile la descrizione degli accordi di Parigi del 2015 sul clima: La frase "L’accordo di Parigi del dicembre 2014 per ridurre l’incremento globale della temperatura al di sotto del 2%, richiede una diminuzione delle emissioni di gas serra a partire dal 2020." dovrebbe essere "L’accordo di Parigi del dicembre 2015 per ridurre l’incremento globale della temperatura `ben al di sotto del 2 gradi rispetto all'epoca preindustriale', richiede una diminuzione delle emissioni di gas serra `al più presto possibile' " Mi scuso con Lei e con i lettori per questa confusione. Gianluigi Bellin *** È MORTO MONSIGNOR DANTE BERNINI Il vescovo emerito della diocesi di Albano, monsignor Dante Bernini, è morto all’età di 97 anni, il 27 settembre 2019. Era nato, infatti, il 20 aprile 1922 a La Quercia, in provincia di Viterbo. Ordinato sacerdote il 12 agosto 1945, eletto titolare alla chiesa di Assidona il 30 ottobre 1971, fu consacrato vescovo l’otto dicembre 1971 e ha retto la diocesi di Albano dal 1971 al 1975, quando è stato trasferito nella diocesi di Velletri Segni il 10 luglio dello stesso anno. Vescovo ausiliare di Albano, dal 1975 al 1977 è stato Mons. Gaetano Bonicelli, che poi fu vescovo, sempre di Albano, dal 1977 al 1981. Fu nell’aprile del 1975 che ebbe inizio la nostra collaborazione al quotidiano Avvenire. Tornato ad Albano, Bernini è stato vescovo della Diocesi Suburbicaria dall’otto aprile 1982, divenendo vescovo emerito il 13 novembre 1999. Pastore molto attivo e aperto al dialogo, ha celebrato un sinodo diocesano e ha dato un importante impulso alla attività pastorale della diocesi albanense. Lo abbiamo conosciuto - come abbiamo conosciuto


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Gaetano Bonicelli - nell’aprile del 1975, presso la sede vescovile di Albano, quando siamo stati invitati - assieme a Pietro Bassanetti, che è stato per diverse volte Sindaco di Pomezia - ad un incontro pastorale e fu in quella occasione - come già accennato - che ci è stato proposto di collaborare al quotidiano Avvenire. Lo abbiamo incontrato, poi, tante altre volte, insieme allo stesso Bassanetti e ad altri collaboratori dello stesso quotidiano, tra cui l’indimenticabile amico Domenico Cefaloni. Ancora un incontro memorabile, il 21 settembre 1989, quando, ad Albano, siamo stati ricevuti dall’allora Papa Giovanni Paolo II, oggi Santo. Il vescovo Bernini non mancava mai di stimolarci a lavorare con amore e coscienza, senza farci irretire dalle amicizie a discapito della verità. Ci invitava, cioè, ad essere giornalisti onesti ed è quello che noi abbiamo cercato di fare e di rimanere, su quella testata e sulle tantissime altre alle quali abbiamo nel tempo collaborato. Un vescovo amato e stimato Monsignor Dante Bernini, e lo si è potuto constatare anche in occasione della camera ardente, che è stata allestita nel coro della Basilica Santuario Santa Maria della Quercia, attraverso il gran flusso di visitatori, tutti compunti e commossi. I funerali sono stati celebrati il 28 settembre nella stessa Basilica, e il vescovo di Albano, Marcello Semeraro, gli ha rivolto, nel saluto, parole di stima e ammirazione. Domenico Defelice *** CARLO DI LIETO E UN CONVEGNO SU PIRANDELLO - In occasione del Convegno internazionale di Toronto “Mississauga”, 3/6/Ottobre

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2019, in memoria di Paul A. Colilli, “Fragments of Culture between Diaspora, Language and Semiotics”, che si è tenuto presso il Dipartimento di Language Studies dell’Università di Toronto Mississauga, Direttore Salvatore Bancheri, Carlo Di Lieto ha tenuto una relazione su Pirandello poeta: “Angelismo e doppio nella poesia di Luigi Pirandello”, riscuotendo il plauso delle Autorità Accademiche canadesi. Le linee guida della sua relazione sono state le seguenti: - Le tematiche dell’angelismo nella poesia di Pirandello; - l’angelismo come doppio; - alterità e doppio nella personalità di Pirandello poeta. Carlo DI LIETO vive e lavora a Napoli. Docente di Letteratura italiana presso l’Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa” di Napoli, è assiduo collaboratore delle riviste “Ariel”, “Misure Critiche”, “Riscontri”, “Silarus”, “Vernice”, “Nuova Antologia” e fa parte della Redazione di “Gradiva”, oltre che di “Vernice” e de “Il Pensiero Poetante”. Ha a suo attivo pubblicazioni inerenti al rapporto Letteratura/Psicanalisi e saggi critici, in chiave psicanalitica, sulla produzione pirandelliana, su Carducci, Leopardi e Pascoli, sulla poesia Otto- Novecento e su quella contemporanea. Critico militante, collabora a quotidiani con articoli letterari. Inoltre, ha scritto saggi su Papini, Bonaviri, Colucci, Mazzella, Calabrò e Fontanella e le seguenti monografie: “Pirandello e <la coscienza captiva>” (2006), “La scrittura e la malattia. Come leggere in chiave psicanalitica <I fuochi di Sant’Elmo> su Carlo Felice Colucci” (2006), “L’identità perduta”. Pirandello e la psicanalisi” (2007), “Pirandello Binet e “Les altérations de la personnalité” (2008), “Il romanzo familiare del Pascoli delitto, “passione” e delirio” (2008), “Francesco Gaeta la morte la voluttà e “i beffardi spiriti” “ (2010), “La bella Afasia”, Cinquant’anni di poesia e scrittura in Campania (1960 - 2010) un’indagine psicanalitica” (2011), “Luigi Pirandello pittore” (2012), “Psicoestetica” il piacere dell’analisi” (2012), “Leopardi e il “mal di Napoli” (1833 - 1837) una “nuova” vita in “esilio acerbissimo” (2014), “La donna e il mare. Gli archetipi della scrittura di Corrado Calabrò” (2016).


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Vincitore per la saggistica del 1° Premio del XLI Premio Letterario Nazionale, “Silarus” 2009, del 1° Premio Letterario internazionale 12a edizione “Premio Minturnae” 2009 e del 1° Premio Letterario Internazionale per la saggistica “Emily Dickinson”, XVII edizione 2013-2014. Componente della giuria del “Premio Corrado Ruggiero”, per la poesia e la narrativa italiana; socio dell’Accademia Internazionale “Il Convivio” e dell’Unione Nazionale Scrittori e Artisti. I suoi testi sono in adozione presso l’Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa” di Napoli, l’ Accademia di Belle Arti di Napoli e presso la Cattedra di Lingua e Letteratura italiana dell’Università Statale di New York. Dirige la collana “Letteratura e Psicanalisi” della Genesi Editrice e dal 2013 è componente la giuria del Premio Nazionale di Poesia, Narrativa e Saggistica “I Murazzi”. *** PREMIO NOBEL PER LA LETTERATURA 2018 - 2019 - Il 10 ottobre scorso, l’Accademia di Svezia ha comunicato l’assegnazione del Premio Nobel per la letteratura 2018 alla scrittrice polacca Olga TOKARCZUK e, per il 2019, allo scrittore e poeta austriaco Peter HANDKE. Entrambi autori fuori dagli usuali schemi, sia per contenuto che per

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forma e linguaggio. Handke (nato il 6 dicembre 1942 a Griffen) è autore sperimentale della neoavanguardia, addirittura contestato e non solo in patria, e l’assegnazione è stata per lui stesso una sorpresa, in quanto, in passato, egli ha affermato che il Nobel avrebbe dovuto essere abolito. Autori, entrambi, a volte senza azione, evanescenti, che costringono il lettore a molte acrobazie e forse proprio per questo apprezzati dalla Commissione del Premio, la quale, negli anni, ha suscitato molte polemiche, per assegnazioni pilotate e miranti più che alla letteratura tout court, alla fama mediatica del personaggio, come è avvenuto con Dario Fo prima e poi, tanto per fare qualche esempio, con la rockstar Bob Dylan. Quanta di letteratura vera e quanto di audience, quale aspetto sia in loro predominante, lasciamo ad altri il giudizio. Intanto, è giusto dire che la Tokarczuk (nata il 29 gennaio 1962 a Sulechów) sia una delle scrittrici più vendute e non soltanto in Polonia e che Handke ancora oggi continui ad accendere di contrasti gli animi su svariati argomenti politici e sociali. Ecco le due motivazioni. Per la polacca: “Per aver costruito romanzi con una tensione tra opposti e l’immaginazione narrativa che rappresenta l’attraversamento dei confini come forma di vita”; per l’austriaco: “Per avere esplorato con ingegnosità linguistica la periferia e la specificità dell’esperienza umana ed essersi affermato come uno degli scrittori più influenti”. Tra le opere della Tokarczuk ricordiamo: Che Guevara e altri racconti (2006); Guida il tuo carro sulle ossa dei morti (2012); Nella quiete del tempo (2013); Casa di giorno, casa di notte (2015); I vagabondi (2019). Tra quelle di Handke: Intervista sulla scrittura (1990); Don Giovanni (raccontato da lui stesso) (2007); Pomeriggio di una scrittore (2016); Prima del calcio di rigore (2016); I giorni e le opere


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(2018), I calabroni (2019). (D. Defelice) *** LUTTO - Il 16 ottobre, all’età di 86 anni, nella Clinica Sant’Anna di Pomezia, è deceduto Vittorio Volpacchio. Alla moglie, Signora Antonietta, al figlio Antonio, ai nipoti e pronipoti e parenti tutti, le più sentite condoglianze. Dopo il funerale, il feretro è stato trasferito in Molise, sua regione di origine, per essere tumulato nel cimitero di Mirabello Sannitico, in provincia di Campobasso. Ecco quanto ha espresso Valeria Volpacchio al termine della cerimonia funebre il 17 ottobre nella chiesa di San Benedetto Abate di piazza Indipendenza, a Pomezia: “Grazie nonno, Per le fatiche che hai fatto negli anni e che ci hai in parte risparmiato Grazie per averci insegnato il valore del lavoro e della fatica Grazie per la tua presenza, importante, a volte severa, ma sempre attenta Grazie per tutti i silenzi eloquenti e per gli sguardi accoglienti Grazie per le tue canzoni calde, piene, vigorose Grazie per i balli e le pedalate Grazie per i sorrisi, purtroppo negli anni sempre più rari, ma che scaldavano davvero il cuore

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Grazie per averci mostrato l'eleganza della sobrietà, della discrezione e della solidità Grazie per le attenzioni costanti Grazie per la dignità con cui hai affrontato le tante difficoltà della tua vita Sei stato e resterai un modello per tutti noi”. *** ERRATA CORRIGE - Nel numero precedente, annunciando la nascita di Mattia Defelice, abbiamo erroneamente scritto che essa è avvenuta a Roma all’ospedale Bambin Gesù. Mattia, invece, è nato sempre a Roma, ma all’ospedale Fatebenefratelli, sulla splendida Isola Tiberina, sul Tevere, tra Ponte Palatino e Ponte Garibaldi. Chiediamo scusa per il refuso (nei quattro gruppi di spedizione del 27 settembre, poi è stato corretto); la vecchiaia, purtroppo, incombe sempre più e la correzione delle bozze è sempre meno lucida! Nel frattempo, sono stati numerosi i messaggi di auguri e di congratulazioni, giunti anche per telefono. Riportiamo, di seguito, alcuni brani di e-mail. Ci scrive, per esempio, la cara Ilia Pedrina da Vicenza, il 6 ottobre: “Carissimo, Giuseppe Leone mi avverte sul Pigafetta, io gli rispondo e vado in rete alla tua ottima rivista e colgo le immagini, bellissime, della vostra nuova stupenda creatura, Mattia! E' veramente un dono della Grazia e la vostra gioia deve essere veramente alle stelle, solo così, con la gioia, si argina il male... In abbraccio, forte forte Ilia tua”. Salvatore D’Ambrosio, da Caserta, l’otto ottobre: “Carissimo ho ricevuto questa mattina il numero di ottobre di PN. Debbo farti in primis i miei auguri per il bellissimo ultimo arrivato dei tuoi nipoti. Complimenti e auguri anche ai genitori. (…) Una felice giornata. Salvatore” Isabella Michela Affinito, Fiuggi Terme, l’otto ottobre: “…ho letto della bellissima notizia della nascita di Mattia Defelice e ti mando le mie felicitazioni più sincere ed un abbraccio ai genitori, Annachiara e Luca.” Emerico Giachery, Roma, l’otto ottobre: “…Grazie e saluti anche da Noemi, a te un abbraccio affettuoso e un festoso benvenuto al simpaticissimo pupo nuovo arrivato che mi ha sorriso dalle pagine di "Pomezia-notizie" Emerico” Antonio Crecchia, Termoli (CB), il 10 ottobre: “Mi unisco alla gioia di nonno Domenico e dei genitori per l'arrivo di Mattia. A lui gli auguri di una lunga vita sana, serena, felice e prospera, all'inse-


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gna della fama, pari a quella di nonno Domenico. Antonio Crecchia” Giovanna Li Volti Guzzardi, Melbourne, Australia, il 19 ottobre: “Augurissimi per l’arrivo del bellissimo Mattia, dagli tanti bacetti per me. Cav. Giovanna Li Volti Guzzardi Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori (A.L.I.A.S.)”. Il nostro grazie a tutti.

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Domenico Defelice; Sogno (olio su tavoletta, cm. 14 x 73), 1983.

AI COLLABORATORI Inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione) preferibilmente attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è gradito un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________

IL CROCO i Quaderni Letterari di POMEZIA-NOTIZIE il mezzo più semplice ed economico per divulgare le vostre opere. PRENOTATELO! Inviate le vostre opere a defelice.d@tiscali.it In uscita, per dicembre, il n. 135, dedicato a Manuela Mazzola

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