50ISSN 2611-0954
mensile (fondato nel 1973) Direzione e amministrazione: Via Fratelli Bandiera, 6 - Tel. 06/91.12.113 - 00071 POMEZIA (Roma) - Fondatore e Direttore responsabile: DOMENICO DEFELICE – e-Mail: defelice.d@tiscali.it – Parziale distribuzione gratuita (solo il loco) – Attività editoriale non commerciale (art. 4, D.P.R. 26.10.1972 n. 633 e succ.ve modifiche) - Per abbonamenti: annuo, € 50; sostenitore € 80; benemerito € 120; una copia € 5.00) e per contributi volontari (per avvenuta pubblicazione), versamenti sul c/c p. 43585009 intestato al Direttore - Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 213/93 del 23/5/1993 - La collaborazione, sempre gratuita, in parte è libera, in parte è per invito. Ogni autore si assume la responsabilità dei propri scritti - Manoscritti, fotografie e altro materiale, anche se non pubblicati, non vengono restituiti - É ammessa la riproduzione, purché se ne indichi la fonte. Per ogni controversia, foro competente è quello di Roma.
Anno 27 (Nuova Serie) – n. 12
- Dicembre 2019 -
€ 5,00
Scrittrice, amante della musica lirica, ricercatrice in campo scientifico e letterario:
LILIANA PORRO ANDRIUOLI Intervista a cura di Isabella Michela Affinito
L
ILIANA Porro Andriuoli occupa una posizione privilegiata dello scibile contemporaneo, tra i suoi studi compiuti nel settore scientifico con periodi che l’hanno vista impegnata in qualità di ricercatrice nel gruppo di Fisica Molecolare del Consiglio Nazionale delle Ricerche, in cooperazione con istituti universitari stranieri, quale Budapest, e la sua straordinaria propensione all’indagine letteraria tradottasi in lavori saggistici. Scrive articoli di critica letteraria, che da tempo la vedono alquanto fervida collaboratrice di riviste come “La nuova Tribuna Letteraria”, “Pomezia-Notizie”, “Il Porticciolo”, “Lettera in Versi”, “Vernice”, etc., e su “La Procellaria” di quando ancora era in vita il compianto direttore scrittore poeta calabrese Francesco Fiumara. Ha pubblicato negli anni, fin dal 1999, volumi di studio monografico attorno a figure-chiave della nostra cultura: “Valori umani e cristiani nella poesia di Elena Bono”; “Poesia intimistica e civile
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All’interno: Erri De Luca, Impossibile, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 8 Tra poesia e vita: lettera ad Albino Pierro, di Emerico Giachery, pag. 10 Un Natale dell’anima, di Ilia Pedrina, pag. 12 Giacomo Leopardi, L’Infinito, di Salvatore D’ambrosio, pag. 15 La poesia, di Antonia Izzi Rufo, pag. 17 Luigi De Rosa e La fuga del tempo, n. s. p., pag. 18 Orazio Tanelli e I canti d’oltre oceano, di Antonio Crecchia, pag. 23 A Monteverdi Ivan Fischer offre un Orfeo, di Ilia Pedrina, pag. 27 Basilisse, di Giuseppe Leone, pag. 29 Enzo Andreoli e la sua arte, di Manuela Mazzola, pag. 32 La poesia di Gianni Rescigno, di Leonardo Selvaggi, pag. 33 Miracolo a Natale, di Domenico Defelice, pag. 38 Una volontà ferita, di Wilma Minotti Cerini, pag. 42 “…Eppure quel connotato non mi è nuovo!”, di Ilia Pedria, pag. 47 Premio Internazionale Letterario Il Croco (1a Edizione), Regolamento, pag. 51 I Poeti e la Natura (Sergej Esenin), di Luigi De Rosa, pag. 52 Notizie, pag. 59 Libri ricevuti, pag. 61 Tra le riviste, pag. 62
RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (Katrina, di Adriana Panza, pag. 53); Isabella Michela Affinito (Nicola Napolitano, di Domenico Defelice, pag. 54); Elio Andriuoli (La poesia di Imperia Tognacci, di Francesco D’Episcopo, pag. 56); Domenico Defelice (Gabbiani, di Mariagina Bonciani, pag. 56), Manuela Mazzola (Come voli d’aironi, di Gabriella Frenna, pag. 58); Manuela Mazzola (Gabbiani, di Mariagina Bonciani, pag. 58).
Lettere in Direzione (Emerico Giachery), pag. 63 Inoltre, poesie di: Elio Andriuoli, Mariagina Bonciani, Corrado Calabrò, Rocco Cambareri, Domenico Defelice, Ada De Judicibus Lisena, Salvatore D’Ambrosio, Lina D’Incecco, Antonia Izzi Rufo, Giovanna Li Volti Guzzardi, Gianni Rescigno, Leonardo Selvaggi
in Bruno Rombi”; “La ricerca del trascendente nella poesia di Margherita Faustini”; “Certa et arcana – La poesia di Anna Ventura tra certezza e senso del mistero”; “L’itinerario poetico di Giuseppe Cassinelli tra classicità e poesia pura” – successivamente confluiti in “Tredici poeti per il terzo millennio” – una ponderosa dissertazione su tredici voci poetiche che hanno contribuito a fare la storia della Poesia di oggi – “L’itinerario poetico di Silvano Demarchi e le sue tematiche fondamentali”. Ma entria-
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mo tutti insieme nel vivo del nostro incontro intervistatorio. 1) Per il poeta Premio Nobel Eugenio Montale, il trinomio di città in cui ha vissuto è stato Genova-Firenze-Milano; per te Milano-Napoli-Genova. Bisogna vivere in ambienti diversi per un certo periodo di anni per accrescere la propria interiorità (ricchezza psicologica) di scrittori? R) Non credo che per “accrescere la propria interiorità”, sia a livello puramente umano che letterario, sia indispensabile “vivere in ambienti diversi”, benché ciò possa risultare anche molto utile. Tale accrescimento dipende, a mio avviso, da molti altri fattori che, a seconda delle circostanze, possono giocare un ruolo più o meno importante in proposito. Tuttavia, per quanto mi riguarda personalmente, il cambiare città (e quindi abitudini di vita) ha indubbiamente costituito un accrescimento della mia interiorità; accrescimento che ovviamente si è ripercosso su molte delle mie attività, non ultima quella dello scrivere. Ognuna delle tre città in cui ho soggiornato, con il suo diverso volto, è infatti valsa alla mia formazione: più operosa Milano, più estroversa Napoli, più chiusa e severa Genova. Ciascuna città mi ha tuttavia insegnato qualcosa, offrendomi la sua ricchezza di comportamenti e di pensieri, i suoi ammaestramenti e le sue abitudini. Inoltre, anche l’ordine in cui i soggiorni si sono susseguiti nella mia vita penso abbia avuto una sua non trascurabile rilevanza. 2) Puoi riassumermi in breve il confronto fra le tue tre ‘città del cuore’, di come ti sei trovata in ciascuna di esse nelle differenti fasi esistenziali? R) TRE CITTÀ sono state determinanti nella mia vita: MILANO, dove sono nata, NAPOLI dove ho vissuto dall’età di dodici anni sino ad oltre i trenta e GENOVA, dove ho trascorso altri quarant’anni, avendo sposato un genovese.
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Ed ora (finalmente!) l’agognato ritorno a Napoli, una città che mi è sempre rimasta nel cuore. Il legame più forte fra le tre città, infatti, l’ho avuto e l’ho tuttora con Napoli, città estroversa, dove la gente è cordiale e di animo aperto e dove innumerevoli sono le bellezze della natura e dell’arte. E, non ultimo, una città con un clima mite e confortevole. Gli anni milanesi, sono stati quelli della mia infanzia, ma non molto ho potuto assorbire dello spirito di quella città, coincidendo quegli anni proprio con quelli della guerra, durante i quali la mia famigli dovette trasferirsi altrove; tuttavia, qualcosa dello spirito di questa città in me è giunto dai genitori, molto legati alla loro terra d‘origine. Terza città: GENOVA, dove molto sentita è la tradizione poetica, che va da Mario Novaro a Montale e oltre. Ed è stata (casualmente?) la città nella quale sono usciti allo scoperto i miei interessi letterari: a Genova infatti ho iniziato ad occuparmi di letteratura, scrivendo con una certa periodicità articoli su alcune riviste (quali “Liguria” e “ArteStampa”). Naturalmente nella scelta di questa mia attività molto ha inciso il fatto di vivere con un poeta (Elio Andriuoli) e di praticare ed avere per amici essenzialmente dei poeti. D’altra parte a Genova sono tuttora legata affettivamente tramite alcuni cari amici, che purtroppo incontro sempre più di rado. Con alcuni di loro continuo tuttavia le antiche collaborazioni letterarie, come avviene ad esempio con la Prof.ssa ROSA ELISA GIANGOIA, con la quale continuo a pubblicare (ormai da quasi un ventennio) “Lettera in Versi”, una newsletter a cadenza trimestrale, dedicata a poeti contemporanei, diffusa per posta elettronica (https:// bombacarta.com/le-attivita/letterain-versi/). Un altro assiduo, attuale legame letterario con la Liguria (che ovviamente mi lega anche affettivamente) lo mantengo attraverso la costante collaborazione alla rivista “Il Porticciolo”, diretta dalla Prof.ssa RINA GAMBINI e pubblicata a La Spezia.
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Pur amando molto la poesia, non ho però mai scritto versi. A Milano probabilmente devo l’indole riflessiva e fattiva, ereditata tuttavia più dai genitori (mamma milanese e papà lombardo) che dall’ambiente circostante; tenendo conto anche del fatto che erano gli anni dell’immediato dopoguerra. (Quando ho lasciato Milano per Napoli eravamo nell’ Ottobre del ’50 ed avevo appena iniziato la Scuola Media: è a Napoli che ho poi proseguito gli studi.) E, probabilmente, è proprio da Napoli che ho ricevuto anche una visione più serena del modo di vivere e di affrontare i problemi quotidiani. Ed è soprattutto da questa città che ho ricevuto una maggiore apertura verso il prossimo. Più che per la poesia i miei interessi post lauream s’indirizzavano verso la narrativa, specie contemporanea, e verso l’arte (architettura e pittura). In ogni caso la mia grande passione di quegli anni era la musica lirica. Non va dimenticato che se Milano ha sempre vantato la sua celeberrima “Scala”, a Napoli esisteva un “teatro d’opera” di grande prestigio ed ancora più antico (la “Scala” fu infatti inaugurata il 3 agosto 1778, sotto l'allora regno di Maria Teresa d’Austria, mentre il “San Carlo” fu fondato nel 1737, per volontà di Carlo di Borbone!). A Genova si sono probabilmente accresciute (o, forse, sono semplicemente riemerse) la serietà e la meticolosità dell’operare. In ogni caso, entrando più nello specifico, è proprio a Genova, città dove è molto coltivata la poesia (come dimostra il numero rilevante di coloro che la praticano, sulla scia dei grandi autori, quali Camillo Sbarbaro, Eugenio Montale e il genovese d’adozione Giorgio Caproni), che ho cominciato a esternare il mio interesse e il mio amore per quest’arte. (Probabilmente dovevo rimpiazzare in qualche modo la “passione per la lirica” che, a Genova, dovette essere completamente seppellita (negli anni ’70 il “Carlo Felice” non era ancora stato ricostruito dal 1945, dal
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momento che la “prima pietra” del nuovo teatro fu posata solo il 7 aprile 1987!). 3) Ogni città ha una sua impronta, qual è la città dove hai vissuto che più ti assomiglia considerando l’impressione che essa emana? R) Penso (o quantomeno vorrei che fosse) la solarità di Napoli. Tuttavia, ad un esame più spassionato, credo di essere una milanese in trasferta che reca in sé un’esigenza di vita maggiormente impegnata e fattiva. 4) Che peso ha per te la parola ‘ricerca’, intesa sia in versione scientifica che letteraria. R) La “ricerca”, in campo letterario, parte, a mio avviso da alcune concettualizzazioni, quali Crepuscolarismo, Futurismo, Ermetismo, Sperimentalismo, Postmoderno, alle quali poi si cerca di ricondurre l’autore studiato, con un metodo che è prevalentemente deduttivo, andando quindi dall’universale al particolare. In campo scientifico si parte invece dall’analisi del fenomeno, cioè dai fatti concreti, per giungere, con un metodo induttivo, dal particolare al concetto generale. È da dirsi tuttavia che abitualmente anche in campo letterario si procede attraverso l’ analisi dei testi (con un metodo cioè che potremmo definire induttivo) che deve essere assidua e minuziosa, per comprendere sia la personalità dell’autore in esame che il valore della sua opera inserita nell’arco di tempo in cui è vissuto. Il contatto con il testo, in ogni caso, deve essere, comunque, sempre alla base di ogni ricerca letteraria. Personalmente la scelta di un autore la faccio in base all’interesse che suscita in me la sua opera, alla quale pervengo anche occasionalmente; più spesso, però, per una rivisitazione di opere già studiate. In ogni caso, segue sempre il lavoro sui testi dell’autore trascelto e l’approfondimento del loro significato e del loro valore. Molto importante in questa fase è anche la ricerca di quanto è già stato scritto da altri, valutando le conclusioni alle quali sono giunti (anche se non sem-
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pre personalmente condivise). 5) Come nasce la scelta di realizzare un saggio attorno a un personaggio? R) Quanto alla scelta degli argomenti da trattare, essa nasce da una lettura o dall’ ascolto di una conferenza oppure da qualche conversazione con amici, che verta su un autore per il quale avverto una particolare consonanza. 6) Ci sono state amicizie rilevanti con altri autori che hanno operato sulla tua scrittura, influenzandola? Se sì quali?) R) Il mio primo incontro letterario avvenne con ALDO CAPASSO, un poeta e un critico che conobbi personalmente; ed ebbe origine dalla lettura di alcune delle sue poesie: mi piacquero e volli dirglielo, evidenziando come, nonostante il salto generazionale che ci separava e la provenienza da ambienti diversi, i suoi versi riuscissero ancora a comunicarmi efficacemente delle emozioni. Eravamo agli inizi degli anni ‘90 e fu così che nacquero i miei scritti su di lui, successivamente apparsi su rivista: Saggio su due libri di Aldo Capasso, «Arte Stampa», Anno XL N.2, 1990 (Numero speciale); Poesia in versi e poemetti in prosa dell’ultimo Capasso, «Il Cristallo», XLIX, 2, apr. 1997; Solidarietà umana nell’ultima produzione artistica di Aldo Capasso, «La Procellaria», Anno XLV n. 4 Ott.-Dic. 1997. Venne poi l’incontro con ALDO G. B. ROSSI, poeta di rara sensibilità e di notevole capacità di resa espressiva, che mi riportò ai lontani anni dei miei primi incontri con la poesia. Per Aldo pubblicai il saggio: Le relazioni interpersonali nella poesia di Aldo G. B. Rossi, “Otto/Novecento, XIX, N. 1-1995 (recensito da Giovanni Cristini sul «Ragguaglio, Librario», N. 5-1995). Seguirono gli scritti su altri poeti conosciuti (come tu hai già detto) personalmente; scritti, apparsi prima come articoli su rivista e
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successivamente raccolti in volume, riguardanti: MARGHERITA FAUSTINI, una poetessa di fine intuito e di notevole originalità espressiva; BRUNO ROMBI, del quale misi in luce la duplicità della vena: intimistica e civile e SILVANO DE MARCHI, poeta bolzanino che unisce a una vasta cultura la schiettezza e la freschezza del dire, del quale ho esaminato anche la narrativa. Vennero poi: ELENA BONO, poetessa e narratrice di talento, molto apprezzata anche fuori dalla Liguria; GIUSEPPE CASSINELLI, interessante poeta sia in lingua che nel dialetto ligure di Dolcedo, suo paese natale; ANNA VENTURA, poetessa abruzzese capace di rendere appieno il profumo e la singolarità della sua Terra, da lei profondamente amata. A costoro vanno aggiunti: ITALO ROSSI, VICO FAGGI, GIULIO STOLFI e GUIDO ZAVANONE. Su richiesta di Alberto Frattini, ho inoltre pubblicato su rivista un saggio riguardante la sua poesia. 7) Al di là del lavoro critico che gli dedicasti nel 2005, L’itinerario poetico di Silvano Demarchi e le sue tematiche fondamentali Ed. Le Mani, che ricordo amicale conservi nel tuo cuore del compianto Silvano Demarchi? R) L’incontro con Silvano Demarchi (ci siamo conosciuti verso la metà degli anni ’70) ha avuto per me, sin dall’inizio, una particolare importanza soprattutto per il fascino che promanava dalla sua figura di uomo di cultura. Conversare con lui era sempre un grande arricchimento che faceva nascere interessi nuovi. Anche umanamente, Silvano era una persona incantevole, sempre disponibile. Io e mio marito lo praticavamo spesso durante i nostri soggiorni in Alto Adige o durante le sue vacanze in Liguria, regione che Silvano amava molto per la conformazione del paesaggio (le montagne a picco sul mare). Quanto al poeta non si può dimenticare la spontaneità e la ricchezza dei suoi testi, sempre mossi dall’autenticità del sentire e dalla profondità dei contenuti.
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8) L’evoluzione che c’è stata nel raccontare l’autore da te prescelto insieme alla sua produzione letteraria. Quanto devi ai tuoi studi scientifici riportandoli nella realtà letteraria che svolgi? R) In seguito i miei orizzonti si sono allargati, passando ad autori molto noti (quali Kavafis, Borges, E. Barret Browning, Villon, ecc.), tutti affrontati con lo stesso slancio e con la stessa volontà di penetrare sino in fondo il valore della loro opera. Nella mia ricerca letteraria ritengo mi abbia certamente giovato la formazione scientifica, dovuta ai miei studi (laurea in fisica), che mi ha portato ad esaminare, in maniera molto razionale e analitica, gli autori studiati. Ho infatti sempre cercato di indagare il significato e il valore di ogni poeta, inquadrando la sua vita e la sua opera nel proprio ambiente e nel proprio tempo; e soprattutto approfondendone la personalità. Determinante in questo mio lavoro è ovviamente stata la comunanza di interessi con mio marito, Elio Andriuoli, e la continua possibilità di un costante confronto di opinioni. Estremamente stimolante è stato poi, lo devo confessare, il suo ininterrotto interesse per il mio lavoro. 9) Dentro di te senti di essere più ricercatrice scientifica – ricordiamo ai lettori che hai fatto parte del gruppo di Fisica Molecolare del Consiglio Nazionale delle Ricerche (C. N. R.) – o più esaminatrice letteraria? R) Certamente la ricerca scientifica, praticata negli anni giovanili, è stata per me molto importante, dando una forte impronta al mio modo di affrontare i vari problemi che mi si presentano quotidianamente: ciò ovviamente si ripercuote anche in campo letterario. È certo tuttavia che la ricerca letteraria ha delle sue esigenze particolari, alle quali di volta in volta mi adeguo. 10) Diceva il grande scienziato d’ origine tedesca, naturalizzato svizzero e
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morto negli Stati Uniti nel 1955, Albert Einstein: “ Non esiste un tempo dei filosofi; esiste soltanto un tempo psicologico diverso dal tempo dei fisici “ (Dizionario delle idee, dei pensieri e delle opinioni di M. Lettieri, De Agostini Novara, Anno 2002, a pag. 646). Cosa rappresenta per te il tempo nella sua manifestazione incessante? R) Cosa sia il Tempo è una domanda che sovente l’uomo si pone, senza mai riuscire a darsi una compiuta risposta, sospeso com’è tra i due abissi del prima e del poi. Lo stesso Einstein, come giustamente ci hai ricordato tu, non è giunto ad una vera conclusione dicendo che “Non esiste un tempo dei filosofi”, ma “soltanto un tempo psicologico” (e quindi non misurabile) “diverso dal tempo dei fisici”, che al contrario è una grandezza fisica, che possiamo misurare. Ed è proprio da qui infatti che nascono tutte le difficoltà, perché il ritmo del nostro “tempo interiore” è diverso da persona a persona; ed anche per la stessa persona talora corre veloce e talaltra s’attarda nei diversi momenti della vita. Talvolta ci crea un’ansia infinita talaltra una profonda gioia; ma poi il tutto svanisce e non resta che il ricordo. Ma cos’è dunque il tempo? I Greci lo personificarono e lo relegarono nel mondo dei loro “dei”, definendolo figlio di Urano (il cielo stellato) e di Gea (la Madre Terra) e facendolo appunto “Padre degli dei olimpici”, dandogli il nome di Kronos. Sant’Agostino nelle sue Confessioni si pose anch’Egli la domanda di cosa sia il Tempo, senza tuttavia riuscire a rispondere al quesito che egli stesso si era posto. Anche per noi, uomini e donne del terzo millennio, si affaccia lo stesso interrogativo che si presentò al santo delle Confessioni: e come lui non possiamo che rispondere che se qualcuno mi chiede cosa sia il Tempo, mi sembra di poter dare a questa domanda una facile risposta, ma se mi provo a darla, allora mi accorgo di non essere capace a definirlo compiutamente. Certo il Tempo è un enigma. Noi viviamo immersi in esso, di esso si sostanziano i no-
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stri giorni e i nostri pensieri, per esso ci proiettiamo nel passato o nel futuro. Senza il Tempo non avremmo ricordi e quindi non esiteremmo, dato che noi siamo i nostri ricordi, cioè la somma di tutte le nostre esperienze, dalla nascita alla morte. Nel Tempo ruotano gli astri. Sorgono e terminano le stagioni. L’Universo corre verso la sua misteriosa Meta. Senza Tempo è soltanto l’Eternità. Se un giorno ci sveglieremo in essa, forse sapremo che cos’è il Tempo. Ma allora saremo perduti in Dio. Non avremo più il timore della Morte. Non misureremo più continuamente i battiti del nostro cuore. Non avremo rimpianti, ansie, paure. Non dovremo più attendere con apprensione il futuro. Saremo un tutt’uno con l’Essere. Avremo raggiuta la Felicità. Isabella Michela Affinito
ILLUSIONE E' appena cessata la pioggia. Il cielo è sempre imbronciato, ma si diverte a spandere, su su per la valle, disegni di nubi merlate che, sembra, stiano giocando a girotondo. Tutto è fermo, tutto tace. Monotono è il tempo, monotona la vita, entrambi pesanti. Si spera che torni il sole: illusione! Antonia Izzi Rufo (Castelnuovo)
SI GIOCA COI SOGNI Quando si vive si gioca coi sogni e i sogni sono il tempo più lungo della vita: appena sorge il sole appena cala
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appena cede il passo alla luna appena le stelle ne sono il manto. Quando si vive anche di solo respiro c’è sempre una nuvola bianca che porta i sogni agli occhi del cuore, occhi che vedono oltre ciò che si può vedere. Gianni Rescigno Da Il vecchio e le nuvole - BastogiLibri, 2019.
RUGHE Invecchiano nel tempo i desideri, ma non hanno rughe. Ottusità estetiche lasciate invece, anche per chi non è in sintonia con l’abbandono. Acqua che va lambisce e ritorna, la speranza di un nuovo inizio, coltivato aspettando chiunque verrà ad annunziarci che avara non è stata l’attesa. Ci aggrapperemo al vento di questa novità, sapendo che non c’è d’attendere altro: tranne che sparire poi nella silenziosa luce dove ogni cosa è perfetta. Salvatore D’Ambrosio Caserta
Premio Letterario Editoriale IL CROCO Prima Edizione Nessuna tassa di lettura Scadenza 31 maggio 2020 Regolamento a pag. 51 Inviate le vostre opere tramite email a: defelice.d@tiscali.it
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ERRI DE LUCA IMPOSSIBILE di Salvatore D’Ambrosio
I
L nuovo romanzo di Erri De Luca è un confronto tra l’uomo che ha agito e che agisce spinto dall’amore, e l’eterna indifferenza di uno stato che non si preoccupa di fare cittadini coscienti bensì cittadini ubbidienti. Volutamente ignorando, da parte dello stato, che si ubbidisce a qualcosa solo quando si è coscienti di quel qualcosa. È anche la rappresentazione di uno stato che si perde nel suo tecnicismo, ignorando la differenza tra l’improbabile e l’impossibile. Peggio ancora confonderle e assimilarle. Chiunque, anche chi non ha fatto un corso universitario, e qui in polemica con il giudice che interroga il presunto colpevole, dice l’ Autore, sa che improbabile è quella cosa che esclude il probabile, che è poi quel qualcosa che potrebbe stare nella eventualità che accada. L’impossibile invece è l’eventualità che il momento prima si pensasse non potesse mai verificarsi, ma che poi viceversa si materializza, si presenta in tutte le sue sfaccettature. Il nuovo libro di De Luca, in effetti, non lo definirei propriamente un romanzo, ma il racconto lungo di una storia che ha radici nel passato recente del personaggio inquisito, qui protagonista. E il protagonista della storia ha i panni dell’autore stesso. C’è nel racconto la storia del suo passato che, quantunque il personaggio-autore cerca di spiegarci essere roba ormai trascorsa e che non frigge più, torna sempre a galla. Una bollatura, una marchiatura che è rimasta indelebile. E questa incancellabilità di fatti lontani, lascia spazio a sospetti e
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accuse infondate. Probabili solo perché si sono verificate coincidenze di luoghi e persone. Magari su una Cengia della Val Badia. La montagna è cosa libera di tutti, dove è possibile ritrovare anche persone conosciute in altri tempi. C’è anche un outing che definirei contrastato, nel senso che lo scrittore dice, ma senza scoprirsi troppo, sulle motivazioni di quello che ha fatto in passato, dei comportamenti avuti che il comune pensare ha definito devianti. I suoi atteggiamenti, le sue scelte politiche e di vita sono scaturiti, confessa, dalla forte convinzione che le sue azioni erano volte a un livellamento, un pareggiamento, tra chi possedeva, avendo tolto a altri, e egli altri considerati figli di nessuno. Mai però lui ha tolto per odio o vendetta, specialmente se erano in gioco vite, di cui ne ha sempre rispettato la sacralità, non uccidendone per questo mai nessuna. Nel contrastato interrogatorio a cui lo sottopone il giovane magistrato, si capisce che la morte della persona sulla quale si indaga, è l’ altra metà dell’autore che egli tenta di far scomparire, di distruggere per sempre. Infatti il giudice a un dato punto, gli dice che il morto ritrovato non ha volto, non ha corpo se non che piccole parti. L’uomo ritrovato è come se fosse esploso. Ma la cosa non lo convince in quanto un trascorso, anche se rinnegato, non si dissolve, non sparisce mai, lascia sempre delle tracce in noi, anche se piccolissime. Diventa, ciò nonostante, impossibile sia per il giudice–autore, che per l’inquisito-scrittore, dimostrare chi era il morto e come egli sia effettivamente deceduto. Ossia caduto per volontario errore da un sentiero difficoltoso di montagna, o perché lasciato cadere nella speranza di potere così seppellire definitivamente un passato, non scomodo, ma che non ha più nessun utilità concreta. Questa seconda ipotesi è scartata, anzi addirittura inconcepibile per un uomo che ha sempre creduto che, quando c’è da soccorrere qualcuno, non esistono amici o nemici. La caduta è anche la metafora della sua
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azione di lotta, che si è vanificata per colpa delle debolezze umane come il tradimento, operato da coloro che hanno avuto paura di camminare su sentieri stretti, su tratti dove passi falsi avrebbero portato alla morte e che per questo hanno denunciato i compagni. Il tradimento, ci dice De Luca, è nella natura umana. Aggiungendo: anche e soprattutto in uno stato che apparentemente si erge a difensore, ma che in fondo per non ammettere sconfitte, estorce confessioni usando raffinatezze giuridiche e non. Ci cascano, dice però, solo quelli che hanno qualcosa da nascondere, chi è innocente combatte fino alla fine, mettendo in conto anche anni di ingiusto carceramento. Senza tradimenti. Condanne e carceramenti che oggi sono da i più ritenute incomprensibili, in quanto furono accettate per un senso di giustizia utopico. Nessuno oggi andrebbe in galera per svantaggio personale. Le case di pena sono infatti, dice l’autore, oggi piene di gente che ha commesso reati per togliere allo stato e a altri, al solo scopo di perseguire vantaggi personali. Alla fine è per questo aprire gli occhi che l’ uomo cresciuto di novecentesche idee di fratellanza, decide che ”l’altro”, il caduto, è fuori luogo in questi tempi nuovi. Deve per questo sentire: scomparire. Ritenersi uno sconfitto e sparire. Egli è solo un superstite del concetto di fratellanza, la quale faceva marciare più dell’ eguaglianza e della libertà. Queste ultime completamente inutili, mancante la prima. A ben ragionare è sconfitta anche la giustizia perseguita dal giovane magistrato, che finalmente nel lungo colloquio-didattico con l’anziano prigioniero, si è reso conto che la giustizia, in questo contrastato tempo, persegue reati senza colpevoli. È ancora questo di De Luca, un racconto a tre. Dalla prigione scrive a una donna, la sua compagna. Quello che le dice, altro non è se non il resoconto dell’inchiesta. Almeno apparentemente e nella forma. Ma nel fondo c’è qual-
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cosa di più bello e interessante. C’è l’amore che si interpone tra la giustizia e il reato vero o presunto che sia. C’è l’amore che spiega gli atteggiamenti umani, compreso l’abbandono di lotte e irrinunciabili principi. L’amore che fa camminare, correre, addirittura scontrarsi lungo sentieri pericolosi e impraticabili. L’ amore che spinge anche i fratelli allo scontro, come avviene con i camosci sulle Cengie sdrucciolevoli. Dovremmo essere tutti come loro, dice. Seguire le leggi della natura che ammette solo impulsi e niente codici o leggi precostituite. Come loro che non ricordano eternamente il passato. Soprattutto quando si cercano sempre i segni; che essi, invece, considerano scomparsi anche dopo un aspro duello di corna incrociate. Quel duello, quella lotta che è finita insieme agli anni e al fervore, che illudeva si potessero scrivere pagine eque, bilanciate, giuste, come vuole indicare il simbolo presente nelle aule di giustizia. Cosa passata, altra storia. Solo base per nuove battaglie. Noi, dice lo scrittore, non siamo come i camosci che lottano e dimenticano. Noi spesso siamo come quello che si è arreso al vuoto, perché o non riesce, o non sa dimenticare. Scomparire non è utile a niente e a nessuno. Cambiare si può invece, perché non esiste l’ impossibile. Si può adoperare un nuovo sistema di lotta, ma essa non la si abbandona mai. C’è in noi un dovere: quello di continuare, anche se alla fine si raggiunge solo un impercettibile successo. Ma quantunque è sempre un successo. Salvatore D’Ambrosio ERRI DE LUCA: IMPOSSIBILE Se poi le cose accadono …, Feltrinelli- sett. 2019.
DI PRIMO MATTINO Che meraviglia la striscia di fuoco sui monti d'oriente adagiati nel cielo ancor tinto di notte! Antonia Izzi Rufo (Castelnuovo - IS)
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TRA POESIA E VITA: LETTERA DALL’ ELBA AD ALBINO PIERRO di Emerico Giachery Isola d’Elba, 19 settembre 1985 arissimo Albino. Ti scrivo per comunicarti un'emozione, un consenso. Quando è possibile, è bene dar voce a questi impulsi, non interrompere il flusso che cosi circola, raggiunge, e insomma si fa atto di vita, filo d'oro che congiunge. L'ho fatto altre volte con te, con mia gioia e, credo, con tua gioia. Mi piace pensare la poesia anche come un'occasione e una terra d'incontro. Anche la poesia, nata dal silenzio raccolto (e quanto silenzio e quanta ascetica solitudine, alle scaturigini della tua poesia) trova nell'incontro una sua fecondità, che è la sua vita "ulteriore", nello spazio, nel tempo, nell'alterità sintonica. "Parole mie che per lo mondo siete"... (come nel sonetto dantesco).
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Per meditare un po', per ruminare liberamente , mi son portato dietro qualche tuo libro e libretto, e lo vado degustando qua e là, al modo delle api. Forse é il modo più propizio per fruire della poesia lirica. Le "opere complete" dei poeti è giusto che ci siano, per la storia e per il suo grande archivio di civiltà figlia della Memoria, per gli specialisti e per gli scaffali delle nostre biblioteche. Altrimenti più giovano le antologie, poco care ai poeti-genitori per i quali, come per Filomena Marturano, “tutti i figli so' figli". La lettura sistematica ci opprime, di solito, quanto invece ci gratifica quella "fior da fiore". Api e farfalle insegnano la raffinata nata e voluttuosa levità che agevola e allieta il lettore di poesia. E allora ecco che mi tendono la mano, dalle tue pagine, alcune di quelle punte che vedo emergere, campeggiare. E grandeggiare. La gioia del lettore, del critico e interprete (e del resto di ogni uomo veramente vivo che sia riuscito a non farsi appiattire dalla routine) è la sorpresa, il sentimento di una scoperta, soprattutto se non prevista, non "scontata" come si dice oggi. E tu hai in serbo gioie come questa. Che può spiegare, almeno in parte, la tua davvero ragguardevole fortuna critica. Te l'ho detto più volte che metti in crisi il critico, lo sommergi, e questo (forse l'ho anche scritto da qualche parte) è buon segno. Segno di salute per la tua poesia, attraverso lo scavo e la prova degli anni. E anche per il criticointerprete, che deve sapersi "stupire". Ma altro volevo esprimerti, raccontarti. Volevo dirti che, dopo tanto tempo, ho ripreso in mano Nd u piccicarelle di Turse (Nel precipizio di Tursi), che certo appartiene a una tua felice e colma stagione. Non ricordavo più molto quel tuo libro, dal quale pure mi vengono incontro, solitarie e spiccanti come le scarne immagini che contrassegnano Il pensiero dominante leopardiano, momenti di grande intensità, di una vena delle tue più fonde, delle più legate all'esistenza sotterranea dove affondano le più vitali radici. Il tuo libro me lo sono portato con me su una collina. Sai che amo, quando è possibile,
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lavorare all'aperto (simbolo vissuto e incarnato del rapporto col mondo circostante, coll'orizzonte, col cosmo, che deve essere presente, immanente in ogni scrittura, anche in quella critico- interpretativa). Siccome c'era molto vento, mi sono infilato in una cavità della roccia, al riparo, sia pur parziale, dal vento che scendeva dal monte. Solo, con la natura e con il tuo libro, mi pareva che il contatto fisico con la roccia, col vento, quasi mi certificasse l'autenticità della tua poesia. La sentivo, la tua parola, fraterna alla roccia e al vento. Tornava, per cosi dire, alle origini quella tua scavata e sofferta parola, scorticata parola tenerezza e grido - e riprendeva contatto con la sostanza del mondo dalla quale era scaturita; e insieme quella sostanza del mondo si animava attraverso la tua parola. Difficile non volerti bene, quando ti si legge. Hai momenti che non somigliano a nessun'altra pagina custodita dalla memoria. Li sentivo, appunto, vicini alla roccia alla quale mi stringevo, e all'invenzione libera, "toujours recommencée" del vento. E sentivo anche la parentela della tua poesia con i villaggi, come in un altro momento della mia esperienza di tuo lettore. Non tanto, o non soltanto, per la mera associazione di contenuto (i villaggi, il tuo eterno villaggio, la fraternità sostanziale di tutti i villaggi), ma per quello che "significa", nel profondo, il villaggio: lo ha capito tanto bene il grande Ernesto De Martino. Tu ben sai quanto mi stia a cuore l'aspetto di “poesia-civiltà”, che, come in certi vecchi villaggi, accoglie i trapassati nel suo cuore, li sente presenti e partecipi, necessari, quasi più dei viventi. "Buoni villaggi", dice Pascoli. E davvero potevo dirlo anch'io guardando le dolci case degli uomini strette in villaggi, in quelle armoniose strutture, "a misura d'uomo" (per usare una frase banalizzata e inflazionata), che la luce radente del giorno in declino "rivelava", faceva esistere in pienezza. Anche la grande poesia fa lo stesso: ci “rivela", ci sottrae al tempo banale. Dicevo che ti si vuol bene, leggendoti. Si vuol bene al ragazzo "spirdute nd' i iaramme"
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(“sperduto tra le voragini ”), e "uagninelle scantète" (“ragazzetto spaventato”) che sei sempre rimasto, attraverso i non pochi lustri della tua tormentata esistenza. Si vuol bene al poeta che scrive, con parole candidamente fraterne e cristiane: “Ma vanicce cchiù spisse cch'i puurèlle / ca chiàngene notte e gghiurne / rumànene bbone come ll'angiue ca nda nu sonne/ ti vìrese nturne”.( "Ma va più spesso insieme ai poverelli / che piangono notte e giorno/ e rimangono buoni come gli angeli / che in un sogno ti vedi d'intorno"). Volevo qui comunicarti un’emozione, dar voce ad essa. Raccontarti questa mia particolare fruizione di un tuo libro, letto stringendomi a una roccia, col vento, con la misura umana di due simpatici villaggi appollaiati lassù. Inutile aggiungere che, chiudendo il tuo libro, per riprendere la via di Marciana Marina (cominciava a far freddo), ho fatto tesoro del tuo consiglio finale: “Purtatille appresse cchi ssempe / sta voce / come si pòrtete u'mbrelle quanne chiòvete” (“portatela sempre appresso / questa voce / come si porta l’ ombrello quando piove”). Questa insolita e libera occasione di lettura interpretante si addice a chi, come me, cerca modi non accademici di fraternità con la voce della poesia, ha spesso in uggia i colleghi che, come periti settori, anatomizzano i testi. Tu ci inviti a un modo diverso di leggere, ci sfidi. E dobbiamo essertene grati. Mi è caro scrivertelo. Spero che sia caro anche a te sentirne parlare con animo fraterno. Un abbraccio. A presto. Emerico Volevo qui comunicarti emozione, dare voce ad essa. Raccontarti questa mia particolare fruizione di un tuo libro, letto stringendomi a una roccia, col vento, con la misura umana di due villaggi appollaiati lassù. Inutile aggiungere che, chiudendo il tuo libro, per riprendere la via di Marciana Marina (cominciava a far freddo), ho fatto tesoro del consiglio finale: “purtatille appresse cchi ssempe / sta voce / come si pòrtete u'mbrelle quanne chiòvete” (“portatela sempre appresso / questa voce / come si porta l’ombrello quando piove”).
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UN NATALE DELL'ANIMA PER LA GIOVANE
PHAM THI TRÀ MY di Ilia Pedrina
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UE giovani ragazze del nostro tempo: Greta Tintin Thunberge, svedese, e Pham Thi Trà My vietnamita: un confronto non impossibile, ma duro, lacerante, soffocante, non solo per la contrapposizione causata dalla differente origine, provenienza, usi, costumi e tradizioni familiari e sociali delle due ragazze. Una volta operato l'approccio alle informazioni a disposizione, vagliata la veridicità, la mente non può non esercitare il proprio doveroso compito di affrontare la realtà, della quale è forzata a prendere atto, e di darne riscontro non solo emotivo, momentaneo perché di breve durata: la mente deve portarci a riflettere sul piano etico e geopolitico oltre che sociale e finanziario, riflessione che provochi forte, profonda tensione, allo scopo di coinvolgere il piano personale, individuale e collettivo ad un tempo, delle scelte e delle conseguenti azioni messe in campo. C'è chi denuncia e chi sta a guardare, c'è chi giustifica e chi punisce solo sulla carta, c'è chi sorvola ogni problema perché ama il quieto vivere e dichiara di essere impotente di fronte alle sciagure e c'è chi dichiara che il male, la malvagità attiva e pratica dell'uomo sull'uomo sempre c'è stata e sempre ci sarà. Altri aggiungano per conto proprio ulteriori sfaccettature al problema. Il 23 settembre scorso all'apertura del Climate Action Summit, Greta sostiene: “Voi venite da noi giovani per la speranza. Come osate? Voi avete rubato i miei sogni, la mia infanzia. Eppure io sono una delle fortunate. La gente soffre. La gente muore...” (Fonte Internet). Nell'operare questo confronto, io arrivo a lucide riflessioni ed a successivi approdi che plachino un poco la sofferenza duratura indotta dall'empatia. Anche la giovane vietnamita aveva i suoi sogni: sono stati annientati, ieri, dalla violenza di una guerra di conquista e di distruzione
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dei territori dello Stato del Vietnam del Nord con le bombe al napalm, e oggi attraverso l'infamante mercato di merce umana, di cui tutto si sa, ma tutto viene comunque reso lecito. La lotta per un futuro migliore deve trovare ascolto e regole umane volte a proteggere soprattutto chi, come i familiari della giovane Pham, pagano un prezzo senza misura pur di farle raggiungere un minimo cambiamento in un Occidente che sembra avere assunto tutti i connotati della salvezza, mentre sta assorbendo tanti come Pham nelle oscure e fosche terre del precipizio. Un'altra orientale che ha seguito mio fratello Virgilio mentre era ricoverato in ospedale tutti nel reparto di unità coronarica lo invidiavano e volevano farsi fare pedicure, manicure e quant'altro... e se il cuore va in fibrillazione? Che importa? Farsi lavare e accarezzare i piedi da lei, da Judith dai lunghi capelli neri, lisci come la seta, è già come essere in Paradiso!!!- mi ha raccontato che là alle periferie delle città loro vivono con tantissimi altri in case di cartone, perché quelle in muratura se le possono solo sognare di giorno e di notte... e gli insetti? Quelli che si fanno strada nella carne viva come nel legno, tipo la sclerodermia japonica? E vedi in giro braccia e gambe piene di tumefazioni perché questi insetti si fanno un poco di gallerie e nella carne viva stanno meglio che nel legno? Ha preso paura quando ha visto i nostri mobili antichi un poco tarlati e ha detto di metterci sopra un panno, spaventata e triste ad un tempo, per tutto il tempo che ha passato con noi! Anche Pham viveva con i suoi in case con pareti di cartone, con intorno insetti del tipo che ancora spaventa Judith? Anche Pham avrà respirato,
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a tanti anni di distanza, i residui tossici delle esalazioni delle esplosioni al napal, per distruggere intere foreste di caucciù, con la scusa di veder meglio i Vietcong all'attacco, ma in realtà proprio per azzerare il reddito della Popolazione Nordvietnamita, che andava fiera d'esserne il primo produttore al mondo? Anche Pham, guidata dai suoi familiari, avrà considerato che è miglior vita quella nella terra e al fianco del più forte di turno, pur di limitare il peso delle proprie sofferenze? Trascrivo da un articolo di Carmela Linda Petraschi (26 ottobre 2019) presente in rete: “Nel tir dell'orrore partito dal Belgio e sbarcato in questi giorni nel sud dell'Inghilterra non vi erano soltanto cinesi ma anche una giovane vietnamita che muore soffocata all' interno del container. La notizia è stata data dopo che una mamma ha raccontato della telefonata ricevuta dalla figlia disperata che le ha annunciato che stava per morire: 'Mi dispiace mamma. Il mio viaggio all'estero non è andato bene. Ti amo così tanto! Sto morendo perché non posso respirare'...” (Fonte Internet al sito 'iltarantino.it'). Perché scelgo questa testata e non altre? Perché a Taranto c'è l'ILVA della multinazionale ArcelorMittal, che, protetta dalle norme del diritto internazionale, mette a dura prova l'equilibrio di migliaia di famiglie e le già deboli risorse del governo stesso, debole nelle risorse e debole nella competenza giuridica internazionale e nella capacità di lotta, quando si confronta con una realtà ben prevista e mai affrontata. La giovane parla al cellulare con le ultime forze che ha, nel cuore e nel respiro: questo suo respiro tra poco finirà di appannare ogni specchio. Lei, inconsapevole, ha cominciato a morire, con gli altri, partendo dalla sua terra e pagando oltre trentamila euro, per arrivare nelle zone della speranza e per morire così: non ha finito di vivere, Pham Thi Tàr My, per ricordare un grande della sofferenza nei lager della guerra, Mario Rigoni Stern, ma ha finito di morire: per lei la vita si è scontata morendo. Un altro lager tutto italiano e tutto piemontese? Il lager di Fenestrelle, al confine con la
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Francia, dove hanno finito di morire oltre 30.000, dico trentamila anche in lettere, come si fa con i versamenti in soldi, se non di più, o di meno sicuramente oltre i 'mila', tanti giovani meridionali provenienti dai territori appena conquistati dai Savoia e renitenti alla leva: la prima soluzione finale in una non ancora nata Italia, programmata a tavolino per punire chi non accetta il nuovo ordine dei violentatori di popoli e di territori. Hanno cominciato a morire proprio quando si è imposto questo nuovo ordine, che chiamo sopruso, hanno finito di morire di fame, di freddo, di stenti, incatenati a gruppi di quattro, cinque, nei cunicoli di questa Fortezza-lager di Fenestrelle: i loro corpi verranno gettati nelle scarpate adiacenti, poi sopra calce viva, così dei miseri resti umani non rimarrà traccia. Mi viene in aiuto, a calmare un poco il pianto, il poeta Giuseppe Gerini, dall'anima grande, generoso sempre ed Amico: Dentro celeste sponda Tanto pieno diluvio di ferocia mai disciolse barbarie: per quanto scenda nei tempi più foschi. Dove ti volgi è sangue. Sangue grondano tutti gli elementi. Questa convulsa terra. Ma è, pur sempre, la nostra aiuola del grande Astro falena. E illesa vola dentro celeste sponda. Dio solo sa dove ogni corsa sfocia. (G. Gerini, Dentro celeste sponda, ed. Fonte Gaia, Siena, pag. 19, volumetto donato a F. Pedrina con dedica, Firenze, il 16 dicembre 1949) Allora un Natale dell'anima per Pham Thi Trà My: anima semplice che ha Gesù stesso, appena nato e già in agonia sulla Croce ad un tempo, come specchio, nel quale sublimare la propria sofferenza. Si, quello specchio che solo si dona a lei, anima semplice, tutta in quell'amare i suoi, che ha lasciato lontano, là
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dove i suoi occhi hanno raccolto emozioni senza dimenticare nulla, perché hanno visto e tutto le è rimasto in testa; tutta in quell'amare i suoi che ha lasciato per un futuro migliore, fatto anche di prospettive rosate di un possibile futuro ricongiungimento; tutta in quell'amare i suoi, che ora è consapevole di dover lasciare per sempre, nello strazio più profondo della mente e del cuore. Ma un Natale dell'anima anche per tutti questi giovani meridionali di ieri, coraggiosi, dignitosi, coerenti, fedeli al giuramento prestato al loro Re, massacrati senza che ci sia stato nessuno a pagare per questo nefando e infame delitto, oltre al giovane torinese di oggi, sgozzato perché camminava sorridendo, felice: per tutti loro e per gli infiniti altri, anime semplici, un incontro speciale: terranno compagnia a Pham Thi Trà My nella dolce bellezza delle Terre dello Spirito. Ilia Pedrina FUORI ORARIO Sono chiusi il portone sulla piazza e quello secondario lato mare nella cattedrale del silenzio. Non suonano da tempo le campane l’Ave Maria nel villaggio globale. Torpido e dolce il sole si dilunga sul mare e fa le fusa nella grande vetrata laterale. Corrado Calabrò Da Quinta dimensione - Mondadori, 2018.
L’AVVENTURA La vita è un’avventura recitata sul palcoscenico terrestre con alcuni attori stabili ed altri che entrano inattesi al momento giusto e escono di scena
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senza rumore dopo aver recitato la propria parte. Mariagina Bonciani Milano
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 19/10/2019 Ad ogni nuova Finanziaria, a lungo si argomenta tra gli organi dello Stato, nei partiti, nei sindacati e su tutti i mezzi di comunicazione: Come combattere l’evasione fiscale e gli arricchimenti illeciti? Quali misure adottare? Quante e quali somme incassare? Una vera e propria esercitazione fantastica, giacché entrambi - misure e profitto -, risultano spesso privi di senno. Recuperare sette miliardi da una stima di almeno centosessanta, costringendo la gente a non usare il contante, col pagare un euro e rotti ciò che costerebbe semplicemente un euro, e non perché il di più vada nelle casse dello Stato - come sarebbe logico - ma in quelle delle banche? E non è, questa, pura follia? In Italia l’evasione è stata sempre un grosso problema, mai affrontato seriamente o con misure sempre sbagliate. Persino durante il ventennio. Non è vero, infatti, che il Fascismo sia stato un movimento, prima, e, poi, un partito condannabile per moltissimi aspetti, ma sostanzialmente onesto. Una favola, come favola sono stati l’ammontare dell’evasione e il suo recupero. Quando, per esempio, nel 1943, Ettore Casati si diede da fare per recuperare l’immensa ricchezza accumulata negli anni dagli esponenti fascisti con l’evasione e con gli arricchimenti illeciti, da centodiciotto miliardi previsti se ne sono incassati appena diciannove (comunque, già tanti, forse perché i mezzi usati sono stati migliori). Morale della eterna favola: s’è scherzato o s’è sbagliato ieri, quanto si scherza o si sbaglia oggi! Domenico Defelice A pag. 16 del quotidiano Il Messaggero di giovedì 28 novembre 2019.
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La voce del silenzio compie due secoli
GIACOMO LEOPARDI L’INFINITO di Salvatore D’Ambrosio
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A freschezza, la profondità, la semplicità dei versi che, probabilmente in un moto d’animo spontaneo scaturito da una profonda sofferenza esistenziale, il giovane poeta Giacomo Leopardi scrisse duecento anni fa, sono diventati eterni e continuano a essere struggenti. Hanno affascinato e continuano a affascinare molti giovani, non solo per la semplicità compositiva, ma anche perché contengono tutti gli stilemi classici della sofferenza che attanaglia gli animi dei giovani sensibili. E bisogna aggiungere, nel caso del Leopardi, anche la sofferenza fisica che gli si era prospettata non ancora diciottenne. Qualsiasi giovane che, in via di sviluppo, viene colpito da malattie improvvise e inguaribili, riceve una bastonata tremenda a livello psicologico, tale da togliergli anche la voglia di vivere. Per cui il Leopardi, alla manifestazione della sua inguaribilità, pensa spesso a togliersi la vita. Lo scriverà nelle Ricordanze, ma il pensiero
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non lo condurrà mai verso quella soluzione finale. Probabilmente per la rigida educazione religiosa cui la madre lo aveva quasi costretto. Bambino e poi giovanetto felice, anche se chiuso e dedito agli studi, una improvvisa tubercolosi ossea lo trasforma completamente nell’aspetto fisico. Diventa gobbo, emaciato, con problemi agli occhi, malfermo per connessi problemi alle gambe. La causa effettiva del suo male, lo racconta egli stesso, non sarà mai diagnosticata con sicurezza. Probabile la scarsa nutrizione connessa con la eccessiva parsimonia della madre che, benché anche lei di nobile famiglia, teneva strettissima la borsa per cercare di recuperare le perdite economiche, che il padre di Giacomo aveva subito con investimenti sbagliati. La sua famiglia composta da dieci fratelli, si ridurrà a soli cinque lui compreso, essendo alta all’epoca la mortalità infantile, anche tra i nobili che si presupponeva facessero una vita migliore. Ma non era così. La scadente e insufficiente alimentazione, la vita chiusa in case costruite con criteri dove spesso il sole non entrava agevolmente, la vita all’aria aperta considerata sconveniente per i nobili e la buona borghesia, portavano a tutta una serie di patologie che mieteva vittime tra i bambini e regalava scarsa robustezza, rachitismo o malformazioni tra i giovani. Soffrirà molto il Poeta di questo suo imbruttimento fisico, che lo porterà a cercare ancor più un vivere romito. Considerato che non ama andare in giro per il paese nativo, passeggia per la tenuta paterna, nella quale la meta preferita è un posto solitario che si affaccia su una valle. In questo posto, quasi fuori dal mondo esterno che lo circonda, trova conferme alle sue percezioni più intime, al suo Sensismo filosofico da adepto. Cosa va a cercare in realtà in quel luogo. Va alla ricerca di quella voce che tramite i sensi gli racconti qualcosa, lo faccia sentire parte di quel qualcosa. Va a sentire la voce del silenzio e tutte quel-
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le cose che il suo Sensismo gli fa cogliere. Si rifugia su quel colle per pensare. E le voci che gli si agitano dentro, gli rivelano in quel silenzio cose che non si sarebbe mai aspettato di sentire. Il silenzio in quel luogo, prende il profilo delle cose che ha vissuto e ha perduto, nonché di quelle che ancora gli stravolgono la vita. L’ostacolo vegetale della siepe di arbusti non gli dispiace, poiché quella chiusura dona profondità di campo, come diciamo noi in fotografia, a ciò che è dietro e più lontano. L’ostacolo della siepe non impedisce completamente la visuale, ma lascia tratti aperti in modo da permettere di vedere gli interminabili spazi che si frappongono tra la sua posizione e l’orizzonte. Questa quinta naturale gli è cara poiché è come una coperta, che lo difende, lo protegge da tutto quello che l’infinità, nella sua misteriosa indefinizione, potrebbe regalargli. Cerca la voce di Dio e gli sembra di sentirla nel fruscio del vento e nella materializzazione del silenzio terapeutico che lo circonda. E nel momento in cui riconosce la voce del silenzio, la sente sua, ne è pieno, e quasi è colto dal panico di questa scoperta. Ha paura di essere il privilegiato che riesce a cogliere quello che altri mortali, uguali a lui, non riescono nemmeno a percepire. Questa sua capacità lo porta a fondersi con quella percezione portandolo a un abbandono totale. Tale da farlo sentire come un naufrago in un mare di silenzio calmo e dolcissimo. La scoperta che il silenzio possiede una voce e che lo chiama sollecitandogli tutti i sensi, lo addolcisce, gli porta via per un attimo tutte le sue angosce, le traversie degli anni giovanili che non sono stati felici, le preoccupazioni per il futuro. Si convince e ci convince, che le cose più preziose nascono dal silenzio. Ed è nel vento del silenzio che gli arriva la voce dell’Infinito. Per un attimo l’immensa voce del silenzio, lo imbeve del grande mistero dell’eterno. Sembra affiorare quel cattolicesimo materno che gli è stato instillato da bambino.
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Sembra riavvicinarsi a quel Dio che non odia, ma che non gli fu benigno: bensì piuttosto deludente. Si continua a sottolineare questa delusione del Poeta verso la natura, soprattutto divina, come un suo atteggiamento pessimistico. Ma a un più attento esame ci accorgiamo che non è così. Infatti nelle sue opere si legge un Poeta che si pone al di là della concezione illuministica, ancora fortemente presente nella cultura dominante del suo tempo, che vuole spiegare tutto con la Ragione. L’Infinito di Leopardi, lo definirei il canto della scoperta delle cose che può dire il silenzio, la lezione terrena di ben più lunghi e infiniti silenzi, a cui ogni essere vivente prima o poi viene chiamato. In soli quindici versi si affollano i grandi temi della vita dall’esistenza alla morte, e all’ immenso indefinito che viene dopo la morte. Per questa stesura immediata, folgorante, nuova se vogliamo nella tematica, i versi di Leopardi appaiono subito modernissimi, quelli di un poeta più avanti di tutti: forse per qualche critico del suo tempo votati allo scarso successo e non destinati a durare. Il tempo racconterà, invece, tutta un’altra storia. Salvatore D’Ambrosio
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 28/10/2019 Ci mancava la Fake News per aumentare lo scandaloso cinguettio degli Italiani! Imitare linguaggi esterofili è stata sempre la nostra vergogna. Oggi, poi, con la nuova Finanziaria, le parole straniere, sulla bocca dei nostri politici, son divenute un vero diluvio: Cashback, Superticket, Ecobonus, Tax Expenditures, Flat Tax, Sugar Tax, Plastic Tax, Packaging Valley e, via via, Pluriball che vi schiacci! Alleluia! Alleluia! Ma se l’Italiano vi fa così schifo, perché non vi trasferite in massa all’estero, cari pappagalli ignoranti? Domenico Defelice
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LA POESIA di Antonia Izzi Rufo
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O letto, non so, non ricordo bene se in qualche rivista o altrove, che anche "la poesia segue la moda" e che, per essere un vero poeta, bisogna andare al passo con i tempi, adeguarsi al cambiamento. La poesia, pertanto, secondo taluni (o la maggioranza di certi critici moderni?), è come un vestito: cambia colore e stile spesso, piuttosto spesso, e bisogna aggiornarsi se si vuole restare in onda. Sono rimasta sconvolta e mi son detta: "Io, allora, sono rimasta indietro". Ben altro concetto ho io della poesia. Questa è, prima di tutto, spontaneità; è sentimento, voce dell'anima. Essa nasce in noi quando siamo ispirati da qualcosa o da qualcuno, quando proviamo emozione, quando sentiamo (noi sentiamo, noi percepiamo) che il nostro cuore accelera i battiti, che noi vogliamo ridere o piangere, che il nostro animo ci parla, ci dice amore, felicità, simpatia, ci fa gioire e soffrire nello stesso tempo, ci fa sentire diversi dalla normalità, più sensibili, più buoni, più disposti verso le persone o le cose che ci stanno intorno, ci fa rinnegare il male, ci fa vedere il mondo in positivo. Se usciamo per una passeggiata e vediamo sull'argine della strada dei ciclamini sbocciati nella notte, ci arrestiamo, li osserviamo con simpatia, li vorremmo cogliere ma ci tratteniamo perché pensiamo: "Perché farli morire prima del tempo?". Ogni forma di cattiveria scompare da noi, diventiamo buoni, romantici. Per me la poesia non ha tempo, è universale, è eterna. Essa è in noi sempre viva, ci segue ovunque. Non c'è un posto specifico o un tempo per "fare poesia": noi possiamo esprimere ciò che sentiamo dentro in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo. Io mi sveglio di notte, osservo il cielo e vedo brillare la luna: qualcosa scatta nel mio animo e mi fa esclamare "Che meraviglia!" Mi alzo la mattina, spalanco la finestra e vedo
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l'oriente dipinto di rosa: i miei occhi sorridono, il mio cuore batte forte, la voce dell'animo mi dice: "Quale pittore ha posto su quel tratto di cielo colori così belli? " Vorrei ridere forte ma mi trattengo: ridono i miei occhi, ride l'animo mio; la mia lingua soltanto osa esclamare: "Che spettacolo! Oggi sarà una giornata bella, bellissima". Antonia Izzi Rufo
DILEMMA Ciò che più ci stupisce è l'armonia delle parole, l'armonia dei suoni che lo strumento docile ripete, il rapporto tra mille proporzioni. Ciò che più ci sgomenta è l'imprevisto del caso avverso che cieco colpisce. Così, incerti tra amore e disamore, tra pace e guerra, erriamo senza posa. Il Cosmo ci dischiude i suoi portenti, il Caos la ferocia del suo volto. Noi portiamo nel cuore l'irrisolto dilemma che ci affanna e ci disvia per tutto il tempo che quaggiù vaghiamo. Elio Andriuoli Napoli
QUASI GELOSIA Casa nel cerchio della campagna intenta all’onda delle stagioni, ascolti la città, la voce trasognata della città, come, bambina, ascoltavo il respiro di mia madre. Se a volte le dormivo vicina, certezza era il corpo dolcissimo che sfioravo e inquietudine, quasi gelosia, quel sonno estraneo che in mistero il volto le addensava. Ada De Judicibus Lisena Da Omaggio a Molfetta - Edizioni La Nuova Mezzina, 2017
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LUIGI DE ROSA E IL SUO ULTIMO LIBRO DI POESIE,
“FUGA DEL TEMPO”
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uigi De Rosa, poeta, scrittore e critico, è nato a Napoli il 20 ottobre 1934 da genitori napoletani ed è poi cresciuto, e ha studiato, in Liguria (Liceo classico di Savona, Università di Genova). Da quando è in pensione vive ed opera a Rapallo (Genova) da dove continua a svolgere intensa attività letteraria. E' stato prima docente, poi Provveditore agli Studi di Trieste, Alessandria, Torino, Savona, Bergamo, e Sovrintendente scolastico regionale della Liguria. Fin da giovane è stato iscritto all'Ordine dei Giornalisti-Elenco Pubblicisti, collaborando con riviste e giornali, sia con articoli culturali e di critica che con racconti e poesie. In ogni provincia o Regione di servizio ha partecipato attivamente all'attività culturale e letteraria. Dalle poesie dell'adolescenza (“La nave di roccia”) pubblicate nel 1952, a cura di Gio-
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vanni Cristini, da una rivista mensile de La Scuola Editrice di Brescia, fino all'ultima silloge, uscita nel 2013/14 col titolo Fuga del tempo (per i tipi della Genesi Editrice di Torino ) sono trascorsi circa sessantadue anni, a scrivere e a “vivere” del fascino della poesia, sia di quella propria che di quella di altri. Il libro “Fuga del tempo”, risulta vincitore del Premio Nazionale di Poesia per l'inedito “con dignità di stampa” “I Murazzi-Città di Torino 2013” con la seguente motivazione da parte della Giurìa : “Nell'uso di un linguaggio tanto cristallino quanto rigoroso per il rispetto della forma e dei contenuti, Luigi De Rosa mette a fuoco il dramma del poeta moderno che ha acquisito la coscienza storica dell'inadeguatezza della parola letteraria a raccontare il movimento e la densità del mondo reale, ma che tuttavia non abdica al suo ruolo di anima sensibile e vigile della storia degli uomini e dei suoi drammatici eventi personali e collettivi.” L'editore, lo scrittore Sandro Gros-Pietro, ne ha scritto una originale Prefazione, inserendosi nella scia che era stata tracciata nel 1990, per la poesia di De Rosa, dal critico letterario Giorgio Bàrberi Squarotti (allora docente di Letteratura Italiana all'Università di Torino) nella sua prefazione alla silloge Il volto di lei durante (Gènesi Editrice). Gros Pietro non solo ribadisce (come Bàrberi) l'ammirazione per la maestrìa del linguaggio di De Rosa, ma aggiunge, originalmente, la definizione del poeta campano-ligure come “ l'autentico métèque della poesia italiana, simile in parallelo a Georges Moustaki che è stato lo “straniero” della canzone”. Per proseguire scrivendo: “La nota ballata del compianto chansonnier si conclude con una terzina di disperata dolcezza che ricorda le atmosfere tipiche della poesia di De Rosa. Canta Moustaki “L'amore durerà / per una breve eternità / finché la morte non verrà”. Tale struggimento per la precarietà dell'eterno è al centro dell'ispirazione del poeta De Rosa, grande cantore dell'amore, della natura, dei viaggi, dell'impegno sociale, della giustizia e della libertà.”
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Fuga del Tempo fa seguito ad altri libri di poesia, tra cui: Risveglio veneziano ed altri versi – con una lettera autografa del poeta Diego Valeri, dell'Università di Padova - Del Bianco Editore, Udine-Pordenone 1969; Il volto di lei durante – prefazione del critico e poeta Giorgio Bàrberi Squarotti, dell'Università di Torino – postfazione di Sandro Gros Pietro – Gènesi Editrice, Torino 1990 e 2005; Approdo in Liguria – prefazione della poetessa Maria Luisa Spaziani, dell'Università di Messina – postfazione di Sandro Gros Pietro, Genesi Editrice, Torino 2006; Lo specchio e la vita – con un Saggio introduttivo di Graziella Corsinovi, dell'Università di Genova – Edizioni Maestrale, Sestri Levante, aprile 2006. Tra la produzione di De Rosa vi sono anche libri di storia o di critica letteraria, di cui i più recenti sono i Saggi monografici La vita e l'opera dell'artista e scrittore Antonio Angelone (Ediz. Accademia, Isernia 2008) e Imperia Tognacci e i suoi poemi in poesia e in prosa (Edizioni Giuseppe Laterza, Bari 2014). Numerose sono le sue note critiche brevi, tra cui quelle su Giuseppe Ungaretti, Giorgio Caproni, Eugenio Montale, Camillo Sbarbaro, Giovanni Descalzo, Umberto Saba, Giovanni Giudici, Antonia Pozzi, e molti altri Autori. Sulla poesia derosana sono usciti saggi e recensioni su varie Riviste letterarie. Tra le più recenti Poesia ( Crocetti Editore, Milano), I fiori del Male (Roma), Vernice (Gènesi, Torino), Nuovo Contrappunto (Genova), Ilfilorosso (Cosenza), Paidèia (Cassino), Nuova Tribuna Letteraria (Padova), Le Muse (Reggio Calabria), Pomezia-Notizie (Pomezia), Sentieri Molisani (Isernia), Il Convivio (Catania), Veia gianca (Sestri Levante)... De Rosa è inserito in numerose Antologie di vari Editori, tra cui Un secolo in un anno Almanacco paredro a cura di Sandro Gros Pietro, Gènesi, Torino 2006; Poesie d'amore per il Terzo Millennio ( a cura di Lia Bronzi, Bastogi Editrice, Foggia 2006) e, tra le più recenti, Personaggi per la storia, a cura di Paolo Borruto e Maria Teresa Liuzzo (A.G.A.R. 2012, Reggio Calabria) nonché La
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Letteratura Italiana Contemporanea della Casa Editrice Helicon, di Arezzo (in cui è presentato criticamente da Corrado Pestelli). E' presente in Internet (ad es. in www. genesi.org, in www.ilgattocertosino.wordpress. com etc.). Nel corso di una vita ha vinto numerosi Premi di Poesia, anche se è stato sempre piuttosto restìo a parteciparvi. Ricordiamo, negli ultimi anni, il Premio Teramo (2005), il Premio Crotone (2005), il Premio Maestrale-Sestri Levante (2006), il Premio Mario Soldati (Torino 2006), il Premio Montecassino-Paidèia 2008, il Premio Città di Pomezia 2010, il Premio Terre di Liguria (Hotel della Baia, Le Grazie di Portovenere, 28 ottobre 2012), il Premio Portus Lunae (Hotel NH, La Spezia, 9 dicembre 2012), il Premio I Murazzi-Torino 2013. Di alcuni altri Premi è membro di Giuria (ad es. di quella del Premio Giovanni DescalzoSestri Levante, presieduta da Massimo Bacigalupo dell'Università di Genova e composta, fra gli altri, da Francesco De Nicola, sempre dell'Università di Genova). E' stato, ed è, membro di alcune Associazioni culturali e letterarie, tra cui Il Cenacolo Orobico di Bergamo, il Centro Pannunzio di Torino, L'Agave di Chiavari (con cui collabora da anni con conferenze e con prose e poesie sui Quaderni di Autori Liguri), Il Gatto certosino di Genova, Il Nuovo Salotto Letterario San Marco di Sestri Levante, etc. Nel corso della sua lunga militanza letteraria ha scritto recensioni, prefazioni, ha tenuto pubbliche presentazioni di autori e libri. Mentre della sua poesia, oltre ai prefatori sopra citati, si è occupata una foltissima schiera di affermati studiosi, critici letterari, poeti e scrittori. Anche “Fuga del tempo” , come i libri che lo avevano preceduto, ha ottenuto i favori della critica. Ne sono uscite numerose, favorevoli recensioni su riviste letterarie. Fra tutte, ne segnaliamo un paio, la prima è quella apparsa sulla rivista Paidèia di Cassino, a firma del suo direttore Francesco De Napoli , che tra l'altro scrive: “Luigi De Rosa, avido di co-
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noscere, di vivere, d'amare – e di essere amato, ci accompagna con la sua voce amichevole e sognante. Costantemente guidato dai sentimenti di umana solidarietà e di pace nell'inseguire con caparbietà “ un barlume di luce/ autentica”, il poeta mostra di possedere un timbro aggraziato ma risoluto e preciso nelle sue domande di fondo, che mirano non certo a districare nodi irrisolvibili, bensì a tradurne poeticamente gli archetipi. Combattuto tra il virgiliano “ruit hora” e l'oraziano “carpe diem”, Luigi De Rosa sembra optare per il “panta rei” di Eraclito, dove il “tutto” comprende e trascende armoniosamente sia l”ora” che il “giorno”: Del resto, come affermò il Filosofo greco, “ non si può discendere due volte nel medesimo fiume”, anzi – pare precisare il poeta, con amabile e terribile sagacia - “noi stessi siamo e non siamo”. Esiste un Logos, un Verbo, che governa l'arcano “divenire” del mondo. Di questo imperscrutabile fluire che sa di immanente eternità – in cui Vita e Morte si saldano alla perfezione -, soltanto alla Poesia è dato avvertire e lambire il Mistero.” Dal canto suo, più recentemente si è occupato di “Fuga del Tempo” il critico letterario Renato Dellepiane, di Genova, già docente di Italiano nei Licei e Preside del Liceo genovese “M. L. King”. Riportiamo la parte iniziale del suo lungo e approfondito intervento critico: “Lunghi anni di frequentazione con la letteratura, ed in particolare con la poesia, in quanto docente di italiano, mi hanno sempre più convinto che la poesia del '900 e di questi primi decenni del 2000 sia caratterizzata da un particolare atteggiamento del poeta di fronte al mondo (la natura, la società, la storia) che gli sta intorno. Questa caratteristica è forse propria del poeta di ogni tempo, ma si è certamente accentuata in quest'epoca un cui il “decadentismo”, liberato ormai di ogni accezione negativa, ha lasciato l'eredità più profonda di una poesia intesa come unica forma possibile di conoscenza nel mistero che ci circonda, nei dubbi che ci assillano, in una natura “foresta di simboli”. Mi pare infatti di poter dire che, da un lato, il poeta “si sente
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vivere”, dall'altro “si vede vivere”, nel senso così chiaramente e drammaticamente espresso da Pirandello nel suo saggio sull' Umorismo. Si pensi, nel primo caso, ai due estremi del senso panico del poeta quale si esprime in D'Annunzio (La pioggia nel pineto) e, meglio ancora, in Ungaretti ( “I fiumi”, in cui il poeta si sente “una docile fibra dell'universo”). Nel secondo al già citato Pirandello o a Gozzano (che, ne L'ipotesi si vede nonno nel 1940, lui vissuto solo fino al 1916) oltre, ovviamente, al correlativo oggettivo di Montale. Questa lunga premessa per dire che ho trovato questi elementi nell'ultima raccolta di Luigi De Rosa ( Fuga del tempo, Gènesi Editrice, Torino 2014) a suggello di un discorso poetico che si svolge da lungo tempo e che mi era capitato di seguire per una semplice curiosità iniziale e poi per vero interesse. Egli era stato infatti uno dei miei primi superiori quando ho iniziato ad insegnare e, in seguito, lo ritrovavo nell'ambito di quei poeti liguri contemporanei verso i quali ho provato sempre grande interesse. Già nelle raccolta “Il volto di lei durante” (1990/2005), ed in particolare nella poesia che le dà il titolo, avevo colto una delicata sensualità in un estatico abbandono che lasciava però il posto ad una consapevolezza di “ore della solitudine”. C'era, insomma, quella capacità di creare immagini e contemporaneamente di inserire elementi meditativi che caratterizza la poesia di De Rosa...” Tra le recensioni più recenti all'opera poetica di Luigi De Rosa spicca quella intitolata Resistere al tempo, il cui autore è il poeta astigiano-genovese Guido Zavanone (già Procuratore generale presso la Corte d'Appello di Genova) poeta pluripremiato, vincitore di Premi Letterari presieduti da Carlo Bo, Mario Sansone, Elio Filippo Accrocca, Manlio Cancogni, Mario Luzi, Luciano Erba, Gianluigi Beccaria. Ha scritto Zavanone a proposito di “Fuga del tempo” di De Rosa : “Fuga del tempo o dal tempo? Tutte e due le cose, direi: “Tranquilli, amici, non c'è fretta / né ansia, tanto andiamo tutti
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/ inevitabilmente / chi prima, chi dopo, verso la foce...”. E' l'incipit della poesia che apre, con questa rappresentazione dolente del trascorrere inesorabile del tempo e della vita, la nuova raccolta poetica Fuga del tempo di Luigi De Rosa. Eppure la clausola suggestivamente contrasta con l'inizio, quando leggiamo che il fiume tempo, il fiume vita “ si fonderà con un mare aperto / e profondo / senza più il limite, laggiù / di un orizzonte...” E i due motivi si intrecciano lungo tutta la raccolta. Il primo si raccorda con l'altro tema, quello della vecchiaia (“ La signora Senectus mi ha ingannato / rendendomi, con gli anni, suo prigioniero”) l'altro ha a che fare con il sogno e l'aspirazione a un destino diverso (“Ma in primavera, cosparsi di fiori, / tutti gli amici già scomparsi / rinasceranno a nuova vita” e, altrove, “L'anima vorrebbe fuggire e inseguire/ quegli stormi impazziti di uccelli / che si tuffano, con fiochi gridi, / nell' infinito azzurro”. Ma anche in altro modo si può resistere a quel tempo “ sì espedito e snello / che per correr parea che fosse nato”, come scrive l'Ariosto. Con i ricordi, intanto, che ci tengono ancorati alla vita e spesso sono “ piccoli brillanti / la cui luce è rimasta soffocata / nella nebbia degli anni; e con la poesia: non quella asservita o predicatoria, ma quella che interviene sulla grande scena del mondo, che non si limita a contemplare ciò che succede, ma, di fronte ai mali della vita e della storia, dice la sua parola. Anche se, come scrive Sandro Gros Pietro nella sua acuta e partecipe prefazione, “De Rosa è consapevole della inadeguatezza del linguaggio a raccontare la realtà”. Un altro tema caro al poeta è quello del paesaggio, vissuto intensamente, tale “da far battere il cuore” e donare “un'assurda felicità”. Ma questo paesaggio naturale si tramuta in paesaggio d'anima, e il poeta lo enuncia espressamente : “ Assomiglia al mio cuore questa valle”. E vi è, anche, un De Rosa metafisico, come quando, dinanzi al “caleidoscopio infinito /
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della Natura “ il poeta ci dice : “Penso / al perché di tutto questo, / ed a me, a noi tutti, / agli infiniti universi...” o si chiede cos'è il presente e lo rappresenta splendidamente“ come un funambolo / che èsita / sopra una corda tesa”: o, ancora, come Giobbe, “contesta” il Creatore per il suo silenzio e perché non sembra distinguere tra il giusto e l'empio se“ la falce affilata del tempo” abbatte entrambi allo stesso modo. E tuttavia questa poesia non si chiude alla speranza: “Ci occorre un barlume di luce autentica / per poter uscire da questo tunnel”, “ un ricordo appagante, un sogno che insperatamente / si avvera”. Ed è con questi versi che mi piace concludere il mio incontro con un poeta che, anche per la sua non comune musicalità del canto e per la ricchezza e originalità delle immagini, sa coinvolgere e commuovere il lettore.” Dalla stessa silloge “Fuga del Tempo”, abbiamo scelto cinque poesie: Verso la foce, Giardino ligure dopo la pioggia, Cos'è una rosa?, Nuova canzone dell'azzurro, Fuga del tempo. Verso la foce “Tranquilli, amici, non c'è fretta, né ansia, tanto andiamo tutti, inevitabilmente, chi prima, chi dopo, verso la foce. Il fiume della vita può fluire a volte più pesantemente, e per troppe dolorose sventure si può anche intorbidare. Ma alla fine tornerà trasparente come filo gelato di sorgente quando si fonderà con un mare aperto e profondo, senza più il limite, laggiù, di un orizzonte.” Giardino ligure dopo la pioggia “Anche gli steli più trasparenti godono, tremando, della frescura
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che ha intriso la terra, moscerini impazziti danzano a mezz'aria sullo sfondo celeste del cielo che si fonde, laggiù, col mare, chiocciole misteriose spuntano su muri gocciolanti, rorido muschio, lombrichi, foglie di fico a marcire al suolo dopo i giorni dell'opulenza, fiori dalle tinte miracolose, inconsciamente felici di esistere... E io, alla quotidiana tastiera del computer tra un mare di fogli e di libri, rimango consciamente affascinato, ancora e sempre, ad ammirare questo caleidoscopio interminabile della Natura. E penso al perché di tutto questo, all'Umanità sempre in guerra, alla lotta perenne e al trionfo apparente del Male, al mistero degli infiniti Universi, alla pace eterna dell'anima.” Cos'è una rosa? (A Giorgio Caproni, 1912-1990) Caproni, Poeta amico, anch'io, nel mio piccolo, in una o l'altra sera, mi addormenterò per sempre dopo avere scritto in versi e in prosa per una vita intera senza essere mai “riuscito a dire cos'è, nella sua essenza, una rosa”. E se l'uomo non può conoscere e capire l'essenza di una piccola cosa vivente, precaria, come può capire la Vita, o, addirittura, il Dio che sembra assente ?” Nuova Canzone dell'Azzurro Sembra che il mondo sia fuori di testa, e soffra di antichi e nuovi mali
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o comunque, imperterrito, vada per la sua strada, senza ascoltare poeti ed artisti ( coi quali, al massimo, ci si “diverte”). Dopo decenni di telegiornali ho ancor più bisogno di una pausa d'azzurro, di respirare aria normale e di ascoltare musica celestiale, di fare indigestione di turchino e di glauco, di zaffìri e lapislàzzuli, di volare a perdifiato in un cielo banalmente ceruleo, di sprofondare in un crepuscolo chiazzato di indaco, in un mare turchese, o cangiante in tutti i toni di blu. Basta con le troppe falsità mediali, lasciatemi ogni tanto a sognare in giardino tra agapanthos e petùnie, convòlvoli e fiordalisi, primule e spadoni, anèmoni e giacinti, borragine e rosmarino !” Fuga del Tempo E può arrivare il giorno del rimpianto per frammenti di vita autentica perduti a miliardi in illusioni inconsistenti. Chi ci restituisce i nostri anni migliori, e i diamanti, e le perle che abbiamo gettato nel vortice banale del giorno dopo giorno ? La cultura non rende felici, la sensibilità fa soffrire. Forse il bulbo della nostra vita è rimasto lo stesso, ma i delicati fiori, seccati sui gambi, sono innumerevoli. Potremmo disegnare un'intera mappa degli errori da evitare per non svenarsi in cento melodìe, per non regalarsi in cambio di una avaro, freddo sorriso. Ma questa mappa sarebbe sempre inutile perché continueremmo ad amare la vita per continuare a viverla.” n.s.p.
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Lo scrittore e poeta italo-americano, direttore de La Follia di New York e de Il Ponte Italo-Americano, è deceduto a Verona, N. J. (U.S.A.) il 2 ottobre 2019.
ORAZIO TANELLI I CANTI D'OLTRE OCEANO di Antonio Crecchia
C
ON la pubblicazione dei CANTI D'OLTRE OCEANO, Orazio Tanelli ci offre l'opportunità di fare, sulla sua produzione poetica, una riflessione matura e aggiornata, anche se non definitiva, visto che dal volume sono state escluse le liriche scritte successivamente alla pubblicazione dei Canti del Sud (1987). Il bel volume, con caratteristiche tipografiche davvero ragguardevoli, di 261 pagine, indice compreso, debitamente curato da Vincenzo Rossi per le Edizioni de Il Ponte, raccoglie tre sillogi precedentemente pubblicate dal Tanelli: Canti dell'esule; Canti del ri-
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torno; Canti del Sud. C'è materiale sufficiente per seguire l'evoluzione spirituale, psicologica, artistica e ideologica del poeta italo-americano, la cui fama è ampiamente diffusa sulle opposte sponde dell'Oceano che divide il Vecchio dal Nuovo mondo. La polarizzazione della sua condizione affettiva, ma anche culturale ed ideologica, è rivolta al Vecchio mondo, culla della civiltà; ma è un mondo malato, lacerato, confuso, senza pace, che vive eternamente sul piede di guerra, che inghiotte i suoi figli o li abbandona e disperde su altre spiagge. Questa prospettiva storica è ben presente al Tanelli che, ancorato da oltre un trentennio al Nuovo continente, segue attentamente gli avvenimenti che caratterizzano il processo storico del Vecchio continente. Possiamo così affermare che egli si trova a vivere una condizione esistenziale che lo pone a testimone molto obbiettivo di una realtà dai confini enormemente dilatati, condensati nella sua vi-
Domenico Defelice e Orazio Tanelli, Pomezia, 18 luglio 1985.
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sione cosmopolita della cultura, al pari di Dante, che esule, vive con il suo spirito inquieto e ardente dentro le mura, della sua città natale, Firenze, mentre la sua azione umana si svolge forzatamente altrove, con tutte le implicazioni di ordine affettivo e pratico. Condizione disagevole, è vero, quella dell' esule, ma nessuno meglio di lui può convogliare in sé le istanze più vive e pressanti del mondo in cui è vissuto e di quello in cui si è dovuto adattare a vivere. E' il confronto tra i due panorami geografici e antropologici che genera, in chi ha cuore e intelligenza, l'immensa ricchezza della vita, la più bella, la più nobile: la parola poetica. Dentro questa oasi di riflessione, pensiero e arte, l'esule, rimasto ancorato alle radici affettive della terra natia, viaggia dentro la sfera onirica, che lo riporta con la costanza delle pagine di un diario intimo il cui lato più assorbente ripropone pensieri e stati d'animo, amarezze e delusioni, ricordi e peregrinazioni nei difficili meandri della vita. Non è fatica di breve durata trascorrere con l'attenzione che meritano le pagine dei "Canti d'oltre oceano". Qui bisogna fare i conti anche con le <<esaurienti Prefazioni>> di Vincenzo Rossi, questo vigoroso talento della cultura contemporanea che per primo, e più di ogni altro, ha intuito e avvalorato, in Italia, la dimensione creativa e speculativa dell'esule Tanelli. Questi due ingegni, pur restando distinti nella specificità dei caratteri costitutivi delle due personalità, restano accomunati da quell'ideale che essi chiamano <<fedeltà alla terra natia>> e Carmine Manzi definisce <<spiritualità quasi religiosa alle radici>>. Su questo ideale, su opposte sponde, ma tenendosi spiritualmente per mano, Rossi e Tanelli hanno innalzato, ciascuno per proprio conto, l'edificio della loro "verità", del loro "credo", come scaturigini della loro sensibilità e testimonianza di una forte vocazione per l'arte, radicata, viva ed originale in entrambi, da porli al riparo da qualsiasi tentazione di noncuranza o di oblio da parte del pubblico e della critica.
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Due itinerari paralleli, stimolati e incalzati dalla semplicità e resistenza all'usura del tempo di un mondo a cui devono poco o nulla, ma che li ha ammaliati e storditi con il fascino delle sue bellezze naturali, con i suoi richiami di affetti e di memorie, con l'immensa riserva delle sue <<energie morali ed umane>>. In chi legge per intero i Canti d'oltre oceano, questa felice simbiosi umana e letteraria (Rossi-Tanelli; prefazioni-poesie) produce un effetto edificante. Al calore lirico dei testi poetici fanno eco le sapienti intuizioni estetiche di Rossi nello sforzo ben riuscito di fissare in modo definitivo i caratteri di un talento malato di nostalgia e di amore irriducibile per la propria terra natia, e la validità di un percorso poetico che quella nostalgia e quell'amore hanno ispirato. A sostanziare la genuinità e la valenza poetica dei CANTI entrano in gioco alcune componenti che vale la pena di elencare: - la condizione dell'esule come "corpus alienum" nella terra di immigrazione; - la consapevolezza che il suo <<reame metafisico>>, il Molise, è definitivamente perduto alle ragioni della sua esistenza terrena; - la realtà del quotidiano in cui convivono paradossali dualismi, sconosciuti nella sua terra d'origine, come la tolleranza e l'intolleranza; lo spirito puritano e la depravazione; la franchezza e la finzione; la grande finanza e la più nera miseria; la libertà e la schiavitù... - l'anima elegiaca dell'esule, che, dalla roccia dei ricordi, spazia, alata chimera, sopra <<i fantasmi antichi dell'infanzia>>, andati distrutti con l'avvento dell'età della giovinezza; - l'attrazione per il mondo contadino in cui probabilmente vede l'età dell'oro in rapporto alla spiritualità dell'uomo. La poesia del Tanelli si regge dunque su uno stridente contrasto di ordine temporale, spaziale e culturale, oltre che ideologico. Al presente, inaccettabile, egli contrappone il tempo memoriale dell'infanzia felice; alla sterminatezza degli States, la determinatezza paradisiaca del suo Molise; alla civiltà delle conquiste spaziali, dei grattacieli e delle
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<<donne con parrucche e rossetto>>, le <<zolle indurite del nostro Molise / terra di rovi e di steppe, / terra di sole e di amore, / terra che nascere ti vide / e non ti vide morire>>, <<terra benedetta e pia>>, <<dove i galli ausonici ancora / cantano al risveglio del sole>>; all'esaltazione <<dell'odio e della demenza / della schiavitù e della guerra civile>>, alla cultura della morte impersonata dal Ku Klux Klan, dalla sedia elettrica e dalla camera a gas; alla cultura che pone sullo stesso piano <<il demente e il genio / l'assassino e il santo>>, fanno riscontro <<i vaghi cimeli, custoditi gelosamente, della mia eredità italica>> che gli permettono di proseguire <<verso l'eternità dei sogni e delle chimere>>. L'ideologia tanellina si misura con la sua dichiarata appartenenza al mondo e alla cultura degli immigrati, dei senza patria, offesi, derisi <<per il loro incomprensibile linguaggio>>, maltrattati per il loro rifiuto di totale integrazione e spesso, ingiustamente, additati come <<mafiosi>>. Ma in questa sfera di preferenze sociali e culturali entrano anche coloro che, guardati con sospetto dal potere, lavorano in uno stato di perenne incomprensione e sfruttamento, come i negri e gli immigrati di altre nazionalità. Questa ideologia è palese in molte pagine della sua opera poetica; in alcune, l'urgenza di scandire la storia degli emigrati e degli esuli per volontà propria, <<... storia senza luce / questa che ci esclude / dall'apoteosi eroica del sole / che tramonta su nitide pagine / del lavoro avaro / elargito con scarsa ricompensa>>, trasfigura la versificazione in una spregiudicata analisi delle contraddizioni di cui si compone l'edificio socio-culturale degli Stati Uniti d'America. La dissonanza tanelliana, la polemica aspra e palesemente rancorosa contro una nazione dove <<il suicida si droga / per non sentire il dolore della morte>>, dove <<si rispettano solo / i diritti dei ricchi / e si calpestano quelli dei poveri>>, dove <<Cristo è messo in croce ogni giorno / fra i grattacieli di New York>>, hanno radici storiche e culturali in-
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sieme. E' probabile che Tanelli abbia maturato in sé prima ancora di aver varcato l'oceano l'ideologia del rifiuto delle società ricche ed opulenti, che progrediscono in assonanza <<con false dottrine di libertà>>, e i Canti trovano un terreno fertile nella condizione dell'esule che non può e non deve riconoscersi nei principi di quelle <<false dottrine>>. Ci sono, a monte, le lezioni di Salvemini, Gobetti, Gramsci, Silone, Jovine, Luther King; c'è la pletora dei martiri, come Sacco, Vanzetti, Barto, Tresca, e tanti altri che, cercando lavoro, libertà e giustizia nel <<Grande Paese>>, hanno trovato la morte o il carcere per aver manifestato apertamente il loro credo politico. Lo spirito inquieto e ribelle che si aggira tra i grattacieli di New York, si placa nella visione onirica della terra natia e si dispone al canto elegiaco in cui domina la <<pietas>> per il mondo agreste, bucolico, fiabesco, cosparso di torri e campanili, campi verdeggianti, prati, vigneti ed uliveti, e i cimiteri ravvivano memorie, affetti e illusioni, disponendo l'animo alla sublimazione delle cose semplici e naturali. Nascono i Canti del Sud. Qui la poesia emerge in tutta la sua accattivante limpidezza dall'animo sereno e nello stesso tempo commosso del Tanelli per il <<ritorno fisico>> alla sua terra d'origine. Se la gioia esplode per visione delle <<acque azzurre dell'Occhito>>, su cui <<La canzone del sole / sparge note di musica solenne>>, è una gioia di breve durata, perché il poeta si sente come <<la rondine sul filo / che sta per intonare / il canto dell'addio>>. Pure, <<l'ombra degli olmi nella fratta / non limitano la mia libertà>> nonostante <<che il sole del mio pensiero / non va oltre la siepe / del mio paese>>. Altro spettacolo offre la sua terra all'esule che ha momentaneamente scacciato dalla sua mente le ombre tetre dei grattacieli di New York: <<Ogni volta che ritorno / alla mia terra / trovo garofani fioriti / al tuo balcone>> e <<raccolto il grano / i nostri contadini / bruciano le stoppie / con
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fiamme che dilatano il firmamento>>. Ma i Canti del Sud vanno visti anche da una angolazione storico-sociale. Sempre al corrente delle piaghe secolari che caratterizzano la storia del Meridione d'Italia, come l' arretratezza culturale delle masse, la disoccupazione, l'emigrazione, la scarsa produttività di tante terre, il disagio economico diffuso soprattutto nei piccoli centri agricoli, lo sfruttamento a cui è continuamente sottoposto l'esercito degli emigranti nelle regioni industrializzate del Nord, il Tanelli fa propria la problematica meridionale e allarga il suo orizzonte d'indagine agli aspetti più emblematici del Sud, dove <<La desolazione senza tempo e senza spazio / ha dissanguato il mare plumbeo / ha scolorito il cielo turchino. / Conchiglie fossilizzate / contengono il mistero / d'un letargo atavico.>> Tra i Canti dell'esule e i Canti del Sud sono collocati i Canti del ritorno. Questi ultimi rappresentano la sublimazione di quell'oasi di incontaminata bellezza che è il Molise. Macchia Valfortore, il lago di Occhito, i monti del Matese, la ridente costa che si specchia nel mare Adriatico, fanno da spettatori attenti e silenziosi alle peregrinazioni reali e memoriali del poeta che incontra il Grande Spirito e ad esso si affida, per entrare in contatto con l'anima pura della sua terra, per assaporare <<l'ebbrezza del firmamento / nel lontano orizzonte che confonde le nubi / con l'azzurro del mare.>> Due inediti del <<poeta ribelle / che ha cercato utopici miti>> oltre oceano, chiudono l'interessante raccolta: "A Loredana Rassmann" e "Lettera dall'America a Rosalba Masone Beltrame". Questa "lettera", pubblicata ultimamente in Italia dalla rivista "Fiorisce un cenacolo" a cura di Carmine Manzi, è stata da me inserita nella monografia dedicata alla "poetessa ellenica". Una "lettera" che è un inno alla libertà, sotto qualunque forma essa si presenti, del corpo e dello spirito; è un richiamo alla memoria, alla fantasia, ai ricordi più belli e puri dell'infanzia; è un volo pindarico in cui le ali della lirica hanno la leggerezza e la vibrante inten-
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sità delle ali di una libellula uscita alla luce dopo una lunga e sofferta metamorfosi. E l' omaggio alla poetessa "ellenica" si trasforma in canto di amore filiale alle proprie radici - all'ausonica terra, il Molise - rivisitate col cuore dolorante del poeta costretto all'esilio fisico, morale e psicologico, ma non affettivo. Gli affetti sono il lungo cono d'ombra che il poeta si trascina dietro con rimpianto e nostalgia di una luce lontana che quell'ombra ha generato, ed è in quella luce - tersa ed armoniosa - che illumina "la vigna della Ramalda", reame metafisico dei suoi sogni (sono parole dell'esule) l'anima del poeta cerca ancora disperatamente di trarre altra linfa originaria, quasi fosse la ragione unica della sua vita, per affermare la forza dei suoi sentimenti, il tenace attaccamento ad una terra capace sì di "generare", ma incapace di coltivare e conservare nel suo seno, con il rispetto, la dignità e gli onori meritati, uno dei suoi figli migliori. Antonio Crecchia ORAZIO TANELLI - I CANTI D'OLTRE OCEANO - Edizione IL PONTE ITALOAMERICANO, New York, 1994.
L’OTTUSA VITA Eppure trovo migliore una notte senza buio contro quella di parole insufficienti piene di verbi difettivi. E se la linea tesa che non vibra fosse per l’ottusa vita di ogni giorno, per l’incapacità di sapere coltivare il giardino segreto, facendo poca attenzione ai fusi di vetro aguzzi fissati come spine nella carne? Tutti abbiamo processioni d’inquietudini archiviate o da rubricare ancora; tuttavia non è l’inarrestabile precipitare a fare la bocca come l’amaro di cicoria, bensì l’afasico sentire degli errori che rendono di legno vene e cuore. Salvatore D’Ambrosio Caserta
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A MONTEVERDI IVAN FISCHER OFFRE UN ORFEO DIONISIACO TUTTO UNGHERESE di Ilia Pedrina
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'approdo è all'Olimpico di Vicenza, perché Iván Fischer qui è di casa e, come ha imparato dalla sua gente, dimostra che la musica coinvolge, va portata nelle strade e nelle piazze, nelle scuole, negli ospedali e negli istituti per quelli che hanno difficoltà a muoversi: con i suoi giovani musici, competenti e generosi, tra ghirlande di fiori e arie che toccano il cuore ha costruito percorsi di lirica d'altissimo livello da condividere per veicolare memorie care e gioia, come è compito primo della musica e dell'amore. Così chiede Orfeo nel mito, così invita la favola di Monteverdi intorno a lui, nel rapporto tra Natura, Amore e Morte. La favola d'Orfeo di Monteverdi è stata rappresentata per la prima volta a Mantova nel corso del Carnevale 1607 sotto i favorevoli auspici del serenissimo Duca, assai benigno protettore degli Accademici degl'Invaghiti della Città. Il libretto è di Alessandro Striggio e Iván Fischer, personalità importantissima a livello internazionale nel panorama degli interpreti, direttori d'orchestra e compositori del nostro tempo, produce questo capolavoro attraverso la sua Opera Company,
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Budapest Festival Orchestra, Müpa Budapest, la Vicenza Opera Festival e il Grand Théâtre di Ginevra, ne è regista, direttore e guida Coro e corpo di ballo della Iván Fischer Opera Company, che ha fondato nel 1983. Sostiene Iván Fischer: “L'Orfeo di Monteverdi non è solo una delle più belle opere che siano mai state scritte, ma ha anche molte attinenze con il Teatro Olimpico di Vicenza. Il Teatro, infatti, venne edificato nel 1585, pochi anni prima che l'Orfeo fosse rappresentato per la prima volta a Mantova. L'opera perfetta nel teatro perfetto. Di quest'opera mi ha sempre affascinato il finale. In origine (nel libretto e nelle fonti letterarie classiche greche e romane) Orfeo fa ritorno dagli inferi e viene ucciso da un gruppo di donne malvagie e invasate che sono adirate con lui. Perché? Perché Orfeo non vuole più avere a che fare con il genere femminile dopo aver perso per due volte la sua 'perfetta' Euridice. Sentendosi insultate, le pazze seguaci di Dioniso lo fanno a pezzi durante un rito orgiastico. Solitamente quest'opera è stata rappresentata con un altro finale, composto da Monteverdi pochi anni dopo la prima rappresentazione, dove Orfeo non viene ucciso ma viene portato in cielo da Apollo: un più convenzionale lieto fine. Sono sempre stato attratto dal finale dionisiaco e così ho composto le musiche mancanti, cercando di imitare lo stile di Monteverdi: una 'world premiere' basata sul concetto originale dell'opera a più di 400 anni di distanza.” (I. Fischer, dal programma di Vicenza Opera Festival 2019, in rete). Ad ulteriore precisazione di questa prospettiva il compositore, nel libretto di sala aggiunge: “Il finale di Striggio contiene l'essenza della festa dionisiaca che mette insieme la tragedia con la rappresentazione satirica che ne segue. Ma questo binomio si è dimostrato inappropriato per gli spettatori del XVII secolo. Così Monteverdi fu costretto a mettere da parte il progetto che prevedeva di rappresentare Orfeo come un simbolo dionisiaco. Così il suo Orfeo fu privato dell'aspetto tragico...” (I. Fischer, La favola d'Orfeo, cit. pag 25)
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L'Opera è costituita da un Prologo e da Cinque Atti ed il denominatore comune è legato alla Musica, alle sue tensioni d'amore e di abbandono tra natura, vitalità del canto e bellezza delle figure umane e dei luoghi: la Tracia con i suoi territori selvaggi fa da sfondo, con ninfe e pastori, all'amore tra i due giovani, Orfeo ed Euridice, insieme anche in un canto evocativo a lode di Apollo. Basta che lei si allontani un poco e si profilano le tinte fosche della tragedia: Silvia, l'amica, narra straziata la fine di Euridice, morsa alla caviglia da un serpente. Orfeo disperato incanterà il dio degli Inferi, che si lascerà sopraffare da memorie d'amore e porrà la sua irrinunciabile condizione: fidarsi della legge, dell'ordine impartito, controllare il desiderio e non voltarsi a guardare la sua giovane amata, già nel barchino che solca Acheronte (bellissimi i giovani ballerini che dispongono strati di lamine argentate sul palcoscenico a simulare le acque d'oltretomba, sulle quali poi il cupo Plutone guiderà la sua imbarcazione. Orfeo è teso, debole, forse miseramente egotista, tutto preso dalla sua musica, si volta per guardare Euridice e la perderà per la seconda volta, per sempre. Così inveirà contro le donne in generale perché solo lei meritava il suo amore. Il regista allora compone la musica per il finale dionisiaco, che considero decisamente 'fischer-monteverdiano' e sulla scena dell'Olimpico i brandelli del corpo di Orfeo, lacerato dalle Baccanti furiose e vendicative, sarà offerto nella metafora della sua cetra trascinata a terra, su drappo rosso, evocando l'inutilità d'ogni altro magico tocco. Ancora dalla sua stessa viva voce, sempre in rete, Iván Fischer espone con chiarezza il suo pensiero su Orfeo, nel progettare la nuova conclusione dell'opera: “Orfeo is not a hero: we love him, but he is a loser. I think he is a prototype of an artist, who as feelings, emotions but not much self-discipline...” (I. Fischer, fonte Internet Youtube) Lo abbiamo colto dal vivo, nella qualità performativa della direzione d'orchestra, nella concertazione all'harmonium, nella guida del Coro e nei sorprendenti risultati scenici sullo
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sfondo palladiano, reso vivo anche da giochi di luce che hanno assecondato tutto lo snodarsi dell'Opera. Ringrazio gli sponsor che, nella vitalità di un percorso legato alla lirica e alle sue preziose radici tutte italiane, hanno affiancato l'eccezionale evento, rendendolo possibile: la Società del Quartetto di Vicenza, attiva in proposte concertistiche fin dal 1901, grazie al suo Direttore Artistico Piergiorgio Meneghini, l'Amministrazione Comunale con il Sindaco Francesco Rucco, il generoso contributo di Caroline e Paolo Marzotto e la prestigiosa Fondazione International Kulturstiftung fondata nel 1995 da Erich Fischer. Ilia Pedrina
ECHI Questa notte la casa è piena d'echi d'altre vite che in lei sono vissute. Echi di voci, echi di pensieri, parole di letizia e di tormento, e risa e pianti che un soffio di vento ha poi spazzato via. Sparirono da tempo quelle vite, ma a volte ad uno stridere di porte s'avverte una presenza, a una finestra che geme, a un trepestio che accorre lieve, cui sommesso risponde un altro suono. Anime si riaffacciano da un viaggio compiuto sulle strade della morte. Ed è come la voce del passato che torna a far riemergere stagioni dimenticate e immagini riaccende il cui senso ci sfugge. Afono giunge alle orecchie protese quel richiamo che si fa sempre più fragile e vano, legato da un'oscura nostalgia. Per chi l'ascolta sopra la sua via, a udirlo amara la tristezza punge, nel ricordare tutto ciò che ha amato. Elio Andriuoli Napoli
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BASILISSE Appunti e spunti per una letteratura di viaggio di Giuseppe Leone ON una nota dell’editore nella prima aletta di copertina, che spiega come l’impulso nato da una rosa portata sulla tomba di Giovanni Passannante, a Salvia di Lucania, abbia prodotto il presente libro; e di Lia Giudici, a seguire, che informa il lettore come tutto sia nato da una visione a Milano del film Passannante di Ulderico Pesce, Rita Bonfiglio, già autrice di Barocco agricolo. Poemetto colorico fulgurale per pendoli e voci a 4 mani con Francesca Limoli; Canto critico con l’artista Roberta Ferrara, stampa d’arte poesia grafica, Beatrix vt edizione Bologna ‘95; Lieve enciclopedia delle 72, opera in prosa sui 72 nomi femminili del poema di Francesca Limoli, ha pubblicato nel febbraio 2019, per i tipi della Carthago Edizioni di Catania, Basilisse. Appunti di viaggio. Un vo-
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lume, nel quale la scrittrice raccoglie appunti su un itinerario che tre donne, lei compresa, compiono sui luoghi sacri dell’antichità italica: un periplo, a sua detta, che le porterà scendendo a sud, sud est, e risalendo a nord, nord ovest (9) - sui “Sanniti inghiottiti dalla magna Grecia, dai latini, dagli svevi, dai papi, fino al giogo borbonico, a Salvia di Lucania” (12), dove “le tre uccelle” deporranno una rosa sulla tomba di Giovanni Passannante, il giovane contadino che nel 1878 attentò alla vita di Re Umberto I, colpendolo con un piccolo coltellino mentre in compagnia della moglie percorre le strade di una Napoli festante accorsa a salutare il passaggio della coppia reale. È un viaggio che si compie in “tre giorni, più altri tre, d’inaspettate dispersioni” (13), con partenza da Salerno, dove Rita, Lia e Gina, “convenute da tre punti geografici … raccolte dalla dispersione delle vacanze” (14), si concederanno una breve pausa prima di passare la soglia basilisca. Quanto basta per rendere omaggio al ricordo di “Trotula o Trocta de Ruggero, medico e prima ginecologa della storia, Magistra della scuola salernitana. vissuta intorno al 1050” (126). Quindi, di corsa verso la Basilicata, terra di luce, nella quale l’autrice vi entra passando per il ventre di parole orientali come basilikòs, da cui basileus, l’imperatore di Bisanzio, e basilisse, regine auree e icone della vergine in trono: la Madonna bruna di Viggiano, da Carlo Levi ricordata come una Persefone contadina, (28), e la Madonna della Bruna, altra basilissa di Matera. E non solo, anche di etimi relativi ai due nomi della regione, entrambi accomunati nel richiamare mitografie animali: il lupo, sacro agli antichi lucani, indoeuropei di ceppo sannitico (15); e in epoca classica, il basilisco, un serpentello verde, velenoso, col tempo divenuto drago volante (19); e di analogie e metafore: quali: “il vago senso di inerenza” che la scrittrice coglie, nella chiesa appena sotto casa di Lia a Lecco, “tra un affresco di Giovanni evangelista parlante a un corvo” (41) e le tre “uccelle” e Giovanni Passannan-
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te, sulla cui tomba andavano a portare una rosa (42); e Aliano osso di terra, un rimando a Gagliano “divenuto il paese di Levi, come se qui avesse avuto una seconda nascita” (153). Il tutto in un sapiente intreccio di “nomi antichi, che vengono a posarsi sui visi degli uomini, e parole (Volsci, Sanniti), che salgono alla mente” (141) della scrittrice, attraverso un andirivieni di richiami mitologici e suggestioni artistico-letterarie, che danno luogo a “una lingua, che, come velo ventoso – per dirla ancora con l’editore – riannoda luoghi, incontri, storie, sogni”, in una circolarità unificatrice. Eccola tra i Sassi di Matera, che subito pone a pietra di paragone con altri sassi, come le piramidi o le cattedrali, anch’esse partiture di pietra (77) come Notre Dame de Chartres al centro d’Europa (76) e gli immensi dolmen o i menhir, semplicemente pietra lunga in antico bretone (78); eccola notare, che “dai nadir rupestri, agli apici bianchi, i Sassi quella sera (le) sembravano innalzarsi come cataste astronomiche, cumuli di quarzi brillanti (68), fino a comporre “un’immagine di petali d’ arie che si aprono nell’addentrarsi in un fiordo italico, fatto di speroni che sprofondano nelle ossa aspre e dolci delle terre. Ossa che sognano e reggono, ossa d’Atlante femmina – penso – e culla, a tutti, il Mediterraneo” (10). Un’aspirazione, questa, “verso un sapere dell’anima” nel segno di Maria Zambrano che la Bonfiglio non nasconde affatto, anzi, ne fa pure il suo manifesto, ponendo a esergo del suo libro proprio una nota della filosofa spagnola: “Se la vita aspira a farsi terrena, chiede ugualmente di rendersi intellegibile e non ha altra dimora se non la trasparenza; è intimità che aspira a farsi visibile, solitudine che vuole essere comunità nella luce” (7). Quello che colpisce, allora, sfogliando le 208 pagine di questo volume, impreziosito in copertina da una foto di Vincenzo Stuppia, che ritrae la scrittrice scalza nell’acqua dell’Alcantara, in veste bianca e cappellino di paglia; e Rose, un disegno di Camillo Pennisi, è come l’intera trama di appunti risponda a un’unica urgenza creativa sempre oscil-
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lante tra filosofali riverberi e bagliori poetici. Appunti di viaggio, sottotitola l’autrice queste sue Basilisse, che, però, forse solo appunti non sono, sono qualcosa d’altro e di più, come testimoniano anche le note di approfondimento e la discreta bibliografia che ne fissano la chiusura. Sono Appunti, che si estendono fra l’ evento reale del viaggio e “l’immagine vitale di sé nei segreti della memoria”, che, se non paiono ancora comporsi nella forma romanzo, si rivelano almeno come un sano esercizio di letteratura di viaggio, dal cui filo narrativo possono sempre scaturire intrecci dal sapore più marcatamente letterario e romanzesco. Non sarebbe pensabile altrimenti che una rosa portata come una carezza a Passannante e alla sua memoria, diventi al tempo stesso un sonoro schiaffo ai Savoia, tracotanti, per avere inflitto una condanna così barbara e crudele, non solo all’anarchico attentatore, lasciato marcire per il resto della sua vita, prima, “in una cella alta meno di un uomo e al di sotto del livello del mare” (97), poi, morire in manicomio e decapitato dopo la morte; e alla madre e alla sorella, perseguitate e fatte morire pur esse in manicomio; ma all’intero paese di Salvia, a cui è stato tolto persino il nome, mutandolo in Savoia di Lucania. Per questa via, non si poteva davvero immaginare un libro così bello, così vivo, così gioioso, sulla Basilicata e Matera, per di più in un anno in cui l’Unione europea ha pensato bene di esporle all’ammirazione del mondo, quanto Basilisse, frutto di una sororale agape, postata, non solo dalle “tre uccelle di passo”, ma da una quarta, come Matera, anch’essa uccella posata (82) raggiunta fin lassù nella sua “solitudine” per farla diventare “comunità nella luce”. Un riconoscimento, un attestato per Matera notturna e diurna, allora, questo libro; un’image - si direbbe - che riguarda la sua realtà umana, storica, civile e letteraria, quale s’è manifestata, nel suo quadro d’insieme, a queste civilissime e colte visitatrici. E così questo libro, che sarebbe parso, a una
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prima lettura, anche celebrativo delle bellezze lucane, diviene presto un testo di squisita ispirazione comparatistica. Un’image, insomma, quale Rita Bonfiglio, con estrema e sublime sintesi, ha fatto apparire Matera definendola sonnambula città delle scale (156). Giuseppe Leone Rita Bonfiglio: Basilisse. Appunti di viaggio, Carthago Edizioni Catania - € 18.00, Pp. 208.
SKOPELOS Bianco un paese nel ricordo e un'isola smeraldina. Salivano le strade sopra i fianchi di un colle erto e la festa di fiorite finestre e il gaio squillo d'ogni colore dava gioia. Una chiesa sulla vetta ci accolse, con le icone d'argento e i ceri palpitanti. Il mare accendeva lontano le sue vele ed i suoi scogli candidi di spuma. Nel porto erano navi in calma attesa.
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Nel pomeriggio faccio un pisolino, a volte lungo assai, a volte breve, e poi con nuove forze mi avvicino al mio computer o al mio tavolino per lavorare un po’, prima di cena e anche poi, fino all’una del mattino. Così scrivevo un anno fa, oggi cammino quasi diritta, perché ora la schiena fa meno male. Arnica santa, cerotto divino! Mariagina Bonciani Milano
Una voce chiamò: «Adonìs!» e il tempo parve scorrere indietro di millenni, verso la luce di dorate aurore. Echi infiniti aveva quella voce e ci portava un vento di pensieri che salivano lievi alla memoria. Sopra l'azzurro tremito dell'acque incendiava un vivo sole il cielo. Elio Andriuoli Napoli
LA MIA GIORNATA Curva la schiena mi alzo, e lento il passo, sognando i giorni della primavera: così al mattino mi ritrovo, e passo le prime ore, ahimè, in tal maniera. Poi mi raddrizzo un poco, e allora esco a fare un po’ di spesa, camminando senza nessuna fretta, ed anche riesco a portare un fardel, di quando in quando.
IL CROCO i Quaderni Letterari di POMEZIA-NOTIZIE il mezzo più semplice ed economico per divulgare le vostre opere. PRENOTATELO! Inviate le vostre opere a defelice.d@tiscali.it Il n. 136, del gennaio 2020, sarà dedicato al pittore e scrittore Vittorio “Nino” Martin
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ENZO ANDREOLI E LA SUA ARTE Intervista a cura di Manuela Mazzola
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'artista pometino Enzo Andreoli ha esposto i suoi quadri in una personale a Roma in via Pietro della Valle 13c. La mostra si è tenuta dal 25 settembre al 16 ottobre ed ha riscosso un notevole successo. Nelle sue opere, Andreoli (pittore, scultore e restauratore) ricerca l'armonia del caos e partendo dal dissolvimento del proprio io, arriva all'esplosione di colori forti e accesi. Come un prisma di vetro, l'artista riceve la luce e la
scompone in tanti colori mediante le sua pittura. La sua è un'arte originale e non contraffatta , nella quale esprime il movimento caotico della metropoli postmoderna. Quando l'arte ha conquistato la sua vita? L'arte ha sempre fatto parte della mia vita fin da bambino. Mio nonno era uno scalpellino e mio padre un marmista. Ero molto giovane quando ho iniziato a lavorare il marmo. Fin da subito ho percepito un feeling, una passione che mi ha spinto a diventare uno scultore e poi gli intarsi ed il restauro sono arrivati dopo. Più si lavora con l'arte e più si crea la connessione con essa. Sembra quasi che io sia nato solo per fare questo. Come descriverebbe la sua arte?
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La mia arte la definisco shock. Tratto temi attuali in modo eclettico, con colori forti per manifestare anche il dissenso e rompere gli schemi. I temi sono: la natura che finora è stata trattata in maniera sbagliata ed è stata sfregiata dall'uomo solo per interesse; l'amore perché di quello ne è rimasto veramente poco ed è inesistente quello verso il prossimo; le “Urban”, nelle quali l'uomo è incatenato come in una prigione; la città, il traffico, lo smog. E allora ne nasce convulsione, stress e fretta, senza più lasciare nulla all'uomo. Ci parli della sua ultima mostra “Urban”? Le “Urban”, come già accennato, sono il punto centrale: l'uomo senza città è finito e la metropoli si rende conto di questo e rende schiavo l'uomo. Esiste una relazione tra lo scultore, il restauratore ed il pittore? E se si, quale? La relazione è l'amore per il bello. La creazione che avviene per il profondo amore nel realizzare e trasformare la materia e la tela. In questo momento storico qual è, secondo lei, il ruolo dell'arte? Attualmente il ruolo dell'arte è quello di rappresentare il momento dell'uomo. Di far riflettere su ciò che stiamo perdendo in questo pianeta meraviglioso. L'arte è l'unico segno del passaggio dell'uomo su questo pianeta. Manuela Mazzola
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 3/11/2019 “Il nostro obiettivo (…) è recuperare alla politica quella che io chiamo l’Altra Italia, quei milioni di italiani che si definiscono moderati, e che non vanno più a votare perché delusi, disorientati o addirittura disgustati dalla politica attuale e dai suoi protagonisti”. Firmato: Silvio Berlusconi. Alleluia! Alleluia! Sì, disgustati dalla politica, ma anche dalla sua, caro miliardario, se il suo partito, Forza Italia, va precipitando sempre più in basso in fatto di voti. È scandalo nello scandalo il definire politica disgustosa solo quella degli altri! Domenico Defelice
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LA POESIA DI
GIANNI RESCIGNO DI AMPIA RISONANZA NELLA STORIA DEL MEZZOGIORNO di Leonardo Selvaggi I ELLE ore del tramonto i momenti di meditazione hanno fatto tutto visibile in sottili trame di apparizione, l’ ultima luce fa passare immagini e figure. In estensione gli spazi si fanno magici, trasmettono pensieri. I particolari si sono frantumati davanti agli occhi riempiti di infinito, mentre tornano nei ricordi presenze in concretezza piena come un tempo. La vita con le sue fatiche sulla terra aspra e arida: reclinati con le mani fra i solchi, la passione nell’animo ostinato. L’uomo e la terra in amalgama, problemi di sopravvivenza, ansie e linguaggio minuto che risponde alle realtà intorno. Panteistica effusione di profondità psicologiche, processi di trasumanazione: interiorità ed essenzialità, luoghi del nostro essere, che si
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tramutano in lontananze spirituali. Echi e visioni nell’aria, in una perenne circolazione. Pianure, valli e orizzonti, il mare che contorna la terra, l’azzurrità del cielo. Il senso dell’infinito lo viviamo ogni giorno, legami a realtà in ogni punto in cui ci troviamo. Andiamo per passaggi invisibili lungo le stagioni della nostra esistenza, siamo croste disseccate denudate tra le ampie spianate della terra e le distese livellate del mare. Nella raccolta antologica “Come la terra il mare” il poeta Gianni Rescigno ci fa ripercorrere tutti i passi che hanno fatto il cammino della sua produzione, 1969 - 2004. II Poesia, voce dell’animo, voce dell’essere nella sua sostanzialità, attinta alle fonti primordiali ed integre dell’uomo, alla sua struttura in materialità e spirito. La poesia di Gianni Rescigno “apre il cuore dell’uomo”, si slancia in altezze, passando per tutta la sua persona, ribolle di attimi vissuti in intensità. C’è un insieme tra le radici che tengono stretti ai propri luoghi. Consapevolezza con i pensieri affinati dalla intuizione, in flussi continui di purificazione e di attaccamento alla vi-
Al centro, in primo piano, da sinistra: Marina Caracciolo, Gianni Rescigno e Domenico Defelice a Pontinia (Lt), nel 2004.
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ta. “Avrò il mare negli occhi/rubato dalle mie sieste/davanti all’infinito”. I versi di Gianni Rescigno stanno negli incontri tra il mare e lo splendore delle terre martoriate del Sud, aride e vere, immerse nell’azzurro terso che prende tutt’intorno in una soffusione di riflessi e di bagliori. Stenti e privazioni, sopportazioni e ansie per il domani hanno smagrito il corpo e riempito di spazi le latebre del proprio essere. Una interiorizzazione, maturata con saggezza per vie accidentate, scorre come dolcezza fine, innalza e tiene i sentimenti in ardente vigore, quasi fiamme di fede e di coerente perseveranza. Esempi di forza mantenuta negli infausti tempi avuti, ricordi che trascorrono vivi nelle vene, sofferenze portate come luce nel cammino dei giorni. Tradizioni e retaggio di virtù e di resistenza. La poesia di Gianni Rescigno prende tutto il dramma di una vita di fatiche, di lotte e di estenuazioni. Le grame condizioni, il poco posseduto, le eterne illusioni illuminate da una sempre risorgente, latente volontà impulsiva. Pelle adusta, arti come di metallo, pronti a tutti i movimenti. III Attraverso una specie di ponte di passaggio tra passato e presente si muove la poesia di Gianni Rescigno, intensa di contenuti reali in spontaneità espressiva, con moti di espansione e di approfondimento. “Che questo fosse/cielo accoltellato/che i sogni croci/di poveri diavoli/già lessi nelle rughe/di mia madre”. Poesia che viene dai luoghi aspri scoscesi, dai riquadri di terra curata con accanimento, dalle alture ventilate, a precipizio sul mare. I versi che spesso paiono lamenti dell’animo hanno risonanza piena nei tempi odierni decaduti, privi di entusiasmo, disumanizzati, convulsi, automatizzati. Nostalgia del passato oggi andato in frantumi. Le poche risorse lievitate dai sentimenti, da passione e ferrea tenacia erano ricchezza vera, tenuta con parsimonia, densa di sapori e di felice contentezza. Scetticismo, fremiti irresistibili e circostanze dure sempre gravate da fatiche infinite. La figura del padre riempie la mente, pare si apra quel “cielo largo”, tanto infinito e limpido che si
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aveva nel Sud in giorni lunghi di sole. La sua assiduità nei lavori dei campi, tormento e gioia, ossessione continua. L’amore verso la terra è una specie di dannazione, tiene in immobilità dentro una incrostazione. Anche il mare dà fatiche, speranze e timore, soggioga l’uomo, lo fa penare e lo solleva. In ampio respiro la poesia di Gianni Rescigno, in unico intreccio limitazioni e ansia di libertà. Processi di spiritualizzazione portano sconfinamenti, le differenziazioni materiali divorate dagli slanci drammatici dell’animo battagliato. L’ azzurrità del cielo ci avvolge, l’immenso prende il tutto. “La terra come il mare”, raccolta poetica che, con una scelta di pagine prese di qua e di là da tutte le pubblicazioni, ha portato Gianni Rescigno a riconsiderare la significazione della sua attività letteraria, volendo quasi una sintesi-approfondimento dare maggiore, illuminante evidenziazione ai contenuti. Essenzialità e fondamentalità intuitiva della poesia. IV Terra e mare formano un unico avvallamento, insieme allargano gli orizzonti, quasi in un
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processo di fluidificazione la terra si muove e si incontra con il mare, le onde spumeggianti sugli scogli “limati dalle alghe”. Oggi di quella fragranza umana che tanto si univa al passato è rimasto un ammasso di rottami, sembra che tutto sia andato in fiamme, lo splendore è divenuto ruggine, vediamo solo “…cocci di brocche/una volta pregne”… Si era tutti insieme maturi e saggi. La vita vissuta e la poesia di Gianni Rescigno hanno profonde scaturigini, costituite da simbiosi e da sintonie, da integra naturalezza, in continuità con le tradizioni. Versi scultorei, dettati da intelligenza e da fine osservazione, alla loro lettura ci sentiamo in esaltazione come trasportati da onde armoniose: “A quest’ora dalle prode dei pruni/le lucciole vanno con leggerezza al fiume/lievitato dal salto delle rane e dalle punture d’insetti”. Una icastica visione di momenti, in slanci di attrazione, in camaleontica stretta terra ed esseri in un tutto insieme. Presenze antiche, terre brulle e verdeggianti, ossute e vibranti tra i confini amati. Pezzi di cielo precipitati per gli anfratti rilucono come lembi di speranza dentro le angustie di giorni compressi. Poesia con purezza di sentire disseminata, non frammentata né artificiosa, ma costituita da intrinseche appartenenze di sostanza, da unitaria e omogenea strutturazione: ha amplificazioni da concretezze a una estesa animazione di immagini, in una specie di circolarità tra materialità e una psicologia movimentata, sempre in rapporti di immedesimazione con quanto intorno esiste. V Terra di arsura, di sterpi, di frane, sgretolata e di pietre, contorti tronchi sui declivi, vedute armoniose di paesaggi nella luce e dai colori densi. Nell’opera “La terra come il mare” i sentimenti aperti e dai moti spontanei fruttificano le poche cose che si hanno. “…noi sappiamo/come si taglia il pane:/con le mani”. …”Il nostro pane è il cuore”. Pezze di terra lavorata che si riconoscono da lontano. Le mani curano i solchi, estirpano la gramigna, tolgono le pietre, sembra che la terra tagliata con amore quasi a fette con la vanga sia già
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alimento. C’è una spartizione generosa, il geto naturale porta le povere parti a moltiplicarsi. L’espressività poetica con puntuali caratterizzazioni si espande e nel contempo ferma, risonante in piena aria, decantata, di forte complessione: realismo e tutte le forme che fanno ricchezza di sfaccettature. Quella di Gianni Rescigno è poesia intensificata, non è facile coglierla e penetrarla, parlare intorno ad essa è compito gravoso, la si può sminuire riducendola in frammenti. È meglio soltanto immettersi nelle sue rigogliose onde come di fiume, vasto e largo che colma e riempie di sé riconfortando vallate e campagne fino al mare. Il titolo del volume antologico dà un significato complessivo a tutta la produzione poetica. Solidità di convinzioni, limpidezza di forma, profondità evidenziate con figurazioni metaforiche, attraverso le quali il vero e il bello, riflessi nei sentimenti, si interiorizzano. Versi che hanno sonorità e immediatezza, propri di artista provetto, arrivano da lontano abbondanti e fermentanti, come da lunghe escavazioni emersi. Poesia di tanta umanità che sentiamo in noi. VI Classicità, linguaggio raro, come cristallo riflette quello che si sente e si vede. Trasparenza, chiarezza, articolazione che si accompagnano con ampie assonanze. “E da rifugi oscuri/a cieli aperti corro. Incontro profumi,/giorni lunghi di piante, uccelli/in cerca di una goccia nel fango”. Perfezione di una poesia che fa vivere stati di serenità, cogliendosi particolari tratti di vita, in solarità di paesaggi, liberi e naturali. L’arcano, l’ancestrale risuonano dai recessi nel tempo presente che viviamo in trasformazione, tra contraddizioni e sbandamenti, che ricerca modi consistenti e un domani sorretto da dignità e interezze di vedute. Ossatura robusta e andatura temprata con movimenti decisi, tutta la poesia di Gianni Rescigno, che si aggira per il grande Sud, riversata in sensibilità sentimentali. Si hanno dentro le stanchezze della sua gente, le ruvide scorze degli alberi: terra e mare in un connubio tra superfici e impenetrabilità. Autenticità
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che si illumina di lotte e di ascese che fanno i passi ansimanti con le proprie continue ferite. Con animo e corpo in rapporto di organicità e di integrazione con la propria terra, una intercomunicabilità che si rivela con la voce della poesia: comunanza di medesime forme, di aspettative, di uguali sofferenze. “La terra come il mare”, pubblicazione dai toni taglienti in elevazione di canto. Tutto ciò che si vive intorno ha lo stesso respiro del poeta, gli stessi occhi, in immobilità di pensieri e di osservazione. Oggetti dai modi antropomorfici, paesaggi, figure umane in un solo intreccio. Quello degli affetti e della vicinanza. Gli oggetti come le persone, pare che non si distruggono mai, sono ad attenderci, si seguono gli atteggiamenti con geloso attaccamento. VII L’autunno assilla l’animo del poeta con considerazioni insistenti. Il senso della fragilità che porta a intensificare il tempo con vigile attenzione. La lenta frantumazione sentita da un animo conturbato, “come quest’autunno ti sento: respiro/di labbra affannate sulla pelle”. I legami oltre che con lo stare insieme si stabilizzano con una loro interiorizzazione, “Tu dalla pelle al cuore./E chiuderò a chiave gli occhi per non perderti”. Una poesia circostanziata, fuori dalle piatte, amorfe espressioni, corre fra la gente, in ogni dove, nella Natura, nell’uomo, nei paesi. Una inestricabile commistione, una compenetrabilità lungo passaggi comuni. Poesia, cultura della vita. Tutto ciò che ha fatto vivere trascorre attraverso ricordi e stratificazioni di tempo e di fatti. Filosofia dell’essere, della razionalità, del mondo intelligibile, con ordine e ostinato impulso in contrapposizione alle realtà fisiche che paiono immutabili, barriere insormontabili. Nella raccolta di Gianni Rescigno “La terra come il mare”, cultura meridionale, storia di uomini e di virtù, fisionomie indelebili, fisse nella memoria. Un trascorrere di elementi e di trasmutazioni sempre attorno a cerchi di riferimento. Realismo e rimembranze nostalgiche, tormenti interiori della vita contemporanea, stati di crisi e di transizione
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legati a incertezze, ad ansie che si rimuovono per entro coacervi, massificazioni di potenzialità ancora irrivelate. Delicatezze interposte. La figura della madre. “Il suo respiro e la parola preghiere…” “Il suo ventre terra: sette volte racchiuse il seme/e sette volte vi zampillarono ampolle di latte”. “Mia madre mangiava per ultima bocconi ripieni di niente…” Resistenza all’ombra silenziosa delle pareti. VIII Nella poesia di Gianni Rescigno c’è tutta una presenza pietrificata, la sua persona multiforme, semplicità di cose, incrostazione di vita amata e patita; la realtà esistenziale è risonanza di tante voci insieme, astrazione da se stessi, pare emanazione, luminosità dell’ aria, finanche inesistenza, la figura del poeta può essere una mera parvenza, profondità trasmessa. Poesia che spersonalizza l’autore, purezza oggettiva, tanta è la forza e la straordinarietà espressiva, esce dai limiti sconfina quasi ombra vagante, magia di forme e di suoni. Il poeta di Castellabate compare e subito non lo si vede, trasmutabile in tutti i luoghi, si è riversato nella filosofia di Parmenide: viene da Elea, appartiene a tutta la Magna Grecia, come Pitagora osserva il cielo e il mare, si stende per terra per ascoltare i suoni dalle profondità, per rincorrere l’arcano. È in tutta la cultura del Mezzogiorno, è in comunanza di significazioni e di ideologie con tutti gli spiriti della letteratura meridionale, esce dal relativismo per farsi parte delle grandi correnti di pensiero e di poesia che hanno vissuto i tormenti dei paesi depressi. Gianni Rescigno è Giustino Fortunato in versi. La terra avara e le fatiche infinite. Fatalità e miseria insieme. Nel libro di poesie “La terra come il mare” il padre tra il lavoro e gli affetti con incondizionata dedizione: “Per questo carico di bene il tuo sguardo/mi carezzava tutto. Lo sentivo di più/se l’aria frizzava d’essenza d’arancia/o le ombre della sera s’insaporivano di fieno./Di morbido velluto era la tua stanchezza/enorme silenzio passato dalle tue mani alla mia fronte…” Tanta poesia, tanti i sentimenti che si fondevano con l’operosità, divenuta pensiero
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trasmesso. Ricordiamo i volumi “Tutto e niente”, “Un passo lontano”. È anche Rocco Scotellaro con i suoi contadini che trova attraverso la poesia la Basilicata e la sua autentica forza, come emersa in tutta la solennità da un popolo resistente nelle avversità, fidente nel futuro, con l’intelligenza fine e sapiente.
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nelle costumanze, nei rapporti con gli altri, virtù infinite, candore diffuso in ogni parte, una dignità umana che oggi non è concepita con le aberrazioni e le incongruenze che sono devastanti per corruzione e perversione. Leonardo Selvaggi
DUE NOVEMBRE A SANTIAGO IX Gianni Rescigno vede nella luminosità infinita del mare come in uno specchio scorrere i suoi pensieri. Spiritualizzato, in irremovibile fissità il padre, ostinato e rabbioso lungo le onde che in armonia di danza si uniscono, avanzano e indietreggiano, lambiscono le coste di Castellabate. Forte e altero, sotto il sole e la pioggia, al centro dei campi, come un tronco di quercia, la sua infaticabilità, le ossa fattesi di pietra non sentono stanchezza. “Spezzavi rami/schiacciavi vermi tra le dita./Coprivi il sole con le mani/scacciavi nuvole con i gesti./Raccoglievi frutti maledetti dalla grandine./Lacrime di calamità ti toglievano le parole”. Il poeta conosce tutto il Sud che non ha cancellato ancora i segni del Regno dei Borboni. Si sono fatte allora le persone con la loro psicologia di sopportazione e di sommovimento interiore, dal carattere forte, con tanta semplicità di vita, candore nella voce e nei modi. Tolta una certa sovrastruttura venuta con i tempi moderni, in gran parte ancora oggi sono rimaste in questa forma di essere, e le stesse terre, anche se mutati i sistemi di coltivazione, come rapprese sotto l’ incuria dei governi passati hanno mantenuto nelle zone del Cilento, dell’Irpinia, della parte montuosa della Basilicata le vecchie abitudini e molto dell’industriosità propria di quando si era stretti nelle condizioni di una vita grama, maltrattata. I versi del volume “La terra come il mare” raccoglie pagine che sono pezzi di mosaico dai riflessi di oro e di luce, tutta una sintesi di canto altisonante e sommesso, arcaico e armonioso fatto di oggetti, di figure amabili, di alberi resistenti, di frutti asprigni, veri. Tempi felici, avvolti in un’atmosfera di sufficienza e di moderazione, tanta dolcezza
Non dirmi parole d’amore. Altro amore dentro mi strazia con voce di tuono. Mi trascinano i morti ai paesi del Sud ove grande è il silenzio. Lasciami, fanciulla, tra volti in pena, stalagmite di lacrime. Lasciami tra nuvole basse e piogge e cipressi nerissimi. Rocco Cambareri Da Versi scelti, Guido Miano editore, 1983
PREGHIERE Hanno una dolcezza che turba certe sere. Certe mie sere raccolte sussurrano ricordi rimpiangono una fede… Con mia nonna recitavo le preghiere, la testa affondata nel grembiule che odorava di cucine e primavere. Ero assorta e felice. Gli alberi si riempivano d’ombra le rondini gremivano il cielo. Occhi puri a seguire quei voli! Mia nonna viveva di certezze ataviche e serene. Ada De Judicibus Lisena Da Omaggio a Molfetta - Edizioni La Nuova Mezzina, 2017.
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Il Racconto
MIRACOLO A NATALE A Riccardo Carnevalini Milano e a Valerio, Leonardo e Mattia Defelice (ma anche a tutti i bambini del mondo)
di Domenico Defelice
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OPO gli spettacoli, portati in quasi tutte le città del territorio, il Grande Circo era tornato alla base, una bella tenuta che si stendeva per numerosi ettari tra collinette coperte di ulivi e una vallata punteggiata di pioppi, betulle, piante di bosco e sottobosco e un groviglio di canne lungo il rigagnolo che scorreva nella parte più bassa e che, nel mezzo, formava un laghetto, un piccolo occhio azzurro verdastro, regno di libellule e rane. Tra i prati verdi e le ombre degli alberi, i tre elefanti, i cinque cani e le due capre - unici animali del circo -, assolto il giornaliero allenamento, scorrazzavano godendosi il meritato riposo assieme a due mucche, un cavallo, una gran varietà di pollame e il canto melodioso degli uccelli. Era sul finire di giugno e il tour degli spettacoli sarebbe ripreso nuovamente a fine settembre; allora, gli animali sarebbero rientrati nelle loro gabbie per visitare paesi e città, allietando adulti e bambini insieme ad attori, trapezisti, saltimbanchi, ginnasti e buffoni. Nel Grande Circo, il ruolo degli animali era assai marginale. La sua calamita, il numero uno, era Fortunella delle Rose o Delle Rose Fortunella - l’incantatrice, la maliarda, la regina, la fata, come, di volta in volta, era chiamata -, una bionda ragazza snella e aggraziata, veramente bella come la Venere di Botticelli. Bastava la sua sola presenza in pista perché il pubblico fosse ammaliato: gli uomini, dal suo aspetto solare e dal suo sorriso incendiario; tutti, dalle sue movenze leggere e ancor più dalla sua voce limpida, priva d’ogni inflessione dialettale. Si poteva rimanere per ore ad ascoltarla, senza stancarsi,
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raccontare storie e storie, a volte tratte da opere famose, più spesso da lei stessa inventate. Sulla sua bocca, tutto diveniva alta tragedia o commedia esilarante; il pubblico era sempre teso; dette da lei, le false notizie o le baggianate divenivano verità indiscusse più del Vangelo. Però, se invece di Fortunella delle Rose, era chiamata Delle Rose Fortunella, la sua verve tendeva lentamente a spegnersi, il tono di voce si abbassava, come in uno di quei vecchi grammofoni quando subivano un calo di corrente. Appena un istante, è vero, ma succedeva e, allora, lasciava grandi e piccini sconcertati. Tra i numeri eseguiti dagli elefanti, quello che piaceva maggiormente ai bambini - che si alzavano a incitarli come tifosi in uno stadio era il caracollare goffamente per cinque giri lungo il perimetro dell’arena, in una specie di esilarante gara a chi giungesse per primo a raccogliere le carezze del domatore e, tutti, un’abbondante scorpacciata di frutta. A vincere, era sempre l’elefantessa Sonia Comparsita o Comparsita Sonia, per il suo andamento leggero e quasi danzante, pur avendo una stazza considerevole. Qualche volta arrivava prima Veronella Schiaccianoci o Schiaccianoci Veronella, così battezzata perché, una settimana dopo la nascita, era entrata nel magazzino e con le sue zampe da martello pneumatico aveva ridotto in poltiglie ben tre sacchetti di noci. Era sempre allegra e torceva continuamente la proboscide, anch’essa, come la madre, mimando passi di danza ed emettendo leggeri barriti. Chi mai aveva vinto era l’elefante maschio, Mamaut Picchiput, non perché non ne avesse le capacità, ma perché faceva sempre il cavaliere, e, una volta in testa, rallentava, a volte si fermava del tutto per farsi superare; o meglio, vinse una sola volta perché lo chiamarono Picchiput Mamaut, cioè, rovesciando il suo nome e cognome. Quando il direttore e impresario andò ad acquistarlo, ancora cucciolo, direttamente nella savana, sentì dal cacciatore africano parole dal simile tono, ripetute più volte; egli non conosceva la lingua locale, ma quel verso gli piacque a tal punto che l’appioppò all’ ele-
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fantino. Mamaut Picchiput o Picchiput Mamaut aveva qualche anno meno di Sonia Comparsita o Comparsita Sonia, e quasi la sua stessa stazza. Non s’innervosiva mai; però, se lo chiamavano Picchiput Mamaut, lanciava un lungo e sonoro barrito, come dicesse mi avete scocciato, e correva, correva all’ impazzata, neanche fosse una Ferrari, devastando ogni cosa al suo passaggio. Anche cani e capre avevano diversi repertori. I cani ne eseguivano uno in particolare: si schieravano in fila tutti e cinque al centro dell’arena e sulla groppa del primo - un canone dalla faccia rugosa e piena di ghigni -, Bulldog o Dogbull, l’istruttore poneva in bilico una leggera tavoletta, sulla quale, da un vicino trampolino, vi saltava il secondo, Husky il Bello o Bello Husky, un siberiano dagli occhi azzurri e puntuti come zampilli; sulla sua schiena, altra tavoletta, sulla quale volava il terzo cane, Chow Chow o Chow Chow, che sembrava un morbido peluche giallo spruzzato di marrone chiaro, musetto nero e occhietti pure neri quasi fossero due piccoli bottoni; sul terzo, altra tavoletta sulla quale si fiondava Barboncino o Cino Barbon, tutto nero come la pece e su di esso, infine, il quinto, la cagnetta Shih Tzu, o Tzu Shih, minuta, dal lungo pelo venato di giallo antico, occhi e baffi all’ingiù da ispirare tristezza. Shih Tzu o Tzu Shih, una volta planata sulla tavoletta, si ergeva su due zampe e, sul suo muso, l’ allenatore poneva un’assicella di legno, sulla quale andava avanti e indietro, più e più volte, un piccolo e grazioso scoiattolo. Era il momento più emozionante, perché lo scoiattolo sembrava sul punto di precipitare, ora a destra, ora a sinistra. I piccoli si alzavano tesi, a far la ola con il cuore in bocca - oh! oooooh! - e l’allenatore, per accrescere la tensione, ondulava il corpo e a braccia aperte mimava pure lui la scena. Si chiamava Filodendro o Dendrofilo e non si era mai visto un uomo così lungo e allampanato. Aveva i baffetti all’Umberto, capelli rossi alla moicana e alle orecchie due grossi pendagli inca, ricordo della sorella morta di brutta malattia, la quale
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non se li toglieva neppure quando faceva il bagno e tantomeno quando dormiva. Il repertorio delle due capre era, in assoluto, il più elementare (d'altronde, da loro, non si poteva pretendere troppo; Vittorio Sgarbi, quando vuol sbertucciare una persona, che cosa le urla in televisione? Capra! Capra! Capra!). L’allenatore, Bombarda Charleston o Charleston Bombarda, suonava marcette sconclusionate col suo flicorno baritono, o bombardino, e le due bestiole gli andavano dietro cercando di seguire il ritmo con il loro bee -bee -bèbee -bè-bebee!, suscitando risate. Quando lo chiamavano Charleston Bombarda il suono diveniva stridulo, ancora più strampalato e le caprette, perplesse, si azzittivano e ciò dimostrava che non fossero, poi, così stupide. Tutti gli spettacoli, tranne quello delle capre, erano accompagnati da allegri sottofondi musicali dovuti al geniale Pompeo Assiolo, suonatore di trombone, e agli altri suoi collaboratori - tra cui anche Bombarda Charleston o Charleston Bombarda -, specializzati in chitarra, flauto, tamburino e in tanti altri strumenti. Guai, però, a chiamarlo Assiolo Pompeo: allora i sottofondi divenivano babelici e l’unico suono percepibile con chiarezza era un continuo e monotono chiù. Quel primo luglio, vicino a un carrozzone tra l’erba verde e sotto un enorme pioppo dal fogliame ciangottante alla leggera brezza mattutina, intorno all’elefantessa Sonia Comparsita o Comparsita Sonia, stavano tutti in trepidazione. C’era la bellissima trapezista, così brava da eseguire fino a un quarto salto mortale. C’era il clown dalla faccia pulita, non ancora infarinata per il giornaliero allenamento. C’era Dick Dick o Dick Dick, il cane poliziotto o da pagliaio, guardiano della tenuta, attentissimo e severo, che dormiva dalle quattro del pomeriggio fino a sera e, poi, sempre in perlustrazione da un capo all’altro della tenuta (detto fra noi, Dick Dick o Dick Dick e Chow Chow o Chow Chow erano gli unici a non sentirsi turbati o infastiditi se rovesciavano i loro nomi e cognomi!).
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Appoggiati a una staccionata, stavano quattro bambini, figli di lavoranti, pure loro in apprensione. E poi, ancora, Fortunella delle Rose o Delle Rose Fortunella, Filodendro o Dendrofilo, Bombarda Charleston o Charleston Bombarda, Pompeo Assiolo o Assiolo Pompeo; né mancava il direttore impresario, Peronetto Napoleone o Napoleone Peronetto come lui preferiva essere chiamato - figura insignificante a vederlo, sì che nessuno gli avrebbe attribuito, non diciamo quella carica, ma neppure la più elementare e umile delle incombenze, come il togliere gli escrementi dalle stalle degli animali. Basso, secco, un’ aringa affumicata, stempiato, una vocina da bambino e un paio di baffi alla Clark Gable. Ma, a detta del personale e degli inservienti, uomo veramente degno per essere il direttore; un padre per tutti, addirittura, un valido impresario, capace di risolvere - come aveva più volte risolto - gli enormi problemi che impegnano quotidianamente una grande e complessa struttura. E c’era, naturalmente, il domatore, Maestro Pennacchio o Pennacchio Maestro, che le carezzava la fronte, le orecchie e la proboscide, e, infine, il veterinario, il medico degli animali, che doveva assistere la partoriente, Emerito Pantegana o Pantegana Emerito, dal volto puntuto, occhietti, naso, baffi e bocca da topo - e i topi, agli elefanti, si dice, mettono paura! -, lunghi capelli neri dalla netta scriminatura che partiva dal centro della fronte e una vocetta stridula. Non faceva che girare intorno all’elefantessa, agitando un piccolissimo frustino scaramantico a nove code di nastrini colorati e recitando una formula propiziatoria, che doveva essere composta d’almeno due endecasillabi e con la rima. Nato tra Torino e Milano, si era da poco trasferito in quella città e di formule magiche alla bisogna era proprio digiuno. Così, sebbene non se ne intendesse di poesia, era stato il direttore in persona, Peronetto Napoleone o Napoleone Peronetto a suggerirgliene una: “Premi, ti prego, o Sonia Comparsita/e dacci finalmente un’altra vita”. Senonché, Emerito Pantegana o Pantegana Emerito se l’era del tutto scordata e, là per là, fu costretto ad in-
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ventarsene un’altra, un disastro: “Spingi, spingi, dannata Comparsita Sonia/e al diavolo con questa gran fandonia!”. Orrore tra tutti i presenti! Non solo la formula era un anatema, era anche bislacca, la metrica faceva cilecca, non erano due endecasillabi! E cosa ancora più grave, all’elefantessa, già spaventata dalla sua faccia, aveva rovesciato nome e cognome e ciò faceva presagire una disgrazia. Era il secondo parto di Sonia Comparsita o Comparsita Sonia; il primo era avvenuto più di cinque anni fa - quand’era nata Veronella Schiaccianoci o Schiaccianoci Veronella -, vissuto anche allora da tutti come fosse quello di una donna: stesse ansie, stessi timori, stessa esplosione di gioia all’evento che s’era concluso lietamente: urrà, urrà! e lo stappo di molte bottiglie di vino. Sonia Comparsita o Comparsita Sonia fece un ultimo sforzo e l’elefantino cadde sopra un mucchio di soffice erba, ancora avvolto nella sua placenta; l’elefantessa si girò, emise un leggero barrito e con la proboscide prese a nettarlo, aiutata dal veterinario e dal domatore. E fu quando l’elefantino fece per alzarsi che il timore dei presenti si mutò definitivamente in tragedia: la piccola creatura aveva la zampa destra anteriore vistosamente curvata in dentro, era zoppo, cioè, un piccolo handicappato! Stavano tutti presenti all’evento non solo per vederlo nascere, ma anche per dargli un nome; ora si sentivano tristi e accorati e, mogi mogi, si allontanarono in fila indiana, lasciando a sbrigarsela solo il domatore e quel balordo di veterinario. Una tragedia! Sì, una vera e propria tragedia e non solo per l’elefantino e per il Circo. Emerito Pantegana o Pantegana Emerito fu regolarmente pagato, ma anche cacciato a malo modo, convinti che fosse stata la sua brutta formula a cagionare la disgrazia. Maestro Pennacchio o Pennacchio Maestro si consumava il cervello a pensare come avrebbe potuto utilizzare il nuovo arrivato, convinto che il Circo, con a capo il suo Direttore, non poteva permettersi di mantenere inoperosa un’altra bocca - e che bocca! -, visto che gli elefanti, in fatto di cibo, non scherzano. I
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più tristi erano naturalmente i quattro bambini, che non riuscivano a togliersi dalla testa il pensiero di come si sarebbero sentiti, che tristezza e dolore avrebbero avuto, unitamente ai genitori, come questi si sarebbero comportati se, a essere handicappati fossero stati loro. Bambini, sì, ma molto più scafati di altri della loro stessa età, bravini a scuola e che leggevano molto. Vivere nella realtà del Circo matura prima. Un freddo e lungo brivido la notizia del piccolo Giovannino, quattro mesi, abbandonato, a Torino, da coloro che l’avevano voluto e fatto nascere, solo perché affetto da ittiosi, male che attacca la pelle e quasi sempre non dà scampo. La storia di Giovannino è la più recente e neppure la più tragica, perché la triste fine di tante creature indifese, non sufficientemente amate, uccise, abbandonate, buttate nei cassonetti, non è solo dei nostri giorni. A Roma, prima che Innocenzo III mettesse su la ruota degli esposti, quanti bambini indesiderati annegati nel Tevere! A Sparta, la storia - ma forse esagera racconta che i neonati deformi era norma venissero eliminati. L’uomo è l’animale più crudele, contro se stesso e gli altri, mai apparso sulla faccia della terra, e la legge del profitto e dell’egoismo non è nuova e genitori che amano solo se stessi e consumatori, incapaci di gestire i figli, specie quando sono fragili, sono sempre esistiti. Un giorno si riunì il Gran Consiglio per decidere la sorte del piccolo animale. Presieduto dal direttore, era composto da tutti, maestranze, impiegati, lavoranti e bambini compresi, purché non inferiori a cinque anni. Si discusse a lungo animatamente e con dolore, ma, alla fine, la spietata legge economica prevalse. Nessuno poteva vivere senza lavorare, perché ne andava la stessa vita del circo; perciò, se entro tre mesi, quattro al massimo, non avrebbero trovato soluzione, l’elefantino sarebbe stato sacrificato: una puntura di veleno e poi la sua carcassa sotterrata in una profonda fossa nel vicino boschetto. Peronetto Napoleone o Napoleone Peronetto aggiunse, contrito, che si era rivolto ad associazioni benefiche e animaliste perché se lo prendessero
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gratis, senza ottenere risposta e, in ultimo, anche allo zoo della vicina città. “Un elefante handicappato? - ripeté sgranando gli occhi e scandalizzato l’addetto all’ approvvigionamento degli animali - Mai e poi mai!” Non avrebbero saputo che farsene di un elefantino zoppo; sarebbe stato negativo per l’economia dello zoo, anche in relazione all’afflusso di visitatori, i quali, adulti o bambini che fossero, amavano vedere e sentire allegria, divertirsi, giammai rattristarsi di fronte a disgrazie. “Oggi - aggiunse il dirigente, congedando Peronetto Napoleone o Napoleone Peronetto -, siamo tutti ecologici, amiamo le piante e gli animali, specialmente cani e gatti, dei quali riempiamo le case, ma li vogliamo tutti sani e belli; un albero sciancato e sfrondato, un animale handicappato, infondono solo dolore e tristezza”. Dopo metà settembre, il Circo riprese a girare per città e paesi. Peronetto Napoleone o Napoleone Peronetto aveva lavorato sodo in quei mesi di sosta, organizzando un tour con i fiocchi fino al giugno del prossimo anno e dal quale sarebbero derivati certamente lauti incassi. Quando gli elefanti eseguivano il loro numero, l’elefantino se ne stava in disparte, nell’ampia gabbia, muovendosi su e giù come un disperato, o strattonando con la proboscide le grosse sbarre come a volerle svellere. Se trovava il cancello aperto, girava lungo il perimetro del Circo a brucare cardi secchi e qualche raro ciuffo d’erba. Nel pomeriggio di quel Natale, il Circo si trovava a Pomezia, nell’ampio spiazzo verde lungo via Salvo D’Acquisto. Aveva in programma un grande spettacolo, dedicato solo ai bambini. Fin dal mattino della vigilia, a ogni angolo di strada, Fortunella delle Rose o Delle Rose Fortunella, Filodendro o Dendrofilo, Pompeo Assiolo o Assiolo Pompeo, Maestro Pennacchio o Pennacchio Maestro, assieme a Sonia Comparsita o Comparsita Sonia, Veronella Schiaccianoci o Schiaccianoci Veronella, Mamaut Picchiput o Picchiput Mamaut, avevano pubblicizzato l’evento
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e una folla immensa, allegra, colorata e vociante, stava ora accalcata sotto l’enorme tendone riscaldato, in parte venuta anche dal circondario e dai vicini Castelli Romani. Al suono allegro delle marcette, la trapezista fece un repertorio stupendo, chiudendo con il triplice salto mortale (niente quarto, per non spaventare i bambini); Il clown, con la faccia infarinata, fece sganasciare fino alle lacrime; Fortunella delle Rose o Delle Rose Fortunella, gli occhi brillanti come due stelle, la voce dal timbro perfetto e la bocca atteggiata ad allegria o alla tragedia secondo le esigenze del racconto, parlò di fate, di orchi e di streghe, facendo ridere o abbrividire. Gli animali non furono di meno, specialmente i cinque cani con il loro numero acrobatico. Quando il piccolo scoiattolo, andando su e giù sull’asticella, in bilico sul muso della piccola Shih Tzu o Tzu Shih, sembrava sul punto di cascare, i bambini, tesi, quasi in trance, le mani in avanti, istintivamente si piegavano ora a destra, ora a sinistra, secondo i movimenti della bestiola. Infine entrarono gli elefanti accompagnati da Maestro Pennacchio o Pennacchio Maestro. Per prima, si esibirono passando e ripassando, stando su due zampe, senza calpestarlo, sopra il domatore che si era sdraiato sull’arena: Sonia Comparsita o Comparsita Sonia camminava appoggiandosi sul dorso di Mamaut Picchiput o Picchiput Mamaut e sul suo dorso si appoggiava Veronella Schiaccianoci o Schiaccianoci Veronella. Poi, ognuno si appollaiò sul proprio trespolo per rispondere con un leggero barrito alle domande di Maestro Pennacchio o Pennacchio Maestro: “Quanto fa due per due?” Ed ecco Sonia Commparsita o Comparsita Sonia emettere quattro leggeri barriti; “Veronella Schiaccianoci o Schiaccianoci Veronella è la è la più bella del circo?” E tutti insieme gli elefanti ad assentire, muovendo su e giù la proboscide. “Volete bene ai bambini?” E gli elefanti a barrire, sventolare le orecchie e ad alzare in alto la proboscide. Quando, poi, scesi dai loro trespoli, stavano per iniziare la loro solita corsa intorno all’arena, ecco irrompere lo
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zoppicante elefantino. Barriva, agitava la proboscide, stralunava gli occhi, accentuava più del necessario la sua deficienza da apparire oltremodo buffo. I bambini si erano alzati in piedi in una vera esplosione di applausi. “Evviva! Evviva!”. Maestro Pennacchio o Pennacchio Maestro rimase imbambolato con la sua piccola frusta a mezz’aria; gli elefanti si arrestarono irrigiditi, mentre l’elefantino continuava a correre intorno alla pista, si rotolava sulla sabbia, strattonava la proboscide, barriva come un bambino che manda gridolini di gioia quando ruzzola sull’erba fresca di un prato o sulla spiaggia in faccia al mare in una ridente giornata di sole. I piccoli spettatori pensavano che l’elefantino fingesse d’essere zoppo e si sbellicavano dalle risate. Dopo un buon quarto d’ora di vera e felice baraonda, l’elefantino scomparve da dove era venuto, come un attore consumato, letteralmente sommerso da un nuovo e lunghissimo applauso. Intanto, mentre il piccolo elefante si esibiva, si era accalcato nell’arena l’intero staff del Circo, tra cui la trapezista, Fortunella delle Rose o Delle Rose Fortunella, le ginnaste, il clown con la faccia ancora infarinata e pure il direttore Peronetto Napoleone o Napoleone Peronetto. Tutti, e tutti ad applaudire, gridare evviva. Una festa! E che festa! Il Gran Consiglio si sarebbe riunito ancora, ma il piccolo elefantino ormai era salvo! Maestro Pennacchio o Pennacchio Maestro avrebbe avuto l’incarico d’inventarsi un programma esclusivo per il piccolo Natalino Trottola o Trottola Natalino, come all’istante venne battezzato. Domenico Defelice
UNA VOLONTÀ FERITA: OVVERO L’EREDITÀ di Wilma Minotti Cerini
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OLTO allegramente si misero d’accordo per ritrovarsi mezz’ora prima. Erano stati convocati dal Notaio per aprire il testamento con le ultime
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volontà dello zio che neppure un mese prima era morto ed era stato seppellito nel campo comune del Cimitero. Tutti avevano da tempo fatto grandi progetti su quanto avrebbero avuto. Lo zio era una persona benestante senza essere eccessivamente ricco. Aveva risparmiato tutta le vita, non aveva scialacquato come certi parenti collaterali. Inoltre era rimasto vedovo da alcuni anni per cui tutto il suo patrimonio immobiliare e liquido, secondo loro, andava ai nipoti, figli di un fratello e di due sorelle anch’esse defunte. Erano sei nipoti, due femmine e quattro maschi. Già le loro mogli e mariti avevano preteso di spendere subito parte dell’eredità in cose voluttuarie: una pelliccia, un viaggio, una nuova automobile, ed anche i loro figli avevano dichiarato delle pretese. Non avrebbero avuto problemi invece con gli appartamenti, in quanto lo zio aveva nel tempo investito gran parte del ricavato del suo lavoro di artigiano nell’acquisto di diversi appartamenti, alcuni in città e alcuni in montagna e uno nella riviera ligure di levante. Occorreva andare poi d’accordo sulle acquisizioni. Chissà cosa poteva aver lasciato ad ognuno di loro! Questo lo avrebbero saputo tra poco. L’unica cosa che non avevano fatto era esaudire le ultime volontà dello zio. Quando andavano, negli ultimi tempi soprattutto, a trovarlo nella sua casa, lui esprimeva ad ognuno di loro le ultime volontà e pretendeva che le ripetessero a memoria. -Allora dimmi come sono le mie ultime volontà? – - Vuoi un funerale di prima classe, con una cassa in mogano, una bella corona di fiori, oltre al cofano, e vuoi che siano rose rosse come quelle che tu regalavi a zia Elvira.Vuoi una messa cantata in Chiesa. Poi vuoi essere sepolto nel campo giardino con una bella tomba in marmo rosso di Verona con scritto il tuo nome e con una scultura in bronzo che rappresenti un angelo, il vaso di fiori e il porta lumino pure in bronzo, e per finire vuoi che invitiamo i tuoi amici ad un pranzo a tuo no-
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me al ristorante. La lista con gli indirizzi la troveremo nella busta sulla tua scrivania. Inoltre non dobbiamo dimenticare la tua domestica e l’infermiera che da anni viene a farti le punture e a lavarti e dare loro una mancia cospicua e una spilla d’oro tra quelle della zia Per ultimo vuoi che passati i dieci anni noi ti esumiamo e ti mettiamo vicino a zia Elvira e pagare le spese di rinnovo alle scadenze, e in ogni caso tutto questo sarà scritto di tuo pugno e lo troveremo sempre sulla tua scrivania insieme agli indirizzi, e troveremo pure il denaro sufficiente per queste spese che ci verrà consegnato dalla tua domestica GiannaQuando era sicuro che non se ne sarebbero dimenticati, lui si rasserenava. Invece non fecero nulla di tutto questo. Una messa frettolosa anche se la Chiesa era straripante dei suoi amici e coscritti, una cassa più che modesta, il solo cofano di rose rosse, la tumulazione nel campo comune con un giardinetto e una piccola stele con il nome la data e un bel Requiem. Il pranzo con i suoi vecchi amici non era stato fatto. Tutti avevano concordato sullo spreco inutile di certe cerimonie. Alla fine era solo un corpo che doveva disintegrasi, che senso avrebbe avuto tanta pompa! Quello che invece avevano fatto, tutti d’ accordo, era andare a controllare la bella casa in cui viveva lo zio, dove ancora ci stava la Gianna che rassettava la casa come se fosse ancora vivo, che lustrava gli argenti, che puliva le tende. Arrivavano e si comportavano da padroni di casa, dando ordini piuttosto perentori e la povera Gianna si era assai rattristata per il nuovo comportamento a cui non era abituata, ma cercava di accontentare ogni richiesta, come spostare alcune cose, fare un inventario degli oggetti d’argento, dei tappeti, degli abiti e delle coperte e lenzuola, poi arrivava un altro e le diceva di spostare in altro modo e lei non sapeva più a chi dar retta. Tutto era in perfetto ordine, e ognuno di loro sperava di essere tra i prescelti sulla casa principale in assoluto la più preziosa dal punto di vista economico, il cui valore era almeno doppio delle altre. “Cosa avrà deciso mai lo
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zio! “ pensavano “ speriamo l’abbia lasciata a me” e mentalmente andavano alle cure prestate negli ultimi tempi e a quanto più dell’altro avevano fatto. Ma non osavano tra loro dire nulla. E quando andavano a controllare che tutto fosse in ordine, mentalmente facevano l’elenco degli oggetti più preziosi “ chissà mai che qualcosa potesse sparire”. Entrarono nello studio del Notaio Carones, la segretaria li condusse in una grande sala con un tavolo immenso con tante comode sedie di pelle, e disse di attendere in quanto il notaio stava terminando di redigere un atto. Infatti attesero per una mezz’ora sull’ora stabilita, e quel tempo lo usarono per dire l’un l’altro le cose che avevano fatto allo zio - ti ricordi come amava i biscottini wafers? Io glieli portavo sempre- - io andavo a leggergli il giornale tutte le volte che potevo- - io gli ho comprato i dopobarba di quelli buoni, marca francese- - qualche volta gli portavo una bella trippa già cotta, lo sapete tutti che era molto goloso di quel piatto! La cucinavo apposta per lo zio- - io gli tagliavo le unghie delle mani, gli crescevano a vista d’occhioIl Notaio entrò aprendo la porta con molta decisione seguito dalla sua segretaria e tutti si zittirono. Si sedette a capotavola con la segretaria appresso e chiese a tutti di dichiararsi e far avere copia della carta d’identità. Quando spulciando le carte d’identità fu certo che i presenti fossero realmente gli eredi, incominciò ad aprire la busta testamentaria e incominciò a leggere: <<Io sottoscritto Michele Carnaghi in piena lucidità di mente e di spirito faccio una premessa prima di dichiarare i miei eredi: desidero sapere se le mie ultime volontà sono state esaudite come più volte ho richiesto ai miei nipoti consanguinei e cioè: se sono stato messo in una cassa di mogano, se mi è stato fatto un funerale di prima classe con cofano di rose rosse e corona con altrettante rose rosse, se mi è stata fatta una Messa cantata, se sono stato tumulato nel campo giardino e se mi è stata posta una lapide in marmo rosso di Verona con un Angelo in bronzo con vaso di fiori e porta lumino in bronzo, se è stato
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esaudito il mio desiderio di offrire un pranzo a tutti i miei amici secondo l’elenco che ho lasciato nelle mani di Gianna che avrà consegnato ai miei nipoti insieme ad un ammontare di 50 milioni in contanti per tali spese. Desidero che il sig. Notaio Carones si accerti che le mie volontà siano state eseguite, prima di proseguire.>> - Ebbene avete eseguito le ultime volontà del de cuius ? - Come scusi? - Il de cuius, significa del defunto, le avete eseguite ? Tutti si guardarono sgomenti. Non potevano dire che non avevano eseguito nulla di quanto promesso, e qualcosa dovevano pur dire al signor Notaio che li squadrava come se fossero tutti dei malfattori. Alla fine i soldi lo zio li aveva lasciati come detto, e loro se li erano divisi, tolte le spese del funerale che ammontavano complessivamente sugli otto milioni. - Signor Notaio- iniziò a dire un nipote- nella realtà qualcosa abbiamo cambiato, ci è parso uno spreco inutile, ma sia ben chiaro con quanto è stato risparmiato noi abbiamo pensato di fare una donazione a nome dello zio per i poveri orfanelli di qualche Missione- Per il resto ci mancherebbe di fare il pranzo con gli amici dello zio e lo faremo certamente, ma ci è parso un po’ troppo ravvicinato al funerale, sa c’ è in ognuno di noi un certo ritegno, una sofferenza per la morte dello zio. - Allora non avete fatto la volontà del de cuius? - Beh, sa lo zio era vecchio e ci è parso un po’ pretenzioso con tutta quella pompa, proprio lui che era stato parco tutta la vita, ci parve insomma che avesse un po’ perso il senno, solo qualche anno prima avrebbe deciso diversamente conoscendolo, e noi ci siamo un po’ attenuti a quel tempo in cui lo zio non avrebbe sprecato così- dissero più o meno in coro, anche se un po’ timidamente. - Ma i soldi non erano vostri, erano di vostro zio, voi dovevate solo eseguire le sue ultime volontà, anche se a voi parevano fuori senno, voi non ci rimettevate nulla, ma an-
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diamo avanti nella lettura:<< se pur avendo i miei nipoti giurato che avrebbero fatto le mie volontà, non hanno avuto cuore di eseguirle, sono costretto a modificare quanto avevo stabilito per loro, e prego quindi il sig. Notaio di andare direttamente al terzo capoverso del mio testamento: lascio la casa dove abito con tutti gli arredi in essa alla mia fidata domestica Gianna Padoan che ha accudito prima mia moglie Elvira con molto amore fino alla sua morte e proseguito in tutti questi anni con abnegazione …>> qui il Notaio si arrestò dicendo alla sua segretaria - Sono stati chiamati tutti gli altri eredi? – Si, si, ho detto ieri che dovevano trovarsi oggi da noi i due nipoti da parte della moglie di nome Gilberto e Carlo Salmoiraghi, con la signorina Padoan e l’infermiera sig.a Angelina Carli, credo che siano di là nel salottino, vado a chiamarli – e si alzò uscendo dalla stanza lasciando la porta aperta un poco. I nipoti erano sgomenti e si lanciavano degli sguardi di fuoco come a colpevolizzarsi l’un l’altro. Di chi era stata l’idea di risparmiare sul funerale? Ognuno cercava di allontanare da se stesso l’idea primigenia, anche se un borbottamento sulla spesa dell’uno veniva ripreso dall’altro e così via, sino alla decisione collettiva di risparmiare. Ora questo risparmio si rivelava essere una spada di Damocle che si abbatteva su tutti loro vedendosi privati dell’appartamento sul quale ognuno aveva fatto più di un pensiero, e questo li rese tutti di un umore assai lugubre. “Lasciarlo alla Gianna? Ma lo zio era impazzito. oppure era stato irretito, questo era la spiegazione più logica, un raggiro d’incapace”. Questo pensiero inespresso divenne ancor più chiaro all’ arrivo nella stanza della Gianna seguita dall’ infermiera Angelina e sulle quali si posarono dodici occhi ostili al massimo. Seguivano a ruota due baldanzosi nipoti per parte della defunta moglie Elvira, che furono pregati di accomodarsi sulle poltrone nei pressi del Notaio. Gianna e Angelina non avevano idea del perché erano state invitate all’apertura del testamento. Nella loro mente non entrava la
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possibilità che il loro caro signor Michele potesse aver lasciato qualcosa per loro, lui non ne aveva mai parlato da vivo di lasciare alcunché, allora perché erano state chiamate? - Riprendiamo dal terzo capoverso, con una premessa, chi dei due è la signorina Gianna Padoan? - Sono io signor Notaio- disse un’ imbarazzata Gianna. - Quindi – disse rivolgendosi all’altra- lei è l’infermiera che ha curato per anni il signor Michele e si chiama Angelina Carli. - Si sono io signor Notaio. - Quindi voi siete Gilberto e Carlo Salmoiraghi? – chiese rivolgendosi ai due giovani uomini che assentirono con la testa. - Date le vostre carte d’identità alla mia segretaria per farne una copia. Dopo aver atteso quel minimo tempo delle fotocopia, la segretaria tornò restituendo gli originali. - Ricominciamo dal terzo capoverso: <<se pur avendo i miei nipoti giurato che avrebbero fatto le mie volontà, non hanno avuto cuore di eseguirle, sono costretto a modificare quanto avevo stabilito per loro e prego quindi il sig. Notaio di andare direttamente al terzo capoverso del mio testamento: lascio la casa dove abito con tutti gli arredi in essa alla mia fidata domestica Gianna Padoan che ha accudito prima mia moglie Elvira con molto amore fino alla sua morte e proseguito in tutti questi anni con abnegazione verso la mia persona, lascio inoltre sempre a lei la collana e il bracciale di corallo rosa della mia adorata moglie Elvira, un anello di brillantini e zaffiro, ed una spilla d’oro rappresentante un cappellino rovesciato con fiori di varie pietre a colori e un importo di 200 milioni in modo che possa anche pagare le tasse di successione; alla cara signora Angelina Carli che mi ha curato nel corpo e sollevato nel morale lascio l’appartamento della casa di montagna: condominio Bellavista di Madesimo e un importo pari 50 milioni, ringraziandola per quanto ha fatto per me negli ultimi tempi.>> Gianna e Angelina impallidirono, erano agitatissime per questo lascito e preoccupate
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per gli sguardi che via via divenivano sempre più minacciosi. - Signor Notaio- interruppe con un filo di voce Gianna- ma qui ci sono gli eredi del signor Carnaghi, io sono stata solo la sua domestica, ho fatto il mio dovere, erano così buoni e affettuosi con me sia il signor Michele che la signora Elvira che non si poteva non amarli, quello che ho fatto l’ho fatto volentieri- Guardi che qui si fa la volontà del defunto, è un atto oltretutto pubblico, l’ha redatto di persona davanti a me notaio e al mio personale che ha controfirmato. Quanto è scritto le è dovuto e nessuno può contraddire- rispose il Notaio e poi soggiunse – Arriviamo alla fine delle lettura senza interruzioni per favore, continuiamo:<< lascio a mio nipote Giuseppe Novali figlio di mia sorella Carolina l’ appartamento posto in viale Piceno al terzo piano di mq. 120 con box di pertinenza, a mio nipote Giovanni Novali l’appartamento di via Venini di mq. 80 con box di pertinenza, a mio nipote Francesco Carnaghi l’appartamento di via Fabio Filzi posto al secondo piano di mq. 130 con box di pertinenza,, a mio nipote Clemente Carnaghi l’appartamento di via Marghera di mq. 80 con box di pertinenza- a mia nipote Clementina Vallesi l’ appartamento sito in montagna a Sestriere di mq. 60 con box di pertinenza e l’appartamento di via Cagnola di mq. 60, a mia nipote Marilena Vallesi l’appartamento di Cavi di Lavagna di mq. 60 più box di pertinenza e un appartamento di mq. 60 in via Cagnola. Per quanto riguarda i gioielli depositati nella cassetta di sicurezza in Banca desidero lasciare quanto ho detto per la Gianna e gli altri divisi tra i miei nipoti diretti e i due nipoti Gilberto e Carlo Salmoiraghi figli di un fratello di mia moglie Elvira, li dovranno periziare anche se già ho fatto fare una perizia che troveranno nella cassetta stessa, e poi dividerseli per estrazione. Lascio ai miei nipoti diretti e ai due nipoti indiretti per parte di mia moglie Elvira anche la metà del mio patrimonio investito da dividersi in parti uguali, mentre il resto dovrà essere dato in beneficienza 50 milioni a Medici Senza
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Frontiere, 50 milioni per i Missionari della Consolata, 50 milioni per la Lega del Filo d’Oro, 300 milioni dovranno costituire sia la dote che le spese da sostenersi per la bambina che ho in adozione a distanza da oltre cinque anni di nome Orissa Divali, minore di anni dieci presso l’ orfanatrofio in India, alla quale aggiungo anche l’ ultimo appartamento sito in via Cagnola al terzo piano di mq. 60 con box annesso e che dovrà entrare nel suo possesso effettivo alla maggiore età, mentre per ora verrà amministrato, e il ricavato andrà a sostenere le spese di studio. Il restante dovrà essere a disposizione del rag. Beretta per ogni pagamento di tasse e parcelle. Ogni pratica sarà seguita dal notaio Carones il quale potrà rivalersi della sua parcella per il suo lavoro a conclusione della consegna sull’ammontare complessivo. Desidero che la bambina venga amorevolmente seguita e che ci si accerti la sua disposizione allo studio in modo che possa arrivare anche ad una Laurea se lo desidera e che nel frattempo impari bene l’italiano in modo che se vorrà potrà venire ad abitare nella casa che le ho destinata. Lascio questo incarico alla mia fidata Gianna, se i suoi acciacchi glielo consentono, sostenuta dal mio amministratore rag. Beretta Gianfranco.. Ringrazio i miei nipoti per la loro frequenza di questi ultimi mesi nel venirmi a trovare: ringrazio per i biscotti, per la trippa, per i dopobarba, per i giornali, per avermi tagliato le unghie delle mani, penso che come zio io li abbia ricompensati magnificamente, quindi non desidero che vi sia da recriminare in nulla per quanto ho deciso, in quanto avrei potuto lasciare loro anche molto meno. Il mio ringraziamento va soprattutto alla cara Gianna che da quasi trent’anni si è occupata con fedeltà ed onestà del benessere mio e di mia moglie, sempre pronta a sacrificare se stessa, sostenerci, avere cura delle cose, a lei soprattutto che non si aspettava nulla da me e malgrado ciò è stata amorevole senza alcun secondo fine. I miei nipoti non debbono interferire in alcun modo e non debbono osare di disturbarla magari pensando che io non sia più nel mio intelletto, cosa che invece ho
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mantenuto sino in fondo. E poiché il primo capoverso avrebbe dato loro molto di più, lasciando comunque a Gianna e alla signora Angelina un appartamento per ciascuno e denaro, desidero che la spesa del mio funerale venga data al signor Notaio il quale defalcherà dal mio lascito a loro quanto hanno trattenuto, e non si azzardino a dire che lo avrebbero dato in beneficienza in quanto a questo ho provveduto io stesso. Incarico quindi Gianna di riprendere quanto non è stato speso, e offrire un pranzo degno ai miei amici e lasciando a loro quanto rimarrà. Il mio funerale megagalattico era un piccolo trabocchetto per vedere se i miei nipoti, che malgrado tutto amo ugualmente, avrebbero eseguito le mie volontà. Mi va bene comunque anche un campo qualsiasi, ma almeno ora le mie volontà sono esattamente eseguite e sarà incaricata la cara Gianna di occuparsi perché la riesumazione avvenga secondo le mie volontà, portandomi nel posto già pagato vicino a mia moglie Elvira. Ringrazio il Notaio Carones al quale ho rimesso la mia volontà. Ed ora se proprio volete miei cari nipoti, il signor Notaio potrà leggervi quanto avete perso non mantenendo il giuramento, ma secondo me vi conviene non saperlo>>. - Ebbene queste sono le volontà di vostro zio, che non possono essere discusse, essendo un atto pubblico essendo voi eredi di secondo grado, diretti e indiretti o estranei alla parentela.Gli occhi degli eredi legittimi si abbassarono, chi guardava le scarpe, chi si stropicciava le mani, chi sussultava in un singhiozzo improvviso, chi si soffiava il naso, ma alla fine tutti dissero: - Va bene accettiamo la volontà di nostro zio. - Noi non abbiamo nulla da obiettare- dissero i nipoti per parte della defunta moglie dello zio Carnaghi- anzi dobbiamo solo ringraziarlo per aver pensato anche a noi. Gianna e Angelina avevano gli occhi rossi per le lacrime sparse durante la lettura. Quando i nipoti, eredi diretti, uscirono dallo
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studio notarile, quasi non avevano fiato o occhi per guardarsi, avevano pure la noia di ricompattare quel gruzzoletto risparmiato sul funerale e che in parte avevano già speso, ma qualcosa la dissero: “Lo zio si era proprio rimbambito, e poi che c’entrano i nipoti della zia Elvira che è morta da anni?” oppure “ Sta a vedere che tra lo zio e la Gianna c’era una tresca …e tutto alle nostre spalle” ed anche” dovevamo vigilare più attentamente …ci ha dato proprio una bella fregatura”. Ci si sente fregati quando si pensa che le cose d’altri ci aspettino per diritto interamente godendo della fatica altrui con una vita spesa con parsimonia, senza aver mosso un dito per anni nell’aiutare, senza alcun merito, se non quello di un annacquato legame di sangue. Invece il sig. Michele Carnaghi alla fine, conoscendo i suoi polli, li mise tutti con le spalle al muro, punendoli quel tanto per imparare che: - chi troppo vuole nulla stringe o quasi-, proverbio da tenere in mente. Gianna e la signora Angelina invece erano troppo commosse e continuarono a piangere per tutto il tragitto sul tram che le avrebbe portate direttamente al cimitero sulla tomba del caro sig. Carnaghi con un mazzo di rose rosse, proprio quelle che a lui piacevano tanto e che regalava alla sua amata Elvira. Wilma Minotti Cerini
“... Eppure quel connotato non mi è nuovo!” Confidenze in monologo di Bobby Moon, con intorno solo se stesso di Ilia Pedrina
“N
on riesco a togliermi dalla mente l'idea fissa di me stesso. Mi amo come uomo e come donna e lei lo sa, anche quando non c'è, non siamo insieme, non ci sono scambi d'alcun genere, niente! Mi dice che sono clonato, ma se ha ragione, che cosa sono? Chi sono? Che cosa
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o chi amo di me? Tutto o solo qualcosa? Quando le ho detto che ai miei Totò piace, a me non tanto, ha riso divertita e mi ha elencato tutte le circostanze nelle quali io l'ho copiato di sana pianta, copiato dico, copiato! Senza accorgermene, senza che mi renda conto di tutto il resto intorno! Che l'abbia fatto per ridere di lei, di me? Che l'abbia fatto per farla ridere? L'adoro quando ride, tutto di lei è in quel sorriso felice, senza maschere e senza doppio strato pensato o sottinteso. Ve lo devo confidare: mi manca questo suo sorriso, così mi manco tutto anch'io a me stesso e mi par d'avere un mancamento come se fossi una donna incinta... Oh le donne quando sono incinte, come Maria che tutti vedranno, dopo, e che adesso va così gelosamente e segretamente fiera di quelle rotondità che sfidano lo spazio, quelle rotondità che sono VITA e non altro che VITA: io ormai non potrò essere una donna incinta, ma quando camminano così fiere del loro pancione e Maria con loro e prima di loro, duemila anni fa o adesso fa lo stesso, allora le ammiro e vorrei essere io dentro di loro, di lei, si, di lei, senza aver bisogno di nascere...Mi manco tanto perché mi manca il suo sorriso! Torniamo a me - come se me ne fossi mai allontanato!- e a me come clone di Totò: quando l'ho stretta forte forte nel buio dell'ascensore in salita e lei poi si è fatta aria con la mano destra, ridendo? Totò: Il turco napoletano! Vedere per credere! Quando ha visto in vetrina un bel completo tinta carta da zucchero per me e siamo entrati, me lo sono provato nello stanzino e poi mi sono presentato a lei e alla signorina commessa con la tenda a coprirmi le mutande, tutto sorridente nel vedere la loro espressione sorpresa, ma divertita? Totò: L'imperatore di Capri! Vedere per credere! Quando in macchina le dico che quella è la badante e lei non vede volti, ma una magrolina di schiena che io ho riconosciuto proprio dal fondo schiena? Proprio come a dire 'Eppure quel connotato non mi è nuovo!'? Totò: Il turco napoletano e Totò d'Arabia! Vedere per credere!
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E quando, ah, sì, in macchina! Ne faccio succedere sempre delle belle in macchina perché, guidando, se c'è lei o un'altra alla mia destra, hooops, faccio l'indifferente e metto la mia manona destra sulla coscia di lei, e premo, a veder cosa succede, sempre guidando ben s'intende, altro che telefonino... Solo una volta una mi ha preso il polso e mi ha rimesso la mano a posto, perché quella... quella, lasciamo perdere, di quella vi dirò un'altra volta perché quella sì... quella ...! Le altre? E anche lei? Hai voglia!!! e si saran fatte delle aspettative? Quando? Totò, Figaro qua, Figaro là, nella scena bellissima di lui vestito da Rosina sposina: lui, il capitano fa come faccio io e si trova la mano a posto sulla propria coscia e un bello schiaffone! Vedere per credere!... E poi ancora Totò cerca moglie, quando lui crede che ci sia lì la fidanzata, ha gli occhiali che proprio non ci vede niente, accarezza il bracciolo del divano, in velluto, e dice tra sé e sé 'Ci sta! Ci sta!' E poi bacia la domestica convinto che sia la fidanzata.... stupendo! E anche in Totò, Eva e il pennello proibito, quando lui, pittore, all'allievo spiega che '...Viceversa 'starci' è l'imperfetto del verbo 'pomiciare', in perfetto modo da Maestro! Volete una variazione su questo tema? Con la stessa tecnica, sempre al volante e in marcia, allungo la manona sinistra dietro il sedile, per toccare la gamba di quella che è vi è seduta e intanto la guardo dallo specchietto e rido tra me e me della sorpresa che provoco, ma qui Totò non entra nemmeno di striscio! Tutto merito mio, mio, mio oh questo mio bisogno di palpare la polpa delle femmine e quasi quasi di palparmi tutto se potessi! Adesso potrei ridere ma se c'è lei, hai voglia! Chi sono? Chi sono? Uno, due, tre, mille lui e lei messi insieme in uno a crearmi confusione in testa? E quando mi prendono i giovani che sono belli e non hanno maschere e tu puoi far loro credere di tutto e invece sei niente, sei proprio niente, e loro si fanno delle aspettative, professionali forse ma non solo ben s'intende -ma ne siam proprio sicuri o sono io che voglio eccitarli per distrarli? Perché non si impegnino più e magari arriva tra cop-
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pa e collo uno stordimento, una depressione chi sa mai, così la loro intelligenza va in fumo?- e tu dai loro incertezza, vaghezza, talora fingi di non sapere, di non farcela e disorienti, o magari non sai proprio niente? Qui Totò non c'entra: qui sono io che mi faccio pena che sprofonderei, eppure non cambio perché mi freme il sangue nelle vene, e voglio vedere se Dio esiste e se mi fa qualcosa e così vado io a provocare le situazioni... E precipito, hai voglia se precipito! E quella volta che, in pizzeria, lei è al centro dell'attenzione di ragazzi e ragazze, una ventina, e chi si ricorda mai cosa stava dicendo su Gesù, sull'identità, su che cavoli di cambiamento che lui chiede a ciascuno di noi e loro lì ammaliati ad ascoltare e uno mostra il tatuaggio sul braccio e un altro si sarebbe quasi messo in mutande, te lo dico io, tanto era eccitato dal fascino che lei emanava? Quella volta dico? Beh, puoi star certo che alla notte, rientrati a casa, l'ho fatta dormire da sola e l'avrei chiusa anche a chiave, dentro, sì, anche a chiave e l'ho trattata male, molto male, duro e arcigno come un orco che ha doppia pelle a bitorzoli, perché devo esser ben brutto quando mi arrabbio, ma io allo specchio, quando mi arrabbio non mi vedo mai e lei? Lei? Tranquilla, come se già sapesse tutto, prima che le cose accadano? Proprio come nel film Totò il medico dei pazzi, quando lui ha creato delle aspettative nei protagonisti e li crede pazzi e uno a uno li chiude dentro a chiave e si tiene tutte le chiavi in tasca e manda a chiamare infermieri e diversi metri di corda? O quando, in Totò l'imperatore di Capri, lui deve passare la notte d'amore con la moglie del Portoghese e arriva chi si crede il profeta Geremia, perché vuole aspettare con lui l'arrivo della Bestia Trionfante e lui gli assesta una bella bottiglia in testa e lo spinge nella stanzetta, arriva lei, Sonia, la slava, interpretata dalla biondissima Ivonne Samson, ipnotizzata alla grande, lo vuole tutto per sé e lui: 'Sarai buona buona?' 'Si, sarò buona buona!': pàffete la spinge nella stessa stanzetta e chiude a chiave '…Adesso è buona!'?
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L'amico, l'attore col 'pisello' gli aveva consigliato : 'È una slava vero? Quelle donne vanno trattate con lo scudiscio in una mano e una rosa nell'altra...'. A lui la lezione era andata male e ora non se la dimentica! Vedere per credere! E lei? E lei? E lei niente, come se niente fosse: al mattino, fresca come una rosa e io che avrei voluto averla vicina, nel mio lettone, perché, si sa, a poco alla volta capisco anch'io, credetemi, ho fatto le scuole alte: non ho dormito tutta la notte e volevo pigiarmi stretto a lei nel lettuccio dove l'avevo ficcata e non ho fatto né l'una né l'altra cosa, e io lì a farmi male e basta... Basta! Basta! E quella volta? Quella volta in autostrada un sorpasso mozzafiato e in velocità massima dalla seconda alla terza corsia quando sta arrivando sulla mia sinistra un bolide? E lei? Lei tranquilla mi dice: 'Siamo salvi per lo spazio di una vibrissa di gatto... Potevamo essere due angeli, come ha detto prima il tuo amico!' Mi son venuti i sudori e pazienza la sfida al sangue che corre in picchiata nelle vene e in testa, ma io a questa pellaccia ci tengo, ah se ci tengo... Mi viene in mente, si perché adesso mi vengono in mente tutte, quella volta che siam nell'abitacolo, è notte e io, nel salutarla accendo il cell e mi faccio luce alla faccia da sotto, così per spaventarla un poco, per sorprenderla, lei si mette a ridere e mi dice 'Proprio come in Totò Chi si ferma è perduto, quando loro due, Totò e Peppino de Filippo, cercano le proprie note caratteristiche e nell'armadio al buio è chiuso proprio Totò che si fa luce da sotto con la torcia per spaventare Peppino...'! Volete vedere per credere? Fate pure, perché è la pura verità! Devo ammettere che sono simulatore, dissimulatore, ingrato, arrogante, invidioso, ambizioso, si , questo l'ho detto io a lei, si, proprio ambizioso, e presuntuoso anche, opportunista, avido di guadagno? no, questo no, ma bisognoso di sicurezza si, questo è certo e quando lei mi sciorina queste caratteristiche dell'uomo in generale che il fiorentino Machiavelli mette in elenco una dopo l'altra e
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qualcosa devo essermi anche dimenticato, allora io lì a fare la verifica a voce alta, nota bene a voce alta e non nella mente e basta, di quelle che ho e di quelle che non ho, come un bamboccione alle prime armi dell'attenzione ossessiva verso me stesso... quante pelli mi ritrovo addosso, quante, così faccio una gran confusione e ci perdo la testa e intanto il tempo passa... E quella volta che tutto intorno dava avvii a dolcissimi corteggiamenti e io lì a parlare della morte, perché lei non si facesse illusioni, aspettative e quant'altro di erotico? Ecco, si, quella volta altro che bamboccione, mi son messo a parlare della morte per depistare i suoi desideri? Io? Con quelli miei che non mi lasciano mai, che mi ossessionano sempre e mi fanno essere malvagio come non mai con una semplicità sconcertante? Pensate: mi dice che mi è entrato dentro Totò Imperatore di Capri, quando lei, la baronessa von Krapfen dice a lui, Totò, il povero tapino suo 'prigioniero', di fronte ad un'alcova allestita con bare e quant'altro: 'Benvenuto nella villa della morte e dell'amore... In tutte le ore, anche in quelle del piacere, amo ricordare che la morte è sempre presente, solo così riesco a godere e a capire la vita...' avrà magari pensato che faccio parte del SISTEMA XY23? E magari lo credete anche voi? Basta! Basta! Quanti ce ne saranno di così, come me, con o senza e Totò e Peppino e Machiavelli e Gesù e tutti gli altri che lei mi tira in ballo? Quanti ce ne saranno? Ma perché dico io ha messo gli occhi su di me? Chi glielo ha fatto fare? O sono stato io a cercarla, a mettere i miei occhi su di lei? Io? Io? Mah! Mi convien far finta di niente, come sempre e intanto il tempo passa? Basta, basta, adesso basta! Quanti ce ne saranno di così come me, anche in questo momento con questo tormento addosso? Di così come me? Quanti? Quanti?” Ilia Pedrina (Eccetto le figure storiche, compreso l'ultimo Principe di Bisanzio, in arte Totò, ogni riferimento a luoghi, eventi e persone è puramente casuale).
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BUONGIORNO Sento un prurito nella mia testa ed ecco che mi metto allerta. Mi giro e mi rigiro, soqquadro tutta la zona del mio cervello e volo aldilà come un uccello. Cento pensieri si scatenano, ma io li agguanto e mi rassereno. Un abbaglio di sole mi balugina intorno, mi vien la voglia di gridare buongiorno! Buongiorno con tanta allegria, il prurito di colpo è andato via. Una bella giornata tutta agghindata a festa, che gioia brindare con tanto shampagne che mi fa girare la testa. Cav. Giovanna Li Volti Guzzardi Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori (A.L.I.A.S.)
RICHIAMO Entrava la sera nella stanza, colorava di rosa la tenda. Patinava i pensieri. Taceva la mente, si muoveva il cuore e come onda avvolgeva l’animo predisposto alla contemplazione. Fuori un cielo nuovo arabescato di voli. Un trillo partiva dal tetto un altro repentino rispondeva. Era un duetto d’amore e scriveva nell’aria la legge eterna della natura. Lina D’Incecco Termoli (CB)
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Servizio STAMPA I Edizione PREMIO EDITORIALE IL CROCO L’Editrice POMEZIA-NOTIZIE - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM) - Tel. 06 9112113 – E-mail: defelice.d@tiscali.it organizza, per l’anno 2020, la I Edizione del Premio Editoriale Letterario IL CROCO, suddiviso nelle seguenti sezioni : Raccolta di poesie (in lingua o in vernacolo, max 500 vv.); Poesia singola (in lingua o vernacolo, max 35 vv.) ; Racconto, o novella, o fiaba (max 8 cartelle. Per cartella s’intende un foglio battuto a macchina – o computer - da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1800 battute); Saggio critico (max 8 cartelle, c. s.). Le opere, assolutamente inedite (con titolo, firma, indirizzo chiaro dell’autore, breve suo curriculum e dichiarazione di autenticità) devono pervenire, in unica copia, per posta ordinaria o per piego di libri (non si accettano e, quindi, non si ritirano raccomandate) a: Pomezia-Notizie - via Fratelli Bandiera 6 00071 Pomezia (RM), oppure - ed è il mezzo migliore, che consigliamo - tramite e-mail a: defelice.d@tiscali.it entro e non oltre il 31 maggio 2020. Le opere straniere e quelle in vernacolo devono essere accompagnate da una traduzione in lingua italiana. Nessuna tassa di lettura. Essendo Premio Editoriale, non è prevista cerimonia di premiazione e l’operato della Commissione di Lettura di Pomezia-Notizie è insindacabile. I Premi consistono nella sola pubblicazione dei lavori. All’unico vincitore della Sezione Raccolta di poesie verranno consegnate 20 copie del Quaderno Letterario Il Croco sul quale sarà pubblicata gratuitamente la sua opera - lo stesso Quaderno verrà allegato al mensile Pomezia-Notizie (presumibilmente a un numero tra agosto e ottobre 2020) e sui numeri successivi saranno ospitate le eventuali note
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critiche e le recensioni. Ai primi, ai secondi e ai terzi classificati delle sezioni Poesia singola, Racconto (o novella, o fiaba) e Saggio critico, sarà inviata gratuitamente copia del mensile - o del Quaderno Letterario Il Croco - che conterrà il loro lavoro. Pomezia-Notizie, comunque, può sempre essere letta, sfogliata eccetera su: http://issuu.com/domenicoww/docs/ (il cartaceo è, in genere, riservato agli abbonati e ai collaboratori). Per ogni sezione, qualora i lavori risultassero scadenti, la Commissione di Lettura può decidere la non assegnazione del premio. La mancata osservazione, anche parziale, del presente regolamento comporta l’ automatica esclusione. Domenico Defelice Organizzatore del Premio e direttore di Pomezia-Notizie
IL CROCO i Quaderni Letterari di POMEZIA-NOTIZIE il mezzo più semplice ed economico per divulgare le vostre opere. PRENOTATELO! Inviate le vostre opere a defelice.d@tiscali.it Il n. 135, di questo mese, è dedicato a Manuela Mazzola
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I POETI E LA NATURA - 98 di Luigi De Rosa
D. Defelice - Metamorfosi (2019)
Sergej Esenin (1895 – 1925) e il fascino della natura russa
A
l poeta russo Sergej Esenin, originario di Konstantinovo nella regione di Rjazan, non piaceva la nuova Russia sovietica, quella che per la “liberazione della classe lavoratrice dallo sfruttamento capitalistico” era disposta a cancellare la libertà individuale, a spazzare via il Cristo dalle chiese (o le chiese stesse), a inurbarsi nelle grandi città (Mosca e le altre) a scapito dell'infinita pianura dell'amatissima Rus con la sua vita contadina, le sue tradizioni secolari e i suoi
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valori di conservazione e di rassicurazione. Esenin, comunque, non era del tutto coerente con le proprie idee, perché lasciò i boschi di betulle, i fiumi ghiacciati o in disgelo e si inurbò nella grande San Pietroburgo (la nuova Leningrado) come analogamente aveva fatto, con Mosca, il poeta suo avversario Wladimir Majakowskj (l'autore di una spregiata “lirica industriale”) che aveva invece aderito ufficialmente al verbo rivoluzionario di Lenin. Esenin, che aveva cominciato a scrivere poesie all'età di nove anni, si tuffò a capofitto nella vita pubblica letteraria, diventò famoso, sposò quattro donne (tra cui Tatjana, la nipote di Tolstoj, e la danzatrice americana Isadora Duncan). Scrisse le “Confessioni di un teppista”. Manifestazioni plateali del suo esagerato amore per la libertà più sfrenata. Ma non avendo l'appoggio e la protezione dei Soviet, anzi, soffrendone l'ostracismo e la persecuzione in quanto “pericoloso reazionario”, finì col rimanere moralmente stritolato. Fino al punto da suicidarsi, tagliandosi le vene, in una camera dell'Hotel Angleterre a Leningrado, il 28 dicembre 1925, a soli trent'anni. Del resto anche Majakowskj si sarebbe poi suicidato, sparandosi, in un'altra camera d'albergo. La Natura amata da Esenin è rimasta in molte e fiorite immagini delle sue più note poesie. Ricordiamone alcune: “Si specchiavano nello stagno le betulle guardavo dalla finestra l'azzurro fazzoletto, faceva il vento ondeggiare i riccioli come serpenti. Volevo nello scintillio della schiumosa corrente strappare un bacio alle tue rosse labbra” (“Imitazione di un canto”)
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Esenin cantava e ricantava l'amore, i baci, le tenerezze, fino allo sfinimento. Così come cantava insieme alla Natura: “Cantate nel fitto del bosco, uccelli, canterò con voi, seppelliremo insieme la mia giovinezza. Il mattino della trinità, il canone mattutino. Nel boschetto lungo le rive un bianco scampanare.” (“Il mattino della trinità”) “Dal boschetto è venuto ancora il cigno blu della notte portando sulle ali venerate reliquie” (“Il sorbo si è fatto rosso”) “Correrò sul calpesto sentiero verso la libertà dei vecchi solchi. Mi accoglierà, come suono di orecchini il riso di cantanti fanciulle Se griderà la schiera: “Lascia la Rus: vivi in paradiso!” io risponderò: “Non voglio paradiso. Lasciatemi la mia terra nativa” (“Ehi tu, Rus, amata mia”) Luigi De Rosa
OMBRE L'ampio arco del golfo che la roccia a strapiombo delimita e la rena ove il mare ritorna senza posa. E' un'altra estate, un'altra luce in cielo accende nubi perse in sogni arcani. Passato più non c'è, non c'è domani e la vita s'arrende silenziosa all'ora che la domina e la tiene. Ferma è nel cerchio di un suo vago bene, mentre voci ti cercano e parole d'ombre vane che vanno sotto il sole, perdute dentro il volo dei millenni. A notte gli astri inseguono le ardenti loro rotte... Elio Andriuoli Napoli
Recensioni ADRIANA PANZA KATRINA Edizioni Eva di Venafro, 2019, € 12,00, pagg. 62. Katrina non è solo un nome proprio di persona; in questo caso è una dolorante memoria a cui si è affiancata la voce poetica di un’artista scrittrice exdocente e poetessa di Isola Liri, del territorio frusinate, Adriana Panza. Lei ha provato nel cuore, a distanza di quattordici anni dal disastroso evento, il bisogno di dissipare l’ultima energia di quel vortice sterminatore che la mente collettiva ancora conserva, anche se non l’abbiamo vissuto noi del vecchio continente in prima persona, giacché quell’uragano, datato agosto 2005, colpì la costa atlantica degli Stati Uniti, con la Louisiana Bahamas New Orleans, provocando migliaia di morti. Ma al di là del fattore rovina, il lato positivo è che Katrina abbia ispirato a comporre versi in nome di qualcosa da riedificare per continuare a vivere e non soltanto dopo l’uragano, ma anche all’ indomani della scomparsa prematura del direttore dell’edizioni Eva di Venafro, Amerigo Iannacone – la cui casa editrice da lui fondata ha pubblicato la silloge in questione. Diciamo che l’effetto Katrina in senso vasto possiede il significato impetuoso dello sconvolgimento anche della sfera affettiva, amicale e quando nel luglio 2017 è venuto a mancare per un banale incidente d’auto il poeta, professore, traduttore dall’ Esperanto, Amerigo Iannacone, ebbene nelle coscienze di chi gli era amico – ma anche chi non lo conosceva di persona come la sottoscritta – è avvenuto proprio un ciclone misto ad estesa incredulità. «Sei andato via d’improvviso/ quando noi tutti/ at-
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tendevamo d’incontrarti.// La notizia, giunta inattesa/ è stata una pugnalata/ che senza pietà/ il cuore ha travagliato.// “Trattasi di omonimia!” – ripetevo/ perché ancora speravo./ Ma così non è stato/ e ben presto la realtà/ ho dovuto accettare./ Annientata son rimasta/ senza dire senza poter fare.// Oggi, il cielo non più sereno/ ma triste e lacrimoso, piange./ Piange la libellula/ che non vola sul prato,/ piange la margherita appena fiorita,/ e la vita tutta per la tua dipartita. […]» (A pag. 52). La poetessa Panza non poteva tracciare un parallelo migliore, chiamando in causa la forza devastatrice del sunnominato turbine della categoria più alta, per raccontare il grande dolore per Amerigo e non solo, perché Lei scruta il presente e ne annota i travagli seppure occultati qua e là « […] Tra rivoli e fossi,/ tra schizzi e scrosci/ la città vive deserta./ Guardo la collina/ di fronte casa mia/ rifugio dell’anima,/ magia d’incontri,/ di sussurri e fonti/ e vedo lacrime, lacrime/ fredde e scure/ e vie non più sicure./ I rami appesantiti,/ chinati fino a terra/ sperano in una tregua,/ aspettano il sole./ Anch’io fradicia/ fin dentro le ossa,/ attendo il tepore di un cuore,/ bramo un poco d’amore.» (A pag. 21). Si avverte, leggendo poesia dopo poesia, quell’ aria surreale che s’instaura dopo la tempesta quando i sopravvissuti si domandano se sia lecito, giusto, continuare a vivere, dopo aver perso cose importanti e persone care, e perché. L’autrice è una superstite che vuole risposte dall’amaro mutismo delle catastrofi del nostro tempo e nell’attesa non sa darsi pace soprattutto per coloro che stanno scontando, già su questa Terra, un infinito purgatorio. Ella si è fatta portavoce degli abbandonati, degli orfani, della natura nel desolante passaggio dall’ autunno all’inverno, dei ritratti urbani deturpati dei rami e ramoscelli che facevano da riparo ai merli, passeri e tortorelle, donando refrigerio nell’estate afosa agli anziani che nei pressi si sedevano sulle panchine. Ricordiamo che Adriana Panza ha alle spalle un passato vissuto in terra africana, allorquando giovanissima si trasferì in Somalia per ragioni di lavoro del padre, fautore, tra le altre cose, del primo libro di grammatica e sintassi della lingua ufficiale somala in concomitanza con l’ indipendenza nazionale raggiunta dalla Somalia nel 1960. Per aver molto viaggiato e considerato (spesso unicamente nell’intimo), l’autrice adesso ha rimestato il trascorso col presente all’indomani delle sue vicissitudini più infelici e per questo anche una semplice pioggia le appare un pianto singhiozzante dell’ anima, all’unisono con quello dell’intera umanità. Tuttavia apprezza la sua età, il suo tempo biologico che le permette di essere Finalmente libera sotto
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molti aspetti: è matura perché ha oltrepassato le procelle molte delle quali da sola, con le sue sole forze fisiche e spirituali; ha raggiunto la libertà di mettere la sua vita con tutte le sensazioni in versi senza badare al giudizio d’alcuno; ha conquistato la pienezza dell’Essere che è contento anche degli sbagli commessi, di qualche dimenticanza e dell’ affetto che ha donato senza misura non importa se a persone degne o meno. «Ora che nulla/ più mi tange/ e tutto scivola via,/ mi sento libera/ di pensare, tacere,/ ed osservare/ senza costrizione/ di rendicontare./ Così ascolto/ le altrui proteste/ ma non contesto/ non giudico,/ né attesto./ Indifferente resto.» (A pag. 57). Isabella Michela Affinito
DOMENICO DEFELICE NICOLA NAPOLITANO Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie 2011, pagg. 64. L’importanza di un affiatamento autentico si traduce quando un uomo di lettere riesce nei suoi lavori – in questo caso nel saggio che egli ha dedicato all’amico scomparso – a far rivivere quell’amicizia narrandone la storia, dal suo incipit fino alla conclusione dell’epistolario intercorso fra i due. Qualsiasi lettore della qui vagliata monografia comprenderà il peso di questo legame amicale, la durata, l’intensità alimentata da svariati motivi, la figura dell’uomo-amico stimato anche principalmente per quello che anche lui redigeva, componeva. Stiamo parlando di due uomini autori ambedue di numerose opere letterarie di vari generi: l’esaminato compianto preside, prosatore, poeta, ideatore del Premio letterario “Suio Terme”, Nicola Napolitano, classe 1914 e scomparso nel novembre 2003 nella cittadina di Formia, provincia di Latina, e l’esaminatore Domenico Defelice, poeta, giornalista, scrittore, direttore dal 1973 del mensile da lui fondato “Pomezia-Notizie”. Dopo un breve spaccato dell’esistenza ‘tortuosa’ di Nicola Napolitano, si entra nelle tematiche delle sue opere pubblicate negli anni a cominciare dal libro del 1967 Sorriso di mamma, sviluppato tra prosa e poesie. Vita zigzagante perché il poeta Napolitano nacque in un paese della provincia di Caserta, Casale di Carinola, da genitori dediti al massacrante lavoro agricolo alla vigilia della Prima guerra mondiale ed era un’utopia, per tantissimi problemi, pensare alla cultura persino al compimento degli studi universitari. Infatti, lui fino a dopo i vent’anni ancora stava nel suo paese a lavorare la terra e a soli tredici anni rimase orfano di padre. Non bastando questo arrivò categorica la chiamata alle armi, pri-
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ma nell’ambito della colonizzazione dell’Africa nel periodo fascista, poi con il coinvolgimento dell’ Italia nella Seconda guerra mondiale. Ancora, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 si trovava a Creta a combattere da soldato e, come tantissimi nostri connazionali, fu fatto prigioniero dai tedeschi non più nostri alleati e deportato in Germania. Fin qui sarebbe stata già una vita stracolma di esperienze difficili da tenere in serbo nel proprio animo di uomo poco più che trentenne, allorquando tornò nel 1945 a guerra finita desideroso di mutare il suo stato sociale attraverso gli studi fino alla laurea in Lettere nel 1946. Caparbio, lungimirante, accanito lavoratore e non soltanto della terra, abituato alla pazienza nell’attendere la venuta dei frutti sugli alberi da lui potati e concimati, umano, con una giusta dose d’ambizione positiva che lo portò a rivestire l’incarico di preside dell’Istituto Tecnico Commerciale e per Geometri “Filangieri” di Formia, e non solo, per arrivare a dirigere «[…] anche un Istituto Magistrale, cosicché mi trovo ad avere 61 classi dislocate in 7 plessi diversi, con 135 professori. Le lascio immaginare le mie giornate.» (Dalla sua lettera del 24-11-1968, a pag. 22). E intanto scriveva pubblicando successivamente la scelta di poesie nel 1969, Come un cero, che nel 1971 fu esposto a Parigi in una mostra internazionale di poesia; poi seguì l’altra raccolta di poesie nel 1972 dal titolo Anche il vento «[…] una delle migliori opere di Nicola Napolitano, perché in essa si fondono tutti i temi che hanno sempre ispirato quest’ autore apprezzatissimo da critici ed artisti per la sua delicata malinconia, per la sua dolorante filosofia scaturita da un’effettiva partecipazione ai drammi del mondo (la guerra soprattutto). Pure in questa continuità, il libro è diverso perché l’ ispirazione è nata solamente dall’amore.» (A pag. 4). Non si sa dove trovasse il tempo per comporre, per stilare saggi come il Fabulario di Maffeo del 1990, il romanzo Figlie di Eva del 1981, i racconti Vie di paese del 1975, di Casale. Proverbi e modi di dire del 1993, giacché si spostava anche per presiedere nelle commissioni degli esami di maturità a fine anno in altre località come, ad esempio, Rieti. Revisionava le bozze di opere letterarie anche d’altri autori per restituirle corrette, partecipava a cerimonie di presentazione di libri come quella volta dell’aprile 1969 nella sede dell’Associazione Culturale per la Gioventù, in occasione dell’uscita della sua silloge Sorriso di mamma e il futuro suo esaminante Domenico Defelice aveva poco più di trent’anni. Fu in quella giornata che si conobbero di persona, ma l’epistolario fra i due portenti della nostra letteratura contemporanea già era cominciato l’ anno prima, nel giorno della primavera 1968.
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Essendo di molti anni più grande, Nicola Napolitano elargiva consigli da vero padre al giovane Defelice ancora in cerca di una sistemazione sicura, stabile, nel ginepraio dell’ambiente limitrofo romano. «[…] Mi dispiace, invece, che Lei debba continuare a tirare la carretta dalle 5 del mattino alle 22 di sera. E pensare che c’è chi non sa come far passare il tempo! Cerchi di farsi una ragione. Non Le dico di adagiarsi quasi sconfitto su un’ accettazione passiva e fatalistica, no; ma soltanto di cercare di farsi una ragione della vita che pur continua ad esserLe ostile (in verità, ostili sono gli uomini; ma anch’essi sono la vita). Ad ogni modo, Lei è ancora relativamente giovane e avrà certamente ancora tempo per trovare un mandorlo fiorito, fiorito da una mandorla ancora gettata via al margine della strada e forse dimenticata. Allora, voltandosi indietro, non soltanto non maledirà di aver sofferto, ma sentirà gratitudine per i passi di pietre lacerati fra i rovi: perché Le avranno dato una maturità di pensiero e un senso di equilibrio e di umana comprensione che altri non avranno.» (A pag. 30). E chi poteva esprimersi per lettera in codesto modo, se non un uomo provato da drammi incancellabili dalla sua mente e dal suo cuore perché, appunto, cresciuto nelle tempeste belliche con mille privazioni; fino ad entrare ambedue gli amici letterati, Napolitano e Defelice, seppure in epoche distanti tra esse, da eminenti personalità attentamente studiate per tesi di laurea! Quante volte nelle sue missive – divenute qui lettere aperte – Napolitano proferì contro la corruzione per la conquista dei posti di professori, che nulla avevano a che fare con la formazione vera e propria dei candidati, l’importante era avere meriti politici o per appoggi politici. Si doleva per tale spettacolo riprovevole, ma intanto continuava sulla sua strada nel duro impegno scolastico e letterario, come un treno che non conosceva soste. Sì, perché poi giunse il declino anche per lui in opposizione a tanto suo darsi da fare e quando ciò avvenne lui era comunque in pace con la sua coscienza, avvolto dall’ aura modesta nella soddisfazione personale d’aver lasciato un solco del suo passaggio terreno. «[…] Ti ripeto che sono rassegnato, forse potrei dire anche sereno, di una particolare serenità, derivante dalla consapevolezza di aver fatto il mio corso e di trovarmi ormai accantonato ai margini della strada da una irreversibile legge naturale e aggiungerei sociale. Perché la società, oggi, io la vedo strutturata così: ti guarda, ti considera, in certi casi ti riverisce, fino a quando puoi dare qualcosa e sei qualcuno; nel momento in cui non puoi dare più niente, diventi nessuno: ti si dimentica, ti si ignora: è come se non esistessi più, o addirittura come se
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non fossi mai esistito. […] Tu continua pure la lotta. Devi farlo, per i motivi che ti ho accennati. E scusami, se merito di essere scusato.» (A pag. 51). Isabella Michela Affinito FRANCESCO D’EPISCOPO LA POESIA DI IMPERIA TOGNACCI (Genesi Editrice, Torino, 2019 € 11,00). Nativa di San Mauro Pascoli, ma da molti anni residente a Roma, Imperia Tognacci è poetessa per vocazione, oltre che un’acuta interprete di testi letterari, attività per le quali ha ricevuto numerosi riconoscimenti. Di lei si è occupato recentemente il Professor Francesco D’Episcopo, con un saggio nel quale esamina in particolare la sua poesia. D’Episcopo inizia il suo saggio con un capitolo: Giovanni Pascoli. La strada della memoria, che ricalca il titolo del primo libro della Tognacci, in cui ella parla diffusamente di questo poeta a lei molto caro, oltre che per motivi estetici, perché suo conterraneo. D’Episcopo si sofferma a sua volta con l’acutezza del critico esperto sulle pagine della Tognacci, rilevando innanzi tutto i pregi della sua prosa, che in molti casi gareggia con la poesia. Acute osservazioni D’Episcopo fa poi anche intorno a un altro libro della nostra autrice, Odissea pascoliana, osservando come la suggestione della terra di Romagna sia in esso prevalente, con la sua segreta forza e la sua energia «verace e sanguigna». Dopo La notte di Getsemani, libro sul quale il nostro critico a lungo si sofferma, si giunge a Natale a Zollara, «luogo dell’anima, nel quale si concentrano i sensi e i sentimenti più profondi» e dove I fuochi di San Giuseppe accendono memorie che si bagnano nelle “giornate di cicale”» (Da una scia azzurra). È questo un «mondo d’acque, di donne, che separavano il riso dalla gramigna, e i cui canti alleviavano il peso quotidiano di una fatica immensa»; un mondo nel quale «l’arrivo del Natale … conferma il richiamo ad archetipi secolari». In La porta socchiusa troviamo «il dialogo con Dio» che «si fa incalzante, serrato, nella richiesta insistente di una presenza, di una partecipazione al dramma dell’uomo». C’è qui «la sfida che la poetessa lancia … alla “chiusura” che ha accompagnato l’apparizione di Dio sulla terra» e c’è il riaffiorare dell’eterna domanda: «Dove cercarti, Dio?», che assilla la poetessa, la quale ha «sete di sicurezze» ed esclama: «Sei tu, Signore, il vento che riscatta / l’ossatura fragile del dolore, / le pieghe della storia» (Percorso circolare). D’Episcopo passa quindi ad esaminare alcune sillogi di più ampio respiro, che assumono forma
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poematica, come Il prigioniero di Ushuaia, che si compone di venti canti, nei quali la vicenda si sviluppa con varie immagini e vari pensieri, sino a giungere nel canto ventesimo al trionfo della poesia. Segue un altro poema: Il lago e il tempo, che costituisce, secondo l’editore Sandro Gros-Pietro, «il momento più alto raggiunto da Imperia Tognacci». Viene quindi Il richiamo di Orfeo, dal quale, come osserva D’Episcopo, emerge quello che è il compito proprio della poesia, la quale «è chiamata a ridare senso e valore alle persone e alle cose attraverso la forza di parole da contrapporre al vano suono del nostro tempo». E viene Nel bosco, sulle orme del pastore, dove si affaccia il tema del bosco, nel quale «si cela forse il segreto di una vita, di una poesia, che hanno sempre rincorso il cielo come scrigno di meraviglie». Compare qui Aristeo, il pastore mitico, figlio di Apollo e di Cirene, che insegnò agli uomini l’ apicoltura e la pastorizia, «il quale diviene una sorta di … controfigura (della poetessa), o meglio la sua vera figura, che le consente di esprimere, attraverso un dialogo intelligente e intenso, ciò che non sempre si può dire da soli». Là dove pioveva la manna è l’ultimo libro (per ora) di Imperia Tognacci e su di esso anche si sofferma Francesco D’Episcopo, rilevando come ne emerga «una poesia ormai matura», che consente alla nostra autrice la possibilità di «lasciare un segno durevole del proprio passaggio» sul mondo; un segno con il quale «il viaggio interiore della poetessa si configura come avvicinamento “alla terra promessa”». Il saggio di D’Episcopo si chiude con un Post scriptum nel quale l’autore (che, non bisogna dimenticare, è un valente critico, già docente presso l’Ateneo napoletano Federico II) osserva come la Tognacci, «lontana dalle neoavanguardie, ne crei una, tutta personale, fatta di parole e cose familiari ma anche universali, nelle quali potersi riconoscere integralmente, sinceramente, umanamente». Nel che sta poi il vero significato della sua poesia, che il Professor D’Episcopo ha egregiamente evidenziato con questo suo lavoro. Elio Andriuoli
MARIAGINA BONCIANI GABBIANI Prefazione di Angelo Manitta - Il Convivio Editore, 2019 - Pagg. 48, € 8,00 Mariagina Bonciani è un’amante della Natura. Da sempre partecipa a escursioni, in solitudine o
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in comitiva e accompagnandosi alla madre, finché questa non è morta e alla quale è stata e rimane sempre profondamente legata. Altrettanto ama la musica, che vede ampiamente e intimamente coniugata alla Natura nella bellezza, nell’armonia, nella poesia; un perfetto connubio di amore, insomma, che, poi, è l’unione più vera tra umanità e divinità, un tutt’uno tra creature vegetali, animali e mari e terre, a tal punto da proporre all’Unesco di non limitarsi a dichiarare solo alcuni monumenti o alcuni paesaggi patrimonio di tutti, ma l’intero pianeta. A testimoniare sono i suoi versi, semplici, privi di retorica; il suo narrare spontaneo, vera confessione del cuore. Città come Milano, Verona, Firenze, Stresa; regioni come la Toscana, l’Umbria, la Lombardia; vallate verdeggianti e montagne aspre scintillanti nel sole o ammantate di nuvole, nelle mattine, nei tramonti o nelle notti stellate; creature come api, cigni, farfalle, stormi di uccelli, ricevono da lei una sincera e assoluta confessione di affetto. Accanto a queste e a tante altre smagate visioni e a realtà quotidiane - non sempre idilliache se vi fa capolino anche la morte -, risalta, in Gabbiani, una delicatissima storia di amore, sconosciuta ai più, da qualcuno semplicemente intuita, per esempio da Mrs. M. (la Signora M., la proprietaria di un albergo o semplicemente un’affitta camere?), la quale, impicciona, chiede, un giorno, alla protagonista: “How are you getting on with Tony,/Maria?” (Come va con Tony, Maria?). Storia delicata, misteriosa quanto platonica e tutta da intuire, perché Mariagina Bonciani accenna, non esplicita, non entra nei particolari. Tony è musicista e sembra pure cantante, morto da qualche tempo, al quale la poetessa confessa: “Vivente,/ eri il mio sogno./Assente,/sei la mia realtà”. Tra Mariagina e Tony c’è stato un lungo e mai reciprocamente confessato amore. Certo è che la poetessa l’amò profondamente e incondizionatamente. Se Tony abbia nutrito con altrettanta intensità lo stesso affetto, c’è qualche dubbio, lo lascia intuire la stessa protagonista con un “forse” (“ma vicini forse”); vien quasi da pensare ch’egli fosse legato ad altra donna, che avesse una famiglia, ma è certo che anche lui, almeno un poco, l’abbia intimamente amata. L’attaccamento della poetessa a Tony è dolcissimo e delicato; lei soffre e, nel contempo, gioisce nello stargli accanto: “Ore felici, quando insieme/cenavamo soli prima del concerto/(…), io silenziosa,/emozionata, non sapendo cosa dire” e, poi: “Ore sofferte, quando terminate /le mie vacanze ci salutavamo”. Lei, insomma, per anni
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spendeva le sue ferie a Londra, per stare vicina al suo uomo; poi tornava in Italia alle sue incombenze, il pensiero fisso, però, alle vacanze successive, quando sarebbe ripartita per incontrare nuovamente il suo Tony. Gli incontri avvenivano nei giardini di Kensington, o altrove, o nell’Albert Hall, dove si svolgevano i concerti. Amore assolutamente platonico? La lirica “Tutta una vita” sembra non lasci alcun dubbio: “Tutta una vita è racchiusa per me in quegli istanti in quelle ore vissute in tua presenza anche se distanti, anche se silenziosi, ma vicini forse nel reciproco e muto affetto. Tutta una vita è racchiusa per me in quei momenti, in quelle ore in cui sentivo la dolce voce tua e del tuo violino. Tutta una vita così in quel breve tempo ho vissuto con te. Tutta una vita.” Più esplicito, che sia stato un amore utopico, lo si ricava, ancora, dalla lirica “Pensiero”, nella quale la poetessa auspica che nell’altra vita, dove lui già si trova, un giorno entrambi possano finalmente dirsi “tutto quello che sempre/in questo mondo terreno/abbiamo taciuto.” Tuttavia, qualche pulsione di erotismo - eroicamente vinto - c’è stato, almeno nella donna, la quale, una volta, giunta dall’Italia nella città inglese, si precipita nella casa (o nell’albergo?) “at number ninety di West Cromwell Road”, fino “alla porta della (sua) stanza”, ma si ferma, vinta dal pudore. La scena ha ombre e luci, realtà e vaghezza si mescolano. Entrata nella propria stanza, la poetessa ascolta lui suonare nella stanza accanto “Bach, e poi Granados”. Ma oltre la parete c’è veramente lui o è tutta una finzione, il ricreare una scena verificatasi in passato? “…al termine/ho spento la registrazione/che tanti anni fa per me/tu avevi inciso.” Vero o farso, realtà o finzione. Che importa? L’attrazione di questi versi di Mariagina Bonciani, il loro coinvolgerci, vive proprio nell’ ambiguità, in questi sprazzi d’atmosfera romantica, che riportano al passato, che lasciano in noi una dolce e malinconica saudade, ma anche un sottilissimo spleen. Domenico Defelice
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GABRIELLA FRENNA COME VOLI D'AIRONI Editore: MAGI, 2019, € 10,00. Il volume è diviso in tre sezioni: nella prima vi è un omaggio al genio di Leonardo Da Vinci; nella seconda la poesia di Gabriella Frenna guida il lettore nella comprensione dell'arte di Leonardo e nella spiegazione delle opere e della tecnica musiva del padre Michele; nell'ultima parte c'è una raccolta di recensioni. Nella prima sezione Gabriella ripercorre la vita di Leonardo, le sue opere, la sua tecnica pittorica, l'importanza della luce e della natura; è una sorta di piccolo manuale che introduce il lettore nella sezione successiva, nella quale le poesie di Gabriella accompagnano il lettore nella lettura di alcune opere del grande maestro. Viene messa in evidenza la tecnica dello sfumato, le sue infinite conoscenze, la mente geniale. “I numerosi interessi/ nutriti da Leonardo/ svelarono l'animo/ bramoso di conoscere” […] “Estroso artista/con vaste visioni/ donò ai fruitori/pitture rivelanti/ tipicità del mondo/ vissuto ogni giorno”. Successivamente l'arte di Gabriella viene messa in relazione con quella del padre: poesia ed arte musiva, due diverse forme di espressione che però si completano. All'interno del libro sono presenti commenti di Luigi Ruggeri che ha curato anche la prefazione, il quale afferma: “Il lettore più attento potrà, sfogliando queste pagine, passare dalla dimensione dello spazio dell'opera di Michele a quella del tempo di Gabriella visto che la poesia riguarda il tempo perché essa è movimento, progressione, passaggio”. Dai versi di Gabriella nasce una spiritualità così profonda che si congiunge a quella del padre Michele ed entrambe si aprono all'universale, per scoprire le verità presenti nell'intimo dell'uomo. Nell'ultima parte sono state riportate alcune recensioni di Tito Cauchi, Pantaleo Mastrodonato e Giuseppe Pietroni. L'arte poetica di Gabriella viene definita come un dialogo esterno tra l'animo del poeta e tutto ciò che la circonda; è un servizio alla sua terra e mediante i suoi versi afferma i valori più sacri per l'umanità. La magia della sua poesia è quella di saper unire l'illusione del vedere con la realtà del toccare con mano. Manuela Mazzola
MARIAGINA BONCIANI GABBIANI Editore: Il Convivio, 2019, € 8,00. La silloge “Gabbiani” di Mariagina Bonciani è un inno alla vita e alla speranza. La poetessa, che vive a Milano, pubblica i suoi componimenti oramai da
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quasi dieci anni ed ha ottenuto notevoli riconoscimenti mediante concorsi letterari. “Nel silenzio e nella solitudine/ viene la Poesia,/ come un'amica/ discreta/ che conosce/ qual è il momento giusto/ per parlare”. La poesia è lo strumento attraverso il quale la Bonciani ricorda il passato, i luoghi speciali che ha visitato e sempre per mezzo dei versi, riesce a librarsi nel cielo e come un gabbiano a spiccare il volo sulle ali della fantasia. In molte liriche denuncia i problemi sociali del nostro Paese: “Ed anche qui in terre ogni volo/ comune sarebbe felice e sicuro/ se ognuno volando restasse/ compatto nel gruppo/ rendendolo forte”. Nei suoi versi non manca la descrizione del paesaggio naturale, espresso con uno stile delicato e sobrio: “E l'ombra dei monti/ è azzurra/ sul bianco cristallo […] e le luci che splendon stasera/ sembrano tante stelle/nel candore freddo/ di questa valle". Nelle sue liriche vi è una sinestesia poiché, può succedere che, a volte, la parola scritta stimoli un altro senso. Questo è il caso della nostra poetessa che ha la capacità di rendere le sue composizioni uniche dal punto di vista della contaminazione sensoriale e allo stesso tempo, mette in evidenza le bellezze dell'Italia e le problematiche sociali: "Penso/ che per questo o quel motivo/ ogni metro quadro/ di questa nostra bella Terra meriti/ di essere protetto e conservato". Infatti, Giuseppe Manitta nella prefazione del volume afferma che il poeta è colui che vagheggia un futuro migliore e Mariagina Bonciani, parlando dei luoghi Unesco, esprime la speranza che siano tutelati, insieme a tutta la Terra e da questa utopia si possa arrivare al rispetto degli altri e di noi stessi. L'autrice con i suoi versi riporta il lettore alla libertà di poter essere, ma anche alla libertà di poter difendere ciò che ci è stato donato dalla vita e che si trova su questo pianeta. Manuela Mazzola
LA DONNA E LA CASA Vedi correre la tua cerbiatta nella casa, tutte le sue pose e i movimenti, le ginocchia piegate fanno la tua gioia, la guardi dal basso e dall'alto. Concretezza che si modella sempre, cambia volto e si abbellisce. Vitalità raddoppiata, sintesi che si intensifica, la prendi in una mano. Certe idee somigliano ai muri della casa stanno dentro senza uscire fuori,
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vanno con le persone dietro i passi. Fermezza dei sentimenti robustezza dei mattoni. Idee immutabili, affondano nel corpo, sono sotto le pietre, dentro cespugli folti, sotto il terreno ammassate, nei cammini tortuosi non le trovi, si fanno sentire, guidano con punti di luce, non riesci a trovare dove sono legate. I necessari sentimenti di durevole consistenza sono massi addossati. Tutto rotola denudato, si toglie la patina, la pelle fine si stacca. Rimane l'ossatura della vita dell'uomo costruita dalle mani e dalle idee: un'ostinazione della passione con modi artigianali come per gli oggetti fatti da strumenti rudimentali. Leonardo Selvaggi
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Sì, vola nell’azzurro e atterra nella mia Terra, nella mia dolce Italia e la sua primavera meravigliosa, dove ogni fiore porta la poesia nel cuore! 5 – 10 – 2019 Cav. Giovanna Li Volti Guzzardi Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori (A.L.I.A.S.), Melbourne.
Torino
LA STAGIONE DEL SOLE Come in estasi ascolto il canto degli uccelli, il profumo dei fiori mi fa amare questa primavera, che colma il cuore di frenesia e dà la gioia di creare una poesia. Primavera e poesia, un duetto che fa volare e sprona la fantasia, con il sole che splende, regalando un madrigale ricco di tanta allegria. Primavera, la stagione della nostalgia, la stagione del sole, la stagione dell’amore, la gioia ad ogni ora mentre la mente vola.
D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE OMAGGIO A CECCARDO ROCCATAGLIATA CECCARDI IL POETA VIANDANTE - Giovedì 24 ottobre, alle ore 17, nella Sala Trasparenza della Regione Liguria (piazza De Ferrari 1) si è svolto l’incontro Ceccardo Roccatagliata Ceccardi. Il poeta viandante, organizzato dalla Regione Liguria in collaborazione con la Fondazione Mario Novaro. A cento anni dalla morte di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi (Genova 1871 – 1919) la Fondazione Novaro gli ha dedicato il Quaderno monografico n. 89 de «La Riviera Ligure» e il video Ceccardo Roccatagliata Ceccardi. Il poeta viandante. Entrambi sono stati presentati in questa occasione, introdotti dall’Assessore alla Cultura della regione Liguria, Ilaria Cavo, con gli interventi di Enrico Testa e Paolo Zoboli. Ceccardo Roccatagliata Ceccardi è stato uno dei maggiori collaboratori de «La Riviera Ligure» e
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amico di Mario Novaro, il direttore che ha portato il foglio informativo della ditta olearia Sasso a imporsi come la più innovativa rivista culturale degli inizi del Novecento. Ceccardo ha faticato a ottenere la fama che merita e probabilmente non ha mai raggiunto. Poeta marcato dai segni del “maledettismo”, a lui viene attribuita l’origine della linea ligure che porterà non solo ad Eugenio Montale e al Premio Nobel, ma anche alla ricerca musicale dei più noti cantautori liguri, da Fabrizio De Andrè a Luigi Tenco e Bruno Lauzi. I suoi componimenti si soffermano sovente sul paesaggio ligure e sul carattere di una terra che, come lui stesso, conosce il valore della conquista e della perdita. L’anniversario della morte di Ceccardo si è presentato come la più giusta occasione per realizzare un numero monografico de «La Riviera Ligure» e un video destinato soprattutto al pubblico scolastico, allo scopo di rinnovare la conoscenza fra i giovani di un grande artista nato e cresciuto in Liguria. Il Quaderno n. 89 de «La Riviera Ligure» comprende gli interventi di Enrico Testa (Ceccardo. Le ragioni di un anniversario), Paolo Zoboli (Ceccardo, Mario Novaro e «La Riviera Ligure»), Alessandro Fo («Credo che non le dispiacerà»: il saggio di traduzione da Rutilio di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi), Francesca Corvi («Venerando e eroicomico»: la poesia di Ceccardo tra le pagine ungarettiane), oltre al sonetto Ricordo d’ottobre di Ceccardo pubblicato solo una volta sul supplemento al «Caffaro» del 24 novembre 1895 e ritrovato dallo scrittore Paolo Zoboli. Il video Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, diretto da Ugo Nuzzo, è un ritratto di un uomo dalla vita travagliata che trovava un equilibrio interiore nel contatto con la natura ligure, descritta mantenendone vivi la forza e il carattere. Il video prende spunto proprio dal volume in prosa Lettere di crociera, pubblicato nel 1996 da San Marco dei Giustiniani a cura di Paolo Zoboli. È il diario di un viaggio in barca, compiuto dal poeta e due amici nel 1898, da Quinto a S. Fruttuoso di Camogli, che li porta dal buio di una notte d’estate alla luce che rischiara la visione del mondo e spinge lo sguardo fino all’ infinito. *** IN RICORDO DI ORAZIO TANELLI - Ci scrive ancora da Milano l’amica Bonciani il 23 ottobre: Sono desolata e triste per la scomparsa di Orazio Tanelli. Lo conoscevo soltanto dal 2012 e solo per corrispondenza, in quanto si era rivolto al direttore di Pomezia-Notizie per avere il mio indirizzo e mie poesie da pubblicare nel Ponte Italo-Americano. Da allora ho avuto modo di apprezzarlo per la sua grande umanità, semplicità e bontà d’animo, oltre
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che per la sua vasta cultura. Legatissimo alla famiglia, aveva molto sofferto per la prematura morte dell’amatissimo figlio e la successiva malattia della moglie. Ultimamente scriveva a fatica e ci sentivamo al telefono. Lo stimavo molto, era una brava e dotta persona che ricorderò sempre anche nelle mie preghiere. Mariagina Bonciani *** PRESENTATO LISCIO COME L’OLIO - Liscio come l’olio è il titolo del libro che Guido Novaro ha scritto ripensando alla sua vita e alle vicende della sua famiglia, fondatrice dell’industria olearia Sasso. Fu Agostino Novaro a fondare l’azienda nel 1860 intitolandola alla moglie Paolina Sasso. La saga dell’Olio Sasso è stata presentata martedì 5 novembre 2019 (ore 16,30) al Teatro dell’Opera del Casinò di Sanremo (corso degli Inglesi 13), nell’ ambito dei Martedì Letterari curati da Marzia Taruffi. Insieme all’Autore sono intervenuti lo scrittore Marino Magliani e Roberto Casalini, attivo in campo editoriale. Coordinatrice Maria Novaro, presidente della Fondazione Mario Novaro. Guido Novaro, nato a Sanremo nel 1956, è figlio di Cellino, ultimo discendente in linea diretta dal capostipite Agostino. Il suo sguardo su un secolo e mezzo di storia familiare vuole essere sincero. Così accanto ai fasti delle ville con servitù, delle scuole svizzere, dell’intelligenza imprenditoriale, del coraggio nella lotta partigiana, della sensibilità culturale, trovano spazio anche le debolezze degli uomini, la severità ingiustificata e quasi crudele del padre, la distanza emotiva dagli affetti più cari, l’ educazione militare del nonno. Intorno a tutto questo c’è la parabola di un’eredità evaporata tra peripezie e colpi di scena, in cui una dinastia si separa lasciando spazio ad altre storie e l’olio sparisce. Guido Novaro dopo l’Università ha lavorato e lavora nelle aree marketing e comunicazione di diverse società multinazionali e agenzie pubblicitarie. Ha vinto il Media Key Press and Outdoor come direttore creativo nel 2016. Vive a Moncalieri, è sposato e padre di tre figli. Questo è il suo primo libro, in cui ha rivelato la passione per il mondo oleario che lo ha portato a fondare la Guido 1860. Altre olive, nuovo olio. Dal libro è nata un’azienda e iniziata una nuova storia. *** PREMIO SCRIPTURA - Partecipazione gratuita, numerosissimi i Premi. Per partecipare all’edizione 2020 del Premio Scriptura artistico letterario internazionale, con circa 19 sezioni, occorre inviare i lavori entro il 15 gennaio 2020. Chiedere informazioni, regolamento completo e scheda di partecipazione, alla Segreteria del Premio Scriptu-
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ra c/o Anna Bruno - via G. Marconi 245 - 80030 Mariglianella (NA). Cellulare: 33 88021032; email: annabruno@gmail.com *** UN TERZO PREMIO A MARIAGINA BONCIANI - Con il volume Gabbiani (Il Convivio Editore), la nostra collaboratrice da Milano, Mariagina Bonciani, ha vinto il terzo Premio alla prima edizione del Concorso “Il Canto di Dafne”. La cerimonia di premiazione si è svolta ad Aulla il 24 novembre 2019. Ci complimentiamo con l’Autrice.
LIBRI RICEVUTI MARIAGINA BONCIANI - Gabbiani - Prefazione di Giuseppe Manitta - Il Convivio Editore, 2019 - Pagg. 48, € 8,00. Mariagina BONCIANI vive a Milano dove è nata nell’aprile 1934 e si è diplomata in Ragioneria nel 1953, ma ha sempre prediletto le materie letterarie e le lingue. Conoscendo il francese e lo spagnolo ed avendo perfezionato soprattutto lo studio dell’ inglese, ha lavorato, dal 1953 al 1989, come segretaria di direzione, capo ufficio e corrispondente presso tre diverse ditte nel settore import-export. Ama la lettura, i viaggi e la musica classica. In pensione dal 1989, per alcuni anni si è dedicata alla madre inferma, smettendo di viaggiare, ma studiando pianoforte, russo e greco antico. Non si è mai sposata. Da qualche anno ha iniziato a presentare nei concorsi letterari le sue poesie, ottenendo sempre riconoscimenti e premiazioni. Molte sue poesie sono state pubblicate in antologie e riviste. Nel 2010 ha pubblicato nei quaderni “Il Croco” della rivista “Pomezia-Notizie” la silloge “Campane fiorentine”, accolta con entusiasmo dalla critica e nel 2011, sempre per “Il Croco”, la silloge “Canti per una mamma”. Nel 2012 è uscita presso le Edizioni Helicon la sua raccolta “Poesie” e, poi, nel 2015, “Sogni”, “Ancora poesie” (2015), “Canti per una mamma e atri ancora” (2015). Sue poesie vengono regolarmente pubblicate nella suddetta Rivista e sulla Rivista “Silarus”. Vince il primo premio al concorso “Città di Avellino - Trofeo verso il futuro” 2013 con la silloge “Poesia e musica”, edita nel 2014. E’ presente nel volume “Poeti contemporanei - Forme e tendenze letterarie del XXI Secolo” (2014), a cura di Giuseppe e Angelo Manitta. ** ISABELLA MICHELA AFFINITO - Luoghi Personali e Impersonali - Poesie - In copertina, a colori, elaborazione grafica dell’Autrice, con penna-
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relli colorati di varia grandezza e collage, alla riproduzione dell’opera di René Magritte dal titolo “Elogio della dialettica”; Nota dell’Autrice, Premessa di Gianni Ianuale, Prefazione di Carmine Iossa, Introduzione di Silvio Giudice Crisafi, numerose altre testimonianze, tra cui Biagio di Meglio (in bandella), Luciano Somma, Amelia Placanica, Tina Piccolo - Brignoli Edizioni, 2018 - Pagg. 128, € 18,00. Isabella Michela AFFINITO è nata in Ciociaria nel 1967 e si sente donna del Sud. Ha frequentato e completato scuole artistiche anche a livello universitario, quale l’Accademia di Costume e di Moda a Roma negli anni 1987 - 1991, al termine della quale si è specializzata in Graphic Designer. Ha proseguito, poi, per suo conto, approfondendo la storia e la critica d’arte, letteraria e cinematografica, l’antiquariato, l’astrologia, la storia del teatro, la filosofia, l’egittologia, la storia in generale, la poesia e la saggistica. Nel 1997 ha iniziato a prendere parte ai concorsi artistico-letterari delle varie regioni italiane e in seguito ha partecipato anche a quelli fuori dei confini d’Italia, tra cui il Premio A.L.I.A.S. dell’Accademia Letteraria ItaloAustraliana Scrittori di Melbourne. Ha reso edite quasi 60 raccolte di poesie e volumi di critiche letterarie, dove ha preso in esame opere di autori del nostro panorama contemporaneo culturale e sovente si è soffermata sul tema della donna, del suo ruolo nella società odierna e del passato, delle problematiche legate alla sua travagliata emancipazione. Con “Da Cassandra a Dora Maar” (2006) ripropone le infinite donne da lei ritratte nei versi per continuare un omaggio ad esse e a lei stessa. Inserita in moltissime antologie, tra cui l’ “Enciclopedia degli Autori Italiani” (2003), “Cristàlia” (2003), “8 Marzo” (2004), “Felicità di parole...” (2004), “Cluvium” (2004), “Il suono del silenzio” (2005) eccetera. Sempre sul tema della donna ha scritto un saggio sulla poetessa Emily Dickinson. Pluriaccademica, Senatrice dell’Accademia Internazionale dei Micenei di Reggio Calabria, collaboratrice di molte riviste, è presente in Internet con sue vetrine poetiche. Tra le sue recenti opere: “Insolite composizioni” - vol. VIII (2015), “Viaggio interiore” (2015), “Dalle radici alle foglie alla poesia” (2015), Una raccolta di stili (15° volume, 2015), “Percorsi di critica moderna - Autori contemporanei” (2016), Mi interrogarono le muse… (2018), “Autori contemporanei nella critica (Percorsi di critica moderna)” (2019), “Una raccolta di stili” (17° volume, 2019). ** ISABELLA MICHELA AFFINITO - Una raccolta di stili - 17° volume - Poesie dedicate a molti ar-
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tisti e loro opere - Carta e Penna Editore, 2019 Pagg. 74, s. i. p..
TRA LE RIVISTE MISTICA E FILOSOFIA MARCO VANNINI DIRIGE 'MISTICA E FILOSOFIA'. - Marco Vannini ha offerto tutta la sua prestigiosa competenza nel guidare e coordinare la nuova Rivista Semestrale MISTICA E FILOSOFIA per i tipi dell'Editoriale 'Le Lettere', fondato nel 1976 dagli eredi di Giovanni Gentile, nella continuità del suo spirito e del suo mandato etico, un percorso questo che mancava alla grande serie di materiali d'altissimo livello culturale nei campi dell'arte, della cultura filosofica, letteraria, su Dante, Petrarca e quant'altro, perché basta scorrerne il catalogo dettagliato in rete, che affascina perché congloba in sé oltre a tutte le Opere e i Carteggi di questo grande filosofo italiano, anche le voci più significative del più ampio panorama di conoscenze che si possa avere oggi a portata d'intelletto nutrito da passione. Il primo numero, già presente in abbonamento, è ricco di contributi interessanti perché legati alle tematiche assai attuali del rapporto tra psicologia, filosofia, teologia e mistica. Il Vannini apre alla mistica tutto il fronte della filosofia d'Occidente come d'Oriente, avvantaggiando la riflessione anche per i non addetti ai lavori su orientamenti legati all'analisi e all'interpretazione del reale; alla dinamica accettazione delle prospettive altre rispetto al punto d'approdo della filosofia occidentale moderna e contemporanea; alla costruttiva ed espansiva considerazione dell'approccio religioso ai problemi che surriscaldano il nostro tempo in modo forte ed eticamente problematico. Colgo dal sito in rete: “Nata dalla collaborazione fra la Casa Editrice e il Professor Marco Vannini, traduttore, critico e fra i maggiori studiosi italiani di mistica cristiana e di Meister Eckhart, questa nuova rivista si avvale della collaborazione di studiosi di grande prestigio quali Roberto Celada Ballanti, Giangiorgio Pasqualotto e Alfredo Jacopozzi. 'Conosci te stesso': questo il precetto dell'Apollo Delfico, cui si ispirava la ricerca socratica. 'Mistica e filosofia' si propone di restituire voce alla filosofia nel senso originario della parola, pratica di intelligenza e di vita, rivolta alla conoscenza di se stessi e alla verità: filosofia come 'scienza della verità', secondo la definizione di Aristotele. Nello stesso tempo 'Mistica e Filoso-
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fia' intende restituire dignità alla mistica, anch'essa correttamente intesa nel senso originario della parola, come indagine su sé stessi ed esperienza dello spirito, realtà profonda ed essenziale dell'essere umano. Mistica e filosofia insieme, quale unica medicina dell'anima, anzi, via di salvezza nello smarrimento religioso, psicologico, culturale del nostro tempo” (dal sito dello 'Editoriale Le Lettere', in rete). Mi sono subito abbonata perché i suoi contenuti sono direttamente collegati a tutto il percorso filosofico messo in essere da quando ho letto, in prima liceo classico, la 'Storia della Filosofia Antica' di Umberto A. Padovani, della CEDAM di Padova, opera unica nel suo genere, nella quale il pensiero indiano antico aveva la stessa forza teoretica ed esperienziale del pensiero greco, alla base della cultura occidentale. Quest'apertura ha giovato assai, associata allo studio del tedesco, che ha aggiunto modulazioni importanti alla ricerca da intraprendere, così 'Mistica e Filosofia' oggi si presenta come un cammino impegnativo e severissimo, semplice e veritiero ad un tempo. Nel panorama della cultura italiana ed internazionale contemporanea, gli articoli in essa contenuti consentono di formulare risposte chiare ed importanti in relazione alle problematiche del nostro tempo. Il primo fascicolo è composto da sette Saggi (pp- 9-146), un Inedito (pp. 147-161) e quattro Recensioni (pp. 163-184): M.Vannini: Mistica e/è Filosofia; A. Jacopozzi: Pensare il mistico; R. Celada Ballanti: Mistica e libertà. Lo spiritualismo di Hans Denck e Sebastian Franck; S. Lavecchia: Nella feconda luce dello Spirito. Per un'antropologia triadica; M. Ghilardi: Immagini del divino. Tra Meister Eckhart e Nishida Kitarō; B. Jacopini: Etty Illesum e l'Occidente postreligioso; S. Rossi: Vangelo e Yoga. Importantissimo l'Inedito: Sermone di Niccolò Cusano: Spiritus autem Paraclitus (a cura di R. Giannetti). Le recensioni presentano testi di Ananda K. Coomaraswamy, La tenebra divina (M. Vannini), Aa.Vv., Lutero e la mistica (D. Segna), R. Celada Ballanti-M. Vannini, Il muro del paradiso (I. Tonelli), S. Moser, Essere nell'eterno per vivere nel tempo. Gli “Scritti di Londra” di Simone Weil (G. Fiori) -per i due ultimi testi ho già fornito recensione su queste pagine-. Il volume è concluso dagli Abstracts (pp. 185-189), in italiano ed inglese, a sintetizzare i percorsi e le parole chiave onde rendere più agile ogni ulteriore approfondimento. Per i Saggi presentati e in primis per l'Inedito del Cusano darò ricognizioni appropriate in quanto tutto il contesto ha forza vitalissima ed ha pienamente risposto alle mie aspettative. Ilia Pedrina *
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FIORISCE UN CENACOLO - mensile internazionale di Lettere e Arti fondato nel 1940 da Carmine Manzi, direttore responsabile Anna Manzi - 84085 Mercato S. Severino (Salerno) - E-mail: manzi.annamaria@tiscali.it - Riceviamo il n. 7 - 9, luglio-settembre 2019, dal quale rileviamo le firme di nostri collaboratori, come Isabella Michela Affinito, Fabio Dainotti, Leonardo Selvaggi, Orazio Tanelli (che da poco ci ha lasciato), Antonia Izzi Rufo. * ILFILOROSSO - semestrale di cultura diretto da Walter Vecellio - via Marinella 4 - 87054 Rogliano (Cosenza) - E-mail: info.ilfilorosso@gmail.com - Riceviamo il n. 66, gennaio-giugno 2019, un nutrito volumetto di 64 pagine con le firme prestigiose di: Daniela Lucia, Annalisa Saccà, Gaetano Marchese, Michele Lalla, Jean Robaey, Francesco Graziano, Enzo Ferraro, Franco Araniti, Domenico Cara, Antonio Avenoso, Maria Carmela Errico Stancati, Nazareno Loise, Valentina Milazzo, Giuseppe Leonetti, Mattia Gallo, Lucia Longo, Salvatore Jemma, Enzo Ferraro, Valeria Carmen Cauteruccio, Emilio Tarditi, Michael Crisantemi eccetera. Walter Vecellio ricorda l’indimenticabile anche nostro amico Rossano Onano.
LETTERE IN DIREZIONE (Da Emerico Giachery, Roma, il 3 novembre 2019) Carissimo Domenico, buona domenica anzitutto. Il raggio di sole romano che in questo momento batte sul mio computer accompagna il mio augurio e saluto. Mi permetto di spedirti un'altra lettera a Pierro, sideralmente lontana dalla prima: questa immersa nell'atmosfera del dolce settembre elbano, tra rocce, simpatici villaggi e orizzonti marini. Contiene (e sostiene) come la precedente che ti inviai, una "poetica", se così si può dire, dell'interpretazione letteraria, ansiosa di sentirsi partecipe alla vita, di sentirsi qualche volta all'aperto, fuori dalle pur necessarie biblioteche, fuori dalla tetraggine accademica. Sintonica
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perciò alle belle e gradite pagine che tu accogli sulla tua (un po' "nostra") rivista su poesia e natura. L'immagine dei dintorni di Recanati, col suo orizzonte immortalato da Leopardi, mi evoca il caro triennio del mio insegnamento maceratese. Non pochi tra i miei laureandi erano di Recanati, e allora preferivo incontrarli, per discutere della tesi, desinando insieme alla tavola di una trattoria non lontana dal Colle dell'Infinito. La squisita Contessa Anna Leopardi, scomparsa un paio d'anni or sono, mi mostrò tutte le stanze del Palazzo Leopardi. Alloggiavo nella foresteria del Centro Leopardiano, non lontano dal Palazzo. Il custode del Centro, un certo Eriberto Grandicelli, preoccupato per i miei frequenti viaggi a Barga e Castelvecchio necessari per gli studi pascoliani nei quali allora ero immerso, mi disse un giorno: "A Professo', 'sto Pascoli non sarà mica più granne de Leopardi?”. Subito lo tranquillizzai! Concludiamo così con un sorriso, e con un abbraccio anche dalla "premiata" Noemi, Emerico Carissimo Emerico, Troverai la seconda tua lettera a Pierro in altra parte di questo numero. Ringraziandoti della preziosità, non aggiungo altro sul piacere di ospitare lettere del genere per non ripetere quel che già ti esprimevo a pag. 4 del numero scorso. Su Leopardi, oltre l’articolo dell’amico Luigi De Rosa (e ad altro apparso in precedenza), in questo numero troverai l’intervento di Salvatore D’Ambrosio. Insomma, Pomezia-Notizie ha cercato di fare il suo dovere nei confronti di questo nostro insuperabile monumento nazionale. Ricambio l’abbraccio, augurando che quel “raggio di sole romano” continui a battere sul tuo computer. L’inverno che si avvicina, dicono coloro che se ne intendono, dovrebbe essere più frizzante e crudo del solito, proprio perché primaveraestateautunno a lungo quest’anno ci hanno scottato! Ma, detto fra noi, io non credo a queste cassandre. Domenico
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NATALE Ci riproponi ancora un nuovo regno col Tuo Natale; la Tua mitezza, oggi come allora, vuole ammansire cuori avvelenati da guerre e da furori. Ma l’uomo più non crede alla tua stella. Costruisce presepi di cristallo, vuoti Re Magi che danzano una musica idolatra; viviseziona l’atomo, varca gli spazi e torna senza averTi incontrato... Non lasciarci, Signore. Ritroveremo il bue e l’asinello se Tu ci batti e bruci il nostro orgoglio con la divina fiamma del Tuo cuore. Dacci la Tua purezza, dacci il dolore: solo se ci fai bimbi anche per un istante e ci commuovi, la Tua nascita ancora ha la potenza di quel Tuo primo immenso atto d’amore. Domenico Defelice
BUON NATALE 2019 ! e... FELICE ANNO 2020 !
Domenico Defelice: Simboli di Pomezia (china) AI COLLABORATORI Inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione) preferibilmente attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è gradito un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (copia cartacea) Annuo, € 50.00 Sostenitore,. € 80.00 Benemerito, € 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia, € 5,00 (in tal caso, + € 1,28 sped.ne) Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 N076 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________