50ISSN 2611-0954
mensile (fondato nel 1973) Direzione e amministrazione: Via Fratelli Bandiera, 6 - Tel. 06/91.12.113 - 00071 POMEZIA (Roma) - Fondatore e Direttore responsabile: DOMENICO DEFELICE – e-Mail: defelice.d@tiscali.it – Parziale distribuzione gratuita (solo il loco) – Attività editoriale non commerciale (art. 4, D.P.R. 26.10.1972 n. 633 e succ.ve modifiche) - Per abbonamenti: annuo, € 50; sostenitore € 80; benemerito € 120; una copia € 5.00) e per contributi volontari (per avvenuta pubblicazione), versamenti sul c/c p. 43585009 intestato al Direttore - Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 213/93 del 23/5/1993 - La collaborazione, sempre gratuita, in parte è libera, in parte è per invito. Ogni autore si assume la responsabilità dei propri scritti - Manoscritti, fotografie e altro materiale, anche se non pubblicati, non vengono restituiti - É ammessa la riproduzione, purché se ne indichi la fonte. Per ogni controversia, foro competente è quello di Roma.
Anno 27 (Nuova Serie) – n. 2
- Febbraio 2019 -
€ 5,00
Intervista a
LUIGI DE ROSA SCRITTORE E POETA di Isabella Michela Affinito
G
RAZIE al Direttore Domenico Defelice, ho potuto realizzare la seguente intervista a Luigi DE ROSA - noto letterato, che ha svolto e svolge una laboriosa attività di saggista, collaboratore di testate come “Pomezia-Notizie” e molte altre, critico, poeta, scrittore, ex-provveditore agli studi e Sovrintendente scolastico del suo territorio ligure, pur
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All’interno: Le riflessioni di Elio Pecora, di Emerico Giachery, pag. 7 Carlo Di Lieto psicanalizza Mostri sacri, di Domenico Defelice, pag. 9 Francesca Rigotti De Senectute, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 11 Sguardi di donna sulla scrittura dell’ebreo di Praga, di Ilia Pedrina, pag. 14 Vittoriano Esposito per un altro D’Annunzio, di Giuseppe Leone, pag. 18 Ferdinando Ferracini di Fiorella Botteon, di Andrea Bonanno, pag. 21 Zhang Zhi poeta e operatore culturale, di Domenico Defelice, pag. 24 Rosa Elisa Giangoia: Febe, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 27 Il Minotauro di Sergio Rodella, di Ilia Pedrina, pag. 31 La casa-museo di Keats e Shelley, di Manuela Mazzola, pag. 33 “La Zampogna”, di Antonia Izzi Rufo, pag. 34 Renato Filippelli all’ombra del padre, di Tito Cauchi, pag. 35 Immigrato a Torino, di Leonardo Selvaggi, pag. 36 Puglia tra realtà e ricordo, di Anna Vincitorio, pag. 41 I Poeti e la Natura (Diego Valeri), di Luigi De Rosa, pag. 43 Notizie, pag. 48 Libri ricevuti, pag. 49 Tra le riviste, pag. 52
RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (I sette cavalieri del sole, di Paolangela Draghetti, pag. 45); Elio Andriuoli (Il bene morale, di Maria Grazia Calandrone, pag. 46); Manuela Mazzola (Domenico Defelice operatore culturale mite e feroce, di Tito Cauchi, pag. 47).
Lettere in Direzione (Ilia Pedrina), pag. 52
Inoltre, poesie di: Elio Andriuoli, Mariagina Bonciani, Rocco Cambareri, Domenico Defelice, Luigi De Rosa, Salvatore D’Ambrosio, Renato Filippelli, Francesco Fiumara, Antonia Izzi Rufo, Giovanna Li Volti Guzzardi, Manuela Mazzola, Wilma Minotti Cerini, Teresinka Pereira, Gianni Rescigno, Franco Saccà
essendo egli figlio di genitori partenopei –; il professore De Rosa, classe 1934, è vissuto al Nord fin da piccolo, stabilitosi, in seguito, in Liguria, nella bellissima cittadina di Rapallo, in provincia di Genova. Le quattordici domande sono state ideate dopo la lettura di alcune sue importanti opere letterarie di e testi a lui inerenti tratti su Internet, tra cui ricordiamo il volume di poesie, edito dalla Genesi Editrice di Torino, Fuga del tempo del 2013; il corposo saggio
sul poeta da qualche anno scomparso, Gianni Rescigno, del 2016; la silloge Lo specchio e la vita edito dal Centro Culturale Maestrale di Sestri Levante del 2006, presentato da una lunga dissertazione iniziale a cura di Graziella Corsinovi dell’Università degli Studi di Genova; l’altra silloge poetica, sempre della Genesi Editrice del 2005, dall’emblematico titolo Il volto di lei durante, con la mirabile prefazione dell’illustre compianto docente universitario critico poe-
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ta Giorgio Bárberi Squarotti di Torino; e siti Internet a lui dedicati tra cui: www.genesi.org ; www.genesi.org/ scheda.../luigi-de-rosa/approdo-in-liguria; www.ilgattocertosino.wordpress.com/2012/ 02/11/luigi-de-rosa-criticoletterario; www.elogiodellapoesia.it/ accademici/luigide-rosa; www.edizionigiuseppelaterza.it/ shop/de-rosa-luigi ; www.tigullionews.com/ premio-internazionale-di-poesia-e-narrativagiovanni-descalzo; www.comune.sestrilevante.ge.it Con Google ilgattocertosino e scheda di Luigi De Rosa poeta www.venilia.it/ntl-uscito -n. 129/ www.venilia.it/ntl 1) Lo scrittore francese, nato e morto a Parigi, Marcel Proust (18711922) - autore del celeberrimo monumentale romanzo Alla ricerca del tempo perduto, poliedrica struttura dove il concetto dell’attesa rappresenta la speranza del recupero di ciò che è passato ma non del tutto - inventò un questionario che sottoponeva agli astanti che, come lui, frequentavano i salotti degli amici nobili e snob per svelare i lati del loro carattere. Fra le domande ce n’è una che fa capire la dire-
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zione del pensiero di un uomo ed è la seguente: Qual è il suo motto preferito e perché? R) Fin da quando ero uno studente liceale mi sono forgiato un “motto” che poi ho sempre seguito, in tutta la vita: “Spera sempre e non ti illudere mai. Così i grandi dolori ti sembreranno più piccoli, e le piccole gioie ti sembreranno più grandi”. 2) Lei è da definirsi campanoligure, diremmo con due patrie in un unico cuore. Se dovesse stilare una differenza tra il mare partenopeo e quello ligure a livello ispiratore, quale caratteristica fondamentale emerge subitanea all’occhio di un profondo poeta come Lei? R) Il mare di Napoli non l'ho mai vissuto. Mi hanno portato al Nord troppo presto (a sei anni). Col mare della Liguria ci sono cresciuto, sia poeticamente che fisicamente. E mi ha sempre ispirato. 3) Se non fosse nato nel secolo del Novecento – Lei è dell’ottobre del 1934, di Napoli, ma cresciuto nel settentrione – in che epoca storica avrebbe voluto vivere e per quale motivo? R) Dal 1300 al 1500, per partecipare all'Umanesimo e al Rinascimento, all'esaltazione della Cultura e dell'Arte. 4) Grazie all’incontro col poeta della provincia di Padova, Diego Valeri, innamorato della letteratura francese e morto a Roma nel 1976, Lei ha ‘scoperto’, per così dire, Venezia, a cui ha dedicato delle liriche. Venezia è una città a parte: sta sull’acqua e da essa trae le prerogative di trasparenza, sfuggevolezza, freschezza, eraclitismo, ma anche di inondazione e corrosione a causa del sale in essa contenuto. Anche Lei, in maniera innata, ha un certo legame coi luoghi d’acqua; secondo il suo punto di vista, questo ele-
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mento essenziale per la vita in che modo influisce sui poeti e su di Lei? In particolar modo, quanto è stato ed è importante per Lei? R) Per me il mare è stato determinante. Per gli altri poeti ogni storia è una storia a sé. 5) Se non fosse nato in Italia, in quale città europea o del mondo avrebbe voluto che si svolgesse la sua esistenza e perché? R) Sarei tentato di rispondere Parigi perché città ineguagliabile di arte e cultura. Ma coi se e coi ma non si cambia la vita del mondo e degli uomini. 6) Penso che c’è una sua poesia che, da sola, è in grado di qualificare il suo profilo umano, psicologico, intellettuale e quant’altro. Occhiali neri da sole – è il titolo – è stata scritta in un momento di sconforto interiore, di bilancio esistenziale, per darsi coraggio o per motivare qualcosa di intimo, di personale? Quando è stata vergata, ricorda l’anno felice o triste che sia stato? R) Non è importante quando sia stata scritta, comunque è stata scritta da adulto, e rispecchia un arco di tempo lunghissimo, praticamente una vita. 7) Se non fosse accaduto l’evento descritto in versi nella summenzionata poesia, Occhiali neri da sole, o meglio se fosse cresciuto assieme e dall’altro suo genitore, sua madre, Lei adesso sarebbe stato il medesimo Luigi De Rosa? (Mi scuso se questa domanda è troppo pertinente). R) Forse non sarei stato il medesimo Luigi De Rosa, ma anche qui non siamo nel mondo reale della vita, ma in quello delle ipotesi e delle possibilità imprevedibili.
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8) C’è una figura femminile nella storia, rimasta famosa per qualche ragione, quindi santa o artista o eroina o cantante o attrice o scrittrice o regnante o altro, che avrebbe voluto come moglie e perché? R) Come faccio a immaginare la donna che avrei voluto come moglie (quindi anche nella “mensa” e nel “toro”, cioè in cucina e, soprattutto, in camera matrimoniale) se non ho avuto la possibilità concreta di mangiarci insieme e di farci l'amore sul serio, oltre che di vivere con lei in tutto e per tutto senza snaturare il mio mondo ed il suo? Cioè lasciando che lei restasse una santa o artista, o eroina, etc. etc.? 9) Lei è un autore che ha trasformato i luoghi, visti e attraversati anche grazie ai suoi continui e numerosi spostamenti dovuti alla sua carica di Provveditore agli studi e Sovrintendente scolastico regionale principalmente nel nordItalia, ma anche altrove, in stupende liriche. Addirittura ha fermato su carta le sensazioni scaturite Sull’autostrada per Piacenza e attraversando la Ferrovia di Liguria a strapiombo sul mare. In che rapporto sta, secondo Lei, il viaggio con la poesia? R) Metafora della vita come viaggio. E della Poesia come trasfigurazione della Vita come viaggio. Il mio ultimo libro, antologia delle mie poesie di una vita (che sta per uscire in questa primavera) reca appunto il titolo “Viaggio esistenziale”. 10) Lei è del Segno zodiacale della Bilancia, attratto quindi da tutto ciò che è bello, elegante, proporzionato, legittimo, equilibrato, creativo; ricordiamo che il governatore del suo Segno è Venere Afrodite e così si è egregiamente cimentato, nel volumetto Il pittore Antonio Angelone e la sua “nevicata” del 2007, anche come esperto critico d’arte: « […] Ma si
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può definire ‘naive’ la pittura di Angelone? Mi ritornano in mente, in rapida sequenza, i nomi di Henry Rousseau, il Doganiere, di Gauguin, di Kandinskij, e dei naifs italiani come Ligabue, Metelli, Casotti e Covili. Ma il pensiero corre anche ai pittori jugoslavi nati dai corsi di pittura rurali nei villaggi di Hlebine e di Kovaàica, ai naifs tedeschi, olandesi, polacchi, russi, statunitensi e sudamericani. Ebbene, anche se vi ritrovo quegli elementi comuni quali il gusto primitivo del racconto (come nei disegni dei bambini), o la festosità dei colori, non ve ne ritrovo altri quali un certo surrealismo misticheggiante, o un certo manierismo, o un’atmosfera perennemente idilliaca o da arcadia aspaziale e atemporale. Per me la pittura di Angelone è assolutamente originale e personale, e consiste di un sano ed equilibrato ‘naturalismo’ che si esprime sulla tela attraverso una ‘tecnica naive’.» (A pag. 10 del volumetto il pittore Antonio Angelone e la sua “nevicata”, Edizioni Accademia Internazionale Lucia Mazzocco Angelone, Isernia, Edizione fuori commercio, 2007). La mia domanda è: Quale corrente artistica della storia dell’arte l’ha maggiormente affascinata, o se c’è un’opera artistica, quadro o scultura, che non si stancherebbe mai di ammirare e perché? R) A una domanda con una premessa lunga, una risposta breve: l'Impressionismo. E poi la Venere del Canova da un lato, e la Vergine delle rocce di Leonardo, dall'altro.
11) In senso onirico la Luna simboleggia la figura materna (e non solo) per cui resta inevitabile per un poeta versificarla. La luce lunare, per Lei, trasmette positività o negatività? Con quale specifica emozione essa fa vedere le cose nella dimensione notturna, le città, le persone, sé stesso…?
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R) A me trasmette malinconia, senso di solitudine straziante, nella “vuota” immensità dello Spazio. Se non c'è un Principio Primo, un Creatore Non Creato, che senso ha, anche la luna? 12) Con l’amico veneto Andrea Zanzotto – anche lui del Segno zodiacale della Bilancia, nato il 10 ottobre 1921 a Pieve di Soligo – si stabilì un certo dialogo soprattutto attorno alla sua operapoemetto Gli Sguardi, i Fatti e Senhal “. Lui, Zanzotto, scrisse degli Appunti per un filmato televisivo sul tema – Carnevale di Venezia. Riporto uno stralcio: « […] Non bisogna poi dimenticare che quando si tratti del Carnevale di Venezia si entra automaticamente in un vero ‘mare magnum’ di luoghi comuni, di rifritture, di convenzioni stantie, alla formazione delle quali ha contribuito una lunghissima tradizione teatrale, operistica, letteraria ecc. Bisogna che qui io riaffermi che, nei tempi recenti, l’unica reinvenzione attendibile del carnevale veneziano è stata quella che Federico Fellini ha proposto all’inizio del suo “Casanova”, insuperato esempio di riscoperta e insieme dilatazione fantastica, compiute quasi attraverso una discesa nell’inconscio collettivo di una venezianità intesa come portatrice di un universale e ambiguo mito “maternofemminile”. E forse non è un caso se la ripresa di un “grande carnevale” a Venezia, in termini che volevano essere anche di recupero storico, è stata prospettata e realizzata poco dopo l’uscita del “Casanova” felliniano. » (Dal volume Zanzotto le poesie e prose scelte, I Meridiani di Arnoldo Mondadori Editore di Milano, Anno 2003, a pag. 1067). La domanda è la seguente: Come vedeva Andrea Zanzotto la sua Venezia, secondo il suo punto di vista e attraverso l’amicizia che c’è stata fra voi? R) Come nostalgia di un mondo meraviglioso e autentico - quello veneto - che purtrop-
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po non esiste più, come tanti altri “mondi”, deturpati e cancellati dai lati negativi di una certa “civiltà”. 13) Tornando al questionario di Proust, se non avesse svolto la professione nell’ambito della Scuola innanzitutto, cosa avrebbe voluto fare e perché? R) Il giornalista “inviato speciale”. Per viaggiare, conoscere il mondo e la vita degli altri, cogliendo gli eventi nel momento e nel luogo in cui si verificano. 14) Lei ha composto la bellissima poesia Non sono più quel Luigi De Rosa, in cui ad un certo punto così recita: « […] Ma se a qualcuno servisse didascalia o reperto,/ di me una targa, una reliquia,/ allora dicasi che sono ciò che ho scritto/ e non altro. […] ». Anche il pittore austriaco Gustav Klimt (1862-1918), affermò: «La parola, detta o scritta, non mi è facile, tanto meno quando devo parlare di me o del mio lavoro. (…) Chi voglia sapere qualcosa su di me come artista – l’unico mio aspetto degno di nota – deve considerare attentamente i miei quadri e cercare di individuare in essi che cosa sono e che cosa voglio. » (Dal volume Gustav Klimt di Gottfried Fliedl, Benedikt Taschen, Printed in Germany, Anno 1990, a pag. 10). Se, invece, Le chiedessi una parolachiave per descrivere sé stesso, quale parola, aggettivo, farebbe al suo caso e perché? R) Sono d'accordo con Gustav Klimt. Quanto alla “parola-chiave”, ringrazio della domanda. Ma non ci ho ancora pensato. E comunque non credo che una sola parola sarebbe veramente sufficiente per “descrivere” un essere umano.
Grazie, Prof. Luigi De Rosa, per la preziosissima collaborazione. Isabella Michela Affinito
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SOLO LA PRIMAVERA LE CONSOLA Conosco strade dove urla l’abbandono, non passa il netturbino e per l’igiene attendono la pioggia. Muri vecchi, scrostati sui quali avanza del muschio la cancrena e i rossi dei mattoni son ferite antiche che non si cicatrizzano. Solo la primavera le consola con qualche fiore effimero che sempre indossa splendidi velluti e leggera la brezza le percorre come una carezza. Domenico Defelice Dalla raccolta Le parole a comprendere, in pubblicazione presso la Genesi di Torino.
QUESTO AFFANNO DI ACQUE Si è messo a urlare con la tramontana il mare: gabbiani a pelo d’acque, palmizi al vento. Altri giorni quelli quando gli occhi bevevano distese di spume, quando il cuore ascoltava lamenti di scogli: per gioco. Penso agli uomini che stanno a guardia dei fari, a questo affanno di acque che rodono la terra. Franco Saccà Da Tutto è memoria - Ed. La Procellaria, 1957.
UN FIUME DI LUCE È sole, è oro il grano che tu cerni, e un fiume di luce scorre nel mio cuore. Mi ricordo i giorni che sembravano eterni, quando l’estate era un rogo d’amore. Franco Saccà Da Vento d’autunno - Ed. Ibico, 1962
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LE RIFRAZIONI DI
ELIO PECORA di Emerico Giachery “ANCORA il giardino…”. “Ancora”: Elio Pecora aveva infatti già pubblicato Favole del giardino, aveva scritto la radiocommedia Il giardino. Il giardino è uno degli archetipi più remoti e profondi, che in epoche molto lontane evocava una centralità persino cosmica. Qui la sua separatezza è raccoglimento attento a voci umane: è un “recinto” (“Solo un recinto il giardino / dove il cuore e la mente s’ alleano / in una chiusa dimenticanza”) contrapposto a quello della “città del rumore”, e della vita, da cui s’intitola la sezione finale del libro e in cui chi vi abita “deve inventare se stesso”. Il giardino è una specola dell’anima “di dove guardare lontano”. Vi penetra la voce del paese in festa con le musiche della banda, poi il confuso parlottio notturno dei paesani che rincasano. Ombre lo frequentano, ospitate con pietas nelle pagine del libro. Anch’esso, fatalmente, è immerso nel Tempo con la sua scansione inesorabile. Tuttavia un altro tempo “corre in questo tempo / che contiamo a minuti”. A volte, inaspettatamente, ci sono donati momenti di grazia, di pienezza, “momenti immisurabili, eterni”, in cui tutto assume, o sembra assumere, senso. Il vertice, il picco del libro è forse raggiunto nella sezione intitolata Lo spessore dell’ombra. Il vario e largo respiro del verso lungo, anzitutto, accoglie “parole esatte
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contro il rumore” e si porge ai ritmi del vivere, all’aprirsi di orizzonti, al fluire del pensiero. Sentiamo quanto quel verso divenga misura prediletta, anche se non certo esclusiva. Possiamo sceglierne alcuni ad apertura di libro: “La luce declina dietro i castagni e gli ulivi”, “Tornano sciolte, leggere, nel rumore dei giorni”(allude qui alle ombre). Non solo, ovviamente, in questa sezione, ma anche in altre: “e ancora guarda estatico la luna sui giardini”; o questi due versi in cui è così suggestivo il sapore del vissuto quotidiano e domestico, con la sua umile offerta di salvezza: “l’odore del cibo, una voce al telefono / il libro lasciato sul tavolo ancora da leggere”. Il quotidiano di cui fanno parte gli oggetti, “creature docili che ci attendono dove le abbiamo lasciate: / nel buio odoroso di un armadio, fra mucchi di vecchie carte / nella tasca interna di una giacca da portare in lavanderia”. Nel quotidiano è il sapore della vita. Esso s’incarna in affetti, amori, amicizie, che ci aiutano a “diventare quello che siamo”. L’atmosfera del libro è aperta ad accogliere presenze che in varia misura hanno arricchito di senso la nostra vita. Qui l’impegno di condurre a condizione poetica personaggi di una recente opera in prosa di Pecora, Il libro degli amici ha successo e conferisce a Rifrazioni un sapore inconfondibile. Accanto al caro (e grande) Palazzeschi che “in ciabatte mandava baci / sulla punta delle dita”, a Elsa Morante, “manichea dagli occhi d’agata”, compaiono, molto significativamente, una sartina e una contadina compaesane del poeta. E familiari: il fratello, una zia, connotata da un’invocazione del Salve regina in latino, che ci fa sentire quanto a volte coincidano preghiera e poesia. E il padre, che apre la serie con una coinvolgente rievocazione del suo tardo ritorno (“Si presenta nella sua ultima ora, / gli occhi azzurri accesi come ai riflettori di un circo”); e padre e figlio piangono ora insieme: “prima ed estrema alleanza”. La madre, già al centro di uno dei più bei libri poetici di Pecora, Nel tempo della madre (2011), compare in un delizioso recupe-
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ro ‘domestico’ del dantesco “figlia del tuo figlio”: “Può una madre essere figlia del figlio / se si confida all’infante, lo chiama / nelle sue melanconie …”. Ci si ferma ora su questa suggestiva immagine, ma il libro prosegue per circa sessanta pagine dense di esistenza meditante, di occasioni sempre a misura d’ uomo: un’implicita e mai astratta ars vivendi? Forse, ma sempre partecipe e sofferta. Emerico Giachery ELIO PECORA, Rifrazioni, Mondadori, Milano 2018
Nella foto (p. 7), Elio Pecora (il primo da sinistra) al matrimonio del nipote Massimiliano Pecora (il terzo, al centro).
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Volevi trattenermi mentre me ne andavo sotto la pioggia, turista non per caso al mio albergo Le tue telefonate … le mie risate … l’invito a rimanere, appuntamento sospeso, Trafalgar Square ha visto solo i nostri fantasmi. Hello! Ken Green
HELLO! KEN GREEN
Wilma Minotti Cerini Pallanza-Verbania, VB
Ti ricordi? all’Albert e Victoria Museum? Io me ne stavo assorta sulle cariatidi del Partenone e tu mi venisti vicino, non capivo il tuo inglese ma capivo il tuo sorriso. Hello! Ken Green Ricorda, fuori pioveva e Londra era bella, mi prendesti la mano, non volevo ma ridevo Hello! Ken Green Londra era bella e la tua casa di Bohème odorava di fumo e di tazze di caffè non lavate Hello! Ken Green Ricorda tra noi non è successo niente solo tanta allegria un po’ di inglese, spagnolo e portoghese e tante carte sparse sulle quali scrivevi la tua commedia televisiva.
IO SONO PIANTA Io sono pianta che stende le foglie lucenti al bacio del sole. Il mio ombrello verde si staglia nel cielo terso e azzurro Io sono radice che aggroviglia la pietra e la rende compatta I miei tentacoli hanno spezzato ogni resistenza e nella fessura ho trovato la mia speranza di vita Wilma Minotti Cerini Pallanza-Verbania, VB
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 20/1/2019 Titolo su 4 colonne in seconda pagina de Il Messaggero del 20 gennaio 2019: “I conti del governo. Allarme recessione mancano 4 miliardi di Lite sulla manovra”. Alleluia! Alleluia! Con un refuso - Lite al posto di Lire (Euro) - il quotidiano romano ha ben fotografato l’odierno clima politico italiano. Domenico Defelice
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CARLO DI LIETO PSICANALIZZA MOSTRI SACRI di Domenico Defelice
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A psicanalisi è scienza sconosciuta ai più e fino a qualche tempo fortemente ostracizzata dalla Chiesa Cattolica; oggi, la Chiesa è meno rigida, e lo stesso Papa Francesco sembra avere ammesso di essersi rivolto a uno psichiatra; oggi, scrive Di Lieto, “Un nuovo criterio morale può avvicinare la psicanalisi e la religione, superando il dogmatismo cristiano di certi psicoanalisti”. Carlo Di Lieto ha tentato, attraverso le sue tante opere, di addentrarci in questo mondo, applicando la psicanalisi alla letteratura e all’Arte in genere. Un compito difficile, ma non per lui che ha, dalla sua parte, la semplicità e la chiarezza dello stile, in grado, cioè, di rendere il più possibile piano ciò che, per sua natura, è assolutamente accidentato, sicché anche non addetti ai lavori come noi siano finalmente in grado di gustare nuove e affascinati esplorazioni critiche. Di Lieto mette in relazione i “cento miliardi, o forse più” di “cellule nervose che sono nel nostro cervello”, con prodotti letterari che, nel cervello, hanno la sorgente. “Da dove nasce il pensiero, da quali cellule? - si domanda - Quali sono le strutture biologiche capaci di spingere” l’uomo “a comporre poesie, scrivere romanzi, elaborare teorie?”. La vasta opera si articola in una introduzione e in tre densissimi capitoli: “Freud e la scoperta dell’inconscio”, “Le alterazioni della
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personalità da Binet a Laing” e “L’io diviso”. A cadere sotto questa puntigliosa quanto affascinante investigazione sono scrittori e studiosi del calibro di Freud - naturalmente -, Pessoa, Lawrence, Camus, E. Alan Poe, Lewis Carroll, Carlo Michelstaedter, Thomas Mann, Carlo Emilio Gadda, il Verga, il Lombroso, Nordau, Oscar Wilde, Des Esseintes, Aldo Palazzeschi; l’indagine è talmente seducente che ci si dimentica, leggendo, di trovarsi davanti a un’opera di scienza, perché autori così conosciuti e perciò così scontati, svelano nuovi aspetti, insospettati aperture e camminamenti, in una esposizione piacevole, dilettevole, diremmo, con una iperbole, golosa. Citiamo a caso: “Moravia assorbe la lezione freudiana, negli Anni Trenta, quando la scoperta di Freud in Italia era di capitale importanza e la sua teoria aveva rivoluzionato tutti i canoni della tradizione psicologica.” (p. 44); “Con l’imprevedibile stravolgimento delle strutture romanzesche tradizionali e con un impianto nutrito di cultura umanistica e scientifica, di passione morale e civile e di un personale freudismo, Gadda può essere considerato, nello stesso tempo, un autore sperimentale e un classico”, aggiungendo che “Pochi scrittori, come Gadda, si sono così esplicitamente auto-analizzati nella propria opera”. S’incontrano tante sorprese nel leggere l’opera di Carlo Di Lieto, come quella che Gadda non stia solo nel suo famoso “Pasticciaccio”, ma mostri particolare interesse altrove, in altre opere; così per gli altri grandi qui sottilmente psicanalizzati. In Palazzeschi, “La funzione fàtica coglie nel segno, nell’andirivieni tra l’allegria e il patetico, il grottesco e lo sberleffo; in assenza di messaggi da trasmettere, il poeta preferisce sornionamente l’estraneità e la distanza, l’ indifferenza e il disincanto dalla cruda realtà delle cose”. “La sua esperienza creativa si traduce in un’azione demolitrice dei nessi sintattici e il tono canzonatorio e burlesco è contro tutto ciò che appartiene al passato e dal rimosso viene alla luce per essere demistificato e chiarito”. Aldo Palazzeschi, nella vita, era tale e quale
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quello che vien fuori leggendo le sue opere: un allegrone. Chiediamo scusa a Di Lieto se ci permettiamo di accennare ad una burla perpetrata proprio nei nostri confronti a fine anni sessanta, inizio anni settanta. Invitati dallo scrittore Vincenzo Fraschetti ad accompagnarlo alla S.I.A.E. di Roma, in viale dell’ Agricoltura, in occasione di una festa tra soci, ci siamo trovati seduti allo stesso tavolo a fianco all’amico scrittore ciociaro e, di fronte, Aldo Palazzeschi, Leonida Repaci e Giulio Andreotti. Fraschetti nel presentarci aggiunge che siamo nati in Calabria e Repaci: “In quale paese?” Anoia, Reggio Calabria. Timidi per natura, eravamo emozionati e confusi dinanzi a quegli autentici mostri sacri della cultura e Palazzeschi, guardando di sottecchi Repaci: “Calabresi e di Anoia! Brutta gente. Per colpa di un prete della zona sono stato per qualche mese in galera”. E giù una interminabile filippica, il volto accigliato. Repaci e Andreotti, sornioni, di tanto in tanto annuivano con la testa. Fraschetti appariva sconcertato. Umiliati e non in grado di controbattere, ci siamo alzati per andar via, quando Palazzeschi e Repaci scoppiarono in una plateale risata: “Tranquillo, non è vero niente!” Palazzeschi, insomma, sebbene avesse superato gli ottanta, ancora combinava corbellerie, fedele al suo
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credo che il poeta debba essere un burlone, che non lo si debba insolentire, ma lasciarlo “divertire/poveretto”, perché “queste piccole corbellerie/sono il suo diletto”! Ai digiuni di psicanalisi, ma anche ai quasi digiuni, con Di Lieto diciamo: non abbiate paura d’accostarvi a quest’opera. Se non riuscirete ad apprezzarla subito e pienamente in ogni suo aspetto, non datevi eccessiva colpa; si dice che l’appetito vien mangiando e che il sapore ha bisogno di pause sostanziose per essere pienamente goduto; una seconda lettura vi darà maggiori soddisfazioni e, intanto, avete viaggiato nel profondo dell’io di scrittori e studiosi grandissimi che da certe angolazioni ora vi appariranno assolutamente nuovi. Domenico Defelice CARLO DI LIETO - LETTERATURA, FOLLIA E NON VITA. IN PRINCIPIO ERA L’ES - Premessa di Sandro Gros-Pietro, Postfazione di Emerico Giachery - Collana Letteratura & Psicanalisi - Genesi Editrice, 2018 - Pagg. 896, € 40,00
SCARIO a Giulio Stolfi Così fresca la sera in questo lento, oblioso paese, attraversato dal volo delle rondini. Un profumo ci avvolge d'erbe nuove e dolci frutti che l'anima ci penetra. Non lungi è il sorriso del mare. Del crepuscolo l'ora discende più suadente: tutto è fermo in un'attesa senza tempo. E senza tempo, con le nostre vite, noi siamo qui, sospesi nell'evento o poeta fraterno che parole eterne sai donare al nostro cuore. Dischiuderà tra poco il firmamento, fuggendo sulle sue rotte infinte, nuovi sentieri fatti di splendore. Ci offrirà l'ansia di ricominciare. Elio Andriuoli Napoli
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FRANCESCA RIGOTTI DE SENECTUTE di Salvatore D’Ambrosio
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N questo breve saggio (appena 100 pagine), la professoressa Rigotti, fa un’analisi al femminile, pur mantenendo il titolo dell’opera letteraria tale e quale a quello che secoli prima Cicerone aveva dedicato al “maschio”, della vecchiaia delle donne. Francesca Rigotti è filosofa e docente all’Università della Svizzera italiana, e si chiede nel saggio se esiste una vecchiaia pregiudizialmente delle donne. Il lavoro è diviso in sette capitoli in ognuno dei quali ragiona su i luoghi comuni più triti e ritriti intorno alla donna e alla sua vecchiaia: menopausa, amicizia, amore, kore, grazia, intelligenza, predisposizione al comando, sottomissione. Alcune considerazioni si possono affermare giuste; un tantino meno vere altre, in quanto spesso certi pregiudizi sono mantenuti in vita dalle stesse donne. Gli uomini, per esempio, amano le loro mogli, compagne o cosa altro vogliate dire, anche se diventano vecchie, come d'altronde lo diventano loro. Ma di questo le donne spesso non riescono a convincersene. Loro credono che l’amore esista solo in funzione della fecondità e che quindi la sterilità subordinata alla menopausa sia una preclusione a
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continuare o a mantenere una normale sessualità. Dovrebbero invece pensare che lasciarsi andare nell’aspetto fisico come ingrassare senza ritegno, vestirsi sciattamente e spesso in modo assurdo e disordinato, non mettere più un filo di trucco, darla vinta ai capelli bianchi che si fanno sempre più numerosi, ne fanno soggettività che si autoesclude. La perdita di gaiezza, di entusiasmo, di voglia di continuare a vivere sempre allo stesso modo, piano piano le rende apatiche, indifferenti, insoddisfatte, facili al pianto e al catastrofismo. Vedono soprattutto nel loro compagno non più l’artefice di indimenticabili e bollenti momenti, ma il nemico da abbattere, da annientare. Isterismo al massimo con interminabili pianti, a cui fanno seguito giorni di mutismo assurdo e difficilissimo da penetrare. La Rigotti alla luce di questi e altri elementi, cerca di spiegare o quanto meno motivare il senso di inferiorità che le donne devono sopportare anche con le prime rughe. Ma, ecco, continuo a essere convinto che la senectute femminile, se si veste di tragico è perché loro (le donne) sentono profondamente di non avere le stesse capacità maschili di adattamento alla nuova condizione che avanza regolarmente e inesorabilmente. È vero che la biologia maschile è fondamentalmente diversa e incolpevolmente più avvantaggiata. Ma è anche vero che difficilmente il maschio perde l’entusiasmo per la vita sessuale. Ma soprattutto per la vita. E non è poca cosa, perché anche se una grossa percentuale del loro modo di vivere è pura fantasia, la parte che rimane di questo entusiasmo è speranza. Speranza che ci possa essere un giorno in cui possa accadere qualcosa. È credere in essa che toglie anni, facendoci apparire più giovani. Speranza che invece la donna non ha e soprattutto non coltiva. Per sua natura lei non alleva, non nutre chimere. E l’errore è proprio in questo. La certezza delle cose, di cui è maggiore azionista rispetto all’uomo, in un certo senso, la fa invec-
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chiare prima. La ingobbisce, la immusonisce, la rende a volte odiosa innanzitutto a se stessa, e poi agli altri. E in questi “altri” non ci sono solo i maschi, come è loro abitudine dire con tono dispregiativo, ma anche una cospicua parte del loro stesso genere. L’appesantimento fisico non si cura trascorrendo intere ore pomeridiane incollate alle poltrone e allo schermo TV. La flaccidità va d’accordo con i peccati di gola: piccoli magari, ma quotidiani. I muscoli per essere tonici necessitano di esercizio anche breve, di pochi minuti, ma giornaliero. La vecchiaia, ne sono convinto, va rallentata, allungata, combattuta se così si vuol dire, fino dalla gioventù. Il metodo è semplice e non costa molto: basta morigeratezza senza rinunciare a nulla. Il corpo è una macchina delicata e soprattutto quella delle donne; per cui sia in gioventù che in vecchiaia è bene attenersi ai ritmi circadiani. Fare strappi alle regole raramente e che siano i più brevi possibili. La Rigotti la questione della vecchia femminile la mette, a parere mio, su un piano di voluta esautorazione della femmina da parte dell’uomo. Non è così. Le competenze, le capacità professionali, il prestigio, il diritto o i diritti che le competono spesso, specie nel passato, non hanno saputo difenderli. Basti pensare alle “quote rosa” o al termine “femminicidio”, che sono cose nate considerando l’essere umano a cui sono rivolte come donna e non come a un pari tra i pari. Ma per questi trattamenti particolarmente offensivi o degradanti o umilianti, cosa ha fatto realmente la donna? Nella maggiore parte dei casi, per esempio per le “quote rosa”, ha sgomitato o sfoderato l’eterno femminino per ottenere ciò che avrebbe dovuto pretendere senza bisogno di leggi particolari. Come un cittadino normale, insomma, che partecipa alla vita della Nazione. Contro l’umana violenza che la opprime, ha accettato l’etichetta di femminicidio, e non si è battuta affinché un simile delitto contro la persona rientrasse tra i casi di omicidio, punto e basta.
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Nel saggio la Rigotti in più di un capitolo, ha considerato e messo in relazione la ripugnanza verso la donna vecchia con la sua perdita di fertilità, di capacità procreativa, di arroganza fisica. In parte è vero, ma è anche vero che si può essere seducenti anche con le rughette. Basta non soffrirne troppo e fare come fanno gli uomini che le ignorano. Alcuni consigli, per superare lo scoglio della vecchiaia, in verità la Rigotti li dà: invita tutte a stare al passo con i tempi tecnologici, senza rifiutare di avvicinarsi ai nuovi mezzi di comunicazione, di considerare che non vivono più in una società statica, ma dinamica; che i saperi acquisiti sono una ricchezza da trasmettere e non da portarsi nella tomba. Che la seduzione non è e non deve essere la sola arma in loro possesso. Che la società non può fare a meno delle donne anziane per la sensibilità, la ricchezza, l’esclusività di molti saperi che possiedono soltanto loro. Non devono avere paura del confronto con coloro che sono uomini della loro stessa età, o che sono addirittura spudoratamente più giovani. Altro errore della senectute femminile, dice la Rigotti, è l’isolamento a cui spesso la donna si vota, limitando o anche eliminando quei contatti fisici essenziali a sentirsi parte attiva della società. Invita anche a non essere schiavi di nuovi comportamenti, provenienti da altre culture, che limitano o aborriscono contatti come strette di mano e baci, basti pensare alla società Nipponica, che rappresentano l’inizio dell’estinzione dei contatti intergenerazionali. Le anziane, poi, non devono essere viste come streghe di Biancaneve con la borsetta piena di caramelle avvelenate da distribuire a ingenui fanciulli. Bisogna distribuire amore perché esso rende giovani, o quanto meno non fa pesare la vecchiaia. Le donne anziane, più dei maschi, hanno bisogno del contatto con i bambini, per un fattore naturale di donna. I miei figli sono cresciuti con i baci e le carezze della vecchia maestra della scuola primaria, per questo sono ancora oggi quarantenni sereni e socievoli, e a noi genitori non era mai nata la sgangherata idea che i lo-
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ro maestri lo facessero per un sordido scopo. Il saggio della Rigotti seppure interessante ha il vizio, come quello di Cicerone dedicato all’uomo, di essere stato dedicato alla vecchiaia della donna. Manca quindi anche in questo quel senso di appartenenza che dovrebbe considerare le problematiche legate alla vecchiaia, patrimonio comune sia del maschio che della femmina. Si continua a volere coltivare il concetto che una cosa è essere vecchi da uomini e una cosa è essere vecchi da donne. Invece il problema, se così lo vogliamo chiamare, è strutturato nella società i cui componenti sono maschi e femmine. Esistono tra le due vecchiaie delle collimanze, delle sovrapposizioni che non dovrebbero più fare differenza di genere. Ma ho la certezza che, sebbene ci vantiamo di vivere in un a società evoluta, si cerca in tutti i modi di rimarcare queste differenze. Di volere stare, comunque, ognuno dalla sua parte. A corredo poi di ogni capitolo l’autrice mette un ricco corredo bibliografico, con anche interessanti annotazioni per continuare a approfondire, volendo. Salvatore D’Ambrosio
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m’illuminano la mente, mi portano nel gioioso infinito, respiro aria pura e la voglia di ricominciare tutto il corpo m’invade. Rinasco a nuova vita, trovo la giusta via e il sole mi sorregge e mi fa compagnia. Cav. Giovanna Li Volti Guzzardi Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori (A.L.I.A.S.)
Dopo Tanelli, Allegrini, Selvaggi, Barzaghi, Aita, Trimarchi, De Luca, ora è la volta di Tito Cauchi a investigare, in un saggio monografico, la figura del direttore di PomeziaNotizie:
FRANCESCA RIGOTTI - DE SENECTUTE - Einaudi 2018
E MI SVEGLIO Sento l’ansia che mi divora, mi afferra le viscere e le stritola a suo piacere, io mi lascio trascinare, non so difendermi e con lei vado verso l’ignoto. La strada è lunga, piena di curve, dirupi e rocce appuntite, cado nel buio e mi addormendo in un labirinto di pensieri, che non trovano la via per fuggire e nel più profondo buio mi fanno sprofondare. Sento un formicolìo nelle viscere, come un massaggio mi fa rivivere, mi lascio abbindolare dal piacere e mi sveglio coi raggi del sole che gentilmente mi pungono il cuore,
In questo volume di 360 pagine (Editrice Totem, € 20), oltre a costoro, l’Autore dà adeguato spazio ad altri scrittori, poeti e artisti, come Solange De Bressieux, Paul Couget, Gaston Bourgeois, Eleuterio Gazzetti, Saverio Scutellà, Michele Frenna, Ottavio Carboni, Rocco Cambareri, Geppo Tedeschi, Francesco Fiumara, Nino Ferraù, Ada Capuana, Franco Saccà, Carmine Manzi, Rudy De Cadaval, Francesco Pedrina, Nicola Napolitano, Maria Grazia Lenisa, Giuseppe Mallai eccetera. Uno spaccato della seconda metà del Novecento e di questi pochi anni del 2000!
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SGUARDI DI DONNA SULLA SCRITTURA DELL'EBREO DI PRAGA di Ilia Pedrina
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IUDITTA Podestà è giovane studiosa determinata e coinvolta nello studio delle lingue indoeuropee, in particolare quella tedesca e vi intende entrare attraverso le stesure di Franz Kafka, mediate dalle pubblicazioni dei manoscritti fatte all'epoca dall'amico Max Brod. Per Giuseppe Leone, il grande interprete della vita, degli studi e dell'intensa attività culturale della 'perla' di Olginate, come amo definirla, analizzando l'opera Franz Kafka e i suoi fantasmi nell'itinerario senza meta, pubblicato nel 1956 dall'Editrice Universitaria Pacetti di Genova, mostra che lei affronta lo scrittore tedesco ravvisando in lui come una sintesi della sofferenza e della disperazione di una cultura, quella europea, dalle fondamenta scollate rispetto alla loro matrice antica, trascendente, operosa, profondissima. Ci informa. “... Il fatto è che a lei, dello scrittore ebreotedesco interessa proprio questa sua arte che 'ammaestra e incita al di là della parola', grazie anche al suo stile metareale, che consente a Kafka di presentarsi come un vero vate anticipatore dei fatti... Giuditta ausculta Kafka dai primi momenti della sua infanzia fino alla morte... Vaglia le sue amicizie con Max Brod, il comico Lowy, Baum, viste come tentativi di sfuggire alla carenza d'affetto e alle incomprensioni in famiglia che non salveranno Kafka dall'isolamento e dalla solitudine; le sue relazioni sentimentali, i tentativi di matrimonio con Felice e Milena destinati a fallire. Commenta romanzi, racconti, novelle, diari, riconoscendo in ciascuna di queste opere le tappe di una discesa agli inferi, dalle cui oscurità Kafka non risalirà mai più, forse, pensa Giuditta, a causa di una mancata conversione al cristianesimo, improponibile per uno scrittore ebreo... Se Giuditta in conclusione del suo saggio, può scrivere: 'Kafka protrasse la notturna esperienza apocalittica
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per esaurirla nella sua necessità storica e per affidare il ramoscello d'olivo al dinamismo della vita, che si apre all'alba del nuovo giorno', ben si può intuire quello 'che il suo dir suona'... Cercavamo Kafka, leggendo questo saggio, abbiamo trovato Giuditta, mentre se ne esce in compagnia di quel 'ramoscello' per annunciare che potrebbe iniziare una nuova era di pace per il mondo, un nuovo mondo, fondato e guidato dalla cultura del comparatismo... Contemporaneamente alla stesura della monografia su Kafka, Giuditta, quasi a completamento delle comparazioni tra Kafka e Goethe, Kafka e Dostoevskij, pubblica nel marzo del '56, sulla rivista Humanitas uno studio dal titolo Kafka e Pirandello attraverso il quale ricostruisce il profilo umano, spirituale e culturale forse delle due più discusse espressioni cerebrali del '900... Due scrittori, secondo la Podestà, che, pur discendendo da ambienti così diversi – dall'umanesimo latino e cattolico, con qualche sfumatura musulmana, Pirandello', 'dall'intima coscienziosità nordica e religiosità ebraico-protestante, Kafka; 'l'uno avvezzo fin dai primi anni al linguaggio della classicità greca e del fantasioso fatalismo arabo', 'l'altro a quello più cupo della Praga medievale, ricca di sognanti volute orientali e di arditi pinnacoli gotici' – risultano 'nei loro mondi chiusi e nella loro aristocrazia spirituale, così vicini l'uno all'altro...” (in L'ottimismo della conchiglia. Il pensiero e l'opera di Giuditta Podestà fra comparatismo e europeismo, a cura di Giuseppe Leone, pp. 17-23, Ed. Franco Angeli, Milano, 2011). È nella traccia trasversale tra epoche, problematiche storiche, sociali, economiche, autori e loro testimonianze che questa perla di Olginate offre il suo sguardo all'ebreo di Praga e alla sua complessa scrittura, non dimenticando tutti i territori della Filosofia tedesca ed europea, che si inradicano nella tradizione greca antica e giudaico-cristiana: è in grado di decantare dentro di sé tutti i risvolti tenebrosi che vanno ad intaccare l'immaginario creativo, operando, come fa la perla appunto, luminosità via via crescente a partire dalle scorie,
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onde entrare nella luce d'una scrittura che placa gli istinti distruttivi e si fa esperienza e progetto di innovazione, invitando a saper leggere e, meditando a lungo, a saper cancellare, per evitare precipizio. Rosalba Maletta con generosa illuminata semplicità ci fa entrare nella dinamica delle sue ricerche ed interpreta profondità segrete di Autori tedeschi che intercettano la sua linfa: così delinea per la Rivista in rete Enthymema XXII 18, un percorso originale, complesso, illuminante Franz Kafka: la letteratura tra serie complementare freudiana e meccanica quantistica. Sono pagine fitte d'interesse, innovative, catapultano le prospettive della critica letteraria da un lato all'altro del Caos, per grumarle nuovamente in costellazioni imprevedibili: “Presento qui un primo sunto delle ricerche che coinvolgono uno studio dell'opera di Kafka tra reale psichico e reale fisico. Il lettore incontrerà riferimenti ad alcuni dei postulati della relatività di Einstein e della meccanica quantistica come pure alla psicoanalisi freudiana e a Bion. Le odierne tendenze della critica letteraria, volte a favorire una metodologia multidisciplinare, possono illuminare aspetti di un autore ancora poco esplorati o rimasti in ombra. Il presente lavoro si inscrive in questo orientamento poiché la produzione di Kafka ci pone a confronto con le logiche fuzzy che possiamo comprendere a partire dal momento quantico, in cui precipita l'eccezionale fioritura delle fisiche del Novecento senza trascurare il terremoto provocato dall'indagine dei processi inconsci messa a punto da Freud...” (R. Maletta, art. cit. pag. 64, in rete). Questo lavoro si compone di 1.Premessa (pag. 64), introdotta da due versi 'Fern, fern geht die Weltgeschichte vor sich/die Weltgeschichte deiner Seele (NSF II 561), 2. Ambienti e circostanze (pp. 65-67), 3 Tutti gli oggetti si danno in luci e in tempi mutevoli (pp. 68-69), 4. Un accadimento quotidiano - Ein alltäglicher Vorfall (pp. 69-72), 5.'Serie complementare cosciente' e stati entangled - Pensare (con) Kafka (pp. 72-74), 6. Un confronto - Edizioni, traduzioni, restituzioni (pp. 74-75), 7. I sensi
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(s)mascherati della letteratura (pp. 75-77), 8. Bibliografia (pp. 77-81). Nella nota 12 a pag. 69 Maletta riporta quanto Kafka scrisse nei suoi diari il 22 novembre 1911: “Certo è che uno dei principali impedimenti al mio progresso è rappresentato dal mio stato fisico (Zustand). Con un corpo così nulla è dato raggiungere. Dovrò abituarmi al suo continuo fallire (Versagen). […] Il mio corpo è troppo lungo per la sua debolezza, non ha il minimo grasso per generare un benefico calore, per la conservazione del fuoco interno, nessun grasso di cui lo spirito possa nutrirsi oltre il bisogno quotidiano senza danneggiare l'insieme. […] Per via di questa sua lunghezza tutto è sparpagliato (auseinandergezogen). In che cosa mai può prodursi quand'anche fosse compatto giacché avrebbe forse davvero troppa poca forza per quel che voglio raggiungere” (KAT 263-64). Lei spiega: “La stanchezza àncora alla massa inerziale che con e dopo Einstein sappiamo essere equivalente alla massa gravitazionale ovvero all'energia che ogni corpo assorbe o perde. La scrittura genera e produce entropia e dispersione; mette in movimento fenomeni che sfuggono all'osservazione quotidiana e al senso comune; sollecita a una cinematica ideativa inusuale il tutto emesso da un corpo in situazione (lo scrittore) e ricevuto da un altro corpo (il lettore) entrambi immersi in uno spaziotempo...” (R. Maletta, ibid.). Con intendimento e lungimiranza lascio volutamente in ombra gli altri profondi contributi della studiosa intorno a Kafka e alla sua scrittura nella temperie del tempo, affinché molte voci emergano a considerare pienamente questo testo. Arrivo per terza, non senza brividi! Tutto ciò che è norma interna e dettato midrashico e mitzvotico, il giovane Kafka lo profana in una scrittura, il tedesco, che sa essere esterno alla Sinagoga, che sa estraneo ai principi di compressione interna di ciò che è contrario e vietato dalle regole rabbiniche, quel tedesco che sa essere lingua che può essere violata, dissacrata, provocando malattia.
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Nella cultura che rappresenta la religione ebraica non c'è spazio per il mito, perché ogni eroe è figura storica e storicamente circondata da un Popolo e da un Mandato, per il quale si sente scelto e guidato da Dio stesso. Altrove, nelle altre culture, i miti sono percorsi obbligati della fantasia che concretizza le azioni in simboliche autostrade del senso e della scrittura creativa intorno a personaggi, situazioni, circostanze, eventi e loro conseguenze, così a livello letterario è preferibile l'orizzonte profano della cultura occidentale alternativa all'ebraismo sacro e profeticamente forte riportato nei libri sacri della Torah. Ecco perché gli scrittori di lingue d'occidente si sentono liberi, perché liberati da un preciso compito di vigile sorveglianza di contenuti, mezzi, motivazioni e finalità, per darsi alle braccia ben spalancate della scrittura d'arrivo. È possibile che nel transfert dalla matrice jiddish alla lingua tedesca per Franz Kafka si allenti la catena non virtuale, ma 'linfatica' della lingua madre, per approdare con liberata necessità alla lingua del lavoro, del pane e della scrittura? In questo nuovo mondo tutto, proprio tutto deve essere possibile perché la scrittura deve ubbidire al potere forte e fortificante dell'immaginario pur sempre geneticamente ebraico. Il sangue esterno, antico, rappreso sulle pareti della Sinagoga; il sangue interno alla macelleria rituale del nonno, che sgorga copioso da animali rigorosamente ancora vivi; il sangue nelle vene del bimbo Franz, che tutto interiorizza e per tutto trema. Allora, giorno dopo giorno, egli scopre che la lingua è un'arma potentissima, sacra, da profanare perché nuova lingua di
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approdo oltre l'antico Jiddish e da mettere di fronte a nuovi compiti di soglia, di confine, di territorio, quel territorio che Freud andrà a saccheggiare con incuria, senza quella curiosità che facilmente diventa meraviglia, se vi si abbandona la mente, con sincero e consapevole adeguamento Franz rifiuta il proprio corpo per amarsi meglio e concentra nella donna il suo polo, esterno ed estraneo, che osserva mentre si lascia osservare, che sanguina periodicamente perché ci sia fecondazione, l'altro da sé che attende, si, anche il nuovo che forse andrà a nascere, in una aspettativa giudicante; l'altro da sé che ama e chiede proprio per questo di essere riconosciuta; l'altro da sé che accetta, ammette, approva e sorride, accarezza senza giudicare. Franz rifiuta il proprio corpo per amarsi meglio quando intende mirare, forzatamente, alle limitazioni del piacere, in una concentrazione di tensioni che il bordello porta a liberare, perché il denaro è scambiato con l'emozione che provoca, il piacere della donna che gli rimane estraneo e vorrebbe anche lui addosso, dentro di sé, doppio e tutto dell' uno e del due nell'uno, oltre il soffrire della separazione. Franz rifiuta il proprio corpo per forzare la natura ebraica nella scrittura della rivoluzione messianica torbida, fangosa, ancora indistinta perché infera: capire Franz è entrare nel risvolto oscuro e doppio di chi non può cancellarsi di dosso la pelle del Dio, che annienta ed esalta: dare al fuoco i propri scritti è rendere sacro il percorso sofferto di questa trasformazione, quasi che dal Roveto Ardente una scintilla fosse scesa al suo fianco e ne avesse fatto emergere l'intento di annientamento sacrale. Viene in mente il bosco sacro nel quale il cieco Edipo, non più re, viene inghiottito e sublimato. Per sempre, nell'arte da interpretare, nel testo da tramandare. Per sempre. Leggo l'originale in rete di Erzählungen II, Kapitel 7, 'Rede über die jiddische Sprache': il suo tedesco mi si carica addosso, che io capisca o meno i dettagli, devo abbandonarmi al suono, così distruggo lo specchio perché i suoi frantumi generino immagini senza com-
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postezza, non più rese intatte dalla forma: se frante, esse moltiplicano la realtà, il sogno decade nella sua consistenza ed appare, pura, la provocazione. Questo ha dato al mio sguardo l'Ebreo di Praga. Questo, per ora, mi basta. Ilia Pedrina IL DISTACCO Ritorna oggi, ormai, come ogni anno, lo stesso dispiacere, un sentimento di necessario, spiacevole distacco. E’ per me infatti sempre doloroso separarmi da questi personaggi che per molti giorni hanno allietato con la loro presenza la mia casa, portando un soffio di serenità e di amore. Peccato spegnere le luci intermittenti, che pulsando quasi fossero un cuore danno un senso di calore e allegria.
non appena ti volgi chi tu ami. Così, Ovidio, un tuo verso ci ammonisce, dal volo alto dei secoli a noi giunto. "Quod amas, avertere, perdes!" - E' come un [ punto nel volgere dei cieli e delle stelle la tua parola, un vento la tua voce. "Quod petis, est nusquam": la feroce sentenza del destino che ti coglie nell'attimo ove arreso ti abbandoni a te stesso e ripensi al tuo passato. Tutto quello che è stato a te ritorna e ti assedia e ti preme: volti, nomi, immagini; nel loro cerchio cadi prigioniero per sempre. Quale fu l'illusione che t'arse e che ti vinse? Con il suo inganno ancora ti sospinge ("Quod petis, est nusquam") nel tuo giorno e lungamente assorto ti conduce per ignoti sentieri e per contrade irte di vento, su deserte strade, mentre invano tu cerchi un ancoraggio (sempre una meta tua tenti celeste) che ti salvi da arsure e da tempeste. Ritrovi ignaro al termine del viaggio la visione incantata in cui si oblia il male ed il cammino arduo del mondo. Elio Andriuoli Napoli
Peccato smontare le casette e riportare bene imballate nei contenitori Sacra Famiglia, angeli e pastori, asino e bue, e i Magi coi cammelli. Un incanto scompare e lascia il vuoto in questo angolo, che disadorno e un poco triste resterà, fin quando, straziato e crocefisso, morto e risorto, Gesù rinascerà e un’altra volta in questa casa, e qui, farà ritorno. Mariagina Bonciani Milano
QUOD PETIS, EST NUSQUAM (Ovidio, Metamorfosi, Libro III, V.433) "Quod petis, est nusquam": non esiste in alcun luogo quello che tu cerchi con immutato ardore e da te fugge
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È in uscita, presso la Genesi Editrice di Torino, l’ultima e <<spumeggiante>> - com’è stata già definita dall’Editore - raccolta di versi di
DOMENICO DEFELICE
LE PAROLE A COMPRENDERE L’opera, di circa 130 pagine, sarà in vendita a € 14,00 a copia, avrà la Prefazione di Sandro Gros-Pietro e l’<<affettuosa e magistrale testimonianza del grandissimo Emerico Giachery>>.
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Vittoriano Esposito PER UN ALTRO D’ANNUNZIO Da poeta vate a poeta degli umili di Giuseppe Leone
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HE Vittoriano Esposito, scrittore del secondo Novecento, nato a Celano nel ’29, fosse un critico militante assai vicino agli ideali siloniani e perciò stesso sensibile verso altri scrittori della sua terra, che chiamava “peones”, per essere rimasti fuori dagli schemi e dalle scuole che hanno dato corpo al Novecento letterario ufficiale, era cosa nota a tutti. Ma forse non tutti sapevano che si fosse interessato anche a scrittori che “peones” non erano affatto, come Gabriele d’Annunzio. A lui, aveva dedicato, pubblicandolo nel 1988 con le Edizioni dell’Urbe (Roma), nei Quaderni di Critica Letteraria diretti dallo stesso Esposito e Francesco Di Gregorio, Per un altro d’Annunzio. Un saggio, nel quale, ripercorreva le tappe più significative della vita e dell’arte del Poeta alla luce delle opere e dei
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gesti che sono in qualche modo legati alla causa di abruzzesità, sempre che l’abruzzesità sia una caratteristica ancora positiva. Una caratteristica a cui Vittoriano - va precisato - era stato sempre attento, ma mai “con l’orgoglio di esibirla a trofeo di un marchio di fabbrica squisitamente regionale”. Significativo quello che scriveva nel 1990 nell’introduzione alla sua antologia critica Parnaso d’Abruzzo: “A noi preme, però, non restar prigionieri di una visione prettamente provinciale o regionale delle vicende artistiche e culturali dell’Abruzzo, sì piuttosto stabilire o suggerire eventuali rapporti tra la letteratura abruzzese e la letteratura italiana e, per le personalità maggiori, anche la letteratura europea nel suo complesso”. Questo, per dire, quanto infinitamente vasto fosse il campo d’attività di un critico letterario come Vittoriano Esposito, tanto che quest’anno, nella ricorrenza a febbraio del settimo anniversario dalla sua morte, non mi è affatto dispiaciuto ricordarlo alle prese, proprio, con il poeta-vate. Per un altro d’Annunzio è, allora, un testo nel quale Vittoriano ha cercato di abbattere tutti i pregiudizi e studiare, parallelamente al d’Annunzio, per certi versi inavvicinabile, come quello del superman nicciano o estetizzante o della Grecia classica, anche il d’ Annunzio che si sofferma sulle cose d’Abruzzo e sugli umili, i vinti, che, nel suo universo poetico, sono creature ben degne di rappresentare il polo opposto al “vivere inimitabile” (8). “Grand’uomo Gabriele d’Annunzio?” si domanda Esposito, già nelle prime battute del testo, pur convinto che “se si volesse tentare di estendere il discorso alla sfera dei valori morali e sociali, secondo i comuni parametri, la coscienza del poeta superuomo denuncerebbe dei vuoti spaventosi, che, a nostro parere, non si riesce a colmare che in parte col recupero delle motivazioni intimistico- esistenziali del d’Annunzio cosiddetto “notturno”; e neppure se si volessero azzardare “sia pure fuggevoli accostamenti all’etica cristiana, per un uomo ed uno scrittore che vide nel Cristo
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null’altro che un “bellissimo Nemico”. Vittoriano Esposito, inutile ricordarlo, è per un altro d’Annunzio, fuori dal mito e dentro la realtà comune, senza dubbio più umano, con le sue debolezze e perfino con le sue viltà, capace anche di trovare nella sofferenza la misura segreta della vita (14-15); un d’ Annunzio, con le sue “malinconie e tristezze, che ci disvelano l’uomo pur tra manie di grandezza, non estraneo alle implicazioni sociali, a tratti perfino interessato alla instaurazione di un “ordine nuovo” essenzialmente anarchicheggiante perché geloso della propria libertà” (8-9). Ecco, allora, Vittoriano, sulla scia di Filippo Turati che salutava d’Annunzio come poeta dei reietti nel disegno d’un “gran poema sociale futuro, all’indomani della pubblicazione di Canto novo, sulla rivista “Farfalla” di Milano, individuare nel poeta pescarese varchi che lo portano su aspetti di sinistra, analizzando, per esempio, atteggiamenti o episodi di d’Annunzio repubblicano e rivoluzionario (98). Così, nella tragedia La gloria (1899), in cui Ruggero Flamma, accanto al sogno d’una grande Roma, nutre anche quello di una rivolta agraria; così, in Parlamento nel marzo del 1900, nel passaggio dai banchi della Destra a quelli di estrema Sinistra, (che) non fu, secondo Vittoriano, solo un bel gesto per suscitare clamore attorno a sé, ma anche e soprattutto una chiara risposta all’istinto “rivoluzionario” che egli si portava dentro, e che si era palesato in diversi modi già nella sua inquieta adolescenza. Tutti momenti di passaggio, si dirà - avverte ancora Vittoriano - ma che non sono da considerarsi isolati, se è vero che nei versi e nelle novelle della prima giovinezza vi sono molti spunti che denotano interesse ed aperture per il mondo degli umili. Si pensi, tra gli altri, al caso di Federico, il fratello di Tullio Hermil (L’innocente, 1892), definito il “Gesù della gleba”, e che a qualcuno è apparso quasi “un modello di tolstoiana umanità” (98-99). Certo, è anche vero - insiste Vittoriano che estetismo e sensualismo finiranno col sof-
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focare le venature politico-sociali rinvenibili nel primo d’Annunzio, e che l’istinto rivoluzionario assumerà presto le forme del più vieto bellicismo e imperialismo; ma non va dimenticato che molte pagine dell’ultimo d’Annunzio, da Contemplazione della morte 1912) a Notturno (1916), da Le faville del maglio (1924-28) al Libro segreto (1935), al di là degli innegabili pregi stilistici in fatto di prosa altamente poetica e perfino suggestivamente lirica, ripropongono di frequente la figura di un uomo che non disdegna – sono sue parole – di “riaprire le sue intime piaghe” e che, ciò che più conta per noi, si umilia a guardare anche la sofferenza altrui. Ma – è sempre Vittoriano che parla - al di sopra della discussa e pur grande avventura dello scrittore, che non si esaurisce, come si è detto più volte, nel mito del superuomo, c’è una singolarissima vicenda dell’uomo e del legionario d’Annunzio che ne propone la figura di autentico rivoluzionario, con larghe implicazioni di carattere politico-sociale nell’occupazione di Fiume (settembre 1919) e nella proclamazione della città come Stato libero (8 settembre 1920), retto da uno Statuto
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che era quanto di più avanzato si potesse allora immaginare in materia di diritti politici e civili (99). Più noto come la Carta del Carnaro, quello Statuto è stato letto e riletto – conclude Vittoriano - ripetutamente da storici e politici, ma forse poco da letterati e critici letterari, che pur ci troverebbero qualche motivo per penetrare più a fondo in certe intime contraddizioni dello scrittore e dell’uomo d’Annunzio. E quanto questo documento sia di sinistra, Vittoriano non lo dice personalmente. Egli, a difesa di una maggiore oggettività e senza per nulla toccare la questione della parte spettante al socialista e sindacalista De Ambris nella preparazione del documento, lo lascia trapelare da un commento a caldo che ne fece, nel clima infuocato di quei giorni, un quindicinale illustrato del tempo, La Rivoluzione, che si pubblicava a Milano “a cura di un gruppo di sindacalisti della vecchia guardia”. Qui, in una nota di Premessa, si accenna in modo abbastanza risentito, alla incomprensione generale del valore rivoluzionario del documento dannunziano, dovuta al fatto che molti non osavano manifestare il loro consenso nel timore di essere ritenuti complici dell’impresa fiumana, alcuni altri si rifiutarono “di accorgersi che sul Carnaro era sorta una repubblica sociale italiana” ed altri ancora … “non vollero neppure leggere il testo della Costituzione, giudicandolo frutto d’un sognatore” (100101). Giuseppe Leone Vittoriano Esposito - Per un altro d’Annunzio Edizioni dell’Urbe, Roma 1988. Lire 12.000. Pp. 112.
SCAPOLI, NELL’ORA DEL CREPUSCOLO Case chiuse vie deserte voce d'uomo non s'ode né di macchine il rumore il silenzio del "Far West" d'un villaggio vuoto e spento. Stille di pudore nell'azzurro
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petali di rosa. Lento avanza il buio s'accendono le luci. Di fiaba il paese si veste di magico s'illumina. Si scopre via Piana il Cammino di Ronda il borgo antico del Museo il cappello. E' l'ora dei ricordi di nostalgia il pianto. Il passato riemerge presente rivive io torno bambina... Profumo di stelle lampeggiare di lucciole risa gorgheggi canti di primavera e le immagini, vive, di Coloro che furono, che sono, nel cuore. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo al Volt. (IS) Da: Antonia Izzi Rufo, "Pasquale Vecchione e la 'Capitale della Zampogna' ", Penna d'Autore 2005, Torino.
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 19/1/2019 Ancora stragi di migranti nel Mediterraneo e riapertura del teatrino - in verità, mai chiuso dei favorevoli e dei contrari all’ accoglienza illimitata. Alleluia! Alleluia! Un fatto è certo: se l’Europa varasse un piano economico per lo sviluppo dei Paesi disastrati da guerre e sottosviluppo, evitando che la gente si mettesse in mare, non avremmo più simili ecatombe. Le Ong, facenti capo a molti stati europei - alcuni direttamente responsabili del disastro di quei Paesi -, favoriscono gli esodi e, quindi, le stragi? Frenano, con il loro agire, che l’Europa tutta prenda a cuore il problema? La nostra impressione è che, anche in questo campo, a decidere, oggi, siano solo Operatori del Male. Domenico Defelice
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FERDINANDO FERRACINI, UN PATRIOTA VENETO NEL RISORGIMENTO ITALIANO DI
FIORELLA BOTTEON: UNA RIVITALIZZAZIONE DEL SENTIMENTO PATRIO DEGLI ITALIANI di Andrea Bonanno
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ONO da ricordare con il massimo rispetto e da apprezzare con dovizia di caldi elogi tutti coloro che hanno sognato e realizzato l’unità d’Italia, agognata e saccheggiata per lunghi secoli dalle mani di avidi predatori. In tale accezione è da ricordare l’enorme aggravio di tasse imposto al Lombardo-Veneto1 dall’Austria, quantificabile in cifre iperboliche per quei tempi. Comunque con il sangue di tanti caduti si sono così scritte le pagine del nostro Risorgimento che additano sempre all’umiliata Italia di oggi
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di non dimenticare l’alto significato rivestito dalla sua fulgente civiltà. Se per la creazione dell’unità italiana importante fu l’azione dell’esule Mazzini, dell’ operato del Conte Camillo Benso di Cavour, tessitore astuto e geniale, e del talento militare di Giuseppe Garibaldi, non meno apprezzabile fu l’apporto di amore patriottico profuso da tutti coloro che combatterono nei campi di battaglia. Fra costoro la studiosa Fiorella Botteon recupera dalla dimenticanza e dall’oblio il nome del patriota veneto Ferdinando Ferracini, personaggio eclettico che operò nelle varie vicende risorgimentali e che conobbe l’esilio e anche il carcere a Mantova, dove arrivò il 10 agosto del 1852 da Venezia. Il libro dal titolo Ferdinando Ferracini Un patriota veneto nel Risorgimento italiano, stampato nel luglio del 2018, con prefazione del Prof. Giovanni Cerino Badone dell’ Università del Piemonte Orientale, per conto dell’Istresco (Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea della Marca Trevigiana) di Treviso, è un lavoro notevole che ripercorre i momenti salienti militari e quelli dedicati ad altre mansioni del suddetto patriota, nato a Caltana, in provincia di Venezia, che si avvale peraltro di molte e minuziose ricerche svolte negli archivi e biblioteche di molte città italiane. Chi ama ancora la nostra patria non può sottrarsi alla lettura di questo ampio volume di ben 322 pagine, ben documentato anche fotograficamente, e scritto in modo scorrevole e coinvolgente che, nel seguire la pronta intelligenza di un uomo e di un patriota, oltre che di un amministratore onesto e corretto, offre all’appassionato lettore lo strumento di un importante arricchimento culturale non solo per la conoscenza della biografia del Ferracini, ma anche di quelle fasi risorgimentali ed, in particolare, del senso di oppressione che soffriva il Lombardo-Veneto sotto l’assillante e feroce governo austriaco. In tale accezione, molti sono i dettagli e le informazioni, non riscontrabili in altri libri. Ciò che avvince del volume è quell’ inces-
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sante invito che sollecita ciascun fruitore a voler meditare ancora sul nostro passato risorgimentale, sognato da molti scrittori, poeti e ferventi attivisti per la realizzazione di un’unica nazione, come una organica compagine spirituale, che già rivelava fin dai secoli anteriori un’ unità linguistica seppure elitaria e letteraria. Se prendiamo in considerazione le pagine del libro che vanno dal 6. Il 1859 fino al termine del punto 6.2. La guerra, molte sono le informazioni dettagliate della studiosa, avallate da importanti testi sulle fasi della guerra, dopo il respingimento da parte del Regno di Sardegna dell’ultimatum di un disarmo (il 23 aprile), inoltrato dall’Austria. Iniziava così la guerra, che vide gli Austriaci passare in fretta il Ticino, guidati dal Gyulai per sorprendere i
Piemontesi prima dell’arrivo dei centomila soldati francesi. In sintesi i Franco-Sardi vinsero a Montebello (20 maggio) e a Palestro (30-31 maggio), consentendo ai due sovrani, Vittorio Emanuele II e Napoleone III, di entrare in Milano l’8 giugno, dove ricevettero molte ovazioni di gioia, per poi proseguire verso il Veneto, mentre Garibaldi aveva liberato Varese e San Fermo ed occupato Como, Magenta, Bergamo e Brescia. Da ricordare, inoltre, che a Magenta (4 giugno) gli alleati furono aiutati dall’intervento di Mac-Mahon. Brillanti poi furono le vittorie conseguite a Solferino e a S. Martino (24 giugno), di cui si parla a pag. 127, in cui il Ferracini, come “Commissario Regio Straordinario”, ha esercitato il gravoso “compito di collegamento [...] tra l’ordine e la rivoluzione” (p. 128). In-
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teressante è il testo riportato con il quale il patriota si rivolgeva al Municipio di Milano, esultando per la liberazione della città da una lunga tirannia e sperando, nel profondo della sua anima, che un simile destino potesse riguardare in un vicino futuro la sua amata Venezia e tutto il Veneto. Ma, stando poi al testo riportato di Alberto Mario Banti, nel giugno del 1859, erano avvenuti “varii arresti nella città”. Scrive la studiosa che il Ferracini incontrò il re Vittorio Emanuele II a Calcinate e l’imperatore Napoleone III a Montechiari, in cui forse si parlò di un “piano di attacco” per liberare Venezia. Comunque, dopo le vittorie di San Martino e Solferino, che facevano ben sperare di poter sloggiare l’Austria dal Quadrilatero, formato da Mantova, Verona, Legnago e Peschiera, consentendo poi di potere accedere in terra veneta, improvvisamente però, con grande delusione dei patrioti veneti, Napoleone III sottoscrisse un armistizio con l’Austria a Villafranca, ratificato in seguito nella pace di Zurigo (10 novembre), che comportò le dimissioni da primo ministro del Cavour e le rimostranze, riportanti le firme di ben settecento fuoriusciti veneti, rivolte al sovrano per la cessazione delle ostilità contro l’Austria. Illuminanti risultano le altre pagine del libro, di cui sarebbe qui impossibile parlare degli altri suggestivi eventi risorgimentali, nel ripercorrere l’itinerario formativo, militare, giornalistico e amministrativo del patriota Ferracini, in sincronia con tutte le fasi del nostro Risorgimento. A lettura ultimata, il folto libro della Botteon risulta avvincente per la dovizia delle molte informazioni, per l’impegno critico e documentaristico profuso, per l’incisività espositiva di una prosa fluida e spigliata, per l’organica struttura del lavoro e, soprattutto, per la resa storica basata sulla realtà dei fatti e dei documenti acclusi, consentendo agevolmente a ciascun lettore e appassionato di storia una aggiornata riflessione sul nostro Risorgimento e sulla formazione della nostra identità nazionale.
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Così l’Italia giunse da quella che fu detta essere una semplice “espressione geografica”2 alla sua difficile unità, coronando il sogno di tanti patrioti, per poi diventare molto tempo dopo la sesta potenza mondiale secondo lo storico inglese Denis Mack Smith3, ma oggi, considerate le sue enormi difficoltà, è chiamata ad attuare un altro “risorgimento”, unicamente morale, politico ed economico, sulla base di nuove valide riforme riguardanti il mondo del lavoro, il rinnovo della burocrazia, l’esosità delle tasse e l’evasione fiscale, per poter ripristinare la sua potenza economica e porre fine a quel fallimento e a quella decadenza che molti sperano esserle irreversibili e fatali. Andrea Bonanno Note 1 Dell’esagerata gravosità delle imposte e dell’elevazione delle tariffe doganali fino al 60% parla Antonio Monti nell’Enciclopedia Italiana del 1934, il quale aggiunge che “Il bilancio del Lombardo-Veneto dava un avanzo superiore alla metà delle entrate, poiché, in media, l'Austria non spese che i 4/10 di quanto ricavava per il mantenimento dell'esercito, fortificazioni militari, per spese, insomma, che non servivano al miglioramento economico del paese. L'avanzo annuo di 35 milioni di lire italiane dato nel 1823 subì un aumento costante, raggiungendo nel 1848 i 66 milioni annui. Detratti da questi 20 milioni circa di lire austriache, quale contributo alle spese dell'esercito, il LombardoVeneto fruttava all'Austria 46 milioni annui”. 2 La frase sembra essere stata scritta da Klemens Wengel Lothar Principe di Metternich (Koblenza 15 maggio 1773-Vienna 11 gennaio 1859) il 2 agosto 1847 in una nota inviata al Conte Moritz Dietrichstein Prosskan-Leslie, che molti hanno contestato a partire da “Il Nazionale” di Napoli che la corregge in “L’Italia è un nome geografico” fino a Fausto Brunetti, per il quale la frase effettivamente scritta era: “L’Italia, nome geografico come quello della Germania”. In ambedue le versioni però a nessuno sfuggirà il compiaciuto fondo pessimismo dispregiativo del Metternich, per la semplice certezza che tanti staterelli in competizione incessante fra di loro, qual era allora scissa la penisola italiana, non potessero per alcuna ragione dar luogo alla formazione di una unità nazionale. 3 Denis Mack Smith, Mazzini, l’uomo, il pensatore, il rivoluzionario, Ediz. Il Giornale, Biblioteca storica, p. 325.
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IL TEMPO NON TORNA PIÙ Lunghi sospiri di un incontro solitario, giorni passati sola su di una torre, nascosta tra l'erba di un castello incantato. I suoi occhi hanno incontrato il mio cuore, i nostri desideri si sono uniti in una bolla di [ sapone. Il sole è calato e lui è scappato via impaurito, portandosi via il nostro grande amore. Ha cercato di comprimerlo in un carillon, ma non c'è riuscito ed il nostro amore è volato via nel cielo, continuamente ci guarda e dice che non [potrà più tornare, perché siamo cambiati, ma soprattutto perché il tempo non torna [ più. Manuela Mazzola Pomezia
CIELO CELESTE ATTRAVERSO I VETRI Cielo celeste attraverso i vetri e trasognate grida di gallo in lontananza; un autocarro romba nel polverone. Ogni mattino è un sole di speranza. Luigi De Rosa Rapallo
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 19/1/2019 Stefano Buffagni, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, ha dichiarato che uno degli strumenti di controllo per scovare i truffatori del Reddito di cittadinanza sarà il vicino di casa invidioso. Alleluia! Alleluia! Governo e Italia tutta ridotti agli scarti di frutta se sono arrivati così in basso da dover ricorrere al peggio vomitoso degli Italiani: la delazione. A governarci, ormai, è solo una accozzaglia di amorali. Domenico Defelice
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ZHANG ZHI POETA ECOLOGICO, SCRITTORE E OPERATORE CULTURALE di Domenico Defelice
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rapporti culturali tra il nostro mensile Pomezia-Notizie e l’Estero sono stati sempre intensi nel corso dei suoi ormai superati 45 anni; Francia, Romania, Russia, Argentina, Cuba, Stati Uniti, Australia, sono state da sempre nazioni privilegiate, con la collaborazione di molti scrittori e poeti e scambi reciproci di traduzioni e di riviste. L’elenco sarebbe lungo e non è detto che non lo si possa tentare un giorno o l’altro. Ma anche con i Paesi asiatici la fratellanza è stata sempre eccellente; ricordiamo brevemente, per esempio, le belle antologie World Poetry 1995 di Krishna Srinivas (Madras, India) e Poetry World 1989 e 1992 del coreano Kim Young Sam. Oggi, però, è con la Cina che si manifesta un particolare fervore e con la rivista The World Poets Quarterly, edita e diretta dallo scrittore e poeta Dr. Zhang Zhi. I nostri lettori certamente ricorderanno le grandiose
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antologie World Poetry Yearbook 2013 e 2014, nelle quali sono apparsi una diecina di connazionali nostri amici e collaboratori. A Zhang Zhi dobbiamo traduzioni in cinese di parecchie nostre poesie ed è stata la sua organizzazione - l’IPTRC (The International Poetry Translation and Research Centre/The Journal of World Poets Quarterly, Multilingual, Cina - che, nel 2006, ha proposto il nostro nome per il Nobel. È normale, dunque, che all’amico cinese siamo molto grati. Zhang Zhi, nato in Phoenix Town di Baxian Country, Sichuan nel 1965, è un importante poeta, critico e traduttore della Cina contemporanea. Il suo pseudonimo è Diablo e il suo nome inglese è Arthur Zhang. Dopo la Laurea in letteratura si è impegnato in numerose professioni. Attualmente è Presidente dell’International Poetry Translation and Research Centre, Amministratore ed Editore di The World Poets Quarterly (bilingue, inglese - cinese), Direttore editoriale dell’Edizione inglese di World Poetry Yearbook e straniero accademico del Greek Literature & Arts and Science Academy. Ha iniziato a pubblicare libri di letteratura e a tradurre dal 1986. Molti dei suoi lavori letterari sono stati tradotti in più di venti lingue straniere, inclusi in dozzine di nazionali e straniere antologie. Ha da sempre conseguito consensi e premi da Grecia, Brasile, America, Israele, Francia, India, Italia, Austria, Libano, Macedonia. Autore di cinque raccolte di poesia e di critica letteraria. Inoltre, ha pubblicato Selected Poems of Contemporary International Poets (Inglese Cinese), Selected New Chinese Poems of 20th Century (Cinese - Inglese), A Dictionary of Contemporary International Poets (bilingue), Cinese - Inglese Textbook 300 New Chinese Poems (1917 - 2012) e Century-Old Classics, 300 New Chinese Poems (1917 - 2016) eccetera. Qui, di seguito, ospitiamo due sue poesie in inglese e in una nostra libera versione italiana. The Final Phase (and another poem) Zhang Zhi (CHINA)
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Crystalline grains of wheat After ransacking of a rainstorm The deserted field Is by birds Nameless birds hopping about Pecked clean and clear O my heart, bereft of all except wheat stubbles The final phase, who is going to see to it
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Beccando pulito e chiaro Mio cuore, di tutto privo fuorché le stoppie La fase finale, chi ci penserà Zhang Zhi ha spesso immagini apocalittiche, legate alle trasformazioni radicali e velocissime di questi nostri anni, che sconvolgono l’ecologia, che prospettano un futuro incerto. Nell’ultimo verso è implicito un punto interrogativo e si manifesta il suo scetticismo e la sua pena per il nostro non roseo avvenire: “La fase finale? Chi ci penserà”!
Birds’ Songs Birds’ songs can not reach beyond the sky Just like human beings Who can never see themselves clearly In the concrete The hidden pupils, bones and blood Never awaken Granted that I say the world is like a painting Granted that I put up a sign to purchase a testimony Granted that I hold the hands of a baby While gazing at a new-born tiger Granted that we read aloud clothbound surnames, fairy tales, and birds’ songs from day to day Who can believe, from tonight on The eagle will fly low Starlight will never dim Or, to warm up by burning snowflakes In the days when the earth is carpeted with invocation The moon and the corpse go together
LE CANZONI DEGLI UCCELLI Le canzoni degli uccelli non oltrepassano il cielo Proprio come gli umani I quali mai potranno veder chiaro Nel creato Le pupille velate, le ossa e il sangue Addormentati Premesso che dico il mondo essere come una pittura Premesso che ho posto un segno per procacciarmi testimonianza Premesso di aver le mani di un bimbo Mentre guarda una tigre appena nata Premesso che leggiamo ad alta voce soprannomi ovattati, Di giorno in giorno fiabe e canzoni di uccelli Chi potrà credere che da stasera in poi L’aquila volerà bassa La stella lucente mai si offuscherà O che, per riscaldare si bruceranno fiocchi di neve
A-l-a-s! FASE FINALE Cristallini chicchi di grano Dopo il saccheggio del temporale Il campo abbandonato È dagli uccelli Uccelli anonimi saltellano intorno
Nei giorni in cui la terra sarà tappezzata di invocazioni Andranno insieme la luna e il cadavere A-hi-mè! Anche in “Canzone degli uccelli”, a una prima visione idilliaca della terra, tutta “una pittura”, si innestano visioni per niente rosee.
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Il poeta è pure consapevole che poco egli possa fare per mutare il destino dell’umanità, perché ha “le mani di un bimbo/Mentre guarda una tigre appena nata”, cioè l’apocalisse appena all’inizio. Pure qui son sottintesi interrogativi: “per riscaldare si bruceranno fiocchi di neve”? Chi potrà giurare che il sole, cioè “la stella lucente”, mai si offuscherà? Verranno giorni in cui “la terra sarà tappezzata di invocazioni”, cioè di domande angosciate e angoscianti, ma tutto sarà vano, perché non potranno avere, a quel punto, nessuna risposta, più non ci saranno soluzioni. E quel giorno, purtroppo!, non ci sarà scampo per alcuno, né per gli innocenti, né per i colpevoli. Domenico Defelice
per far rivivere il corpo stanco.
PALABRAS
Amore è suono di vento che porta erosione, lallazione interrotta di un cuore che crede di essere ancora scrigno di perle sconosciute.
Antes de todo hay un chorro de palabras importantes más calientes que la tierra en verano.
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È da permettersi una tale libertà, lirica lingua che gioca con l’amore, col cuore, con la vita. Teresinka Pereira Trad. di Domenico Defelice
A OGNI BATTITO Non aiuta il conservato candore a lenire la sete d’acqua che gorgoglia leggera. Si spegne dolorosamente l’arsura nell’indifferenza di occhi dove si alzano altri soli.
Ripercorrere antichi confini, se non può esserlo adesso, non lo sarà più tardi.
Son versos encendidos de esperanza que devoran los poetas como besos misteriosos en el alma para hacer revivir el cuerpo cansado. Hay que permitirse esa libertad, esa lengua lírica que juega con el amor, con el corazón, con la vida. Teresinka Pereira
Resta e deve bastare solo il tempo per avviarsi con il passaporto ingiallito al molo dove partono le nuvole e in compagnia di bianca spuma salire dove i candori si convertono in stupori di nuovi bagliori. Salvatore D’Ambrosio
USA
Caserta
PAROLE
AMICA MIA VENEZIA
Prima di tutto hai un fascio di parole importanti roventi più della terra in estate.
Venezia, amica mia, aiutami a capire qualcosa in più dell'esistenza, tu che ne fai così incomparabile spettacolo di arte e decadenza. Luigi De Rosa
Ardenti versi di speranza che i poeti divorano come baci misteriosi nell’anima
(Rapallo)
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ROSA ELISA GIANGOIA: FEBE - DAL TEMPO ALL’ETERNO di Liliana Porro Andriuoli EBE - Dal tempo all’eterno è il titolo del più recente romanzo di Rosa Elisa Giangoia, pubblicato da Europa Edizioni di Roma. Protagonista ne è Febe, una donna «colta e curiosa, dotata di un’ intelligenza vivace e un animo gentile», che vive in una elegante villa di Cencre, una cittadina sul Golfo Saronico, non lontana da Corinto, agli inizi del I secolo d. C.. E si tratta della stessa Febe citata anche dall’apostolo Paolo di Tarso nella sua Lettera ai Romani la quale, convertitasi al Cristianesimo, trasforma la sua bella e lussuosa casa sul mare in un vero e proprio lazzaretto, per aiutare coloro che non hanno la possibilità di curarsi. Così la conosciamo sin dal primo capitolo del romanzo. Ma questa è la tappa finale del suo percorso spirituale, perché all’inizio ci viene presentata come una donna di mezza età, rimasta vedova
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e con l’unico figlio, partito per dei commerci via mare, di cui non ha più notizie, sicché si sente molto sola ed è presa da un grande sconforto. Nascono allora in lei inquieti pensieri sul significato della propria vita e su quanto avverrà al suo termine: ad assillarla maggiormente è infatti proprio il non sapere cosa sarà di lei dopo la morte. Decide a tale scopo d’informarsi sui Misteri Eleusini e sul culto di Demetra, fiduciosa di poter trarre da essi qualche informazione, specie per quanto riguarda la speranza di un eventuale ingresso nell’Aldilà, concesso agli iniziati. Dalla conoscenza di questi riti (che vengono qui evocati dall’autrice con notevole bravura stilistica ed al contempo con grande meticolosità) Febe non trae però alcun conforto, rimanendo il suo animo insoddisfatto e sempre in preda allo stesso desiderio di conoscere quale sarebbe stata la sua eventuale vita ultraterrena. Infatti, «Terminati i riti, Febe era tornata a casa e sovente si era ritrovata a ripensare a quanto aveva vissuto a Eleusi, ma non aveva più ritrovato alcun conforto […] nella rievocazione» di quei giorni, dei quali non le era rimasto che un vago ricordo. D’altra parte ella avverte fortemente l’ esigenza che vi sia, dopo la fine della nostra attuale vita, una qualche forma di sopravvivenza; e, soprattutto, che vi sia Qualcuno a cui potersi rivolgere «con parole che si articolavano nella sua mente nel silenzio del pensiero, senza diventare voce». Su consiglio del fratello Filippo, si rivolge così persino ad un astrologo, Aristrando, ma il sollievo che ne ricava non è, anche questa volta, di lunga durata, sicché «a poco a poco» nuovamente «la delusione» prende su di lei «il sopravvento». Un giorno però, recatasi a Corinto, le capita, quasi per caso, di vedere portare in giudizio «un uomo di bassa statura, con la testa calva», ma soprattutto con «occhi scuri, vivacissimi» ed «una fronte così spaziosa come non ne aveva mai viste». Dalle voci degli astanti viene a sapere che quell’uomo si chiama Paolo e che è accusato di aver tentato di indurre gli ebrei presenti nella si-
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nagoga «ad adorare Dio in modo contrario» alla loro legge tradizionale. Saputo che probabilmente il giorno successivo, che era sabato, Paolo avrebbe, come di consueto, parlato nella Sinagoga, decide di recarvisi. Ha così l’opportunità di ascoltare nuovamente la sua parola che annunziava agli Ebrei la discesa dal Cielo del Messia. Paolo spiegava loro infatti che il grande evento della venuta sulla terra del Messia, che da tanto attendevano, era in realtà già avvenuto, perché il Messia, proprio come promesso dalle Scritture, era già disceso sulla terra per salvare l’uomo. «Sappiate che il Signore ha mantenuto la sua promessa. Sappiate che ha mandato al suo popolo il Salvatore». Tuttavia non tutti gli ebrei Lo avevano riconosciuto, sicché era stato condannato a morte sulla croce. Egli però era risorto al terzo giorno ed era salito al Cielo, dove siede alla destra del Padre Onnipotente. Chi crederà in Lui potrà similmente rinascere ottenendo la Vita Eterna. È proprio da queste parole, pronunciate da Paolo di Tarso in quella sinagoga, che Febe rimane colpita come da una folgorazione; e da quel momento inizia ad avvertire nuove speranze per il suo futuro: «… tutti, purché credano in Lui, dopo la morte, risorgeranno per vivere eternamente nella felicità del cielo». Anche altre parole ella ascolterà in seguito, che la lasceranno però completamente indifferente, come d’altra parte era avvenuto quella sera allorché, durante una sfarzosa cena tenutasi in casa del fratello, aveva avuto l’ opportunità di ascoltare il filosofo Cerinto ed il suo compagno Eratostene. Le loro posizioni non l’avevano tuttavia convinta perché da lei ritenute troppo elitarie, in quanto rivolte ad una ristretta cerchia di persone (quelle colte) e non a tutti gli uomini, come invece è proprio del Messaggio cristiano. Molto, ancora una volta, la colpirono invece, quella stessa sera, le parole di Paolo, egli pure presente all’incontro, il quale parlò di Gesù di Nazareth, che era disceso dal Cielo per redimere l’umanità, decaduta in seguito al peccato originale, ed era a tale scopo morto in Croce, assumendo su di sé i peccati del mon-
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do e risorgendo al terzo giorno, come si legge nelle Scritture. Febe rimane nuovamente fulminata da quelle parole che aprono in lei nuovi orizzonti, permettendole di guardare con minore sconforto a «quel mondo che la circondava, in cui l’edonismo regnava sovrano», dal momento che ora intuiva l’esistenza di un’altra prospettiva in cui porsi e di un'altra strada da intraprendere. Notevole è in questa prima fase della sua conversione la presentazione di due personaggi antitetici come Paolo di Tarso e Corinna, una sua amica, pettegola ed interessata soltanto a raccontare con un profluvio di parole le malefatte di una certa Thallusa la quale, dopo aver abbandonato il marito, caduto in povertà a causa di un improvviso rovescio di fortuna, era riuscita a conquistare un uomo ricco e potente come Ipparco. Dal ridondante discorso di Corinna scaturisce una descrizione piuttosto esauriente e realistica dei costumi corrotti della Grecia di quel tempo. A tale squallida pittura della società civile fatta da Corinna si contrappone però, con più netto risalto, l’alto insegnamento cristiano di purezza morale predicato da Paolo, l’ Apostolo delle Genti; un ebreo, che aveva dapprima perseguitato i Cristiani, in quanto contrari al suo credo, ma che poi, dopo la folgorazione sulla via di Damasco, era diventato un loro ardente seguace. È interessante notare inoltre, proseguendo la lettura del romanzo, come Febe a poco a poco, si avvicini alla nuova Fede e sappia accoglierne il Messaggio, il solo che riesca a soddisfare la sete del Divino e dell’Eterno che è in lei. Ma ciò diventa ancor più interessante per il modo come Rosa Elisa Giangoia, con estrema finezza d’intuito psicologico, segue la sua protagonista su questo percorso che la condurrà al pieno raggiungimento della Fede, comprendendo come la promessa di una vita ultraterrena, fatta da Gesù, andasse ben oltre quella offerta dalle varie dottrine filosofiche del suo tempo basate, come già si è detto, su principi elitari e perciò discriminatorie. Certo, non è facile per Febe comprendere le
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Scritture bibliche, ma ella trova conforto e la realizzazione delle sue speranze specialmente nella preghiera individualmente rivolta a Dio. D’altra parte, un po’ alla volta, nel suo animo si fa strada la convinzione che ciò che più conta nel Messaggio cristiano è la Carità, che impone di andare incontro ai sofferenti per lenire le loro afflizioni. Intende allora come anche le sue ricchezze possano essere di grande utilità per aiutare il prossimo, sicché decide di trasformare la sua casa in un lazzaretto allo scopo di ospitare i malati, specie i più gravi e derelitti. «Il suo animo era mosso inizialmente da un sentimento di compassione che poi si allargava a ventaglio in un arcobaleno di iridescenze che si modulavano in pietà, misericordia, pena, comprensione, solidarietà per innalzarsi e riassumersi nella carità, animata da una pietas calda come la carne umana sofferente». Nel suo stato di turbamento e di inquietudine Febe riceve tuttavia una grande gioia dal ritorno del figlio Ippolito, il quale con il suo lungo viaggio non solo ha compiuto proficui commerci, ma si è anche intimamente rinnovato. Egli infatti in India, dove era giunto per realizzare i suoi traffici, aveva potuto ascoltare la predicazione di Thomas (San Tommaso) che l’aveva indotto a convertirsi al nuovo Messaggio di Gesù; il che ancor più spinge Febe ad accostarsi alla nuova Fede, dalla quale si sentiva fortemente attratta. Ben inserita nelle piccole comunità cristiane che si andavano formando sia a Cencre che a Corinto, Febe, oltre alla sua attività di assistenza ai malati, poteva inoltre portare aiuto ai confratelli che da varie parti arrivavano nella città greca o da lì ripartivano per diffondere la parola di Cristo. Una grande importanza assume poi, in questo contesto, il viaggio di Febe alla volta di Roma, dove giunge accompagnata da Ippolito, il quale vi si recava per i suoi commerci. Ben altro è invece lo scopo di quel viaggio per Febe, la quale deve adempiere all’ incarico, affidatole da Paolo in persona, di consegnare alla comunità cristiana di quella città una sua lettera (la Lettera ai Romani di San
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Paolo), scritta in greco. Quel papiro arrotolato, consegnato a Febe, e indirizzato ai seguaci di Gesù che vivevano nella capitale dell’ Impero, conteneva alte parole di speranza e di esortazione a proseguire con fermezza sulla strada indicata da Cristo: quella di una vita senza peccato e volta alla perfezione. La lettera di Paolo coglie infatti il nocciolo del Cristianesimo e viene letta con venerazione e trepidazione da Febe, che la fa conoscere anche al figlio, sin dall’inizio del loro viaggio, che è compiuto per mare. Accurata e diffusa è la descrizione che la Giangoia fa della Capitale dell’Impero, con i suoi spettacoli e le sue credenza, le sue scuole filosofiche e i suoi riti. Da essa emerge che a Roma le persone di un certo livello non avevano più alcuna devozione per le «pallide divinità della tradizione», cioè per i vecchi dei dell’Olimpo, dal momento che solo il popolino partecipava alle feste in loro onore, mentre i Sofisti, gli Epicurei e gli Scettici costituivano minoranze di individui colti che vivevano appartati nella loro ristretta cerchia. Ben presto Febe si accorge pertanto, come anche a Roma, «la religione dei padri» non è ormai altro che «un’accozzaglia di favole, di superstizioni e di formule magiche» che non danno «alcun conforto né qualche consolazione». Sempre più cresceva invece, anche a Roma, il numero di coloro che aprivano la loro mente e i loro cuori alla Fede in Cristo, provenienti in gran numero dagli ebrei convertiti. Ed era proprio il contrasto fra convinzioni diverse che molto spesso creava tra gli ebrei tradizionali e quelli convertiti accese discussioni, fino a generare disordini, tanto che l’ Imperatore Claudio aveva ritenuto opportuno, per ragioni di ordine pubblico, cacciare da Roma sia gli uni che gli altri. Febe e Ippolito trovano alloggio sull’ Aventino, presso alcuni cristiani già incontrati a Corinto e, durante le riunioni tenute da costoro, sentono parlare di molti altri fatti riguardanti la vita di Gesù, attraverso la testimonianza di quelli che l’avevano visto personalmente ed avevano ascoltato la Sua
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parola ed assistito ai Suoi miracoli. Essi vengono inoltre a conoscenza di un personaggio come Apollonio di Tiana, un asceta pitagorico molto stimato a Roma per la sua elevatezza spirituale e morale oltre che per le sue non comuni virtù terapeutiche. Egli però, non essendo cristiano, non possedeva le doti di carità e di misericordia proprie del Cristianesimo; il che rendeva meno avvincente la sua parola. Più importante tuttavia è per Febe il rapporto che ella instaura a Roma con Lido, «un apprezzato retore greco», in palesi difficoltà economiche, che le insegna il latino, lingua a lei necessaria ai fini della sua predicazione della Buona Novella. («… nel segreto del suo cuore vibrava anche il desiderio di comunicare a più persone possibili il messaggio di eterna felicità che aveva appreso da Paolo»). Da Lido ella viene a conoscenza inoltre della filosofia aristotelica, che le rivela le più alte vette a cui era giunto il pensiero antico con le sole umane forze. Un pensiero tuttavia che aveva intuito la necessità dell’esistenza di «una sostanza sovrasensibile, oltre il mondo fisico, immobile ed eterna, che muove ogni cosa nell’universo, senza a sua volta essere mossa». Febe inizia poi a tradurre la lettera di Paolo in latino e contemporaneamente legge i rotoli copiati per lei da Lido, contenenti i Principi Primi della filosofia aristotelica, il che le fa meglio comprendere la sublime altezza della rivelazione di Cristo, che supera di un balzo ogni limite della pura speculazione filosofica. Consegna quindi a Lido la lettera di Paolo da lei tradotta in latino; lettera che Lido tuttavia soltanto in parte comprende. La morte lo coglierà poco dopo nell’incendio della sua casa. Febe così andrà sempre più chiudendosi in se stessa, tutta volta alla diffusione della sua Fede cristiana. Non rivedrà però più Paolo, né potrà mostrargli i rotoli di Aristotele. Un libro di notevole spessore ed interesse culturale è pertanto questo di Rosa Elisa Giangoia Febe, dal tempo all’eterno, per le
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molteplici problematiche che agita e per lo scavo psicologico col quale è compiuto, il che ne fa un’opera degna di molta attenzione. Liliana Porro Andriuoli ROSA ELISA GIANGOIA: FEBE - DAL TEMPO ALL’ETERNO - Europa Edizioni, Roma, 2018, € 14,90.
PENOMBRA Potessero ordinarsi come acqua da bere quei pomeriggi estivi con le furtive mani piene di segnali. Non più bambini, l’adolescenza che attanaglia il ventre, persi nella vertigine dei nuovi profumi, nella penombra amica la fatica, il primo sudore, lo stordimento per vangare il solco della felicità. Il cuore in gola adesso è nella velocità della discesa, mentre sale intenso nel percorso il profumo del freddo di un vento che sbiadisce l’attimo goduto, divenuto da tempo gemma fossilizzata, opaca, seppellita. Salvatore D’Ambrosio Caserta
FINO ALL’ULTIMO MIRACOLO Un altro autunno. Sul mare di foglie i nostri passi. Mentre colori cancellano colori carri di mele affondano le ruote nella sosta. Mi piacerebbe sussurrarti che non è follia pensare d’arrivare insieme fino all’ultimo miracolo della vita. Gianni Rescigno Da Sulla bocca del vento - Il Convivio Ed., 2013.
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IL MINOTAURO DI
SERGIO RODELLA Quando la Forma provoca Poesia di Ilia Pedrina
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N segreto omaggio al Fedone di Platone e alle circostanze storiche della sua stesura. La Forma è 'Il Minotauro' di Sergio Rodella, in marmo bianco di Carrara e marmi policroni, la Poesia è 'Il Minotauro' di Francesca Diano. Un modo unico di vivere la metamorfosi dal buio alla Luce. Riporto la Poesia per intero, perché modella, nel nuovo, l'antico percorso che ha forgiato il Mito, consapevole di aver intercettato una consonanza profonda tra questo e l'Inno al Sole (yasht, VI), in traduzione di Italo Pizzi dal libro sacro dell'Avesta. Il Minotauro Io mi sono perduto in quest'abbaglio Di terra e pietre il cui disegno esatto Mesce follia e ragione. Io nacqui alla vendetta che mia madre Pasifae - tacque agli dei. Il mio nome È Asterione e pur del nome m'hanno depredato. Ma io divino sono Ché in me riverberando L'impronta della luce di Elio Si fa bestiale traccia dell'origine Tutta della stirpe dell'uomo. Dio e bestia io sono E questo mi fa mostro - ché gli Dei mi esiliarono Per non vedere in me il loro volto invisibile E gli uomini al pari m'hanno esiliato Che non ricordi al loro sguardo cieco Ciò che di loro appare. Fu così che Minosse - figlio di ZeusChe mia madre insultò con la sua immonda copula M'ha fatto prigioniero nel Palazzo della Bipenne. Non mi vuole vedere - perché è in me Che si specchia la sua colpa - la sete di po-
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tere Che gli rese nemico Poseidone. Io da un toro divino sono nato Sorto dall'acqua come segno di un dio. Ma forse solo un'ombra o un'illusione E dunque sono figlio di un sortilegio. Di un inganno illusorio porto la forma Ombra del buio che sorge dalla luce. Io sono ciò che siete - la vostra doppia natura Non la volete vedere in questo specchio. Vago in questo palazzo chiuso alla vita E l'ira mi divora - l'ira per l'ingiustizia Dell'esser nato da un dio per poi dover morire Da bestia immonda - da voi tutti odiata. Non volete vedere ciò che si cela dietro l'apparenza Di mostro - del mio corpo di uomo Dalla testa di toro. Eppure un dio in me Si manifesta. Elio - il padre di mia madre Febo che fende i cieli col suo carro di fuoco E cancella i terrori che genera la tenebra. La luce brucia e annienta i demoni del buio L'oscurità si scioglie - si dissolve Abbagliando l'aurora - emerge dalle ombre. Io sono quella luce - quel bagliore accecante Che voi fuggite e mi negate la vita. E voi siete la tenebra della menzogna. Minosse ha raccontato che io divoro vergini Per soddisfare la mia fame immonda Eppure non è questa la verità. È la sua fame di potere che si cela dietro l'inganno, Io sono puro dal sangue innocente E le mie grida di cui tremano i muri Di questo odioso labirinto sono le grida Dell'ingiustizia che nessuno ascolta. Si prepara l'inganno della mia morte Il sacrificio che vi libererà dalla paura. Mia sorella Arianna - la traditrice Colta dalla follia d'amore per Teseo Accecata dalla lussuria per questo scellerato Lo condurrà nel labirinto perché mi dia la morte. E sarà questo che a voi verrà narrato.
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Questa menzogna livida e spietata. Ma il mio padre divino – il toro equoreo sorto dagli abissi Ha infine accolto la mia preghiera Il mio urlo spezzato e quando Teseo con l'inganno seguendo il filo rosso di sangue che Arianna gli tendeva illudendosi che l'avrebbe legato a lei per sempre - quando Teseo mi vide Rabbrividì e snudando la spada Mi trafisse vigliaccamente Ecco che dal mio corpo di mostro Con fatica la mia forma divina Sgusciando come un serpe dalla pelle Lentamente sorse ed emerse dalla sua spuma oscura. Libero dalla gabbia del mio aspetto bestiale Il mio corpo s'abbaglia del suo stesso nitore. Traluce la mia forma che ondulando - rappresa in luce Diafana oscilla in una danza sacra nel liberarsi. Io - Asterione - figlio degli astri Libero emergo dalla morsa della mia pelle Di animale divino e divino Figlio della luce libero infine Abbandono la spoglia di quel che fui Di quello che voi siete - vostro eterno tormento Ombra del buio che sorge dalla luce. E io luce dal buio sorgo – immortale. (tratto da 'Giorgio Linguaglossa sulla Poesia di Francesca Diano, in rete). Proprio intorno a questo Mito ruota tutto il Fedone di Platone, quando il tempo scandisce le ore e il Maestro imprigionato ingiustamente, attende l'ora mentre spiega ai suoi giovani Amici l'eterno e l'anima sciolta dalle morte stagioni: lo si dovrà rileggere ora, con più attenti accenti, perché la poetessa Francesca Diano sa e vive intensamente. Questo il riverbero interiore che provoca in lei la visione de Il Minotauro di Rodella; queste le onde di riflessa creatività che dilatano la vita; questo il gancio che dagli antichi luoghi dell'Asia Minore riporta in vita l'Inno al Sole del testo sacro dell'Avesta. Ilia Pedrina
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PER UNA CHITARRA DEL SUD Accordi remoti: emergere di favole, come isole, tra l’infanzia infinita d’orizzonti. Mia chitarra, consunta di richiami; ponte luminoso per sguardi furtivi d’amore. Chitarra del Sud che tramandi ai figli i lamenti dei padri, l’eco delle loro danze. Chitarra mia, un tempo carezzevole, ora contrappunto di mia malinconia. Rocco Cambareri Da Versi scelti, Miano Editore, 1983.
TERRA DI NESSUNO Arriverò domani a cavallo di un sogno, fra le grida dei gabbiani, nella terra di nessuno. Con i denti stretti ed i pugni serrati combatterò per la mia vita. Manuela Mazzola Pomezia, RM
SERA A VENEZIA Magica sera di prima estate in una corona di palazzi fuori del tempo. E due innamorati su un ponte affascinati da un quieto canale saettante di rondini. Luigi De Rosa (Rapallo)
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LA CASA-MUSEO DI KEATS E SHELLEY di Manuela Mazzola
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ASSEGGIANDO per il centro di Roma, si arriva alla storica “piazza di Spagna”, dove, a destra della scalinata, si trova una porta sulla quale c'è scritto “Keats-Shelley House”. Il museo fu inaugurato il 3 aprile del 1909 alla presenza dell’ ambasciatore americano Lloyd Griscom, del Re d’Italia Vittorio Emanuele III, dei discendenti dei poeti, di Sir Rennell Rodd, Rudyard Kipling, Adolpho de Bosis, studioso italiano di Percy Shelley e di Nelson Gay. Entrando nella casa-museo ci si ritrova immersi nell'atmosfera del secolo ottocentesco. E' un tuffo nel passato: c'è una delle più importanti biblioteche sulla letteratura romantica, completa delle opere dei poeti e scrittori John Keats, Percy Bysshe Shelley, Mary Shelley, sua consorte e Lord George Byron, lettere autografe e manoscritti, maschere, disegni, dipinti, lo scrittoio da viaggio dell'autrice di Frankenstein ed inoltre la stanza nella quale il poeta Keats ha trascorso l'ultimo anno della sua vita con soffitto e camino originali.
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E' un angolo di Roma che permette al visitatore di trascorrere un'ora in un luogo dove il tempo si è fermato: dalla stanza del poeta, che dava sulla scalinata, si sentono le voci delle persone ed il rumore dell'acqua della fontana, che somiglia molto a quello che sentiva il poeta, infatti, malato di tubercolosi, si affacciava spesso per distrarsi un po'. In quella stessa stanza il poeta ha vissuto dal novembre 1820 al 23 febbraio 1821, anno in cui è deceduto, purtroppo era giunto a Roma nella speranza di guarire. La delicatezza dei ritratti e gli oggetti personali degli artisti ci fanno quasi percepire l'atmosfera che si respirava nell'Ottocento, un secolo durante il quale molti uomini e poeti sono morti per gli ideali di libertà ed indipendenza e molti altri hanno vissuto sull'onda delle emozioni, dell'immaginazione mettendo in risalto la loro genialità, consapevoli di vivere e di contribuire ad un momento storico di intensi cambiamenti politici e sociali. Per chi ama la cultura ed i loro protagonisti è una tappa da fare, inoltre il museo sopravvive grazie al costo del biglietto e alle donazioni che vengono fatte dai visitatori, tutto quello che è presente all'interno è stato donato; è un luogo, quindi, nel quale si muove e gira la cultura, la quale viene regalata al mondo, dal momento che la piazza viene visitata da migliaia di persone che provengono da nazioni diverse. La casa-museo, oggi, continua ad avere un ruolo centrale nella vita culturale di Roma poiché organizza conferenze, mostre, premi di poesia e soprattutto letture alle quali partecipano nomi importanti del panorama inglese ed americano. Manuela Mazzola ________________________________ Sbarcano, s’imbarcano. Lenta ripiega la nave e dietro vi traccia - meraviglia breve - cerula scia. E mentre io declino in altra geografia sogno e risogno albori tu terre calpestate, affratellarsi il mondo, senza sangue. Rocco Cambareri Da Versi Scelti - Miano Editore, 1983
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“LA ZAMPOGNA” di Antonia Izzi Rufo
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CAPOLI, nel Molise, in provincia d’Isernia, sorge su un colle che spunta da un’ampia, verde vallata nella quale scorre un ruscello, il “Mulinello”, in cui s’immettono, lungo il suo corso, rivoli di scarsa importanza, e che confluisce, dopo alcuni chilometri, nel fiume “ Volturno”, all’ entrata di Colli al Volturno. Del paese fanno parte diverse contrade che s’adagiano, in maggioranza, lungo le pendici dei monti della “Falconara”, un paio solamente su quelle delle “ Mainarde”, “Collalto” e le “Vicenne”. E’ in quest’ultima contrada che
si trova la struttura, albergo ristorantepizzeria e ricovero per vecchi e malati, “La Zampogna”. Scapoli è a 630 metri sul livello del mare, mentre le “Vicenne” sono ad un’altezza maggiore. Sovrana assoluta, solo nelle campagne che le sono intorno, con qualche rada masseria cadente, annerita dal tempo e appena visibile, da cespugli nascosta intrigati di fiori o bacche, a seconda della stagione, in una posizione meravigliosa s’erge “La Zampogna”: al centro d’un’altura dalla cima alquanto pianeggiante, tra boschi, ai lati, di querce ginepri faggi e ginestre, i quali scivolano dolcemente a valle, le spalle a un tiro di schioppo dalle “Mainarde” (esattamente ai piedi di monte Marrone) ma ad esse legate dalla folta vegetazione, e di fron-
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te un panorama mozzafiato dal quale lo sguardo abbraccia, per tre quarti, uno scenario suggestivo da cui emergono, tra il verde, paesi vicini e lontani, laghi, strade, viadotti e persino una striscia di bigio e d’azzurro velata del mare Adriatico, il tutto da un cielo protetto terso, trasparente. Vi si respira aria pura perché il traffico è minimo: solo le macchine dei gestori della struttura e quelle dei parenti ed amici dei suoi ospiti vi circolano, anche alcune che devono raggiungere i paesi della “Ciociaria” (sono poche). E’, pertanto, il posto ideale per vivere a contatto con la natura, riposare, disintossicarsi dei rumori e dello smog della città, ricaricarsi d’energia, godere di pace e tranquillità mentre la musica dei rivi, il canto degli uccelli e i soavi arpeggi del vento tra le foglie accarezzano l’udito, creano emozioni, ispirano poesia, conciliano il sonno. Dopo aver visitato il luogo e dialogato con i gestori e gli ospiti, ho avuto la conferma dei giudizi positivi, lusinghieri espressi dalla “vox populi”. La struttura si compone di ambienti ampi e accoglienti, con arredamento confortevole, finestre luminose, efficienti servizi igienici, ascensori, brevi e comode scale. I proprietari e tutti coloro che vi prestano servizio sono persone oneste e coscienziose, dotate di grande umanità: rispettano i malati, li assistono con cura e amore, si comportano con essi come se fossero loro parenti. Che dire degli ospiti? Mostrano di essere più che soddisfatti, nonostante la loro espressione malinconica che dice “rassegnazione”: rassegnazione alla vecchiaia e ai mali ad essa connessi e, soprattutto, al fatto di essersi dovuti separare dai loro cari (anche se questi si recano a riabbracciarli ogni giorno), di aver dovuto abbandonare, per sempre, la casa in cui hanno trascorso tanti anni, il dolce nido testimone di gioie e dolori, delusioni e soddisfazioni, realizzazioni…; rassegnazione all’arrivo, ineluttabile, della Parca armata di forbici. Antonia Izzi Rufo
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RENATO FILIPPELLI ALL’OMBRA DEL PADRE IN TUTTE LE POESIE di Tito Cauchi
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A lettura in chiave introspettiva di Tutte le Poesie, di Renato Filippelli, mi fa credere che il poeta racconti di essere vissuto sentendosi all’ombra del padre. Chissà quante volte gli sarà capitato di vedersi indicato come il figlio di don Carlo, chissà quante volte avrà pensato di avere disatteso i desideri del padre, chissà quante volte si sarà immaginato in mezzo alla sua gente dei trenta borghi e di essersene allontanato. Il padre che lui osservava durante i lavori dei campi, viene associato al cielo stellato che il genitore gli leggeva come un libro aperto. L’ombra diventa un’ossessione, non opprimente, anzi è dolce presenza in ogni occasione, in tutti i luoghi immaginati, è l’ombra del silenzio, del vento, in ogni istante della vita, perfino la luce si ammanta di l’ombra. L’ombra diviene il suo naturale abito che, tuttavia, il professore dissimula; e che l’uomo
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tiene celata, nel suo spirito, nella coscienza di sé. Un’ombra che si propaga tutt’intorno, ma che non incupisce. Il cielo indicato dal padre alla sera non è nero, ma brilla di stelle. E, verso la madre, il cordone ombelicale ha accompagnato il figlio per tutta la vita leggendogli nel cuore e nella mente facendo del figlio un libro aperto; ed essa viene sentita dal figlio come la Veronica nella interpretazione originaria di Vera-Icona cioè di Donna dedita alla famiglia e di Sacra Sindone. Naturalmente l’età nelle sue fasi impone dei tempi e delle necessità che si modificano, poiché il Filippelli è nella duplice condizione di padre e di figlio. I due impulsi vitali che accompagnano la crescita degli esseri umani, sono il principio materno e il principio paterno; mentre quello materno è connaturato con la venuta al mondo e mantiene per un più prolungato tempo il contatto con i figli ed è più fisico, quello paterno è riconosciuto per la sua valenza di autorevolezza e di autorità ed è forse maggiormente cerebrale legato alle facoltà intellettive. Affetto e costruzione. Ma c’è pure chi nella vita manchi di uno o di entrambi i principi vitali; lui, comunque ha la fortuna di vivere e sentire i sentimenti di figlio e di padre e come tale a un certo momento sente il proprio padre come fosse suo figlio; il rispetto di una volta si trasforma in tenerezza. Tuttavia il Filippelli con i pensieri è più vicino alla morte che alla vita, naturalmente senza abnegare alla vita stessa, sostenuto in ciò da una Fede solida. Tito Cauchi
AL MARE Vissi sui monti lungamente: in sogno mi fingevo il tuo grido che batte le scogliere. Di lontano ti dicevo parole, e mi pareva gittarti fiori… Renato Filippelli Da Tutte le poesie - Gangemi Editore, 2015.
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IMMIGRATO A TORINO di Leonardo Selvaggi I AL treno rileggo i brani dei miei giorni. Distinguo la terra pietrosa e la fatica: la Basilicata dentro i suoi confini vive la nobile forza di sopravvivere, addossata ai rilievi, piegata nei reconditi avvallamenti. Su una pezza nera di campagna guardo l'asino, emblema significante di questi luoghi, divisi in frammenti che si seguono con una fisionomia umana; rivestiti in agosto dalle stoppie, con qua e là qualche siepe che concentra i pensieri tristi della solitudine. Dove la terra alluvionale sotto le piogge frana scivolando per i pendii. Una parte cede nei canali, un'altra flagellata, dispersa dall'acqua. Dove la terra è con poche piante e il tempo del presente non esiste: un lontano leggendario s'irradia per la cima dei monti, ad occidente tinto di rosso e grigio. Gli uomini statici, mimetizzati con la terra arcaica. Dove sotto i raggi infocati rimane inerte e stanca: non vuole nemmeno l'aria fresca delle ombre né lo zampillo sorgivo. Gli sterpi si spezzano sotto le dita. Dove la terra si frantuma ai soffi del vento, e sotto la pioggia autunnale le sue membra si sfaldano, il suo tempo fuori dalle viscere è un relitto mostruoso. Si spogliano le pietre: la polvere dei morti, la fanghiglia frammista all'argilla millenaria. Il meridionale
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è più astioso, fa a gara con il suo conterraneo per sfoggiare la parte migliore di fronte al torinese. Il nemico non è questi, poiché l'immigrato non si contrappone al cittadino della nuova residenza: invece sono in contesa fra di loro le diverse provenienze che concorrono nello stesso spazio. E si sta insieme come accampati; quello che manca è l'adesione naturale all'ambiente. Chi è partito ha dato un taglio barbarico agli anni precedenti e si trova ad essere un profugo senza possibilità di stratificare le esperienze sulla prima base. Per chi è lontano dal suo paese la città ampia è annegata nel vuoto. Indeterminati e vaghi i rapporti. I lunghi viali messi in mezzo ad ostacolare la visione dei luoghi interiorizzati dalla nostalgia. La distanza geografica che ha bloccato il tempo all'animo, finito nell'avvallamento della sospensione. È sempre il primo giorno; ciò che è intercorso ha lasciato tracce labili che non affondano. Oggi ancora sono aperte le lacerazioni di quel mattino nebbioso, quando le cose abbandonate divisero la mente in due. Con la piemontese non è possibile andare insieme, si può solo ironizzare. Lei è disinvolta con gli uomini e le sigarette. Non capisce la immaginazione del meridionale e l'amore con tutti i sensi per le cose. Vede l'artificio, legata a forme abitudinarie. Veste semplice, sa quello che vuole; ha schematizzato i suoi desideri. II Il mio è un altro, questo è il tuo paese. Si vede di qua sui vetri grigi, accecato dalla nebbia. Le strade delimitate dal traffico, devi camminare sui marciapiedi diritto tenendoti sui margini che sono i canali oltre i quali non puoi sporgerti; la selvaggia fret-
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ta meccanica occupa un fiume a ondate continue. È un paese che non ha faccia, ma solo ventre ingrossato dove per congestione si rimescolano interiora convulse. Dalla bocca al retto un unico flusso indistinto, poltiglia e pezzi indigesti che passano negli antri menati da non so quale forza. Forse l'insieme stesso delle persone, le spinte dei passi individuali e perché vie separate corrono dispettose. Macchine che cavalcano furibonde disdegnate per le strisce zebrate, pedoni che raddoppiano le falcate districandosi dagli addensamenti cittadini. Qui arrivai a notte inoltrata, vomitato come tanti dalla stazione centrale; quasi uno strattone per il collo della giacca a buttarmi in faccia a questo paese che si presentò nella rete dei palazzi con l'aspetto di gendarme al varco. Ero un elemento che mal si teneva nell'ambiente natio, l'agorafobia mi dava le vertigini attraversando la piazza. Per ogni atteggiamento avuto la verifica pronta del vicino, le porte delle case che si tengono d'occhio in file parallele; entro la cancellata il muso attento degli altri. Il tuo paese questa sera ha una corteccia rossastra, sull'amalgama della nebbia visibili i grumi di ruggine; in basso le falde sfilacciate espanse cotonano l'arruffato vello. L'impasto del ventre ancora più si ravvoltola perdendosi le parti; una sola massa a forti colpi di maglio divenuta compatta, con l'aggancio delle pareti dello stampo uguale misura hanno le forme. III Tanto esilio nella stagnazione di ogni giorno, lungo le pareti allineate tutte piatte di uguale colore. Mattoni marrone e grigio per le strade squadrate. Di domenica avverti che non esistono un'ambientazione e uno spazio, esiste una città accatastata ancora da svolgere; le persone si frammentano in gruppi, tutto si fa in pezzi in una dimora senza anima. La domenica ti senti sprofondato; ricordi appena l'altro giorno, difficili i legami della memoria. Questo, l'alienazione: astratto in mezzo ad oggetti, squallido e insipido il contatto con il mondo. Negli stadi l'irruenza del tifo è la reazione dell'amorfa giornata di riposo. La ra-
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gione non alimentata fa prorompere il corpo in violenza, creandosi dei motivi di esaltazione e di lotta, anomali eroismi. Manca più che mai l'equilibrio tra materia e spirito, si difendono degli idoli fatti di niente. Gli stadi rigurgitano di spettatori istupiditi e irosi che rincorrono dai loro posti con tutte le sensazioni la palla giocata. Nei giorni festivi nelle città industriali che sono depositi di lavoratori si misura ampiamente la desolazione. Persone isolate o intruppate in aggregazioni di pesi mobili. Nello scompartimento del treno un uomo nasconde nella mano espressioni di riso, ragiona in silenzio con smorfie. Un volto folle dalla barba incolta, gli occhi socchiusi sulla fredda campagna del Piemonte. L'uomo vero di una città, emarginato o intelligente che ride su tutto, che rifiuta questa comunità automatizzata. La sera ha due colori quasi pietrificati che si rispecchiano nelle pozzanghere lasciate di qua e di là dalla neve disciolta. Il rosso che si smorza con una scia di celestino grigiastro. Ancora l'uomo continua a dondolare i suoi pensieri misteriosi fra le dita strette sulla faccia. Si avvicinano le feste di Natale, un lungo sabato leopardiano che fa dimenticare le brutte giornate dell'anno che muore e dà la speranza di ricominciare bene. Ma sono feste artificiose, ognuno a modo suo accende l'angolo di gozzoviglie. Di certo una pausa entro cui rinasce la nostalgia per la terra delle radici: la volontà di promessa d'un ritorno in primavera. Ma appena giunto il Capodanno siamo in declino, una depressione invade l'animo già riempito di disillusioni. Bisogna vivere alla giornata, abituarsi a vedere il particolare, fermarsi ad ogni passo; si vuole dilatare il tempo. Come il condannato a morte alle ultime ore, riempire più che si può la giornata. Tutto l'anno sfogliarlo a fette; raffrenato il tempo, dominato da noi; non consumati ma in stabilità: corpi immobili, animi più che spirituali senza sofferenza. I troppi anni passati hanno messo una crosta di protezione sulla faccia rude, piena di segni da uomo primitivo. Le durezze della vita non fanno badare alle minuzie, si seleziona per prendere solo l'essenziale. Tutto è relativo in questo
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passaggio di ombre; che cosa vale di più non si sa, chi è l'intelligente non si capisce. Una cosa è certa: la vita non è di questa generazione assillata dall'egoismo, confusa con le cose fabbricate uguali, che deturpa sempre più il senso del vero. Certamente la vita non è nella ipocrisia degli individui insulsi e imbastarditi: spontanei e superiori a se stessi, fuori dal guscio e spregiudicati. IV Un'altra domenica a Torino, l'animo acre e ipocondriaco. I pensieri carichi di ansia e sempre agguerriti nella speranza vagano nel vano del balcone entro cui s'inquadra un rettangolo di cielo scialbo con una spolveratura di sole. La domenica delle palle che rimbalzano da una porta all'altra, seguite per televisione, è il giorno in cui si scopre di più il vuoto della città. L'io insoddisfatto compresso in un letto di Procuste; mostruosa la città che inscatola le persone matte nel soliloquio. Le amicizie senza amore, rette sempre da uno scopo. Torino, poi, deformata in questi anni è un luogo triste; alla vastità aggiunge la estraneità e repulsione degli autoctoni freddi e prevenuti verso i meridionali. Questi presi tutti nello stesso fascio, solo i sempliciotti dalle forze genuine si camuffano e se la cavano meglio. Tu fossi pure un principe in tutti i sensi, sei sempre di Napoli. Cane appestato per loro della superiore razza, analfabeta, sempre un ladro. Vai in oreficeria per fare un acquisto o avere una revisione all'orologio, dai padroni del negozio vieni mentalmente legato mani e piedi; finalmente l'innocente uscita del portafoglio li tranquillizza. Vedono fantomatica venire la pistola da ogni tasca. Certo in gran parte l'immigrazione comprende gente turbolenta, arrivata a Torino in torme convulse e rimasta in aggregazioni familiari con poco inserimento disinvolto nell'amalgama cittadino. I meridionali sprovveduti hanno soltanto accentuato le pecche originarie, hanno ricevuto poco costruttivi benefici da una città che non ha pensato di adeguare le strutture. Al tramonto il Monviso alza il suo volto inconfondibile di piramide tersa al di
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sopra della stratificazione di foschie: una meta, una punta che riempie la sera puntualmente. Voglia di fuggire, di spaccare una buona volta questa incrostazione di monotonia che dura da tanto, di uscire dalla trincea benigna di questa città che non dice più niente; la selva di case e di tetti accerchia lo sguardo. V Torino ha i difetti del paese, la provincialità fa correre le notizie che si allacciano attorno alla persona. Non ti conoscono per nome, ma ti ricamano nei pettegolezzi dei giardini. Mi viene in mente spesso la sozza espressione che un attore dice nel film "I Compagni" diretto da Monicelli, quando una comparsa chiede dal treno alla stazione Dora il nome della città. La parola detta con strascichi risuona nella notte nebbiosa con tono di rabbia repressa, riversa veleno antico dell’animo esulcerato. Come fossi arrivato ieri, eppure sono passati decenni, mai si è cancellata la condizione psicologica di provvisorietà, forestiero buttato in una terra dove impera il campanilismo più esagerato. Questi i pensieri guardando la condomina di sotto, piemontese dagli occhi celesti. Questi di qua ti tengono fermo sul pianerottolo vietandoti di entrare mediante il piede vigile messo di traverso sull’uscio di casa; più facile andare al Polo Nord che conoscere le pareti dell’ottavo piano. Non di Unità d’Italia si doveva parlare, ma di recinzione del Piemonte e Liguria, facendo scorrere i rapporti sul resto del territorio dove più facile l’assimilabilità delle parti. VI Non capisco la civiltà dei Torinesi: hanno poca fantasia e le idee schematiche indirizzate all'immediato uso pratico. Animi senza movimento, stereotipati conoscono solo i loro confini. L'amico li chiamava Piemontardi. L'Italia per me, com'è nel suo insieme, è un paese tutto meridionale, poco evoluto, con molte fratture fra regione e regione, pregiudizi tanti. Una sera nel pullman di Chivasso l’autista scese per dare il cambio dopo aver spento la luce, inavvertitamente forse. Un ca-
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fone di quelle zone urlò dicendo che i viaggiatori erano stati presi per cani. Questo poteva farlo solo un piemontese del tacco. Al buio qualcuno avrebbe potuto derubare; il malfattore sarebbe venuto da sottoterra. Erano sedute le solite persone della domenica, tutti di loro, forse l'unico del Sud ero io; il sottoscritto, insomma, sarebbe stato quel maledetto mariuolo sbucato all'improvviso. Io avrei messo le mani sul portafoglio di quell'essere gretto e miserabile. C'è una differenza: elasticità per venire all'accomodamento, la nostra. Lo spirito meridionale ha una apertura che consente vitalità in ogni modo; vedute striminzite per loro da sembrare ingenuità, è un andare secondo linee meccaniche a binario unico. Sterile pedagogia direi, che fa vedere le cose più evidenti come fossero delle scoperte. Però quel poco calore che scorre nelle loro vene ha del vantaggio, sono più omogenei, un livellato gregge nel rispetto delle norme di comportamento. Si spostano allineati per la coda allo sportello. I nostri sono passionali ed insofferenti, lo spiccato individualismo li fa essere restii alle socializzazioni; un modo di fare disordinato che porta indeterminatezza nei programmi di gestione. Tanti disagi inutili che per amor proprio sanno nascondere e fanno credere tutt'altro al compaesano. Famiglie sbrindellate; non prendono mai posa una volta usciti dal proprio paese: sono pietre che non si lasciano coprire dal muschio. Vedi a Porta Nuova la mattina e la sera tanta folla di immigrati; dal treno facile si fanno in lungo e largo la penisola presi da continua smania di partire. VII Si vedono quelle donne anziane che portano il fazzoletto sul capo, si trovano a Torino portate dai figli con tanto entusiasmo e sacrificio, ma invero appaiono galline espatriate combattute da pensieri opposti. Le sofferenze sono le loro, ne hanno pieni il seno dal pesante respiro e l’addome gonfio nel cerchio della gonna di panno forte e denso. Ma di tutte le immigrate le più significative sono le mamme lucane, fanno ricordare quelle dipinte da Car-
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lo Levi addolorate e sagge negli scialli, colori sfrangiati di vesti lacere che s’attaccano alla terra. Tanta tristezza a vederle, strappate da quel contorno casalingo che le faceva padrone. Sono per i proverbi e le immagini fisse del paese; un linguaggio per simbologie, rassegnate. Le cronache di Torino sono piene di meridionali sbandati. Certo l’ambiente non concede comprensione, non li prende né li integra, li rifiuta sempre. Ed ecco la stranezza delle circostanze che si creano. È la nostalgia per i loro paesi il sentimento che cresce turbolento negli animi. In lotta con se stessi, le poche cose di una vita frammentata li fanno stare in bilico, sospensione di malessere. Ricordo la tragedia di una donna che piena di amore rallegrava i figlioletti con la sorpresa dell’uovo di Pasqua. Mentre ansiosa maneggiava il coltello per tagliare bene a metà il dono, la lama sfugge trafiggendole l’addome. E i ricorrenti episodi di esasperazione, fucilate a bruciapelo sui balconi condominiali. A lungo andare la loquela meridionale posseduta un tempo si isterilisce, a Torino non si fanno lunghe discussioni umorose, ricche di metafore. Quelle che riempivano la penombra del paese, sembravano parole di nottambuli o di lupi mannari piene di alterazioni, racconti da leggenda sui parapetti di pietra sotto l’immenso scenario dell’Orsa Maggiore e per le strade fuori dell’abitato verso l’ampio respiro di un cielo lunare. La notte calda d’estate dettava le ricche fantasie di amore accese di lussuria per le voglie giovanili. Rimangono espressioni scheletriche soltanto legate da tacite intermittenze sensuali; la foga di allora si è raffreddata lasciando entro la cenere di tanti anni il calore dei ricordi. L'altra sera ho parlato con mia zia per telefono, la voce nella cadenza che è mia veniva da un tempo lontano, un suono quasi dal fondo di una caverna e sibillino; una voce che non sentivo da tanto, ma era ferma nella memoria. Misteriosa, dalla dura patina dell'inesistenza scuoteva le croste secche della fanciullezza: la strada dove sono nato, la luminosità di quel sole che sembrava eterno solstizio. L'estate è interminabile, tutta d'oro sulle colline. L'una
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accanto all'altra, lunga teoria di case a piano terra, tutte uscite dall'unico stampo artigianale, formate dal grande voltone che copre tre spartizioni. Per esse passano le galline e gli asini, l'uomo, il letame e le capre. Una vita di animali. I cani in amore legati, che si trascinano di pomeriggio; il nodo dell'orgasmo nella vagina, anello di catena. Il pudore si colora sulle gote delle ragazze, mentre sedute all'ombra punteggiano con fili variopinti la tela. Mia zia ha smosso le morte sensazioni, ha fatto vedere la lunga traccia segnata dagli anni andati; un fiume di fatti depositati nella mente, incartapecoriti sulla pelle. Cellule indurite che hanno rallentato il flusso del sangue e staticizzato la persona. II presente non conta quanto i ricordi, ora. Essi vivono nell'immaginazione, sono pagine di pergamena miniata. Mi distraggo, quasi la voce della zia risuona dall'intimo. Forse l'addome come il cervello porta la storia dei giorni. VIII L'ipocondria è il peso della nostalgia, che quando ha i suoi ritorni rimane una malinconia cronica, non quella sensibile che fa tenue e musicale 1'animo, una vera ferita aperta. Pochi cenni di risposta a mia zia, la parola è affogata nel pianto. Mi richiama, è difficile farmi sentire. Piango per la morte di Totonno, il cugino compagno della mia infanzia, la sua scomparsa ha dato un taglio alla mia esistenza, lui era il legame mentale, il focolaio acceso che confortava tanta parte di me. Mi sento interrotto. Una pista che portava alla felicità del paese, verso la vigna della nonna, l'estate sulle pietre cocenti, andavamo scalzi, quando il cuore del caldo affondava le case nella pausa del meriggio; gli uccelli per i campi avevano il cinguettio asciutto. È morto in Germania, prigioniero dell'emigrazione, il suo dolore come il mio, il cuore allagato di lacrime, sempre pronto a fuggire, a rubare due giorni di ritorno. Totonno era un disadattato, una semplicità allegra istintiva, aveva appena la pagella della seconda elementare. Una forza fatale di triste destino l'ha tenuto lontano dall'affetto morboso per la mamma. Mi ero
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promesso di andare a trovarlo, di anno in anno illudendomi; non pensavo che la sua venuta a Torino sarebbe stata l'ultimo incontro; due giorni alla Fiat ed era già demoralizzato. Una crisi di desolazione l'aveva preso in quell'ambiente demolitore di operai e macchine. L'infanzia ha lasciato indelebili segni: l'età più forte che è rimasta la base per tutto; sono sempre fanciullo con il senso dell'assoluto, proprio dell'egocentrismo netto e lineare, le furberie non mi hanno preso, accanto a tanti ipocriti e presuntuosi sono rimasto ingenuo solitario. Bambino vivevo in tempi di ristrettezze con genitori repressivi che assillavano per ogni cosa, si doveva essere come loro, attenti e giudiziosi. Facili, così, erano le percosse quando mi facevo trascinare dalla naturale spinta alle distrazioni. Gli anni della giovinezza sono seguiti velocemente bruciati in un falò, carico com'ero di inibizione e di fantasia che mi dava una vita introversa. Tra l'infanzia, allevata in limiti angusti ove amica personificata era la natura delle cose d'intorno, e il presente intercorre solo un fiume di giorni che rotolano e cadono come pacchi di rifiuti nel calderone della dissoluzione. L’ingenuità di allora ha lasciato il candore che ricrea la giovinezza nonostante tutto, in contrasto con l’alienazione dell’esistere. La resistente matrice che non teme la ruggine, supera il lungo intervallo, si ritrova sempre. Totonno rimane costantemente il compagno fermo in quell’età, magicamente viva. La fascia rossastra spande riflessi negli strati di sopra, sollevandosi lo sguardo trascina con sé il chiarore fin dove rimane il punto più fondo e più oscuro. La sera fa trasparente l’animo; un velo impalpabile si distende per l’aria, mentre, mano sulla fronte, il corpo adagiato segue l’ultima luce; come in un antro dentro gli occhi socchiusi passano gli spiriti delle cose trascorse. Folla di figure e di immagini che arrivano in un baleno, pare il luogo del purgatorio dove vagano a confronto i pensieri antichi e nuovi. È proprio limitato il nostro tempo, in questa sequenza di segmenti si contano i tratti. Leonardo Selvaggi
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Il Racconto
PUGLIA TRA REALTÀ E RICORDO di Anna Vincitorio O un lontano ricordo, fine anni ‘50, di un viaggio in Puglia per rivedere, era desiderio dei miei, luoghi e parenti della loro giovinezza. La stazione per … era poco affollata. La sala d’attesa aveva panche di legno che sprigionavano un odore antico. Seduti, alcuni uomini con aria sonnolenta e la coppola di traverso. Donne, dall’età indefinibile, con grossi panieri sulle ginocchia coperte da un grembiule. Al di fuori, lo sferragliare dei treni che tiravano di lungo e lo stridente cigolio dei locali che si fermavano. Poteva essere per me bambina, una curiosa avventura. Il freddo avvolgente era però mitigato dalla calda accoglienza di parenti mai visti prima. Tutto questo in parte, placò la mia inspiegabile ansia. La casa, grande, nella parte alta del paese, appariva un po’ cupa. Ne era illuminata soltanto una parte. All’esterno d’intorno una processione di abeti che pareva bisbigliassero lontane storie e fiocchi di neve in ordine sparso, sui rami. Dentro: un grande braciere dalla brace incandescente, un vassoio con dolcini di pasta di ceci e tutti intorno a parlare. Mi incuriosiva un lungo corridoio e, in fondo, una porta scura. Sembrava chiusa da anni. Dopo un interminabile pranzo mi rannicchiai in un grande letto con la testiera in ferro battuto. Era stato riscaldato con un marchingegno di legno che reggeva uno scaldino colmo di brace. Mi avvolse un lungo sonno animato da visioni.
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Ero davanti alla porta scura e cercavo di aprirla. Dentro, un grande albero bianco e un bambino dai grandi occhi tristi che cercava di accendere le candeline. Su un tavolino la foto di un uomo giovane con barba e baffi …Silenzio! Al mattino, ricordai il sogno e, con i bambini di quegli zii, parlai a lungo. Tanti anni prima, la casa era piena di vita. Ci viveva la bisnonna Candida Bramante col marito, ricco farmacista. Erano i signori del luogo; davano feste e lei si faceva pettinare a lungo i capelli color fiamma, seduta su un alto seggiolone; poi, con un elegante vestito appariva in cima alla scala e salutava gli ospiti. Aspettava un figlio, il primo, da Antonio ed aveva appena sedici anni. Lui si assentava spesso per affari ma, una notte, ritornò solo la cavalla che sbatteva gli zoccoli al portone. Lui era stato derubato e ucciso. Fu ritrovato in fondo al fiume, nudo. Nacque un bambino. Anche lui Antonio con grandi occhi azzurri. Adesso la casa era silenziosa. Il rito di Natale si compiva ma con mestizia. L’albero veniva dipinto di bianco come il bianco inverno in cui Antonio non ritornò. Al bambino, l’albero bianco dava tristezza. Lo credeva invecchiato e, con la manina tremante, accendeva le candeline. Era un perenne simbolo di morte, di baci mancati, come il cipresso bianco all’ingresso dell’Ade. La mamma con i verdi occhi cupi, odiava il paese e voleva andar via; era giovane e desiderosa di vita. Si risposò per vivere lontano ma a T... ci andò solo il marito che insegnava e poi, quando fu più grande, il figlio primogenito. Lei passava le giornate in preghiera col fratello, frà Ludovico Maria poi morto in odore di santità a San Massimino in Francia. Lei, con compagni i ricordi del suo lontano amore, consumò la vita. Alla morte, quell’ala della casa fu chiusa e tornarono i figli delle seconde nozze amanti della terra e della vita quasi claustrale che il paese offriva. Tutte quelle storie mi avevano immalinconito e con gioia tornai alla mia Firenze. Passò qualche anno e i miei decisero di passare l’estate a T... Là aveva vissuto mia madre da ragazza. A passeggio per il corso solo la do-
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menica, con le sorelle, il padre Antonio; lanciava timidi sguardi verso pretendenti sull’opposto marciapiede. Lì conobbi delle cugine grandi che avrebbero potuto essermi madri. A fine guerra in casa loro c’erano feste continue con giovani ufficiali americani; si parlava inglese e si ballavano forsennati boogie woogie. T... era una città elegante, piena di ufficiali di marina. Alcuni di loro, figli di un’amica della mia mamma mi portarono sul dinghy. L’acqua del mare era di un verde intenso; le mie cugine per ore chine al sole raccoglievano ricci. Io esploravo le grotte all’interno della spiaggia di Saint Bon. Un giorno vidi giacere due corpi nell’ombra. Fu un modo per me inconsueto di scoprire l’amore; da me solo vagheggiato attraverso le letture di libri proibiti, che i genitori mi sottraevano. Era una interminabile estate dove, per riempire i vuoti, m’imbottivo di babà. Però erano suggestivi quei limpidi tramonti e l’elegante passeggio. Anche il museo archeologico era notevole. Avevo quindici anni e la testa imbottita di sogni! Quanto tempo è trascorso e a T... non sono più tornata. I parenti ormai scomparsi. Ne ho però parlato con un’amica che vive in Canada ed ha passato un’estate in Puglia dal suo nuovo compagno. I legami sono ancora stretti e i pranzi interminabili si ripetono, ma, purtroppo, l’ atmosfera è cambiata. La realtà che si presenta è dura. La città conserva il mistero della sua bellezza. Ci sono sempre i due mari incorniciati dal ponte girevole, i suoi fiumi sotterranei ma l’aria tersa non c’è più. Siamo in un Paradiso offuscato da fumi neri; una realtà irrinunciabile e forse irrisolvibile dove la morte trionfa: le ciminiere e i veleni dell’Ilva. Lotta senza fine tra il bisogno estremo di non rinunciare al lavoro e l’incedere subdolo dei tumori che colpiscono soprattutto i bambini. Tutto questo non impedisce il boom del turismo. La bellezza dei trulli, Monte Sant’ Angelo, il Gargano. Nelle chiese si prega e si spera in un miracolo per l’ormai vicino Natale. Ma può ancora Dio fermare la mano sinistra dell’uomo?
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La mafia dilagante, le morti bianche…Mi angoscia la consapevolezza di tutto questo ed egoisticamente rivado ai racconti di mio padre di quando era bambino ad Apricena, sua terra natale, agli aranceti di Rodi dei miei bisnonni. Tornerà tutto questo un giorno? Forse l’ acqua che circonda questa terra potrà ancora salvarla. Firenze, 10 dicembre 2018 Anna Vincitorio
DALLA PIETRA CANTO DI VINO Qui ogni tempo giunse dal mare. Chi errava vi piantò miti e radici. Dalla pietra ch’era spaccata, rovente sgorgò canto di vino. E persino nelle case dei morti il vivente con colori di terra disegnò calici non scalfiti da secoli. Qui incrociandosi spade si pensò d’incrociare vitigni. Le sirene fecero intrugli. Si fermarono Ulisse e Giasone. Dai templi l’elisir salì agli dei che ne bevvero e dimenticarono gli uomini. Ora è settembre - anno duemila Dal mio tino quel bollore continua a salire… Gianni Rescigno Da Sulla bocca del vento - Il Convivio Editore, 2013.
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I POETI E LA NATURA – 88 di Luigi De Rosa
D. Defelice - Metamorfosi (particolare), 2017
L'ELEGANZA VENETA DI DIEGO VALERI (1888-1976)
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o avuto la grande fortuna di conoscere e frequentare amichevolmente, a Venezia e in Friùli, nel 1968-69, il notissimo poeta, saggista e traduttore Diego Valeri. Era nato nel 1888 a Piove di Sacco, in provincia di Padova, ma abitava a Venezia in Sestiere Dorsoduro 2448 (ricordo ancora la marea immensa di libri in casa sua, impilati anche sul pavimento). Dopo alcuni anni di insegnamento nei Licei come professore di italiano e latino, Valeri aveva ottenuto la cattedra all'Università di Padova, prima quella di Storia della Letteratura francese, e poi quella di Storia della Letteratura italiana, moderna e contemporanea. Diventando, oltre che un poeta famoso, un traduttore e un saggista e critico di primaria grandezza. Ci eravamo conosciuti tramite un amico comune, il prof. Cosimo Fortunato, suo ex allievo, che allora, come me, abitava a Pordenone, novantatree-
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sima provincia italiana, sede di un Provveditorato agli studi nuovo di zecca. In qualità di vice-provveditore di Pordenone, oltre che come appassionato di poesia e suo ammiratore, lo invitai ad una serie di “Incontri col Poeta” nelle scuole statali della provincia di Pordenone. Valeri aderì con entusiasmo, anche perché aveva pubblicato, con successo, varie poesie per bambini e ragazzi. (Risale al 1928 un suo libro intitolato Il campanellino, edito dalla S.E.I.). Portammo, così, la poesia nelle scuole, tra i giovanissimi, in un incontro diretto e personale, informale, con chi di poesia e di letteratura viveva ogni giorno. In seguito Valeri, gentilissimo, avrebbe scritto una lusinghiera lettera-prefazione al mio primo libro di poesie di una certa importanza, Risveglio veneziano e altri versi (Del Bianco editore, Udine 1969) dandomi una patente di poeta che ho sempre cercato di meritare credendoci fino in fondo (ho compiuto recentemente 84 anni, e credo nella poesia più di prima...). Lettera considerata di valore e apprezzata anche dal prof. Francesco De Nicola, docente di Letteratura italiana contemporanea all'Università di Genova, che ha scritto recentemente la prefazione all'ultimo mio libro, Viaggio esistenziale (attualmente in corso di stampa). Quanto ai libri di Valeri, tutti molto importanti, ricordo quelli usciti da Mondadori, Milano, Poesie vecchie e nuove, Scherzo e finale, Tempo che muore, Terzo tempo, Metamorfosi dell'Angelo, Poesie, Sgelo. Tra i vari
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Premi vinti da Valeri ricordo il “Viareggio” (nel 1967, col volume “Poesie”). Mi sono già occupato del Poeta padovano su Pomezia-Notizie, nella puntata n° 19 (maggio 2013) della mia Rubrica, commentando la sua bella poesia Pescatori, ma ritengo necessario tornare a rimarcare l'originalità del suo stile e del suo linguaggio, la grazia signorile e l'eleganza della sua educazione culturale. Sulla formazione letteraria del poeta, padovano di origine ma veneziano di gusti e di sensibilità, non mancano gli studi e i saggi. Ma in questa sede ci può essere sufficiente notare che essa avviene attraverso il linguaggio, la scrittura e la sensibilità di Giovanni Pascoli e attraverso i Crepuscolari. Da notare, anche, la penetrante influenza esercitata su Valeri dal poeta francese Paul Verlaine e dai Post-Simbolisti. Fra i suoi temi preferiti, quello della Natura. Ma è doveroso notare che si tratta di una Natura “a se stante”, autonoma e indipendente dall'uomo. Quest'ultimo può (e deve) limitarsi ad ammirarla e goderla, senza minimamente maltrattarla, e tanto meno sfruttarla irrazionalmente (se non selvaggiamente). Lo stile del poeta privilegia il senso della vista, le magie della luce e dei colori. Il fulgore cromatico è predominante. Quella di Valeri può sembrare una poesia facile, quasi cantabile, poco portata alla profondità pensosa delle questioni metafisiche, di per se stesse...non poetiche. In realtà i problemi della vita umana ci sono tutti, anche se non drammatizzati e urlati, ma schermati dietro le immagini colorate della Bellezza. C'è una visione ottimistica del mondo, che non nega la realtà del Male ma rimane comunque fiduciosa nella Provvidenza. Nonostante tutto e a dispetto di tutti. Ne è un esempio questa poesia: “INVERNO Fior di collina, son cadute le foglie ad una ad una e l'erba è inargentata dalla brina. Fior di tristezza, i rami son stecchiti e l'erba vizza,
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par fuggita dal mondo ogni bellezza. Fior freddolino, potessimo vedere un ciel sereno e un raggio d'oro splender nel turchino. Fior di speranza, sotto la neve c'è la Provvidenza che lavora per noi, c'è l'abbondanza.” Luigi De Rosa
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Due splendidi mosaici ↓ del Maestro
MICHELE FRENNA
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Recensioni PAOLANGELA DRAGHETTI I SETTE CAVALIERI DEL SOLE Delta 3 Edizioni di Grottaminarda (AV), 2013, € 15,00, pagg. 112 Ogni fiaba, favola fin da quando le ha inventate il greco Esòpo, è un microcosmo a sé stante, strutturato da personaggi creati per l’occasione che agiscono per dipanare un insegnamento, una morale rivolta a coloro che stanno crescendo ed hanno bisogno di buoni esempi: i bambini e i ragazzi preadolescenziali. Ma, le storie fantastiche di zia Polly, Paolangela Draghetti nata in provincia di Modena e attiva negli incontri e presentazioni delle sue opere tra Livorno e Siena; ebbene, ciò che lei scrive piace sia ai genitori sia ai ragazzini, forse perché viene ispirata direttamente dai fanciulli che ha intorno, che ha avuto intorno, tra nipoti e pronipoti. Ha pubblicato un bel numero di storie e vinto anche primi premi grazie ad esse, avendo l’ opportunità di interloquire col pubblico delle sue fiabe, ricevere spontanei e onesti apprezzamenti dai bambini degli Asili, delle Scuole Elementari, sempre per migliorarsi e presentare così ogni volta un microcosmo più variegato nelle scene e nelle trame. Stavolta, il protagonista è Nico, bimbo-ometto di sei anni e poco più, coi genitori Luigi e Rita. Una famiglia sulle righe, lavoro e casa con alla sera il rito della buonanotte impartito da papà Luigi al figlioletto, coricatosi subito dopo cena. Il giorno festivo della domenica si tramutava tutto in diversivo, coccole, passeggiate a piedi o in bicicletta quando il clima lo permetteva, altrimenti giochi da tavolo in casa o la visione di film nell’unico cinema del pae-
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se, specie se c’erano i cartoni animati. Nico aveva un amico carissimo, Mirko, suo compagno di banco, con sua madre Lisa che ogni tanto si prendeva cura anche di Nico quando sua madre Rita era via al lavoro. Il Capitolo 2 fa prendere una piega alla trama alquanto al passo con i nostri tempi inquieti, nel senso che fra i genitori, Luigi e Rita, inizia un disamore forse dovuto alla solita routine, allo scadimento della reciproca vitalità, insomma «[…] All’improvviso in casa di Nico, senza alcun motivo apparente, quella calma piatta venne disturbata da strani ed inusitati battibecchi fra Luigi e Rita, i quali, per non turbare l’emotività del figlio, cercavano di non farsi scoprire durante i litigi. Pareva proprio che uno spiritello malvagio si fosse insinuato tra i due, mettendoli di malumore, taciturni e sovente assorti in assurde e vane occupazioni.» (A pag. 13). Le ultime parole del padre di Nico, prima di andarsene dalla loro casa, furono la constatazione che le sue giornate avevano perso la vividezza dei colori perché la moglie non riusciva più a rinvigorirli e «[…] Allora andrò a cercare altrove i miei colori e la persona che toglierà il grigiore dalla mie giornate e dalla mia esistenza. Addio! Luigi uscì sbattendo la porta. Rita, allibita e confusa, corse in camera sua, si buttò bocconi sul letto e lasciò che le lacrime scorressero a fiumi.» (A pag. 16). Per la prima volta in vita sua Nico stava provando l’abbandono e, pur di parlare con qualcuno in assenza di Mirko, si rivolgeva al suo amico di peluche scimmiotto Teo, che in qualche modo gli rispondeva e cercava di tranquillizzarlo. Furono quelle parole sui colori smarriti che non brillavano più nella quotidianità paterna a far nascere in Nico lo strano desiderio di andare a cercarli, per ridonarli a suo padre affinché tornasse di nuovo a casa con lui e la mamma. Una missione straordinaria e unica nel suo genere, perdipiù compiuta da un ragazzino di sei anni, intenzionato a far rinascere la sua famiglia nella gioia e nella pace. Così, una notte in cui non riusciva a dormire parlò con Teo della sua idea e, comunque, aveva già deciso di partire perché non c’era più tempo da perdere. Qui non è Alice, Cenerentola, il Brutto anatroccolo, Biancaneve, Peter Pan, Pinocchio, il Soldatino di piombo, il Gatto con gli stivali, etc.; c’è un fanciullino che si fa responsabile di un compito estremamente importante ed indispensabile: recuperare i colori diuturni capaci di trasmettere armonia, entusiasmo, positività. Gli stessi colori, escluso il nero, che i pittori impressionisti del passato cercarono di catturare, attimo dopo attimo, inseguendo le varie altezze del sole e che sono rimasti, ancora oggi, freschi e veritieri sulle loro tele famose.
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Nico domanderà agli animali del bosco come fare per trovare i colori, degli indizi, fino ad imbattersi in un temporale e dopo «[…] attratto da una strana e diffusa luminosità che sembrava avere origine da una pozzanghera davanti a lui per poi salire verso il cielo. Alzò gli occhi e rimase strabiliato da ciò che vide. – Uhao! Che arcobaleno gigante! Uno così non l’ho mai visto. Guarda, Teo, com’è bello! […] Nico rimase a contemplarlo per qualche istante a bocca spalancata, poi, con un gesto semplice, schietto, ingenuo, allungò le braccia verso il cielo illudendosi di toccarlo. Fu in quel momento che nella sua bizzarra testolina dal ciuffo ribelle si stampò una lampante verità. – Adesso so dove trovare i Cavalieri del Sole. I sette magnifici fratelli colorati del mio amico, il Cavaliere Nero, sono lassù, sull’arcobaleno.» (A pag. 64). Quando tutto svanì, per un momento Nico ebbe l’impressione di aver sognato, ma poi confutò che era stato tutto vero perché conosceva a memoria la canzone che i sette cavalieri dell’arcobaleno gli avevano insegnato e possedeva la grande sfera di cristallo dove erano custoditi i pensieri di ogni essere vivente, e poi i fiori coloratissimi coi quali realizzò un bouquet, legandolo con un robusto ma flessibile gambo di ginestra, mentre faceva la strada del ritorno a casa. Una consapevolezza precoce ha fatto sì che anche l’irrealizzabile diventasse possibile, con gli occhi e la coscienza libera di un bimbetto, intelligente e semplice, che adorava i suoi genitori e voleva vederli uniti; giacché questo è il desiderio di ogni figlio, il desiderio di ogni creatura che nell’unione familiare associa la propria stabilità, da ogni punto di vista per l’uomo e la donna sicuri che saranno domani. Isabella Michela Affinito
MARIA GRAZIA CALANDRONE IL BENE MORALE Crocetti Editore, Milano, 2017, € 12,00 Un’alta urgenza etica sembra essere alla base della silloge di Maria Grazia Calandrone, Il bene morale, apparsa nel 2017 presso l’Editore Crocetti di Milano. Ma è questa una raccolta retta anche da altre tematiche, quali quella dell’amore profondo per la natura e quella di una inusitata gioia di vivere, che compaiono sin dalla prima poesia, Un semplice esercizio di libertà, dove troviamo versi quali “guarda, il mondo è perfetto” e “guarda le cose / con dolcezza / e con dolcezza tu verrai guardato / dalle cose”. Lo stesso può dirsi per le poesie della prima sezione, intitolata Alberi, dove, tra l’altro, si
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legge in Le metafore dell’amor perduto: “Il corpo è un’esultanza della superficie / grido di gioia” (Ma la bocca). A queste prime poesie si contrappongono però quelle della sezione Vittime, nella quale è presente il male del mondo, rappresentato dalla tragedia dei “migranti”; dai campi di concentramento nazisti, nei quali perirono milioni di esseri umani; dalle morti sul lavoro, causate dall’inosservanza delle norme dettate per la prevenzione degli incidenti; dal dolore di ogni essere vivente sulla Terra. Spicca in questa sezione il poemetto intitolato Marylin non esiste, dedicato alla Monroe, vittima del “carnevale onirico americano” e della sua bellezza; donna “rimasta sola fino alla fine, nascosta dietro la maschera prorompente di Marilyn”. Tutto ciò comprova il fatto che, come dice la Calandrone, in Introitus, “l’etica della specie non evolve” e che “l’esperienza del disastro / non incide sui futuri comportamenti umani”, come sta anche a dimostrare la catastrofe della diga del Vajont, che provocò oltre duemila morti, causati dall’incuria e dalla negligenza di chi doveva vigilare, mentre noi “continuiamo a nascere, continuamente privi / di memoria e di esperienza della specie, completamente nuovi e nuovamente dolci / e criminali”. L’autrice, che si identifica con i superstiti del disastro, esclama: “l’indomani / ci aggiravamo sulla spianata di detriti che aveva preso il posto delle nostre case”. Ci sono poi in questo libro le poesie di In un sistema di amore, tra le quali spicca La vita comune, che inizia con questa riflessione sul linguaggio umano e sulla morte di una giovane vita: “La scrittura nacque per tenere i conti di sale e olive ed è finita / che assume il tuo dolore, la tua voce. Povero angelo, te ne sei andato / senza aver imparato a parlare e adesso hai bisogno del nostro aiuto per domandare / che non vengano corrotte le impronte del tuo passaggio” (sul mondo). In Anatomia della lingua la Calandrone ci rivela invece come “piangendo si secerne / una raggiera di felicità” e che “se sorridiamo, è perché siamo irti / della inesorabile felicità / dei bambini, che sono / solamente natura”. Nella stessa poesia ci rivela inoltre come “avviene a volte che la parola diventi come certe / colonne e certi spaventosi / monumenti di marmo, / … / estroversione di una vittima / perché dal basso della sua solitudine / ci raggiunga il suo grido di gioia, la fermezza di quest’ultimo lancinante sorriso”. In Tutta la infinitudine del canto ci trasmette infine “il canto e la gioia delle cose di essere cose, / tutta la infinitudine del canto”. Nella sezione Le cose vive ci viene incontro invece una serie di testi nei quali il tema centrale è la
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morte, come è di Davanti al morto, che inizia: “Sei la cosa più nuda della terra e insieme / la più indecifrabile”; Deus ti salvet Maria, dove troviamo questi versi: “Non ti vedremo / più sulla terra, Maria, mai più / dritta in piedi …”; Questi sono il mio sangue: “Stamattina mi sono svegliato davanti a un agnello che colava sangue…”; Di questo loro falso non morire: “Le ossa del mattino sono crotali rossi” o come Requiem per L. S. che … si è data la morte pubblica per impiccagione nel parco Fao di via Ruzzante a Roma, dove l’incipit è: “Io sono stata te tutta la notte, Leila. Ora parlo per altri che sono vivi. Ancora vivi, in tempo per parlare”. Tutto ciò non esclude naturalmente l’esistenza di altri testi, come L’idiozia e lo splendore della bellezza o L’anatomia e il cristallo. Dialoghetto sull’oro, nei quali la Calandrone svolge un’ardita ricerca concettuale, unitamente a un raffinato magistero stilistico che le consentono di toccare degli indiscutibili traguardi espressivi. Si legga, ad esempio, il primo di questi testi: “Adesso credo necessario un ottuso atto di fiducia nella bellezza. Agire come non fossimo mai stati. Come non fossimo mai stati traditi. Come se non avessimo visto i nostri cari morire” o dal secondo: “Non ci lasciano mai senza rimorso. C’era una evanescenza di cicale. l’infortunio di un gregge. Non siamo soli, siamo / provvisori”. La sezione intitolata Roma contiene poesie nelle quali la vita che scorre in questa città si manifesta in tutte le sue contraddizioni di scempio e di serena letizia: “Tra corpo e polietilene non c’è spazio. Eppure resiste / qualcosa / di ancora non accaduto, di non completamente / disseccato” (Tangenziale Est); “In un’aria da fine del mondo cola il tuorlo del sole / e battezza i pratoni di Castel di Leva / con i mozziconi eretti delle rovine” (Un paesaggio italiano). Un più fidente abbandono al canto si nota nella sezione Questi corpi leggeri come presagi, che si apre con Anna, tutto quel senso, che inizia: “Com’era fresco il mondo che portava / sulla bocca al mattino, ancora verde / d’erba sognata…” o Tra luce e parola: “Mondo che vieni nudo dalla luce / e coli argento liquido / ai bordi…”. È questa una sezione nella quale pare dischiudersi una più serena visione del mondo, che traspare da veri quali: “La bambina porta i fiori che metti sovrappensiero / nel piccolo vaso / di vetro verde” (I fiori che lei porta). Il miracolo della vita che sorge e si sviluppa sul mondo è invece il tema di Lo stupore di cui eravamo fatti, la settima sezione, che tratta dell’ evoluzione della specie: “Originariamente la parola / aiutò una delle diverse specie preumane a formare piccole società e a orientarsi nel mondo” (Verbo); “Vedo il proseguire della stazione eretta e vedo il
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flettersi di uno / sul corpo dell’altra…” (Amore). L’evoluzione della specie umana, innanzi tutto attraverso lo strumento meraviglioso della parola, che a livello più alto diviene arte, è l’argomento che si trova alla base delle poesie di questa sezione, in una delle quali, Scimmia lunare, la nostra poetessa scrive: “la poesia non è che questo / rimbalzare del suono tra angoli bianchi / di crateri preistorici”. Il libro della Calandrone si chiude con le poesie di Dal paesaggio, dove si ha come un’evocazione della Genesi e con La Sirène, un libretto d’opera, ove il compianto per una morte si fa musica e ascesa. Un libro dotato di una sua propria cifra questo di Maria Grazia Calandrone, nel quale, tra assorte contemplazioni del mondo e pensose riflessioni sul nostro destino, ella procede nella sua ricerca che la porta a felici esiti, certamente degni di molta attenzione. Elio Andriuoli
TITO CAUCHI DOMENICO DEFELICE Operatore culturale mite e feroce Edizioni Totem, 2018 - Pagg. 360, € 20,00 “A Domenico Defelice che ha attraversato tempi bui della fame senza mai perdere l'ottimismo fino a raggiungere la fama”: questa la dedica, con cui il saggista Tito Cauchi inizia il suo volume sullo scrittore e poeta che ha affrontato negli anni la sua vita ed il suo lavoro, anche quando ha dovuto superare enormi difficoltà. L’autore non solo ricorda i lavori di Defelice ma porta a conoscenza dei lettori anche il carteggio che ha intrattenuto con lui. Lo stile di Cauchi è asciutto senza fronzoli, semplice, ma allo stesso tempo chiaro; mediante l'analisi dei testi coglie l'intimo del poeta, quelle sfumature che solo un altro poeta può avvertire. In molti versi, anche quando si parla di amore, emerge l'attaccamento di Defelice alla terra, le emozioni positive che lo investono, la percezione dell'ambiente che lo circonda in quel momento o anche solo il ricordo pur se lontano. Per l’autore, la mente del poeta e scrittore “ trova sollievo al pensiero delle cicale loquaci e dei grilli, nelle ridenti giornate d'estate, che fanno percepire la sete d'amore con maggiore arsura. Assapora la pace della sommità dei monti, acquietando i sensi”. Tito Cauchi sottolinea con forza la fierezza di Defelice per essere nato in una delle più belle regioni d'Italia, la Calabria, dove i contadini hanno “ mani ruvide,/ viso solcato da profonde rughe,/fiera onestà e casto amore”. Inoltre Cauchi, afferma che con le sue opere Defelice fa emergere la sua personalità, le
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sue doti morali, i suoi valori: onestà, amore per la famiglia, impegno sociale e culturale. Ma è anche un uomo che due volte a settimana va in campagna ed esegue lavori molto duri per poter liberare la mente e rilassarsi. Nella veste di critico, per amore della correttezza, il Defelice esprime sempre ciò che pensa anche in maniera diretta e severa, mai velata da inutili orpelli. In veste di scrittore, pur se osservante dei precetti cristiani, mediante la sua rivista Pomezia-Notizie, denuncia a gran voce la situazione politica italiana e dell'uomo moderno e dà ai suoi lettori una chiave interpretativa molto interessante che può essere riassunta così: “l'uomo, per causa del peccato originale, ha smarrito la sua identità; insieme con gli eletti cerca di rimediarvi”. In una missiva del 31 luglio 1997 Tito Cauchi scrive così all'amico: “Mi piacerebbe una 'casa comune' di un circolo 'Defelice' dove si incontrano persone animate, più o meno, dalle stesse aspirazioni. Le maglie della vita quotidiana, mi irretiscono più di quanto non si creda”. Credo che il circolo ci sia, non è un posto fisico, ma un luogo-non luogo (come direbbe Marc Augè), ossia la rivista PomeziaNotizie, nella quale, da 45 anni, si incontrano artisti e scrittori che esprimono se stessi, sotto lo sguardo severo, ma bonario del direttore. Per chi riceve la rivista e per chi ne fa parte, è un'oasi in cui si può condividere la cultura e che soprattutto, attraverso essa si può far girare. Manuela Mazzola
BASTERÀ PRONUNCIARE UNA PAROLA Fiat! Fu la Parola a riempire il vuoto tenebroso degli abissi e a dargli luce. Fu la Parola a confortare l’umanità ferina delle foreste, dei deserti, dei ghiacci nei passati millenni. Ora, Parola suono luce. Nel futuro, basterà pronunciare una Parola per essere serviti, per cambiare la vita? Domenico Defelice
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D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE PERSONAGGI DEL 2018 - Il Pontino Nuovo quindicinale di Pomezia e Ardea e dei rispettivi territori, nel numero dell’1/15 gennaio 2019, ha stilato una scelta di “Personaggi del nostro territorio per il 2018”. Tra coloro che si son distinti nell’ambito dell’“Arte e cultura” troviamo il nostro direttore Domenico Defelice, per aver portato avanti, per 27 anni, il Premio Internazionale Letterario Città di Pomezia, ora, dalla ventottesima edizione 2018, direttamente gestito dal Comune di Pomezia. *** CI SCRIVE EMERICO GIACHERY da Roma (8 gennaio 2019) - Carissimo, proprio stamattina la portiera mi ha consegnato il ricco e vario numero di gennaio di "Pomezia-Notizie", che saluto con affettuosa simpatia, anche come gradito strumento di incontri intellettuali. Con l'affettuosa, raffinata, squisita Marina Caracciolo, che avevo incontrato a Roma e che ha collaborato con un mio figlioccio torinese, valente musicologo, e con la fervida, geniale, direi vulcanica, Ilia Pedrina, che Noemi ed io vorremmo tanto incontrare, abbiamo creato una bella rete di amicizia e colloquio on line che ci fa sentire quasi giovani. Sono anche lieto di vedere presenti anche in immagine, nella rivista. luoghi magici della mia Roma della mia tarda adolescenza assetata di cultura e di bellezza. La recensione al libro dell'amico Elio Pecora, edito nella storica collana mondadoriana dello Specchio era stata vista dal mio ex-allievo, ora collega, Fabio Pierangeli, amico anche del nostro instancabile Carmine Chiodo, e che forse hai conosciuto anche tu. Fabio in-
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tende pubblicarla su una rispettabile rivista italobrasiliana, "Il Mosaico", e credo che l'abbia già inviata alla redazione. Non credo che avrebbe niente da ridire se venisse pubblicata anche sulla tua rivista, comunque la decisione spetta, ovviamente, a te Mi sono impegnato parecchio per quella recensione. (…). Ancora auguri a tutta la famiglia da Emerico e Noemi Carissimo Emerico, pubblico la tua E-mail perché renderà certamente felici i collaboratori che tu citi e lodi. Sì, è proprio come tu affermi: PomeziaNotizie è diventata, negli anni, una bella palestra e “strumento d’incontri” e tutto ciò si deve a te e agli altri, tutti amici valorosissimi. Io sono solo l’ispido orso che ha combattuto e combatte per mantenerla in vita da più di 45 anni. La tua recensione per Elio Pecora la trovi in questo numero, impreziosita da una foto in cui egli appare assieme al nipote Massimiliano, nostro collaboratore da qualche anno. La palestra si fa sempre più affollata e calorosa, insomma, e il mio vecchio cuore ne gode! Se qualcuno si deciderà a stendere una Storia dei periodici e delle riviste italiane del Novecento e di questi pochi anni del Duemila, ho l’orgoglio di pensare che un qualche rigo lo spenderà anche per questa mia modesta creatura. Cari saluti a te e a Noemi. Domenico *** XXV EDIZIONE PREMIO NAZIONALE DI POESIA EDITA E INEDITA “TRA SECCHIA E PANARO” - Sezioni: A: da una a tre poesie inedite max 40 versi ciascuna; B: volume edito; C: da 1 a 3 poesie dialettali max 40 versi ciascuna; D: da 1 a 3 poesie max 40 versi ciascuna per i minori di 18 anni. Premi: € 400 al 1° classificato, € 300 al 2° classificato, € 250 al 3° classificato. Lavori da inviare a Antonio Nesci - via Leonardo da Vinci 87 41126 Modena, entro il 30 aprile 1019. Premiazione, il 2 giugno 2019, ore 16,00. Chiedere regolamento completo: cellulare: 339 2812278; E-mail: annesci@libero.it *** CONDOGLIANZE - Il 13 gennaio scorso, a Pomezia, è morta tragicamente, a 54 anni, Maria Grazia Volpacchio. Condoglianze al figlio, ai genitori, al fratello e ai parenti tutti, affranti dal dolore per una così improvvisa, inaspettata perdita. I funerali si sono svolti nella chiesa di San Bonifacio, presente una gran folla e molti colleghi e colleghe di lavoro, nel primo pomeriggio del 15 gennaio. Grazie a tutti coloro che hanno telefonato, mandato messaggi, scritto.
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*** COMUNICAZIONE EVENTO ACCADEMIA COLLEGIO DE’ NOBILI - Carissimi Accademici ed Amici, ho il piacere di comunicarVi che domenica 7 aprile 2019 a Gragnano di Lucca, a pochi chilometri da Pescia, luogo collinare ameno e lussureggiante, ci incontreremo dal nostro Acc. di Grazia Conv. Don Emilio Citti per un evento al quale proprio non potrete mancare. Presenteremo il volume del nostro Preside e Protettore perpetuo Prof. Marcello Falletti di Villafalletto, scritto a quattro mani col suo Maestro Comm. Mario Antonietti dal titolo: "Il canto artistico Respirazione artistica vocale", edizioni Anscarichae Domus, Accademia Collegio de' Nobili editore, Dicembre 2018. Inizieremo con la santa Messa alle ore 10.30 nella chiesa parrocchiale di Santa Maria Assunta; seguirà la presentazione del libro e un incontro conviviale nel teatrino di fronte alla chiesa. Riceverete più avanti il programma dettagliato. Tutti voi conoscete bene Gragnano, avendo partecipato fin dal 2012, con le Investiture accademiche, ai tanti eventi programmati dalla nostra Istituzione in accordo con la Legazione dell'Italia Centrale ben condotta dal nostro carissimo Acc. Nob. Comm. Luca Parenti e dal suo Luogotenente e Console. Il nostro don Emilio poi ci ha sempre accolto in modo affabile, cortese, caloroso e ci ha fatto sentire come a casa. Sarà veramente una bella festa con la quale vogliamo dire "Grazie" al nostro amato Marcello per i suoi 30 anni di Presidenza. Già fin da ora desideriamo ringraziare tutti gli Accademici ed Amici che hanno permesso tutto questo, e che sono inseriti nella Tabula gratulatoria all'inizio del volume. Il Preside poi lo farà personalmente quel giorno, quando vi consegnerà il libro. Grazie di cuore e fraternamente Vi saluto e Vi abbraccio. Claudio Falletti di Villafalletto Gran Cancelliere
LIBRI RICEVUTI THOMAS REINERTSEN BERG - Mappe. Il Teatro del Mondo - La storia della cartografia è la storia del mondo e racconta la nostra percezione di esso. Traduzione di Alessandro Storti - Vallardi Editore, 2018 - Pagg. 352, € 19,90. Thomas REINERTSEN BERG è nato nel 1971. Giornalista e
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scrittore, collabora con le più importanti testate norvegesi occupandosi principalmente di cultura e argomenti scientifici. È un appassionato di cartografia e questo suo primo libro, Mappe. Il teatro del mondo, ha vinto, nel 2017, il prestigioso premio Brageprisen per la sezione non-fiction. ** BRUNO VESPA - Rivoluzione. Uomini e retroscena della Terza Repubblica - Rai Libri Mondadori, 2018 - Pagg. 346, € 20,00. Bruno VESPA è nato a L’ Aquila nel 1944, ha cominciato a 16 anni il lavoro di giornalista e a 24 si è classificato al primo posto nel concorso che lo ha portato alla Rai. Dal 1990 al 1993 ha diretto il Tg1. Dal 1996 la sua trasmissione “Porta a porta” è il programma di politica, attualità e costume più seguito. Per la prima volta nella storia, vi è intervenuto un papa, Giovanni Paolo II, con una telefonata in diretta. Tra i premi più prestigiosi, ha vinto il Bancarella (2004), per due volte il Saint-Vincent per la televisione (1979 e 2000) e nel 2011 quello alla carriera; nello stesso anno ha vinto l’ Estense per il giornalismo. Fra i suoi più recenti volumi pubblicati da Mondadori ricordiamo: Storia d’ Italia da Mussolini a Berlusconi; Vincitori e vinti; L’Italia spezzata; L’amore e il potere; Viaggio in un’Italia diversa (2008); Donne di cuori (2009); Nel segno del Cavaliere. Silvio Berlusconi, una storia italiana (2010) Il cuore e la spada (2010); Questo amore (2011); Il Palazzo e la piazza (2012); Sale zucchero e caffè (2013); Italiani voltagabbana (2014); Donne d’Italia. Da Cleopatra a Maria Elena Boschi storia del potere femminile (2015), C’ eravamo tanti amati (2016), Soli al comando. Da Stalin a Renzi, da Mussolini a Berlusconi, da Hitler a Grillo. Storia, amori, errori (2017). ** FORTUNATO ALOI - Ricordi Liceali All’interno, 22 foto in bianco e nero - Diaco, Bovalino, 2001 - Pagg. 98, s. i. p.. Un libricino che si legge d’un fiato e che ci riporta ad anni nostalgici. Si tratta di sprazzi di ricordi riguardanti un gruppo di liceali che hanno ottenuto la maturità nel Liceo “T. Campanella” di Reggio Calabria nel 1958. Noi, in quegli anni. frequentavamo il “Piria” (siamo andati a scuola tardi e ci siamo diplomati nel 1959) e spesso ci trovavamo fuori il portone del Campanella perché innamorati di Marcella che frequentava il Liceo, alla quale dedicavamo versi e disegni, album interi di ritratti di attori e di cantanti (per es. Claudio Villa) dei quali lei era innamorata. L’intera nostra raccolta “Dodici mesi con la ragazza”, per esempio, è a lei dedicata, oltre gran parte di altre nostre opere. Il Liceo era per noi del commerciale scuola privilegiata, dove nelle classi
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c’erano maschi e femmine, anche se in banchi separati, mentre al “Piria” eran tutte classi maschili. Molti dei fatti cui accenna Aloi erano anche discussi al “Piria” (come quelli d’Ungheria), ma con più difficoltà, perché il preside Zuccarello governava la scuola con assoluta autorità, inflessibile, con mano ferrea (basta pensare che una nostra vignetta c’è costata ben 15 giorni di sospensione!). Aloi ricorda docenti, allievi e marachelle; la scuola canonica e la scuola della strada; Le passeggiate lungo il Corso Garibaldi (noi, specie la domenica, vi incontravamo Francesco Fiumara, Franco Saccà, Ernesto Puzzanghera, Giuseppe Tympani eccetera, dei quali eravamo amici, perché già bazzicavamo La Procellaria nonché Il Corriere di Reggio). Anche noi, come Aloi, siamo stati “corrotti” in classe da allievi meno bravi in certe materie: Aloi perché era bravo nl Latino, noi per l’italiano dal figlio del proprietario di un pastificio, presso il quale, una volta diplomati, abbiamo lavorato per alcuni mesi. Al Liceo avevano un giornalino, “La Voce del Leonardo”, diretto dallo stesso Aloi; al “Piria” avevamo Intervallo, che ci stampava la tipografia del Corriere di Reggio di via B. Camagna e sul quale noi abbiamo pubblicato poesie e racconti; sulle sue pagine furoreggiavano i versi in dialetto di Mimmo Calandruccio… Insomma, la lettura di “Ricordi Liceali” ha smosso anche i nostri ricordi. Noi abitavamo in una pensione familiare su via di Santa Caterina, proprio a fianco alla chiesa e al “Piria” ci recavamo sempre a piedi... Ci scusiamo per questa nostra non recensione, per queste nostre digressioni estemporanee. Quant’è difficile rimettere il tappo ad un boccione di ricordi! (D. Defelice) Fortunato ALOI (conosciuto come Natino Aloi), è nato a Reggio Clabria l’otto dicembre 1938 ed è stato per anni docente nei vari licei della Città. Sin da giovanissimo ha operato nel mondo della politica, da quella universitaria alla realtà degli Enti locali. Ha percorso un lungo itinerario: da consigliere comunale nella sua Città ed in altri centri della provincia (Locri) a consigliere provinciale, da consigliere regionale a deputato. Come parlamentare (per quattro legislature) ha affrontato temi di diverso genere ed in particolare si è occupato, con grande impegno, di scuola, cultura e di Mezzogiorno. Ha ricoperto l’ alta carica di Sottosegretario alla P. I.. E’ stato coordinatore regionale della Destra calabrese, ed anche Segretario per la Calabria del Sindacato Nazionale (CISNAL). Presidente dell’ Istituto Studi Gentiliani per la Calabria e la Lucania, è componente la Direzione nazionale del Sindacato Libero Scrittori Italiani. Giornalista pubblicista, collabora a diversi giornali ed è attualmente direttore del periodico “Nuovo Domani
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Sud”. Autore di numerose pubblicazioni di storia, pedagogia, saggistica, politica e narrativa. Ha ottenuto riconoscimenti di valore scientifico come il “Premio Calabria per la narrativa” (1990) per il volume “S. Caterina, il mio rione” (Ed. Falzea); il Premio letterario saggistica storica (1995) per il volume “Reggio Calabria oltre la rivolta” (Ed. Il Coscile) ed il Premio Internazionale “Il Bergamotto” (2004). Altri suoi lavori: La Questione Meridionale: radici, inadempienze e speranze (1985), “Cultura senza egemonia (Per un umanesimo umano)” (1997), Giovanni Gentile ed attualità dell’attualismo” (2004), “Tra gli scogli dell’Io” (2004), “<Neutralismo> cattolico e socialista di fronte all’intervento dell’Italia nella 1a guerra mondiale” (2007), “Riflessioni politico-morali e attualità dei valori cristiani” (2008), “Piccolo Taccuino di Viaggio” (2009), “La Chiesa e la Rivolta di Reggio” (2009), “Vox clamantis... Come può morire una democrazia” (2014), “Per lo Stato contro la criminalità” (2017), Vaganti… frammenti di io (2017). ** ANTONIO CRECCHIA - Natale in versi - Opera poetica vincitrice, nel 1988, del “Superpremio Europa” al Premio Letterario Internazionale “Natale di Pace; in quarta di copertina, nota critica di Lycia Santos do Castilla - Ed.ac<> 2018 - Pagg. 66, s. i. p. Antonio CRECCHIA è nato a Taverna (CB) e risiede a Termoli. Sue poesie sono inserite in numerose antologie di prestigio nazionale e pubblicate in diverse riviste letterarie. Ha ancora molte opere inedite - saggi critici e poesie - e gli sono stati assegnati oltre cento premi e riconoscimenti. Socio di varie Accademie, traduttore dal francese - Au coeur de la vie (2000), di Paul Courget; Fragments (2002), di Paul Courget; Diadème (2003), di Paul Courget; Jardins suspendus (2005), di Andrée Marik; Le poémein (2005), di Jean-René Bourlet; Mer-Océan (2006), di Andrée Marik; Sur la plage de l’océan (2008), di Yann Jaffeux -, ha avuto incontri con alunni di vari istituti e con docenti di materie letterarie che hanno preso in esame vari componimenti della sua produzione poetica, esercitando un’accurata e puntuale analisi testuale. Opere a lui dedicate: Il Walhalla di un poeta (2010), di Lycia Santos do Castilla; La maturità poetica di Antonio Crecchia nella rassegna critica di AA. VV. (2015); La sensibilità poetica e critica di A. Crecchia (2017), di Vincenzo Vallone; A. Crecchia: L’uomo, il poeta, il saggista (2017), di Brandisio Andolfi; Crecchia nel giudizio della critica (Vol. I, 2017), di AA. VV.; Crecchia all’esame della critica (Vol. I, 2017), di AA. VV. eccetera. Lungo l’elenco delle
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sue pubblicazioni. Poesia: Il mio cammino (1989), Soave e gentile mia terra (1992), Parole per colmare silenzi (1993), Tarassaco di nuova primavera (1994), Ascesa a Monte Mauro (1995), Lirico autunno (1998), Lo spazio del cuore (1999), Oltre lo spazio della vita (2003), Frammenti (2004), All’ ombra del salice (2004), Ossezia e oltre (2005), In morte del Papa Magno (2005), Fiori d’argilla (2006), I giorni della canicola (2008), Nuovi frammenti (2008), I giorni della fioritura (2008), Un po’ per celia, un po’ per arte (2009), Notte di Natale (2009), Luci sul mio cammino (2009), Aliti di primavera (2010), Nei risvolti del tempo (2012), Pensieri al vento (2016), Poesie occasionali (2016), Canti di primavera (2016), Florilegio poetico (2017), Foschie (2017), Barlumi (2017). Saggistica: Dentro la poetica di Rosalba Masone Beltrame (1992, sec. ed. 1993), La dimensione estetica di Brandisio Andolfi tra poesia e critica (1994), Orazio Tanelli (1995), Silvano Demarchi: Un poeta di spessore europeo (2002), La folle ispirazione - Coscienza etica e fondamenti estetici nelle opere di Vincenzo Rossi (2006), L’evoluzione poetica, spirituale e artistica di Pasquale Martiniello (2007), Pasquale Martiniello: Poeta ribelle ad ogni giogo (2008), Carmine Manzi: Esemplarità e fertilità di una vita dedicata alla cultura (2009), La militanza letteraria di Silvano Demarchi dall’esordio ad oggi (2011), Vincenzo Vallone: Valori e ideali, realtà e fantasia (2013), Il mondo poetico di Rita Notte un’artista della parola (2013), Brandisio Andolfi (2014), Vincenzo Rossi: Un talento creativo al servizio della cultura (2014), Carlo Onorato: La missione sociale educativa di uno scrittore molisano (2014), Lycia Santos do Castilla: La grande matriarca dell’arte espressiva (2016), Itinerario scientifico-letterario di Corrado Gizzi (2017). Ricerca storica: Taverna, ottobre 1943 (1990), Taverna - Dalle origini alla Grande Guerra (2006), Tavernesi nella Grande Guerra (2016). Teatro: Eccidio in casa Drusco (2008), Ius primae noctis (2008), Mythos il fascino del mito antico (2017). ** FULVIO CASTELLANI - Il significante stupore dell’esserci. Indagine critica sul poeta Pietro Nigro - All’interno, 15 foto in bianco e nero - Nicola Calabria Editore, 1999 - Pagg. 64, s. i. p. Fulvio CASTELLANI (Carnia, 1941), scrittore e giornalista. Collabora a giornali e riviste e si occupa di critica letteraria. Ha pubblicato diversi libri di poesia, di ricerca storica, un romanzo: Così, per dire (1984), Carta d’identità (1984), Album di famiglia (ricerca storica, 1984), Le favole di pietra (1986), La storia di Nadina (romanzo, 1988), I
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rifugi dell’io (1994).
TRA LE RIVISTE NUOVO DOMANI SUD - Periodico di informazione politica e culturale diretto da Fortunato Aloi, responsabile Pierfranco Bruni - via S. Caterina 62 - 89121 Reggio Calabria - Riceviamo in contemporanea i numeri 4 (luglio-agosto 2017), 2 (marzoaprile 2018) e 4 (luglio-agosto 2018). Numerose le firme, come quelle di Domenico Ficarra, Milena Cavallo, Mimmo Latella, Gesualdo Sovrano, Giovanni Praticò, Tullio Masneri, Monnalisa Marino, Carmelo Bagnato, Letterio Siclari, Salvatore Dieni, Mimmo Versaci, Rocco Laviola, Lina Distefano, Francesco Guadagnuolo, Orazio Raffaele Di Landro. Inoltre, ci piace segnalare la vignetta firmata Lagostino 2017,sul numero di luglio-agosto 2017.
LETTERE IN DIREZIONE (Ilia Pedrina, da Vicenza) Carissimo Amico, grazie, con tutto il cuore, perché sai creare condivisione di quell'energia spirituale che deve governare i nostri passi: essa parte da radici lontane, lontanissime, arcaiche, perché ci sia una comunità che si unisca e viva all'unisono oltre i bisogni che hanno anche gli altri mammiferi. Don Paolo Liggeri, di cui tu mi chiedi notizie ed elementi per approfondire la sua eredità, ha mantenuto per anni, nella Rivista Mensile 'La Casa' associata a 'Riflessi', la sezione 'Educazione Civica cristianamente ispirata', creata proprio per me e pubblicava le lezioni che tenevo con gli studenti delle scuole medie, prima a Pozzoleone, poi a Caldogno, poi alle superiori, a Vicenza. Aveva grande carisma, nella sua semplice e quasi timida figura di sacerdote e di profeta. Si, carissimo, perché aveva portato avanti a Milano quanto poi è stato realizzato anche a Vicenza, con l'Istitu-
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to Rezzara di Cultura e di Formazione superiore postuniversitaria, da anni. Parlano le fotografie, con don Paolo colto nella sua carica di simpatia con intorno i responsabili della nuova istituzione. Sacerdote all'avanguardia, in Triangolo rosso, lui deportato politico con matricola vera e propria, ha trascritto fin che gli è stato possibile ciò che il suo animo riusciva a vivere come lato concreto della disperazione di inermi, provocata da leggi preparate ad arte da scienziati, loro pure senza scrupoli, messi al lavoro per dimostrare la superiorità di una razza sull'altra. Oggi sono messi al lavoro per dimostrare e provocare dell'altro... Il primo giorno di questo 2019 mi arriva una nota, da guardare, di Mark Wojcick, docente di Diritto Internazionale all'Università di Chicago, Timeless Live in Concert, di Barbra Streisand: la sua voce mi prende, lei con la pelle come petalo di rosa reclama che io veda anche il video successivo A Piece of Sky-with lyrics. Qui dovevo arrivare, con gli occhi e con il cuore: 4'10'' per dar vita a una lirica tutta tesa tra amore filiale, realizzazione di sé e bisogno di libertà. Sul battello che porta i migranti Jiddish verso l'America i tanti volti di un Popolo fuori da ogni tempo, perché il loro tempo è altro, è quello della luce che si frantuma in riflessi; della memoria legata ai suoni, ai riti, ai ritmi di un abbandonare sempre la terra per andare oltre, senza mai temere che manchi l'Altissimo, la sua presenza, il suo aiuto; della morte attesa nell'istante successivo a questo e dell'ironia che fa ridere Itzaach, mentre Abraham lo porta al macello: il suo sorriso lo salverà.
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Ecco alcune tracce del canto: Lirics ... The time had come (Papa can you ear me?) to try my wings (Papa are you near me?) and even though it seemed at any moment I could fall, I felt the most (Papa can you see me?) Amazing things, (Can you understand me?) the things you can't imagine If you've never - flown at all. Though it's safer to stay on the ground Sometimes where danger lies There the sweetest of pleasures are found No matter where I go - There'll be mem'ries that tug at my sleeve but there will also be - More to question yet more to believe. Oh tell me where - Where is the someone who will turn to look at me and want to share - My every sweetimagined possibility? The more I live - the more I learn The more I learn - the more I realize - The less I know Each step I take - (Papa I've a voice now!) Each page I turn - (Papa I've a choice now!) Each mile I travel only means the more I have to go. What's wrong with wanting more? If you can fly then soar! With all there is - why settle for - just a piece of sky? E tu mi scrivi che oltre la musica d'intelletto ci sono anche le 'canzonette' e a me arriva questa nota e un passo dopo mi trovo questa intensa apertura alla vita, al viaggio, al volo! Ci sono ricordi che si agganciano a colla nel bordo della giacca e te li trasporti sempre e poi ti passano sulla pelle, fino a entrarti dentro, nella segreta linfa che scorre... Mi viene in mente Praga e la cara, adorabile Rosalba Maletta che mi manda il suo lavoro su Kafka e allora lo vedo, il giovane Franz, mentre scruta lo spazio intorno ed i suoi occhi osservano il ghetto con pertugi e scale esterne alte che sfociano sotto portici che stringono le piazze da tutti i lati. Praga del
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sogno, Praga della fuga, Praga della prigionia, con pareti intercambiabili in costante mutazione: la natura dell'aria, del vento, della luce del cielo nel giorno e nella notte; la natura della propria vita tra alimenti e consumazione, consunzione estenuante delle energie che si sono attinte nello spessore del contatto e del confine; la natura della lingua, delle lingue miste, delle loro matrici ataviche sedimentate da millenni e posticce se se ne decide la cancellazione perenne e dalla madre si succhia latte e linguaggi da lattanti e d'infanzia: lo spessore di contatto e di fusione tra questo e gli altri due è reso possibile grazie all'immaginario mentale che ne forza la consistenza; la natura della scrittura che emerge e prorompe a partire dalla quotidiana forma del dire in segni, dopo aver appreso che altri segni originari e magici hanno dentro Dio stesso, l'Impronunciabile, Benedetto sia il Suo nome. Questo è il terreno avido di espansioni per rinforzare la sua
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fertile matrice, ADAM terra e matrice, paradiso originario del contatto-fusione tra creatura e Creatore, pace da non mai raggiungere, per vivere in profondità la pena, che ti caccia giù in fondo, nella Colonia penale. E lui sente nella schiena come una mela lanciata a tutta forza da chi lo sta rincorrendo e la mela gli entra dentro e non se ne va più via, facendolo quasi svenire dal dolore! Non solo narrazione, non solo metafora. La lingua Jiddish gli si è incollata addosso, nel bordo interno del cuore. Papa, I can ear you, Papa, I can see you, Papa, I can feel you, Papa, watch me fly! Su questo battello passano immagini di migranti dall'Est-Europa: i loro volti nascondono futuro ancora segreto perché solo immaginato, i vestiti, i bambini, i rabbini, non solo sfondo al video della cantante ebrea ma contesto di tanti simili eventi, per far rotta verso una vita altra, oltre la fuga, a condensare il riposo all'interno del domani. The bird soared through the air, its wings unmoving. È così, carissimo: il gabbiano si slancia in volo e riposa nell'aria, trasportato dal vento, le ali immobili: questo ci regala nella Natura e nella lingua l'arte poetica, il suono, il canto, la forma viva oltre ogni misura, questo tu doni, con fatica, con passione, con segni concreti di un'amicizia che ti vede leale ed inflessibile, dignitoso sempre, perché la tua coerenza è rigore. Grazie, con tutto il cuore. Ilia tua, per un 2019 visto anche attraverso gli occhi di questa 'nostra' bella creatura. Carissima, le tue lettere spesso hanno ampio spettro ed è difficile considerarle nella loro integrità, cogliere ed evidenziare tutto il loro contenuto. E suggeriscono molto. Così, anche questa volta, raccolgo solo uno o due spunti. Il popolo Yiddish può essere metafora degli attuali migranti? Sparsi o dispersi nei secoli in tutto il mondo (Polonia, Germania, Spagna e oltre Europa) i migranti Yiddish spontanei o costretti si possono accostare a quelli dell’Africa e
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dell’Asia che oggi tentano di approdare in Europa e a quelli che dall’America latina si spingono verso la frontiera degli Stati Uniti? Un loro battello può essere immagine, simbolo delle tante carrette del mare e dei gommoni che solcano il Mediterraneo in cerca di un approdo e dei mezzi di fortuna tir compresi - che dall’Asia tentano di raggiungere il cuore del nostro continente? Sì e no, perché son diversi tempi e contesti. Fermo restando che ogni esodo, piccolo o grande, costituisce un dramma, tali drammi hanno valenza più o meno intensa e riescono più o meno a sommuovere la coscienza collettiva se la diaspora è spontanea o provocata. Se si esaminano bene i contesti, tutti gli esodi hanno alla base una violenza, una costrizione; sono forzati o da avvenimenti palesi come dittature e prepotenze, guerre e rivoluzioni, o da cause più viscide e occulte, mascherate, come l’economia. Già, le cause economiche! Bisognerebbe sempre ricordare i danni irreparabili del Colonialismo passato e presente in tutto il mondo: Asia, Africa, Americhe; lo sfruttamento irrazionale, radicale, bestiale, cinico, senza alcun vantaggio o pietà per le popolazioni locali, ha avuto e ha effetti dirompenti e catastrofici, difficilmente sanabili, se non in tempi lunghissimi e ravvedimenti soccorrevoli e catartici di quelle nazioni europee che tali disastri hanno provocato e continuano a provocare. La Francia, per esempio, mai ha smesso di colonizzare l’Africa e ancora oggi è il suo potere e la sua moneta di comodo (il CFA) a condizionare molti di quei Paesi. Nell’area delle ex colonie francesi, l’economia cresce di più ed è più dinamica in quelle nazioni limitrofe che hanno il rea-
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le, pieno controllo delle proprie monete. Il Cfa (Colonie francesi d’Africa), insomma, è una palla al piede dei Paesi che lo adottano, retaggio degli anni trenta e quaranta del secolo scorso (è stato creato nel 1939). Questi Paesi non sono tutti o non sono del tutto democratici e la Francia ci sguazza, mantiene contingenti militari, dorme e si sveglia quando le fa comodo; le imprese francesi hanno l’agio del vantaggio concorrenziale rispetto a tutte le altre del mondo e se tutto ciò non si chiama sfruttamento, aspetto che qualcuno mi dica cos’è. Né è del tutto pacifico uscire dal Cfa; la storia ci dice che i leader africani che l’hanno tentato, hanno fatto tutti una brutta fine! Queste nazioni-predoni hanno desertificato il mondo, non solo economicamente, ma anche nel profondo io (l’Italia, in ciò, come in
tutto il resto, ha sempre avuto un ruolo assai marginale). L’Europa, insomma, ha infettato e sparso il male nel mondo; anche se volutamente enfatizzo, il vulnus radicale di tutto sta ancora in una Europa guasta nel suo midollo - e, di conseguenza, nelle sue leggi e nelle sue relazioni -, costituita com’è su basi esclusivamente finanziarie e quindi su leggi e interessi di quelle lobby che da secoli, attraverso le colonie, hanno depre-
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dato (e che, in parte, ripetiamo, continuano a depredare). Così, nessuna giustizia e in nessun campo, perché niente pentimenti, niente atti di riparazione, come potrebbe essere, per esempio, una specie di piano Marshall - stavolta non dall’America verso l’Europa, ma dall’Europa colpevole verso altrove, Africa in testa -, per far crescere economia e democrazia in molte nazioni, africane, asiatiche, centro e sudamericane. Il gabbiano europeo, Carissima, dovrebbe interrogarsi nel profondo e riprendere rotta dalla nostra piattaforma non più per depredare, ma per ricostruire; se creerà lavoro e ricchezza per i popoli che ha a lungo sfruttato e vilipeso, creerà pace e ricchezza anche per se stesso. Ma il gabbiano-Europa è drogato, cinico, perverso; sfrutta, costruisce e vende armi turandosi il naso (come fanno gli Usa, come fa la Russia, la Cina, l’India) per non sentire l’odore del sangue dalle armi provocato; usa la fantasia per abbellire le armi, per renderle fascinose come farfalle e libellule per attirare, straziare ed uccidere anche i bambini (leggete, qui di seguito, “Il giocattolo-ordigno” dell’indimenticabile Francesco Fiumara) senza rendersi conto che dagli stessi giocattoli verrà fermato il suo volo, che sarà, o prima o poi - come scriviamo in To erase, please? - “crocifisso alle spine della balza”, alla parete, cioè, della montagna di rapine e nefandezze innalzata nei secoli. Musiche e canti yiddish, musiche e canti di deportati vecchi e nuovi e migranti. Che il mondo sia veramente globale nell’amore, nell’aiuto, nella tolleranza. Domenico
IL GIOCATTOLO-ORDIGNO Come tutti i bambini poveri del tuo paese giocavi coi ciottoli del fiume, con gli ossi delle pesche, coi fiori che crescono spontanei sui cigli delle strade.
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Oh, il giocattolo vero rinvenuto in un giorno di sole come un tesoro inatteso! E tu non pensavi che la civiltà menzognera vi celasse l’insidia del fuoco e delle lame affilate per le tue carni innocenti. Meglio se avessi scoperto una tana di serpe, un picco di rupe… e intatto nel cuore l’istinto dei primordiali pericoli. Le sabbie del fiume accoglierebbero ancora le tue capriole, e la lucertola sonnolenta scivolerebbe nel tuo cappio d’erba. Francesco Fiumara Da Le favole hanno occhi di pietra - Ed. Pagine, 1960.
Domenico Defelice: “Le favole hanno occhi di pietra”, china 1961. ↓
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