Pomezia Notizie 2019_4

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50ISSN 2611-0954

mensile (fondato nel 1973) Direzione e amministrazione: Via Fratelli Bandiera, 6 - Tel. 06/91.12.113 - 00071 POMEZIA (Roma) - Fondatore e Direttore responsabile: DOMENICO DEFELICE – e-Mail: defelice.d@tiscali.it – Parziale distribuzione gratuita (solo il loco) – Attività editoriale non commerciale (art. 4, D.P.R. 26.10.1972 n. 633 e succ.ve modifiche) - Per abbonamenti: annuo, € 50; sostenitore € 80; benemerito € 120; una copia € 5.00) e per contributi volontari (per avvenuta pubblicazione), versamenti sul c/c p. 43585009 intestato al Direttore - Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 213/93 del 23/5/1993 - La collaborazione, sempre gratuita, in parte è libera, in parte è per invito. Ogni autore si assume la responsabilità dei propri scritti - Manoscritti, fotografie e altro materiale, anche se non pubblicati, non vengono restituiti - É ammessa la riproduzione, purché se ne indichi la fonte. Per ogni controversia, foro competente è quello di Roma.

Anno 27 (Nuova Serie) – n. 4

€ 5,00

- Aprile 2019 -

ANDREA CAMILLERI CONVERSAZIONE SU TIRESIA di Salvatore D’Ambrosio

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volte accade che spendi gran parte della tua vita lavorativa nel realizzare ottime cose. Di questo i datori di lavoro ne sono contenti e spesso anche fieri, perché hanno di che gloriarsi raccogliendo, magari, pure gli elogi di chi gli sta sopra in grado. Mentre invece l’artefice, quello che come si dice oggi si è fatto il “mazzo”, non raccoglie che un grazie o una piccola gratificazione economica, continuando a restare anonimo creatore delle altrui felicità. Questo è accaduto, più o meno, a Andrea Camilleri fino a quando non ha avuto la fortunata idea, di inventarsi un commissario di polizia. La scrittura o meglio l’esercizio alla scrittura, l’aveva fatto in radio, televisione, teatro. E →


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All’interno: Un saluto da quota novanta, di Emerico Giachery, pag. 5 Un “fiocco” azzurro in casa Togliatti, di Giuseppe Leone, pag. 8 Isabella Michela Affinito, di Marina Caracciolo, pag. 10 Gianni Rescigno, Il vecchio e le nuvole, di Domenico Defelice, pag. 12 F. Pedrina alle lezioni di E. G. Parodi, di Ilia Pedrina, pag. 14 Imperia Tognacci vista da Francesco D’Episcopo, di Tito Cauchi, pag. 16 Qin Chuan, di Domenico Defelice, pag. 20 Più viva che mai la poesia di Rescigno, di Luigi De Rosa, pag. 23 Versi dell’anima, di Ilia Pedrina, pag. 25 I prati del popolo romano, di Manuela Mazzola, pag. 27 Michel Petrucciani, di Ilia Pedrina, pag. 30 Padre Pio ricerca di Dio, di Leonardo Selvaggi, pag. 32 Una lettera di Addio, di Domenico Defelice, pag. 37 I Poeti e la Natura (Alceo), di Luigi De Rosa, pag. 49 Notizie, pag. 55 Libri ricevuti, pag. 57 Tra le riviste, pag. 59

RECENSIONI di/per: Elio Andriuoli (Parole nella notte, di Mario Benedetto, pag. 50); Marina Caracciolo (La poesia di Imperia Tognacci. Inquietudine dell’infinito, di Francesco D’Episcopo, pag. 51); Tito Cauchi (Petali di poesia, di Fiorella Gobbini, pag. 51); Ilia Pedrina (Tristano Riccardiano, di E. G. Parodi, pag. 52); Ilia Pedrina (Lingua e Letteratura, di Ernesto Giacomo Parodi, pag. 53); Ilia Pedrina (I profeti del Risorgimento italiano, di Giovanni Gentile, pag. 54); Liliana Porro Andriuoli (Poesie 1992 - 2018, di Giulio Di Fonzo, pag. 55).

La pittura di Maria Antonietta Mòsele, di Domenico Defelice, pag. 61

Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Loretta Bonucci, Rocco Cambareri, Domenico Defelice, Salvatore D’Ambrosio, Caterina Felici, Giovanna Li Volti Guzzardi, Manuela Mazzola, Wilma Minotti Cerini, Teresinka Pereira, Gianni Rescigno, Franco Saccà, Leonardo Selvaggi

anche con la stesura di tantissimi libri. Dei soldi; qualche successo; l’ avanzamento di carriera; il nome nei titoli di coda delle trasmissioni. Ma niente di più. Poi l’invenzione del commissario Montalbano. Un uomo di legge, moderno, che però non ha perso la sua sicilianità. Ecco allora l’esplosione dell’autore. La salita al monte. Alle vette più alte e ambite.

La fama insomma, con i suoi racconti giallo-siculi. Si perché in fondo la fortuna, delle vicende messe nelle mani di Montalbano, sta non tanto nelle storie, che sono semplici e di lampante soluzione, quanto nella narrazione legata al territorio. Nel senso che la genialità di Camilleri, è stata quella di avere creato dei personaggi che definirei: poliziotti ma


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non ministeriali. Nel senso che, pur facendo il loro lavoro con attenzione e professionalità, hanno mantenuto la loro radice culturale profonda e colta della gente del sud. Il linguaggio di Catarella, che può sembrare arcano e sgrammaticato invece è il frutto di una cultura delle dominazioni che ha subito la Sicilia dai Greci ad andare avanti. Un esempio per tutti. Quando Catarella dice al commissario che c’è qualcuno che gli vuole “parlare personalmente di persona”, vuole dire che l’interlocutore non accetta mediazioni. Oppure “taliari” che vuole significare vedere, ma in una lingua che ha influenze greche, arabe, spagnole. Questo Montalbano lo sa perché parla e agisce nel suo identico modo: è vivo perché non ha perduto la sua sicilianità. E non l’ha perduta, perché non l’ha perduta suo padre putativo. Il quale ci fa capire, ecco la fortuna dei suoi libri su questo personaggio, che la cultura è un impasto di passato, presente e visioni future. E queste ultime sono divinazioni di un Camilleri che ha scoperto, in vecchiaia avanzata, che si è in-

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trodotto in lui un tale Tiresia. L’indovino diventato cieco per avere guardato una donna, che però era una dea. Camilleri si sa, il glaucoma lo ha resto praticamente cieco. E forse è per questa sua condizione che si sente un po’ Tiresia, e soprattutto sente la necessità di raccontare di Tiresia - Camilleri. Nel giugno del 2018 porta, questa sua Conversazione su Tiresia, in scena al Teatro Greco di Siracusa. Circa sessanta pagine, da lui stesso dette su quelle antichissime pietre. Gioca, si diverte Camilleri con la vicenda mitologica di questo personaggio. La sua conversazione, come vuole chiamarla lui, raggruppata in un opuscoletto edito da Sellerio, non supera la sessantina di pagine. Ma in esse c’è tutto o possibilmente tutto, sia nello spazio esiguo dello scritto che nello scenico del teatro greco di Siracusa, sulla figura dell’antico vate, a cui tanti scrittori e pensatori del passato più o meno remoto, e anche del presente, hanno dedicato studi e critiche. Parte da lontano Camilleri, che narrando narrando si confonde con Tiresia, e Tiresia si soprappone a lui. Tanto che a un certo punto quasi ci si confonde, chiedendosi se sta parlando di Tiresia o di sé stesso. Ricorda la benevolenza di Virgilio, l’ ostilità invece di Orazio. Cita Omero, altro cieco, che è il prima persona a parlare di lui. E che anzi consiglia Ulisse a cercarlo per farsi indicare la migliore rotta per tornare alla sua Itaca e alla sua Penelope. E poi Giovenale, Stazio, Seneca, persino Dante. Per passare ai meno duri nei confronti del profeta antico, cita, allora, Camilleri: Ludovico Dolci, Scipione Ammirato, il Poliziano che con altri lo considerano un poeta autentico. Forse perché, sottolinea il Tiresia- Camilleri, le predizioni sue sono state sempre fatte in versi. Ritorna ancora a citare un poeta cieco: Milton, che lo annovera tra i poeti veri. Nella sua performance, non scappa nessu-


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no che abbia avuto anche brevemente un contatto con Tiresia. Ecco Apollinaire con il dramma surrealista: Le mammelle di Tiresia; Virginia Woolf che ne ripercorre con precisione la vita nell’opera Orlando; o ancora Cesare Pavese che nei Dialoghi di Leucò, mette in bocca al profeta parole che negano il potere degli dei. Cita nella conversazione Camilleri Tiresia, Primo Levi e l’orrore dei campi di concentramento nati per distruggere l’uomo sia fisicamente che come essenza. Ma questi si salva perché combatte il male con la poesia. Quindi possiamo dire che chi è poeta vince sempre e in qualsiasi circostanza. La poesia e il poeta, dunque, hanno una funzione salvifica. Anzi sembra voglia dire, con questo lavoro il Camilleri, che la poesia e i poeti sono quelli che si adoperano per far comprendere a tutti cosa sia l’eternità. Infatti la poesia è qualcosa che non muore. A secoli di distanza è ancora viva l’arte nar-

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rativa di personaggi divenuti miti, tanto si è persa la cognizione della loro effettiva esistenza, ma che è rimasta reale e tangibile oggi, come nel domani, e sicuramente nel dopodomani la loro poesia. Il valore della parola, che spesso ricongiunge persone e personaggi, non muore mai e non morirà. E chiudo questo piccolo modesto omaggio ad Andrea Camilleri, con l’augurio di darci ancora tante, tante sue parole scritte. Salvatore D’Ambrosio ANDREA CAMILLERI - CONVERSAZIONE SU TIRESIA - Sellerio Editore, Palermo 2019

Domenico Defelice: Pioppi nell’inverno ↓


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UN SALUTO DA QUOTA NOVANTA di Emerico Giachery

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OCHE settimane fa ho compiuto novant’anni. Colgo l’occasione per inviare un saluto affettuoso a tutti gli amici di “Pomezia-Notizie”: all’intrepido Direttore che la guida generosamente da venticinque anni, ai collaboratori, ai lettori. Tutti insieme ne hanno (ne abbiamo) fatto un luogo d’ incontro, uno spazio di “varia umanità”, un fiorito giardino di cultura. Che effetto fa l’aria di quota novanta? Con un po’ di salute, ma non senza qualche inevitabile disturbo, e se si ha vicino la persona amata; se si hanno incontri, contatti umani anche con persone lontane; e se ci si può concedere un adeguato spazio-tempo di meditazione e raccoglimento, non si sta poi tanto male. Tutt’altro. Una imprevista affezione mi costringe a camminare con l’aiuto di grucce, e allora mi dico sorridendo: sono state colpite le gambe, ma non le ali! Invito chi ne ha voglia ad attingere a piene mani a quel benefico contravveleno o anticorpo dell’anima che è (lo riconosce anche Thomas Mann) l’ umori-

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smo. Come l’intendo io, l’umorismo non è quello prospettato da Pirandello nel suo geniale saggio così intitolato, che in sostanza definisce la propria poetica. Non ha nulla a che vedere con la satira, dalla quale è lontanissimo. Esso sgorga “dal cuore più che dal cervello, la sua essenza è amore; la sua soluzione non è nella risata, ma nel quieto sorriso che viene da maggiori profondità”: così lo definisce Thomas Carlyle. È “l’ala sorridente dello Spirito”: così lo definisco io. Lo sento vicino alla “leggerezza” descritta ed elogiata in una delle memorabili Lezioni americane di Italo Calvino. Sono molto grato alla Vita e al buon Dio per questo prezioso dono di anni, e vorrei che a tutti fossero riservate occasioni positive nel corso della vita. Alcune cose belle, alla nostra età, è difficile o impossibile farle: i grandi viaggi di conoscenza, per esempio. O visitare esposizioni e musei, senza appropriati sedili per sostare un poco davanti ai capolavori. O le grandi, impegnative letture di un tempo: gli occhi sono stanchi, la concentrazione difficile; i libri non letti della mia biblioteca mi guardano con severo cipiglio, con aria di rimprovero. La memoria delle cose vicine e specialmente dei cognomi frana sempre più, la parola che ti occorre in quel momento sparisce e magari torna quando non ti servirà più. In ogni modo, con un lettore di cd anche di poco prezzo, si può sempre ascoltar musica: soprattutto quella che una mia amica definiva “musica per l’anima”. E non è poco. Ci resta, inoltre, alla nostra età, una serie di occasioni preziose per l’anima e per l’ intelletto, per continuare a evolvere, per ritoccare qua e là qualche particolare dissonante nel quadro che rappresenta la nostra vita; ma sempre dolcemente, con mano leggera. “Siate dolci con voi stessi”, raccomandava San Francesco di Sales. Eliminiamo qualche residuo rancore, correggiamo qualche giudizio avventato, alimentiamo benevolenza e pazienza, aggiungiamo qualche minuscola fiammella di benevolenza e di positività al mondo che ci circonda. Mi dico: “non aspettarti mai nulla dagli altri, così tutto ciò che ri-


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cevi è dono”; quando ci riesco, sto meglio e tutto ‘sta meglio’ intorno a me. Una vera ‘cura per l’anima’- lo sostengono alcuni filosofi odierni come Duccio Demetrio – è il ripensare e riassaporare, non con rimpianto ma con gratitudine, le occasioni positive che la Vita ci ha offerto. Guardandoci bene, soprattutto, dall’ingeneroso e increscioso vezzo, ahimè quasi inevitabile in noialtri vecchi, di atteggiarci a laudatores temporis acti. I genitori restano sempre parte di noi, dei nostri cromosomi come della nostra anima. I nostri amici sono anch’essi presenti in noi. Anch’essi sono parte di ciò che siamo. Per quanto mi riguarda, ho avuto la fortuna di incontrare alcuni grandi amici, non di rado connessi all’attività letteraria (“letteratura come amicizia” è uno dei miei motti preferiti). Li ricordo spesso con affetto, e volentieri scrivo di loro. Una lunga vita mi ha reso testimone di capitali eventi storici, alcuni dei quali ho rievocato in uno dei miei libri più cari. Con gli amici lettori di “Pomezia-Notizie” vorrei rivivere il più luminoso di questi momenti, nel quale mi sono trovato immerso nella prima giovinezza. Stagione ricca di senso e di pathos, particolarmente viva e significativa nella mia memoria personale e storica. L’Europa in tanta parte distrutta risorgeva a fatica dalle rovine, s’impegnava con slancio a ricostruire, guardava al futuro. Noi giovani dei diversi paesi desideravamo incontrarci, scambiarci idee e propositi, stare insieme, cantare insieme, inzeppare i nostri taccuini con indirizzi di nuovi amici stranieri. Paul Fort, prince des poètes di Montparnasse e suocero dell’apprezzato pittore Gino Severini, scrisse in quel tempo una ballata in cui immaginava che tutti i ragazzi del mondo potessero darsi la mano, come in un immenso girotondo. «Tutti i ragazzi del mondo», certo. Ma, per cominciare, almeno noi ragazzi d’Europa, che tanto avevamo in comune, che sognavamo di costruire una patria comune. Noi italiani, che ci portavamo dentro immagini di Giotto e Caravaggio e nostrane cupole e torri e modulate colline, quanto sentivamo nostra la cattedrale di Strasbur-

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go: svettante, tangibile simbolo di comunione tra mondo latino e mondo germanico. Dagli angeli scolpiti e dipinti di tutte le superstiti cattedrali d’Europa si levava un coro unanime di speranza. Per noi, per tutti noi, il carillon di Bruges scandiva dolcemente le ore. Tutto nostro, il Reno che “scorreva tranquillo” (ruhig) come nel canto di Heine musicato da Schubert. Nascevano amicizie, sbocciavano amori. Gli incontri, gli abbracci, gli addii. Quanti destini ancora in nuce, che si sarebbero maturati e disseminati qua e là per le diverse strade d’Europa! L’Europa che sognavamo e costruivamo in noi purtroppo non si è mai incarnata, come avrebbe dovuto e potuto, nella storia del secondo Novecento. Ma l’Europa del nostro sogno e del nostro amore vive assoluta, incorruttibile, in un eliso delle idee. E comunque è un fatto che l’Europa, da quel momento sino ad oggi, ha goduto del periodo di pace più lungo, ritengo, di tutta la sua storia. E l’anima umanistica e cristiana d’Europa è al centro di quel grande “libro sacro” moderno e laico che veniva elaborato e formulato proprio in quegli anni: la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo adottata dall’ Assemblea Generale Nazioni Unite nella sua terza sessione. E adesso, buona primavera a tutti, cari e simpatici amici! Emerico Giachery “Carissimo Domenico, esco (benché vaccinato) da una specie di influenza con tosse ostinata - ci scrive Emerico Giachery, in una email, il 16 marzo 2019, inviandomi il pezzo -. Ma la primavera è alle porte, anche per l'anima. Grazie per avere accolto l'affettuosa pagina di Ilia sulla coppia nonagenaria NoemiEmerico (o Noemerico) e la poesia che il sempre caro Antonio Crecchia ha voluto dedicarmi. Ho pensato di inviare un saluto molto "personalizzato" ai tuoi, e anche un po' "nostri", lettori. (…). Buona domenica con l'augurio affettuoso di Emerico e Noemi”. Quale “intrepido Direttore” di PomeziaNotizie - sei tu a scriverlo, Carissimo Amico, lodandomi sempre oltre i miei meriti! - , “che


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la guida generosamente” da ben quarantasei, non solo “da venticinque anni”, ti dico grazie, commosso, anche a nome di tutti, lettori e i collaboratori, per questa tua autentica attestazione di stima e di affetto. Neppure io son tenerello ed anch’io ho rinunciato ai viaggi. Condivido il tuo pensiero per l’Europa, ma il nostro sogno di unità è stato tradito, purtroppo!, dalla burocrazia e da una lobby mai sazia di privilegi e ricchezze. Va difesa, è vero, perché ci ha assicurato un così lungo periodo di pace, ma rischia di autodistruggersi, perché non corrisponde più all’interesse generale dei cittadini e massimamente dei giovani, ai quali importa poco della lunghezza dei cetrioli da coltivare e vendere, come delle tante altre sciocchezze; essi vorrebbero lavoro e sicurezza, ciò che l’Europa attuale, degli egoismi e degli sprechi, non è in grado di dare. Non ti dicono nulla, Carissimo Emerico, una Germania e una Francia che, anche recentemente, hanno firmato un patto bilaterale? Che senso hanno gli accordi a due in una Europa Unita? I patti dovrebbero essere firmati tra tutte le Nazioni, non tra due soltanto, perché ciò significa egoismo e furbizia e la strada degli egoisti e dei furbi è stata ed è lastricata di… baratri! Pomezia-Notizie è stata sempre attenta a tutto questo, ma il risultato è stato e rimane, purtroppo!, quello di una voce che grida nel deserto. Auguri, Carissimo Emerico, affinché - unitamente alla tua Noemi - tu possa ancora a lungo godere dell’amicizia e dall’affetto di tutti noi, che non soltanto ti vogliamo bene, ma che ti leggiamo sempre con vivo interesse. Domenico

LE MAGIE DEI POETI Se non ci fossero i poeti non sentiresti danzare le ore. E i gridi del vento non sarebbero canzoni tra le frasche dei frassini e le alte cime degli eucalipti. Vedresti soltanto un cielo

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che cambia colore e del sole avvertiresti lieve o forte calore, della luce che a sera si spegne vedresti senza fremiti d’animo un muro di buio. Sono maghi i poeti: mutano il ferro in oro e l’oro in piombo, persino i morsi del dolore in gioia di pensiero. Viaggiano, viaggiano i poeti, toccano la mano di Dio per strappargli una carezza. Gianni Rescigno Da Il vecchio e le nuvole - BastogiLibri, 2019.

SEPTEMBER Ein warmer Zephyr prägt mein Gesicht und meine Gefühle, als ob ich ein hundertjähriger Baum wäre. Vielleicht ist es richtig, ich bin alt. Ich hab’ mein Leben schon erlebt, und noch ein anderes leben zu können, versuche ich nutzlos: Das Leben einer anderen Frau, die ihrem Schicksal fremd ist. Manuela Mazzola (traduzione in tedesco di Marina Caracciolo)

AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 8/3/2019 Festa della donna. L’ineffabile Monica Cirinnà espone il cartello “Dio Patria Famiglia che vita de merda”, offendendo la maggioranza del popolo italiano e dileggiando Giuseppe Mazzini, il cui motto “Dio Patria Famiglia” troviamo nei suoi I doveri dell’ uomo. Alleluia! Alleluia! Che senatrice de merda siede nel nostro Parlamento e quale partito de merda la protegge! Domenico Defelice


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UN “FIOCCO” AZZURRO

IN CASA TOGLIATTI di Giuseppe Leone

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ON una foto di Palmiro Togliatti in copertina, Gianluca Fiocco, ricercatore di Storia contemporanea nell’ Università di Roma Tor Vergata e membro del Consiglio di indirizzo scientifico della Fondazione Gramsci; già curatore, con Maria Teresa Righi, dell’epistolario togliattiano La guerra di posizione in Italia (Einaudi 2014), ha pubblicato, allo scadere del 2018, per i tipi della Carocci Editore di Roma, Togliatti, il realismo della politica. Una biografia, nella quale l’autore “ricostruisce la vita politica e intellettuale di Palmiro Togliatti, per lunghi anni segretario del Pci e dirigente autorevole del movimento comunista internazionale. Il tutto attraverso un’impostazione storicistica che intende mettere a “frutto le prospettive storiografiche emerse nell’ultimo quarto di secolo, ripercorrendo gli snodi cruciali dell’esistenza di Togliatti: dal suo rapporto con Gramsci, vero nutrimento di base di tutte

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le sue stagioni politiche (17), a quello con Turati, Bordiga, Tasca, Tresso, Leonetti; dal suo “peregrinare attraverso le fabbriche torinesi al tempo del movimento dei Consigli tra il 1914 e il 1917, al 1924 a fianco di Gramsci nell’opera di rifondazione del partito comunista italiano e nel 1926 al fianco di Stalin; dal 1934, chiamato ai massimi livelli nel Comintern per sviluppare la nuova linea dei Fronti popolari, alla svolta di Salerno del ’44 e gli anni della guerra fredda, all’uomo che muore nel ’64 a Yalta (20). Quali siano queste prospettive storiografiche emerse negli ultimi 25 anni, è presto detto. Sono quelle sorte all’indomani della caduta del muro di Berlino, della fine della guerra fredda, la trasformazione e la scissione del Partito comunista italiano, la dissoluzione dell’Unione Sovietica, l’esaurimento della “prima repubblica” italiana e la globalizzazione. Tutte novità, che comporteranno una deideologizzazione della politica e della storia e, di conseguenza, un diverso approccio alla lettura della vita e i fatti di coloro che ne furono i protagonisti. Come avviene ora, in questa rilettura di Togliatti, che giunge a 22 anni dalla biografia di Aldo Agosti, pubblicata nel ’96, ma iniziata nell’88, quando i vecchi criteri storiografici si avviavano ormai al tramonto e i nuovi non erano ancora apparsi sull’orizzonte, come in questi anni, in cui è possibile guardare il comunismo dopo che è finito come sistema di potere (per lo meno in Europa). Quello che colpisce, allora, sfogliando le 480 pagine di questo ponderoso volume è la maniera in cui l’autore “entra nel mondo di Togliatti, cercando di illuminare il suo punto di vista, la sua strumentazione teorica e le aspettative che lo sorreggono, le esigenze e gli obiettivi che caratterizzano la sua azione politica” (21); nonché la sua strategia per il comunismo mondiale diversa sia da quella sovietica che da quella cinese, facente leva su un’alleanza tra il movimento operaio occidentale e le forze di emancipazione del Terzo Mondo. Una visione sempre in divenire che “non approda a risposte certe ma produce del-


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le riflessioni profetiche (20). Ne vien fuori un abile tessitore di trame politiche assai complesse e variegate, che pensa a strategie che appaiono all’inizio inconciliabili fra la sua visione storica e la teoria del social-fascismo (89); un politico, frutto della migliore tradizione umanistica italiana, che vive in piena fiducia la convinzione che la storia non sia una necessità, un verdetto che rotola come un macigno sulle sorti dell’ umanità, ma sia un cantiere sempre aperto; e che l’uomo sia una corda sempre tesa fra scienza e metafisica, fra realtà e utopia, in altre parole, il demiurgo che plasma la creta del mondo. Togliatti - scrive Fiocco - per tutta la vita, fece della politica un terreno di sperimentazioni, guidò il partito, lavorando ora sul concetto di classe, ora di patria, ora di umanità, per farlo uscire dall’angolo in cui ogni volta è stato chiuso dalle circostanze. Sin dai tempi del fascismo, compresi quelli della repubblica, egli fu sempre lì, in ogni momento, a cercare aperture, a formulare strategie che portassero alla luce le sue istanze e i suoi programmi, Fu questo il Partito comunista Italiano, costretto a vivere, ora, in esilio, ora, all’ opposizione e basta. Un partito mai di governo, ad eccezione di quei 13 mesi, dal giugno ’45 al luglio ’46, davvero pochi, ma sufficienti a Togliatti, allora ministro di Grazia e Giustizia, per mettere in mostra il suo disegno ideologico, teso al raggiungimento del socialismo senza mai perdere di vista i metodi della democrazia. Ne diede prova coraggiosa, concedendo, in nome della riconciliazione tra italiani, l’amnistia per partigiani e fascisti che dopo l’8 settembre ’43 si erano macchiati di reati politici. Una decisione, non la sola per la verità, che finirà per destare l’irritazione di compagni come Secchia o Giorgio Amendola, e non solo (270). Cercavamo il segretario del Partito comunista italiano, abbiamo trovato l’italiano di Sinistra, e non quello medio, ma il “Migliore” degli italiani possibili. In lui, che giovanissimo studente in Legge seguiva a Torino le lezioni di letteratura del comparatista Arturo

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Farinelli; che, nelle sue tessiture diplomatiche, ricordava così da vicino Cavour, non si possono non riconoscere caratteristiche e metodi di personalità come Giordano Bruno, Galileo Galilei, Francesco De Sanctis, Antonio Labriola, quest’ultimo il pensatore che apre al pensiero progressivo del nostro paese la via maestra del marxismo” (254-55). Nonché la presenza di correnti, come il realismo, divenuto abituale nella visione togliattiana, per via della “tendenza a non risolvere in termini catastrofisti e crollisti il problema della caduta del capitalismo; o dell’accettazione piena della leadership russa …; o ancora del riconoscimento dell’Urss e del Partito comunista russo come necessari punti di coagulo di tutto il movimento rivoluzionario” (73). E ancora il realismo, che trionfava in dichiarazioni come queste: “il cattolicesimo in Italia non è semplicemente la chiesa, è un modo di pensare, è un complesso intreccio tra la storia e la politica, tra la cultura e la filosofia” (178-79). S’è detto tutto, allora, in questo libro? Non si sarebbe tralasciato nulla, se Fiocco avesse legato all’avventura togliattiana anche il rapporto con Ignazio Silone, che si nota, eccome, per la sua assenza. Rimane, però, nonostante un’omissione così clamorosa, un libro notevole, un fiocco azzurro per e in casa Togliatti, che segnala la nascita di un nuovo ritratto, più giovanile e di più fresca e immediata lettura, sottratto a ogni ideologismo e tale da restituirci una personalità politica e intellettuale in fieri, dalla creatività sempre recidiva e mai stanca. Giuseppe Leone Gianluca Fiocco - Togliatti, il realismo della politica - Carocci Editore, Roma, Euro 39.00. Pp. 480.

Il quaderno Il Croco di questo mese è dedicato a: ELISABETTA DI IACONI CAMMINERÒ Un viaggio attraverso “vie dissestate” in cerca di “sorrisi” e di Dio, il solo a poterci regalare la speranza. Domenico Defelice


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Un’artista particolarmente versatile:

ISABELLA MICHELA AFFINITO di Marina Caracciolo

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NCHE se non è certo cosa rarissima, bisogna tuttavia riconoscere che non è occasione di tutti i giorni poter incontrare oggi una personalità spiccatamente eclettica e versatile come Isabella Michela Affinito. L’artista, che è nata in Ciociaria ma risiede a Fiuggi, sa destreggiarsi con competenza, intelligenza e passione fra arti diverse come la pittura, la moda e il costume, la scrittura creativa – sia in prosa sia in poesia – la saggistica, la critica letteraria e la storia dell’arte. In ciascuno di questi rami della cultura che armonizza sapientemente, Isabella dimostra conoscenze approfondite, sostenute da un desiderio – tanto serio quanto costante – di osservare e di sondare ogni aspetto oltre la superficie, rilevando le valenze più significative, anche quelle non sempre o non a tutti evidenti di primo acchito. Tutto ciò si coglie ben presto nei libri che Isabella scrive, alcuni dei quali mi ha gentilmente mandato in dono non molto tempo fa. Fra di essi mi ha colpito in particolare uno

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dei più recenti, che si intitola Mi interrogarono le Muse (BastogiLibri, Roma 2018). Libro assai interessante perché appunto compendia pittura, poesia, saggistica e critica d’arte, rivelandosi quindi altamente dimostrativo delle molteplici attività di cui si è detto sopra. Già la copertina è frutto della sua personale inventiva artistica. Stagliata su un fondo nero si vede una donna dell’antica Grecia (una divinità o appunto una Musa), seduta e pensosa nell’atto di tenere in mano un libro chiuso, blandamente appoggiato sul ginocchio sinistro. Dietro di lei compare una sorta di arazzo, i cui colori sono perfettamente intonati al suo lungo peplo. Potremmo anche definirlo una specie di patchwork nel cui disegno balza subito all’occhio un grande punto interrogativo bianco, inscritto in un elegante motivo arcuato che pare suggerire l’ansa di un’anfora o la metà di un cuore stilizzato oppure anche l’ala di un angelo. Il punto interrogativo è il simbolo dei dubbi che si affollano nella mente della Musa, e che la lettura del libro le ha suggerito?... Ma se osserviamo attentamente il bordo di questo arazzo di sfondo, notiamo che è formato da un fregio corrente per tutto il suo perimetro, costituito da altri innumerevoli punti interrogativi. Ed ecco dunque raffigurata l’allusione al mistero, agli infiniti quesiti, talora senza soluzione, posti dalle Muse o – al contrario – a loro rivolti. Per Isabella la poesia è essenzialmente qualcosa di arcano, un enigma che talora si svela ma in una forma mistica, quasi esoterica, dove il poeta è una sorta di medium fra lo spirito e la parola scritta dalla sua penna sotto la guida e l’effetto di un soffio che è proprio la Musa ad inviargli; quel misterioso πνεῦμα ἐνθουσιώδης (pnéuma enthusiódes) che ispirava gli aedi e i rapsodi. E il bellissimo esergo che l’Autrice pone a suggello di tutto il libro è una frase ad hoc di Jorge Luis Borges: «Ogni poesia è misteriosa, nessuno sa interamente ciò che gli è stato concesso di scrivere». Pagina dopo pagina si susseguono quarantacinque poesie, tutte e soltanto rivolte alle Muse (chi, oggi, dedicherebbe un intero libro


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solo a queste figure mitologiche?...). Sono fogli di un diario poetico intimo, delicato, dolcissimo. Un colloquio affettuoso e costante con queste antiche divinità, figlie di Zeus e della Memoria (Μνημοσύνη), che sembrano essere ancora vive, ancora presenti fra noi. Ed è in questo, forse, che consiste la particolarità di questa raccolta lirica a soggetto: le Muse non sono considerate come dive statuarie, astratte e immobili nel loro solenne silenzio millenario. Pur collocate nella loro esatta cornice mitologica, esse sono viste dalla poetessa come tenere compagne, come amiche e sorelle, protettrici e ispiratrici della sua creazione poetica, quasi in ogni lirica in abito diverso, prendendo l’aspetto ora di angeli, ora di fate, ora di leggiadre ninfe. Fra le tante poesie – spesso costruite con versi molto brevi che paiono correre, inseguendosi l’un l’altro, fra i continui enjambements – mi piace citarne per intero almeno una, perché mi sembra poter riassumere in sé tutta l’ingenua, bellissima confidenza con le immortali fanciulle, le quali – dice altrove la poetessa – “fluttuando / tra le onde dello spirito / raggiunsero il nostro umano pensiero”. «Sui libri / le abbiamo viste / eleganti rincorrere / i mortali prediletti, / attingere l’ acqua / alla fonte da esse / benedetta, radunate / in posa attorno al / loro padre Zeus. / In molti hanno / detto che sono / andate estinte oppure / che si nascondono / tra i ruderi della loro / patria, ma a me piace / immaginarle vere / muse coi sandali / correre senza ombra di / ostacoli per le strade / del mondo. Non è utopia, / il rumore dei loro / sandali è lieve se / si porge l’orecchio / al grecale che nel / grembo nasconde le / grida delle giovani Muse / e non è mai tardi / per crederle vive anche / in questo metempirico / terzo millennio» (“Muse coi sandali”, pag. 73). Il volume si completa con un’interessante parte saggistica, che comprende prima di tutto due ampie pagine di critica letteraria: la prima prende in considerazione una silloge di poesie di Antonia Izzi Rufo, non a caso intitolata Quando la Musa è con noi (1999), in cui le divine ispiratrici sono viste come luce in-

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tellettuale e insieme come consolatorio rifugio; l’altra critica, invece, riguarda una raccolta di liriche del compianto Gianni Rescigno, dal titolo Farfalla (2000): simbolo quanto mai appropriato, tanto della gioconda leggiadria della donna amata come della levità fantastica dell’anima e dello stesso pensiero poetante. Infine troviamo un breve saggio, ampiamente documentato, di storia e critica d’arte, su Giorgio De Chirico, il grande artista che mai poté dimenticare nelle sue opere pittoriche l’origine ellenica. La Affinito rileva qui, ed esalta acutamente, soprattutto l’ aspetto cosiddetto metafisico della sua pittura, quella sorta, come è stato affermato, di “scrittura di sogni”, in cui non a caso affiorano ripetutamente bianche statue, colonne e templi. E così si chiude questo libro, dedicato nell’insieme al fascino incomparabile della grecità: una bellezza amata, assimilata e modernamente rivissuta dall’Autrice, con accenti ora luminosi ora malinconici, dove si alternano e si intrecciano costantemente sogno, passione e rimpianto. Marina Caracciolo Isabella Michela Affinito, M’interrogarono le Muse (BastogiLibri, Roma, febbraio 2018; pp. 110, € 13,00). In copertina: lavoro grafico dell’Autrice.

EGOISTA Fraternamente dimezzi il peso della incessante spola. Come in confessionale ci sussurriamo segreti e insieme contiamo le ore del giorno. Ma despota attento - tuo malgrado con timbro di fiamma mi escludi dalle prospere rose. Proprio così: mi tendi la mano per tenermi lontano. Rocco Cambareri Da Versi scelti - Guido Miano Ed., 1983


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GIANNI RESCIGNO IL VECCHIO E LE NUVOLE di Domenico Defelice

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NA delle notizie, che ci dà Franca Alaimo, è che esistono ancora molte poesie inedite di Gianni Rescigno, dalle quali lei ha scelto, a suo giudizio, le migliori, assemblando, così, questa nuova silloge e organizzandola in sei sezioni. Il vecchio e le nuvole - scrive l’Alaimo - rappresenta “una preghiera ininterrotta di ringraziamento” nei confronti del Creatore, ma senza che “mortifichi la dimensione terrena”. Aggiunge, inoltre, che la poesia di Rescigno ha radici che affondano nella propria biografia. Siamo d’accordo, ma precisiamo che il poeta ha sempre saputo elevarla a vicenda generale, universale. Ed è questa la grandezza: scrutarsi e guardarsi intorno, vedendo in sé e nell’ ambiente l’umanità intera e l’intero mondo. “La Vita e la Natura - scrive Marina Caracciolo sono state fin dall’inizio le muse ispiratrici della poesia di Rescigno”. Gianni Rescigno è stato un poeta puro, an-

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che se narrativo, nel senso che egli ha sempre raccontato storie. Non è stato un prosatore, pur avendo scritto due brevi romanzi (Storia di Nanni, 1981 e Il soldato Giovanni, 2011), perché, in realtà, anch’essi appartengono alla poesia, alla prosa poetica. Egli, insomma, ha scritto solo versi; ha dedicato alla Poesia tutta intera la vita, ha trascurato volutamente il resto, critica compresa, pur essendo raffinato e sensibile anche in tal campo, come l’abbiamo potuto costatare nei nostri pochi incontri. Un poeta semplice, nei modi e nelle relazioni, dalla chiarezza quasi infantile, memore che si può penetrare ogni cosa, compreso il divino, solo e soltanto quando si è come bambini. Cristo non ha detto, forse, “Lasciate che i fanciulli vengano a me, perché solo di essi è il Regno dei Cieli”? Poeta semplice, narrante e affabulante. In origine, la poesia è stata intrattenimento, nelle corti e nelle piazze. Venne poi l’interiorità, specie a partire dai primi decenni del secolo scorso, in particolare con l’Ermetismo. Rescigno è tra i poeti che ha ridato alla poesia il suo antico splendore e il suo vero compito: raccontare e in un linguaggio fatto solo apparentemente di quotidianità. In nessuna delle sue opere abbiamo poesia appiattita sull’Io e traslucida, da raggiungersi a forza di lima e di torchio; la lucidità più strizzata possibile, sì da rasentare il vuoto assoluto. Temi fondamentali per questa sua narrazione sono stati l’Amore, la Natura, gli Affetti. L’Amore, naturalmente nei suoi molteplici aspetti. Sono tante le donne da lui cantate, sempre ammantate di pudore, anche quando soffuse di erotismo. Il lettore è stimolato a usare l’immaginazione. In molte di queste splendide e delicate creature si nasconde la sua Lucia; a lei, per esempio, sarà indirizzata, immaginiamo, la poesia “A te lascerò”, alla donna che gli è stata accanto tutta la vita e che oggi ne cura la memoria e alla quale è dovuta la pubblicazione di quest’opera postuma. L’Amore, per Rescigno, è il motore di tutto, per cui, se si dovesse spegnere, morirebbe non soltanto il mondo, ma la stessa divinità:


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“Quando l’uomo strapperà dal cuore la parola amore moriranno tutti i poeti del mondo. Allora Dio preparerà le sue valigie: ci parlerà con i tamburi e le trombe.” La Lucia cantata in Il vecchio e le nuvole ha, oggi, i suoi anni, ma non è scemata per nulla la bellezza di quando, fanciulla, l’ha fatto palpitare: “Ma sei bella più bella di ieri/perché dentro più del sole/ti splende e scalda l’amore.” Amore, Natura, Affetti: elementi universali, tutti legati alla terra e tutti elevati al cielo, i soli in grado di distinguere l’uomo da ogni altra creatura e dalle cose e “finché - come scriveva Foscolo - il Sole/ risplenderà su le sciagure umane”. La Natura è sempre presente, qualunque sia il tema che spinge Rescigno al canto e, in questa silloge, giustamente, la Alaimo le assegna una intera sezione. Ma anche la Fede non si concretizza se non attraverso immagini naturalistiche: Dio si incontra meglio in un “posto appartato”, dove si possa colloquiare “senza parole” e la voce del poeta può essere sostituita assai bene da quella degli usignoli, che cantano nella notte. La Natura è tutto e il poeta stesso si riconosce “semplice creatura/sporca di terra/ e ripulita dal mare”. Terra, acqua e terra, insomma, nella perfetta aderenza alla parabola evangelica. Domenico Defelice GIANNI RESCIGNO - IL VECCHIO E LE NUVOLE - Prefazioni di Franca Alaimo e Marina Caracciolo, Introduzione di Sandro Angelucci - BastogiLibri, 2019, Pagg. 140, € 13.

LA LUCE ETERNA Il viso chiaro che ritorna all'alba, la dolcezza delle guance calde fra le mani, sorriso ingenuo degli occhi fìssi. La leggera celestiale figura dalle braccia che prendono intorno. Riporta la stessa andatura trasparente,

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la ondulata penetrante sua presenza. Immacolata freschezza dell'aria, respiro che s'infiltra per ogni dove. Divina luce sopra le nostre membra prese nell'incastro del ritmo di consumazione. Sopra la nostra struttura che si sconnette e perde i legami, frammentata cade in pezzi. La luce eterna attorno al mondo, sulla superficie della terra che porta i germogli, distrugge i resti frammisti e confusi, sopra le ossa scarnificate che hanno perso l'essere, diviso in parti che se ne vanno, punti di ricordo di una vita finita. La luce che ritorna sopra le nostre miserie, ad illuminare gli angoli reconditi della malinconia piegata sulle ostinazioni che si spezzano, sulle incertezze che irretiscono i movimenti dell'animo. La scintilla che brilla nella mente, che immota di sostanza pura è prigioniera erompente. La forza del contrasto sommuove l'io, lo porta a stati di fremito. Le braccia dall'altare, lo sguardo in alto. Nasce la chiesa per riconfortare l'intimo oppresso, la casa di Dio, spazio che libera la condizione di relegato. La speranza apre il cammino e si allenta la stretta delle sofferte angustie. Leonardo Selvaggi Torino

QUESTE PIETRE Mie queste pietre della via note da anni; gialle di sole, illividite dalle nubi, imporporate dal tramonto, spalmate di grigiore dalla sera, pallide di luna, e vive d’erba; legate alle mie gioie, ai miei dolori. Caterina Felici Pesaro


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Firenze, Aprile 1919: il giovane

F. PEDRINA ASCOLTA LE LEZIONI DEL MAESTRO E. G. PARODI di Ilia Pedrina

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INGRAZIO qui pubblicamente, con vera stima, sia la dott.ssa Fioranna Salvadori dell'Archivio Storico e di Deposito dell'Università degli Studi di Firenze, per avermi messo a disposizione, in supporto digitale, il prestigioso stato di servizio del prof. Ernesto Giacomo Parodi, sia la dott.ssa Giovanna Grifoni, della Sezione Libri Rari e Collezioni speciali dello stesso Ateneo, che mi ha in breve lasso di tempo fornito la scannerizzazione delle carte d'immatricolazione dello studente Francesco Pedrina, figlio di Riccardo e di Amalia Altissimo, di Novoledo, nato il 2 Ottobre 1896 a Torri di Quartesolo (Vicenza), avvenuta il 14 Aprile 1919 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della Regia Un. di Firenze. Il titolo di accesso è la licenza liceale e il Diploma di Laurea N. 1019 verrà conseguito il 21 dicembre 1922. Il suo Maestro, Ernesto Giacomo Parodi, morirà il 31 gennaio 1923, ma in quello studente, a partire dalle sue lezioni e conversazioni, tutto rimarrà intatto, quale preziosa eredità di crescita interiore, di conoscenza dei campi di indagine, sui valori della ricerca storica, filologica, poetica e letteraria della nostra cultura e lingua. Il prof. Parodi nasce a Genova il 21 novembre 1862 e viene approvato dottore in Lettere nell'Università di Genova il 6 luglio 1889, con Diploma del 29 luglio; si passa all'indicazione degli uffici coperti come impiegato dello Stato, con elenco dettagliato, date e stipendio, così trovo al primo accesso il dato 'Professore reggente di Storia' nel R. Liceo di Arpino, con Decreto Ministeriale del 28 ottobre 1888 per l'anno 1888-89 (fino ad ottobre), con stipendio di Lire 1800; passo subito al terzo accesso 'Incaricato dell'insegnamento

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di Grammatica comparata' nel R. Istituto Superiore di Firenze dal febbraio 1892 in poi, e finalmente approdo al punto 4: 'Incaricato dell'insegnamento di Lingua tedesca', con conferma fino al 29 agosto 1893. Eccoci arrivati al 'Nominato Prof. Straordinario di Grammatica comparata' con successive conferme fino al 30 ottobre 1899. Il Parodi verrà promosso a Prof. Ordinario con Decreto reale il 7 Dicembre 1899 e viene accettata la sua rinuncia all'incarico di Tedesco: lo stipendio è di Lire 9000. Nella colonna 'Osservazioni' si legge bene che il Parodi si pone in aspettativa dal novembre 1889 in poi: 'In questo tempo fece un anno di perfezionamento in Germania con Sussidio Governativo'. Ma dove in Germania? A Lipsia, perché lì lavora ed insegna Karl Brugmann: il Parodi ha 27 anni e la passione per la ricerca scrupolosa di fonti e documenti originali segnerà per sempre la vita e dunque la sua opera. Le pubblicazioni infatti si susseguono senza sosta saranno utilizzate come prova per poter concorrere all'insegnamento che più gli sta a cuore: nella sezione 'Titoli accademici e Onorificenze' si riporta 'Libero docente di Filologia romanza nella R. Università di Torino' e poi 'Libero docente di Glottologia classica e romanza nel R. Istituto Superiore di Firenze', informazioni parallele alla colonna 'Pubblicazioni fatte', dalle quali si evince una profonda passione per la ricerca etimologica sui dialetti antichi: Saggio d'etimologie genovesi; Banchieri fiorentini; Saggio d'etimologie spagnole e catalane; Studi Catalani; Dialetti toscani; Röttgen: Vokalismus des altgermanisches (recensione); I riferimenti e le traduzioni italiane dell'Eneide di Virgilio, prima del Rinascimento (1889). Poi, dopo tanto altro, sarà la volta de Il Tristano Riccardiano (1896), la fresca camelia profumata all'occhiello della sua veste professionale. Nell'ultimo foglio due elementi di rilievo: la progressione della carriera fino all'aggiornamento dell'ultimo stipendio annuo in Lire 18500 e la dicitura 'Cessa di vivere il 31 Gennaio 1923'.


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Scrive di lui Alfredo Schiaffini: “Unico riposo e sollievo erano la conversazione e il passeggio con qualche amico o scolaro, di sera o dopo la lezione (tenuta, negli ultimi tempi, dalle due alle tre del pomeriggio), per il marciapiede sinistro di via Cavour, dall'Istituto verso il Duomo, spesso con più d'uno... Ma i colloqui proseguivano la normale inesauribile attività del pensiero... Lungo la vita del Parodi, solo dunque la luce del lavoro intellettuale, ininterrotto e severissimo, nei vari campi che prediligeva e di cui è documento la vasta Bibliografia ordinata dalla pietas e pazienza e sagacia di Gianfranco Folena. Sono però numerose le ricerche ch'egli portava a termine dopo frugato dentro e dintorno, chiarendo ogni particolare anche più minuto o nascosto, senza poi sentire il bisogno di comunicarne i risultati fuori dalla fida cerchia degli amici e degli allievi. E in esse, non meno che nelle continue letture disinteressate, per ardore di sapere o godimento estetico, stava quella che egli medesimo, sorridendo, chiamava la sua pigrizia...” (A.Schiaffini, La vita e l'opera di E. G. Parodi, in E. G. Parodi, Lingua e Letteratura - Studi di Teoria linguistica e di Storia dell'italiano antico, vol. I, Neri Pozza Editore, Venezia, 1957, pp. XIII-XIV) Quello studente nato in provincia di Vicenza, a Torri di Quartesolo, avrà nella mente e nel cuore il ricordo del suo Maestro, portandone alto il messaggio conoscitivo ed investigativo e diffondendo a sua volta, tra gli studenti, passione, professionalità, competenza intorno alle Belle Lettere d'Italia e di Grecia. Ilia Pedrina

VERSO IL MARE Che resta più di un treno per la costiera, e di un cuore che batteva alla vista del mare: così bianco in lontananza? Che resta più delle canzoni, cantate a metà per ignoranza del testo, che fino a poco fa correvano ancora,

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per le scale fuggenti verso la marina? Per favore lasciate stare quella vecchia foto, dove sulle rocce capresi la giovinezza mia si è fermata. Restano di quella magica stagione: tre biglietti di treno, un vestitino di cotone nero a fiorellini rossi, una sorellina piena di capricci, il profumo del mare, le carezze e le promesse; finite tutte poi, come una rosa secca dentro un libro. Salvatore D’Ambrosio Caserta

COMPLEANNO Noi non facciamo gli anni – sono gli anni che ci fanno crescere sognare invecchiare. Siamo comunque giovani quando abbiamo il mondo nelle nostre mani e ancora abbiamo strade da percorrere... Allora la primavera ci regala d'intorno i fiori dei giardini se ancora apriamo il nostro cuore all'amore... Teresinka Pereira USA, Transl. by Giuseppe Napolitano, Formia (LT)

AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 2/3/2019 Paolo Savona ha acquistato 300 copie del suo libro “Una politeia per un’Europa diversa, più forte e più equa”, dalla Rubbettino Editrice. Alleluia! Alleluia! Addio agli Editori puri, oggi ci sono solo stampatori e ogni autore è costretto a comprarsi il proprio libro! Domenico Defelice


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LA POESIA DI

IMPERIA TOGNACCI IN UN SAGGIO DI FRANCESCO D’EPISCOPO di Tito Cauchi RANCESCO D’Episcopo, docente salernitano d’origine molisana, ha svolto attività accademica di Critica Letteraria; giornalista e responsabile di eventi culturali è presente nel panorama letterario italiano e l’incontro con la poetessa romagnola, insegnante, di elezione romana, Imperia Tognacci, non è il primo. Stavolta le dedica una monografia, La Poesia di Imperia Tognacci, e ponendo particolare attenzione alla filologia, dichiara, nel post scriptum, l’intento di proporre “una lettura dall’interno della sua vasta e complessa opera poetica”. Rileva nella Poetessa la “onestà intellettuale, che può ben definirsi esistenziale” di dimensione universale. Traspare subito la sua tesi nel sottotitolo Inquietudine dell’infinito che a sua volta vie-

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ne anticipata, come chiave di lettura, nell’ esergo che riporta alcuni versi tratti da una silloge della stessa poetessa, richiamanti «Accordi per un battito/ d’infinito». Organizza la sua disamina passando in rassegna le singole opere riportando per ciascuna ampi brani; il tutto in tre sezioni: la prima costituita da due volumi, uno in prosa e uno in versi, aventi per oggetto Giovanni Pascoli; la seconda relativa a tre sillogi; e la terza comprendente cinque opere in versi di struttura poematica. Matrice pascoliana - Ciò detto l’Esegeta entra subito in argomento connotando la Poetessa in una Matrice pascoliana, oltre che per i due volumi pubblicati sull’illustre Poeta, anche per alcune ragioni, una di queste è data dall’essere nata nella stessa città, tanto che il Comune ne ha aggiunto il patronimico alla originaria denominazione (San Mauro Pascoli, Forlì); un’altra è per l’ispirazione improntata sulla memoria. Nondimeno D’Episcopo avverte che la Tognacci non ne rimane ingabbiata, bensì ha scelto come guida letteraria fra i suoi auctores l’illustre Concittadino. Pertanto ne seguirò l’ordine, esponendo a grandi linee il suo pensiero. Giovanni Pascoli. La strada della memoria (2002). D’Episcopo rileva come la Tognacci trovi nel Pascoli la fonte memoriale “generatrice di archetipi e di miti”, il sentimento della morte che caratterizzò l’intera vita del Poeta e che altri autori ne seguirono la poetica, “primo fra tutti il salernitano Alfonso Gatto”. La Poetessa è pienamente consapevole che per sconfiggere la morte si deve aggrappare alla vita, riuscendo ad attualizzare, attraverso le sue pagine, il tempo e l’ambiente in cui visse il grande poeta quando poggiava «la sua testa sognante di bambino sulle ginocchia materne» (come racconta la Tognacci). Ed è per ciò che l’Ulisse di Pascoli non naufraga, ma lotta con tutte le sue forze. Il Nostro commenta che “Croce non capì Pascoli, così come non capì d’Annunzio”, ma Francesco Flora, corregionale del Nostro, seguendo la “lezione” del grande critico Giacomo Debenedetti, lo rivalutò. A conferma, già il Leopardi “aveva


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identificato le radici e le ragioni di ogni poesia” nell’infanzia e nell’adolescenza. Odissea pascoliana (2006). In questa silloge la Poetessa grida il suo diritto di esistere “in una dimensione ch proietta il nudo presente in un illusorio futuro”. Rinverdisce l’allora piccolo paese di San Mauro facendoci gustare i sapori e i profumi della terra; altresì riesce ad animare un dialogo tra il Poeta e un compagno di lotta politica, ciò fu causa di problemi giudiziari. Offre in tal modo un esempio di libertà e di umiltà di vita quotidiana. Sillogi poetiche - La notte di Getsemani (2004). Imperia Tognacci “mira a recuperare […] l’intima e intensa umanità di Cristo, in vista di una palingenesi del mondo, affatto metafisica, ma concreta” (pag. 23). Ricrea un’ambientazione biblica del rapporto di figlio e padre nel momento cruciale, anche a sua misura di donna nella visione della madre. Così è nella gestualità di Cristo a proposito della condivisione del pane e del bere il vino, dell’essere in mezzo alla gente nella festa delle palme. La Poetessa in queste animazioni si rivela profetica. Natale a Zollara (2005). Il Nostro avverte che “la silloge inizia dalla propria terra”, evidenziando la “metaforizzazione esistenziale” degli elementi reali del quotidiano (terra, tegole, semi), che si mettono in relazione con gli elementi del suo animo, fra cui il pensiero “della sorella amatissima”. La Poetessa, nella sua dimensione femminile, anela una quiete che la riporti al suo luogo dell’anima, perciò si rifugia nel ricordo dei profumi e dei sapori con i quali sua madre allietava la casa; segni tutti questi che si rapportano alla semplicità della vita, al calore degli affetti, che rivelano l’alto senso morale, in contrasto con la vita metropolitana.

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L’humus è di “matrice pascoliana” (per collegarci a quanto detto più sopra) e in ciò avviene un rimescolamento di identità, sotto un velo che non lascia trasparire molto, in cui c’è l’ombra della morte (il fiume non dragato, la brina del mattino): Pascoli, la madre, la sorella. Ritroviamo il “viaggio” nel desiderio di volare, di andare “oltre”, nella “consueta contaminazione” e consustanzializzazione “di una dimensione biografica con un’altra poetica ricca di richiami e densa di intersezioni semantiche”. Segno, tutto ciò, di raggiunta maturità tecnica ed espressiva di Imperia Tognacci. Un “oltre” che la trasporta a Zollara, nella stessa provincia, luogo delle vacanze, dai nonni; vedeva il nonno entro una nuvola di fumo di sigaro, il padre su una bicicletta traballante. Si evocavano la vendemmia, le feste popolari e la sorella maggiore che le raccontava dei «fantasmi di guerra»: l’humus della terra si trasferisce nei suoi pensieri. La porta socchiusa (2007). Francesco D’ Episcopo chiarisce subito che il titolo deve essere inteso non nel senso di chiusura, bensì di apertura, in quanto la chiusura è riferita all’animo sigillato alla bontà. Difatti nelle sette sezioni in cui si articola, vi è un disegno in cui il dialogo con Dio “si fa incalzante, serrato”, è un continuo rinnovarsi di una storia biblica cominciata con Caino, come avverte il Nostro. E sempre su questa scia dialogante avviene un “confronto incontro-scontro” tra Imperia Tognacci e Dio in un alternarsi di sfumature sottili che si celano nella sua perizia espositiva (p. es. allitterazioni e anafore), stavolta in un rinnovamento miracoloso dell’ umanità, sopraffatto però dalla rivincita che si riprende Caino. E la Poetessa continua a chiedersi dove cercare Dio pur attratta da «quell’orizzonte/ che irradia luce pura, abbattendo/ mura che egoismo e paura/ continuano a innalzare.» È come vedere Cristo avvolto da un «lenzuolo di lino» evocatore del suo sacrificio ignorato o quasi dall’uomo. Infine la Poetessa attraversa la porta di luce offerta dalla fede. Opere poematiche - Il prigioniero di Ushuaia (2008). Il titolo di questa opera


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poematica si ispira al dettato interiore di un anonimo prigioniero nella città di Ushuaia, in Argentina. L’immedesimazione di Imperia Tognacci è stringente e si sviluppa in venti composizioni che il critico Francesco D’ Episcopo passa in rassegna. Parafrasando, sintetizzo come segue. Il prigioniero si rivolge alla madre (e la Poetessa fa lo stesso), cerca di combattere il taedium mundi (p.es. con i libri), ma non riceve riscontro, tutto tace e si arresta, il prigioniero non trova sfogo (come lei ‘prigioniera’), con il pensiero va alla sua terra (e la Poetessa va alla sua Romagna), identificandosi con la sua natura, ove il gelo della cella attanaglia il prigioniero (e quello della neve si posa sull’ anima di lei), un gelo sempre più intenso fatto di pene, vuole dare conforto al prigioniero (e a se stessa), ne consegue la confessione intima del proprio dramma, la narrazione finisce per confondere le due identità (prigioniero, prigioniera) per assurgere a dimensione universale, la sofferenza si aggrava di ulteriori catene, si aspetta la notte nella speranza che il pensiero cosmico offra una navicella aerea, il viaggio si svolge in una dimensione onirica che trasmuta in bene il male, un’impresa che lascia solo il prigioniero e relega nella solitudine la Poetessa, stavolta è lei a confessarsi, assistendo al volo minaccioso dei condor, riesce novella argonauta a trionfare grazie alla poesia. Il lago e il tempo (2010). Francesco D’ Episcopo, proseguendo la sua disamina, commenta che “anche qui, molteplici sono gli orizzonti esistenziali ed espressivi” che Imperia Tognacci affida al fluido come liquido amniotico che la partorisce (mia metafora). Il cordone ombelicale, mai del tutto reciso con la madre, la trasporta nel fluido delle parole; le quali, nella poesia lo diventano ancora di più. Se il lago presenta la sua faccia (superficie) in una parvenza di quiete, in profondità le sue acque sono in continuo sommovimento. Torna bambina, accarezzata dalla madre, assapora odori e sapori di cucina, gode del colore e del profumo dei fiori. I pensieri si moltiplicano ad un ritmo cadenzato dello sciabordio e scandiscono il tempo. Le leggere ondu-

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lazioni richiamano quella dei prati dove bambina correva allegra. E nel gioco dei ruoli il tempo l’accompagna nella sua maturazione di donna fino a sentirsi madre. La sua inquietudine si rivela nella prospettiva dell’eternità. Il richiamo di Orfeo (2011). Il Nostro rammenta che “Orfeo, con Lino e Museo, è considerato uno dei primi vati dell’umanità”; e Imperia Tognacci, consapevole della sua funzione, prende su di sé il compito salvifico della poesia, come fece Orfeo con il suo canto. La voce si carica della forza di senso come in Pablo Neruda per contrastare le contraddizioni del nostro tempo, per frapporsi alle avversità, come fece Orfeo per amore. Questa è “silloge sicuramente suggestiva, per la capacità di evocare miti e realtà profondamente congiunti tra passato e futuro, nonostante le stentatezze di un presente ambiguo e incerto”. E la Poetessa, ancora una volta, sottostà all’inquietudine dell’infinito scrivendo: «La poesia, col bianco peplo,/ accarezza morbide onde, sfida/ il tarlo del tempo.» Nel bosco, sulle orme del pastore (2012). Il bosco è preso a modello sia della potenza della natura, sia a metafora di un inestricabile mistero che tiene prigionieri e che suscita inquietudine infinita. Imperia Tognacci, come un’antica Sibilla cumana, interroga le foglie secche, come fossero le anime dei defunti, per conoscere il futuro. E Francesco D’ Episcopo osserva che come avviene “nella migliore tradizione umanista, la poetessa non può non incontrare un pastore, l’antico Aristeo” in cui si identifica e si sdoppia in un rapporto dialogante. La natura nelle sue molteplici forme, è sì rassicurante, ma anche malvagia; difatti: «Infida,/ la serpe uccide l’ agnello,/ il precipizio è trappola mortale». Sotto questo aspetto ci fornisce una chiave di lettura nella duplice dimensione umana e co-


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smica in “un fraterno abbraccio universale, anch’esso pascoliano, l’emigrante, il diverso”. Là, dove pioveva la manna (2015). Francesco D’Episcopo, annota da parte della Poetessa “l’esigenza di raccontarsi, di rappresentarsi, nella maturità di una poesia”. Questa volta ha scelto il deserto come luogo della sua inquietudine infinita, un luogo dove isolarsi, staccarsi dalla metropoli opprimente. Luogo metaforico e “metafisicamente surreale”, nel deserto (in Giordania) si è eretto un santuario scolpito sulla roccia, Petra, oggi divenuto luogo di pellegrinaggio turistico. Luogo di memoria di “possibile matrice leopardiana”, che riflette un aspetto del deserto della sua anima. Ancora una volta Petra assume la dimensione di un vaticino delle genti del passato e del presente. Titoli marcatamente metaforici - Grazie a Francesco D’Episcopo abbiamo potuto avere una panoramica delle opere, sebbene non esauriscano la produzione letteraria di Imperia Tognacci. Difatti mancano la silloge Traiettoria di uno stelo (2001), e i tre romanzi Non dire mai cosa sarà domani (2002), L’ombra della madre (2009), Anime al bivio (2017), per scelta dell’Autore, che riporto dalla bibliografia, anche per evidenziarne la pressoché costante creazione letteraria, a beneficio del lettore. La Poetessa è stata oggetto di una precedente monografia, segno dell’ interesse suscitato nel critico di vaglia Luigi De Rosa (2014). Aggiungo che da parte mia ho avuto il piacere di leggere tutte le opere della Poetessa e perciò esse mi sono familiari, nondimeno una seconda lettura offre aspetti sotto nuova angolazione; perciò può darsi che sia stato condizionato dalle mie precedenti acquisizioni. Nelle sue opere si compiono viaggi nei luoghi della memoria già presenti nei titoli, sono geografici: Getsemani, Zollara, Ushuaia, Petra; e metaforici: la Porta, il Lago, il Bosco; a parte in nome di Pascoli, il solo nome usato di persona seppure mitologica è quello di Orfeo, compagno di viaggio. Ricordiamo che Orfeo tentò inutilmente di strappare la sposa

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dalla morte e questo costituisce un monito per i mortali, perché sta a ricordarci che non è possibile riprenderci i nostri affetti; in ciò vediamo una “matrice leopardiana” dal sapore di una solitudine infinita che solo la poesia sa colmare; e forse anche una ‘matrice foscoliana’ del conforto attraverso la memoria. Tito Cauchi Francesco D’Episcopo, LA POESIA DI IMPERIA TOGNACCI, Inquietudine dell’infinito Genesi Editrice, Torino 2019, Pagg. 96, € 11,00

VA….. a Livio Va, cavalca il tramonto Che si dirama nel rosso. Attendi quando il buio accende Tutte le luci del possibile E scegli quella che al tuo arrivo Pulsa la sua emozione. Lui è là, portagli le parole non dette, quelle di ogni giorno, dove gli anni son battiti di ciglia. Parlagli dell’abbraccio nel vuoto Che riempio del suo ricordo, perché il tempo non esiste se non vuoi, il tempo è quello suo, quello di eterna espansione dove si abbraccia l’universo. Torna con il suo sorriso Con la carezza più pura, perché possa illuminarmi come mi illuminò e mi illumina. Essere così lontani, eppure così vicini… Perché l’amore davvero Non trova confini o barriere, né vi è il tempo Che contenga il tempo dell’infinito Wilma Minotti Cerini Pallanza-Verbania, VB ( giugno 2016 )


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QIN CHUAN di Domenico Defelice

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ENTRE scriviamo, il Presidente della Cina, Xi Jinping e della consorte Peng Liyuan, sono in visita nel nostro Paese. Sono giunti accompagnati da più di cinquecento uomini dello staff e da un nugolo di giornalisti: incontri con il nostro Presidente della Repubblica Sergio Mattarella; con il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte; con i Presidenti della Camera e del Senato della Repubblica; visita a palazzi e monumenti; firma di documenti importanti. I rapporti tra Italia e Cina sono buoni e ottimi sono pure gli scambi economici e culturali. Continuo è l’interesse della stampa italiana per scrittori e poeti cinesi e in Cina c’è interesse per l’Italia e la sua cultura, tanto è vero che, in molte scuole cinesi, si continua ad insegnare anche la lingua latina. Pomezia-Notizie, nell’ambito culturale, ha fatto sempre la sua parte e anche in questo numero presenta un poeta di quella sterminata nazione. Famoso poeta contemporaneo cinese, Qin Chuan - il cui vero nome è Wu Xiaofang - è

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nato in Anqing City nel 1971, in provincia di Anhui. A metà degli anni ’80, con i genitori si è trasferito nella provincia di Jiangsu. Adesso è direttore del “North American Association” del “Sino-Western Cultural Communication” canadese e collaboratore associato editore del “World Poets Quarterly” (multilingual). Nel 2012, ha ottenuto il “Naji Naaman’s literary prize rrom Lebanon”. Ha pubblicato l’ antologia poetica “Aria of Adonis” (cineseinglese). Ora vive nello Xinjiang. Di lui presentiamo due liriche nella traduzione inglese dovuta a Zhang Zhizhong e nella nostra libera versione in italiano.

Sunrise on Yellow River (and another poem) Sunrise on Yellow river again. Sunrise on Yellow river has been ever nice Don’t you get up? Your green military uniform, I’ve got ready for you. O, boy! Is last night’s wine of Loess Plateau sweet? But your smell has ever been nice. I don’t what to let you know how sweet your smell is. But I still want to tell you, pretending to do it unwittingly. Sunrise on Yellow river has ever been nice. But how can it compare With your wee smile when you open your sleepy eyes. Chang’an Lad, Tomorrow you will return to Military Camp You come back to Chang’an, and then shine more. My Chang’an Wearing green uniforms, you are the handsome young man And the spring breeze in the North, who bring the brilliant sunshine


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How I wish give one more glance, a soft wipe the wind –blown Face and a good rub of your exhausted body for you Again get myself into your arms, Cuz you will go back soon Oh my lad, Under Chang’an sky Could I tighten your waist girdle And take a leaf on the edge of your sock? Tomorrow is coming, let me stay a moment longer in your arms And remember your looming ripple on the eyelid and a slight lifting at the corners of his mouth Only to wait for a new sun rise, everything praises its blessing of beauty

ALBA SUL FIUME GIALLO Alba nuova sul Fiume Giallo. L’alba sul fiume Giallo è stata sempre bella Non ti alzi? La tua divisa verde militare è pronta. Oh, ragazzo! Dolce è il vino della notte scorsa di Loess Plateau? Ma il tuo profumo è sempre stato bello. Non so come farti sapere quanto dolce è il tuo profumo. Comunque, voglio ancora dirtelo, fingendo di farlo inconsapevolmente. L’alba sul fiume Giallo è stata sempre bella. Però, giammai potrà venir paragonata Al tuo piccolo sorriso allorché tu apri gli occhi assonnati. Un impasto dolce di natura, ricordi, affetti. L’alba radiosa, che spunta sul grande fiume; la pesantezza del sonno che preme ancora le palpebre del ragazzo, appesantite, forse, dalla sbornia di un vino caloroso e forte di Loess Plateau; una notte, forse, di gozzoviglia. L’alba è splendida, ma mai quanto il sorriso

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tenue del ragazzo, mentre tenta di aprire gli occhi assonnati. Natura ed essere umano sullo stesso piano; non esiste scarto tra l’amore verso le due entità e a dominare è uno strano deliquio, soffice è dolce e tenue come quelle nebbioline impalpabili che si alzano dalle acque nei mattini sereni. CHANG’AN, DOMANI SI TORNERÀ AL CAMPO MILITARE Torni a Chang’an e poi brilli di più. Mio Chang’an Indossando verdi uniformi, sei l’uomo giovane e bello La brezza di primavera nel Nord, che reca il sole splendente. Vorrei dare ancora una maggiore occhiata, una lieve asciugata morbida il vento-fiorito Volto e una buona stropicciatina del tuo corpo per te esausto Mettermi ancora nella tue braccia, Cuz perché tornerai presto. O mio ragazzo, sotto il cielo di Chang’an Potrei stringere la tua cintura in vita E prendere una foglia sul bordo del tuo calzino? Domani sta arrivando, lasciami ancora un momento tra le tue braccia e ricordare la tua increspatura incombente sulla palpebra e un lieve sollevamento agli angoli della bocca Solo per aspettare un nuovo sorgere del sole, tutto loda della bellezza la sua benedizione In entrambe le poesie, si accenna alla vita militare. In “Alba sul fiume Giallo”, abbiamo la “divisa verde militare”; in “Chang’an…”, vi troviamo addirittura il Campo. L’amante, “giovane e bello”, diventa più luminoso nella lontananza. Domani dovrà ripartire, ma, allora, quando non potrà più essere ammirato e toccato materialmente, son le metafore a renderlo grandioso e sovrastante come una divi-


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nità, trasformandolo in “brezza di primavera” e desiderio: un corpo esausto da asciugare e stropicciare delicatamente come la carezza di un “vento-fiorito”. Così, il ripensarsi stretto dalle braccia amate, diventa più intenso che nella realtà. Sì, “tornerai presto”, perché il sogno si rinverdisca e non abbia mai fine. Anche qui la fusione tra uomo e naturaambiente è forte: l’uomo giovane, il campo (“Mio Chang’an”) sono una sola cosa. Domenico Defelice

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PROFUMO DI ZAGARA Profumo di zagara in questo giardino di aranci, limoni e mandarini, un allegro ricordo scivola via dal cuore e il profumo che respiro mi fa rabbrividire, perché non è lo stesso di quello che ho lasciato in quel luogo d'incanto che non ho mai scordato. Il profumo, il colore e il sapore degli agrumi siciliani è solo in Sicilia e nessuno mai lo può uguagliare, gli altri profumi sono un surrogato che dobbiamo accettare perché ogni volta, ci riportano nella nostra Sicilia. Le arance si nutrono di sole, di sole sono colorate e portano dentro gocce di sole che regalano salute e allegria, le stringo forte per farmi passare la terribile malinconia di trovarmi lontano da quel luogo tanto amato di dove son nata. Giovanna Li Volti Guzzardi Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori (A.L.I.A.S.)

APPENA IL BUIO MIRBELIA SPINOSA Un didietro arcuato sembri e con grossi genitali Mirbelia spinosa. Teneri glutei i tuoi petali di giallo vellutato ed ombra che corona il sesso il rosso sinuoso. Visione conturbante quando ti penetrano le api. Domenico Defelice

Andate a prendere le stelle del carro ogni sera ci dicevano quelli che avevano pianto lacrime e sangue. E noi per tutta la vita abbiamo creduto d’essere creature dell’azzurro anime su impalpabili strade appena il buio spalanca il cielo ai nostri sogni. Gianni Rescigno Da Il vecchio e le nuvole - BastogiLibri, 2019.


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PIÙ VIVA CHE MAI LA POESIA DEL SALERNITANO

GIANNI RESCIGNO (1937-2015) Esce un suo libro postumo, a cura di Franca Alaimo, Marina Caracciolo e Sandro Angelucci (“Il vecchio e le nuvole”). di Luigi De Rosa

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ONO passati (volati) circa quattro anni da quando, nella notte del 13 maggio 2015, la vita terrena di Gianni Rescigno, maestro elementare e poeta, si spegneva improvvisamente, lasciando nella costernazione la moglie Lucia Pagano e la Famiglia tutta, e suscitando un coro di rimpianti e rievocazioni nella folla di amici poeti e scrittori che si era procurato in una vita intera con le sue appassionanti poesie e col suo temperamento gentile e generoso. Ho avuto la fortuna di scrivere un libro sull'intera sua opera poetica (composta di 23 sillogi, da “Credere” del 1969 a “Un sogno che sosta” Genesi Editrice, Torino 2014). La monografia, dal titolo “La grande poesia di Gianni Rescigno”, era già in preparazione da tempo ma è uscita nel 2016, sempre per i tipi della Genesi. Nella “Premessa” concludevo con le seguenti parole: “Gianni Rescigno non morirà

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mai. E non solo per la persistenza del suo spirito nell'Eternità. Egli resterà vivo anche su questa Terra nella memoria e nel cuore non solo dei suoi cari, ma anche dei suoi lettori e degli studiosi, tramite una fiorente produzione poetica dal 1969 al 2014 e oltre. E' per me un onore potermi unire a quanti lo hanno ricordato e lo ricordano, accostando la mia modesta voce a quella alta, inarrivabile di Giorgio Barberi Squarotti, per non dimenticare gli scritti preziosi di Franca Alaimo, Marina Caracciolo, Sandro Angelucci e molti altri. Intanto anche durante gli anni successivi al 2015 hanno continuato ad apparire sulla rivista “Pomezia-Notizie” poesie di Gianni. Ma soprattutto – ed è una bellissima iniziativa – è uscito nel gennaio 2019, per la BastogiLibri di Roma, un importante libro postumo: Gianni Rescigno, Il vecchio e le nuvole. Un'opera che va ad allungare la scia luminosa finora tracciata dai versi del poeta campano. Un libro con due Prefazioni, una di Franca Alaimo ed una di Marina Caracciolo. A queste si aggiunge un'Introduzione a firma di Sandro Angelucci. Il nuovo libro contiene 108 poesie sapientemente raggruppate in sei “Sezioni” individuate sulla base delle principali tematiche della lirica rescignana: I Poeti, Legami d'Amore, Il tempo dell'Attesa, la Natura, la Fede, Memorie. Quanto ai poeti, Franca Alaimo ha posto in rilievo che “Rescigno sentiva il valore della comunità dei poeti, allacciava forti legami affettivi con quelli che più ammirava, lasciava nel cuore un sentimento di gioiosa condivisione; Era sapientissimo ed era un bambino, e sapeva amare e farsi amare.” Secondo Marina Caracciolo “Rescigno conosceva molto bene il potere della poesia,


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sapeva che senza di esso la realtà sarebbe piatta e spenta, senza vita e colore. I poeti – come egli dice - hanno occhi che vedono oltre ciò che si può vedere e sanno pure trasformare il ferro in oro. I poeti sono i più grandi maghi e alchimisti della terra”. Quanto a Sandro Angelucci ci ricorda tra l'altro che “Quanto il poeta mi rivelò è l'esatta riprova che lo scrittore britannico Keats aveva ragione: “con la stessa naturalezza “ con cui nascono le foglie sugli alberi, così viene alla luce la creazione poetica. Per poi aggiungere che se ciò non accade, non ha senso ritenerla tale; non ha senso che “nasca neppure”, ed è meglio, molto meglio per tutti”. Ma lascio l' ultima parola all'Autore del libro, al Poeta che pur essendo fisicamente scomparso da circa quattro anni, rimane più che mai in mezzo a noi: “Quando non uscirà il sole Quando per me non uscirà più il sole dovrò dimenticare gli alberi e le foglie le corse delle nuvole nel vento di scirocco e il rincorrersi delle onde alla battigia.

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le macchine sbucherebbero pure di sotto le gambe: meraviglia sbalordita, sei rimasto dimentico e assente. Arido spazio di fuori e delle case che l'ampia serenità cultrice della mente toglie agli studi, sempre in mezzo gli uomini automi la vuotaggine a vendere cara, intrusi millantatori mai discostati, rasenti il muro coi pensieri fervidi opponendo le idee feritrici libere i fatti veri di dire forte prominente il petto. L'animale che ha posizione innalzata è l'uomo accanto distratto dagli interessi, troppa fretta per venire alla tua gentilezza, fermarsi davanti al cuore aperto. Per sentire quelle parole scritte su tante pagine che si sfogliano vissute nel romanzo della vita. Oggetti parlanti accodati al supermercato carichi di grossi intestini, alcuni vedo di altra forma sento l'odore umano e mi avvicino, cane sbandato con attento fiuto ricercando le poche somiglianze rimaste. Leonardo Selvaggi Torino

CERTA COMPAGNIA Chissà quale altro sole mi riscalderà il cuore mi asciugherà il pianto d'amore che per anni si mescolò al sangue mentre guardavo il cielo”. Luigi De Rosa

SEMPRE IN MEZZO L'uomo odierno vede l'esterno del vestito, lo sguardo fisso maligno. Giri quasi fossi entro le liane di una foresta passando per le piene strade cittadine. Preso dalla mano ragionatrice non è dato di stare ritto al centro dell'asfalto,

Cerco compagnia fra le persone, nella natura che m’incanta coi suoi quadri di bellezza, in vari libri, che mi portano nei mondi che contengono. Mia compagna la musica; nelle intense emozioni che in me suscita si dissolve il quotidiano che mi tiene prigioniera, trovo ali pe giungere ad altezze. Compagno il mio scrivere nel quale libero il mio interiore mondo. Caterina Felici Pesaro


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VERSI DELL'ANIMA, PER RICORDARE EDOARDO di Ilia Pedrina

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OLEVA essere solo Edoardo, perché gli Agnelli, lui, non li aveva né li voleva nel sangue, ma la bellezza della mamma Marella si, lei collo di cigno, lei principessa Caracciolo, lei dalle terre d'una antichissima Napoli appassionata: quella Bellezza si, quella voleva nell'Anima. Uno splendido cigno, dalle ali spezzate, nel vento del precipizio, senza timone che possa fendere l'aria, rassicurando il percorso. Il 15 novembre 2000, al mattino, dal Ponte R. Franco, lungo la Torino-Savona all'altezza di Fossano, chiamato 'Ponte dell'Angelo o degli Angeli', i suoi occhi, forse già spenti, si sono chiusi per tutti. Lui, Edoardo, due anni prima, alla morte dell'amato cugino Giovannino aveva severamente giudicato la fretta 'amministrativa' nel rimpiazzarlo in azienda. Trascrivo: “... Colpiva di Edoardo il modo come nelle interviste parlasse bene del padre. Quando due anni fa sul Manifesto attaccò la Fiat, perché aveva nominato troppo in fretta un sostituto di Giovanni Alberto Agnelli nel consiglio di amministrazione, salvò il padre. Disse: 'Non si nomina un ragazzo (il nipote

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John Elkann, figlio di sua sorella Margherita, ndr) pochi giorni dopo quella morte. È un gesto offensivo per la memoria di mio cugino. È una caduta di stile decisa da una parte della mia famiglia, nonostante e contro le perplessità di mio padre'. Il padre, quella volta, non lo riconobbe. Lo ha riconosciuto stavolta...” (Renato Farina 'E sotto il ponte di Fossano l'Avvocato s'inchina, Libero, 16 nov. 2000, pag. 3). Semplice e sincero il canto a lui dedicato: Poesia Poesia poesia sembra che non ci sia Poi ritorni a caso a quand'eri bambina. Tu. Tu correvi cantando sorridevi per niente E potevi volare Tutto questo era Poesia. Poesia poesia sembra che non ci sia Poi ti prende la mano E ti porta lontano Con lui. E non sei più bambina Non sorridi per niente Scopri d'essere donna Tutto questo è Poesia. Poesia poesia sembra che non ci sia Poi ti svegli una notte E vorresti parlare Con lui. Gli vorresti spiegare Che non sai cosa dire Ch'è finito l'amore Ma in fondo anche questo è Poesia. (R. Cocciante - M. Luberti - A. Cassella, Poesia – Edoardo Agnelli, in rete) Versi dell'anima, perché Edoardo possa farsi capire, anche dopo il suo passaggio materiale su questa terra. La parola poetica ha sempre confini sfumati che talora approdano alla spiritualità, forte carisma alternativo, come in questo caso, alla fama di famiglia, alla fame di successi, nel potere economico, finanziario, industriale della Fabbrica Italiana Automobili Torino.


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Colgo in rete le parole del grande studioso italiano del misticismo Sufi, Gabriele Mandel (Bologna 1924-Milano 2010), che ha tradotto e curato la pubblicazione Trecento quartine di Jalàl alDìn Rùmì, con le Edizioni dell'Università islamica-Coopli di Milano nel 1986: Ispirazione Dio Tutto sfuma nel tempo e tutto passa: i gusti i segni i simboli e la paura che ci induce a fare. Tutto si fa nel tempo e con il tempo tutto si disfa. Unico rimane il colloquio dell'anima con Dio. Non ha spessore e quasi non ha senso, non ha legami e quasi non s'avverte ma per me è l'Universo, se per simbolo e per parole e segno e simulacro ha l'amore per Dio. (Gabriele Mandel, Ispirazione, sito di Gianfranco Bertagni, in rete). C'è un tempo per il pane, i saltimbanchi e quelli che pagano per vederli, e c'è un tempo per la riflessione sui fatti storici, per la meditazione che guida ed illumina il cambiamento, nella Persona e nelle sue scelte che poi diventeranno fatti storici. La meditazione porta distinzione spirituale e distanza, nell'essere a disposizione dei bisognosi e nel restare minimi rispetto all'Assoluto. Di questo ha fatto esperienza Edoardo Agnelli ed ha scelto di essere solo edoardo. Le ali della sua anima, candido cigno regale, si ricompongono perfette nel limpido volo. Ilia Pedrina

ORVIETO Quando partimmo l’aria già lanciava segnali. Già raccontava la mattinata di un cielo di azzurro quasi turchino, intagliato dal tenero verde di sconosciute colline. Sapevo, in racconti, del frullio degli angeli, percepito adesso in quell’aria tersa

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silenziosa di vento. Dormivano le bimbe nel tiepido sole del finestrino. Restava da seguire il labirinto di strade tra pietre di secolari edifici, silenziosi paladini della luce e dell’oro che, allo sbocco dell’ ombrosa via, blocca il respiro. Triangoli e merletti fermi nel tempo, immobili, unici come l’aria di quella mattina. Restava, adesso, passare il bronzo di Greco*, per continuare ancora a farsi stordire. Entrare nel fresco che sapeva d’incenso, stupire dei raggi di sole le madonne ferire. Salvatore D’Ambrosio Caserta *Emilio Greco l’artista che ha realizzato le porte in bronzo del Duomo

UNA ROSA Quella notte la rosa è caduta, strappata con violenza. Il suo sangue scorreva veloce sulla terra. La luna illuminava la terra arida che avidamente lo succhiava. Petalo dopo petalo quella rosa divenne nera e il mio cuore intonò le note della sua triste canzone. Manuela Mazzola Pomezia, RM

È in uscita, presso la Genesi Editrice di Torino, l’ultima e <<spumeggiante>> - com’è stata già definita dall’Editore - raccolta di versi di

DOMENICO DEFELICE LE PAROLE A COMPRENDERE L’opera, di circa 130 pagine, sarà in vendita a € 14,00 a copia, avrà la Prefazione di Sandro Gros-Pietro e l’<<affettuosa e magistrale testimonianza del grandissimo Emerico Giachery>>.


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I PRATI DEL POPOLO ROMANO di Manuela Mazzola

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UNGO la via Caio Cestio al numero 6, nel Rione di Testaccio a Roma, c'è un cancello con una targa su cui è riportata la scritta “Cimitero Acattolico per gli stranieri”. Il terreno è a ridosso di due antichi monumenti: la Piramide di Caio Cestio che risale al 12 a.C. e le Mura Aureliane con la Porta Ostiensis del 270-275 d.C. Entrando nell'antico cimitero, mi sono ritrovata in un angolo di Roma che pochi conoscono: un piccolo appezzamento di terra con cipressi e pini marittimi; quel giorno c'era molto vento, tanto che riusciva a piegare qualsiasi cosa, ma non il marmo delle lapidi, fermo, immobile ed eterno, come le storie che racconta attraverso sia le scritte sia le statue che ne sono nate. Quel giorno tra il vento che tirava impetuoso e gli oggetti che volavano in tutta Roma, si comprendeva perché l'artista abbia utilizzato proprio il marmo per le sue opere; con il marmo rendi immortale la vita di cui narri e se l'esistenza di ognuno di noi è passeggera, l'opera d'arte riesce a inscriverla nelle griglie dello spazio e del tempo. L'arte in generale, ma in questo caso la scultura, permette ai viventi di venire a conoscenza di chi ha vissuto prima di loro e di sfiorarne quasi l'essenza. Nella parte nuova si trova una statua, chiama-

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ta l'Angelo del dolore, che è un capolavoro di William Wetmore Story (1819-1895), scultore americano che lo fece in memoria di sua moglie Emelyn e del loro piccolo figlio Joseph; è stata eretta nel 1894 poco prima che lui morisse. La scultura è considerata la più bella e la più famosa del cimitero. L'angelo, che è inginocchiato sopra un piedistallo, ha la testa appoggiata sul suo braccio e piange; la fattezza delle dita della mano è minuziosa e particolareggiata ; si può osservare da vicino la delicatezza dei fiori disseminati alla base del piedistallo e la morbidezza dei piedi che calzano semplici sandali e quella del drappeggio della veste; in ultimo le ali, ricurve sull'angelo, che restituiscono la pesantezza di un dolore straziante dovuta alla perdita non solo dei cari, ma della speranza stessa. Il monumento è diventato un modello che è stato copiato in tutto il mondo, soprattutto negli Stati Uniti. Passeggiare tra una statua e l'altra, tra un'opera d'arte e l'altra è stato commovente. Quella zona era chiamata, tra il XVIII ed il XIX secolo, “i prati del popolo romano” poiché, essendo proprietà pubblica, i cittadini romani vi pascolavano il bestiame e ci andavano per svagarsi. L'inizio dei lavori di costruzione del cimitero risalgono al 1716, dopo che il Sant'Uffizio deliberò nel 1671 che i signori non cattolici potevano essere sepolti separatamente dalle prostitute e dai peccatori, cosa che era avvenuta fino ad allora nel cimitero del Muro Torto. Il permesso fu concesso da Papa Clemente XI per i membri della Corte Stuart, che erano in esilio a Roma e provenivano dall’Inghilterra. Più tardi il permesso fu allargato anche alle persone non cattoliche. La più antica tomba è di George Langton , i cui resti vennero alla luce durante gli scavi fatti nel 1929. Nel 1803 fu sepolto il Barone Friedrich Wilhelm von Humboldt, ministro della Prussia e suo figlio Wilhelm dell'età di nove anni. Tra il 1738 e il 1822 trovarono sepoltura più di sessanta persone. Il Papa concesse, poi nel 1821, un lotto di terra, accanto al cimitero, nel quale venne costruito un muro perimetrale, che ospitò il Nuovo Cimitero. Nel


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1910, un accordo formale con il Sindaco di Roma, Ernesto Nathan, stabilì che il Cimitero era culturalmente importante e degno perciò di speciali salvaguardie; infatti, nel 1918 fu dichiarato Zona Monumentale d’Interesse Nazionale. Dal 2011 la gestione è affidata alle rappresentanze straniere. Lo stile del cimitero è anglosassone poiché non vengono riportate foto sulle lapidi, vi sono i cipressi ed il prato verde e vi è anche una colonia felina; difatti i gatti che abitano il cimitero sono seguiti, curati e liberi di muoversi tra le tombe. Ci sono sepolti gli stranieri acattolici, ma anche illustri italiani considerati per qualche motivo stranieri nella propria patria, come ad esempio Antonio Gramsci che era sposato con una donna russa e molte altre persone di religione diversa: greco-ortodossa, russoortodossa, ebraica, islamica e cattolica; inoltre, vi sono sepolti molti giovani che dopo aver terminato il Gran Tour, morirono a Roma per motivi differenti. Il cimitero è stato iscritto dal World Monuments Fund nella World Monuments Watch List, cioè un elenco dei cento siti mondiali più a rischio. Entrando nella parte più antica del cimitero mi sono trovata davanti una distesa di prato pieno di margherite in fiore, qualche ciuffo di violette sparse qua e là ed alcune panchine; sedendosi proprio su una di queste, si possono ammirare la Piramide Cestia e la Porta Ostiensis; è un posto eccezionale perché intriso di storia, ma anche un luogo tranquillo tra cipressi e pini che accoglie le spoglie di molte persone; quel giorno, nonostante il vento, alcune persone erano sedute sulle panchine a leggere un libro ed alcuni gatti erano acco-

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vacciati al sole, intenti a fare le loro pulizie quotidiane; una grande parte di visitatori si dirigevano all'angolo del cimitero, accanto alle mura. Lì c'era la tomba di un poeta di grande talento e proprio in quel giorno ricorreva la sua morte avvenuta il 23 febbraio del 1821: era il poeta John Keats. Arrivando davanti alla sua tomba si può leggere sulla lapide: “Qui giace uno il cui nome fu scritto sull'acqua” e una lira greca con quattro delle otto corde spezzate per ricordare il suo genio interrotto, appunto dalla morte prematura. Il poeta è stato il simbolo del Romanticismo inglese. Nacque il 31 ottobre 1795 a Londra e morì a Roma il 23 febbraio 1821; era figlio di uno stalliere e all'età di 14 anni perse entrambe i genitori: il padre morì in un incidente e la madre a causa della tubercolosi. Iniziò a studiare medicina per poi abbandonarla nel 1816 a causa della sua vena poetica. I suoi primi lavori ebbero, però, critiche negative e molto dure che continuarono per tutta la sua breve vita. Nel frattempo, il fratello nel 1818 morì anch'esso di tubercolosi; il poeta gli rimase accanto fino alla fine. Dopo di che si trasferì nella casa dell'amico Brown e lì s'innamorò di Fanny Brown. Sempre nel 1818 scrisse i suoi capolavori, definiti, poi dai posteri, di alta poesia: La vigilia di Sant'Agnese, La vigilia di San Marco, Ode a Psyche, La Belle Dame sans Merci, Ode a un Usignolo, Ode all'Urna Greca, Ode alla Malinconia, Ode all'Indolenza, Lamia, La Caduta di Iperione, e All'Autunno. Fu un anno straordinario per il suo genio letterario e poetico. Aveva una eccezionale energia, una gran voglia di vivere ed il suo buonumore contagiava le persone intorno a lui. Purtroppo, però, nel 1820 arrivarono i primi segni della malattia che aveva già falciato la sua famiglia, la tubercolosi. Nello stesso anno partì, insieme all'amico Joseph Severn, alla volta di Roma, nella speranza che il bel paese con il suo clima mite, potesse aiutarlo a migliorare il suo stato di salute. Fu così nei primi tempi, arrivò a Roma il 15 novembre del 1820 ed andò ad abitare a Piazza di Spagna, dove ora risiede la casa museo Keats-Shelley. Il medico James Clark


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gli suggerì di fare esercizio fisico, passeggiando al Pincio e facendo cavalcate sulla via Flaminia; purtroppo il medico aveva confuso la tubercolosi con semplici disturbi gastrointestinali. Il 10 gennaio del 1821, sfortunatamente, ebbe un peggioramento di salute. Da quel giorno non lasciò più la sua stanza che si affacciava sulla scalinata di Trinità dei Monti. Il 23 febbraio 1821 John Keats morì tra le braccia del suo amico Severn, a soli 25 anni e venne sepolto nel luogo che lui stesso aveva scelto: il Cimitero Acattolico. Infatti, un giorno il poeta mandò il suo amico a visitare il cimitero, di cui aveva sentito parlare. Severn, in un secondo momento, raccontò: “Provò piacere alla mia descrizione...dell'erba e dei molti fiori, in particolare le innumerevoli violette. Le violette erano i suoi fiori preferiti e si rallegrava nel sentire come ricoprivano le tombe. Mi assicurò che già gli pareva di sentire i fiori che crescevano sopra di lui”. All'epoca il Cimitero Acattolico non aveva cinta murarie ed erano presenti 30 tombe. Oggi nel Cimitero Vecchio ci sono ancora i fiori, ma la maggior parte è composta da piccole margherite, sono rimasti solo alcuni ciuffi di violette; però tra le distesa di fiori pascolano enormi gatti che, sornioni, passano tra una tomba e l'altra indisturbati come una volta faceva, proprio lì, il bestiame del popolo romano. Manuela Mazzola

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Non so se il mio andare Mi porta verso il burrone O se cammino verso l’ovile Io sono persa in una nebbia fitta E barcollo, Ogni direzione è nascosta Ma se Ti chiamo Tu ci sei e mi rinfranchi Se non Ti chiamo Tu aspetti e mi osservi Tu sei l’unico bene Nel quale ripongo ogni speranza Wilma Minotti Cerini Pallanza-Verbania, VB

NELLE MANI DI DIO Sono nelle mani di Dio, a Lui mi affido con serenità e fede. Prego che mi conceda ancora molto tempo per godere il bello della vita sia pure con un po’ di sofferenza.

OGGI Oggi, come sempre Ho bisogno della Tua spalla Sorretta al Tuo amore. Un sentimento Che va oltre questa mia vita Mi pervade, o permane? Ho nostalgia di Te Cosa ho lasciato! Cosa ho trovato!

Spero che mi conceda ancora molto tempo da dedicare alla lettura ed alla poesia, alla musica e all’amicizia. Molto tempo per aiutare gli altri con parole di amore e di conforto. Ma anche per condividere con loro le conoscenze acquisite con lo studio e le esperienze della vita. Mariagina Bonciani Milano


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In onore di

MICHEL PETRUCCIANI, SPLENDIDO CIGNO CHE VOLA SENZ’ALI di Ilia Pedrina

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OLGO in rete: ROUND MIDNIGHT “It begins to tell 'round midnight, midnight I do pretty well till after sundown Suppertime I'm fillin' sad But it really gets bad round midnight Memories always start 'round midnight Havent got the hearth to stand those memories When my heart is still with you And ol' midnight knows it, too When a quarrel we had needs mending Does it means that our love is ending Darlin' I need you, lately I find You're out of my heart and I'm out of my mind Let our hearts get wings 'round midnight, midnight Let the angels sing for your returning Till oru love is safe and sound

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And old midnight comes around Feelin' sad really gets bad round, round, round midnight. (Thelonius Monk, Cootie Williams, Bernard D Hanighen,Round Midnight Lyrics, in rete) Michel Petrucciani, pianista avviato fin da piccolo ad amare la musica Jazz, sceglie quest'opera e la interpreta con passione: Round midnight scandisce i battiti d'un cuore a ritmazione doppia, tra giorno pieno ed inizio di notte fonda. Perché il buio fonda la notte, non altrimenti: bisogna accettare i due momenti insieme, che ti completano la vita, anche se, dopo il tramonto, soprattutto intorno alla mezzanotte, i ricordi diventano dolorosi; bisogna accettare le tue due mani, che vanno a formare miracoli sempre nuovi, in tre brevi decenni che affondano nell'istante dell'ascolto la loro eternità; bisogna accettare d'essere splendido cigno che vola senz'ali, in alto, sempre più in alto, a fondere, sfumandone i contorni, la propria silhouette tra le nuvole. L'improvvisazione, nel Jazz, incarna il desiderio che si fa pulsazione vibrante, energica, intensissima: sfronda ogni irrisorio ostacolo e fonda il coinvolgimento perché Petrucciani con il gruppo Jazz, riportato in rete, arriva a 3.698.962 visualizzazioni. Si capovolge qui la metafora che Dante adotta nella 'Invocazione a Maria', messa in bocca a san Bernardo nel C. XXXI del Paradiso: per Michel Petrucciani il desiderio, la passione, la gioia di vivere volano, volano alto, molto in alto, anche senz'ali: magicamente, il desiderio di Bellezza, nella gioia dell'essere e del condividere la creazione musicale anche nell'improvvisazione, ha spinto questo giovane, dalle radici napoletane, ad andare oltre se stesso e volare alto, molto in alto, splendido cigno senz'ali. Viene da dire: anche se si conosce il nome della sua malattia, cosa si ottiene in più? Viene forse tolto qualche atomo alla fascinazione che questo straordinario Artista contemporaneo provoca? Viene forse dirottata l'empatica provocazione che la visione e l'ascolto di Michel Petrucciani, ora indiretti, ti incistano dentro, lasciandoti ammaliato?


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La meraviglia è nell'amore del padre verso il piccolo anatroccolo che intuisce essere e divenire splendido cigno senz'ali; la meraviglia è nell'improvvisazione dialogica del jazz, alla quale il padre aveva avviato il figlioletto, anche se questa viene codificata in 'eventi tecnici' che risultano insuperabili perché toccano misure uniche della Bellezza; la meraviglia è in Satin Doll o in Take The A Train: altri 7:52 attimi di magia con l'interpretazione di questo percorso che Michel dichiara pubblicamente di amare, con Herbie Hancock & Wayne Shorter Quartet, per entrare nel dialogo d'incredibile intimità tra questi generosi, geniali Amici, sovrapporre, scomporre, rivitalizzare all'infinito questi avvii. Perché poi, ad aggiungere miriadi di riflessi nelle onde dei suoni accade il tempo di Freidrich Gulda e Joe Zawinul, l'uno gigante dell'interpretazione pianistica e fuori d'ogni classe per l'improvvisazione, l'altro Maestro in ricerca per moltiplicare gli effetti umani dei sintetizzatori, da lui stesso elaborati: i minuti si moltiplicano e tutto ritorna indietro, oltre ogni forza di gravità, a Michel Petrucciani, a quello splendido cigno in volo senz'ali. Ilia Pedrina

IL VENTO DEL TEMPO Entrare nel tuo mondo, inconsapevole di te, della tua vita ed accorgermi subito di aver avvertito la tua essenza, aver sentito la tua anima. E' stato il vento del tempo a portarmi lì, in quell'angolo di mondo, che è la tua casa. Il profumo delle viole, dell'erba fresca appena nata, quel fruscio tra i rami, mossi dal vento, hanno toccato corde così intime... Quell'angolo di mondo sembra un'istantanea dell'età dell'oro,

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quell'età che tanto aveva conquistato il tuo cuore, impavido, tremante e pieno di passioni. La tua anima è stata domata solo dalla poesia. Nella mia mente è impresso il tuo volto: occhi grandi, spalancati alla vita, colmi d'ingenuità ed i tuoi capelli scarmigliati che si muovono ad ogni alito di vento, leggeri, dorati, quasi evanescenti. Tendo la mano, provo ad accarezzarli, ma diventano come vapore e non mi rimane che una goccia d'acqua tra [ le dita. La maglietta candida, ricorda il colore della tua anima... è brillantina sotto la luce del sole, come ali d'angelo, riesco ad immaginarla sotto le mie dita, è morbida come una nuvola fredda. Perché non odo le tue parole, forse perché sono lontane secoli.. Eppure sento la tua voglia di vita, il tuo desiderio di essere poeta tra i poeti. Purtroppo, giovane, sei caduto su quel prato che tanto amavi e da cui non sei riuscito a rialzarti. Ed è sempre il vento del tempo che mi porta all'improvviso lontano da te e che mi fa perdere in un vortice infinito. Manuela Mazzola Pomezia, RM

IL RESPIRO DEL VENTO Sento su di me il respiro del vento, lo stesso che nelle ossa mi penetra, che mi cambia, che mi rinnova. Il respiro del vento che accarezza i prati dove sono nata, che trascina l'amore da un cuore all'altro. Quello stesso respiro che mi porta da un mondo all'altro e che mi fa assaporare la perdizione. Manuela Mazzola Pomezia, RM


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PADRE PIO RICERCA DI DIO VICINANZA DI CRISTO di Leonardo Selvaggi I L volume "Padre Pio - Mio vicino di casa" dello scrittore-medico Domenico Lamura è un'opera di spiritualità e di riflessioni. Un'interpretazione con commento, denso e pieno di meditazioni, delle 185 lettere di Padre Pio scritte al Padre spirituale. Vi si narra la storia di un'anima che si tocca con mano per la semplicità espressiva, una vita tormentata, interiore, tutta illuminata da misticismo. Una testimonianza di grande santità dal 1910 al 1922, per un cammino di fede e di carità, improntato all'amore di Cristo, simbolo di dedizione, di sofferenze, fonte di maturazione spirituale, incontro ai miseri con senso di sacrificio e di umanità. Padre Pio, al secolo Francesco Forgione, nato nel 1887 a Pietralcina. Trascorse l'intera vita di religioso nel

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convento di San Giovanni Rotondo, al Gargano. Si glorifica ai tempi nostri con le sue stimmate, mistero esse stesse, in un tutt'uno con Cristo e la sua Croce. L'opera di Domenico Lamura ci rimane accanto, la sua lettura apre la nostra interiorità con le piaghe che ci portiamo, consapevoli dei peccati fusi nella carne che ci insidia, fermentante di negatività e di malessere. Le lettere di Padre Pio riflettono il linguaggio parlato, quell'italiano dialettizzato che ha deliziato tutti quelli che hanno avuto la fortuna di sentirlo. Viene manifestata la sua umiltà, la sua immediatezza di pensieri e di sentimenti. In seguito l'espressione si fa più curata e pertanto più vivace e asciutta, ricca di immagini e di similitudini, specie quando si mettono in risalto i tormenti dell'anima. Una naturalezza che è tutta verità, concretezza, niente astrazione. Una parola forte che sa andare dentro ai segreti, e spesso riesce di difficile determinazione, quando il suo intimo è complesso, facendosi drammatica partecipazione ai dolori di Cristo. Padre Pio sente rimuovere dentro un vulcano di sensazioni, ha una esistenza tutta profondità, le parole comuni non arrivano a definire il senso dei divino che si agita nel suo cuore, tante sono le potenzialità che portano ad unirsi al Supremo Creatore. Dio è presente nel centro dell'anima. Padre Pio sente dentro di sé scorrere sangue, è la fede in Dio, la prima scaturigine che lo rende grande, pieno di grazie. I dolori sulla Croce sono simili alle sue infermità. II Le sofferenze fanno vivere e nel contempo rendono imperfetti, c'è una contraddizione: Dio che è amore si fa nemico e indifferente. Padre Pio è in uno stato di disperazione, come sprofondato in un abisso. La sua vita è tenebra e luce in una contrapposizione drammatica. Nell'opera di Domenico Lamura si seguono tutti i momenti vissuti da Padre Pio, illuminato da immenso amore e insieme conturbato dalla sua cattiva salute. Come disfatto il suo essere, giorno dopo giorno è in una lotta con


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se stesso: testimonianza di eccezionale valore per i nostri tempi. Padre Pio veste il saio di cappuccino, quasi per simboleggiare le ristrettezze della sua famiglia. Francesco Forgione, assetato di spiritualità a ventiquattro anni è più morto che vivo, è costretto a vivere in famiglia, ma la sua santità è ben delineata nelle lettere piene di concentrazione: tutto malato, pelle e ossa, porta addosso il dolore di Cristo, in agonia eterna, spogliato di ogni contingenza esistenziale. La sua straordinaria capacità di amare a prezzo della propria vita per vedere l'uomo libero, vicino alla verità divina, fuori di ogni limitazione. Ha 23 anni, non ancora ha preso la messa, vive lontano dal convento, essendogli stata prescritta l'aria natia. Il volume di Domenico Lamura è una miniera di riferimenti, di osservazioni, c'è filosofia, teologia, la realtà triste di Padre Pio che pare di essere in esilio sulla terra per i troppi malanni .Non mancano le lotte spirituali che danno perfezione e purezza all'anima. Dio generoso verso il giovane cappuccino che si sente un minuscolo vaso e amplissimo come spazio per comprendere la passione di Cristo. Le parole di Padre Pio non sono pura sentimentalità, se pensiamo al suo ministero durato oltre 50 anni, massacrante, in piena semplicità e dedizione, demitizzando se stesso, quando il suo nome ormai è diffuso nel mondo. Ha vissuto non di intelletto, come i teologi protestanti che hanno sempre più minimizzato la presenza di Dio, ma con le energie del cuore, con tutta la mente, in estasi continua. Non come Robinson, Niebhur, Bultmann che per andare alla ricerca di Dio hanno lasciato l'uomo in piena desolazione. III L'opera "Padre Pio-Mio vicino di casa" a cura di Maria Stefania Lamura, pubblicato dalla Casa Editrice Menna nel mese di novembre 2010, ha reso possibile compenetrarci nel pensiero di un grande personaggio del nostro tempo corrotto e perverso, trovando i modi più confacenti per avviarci in un mondo di bontà, con la religiosità più vera, con la semplicità dei sentimenti. L'umiltà che vuol

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essere abbattimento totale di ogni forma di egoismo, quasi negazione di sé e amplificazione del prossimo, nullificazione del corpo e piena manifestazione di Cristo sulla terra. Il dolore umano soprattutto, raggiunto dall'amore-libertà di estrinsecazione del proprio essere contrassegnato dalla presenza del Sommo Bene. Per Padre Pio le stimmate sono segno eloquente di verità e di vita, della partecipazione di Dio che si fa estesa e diffusa in ogni luogo e in ogni parte più intima, infervorata dall'uomo. Messaggio di Dio, voce di Cristo per l'umanità sofferente, misera, spadroneggiata dalla prepotenza, dall'ingordigia di tempi malvagi. "Gesù ha scelto anche la mia anima per essere aiutato nel grande negozio della salvezza", per lenire il dolore che sempre sarà presente fra gli uomini. La grande opera di Padre Pio "La Casa Sollievo della Sofferenza" si basa su questo fondamentale impegno. La bellezza delle Grazia da cui è tutto avvolto per volere di Dio: Padre Pio con le sofferenze fisiche e spirituali ha avuto la forza di lottare di continuo contro i malevoli suoi nemici, miscredenti, scettici. Il suo misticismo lo rende colmo della presenza del divino, quando si sente in disordine, nel buio, nello smarrimento dei sensi: lo soccorre la speranza, il suo volto di asceta è sempre rivolto al cielo. Un essere misero, quasi finito come esistenza fisica, tutta un'immensità nel suo grande animo, ampio come un oceano. Le lettere sono esaminate con grande acume di saggezza, analizzate con profondità di spirito e di passione dal grande psicologo, medico, scrittore Domenico Lamura che ci fa seguire le varie tappe del grande Cappuccino, "tremende e dolci, imprevedibili e soavi". Padre Pio, mandato a noi colpevoli dalla Divina Provvidenza, con ostinazione ha portato la voce di Dio e la sopportazione di Cristo fra di noi, per cogliere a piene mani l'amore che purifica e ci unisce con i sentimenti di fratellanza. La Sua esperienza mistica è fuori dal reale scientifico dei nostri giorni, ha valore assoluto, presenza gloriosa di mezzo secolo, rimane in gran parte incomprensibile agli scettici, ma come dice Pascal ciò che è incomprensibile


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non cessa di essere. Anche la ragione se non riesce a provare la realtà superiore, non può neppure negarla. IV La religiosità di Padre Pio è comprensione dell'uomo, le sofferenze sono il mezzo di andare in fondo alla natura nostra, le stimmate costituiscono un modo di conoscere Dio. Domenico Lamura nelle sue pagine filosofiche-saggistiche opera un approfondimento del contenuto delle lettere di Padre Pio. Conoscere, amare l'uomo con la ragione, conoscere è anche sperimentare, intendere con i sentimenti. Con la mente e con le mani ci si avvicina alla realtà dell'uomo. Con tutto l'essere Padre Pio è vicino al mondo umano, con concretezza a Dio, quasi lo tocca, come il fuoco, l'acqua, le piante e tutto l'esistente. Le stimmate sono un segno bruciante, sanguinante di Dio sul suo corpo, immedesimazione con Cristo. È conoscere più profondamente i fratelli, affrontare e combattere l'incredulità degli infedeli. La vita mistica di Padre Pio appartiene a tutti noi, è per risanare il nostro tempo materialista, togliere tutte le deturpazioni. Ci riporta al Cristianesimo fondato sull'amore. Dio si incarna nelle nostre sofferenze, nei nostri affetti, nel nostro lavoro, valori umani che trasmettono il senso della divinità e la vita. L'amore di Dio si estende a tutti e si manifesta attraverso il Messia, inviato per salvare il mondo, Padre Pio è tutto interiorità che non trova espressione tramite la parola che è falsa, altera e deforma l'essere. La parola non è la verità, non è purezza, i poti hanno sentito l'autenticità della parola attraverso l'intuizione. Con la spiritualità la poesia esprime santità e mistica. Il giovane Cappuccino nei primi anni per la tubercolosi vive fuori dal convento, ha spirito pratico, di sopportazione e nel contempo è in continua ascesi verso il regno di Dio. Una realtà straordinaria, un mistero la sua presenza. "L'anima... preferirebbe chiudersi in un perfetto mutismo, perché le fa male che nell’ esprimersi vede la grande distanza che passa fra la cosa vista e che tiene presente e ciò che esprime". Sempre

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l'anima, non i sensi fa vivere Padre Pio. "La grandissima compassione che sente l'anima alla vista di un povero le fa nascere nel proprio centro un veementissimo bisogno di soccorrerlo e se guardassi alla mia volontà mi spingerebbe perfino a spogliarmi degli abiti per rivestirli". La semplicità delle parole e l'aspetto di un umile uomo di paese che fa largo uso del dialetto; nel confessionale Padre Pio si asciuga il sudore con un fazzoletto contadinesco. Una ruvidezza in tutti gli atteggiamenti, sincerità che si lega all'essenzialità, tutta trasparenza. L'interiorità si manifesta con un'autenticità che è poesia e tensione di sentimenti. Mentre Satana riesce vincitore nel tenerlo fermo nelle sofferenze, Lui prega Dio che non gli si tocchi la sua immensa spiritualità. Si muove fra l'inferno e il cielo, le stimmate sanguinanti alle mani, ai piedi e costato sono rivelazione del soprannaturale. V Corpo e spirito in un solo legame. Dio si manifesta nella storia attraverso la carne. Il Cristianesimo ha inizio quando gli uomini partecipano alla crocefissione di Cristo. Dio li ha riempito di grazie, di tanta spiritualità, mentre Lo tiene rinserrato nella prigione delle sofferenze. La sua passione sono i libri di devozione, legge la vita del B. Gabriele dell' Addolorata, conosce la storia dell'anima di Teresa del Bambino Gesù. Anche Padre Pio è storia di un'anima, ha di continuo fame di presenza di Dio. Autenticità di una vita, la si prende con mano, è quella di tutti i giorni, un frate che prega, che ci sollecita al di là della realtà quotidiana. Poche parole che dilagano in una interiorità infinita. Ama soffrire, vorrebbe tutte le tristezze degli uomini, per rendere immenso il suo sentimento di amore. Padre Pio imita Cristo, si offre per i peccatori. Comprendere l'uomo, amarlo, significa rendersi vittima nelle mani di Dio. Le sue lettere vogliono essere vicinanza all'uomo, si unisce a ogni destino di peccatore, con tutta la sua vita. I peccatori li accetta come figli spirituali. Tutti noi abbiamo sentito addosso i suoi pensieri, la sua spiritualità che è dono di Dio, lu-


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ce interiore e di fede. Si è con la Sacra Scrittura che è fonte di sapienza. Padre Pio mira all'uomo perfetto, che si realizza attraverso la parola di Dio, Verità assoluta. La stimmate costituiscono strazio, confusione, vergogna, sono oggetto di persecuzione, dubbio, isolamento, vedendole simili a quelle di Cristo. Usa i mezzi guanti che nascondono il palmo e il dorso delle mani, considerato un lebbroso, costretto a vivere nel mondo dei viventi. L'opera di Domenico Lamura ha fatto rivivere Cristo, un Cristianesimo concreto, pratico e tutto un misticismo attorno a Padre Pio. Le stimmate sono da alcuni accettate, da altri respinte. Molti gli increduli, gli stessi uomini di fede. Ma sono un segno sulla carne viva, raccontano la passione di Cristo. Padre Pio considerato da Jean Guitton come un Socrate contadino-cristiano, un uomo di buon senso che viene umiliato da un mondo superficiale, vizioso, materialista. Le stimmate con le loro cinque bocche parlano dell'amore di Dio. Folle interminabili vengono da Lui, Gli si stringono attorno quando dice messa, cercano il suo confessionale. Molti uomini hanno capito, tramite Padre Pio, che Dio li ama. Anche dopo la sua morte arriva gente da ogni parte, dall'Africa, dall'America del Sud, dalle Filippine per respirare l'aria che Lui respirava, e soprattutto l'aria della sua anima. Le stimmate sono punto di luce, come Lourdes, Fatima, Pompei. Non si può dare spiegazione di questo miracolo, bisogna credere, quando interviene Dio. Una storia d'amore, quando si celebra la Santa Messa, è Cristo che si offre e ci offre al Padre. Quando l'uomo uccide quest'amore, si è peccatori. Le stimmate di Padre Pio sono un fatto sbalorditivo che dura cinquantanni, per riaffermare la presenza di Dio. VI Nel nostro tempo il peccato è considerato puerilità, per Padre Pio lo si può trasformare in energia d'amore. Padre Pio si unisce a ogni fragilità, donando la sua vita. Nullificarsi è un modo per arrivare a Cristo. Il sacrificio, la preghiera lasciano pensoso il mondo di oggi inquieto, ingordo, arrogante. Un modesto fra-

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te, una debole creatura oggi non viene concepito. L'umiltà è sapienza, la scienza, la tecnica, il benessere, il diavolo delle passioni ci tengono esaltati. Padre Pio ha imitato Cristo per ottant'anni fino al 1963 anno della sua morte. Per Lui l'uomo è creatura nata da una storia d'amore. Quando si ha coscienza di essere creature del Padre, ci si sente in piena pace e armonia con se stessi. Padre Pio vede Satana che si avventa contro la creatura disarmata, è facile il suo intervento dove manca l'amore. Satana si serve dell'ambiguità, lo si sente nel silenzio, arriva quando ci si offre vittima in uno stato di disperazione e di debolezza. Il maligno agisce con le tentazioni che fanno apparire il peccato come cosa dilettante. "Il demonio intanto si giova di questo indebolimento di forza e impossibilità di reagire per maggiormente affliggermi...","... questo apostata infame vuole strapparmi dal cuore ciò che in esso vi è di più sacro: la fede... ". Padre Pio intuisce subito che contro Satana l'antidoto più efficace è l'amore. Dello scrittore Domenico Lamura, fra la sua ricca produzione letteraria, l'opera "Padre Pio-Mio vicino di casa" è quella che più si evidenzia per profondità di concetti, c'è in essa un'espressività che si innalza e ci infiamma, si fa sapienza e riflessione, presentandoci Padre Pio come alta testimonianza di fede e di spiritualità in tempi di violenza, di perdizione, personaggio che dà avvio a principi di rinnovamento morale, di umanità, vincendo turpitudini ed egoismi, portando in grande altezza i sentimenti di carità, di dedizione, offrendo tutta la sua anima e le sue sofferenze incontro agli inermi, ai degenti, agli esclusi della vita, ai peccatori, ai tormentati spersi nelle nebbie del male. "Per questo mi compiaccio delle mie infermità, degli oltraggi, delle necessità, delle persecuzioni e delle angustie per causa di Cristo, perché quando son debole è allora che sono potente" (Cor. II-XII-10). Nel volume del medico, poeta, spiritualista Domenico Lamura, fonte di grande insegnamento, ritroviamo energie che parevano nel nostro animo sopite, la nostra interiorità, i sentimenti e le virtù. Dio con Padre Pio Lo sentiamo attorno, come


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nostra salvezza e protezione nei momenti di turbamenti. Lo sentiamo vivo, come una persona che ci porta a rinvigorirci, ad esaltarci verso le supreme sfere celesti. VII Per cinquant’anni è stata discussa la personalità di Padre Pio, tutti gli aspetti considerati, dai turbamenti alle sofferenze, alle opere, alla continua contemplazione della verità divina, di Dio, luce di bene, bontà incomprensibile. Evidenziati i momenti di estasi, la considerazione del dolore, il trasporto con cui ha dato sollievo alle miserie umane. Soprattutto la preghiera e la penitenza che portano alla elevazione spirituale. L'amore di Cristo fa essere pronti ad offrire la propria vita per il bene del prossimo, a darsi con il senso del sacrificio. Dio vuole che con l'amore si perdoni il peccatore. Padre Pio quando sale l'altare ogni mattina all'alba dona tutto se stesso con misticismo, le sue stimmate significano rendersi vittima, in una immolazione e in un'offerta unica, richiamano in ogni coscienza il senso di cristiano in tutta la purezza e concretezza, in piena disponibilità. La messa celebrata da Padre Pio con umiltà è partecipazione al sacrificio di Cristo, le folle che vi assistono sono trascinate in sublimazione di anima e di corpo. Padre Pio, come Santa Margherita da Cortona, conosce i suoi peccati e la sua offerta di amore. La vita che si offre si dilata, arriva a donarsi anche ai peccatori, ai sofferenti più lontani. La preghiera è un chiedere grazie divine per tutti. Cristo afferma: "Chi tiene conto della sua vita la perderà; e chi avrà perduto la sua vita per amore mio la ritroverà". L'amore è donazione completa di sé, si fa dialogo con altre persone. Padre Pio con la sua semplice parola avvolge la presenza delle folle di calore, di respiro di Dio. In una delle lettere inviate al Padre spirituale chiede aiuto con tutto l'animo esulcerato: "A voi il Signore mi affidò per guida, conforto e salvezza... imploratemi soccorso dal cielo, perfetta uniformità ai puri, occulti, divini e santi valori...". Questo si afferma quando Padre Pio si sente perduto, tentato da Satana, "in pieno inferno",

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fuori da "ogni traccia, ogni vestigia di Dio". La straordinaria opera di Domenico Lamura ha sostanza pura, ricchezza di riferimenti al Vangelo, alla sapienza del Vecchio Testamento, ai principi di fondamentalità di vita, è tutta una espressività che viene da processi di sublimazione di concetti che portano a vivere momenti di estasi, di partecipazione alle più esaltanti verità divine. C'è il sentimento di amore in espansione che si fa ricerca di Dio, compenetrazione nelle sofferenze, nella grande offerta di Cristo sulla Croce, lungo la via della redenzione, con quel travaglio spirituale che tiene Padre Pio impegnato nell'opera di salvataggio dell'umanità peccatrice: pensiero tormentato che non ha mai fine, azione ostinata di una grande spiritualità, eterna sofferenza offerta per le folle intere che si riversano per tutte le strade del mondo. Leonardo Selvaggi

UN PICCOLO MONDO CHE CAMBIA Il cinguettio chiassoso degli uccelli che mi svegliava all’alba ogni mattina tace da un anno ormai. Ormai da un anno non più sul mio balcone cittadino si azzuffano i passerotti danneggiando le primule e i gerani dei miei vasi. Tutto è silenzio, ed anche ormai i merli più non scorrazzano qua e là per il cortile, né dall’alto di un comignolo sul tetto del vicino palazzo grida il corvo proclamando il suo impero. Anche gli insetti disertano oramai il mio balcone: vespe, formiche e ragni più non visitano i miei fiori che sembrano soffrirne e si vanno spegnendo. E in questo mondo che va cambiando io mi sento più sola. 23 febbraio 2019 Mariagina Bonciani Milano


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Il Racconto

UNA LETTERA DI ADDIO di Domenico Defelice Carissima, L’anno è finito. Avrebbe dovuto finire diversamente per me, o, meglio, io mi aspettavo una fine diversa. Non una fine oscura, triste e solitaria, ma radiosa, scoppiettante, come sarebbe stata più consona ai miei ventisette anni. Una fine che, se non mi avesse portato proprio una cerimonia nuziale, mi avrebbe almeno messo su un sicuro avvio verso di essa. L’inizio dell’anno scorso mi era apparso sotto buoni auspici. Non era, infatti, da molto che, dopo l’ennesima burrasca, tra me e te era ritornato il sereno. Un sereno certamente non comune, fatto di luci e d’ombre, di bassi e di alti, di calme e di ventate, ma che non mi dava eccessivo pensiero dato il tuo e il mio carattere. *** C’eravamo allontanati dopo quella discussione (che poi doveva risultare anche la penultima) relativa a quel che tua zia Lina, con espressione non priva di un certo effetto e colore, aveva definito “i fatti del porto”. Avevo trascorso un’intera giornata a cercarti. C’erano dei momenti in cui il bisogno di te in me si faceva così pressante, così intenso, che dovevo assolutamente vederti. Non so spiegarti completamente ciò che mi accadeva, ma è certo che una strana ansia mi assaliva. Se riuscivo a vederti subito, essa si placava, in me subentrava nuovamente una calma relativa; se, invece, tardavo, l’ansia, via via, si tramutava in aperta inquietudine, in terribili scoramenti, in pianti interminabili. Quella dei “fatti del porto” - come dice tua zia -, fu proprio una giornata nera. Ti aspettai a lungo sotto casa e quando seppi che ti trovavi presso una tua amica a studiare, sono andato a cercarti inutilmente in tutti quei luo-

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ghi in cui pensavo tu potessi esserci. Infine, disperato, stralunato, quasi sull’orlo della pazzia, verso le 15,30 ti avvistai sulla via marina dirigerti verso il porto. Ti scorsi da lontano. Ormai, m’era facile individuarti, anche in lontananza e in una marea di gente. La tua testa bionda, inconfondibile, il tuo modo d’incedere particolare, non comune ad altra donna, mi erano diventati così familiari che difficilmente mi tradivano. Tu - te lo dicevo spesso - eri divenuta parte di me; i tuoi capelli, i tuoi occhi, le tue mani, la tua delicata persona, la tua voce, anzi, il timbro della tua voce, erano componenti della mia vita. Vedere te, perciò, era vedere me stesso; solamente vicino a te io mi sentivo completo e felice. Eri tutta vestita a festa, pettinata e profumata come non mai. Si dice che ci ama teme, ed io, infatti, invece di esultare nel vederti così bella, mi raggelai, mi corrucciai, m’ insospettii. Sentivo come un amaro invadermi le viscere. Il cuore cominciò a martellarmi. Tremavo da capo a piedi. Cercai di non farmi scorgere e ti seguii. Anche tu eri inquieta, nervosa. Lo si capiva dal tuo fare impacciato, dal tuo incedere a strappi, ora lento, ora veloce, dai gesti che facevi senza accorgertene: ti fermavi, ti guardavi attorno come smarrita, ti ravviavi i capelli, ti rassettavi il vestito. Ti passavi la borsetta da una mano all’altra, te l’appendevi al braccio, l’aprivi, la chiudevi, te la mettevi a tracolla. All’inizio del porto, quasi dove attraccano gli aliscafi, un uomo ti è venuto incontro. Era un giovane di circa 27 - 30 anni, alto quanto te, non troppo robusto, alquanto brutto, direi. Ma a colpirmi di più furono le lenti chiare a bordi fini e scuri che portava e una incipiente calvizie, tanto che la sommità del suo cranio appariva lucida. Vi stringeste la mano. Egli parlava e parlava camminandoti vicino mentre vi avviavate al traghetto. Tu tacevi, a tratti rispondevi a sillabe e sorridevi impaciata; ma il tuo sguardo era vivo, direi quasi luminoso. Di tanto in tanto ti voltavi a guardare indietro come se temessi d’essere vista o seguita da qualcuno. Fu così che ti accorgesti della mia presenza.


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La tua espressione allora cambiò, le tue guance s’imporporarono. Ti fermasti incerta, ti girasti su te stessa, ti schermivi dal fiume di parole che lui ti rivolgeva. Tuttavia continuaste a dirigervi verso il traghetto e vi saliste. A descriverti il mio stato d’animo di quei momenti non riesco. Ma se anche cercassi di dirti qualcosa, son certo che non mi capiresti. Comprendere quei momenti può solo chi ha amato profondamente e per amore molto patito. Decisi di seguirvi a Messina, vedere dove sareste andati, cosa avreste fatto. Corsi a fare il biglietto, poi mi precipitai sul traghetto. Eravate in una sala di prima classe, seduti vicini. Tu tacevi sempre e sorridevi imbarazzata, guardandoti intorno. Lui sedeva sporgendosi su di te, i suoi occhi non ti abbandonavano un istante e parlava, parlava. Stetti per un po’ a guardarvi e a invidiare lui che aveva la fortuna di starti vicino, di parlarti ed essere ascoltato con tanto interesse. Mi vedevo meschino, insignificante, anche dinanzi a quell’ insignificante uomo. In quell’istante, anche un lebbroso era meglio di me, anche uno storpio, un cieco, anche un animale, purché riuscisse a tener desta la tua attenzione. Era evidente che lui ti facesse la corte e certamente, quella, non era la prima volta che vi incontravate. Tu ne apparivi lusingata, o, almeno, a me sembrava così, dal momento che il tuo carattere enigmatico difficilmente faceva trasparire i veri sentimenti che ti occupavano. Che fare? Astio contro quell’uomo non ne sentivo. Anzi, si aveva la mia ammirazione, perché riusciva ad interessarti. Né sentivo rancore verso di te. Io ti ho sempre adorata a tal punto, che mai ho potuto concepire sentimenti ostili nei tuoi confronti, anche in quelle situazioni nelle quali essi sarebbero potuti apparire giustificati. Per te il mio cuore sentiva in ogni istante una tenerezza infinita, un amore sconfinato, un affetto umanissimo. Capii che, in quelle condizioni, non potevo seguirvi. Mi sarei messo a piangere per via, dietro di voi. Forse avrei scoperto anche qualcosa che mi avrebbe ancora maggiormen-

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te addolorato ed umiliato, e non volevo; preferivo non vedere e non sentire, perché sapevo che, quale che fosse stata la tua vita, io avrei continuato ad amarti. Perciò, meno cose spiacevoli venivo a sapere sul tuo conto, meglio era per me. Sì, la curiosità di sapere di te, in me era grande; tuttavia, riuscii a vincerla e mi allontanai. Scesi dal traghetto come un sonnambulo, proprio mentre si stava ritirando il ponte e si mollavano gli ormeggi. Tremavo, come tremo ancora adesso mentre ti scrivo questa lettera febbricitante e folle, sgrammaticata, forse senza capo né coda e dalla sintassi bislacca. Una volta a terra, aspettai che il traghetto uscisse dal porto e si allontanasse. Lo guardavo tra un velo di lacrime, tra i singhiozzi che mi strozzavano. Sembrava che il mondo attorno a me stesse per capovolgersi. Vagai a lungo per la città. Quando rincasai quella sera era tardi ed io quasi fuor di senno. Tua zia, al solito, insistette a voler conoscere le cause che mi avevano ridotto in quelle pietose condizioni, morali e fisiche. Non so cose le dissi. Certo, le avrò raccontato una storia stralunata, in parte vera, in parte falsa. Ma per me, in quel momento, era tutta vera. Ciò che c’era d’inventato, in fondo, non era che il probabile proseguimento di ciò che avevo visto al porto e che mi aveva così profondamente inquietato e stravolto. Le dissi di averti seguita fino a Messina (l’ora tardi in cui mi ero ritirato a casa e il biglietto che avevo acquistato davano forza a quel che asserivo), di averti sorpresa nella villa Mazzini, stretta stretta a quell’uomo mentre vi baciavate appassionatamente, mentre… Sì, sì, una storia inventata, certo, adesso lo riconosco, ma inventata senza volerlo veramente, costruitasi da sola nel mio cervello ottenebrato, nella mia mente sconvolta da quella specie di strana gelosia che mi divorava e mi faceva invidiare chi ti stava vicino. Ma è giusto chiamarla gelosia? Il geloso odia, non c’è dubbio. Chi è geloso di una persona, odia tutto ciò e tutti quelli che alla gelosia contribuiscono. Io non odiavo. Io sentivo semplicemente invidia di quell’uomo. Lo ammiravo, gli davo qualità


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che forse non possedeva, desideravo ardentemente essere come lui, perché essere come lui, significava interessarti. Ecco: interessarti! Non pensavo ad altro. Se fosse passato accanto a te un cane, in quell’istante, e tu l’avessi accarezzato, son certo che avrei desiderato essere quel cane pur di avere la tua carezza. Tua zia ti riferì quanto io le avevo raccontato. E tu reagisti. Reagisti perché io m’ero inventata metà della storia (e non poteva, poi, essere totalmente vera? Chi potrà dire ciò che avete fatto a Messina?). Non era affatto vero ch’eri stata a villa Mazzini con quell’uomo… E poi, quale uomo? In un primo momento hai implicitamente acconsentito che un uomo ti avesse abbordata all’inizio del porto. Hai inventato la storia del turista: quell’uomo era un francese e ti aveva avvicinata per chiederti delle informazioni. Poi, accortosi che tu parlavi bene la sua lingua, s’era messo a discorrere con te, ecco tutto. Questo avevi detto in un primo momento, perché, successivamente, hai negato anche questo, hai negato tutto; tu non eri stata a villa Mazzini, né eri stata avvicinata da alcuno al porto di Reggio. La mia storia era tutta assolutamente inventata. Ma noi ancora non c’eravamo incontrati. Queste schermaglie erano avvenute tra te e tua zia. Noi ci siamo incontrati due giorni dopo, di domenica. Al solito, eri andata alla messa delle 12,10 a San Giorgio. All’uscita, io stavo fuori ad aspettarti, pronto ad affrontare la tua immancabile reazione. Mi trovavo sul marciapiede di fronte al tempio, in mezzo alla schiera di giovanotti che aspettavano le proprie ragazze. La domenica, lì, specie alle ultime due messe, si riuniscono almeno metà degli innamorati di Reggio. La schiera dei giovanotti, perciò, è sempre nutrita, aumenta ogni volta di più perché, per uno che si allontana, ce ne sono almeno altri due di rincalzo. Eri vestita come lo scorso venerdì. Stavi assieme a Nuccia. Il giovanotto del porto traversò e ti venne subito incontro sulla porta del tempio: stava accanto a me, ma non me n’ero accorto, intento com’ero a guardarti. Tu mi avevi visto. Arrossisti, ma non tentasti di allontanare il corteggiatore. Anzi, si vedeva

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che ne eri assai contenta. Civettavi come non mai. Oh, non facevi niente di male. Sorridevi visibilmente emozionata, ti muovevi girandoti intorno, davi occhiate a destra e a manca, scalpitavi come una giovane e selvaggia puledra. Stavolta, però, non ti contentavi di ascoltarlo solamente, discorrevi animatamente anche tu. Nuccia si era allontanata, aveva attraversato il Corso e s’era fermata all’ edicola di fronte al tempio per acquistare un giornale. Ancora una volta venni assalito dall’ inquietudine. Se non fosse ricomparso quel giovanotto, io ti avrei affrontata a piè fermo, avrei fatto fronte alla tua reazione, forse anche con un po’ di spirito, ti avrei chiesto scusa per le cose false che avevo narrato a tua zia - ma solo per quelle false, non per quelle vere, per quelle di cui ero stato spettatore al porto - e tutto sarebbe finito lì. Ma la comparsa del giovane mi aveva nuovamente sconvolto. Mi misi in subbuglio, cominciai a non comprendere me stesso, a non controllare ciò che avveniva dentro di me, i pensieri che mi si accavallavano, la marea di immagini assurde che mi sommergevano e mi intontivano; innanzi ai miei occhi non c’eri più tu a discorrere con quell’uomo, ma un colossale film di scelleratezze, un carosello fantastico e crudele che mi straziava. Piangevo silenziosamente. Quando quell’uomo se ne fu andato, dopo una tua calorosa stretta di mano ed un tuo luminoso sorriso, per avere il quale avrei rinunciato a dieci anni della mia vita, Nuccia ti raggiunse e assieme vi siete incamminate per il Corso, in direzione Piazza Italia. Io non ti seguivo. Se camminavo nella tua stessa direzione, sul marciapiede opposto, era senza volerlo. Ero ormai ridotto ad uno straccio, ad un fantasma. La gente, allegra, spensierata, mi urtava ad ogni passo, mi sballottava di qua e di là come se io fossi stato un fuscello. D’un tratto, poi, all’incrocio con via Fornari, ti ho trovata di fronte. Avevi oltrepassato il Corso e m’eri venuta incontro senza che io me ne accorgessi. Non ero più in grado di affrontarti. Finsi di non averti vista e svoltai su per la traversa. Ma tu mi chiamasti.


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Mi fermai. Eri eccitata e perciò non hai posto tempo in mezzo ad affrontare l’argomento che ti aveva spinta a venirmi incontro. Dunque, ero disposto ancora a sostenere tutto quello che avevo raccontato a tua zia? Ma io a tua zia non avevo detto nulla… Bugiardo, bugiardo! Non ero che un vigliacco bugiardo. Mi schernisti, mi umiliasti. Sentivo una tale vergogna che avrei preferito mille volte sprofondare sotto terra. Tu insistevi: Dunque, era vero o no che ti avevo vista a villa Mazzini? No, no, non era vero. Confessai, me l’ero inventato. Era vero o no che ti avevo vista al porto assieme a quell’uomo calvo, brutto… Sì, sì, questo era vero, eppure ti dissi anche di no, ti dissi che anche questo mi ero inventato! Tu apparisti subito raggiante; di colpo avevi acquistato tutta la tua naturale baldanza, ti eri impadronita di me, avevi vinto, ormai potevi farmi accettare e negare tutto quel che avresti voluto, tutto quanto ti avrebbe fatto comodo ch’io accettassi o negassi. Avevi capito qual era il mio stato d’animo in quel momento, in quale depressione morale e fisica ero piombato; avevi compreso benissimo che io ormai non ero più un uomo, un essere capace di volere, di connettere, ma una materia amorfa, malleabile, tale da poter essere forgiata a tuo piacimento. E hai voluto approfittarne. Hai voluto ch’io negassi non solo ciò che in effetti m’ero inventato nel mio deliro, ma anche ciò che era vero, ciò che avevo visto e che tu sapevi che avevo visto. Hai approfittato delle mie pietose condizioni. Se in quel momento tu mi avessi chiesto di confessare d’essere un feroce assassino, io avrei risposto di sì: sì, sono un assassino! e avrei fatto tutto ciò che avresti voluto, negato ed accettato tutto quanto ti avrebbe fatto piacere e comodo. Era vero che ti avevo visto al porto con quell’uomo? No, no, non era vero, me lo ero tutto inventato. Era vero che ti avevo seguito a Messina, che ti avevo sorpresa nella villa mentre baciavi appassionatamente quell’uomo? No, no, non era vero, me lo ero inventato. Così risultai esser completamente bugiardo e del vero e del falso. Ti chiesi scusa, perdono. Al solito mi umiliai più del necessario. Allora tu vole-

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sti apparire magnanima e hai smesso le recriminazioni, le invettive, hai finto con l’ accettare le mie scuse. Ma ti beffavi di me, del mio dolore e la mia umiliazione si fece più grande, smisuratamente grande. Pensai di allontanarmi da te. Ti chiesi ancora perdono, ti dissi che non ti avrei più cercata, perché, ormai, m’ero accorto di non amarti più, che mi sentivo finalmente libero. Mentivo, mentivo semplicemente, perché volevo fuggire, levarmi dal tuo sguardo, piangere sulla mia umiliazione, sulla mia nullità, sulla mia incapacità ad impormi nei tuoi confronti, sul mio fallimento morale e fisico. *** Ma per allontanarmi da te, dovevo allontanarmi da Reggio e, per poterlo fare, dovevo abbandonare il lavoro. Ciò non era difficile. Presso la V. Spadaro-Castorina ero entrato a lavorare nell’ottobre di tre anni or sono, per il misero stipendio di lire ventimila. Erano trascorsi, ormai, più di quattordici mesi e ancora il mio stipendio non aveva fatto un solo passo avanti, vuoi per la ritrosia del principale, vuoi anche per la mia negligenza nel chiedere aumenti. Nella V. Spadaro-Castorina godevo di molto prestigio. Lavoravo con coscienza ed onestà e fin dal principio mi ero fatto molto apprezzare. Certo, momenti di attrito tra me e gli altri impiegati o tra me e i dirigenti ce ne furono pure, ma si erano risolti sempre nel migliore dei modi, anche perché la ragione stava quasi sempre dalla mia parte. L’ultima discussione, per esempio, e alquanto accesa, l’avevo avuto ad appena due mesi dall’ assunzione e col Dottor Musarella, genero del Commendatore Spadaro, titolare della Società. Il Dottore, in fatto di registrazioni in P. D. lasciava molto a desiderare, pur non di meno non mancava d’essere presuntuoso per il fatto che egli avesse una laurea ed io un semplice diploma, e questa sua presuntuosa superiorità cercava di mettermela in evidenza in tutti i modi possibili e in qualsiasi occasione. Ma sbagliava ad intestardirsi anche quando aveva torto marcio, perché io non ero il tipo di ce-


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dergli per nulla al mondo. Ero cocciuto, peggio di lui in fatto di torto e di ragione. Non ero disposto ad accettare il torto neppure quando ero sicuro di averlo e insistevo a tal punto, nel farmi le ragioni, che spesso finivo col convincerlo! Figurati, poi, s’ero disposto ad accollarmi torti non miei! Non ti sorprenda questo, Carissima. Sono stato sempre un debole con te, ma non con gli altri. Io, nella realtà, non sono un debole, sono, anzi, troppo energico, e coloro che hanno avuto da fare con me possono provarlo. E, quel giorno, io avevo ragione al cento per cento. La registrazione, che lui mi accusava d’aver fatto in modo errato, era correttissima, invece, e lo sapevo benissimo; perciò la discussione si fece quasi subito vivacissima, tanto che, ad un certo punto, minacciai di lasciare l’impiego se il dottore non si fosse convinto delle mie buone ragioni. Egli, infatti, si convinse e tutto finì con reciproche scuse: lui per aver insistito su un punto in cui aveva torto; io per avergli risposto duramente, senza tener conto che egli era pur sempre un mio superiore. Per licenziarmi potevo sfruttare una di queste discussioni che potevo avere nel momento che avrei voluto, giacché le occasioni, in vero, non si facevano desiderare. Pensai, però, di utilizzare la questione dello scarso stipendio. Aspettai il 31 gennaio e al termine della giornata di lavoro, prima di darci la buona sera e tornare a casa, affrontai il commendatore. - Egregio commendatore, mi duole assai dovervi dire che dalla fine di febbraio non intenderò più prestar servizio alle vostre dipendenze -. Ero nervoso, ampolloso. Gli altri impiegati stavano a guardarmi sbigottiti. - Ma perché mai? - fece sorpreso il commendatore - Non ti trovi bene forse nella mia Ditta? -, aggiunse dopo un po’, riprendendo fiato. Mi dispiaceva veramente dover troncare un rapporto d’impiego così bene avviato, ma ero deciso ad allontanarmi da te e perciò non potevo esser delicato con il commendatore. - No, non mi trovo bene presso la vostra Ditta - gli risposi, freddo.

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- E perché mai? - Mah! Francamente pensavo che voi foste così intelligente da capirlo. Mi avete tolto così il fastidio di dovervelo dire: sono stufo di lavorare dodici ore al giorno per percepire, poi, a fine mese, la miseria di ventimila lire. Lo stipendio che mi date è semplicemente meschino. È tragico, ma io mi vergogno di percepirlo, mentre altrettanto non avviene per voi che e lo date. Penso sia ora di andarmene in cerca di un impiego migliore. Vi do, quindi, il mese di preavviso stabilito dal contratto e poi tanti saluti. Ero duro e cinico, quanto ridicolo, retorico, borioso. Gli altri impiegati, che mai avrebbero avuto il coraggio di fare un simile discorso al commendatore, mi guardavano con gli occhi fuori dalle orbite. Pepé, imprudente come sempre, sbottò: - Mamma mia, come gliele sta cantando! Il commendatore appariva distrutto. Respirava a fatica, tanto che ho temuto gli venisse un colpo. Certo, per lui cose simili erano impensabili. In tutta la sua lunga vita di dirigente, non aveva avuto mai da fare con un subalterno duro e netto come me. Pure a lui era nota la mia sincerità, la mia schiettezza e nella Ditta essa era proverbiale, come proverbiale lo era anche tra i miei amici (sì, Carissima, proprio al contrario di come mi comportavo con te). Conosciuta e apprezzata era anche la mia risolutezza (chiamiamola pure cocciutaggine): non ritornavo mai sulle mie decisioni, a qualunque costo, e non avevo paura di dire pane al pane e vino al vino, in faccia a chiunque e in qualsiasi occasione. - Ma non sapevo tu fossi scontento dello stipendio che percepivi - disse balbettando il commendatore; e si sedette, visibilmente affaticato. - Sentitelo! - feci sarcastico - Mi dava centomila mensili, il mio commendatore, e, perciò, adesso è sorpreso che non ne ero contento! Non capite (e qui cominciai a gridare) che ventimila lire, oggi, sono meno che niente? Ne pago già trentamila al mese per stare in pensione… Ma lo sapete che son pieno di debiti? Se non ho protestato prima, è perché


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speravo nella vostra comprensione, nel vostro buon senso. Perché non provate voi a vivere con ventimila lire al mese? Ventimila lire! Ma voi di soli sigari vi fumate ogni settimana il mio stipendio! - Hai ragione! - fece il commendatore, sorpreso -. Non avevo mai fatto caso che tu sei lontano dal tuo paesetto, dalla famiglia, che vivi solo, che con lo stipendio devi provvedere a tutto. Ma stai tranquillo, ti aumenterò adeguatamente lo stipendio; anzi, sì, sì, lo aumenterò a tutti, perché ve lo meritate. Aspetta, aspetta, chiamo mio genero e discutiamo subito la faccenda. Il commendatore si alzò a fatica e chiamò il dottore. Poi entrambi scesero a confabulare giù nello scantinato, dove si trovava il deposito e dove, da circa tre mesi, avevano impiantato una nuova Società, i cui soci erano i vari componenti la famiglia e il commendatore fungeva da amministratore unico. Intanto, gli impiegati s’erano precipitati a complimentarsi con me. I “bravo!”, gli “evviva!” si sprecavano. Mi ringraziavano per il gesto compiuto e con tanta fermezza, aiutandoli, nel contempo, ad avere quell’aumento che loro mai sarebbero stati capaci di chiedere. Io tacevo e in cuore sentivo pietà per quelle povere persone. Loro erano, col commendatore, quel che io ero con te. La nullità ch’io mi sentivo dinanzi a te, loro la provavano dinanzi al commendatore. Io strisciavo davanti a te, loro strisciavano davanti al commendatore. Io ero presuntuoso, orgoglioso senz’ altro, dinanzi al commendatore e al mondo, ma umile e dimesso dinanzi a te; loro sarebbero stati altrettanto presuntuosi e orgogliosi dinanzi a te e al mondo, mai dinanzi ai propri superiori. E questo perché loro erano degli inetti, io sapevo quel che volevo. Loro avevano un concetto animalesco dell’amore; io sublime, spirituale. Per loro l’amore consisteva semplicemente nel portarsi a letto una donna; per me era poesia, delicatezza, sentimento. Per loro la donna amata aveva l’ aspetto di una concubina; per me era l’ emblema dei sentimenti più alti e nobili. Dopo un po’, il commendatore ricomparve.

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Si era ripreso, appariva nuovamente allegro e sicuro. Era certo che io avrei gridato di gioia nel sentire quel che aveva deciso col Dottore. Poveretto! Non sapeva che per me il suo affannarsi era inutile. Avevo deciso di andarmene e niente e nessuno al mondo sarebbero stati in grado di trattenermi. - Ecco! - prese a dirci effervescente, come se ci comunicasse chissà quale portento - Ho deciso di aumentarvi lo stipendio. Da questo mese, vi darò un aumento di lire (e qui calcò enfaticamente la voce) quindicimila ciascuno! E a te - disse indicandomi -, considerando che, per le tue particolari condizioni, devi sostenere molte più spese di loro, ti porto lo stipendio da lire (e calcò nuovamente la voce) ventimila a lire cinquantamila mensili! Sei contento? Siete contenti? Tutti batterono le mani. La loro gioia era incontenibile: ridevano, commentavano, mandavano esclamazioni di affetto e di riconoscenza al commendatore e a me che, infondo, ero l’artefice di così isperata benedizione. Ma il commendatore sembrava non vederli e non sentirli. Il loro giubilo per lui era scontato. Fin dal momento che aveva deciso l’aumento, aveva previsto le loro manifestazioni di gioia. Il commendatore guardava me, me che tacevo e sorridevo beffardo. - Per caso non sei ancora contento?! - mi domandò con un’aria sorpresa e sbigottita, che lasciava facilmente capire quanto per lui dovesse essere assurdo il mio atteggiamento. Certamente, da me non si aspettava d’essere incensato - conosceva bene il mio carattere -, ma s’aspettava almeno i miei ringraziamenti. - No, non sono contento! -, gli risposi secco -. Sono pieno di debiti, debiti che ho contratto per poter soggiornare in questa città e lavorare per voi; debiti che ho fatto in prospettiva di pagarli non appena voi foste ben sicuro delle mie capacità di lavoro e mi avreste aumentato adeguatamente lo stipendio. Questo aumento dovevate darmelo già prima. Adesso cinquantamila non mi bastano. Più di tanto, il commendatore non era disposto a concedermi, n’ero convintissimo. Perciò, alla sua domanda imbarazzata:


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- Ma quant’è che vorresti? -, risposi pronto: - Settantacinquemila! - No, no, non posso darti tanto - fece costernato -. Mi dispiace, mi dispiace proprio, perché capisco che sei deciso ad andartene ed io m’ero affezionato a te. Ma non posso farci nulla, no, no, proprio nulla; con una spesa simile metterei alle mie dipendenze altri tre impiegati, anche se mi ero affezionato a te, anche se avrei preferito tu rimanessi nella mia Ditta… Lo vedi? Lo vedete? La mia volontà di aiutarti non manca. Sei tu che sei cocciuto, sei tu che ti sei intestardito. Tu non devi pretendere l’impossibile. Più di tanto non posso darti. Dunque, accetti? - No. Provvedete a cercarvi un altro impiegato se vi necessita, perché, a fine febbraio, andrò via. - E sia! - rispose seccato il commendatore -. Vattene pure. Domani provvederò a far venire chi dovrà prendere il tuo posto a fine febbraio. Gli altri impiegati erano rimasti di sasso. Non potevano credere a quanto avevano visto e sentito. Io, senza dubbio, ero un pazzo. Salutai e me ne andai. Anche loro uscirono dietro di me, costernati, senza nemmeno essere capaci di dare la solita deferente “buona sera” al commendatore, e proprio quando se la meritava. Mi resi conto che il colpo più duro l’ avevo dato a loro. (Capisco, Carissima, che questa lettera è farraginosa, non degna di me che la scrivo, né di te che la riceverai, di te, uscita con onore da un Liceo. È che, mentre scrivo, tremo, febbricitante, cuore e mente alterati. Perciò non rileggo, né correggo). *** Il mese di febbraio passò veloce e senza avvenimenti di rilievo. A casa delle tue zie, dopo la burrasca tra me e te, andavo semplicemente per pranzare e per dormire. E con loro non parlavo più. Mi ero fatto taciturno anche con gli amici. Insomma, fu un mese trascorso in assoluto silenzio e lontano da tutti. Ho evitato anche di venire a trovarti e questo solo a forza di grandi sacrifici. A fine febbraio, lasciato l’impiego e la casa delle tue zie, me ne

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tornai al paese. Prima di partire, sono stato a salutare i tuoi, ma in un giorno che tu eri assente. A tua madre, che mi chiedeva perché avessi abbandonato così precipitosamente il lavoro, raccontai la favoletta che avevo già preparata per i miei e che, cioè, il principale non aveva voluto aumentarmi lo stipendio neppure di una lira e, pertanto, avevo deciso di andarmene, non potendo prestare servizio in eterno in quella Ditta per una miseria. Intanto, la mia salute peggiorava. I reni mi facevano penare di continuo e, sebbene neppure per un giorno avessi abbandonato le cure, non riuscivo ad eliminare il calcolo dall’uretra sinistro. Così, malattia fisica e malattia morale acerbamente mi combattevano e in poco più di tre mesi m’ero ridotto a un’ombra dell’antico me stesso. I miei erano preoccupatissimi. Mia madre in particolare, possedendo, ella, quasi la mia stessa morbosa sensibilità. Anzi, credo che la delicatezza d’ animo e la sensibilità, io le abbia ereditate proprio da lei. Le cure e le attenzioni che lei mi prodigò in quel periodo furono inimmaginabili e devo a lei se, verso la fine di maggio, ho potuto riacquistare l’immenso dono della salute fisica. Per il mio cuore, tremendamente devastato dalla passione per te, neppure mia madre poteva farci nulla e, perciò, non solo agli altri, ma nemmeno a lei ho mai parlato delle mie pene. Le mie malinconie profonde, le mie inenarrabili disperazioni, trovavano un qualche sfogo nei continui, dirotti e solitari pianti. Il tormento si attenuò un poco solo nei giorni durante i quali ho eliminato il calcolo: gli atroci dolori, prima, e, poi, la gioia per la certezza della riconquistata guarigione fisica, avevano messo le pene e i languori per te in secondo ordine. Ma ben presto riacquistarono la primitiva intensità. Il fatto, poi, di non poterti vedere ogni qualvolta lo desideravo, come avveniva a Reggio, ove non potevo fare a meno di appagare al mio cuore ogni capriccio, mi deprimeva terribilmente. Tu eri per me una droga. Unica consolazione erano le lettere di tua zia, nelle quali trovavo qualche notizia di te, che per un attimo mi illudeva, facendo sì che tu mi apparissi meno lontana.


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Positivo mi sembrò, in quei giorni, il fatto che, durante la eliminazione del calcolo - come già accennato -, le preoccupazioni per te erano passate in secondo ordine. Ne dedussi che, trovandomi un impiego e immergendomi completamente nel nuovo lavoro, forse avrei potuto, se non proprio dimenticarti, attenuare il bisogno di te. E questo come se i pensieri non fossero quelli che sono, per molti aspetti indipendenti dal nostro volere e si potessero lasciare dietro una porta, a nostro piacimento; o fossero animaletti paurosi e ligi al nostro lavoro, rispettosi delle nostre nuove attività. I veri pensieri - e quelli per te erano tali - spadroneggiano a piacimento, la notte non lascian dormire, tormentano l’anima, ti seguono ovunque, ti accerchiano, ti lapidano nella fatica e nell’ozio. I veri pensieri, se piangi, ti asciugano le viscere e, se ridi, ti strozzano. I veri pensieri ti pietrificano, ma neppure la pietra in cui ti mutano sarà abbastanza dura perché non ti divorino straziandoti come tante termiti. *** Necessitava un nuovo lavoro. Così, quando, ai primi di giugno, Dino venne a trovarmi a casa, offrendomi un impiego nel suo Pastificio di Crotone, sebbene non ancora perfettamente guarito, accettai con entusiasmo. Dino era stato mio compagno all’Istituto “Piria”. Pensai, quindi, che sarebbe stato facile avere con lui buoni rapporti e partii fiducioso. Giunsi a Crotone nel tardo pomeriggio del 15 giugno, dopo più di dodici ore di viaggio. Portavo con me solo una piccola valigia con pochi indumenti personali e due paia di lenzuola. A Crotone, noleggiai una carrozza e mi feci portare al Pastificio. Dino mi accolse come un principale accoglie un suo nuovo dipendente, senza espansioni, ma neanche troppo freddamente. Mi presentò gli altri due impiegati, il contabile Paluccio e il magazziniere Coppola - un reggino claudicante - e, cosa che non mi piacque tanto, mi mise subito a lavoro. Mi sentivo molto stanco per il faticoso viaggio e perché non avevo ancora preso cibo in tutta la giornata. Alle 20,50 venne chiuso l’ufficio. Il contabile se ne andò; il

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magazziniere si ritirò nella sua cameretta (dormiva, infatti, al pianterreno dello stesso Pastificio). Speravo finalmente di poter andare a cenare e poi a riposare, ma Dino mi trattenne ancora nel Pastificio, per impartirmi le istruzioni circa il lavoro da svolgere, farmi visionare i libri contabili. Infine, uscimmo. Avrei preferito andarmene per i fatti miei. Ormai non ci vedevo più dalla fame e dalla stanchezza. Ma Dino volle portarmi in macchina a fare un giretto per Crotone. Erano passate le ventidue quando mi riportò al Pastificio. In tutte quelle ore, Dino non mi aveva parlato d’altro se non di lavoro. Nemmeno il più piccolo interessamento per quelli che potevano essere i miei più impellenti bisogni: riposarmi, prendere cibo, riavermi dallo stordimento del viaggio. Questa vera insensibilità di Dino, il fatto che egli non si rendesse conto che un uomo, appena giunto da lontano, in una città a lui sconosciuta, senza parenti e senza amici, prima d’iniziare a lavorare ha altre necessità assai impellenti da soddisfare, mi preoccupò non poco. Il Pastificio era una brutta costruzione di colore rosso cupo, di tre piani. Al pian terreno, oltre agli uffici e alla stanzetta del magazziniere, v’era il deposito delle materie prime, il garage per gli automezzi, gabinetti e sale igieniche. Il secondo piano era occupato dagli impianti di produzione della pasta (che si estendevano anche in un altro fabbricato) e da alcuni locali adibiti a deposito del prodotto finito, alla sua confezione in pacchetti e all’imballaggio vero e proprio. Il terzo piano era composto da un’ampia terrazza, uno stanzone ancora rustico e pieno di calcinacci, tre piccole stanzette ciascuna con una rete, un materasso e qualche mobile rudimentale, un gabinetto con acqua corrente, nessuna vasca da bagno. Erano passate le ventitré quando Dino ha lasciato il Pastificio ed io son salito al terzo piano per riposarmi. La stanzetta assegnatami era spoglia, le pareti bianche di calce, una finestra senza vetri; una sedia mezza sgangherata e una brandina, sulla quale era steso un esile materasso - neppure dieci centimetri di


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spessore - coperto da un bianco lenzuolo. Misi la valigia in un angolo, mi tolsi pantaloni e camicia e mi buttai sulla brandina, nel caldo afoso, digiuno com’ero ormai da più di ventiquattro ore, senza aver bevuto un solo sorso d’acqua, e mi addormentai. Dormii pesantemente fino alle sette e un quarto del mattino. Aperti gli occhi, il sole già coceva le bianche pareti della stanza e un orrendo spettacolo: il lenzuolo sul quale ero sdraiato era tutto una macchia di sangue. Guardai il soffitto e lo vidi annerito da un nugolo d’insetti, alcuni così grossi da sembrare elicotteri. Braccia, gambe, ventre, tutto bucherellato. Andai in bagno e mi lavai tutto come possibile, indossai pantaloni e camicia e scesi al primo piano. Paluccio e Coppola erano già a lavoro e c’era anche Dino. Un buon giorno strascicato e anch’io mi son messo a lavorare. Non abituato ancora al rumore delle impastatrici, non riuscivo a concentrarmi. A volte non capivo le richieste e le istruzioni di Dino o di Paluccio ed ero costretto a farmele ripetere. Si andò avanti così, fino alle dodici. Fu allora che Dino mi chiese dove volessi recarmi a pranzare, per poi riattaccare alle tredici. Risposi di non saperlo, di non conoscere la città, distante un bel po’ dal Pastificio. Mi diede delle indicazioni e se ne andò. Nel risalire in cameretta a prendere del denaro che tenevo in una sacchetta, in valigia, diedi uno sguardo alle vasche nelle quali si preparava la pasta e agli stenditoi per asciugarla. Erano vasche grandi in uno stanzone senza finestre. L’impasto sembrava una cacca giallastra, a volte spumeggiante, sulla quale si riversavano nugoli di mosche, continuamente rastrellate da un operaio che le gettava in un secchio. Dalle vasche l’impasto si riversava nelle macchine adibite ai vari tipi di pasta. In un altro ambiente venivano prodotti i biscotti. Anche gli stenditoi erano assolutamente antigienici. La pasta lunga, per essiccarsi, veniva appesa su assi di legno e quella corta su stuoie di canne intrecciate, il tutto assalito da nugoli di mosche. Un autentico schifo. Uscito dal Pastificio, impiegai un buon

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quarto d’ora per raggiungere, attraverso una strada ghiaiosa e polverosa, la città di Crotone. Trovai la bettola e mangiai una bistecca con un po’ d’insalata e bevvi un intero boccione d’acqua. Rientrato al Pastificio, trovai già tutti al lavoro. A infastidirmi era maggiormente il mutismo di Dino, compagno di classe al “Piria” per più di quattro anni. Un’ aria pesante, insomma, per me insopportabile. Mi feci coraggio e gli dissi come nella passata notte fossi stato letteralmente divorato dalle zanzare. Era necessario che dormissi in un altro ambiente, non in quella cameretta senza vetri alla finestra e invasa degli insetti. “O. K., stasera ti accompagnerò ad una locanda sulla piazza - mi disse -. Vedrai che ti troverai bene e il costo non sarà eccessivo” Alle venti, finalmente staccammo dal lavoro. Dino mi disse di prendere la valigia e, in macchina, mi accompagnò in città. La locanda era una casa lercia e buia. Il gestore, un uomo basso e stempiato, viso smunto con zigomi cascanti, sopracciglia folti e neri. La stanzetta, un vero bugigattolo, con un lettino, due sedie, un armadio piegato da un lato causa un piede rotto; una piccolissima finestra. Il gabinetto era in comune, in un ambiente vicino, niente vasca da bagno. Dino se n’era già andato. Diedi l’affitto per un mese. Lasciai la valigia e me ne andai a cenare nella bettola nella quale avevo pranzato a mezzogiorno. La mattina, alle sette e trenta, rifeci a piedi la strada polverosa e raggiunsi il Pastificio, trovando tutti già al lavoro; sedetti anch’io al mio scranno senza quasi neppure salutarci. Fu, quello di Crotone, più che un lavoro, un incubo e un incubo mi apparve tutta la città. Accanto alla locanda c’era una casabordello, gestita da una donna lurida e sguaiata. Per tutta la notte, risate e autentici ululati. Una mattina, che me la vidi davanti - mezza svestita, capelli lunghi e neri in disordine, labbra grosse cariche di rossetto, viso biancastro e umido di creme - ebbi spavento, oltre che schifo. Un orrido sfacelo. Mi sforzavo a non pensarti, ma, in quell’istante mi apparvero prepotenti il tuo viso bellissimo, i tuoi


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grandi occhi, i tuoi capelli biondi, la tua snella figura e mi son messo a singhiozzare come un bambino. Ho percorso la strada verso il Pastificio come allucinato, le lacrime tonfavano sulla polvere come le grosse gocce d’un temporale. Tu, Carissima, l’unica mia salvezza lontana. A nulla è valso, in tutto questo tempo, cercar di comprimere, soffocare in me la tua immagine; tu sorgi prepotente in tutte le occasioni e mi domini. Ti dicevo ch’è stato un incubo, per me, anche la città. Eccoti almeno due episodi dei tanti strani avvenimenti. Un mezzogiorno, giungendo in piazza dal Pastificio, sentii improvviso un colpo d’arma da fuoco e vidi la gente fuggire, in silenzio, o gettarsi per terra. Ebbe inizio una feroce sparatoria, durata almeno una diecina di minuti. Impaurito, mi buttai in una cunetta. Cessato il fracasso, la gente riprese a camminare, sempre in silenzio, come se nulla fosse avvenuto. Giunse una camionetta con quattro carabinieri, che fecero molti rilievi, presero misure, raccolsero più di cento bossoli. L’ora a disposizione per il pranzo era già trascorsa, così, digiuno, ripresi la via per il Pastificio. Non ho sentito mai, da alcuno, una sola parola sull’ avvenimento. Altro episodio, altro mezzogiorno, sempre in piazza. Il cielo era sgombro di nuvole, ma caliginoso e l’afa opprimente. Improvvisamente vedo la gente fuggire e ripararsi lungo i muri delle case e nei portoni. Ed ecco abbattersi un fortissimo vento e un polverone alzarsi e coprire ogni cosa. Volavano lamiere, piccoli sassi, cespugli, tegole dai tetti e la chioma delle palme curvarsi quasi a toccar terra. Pochi minuti d’inferno; poi, d’ improvviso, tutto tornò normale e la gente riprese a circolare, in silenzio, anche stavolta, come se niente fosse. Ricordo che la sera, avvilito, depresso fin quasi a scoppiare, nella piccola stanza della locanda, scrissi sopra un pezzo di carta, tra le lacrime, questi terribili e amarissimi versi: CROTONE Nell’aria che ristagna gas e insetti svolazzano i rondoni. Non pace

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avrai finché la sosta t’inchioderà a Crotone. È sera e per le strade la scorbutica gente si diverte. Domani una bestemmia peserà su questi falchi. Domani a mezzogiorno un vento di deserto ti coprirà di polvere e marciumi ché qui grifagna è pure la natura. Non chiedere pretesti. Pitagora insegnò ma in altri tempi. Adesso inorridita l’ombra sua fugge questi barbari nuovi e del pugno e del senno. Adesso Alcmeone in veste nera somministrar veleni si vedrebbe e il buon Milone, neghittoso, giacere sul campo. Addio Crotone. Mi rimarranno in pena di ricordi i tuoi sudici calli ove sbadiglia la fogna e maschere di donne paurose tessono cabale e ridono sguaiate. Furono mesi di autentica sofferenza quelli trascorsi a Crotone, Ciò che più m’infastidiva e rattristava era il non comunicare fra di noi sul posto di lavoro. Il silenzio di Dino m’ indignava più di quello di Paluccio e Coppola, perché quando frequentavamo il “Piria” non m’era sembrato così taciturno. Scarso in Italiano e in tutte le altre materie, ricorreva costantemente a me perché l’aiutassi, compensandomi con pacchetti di biscotti del suo Pastificio. Se avessi saputo, allora, come venivano prodotti, non li avrei mangiati neppure sotto tortura. Non ne potevo più, avrei finito con l’ impazzire. Così, un giorno, mentre si lavorava nel silenzio, ma nel rumore monotono delle macchine ch’era diventato anche per me un sottofondo, quasi gridai a Dino che volevo andarmene. Egli non disse nulla e gli altri neppure alzarono il capo dai loro registri. Poi aprì un cassetto e mi diede i soldi del mese e della buonuscita. Ci stringemmo appena la mano, senza una parola. Andai alla locanda, saldai il dovuto, presi la valigia e risalii su


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quel treno lento, dai sedili di legno, che mi riportò a Reggio in dodici ore. *** A Reggio, alloggiai per due notti e due giorni in un albergo lungo il torrente Annunziata. Inutilmente tentai di contattarti. Poi, ripresi la valigia, salii sul pullman Li Rosi, a Piazza Garibaldi, e ritornai al paese. Dissi ai miei che il lavoro a Crotone era finito e che occorreva trovarmi altra occupazione. *** Dopo una quindicina di giorni, tramite un amico di mio padre - il capitano D’Agostino , fui chiamato come aiuto magazziniere presso lo Stabilimento SIOP di Rosarno, azienda del bassanese Oscar Pozzobon, che stava bonificando la piana di Gioia Tauro. I primi giorni, dal paese a Rosarno, mi son recato a piedi. La strada è punteggiata di “cone”, cioè di lapidi in ricordo di gente ammazzata in incidenti d’auto, ma, in gran parte, da fucilate a lupara. Sono uscito da anni dall’infanzia, Carissima, ma non dall’infantilismo. Ritornando ogni sera col buio dallo Stabilimento, non facevo che pregare, recitare Pater noster, Avemarie e Requiem. Tutt’altro clima alla SIOP, rispetto al Pastificio di Crotone. L’ingegner Gallina, neppure trentenne, direttore del Cantiere, veniva spesso in magazzino a chiacchierare con Verduci - il magazziniere - e con me. Dopo avermi conosciuto meglio, con me si confidava; diceva che, essendo della zona, potevo dargli qualche consiglio. Temeva della Ndrangheta; ben due volte, recandosi a Reggio Calabria, era stato fermato sulla litoranea e chiesta la tangente. Era scoraggiato, indeciso se cedere al ricatto o lasciare l’incarico, rientrando a Bassano del Grappa. Gli dicevo di resistere, ma, in cuor mio, temevo per la sua incolumità. Verduci era un buon camerata; si lavorava bene insieme e si chiacchierava. Un giorno gli arrivò la notizia della morte di un parente a Ferrara che gli aveva lasciato una cospicua eredità; si licenziò, salutò tutti con le lacrime agli occhi e partì. Io venni assunto al suo posto con relativo aumento di stipendio.

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Da qualche mese viaggiavo con una vecchia lambretta. Decisi di acquistarmi la macchina e un sabato mattina, con mio padre e il capitano D’Agostino, mi recai a Gioia Tauro e firmando un mazzetto di cambiali, acquistai una fiammante Cinquecento. Mi piaceva quel lavoro; si stava quasi all’aria aperta, tra canalette, piedritti, sifoni. La mattina, i geometri si rifornivano di materiale e, prima di lasciare il Cantiere per le rilevazioni, scolavano intere bottiglie di grappa. Specialmente Contin, che aveva un odio viscerale per l’acqua. Spesso, lavorando, scoprivano reperti archeologici, come quelli riferenti all’antica città di Medma: per lo più oggetti votivi, come piccole statuette d’argilla. Un brutto giorno, però, si presentò in magazzino un losco individuo armato di fucile a canne mozze. Disse d’esser stato assunto come guardiano - Gallina, a quanto pareva, s’era arreso al ricatto, pagando il pizzo con l’accettare quell’avanzo di galera - e pretendeva ch’io gli consegnassi del tutto gratuitamente e senza bolla, materiale vario, come fil di ferro, filo spinato, gomitoli si spago e via elencando. Al mio rifiuto rideva spettrale e velatamente minacciava. Dopo qualche settimana, riferii all’ingegner Gallina. Teneva gli occhi a terra, cincischiava con un tagliacarte e “Resiste”, mi disse, “finché sarà possibile”. In me, Carissima, hanno sempre convissuto e convivono due Io: uno arrendevole e l’altro rigido, ma venato di paura. È questo, quasi sempre, a dominare. Resistetti alle richieste per mesi e nottetempo si verificarono numerosi furti; quando ho capito che nessuno mi avrebbe difeso, pensai di licenziarmi e di lasciare per sempre la Calabria. Il mio sogno, d’altronde, era stato sempre quello di vivere a Roma, dove ero stato per brevi e lunghi periodi, a partire dall’età di appena quattro mesi. *** Carissima, ieri pomeriggio ti ho chiamata al telefono. Mi hai risposto con gioia. Dio ti benedica! Erano mesi, era quasi un anno che non lo facevo. Un tempo lunghissimo, nel quale tu mi mancasti dolorosamente e diveni-


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sti per me sempre più intima. In me ti sei interiorizzata. Oggi ci siamo incontrati sul corso Garibaldi, nei pressi del Museo. Ci siamo dati un bacetto sulle guance. Quanto sei bella! La tua veste rosa a fiori, i nastrini sul petto, i tuoi occhi grandi e azzurri, luminosi, le tue labbra con un velo appena accentuato di rossetto, i tuoi biondi capelli, le tue mani lunghe e sottili, di fata! Siamo scesi sulla via Marina e l’abbiamo percorsa tutta, fino alla stazione centrale. Sorrisi, chiacchiere, soste, riprese, le nostre mani di tanto in tanto a cercarsi, il cingerti delicatamente il fianco quando, tra le macchine, attraversavamo le strade. Felici. Che giornata splendida, che cielo azzurro! Corso Garibaldi affollatissimo, il Duomo una scaglia di luce. Ci specchiavamo nelle vetrine, tu attratta dai vestiti, dalle borsette, io dalle nostre immagini. Un vero articolo il. Tu snella, alta, divina; io basso e secco, giovanilmente muscoloso. Di certo, fisicamente, una coppia non bene assortita. Ed è mentre ti guardavo e mi guardavo ch’è scattato improvviso qualcosa in me, che mi ha gelato e mi ha fatto interiormente soffrire: una frustata. Tu alta e bellissima. Quale il nostro futuro? Veramente possibile che tu ed io si possa vivere felici e insieme per sempre? Un giorno ti stancheresti del mio fisico e del mio carattere e sarebbe l’inferno. Tu devi liberarti di me. Incontrerai un altro giovane al quale ti concederai e resterete uniti e felici per l’eternità. È necessario ch’io mi faccia da parte, che ti liberi. Avrai sempre con te i miei versi e i miei disegni se vorrai ricordarmi, ma non è possibile altro. Non son degno di te. Dopo esserci separati, a piazza Italia, abbracciandoci e baciandoci sulle guance, ho raggiunto la macchina su via Enotria e son volato al Porto. Ero in preda alla follia. Parcheggiai lungo il muro distante pochi metri dalla banchina e dall’acqua limacciosa, spensi il motore e stetti per ore fermo,

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impietrito. Il sole picchiava sulla carrozzeria ed io sentivo brividi. Un mulinello d’ immagini. Il tuo futuro splendido, buio e tempestoso il mio. Improvvisamente ho acceso il motore, ingranato la marcia, pigiato con forza sull’acceleratore. Ed ecco te, una barriera altissima, una divinità, gridare, gli occhi spalancati, il viso una smorfia di dolore, le braccia e le mani tremanti, ferma, lì, come una roccia sulla striscia gialla. Ho premuto con forza il freno, inchiodando la macchina prima dell’abisso. Addio, amore sublime, Addio! Addio, musa ispiratrice. Salvatrice, Addio! Amore grande del quale non son degno, Addio! Tu sola sei e resterai l’amore vero. Ma l’amore è libertà, è non far soffrire gli altri. Con me, invece, tu soffriresti e per questo ti libero. Addio! Mai più ti cercherò. Domani partirò, da te mi allontanerò e per sempre. Addio! Domenico Defelice Dalla raccolta inedita: Non circola l’aria.


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I POETI E LA NATURA – 90 di Luigi De Rosa

D. Defelice - Metamorfosi (2019)

LA PRIMAVERA PER IL POETA GRECO

ALCEO (630 a.C.): UNA TAZZA DI VINO, I CAVALLI, IL DISGELO, I CANTI NELLE VALLI

C

on la puntata n° 51 (in Pomezia Notizie del gennaio 2016) avevamo scostato un lembo dell'affascinante velo che ci nasconde la vista della Letteratura Greca. Ci eravamo occupati di Esiodo (VIII-VII secolo a. C.) e del suo poemetto “Le opere e i giorni”. Oggi torniamo a dare un'occhiata a quella fascinosa Letteratura, anche invogliati dalle

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sensazioni e aspettative legate al ritorno della Primavera, con la complicità di quell'immenso poeta e traduttore di nome Salvatore Quasimodo (si rivedano i suoi Lirici greci...). Ci volevano le squisite traduzioni di un futuro Premio Nobel, che aveva studiato da geometra per necessità e aveva lavorato al Genio Civile ( sempre per necessità) per farci gustare appieno i Lirici greci... Oggi ci occupiamo di Alcèo, nato da famiglia aristocratica a Mitiléne nel 630 a. C., e vissuto fra il VII e il VI secolo a. C. Quasi tremila anni sono passati da quando Alceo scriveva gli Inni, i Carmi della lotta civile, i Canti conviviali e i Canti erotici. Alcèo, un poeta prevalentemente civile più che intimista, votato alle lotte per il potere fra aristocratici e popolo, e alla fine, dalla stessa politica, bastonato ben bene, tanto da arrivare a cercare consolazione alle sue pene ed ai suoi guai nelle tazze ( molte) di ottimo vino. Solo il vino ormai gli dava conforto, dopo il venir meno delle gioie del sesso e del potere politico più sfrenato... A lungo, il nome dello stesso Alcèo è stato accostato a quello della poetessa Saffo, ma non pare che vi siano prove certe di un rapporto erotico fra i due. E questo non solo per la patente condizione di omosessualità di Saffo (che aveva già il suo tìaso di fanciulle cui badare) e che comunque non sarebbe stata un ostacolo insormontabile. Quanto ad Alcèo, pare che ai suoi tempi d'oro non avesse bisogno di nulla, e che non si facesse mancare neppure rapporti amorosi con bambini, dato che la pederastìa, a quei tempi, pareva perfettamente naturale, mentre oggi appare giustamente come una via veloce per raggiungere galera e disonore... Ma quello che ci interessa ai fini di questa rubrica è il rapporto fra il Poeta e la Natura.


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E, nello specifico, dato anche che questo numero della rivista esce in aprile, fra il rinnovamento interiore del poeta e quello della Natura, fra l'uomo dell'antichità e la Natura della sua epoca. Niente di meglio che riportare alcuni versi dello stesso Alcèo, naturalmente tradotti da Salvatore Quasimodo: “Io già sento primavera che si avvicina coi suoi fiori: versatemi presto una tazza di vino dolcissimo.” “Già sulle rive dello Xanto ritornano i cavalli, gli uccelli di palude discendono dal cielo dalle cime dei monti si libera fredda azzurra l'acqua e la vite fiorisce e la verde canna spunta. Già nelle valli risuonano canti di primavera.” Luigi De Rosa MI SONO Mi sono incantata ad ascoltare il canto di un merlo, canta, canta, con tanta armonia che rallegra l’anima mia, canta con tanto ardore che rallegra il mio cuore e rallegra questo giorno che non farà più ritorno, mentre il respiro di questo giorno si chiude. Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, MI

Recensioni MARIO BENEDETTO PAROLE NELLA NOTTE (Poliartes, 2018) Poesia e pittura, si sa, sono arti sorelle: non stupisce pertanto che un pittore come Mario Benedetto, docente nei Licei Artistici Statali, si occupi anche di poesia, come appare da questo suo recente libro intitolato Parole nella notte, nel quale una cospicua serie di immagini grafiche accompagna i testi. In lui pertanto la parola e l’immagine si completano a vicenda, in un gioco sottile, che si scopre ad esempio in testi quali Adesso dovresti essere tu: “… adesso dovresti essere tu, /in mezzo a questi alberi e vitigni,/a quest’ora del mattino/dall’aria tersa e profumata,/a scoprire,/tra il fogliame verde, i fichi maturi,/gonfi come i seni sul petto d’una fanciulla…”. Sono queste poesie di schietta matrice esistenziale, che trovano la loro ispirazione innanzitutto nel rapporto con l’altro, come appare sin dalla prima, A me è rimasta, dove leggiamo questi versi: “La vita ti ha lasciato / all’alzar del giorno. / A me è rimasta un’indomabile pena / che il tempo non lenisce”, dove il rimpianto per il fratello perduto si fa acerbo e più morde nell’animo. L’immagine che accompagna la poesia rappresenta un giovane in piedi nella sera; una sera che s’intuisce dal colore dello sfondo, dal quale emergono tre ragazze. A questa poesia fa eco Così ti ricordo, che inizia: “I tuoi occhi hanno la luce / intensa e lieve / delle mattine di marzo”; e seguita: “Le tue parole hanno il fruscio / delle fronde odorose”. Speculare a questi versi è una coppia di amanti, legati in un complesso intreccio di mani che si stringono indissolubilmen-


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te. Minuta è la trama del disegno che fittamente occupa la pagina. Una nota dolente accompagna Farsi casa la strada, dove troviamo versi quali: “Farsi casa la strada, / soffitta questo cielo, / che poi, cielo non è. // Aspettare il sonno ed il sogno, / in solenne comunione con il mondo, / … / il sapore del tempo / nulla che resta nel vento”; versi cui fa da commento una tormentata figura ripiegata su se stessa. Espressione di una complessa simbologia appaiono poi altre immagini, come quelle di Esodo, che Mario Benedetto così commenta: “Cupo, l’ orizzonte / inanimati corpi avvolge / d’ogni idioma naufraghi”; oppure Violenza, dove appare la figura di un volto che grida e che l’autore così commenta: “In questa oscura notte / urlo il mio dolore / alle sconfinate / sommità del cielo / fino allo spasimo”. Fa seguito In questa notte stanca, nella quale il tono si fa sommesso e carico di nostalgia e di rimpianto: “In questa notte stanca, insonne, / in questa stanza satura di fatica / ti ho tanto pensata”. A fronte stanno delle immagini sensuali di donne, che paiono emergere da una profonda lontananza. Evidente è qui l’elemento onirico, che ritroviamo nella poesia successiva, In questo attimo, la quale s’accompagna a una donna dalle splendide forme. Il primo verso è infatti: “Il tuo bellissimo corpo”. Ma il riaffiorare dei ricordi lo si ritrova un po’ dovunque in questo libro, dal momento che in Inattesa si scoprono questi versi: “È sgorgata dal fruscio della sera, / per tanto tempo aspettata” e in La tua atavica voce si legge: “Mi risuona oggi più che mai / la tua atavica voce”. Particolarmente significative appaiono inoltre in questo contesto poesie quali Persistenza, che così inizia: “Stamani la gente che mi passava accanto / scorreva come un fiume”, dove è una folla di uomini e di donne che trascorre, colti ciascuno nel pieno delle sue cure e dei suoi affanni, che fa da commento ai versi col suo apparire. Lo stesso può dirsi dei volti che si affacciano dal finestrino di un treno, posti a fronte di una poesia quale Mi piacciono i treni, nella quale è lo “sfrecciare veloce nella notte” dei convogli ferroviari che desta in Benedetto nuove emozioni. Il suo si presenta pertanto come un libro complesso, sia per la parte grafica che per quella poetica, dallo stile direttamente comunicativo, nel quale vita e morte, amore e dolore trovano la loro compiuta espressione e che ben si conclude con due più lunghe poesie, Ulivi e Vorrei scriverti le cose più belle questa notte, nelle quali più distesa si fa la sua voce e più variegato il suo dire, sull’onda di una sottile e delicata nostalgia. Elio Andriuoli

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FRANCESCO D’EPISCOPO LA POESIA DI IMPERIA TOGNACCI. INQUIETUDINE DELL’INFINITO Genesi Editrice, Collana "Novazioni" n. 60. Torino, 2019; pp. 96, € 11,00. In copertina: Curiosità, dipinto di Silvestro Lega (1869) "Splendida disamina dell'intera opera poetica della scrittrice Imperia Tognacci, sondata con passione e intelligenza in ogni sua caratteristica e in ogni sua riposta piega inventiva ed espressiva. Il discorso si snoda a partire dalla nativa matrice pascoliana, per poi giungere alle singole raccolte di poesia e approdare infine, seguendo un costante orientamento evolutivo, all'esame delle opere più recenti, scritte in forma di unitario poemetto. Il testo è ricco di molte significative e pertinenti citazioni, che si pongono di volta in volta come valida e tangibile riprova dei vari aspetti rilevati e criticamente riflessi. Il saggio di Francesco D'Episcopo - cattedratico, esegeta e pubblicista di chiara fama - si presenta a tutt'oggi come l'indagine senza dubbio più bella, più profonda e insieme più esaustiva della produzione lirica della Tognacci, in ogni pagina acutamente e prismaticamente rifratta in tutte le sue valenze letterarie, filosofiche e psicologiche. "Imperia Tognacci meritava una monografia", scrive l'autore del saggio nel suo capitolo conclusivo intitolato Post scriptum. E questo merito è ben motivato da quello che egli afferma di seguito: "Attraversando le singole composizioni della nostra meritoria autrice, si resta colpiti da un'onestà intellettuale, che può ben definirsi esistenziale, nei confronti del suo mondo personale, che prova sempre, riuscendoci, a farsi universale. Che è poi il compito precipuo della vera poesia". - A completamento del volume compare in appendice un ampio apparato biobibliografico comprendente tutte le opere edite dell'autrice, i principali riconoscimenti ricevuti, nonché l'indicazione degli scritti critici e dei nomi di tutti coloro che hanno pubblicato importanti pagine di commento su di lei. Da notare infine la ben curata, finissima veste grafica scelta dall'Editore, che aggiunge un pregio anche estetico al valore intrinseco del libro". Marina Caracciolo

FIORELLA GOBBINI PETALI DI POESIA Il Convivio, Castiglione di Sicilia (CT) 2018, Pagg. 48, € 8,00 L’immagine della copertina di Petali di Poesia, ben si addice a Fiorella Gobbini, docente romana,


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di formazione umanistica e dalla molteplice attività letteraria, che così si rivela di animo gentile. Angelo Manitta dice nella prefazione, giustamente, che il titolo, preso dal componimento eponimo in chiusura, racchiude il senso compiuto dell’intera raccolta e quindi il pensiero di Fiorella: la vita sua è come un fiore, mettiamo una rosa, alla quale si staccano i petali, come si faceva una volta, per conoscere l’esito di un evento o di una risposta (si o no). La vita è paragonabile a un “diario dell’anima” in cui la parola prevalente è ‘amore’, coniugata con cuore, nel ritmo che sa di armonia propria della poesia. La grazia con cui la Poetessa si presenta, inizia fin dall’esergo che, con leggerezza, recita: “la poesia… una carezza sul cuore”, che ritroveremo in chiusura della silloge; e perciò invoca nell’incipit la Musa della poesia. La silloge si presenta sì, come intimo “diario”, ma anche come dichiarazione e rivelazione del suo sotteso intento poetico rivolto ad un caro amico e a tutto il mondo (“Spargerò al vento/ parole d’amore”), principiando dal ricordo di lei bambina (“Rimangono i sogni/ racchiusi nel cuore:/ son quelli che salvano,/ che danno valore.”). I versi sono tutti delicati, danno benessere a chi li legge; il lettore non può fare a meno di soffermarsi, di gustarli; li citerebbe tutti quanti. Si schiude un ventaglio di emozioni; c’è una liricità drammatica nel rimpianto di non avere colto i fiori (le occasioni) quando era il momento per poi vederli appassire, come petali secchi. I suoi sono sentimenti vissuti e sofferti, non sono solo parole. Seguirà un velo di malinconia che però non incupisce l’anima della Poetessa; così alla bellezza del mare e delle piante, quando tutto passa e ritorna con le stagioni, ma non ritorna l’amore, subentra una liricità struggente come un marchio. Il cuore “mugola” come la risacca sulla battigia e risente di una certa assenza palpabile in quel “e tu non ci sei più”, che non ha bisogno di tante parole. L’assenza che si avverte verso se stessi, fa sentire l’assenza nel mondo; dà lo sgomento di un mondo che senza amore non ha senso. Si interroga: “Dolce usignolo,/ perché non canti più?” (pag. 16), ma conosce la risposta; è come dire: “Da quando l’amore non mi sorride/ il cuore mio più non canta” (mie virgolette). Così si confida e noi entriamo nel dialogo. La lettura rivela naturalmente una realtà poco soddisfacente che continuiamo ad ignorare. Le stagioni si rivestono della sua anima e viceversa, turbata e incerta nelle alterne fasi del cuore, ma la speranza vive ancora, seppure “scivola tra le dita/ questa vita”. Muove rimproveri agli indifferenti, e a qualcuno in particolare. Voltando pagina, dopo un amore perduto senza un perché, si chiede se nascerà

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una nuova tenerezza. L’assenza sopraccennata si sublima in quel “mi manchi di più” (pag. 33). Fiorella Gobbini si rifugia nella poesia, affida alla sacralità delle parole i suoi sentimenti, confidando nelle anime gentili che non hanno bisogno di apparire ad ogni costo. E quando giungono le parole d’amore nasce una armonia, un trattino d’unione. “E le porte di cristallo/ si spalancano da sole/ alle anime romantiche,/ ai poeti e ai sognatori,/ agli artisti, agl’inventori.” (pag. 37). Sono parole che fanno sognare pure il lettore, sono Petali di Poesia. Tito Cauchi

E. G. PARODI TRISTANO RICCARDIANO Testo critico di E. G. Parodi a cura di Marie-José Heijkant - Pratiche Editrice srl, Parma, pp. 465, aprile 1991. Volume pubblicato con il contributo del Ministero della Pubblica Istruzione Il testo si apre con versi particolari, che avviano il lettore alle tematiche antiche che via via il Parodi porterà dal passato medievale, intorno al 1200, fino a noi: Cum amans ki sunt en destraiz Purpensent de mainte veidise De engin, de art, de cuitise, Cum il purunt entrassembler, Parler, envaiser e jeur, Si feimos nus... (Folie Tristan d'Oxford, vv. 734739). M-J. Heijkant si appassiona al testo Il Tristano Riccardiano dell'insigne studioso e linguista E. G. Parodi, pubblicato per la prima volta a Bologna per i tipi della Romagnoli-Dall'Acqua nel 1896, offrendone qui un'Introduzione semplice e ben chiarificatrice, nelle sezioni: La versione particolare del “Tristano Riccardiano” (pp. 7-17); La struttura tematica del “Tristano Riccardiano”: a) La prodezza (pp. 17-20), b) L'amore (pp. 20-25), c) La corte di Tintoil e la corte di Camellot (pp. 25-30); Analogie testuali e intertestuali (pp. 30-33); Note (pp. 33-40); Nota informativa e bibliografica (pp. 41-47); Nota linguistica (pp. 48-52). Il Parodi per primo ha dato vita e diffusione tra studenti e studiosi al manoscritto 2543 della Biblioteca Riccardiana di Firenze, un materiale in membrane della fine del sec. XIII. Sostiene la curatrice: “... È mutilo a causa di una macchia che via via si allarga e lacera infine la pergamena. Inizia ex abrupto con la morte di Felice, nonno paterno di Tristano... Nella scrittura di modulo semigotico sono presenti tratti della scrittura mercantesca...” (M.-


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J. Heijkant, Nota informativa e bibliografica, pag. 41). Il Parodi riporta Il Tristano Riccardiano dell'anonimo autore toscano che pone in brevi capitoli il dar conto degli eventi, da I a CCXVII, (pp. 53379), per poi inserire a conclusione il Tristano Panciatichiano (Dal Panciatichiano 33, pp. 381-412) e concludere con le Note (pp., 413-464). Ho scelto un momento particolare della vicenda, quando Tristano, ferito malamente, parte con il suo destriero e il fidato Governale per imbarcarsi, offrendo argento in cambio, su una nave in sosta al porto di Tintoil, direzione la Pitetta Brettangna. Una volta arrivato, vuole incontrare il re della città e si presenta a lui in tutta schiettezza come cavaliere errante: “CIV '... Onde sappiate ched io sono uno cavaliere di lontano paese, lo quale io sostengno d'una fedita la quale io abo, e nnonn òe trovato guerigione in nessuna parte. Or mi fue insengnato che in questo vostro reame si àe una damigiella, la quale sae di queste cose più che neun'altra damigiella che ssia al mondo. Ed inpercioe sì vi priego che vi debia piacere che voi sì mi dobiate fare aiutare, quando a voi piaccia, sì che per Dio innanzi ed appresso per voi io trovasse guarigione'. CV. In questa parte dicie lo conto, che quando lo ree intese queste parole fue molto allegro. E incontanente sì incomincioe a risguardare .T. e videlo tanto bello e ttanto avenante, che bene si rasenbrava ched egli dovesse essere pro cavaliere a dismisura... CVI … E quando fuorono ne la sala, e lo ree si prese .T. per la mano e menollo nela camera, la quale iera molto rica, e quando fuorono nela camera e lo ree si mandoe per una damigiella, la quale si era sua figliuola. E quando la damigiella fue venuta e lo ree sì le disse 'Dolcie mia figliuola, qui si ee venuto uno cavaliere errante, sì come tue vedi, il quale si ee di lontano paese... E inpercioe voglio che ttue si prendi questo cavaliere in guardia, e debie procacciare tanto e ffare sie che ttue mi rendi questo cavaliere guerito di questo male, al più tosto che ttue puoi...'. Ma in questa parte dicie lo conto, che quando la damigiella intese queste parole fue molto allegra. E incontanente incomincioe a riguardarlo molto bene, e vide che .T. si era lo più bello cavaliere c'unqua mai fosse veduto nela Pitetta Brettangna... E la damigiella incomincia a risguardare la fedita a .T. E dappoi che ll'ebbe risguardata ed ella sì gli disse: 'Cavaliere, non ti isconfortare, chè di questa fedita guarrete voi molto tosto...'. E diciea infra ssee stessa: 'Sed io potesse vedere quello die ched io avesse questo cavaliere a ttutto mio volere, io sarei la più aventurosa damigiella che mai fosse al mondo' … CVII. Ma sse alcuno mi domanderae come avea nome la figliuola delo ree dela Pititta Brettangna, io diroe ch'ella avea

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nome Isotta dele bianche mani, inpercioe ch'ella avea le più belle mani che neuna damigiella di questo mondo...” (E. G. Parodi, Il Tristano Riccardiano, op. cit. pp. 227-229). Quante volte il prof. Parodi avrà parlato di questa sua pubblicazione agli studenti dell'allora Istituto Superiore di Studi di Firenze, ora Università, dando importanti ed appassionate informazioni di prima mano? Quante volte li avrà fatti vibrare cogliendo in vivide immagini l'amore tra i due giovani e riportandolo con dialettica affascinante? Quante volte il Pedrina, qui iscritto dall'aprile 1919, avrà orientato le sue rappresentazioni verso quei delicati scambi di sguardi e di belle, bellissime forme, proiettando il proprio futuro verso la conoscenza, l'approfondimento e la diffusione delle Belle Italiche Lettere? Allora, in quella continuità che si deve all'amore per la Bellezza, dedico questi brevi cenni del lavoro che sto portando avanti a Noemi Paolini Giachery, perché lei, della mitica vicenda di Tristano ed Isotta, conosce tanti, tantissimi particolari! Ilia Pedrina ERNESTO GIACOMO PARODI LINGUA E LETTERATURA Studi di Teoria linguistica e di Storia dell'italiano antico. A cura di Gianfranco Folena con un saggio introduttivo di Alfredo Schiaffini. Collana Biblioteca di Cultura n. 15 e n. 16. Neri Pozza Editore, Venezia, 1957 (due volumi in cofanetto). Lo studioso ed esperto linguista Ernesto Giacomo Parodi firma la struttura e i contenuti di questi due preziosi volumi: Parte Prima Teoria linguistica (pp. 5-96); Lingua, stile e cultura nella Letteratura Italiana prima di Dante (pp. 99-188). Parte Seconda Lingua, stile e cultura in Dante, Petrarca e Boccaccio (pp. 201-500). Ogni Sezione è ricca di contributi e riferimenti agli anni di pubblicazione. Il prof. Alfredo Schiaffini presenta lo studioso, introducendone dati biografici e riferimenti critici: La vita e l'opera di E. G. Parodi (pp. XIII-XXXV); il prof. Gianfranco Folena testimonia uno studio accuratissimo di tutta la bibliografia a disposizione degli Archivi e delle pubblicazioni effettuate in vita dal prof. Parodi nella Nota sulla presente raccolta (pp. XXXVIIXLIV) e nella Bibliografia degli scritti di E. G. Parodi (pp. XLV-CXLIII), passaggio obbligato per chi intenda conoscere il profilo professionale dello studioso genovese, fiorentino d'elezione. Dice di lui il Pancrazi, citato a chiusura del suo at-


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tento profilo da Alfredo Schiaffini: “... Le prose su Dante del Parodi non temono confronto nella critica estetica dantesca dopo il De Sanctis; non solo; ma accusano anche una visione totale e unitaria... Sul Petrarca, su Michelangelo, sul Manzoni, sul Carducci... gli è avvenuto di esprimere, quasi per incidenza, i giudizi più acuti. Per tanti che vivono a scrocco sui libri altrui il Parodi era di quegli scrittori che, se occorre, in una nota di recensione sanno dire più del libro recensito... Citava volentieri; sapeva indicare, da intenditore, la bellezza di un verso e il valore e la risonanza di una rima. E ne godeva apertamente... Gli piaceva restar coi suoi poeti, e ragionar del modo del loro lavoro. Il metodo storico, la filologia egli sapeva che dovevan preparare la critica estetica, non soppiantarvisi; e, d'altronde sapeva che la critica estetica non poteva campar sul vuoto e sull'impressione, o sull'errore storico... Ogni volta che gli avviene di teorizzare, noi sentiamo che il suo accordo col Croce è completo... Dal Croce lo separava piuttosto il temperamento; che in lui, più che nel Croce, era più letterario, classico, se si vuole... carducciano; inteso a riconoscere, a godere, la 'forma riuscita'” (in A. Schiaffini, sez. cit. pp- XXXI-XXXII). Mi soffermo, solo per minimi tratti, quasi una scelta dell'anima che manda bagliori d'eterna luminosità, sulla commemorazione dello studioso Carlo Salvioni, che il Parodi tenne il 12 febbraio 1922 all'Acc. della Crusca, coinvolgendo gli ascoltatori a ripercorrere il suo profilo e i contributi d'elevato livello offerti alla Scienza della Glottologia: “Alla mia comunanza di studii con Carlo Salvioni e alla mia lunga amicizia con lui debbo di esser stato designato a commemorare l'illustre e rimpianto nostro consocio, in questa solenne adunanza annuale a poca distanza dalla sua immatura morte...”. In nota, appena sotto il testo, riporto: “Il Salvioni morì nella notte dal 20 al 21 ottobre 1920, pochi giorni dopo esser tornato improvvisamente da Menaggio a Milano, per curarsi del male occulto e grave, da cui si era ad un tratto sentito minacciato. Non è certo un'esagerazione affermare che è morto anche della morte dei suoi figliuoli. Ma questa fu più grave al suo cuore per l'esacerbarsi della sua passione patriottica. Non tanto nel momentaneo spasimo di Caporetto, che suscitò quella maravigliosa eroica Italia di subito dopo, capace di schiacciare con le sue sole forze (ahimè, le spacconate degli amici, allora e tuttora!), al Piave e a Vittorio Veneto; ma nella lunga insopportabile agonia del dopo guerra. Dei figli, il secondo, Enrico, nato a Pavia nel '95, cadde in cospetto delle Tofane, sul monte Cadini, il 12 maggio del '16; Ferruccio, nato nel '93 a Bellinzona, scomparve nella prigionia e nella morte sul

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Coglio di Gorizia, dinanzi alle trincee del Peuma, il 29 del mese medesimo...” (E.G. Parodi, Carlo Salvioni, in Lingua e Letteratura, Parte Prima, op. cit. pag. 60). La presentazione commemorativa del Salvioni si snoda lungo trentasei pagine, che ripercorrono la giovinezza, le scelte di studio, la carriera, l'amore coniugale e la vita familiare, fino a condurre alla lettera che i due genitori inviano al figlio Ferruccio il 2 febbraio 1916 e trovata fra le cose del giovane soldato, carica di parole dettate da cuori in ansia, ammantate da amore vero e da forte senso del dovere. Il Parodi, commosso, conclude: “Non è possibile aggiungere parole. Inchiniamoci in silenzio. Nelle storie greche e romane, in Livio e in Plutarco, in quelli che sogliamo considerare come gli archivi del più nobile eroismo umano, ispirato dall'amor della patria, nessuna pagina vale questa pagina sublime e santa di un padre e di una madre italiani” (E. G. Parodi, Carlo Salvioni, pag. 96). Ilia Pedrina GIOVANNI GENTILE I PROFETI DEL RISORGIMENTO ITALIANO Collana Opere Complete di Giovanni Gentile - III Ed. accresciuta, Ed. Sansoni, Firenze, 1944-XXII. Nella Prefazione il filosofo, storico e uomo politico italiano sen. Giovanni Gentile offre una sintesi dei contributi contenuti nell'opera, fin dalla prima edizione, datata '12 febbraio 1923': MAZZINI (Alla ricerca del Mazzini/Il Mazzini dei democratici/Il concetto di nazione nel Mazzini/Il Mazzini e la Società delle Nazioni/La religione del Mazzini/Religione o filosofia?/La morale/La politica/Il popolo e l'umanità/L'insegnamento - pp. 3-63); GIOBERTI (Gioberti e Mazzini/Idee giobertiane fondamentali/Il cattolicismo del Gioberti/ Cattolicismo, storia, realtà effettuale/L' orientamento politico del Gioberti/Il problema storico dello Stato italiano/Critica del democraticismo/ Nazionalità e libertà/Repubblica e monarchia/La nuova Roma - pp. 65-125); MAZZINI E LA NUOVA ITALIA (La statua di Mazzini/Il problema dell'unità italiana/Fare gli Italiani/Contro la vecchia Italia/Religione/L'Italia di Mazzini – pp. 129-143); GOFFREDO MAMELI (Il martire dell'Italia di Mazzini/Mameli poeta e scrittore/Mameli martire/Il suo pensiero/La sua fede/La sua religiosità/Il suo senno politico/Immortalità di Mameli - pp. 153184); GIOBERTI SCRITTORE E IL SUO EPISTOLARIO (pp. 185-192); UNITÀ DELLA FILOSOFIA GIOBERTIANA (pp. 193-206); L'ORIGINALITÀ DI GARIBALDI (pp. 207-217).


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La Prefazione si conclude con una informazione precisa Firenze, 2 marzo 1944-XXII, G. G; nella pagina finale 'Finito di stampare il XX aprile MCMXLIV nella tipografia L'Impronta S. P. A, Firenze. Nell'intervallo di tempo tra il primo e il secondo dato, un evento che non viene riportato: la morte violenta, non naturale, di Giovanni Gentile, avvenuta il 15 aprile del 1944. Lo studio incrociato con altri testi attualissimi, che sto portando avanti sulle prospettive aperte da I Profeti del Risorgimento Italiano, mi sta rivelando orizzonti storicointerpretativi della nostra contemporaneità che parrebbero impossibili, senza questo suo concreto ed illuminato contributo e di essi darò notizie e chiarificazioni in altra sede. Ilia Pedrina

GIULIO DI FONZO POESIE 1992 - 2018 (Edizioni Croce, MI, 2018, € 16,00) Una costante ricerca d’armonia, sull’onda di veloci ritmi, è ciò che subito balza agli occhi di chi legge i versi che Giulio Di Fonzo ha raccolto in volume col titolo Poesie 1992-2018, apparsi per i tipi delle Edizioni Croce di Roma nel 2018 nella collana Stil Novo, diretta da Dante Maffia. Sono, queste, poesie nelle quali assiduo s’affaccia il sentimento della natura, percepita come cosa viva, nella quale l’anima si rispecchia. E sono poesie nelle quali compare l’amore, fonte di gioia e causa di pena, e nelle quali domina un sentimento tragico dell’ umano destino. Attenta è in Di Fonzo l’osservazione del mondo esterno, dal quale riceve continui stimoli e messaggi che egli traduce in immagini efficaci e di diretta comunicatività, come accade nei seguenti versi: “Estatica la luce del meriggio” (p. 24); “Così tenue la luna, appena un fiato (p. 28); “Così leggero il mondo in una notte (p. 35); “Arde una stella limpida sul mare” (p. 36); “L’argento lieve che la luce sparge” (p. 52); “La notte lungo il fiume è così in pace” (p. 61); ecc. Ma non soltanto la natura è presente e suggerisce immagini e atmosfere suggestive a questo poeta, bensì è anche presente in lui la donna, che egli vagheggia e che gli offre la possibilità di fermare attimi privilegiati, come avviene ad esempio in liriche quali Tu che mi doni una particola d’amore, dove il sentimento che dentro gli nasce si fa subito genuina espressione dell’animo. Si leggano anche Nella notte del mondo / il tuo amore illumina un sentiero… (p 41); e Tu: “La bellezza tua è tutta un volo (p. 67); “Sei il fiore che pende dalla rupe (p.

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33); ecc. Ed è significativa al fine di intendere quale importanza abbia per Di Fonzo l’altrui presenza, anche la lirica di questo libro intitolata A mia madre, che così inizia: “Tu che nei chiari occhi rechi il cielo” (p. 19). Vi sono inoltre tra le poesie qui raccolte anche alcune d’ispirazione mitologica, come quella che inizia: “Misericorde, candida e furtiva, / stanotte Persefone ha lasciato / le oscure rive d’Acheronte” (p. 50); e l’ultima della prima sezione, che ha questo incipit: “Impallidite le Pleiadi splendenti, / per quel tempo perenne, / sulla nera terra / seminata di lucciole e di croci” (p. 62). L’impressione che si ricava dalla lettura di queste poesie è quella di aver incontrato un autore dotato di una notevole capacità di elaborazione formale, trasformando egli le sue emozioni in immagini tecnicamente compiute, nate da una visione certamente non ottimistica del mondo, ma che tuttavia gli suggeriscono sovente una placata contemplazione della natura, su una musica che rasserena la mente e la fa soffermare, come avviene in Una luce: “Col primo pesco della primavera / m’incanto ancora in pensieri di felicità” (p. 73). Liliana Porro Andriuoli

D. Defelice: Il microfono (1960)

NOTIZIE UNA SERATA PER PETER RUSSELL - Venerdì 1° marzo 2019, alle ore 21, nella Sala Consiliare di Castelfranco di Sopra, si è svolta una serata di “Parole, musica e immagini” in omaggio a Peter Russell, l’ultimo dei grandi moderni, voluta e organizzata dall’Associazione Peter Russell e dal Comune di Castelfranco Piandiscò. Apertura con i


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saluti del Sindaco Enzo Cacioli e del Vicesindaco Filippo Sottani. Leonello Rabatti (Presidente dell’Associazione Peter Russell) ha presentato il libro di Peter Russell This is not my hour /Questa non è la mia ora, Edizioni del Foglio Clandestino, con letture bilingue di testi tratti dal libro a cura di Sara Russell e Marco Prina. Sono, poi, intervenuti: Prof. Anthony Leonard Johnson (anglista, amico e sodale di Russell): “Peter Russell: un grande protagonista della letteratura del ‘900”; David Scaffei (ISIS “B. Varchi”): “La biblioteca Russell: situazione attuale e prospettive future”; Dott. Andrea Guerri (archivista e membro del direttivo dell’Associazione Peter Russell): “L’archivio Russell: un patrimonio prezioso da valorizzare”. L’intervento conclusivo è stato quello di Sara Russell (figlia del poeta e Vicepresidente dell’Associazione Peter Russell). Gli intervalli musicali sono stati di Giorgio Rossini (voce, chitarra), con brani originali composti su poesie di Peter Russell. Nella Sala Consiliare è stata allestita una Esposizione di libri e materiali tratti dal Fondo Russell e di rare foto illustrative della biografia del poeta. *** UNA NUOVA NOSTRA COLLABORATRICE: MANUELA MAZZOLA - Manuela Mazzola, coniugata, è nata a Roma il 2 luglio 1972. Risiede a Pomezia (RM). Ha conseguito il Diploma di Maturità magistrale abilitante e, presso “La Sapienza” di Roma, la Laurea in Lettere, indirizzo antropologico. Ha ottenuto, negli anni, numerosissime specializzazioni e certificazioni, attestati vari; ha partecipato a seminari importanti e frequentato un corso di lingua inglese. Numerose le esperienze lavorative: dal 1994 al 1995 si è occupata della segreteria, dell’organizzazione di convegni e mostre e pubbliche relazioni presso l’Associazione Culturale “Vita 2000” di Roma; dal 1996 al 1997 ha lavorato nella segreteria della “Fondazione Marisa Bellisario” in Roma; dal 1998 al 1999 ha collaborato con l’ Associazione Culturale “Arte Facto” di Roma, occupandosi della segreteria, dell’ organizzazione di

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mostre e convegni, curando, inoltre, l’archivio storico del saggista Adalberto Baldoni; dal 1999 al 2001 è stata impiegata presso la società T.P.S. s.r.l. di Roma, come responsabile dell’help desk; dal 2001 al 2002 ha svolto l’attività di istruttrice d'informatica presso la fondazione J. Von Neumann e presso scuole elementari statali di Roma e Provincia; inoltre, presso la società Sisnet s.r.l. è stata impiegata come consulente Lotus Notes e sviluppo siti; dal 2002 al 2008 è stata istruttrice di corsi d’informatica e responsabile dei procedimenti per le certificazioni microsoft e patente ECDL presso il Cefi s.r.l. di Roma; dal 2005 al 2007 ha pubblicato articoli d’informatica sulla rivista di cultura e politica “Il Cerchio”; nel 2009 è stata impiegata presso il Comune di Roma nel progetto per le tematiche relative alla valorizzazione del patrimonio di memorie della città; dal 2010 fino al settembre 2017 ha svolto l’attività di tutor per ragazzi e bambini con problemi cognitivi e di apprendimento, in particolar modo bambini con disturbi di iperattività e con bisogni educativi speciali; dal settembre 2017 al giugno 2018 ha insegnato tutte le discipline curriculari nella seconda e terza elementare della scuola paritaria “Istituto San Benedetto Kids” di Pomezia con l'incarico di coordinatrice didattica; dal settembre 2017, infine, collabora, con articoli, recensioni e poesie con la rivista letteraria PomeziaNotizie. Sue recensioni sono apparse anche sul quindicinale Il Pontino nuovo. Interessata a Culture diverse e dinamiche della comunicazione; problematiche sociali attuali relative alle nuove generazioni con disagi derivati dall'interazione con le nuove tecnologie. *** DA MARIAGINA BONCIANI, E-mail dell’otto marzo 2019: Domenico carissimo, anche questo mese la rivista è arrivata con notevole celerità, ed è stato per me un doppio regalo il riceverla, perché oltre al solito prezioso e interessante contenuto (letto subito l'interessantissimo De Rosa su Montale milanese e Manuela Mazzola sul tuo bel lavoro relativo a Giuseppe Mallai, che ho imparato a conoscere), ho trovato non solo le mie poesie, ma - sorpresa immensa! - anche la traduzione in francese della mia poesia I DUE GEMELLINI, fatta con incomparabile maestria e delicatezza da Béatrice Gaudy, alla quale va la mia sconfinata gratitudine perché, leggendola nella sua traduzione, la poesia mi è sembrata molto più bella. Vadano dunque a lei i miei complimenti per il suo lavoro ed il mio più vivo grazie. E grazie anche a te, che di tutto sei il Deus ex machina. Un caro saluto, Mariagina


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*** PRESENTATA QUINTA DIMENSIONE NUOVA OPERA DI CORRADO CALABRÒ - AMondadori Libri “Sotto stupite stelle/si smarrisce per noi la distinzione/tra provenienza e destinazione” - 2 Aprile, ore 18,30 Libreria Rizzoli - Galleria Vittorio Emanuele II - Milano - Presentazione di: CORRADO CALABRÒ - QUINTA DIMENSIONE. Poesie scelte 1958 - 2018 - Mondadori Editore. Intervengono: Marco CORSI, Carlo DI LIETO; coordina Giuseppe LUPO - Sarà presente l’Autore. *** UN AUGURIO CHE L’AMICA ANTONIA IZZI RUFO TORNI PRESTO NELLA SUA CASA - Riceviamo il 17 marzo: “Martedì, 12 marzo 2019 Carissimo Direttore,/è successo d’improvviso, ancora non mi rendo conto, la sera del 21 febbraio, d’improvviso. Ero al bagno,(…). All’improvviso un boato mi attraversa il cervello: “Che cos’è?” mi chiedo sorpresa e impaurita: “Forse un aereo mi è passato sulla testa?”. Faccio in tempo ad appoggiarmi alla lavatrice: non mi reggo più in piedi. Piano piano ho raggiunto il letto mi sono seduta e ho telefonato a Lucio, mio figlio. Mi ha risposto subito. Mi ha detto di mettere, se possibile, la chiave fuori la porta. L’ho fatto subito e mi sono stesa sul divano, in attesa. Sono arrivati in venti minuti, mio figlio e il 118, mi hanno portata in ospedale. Vi sono rimasta una decina di giorni. Ora sono qui, alla “Gea”, un centro di riabilitazione. Quanti giorni vi dovrò restare?... Dalla mia camera vedo un tratto di rigagnolo che fiancheggia una stradina di campagna (solo un tratto) e poi un boschetto che va su in alto (non troppo in alto) e poi il cielo sempre con tante nuvole bianche. Penso alla mia casa e non mi sembra quella di prima, la vedo diversa. Vi tornerò?... Sono qui, nel letto, circondata da sbarre: mi sento prigioniera. Non mi fanno muovere. Guardo fuori, oh! se potessi volare, andare lassù, su, in alto, come gli uccelli, che bello !!! Ciao, Direttore, mi ricordi nei suoi scritti e nella sua bella Rivista. Antonia

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Il nostro Augurio - il mio e quello dei tanti lettori e collaboratori che la stimano e le vogliono bene - è che Lei si ristabilisca al più presto, che la riabilitazione sia breve e che Lei possa fare ritorno nella sua bella casa. E le assicuro che le pagine di Pomezia-Notizie rimangono a sua disposizione, come lo sono state fino ad oggi. Domenico *** GIORNATA DEL TRICOLORE - Domenica 17 marzo 2019, presso l’Associazione Coloni Fondatori di Pomezia - Piazza Indipendenza - l’ingegnere Marcello Risorto ha tenuto una conferenza su 158° anniversario dell’Unità d’Italia. In unione con L’Associazione “La Spiga d’Oro”, sono state esposte moltissime foto, pitture e sono state recitate poesie sul tema “Il Tricolore”. A presentare e a chiudere la rassegna, Emilia Bisesti, presidente dell’Associazione Coloni. Sala gremita.

LIBRI RICEVUTI FRANCESCO D’EPISCOPO - La poesia di Imperia Tognacci. Inquietudine dell’infinito - In copertina, a colori, “Curiosità” (1869) di Silvestro Lega - Genesi Editrice, 2019 - Pagg. 96, € 11,00. Francesco D’EPISCOPO, molisano per nascita (Casacalenda, CB, 1° maggio 1949), salernitano per residenza, napoletano per elezione e per radici paterne. Docente di materie letterarie e filosofia nelle università di Napoli e del Molise; membro di molte Associazioni, tra cui l’Associazione internazionale per gli Studi di Lingua e Letteratura italiana; segretario del comitato provinciale della Società “Dante Alighieri di Salerno; relatore in molti congressi nazionali e internazionali; giornalista pubblicista; critico letterario; direttore di molte collane editoriali; vincitore di moltissimi premi tra cui, per cinque volte, il Premio per la Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Fa parte del comitato di redazione della rivista Riscontri ed è stato direttore responsabile della rivista di Storia dell’Arte ONOttoNovecento. Tra le tante opere da lui pubblicate, ricordiamo: “Aulo Giano Parrasio, fondatore dell’Accademia Cosentina” (1982), “Masuccio e i suoi doppi. Per una antropologia letteraria del Quattrocento meridionale” (1984, 1989), “Civiltà della parola: Il Rinascimento. La rivolta della poesia - II. L’eredità del Rinascimento. La scoperta della fantasia” (1984), “Ermetici meridionali: tra immagine e parola (De Libero, Bodini, Sinisgalli, Quasimodo)” (1986), “Enzo Striano” (1992), “L’eresia del


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sentimento. Guido Morselli” (1998), “Il poetateologo tra Medioevo e Rinascimento” (2001), “Ugo Foscolo. Le metamorfosi della memoria: Salvatore Quasimodo e Alfonso Gatto” (2002), “Critici e miti del Novecento (Battaglia e il personaggio. Fubini e Vico. Flora e Pascoli. Salinari e Jovine)” (2005), “Elogio della lettera - scritta a mano” (2017), “Vita” (Premio I Murazzi, 2018) eccetera. ** JOSÉ VIOSCA - Il cervello. Decifrare e potenziare il nostro organo più complesso - Introduzione di Javier DeFelipe, Direttore del Progetto Cajal Blue Brain - National Geographic, Ed. RBA Italia, 2018 - Pagg. 144, € 1,99. José VIOSCA è biochimico, dottore in neuroscienze e scrittore specializzato in divulgazione scientifica. ** MARIO NOVARO - Tondo d’erba - Poesie e disegni - Ed. Fondazione Mario Novaro, 2018 - Pagg. 36, s. i. p. “…a centocinquant’anni dalla sua nascita - leggiamo a pag. 8 -, è sembrato doveroso, con questa piccola antologia di suoi versi e disegni su tema analogo (scelti tra quelli inviati su cartoline postali nel 1916 al figlio Guido, ufficiale al fronte), ricordare Mario Novaro, protagonista discreto eppur decisivo della poesia e della storia della poesia italiana del Novecento”. Ecco le sue “Note biografiche” a cura di Maria Novaro: “Completati gli studi liceali a Firenze, Mario NOVARO si iscrive all’Università di Berlino, dove si laurea in filosofia nel 1893, laurea confermata l’anno seguente dall’Ateneo di Torino. È nato a Diano Marina il 25 settembre 1868 da Agostino e Paola Sasso, quarto di sei figli. Sposato con Maria Tarditi, ritorna a Berlino dove nel 1895 nasce il primo figlio Guido. Il suo periodo di insegnamento viene però interrotto per il richiamo del padre che, avendo avviato con successo l’azienda olearia (produttrice poi dell’Olio Sasso), vuole coinvolgere i quattro figli maschi nell’impresa. Stabilitosi così ad Oneglia, per breve tempo insegna anche nel locale liceo ed è assessore comunale per il neonato partito socialista. Nel 1897 nasce il secondo figlio Cellino. Novaro riesce comunque a trovare un punto d’incontro fra i propri interessi culturali e la sua attività nell’azienda, che dal 1895, allo scopo di promuovere meglio i propri prodotti, abbinava alle confezioni il mensile “La Riviera Ligure di Ponente”. Nel 1899, assumendone la direzione, Mario trasforma la pubblicazione in un house organ molto diffuso, chiamando a collaborare i migliori scrittori (da Pascoli a Pirandello a Sbarbaro) e valenti artisti (da Nomellini a De Albertis). Nasce così “La Riviera Ligure”, rivista culturale, e in un tempo di promozione aziendale, che concluderà la propria esistenza nel 1919. In età gio-

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vanile Mario scrive alcuni saggi di carattere filosofico: raccoglie tutte le sue poesie in un volume intitolato Murmuri ed echi che esce in prima edizione nel 1912, poi rielaborato in cinque successive edizioni; pubblica Acque d’autunno dalle pagine del taoista Ciuang-Zè. Rifugiatosi nel 1944 con la moglie a Forti di Novara, Mario muore il 9 agosto”. ** FORTUNATO ALOI - La valorizzazione della lingua italiana - Luigi Pellegrini Editore, 2006 Pagg. 88, € 10,00. - Questo libro può essere definito la cronistoria di una iniziativa lodevolissima che l’0n. Fortunato Aloi aveva intrapreso, nel 1994, per la difesa della nostra lingua: l’istituzione di una Commissione che si occupasse della “Difesa della lingua italiana” e della quale facevano parte molti esponenti della cultura, tra cui Tullio De Mauro - al tempo docente universitario di Grammatica italiana alla “Sapienza” di Roma - e Giovanni Nencioni - a suo tempo Presidente dell’Accademia della Crusca -. Risultato? A nostro avviso, un autentico aborto e certamente non per colpa di Aloi, ma perché, in Italia, ieri come oggi, le cose buone hanno, quasi sempre, vita breve e difficile. L’esigenza di allora, cioè, di “riuscire a mettere insieme alcune riflessioni su un argomento che sta diventando, oggi più che mai, di grande attualità”, non è per niente mutata, anzi!, se il professore Vittorio Coletti, che sembra faccia parte proprio della Crusca, verso la fine dello scorso gennaio, se n’è uscito con una nota che sdoganava espressioni dialettali come “escimi il cane”, “scendimi la chiave”, “salimi la spesa”. La sciocchezza in cattedra. La nostra lingua, insomma, oggi va difesa più di ieri, perché i guastatori non sono all’esterno, fuori dai confini, ma in mezzo a noi, annidati nelle nostre università e in tutte le nostre istituzioni. (ddf). Fortunato ALOI (conosciuto come Natino Aloi), è nato a Reggio Calabria l’otto dicembre 1938 ed è stato per anni docente nei vari licei della Città. Sin da giovanissimo ha operato nel mondo della politica, da quella universitaria alla realtà degli Enti locali. Ha percorso un lungo itinerario: da consigliere comunale nella sua Città ed in altri centri della provincia (Locri) a consigliere provinciale, da consigliere regionale a deputato. Come parlamentare (per quattro legislature) ha affrontato temi di diverso genere ed in particolare si è occupato, con grande impegno, di scuola, cultura e di Mezzogiorno. Ha ricoperto l’ alta carica di Sottosegretario alla P. I.. E’ stato coordinatore regionale della Destra calabrese, ed anche Segretario per la Calabria del Sindacato Nazionale (CISNAL). Presidente dell’ Istituto Studi Gentiliani per la Calabria e la Lucania, è componente la Direzione nazionale del Sindacato Libero Scrittori Ita-


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liani. Giornalista pubblicista, collabora a diversi giornali ed è attualmente direttore del periodico “Nuovo Domani Sud”. Autore di numerose pubblicazioni di storia, pedagogia, saggistica, politica e narrativa. Ha ottenuto riconoscimenti di valore scientifico come il “Premio Calabria per la narrativa” (1990) per il volume “S. Caterina, il mio rione” (Ed. Falzea); il Premio letterario saggistica storica (1995) per il volume “Reggio Calabria oltre la rivolta” (Ed. Il Coscile) ed il Premio Internazionale “Il Bergamotto” (2004). Altri suoi lavori: La Questione Meridionale: radici, inadempienze e speranze (1985), “Cultura senza egemonia (Per un umanesimo umano)” (1997), Ricordi liceali (2001) Giovanni Gentile ed attualità dell’attualismo” (2004), “Tra gli scogli dell’Io” (2004), “<Neutralismo> cattolico e socialista di fronte all’intervento dell’Italia nella 1a guerra mondiale” (2007), “Riflessioni politicomorali e attualità dei valori cristiani” (2008), “Piccolo Taccuino di Viaggio” (2009), “La Chiesa e la Rivolta di Reggio” (2009), “Vox clamantis... Come può morire una democrazia” (2014), “Per lo Stato contro la criminalità” (2017), Vaganti… frammenti di io (2017).

TRA LE RIVISTE IL CONVIVIO - Trimestrale fondato da Angelo Manitta e diretto da Enza Conti - via Pietramarina-Verzella 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) E-mail: angelo.manitta@tin.it ; enzaconti@ilconvivio.org - Riceviamo il n. 75 (ottobredicembre 2018), dal quale segnaliamo: “Francesco Mastroianni: scrittore napoletano”, di Francesco D’Episcopo; “Filippo Ravizza La coscienza del tempo”, di Giuseppe Manitta; “Raffaele Manica. Praz”, di Carmine Chiodo; “La poesia di Francesco D’Episcopo in <Vita>”, di Antonio Crecchia; “L’ “io diviso”. La letteratura e il piacere dell’analisi di Carlo Di Lieto”, di Nicola Prebenna; “Angelo Manitta. Big bang. Canto del villaggio globale”, di Tito Cauchi eccetera, nonché firme, a diverso titolo, di: Corrado Calabrò, Loretta Bonucci, Gianni Rescigno, Angelo Manitta, Enza Conti, Isabella Michela Affinito, Antonia Izzi Rufo eccetera. E, poi, rubriche varie. Una rivista tutta da leggere. * KAMEN’ - Rivista di poesia e filosofia, Libreria Ticinum Editore, diretta da Amedeo Anelli - viale Vittorio Veneto 23 - 26845 Codogno (LO) - Email: amedeo.anelli@alice.it -. Riceviamo il n. 54,

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gennaio 2019. Ecco il sommario: Kamen’/Giuseppe Baretti: Giuseppe Baretti, La Frusta Letteraria di Aristarco Scannabue, Introduzione a’ leggitori; Giuseppe Baretti, La Frusta Letteraria di Aristarco Scannabue, N° 1; Francesca Savoia, Lo snodo della “Frusta Letteraria”. Poesia/Marco Beck: Marco Beck, Poesie e poemetti scelti; Daniela Marcheschi, “Come da una folgore raggiunto”: la poesia di Marco Beck; Bibliografia essenziale. Letteratura e giornalismo/Guido Morselli (A cura di Valentina Fortichiari): Valentina Fortichiari, Guido Morselli giornalista; Guido Morselli, Nostro giornale quotidiano; Guido Morselli, “Passato remoto” e romanzo; Guido Morselli, Lettera a Umberto Eco; Guido Morselli, L’imprevedibilità dei tipi di romanzo, e “La ragazza” di Iris Murdoch. * DOMANI SUD - Periodico di informazione politica e culturale diretto da Fortunato Aloi, responsabile Pierfranco Bruni - via S. Caterina 62 - 89121 Reggio Calabria - Riceviamo il n. 1, gennaiofebbraio 2019, con le firme, a diverso titolo, di: Gesualdo Sovrano, Domenico Ficarra, Paolo Martino, Orazio Raffaele Di Landro, Carmelo Bagnato, Fortunato Aloi, Pierfranco Bruni, Osiride Avenoso, Nicola Catalano, Andrea Audino, Silvio Caccamo, M. Caterina Mammola, Giovanni Praticò. * L’ERACLIANO organo mensile dell’Accademia Collegio de’ Nobili, fondata nel 1689, diretto da Marcello Falletti di Villafalletto - Casella Postale 39 - 50018 Scandicci (Firenze) E-mail: accademia_de_nobili@libero.it - Riceviamo il n. 249/251 dell’ottobre-dicembre 2018, dal quale segnaliamo: “La poesia e Danilo Masini rendono Montevarchi sempre più internazionale”, articolo d’apertura; “Carlo Tancredi Falletti Marchese di Barolo finalmente “venerabile” “; “All’inizio della vera vita”, di Carmelo Mezzasalma; “Antoine Marie Bergeron (un gentiluomo d’altri tempi)”, di Marcello Falletti di Villafalletto; “Apophoreta”, rubrica di recensioni di Marcello Falletti di Villafalletto. * POETI NELLA SOCIETÀ - Rivista letteraria, artistica e di informazione diretta da Girolamo Mennella, redattore capo Pasquale Francischetti - via Parrillo 7 - 80146 Napoli - E-mail: francischetti@alice.it - Riceviamo il n. 92, gennaio-febbraio 2019 e segnaliamo, a diverso titolo, le firme di nostri amici e collaboratori: Isabella Michela Affinito, Giovanna Li Volti Guzzardi, Vittorio “Nino” Martin, Mariagina Bonciani, Susanna Pelizza, Giuseppe Manitta eccetera.


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ARCOBALENO NEGLI OCCHI Prendi il mio pensiero e foggialo come fa l’artista c on la creta, amami come non hai ancora amato. Ama la mia solitudine la mia nostalgia. Prendi dimora nel mio cuore dove il cervello allunga sinapsi, puoi entrare e rimanere quanto vuoi perché lì è il luogo dove abita la memoria di quello che siamo stati quando, palpitando , salivamo all’arcobaleno nei nostri occhi. Wilma Minotti Cerini

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le due candele accanto all’ostensorio. Vorrei mettere un misero uomo contro la [ faccia dei fedeli all’uscita della messa, vedere se qualcuno ferma il suo piede [frettoloso apre il cuore e la mano al suo simile che chiede conforto. Se gli dice di andare con lui, se pronto dà ascolto al suo stato. Il Paradiso potrebbe aversi sulla terra, frantumate le divisioni e le ipocrisie; pagana è la fede, i credenti genuflessi trepidanti vogliono dal cielo la provvidenza riparatrice. Ritornano puntuali figure di cartapesta, la fronte penitente eretta davanti al Santo. Leonardo Selvaggi Torino

13 marzo 2018 Pallanza-Verbania, VB

TI DIREI (SE ME LO CHIEDESSI) SONO UN PECCATORE La chiesa moderna, un piatto di minestra Senza sale. Una casa nuova e fredda, soltanto il tavolo e poche sedie, senza pareti annerite, niente storia e senza antenati. Spazio scoperto e il silenzio muto. Il vuoto Non ha fiato di persone né pensieri di [preghiera Che si mettono negli angoli oscuri. È una palestra, uno stanzone per stare [insieme. Neppure Cristo vuole rimanere in croce, lo sorreggono per le braccia arcuate con forza. L’edificio scheletrico si confonde con le case, solo l’altro giorno mi sono accorta di essa, fiancheggia la strada che faccio sempre. La chiesa gremita, ho chiuso la porta io non entravo. Ho atteso fuori, per le scale lo sciamare delle pellicce. I santi di [Capodanno, gli ultimi ad uscire sono gli angeli, quelli che si pongono vicino all’altare. Sono un peccatore, voglio la chiesa deserta, essere il solo fra i banchi liberi. La quiete come vento invisibile che gira dentro, [ondeggiano

Ti direi se tu me lo chiedessi che forse sono stato in uomo d’aria, di terra, di mare. Forse un uccello fuori dal tempo sempre in giro fra le stelle. Forse una barca sbattuta dalle onde non ancora andata a picco. Forse un grappolo di sole spremuto dalle dita della vita, un elisir di dolore ingoiato per medicina di speranza. Forse tanti mattini senza luce tante sere senza buio. Forse un pazzo che erra tra la gente con il peso dell’amore sulle spalle, colui che ha un paese che lo aspetta e sa che l’inverno lungo, lunghissimo -


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porta le nevi sulle cime della luna e i passi sono stanchi, sanguinano nelle pozzanghere. Gianni Rescigno Da: Il vecchio e le nuvole - BastogiLibri, 2019

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OGNUNO CORRE A UNA SUA META S’è vuotato a poco a poco il treno su cui viaggio e ora guardo il cielo piovigginoso, i paesi velati dalla nebbia. Ci fosse almeno il giovane dei campi che suonava l’armonica, la ragazza dai capelli d’oro che a una stazione scese rapida. Ma ognuno corre a una sua meta, tutti ci perdiamo a una svolta. Franco Saccà Da Il vecchio battello, Ed. Ibico, 1968.

CARRI MERCI TRAPASSO Negli orti, tormento di girasoli senza luce. L’imbronciato ottobre è nei sussurri dei vicoli, furtivi e desolati come rondini che dileguano.

Fermi dove i campi apparivano deserti i carri merci pareva sostassero da sempre. Cose sembravano di cui nessuno aveva più memoria, squallidi raccontavano una storia d’interminabili cammini. Franco Saccà Da Il vecchio battello, Ibico, 1968.

Scarlatto autunno impera e nel diluvio di malinconia anche le stelle tremano.

LA PITTURA DI

EBBRO

MARIA ANTONIETTA MÒSELE

Il pencolare tuo in questo angolo vedovo di luna mi stempera, o ebbro fratello; e del carnevale che infuria sull’asfalto fiorito di coriandoli mi sei immagine di brivido. In te si specchiano, misero anacoreta sfatto dai soliloqui, i giorni che dirupano. Rocco Cambareri Da: Versi scelti, Guido Miano Editore, 1983

(Venerdì 15 marzo 2019, alle ore 17,30, presso la Torre civica di Piazza Indipendenza, a Pomezia, si è inaugurata la mostra di pittura nella quale l’artista pometina ha presentato opere su diverse tematiche. Esposte, nella stessa sala, anche opere del pittore Enzo Andreoli Riportiamo la nota di presentazione del nostro Direttore)

di Domenico Defelice Maria Antonietta MÒSELE è nata ad Asiago, in provincia di Vicenza, ma da quarant’anni risiede a Pomezia; coniugata Giorgioli, ha due figli e una nipotina. Da quando è andata in pensione, si occupa di volontariato nella Parrocchia di San Be-


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nedetto Abbate e presso la locale Clinica Sant’Anna. Insieme ad altri colleghi, ha studiato pittura presso il professore Aniello Nitta, artista assai conosciuto, proseguendo, poi, autonomamente, per quasi un decennio, nello studio e nell’affinamento dell’arte. La pittura è stata il suo sogno da sempre e, nel corso degli anni, ha partecipato a estemporanee collettive con le Associazioni artistiche locali: Le Pleiadi, La Spiga d’Oro, l’ Associazione Coloni Fondatori di Pomezia, l’Assopleiadi, Thyrrenum e tante altre. Ama, inoltre, leggere e scrive delicate ed equilibrate recensioni, apparse, per esempio, anche su Il Pontino nuovo, ma, in particolare, sul mensile Pomezia-Notizie, con il quale ha collaborato per anni e sul quale ha condotto, tra il 2001 e il 2011, la seguitissima rubrica letteraria “Letti per voi”, facendosi conoscere ed apprezzare da centinaia di scrittori e di artisti. Anni fa, ha pubblicato un libro su Asiago (Parlando asiaghese - Piccolo dizionario del dialetto asiaghese) e, di recente, una sintesi sull’Antico Testamento della Sacra Bibbia; nel 2017, nei Quaderni Letterari “Il Croco”, di PomeziaNotizie, sono apparsi i suoi Fioretti di San Francesco. Lo scrittore Tito Cauchi, nel numero di maggio dello stesso periodico, ha evidenziato come la Mòsele abbia “voluto elaborare l’opera originaria per renderla più attuale nella lettura; badando a mantenerne i contenuti, senza diminuirne lo smalto” e affermando, nel prosieguo, come l’ autrice abbia “voluto riportarci nell’humus ambientale e spirituale” del tempo in cui è vissuto il Santo più

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amato del mondo. I temi principali da Maria Antonietta Mòsele trattati in pittura sono molteplici. Accenniamo ad alcuni. Il paesaggio - sia naturale che urbano -, nel quale raramente è presente l’uomo. A volte, come in due lavori rappresentanti scorci di città mediorientali, la figura umana è rappresentata dalla semplice striscia facciale degli occhi, inserita in un muro a mo’ di piccola finestra; occhi sbarrati, spaventati, curiosi, simboli di segregazione, di desideri, di guerre, di violenze. Le composizioni floreali, tele poetiche e accattivanti per colori chiari e luminosi, dominati dal rosso; fiori nell’aperta natura o in vasi all’aria aperta, quasi mai recisi. Par-


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ticolarmente attraenti son papaveri, zinnie, gigli. Le nature morte, delle quali segnaliamo le splendide due mele (più una mezza), la bianca e la rossa, le foglie verdi, con contrasti coloristici armonici e delicati che contaminano il piano sul quale sono appoggiate e lo sfondo. Le fantasie geometriche (collage?), anch’esse caratterizzate dai toni forti e le molte foglie autunnali. Particolarmente rilevante, la ritrattistica, con le tante immagini dei suoi due figli ancora bambini, figure nelle quali sono plasticamente espressi momenti di gioia o dolore,

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il sorriso e il pianto, la sorpresa e la meraviglia. Seduce piacevolmente la tela della madre che stringe al petto la bambina, sulla quale spiccano, nell’impasto bene amalgamato dei colori, le labbra rosse di entrambe, veri e propri fiori. Colpisce, pure, l’intensamente tragico volto femminile, che rimanda alle tante violenze odierne sulle donne. Maria Antonietta Mòsele si serve sicuramente di foto per elaborare le sue tele e questo, a nostro avviso, ne condiziona spesso la resa. I suoi cavalli hanno pose e movenze che richiamano opere di altri artisti, tra cui quelle di Saverio Scutellà, tanto è vero che i due animali centrali, quello in primo e quello in secondo piano, sono assai vicini, per posa e movenze, ai due cavalli dell’artista calabro- romano nell’opera “Verso i traguardi del cielo”. Diversi, però, sono gli sfondi: classico in Scutellà, con capitelli e colonne infrante; moderno, anche nel tocco quasi spatolato, in Maria Antonietta Mòsele. L’esplosione di lava e lapilli del vulcano ha poco dramma, è più vicina a una composizione floreale. C’è del naïf in queste eruzioni della Mòsele - autentiche fontane di fuochi d’artificio - e naïf appaiono, in parte, abeti, le piante scheletriche ma cariche di bacche rosse. L’artista farebbe bene a liberarsi dalla riproduzione e lavorare di fantasia e sull’immagine diretta: ciò le darebbe libertà; le permetterebbe


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sta; avrebbe più agio a versare sulla tela più naturalezza, più della propria personalità, più del suo interiore. Pomezia, 5 marzo 2019 Domenico Defelice

AI COLLABORATORI Inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione) preferibilmente attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è gradito un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________

d’essere più spontanea nella composizioneimmagine-colore e, quindi, meno manieri-

ABBONAMENTI (copia cartacea) Annuo, € 50.00 Sostenitore,. € 80.00 Benemerito, € 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia, € 5,00 (in tal caso, + € 1,28 sped.ne) Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 N076 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio


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