50ISSN 2611-0954
mensile (fondato nel 1973) Direzione e amministrazione: Via Fratelli Bandiera, 6 - Tel. 06/91.12.113 - 00071 POMEZIA (Roma) - Fondatore e Direttore responsabile: DOMENICO DEFELICE – e-Mail: defelice.d@tiscali.it – Parziale distribuzione gratuita (solo il loco) – Attività editoriale non commerciale (art. 4, D.P.R. 26.10.1972 n. 633 e succ.ve modifiche) - Per abbonamenti: annuo, € 50; sostenitore € 80; benemerito € 120; una copia € 5.00) e per contributi volontari (per avvenuta pubblicazione), versamenti sul c/c p. 43585009 intestato al Direttore - Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 213/93 del 23/5/1993 - La collaborazione, sempre gratuita, in parte è libera, in parte è per invito. Ogni autore si assume la responsabilità dei propri scritti - Manoscritti, fotografie e altro materiale, anche se non pubblicati, non vengono restituiti - É ammessa la riproduzione, purché se ne indichi la fonte. Per ogni controversia, foro competente è quello di Roma.
Anno 27 (Nuova Serie) – n. 5
- Maggio 2019 -
€ 5,00
Cinquant’anni fa moriva
JACK KEROUAC, IL PADRE DEL MOVIMENTO BEAT di Luigi De Rosa
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ERTAMENTE il Movimento Beat, nella sua realtà anche extraamericana, non può avere avuto come padre un'unica persona, bensì un gruppo di scrittori (faccio i nomi di Allen Ginsberg e di Lawrence Ferlinghetti) che ne abbiano ispirato le sorti. In ogni caso, non si può tacere di Kerouac. Chi si ricorda dello scrittore statunitense Jack Kerouac e del suo romanzo autobiografico On the road (Sulla strada), scritto nel 1951 ma pubblicato nel 1957? Il romanzo, che per sei anni nessuno aveva voluto pubblicare, anche per l'occhiuta e ferrea censura del senatore Mac Carthy, si basa su alcuni viaggi attraverso gli Stati Uniti e il Messico alla fine degli Anni Quaranta. Viaggi compiuti dallo stesso autore insieme a un amico, Noel Cassady (in auto, in moto, in autobus) oppure da solo, con l'autostop. Kerouac, che era nato il 12 marzo 1922, è morto cinquant'anni fa, il 21 ottobre 1969, ed è noto come il padre del Movimento Beat perché nei suoi scritti esplicitò e illustrò le idee di liberazione, di approfondimento della propria coscienza e di realizzazione alternativa
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All’interno: Edith Dzieduszycka, di Elio Andriuoli, pag. 4 Ricordo di Nicola Iacobacci, di Domenico Defelice, pag. 6 L’incendio di Notre Dame, pag. 12 Verso altre inquietudini, di Rinaldo Ambrosia, pag. 14 Vincenzo Di Oronzo e il Codice di farfalla, di Andre Bonanno, pag. 16 Tucidite dal Pedrina a Xi Jinping sulla via della seta, di Ilia Pedrina, pag. 19 Amore per l’arte, di Manuela Mazzola, pag. 22 En attendant Godot!, di Ilia Pedrina, pag. 24 La Biblioteca Reale, di Leonardo Selvaggi, pag. 26 In viaggio con Google, di Domenico Defelice, pag. 33 I Poeti e la Natura (Vincenzo Cardarelli), di Luigi De Rosa, pag. 44 Notizie, pag. 59 Libri ricevuti, pag. 64 RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (Marinetti, Napoli e il Futurismo, di Aldo Marzi, pag. 45); Tito Cauchi (Salabbàriu, di Rocco Vacca e Orazio Emanuele Fausciana, pag. 46); Tito Cauchi (Fra oriente ed occidente, di Maria Giudicissi Angelini, pag. 47); Tito Cauchi (Odissea pascoliana, di Imperia Tognacci, pag. 48); Domenico Defelice (La poesia di Imperia Tognacci Inquietudine dell’infinito, di Francesco D’Episcopo, pag. 50); Salvatore D’Ambrosio (Le palline di zucchero della fata turchina, di Piero Dorfles, pag. 50); Emerico Giachery (Là dove pioveva la manna, di Imperia Tognacci, pag. 52); Manuela Mazzola (La poesia di Imperia Tognacci Inquietudine dell’infinito, di Francesco D’Episcopo, pag. 53); Manuela Mazzola (Camminerò, di Elisabetta Di Iaconi, pag. 53); Manuela Mazzola (Una lettera di Addio, di Domenico Defelice, pag. 54); Maria Antonietta Mòsele (La poesia di Imperia Tognacci Inquietudine dell’infinito, di Francesco D’Episcopo, pag. 54); Maria Antonietta Mòsele (Camminerò, di Elisabetta Di Iaconi, pag. 55); Liliana Porro Andriuoli (La donna del ventesimo secolo, di Anna Geltrude Pessina, pag. 56); Anna Vincitorio (Alcjone 2000 I dintorni della solitudine, di Nazario Pardini, pag. 58).
Lettere in Direzione (Béatrice Gaudy, Parigi), pag. 65 Inoltre, poesie di: Isabella Michela Affinito, Rinaldo Ambrosia, Mariagina Bonciani, Giosuè Carducci, Antonio Crecchia, Salvatore D’Ambrosio, Elisabetta Di Iaconi, Béatrice Gaudy, Nicola Iacobacci, Manuela Mazzola, Wilma Minotti Cerini, Teresinka Pereira, Li Shangchao
della propria personalità di un gruppo di poeti statunitensi che venne chiamato Beat Generation. Si noti che la parola beat (beato, sereno, illuminato, felice) fu creata da Kerouac con intento religioso (era un cattolico conservatore, che si potrebbe definire passatista, di destra e piuttosto reazionario). Mentre per la maggior parte degli scrittori che hanno aderito al Movimento ha poi assunto una connotazione politico- contestata-
ria, di ribellione contro le idee della società e dell'establishment economico-politico. Il suo stile è immediato e ritmato, lo stesso Kerouac lo ha definito prosa spontanea, con l'uso del gergo nei dialoghi diretti, con poca punteggiatura, e ha ispirato moltissimi autori e cantautori, fino al notissimo Bob Dylan, le cui stramberie e “illuminazioni” in occasione del Premio Nobel conferitogli, sono note a tutti.
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Dal 1945 in poi gli U.S.A. stanno uscendo vittoriosi dalla Seconda Guerra Mondiale (specie dopo la brutale distruzione di due popolose città con due terrificanti bombe atomiche) ma già stanno per trovarsi implicati, di lì a poco, in altri conflitti disastrosi, quali la guerra di Corea del 1950 e la guerra del Vietnam. Sul piano interno invece il paese si scopre alle prese con la contestazione e la rivolta di una parte della Società (specie i giovani) contro la guerra e l'establishment economicopolitico, per motivi socio-economici e razziali. Gli U.S.A. si presentano con due volti, uno verso il mondo esterno (quello dei Paesi alleati e dei Paesi vinti (ma da aiutare a risollevarsi economicamente per sottrarli alla sfera di influenza dell'Unione Sovietica che si presenta come il nuovo, potenziale nemico). E un altro volto nei confronti del proprio interno, dei propri cittadini, della contestazione giovanile e razziale. In questo ribollente contesto di istanze del tutto nuove rispetto al passato, e che gli anni successivi si sarebbero poi incaricati di verificare e testare al fuoco della Realtà, fece la sua comparsa anche il Movimento Beat, che si sarebbe poi manifestato e organizzato anche in Europa (ad esempio, in Italia, o dentro il Maggio 1968, o negli Hippy di Berkeley e Woodstock). Punti fermi della visione e interpretazione beat si possono ravvisare: nel rifiuto sistematico di norme imposte dall'esterno nella sperimentazione delle droghe nella sessualità alternativa nell'interesse per le religioni orientali nella rappresentazione, in modo esplicito e crudo (quando non volgare) di certe situazioni penose della fragilità umana nella opposizione alla guerra (nel caso, alla guerra in Vietnam). Parola d'ordine del libro “On the road” è quella di andare, andare avanti attraverso lo sterminato territorio degli States, da una Co-
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sta all'altra, per sfuggire ad una situazione di vita quotidiana alienante. Per andare dove? “Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati.” “Dove andiamo ?” “Non lo so, ma dobbiamo andare” (J. Kerouac, On the road, pag. 17) Jack e l'amico partono ogni volta pieni di speranze e di attese, ma ogni viaggio si rivela una delusione ed aggiunge amarezze ad amarezze. Il protagonista fa perfino un tentativo di fermarsi, di non ripartire, di iscriversi all'Università, di trovarsi un lavoro stabile, ma ogni volta il fascino dell'amico beat nullifica i suoi tentativi. Alla fine sarà scontro totale fra i due amici (nella quarta delle cinque parti, in cui si divide il romanzo, un racconto che procede per episodi) e il risultato sarà la rottura totale fra Sal (Jack) e l'amico. Precisamente alla pagina 300 lo scrittore ammetterà: “Nessuno sa quel che succederà di nessun altro, se non il desolato stillicidio di diventar vecchi...”. In sostanza, siamo alle prese con persone che non accettano la vita come è, che non accettano la vecchiaia, e tanto meno la morte. Che non hanno capito niente, insomma...(O hanno capito tutto ...). All'età in cui scriveva, Kerouac aveva solo 29 anni... Nel romanzo si respira, comunque, l'atmosfera della tradizione letteraria americana. Vengono in mente Withman, Wolfe, Miller, torna il misticismo, se non la confusione mentale, considerata anche la quantità di alcool e di droga che circola... Torna la poesia degli immensi spazi aperti, del West e della frontiera, delle fedeli pistole, dell'individualismo eroico dove la vita può essere appesa a un filo. Ma c'è anche la visione frustrante e avvilente del sottoproletariato americano, delle perduranti ingiustizie sociali ricoperte dai veli pietosi di una certa democrazia delle minoranze. Ma tutto è visto con occhi da conservatore, non da rivoluzionario, da spettatore inerme di fronte al fallimento del mito americano della felicità e della ricchezza a portata di tutti. Luigi De Rosa
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EDITH DZIEDUSZYCKA POESIE DEL TEMPO CHE FU di Elio Andriuoli
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OESIE del tempo che fu (Poésies d’antan) è il titolo che Edith Dzieduszycka ha dato al libro di versi che ha di recente pubblicato e che raccoglie le poesie da lei scritte anni addietro in francese, con la traduzione italiana a fronte. Sono queste poesie prevalentemente d’introspezione, che conservano tuttora la forza e il mordente del tempo in cui nacquero: sovente sono poesie d’amore, con le quali l’autrice si confessa, mettendo totalmente a nudo il suo cuore. C’è nei versi della Dzieduszycka un sentimento oscuro dell’esistenza, che ricorda Baudelaire, ma che a tratti assume colorazioni più drammatiche e intense. Aprono la raccolta alcuni sonetti di andamento classico, tra i quali eccelle Le bal des ombres (Il ballo delle ombre), che inizia: “C’était un bal étrange où fòottait une absence” (Era strano quel ballo, ondeggiava un’assenza); ma da notarsi è anche Folie (Follia): “Au bord d’un gouffre obscur où tremblent des lueurs / il se pencha un soir…” (Sull’orlo d’un abisso tremante di bagliori / s’è chinato una sera…). Seguono le poesie di Ossessione, dove troviamo versi particolarmente incisivi, come quello che chiude la poesia eponima: “Tu es ce qui me hante” (Sei quello che mi abita). Affiora qui il contrasto amoroso, che compare ad esempio nella chiusa di Les fleurs de rien (Fiori del nulla), nella quale si legge: “Tu ne m’as rien donné. / Peut-être pour n’avoir / rien à cacher / rien à semer / rien à jeter au
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vent?” (Tu niente mi hai dato. / forse per non avere / nulla da nascondere / nulla da seminare / nulla da buttare al vento?”). La polemica amorosa la ritroviamo in questo libro in poesie quali Marées (Maree), che così termina: “… saurai-je encor demain / quel était ton visage / et quel nom tu portais?” (… saprò ancora domani / come era il tuo volto, / quale nome portavi?”). Ma un po’ dovunque s’incontra in questo libro il motivo dell’amore infelice a causa dell’incomprensione o dell’insensibilità del partner; motivo che emerge ad esempio da poesie quali Défaites (Disfatte): “Tu as pris mes poignets / dans tes deux larges mains, / … / et je n’ai pas bougé. / … / Tu as mordu ma bouche / … / Tu as brisé mon corps…” (Hai preso i miei polsi / nelle tue larghe mani / … / e non mi sono mossa, / … / Hai morso la mia bocca / … / Hai spezzato il mio corpo…). Si veda anche Vengeance (Vendetta): sans répit tu m’assailles / et sans merci e hantes” (senza tregua m’assali, / senza pietà m’invadi). Significativo è pure il fatto che la Dzieduszycka dica in una lirica intitolata Don Juan (Don Giovanni): “(Mais de tes jeux me suis lassée. / Tu n’as pour moi plus de sourprises” (Ma dei tuoi giochi sono stanca, / per me tu non hai più sorprese). Si legga inoltre Mensonges (Menzogne), che inizia con questi versi: “À toi seul j’ai menti, / te disant sans y croire / que la vie était belle, / que nous serons heureux” (A te solo ho mentito / dicendo senza crederci / che la vita era bella, / che saremmo felici). Nostalgie (Nostalgia) ha questo incipit: “Nostalgie des jours heureux / qui habite mon coeur désormaid triste” (Nostalgia dei giorni felici / ormai di casa nel mio cuore triste). Il presente non ha attrattive e solo giova rifugiarsi nel passato, anche se dalla chiusa sembra emergere una qualche possibilità di riscatto: “Mais il n’est point d’espoir, pourtant, point de nuit, / qui ne chante la naissance d’un autre jour” (Non esiste speranza, però, né notte / che non canti la nascita d’un altro giorno).
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Rien (Niente) poi sembra escludere ogni possibilità del ritorno di uno stato di grazia: “Je voudrais ne pas être, ou alors n’être rien / qu’un blanc rayon de lune” (Vorrei non essere, o essere soltanto / di luna un bianco raggio). Né consolazioni può dare “une année qui s’enfuit” (un anno che va via) o quello “que prend naissance” (che sta per nascere) (Bonne année – Buon anno). Ciò che invece conforta la nostra poetessa è la gioia del canto, la compiutezza della resa formale che ovunque si nota in lei; la rifinitura del verso che suona fluido e armonioso, come ad esempio avviene in Vol de nuit (Volo di notte): “Toi l’oiseau fugitif plainant sur mes nuits nues, / l’obsédant visiteur de mes songes mouvants” (Uccello fuggitivo sulle mie notti nude, / viaggiatore ossessivo dei miei sogni vaganti). È questa la virtù della sua scrittura, fluida e franca, ed è per essa che riconosciamo in lei il vero dono della poesia. Elio Andriuoli EDITH DZIEDUSZYCKA: POESIE DEL TEMPO CHE FU (La Via Felice, Milano, 2018 € 13,50)
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VOULER DANS LE CIEL Le ciel plein de moineaux sont en train de voler à volonté Le ciel ne compte pas Les moineaux vont leur train Le ciel plein d’oies sauvages sont en train de s’élever Le oies ne comptent pas Compte le cabrage Un aigle est en vol dans le ciel Le vol ne compte pas Compte la vigueur Un oiseau migrateur est en vol dans le ciel La force ne compte pas Compte la hardiesse Un errante oie sauvage est en train de voler dans le ciel L’orientation ne compte pas Compte l’esprit Li Shangchao Traduction en français de Béatrice Gaudy, d’après la traduction italienne de Domenico Defelice (Pomezia-Notizie, mars 2019)
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 20/3/2019 Marianna Manduca, madre di tre figli, viene uccisa dal marito. Ai bambini viene assegnato un indennizzo che ora, il tribunale di Messina ne chiede la restituzione e, nella sentenza, afferma che se anche l’uomo, a suo tempo, fosse stato sorvegliato e gli si fosse sequestrata l’arma, il delitto sarebbe avvenuto lo stesso. Alleluia! Alleluia! A che serve, allora, la legge, a che servono i tribunali, i magistrati, le polizie e via elencando, se, poi, è ineluttabile che i delitti avvengano? Si abolisca la magistratura, si chiudano i tribunali, si cancellino le forze dell’ordine. Se assassinii, furti, angherie eccetera, è ineluttabile che avvengano, almeno risparmieremo miliardi di euro! Domenico Defelice
UNA POESIA PER TE Sì, una poesia per te lungo la linea delle tue assenze racchiuse nella penombra del giorno a consumare clessidre prive di sabbia. Cerco tra frammenti di memoria il ricordo pungente dei giorni immersi in un destino contromano. Ma lo spazio si fa notte confuso nell'apogeo delle ore. E sono sempre qui a trascinare versi che si consumano nel ricordo. Rinaldo Ambrosia Rivoli (TO)
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Ricordo di
NICOLA IACOBACCI di Domenico Defelice
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OPO una lunga malattia - come ci informa, da Termoli, l’amico e collaboratore Antonio Crecchia -, il 19 maggio 2018 è morto, a Campobasso, Nicola Iacobacci, uno dei maggiori poeti e scrittori molisani del Novecento. Era nato a Toro (CB), il 18 novembre 1935. Autore raffinato e complesso, ha scritto anche per la RAI; tra i suoi romanzi e altre opere in prosa ricordiamo La tela dei giorni (1987), Le radici del silenzio (1989), L’unghia incarnata (1992), Hámiche (1995), Monologo a quattro voci (1996), Nicla (1997), L’albero dei briganti (2002), Il marchio sulla guancia (2005). Hámiche, con la presentazione di Giovanni Mascia e traduzione spagnola di Michele Castelli, è uscita anche all’estero con la Editorial Once. Se il ricordo non ci inganna, a farci dono della silloge di poesia L’orma sull’asfalto (Casa Molisana del Libro, 1965) è stato Fran-
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cesco Fiumara, in occasione di uno dei tanti nostri incontri a Reggio Calabria. Nel leggere alcune liriche di Nicola Iacobacci ci sembra di stare ad ammirare i quadri di Mannacio, dipinti, cioè, nei quali i personaggi hanno il viso teso nello spasimo di un dolore smisurato; essendo, però, esseri virili, serrano gli occhi, denigrano i denti, si trasformano in vere maschere di sofferenza, ma non piangono. Molti versi di Nicola Iacobacci potrebbero essere posti quale didascalia ai dipinti di Mannacio: ambedue gli artisti sentono il dolore in modo stoico: “Il mio dolore/…/ come i miei padri,/l’annegherò nel Biferno/perché nessuno sappia/quel che soffrii”. Difronte alla poesia di Nicola Iacobacci la critica è quasi inutile. La critica serve a presentare, a spiegare, a illustrare e la poesia di Iacobacci non ha bisogno né di presentazione, né di spiegazione, né di illustrazione. Il lettore legge, poi pensa che ciò che ha letto è proprio quello che tante volte egli stesso avrebbe voluto esprimere, ma non l’ha espresso. Ciò che scrive Iacobacci sono cose ovvie, ma che nessuno è mai riuscito ad esternare con tanta chiarezza e concisione. La poesia di Nicola Iacobacci è tutta sensazioni e immagini vive, tali che creano, in chi legge, altre sensazioni e altre immagini. Gli “scavi psicologici”, da cui essa scaturisce, “non appesantiscono affatto la lettura”, configurati “come sono in immagini vive e calzanti.” Nella poesia di Nicola Iacobacci “nessuna descrizione è statica, perché non fu concepita come un quadretto da appendere, ma come uno squarcio di mondo palpitante e parlante, che proprio in questa essenza di vitalità trova la sua ragion d’essere come risultato artistico”. Chi scrive così, nella brillante prefazione a L’orma sull’asfalto, è Francesco Fiumara, un critico che difficilmente si entusiasma dinanzi alla poesia se questa non è vera e sentita: “Più non canta il grillo,/tra gli steli di granturco,/antiche storie d’amore;/l’autunno si rinnova/in una nuvola grigia d’ottobre”. Il tempo e le stagioni sono resi con efficacia e di essi ci sembra anche di percepirne gli aromi: “Il vento gonfiava le spighe/coi canti dei grilli/e sotto le querce/il
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respiro del bosco/bruciava le nostre bocche/d’amore./Estate di ginestre gialle/e girasoli”. Oppure: “Sui formicai cadono cotogne;/settembre, gonfio di nuvole,/lascia nei clivi mandorle amare”. Piena di suggestiva bellezza è la rievocazione di memorie e desideri: “Nei verdi pascoli/ho lasciato gli agnelli/e pietre nere di fumo/denso d’ aurore./ Memorie:/gocce di campanule tra i rovi”. Tutto, in Iacobacci, ha “sapore di favola”: “Dalle mie parti/c’è ancora qualche vecchia/che fila/e lascia sulle bocche dei nipoti/sapore di favola”. C’è, nella poesia di Nicola Iacobacci, lo stupore di una natura agreste e pura. Vive, nell’animo dell’artista, una terra – certamente quella della infanzia – che è sogno. Su questa terra è piantata ancora una capanna dove il poeta si rifugia con la fantasia quando il suo cuore “desidera la quiete/d’una notte stellata”. Questa terra è alle foci del Biferno, o dove un canale “si azzuffa col mare”, tra un “brusio di canne” e gli urli dei gabbiani: magia di un luogo evanescente, perché si è trasformato, nel tempo, in chiara luce di poesia. E che dire delle liriche a sfondo sociale? In L’orma sull’asfalto Iacobacci ce ne presenta alcune veramente preziose, come “All’ amico”, il cieco che ormai non vede “più nulla,/nemmeno il ricordo del sole!”; “Terra avara”, dedicata all’emigrante; “Violenza” e “Processione”, lirica, questa, già pubblicata nella raccolta La voce (Ed. “La Procellaria”): “L’abbiamo ucciso./E ne portiamo il Corpo/in processione/per dire al mondo:/siamo carnefici./Volti fissi alla terra,/bocche mute,/piedi che strisciano!/Ognuno sente,/ ognuno porta il peso/d’una corona di spine”1. *** Abbiamo incontrato di persona, la prima volta, Nicola Iacobacci il 5 marzo 1967 a Palazzo Venezia, a Roma, nel corso della cerimonia di assegnazione del Premio Nazionale di Poesia e Saggistica “Francesco D’Ovidio”, organizzato dal Centro Letterario del Molise. Sono intervenuti il Prof. Raffaele Tullio, il Prof. Alberto Varvaro e l’allora Sottosegretario di Stato del Ministero degli Affari Esteri
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Prof. Mario Zagari. A Nicola Iacobacci, presente con la giovane moglie, era stato assegnato uno dei premi per la poesia. Possiamo dire che fra di noi fu amicizia a prima vista. Noi gli facemmo dono del nostro volumetto 12 mesi con la ragazza, edito dalla Procellaria di Francesco Fiumara; lui promise di inviarci il suo prossimo libro. Iniziò tra noi uno scambio epistolare (sette delle sue lettere a noi indirizzate sono state da noi donate alla Biblioteca del Comune di Anoia), ci telefonavamo spesso e noi a promettere che saremmo andati a trovarlo a Campobasso. Abbiamo visitato diverse volte il Molise e costatato che, per certi aspetti, esso rassomiglia alla Calabria. Tutte e due sono regioni povere, tutte e due dissanguate da un’ emigrazione inarrestabile, tutte e due prevalentemente montuose. Nella nostra Calabria, come nel Molise, abbiamo visto crescere il contorto e inargentato ulivo, simbolo di fatica e di pace; le “vigne bionde”; i “melograni sanguigni/e i fichidindia/sui muri spaccati dal sole”. In molte plaghe dell’una e dell’altra la vita si svolge in arretrato coi tempi e non sono ancora scomparse le “ragazze/che scendono sui muli/per viottoli che odorano di fieno”, tra il guizzare delle lucertole e lo stridìo delle cicale; né, tantomeno, è scomparso il “mietitore/dagli occhi bruciati/dall’oro delle spighe”, che sogna, come se fossero elementi di un eden, “l’urlo delle fabbriche,/il fumo dei locali affollati” e non sa che questi “non valgono un solo girasole” della sua straordinaria terra, e non s’avvede d’essere “il brutto anatroccolo/che scivola sull’onda/e scopre d’essere cigno”. Calabria e Molise, naturalmente, non sono accomunate solo da questo, ma a noi basta per dimostrare che nell’una e nell’altra regione identiche difficoltà sono alla base dell’ esistenza. Tuttavia, nel Molise abbiamo osservato che la povertà viene portata con più dignità e che gli abitanti sono meno fatalisticamente inclini alla tristezza: qui, insomma, pur mancando la grande ricchezza, ci sono, in compenso, molta fiducia e molta speranza, che aiutano a sopportare il dolore.
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E’ quanto conferma Nicola Iacobacci con le sue Rocce di tufo (Editrice Casa Molisana del Libro, Campobasso 1969), un volume di liriche ch’è tutto un canto alle bellezze fisiche del Molise e alle straordinarie qualità della sua gente, un canto, tuttavia, pieno di pudore, dove il sentimento, che lievita ogni lirica, difficilmente s’avverte, come difficilmente s’ avverte quando il poeta canta la sofferenza. In ciò Iacobacci si dimostra un molisano di razza: niente enfatico entusiasmo, niente plateale protesta: una riserbatezza assoluta vela questo suo profondo amore e questa sua intensa partecipazione alle sofferenze, trasporti dell’ animo che si possono ricavare solo da un’ attenta anatomia delle sue immagini poetiche, nelle quali, quasi sempre, sono presenti gli alberi, le acque, gli uccelli, raramente l’uomo che, pure, è in cima ad ogni suo pensiero. Un esempio: in “Fili d’erba”, quel martellare della pioggia, sulle lamiere della catapecchia di periferia, col suo ritmo ossessivo, porta la nostra immaginazione su disperati volti abbrutiti dalla miseria. Questa lirica ci rivela anche la socialità del poeta molisano, anch’essa mai gridata, ma ugualmente e profondamente sentita se, “dopo aver corso a lungo/cogli occhi gonfi di libeccio”, ebbro di libertà, si abbandona commosso e triste perché un cane, in catene, lamenta la sua cattività, l’impossibilità che anch’esso corra e si stanchi. Anche qui il lettore dal cane risale all’uomo - all’uomo moderno, come sempre gonfio d’amore e d’odio, che si distingue dall’antico solo perché, oggi, i suoi occhi più “non hanno il riflesso/ dell’ erba e del cielo” - la cui libertà sa d’amaro quando non è un bene goduto da tutti, animali compresi2. *** Il nostro amore verso il Molise diveniva ogni giorno sempre più forte man mano che aumentavano le nostre trasferte; a colpirci era, in particolare, la mancanza quasi assoluta della delinquenza organizzata. Questa regione ci sembrava una vera e propria isola felice, se rapportata alla nostra Calabria, nella quale, ogni giorno, a volte, i media erano costretti ad
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annotare più di un morto ammazzato, la qual cosa suscitava, in noi, dolore e rabbia. In una poesia del giugno 1973, dedicata a Iacobacci, imploravamo l’amico molisano ad aiutarci a non odiare troppo la nostra regione di origine per questo suo stato di cose, fino al tentativo estremo di dimenticarla: A NICOLA IACOBACCI Il tuo Paese per amore ho conosciuto, le colline aperte al respiro dei venti, le piche che s’alzano pigre dai querceti. Il Molise somiglia un poco alla mia terra e non ha scatti d’ira. Echi sepolti nella memoria ridesta, gemma l’infanzia la Sacra dei Misteri; ride il mietitore dagli arazzi gialli del grano; la tortora mi chiama, mi chiami col tuo verso... Aiutami, Amico, a non tradire il Sud. Tra gli ulivi s’aggira il serpe, cadono i giusti, il sangue già copre l’Aspromonte. *** Nel 1974, intanto, usciva un’altra importante opera di Iacobacci: Coste San Rocco, edita da La Prora, di Milano, da noi recensita su La Voce Bruzia dell’aprile 1975. Per dimostrare che Nicola Iacobacci è poeta virile e non uno di quei molli-non-so-di-che tanto cari alla critica odierna, dovrebbero bastare i suoi versi. Invece son proprio essi a metterlo nell’…equivoco; sì, i suoi versi, nei quali ancora “i capelli d’angelo” d’una accarezzata immagine hanno il potere di accendere “un fuoco/sul tufo spaccato/dalla scure dei tagliaboschi”. La verità è che, mutato e contorto il metro di valutazione, anche la merce più preziosa è snaturata. Il bianco può così diventar nero e il rosso verde e chi è vero poeta venir considerato povero illuso, al contrario del mentecatta incensato come un vate.
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Purtroppo, nella poesia di Iacobacci esistono ancora alberi e stelle, fiumi e uccelli e un amore pulito. Roba, come ognun vede, da fossili e sdolcinati a tener dietro al moderno concetto di poesia. Cose del tempo che fu dicono i pontefici della critica -. Per essere validi, oggi occorre parlar di culi, di mestrui, di “funzione fàtica”, di “indecifrazione quotidiana”, di “ristupefacente segmento”, di occhi che sono “il vaso smaltato di un cesso/dove galleggia acqua cristallina”. Bisogna - dicono - lodare “ogni erogazione equina” e andare in estasi “all’udire i potenti psicopompi”! Ora, per fortuna, di tutto questo Iacobacci se la ride e senza curarsi di poter essere frainteso, continua a cantare temi che da sempre hanno commosso i poeti, servendosi di un linguaggio stringato si, ma non per questo meno melodioso e chiaro. Temi, per esempio, come quello della terra molisana, presente già in altre opere. Solo che qui è una terra più intima, più preziosa, diremmo più spiritualizzata, come se il poeta non ci vivesse sopra, ma la rivangasse con la memoria e col sogno. Le immagini sono aria e luce, più che plastica e fotografica riproduzione di luoghi e di volti, anche perché Iacobacci aborre una poesia estemporanea e del semplice e puro paesaggio. Egli è, infatti, per una poesia intimistica nella quale però il paesaggio è indispensabile a rilevare gli stati d’ animo; la natura, cioè, non può vivere da sola, né il poeta manifestarsi senza di essa: lui e il Molise sono un tutt’uno. Lo dimostra il fatto che molti elementisimboli della poesia di Iacobacci derivano da questo paesaggio e, in essa, si ritrovano costantemente. Prendiamo, per esempio, la voce “canna” o “canneto”. Ne troviamo una prima immagine sfogliando a caso il volume nella lirica “Lamento”, dove le canne sono viste non nella loro semplice, elementare natura, ma per traslato a significare la voce triste di una incipiente stagione (e di un’altra che muore) “che muta/la pelle di serpente nelle crepe”. E si noti l’elemento triste (la voce delle canne e, quindi, del tempo) accostato all’ elemento, forse, anche doloroso, ma senz’ al-
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tro pieno di speranza e di rigenerazione (il mutare della pelle del serpente), giacché per Iacobacci “la vita e la morte sono eterni innamorati” e ambedue collaborano, in un certo senso, ad ingannare l’uomo. Le canne sono ancora in “Coste San Rocco” - lirica che dà il titolo a tutto il volume edito da La Prora di Milano - strumento attraverso il quale il vento fa sentire la sua voce, la quale, a sua volta, “è la voce dei morti/che sussurra parole antiche”. Anche qui è da notare l’ interdipendenza, la simbiosi dell’elemento umano col naturale. Le canne rivestono del loro colore la voce del pastore il suono delle cui labbra è “metallico” come quasi ferrigno è il verde delle canne che danno voce al vento che le scuote. Un altro simbolo - quello della fragilità della vita - le canne rivestono in “Naufragio”. Se si tiene presente, poi, che esse qui sono accostate alla colomba, simbolo dell’innocenza e del candore, ma, anche, dell’essere indifeso, in balìa del più forte, maggiormente vediamo, allora, risaltare la precarietà della vita, instabile come la posizione della colomba sulle esili piante dell’isola indimenticabile in questo naufragio di memoria del poeta molisano. In “Crollano le case di campagna” le canne, con il loro verde intenso, mettono in evidenza “gli occhi del ramarro” i quali acquistano, dal contrasto di colori, un risalto particolare, quasi “due smeraldi” nella favolosa vetrina d’un ricco gioielliere… Altrove la canna è simbolo di penna che “scalfisce il tuo nome,/come la scia d’ aereo/l’azzurro del sole…”; oppure mitiga la durezza di certe immagini e allora “le sbarre di ferro sono canne di bambù”. Ci fermiamo qui, anche se, al par delle canne, altri elementi legano intimamente la natura al poeta che si strugge dal desiderio immenso di pace, di fraternità, d’amore; un desiderio, però, che si trova costantemente a tu per tu con la rapacità della vita, tanto che il cuore dell’artista “s’aggrinza/come una scorza di melagrana spaccata”. E qui, per inciso, si noti la drammaticità del paragone nella sua apparente ingenuità e mitezza. Perché la
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scorza della melagrana spaccata ha l’aspetto di un corpo martoriato, orrendamente ferito, e il rosso dei suoi acini è l’immagine sinistra del sangue, ancor più impressionante se si pensa che chi tale richiamo fa è un poeta che ancora crede “al miracolo/di lucciole”, un poeta delicato, che a volte intesse versi lievi come quelli dei tanka cinesi e nei quali, per pura coincidenza, come ne “Il mantello della notte”, ne troviamo anche quasi tutti gli elementi, come la quercia, l’usignolo, il ramo del ciliegio. Libro eccellente, dunque, questo Coste San Rocco di Iacobacci, in cui, di stonato, c’è solo la prefazione di Massimo Grillandi che molti, a torto, considerano un papa della critica. Per noi Grillandi è colui che su La Fiera Letteraria del 26 gennaio 1967 incensò le Gocce d’infinito di Lina Alberti - la più grande amanuense contemporanea - libro che su Minosse del 9 settembre 1967 abbiamo dimostrato a iosa essere totalmente copiato da grandi poeti come D’Annunzio, Pascoli, Carducci, Carrieri, eccetera (morale: Grillandi non conosce neppure i nostri grandi poeti, altrimenti come poteva non accorgersene?). Per noi ancora Grillandi è uno di coloro che vogliono il nuovo a tutti i costi, che di conseguenza fanno le capriole quando leggono parole in libertà e castronerie varie (il libro di Iacobacci ne è privo e ci stupisce, pertanto la prefazione del Grillandi) e che invece arricciano il naso e fanno gli scongiuri - va’ indietro, Satana! quando si tratta non diciamo di poesia tradizionale, ma di poesia del sentimento. Quest’ultima nostra affermazione è convalidata, tra l’altro, proprio dalla prefazione in oggetto in cui il ritenuto pontefice sciorina le sue solite frasi roboanti, le sue solite parole ad effetto, scomoda Lorca e Mallarmé, ma alla poesia di Iacobacci non si avvicina, le gira intorno, quasi neppure la sfiora. Il solo tentativo di esaminarla, infatti, egli lo fa citando l’ultima lirica “Che posso dirti”, una citazione emblematica, con l’aria di… dirci la verità! *** Nel 1976 è la volta di Sotto il barbacane e, nel 1978, de La pietra turchina, che è una
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delicata, moderna, eppure antica, fiaba d’amore vista con gli occhi dei giovani che vanno “tra lische d’auto/con la camicetta a scacchi/e i jeans sfilati sui tacchi” e legata “la maglia sulle spalle”, ma anche con la rinuncia a volte, a volte con la nostalgia ringhiosa dell’età matura, quando “dicono /non c’è spazio per i salti del cuore”. Un calarsi in tali sentimenti con un’aderenza al vero quasi incredibile. Se si aggiunge che il tutto è creato sullo sfondo magico del Molise in bilico - ma senza drammi vistosi - tra passato e futuro, bisogna concludere che La pietra turchina (La Prora, Milano) è l’opera più matura e la più riuscita di Nicola Iacobacci, nella quale la liricità è, per giunta, ottenuta al naturale, al contrario di precedenti lavori in cui l’autore spesso ha rasentato l’ermetismo per un desiderio estremo di sintesi, a discapito dell’immediatezza dell’ immagine. Qui la poesia è tersa, vera, accompagnata dalla semplicità del dettato che ne rende fruibile a chiunque il contenuto altamente morale, umano, educativo3. *** Presi, ciascun di noi, dalla famiglia, la scuola e da numerosi altri impegni, la nostra amicizia si è a poco a poco allentata, anche se abbiamo continuato a seguirlo sulla stampa e ad ascoltare sue opere sulla RAI. Con la Casa Editrice La Prora di Milano, in collaborazione con Felice Conti e Renata Mangini, Nicola Iacobacci, nel 1970, cura la bella antologia URANIA, in tre volumi per le tre classi della Scuola Media. Ci siamo adoperati perché venisse adottata dagli Istituti di nostra conoscenza, anche perché lui e l’amico Conti hanno voluto inserirci, nel terzo volume, il nostro racconto “Dieci minuti senz’anima”. Le altre sue raccolte poetiche, edite nel corso degli anni, sono: Sotto il barbacane (1976), Il passo dello scorpione (1980), Il diavolo senza corna (1982), Di/spero (Parole al muro), del 1985, Il lucchetto cifrato (1987), La parabola del volo (1992) e La baia delle tortore (1998). In tutte, c’è l’aspetto altamente sociale della sua poesia, sposato alla natura lussureggiante e bella, in alcuni tratti ancora in-
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tatta, del suo - e anche nostro - sempre amato Molise. Domenico Defelice
sulla quale passa l’uomo che può cambiare il mondo.
1 - Su La Procellaria – Anno XIII, n. 3, lugliosettembre 1965 2 - Su La Calabria - Anno V, n° 15, quindici agosto 1972. 3 - Su Pomezia-Notizie, n. 4-5-6, aprile-giugno 1979.
Mi lascerei coprire di pioggia immerso nell’acqua del mare per sentire il cielo poggiato sui capelli Nicola Iacobacci
Ecco alcune poesie di Nicola Iacobacci:
LA MIA OMBRA Ho smesso di riempire le pagine di segni e schemi Di come vorrei che fosse la vita; quei fogli sono allineai come bianchi piccioni che lasciano in autunno merli e feritoie e si aggrappano agli orli della vasca dove il mangime ha il colore del granturco. Ma non è più autunno. Le chiome squadrate dei colpi secchi della roncola sono appena sfiorare dal sole dietro il palazzo dipinto di giallo canarino. Giorni a dispetto del freddo di ogni anno che stringe la città con le sue bianche catene di neve e gli alberi diventano statue con le braccia mozzate e la scorza staccata a scaglie dai colpi di scalpello. Ascolto le parole d’un amico, poi l’amico diventa la mia ombra che mi segue docile, un passo dopo l’altro sulle piastrelle d’asfalto. Nicola Iacobacci
STANCHEZZA Mi lascerei coprire di foglie come la strada
PAESAGGIO MOLISANO Non è questa la terra dove la talpa scambia gli occhi con la coda e il flauto appende al cavo del traliccio la lievità del passero ubriaco Qui i lupi saltano sui fuochi piantati nella neve a guardia di paesi arroccati sulle montagne; la solitudine e il vento sulle scale di pietra. Nicola Iacobacci ___________________________________ DORIS Cara farfalla bianca, anche stavolta mi è giunto puntuale il tuo messaggio. Arrivasti improvvisa sul balcone di Anna Maria, che mi stava mostrando i suoi fiori. “ Che strano, una farfalla di questo tempo …” fu il commento di Anna Maria. Ma io compresi fin da quell’istante che il tuo momento era arrivato ormai, cugina Doris, sofferente da tempo in ospedale. E l’indomani ebbi conferma che su quel balcone mi era giunto, amata Doris, il messaggio dell’estremo affettuoso tuo saluto. 2 aprile 2019 Mariagina Bonciani Milano
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L’INCENDIO DI NOTRE DAME
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L rogo che ha distrutto la Cattedrale di Notre-Dame di Parigi ha commosso il mondo. Non c’è stato quotidiano o periodico che si rispetti, in Italia come altrove, che non ne abbia scritto o non abbia pubblicato le immagini. Anche Pomezia-Notizie si unisce al cordoglio con la voce dei suoi poeti, nell’augurio che essa venga al più presto ricostruita, che ritorni a splendere come prima, faro di civiltà, di cristianità e di bellezza universale. (ddf) “Lettera all’ultima Notre-Dame di Parigi“ Forse questa mia lettera avrebbe bisogno di maggiori archi rampanti per avversare il dolore dinanzi al drammatico disfacimento. Forse Quasimodo si è salvato dal rogo saltando da una guglia all’altra, da un grifone all’altro nella notte aprilante dall’aria satura d’oltraggi. « Carissima Cattedrale di Notre-Dame, non è volata in cielo la tua anima medioevale, resiste il verticalismo dell’amore spirituale, nel silenzio che seguirà si penserà a reiventare la posa dello stile ricamato all’infinito filtrante la sostanza del tempo divino per tutte le sue arcate, logge, balaustre, animali fantastici e magiche vetrate. Non è vero che
Pag. 12 è morta la tua spinta gotica iniziale, le masse d’ombra del romanzo di Hugo non sono diventate cenere ed Esmeralda non è stata più giustiziata. Quale alba ti rivedrà più imponente di prima? Forse un altro romanzo infonderà vigore a ciò che resta della tua architettura, forse l’ampiezza smisurata del tuo mito darà un senso alla preziosa polvere che adesso sei nell’aria di Parigi! » Isabella Michela Affinito Fiuggi, FR
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NOTRE DAME DE PARIS La guglia caduta, il tetto crollato … Rimane un troncone del tempio sacrato. Ma il tetto crollato e la guglia caduta non han cancellato la storia vissuta. Se anche soltanto l’incendio fortuito avesse lasciato un’ultima pietra, la pietra per sempre avrebbe narrato gli eventi festosi e i fatti funesti nei secoli scorsi in quei luoghi successi. Così il sacro tempio è più vivo che mai con un nuovo evento da tramandare ormai. Ma il fuoco arrivato dall’alto (dal Cielo ?) avrà risvegliato nel cuore dell’uomo il senso del divino ora addormentato ?
¿Será esto el principio del final? Teresinka Pereira USA
___________________________________ DOPPO L’INVERNATA L’inverno, appena chiuse le perziane, lasso de fori pioggia, neve e vento; qui però la giannetta ciarimane e s’annisconne ne l’appartamento. Vordì che le impannate nun sò sane? No: sò inzerrate bene; ma lo sento assomijante a un sono de campane. Sò li ricordi ammonticchiati drento.
16 aprile 2019 Mariagina Bonciani Milano
NOTRE DAME El fuego no perdona! Dicen que el mundo se acabó en agua la primera vez... Que terminará en llamas, la segunda! ¿Quién se salvará? La catedral más famosa del mundo, después de 800 años de virtud y temor a Dios, fue castigada con el fuego!
Spero che l’aria calla de l’istate me scaccerà dar core l’affrizzione, quanno, da le finestre spalancate, entrerà er sole co li razzi d’oro e muterà pe me la condizzione: ogni giornata me darà ristoro. Elisabetta Di Iaconi Roma DOPO L’INVERNO D’inverno, dopo aver chiuso le persiane,/ lascio fuori la pioggia la neve e il vento;/ qui però rimane la tramontana/ e si nasconde nell’appartamento./ Significa che gli avvolgibili non sono efficienti?/ No: sono chiusi bene; ma la sento/ simile a un suono di campane./ Sono i ricordi accatastati lì dentro./ Spero che l’aria calda dell’estate/ scaccerà del mio cuore la tristezza,/ quando, dalle finestre spalancate,/ entrerà il sole con i suoi raggi d’oro/ e cambierà per me la situazione:/ ogni giorno mi darà un conforto. (Elisabetta Di Iaconi)
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VERSO ALTRE INQUIETUDINI Omaggio ad Antonio Tabucchi di Rinaldo Ambrosia
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I sono istanti, di grande distrazione, dove il destino gioca a nascondino tra le pieghe dei nostri giorni, e lì avvengono incontri rari. È in quel mattino estivo, di mezzo agosto, confinato da prati, boschi e montagne che chiudevano l'orizzonte, in quel mercatino di un paese di montagna che ho conosciuto Tabucchi. O meglio, non lui fisicamente, ma il suo pensiero, la sua opera. Su una bancarella, una copertina di un libro, dove due sedie a sdraio tagliavano un cielo azzurro, aveva lanciato il suo oscuro richiamo. Sfogliando quelle pagine un brivido d'inquietudine metafisica nasceva e andava a sovrapporsi alla mia naturale inquietudine esistenziale, cancellandola. C'era della malinconia tra gli spazi vuoti di un sogno. E poi quella citazione dell'autore che mi aveva riportato bruscamente a me stesso. “La vita è appuntamento, lo so di dire una banalità Monsieur, solo che noi non sappiamo mai il quando, il chi, il come, il dove.”
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Avevo sfogliato ancora alcune pagine e poi l'avevo acquistato. “Piccoli equivoci senza importanza” aveva così iniziato a condividere, in mia compagnia, l'estate. Un racconto (perché si trattava di un libro di racconti, o meglio, di storie) in particolare, mi aveva subito incuriosito. In “Rebus” nasceva una storia strana, c'era una Bugatti Royale, da ristrutturare, da preparare per una corsa. Mancava anche l'elefante, la statuetta d'argento, simbolo della famosa casa automobilistica, quella ritta sul cofano, sopra la griglia del radiatore, sostituita con una copia in legno dalla finitura similare e fatta realizzare in tutta fretta da un artigiano. Non emetteva nessun barrito, in quella storia, piena di lorenesi, forse troppi. E poi la vitesse, protagonista di un'epoca, dove la polvere della Storia si depositava sugli occhialoni di un pilota dalla gamba sciancata. C'era odore di olio, catrame e rumore di scappamento, troppo perché non soffocasse i protagonisti. E poi la contessa Miriam che con nonchalance, dice al protagonista: ''mi vogliono uccidere '' Le pagine scorrevano sotto i miei occhi, in quella tediosa e sonnolenta giornata di vacanza e io mi sentivo sempre più immerso in quella strana storia che mi portava ad una gara d' automobili. Una corsa con auto e abiti d'epoca, un rally che partiva da Biarriz. C'era da sgomitare tra l'Hispano-Suiza, la Boulogne e la Lambda del Ventidue rossa. E lì, sul parterre di una domenica mattina qualsiasi, in una giornata atlantica (come cita l'autore), alle dieci partiva la corsa che si snodava lungo un percorso a strapiombo sul mare. E Miriam era seduta al mio fianco, mentre io guidavo la pesante automobile, perché avevo rimosso il protagonista della storia e avevo preso il suo posto, mentre lui l'avevo confinato nelle ultime pagine del libro, proprio prima dell'indice, ad attendere lì, sino al momento in cui avrei chiuso quella copertina azzurra in brossura.
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Stringevo le mani sul volante mentre acceleravo e l'adrenalina saliva, saliva... là, in fondo al rettilineo... ancora venti metri... la curva e poi la controcurva...e la Lambda che accelerando, prima si affiancava e poi ci chiudeva di brutto, stringendoci verso lo strapiombo. Riuscii a reggere l'automobile, l'impatto, e a proseguire la corsa perché l'autore così aveva scritto e la storia era sua, io di mio ci avevo messo un po' di partecipazione, forse troppa. La corsa era finita, l'automobile era ai box e aveva subito solo lievi danni, qualche ammaccatura, i meccanici stavano già provvedendo alla riparazione. Chiesi a Miriam se avevamo vinto. Non mi rispose, pallida in viso, sconvolta ancora dall' incidente, disse: - rientriamo in albergo -. Passammo la frontiera, i doganieri, vedendo l'auto da rally, ci fecero passare con un cenno della mano. Eravamo nuovamente in Francia. Le ore del pomeriggio scivolavano via lente, mentre la contessa Miriam, al chiuso della stanza d'albergo, faceva l'amore con il protagonista (io ero uscito troppo presto dalla storia, rientrando nel ruolo del lettore). Poi la piccola pistola, dalla borsetta di Miriam, era finita nelle tasche del protagonista e lei gli aveva dato appuntamento alla spiaggia, verso le nove e mezza. Sapevo che il protagonista aveva capito che la statuetta, quella dell'elefante, era stata sostituita a fine corsa, ai box, ed era curioso di sapere che cosa potesse contenere. Tutto questo me l'aveva detto l'autore, ma sottovoce, in confidenza, sussurrandomelo in un orecchio. Come aveva anche insinuato nella mente, prima del protagonista e poi nella mia, il sospetto che la contessa avesse paura che il marito volesse ucciderla. Ora la vita e la morte oscillavano tra quelle righe, oppure era una mia sottile impressione? Avevo inseguito il protagonista nei suoi spostamenti, mentre girovagava in cerca del conte, tra la stazione ferroviaria e l'Hôtel des Palais (sua residenza abituale in Biarriz), voleva fermarlo, forse ucciderlo? ma il conte non c'era; e all'Hôtel d'Angleterre, tra quelle
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lenzuola stropicciate, ancora calde d'amore, la contessa Miriam era partita con la Bugatti Royale. Ma tutto questo era successo a pagina 45 e voltando pagina, dopo 13 righe, la storia terminava. Il nostro protagonista, solo, abbandonato sulla spiaggia, sentiva lo scorrere delle ore, battute dal campanile. Le dieci, poi le undici, infine mezzanotte e la storia era finita. No, o meglio, c'erano ancora tre righe dell'autore dirette al lettore. “Ma a lei perché interessano le storie altrui? Anche lei deve essere incapace a riempire i vuoti fra le cose. Non le sono sufficienti i suoi propri sogni? “. *** E sullo sfumare della storia, con il terminare della vita, anche l'autore è partito verso altre inquietudini... ma le sue parole continuano a vivere in tutti noi. Rinaldo Ambrosia Rivoli, 28-3- 2012
NOVELLA STAGIONE Un vento leggero di bora sale dal mare e mi sfiora con unghie di fresca primavera giunta appena, novella stagione, attesa e baciata da tiepido sole, che apre le gemme e esalta la florida bianca distesa dei fiori. Le ultime nevi dispogliano le ruvide creste dei monti e gaie scendono a valle in rivoli d’acque chiare e feconde. Lo spirito silvano del mio fiume trabocca di una musica morbida e cheta che di vita accende e rinnova le roride sponde. All’orizzonte, una vecchia quercia, con le sue foglie nane, si staglia con la saldezza di una cattedrale a secondare del tempo il rituale. Antonio Crecchia Termoli (CB)
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IL CODICE DI FARFALLA DI
VINCENZO DI ORONZO: LE FASCINAZIONI RICOGNITIVE DELLA VERTICALITÀ DELLA POESIA di Andrea Bonanno
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NCHE in questa silloge poetica Di Oronzo non ammette, così come avveniva nella precedente raccolta dal titolo La città allucinata1, alcuna diretta effusione soggettiva del sentimento, per privilegiare dei versi che vivono in immagini come flashs istantanei e sincronici dell’inconscio. Il tutto si rivela inedito e singolare e consiste nella sua parola che, nel rifiutare stilemi formali e obsoleti, promuove un nuovo linguaggio intenso e vertiginoso teso alla neutralizzazione del vuoto e del non-essere. Il tessuto espressivo delle liriche della suddetta raccolta vive, rivelando un alto spessore poetico, nel transito ellittico di una successione di poetiche e accese metafore, metonimie e antitesi fulgenti che inebriano nel profondo l’anima. Per comprendere la poesia del Nostro occorrerà allora entrare nel suo codice (di farfalla), per poter evitare quello spaesamento iniziale, che potrebbe rendere illegibile e snaturare l’alto valore poetico delle sue composizioni. In effetti il poeta, da buon studioso dello Jung e autore di quel fondamentale libro dal titolo I fuochi di Dioniso, edito nel 2012 da Moretti & Vitali, Bergamo, non fa che liberare la portata tumultuosa delle immagini cangianti ed evanescenti dell’inconscio che travolgono un io declassato e scisso, reso quasi come uno specchio inerte e frastornato. La realtà dell’io così diventata un ricalco ed un piano-copia delle proiezioni di quel mondo sotterraneo ed oscuro che ci abita e che, nel contempo, è matrix dello spirito umano e delle sue creazioni. La schizofrenica realtà esistenziale allora è sommersa da quelle immagini-visioni che
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vogliono imporsi per il frastuono dissestante della ragione e per lo svuotamento della centralità dell’Io. Come immagini dello spaesamento si hanno dei “passanti abbagliati dalla cruna di un ago”, p. 10; “Porte girevoli che attraversano abiti in fuga”, p. 10; “una piazza che passeggiava in trance”, p. 16; “scialli di volti fulminati dalla dimenticanza”, p. 16; “all’istante si sgretolarono i viaggiatori /come uccelli di vetro”, p. 18; “La fontana di Trevi / che ipnotizza i visitatori alieni”, p. 20; “Una folla di <<se stessi>> spaesati, / sulla piazza dei giochi”, p. 25 e altre similari immagini di una Roma rivissuta in modo visionario. Viene evocato un Museo degli Ori con “ginnasti di gesso” in trionfo, p. 33, una Discoteca del nirvana con “ragazzi esplosi”, p. 34, la Valle dei Templi con dei “ragazzi che ieri vendevano i loro occhi”, p. 34. Il poeta anima così lo “specchio stralunato / di pervenze e cristalli”, p. 39, in cui “uomini e sosia (sono) erranti senza dolore”, p. 38 e in cui moltitudini di <<io>> sempre in viaggio con la loro esistenza di figuranti che si muovono da una città a un’altra, p. 36. Le espressive immagini sono come degli sguardi veloci dell’inconscio sull’anima del poeta che coesistono dolorosamente con la sua memoria e con le sue pene interiori di fronte alla ferocia di chi odia poveri migranti che partono: “Bevono a lungo alle fontane di Sicilia, / e gettano al mare i loro dadi di paglia”. Eccellente è la composizione dedicata alla Grecia, come quella per la morte del bambino Aylan Kurdi, morto a 3 anni, annegato durante il viaggio da Kobane all’isola di Kos: “Qualcuno gli donò i loti del mare, / per morire in sogno, sulle spiagge di Bodrum. […]Europa Europa, / diecimila bimbi / viaggiano nelle tue facce d’acqua” e la lirica dal titolo Africa, che ha smarrito la gioia della danza: “Africa /del fiore di loto avvelenato / dagli dei d’Occidente”. Fra “profili / al limite della luce”, p. 65 e “Calchi azzurri / affacciati nell’acqua” di una città fatta di sguardi il Di Oronzo ricerca fra passato e presente il “codice di farfalla” della vera anima dell’uomo,
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destinando le sue liriche ricche di un vero spessore poetico a una continua interrogazione che perviene a rievocare il Dio perduto e la sua vera luce che dovrebbe alimentare di continuo il nostro cuore: “Aspettami, Signore, io non ho il tuo passo: / io non so leggere Il Libro della Morte”, p. 53. Le interrogazioni del poeta, alla fine, coesistono con le sue sincere confessioni: “<<Io>>, triangolo d’acqua, / inferno di musiche controvento”, “ […] “Una scarpa di incensi è appesa alla mia porta. / Busserò non busserò?”, p. 67. S’impone allora il recupero di quegli “Occhi di farfalla, / disseminati nell’ <<Io>>” e quel simbolo della circolarità (“Un cerchio rotola nella controra”, p. 46, se si vuole raggiungere la totalità del Sé, ossia il risplendere dell’io di un’eccelsa ed inedita numinosità. Il presente dell’io, attraversato da occhi, figure, apparizioni, che subito scompaiono per dare luogo ad altre rappresentazioni, in un continuo nascere e morire, da sembrare il “teatro dei demoni”, per dirla con il Bleuler, risuonano ineffabili le voci pressanti dell’ inconscio, che coesistono con quelle della memoria del poeta (la sua infanzia) e con la conoscenza del dolore degli altri, che hanno graffiato nel profondo la sua umanità . Se Jung, nel mirare alla realizzazione della felicità e della gioia di vivere dell’uomo, aveva gettato le basi del ripristino della vera dimensione spirituale dell’essere umano, al di là di qualsiasi maschera imposta dalla visione dell’apparato tecnologico, puntando su quell’ “eccedenza libidica”, sottratta a Freud, per indagare la natura dell’anima, che nei sogni assume una forma mitica, rivelando una base archetipica, punta tutta la sua ricerca sul Sé con il processo di individuazione per poter far luce sulla vera autenticità spirituale dell’uomo. Con un uguale intento umanistico, il poeta Di Oronzo ricerca un nuovo codice che attiene alla poesia e alla bellezza nella sua volontà del ripristino del sacro e dei valori della pietà e della solidarietà umana attraverso una inesausta interrogazione-ricognizione fra l’io-
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parvenza dell’oggi e il senso dell’assoluto e del divino, fra la scissione dell’io e i significati archetipali, in cui l’io verifica luoghi del dolore e dell’ascesa; della disumanità più atroce e della spiritualità dell’ascesa, ponendo come meta fondamentale l’essenzialità della misura di Dio: Camminerò nel libro delle Interrogazioni, finché il deserto mi darà acqua di sale: Dammi, Signore, il tuo labbro d’aceto. (Uomini impiccati alle porte di farfalle, p. 24) Di fronte all’irrompere dell’inconscio che altera incessantemente l’io, dando luogo specularmente a tante rappresentazioni di maschere, di sagome cangianti e di profili evanescenti, si erge allora l’io-anima inteso come aiòlos, ossia mosso e cangiante, simile ad una farfalla (p. 56), che circumanbula su se stesso, per poter pervenire alla coincidentia oppositorum, fra ciò che lo rappresenta ancora nel suo annichilimento e la sua dublure, ossia l’inconscio. Se si vuole raggiungere l’identità deve per forza avvenire un vicendevole scambio fra essi di rispecchiamenti e di appianamenti, per poi passare dalla doppiezza alla quaternità, ovvero a ciò che rappresenta il Sé (la totalità dell’uomo). Quello del Di Oronzo è un libro che impagina l’anima e i fondali dell’oscuro mare del nostro inconscio con grande afflato poetico, sollecitando i voli suggestivi della farfallaanima, archetipo della vita verso una riflessione interrogativa, intuitivamente immaginativa e commisurativa, che aspira ad un’ attivazione di una inedita dimensione spirituale dell’uomo. Pertanto, molteplici sono le commisurazioni nelle liriche del libro con gli insegnamenti del Talmud, considerato come la “Torah”orale, con altre antiche religioni, con le orribili mutilazioni dell’ anima avvenute a Dachau e ad Auschwitz, con il buddismo, con l’induismo tantrico e con la bibbia, con “L’orologio perduto dell’Ellade”, p. 37, con i ricordi della sua infanzia e della sua casa in quella Kailìa
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(Ceglie messapica), “stregata di cantilene”. Le avvincenti poesie del Di Oronzo, alla fine, basate su interrogazioni e riflessioni fra il passato ed il presente, fra stupori del mito e riconoscimenti dei veri valori umani, mirano alla rigenerazione della vera e totale umanità dell’uomo. Andrea Bonanno 1 - Vincenzo Di Oronzo, La città allucinata, Ediz. Giuseppe Laterza, Bari 2015.
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touriste non par hasard à mon hôtel Tes coups de téléphone… mes éclats de rire… L’invitation à rester, rendez-vous en suspens, Trafalgar Square a seulement vu nos fantômes. Hello ! Ken Green
HELLO! KEN GREEN T’en souvient-il? au Victoria and Albert Museum? Moi j’étais absorbée par les caryatides du Parthénon et tu vins près de moi, je ne comprenais pas ton anglais mais je comprenais ton sourire. Hello ! Ken Green Souviens-toi, dehors il pleuvait et Londres était beau, tu me pris la main, je ne voulais pas mais je riais
Wilma Minotti Cerini Traduction de Béatrice Gaudy
ASSISTENTE VOCALE Con una parola potrai avere la luce accesa il pranzo cotto le imposte chiuse od aperte Con una parola si realizzerà il sogno di avere domestici E tutti gli uomini vivranno come dei borghesi SORVEGLIATI Béatrice Gaudy Parigi, Francia
Hello ! Ken Green Londres était beau et ta maison de Bohème odorait la fumée et les tasses de café pas lavées Hello ! Ken Green Souviens-toi entre nous il ne s’est rien passé seulement beaucoup de gaieté un peu d’anglais, d’espagnol et de portugais et beaucoup de papiers éparpillés sur lesquels tu écrivais ta comédie télévisée Tu voulais me retenir tandis que je m’en allais sous la pluie,
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 7/4/2019 A partire dal prossimo giugno, l’Università La Sapienza di Roma certificherà i sei livelli di conoscenza della lingua latina in documenti validi al par di quelli per la lingua inglese. Il Latino, infatti, viene studiato in tutto il mondo, Cina compresa. Alleluia! Alleluia! Dicevano che il Latino era morto, ucciso dall’artificiale Esperanto, invece, eccolo risorto, mentre defunto è proprio il suo rivale. Se non fosse per la nostra dabbenaggine l’Italia è il paese dove si studia di meno -, il Latino potrebbe far buona concorrenza anche all’Inglese. Domenico Defelice
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Maggio 2019
TUCIDIDE DAL PEDRINA A XI JINPING, SULLA VIA DELLA SETA di Ilia Pedrina N Musa greca – Antologia di Poeti e Prosatori greci con profili degli Autori e pagine critiche organicamente scelte per un Disegno Storico-Estetico, Francesco Pedrina presenta Tucidide consentendogli di occupare uno spazio importante nella sezione degli Storici del V secolo, dopo Erodoto e prima di Senofonte: brevi note sulla vita, da quando giovinetto ascolta la lettura delle Storie, fatta personalmente da Erodoto, commuovendosi fino alle lacrime. Il Pedrina sostiene: “... il vecchio storico intravvide la possibilità di avere un continuatore e incuorò il giovinetto. Tradizione attendibilissima: Tucidide può benissimo aver attinto da Erodoto l'ardore di farsi storico, ma l'influsso di Erodoto non va oltre quest'aspetto. Erodoto è un ionico che vede la storia sotto l'incanto epico, come un poema di gesta, una Chanson de Roland, che invece dei paladini di Francia ha per protagonisti Leonida, Milziade, Temistocle, e la dulce France è Atene. Tucidide è uno spirito lucido, smagato e vede la storia sotto una luce più fredda e più realistica... La storia tucididea non è concepibile fuori di Atene, anzi è essa stessa creazione di Atene, del suo genio politico. Tucidide, personalmente, va oltre, e tracciando la sua storia vuole che questa sia 'un acquisto perenne', una lezione per l'umanità...” (F. Pedrina, op. cit. ed. Trevisini, Milano 1962, pag. 595). Seguono elementi della biografia e i contenuti tecnici delle sue opere, compresa l'analisi dello stile: 'Nasce la storia come scienza' (pp. 596-597); Dalla 'Storia della guerra del Peloponneso': 'Elogio di Atene fatto da Pericle -II, 37, sgg-; 'La pestilenza di Atene'; 'Dialogo tra i Melii e gli Ateniesi ovverosia la neutralità disarmata' (pp. 598-608); La spedizione di Sicilia (415-
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413 a. C.): 'Partenza della flotta ateniese'; 'La disfatta dell'esercito ateniese' (pp. 609614). I democratici radicali di Atene sono guidati da Alcibiade, mentre i conservatori avevano scelto Nicia, uomo di gran valore morale, assai ricco, ma debole nella guida degli eserciti: vincerà Alcibiade ma la spedizione si concluderà tragicamente perché i Siracusani avranno il sopravvento e si vendicheranno pesantemente. Cito: “I Siracusani dapprima trattarono assai duramente i prigionieri che avevano confinati nelle cave di pietra, dette latomie. Stando in tanta moltitudine in quel cavo e angusto luogo soffrivano primieramente soli cocenti ed un calor soffocante per non esser riparati dal tetto; di poi succedendo le notti autunnali fredde, la mutazione del clima introdusse nuovi morbi. Per la strettezza poi del sito, facendo quivi i prigionieri le loro occorrenze e giacendovi alla rinfusa accatastati i cadaveri di coloro che, o per le ferite o per le intemperie o per altre cause morivano, ne venne che ne erano travagliati da un intollerabile fetore non meno che dalla fame e dalla sete. Infatti per otto mesi ciascuno non ricevé che una tazza d'acqua e due pezzi di pane di frumento. Per tal modo, quanti stenti può soffrire gente caduta in un tal baratro, tutti li ebbero a patire. Passarono circa settanta giorni, così stivati, poscia tutti furono venduti, eccettuati gli Ateniesi e quei Greci di Sicilia e d'Italia, che avevano militato con loro. Il numero dei prigionieri, sebbene non si possa esattamente determinare, tuttavia non era minore di settemila uomini. Non può porsi in dubbio che questo fu il maggior disastro sopportato dai Greci in questa guerra; anzi, per mio avviso, maggiore di quanti la storia greca ricordi: gloriosissimo tornò ai vincitori, calamitosissimo ai vinti. I quali, prostrati in tutto e per tutto, soffrirono l'estremo d'ogni sciagura. L'armata loro e l'esercito andarono letteralmente sfasciati e di molti che erano non ne tornò in patria che un manipolo sparuto. Tali sono le cose che accaddero in Sicilia” (Tucidide in F. Pedrina, op. cit. pp. 613614).
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Stile asciutto questo di Tucidide, scarno e concretamente legato agli avvenimenti che via via si stanno svolgendo: viene considerato il padre della storiografia proprio perché dettaglia i riferimenti sulle vicende, interpretandole scrupolosamente anche in relazione ai comportamenti umani che quelle vicende stesse mostrano e sottendono. Atene acquisisce una potenza incredibile, quasi imperialista, nel controllo del territorio, ma al suo interno si cela quella storica ma spesso imprevedibile debolezza che porta al decadimento e al fallimento di ogni precedente successo. Chi possiede la forza, non ha bisogno della giustizia: Tucidide sta dalla parte di Atene, potentissima, ma al contempo registra la parabola documentata degli eventi e delle loro conseguenze che la porteranno allo stremo. L'attualità di Tucidide sta in questo assunto di cui Xi Jinping, nominato presidente della Repubblica Popolare di Cina dall'Assemblea Generale del Partito il 14 marzo 2013, sembra si sia appropriato: abolizione del 'figlio unico' per ciascuna famiglia cinese, presente e futura; concreto benessere per ciascun cittadino cinese, previsto nel suo personale sogno politico-economico, sia in patria che all'estero; relazioni internazionali tutte fondate sull'incremento e sviluppo delle conoscenze e delle competenze tecniche di cui approvvigionare il proprio popolo. Allora, quando Xi parla di Tucidide vuole far riferimento alla forza demografica del suo popolo che egli di certo ha spinto ad incrementare e che dunque indubbiamente possiede, perché questo possa scatenare asservimento di tutti gli altri popoli nel resto del mondo? I fucili di Stato sono stati utilizzati a Beijing, in Piazza Tienanmen, ad ammazzare giovani Cinesi dissidenti, non certo contro altri, il regime della Repubblica Popolare di Cina è sempre e comunque regine nazionalista e totalitario, anche se di recente Xi in Europa da tanti è stato consigliato a mutar rotta nel rispetto dei diritti umani. Quando è stato acquistato il porto del Pireo, così da dare concreta prova di quanto si possa
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ottenere solo con la forza immaginata, progettata e concretamente messa in campo, senza utilizzare armi al di fuori di quelle, ora rese terrificanti, del commercio? E se la via della seta fosse solo unidirezionale, come il saccheggiamento dei territori africani, pur che le risorse del sottosuolo non appartengano più agli Africani? Gli Africani in Europa non troveranno di certo il loro sottosuolo, la loro vera ricchezza naturale che, per quanto sia pagata è sempre espropriata! Evocare La trappola di Tucidide e altre immagini della studiosa Anna Caffarena, edito da Il Mulino, può apparire casssandrico, se non si tiene conto della realtà, che parte dalle immagini pensate a disegnare modi mentali che poi modificano ed alterano la realtà stessa perché formulate da chi, in mente, ha solo il potere e il prestigio che ne deriva ed il dovere di conservarlo. Queste sono realtà di fatto, non parole vuote di senso. Si vuole costringere la gente a pensare come doverosa e necessaria la guerra nei territori cominciando proprio da quelli, fragilissimi d'Africa? Mi devo informare di quanta merce prodotta in Africa e non da ditte africane cedute ai cinesi viene venduta in Cina: la Cina è grande e l'immagine di una potenziale massa di consumatori ampia assai potrebbe ingannare ogni produttore, che cederebbe all'istante per desiderio, umano, assai umano, di guadagno! Non ha bisogno di esercitare la giustizia chi possiede la forza: se Tucidide constatava la forza militare e navale di Atene e ne tracciava consistenti linee di mantenimento del successo acquisito, verificava altresì, con vigore scientifico da vero storiografo qual era, che bastava qualche dissidente che passasse dalla parte del nemico per dare a questo il coraggio di reagire e di cambiare tutte le carte già ben messe in cantiere. Come ha messo in evidenza Angelo Panebianco, studioso ed editorialista del Corriere della Sera in 'La trappola di Tucidide: così Cina e Usa rischiano di farsi la guerra per paura' del 26 novembre 2018, esiste una ben diversa prospettiva nel rapporto Potere/Popolo tra Occidente ed Oriente: per
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gli Occidentali la prospettiva è anarchica, perché il Popolo difficilmente riconosce il Potere e vi si sottomette, considerandolo nell'ottica del nemico; per i Cinesi la prospettiva è gerarchica, perché il Popolo riconosce il Potere e vi si sottomette spontaneamente, rispettando la gerarchia. Per evitare ogni possibile rischio di nuove latomie sarà meglio sottostare passivamente alla prospettiva gerarchica, come vera conquista perenne per l'umanità? Ilia Pedrina
VIAGGIARE È GIOCO Viaggiare è gioco di perdere passi dietro per ritrovarli davanti. Gioco che diventa più bello se fatto in compagnia di chi magari ha gli stessi tuoi occhi avidi per un mondo ancora da scoprire. Il viaggiatore sa che parte, ma non degli incantesimi e dei misteriosi sentieri d’ affrontare.
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Sarà per un attimo la sosta: poi ricomincerà a viaggiare. Viaggiare in levità verso la Meta, senza chiedersi più dove e a chi lasciare i pezzi della vanità, divenuto accumulo d’inutile fardello. Salvatore D’Ambrosio Caserta
È apparso in questi giorni, nelle librerie e nelle edicole (ma può essere acquistato anche via internet) il nuovo volume di Domenico Defelice: LE PAROLE A COMPRENDERE, edito in bella veste tipografica dalla Genesi di Torino, nella collana Le Scommesse (Postfazione di Emerico Giachery - Pagg. 138, € 14,50).
Vedrà forse il mare di Signac a Saint- Briac, o la sera di Seurat a Gravalines. Vedrà le irraggiungibili vite sfavillanti, o quelle deprecabili che bruciano il cuore dei sensibili. Vedrà intanto che viaggia, ma non si fermerà, la monotonia del mondo a ogni latitudine. Vedrà i passi contati, come gli anni che ha vissuto; incogniti ancora quelli che verranno. Annoterà quando parte, il Tempo che l’insegue imbiancando i capelli e facendo acquosi e spenti occhi-strali, un tempo pronti a trafiggere il Destino. Succederà che viaggiando si accamperà un giorno sulla strada dell’Ignoto, abbagliato da un pomeriggio di tenue rosa .
Il libro - scrive nella Prefazione Sandro Gros-Pietro: “reca già nel titolo quella significazione al plurale che poi in tante occasioni si rinnova nel discorso di Defelice: qual è l’orizzonte di lettura? Qual è il significato del “segno”? Si tratta di parole che il lettore dovrà comprendere? Oppure sono parole che comprendono e spiegano la situazione del lettore? La funzione riflessiva e transitiva esercitata dal “segno” è doppiamente valida: bisogna comprendere le parole, ma sono anche le parole che ci comprendono”.
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AMORE PER L’ARTE di Manuela Mazzola A mostra di pittura “Amore per l'arte” si è tenuta nella torre civica di Pomezia dal 15 al 17 marzo 2019; hanno esposto le loro opere gli artisti Maria Antonietta Mosele Giorgioli ed Enzo Andreoli. I due pittori hanno condiviso con gioia questa mostra, mettendo a confronto il loro talento. Enzo Andreoli ha esposto dieci dei suoi quadri. La sua è un'arte di rottura con gli schemi convenzionali, diametralmente opposta alla contemporanea moda delle falsificazioni tecnologiche, lascia spazio solo alla vera creatività; la sua è un'arte che nasce da un continuo lavoro di ricerca e confronto; una shock art, un'arte che nasce dall'accostamento di colori molto forti, caldi e freddi, che riescono a regalare forti suggestioni. Andreoli è un artista libero da ogni convenzione ed esprime se stesso attraverso le forme ed i colori. Osservando le sue opere si può notare una predilezione per tutte le sfumature del blu, dal blu scuro, all'azzurro, al celeste accostati al rosso della vitalità e della passione. In questo quadro si possono notare le pennellate vigorose dello sfondo, azzurre e celesti, colori freddi, da cui risaltano i fiori con i loro colori caldi: giallo arancione e rosso; il soggetto viene fuori per dare vita ad una immagine quasi tridimensionale. Il gioco dei colori e delle pennellate restituiscono allo spettatore un'esplosione di creatività. Le opere di Maria Antonietta Mòsele sono invece più numerose e vanno dai ritratti ai paesaggi urbani e naturali, a volte con tinte forti, a volte
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delicate in un gioco di pennellate che vengono impresse nella tela con molta delicatezza. L'artista sembra, mediante le sue opere, essere in continua ricerca di un equilibrio tra forme e colori per raggiungere un risultato di serenità e pace. La pittrice ha esposto sia ritratti dei suoi figli da bambini, sia ritratti di donne; nei bambini è riuscita a restituire l'innocenza dell'età, occhi spalancati alla vita, pieni di stupore ed ingenuità. Nei ritratti femminili ha colto le loro diverse espressioni di curiosità, di passione e di forza. In particolare il quadro della “Donna Sole” che esprime, mediante un gioco di luci ed ombre, l'idea della donna moderna, forte, leonina, energica, padrona della sua vita; le pennellate sono molto delicate tanto da fondersi con la tela stessa. Nei quadri che ritraggono i paesaggi urbani, si può notare un equilibrio interrotto solo da una finestra, da cui si affacciano occhi impauriti e disorientati difronte ai fatti delittuosi che accadono nel mondo. La mostra ha riscosso molto successo ed è stata visitata dal sindaco di Pomezia Adriano Zuccalà, dal vice sindaco Simona Morcellini, dal consigliere comunale Marco De Zanni e dallo storico dell'arte Luca Paonessa che ha aperto l'evento con un breve discorso sui dipinti esposti. Alla pittrice abbiamo rivolto le seguenti domande: Quando ha iniziato a dipingere, quando ne ha sentito l'esigenza? L'esigenza di disegnare l'ho avuta sempre, fin da ragazzina. Ho cominciato dalle scuole medie, Poi dopo il matrimonio, la sera, dopo aver messo a letto i bambini e riordinato la cucina, mi dilettavo a creare nuove cose. Una mia collega mi portava dei rami fioriti, i primi fiori di primavera, la mimosa, ecc.. ed io una sera improntavo il disegno e la sera dopo lo passavo a tempera o con matite colorate. Inseguito ho avuto l'interesse per la tecnica dell'olio che non conoscevo. Volevo impararla dal vero, e così ho seguito le lezioni di un professore, che tra l'altro era papà di un mio scolaro, il prof. Nitta ed insieme ad una amica, abbiamo iniziato ad apprendere la tecnica
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dell'olio. Abbiamo cominciato con il disegno dal vero, rifacendo busti e sculture, per poi arrivare alla tecnica dell'olio. Abbiamo riprodotto le opere dei grandi del Rinascimento, poi per conto nostro riprodotto i grandi dell'impressionismo. Come descriverebbe la sua arte. Nelle mie opere c'è una continua ricerca di armonia, con una buona dose di fantasia attraverso le forme ed i colori. Fin dalla scuola ho sempre amato disegnare; sono sempre stata molto abile sia nel disegno ornamentale sia in quello geometrico. La base è sempre il disegno, opere di fantasia, anche indefinite, ma che abbiano, comunque, armonia. C'è anche qualcosa di reale in quello che faccio e possibilmente sempre tenendo conto dell'armonia, delle forme e dei colori. Quale messaggio vuole esprimere attraverso i suoi quadri? Attraverso i mie quadri vorrei esprimere una sensazione di serenità da infondere a chi li guarda, donare armonia, contentezza, sempre un'emozione positiva. Vorrei far capire che la bellezza dell'arte dovrebbe sempre infondere sentimenti belli e buoni. Qual è secondo lei la situazione attuale dell'arte. Com'è la vita di un'artista oggi? La maggior parte degli artisti è pagata, ha un proprio lavoro. In passato la situazione era molto più difficile, anche per i grandi artisti. Michelangelo, ad esempio, era pagato pochissimo. Oggi, devo dirlo, c'è di mezzo la politica, le raccomandazioni! Forse sono troppo schietta. Solitamente gli artisti hanno il loro lavoro, insegnano o hanno la loro scuola. Comunque, nell' arte attuale non trovo armonia, e non
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mi piace molto. Capisco che c'è anche l'arte della sofferenza, si, ci sono tanti pittori che ritraggono i poveri, la guerra e capisco che debba esistere anche quest'arte che rispecchia la confusione, il disorientamento moderno, ma è il messaggio che non comprendo; infatti, rispetto al passato l'arte è molto più caotica e confusa. Manuela Mazzola
PAESE Il periodo caldo, la pigra stagione. Sole ad ogni batter d'occhi, la strada deserta, il catrame fumoso, quasi fuso. Nessuna anima parla, né cammina né si affaccia. Tutti dormono su un letto o su un muricciolo o addirittura su un albero. Solo alcuni dormono su un ricordo. Manuela Mazzola Pomezia, RM
DALLA GERARCHIA DELLE SOFFERENZE Quando un’unica goccia di sangue di un poliziotto versata da un delinquente importa mille volte di più che la mano strappata che l’occhio cavato perfino che la morte di un innocente vittima di poliziotti il potere si vuole il nemico del proprio popolo Béatrice Gaudy Parigi, Francia N. B. La compassione dell’autrice non è di parte, lei ne prova per i poliziotti vittime di delinquenti quanto per le persone pacifiche vittime di poliziotti che abusano della propria forza.
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EN ATTENDANT LES POÈMES DE DOMENICO DEFELICE C'EST MIEUX QUE EN ATTENDANT GODOT! di Ilia Pedrina Conosco strade dove urla l'abbandono, non passa il netturbino e per l'igiene attendono la pioggia. Muri vecchi, scrostati sui quali avanza del muschio la cancrena e i rossi dei mattoni son ferite antiche che non si cicatrizzano. Solo la primavera le consola con qualche fiore effimero che sempre indossa splendidi velluti e leggera la brezza le percorre come una carezza.
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È la voce di Domenico Defelice in Solo la primavera le consola, poesia tratta dalla raccolta Le parole a comprendere, in pubblicazione presso la Genesi di Torino e presente in Pomezia Notizie del marzo 2019 a pagina 6, opera che già l'Editore definisce 'spumeggiante', con Prefazione di Sandro Gros-Pietro e 'l'affettuosa e magistrale testimonianza del grandissimo Emerico Giachery': è il suo nuovo lavoro e porterà dentro, di certo, matrici d'emozioni profonde, per i sensi e lo spirito, attraversate dal suo potere d'interprete degli umani, della natura, delle pietre. Saranno liriche, canti poetici che possono risalire a tempi all'indietro o a quelli del recente presente: per la ricerca poetica anche il tempo lungo, lunghissimo ha vita e spessore d'esperienza. Posso immaginarne il contesto proprio da Solo la primavera le consola, un piccolo cenno, un'anticipazione sciolta ed assai significativa che coglie vibrazioni profonde anche nel degrado più duro e desolante: ansie ed aneliti che attraversano le righe e fanno animare le strade che han queste caratteristiche, là dove anche il vento di primavera riesce a portare movenze di rinnovamento, anche se fatto di istanti. Certo per me en attendant les poèmes de Domenico Defelice c'est mieux que en attendant Godot, perché il lavoro di Samuel Beckett, che ci è già noto, rimane al punto di partenza, pur nel pieno ardore del desiderio di movimento: il tema del tempo, del luogo e dell'attesa di qualcuno, dopo aver parlato del Salvatore, lascia un vuoto dentro perché si disperde il senso del centro rispetto alla periferia. Nella lirica di Defelice il luogo è questo, viene descritto con dettagli, si intuisce il catalogo degli eventi come fuso e confuso con asfalto, mura scrostate, muschio a cancrena sul rosso dei mattoni, con quel vento di primavera che purifica e salva, animando i petali vellutati di fiori 'effimeri'. Il luogo è questo, come nell'apertura del lavoro di Beckett, con il salice al centro della scena, scarno, forse morto o forse con qualche fogliolina, secondo la stagione che non si sa quale sia, ma cosa veramente stiamo aspettando? Ecco qualche
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traccia del testo nel dialogo tra i due protagonisti: '...Il piede è gonfio, la scarpa non esce e il salice ha finito di piangere. Impicchiamoci subito!' '... usa un momento il cervello, usa la testa! ' È la mia sola speranza!'... 'Siamo legati a Godot?' 'Temo proprio di si'... (S. Beckett, Aspettando Godot, fonte in rete). Poi l'ironia diventa dramma ed arriva il padrone della terra con il servitore al guinzaglio come un cane: un lavoro da vedere, più e più volte per capire l'Irlandese, il cui sangue bolle e ribolle ancora di rivoluzione e il bambino sembra che conosca Godot, che gli parli e si faccia suo portavoce, perché ci sia un riferimento che poi svanisce, rimanendo però scolpito dentro e vacuo al contempo. Tempo circolare? Tempo lineare? La poesia, come l'opera teatrale, costruisce il suo tempo, che è tempo altro dal vero, ma pur sempre tempo, della forma e del suo contenuto: l'opera di Beckett lascia ironia nella tensione del dramma; la poesia di Defelice, anche se nella dimensione dell'attesa, confida nella capacità delle parole a dare segnali di senso ad una realtà pur amara, pur desolante e carica di contraddizioni: Le parole a comprendere non sono vuoti a perdere! La comunicazione in poesia non si fa mai banale e senza senso perché in essa l'attesa stessa non è mai vuota: cosa si sta aspettando? Cosa o chi? Oggi non verrà, verrà invece domani, dice il bambino che sa ed ogni poeta è un bambino che sa: i tempi, gli eventi, i particolari degli spazi si collegano tra loro con le possibilità che tutti i tempi hanno in comune, passati, presenti o paralleli che siano: le tematiche del canto interiore che si esprime in parole non cambiano, anche se cambiano meridiani, paralleli, soli e lune, in un tempo indistinto. Mi scrive l'Amico Defelice: '...Sandro Gros-Pietro mi ha fatto avere le bozze del volumetto di liriche che mi sta stampando. Ha scritto una generosa Prefazione. Ne sono contento... Domenico' (e-mail del 27 marzo
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alle ore 8:45): lo penso nel suo Hortus conclusus di via Fratelli Bandiera 6 a Pomezia, là dove i suoi alberi sono tanti, carichi di vita, di tempo e di similitudini, che li rendono ancora più presenti: saranno loro ad aspettare il suo sguardo, giorno dopo giorno, sicuri d'essere esauditi? Ora, al centro della scena, di certo, troverà finalmente concretezza la sua poesia, il suo nuovo bisogno di scrivere, di comunicare, di raccontare in versi e quindi di agire e di rappresentare tutto questo come scena della sua vita. Ilia Pedrina
LUNGO LE ORME DEL TEMPO E invecchieremo insieme lungo i passi della vita folli nel ricordare giorni felici ombre dei nostri anni. E sarà giorno nuovo nel sorgere dei nostri sorrisi quando la notte getterà il suo velo e i battiti dei nostri cuori continueranno ad essere le impronte del nostro amore. Rinaldo Ambrosia Rivoli (TO)
PAURA Senza luce senza sole senza speranza, la parola tira fuori la paura dall'anima. Col tempo, umiltà porta ragione: non c'è ragione di avere paura. Teresinka Pereira USA - Trans. by Giovanna Guzzardi, Australia
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LA BIBLIOTECA REALE nel suo massimo splendore di Leonardo Selvaggi
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OPO la morte del conte Provana del Sabbione s’inizia per la Biblioteca Reale una seconda fase. I tempi ormai tendono a cambiare, sono maturi per una politica culturale più aperta a nuove prospettive. Carlo Alberto sollecitato da uomini d’ ingegno: Cesare Saluzzo, Luigi Cibrario, Roberto d’Azeglio, Cesare Alfieri, Federico Sclopis, assume l’aspetto di un re mecenate, generoso, dalle idee più ricche e liberali, protettore di ogni iniziativa che potesse onorare la Patria. Con la sua guida nobili ingegni preparano spiritualmente il paese alla sua storica missione. La Biblioteca Reale doveva crescere poiché il Sovrano vedeva in essa uno strumento di lancio, una fonte di lievitazione di nuove idee. Carlo Alberto seguiva con passione quanto si scriveva intorno al suo regno; il suo entusiasmo si accese, ebbe lampi di felicità quando lesse nella “Revue des deux mondes” l’articolo di Guglielmo Libri in cui si metteva in risalto come il Piemonte fosse la guida dello sviluppo morale ed intellettuale della penisola. I professori universitari godevano di molto credito; Carlo Alberto voleva che l’Università torinese ritornasse ad essere vigorosa. Anche il Teatro ebbe largo appoggio dal Sovrano; La Compagnia Reale Sarda sovvenzionata ottenne grandi successi. Acclamate le tragedie del Pellico, e del Marenco le commedie di Alberto Nota, le interpretazioni del Vestri, Borghi, della Marchionni,
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della Bettini. Tutto questo fervore letterario e la vitalità delle promosse istituzioni culturali formano la più adatta ambientazione per lo sviluppo della Biblioteca Reale. Nei periodi di maggiore potenziamento si verrà a creare un rapporto sempre più stretto tra la Reale e le attività di ricerche. La direzione di Domenico Promis Il 4 febbraio 1837 viene nominato bibliotecario Domenico Promis, grande personaggio della cultura che gode tutta la fiducia del Sovrano; lo caratterizzavano un forte spirito d’ordine, coscienziosità, zelo assiduo, affabilità. Amava la Biblioteca come cosa di famiglia. Vi andava due volte al giorno, alle solite ore, ripercorrendo la stessa strada. Un uomo metodico acceso da una ardente passione di bibliofilo. Con la sua presenza La Biblioteca esce dalle difficoltà: qualificata ”vecchia libreria” e “povera cosa” si avvierà per una strada di piena e sicura crescita. Lo stesso Carlo Alberto s’interesserà sempre più all’ Istituto che in un primo tempo è un centro culturale da servire alla famiglia reale e agli ufficiali studiosi del Regio Esercito. Promis è stato un attivo e affettuoso collaboratore del Re sin dal 1831, benemerito ricercatore di patrie memorie, collezionista di codici, documenti e medaglie. Nel 1832 gli viene affidata la carica di conservatore della raccolta numismatica, pratico di questo campo per essere stato in precedenza cassiere della Zecca di Torino. Alla morte del Provana il Promis cura ambedue i complessi: medagliere e Biblioteca, che diventano in quest’epoca un’unica imponente istituzione culturale che dovrà sempre più aprirsi agli studiosi della città, Gli acquisti librari intanto si intensificano, vengono effettuati anche sui mercati europei. Una fattura datata 9 dicembre 1838 comprende vari manoscritti, tra cui il Trattato di Architettura civile, idraulica e militare di Francesco di Giorgio Martini. Ora quanto mai si avverte la necessità di maggiori spazi; i locali non sono più sufficienti, sono sovraccarichi fino all’inverosimile. Il cav. Bonsignore, primo architetto disegnatore di S.M., aveva so-
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praelevato le scaffalature esistenti “di circa quaranta once”, portandone l’altezza al cornicione. Il Promis pensa alla sistemazione del pianterreno del fabbricato della Galleria Beaumont. I lavori già iniziati dal 1837 trasformeranno i vecchi locali, un tempo adibiti a rimessa e legnaia, in un grandioso e splendido salone: Angelo Moja e Antonio Trefogli ne ornano, su disegni del Palagi, la volta con allegorie delle Lettere, Scienze e Arti. Lo stile è neoclassico, le decorazioni sono fatte di finto stucco monocromo; un dipinto murale eseguito con tecnica di affresco. Un altro elemento di abbellimento del Salone è dato dalla preparazione di un pavimento in legno ad intarsio da parte del Moncalvo. Come coronamento del tutto, la scaffalatura poderosa in noce che doveva seguire in piena armonia le linee architettoniche delle strutture; essa veniva ad essere come un vestito austero, ben intonato e sfarzoso che aggiungeva aspetto solennemente estetico. Cinquantamila volumi La Biblioteca era allora ricca di cinquantamila volumi stampati. Fra le eterogeneità delle pubblicazioni un posto distinto occupava la scienza araldica, presente con raccolte cospicue. Di grande valore i tredici volumi di blasoneria di formato diverso, contenenti stemmi in colore solo disegnati, fatti eseguire da Carlo Emanuele I, duca di Savoia (Varia 153). Questa raccolta, cominciata certamente quando ancora viveva Emanuele Filiberto, appare continuata ben dopo la di lui morte. Vi sono inseriti molti indici e descrizioni talvolta autografe del principe. Quattro volumi sono legati in pergamena bianca con stemmi e fregi dorati, nove rilegati sotto Vittorio Amedeo I in pelle scura, con stemma sormontato da corona chiusa. Notevoli, inoltre gli scritti di Padre Michelangelo Boccard sulla storia genealogica dei principi di Casa Savoia e dei grandi dignitari dello Stato (1740).Certamente la maggior parte delle documentazioni di araldica riguardano i Savoia. Ricordiamo, fra le tante, due opere esemplari: del Guichenon “Histoire de la Maison de Savoie” e del De
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Foras “Armorial de Savoie”. Inoltre, una raccolta di tremilacinquecento stemmi miniati di famiglie italiane e straniere e di quelle degli antichi Stati Sardi, Molto consultati, poi, i volumi dei figurini militari per il loro valore storico. Essi significano soprattutto lo spirito organizzativo, tecnico e anche morale dell’ antico Piemonte; disciplina e ordine che tanto contribuirono a cementare la compagine dell’ esercito ducale. In pochi anni la Biblioteca è diventata una raccolta sceltissima specialmente nelle materie militari. Mentre nei primi tempi gli acquisti hanno avuto carattere eclettico, ora con il Promis si ha una tendenza alle specializzazioni; si arricchiscono certi filoni bibliografici come la storia generale, storia italiana soprattutto nella parte Subalpina, Ligure e Sarda. Libri d’arte, di geografia, di viaggi, di archeologia, tutti rari e di pregio, che costituivano già allora un patrimonio di inestimabile valore. Nel 1838 vengono acquistate opere di Giovenale, Ovidio, Esopo. Scritti di strategia tattica e topografia. Abbondante la documentazione riguardante la storia municipale e statutaria. In questo settore bibliografico si riflette tutto il fermento di idee e di movimenti politici che facevano profetizzare l’Unità d’Italia. Gli anni decisivi Gli anni 1839-40 sono, si può dire, quelli più decisivi per la Biblioteca Reale. In questo periodo incontriamo Giovanni Volpato, persona intelligente ed intraprendente, divenuto a Torino ispettore della Reale Galleria di Pittura, professore all’Accademia di Belle Arti; si dedica in seguito al commercio di opere d’arte. I suoi viaggi si fanno più frequenti; a Parigi conosce un collezionista inglese di disegni e di stampe. Mette su una collezione che finirà per vendere a Carlo Alberto. La raccolta di quasi duemila disegni viene presentata al Promis, che è entusiasta quanto mai di quest’occasione di acquisto. Già nel 1836 il De Gubernatis in un incontro con Volpato aveva esaminato l’importante collezione. Si dichiarò senz’altro favorevole: i disegni offerti alla Biblioteca Reale per una rendita fissa di
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L. 3.500 annue che doveva essere estesa alla famiglia. Il prezzo rappresentava quasi una nullità e doveva essere considerato ancora più modesto quello che fu poi pagato nel 1845, lire quarantamila. I famosi disegni che fanno la gloria della biblioteca provengono per lo più da importanti collezioni inglesi; mentre quelli di Leonardo, si Raffaello, di Correggio, di Tiziano appartengono a collezionisti francesi. Ricordiamo altri autori: Carracci, Guercino, Rembrandt, Poussin. È la prima volta che la grafica attira l’interesse dei Savoia. Nel 1840 si rinnova ancora una volta il gusto collezionista, e proprio in un’epoca in cui in ambito europeo si vanno formando celebri raccolte. I Savoia avevano in passato sempre dimostrato la passione per l’arte, figuravano possessori delle più celebrate opere di tutta Italia. Specie per la miniatura il collezionismo Sabaudo aveva realizzato il meglio sin dal secolo XV, negli anni di Amedeo VIII. Il Vayra, il Promis, il Campori, il Manno, l’Angelucci, il Claretta quando parlano di antichi inventari ci danno un’idea della ricchezza che si trovava nei castelli dei Savoia. Gli elenchi sono ricchi di vasellame, gioie, di moltissimi arazzi, libri miniati. I Savoia in quanto a collezioni di grande pregio sicuramente potevano competere con i Visconti. Una ben nota tradizione di acquisti è quella dei libri d’ore splendidamente miniati, venivano da Parigi e da Digione. Amati come oggetti di devozione erano i più apprezzati doni di nozze per le principesse. Fra i libri di preghiere esistenti nella Biblioteca Palatina, il più prezioso è quello offerto nel 1559 dal Conte Cristoforo Duc da Moncalieri, gentiluomo della Casa Ducale, a Margherita di Valois, sorella di Enrico II Re di Fran-
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cia, in occasione del suo matrimonio con Emanuele Filiberto. Dunque, con la collezione venduta dal Volpato la Biblioteca assume un aspetto altamente regale. Si determina chiaramente la sua identità: Biblioteca di grande avvenire, conosciuta in tutto il mondo per i vari cimeli che appartengono alla cultura universale. I suoi confini vanno al di là del Piemonte, prendendo spazio quasi internazionale. I disegni di Leonardo Sono soprattutto i tredici disegni di Leonardo da Vinci che hanno dato luce e gloria, sono gemme che rifulgono fra tanto patrimonio prezioso. L’autoritratto può essere il simbolo e il contrassegno della Biblioteca Reale. La celeberrima sanguigna, tante volte vista in riproduzioni, sintetizza tutti i significati della cultura. Una figura di un filosofo antico, spirituale che aleggia al di sopra di tutte le contingenze. Il Lomazzo afferma: “Hebbe la faccia con li capelli longi, con le ciglia e con la barba tanto longa, che egli pareva la vera nobiltà dello studio, quale fu già altre volte il druido Hermete o l’antico Prometeo”. Si può dire che i disegni di Leonardo arrivano alla Biblioteca di Carlo Alberto provvidenzialmente. Gli ideali di libertà e di indipendenza presenti in quei capolavori sono di buon auspicio per il successo delle lotte risorgimentali. A questo punto la Biblioteca è divenuta ormai il pensiero dominante per il Sovrano sempre più entusiasta. Lo stesso Promis era tutto zelo ed orgoglio per il potenziamento dell’Istituto, confortato dalla liberalità di quel Sovrano così pieno del desiderio che la reggia e le capitale si ornassero di monumenti e di istituzioni a servizio delle arti e
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degli studi. Carlo Alberto molto si dilettava a leggere, seguendo appassionatamente i progressi delle scienze e delle arti. Faceva uso della sua Biblioteca, e quasi ogni giorno si intratteneva con colui che l’aveva in custodia e davagli i mezzi per ampliarla continuamente. La Biblioteca è diventata un magnifico tesoro di libri, manoscritti, carte, disegni. La consistenza ora ha superato i cinquantamila volumi a stampa, fra i quali gran numero di rarissime edizioni anteriori al sec. XVI; moltissimi sono i libri e i manoscritti dei migliori scrittori, eruditi e bibliofili piemontesi: Giuseppe Vernazza, Prospero Balbo e Cesare Saluzzo. Le loro collezioni si sono formate tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, nel periodo più bello della storia d’Italia in cui si creava l’Unità linguistica e letteraria della Nazione. L’opera di Ibn Khaldun Di tutto questo fondo indubbiamente il possesso dell’opera colossale di Ibn Khaldun è qualcosa di straordinario. È la copia più corretta esistente, risale al 1785, come ebbe ad affermare G.A. Arri, illustre orientalista di Asti. La grandiosità del manoscritto che contiene la storia universale degli arabi è costituita da tre parti, di cui la prima tratta dell’ umano genere ed è come una grande premessa a tutta l’opera, la seconda narra la storia degli Arabi e quella dei popoli a loro contemporanei, i Nabatei, i Siri, i Persiani, gli Ebrei, gli Egiziani, i Greci antichi, i Turchi e i Latini, dal principio del mondo sino ai tempi dell’autore. Nel terzo libro è esposta la storia dei Berberi e dell’Africa settentrionale. Dalla presenza di Ibn Khaldun e di numerose altre opere orientali prende luce la figura di Romualdo Tecco. Nelle partecipazioni alle varie conferenze, che si tenevano a Costantinopoli dai rappresentanti delle grandi potenze interessate, volendosi escludere il Governo Sardo, Egli fortemente seppe protestare ed ottenerne l’ammissione. Come valido diplomatico contribuì, poi, non poco al risorgere delle relazioni italo-persiane nel secolo XIX; diresse, tra l’altro, le trattative per il rinnovo dell’accordo commerciale sardo-turco.
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Di grande considerazione, frattanto, l’altro aspetto della personalità di Romualdo Tecco. Fu uno dei più distinti ed intelligenti cultori della storia, della letteratura e della linguistica orientale, il primo iranista dell’Italia moderna. Con spirito positivista, senza pregiudizi religiosi e razziali si avvicina ad una realtà ben difforme dagli sperimentati canoni europei. La nuova sede La nuova sede è già pronta, il 9 agosto si ha il trasporto del materiale bibliografico. Già la Regina Madre Teresa d’Austria si è recata nel nuovo ambiente l’11 maggio come risulta dalle sue annotazioni nel diario privato. I nuovi locali preparati dal Palagi occupano il pianterreno del lungo fabbricato posto sul lato orientale della Piazzetta Reale, antichissima costruzione di circa cinque secoli fa, a ridosso del muro dell’antica cinta romana. Per la Biblioteca Reale non si poteva scegliere un sito migliore, il più adeguato alla storicità della sua fondazione ed alla preziosità documentaria delle collezioni. La nuova sede costituisce la sintesi di tutto un ricco passato avuto dalle Biblioteche Ducali. Si riconoscono qui le tracce delle collezioni messe insieme da Emanuele Filiberto e fatte sistemare definitivamente a Torino quando ivi si stabilì nel 1563. Numerosi acquisti fatti a quell’epoca a Venezia ed a Lione, due dei più grandi empori librari esistenti. I manoscritti predominano sui libri stampati quasi tutti in francese, pochi in latino e in italiano. Tanti i codici miniati provenienti dai castelli, case e cappelle ducali della Savoia e del Piemonte, come testimoniano alcuni inventari del ‘400 e ‘500 conservati nell’Archivio di Stato. Trattano generalmente argomenti di cavalleria, di caccia, di cronaca. Il duca fece costruire una grande galleria ove sistemò la Biblioteca, un museo, oltre a quadri e statue. Con la collaborazione di diversi scrittori voleva dar vita ad una Biblioteca che fosse un’enciclopedia o “Teatro Universale di tutte le Scienze”, come una sala di consultazione.
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Emanuele Filiberto chiamò, prima a Mondovì poi a Torino, gli uomini più famosi d’Europa ad insegnare le lettere e le arti, e due celebri stampatori italiani, il Torrentino e il Bevilacqua, a moltiplicarvi nitide e perfette edizioni degli autori più scelti. Lungo la innumerevole serie dei palchetti risplendenti nel Salone monumentale risuona l’eco dei tanti avvenimenti che accompagnarono la vita dei Savoia, si ritrovano sempre i segni delle varie tappe delle antiche raccolte per le residenze di Vercelli, Rivoli, Fossano. Vivo è il ricordo del viaggio di Cristina, regina di Svezia, fatto a Torino nel 1656. Accolta con splendidezza dalla corte di Savoia, fra le tante cose visita anche la libreria ducale copiosissima in ogni genere di letteratura sacra e profana manoscritta ed impressa, antica e moderna. Quella libreria un tempo straordinaria ebbe un periodo di crisi a causa delle continue guerre durante il governo di Vittorio Amedeo e la reggenza di Maria Cristina e decadde soprattutto per l’incendio, scoppiato nel 1667, che distrusse la Galleria. I libri e i manoscritti salvati vennero sistemati in piccola parte nelle sale già costruite dell’attuale Palazzo Reale e nella maggior parte nei locali destinati per la conservazione degli Archivi della Reale Casa. Gli acquisti ed i doni intanto continuano con medesimo ritmo ad arricchire l’Istituto. Troviamo la Bible de Sens venduta alla Biblioteca di S.M. da Domenico Promis, un codice miniato del sec. XIV in due straordinari volumi con scrittura gotica minuscola su due colonne; la legatura in legno è coperta di cuoio con fregi impressi a secco e borchie di metallo dorato. Il 20 settembre 1843 entra il “Testamentum Novum”, scritto per Galeazzo Maria Sforza con più di trecento miniature, lavoro in gran parte del pittore Cristoforo De Predis con la data del 1476. In riferimento a questo, così Carlo Alberto scrive al suo amato bibliotecario: “J’ai vu avec autant d’intéret que de plaisir le superbe et précieux manuscrit que vous m’avez envoyé, mon cher Promis. J’en ferai l’acquisition pour notre bibliothèque avec beaucoup de satisfaction et je vous remercie de me l’avoir procuré”. Questa
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meravigliosa testimonianza di arte va ad unirsi alla Bibbia latina del XIV secolo, con miniature di scuola napoletana di ispirazione giottesca, alle “Ore” eseguite per Jean d’ Estouteville, ciambellano di Carlo VIII, ai codici medievali provenienti dall’Abbazia di S.Jacques a Liegi, ai “Temi di retorica” dettati dal Filelfo a Ludovico Maria Sforza. Poi un commento a Dante del sec. XV, probabilmente scritto da un piemontese. Il ms, è entrato nella Biblioteca solo ai tempi di re Vittorio Emanuele II, cioè dopo il 1850; del codice nulla si sa di preciso. Vincenzo Promis afferma che è stato un acquisto fatto da suo padre; probabilmente di provenienza privata. Si arricchiscono le edizioni rare, tra le quali le Torrentiniane di Mondovì. Vi entra anche la raccolta preziosa, fatta nel 1860 da Luigi Passerini per incarico di Bettino Ricasoli, degli Stemmi dei municipi della Toscana. Un arsenale delle Scienze Con la sistemazione della nuova sede, diciamo, si è raggiunta una tappa decisiva. Tutta la vitalità delle prestigiose raccolte, tutta la passione e dedizione prodigate dal Sovrano e dal Promis hanno reso la Biblioteca l’Opus Regis per eccellenza: “Un santuario della Scienza, Arsenale della nostra Storia”. Per poter trovare, attraverso i secoli, nella serie dei Principi regnanti della Real Casa di Savoia uno che potesse essere messo a confronto con Carlo Alberto, bisogna arrivare a Carlo Emanuele I, il quale fu protettore degli studi, innamorato delle arti. Carlo Alberto aveva avuto dalla natura un eletto ingegno e si prefissò, fra le tante cose del suo regno, la promozione culturale, rendendo possibile un lodevole splendore delle lettere. Ritorniamo alla nostra Biblioteca con le parole di Matteo Ricci: “è difficile immaginare una gran raccolta di libri disposti in una sala più convenientemente e leggiadramente arredata: dove non troveresti mai un grano di polvere a pagarlo un milione; e dove tutto è nitido e lucente, cominciando dalla levigatissima impalcatura e finendo coi calami. Grato davvero
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è lo studiare in quel gioiello di Biblioteca, in mezzo a quella nitidezza, a quell’ordine, a quella specie di beata tranquillità che vi spira; confortati da un tepore soavissimo nell’ inverno, e da una frescura piacevolissima nella state! Molte e gravi cose furono, sono certo, meditate là dentro dai chiari uomini che in vari tempi frequentarono la Regia Biblioteca di Torino, col beneplacito di Domenico Promis, che per quanto io sappia, non l’ha mai negato a nessuno”. Fra gli appassionati frequentatori della Biblioteca Reale spicca delicata la figura di Silvio Pellico. Diverse sue lettere inedite manifestano l’amicizia con il Promis. Riportiamo il testo di due scritte rispettivamente il 27 febbraio 1851 e il 7 aprile 1851 – “Preg.mo Sig. Cavaliere. Il Sig. Marchese Colbert de Maulévrier, fratello della Sig.a Marchesa di Barolo, desidera far conoscenza con S.V. gent.ma, e pregarla di vedere alcune vecchie monete. Mi duole d’essere privo del piacere d’accompagnarlo io stesso, per impedimenti di salute. Non mi resta che quello d’ indirizzare un uomo di merito ad un altr’uomo di merito, nell’atto che godo d’aver un’ occasione di ripetermi coi sensi della più distinta stima. Di Lei umile servitore Silvio Pellico” – “Preg.mo Sig. Cavaliere. La stima-ma Sig.ra Marchesa di Barolo mi domanda se per gentilezza di S.V. stima, ma si potesse avere in imprestito per qualche giorno da codesta Regia Biblioteca l’opera di M.r Leo de la Borde sull’Oriente. Essa ne avrebbe la più grande cura. Sta leggendo un’altra opera sopra l’ Oriente, ove è molto questione di M.r Leo de la Barde; perciò bramerebbe questo favore. In aspettazione di risposta, la riverisco distintamente e godo d’avere un’occasione di confermarle i sensi della mia alta stima. Suo dev.mo scrittore Silvio Pellico”. La Biblioteca diventa bene pubblico A quest’epoca non abbiamo più una Biblioteca di Palazzo, Biblioteca privata destinata alla famiglia Reale, alla corte, all’esercito. Nel 1848 con la proclamazione dello Statuto Albertino era diventata bene della Corona.
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Questo per il Sovrano, che aveva dato tutto sé stesso nella formazione delle raccolte bibliografiche, era stato indubbiamente motivo di grande dolore. La sua Biblioteca, che egli aveva costituita, era ormai con il regime costituzionale bene pubblico. Certamente il periodo aureo ormai è stato vissuto. Dal 1831 al 1849 la Biblioteca si può dire ha la sua struttura definitiva. Con la morte di Carlo Alberto si avverte il grande vuoto, gli incrementi non hanno più il potenziamento di prima. È venuta meno la confidente amicizia fra il Re ed il suo Bibliotecario. Carlo Alberto, mecenate, era stato prodigo di premure; accoglieva cordialmente i letterati venuti di fuori, negli anni del suo regno apprezzava molto il professor Pier Alessandro Paravia che dalla cattedra di Torino addestrava i giovani non solo in esercitazioni culturali, ma nel sentire e pensare italianamente. La grandezza del Sovrano, intanto, andava vista non solo nei provvedimenti che miglioravano la cultura, ma nell’aver favorito grandi trasformazioni politiche, nell’aver concesso soprattutto lo Statuto, quel complesso di norme che garantivano giustizia e progresso nei rapporti civili. Egli voleva unificare e stringere con vincoli più saldi tutte le classi della società, superando le antiche tradizioni e privilegi voleva ad ogni modo parificare tutti i cittadini tra loro. Coscienti e memori di quanto realizzò Carlo Alberto, pronunciamo volentieri l’espressione dell’Ecclesiaste: Manet invictus Rex in Aeternum. Domenico Promis vive in questi anni nel più grande avvilimento, i tempi cambiati si presentano con pericoli e abissi, la politica inquieta e rischiosa del Piemonte mette in lui semplicemente paura. La Biblioteca, che era stata per tanto tempo la sua creatura prediletta e la delizia di un principe coltissimo, è ormai diventata cosa di secondaria importanza, piuttosto un peso ed un fastidio. Di anno in anno si vede assottigliata la dotazione fino al punto da diventare incapace alle spese più necessarie. Pertanto quasi per niente curato l’ampliamento, specie da quando nel 1864 la Capitale viene Trasportata da Torino a Firenze.
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Promis, nonostante la naturale festività e vivezza del suo carattere, pieno di rabbia si sente profondamente ferito nei suoi sentimenti e nelle sue memorie le più nobili e più care. Oltre all’intelligenza bibliografica, vivo sin dall’infanzia è il suo amore per le raccolte e le indagini numismatiche. Lascia il Regio Medagliere di trentamila pezzi fra medaglie e monete, disposte scientificamente in quattro diverse serie, e di milleduecento sigilli di bronzo, quasi tutti italiani. Non solo un abile ordinatore, ma un numismatico nel senso più nobile della parola. In questo settore di ricerche la sua opera massima è “Monete dei reali di Savoia”, in due volumi, in essa conduce le sue investigazioni dal secolo XI al XIX sopra documenti autentici dedotti dagli archivi di Corte e della Camera dei Conti. Il Promis, inoltre, con le raccolte degli scritti guerreschi fornisce illustrazioni e notizie di tutta utilità per la conoscenza delle imprese antiche e moderne e per l’apprezzamento dell’Armeria soprastante alla Biblioteca, considerata importante quanto le Armerie più famose di Madrid e di Dresda. Le sue svariate monografie poi ci rivelano molta storia non solo delle famiglie più illustri, ma anche di molte città, negli aspetti economici e politici. A lui si deve anche la fondazione della “Miscellanea di storia italiana”, edita per cura della Deputazione di Storia Patria. Quasi per dare poi maggior lustro al suo lavoro di bibliotecario venne incaricato della revisione preventiva dei libri per la parte governativa e politica. Fu così attorno alla Reale, in armonia con gli studi del tempo, un attivo, appassionato animatore di cultura. Era diventato il prediletto degli scrittori, se certe opere del Gioberti, ”Casi di Romagna” del D’Azeglio, l’”Enciclopedia Storica” del chiarissimo Cesare Cantù, “Le Speranze d’Italia” del Balbo potettero circolare in Piemonte fu merito suo. Al Promis si deve se la valorosa Giulia Molino-Colombini poté pubblicare le sue poesie che splendono per rara bellezza, per i vigorosi pensieri in esse contenuti, per potenza di stile. A lui si deve se si poté cantare con tanto en-
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tusiasmo in Torino l’inno “Coll’azzurra coccarda sul petto”, se non trovarono ostacoli il “Messaggere”, il “Subalpino”, le “Letture di famiglia”. Come censore della stampa, ha contribuito ai progressi letterari e scientifici, a rendere sempre più viva le cultura civile. Il Ricotti dice nella “Vita di Balbo”: “Era censore il cav. Domenico Promis, bibliotecario del Re, che di lui si valeva per trattare con letterati ed artisti, uomo eccellente, il quale nello spedire sia l’ufficio penoso di censore sia le commissioni del Re sapeva unire al dovere la cortesia ed all’onestà le benevolenza”. Il Promis morì il 6 febbraio 1874. In quale stato abbia lasciato la Biblioteca tutti lo potevano notare. Le guide di Torino e soprattutto le migliori, quelle del Bertolotti, del Baricco, dello Stefani parlavano della ricca consistenza libraria costituita in gran parte da opere difficilmente reperibili altrove. Casimiro Danna, commemorando il nostro illustre Bibliotecario, così dice: ”Alla ricca documentazione della Reale gli scrittori potevano dissetarsi come alle sorgenti pure e limpide e decifrare le carte vere dalle false; la storia doveva cessare di essere un esercizio retorico di descrizioni oratorie; dovevano ravvivarsi le tradizioni del Regno Subalpino e divampare in incendio le faville nascoste sotto le ceneri dei secoli. Leonardo Selvaggi
EINE ROSE In dieser Nacht fiel die Rose, mit Gewalt zerrissen. Schnell floss ihr Blut auf die Erde. Der Mond beleuchtete das durstige Land, das es eifrig saugte. Ein Blütenblatt nach dem anderen, wurde die Rose schwarz, und mein Herz begann zu singen ihr trauriges Lied. Manuela Mazzola (traduzione in tedesco di Marina Caracciolo, dall’originale apparso su Pomezia-Notizie, aprile 2019, p. 26)
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Il Racconto
IN VIAGGIO CON GOOGLE di Domenico Defelice
N
ON sono stato più al paese dalla morte di mia madre, né è mia intenzione ritornarci; finirei col visitare il cimitero e commuovermi fino alle lacrime guardando le tante immagini sulle tombe e ricordando i tanti parenti, gli amici, i conoscenti. L’ultima volta che l’ho percorso adagio e per intero - soffermandomi ad ogni passo, guardando ad una ad una le foto piccole o grandi (alcune veramente smisurate), leggendone i nomi, recitando per tutti una breve preghiera - è stato l’anno prima e poi, come al solito, ne son rimasto male per più giorni. La morte, lo so - “da la quale nullu homo vivente po skappare”, per dirla con San Francesco -, ci possiede tutti dal giorno della nascita, anzi, dal nostro concepimento; dovremmo, perciò, presto metabolizzarla e non pensarla più del necessario nel suo aspetto tragico. Ognuno di noi, però, ha un proprio carattere, è fatto in un certo modo ed io non riesco a star sereno, a non disperarmi davanti a tutti quei volti, nel leggere tutti quei nomi; m’è difficile reprimere nella memoria tutti quei flash a catena di vita trascorsa, di atteggiamenti, non risentire parole e suoni usciti da quelle bocche, e tutto ciò in me provoca una tale dolorosa oppressione da rimanerne a lungo schiacciato. Ecco l’amico di famiglia, il vicino di casa dai capelli arruffati come nido di cornacchie, che mi ha visto crescere, che, spesso, mi ha difeso da monelli e delinquenti, che veniva, spesso, a zappare nelle nostre campagne, che aveva per Peppe - mio padre - una vera e propria venerazione. Ecco la bella giovane, anch’ella vicina di casa, ch’era assiduamente a chiacchierare con mia madre, specie durante i miei brevi rientri: era un po’ di me innamorata ed io un po’ innamorato di lei, ma senza che
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nessuno dei due l’avesse mai confessato, che vedevo come la Silvia di Leopardi, che poi s’è sposata, s’è trasferita in una lontana città, per ritornarvi morta dopo qualche anno per un improvviso cedimento del cuore. Ecco la signora che, in chiesa, innalzava i suoi melodiosi assoli; aveva una splendida voce, e il suo cavallo di battaglia era “Inni e canti sciogliamo, o fedeli…” (ancora oggi, di tanto in tanto, mi sorprendo a ricantare quei versi, chiudendo gli occhi e rivedendomi fanciullo letteralmente in estasi, in fondo agli ultimi banchi, tra la massa degli uomini in preghiera). Ecco il signore dalla grossa e smisurata ernia, fin quasi a toccar terra, in un larghissimo pantalone nero, camminare dolorante e traballante, le gambe aperte e braccia e mani oscillanti come i remi di una barca; ne avevo pietà, specie quando giovinastri ignoranti lo sfottevano; lo salutavo di proposito e lui rispondeva sforzandosi nell’abbozzarmi un sorriso. Ecco nonno Antonio e nonna Carmela, i nonni materni; di nonno Antonio ho il flash indelebile di un mattino estivo, allorché, alto, cavalcava il suo asino, in un viale brullo contornato da altissimi ulivi; quando, poi, improvvisamente si è ammalato e sostava seduto sulla soglia di casa, il cappello in testa, la destra sempre appoggiata al bastone, io, fanciullo, gli scacciavo le mosche agitando un rametto frondoso di arancio; aveva un sorriso dolce sotto i baffi brizzolati; è morto quasi divorato dalle mosche e siccome ingenuamente ridevo, zio Nicola mi ha sferrato un pesante schiaffo; nonna Carmela era burbera e autoritaria e mi metteva paura ed è morta sopra un piccolissimo letto, le lenzuola e le coperte arruffate e rigide come il marmo di certe sculture del Canova. Ecco i nonni paterni, nonno Domenico e nonna Annunziata; nonno Domenico era taciturno ma buono, alto e massiccio, baffetti e faccia solcata da profonde rughe; transitava ogni mattina dal nostro giardino di casa per recarsi a Ciomba, dove aveva un pezzo di terra, un sentiero scosceso ammantato di grossi ulivi, ficodindia e piante di acacia; il sentiero era in parte arenoso ed io amavo scivolarvi seduto come su una
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pista; lui faceva finta di arrabbiarsi, io lo sapevo, mi allontanavo per un momento e ricominciavo daccapo; spesso trascorrevamo ore e ore in silenzio, entrambi seduti, in alto alla scoscesa, sopra grosse pietre, ognuno immerso nei suoi pensieri, entrambi smagati, specie nelle giornate ventose o dolcemente soleggiate di primavera; il terreno terminava in fondo con una piccola pianura coltivata ad agrumeto, lungo lo Sciarapotamo; nonna Annunziata era molto affettuosa e tutte le volte che andavo a trovarla mi regalava un soldino. Ecco lo zio Domenico, portato via in giovane età da un male incurabile; ricordo quando è stato operato a Roma per la prima volta, quando è stato dimesso dopo un paio di settimane, ancora coi lunghi e larghi cerotti rosea su stomaco e ventre, i suoi lamenti continui mentre, con la mia 500, lo accompagnavo al quartiere di Tor Pignattara, presso alcuni parenti; ritornato al paese, è stato sempre male; se mi trovavo a passare sotto il suo balcone, sul Corso Margherita, ne sentivo gli urli e i lamenti; andavo sempre a trovarlo nei miei rientri, portandogli romanzi - specie quelli di Grazia Deledda - affinché lui, leggendo, trovasse qualche distrazione dal suo tremendo calvario. Ecco mio padre, la cui grande foto si scorge da lontano; ora, accanto, dorme pure mia madre... Luogo sacro, il Cimitero, e non solo per fede, al quale mi son sempre avvicinato con rispetto e timore, al quale ho dedicato una china e tanti versi giovanili: “Piano/dischiu do il cancello/con mani tremanti./Entro, /indugio, /mi avanzo./...”. No, no, è preferibile
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non visitare più questo luogo; voglio illudermi, far finta che tutti questi cari siano ancora vivi, chiudere gli occhi e vedere i loro volti sorridenti, sentire le loro voci argentine, godere del sole e delle ombre, delle frescure delle quali me li rappresento sempre contornate. *** Un giorno, a domande sulla mia vita, ho espresso tali pensieri a Clarissa, una delle tante ragazze - ma anche ragazzi - universitarie che periodicamente vengono ancora a trovarmi per effettuare ricerche. Anche lei, come altre, intenzionata a laurearsi con una tesi sulle mie poesie. Aveva un corpo esile e slanciato, Clarissa, una vera e propria silfide, e quattro volte su cinque - e quel giorno era la quinta - s’era presentata fasciata da un blue jeans aderentissimo e una camicetta verde pisello, con il colletto ricamato a fiorellini gialli, sotto la quale s’indovinavano due seni piccoli e puntuti. Capelli nerissimi, ondulati; ciglia e occhi pure neri, penetranti; labbra carnose e ben modellate, senza trucco, denti bianchissimi, carnagione vellutata e profumata da sudamericana. I blue jeans mettevano particolarmente in risalto i suoi glu - glu - glutei - vien la balbuzie a guardarli e nominarli!, un mandolino perfetto -, con su entrambi la scritta Wanted! in rosso sbiadito; sulla coscia destra un largo strappo faceva intravedere la sua pelle d’ ambra. Ognuno ha diritto a vestirsi come crede, con strappi, ricami e alludenti scritte a piacimento, ma certe donne dan l’impressione che se li vadano a cercare il bene e il male. Allegra sempre, con un sorriso che le allargava la bocca e le inumidiva le pupille, al limite della strafottenza. Le prime due volte s’era presentata con un altro studente, semplicemente Pablo, poi da sola. E Pablo? Ha trovato un ottimo lavoro e, per ora, ha abbandonato l’ università. Una specie di piccola danza, una giravolta sui mezzi tacchi che portava, le mani nelle tasche dei jeans, la bocca allegra, canzonatoria, da perfetta birbante. Abitava nella periferia romana e ad indirizzarmela era stato l’amico docente Graudio, una specie di stan-
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co yuppie, amato e corteggiato dalle giovani donne. Clarissa era assai brava al computer e quella mattina, seduta al mio fianco, mi propose di fare un viaggio su Google per conoscere il mio vecchio paese; avrei chiacchierato e lei raccolte informazioni per la sua tesi, poi non realizzata, perché, approfondendo meglio il suo carattere, l’ho dirottata su altro autore. Digitato il nome che le suggerisco, cliccato su Naps e su Earth, ecco, improvviso, sullo schermo, davanti ai nostri occhi, un autentico miracolo: immagini nitide di strade e case del paese, alberi, macchine e anonime persone solo perché, per la privacy, avevan quasi tutte il volto alonato. Di certi luoghi si coglievano i minimi particolari; di certi muri, se ne indovinavano le umidità, quasi se ne poteva accarezzare il verde muschio e sentirne l’afrore! Clarissa appariva orgogliosa, rideva e si divertiva a suscitare in me grande stupore, zumava fino a leggere i numeri ai portoni; le sue dita danzavano come sulla tastiera d’un pianoforte ad ogni mio suggerimento e, appena accennavo con la mano, incrociava le braccia, lasciandomi il tempo necessario a godermi le immagini ed esternare ricordi. “Senti - le dico - perché non partiamo da Polistena, dove ho frequentato gli anni della media?” Altra sua veloce digitazione ed ecco viale Italia e gli alti pini - piccoli nei miei anni memoriali -, il giallo della scuola, nelle cui fredde aule e sotto la paziente guida di un professore galatrese - in seguito trasferitosi anche lui a Roma, nel quartiere di piazza Bologna -, ho appreso i primi e gli unici rudimenti di pittura. Per l’italiano, il latino e la storia avevo un burbero docente di Cinquefrondi, stanco ed avvilito nel mettermi sempre voti sotto zero per la mia costante ed autentica selva di errori di grammatica. Mia madre, assai preoccupata, una domenica mattina prese dal pollaio due grassi polli e insieme andammo a piedi a Cinquefrondi per incontrare il cerbero. Ci accolse in piedi, sull’ entrata, e quando seppe il motivo della nostra visita e del dono che gli recavamo, per poco
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non ci scaraventò sulla strada, il viso paonazzo. “Signora! - gridava adirato verso mia madre e poi sbattendoci la porta in faccia - Vada via con questi suoi gallinacci. Suo figlio ha bisogno di leggere, leggere, leggere e solo così imparerà a scrivere”. Leggere! Ma cosa? Il giorno dopo, mia madre mi diede i soldi perché mi comprassi qualche libro. All’uscita di scuola, mi recai nella cartolibreria Capitò, di fronte all’odierna biblioteca comunale, in via della Pace. “Ecco dei soldi, mi dia dei libri da leggere”. Senza dire una parola, il proprietario si mise il denaro in tasca e mi consegnò tre volumi di Emile Zola: “Nanà”, “Il paradiso delle signore” e “Il fallo dell’abate Mouret”; il loro contenuto non era certamente edificante, né adatto alla mia età, ma ugualmente li lessi più volte senza capirli del tutto; poi vennero altre opere, più idonee e formative, prestatemi dalla famiglia Belcaro di Laureana di Borrello - della quale mio padre coltivava a colonia il campo di Baldes - e si son visti i miglioramenti, quasi subito, con soddisfazione mia, dei miei genitori e dell’onesto docente. “Hai visto, zuccone? E mangiati tu quei polli, anche mentre leggi, ché ne hai veramente bisogno!” Clarissa sulle labbra aveva quasi un sorriso di scherno. “Andiamo col tuo Google verso Cinquefrondi”? Al tempo in cui frequentavo la Media a Polistena, subito dopo l’attuale via Comm. Vincenzo Grio, c’era aperta campagna - oggi è una serie ininterrotta di case - e la strada verso Cinquefrondi aveva, sulla destra, nella breve ed agevole discesa, grosse querce e, sulla sinistra, una povera stamberga di cordai. Un vecchio e un ragazzo, specie in primavera e in estate, vi lavoravano all’aperto. Il vecchio manovrava una rudimentale macchina con la quale torceva la canapa e il ragazzo, camminando all’indietro, teneva stesa la corda in formazione. Nessuno dei due parlava. Un mezzogiorno, mentre transitavo, al giovane sfuggì di mano la corda che con violenza si aggrovigliò e il vecchio, senza dire una parola, gli mollò un sonoro ceffone. Proprio di
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fronte alla casa dei cordai, al ritorno dalla scuola, quasi ogni giorno mi sorpassava la macchina di un signorotto del mio paese, amico di mio padre, che mi salutava suonando il clacson. Mi sembrava strano che non si fermasse e mi offrisse un passaggio, così, amareggiato, una volta, mentre mi superava impolverandomi, gli indirizzai uno sputo. Scese tutto alterato e mi diede un calcio e uno schiaffo. Quando giunsi a casa, mio padre già sapeva ogni cosa e mi diede il resto, senza voler sentire ragione. Il giorno dopo, però, mi comprò una vecchia e pesante bicicletta Bianchi, perché a scuola non ci andassi più a piedi. La discesa dei cordai era per me il tratto più poetico della strada, dove solevo sostare sempre qualche istante sotto le querce, sedermi sopra un sasso a godere frescura e canti degli uccelli; l’inverno amavo strascicare i piedi tra il mucchio delle foglie gialle e rossastre, o assistere al vento che le faceva girare a mulinello. La mattina, andando verso scuola, era un po’ trafficata, ma, al ritorno, vi transitava solo qualche macchina e qualche carretto. Giunto a Cinquefrondi, imboccavo una carrareccia che menava al torrente Sciarapotamo, da attraversare saltellando da una pietra all’altra; mi piaceva sostare a lungo, specie in primavera e nella bella stagione, su isolette di gramigna e di trifoglio, tra il fragore delle acque, il ronzio degli insetti, lo svolio delle libellule. Google non ci dà la mappa di quella stradina, o perché privata, cancellata, o perché Clarissa, senza un nome, non riesce a individuarla. Si prosegue, così, sulla Provinciale verso la frazione più importante del mio paese. Oltrepassando lo Sciarapotamo, accanto al vecchio ponte, si innalzano due grandi pilastri sopra i quali si snoda la nuova strada che per buona parte costeggia il torrente. L’ ambiente è quasi come quello di una volta, ma ci sono nuove costruzioni e qualche muretto sbrecciato; a destra, la collina di ulivi ed altre piante, a sinistra gli aranci con i loro gialli frutti. Ecco la curva a gomito, sopra un canale di scolo ammantato di canne e arbusti: è qui che, una mattina, recandomi a scuola
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con la Bianchi, slittando sul brecciolino, finii a capofitto nella forra. La folta vegetazione d’erba e cespugli ha attutito la caduta, senza gravi conseguenze, né per me, né per la bici. Il tratto di Provinciale che, nella mia infanzia, appena costeggiava l’abitato della frazione del mio paese, ha subito trasformazioni e oggi c’è una fila di costruzioni in ambo i lati. Dico a Clarissa d’imboccare a destra via Prefetto M. Galatà e sostiamo davanti alla piccola ma elegante chiesa della Madonna dell’ Assunta; l’esterno è stato abbellito, ci sono marciapiedi, qualche lingua di verde, palme e altre piante. Ritorniamo sulla Provinciale per imboccare, dopo un po’, via Roma verso il mio paese. Tutto mutato, addirittura sconvolto. Ci sono stretti marciapiedi, qualche sfacciata villetta, catapecchie, mentre, allora, erano due lunghe, folte e ininterrotte siepi di spine. Ecco, sulla sinistra, il Cimitero, sul cui muro scorgiamo una targa marmorea con un piccolo vaso di fiori. L’entrata principale è ben curata. Dopo, a destra, e prima dello stelo dell’Immacolata, il tratto di strada è irriconoscibile, con giardinetti, palme, il muro del Campo Sportivo, le nuove case; io ricordo, invece, con nostalgia, un bosco di vecchi ulivi, con il pagliaio e la casa di un massaro amico, che mio padre tanto stimava. Mi ci portava spesso e mentre loro chiacchieravano sorseggiando un bicchiere di vino, io sgranocchiavo qualche biscotto e ammiravo i tanti animali. L’ultima visita, gliela facemmo la sera del giorno in cui, nella campagna di Baldes, i miei genitori, impietositi dal mio affanno e dal fiume di sudore che colava dalla mia fronte mentre scavavo barbabietole, decisero di togliermi dalla terra e farmi studiare. Il massaro stava seduto su una panca all’aperto, addossata alla parete di casa. Il sole era appena tramontato e i passeri schiamazzavano sulle cime degli ulivi in attesa del buio. Appena mio padre gli accennò la decisione di farmi riprendere la scuola, il massaro sembrò illuminarsi. “Hai deciso bene, caro Peppe” e s’alzò in fretta per entrare in casa. Ne uscì un istante dopo, con il fiaschetto del vino, due bicchieri e, sottobraccio, un grosso volume.
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Porse il bicchiere pieno a mio padre e mi mostrò il libro: era l’Inferno di Dante, illustrato dalle figure di Dorè. “Lo leggo continuamente e quasi lo conosco a memoria. Ma il prete mi dice che non lo capisco e ha ragione. A me non importa, però, mi piace recitarlo nel pagliaio, a voce alta, bearmi del suono della mia stessa voce. Pure le vacche sembrano apprezzare. Per te sarà diverso e sarai fortunato”. Rientrò in casa a rimettere a posto il libro e poi con mio padre riprese a chiacchierare e a bere. Io non ero né felice, né triste. Pensavo alla novità e al fatto che dovevo, o prima o poi, allontanarmi dai miei. Clarissa era quasi commossa, fingeva di stirare la bocca in un sorriso, ma aveva gli occhi lucidi. Le accenno a proseguire. A sinistra, dopo la madonnina, ecco il Calvario; A destra e di fronte, mi sembra di riconoscere la casa del mio Compare di cresima. Egli teneva appesa, a sinistra nell’entrata, una mia china raffigurante la facciata del Municipio su via Roma, con la scalinata affiancata da due altissime palme, tra le cui foglie era sempre un tripudio di passeri. Gestiva un oleificio e quando mi accompagnò alla cresima, mi regalò una bellissima penna d’oro (anni dopo, quando si ammalò e morì in un ospedale di Roma, dove mi ero già definitivamente trasferito, fui il solo a sostare a lungo e a piangerlo in una stanza accanto, mentre gli stavano vicini la moglie e qualche altro dei suoi cari). Di fronte alla casa del mio compare, ce n’era un’altra piccolina e quasi circolare (almeno così la ricordo), nella quale viveva un mio zio con la famiglia, tutti, poi, emigrati in Australia. Proseguendo su via Roma, all’inizio dello slargo, adesso abbellito con piante e marciapiede, sorgeva una chiesa sconsacrata, che il prete utilizzava a cinema. Mi aveva insegnato a mettere in funzione il proiettore, a caricare le bobine, a ripararle in caso di rottura, ad accendere e spegnere le luci. Così, dandogli una mano, ho potuto assistere, senza pagare, a tanti film, specie di Totò. Il primo della serie, ricordo, è stato San Giovanni decollato. A metà dello slargo, e sempre sulla destra,
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c’era l’ufficio postale e il palazzetto dove abitava la mia più amata maestra elementare, una bionda e bella signora. Fu lei a salvarmi dopo il disastro del primo anno, durante il quale il maestro non faceva altro che insegnarci pochi elementi di sport, tra cui la corsa, l’arrampicata alla pertica e, in particolare, la lotta libera: ogni mattina, infatti, si combatteva a spareggio tra compagni di banco; poi venivano le eliminazioni tra i diversi vincitori e, infine, il duello tra i due finalisti; ci istruiva, pure, come andare in bicicletta, ma niente, o quasi, dell’abbecedario per imparare a leggere e scrivere; non solo, ma, per un nonnulla, ci riempiva pure di botte. Così, alla fine, tranne i pochi che, durante l’anno, erano stati aiutati dai genitori, finimmo tutti bocciati. La maestra, invece, era dolce, ci sapeva fare e noi le volevamo un gran bene. Ne ero quasi innamorato. Ricordo una sera d’estate, dopo la fine della scuola, allorché mio padre mi disse di recarle un paniere di fichi freschi, da lui appena colti in campagna. Quando mi aprì il portone, tirando la corda del catenaccio, lei stava in cima all’alta e ripida scala, accovacciata, in una vestaglia bianca e trasparente. Una immagine solare ed esaltante, ch’io mai ho dimenticato. Alla fine dello slargo, a sinistra, in curva, la casa di un’altra cara maestra, il verde del suo portone, il giardino che oggi sembra incolto, la palma stracarica di datteri, la rete arrugginita. Ricordo che da lei e per qualche mese, in una stanza irregolare, graziosamente arredata, ma freddissima, ho ricevuto lezioni suppletive d’italiano e latino (altre lezioni di latino me le ha impartite il prete, nella sua canonica). In quasi ogni casa di via Roma avevo degli amici; oggi non ne ricordo i nomi, ma tengo almeno un flash per ciascuno nella biblioteca della mia memoria. Sulla successiva curva, prima di via del Fortino, ecco la casa ove son nato, al n. 63. Allora c’era solo il pianterreno, non aveva servizi igienici e, per anni, in corridoio e in parte della cucina, s’è coltivato il baco da seta. Il piccolo ambiente era ingombro di graticci e rami, sui quali i vermi, dopo essersi
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nutriti di foglie verdi di gelso, tessevano e s’imbozzolavano. Un luogo, a pensarci oggi, lugubre e spaventoso, da casa delle streghe, ma normale allora, e se i vermi te li trovavi pure nel letto, non ti schifavi, li raccoglievi delicatamente e li riportavi sui loro cannicci. Di fronte, la casetta della vedova di un soldato disperso in Russia, con un figlio andicappato sulla carrozzella; attaccata, la casetta - oggi dipinta di giallo - di zia Teresa e zio Antonino (uomo intelligente, contadino e addolcitore di lupini, lettore appassionato, bizzarro, sfottente, ironico, da me sempre scansato per non sentire le sue tiritere infinite e non poterle controbattere, perché era come mancargli di rispetto). Subito dopo, sempre attaccata, quella dei nonni Antonio e Carmela, i nonni materni. Nel loro retrostante giardino, acciottolato, c’era un albero di limone, sotto il quale mi è stata scattata la foto con il vestito di figlio della lupa; lì, s’accendeva il fuoco sotto enormi caldaie nelle quali si bollivano i bozzoli dei bachi per ricavarne la seta. Al disotto, il precipizio fino al torrente Sciarapotamo, ammantato di grossi ulivi e piante di aranci e limoni. Con i nonni viveva zia Concetta, claudicante, forse paralitica, ma si raccontava che, da bambina, s’era infilzata ad un forcone, rimanendone offesa per la vita. Attaccata alla casetta dei nonni, un’altra a due piani, che reca, in alto, un’artistica lanterna simile alle due ancora esistenti sulla facciata del Municipio -, al cui piano terra oggi c’è il forno e la bottega del pane. Segue la piccola casa di Scatolino (soprannome), sedicente dentista, la cui moglie soleva raccattare immondizie varie che poi sciorinava nel retrostante giardino e per le balze del sottostante uliveto. Attaccata ad essa, la nostra nuova casa, con il cancello sul quale ancora s’innalza la bignonia, i cui grossi calici arancioni e il verde intenso delle foglie danno, nella bella
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stagione, un tocco di poesia. Oltre il cancello si intravede la palma ed altro verde, ma, negli anni dei ricordi, non c’era ancora il muraglione di cemento, solo un paio di sentieri coperti di aranci, mandarini, limoni, fichi, il melograno, il pesco, il noce, l’ulivo, le baracche o stalle, tutto da me continuamente riprodotto in piccoli disegni a china; dietro la casa, la scoscesa di ulivi di proprietà di nonno Domenico, giù, giù fino al torrente; si apriva, poi, un panorama, d’aranceti, uliveti, casolari e, in lontananza, sulle balze dei monti, altri paesi, tra cui San Giorgio Morgeto che, nelle notti serene, sembrava una cascata di diamanti. Nonno Domenico abitava con nonna Annunziata sul retro del Municipio, in una piccolissima casa in via del Fortino, e per andare nel suo oliveto transitava ogni mattina sotto le scale della nostra casa. Mi son dilettato a dipingere fin dall’infanzia e, un giorno, avevo eseguito, sopra un compensato, un grande ritratto a mezzo busto di mio padre e l’avevo collocato ad asciugarsi dietro la porta a vetri della mia stanza. Indimenticabile la scena. Nonno Domenico, passando come di solito e guardando verso la veranda, vide l’immagine di mio padre dietro i vetri e salutò. Evidentemente era ben fatta, perché lo sentii gridare: “Ehi, Peppe, com’è che oggi non sei andato a lavorare?” Uscii dalla stanza sorridente, orgoglioso e felice. “Ma, nonno, è soltanto un ritratto!” Si adombrò e se ne andò sbattendo sul terreno il suo nodoso bastone. Quando mio padre seppe la cosa, anziché elogiarmi, m’impose di distruggere il ritratto e di promettere di non fargliene altri. Si può dire che tutti gli alberi di quel giardino sono stati a soggetto dei miei disegni e delle mie pitture; su di essi mi arrampicavo come un ghiro, sia d’estate che d’inverno; sotto le loro ombre ho trascorso giornate memorabili ed ho scritto centinaia di versi; seduto sopra sassi o tronchi
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di legno tarlato, ho letto romanzi, saggi, poemi, giornali e riviste d’ogni genere, tra i quali, indimenticabile, il settimanale per ragazzi Il Vittorioso, poi diventato semplicemente Vitt. Almeno per un anno ho tentato, invano, di collaborarvi, inviando a ripetizione poesie, racconti, barzellette, vignette, disegni. Niente! Ogni tanto ricevevo la cartolina di un certo Vittò, che mi scriveva le tue cose non vanno, ma riprova, se vuoi. E io ci riprovavo. Un giorno - i miei erano tutti a lavorare nei campi - sfogliando quelle pagine meravigliose, che, per me, erano quasi una droga, vi scorsi, finalmente, il mio nome, nella rubrica dell’ allegria, sotto il titolo “Il colmo”. Non dimenticherò mai la gioia. Correvo come un folle in mezzo agli alberi, su e giù per il viottolo, gridando evviva! evviva! Ce l’avevo fatta, ce l’avevo fatta! Dopo, mi vennero pubblicate altre cose, sempre con mia somma allegrezza. Clarissa è decisamente commossa. Abita in un altissimo palazzo della periferia di Roma e quelle casette le sembrano da presepe. Per me, continuano ad essere poetiche e belle, tanto quanto lo erano allorché le immortalavo in una serie ininterrotta di chine. Proprio di fronte al cancello della casa dei miei sogni, ecco l’elegante edificio del vecchio Municipio. Anche se con l’intonaco logorato, i vetri delle soprapporte rotti, la merlatura sbrecciata, rimane uno dei più eleganti manufatti del paese. Nell’infanzia, a fianco alla scalinata, si innalzavano due elegantissime palme dalle foglie da qualcuno dette “flabellanti”, perché simili ai grandi ventagli presenti in stampe concernenti la storia degli egizi; belle piante, poi eliminate perché, si diceva, rovinassero la costruzione con le loro radici; ma si sa, al palazzo del Municipio, i danni non li hanno arrecati gli alberi, ma gli uomini, con la loro imperdonabile incuria! A
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fianco, in via del Fortino, c’era un giardinetto racchiuso dal muro, con altre due splendide palme da datteri: Il muro è stato tolto, le palme abbattute e perché? Per farci un insignificante parcheggio. Prima che mi trasferissi definitivamente a Roma, avevo preso servizio entro quelle stanze, chiamato dal segretario di allora. Ma dopo un paio di giorni, mentre ero intento al lavoro, un terribile mal di reni mi fece rotolare sul pavimento, straziato dal dolore. Mi è stata diagnosticata una calcolosi, ordinato di bere tanta acqua di Fiuggi e dopo quindici giorni, eliminato il calcolo, son ritornato al lavoro, ma il posto non c’era più, l’avevano dato ad un altro. I miei si sono avviliti, io, invece, ho quasi ringraziato il Cielo, perché mi spingeva a lasciare definitivamente il paese e trovare sistemazione altrove. Su via Trieste, dietro la rete che limitava e limita un giardinetto - allora proprietà di due gentili signorine che davano lezioni di cucito crescevano sempre splendide rose; sulla strada c’era una trafficatissima fontana, alla quale molta gente si recava ad attingere un’acqua straordinariamente fresca. Proseguendo lungo via Roma, a destra, prima dell’ incrocio con Largo San Giacomo e la Scesa Anita Garibaldi, abitava una donna con una giovane figlia un po’ andicappata, ma di splendido corpo. Un giorno comparve con il pancione e si vociferava fosse colpa del prete. Gli uomini ne parlavano con ironia e salacità. Quando nacque il bambino, madre e figlia, prima assai povere, presero a sfoggiare splendidi vestiti (ricordo la ragazza con una veste a sfondo leggermente roseo e grossi fiori multicolori). Qualche mese più tardi, tutti e tre si son trasferiti altrove (chi diceva a Cinquefrondi, chi a Polistena, chi a Rizziconi) e di loro non si seppe più nulla. Largo San Giacomo, calmo e riparato, era il luogo delle partitelle a calcetto, giocate con
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una palla di stoffa; a una casetta a due piani abitava uno dei miei tanti amici al quale, una bruta notte, venne assassinato il padre in un agguato. Tra Largo San Giacomo e corso Umberto I - o, meglio, tra questo e Corso Margherita -, la serie di vicoletti stretti e bui, tra i quali evitavo avventurarmi perché mi mettevano ansia e paura. Sempre su via Roma, ecco, a sinistra, la bella villa comunale, oggi intestata ad A. Comito. Si nota che sia stata abbellita. Dentro c’era, e sicuramente c’è ancora, il monumento ai caduti; tra quei vialetti, allora imbrecciati, quante passeggiate nei giorni festivi e di sera al chiar di luna, con il primo casto bacio sulla guancia d’una ragazza, sotto un alberello di mimosa! Dal suo balcone, luogo, allora, per me, dolce e romantico, un ampio e suggestivo paesaggio; appoggiato al muretto, lasciavo che la mia fantasia mettesse le ali, specialmente verso Reggio, dove viveva il mio grande amore, ma anche verso Roma, che avevo visitato più volte, anche se per brevi periodi e nella quale sognavo di viverci. Sotto il muraglione della villa, abitavano e tenevano lo stazzo alcuni pastori - un gruppo di famiglia - che, si diceva, macellassero di frodo. Avevano mandrie di pecore e capre, che conducevano a pascolare ai bordi delle strade, ma spesso anche dentro i coltivi, arrecando innumerevoli danni. Uno di questi era gradasso e violento. Portava sempre con sé una pistola e un lungo coltello, nonché una lunghissima roncola con la quale tagliava i rami delle alte acacie, cibo particolarmente ghiotto alla capre. I pastori, tutti i pastori, allora, erano un incubo, perché lasciavano che le bestie invadessero i campi, distruggendo alberelli e semine. Un giorno, a Baldes, mentre tentavo di scacciare una grossa mandria di capre che stavano divorando le piante di arancio, un pastore, per spaventarmi, o per semplice guapperia, sparò con la pistola verso di me, sfiorandomi la gamba, vicino al ginocchio, e procurandomi, per fortuna, solo un leggero graffio. A sera, mio padre, ch’era stato a lavorare in un altro fondo, mi chiese spiegazioni, si armò del fucile, da lui chiamato “u du botti” e uscì di casa senza dir parole.
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Rientrò dopo un paio d’ore, appese l’arma al solito posto e ci mettemmo a tavola per cenare, taciturni come sempre; tranne mio padre, nessuno seppe mai dell’accaduto, a mia madre dissi che m’ero fatto male con un legno. Il giorno seguente, lo stesso pastore, passando con le bestie, si affannò non poco per tenerle lontane dal nostro campo, mi salutò alzando la mano e si allontanò di fretta. Così nei giorni seguenti. Mio padre non ha mai fatto male ad alcuno, ma si faceva rispettare. Oltre la villa, a destra, ecco il giardinetto e le mura della scuola elementare. Era in quel giardinetto che il maestro di prima, anziché insegnarci a leggere e a scrivere, ci lasciava in totale libertà, lui sempre in altre faccende affaccendato e, quando stava con noi, era in quel giardinetto che ci obbligava a correre, a fare le gare di ginnastica, ad imparare ad andare sopra una rudimentale bicicletta. Nell’ultima casa a sinistra di via Roma, prima della piazza oggi intestata a Giuseppe Buda, da noi detta “abbasciu a’ Cruci”, ci viveva una mia zia, sorella di mia madre, con il marito e delle splendide figlie, tutti poi emigrati in Australia. Quanti pianti e abbracci la sera prima della partenza! Dico a Clarissa di svoltare a destra, verso Corso Umberto I, col suo primo tratto abbellito, l’ammattonato, le piccole piante di palma, i sedili. Ancora più avanti, il portale di un palazzo allora signorile e, a destra, l’entrata della scuola elementare, oggi adibita, a quanto leggiamo sul cartello, ad istituto scolastico per la Formazione Professionale “F. Piacentini”. Andando su per il corso, a destra, appena dopo lo slargo, c’era la bottega del maniscalco, la “forgia”, dove tante volte ho portato l’asino perché gli rinnovassero i ferri ai piedi. L’odore dell’osso degli zoccoli che friggeva mi dava una gran nausea. Il piede dell’asino, mentre il fabbro eseguiva il suo lavoro, era mantenuto sollevato da uno o due garzoni, gli stessi che, nella bottega, lavoravano per apprendere il mestiere e azionavano il mantice per tenere sempre vivo il fuoco, sul quale arroventavano il ferro da lavorare. Lì vicino, abitava un amico contadino, chiamato “Il
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Monaco”, forse per la sua mitezza, che in contrada Baldes, coltivava un terreno a colonia, limitante quello, sempre a colonia, coltivato da mio padre. Il viaggio con Google ha entusiasmato Clarissa e me. Ora siamo a piazza del Popolo; ecco la facciata grigia della chiesa di San Nicola e della Madonna del Carmine, sul cui gradino trascorrevo, a volte, ore e ore a chiacchierare con gli amici, tra cui Cardillone, uno spilungone poi emigrato all’estero. Egli doveva essere parente del “Monaco”, perché veniva spesso a Baldes, dove trascorrevamo intere giornate insieme, ed insieme costruivamo gabbie per gli uccelli. Sulla piazza del Popolo, c’era la rivendita di sali e tabacchi e la bottega del barbiere, che vendeva pure qualche giornale e regalava ai clienti, giovani e grandi che fossero, figurine profumate e a colori con le donne nude. Su corso Umberto I, all’angolo con via Principe di Piemonte, c’era un bar, la cui entrata oggi sembra murata. Clarissa mi porta su via Don Minzoni, in fondo alla quale splende la Chiesa Nuova, con a destra il nuovo Municipio. A Sinistra c’è via delle Due Chiese, all’inizio della quale, a destra, nella mia infanzia, c’era un frantoio e, per il resto, era tutta aperta campagna. Oggi è una fila di case. Verso la sua fine, proprio dietro la Chiesa di San Nicola e della Madonna del Carmine, c’erano siepi di spine e piante di sambuco, sotto le quali la gente andava di mattina, col buio, a defecare quasi tutte le case erano prive di servizi igienici - e dove sia io, sia altri ragazzi, portavamo ciascuno il proprio maiale perché si cibasse di quelle schifezze. Era una autentica gara a chi arrivasse prima. Ricondotto a casa il maiale, si portavano per le strade a pascolare per qualche ora pecore e capre, poi si andava a scuola, poi ancora a governare le bestie. La giornata era piena, non c’era tempo per annoiarsi. Con la fine della scuola, era tutta campagna, dall’alba al buio della notte. “Ma Baldes era vicino al paese?”, domanda Clarissa, quasi compassionevole. “A me bambino non sembrava, ci mettevo del tempo per arrivarci, anche perché, pecore
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e capre, a volte anche il maiale, camminando brucavano l’erba sul ciglio della strada. Perché non proviamo ad andarci?”. Clarissa, come se guidasse una macchina, indirizza la freccia di nuovo verso piazza Buda. Imbocchiamo via San Francesco (allora mi sembra fosse senza nome), che mena a Melicucco. A sinistra, dopo la curva e l’ ultima casa, un cancello, vicino al quale oggi c’è una piccola aiuola con la statuetta dell’ Immacolata. Nella mia infanzia, dal cancello, un breve viottolo in salita in mezzo agli alberi menava a un casolare - forse c’è ancora -, dietro il quale si estendeva una vigna. Credo fosse di nostri parenti - o da loro semplicemente coltivata -, perché, al tempo della vendemmia, si andava prima a raccogliere e, poi, a gruppi, bambini, giovani e donne, si pigiava l’uva in grandissimi tini, mentre gli uomini e i vecchi bevevano e cantavano al suono della fisarmonica. Una gran festa. Sullo spiazzo, si mangiava e si ballava fino a notte fonda, storditi dall’odore del mosto. Oltre la costruzione in muratura, del colore quasi arancione - anche il terreno, a tratti, era quasi rosso -, vi erano dei pagliai, dove venivano rinchiuse le bestie. Ben due volte, io e mio padre abbiamo portato una giovenca perché venisse ingravidata dal toro, alto e grosso, con delle corna curve come falci di luna. La vitella veniva legata in uno stazzo e si faceva entrare il bestione, che l’annusava, la leccava e poi le saliva in groppa. Uno spettacolo. Gli uomini stavano appoggiati ai pali della recensione a chiacchierare o a fumare; noi ragazzi, intorno a schiamazzare. In entrambi i casi la giovenca non rimase incinta e mio padre la vendette, forse perché venisse macellata. Una volta, sempre per la monta, ci portai pure una capretta. All’accoppiamento degli animali eravamo tutti abituati, perché quasi in ogni casa c’erano capre e pecore, maiali, galli e galline, asini, muli, cavalli. Ma erano, per lo più, animali femmine, così, in questo casolare fuori paese, dove tenevano il toro e il montone, l’asino, il becco, le prenotazioni erano tante e c’era sempre da fare la fila. Il costo del servizio era assai basso.
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Clarissa mi sembra un po’ inebetita; le dico di ritornare alla curva e d’imboccare una stradina, ch’era quella che percorrevo a piedi portando al pascolo le bestie domestiche. Ora è asfaltata, ma, allora, era tutta pietre irregolari, sconnesse, voragini, perché, con la pioggia, si trasformava ogni volta in torrente. La collina di destra sembra ancora intatta, con le erbacce, le spine, i ficodindia, gli ulivi; a sinistra, invece, con le piante di arancio ed altre culture, ora c’è pure una grossa costruzione, sembrerebbe uno stabilimento. Giungendo all’incrocio, a destra, c’era una specie di piccola caverna, rifugio contro le bombe e si diceva che, lì, fosse stato assassinato un uomo, la cui anima vagasse sempre inquieta. Io ne ero terrorizzato e quando vi transitavo solo e col buio, correvo all’impazzata e facendomi il segno della croce. Imbocchiamo la stradetta centrale in salita, che mena al feudo. Oggi è asfaltata, ci sono i muretti di sostegno, mentre, nella mia infanzia, il primo tratto era una salita di sabbia finissima e bianca, nella quale si affondava; il resto, fino alla pianura, un acciottolato sconnesso. Vi hanno pure costruito, mentre, allora, era assolutamente solitaria, affiancata da due folte siepi di spine. Sul feudo, tra gli ulivi, dopo un bel tratto, ecco un piccolo spiazzo, prima di una casetta: è il luogo in cui, io piccolino, una mattina, mentre da solo mi recavo a Baldes, ho incontrato mio nonno Antonio sul suo asino come un patriarca, illuminato dall’alto dal sole appena sorto, abbronzato, sorridente e, nel contempo, austero. Immagine che mai più s’è cancellata dalla memoria. Era dopo un altro centinaio di metri che, a destra, si apriva un sentiero che scendeva nella valle dove si trovava la campagna di Baldes. Google non lo rileva, così torniamo indietro fino all’incrocio e imbocchiamo la Strada per Galatro, che chiamavamo “ ‘A Rina”, perché sabbiosa e quasi per tutto l’ anno piena d’acque; sì, perché, allora, c’era acqua dappertutto, con piccole sorgenti lungo i bordi, dai quali si affacciavano granchi; e quante ranocchie - verdi e rosee -, quante lucertole, serpi, topi, ghiri, volpe, ogni sorta
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d’uccelli, grilli, mantidi, insetti d’ogni genere e nugoli di coloratissime libellule! È stato all’inizio di questa strada che, un giorno, ho incontrato un pastore assai particolare. Era alto e massiccio, con capelli e barba lunghi e contorti alla Mosè di Michelangelo (il paragone è odierno, perché, allora, nulla sapevo dell’artista), gli uni e l’altra colorati quasi di azzurro; vestiva un giubbotto marrone con molte frange, un pantalone grigio assai largo, aveva un bastone grosso e nodoso, un coltellaccio alla cintura e, dietro le spalle, una zampogna sgonfia. Lo seguivano centinaia di pecore che brucavano tra la strada e la collina e, mentre l’oltrepassavo, un grosso montone scese ad ingropparsi una delle mie pecore. Sia io che il pastore lo lasciammo fare, era assai usuale che molte gravidanze avvenissero così, senza l’intenzione dei padroni delle bestie. Anche questa strada oggi è asfaltata, a tratti ha muretti di contenimento, senz’altro meno favolosa di com’era nella mia infanzia. Ecco il tratto dove l’acqua stagnava in permanenza, tra due pareti di creta grigia. Per non bagnarsi, bisognava transitare su uno strettissimo sentiero scivoloso, non più di uno per volta. Lì, spesso, si piazzavano due prepotenti ragazzacci, che mi costringevano sempre a camminare nell’acqua, che lanciavano sassi e pezzi di legno alle mie bestie le quali, impaurite, correvano sparpagliandosi. Loro si divertivano e si facevano grandi risate. Una mattina, mi son trovato a transitare assieme all’ amico Cardillone, di qualche anno più grande di me, e più alto e coraggioso. Entrambi avevamo in mano due grosse canne. Li affrontammo con veemenza, scivolando tutti nella melma grigiastra e dandocele di santa ragione. Fu una battaglia epica, con graffi e contusioni per tutti, fino a quando non li mettemmo in fuga. Non li ho visti più da quel giorno. Oggi, in quel tratto, ci sono muretti di sostegno, a sinistra una piccola salita asfaltata che porta ad una costruzione. Percorriamo quasi tutta la strada, ci sono altre case che prima non c’erano, cancelli, boscaglie, aranceti carichi di frutti, ulivi, castagni, colline rossastre, quasi tutto irriconoscibile e non riusciamo ad
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individuare Baldes; il cancello era all’ incrocio di due piccole stradine, una che scendeva dal feudo, l’altra che saliva, a destra, verso la collina, tra querce alte e frondose, sotto le quali, in seguito, in Arturo dei colori, ho ideato la scena della maga Catabirro che pone, nel bel mezzo, perché v’inciampino i passanti, la famosa pietra con la scritta. A pochi metri dal cancello, c’era la grande vasca che raccoglieva l’acqua per l’irrigazione; l’ungo il recinto, la siepe e una fila d’alti pioppi, sui quali mi arrampicavo per raccogliere nidi di passeri; la pianura di Baldes era coltivata ad agrumeto, la collina ammantata di ulivi, sotto i quali crescevano fiori d’ogni tipo e colori e tante bellissime orchidee; sopra due promontori, due piccole casette... Nulla, nulla! Clarissa ha fatto di tutto per cercare di soddisfare la mia curiosità, manovrando la freccia a destra e manca, su e giù come in un autentico rodeo. Nulla! Il viaggio con Google è stato fantastico, ma non sono riuscito a vedere, a riconoscere il mio Eden, l’antico paradiso della mia infanzia. Domenico Defelice Dal volume, inedito, Non circola l’aria.
NOTTE La notte scende, copre il mondo con una coltre nera. La gente, chiude la porta della propria casa, temendo. Dalla parte opposta c'è la notte, le strade percorse da macchine ansiose e veloci, i giardini deserti che aspettano il giorno per sentire i giochi e le grida dei bambini. Manuela Mazzola Pomezia, RM
LA FARFALLA BIANCA C'è una farfalla bianca che mi porta un estremo saluto ogni volta
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che un mio caro mi lascia per entrare nell'eternità del tempo. Questa farfalla è comparsa inattesa al mio balcone alcuni giorni fa e svolazzando indugiava ora qua e ora là in mezzo ai fiori. Mentre la osservavo mi dicevo che forse questa volta era soltanto una farfalla bianca. Ancora non sapevo che tu non c'eri più. 12 luglio 2011 Mariagina Bonciani Milano
Questo gusto assoluto di libertà di chi combatte combatté la tirannia e che si trasmette tramite il sangue tramite il latte Ma il sangue ma il latte sono avvelenati giacché sono votale delle leggi che amputano la libertà Béatrice Gaudy Parigi, Francia
Una carrozza scoperta sotto la Luna lentamente passeggiava al passo di un grande cavallo Gli alberi dolcemente si inchinavano per salutarla con un soffio di borea E canticchiando l’eterna canzone del tempo la carrozza tranquillamente attraversò le distese fredde dell’inverno Béatrice Gaudy Parigi, Francia
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I POETI E LA NATURA – 91 di Luigi De Rosa
D. Defelice - Metamorfosi (2019)
I GABBIANI DI VINCENZO CARDARELLI (1887-1959)
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' la seconda volta che, in questa rubrica, ci imbattiamo in Vincenzo Cardarelli (all'anagrafe Nazareno Caldarelli), ottimo scrittore sia in poesia che in prosa. Era nato a Corneto Tarquinia (poi Tarquinia) il 1° maggio 1887, e morto al Policlinico di Roma il 18 giugno 1959. Povero e solo. La prima volta che ce ne eravamo occupati era stata nella puntata n° 15, nel numero di Pomezia-Notizie del gennaio 2013. La poesia di allora era la famosa “Liguria”, da me chiaramente scelta anche perché Cardarelli canta
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la regione nella quale mi sono formato e vivo, e alla quale sono poeticamente legato. E lo fa da perfetto conoscitore innamorato della Liguria anche nei dettagli, benché sia un viterbese di origine. Stavolta ho scelto di commentare un'altra sua poesia famosa, ottimamente riuscita, quella sui gabbiani. Il rapporto fra il poeta e la Natura è spinto fino al confronto ardito della vita del poeta con quella dei ben noti uccelli marini. Rapporto fra il poeta dalla vita infelice e la Natura (pur scevra dal concetto di esseri felici o infelici). come somiglianza, o almeno affinità, nel contesto di un rapporto globale UomoNatura. D'altronde, non si tratta di un poeta genericamente inteso, o tanto meno di un vate, quanto di un “pover'uomo”, figlio “illegittimo” della madre, che poi lo aveva lasciato (a quei tempi simili fatti incidevano marcatamente sulla vita personale, più di oggi). Come conseguenza Cardarelli (all'anagrafe, come detto, Nazareno Caldarelli) non aveva avuto la protezione e il calore della famiglia, aveva fatto studi irregolari, si era dovuto arrangiare coi mestieri più disparati, per poter campare. Finché aveva avuto la fortuna di correggere le bozze per il giornale Avanti!. Anzi, in questo giornale aveva trovato la sua sistemazione, dedicandosi alla professione di giornalista. In seguito avrebbe scritto anche su Il Tempo, Il Corriere Padano, Il Tevere, e avrebbe
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diretto, insieme a Diego Fabbri, La Fiera Letteraria. Del periodo fiorentino de La Voce conservava l'amicizia con Ardengo Soffici e Giovanni Papini. Specie quest'ultimo fu determinante nel presentarlo all'editore Vallecchi, che gli avrebbe pubblicato il libro Viaggi nel tempo. Altri libri importanti: Prologhi, Viaggi, Favole. Ma soprattutto Il sole a picco, del 1929, illustrato dal pittore bolognese Giorgio Morandi. Libro al quale fu assegnato il Premio Bagutta 1929, che gli diede la notorietà e la fama letteraria. Per tornare ai gabbiani, non avrei potuto continuare a lungo a sottrarmi a questa scelta, anche perché a Rapallo, quando esco di casa, li vedo ad ogni pié sospinto, per non dire che quelle lunghe ali bianche bazzicano anche il mio balcone e i tetti delle case circostanti. Anch'io, come molti, cerco la quiete dell'animo eppure mi trovo spesso nei tumulti delle emozioni. Anch'io, nel mio piccolo, mi comporto come i gabbiani di Cardarelli. Ma lasciamo la parola al nostro Poeta di oggi: “ Non so dove i gabbiani abbiano il nido, ove trovino pace. Io son come loro in perpetuo volo. La vita la sfioro com'essi l'acqua ad acciuffare il cibo. E come forse anch'essi amo la quiete, la gran quiete marina, ma il mio destino è vivere balenando in burrasca.” Luigi De Rosa
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Recensioni ALDO MARZI MARINETTI, NAPOLI E IL FUTURISMO (con la partecipazione straordinaria di Totò) Il Convivio Editore di Catania, Anno 2018, Euro 10,00, pagg. 61. Ci sono stati e ci sono brillanti riverberi nella vita quotidiana dello scrittore, poeta, saggista, professore romano Aldo Marzi, spesso riconducibili ai personaggi da lui affrontati analiticamente nelle sue fatiche letterarie da anni, fin da quando insegnava nella scuola Media “M. L. King” della zona Giardinetti di Roma e dove tuttora di frequente vi ritorna per spiegare le sue ricerche, principalmente svolte sulla figura – da cui partono tutte le altre diramazioni – di uno dei più grandi attori del Novecento, di teatro e di cinema, che ha coinvolto intere generazioni: il mitico Totò, il principe Antonio De Curtis (1898-1967). Riverberi perché sono accadute situazioni mentre viaggiava in treno, ad esempio, tra l’immaginario e il sogno ad occhi aperti, in cui gli è sembrato d’intravedere furtivamente le persone, con le loro inconfondibili fattezze, di cui tanto ha disquisito nei suoi numerosissimi libri, come lo scrittore poeta Filippo Tommaso Marinetti, nato ad Alessandria d’Egitto da genitori italiani, fondatore teorico della famosa corrente d’avanguardia artistica del primo Novecento denominata Futurismo, per la quale concepì il notevole testo che diede l’avvio al movimento e che, secondo lo stesso Marinetti, si sarebbe potuto chiamare in alternativa Dinamismo o Elettricismo, e vediamone i motivi. Contestualmente ricordiamo che il grande Totò stava affermando la sua vis comica proprio quando
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in Italia il Futurismo vorticosamente stava rivoluzionando le idee e i costumi non soltanto degli italiani ma dell’Europa intera anche con l’entrata in scena dell’automobile, simbolo futurista per eccellenza, nel momento della salita al potere di Benito Mussolini in Italia, dell’arte letteraria e delle sfrenatezze di Gabriele D’Annunzio, di quando l’avanspettacolo poi diventò rivista e da qui Totò, poi, entrò nel cinema interpretando oltre un centinaio di film, il cui ricavato contribuì anche alla nascita d’importanti case cinematografiche d’allora. Dicevamo che per comprendere l’arte comica di Totò, bisogna prima rispolverare il significato insito nella corrente del Futurismo. Ebbene, « […] Il messaggio del manifesto può essere sintetizzato in due indicazioni programmatiche: il nuovo artista futurista deve cercare le fonti per la sua ispirazione nella vita contemporanea ed è chiamato a emanciparsi completamente dalla tradizione e dall’ insegnamento dei maestri del passato, considerati non solo inutili, ma addirittura un ostacolo alla sua libera espressione creativa. Come indica chiaramente il nome scelto, egli vuole esaltare tutto ciò che rappresenta il futuro e l’innovazione, contro ogni culto passatista […]. Un secondo tema fondamentale è la volontà di celebrare il movimento, la velocità e tutto quanto rappresenta la forza e l’energia » (Dal 17° volume della collana La Storia dell’Arte – Le avanguardie, La Biblioteca di RepubblicaMondadori Electa, Anno 2006, a pag. 192). Totò vide la luce nel Rione Sanità da madre povera e il padre, marchese napoletano d’origini bizantine, lo riconobbe solo dopo molti anni causando in lui un senso d’inquietudine mista ad abbandono, che lo portarono ad affezionarsi agli artisti teatranti girovaghi, da cui alla partenopea maschera di Pulcinella, al personaggio disarticolato – perché prima burattino – di Pinocchio, oltre che alla figura dello scugnizzo. Man mano che prendeva sempre più coscienza della sua dimensione di recitante, Totò si ‘cucì’ addosso una maschera in continua sperimentazione verso sé stesso e verso il pubblico, prediligendo quelle che erano le peculiarità, appunto, del futurismo e non solo. « […] Totò, grazie ad un vero dono di natura, ad un intuito d’artista fuori dal comune, seppe metabolizzare vari elementi desunti dalla società e dal teatro del suo tempo così ricco di cambiamenti, creando una vera nuova maschera, erede di quella di Pulcinella, calata in un contesto moderno, con le possibilità offerte dal cinema. […] Per Totò l’arte fu realmente una festa, come per il futurista Cangiullo e abbassando ciò che è “alto” e innalzando ciò che è “basso”, smontando il personaggio serio e importante (ecco l’On. Cosimo Trombetta) e pa-
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rodiando i vari “ismi” del suo tempo, mise anarchicamente ogni cosa a soqquadro. Da autentico Pulcinella futurista… » (A pag. 45). Un cammino artistico tutto in salita anche perché erano tempi difficili, di ristrette economiche e di grandi mutamenti storici, tutto materiale di viva ispirazione per il giovane Totò che all’inizio si faceva chiamare, in omaggio al cognome della madre, Clemente in francese: Clerment. I suoi paradigmi viventi sono stati Ettore Petrolini, i fratelli De Filippo (recitò spesso insieme a Peppino), l’umile maschera di Charlot di Charlie Chaplin, non tralasciando noi di menzionare il suo maestro Gustavo De Marco dalle movenze snodate. La fase decrescente dell’arte interpretativa di Totò – stava alla soglia dei settant’anni ed era sofferente agli occhi – si ebbe quando fu diretto da Pier Paolo Pasolini sia nel film Che cosa sono le nuvole del 1967, sia in Uccellacci e uccellini dell’anno prima. Diciamo che nel film amaro di Pasolini, Che cosa sono le nuvole, girato appena in una settimana, il grande Totò interpretò – suo ultimo film – un dramma scespiriano entrando nella marionetta di Iago, che linciata dal pubblico-volgo alla fine della rappresentazione degli umani-burattini insieme alla marionetta Otello (interpretato da Ninetto Davoli), verranno portati inesorabilmente nella discarica dal netturbino – che intanto cantava ad alta voce – impersonato da Domenico Modugno. Per la prima volta le due marionette scoprirono la volta del cielo, ovvero che può esserci una bellezza che supera ogni immaginazione e ogni finzione scenica, capace di allietare anche le coscienze dei semplici burattini purtroppo destinati al misero accantonamento. Isabella Michela Affinito
ROCCO VACCA ORAZIO EMANUELE FAUSCIANA SALABBÀRIU Vocabolario storico culturale Gelese-Italiano, Edizioni Solidarietà, Gela (CL) 2014, Pagg. 200, € 15 I due gelesi Rocco Vacca e Orazio Emanuele Fausciana sono autori di un “Vocabolario storico culturale Gelese-Italiano” dal titolo Salabbàriu (voce che mi suona di influsso arabo, Sillabario o sussidiario scolastico). Entrambi cultori delle storie locali; in particolare il primo ne è talmente innamorato da avere scelto di scrivere tutte le sue opere in dialetto. In esergo due citazioni provano la convinzione degli autori del doveroso recupero della memoria: “Il futuro ha un cuore antico” (Primo Levi) e della “lingua che ci portiamo dentro” (Italo Calvino). Il libro ha in copertina una mappa compren-
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dente i “Quartieri del Centro Storico Murato di Gela” e all’interno alcune riproduzioni fotografiche di fine Ottocento e dei primi decenni del Novecento. Federico Hoefer (di Porto Empedocle, scomparso nel 2018), vissuto per tanti anni a Gela era innamorato della città e della sua parlata “poco contaminata da apporti esterni” e, come scrive nella presentazione, ne esalta “Luoghi e tempi prediletti dagli Dei, fino a quel Salvatore Quasimodo, cantore ‘ermetico’ e frequentatore, con Ignazio Buttitta, delle sabbie gelesi colore della paglia”. E Liborio Mingoia nella prefazione, ci informa che questa fatica nasce da un’idea di Vacca condivisa dall’amico Fausciana, presidente del Dopolavoro Eni di Gela; così, come per gioco, hanno messo a disposizione dei soci, dei fogli ad hoc su cui trascrivere parole della parlata popolare gelese. Citando Gesualdo Bufalini (di Comiso), ricorda “Cento Sicilie, cento dialetti!”, uno sguardo “tra rinunzia e rimpianto” e citando Ignazio Buttitta (di Bagheria) afferma che la lingua dei padri diventa sempre più “evanescente” fino a minarne l’identità. Orazio Emanuele Fausciana, in un primo tempo scettico, conferma di avere aderito al “gioco” cominciato nel 2010, lamentando come nelle famiglie si impedisca ai bambini di parlare in dialetto “perché ritengono (ingiustamente) che sia degradante e che inquini il parlato in italiano”. Così il foglio disposto sul leggio, man mano che si riempiva di parole, veniva sostituito con un altro. Tuttavia credo che il timore dei genitori non sia da sottovalutare, considerando i bambini. Io stesso, recandomi in Sicilia a trascorrere le estati, ne notavo aumentare il numero di parole. E Rocco Vacca, il promotore del progetto, poggiava le sue ragioni sulla necessità di dotare di strumenti i forestieri e gli stessi concittadini perché fossero in grado di leggere e capire “uno scritto, una poesia in dialetto”. I suoi confronti con la prof.ssa Tina Calabrese, che a sua volta realizzava un suo progetto scolastico, aveva fatto un interessante dizionarietto, con l’etimologia “araba, normanna, latina, greca, provenzale, tedesca, francese, spagnola, ecc. tante quante sono state le dominazioni che questa terra ha avuto”. Avverte che il suo intento di “recupero” non va inteso in senso di contrapposizione con la lingua nazionale, come invece avviene nel nostro Nord, in cui gli abitanti, del loro dialetto “vanno talmente fieri che rasentano l’idea del separatismo”. I nostri padri hanno tramandato il dialetto per via orale, ed oggi, in effetti, va “svanendo”. Ritengo sia doveroso il rispetto dei dialetti, ma senza contrapposizioni verso la lingua nazionale che è unificante. Sarebbe opportuno valorizzare quegli elementi dei
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vari idiomi, come anche di altre caratteristiche antropologiche, che ci accomunano, e così trasformare gli elementi distintivi in arricchimento; e non assomigliare all’uomo primitivo che doveva difendere il suo territorio. Mi si consenta l’analogia della lingua ad una entità vivente soggetta alla evoluzione dei tempi, come le piante che risentono del clima e del territorio, come i fiumi che trascinano quello che incontrano. Nondimeno giudico utile lo specifico idioma quando si tratti di recuperare testi preesistenti; mentre per ricreare il climax locale preferirei usare la lingua nazionale, che ci unifica, ricorrendo a costruzioni grammaticali, intercalari gergali e timbri tipici, soprattutto nell’uso orale accompagnati dalla gestualità. In ogni caso Rocco Vacca e Orazio Emanuele Fausciana hanno conferito dignità di lingua all’idioma gelese con Salabbàriu, un vocabolario linguistico Gelese-italiano e Italiano-gelese, organizzato come si conviene. I ringraziamenti in chiusura sono un altro doveroso riconoscimento e atto di umiltà. Tito Cauchi
MARINA GIUDICISSI ANGELINI FRA ORIENTE ED OCCIDENTE, vivere la spiritualità degli angeli Editrice Totem, 2019 Pagg. 36, Euro 5 Marina Giudicissi, Angelini, poetessa e scrittrice romana, coltiva interessi esoterici e religiosi, così nella sua recente fatica Fra Oriente ed Occidente, il cui sottotitolo recita vivere la spiritualità degli angeli, esplicita il suo orientamento spiritualista, rafforzato dalla dedica. L’agile opera comprende otto sezioni ed è prefazionata da Rosy Di Leo che, in esergo, cita Mahatma Gandhi sostenitore della non violenza; dice che l’Autrice descrive “un percorso storico- documentale con cui ci informa che il misticismo ha sempre influenzato l’uomo” e aggiunge che la Nostra è una sostenitrice della esperienza premorte e della esistenza di una “dimensione ultraterrena dove l’ anima, pura energia sopravvive al corpo.” Meglio di così non poteva sintetizzarsi. Il lavoro di fatto si compone di due parti: il confronto fra Oriente ed Occidente, che occupa maggiore spazio; e la spiritualità degli angeli. La Nostra entra in argomento con taglio divulgativo; invita a cercare il proprio “maestro interiore” che sta in ognuno di noi e che possiamo trovare attraverso il dialogo con noi stessi tramite la meditazione. Così indica i maestri spirituali, che denominiamo, per l’Oriente, guru (Paramahnsa Yogananda, Sri Yuke-
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swatar, Mero ed altri), definendo karmici gli incontri con loro; mentre per l’Occidente abbiamo Cristo, e i teosofi Douglas Baker, Rudolf Steiner, Krishnamurti; per non citare gli antichi filosofi ellenici. E sulla meditazione fa scuola lo Yoga, che è una tecnica orientale fondata da Sri Aurobindo. Il ponte fra Oriente ed Occidente viene ad affermarsi nel Novecento, grazie allo sviluppo degli scambi commerciali e culturali, gli studi sulla coscienza e l’individuazione di un io-superiore o altra denominazione. Senza dimenticare gli studiosi di esoterismo (e di psicanalisi) a cavallo dei secoli XIX e XX: Henry S. Olcott, Helena P. Blavatsky. La Nostra si dichiara “devota” di Sathya Sai Baba che insegna ad amare tutta l’umanità, poiché riconosce un solo Dio e tende alla felicità In Oriente, per trovare il proprio maestro spirituale, è possibile seguire l’insegnamento di tre scuole: quella di Bakty i cui discepoli sono devoti a Krishna che cantano i nomi di Dio, la scuola di Jana Majga che significa via della conoscenza, e quella di Karma Yoga che afferma essere l’anima principio vitale che risiede nel corpo. Giudicissi precisa che se per i Greci gli “involucri” vitali erano tre, per i teosofi sono sette e per i vedantisti [induisti, Dio uno e indivisibile] sono cinque che passa in rassegna e che semplifico nel seguente modo: fisicità, sensitività, emotività, creatività, felicità. Penso che le tre correnti di pensiero potrebbero ricondursi ad una sintesi. Segnalo il refuso di pag. 16, ivi viene trascritto “Anandamaya”, al posto di “Annamaya”. Quanto all’Occidente, in particolare indica tre percorsi del Cristianesimo, dai primi secoli ad oggi, luoghi storico-geografici di pellegrinaggio. Viaggio inteso come crescita spirituale, attraverso la via misterica, la via mistica, e soprattutto la via Michelita cioè indicata dall’Arcangelo Michele che si ispira alla scuola di Dionigi l’areopagita (del IV sec.). Altresì si ricordano anche le strade più note, come quella di Santiago di Compostela, Roma, la Terra Santa, la Via Francigena. Infine tratta delle esperienze di pre-morte prendendo in esame alcune testimonianze da parte di persone andate in coma, descrivendone gli elementi comuni e cioè il tunnel, l’entità luminosa e il senso di benessere al risveglio. Quindi gli avventi salvataggi ad opera dei propri angeli, come nel caso della piccola Tess, del Tennessee, di Terry P. e di altri. E giunti all’epoca attuale conclude con una speranza, quella offerta dall’essere entrati nell’Epoca dell’Acquario. Opera meritoria, questa di Marina Giudicissi Angelini; tuttavia una semplificazione espressiva e non assertiva, gioverebbe, soprattutto laddove usa parole di derivazione orientale che sembrano for-
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mule magiche (esoteriche). Oggi molte voci si diffondono a dismisura invadendo anche altri ambiti, perciò tornerebbe utile affiancare a queste parole, le corrispondenti in uso nella nostra cultura. Così è per guru (maestro spirituale), mahatma (titolo onorifico di prestigio), avatar (o avatara, che significa reincarnazione o metempsicosi), prana (impulso vitale), e così bakty, krishna, kosha ed altre. Tutto ciò spiegherebbe perché l’opera è dedicata “a tutti i discepoli dello spirito”. Tito Cauchi
IMPERIA TOGNACCI ODISSEA PASCOLIANA Bastogi, Foggia 2006, Pagg. 76, € 9,00 Imperia Tognacci, poetessa romana, traspone nelle opere le sue origini romagnole e l’amore verso il concittadino Giovanni Pascoli, come nel poema Odissea pascoliana, dedicato alla memoria della madre. Emblematica è l’immagine di copertina: foto di scorcio di un grande casolare e in sovraimpressione schizzo di testa di cavallo con a fianco donna vista di spalle che si porta la mano alla testa. Simboli certamente eloquenti per chi conosca la tragedia che colpì il Poeta. Le note che seguono meritano la nostra attenzione, umana e letteraria, e conviene soffermarsi. Il prologo e le cinque sezioni, hanno eserghi tratti da opere del Pascoli, procedono in un crescendo di pathos nel dialogo che la Nostra conduce in terzine, tranne alcune chiuse in distici o in un verso isolato. Giuseppe Anziano, richiamando le “vibrazioni improvvise, che Marcel Proust chiama intermittenze del cuore”, esalta la poesia dell’Autrice che non è solo “come diletto dell’animo, ma anche come elevazione dello spirito verso sfere più elevate”. Così nel presente si ispira al poeta romagnolo la cui tragedia familiare lo segnò per tutta la vita e ne permeò la poetica, di dolcezza e delicatezza (quella del Fanciullino). Rammenta come il Pascoli sia stato stroncato da critici come Benedetto Croce che lo definiva scoordinato, mentre venne rivalutato da critici come De Benedetti, Serra, Cecchi, Momigliano, Binni. Segnala che motivi prevalenti individuati dalla Tognacci sono il richiamo del mondo dell’infanzia, la Torre e il Rio Salto; la descrizione della natura con tratti brevi; la Poetessa raggiunge l’acme lirico quando tratta del “rimpianto della giovinezza non goduta”, del ricordo commosso della giovane “tessitrice” di cui era innamorato che, fra le ipotesi, si pensa si chiamasse Tognacci (sì, come la Nostra). Opera condotta con appassionata partecipazione interiore e ammirazione del Poeta che ha
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saputo affrontare la sua tragedia con “dignità”. Imperia Tognacci, in chiusura, ripropone una sua nota scritta in occasione del 150-esimo anniversario della nascita del Poeta (1855), sostenendo che egli era alla “Ricerca del Senso dell’Essere” che rifiuta di incasellarlo solo nelle due date: nascita e morte, su un freddo marmo. Il Pascoli segnò uno spartiacque della poetica europea, mise in luce la “crisi del rapporto parola-cosa” individuabile nella “incomunicabilità” e rilevabile nell’opera Myricae. La Nostra commenta come la critica verso un autore non possa mai dirsi conclusa, poiché molteplici sono gli aspetti che lo riguardano. Sul solco di Renato Serra, ne mette a fuoco la poetica nel “linguaggio privo di nessi logici”, con “immagini immediate”, il superamento degli stereotipi, raggiungendo tali risultati grazie al “suo modo di essere”, cioè un tutt’uno nel sistema natura, nondimeno non avulso dai tempi in cui vive, realtà e subconscio. Uomo di formazione classica che “interpretava in forma soggettiva” il mito greco, facendolo suo, per intenderci. Non fuori del tempo, sia pure fermandolo in senso di perennità, una realtà velata da tristezza, più concreto rispetto al romanticismo, superando “estetismo e residui carducciani un po’ troppo programmatici”, ciò spiega fisiologicamente il suo socialismo umanitario. Considerato il suo vissuto, la tragedia, la disperazione, la solitudine, trova il senso della vita in un “cristianesimo sostanziale e coerente più che dogmatico” (pag. 70). Il prologo è preceduto da versi del Pascoli tratti da Canti di Castelvecchio. In effetti le immagini sono lapidarie, immediate e i puntini di sospensione dicono più di quanto si possa immaginare con un lungo discorso. Per uscire dalla metafora dico che su una vita spezzata, all’improvviso, tragicamente, non puoi indugiare con una descrizione romantica, né con lo strazio degli antichi eroi. Ciò detto, il prologo è in versi, il cui incipit è “Ora, poeta,” ecc. descrivendo con pennellate le “mura di ogni casa/ di San Mauro” ed evocando con tanta delicatezza, espressa nei brevi tratti, la sottaciuta tragedia del poeta. Solo questo prologo meriterebbe di essere considerato al centro dell’attenzione. Ora, adesso, è già conclusa la tragedia; ora, Giovanni, detto affettuosamente nell’idioma Zvanì, è reso presente interlocutore. Ora si profila “un viaggio/ non programmato”, come quello di Ulisse. Una odissea pascoliana, appunto, annunciata anche qui da versi tratti da Canti di Castelvecchio in cui il Poeta evoca la madre disperata vicina al cancello che, mi pare, l’immagine di copertina interpreti a pennello. La Nostra si compenetra e ne assume la voce: “Si rabbuia la Torre, e tra i pioppi/ del Rio Salto urla il vento// per l’invendicato san-
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gue.” (pag. 19); il giovane poeta deve dire addio ai sogni, alla musicalità del ruscello perché lo attende “un viaggio non programmato”, ma segnato da uno sparo e da un grido che rimbalza sulle pareti di casa. Un canto che risuona di echi che replicano una sorta di nenia, già per sé mesta, tra il lamento funebre di un cuore spezzato che nessuno “rammenda” e la ninna nanna in cui vorrebbe trovare rifugio l’orfano. La tragedia è rivissuta tante volte, si cercano risposte senza trovarle, al loro posto si trovano muri e scogli; ma il Poeta non arretra. Imperia Tognacci con efficacia espressiva, trasporta il poeta Pascoli in una sorta di viaggio metaforico a bordo di una nave, dall’alto della tolda della quale abbiamo l’avvistamento: il marinaio e quindi il Poeta, si eleva, cosicché ha una visione ampia del reale e di quanto sta sommerso nel subconscio. Poetessa e Poeta si fondono, lei gli si rivolge così: “Non sogni più,/ poeta, il fascino di Osiride, ma gelido/ è il silenzio della Cintura di Oriente.” (25). Il Poeta, nell’esergo tratto da Myricae, rammenta che nella giovinezza ebbe “occasione di meditar profondamente, per due mesi e mezzo d’un rigidissimo inverno, su la Giustizia” dopo di che fu assolto. Bambino si rannicchiava in seno alla madre in una preghiera che non poteva essere esaudita, perché era tutto vero (la tragedia); la casa si sfascia fin dalle fondamenta. La Nostra si rivolge al novello Odisseo immaginandolo legato all’albero della nave, con queste parole: “e, tra il fragore, s’alza il tuo grido.” (31); non più canto di sirene, ma il fragore dello sparo. Il Poeta assiste, è tormentato nell’ osservare che continuano ed esistono le stelle, la luna e, mi viene da dire, perfino un inerte sasso; non trova risposta all’enigma dell’essere. La rinascita può darla solo la fede, che “non è una cosetta da nulla”, confessa il Poeta nell’esergo tratto da Odi e Inni. Se Odisseo cercava la sua Patria, Pascoli cerca Dio, “che morto sembra nell’ olocausto” (38) e la Nostra gli dà conforto poiché “Nessuno potrà incatenare il tuo canto/ che resiste e s’alza contro la giustizia/ in letargo che non ha ancora colmato// le faglie dove la verità muore.” (39). Ferito dalla critica, sovrastato dalle ombre della sua casa, egli rinasce come l’Araba Fenice. Una carezza al cuore trova nel sogno di un amore mai realizzato. Zvanì (Giovanni) ricorda la riccioluta tessitrice bionda come il sole, “ma bello come/ sole che muore” canta nell’esergo tratto da Poemi conviviali. Notare l’enjambement che, come strozzatura, risuona grevemente come la morte. Se Penelope tesseva la tela in attesa del marito, le Parche filavano fin quando Atropo spezzò il filo della vergine Tessitrice; notare anche qui l’analogia. Altra nenia intorno alla morte della giovane che, forse, rende me-
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no doloroso il pianto del poeta: “Nella sicurezza del trotto// di cavalla selvaggia/ che s’allentava al ritorno paterno/ […]// Per te, tessitrice,…/ […]/ resta il mio canto nuziale.” (pagg. 54-55). Quanta amarezza nutre l’animo del poeta di San Mauro pure verso un vecchio amico di lotta, dal quale si dissocia e gli ricorda che “Oltre gli uomini occupati continuamente nella rissa dell’esistenza, vi sono quelli che si mettono in mezzo per sedarla”; esergo tratto da Odi e Inni. Così la Tognacci immagina un dialogo fra i due. L’amico lo rimprovera di volere vivere nella quiete e il Poeta gli risponde: “Non fuggo di fronte/ al vento che ha investito la mia strada.” (61) e alle ingiustizie oppone la pietà, così conclude: “Homo sum che, tra ritornanti/ cecità, accende la luce della pietà/ che seda la lotta e aiutagli oppressi.” Nell’Odissea pascoliana di Imperia Tognacci non potevamo non aspettarci il linguaggio in parte marinaresco e la trasposizione del viaggio di Ulisse con tutte le sue disavventure: le Sirene, l’approdo come naufrago, l’antro del Ciclope. Una sorta di identificazione Pascoli-Ulisse-Tognacci. Non c’è un verso che non trasudi della sofferenza per l’assenza della persona cara, che non ti faccia accapponare la pelle, specie se viene sottratta all’improvviso e tragicamente. Sopravvivono oggetti inerti, ma non la persona amata. È l’assurdo che gli esseri umani devono accettare per non impazzire, per dare un senso al non-esistere, bisogna farsene una ragione. Il piccolo Giovanni chissà quante volte nella notte avrà invocato il nome del padre, quante volte avrà rivolto lo sguardo dalla parte dove proveniva lo scalpitio di un cavallo, quante volte avrà immaginato il genitore prenderlo per mano. Quante volte ha dovuto dare di sé una parvenza di normalità, mentre in cuore soffriva e gridava il suo diritto di esistere. Pascoli dà esempio di libertà di poeta e di umiltà di uomo. Tito Cauchi FRANCESCO D’EPISCOPO LA POESIA DI IMPERIA TOGNACCI Inquietudine dell’infinito Genesi Editrice, 2019 - Pagg. 94, € 11,00. L’opera è strutturata in tre agili capitoletti, che percorrono tutta la poesia di Imperia Tognacci, accennando, ma, in pratica escludendo, la prosa dei suoi tre romanzi: Non dire mai cosa sarà domani (2002), L’ombra della madre (2009) e Anime al bivio (2017). D’Episcopo parte dal saggio Giovanni Pascoli. La strada della memoria, che la poetessa ha dedica-
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to al grande poeta di San Mauro Pascoli, dove la stessa Tognacci è nata. Pascoli s’imbeve della terra e degli umori della gente del luogo e tutto riversa nella propria poesia, linguaggio compreso, rimanendo - come scrive D’Episcopo - “fedele a una dialettalità, antropologicamente autentica, che la sua stessa persona subito rivelava, mostrando la estrema naturalezza di una cultura, che inevitabilmente alla vita vissuta attingeva per poi intraprendere i suoi alti voli poetici”. E la Tognacci, a sua volta, s’imbeve della poesia pascoliana, a tal punto che non le è sufficiente un saggio per esprimere compiutamente la sua passione e il suo amore per il compaesano e sente la necessità di scrivere il quasi poemetto Odissea pascoliana, dove “la terra, la terra di Romagna, torna a far sentire la sua forza, la sua energia nella esplosione di una natura verace e sanguigna, di cui sia Pascoli sia la Tognacci sono stati e sono testimoni autentici e pregnanti”. La “matrice pascoliana”, insomma, nella Tognacci è sempre presente, scrive D’Episcopo, “oltre lo spazio speculare del tempo”. Tutta la poesia di Imperia Tognacci è a vocazione poematica, anche quella di La notte di Getsemani, Natale a Zollara e La porta socchiusa, che, nel saggio, Francesco D’Episcopo isola ne “Le singole sillogi”, perché se non proprio nella struttura - come i successivi, da Il prigioniero di Ushuaia a La, dove pioveva la manna -, lo sono senz’altro nella tematica. La Tognacci, insomma, è di respiro non certamente corto e perciò ha bisogno di molta aria per esprimere compiutamente le proprie istanze, dare concretezza al suo discorso, alla sua narrazione, alla sua affabulazione. Ed è il narrato la caratteristica della sua poesia, ciò che la fa apparire più vicina alla prosa: “Quella che potrebbe sembrare una finale caduta prosastica, in realtà, risponde all’esigenza che l’intera composizione evidenzia”. A nostro parere, i temi che più caratterizzano la Tognacci, sia in poesia che in prosa, sono la fede e il sociale; li si trovano spalmati in tutte le sue opere ed è nel trattare entrambi che si manifesta più concretamente il suo interiore. Domenico Defelice
PIERO DORFLES LE PALLINE DI ZUCCHERO DELLA FATA TURCHINA Garzanti-2018 Nel suo libro, di poco più di 170 pagine, Pietro Dorfles, affetto come egli stesso afferma da pinocchiofilia acuta, cerca di spiegare al lettore che avrà avuto la ventura di acquistare il suo libro, cosa si è
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perduto se non ha mai letto Le avventure di Pinocchio. Ovviamente il libro del Collodi da leggere è quello della versione integrale, molto più corposa di quelle che la Befana ci metteva vicino al lettino. Il Dorfles svolge la sua indagine articolandola in 18 capitoli dove, all’esergo di ciascuno di essi, la citazione di un brano delle Avventure servirà all’autore per delineare di volta in volta il senso interpretativo dei capitoli. Per esempio il capitolo primo: PINOCCHIO, UN RICORDO ANCESTRALE; ha in esergo questa citazione: ”birba d’un figliolo! Non sei ancora finito di fare, e già cominci a mancar di rispetto a tuo padre!”. Senso del capitolo: dono innato e ancestrale di mala educazione in tutti gli esseri che compaiono sulla terra, e in modo particolare appena sanno un poco parlare. Campioni imbattibili, gli italiani. La storia del ciocco di legno che mastro Ciliegia regala a Geppetto è nota, come è nota la particolarità di quel legno, che furbescamente mastro Ciliegia cede al buon Geppetto. L’atto di generosità nasconde l’italica furbata di liberarsi di qualcosa di cui ci si è resi conto essere ingestibile e di conseguenza inservibile. Il legno non si presta facilmente al lavoro, è duro, presenta nodi e imperfezioni difficilmente sanabili: ecco la “generosa” donazione allo sventurato compaesano Geppetto, che male che vada potrà metterlo al fuoco. Ma Geppetto, da uomo di fantasia e un poco fuori dai canoni paesani, vede in quel legno la figura di un burattino che potrà tornargli molto più utile della breve fiammata che farà nel camino. Sappiamo che appena gli utensili cominceranno a sbozzare il burattino quel legno parlerà, dimostrando di possedere qualcosa di vero in sé: un’anima. E così vìa via, quando Geppetto gli farà la bocca gli darà un morso, quando gli farà il naso gli farà uno sberleffo, avute le gambe gli darà un calcio. Ma l’analisi, meglio l’indagine, che Dorfles fa su Pinocchio ha un ben altro senso. Bisogna premettere che il Lorenzini- Collodi, pubblica le Avventure venti anni dopo la proclamazione dell’unità italiana, e che, come aveva previsto D’Azeglio non bastava aver fatto l’Italia, bisognava fare ancora gli italiani. Con questo cosa voglio dire? Che quella che formalmente è una fiaba per bambini, in effetti è la metafora di un paese che non solo è infantile, ma che non è stato ancora effettivamente realizzato. E un paese per essere maturo e civile, deve iniziare dall’educare, istruire e formare i giovani. Pinocchio invece è il contrario di tutto quello che serve a una nazione, per raggiungere prestigio e universale riconoscimento. Un bambino- burattino, che appena nato già pensa di sapere tutto, non va bene. Com-
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metterà molti errori. Alcuni inconsapevolmente, ma gli altri perché sono frutto della sua presunzione arrogante e ignorante. E come tutti quelli fatti di simile pasta, non ascolterà mai la propria coscienza, gli insegnamenti di chi è più colto; si sbeffeggerà di chi è buono come il padre putativo Geppetto o della Fata dai capelli Turchini. Addirittura ammazzerà il primo che oserà ricordargli quali sono i suoi doveri di essere umano, anche se non lo è ancora. Da superficiale e vagabondo si affiderà a quelli che sono peggiori di lui, come Lucignolo, o il cane corrotto Melampo. O peggio ancora per avidità, più che per stoltezza, si affiderà a due furfanti come il Gatto e la Volpe, che dopo essersi sbafati a sue spese lo derubano delle sue monete d’oro. Che recupererà perché da buon italiano è piagnone e furbo. E trova in qualsiasi occasione qualcuno che intenerito gli restituisce il mal tolto. Caratteristiche che permangono ancora nel carattere di quegli italiani che D’Azeglio, da lungimirante, non vedeva ancora degni di chiamarsi in tal modo. Esempio di questa caratteristica pinocchiesca i truffati dalle banche che, come Pinocchio, erano ben disposti a affidare i loro zecchini al Gatto e la Volpe perché da quattro sarebbero diventati quarantaquattromila o forse molti di più; o addirittura germogliare e diventare un albero dal quale raccoglierne, a piacimento, in ogni momento. Una volta fregati però i Pinocchi adesso, come il burattino, cercano di recuperare il perso a spese di altri. Nel racconto di metà ottocento del Collodi, non bisogna dimenticare che il Paese era poverissimo, per cui qualsiasi sotterfugio per mangiare era possibile e giustificato. Ma la cosa che sgomenta è che, dopo oltre centocinquanta anni, la fame è rimasta, come pure tutte le italiche furfanterie per riempirsi la pancia e non solo. Pinocchio- burattino bambino - italiano, ci dimostra che basta avere la voce per parlare, per sentirsi in diritto di chiedere subito ciò che non si può avere. Accontentandosi poi però alla fine, di ciò che ha: anzi dando un grande valore a quel poco che possiede. Esempio pratico: il rifiuto di mangiare le pere perché non gli piacciono, ma poi finirà con mangiarne anche le bucce. La metafora dell’italiano che ci dà il Collodi, continua anche nella rappresentazione di una gioventù di età scolare, che vende i libri invece di leggerli, preferisce il paese dove si gioca e non si fa nulla da mattina a sera; dice un cumulo di bugie, negando finanche la metamorfosi del naso che cresce in conseguenza di ciò. Pinocchio è il bambino eterno; è l’italiano che
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non vuole crescere, perché sa che in questo modo dovrà farsi carico di responsabilità verso se stesso e la società che lo contiene. È parte di un insieme che non vuole riconoscere, a cui non vuole appartenere per il semplice fatto che le cose da fare e da dire le stabilisce esclusivamente lui. Pinocchio è il bambino che non vuole diventare uomo, perché la cosa implica conoscenze, civiltà, responsabilità di vita che matura e che porta anche alla morte. E tutto questo non lo vuole, tanto è vero che più di una volta è stato pronto per morire, ma in un modo o nell’altro qualcuno lo ha riportato tra i viventi. Pinocchio, però, capisce a poco alla volta, che ciò non può durare in eterno e che anche per lui verrà il momento di rendicontare. E allora piano piano, il Pinocchio – bambino, a cagione delle esperienze che attraversa, raggiungerà la maturità giusta e opportuna per fare il salto di qualità, passando dalla condizione di burattino di legno, a quella di bambino in carne e ossa. Anche questa è ovviamente una metafora che il Collodi ci sottopone. La famiglia italiana, ci dice, è la principale artefice della stoltezza, della immaturità, della superficialità, dell’ arroganza, della svogliatezza, della balordaggine dei propri figli: perché li manovra, li coccola senza ritegno, li giustifica in tutto, li asseconda in tutto. Muove lei i fili che tengono in vita un bambino- burattino, il quale anche quando avrà raggiunto l’età che lo ricopre di pelo, segno estetico di maturità, continuerà a pensare e agire da burattino-bambino, benché divenuto ormai uomo. Mentre le mamme fate turchine, elargiscono ancora palline di zucchero a dismisura e senza alcun ritegno. Necessaria quindi la sua emancipazione, che avviene solo se, presa coscienza del suo valore di essere umano, ta-
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glierà quei fili che lo rendono un burattino. Anche se a manovrarli sono mani familiari. Per non parlare poi di quei genitori che, come Geppetto, hanno fatto il loro burattino - bambino per “… girare il mondo, per buscarmi un tozzo di pane e un bicchier di vino”. Genitori sfruttatori che, quando le cose poi vanno a finire male (e ritorna quindi la vecchia storia), chiedono una legge che punisca i cattivi, tipo magari “la revenge porn”, sicuramente giusta, ma necessitata per la mancanza di una sana educazione familiare. Chiude Dorfles il suo interessante saggio, con un capitolo sulla ontologia di Pinocchio, che presenta questo esergo; molto più significativo di qualsiasi cosa si possa dire: “ Come siamo disgraziati noialtri poveri ragazzi! Tutti ci sgridano, tutti ci ammoniscono, tutti ci danno dei consigli. A lasciarli dire, tutti si metterebbero in capo di essere i nostri babbi e i nostri maestri: tutti, anche i grilli- parlanti”. Aggiungerei solo che il mondo, purtroppo, si sta facendo sempre più pieno di “certi grilli-parlanti”. Salvatore D’Ambrosio
IMPERIA TOGNACCI LÀ DOVE PIOVEVA LA MANNA Il Convivio, 2015 Ho ricevuto il Suo recente libro “Là dove pioveva la manna”, accompagnato dal saggio critico di un collega che ricordo, a distanza di innumerevoli anni, non solo come ottimo studioso, ma anche come squisito gentleman. Mi pare che il Suo lavoro sia di notevole spessore, che vada tenuto accanto e ripercorso ogni tanto, in su e in giù, con piena sintonia ai diversi momenti del viaggio. Come rileva il bravissimo Andrea Battistini, “come tutti i simboli, anche il deserto ha un’espansione polisemica”. A maggior ragione l’ha il viaggio, che qui definirei un macro-simbolo, o meglio un archetipo fondamentale, che nel suo poema diventa struttura, ma non cessa di irradiare emozione intensa e illuminazioni sapienziali. L’apertura al lievito spirituale degli archetipi è antica quanto la poesia, ma ha una sua suggestiva modernità: penso alla linea, così presente nel Novecento e a me così cara, che da Jung conduce a Hillman, questo grande umanista moderno (umanista confesso, dato che si richiama a Marsilio Ficino). E certo il mio caro Jung è presente con l’evocazione del Sé, meta e interiore stimolo creativo. Inoltre io credo ( con buona pace dei critici sociologici che invasero ai miei tempi le cattedre universitarie e le riviste letterarie) che la coscienza cosmica debba
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caratterizzare la poesia del nostro tempo. Se ne sono accorti anche i teologi: penso a Teilhard De Chardin. L’aveva capito il genio di Dante: il suo viaggio verso il sé non poteva concludersi che con un segno cosmico: “l’amor che move il sole e l’altre stelle”. In Lei, cara poetessa, il segno cosmico è molto vivo ed emozionato, e il ritmo del viaggio ha la sua scansione perfetta. Emerico Giachery FRANCESCO D’EPISCOPO LA POESIA DI IMPERIA TOGNACCI Inquietudine dell’infinito Genesi editrice, 2019, 94 pp.,11,00 euro Francesco D'Episcopo ci propone una lettura delle opere della poetessa Imperia Tognacci. Nelle sillogi presentate sono molti i temi: l'umanità di Cristo, il rapporto con le stagioni, la memoria, l'amata sorella, l'infanzia, le occasioni che Dio ha dato all'uomo e che egli ha molte volte perso a causa della crudeltà e della malvagità che non ha senso, il deserto come spazio che dà forma alla sua inquietudine e l'ansia d'infinito che attraverso il sogno varca i confini della mente. Nei lavori della Tognacci ritroviamo il suo poeta, Giovanni Pascoli, perché ella ha il privilegio di seguirne i passi, mediante l'ascolto dei racconti dei suoi paesani di San Mauro ed anche dei suoi familiari; la poetessa riesce a cogliere, grazie alla sua anima delicata e sensibile, la vita di quei luoghi e le vibrazioni che ancora si possono sentire. Ed è proprio dalla scia pascoliana che arriva alla sua poetica: “Lontana dalle neo-avanguardie, ne crea una, tutta personale, fatta di parole e cose familiari ma anche universali, nelle quali potersi riconoscere integralmente, sinceramente, umanamente”. Il tema della natura è sempre presente nei versi dell'autrice, una natura che partecipa al dolore del figlio di Dio: “Compagni della sua angoscia/gli ulivi in pianto e il tremolare/ di palme cresciute nel tepore di foschie”, ma anche la potenza del vento che sussurra a Cristo parole di conforto per il futuro; il fiume che scandisce il lavoro delle lavandaie. E dalle parole della poetessa si sviluppa il mistero di raccontare, mediante la poesia, qualcosa che sfugge, intangibile, etereo; inoltre narra le difficoltà del vivere quotidiano, attraverso il suo mondo intimo ed arriva a toccare le corde più segrete dell'umanità. Afferma D'Episcopo: “Il quotidiano è prosa, il divino è poesia, e tra questi poli, ma soprattutto, nel secondo, s'immerge l'inquietudine creativa e critica della Tognacci”. Un altro motivo ricorrente è lo spazio del tempo
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che si apre al mistero di qualcosa che sfugge e la poetessa con i suoi versi tenta di coglierlo e di renderlo eterno. La poesia sprigiona una forza che salva e può salvare chiunque ne faccia parte, e diviene un simbolo universale. L'inquietudine deriva dall'infinità di domande che si pone, domande senza tregua; è una raffica senza risposta, eppure nella precarietà dell'esistenza trova pace sognando l'eterno. Un rapporto profondo tra natura e vita, tra acque e terre ed il vento è sempre protagonista. L'ansia dell'infinito diviene amore, un amore che il “poeta” deve donare al mondo; l'amore è una frontiera contro cui devono infrangersi tutte le ingannevoli mistificazioni del nostro tempo. Scrive D'Episcopo: “Attraversando le singole composizioni della nostra meritoria autrice, si resta colpiti da una onestà intellettuale, che può ben definirsi esistenziale, nei confronti del suo mondo personale, che prova sempre, riuscendo, a farsi universale. Che è poi il compito precipuo della vera poesia”. L'autore del volume, con attente e precise osservazioni, sempre legate al testo, ci restituisce il quadro di un mondo di intima e creativa inquietudine che è proprio di Imperia Tognacci. Manuela Mazzola
ELISABETTA DI IACONI CAMMINERO' Ed. Il Croco, I quaderni letterari di Pomezia Notizie – Aprile 2019 Il Croco questa volta ci propone le poesie di Elisabetta Di Iaconi, “Camminerò”. La raccolta è composta da ventisei poesie ed inizia proprio con quella da cui prende il nome. Introduce la silloge una recensione di Domenico Defelice, il quale afferma che c'è una saudade lusitana, una nostalgia più spirituale che reale, sia nella poetessa che nel suo ambiente; un'afflizione dell'anima vischiosa, appiccicaticcia; la silloge è un viaggio esistenziale in cui la poetessa si sente creatura rinnovata attraverso le vie dissestate. Nei versi delle poesie c'è un'atmosfera evocativa che suggerisce al lettore emozioni d'incertezza, quasi di disorientamento: “Ritroverò le impronte dei miei passi” […] Sono rinchiusa in un nebbioso limbo/ che non consente il volo/ dei miei pensieri nella mente inerte”. Sembra vivere in un presente che la costringe all'immobilità e sembra non trovare più la sua identità perché ha perduto le impronte dei suoi passi, anche la natura è contro l'essere umano e la sua esistenza. E' disorientata, staccata dal mondo circostante, non sente, non avverte la vita che scorre con il suo ciclo, ma
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solo nell'istante in cui ascolta la poesia torna a vivere: “In quei preziosi istanti/anch'io divento nota in un'orchestra/ ch'effonde all'infinito/ la sua sublime musica nel cielo”. E' presente la paura dell'ignoto, di quello che sarà e che non si conosce ancora. La vita è un “percorso di dolore/di saltuarie gioie e di timori/ tracciato dentro l'aria […] Insieme agli altri spero/che sull'imprevedibile traguardo/fiorisca un tempo nuovo”. Durante il viaggio della nostra esistenza si alternano gioie e dolori, momenti di sconforto con attimi di felicità, ma la speranza della poetessa è quella che arrivi alla fine un tempo migliore per tutti e che “quel Dio ci regali la speranza”. Il cammino che ci propone la Di Iaconi è un percorso nebbioso, incerto, a tratti evoca la paura, lo sgomento. La poetessa si sente una fra tanti: “Traccio una traiettoria/ con gli occhi spalancati sul mistero/ con gli altri viaggiatori”; è una donna che vive insieme agli altri, con cui condivide il mistero dell'esistenza, attraversa tutte le stagioni della vita e con coraggio cerca di dare” un senso all'avventura strana” che è la medesima per tutti gli uomini. Vivere affatica: i ricordi, la nostalgia, le gocce di memoria, le sofferenze, le insicurezze, ma il viaggio che è cominciato camminando al ritmo di orologi senza tempo, termina con un'immagine che restituisce al lettore un impulso positivo e vitale: “Arriverà la notte/ e nell'opale spunterà una stella/ che schiarirà la strada”. Il dubbio, l'inquietudine delle vie percorse, lasciano il posto ad una stella che farà luce e regalerà speranza a chi ne ha bisogno. Manuela Mazzola
DOMENICO DEFELICE UNA LETTERA DI ADDIO In Pomezia-Notizie, aprile 2019 Il racconto è una delle possibili letture della realtà attuale. Oggi gli adulti, ma anche i giovani, sono incapaci di vivere le relazioni sociali in maniera sana. Forse non sono stati educati dal punto di vista sentimentale o non sono abituati al diniego, al dissenso o semplicemente non sono abbastanza pronti ad affrontare gli ostacoli ed i problemi che si presentano loro. Rimangono in un limbo, come eterni adolescenti e ciò crea grandissimi squilibri e problematiche che si ripercuotono su ogni aspetto del sociale. Un tasto dolente è rappresentato dalle relazioni amorose, nelle quali si innescano dinamiche particolari. In questo racconto, però, le vicende sono positive poiché l'uomo ama veramente la sua donna; il problema del protagonista è la mancanza di fiducia in se stesso e la mancanza di coraggio nell'affrontare la possibile fine del loro rapporto.
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“Mi vedevo meschino, insignificante, anche dinanzi a quell'insignificante uomo. In quell'istante, anche un lebbroso era meglio di me, anche uno storpio, un cieco, anche un animale, purché riuscisse a tener desta la tua attenzione”. […] “nella mia mente sconvolta da quella specie di strana gelosia che mi divorava e mi faceva invidiare chi ti stava vicino”. Un adulto sicuro di sé avrebbe vissuto fino alla fine la sua storia d'amore perché la vita va vissuta fino in fondo; non si può sapere cosa ci riservi la vita, cosa accadrà, ma all'occorrenza affrontare i problemi che ne possono nascere. “Ma l'amore è libertà, è non far soffrire gli altri. Con me, invece, tu soffriresti e per questo ti libero”. Il protagonista dice che non vuole fare soffrire nessuno, preferisce morire piuttosto che dare dolore, ma la realtà è che lui stesso ha paura di affrontare il dolore; la paura di soffrire è così forte che ha il sopravvento su tutto. Solo alla fine, nell'ultimo istante, l'amore che ha nel cuore lo salva. Il racconto non è di facile lettura, è complicato così come lo è la vita; è “una storia di confine” che nasce sul filo del rasoio, tra ciò che è sano e ciò che è insano; sano come la voglia di vivere e di affrontare le sfide e le opportunità della vita, insano come la paura di vivere e come la morte. Manuela Mazzola FRANCESCO D’EPISCOPO LA POESIA DI IMPERIA TOGNACCI Inquietudine dell’infinito Genersi Editrice, 2019 L’accuratissimo saggio critico di Francesco D’Episcopo si intitola “La poesia di Imperia Tognacci” con sottotitolo “Inquietudine d’infinito” (Genesi Editrice, 2019, pagg. 96, € 11,00). Di Imperia Tognacci abbiamo conosciuto ed apprezzato, nel tempo, le opere, sia in prosa che in versi , che ci hanno davvero appassionato e fatto capire l’acutezza della sua mente nell’impegnata ricerca della Verità, e la sua profonda umanità. L’Autore, qui, dopo aver ricordato la coincidenza di una profonda affinità di vita, di poesia (“dono divino”) e d’animo, della Poetessa col Pascoli (è nata proprio a San Mauro Pascoli), passa in rassegna molte opere della Tognacci, dispiacendosi di non trattare tutte quelle da lei scritte finora, che lo meritano appieno. Come il Pascoli, la Poetessa fa suo il concetto che l’”essere” della natura e dell’uomo è un rapporto sostanziale fra la morte e la vita, un destino comune unitario e futuro. Nella Sezione dedicata alle Sillogi, risalta l’ originalità di pensiero della Poetessa, quando – in “La
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notte del Getsemani” – ella mostra il desiderio che Gesù resti sulla terra il più possibile per far vincere l’amore sull’odio delle coscienze “pietraie”, e la pace sulla guerra: desiderio e richiesta che anche Gesù fa al Padre, come pure Maria in quel “richiamo alla vita”, e addirittura come il vento che, confortandolo, si fa messaggero della sua Parola al mondo: qui vediamo l’atto di fede della stessa Tognacci. In “Natale a Zollara”, luogo delle vacanze scolastiche della Nostra dai nonni, L’Autore mette in evidenza la bravura tecnica, la maturità espressiva, lo spessore creativo e critico della Tognacci: caratteristiche rilevate pure nella silloge “La porta socchiusa”, simbolo della sua poesia , dialogo di incontro/scontro con Dio, in cui la Poetessa gli chiede di partecipare al dramma dell’uomo che, nonostante tutto, aspira al cielo, però domandandosi: ”Dove cercarti, Dio?”: ecco l’inquietudine dell’intera umanità e della Tognacci la quale (“Verso l’ora nona”) conferma: “Sugli scalini stinti del giorno,/ incerta, verso di te, Signore,/ ogni direzione”. Narrativa, poesia, ma anche poemi ci offre la Nostra, fra i quali “Il prigioniero di Ushuaia”: un “esilio dalla vita” in un paesaggio estremo, un desolato canto, una testimonianza di vita contro la morte incombente, l’intima e intensa confessione della Poetessa e del prigioniero sui segreti e sui misteri della vita per poi aggrapparsi al cielo, in cui un’ ispirazione avida e ardente riesce a sciogliere i ghiacciai del cuore e della mente con un’analisi attenta ed illuminante - dice l’Autore. D’Episcopo osserva che il poema “Il lago e il tempo” rispecchia il fluido scorrere dei pensieri e degli orizzonti esistenziali ed espressivi delle pulsioni interiori della Tognacci, anima inquieta, ansiosa di infinito, che si pone domande senza ottenerne risposta, e che qui cerca la pace nei ricordi più cari, antidoti alla tristezza. Ella dice che il pensiero della morte non fa paura quando diventa preghiera, fede, speranza, “l’oltre” contro il nichilismo della ragione. L’Autore nota che “Il richiamo di Orfeo” è dedicato a se stessa e a tutti i poeti-profeti i quali, attraverso la parola, in una catena d’amore, hanno un preciso impegno morale e civile: la missione eroica di testimoniare l’amore all’intera umanità, sfidando i tempi, proiettandosi così nell’eternità. Una serena inquietudine, nella selva intricata del suo cuore – osserva il Nostro - traspare in “Nel bosco, sulle orme del pastore”, in cui la Poetessa vorrebbe carpire il mistero della natura il quale però resta tale, perché protetto da una laica sacralità incomprensibile all’uomo. Qui, la natura è esteriore ed interiore, sia del passato ma anche del mondo
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presente in crisi, dominato da consumismo, egoismo e profitto contro ogni ecologia del cuore e della mente. E’ un dialogo bilaterale che tratta argomenti naturali e cosmologici, in cui ella intravede il mistero dell’universo, per cui l’infinito da umano diventa cosmico. “Darò un nome al Nulla là/ dove la luce è profonda” ci dice Imperia nell’opera “Là, dove pioveva la manna”, in cui la poesia va verso l’aperto cielo, mentre il deserto è lo spazio che dà forma e sostanza alla sua inquietudine, confrontandolo col deserto cittadino. Mentre l’oasi costituisce il luogo della sua anima assetata che incontra l’Essere, però “senza raggiungere il fondo”, in quanto bisogna accettare il mistero che ella tutta la vita continuerà a cercare. D’Episcopo ha saputo esaminare alla perfezione non solo la poetica della Tognacci, ma soprattutto è riuscito ad entrare nella mente, nell’intelligenza, nella speculazione, nelle intuizioni e nel pensiero acutissimi di lei, farcendoci scoprire il suo animo, anzi la sua anima, riconoscendone l’eccezionale levatura intellettiva ed umana: quindi, entrambi molto profondi. Maria Antonietta Mosele
ELISABETTA DI IACONI CAMMINERÒ Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2019 “Camminerò” è la silloge di Elisabetta Di Iaconi che appare su Il Croco” - Quaderno Letterario di Pomezia-Notizie di aprile 2019. Si tratta di un viaggio di speranza, in cui la Poetessa si rinnova liberando i suoi tristi pensieri, in cerca di sorrisi e di Dio: così Domenico Defelice presenta quest’opera. Veramente, la prima lirica di questa raccolta poetica sembra già conclusiva dell’intera silloge, in quanto risolutiva dei tanti ostacoli dolorosi incontrati lungo tutto il suo cammino, e superati: “… Camminerò veloce lungo i viali/ delle giornate liete./ E sarà un nuovo viaggio/ al ritmo di orologi senza tempo.” Infatti, scorrendo nelle successive poesie, ella ci confida di sentirsi imprigionata, “rinchiusa in un nebbioso limbo”, in “notti oscure” con i loro colpi di spada, oltre a “convulse lotte di ogni giorno”, dove perfino “Nemica la natura/ Inasprisce il mistero esistenziale”; e vorrebbe morire per andare da Dio: così tra “chiare luci/...Fasci d’amore…//…Si svelerà il mistero..” Ma la Nostra sa anche reagire, soprattutto quando arriva l’ispirazione di scrivere versi “Baleni luminosi”, e “…In quei preziosi istanti/ anch’io divento
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nota in un’orchestra/ che effonde all’infinito/ la sua sublime musica nel cielo.” E si riprende e si consola anche quando incontra altri poeti in tutta amicizia “fiore raro,/…Saldo germoglio sulla via dei giorni…” Essendo la vita un misto di gioie e di dolori, in un’”alternanza dei contrari” “di un cammino incerto”, la Poetessa capisce che bisogna armarsi di coraggio, combattere la tristezza ricordando le persone amate ”perle preziose”, i giorni felici “coriandoli oscillanti”, ed imparare dalla natura perché “Serbano intatte stille di vigore/ anche le foglie morte”. Nel silenzio, ella ripassa la sua vita: “ansiosa adolescente/ protesa verso il sogno” per seguire “l’itinerario/ deciso dal destino./…/ ma i semi del silenzio/ stanno al sicuro, fermi nel mio cuore.” Sono poesie vere, che nascono dai sentimenti più vivi che possiamo provare; e ci insegnano ad apprezzare e ricordare le cose belle della vita, come altrettanto, a risollevarci dai fatti dolorosi che inevitabilmente accadono, anche se, per continuare a vivere, a volte ci vuole molto coraggio. Ricche di immagini originali ed affascinanti, queste liriche hanno parole spontanee, appropriate, scelte. Maria Antonietta Mòsele
ANNA GERTRUDE PESSINA LA DONNA DEL VENTESIMO SECOLO Manni Editore, San Cesario di Lecce, 2018 Poetessa e narratrice di talento, Anna Gertrude Pessina è anche una valente saggista, come appare sia dal suo precedente libro La follia delle parole nel Seicento e nel Novecento (Manni, San Cesario di Lecce, 2013) ed ora da questo suo nuovo saggio La donna del Ventesimo Secolo (ivi, 2018). Il libro reca come sottotitolo Dal Cancan al Charleston, volendo con ciò significare che la trattazione dell’argomento è limitata ad un tempo ben circoscritto, inerente esclusivamente all’inizio del Ventesimo Secolo, mentre il periodo successivo (probabilmente fino ai nostri giorni) sarà affrontato dalla Pessina in altri eventuali volumi. Ed è quanto ci auguriamo non solo per l’importanza dell’ argomento trattato, ma anche per la lucidità con la quale il periodo storico viene ricostruito, in quelli che sono i suoi eventi fondamentali, nonché per l’acume psicologico col quale viene analizzato il personaggio che di volta in volta è preso in esame. Donne come Matilde Serao o la Vivanti, come Mata Hari o Ada Negri vengono qui fatte rivivere e presentate in ciò che esse ebbero di peculiare: ed è questo il maggior merito della nostra autrice, la
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quale riesce anche a penetrare compiutamente lo spirito dell’epoca da lei affrontata, che vide avvenimenti della massima importanza, quali la seconda rivoluzione industriale e la prima guerra mondiale. Il libro si divide in due parti: La donna tra decollo industriale e “belle époque” e Dal palcoscenico alla rotativa: la donna imprenditrice, che affrontano due diversi momenti storici e conseguentemente due diversi tipi di donna. Nella prima infatti ci troviamo di fronte ad una donna che per emergere ed affermarsi fa uso essenzialmente dei suoi attributi fisici, mentre nella seconda si fa strada una donna che si serve prevalentemente delle sue doti intellettuali. Tentiamo una breve analisi di ognuna delle due parti. Nella prima siamo nell’età che sarà chiamata della “Belle Époque”, caratterizzata dai cabaret e dai café chantant, “covo di corruzione e di peccato”; ma che al contempo è anche un’età nella quale s’afferma lo Stile Liberty e viene esaltato un nuovo tipo di vita, dominato dalla velocità (che ha per simbolo l’automobile) e dall’elettricità (che reca con sé il mito della Ville Lumière). È questa l’epoca in cui si affermano Estetismo e Futurismo e che sfocerà nel massacro della Prima Guerra Mondiale; ma è anche l’epoca dei facili duelli e dei suicidi per amore. Il libro della Pessina la esamina attentamente, facendo seguire alla parte introduttiva l’intervista al personaggio trattato, del quale rivisita la vita, illuminandone la vicenda, che viene supportata anche da un vasto apparato di note al testo. Tra le donne che furono protagoniste in quest’ epoca l’autrice ricorda innanzi tutto la Contessa Lara, nata a Firenze da William Kattermol, console inglese a Cannes. Nella città in cui nacque fu accolta nei migliori salotti, come quelli di Letizia Ramolino Bonaparte (madre di Napoleone) e di Beatrice Oliva. Sposò Eugenio Mancini, figlio del Ministro Pasquale Stanislao Mancini, ma la loro unione non durò a lungo, dato che lei s’invaghì di Giuseppe Bennati di Baylon, per cui il marito, scoperta la tresca, sfidò il rivale al duello con la pistola e l’uccise. I due coniugi così si separarono e Lara per sostenersi seguì la via della collaborazione a giornali e riviste, tra cui “Il Fanfulla della domenica” e “La Tribuna illustrata”. Venne in seguito la sua relazione con Giovanni Alfredo Cesareo, redattore di “Nabab”. Fatale le fu però la relazione con Giuseppe Pierantoni, il quale, allorché ella, stanca dei suoi soprusi e delle sue intemperanze, lo respinse, estratta una pistola, l’uccise. Di lei resta l’opera di narratrice, definita da illustri critici come Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, di “un’individualità stilistica non
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comune” (Storia della Letteratura Italiana, Garzanti, 1965). Donne esclusivamente di spettacolo furono invece la bella Otero e Lina Cavalieri. La prima, di origine spagnola, nota con lo pseudonimo di Carolina Augustina Carasson, fu una “Cortigiana” di rango e di razza, se per la sua alcova transitarono uomini quali Leopoldo del Belgio, Alberto di Monaco, Edoardo VII del Regno Unito, Alfonso XIII di Spagna, L’Imperatore Guglielmo II di Germania e il Kedivè d’Egitto. Tra amori e onori (ebbe la visita della principessa von Metternich e l’amicizia di D’Annunzio) ella passò come una meteora, lussuriosa e fastosa, ma terminò la sua vita in povertà e solitudine, morendo in una stanza di un hotel di Nizza, in seguito ad un incendio da lei stessa causato. Romana di nascita fu invece Lina Cavalieri, come ella stessa dice nel suo libro di memorie Le mie verità. Anche lei fu una “mangiatrice d’uomini”. Dopo un’infanzia fatta di stenti, raggiunse la notorietà e l’agiatezza come cantante di varietà e poi di teatro d’Opera, con tenori quali Tamagno e Caruso. Sposò il principe Alessandro Baryatinsky e successivamente: il milionario americano Bob Chanler, il re del Kazan, il tenore francese Lucien Muratore. L’ultimo periodo della sua vita lo trascorse con l’impresario Arnaldo Pavone. Morì il 6 marzo del 1944 durante un bombardamento aereo, sotto le macerie della sua villa di Fiesole. Nota per la sua vicenda di spionaggio, che la portò alla morte mediante fucilazione, Margherita Geertruida Zelle, in arte Mata Hari, fu una delle donne più affascinanti del primo Novecento. Nacque il 7 agosto del 1876 nella Frisia settentrionale da Adam Zelle, che esercitava attività commerciali. Sposò, dopo il dissesto finanziario del padre, il capitano dell’esercito olandese Rudolph Mac Leod, ma presto lo lasciò per incompatibilità di carattere. Venne in seguito lanciata dal collezionista di oggetti orientali Guimet, che l’avviò alla danza nei locali parigini come ballerina, quale “danzatrice sacra” delle divinità indiane Kalì e Siva. Accusata durante la Prima Guerra Mondiale di spionaggio a favore della Germania, venne fucilata, dopo un processo sommario svoltosi a Vincennes, all’alba del 15 ottobre del 1917. La Pessina si diffonde su di lei in una lunga intervista intitolata Aspettando Mata Hari, dalla quale fa emergere la sua storia di moglie insofferente e di danzatrice di successo con danze esotiche e sensuali, sino al suo arresto la mattina del 13 febbraio del 1917 e alla sua condanna a morte. La sua figura rimane una delle più affascinanti e suggestive dell’età in cui visse. A questo punto la Pessina inserisce una scena,
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quella del Terzo Atto, ultimo quadro, del dramma di Ibsen Casa di bambola, con la quale l’azione si conclude. In questa scena Nora, la protagonista, decide di abbandonare la famiglia, composta dal marito e dai figli, perché si è accorta di costituire per loro soltanto un oggetto e di essere trattata come tale. Il marito Torval ha infatti manifestato appieno il suo egoismo nel momento in cui lei era in grave difficoltà. Quella di Nora diviene in tal modo una grave ribellione all’ordine costituito, per il quale la donna doveva sempre essere sottomessa prima al padre e poi al marito, senza poter esprimere la sua vera personalità ed essendo trattata non come una persona, ma come una cosa. Nella seconda parte del suo libro la Pessina prende, come si è detto, in esame la donna imprenditrice e scrittrice, della quale un esempio importante da noi fu Matilde Serao. La Serao infatti creò, insieme a Scarfoglio (si sposarono nel 1884) il “Corriere di Roma”, il “Corriere di Napoli” e, nel 1892, “Il Mattino”. Fu una scrittrice di talento, specie nel descrivere certi ambienti dei bassifondi napoletani (ma non fu da meno nella rappresentazione degli ambienti borghesi). Apprezzata e stimata sia da uomini di Lettere che dai comuni lettori, ebbe un’ eccezionale dimostrazione di stima e di affetto il giorno del suo funerale, nel quale una folla commossa le diede il suo addio. Era nata a Patrasso il 14 marzo del 1856 e morì a Napoli il 25 luglio del 1927. Siamo così giunti ad un’epoca nella quale la donna comincia a lavorare fuori di casa, come operaia, dattilografa, insegnante, commessa e svolge mille altre attività, che tendono ad emanciparla e a farla progredire nella società in cui vive, come oggi accade nella ricerca medica, nel giornalismo, in politica, ecc. Dapprima però l’emancipazione della donna avviene nel campo dell’attività letteraria, che le è più congeniale. Ecco allora le narratrici e le poetesse, come Carolina Invernizio, Sibilla Aleramo, Ada Negri, Amalia Guglielminetti e molte altre. Dotata di una fantasia sbrigliata e di una grande facilità di scrittura, la Invernizio scrisse circa centotrenta romanzi, senza però raggiungere quella ampia visione dei problemi sociali o quella scientificità nella descrizione del comportamento umano che è propria dei grandi narratori del Positivismo o del Naturalismo. La sua produzione così rimane superficiale e limitata a un piacevole intrattenimento, piuttosto che assurgere a vera arte. Un altro mordente assume l’opera di Sibilla Aleramo, specie in libri quali Un amore, Il passaggio, Amo dunque sono. Tra i suoi amori il più travolgente fu quello per Dino Campana: certo il più sofferto
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e completo. Si veda a questo proposito il loro carteggio e le intense poesie Quattro liriche per Sibilla Aleramo che Campana le dedicò. Un posto di rilievo occupa tra queste poetesse Ada Negri, nata a Lodi nel 1870 da una famiglia povera, fu avviata agli studi per migliorare il suo stato. Dedicatasi all’insegnamento, fu così prima a Lodi e poi a Milano, presso la Scuola Normale Gaetana Agnesi. Tra i suoi molti libri di poesia ricordiamo: Fatalità (1892); Tempesta (1895); Maternità (1904); Esilio (1914); Il libro di Mara (1919); I canti dell’isola (1924); Vespertina (1930); Il dono (1936); ecc. Nel 1940 fu accolta nell’ Accademia d’Italia. Sulle sue idee sociali la Pessina si sofferma ampiamente nell’intervista. Tra le donne scrittrici del primo Novecento è da ricordare anche Amalia Guglielminetti (Torino 1885 – Ivi 1941), che fu giornalista e autrice di numerosi romanzi, da Voci di giovinezza (1907) a Le Seduzioni (1909); da L’insonne (1913) a Fiabe in versi (1922); da I serpenti di Medusa (1934) a Una donna eccezionale (1930); ecc. Seguì le suggestioni del Decadentismo e dell’Estetismo proprie del suo tempo. Morì in seguito alle ferite riportate per una caduta lungo la scala del suo albergo durante un bombardamento aereo del secondo Conflitto Mondiale. Estrosa e sofisticata, esuberante e ribelle, Amalia Guglielminetti espresse tutte le inquietudini del suo tempo, del quale fu un’efficace interprete. Della sua relazione con Guido Gozzano la Pessina parla ampiamente nell’intervista che le dedica. Seguì poi il tragico evento della Prima Guerra Mondiale, che valse ad immettere la donna nel mondo del lavoro, in sostituzione degli uomini che erano al fronte. E venne il suo ingresso in politica con Rosa Luxemburg, la quale svolse un’intensa attività in campo ideologico e sindacale a favore della classe operaia. Il suo insegnamento costituirà un forte incentivo per l’emancipazione della donna nel primo dopoguerra europeo. Qui il libro della Pessina si chiude, lasciando presagire un seguito, data la vastità dei problemi che agita. Noi siamo sicuri che questo prosieguo verrà, con la stessa acutezza di analisi e la tessa ampiezza di sguardo che caratterizzano il libro che qui è stato oggetto di esame. Liliana Porro Andriuoli
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NAZARIO PARDINI ALCJONE 2000 I dintorni della solitudine Guido Miano Editore – Febbraio 2019 Può solo essere poesia. “L’ultimo autunno che vivremo insieme e il/ mare e le sue onde inquiete a raccontarci…” L’autunno raccoglie il vissuto del poeta in una armonia di colori sfumati come lo scorrere del tempo e il mare amico, immenso, inquieto come solo l’anima di un poeta può essere. La visione di Nazario immersa nella natura si volge ai volatili e li osserva. I piccioni con la testa tra le piume, bisbigliano col vento. Becchettano; volano verso l’alto e in basso le loro ombre vaganti. Simbolo di libertà, svaniscono. Anche gli uomini a un tratto non saranno più. Il poeta nella sua visione panteistica, osserva il falcione e ne rivive il percorso tra le mani callose del padre. Il padre non c’è più e il falcione “ora è lì, senza voce: una bestia ferita,/ accanto ad una cesta e ad un barile/ Nemmeno ti risponde se lo chiami”. Quello che ci circonda vive, se noi lo facciamo vivere ed è parte dei noi stessi come le valli, le scogliere “in questo luogo sperso tra i roveti”. Su di noi, i raggi del sole ci accompagnano alla nascita e alla fine del percorso. Ci avvolge la solitudine del mare, i giorni dell’estate, il vagare dell’uomo, i suoi momenti di vita, ora allegri, ma più spesso tristi. Attimi come onde. Onde scosse dal vento che muovono la massa cupa e cangiante del mare, vita e compagno del poeta; ascolta i suoi tormenti e la paura dell’ignoto “che fuori esiste”. La nostra vita è un’anfora smisurata, colma di ricordi. In quelli di Nazario affiora una giacca, quella del padre. Era “di velluto/ con dietro il tascapane”. Poi, fu del fratello. Gli oggetti conservano un profumo “di persone, di stagione;/ so di storie passate, di vicende; annusa! C’è tuo padre in questa stoffa,/ tuo fratello”. Ricordi di caccia, di sapori, di lontane primavere. Ricordi di un fucile; ricordi che riportano al vissuto e parlano. Io posso dirlo di una musica. Non posso ascoltarla. Ricordi di un lontano periodo della mia vita tormentata dall’assenza di una voce, di un amore che mi era stato strappato. Ancora oggetti nel ricordo del poeta, come l’aratro. Residui: solo il vomere è rimasto, ma vivo il ricordo dei campi arati e “che profumi/ respiravo quando la mia lama/ solcava la terra a primavera!”. Parlar l’aratro, con la penna del poeta. “Ora sono qui che vivo di ricordi,/ e mi fa male questa solitudine/…Sono un aratro stanco, malandato,/ ma più delle ferite corporali/ mi dolgono i risvolti della vita/ questa fine fra aggeggi logorati,/ fra attrezzi arrugginiti dall’età”. Quando invecchiamo, gli amici scompaiono o per morte o per
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diversi interessi. Il telefono resta muto/ le sere lunghe e non udiamo il richiamo delle rondini quando si avvicina la primavera. Così, la solitudine dello stradone davanti al cimitero. Prima, “ci passavano carri ed asinelli;/ con ceste di raccolti;/ era un viavai”. I ricordi non appartengono solo a noi ma sono di ogni oggetto o creatura diversi dall’uomo. La solitudine è una immagine con una corposità dolorosa che abbuia un cielo azzurro. Ha spesso per compagno il silenzio e, il silenzio, è parola non detta ma vagheggiata e mai giunta al nostro orecchio. Solitudine è anche contemplazione della bellezza del creato che ci avvolge ma non riesce a scaldarci. La solitudine non ci fa gioire del tramonto e il nostro rientrare “al canto della civetta”. Luoghi, persone, e colori possono aiutarci nel cammino della vita. Non si diventa poeta perché sensibili alla bellezza o non soltanto: “il dolore di un figlio che ti lascia,/ l’inquietudine/ che provi nella vita,/ la gioia per un mondo ritrovato,/…lo smarrimento nei cieli senza fine/. Si/ tutto questo ed altro dentro i versi che ti accingi a creare”. Abbiamo un tempo che però finirà e non per tutti eguale. Lungo come “viale d’autunno in un tramonto/ che ruffiano ci avvolge in un abbraccio;/ e il tutto in un soffio ed un sospiro…”. Noi procediamo lentamente. Lontano il tempo delle corse, ci incamminiamo verso la luce. Luce: ricerca presente in noi, forse non pianificata ma insita in ogni uomo. C’è un altrove dove prima poi saremo. Aspro e lungo il cammino. “Mi infilavo tra i rovi e le sterpaglie: il mio corpo sanguinava/ da ogni parte: le mani, le ginocchia,/ il viso, e le speranze…/ Eccomi giunto,/ sono ormai vicino”. Se l’ignoto a cui agogniamo, si squarcia; il poeta si prostra dinanzi al cielo; le nubi svaniscono e si delinea la strada della luce. Il cammino è lungo. A ritroso, si trova quella stretta strada di campagna, la madre “con le vesti fresche e nuove/ da porgermi al ritorno della scuola/”. E l’amico del passato e il suo ritorno “sulla riva del fiume…”. Ricordi, ricordi dell’amicizia, del volto del padre, del fratello, della madre buona. È dal passato l’inizio del cammino per l’altrove e lì, cercare un varco. Acqua che scroscia; aria fresca; bere, bagnarsi e lì, il ricordo degli antichi dei e le parole di una ninfa “che si leva dal mare di Zacinto”. L’antica Grecia; i suoi miti nati da studi di un tempo lontano, rivivono in quella luca che solo l’irreale bellezza di un amore incondizionato fa intravedere. Ma, quella luca a cui aspiriamo, splende oltre la vita. La bellezza di un dopo che ancora non ci appartiene. E allora? Tornare indietro alle nostre memorie e, facendole rivivere, vivere ancora in esse. Tornare a casa; alle proprie radici e “tutte le radici di quelli che si dettero una storia”. Essere; udire i fremiti del mare; riandare al
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fiume della lontana giovinezza; a quella casa stretta che serrava d’amore le sue creature con le sue braccia di calce. Si! La luce della vita è mento intensa rispetto a quel lungo e luminoso imbuto verso il dopo, ma è “pur sempre la luce, quella chiara, quella di casa mia”. Non ci sono certezze, ma la forza creata dai ricordi ci fa ritornare alla realtà di un sogno lungo quanto la nostra vita. Firenze – 12 marzo 2019 Anna Vincitorio
D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE PRESENTATO, A ROMA, UN VOLO DI FARFALLE - A Roma, domenica 31 marzo 2019, alle ore 16:30, presso la Sala dell’Immacolata della Basilica SS. Apostoli, Elisabetta Di Iaconi ha presentato la sua ultima silloge, intitolata “Un volo di farfalle”. Presiedeva Rosa Simonelli Macchi (insegnante e scrittrice); sono intervenute con le loro relazioni: Anna Maria Bonomi (insegnante e scrittrice); Luciana Vasile (architetto e scrittrice). Letture di M. Raffaella De Bellis. Intermezzi musicali eseguiti dal Mezzo Soprano Elisabetta Basirico e dal pianista Massimiliano Franchina. Ai numerosi presenti, al termine dell’evento, è stato offerto un buffet. Riportiamo, qui di seguito, la Relazione di Luciana Vasile e il Commento critico di Ida Bugliosi Bronzini. Relazione di Luciana Vasile Sul retro-copertina di “Un volo di farfalle” di Elisabetta Di Iaconi leggiamo dalle sue parole: “Continuo da anni il mio cammino nella poesia, necessa-
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ria alla mia vita, come ricerca e come salvezza. Persisto nel tracciare una sorta di diario dell’anima che mi rasserena.” La poesia appena letta (La favola dell’inizio a pagina 58) è l’ultima della raccolta: l’inizio, quasi che Elisabetta volesse suggerire che il racconto del diario dell’anima sia circolare. Viene da chiedersi allora quale sia il tempo della poesia, da dove comincia? Quando il suo esprimersi, il suo comunicare? Dove il suo presente? Il passato, il presente, il futuro nella realtà sono ritmati dal tempo dell’orologio; dallo scandire di minuti, ore, giorni, anni, decretato dal battito inesorabile della pendola. Ma esiste un tempo interiore dove tutto si dilata e si concentra: passato e futuro galleggiano tatuati sulla liquidità dell’anima in un eterno presente. Da quello spazio dell’io, dove tutto è, il particolare diventa universale. Il poeta attinge da quell’arredo per la sua opera. Come, in realtà io credo succeda anche nelle altre arti: la pittura – dove il pennello è guidato dall’inconscio attraverso la mano – la scultura – dove la materia sembra essere destinata a prendere forma da se stessa. Quasi fosse un miracolo, un miraggio. Inconsapevolmente la forza del pensiero si fa idea. Riaffiorano, trasformati in immagini-parole, le emozioni, i sentimenti, i tormenti, i dubbi, gli stati d’animo, o i quadri naturalistici che si sono specchiati nell’anima e da lì hanno preso forma poetica. Il vero del “sé” che guarda vede intuisce avverte e conosce, senza tempo e ugualmente in tutto il suo trascorrere, è “lì e ora” nel suo offrirsi. Ciò sembra accadere alla nostra autrice in tutto il percorso della scrittura. Per questo leggendola ne restiamo ogni volta incantati. Lampi brevi e incisive le sue liriche. Hanno energia-capacità-coraggio di mostraci la nudità dell’essere, sia inteso come sostantivo: essere umano, che come verbo: ex-sistere = stare fuori, in
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mezzo alla nature e agli accadimenti. Attratti, nell’attesa seduti a gambe incrociate a contatto con la terra, ai suoi piedi, lo sguardo in alto a pendere dalle sue labbra: ascoltare, coinvolgerci, partecipare. SENTIRE. Attivare i cinque sensi, stimolati dai versi che ci fanno vedere, toccare, udire, odorare, gustare… la vita. Proprio seguendo questa mia tesi, sono andata a scegliermi le poesie che più ho pensato l’ avvalorassero. Mi sono accorta… ve le avrei lette tutte! Ma non vi invito a sedervi per terra. Eppure una scelta l’ho dovuta fare, (intanto perché dovete comprare il libro), e poi perché so che qui c’è una brava esperta lettrice. Ne reciterò solo quattro: (“Lo scavo segreto” pag. 54, “Ricompensa” pag. 45, “Storia dell’enigma” pag. 43, “Sentiero senza fine” pag. 57). Vi dicevo: SENTIRE. Attivare i cinque sensi, stimolati dai versi che ci fanno vedere, toccare, udire, odorare, gustare… la vita, con tutto ciò che ci regala a ci sottrae. Sì, perché Elisabetta Si Iaconi proprio questo riesce a fare, anche quando parla con il cuore spezzato dal dolore, quando elabora la perdita attraverso il ricordo. E non è un’accettazione passiva, anzi, è proprio dall’arrampicare la sofferenza che si capisce, si entra nel senso delle cose, sembra proporre. Mai affossarla sotto la coltre della cenere della paura di affrontarla, dove fermenterebbe con tutti i suoi fantasmi, ingigantendo a nostra insaputa. Da quella sofferenza dalla quale lei, istintivamente, è capace, tirandola fuori dal cappello del prestigiatore dei sentimenti, di far nascere la Speranza. Luce in fondo al tunnel e nella quale, seguendone il cammino, non ci perdiamo ma ritroviamo noi stessi e gli altri. Mancanza di complessità che ci rasserena, nella misura in cui, come ci ha esplicitato nella frase che ho letto all’inizio, la poesia come “diario dell’anima” ha rasserenato lei. Mai facile e ovvia: la VERITA’ E’ SEMPLICE. Luciana Vasile
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Commento critico di Ida Bugliosi Bronzini Un io narrante, sommesso e sommerso nelle cavità dell’anima, oggettivato nei versi che scorrono, uniti da un sottile, ma non interrotto fil rouge. È questo il filo conduttore che emerge dalla lettura dell’antologia poetica “Un volo di farfalle” di Elisabetta Di Iaconi Salati. In essa ci sono il passato, il presente, il vissuto, il futuro – connotato dall’incertezza propria della condizione umana – che accomuna tutti noi, compagni di viaggio “verso la meta incerta/ che attende tutte le creature in marcia” (dalla poesia “Cavalli stanchi” pag. 22 del volume) che debbono trovare “ogni giorno il coraggio/ di ricercare il senso di un cammino” (dalla poesia “Il senso di un cammino” pag. 11 del volume). Nei versi della poetessa affiorano dubbi, constatazioni, riflessioni, lampi di speranza che svelano un animo provato dalla vita, ma non vinto, ne deluso, coraggiosamente proteso in avanti, verso orizzonti inesplorati. Tralucono in filigrana sofferenze ancora vive, assenze incolmabili che hanno lacerato il suo cuore, lasciando cicatrici indelebili, il tutto, però, sublimato dalla elevata ispirazione poetica e dall’uso sapiente e impeccabile della metrica. La sonorità dei versi, il loro ritmo, la scelta semantica del linguaggio fanno sì che le parole usate si dispongano armoniose come le note u uno spartito musicale. Per l’autrice la fatica del vivere può essere alleviata dal sogno. Infatti, il sogno ci trasporta in una dimensione eterna, salvifica che accoglie i nostri pensieri smemori, dimensione che Elisabetta Di Iaconi poeticamente simboleggia con “la danza di una farfalla dai colori intensi” (dalla poesia “Un volo di farfalle” che apre la raccolta dall’omonimo titolo). Per Elisabetta, però, è soprattutto l’amore (inteso come condivisione, fratellanza, reciproco sostegno) a dare un senso alla nostra esistenza, ad illuminare questa via impervia che è la vita, ove la gioia è un lampo fugace, il percorso accidentato e insicuro, la meta oscura ed inquietante. La consolazione, però, esiste e tutti noi possiamo trovare conforto unicamente nella vicinanza, nell’abbraccio fraterno, nella mano protesa. Questo è il messaggio dell’autrice magistralmente espresso nei versi seguenti di rara forza poetica: “solo il contatto umano/ tiene distante il tarlo dell’attesa” (dalla poesia “Il tarlo” pag. 46 del volume). Ida Bugliosi Bronzini *** FRANCO SACCÀ ALLA BIBLIOTECA CO-
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MUNALE DI REGGIO CALABRIA - Venerdì 29 marzo 2019, presso la Biblioteca Comunale “P. De Nava” di Reggio Calabria, alle ore 16,45 il Centro Internazionale Scrittori della Calabria (Presidente Loreley Rosita Borruto), nell’ambito del Ciclo: Miti e suggestioni nelle voci del Sud… del mondo, sez. “Antonio Piromalli”, ha presentato di Franco Saccà (1911 - 1974) - Poeta, Scrittore, Giornalista , “La strada dell’illusione”, Poemetto lirico - 1933 (Tip. F. Morello) e “Angiolo Silvio Novaro - Poeta del cuore” (Editori Gianrusso e Pompeo). Relatrice, Professoressa Maria Florinda Minniti (Docente di Italiano e Latino, Liceo Scientifico “L. Da Vinci” di Reggio Calabria e componente Comitato Scientifico CIS; Lettura a cura della Dottoressa Cecilia Saccà. Ma ecco una relazione più dettagliata dell’incontro, redatta proprio da Cecilia Saccà, pronipote del poeta e scrittore: Nella giornata del 29 marzo 2019 ha avuto luogo un incontro, promosso dall’Associazione CIS (Centro Internazionale Scrittori) della Calabria, nell’ambito del Ciclo – “Miti e Suggestioni nelle voci del Sud … del mondo” sez. “Antonio Piromalli” L’incontro è stato totalmente incentrato sulla figura del poeta, scrittore e giornalista Franco Saccà, figlio illustre della terra di Calabria, quasi dimenticato a
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più di quarant’anni dalla sua morte. Fine letterato, uomo di grande cultura e sensibilità è stato autore prolifico di saggi, critiche e articoli nonché promotore di salotti letterari ai quali hanno preso parte molte personalità culturali dell’epoca. La presentazione dell’ incontro è stata curata dal Presidente del CIS della Calabria, la dott.ssa Loreley Rosita Borruto, che ha introdotto l’autore con brevi note biografiche e bibliografiche. Successivamente si è proceduto alla lettura di alcuni brani del poeta , tratti dall’opera “La strada dell'illusione” poemetto lirico edito da Morello, Reggio Calabria 1933, e ad un’accurata disamina degli stessi con commenti, analisi stilistiche e contestualizzazione dell’opera dello scrittore. La lettura degli stessi è stata affidata a Cecilia Saccà, pronipote dello scrittore. Il commento è stato condotto dalla prof.ssa Maria Florinda Minniti la quale magistralmente ha ben delineato, dalla semplice analisi e lettura dei versi del poeta, l’animo e il pensiero che hanno caratterizzato la figura di Franco Saccà. La professoressa ha effettuato un parallelismo con
Pag. 62 poeti e scrittori a lui contemporanei che si ponevano all’attenzione del grande pubblico quali Quasimodo, Saba e Montale indicando come lo stesso si dissociava da loro privilegiando uno stile espressivo più riconducibile a poeti quali Carducci e Leopardi le cui eco sono rinvenibili qua e là nella sua poesia. Ha sottolineato, infatti, lo stile aulico di Saccà e la sua accurata ricerca delle parole. Successivamente è stata posta in rilievo, anche, la sua attività di saggista con la lettura di alcuni passaggi e il commento del suo saggio “Angiolo Silvio Novaro – Poeta del cuore” edito da Giammusso e Pompeo, Reggio Calabria 1938, nel quale si è ben apprezzata la sua capacità
di critico letterario. E’ stata infine posta in evidenza la modernità del suo pensiero per la sua attenzione alla natura e all’ambiente che ritrae nelle sue raccolte con grande rispetto e gentilezza d’animo, quasi una sorta di tenerezza, che lo porta a fondersi nella natura da cui trae ispirazione e nella cui pace si ritira per ritrovare sé stesso, lontano dal rumore cittadino. Sono seguite alcune testimonianze in sala da parte dei presenti, fortemente interessati all’opera dello scrittore, che sono intervenuti con entusiasmo e stupore nel non conoscere appieno un letterato di così grande portata. E’ stato sottolineato, infatti, come egli occupa un posto di tutto rilievo non solo nel panorama culturale calabrese ma anche in quello nazionale seppur non inscritto. La dott.ssa Loreley Rosita Borruto ha concluso l’incontro con la lettura della bellissima poesia “Partire”, dedicata al pittore Nunzio Bava, e anticipando al pubblico presente che seguiranno altri incontri dedicati agli altri copiosi scritti di Franco Saccà. Le foto sono di Dafne Cloe.
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*** POMEZIA, OMAGGIO A SERGIO LEONE Pomezia, dal 27 al 30 aprile 2019, ha omaggiato Sergio Leone, il regista dei tanti film western, dei quali si ricordano non solo scene memorabili, ma la musica delle colonne sonore. Sergio Leone era nato a Roma il 3 gennaio 1929 e a Roma è deceduto il 30 aprile del 1989. La sua tomba si trova, però, nel piccolo cimitero di Pratica di Mare, borgo medievale nel quale egli ha girato alcune scene di “C’era una volta il West” e di “C’era una volta in America”. I festeggiamenti si sono svolti in diversi punti della città; in un Centro commerciale sulla via del Mare, per esempio, è stato proiettato “Per un pugno di dollari” e, nell’Aula Consiliare del palazzo di piazza Indipendenza, “Il buono, il brutto e il cattivo”. Eseguite pure musiche dei suoi film e nella zona Colli di Enea gli è stata dedicata una piazza. Visitare la sua tomba però, non è facile, perché, da anni, Pratica di Mare è sbarrata al pubblico e l’Amministrazione comunale farebbe opera meritoria ad attivarsi perché del Borgo la popolazione potesse fruire come nel passato. Insieme al regista, la città ha festeggiato l’81mo anno di fondazione (in concorso con l’Associazione
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Coloni Fondatori, di cui è Presidente Emilia Bisesti), nonché la Liberazione dell’intero territorio italiano dai tedeschi. *** GIANCARLO MARINELLI farà innamorare l'Imperatore Adriano! - È la sera del 13 aprile e le gradinate del teatro Olimpico si stanno lentamente riempiendo: scrittore, giornalista di vaglia, cultore delle voci del teatro d'ogni tempo, vicentino di nascita ed italiano d'elezione, poi il mondo si accorgerà di lui, Giancarlo Marinelli ha accettato l'incarico di Direttore Artistico del 72° Ciclo degli Spettacoli al Teatro Olimpico di Vicenza, che gli è stato affidato dal sindaco Francesco Rucco: ha scelto allora il mitico palcoscenico palladiano con scene fisse e strade della città di Tebe, che vi si aprono al centro ed ai lati, per innalzare un canto memorabile: Muoiono gli Dei che non sono cari ai giovani, rovesciando con originale, singolare efficacia il noto verso di Menandro 'Muoiono i giovani che sono cari agli dei', quasi a giustificare il sacrificio delle giovani vite nell'offerta di sé, a nutrire con il loro sangue gli impassibili dei dell'Olimpo. Non una conferenza stampa ma un incontro con il pubblico, a prepararlo sui temi di questo nuovo Ciclo, per il biennio 2019-2020, in programma dal 19 settembre al 27 ottobre 2019. Memorie sceniche attraversate da forme e luci, in movimento, parole greche che riverberano sulle superficie delle nicchie degli antichi vicentini, con canti corali femminili in lingua originale e giochi d'acqua, nella linea verticale dell'orizzonte, quando il piano liquido è intaccato in un punto e si formano cerchi, via via sempre più dilatati nelle sfumature dell'azzurro, del grigio e dell'oro: un impegno artistico multidimensionale che il Marinelli, con grande intendimento ha affidato alla maestria di Francesco Lopergolo. Questa intensa anteprima ha sintetizzato il percorso degli eventi: protagonisti e voci ad interpretare testi senza tempo, che sempre e comunque lasciano il segno nella segreta intimità della memoria. Verrà Paolo Micol e sarà l'Imperatore Adriano, offrendo Frammenti di quelle Memorie che Marguerite Jourcenar ha attraversato con forza e piena autonomia storica: egli percorrerà all'indietro la traccia che Maurizio Scaparro ha lungamente 'scavato' con Giorgio Albertazzi e sarà l'anima di questo evento speciale in esclusiva mondiale; verrà Ivana Monti, per dar volto e voce alla mamma di Osama Bin Laden, in un lavoro, 'Eleven', previsto per il 2020; verrà Elisabetta Pozzi per un'Ecuba filtrata attraverso lo sguardo duro e rivoluzionario dell'irlandese Marina Carr; verrà Romina Mondello e sarà Medea, femminilità divina e carnalità vendicativa senza pari, a trucidare i frutti del suo stesso ventre, violato da un
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amante che lei sola amava; verranno i giovani di Tema Cultura, a dar testimonianza di passione forte nelle voci corali e recitanti e nelle gestualità coreutiche legate al mito di Orfeo ed Euridice, da un passato che farà ancora vivere quegli dèi finché saranno cari ai giovani; verrà Enrico Lo Verso in prima nazionale ad interpretare l'Apologia di Socrate, perché Ares insaziabile dio della guerra che fa del sangue il suo primo nutrimento, si insinua anche all'interno dell'aria e delle case, delle leggi della polis e delle parole che, in dialogo, i cittadini pronunciano; verrà Vittorio Sgarbi a dar forma ad una Lectio Olimpica Palladio e l'ordine del mondo. In rete ulteriori importanti dettagli di questo percorso che io vivo come un elogio della paura, quando si sbriciola lentamente e fa prender forma al corag-
gio di essere se stessi, sempre, di fronte agli uomini, di fronte agli dei, di fronte al Potere: Marinelli intercetta quella sofferta scelta che ogni parola artistica, pronunciata o scritta che sia, rappresenta rispetto alle infinite altre possibili individuazioni che avrebbero potuto provocare emozioni ed ora lasciate nell'ombra, per sempre e mette in campo il coraggio di vivere quella scelta come percorso di crescita. L'Imperatore Adriano, affascinato dalla vivacità intellettuale e creativa del giovane Marinelli, si accoccolerà ai suoi piedi e resterà in ascolto, quasi a respirare ancora la vita del bellissimo Antinoo, in quel silenzio che è solo dell'anima. Ilia Pedrina
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LIBRI RICEVUTI AA. VV. - Antonia Izzi Rufo nella critica - Volume III - Prefazione di Giuseppe Manitta - In quarta di copertina, a colori, foto dell’Autrice premiata a S. Pietro Infine da Aldo Cervo - Il Convivio Editore, 2019 - Pagg. 240, € 18,00. Si trovano le firme (alcune più e più volte) di: Cesare Lorefice, Nicola Rampin, Massimo Scrignoli, Mario D’Andrea, Giulio Grieco, Vincenzo Rossi, Miranda Ioannidou Vosnaki, Andrea Pugiotto, Aldo Cervo, Sabato Laudato, Giuseppe Anziano, Lino Di Stefano, Sandro Angelucci, Pietro Seddio, Enrico Marco Cipollini, Maria Antonietta Mòsele, Cristiano Mazzanti, Elio Picardi, Luciano Nanni, Rosa Maria Crisafi, Cristina Contilli, Giuliana Matthieu, Stefania Diamanti, Andriana De Vincolis, Lucia Paternò, Anna Manzi, Alfonsina Campisano, Gerardo Vacana, Massimiliano Misiano, Brandisio Andolfi, Luigi De Rosa, Antonio De Angelis, Maria Antonietta Cruciata, Corrado Gizzi, Angelo Manitta, Giorgia Scaffidi, Carmine Manzi, Rolando Giancola, Alfio Grasso, Gabriella Frenna, Ida Degl’Innocenti, Maristella Dilettoso, Leonardo Selvaggi, Salvatore D’Ambrosio, Adriana Mondo, Fulvio Castellani, Aurora De Luca, Silvana Andrenacci Maldini, Roberta Colazingari, Mariano Coreno, Giovanna Li Volti Guzzardi, Laura Pierdicchi, Ida Di Ianni, Giorgio Bàrberi Squarotti, Nazario Pardini, Daniela Pesce, Nello Cristaudo, Alessandro Testa, Fernanda Besagno, Domenico Defelice, Lorella Borgiani, Elisabetta Di Iaconi, Innocenza Scerrotta Samà, Vincenzo Di Sabato, Paolangela Draghetti, Anna Vincitorio, Vittorio Verduci, Enza Conti, Marco Delpino, Vincenzo Vallone, Claudia Trimarchi, Giuseppe Napolitano, Tito Cauchi eccetera. ** AA. VV. - Michele e Gabriella Frenna. Tasselli d’arte e sospiri di vita. Incontro con un maestro d’arte e una poetessa - Premio Letterario Michele Frenna 2a Edizione anno 2018 - Presentazione di Luigi Ruggeri; in prima di copertina, a colori, un mosaico di Michele Frenna; all’interno, sempre a colori, altre opere e foto (almeno una settantina) MA.Gi Editore, 2018 - Pagg. 130, € 12,00. Oltre a poesia di Gabriella Frenna, troviamo note critiche e firme di: Raffaello Bertoli, P. Di Martino, M. Romano Losi, Carmine Manzi, Giuseppe Pietroni, Antonia Izzi Rufo, Enza Conti, Laura Pierdicchi, Orazio Tanelli, Tito Cauchi, Carolina Citrigno, Maria Antonietta Mòsele, Leonardo Selvaggi, Lucia Battaglia, Jolanda Serra, Luogo Bartolini, Luciano Nanni, Enrico Marco Cipollini, Pantaleo Mastrodo-
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nato, Vincenzo Rossi, Giuseppe Manitta, Pietro Seddio, Giuseppe Anziano, Adalgisa Biondi, Maria Teresa Epifani Furno, Anna Aita, Pino Lombardi, Emilio Diedo, Domenico Frenna, Elena La Rosa D’Azzurro, Rosalba Masone Beltrame, Gaetano Citrigno, Caterina Vall, Antonio Angelone, Anna Manzi, Francesco S. Talone, Brandisio Andolfi, T. Citrigno, S. Perdicaro eccetera. ** ANNA VINCITORIO - David Gascoyne - Estratto dalla rivista Vernice, dalla pagina 273 alla 300. Si tratta di undici foto in bianco e nero; la nota critica, al termine della quale la Vincitorio ringrazia l’ “amica anglista Clara Tomaselli per il prezioso aiuto nella stesura di questo lavoro” e una ventina di poesie in inglese e nella versione italiana. Anna VINCITORIO è nata a Napoli, ma è vissuta quasi sempre a Firenze. Studi classici, laurea in Giurisprudenza. Ha insegnato materie giuridiche. Dal 1974 si occupa di poesia, critica, letteratura, collaborando a prestigiose riviste letterarie. Tra i suoi volumi di poesia: “Nebbie e chiarori” (1982); “Trama verde sull’aria” (1986); “Il canto fermo della fine” (1988); “L’esilio delle tartarughe” (1991); “I girasoli” (1992); “Alchimie” (1993); “Dissolvenze/flots” (1995); “L’agguato sommerso” (1997); “Le nozze di Cana” (1999); “L’ultima isola” (2000); “Filastrocche per l’angelo” (2001, versione francese 2010); “La notte del pane” (2004); “Sognando Estoril” (2007, versione spagnola 2009); “Il richiamo dell’acqua” (2009); “Sussurri” (2013). Prosa: i racconti “San Saba”, dall’inedito “Il limo di Eva” (1990); “L’Adelina” (1994); “Lettera ad un amico” (1996); “Ermanno” (1996) e poi “Il limo di Eva” (2010); “Per vivere ancora” (2012); “Il dopo Estoril” (2014), “Bambini” (2016). Numerosi saggi critici e traduzioni.
LETTERE IN DIREZIONE (Béatrice Gaudy, Parigi) Parigi, tempo grigio Buongiorno caro Domenico, Grazie tante per il numero di marzo di “Pomezia-Notizie” nel quale ho la grande gioia di vedere pubblicati i miei piccoli poemi di attualità. Ci sono sempre numerosissimi poemi che
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mi seducono nella Sua rivista. Mi piacciono anche molto i testi, quali il racconto “Puglia tra realtà e ricordo” di Anna Vincitorio, “Zarè, Gesù e Che Guevara” di Rossano Onano, o il Suo racconto “Boss senza volerlo”, che permettono di afferrare delle parti della realtà della vita nelle varie regioni d’Italia, oggi o una volta. Il suo poema “Basterà pronunciare una parola” mi ha fatto vedere l’assistente vocale Alexia in un modo molto diverso di quello che pensavo prima. Sì, ottenere un servizio solo parlando sarà probabilmente un po’ magico, quasi divino. Soprattutto per i tetraplegici. Per le altre persone, prevale in me la mia prima idea, meno poetica, di un sogno di imborghesimento proseguito o sfruttato dagli inventori degli assistenti vocali. Le idee espresse da Salvatore D’Ambrosio sulla percezione delle donne nel suo articolo “Francesca Rigotti - De Senectute” mi paiono parlare soltanto di una categoria di uomini. Ma numerosi Italiani scontenti della politica francese trovano comodo di deridere Macron parlando dell’età di sua moglie. La cosa è stupida giacché non è la moglie di Macron ad essere Presidente della Repubblica, e la sua età non ha niente a che fare colla politica francese. Ma rari sono gli uomini ad avere la moglie più vecchia di loro. Siccome la moglie di Macron non pare la propria età ed ha una sagoma che molte giovani donne vorrebbero avere, è davvero solo la sua età ad essere derisa. Per gli uomini che si burlano così, un uomo deve obbligatoriamente avere una moglie della propria età o più giovane. Perfino una bella donna non può essere la loro moglie se è più anziana. Questi uomini hanno davvero un problema intellettuale, sono stupidi, mentalmente sono molto vecchi, a parer mio. L’apertura di “Pomezia-Notizie” sull’ estero è molto interessante. Giuseppe Mallai pare un ottimo pittore, forse un po’ surrealista. Seducenti sono i mosaici di Michele Frenna. Mi pare che Lei abbia del tutto capito la ragione dell’inquietudine generata dal tratta-
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to di Aquisgrana: numerosi Francesi si ricordano la storia. Inoltre, Lei ha ragione: firmare patti a due all’interno dell’Unione Europea sembra un poco illogico. Suppongo che Macron abbia i propri obiettivi, ma indovinarli è difficile. Il Suo modo di analizzare la politica africana della Francia è probabilmente molto diffusa in Italia. In Francia, mi pare che sia un poco diverso. Per numerosi Francesi, la politica coloniale è finita coll’indipendenza dei paesi africani. Ma i Maghrebini che vivono in Francia non sono dello stesso parere. Alcune bellissime giornate in febbraio hanno svegliato gli alberi benché il freddo sia tornato. Ora, alcuni sono fioriti. Le temperature non sono ancora quelle benefiche per le articolazioni, ma lo spettacolo di questi alberi è un piacere visuale. Suppongo che sia lo stesso a Pomezia. O piuttosto, molto probabilmente, la primavera vi è già del tutto arrivata. In Francia, la differenza climatica tra la parte del paese che si trova al nord della Loira e quella che si trova a sud del fiume è sempre molto visibile in quest’ epoca dell’anno: il nord pare ancora rimasto nell’inverno mentre nel sud la vegetazione è già del tutto primaverile. Le auguro di approfittare della magnifica esplosione di colori e profumi dei fiori e di godere un bel tempo che soleggi le ossa e il morale. Con calorosi saluti. Béatrice Gaudy Cara Béatrice, la periodica scelta del materiale, da ospitare sui vari numeri, non è per niente agevole, perché, quello che perviene e in grande quantità, è interessante e meriterebbe di venire tutto pubblicato; stando agli apprezzamenti dei lettori, comunque, sembra, di volta in volta una scelta ottima. Il mio breve racconto “Boss senza volerlo” fa parte di una raccolta dal titolo “Non circola l’aria”, che avrei intenzione di editare nel corso dell’anno; allora, a Dio piacendo,
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non mancherò di farle avere copia, affinché lei se li possa godere tutti insieme. Comunque, anche in questo numero, ne troverà un altro: “In viaggio con Google”, nel quale ricordi e tecnologia si sposano. La tecnologia, a partire dalla metà del secolo scorso, ha fatto veramente passi lunghissimi, specialmente nel settore dell’ informatica in generale e della comunicazione. La parola elettronica avrà, in futuro, un ruolo sempre più importante in ogni settore; attraverso la semplice parola si effettueranno molti servizi, sarà alla base di molte applicazioni; basterà pronunciare una parola per realizzare quel che vogliamo. Senza voler essere blasfemi, gli uomini si vedranno quasi il Dio della Genesi, senonché Questi operava veramente in grande, perché creava
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con una parola i mondi, la luce, separava le terre dall’acque, mentre noi comanderemo semplicemente un solftware! Si arriverà, poi, a soppiantare anche la parola, allorché basterà il solo pensiero per comandare ogni esecuzione. E come vivrà l’uomo? Ecco un campo vastissimo ancora tutto da vangare a fondo, sotto l’aspetto filosofico, psicologico, morale, materiale. Un mondo affascinante. Su coloro che giudicano Macron dall’età della moglie, non val la pena infierire ulteriormente; son perfettamente d’accordo con Lei: “non è la moglie di Macron ad essere
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Presidente della Repubblica” francese e, quindi, “hanno davvero un problema intellettuale, sono stupidi, mentalmente sono molto vecchi”. Sì, Giuseppe Mallai è pittore “un po’ surrealista”, ma magico ed atipico e il suo tema distintivo è proprio l’incomunicabilità in un tempo nel quale, come già accennato, la comunicazione, almeno elettronica, sarebbe l’eccellenza del momento. Le sue opere son quasi sempre affollatissime di corpi belli e palestrati, specie femminili, ma ogni singolo individuo vive a se stante, è chiuso in un suo mondo, alienato, non comunica, perché neppure si accorge di chi gli sta accanto. Michele Frenna è mosaicista poeticissimo, direi dalla semplicità francescana, affabulatore di messaggi, ricco di espressività, geniale nell’accostamento dei colori. Peccato, Carissima, che entrambi sian morti. Firmare dei patti a due, quando si è in comunità, non è soltanto “illogico”, ma disonesto, lampante dimostrazione di non credere minimamente nell’Unione e di starci unicamente per sfruttarne i vantaggi, per realizzare solo i propri interessi, non quelli comuni. Una vera e propria indegnità per popoli che di dicono democratici, che aspirino alla fratellanza universale e vogliano essere additati a paladini dei diritti universali dell’ uomo. La Francia non ha mai smesso di colonizzare l’Africa; esercita ancora un’ influenza economica e politica su diversi paesi di quel continente, in alcuni di essi mantiene contingenti militari. Quanto prima, dovrà fare i conti con la potenza mondiale cinese; la Cina, infatti, con la sua economia e con i suoi capitali, si sta muovendo costante e subdola tra le povere nazioni africane e arriverà a soppiantare, con le buone o le cattive, l’influenza francese. La Francia, cioè, sottoscrivendo patti a due nell’Unione Europea, disinteressandosi e quasi irridendosi degli interessi generali di tutti i componenti l’ Unione, sta commettendo due errori capitali: non credendo a una vera Unione Europea, sta operando, forse inconsciamente, a distruggerla, a disgregar-
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la (ogni paese si vedrà costretto ad operare per sé) e non si rende conto che, fuori dell’Europa, i suoi interessi saranno deboli davanti a quelli della Cina e dovrà soccombere (ubi maior minor cessat). Il futuro della Francia, della Germania, dell’ Italia e degli altri paesi del nostro continente sta nella difesa dei diritti comuni, non nei giochetti egoistici dei trattatelli di Aquisgrana, attraverso i quali - la Francia se ne accorgerà, ma troppo tardi - sarà solo la Germania ad avvantaggiarsi. Cari saluti. D. Defelice A pag. 66, Giuseppe Mallai e una sua opera; a pag. 67, Michele Frenna e una sua opera.
MAGGIOLATA Maggio risveglia i nidi, maggio risveglia i cuori; porta le ortiche e i fiori, i serpi e l'usignol. Schiamazzano i fanciulli in terra, e in ciel gli augelli; le donne han nei capelli rose, ne gli occhi il sol. Tra colli, prati e monti, di fior tutto è una trama: canta, germoglia ed ama l'acqua, la terra, il ciel. Giosuè Carducci
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