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50ISSN 2611-0954

mensile (fondato nel 1973) Direzione e amministrazione: Via Fratelli Bandiera, 6 - Tel. 06/91.12.113 - 00071 POMEZIA (Roma) - Fondatore e Direttore responsabile: DOMENICO DEFELICE – e-Mail: defelice.d@tiscali.it – Parziale distribuzione gratuita (solo il loco) – Attività editoriale non commerciale (art. 4, D.P.R. 26.10.1972 n. 633 e succ.ve modifiche) - Per abbonamenti: annuo, € 50; sostenitore € 80; benemerito € 120; una copia € 5.00) e per contributi volontari (per avvenuta pubblicazione), versamenti sul c/c p. 43585009 intestato al Direttore - Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 213/93 del 23/5/1993 - La collaborazione, sempre gratuita, in parte è libera, in parte è per invito. Ogni autore si assume la responsabilità dei propri scritti - Manoscritti, fotografie e altro materiale, anche se non pubblicati, non vengono restituiti - É ammessa la riproduzione, purché se ne indichi la fonte. Per ogni controversia, foro competente è quello di Roma.

Anno 27 (Nuova Serie) – n. 7

€ 5,00

- Luglio 2019 -

MEDITAZIONE ALPESTRE di Emerico Giachery IRCA vent’anni or sono, poco dopo l’alba, in un bell’altopiano altoatesino, osservavo all’orizzonte la luna sul villaggio tutto immerso nella quiete e nel silenzio, e pensavo al dono di soggiornare in quell’oasi propizia alla contemplazione e al pensiero, non senza un’ombra di rimorso per aver troppo poco scritto e letto e pensato. I giorni erano volati, giorni resi alati dalle ormai familiari apparizioni di monti e paesi in luci sempre diverse, e dalle avvolgenti musiche, trasmesse per radio da Bayreut, della Tetralogia wagneriana intensamente diretta da Sinopoli.

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All’interno: Luigi De Rosa, Viaggio esistenziale, di Domenico Defelice, pag. 4 Il Big Bang di Angelo Manitta, di Carmine Chiodo, pag. 7 Enrico Anselmi eccelso musicista, di Ilia Pedrina, pag. 10 Voci, di Giannicola Ceccarossi, di Marina Caracciolo, pag. 13 ‘Ciuccia la buccia’, di Ilia Pedrina, pag. 17 Una bella monografia di D’Episcopo, di Luigi De Rosa, pag. 19 Caterina Adriana Cordiano e I giorni del mare, di Carmine Chiodo, pag. 20 Debito pubblico, di Giuseppe Giorgioli, pag. 25 Rachele Zaza Padula: Per amare Orazio, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 27 Il filo della speranza, di Leonardo Selvaggi, pag. 31 Mi creda: lei ha bisogno del monociuffo, di Ilia Pedrina, pag. 36 I Poeti e la Natura (Emily Dickinson), di Luigi De Rosa, pag. 38 Notizie, pag. 54 Libri ricevuti, pag. 57 Tra le riviste, pag. 59

RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (Oltre i respiri del tempo, di Marina Caracciolo, pag. 40); Elio Andriuoli (Le parole a comprendere, di Domenico Defelice, pag. 41); Tito Cauchi (Giuseppe Piombanti Ammannati e “Pomezia”, di Domenico Defelice, pag. 42); Tito Cauchi (Sguardo d’amore, di Gabriella Frenna, pag. 43); Tito Cauchi (Antonia Izzi Rufo nella critica, di AA. VV., pag. 44); Carmine Chiodo (Quartiere Italia, di Achille Massimo Chiappetti, pag. 45); Roberta Colazingari (Camminerò, di Elisabetta Di Iaconi, pag. 46); Domenico Defelice (Un volo di farfalle, di Elisabetta Di Iaconi, pag. 46); Domenico Defelice (Aforismi, di Antonio Crecchia, pag. 47); Salvatore D’Ambrosio (La poesia di Imperia Tognacci, di Francesco D’Episcopo, pag. 47); Elisabetta Di Iaconi (La poesia di Imperia Tognacci, di Francesco D’Episcopo, pag. 48); Giovanna Li Volti Guzzardi (Le parole a comprendere, di Domenico Defelice, pag. 49); Manuela Mazzola (Un volo di farfalle, di Elisabetta Di Iaconi, pag. 50); Manuela Mazzola (Tasselli d’arte e sospiri di vita. Incontro con un maestro di vita e una poetessa, di AA. VV., pag. 50); Maria Antonietta Mòsele (Le parole a comprendere, di Domenico Defelice, pag. 51); Ilia Pedrina (In auto con Berlinguer, di Alberto Menichelli, pag. 51); Ilia Pedrina (Un anno di dominazione fascista, di Giacomo Matteotti, pag. 52); Laura Pierdicchi (Domenico Defelice operatore culturale mite e feroce, di Tito Cauchi, pag. 53). Lettere in Direzione (Gaudy, Giachery, Pedrina), pag. 60

Inoltre, poesie di: Elio Andrioli, Mariagina Bonciani, Rocco Cambareri, Paul Courget, Luigi De Rosa, Salvatore D’Ambrosio, Elisabetta Di Iaconi, Béatrice Gaudy, Giacomo Leopardi, Manuela Mazzola, Teresinka Pereira, Gianni Rescigno, Leonardo Selvaggi

Era quasi d’obbligo, in un momento simile, per chi come me ama assaporare momenti di vita anche attraverso la memoria letteraria, ricordare il leopardiano Tramonto

della luna, tanto amato, con ragione, da Ungaretti, e invece da altri studiosi, condizionati da astratti “teoremi” critici, a torto considerato una sorta di regressivo ritorno alla


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stagione degli Idilli. Chiaro ricordo del mio quasi quarantennale insegnamento è quello di un giorno di tarda primavera. Si avvicinava ormai la conclusione del mio ultimo corso monografico su Leopardi. Dopo l’impegnativo contatto con la Ginestra per il quale mi ero presentato in aula con un bel ramo di ginestra fiorita colto nel giardino, ebbi la gioia di leggere con gli studenti Il tramonto della luna, dando il massimo rilievo, come sempre mi sforzo di fare, all’incarnazione o, se si preferisce, epifania fonica, ritmica e tonale del testo. A un’appropriata lettura del testo non c’erano, in questo caso, molti commenti da aggiungere: forse non c’era altro da fare che “indicare” come suggerisce Walter Benjamin. Tutt’al più invitare a riflettere sul senso del coesistere, intimamente dialettico, dei due tanto diversi momenti conclusivi e coevi: quello della pugnace, “eroica” Ginestra e quello dell’elegiaco Tramonto della luna. Una giovane collega francese, che mi onorò quella volta della sua presenza al corso, osservò che non si era trattato, nel senso usuale e accademico, di una “lezione” vera e propria. Non lo era, infatti, e non voleva esserlo. Quando leggo in qualche annuncio “si impartiscono lezioni”, mi chiedo se ho mai “impartito” checchessia nella mia lunga vita! Non credo che l’osservazione della collega straniera intendesse svalutare l’ esperienza comunicativa di quell’ora leopardiana appena trascorsa. Segnalava, semmai, di avere avvertito quell’incontro col testo come un accadimento non istituzionale, non di routine. Era, infatti, una sorta di “meditazione” intorno a un testo, con quanto di largo, di aperto, di disponibile, l’atto della meditazione, pur nel massimo possibile “raccoglimento” in senso forte, tradizionalmente comporta. Cercavo di lasciare, dopo la conclusione di eventuali preludi mirati in vista di sollecitazioni maieutiche, che il testo emergesse e si manifestasse in pienezza, e, per così dire, respirasse, creandogli attorno, per così dire, spazio e ossigeno. Lasciar essere, sein lassen, dunque, secondo il fermo

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invito di Heidegger, non concernente in modo specifico l’interpretazione di testi, ma utilmente adattabile ad essa, tanto più che il grande pensatore tedesco era anche uno straordinario interprete di testi poetici. Comunicazione tendente all’autentico, alla “prossimità all’Essere”, direbbe splendidamente, ancora una volta, Heidegger, che in quei giorni alpestri con fatica e incanto avevo ritentato di leggere. Dopo la parentesi letteraria e interpretativa, tornavo, sempre tenendo desto nel foro interiore il sottofondo musicale del testamentario canto leopardiano, al momento iniziale di contemplazione notturna della luna sull’ orizzonte, con la sensazione di un contatto quasi rituale, quasi religioso, con la natura e con i suoi segni eterni: sensazione di una durata metafisica fuori della storia. Rivedendomi davanti quella archetipica e quasi sacra luna sospesa nel silenzio e prossima al tramonto, ho pensato, anche più intensamente di quanto non avessi fatto in quei giorni ultimi del caro soggiorno montano, al rammarico di partire, di interrompere quel tempo di vita apparentemente sospeso, estraneo alla fallace banalità. Emerico Giachery

OMBRE L'ampio arco del golfo che la roccia a strapiombo delimita e la rena ove il mare ritorna senza posa. E' un'altra estate, un'altra luce in cielo accende nubi perse in sogni arcani. Passato più non c'è, non c'è domani e la vita s'arrende silenziosa all'ora che la domina e la tiene. Ferma è nel cerchio di un suo vago bene, mentre voci ti cercano e parole d'ombre vane che vanno sotto il sole, perdute dentro il volo dei millenni. A notte gli astri inseguono le ardenti loro rotte Elio Andriuoli Napoli


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LUIGI DE ROSA VIAGGIO ESISTENZIALE di Domenico Defelice

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L viaggio poetico di Luigi De Rosa non è soltanto esistenziale, giacché, prima di diventar tale, s’è svolto materialmente ed è successivamente che gli ambienti visitati si sono interiorizzati, sedimentandosi come luoghi dell’anima. C’è stato, nella sua vita, un “tempo in cui - confessa - cambiavo/quasi ogni notte l’albergo e la città/per incontrare sempre nuove persone”; “…ho dormito, per viaggi di lavoro,/in tante stanze d’albergo, per la Penisola”; una vita da pendolare, insomma, passata sui mezzi di trasporto, “Sopra un treno qualunque/in una sera qualunque/in una stazione qualunque”. Regioni, tra le quali il Veneto, la Sardegna (“cruda e misteriosa/giovane donna in costume antico”), il Piemonte, la Liguria e tante altre, prima l’ hanno coinvolto per l’esercizio della professione e per altro e poi son divenute il proprio vissuto interiore. Così, città come Venezia,

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Torino, Genova (la cui piazza della Vittoria “si spalanca da Stazione Brignole/fino all’ amplissimo Lungomare”), non sono solo sognate, ma vissute, le loro strade calpestate, i loro abitanti sofferti e amati; allontanatosi, poi, ecco che subentra il sogno - che sfronda il quotidiano dalle inevitabili scorie di agglomerati “splendenti e maleolenti” - e rimangono solo le immagini cristalline, i puri flash, i bagliori. Come quei riti di una gioventù ancora sostanzialmente sana, che si sballava non di droghe e sesso crudo, ma di sensazioni e innocenti vanterie, per far colpo sulla compagna o il compagno: “Accendevamo fuochi in riva al mare./Cenere resta delle nostre bugie”. A volte, questi territori - città, luoghi ampi o ristretti, spiagge - son visti da un mezzo di trasporto veloce (la macchina, il treno) e allora sono semplici immagini lampeggianti: “Scivola resinosa la Maremma/sotto le ruote di un treno/in corsa da Roma a Torino”; quella sua vettura, che “corre briosa sopra il rettilineo”, ci riporta al 1970 e al nostro viaggio di nozze. Il tratto di strada è lo stesso, ma l’atmosfera un po’ diversa, non però opposta. Noi gonfi di gioia e di speranze, con al fianco l’amore, proiettati nel futuro; il poeta anche lui con le speranze, ma anche con le paure e con i “sogni ostinati come l’erba/che ricresce sui cigli ad ogni sfalcio”. Lui, insomma, molto più realista e concreto. Dicevamo che il rettilineo è lo stesso. Avevamo visitato Venezia e Mestre, le fabbriche del vetro di Murano, fatto incetta di oggetti da portare in dono a parenti e amici ed era al colmo la nostra euforia. Fu allora che la polizia ci ha fermato per eccesso di velocità, graziandoci subito, però, dopo averci ammonito ad andar piano! D’immagini smagate, di sensazioni perfino epidermiche è strapiena la poesia di De Rosa: “Cielo celeste attraverso i vetri/e trasognate grida di gallo/in lontananza” ci riportano a un altro grande poeta d’intimi brividi: il Franco Saccà di Uomini, solchi, nuvole. La città, a volte, è personificata e a essa De Rosa si rivolge con non celata intimità: “Venezia, amica mia,/aiutami a capire qualcosa


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in più/dell’esistenza, tu che ne fai/così incomparabile spettacolo/di arte e decadenza”; “…la Trieste della mia maturità/si è rivelata una donna difficile,/misteriosa e incomprensibile,/che accetta le lodi sorridente,/ti mostra gambe perfette,/occhi di cielo e capelli dorati,/ma non ti concede niente”. Viaggio esistenziale è una doppia antologia: quella poetica, con riporti da Risveglio veneziano, Il volto di lei durante, Lo specchio della vita, Approdo in Liguria, Fuga del tempo, Poesie sparse e inedite (almeno in volume, perché quelle intitolate, per esempio, “Consuntivo di poeta” - uno, due e tre -, erano già state ospitate nel 2018, sulle pagine di Pomezia-Notizie) e quella bibliografica e critica sullo steso De Rosa, con numerosi brani a firma di eccellentissimi della letteratura, tra cui Diego Valeri, Giorgio Bárberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani. Giudizi tutti lusinghieri, ma c’è, a nostro avviso, un aspetto della poesia derosiana del tutto inesplorato: la metrica. Qualcuno l’ha sfiorata: Guido Zavanone accenna alla “non comune musicalità del canto”; Renato Dellepiane, a una “allitterazione” e alla “rima”; Liana De Luca, alla “sapienza metrica”; Bruno Rombi, a “un gioco di sillabe e di rime”. Tutto qui. Luigi De Rosa è poeta moderno, come moderno è il suo dettato. Lunghezza dei versi assolutamente varia e, però, non c’è figura metrica che non sia liberamente e spontaneamente presente, perché è assolutamente da escludere ogni forma di ricercatezza. Figure non obsolete, naturalmente, sicché assenti sono, per esempio, l’epìtesi, la scomposizione di parola, l’antitesi, la metàtesi, l’apocope, mentre abbiamo la rima baciata (perfetta e corrotta): “Partiremo per il viaggio interminabile e vagabondo con cui si abbandona il mondo”. (da “On y va”); “...i Calcidesi, colonizzatori greci con navi e con strumenti di poca entità hanno costruito il mito della civiltà.

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A questa terra e a questi pensieri mi rendo spoglio dei miei desideri di apparire uomo di grande entità; ma anch’io costruisco la mia beltà”. (da “Lettera da Taormina”); la rima alternata (anch’essa perfetta e non): “sono solo un poeta e un funzionario, ma se non ti adoro perde ogni senso la vita e il calendario”. (da “Non c’è altra difesa che l’amore”). Le rime spesso le troviamo nel finale dell’ elaborato. In “Cielo celeste attraverso i vetri”, “lontananza”, quasi in principio del terzultimo verso, rima con “speranza”, finale dell’ ultimo; in “Sul rettilineo per Venezia”, “stupore”, del terzultimo, con “acceleratore” dell’ ultimo. Vi troviamo in abbondanza allitterazioni (spesso anche velate): in “Notturno da Pugnochiuso”, ne abbiamo una tra “giovinezza” e “sazia” degli ultimi due versi, ma spesso sfiorano le assonanze: “La mia vita fiorisce lenta/come una piccola rosa troppo bianca” (in “Mia vita”, da legarsi anche a “troppo lungo” del verso successivo). Figura che rassomiglia, ma non è vera anafora - perché in fine, non a inizio dei versi -, troviamo ancora in “Mia vita”: “Nuvole vaste calano in silenzio in voragini di silenzio”. E sono infiniti gli isomorfismi, le affinità foniche, le paronomasie, le rime interne, le concatenazioni, i prolungamenti. Siamo in presenza, cioè, di giochi musicali non voluti, ma numerosi; di un’armonia quasi costante; una musica su diversi metri e toni, anche se il poeta, nella “Lettera da Torino” a Mari, confessa che, ad entrambi, piace quella classica: “Ascolto la musica classica/che piace a noi/prima che arrivi la tua telefonata”. Musica sincopata e quasi stridente e triste, dolorosa pur nella fierezza militare, abbiamo in “Un telegramma”, con quelle tante voci finali di “telegramma”, “figlia”, “Ferretti”, “ragazzona”, che, dopo “felice”, “sospirato”, “riposo”, si vanno a fondere nell’ultima: “Roma”, come se il musicista (o i musicisti), troncasse (o troncassero) di brutto l’ esecu-


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zione, vinto (o vinti) dalla commozione. Giochi musicali di strumenti a percussione abbiamo in “Se sapessi suonare e cantare”, con quei “ronfi e strilli e rimbombi e squilli”. Non mancano le cacofonie, quando il poeta vuol rendere l’orrendo frastuono delle autostrade: “diuturno rombo notturno e diurno” (“Sull’autostrada per Piacenza”), o l’oppressione liquida e appiccicosa degli “…alberi di Asti una pioggia di insetti biancastri - bianchicci? - (fanno a bisticci con la nobile luce degli astri)”. (“Asti, carpe diem, un’estate”). Il nostro è solo un po’ più dell’accenno degli altri, appena il tentativo di evidenziare come l’aspetto metrico non sia marginale nella poesia derosiana. Come non lo è il sociale: basta citare il dramma di quella donna che si sfracella da una soffitta e del bimbo che “piange disperato/chiedendo inutilmente ai vicini/perché sua madre non torna” (non simile, ma della stessa intensità di quello sofferto dal piccolo Luigi, quando sua madre si è allontanata per sempre, lasciandolo solo con suo padre); e, ancora, Cernobyl; “l’angoscia per i guai di tutto il mondo”; “le centomila storture del mondo”; la tragedia eterna e che tale rimarrà degli “esseri umani” che “lottano contro la fame e il degrado/mentre altri esseri umani stravivono senza ritegno e senza gioia”, col mettere in risalto, però, che la felicità non sarà mai del ricco crapulone (“senza gioia”), ma potrebbe esserla - se già non lo sia - di chi vive del solo neces-

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sario. Come non sono marginali, infine, l’ intimistico, il descrittivo, il geografico, l’ evocativo. Temi, motivi e strumenti vari, insomma, che, insieme, rendono la poesia di Luigi De Rosa accattivante e fruibile senza alcuna difficoltà. Domenico Defelice LUIGI DE ROSA: VIAGGIO ESISTENZIALE Poesie 1969 - 2018 - Prefazione di Francesco De Nicola; ampia scheda bio-bibliografica - Gammarò Edizioni, 2019 - Pagg. 222, € 18,00

L’INFINITO Sempre caro mi fu quest'ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo, ove per poco il cor non si spaura. E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l'eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa immensità s'annega il pensier mio: e il naufragar m'è dolce in questo mare. Giacomo Leopardi 200 anni! Tanti ne son passati, da quando il giovane Leopardi ha composto questo intramontabile canto. Lo riproponiamo, specialmente per i nostri giovani lettori e collaboratori, affinché lo leggano e lo rileggano a voce alta, all’aperto o nel chiuso di una stanza. Si sentiranno rigenerati e stimolati alla vita. Giacomo Leopardi non era un nichilista e la sua poesia non spinge alla morte, ma alla vita e non era un ateo, anche se in contraddizione a quanto, a volte, egli stesso affermava. Giovani, leggete Leopardi: è il vostro poeta; solo voi - come noi nella nostra giovinezza - potete volergli bene e amarlo fino alle lacrime. Domenico Defelice


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IL BIG BANG DI ANGELO MANITTA di Carmine Chiodo

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NGELO Manitta, poeta, scrittore, critico letterario, infaticabile operatore culturale, è una figura di primo piano nella letteratura italiana contemporanea, come è ampiamente attestato dalle sue numerosissime e qualificate pubblicazioni. Ora vede la luce questo grandioso e mirabile «poema» a cui ha lavorato per tanti anni. L’opera viene introdotta da un noto e apprezzato studioso di poesia contemporanea (e non solo) come Ugo Piscopo che ne analizza molto bene la struttura e la fisionomia. Concordando con lo studioso prima richiamato, che parla di «poemafiume» ricco di pensiero e di sapienza versificatoria, ampio e ben articolato, il lavoro si presenta come «canto del villaggio globale», e ce lo poteva dare solo uno studioso e uomo di cultura come Angelo Manitta, grande conoscitore dei miti dell’umanità, della storia, di testi letterari e di fatti contemporanei. In questo canto - come dice la “Nota” dell’ Autore - «la geografia è il centro, la storia il baricentro, la scienza il pretesto, la letteratura il concetto, la poesia l’emozione». Bisogna partire da queste indicazioni preziose del poeta stesso per addentrarci nel suo genere, che è una novità assoluta nella poesia contemporanea. Nessun poeta ha mai tentato, oggi come

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oggi, una impresa del genere che sbocca in questo poema, originale, coinvolgente. L’opera, costituita da 108 canti, divisi in 12 libri, fonde meravigliosamente il classico e il moderno, ed è ricca di riflessioni anche sulla storia odierna, e sono presentati vari paesi del mondo, oltre a diversi e numerosi personaggi. Qui il poeta esprime quelli che sono i suoi «concetti-sentimenti» e lo fa con versi molto fluidi e musicali. Ma vediamo più da vicino come è costituita. Ed ecco, ad esempio, il primo canto: qui è di scena Piazza San Pietro, il Papa Giovanni Paolo II e i suoi funerali, che si svolsero l’otto di aprile del 2005: «funerali del papa / più amato della storia, Piazza San Pietro / accoglie gli eroi del nostro tempo, / condottieri di pace e di guerra, politici / che governano, tiranni che sforzano le menti» (p. 17). Il lettore è preso dai versi di quest’ opera, ed è continuamente invogliato a leggere questi nitidi e significativi versi che dicono i sentimenti, le conoscenze, le idee dello stesso Manitta che sa alternare contenuti antichi, classici e moderni con i quali coglie atteggiamenti e fenomeni, comportamenti della nostra epoca, e perciò nel canto III, dedicato agli eroi, Il Catalogo degli eroi, troviamo per esempio i campani, i siciliani, i calabresi, quest’ultimi «osannanti alla civiltà / oppositori della ndrangheta e della violenta illegalità / con Catanzaro, Reggio e la montana Cosenza». E ci sono pure «i pugliesi che parlano dialetti greci / e coltivano con amore le ricche pianure / del Tavoliere. Bari e Taranto la pitagorica.» C’è insomma il mondo, le sue varie parti, ad esempio l’Africa «nera / si risveglia nel tormento» delle guerre civili, camuffate da guerre di religioni. L’opera racchiude tantissimi eventi e riflessioni e personaggi saputi ben narrare poeticamente. Colui che legge si trova davanti scenari ampi, grandiosi, personaggi su personaggi, in sostanza la magnifica opera si pone come un viaggio, per riprendere le parole del già nominato Ugo Piscopo, «entro spazi sconfinati, entro situazioni dinamicamente cangianti, entro molteplici linguaggi […] Qui il tempo è un oceano, dove sboccano le acque e


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gli echi di tutti i tempi, di tutte le civiltà del presente e del passato». Ma - come ho già avuto modo di dire - vari e tanti sono i personaggi: filosofi, poeti, scrittori, politici, profeti, scienziati, architetti e via dicendo, e da questo punto di vista questo «canto», che sto tentando di analizzare in alcune sue parti e contenuti, è un palcoscenico in cui si incontrano e si intrecciano varie voci. Il poeta Manitta sa esplorare vari campi, vari spazi e argomenti e li presenta sempre con lingua chiara, ricca di varie sfumature e suggestioni: «la pista, cristallo di neve appeso / ad aguzze foglie di montagna, Alpi / perforate da radioattive scorie straniere, / sonnecchia, e lo slalomista ricerca l’informità / degli spettatori che stillano emozioni d’altezza» (p. 42). C’è L’Italia e a questa «terra» appartiene pure, tra i tantissimi personaggi evocati, il notissimo Adriano Celentano: «Il ragazzo della via Gluck balla / un ansioso twist per cantare canzoni / di ieri, di oggi e di domani. L’ infanzia / trascorsa tra le strade nebbiose d’una Milano / piena d’emigranti del Sud, s’assola / sui segreti dei fangosi linguaggi […]» (p. 41). Canto dopo canto il poeta affascina il lettore con le sue immagini, metafore, allusioni, con un linguaggio molto vario e comprensibile. Tocca fatti del passato e del presente, e il tutto è ben fuso ed armonico, e poi si configura come un canto pieno e felice, penetrante del villaggio globale, visto nei suoi eventi antichi e recenti: «La Chrysler-Fiat s’è trasferita / in America. No. Virtualmente / è rimasta in Italia, solo il tesoro / è stato trasferito da Delo / ad Atene, da Torino a Toronto, / a Londra o Bruxelles. Il tesoro / della Federazione è a nostra disposizione. / Possiamo prendere a piacimento» (Fidia e il Partenone, Canto LXX, p. 478). «Alla donna del soldato non è stato / dato nulla di importante. I resti / d’un uomo morto sul fronte / di Varsavia, di Praga, di Oslo, / di Bruxelles. Alla donna del Soldato / è stato dato un paio di scarpe / logore, una camicia di lino / inzuppata di Sangue suo e nemico…» (Bertold Brecht, p. 482). Dalle citazioni che fino a questo momento ho fatto, si evince che l’opera poetica di Angelo Manitta

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è veramente importante per contenuti e lingua e mostra chiaramente che sa esprimere la sua sensibilità e mostra la sua preparazione culturale e umana, la sua capacità di sapere mettere insieme varie situazioni e fatti, avvenimenti presentati in sequenze altamente poetiche e significative. Certamente per struttura e per invenzioni è un «poema unico» per richiamare le parole dell’illustre e compianto critico letterario e poeta Giorgio Barberi Squarotti. A voler guardare bene quest’opera di Manitta, i cui vari canti hanno visto la luce in tempi diversi, è una commedia universale, una singolare e vastissima commedia universale, anzi una «nuova» commedia appunto, come si vede guardando all’estensione dell’opera e agli argomenti in essa trattati. Versi che ci presentano vari casi, occorsi ad esempio a fanciulle, ed ecco la presenza di Anna Frank, oppure dell’attrice famosa Marilyn Monroe. C’è senza dubbio in quest’opera una complessa trama di allusioni e di rimandi extestuali come pure ci sono figure che appartengono al nostro tempo. Ai fatti, agli avvenimenti e alle vicende dei vari personaggi Manitta partecipa umanamente. Comunque l’opera nelle sue parti ci offre un canto pieno del «villaggio globale» e in questi versi ci viene presentata la realtà delle cose, mostrandoci pure la collocazione e la funzione dell’uomo nel divenire della realtà stessa. Ancora ci fa assistere a uomini famosi, che si confessano e che narrano i loro casi, e penso a Ovidio e a tanti altri. Si parla anche di poesia, di guerra, di amore, di miti, di molti miti, e si vedono stelle luminose, il misterioso mantello della notte, «tremule fiamme», e ancora si parla di storia, letteratura, attualità, fatti tragici, donne, tutti elementi che danno vita a questo felicissimo poema, ricco di una poesia narrativa e penetrante: «Una lunga schiera di poeti, scrittori, scienziati / risollevò il mio animo che si era incupito in quella / parte del cielo, tanto da sentirmi depresso. / Credevo di perdermi nell’infinito, di non avere la forza / di tornare indietro, di perdermi nel buio del cielo» (Canto LXVII, p. 459). «La Palestina è un via vai di gente. Gente /


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che va, gente che viene. S’odono ancora / rumori di guerra, armi sonanti / spezzano le notti insonni, chiudono / le porte ai bambini ingenui, insanguinano / gli stipiti d’un non gradito agnello sacrificale» (Canto LXXXIX, p. 575). Orbene per tutto ciò che ho detto, Angelo Manitta si riconferma pure con questa sua opera, magnifica opera, un poeta di grande levatura e profondità che lo colloca in una posizione di spicco nella poesia contemporanea. Nell’opera la poesia è tutto e si sente in ogni dove; una poesia che sa presentare uomini e fatti, antichi e moderni. Tutto sommato ci troviamo davanti a un poema che possiamo chiamare e qualificare «storico» ma nello stesso è un poema che ci mostra come vada fatta la poesia: anzi ci mostra la più bella e suggestiva poesia che l’Autore qui e in altre sue precedenti opere ci fa gustare. Inoltre si ammira il trionfo della poesia vera ed originale, di sostanza, di vita umana, storica e mitica: una poesia piena, cangiante nei temi e nelle varie articolazioni linguistiche, come pure nei fatti e personaggi di volta in volta mostrati: «Che piacere! Che piacere! Che attenzione! Che creazione! / Una casa, una chiesa, una fabbrica, un ponte./ Mattone sopra mattone, pietra, sopra pietra, / l’architetto sbatte il pugno e il suo rimbombo / è una voce nell’anima che si fa grande, immensa […]». (L’architetto è Leon Battista Alberti, Canto XXXIII, p. 247; qui si canta la materia e l’energia). Ed ecco ancora questi magnifici versi, in cui la poesia è così presentata: «La poesia rigurgita sapori / come acini d’uva, verso per verso, metafore per metafore, concetto per concetto. / I versi sono cerchi velati / sull’acqua o variopinti arcobaleni che dividono / un cielo dall’altro. Il microcosmo si infonde / nel macrocosmo, il pensiero nella poesia, l’essere / nell’essere[…]» (p. 363, Canto che riguarda gli Argonauti), e secondo me questa è la poesia che si legge in questa straordinaria ed egregia opera di Angelo Manitta. Carmine Chiodo Angelo Manitta, Big Bang. Canto del villaggio globale (poema), Prefazione di Ugo Piscopo, Il Convivio Editore, Catania 2018.

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GLI ZINGARI Tutto fuori attorno alla fontana, l'acqua che ha imbevuto la fetta di pane, nei panni lavati, che gocciola dalle lenzuola distese sulle corde. L'acqua rassomiglia a loro, scorre e allaga senza trovare argini, tutt'una non ha parti distinte. Riempie le pozzanghere, dentro le mani unite che diventano scodella per il muso assetato. Non ha contorni, soltanto forme mutevoli. Anche le loro vesti sfrangiate, i corpi discinti. Gli zingari sono senza recinti all'aperto; vaganti i bambini sguazzano sul suolo infangato e attorno alle dimore mobili. Gli uomini e le donne si confondono, i nomi si ripetono; i visi inzaccherati, fantasia di colori, sovrapposti i vestiti addosso. Sono come l'acqua senza colore, non si individuano le persone, scorrono l'uno dentro l'altro; in comune la mensa, insieme a gruppi intorno al fuoco. Le porte accolgono la uniforme sera che maschera i loro volti, uguali vanno l'uno di seguito l'altro ai giacigli, donne bambini uomini per le aperture che si chiudono ravvolte dalle tenebre. Le gambe in aria, capovolta la figura del sole che inabissato giù dai monti avanza con il suo carro trionfante, i capelli di fuoco scintillano sull'alba dell'altro emisfero. La veste dalla vita vaporosa slargata in pezzi che si perdono nel cielo. La coda rosata trapunta. Inghirlandato momento, fasci di raggi tutti rannodati per tante sfumature colorate. La luce gialla e l'azzurro fondo della sera diffusa velatura all'imbrunire per terra e sulle case più fine fanno la chiarezza dei nostri giorni. Leonardo Selvaggi Torino

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ENRICO ANSELMI, ECCELSO MUSICISTA, APPRODA ALLA MUSICA INDIANA di Ilia Pedrina

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N anonimo indiano del X-XI sec. dà forma, in un bassorilievo di pietra arenaria, alla dea Sarasvati, figlia di Tansen, colta mentre suona l'antico strumento che poggia senza peso sul suo seno sinistro, mondo rotondo di vita e d'ebbrezza estatica, il volto bellissimo, molti altri oggetti e simboli stilizzati tutt'intorno. Questa è la protagonista indiscussa del volume del Maestro e Compositore siciliano Enrico Anselmi (Enna, 1937): STORIA DELLA MUSICA INDIANA - La musica nella storia e nella cultura dell'India, dalle origini ad oggi, con Cura, revisione critica e realizzazione editoriale di Marco Colle e Roberto Perinu, finito di stampare nel novembre 2010 dal Conservatorio di Musica di Vicenza 'A. Pedrollo', del quale caldeggio la ristampa, visto che ha una preziosità di contenuti ancora insuperata e che risulta introvabile. Apre una dedica nel rispecchiamento dei profondi sentimenti familiari: 'A mia moglie Cristina, ai miei figli Antonio e Margherita, ai miei nipotini Primo, Ottilia, Enrico e Giulio'. Segue, come corona della Premessa, una dedica nel rispecchiamento dei profondi sentimenti d'Amicizia e di studio: 'Alla memoria di Alain Danielou'. Così, alle radici dell'Europa, della sua cultu-

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ra e della sua musica ecco presentarsi all'orizzonte lei, la dea Sarasvati, colei che scorre e fa scorrere dall'acqua al vento alla terra la vita stessa, oltrepassa il tempo e lo spazio e costruisce l'evento nel suono, generato dalle sue dita palpitanti sulle corde in monotono. Enrico Anselmi, siciliano appassionato ed ai massimi livelli della competenza musicale occidentale, si lascia affascinare da queste coordinate che partono dagli antichi libri dei Veda e va a costituire questo percorso unico e primo nella musicologia italiana: un volume imponente di quasi 1000 pagine, a tracciare con vigore questa impresa titanica che attraversa millenni di cultura e di storia e di produzione artistica dell'India, dalle origini ai nostri giorni. Eccone in sommaria sintesi il contesto articolato in tre parti e trentatré capitoli: Premessa/Introduzione: Oriente e Occidente; La nascita dell'interesse per le culture musicali del mondo; La musicologia comparata; L'etnomusicologia (Il metodo-Le aree d'indagine-La preservazione dei documenti. Archivi e macchine di registrazione-Il problema della comunicazione musicale. Gli universalia musicali-Significato formale e significato simbolico); I grandi sistemi musicali; La world music e le nuove musiche sincretiche; La musica indiana e l'Occidente, oggi; Note sui termini sanscriti (Fonetica-Traslitterazione nell'alfabeto latino-Pronuncia). La PARTE PRIMA contempla undici capitoli che vanno dalle origini a tutto il Medioevo Indiano (pp. 73-380), una vera miniera di informazioni riscaldate da autentica passione filologica e musicologica; la PARTE SECONDA va dal Cap. XII al Cap. XXI (pp. 381-610) ed attraversa epoche, reggenze e risultati artistici complessi legati alle differenti corti e dominazioni, fino alla formazione della musica carnatica ed alla struttura della musica indostana dal XVII secolo alla metà del XVIII secolo; la PARTE TERZA va dal Cap. XXII al Cap. XXXIII, la Conclusione di questa profonda e davvero miracolosa avventura conoscitiva (pp. 611-932) ed analizza il periodo storico ed artistico dell'India dalla se-


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conda metà del XVIII secolo fino ai nostri giorni, con tutta l'analisi relativa ai musicisti ed alle trasformazioni culturali nei differenti territori, fino a Lo sviluppo della tradizione strumentale della vina e della sarangi tra il XIX e il XX secolo (cap. XXVII) e a Lo sviluppo della cultura strumentale del sarod e del sitar tra il XIX e il XX secolo (cap. XXVIII), per arrivare alla trattazione de La tradizione degli strumenti a percussione tra il XIX e il XX secolo e La tradizione degli strumenti a fiato tra il XIX e il XX secolo (cap. XXIX e cap. XXX). Nella Prefazione il prof. Roberto Perinu avvia la sua scrittura scegliendo due versi 'Non innalzate lapidi. La rosa sola fiorisca ad onorarlo ogni anno' (R. M. Rilke,'Sonetti ad Orfeo, V') e sottolinea: “Se, all'incirca tra gli anni '50 e '60, uno sparuto gruppo di musicologi, primo tra i quali Alain Danielou, non avessero intuito e compreso la qualità della musica dell'India, oggi, nel mondo occidentale, non saremmo usciti dal giudizio superficiale e presuntuoso che, spesso, questa musica trascina ancora con sé... In Italia e nel mondo occidentale, gli studi teorici e pratici hanno chiarito in modo inequivocabile che la musica indiana non è tanto un sistema musicale (…),ma un patrimonio di sapere dell'umanità, il cui studio arricchisce perché consente di vedere non solo e non tanto altre cose, ma di vedere le stesse da una diversa prospettiva... Negli anni '80 il M° Anselmi aveva già pubblicato a Palermo, con prefazione di M. M. Junius, un testo, La musica indiana - Volume primo: profilo storico, di cui, come egli stesso dice nell' Introduzione, la presente opera è continuazione e compimento... È passato il tempo delle sudditanze... Oggi, grazie alla pubblicazione di quest'opera, della quale torno a sottolineare la monumentalità, chi si accosti alla musica dell'India trova un aiuto difficilmente misurabile nell'ampiezza e nella cura con cui l'opera del M° Anselmi espone i suoi contenuti. Le prospettive di studio, di apprendimento e di riferimento critico e storico cambiano radicalmente. Opera monumentale e

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non solo per le quasi mille pagine di cui è composta. Piuttosto, nel senso etimologico dell'aggettivo, che conferisce al termine il significato legato al ricordo, al durare, nel tempo, nelle menti e negli animi dei futuri lettori e, nel presente, nel cuore di chi, il Maestro, l'ha conosciuto ed amato...” (R. Perinu, Prefazione, Vicenza, Conservatorio 'A. Pedrollo', 29 ottobre 2010, in E. Anselmi, op. cit. pp. 27-31,). Poi, alla fine del volume, in Appendice i due curatori intendono avvertire: “La stesura finale dell'opera rappresenta il frutto di decine di anni di studio, nel corso dei quali un'ingente quantità di informazioni è stata raccolta e valutata dall'Autore. Tale materiale è stato spesso inserito nelle Dispense di storia della musica indiana compilate dall'Autore per gli studenti del corso di Tradizioni musicali extraeuropee ad indirizzo indologico del Conservatorio 'A. Pedrollo' di Vicenza. L'Autore ha sottoposto le Dispense a costanti revisioni che hanno a volte portato all'esclusione di materiale precedentemente inserito...” (Appendice in E. Anselmi, op. cit. pag. 933). Mi spiega il compositore Maestro Enrico Pisa in un'ampia e importantissima intervista del giugno 2013, ancora inedita, mentre svolge il ruolo di Direttore del Conservatorio, realizzato in due mandati consecutivi: “... Abbiamo aperto questi corsi, dando uno statuto di Triennio Sperimentale. Il Decreto del Ministro n. 119-120 è del 20 Febbraio 2013: ordinamenta il Corso di Tradizioni Musicali Extraeuropee, quindi nel momento in cui sarà insediato il nuovo organico per il Consiglio Nazionale di Alta Formazione ArtisticoMusicale, che è l'unico organo che può validare i percorsi formativi, potranno essere ricondotti a ordinamento anche i corsi di Tradizioni Musicali Extraeuropee, diventando un profilo di diploma a tutti gli effetti. Siamo l'unico Conservatorio in Europa, a parte Rotterdam, che ha attivato questo Corso e lo stiamo portando avanti tra molte difficoltà, ma tutto sommato ci crediamo, dico 'tutto sommato' perché non tutto il corpo docente è favorevole, per varie ragioni, ma sostanzial-


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mente per il fatto del costo, perché riuscire a render funzionale ed efficace un corso come questo 'distrae' risorse da altri percorsi artistici e quindi è un corso che vive questo aspetto di 'ospite desiderato', ma comunque molto oneroso e poi è stato visto sempre come un 'corpo estraneo' rispetto all'Istituto, perché non ha le stesse discipline degli altri Corsi e questa 'estraneità' però si è venuta via via mitigando intanto perché hanno acquisito anche loro -e con l'ordinamento ancora di più- percorsi formativi comuni agli altri Corsi di studio e poi perché nel frattempo nel Conservatorio si è potenziato moltissimo il Dipartimento di Jazz e questo non rende più 'unico' Tradizioni Musicali Extraeuropee come 'altro' mondo artistico, ma tutti questi diversi aspetti dell'arte musicale cominciano a convivere con assoluta tranquillità ed anche con reciproco vantaggio, perché ci sono trasferimenti di competenze e di saperi dall'uno all'altro che non possono che essere fondamentali per una cultura artistica complessiva...” (Fonte: Archivio I. Pedrina, registrazione). Ecco informazioni chiare colte dal retro di copertina: “Nato in Sicilia, Enrico Anselmi (1937-2007) ha studiato pianoforte a Palermo sotto la guida del Maestro Vincenzo Mannino. Ha svolto una brillante carriera concertistica, ottenendo premi in vari concorsi internazionali. Titolare della cattedra di Pianoforte nei Conservatori di Palermo, Udine, Milano e Vicenza dal 1962 al 2002, laureato in Filosofia con il massimo dei voti e la lode, ha studiato Storia della Musica con Luigi Rognoni. È stato uno dei fondatori del Gruppo Universitario per la nuova Musica dal quale sono nate le 'Settimane della Nuova Musica' di Palermo, fra gli eventi più importanti nel panorama dell'avanguardia musicale mondiale negli anni Sessanta. Nel 1971, dopo l'incontro con Alain Danielou, ha indirizzato il suo interesse verso la musica e la cultura dell'India. Ha svolto attività di divulgazione e di ricerca nel campo della musica extraeuropea fondando nel 1977, in seno all'Ars Nova di Palermo, una sezione di studi con la collaborazione di

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specialisti come Manfred Junius e Salah El Mahdi... È autore della prima pubblicazione in lingua italiana sulla Storia della Musica Indiana (Palermo, 1981) e di numerosi altri saggi. Ha fondato al Conservatorio di Vicenza l'unico Corso Accademico in Italia (e il secondo in Europa dopo il Conservatorio di Rotterdam) di Tradizioni musicali Extraeuropee a indirizzo indologico con la collaborazione del Dipartimento di Studi Euroasiatici dell'Università Ca' Foscari di Venezia...” Più sopra, ad aprire la foto della Tomba di Tanzen, poche parole, del M° Anselmi: “... la sirena della civiltà occidentale, con il suo culto della ricchezza, i suoi modelli consumistici, la diffusione commerciale dei suoi prodotti e dei suoi spettacoli, tende a sedurre sempre più popoli che pur possiedono una formidabile cultura originale. È il caso, tra gli altri, dell'India, da millenni maestra di filosofia, di religione, di scienza, d'arte...”. Grazie, Maestro Enrico Anselmi, per aver donato a tutti noi questa avventura conoscitiva e spirituale, senza tempo e senza misura. Ilia Pedrina

ORA BASTA Basta parlare sempre con la morte sulle labbra. La vita, questa sì, è la storica infedeltà reciproca La vita è la versione disperata del sogno. Tuttavia non conviene essere il diavolo di noi stessi né tantomeno l’umano complice dell’inganno. Teresinka Pereira Trad. di Domenico Defelice


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Fra disillusione e attesa:

VOCI (tre poemetti) di GIANNICOLA CECCAROSSI di Marina Caracciolo UR continuando a prediligere l’ armonia di una struttura simmetrica tripartita, che è tipica ad esempio di Un’ ombra negli occhi (2016) – libro sottotitolato appunto Sinfonia in tre movimenti – ma anche del successivo Canti e silenzio (2017), in questa triade di poemetti uscita l’anno scorso l’Autore adotta uno stile se non del tutto inconsueto per lo meno decisamente non frequente nella sua poesia. Egli abbandona in parte il fantasioso lirismo che contraddistingueva alcune sillogi passate – si pensi alla liricità talora surreale della già nominata Un’ ombra negli occhi, oppure a quella specificamente amorosa di Fu il vento a portarti (2015), volendoci riferire solo alle più recenti. Ebbene, nell’opera che qui commentiamo non si ravvisa quell’atmosfera sospesa, in bilico fra ricordo e immaginazione, che lasciava pensare a un animo che parla come sotto l’effetto di un incantesimo, per cui la poesia si tramutava spesso in ciò che si può definire una “scrittura di sogni”. Se è vero che il poeta conserva anche qui la sua inconfondibile, metaforica sostanza poetica, vale a dire le medesime “impronte digi-

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tali” che sempre lo identificano, egli tuttavia lascia da parte gli immaginosi monologhi di altri suoi componimenti. Qui egli vuole sopra ogni cosa parlare al mondo, alla gente,1 a quelli che in certi passi, e in un senso lato, chiama Figli miei:2 c’è invero in questi versi un impeto appassionato, profondamente umano, e in più la volontà di far pervenire il pensiero a chi ascolterà o leggerà, a destinatari silenziosi ma pur sempre partecipi. Vengono in mente per associazione di idee alcuni versi del poeta irlandese William Butler Yeats, dove dice: Tutte le parole che raccolgo, tutte le parole che scrivo, devono aprire instancabili le ali, e non stancarsi mai nel loro volo, fino a giungere là dove è il tuo triste, triste cuore, e cantare per te nella notte, oltre il luogo ove muovono le acque, oscure di tempesta o lucenti di stelle.3 Ecco, la splendida immaginazione di Yeats pare rispecchiarsi, quasi ad apertura di libro, in queste Voci: richiami che vogliono farsi sentire e quasi implorano di essere ascoltati e compresi. Le parole qui raccolte e scritte aprono anch’esse instancabili le ali per giungere là dove sperano di trovare intelligenza, risposta, consenso (... e noi parleremo una sola lingua, recita l’esergo del primo poemetto, intitolato Barche nel cielo). Sia che esse siano «oscure di tempesta» (cioè dolorose e amare) oppure «lucenti di stelle» (ovvero rese lievi da soffi di speranza), devono arrivare al cuore di qualcuno che le riceverà per assimilarle e poi donarle ad altri, affinché non rimangano sterilmente chiuse nel cuore e nella mente del poeta che le ha concepite. Proprio l’amarezza e la speranza, la disillusione e l’attesa di tempi nuovi si alternano di continuo in questi tre poemetti: un costante oscillare fra due poli, che ne costituisce per contro anche il perfetto bilanciamento. La mesta visione di un’epoca disorientata e


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svilita, spenta e grigia come cenere, affiora fin dalle prime pagine del poemetto iniziale: «Questo tempo non ci ha lasciato altro tempo! / Il corpo si è inaridito e lo spirito volato via / Allora cosa è rimasto nel cuore?/ Forse il desiderio di raggiungere le cime / assaporare l’aroma degli abeti / guardare oltre i nostri sentimenti / Ma ci siamo abbrutiti!». Ed ecco che, in versi successivi, lo sconforto per un’umanità che non ha voluto o saputo superare prove che pure insormontabili non sarebbero state, si manifesta con l’allusione alla vicenda del mitico Orfeo: «Orfeo perché hai disubbidito? Perché non hai potuto dominare / l’angoscia che ora porterai per sempre?».4 Ma ecco sopravvenire nuovamente uno slancio appassionato: «Porgete le mani al fratello più debole / non aspettate che il tempo sani le ferite / ma risvegliate i sensi / e facendo sentire acuta la voce / sarete dannati per le idee / per l’amore che porterete agli invisibili / Non rinunciate alla libertà!». E ancora, più oltre: «Non attendete che Admeto5 si sacrifichi! / Prendete colorate bandiere e correte / Correte incontro al vento / Disegnate nei cieli i vicoli da percorrere / e porgete gli sguardi a bambini indifesi / senza più lacrime e senza più parole». L’entusiasmo, unendosi alla speranza, riesce di nuovo ad emergere, tanto che i versi del poeta assumono più volte un tono di quasi biblica esaltazione, come per evocare voci di Profeti6 («Allora canteremo le nostre canzoni / le voci risuoneranno nel buio delle case / si spanderanno nell’aria profumi d’incenso / e questa vita ci sembrerà più lunga»); e pur tuttavia questa gioia intravista non è in grado di far scomparire l’amarezza di dover contemplare ancora «gli alberi che non danno più frutti», di udire «il pianto che si espande tra campi bruciati» e di sentire «- continuo e pungente un dolore che non ci lascia». Il discorso poetico dell’Autore prosegue quasi senza soluzione di continuità nel secondo poemetto, dal titolo Noi siamo i giovani di questo tempo distorto. Riprende fin dall’ inizio il costante ondeggiare fra amaro rimpianto e impetuosa speranza, un aspetto che è si-

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curamente la cifra fondamentale e identificativa dell’intera composizione. Ma se la mente del poeta ancora si sofferma dolorosamente a considerare che «Noi siamo i giovani di questo triste mondo / travagliato disumano bugiardo intollerante cieco», il suo animo ribelle resiste e subitamente si riprende per affermare: «ma presto si leverà al di sopra delle betulle / un’aria di libertà che soffiando leggera e profumata / ci riempirà gli occhi e il cuore». Ecco, in questo poemetto centrale, il poeta percorre con tenacia un sentiero in cui – pur senza mai ignorarle – cerca di staccarsi dalle sciagure umane a cui allude, per approdare a regioni e a tempi futuri per così dire più “lucenti di stelle”. Ed ecco sbocciare il suo canto: Ma voleranno e voleranno gli uccelli Anche noi voleremo e voleremo tra cirri a cercare carezze dimenticate e sogni incantati Sì anche noi voleremo e voleremo nell’ultimo giorno dei ricordi e nessuno ci dirà il bieco passato né i risvegli mattutini piangendo Ma saremo il vento che insegue le nuvole il fuoco che sprigiona colori e lapilli l’aria che ci farà respirare un mondo nuovo e il cuore si aprirà al sussurro della luna Ho voluto rilevare e isolare questo frammento di undici versi situato quasi alla conclusione del secondo poemetto, perché mi pare rappresentare forse l’acme dell’intera composizione, il punto di maggiore incandescenza espressiva, dove si manifesta uno slancio di lirica immedesimazione nella Natura che ci ricorda la poesia dei Romantici, soprattutto tedeschi e inglesi;7 e dove per di più l’insistito motivo del volo non è – come spiega acutamente Emerico Giachery nella prefazione – semplicemente un motivo quanto piuttosto «un’anima e un’ala della parola poetica».8 Qui l’Autore ritorna alle sue predilette immagini sinestetiche, alle sue tipiche accensioni liriche e, inoltre, a quei versi ampi che


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per il metro continuamente mutevole e per la fluttuante scansione ritmica sembrano sfociare in una prosa poetica, mentre nel contempo paiono voler rincorrere il pensiero che vi si esprime o da esso, al contrario, essere rincorsi. La terza e ultima parte – dal titolo Pace – si basa su un tema fondamentale che riprende, come in una sorta di ricapitolazione, quel bilanciato oscillare fra amarezza e speranza che informa di sé l’intero trittico, qui andando però ancora oltre il superamento che si è visto nella conclusione del poemetto centrale. A questo punto tutti gli elementi apportatori di armonia e di luce riescono a trionfare alfine sull’oscurità. L’espressione «non avremo paura del buio» ritorna ben quattro volte in questa breve sezione conclusiva. Perché il buio sarà destinato inesorabilmente alla sconfitta, vuole dirci il poeta: è un’affermazione, questa, di ferma e incrollabile fede, non necessariamente intesa come credo religioso (per quanto esso appaia in modo esplicito nei versi finali) ma anche soltanto come fiducia in tutte le virtù e volontà positive che l’essere umano possiede da sempre. Sopra tutto volontà di vincere «questa inquietudine – dice l’Autore – che ci divora / e lascia deserti i cammini del cielo» (e qui è quanto mai suggestivo il richiamo tematico alle barche e ai vicoli da percorrere da disegnare nei cieli, che troviamo nel primo poemetto). Il pensiero che dovrà pur esistere in futuro un mondo migliore porta il poeta ad auspicare appassionatamente il ritorno di una nuova “età dell’oro”, dove – egli dice – «Noi continueremo [...] a immaginare sogni infantili / a cantare canzoni d’amore [...] Nessuno ci impedirà di essere liberi / di amare con gli stessi slanci [...] la luce del fulmine ci illumi-

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nerà / e i fiumi scorreranno placidi...». Il grido di dolore soffocato di fronte agli orrori e ai disastri che affliggono l’umanità, e il conseguente inevitabile sdegno sepolto dentro gli animi, pian piano si stemperano mitigandosi per dar luogo alla serena aspettativa di una prossima civiltà rinnovata, quando «Domani la rugiada ci lascerà nelle dita / il coraggio di sorridere e di amare». Infine, in un contesto diverso, in un’ allusione vaghissima eppure trasparente, nascosta in una ronda di spiriti divenuti buoni, ritorna quel girotondo di mani,9 quel rondeau fanciullesco ma anche adulto, amorevole e lieto, che nel primo poemetto compariva come simbolo di un’esortazione a tracciare ovunque sentieri di pace, se è vero – come afferma il poeta – che «non sarà la poesia a salvare il mondo10 / ma la volontà e la tenacia di costruire / l’amore per il compagno indifeso». Marina Caracciolo VOCI (tre poemetti) di Giannicola Ceccarossi. Prefazione di Emerico Giachery. Ibiskos Ulivieri, Empoli, 16 novembre 2018; ill., pp. 55, euro 12,00. Ill. di Pavel Filonov (copertina), Vasilij Vasil’evič Kandinskij, Natal’ja Sergeevna Gončarova ed Edvard Munch. NOTE 1 Non è casuale, dunque, l’immagine riprodotta in copertina: un dipinto di Pavel Filonov, dal titolo People (1910). 2 Il vocativo Figli miei chiude, proprio come un sigillo finale, il primo dei tre poemetti (Barche nel cielo, pag. 26). 3 William Butler Yeats, Dove vanno i miei libri (Londra, 1892); in: Fiabe irlandesi (Einaudi, Torino, 1989). 4 Come Orfeo, avendo scordato l’avvertimento ricevuto dagli dèi degli Inferi, perde per sempre Euridice, che pure era andato a cercare con infinita passione nel reame delle ombre, così – vuole dire l’Autore – l’Umanità ha perso più volte grandi tesori e molte imperdibili occasioni, dimenticandosi colpevolmente di obbedire ai moniti della sua coscienza. 5 Secondo la leggenda, ripresa da Euripide nella sua tragedia Alcesti, Admeto, re di Fere in Tessaglia, è giunto ormai al termine della sua esistenza, ma le Parche possono risparmiarlo se egli riesce a trovare qualcuno disposto a rinunciare alla propria vita per lui. Fra tutti i suoi amici e parenti, l’unica ad accettare di sacrificarsi è sua moglie, la regina Alcesti,


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che per amor suo scende nell’Ade e scompare. La donna, però, viene infine salvata da Eracle, il quale va a prenderla e la riporta nel mondo dei vivi. (In questo passo del poemetto, l’Autore cita Admeto come figura di quei codardi che, qualunque sia la causa per cui combattere, non intendono esporsi a rischi e preferiscono che sia qualcun altro a farlo al loro posto). 6 È significativo che gli eserghi del secondo e del terzo poemetto siano entrambi tratti dalla Bibbia, rispettivamente dall’Ecclesiaste e da alcuni versetti del Salmo 72. 7 Vi si potrebbe riconoscere ad es. una vaga eco della celebre Ode al vento dell’Ovest (Ode to the West Wind, 1820) di Percy Bysshe Shelley, con particolare riferimento alle strofe IV-V. 8 Emerico Giachery, Prefazione a Voci, cit. pag. 8. 9 Una delle illustrazioni a colori all’interno del libro (pag. 33) riproduce un dipinto di Natal’ja Sergeevna Gončarova, dal titolo Round dance (1910). 10 La poesia salverà il mondo è il titolo italiano di una lirica di Walt Whitman (dalla raccolta Leaves of Grass, 1855). L’originale si intitolava in realtà The World below the Brine (“Il mondo sotto la salamoia”)

[ monde, ne nous inondait pas, dans un intime éclair,

Nota: Il testo riproduce il discorso tenutosi a Roma, il 14 marzo 2019, nella sala conferenze della Biblioteca Nelson Mandela, in occasione della presentazione di Voci (tre poemetti) di Giannicola Ceccarossi, all’interno di Bibliopoesie, rassegna di poeti contemporanei curata da Roberto Piperno. Interventi critici di Emerico Giachery e Marina Caracciolo; letture dell’Autore.

che ci resterebbe mai, se di cuore e di carne, [ l’amore unendo i nostri corpi, lontano dai rumori del [ mondo, non ci inondasse affatto, in un intimo chiarore,

LA SEULE JOIE Sur cette terre ingrate où tout nous asservit aux tâches sans grandeur, aux orgueils inutiles, où l’homme, à des enjeux le plus souvent [futiles use un esprit dément pour s’affirmer qu’il vit; où l’injustice croît, où le mal règne en maître, où chacun, semblant faire à son frère un [cadeau, au moindre différend lui plante dans le dos e couteau qui lui sert d’arme pour se repaître; que nous resterait il si, de coeur et de chair, l’amour, mêlant nos corps, loin du fracas du

de cette joie unique, amicale et profonde, qui, répondant au voeu suprême du désir, nous donne l’ample extase et le goût d’en [ mourir! Paul Courget

La sola gioia Su questa terra ingrata, dove tutto ci prescrive impegni senza grandezza, di orgogli inutili, in cui l’uomo, a imprese così spesso futili usa uno spirito demente per affermare che vive; in cui l’ingiustizia cresce e il male moltiplicarsi, dove ciascuno, fingendo di fare un dono al [fratello, al minimo litigio gli pianta nel dorso il coltello che gli serve sovente come arma per cibarsi;

di questo gaudio unico, amicale e profondo, che, corrispondendo al voto supremo [ dell’appetire, ci dà l’ampia estasi e il diletto di farci morire! (Trad. A. Crecchia) GOCCE E' spiovuto ed un raggio apparso accende le gocce che pendono dal larice. Non c'è brillante così luminoso, non c'è perla così limpida e pura. Un abbaglio, ed inventa la natura il miracolo suo più alto e arcano. Rinasce il mondo ed è sogno vano sperar d'intenderne il prodigio che dura. Elio Andriuoli Napoli


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'CIUCCIA LA BUCCIA!' Riscontri d'ironia a 'Le parole a comprendere'

di Domenico Defelice di Ilia Pedrina

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N dono prezioso mi arriva per posta. Le parole a comprendere di Domenico Defelice, per i tipi della Genesi Editrice nella Collana Le Scommesse, con Prefazione di Sandro Gros-Pietro e Postfazione di Emerico Giachery è raccolta di temi che hanno forza e spessore propri della sincerità concreta ed ispirata ad un tempo, quando sa trasformare i sentimenti in parole. Tutta la prima parte, che dà il titolo all'Opera, merita un ascolto attento e particolare, che farò in altra occasione, perché la presenza di Dio come confidente diretto dei pensieri, delle invocazioni, quasi preghiere scritte, nate per essere pronunciate ovunque e ad alta voce è concreta risposta inconsapevole ma profondamente saggia alle mie aspettative, riferite in semplicità nel mio articolo En attendant les poèmes de Domenico

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Defelice...(Pomezia Notizie, maggio 2019). Mi soffermo invece sugli aspetti ironici, aspri, pungenti delle tre parti successive: Ridere (per non piangere); Epigrammi; Recensioni. È stata proprio la composizione vivacissima La manovra, con spiegazioni dettagliate a pie' di pagina, a dar titolo a queste note, perché al suo interno Defelice delinea la realtà in tutta la sua crudezza, che certo ironicamente esalta sudditi solo in grado di lasciarsi dire 'Ciuccia la buccia!'. Cito: La manovra La manovra è troppo dura? La batosta è dolorosa? Il tuo reddito è meschino? La gran fame ti tormenta? Lascia perdere la lagna, corri tosto in Parlamento. Lì è tutta una cuccagna. Con una spesa assai modesta, lì si beve e lì 'se magna!' Riso all'inglese; pasta al pomodoro e al naturale; Penne all'arrabbiata; Spaghetti con le alici; Minestrone; Minestra ancor di pasta e di patate; una birra; Zuppetta di verdure... ordinarli se vuoi potrai a millanta, costando solo un euro e sessanta! Di pollo il petto? Di manzo una bistecca? I ristoranti dei parlamentari felici te li servono di botto al costo veramente eccezionale: solo due euro appena e sessantotto! Filetto di bue? Lombata di vitella? Filetti d'orata in crosta di patate? Scaloppina di vitella al pepe verde? Bocconi son da senatori e re e costano soltanto cinque euro appena e ventitré! L'elenco è lungo e tutto interessante. Un caffè non arriva a mezzo euro. La frutta un po' di più... Italiano, non ti lamentare, va in Parlamento


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e chiedi d'abbuffarti e di pagare come quei... nullatenenti come te, che, percependo migliaia di euro, debbono sborsare -pensa!...novantatré centesimi per un ammazzacaffè! (D. Defelice, Le parole a comprendere, 20/8/2011, op. cit. pag. 102) Ciuccia la buccia, ch'è l'ora: il pieno aromatico della polpa lascialo a loro, a costo zero! Dall'albero le scimmie ci guardano e l'albero si trova dappertutto, anche se sono in pochi a vederlo: siamo noi abusivi nel loro pianeta e lo stiamo rovinando con la nostra presenza che chiede valore? La buccia potrebbero loro, le scimmie, mangiarla serenamente e con piacere? E se la buccia fosse messa al forno e desse frutto secco dagli effetti sorprendenti, le scimmie se ne accorgerebbero? Farebbero fuochetto e carichi di ingenua perspicacia, proverebbero il prodotto dal capo a quelli che stanno in fila di fronte a lui, tutti in coda, femmine comprese? Ora scelgo anche: D'Annunzio in si bemolle Piove, piove, piove... A furia di sostare nel canneto il tuo cervello è divenuto molle. Piove sopra le canne e sopra i gigli infranti. Neppure l'ironia ti salva ormai dalla mediocrità. D'Annunzio è in si bemolle e tu non ti sollevi dal cra cra. (D. Defelice, op. cit. pag. 128). Presa in giro tondo tondo dei poeti che strapazzano parole senza comprenderne la forza? Ciò accade di certo solo se si ciuccia la buccia, immaginando d'aver in bocca il suo interno, mentre il vuoto di senso invade ogni territorio circostante: come si fa a ciucciare il vuoto, quel vuoto che emerge e si fa spazio nel doveroso frammento delle labbra un poco aperte? Questo e molto altro il risultato della lettura del testo di Domenico Defelice Le parole

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a comprendere. Aver scelto poi in copertina Torre di Babele nel Duomo di Milano è stata scelta preziosa ed assai coinvolgente. La torre è ancora in costruzione e ci sono cinque bravi lavoratori impegnati sia alla base, sulla terra pietrosa e a gradoni consistenti rispetto agli edifici da evo di mezzo che fan da sfondo, sia sulle impalcature costruite alla meglio con altri quattro operai tratti in ombra, già su a portar materiali e carrucole. Pochi i gruppi d'erba verde, terra di radice, sulla quale poggia il complesso, ma la struttura elicoidale non smentisce l'ispirazione profonda dell'immaginario creativo dell'autore, che si pone come intento quello di farci scalare gradoni e strettoie ad elica ed in salita. Proprio come lo sono questi versi del Defelice, nelle tre parti sopra indicate. Per chi ci vede poco, come me, alcuni lavoratori, alla base del cantiere, sembrano scrivere sulla pietra: ottimo segno, trasversale, ad incidere senso e significato della traccia. Tanto per segnalare che anche questa scelta è illuminata ed illuminante. 'Ciuccia la buccia!': la riflessione spiritosa e profonda ad un tempo, ispirata alla memoria del grande Rossano Onano, è dedicata proprio a tutti coloro che sono cresciuti da un tempo breve o imprecisato non importa, ed ancora, tutti in coda, femmine comprese, riescono a ciucciare la buccia ed al contempo l'interno delle energie e dei prodotti intellettuali ed operativi altrui, quasi fossero ancora neonati poppanti, solo in grado d'essere tenuti in braccio ed in difficoltà assai nel prendere il volo, in modo originale, ciascuno secondo la propria disposizione interiore, che purtroppo ancora non è stata né individuata né realizzata. Se chi legge saprà far mente locale, riflettendo sulle proprie esperienze, ne troverà 'a millanta'! Così i protagonisti delle tante proposte, anche maliziosamente irriverenti, che il Defelice ci ha saputo regalare, affinché le parole ci aiutino a comprendere. Ilia Pedrina


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UNA BELLA MONOGRAFIA

DI D'EPISCOPO SULLA POESIA DI

IMPERIA TOGNACCI di Luigi De Rosa L noto critico letterario Francesco D’ Episcopo, che ha insegnato all'Università di Napoli Letteratura Italiana, Critica Letteraria e Letterature comparate, ha scritto una monografia intitolata La poesia di Imperia Tognacci. Inquietudine dell'infinito. Il libro, di 95 pagine, è uscito per i tipi della Genesi Editrice di Torino nel gennaio 2019. Il materiale, trattato con profonda preparazione tecnico-culturale, con acume e perizia, si articola in tre Parti fondamentali, che gettano luce sulla produzione della poetessa e scrittrice di San Mauro Pascoli: La matrice pascoliana: Giovanni Pascoli. La strada della memoria. Odissea pascoliana. Le singole sillogi: La notte di Getsèmani; Natale a Zollàra; La porta socchiusa. La svolta poematica: Il prigioniero di Ushuaia; Il lago e il tempo; Il richiamo di Orfeo; Nel bosco, sulle orme del pastore; Là, dove pioveva la manna. Lo stesso D'Episcopo ammette che “Impe-

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ria Tognacci meritava una monografia, tra l'altro già realizzata da qualche altro appassionato e attento critico letterario” (per la cronaca lo scrivente, attuale recensore, che nel 2014, nella Collana Acta vitae delle Edizioni Giuseppe Laterza di Bari, aveva pubblicato il libro “Imperia Tognacci e i suoi poemi in poesia e in prosa”). Ma chiarisce che quella che nel suo libro “si propone è una lettura dall'interno della vasta e complessa opera poetica della Tognacci, proponendosi magari un futuro intervento monografico anche su quella più propriamente narrativa, anticipata, tra l'altro, da una prefazione di chi scrive al suo più recente romanzo.” Mi piace particolarmente l'espressione “opera più propriamente narrativa” perché modernamente assevera che vi può essere poesia nella prosa, e narrativa in opere scandite in versi. In effetti, nell'opera della Tognacci si avverte quasi costantemente il bisogno di sfogare un empito incontenibile di inquietudine metafisica e di fede in Dio senza mai tralasciare il “racconto” di fatti, cose, avvenimenti anche minuti della vita quotidiana. Il libro del prof. D'Episcopo, per come è pensato e scritto, si presenta come un bel libro, che conferma (ma non ce n'era bisogno) le non comuni doti dell'Autore, come professionalità e sensibilità, nei ruoli di letterato, critico, cattedratico e poeta “in proprio” vincitore di Premi Letterari. D'altronde questo libro rende pienamente l'idea anche della vastità e complessità del mondo poetico di Imperia Tognacci, e delle qualità fascinose e sognanti della sua scrittura personale, costantemente animata da inquietudine e da aspirazione all'Infinito, al di sopra e lontano dalla piatta realtà visibile di ogni giorno. Anche se, a sua volta, può raffigurare una realtà precaria perché incalzata dal Tempo perennemente in fuga, al pari di altre realtà possibili e immaginabili. L'interpretazione umana resta pur sempre limitata e sfocata per il suo intrinseco difetto d'origine. (Ma la visione della Fede, unita alla forza della Poesia, è una vera àncora di salvezza per chi ne ha il dono). Luigi De Rosa


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Meccanismi psicologici ne I GIORNI DEL MARE di CATERINA ADRIANA CORDIANO di Carmine Chiodo

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UESTO romanzo, opera prima di Caterina Adriana Cordiano, è ben riuscita per contenuti ed esiti stilistici. Le situazioni si svolgono prima in un non specificato paese e poi in una non meglio specificata città - ma a me piace pensare che si tratti di Napoli - e poi di nuovo in paese, ove si concludono. C’è un “nostos” che riguarda l’ architetto Andrea, dai paesani chiamato ingegnere, come si usa nei paesi del Sud. Ho letto e riletto quest’opera felice della Cordiano e ho notato che essa non può essere ascritta alla linea narrativa calabrese o meridionale. Il testo parla chiaro: è un romanzo psicologico e tutti i personaggi sono caratterizzati in tale maniera. La Cordiano, ma azzardo una ipotesi, guarda a certa narrativa europea e faccio, ad esempio il nome di Kundera o di

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Huismans (quello di “A’rebours”) mentre l’altro è quello della leggerezza (psicologica) dell’essere che tanto insegue Andrea, affermato architetto nella città ma che poi, avendo sofferto varie esperienze negative, soprattutto di natura amorosa, vuole ritrovare la sua libertà e umanità di prima. Vuole allora fuggire da un ambiente caratterizzato da cattivi affari, tangenti e persone che pensano solo ad arricchirsi; vuole fuggire dalla gente mondana e rifugiarsi in quella del suo paese, nell’ umanità e nella squisitezza umana della paesana che gli fa da cameriera o nell’affetto degli zii, o trovare pace e libertà al mare. Fuggire, insomma, da ciò che lo rende inquieto e gli procura angoscia. Il romanzo è ben tessuto e distribuito e analizza, avvalendosi pure di metafore, allusioni, analogie, le condizioni interiori dei vari personaggi, il loro subconscio, a partire da quello di Andrea, che ha avuto (ma se ne è accorto dopo) una relazione dannosa con una donna, Paola, poco affettuosa, crudele, che se la fa, per dir cosi, con il miglior amico di Andrea, Lorenzo, il quale poi viene rovinato interamente nelle sostanze e nell’intimo da Paola. Un romanzo di condizioni interiori, di destini che talvolta si incontrano e scontrano, e lo stile drammatico e molto vivido e penetrante rende bene lo stato psicologico, le azioni, i pensieri dei diversi personaggi. Come definire quest’opera intensa e originale, per me di alta qualità letteraria, della Cordiano? La definirei con parole che leggo nello stesso romanzo: una girandola di fatti tragici della vita, di condizioni che portano al baratro, al tentato suicidio (si pensi a Lorenzo Padula, a stati di sofferenza delirante. Il romanzo, oltretutto, si fa apprezzare per la tecnica compositiva e per come è strutturato: i fatti, le situazioni nei loro vari significati e le conseguenze si svelano a poco a poco, rendendo sempre più mossi e inquieti i pensieri dei protagonisti. E penso ad Andrea ed al rapporto assurdo che ha con Paola, conosciuta per caso. Da questo punto di vista oserei dire che questo mosso e vario e ben impostato romanzo, che poi ancora mostra vari avveni-


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menti e situazioni che si conoscono a mano a mano nel corso delle pagine, è anche il romanzo del caso: è un caso - dicevo prima – che l’architetto Andrea incontri Paola, che nervosamente e sotto la pioggia aspetta un taxi; è un caso che poi ancora lo stesso Andrea si incontri con una amica di Paola, quella della casetta verde al mare che narra ad Andrea di come sia capitata in quel luogo di mare e come si sia innamorata di quel posto. Ed è Fidia, questo il nome della donna, che narra ad Andrea la vicenda e l’amore tra Lorenzo e Paola. Comunque, a parte ciò, l’opera si lascia facilmente leggere in quanto è avvincente e tiene desta l’attenzione del lettore che non si stanca mai di leggere e seguire le varie vicende. Per come si presenta il lavoro, per come è orchestrato, per il linguaggio molto aderente alle varie situazioni e scene di volta in volta presentate, ritengo che esso sia frutto di lunghi e pazienti anni di preparazione e di scrittura e che abbia alle spalle una formazione letteraria significativa. Letture e studi, come si evince dalla biografia minima riportata nel libro, anche di autori europei (Sartre, Camus ma anche Kafka e Joice, per rimanere nel recinto della scrittura del cosiddetto “assurdo”) si sono forse riverberati in questo romanzo psicologico che mostra, oltre che la preparazione, anche la sensibilità della scrittrice. E se a ciò si unisce la perizia nel sapere costruire dialoghi, pensieri, azioni e scene dei vari personaggi, senza mai “accusare discrasie di lingua e di tessuto narrativo”, allora “vuol dire che è uno scrittore che sa il fatto suo” (vedere nel testo la nota di Raffaele Sirri). Nella “Nota” dell’A. poi, mi è dato leggere ciò che si evidenzia subito e salta agli occhi del lettore del romanzo: e cioè, che si tratti di una storia, quella di Andrea Mascani, molto particolare attorno alla quale ruotano altri personaggi pure essi ben delineati nelle loro psicologie. E sono personaggi che hanno una vita interiore specifica, una personalità complessa ma che viene descritta dalla Cordiano in modo accurato e preciso, anche nella peculiarità delle singole caratteristiche psicologiche.

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Dai riferimenti temporali che si colgono nel romanzo, se si bada alle situazioni, ai fatti, possiamo dire che ciò che qui si racconta e narra risale agli anni Settanta, ma pure prima, e certi avvenimenti e certe atmosfere storiche, sono stati, come afferma la stessa autrice nella “Nota”, vissuti da lei stessa in prima persona, seppure in modo diverso, visto che pur essendo calabrese, ha abitato e si è formata fuori dalla Calabria e per vario tempo a Napoli, città che ancora sente come sua. Comunque, di ogni personaggio, e penso alla zia Lia (ottima cuoca) o allo zio Alfredo, marito di lei, viene colta la personalità come pure ben delineati sono altri personaggi: la figura dell’assessore oppure quella dell’altero e potente ingegnere Martenago, che, poi, è, in ultima analisi, colui che dà il suo assenso alla realizzazione dei vari progetti. Esemplare è il modo accurato e omogeneo usato per porre in evidenza i modi, gli sforzi che fa Andrea di liberarsi di una donna che lo ha ingannato e allontanato pure dai genitori ed i travagli interiori di chi fugge e dice no a un ambiente corrotto, popolato da gente mondana vuota e dedita agli affari e ai soldi, gente ridicola e sguaiata. Andrea, attraverso un percorso tormentato, incomincia a vedere la luce, incomincia a vedere una altra vita quando si incontra casualmente con Fidia, la donna dolce e fedele, bella e fragile, diversa dalla perfida Paola, di cui viene a conoscere la vita intima. La Paola che condiziona in tutto e per tutto la vita di Andrea: lo rende inquieto, gli crea allucinazioni, angoscia, stati ossessivi dovuti al pensiero di lei di cui è innamorato mentre lei, ritenendolo uno sciocco sentimentale di paese, riesce, a mano a mano, proprio dai racconti della donna, la storia intima e gli inganni. Il romanzo che riporta, tra gli altri, un breve ma azzeccato pensiero dell’illustre e compianto esegeta letterario e poeta, Giorgio Barberi Squarotti che giudica il romanzo della Cordiano “molto intenso e significativo, fra degradazione della politica e affari”, chiarisce il mondo corrotto degli affari presente nel romanzo. E’ nella città che troviamo l’ archi-


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tetto Andrea, lì ritornato dopo aver conosciuto a mare Fidia, intento a portare a termine un progetto attinente alla costruzione di un quartiere residenziale. L’opera voluta soprattutto da Monsignor Trovatelli e concepita da Andrea, secondo una filosofia urbanistica fedele all’ambiente, con molti spazi verdi ma che deve, prima di essere approvata, passare al vaglio di personaggi, assessori e ingegneri, affaristi. Costoro vogliono invece correggerla e snaturarla per cui Andrea lascia il progetto delle palazzine “di monsignore” in altre mani. In effetti, oramai del progetto ad Andrea non importa molto perché pensa a dare un nuovo corso alla sua vita specie dopo aver conosciuto la donna della casetta verde al mare. Pure Fidia ha avuto una storia quasi simile a quella di Andrea: amava un uomo che poi sorprende a letto con una sua cara amica. A monte vanno le nozze perché Fidia non intende più sposare l’uomo che l’ha tradita, anche se il padre la invita a ripensarci e sposarlo in quanto ricco. Fidia però non accetta il consiglio paterno e rifiuta di sposare la persona che dapprima amava. Poi incontra per caso Andrea e subito tra i due si stabilisce una calda intesa. Magica e misteriosa. Ormai i pensieri di Andrea sono rivolti solo a Fidia e non vede l’ora di partire dalla città e raggiungere la donna al mare perché è con lei, con questa donna che vuole iniziare una nuova esistenza. Certamente non mancano i casi tragici, penso ancora a quell’uomo che si è buttato a Napoli dal secondo piano dopo aver litigato con una donna. Quest’uomo viene scambiato da Andrea per Lorenzo, e quindi non pensa più alla vendetta perché – crede Andrea - Lorenzo si è punito da solo uccidendosi: Ma cosi non è perché –ancora per caso - Andrea trova un giornale, lo apre e legge la notizia che quell’uomo si chiama in un altro modo. A parte ciò bisogna guardare alla scrittura del romanzo che è molto comunicativa, fluida, ed entra subito nell’argomento, evidenzia molto bene i sommovimenti interiori dei personaggi, i loro pensieri, inquietudini; una scrittura talvolta molto forte e nello stesso tempo vigorosa, incisiva, ricca di metafore, di allusioni,

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analogie. <<La verità mi concede solo i resti; mi fa vivere delle briciole. Mi tratta come un cane perché sa, o pensa di sapere, che rimarrò fermo e paziente ai suoi piedi ad aspettare che si ricordi di me e mi getti un boccone >> (p. 31: Andrea parla del comportamento di Paola, di Paola bugiarda e ingannatrice); <<Potessi volare anch’io; potessi impadronirmi della leggerezza degli uccelli per librarmi nel cielo e sentirmi figlio dell’aria. Invece sono come tutti gli uomini: un verme di terra, misero nella sua ridicola superbia. Un verme in balia della volontà di altri vermi. Magari di una donna che ti usa come un giocattolo: che ti monta e ti smonta, ogni volta in modo diverso e nuovo, dandoti la vita che vuole. Per poi romperti definitivamente, scagliando i pezzi lontano da sé. Ma qualche volta quei frammenti riescono a ricomporsi e trasformarsi magari in rondine e volare, volare…. Ma cosa vado a pensare! Sciocchezze, solo sciocchezze!>> (p. 103: pensieri che vengono ad Andrea leggendo la lettera d’addio di Paola); <<Certo, non poteva ammettere quanto fosse stata innamorata di Luca: la scoperta del tradimento l’aveva resa quasi pazza e anche lei aveva pensato alla vendetta. Ma è la girandola tragica della vita, a volte, che provvede a portare a compimento vendette dure, terribili: nel giro di pochi mesi, infatti, Luca mori in un terribile incidente stradale>> ( p, 118. la storia sentimentale di Fidia). Certo, come ho già avuto occasione di dire, questo romanzo della Cordiano presenta questa <<girandola tragica della vita>>, presenta casi assurdi, situazioni assurde in cui si vengono a trovare i personaggi (penso alla situazione sentimentale di Andrea con Paola). Non per nulla nel primo capitolo <<Inquietudini>> questa parola (<<assurdo>>) è detta da Andrea, anzi è ripetuta due volte: Andrea difatti pensando alla sua situazione dice: <<In fondo è assurdo, proprio assurdo>>. Altre volte lo stile diventa icastico specie quando presenta la vita mondana, le signore che partecipano al ricevimento tenuto nella villa di un commendatore che aspira alla carriera politica: <<Salutò (Andrea) alcune signore, ve-


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stite in modo vistoso, scollacciate ed esageratamente iellate. Le osserva quasi tutte perché consorti di gente che apparteneva a un’ associazione esclusiva e assai bizzarra, quella dei <Buongustai>, di cui facevano parte i nuovi ricchi della città>>, e quella sera ne aveva visti parecchi. Qui l’elegante Andrea incontra una di queste signore, Cristina che gli rivolge sguardi di fuoco e lo segue nel giardino. Ma Andrea non le corrisponde, la donna gli fa <<avances inequivocabili>>. In Andrea ecco che poi scatta il meccanismo di identificazione, di immedesimazione: Cristina è Paola e lui Andrea è il marito di quella donna: <<Ciò lo esacerbò ancora di più. Si alzò, reso cieco del risentimento, spinse la donna lontano da sé>> (p. 149). Il romanzo si presenta compatto nei temi e linguaggio, e poi è diviso in capitoli che hanno dei titoli emblematici perché ci dicono ciò che in essi si trova: ecco le inquietudini, i rovelli i pensieri che mulinano in testa di Andrea, la sua situazione al paese, e ovviamente qui Andrea, per un processo psicologico, rivive certi ricordi e richiama certe scene alla sua mente: vengono a galla passate sensazioni paesane; e ancora ecco il paese con i suoi tipi particolari (penso a Pasquale il Matto), e non manca il mare, il richiamo del mare, e ancora il pensiero della madre di Andrea morta per un brutto male, gli zii affettuosi, l’aria del paese. Perseguitato dai maledetti pensieri Andrea li imbriglia per un momento stando a contatto con il mare, e qui trova pace ma poi ancora ecco i dubbi tormentosi, e i tentativi di cambiare vita, per non aver più dubbi e cadere nella consueta disperazione, per non restare inchiodato da assillanti e dispiacevoli pensieri, pensieri della maledetta Paola. Al paese intrattiene rapporti con gente diversa da Paola e da quella napoletana, ed eccolo intrattenersi con la signora anziana Amalia (sua collaboratrice domestica), donna linda, garbata e generosa, molto affezionata all’architetto che aveva visto crescere e che accudisce come un figlio quando questi tornava al paese. Andrea è un uomo solo, come solo è al paese Salvatore dopo la morte della moglie. Andrea pensava a come si assomi-

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gliava la <<sorte degli uomini soli e privi di affetti, costretti a consumare i loro drammi nella solitudine>> (p. 35). Ora Andrea ricorda la sua adolescenza al paese, le sue poesie. Ecco la memoria, i ricordi, la vita passata, ed è difficile per lui distruggere quei pensieri, quelle poesie ormai confitti nella memoria, e pur distruggendo le carte che contengono quelle poesie, esse, le poesie continuano a vivere una vita autonoma in <<qualche zona misteriosa della sua memoria>> (p. 34). La prima parte del romanzo si basa sui ricordi, anche se i pensieri si rivolgono a Paola, gli incontri con le persone del paese, ad esempio. Ecco poi ancora altri capitoli: <<Lo zio prediletto>> (lo zio Alfredo, di cui si è detto) e poi la zia. Comunque in Andrea prevale l’ interrogazione su che cosa sia la vita ad esempio dopo il fatto di Lorenzo, fatto che ha scosso Andrea e lo spinge a chiedersi cosa fosse mai la vita se era cosi facile disfarsene, buttarla via come un fardello inutile, come un peso insopportabile. Comunque eccolo Andrea al paese incontrarsi con quello zio Bartolo che quando egli era piccolo gli raccontava storie straordinarie, fantastiche. Lo zio frequentava la casa di Andrea specie quando <<sentiva il bisogno urgente di rifocillarsi>> (p. 71). Il paese per Andrea significa pure questo. Molte le tematiche e i colpi di scena, le varie descrizioni, dialoghi, monologhi che rappresentano o, meglio alimentano il frastagliato ma unitario svolgimento del romanzo condotto con stile molto centrato che accompagna le varie situazioni e scene, stati d’animo, meccanismi psichici. Non mancano i sogni e in essi avvengono molti fatti attinenti alla condizione interiore di Andrea: il pensiero continuo di Paola gli procurava sogni brevi, arruffati e <<veglie interminabili>>. A mano a mano che cresce il romanzo ecco che prende la decisione di partire per Napoli disbrigare alcune cose e far ritorno da Fidia. Una volta a Napoli si ritrova solo in quelle stanze in cui era vissuto con Paola. Ormai in lui si fa chiara la consapevolezza di lasciare tutto, affidare il suo progetto al suo collaboratore carrierista che si trova bene in quell’ambiente e


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far ritorno alla casetta verde e pensa alla dolcezza alla vita che può vivere con quella donna dolce e gentile. Andrea dice basta alla sua precedente vita e non vuole avere rapporti con assessori, ingegneri intesi solo a fare soldi e usano in modo indegno del loro potere. Basta essere usati da uomini come Soldani che ha un enorme faccione, basta essere manovrati da un ingegnere come Martenago. Andrea si avverte estraneo a quel mondo ed eccolo ritornare verso la nuova vita rappresentata per lui da Fidia. Un romanzo, questo della Cordiano, che mostra come la scrittrice guarda alla vita e ne sottolinea i vari andamenti. E’ un romanzo psicologico che mostra anche la preparazione, la sensibilità della scrittrice che si nutre pure di letture di autori europei. A ciò si unisce la perizia nel sapere costruire dialoghi, pensieri, azioni e scene dei vari personaggi. Orbene è un romanzo che si fa leggere, che sa leggere nella vita, fa conoscere l’intimo delle persone, i loro drammi, la loro, per esempio, <<miseria mentale>>, e, nel contempo, ci fa assistere alla vita che giorno dopo giorno si svolge nei suoi diversi modi e storie, scene. Romanzo che è pieno di vita, romanzo corale di vita in cui i personaggi, i loro pensieri ed emozioni, e penso ad Andrea Mascani, sono espressi in belli e suggestivi versi: <<Guarda il mio viso /e la sua pena /umida, vera./Non è una posa/che ho vissuto/mi ha regalato già/la sua tristezza./Godi se puoi /tanto il cuore non ci accompagna più,/E’ andato via, volato /forse per noia /forse per pietà>> e poi il mare: <<Mare di luce, mare di ombra /mare di silenzio e di mistero>>. Ma il mare è anche infinito, magico: <<mare d’inganno;/mare di vita, mare di morte,/mare la mia mente, mare il mio cuore,/mare il mio amore,/immenso e infinito come te>> (p. 188), ed Andrea in silenzio si sofferma sugli ultimi versi (pensando a Fidia) che <<ora trovò più aderenti agli intimi palpiti della sua anima>>, e certo nel romanzo non mancano <<palpiti intimi>> ed anima. Carmine Chiodo CATERINA ADRIANA CORDIANO - I giorni del mare - Pellegrini Editore, 2019 - Pagg. 192, € 15,00.

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FOTO Uno scatto e la foto che cattura quel che l'occhio ha intravisto e te lo dona fermo per sempre. Non li ruba il tempo volti, fiori, paesi, alberi, case: non li uccide la morte. Si ripete ogni volta l'evento se lo guardi nella trama di vividi colori incuranti del correre degli anni e dei decenni. Tu sei là, nel cerchio che un giorno ti sedusse e ti dischiuse la meraviglia di mille splendori. E forse di eternarli anche t'illuse, freschi e veri, così come in quell'ora li vedesti sorridere nel sole. Elio Andriuoli Napoli

LE CAREZZE I BACI Le carezze ce le regalavamo con gli occhi i baci nel sonno con le punte delle dita. E così eravamo contenti. Avevamo il sole di giorno, nel buio le stelle. Avevamo le mele le pesche le farfalle da prendere sui fiori e gli uccelli nei nidi. Si andava spediti all’ora che viene, all’estate., all’inverno, a ciò che ci scrivevano i sogni nel pensiero. Eravamo felici: il pane in mano tre gocce d’olio un pizzico di zucchero. Gianni Rescigno Da Il vecchio e le nuvole, Bastogi Libri, 2019.


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DEBITO PUBBLICO (Ulteriori considerazioni) di Giuseppe Giorgioli

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ELLA lettera di Beatrice Gaudy, riportata su Pomezia-notizie di novembre 2018, si fa riferimento ai miei articoli sul debito pubblico. Beatrice G. constata: “del debito pubblico si può probabilmente dire lo stesso di molti paesi. A volte, gli Stati aiutano molto i ricchi, anche.” Questa affermazione in parte è vera in quanto tutti gli Stati Europei hanno un debito pubblico, ma la situazione dell’Italia è ben peggiore! Nella Ue l’Italia è il paese più indebitato e potrebbe seguire prossimamente il destino della Grecia. In Italia vi è troppa corruzione, che frena lo sviluppo. Troppi politici super pagati a differenza degli altri paesi. Ogni opera pubblica e anche privata viene realizzata con prezzi gonfiati per pagare tangenti. Tangentopoli non è finita! Anzi durante gli ultimi vent’anni il valore delle tangenti si è addirittura triplicato! La ricetta per creare un paese virtuoso sta nella riduzione degli sprechi e diminuire le tasse alle imprese che possano creare sviluppo e aumentare in tal modo l’occupazione, lo sviluppo e il PIL. Visto l’attuale mio interesse a tali problematiche sono andato in biblioteca di Pomezia il giorno 10 dicembre 2018 alla presentazione del libro “Colpo di Stato”, degli autori Franco Fracassi, giornalista (fece inchieste sul Monte dei Paschi di Siena e l’11 settembre) e Tiziana Altiero, giornalista anch’essa (è interessante il sito web: https://www.byoblu. com/2018/04/29/chi-sono-i-registi-deldisastro-tiziana-alterio/). Faccio alcuni accenni al libro: COLPO DI STATO (Marco Campanella Editore (www.marcocampanella.it), Anno 2018, € 13, pagine 161, Brossura, ISBN 978-1718034327 Nelle Prefazione curata da Elio Lannutti, presidente dell’Adusbef, Associazione dei consumatori, viene spiegato che le agenzie di

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rating come Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch sono al servizio di un sistema finanziario mondiale di cui fanno gli interessi. Contro la politica economica della Ue Sahne Wagenknecht, vicepresidente del partito della sinistra tedesca (Die Linke) ha fatto accuse pesanti contro Wolfgang Schäuble, la Merkel e Mario Draghi. Ha parlato, fra l’altro del predominio della Germania in Europa riguardo le politiche economiche: la Germania nazista fu sconfitta il 9 maggio 1945 e il 9 novembre 1989 è ritornata in auge! Il marco è diventato l’euro! Nel 2015 Essa è tornata sul trono. Il 12 luglio 2012 l’Ue ha approvato il Mes, meccanismo europeo di stabilità, che impone a tutti i paesi dell’Ue la riduzione crescente del debito, provocando così le varie crisi economiche causate dalle conseguenti austerità. Del libro ha colpito il mio interesse l’ ”Operazione Chaos”, nome in codice di un piano CIA elaborato nel 1967 dal direttore del controspionaggio James Angleton su ordine dell' amministrazione Johnson, avente lo scopo di finanziare il terrorismo in vari Paesi dell’ America latina, dell’Africa e dell’Asia per imporre governi fedeli alla politica estera degli U.S.A., favorendo così in Grecia il colpo di Stato dei colonnelli, mentre in Italia, la strategia della tensione ed il terrorismo. I campioni dell'austerità stanno applicando alla lettera le teorie del neoliberismo sulla Grecia. Fino al 2060 Atene sarà sotto amministrazione controllata da parte della Ue. Tutto ciò è stato possibile grazie a un vero e proprio colpo di Stato ordito in un giorno di mezza estate: il 12 luglio 2015 dopo ben 17 ore di summit con il Presidente della Ue Donald Tusk, la Presidente della Germania Angela Merkel, il Presidente francese Hollande e il capo del Governo greco Tsipras si è decisa la privatizzazione di tutti i principali beni della Grecia, fra cui le isole, gli alberghi, i 14 aeroporti principali… ! Sarà l'Italia il prossimo obiettivo del Sistema? Inoltre, il Fondo Monetario Internazionale ha ammesso che la Grecia è stata sacrificata


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per salvare l’euro. L’economia internazionale, europea e nazionale sono interdipendenti e difficili da capire. Anche per un politico è difficile prendere le giuste decisioni, che spesso sono prese per soddisfare le promesse elettorali anche se talvolta prive di logica riguardo l’interesse generale. Giuseppe Giorgioli

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Un passero appare e scompare dalla fenditura di un muraglione. Magri fiori selvatici tremano di solitudine. Ogni sera ritorni a casa. Perché proprio tu dovresti temere la solitudine ?

Da giovane sognavo ben altro LUIGI DE ROSA QUATTRO POESIE

Golfo del Tigullio Una liquida lastra rossoazzurra ingoia il sole, in punta a Portofino, in un tiepido tramonto di gennaio. Agavi, fichidindia, pini si protendono da terrazze e giardini. Ma perché ? Se un giorno o l'altro dobbiamo scomparire da questo palcoscenico, perché è così traboccante di luce, di dolcezza, di intimo splendore ?

Autostrada di Liguria sospesa in cielo Nel blu notturno trascorrono scintillando puntini bianchi da est ad ovest. Sul davanzale si inseguono a migliaia ininterrottamente. Portano idee e progetti, desideri, speranze, sogni. La tenebrosa boscaglia in fondo a destra continua a inghiottirli instancabilmente.

Ora mi colpisce la fatuità delle lucciole nel buio primaverile, la fragilità delle foglie e della terra nei diluvi autunnali. Simboleggiano la precarietà della vita come in un film sempre già visto ma che si dimentica. Luigi De Rosa (Rapallo, Genova)

TRA LE VITI E salgo sui poggioli ove c’è stuolo di fanciulle. Assorto il nonno è patriarca di riti. Già sogna il focolare, il tempo in cui vi spillerà lo zampillante vino e le vizze guance parranno melograna. E scorre il giorno tra filari: e generosi i grappoli sorridono.

Ferrovia di Liguria a strapiombo sul mare

Ma già, nata, la luna disperde gli ilari canti giù per la collina.

Il treno è fermo, a strapiombo sul mare.

Rocco Cambareri Da Versi scelti, Guido Miano Editore, 1983.


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RACHELE ZAZA PADULA:

PER AMARE ORAZIO di Liliana Porro Andriuoli N’attenta lettura dell’opera poetica di Quinto Orazio Flacco, al fine di ricavare una viva immagine dell’ uomo e dell’artista, è quella compiuta da Rachele Zaza Padula con il suo nuovo libro Per amare Orazio, apparso nel maggio del 2018 per le Edizioni Osanna di Venosa; libro nel quale l’autrice ci presenta il suo poeta prediletto in maniera fortemente autobiografica, rifacendosi alla sua opera letteraria. E si tratta di un poeta vissuto a Roma durante il periodo di Ottaviano Augusto, cioè durante gli anni del passaggio dalla Repubblica all’Impero (Orazio nacque infatti a Venosa nel 65 a.C., ma trascorse la sua vita prevalentemente a Roma, dove morì, nell’8 a.C.). Scaturisce dalle pagine della Padula una visione nitida e precisa della Roma del tempo in cui Orazio visse, ma soprattutto scaturisce l’immagine di un poeta che ancora oggi ha molti cultori per l’universalità della sua produzione letteraria. L’intento dell’ autrice non è, in ogni caso, stato semplicemente quello di “celebrare un poeta” illustre come Orazio, “amato e apprezzato nei secoli in tutto il mondo”, ma è stato principalmente quello di avvicinare Orazio a noi “attualizzando i valori contenuti nella sua poesia, così rispondenti ai bisogni spirituali del nostro tempo”1. Dal che è scaturita l’immagine di un poeta estremamente moderno, pur essendo vissuto più di 2000 anni fa. Il libro, Per amare Orazio, è essenzialmente costruito attraverso una successione di dialoghi che avvengono fra il poeta e i suoi vari amici che di volta in volta si presentano sulla scena e gli parlano; un metodo, questo, indubbiamente efficace ed originale, e soprattutto molto congeniale alla nostra valente scrittrice, la quale ha al suo attivo

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anche diversi pregevoli testi teatrali2. Tuttavia nel libro in questione ai dialoghi, fra Orazio e i vari personaggi del suo tempo, si alternano costantemente i commenti della Padula su quanto essi dicono; il che ci permette di meglio seguire l’evoluzione del pensiero del poeta latino, il quale, partendo dal suo iniziale stoicismo giovanile, si accosterà mano a mano alle idee della dottrina epicurea, cui aderirà; il che gli permetterà di trovare alla fine un rifugio nell’otium contemplativo. Il racconto della vita di Orazio prende l’avvio dal dialogo che egli ha con Lalage (una sua fedele amica), nella villa da lui ricevuta in dono da Mecenate, consigliere di Augusto e figura di grande spicco nel mondo culturale romano dell’epoca, per la sua protezione dei poeti più validi. Orazio parla a Lalage in maniera affettuosa, rievocando la figura del padre e gli insegnamenti da lui ricevuti, che lo hanno reso un uomo saggio e onesto oltreché un poeta famoso3. Ricorda quindi gli studi compiuti, sempre seguendo le direttive paterne, dapprima a Roma e poi ad Atene, dove iniziò ad apprendere la filosofia Stoica da valenti maestri. Viene ricordato inoltre l’evento della morte di Cesare, alle Idi di marzo del 44 a.C., cui seguì lo scontro tra Bruto e Cassio (i principali promotori della congiura contro Cesare) da una parte e i cesariani, Ottaviano e Antonio, dall’altra; scontro che terminò con la sconfitta di Bruto a Filippi (42 a.C.), 2

Rachele Zaza Padula è autrice dei seguenti testi drammatici: In casa dell’Illustrissimo Don Carlo Gesualdo, dialogo tra Maria D’Avalos e Madre Sveva, 1997; Gherardo della Porta, L'antica leggenda di un miracolo, dramma sacro in 3 atti, 2004; Sancta Teresia Benedicta a Cruce, dramma sacro in 3 atti, 2011; il dramma Francesco di Messer Pietro di Bernardone, 2014; Oscar Arnulfo Romero, tragedia in due atti e un epilogo, 2014. Scrive la Padula: “…nessuno prima di lui ha lodato tanto il padre e la formazione morale da lui ricevuta”, p.15. 3

1

Nota Introduttiva, p. 7.

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al quale il giovane Orazio si era unito per il suo amore della libertà repubblicana. E fu proprio a Filippi, precisa Rachele Padula nel suo commento, che “crollò l’esaltazione stoica e repubblicana di Orazio”; ed al contempo, d’un solo colpo, crollarono anche tutti i suoi ideali giovanili. Sempre nel suo aperto dialogo con Lalage, Orazio ricorda poi le successive difficoltà economiche che dovette affrontare dopo Filippi, avendo perduto il patrimonio paterno, confiscatogli in seguito alla sua militanza nelle fila di Bruto. È però questo anche il tempo in cui, avendo Orazio fatto ritorno a Roma in seguito all’amnistia concessa da Augusto, cominciò a scrivere versi, servendosi dei modelli greci e latini. (“E quando dopo Filippi mi restituirono alla libertà, con le ali spezzate, avvilito, privato del campo e dei Lari paterni, l’audace povertà mi spinse a comporre dei versi…”, Epistole, II-II, 49/52). Ed è appunto a quest’epoca che risale anche l’inizio di quel “privilegiato rapporto spirituale”4 con Virgilio, il quale si offrì di introdurlo nel circolo di Mecenate, che individuava i maggiori talenti del momento per legarli ad Augusto. Tramite continui richiami alla sua opera (Odi, Satire ed Epistole), estremamente ricca di notizie autobiografiche, il libro della Padula ricostruisce, attraverso le numerose citazioni dei versi di Orazio (da lei stessa tradotti dal latino), molti degli avvenimenti della sua vita, facendo così luce sui rapporti da lui intessuti con i vari amici, sull’evoluzione del suo pensiero e sull’ ambiente della Roma augustea, con i suoi nuovi ricchi e i suoi aspiranti scrittori. Grande interesse in proposito offrono, nella vasta produzione poetica oraziana, le sue Epistole, in virtù del “carattere di colloquio “I due poeti vissero il periodo critico e i complessi avvenimenti che segnarono il passaggio dalla Repubblica all’Impero, divenendo gli interpreti e le voci più significative del loro tempo”, p. 21. 4

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amicale” che presentano. Costituiscono delle vere e proprie missive con le quali Orazio suggerisce agli amici (fra cui Mecenate, Tiberio e Torquato) dei principi di antica saggezza, quali: “Nessuno è tanto invidioso, iracondo, accidioso, beone, donnaiolo, rozzo che non possa migliorare, purché docile presti l’orecchio all’insegnamento. La prima virtù è fuggire il vizio…” (Epistole, I-I, 38 e successivi); “Chi ben comincia è alla metà dell’opera” (Epistole, I-II, 40); “Beato io chiamo chi vive in campagna” (Epistole, IXIV, 10); ecc. Ed è proprio quest’ultima massima che meglio ci fa comprendere quanto Orazio abbia apprezzato il dono della villa, nella verde Sabina, fattogli da Mecenate; un luogo tranquillo, lontano dai clamori e dalle cure dell’urbe, dove poteva godere della pace agreste (Epistole, I-XVI). D’altra parte la pace della natura e il godimento delle sue meraviglie, come osserva la Padula, costituiscono “uno dei motivi ispiratori più insistiti nella lirica oraziana” nella quale “scene e spettacoli naturali” sono tradotti in “immagini piene di risalto e luminosità” (p. 43). Si veda in proposito una delle odi più famose, quella che inizia: “O Fonte Bandusia, più trasparente del vetro, / abbondanti fiori siano offerti a te e dolce vino” (Odi, III-XIII, p. 43), dove si allude ad una fonte, situata proprio nei pressi di Venosa, città natale di Orazio. Un’altra ode oraziana molto nota, presa in esame dalla Padula per il suo contenuto autobiografico, è la IX del libro I, che si apre con la visione del monte Soratte, che “domina bianco / d’alta neve” (“Vedi come il Soratte domina bianco / d’alta neve”, p. 50). L’incipit dell’ode ci offre infatti l’immagine di un suggestivo paesaggio, visto in un freddo giorno invernale, sul quale “domina”, appunto, il monte innevato, a cui si contrappone l’ambiente interno della casa, caldo e confortevole, dove il poeta si è riparato e sta sorseggiando “un saporoso vino” invecchiato “di quattr’anni” (p. 51). Ed è proprio tale serenità che gli offre


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l’occasione per ritornare su un tema piuttosto frequente nel poeta lucano: quello dell’ invito a cogliere le gioie anche minime che la vita può dare ed a goderne, senza preoccuparsi di quanto ci potrà capitare domani (“Lascia che gli Dei si curino del dopo /… // Non chiedere cosa ti porti il futuro; / se pure la sorte ti concederà / il domani, ritienilo un guadagno”, Ivi, p. 51). È appunto il famoso tema del carpe diem, tanto caro ad Orazio, che non va tuttavia inteso, e ben lo sottolinea la Padula, come “un superficiale edonismo”, ma semplicemente come la capacità di saper apprezzare la “magia dell’attimo fuggente”, senza preoccuparsi eccessivamente per quanto accadrà domani (p. 63). Tra le odi dalle quali meglio emerge tale aspirazione (di ottenere cioè la serenità dell’animo e raggiungere quindi la vera saggezza) vi è senza dubbio la XI del I libro, che è tra le più note di Orazio, e che al contempo rappresenta un vertice di alta poesia. Il poeta si rivolge qui alla giovane Leuconoe ed enuncia il precetto fondamentale della morale epicurea: “O Leuconoe, mia cara, non chiedere (non è lecito saperlo) qual termine / abbiano a me e a te gli Dei assegnato, / … / … Mentre parliamo il tempo invidioso / avrà rapito l’attimo soave: godi l’oggi non affidare attese al domani” (p. 62). È meglio, egli ancora ripete, saper gustare la gioia dell’attimo presente, saper vivere l’ oggi, anziché interrogarci inutilmente su cosa ci riserverà il futuro; il tempo, non dobbiamo dimenticarlo, scorre inesorabile e rende le gioie brevi e passeggere. (E fra le gioie che il presente può offrire una delle più preziose è, per Orazio, senz’altro quella di intrattenersi con gli amici più cari, che abbiano con lui delle affinità spirituali, p. 51). C’è ancora da precisare che quella di Orazio è sovente una poesia esortativa e che, come tale, tende a dare saggi consigli ed a suggerire dei validi modelli di vita, come avviene nell’ode X del libro II, dove il modello proposto è quello dell’“aurea medio-

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critas”, che consiste nel ricercare sempre, in ogni situazione, il “giusto equilibrio”, privilegiando la “moderazione”, che ci consente di restare lontani da ogni eccesso. Ed è appunto quanto desidera Orazio; che cerca sempre una medietà di vita aliena dalle passioni troppo forti, che gli consenta di vivere serenamente. Si legga in proposito anche la satira I-1 dove, ai versi 106-107, si parla ancora di misura nelle cose e di confini, al di là dei quali non può esservi equilibrio. Si vedano in particolare, come due opposti casi di eccesso, le descrizioni dell’avarizia di Avidieno, il quale per cupidigia “mangia olive secche di cinque anni” e dell’eccessiva prodigalità di Nasidieno, “il riccaccio”, il quale “allestisce una cena che anticipa quella di Trimalchione, descritta da Petronio nel Satyricon” (p. 85). Evidentemente costoro non avevano raggiunto “l’aurea mediocritas” proposta da Orazio. L’immagine del poeta che ne scaturisce (e che la Padula ben mette in risalto) è quella di un uomo amante delle piccole gioie che la vita può dare, pago dei semplici piaceri, come una cena fra amici, con i quali trascorrere delle ore serene. Ed è un’immagine di profonda saggezza, la sua, che fortemente contrasta con la mentalità dei nuovi arricchiti, convinti che ostentare “opulenza” possa “far dimenticare la loro rozzezza”, come nel caso di Nasidiemo di cui s’è appena parlato (p. 76). Nelle sue odi Orazio cantò anche l’amore; ma il suo non fu mai un amore profondo e sofferto, bensì un amore nato da incontri fugaci e poco incisivi, dato che egli fu in sostanza un uomo solo, che preferì le relazioni passeggere a quelle durature, che colmano tutta una vita. In alcune odi sembra tuttavia essere veramente innamorato, come in quella da lui dedicata a Cloe, una delicata figura di donna (“Cloe, tu mi eviti come una cerbiatta / che cerchi la trepida madre”, Odi, I-XXIII). Egli invero prediligeva la vita aliena dal tumulto dell’amore-passione; per questo loda l’ amo-


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re sereno e duraturo, che così canta: “Beati oltremodo quelli che un tenace / vincolo congiunge, non minacciato / da dispute pericolose, e che l’amore / solo l’ultimo giorno separa!” (Odi, I-XIII). C’è poi il rapporto con Lalage dell’ode V del Libro II, che qui diventa l’interlocutrice del poeta e la sua confidente, con la quale egli piacevolmente s’intrattiene.

acutezza d’intuizioni e con limpidità di eloquio, questo della Padula, che fa rivivere Orazio nell’età che fu sua, rendendolo però quanto mai attuale. Liliana Porro Andriuoli

Col trascorrere degli anni s’affaccia inoltre nella poesia di Orazio il motivo dell’ approssimarsi della morte, al cui sopraggiungere egli dovrà abbandonare ogni cosa amata: “Ahimè! Postumo, Postumo mio, gli anni / corrono veloci né le preghiere assidue / allontaneranno la vecchiaia che incombe / né le rughe e la morte, che non potrai evitare” (Odi, II-XIV, p. 119). Lo colpisce dolorosamente anche la morte di Mecenate, che tanto gli ha dato: “Perché coi tuoi lamenti mi ferisci il cuore? / Né agli dei né a me è gradito che tu / muoia prima di me, o Mecenate, / alto onore e sostegno della mia vita” (Odi, II-XVII, p. 123). Anche altre odi oraziane sono pervase dal pensiero della morte, come la XXVIII del I Libro, dove leggiamo: “Un’eterna notte tutti ci attende, tutti una volta / dovremo calpestare il sentier di morte” (p. 125). Lo consolarono tuttavia il pensiero che la sua opera fosse destinata a durare nel tempo e la consapevolezza del proprio valore, come appare dai celebri versi dell’ode XXX del III Libro: “Ho compiuto opera più duratura del bronzo / e più alta delle piramidi regali / che né furor di venti distruggerà / né la forte pioggia che fiacca // né serie innumerevole d’anni e di stagioni” (p. 129). E si tratta di versi che ben esprimono il sentimento del poeta, giunto al termine della sua lunga carriera d’artista. Con essa, e con la XX-II (“In alto mi leverò con ali vigorose”) la Padula chiude il suo libro su Orazio, che vuol costituire un valido omaggio al grande poeta lucano, uno dei maggiori di tutti i tempi. Un libro lungamente meditato e scritto con

COSÌ SIA

RACHELE ZAZA PADULA: PER AMARE ORAZIO (Osanna Edizioni, Venosa, 2018, € 12,00)

Viviamo ore indicibili come il gitano in pacifica guerra. E nei sogni c’è incubo di corvi. Di bianco vestito, il Nazareno percorra nuovamente le contrade come a Gerusalemme un tempo. E l’argento degli ulivi intrecci ancora archi di trionfo. Rocco Cambareri Da Versi scelti, Guido Miano Editore, 1983.

IN OGNI NOTTE D’APRILE Nello sguardo smarrito preghiere d’aiuto e deboli guizzi di luce. Poi sul tuo volto si fermò il buio. Quando ricominciammo a guardare le stelle la tua si fece riconoscere per prima: ardeva più di tutte. E l’amore che ci gonfiava il cuore straripò: era fiume in ogni notte d’aprile. Gianni Rescigno Da Il vecchio e le nuvole, Bastogi Libri, 2019.


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IL FILO DELLA SPERANZA di Leonardo Selvaggi

I

L dominio di mio padre che abbellisce la casa, il carattere forte della mamma compresso trova modo di rifarsi di fronte alle piccole disubbidienze del figlio. L'umore nero di certe sere non fa dire una parola, si va a letto subito, dopo l'imbrunire. La mamma timorosa si mette sotto la coperta rannicchiata; le percosse avute, quando un po' audace non ha resistito alla prepotenza rintuzzando con voce stridula, la fanno piagnucolare. Una bestiola che con le gambe doloranti si rintana nell'angolo vicino al tavolo. Nel letto lo stato di abbattimento è per le voglie del sesso un afrodisiaco di sicuro effetto; la mamma, un oggetto preso dentro la rete della smania, sfugge selvatica gli allettamenti, ma i fremiti convincono ci si vuole ancora più bene. Il sadismo, naturale modo per comandare, accende il bisogno di protezione, che si fa fragilità incontenibile nelle carni coperte di lividi. Nella casa mio padre possessivo in tutto, le parole dialettali inarticolate si sovrapponevano veloci, causa la frustrazione del lavoro duro di ogni giorno. La mamma nelle faccende premurosa, lavava i panni molli di liscivia; la cenere era il detersivo e le mani nervose torcevano la biancheria non lasciando dentro una goccia. Di sfuggita si tratteneva fuori della porta, la rabbia di gelosia le faceva paura. I raggi del sole avvincono tanta parte della curva dell'orizzonte. A settembre le prime ombre divorano più fameliche la coda del giorno, la luce diminuisce ancora di un minuto, precipita a lembi nelle ravvicinate gole del crepuscolo. All'imbrunire la campagna si rattrappisce, i covi si riempiono di esseri, tutti insieme; la terra come ravvoltolata. Il fogliame si fa nido caldo di pelli. La casa del paese sprangata con tutta la figliolanza dentro, gli occhi vigili del padre. La voce della mamma si dilata nella

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casa, riempie il silenzio delle pareti, è un tepido suono: richiama la visione del becco dell'uccello che fremente nelle ali dimesse riversa il cibo agli implumi. L'imbrunire fa più fondo l'ambiente. Al chiarore della lampada la figura della mamma trasparente, si vedono tutti i contorni, il suo intimo è nudo; la mamma è tutta la casa, la dolcezza dello sguardo. Dai vetri della finestra si vede girare ingrandita la sua persona, delinea i limiti della casa che di giorno si sfalda nella luce. Apre gli spazi dei mobili, attorno ad essa ascoltano le pareti. L'imbrunire non dà più la casa né la mamma; disuniti è l'ora di andar via. La porta ha le chiavi di ore diverse, i letti si riempiono quando la notte ha esaurito tutte le forme di incontri. La mamma è tornata anche lei dopo la lunga serata con le amiche. La lampada al centro del soffitto è spenta, si vedono le luci basse accanto ai letti, che si aprono man mano che i corpi della casa si infilano sotto le coperte. La mamma non ha di suo nulla, è l' appartenenza, l'involucro della famiglia. L'assillo di interpretare certe parole sentite, arrovellandosi il cervello nel dare a delle risposte un significato giustificativo. Il pendolo oscilla con un ritmo che apre una voragine nel vuoto del silenzio, solo qualcosa di particolare frantumerà le pareti incatenate. Negli anfratti della mente, nei depositi dei pensieri vecchi e nuovi mi ostino a ritrovare le sue parole e le ultime presenze. Il termine delle mie illusioni, dei conti che mi facevo dei mesi, spingendomi nell'altro anno fino alla nuova primavera. Il filo dei giorni che speravo di una tenuità forte, quasi tagliente, da sorreggere elastico il peso del corpo di mio padre. Un'ombra con dentro l'anima sempre intatta della forza di vivere. I brevi momenti all'aperto nel leggero torpore erano delizia di sapore. Il piacere infantile di vedere le case, i colori delle porte, il numero dei piani. Sulla panchina la nostra compagnia è una simbiosi; io mi rivedo la giornata e ogni cosa all'intorno notomizzata nei particolari, la via col suo flusso di emanazioni. Un minuto, una bolla di sapone nella trasparenza di vetro. I raggi del sole sul tetto della casa, vengono tirati dal centro in basso,


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dentro una voragine vulcanica incuneata nelle profondità della terra. Le facce delle donne hanno tratti felini, visi contornati da uno stretto ovale che ascoltano con attente occhiate. Poi tutta una corposa esuberanza di umori. Tutte campionesse, dice mio padre, che non rimangono sottomesse; i capricci vincono sull'uomo che corre dietro facendosi giocare ingenuo e stordito dalla smania vogliosa che si rialza ad ogni ritmo di ritorno, fattesi le vene turgide. Gli occhi di mio padre brillano di un sorriso bonario e riflessivo. Fa roteare a metà la punta dell'indice ritto sulla gota, con ironia esprime la magnificenza del soggetto di cui si parla. Lo vedo vagante, confuso nella penombra della stanza. La forte vicinanza, la sua esistenza seminata come ossigeno indispensabile al respiro. Lui le mie radici, gli anni delle esperienze, le prove dei primi slanci che mi hanno addestrato e fatto vivere. L'ancora per ogni giornata, la copertura per ogni accidente; tutto niente con lui ingigantito nell'anonimo e vuoto dell'ambiente. Nella permanenza a Torino, il punto base lui, un filo unico sull'isola del lavoro, nel deserto di tutto il resto secondario e indeterminato. Mi cuciva tutti i passaggi, una rete intessuta dall' infanzia, trama dopo trama. Tanta ricchezza mio padre. Oggi sento che tutto è diventato fradicio, si sono spezzati i legamenti; un'alta parete sprofondata. Io che comodamente andavo e ritornavo lungo gli anni: le funi sono rimaste a brandelli, precipitato il ponte. Sono in questo cerchio di paesaggi che raccolgono il cielo come in una grossa caldaia. Al tramonto la linea arancione cinge il velame azzurrognolo che si dispiega per gli anfratti, i pianori, per le terre arate abbarbicate ai costoni. Quando le ombre cadono come fogli di bambagia, il cielo si innalza nello spazio delle stelle, diventa il grande etere, l'oceano del tutto. Sei nella matrice della natura, con gli esseri alati che corrono in libertà, passa il tuo soffio dentro il cinguettio concitato, nel volo improvviso fugace di un gruppo di uccelli. In questa solitudine mi sono attardato per sentire l'alito della tua trasparenza. Il filo della speranza che mi rannodava le giornate e

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mi faceva pago di come le cose andavano. I malumori e tutte le contrarietà d'ufficio a sera s'appianavano, sopra vedevo la parola umorosa di mio padre bambino e vecchio. Nessuna acrimonia in lui, se diventava pieno di rabbia per aver ricevuto espressioni indecorose, quando io spazientito gridavo come un ossesso, erano attimi soltanto. Imperdonabili colpe da quattro soldi, la mia cattiveria era desiderio di avere uno stato diverso. Ritornava il suo cuore amico, lo stesso usato con tutte le persone; un immediato contatto affabile. Io sono facile ad avere chiodi fissi, i rifiuti ostinati. Posso essere come la cenere spenta per tanti anni, all'improvviso in escandescenza con la furia del matto. Posso farmi rodere vent'anni da ferite rimaste vive; architetto vendette totali e gridate di chiarimenti in piazza, denunce pubbliche fino ad affiggere manifesti per le vie; avere una svolta finalmente, cancellare quello che ho mal digerito. Vado trovando chi mi accende la carta dietro il sedere, come dicono al mio paese. I sentimenti sono intoccabili, non si piegano esplodono da resistente fuoco recondito. Testardo, non passo sopra i principi che sono invalicabili, barriere che contornano il carattere, li vedo torri di guardia e guida per la condotta che non cambia di ogni giorno. Li guardo dal basso, illuminati punti di richiamo. Certamente buoni il cuoio e le setole e tanto lardo sotto la pancia. Mio padre odorava di fine, il corpo pesante di umori di consumazione, una mescolanza gli organi insieme quasi indistinti. Il lumicino ormai esile ha perso la fiammella dai contorni chiari: il poco olio rimasto comincia a friggere, il filo a scoppiettare ingrossato di carbone, riverso sulla base. La casa ha le sedie vicino al muro, anche il tavolo con un posto vuoto si è arretrato, lasciando più mattonelle libere. Mio padre è rimasto negli oggetti, i denti del pettine sanno il suo cranio; il divano, il peso e l'ombra della schiena. La casa piena di lui, come pieno il mio intimo. Indovinavo le sue parole, piaceva sentirle ripetere, anch'io come i mobili conservo il tatto delle mani. Disintegrato, tanta presenza è diventata una leggenda; le persia-


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ne, che chiudeva con gelosia per avere raccolte e tutto dentro le cose della famiglia, hanno perso il loro orario; vedendole aperte più del solito mi sembra che la casa sia vuota, il padrone sia andato via dalla finestra per l'aria libera fino al più lontano orizzonte. Quell'appartenenza che era solidificata con le pareti ha lasciato solo l'essenza di una persona; la memoria che qualcuno è stato ad abitare. Un uomo possessivo tutto preso dal rispetto delle convenzioni di buona creanza. Tempi di crisi materiale e durezza negli affetti, maltrattati da caratteri burberi; tanto lavoro e poco pane. Sembra impossibile che non ci sia più quell' aderenza fra oggetti e respiro, un metafisico volo l'ha proiettato nello spazio più fondo dove strade non ci sono che possano ricondurre alla vecchia dimora per riprendere contatti con le porte e i cassetti. La lontananza che toglie a lui la memoria del legame fisico, la frantumazione del suo essere, il freddo che tiene il corpo nel modo come l'abbiamo composto. Immobile posizione orizzontale sulla terra e nel cielo, arrivato dopo la corsa degli anni. A ripensare il cammino fatto, a riguardare i giorni della vita, l'amarezza per le cose non avute, i tentativi non riusciti. Negli occhi le sospensioni dell'animo per le impossibilità che hanno trattenuto altri slanci desiderati. La vita sempre a metà, una stanchezza nelle ossa affaticate cadute a terra sfinite. I malumori e le frustrazioni, le incomprensioni che hanno tenuto chiuso i legami; un'esistenza di stenti, un camminare senza troppi passi in avanti. Una storia irrepetibile. I ragazzi di una volta erano già uomini patiti, a vederli tutti uguali con il berretto e una giacchetta di panno pesante, si distinguevano dai padri per l'altezza. Si muovevano posati, intimoriti dal comando dei genitori, mai una maleducazione. Spesso dietro la porta trovavi lo strumento del corretto rapporto filiale, una mazza nodosa e flessibile. Le parole erano poche, un'occhiata irosa che s'avventava come falco con mani pesanti sul viso, che rimaneva dopo i pianti malconcio e stralunato. Mio padre in fretta veniva per la colazione e si gustava vorace una arancia tagliata a pez-

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zi, compresa la corteccia, il pane bagnato, sale e gocce d'olio. La stanchezza della bestia da soma bastava per mangiare le semplici provviste. Fave e ceci cotti alla fiamma dei sarmenti e delle fumose radici d'ulivo. Vorrei rivederti tutto il corpo che conosco, alzarti la maglia per controllare quelle macchie funeste, sempre la paura di vederle più larghe. I piedi legnosi, le mani che ora hai sul petto in posizione di orante; gli occhi chiusi profondi su uno spazio interiore e infinito. L'immobilità inchiodata nella lamiera che mi angoscia. Ora tutto è una lanuggine di muffa. Nel chiuso denso il viso e le mani anneriti, carne macerata, uno stato gassoso di putrefazione, di flatulenza per i processi fermentativi. Sono andati via per sublimazione la tua volontà e i sentimenti che erano leggibili sopra l'espressione bonaria; il tuo sempre coerente modo di essere. Quel sorriso che è rimasto come stemma impresso. Un sorriso come occhi; la purezza di un bambino, facevi intendere che eri arrivato in un luogo nuovo tutto alato, mondo delle meraviglie, lucente atmosfera della felicità. Ossessiva la tentazione di venirti a liberare. La fiamma ossidrica che ti ha sigillato di certo fa paura a tutti; mi viene da pensare che terrorizzati anche i morti rinvengono dal sonno per rimanere come presi da fobie a catena. Maledetto uso di rifiutare i morti, vedendoli oggetti dismessi che non sono più utili, come spiriti stregati o carogne da far rotolare dagli argini dei calanchi. Loro non sono che la pelle nostra invecchiata che cade a terra proprio come l'escuvia secca dei serpenti. Loro sono i nostri giorni più lontani, che spinti dal presente si fanno evanescenti, compressi insieme in un angolo recondito della memoria. L'odore della pignatta bollente coperta da asciutta schiuma bianca ha riempito tutta la casa già alle prime ore. La prima cosa è lavorare, non importa dove, anche nelle lontane campagne per mettere a posto i vecchi casolari. A sera un'altra fatica, come se la giornata fosse stata un ozio, si ritorna per i sentieri accidentati di ciottoli e fango d'argilla. Le gambe pesanti e le braccia penzoloni per l'erta dei colli paiono più lunghe del soli-


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to. Io frequento il ginnasio a Matera. Le lettere di mia madre che ricevo tramite compaesani alla corriera con grafia limpida e discorsiva raccontano tutto e mi stemperano la nostalgia che in tanti anni di lontananza è diventata la veste più spessa del mio carattere. La corriera fa sobbalzare la mia ansia di andare al paese. La vita di pensione si alleggerisce con lo studio continuo e il ripasso delle lezioni che mi riempiono la testa tutti i momenti. Per la strada la memoria ha dentro regole di grammatica e lunghe poesie; me la porto dietro come un leggero recipiente; è più alato il trasporto della preparazione, un soliloquio con l'esercizio costante. Le letture nel verde della vigna della nonna, le pagine minute di critica letteraria. Il connubio tra immagini e realtà, una traduzione in idilli di tutto quello che fa l'ambiente. Lo studio deve avere una meta di riuscita, volontà e attenzione, come mio padre mi dice al mattino presto quando dopo le vacanze mi accompagna alla corriera. Un magone per tutto il corpo; lascio la casa, il vicinato, gli asini pazienti, l'odore del fieno, il chiuso delle stalle durante le giornate di neve. La corriera piena di studenti e di contadini diretti agli uffici del capoluogo. Il puzzo della nafta, le curve che fanno accidentato il viaggio, i panni impregnati di sudore dei paesani disturbano lo stomaco. Ho resistito, ma non ho potuto evitare una vomitata che a spruzzi si è andata a buttare nella tasca del compagno accanto. Il pallore del viso gelato, l'estenuazione di un malessere generale. La partenza per il paese neppure una forza satanica poteva ostacolarla, un'irruenza incontenibile per tutta la persona; fremito e gioia esaltavano gli innati impulsi. Un ritorno è rimasto fermo come pietra nella memoria. Era un mattino che pioveva a diluvio; ancora notte piena per la strada disabitata. L'amico di stanza mi accompagnò alla corriera, bisognava fare presto, pochi minuti di tempo. Lui senza vestirsi, con il pigiama e le scarpe era pronto; un mantello nero si avvolse e giù di corsa nel buio a precipizio. Le risate furono tante per quella figura di fantasma da scena mefistofelica, un divertimento sviscerato e straordinario che avrebbe

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fatto scoppiare la mente e gli intestini. Era l'esplosione della nostalgia per mesi in catene, una violenta fuga dai giorni maceranti di una forzata attesa. La casa del paese d'inverno viene incontro con i suoi angoli familiari. I vetri della finestra mi fanno vedere la strada sotto i lampioni. I contadini e gli odori delle superfici untuose, una corteccia di nero sui mattoni consumati dai ferri dell'asino. Le pere sotto aceto, i vasi pieni di carni pressate sotto sale. Io seguivo mio padre nei vari posti di lavoro; le giornate piene lo rendevano poco amabile, le idee come di pietra fatte da un mestiere duro. Io dovevo studiare e tutti gli anni passati, l'occupazione, la mia persona hanno edificato la sua controfigura. Mi ha portato via il significato di me stesso, la vita ha perso colore e patina. Le stratificazioni del mio umore sono la persona patita di mio padre; lui la potenzialità di quello che sono, nelle contraddizioni e nei complessi. Due vite contrapposte e la fatica di ogni giorno, uno sdoppiamento di figure. Non mi convinceva di chiamarlo come si suole da parte dei ragazzi che seguono ubbidienti il genitore. Io l'avrei chiamato con i termini che etimologicamente rendono l'idea di provenienza, di matrice, l'avrei chiamato per nome. Ma io vedevo lui come l'involucro che circondava il mio corpo, un legame di travaso e di intercomunicabilità. Una simbiosi che porta a volte ad un senso di oppressione, ma per lo più ad una unicità che cancella le distanze o le differenze che possono dare indipendenza. Negli ultimi mesi gli ho preso il pene in mano per farlo orinare, all'ano martoriato dalla stitichezza preparavo il clistere. Le botte raddrizzano subito un movimento che contraddice lui, riportano presto a quello stato che non deve creare problemi di convivenza. E allora si è legati morbosamente né si può concepire la sua assenza. Oggi il pianto del materialista che vede nelle cose un afflato spirituale, una coesistenza radicata con gli altri che si unisce alla stessa fantasia dei pensieri. Il corpo che è una vita, storia di un uomo. Crisi esistenziale, perduta quella presenza ir-


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removibile che non poteva dissolversi. La realtà sua non poteva sfaldarsi. L'avrei tenuto vicino, visibile come prima, libero nella casa non nello stato voluto dal diabolico raziocinio che ha fatto sprofondare ogni sua parte nel nulla e nel tutto. Ente panteistico che riempie immaginazione e pensiero; sostanza infinita entrata nella dimensione del macrocosmo inafferrabile. La corriera, la mamma degli studenti, alla stessa ora ogni giorno con il muso lungo ti guarda fisso. Porta il pacco della biancheria, i pezzi di focaccia dolce, le noci fra i calzini. Dagli stretti confini degli umori compressi i voli di farfalla della fantasia portano i desideri nell'aria della primavera, spuntate le prime gemme dell'adolescenza. Leonardo Selvaggi

I CAMBIAMENTI È molto difficile reinventare la propria vita. Portiamo sempre l'onere dei nostri errori. Ma se ne parliamo, aiutiamo gli altri ad evitare gli errori e cambiare le loro vite e fare buone scelte. Teresinka Pereira

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Notre-Dame in fiamme ed è il cuore della Francia che brucia il cuore degli atei quanto quello dei cristiani il cuore di secoli di un intero popolo O Victor Hugo* Notre-Dame che crolla è l’emblema del nostro tempo che trascura quando non butta perfino giù il nostro patrimonio materiale ed immateriale Notre-Dame abbattuta oh ricostruiamola senza le intere vite di un duro lavoro degli operai del Medioevo senza forse il loro umile fervore religioso ma col fervore del rispetto per il loro lascito Per i nostri figli per le generazioni venture (ri)costruiamo Notre-Dame della Memoria Béatrice Gaudy * Il successo del famoso romanzo “Notre-Dame de Paris” di Victor Hugo ha permesso di salvare la cattedrale nel diciannovesimo secolo.

USA - Transl. by Giovanna Guzzardi, Australia.

Notre-Dame è in fiamme Che il vento non dissipi il fumo dei secoli

CIELO Nel cielo solo due stelle, due luci nel buio universale. Dal mio cuore un'onda di curiosità, di mistero mi porta a pensare allo spazio, ai pianeti, al cosmo intero. Sono come una piccola formica difronte al mondo che mi appare dinanzi agli occhi e giorno per giorno mi spinge ad andare avanti. Manuela Mazzola Pomezia

che nelle nostre anime esso si faccia slancio di ricostruzione e l’arte gotica raggiungerà il tempo delle aeronavi per raggiare ancora durante dei millenni Béatrice Gaudy Parigi


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Il Racconto

“Mi creda: lei ha bisogno del monociuffo!” Dialogo a due con tutto il resto intorno di Ilia Pedrina

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UI è prestante, sul biondo, asciutta la corporatura, significativa la statura, vividi gli occhi sul volto incorniciato da barba mossa, curata. Tra loro una franchezza immediata: “Ma guarda un poco la coincidenza: sono ben anni più di dieci che io abito dove è nata lei!” “Come fa a sapere dove sono nata io, se non l'ho ancora detto?” “Lo sanno in tanti e l'hanno detto anche a me. Le basta a darmi un poco di fiducia?” “Certo, come apertura non va male: qualche elemento dello sfondo circostante, se non è ancora modificato, lo possiamo facilmente condividere, come quel palazzo fronte strada, ben restaurato, a tre livelli, con le finestre d'un verde pastello armonioso e delicato.” “Si, ci passo davanti ogni giorno. Peccato che le finestre siano tutte chiuse!” “Altro immobile da offrire ai Cinesi di turno a bassissimo prezzo!” “Non mi faccia parlare: io sono molto giovane, vedo le cose dal futuro che mi spetta di diritto, ma non vedo chiaro. Siamo tutti uguali? O alcuni sono meno uguali degli altri? È da sempre che il numero rappresenta la forza?” “Non credo proprio. Quella volta uno solo con dodici intorno ha poco detto e tanto fatto che ancora se ne parla...” “Si, lo so, ma sa lei che uno di loro si è anche tolto di mezzo da solo? Dicono che fosse avvocato! Brutta fine per un avvocato...” “Gli avvocati devono essere esposti a tutto e preparati: si dice che quello si fosse venduto a poco prezzo, forse non stimava abbastanza il suo intelletto, il suo cuore e il suo amico. Se si insinua invidia tra qualcuno dei dodici ami-

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ci nei confronti del maestro, allora non si ragiona più, o al meglio si ragiona male.” “Gli avvocati di ieri e di oggi sono tutti uguali, perché si vendono, si fanno pagare e addirittura in quel posto là oltre l'Oceano, se un avvocato vince da solo la giusta causa salvandone tantissimi dal capestro, dico, dalla miseria più completa, rischia pure di essere minacciato... se intacca i poteri con muscoli antigraffio!” “Gli avvocati si devono far pagare perché svolgono una professione, come lei, del resto, anche se è molto giovane.” “Mi faccia pensare così capisco meglio.” Il giovane la guarda tutta intera, scrutandone sapientemente le fattezze e poi esclama: “Mi creda: lei ha bisogno del monociuffo! Se non sarà troppo esperta, le dirò io come dovrà fare, con tutte e due le mani...” “Il monociuffo? Non sarà mica un articolo di quelli di Parigi?” “Io gli articoli, quelli di Parigi non li conosco affatto, io conosco ed utilizzo solo quelli che scelgo io per la mia professione: li sperimento ed ottengo sempre dei risultati efficaci.” “Io? Adoperare il monociuffo? Il monociuffo? Non so nemmeno cosa sia!” “Lei, con la sua presenza, mi sembrava abbastanza esperta di quei dispositivi che danno gran piacere alla bocca!” “Sono in tantissimi a vedere in me lucciole ed invece son lanterne...” “Bei der Laterne... Adesso mi vuole provocare, mi vuole evocare note che, nonostante la mia assai giovane età, mi sono entrate dentro senza andarsene più via... Quelle note prendono il cuore e la bocca di lei le canta meravigliosamente. Lei: intendo Marlene, la splendida Marlene, un mito!” “Ma, secondo lei, mi scusi, Marlene conosceva il monociuffo? Secondo lei lo sapeva usare senza ricevere istruzioni come sono invitata a fare io?” “Se Marlene conoscesse e usasse o no il monociuffo non mi interessa, perché la meraviglia è nella sua voce e nelle atmosfere che voce e musica sanno creare. E la voce, mi creda, viene sempre dalla bocca! Il presente è


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necessario perché Marlene non passa mai.” “E il monociuffo? Secondo lei tra poco passerà di moda?” “No, mai! Non l'ha ancora visto, con i suoi occhi di carne, vivi, dico e vuol già saperne di più, prima d'essere entrata nell'esperienza diretta che va a preparare il contatto e l'efficacia dello strumento? Lei mi sembra un poco gradassa, taglia grosso su questa fase cruciale della relazione, perché la bocca, mi creda, la bocca vuole la sua parte, decisa, grande, perfetta.” “Adesso stiamo esagerando. Se non conosco ancora il monociuffo e il suo impiego in bocca, non ne ho né colpa né merito, ma lei, che sa già nonostante la sua giovane età, ha il dovere, semplice e professionale ad un tempo, di darmene prove e rendermene contezza. Da professionista di eccelsa progenie, quale sono, sarò io poi a valutare il suo operato e a sondare possibilità ed integrazioni all'uso di questo dispositivo.” L'apprendimento avviene in ambiente particolare, con tutto il resto intorno. Ilia Pedrina

PALINGENESI GENOVESE Mi ricordo quel giorno lontano: sono alla finestra a pensarti, e a contemplare Genova che si rivela, di colpo, insolitamente bella e amabile, nella tenerezza di un'alba speciale. La fuggevole scia di un aereo militare, fra le colline e la luna, nessuna macchina, laggiù, ai semafori, due passeri sul davanzale sullo sfondo del mare. Luigi De Rosa (Rapallo)

ISPIRAZIONE ED EMOZIONE Sono ispirazione ed emozione

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la coppia più bella del mondo. Ispirazione ha le idee, emozione le fa sue e le mette in pratica con tutto il cuore. Sembra che alla gente il risultato piaccia. Sono ispirazione ed emozione la coppia più bella del mondo. Mariagina Bonciani Milano

IL RUMORE DELLE PAROLE Parole soltanto mettiamo, nella nostra vita, al centro lì dove dovrebbe esserci il cuore. E il rumore delle parole, specie di quelle vane, è tale che copre il ritmare lento suo, che corre in paziente attesa dentro noi. Ma quando si ribella , esplode riducendo in briciole parole; e solo allora ci accorgiamo che siamo fiori con polline, da spargere al vento e fecondare. Salvatore D’Ambrosio Caserta

Vous qui étiez mourants peut-être posant vos couvertures après les longs mois à grelotter dans les pièces difficiles à chauffer de l’Hospice des Incurables souriez-vous comme à un aperçu de Paradis lorsque l’été illuminait le jardin Et sa chaleur enveloppante qui vous réconfortait était le passage entre une vie de misères et l’aérien au-delà de la félicité Béatrice Gaudy Paris, France


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I POETI E LA NATURA – 93 di Luigi De Rosa

Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)

LA NATURA NELLA POESIA DI EMILY DICKINSON (1830-1886)

E

mily Dickinson è sicuramente la poetessa americana più amata. Quanto meno, la più conosciuta e “venerata” a livello di culto letterario. E questo, nonostante abbia pubblicato, durante la sua vita, soltanto sette poesie. Alla sua morte, avvenuta nel 1886 (all'età di soli 56 anni) la sorella Lavinia ne trovò, in camera sua, ben 1775. Tutte inedite, scritte su foglietti ripiegati e cuciti con ago e filo. In quella camera, al piano superiore della casa paterna, era vissuta la poetessa, in autoreclusione e isolamento, fin da quando aveva compiuto venticinque anni. Tutto il suo mon-

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do era rappresentato dalla sua stanza e dal giardino, ricco di piante e fiori, che curava e adorava. Emily è considerata una delle poetesse più importanti (se non la più importante) del suo secolo, l'Ottocento. Era nata nel 1830 ad Amherst, nel Massachussets, in una famiglia puritana e benestante. Il resto della sua casa non doveva essere particolarmente più vivace della sua stanza. Prima di autorinchiudersi (decisione inesplicabile) aveva compiuto diversi viaggi. Quanto a studi era, sostanzialmente, un'autodidatta (aveva abbandonato il College femminile cui l'avevano iscritta). Di carattere apparentemente tranquillo, comunque contraddittorio, aveva un temperamento sensibilissimo. Vestiva preferibilmente abiti bianchi, e la foggia di capelli preferita era quella di chiome lisce con la riga in mezzo. Aveva il cuoricino infiammabile, se è vero che si era perdutamente innamorata (platonicamente) di un reverendo regolarmente sposato. Un altro di cui si era innamorata era un certo Samuel Bowles, che era il direttore del giornale locale, “Springfield Daily Republican”. Dell'amore, forse, non capiva molto (come del resto accade a parecchi), e arrivava a scrivere: “Che l'amore è tutto, è tutto ciò che sappiamo dell'amore.”. Ma i suoi rapporti interpersonali, più che fisici e concreti, erano immaginari, e spesso veicolati e schermati da sensazioni e fantasie nascoste nelle parole delle sue poesie. Per il suo desiderio di solitudine e di autoreclusione dal mondo esterno arrivò al punto che non uscì dalla sua stanza neppure quando morirono i suoi genitori. Che, pure, amava. Contraddizione clamorosa con quanto scriveva: “Quando sentiamo il bisogno di un abbraccio, dobbiamo correre il rischio di chiederlo.” E per la sua voglia di fuga dalla realtà (pur avendo bisogno di quella realtà) era capace di scrivere: “Perché nasca un prato, bastano un trifoglio, un'ape e un sogno. E se non ci sono


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le api e il trifoglio, può bastare anche il sogno.” Come detto, fiori e piante, fenomeni della Natura, erano per lei di somma importanza. Ma cos'era la Natura, per Emily Dickinson? Ce lo dice lei stessa: “Natura è tutto ciò che noi vediamo: il colle, il pomeriggio, lo scoiattolo, l'eclissi, il calabrone. O meglio, la natura è il paradiso. Natura è tutto ciò che noi vediamo: il bobolink, il mare, il tuono, il grillo. O meglio, la natura è armonia. Natura è tutto quello che sappiamo senza avere la capacità di dirlo, tanto impotente è la nostra sapienza a confronto della sua semplicità.” Luigi De Rosa

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e le pareti inondate di luce recingono l'arco del Paradiso. L'amore che lega l'uomo ai suoi fratelli come farfalla si sente volare per le navate; la festa della sposa felice olezza dalle rose del bianco velo. In alto, il vento porta le ali degli angeli, sottili raggi di sole per il cielo in gloria lontano dai campi divisi tra i paesi, lontano dalle case disunite ove ognuno ritrova i segni della fatica. Leonardo Selvaggi Torino

IL MIO FANTASMA MONTEVERGINE Inerpicati sullo sperone che sovrasta irsuto macigno dell'antica era; sul venerato monte che richiama dalle diverse parti alla sua eccelsa meta. L'altezza conserva intatta la natura, imperitura la mole oltre le nubi che vagano dissolte per gli anfratti. Vergine l'asprezza dei massi con le uguali linee degli strati. L'aria pura cristallizza il volto della Madonna: anche il tempio, vertice tagliato nella pietra, ha le facce nell'azzurro. Rarefatte le persone si vedono quasi immagini aureolate: piccoli i visi, leggere le mani dimenticando le limitazioni. Qui la voce religiosa parla del bene infinito,

Il fantasma di un uomo grava sui miei pensieri ed io torno bambina in cerca di lui, scomparso nei sogni di chi lo amava. Manuela Mazzola Pomezia

Prima che t’accarezzi la voce Prima che t’accarezzi la mia voce già la tortora e il merlo hanno chiamato la luce per accendere il mattino. (da: Gianni Rescigno, Il vecchio e le nuvole)

Bevor die Stimme... Bevor meine Stimme dich streichelt schon haben die Taube und die Amsel das Licht gerufen um den Morgen anzuzünden. (traduzione in tedesco di Marina Caracciolo)


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Recensioni MARINA CARACCIOLO OLTRE I RESPIRI DEL TEMPO L’universo poetico di Ines Betta Montanelli BastogiLibri di Roma, 2016, Euro 10,00, pagg. 126 Dalla non comune sensibilità e senso di stimazione della saggista dottoressa in Storia della Musica, laureatasi con lode all’Università di Torino dove insegnò l’illustre docente Giorgio Bárberi Squarotti (infatti è stata una sua brillante allieva), la nota Marina Caracciolo, all’altrettanto conosciuta sua grande amica Ines Betta Montanelli – purtroppo scomparsa all’inizio del giugno 2018 – ebbene, è stata possibile la stesura di un’ulteriore trattazione sulla completa produzione poetica della Montanelli, che nel 2016, all’uscita di questo saggio era ancora in vita e che sicuramente ne avrà apprezzato la preziosa valentia d’indagine. Dicevamo del sentimento d’amicizia superiore venutosi a creare spontaneamente negli anni fra l’autrice di codesto saggio, Marina Caracciolo, e la poetessa di La Spezia, vincitrice di prestigiosi premi in Concorsi nazionali e internazionali, Ines Betta Montanelli, con l’impulso corroborante che ha superato le barriere del normale antagonismo, dell’egocentrismo, di qualsiasi bassezza mentale, per permettere il concepimento dell’estesa espressione critica che certamente attraverserà, travalicherà … i respiri del tempo. Sono state prese in attenta analisi le otto pubblicazioni poetiche, dal 1981 al 2013, montanelliane – le ultime tre rese edite dalla casa editrice Bastogi prima con sede a Foggia, nell’odierno trasferitasi a Roma – esponendo principalmente con chiara tracciabilità il ritmo evolutivo del canto intimistico del-

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la poetessa ligure, anche con inserimenti dei brani critici d’altri estimatori della Stessa, come Dalmazio Masini, Pasquale Matrone che realizzò un’ intervista nel 2007 pubblicata sulla rivista “La Nuova Tribuna Letteraria”, Maria Grazia Lenisa, Giorgio Bárberi Squarotti, Giuseppe Benelli, Nazario Pardini ed altri ancora. Per ciascuna silloge la Caracciolo ha dedicato uno slargato spazio dissertativo penetrando fino all’interno della radice delle motivazioni, delle argomentazioni, della natura amata inverosimilmente dalla Montanelli, svelandoci di volta in volta il silenzioso profilo di un’autrice che forse è stata poco prolifica, è vero, ma al riguardo la qualità ha superato di gran lunga la quantità versificatoria. « […] La sua è una personalità assai discreta, riservata, delicatamente in disparte. Di spiccato temperamento meditativo, non ama i clamori della ribalta, la risonanza di una plateale notorietà. La sua stessa poesia è una sorta di musicale riverbero della sua profonda sensibilità, che potrebbe perfino rivelare un potere di suggestione ancor maggiore se fosse letta nell’oscurità della sera, fra pochi amici intenditori, con le pagine illuminate da candelieri invece che da moderni lampadari. Ines ama i riposti segreti dell’arte poetica più che la sua celebrativa divulgazione; ci tiene a coltivarli, con cura e considerazione del loro intrinseco pregio, come se fossero germogli sotterranei di un delizioso giardino di piante rare. » (Alle pagg. 11-12). Ancora possiamo aggiungere che la catena amicale fra i due portenti della letteratura contemporanea, la Caracciolo e la Montanelli, è divenuta stabile condivisione, stima ad oltranza, passione per i soggetti trattati perlopiù appartenenti al Creato, alla terra natia ligure dell’esaminata, al mondo floreale, alla cristallinità di un nome, Ines, che in spagnolo viene tradotto come Agnese, a sua volta di derivazione greca che significa casta, pura. La prima Parte del lavoro saggistico si distribuisce così; poi, nella seconda Parte si è entrato nel vivo della poetica dell’autrice discendente da una famiglia antica del territorio pontremolese, in provincia di Massa Carrara in Toscana; ovvero gruppi di liriche scelte sono state estrapolate dalle rispettive raccolte d’appartenenza per una rilettura atta a giustificare la moltitudine dei pensieri e pareri pronunciati durante il ‘viaggio’ d’esamina della Caracciolo. A noi lettori fa alquanto piacere leggere di questa compartecipazione tutta al femminile per una poesia che rimarrà nel futuro, nella scorza della memoria terrestre. « […] Abbiamo dunque seguito fin qui l ’itinerario creativo di questa “dolce vestale del tempo e dell’anima”, che lungo un cammino di quasi tren-


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tacinque anni, fra bagliori e penombre, sogni e realtà, ha dato forma di squisita poesia al suo trepido indagare negli enigmi insoluti del vivere; con una molteplicità prospettica di visioni e una densità espressiva tali da rendere invero seducente il tesoro di “divine malinconie” che condivide con il lettore. […] Tutto quello che è accaduto si è fatto puro e luminoso di grazia e di verità. » (A pag. 49). Isabella Michela Affinito

DOMENICO DEFELICE LE PAROLE A COMPRENDERE Genesi Editrice, Torino, 2019, € 14,50 Una poesia degli anni e dei giorni è quella che Domenico Defelice ci offre con questo suo nuovo libro Le parole a comprendere, edito dalla Genesi di Torino, nel quale egli compie una rivisitazione del proprio passato, per intenderne in qualche modo il senso. Ecco allora che egli, sul filo del ricordo va alla ricerca di persone e luoghi che hanno riempito la sua vita e che sono stati importanti per la sua formazione umana, come è avvenuto innanzi tutto per le figure genitoriali, che emergono nette da poesie quali Dormi serena, dedicata alla madre ormai da tempo scomparsa: “Dormi serena/ placata finalmente. / Finalmente al passato / ansie, dolori, pene, urli / che improvvisi laceravano il cuore”; o L’allegrezza di mio padre, dalla quale affiora con evidenza l’immagine paterna: “Da lontano, neppure in sogno / potevo accarezzarti, verde terra / dono dell’amore di mio padre”. Ma un po’ dovunque in Defelice emerge il calore degli effetti che fanno bella la vita, dandole un senso, come avviene in poesie quali Ricordi d’infanzia, dove è rievocato il momento del desinare, in cui si ritrovavano tutti riuniti gli appartenenti alla sua famiglia, in armonia di pensieri: “A cena, pane e cicoria / cotti in acqua di fiume / per le nostre bocche avide. // Ognuno con la sua ciotola grigia”. E ciò avviene sia per i momenti di gioia che per quelli di dolore, causati specialmente dalla morte: “Mio padre morì da saggio. / Intorno al suo letto. impietriti, / lo guardavamo torcere la bocca / negli spasimi dell’agonia”. È questo l’incipit di una delle poesie più compiute della raccolta, Morte da saggio, Per le poesie che celebrano un momento di letizia ricordiamo Oggi nella mia casa è festa grande, che rievoca il matrimonio di Luca, figlio del poeta, con commosse parole: “Oggi, nella mia casa, è festa grande. / Versiamo dalle ampolle nei bicchieri / vini generosi e forti / che imprigionano il sole”. Un altro motivo dominante in questa raccolta è

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quello dell’amore per la natura, che ovunque emerge con grande evidenza e con forza, come avviene in Dormi serena, che così inizia: “Alto, sul noce dell’orto, / s’era schiuso un nido di fringuello. / L’annunciava il pigolio degli implumi, / della madre il frenetico svolìo”. È questo dell’amore per la natura, un motivo che molto spesso in Defelice si ritrova, ma che talora affiora con particolare evidenza, come avviene in Un mondo nuovo, dove si legge: “Ho legato un’amaca / ai rami alti del cedro. / Supino una brezza leggera mi culla. / Che mare vasto il cielo!”. Ma si veda anche Il taglio dei pini, che ha questo incipit: “Tempo d’inquietudine ed insonnia / da che ho deciso il taglio dei pini, / severi ed alti gendarmi / della vecchia baracca”. Poesia volta ad esaltare la vita e l’umano operare, nonostante ogni sconfitta e ogni affanno, quella di Domenico Defelice è tutta percorsa da un soffio di intima religiosità, emergente da testi quali Oggi che avrei bisogno di certezze…; Quando hai deciso, aspirami; Dal panico mi salvi la tua voce; poesie da cui emergono rispettivamente versi quali: “Commosso imploravo la Tua immagine”; “Di me tutto già scritto è nel Tuo Libro”; “Soltanto Tu mi resti. In me Tu vivi”. Ma si vedano anche altre liriche, quali Come la Terra: “Come la Terra intorno al Sole / l’Universo ruota intorno a Te./Tu sei la Terranuova e i Cieli nuovi”; Sono farfalle i morti: “Crisalidi noi siamo per l’Eterno/celesti preterie ci attendono”; Presto dovrò salire al Cielo: “Presto dovrò salire al cielo./ Attacca, allora, o Dio, le ali/ai miei talloni stanchi”. Assiduo è anche in Defelice il colloquio con gli amici morti, come avviene in Sei tu quel pettirosso, poesia dedicata a Geppo Tedeschi, nella quale si stabilisce come un misterioso dialogo tra il poeta e l’amico scomparso: “Sei tu, lo sento. / Sei tu che mi saluti. / sei tu quel pettirosso / che la sua danza esegue / sopra il pruno deserto”. Quantunque sia poi costantemente presente in questo libro il pensiero della morte, tale pensiero non paralizza né atterrisce, perché è accompagnato da una superiore Speranza di Vita Eterna, che si scopre, ad esempio, in poesie quali Crisalide e navicella: “L’albero che hai piantato, o Dio,/s’ avvicina agli ottanta/ … /Chiamami quando vuoi”. Quelle sin qui citate sono poesie contenute nella prima parte della raccolta. Nelle altre parti, Ridere (per non piangere); Epigrammi; Recensioni, Defelice ha inserito poesie di carattere satirico, che rappresentano l’altro lato della sua vena per lo più intimistica, quello civile. Si tratta di testi volti a fustigare i costumi corrotti e le debolezze dei propri simili o le loro inadeguatezze, che sfociano talora nella disonestà e che il nostro autore sa cogliere con


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acutezza d’intuito, come avviene in poesie quali La manovra; Il Presidente; A un borioso; Non è da onesti… Leggiamo per tutte da quest’ultima: “Non è da onesti, Barbaro, / leggere la Ero(s)diade di Contiliano / per via subliminale / e dire tutto ciò gran poesia. / … / Ma andiamo, Marta, via! / Saran soltanto scherzi, nulla più!” Un libro vario questo nuovo di Domenico Defelice, che ci offre l’immagine di un uomo e di un poeta capace di penetrare a fondo il senso della vita per ricavarne immagini di sicura efficacia; certo con risultati degni del nostro ricordo. Elio Andriuoli

DOMENICO DEFELICE GIUSEPPE PIOMBANTI AMMANNATI E “POMEZIA” Il Croco/ Pomezia-Notizie, 2018, Pagg. 60 Domenico Defelice, che non ha bisogno di presentazioni, dedica un nutrito quaderno letterario de Il Croco all’artista fiorentino, di cui al titolo, Giuseppe Piombanti Ammannati e “Pomezia”. Il libretto ha veste modesta, ma ha contenuto certamente complesso e sistematico. Nell’economia delle pagine si divide, di fatto, in due sezioni corredate di molte note utili per ulteriori approfondimenti, la prima riguardante l’Artista inquadrato nella cornice storica di Pomezia, la seconda relativa alle lettere del Fiorentino inviate all’Autore (1975-1991). Il Nostro procede in forma autobiografica che è tipica dello stile, per chi ne abbia conoscenza, del suo Diario di anni torbidi (2009), il che ci riporta alle rievocazioni degli anni sessanta (del secolo scorso, ovviamente), quando il giovane nostro autore partiva da Roma con la sua Fiat 500 piena di amici per i Castelli Romani e in particolare per raggiungere il mare di Torvaianica. Descrive il territorio, alcune strade e piazze, chiese e alberi secolari, assicura essere stato un posto incantevole di verde e di aria pulita. Ed è proprio in questa città che conosce la donna che ne diventerà la moglie. La data di fondazione della città viene fissata al 25 aprile 1938 (due anni dopo che vede la luce il nostro autore calabrese di adozione pometina). Conferma la sua capacità descrittiva che va dal romantico e godereccio (sbaciucchiamenti con le ragazze), alla storia del territorio e dei miti locali risalenti agli etruschi, alle fasi della bonifica durante il periodo fascista, alla critica d’arte. Narra di vicende di confini variati nell’arco del tempo fra i Comuni limitrofi appena fondati, del Cimitero Tedesco, l’importanza della statale Pontina (N. 148) e dell’enorme sviluppo demografico e industriale con

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le conseguenze ambientali inevitabili. Senza dimenticare l’antica Lavinum di Pratica di Mare nel suo territorio con le antiche vestigia dell’insediamento di Enea. Prende occasione per citare puntualmente altri artisti e progettisti ingegneri. E sempre la sua scrittura procede con passione e competenza, quale testimone. Domenico Defelice rivolge un invito ai suoi concittadini perché conoscano meglio la città e la sua storia, così indica l’Associazione Coloni Fondatori di Pomezia e le bonifiche 1915-1950 in vaste aree d’Italia. In particolare cita tre libri che sono di Antonio Sessa (un volume di storia della Città), Pietro Bisesti (un corredo di 230 scatti fotografici), e di Daniela De Angelis comprendente tre saggi sui personaggi: Oppo, Delcroix e Piombanti Ammannati. Fu Carlo Delcroix a parlargli di Cipriano Elisio Oppo (1890-1962), e ricorda che quando si trasferisce da Roma nella Pomezia ancora spopolata fu soltanto “il grande mutilato di guerra e cieco” che ne lodò la scelta, quando l’andava a trovare a Roma (Piazza Adriana) per aiutarlo nella correzione di una bozza, su richiesta di Francesco Pedrina che abitava a Vicenza. Coglie occasione per ricordare che Carlo Delcroix (1896-1977), medaglia d’oro, fu reso infermo a vent’anni in guerra e che la fidanzata pur vedendolo in “quelle pietose condizioni, decise non di lasciarlo, ma di sposarlo”. E qui si inserisce l’artista fiorentino Giuseppe Piombanti Ammannati (1898-1996) nato a San Lorenzo a Colline, che “è uno degli artefici più efficaci legati al tempo della bonifica dell’Agro Pontino Romano”, conosciuto personalmente nel novembre del 1974 in Abruzzo, in occasione di un raduno di artisti, ove conosce pure lo scrittore veronese Rudy De Cadaval. Sono citati artisti come Geppo Tedeschi per via dei temi rurali e religiosi trattati e del suo Realismo calabrese (1942), e molti altri personaggi che fanno parte del suo mondo culturale del tempo. Ed ecco qui l’argomento principe di questa sua fatica che ha radici lontane e ha lo scopo di perorare l’acquisto di alcune opere dell’Artista da parte del Comune di Pomezia e renderlo noto ai cittadini, come ha fato nel corso degli anni con numerosi articoli. Difatti molte delle sculture e delle pitture realizzate sono intestate e legate alla città: “lavoratori della terra e loro abbigliamenti, aratri, solchi, buoi e altri animali, suppellettili” rurali al tempo della bonifica del territorio. Ricorda una serie di opere di carattere religioso come la “Vita di Cristo”, in 30 cartelle contenenti ciascuna oltre dieci xilografie, e opere legate al territorio come la “Pomezia, una statua a gran fuoco, smaltata e invetriata, d’un sol pezzo, alta m 1,50, che rappresenta una donna” conta-


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dina fiera e statutaria (è il caso di dirlo), “Il mito di Pomezia” statua maiolicata alta cm 90 che rappresenta un bambino corpulento, “Il Mimmo di Pomezia”, ecc. Domenico Defelice non è solo uno scrittoregiornalista, esperto d’arte, ma coglie anche aspetti sociologici; procede le sue argomentazioni con viva partecipazione; ribadisce di prendere a cuore la causa del Piombanti di farne acquistare dal Comune alcune opere, specialmente la Pomezia statua la cui denominazione avrebbe radici storiche lontane. Ed è in queste descrizioni che si inquadra l’artista fiorentino fortemente attratto dai luoghi e dai soggetti che lo ispirarono. Molte pagine sono dedicate alla biografia dell’ Artista, che ha dedicato l’intera vita all’arte maiolica, quale insegnante prima e direttore dopo della Scuola d’Arte della Ceramica di Sesto Fiorentino, e legato alla passione creativa nelle sue sfaccettature anche di pittore. Ma non solo, usava una prosa scorrevole ed era poeta. Pagine in cui sono descritte e illustrate alcune opere (purtroppo il bianco e nero non rende giustizia alle stesse). E qui si inserisce una particolareggiata argomentazione in merito all’offerta di vendita di opere al Comune e del mancato loro acquisto da parte dell’Amministrazione protratto per anni senza mai giungere a conclusione, come comprovano le lettere dell’Artista. Esse sono dirette al Defelice, lartista si firma generalmente come Piombanti e testimoniano delle trattative in argomento; ivi salta all’ attenzione l’ansia dell’Artista per la buona riuscita del suo lavoro e per la sopravvivenza. Sembra che l’Amministrazione Comunale e i Politici locali dopo tante promesse, siano rimasti sordi a ogni mediazione o ad un pur minimo interesse artistico e storico che attesti la città di Pomezia sorta dalle paludi. Quanto sopra esposto è il minimo che può interessare la generalità dei lettori, ma c’è molto di più che può interessare e coinvolgere i cittadini pometini. Tito Cauchi

GABRIELLA FRENNA SGUARDO D’AMORE Magi Editore, Patti (ME) 2018, Pagg. 62, € 10,00 Gabriella Frenna, scrittrice e poetessa palermitana nativa di Messina, con questa ennesima pubblicazione, Sguardo d’amore, rievoca il padre, Michele Frenna, agrigentino, attraverso le opere mosaicali: in copertina, “Volto di ragazza” (chissà che non sia la figlia Rosanna spentasi nel 1988), e altre figure, tutte a colori, all’interno. La raccolta è una continua

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testimonianza, un atto d’amore filiale esemplare che coltiva con mirabile tenerezza nella memoria del genitore (spentosi il 5 ottobre 2012); le schede biografiche della figlia e del padre ne sono lo specchio. Le singole composizioni sono commentate in modo analitico dall’editore che apre e conclude la silloge. Luigi Ruggeri, la cui scheda biografica è riportata su quarta di copertina: classe 1955, nativo di Patti (Messina), uomo dedito alla cultura e alla comunicazione, dalle molteplici esperienze. Regista in rappresentazioni teatrali, conduttore del telegiornale nelle prime Televisioni private in Sicilia; autore di antologie, annovera fra le sue conoscenze, molti personaggi della cultura soprattutto della televisione e del cinema. Egli accomuna figlia e padre, in un unico genere letterario, l’una si esprime con la poesia, l’altro con l’arte musiva, “rappresentative entrambe di scene di vita quotidiana”, nei loro particolari aspetti, nel complesso mondo intriso di psicologia “fuori dal tempo” eppure attuale, trovando nello “sguardo d’amore eterno di Dio posato su di noi” il senso della vita. In esergo poesia del Maestro Giuseppe Pietroni, scritta all’indomani della morte del Frenna, un brano della quale recita: “Rimani, rimani con noi big Michele, oltre/ il dolore, oltre l’amore, verso tutte le cose…” Nei commenti richiama il pensiero di grandi pensatori che hanno fatto la storia della cultura. Analizza il significato del rimembrare nella rievocazione, distinguendo la memoria come attività della mente, dal ricordo come sentire con il cuore. Certamente la Poetessa parla di sé ed anche del padre nelle varie situazioni che sono “testimonianze incisive/ del proprio operato.” (Gabriella). È fin troppo scontato il sentimento d’amore verso i genitori, ma sono ammirevoli l’espressione espositiva e l’afflato che accompagnano la narrazione sul padre nella tecnica impiegata, “Il pensiero ritorna immediato/ all’inesauribile estro creativo/ ai piccoli tasselli incastonati/ ai messaggi e sogni tramandati.” (pag. 13). Michele fonde natura e uomo, realizza una nuova forma di comunicazione perché le sue figure sono vive ed emanano serenità. La Nostra inserisce entro una cornice quotidiana e paesaggistica palermitana ora se stessa, ora la madre che, come sposa, trae dai mosaici una visione gioiosa. Ogni componimento diventa trasposizione sul piano della scrittura, della illustrazione musiva che l’accompagna. Non c’è soltanto la nostalgia, come è naturale aspettarsi, bensì un sentimento maturo di comprensione figlia-padre che coinvolge, in una sorta di complicità, i loro affetti familiari, della sposa gioiosa e della primogenita che ha lasciato un vuoto indelebile che solo la fede nell’Assoluto può


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conciliare. Descrive i mosaici “illuminati dal sole/ fin dalle prime ore/ del nuovo giorno.”, ciò che tradisce il trasloco indicato in chiusura della raccolta. Un artista non venale, che emana limpidezza, calma, gioia, emozioni, rafforza sentimenti di amicizia; che poi sono la ricerca dell’uomo filosofico. “I mosaici restano/ nella valle terrena/ e tu dal cielo etereo/ rinnovi con essi perpetuo/ il tuo pensiero sereno” (27, Ora serotina). Le opere musive catturano lo sguardo alla contemplazione, alla scoperta dell’universo senza confini, alla scoperta del Sommo Creatore. Così Michele Frenna diventa esploratore dell’animo umano e poeta del mosaico; attraverso le singole particelle di vetro colorato è come se stesse intonando parole ed emanando profumi e sapori dei frutti, della sua amata Agrigento dove ancora si sente l’eco del concittadino Luigi Pirandello e della terra fertile di Sicilia. La natura tutta si anima e invita ad essere penetrata e goduta, in un raccoglimento religioso. Migliore corrispondenza d’amore figlia-padre non poteva realizzarsi. In più luoghi ritroviamo lo sguardo d’amore, in espressioni replicanti il sorriso che s’allarga sul viso, l’anelito arcano e sublime, il maestro sapiente e creatore, nelle diciotto icone raffigurate. Tito Cauchi

AA.VV. ANTONIA IZZI RUFO NELLA CRITICA Vol. III, Il Convivio, Castiglione di Sicilia (CT) 2019, Pagg. 240, € 18,00 Giuseppe Manitta, che cura l’edizione Antonia Izzi Rufo nella critica, nella presentazione richiama l’attenzione sull’importanza, in generale, dei giudizi critici coevi espressi che offrano un quadro attuale; così osserva che nel caso della Nostra emerge un percorso letterario legato alle sue radici, nella semplicità della parola. E l’Autrice, nella premessa, avverte di avere scritto “con spontaneità, con onestà” per il desiderio di comunicare il suo dettato interiore, “senza la brama di lodi esagerate (…) come oggi si usa da molti”. Il volume è dedicato al piccolo pronipote Lucio. Il testo procede in modo cronologico delle opere delle quali viene illustrata la copertina. Come dice il titolo, il libro ripropone note riguardanti l’autrice molisana di Scapoli (Isernia). A lettura ultimata, in questo terzo volume, risultano recensite una trentina di opere pubblicate dal 1998 al 2018; il II vol. analogo al presente, del 2008; due monografie a Lei dedicate (nell’ordine: Aldo Cervo del 2014, Leonardo Selvaggi del 2010); da parte di oltre settanta

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critici per circa 110 recensioni ospitate soprattutto da Pomezia-Notizie, in numero di 60; Il Convivio, 20; Fiorisce un cenacolo, 10; alcune sono pubblicate su più testate. I recensori maggiormente presenti risultano riconoscibili per il loro calco caratteristico; così è per Aldo Cervo che mostra forte sintonia; Enrico Marco Cipollini, i cui testi rimarcano con acribia l’ etimologia delle parole chiave; Maria Antonietta Mòsele per la sua lineare esposizione; senza dimenticare la citata monografia dedicatale da L. Selvaggi che ne coglie i vari aspetti della poetica e che conclude la raccolta (uno stralcio di recensione a firma dello scrivente). E ancora: Luigi De Rosa, Domenico Defelice, Lino Di Stefano, Giovanna Li Volti Guzzardi, Angelo Manitta, Nazario Pardini, Andrea Pugiotto, ecc., ecc. In questo genere di pubblicazioni emergono l’ autore esaminato in una figura composita e un suo percorso letterario e umano generalmente sfaccettato, altresì vengono a trovarsi a confronto i vari autori recensori, il che consente di individuare il calco di ciascun critico specie se risulta intervenuto più volte. Si incontrano molti nomi noti del panorama letterario italiano, come in una famiglia allargata. Non ultimo si rivelano interessanti alcune loro considerazioni che possono tornare utili. Comunque dirò fin da adesso che abbiamo un coro di consensi (e non poteva essere diversamente), giudizi superlativi dai toni eccelsi, basti averla definita “La Poetessa Pentra” o “La Ninfa delle Mainarde” o anche “La Saffo italiana”; lodi sicuramente meritate. Procedendo nella lettura comprendiamo che le opere di Antonia Izzi Rufo pubblicate sono, man mano, trenta, poi quaranta e infine settanta (Narrativa, Poesia, Saggistica e altro). L’Autrice, quale pedagogista, nella sua lunga carriera di insegnante, si è dedicata ai giovanissimi e ha destinato particolare attenzione alla storia locale della sua terra natia e alla natura. Nella sua vasta produzione ha scritto monografie su Charles Moulin; sulla “Vita Nova” di Dante; su Enrico Marco Cipollini, mettendone in rilievo i “parametri estetici”; Catullo, al quale si è sentita vicina; Oscar Wilde, fine poeta, che Ella rivaluta, considerata la nota condotta poco confacente nell’epoca in cui ha vissuto (è stato in carcere per omosessualità); Aldo Cervo con il quale si condivide un’arricchente amicizia. E saggi particolarmente sentiti su Juan Ramòn Jimenez, Charles Baudelaire, Herman Melville. Nelle opere della Nostra è notevole il biografiamo, in particolare nel volume Stralci di vita (2008), nel quale rivela le sue doti di narratrice e le puntuali descrizioni dei teneri paesaggi della memoria: così la casa, gli affetti familiari, i costumi, la fede, i va-


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lori fondanti della famiglia, nella loro dimensione nitida reale, appunto “onesta”; pone attenzione agli aspetti socio antropologici consoni alla sua formazione culturale. Una gamma di sentimenti, capaci di farci sentire gioie e dolori, la tenerezza di Lei nonna e bisnonna, i profumi e i colori della sua terra, tra mare e monti; il pathos del respiro. Man mano, ad iniziare dalle opere del 2011, leggiamo del suo grande lutto per il marito scomparso (Ettore) che registra una vasta eco, e considerazioni sulla morte, altresì sulla consolazione, sulla rinascita e sull’ amore che dura oltre la morte. Così mi piace concludere. Tito Cauchi

ACHILLE MASSIMO CHIAPPETTI QUARTIERE ITALIA Montag Edizioni, collana Le Fenici, Tolentino 2018, pagg. 130, € 14,00. Contenuti e stile L’opera è scritta da un poeta e presenta una prosa poetica, espressa con uno stile che è incisivo, icastico, ironico, sarcastico e ironico, come si evince dai vari episodi e avvenimenti presentati. Da tener presente oltre a ciò, pure il fatto che l’io narrante è quello di un ragazzo, chiamato Alessandro C, ovviamente. L’A. cresciuto in una famiglia rappresentata da un padre medico rigoroso, che fa tanti sacrifici per mantenere il figlio in una costosa scuola francese. Un padre che vuole che il figlio si faccia onore nella vita. Come qualificare questa opera di Chiappeti? Romanzo autobiografico? Secondo me è un romanzo corale, poetico che è scritto con il preciso intento di farci rivivere momenti particolari e irripetibili che hanno investito dapprima il ragazzo e poi Roma e l’Italia durante il secondo conflitto mondiale e dopo di esso, quindi la voglia di ricostruire, di tornare ad una vita normale e fattiva. Da questo punto di vista dobbiamo ringraziare l’A. di farci sentire e vedere lo sviluppo dell’ umanità, le speranze, le cose, l’assetto urbanistico di Roma, la vita, ad esempio dopo il

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secondo conflitto mondiale. Un’opera armonica e progressiva nella lingua che ci rende alla perfezione aspetti della vita che si svolge nei luoghi in cui è cresciuto Alessandro C, e sono quelli di Via Squarcialupo, Piazza Bologna, la Tiburtina con le sue vie, la sua campagna, il silenzio, le vie ancora, i sentieri di campagna, il poco traffico, la luce di certe ore del giorno. Molti i contenuti e i motivi che si rinvengono nell’opera. Il poeta Chiappetti sa dosare le sue scene, ci sa presentare, ricorrendo sempre a uno stile incisivo uomini, donne, persone che hanno caratterizzato la sua infanzia. Ed ecco che qui è da citare prima di tutto la tata Maria veneta, cattolica che è stata per Alessandro C una manna. In queste pagine dedicate alla tata si ammira il tratto suggestivo e poetico che ha lo stile che ci rende alla perfezione il ruolo, ciò che ha contato questa laboriosa tata per Alessandro C, che trova attimi di spensieratezza, sfuggendo alla rigida educazione familiare, e partecipando nella campagna veneta alla pigiatura dell’uva, per esempio. Senz’altro la tata Maria, il padre medico sono i principali personaggi di questa opera che va letta come una biografia sentimentale dell’A. dai pregi, dai molti pregi poetici, come va ribadito ancora. Si pensi alle descrizioni della luce di Roma in certe giornate, alla delineazione e descrizione dei tram, alla gente, al suo modo di agire e di pensare, alle gite verso Ostia o i castelli romani, alle classi sociali, a quella vita che a mano a mano si va evolvendo dopo la guerra. Il tutto visto attraverso gli occhi, la sensibilità, la percezione di un ragazzo che racconta dal suo punto di vista ciò che vede e gli scorre intorno. L’opera si inizia con i bombardamenti su san Lorenzo e poi prosegue con altri avvenimenti. Molto abile e bravo è l’A. che sa distribuire gli argomenti, le tematiche, i motivi della sua opera, e lo stile, la lingua si attagliano di volta in volta agli argomenti trattati. Il lettore rimane veramente impressionato, ed è invogliato ad andare avanti nella lettura, essendo, sentendosi coinvolto nel ritmo della prosa poetica, nelle tonalità della lingua che ci presenta, ad esempio, il modo di vestire dello stesso Alessandro e quello dei fratelli con quelle mollette che tenevano i capelli e poi tutti vestiti allo stesso modo da sembrare figure buffe, oppure ancora quando vengono presentate figure di parenti o di ospiti. Lo stile che si basa su paragoni, allusioni, metafore, dice la composizione della società, la vita familiare, il carattere del padre e della madre, le emozioni, la sensibilità con cui sono dette e descritte le cose, la vita romana e italiana. Trattata poco è la politica, ad esempio, si legge nelle prime pagine che tutte le volte che si passava


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da Piazza Venezia la tata diceva ad Alessandro che da quel balcone parlava Mussolini e poi in famiglia si parlava raramente di politica. Comunque è da leggere questa opera in quanto ci dà notizie preziose su come vivevano gli italiani dopo la guerra, come si sviluppava Roma e l’Italia e lo fa ricorrendo non a uno stile descrittivo, meramente descrittivo ma poetico - è da insistere su questo fatto per apprezzare e capire meglio questa opera. Al riguardo si vedano come lavorano, come si muovono le monache in ospedale che assistono il medico, Ninni (Niccolò) che chiamava affettuosamente la moglie Pupi (Rosetta in realtà, la sicula per Alessandro C). L’opera presenta tantissimi motivi e varie sfumature, presenta precise e partecipate descrizioni, ricordi, immagini che sono rimaste impresse nella mente del ragazzo, non dimentico di ciò che il padre e il suo insegnamento hanno operato in lui, quel padre onesto e laborioso che riteneva e giustamente ripeteva che senza nessun rispetto per i valori umani e di ordine non ci può essere futuro. Ora le cose son cambiate, Roma è diventata una prugna secca, e non è più quella dei carri di Via Squarcialupo, ora traffico e altri aspetti deleteri la caratterizzano. Certo, Chiappetti ha scritto questa opera per una urgenza interiore, per rivivere momenti irripetibili di una volta ormai trascorsa e non rimane che richiamarla attraverso una lingua poetica e non meramente descrittiva. Il libro si legge con piacere e tutto difilato. Carmine Chiodo

ELISABETTA DI IACONI CAMMINERÒ Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2019 La poetessa Elisabetta Di Iaconi nella sua raccolta “Camminerò” è come se fosse all’interno di una bolla che non le dia la possibilità di uscire. All’ interno di questa bolla, che la tiene prigioniera e nello stesso tempo la ripara da un mondo in cui lei vede solo cupezza, è in cerca perenne del suo posto esatto nell’universo, oppure di qualcosa o qualcuno. La Di Iaconi non si ritrova nella natura che la circonda, le sembra di esser confusa tra la folla dove ha la conferma di essere solo un respiro nell’ immensità, un respiro che subisce la direzione dei venti. Tutto questo la rende pensierosa, cupa e inasprisce in lei il mistero dell’esistenza. E’ come se non riuscisse, nella vita di tutti i giorni, a far uscire allo scoperto se stessa. Per assurdo lei sta bene solo con la poesia: “…solo la poesia sa dirmi che è possibile l’ascolto, quando il pensiero

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vaga e capta mille vibrazioni ignote…”. In questi istanti particolari lei ‘cammina’ con i versi e finalmente diventa la nota di un’orchestra che diffonde nell’aria la musica sublime. Fin quando ci sarà il prodigio della poesia (forse paragonata a Dio, alla speranza…), lei si sentirà viva: “…mi sento in uno scrigno dove scrivo pagine di diario stilate con l’inchiostro del coraggio”. Sarà la mente a guidarla verso il viaggio della salvezza, in una notte dove una stella le schiarirà la strada da percorrere. In fondo la vita dell’uomo è un lungo cammino (alle volte spensierato alle volte irto di amarezze e problematiche…) ed ognuno può scegliere di farlo o interpretarlo come meglio crede. Roberta Colazingari

ELISABETTA DI IACONI UN VOLO DI FARFALLE Antologia poetica, Prefazione di Anna Maria Bonomi, in copertina, a colori, “Un volo di farfalle” di Ernesto Ciriello - Andersen s. p. a Boca (NO), 2018, pagg. 66, € 10,00. A sintetizzare, è una poesia in positivo. Non mancano, certo, il dolore, il dramma, il “vento turbinoso”, gli uragani, le nuvole che offuscano e rendono arduo il cammino. La terra, così com’è, “non consente i sogni”, ma la poetessa è più forte di ogni avversità e si ostina a realizzarli, a dispetto di tutto e di tutti, anche del destino; l’uomo, che pure ogni giorno sembra non fare altro che brandire l’antico ramo assassino di Caino, conserva, tuttavia, in fondo al suo cuore, un profumo ch’è “seme di vita”, speranza per un futuro migliore. Uno scavo nell’inconscio, nel logorato ed aspro terreno della vita, che la Di Iaconi torce e rende sintonico all’amore. Abbiamo una grande e diffusa speranza. Tutto è riportato al sogno sfrondato delle scorie - nel possibile, s’intende -, perché solo un folle non si accorgerebbe di “questo nostro mondo disastrato”; ma è assolutamente necessario “Abbandonarsi al sogno,/perché la mente possa districarsi/dai suoi grovigli antichi”. Così, tutto diviene lieve ed ovattato simile a volo di farfalla, persino “grato il crepitare della pioggia”, quando il crepitare, se non ci fosse il sogno, non sarebbe che violenza. Anche le figure umane, alla fine, si dissolvono, divengono “Come folgorazioni,/che all’improvviso brillano nel cielo”; “Si rasserena il cielo”; “il pianto/dei sofferenti in letti di dolore” è trattenuto, pudicamente; su tutto, la poetessa ama stendere “un velario amico”. Poesia solare e limpida, sfrondata d’ogni inutile


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orpello, equilibrata nell’aggettivazione e nelle metafore, aperta alla Natura che, sempre, “dona un intervallo,/per consolare il cuore”. La Natura fa corona al canto con i suoi “limpidi ruscelli”, “l’alito del mare”, “il rigoglio della primavera”, la foglia, persino, che “cade dal suo ramo/secondo un rito antico”. Secondo un rito: il dramma della fine, cioè, della morte, riportato nell’alveo del naturale avvicendarsi d’ogni creatura e cosa. Poesie brevi, nelle quali l’endecasillabo domina e sviluppa armonia col settenario; versi scaturiti “Nel costante ricordo/ del [suo] sposo Vittorio”, al quale esplicitamente è indirizzato il “Sentiero senza fine”. Domenico Defelice

ANTONIO CRECCHIA AFORISMI Volume I - Ed. ac <> 2019 - Pagg. 132, s. i. p. L’aforismo va di moda; il quotidiano Il Messaggero, per esempio, ne tiene una rubrica quasi giornaliera, curata con successo da Gervasio. Il volumetto di Antonio Crecchia ne contiene ben settecento, il cui tema principale è la poesia, esplicita - almeno nei primi centosessantacinque - e indotta, perché non solo ricompare qua e là in tutta l’opera, ma perché è spesso intima al linguaggio, condito, all’occorrenza, di sarcasmo e d’ironia. Vi troviamo, poi, la ragione; la bontà; la cultura; la pace, che il mondo, in realtà, non ha mai conosciuto; la democrazia, a dire il vero, “Una fabbrica di delinquenti e un manicomio affollato di dementi, un paradiso reale (e regale) per i mercenari della politica, dell’industria, dell’economia e della finanza”; la politica; gli ideali; la nascita e la morte; la storia, “bibbia di tutte le guerre”; la filosofia del saggio, che ha imparato dalla vita quanto più possibile, affrontando e superando prove anche dolorosissime, attraverso le quali s’è temprato e fortificato nell’amore verso l’altro e verso gli animali e le cose; la perfezione, prerogativa che dovrebbe essere di tutti, ma il cui “premio tocca alle piante”; la saggezza, solo se “ci insegna a scoprire e a utilizzare al meglio le ricchezze dell’anima, del cuore e della mente”; la libertà; il piacere; l’amore, che “è come il fiammifero: si accende solo in presenza di un oggetto atto alla sua manifestazione”; l’egoismo, il peggiore del quale alberga proprio in coloro che dovrebbero esserne esenti: “in coloro che dedicano la vita agli altri”; la bellezza; la giustizia, ch’è, il più delle volte, ingiustizia, specie allorché viene amministrata da giudici “superbi e arroganti padroni della giustizia”; la religione, per esempio, la differenza tra Islam e Cristianesimo, che consiste,

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secondo Crecchia, “nel fatto che i Cristiani sono pronti a morire per la fede, mentre gli Islamici sono pronti a uccidere per la stessa causa”. Vero, se non si dimentica che ci fu un tempo nel quale il Cristianesimo ha condannato al rogo migliaia d’innocenti. Bisognerebbe, allora, parlare meglio di maturazione. Non manca l’invettiva/ripugnanza verso “un rospo naturale”, l’unico conosciuto dall’autore (e, data l’eccezionalità, verrebbe voglia di sapere chi fosse!), il quale si augura “di non incontrarne mai più. Potrei morire - afferma - per un conato di repulsione”. Ci fermiamo. In quest’opera di Crecchia si trova di tutto, è uno scrigno e una miniera dei quali servirsi quotidianamente per arricchire anima e mente. Domenico Defelice FRANCESCO D’EPISCOPO LA POESIA DI IMPERIA TOGNACCI Inquietudine dell’infinito Genesi editrice- 2019 Già dall’immagine di copertina certi libri, a volte, ci danno delle eloquenti indicazioni della materia che si va trattando. Sembra una sciocchezza, ma la scelta di mettere in copertina, al libro che Francesco D’Episcopo dedica all’analisi della poetica della scrittrice e poetessa Imperia Tognacci, una riproduzione di un quadro di Silvestro Lega dal significativo titolo “Curiosita”, racconta già di per sé la motivazione che ha spinto l’autore, a trattare nel suo saggio la complessa scrittura della Tognacci. Fermandoci per alcuni istanti all’analisi del quadro, in primis notiamo che è una donna. Riferimento dunque centrato. Ella è in una camera non completamente buia: si riconoscono infatti le imposte con i vetri, i ferri della balconatina, le assicelle della persiana. Poi il vestito della donna, il suo colore verdolino, il grembiale più scuro, il polsino chiaro e stretto. E poi le mani: gentili, affusolate, morbide, dal tocco delicato nello sfiorare appena una delle assicelle della persiana. Poi la finezza del viso di profilo, incorniciato da una chioma bionda. A esaltare l’immagine e renderla viva, parlante, tridimensionale, che sembra quasi sentirne la fisicità, percepire quella carne e quelle ossa, c’è la luce che filtra da fuori. Essa si insinua tra quelle assi di legno e benché non eccessiva, ha la forza di penetrazione di un sole pieno che anima la scena con vigore e forza narrativa, tale da rendere quella immagine plastica e vi-


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va. La seconda cosa che notiamo è l’azione che sta facendo la ragazza. Ella sbircia, guarda qualcosa, curiosa fuori, forse la strada, la gente che cammina, un paesaggio, l’infinito può darsi. Non lo sappiamo per certo, lo immaginiamo dal viso che scruta, osserva, valuta, riflette, considera. Queste cose ce le dicono anche le due mani, in modo particolare quella poggiata sul ferro della balconatina. Essa è serenamente adagiata, sembra quasi riflettere mentre l’altra scosta un poco il legno per vedere. Distanze e tempi incolmabili cercano di colmare. Ecco quest’opera del Lega già ci racconta della Tognacci. Le metafore che rileviamo nel quadro, si addicono perfettamente alla scrittrice a cui il D’ Episcopo dedica questo saggio. Le collimanze e le coincidenze ci sono e sono evidenti: della provincia di Forlì-Cesena è il Lega, come lo è anche Imperia. E come lo è un altro grande poeta di quella terra: Giovanni Pascoli, cui la poetessa dedica molto spazio, al punto che il D’Episcopo scrive che in lei esiste e non muore una matrice pascoliana. Esamina a tale proposito l’autore, le due opere che la Tognacci ha scritto per i tipi della Bastogi, in merito al suo illustre conterraneo. E mette in evidenza come la frequentazione dei luoghi vicini al Pascoli, hanno il merito di far rivivere i luoghi natali del poeta, che furono fonte della sua ispirazione. L’esame critico esamina le sillogi: La notte di Getsemani, Natale a Zollara, La porta socchiusa. Tutte opere soffuse di profonda spiritualità. Dove si evidenzia la forte conoscenza del Vecchio e nuovo Testamento, da parte della scrittrice. A cui si aggiunge il legame stretto e forte alla sua terra, soprattutto perché è la terra del Pascoli che amò immensamente quei luoghi. Il D’Episcopo esaminando la silloge La porta Socchiusa, fa notare come il dialogo con Dio della scrittrice si faccia incalzante, serrato, nella richiesta insistente di una presenza, di una partecipazione al dramma dell’uomo, fatto di fango, che, nonostante tutto, aspira alle sublimità celestiali. Rileva il D’Episcopo nell’autrice un incontroscontro con Dio, ma anche un susseguirsi di domande a Lui rivolte, spesso senza risposte, ma nelle quali comunque lei sente tutta la buona volontà di un Dio che vuole farsi umile e terreno, e quindi quanto più vicino all’uomo. A quell’uomo che in fondo e Lui stesso che ha voluto piazzare su questa terra. Esamina il D’Episcopo anche alcuni suoi poemi, mettendo in evidenza, pur nella diversità di ognuno, una presenza costante di alcune tematiche care alla

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Tognacci. Il prigioniero di Ushuaia; Il lago e il tempo;Il richiamo di Orfeo; Nel bosco, sulle orme del pastore; Là, dove pioveva la manna. Questi i testi analizzati dal D’Episcopo, nei quali egli evidenzia tutti i metalinguaggi che consentono alla poetessa di raggiungere attraverso il contenuto, la sostanza e la forma, quegli obiettivi che si prefigge di realizzare. Cerca con le parole, non ostante il gelo del vivere, di rappresentare quella calda luce che sommerge il dipinto del Lega. Luce che anche lei possiede e custodisce nell’animo e che in qualche modo va manifestata, fatta uscire fuori con il preciso scopo, di regalarla a tutti quelli che si apprestano a leggerla. Con l’aiuto del D’Episcopo, ci accorgiamo che la matrice della sua poetica, non solo permette di capire quali significati vengono associati a un certo significante, ma anche di capire che lei struttura i significati in un sistema di opposizioni, tali che alla fine possiedono un significato omologo a quelle del significante. Così la presenza del lago diventa l’emblema di un ‘anima inquieta. I movimenti del lago, che non saranno mai impetuosi come quelli del mare, rispecchiano si il tumulto della sua anima, ma in una più misurata armonia. Ondeggia quindi la Tognacci, secondo l’autore del volumetto, tra le intimità più segrete e la partecipazione all’universo, di cui comunque fa parte. Il saggio si fa leggere con interesse e levità, suscitando a ogni pagina momenti di riflessione. L’autore è curioso, per cui va a indagare, va a evidenziare passaggi, a mettere in evidenza come a volte non basta essere e appartenere alla terra, per sedare quella inquietudine dell’infinito che ci deflagra dentro a ogni istante. La curiosità della scrittrice, quella del suo saggista, quella che ci propone l’editore con il Lega, compongono un insieme, che racchiude nel volumetto la catena significante, come teorizza Lacan, della formazione e dell’Io della poetessa. Salvatore D’Ambrosio FRANCESCO D’EPISCOPO LA POESIA DI IMPERIA TOGNACCI Inquietudine dell’infinito Genesi Editore 2019 L’eccezionale competenza di critico, italianista e giornalista che accompagna il profilo professionale di Francesco D’Episcopo, ha reso questo saggio su Imperia Tognacci un modello di perfezione. Poetessa, narratrice, esperta di critica letteraria di grande spessore, la Tognacci ha meritato numerosi


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premi ed è stata recensita da illustri firme. D’ Episcopo nel post scriptum avverte di aver proposto una lettura dall’interno delle opere della Tognacci e che progetta un futuro intervento monografico sulle opere narrative. La nascita dell’autrice in un paese come San Mauro Pascoli è divenuta subito un emblema. Da “Giovanni Pascoli. La strada della memoria” leggiamo alcune pagine di prosa poetica dove l’autrice coglie l’animo di Pascoli attraverso le suggestioni del paesaggio e delle vicende familiari. In “Odissea pascoliana” si analizza lo spirito dell’avventura umana di Pascoli, che non risiede nel tentare nuove avventure, bensì nel ritrovare gli elementi del suo passato. Le sillogi della Tognacci sono soffuse di profonda spiritualità. Ce lo dice il professor D’Episcopo presentando “La notte dei Getsemani”, in cui viene descritta l’angoscia di Gesù resa tramite bellissime metafore e originali sinestesie. Un inno alla Romagna contiene “Natale a Zollara” dove la poetessa si abbandona “ad un Amarcord agreste”, con “una forza antropologicamente primigenia”. Ancora un dialogo con Dio rintracciamo ne “La porta socchiusa”, un elenco di domande che ingenerano un “incontro-scontro” con la divinità. Il dramma del male, il martirio delle sofferenze umane è poi rischiarato dalla ricerca di una fede. Ne “Il prigioniero di Ushuaia” Imperia Tognacci compone un poema in venti canti, ispirato ad una poesia scritta dal prigioniero nelle gelide solitudini della Patagonia argentina. Ancora una silloge: “Il lago e il tempo” nella quale “l’infanzia torna a far sentire i suoi odori e i suoi sapori”. Vengono riproposte le domande senza risposta: il lago amico si anima delle inquietudini della poetessa. Ella ne “Il richiamo di Orfeo” esalta la poesia nel mondo attuale così dilaniato, per concludere che il messaggio dei poeti “continua a sfidare i secoli”. Nella silloge “Nel bosco sulle orme del pastore” il bosco diventa metafora della natura con i suoi misteri, mentre il pastore Aristeo personifica il mondo buono. Su tutto aleggia “un misterioso magnetismo”. Ultima opera esaminata: “Là, dove pioveva la manna” con poesie che vanno oltre il tempo e che si ambientano nel deserto. È un vero e proprio viaggio nell’anima della poetessa assetata di infinito. La disamina della vis poetica di Imperia Tognacci viene attuata da Francesco D’Episcopo con sensibile partecipazione, con uno stile raffinato e approfondito, pur nell’esemplare chiarezza che tende ad un’equilibrata sintesi. Elisabetta Di Iaconi

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DOMENICO DEFELICE LE PAROLE A COMPRENDERE Genesi Editrice, 2019 - Prefazione di Sandro GrosPietro. Postfazione di Emerico Giachery. In copertina: Torre di Babele nel Duomo di Milano. € 14.50. Come una meteora fiammeggiante, è atterrata a Melbourne, proprio nel mio giardino, tra le rose, le orchidee, i gigli, i tulipani, spargendo versi profumati dappertutto questa delizia di libro. Un libro che splende “LE PAROLE A COMPRENDERE” del nostro Grande Autore Domenico Defelice, ultima sua preziosa creazione. Qui tutti apprezziamo e ammiriamo da tantissimi anni ogni suo libro, la Rivista Pomezia-Notizie, Il Croco e ogni sua ammirabile produzione letteraria. Tutti gli autori dell’A.L.I.A.S. li hanno letti con tanta ansia, tanta inequivocabile soddisfazione. Tutti lo stimano e lo amano perché è unico e meraviglioso. Il libro è composto da quattro parti, Parte Prima: “LE PAROLE A COMPRENDERE”; Parte Seconda: “RIDERE (PER NON PIANGERE)”; Parte Terza: “EPIGRAMMI”; Parte Quarta: “RECENSIONI”. Il libro è tutto dedicato alla sua vita, dalla gioventù in poi, una carrellata di puri sentimenti che invade il cuore di chi legge e lo colma di incredibili emozioni. Ci siamo sentiti la notte/ prima della fine del mondo/ profetizzata dai Maya./ - Mimmo, son Geremia!- Avevo gli occhi/impastati dal sonno. – Ma non dormi,/ dannato barbuto? - - Dormiremo/ domani, tutti quanti- /Entrambi sanamente ironici,/ ogni volta a trastullarci a lungo/ nel silenzio delle nostre stanze/ legate dal filo del telefono - / Leggimi in anteprima/ la tua risposta all’Alleluia di Onano-. Ed ecco la risata/ lunga leggera e pura,/ mai incrinata dal peso degli anni! Da “LE PAROLE A COMPRENDERE.” Pagg. 42. Una poesia che ci fa meditare e c’invita a leggere tutto d’un fiato queste splendide composizioni, che ci proiettano lungo il percorso della sua vita, il grande amore che nutre per la famiglia, ed in particolare per i meravigliosi nipotini, per la natura, per la sua terra, per Dio ecc. Versi accurati, di una sensibilità commovente, che ci fanno riflettere e meditare, con sensazioni che ci fanno battere il cuore. Con grande sensibilità, ha interpretato i valori umani, sotto il simbolo della vita trascorsa in autentica realtà, tra gli esseri umani che amano l’arte in genere. Parte Seconda: “RIDERE (PER NON PIANGERE)”. Ride il sedere della Star/ e mille mani ardon di


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toccarla/ mentre sul palcoscenico sgambetta./ Lei si sente una divinità./ Sa che, se non l’avesse/ così armonioso e così bello,/ sarebbe una nullità. Da “RIDE IL SEDERE...” Pagg. 93. Questa poesia ci rallegra, il Nostro, sa essere anche di una comicità brillante, così ci spinge a procedere pagina dopo pagina per darci un po’ di serenità, in questo percorso di vita, dove niente è facile e si ride per non piangere! Parte Terza: “EPIGRAMMI”: Tutta la tua sostanza è una targhetta/ appiccicata sopra il tuo portone;/una carta intestata; un’ etichetta/che un giorno finiranno in un bidone./A che giova tanta sicumera?/Di te non rimarrà neppure l’ alone. Da “A UN BORIOSO.” Pagg. 118. E qui ci fermiamo un po’ a pensare a chi ha nella mente la superiorità, mentre invece col suo egoismo, rimarrà solo la nullità di un essere artificiale, senza cervello e senz’anima. Parte Quarta “ RECENSIONI”: Cara schizzofrenia,/ cara delirante pazzia,/ cara logorroica follia,/ cara mente in ludi ottenebrata,/ cara lingua aggrovigliata,/ cara sregolatezza/ forse prodotta da... cara stitichezza! Che dire di questo libro che affascina chiunque ha la fortuna di leggerlo, e costringerlo a stringerselo forte al cuore nell’ammirevole dono di questa stupefacente creatura, che il Nostro straordinario Domenico Defelice ha creato, rimarrà di Lui un ricordo indelebile nel cuore di tutti i suoi infiniti, estasiati ammiratori. E che dire della Pittura? Il nostro Artista è anche un eccellente pittore, che riesce a catturare l’anima di ciò che raffigura. Il Nostro, rimarrà un’Icona Artistica-Letteraria per sempre, nella storia della Letteratura Italiana. Giovanna Li Volti Guzzardi Australia

ELISABETTA DI IACONI SALATI UN VOLO DI FARFALLE Edit. Andersen spa, 2018, Pag. 64 Elisabetta Di Iaconi Salati ci presenta una raccolta di poesie dallo stile delicato e raffinato. Dal suo zaino greve di esperienze tratteggia un mondo ancora pieno di speranze e sentimenti. Nel ricordo illuminante di un passato felice, le poesie irradiano positivamente il presente ed il futuro. La vita è un viaggio speranzoso che ognuno intraprende e tutti i giorni con coraggio si cerca il senso dell'esistenza. “Ogni giorno un pensiero/ che si nasconde tra veloni oscuri, / arricchimento nuovo./ Nella sequenza

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rapida del tempo, / antidoto al dolore./ Ogni giorno il coraggio/ di cercare il senso di un cammino”. Nella silloge ricorrono spesso le parole: sogni, antico e memoria. Parole che si incontrano e si fondono con il resto dei versi, creando una trama evocativa che richiama immagini di un passato ricco di emozioni e di una dimensione fortemente onirica: “e vengono alla luce antichi sogni”. L'essere umano non cambia, nonostante il trascorrere del tempo, e davanti al mistero della vita la mente dell'uomo comincia ad immaginare, a pensare e a sognare: “ma la creatura umana serba in mente/ i luoghi del suo cuore”. Da una immaginaria finestra l'essere umano con tutte le sue fragilità osserva la realtà: “E noi fantastichiamo/ sul frantumarsi di costellazioni,/sul freddo siderale,/ quando si spegneranno tutti gli astri”. Tra la poetessa ed il mondo c'è una sinergia che diventa musica nel silenzio della sua casa. Ed è nell'assoluta quiete della sua dimora che inizia la danza di una farfalla che guida ed illumina la creatività della poetessa stessa. Alla fine della lettura rimane un senso di ricerca e fiduciosa speranza che alleggerisce il cuore e che come afferma la Di Iaconi è necessaria alla sua vita e dunque la poesia diventa per lei come salvezza. Manuela Mazzola

AA. VV. TASSELLI D'ARTE E SOSPIRI DI VITA. INCONTRO CON UN MAESTRO DI VITA E UNA POETESSA Editore MA.GI., 2018 Il volume è una raccolta di recensioni sulle opere del maestro Michele Frenna, sulla sua tecnica musiva e sulle poesie della figlia Gabriella. L'arte del mosaico è una fra le prime forme artistiche, dunque è uno dei primi modi che l'uomo ha utilizzato per esprimersi e per comunicare. Frenna, attraverso una tecnica raffinata, è riuscito, tassello dopo tassello, a creare immagini dal perfetto equilibrio cromatico con delicate sfumature, risultato di un magistrale gioco di luci ed ombre. In una recensione pubblicata da “Antologia dell'arte mosaica di Michele Frenna, edita da Accademia Città di Roma “Il Machiavello” 1990, Orazio Tanelli scriveva così: “La sintesi dell'antico e del moderno, del mondo mitologico e degli archetipi biblici è effettuata con una maestria di colori e forme che sorreggono un'alta capacità stilistica ed una coerenza armonica e cromatica di geniosa abilità”. L'artista mediante le sue opere è stato in grado di esprimere una profonda spiritualità, il sentimento per la natura, l'ammirazione per l'arte ellenica ed


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egiziana, la predilezione per le nature morte, il mare, la fauna marina ed il folklore siciliano. Ha interpretato in modo del tutto personale il mondo, la vita, la religione ed è per questo che la sua arte musiva è unica nel suo genere. In particolare stupisce la sua capacità di dare profondità ai quadri, mediante un gioco di luci ed ombre, negli sfondi stessi, sorprende la sua abilità di accostare i tasselli di vetro, tanto da creare sfondi tridimensionali che fanno emergere i soggetti delle sue opere. Le poesie di Gabriella Frenna completano l'opera del tanto amato papà. Accompagnano i mosaici, spiegando i significati più reconditi delle diverse opere. L'amore e la stima per il padre sono talmente grandi che la sua poesia oltre a spiegare, si fonde in un'unica cosa, innalzando così, ulteriormente, la levatura delle opere di Frenna padre. “Ogni tuo insegnamento / è impresso nel cuore/ con la tua fede profonda/ con la tua vita esemplare /espressioni di sincero amore”. Luigi Ruggieri nella presentazione scrive: “ Gli spessori di umanità raffigurati nei Suoi mosaici puntano alla visione della metaforica “luce dell'alba dell'intelletto”, e inducono a seguire quelle acrobazie del colore, del disegno e della composizione che con passo sicuro si susseguono riuscendo a strappare l'applauso ad ogni osservatore”. Sono proprio le acrobazie del colore e del disegno create mediante l'accostamento delle tessere di vetro, che fanno dell'opera di Frenna un capolavoro musivo. Manuela Mazzola

DOMENICO DEFELICE LE PAROLE A COMPRENDERE Genesi Editrice, 2019 Ho letto il più recente libro di Domenico Defelice, intitolato “Le parole a comprendere” (Genesi Editrice, 2019, pagg. 150, euro 14,50), presentato da Sandro Gros-Pietro, e in Postfazione da Emerico Giachery. E’ tutto in versi, composto da quattro Parti. Bellissima e molto sostanziosa la prima Sezione, con temi che vanno da riflessioni e considerazioni sulle varie fasi della sua vita - e soprattutto di quella attuale -; con la sempre grande ammirazione per la natura tutta e per l’ecologia; con il suo rinnovato e fermo credo sui valori più importanti dell’esistenza, quali la spiritualità, la dignità, l’amicizia e l’amore; con la sua grande sensibilità verso i bimbi maltrattati; con l’apprezzamento di validi personaggi della cultura che ha conosciuto personalmente e con cui ha collaborato sempre cordialmente (in particolare, qui, Peter Russell e Geppo Tedeschi).

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Mi piace riportare questa affascinante e nostalgica lirica: <La luna>: “A lungo ha sostato dietro il monte/ per farsi bella/ specchiata nel ruscello.// Poi si affacciò alla valle all’improvviso// e mise in fuga/ ombre e fantasmi.// Era argento la strada/ e come rideva il casolare!” Ed anche questa, così struggente: <Morte da saggio>: “Mio padre morì da saggio./ Intorno al suo letto, impietriti,/ lo guardavamo torcere la bocca/ negli spasimi dell’agonia.// Respirò forte. “Perdonatemi!”/ E stese le labbra ad un sorriso/ per darci coraggio./ Invocò la Madonna/ e il volto gli si colorò d’infanzia.” Nelle altre Parti, accanto ai suoi già noti ed usuali strali ed invettive contro i vari politici di turno attuali e del passato, assieme a giochi di parole di bonaria ironia su vari temi, espressi attraverso generi letterari svariati - quali epigrammi e filastrocche -, troviamo versi sarcastici e grossolani, veramente di cattivo gusto. Probabilmente il Poeta, padrone della sua penna, si sarà espresso in tale modo per dare maggior “colore” al suo lavoro, prendendosi così, della licenza letteraria. Maria Antonietta Mòsele ALBERTO MENICHELLI IN AUTO CON BERLINGUER Quindici anni con il Segretario del PCI Curatore: Valentina Brisis - Editore Wingsbert House, 2014, € 13,00 Presente in rete, questo libro di centoquarantaquattro pagine traccia il percorso sincero, professionale e concretamente vero della vita di Alberto Menichelli, per quindici anni autista personale di Enrico Berlinguer, segretario generale del Partito Comunista Italiano e parte della sua scorta. Come si costruisce una relazione di lavoro tra i due se non nel massimo del rispetto reciproco e della fiducia, semplice e costruttiva, per essere in tutto all'altezza del proprio compito? In questa dimensione si pone il Menichelli nell'affiancare l'Enrico Nazionale, ne rimane affascinato, ne coglie il profondo legame con tutta la sua bella famigliola, tra Roma e l'Isola d'Oltre Tirreno. Approda a Botteghe Oscure nel 1969 e da quel momento verrà nominato autista personale e capo della vigilanza che protegge vita e lavoro del Nostro. Colgo in rete e cito: “Alla lunga Berlinguer - che nel '72 era diventato segretario lasciò che l'autista e angelo custode entrasse nella sua vita, presero confidenza, d'altronde non poteva non accadere, vista la quantità di tempo trascorsa insieme. La giornata cominciava alle 7:30, quando Alberto gli portava la mazzetta dei giornali a casa,


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all'epoca era quella in viale Tiziano. E mentre il segretario leggeva i giornali. Alberto gli portava a scuola i figli. Poi ripassava a prenderlo e verso le nove s'andava in Direzione...” (fonte: Internet, articolo di Alessandra Vitali: 'È morto Alberto Menichelli, storico autista di Enrico Berlinguer'). Momenti di vita, emozioni, ricordi indelebili e riflessioni semplici ma eticamente validissime, vanno a formare la trama di questo lavoro fatto col cuore. Tanta parte della storia italiana dal '69 al fatale giugno 1984 passa all'interno delle memorie fatte emergere a ruota non certo libera né evanescente, ma vera, concreta, correttamente impostata sugli eventi. Per la prima volta nel suo lavoro al seguito del Segretario del PCI, non potrà accompagnarlo a Padova, quando Berlinguer dovrà tenere il comizio il 7 giugno 1984 in Piazza delle Erbe. Cose dette, riferite, registrate da più versanti: il Menichelli sa, scrive e soffre perché all'Enrico, fratello di tutti e dell'Italia, è veramente affezionato. Nel testo pagine forti intorno al rapimento, alla prigionia, alla scoperta del corpo senza vita di Aldo Moro, nella Renault rossa che mostra come il lavoretto sia stato ben fatto, sottolineano lo sgomento, la sofferenza profonda, la tragica pensosa perplessità di Berlinguer su tutte le tappe angosciose, in atroce solitudine, sofferte da Aldo Moro, che egli stimava moltissimo. Il Menichelli, chiamato più volte in tante occasioni per ricordare Enrico Berlinguer, morirà il 15 agosto del 2017. Ilia Pedrina GIACOMO MATTEOTTI UN ANNO DI DOMINAZIONE FASCISTA Introduzione di Walter Veltroni - Saggio conclusivo di Umberto Gentiloni Silveri - Edizioni Rizzoli, Milano, marzo 2019, € 17,00, pp. 263 Questi documenti particolari, che costituiscono la raccolta del testo, aprono all'investigazione scrupolosa su dati precisi, riflessioni, analisi in diretta che il grande politico Giacomo Matteotti ha raccolto in funzione del proprio ruolo di rappresentante in Parlamento del Partito socialista. Colgo dal retro di copertina: “Giacomo Matteotti (1885-1924), socialista riformista, contrario all'entrata in guerra nel 1915 e processato per disfattismo, deputato dal 1919, fu segretario del Partito socialista unitario. Dopo un discorso alla Camera in cui denunciava i brogli e le violenze delle elezioni che avevano fornito la maggioranza assoluta al Partito nazionale fascista, il 10 giugno 1924 fu rapito e ucciso da una squadra fascista. Il suo corpo fu ritrovato in un bosco della campagna romana il 16 agosto. Il libro Un anno di

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dominazione fascista fu pubblicato e distribuito quasi clandestinamente nel febbraio 1924 e tradotto in Gran Bretagna, Francia e Germania” Ecco i dati che scrupolosamente lo statista italiano andava raccogliendo ed elaborando: Le parole dei Capi.../... e le cronache dei fatti (pp. 19-130); La conquista di Molinella (pp. 131-148); La libertà di stampa (pp. 149-163). Segue un'accuratissima Appendice in tredici punti ben distinti, che presentano la Situazione economica e finanziaria (pp. 167-183), trattando con scrupolosa attenzione trasversale sezioni come I cambi/ La bilancia commerciale/ Circolazione bancaria, riserve, anticipazioni/ Depositi, risparmi, introiti postelegrafonici e Monti di Pietà/ Prezzi, fallimenti, capitali azionari/ Profitti e salari/ Disoccupazione, emigrazione, scioperi/ Debito pubblico/ Disavanzi di bilancio/ Confronto tra le entrate e le spese del 1920-21 e del 1923-24/ Situazione di bilancio e di cassa/ Entrate tributarie/ Imposte locali. Questo prezioso testo si conclude con una documentazione relativa agli Atti del Governo fascista (pp. 185-251), con temi che vanno dall'Abuso dei decreti legge alla Politica tributaria, alla Politica doganale, alla Politica economica, che sottolinea il percorso dell'interventismo statale a supporto delle grandi aziende come l'Ansaldo e la Fiat (fallimento della Banca Sconto e salvataggio del Banco di Roma e altro), alle Vie aperte alla speculazione privata, alla Politica operaia, alla Burocrazia, alle Ferrovie dello Stato, alle Poste e Servizi elettrici, ai Lavori pubblici, alla Giustizia, alle Scuole, all'Invasione della Ruhr e l'occupazione di Corfù, agli Ordinamenti militari, alla Polizia di Partito, a Lo stato asservito al Partito, a La mutilazione delle autonomie locali, alla Costituzione, Propaganda ecc. Tutte solide tracce e raccolte dati dirette, quasi in tempo reale, precise, matematicamente riportare a configurare un quadro generale di asservimento economico-finanziario ai grandi capitali anche stranieri, che non hanno mai abbandonato gli oscuri intrighi per metter mano alle risorse di questo nostro Paese. Giacomo Matteotti, coscienza critica che inradica le proprie idee nella concretezza dei fatti, di cui temere il pensiero, le azioni, la vitalità che orienta il cambiamento. Tutto da soffocare perché invita all' informazione dettagliata, alla contestualizzazione delle proprie posizioni, alla costante verifica dei dati e delle azioni di governo: testimonianze che invitano alla severa memorizzazione, pena la perdita del filone storico, coerente e capillarmente investigativo, che porta da ieri a domani. Ilia Pedrina


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TITO CAUCHI DOMENICO DEFELICE Operatore culturale mite e feroce Editrice Totem 2018 – Pagg. 360, € 20,00 La storia umana e letteraria di Domenico Defelice è stata delineata nel corposo saggio che Tito Cauchi ha voluto dedicargli; un’altra tessera che va ad aggiungersi al già prezioso mosaico del suo percorso. Nella premessa, Cauchi sottolinea che questo lavoro supera l’interesse del critico poiché, nel tempo, tra di loro è sorta una sincera amicizia: “Pur restando nella mia autonomia e per quanto abbia fatto del mio meglio per il distacco intellettuale, come è giusto che sia, ho assemblato il numeroso mio materiale su di lui, forse tradendo qualche emozione.” Descrivere l’operato di Defelice comporta un impegno importante, perché la sua personalità accorpa diversi interessi artistici. E’ poeta, scrittore, giornalista, cronista, saggista, vignettista, pittore, oltre che editore e operatore culturale. Cauchi, considerando tutti questi aspetti, ha iniziato la sua analisi dall’ esordio di Defelice con la raccolta di dieci poesie inserite nell’antologia Nuove Voci dal titolo, “Piange la luna”, dove si evince il suo rapporto con la morte di una donna amata; segue “Con le mani in croce”, silloge di quaranta poesie nella quale Defelice svela soprattutto il suo impegno civile. Nell’ opera giovanile “Un paese e una ragazza” Cauchi rileva la passione amorosa del poeta e la nostalgia per il suo paese natio. Vengono dopo le raccolte: “Dodici mesi con la ragazza”, illustrata dallo stesso autore, in cui prevale una certa carica sensuale; “La morte e il sud”, un volumetto di dodici componimenti accompagnati a fianco dalla versione spagnola di Nicolás del Hierro, che evidenzia il peso della separazione dalla terra delle sue origini e la relativa depressione emotiva; “Canti d’amore dell’uomo feroce”, con testo francese a fronte di Solange De Bressieux, nel quale Defelice racconta per lo più sentimenti e accadimenti autobiografici; “Nenie ballate e canti”, dove il poeta vuole scuotere le coscienze con il male del mondo che ci circonda e dove risalta il dolore per la morte di Alfredino, il bambino caduto in un pozzo nel 1981. Seguono ancora: “Alpomo”, un poema allegorico in sei canti nel quale l’autore in tono ironico rileva lo sconcio dell’Italia ai tempi di “Mani pulite”, creando un’atmosfera quasi satirica per mascherare il malessere e la rabbia di un mondo politico malsano; “Resurrectio”, dove Defelice racconta l’ esperienza di un intervento chirurgico subito e rende anche in questo caso una scrittura a tratti metaforica e ironica per nascondere la paura di fronte all’ incognita della sorte e alla morte stessa. Completa-

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mente diverso è il contenuto di “Alberi”; qui il Poeta è completamente inserito in un ambiente bucolico, ma è solo apparenza poiché gli alberi rappresentano persone conosciute, viventi e non, e il suo “orto giardino” è inteso come un nuovo Eden, dove gli uomini possono finalmente trovare un’ armonia lontana dal dolore. La metafora continua per cercare di rinnovare la visione della storia biblica e porgerci il suo sentire carico di amore universale. Tito Cauchi termina con l’analisi del volume che Defelice ha dedicato all’amatissimo nipote Riccardo. Sono liriche che esaltano l’amore per la famiglia e raccontano l’evoluzione di un percorso d’ amore, dall’attesa fino alla nascita; narrano pure l’ accostarsi alla vita del prezioso nipotino. Riccardo festeggia cinque anni e il nonno ha un nuovo motivo di felicità: un’altra vita in arrivo, un altro nipote da amare. Mi sono soffermata su tutti i libri considerati da Tito Cauchi, ma il suo rilevante studio continua con il lavoro di Defelice riguardante opere di letteratura e di pittura: tutti saggi che portano alla luce personaggi di rilievo e altri meno conosciuti. A questi si aggiungono altri saggi che Cauchi definisce “Saggi sociologici”, dove Defelice approfondisce il suo pensiero riguardo diversi temi, quali ad esempio il testamento biologico e l’eutanasia, la morte della prima Repubblica, la mania del coltello, ecc. Nella quinta sezione del libro Cauchi analizza il profilo umano di Defelice mediante l’analisi dei suoi scritti autobiografici, come quello dedicato a Giulietta Livraghi Verdesca Zain dove, nella quarta parte “Pagine di un diario”, si possono rilevare diversi cenni sulla vita di Defelice e il suo atteggiamento verso gli altri e verso la stessa poesia; ad esempio gli incontri presso l’Antenna Letteraria, Caffè Fassy in Corso Italia. Altri accadimenti che tracciano la personalità di Defelice sono quelli descritti in “Diario di anni torbidi”, nel quale racconta le proprie vicissitudini degli anni sessanta, quando trentenne si trovava emigrato a Roma. Questo libro è uno spaccato di quegli anni ma narra anche la sua biografia, poiché rivela diverse notizie sugli affetti, incontri culturali e amicizie. Un ulteriore approfondimento sul profilo umano Cauchi lo evidenzia dalle lettere di Solange de Bressieux e Maria Grazia Lenisa. Il saggio continua ancora portando in risalto ciò che la critica pensa di Domenico Defelice, così da ampliare ulteriormente la visione di Cauchi mediante testi di altri critici, quali Orazio Tanelli, Sandro Allegrini, Leonardo Selvaggi, Eva Barzaghi, Anna Aita, Claudia Trimarchi e Aurora De Luca. Vi sono altre due sezioni: “Notizie varie” e "Domenico Defelice all’Università”. Cauchi, riguardo a


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un testo scolastico scritto per gli allievi dei Centri di Formazione Professionale, approfondisce il pensiero del Nostro e la sua esperienza d’insegnante. E’ un volumetto che tratta nozioni giuridiche - economiche, molto utile per una buona educazione sociale. Segue la felice esperienza di Defelice, come ospite all’Università di Tor Vergata, dove ha presentato il volume di poesie dedicato al nipotino. In conclusione del corposo lavoro, troviamo un epistolario intercorso tra Tito Cauchi e Domenico Defelice, che svela appieno il loro legane di amicizia e di stima. Le mie considerazioni sono solo dei brevi cenni sul contenuto di questo importante saggio, perché per la complessità del Personaggio e l’analisi affrontata da Tito Cauchi ci vorrebbe molto più spazio. Ne consiglio perciò la lettura per conoscere sempre di più Domenico Defelice, un uomo davvero speciale. Laura Pierdicchi

D. Defelice: Il microfono (1960)

NOTIZIE AUGURI DI PRONTA E COMPLETA GUARIGIONE A ORAZIO TANELLI - Ci giunge la notizia che il professor Orazio Tanelli, direttore responsabile della rivista Il Ponte Italo-Americano, ha subito, non molto tempo fa, una delicata operazione alla mascella sinistra e che, poi, è stato sottoposto a terapia; ora sta meglio e il nostro augurio come quello del nostro Direttore, della Redazione, dei lettori e dei collaboratori tutti -, è che possa riprendere presto le sue attività e la pubblicazione del periodico, fermo da qualche tempo. Orazio Tanelli è scrittore, poeta e critico, nato il 10 marzo 1936 a

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Macchia Valfortore (Campobasso), il 10 marzo 1936, ma da moltissimi anni residente negli Stati Uniti d’ America, dove è stato docente, alla Rutgers University e nei licei americani, di Italiano, Latino, Francese e Spagnolo. Nel collegio di Upsala e nella stessa Università di Rutgers, nel 1975 ha conseguito il dottorato con la tesi “Miti classici nella Divina Commedia”. Collaboratore di molte riviste, ha diretto pure per alcuni anni La Follia di New York. Tra le sue tante opere, ricordiamo: Il mito dell’Ulisse dantesco (1975), La questione meridionale nella narrativa molisana (1977), La tecnica narrativa di Gadda nella Madonna dei filosofi (1978), I giocolieri della vita (1979), Scintille di umanità (1980), Peccato originale (1980), La poesia di Francesco Lalli (1980), La poesia di Antonio Fiorentino (1981), Mito e realtà nella poesia e nella narrativa di Sabino d’Acunto (1981), Poesie molisane (1981), Il Monaco di Macchia Valfortore eccetera. Con Canti del ritorno, nel 1986, Tanelli ha vinto la settima edizione del Premio Letterario Internazionale Città di Pomezia (Giuria presieduta dalla scrittrice, poetessa, ceramista e attrice Ada Capuana, pronipote del grande scrittore siciliano). Orazio Tanelli è uno dei primi ad aver indagato a fondo l’opera del nostro Direttore, attraverso la monografia Domenico Defelice, apparsa in Italia, nelle Edizioni Pomezia-Notizie, nel 1983 (pagine 160, Lire 10.000). Ecco quanto Tanelli scrive, il 24 maggio scorso, al nostro Direttore, in occasione del ricevimento di Le parole a comprendere, recentemente apparso nella collana Le Scommesse dell’Editrice Genesi di Torino: “Caro Domenico, grazie per il tuo nuovo libro di poesie che sto leggendo con molto piacere. Noto che la tua ironia e il tuo umorismo hanno raggiunto livelli veramente encomiabili senza perdere il sentimento e l’ ispirazione che ho sempre apprezzato. La tua critica ai politici è più che giustificata e ti fa onore da tutti i punti di vista. Su “Pomezia-Notizie” ho apprezzato il tuo magistrale articolo sulla poesia di Nicola Iacobacci, mio grande amico e corrispondente per tanti anni. Ho tutti i suoi libri e una cartella su di lui con tutte le mie recensioni…”. (nsp) *** ERRATA CORRIGE - Durante la stampa del numero di giugno di Pomezia-Notizie, inspiegabilmente è successo un pasticcio alla pagina 9, i cui te-


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sti di Marina Caracciolo, Ilia Pedrina e Giovanna Li Volti Guzzardi sono stati reciprocamente contaminati. Nel chiedere scusa alle interessate, riportiamo quei messaggi in morte dell’amico e indimenticabile Rossano Onano. Marina Caracciolo: Mi dispiace moltissimo per Rossano Onano, mi pare che non fosse neanche tanto anziano... Mi ero stupita già due anni fa quando pur avendo conseguito il primo premio assoluto per la saggistica ai Murazzi non si presentò alla cerimonia, forse non stava già bene... Era un uomo acuto, intelligente, di profondità e perspicacia. Un' altra persona di grande valore che se ne va! C’est la vie… Un saluto affettuoso da Marina Ilia Pedrina: il suo sorriso mi è dentro: se mascherato da profonda solitudine, volevo chiederti la sua email, prima di preparare il pezzo su lui e te, insieme, in piazza d'armi, con dietro le mie spalle l'ironia argutissima di Alessandro Tassoni... Mi mancherà il suo equilibrio nell'attraversare le minime pieghe della psiche: l'ho cantato in quei pochi endecasillabi che ti ho inviato, quando ha fatto il viaggio a Gerusalemme (…) ... ti manderò riflessioni che via via ho annotato quando leggevo da lui il riverbero delle tue esperienze... come il Patriarca Abramo... la sua anima ora è libera, veramente... e mi è arrivata di fronte, attraverso l'arcobaleno, doppio, completo da entrambi i lati, evento rarissimo, dopo aver 'subito' in macchina la grandine ed atteso, con pazienza, il suo profilarsi di fronte, inconfondibile segno di grande tensione positiva! I suoi lavori sono magia, perché hanno dentro proprio l'essenza della sua anima. Troverò le cose su MASCARA, credimi, mi verranno da sole sotto gli occhi... sono commossa perché il suo distacco insegnava mitezza. in abbraccio Ilia tua Carissimo Domenico,

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questa tremenda notizia mi ha sconvolto, che caro e dolce amico, mi dispiace tantissimo, un altro grande collaboratore della nostra POMEZIA-NOTIZIE è andato via, è un gran dolore per tutti, ma sarà così anche per noi, purtroppo con l’età dobbiamo partire... ma è sempre una tristezza infinita. Dai se puoi, le mie sincere condoglianze alla Famiglia. Fai coraggio e continua con tanta salute e tanta forza con la nostra meravigliosa Creatura. Ti abbraccio con tanto affetto. Cav. Giovanna Li Volti Guzzardi Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori (A.L.I.A.S.) *** IL LATINO NON È MORTO - Il Latino non è morto e nel mondo è studiato assai più di quanto non avviene in Italia. Ma si sa: la dabbenaggine e l’esterofilia di noi Italiani è proverbiale; schifiamo le cose nostre, anche le migliori, e la nostra lingua, per assumere e per parlare quelle straniere; figuriamoci il Latino, bandito ormai da decenni dalle nostre scuole. Invece, se non lo avessimo vilipeso e abbandonato, il Latino sarebbe potuto diventare la vera lingua mondiale, perché ne aveva tutti i requisiti. Plaudiamo, così, alla notizia che, a partire da sabato 9 giugno 2019, Radio Vaticana (il Vaticano non è meno colpevole di noi per l’abbandono del Latino!) trasmette Hebdomada Papae, cioè: “La settimana del Papa”, un notiziario in Latino che riguarda le attività del Papa e della Santa Sede, con il seguito di un approfondimento della lingua che, morta, a quanto pare, non è. Ecco un tweet (un “breviloquium”) di Papa Francesco: “Oggi, con gratitudine a Dio, ricordiamo che il nostro corpo contiene gli elementi del pienata, la sua aria è quella che ci dà il respiro e la sua acqua ci vivifica e ristora” (Hodie, grato erga Deum animo memoramus nostrum corpus elementa continere orbis terrarum, eius aër ille est qui nobis dat respirationem eiusque aua nos vivificat et restaurat). *** INTESTATO, A MILANO, un giardino alla memoria del religioso e poeta grandissimo David Maria Turoldo, in Largo Corsia dei Servi, alla presenza di autorità religiose e comunali. Ecco un ricordo della nostra collaboratrice Wilma Minotti Cerini: Padre David Maria Turoldo fu attivo in ogni campo della cultura e ai bisogni dell’uomo e dei bambini come fece Don Milani, come don Zeno Saltini che fondò” Nomadelfia” nel ex campo di Fossoli presso Carpi per raccogliere gli orfani di guerra, per i quali padre Turoldo riuscì a raccogliere molti fondi per il loro sostentamento.


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Il cammino di padre Turoldo non fu agevole, Servo di Maria con tutto se stesso sino alla fine, affrontò tutte le sue difficoltà anche con parte dell’ apparato ecclesiastico che decise di allontanarlo da Milano dove lui predicava in Duomo. Interpretò il comando evangelico “ essere nel mondo senza essere del mondo”. Dio ha seguito tutti i passi di padre Turoldo, e i suoi allontanamenti in Paesi lontani non sono stati che un ulteriore arricchimento della sua grande anima, della sua poesia, della sua fratellanza con tutte le genti: poveri o potenti che fossero purché ricercatori dello spirito divino, e in padre Turoldo trovarono la parola rigenerante, lui spezzava il pane con chiunque, e non è il caso che abbia passato anni nell’antica abbazia di Sant’Egidio a Fontanella vicino a Sotto il Monte fondando una piccola comunità “ Casa di Emmaus” per gli studi ecumenici “ Giovanni XXIII” aperta ad ogni fede, anche agli atei perché potessero condividere una esperienza ecumenica. E non è un caso ancora che abbia scelto proprio Giovanni XXIII un papa amatissimo anche da persone non credenti. ….e il tuo sacerdozio/ è un’oasi /ove essi hanno il diritto/d’approdare/dalle loro fatiche ( padre David Maria Turoldo) Col passare degli anni le poesie divenivano sempre più profonde, profonde come il male che lo lacerava dentro ma che non cancellava il suo sorriso dolce, la voce più flebile ma sempre amorevole, un compagno di viaggio ideale verso i sentieri dello spirito. Qualche giorno prima di morire si congedò dai suoi fedeli dicendo” la vita non finisce mai” .Poi la sua morte, il 6 febbraio 1992. Per nessuna ragione avrei mancato di dargli il mio ultimo saluto. Il Cardinale Carlo Maria Martini che qualche mese prima gli aveva consegnato il primo” Premio Giuseppe Lazzaro e che ebbe parole molto significative disse:” La Chiesa riconosce la profezia troppo tardi”, presiedette alle esequie, ed io per questo gli inviai una lettera di ringraziamento. Un secondo rito venne celebrato nella sua casa a Fontanella di Sotto il Monte dove è sepolto nel piccolo cimitero. Un uomo santo, un poeta di Dio. un amico ,sempre così lo ricordo. Wilma Minotti Cerini ***

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UNA NUOVA RUBRICA: CIUCCIA LA BUCCIA! ? - Leggendo una sua e-mail, del 12 giugno scorso, c’era sembrato che l’amica e collaboratrice vicentina Professoressa Ilia PEDRINA ci proponesse la chiusura della ormai vecchia rubrica “AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA!” per sostituirla con una nuova. “No, no, carissimo - ci precisa successivamente il 14 -, proprio no. Si tratterebbe di sostituire l'ALLELUJA, un'apertura così sacra e dalla storia spirituale e musicale e poetica intensissima, con altra titolazione, quasi facendo un 'saluto di commiato' a Rossano e aprendo una nuova strada, che dal titolo potrà essere ancor meglio scanzonata, ironica, graffiante, pur nella dura asprezza dei contenuti che sempre vai a rilevare... io propongo allora 'CIUCCIA LA BUCCIA', gli altri, che voglion lavorare d'immaginario ben motivato e prender parte all'avventura che tu sempre stimoli e provochi, si faranno avanti: pur di far il pelo e il contropelo ai 'concorsi'... un concorso senza premi e senza sconfitti: questo avrebbe le qualità senza limiti dei tuoi rilievi a macigno, mentre ognuno si sentirà coinvolto a dir la sua, per il nuovo percorso sulle vie impervie di questo nostro tempo assai duro!” Insomma, si tratterebbe o non si tratterebbe? La sfida è raccolta, comunque, la palla è lanciata; assicuriamo che gli Alleluia continueranno e che le pagine di Pomezia-Notizie volentieri saran disponibili per una eventuale nuova rubrica! (d.d.f) *** MORTO FRANCO ZEFFIRELLI - Il 15 giugno 2019 è morto a Roma Franco Zeffirelli; era nato a Firenze il 12 febbraio 1923 (il suo vero nome era Gianfranco Corsi, figlio illegittimo di Ottorino Corsi, già sposato con altra donna e che lo ha riconosciuto solo all’età di 19 anni) e di Alaide Garosi Cipriani (anche lei sposata con altro uomo e che gli aveva dato il cognome inventato di Zeffiretti, poi storpiato dalla scrivano dell’anagrafe in Zeffirelli). Grande artista eclettico - tra l’altro, attore, regista, sceneggiatore, scenografo -, ha eccelso nel cinema, nel teatro, nella lirica, con opere tutte sontuose che gli hanno procurato premi e riconoscimenti a livello mondiale. Proprio in quest’ anno, in Senato, a Palazzo Ma-


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dama, aveva ricevuto il Premio alla Carriera e, nel 2004, era stato premiato con un cavalierato persino dalla Regina Elisabetta d’Inghilterra. Ha frequentato l’Accademia di Belle Arti e il suo primo film come regista è stato “Camping”, del 1957, ma prima aveva lavorato con Franco Rosi e Luchino Visconti per film come “Senso”, “Troilo e Cressida”, “La terra trema”. Vengono, poi, citando alla rinfusa: “La bisbetica domata”, “Cleopatra”, “Romeo e Giulietta”, “Tosca”, “Gesù di Nazareth”, “Il giovane Toscanini”, “Callas Forever”, “Jane Eyre”, “Storia di una capinera”, “Cenerentola”, “L’elisir d’amore”, “Il Turco in Italia”, “Falstaff”, “Traviata”, “Lucia di Lammermoor”, “La bohème”, “Aida” eccetera. Un autentico genio che ha lavorato fino all’ultimo. Gay dichiarato, non ammetteva, però, i matrimoni tra gay, né l’adozione di bambini dalle coppie di costoro.

LIBRI RICEVUTI LUIGI DE ROSA - Viaggio esistenziale - Poesie 1969 - 2018 - Prefazione di Francesco De Nicola; nella “Scheda bio-bibliografica e critica”, giudizi di: Diego Valeri, Giorgio Bárberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Sandro Gross-Pietro, Fabio Simonelli, Graziella Corsinovi, Gianni Rescigno, Rodolfo Tommasi, Guido Zavanone, Renato Dellepiane, Liana De Luca, Bruno Rombi, Rosa Elisa Giangoia - Gammarò Edizioni, 2019 - Pagg. 222, € 18,00. Luigi DE ROSA, poeta e scrittore, saggista e recensore, di genitori partenopei ma cresciuto in Liguria, vive a Rapallo (Genova), in pensione dal 2001. Tra i suoi libri di poesia, “Risveglio veneziano ed altri versi” (1969); “Il volto di lei durante” (1990 e 2005), “Approdo in Liguria” (2006), “Lo specchio e la vita” (2006), “Fuga del tempo” (2013). Del 2014 è la sua monografia “Imperia Tognacci e i suoi poemi in poesia e in prosa”. Sulla sua poesia sono usciti saggi e recensioni su numerose riviste (tra le più recenti “Poesia”, “Vernice”, “Nuovo Contrappunto”, “Ilfilorosso”, “Paidèia”, “Nuova Tribuna Letteraria”, “Le Muse”, “PomeziaNotizie”, “Sentieri Molisani”, “Veia gianca”. Nel corso della sua lunga militanza letteraria ha scritto numerose recensioni, prefazioni e presentazioni, oltre a saggi e articoli su Eugenio Montale, Camillo Sbarbaro, Giorgio Caproni, Giovanni Descalzo, Umberto Saba, Giovanni Giudici, Giovanni Pascoli, Antonia Pozzi, etc. Mentre della sua poesia si sono occupati, oltre ai prefatori (Diego Valeri, Giorgio Bárberi Squarotti, Sandro Gros-Pietro,

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Graziella Corsinovi), molti altri critici e poeti, tra i quali Neuro Bonifazi, Francesco Fiumara, Giovanni Cristini, Liana De Luca, Paolo Ruffilli, Rodolfo Tommasi, Elio Andriuoli, Rosa Elisa Giangoia, Piera Bruno, Domenico Defelice, Roberto Carifi, Fabio Simonelli, Guido Zavanone, Liliana Porro Andriuoli, Silvano Demarchi, Viviane Ciampi, Francesco De Napoli, Pasquale Matrone, Claudia Manuela Turco, Francesco Graziano, Fulvio Castellani, Lia Bronzi, Mauro Decastelli, Elvira Landò Gazzolo, Danila Boggiano, Angelo Manuali, Tito Cauchi. “Nell’uso di un linguaggio tanto cristallino quanto rigoroso per il rispetto della forma e dei contenuti - scrive la Giuria del Premio “I Murazzi” -, Luigi De Rosa mette a fuoco il dramma del poeta moderno che ha acquisito la coscienza storica dell’inadeguatezza della parola letteraria a raccontare il movimento e la densità del mondo reale, ma che tuttavia non abdica al suo ruolo di anima sensibile e vigile della storia degli uomini e dei suoi drammatici eventi personali e collettivi”. ** AA. VV. - Tiberio Gulluni. Memorie e testimonianze - Comune di Colonna, nella ricorrenza del cinquantesimo anno dalla scomparsa - In prima di copertina, a colori, particolare del ritratto di Tiberio Gulluni del Maestro Laerte Zocca; in quarta di copertina, sempre a colori, foto di Daniele Antonelli di una Scuola Elementare di Colonna intitolata a Tiberio Gulluni; all’interno, quattro foto in bianco e nero e testimonianze di: Augusto Cappellini (Sindaco di Colonna), Sergio Gulluni (figlio del poeta), Antonietta Chiariello (professoressa), Maria Grazia Amanti, Don Umberto Giuliani, Una del Roseto Roscioni, Marcello Marcelloni “Pio”. In coda, elenco dei vincitori, nelle varie edizioni (dal 1995 al 2017), delle Borse di studio del Premio intitolato a Tiberio Gulluni. Il poeta, a Colonna, è stato medico condotto per moltissimi anni e nel novembre dello


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scorso anno c’è stata pure una cerimonia di commemorazione, alla quale sono intervenuti autorità e persone di cultura, tra cui il Prof. Carmine Chiodo dell’Università di Roma Torvergata. Era presente pure Maria Grazia Amanti. Ecco, qui di seguito, ciò che ha scritto Fulvia Mezi, di Grottaferrata, in provincia di Roma: Il 10 novembre 2018 ho avuto il piacere di partecipare all’evento “Caro Tiberio … ti leggo” tenutosi alla biblioteca di Colonna, dedicato alla memoria di Tiberio Gulluni. C’è qualcosa di profondamente affascinante nella figura del dottor Gulluni, che protegge la città di Colonna che ha tanto amato e dalla quale è stato – ed è ancora  affettuosamente ricambiato. I due suoi aspetti di medico condotto e di poeta, due cariche che sembrerebbero, in apparenza, in contrasto; in lui si fusero alla perfezione. D’altronde il poeta, come ci ha insegnato Giuseppe Ungaretti, è uomo di pena: si fa carico dei dolori altrui per riversarli su carta. Il medico, a pensarci bene, fa la stessa cosa, lenisce e toglie il dolore dalle spalle altrui per metterlo su di sé. Lo ammise lui stesso nel 1964 quando scrisse all’amico e poeta Domenico Defelice “Il mio animo sente troppo il dolore altrui”. A questo proposito mi sembra pregnante una poesia in particolare, La Capra (dalla raccolta “Il mio carro” del 1961) soprattutto se confrontata con l’omonima poesia di Umberto Saba del 1909. Entrambi i poeti hanno scelto di focalizzarsi su un animale domestico che nella mentalità popolare viene spesso disprezzato in quanto emblema della stupidità: in letteratura, fin dalle origini, vengono trattati animali ben più nobili, come il leone o la volpe. La capra di Gulluni, però, ci appare maestosa e nobile, tanto che le sue corna arrivano a incidere il cielo (un’ iperbole efficacissima); è libera di zampettare sulle rocce tenendo d’occhio il cielo che la sovrasta e che sembra essere il suo unico limite (“l’occhio suo nuota nel sovrastante azzurro”). Ma la capra di Gulluni è, soprattutto, una madre che non esita ad interrompere il suo pasto (“di frutici e liane”) per accorrere al “lento belato” del suo piccolo, fonte di “gioia materna”. Questa immagine rimanda alla mente un episodio del mito classico: il futuro re degli Dei, Zeus, viene allattato in gran segreto dalla capra Amaltea. Una volta sconfitto il padre Crono, diventato Dio del cielo, Zeus tramuta la vecchia capra nutrice in una costellazione, come segno della sua gratitudine. Proprio il fatto che la capra di Gulluni continui a tenere d’occhio il cielo fa pensare che sia proprio lei Amaltea: svolto il suo compito, è libera di vivere come una capra qualsiasi, ma non smette di tenere d’occhio il suo figlioccio, che ri-

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siede nell’Olimpo. La capra di Saba è invece legata, bagnata (quando invece Amaltea è bagnata si, ma di sole) e sazia della poca erba che gli viene concessa. Eppure il suo belato riesce a trasmettere quel dolore che, dice Saba, è proprio di tutte le creature (“ha una voce e non varia”). Il suo volto semita altri non è che il riflesso del poeta triestino stesso, che era di origine ebraica. Entrambi i poeti hanno dunque dato, con aspetti diversi, risalto a un animale domestico nobilitandolo: certo l’Amaltea di Gulluni ha una sua forza e fierezza che salta all’occhio, una nobiltà d’animo e una generosità che sono il riflesso del suo autore, che per tutta la vita si è prodigato per gli altri. Fulvia Mezi ** PIERLUIGI FIORELLA - Poesie per l’anima Prefazione di Marcello Falletti di Villafalletto - Anscarichae Domus - Accademia Collegio de’ Nobili Editore, 2018 - Pagg. 64, € 10,00. Pierluigi FIORELLA, nativo di Barletta, in provincia di Bari, vive in Toscana, dove svolge la professione di tecnico radiologo. Poeta e aforista, ha vinto il Premio “Re Manfredi”, a Siponto, presso Foggia, e ottenuto una “Menzione di Merito” al Concorso di Poesia “Città di Bari”; inoltre, nel 2016, si è classificato sesto nella sezione poesia inedita all’undicesima edizione del Premio Internazionale di Poesia “Danilo Masini” di Montevarchi (AR). Lui scrive per passione e come bisogno di esprimere la sua interiorità. ** MARIA TERESA SANTALUCIA SCIBONA Giobbe - Prefazione di Marcello Falletti di Villafalletto; in copertina, “Giobbe implora Dio”, disegno dello scultore Maestro Andrea Roggi - Anscarichae Domus - Accademia Collegio de’ Nobili Editore, 2019 - Pagg. 68, € 10,00. Maria Teresa SANTALUCIA SCIBONA è morta il 27 marzo 2018 a Siena, ove era nata. Presidente della FENALC; Accademica Honoris Causa e Dama dell’Accademia Collegio de’ Nobili; ha ottenuto numerosi premi e riconoscimenti, anche alla carriera; la Biblioteca Universitaria senese della Facoltà di Lettere e Filosofia ha istituito, nel 2005, un Fondo Letterario a suo nome. Hanno scritto delle sue opere, firme prestigiosissime, tra cui Alessandro Fo, Mario Verdone, Mons. Antonio Riboldi, Diana Battaglia, Vinicio Serino, Renzo Montagnoli, Miriana Bogi, Gabriella Sobrino, Giorgio Luti, Angelo Lippo, Walter Nesti eccetera. Tra le opere pubblicate: Il mio terreno limite (1984), I giorni del desiderio (1988), Il Tempo Sospeso (1993), Mosè (1996), Il Viaggio Verticale (2001), Le Temps Suspendu et la Vie Assise (traduction de Ben Felix Pino, 2002), L’Amore


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Imperfetto (2003), La Contesa dei Vini (2005), Il Sogno del Cavallo (2008), Nutrimenti per l’anima (2009), Versi e Cromie (2009), L’Incontro di due vite (2010), Codice Interiore (2012), Le rotte del vento (Los rumbos del viento, versione di Emilio Coco, 2014), El árbol del conocimiento (L’albero della conoscenza, versione spagnola di Emilio Coco, Madrid 2015), Los Caprichos de la luna (I capricci della luna, versione spagnola di Emilio Coco, Madrid, 2016). ** CARLO MOSCA - Fino all’ultima favilla - Prefazione di Sandro Gros-Pietro - Collana Le Scommese, Genesi Editrice, 2019 - Pagg. 98, € 15,00. Carlo MOSCA è nato nel 1933 a Terni, ma vive a Poreta di Spoleto. Ha diretto gallerie d’arte e lavorato nel campo della grafica pubblicitaria e del design. Inserito in antologie di prestigio (Poesia umbra contemporanea; Linea Umbra; Il Calamaio; Vernice). Tra le opere pubblicate: L’attesa; Domani infinitamente; Bianco ribelle; Barabàttule; S’andira (2011), Frammenti (2013), Giallo cenere (2016).

TRA LE RIVISTE ntl LA NUOVA TRIBUNA LETTERARIA - rivista di lettere ed arte fondata da Giacomo Luzzagni, direttore responsabile Stefano Valentini, direttore editoriale Natale Luzzagni, vicedirettore Pasquale Matrone - via Chiesa 27 - 35034 Lozzo Atestino (PD) - E-mail: nuovatribuna@yahoo.it -Riceviamo il n. 134, aprile-giugno 2019, dal quale segnaliamo: “Linee essenziali”, di Natale Luzzagni; “Filippo Tommaso Marinetti”, di Luigi De Rosa; “Don Chisciotte”, di Elio Andriuoli; “L’intervista, Nicola Romano”, di Pasquale Matrone; “Dylan Thomas”, di Liliana Porro Andriuoli. Numerose e stupende le foto, a colori e in bianco e nero. Tra le tante altre firme, segnaliamo quella di Anna Vincitorio, nostra collaboratrice. In terza di copertina, Luigi Alfredo Medea recensisce il romanzo di Imperia Tognacci: Anime al bivio. Una rivista straordinaria, tutta da leggere, che non ci stanchiamo di segnalare ai nostri valenti collaboratori e ai nostri scaltriti lettori. * IL CONVIVIO - Trimestrale di poesia arte e cultura fondato da Angelo Manitta e diretto da Enza Conti - via Pietreamarina-Verzella 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) - E-mail: angelo.manitta @tin.it ; enzaconti@ilconvivio.org - Riceviamo il n. 76, gennaio-marzo 2019, dal quale segnaliamo:

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“Ius Leopardi. Legge, natura, civiltà a cura di Laura Melosi”, di Carmine Chiodo; “<L’urlo nero> di S. Quasimodo (a cinquant’anni dalla morte)”, di Gianfranco Barcella; “La Sicilia, paradiso del mondo!”, un racconto della nostra amica italoaustraliana Giovanna Li Volti Guzzardi. Tra le tante, firme, a diverso titolo, ricordiamo quelle di: Angelo Manitta, Enza Conti, Caterina Felici, Loretta Bonucci, Raffaella Iacuzio (che recensisce “Letteratura, follia e non vita. In principio era l’Es”, di Carlo Di Lieto), Isabella Michela Affinito, Marina Caracciolo (che recensisce “Il vecchio e le nuvole” di Gianni Rescigno), Antonia Izzi Rufo (che, tra l’altro, recensisce “Domenico Defelice Operatore culturale mite e feroce”, di Tito Cauchi) eccetera. E poi, le rubriche “La vetrina delle notizie” e “Concorsi letterari”. Una segnalazione particolare spetta all’articolo di Giuseppe Manitta: “Corrado Calabrò Quinta dimensione. La poesia e le dimensioni della conoscenza”, un’attenta ed equilibrata indagine su uno dei nostri maggiori poeti moderni. Manitta, a conclusione del suo pezzo da noi totalmente condiviso, afferma: “Nella presenza di simboli e di immagini, una non è stata sempre adeguatamente segnalata, ma ha un ruolo importante: la luna. Essa è l’occhio della notte, permette cioè di rischiarare il buio, la luna è una presenza, un faro che concede la vista. La luna, che permette di vedere ciò che sta al buio, è una grande metafora dell’indagine conoscitiva: un occhio sulla realtà e sull’apparenza. Nella quinta dimensione che racchiude tutte le altre si sviluppa la poesia di Corrado Calabrò”. È giusto precisare, però, che a evidenziare che gli elementi fondanti della poesia di Corrado Calabrò non siano solo due - come spesso affermato - ma tre: mare-donna-luna, siamo stati noi, su Pomezia-Notizie del maggio 2014: “Mi manca il mare o non, piuttosto, mi manca la luna? ci domandavamo - Non la solita luna, ma la fantastica luna del Sud, resa particolarmente grande dagli intensi vapori della notte”, precisando, poi, che la luna, in Calabrò, per certi aspetti, è elemento più fermentante della donna: “ma sono luna e mare le divinità che dominano in assoluto e che al par della marea, lievitano ogni cosa ed influenzano terra e cielo”. Ci piace, insomma, costatare che l’amico e giovane critico Giuseppe Manitta, a proposito della poesia di Calabrò, la veda sostanzialmente come noi. Il volume mondadoriano continua a riscuotere consenso di critica e di lettori. Sul quotidiano Il Messaggero, di Roma, ne scrive pure Roberto Gervaso, il quale, rivolgendosi al poeta, afferma tra l’altro: “Tu sei stato, come tutti sanno, uno dei più eminenti commis dello Stato. Hai fatto il magistrato, e sei stato un numero uno, hai fatto il capo di


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gabinetto, e tutti i ministri ti hanno conteso, sei stato al timone del Tar e le tue sentenze sono finite negli annali della giurisprudenza. Nei ritagli di tempo, sottratti al sonno, hai scritto migliaia di poesie (…). Ho letto, non so dove, che si è fatto il tuo nome per il Nobel. Cosa aspettano a dartelo? In attesa che gli accademici di Stoccolma si decidano al gran passo, te lo do io. Per ora, accontentati.” gervasodanotte@gmail.com (D. Defelice) * L’ERACLIANO - organo dell’Accademia Collegio de’ Nobili, fondata nel 1689, direttore responsabile Marcello Falletti di Villafalletto - Casella Postale 39 - 50018 Scandicci (Firenze) - E-mail: accademia_de_nobili@libero.it - Riceviamo il n. 252/254 del gennaio-marzo 2019. Segnaliamo il saggio d’apertura: “Nessuna circostanza fortuita!”, di Marcello Falletti di Villafalletto, studioso e storico, anche della propria antichissima famiglia. In questo saggio, tra i numerosissimi personaggi, vengono approfonditi, in particolare, il Beato Luca Passi, Pio Brunone Lanteri, don Marco Passi e don Luigi Guala. Tutti costoro, ma anche molti altri, hanno legami con il venerabile Carlo Tancredi Falletti e sua moglie, la venerabile Juliette (Giulia) Colbert de Maulévrier. Si tratta di un racconto affascinante, avvalorato da sapienti riporti di lettere e documenti; un vero e proprio “intreccio di personaggi noti o meno” nel quale “s’inseriscono perfettamente gli ecclesiastici: Mons. Luigi Fransoni arcivescovo di Torino; Angelo Ramazzotti che da Pavia divenne patriarca di Venezia; Nicola Ghilandi (Ghilardi?), Rey di Pinerolo, Alessandro D’Angennes di Vercelli - compagno di studi e amico fraterno del venerabile Carlo Tancredi - e altri. Come quasi tutti i prelati pimontesi, o quelli della cura romana: cardinali Baluffi e Orsini; mons. Cantimori; il granduca e le granduchesse di Toscana, di Parma ecc., che avevano profonda conoscenza e scambio di pareri con la moglie Giulia di Barolo o a lei ricorsero per alcune necessità personali o per opere educative e benefiche”. Ma ancora Silvio Pellico, Don Antonio Provolo, Don Giuseppe Frassinetti, Don Luigi Sturla, Mons. G. Antonio Farina eccetera. Ancora da segnalare: “Sacro militare Ordine Costantiniano di San Giorgio”, di Carlo Pellegrini; la pittura di Antonella Trinchera; il ricordo di Alberto Chiari e Paolo Capobianco; le varie rubriche, tra le quali “Apophoreta”, curata dallo stesso direttore responsabile Marcello Falletti di Villafalletto, il quale recensisce anche il lavoro monografico di Tito Cauchi, edito di recente dall’Editrice Totem: Domenico Defelice operatore culturale mite e feroce. Molte le fotografie, tutte a colori. (D. Defelice)

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LETTERE IN DIREZIONE (Béatrice Gaudy, Parigi; Emerico Giachery, Roma; Ilia Pedrina, Vicenza) Parigi, bel tempo Buongiorno caro Domenico, Grazie tante per la Sua raccolta “Le Parole a Comprendere” che sto scoprendo con un vivo piacere e il numero di maggio di “PomeziaNotizie” nel quale ho il grande piacere di vedere i miei testi. Stavo per mandarLe alcuni poemi e traduzioni quando li ho ricevuti. “Camminerò” di Elisabetta Di Iaconi mi è moto piaciuto. Condivido la sua sensibilità alla natura, ho notato anche varie volte la tematica del coraggio necessario per vivere - e leggendo la Sua prefazione, si capisce che la vita dell’autrice non è stata priva di dolori colla morte prematura del marito. Splendide sono anche le pitture di Ernesto Ciriello. La fine del Suo racconto “Una lettera di addio” è del tutto imprevedibile eppure molto verosimile. È una vera riuscita. Si percepiscono anche le difficoltà proprie del sud dell’Italia con dei mafiosi che taglieggiano apertamente le imprese. Fa piacere leggere le notizie piuttosto buone di Emerico Giachery. La vecchiaia non è sempre del tutto infelice. Dipende, evidentemente. Spesso le persone appassionate dalla cultura e dalla natura conservano delle ragioni di vivere e una certa serenità. Lei pubblica sempre magnifici poemi. Non ho ancora letto il numero di maggio di “Pomezia-Notizie”, ma ho visto con piacere dei poemi sulla catastrofe di Notre-Dame de Paris, tra cui quello di Isabella Michela Affinito con una sensibilità molto vicina a quella dei Francesi, e quello di Teresinka Pereira, originale come sempre. Oggi, fa bel tempo (17°) a dispetto di un vento fresco e forte, ma non durerà, il ritorno della pioggia è annunciato per dopodomani. Suppongo che le temperature siano più elevate a Pomezia. In ogni modo, siamo usciti dall’ in-


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verno, le ciliegie stanno maturando, i fiori rendono i giardini piacevoli perfino sotto la pioggia. Bel seguito di primavera! Con calorosi saluti. Béatrice Gaudy Carissima Béatrice, riporto, qui di seguito, le due poesie di Elisabetta Di Iaconi da Lei tradotte; l’amica romana sarà certamente felice della Sua attenzione: JE MARCHERAI Je retrouverai les empreinte de mes pas imprimées sur le sable. Je réécouterai les paroles que le vent a brisées de ses traits. Je reverrai tant de visages dans la soie rouge du couchant. Je marcherai vite le long des avenues des journées heureuses. Et ce sera un nouveau voyage au rythme d’horloges sans temps. Traduction de Béatrice Gaudy LES SOIRS COLORES EN ROSE Tandis que se couche le soleil, notre cœur est plein de beauté et jouit de ce rose répandu par l’astre avant de disparaître ; mais un effarement léger fait ensuite son chemin dans notre esprit, parce que la nuit arrive dans chaque maison avec ses mystères. Une aube nouvelle parvient à effacer toutes les peurs. Qu’adviendra-t-il le jour où notre étoile sera éteinte ? Les traces millénaires de civilisations fleuries dans l’histoire seront brisées. La Terre sera un caillou sans vie par les féroces lois de l’univers qui ne trouve pas de paix. Contemplons chaque soir l’intense merveille de ce rose ! Elle est notre richesse. Elle est tout ce que nous possédons au monde.

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I Quaderni Il Croco, accolgono raccolte anche brevi, ma di sostanza, perché scrupolosamente selezionate e questa della Di Iaconi lo è e lo dimostrano le tante recensioni già ricevute. Ricordo, per esempio, quelle di Maria Antonietta Mòsele, Tito Cauchi, Giuseppe Giorgioli, Giovanna Li Volti Guzzardi e, in questo numero, quella di Roberta Colazzingari, Sono contento che il mio racconto sia stato di suo gradimento. “Una lettera di addio” è autobiografico in gran parte e quella chiusa era necessaria per mettere in evidenza come il vero amore sia libertà, non oppressione. Molti che dicono di amare e poi schiavizzano la donna, fino ad arrivare, a volte, all’orrore del femminicidio - non amano veramente; sono solo dei violenti, degli egoisti, degli assassini. Il racconto piace per questo, forse. La delinquenza organizzata, poi, che dentro il racconto fa capolino, è la palla al piede delle regioni meridionali italiane, che mai potranno progredire se non se la scrollano di dosso. Ma questa, Carissima, è semplicemente una utopia, almeno per adesso; occorreranno secoli perché si possa debellare la mal erba. Sì, il caldo è arrivato. mentre scrivo, il sole scotta. Un saluto fraterno. Domenico *** Da Emerico Giachery (Roma 11 giugno 2019) Carissimo Domenico, sono molto lieto per il tuo gradimento della mia "meditazione”. Ma non metterla in prima pagina. I tuoi lettori ne avranno abbastanza di me! Quanti amici trovo, direttamente o indirettamente, anche nel numero di giugno. Mi piacerebbe tanto incontrare di persona Ilia e farci un bella chiacchierata: ma in quale farmacia dovrò andare, dato che il medico dell'Asl non me lo sa dire? Son contento di vedere ricordati due libri del gentilissimo (e attivissimo) Antonio Crecchia. Lieto di incontrare Marina Caracciolo poetessa e traduttrice in tedesco (quella bella traduzione mi fa


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sognare la raffinata musicalità di Rilke). Poi la cara, simpatica, attivissima Luciana Vasile (ho avuto il piacere di conoscere anche quel grande personaggio che era suo padre Turi). Rombi l'ho incontrato in Liguria; e Graziella Corsinovi, nel mio lontano anno genovese la ricordo come una avvenente, valente giovanissima collega. Vedi che mi trovo un po' in famiglia nella tua rivista, che forse contribuisce, coi suoi incontri d'oltre frontiera. a quella Europa che tutti sogniamo. Incrementare la lettura comparata, in Italia non molto praticata, può giovare a creare un'anima europea. In politica, direi, lasciamo un po' fare chi a questo lavoro deve dedicarsi. Abbiamo un Ministro degli Esteri molto esperto di cose europee, abbiamo un presidente del consiglio equilibrato e saggio che sa trattare diplomaticamente le questioni. A loro (e soltanto a loro) spetta avviare costruttive trattative. Per quanto riguarda la cultura, è compito nostro, data che la cultura non conosce frontiere, sempre meno, speriamo, ne conoscerà. Un bel saluto augurale a te, direttore instancabile, ai lettori, e sorridiamo all'estate che ci viene incontro sorridendo. Un bacione al nipotino. Un pensiero affettuoso da Noemi. Auguri di serena creativa estate Emerico (intendevo dire, poche righe fa, "la letteratura", non la "lettura" "comparata", ma il computer non mi consente di correggere, non so perché) Caro Emerico, In quale posizione collocare un pezzo, spetta al “direttore instancabile”, non al collaboratore, seppure altissimo e valorosissimo quale tu sei! I lettori mugugneranno? Penso proprio di no e lo dimostrano i consensi che ricevo ogni volta che ospito un tuo scritto. Nella grande famiglia di Pomezia-Notizie hai troppi amici che ti stimano e ti vogliono bene, non lo dimenticare! La cara Ilia Pedrina si dimostra pure ironica e affabulante narratrice. Lo era anche il padre, il grande e indimenticabile Francesco Pedrina e il mio rammarico è che la sua Vela d’argento continui a rimanere inedita. L’opera era stata pure tradotta in Francese da Solange De Bressieux. Cosa bisogna fare perché, finalmente, veda la luce?

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Non nominare il grande Turi! Scherzo, naturalmente, ma ho avuto una reprimenda per averlo fatto recensendo un’opera di Luciana; giustamente, lei ha timore che la si giudichi stando all’ombra di così gran padre. Gli “incontri d’oltre frontiera” sono stati sempre presenti su Pomezia-Notizie, fin dal suo esordio e da essi è pure scaturito quel mio fortunato volume Poeti e scrittori d’oltre frontiera (Edizioni EVA, 2005). Oggi ho dovuto ridurre i contatti per il più banale dei motivi: le spese di spedizione. Poste Italiane - trasformatisi in finanziaria con i soldi dei risparmiatori e neppure dei più ricchi, che ha, praticamente, distrutto il servizio della raccolta e della distribuzione della corrispondenza per la quale l’ azienda era nata - pretende, per l’invio all’ estero, la insostenibile spesa di circa dodici euro a copia! Avevo redazioni estere funzionanti e attivissime: USA (Orazio Tanelli e Teresinka Pereira); Brasile (Mariinha Mota); Argentina (Luis Cayetano Fiorenza - tra le opere edite da quella redazione a Ciudadela, ricordo con piacere, nel 1979, il mio volumetto Doce meses con el amor, nella traduzione dello stesso Fiorenza e nella revisione della traduzione di Salvatore (Americo) Caputo); Francia (Solange De Bressieux); Romania (Mariana Costescu) eccetera. Contatti, però, che non si sono del tutto spenti, continuando ad essere attivi, in particolare, con l’Australia, la Francia, la Cina addirittura, la cui rivista bilingue (inglesecinese) The World Poets Quarterly ospita continuamente poeti


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italiani. La politica, è vero, bisognerebbe lasciarla a chi ne ha il compito. In altre nazioni avviene così, ma non in Italia, perché, da noi, essa è soffocata giornalmente dalla corruzione e dagli interessi di parte. Il “Ministro degli Esteri molto esperto in cose europee”? E chi l’ ha mai visto? E cosa ha mai fatto? Per l’ Europa, l’Italia è stata sempre un mèro zimbello e oggi è tenuta ancora al di sotto! Grazie a Noemi per il pensiero affettuoso verso il mio nipotino più piccolo: Leonardo; intanto, Annachiara e Luca ci annunciano Mattia, il loro primo bambino, per il prossimo mese di settembre. Sia lode al Signore! Un affettuoso saluto a te e a Noemi. Ma non andate, quest’anno, nella vostra Isola? Il caldo, questa estate - ci dicono - ci farà boccheggiare. Domenico *** Carissimo Amico, con chi se non con te posso testimoniare il profondo vuoto politico che Enrico Berlinguer ha lasciato, dopo aver lottato pubblicamente con un ictus non previsto e così definito dopo dai medici, tanto da obbligare la folla a gridargli “BASTA, ENRICO!”? Ciascuno di noi si conosce abbastanza bene da saper individuare ciò che accade all'improvviso al proprio corpo e al proprio cervello, così da correre subito ai ripari, interrompendo qualsiasi attività, e ciò che invece accade all'improvviso, ciò che non si riesce a spiegare con tutti gli annessi e i connessi, ciò che il ragionamento su di sé e sulla propria salute e condizione generale viene considerato inspiegabile. Quel giorno, la mattina dell'11 giugno 1984, ai ragazzi della Scuola Media di Pozzoleone ho detto che per la prima volta in Italia ci sarebbe stato un Partito che poneva finalmente la questione morale come primo provvedimento di riforma profonda dell' andamento del governo italiano, forte anche del fatto che andavo pubblicando con don Paolo Liggeri le lezioni di Educazione Civica cristianamente ispirata, che svolgevo con loro. Alle 12:45 dello stesso giorno il grande Amico delle classi operaie d'Italia e d'altrove; il grande

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intellettuale gramsciano che non ha avuto precedenti tra i colleghi di partito per rigore e forza, capacità di lotta proprio in Parlamento, con al fianco Casadei, fin dal 1948, contro la famigerata Legge Scelba per la militarizzazione della Sicilia; il Segretario Generale del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer viene dichiarato morto e subito si provvede per il suo trasporto via aerea a Roma. Sostiene la figliola Bianca in una memoria sul suo Papà, presente in rete, che tra un bagno di folla hanno impiegato quattro ore da Padova a Mestre, per arrivare all'Aeroporto. La tua bella creatura aveva all'epoca 11 anni e tu non eri certo al di fuori delle lotte politiche e sindacali per i diritti e le dignità degli Istituti Professionali e per tanto altro ancora. 'CIAO, ENRICO!”: ecco Roberto Benigni che lo abbraccia e lo solleva di peso e lui, Enrico, è sorridente, ironico, disponibile a condividere la semplice gioia dei compagni alle feste dell'Unità. Troverai fra un paio di giorni una breve nota su un libro pubblicato dal suo autista, proprio in onore di Enrico Berlinguer: prima di credere bisogna capire. Un abbraccio forte forte, in rispecchiamento. Ilia tua Carissima Ilia, ricordare Enrico Berlinguer è doveroso come è d’obbligo tenere a mente tutti coloro che hanno lasciato traccia profonda e vera del proprio operato. Egli è stato un grande politico con la stoffa di statista, come lo sono stati Alcide De Gasperi, Pietro Nenni, Giorgio La Malfa e, aggiungerei, perché non son settario, anche Giorgio Almirante, tra gli altri; uomini tutti che guardavano lontano e oltre il proprio partito, per il bene dell’Italia. Morendo, ciascuno ha lasciato un “profondo vuoto politico”, anche perché, poi, tempre del genere non se ne son più viste! Dunque, è giusto ricordare Berlinguer, purché non si esageri col rendere il tutto agiografico, anche quello che edificante non è stato. Bisogna, cioè, non dimenticare mai tempi e contesti e, se si parla, per esempio, di De Gasperi, aggiungere che la DC - della quale è stato esponente di spicco -, nel corso degli anni, ha, poi,


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corrotto l’Italia fin nel midollo. Berlinguer, negli ultimi tempi, ha cercato di distinguersi da una ideologia odiosa e sanguinaria come mai s’è vista sulla faccia della terra, ma senza rinnegarne le radici e legato saldamente ad esse ha operato e morto. La storia insegna solo se ricorda tutto, se non scarta niente, se mette sui piatti della bilancia bene e male, vero e falso, tenendo presente il mare dal personaggio navigato, il territorio calpestato, i frutti che ne sono derivati. Berlinguer ha agito in un tempo ancora piagato dal ventennio fascista, ma l’ideologia comunista alla base del suo agire continuava ad essere nell’Unione Sovietica e nel mondo ottusa e sanguinaria. D’altronde, quale meraviglia? Lo stesso fascismo era - ed è, non bisogna mai dimenticarlo - ideologia di sinistra e Mussolini, prima di fare il dittatore, è stato al vertice del partito socialista e direttore dell’ Avanti! Sì, Carissima, l’ideologia oppressiva, di destra o di sinistra, è unica, ha la stessa radice! Fan ridere quelli di sinistra che chiamano quelli di destra fascisti! Il comunismo di Berlinguer ha dominato la scuola italiana, il sindacato, la cultura, la quasi totalità degli intellettuali; ha contorto e appiattito la Nazione; ha deriso Giuseppe Mazzini odiando i tre pilastri fondamentali del suo credo, che sono alla base della nostra unità: Dio, Patria, Famiglia. Occorre essere sinceri fino in fondo quando si scrive di storia e dei suoi personaggi; così, lodando Berlinguer, “…è necessario nuovamente aggiungere che il comunismo è stato molto più repressivo del fascismo e del nazismo, ma tutti e tre i regimi hanno tanto in comune da riuscire a sbalordire e a sconcertare; ognuno può solo chiedersi come abbia potuto il comunismo dominare tanta gente”, scrive uno che il regime comunista l’ha vissuto: Denis Poniž (Sette saggi per i settant’anni, 2018, trad. Giovanni Tavčar, Il Convivio, gennaio-marzo 2019). Pensa, Carissima: il comunismo - idolatrato per decenni dalla nostra Sinistra, che ha liquefatto ogni nervo all’Italia -, è stato “molto più repressivo del fascismo e del nazismo” ed io, se ci penso!, nel 1958 - ancora sui

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banchi di scuola, perché da me ripresa tardi -, svillaneggiato da docenti e compagni, solo perché scrivevo che “Non può stare nella verità chi toglie la libertà e si mantiene con le baionette e i carri armati”… (pag. 9, L’orto del poeta). Domenico AI COLLABORATORI Inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione) preferibilmente attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è gradito un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (copia cartacea) Annuo, € 50.00 Sostenitore,. € 80.00 Benemerito, € 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia, € 5,00 (in tal caso, + € 1,28 sped.ne) Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 N076 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio


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