50ISSN 2611-0954
mensile (fondato nel 1973) Direzione e amministrazione: Via Fratelli Bandiera, 6 - Tel. 06/91.12.113 - 00071 POMEZIA (Roma) - Fondatore e Direttore responsabile: DOMENICO DEFELICE – e-Mail: defelice.d@tiscali.it – Attività editoriale non commerciale (art. 4, D.P.R. 26.10.1972 n. 633 e successive modifiche) - Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 213/93 del 23/5/1993 - La collaborazione, sempre gratuita, in parte è libera, in parte è per invito. Ogni autore si assume la responsabilità dei propri scritti - Manoscritti, fotografie e altro materiale, anche se non pubblicati, non vengono restituiti - É ammessa la riproduzione, purché se ne indichi la fonte. Per ogni controversia, foro competente è quello di Roma.
Anno 28 (Nuova Serie) – n. 10
- Ottobre 2020 -
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Lettera aperta all'emerito prof.
MASSIMO CACCIARI di Ilia Pedrina
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GREGIO prof. Massimo Cacciari, le rivolgo particolare, pubblica attenzione non solo perché lei è riconosciuto in Italia e all'estero quale pensatore e scrittore d'indubbia preparazione e di spessore conoscitivo che desta rispetto, ma in particolare perché ha firmato, nella sezione Commenti de La Repubblica in data 11 settembre 2020, l'articolo L'EUROPA CHE NON PENSA PIÙ, in due ampie colonne ed introdotto dall'inciso 'Perché ha smesso di rincorrere l'idea di comunità'. Ottima l'impaginazione tra il morbido, il provocatorio, il remissivo ('Gli Stati Uniti sono in possesso di una misteriosa arma di fine mondo
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All’interno: Echi siloniani, di Giuseppe Leone, pag. 5 Franca Alaimo, La gondola dei folli, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 7 Ricordo di Aldo Masullo, di Francesco D’Episcopo, pag. 9 Le radici della καλοκάγαθία, di Ilia Pedrina, pag. 11 Michele De Luca, Le bagnarote, di Carmine Chiodo, pag. 16 Mauro Valentini, Mirella Gregori, di Giuseppe Giorgioli, pag. 18 Verso lontani orizzonti, di Gianni Antonio Palumbo, pag. 21 Anima, di Francesco D’Episcopo, di Tito Cauchi, pag. 23 Sentire il peso delle gambe, di Leonardo Selvaggi, pag. 26 Attaccato alle cose, di Leonardo Selvaggi, pag. 27 Ritorno alle montagne, di Anna Vincitorio, pag. 31 Dediche, a cura di Domenico Defelice, pag. 33 Notizie, pag. 42 Libri ricevuti, pag. 44 Tra le riviste, pag. 46 RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (Anima, di Francesco D’Episcopo, pag. 35); Elio Andriuoli (La vita della parola, di Bonifacio Vincenzi, pag. 36); Tito Cauchi (Parole in pentagramma, di Aldo Ripert, pag. 37); Domenico Defelice (La Repubblica va rifondata sulla random-crazia, di Cosmo Giacomo Sallustio Salvemini, pag. 38); Vincenzo Gasparro (Le parole a comprendere, di Domenico Defelice, pag. 39); Antonia Izzi Rufo (Anima triplice, di Luciano Nanni, pag. 39); Manuela Mazzola (Terra amara, di Claudio Vannuccini, pag. 40); Manuela Mazzola (Anima, di Francesco D’Episcopo, pag. 40); Laura Pierdicchi (Anima, di Francesco D’Episcopo, pag. 41).
Inoltre, poesie di: Corrado Calabrò, Rocco Cambareri, Luigi De Rosa, Ada De Judicibus Lisena, Béatrice Gaudy, Antonia Izzi Rufo, Laura Pierdicchi, Gianni Rescigno, Franco Saccà
in grado di distruggere l'intero pianeta... e forse a novembre la rieleggono pure', vignetta di Ellekappa), il vigoroso, il seducente, il decisissimo pugnace ('Ma non vi è sempre piaciuto l'uomo forte?', la vignetta di Biani) il fugace in fuga, che resta sdraiato e indeciso sulla sua nobile ed ampia, rilassante amaca ('Vorrei essere svizzero', a firma di Michele Serra) e tantissime le note che ho messo in ogni spazio vuoto rimanente. Fin dalle prime righe si aprono riflessioni adatte a riempire voragini, non fenditure. Cito: “Può un organismo politico vivere senza pensare a un proprio Fine? Senza concepire la propria struttura in qualche modo come esemplare, pur nel realistico riconoscimento
dei limiti della propria potenza? Coloro che, dopo il suicidio dell'Europa e la sua detronizzazione nella prima metà del Novecento, hanno voluto e avviato il processo per farne una comunità, avrebbero risposto no, non è possibile. Oggi la stessa domanda sembra scomparsa... Credo che tutti, anche 'grazie' alla pandemia, abbiano compreso come lo 'spazio europeo' segnato dal mercato e dalla moneta, sia conditio sine qua non per sopravvivere nella competizione globale...” (M. Cacciari, art. cit. pag. 28). Lei richiama l'attenzione, da una certa prospettiva, sulla caduta del Muro di Berlino, sulla 'terza guerra mondiale', quella 'fredda' che, come lei sostiene, è stata 'tragicamente
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perduta dall'Urss', quasi a sottolineare un vuoto di cause e concause che hanno portato a questa dinamica particolare che va a sventrare le Repubbliche Socialiste Sovietiche, che in tutto erano 19, con il collasso del Patto di Varsavia mentre, nel 2012 nel Regno Unito è stato nuovamente rinforzato e controfirmato, rinnovandolo, il Patto N.A.T.O. Scendo nei particolari e dettaglio il mio punto di osservazione: non esiste Europa senza la Russia al suo interno, l'ho ben dichiarato sulle pagine di questa Rivista, quando ho sostenuto auspicabile e in fretta un'Europa da Lisbona a Vladivostock, 600 milioni di persone circum circa, con una certa storia millenaria alle spalle, usi, costumi e tradizioni che potrebbero tener testa a qualsivoglia globalizzazione, tale è stata ed è, solo se lo vogliamo, la profondità dello spessore spirituale che ha ispirato non soltanto le Lettere e le Arti. La globalizzazione sotto indice di paura blocca ogni pensiero creativo e produttivo, matrice di soddisfazione nel progettare e nel perseguire la realizzazione del progetto stesso. Al prossimo Festivalfilosofia 2020, fermamente voluto dal prof. Remo Bodei ed a lui dedicato in questa ventesima edizione, che ho ben apprezzato nelle sue riflessioni su Sant'Agostino e su J. Locke, ma non solo, lei presenterà il suo più recente prodotto etico-politico IL LAVORO DELLO SPIRITO, edito da Adelphi e che qui, tra Vicenza ed Asiago ha bruciato ogni previsione di vendita. Richiamarsi a Max Weber e al lavoro intellettuale che è anche una professione, ai fondamenti politici di una Nazione che voglia dirsi tale, sottolineare come il politico, l'uomo politico debba incarnare e mettere in atto un impegno etico a tutto vantaggio della comunità, toccare le questioni delle merci, dei mercati e delle Borse è l'altro aspetto, più dettagliato, che sta dietro questo suo articolo, che certo lo integra e lo sintetizza: “... La costruzione dell'unità politica delle nazioni europee avrebbe potuto costituire un polo di riferimento pratico e culturale per il mondo che affrontava il salto d'epoca. E la proposta europea a questo mondo poteva es-
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sere una soltanto: ecco, noi usciamo dall'antica forma-Stato del Moderno dai suoi assetti gerarchici e centralistici; noi riteniamo che il potere possa davvero essere partecipato, e che tanto meglio funzioni un organismo politico quanto più ricca al suo interno è la vita autonoma dei corpi intermedi, di partiti, di sindacati... Europa è un nome plurale. Europa non cerca l'unità dell'Uno, ma l'Uno che sono (Unum sumus!)... La sua autorevolezza internazionale poteva derivare soltanto dalla forza della sua proposta politica, non certo da riacquisiti 'imperi' militari o economici... Nel corso del ventennio successivo 'l'arcipelago' europeo venne interrato da interventi che erano di volta in volta nient'altro che il prodotto di faticosi compromessi fra Stati 'sovranisti', per i quali i principi fondamentali di ogni concepibile comunità... non erano che occasioni per qualche sfoggio retorico...” (Cacciari, ibid.). Ognuno potrebbe pensare, dopo aver letto queste pur parziali premesse citate che non sicura medicina certo, ma incoraggiamento vivo all'agire ed al perseguire in modo individuale e sociale, anche covid non permettendo, avrebbe potuto trovar spazio nelle sue righe successive, a dar ossigeno, dopo mesi di stretta maschera su bocca e naso e legacci posti al libero movimento dei corpi nello spazio - e quel tempo non sembra ancora finire...- al pensare in dignità e fermezza d'intenti. Invece, purtroppo, trovo un invito chiaro a passare dalla 'audacia politica eccezionale' che lei, caro Professore, auspicava per la Grande Germania Federatore, dopo aver citato i Lessing, gli Herder, i Goethe, Autori che lei conosce assai bene ed in profondità (ricordando un poco i plurali del Croce), alla dimensione così espressa: “... Dobbiamo saper entrare responsabilmente nel tempo delle 'serene rinunce'. Un'Europa potenza politico-culturale, un'Europa che sa trasformare in norme vincolanti, in positivo diritto al proprio interno gli appelli ai 'diritti umani', alla 'difesa dell'ambiente', un'Europa che mostra come si possano vincere ingiustizie e disuguaglianze intollerabili, lasciamo che viva in noi come 'idea regolati-
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va'. Anche di dover-essere vive il povero mortale...” (M. Cacciari, ibid.). Che ogni individuo sia mortale è cosa chiara e netta, che ogni individuo sia povero, cioè privo di quell'autonomia che apre al sostentamento suo e di quelli che da lui/lei dipendono, ciò mi risulta vero per la stragrande maggioranza degli umani, non per tutti, perché i poveri, quelli privi d'ogni sostentamento, sono in numero grandissimo. Serve forse qualcosa dall'alto per sistemar la situazione? Ho imparato in casa il fare prima del dire, poi, dopo aver conquistato la meta, solo dopo, si dice, se qualcuno non si è accorto, quel che si è fatto, senza mai metterci il mare di mezzo: questo detto 'tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare' diagnostica un pericoloso temporeggiare che, diffuso in ogni dove, e soprattutto in politica, porta al lasciar fare agli altri, poi si vedrà e se poi gli altri non fanno ci penserà qualcun altro. Se la professoressa Giuditta Podestà, milanese di nascita, avesse così impostato la sua formazione e la sua pedagogia, non avrebbe potuto istituire il mitico Centro di Cultura Italo-Tedesco a Wolfsburg, -sede negli Anni '50 del secolo scorso della Fabbrica Volkswagen e meta di tanti emigranti che dal nostro Sud e non solo arrivavano là per lavorare-, lottando con politici ed istituzioni governative scettiche e recalcitranti. Lei ha vinto e generazioni da allora le sono grate e la ricordano, anche se lei non c'è più. Se il prof. Marco Vannini, studioso insuperato della mistica tedesca, si fosse profilato nella mente questo suggerimento, anche in modo autonomo ben s'intende, di certo non avrebbe scelto di dirigere la rivista MISTICA E FILOSOFIA da lui fondata nel 2019 per la casa editrice Le Lettere di Giovanni Gentile, nipote del grande filosofo e senatore morto ammazzato per volere superiore, una testimonianza forte di come far convergere l'attenzione sui limiti forzati e pericolosi di una dürftige Zeit, quale è questa nostra epoca. Se il compositore Luigi Nono, suo vero Amico, nato a Venezia, come lei, sul quale ho scritto sulle pagine di questa Rivista dal 2014
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in poi articoli innovativi, con taglio interpretativo assai personale ma vincolante, avesse accettato questo suggerimento, che sempre è dietro l'angolo, mi creda, come dimensione remissiva, in ogni tempo ed epoca storica, non avrebbe folgorato la mia intelligenza con la sua esperienza di vita e la forza in lotta delle sue composizioni: egli è stato sempre dalla parte del 'povero mortale' che alla base della piramide dei bisogni non ha il 'dover essere' ma l'essere in vita ed in vita vera, senza maiuscole di mezzo, una vita che gli possa permettere di avere una dignità ed una capacità di pensare autentica, nel mettersi in relazione con gli altri. Gli esempi, e questi sono solo tre tra i moltissimi, servono a veder meglio una realtà che esiste davvero e che, spesso, si intende lasciar passare nell'ombra. Le idee regolative, se non sono rappresentate dalle azioni, restano nel mondo delle idee, da seguire o meno è fatto e dato indifferente. La ringrazio per l'attenzione e le auguro tante altre pubblicazioni di cui sicuramente andrò a recensire il contenuto, sempre stimolante. Ilia Pedrina Vicenza, 17 settembre 2020
MI LASCIARONO L’ASSENZIO Dove sono? Hanno inteso un altro cuore proteso, i miei fratelli saltimbanchi? Se ne andarono. La piazza è un silenzio. Mi lasciarono l’assenzio della storia recitata. Franco Saccà Da Tutto è memoria, La Procellaria 1957.
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ECHI SILONIANI ovvero Il fascismo eterno di Umberto Eco di Giuseppe Leone ’IDEA che il fascismo possa ancora tornare è il tema che ispira il breve saggio di Umberto Eco dal titolo UrFascism, da lui “pronunciato in versione inglese a un simposio organizzato dai dipartimenti d’italiano e francese della Columbia University il 25 aprile 1995 per celebrare la liberazione dell’Europa. Edito nel 2017 dalla milanese Nave di Teseo e distribuito come supplemento gratuito de la Repubblica del 15 settembre 2020, il volumetto, tradotto in italiano con il titolo Il fascismo eterno, è una sorta di prolusione, una lectio magistralis, si direbbe, o - parafrasando l’orazione Per la corona di Demostene - un discorso per la libertà, che mantiene ancora oggi intatta, pur a così tanta distanza di tempo, la tensione civile e la passione politica che ne giustificavano allora il motivo per cui era stato composto. Quel discorso – si legge “era stato pronunciato nei giorni in cui l’ America era scossa per l’attentato di Oklaoma City, e la scoperta del fatto (per nulla segreto) che esistevano negli Stati Uniti organizzazioni militari di estrema destra” (5). Inutile ricordare che Ur-Fascism rimandi, per il suono, a Der - Faschismus e, per i suoi contenuti, a La scuola dei dittatori, ambedue opere di Ignazio Silone. Soprattutto a quest’ ultima, se è vero che Eco sembrerebbe perve-
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nire a concetti e corollari che furono tipici della riflessione siloniana, Sono tanti i precetti che si equivalgono indagando qua e là tra i loro saggi. Da quelli, dove Silone scrive che “un aspirante dittatore non deve fare appello allo spirito critico degli uditori”; che “tutto quello che il capo fascista dirà sarà enunciato nella forma, in modo da non dare adito al minimo dubbio o discussione. Ogni invito alla discussione sarà respinto”; che “il fascismo ha fatto appello agli istinti atavici, alla voce del sangue, alla salvezza nell’obbedienza … alla mistica dell’ ovile, a tutto quel che vi pare ma non alla ragione”. A quelli, dove Eco afferma che “l’ irrazionalismo dipende anche dal culto dell’ azione per l’azione. L’azione è bella di per sé, e dunque deve essere attuata prima di e senza una qualunque riflessione” (28); che “nessuna forma di sincretismo può accettare la critica. Lo spirito critico opera distinzioni, e distinguere è un segno di modernità” (29), che contraddice il culto della tradizione così caro all’Ur-Fascista; che “per l’Ur-Fascismo gli individui in quanto individui non hanno diritti e il popolo è concepito come una qualità, un’entità monolitica che esprime la volontà comune” (39). Si viene così a scoprire che l’Ur-Fascism, ovvero Il Fascismo Eterno, non è “quel che rimane” del fascismo al tempo del governo Mussolini, è quello che è “ancora intorno a noi, talvolta in abiti civili … (e) può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti, (per cui) il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indice su ognuna delle sue nuove forme – ogni giorno, in ogni parte del mondo” (42-43). Eccone alcuni dei modi di essere e di manifestarsi dell’Ur-Fascism: esso “cresce e cerca il consenso sfruttando ed esacerbando la naturale paura della differenza. Il primo appello di un movimento fascista o prematuramente fascista è contro gli intrusi. L’UrFascismo è dunque razzista per definizione” (30). Oppure, “L’Ur-Fascismo scaturisce dalla frustrazione individuale o sociale. Il che spiega perché una delle caratteristiche tipiche
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dei fascismi storici è stato l’appello alle classi medie frustrate, a disagio per qualche crisi economica o umiliazione politica, spaventate dalla pressione dei gruppi sociali subalterni”(31). Oppure ancora: “L’Ur-Fascista trasferisce la sua volontà di potenza su questioni sessuali. È questa l’origine del machismo (che implica disdegno per le donne e una condanna intollerante per abitudini sessuali non conformiste, dalla castità all’ omosessualità” (38). Non sono che tre dei quattordici punti, enucleati dallo scrittore piemontese, tuttora attuali, che dimostrano, come “dietro un regime e la sua ideologia ci (sia) sempre un modo di pensare e di sentire, una serie di abitudini culturali, una nebulosa, (insomma), di istinti oscuri e di insondabili pulsioni” (14), che contraddistinguono l’avvento di ogni fascismo, in qualunque epoca e forma esso si manifesti, tra cui, anche quello italiano, per molti aspetti, diverso dal fascismo di altri stati, perché era un totalitarismo sfumato, “un collage di diverse idee politiche e filosofiche, un alveare di contraddizioni. … Il fascismo degli inizi era repubblicano e sopravvisse per vent’anni proclamando la sua lealtà alla fa-
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miglia reale. … Nel 1943, quando il regime venne rovesciato, “il partito riapparve due mesi dopo con l’aiuto dei tedeschi, sotto la bandiera di un repubblica “sociale”, riciclando la sua vecchia partitura rivoluzionaria” (18). Il fascismo, continua Eco, non è stato una struttura monolitica, non ebbe un’unica architettura, come non ebbe un’unica filosofia, né un’unica corrente letteraria: vi convissero il futurismo, l’ermetismo e l’estetismo dannunziano. E ciò non fu per tolleranza, era un esempio di sgangheratezza politica e ideologica. Ma era una “sgangheratezza ordinata”, una confusione strutturata. (21). Il nazismo invece fu uno solo. Hitler fu il suo unico capo: fu contemporaneamente capo dello stato e capo del governo. Un ordine sgangherato e una struttura confusa, che, nonostante tutto, non fecero implodere il sistema, precisa Eco. Se il fascismo è stato sconfitto, ciò è stato merito della morte dei compagni, durante la Resistenza, che ha impegnato coloro che sono rimasti a combattere fino in fondo per la giustizia e per la libertà. Merito che Umberto Eco, doverosamente, enfatizza, citando i versi del Canto degli ultimi partigiani di Franco Fortini, coi quali chiude la sua vibrata orazione in difesa della libertà, guarda caso, in una terra come l’America, dove, proprio in questi giorni, più che in altri Paesi, non sembrerebbe irrealistico temere svolte autoritarie. Giuseppe Leone Umberto Eco. Il fascismo eterno. La Nave di Teseo, editore Milano, 2017. pp. 48. Supplemento gratuito de la Repubblica del 15-9-2020.
NOTTE LUNARE Mia splendida notte lunare, tacita, romantica, la mia anima vola in alto, si posa nel tuo seno e si lascia fagocitare dal tuo fascino. Antonia Izzi Rufo (Castelnuovo IS)
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FRANCA ALAIMO LA GONDOLA DEI FOLLI di Liliana Porro Andriuoli
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ONO in molti ad essersi chiesti chi fosse nella realtà “la ragazza con il turbante” (altrimenti detta con “l’orecchino di perla”, come venne successivamente chiamata), rappresentata dal pittore olandese Johannes Vermeer (1632-1675) in una tela di piccole dimensioni (44,5×39 cm), oggi conservata al Museo Mauritshuis dell’Aia. Alla conoscenza di quella tela in Italia, contribuì indubbiamente anche la tanto discussa Mostra tenuta a Palazzo Fava, a Bologna, nel 2014 (“Il mito della Golden Age da Vermeer a Rembrandt. Capolavori dal Mauritshuis”). D’altra parte la potenza di questa immagine ha molto stimolato la fantasia e la creatività di numerosi artisti: basta pensare alla scrittrice americana Tracy Chevalier che ne trasse un romanzo sull’argomento (La ragazza con l’orecchino di perla, Neri Pozza 2000, 2013), divenuto in breve un best seller internazionale, che riscosse un grandissimo successo di pubblico. Pochi anni dopo, nel 2003, l’opera di Vermeer divenne oggetto anche dell’ omonimo film di Peter Webber, la cui protagonista era la brava Scarlett Johansson. Noi però in questa sede ci vogliamo occupare dell’ultimo originale libro di Franca Alaimo, La gondola dei folli (Spazio Cultura Edizioni, Palermo, 2020), un romanzo che
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prende l’avvio proprio da questo quadro durante la sua esposizione a Bologna e che costituisce una delle sue prove più riuscite. A vedere quel quadro, nella primavera del 2014 vanno un professore, Arturo Meneghetti, e la sua giovane figlia Franziska, grande amante delle cose dell’arte, la quale ne riceve una forte impressione e vuol conoscere chi fu in realtà colei che fece da modella per quel capolavoro. E la giovinetta rimane talmente impressionata da quel quadro che una notte le appare come persona viva proprio la “Ragazza con l’orecchino di perla”, che la conduce con sé in un viaggio che la porta a compiere inusitate esperienze in un mondo irreale e fantastico, per descrivere il quale Franziska adopera le parole della nonna, che soleva dire: «La realtà è immaginazione e l’ immaginazione è realtà; tra l’una e l’altra non esiste un confine». Ella entra così in un mondo incantato, nel quale le appare «la ragazza del dipinto», che la conduce per tre notti con una gondola attraverso Venezia, alla scoperta di cose incredibili, come la concreta presenza di Don Chisciotte, che fa da gondoliere e che inveisce contro colui che l’ha creato, il Cervantes, perché al momento della morte l’ha fatto rinsavire, strappandogli tutti i suoi sogni, anche quello di Dulcinea, la quale esisteva soltanto perché «era un sogno del sogno che io ero». Nasce qui il problema del rapporto dell’artista con i suoi personaggi, che acquistano un’ esistenza autonoma e vivono la loro avventura, indipendentemente dal loro creatore. C’è quindi l’incontro con Ofelia, che appare in tutta la sua fragilità e bellezza, pallida e dolce, legata ad un avverso destino, che la porta ad una precoce morte per acqua. E c’è l’incontro con altri personaggi, come quello con il pittore e incisore Albrecht Dürer, nato a Norimberga il 21 maggio del 1471, che qui compare come un uomo di bell’aspetto, oltre che come un grande artista. Sempre però c’è la presenza della Ragazza con l’orecchino di perla che
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racconta la sua storia, ogni volta diversa, come in un gioco di specchi che la moltiplicano, facendole assumere ogni volta i nomi di Griet, Maria, Jutte, Petra, con un procedimento simile a quello della creazione degli eteronomi di Fernando Pessoa, il quale si presenta a noi di volta in volta, oltre che con la sua vera identità, sotto le vesti di Alberto Caeiro, Ricardo Reis, Àlvaro de Campos o Bernardo Soares; eteronomi tutti scaturiti dalla sua stessa mente. Le tre notti che Franziska trascorre in compagnia della Ragazza con l’orecchino di perla si susseguono così ricche di sempre nuove sorprese, tra alcune indimenticabili vedute di Venezia, mentre la mente si apre ad acute intuizioni, cui s’accompagna l’apparire di sempre nuovi personaggi, come quello di Lady Macbeth, con le sue mani ognora macchiate di sangue che mai si deterge e che sempre perpetua il suo affanno per il delitto commesso. Ed ecco farsi avanti il giovane Dürer, che afferma: “… l’artista non è come tutti gli altri uomini. Egli è un visionario; guarda la realtà come tutti, ma la trasfigura e finisce con il crearne un’altra”. Tra realtà e magia si sviluppa in tal modo il romanzo di Franca Alaimo, che fa rivivere come in un sogno i suoi fantasmi, riemersi da un tempo lontano. E proprio intorno alla figura del personaggio in quanto tale, la piccola Franziska fa un’interessante osservazione, allorché dice: “… i personaggi creati dagli scrittori sono chiusi per sempre nel loro destino e nulla può salvarli se non la nostra pietà”. Particolarmente movimentata è la terza notte trascorsa fuori casa da Franziska, nella quale, oltre a quelli già noti, come la dolce Ofelia, compare, nella gondola guidata da Don Chisciotte il pifferaio Lorenzo, che con la sua musica scalda l’atmosfera. Qui la Ragazza con l’orecchino di perla racconta un’altra versione della sua vicenda terrena, dicendo di chiamarsi Petra e di essere la figlia di un commerciante di pietre preziose di Delft, città dalla quale era venuto a stabilirsi a Venezia, dove Vermeer, avendola vista,
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aveva voluto ritrarla. Il che viene a creare una sua nuova identità, dopo quelle di Griet, di Jutte e di Maria, di cui prima aveva parlato e che non erano altro che delle proiezioni della sua mente. A questo punto compaiono, a bordo di un veloce motoscafo, due giovani dal fare aggressivo e violento, i quali sequestrano i passeggeri della gondola, per condurli all’isola di Poveglia, abitata dai fantasmi; ed essi in realtà lo sono tutti, tranne Franziska, che è una bambina in carne ed ossa. E sarà proprio lei a salvare i suoi compagni di avventura, recitando una formula magica, su un barattolo colmo di piume, il che vale a mettere in fuga i due malintenzionati. Così tra magia e fantasia il libro volge al suo termine, dando luogo a profonde meditazioni, come quella del rapporto tra realtà e immaginazione: “la realtà è immaginazione, l’immaginazione è realtà” e quella per la quale “la più potente magia è la creazione letteraria”. Dopo la partenza dei suoi amici, che fanno ritorno alle loro lontane sedi, dalle quali erano venuti, la salvezza giunge a Franziska per mezzo di un ragazzo che è innamorato di lei, Lorenzo, al quale ella si rivolge attraverso il suo telefonino. Destato in piena notte, egli la raggiunge con un motoscafo guidato dal fratello Ottavio, per ricondurla a casa. La vicenda così si conclude in maniera fiabesca, mentre Venezia si ridesta, emergendo dalla notte, con tutto il suo fascino: “Prima furono i campanili a stagliarsi nel cielo e poi le cupole e dopo un poco apparvero i palazzi. Un gruppo di gabbiani volteggiava nel cielo…”. Un romanzo sospeso tra realtà e sogno questo La gondola dei folli di Franca Alaimo, ricco di profonde meditazioni, con le quali ella cerca di penetrare almeno in parte il senso dell’umana avventura, scoprendo il rapporto tra ciò che è e ciò che appare e quello della funzione redentrice e insopprimibile dell’ Arte. Liliana Porro Andriuoli FRANCA ALAIMO: LA GONDOLA DEI FOLLI (Spazio Cultura Edizioni, Palermo, 2020, € 12,00)
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RICORDO DI
ALDO MASULLO di Francesco D’Episcopo
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LDO Masullo sembrava immortale: sempre uguale, con i suoi capelli rossicci, con il fisico agile e slanciato, con la sua parola acuta e fluida. Siamo stati in qualche modo amici, ci siamo rispettati e stimati, soprattutto per gli incontri che ci hanno visti insieme, a Napoli, a Nola, la Nola di Giordano Bruno, Vatolla, dove Giambattista Vico trascorse anni fondamentali della sua vita. Insieme abbiamo ricevuto il prestigioso Premio “Vico”. Un ultimo incontro lo ricordo nel cuore di Napoli, in via dei Tribunali. Avevo scorto in lontananza la sua agile sagoma; nonostante gli anni avanzati, attraversava a piedi la lunga strada. Ovviamente mi avvicinai per salutarlo molto cordialmente. Ricordo che fu particolarmente lieto di questo incontro. Non avevamo avuto occasioni per frequentarci più da vicino, anche se ero stato a casa sua al Vomero, dove avevamo conversato a lungo e gli avevo proposto di stendere la sua ampia e articolata intervista su Napoli, edita da Guida, a tutto quel Mezzogiorno, di cui eravamo figli. Aveva accettato con curiosità e interesse, anche se poi, presi dalle nostre troppe cose, ci eravamo perduti di vista. Ora ci rincontravamo per caso dentro le viscere della città, presso la cui Università avevamo a lungo insegnato, formando un manipolo di allievi affettuosi. Eravamo diretti allo stesso posto: alla presentazione di un importante catalogo che Philippe Daverio, purtroppo anche lui scom-
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parso, aveva dedicato a un comune amico, il maestro d’arte Giuseppe Antonello Leone, il quale, quando ci presentò al Daverio, come al solito, elegantemente stravagante, ebbe a definirci entrambi “persone serie”. Ricordo il sorriso compiaciuto di Daverio a questa impegnativa affermazione. Aldo e io non ci siamo mai detti perché ci stimavamo tanto, fino a volerci quasi bene. Forse il nostro modo di essere, di comunicare, dentro ed oltre l’accademia, di entrare nei problemi e di uscirne con una onestà intellettuale, mai messa in discussione. Quando ero studente, ero fortemente portato per la filosofia, una delle materie nella quale eccellevo. Stranamente, a differenza di molti miei compagni, che la ritenevano astrusa e inutile, per me era sostanza di pensiero, persino d’amore, e mi capitava spesso, grazie alla metodologia rigorosa, che essa necessariamente richiedeva, di andare oltre, come sarebbe purtroppo capitato ad autentici e autorevoli maestri di questa sconfinata disciplina. Fu allora che mi trassi indietro, preferendo frequentare sponde più serene e sicure, almeno per me in quel particolare momento, e mi innamorai della letteratura, che prendeva la vita da un altro verso, con superficiale profondità, avrebbe detto un mito della mia giovinezza, Friedrich Nietzsche, che, come molti grandi, troppo grandi, perse il lume della ragione in una scena dal vivo, che mi raccontò un’antica cartolaia di Torino. Aldo Masullo, da filosofo, pur essendo un magnifico rappresentante di quella Magna Grecia, che evoca antichi maestri da Parmenide a Vico, aveva i piedi saldamente trapiantati a terra e ai problemi politici, pratici, che il nostro Mezzogiorno ciclicamente sollevava. Nonostante la inevitabile, inossidabile rigorosità di metodo, che la filosofia sempre richiede, era anch’egli affetto da una malattia comune, quella di una umanità, di una socialità, diciamolo pure, di una solidarietà, che si estendeva a tutti, senza distinzione di classe o di casta. Come me, non si sottraeva, nonostante gli anni sempre più numerosi, a occasioni, che
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gli consentivano di incontrare gli altri, di fumare il suo sottile sigaro, di ammirare la bellezza in tutte le forme che la natura gli offriva. Gli devo questo ricordo per la disponibilità e l’umanità, che ha sempre mostrato nei miei confronti, anche quando gli ho chiesto pareri critici su autori validi, ma almeno in quel momento del tutto sconosciuti, dai quali non ha mai preteso nulla. Insomma, uno degli ultimi Signori della cultura, anche se non so se questo appellativo gli sarebbe risultato del tutto gradito, data la sua proclamata ideologia. Ma gli devo questo ricordo anche per un’ altra ragione: per ciò che avremmo voluto fare, e non abbiamo fatto, insieme. Saremmo stati un buon duo di attacco culturale in una città, che abbiamo profondamente amato. Peccato! Ma la vita prevede qualche rimpianto. Riguarderò qualche foto che ci ritrae insieme davanti a un microfono, magari all’ Istituto Italiano degli Studi Filosofici, per raccontare e spiegare quanto la cultura sia fondamentale per un Paese, sempre più stupido e ignorante; per una Politica, fatta talvolta da ragazzi impreparati, che avremmo forse insieme costretto a ripetere l’esame. Francesco D’Episcopo
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SETTEMBRE Che tristezza! Il silenzio assoluto domina il paesello. Sono andati via i pochi turisti e l'unico bar è chiuso per ferie. Gli abitanti, pochi anch'essi, dalle finestre o dagli usci di casa, osservano le strade deserte, ascoltano, e aspettano, un istante e poi un altro e un altro ancora, di sentire una voce, un suono, un rumore, il rombo d'una macchina o motozappa... nulla, proprio nulla. Neppure il vento s'ode o un trillo d'uccello o il ronzio d'un insetto. E questo stato, purtroppo, durerà tutto l'anno. Che tristezza! Antonia Izzi Rufo (Castelnuovo IS)
SOSTA C’è giocare di ali che nunziano avvento di primavera. E io mi sento nascere; e si dirada l’uggia d’inverno che m’inabissa. Uno spiraglio di cuore consentirebbe sosta all’intimo fuggire irreparabile. Rocco Cambareri Da Versi scelti, Guido Miano Editore, 1983
L’esperienza scaturisce dal gioco dei percorsi dai desideri raggiunti dalle cadute rovinose. Con te il mio essere era pienezza – parte integrante del tuo procedere. Nella trasparenza inconsapevole le radici intrecciate erano evoluzione – luce il pensiero nel graduale incedere. Laura Pierdicchi Mestre, Venezia
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LE RADICI DELLA 'ΚΑΛΟΚΑΓΑΘΙΑ' E GLI ELEMENTI DELLA SUA 'CELEBRAZIONE' di Ilia Pedrina
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ACCIO riferimento a due saggi critici che pongo a confronto, apparsi contemporaneamente su questa Rivista a settembre e vincitori del Premio Editoriale Letterario Il Croco 2020 (Prima Edizione), stimolando in me una segreta sintonia, così li ho investigati accuratamente rilevando una inconsueta convergenza che attraversa i secoli e sintetizza la profonda unità di sviluppo della cultura occidentale, alle radici della καλοκάγαθία, quando la bellezza magnetizza gli sguardi, ne rapisce la forza, penetra nell' intimità, unendosi al pensiero e generando le trame della virtù, che diventa 'celebrazione'. Marina Caracciolo firma LA FIGURA DI ELENA DA OMERO A EURIPIDE A LUCIANO DI SAMOSATA – Palinodie di un mito (Pom. Not. Settembre 2020, pp. 33-37),
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mentre Lorenzo Spurio articola una interessante ed essenziale introduzione alla sua traduzione d'un recente testo apparso in rete, L'ULTIMO PRANZO DI FEDERICO GARCÍA LORCA A NEW YORK (ibid. pp. 46-50). La studiosa e musicologa M. Caracciolo, milanese di nascita e torinese d'adozione, preziosa risorsa anche spirituale di questa nostra Rivista, apre il suo sguardo sui documenti poetico-letterari che tratteggiano la figura di Elena di Sparta, dallo sguardo magnetico, giovane donna 'dalle bianche braccia e dal collo di cigno' che tanto sconcerto e rifiuto ha generato all'epoca della guerra mossa dagli Achei per conquistare le postazioni dell'Asia Minore in mano ai Troiani, figura del mito ripresa poi spesso e nel tempo successivo, perché fedifraga e generatrice, provocatrice del sanguinoso conflitto. La studiosa sintetizza con grande maestria le testimonianze letterarie raccolte a suffragare questa prospettiva per coglierne poi il ribaltamento in palinodie volte a modificare il percorso dell'immaginario stabilizzato e della sua memoria come in quella scelta da Euripide, che lei investiga nei suoi due punti di approdo, quello presentato in Le Troiane (415 a.C.), con Elena come 'grande meretrice, che per vanità e lussuria è fuggita con Paride...', e quello prodotto nel 418 a. C., l'Elena, in riferimento alla presentazione di Stesicoro e riabilitante la giovane regina in tutto e per tutto onesta ed innocente, perché, in carne ed ossa, lei si rifugia in Egitto, mentre a generare le trame del tradimento e della provocazione bellicosa che sempre porta copioso sangue versato da giovani eroi Achei o Troiani che siano, il conto si vedrà poi- viene assunta la sua forma in nuvola, immaginaria, fantastica ma ben presente e ritenuta vera dalla gente intorno. Dopo aver descritto vari, imprevedibili vicende fatte di tensioni e di colpi di scena, che riporteranno la vera Elena a Sparta, a fianco di Menelao, la prof. Caracciolo rimanda dalle parole del Coro, presentate in Euripide, ai versi di Stesicoro, affidando a questi la grande forza dell'azione scenica, riportandone il canto, e dimostrando con chiarezza la vitalità di tutto il suo
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interesse per questa investigazione: 'Togliete ad Elena l'obbrobrio/l'accusa di nozze barbariche,/ha pagato per una rissa fra dee/e non ha mai posto piede,/mai, tra le mura di Ilio...' (M. Caracciolo, ibid. pag. 35). La stesura desta interesse e vincola a proseguire, facendo scoprire riferimenti, connessioni, approfondimenti che mostrano grande, libera, originale competenza esegetica divergente e per questo ancor più stimolante. Il giovane scrittore e critico letterario oltre che poeta L. Spurio da Jesi investiga documenti e testimonianze sul giovane Federico García Lorca, appena trentenne, mentre vive l'esperienza americana prima a New York poi a Cuba tra il 1929 e il 1930, uno scorcio di mesi drammatici perché quella è '...la New York che, proprio in quel periodo, vive uno dei momenti di arresto più pesanti, quello del noto Crollo della Borsa di New York, che mise molte famiglie al lastrico, che azzerò le ricchezze finanziarie, che aprì a un nero periodo di recessione, incertezza e disperazione...' (L. Spurio, ibid. pag. 47). In nome della Bellezza che attraversa gli sguardi e ne rapisce la forza, preparando proprio il tema della 'celebrazione', sussistono tra questi due testi critici, a mio avviso, sintonie comparative audaci e foriere di approfondimenti ulteriori.
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Il tema del viaggio come dinamica che distoglie l'attenzione dalla sofferenza. Per M. Caracciolo, Elena di Troia, figura del mito e della memoria di un Popolo, si scioglie dalla terra che la vuole donna regale sposata e provocata financo dalle divinità in competizione tra loro, deve meritare un'attenzione particolare grazie all'investigazione che vada a stanare 'palinodie' tese a provocare luoghi comuni pesanti da accettare ma assai facili da innalzare a legge morale. In assenza di prove oltre quelle letterarie, l'Autrice viaggia attraverso i secoli, inseguendo la giovane Elena presentata nei resoconti in suo possesso, ben dettagliati nella Bibliografia, e dandone via via interpretazioni da scandagliare, testimoniando la forza autentica dell'iniziativa esegetica portata avanti. Per L. Spurio il viaggio del giovane, voluto dai genitori, per lenire le sue lesioni amorose, testimonia che egli in questo breve scorcio di mesi, attraversa mondi, genti, esperienze e musiche d'un altrove che gli genera tensioni e dipendenza: '...Di questo tormento, che è vivo nella prima parte della sua esperienza sul territorio americano, Lorca riuscirà a stemperarne le forme più pesanti, durante la sua frenetica attività che vivrà nella Grande Mela, tra nuovi amici, conoscenze, lezioni e visite fuori porta...' (L. Spurio, ibid. pag. 46). Infatti la sua appassionata verifica ha come centro la vita, le emozioni, i riscontri, le pur poche testimonianze del poeta andaluso a New York negli anni 1929-30, quasi fosse stata una preparazione destinale inconsapevole quella da parte dei genitori di mandarlo via da casa, oltre i confini dello stato, troppo stretti per lui, oltre l'Oceano. Lorca, loro lo sanno bene, ha animo sensibile e personalità tesa verso un amore omoerotico pieno, senza confini e senza direzioni prestabilite, capace di tormenti, di ansie ed angosce. Tutta l'Introduzione del critico al cuore pulsante del testo, la traduzione di un articolo apparso di recente in rete da Santo Domingo su Listin Diario, El ultimo almuerzo de Federico García Lorca en Nueva York, consente di avvicinarci con maggior attenzione all'esperienza prismatica
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avvincente e stritolante ad un tempo quale è stato l'incontro-scontro di Lorca con la città di grattacieli e del 'denano-bitume'. Tra la Grande Mela, Coney Island e Harlem, Spurio ci invita a riflettere, quasi a fornire un metodo efficace per entrare nel contesto: “... A testimonianza di questa fase importantissima per la sua crescita umana e professionale (lì scrive varie opere) rimane principalmente quella componente paraletteraria sempre utile per lo studio di un intellettuale e la sua giusta collocazione storico-sociale: il carteggio (raccolto recentemente sembrerebbe in forma completa...), gli appunti, finanche la sua attività di disegnatore e, ancora, le memorie, i diari e i ricordi di chi lo conobbe direttamente e nel tempo ha prodotto libri interamente dedicati alla sua figura...” (L. Spurio, art. cit. Pom. Not. Settembre 2020, pag. 46). Il tema della guerra provocata e legittimata ricorrendo alla categoria della necessità. La guerra nei due mondi lontani tra loro, quella non solo mitica ma decisamente invasiva tra gli Achei e i Troiani, e quella concreta, aggressiva al massimo, devastante nell'Europa ed Oltreoceano nella prima metà del secolo appena passato, presenta aspetti convergenti e pur sempre adesi dalle forze della necessità a rapire la norma che delinea relazioni pacifiche tra gli Stati, distorcendola, vincolandola nella periferia dell'agire, provocando, nel mito come nella concretezza, una realtà manifesta e spietata -Guernica lo testimonia ed il riferimento di Spurio al Picasso della tragedia bellica è quel futuro che il giovane García ha già dentro, quasi a presagire le violenze d'una guerra civile, quella spagnola, che lo vedranno cadere vittima innocente-. Il tema della Bellezza femminile, radice della καλοκάγαθία e delle sua 'celebrazione'. I due lavori evidenziano una particolare attenzione a questa sintesi antica e inradicata nella memoria culturale dei Popoli non solo d'occidente: il primo, alla figura femminile di Elena attraverso la storia e la memoria di un personaggio del mito da Omero ed Esiodo
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agli altri letterati che a lei si sono rivolti per trarne ispirazione al comporre nel tempo successivo; il secondo legato a quanto di femminile è segreto e manifesto nel bellissimo giovane Federico García Lorca, che incarna nelle sue fattezze un'attrazione che provoca spaesamento, facendo scaturire amore che infiamma e gelosia insopportabile, generando tensioni fino allo spasimo, avvicinamenti ed abbandoni che anche la mente non riesce più a governare. Anche se i loro mondi sono lontani quello di Elena nella storia alle radici del mito femminile, quello del giovane Lorca, bellissimo, andaluso, nella storia vera appena passata, la Poesia li vincola sempre e li rende sottomessi al gancio dell'immaginario: svuotare l'Eros di tutto quel buon senso che mai gli appartiene e che il Potere è sempre riuscito ad imbrigliare, concedendogli spazi sempre più angusti, questo il compito che il discorso sulla bellezza e sulla celebrazione si prefigura. Questi due lavori critici, vissuti in parallelo, vivificano l'approccio contestuale ai due mondi e riescono ad armonizzare la tensione che sempre sottostà al lavoro creativo ed esegetico, infatti Caracciolo e Spurio intendono stemperare consapevolmente le tensioni che emergono dalla loro ricerca individuale, producendo un risultato letterario efficace: l'arte, la poesia, la scrittura intima e confidenziale assumono spessore dinamico ed avvincente. L'approccio ai due mondi, contestuale, provoca, lo ripeto, tensioni ed interrogativi sul tema della bellezza e dello sguardo, quando vincola chi ne è intersecato, a sminuire l'attenzione alle cose per raggiungere, d'improvviso, un'estenuante sete di dipendenza e di appagamento anche se solo sfiorato. Oscuro e fatale destino quello di Narciso, quando la Bellezza si fa solitario riscontro nella liquidità d'una superficie riflettente là dove solo il Mito può attraversare significati e consistenza emotiva, facendo scaturire testi ad esso ispirati, mentre aperto e prevedibile evento è quello del giovane andaluso che si dona agli altri perché si fa offerta stessa alla Vita: egli è creatura della nostra storia, a partire dal suo
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mondo interiore e dalla sua bellezza assetata di riscontri e di vita, da cui farà scaturire Poesia che andrà ben oltre il nostro tempo. Dunque due sono i termini che giocano un ruolo assai importante nel contestualizzare le due ricerche: da un lato la καλοκάγαθία, che Marina Caracciolo spiega bene: “… Elena di Sparta è tuttavia la personificazione stessa della bellezza, il cui splendore abbagliante è di origine divina e per questa ragione un valore assoluto... È il concetto – che già serpeggia nei poemi omerici, ma avrà pieno sviluppo soltanto nei secoli successivi – della cosiddetta καλοκάγαθία (kalokagathìa, sostantivo derivato dalla crasi di καλός καί αγαθός = bello e buono), per cui la vera bellezza... non può non coincidere in tutto e per tutto con la perfezione morale e quindi con il possesso di tutte le virtù...” (M. Caracciolo, ibid. pag. 34). Dall'altro il termine el ultimo almuerzo, non semplicemente 'almuerzo'. Lorenzo Spurio, dando tutti i riferimenti in rete per verificare il testo originale, in una preziosa nota sostiene: “ L'articolo usa il termine celebrar ('celebrare'), che sarebbe meglio riferibile a una messa o a un rito di altra natura, sicuramente non per un pranzo. Probabilmente l'autore dell'articolo intende sottolineare la centralità di questo evento accaduto -essendo stato, pur nella sua generalità dei contenuti, l'ultimo- e impiega il termine celebrare, come a volerlo innalzare per meglio renderlo visibile e dunque farne oggetto della sua documentazione. Ho deciso, per tali ragioni, di lasciarlo invariato, anche nella traduzione...” (L. Spurio, ibid. pag. 48). Questa scelta interpretativa di Spurio è stata veramente appropriata perché in una sintesi spirituale forse inconsapevole ma comunque sempre possibile, l'autore dell'articolo apparso sul sito in rete del Listin Diario ha quasi inteso presentare un'anticipazione sacrificale del giovane andaluso, mentre allestisce il pranzo, quasi la sua ultima felice riunione tra gli amici, avendo in mente la tragica fine violenta che lo aspetterà in patria qualche anno dopo e vivendo questo suo viaggio oltre l'Oceano come un passaggio iniziatico nell'Inferno del sopruso e della sofferenza, a ram-
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mentare la segreta forza spirituale lacerante che lo ha accompagnato. Le sezioni di questo articolo sono: L'ultimo pranzo di Federico García Lorca a New York/Le tracce di Lorca all'Università della Columbia/La New York di Lorca (sezione nella quale l'Autore precisa: “... Spaventato dalla 'assenza totale dello spirito' del quartiere finanziario della città, la cui fatidica crisi del 1929 coincise con la presenza di Lorca, si lasciò, senza dubbio catturare dagli spettacoli di Broadway e dal 'ritmo delle immense luminarie di Times Square...)/Il ritorno in Spagna (in L. Spurio, ibid. pp. 48-50). Divinità provocatorie, capricciose e violente nei quadri tratteggiati per le vicenda di Elena di Troia, umanità lacerata e vittima d'una prepotenza programmata senza confini morali di sorta per il giovane andaluso, che forse ha interiorizzato nella carne e nell'anima l'esempio della Croce. E nelle epoche successive a questi due momenti e mondi della nostra memoria individuale e collettiva, quali le tracce dei due protagonisti? Ne indico solo due, per ovvie ragioni di spazio. Per Elena, oltre alle importanti indicazioni di M. Caracciolo come dipinti, testi teatrali, e quant'altro, cito la nuova, ispirata ed originale Elena e Penelope, di e con Giorgio Montefoschi e con Romina Mondello, inserita nel programma del 73esimo Ciclo di Spettacoli Classici all'Olimpico di Vicenza, sotto la direzione artistica dell'ottimo giovane Giancarlo Marinelli (dal 25 settembre al 23 ottobre 'Nostoi – se tu non torni') e trama nella quale: '...Montefoschi racconterà la personalissima visione del 'ritorno a casa' del grande romanziere, attraverso le voci di due eroine tra i miti fondativi della civiltà occidentale, solo apparentemente antitetiche...' (fonte: Internet). Per Lorca cito soltanto Luigi Nono, quel GiGi veneziano sul quale tanto sto ancora lavorando e che ha dedicato in modo appassionato e coinvolgente tre composizioni presenti in rete: Epitaffio per Federico García Lorca No. 1 Espaňa en el corazón (con i testi 'Tarde' -Lorca-, 'La Guerra' -Neruda- e 'Ca-
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sida de la rosa' -Lorca-, con i rispettivi testi scritti a parte); Epitaffio per Federico García Lorca No. 2 Y su sangre ya viene cantando (ancora su testo di Lorca), per la quale Nono stesso spiega “Y su sangre ya viene cantando è stato scritto nel 1952 per Severino Gazzelloni. Il titolo proviene dal Lamento per Ignacio Sánchez Mejías, ma io mi sono qui riferito a Lorca stesso vale a dire che Y su sangre è il sangue di Federico García Lorca che, anche se assassinato dai falangisti spagnoli all'inizio della guerra civile, non ha cessato di cantare...” (fonte: Archivio Luigi Nono, in rete); Epitaffio per Federico García Lorca No. 3 Memento: Romance de la guardia civil espanola, composizioni portate a termine da Nono tra il 1951 e il 1953 (fonte: ibid.). Traducendo l'articolo spagnolo in rete, L. Spurio riporta, nella sezione Le tracce di Lorca all'Università della Columbia: “... Segue anche un'[altra foto nella quale il poeta è] in piedi nei pressi dell'edificio di Filosofia, dove il 16 agosto 1929 prese parte a un evento in suo onore [voluto e organizzato] dalla scrittrice Concha Espina e [dove] elargì discorsi sulla poesia. Inoltre presentò una relazione del torero Ignacio Sánchez Mejías, la cui morte avrebbe pianto alcuni anni dopo nelle quattro elegie [che compongono il suo celebre Llanto]. È nell'accogliente teatro di Casa Italiana che si conserva, in maggior parte [il ricordo] dopo i novanta anni [dalla sua presenza] dove il poeta granadino diresse al piano un coro femminile che interpretò musica tradizionale spagnola...” (in L. Spurio, ibid. pag. 49). La sacralità di un pasto, anche in piena luce del sole, tra le pareti della residenza John Jay, offerto e proprio per questo 'celebrato' dal giovane Lorca per gli amici il 4 marzo 1930, rimanda direttamente a versi di estrema intensità, che Marina Caracciolo rileva, caricandoli di pathos, citando dal testo dell'Agamennone di Eschilo e sottolineandone la portata in corsivo: “... Placida gemma del tesoro, soave strale degli occhi, fiore d'amore che punge l'anima: in un contesto tragico qui Eschilo prende a prestito metafore attinenti alla lirica amorosa, e con esse, in pochi versi, sprigiona un'incantevole suggestione, tale da rendere
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tangibile il fascino sottile e penetrante come una lama, che emana dalla figura di Elena...” (M. Caracciolo, ibid. pp. 33-34). Parole vere anche per Federico García Lorca, quasi descrizione del suo volto, del suo sguardo trasparente, della sua inquietudine che affascina, bello come un dio, in tutto θεοειδής: “... Una placida gemma del tesoro, un soave strale degli occhi, un fiore d'amore che punge l'anima.”. Ilia Pedrina QUEI BIANCHI LABIRINTI Piccola nonna arcana, a volte corro ancora fra le lenzuola che formavano strade fittissime luminose nei silenzi delle controre. Dune su tetti al sole tremano nella memoria come il tuo volto. E mi affannano ancora quei bianchi labirinti mobili nel vento, quando mi fermava la paura di non trovarti più fra le mille pareti, che mi lasciassi a perdermi in quel mondo di tele, oscillante infinito improvvisa minaccia come l’immenso cielo. Ada De Judicibus Lisena
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MICHELE DE LUCA LE BAGNAROTE di Carmine Chiodo
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ICHELE De Luca noto ed apprezzato glottologo e studioso del dialetto calabrese ma pure di altri aspetti della regione, non trascurando mai però il dialetto, mi fa avere libri dai quali apprendo molto e nello stesso tempo ammiro la sconfinata cultura che lo studioso possiede. Ci troviamo davanti a un bel libro ben scritto e documentato che attiene alle donne di Bagnara sulle quali ha pure scritto, come ricorda De Luca, pure Corrado Alvaro: donne di fatica, che portano enormi pesi. Donne forti, dedite per vivere e mandare avanti la famiglia al contrabbando e lavori pesanti, al trasporto del pesce e del legname. A queste donne il poeta Vincenzo Spinoso ha dedicato versi: alla <<fimmijna>> di Bagnara, <<simenza d’a Calabria/fort’e sana,/ti sapi u mundu, beja, e ti saluta/[,,,]>>. La <<Bagnarottazza>> non è però un termine <<spregiativo, com’è comune nelle voci terminanti con
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la desinenza in – àzza, o-azzu (puttanazza, cosazza, ricchjunazzu, cornutazzu, ecc.), ma un affettuoso e familiare accrescitivo di apprezzamento, usato talvolta nel parlare domestico>> (p. 5). Donne non solo forti ma pure avvenenti, mitiche, alle quali – come sottolinea lo studioso - <<con grande disappunto dobbiamo constatare che la cinematografia non abbia valorizzato sufficientemente la figura delle bagnarote>> (p. 13). Sono stati girati pochi filmati negli anni Cinquanta e Sessanta, ed <<hanno avuto una circolazione di nicchia>>. De Luca passa in rassegna questi filmati ed ecco quello, per esempio, del regista napoletano Luigi Di Gianni, dedicato a una giovane ragazza: <<Donne di Bagnara>> del 1959. Viene ancora ricordato il film a colori del trevigiano Giuseppe Taffarel, in cui viene presentata una bagnarota che avvolge la <<curùna>>, il cercine che poi non è altro che il simbolo del lavoro molto pesante a cui si sobbarcano queste donne che trasportano enormi pesi, in equilibrio, sulla testa. Le bagnarote che svolgono i loro pesanti lavori con dignità però. Le donne di Bagnara erano pure attive nel contrabbando del sale e al riguardo viene richiamato il documentario in bianco e nero, dell’Istituto Luce, che prende il titolo <<Le saline di trapani. Il contrabbando di sale effettuato dalle donne di Bagnara>> del 1961, e qui eccole che scendono dal ferry.boat e quando vedono la cinepresa fuggono celermente e si coprono il viso appunto per non essere riprese. Da ricordare ancora il documentario di Vittorio De Seta, <<Lu tiempu di pisci spati >> del 1954, un film neorealista, girato in buona parte a Scilla, <<ma la scena delle bagnarote <lavandaie> fu ripresa presso la fiumara Sfalassà, di Bagnara>> (p. 17). Il libro è arricchito di belle ed eloquenti fotografie che ritraggano vari aspetti delle fatiche quotidiane delle bagnarote e andando avanti nella sua lettura ci si imbatte poi nelle chiare pagine che descrivono, analizzano la fisionomia linguistica e dialettale di Bagnara che fu in passato una <<sorta d’isola, sotto il profilo geo-linguistico>> (p. 23). Lo studioso analizza molto bene il dialetto di Bagnara,
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spazzando via tesi vecchie ed errate. Comunque dal libro emerge chiaramente chi siano state le donne di Bagnara, i loro lavori: donne che erano dedite all’accatastamento e trasporto del legname, e poi c’erano pure quelle <<viaggiàriche>>, che andavano a piedi per vendere la loro merce fuori dalla città oppure prendevano il treno. Vendevano i lupini dolci, e il maestro Idà, negli anni Settanta, in onore di queste donne compose e musicò una bella canzone dal titolo <<Luppinu ruci>>. La donna di Bagnara, e ciò viene pur ricordato nel libro, non era una amazzone, in quanto di guerriero non aveva proprio nulla. Erano belle donne e della loro bellezza il primo a parlarne nella tradizione letteraria italiana fu Scipione Mazzella nel 1601, autore della <<Descrizione del Regno di Napoli>>, apprezzata pure oggi dagli storici come Augusto Placanica. Da ricordare altri autori come Giovanni Battista Nicolosi che nel 1660 esaltava la bellezza delle bagnarote. Per quanto attiene al loro modo di vivere sono citate le pagine per esempio di Michele D’ Agostino e quelle di Adele Cambria. Il libro illustra ampiamente pure i sentimenti di queste donne e ancora le bagnarote furono lavandaie eccellenti, come pure esperte e infaticabili raccoglitrici di olive, oltre che prefiche, <<computatrici>> che <<dietro compenso piangevano i morti e ne cantavano le lodi>> (p. 101). Pure in queste pagine De Luca ci offre precise e interessanti notizie. Da dire che non solo le bagnarote vengono prese in considerazione ma pure il <<bagnaroto>>, il marito delle <<bagnarote>>. I bagnaroti furono <<onesti e operosi lavoratori>> che facevano pure i <<marinari>> (i pescatori), gli scarpari (calzolai), i contadini, i <<cistari>> fabbricanti di ceste, per esempio. Il libro tratta pure del terremoto del 1783, il disastroso terremoto che colpì la città e di cui ci danno testimonianza R. Cardone, per esempio, nelle <<Notizie storiche della città di Bagnara>>. Nonostante ciò la città si risolleva, rinasce e ciò si deve pure alle infaticabili donne di Bagnara. Da segnalare le interessanti pagine che attengono a <<La saggezza
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popolare di Mela ru campu>>. Al riguardo <<si rimane>>, come scrive lo studioso, veramente <<incantati ad ascoltare i racconti e gli aneddoti, in stretto dialetto bagnarese, di ‘Mela ru campu’ ‘Carmela del campo’, perché abitava vicino al campo sportivo, nome anagrafico Carmela Barilà>> (p. 84), e dai suoi racconti di vita vissuta emerge <<la cultura popolare della sua epoca, animata da un profondo senso religioso>> (ivi). Grazie a Michele De Luca se oggi abbiamo una trattazione esauriente e precisa delle donne di Bagnara e del loro contributo dato alla città. Carmine Chiodo Michele De Luca, Le bagnarote. Le operose donne di Bagnara Càlabra tra mito e realtà, Laruffa Editore, Reggio Calabria 2019.
__________________________________ Eravamo sconosciuti quando incontrai il tuo occhio fisso sul mio nel consueto bus giornaliero Non ero ancora maggiorenne ma già ti attendevo per un vuoto da colmare Sceso alla mia fermata mi hai fermato e per mezzo secolo sei stato lo scopo del risveglio. Laura Pierdicchi Mestre, Venezia
Auf dem Dach der Kapelle gurrt eine Taube, um die Gefälligkeiten der Wetterfahne anzuziehen. Aber dem Verführer wird es nicht gelingen die metallische Braut des Windes untreu zu machen. Poesia di Béatrice Gaudy, pubblicata a pag. 63 di Pomezia-Notizie, settembre 2020. Traduzione in tedesco di Marina Caracciolo
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MAURO VALENTINI MIRELLA GREGORI Cronaca di una scomparsa di Giuseppe Giorgioli
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7 anni, Maurizio Valentini vive a Pomezia. Giornalista redattore per diverse testate come critico cinematografico e letterario, segue pubblicazioni specializzate sul crimine e la cronaca nera. Ha partecipato a diversi corsi di specializzazione di scena del crimine e di tecniche investigative, ed è stato relatore sui casi di cronaca come i casi Orlandi e mostro di Firenze. Autore del libro inchiesta: ”40 passi – L’omicidio di Antonella Di Veroli” in cui Mauro Valentini ripercorre le tappe di una storia di cronaca che ha appassionato l’ opinione pubblica e che i giornali battezzarono come “il caso della donna nell’ armadio”. Ha vinto il Premio letterario Costa D’ Amalfi nel 2017 con il libro “Marta Russo – il mistero della Sapienza”. Ho partecipato a due convegni a Pomezia per la presentazione del libro “Mirella Gregori. Cronaca di una scomparsa”: il 12 dicembre 2018 dalle 17 alle 19 presso la libreria Odradek, organizzato dall’Associazione Tyrrhenum e il 15 dicembre 2019 presso la libreria di via Boezio, n. 2. In entrambi i convegni era presente la sorella di Mirella Maria
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Antonietta, che gestisce a Roma un bar a via Volturno. Il mio interesse scaturisce dal fatto che mio padre aveva un amico Beppino che gestiva il bar di via Montebello, dove negli anni ’50 era solito portarmi insieme a mio fratello. Questo è un bar storico, che si è poi spostato durante gli anni in via Volturno ed è quello attuale dei Gregori. Faccio presente ciò a Maria Antonietta Gregori. Era presente ai convegni anche Luca Paonessa dell’ Associazione culturale “Pomezia sparita”: l’interesse di Luca è dovuto al fatto che ogni anno, e precisamente il 22 giugno, data della scomparsa di Emanuela Orlandi, partecipa alla manifestazione in Vaticano organizzata da Pietro Orlandi, fratello di Emanuela. Mi colpisce il fatto che Maria Antonietta Gregori, proveniente da Roma, avesse una certa familiarità con l’ambiente di Pomezia, ma leggendo il libro si capisce il motivo: Maria Antonietta è figlia di Vittoria Arzenton, veneta e che venne in questa zona ai tempi della bonifica pontina. Il libro si compone di 17 capitoli, da una premessa di Mauro Valentini, da una prefazione di Pietro Orlandi e da una Postfazione, redatta dall’Associazione Penelope (associazione dei familiari e degli amici delle persone scomparse). L’Associazione Penelope ha lo scopo di fare pressione sugli enti preposti affinché vengano rese più veloci le indagini dopo una scomparsa, vengano incentivate l’uso e la creazione di una banca dati del DNA delle persone scomparse, vengano proseguite le indagini con costanza nel tempo. Una scomparsa lascia una ferita più grande rispetto a quella di una morte perché non si ha una tomba su cui pregare per la persona scomparsa. Nel primo Capitolo “15 dicembre 1985” si descrive la visita del Papa Giovanni Paolo II presso la Parrocchia San Giuseppe, Parrocchia frequentata dalla famiglia Gregori: in quell’occasione la famiglia Gregori si fa fare una dedica dal Papa in una foto con Mirella e il Papa. Tale foto è di qualche mese precedente alla scomparsa. La madre Vittoria riconosce in quell’occasione un uomo della sicu-
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rezza Vaticana che era solito parlare con Mirella al bar sotto casa. Finita la cerimonia la madre va a fare una dichiarazione al più vicino Commissariato di Polizia. Nel secondo Capitolo “7 maggio 1983” viene descritta la sparizione di Mirella. Mirella riceve una chiamata per citofono da parte di una persona. Alla domanda della madre dice che è Alessandro, un suo compagno delle medie, e che va via per poco tempo per andare a incontrare Alessandro presso la statua del Bersagliere alla Piazza di Porta Pia. Scende e da allora non fece più ritorno. Sparita! Dopo alcune ore la sorella Antonietta va al bar sotto casa per parlare con Sonia, figlia del gestore del bar e amica di Mirella. Alla domanda se aveva visto Mirella Sonia le risponde che non vi è da preoccuparsi perché nel pomeriggio aveva visto Mirella contenta in quanto andava a trovare degli amici a Porta Pia e poi con loro sarebbe andata a suonare la chitarra a Villa Torlonia. Il tempo passa e i genitori di Mirella fanno la denuncia di scomparsa presso il Commissariato di zona e poi vanno a fare una perlustrazione di Villa Torlonia. Il primo giornale che si occupa del caso è Il Tempo, che pubblica la foto di Mirella. Viene ipotizzata la pista della tratta delle bianche, visti anche i numerosi casi analoghi di scomparsa di ragazze in tutta Europa in quel periodo. Dopo un mese e mezzo viene alla ribalta delle cronache un caso analogo, quello del rapimento di Emanuela Orlandi: i due casi seguono percorsi di indagine separati fino al ricevimento di un Komunicato, ricevuto all’ Ansa di Milano con cui si chiede la liberazione di Emanuela a fronte della liberazione di Alì Agca. Inoltre nel Komunicato si chiedono informazioni su Mirella Gregori. A questo punto le famiglie Gregori e Orlandi fanno fronte comune e scelgono lo stesso avvocato, l’avvocato Egidio con studio ai Parioli. Si comincia a trovare le analogie perché la Orlandi al momento della sparizione aveva fatto capire che doveva incontrare un rappresentante della Avon. Anche Mirella si occupava di vendite per la Avon, ma solo saltuariamente.
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Il libro di Valentini coinvolge in maniera intensa il lettore, al punto da farlo partecipare al dolore e al dramma della famiglia Gregori. Mauro Valentini sta spesso insieme alla famiglia per raccontare la storia di Mirella. Il libro è corredato di foto di famiglia dei momenti familiari antecedenti la scomparsa di Mirella. Vengono descritti i momenti più importanti e più intimi della famiglia quando regnava la felicità e la serenità. Vengono descritti i messaggi e le telefonate farneticanti di vari soggetti mitomani, con voci contraffatte da far capire un accento anglosassone. Durante una di queste telefonate ricevute al bar Gregori vengono descritti i vestiti con cui era uscita Mirella il giorno della scomparsa. Nell’ultima telefonata fatta presso lo Studio dell’avvocato Egidio viene data notizia della morte di Mirella. A un confronto all’americana presso la Giudice Rando Vittoria, madre di Mirella, non riconosce in Raul Bonarelli della sicurezza Vaticana la persona incontrata all’udienza del Papa presso la Parrocchia di San Giuseppe, persona che usava intrattenersi con Mirella e Sonia sua amica presso il bar sotto casa. Dopo la scomparsa di Mirella tale persona che parlava con Sonia e Mirella al bar non si è fatta più vedere!! La sovraesposizione mediatica del caso Orlandi e l’associazione del destino di Mirella Gregori a quello della Orlandi ha fatto in modo che non si sono seguite le indagini specifiche per la Gregori. Si pensava che, cercando Emanuela, si potesse risolvere contemporaneamente il caso di Mirella. Ma, purtroppo non è stato così! Non si è più indagato sul ragazzo Alessandro, che è stata la scusa della scomparsa di Mirella. Neanche su Sonia e il cameriere che assisteva ai colloqui al bar fra Mirella, Sonia e la persona distinta di circa 35 anni. Altro episodio inquietante: Bonarelli in un’ intercettazione telefonica con la moglie dichiara che bisognava indagare su certi praticoni che collaboravano con il prete. Anche questa sarebbe stata una pista da approfondire! Per concludere, ho trovato di particolare in-
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teresse il penultimo capitolo “ Cronaca di una scomparsa” in cui Mauro Valentini prospetta varie ipotesi investigative che si sarebbero dovuto fare subito dopo la scomparsa di Mirella e non sono state fatte in quanto questa sparizione è stata associata erroneamente al destino di Emanuela Orlandi. Giuseppe Giorgioli
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di Tua bellezza. Rocco Cambareri Da Versi scelti, Guido Miano Editore, 1983
MAURO VALENTINI - MIRELLA GREGORI. Cronaca di una scomparsa (Sovera Edizioni, novembre 2018, 14,00 €, pagine 184, Brossura, ISBN 978-88-66-524304)
TECNOLOGIA DEL POETA Affondare la bocca in una rosa gonfia di pioggia e di profumo lontano dai telecomandi della pubblicità televisiva. Ma benedetto sia il telefono cellulare se con un’allegra suoneria ti raggiunge in ogni luogo dell’anima per sussurrarti parole affettuose! Luigi De Rosa Da Fuga del tempo, Genesi, 2013
ERESIA Perdonami, Signore, l’abbraccio che abbaglia di fanciulla; pure il prorompere di vita è Tuo amore. Ha negli occhi il Tuo azzurro, un lievitare che fu d’Eva. Perdonai, Signore, lo smemorarsi in un grembo. È tutto Tuo dono; anche un corpo denudato tra lampi di biancore. Perdonami, Signore, se amo i paradisi del Tuo inferno, le forme di adolescente - specchio
La parola è stata a dare voce al mondo e ad essa, al suo culto, è dedicata questa silloge di Domenico Defelice (…), rappresenta, in tal senso, un consapevole atto di accusa, di passionale rivolta nei confronti delle molteplici contraffazioni e simulazioni a cui le parole, (…), vengono sottoposte, subendo una violenza che non meritano, perché è nella parola riposta la più autentica e assoluta filologia sentimentale, su cui si fondano l’essenza e la sostanza della nostra esistenza. (…) c’è il mondo con le sue incertezze e instabilità sempre crescenti, che solo nell’alito del divino, nella voce di Dio sembrano placarsi (…). A volte, tuttavia, scatta la rabbia (…). Defelice si può consentire di fare nomi e cognomi, dando, nella parte finale della silloge, una sorta di svolta sarcasticamente civile, ricorrendo a un linguaggio più libero e diretto (…), dando voce popolare a tanti italiani, che (…)la pensano come lui (…). Francesco D’Episcopo Università degli Studi di Napoli Federico II, Dipartimento di Filologia Moderna Da Vernice, anno XXVI, n. 58
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VERSO LONTANI ORIZZONTI. L’ITINERARIO LIRICO DI IMPERIA TOGNACCI
DI MARINA CARACCIOLO di Gianni Antonio Palumbo
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N libro prezioso Verso lontani orizzonti. L’itinerario lirico di Imperia Tognacci, monografia del critico letterario Marina Caracciolo, edita da Bastogi Libri, nella collana Testimonianze. Tutt’altro che fuori luogo la scelta di riprodurre in copertina Morgen im Riesengebirge di Caspar David Friedrich, il quale ben evidenzia quel senso d’ali e quella tensione dell’anima all’infinito che appaiono Leitmotive del percorso letterario della scrittrice Imperia Tognacci. Marina Caracciolo, milanese, sin dall’ infanzia residente a Torino, è critico di lungo corso, di cui possiamo ricordare gli Otto saggi brevi pubblicati con Genesi, insigniti del Premio ‘Dignità di Stampa’, “I Murazzi”, Torino, e, in ambito musicale, almeno Il giovane Brahms. Lettere e ricordi, LIM, Lucca, 2018. Caracciolo rivolge la sua attenzione a una scrittrice nativa di San Mauro Pascoli, Imperia Tognacci, a lungo insegnante nella città di residenza, la capitale, ma anche collaboratrice attiva di riviste letterarie come “La Procellaria” di Reggio Calabria.
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Il critico ripercorre l’“itinerario lirico” della poetessa muovendo dal suo “primo prezioso libriccino (…), uscito nel 2001”, Traiettoria di uno stelo. Citando le altre opere, specie di carattere narrativo, di Tognacci, Caracciolo lavora di cesello sulle raccolte di versi, che, soprattutto in casi come La metà è partire, assumono un respiro poematico. L’autrice della monografia sviluppa la sua argomentazione in ben undici brevi capitoli, ciascuno dedicato a un’opera della poetessa. La disamina muove dal motivo ispiratore delle raccolte o dei poemetti, per poi offrirne, in un movimento avvolgente, la descrizione caratterizzante, con corredo di citazioni, più o meno ampie a seconda dei casi, che consentono costantemente di seguire il percorso del critico e di avvalorarne le tesi. L’intreccio di citazioni e trattazione rende infatti più fruibile la monografia e costituisce valida riprova delle analisi di Marina Caracciolo. Analisi puntuali e raffinate, che rivelano lucidità e intensità di sguardo, profonda conoscenza della tradizione in cui l’esperienza letteraria di Tognacci si innesta e, non in ultima istanza, il pregio di uno stile elegante e raffinato, in più passaggi lirico esso stesso. Emerge l’immagine di una poetessa degna di notevole attenzione nel panorama letterario italiano, autrice che non disdegna la poesia metafisica, vibrante nella Notte di Getsemani, con un Cristo dapprima esitante che, complice la compartecipazione della Natura al suo martirio, “abbraccia poi la croce”, ma ben coltivata anche nella Porta socchiusa. Qui, nella Profezia, rivivono, con le dovute differenze, suggestioni del Journey Of The Magi di T. S. Eliot. Imperia Tognacci è poetessa che, nella perenne declinazione del motivo del viaggio, riesce a trarre dall’anonimato della storia collettiva figure come quella del Prigioniero di Ushuaia e a dar loro voce nel possente dialogo tra l’io lirico e colui che si definisce “crudele pellegrino”, perché ha macchiato di sangue umano il proprio cammino e ora sconta nella colonia penale la pena per l’insipienza trascorsa.
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Caracciolo mostra l’incidenza della poetica di Giovanni Pascoli nell’itinerario della Tognacci; questo appare visibile un po’ in tutta la produzione dell’autrice, ma emerge in pienezza nell’Odissea pascoliana, rispetto alla quale Marina Caracciolo esamina anche la riscrittura del motivo della tessitrice dei Canti di Castelvecchio. Altro elemento nodale rilevato dal critico è l’emergere di una fitta meditazione sul valore e sul significato della poesia, oltre che sulle sue possibilità di sopravvivenza nell’epoca della medialità telematica pervasiva. L’icona di Orfeo emerge non solo nel poema al mitico cantore dedicato (in cui l’Euridice che necessita di riaffiorare dall’Ade è la poesia stessa), ma anche nella polisemia della superba lettura, proposta da Imperia Tognacci, del personaggio di Aristeo in Nel bosco, sulle orme del pastore. Pluralità di significati che Caracciolo squaderna magistralmente nella sua analisi. Punto di arrivo di questa meditazione sulla persistenza della poesia è La meta è partire, in cui individualità del poeta, mito, elementi simbolici e archetipi rivenienti dalla storia dell’umanità si annodano in un canto che vince la forza obliteratrice dell’Acheronte, rintracciando il più profondo significato di questa nobile arte “nelle voci antiche, nel muto alfabeto dello stupore”, piuttosto che nelle “gelide labbra del nichilismo”. Un lavoro egregio, dunque, questo di Marina Caracciolo, che in una tessitura solida, compatta e raffinata, schiude al lettore un mondo lirico-poematico assolutamente meritevole di approfondimento. Gianni Antonio Palumbo SE FOSSI… Se fossi padrona della mia vita, vorrei programmarla a modo mio: vorrei vivere in eterno, invecchiando solo un pochino, per convalidare
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le mie esperienze; non avere malattie, tenere accanto parenti e amici, buoni, affettuosi, sinceri, tanti bambini, belli, allegri, chiassosi, e un gruppo di animali domestici, tutti insieme in una capanna vicina; essere circondata da una natura rigogliosa, prodiga, in ogni stagione, di frutti a iosa; e vicino un ruscello canterino, limpido, cristallino, ricco di pesciolini... Vorrei dormire sonni tranquilli, sognare, sorridere, felice; essere di giorno riscaldata dal sole, vorrei di notte contemplare le stelle e la luna, con esse amoreggiare e scrivere versi, in serenità. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo IS
Nelle diverse unità di mutazione ho visto il mio corpo bambino ho giocato con lui nell’assoluta gioiosa incoscienza ho visto lo sbocciare della rosa assaporato il profumo della variazione – accarezzato il fulgore del magico specchiarsi ho atteso il maturare della mela ho creduto in libertà di poter scegliere invece era deciso che solo tu la raccogliessi. Laura Pierdicchi Mestre, Venezia
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FRANCESCO D’EPISCOPO
ANIMA di Tito Cauchi NIMA è la silloge di Francesco D’ Episcopo risultata vincitrice del Primo Premio “Il Croco 2020”, a Pomezia. Contiene componimenti generalmente di breve lunghezza, liberi da schemi metrici e scorrevoli, riguardanti temi quotidiani ed esistenziali, espressi con semplicità mai banale. Trovo molto interessanti il prologo dell’ Autore e il commento in chiusura di Domenico Defelice, organizzatore del Premio e direttore di Pomezia Notizie. Francesco D’Episcopo, molisano (classe 1949) residente a Salerno, città di sua elezione, è noto autore di saggi e di vari interventi critici; dichiara di essersi formato all’insegna di grandi Maestri filosofi del passato come Parmenide (scuola di Elea, in Lucania, VI-V sec. a. C.), Gian Battista Vico (napoletano del Seicento) anche poeta, Friedrich Nietzsche (tedesco dell’Ottocento) e non poteva essere diversamente essendo docente di lettere e fi-
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losofia. In particolare fa suo un pensiero di Leopardi che mi sembra il nocciolo del suo sentire e cioè: la poesia “può essere suggerita ma mai spiegata per intero. Sarebbe una violenza alla sua laica sacralità, al suo infinito mistero.”. Penso, comunque, che giovi tentare di addentrarsi nella poesia il più possibile per diffonderla e condividerla con altri fruitori, per non rischiare di lasciarla dominio di pochi. L’opera non può esaurirsi nella sola lettura e merita compartecipazione. Se il sottoscritto indugia su questi aspetti è perché, in effetti, nei contenuti questi versi esprimono “liberamente” i moti dell’anima seguendo in un ampio ventaglio il proprio vissuto. L’Autore mantiene la promessa di offrirci componimenti privi di “contorcimenti estetici e falsi sofismi etici”. Prendo il tema in argomento come occasione di conversazione, stimolo alla lettura e al confronto fra autori e lettori. Difatti Defelice nella sua nota evidenzia la “francescana semplicità” del D’Episcopo nell’esprimere le proprie emozioni. Questo giudizio ritengo che sia la chiave di lettura, e cioè l’anima è la poesia stessa. Scopriamo che la poesia è di tutti e sta dappertutto (perfino nelle cose inerti). Giusto per non scantonare i testi poetici ci inoltriamo in essi. I versi incipitari dicono: “Quando morirò, / sarà un giorno come gli altri.”; senza giri di parole, preannunciano il pensiero sulla morte e manifestano un’età avanzata; ma non troppo poiché Francesco D’Episcopo ha voglia ancora di “vivere da re”, viaggiando e componendo poesia con senso sacrale e sognando l’ eternità. Aperta la sua anima incontriamo un paio di componimenti in vernacolo, come boccata d’aria degli anni giovanili e scopriamo, fra le altre cose, una forza propulsiva nella sessualità innocente definendosi “Rigattiere d’amore”. Ecco quindi l’Amplesso “con il piffero magico dell’uomo / e il buco nero della donna da risuonare.”; ecco le donne distese sulla sabbia rovente che si infiammano di desideri arditi e genuini “spalancano / alla luce della notte:” le gambe; mentre il Poeta
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teme l’acqua dei marosi dove potrebbe naufragare. Bella la metafora della ginestra “la pianta femmina, / che implora al vento / il suo seme”. I pensieri si rincorrono in una sorta di altalena. Ritorna l’immagine della morte visibile nel padre “dimagrito”, “che la guerra aveva segnato,” e sente il bisogno della compagnia di un amico con cui giocare e conversare, come lo scrittore-regista Stanislao Nievo. Fa propria una frase di Pablo Picasso: «La vecchiaia ha un solo difetto: / finisce troppo presto.» e pensa ai “Carducciani filari di cipressi” in Toscana. Rimane in attesa che Gesù venga presto a fargli “compagnia”. Il bieco arricchimento da parte di egoisti fa desiderare al Nostro la Libertà: “Voglio essere povero di ricchezza, /sobrio e sostanziale / nell’ubriacatura dell’effimero e del superfluo.”. Dirà più avanti in francese che non gli resta che sopravvivere perché la vita, adesso, non è più come prima. Nella eponima spiega: “Anima è quel soffio di vento, / che ti scompiglia i capelli / e ti ricorda che esiste / un mondo che soffia da lontano”. Francesco D’ Episcopo spiega che ama ripetere: “perché gli altri non solo capiscano, / ma condividano.” In chiusura nella poesia ‘Amici’ commenta quanto man mano si assottigli il loro numero; è il segno del tempo vissuto, ma certamente l’anima sua è sana. Tito Cauchi
alla loro ombra che schermava il cielo affidavamo ogni giorno la nostra.
FRANCESCO D’EPISCOPO, ANIMA (1° Premio Il Croco 2020) - Prologo dello stesso Autore, Postfazione di Domenico Defelice, al quale si deve anche l’immagine di copertina - Ed. Il Croco, I quaderni letterari di Pomezia-Notizie, agosto 2020, pagg. 60.
Da stamani colombi disossati cercano goffamente un nuovo appoggio. Come decapitati s’aggirano in una clessidra di polvere pompieri col casco sottobraccio. Stamani –in questa sbiancata mattinachi fa domande non s’aspetta risposta.
GEMELLAGGIO Sta scritto: “Nelle case s’entra dalla porta” ma voi siete penetrati come arpioni nel midollo delle nostre cattedrali. Duemila anni per alzare i cento piani della metropolitana supponenza fino alla quota dei grandi aeroplani;
A pensarci, non ci occorre tanto tempo per la giusta sopravvivenza. Basta che all’oggi segua ogni giorno il domani. Basta per oggi non sforare il muro che preclude ogni anticipazione del futuro. Stamani - esattamente all’ora non segnata coincidente con l’ora in cui è accaduto ho fatto appena in tempo ad abbassare le palpebre: una prima e poi la seconda. Riaprendole – prima ancora di guardare – ho trangugiato la lingua ammezzata e ho visto fino al livello del mare una finestra di cielo spalancata. Stamani: e due su tre non sapevamo ch’era la mattina di domani e un po’ alla volta avremmo confessato che noi siamo quelli che saranno detti testimoni oculari: abbiamo visto e quindi c’eravamo. No, non alziamo gli occhi: è per terra che dobbiamo tutti e ciascuno cercare in noi stessi dove sia scomparsa la loro ombra.
Dal volo degli aerei presagi a misura di naso circospetti nel mondo ancora telestupefatto. D’oggi in poi, a partire da domani, ogni corpo si guarderà dalla propria ombra; essa sarà il nostro lato oscuro la nostra stessa latente figura, con essa è il nostro nuovo gemellaggio.
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TELEFONATA AD ANGELUCCI Streben: “Solo se affonderai i denti nel frutto transgenico dell’albero proibito conoscerai come il bene ed il male nascano assieme sullo stesso fico, nella terra dei padri a cuor leggero come Esaù svenduta, e la morte sia una forma d’impazienza. T’arrogherai allora, a sorpresa del vicino, il diritto d’uccidere il tuo Simile per essere – una tantum – simile a Lui”. Ora sulla tavola assediata dalle mosche ch’atterrano e decollano c’è un coperto di troppo; un bicchiere rosseggiante rammenta il suo debito di sangue. Streben: et eritis sicut deus: è questa l’invidia della spada questa la scritta incisa nella fibbia dei guerrieri forgiati nell’υβρις. Questa la frase che sussurrò il serpente a Eva attorcigliandosi a lei con scopa e secchio giù giù per la tromba delle scale. Ed Eva indusse il sottomesso Adamo a concepire contro Dio Caïno. Corrado Calabrò Roma
…e se un giorno i poeti non parlassero più d’amore non sarebbero più poeti sarebbe morto l’uomo sarebbe morto il cielo sarebbe morto Dio. Gianni Rescigno Da Il vecchio e le nuvole, BastogiLibri, 2019
Sono libera da influenze esterne vuota di stimoli interni potrei scegliere - padrona dei risvegli nel contemporaneo fluire dei gesti. In potenza sono scintilla ma il nodo del filo collegato al mio centro non si può sciogliere. Laura Pierdicchi Mestre, Venezia Libero la mente per scoprire la sorgente e comprendere il significato reale della dimensione.
ANCORA ESTATE Arriva settembre ed è ancora estate. Calde le giornate, fresche le nottate. La luna risplende, cancella il buio e illumina a giorno paesi e contrade. La gente sta fuori fino a notte fonda, passeggia, spensierata.
Nella meditazione sciolgo i lacci del concreto per accogliere la differenza.
Antonia Izzi Rufo (Castelnuovo IS)
In evidenza sussiste la ragione che nell’apparenza maschera ciò che si manifesta. Laura Pierdicchi Mestre, Venezia
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SENTIRE IL PESO DELLE GAMBE di Leonardo Selvaggi
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L mio compaesano portava in fondo alla macchina lo zio scrittore per una passeggiata, sicuro, che fare un giro per i bei paesaggi lucani e della Campania fosse un piacere da toccare appieno la fantasia dell’ ospite. Ma lui abbandonato nell’angolo, distratto ripassava la sua vita, ormai solo immagini visive distanti da se stesso. Le sue tappe, gli entusiasmi degli anni riusciti; la sua intelligenza ed esperienza sulle contrapposizioni sociali e organizzative. Acuto corrispondente de “La Stampa”; Amerigo Ruggiero, autore del volume “America al bivio”. La pienezza della vita vissuta nello straordinario paese libero rispondeva al suo intelletto avido di spazio. In Italia si sentiva legato. Il movimento sognato era tutto un fuoco di volontà di contatti, di cosmopolitismo. New York soltanto, altare divino di esaltazione, la città creata da spiriti di un altro mondo. Dopo ore raffrenate dalla noia e dal pianto pesante della solitudine senza segni manifesti, l’irruenza e la rabbia interna vorrebbero disintegrare la dolcezza e l’incapacità di penetrazione, la puerile docilità del nipote, che è solo copertura esterna senza sostanza di pensiero riflesso. Allampanato, rimasto imberbe, non poteva arrivare alla psicologia sofferta dello zio. Per le grandi strade che erano traiettorie all’ infinito, verso l’essenza varia dei continenti messi insieme, il mondo in sintesi che fluisce dentro tutte le razze. Lo zio scrittore viaggiava assente, senza fissità sulle cose; l’interiore moto soffocava, lui si piegava derelitto nel corpo vecchio. La sua casa non c’è più, solo un aereo filo arrugginito si stende fantastico nella mente; i lunghi passaggi, che collegavano i due punti distanti quanto l’ampiezza di un pianeta, l’ avevano coperto e difeso, dal suo paese di Lucania fino a New York. Ora gonfio di ma-
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lumore, sgretolato, le parole semplici e ignare del mio compaesano a lui suonavano sadismo diabolico sui resti di tutto un passato. L’ inanità di quanto vedeva, i soliti contorni verdi della campagna e le case che si susseguivano nel viaggio, sì il bel mare lungo la costa di Amalfi e Sorrento, ma New York aveva dilatato il cervello, il grande paese che erompeva ancora come dannato ricordo, gli ultimi boati di un vulcano che finisce il tempo dell’ eruzione, nel suo decrepito cuore, nella carcassa delle costole indebolite. Il suo ritorno per finire, aveva bruciato tutte le sue esuberanze degli anni attivi. Non ha più niente ora, poiché la vita americana era stata la grande casa ove si muoveva insieme a tanti. La libertà di New York riempiva con la forza di se stessa. Lo spazio senza limiti, quei grattacieli monumenti del diavolo erano entrati nel suo animo rimasto stregato. Una scossa al suo sistema nervoso, fuori di quella selva che faceva ammattire. Tutta la persona si era ingigantita, la mentalità ricostruita con blocchi colossali. Anche lui un grattacielo. Dopo New York la disfatta, tutto crollato e distrutto, il fuoco sugli ardenti carboni inceneriti ha l’odore della caduta. Trova invalicabili le coste della baia di fronte alla statua della libertà, l’immenso gelo della lontananza, il bianco della distanza oceanica. La sua fidanzata che non trova più. Sente i grandi misteriosi tentacoli agitarsi smorti nella mente. Come una fidanzata inafferrabile, mai altra uguale ad essa ha visto. Il suo amore che ha vinto tutte le altre passioni, che sono rimaste sempre indeterminate, sempre niente rispetto allo spettacolo impensabile di mille grattacieli che si sciolgono in una scia scintillante di luce. Andato a finire in un dirupo, frastornato per lo squilibrio tra il bagaglio accumulato poi volatilizzato e la vita fatta di niente. Sentire il peso delle gambe nelle passeggiate al paese. Crollato dentro il silenzio sprofondato delle pareti bianche con macchie di muschio. Il fremito, il bailamme e l’ irrefrenabile moto di New York. Il fascino di una città. Nessuno amore ha raggiunto punte magnetiche più alte. La donna che ha tutti i senti-
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menti. Tutte le fattezze levigate, di marmo; fredda e immobile che incatena nei suoi luoghi, gigante predominio che raggela il fermo pensiero sulla fronte. L’angoscia della lontananza, l’oceano che fa disperare, l’amore indomabile. Una strega che ha preso il suo animo, tutto un mondo di persone e di vita. L’ordine e la severità, il fatalismo e le contraddizioni; una logica chiara di una razionalità crudele. La povertà e l’alienazione, tecnologia e capitalismo. La metropoli, un grande specchio che riflette le sue forme e i significati. Nichilismo, nessuna presunzione. Nella colossalità delle strutture, nella sua stessa opera l’uomo si imprigiona con le proprie mani e nel contempo un’indipendenza ferrea della persona. I giganti si vedono dall’alto, poiché si fa fatica a tenere eretto il collo dai marciapiedi. I vari abitanti entrano da porticine incastonate in nascosti angoli. Le case povere a livello con le strade, escono i negri dalla testa gonfia di umido, quasi in fila paiono topi. All’aperto tanti dormono nelle prime ore del mattino. La notte ha lasciato lo sporco. La testa riparata dal rettangolo dello scatolo. I grattacieli dei demoni, esplosione delle lotte umane, schiavitù e sopraffazione, schiacciano le persone nel movimento di vermi e formiche. I lati squadrati delle costruzioni innalzate da infiniti elementi componibili hanno il celeste puro incrostato di gelo e l’aria ventilata o il vetro nero per non sentirsi smarriti nell’aperto spazio. Strade senza case e senza chiese. Si è fuori, le abitazioni solidificate dal cristallo dei giganti, i mobili fusi nelle vetrate bianche, vaste e geometriche. Stalagmiti eretti nel cielo, volta incavata di ghiaccio. Si entra e si esce dai locali pubblici, tutti liberi frammisti, in contiguità; tante lingue, ma come fossero una sola, intrecciate e sovrapposte. Taxi a migliaia, panchine disposte a semicerchio, l’una attaccata all’altra, New York lontana, non si perde di vista, inconfondibile visione con quei blocchi monumentali di civiltà supermoderna, una netta fisionomia, tante braccia e occhi all’infinito. La vita a New York, l’uomo sperso trasformato, quasi non gli si addice la solita
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forma di bipede, è una cellula a forma di stella, aperta a mille direzioni. Un ricordo minuscolo le quattro strade del paese, i giri che si fanno a ripetizione; non esistono angoli o crocevia di fermate: parallele soltanto, traiettorie a lungo raggio. Tra la baia e Wall Street i grattacieli si ergono ad altezza paurosa, di incredibile disumana costruzione, non si pensa alla loro ferrea resistenza, ma si teme che siano di fragile materiale distruttibile alla prima folata di vento. Sotto vi sono brevi spazi per dove le persone in torme dense, continue infernali passano spinte da un uragano. L’impressione che l’aria sia oscura, tanto lontano il sole e annebbiata la luce. Una ruota che gira pesante, grande macina che stritola sopra; stridio metallico che costringe e spinge avanti. Ho indovinato presenze di Italiani venuti in America da diversi decenni come deformati e appiattiti sotto il peso di carri, lieve fioca voce lontana di dialetto siciliano che si sente appena confuso in vene sotterranee, tanto soffocata la bocca dentro massi e frane di terra precipitata. Un pianto che è malumore coagulato nel cuore. New York, la vita; ritmo cardiaco giovane, il tempo della generosità che si dà a piene mani. È il flusso di sangue che circola attivo irrorando gli organi che sono in ricambio continuo. Leonardo Selvaggi
ATTACCATO ALLE COSE di Leonardo Selvaggi Un tardo pomeriggio treni sono rari, lunghe attese nei carri per bestiame, seduti per terra negli angoli oscuri fiaccati da un appetito che invade isterilendo l'intestino intero. Nelle difficoltà totali viene provvidenziale per via di qualche permissivo ferroviere la sensazionale possibilità di salire su un carro per merci, pieno di ampi tronchi. Salgo felice del viaggio avventuroso, il più bello mai fatto, lungo il Basente da Ferrandina a Grassano, Mio compagno è un falegname di trent'anni, di statura piuttosto
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bassa; straordinaria capigliatura quasi un mantello di riccioli sottili e cresciuti a forma di trapezio. Oronzo sale prima lui per darmi una mano, troviamo la posizione ferma in cima al carico ferroviario. I miei capelli vanno con il vento nell'ultima ora del giorno, svolazzano con le sensazioni fantastiche alate, si vuole che duri tanto questo stato di delizia. La chioma di Oronzo si gonfia, è un ombrello legato alla testa. La linea segue il greto del fiume assetato, cosparso di pietre arse; lucidi rivoli di traverso passano esili e si stagnano ai margini delle rive, si fanno profondi e verdi sotto l'ombra delle acacie. Nell'aria la purezza dell'animo adolescente, lo spirito va in tutto il corpo, l'esuberante gioia fa vibrare le membra fattesi ombre che corrono sull'argine dei binari. La chioma di Oronzo di ruvida canapa brizzolata si apre ancora. Rivedo ora il mio compagno sui tronchi fra le latebre degli anni come un corsaro, una figura che si muove dentro l'ebbrezza e i sogni di allora. Oronzo lo trovo mescolato ai mille fatti che hanno sedimentato la persona, immagine finissima scavata nelle interiora. La limpidezza di quella sera, il respiro nello spazio purificato: quel viaggio che fu un miracolo per i miei desideri bizzarri non si è mai fermato in mezzo al primo tempo della vita fino ad essere lontananza impercettibile in direzione opposta, che ha soffocato la bellezza di un ricordo. Montagne di rifiuti e di cose scolorite si sono sollevate. Io sono rimasto posso dire con uguale struttura, mi sono passati tutti avanti, mutate le forme in gran parte coperte di malsana atmosfera E non sono un pessimista, come sembro, voglio rimanere attaccato alle cose che avevano un significato schematico fermo, quando una sacralità si diffondeva un po' dappertutto: buttare per terra una mollica di pane voleva dire gravissimo peccato, calpestare l'immagine di Cristo. Penso ad Oronzo, a quei momenti avuti insieme, la sua capigliatura mi fa ridere. Un tardo pomeriggio inconsueto irreale, disegnato su pagine velate che sotto le dita non si sentono. Il treno merci interminabile stridente sotto la stretta, di freni arrugginiti, pesante quasi di terre esotiche ar-
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riva nella mente mentre sto nella cattedrale di Enee, ai suoni dell'organo che vagano divenuti sostanza, lontani e vicini come portati dal vento. Lontano lembo della penisola. Plaga di dimenticanza. Sento vicino il brusio di una comitiva il cui dialetto conosciuto spicca bene nella terra siciliana. L'allegria del gruppo, snellezza delle secche forme vestite chiaro. Le femmine protendono il muso, pettegole conoscono i fatti più minuti e nascosti che si trasmettono con l'infida diavoleria del serpente. L'armonia funebre attraversa distanze che solo l'animo sa misurare, la profondità di tutto; la simpatia che passa da persona a persona: delicatezza di donne paesane commosse, dietro il feretro, ti invadono con gli occhi lacrimanti, La chiesa che esce unico blocco di ricami dal tufo; la dura resistenza del selciato delle strade in riquadri uniformi quasi rustico esteso mosaico. I massi che sostengono luoghi antichi innalzati nell'aria rarefatta del tempo, l'orizzonte è il mare. Il caldo che manda in alto le nubi dell'evaporazione, quadrati ai acqua allagano la piana di Trapani, l'immobile distesa di luce sulle saline. Uguale stile da sempre Ha la faccia del topo, con pieni poteri avanza verso una devastazione, rigoroso piano finanziario per risanare la baracca sconquassata. Tutti i componenti delle Camere non si sentono, satolli di politica inetta che ha permesso ruberie di ogni tipo; i desideri famelici sono colmi, l'intestino ingolfato fa pesante il respiro. Una dittatura per i deboli, per chi è andato avanti sopportando le stereotipate figure governative: casa e lavoro, dietro il peso monotono grigio, l'abito onesto ripulito e dignitoso davanti agli altri. Lo Stato dilaniato da roditori di vario aspetto, ipocrisia e iattanza. Amministratori in astratto, hanno spadroneggiato sulle carte calcolando i propri interessi. Mai interventi decisi e concreti, mai lavoro metodico di gestione. Un piano di sistematico impegno vedendo la città come il campo da dissodare e da guardare perché subdoli danni non vengano alla sua struttura. Il sindaco deve girare per le strade e prendere
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nota di quello che è irregolare, va tenuto d'occhio il degrado da arginare. Marcisce l'immondezzaio che si accatasta nei giardini. Non è stato messo un mattone per i nuovi marciapiedi, i tronchi degli alberi sono stanchi di tanto abbandono invasi dai germogli parassiti. Fabbriche di studenti, l'artigianato ridotto ad una larva; viene l'arricchimento dallo squilibrio dei mestieri a chi non soffre concorrenza. Caterve di funzionari e operatori occupano sterili uffici, impiegati fantasmi hanno fatto carriera con prosopopea, noia presuntuosa. Il viso pieno caratterizzato da barba ben disegnata, l'importanza di teste vuote e la faccia dura che non teme nulla, assenti la riflessione e il senso della moderazione cosciente. Gli occhi piccoli sul naso lungo, hanno trovato la strada solita quella percorribile senza pietrame e polvere che soffoca e fa le ossa rotte nel tragitto. Passa sui corpi fragili che si flettono sotto il piede, morbidi tutti insieme quasi un tappeto che fa l'unico percorso. Le altre strade non si vede dove aprirle, i visi ambigui sfuggono alle istanze nei momenti di crisi. Il cammino si fa sempre in mezzo alla gente semplice disposta a sacrificarsi, che parla lamentandosi, ma capisce che per gli altri bisogna andare con la volontà di aiutare. Le situazioni migliori si costruiscono, non possono essere forzate. I campi che si allineano rivestendo le colline sono arati e una freschezza nera hanno, pronti di nuovo a ricevere il seme per i germogli. Aridi e asciutti con poca vegetazione intorno, ma dentro hanno strati fertili, caldi e riserve che possono ancora nutrire le radici. La mano dell'uomo saggio, con la cultura vera che prende tutto dalle fondamenta di se stesso, senza vizi e sano, che vive per lavorare, che vive il tempo senza artifici. I meccanicismi fanno la persona vuota, lontana dall'ambiente e dall'insieme che solo è forza comune genuina, base essenziale, substrato vitale. Gli altri illanguiditi si vestono di innocenza, sono muti vengono fuori con altri umori. Erano prima ad ingrassarsi nelle stalle da trame nascoste collegati, erano le vacche piene solo pancia non molto lunghe di corpo, ma con larghe corna che a stento sono uscite
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dagli stipiti quando sono fuggite all'aperto. Le corna del clientelismo ramificato fino ad essere una tessitura del vivere di tutti i giorni. Carte imbrattate false che sono soldi rubati. Agave spilungona ed inclinata sopra foglie carnose, rami dal doppio tessuto del fico d'India, profondo e forte l'umore del terreno. Tronchi elefantiaci, corteccia che è pelle di animali preistorici. Non c'è un punto che non dia una spinta. Piene e rotonde esuberanze che si vogliono prendere nelle mani, che crescono col vento e il movimento delle gambe. La feracità è dappertutto, contrapposte forze si colpiscono, equilibri instabili in pericolo, frammistione di elementi, propulsioni sotterranee. Una patina nera che rende vischiosa ogni superficie. Palazzi a più balconi che come scale vanno in altezza sovrapponendosi, gareggiano a chi più riesce a svincolarsi dal peso. Si vogliono congelare i pochi movimenti che sono stati quelli delle formiche, tappare ogni fuoruscita di libero sfogo. Proteste subitanee da chi ha espresso veleno e volontà di amare la vita. Da chi è andato con uguale stile da sempre; lineari mai un cambio di rotta. Il moto della vita e il gioco innocente delle illusioni che hanno dato alimento al cuore. Il modo cauto di agire e nel contempo costante la difesa di se stessi, l'attesa che tutto si riassetti secondo il giudizio che manovra le riflessioni proprie. La logica provvidenziale che riordini le cose secondo una giusta collocazione. Erbaccia cresciuta tanto II nome di Eva sentito dalla camera d'albergo mi ha rifatto le idee prima intuite. L'ingranaggio che prende tutto con brutale impeto, gli argini puliti dalle erbacce con le fiamme; i campi bruciati non hanno più stoppie: quel calore che distrugge ogni infettante parassita si incontra con la pura sostanza che rinvigorisce degli strati non rimossi dall'aratro. Siamo a quel primordiale scontro tra il serpente e la mela, la caduta e tutta la messa in moto della spinta peccaminosa che abbatte e risospinge in una altalena continua; miseria e risalita, giornata di luce ed ansia che stringe l'animo.
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Aria unta e saporita, capelli che si fanno con il viso. Le cose sono buone nel punto in cui mature stanno per cadere nella putrescenza. I viali dei giardini corrosi dall'acqua, scarnificati dicono quante piogge sono corse. L'erba che si arrampica prende l'umidità che inzuppa i blocchi divenuti farinosi. Alberi ciclopici che hanno fiumi di linfa, tronchi paralleli come sostegno cadono dai rami lunghi e s'innervano per un più ampio intreccio di circolazione. Radici intorno si muovono corpose a forma di cetacei. Le foglie di acanto si sbriciolano. Architravi stanno per spezzarsi. Per tutelare la salute dei palazzi storici prima cosa è curare il tetto e il deflusso delle grondaie. La geometria urbanistica delle piazze,, delle entrate artistiche delle strade; cornici sopra pilastri, le aquile sempre il simbolo della storia che vince. L'inferriata incastrata nella ruggine che ha rifuso il metallo difende l'erbaccia cresciuta tanto e in altezza fino a nascondere la possente presenza della scultura. I gambali dell'eroe ricoperti di squame difensive, l'aspetto di forza armata di mezzi primitivi, prima pietra di fondazione, baluardo di principi. Oggi il potere di dominare con orgoglio lasciando tracce è caduto nella melma dell'indolenza. Solo il lusso dei mezzi voluttuari e i facili intrallazzi della spartizione del denaro pubblico. Morto il piacere di seguire i messaggi sulle ali del sentimento e della forza della propria identità. Persa la via dell'inizio, sviliti dalla confusione. Frutto di incrocio, spezzato il parallelismo della continuità. I minuti curati con lo stomaco rifocillato dalle smaglianti leccornie,- il godimento del sesso e la smania di correre maledetta che è vuotaggine interiore. Bifolchi ingentiliti dai permanenti occhiali a tracolla, cafoncelle che non hanno un grammo di buon senso. Lerciume mi pare questo livellamento che non può rendere l’elevazione della Croce nelle notti incerte. Queste non si addicono alla persona che morsi non sente sul petto. Tigri le donne alla festa del matrimonio impettite per l'eleganza di oro e di trine. Il collo duro e gli occhi che non si muovono, attestate ad una altezza di superbia. Nella chiesa di S. Cataldo
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a Palermo vesti diafane, un foglio che appena adombra le carni. La ragazza dalla chioma che arriva all'osso sacro ha un fastidio perché stretta la striscia intima fa uscire fuori la seconda valva e di tanto in tanto, quando il prete parla dell'amore-amicizia dei coniugi per raccontarsi le cose profonde, con le unghie rosse cerca di allentare lo striminzito indumento. Il velo bianco sul viso fanciullo già avvizzito si trascina senza entusiasmo, sembra che si rifiuti di legarsi al corpo. Leonardo Selvaggi
LAGHI DI STELLE Per te prendo agli alberi le fronde guardo laghi di stelle raccolgo miele di luna. Di là ti chiamo ti consegno scintille d’acqua marina e ti dico: ho forzato il mistero della vita roso da sempre dagli abissi abbagliati da coltelli di sole. Gianni Rescigno Da Il vecchio e le nuvole, BastogiLibri, 2019
LA SIGNORA SENECTUS MI HA INGANNATO Dapprima in modo ambiguo, subdolamente soft, poi sempre più sfacciatamente, la signora Senectus mi ha ingannato rendendomi, con gli anni, suo prigioniero. Ma lo confesso in modo ingenuo: il mio cuore, i miei sogni, la mia modesta poesia non saranno mai preda della signora Senectus. Luigi De Rosa Da Fuga del tempo, Genesi, 2013
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Il Racconto
RITORNO ALLE MONTAGNE di Anna Vincitorio
N
EL verde silenzio della valle dalla finestra semiaperta, lo sguardo si allunga sul fitto degli alberi; il paesino, (Canale d’Agordo), leggermente più in basso e la montagna che lo rinserra. L’impressione è di chiusura, aperta verso un cielo mutevole in cui le nuvole s’inseguono e la luce nel suo accendersi infiamma la cuspide del Monte Civetta. M’incammino lungo una discesa erbosa e, nell’allontanarmi, guardo l’alta casa severa, la finestra ancora aperta. Sopra: la soffitta dove la notte si rincorrono i ghiri. Seguo il torrente Biois dell’omonima valle tra le Pale di San Martino, il Civetta, la Marmolada e l’Agner, che scroscia discreto e si allontana. Il paese è colmo di storia. Muta la campana nel Giardino Memoriale in ricordo dei soldati italiani caduti sul fronte russo (1940-45). Un Cristo e, sul tetto che lo ripara, un lentisco e ai piedi un ciuffo di girasoli inneggianti all’ oltre degli eroi morti per la libertà. Tenero il verde sotto i piedi. Piccole lapidi rotonde e un antico lavatoio di pietra. Poco avanti la Casa delle Regole affrescata con un dipinto sacro. La montagna lega per sempre. D’estate i ritorni degli ex valligiani dalle Venezie, Lombardia, Lazio e anche il lontano sud. Sono come uniti a corda doppia e puntualmente si ritrovano nella piazza, nelle case, A la vecia Biraria dai Costa: Pizza, Cucina, Marenda…un’immagine nel cartoncino che la illustra riporta a tempi andati: un uomo con i baffi, cappello e gilet sbottonato vicino a una coppia di cavalli. È il bisnonno Mariano Tognetti e la grande casa dalla quale mi sono allontanata è chiamata casa dei Mariani e fu costruita da lui, 120 anni fa. Rilassante passeggiare a lungo nei sentieri; rari gli incontri; solo un vecchio con bastoni e passo risoluto e qualche bicicletta.
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Mormorio di abeti che svettano quasi a voler sfiorare le nuvole. Il silenzio che avvolge è amico. Non induce alla tristezza ma s’ impone come muta preghiera ai monti pallidi sovrastanti; nel piccolo lago nuotano grandi trote; l’acqua riflette l’ondeggiare di un’ altalena con bambini festanti; sul prato notevoli sculture in bronzo di Augusto Murer; lo sguardo si alza e, lontano, spunta un campanile. Vorrei andarci e contemplare dall’alto i monti che circondano la valle. Ci si inerpica per un ripido e stretto sentiero. Si odono canti. Sta terminando la celebrazione della messa nella chiesa di Vallada: Simone e Giuda Taddeo. La chiesta è luminosa; fu costruita nel 1185; riccamente affrescata con storie della vita di Cristo e Santi del XVI° secolo eseguite da Paris Bordone, allievo di Tiziano. Dalla parte sul retro, semiaperto si scorge un piccolo edificio poco lontano, d’origine molto anteriore alla chiesa e risalente al IX° secolo. Si narra che la chiesa fu voluta da Celentone (probabilmente un monaco) che nel 720 per sfuggire ai barbari, trovò rifugio sul monte conquistando la fiducia della gente di cui divenne il capo. Convertì i pagani al cattolicesimo e costruì la chiesa. (Si ritiene che la parte murata risalga a Celentone). Ridiscendo lentamente il sentiero e il pensiero corre alle storie dei nani che coprivano i monti di fili di luna e di luce. Quei monti pallidi che poi s’infuocano alla sera. Sempre secondo la leggenda il fenomeno è dovuto dal roseto di re Laurino. Io però amo profondamente l’acqua e le Dolomiti sono costellate di laghi. È vero che hanno mille colori? Sempre secondo la leggenda, un arcobaleno di gemme scagliate nell’acqua da uno stregone rifiutato da una ninfa, li ha resi così. Sono anche chiamati “gli occhi della terra”. Carezza! Ti ricordo con gli occhi della giovinezza intessuti d’amore e di sogni; la tua bellezza è rimasta intatta, i miei sogni dissolti. Non lontano da Canale d’ Agordo dove mi trovo ospite, si può raggiungere il lago di Alleghe. Lì mi soffermo. Qualche pedalò e cigni che scivolano sull’acqua un po’ torba. Sempre maestose le montagne
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irradiate dal sole tra giochi di nuvole impazzite. È bello tornare alla sera nel tepore di una casa amica tra vecchie sedie, una grande tavola e la pentola che borbotta sul fuoco. Sono tanti, uniti e le loro parole si rincorrono tra i ricordi. Non posso non provare tenerezza per Anna che sorride alla finestra e saluta il ritorno dei suoi cari, avvolta in un ampio grembiule sui calzoni. Lei ha sempre freddo. Poi Lalla, Antonio, Fernanda, Giuseppe e tanti altri ancora che hanno dato luce alla mia solitudine. Tutti vicini nella sera e le farfalle ai vetri della finestra con le alette tremolanti che cercano di entrare. Come tutto questo è diverso dai lontani ricordi della montagna della mia giovinezza. Mi ero sentita tradita e avevo evitato la montagna. Per vincere l’amarezza, fughe verso il mare e lunghi avventurosi viaggi. Ma al ritorno? Adesso sono qui e voglio nuovamente amarvi, montagne. Scalerò le nuvole per potervi penetrare con lo sguardo. Una mattina di sole e la corsa verso la regina delle Dolomiti. Salire velocemente nella funivia che ondeggia nel vuoto. Nuvole, dal candore abbagliante, cuspidi impervie, e io che mi avvicino. Le cime sono lì davanti a me. Si sovrappongono, si dilatano, mi abbracciano. Avverto il loro respiro. I miei occhi affogano nella luce della loro immensità. Vicine e irraggiungibili, orride e magnifiche. Sempre più in alto, bucano le nuvole; il ghiacciaio brilla. Lontani gli alpinisti, hanno i ramponi da ghiaccio. Macchie multicolori sulla bianca immensità della neve. In basso, incastonato tra ripide pareti di roccia, un piccolo lago di cupo blu. Non posso parlare. Sento un flusso caldo salire lungo il corpo; mi avvolge una sensazione indefinibile quasi metafisica di infinito abbandono e, dai miei occhi sgranati, piovono lacrime. Io, piccola, eppure grande perché partecipe di tanta incommensurabile bellezza. Se Dio esiste, non può che assumere questa visione: silenzio, immensità e luce. Il tempo è cambiato; si addensano le nubi e
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scende la nebbia ma in me soltanto estatico calore. Adesso, posso tornare a casa. Firenze, 30 agosto 2020 Anna Vincitorio
Domenico Defelice: Vecchi tetti in montagna ↓
Domenico Defelice: Anoia (RC), stalla e ripostiglio (biro) ↓
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“UNA VERA ARTE” (Matteo Collura) -7-
DEDICHE a cura di Domenico Defelice “A Domenico Defelice/con tanto affetto e tanti/auguri di bene e successo./Domenico Destito/Catanzaro, 16 - 6 - 1978” (suo volume: Non trovo un segno, Tipografia F.A.T.A., Catanzaro). ***
“Con onore/a lo prof./Domenico De./ Felice./Kokkinos” (volume di: Demosthenes Kokkinos - La terra e l’acqua - Poesie scelte e tradotte da Felice Mastroianni, Iannina, 1978). *** “Finalista (con altri sette) al Premio Naz.le /”Il Ceppo” (Pistoia) - Presidente L. Baldacci/il 1975 (premio vinto da Bartolo Cattafi)” (sul volume: Felice Mastroianni - Luna santa luna, Rebellato Editore). “26 - VI - 1978/ Caro De Felice, ho ricevuto/ stamani il Suo “Canti d’amore ecc” che/ leggerò con piacere, come tutte le Sue cose, e/ne scriverò./Le mando questo mio volumetto, come/segno della mia cordiale amicizia./ Felice Mastroianni/Casella postale 29 bis/Via Federico Nicotera 18/88046 Nicastro (CZ.”. *** “Omaggio cordiale di Felice Mastro=/ianni all’Amico Defelice, con vivissi=/ma preghiera di recensione -/Felice Mastroianni/Casella postale 29 bis/Via Federico Nicotera
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18/88046 Nicastro (CZ.)/Grazie infinite della tua recensione a/ Luna santa luna e dei tanti numeri/ del tuo periodico che generosamente/mi hai mandato./Felice” (sul volume: Giuseppe Mascaro - Mito, natura e fede nella poesia di Felice Mastroianni, Rubbettino Editore, 1979). *** “All’Amico carissimo/Domenico Defelice/con tanta stima e affetto/queste mie ricerche/del nostro dialetto calabrese./Roma, 14/5/79/Ettore Alvaro/E’ possibile una piccola recensione?/Grazie EA” (su: Ettore Alvaro - Imprecazioni dialettali calabresi, Ed. Brenner, 1979). *** “Cordiale omaggio/a Domenico Defelice,/che sempre ricordo/con tanto affetto/anche quando, con/lungo silenzio, lo/ trascuro./FFiumara/Reggio Cal. 22/5/1979” (volume: Francesco Fiumara - Serracapra un paese del Sud Storie, memorie, tradizioni, La Procellaria Editrice, 1979). *** “Al carissimo Amico/Domenico Defelice/ con tanta stima/e grande riconoscenza /Roma, 22 - 4 1980/Ettore Alvaro” (suo volume: Il Carnevale in Calabria, Ed. Brenner, 1980). *** “All’amico Domenico Defelice/Ciò che ho detto e scritto di/questa eccezionale figura di/artista e filosofo calabrese, che/mi fu maestro e amico fraterno./Nino Zucco/A Roma, 26 gennaio ‘981” (suo volume: Michele Guerrisi scultore scrittore filosofo, La Procellaria Editrice, 1977). *** “Madrid, febbraio 81/All’amico/ fraterno/Domenico,/mai dimenticato/Rocco C.” (volume: Rocco Cambareri - Frantumi di cristallo, Ed. Carello, 1981). ***
“A/Domenico Defelice/con tanta stima /Ettore Alvaro/12/3/1981” /suo: Festa paisana d’atri tempi, estratto da Calabria Letteraria, n. 7-8-9-10-11-12/1980). ***
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“28. 6. 81/Al prof Domenico Defelice,/ editore e scrittore di chiarissima/fama, con molta cordialità e/stima./Raffaele Sergio” (suo L’ abbate Giovanni Conia, Ed. Parallelo 38, 1980). ***
“Al carissimo Amico/Domenico Defelice,/con immensa stima -/febbraio 82/Ettore Alvaro” (suo: Galatru mia!, Graficalabra EDI, 1981). ***
“Al carissimo/Domenico Defelice/sempre grato/e con immensa stima/offro -/Roma, tempo pasquale 1982/Ettore Alvaro” (suo: Via Crucis, Ed. Centro Studi Medmei e Centro Incontri, 1982). ***
“Con tanta/stima e/amicizia/a Domenico/De Felice/Ugo Verzì Borgese/Rosarno aprile 1993” (volume: 4° Concorso Internazionale di Poesia e Prosa “Zagara di Rosarno” organizzato dal Centro Studi Medmei. Poesie finaliste in Lingua Vernacolo Francese Spagnolo “Calabria Mia” poemetto di Pasquale Rombolà, Edizioni Centro Studi Medmei, 1983). *** “Ad Dott./Domenico Defelice/con molta stima/Gioia Tauro 23 - 5 - 1983/Antonio Orso” (suo volume: Voce e gente di Calabria, Carello Ed., 1983). *** “Al Dott./Domenico Defelice/con deferente stima/Gioia Tauro 23 - 5 - 1983/Antonio Orso” (suo volume: Spisiddi, Tipografia Calabrografiche, 1980). *** “Al Dott./Domenico Defelice/con tanta stima/Gioia Tauro 23 - 5 - 1983/AOrso” (volume: Antonio Orso - Favole di Fedro, Barbaro Editore, 1980). *** “All’Amico carissimo/Domenico Defelice/che con tanto amore/ed attenzione/segue il mio cammino poetico/offro - con tanta stima/e riconoscenza -/Roma, 20 sett. 1983/Ettore Alvaro” (suo volume: Àngiala, Poemetto in dialetto calabrese, Ed. Centro
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Studi e Divulgazione “Luigi Capuana”, Roma, 1983). *** “Al carissimo Amico/Domenico Defelice/con immensa stima/e gratitudine./ Pomezia, 20/10/83/Ettore Alvaro” (volume: I nostri amici poeti a cura degli alunni della Va Classe Elementare dell’insegnante Giovanni Gangemi, Rosarno, Ed. Giga, 1983). *** “Al Poeta-editore/Domenico De Felice/Con viva simpatia/Teobaldo Veltri/29 - XI 83/Via Garibaldi, 18/00010 Montelibretti (Roma)” (suo volume: Giuseppe Selvaggi poeta jonico, Ed. Trevi, 1983). *** “A Domenico Defelice/con tanta stima, affetto/e riconoscenza. Roma, 19/12/1983/Ettore Alvaro” (suo dattiloscritto: Elenco dei vocaboli sdruccioli, bisdruccioli e trisdruccioli del dialetto della provincia di Reggio Calabria, Roma - 1979). *** “Al carissimo Domenico Defelice/OMAGGIO/con tanta stima/e immensa riconoscenza ./Roma, Natale 1983/Ettore Alvaro” (suo volume: Patannostru e Avi Maria Libera interpretazione e commento in dialetto calabrese, Centro Studi e Divulgazione “Luigi Capuana”, Roma, 1983). *** “A/Domenico/amico indimenticabile/RoccoC./Vibo - Marzo ‘84” (volume: Rocco Cambareri - Pensieri del sabato, Carello Ed., 1983).
Invitiamo lettori e collaboratori a inviarci le dediche, indicando con chiarezza, però, nome e cognome degli autori, titoli dei libri sui quali sono state vergate, casa editrice e anno di pubblicazione. Grazie!
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Recensioni FRANCESCO D’EPISCOPO ANIMA Poesie, 1° Premio Il Croco 2020. Supplem. al n° 8 (Agosto 2020) di “Pomezia-Notizie, pagg. 60 «Che cosa trovo quando guardo in profondità in un essere umano? Scopro che anche quell’uomo è una lampada di terracotta! Ma non è solo una lampada fatta di fango, in lui è anche presente una fiamma di luce che si eleva continuamente verso il sole. Soltanto il corpo è fatto di terra, la sua anima è quella stessa fiamma. D’altra parte, chiunque dimentichi questa fiamma che si eleva perenne resta solo fango: smette di elevarsi verso l’alto. E quando non esiste elevazione verso il trascendente, non c’è vita alcuna.» (Dal vol.9 Crea il tuo destino, I Classici del Corriere della Sera - Osho, RCS MediaGroup S.p.A. Milano, Anno 2020, pag. 5). La parola Anima ha radici antichissime a testimonianza del fatto che già in età egizia, con i misteri di Iside e Osiride, e successivamente in quella greca, coi filosofi quali Platone che ne parlò nella sua opera Timeo o Della natura, si era compresa l’essenza invisibile presente nell’essere umano durante tutta la sua vita terrena, oltre la quale ritornare da dove era venuta ovvero nel regno dell’immortalità. Gli antichi greci ebbero bisogno di ‘personificare’ ciò che era immateriale e così diedero un volto con un preciso carattere a ciascuna divinità che, secondo le loro credenze religiose, abitavano sul monte Olimpo da cui ogni tanto scendevano per interferire direttamente nelle vite degli umani, nel bene e nel male, e, qualche volta, come pensavano facesse Zeus il re degli dèi, unirsi fisicamente ai mortali per generare eroi o comunque esseri straordinari.
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Il filosofo latino, d’origine africana, Apuleius, che si rifaceva alla corrente di Platone, tra le sue opere è famosa quella delle Metamorfosi o L’asino d’oro, ritrovata molto più tardi da Giovanni Boccaccio a Montecassino e costituì, in un certo qual modo, il best seller del Rinascimento, poi tradotta in italiano dal Boiardo. All’interno di questo romanzo antichissimo c’è la storia di Amore e Psiche, prosopopee dell’Eros (Amore) e di Psyché (Anima) che, secondo la concezione platonica, era l’unione dell’ anima con l’amore divino e dopo questa audace rappresentazione dell’elemento invisibile e determinante insito nell’essere umano, l’anima, da parte di Apulèio, nessun altro filosofo o scrittore ha più conferito un volto ed un’indole alla medesima. «[…] L’anima dell’uomo non è saldamente vincolata al corpo, ma vi è precipitata dalle regioni dell’aldilà e deve tentare di sciogliersi dal corpo per ritornare al suo creatore. La causa della caduta risiede nella bellezza del corpo terreno alla cui vista l’anima s’è infiammata d’amore. Ma quest’ amore la trascina quaggiù e l’anima penetra nel corpo. Solo dopo le molte peripezie della vita terrena essa potrà liberarsi del corpo e ritornare all’orine. A tal fine soccorre l’ausilio della divinità.» (Dal vol.1 Apuleio – Le metamorfosi o L’asino d’oro, I Grandi Classici Latini e Greci – Poesia e Prosa, Fabbri Editori di Milano, Anno 1994, pag. 7). Altresì ci sono state interpretazioni artistiche dei personaggi di Amore e Psiche da parte di pittori e scultori importanti nella storia dell’arte, tra cui la celeberrima opera scultorea in marmo neoclassica del 1793, Amore e Psiche giacenti, oggi al Museo del Louvre a Parigi, dello scultore veneto Antonio Canova. Pertanto, una cosa è certa: l’anima nel momento in cui s’insinua nella materia umana, corpo, inizia il suo viaggio ‘avventuroso’ tra le forze contrarie che le provocheranno sofferenze, giacché dovrà subire delle prove riservate a ciascun essere umano. Ed è questo il concetto sintetizzato ed espresso in poesia dal docente universitario, saggista, giornalista, membro del comitato di direzione e redazione di riviste nazionali e internazionali, Francesco D’ Episcopo. « Parole mie,/ fatemi compagnia,/ non lasciatemi naufragare/ nella tempesta;/ prendetemi e portatemi/ in un ormeggio,/ prima di ripartire/ verso altri marosi,/ altri orizzonti.» (Pag. 20). L’autore sa che in quell’abbraccio metafisico tra i due esseri innamorati, Amore e Psiche, tradotto in scultura dal Canova che entrò in contatto con l’ imperatore Napoleone Bonaparte in Francia proprio grazie a quest’opera, esiste una ‘salvezza’, e lui, D’Episcopo, la invoca, la cerca nell’odierno. Egli è
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consapevole che tutto è fuggitivo, instabile, eppure tende a questo perché fa parte del contesto vitale. L’ossatura di cui è fatta l’esistenza non è una compagine dell’eternità, è vero, ma noi siamo qui sulla Terra e siamo attratti dal tangibile, da ciò che incarnato poiché non riusciamo a comprendere l’ invisibile, l’immateriale. Parlare di anima, per il poeta D’Episcopo, è significato soprattutto regalarle anche un’approssimata fisionomia, per poterla contemplare da vicino e non avere paura di perderla, come, invece, fece Psiche che, violando il giuramento fatto a Cupido suo sposo di non doverlo vedere in viso quando veniva a trovarla di notte, si ritrovò separata da lui e per ritrovarlo dovette attraversare ardue peregrinazioni. «Scoprire vecchie poesie,/ sbiadite dal tempo,/ è diventato il nostro mestiere,/ il nostro mistero,/ nell’affastellamento di parole,/ lasciate sospese,/ nell’attesa di un finale,/ che le renda umanamente/ di tutti coloro/ che ancora credono/ che la poesia potrà salvare il mondo.» (Pag. 45). Per tutta la durata della lettura di questa silloge, meritatamente vincitrice del primo premio alla Prima edizione “Il Croco” indetta dalla redazione di “Pomezia-Notizie”, si avverte l’aria ultraterrena di qualcosa a cui approderemo prima o poi tutti, alla fine delle prove, così come Psiche, rincontrando Cupido-Amore, con lui è salita sull’Olimpo per vivere da immortale, perché l’anima non si distrugge con il disgregamento del corpo bensì ritorna libera e quell’abbraccio diventerà tutt’uno con il Ritorno alla chiusura del cerchio della vita. «Mi chiedi di tornare/ sui miei passi,/ ma la vita/ perderebbe il suo profumo,/ se si avvizzisse/ in un vaso di fiori,/ non innaffiato dalla sorpresa,/ dalla meraviglia/ di essere per la prima volta/ veri e vivi.» (Pag. 51). Isabella Michela Affinito
BONIFACIO VINCENZI LA VITA DELLA PAROLA Macabor, Cosenza, 2020, € 12,00) Ciò che subito si nota nel leggere le poesie che Bonifacio Vincenzi ha raccolte nella sua nuova silloge La vita della parola, è la perentorietà del dire, immediato e franco, l’asciuttezza e l’incisività della voce. “Spesso un bianco di pagina accoglie / la sera nel canneto e tu torni / come una brezza lieve” (Spesso un bianco di pagina accoglie); “Un cielo lavato dal vento / i volti che mutano in un gioco / regolato dal tempo…” (Un cielo lavato dal vento); “Da dove nasce il furore di questi anni / la folle corsa su un binario sbagliato / l’illusione pericolosa
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di credersi vivi…” (Da dove nasce il furore di questi anni). Quella di Bonifacio Vincenzi è una poesia che è retta da ritmi ben pausati e che tende ai toni alti; una poesia nella quale l’intensità del sentire traspare a ogni passo dal verso che nasce con naturalezza e spontaneità: “Bastò poco, un soffiare di vento gelido / nell’aranceto, altri movimenti senza peso, questa e / quella vita / … / Il passato in agguato” (Bastò poco, un soffiare di vento gelido). C’è in queste poesie il soprassalto dell’anima, che pare a volte come destarsi da un lungo sogno, fatto ad occhi aperti: “Nessuno / mai a chiedersi come mai si è vivi, come mai la recita appaia così reale nel grande teatro di questo mondo” (Che il tempo non esiste lo sanno); e c’è l’amore, che è descritto con estrema freschezza: “… mano nella mano, a inseguire l’amore / che attraversava l’istante” (Da qualche parte c’era: i capelli). Ma c’è anche la ricerca della virtù della parola, quale strumento con il quale l’uomo si realizza e si esprime: “Il silenzio e l’oscillare della parola, il velo / dell’acqua era come uno specchio verde” (Il silenzio e l’oscillare della parola); “Il suo destino era nelle parole, la sua vita aveva / un significato soltanto per quello che ne dicevano / gli altri” (Il suo destino era nelle parole). Talora poi la poesia di Bonifacio Vincenzi nasce da un’improvvisa riflessione sul significato del nostro vivere, racchiuso tra nascita e morte, in un volgere enigmatico di stagioni: “Da un’assurda circostanza nacque il gioco. / … / Si poteva invecchiare anche rimanendo seduti / al tavolino del solito caffè” (Da un’assurda circostanza nacque il gioco). Attimi privilegiati vengono qui spesso evocati dal poeta, che li ferma con felici immagini in versi ben pausati e di indubbia efficacia, quali: “Spegnevi ogni parola col silenzio / già attratto dall’assenza / lontano, molto lontano, / dal nostro mentire per amore” (Mi distrugge la consapevolezza); “… vederti passare dove le querce / mutano con le stagioni” (Saperti in un posto inimmaginabile). Nella seconda parte del libro poi, intitolata La memoria dell’assenza, si fa avanti una figura femminile che dona più vita alla pagina, ravvivata anche da un fanciullo che s’affaccia con inusitata freschezza: “C’era quel bambino / ladro di ciliegie / innocente” (C’era quel bambino). S’affaccia inoltre in questa silloge un sentimento doloroso del vivere, con una musica dolente che investe la parola e l’accende di una nuova luce: “Foglie arrugginite / d’autunno. / Si stacca la mente / dal fuoco” (Foglie arrugginite). È ciò che si nota specialmente in taluni incipit, quali: “C’erano quattro finestre in quella casa. / Quattro finestre eterna-
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mente chiuse. / E c’era qualche sogno appeso alle pareti” (C’erano quattro finestre in quella casa). Si veda anche: “Lo sguardo è tuo lungo i pioppi / ventosi del sentiero. / … / Nello strazio degli alberi spossati / si disperde quel poco che resta / della trama” (Lo sguardo è tuo lungo i pioppi). Sono pure da ricordare di queste poesie taluni movimenti di particolare intensità, che compaiono specie nella sua seconda parte, dove, oltre alla poesia succitata, ne troviamo altre, quali Scrivo di te ancora, Uno strano livore contagia / i volti della memoria, A scavare in un grido, ecc. Ciò che risulta è un libro nel quale alta si leva la voce del poeta, il quale sa guardare a fondo nel suo animo, per penetrarne i segreti, ma che sa anche volgere il suo sguardo sul mondo circostante, per cogliere gli aspetti deteriori della realtà che denuncia con fermezza, in poesie come Non esistono uomini liberi: “Non esistono uomini liberi, il mondo ha terrore / degli uomini liberi. / … / Volontariamente si / allontanano dalla libertà. Malati di dolore saldano / attimi che sono lontani dalla loro storia”. Si legga anche da Il suo destino era nelle parole: “Libertà, democrazia, / omologazione, percorsi già tracciati nei grandi recinti / in cui si è suddiviso il pianeta”. In molte di queste poesie s’avverte inoltre il ricordo e il rimpianto per il padre, la cui morte ha profondamente colpito il poeta. Ed è un ricordo che non lo abbandona. Elio Andriuoli
ALDO RIPERT PAROLE IN PENTAGRAMMA Prefazione di Marcello Falletti di Villafalletto, Anscarichae Domus, Accademia Collegio de’ Nobili Editore, MMXIX, pp. 64, € 10,00 Aldo Ripert, romano (classe 1939), scrittore fantasista, si rivela poeta dalle molte tonalità con la silloge Parole in pentagramma, il cui componimento eponimo troveremo a pag. 48 quando definisce la poesia: “Parole in pentagramma / per orchestra / senza strumenti.”. Marcello Falletti di Villafalletto in prefazione, afferma che le pagine del Poeta producono la musicalità annunciata dal titolo, ciò che è caratteristica di una “buona poesia” che si accompagni all’armonia interiore del lettore coinvolgendolo nel sondaggio interiore volto alla riscoperta di valori soppiantati da una “economia di mercato”. Nel prosieguo tenteremo di seguirne il percorso. I componimenti generalmente hanno lungo respiro. In apertura il Poeta sembra proclamare il proprio intento, difatti leggiamo: “Parole come note musi-
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cali / in melodica sequenza, / ardite e schive, / che parlano di vita. / (…) / Parole catturate in fantasia, / umili parole, / di prosa e di poesia.” Perciò prendono corpo attraverso la rievocazione di un figlio e di una madre le seguenti parole: timbro, suono, accento, note, Verbo (al maiuscolo) che lasciano presagire non un solo strumento ma un’orchestra intera ed altri organi atti a riprodurre suoni (megafono, campane, martello, ecc.). Nel registro dei sentimenti troviamo il sognatore impregnato di saggezza morale come nel seguente precetto: “Quando l’elogio esagera in altezza, / gloria divien e nuoce alla bellezza. / (…) / Giudica ben, con occhi di bambino, / chi con sincerità strabilia, o tace.” (p. 9). Troviamo il ritorno della memoria “al tempo di scuola” in terra emiliana “a far progetti” e nei viaggi in Sicilia, in Corsica, in Francia; di tempo ne dev’essere trascorso abbastanza ma “il sorriso di Rosa” continua a rapirlo; ciò mi fa pensare a un felice e duraturo legame, tanto che la ritroveremo verso la chiusura del libro a pag. 49 in visita a Firenze. In omaggio allo scultore del legno Zeni Renzo di San Martino di Castrozza, nomina le pale eoliche sormontate che sembrano riprodurre l’eco di un nome, quello di Martina. Il Poeta commenta quanto l’uomo continui ad essere un lupo verso i suoi simili. “Gode il pastore / a vedere il suo gregge, / ride il potente / se il volgo ignorante / non legge.” (p. 19). E nelle vesti di figlio (vero o invenzione letteraria), si sofferma sulla condizione dentro le Case di Cura (le residenze sanitarie assistenziali) divenute tristemente note in apertura di questo anno (2020): una lunga descrizione che dà movimento pur nella staticità, come per prolungare l’esistenza degli ospiti prima dell’ultimo saluto; un muto dialogo figlio-padre, di parole non dette di un guerriero corazzato e “Dagli occhi un sorriso struggente, / e ti perdo per sempre.” (p. 21), genitore che ritroveremo a p. 52. Pensieri che per associazione richiamano la morte nei forni crematori in Polonia ad opera di carnefici che “mai non avran perdono.” (p. 25). La terra dei contadini ed anche la terra dei morti come di Joséphine Baker (cantante francese negli USA, 1906-1975) alla quale si rivolge: “I dodici fiori che hai coltivato / innestandoli col tuo amore di madre, / non saranno soli sulla tua tomba.” (p. 29). E anche “Sull’asfalto i disegni / del rosso della vita, / sconsideratamente perduta.” (p. 30). Aldo Ripert in Parole in pentagramma, usa voci desuete, tronche, che sanno d’altri tempi, frequente rima; tocchi classicheggianti nello stile e in qualche richiamo lessicale (Ninfa, Parca). Abbiamo l’elogio al libro come memoria, analogie (p. es. nella “cèntina grigia del cielo”); mette in guardia verso le pa-
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role che per il loro fascino a volte prendono il sopravvento sul pensiero logico; ma troviamo anche qualche verso oscuro, forse per pudore. Troviamo momenti di evasione nei riferimenti a Parigi, Mont-Martre, Pigalle, Notre Dame; nello sguardo di un bimbo che gioca; nella divina Firenze culla di cultura, d’artisti e di poeti; nell’abbraccio della Musa ispiratrice. Ascoltiamo l’organino a manovella che nel 1953 girava per le strade suonando “Vecchia Roma”, regalando momenti di elevazione del valore della vita. Troviamo la donna che diviene madre tra gioia e dolore, abbiamo un grido e un vagito. Uno sconforto prende il Poeta alla gola: “Mamma tu sai / quanto rimpiango / quei mancati abbracci. / (…) / e a me, già vecchio, / resta quel debito / di materni abbracci” (p. 46). È come un ritorno all’infanzia e ai primi battiti del cuore nel “sorriso di Anna”; ma si sa che non si torna indietro. Tito Cauchi
COSMO GIACOMO SALLUSTIO SALVEMINI LA REPUBBLICA VA RIFONDATA SULLA RANDOM-CRAZIA Edizioni Movimento Salvemini, 2014 - Pagg. 304, s. i. p. È un esame spietato e documentatissimo - giacché, in gran parte, l’Autore non fa che riportare o riassumere articoli, interviste, note, cenni, dichiarazioni, apparsi su quotidiani, riviste e ogni altro mezzo d’informazione - del disastro Italia, uno dei Paesi più corrotti al mondo. Come specifica il sottotitolo, queste trecento fitte pagine sono una lucida “Analisi storica delle anomalie istituzionali e delle collusioni tra malavita e politica dal 1948 ad oggi”. Secondo Cosmo Giacomo Sallustio Salvemini, il germe patogeno di tutto ciò si annida già nella nostra Carta Costituzionale, la quale, pertanto, non è, come alcuni vogliono, la più bella del mondo; da ciò, allora, la “Proposta di riforma” <<per abolire il “metodo Caligola” ed introdurre il “metodo Pericle”>>; passare, cioè, dal metodo della democrazia malata - con il quale “gli oligarchi dei partiti scelgono (…) coloro che devono andare in Parlamento, coloro che devono occupare poltrone di governo e di sottogoverno, o poltrone di governatori regionali, di sindaci, di assessori, di dirigenti di aziende municipalizzate e via dicendo” - al metodo della “randomcrazia - democrazia diretta basata sul sorteggio - e resa praticabile dalla rivoluzione tecnologica: computer, telematica, televisione interattiva, teleconferenze, sondaggi immediati, refe-
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rendum permanenti”. “Forse non tutti hanno notato - precisa Sallustio Salvemini - che sulle calcolatrici di uso comune esiste un tasto “random”: provate e ogni volta otterrete un numero a caso. Questo dimostra la possibilità elettronica di estrarre a sorte grandi quantità di numeri. Se associo ad ogni numero un nome, con il mio Pc posso fare in pochi secondi un programma randomizzatore”, con il quale - la “randomcracy” - eliminare, finalmente, il “politico professionista, causa principale della cancrena” che sta uccidendo l’Italia. Un’opera cruda - questa di Sallustio Salvemini -, che fa inorridire e rivoltare chi la legge. I fatti che l’Autore raccoglie e squaderna son noti a tutti, ma posti, così, in sequela e con un linguaggio privo di enfasi e anatemi, provocano finalmente quelle reazioni che la cronaca politica ormai non da più, perché quasi giornaliere gocce di un veleno che addormenta. Un’esaustiva nota a questo libro, la troviamo in appendice a un’altra interessante opera di Cosmo Giacomo Sallustio Salvemini: “Epuloni e Lazzari” (Europa Edizioni, 2019, pagg. 296, € 19,90) ed è a firma di Michelangelo Abbate Trovato. “Salvemini - egli scrive, tra l’altro - si spinge ad identificare il meccanismo stesso, consolidato, di “elezione”, con “corruzione”. Da oltre un secolo, egli afferma, nella forma mentis di molti elettori il voto è considerato alla stregua di una merce da dare in cambio di un favore, di una o più cene, di generi alimentari, di denaro, di un posto di lavoro, di qualche appalto di opere pubbliche. Ecco il tallone d’Achille della democrazia di tipo elettoralistico messo in luce nel libro. Il voto di scambio ha determinato la degenerazione del sistema democratico perché coloro che sanno di poter manovrare grossi pacchetti di voti li vendono come una merce qualsiasi, ottenendo in cambio favori dagli eletti”. “È Pericle che Salvemini valorizza - continua Abbate Trovato -, estrapolando dalla sua teoria democratica la tesi del sorteggio (random), l’unico metodo che renda credibile una elezione”. A noi, che amiamo l’ironia, verrebbe voglia, comunque, di interpretare la “random-crazia” come parente stretta di “randello-crazia”, perché forse più adatta ed efficace per le spalle di tanti loschi, ingordi caimani e ladri che da decenni spolpano l’Italia, che Cosmo Giacomo Sallustio Salvemini, in Epuloni e Lazzari, definisce giustamente “canaglie”; solo che lui scrive trattarsi di “alcune canaglie al Potere”, mentre noi sappiamo che sono legioni, per non dire la quasi totalità; gente incolta e parolaia, che si annida nelle istituzioni esclusivamente per interesse; che non si intende di niente, né di storia, né di geografia, né di letteratura, musica e arte in
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genere, né tantomeno di medicina e di economia; che non sa quanto costa un litro di latte, né una pagnotta; che non ha mai lavorato; che ha trascorso (si fa per dire) la clausura per la pandemia in appartamenti di lusso o in villa, ignorando i milioni che l’hanno dovuta subire in piccoli ambienti di pochi metri quadrati senza terrazze e senza balconi, con bimbi e tutto nella quasi follia, disperati e abbandonati: gli Epuloni, loro, appunto e i Lazzari, gli altri. Pomezia, 28 agosto 2020. Domenico Defelice
DOMENICO DEFELICE LE PAROLE A COMPRENDERE Prefazione di Sandro Gros-Pietro, Postfazione di Emerico Giachery - Genesi Editrice, 2019, pagg. 138, € 14,50 Le parole a comprendere di Domenico Defelice è un libro che presenta diverse sfaccettature e registri verbali, passando dalla teologia alla cruda cronaca e attualità ed è diviso in tre sezioni che, all’ apparenza, non hanno un filo ispiratore comune. In realtà, i tre momenti dell’opera, segnano il passaggio che segnala uno iato tra il canto alla vita e alla sua vocazione ideale e religiosa e la cruda realtà di un mondo e una società che nella quotidiana attualità, ignora le parole che ci aiutano veramente a comprendere il senso profondo del significato dell’ esperienza vissuta come valore assoluto e poetico. La prima sezione del libro riecheggia le parole del Genesi e l’incipit giovanneo del Verbo primigenio: “Fiat!/Fu la parola a riempire/ il vuoto tenebroso degli abissi/ e a dargli la luce”. Grazie alla parola l’uomo ha potuto superare il suo stato di ferinità e la Parola è la luce che guida il nostro cammino. Il poeta, perciò, è consapevole che l’uomo è chiamato a continuare la creazione e a vivere nella luce fino a quando l’inverno non si risolverà nel “mare dell’eterno”. Il libro, dunque, ha una profonda vocazione religiosa e tutta la raccolta non è altro che un dispiegare la vita del poeta che ha vissuto, i suoi affetti, l’incanto della natura con un approccio religioso e creativo che distingue gli umani dalle altre creature che pure partecipano al canto meraviglioso del creato. La sua esperienza sollecita una vocazione olistica, un panteismo quasi spinoziano, anche se Defelice ha piena consapevolezza del trascendente e a suo nipote Valerio chiede: “Quale sarà il tuo ruolo/nel teatro del mondo/non è dato sapere;/esso, però, sta scritto già dal Fiat/ nei disegni divini”. Per scoprire la propria vocazione umana bisogna, però, privile-
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giare Amore e Libertà che sono il concime che ci alimentano perché noi siamo “alberi di Dio” e dobbiamo assumere la consapevolezza che “chi ama non urla”. Il poeta, ormai, presagisce la morte e canta: “Conosco strade dove urla l’abbandono, /non passa il netturbino/ e per l’igiene attendono la pioggia.// Muri vecchi, scrostati/ sui quali avanza del muschio la cancrena/ e i rossi dei mattoni son ferite/ antiche che non si cicatrizzano.// Solo la primavera le consola/ con qualche fiore effimero/ che sempre indossa splendidi velluti/ e leggera la brezza le percorre/ come una carezza”. La cancrena che obnubila la vita va ricercata nell’agire politico di tanti che sporcano la nostra autentica socialità, nella mercificazione del corpo e nei pagliacci che ciclicamente compaiono sul palcoscenico e recitano uno stereotipato canovaccio di finzione, tradendo, appunto, la Luce e la Parola. Vincenzo Gasparro
LUCIANO NANNI ANIMA TRIPLICE Racconti, Editrice C.L.E.U.P., 2020 , Pagg. 270, € 15,00 Anche se il libro ha per sottotitolo "Racconti", è un diario. L'Autore si racconta, parla di sé, soprattutto, dei suoi genitori, della sua vita studentesca, dei suoi amici, di quanto gli è accaduto durante i suoi anni giovanili fino ai tempi attuali, delle sue avventure (queste sono tante!), della politica in genere, della società, dei comportamenti degli uomini, del modo di intendere le diverse religioni (la cattolica in particolare), della fede, della natura, fonte di ispirazione di poeti, artisti... Gli episodi non hanno tutti la medesima lunghezza: alcuni sono dei veri e propri racconti lunghi e potrebbero essere denominati 'romanzi brevi'. Il linguaggio, forbito, è ricco di termini propri, ognuno dei quali spiega il particolare di un tutto. Gli argomenti sono originali: ogni racconto esula, e per quanto riguarda i personaggi e per quanto riguarda le vicende, dalle comuni narrazioni stereotipate. In alcuni episodi sembra di leggere "Il nome della rosa" di Umberto Eco, o di altri autori che trattano argomenti simili ai suoi, specialmente quando s'incontrano scene che destano un certo timore (es. quando si attraversano grotte o si entra in locali ambigui o si ha a che fare con esseri piuttosto anormali). Vi ricorre spesso il mare, nei suoi moti, nei suoi colori, nel suo fascino. Tante le donne che vi si incontrano, quasi tutte belle e giovani. E alle donne è legato l'amore, più sensuale che sentimentale (esigenza fisica, passeggera), motivo di distra-
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zione. Abbondano le descrizioni di ambienti, persone, luoghi, episodi che inducono a proseguire nella lettura per conoscere il finale che, alle volte, si conclude d'improvviso e lascia un po' delusi. I vari episodi, o racconti, sono tutti avvincenti, interessanti, anche se l'Autore, nella Prefazione, afferma che "i migliori sono 'Al centro di Dio' e 'Notturno'". Siamo d'accordo con lui, ma ogni pagina del libro si legge con piacere e 'curiosità', la stessa curiosità (o spregiudicatezza?) che egli (l'Autore) mette in atto quando deve compiere percorsi, o affrontare esseri, che mettono in pericolo la sua vita e lasciano il lettore col fiato sospeso. Antonia Izzi Rufo
CLAUDIO VANNUCCINI TERRA AMARA Vertigo Edizioni, 2012, Pagg. 137, € 12,90 “Malgrado qualunque pensiero o ricordo, mai prima d’ora, adesso che ho ritrovato le mie radici, mi è stato chiaro quanto siamo piccoli e insignificanti al cospetto della natura”. Questo dice Marco, protagonista del romanzo Terra amara di Claudio Vannuccini. La storia comincia dal fallimento del matrimonio di Marco e Alessia, un fallimento doloroso, che porta la donna ad andare via da casa, poi l’incontro con un vecchio amico che la convince a trascorrere qualche giorno nella sua casa a L’Aquila. Alessia sfoga la sua sofferenza mista a rabbia e si confronta con l’amico che la sostiene. Intanto nella città ogni giorno si avvertono scosse di terremoto; è un fatto quotidiano, tanto che gli abitanti quasi non ci fanno caso. La lettura del romanzo è veloce e dinamica, grazie anche all’alternanza di capitoli ambientati nel presente e altri nel passato; difatti in alcuni è Marco che parla in prima persona e racconta il viaggio verso la città dell’Aquila, descrivendo tutto ciò che vede con continui flashback. Nelle parole del protagonista maschile c’è una soffusa tristezza che fa presagire una fine funesta; negli altri capitoli, invece, si narra la storia avvenuta molti anni prima dal punto di vista di Alessia e nei quali si capisce ciò che è successo nei giorni antecedenti il terremoto del 6 aprile, che devastò la bellissima cittadina. “Sono le tre e trenta circa. […] Ogni parola non ha più senso, ogni significato è solo un bisbiglio confuso. Un attimo, un rumore violento, un fragore chiuso già in un ricordo che resterà all’infinito negli occhi, nei cuori”. Claudio Vannuccini è un autore sensibile ai problemi sociali e a tutti quei fatti che accadono senza il dovuto risalto; attraverso il suo stile diret-
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to, chiaro e semplice, il romanzo rivive un momento che ha sconvolto l’Italia intera, narrando una storia delicatamente umana e commovente. Il pathos si avverte dall’inizio, è tra le parole, nelle pause create dalla sua penna, fino ad arrivare a un climax che è inevitabile; una storia come tante altre, che diviene simbolo di una città in cui hanno perso la vita tantissime persone. Lo scrittore riesce a scandagliare l’animo umano con le sue fragilità, le sue paure, mettendo in risalto l’ importanza della vita umana e rendendo quegli attimi meschini, che hanno portato la città a sgretolarsi, ancora più miserabili. Nella premessa Vannuccini scrive: “Un momento di paura racchiude un pezzo di storia. Dolori, emozioni, istanti trascorsi in rapida successione, suggellati nell’incredulità di chi li ha visti passare. Quali parole usare, come descrivere e come trovare una linea da seguire per non cadere nel banale gioco della retorica, di una falsa avvilente costernazione. Ci sono parole dette e altre che non troveranno mai posto nella ragione, per comprendere il senso di una tragedia”. Questo è un romanzo che parla anche del senso di appartenenza al proprio paese; un legame sottile, quello con la propria terra che non si può cancellare e che, forse, non si dovrebbe tradire, vendendo la propria coscienza. Vannuccini ha pubblicato inoltre, nel 2008, il romanzo “Una Figlia di Nome Speranza” edito da Il Calamaio. Manuela Mazzola FRANCESCO D’EPISCOPO ANIMA Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2020, pagg. 60 In questa raccolta sono presenti le mille sfaccettature di un’unica anima, ossia quella di Francesco D’Episcopo, professore di Letteratura italiana, Critica letteraria e Letterature comparate presso il Dipartimento di Filologia moderna “Salvatore Basaglia” della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’ Università degli Studi di Napoli “Federico II”; è autore di molti saggi e volumi sulla letteratura italiana; è direttore e redattore di riviste nazionali e internazionali; ha inoltre vinto numerosi premi tra cui: I Murazzi di Torino, Emily Dickinson di Napoli, Pietro Carrera di Catania, La Ginestra di Firenze. Sono cinquantatré le poesie che compongono la silloge, in cui l’autore racconta se stesso, i suoi desideri, le sue speranze, le sue considerazioni. Versi a volte profondi, a volte leggeri, a volte velati di paura che dialogano fra loro, aspettando una risposta da Dio. “Vite perdute,/ disperse,/nei giorni che
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vanno/e non ritornano”. […] “Voglio sentirti accanto/per non essere solo,/per non essere ciò che sono,/per essere fino in fondo/quello che sarò”. Il poeta si esprime delicatamente, ma con vigore quando afferma che in questa realtà non si può essere fino in fondo se stessi, poiché siamo giudicati da un mondo che continua a inseguire i suoi perversi progetti di potere; rimane, allora, soltanto l’amore che ci aiuta a sopravvivere. D’Episcopo è un’anima inquieta e delusa delle tante brutture, infatti scrive nel prologo: La poesia, dove possiamo finalmente essere ciò che siamo, animali liberi e selvaggi, costretti a muoverci in un recinto limitato, addomesticati da una civiltà, che non ha mai avuto il coraggio di adottarci per quello che siamo: esseri inquieti e insoddisfatti, che cercano disperatamente un orizzonte in cui acquietarsi”. La sua è una poesia matura, ma solitaria e malinconica, soprattutto quando parla dell’indifferenza generale di fronte alla morte, difatti immagina il giorno in cui lui morirà e tutti gli altri andranno a lavorare, pensando a ciò che debbono fare. Nella postfazione Domenico Defelice afferma: “Che l’Anima sia la Poesia è dimostrato da questi versi che non sono mai superficiali, ma belli nella semplicità e nella essenzialità, privi di retorica o di fumose ricercatezze. Siamo di fronte a un continuo riflettere sul quotidiano e su tutto ciò che cade sotto i nostri occhi, che ci tocca interiormente, che fluisce leggero e ci commuove”. Il poeta è in fondo un sognatore che immagina e auspica un mondo vero a cui appartenere, rimanendo però se stesso perché l’importante è aver vissuto nell’illusione che tutto fosse eterno. Manuela Mazzola FRANCESCO D’EPISCOPO ANIMA Ed. Il Croco – I quaderni letterari di Pomezia Notizie, 2020 Quest’anno il primo premio del Concorso di Pomezia Notizie è stato assegnato a Francesco D’Episcopo. Il poeta ha al suo attivo una rilevante attività di operatore didattico. La sua formazione scientifica legata alle lettere e alla filosofia lo ha impegnato nella scrittura di numerosi volumi e saggi, serviti per altrettanti numerosi convegni. Anche nel prologo di questa silloge l’autore ci spiega il suo sentire e nelle liriche che lo compongono troviamo il suo accostamento alla vita. Egli si avvale di una struttura breve e compatta in modo che la sua voce arrivi diretta e semplice nel manifestare l’impatto che abbiamo con l’esistenza.
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Infatti, nei suoi versi è compreso tutto il percorso che intraprendiamo, dall’inizio alla fine. Con brevi accenni il poeta richiama la gioventù, gli amplessi, l’amore, il dolore, la vecchiaia e la morte. Ciò che si dipana tra le righe è la domanda che tutti ci facciamo: esiste l’anima? Siamo accompagnati da una parte spirituale o siamo solo materia che alla fine si decompone? Nella poesia “Giocando a nascondino” D’ Episcopo si rivolge a Gesù proprio per l’esigenza di capire dove sia collocata la sua presenza, visto che non si riesce a vederlo né a sentirlo: “Gesù, Gesù mio, dove sei, / dove ti sei andato a cacciare? / Ti ho cercato / e ti cerco ancora, / senza trovarti.”. Al poeta forse resta solo la parola, l’unica che lascia una traccia indelebile del vissuto e l’unica che sprigioni ciò che veramente sentiamo. La poesia dunque rappresenta l’anima che cerchiamo ed è la prova di quel Fiato che si discosta dalla materia e che ci accompagna da sempre e per sempre, come ben si evidenzia in “Salvataggio”: “Parole mie, / fatemi compagnia, / non lasciatemi naufragare / nella tempesta; prendetemi e portatemi / in un ormeggio, / prima di ripartire / verso altri marosi, altri orizzonti.”. Con questa raccolta, che esprime una profonda maturità, Francesco D’Episcopo ci ha regalato l’opportunità di farci riflettere su cosa siamo e perché viviamo. Laura Pierdicchi
ORO Storie arcane talvolta ha la Natura, segrete alchimie. Vedi: si addensano nebbie e brume ma i limoni s’indorano e gli aranci accendono le loro sfere. Vedi: già il gelsomino d’inverno s’ingemma ha la sua prima stella, già una nuova famiglia di gatti impazza sotto il fico spoglio. Anche Novembre austero ha dunque un suo sfarzo gentile, anche il mese malinconico ha il suo oro. Oro e foschie:
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strani equilibri ha la Natura, amabili bizzarrie. Ada De Judicibus Lisena Da Omaggio a Molfetta, Edizioni La Nuova Mezzina 2017.
D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE FESTIVALFILOSOFIA 2020 - Tra Modena, Carpi e Sassuolo le piazze, i palazzi, i teatri, i cortili ed i giardini sono in linea per ospitare il FESTIVALFILOSOFIA 2020, dedicato quest'anno a ricordare la figura e l'opera del grande filosofo Remo Bodei, definito il 'padre fondatore' dell'evento: ha per tema 'MACCHINE' ed i protagonisti, tutti importanti, si avvicendano in un presente sospeso ed inteso ad interpretare il rapporto tra l'esistente che è individuo in vita e l'esistente che è macchina in funzione. Reso possibile grazie al patrocinio della Commissione Nazionale Italiana per l'Unesco e la Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura, sotto l'Alto Patronato del Presidente della Repubblica e grazie all'impegno di tutti i membri del Consorzio per il Festivalfilosofia rappresentato oltre che dalle Municipalità coinvolte, anche dalla Fondazione Collegio San Carlo di Modena, la Fondazione Cassa di Risparmio di Carpi e la Fondazione di Modena, questo evento coinvolgerà importanti protagonisti per dar avvio ad oltre 140 appuntamenti ed a 42 'lectio' fatte da maestri del pensiero come, per citarne solo alcuni,
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F. Leoni ('Istinto'), E. Bianchi ('Maledizione del lavoro'), M. Cacciari ('Il lavoro dello spirito'), R. Esposito ('Macchinazione'), T. Pievani ('Imperfezione'), S. Veggetti-Finzi ('Corpo-protesi e dissolvenze dell'identità'), S. Natoli ('Manipolazione'), S. Forti ('Günther Anders e la questione della bomba'), S. Massini ('Elogio della vita dal vivo'), G. Mari ('Lavoro'), C. Sini ('Automa -L'uomo come macchina'), A. Oliverio ('Neurotecnologie'), M. Panarari ('Cyberpolitica'), U. Galimberti ('Uomo-macchina'), I. Dionigi ('Prometeo entra in città'), M. Recalcati ('Desiderio'), M. Doueihi ('Fiducia'), M. Ferraris ('Anima e automa'), M. Marzano ('Corpi-L'ideologia del potenziamento umano'), B. Carnevali ('La grazia delle macchine'), J. Schnapp, per la prima volta all'evento e tra i più oculati esperti di umanesimo digitale ('Umanoidi'), F. Bria, Presidente del Fondo Nazionale Innovazione CPD Venture Capital SGR ('Dati Intelligenza collettiva e infrastrutture urbane'), U. Curi ('Tecnica'), R. De Monticelli ('Un nonsoché di architettante e armonico'), oltre a tanti altri ancora che per ragioni di spazio non posso citare. Sostiene Daniele Francesconi, che da quattro anni dirige il Festivalfilosofia: “L'evento è un commosso omaggio al pensiero e alle opere di Remo Bodei sul tema delle Macchine”(fonte: Corriere della Sera, 15 settembre 2020, pag. 39). In rete il programma è ben dettagliato, con nelle differenti città Musica, Teatro e performance, Film e docufilm, Reading e conversazioni, Laboratori per tutti, Visite guidate e gli eventi nonstop Mostre e installazioni e Libri e dintorni, ad accogliere i partecipanti in presenza e a distanza lecita in tutta questa 'tregiorni' tra passato e futuro. Visto che non potrò partecipare, mi fido intanto del prof. Carlo Sini e del suo articolo La macchina vivente - Viene contrapposta al pensiero ma le dobbiamo l'evoluzione sociale, (ibid. pag. 38). Membro dell'Accademia dei Lincei, docente di Filosofia Teoretica alla Statale di Milano, ultraottantenne, ha puntato tutto sulle radici della lingua
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e dell'alfabeto greco, matrici d'ogni senso logico da dare alle parole, per poi approdare ad altri avventurosi lidi che formulino vincoli tra filosofia e scrittura, denunciando che il problema tra mente e macchina “… concerne la nostra mentalità corrente, pervertita da assunzioni conoscitive indebite ed erronee. In sintesi 'mechané significa in greco sia mezzo, rimedio, espediente, sia potenza o potere attivo...” Poi, da Cicerone via via fino a Marx, la sua sintesi chiarissima nel legame tra 'genius' e 'ingegno', protagonista attivo della produzione creativa, si fa oculata citazione tratta dal cap. XIII del I Libro del Capitale, che apre grandi anfiteatri umani di aspettative, rischi, fatiche, sofferenze e lotte, là dove la rivoluzione industriale detta all'uomo la regola e il ruolo “... 'di sorvegliare la macchina con gli occhi e di correggere gli errori con la mano'. Oggi anche queste funzioni tendono a esternalizzarsi nei robot e nelle macchine intelligenti. Occhi, mani e intelligente attenzione: da dove viene tutto ciò? In un passaggio prezioso all'inizio del capitolo citato, Marx osserva che 'la storia della formazione degli organi produttivi (cioè degli strumenti e delle macchine) dell'uomo sociale sono la base materiale di qualunque organizzazione della società' e aggiunge: 'come dice Vico, la storia umana si distingue dalla storia naturale perché noi non abbiamo fatto la seconda, ma abbiamo fatto la prima'. Quindi siamo di fronte a due 'storie' o a due processi. La prima storia è caratterizzata dalla evoluzione degli 'organi' naturali, cioè dai mezzi che garantiscono la sopravvivenza e la generazione (Darwin). Dall'altro, la storia sociale umana (Vico), caratterizzata dalle macchine strumentali che protendono, prolungano e potenziano gli organi naturali... Macchine naturali e macchine strumentali... Manca però una terza macchina. Assenza tanto palese quanto ostinatamente trascurata. Quella macchina che vorrei chiamare con la parola 'discorso' o che potremmo chiamare, per intenderci, 'macchina verbale' o 'macchina retorica'...” (ibid.) Come ben si evince dalla citazione del prof. Sini, il tedesco ebreo Karl Marx pesca da G.B. Vico, da Napoli (1668-1744) e va oltre, ben dentro alla futura alienazione di individui e di società, proprio in funzione del capitale e della sua accumulazione. La 'terza macchina', quella del 'discorso' e dell'incontro-confronto-polarità tra pensieri, discorsi e riferimenti agli eventi d'ogni tempo, sarà proprio disponibile e aperta a tutti, in rete come dal vivo e sui quotidiani d'informazione, perché le intersezioni evidenzino vie non di fuga ma di piena e piana percorrenza. Gli accidenti sono del re-
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sto presenti e prevedibili, in ogni percorso, anche in questi del 'discorso'. Oltre al ben profondo ed articolato contributo prismatico del prof. Carlo Sini, limpido pensatore scrupoloso e consequenziale alle premesse scelte come fondamenta dell'orientamento da seguire, ecco allora tra Modena, Carpi e Sassuolo gli appuntamenti da cui trarre, prima, durante e dopo il Festivalfilosofia 2020 tutti gli stimoli conoscitivi per fornire analisi e risposte di grande interesse e per interpretare i problemi del nostro tempo in contrappuntata, originale armonia. Ilia Pedrina Vicenza 16 settembre 2020 *** ANIMA, l’opera con la quale Francesco D’ Episcopo ha vinto il Premio Il Croco 2020, è apprezzata anche in Australia. Lo conferma Giovanna Li Volti Guzzardi, Presidente dell’Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori: ANIMA, del poeta, scrittore, professore, critico
letterario Dr. Francesco D’Episcopo, ha meritato l’importante 1° Premio de IL CROCO. Le stupende poesie sono un vero germoglio di stupefacenti emozioni; versi semplici e pieni di vita e il lettore ne rimane avvinto, il cuore gli sobbalza di mille emozioni. Leggiamo “AMICI” di pagina 56: “Amici miei, /scomparite troppo presto, / troppo in fretta, / lasciandomi sempre più solo / in questo mondo senza amore. / A volte, vorrei convocarvi/ nel sogno, per condividere/ una vita, fatta di tutto/ e di niente, ma carica di simpatia,/ di allegria, di cose da fare,/ prima che sia troppo tardi.” È la splendida poesia dell’ultima pagina, un dono prezioso dell’Autore ai suoi Amici, colma di puri sentimenti che regalano tanto amore. Tutte le poesie di D’Episcopo sono immagini reali, brevi ma ricche di fascino e di un afflato magico che le accarezza e le fa brillare. La poesia nasce spontanea nel terreno fertile della mente e del cuore del grande Poeta per far felici i
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suoi AMICI! AMICI, che anche in Australia l’ammirano, l’apprezzano e che tengono stretto al cuore questo magnifico dono, che resterà sempre esposto in libreria per tutti, frutto di una meravigliosa e prolifica anima, alla quale si augurano tanti successi e ogni bene. Melbourne, 6 – 9 – 2020 Giovanna Li Volti Guzzardi *** AALLELUIA! - Tanti consensi al nostro “Alleluia!” apparso a pag. 9 del numero scorso. Per l’importanza della firma, riportiamo solo il breve accenno che Corrado Calabrò ci invia da Roma il sette settembre scorso: “Molto espressiva, efficace e …sacrosanta la tua poesia, Domenico caro !” Ancora una volta, più d’uno ci suggerisce di raccogliere questi nostri frettolosi componimenti in volume, idea per noi assolutamente irrealizzabile. Alcuni ci ricordano il successo di Alleluia in sala d’armi Parata e risposta realizzato nel 2014 insieme al grande Rossano Onano; ma quelli erano risposte alle provocazioni dell’indimenticabile Amico! Grazie a tutti, comunque. D. Defelice *** PER ROSSANA ROSSANDA - Nella notte del 20 settembre a Roma è venuta a mancare Rossana Rossanda, 'LA RAGAZZA DEL SECOLO SCORSO', come lei ha amato definirsi in una scrittura autobiografia sorprendente ed avvincente, sulla quale dirò cose. Da lei è partito il mio interesse per gli scritti di Shlomo Sand, fino a spingermi ad incontrarlo a Marsiglia e ad Edimburgo, da lei ho investigato la sua grande amicizia con Michele Ranchetti, da lei parte e continua il mio strenuo lavoro su Luigi Nono; da lei i riscontri più schietti e sofferti con Enrico Berlinguer, durante il suo volontario esilio parigino. La riconoscenza per i suoi profondi contributi etico-politici e l'assiduo riscontro sulle sue opere edite sono e saranno le sponde di nuova vitalità da offrire al suo pensiero attivo così storicamente inradicato. Ilia Pedrina Vicenza, mattina del 21 settembre 2020
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LIBRI RICEVUTI AA. VV. - Are All Waiting to Unmask Ourselves/Stiamo Tutti Aspettando di Smascherarci Antologia Inglese-Italiano dei poeti cinesi: ZHANG Ye, DUAN Guang’an, ZHANG Zhi, CHEN Hongwei, TANG Shi, WU Touwen, CHENG Guo, LI Shangcehao, QIN Chuan, XU Chunfang, dei quali, nelle due bandelle, son riportate le foto a colori. Le traduzioni dal Cinese in Inglese sono di ZHANG Zhizhong e SHI Yonghao; le traduzioni dall’Inglese in Italiano - tranne due: Zhang Ye e Tang Shi, dovute a Lidia Chiarelli - sono di Domenico Defelice, al quale si devono pure tutti i comenti critici. Ed. The World Poets Quarterly (Chongqing City, P. R. China) e PomeziaNotizie (Pomezia, Italia), marzo 2020 - Pagg. 104, € 20. ** TITO CAUCHI - Profili Critici 2012 - Premio Nazionale Poesia Edita Leandro Polverini, Anzio. 163 Recensioni - A colori, in prima di copertina, “La nascita di Venere” di Sandro Botticelli e, in quarta, foto con Domenico Defelice, Concetta Cauchi, Bertilla Crosara Polverini, Tito Cauchi, Gianfranco Cotronei. Editrice Totem, 2020 - Pagg. 230, € 25,00. Tito CAUCHI, nato l’ 11 agosto 1944 a Gela, vive a Lavinio, frazione del Comune di Anzio (Roma). Ha svolto varie attività professionali ed è stato docente presso l’ITIS di Nettuno. Tante le sue pubblicazioni. Poesia: “Prime emozioni (1993), “Conchiglia di mare” (2001), “Amante di sabbia” (2003), “Isola di cielo” (2005), “Il Calendario del poeta” (2005), “Francesco mio figlio” (2008), “Arcobaleno” (2009), “Crepuscolo” (2011), “Veranima” (2012), Palcoscenico” (2015). Saggi critici: “Giudizi critici su Antonio Angelone” (2010), “Mario Landolfi saggio su Antonio Angelone” (2010), “Michele Frenna nella Sicilianità dei mosaici” (monografia a cura di Gabriella Frenna, 2014), “Profili critici” (2015), “Salvatore Porcu Vita, Opere, Polemiche” (2015), “Ettore Molosso tra sogno e realtà. Analisi e commento delle opere pubblicate” (2016), “Carmine Manzi Una vita per la cultura” (2016), “Leonardo Selvaggi, Panoramica sulle opere” (2016), “Alfio Arcifa Con Poeti del Tizzone” (2018), “Giovanna Maria Muzzu La violetta diventata colomba” (2018), “Domenico Defelice Operatore culturale mite e feroce” (2018), Graziano Giudetti, Il senso della poesia (2019). Ha inoltre curato la pubblicazione di alcune opere di altri autori; ha partecipato a presentazioni di libri e a letture di poesie, al chiuso e all’aperto. E’ incluso in alcune
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antologie poetiche, in antologie critiche, in volumi di “Storia della letteratura” (2008, 2009, 2010, 2012), nel “Dizionario biobibliografico degli autori siciliani” (2010 e 2013), in “World Poetry Yearbook 2014” (di Zhang Zhi & Lai Tingjie) ed in altri ancora; collabora con molte riviste e ha all’attivo alcune centinaia di recensioni. Ha ottenuto svariati giudizi positivi, in Italia e all’estero ed è stato insignito del titolo IWA (International Writers and Artists Association) nel 2010 e nel 2013. E’ presidente del Premio Nazionale di Poesia Edita Leandro Polverini, giungo alla quinta edizione (2015). Ha avuto diverse traduzioni all’estero. ** NATIONAL GEOGRAPHIC - Portogallo Luce e colori tra terra e mare - Collana Paesi del mondo - Fotografie a colori, spesso a tutta pagina; testo del volume di Paola Hazon; Pagg. 96, € 1,99. Ecco il sommario: Viaggio in Portogallo; I colori di Lisbona; Porto e Madeira; La natura selvaggia lusitana; Fede, potere e architettura; Il paradiso in nove isole; Borghi e città da non perdere; La porta d’Europa: l’Algarve; Non solo saudade. Gli altri numerosi volumi della collana usciranno al costo singolo di € 5,99. ** EMILIO SALGARI - Sandokan alla riscossa Romanzo illustrato da G. D’Amato - RBA Italia S. r. l., 2020, Pagg. 350, € 2,99. I restanti volumi della collana a € 9,99 ciascuno. Emilio Carlo Giuseppe SALGARI nacque a Verona il 21 agosto del 1862 da una famiglia di modesti commercianti; nel 1878 si iscrisse al Regio Istituto Tecnico e Nautico "P. Sarpi" di Venezia, ma senza ottenere la licenza. Come "uomo di mare" compì solo alcuni viaggi di addestramento a bordo di una nave scuola e successivamente un viaggio (probabilmente in qualità di passeggero) sul mercantile "Italia Una", che per tre mesi navigò su e giù per l'Adriatico, toccando la costa dalmata e spingendosi fino al porto di Brindisi; ma il Capitano Salgari non smise mai di credere e narrare le sue avventure. Nel 1883 inizia a collaborare con il giornale "La Nuova Arena", della sua città Verona, sulle cui pagine apparve a puntate il suo primo romanzo, "Tay-See", stampato successivamente (dopo aver subito varie modifiche alla trama) con il titolo "La Rosa del Dong-Giang"; nell'ottobre dello stesso anno escono le prime puntate di "La Tigre della Malesia". Inizia così la sua fortunata e tormentata carriera di scrittore che annovera al suo attivo circa ottanta romanzi e un numero ancora imprecisato di avventure e racconti. Nel 1889 il suicidio del padre: primo di un'impressionante catena formata dallo stesso scrittore nel 1911, dal figlio Romero nel 1931 a 33 anni, dal fi-
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glio Omar, testimone e interprete della leggenda paterna, nel 1963. Nel 1892 si sposa con Ida Peruzzi (che il marito chiamerà affettuosamente per tutta la vita "Aida", come l'eroina di Verdi): un matrimonio, questo, a suo modo riuscito (ma la moglie morirà internata in manicomio); nello stesso anno la famiglia Salgari, ampliatasi con la nascita della piccola Fatima (la primogenita, seguiranno poi tre maschietti: Nadir nel 1894, Romero nel 1898 e Omar nel 1900), si trasferisce a Torino, dove lavora per l'editore Speirani, casa editrice per ragazzi; nel 1898 l'editore Donath lo convince a trasferirsi a Genova ed è qui che stringe amicizia con Giuseppe "Pipein" Gamba che sarà il suo primo grande illustratore. Sono anni buoni, interrotti da un nuovo trasferimento a Torino, nel 1900. Le condizioni della famiglia si fanno precarie, nonostante l'incessante lavoro per mantenere un rispettabile decoro borghese; rompe il contratto con Donath e passa a Bemporad (per cui, dal 1907 al 1911 scrive 19 romanzi). Il successo, specialmente tra i ragazzi, continua, diversi titoli raggiungono le 100.000 copie, anche se la critica ignora la sua produzione. Il collasso nervoso e il ricovero della moglie sono il colpo di grazia per un uomo stremato. Scrive tre lettere, ai figli, agli editori, ai direttori dei giornali torinesi e si toglie la vita il 25 aprile 1911. La sua opera tuttavia è rimasta viva a nutrire con tutto il suo fascino la fantasia di generazioni di ragazzi e non. (fonte: www.emiliosalgari.it >biografia). Ricordiamo ancora alcuni suoi romanzi: La riconquista di Mompracem; La Regina dei Caraibi; Il Re del mare; Capitan Tempesta; Le due Tigri; Sulle frontiere del Far-West; Sull’atlante; Il Re dell’Aria; Il Leone di Damasco; La Scotennatrice; Il Tesoro del Presidente del Paraguay; La sovrana del campo d’oro; Straordinarie avventure di Testa di Pietra; Gli ultimi filibustieri; La rivincita di Yanez; La capitana dello Yucatan; Il Fiore delle Perle; Il Bramino dell’Assam; Il capitano della Dijumna; Le Selve Ardenti; I minatori dell’Alaska; I Figli dell’Aria; La perla sanguinosa; La caduta di un impero; I solitari dell’oceano; La montagna di luce; Le stragi delle Filippine; La costa d’avorio; La crociera della Tonante; I Robinson italiani; La gemma del fiume rosso; La città del Re lebbroso; La stella dell’ Auracania; Le pantere di Algeri; Il Continente Misterioso; I predoni del Sahara; Avventure fra le Pellirosse; Una sfida al Polo; Le figlie dei faraoni; Al polo nord; Cartagine in fiamme; Un Dramma nell’ Oceano Pacifico; La giraffa bianca; Sul Mare delle Perle; L’Uomo di fuoco; Le Meraviglie del 2000; La Favorita del Mahdi; La scimitarra di Budda; Il Re della Montagna; Nel paese del ghiacci; Il tesoro della Montagna Azzurra; Le aquile della steppa; Gli
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scorridori del mare; La Stella Polare e il suo viaggio avventuroso; I Briganti del Riff; Il tesoro misterioso; Al Polo Australe in velocipede; I Pescatori di Trepang; Il Corsaro Nero; I misteri della jungla nera; I pirati della Malesia; Le tigri di Mompracem; Il figlio del Corsaro Rosso; Il figlio del Corsaro Nero; i corsari delle Bermude; Alla conquista di un impero; Jolanda, la figlia del Corsaro Nero eccetera. ** FABIO DAINOTTI - Poesie controcorrente e racconti in versi - In copertina, a colori, “Signora con cappello”, di Federico Zandomeneghi (1895); Prefazione di Paolo Ruffilli, Postfazione (Fughe dell’io e “tracce mnestiche” nella poesia neocrepuscolare di Fabio Dainotti) di Carlo Di Lieto Biblioteca dei Leoni, 2020, pagg. 72, € 10. Fabio DAINOTTI è NATO A Pavia, ma vive a Cava de’ Tirreni (Salerno). Poeta e saggista, è presidente onorario di Lectura Dantis Metelliana ed è condirettore dell’annuario di poesia e teoria “Il Pensiero poetante”. Ha pubblicato: L’araldo allo specchio (prefazione di Francesco D’Episcopo, 1996), La ringheria (con nota di Vincenzo Guarracino, 1998), Ragazza Carla Cassiera a Milano (2001), Un mondo gnomo (2002), Ora comprendo (prefazione di Luigi Reina, 2004), Selected Poems (2015), Lamento per Gina e altre poesie (Premio I Murazzi, Torino 2015), Requiem For Gina’s Death And Other Poems/Lamento per la morte di Gina (2019).
TRA LE RIVISTE LETTERATURA E PENSIERO - Semestrale di Scienze Umane diretto da Giuseppe Manitta - Via Pietramarina-Verzella 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) E-mail: giuseppemanitta@ilconvivio.org - Riceviamo il n. 4, aprilegiugno 2020: Vincenzo Guarracino (Un “imbroglio di versi” molto serio. Due inediti testi “puerili” leopardiani); Luigi Reina (Carducci, a memoria di “scolaro”); Romano Manescalchi (Una nuova ipotesi riguardo la redazione dell’Epistula XIII di Dante); Vittorio Capuzza (L’eredità di Dante); Maria Rosaria D’Uggento (Isabella di Morra la poetessa lucana); Eloisa Guarracino (Senso di ritorno e circolarità in Giulia Niccolai); Asteria Casadio (L’inedito discorso (…) della guerra contro il turco di Giovangirolamo de’ Rossi); Francesco Caputo (Abitare poeticamente il mondo (Martin Heidegger) come progetto di autoformazione (Selbstbildung) ); Nicola Prebenna (La poesia di Corrado Calabrò); Gianluca Sorrentino (Il graphic novel: tra scettici-
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smo e innovazione); Otilia Dorotea Borcia (L’ ascensione di Cristo nella pittura italiana dal Trecento al Seicento); Vittorio Capuzza (Bernardo Bellini, Leopardi e “l’impazienza della lima”); Angelo Manitta (Guerra di Sicilia (1718-1720) - I documenti. “Diario dal campo cesareo appresso Francavilla” (Battaglia del 20 giugno 1719)); Gandolfo Cascio (Giacomo Leopardi, Sonetti in persona di ser Pecora fiorentino beccaio); Francesco D’ Episcopo (Marino Biondi, Storie di Renato Serra. Saggi e omaggi al lettore di provincia); Corrado Calabrò (Carlo Di Lieto, L’”io diviso”); Carmine Chiodo (Renato Fiorito, Andante con pioggia); Mauro Carrera (Giorgio Moio, Tra sogno e finzione); Carmine Chiodo (Maurizio Soldini, Lo spolverio delle meccaniche terrestri); Francesca Luzio (Roberto Pazzi, Verso Sant’Elena); Eliza Macadan (Fabrizio Dall’Aglio, Culori si alte culori); Maria Vadalà (Angelo Manitta, Miti e leggende dell’Etna). * FIORISCE UN CENACOLO - mensile di lettere e arti fondato nel 1940 da Carmine Manzi, diretto da Anna Manzi - 84085 Mercato S. Severino (Salerno) - E-mail: manzi.annamaria@tiscali.it - Riceviamo il n. 4-6, aprile-giugno 2020, con poesie e scritti vari con le firme, tra le tante, di: Maria Cristina Iavarone Mormile, Anna Aita, Aldo Marzi, Isabella Michela Affinito, Antonia Izzi Rufo eccetera. * L’ATTUALITÀ - mensile di società e cultura fondato e diretto da Cosmo Giacomo Sallustio Salvemini - Via Lorenzo il Magnifico 25 - 00013 Fonte Nuova (RM) - E-mail: lattualita@yahoo.it - Riceviamo il n. 7/8, luglio-agosto 2020, con argomenti diversi e numerosissime firme: Cosmo Giacomo Sallustio Salvemini, Giulio Tarro, P. Nazzareno Corradini, Giorgio Bosco, Lisa Biasci, Gerardina Russoniello, Anna Maria Ballarati, Alessandro Massimi, Eugenio Morelli, Luciano Masolini, Stefano Valente, Francesca Pagano, Maurizio Guerra, Fiorella Ialongo, Federica Sciorilli Borrelli, Sofia Bartalotta, Pier Luigi Lando, Emiliano Federico Caruso, Antonio Pallottino, Susanna Pelizza, Ilaria Rossi, Flora Battiloro, Angela Libertini, Maria Luisa Marcilli, Michelangelo Abbate Trovato, Mirko Riccelli, Irma Latina, Vincenzo Maio, Clarissa Pompei, Elena Andreoli Grasso, Velio Cilano Gabriele Zaffiri, Carmen Galoppo, Sonia Cozza, Vincenzo Calò, Isabella Michela Affinito, Aurora Simone Massimi, Daisy Alessio, Silvia Iovine eccetera. * IL CONVIVIO - Trimestrale fondato da Angelo
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Manitta e diretto da Enza Conti - via Pietramarina-Verzella 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) E-mail: angelo.manitta@tin.it; enzaconti@ilconvivio.org - Riceviamo il n. 81, aprilegiugno 2020, con in prima di copertina “Ragazza che suona il flauto”, olio su tela di Sebastiano Mendola. Segnaliamo: l’intervista di Angelo Manitta (Dialogando con Luigi Mazzella tra “pensiero libero” e Covid-19); l’intervista di Francesco D’Episcopo (Maria Gargotta e il suo romanzo Memorie d’autunno); Giuseppe Manitta (Gerardo Masuccio Fin qui visse un uomo) e le firme, a diverso titolo, di: Corrado Calabrò, Manuela Mazzola, Antonia Izzi Rufo, Enza Conti, Adriana Repaci, Franca Alaimo, Isabella Michela Affinito eccetera e poi le rubriche “La vetrina delle notizie” e “Concorsi Letterari”. * L’ORTICA - pagine di informazione culturale, direttore responsabile Davide Argnani - via Paradiso 4 - 47121 Forlì - E-mail: orticadonna@tiscali.it Ecco il sommario del n. 24/125, ottobre 2019 marzo 2020: “A proposito di: Annie Vivanti”, di Claudia Bartolotti; “Equipollente: MARGARET Atwood”, traduzioni di Marilena Fonti; “La coda della guerra”, di Dauro Pazzini; “Domenico Pisana tra naufragio e speranza”, di Marco Scalabrino; Inediti di Silvia Saviotti; “Poeti e libri Segni e segnali dal nuovo millennio” a cura di Davide Argnani; Tam tam; “Pirandello poeta: Angelismo e doppio nella poesia di Luigi Pirandello”, di Carlo Di Lieto; “La porta del mare”, di Davide Argnani; I libri e l’Ortica; Concorsi. * POETI NELLA SOCIETÀ - Rivista letteraria artistica e di informazione diretta da Mariangela Esposito, redattore capo Pasquale Francischetti via Arezzo 62 - 80011 Acerra (NA) - e-mail: francischetti@alice.it - Riceviamo il n. 101/102, luglio/ottobre 2020, la cui prima di copertina, a colori, è dedicata a “Giovani d’oggi”, olio su tela (30 x 60) del pittore e poeta Vittorio “Nino” Martin, del quale troviamo nota biografica e foto a pag. 2. Tra le tante firme, segnaliamo quelle di Isabella Michela Affinito, Gabriella Maggio (che si interessa della silloge “Gabbiani”, di Mariagina Bonciani), Paolangela Draghetti. * L’ERACLIANO - organo mensile dell’Accademia Collegio de’ Nobili - fondata nel 1689 -, diretto da Marcello Falletti di Villafalletto - Casella Postale 39 - 50018 Scandicci /(Firenze) - Riceviamo il n. 270/272, luglio-settembre 2020, dal quale segnaliamo: “Nella luce della fede (Beata Maria Cristina di Savoia, regina delle Due Sicilie)” di Marcello
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Falletti di Villafalletto; “Un pittore per l’affiche”, di Gian Giorgio Massara; “La nostra identità Essere italiani ai tempi del Covid-19”, di Mariagrazia Orlandi; “Il monaco che sapeva far quadrare il cerchio (Dom Nicola Maria Sangirardi OSB Oliv.)”, di Fra Bernardo Maria (Marcello) Falletti di Villafalletto OSB. Oliv.; eccetera. Nella rubrica “Apophoreta”, a cura di Marcello Falletti di Villafalletto, troviamo la firma della nostra collaboratrice Manuela Mazzola. * ILFILOROSSO – semestrale di cultura, responsabile Valter Vecellio, direttore Luigina Guarasci – via Marinella 4 – 87054 Rogliano (Cosenza) – email: info.ilfilorosso@gmail.com – Riceviamo il n. 68, gennaio-giugno 2020, in copertina, a colori, un acrilico di Lella Buzzacchi. Saggi di: Annalisa Saccà, Pierluigi Pedretti, Giuseppe Leonetti; poesie di: Enzo Ferraro, Franco Araniti, Lella Buzzacchi, Franco Curto, W. H. Auden, Angiolo Bandinelli, Pina Oliveti, Antonio Avenoso, Enza Capocchiani, Leonardo Pelagalli, Pasquale Emanuele; prose di: Ada Celico, Pierpaolo Manfredi; recensioni di: Gianluca Bocchinfuso, M. V. Basile, Gaetano Marchese, E. Biemmi. Tra l’altro, il bando del Premio Nazionale di Poesia e Narrativa “Francesco Graziano”, IX Edizione 2020. Fascicolo di pagg. 64, € 10,00.
IL CROCO I Quaderni Letterari di
POMEZIA-NOTIZIE Il numero di questo mese è dedicato a: VENEZIA È UN VESTITO DI SALE di Isabella Michela Affinito
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3 GRAFICHE DI DOMENICO DEFELICE
1 – “Attenta al predatore!” 2 – “Coppia tamarra” 3 – Erba in collina a primavera
AI COLLABORATORI Inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione) preferibilmente attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è gradito un contributo volontario da inviare intestato a: Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 N076 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA