Pomezia Notizie 2020_12

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50ISSN 2611-0954

mensile (fondato nel 1973) Direzione e amministrazione: Via Fratelli Bandiera, 6 - Tel. 06/91.12.113 - 00071 POMEZIA (Roma) - Fondatore e Direttore responsabile: DOMENICO DEFELICE – e-Mail: defelice.d@tiscali.it – Attività editoriale non commerciale (art. 4, D.P.R. 26.10.1972 n. 633 e successive modifiche) - Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 213/93 del 23/5/1993 - La collaborazione, sempre gratuita, in parte è libera, in parte è per invito. Ogni autore si assume la responsabilità dei propri scritti - Manoscritti, fotografie e altro materiale, anche se non pubblicati, non vengono restituiti - É ammessa la riproduzione, purché se ne indichi la fonte. Per ogni controversia, foro competente è quello di Roma.

Anno 28 (Nuova Serie) – n. 12

- Dicembre 2020 -

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Attore, comico, regista, doppiatore, cantante, mattatore, romano. È morto il 2 novembre 2020

GIGI PROIETTI STRAORDINARIO PERSONAGGIO DELLO SPETTACOLO di Isabella Michela Affinito

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RIVILEGIO di pochi (chissà) di morire proprio il giorno della nascita è accaduto al grande interprete italiano teatrale, cinematografico e televisivo e quant’altro, Gigi Proietti, nato ottanta anni fa a Roma, da Romano Proietti, d’origini umbre, e da Giovanna Ceci, di Leonessa in provincia di Rieti. In precedenza ci fu il caso eclatante del divinpittore urbinate, Raffaello Sanzio (1483-1520), nato e morto il 6 aprile, di cui quest’anno si è celebrato l’anniversario dei cinquecento anni dalla sua scomparsa nel lontanissimo Rinascimento. Concomitanze, prodigi, parallelismi, multiformità, trasformismo, Luigi Proietti è stato


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All’interno: Alessandra Trifari, La fortuna di Caravaggio, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 5 Lorenzo Mullon, Da una trincea di vento, di Lia Giudici, pag. 9 Quando Seneca pagava in dracme, di Giuseppe Leone, pag. 12 Paul Valéry, Charmes, di Elio Andriuoli, pag. 15 Margaret Atwood, Il racconto dell’ancella, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 17 In dialogo con Oreste Palmieri, di Ilia Pedrina, pag. 20 Liliana Porro Andriuoli e Bruno Rombi, di Domenico Defelice, pag. 22 Francesco D’Episcopo, Anima, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 24 Giacomo Zanella traduce Jean Racine, di Ilia Pedrina, pag. 27 Zhou Duanzhuang, di Domenico Defelice, pag. 31 We Are All Waiting to Unmask Ourselves, di Manuela Mazzola, pag. 35 Il mio sabato, di Leonardo Selvaggi, pag. 37 Dediche, a cura di Domenico Defelice, pag. 41 Notizie, pag. 60 Libri ricevuti, pag. 65 Tra le riviste, pag. 66

RECENSIONI di/per: Marina Caracciolo (Poesie controcorrente e racconti in versi, di Fabio Dainotti, pag. 44); Tito Cauchi (Si chiamava Claude Monet, di Isabella Michela Affinito, pag. 45); Tito Cauchi (Venezia è un vestito di sale, di Isabella Michela Affinito, pag. 46); Tito Cauchi (Sulla poesia, di Aldo Marchetto, pag. 47); Domenico Defelice (Verso lontani orizzonti. L’itinerario lirico di Imperia Tognacci, di Marina Caracciolo, pag. 49); Elisabetta Di Iaconi (Verso lontani orizzonti. L’itinerario lirico di Imperia Tognacci, di Marina Caracciolo, pag. 50); Giuseppe Giorgioli (Venezia è un vestito di sale, di Isabella Michela Affinito, pag. 51); Manuela Mazzola (Sguardo d’artista, di Gabriella Frenna, pag. 52); Manuela Mazzola (Insolite composizioni, di Isabella Michela Affinito, pag. 53); Manuela Mazzola (Venezia è un vestito di sale, di Isabella Michela Affinito, pag. 53); Ilia Pedrina (L’anima e Dio sono una cosa sola, di Meister Eckhart, pag. 54); Ilia Pedrina (Una donna, di Renata D’Annunzio Montanarella, pag. 55).

Inoltre, poesie di: Isabella Michela Affinito, Elio Andriuoli, Mariagina Bonciani, Corrado Calabrò, Rocco Cambareri, Domenico Defelice, Ada De Judicibus Lisena, Luigi De Rosa, Salvatore D’Ambrosio, Elisabetta Di Iaconi, Béatrice Gaudy, Giovanna Li Volti Guzzardi, Mario Lodi, Maria Margotta, Wilma Minotti Cerini, Gianni Rescigno, Umberto Saba

tutto questo e di più, probabilmente perché nato in un giorno ‛speciale’, il 2 novembre giorno commemorativo di tutti i defunti, Egli ha assorbito l’influenza, non nefasta, del dio governatore del regno ultraterreno, Plutone, inteso per le sue sorprendenti capacità metamorfiche, le forze interiori che possono essere creatrici o disgregatrici, sempre altalenanti tra il concetto della vita e quello della

morte. Gigi Proietti è stato un uomo riservato e al contempo straordinario personaggio dello spettacolo, dallo sguardo magnetico con gli occhi in continua sovreccitazione, non si sa se il suo punto di forza sia stata la voce (o meglio le migliaia di voci che possedeva) o, appunto, la vitalità dei suoi occhi capaci d’esprimere, prima dell’interpretazione vera


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e propria, i numerosi stati d’animo dei personaggi che, nel corso della lunga carriera recitativa, Proietti ha reso immortali, raccogliendo fin dal principio il testimone del retaggio artistico di colui che fu attore e autore drammatico italiano, anch’egli nato a Roma, Ettore Petrolini (1886-1936). Il giovane Proietti stava studiando per diventare avvocato, ma lasciò l’Università ‟La Sapienza” di Roma a sei esami dalla laurea, dedicandosi con entusiasmo invece al corso di mimica del Centro Universitario Teatrale di Giancarlo Cobelli, dove circolavano personaggi già famosi del cinema e dello show. Intanto, per mantenersi agli studi, Gigi suonava e cantava nei locali notturni rientrando alle quattro del mattino, a conferma delle straordinarie energie plutoniane indirizzate già verso l’Arte. Sentiva di esibirsi perché lo Scorpione è fatto per le situazioni inverosimili, complicate, stravaganti, dove la contraddizione è l’anima di tutto e lui è stato il tipico uomo-Scorpione dai mille volti, dall’intelligenza spiccata, ambiguo, impenetrabile, imprevedibile, mai in pace con sé stesso e alla continua ricerca della perfezione – ricordiamo che attori internazionali di questo ottavo Segno zodiacale sono stati Richard Burton, il difficile Alain Delon (vivente) e la grande attrice francese Sarah Bernhardt. La notturnità – ambiente plutoniano per eccellenza – è stata la sua ‛ribalta’ quando si esibiva nei night-club della capitale, che poi è diventata proscenio vero e proprio nell’ambito teatrale, cinematografico, televisivo per Proietti dalla fine degli anni ’60 in poi, del secolo scorso, prima sul piccolo schermo in seguito conteso sia da registi italiani che d’oltreoceano per la realizzazione di film importanti, tra cui quello famoso Febbre da cavallo del 1976, esilarante commedia italiana di Steno (Stefano Vanzina) con la partecipazione di Enrico Montesano (che gli fece da spalla), Catherine Spaak, Mario Carotenuto, Adolfo Celi, impersonando il ruolo di un inguaribile scommettitore di corse di cavalli, soprannominato Mandrake, sempre senza un soldo in tasca e per questo inesauribile inventore di truffe

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pur di racimolare qualche gruzzolo per continuare a scommettere spostandosi da un luogo all’altro dell’Italia, a seconda delle gare equine. All’interno del film, Proietti vestirà anche la divisa del vigile urbano per girare la pubblicità di un whisky (sempre per guadagnare qualche soldo con cui arrischiare) con la recita di uno scioglilingua per l’occasione detto in vari modi fino a rimanerne ‛impigliato’ suscitando così la rabbia del regista e il fallimento dello spot, per una comicità bizzarra che col tempo lo ha reso unico. Da questo successo è scaturito il seguito con l’altra pellicola omonima, aggiungendo La mandrakata, nel 2002 di Carlo Vanzina. Abituato ad un ritmo di vita al di sopra della media, estenuante non per lui, Gigi Proietti aveva il fascino e l’abilità di fondere il dramma con la risata per diventare un grottesco piacevole a chiunque e passava da un settore e l’altro della recitazione grazie al suo forte senso d’avventura artistica – è stato l’Ulisse della recitazione – mai sazio di ruoli. Quando voleva essere elegante, impeccabile, ha fatto Gastone col cilindro e il frak; quando cantava in romanesco gli bastava una camicia sblusata e il pantalone nero; quando ha messo a dura prova il suo istrionismo è stato Leopoldo Fregoli nella miniserie TV del 1981; quando è stato San Filippo Neri nell’apparizione televisiva del film del 2010, di Giacomo Campiotti, dal titolo Preferisco il Paradiso, ha indossato l’abito religioso con garbata semplicità e grande immedesimazione; quando volle impersonare la giustizia è stato anche, per il piccolo schermo, Il maresciallo Rocca, che gli ha dato la possibilità di ricevere la cittadinanza onoraria, nel settembre 2013, della città di Viterbo, adibita per tutte le puntate della serie televisiva a set cinematografico. Diciassette anni fa, in occasione della scomparsa dell’altro incommensurabile attore di Roma, Alberto Sordi, Gigi Proietti compose un sonetto in vernacolo romanesco, in cui con la fantasia ha intravisto il grande attore, di vent’anni più grande di lui, fermarsi a mezza strada tra il regno terrestre e quello celeste per voltarsi indietro a


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guarda’ sta fiumana de persone, nel giorno delle sue esequie a Roma. Insomma, il Maestro Proietti se n’è andato è vero, ma per tutti quelli che l’hanno conosciuto di persona o attraverso anche solo i suoi infiniti ruoli interpretativi, Egli continua a stare in mezzo a noi per la sua mastodontica personalità che da sola riempiva qualsiasi scena. Dando vita ad un laboratorio-scuola per giovani attori, laddove pullulava degrado e tracce di tossicomani, lui ha ‛forgiato’ talenti come Enrico Brignano, Flavio Insinna, Chiara Noschese, Rodolfo Laganà, Francesca Reggiani, Sveva Altieri e molti altri ancora. Da oggi quando si nomina la parola Teatro essa è sinonimo inevitabile di tutto ciò che è stato e ad esso ha dato, Gigi Proietti! Isabella Michela Affinito “La Roma di Gigi “ Omaggio a Luigi Proietti (1940-2020), in arte Gigi. Uomo d’altissimo spessore artistico recitativo, è stato cantante mimo comico attore di cinema televisione e teatro regista monologhista e quant’altro, sulla scia del grande Ettore Petrolini, di cui lui è stato considerato l’erede. Se n’è andato il giorno del suo ottantesimo compleanno, il 2 novembre 2020, giorno su cui amava scherzare tra il drammatico e il divertimento da lui frammischiati all’infinito da vero ʽmago’ delle scene.

Se Roma adesso fa finta di non piagne è perché fa finta che non sei morto, che non sei andato lassù per litigare con Nerone! È una Roma che non si riconosce… e che fatica pensare ad un teatro senza la tua voce, la tua mimica facciale di livello esponenziale, tutti avevano una lacrima al tuo funerale! Un giro lungo quanto una tangenziale per

Pag. 4 salutare tutti i romani e così sia: Gastone, Leopoldo Fregoli, San Filippo Neri da Petrolini in poi i tuoi personaggi con le tue cinquantamila voci. Ciao Gigi, non te ne andare davvero sennò la città eterna finisce sul serio e non mi dire che ora non sei contento d’aver scorto migliaia d’adoratori col fazzoletto in mano quasi fosse morto un parente, nonno e padre degli italiani cresciuti coi tuoi monologhi manipolanti gli stati d’animo d’ognuno. Ridevi con gli occhi senza sosta fibrillanti anche per una sola barzelletta intonando il linguaggio universale romanesco e se per caso non sei davvero morto l’unica cosa è fa finta per non piagne! Isabella Michela Affinito

Domenico Defelice: Scudo, stemma (biro, 2020) ↓


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ALESSANDRA TRIFARI LA FORTUNA DI CARAVAGGIO NELL’OTTOCENTO NAPOLETANO di Liliana Porro Andriuoli

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ELLA collana «Il Merito di Napoli» dell’Editore Rogiosi è apparso un libro, La fortuna di Caravaggio nell’ Ottocento napoletano, che costituisce la tesi con la quale Alessandra Trifari ha conseguito la laurea in “Storia dell’arte moderna” presso l’Ateneo Federico II del capoluogo campano. Il libro inizia con una ricerca sull’importanza del Caravaggio nel tempo in cui visse, sia in Italia che nel resto d’Europa, evidenziando l’autrice «il profondo e talvolta crudo naturalismo [di questo pittore] nella resa del reale; l’uso assiduo di vigorosi contrasti chiaroscurali [da lui praticati]; la nuova dignità della figura umana e della natura morta [nei suoi quadri; nonché le sue] ambientazioni fosche e suggestive». E l’autrice, a conferma di quanto ha appena esposto, riporta il giudizio di due studiosi, Giorgio Cricco e Francesco Paolo Di Teodoro, i quali, in Itinerario nell’arte: da Giotto all’età barocca1, scrissero: «Caravaggio diventa insieme al Carracci, il secondo grande punto di riferimento per la pittura del Seicento. Perseguitato e vilipeso in vita assumerà, dopo morto, il ruolo di inascoltato profeta di una pittura povera e nuova, sviluppatasi al di fuori delle Accademie, non viziata dai condizionamenti ideologici e alfine capace di essere bella perché vera” e, per la prima volta, non più “vera perché bella”». La ricerca della Trifari prosegue poi soffermandosi sull’attività del Caravaggio nel capoluogo partenopeo, dove soggiornò e dove dipinse alcune delle sue tele più famose, come le Sette opere di Misericordia, presso il Pio Monte della Misericordia di Napoli, e la Fla-

1 Zanichelli, Bologna, 2004-2006.

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gellazione di Cristo, attualmente presso il Museo di Capodimonte. A queste e ad altre sue tele si ispirarono i pittori detti «caravaggeschi» che a Napoli operarono sin dalla prima metà del ‘600, come Artemisia Gentileschi, Massimo Stanzione, Giovanni Battista Caracciolo, Mattia Preti, Giuseppe de Ribera (detto lo Spagnoletto); tutti pittori che, grazie all’insegnamento del Caravaggio, seppero dare quella nuova impronta alla pittura napoletana, che, attraverso i secoli, è giunta sino a noi. Evidente è pure l’influenza che Caravaggio esercitò su taluni grandi scultori e architetti, come il Bernini, che tuttavia preferì dichiararsi discepolo di Annibale Carracci piuttosto che del Merisi, inviso purtroppo a molti per la sua vita «sregolata», e macchiata persino dal delitto. Certo è che Caravaggio aveva superato il Rinascimento e il Manierismo, per pervenire al Naturalismo, che tanto lo contraddistingue. Ma nonostante ciò la sua importanza non fu compresa da molti dei suoi contemporanei,


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troppo legati alla tradizione e sviati dalla ruvidità del suo carattere, scontroso e stravagante. Soltanto nel Novecento la sua opera sarà apprezzata e valutata nel suo giusto valore e gli verrà data la dovuta attenzione sia da parte della critica che del pubblico. Come ricorda, infatti, la Trifari nel libro in esame, bisognerà aspettare il XX secolo, o forse più precisamente bisognerà attendere gli studi di Roberto Longhi, valente storico dell’arte, affinché le opere di un artista di grande valore, come il Caravaggio, «per anni abbandonate, ignorate, disperse nella grande confusione di opere spurie», possano essere «finalmente catalogate, stimate e messe in mostra per ottenere il meritato plauso fino ad allora impedito». Al fine di realizzare il proprio intento, che è quello di analizzare la «fortuna artistica del Caravaggio nell’Italia del XIX secolo, ponendo [in particolare] l’accento su Napoli», la Trifari inizia la sua esposizione con una breve panoramica sulla situazione artistica nella città partenopea, ricordando che nell’Ottocento era nata a Napoli «La Scuola di Posillipo», della quale fecero parte grandi «vedutisti», come Anton Sminck Van Pitloo e Giacinto Gigante, a cui si unirono i pittori «Realisti», che fecero della ricerca del «vero» il loro vessillo. Nacquero poi i così detti «Macchiaioli», con la loro variegata pittura, i più noti dei quali furono Gioacchino Toma e Domenico Morelli. Si erano in tal modo create le condizioni per una vera comprensione dell’arte caravaggesca, che influenzerà pittori quali Michele Cammarano, uno dei maggiori del secondo Ottocento. Dapprima «vedutista», il Cammarano ripiegò successivamente sul «verismo sociale», specie dopo la sua esperienza della guerriglia contro il brigantaggio, fatta in seguito al suo arruolamento nella Guardia Nazionale Italiana. Chiara testimonianza di questo periodo sono alcune sue tele artisticamente più importanti, quale ad esempio Il covo dei briganti (1877), che rappresenta «una precisa e violenta accusa ai disumani metodi terroristici dell’esercito

italiano contro i sospettati di supportare il brigantaggio, uomini, donne o bambini che fossero». Il tirocinio portò il Cammarano dapprima a Firenze, dove frequentò il Caffè Michelangelo, e successivamente a Roma, dove dipinse Ozio e lavoro e Incoraggiamento del vizio (1865), mentre nel 1869 fu a Venezia, dove dipinse Caffè in Piazza San Marco, una tela che divenne presto molto celebre. Di lui sono da ricordare anche La carica dei Bersaglieri a Porta Pia (1872) e la Battaglia di Dogali (1888), commissionatagli dal governo italiano. Cammarano fu certamente un pittore dalla vita difficile, mai compreso nel suo giusto valore. Per meglio intenderlo è opportuno leggere quanto scrissero di lui due pittori e critici d’arte: Paolo Ricci2, il quale scoprì nei suoi quadri le «radici secentesche, in parte caravaggesche» e Franco Girosi3, il quale mise in luce la sua capacità di «ben definire la massa delle ombre», che accentua la tragicità dei suoi quadri. Si vedano a tale proposito anche tele quali Rissa a Trastevere (o, come il quadro all’epoca era altrimenti chiamato, Terremoto a Torre del Greco) e l’appena citata «battaglia di Dogali», dalle quali traspare una visione cupa della vita che richiama la crudezza di certe scene che ricordano tele molto celebri del Caravaggio, quali Cena in Emmaus e Morte della Vergine. Tra coloro che a Napoli nell’Ottocento accolsero l’insegnamento del Caravaggio non vanno dimenticati anche alcuni scultori, come Vincenzo Gemito, un trovatello che seppe emergere e farsi strada in virtù del suo talento. Gli fu compagno, nella bottega di Emanuele Caggino, il pittore Antonio Mancini. Acuto osservatore della realtà, Gemito si fece presto notare per certi ritratti in creta di fanciulli dei «bassi», quali Lo scugnizzo, Il fiociniere e Il Malatiello. Vennero poi i busti di Giuseppe Verdi, Domenico Morelli, Francesco Paolo Michetti e sculture come quelle del Pescatore,

2 In Arte e artisti a Napoli, Guida, Napoli, 1981. 3 In Michele Cammarano, Istituto nazionale

L.U.C.E., Roma, 1934.


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L’acquaiolo, Maria la zingara, Carmela, ecc. Certo è che alla maturazione artistica di Gemito non fu estranea la lezione caravaggesca di alcune opere, come in particolare quelle della Galleria Doria Pamphilj di Roma, quali Riposo durante la fuga in Egitto e La Maddalena. Ma sono una testimonianza caravaggesca anche alcuni disegni, quali Il profilo di zingarella e Bambina addormentata, che si rifanno all’Amorino dormiente del Caravaggio. È però da sculture quale Il giocatore di carte che meglio si manifesta, col gioco delle luci e delle ombre, l’ascendenza caravaggesca di Gemito. Il secondo scultore che Alessandra Trifari ci propone quale testimone della «fortuna di Caravaggio nell’Ottocento napoletano» è Achille d’Orsi, nato a Napoli nel 1845 e ivi morto nel 1929, il quale viene considerato il «caposcuola del Naturalismo italiano». Tra le sue opere più celebri figura la scultura I Parassiti, attualmente al Museo di Capodimonte4. Si tratta di un gruppo scultoreo rappresentante due patrizi romani ubriachi, espressione violenta del brutto, le cui fattezze colpiscono per il forte realismo, che genera disgusto, ma che fa anche pensare; così come fa molto pensare Proximus tuus, una statua che rappresenta un contadino seduto a terra, come istupidito dal lungo lavoro. Scrisse il Ricci5 che tale figura costituisce «una metafora dolorosa della condizione di vita dei contadini meridionali». Osserva a sua volta la Trifari che ciò che accomuna «la figura scontrosa e inquieta di d’Orsi a quella di Caravaggio» è «anzitutto la drammaticità» e «la capacità delle loro opere di suscitare turbamento ed attrazione allo stesso tempo», anche se «in Caravaggio non esiste […] quell’intento di denuncia sociale così prepotente che invece risalta in d’Orsi». La conclusione, secondo la Trifari, è che sia

Caravaggio che d’Orsi «restarono, dal principio alla fine, fieri battaglieri del vero nelle rispettive epoche». L’ultimo artista che la Trifari inserisce tra i caravaggeschi dell’Ottocento a Napoli è Antonio Mancini (Roma 1852 – Ivi 1930), il quale, a Napoli, frequentò l’Istituto di Belle Arti ed ebbe per compagni Vincenzo Gemito e Michele Cammarano e fu anche amico di Francesco Paolo Michetti. Mancini è noto in particolare per tele quali Lo scugnizzo su fondo rosso (1868); il Prevetariello (1870); Dopo il duello (1872). Visse a Parigi, dove conobbe Manet e Degas. Di lui scrisse Arturo Lancellotti6: «Egli mira soltanto a fare una pittura sana e forte che, per sapienza di toni e di rapporti, emuli il vero»; il che lo accosta non soltanto a Velásquez, Rembrandt e Franz Hals, ma specialmente a Caravaggio, per l’emergere delle figure dall’oscurità dello sfondo. Partecipò con successo alla Biennale di Venezia del 1920, durante la quale vendette molti quadri ad alto prezzo. Tra le sue opere del primo periodo napoletano vanno ricordate Testa di donna (1866) e Bacco fanciullo (1874), che subito richiama alla mente il Bacco caravaggesco degli Uffizi. Ma le sue ascendenze secentesche si scoprono anche in altre opere quali Ragazzo col porcellino d’India (1905) e L’uomo dal mantello nero (1829). Per concludere va detto che lo studio di Alessandra Trifari su La fortuna di Caravaggio nell’Ottocento napoletano è valso, secondo quanto sopra rilevato, a mettere in luce aspetti non ancora indagati dell’arte ottocentesca, che attendevano di essere studiati e per i quali ella ha dato un non piccolo contributo. Il suo lavoro è inoltre stato condotto con serietà e rigore; il che le ha consentito di pervenire a concreti e convincenti risultati: nel che sta il suo indubbio merito. Pregevole appare inoltre questo libro dal

4 Va per la precisione ricordato che al Museo Nazionale di Capodimonte si trova il modello de I parassiti in gesso patinato a finto bronzo, mentre il modello in bronzo è oggi custodito nella Galleria d’Arte Moderna di Firenze.

5 op. cit. 6 In Antonio Mancini, Istituto nazionale L.U.C.E., Roma, 1931.


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punto di vista editoriale, corredato com’è da numerose illustrazioni a colori che accompagnano il testo, agevolandone la lettura attraverso il confronto tra la pagina scritta e quella in cui campeggia l’immagine. Liliana Porro Andriuoli

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È uscito - presso la Genesi Editrice – via Nuoro 3, 10137 Torino - il volume di racconti

ALESSANDRA TRIFARI: LA FORTUNA DI CARAVAGGIO NELL’OTTOCENTO NAPOLETANO (Rogiosi Editore, Napoli, 2018, € 14,00)

SENZA POESIA La parola non canta in questa notte orfana di luna non sente i palpiti del sogno senza la luce diafana nel buio. La parola tace in questa notte d’ombre, cerca un foglio, bianco come luna, che risvegli il cuore. Maria Gargotta Napoli

Il libro, che supera le 200 pagine, prezzo di copertina 12 €, può essere prenotato anche su internet: http://www.genesi.org ; e-mail: genesi@genesi.org

C’était là bas... Era laggiù. Il sole era azzurro sotto il gran pino e i deliziosi meli I fiori del prato volavano come farfalle nei salti gioiosi dei cani C’era da noi tutto un panorama che apparteneva alle nostre strade radicate dall’occitano in mille anni di poesia di smalto di porcellana Paese di trovatori e di poveri villani che la cultura tramandata di bocca in bocca e l’intelligenza elevavano talora alla saggezza Poesia (senza titolo) di Béatrice Gaudy (pubblicata su Pomezia-Notizie, settembre 2020, pag. 19). Traduzione dal francese di Marina Caracciolo

Scrive l’Editore: “Ho letto i 21 racconti, brevi, ma incisivi, movimentati, pungenti, diversificati in un ampio repertorio di occasioni che riguardano sia la vita vissuta sia la storia passata sia il sogno e la fantasia, ma sempre scritti con garbo appropriato, anche se connotati da un ritmo incalzante e corsivo (o corrosivo?). Tutti insieme formano un ricco mosaico rappresentativo della personalità di un uomo alacre sognatore onesto e straordinariamente combattivo, ovviamente in senso positivo: dalla parte della giustizia, della libertà e dell’uguaglianza, nel tentativo quasi impossibile di fare circolare aria nuova, per poi scoprire che il sentimento del soffoco è per lo più un condizionamento psicologico che ci creiamo nella nostra mente. Addirittura un filare di rose, a seconda di chi lo impianta, può crearci un sentimento di claustrofobia oppure al contrario può indurci a gioire di più della vita quotidiana.” Sandro Gros-Pietro


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LORENZO MULLON DA UNA TRINCEA DI VENTO di Lia Giudici

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A raccolta poetica di Lorenzo Mullon, “Da una trincea di vento”, Moretti&Vitali è incorniciata da scritti di persone note; Lella Costa ne scrive infatti la prefazione, “Miracoli a Milano (per chi li riconosce)” e la postfazione “La sapienza di un poeta ambulante” è scritta da Paolo Lagazzi. La dedica è rivolta all’amico di una vita, Ernesto Ciorra. Paolo Lagazzi e Lella Costa hanno conosciuto Lorenzo Mullon ai “Giardini Pubblici Indro Montanelli” di Milano, uno dei suoi due luoghi di lavoro, quando abitava ancora in quella città; l’altro era il Parco Sempione. Per ambedue l’incontro, dettagliatamente descritto nei loro due testi, fu fecondo, come lo fu per me, e pure nel mio caso “galeotto” fu quel luogo, i “Giardini Pub blici di Porta Venezia”, come vengono ancora oggi chiamati dai milanesi e come molti vorrebbero che tornassero a esserlo anche ufficialmente. “Scusi, scusi, a Lei piace la poesia?” Tra il nostro primo incontro e l’ultimo nel 2009 intercorsero quattro anni e in questo lasso di tempo decidemmo entrambi, senza consultarci, di lasciare Milano e trasferirci in due città adagiate su specchi d’acqua. Questo dato di fatto rese necessario scambiarci i numeri di telefono per rimanere in contatto e tenerci informati sull’evoluzione di questa nostra decisione. Nel 2018 venni quindi a sapere che la casa editrice Moretti&Vitali aveva deciso di pubblicare le sue poesie, scegliendole tra le migliaia scritte su libretti che lui stesso stampava, creandone la copertina con cartoncini colorati, e che a noi interlocutori offriva a un “prezzo poetico”, liberi eravamo di fissare quale fosse. La raccolta si compone di tre parti, la prima “Io non sono io”, la seconda, la più corposa, “Abbracciare il cielo” e terza e ultima “Senza lasciare traccia”.

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Lungo queste tre parti si snoda la personalità di un essere umano che aldilà delle apparenze, delle cose appariscenti, vuole scoprire la profonda essenza della vita: “amo gli angoli nascosti/quelli che non trovi in primo piano/misteriosi come le ultime pagine dei libri/dove si alza il muro della fine/in cui batte il cuore vero delle cose (pag. 113). La ricerca però comporta prove difficili, la più temibile il confronto con una parte di sé estremamente critica: “sono io l’unico traditore di me stesso/io che mi sono imbarcato in avventure contrarie/solo per dire sono migliore di voi/non potete immaginare quanto dolore ho provocato/io che mi do la caccia da sempre/ho slegato i cani della maledizione/e ho guidato i pugni contro la mia faccia/sono stato io a lasciar perdere tutto/a volermi uccidere/ a strisciare invocando il mio io..” Questa poesia a pag. 13 apre la raccolta, un’apertura direi drammatica, ma già qui, come in qualsiasi “Bildungsroman” che si rispetti, in questo caso in chiave poetica, ci sono degli indizi che fanno presagire che il poeta riuscirà a non essere sopraffatto dalle


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avversità che la vita gli contrappone, infatti la poesia continua nel seguente modo: “...a scoprire le orme dei miei passi dentro di me/a trovare una traccia profumata/e poi un bagliore/io a restare incantato/davanti all’albero della mia schiena in fiamme/io a creare di notte/un mondo di luce dal nulla/cambiando i colori del cielo...”, ma la chiusa ci suggerisce che la battaglia sarà ancora molto lunga: “...e a chiedere sconvolto ai miei occhi/rovesciati verso me stesso/chi sono io” Ho voluto trascrivere l’intera poesia perché in nuce sono presenti alcuni dei leitmotiv che verranno affrontati nei versi successivi. Le orme dei passi che lo condurranno verso la fine della sofferenza sono scoperte all’interno di sé stesso, aldilà della situazione problematica si esperiscono comunque profumi e bagliori, la sua schiena, che è ancora in fiamme, viene paragonata a un albero, un rimando alla natura che è una delle cifre di questa raccolta; il poeta ne rimane incantato e riesce, dal nulla e negli abissi della notte, a far nascere la luce, cambiando i colori del cielo, dimostrando quindi una fiducia estrema nel futuro, come si evince anche dalla poesia a pag. 128: “quando irrompono/ le campane/nella strada deserta/è subito chiaro/che il nostro è/un destino di festa”. L’equilibrio al quale il poeta tende viene espresso bene con la poesia a pag. 96: “tra una poesia e l’altra/il mare trova il suo equilibrio/l’onda prende la giusta distanza/il bosco s’incendia qui/e rinasce dietro la collina/un gheppio/osserva le aquile/mille chilometri più a nord/un’eco/fa girare la testa/secoli dopo”. Le cose succedono e a volte si armonizzano da sole, le distanze fisiche e temporali vengono annullate. Nella poetica di Lorenzo Mullon la natura gioca un ruolo fondamentale, come ho già avuto modo di accennare: “Ho fatto spazio dentro di me/piano piano sono entrati/la radura/il grande faggio/il lago e il suo promontorio/e la poiana/e i ghiri/e il tasso/le montagne/gli orizzonti/le isole/i mari/e i continenti/Sul mio collo gira/l’intero pianeta” (pag. 117).

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Pure nella seguente poesia - tra l’altro inserita da Pearson Italia tra le nove poesie autobiografiche classiche e contemporanee più rappresentative, trovandosi così il poeta ambulante in compagnia di Edgar Lee Masters, Wislawa Szymborska, Chiara Carminati, Umberto Saba, Giuseppe Ungaretti, Charles Baudelaire, Valerio Magrelli, Aldo Palazzeschi - si evince la compenetrazione della sua persona con un elemento naturale: “Sono l’oceano in cui si riversano/i fiumi e i raggi del sole/e la pioggia/e quando mi colpiscono i fulmini/trovo rifugio nelle mie profondità/Ma di notte, dopo la mareggiata/la superficie/è un’immensa finestra/da cui ammirare/le stelle” (pag. 122). L’uomo supera le avversità sapendo che passeranno e dove necessario è solo immergersi in sé stessi, in questo caso l’azione attiva che ci viene richiesta è la ricerca di questo rifugio interiore; la poesia successiva invece esprime la centralità dell’essere umano affinché le cose succedano: “è il nostro respiro a muovere il vento/siamo noi a far tremolare le stelle/dalle nostre mani crescono le montagne/e si aprono gli oceani (pag. 107), ma è l’ultimo verso della poesia a indicare la strada per far nascere qualcosa di nuovo, il confronto con l’altro “se ci guardiamo negli occhi nasce un nuovo universo” e anche semplici moscerini possono aiutarci in questo senso: “se i moscerini/finiscono nell’occhio/è perché ci vedono un infinito dentro/che noi neanche/immaginiamo” (pag. 101). Lorenzo Mullon ha lasciato Milano per trasferirsi a Venezia e lo ha fatto dando credito a un sogno. Nella sua raccolta poetica Venezia è l’unico toponimo che viene direttamente menzionato e precisamente in tre poesie, a pagg. 24, 53 e 123. Nella prima il poeta riferisce dell’invasione delle alghe nere “una dea misteriosa/cresce tra le isole di Venezia…” Nella seconda illustra gli effetti che questa città ha su di lui “prima o poi/se stai a Venezia/si aprono i canali nel petto/entra una marea di sale…”, nella terza omaggia la luna: “l’ultima delle isole di Venezia è la luna/che trascina l’orizzonte verso


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il cielo/raccoglie il mare in una vertigine/o lo rovescia/in uno specchio”. Il “sogno” invece “inonda” i primi due terzi della raccolta, è il suo file rouge. Siamo ancora agli inizi e il poeta è alle prese con il suo processo di identificazione e “...il sogno è infranto…” (pag. 15), ma a pag. 19 già si intravede, nella realtà ancora pesante, qualcosa di positivo “…tirato per i capelli/tra la realtà/e la forza dei sogni che mi sollevano e mi sfiniscono/…”. Altre nove poesie in successione contengono questo vocabolo e il concetto si fa sempre più lieve, più soave, incastonato in scenari naturali d’incanto; i versi di pag. 97 al sogno imprimono una svolta molto plastica e contemporaneamente introducono il tema del silenzio, che il poeta esprime in modo del tutto originale: “non voglio il silenzio/voglio stare in silenzio per ascoltare i rumori del mondo/che mi tengono vivo/l’odore di marcio che mi sveglia/la punta di un sasso che taglia il piede/il rosso del sangue che fa sognare/voglio fremere nel silenzio/farmi investire dal silenzio/per dar fuoco al sole che ho dentro”. Sono versi di grande intensità e rimandano al desiderio del poeta di non vivere in una torre d’avorio, ma di restare in contatto con il mondo, perché solo così i propri talenti possono essere espressi pienamente. E non solo i talenti, ma anche l’amore: “per volare come un aquilone/l’amore ha bisogno di/qualcosa di sottile/che lo trattenga/e di qualcuno/con i piedi/per terra” (pag. 72) Ormai sono giunta quasi alla fine di questa mia recensione. Vorrei solo aggiungere che nella raccolta non mancano versi che incitano all’azione, a prendere in mano la propria vita, ad assumersi le proprie responsabilità, anche perché in fondo ne vale la pena: “.../Anche noi temiamo l’oscurità/eppure non fermarti/non ritornare sui tuoi passi/ogni tremore porta/con sé un dono/di colpo accende/tutte le stanze segrete/… (pag. 31); “slaccia slaccia/va a piedi nudi/senti la terra/apri il corpo come un libro/striscia le pagine sull’erba/sporcale di verde/… (pag. 112); “sgranate i sassi, aprite le

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pareti/cercate nei fiori più delle api/…/.../tuffatevi nel fiume/bagnatevi davvero, oltre ogni limite/entrate nelle montagne/dimenticate il corpo/diventate un’altra cosa/create nuove lingue/scavate fino a trovare il cielo/piangete un oceano intero/partorite fiori mai visti/cambiate colore/alzatevi sulle cime degli alberi/accendetevi/che il sole sembri uno scherzo/e tenetelo tra le mani” (pag. 93). Questa impresa titanica è forse resa possibile da ciò che viene descritto nei versi terzo e quarto, da me appositamente “oscurati”?: “.../guardatevi negli occhi/fino a sparire uno dentro l’altro/…”. Chi ha il coraggio e la forza di fare questo, può fare anche tutto il resto? La raccolta si chiude con la personificazione di un “oltre” non identificabile, incessantemente e instancabilmente cercato dal poeta “altrove”, e che invece si presenta a lui personalmente: “pensavo che fosse oltre la sabbia del mare/oltre la luce del sole//ma un oltre è arrivato qui/sta salendo le scale/si tuffa nella stanza e la riempie/è come una musica/se ne va/senza lasciare traccia”. Il processo di fusione con lo stesso senso dell’esistenza tutta si è forse definitivamente compiuto? A ognuno di noi la libertà di attribuirgli la nostra personale interpretazione, aldilà del significato che Lorenzo può trasmettere. A fine pandemia sarà possibile chiederlo a lui direttamente e condividere la magia dei suoi versi, andandolo a cercare tra le calli veneziane dove gira proponendo i suoi libretti. Lia Giudici

SE MORISSERO TUTTI I POETI Se morissero tutti i poeti sarebbero mute le parole e non canterebbero i cieli gli alberi il mare i venti e neppure degli uccelli i gorgheggi risvegliati dal sole. Gianni Rescigno Da Il vecchio e le nuvole, BastogiLibri, 2019


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QUANDO SENECA LATINO PAGAVA IN DRACME di Giuseppe Leone ERCHÉ mai Seneca, ch’era un filosofo di scuola stoica, saldava i suoi debiti con moneta epicurea? Basta leggere le sue Lettere a Lucilio e quanto gli tornasse utile quel cambio, è presto detto. Lo spiega il filosofo stesso, scrivendo così nella dodicesima epistola del I libro: “Tu dirai, che cosa hai tu di comune con un filosofo di

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un’altra scuola? Ciò che è vero è mio: continuerò a somministrarti i pensieri di Epicuro affinché quei tali che giurano sulle parole degli altri e non giudicano le dottrine in sé, ma secondo l’autore, si convincano che i princìpi veramente buoni sono di dominio pubblico”. E in un’altra lettera, la quattordicesima del II libro, ritornando sullo stesso argomento, Seneca rincara la dose: “E che importa conoscere l’autore? egli, qualunque sia, ha parlato per tutti”, per cui, sempre a Lucilio, in una successiva epistola di quel libro, scrive: “Non devi assolutamente ammirare la mia generosità: ancora sono largo di ciò che appartiene ad altri. Ma perché mai dissi “appartiene ad altri”?

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Qualunque bel pensiero, di chiunque sia, è mio”. Seneca scriveva queste cose, tra il ’62 e il ’65, quando si era ritirato ormai a vita privata a causa delle intemperanze di Nerone, per raccogliersi in se stesso e coltivare la sapienza approfondendo quelle meditazioni intorno alla virtù, alla saggezza, alla vera felicità, alla precarietà della vita, alla morte. Ma non solo quelle, di massime epicuree ne distribuirà altre, come questa per esempio: “Se vuoi rendere Pitocle veramente ricco, non devi accrescere le sue ricchezze, ma limitare i suoi desideri” (lettera 21, II libro), un pensiero che farebbe individuare in questo Seneca ispirato da Epicuro, oltre che un profeta di certo socialismo tra XIX e XX secolo, anche un antesignano di letteratura comparata, se comparatista è colui che “costruisce la propria identità attraverso il confronto”. Tanto, che Epicuro, eroe liberatore dell’ umanità dalle paure degli dei e della morte per Lucrezio; campione di mitezza e di serenità per Virgilio; di equilibrio per Orazio, diviene espressione di saggezza per Seneca. Cosa che l’intellettuale latino non avrebbe mai potuto immaginare, se non attestandosi sul tema dell’alterità, in questo caso facendo appello al sapiente greco, che gli consentiva di portare la sua ricerca sopra un fecondo andirivieni di io-noi. Lo fa, seppur non accettando la dottrina di Epicuro in toto, riconoscendo l’autore quando è nel vero, quando può verificare che in quelle sue massime vi abbia preso stanza la scienza. Quanto, poi, Seneca fosse moderno ai suoi tempi, si può capire confrontandolo con certo


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Cicerone delle Tuscolane, anch’egli impegnato a commentare Epicuro, ma per confutarlo e rigettare la sua dottrina tra quelle iniziative esoteriche e settarie, fino ad affermare che “nessuno prende in mano Epicuro e Metrodoro, tranne i loro seguaci”. Seneca, invece, continua a saccheggiare Epicuro, meravigliandosi che Lucilio possa ancora chiedergli “perché mai riporti molte belle massime dal pensatore greco e non piuttosto dai filosofi della sua setta”; o, si intestardisca a ritenere che queste siano sentenze proprie di Epicuro, e non di dominio pubblico. Il fatto è che il filosofo latino veneri le scoperte della sapienza, a tal punto, che a lui piace farle proprie come se fossero un’eredità che proviene da molti antenati, soprattutto durante i tre anni conclusivi della sua vita, quando, non avendo più impegni pubblici, egli poté e volle dedicare tutto il suo tempo a questo colloquio con gli uomini: soprattutto con i contemporanei e con i posteri. “Per questo scopo – scriverà - mi sono appartato e ho chiuso le porte di casa, per poter giovare a più uomini (di prima). Nessun giorno trascorre per me nell'ozio; rivendico allo studio parte delle notti; non mi concedo al sonno, ma vi soccombo, e costringo gli occhi che mi si chiudono stanchi per la veglia, a continuare nel lavoro. Mi sono ritirato non soltanto dagli uomini, ma anche dagli affari e, in primo luogo, dai miei affari. Ora tratto gli affari dei posteri, per essi scrivo qualcosa che possa loro giovare … Mostro ad altri la retta via, che troppo tardi, stanco dei miei errori, ho conosciuto”. E quando Nerone gli intimerà di uccidersi, questa ricerca dell’essenziale spinge Seneca sino al punto di dichiarare che vorrebbe, se fosse possibile, comunicare direttamente con l’interlocutore eliminando persino il mezzo proprio dell’uomo, la parola: “se fosse possibile - scrive - i miei pensieri vorrei farteli vedere, anziché esporteli con parole”. Con i contemporanei e con i posteri, si diceva. E c’è da credergli se, ancora oggi, agli albori del terzo millennio dell’era cristiana, egli continua a onorare quei debiti. Seneca ne

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ha incontrati di giovani, in tutto questo lasso, da Lucilio, a Lattanzio, a Boezio, ad Abelardo, a Petrarca, a Erasmo, a Pascal, a Montaigne, ad Alain e ad altri ancora, fino al bimillenario dalla sua nascita, celebrato nel 1996, un anno ancora nel segno di tangentopoli, in cui le sue Lettere non smentirono la loro fama di consolatorie. Di questo filosofo così longevo, e non solo, ne aveva parlato alcuni anni prima anche Ettore Paratore, additandolo come “un gigante, pur nelle sue manchevolezze di uomo, di filosofo e di scrittore, uno dei personaggi della letteratura latina che più si amano, anche e, starei per dire, soprattutto per i suoi difetti. I quali lo fanno apparire così vicino a noi, pur con la sua grandezza: e la sua grandezza rifulge proprio per la finezza e la sincerità con cui egli questi suoi difetti riconosce e analizza, sentendosene spinto ad amare più a fondo anche l’umanità nel suo insieme, nonostante il tradizionale orgoglio del “sapiens”. Anche se Seneca non amò mai descriversi come “sapiens”, preferendo semmai alimentare l’immagine di un uomo sempre proteso alla ricerca di una coerenza, di “un viaggiatore - per dirla con Giuseppe Cambiano - che si muove verso il porto sicuro, ma senza esservi ancora pervenuto”. Amava il dialogo, invece, desideroso di sentirsi anello di congiunzione fra i posteri e il passato filosofico liberamente utilizzato in funzione dell’arte della vita. Questo si, e ne era pure cosciente, se al suo Lucilio non nascondeva il fine pratico della sua attività intellet-


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tuale: “quando ti prego così caldamente di attendere allo studio della filosofia, bado al mio interesse: voglio avere un amico”; una massima, che mi ricorda un’altra di Primo Levi, scritta in latino, nell’ultimo verso di una sua poesia intitolata Il topo, in cui si legge: “Prima charitas incipit ab ego, la prima carità comincia dall’io”. Giuseppe Leone

GRATTACIELO Quanto cielo quanto cielo per me! Sono una casa che colloquia con le nuvole al puro spazio apro mille finestre dò asilo a uccelli di vetta. Quanta gloria di cielo intorno a me! Io respiro l’assoluto penetro nel suo silenzio. E aspiro agli astri agli astri offro lo specchio delle mie vetrate. Sono un diamante solitario: sul grigio groviglio di strade e di case che sovrasto rifletto luce. Sono un inno ascensionale, il mio giardino pensile è un sospiro di verticalità. Ada De Judicibus Lisena

Wolkenkratzer Wie viel Himmel, wie viel Himmel für mich! Ich bin ein Haus, das sich mit den Wolken unterhält, im reinen Raum öffne ich tausend Fenster und schütze die Vögel der Gipfel. Wie viel Herrlichkeit des Himmels um mich herum! Ich atme das Absolute, ich dringe in seine Stille ein. Und ich strebe nach den Sternen, den Sternen biete ich den Spiegel meiner Fenster.

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Ich bin ein einsamer Diamant: Auf dem grauen Gewirr von Straßen und Häusern, das ich von oben sehe, reflektiere ich Licht. Ich bin eine aufsteigende Hymne, mein hängender Garten ist ein Seufzer der Vertikalität. (Grattacielo, di Ada De Judicibus Lisena Traduzione in tedesco di Marina Caracciolo) Qui sotto: Grattacielo Burj Khakifa, a Dubai, alto 830 metri


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PAUL VALÉRY CHARMES di Elio Andrioli

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UELLA di Paul Valéry è una poesia nella quale la parola conta più che per se stessa, per gli echi che sa suscitare. Alla sua base c’è la musica che tutto permea e che tutto rinnova; ci sono le immagini, con i loro effetti di rapinosa magia, e c’è la rima, che desta rispondenze infinite. “Dans mon âme je m’avance, / Tout ailé de confiance: / C’est la première oraison!” (Nella mia anima avanzo / Tutto alato di fiducia. / È la prima preghiera!): Aurore/Aurora. Uno studio su questo poeta, con la traduzione di Charmes (Incanti) è stato recentemente compiuto da Pierangela Rasi, apparso nella Biblioteca dei Leoni. È questo un libro nel quale si possono leggere versi quali: “Ombre retentissante en qui le meme azur / Qui t’emporte, s’apaise” (Ombra sonante in cui lo stesso azzurro / Che ti prende, s’acquieta): Au platane / Al platano; “Nous marchons dans le temps / Et nos corps éclatants / Ont des pas ineffables / Qui marquent dans les fables…” (Noi camminiamo nel tempo / E i nostri corpi luminosi / Hanno passi ineffabili / Che battono nelle favole): Cantique des colonnes / Cantico delle colonne. Poesia dell’intelligenza quella di Paul Valéry, e quindi costruita a freddo più che nata di getto, anche se egli scrisse che “il primo verso è un dono degli dei”, mentre il resto è opera di elaborazione formale. La metafora e l’analogia in lui regnano sovrane, con risultati davvero sorprendenti se investono il significato stesso del far poesia. “Par la surprise saisie, / Une bouche qui buvait / Au sein de la Poésie / En sépare son duvet: // Ô ma mère Intelligence, / De qui la douceur culait, / Quelle est cette négligence / Qui laisse tarir son lait!” (Presa dalla sorpresa, / una bocca che beveva / Al seno della Poesia / Ne separa

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le labbra // – O mia madre Intelligenza, / Da cui la dolcezza sgorgava, Qual è questa negligenza / Che lascia inaridire il suo latte!): Poésie / Poesia. In un poemetto come Fragments du Narcisse / Frammenti del Narciso, che qui compare, Valéry tenta di dire l’inesprimibile. Qui la parola è tesa a cogliere le più sottili vibrazioni dell’animo, le impercettibili accensioni dei sensi. C’è qui una vera immersione nella Natura, della quale il poeta avverte tutti i sentori e di cui penetra tutti i segreti. “Ce soir, comme d’un cerf, la fuite vers la source / Ne cesse qu’il ne tombe au milieu des roseaux. / Ma soif me vient abattre au bord même des eaux” (Questa sera, come d’un cervo, la fuga verso la sorgente / Non si ferma che quando cade in mezzo alle giunchiglie, / La mia arsura mi prostra al bordo stesso delle acque): Fragments du Narcisse / Frammenti del Narciso. Alla base di questa poesia c’è la continua invenzione delle immagini, lo sbrigliarsi della fantasia, l’intuizione lirica che nasce dagli accostamenti improvvisi delle parole, con un procedimento che è simile a quello analogico. E su tutto domina la magia della musica. “Fontaine, ma fontaine, eau froidement présente, / Douce aux purs animaux, aux humains complaisente / Qui d’eux mêmes tentés suivent au fond la mort / Tout est songe pour toi, soeur tranquille du Sort!” (Fonte, mia fonte, acqua freddamente presente, Dolce ai puri animali, agli uomini complice/Che da sé tentati seguono al fondo la morte, /Tutto è sogno per te, Sorella calma della Sorte!): Fragments du Narcisse/Frammenti del Narciso. Ma si leggano anche altri testi, dai quali può ricavarsi l’intima essenza di questa poesia, quali La Pythie/La Pizia, dove troviamo questi versi: “Entends, mon âme, entends ces fleuves!/Quelles cavernes sont ici?/Est-ce mon sang?... Sontce les les neuves/Rumeurs des ondes sans merci?/Mes secrets sonnent leur aurores!” (Ascolta, anima mia, ascolta


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questi fiumi!/Quali caverne sono qui?/È il mio sangue?... Sono i nuovi/Suoni delle onde senza pietà?/I miei segreti bandiscono le loro aurore!). E si legga uno dei testi più elaborati di Valéry, Ébauche d’un serpent / Disegno di un serpente, dove tra l’altro si legge: “Ève, jadis, je la surpris / Parmi ses première pensées, / La lèvre entr’ouverte aux esprits / Qui naissaient des roses bercées (Eva, un tempo, la sorpresi / tra i suoi primi pensieri, / Le labbra semiaperte agli spiriti / Che nascevano dalle rose blandite): Ébauche d’un serpent / Disegno di un serpente. Testi preziosi di questo raffinato poeta sono anche i sonetti, come Les grendes / Le melagrane e Le vin perdu / Il vino perduto. La sua opera maggiore è però Le cimitière marin / Il cimitero marino, che costituisce una profonda indagine sul significato della vita e sul nostro destino. L’incipit è solenne: “Ce toit tranquille, où marchent des colombes, / Entre le pins palpite, entre les tombes; / Midi le juste y compose de feux / La mer, toujours recommensée!” / Ô ricompense après une pensée / Qu’un long regard sur la calme des dieux!” (Quel tetto tranquillo, dove camminano colombe, / Tra i pini palpita, tra le tombe; / Meriggio il giusto vi compone dei fuochi / Il mare, il mare, sempre ricominciato! / O ricompensa dopo un pensiero / Un lungo sguardo sulla calma degli dei!): Le cimitière marin / Il cimitero marino. A dominare è qui il ritmo, come ci dice lo stesso Valéry in un passo riportato da Pierangela Rossi nella sua introduzione al libro, che così suona: “Il cimitero marino è cominciato in me per un certo ritmo, che è quello del verso francese di dieci sillabe, tronco in 4 e 6”. Commenta la Rossi: “Probabilmente il decasillabo si è poi riempito del mare che vedeva Valéry da bambino e da adolescente, a cui voleva consacrare il suo lavoro da adulto”. Naturalmente questi non sono che dei cenni su un libro molto complesso qual è Charmes, che parla della vita e della morte, della terra e del mare, dei molteplici volti della realtà e di ciò che è puramente fantastico. Un libro che

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costituisce però anche un invito a godere la vita e i suoi doni. come traspare dai versi con i quali il poemetto si chiude. Le vent se lève! … Il faut tentere de vivre! / L’air immense ouvre et referne mon livre, / La vague en poudre ose jaillir des rocs! / Envolez-vous, pages tout éblouies! / Rompez, vagues! Rompez d’eaux réjouies / Ce toit tranquille où picornaient des focs!” (Il vento si leva! Occorre tentare di vivere! / L’aria immensa apre e chiude il mio libro, / L’onda in polvere osa sprizzare dalle rocce! / Volate, pagine tutte abbacinate! / Rompete, onde! Rompete d’acque gioiose / Questo tetto tranquillo dove beccheggiano i fiocchi!”. La fine si ricongiunge così all’inizio, con il motivo del mare che sempre “ricomincia” il suo gioco di spume “gioiose” che incanta e rapisce. Molte cose il poeta ha vedute e fermate nel verso, ma quell’invito a cogliere la vita in quanto bene irripetibile è ciò che meglio qualifica il suo dire e contiene la sua parola più alta. Pregevoli le traduzioni, che bene si adeguano con l’originale. Elio Andriuoli PAUL VALÉRY: CHARMES (Biblioteca dei Leoni, Padova, 2020, € 12,00)

Sternenklaren Seen Für dich entferne ich die Wedel von den Bäumen, ich schaue auf sternenklaren Seen, ich sammle Mondhonig. Von dort rufe ich dich an, ich liefere zu dir Funken Meerwasser und ich sage dir: Ich habe das Geheimnis des Lebens erzwungen, immer gefressen von den Abgründen, die von den Messern der Sonne geblendet werden. Gianni Rescigno Laghi di stelle di Gianni Rescigno, da Il vecchio e le nuvole, BastogiLibri, 2019 (cfr. Pomezia-Notizie, Ottobre 2020, p. 30). Traduzione in tedesco di Marina Caracciolo.


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L’allucinante supremazia del potere

MARGARET ATWOOD IL RACCONTO DELL’ANCELLA di Salvatore D’Ambrosio

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UELLO che racconta questo libro è una storia che apparentemente sembra lontana da noi e dalla società in cui ci dimeniamo. I fatti della condizione umana, e in modo particolarmente drammatici di quella femminile, che ritorna sempre in ogni epoca, anche in questa narrazione di un futuro indefinito descritto dalla Atwood, sono legati indissolubilmente al sesso. I fatti narrati diventano un’allucinante modello di un probabile futuro riservato alle donne. Vittime ancora e sempre loro, potremo dire. Anzi in questo romanzo si fa di più, c’è la dimostrazione di come si scarta, si annienta, si azzera la donna e soprattutto il piacere che potrebbe chiedere, e le spetterebbe, da una pratica corporea naturale, facendola diventare esclusivamente una programmata macchina per mettere al mondo esseri viventi. Si badi non figli, perché il meccanismo immaginato dalla scrittrice è talmente perverso che pone la donna-madre, in una condizione di sottomissione tale da diventare essenzialmente una semplice fattrice. Il suo è un prodotto come una penna, una sedia, un qualcosa destinato ad altri. Alla luce di tutto ciò potrebbe sembrare che il vincitore, il padrone assoluto, sia il maschio

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che esercita prepotentemente il suo virile potere. Ma scorrendo le pagine a mano a mano nella lettura, viene fuori invece una mappa che ha una connotazione fortemente al femminile. Ad esercitare il comando sono loro le donne, sia nei confronti dei loro maschi, che nei confronti del loro stesso genere. Le Ancelle della Atwood, infatti, benché godono di immensi privilegi, non sono donne libere. Altre donne le tengono costantemente sotto controllo, come le Mogli dei Comandanti, le Marte, le Zie. Tutte figure che animano il futuro narrato dalla Atwood. Sono affiancate in questa tirannia anche da altre donne, che portano semplicemente un nome, in quanto classificate inferiori, e per questo addette alla cucina o ai lavori domestici, comunque non privilegiate, ma con la possibilità di controllare le Ancelle e eventualmente denunciarle ai Comandanti. Perdono tutto le donne in questo mondo raccontato dalla Atwood, perfino il nome. Sembra il ritorno a un modo di considerare arcaicamente la donna. Sembra di ritornare a un mondo che le tante battaglie sostenute avevano, se non definitivamente, almeno in massima parte sconfitto. E invece la Atwood sembra voglia dirci che non basteranno secoli o millenni, a fare del genere femminile un genere pari nei diritti a quello maschile. O per essere più precisi, un genere a cui spettano uguali diritti: punto e basta. Il dominante, ne viene fuori dal racconto, sarà sempre e comunque un lui. Tanto è che la stessa salvezza dell’ancella Offred, sarà architettata da un uomo. Uomo il quale si prodigherà nel fare questo, solo perché ha ottenuto i favori sessuali della fanciulla. Con questo però la scrittrice pare ci voglia anche dire che nonostante tutto, la donna è detentrice di un grande potere in grado di assoggettare ogni tipo di uomo. Lo sarà anche uno potente come il Comandante di Gilead, il luogo dove è rinchiusa la nostra protagonista, che per lei arriverà al massimo della trasgressione. Quello di innamorarsene. Sembra perciò, che la scrittrice vuole in una


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confessione inconscia, stigmatizzare che in fondo la salvezza, la crescita, il potere di una donna, passano solo attraverso la mediazione del genere maschile. Non c’è bisogno necessariamente, ci sembra anche voglia dire, di un mondo dominante al femminile per avere i giusti riconoscimenti. Ma bisogna fare molta attenzione a che, questo obiettivo paritario, non ci porti verso un ribaltamento di quegli stessi ruoli che si stanno mettendo in discussione. Per essere più espliciti: maschi sottoposti a femmine dominanti. Si ritornerebbe a fare come il cane che si morde la coda. Deve esistere essenzialmente equilibrio tra i due generi. La supremazia di uno dei due porterebbe inevitabilmente al soccombere dell’altro. Non è la sostituzione che si richiede sul ponte di comando, ma l’intercambiabilità strutturale delle parti senza considerare mai più le sfere di influenza e di compatibilità connesse al sesso. Un’utopia millenaria che prenderebbe forma reale. Abbandonare l’idea obsoleta del maschio contro femmina, introducendo quella di genere umano in una nuova visione asessuata, dove si vince tutti perché si perseguono obiettivi comuni. Ma a quando tutto ciò? Nella prosecuzione del narrante dell’Ancella, conosceremo che il nuovo nome assegnatole è un nome senza senso, intercambiabile con le altre. Offred. Come dire ics, ipsilon; o come il numero tatuato nel lager nazisti. Anche in questa “civiltà” avanzata futura, rimane l’usanza di chiamare un essere umano, in questo caso una donna, semplicemente con una sigla: un non nome. Assenza di un cognome, quindi, di un titolo professionale, di una connotazione ben precisa. La denuncia della Atwood è forte, tende a spiazzare, a mostrare il volto di una umanità che rimane immutabile nel tempo. È una sfida alle stesse donne a ribellarsi ora e sempre. A non essere come l’Ancella Offred. Rifocalizzandoci su di lei, scopriamo che la sua sofferenza più grande è dovuta alla perdita di tutte le libertà. Incappata e incastrata in una

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Monoteocrazia, le sono state tolte un poco alla volta: il lavoro, la disponibilità di un conto in banca, la lettura di libri e giornali, la possibilità di fumare, di avere contatti di amicizia. Tutte le conquiste sociali. Queste preclusioni alle libertà personali, sono per lei le cose più insopportabili. Il lavoro di rieducazione fatto dalle Zie, prima di ammetterla alla corte del Comandante, l’hanno portata alla convinzione che il suo pensiero non conta, che le cose del mondo per lei non contano, che la sua stessa persona non conta: se non nella esclusiva funzione di dovere procreare. Sembra di essere negli anni più bui dei diritti delle donne. Quando la loro presenza sulla terra, era solo legata alla loro natura di essere riproduttivo. Niente cervello, nessuna capacità di ragionamento, nessuna attitudine allo studio o alla ricerca. Scarsa capacità artistica, di comando, di incutere rispetto. Tutte sciocchezze smentite nel corso dei millenni, che tornano improvvisamente nelle Monoteocrazie del racconto che esseri impauriti per i grandi balzi in avanti delle donne, si sono inventati al fine di rimetterle tutte di nuovo sotto il giogo. Riuscendoci. Ma il tormento maggiore di questa donna, nonostante tutti gli indottrinamenti, sarà soprattutto l’azzeramento degli affetti della vita precedente. L’estirpazione sentimentale dalla figlia e dal marito, che pure aveva avuto, e a cui penserà spesso con grande amore. La storia di questo libro, così rasente ai nostri tempi, ci propone un manipolo di esaltati che azzera la cultura delle donne, che nella seconda metà del secolo passato erano riuscite in tante lotte a conquistare. L’antico concetto della femmina detentrice di tutti i mali, ritorna. Mette le donne sull’avviso che le conquiste, che spesso sembrano per sempre, devono fare i conti ogni giorno con i paternalismi di ritorno. Che sempre più spesso, aggiungo, non riguardano più o non solo il mondo maschile. Ci sono tantissime donne, anche capo di partito, che esercitano ogni giorno l’attività di essere nemiche di se stesse con l’esaltazione di vecchi miti come: Dio, Patria, Famiglia.


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Cultura al femminile non deve significare raggiungere posizioni di potere, per schiacciare, sottomettere a sua volta. Ma deve essere usata la posizione raggiunta, come dice Michela Murgia, per consentire anche a altre donne il superamento degli ostacoli sessisti. Ottenere il diritto ai diritti. L’Ancella Offred rinuncia, nella disperazione, anche a quel femminismo che la madre le aveva inculcato, e di cui lei ne faceva un dogma di libertà assoluta della sua vita e del suo corpo. Nella vana speranza di liberarsi dalla schiavitù di femmina che la sua natura le impone, si è piegata alla volontà della Moglie del Comandante che vuole a ogni costo un figlio, che lei non può avere, ma che il nuovo ordine consente ad altre di avere per loro. Le Mogli esercitano un potere talmente grande sulle Ancelle, per cui fanno del femminismo un‘arma utile solo al loro scopo. Serena Joy, la temutissima Moglie del Comandante, questo lo sa benissimo e ne approfitta spudoratamente. E poi per lei il femminismo è una stupidaggine di un tempo passato e lontano. C’è anche un altro aspetto in questa vicenda ed è legato all’orgoglio di femmina dell’Ancella la quale, pur di non finire tra le Non-

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donne, si abbassa a qualsiasi cosa per dimostrare di essere in grado di dare quel figlio a Serena Joy. Il fallimento le farebbe raggiungere la condizione di Nondonna, e sarebbe relegata a servigi che le toglierebbero anche quel poco di dignità che le è rimasto. Il nuovo ordine di un probabile divenire immaginato dall’autrice, e qui narrato, riesuma però vecchi modelli. Vecchi schemi mentali e di comportamenti, sicuramente per denunciare la potente gabbia di ferro in cui si troverà rinchiuso, forse anche in futuro, il genere femminile. Notando amaramente, che sebbene i fatti immaginati si svolgano in avanzato terzo millennio, il concetto ancillare di donna persiste e che anzi il loro destino diventa un grande spazio buio. Un’oscurità cui anche la Atwood non riesce a connotare con esattezza. Sembrandomi di leggere così, tra le righe di queste pagine, che di tutto ciò che accade o accadrà in un futuro umano destino, si è colpevoli sempre in due. Salvatore D’Ambrosio MARGARET ATWOOD: Il racconto dell’ancella. Ponte alle Grazie – 2019 - € 16,80

NELL'ABBAGLIO Questo sole che grida nelle strade tutta la vita intride di sé. Scruta nel profondo dell'essere e i pensieri domina, li confonde, li disvia, ogni cosa fa sua col suo splendore. Di noi stessi privandoci, indifesi ci rende nella febbre delle ore, dove il mondo stupito si rivela. E' il dio di età lontane che ritorna vittorioso a far le sue vendette. Le menti piega, a sé le sottomette nell'abbaglio feroce che frastorna. Sopra ignoti sentieri ci conduce in noi vincendo il senso del domani, che vibrò d'altro ardore, d'altra luce. Elio Andriuoli Napoli


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IN DIALOGO CON LO STUDIOSO

ORESTE PALMIERO SU ZANELLA TRADUTTORE di Ilia Pedrina

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RESTE PALMIERO, figura d'intellettuale vicentino, bibliotecario e archivista conservatore presso la Biblioteca civica Bertoliana di Vicenza, nonché studioso e musicista, si è subito reso disponibile per farmi avere il materiale collegato alla Mostra da lui curata. Si è laureato nel 1998 all'Università di Padova in Lettere Moderne, con indirizzo in Storia della Musica e con il relatore: prof. Giulio Cattin. L'affinità profonda della sua natura con il mondo delle sonorità in armonia si espande arrivando al diploma in Flauto Traverso, conseguito presso il Conservatorio di Musica "A. Pedrollo" di Vicenza. Presente come relatore a convegni e conferenze, è stato pure membro del Comitato scientifico del Centro Studi Tomaselli, presieduto dal prof. Cesare De Michelis ed ha poi al suo attivo, nota per me assai significativa, diverse pubblicazioni come monografie, saggi su riviste, articoli e quant'altro, alcune delle quali dedicate ai Carteggi Fogazzariani e al rapporto dello scrittore Antonio Fogazzaro con la musica. Mi piace segnalare tra i suoi libri Giuseppe Apolloni (1822-1889) musico vicentino (2000), “Io ti baciavo in sogno”. Fogazzaro e i musicisti (2004), che ho già avuto modo di investigare sulle pagine di questa Rivista, Antonio Fogazzaro-Giuseppe Giacosa. Carteggio (1883-1904) (2010), quest'ultimo vincitore della Prima Sezione della XII edizione del Premio letterario nazionale “Vittoria Aganoor Pompilj” e Carteggio Verga-Giacosa (2016),

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curato per conto della Fondazione Verga di Catania. Del 2019 è la pubblicazione dell'inedito di Arturo Rossato Basso ostinato. Romanzo musicale, curato per la Società Italiana di Musicologia. Nel 2010 ha vinto la Borsa di studio del Concorso “Per conoscere Dino Buzzati”, bandita dall'Associazione Internazionale “Dino Buzzati”. Dati i tempi, su Giacomo Zanella avvio con lui un dialogo a distanza, sempre ricco di risvolti imprevisti e carichi di fascino e volentieri, fin da subito, lui si lascia coinvolgere. Ilia Pedrina. Lo scrittore vicentino Giacomo Zanella, nasce, muore poi torna con le sue opere tra Cavazzale, Vicenza e altrove nel secondo centenario della sua nascita, questo particolarissimo 2020. Quale la forza e le vicende che accompagnano il suo lavoro di traduttore della Esther di Racine? Oreste Palmiero. Giacomo Zanella, oltre ad essere poeta, scrittore ed insegnante, fu pure un eccellente traduttore, campo nel quale, fin dalla giovinezza, diede prova di raffinata abilità e la cui pratica considerava una idonea e spontanea alternativa al poetare. Una volta dimessosi dai suoi incarichi universitari a Padova (siamo nel 1876), non volle abbandonare del tutto l’insegnamento accettando di buon grado, l'anno seguente, la cattedra di italiano presso il Collegio delle Dame Inglesi di Vicenza, istituto cui rimase particolarmente legato fino alla fine dei suoi giorni. Qui, a beneficio di quelle alunne, figlie delle più benestanti famiglie vicentine, Zanella continuò con passione a coltivare anche la sua attività di traduttore, approntando versioni poetiche dal tedesco, dallo spagnolo e dal francese. E' in quest'ottica, e per venire incontro al desiderio della direttrice Teresa Surlera - alla ricerca di un testo drammatico piacevole ed utile da far


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recitare nel carnevale alle sue allieve - che Zanella concepì la felice traduzione dell’Esther di Racine, tragedia, peraltro, scritta dal francese con il medesimo intento, ma per le educande del famoso collegio di Saint-Cyr. Siamo sul finire del 1887: di lì a qualche mese, dopo un colpo apoplettico da cui non si riprenderà mai definitivamente, Zanella avrebbe purtroppo lasciato questa vita, e con essa la possibilità di veder rappresentato uno dei suoi più riusciti lavori di traduzione. I.P. Come nasce in lei il progetto di una Mostra dedicata a questi temi, in tempi così difficili per la condivisione diretta dei frutti della cultura, della conoscenza, della ricerca? O. P. Lo scopo dell’iniziativa, anzitutto, è quello di rendere visibile e fruibile una parte, seppur estremamente ridotta, dell’enorme patrimonio documentario conservato all’interno della Biblioteca civica Bertoliana. Tesori preziosi e affascinanti che conservano inalterato il fascino e il valore intrinseco a distanza di secoli e che meritano di essere conosciuti: nel caso specifico, poi, l’occasione del bicentenario della nascita di Giacomo Zanella – di cui la Bertoliana conserva quel che è rimasto del suo archivio personale – è il modo più istintivo e naturale, per un’istituzione culturale come la nostra, per rendere omaggio al poeta della celebre Conchiglia fossile. A ciò si aggiunga il contesto nel quale l'iniziativa viene inserita: una prestigiosa rassegna culturale quale la 73esima Edizione di Spettacoli Classici al Teatro Olimpico di Vicenza, all’interno della quale le iniziative celebrative per Zanella hanno trovato posto in una benefica sinergia culturale fortemente voluta dalla Bertoliana. Poi il Covid ha nuovamente interrotto tutto: non è però escluso che il progetto possa trovar spazio in futuro in un percorso espositivo virtuale, mezzo che, in questo preciso momento storico, diventa una imprescindibile necessità per continuare a promuovere idee in campo culturale. I. P. Perché Esther, bellissima ebrea tra le altre, si pone in sfilata di fronte al re persiano Assuero, pur di liberare il suo popolo dal giogo straniero?

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O.P. L'avvenente e sensuale Esther - e, lo sanno bene i pittori, (come non sfruttare artisticamente questo tutt'altro che irrilevante dettaglio?) - gioca le proprie carte seduttive mettendole al servizio di una causa nobilissima. E re Assuero ne rimane invischiato al pari di qualsiasi altro uomo, affascinato dalla bellezza e dalla forte personalità della donna che si trova di fronte. La scena, anche senza l'ausilio delle pur mirabili creazioni pittoriche, par di averla di fronte agli occhi. I.P. Il percorso della Mostra, infatti, tocca anche temi e risultati di ispirazione d'arte a partire da Esther attraverso i secoli, quasi un invito a mettersi in cammino e ad entrare in questa avventura... O. P. La vicenda biblica di Ester è estremamente affascinante: del resto si tratta forse del libro dell’Antico Testamento che più di ogni altro assume i connotati di un vero e avvincente romanzo storico. Non a caso, in funzione delle molte inesattezze e incongruenze cronologiche presenti, la critica moderna ha contestato la storicità del racconto riconducendolo chi ad una favola, chi da un mito egiziano o babilonese. Ma, a distanza di secoli, l’eroina conserva ancora oggi tutta la sua potenza evocativa e il suo carisma. Negli anni, letterati, musicisti, pittori ne hanno subito il fascino: pensiamo alle rappresentazioni pittoriche di Rubens, Rembrandt, Veronese, Michelangelo, Botticelli, Tintoretto, Tiepolo; e ancora agli oratori di musicisti del calibro di Haendel e Stradella; per tralasciare tutta quella schiera di letterati che ne perpetuarono il nome sulla carta con le loro opere drammatiche. Insomma un percorso stimolante fra le strade dell'arte tout court che il visitatore, anche virtuale, potrà svolgere non senza un trascinante entusiasmo. Poi arriverà, in sintonia, il mio dialogo in rete con il prof. Italo Francesco Baldo, che ha curato per questa particolare occasione la pubblicazione dell'ESTHER di Jean Racine tradotta da Giacomo Zanella con dedica a Teresa Benedetta della Croce Carmelitana Scalza, per i tipi de Il Sileno in Vicenza: appar chiaro a tutti che questo testo merita sosta speciale. Ilia Pedrina


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LILIANA PORRO ANDRIUOLI E BRUNO ROMBI di Domenico Defelice

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NA breve Premessa, per ricordare come Bruno Rombi se ne sia andato prima che venisse stampato questo bel saggio; una Introduzione generale, nella quale si danno alcune coordinate sulle sue opere, specialmente sulle tante, veramente tante, tradotte e pubblicate all’Estero, in Romania, per esempio, in Francia, in India; una prima parte, nella quale si ripropone “con qualche variante” il saggio su Rombi già apparso nel 1999; un vasto curriculum (otto fitte pagine) a chiusura del saggio; una Bibliografia critica

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essenziale; una seconda parte, infine, che aggiorna e completa l’esame sulle opere che il poeta sardo-piemontese ha pubblicato in seguito; un vasto e continuo riporto di versi, sicché, alla fine, ne vien fuori un quadro completo dell’intero cammino poetico e umano dell’autore esaminato, a tal punto che anche coloro – come noi – che non hanno letto tutto Rombi, possono farsene un’idea esaustiva. “La poesia di Bruno Rombi – afferma Liliana Porro Andriuoli – è di quelle che, per la complessità tematica e la varietà stilistica che la contraddistinguono, risulta piuttosto difficile da analizzare adoperando un’univoca chiave di lettura”; la poesia, si sa, è immagine ardita, è contraddizione, fusione di spazi e tempi, sicché diviene accettabile anche ciò che non è reale: ”Che splenda, come su questo/fianco di Pieve,/non c’è altra mimosa./Le cicale/vibrano al sole”, scrive Rombi; illogica, spesso, giacché le mimose fioriscono, splendono, a febbraio/marzo, mentre le cicale friniscono, vibrano mai prima di giugno. Liliana Porro Andriuoli ha scelto, però, di approfondire l’aspetto intimistico e, maggiormente, quello civile; “Un aspetto, quest’ultimo, tipico di quel lato della sua natura apertamente contestatrice che, ribellandosi ai soprusi e alle storture che vede intorno a sé, dichiara ad alta voce la sua rabbia e la sua protesta.” In “I poemi del silenzio” (1956), abbiamo un poeta “squisitamente intimistico”; in “I poemi dell’anima” (1962), “egli sembra volgere lo sguardo” più che “alla sua personale vicenda”, a “quella comune a tutti gli uomini, della cui condizione esistenziale si fa qui interprete”, effettuando, rispetto al primo lavoro, “Un mutamento di rotta”; in “Canti per un’isola” (1965), il poeta denuncia “i problemi più gravi ed urgenti degli abitanti della sua Terra, la Sardegna”, terra che viene ancora oggi abbandonata, specialmente dai giovani


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(“I giovani se ne vanno/ad ogni alba”), per “la situazione di estremo disaggio”, segno che l’isola è stata sempre trascurata dallo Stato, sebbene abbia dato all’Italia più di un Presidente della Repubblica, e perché è stata sempre “amministrata in maniera poco consona alle esigenze dei suoi abitanti”. La politica, insomma, ha sempre mancato nel risolvere i suoi atavici, endemici problemi; in “Oltre la memoria” (1975), prevale l’aspetto intimistico e doloroso, specie per il figlio nato morto e per i “problemi più scottanti del suo tempo”; in “Forse qualcosa” (1980), ci sono “la denuncia dei mali che affliggono il nostro mondo” e pulsioni varie presenti anche altrove, come ne “Il viaggio della vita” (2012); In “Enigmi animi” (1980), come scrive Giorgio Bárberi Squarotti in Prefazione, Rombi dà “un’immagine allegorica della condizione degradata del reale”; in “L’attesa del tempo” (1983), abbiamo un diario rivolto alla madre da poco morta, anzi – come viene affermato – “una confessione dolente”. Come l’attività artistico-letteraria di Bruno Rombi è divisa e calibrata in due tempi – il secondo Novecento e i primi diciannove anni del 2000 – così è per questo interessante studio di Liliana Porro Andriuoli, la quale, nella prima parte, il primo saggio, si interessa della produzione rombiana fino al 1998 e, nella seconda parte, delle opere pubblicate nel “nuovo millennio”. Si tratta, in particolare, di lavori – alcuni dei quali apparsi all’Estero – come: “A Costantino Nivola” (scultore, 2001), “Il battello fantasma” (2001), “Tsunami – Oratorio per voce solista e coro” (2005), “Come il sale/Precum sarea” (bilingue: italiano-rumeno, 2007), “Fragments de lumière” (2010), “Il viaggio della vita” (2012), “La saison des mystères” (2013), “Occasioni” (2016), “Quando muore un poeta? (2018) e “La nostra follia suicida” (2019). Potremmo – e forse dovremmo – proseguire a lungo a scavare e nel citare in e da questo scorrevole e agevolissimo saggio, privo di fumogeni e di retorica, che rende lineare quel che la Porro Andriuoli ha pure evidenziato e cioè, che Bruno Rombi non è affatto un poeta

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semplice, ma dalla “robusta personalità”; “un poeta che sa guardare non solo fuori, ma anche intensamente dentro di sé” e un uomo dalla “forte tempra”, sicché, per comprenderlo, c’è bisogno di molta attenzione e di finissima acribia. Domenico Defelice LILIANA PORRO ANDRIUOLI - POESIA INTIMISTICA E CIVILE IN BRUNO ROMBI - Il Geko Edizioni, 2020, pagg. 144, € 12,00

Cari Lettori, Cari Collaboratori! Il Natale, quest’anno, è nell’angoscia della pandemia. Regalatevi e regalate - se avete amici e parenti che amino la lettura - i racconti del nostro Direttore

in grado di alleviare, almeno per un momento, non Covid-19, col quale non hanno niente a che fare, ma il “sentimento del soffoco” che pure tutti ci pervade; un testo scorrevole e pulito, che può stare nelle mani di giovani e anziani e, per certi brani, anche in quelle dell’infanzia. Genesi Editrice – via Nuoro 3 – 10137 Torino genesi@genesi.org; http://www.genesi.org


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FRANCESCO D’EPISCOPO

ANIMA di Salvatore D’Ambrosio

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INCE la prima edizione del premio editoriale IL CROCO, una silloge del professore Francesco D’Episcopo. L’insieme dei 53 componimenti contengono, in larga parte, il pensiero che possiede l’autore sulla poesia. Nel suo prologo citando Parmenide, ci fa capire subito di cosa sono impastati i suoi versi. Ispirato dal grande di Elea, nei suoi componimenti si esalta la semplicità dell’Essere. E ribadisce che se pensiamo ed esprimiamo sentimenti, magari con parole che chiamiamo versi, diamo essenza alla nostra vita attraverso la poesia. La quale, per quanto molti si impegnano affinché essa percorra la strada della semplicità e della chiarezza verbale, non sempre viene compresa o anche bene accetta. Il suo breve prologo è altresì, una traccia che vuole, senza pretese, indicare la via per vincere la “scommessa della poesia”, come lui la

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chiama, da parte del poeta. E per vincere questa scommessa, dice, c’è bisogno di condivisione. Che per ottenerla deve passare attraverso la comprensione del verbum, come chiaramente afferma. Sottolineando nei versi di Ripetizioni (pag. 50), che l’obiettivo si può raggiungere solo ripetendo più volte nelle sillogi lo stesso concetto, ma anche gli stessi versi. Ma sono certo di leggervi in questa necessità di condividere, anche un’indicazione sulla strada da seguire per diffondere e fare amare la poesia, a quante più persone possibile. La silloge, che prende il titolo dalla composizione eponima di pagina 43, dopo varie letture, mi sembra che si possa raggruppare in tre ceppi. Ho individuato, perciò, componimenti che per le riflessioni contenute, possono così essere suddivisi. Quelli che trattano della vita e della morte; della gioia; del quotidiano. Quelli sull’osservazione del concetto di libertà, amore, amicizia. Quelli sul mistero, il perduto, il sognato, il realizzato e l’irrealizzabile. I componimenti, come tutte le riflessioni fulminanti che non hanno bisogno di molte parole per arrivare al lettore-destinatario, sono in massima parte di pochi versi. A volte anche di quattro o cinque, come: Napoli è tutto(pag. 15). Nello spazio breve di quattro versi soltanto, vi è l’essenza della città. Tutto ciò che cerchi altrove, /forse in cielo,/qui lo trovi in terra:/ costa poco e regala molto. Meraviglia questa capacità di sentire un popolo da parte di un uomo che in fondo non è napoletano, essendo molisano di nascita, ma che nel profondo invece è essenzialmente partenopeo. E questo lo si comprende dall’ultimo verso, che esprime molto bene la felice e serena filosofia di vita di un popolo. D'altronde D’Episcopo è persona che ha dimestichezza con la filosofia. Riscontro di ciò che dico, lo ritroviamo ancora nelle altre brevi poesie in vernacolo.


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Il desiderio della vita semplice non omologata, senza problematiche esistenziali, attenzione non ho detto problemi ma problematiche, la ritroviamo nei pochissimi versi di Niente ‘ncuollo’ (pag. 11). Qui, ancora in pochi versi, la metaforica nudità fisica, è amica della verità. Non ci sono in lui troppi rimpianti, sia quando, come succede a tutti i poeti, pensa alla morte, sia quando si ricorda della giovane età passata alla ricerca dell’amore. Qualche lacrima,/ qualche rimpianto e rimorso,/ma tutto passerà/e tornerà come prima. Non si fa illusioni. Sa che una volta passati dall’altra parte, ogni cosa procederà di nuovo per la propria strada. E che la cosa positiva ristà solamente nell’avere provato a fare una giusta vita (Quando morirò pag. 4). Diventa, nella poesia Amplesso (pag. 12), satirico e quasi seccato della poca originalità dedicata da Dio nella creazione dei due sessi. Gli sarebbe piaciuta, da buon spirito del sud, più fantasia. Dicevamo della brevità dei componimenti, ma dobbiamo dire anche della scioltezza, della loro levità, della metrica semplice del verso libero. Questo sistema permette all’autore di raccontare il suo quotidiano pensare, il suo quotidiano vivere preso dalle tante osservazioni che spontaneamente la vita gli pone davanti, ogni ora. È uomo curioso. Vuole conoscere, sapere, approfondire il balenante pensiero che il turbinio della caotica esistenza gli propone ogni giorno: Inutile è cercare/ di capire ciò che/ alla ragione sfugge,/perché è della vita,/…/, dove ognuno/ ha una parte,/ che non sempre/ sa recitare(Caos pag. 40). Sebbene le tematiche trattate mi è piaciuto suddividerle in tre ceppi, tutte le poesie scaturiscono da quel soffio di vento/che …/ ti ricorda che esiste/un mondo che soffia da lontano/ e quando si avvicina,/ti prende/senza che tu lo voglia, lo cerchi(Anima pag. 43). Quasi come se volesse dire che se nei suoi versi esiste quell’aria d’infinito, ciò è dovuto a quell’alitare mistico che ognuno si porta dentro, e che proviene da un mondo tanto lontano

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e sconosciuto alla nostra concezione, fosse anche la più raffinata e sensibile. Ci sono cose nell’uomo che sono spesso inclassificabili, indicibili, misteriosamente accettate con felice rassegnazione. Il concetto viene espresso molto bene in una poesia che ho classificato nella terza fascia che è quella che racconta del mistero, del sognato, dell’irrealizzabile, del perduto o del realizzato. Mi chiedi di tornare/sui miei passi,/ma la vita/perderebbe il suo profumo,/ se si avvizzisse/in un vaso di fiori,/non innaffiato dalla sorpresa,/dalla meraviglia/ di essere per la prima volta/veri e vivi(Ritorno pag. 51). Ecco possedere un’anima è una meraviglia che viene da lontano a consolarci per sempre. Perché anche da morti l’anima non è cosa che si restituisce. È cosa che è già Sua. E noi per tutto il tempo che ci è stato dato da vivere, l’abbiamo respirata felicemente soggiogati. Un’ autentica anima libera, proprio per il concetto di provenienza e di appartenenza, ama senza ombra di dubbi la libertà. Lasciatemi essere ciò che sono,/ non costringetemi ai lacci/di una prigione,/che non mi appartiene(Libertà pag. 24). Il sogno e il perseguire di ogni Essere: vivere liberi. Nessun legame con le cose fatue, superflue, che assecondano la vanità. L’anima non brama, né ha bisogno di queste cose. La libertà ama la sostanza, la realtà, l’amore, l’amicizia. Il Nostro sa anche che esiste un tempo per ogni cosa della vita. È consapevole di essere il custode di un dono misterioso e prezioso, e di altre elargizioni di una Bontà Infinita a cui in tutta modestia non ha mai chiesto; bensì ringraziato. Però ora, nonostante tutte le benevolenze avute, una sola cosa la vuole chiedere. È una cosa a cui tiene molto. Una compagnia Alta chiede, quando verrà il momento di restituire quel corpo che si portava dentro il dono di quell’anima, e dunque: Vieni presto,/assai presto,/ a farmi compagnia(pag. 44). Una voglia d’infinito lo prende e lo sorprende, non dimentico della sua natura curiosa


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e della sua fortuna di essere stato capace, di lasciare vecchie poesie sbiadite dal tempo(pag. 45). Una prerogativa di coloro che scrivono, che ha la forza di rendere immortali nel tempo. Salvatore D’Ambrosio

AUTUNNO Arruggina l'autunno gli alti colli e lieve si distende nelle valli. Ovunque posa la sua rossa chioma, ma più s'attarda nelle spoglie vigne che da poco han donato i loro frutti per le mense degli uomini e la gioia.

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Nessuno riesce a capire Che ho spavento Di tutto ciò che In nove mesi avevo intuito Di questa trincea Di questa antica abitudine Del forno crematorio quotidiano per vivi Del giro giro tondo sempre uguale Di tutte le cose della palla mondo A cui da subito però Ci si affeziona Salvatore D’Ambrosio Caserta

Autunno, ci ridai la meraviglia: ci rischiari col tuo sottile incanto e ci colori di malinconia. L'animo se ne va su antiche strade (al gelo lo conducono e alla neve), ma vive in noi la tua parola breve che sempre ci rallieta e ci pervade di un'amica dolcezza e di stupore. Se ci affidiamo al gioco delle ore ancora ci rapisce e ci disvia. Elio Andriuoli Napoli

AVVENTO Eccoli Tutti intorno a me Alla mia culla Da poco sono uscito Dal buio di mia madre Per il buio di questo Che ho sentito chiamare Mondo Mi guardano mentre dormo Qualcuno dice “beato” Qualche altro più attento Si chiede perché ho Improvvisamente Dei piccoli sussulti

IL CROCO I Quaderni Letterari di

POMEZIA-NOTIZIE Il numero di questo mese è dedicato a: DELIRIO DI PAROLE di ANNA MARIA BONOMI


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GIACOMO ZANELLA TRADUCE L'ESTHER DI

JEAN RACINE PER LE RICCHE EDUCANDE VICENTINE di Ilia Pedrina

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L prof. Italo Francesco Baldo, severo studioso di scrittori vicentini di vaglia e dell'epoca nella quale sono vissuti, si cimenta ora in questo lavoro di presentazione dell'Esther di Jean Racine, tradotta da Giacomo Zanella nell'estate-autunno del 1887, tra le amate atmosfere della sua villa vicentina a Cavazzale. Tutte le mie informazioni su questo tema sono tratte dalla ricca e ben documentata Introduzione all'opera da lui curata in occasione del bicentenario della nascita dello scrittore e studioso vicentino: Jean Racine, ESTER Il coraggio dell'amore per il popolo, Traduzione italiana di Giacomo Zanella, a cura di Italo Francesco Baldo. A Teresa Benedetta della Croce - Carmelitana Scalza, Il Sileno - Vicenza – 2020. Parto subito dalla DEDICA che il professore-abate Giacomo Zanella offre alla sua committente: A/DONNA TERESA SURLERA/SUPERIORA/DEL COLLEGIO DELLE DAME INGLESI IN /VICENZA Egregia Signora,

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Più volte ho veduto il pensiero ch'Ella si dava nello scegliere qualche componimento drammatico, che potesse essere piacevole ed utile trattenimento alle sue allieve nel carnevale. In verità la nostra letteratura in questa parte è manchevole. Per l'affetto, che da tanti anni porto a questo insigne Istituto da Lei diretto con tanta saggezza, volli mettere in versi italiani l'Ester del grande Racine, tragedia da lui composta pel celebre collegio di Saint-Cyr, nel quale erano educate centinaia di giovinette di tutte le provincie di Francia. La tragedia si presta alla recitazione, ed alla musica, per essere frammezzata di cori; torna anche opportuna al decoro femminile per essere la scena in Susa nella Persia, in cui, come presso gli Ebrei, erano in uso vestiti cadenti sino a terra. Accolga coll'usata bontà questo piccolo segno della mia devozione e mi creda Devotissimo Giacomo Zanella Vicenza, gennaio 1888. Come 'anticipazione' di questa Dedica lo Zanella traduce la Prefazione di Racine, assai ricca di quei particolari che sempre ruotano intorno ai lavori letterari, di poesia, di prosa di critica del testo, tralasciando di tradurre il Prologo, presente nell'opera originaria. Ecco la sua impostazione: ESTHER TRAGÉDIE tirée de l'écriture sainte. [par Jean Racine] À Paris, Chez Denis Thierry, rue Saint Jacques, devant la rue du Plâtre, à la ville de Paris M.DC.LXXXIX. AVEC PRIVILÈGE DU ROI. Così nella Preface Racine scrive: “... Mais la plupart des plus excellets vers de notre langue aiant été composes sur des matières fort profanes, et nos plus beaux airs étant sur des paroles extrêmement molles et efféminées, capables de faire des impressions dangereuses sur des jeunes esprits...” (fonte: J. Racine, Esther, pag. 4, Texte établi par Paul FIEVRE, Mai 2002, revu novembre 2016, in rete). Emerge la data di stesura e quando verrà messa in scena il re Luigi XIV ne farà gran pubblicità, perché è soddisfatto dei risultati:


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nella trama del lavoro teatrale il consigliere del re persiano Assuero, che istigava alla violenza e allo sterminio del popolo ebraico, Aman in persona, viene scoperto proprio da Ester nei suoi perfidi disegni e verrà severamente punito con la morte. L'atmosfera di guerre religiose è sempre intorno intorno e ammazzar gli Ugonotti non guasta, pur mantenendo la facciata sempre utile in ogni occasione del Re magnanimo, benevolo, generoso, accogliente, giusto nella sua regale autorità che discende da Dio stesso. Non dimentico che Racine ha avuto educazione giansenista, mal tollera gesuiti e quant'altro, per questo si sente libero di lavorare con testi esplosivi anche sottotraccia. Arrivo alla bellezza di Esther che, prescelta da Assuero come sua vergine consorte e consapevole della sofferenza e del rischio che il proprio popolo corre di totale annientamento, convince il re a verificare direttamente, durante un convito, le orride trame di sangue di Aman: ella, ascoltata dal re con devozione ed amore infiniti, dopo aver pregato e digiunato tre giorni nelle costanti suppliche a Dio, sarà vissuta d'ora in avanti come colei che ha trasformato le sofferenze mortali in gioia carica di futuro, aprendo la strada a quella festa ebraica, il Purim, che ancora oggi si celebra: obbligatorio bere fino quasi a perdere i sensi dalla felicità. Vengo alla traduzione dello Zanella e sottolineo tutte le sezioni in cui il Popolo Ebraico, gente in esilio e quasi pronta a cambiar costumi, tradizioni e quel che è peggior cosa, passare all'adorazione d'altri dei. Ne cito una sola, uscita dalla bocca perfida di Aman: “Amano … Prevenni il core di Assuero: Inganni colorii, calunnie armai, La sua gloria mostrai messa in periglio, E lo vidi tremar per la sua vita, Gli dipinsi gli Ebrei ricchi, possenti, Sediziosi: il loro dio nemico degli altri dèi dipinsi. 'E fino a quando, Io gli gridava, soffrirai che viva Questa razza malnata? E fino a quando Profanerà con rito empio la Persia? Stranieri in Persia, a nostre leggi avversi,

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Dal consorzio comun vivon divisi; Ognor desti a turbar la nostra pace E, detestati, quanti siam detestano...” (J. Racine, Ester, trad. di G. Zanella, op. cit. pag. 42). Aman ha sete del sangue di Mardocheo, l'ebreo che ha fatto incontrare Ester al re, quel Mardocheo che in apertura d'opera si presenta alla giovane regina, bellissima, con il capo coperto di cenere e i panni laceri della penitenza: non gli basta certo solo il suo di sangue, perché la sete deve saziarsi con quello, abbondante ed innocente, di tutti gli altri appartenenti a 'questa razza malnata'. Ecco il testo originale del Racine: “Aman ...Je prévins donc contre eux l'esprit d' Assuèrus J'inventai des couleurs. J'armai la calomnie. J'entéressai sa gloire, il trembla pour sa vie. Je le peignis puissants, riches, séditieux; Leur dieu même ennemi de tous les autres dieux. Jusqu'à quand souffre-t-on que ce peuple respire, Et d'un culte profane infecte votre empire? Etrangers dans la Perse, à nos lois opposés, Du reste des humains ils semblent divisés, N'aspirent qu'à troubler le reos où nous sommes, Et détestès partout, detestent tous les hommes...” (J. Racine, Esther, op. cit. pag. 23, in rete). Nella traduzione zanelliana c'è qualche aggiunta, abbastanza vigorosa, per creare suspense tra gli spettatori e le damigelle recitanti, le giovani figlie di ricchi e nobili vicentini, che san recitare e cantare, perché si riesca a parteggiare per l'uno o per l'altro e, nota non da poco, evitare la traduzione del PROLOGUE – LA PIÉTÉ fait le Prologue, impersonato da una fanciulla, sola: “La Piété ...Grand Dieu, que cet ouvrage ait place en ta mémoire. Que tous les soins qu'il prend pour soutenir ta gloire Soient gravés de ta main ai livre où sont ècrits


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Les noms prédestinés des rois que tu chéris. Tu m'écoutes. Ma voix ne t'est point étrangère. Je suis la Piété, cette fille si chère, Qui t'offre de ce roi les plus tendres soupirs...” (J. Racine, Esther, op. cit. pag. 8, in rete). Di certo al tempo di Racine le eresie, termine che compare in qualche verso successivo a quelli citati, si verificavano a macchia d'olio e di leopardo e venivano soffocate nel sangue. Spiega il dotto I. F. Baldo, citando l'Ortiz proprio su Racine: “... Nel genere modesto che gli era proposto ha tuttavia cercato la perfezione: l'incanto di Ester è in quella nuvola di canti che l'avvolge. L'armonia del mondo raciniano c'è intera, raggiunta con mezzi diversi dai soliti. Lo stesso elemento fiabesco vi contribuisce trasferendo la vicenda in un mondo soprannaturale, d'innocenza e purezza, in cui anche la crudeltà si stempera in necessità divina. Ester è un gioiellino perfetto nel grande teatro raciniano...” (I.F.Baldo, Introduzione, in op. cit. pag. 16). Poi, di piglio, prosegue lo studioso: “... Ester emblema anche oggi per tutti i popoli e per tutti coloro che non credono alla violenza contro qualcuno, ma comprendono che, cessata la possa dell'uomo debba, invece, manifestarsi 'la Sua santa gloria' tanto 'il suo nome sia benedetto; si canti il suo nome. Siano celebrate le sue opere oltre i tempi e le età, oltre l'eternità'. Non quindi un dramma 'politico', ma che ha nel valore dell'umanità che riconosce un Dio, la sua salvezza come persone e che ha la sua forza ancora oggi, divenendo, come voleva anche Zanella, una proposta a chi proscrive s'accomoda al salario, Colui che ha creato l'uomo a sua immagine... Un testo di tal fatta non poteva non suscitare l'interesse di Zanella che, nella sua opera di educatore, iniziata nel 1843 e mai dimessa, ebbe sempre come grande principio quello della finalità morale cui concorrono i mezzi utilizzati e questi sono la Scrittura, i classici latini e greci, quelli italiani e la poesia di ogni tempo e luogo, proprio per superare le angustie stesse del suo tempo. Così infatti si esprime: 'Intanto che cosa veggiamo intorno a noi? Un agitarsi d'idee che si succedono e si distruggono a vicenda; molta attività

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d'intelletto, ma senza scorta di principii; più che progresso, un rovesciamento dell'antico; disprezzo del passato, noncuranza dell'avvenire, frenesia di godere il presente; la scienza coltivata per l'utile, e chi la professa non tanto bramoso del vero che dell'abbagliante: strane teorie appena allo stato d'ipotesi proclamate dalla cattedra come certezze, perché fruttano rinomanza d'ingegno indipendente; giornali che lusingano le popolari passioni, e cercano, se non promuovono, lo scandalo per avere più compratori; l'arte ridotta a copiare la natura, quando non deve chiederle che la forma, fatta un prolungamento di sensazioni piacevoli, quando non dovrebbe essere che un'elevazione dello spirito; la religione tenuta un vecchiume o un'ipocrisia; la patria stessa divenuta un luogo rettorico per attaccarsi il plauso delle plebi e maledetta in silenzio, se non porga i mezzi a saziare brutali appetiti'. Così affermava il poeta...” (I.F. Baldo, ibid. pp. 16-17). Torno all'evento che la Biblioteca Bertoliana di Vicenza ha messo in atto per i Classici dell' Olimpico, mi riferisco alla Mostra: I VOLTI SCONOSCIUTI DI ESTHER – TESTIMONIANZE MILLENARIE NEI TESTI DELLA BIBLIOTECA BERTOLIANA, allestita al piano nobile di Palazzo Cordellina, quell'esposizione curata da Oreste Palmiero, bibliotecario conservatore della Bertoliana, con il quale mi son messa in dialogo costruttivo ed originale, in divenire: essa ha offerto un ampio panorama di pregiatissimi libri da toccare con gli occhi, come gli esemplari a stampa del XVI e XVII secolo della Bibbia in ebraico e in latino e le edizioni di alcuni lavori drammatici ispirati alla vicenda biblica della regina Ester. Così si è avverato l'incontro del 14 ottobre scorso a Palazzo Cordellina dal titolo Ester regina rivoluzionaria: la straordinaria figura di Ester, il suo ruolo di donna nell'Ebraismo, nella drammaturgia teatrale da Racine a Zanella, rappresentando un vero momento di riflessione e di approfondimento con la partecipazione del Rabbino di Venezia Rav Daniel Touitou, il direttore del Ciclo di Spettacoli Classici al Teatro Olimpico


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Giancarlo Marinelli, poi, appunto, lo storico zanelliano Italo Francesco Baldo e la regista teatrale Giovanna Cordova. Mi scrive in rete il prof. Baldo: “Il rabbino ha incentrato la sua relazione sull'importanza della figura di Ester nei Rotoli. Interessante è stato l'intervento dei giovani ragazzi della scuola di teatro che hanno dato un brevissimo saggio di rappresentazione della Ester. La regista ha sottolineato come nel contesto del libro di Ester vi sia la presenza plurilinguistica persiano/ebraico...” (I. F. Baldo, e-mail del 4 novembre 2020). E proprio su Ester sottolinea ancora lo studioso: “...Oggi Ester è considerata anche da un punto di vista dell'ecumenismo e del dialogo tra le religioni. Benedetto XVI a Valencia nell'Omelia della S. Messa domenica 9 luglio 2006 precisa: 'La Chiesa orante ha visto in questa umile regina che intercede con tutto il suo essere per il suo popolo che soffre, una prefigurazione di Maria, l'Altissima reina, che suo Figlio ha dato a tutti noi come Madre; una prefigurazione della Madre che protegge col suo amore la famiglia di Dio che peregrina in questo mondo. Maria è l'immagine esemplare di tutte le madri, della loro grande missione come custodi della vita, della loro missione di insegnare l'arte di vivere, l'arte di amare.' In ciò richiamando lo scritto Dialogo notturno del 1941 Suor Benedetta della Croce (Edith Stein) presenta Ester che pone tutta se stessa per la salvezza del suo popolo, sia come prefigurazione di Maria, che è paradigma di coloro che la propria vita mettono nelle mani di Dio per la salvezza di tutti, sia immagine di quel dono della propria vita che in Cristo si è compiuto pienamente sulla croce...” (I.F. Baldo, ibid. pp. 8-9). La perizia nel transitare le proprie originali competenze da una lingua all'altra senza sforzo, dando anche alla sezione dei Cori una preziosa cadenza in rima che arricchisce il contesto emozionale ed ancora la poeticità e lo stile che emanano da tutto il testo di Giacomo Zanella fanno spesso dimenticare l'originale, perché è chiaro che il nostro rivive a modo suo

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gli eventi legati alla vicenda dell'Ester di Racine e la sua è lingua poetica d'amore e di serio, ispirato rigore: anche in questo Dante gli è stato Maestro. Ilia Pedrina

AUTUNNO Dedicata a Elena Colonna di Stigliano (poetessa di grandi suggestioni) Ah la stagione dell’autunno! ormai la mia preferita. La primavera ora sempre piovosa marcisce camelie succulenti che attendi tutto l’anno. L’autunno è fragrante di odorosa resina, spazi di cielo tra le foglie rade dove improvvisamente ravvisi nidi nascosti. È così bello sotto un albero d’autunno mentre le foglie ti cadono accanto senza pensare a niente. Il silenzio entra nella tua anima, solo una leggera brezza fa risuonare delicatamente la melodia delle foglie. Dividiamo persino il silenzio della città vuota o quasi. L’ho descritto questo silenzio delle vie, dove finalmente gli alberi respirano, i marciapiedi vuoti e i cestini dei rifiuti potrebbero contenere fiori. Ora trovata la nostra strada ci possiamo sorridere quel tanto per proseguire il cammino. E tu, amica mia, accompagni questa avventura che si rinnova Wilma Minotti Cerini Pallanza, VB


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ZHOU DUANZHUANG di Domenico Defelice

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BBIAMO più volte evidenziato le difficoltà alle quale va incontro uno come noi quando è costretto a tradurre da un’altra traduzione per la non conoscenza della lingua originale. Ignorando il Cinese e servendoci della traduzione Inglese, siamo consapevoli che molte sfumature si affievoliscono, a volte quasi a scomparire, mentre altre si accentuano. Zhou Duanzhuang, a una prima e affrettata lettura, sembra non aver nodi nei suoi testi, lineari e sciolti in immagini chiare; improvvisamente, però, il tutto si complica, perché il narrato sembra imbastito da lampi improvvisi, diversi per intensità e durata; ogni brano è una splendida collana composta da grani differenti l’un l’altro per colori e foggia. Vogliamo dire che a colpirci sono spesso i singoli tasselli più che la storia, il dettato complessivo. Ecco, per esempio, immagini che riflettono la Natura: “Gli alberi snelli [che] proiettano

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ombre verdi”; le “Onde che si infrangono urlando”; “I gabbiani [che] volano avanti e indietro”; “Gli uccelli [che] cinguettano tra i fruscianti bambù”; i “monotoni cinguettii di uccelli”; “i rumori della neve” che si scioglie; “le colline” “vaste e tranquille”; il “ruscello [che] Gorgogliando attraversa la conca”; “La luna e le stelle” “grandi e luminose”… Son tutti flash di una bellezza riposante, tali da conciliare l’animo con gli aspetti vari e affascinanti del Creato, facendoci obliare, o semplicemente attenuare, drammi che fanno soffrire la Natura e che raramente noi ci soffermiamo a considerare (come le “onde che si infrangono urlando” e, quindi, la loro stessa sofferenza e quella degli scogli o delle rive che le ricevono come frustate), o le quotidianità più elementari e di basso profilo, come possono esserlo certe cene annegate nel chiacchiericcio di “parenti che si alzano con il crepuscolo”, tra “tagliatelle saltate in padella e maiale in scatola”. Se poi, questi parenti che si svegliano la sera siano persone che poltriscano l’intero giorno o, più semplicemente, che dormano di giorno perché vadano a lavorare di notte, non è detto, ma lasciato alla interpretazione e alla libera fantasia del lettore. E volendo, allora, si può scivolare fino al sociale, che ci suggerisce il contrasto tra la calma quasi cullante dell’“isolotto […] nel mezzo del fiume” e lo sgraziato stridio delle motociclette - “che tremano”, come efficacemente scrive la poetessa. Quelli di Zhou Duanzhuang, insomma, son versi evocativi, che accennano e spingono la nostra mente al libero galoppo, come avviene davanti a quelle “Impronte sulla spiaggia, un altro mare sconosciuto”, figurandoci la variopinta ed eterogenea folla che la spiaggia ha incessantemente calcato e calca. Che dire, infine, di quell’immagine comune a tutti coloro che hanno fatto un viaggio in treno, allorché, seduti comodamente, si vede il paesaggio scorrere in senso contrario al di là del finestrino? Tutto già noto e, nel contempo, tutto nuovo, giacché Zhou Duanzhuang vivifica la scena con quel monte che si illumina – che “lampeggia”, come lei scrive - di ripetuti e veloci flash dovuti alle luci in corsa dello


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stesso treno. Una poesia assolutamente complessa e fascinosa, insomma, della quale riportiamo, a seguire, quattro brani nella traduzione Inglese di SHI Yonghao e nella nostra libera versione in Italiano.

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It and the wintersweet stare at each other With the intertwined roots under the frozen soil It shakes hands friendly again Jan. 25,2018

Memories The Sea and Yongchun Road The slender trees cast green shadows By the sea Crashing waves Are waiting for the sunlight to go through Footprints on the beach, another unknown sea Seagulls fly to and fro Attempting to cross its depth Go upward or you will not get to Yongchun Road Here all paths lead to the spring Even a one-legged man with a walking stick Can pace along steadily

Vast and quiet, the Xishuangbanna hills Under the moon On the lea, the Dai lasses and educated youths An open-air movie night Compared with Walden, the later history is Tranquiler Birds chirp amidst the rustling bamboos The rainy-season islet in the middle of the river Boats paddled through the torrents Torches getting to Mount Sanda

Nov. 23,2018,Gulangyu Island People’s shadows gently swaying In the winds from seven thousand miles away Changes The train has gone on for over ten minutes Mount Tai slightly shifts itself

Phoenix flowers bordering the lea, a stream Gurgling through the dell Roaring returning tractors

Mount Tai flashes by Like a big bird

The moon and stars hang high, big and bright Thin shadows wearing long hairs

Dec. 9, 2017

Roses at dawn Dancing in the new fields

It Gets Colder

Over the unreturnable mountain paths Beast roars echoing

Several gray chirps of birds These are the sounds of the snow Clearing away your viruses It gets colder Until warm hearts get tranquil beauty in the icy cold Until heaviness stops flying

At dusk, motorcycles quivering In the storm of letters Chatting of kinfolk rising with the twilight Stir-fried noodles, and canned pork Glistening in the dim dell


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Long letters being written, yearning In the woods, strolling to and fro

Il treno avanza da più di dieci minuti Il monte Tai si sposta leggermente

May 4,2017

Il monte Tai lampeggia Simile a un grosso Uccello

(Translated by SHI Yonghao)

9 dicembre 2017 ZHOU Duanzhuang, a poetess in contemporary China, and she now resides in Shanghai. She has ever worked in Xishuangbanna, Yunnan Province. Her poems have been carried on The Star Poetry Periodical, Monthly of Poetry Newspaper, The Yangtze, Chinese Poetry, Yangzhou Poetry, etc., and she has won a host of prizes. Her important poems have been included into Classic Collection of Chinese Poetry and Painting in the Past One Hundred Years, One Hundred Young Poetesses in Contemporary China, Selected Short Lyrics by the End of the 20th Century, and Poems by Poetesses of Yangzhou in the Past Dynasties, etc. In 1998 she was invited to attend the poetry activity in Russia. Some of her poems have been translated into English, Italian, Croatian, and Russian, etc.

Fa Sempre Più Freddo Diversi monotoni cinguettii di uccelli Son questi i rumori della neve Mentre elimina i vostri virus Fa sempre più freddo Fino a quando i cuori caldi ottengono una bellezza tranquilla nel freddo gelido Fino a quando la pesantezza smette di volare Essa e il dolceinverno si guardano l'un l'altro Con le radici intrecciate sotto il terreno ghiacciato Stringe di nuovo mani amichevoli 25 gennaio 2018

Il Mare e Yongchun Road Ricordi Gli alberi snelli proiettano ombre verdi Dal mare Onde che si infrangono urlando Aspettano che la luce del sole passi Impronte sulla spiaggia, un altro mare sconosciuto I gabbiani volano avanti e indietro Tentando di attraversarne la profondità Vai su o non arriverai a Yongchun Road Qui tutti i sentieri portano alla sorgente Anche un uomo con una gamba sola e con un bastone da passeggio Può regolarmente camminare 23 novembre 2018, Gulangyu Isola

Mutamenti

Vaste e tranquille, le colline di Xishuangbanna Sotto la luna In fuga, le ragazze Dai e i giovani istruiti Una serata al cinema all'aperto Rispetto a Walden, la storia successiva è Tranquillizzante Gli uccelli cinguettano tra i fruscianti bambù L'isolotto della stagione delle piogge nel mezzo del fiume Le barche remavano attraverso i torrenti Gettando torce al Monte Sanda Le ombre delle persone ondeggiano dolcemente Nei venti distanti settemila miglia


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VIVI IL PRESENTE Fiori di fenice confinano con la foglia, un ruscello Gorgogliando attraversa la conca Ruggenti trattori ritornano La luna e le stelle sono alte, grandi e luminose Ombre sottili dai lunghi capelli Rose all'alba Danzanti nei nuovi campi

Vivi il presente e non pensare a come e quanto sarà il tuo futuro. Il tuo futuro è l'oggi, è l' adesso che già passa e ormai è stato. Vivi quindi il presente e vivilo intensamente, meglio che puoi, nel bene.

Sugli impraticabili sentieri di montagna, la Bestia ruggisce echeggiando Al crepuscolo, le motociclette tremano Nella tempesta di lettere Chiacchierando di parenti che si alzano con il crepuscolo Tagliatelle saltate in padella e maiale in scatola Luccicante nell'oscuro vallone

Non ti resterà più tempo per pensare al futuro e preoccuparti. Ogni momento così vissuto sarà nel tuo futuro il tuo passato, tanto sereno quanto sereno il tuo presente sarà stato. Mariagina Bonciani Milano

Lunghe lettere scritte, bramose Nel bosco, passeggiando avanti e indietro 4 maggio 2017

ZHOU Duanzhuang, poetessa della Cina contemporanea, risiede a Shanghai. Ha sempre lavorato a Xishuangbanna, nella provincia dello Yunnan. Le sue poesie sono state pubblicate su The Star Poetry Periodical, Monthly of Poetry Newspaper, The Yangtze, Chinese Poetry, Yangzhou Poetry ecc., E ha vinto numerosi premi. Sue importanti poesie sono state incluse nella Collezione classica di poesia e pittura cinese degli ultimi cento anni, Cento giovani poetesse nella Cina contemporanea, Testi brevi selezionati della fine del XX secolo e Poesie di Poetesse di Yangzhou di passate dinastie ecc. Nel 1998 è stata invitata a partecipare all'attività di poetica in Russia. Alcune delle sue poesie sono state tradotte in inglese, italiano, croato e russo, ecc. Domenico Defelice

Racconti “veramente notevoli” Sandro Gros-Pietro


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Intensi scambi culturali tra Italia e Cina, grazie a Pomezia-Notizie

WE ARE ALL WAITING TO UNMASK OURSELVES di Manuela Mazzola

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TIAMO tutti aspettando di smascherarci è l’ultimo lavoro di Domenico Defelice, che regala ai suoi lettori non solo un’opera di traduzione, ma anche un’attenta analisi critica delle ventinove poesie che compongono la silloge, scritte da dieci poeti cinesi, di cui due donne e otto uomini: Zhang Ye, Duan Guang’an, Zhang Zhi, Chen Hongwei, Tang Shi, Wu Touwen, Cheng Guo, Li Shangchao, Qin Chuan e Xu Chunfang. Il volume nasce dopo anni di collaborazione e di stima reciproca con il direttore di The world poets quartely, Zhang Zhi. Le liriche sono state tradotte dal cinese all’inglese da Zhang Zhizhong e Shi Yonghao e dall’inglese all’italiano da Domenico Defelice e Lidia Chiarelli. Il direttore di Pomezia-Notizie chiarisce subito: “Noi non conosciamo la lingua cinese e questa nostra versione deriva dalla versione inglese di Zhang Zhizhong, perciò, una traduzione della traduzione e, se, come abbiamo altre volte affermato, una traduzione è sempre un tradimento, questa nostra è, dunque, un tradimento doppio!” A parte lo zelo e l’ironia del direttore, il connubio tra la lingua cinese e quella italiana, passando da quella inglese, è riuscito molto bene, nonostante le numerose differenze linguistiche. Ad esempio la struttura della frase cinese è molto rigida, infatti, la punteggiatura comprende pochi segni come il punto, la virgola, il punto esclamativo, la virgola rivoltata e il punto interrogativo; il verbo non concorda con il soggetto e rimane all’infinito. È dunque molto diversa da quella italiana che è, invece, così flessibile, così ricca e musicale. Le traduzioni, però, sono state eseguite con accuratezza, cercando di rispettare i canoni e gli aspetti tipici della cultura cinese, che emergono con delicatezza in una visione pura del

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proprio ambiente naturale. Molti sono gli argomenti trattati che ci avvicinano alla cultura cinese, soprattutto in questo particolare momento storico. Il rapporto professionale, ma anche umano, è stato importante per comprendere che l’altro non è mai così diverso come sembra, anche se geograficamente molto distante. Dunque i moti dell’anima, le riflessioni sulla vita, la sofferenza divengono universali poiché appartengono all’essere umano in qualunque luogo esso abiti. Nelle poesie ricorrono spesso le parole pietra e montagna. “Sopra una impenetrabile montagna/ seduto in solitudine” […] “La collina è cosparsa/ di pietre taglienti e angolature” […] “I capelli grigi sono diventati del/ colore della neve di montagna bianca e pura” […] “Resterò pietra anche dopo il millennio/ ma tutto ciò che abbiamo visto/ sarà spirito col vento”. Le montagne della Cina offrono un panorama unico al mondo poiché proprio su di esse sono sorti meravigliosi monasteri. La montagna rappresenta un luogo mitico, dove l’uomo può incontrare il divino, ossia l’unione tra il cielo e la terra. E proprio in


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Cina il pellegrinaggio in montagna simboleggia l’iniziazione spirituale, aprendo un possibile contatto con la dimensione superiore. Le pietre, invece, sono simbolo di forza, se preziose, anche di purezza, ma essendo composte da materiale minerale, anche simbolo di eternità e possiedono un campo energetico, che sta alla base della medicina tradizionale cinese. Leggendo le poesie si entra sicuramente in una simbologia diversa dalla nostra, la quale proviene dalla cultura giudaico-cristiana, che però riesce ad affascinarci e ad arricchire i nostri orizzonti. Si può notare che la ricerca di se stessi e dell’elemento divino è la medesima anche nell’universo orientale. Defelice ricorda: “I rapporti tra Italia e Cina sono buoni e ottimi sono pure gli scambi economici e culturali. Continuo è l’interesse della stampa italiana per scrittori e poeti cinesi e in Cina c’è interesse per l’Italia e le sue culture, tanto è vero che, in molte scuole cinesi, si continua ad insegnare anche la lingua latina”. Nei commenti e nelle riflessioni che accompagnano tutte le liriche, il direttore è riuscito ad avvicinare due realtà diverse e a far comprendere che, qualunque sia la Nazione, qualunque sia la religione, la natura dell’essere umano è sempre uguale e in quanto tale, il suo prodotto, in questo caso la poesia, è riuscita dove altre categorie professionali non sono riuscite mai. Manuela Mazzola AA. VV. – We Are All Waiting to Unmask Ourselves/ Stiamo tutti aspettando di smascherarci - Domenico Defelice, Pomezia-Notizie Zhang Zhi, The world poets quartely Edizione 2020 pp. 104 € 20,00

MALINCONIA DI UN PENDOLARE Sopra un treno qualunque in una sera qualunque in una stazione qualunque. Resta per una vita in attesa di una felice coincidenza tra il passato e il futuro. E poi? Posa il libro sul sedile

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(graffiato e sporco) e si affaccia a respirare. Un passero appare e scompare dalla fenditura di un muraglione. Magri fiori selvatici tremano al vento, rari alberi malinconici si adagiano a un’altra notte di silenzio. Perché dovrebbe temere lacrime e solitudine se ogni sera (fino a quando?) torna nella sua tiepida casa insieme ad una folla di altri pendolari? Luigi De Rosa Da Fuga del tempo, Genesi Editrice, 2013.

CONTINUITÀ Mi raccontava di serenate di donne contese di sfide. Alla favola ardente dell’America sciamavano i cugini di conchiglie s’incrostavano piano lontane tombe affondate. Odoravano di cenere i bucati di vincotto i dolci di Natale. E fanciulle promesse si chinavano su lunghissimi ricami. E veglie intrecciavano malombre e rosari. Sotto i cari, lungo strade interminabili, lumi e cani ritmavano notturni di pena. Raccontava con occhi lucenti il “piccolo mondo antico” dei suoi ricordi. Del dolceamaro suo paese che fu ritrovavo, dolcissimo, il tempo. E le chiedevo canzoni, stregata, segreta: sua colma vena di continuità. Ada De Judicibus Lisena Da Omaggio a Molfetta, Edizioni La Nuova Mezzina, 2017.


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IL MIO SABATO di Leonardo Selvaggi La mattina dell’ufficio L sabato significa stato psicologico e condizione magica dell’illusione, lo spazio di tempo per la speranza di avere altre cose: ripetere il ritorno sulla sommità con quanto desiderato. In piena libertà lungo il sentiero che con aerei disegni orla le vallate di sotto. Lo stato di sogno, del dolce languore che porta dentro di noi la sottile insoddisfazione. Il sabato è una pausa che ci fa riconsiderare il senso del non essere e vedere la dura realtà con la mente ovattata. Lo stato che si vive è sempre in equilibrio instabile. Tanti giorni che vediamo da un vetro trasparente, il tempo dell’adolescente, la vita come continuità di alternanze. Il corpo che ritrova la ripresa e così la caduta del giorno, la dolce raccolta sera e la mattina con il ritorno della rinnovata prova. Il mio sabato dura con fatica, vivo alla giornata: saturazione piena, incrostazione sulla pelle, non ho più il lungo percorso che si perde ad ogni passo, ci sono le lontananze fosche di un futuro che non si vede. Una fermata, esauste le ossa non hanno più il movimento libero. I binari tagliati in frammenti, è un andare e ritornare sui propri passi; camminare a ritroso, i ricordi irrorati dalla pioggia di primavera trasparenti e rinvigoriti, le gocce colorate sospese, freschezza sul viso. Si va avanti con titubanza, l’orizzonte che ha avuto sempre una coltre nebbiosa, ora è un tratto chiaro, un segmento entro i suoi punti. Lo frantumo pezzo per pezzo, cerco di rubare ancora altri tasselli che ricompongo all’arrivo del sabato. Duro sarà quando il segmento non sarà più rivissuto per tratti; allora mi troverò sulla sua lunghezza indeterminata che nasconde l’insaputo momento rovinoso. Una successione di giorni che non avranno differenze, tutte domeniche illanguidite e rese anonime da un livellato indolente movimento. Non più due vestiti che si dividono e vanno insieme come due binari, la mattina dell’ufficio, il pomeriggio della mia per-

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sona con i pensieri che intessono le idee e convinzioni, tutto il mio modo di essere d’un blocco. Si riannodano ancora gli attuali momenti ai vari passaggi del tempo trascorso. Come in un cesto tra calde piume gli anni luminosi dell’adolescenza, le illusioni che si tengono sempre accese; senza fine l’ampio spazio, entro scorre il fiume delle scintillanti sensazioni. Il contatto di fuori, la vicinanza della natura. Quasi essere alato succhio il nettare della vita e la fantasia si prende più di quello che il reale delle cose può offrire. Amplificato tutto, anche i velati nascondimenti l’immaginazione porta fuori scoperti. La vita si fa longeva perché gli altri che ti corrono dietro danno un po’ i loro anni. Quando i binari sono divaricati senti la sola tua vita che non ha nessuna aggiunta. È la tua esclusiva brevità. Uno svolazzo che non ti aspetti, un soffio vellutato che palpa le gote, un taglio nello spazio vicino. Leggerezza che avvolge con parole pure, rende penetrabile l’intimo e ci si ripiega su di esso. È tutto l’io, nessuna proiezione verso l’esterno, la provvidenza arricchisce se stessi di tutto. Una luce che rischiara su parole dolci, profonda e diffusa per i nascondimenti che si fanno altari di pace. La serenità si copre di intoccabile difesa, le scorie cadono giù per terra. È fuori tutto il malessere che tagliato si dirupa dalla perfetta psicologia sulle realtà che in agguato tramano insidie. Su questo terreno aspro di contrapposizioni si muovono i concetti che mi sono abituali dei miei pomeriggi. Ripeto che il ruolo dei beni culturali deve estrinsecarsi ampiamente in promozioni di professionalità ed in programmi di occupazione. Campo florido di premesse realizzatrici la cultura classica del Mezzogiorno dalle Puglie alla Sicilia con la presenza multiforme delle tradizioni storiche. Far rivivere con l’attività di restauro gli antichi emblemi di arte e di attività di popolo. L’Europa, poi, che sta per prendere la sua definitiva struttura dinamicizzante per tutti i paesi aderenti non può non servirsi delle storiche civiltà mediterranee ricche sempre di potenziali energie. Le biblioteche degli enti locali debbono avere un processo di ridimensionamento come


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centri di ramificazione di contatti, di rapporti vivi nell’ambito degli assessorati alla cultura. Le biblioteche devono rimanere gli strumenti di formazione: attraverso i vecchi fondi bibliografici rivalutati di antiche famiglie riscopriremo forze nuove che possono dare spinta e vita, significati di autentica documentazione per l’uomo. Far risorgere un costume sano con una società concreta, operativa. C’è la necessità di tornare alle proprie basi fondamentali. Da una fase retorica andare verso limiti chiari di azione che possano circoscrivere l’ambito dei veri beni culturali su cui intervenire. Oltre tutto rifare il tessuto sociale con il senso della misura, smantellare ogni forma di aberrazione umana che si estrinseca con sperperi ed egoismi parossistici. Turismo e cultura. Richiamare forme di attività passate in disuso. Gli enti locali più propriamente sono nello spirito dei beni culturali, trovano nel loro contesto la presenza di rapporti veri. Si tratta di ripercorrere la strada che porti all’individuazione sempre più accentuata dei centri storici e dei corredi particolari di memorie. Incontenibile inibizione Struttura del corpo fatto di parti liberamente intercorrenti. Non ci sono sacche indurite che sono pesi, perdita di verde in un prato sassoso con fosse, disarmonico con ciuffi d’erba e rialzi. Poi i nervi si tirano facendo pressione sulla muscolatura. La circolazione ha flussi diseguali non bene concomitanti. La base uniforme non c’è, i legami vanno un po’ da sé per un corpo che sembra rattoppato o manipolato senza rifiniture. I pensieri sono molte volte ferite e impulsi che gli organi fanno cigolare e alterare. Basta andare indietro, alle case desolate immobili con le rustiche pareti, i selciati e i muretti che delimitavano angoli chiusi. Le origini della natura. Solo l’essenziale germoglio del seme in mezzo al campo argilloso poco dissodato. Come steli aridi degli interstizi, duri i sentimenti e i legami fra le persone severi schematici. Scarna la vita come il paesaggio. Torvo lo sguardo del genitore se non vedeva i sette figli composti e allineati attorno al focolare. I ragazzi dai rozzi vestiti ispessiti

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sono uomini raccorciati con quel dialetto denso come olio d’oliva o vino delle colline assolate. Una voce mista tra femminile e virile, polposa vibrante verginale e tutta genuina spontanea senza finzioni. L’espressione aperta e visibile, onomatopeica e specchio di tutto. La molta neve caduta ha fatto cupole intatte sulle forme delle case, manti gonfi di lana sulle strade. Un silenzio pieno comprime i vuoti, permanente attesa nei cuori, sempre pronti a dare. I visi accesi. Mia madre è un monumento, vi aleggia attorno tutto quel tempo naturale. Ha sapore di pane di grano macinato dalla ruota di pietra, porta l’odore della casa in ordine. Si mangia pane e coltello per dire che c’è poco; l’appetito produce gusto. E poi sempre la parlata che è quasi un assaporare i suoni e un adagiarsi sulle cose significate; si vuole prendere in bocca quello di cui si ragiona per mettere dentro l’umore di se stessi. Un connubio vero tra quello che fa il luogo e quello che vicino sta alla persona. La forza maschile domina e le femmine soggette sanno fare tutto, i polsi nodosi sono resistenti per i lavori tutti fatti a mano. Diventano virtuose con l’ago e l’uncinetto; l’abilità magica della fata. I ricami sono intrisi e caldi di sogni, il fiato silenzioso si intesse col filo per farlo profumato e compatto, quasi vivificato. La bocca si inclina sulle forme variopinte dei disegni di lana, sulle rose di filo che si uniscono in successione simmetrica; il pensiero parla tacito, distratto nella casa. Le parti intime strette da impenetrabile pudicizia, uno scrigno colmo di tesori. Il paese era piccolo e neppure lo si conosceva tutto, ma si sapevano i fatti delle persone, la comare del cuore e le vicine raccontavano quello che sentivano dire. La vita è un insieme di case amiche che se ne stanno a gruppi, allineate, l’una in faccia all’altra si guardano con gli occhi dell’unica finestra posta sull’architrave. Tutte diverse come le persone dalle caratteristiche e segni propri. Una lunghezza di storie tramandate che si infioravano di sapore di leggenda. La vita non aveva la fragilità che si sente oggi. La generazione attuale vede i mali degli altri che confortano e convincono: quello che si ha è


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una ricchezza della provvidenza e ci si contenta sul momento, ma sempre corrosi da un desiderio di non si sa cosa. La presenza di mia madre si aggiungeva a quella degli altri, un solo magma che si incrostava e niente faceva limite, era un’unica pasta lievitata che si dilatava con la interiore pacifica e ingenua consistenza di se stessi. I caratteri docili perduravano dentro l’involucro della pazienza remissiva. Un atteggiamento quasi di tutti. Ma a volte si annida smorta una vena di ribellione cresciuta negli anni, repressa che può infervorarsi all’improvviso in momenti di eccessiva incontenibile inibizione. Allora l’ira s’inalbera, le parole si scagliano contro astiose ed esulcerate. Qualcuno per natura più incline alla violenza: aveva sentito parlare di truci episodi del tempo dei briganti e quello più brutale quando andava in bestia gli veniva in mente spinto da una rabbia cieca: la fine fatta da Angela Ricotta. Donna imprudente e di gelosia malvagia aveva rivelato il rifugio ove erano tenute nascoste le belle figlie di una famiglia perbene del paese. Le appetitose fattezze, il roseo candore di purezza intatta, la loro giovinezza profumata come i fiori dai calici ancora chiusi, di gocce di miele i petali soffusi. Solo gli artigli di un nibbio avrebbero la preda fresca e fumigante intravista di fine sapore insozzato; le piume del manto bianco come velo di immacolata fragranza con insaziabile brama scomposto. I briganti prendono durante le loro razzie tutto quello che scovano. Per il bottino più piacevole che si possa avere Angela Ricotta si fa mezzana traditrice. Trascinata per le strade, trucidata a pezzi, furioso va dietro di corsa mezzo paese, festanti i ragazzi percuotendo i coperchi delle pentole. Il guardaboschi a cavallo va per il paese spavaldo, uomo rozzo e di modi pesanti. Ai legami con Stella di famiglia fra le più onorabili nessuno voleva credere. Ci si ostinava che era una delle sue spacconate di prepotenza; il cavallo fra le poche case passava percuotendo sulle discese di acciottolato i ferri degli zoccoli. Lui il dissacratore del contegno morigerato che in genere tutti gli abitanti hanno. Proveniente da altri luoghi si sentiva libero. Una scommessa per

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tutti i suoi conoscenti. Quasi un colpo di scure inferto alla integra compostezza della famiglia offesa; una sera alcuni aspettano nell’ombra all’estremo del paese su cui si affaccia il balcone della donna amante: per comprovare la verità della prodezza un lume acceso il gradasso avrebbe fatto comparire fuori della ringhiera. La diceria si fa certezza, non si può tenere come peso soffocante questo atto di improntitudine feroce. Il guardaboschi attraversa la piazza, si ferma alla fontana per abbeverare il cavallo, due ragazzi eccitati dal suo aspetto ridicolo per la balbuzie che fa le parole sconnesse e stentate. Derisione e gioco, spruzzi di acqua sulla faccia, insistenti gli insulti e le provocazioni che lo fanno esasperare e andare fuori di sé. Gira irritato sulla bestia dissetata per il vicolo verso casa. Trova la vendetta che esplode, la morte portatagli dal fornaio del paese, vengono sferrate coltellate furenti, il guardaboschi cade agonizzante: accusa i due ragazzi della fontana. L’omicida vero in agguato per espletare il misfatto commissionato se la passa liscia, aveva leccato il sangue della lama, in questo modo sarebbe rimasto sconosciuto il suo gesto. Pazze di piacere Il fresco delle sere estive nella penombra della strada, una tenerezza amorosa dilagava le sottili emozioni: sentire le voci femminili, quelle espressioni che erano vibrazioni di ogni punto del corpo. Un parlare di nascosto, taciti invisibili incontri di sguardi e di accenni. Ad ogni piccola fatica ci si illanguidisce, liquefatte le riflessioni, tanto è il travaso che tiene dietro ad uno stato d’animo sensibilizzato. Sui gradini con le vicine, inavvertibili trepidi contatti, parole pieghevoli ad ogni dolcezza. Le feste popolari ai Santi nelle chiese dei boschi. A Sant’Antonio abate sulla montagna mai andato, ho imparato di lontano a distinguere il luogo dalla sua forma trapezoidale; mio zio Innocenzo che in paese chiamano il re del Giappone perché di statura bassa, con sorriso permanente sulla faccia, il modo immediato di fare amicizia per la sua semplicità, lui mi parlava delle caverne dei briganti, di oro trovato


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in grossi recipienti. Il cervello si abbaglia guardando l’esuberanza delle ragazze avventurate sull’altalena appesa ai rami dell’ulivo, sbilanciandosi libere in ebbrezza sventagliata, disarticolate con le gambe denudate, le chiome scarmigliate, il viso rubicondo, pazze di piacere agreste il giorno del lunedì dell’Angelo con le ciambelle lucide cotte attorno alle uova, la minestra sapida di finocchietti selvatici e tutte le torte dal ricco strato dentro di formaggio e salciccia, le focacce infarcite di foglie di cipolla fresca e di uva passa. Fra poco non ci sarà più spazio sui marciapiedi; io che sono l’autentico pedone fra i pochi, mai pensato alla patente di guida mi tocca passare stretto lungo i muri. Le macchine sono aumentate a vista d’occhio, la ragazzetta s’infila dentro, sul manubrio salta come capretta, accompagna le curve con l’inclinazione della testa; solo piacere e divertimenti, i piatti non li vuole lavare e la casa puzza di chiuso, pronta agli incontri svolazzanti esperta com’è, adulatrice esibizionista di furberia mascherata da ingenua adolescenza al primo sboccio. Le persone ormai non camminano, poco amore per la campagna, case nei piani alti, il cuore di metallo. Ampio lo stomaco aperto sempre a prendere ogni tipo di mangiare sofisticato. Avidi di carne gonfia di animali che non vanno all’aperto sui prati a brucare l’erba, chiusi nelle stalle o nelle gabbie, funzionanti apparati meccanici, per prendere i mangimi chimici percorrono solo il tempo sintetico stretto dell’aumento di grasso, senza il libero sviluppo. Leonardo Selvaggi ELLA E ORLANDO Con il cuore che sobbalza d’amore, penso ai miei dolcissimi tesori, preziosi, meravigliosi pronipoti, fonte magica della mia gioia, che zampilla di perenne splendore sotto la pioggia e sotto il sole. Due gioielli d’inestimabile valore, che tengo sempre stretti al cuore. Ella, una splendida bambola di 4 anni, bellissima, allegra, elegante,

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sempre sorridendo mi abbraccia e mi dice “Ti amo nonna, tanto tanto!” il mio tesoro comincia a parlare in italiano, in casa mia, si parla solo l’italiano, figli, nipoti e pronipoti, sono sotto la protezione e il sostegno della nostra dolce Lingua Italiana. Orlando, meraviglioso gioiello di 8 mesi, mi sorride, mi bacia, si butta con allegria tra le mie braccia. I miei due splendidi tesori, sono la ricchezza della mia vita, sono il sole che scaldano il mio cuore e mi fanno dimenticare i miei dolori. Gesù mio, benedicili, proteggili, aiutali a crescere bene, con tanta salute, colmi d’amore, d’intelligenza, di essere sempre felici sotto la Tua infinita Benedizione! Cav. Giovanna Li Volti Guzzardi Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori

AD UN PESCATORE DI NOME PEPPINO Sedevi, ormai vecchio, di fronte al tuo mare. Su una panchina del porto riempivi lo sguardo per ore di barche in attesa, di notte tranquille, di povere albe. Sulla panchina del porto saziavi l’anima sola di antichi ricordi gli occhi stanchi a cercare orizzonti. Così ti ho visto, pescatore della mia infanzia, ma non ho saputo ascoltare i tuoi racconti di mare e non ti ho dato parole a riempire il tuo vuoto. Ho perso, ora lo sento. Tra le tue rughe e le tue parole avrei trovato fiabe per riempire la panchina della mia vecchiaia. Maria Gargotta Napoli


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“UNA VERA ARTE” (Matteo Collura) -9-

DEDICHE a cura di Domenico Defelice “Al Prof. Domenico Defelice/con tanta Amicizia/Galatro, Maggio 1994 Distilo” (quaderno: Francesco Di Stilo - L’acqua d’ ‘u Stabilimentu ‘i Galatru). *** “All’amico scrittore/Domenico De Felice/ti ricordo con l’affetto/di Antonio Coppola/Roma, 7/1/1995” (suo volume: A colloquio con il padre, Ed. Edicon, 1995). *** “Al chiarmo poeta e critico/Domenico Defelice/su cortese segnalazione della Sigra/M. G. Lenisa, offro in cordiale/omaggio questo libro di versi/del defunto mio fratello Giuseppe/Benedetto con preghiera di nota,/…a ricordo dei pluriennali/Suoi rapporti di amicizia e di/reciproca stima con G. B./Cordialmente Sesto Benedetto/RC 22.3.1995” (volume: Giuseppe Benedetto - Parole scritte, Batogi, 1994). *** “Roma, 28/10/95/Gentile Domenico Defelice,/La prego di accettare/questo mio libro./Cordiali saluti/Antonio Padula/Indirizzo:/Via Buonarroti, 30/00185 ROMA/ tel./4466372” (volume: Un ludico equilibrio, Ed. Bastogi, 1995). ***

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“Al carissimo amico/Domenico Defelice/con tanta stima/e grande affetto./Roma, 15 - 11 1995/(grato se ne vorrai pubblicarne qualcuna…)/Ettore” (volume dattiloscritto: Ettore Alvaro - Ninnananne in lingua e in dialetto calabrese). *** “A Domenico Defelice,/con stima sincera./Antonio/Coppola/Roma, 18.4.96” (suo volume: La memoria profonda, Bastogi, 1996). *** “All’Amico/Domenico Defelice/con tanta stima -/22 - 9 - 98/Ettore Alvaro” (suo dattiloscritto: Libera interpretazione del PADRE NOSTRO in dialetto calabrese, 18.8.78). *** “A Domenico Defelice,/con immensa stima e/amicizia/Carlo Cipparone/Roges, ott. ‘99” (suo volume: Strategie dell’assedio, Ed. Orizzonti Meridionali, 1999). *** “A Domenico Defelice/insisto ad ammirare l’abilità/del giocatore, l’illusionista;/consegno ai tuoi occhi/l’ampiezza e la profondità/delle verità nascoste./Con affetto e ammirazione./Antonio/Coppola/Roma, 15 - 1 - 2000” (suo volume: Da Èmmaus le parole, Ed. Service System, 2000). *** “Al Poeta/Domenico Defelice/con cordiale stima./da/Franco Riccio/Settembre “2000”/via Poggio de’ Mari, 46/80129 - NAPOLI -/Tel. (081) 549.14.55” (suo volume: Vita minore, Edizioni del Leone, 1999). *** “Un volto che viene/dalle profondità della memoria/e chiede un rapido sguardo/Con stima/a Domenico Defelice/Casaletto 21.XI.00/Giovanni Chiellino” (suo volume: Il volto della memoria, Edizioni Scettro del Re, 2000). *** ”Al Professore/Domenico Defelice/con stima e cordialità/Maria Teresa Liuzzo/RC 6.7.2001” (suo volume: L’acqua è battito lento, Lineacultura, 2001). *** “A Domenico Defelice,/con umiltà dedico


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questo/modesto saggio all’amico e/conterraneo Domenico, con/immutata stima e affetto./Antonio/Coppola/Roma, 16.x.2001” (suo volume: …Mare forza “otto” La poesia di Ninnj Di Stefano Busà, Ed. Lineacultura, 2001). *** “Al Professore/Domenico Defelice/con viva stima e simpatia./Maria Teresa Liuzzo/RC. 7.2.2002” (suo volume: Autopsia d’immagine, A.G.A.R. Editrice, 2002). *** “Al caro Mimmo,/con cordialità e/affetto/Rino Cerminara/Roma Febbraio 2003” (suo volume: Falesie da Molpa a Castrocucco (poesie del golfo di Policastro), Edizioni Pubblisfera, 2003). *** “Al Professore Domenico Defelice/con simpatia e stima./Maria Teresa Liuzzo/RC giugno 2003” (suo volume: …ma inquieta onda agita le vene, Ed. A.G.A.R., 2003). *** “A Domenico De Felice, amico da sempre,/con profonda stima e simpatia./Franco Di Filippo” (suo volume: Maria, icona di un popolo devoto. La Madonna del Sabato Santo, l’Abazia di Mejulano e il Santuario Mariano di Corropoli, 2014). *** “Maggio, 201/Al gentmo Dott./Domenico Defelice/con gratitudine e cordialità/Giuseppe Melardi (suo opuscolo: Percorsi). *** “Caro Direttore/gradirei un tuo/personale/riscontro/Nello Tortora” (suo Son quasi tutti là, Edizioni Brontolo, supplemento an n. 196 di “Brontolo”). *** “A Domenico Defelice, a Pomezia-No/tizie, auguri per un Anno Nuovo 2012/prodigo di salute e soddisfazioni!/Di cuore e con amicizia/Elena Milesi/Bergamo, Natale 2011” (volume Milesi [Giuseppe] autoritratti e racconto biografico a cura di Elena Milesi, Corponove, 2011). *** “A Domenico,/bozze nuove!/con grande

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stima/Aurora” (fascicolo Alle gazze, di Aurora De Luca, 16 gennaio 2017). *** “A Domenico/Defelice da/parte di Alice/Pinto/Pasquale Montalto/25/9/’15” (sul catalogo Percorsi d’arte 2015, Fondazione Vincenzo Padula, verso il Premio Padula 2015 VIII Edizione, Acri (Cs) Via G. Amendola Settembre 2015). *** “Per i cari tuoi/Nipoti/affmo Nino Testagrossa” (volume: Chiudo gli occhi… Piccoli autori in volo “Sulle ali di una pagina” Premio Maria Messina XII Edizione 2015 - Sezione Fiabe). *** “Al mio caro amico/Domenico Defelice/con stima e affetto./Tito Cauchi/sett. 2014” (suo volume: Palcoscenico, Editrice Totem, 2014). *** “Al prof./Domenico De Felice/uomo colto e valido/operatore nel mondo/della letteratura,/con stima/ed amicizia/sincera/Fortunato Aloi/lì 18/11/2014” (suo volume Vox clamantis… Come può morire una democrazia, 2° edizione, Nuovo Domani Sud, 2014). *** “A Domenico Defelice/questa mia satira, che spero/condivide./Aldo Cervo” (suo volumetto: Pasquinate al peperoncino, Edizioni EVA, 2014). *** “Con tanto affetto/all’amico scrittore/Domenico Defelice -/Gianni Rescigno” (suo volume: Storia di Nanni, Galzerano Editore, 1981). *** “All’amico caro,/al suo instancabile prodigarsi/per il bene e la bellezza,/con il calore della vera amicizia./Sandro” (volume: Sandro Angelucci - di Rescigno il racconto infinito, Blu di Prussia, 2014). Invitiamo lettori e collaboratori a inviarci le dediche, indicando con chiarezza, però, nome e cognome degli autori, titoli dei libri sui quali sono state vergate, casa editrice e anno di pubblicazione. Grazie!


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NATALE 2009

bianco inaridirà sul capo: te l’offro come fiore.

Dove non ci sono luccicanti addobbi e sprechi è più Natale che da noi.

Rocco Cambareri Da: Azzurro veliero, Gruppo “Fuego”, 1973.

Mi piace osservare questa pioggia così lenta che ci bagna le parole: passano per il cuore e subito si fanno stelle scintille di ricordi nella mente.

UN ALITO NEPPURE PERCETTIBILE

Oggi siamo pastori su sentieri antichi che vanno alla Capanna, siamo angeli con il dono dell’amore nelle mani. Gianni Rescigno Da Il vecchio e le nuvole, BastogiLibri, 2019

NATALI Errano i teneri presepi, accesi e spenti come petardi di fanciullo. Natali seguirono soli, in collegi saturi d’incenso o in caserme soldato più grigio che verde. E Natali a Roma con vinti imperatori e plumbee fontane; intorno a calabre mense dentro me riemerse; innumerevoli notti natalizie a colloquio coi morti – a me stesso estraneo. Neri Natali sofferti tra miseri cui vedevo in gola raggrumarsi il pianto. E recenti Natali nell’America del Sud: Natale o Pasqua? Tanti Natali abbrividenti senza tepore di neve. Quest’anno senza te, altro Natale, altro capello

Eccoci, Gesù Bambino, smascherati con l’imporci la maschera. Sai che la nostra fede è più leggera d’un’ala di farfalla, un alito neppure percettibile, a malapena pensato. “Se avrete fede e non dubiterete smuoverete pure le montagne”. In tutto il mondo s’alzano preghiere. Il Papa prega, i preti nelle chiese, le suore nei conventi, le folle impaurite. Fosse Credo assoluto ed esclusivo, un fiato e sparirebbe la pandemia. Domenico Defelice Domenico Defelice: Bozza per l’opera “Davanti al Presepe”, biro, 1960. ↓


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Recensioni FABIO DAINOTTI POESIE CONTROCORRENTE E RACCONTI IN VERSI (Prefazione di Paolo Ruffilli e postfazione di Carlo Di Lieto. Biblioteca dei Leoni, Castelfranco Veneto, 2020; pp. 65, € 10,00. In copertina: Federico Zandomeneghi, Signora con cappello, 1885) La poesia di Fabio Dainotti non è solita abbandonarsi al flusso nostalgico del ricordo, e nemmeno ama troppo concedersi al lirico rapimento del sogno, alla romantica pittura di paesaggio o alla riflessione meditativa. L’autore di queste Poesie controcorrente, ha sempre prediletto rapidi schizzi che paiono abilmente tratteggiati ad inchiostro di china. È come una serie eterogenea di istantanee, così nitide e precise, però, da cogliere in un attimo e fissare sulla carta diverse tranches de vie, con tante figure e figurine (come recita il titolo di una delle sei brevi sezioni) che formano un mosaico le cui tessere – pur raggiungendo alla fine una sorta di autonoma compiutezza – il poeta non ritiene indispensabile riordinare in una conseguente successione temporale o inquadrare in una cornice che possa dare loro un’armoniosa unitarietà: quasi, si direbbe, volendo sottintendere che lo spontaneo svolgersi ed evolversi dell’esistenza non può essere costretto in un sistema monolitico quanto fittizio, poiché sempre è destinato ad infrangersi e a disperdersi in una spettacolare molteplicità di particolari. Dainotti è un poeta che rappresenta magistralmente il disincanto con cui l’uomo maturo guarda alla sua giovinezza, agli eventi, alle cose, alle persone del suo vissuto; alle esperienze importanti e

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durature come pure a quelle effimere, dissolte nel volgere di un’ora, di un momento, di una stagione. Sono, queste poesie, simili a cartoline in bianco e nero di un album sfogliato con un sorriso ironico, sornione, in qualche caso persino vagamente cinico. Sono guardate col distacco del saggio che, mentre nota e ricorda, dice: ho compreso, quindi ora so; e intanto lascia ad un altro osservatore (chi legge i suoi versi, ovviamente) il gusto di riflettere e di interpretare, di scovare fra le righe il non detto, l’alluso, il sottinteso; tentando magari di scoprire anche quanto ci sia del poeta nella realtà che rappresenta, oppure quanto i personaggi e le figurine – che egli ricrea mentre le rammenta – siano o no in parte ‘controfigure’ di lui stesso. Non ci sono qui languori o rimpianti o struggenti abbandoni. Anche gli amori di cui si fa cenno sono deliziosi quanto fuggevoli: modellini di signore contemplate mentre sfilano eleganti con ombrellini al braccio, oppure donne dall’aria vissuta che intriga, corteggiate al tavolino di un caffè, desiderate sulla sabbia assolata di una spiaggia o nella chambre separée di un albergo. Ma tutto è vita, tutto ha un senso e un suo valore irripetibile. Sono episodi fra loro separati, che hanno tuttavia “fatto la storia”: un’incredibile giostra di vicende talora illuminate e osservate da una stella variabile, che è tale, a sua volta, perché rispecchia la mutevolezza dell’esistenza, l’umana volubilità. Paolo Ruffilli, nella conclusione della sua prefazione, afferma che la poesia di Dainotti «si può definire una sorta di cronaca dirottata, giunta alla sistemazione delle immagini dopo essere passata al vaglio di una ragione che intende per lo meno tentarne una decifrazione per guardare in faccia la realtà senza paure, nelle vicende quotidiane, nelle relazioni interpersonali, nell’amore, nei dubbi e nei punti morti della vita». E questo voluto andare controcorrente comporta quindi «una disposizione positiva e decisamente anticonvenzionale, – scrive ancora Ruffilli – nella convinzione che la poesia, dicendo il meno possibile è in grado di leggere sorprendentemente nelle pieghe del silenzio». Miserie, tradimenti, fughe, gelosie, ex amanti perduti e ritrovati, persino i famosi fidanzatini di Peynet ci sfilano davanti agli occhi come parte di un’elaborata fantasmagoria, di una Festa galante (c’è l’ombra di Verlaine?...) svagata e voluttuosa, dove tuttavia nessun costume, nessuna maschera riesce a nascondere del tutto uno sguardo intimamente rassegnato e malinconico: Il bocchino, i capelli impomatati; lusinghiere parole. Un décolleté di donna, morbida nel guardare, lenta nel dire.


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Una musica triste al pianoforte. Indistinta, nel fumo dei liquori, la voluttà di perdersi e trovarsi. Marina Caracciolo

ISABELLA MICHELA AFFINITO SI CHIAMAVA CLAUDE MONET Con intervista immaginaria a Monet, Presentazione di Marina Caracciolo, Bastogi Libri, Roma 2020, Pagg. 144, € 14,00 Isabella Michela Affinito, saggista e artista frusinate, ci offre la raccolta poetica dal titolo Si chiamava Claude Monet, rivolta al pittore impressionista francese dell’Ottocento, illustrandone la copertina. Dotta conoscitrice qual è dell’arte nelle sue varie espressioni, possiamo paragonarne la silloge a un saggio lirico e pedagogico. L’opera è dedicata alla madre Dalia, venuta a mancare l’anno prima (2013), ed è anche indirizzata ai Segni zodiacali d’Acqua. Apre con un componimento intitolato a Marina Caracciolo, saggista torinese nativa di Milano, della quale, prendendo spunto dal nome di battesimo, dice che “aiuta, consiglia, s’immedesima / e torna ad essere delicata / creatura d’Acqua”, un modo per ringraziarla della prefazione. Difatti la Critica assicura: “Isabella ci conduce per mano attraverso le sale di un’immaginaria mostra d’arte”, e ne paragona i versi a un “canzoniere d’amore” per i colori cangianti dell’artista e più in generale per l’arte. E l’Autrice nell’introduzione, compiaciuta d’appartenere allo stesso Segno d’Acqua del Pittore, (lo Scorpione), confessa che in un primo tempo pensava che l’amore per lo stile del Francese poteva essere espresso attraverso una decina di poesie, mentre invece l’ha affascinata per un intero volume. La Affinito ci fa sapere che Claude Monet (14 novembre 1840 - 5 dicembre 1926) amava la natura paesaggistica, tanto da realizzare “un regno floreale chimerico”, multicolore: un parco di 7.500 mq che impegnava sette giardinieri fissi per la cura [numero di dipendenti che mi sembra eccessivo; chissà che non sia un errore]. Assicura che il Segno zodiacale di appartenenza è caratterizzato da una “sofferenza ancestrale che, in taluni casi, provoca la genialità”; altresì avverte che l’ultima poesia della raccolta “è la figurazione di un ipotetico incontro tra Claude Monet e la poetessa americana Emily Dickinson (che in vita scelse l’autoreclusione nella sua casa)”. Inoltre preannuncia che in tema di giardinaggio ha voluto includere in chiusura, altri due note critiche

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che, unitamente all’intervista immaginaria con Monet, occupano le ultime 30 pagine. Intanto si ripromette di realizzare in seguito un analogo volume su Pablo Picasso. Ci siamo attardati poiché quanto sopraesposto aiuta a comprendere meglio il testo e le figure in argomento. La Nostra, pur lontana dai toni cattedratici, fa ritagli di Storia dell’Arte; la seguiamo per quanto possibile, passo passo. Trattandosi di pittura nell’incipit ricorda che “C’era una volta En plein air” spiegando che si trattava dello “stile pittorico all’aria / aperta senza inibizioni” affidandosi ai colori che “il sole decretava”. Avvertiamo che l’espressione scritta in francese non è un vezzo dell’Autrice, bensì è termine entrato nella terminologia specifica. Il riferimento a Monet è continuo, così pure ai vari elementi che ne determinano lo stile: l’impressionismo. Così sono frequenti i pioppi, il salice piangente; i papaveri rossi come la passione, gli affetti, che ricordano i giochi dell’infanzia; l’acqua e le ninfee; i ponticelli che adornano i giardini; gli “acuti più forti, il blu e il viola” che sfuggono. E luoghi geografici in cui è stato, anche italiani, così i limoni e il mare di Bordighera in Liguria e la più volte citata Venezia decantata come ‘poesia d’acqua’, il Palazzo Ducale e le cattedrali. Fra le persone e i luoghi abbiamo il luogo degli affetti Giverny dei pranzi e dei simposi sui prati nei pomeriggi estivi; Rouen e la Cattedrale dal profilo gotico; Argenteuil e le barche; Camille, l’amata moglie volata come una farfalla a soli trentadue anni e la seconda moglie Alice dalla quale ha avuto Jean. Naturalmente Parigi e Roma, i riferimenti alla morte con richiami agli dei della classicità greca e latina. La brava Affinito è incantata e a sua volta incanta il lettore con le sue descrizioni: Isabella sta dentro alle tele del pittore, sta dentro ai pensieri dei propri personaggi. “Ovunque / si posassero gli occhi / di Monet sgusciava / la sagoma di qualcosa / che non stava in piedi / per la vaghezza di cui / era fatta” (p. 81). Claude Monet amava la ripetizione delle vedute, questo era un modo per verificare le diverse tonalità della luce e nel contempo rappresentava uno svago per tenersi impegnato; in ogni caso coglieva la possibilità del momento. Così “Se fuori insieme ai gialli / si sovrapponevano / le ciarle di un simposio / all’aria aperta, allora / lui ritraeva l’occasione” (p. 87). Prima di congedarci ci soffermiamo su figure e note critiche funzionali alla silloge, sono arricchimento artistico-letterario. *** Emily Dickinson (1830-1886), poetessa americana che ritroviamo amata anche in altre opere, viene accostata idealmente tra al pittore francese; anche se non si conoscevano, entrambi “sono esistiti


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sulla medesima / latitudine del paradiso umano”. Ripeto Isabella Michela Affinito rallegrando fa insegnamento e asserisce che Claude Monet ci fa “auscultare” la voce della natura. “Il giardino dei Finzi-Contini” (1962) di Giuseppe Bassani (1916-2000). Il romanzo autobiografico; ha avuto vasta eco grazie al film realizzato da Vittorio De Sica (1970); prende il titolo da una famiglia aristocratica di ebrei in Ferrara: i genitori Ermanno professore e Olga, due figli Micòl e Alberto. La casa veniva frequentata da giovani studenti che piacevolmente si intrattenevano nello sconfinato giardino, senza badare alle differenze sociali, durante i lunghi pomeriggi estivi “Il giardino, quindi, è una favola vissuta temporaneamente durante il tempo in cui si consolidava il regime fascista.” (p. 114). Tuttavia l’amore dell’autore-ragazzo nato per la giovane Micòl, era impossibile. Le leggi razziali (1938) spezzano la felicità della famiglia. Il giovane Alberto viene stroncato da una malattia (nel 1942) e nel settembre 1943 (dopo l’armistizio) gli altri tre membri vengono rastrellati dai repubblichini, internati nel campo di concentramento presso Carpi (Modena) e in seguito trasferiti in Germania. Il resto lo possiamo immaginare. “Le Onde” di Virginia Woolf (1882-1941) è romanzo animato, particolarmente, da sei giovani, tre femmine e tre maschi, un settimo personaggio, Percival, morto prematuramente, risulta sempre presente poiché costituiva un perno del gruppo. Ma protagonista è anche il sole che apre ciascuno dei nove capitoli assumendo i vari colori nell’arco della giornata, come metafora delle stagioni dell’età degli esseri umani. C’è nella Woolf un registro espressivo che sa di sfumato, di inafferrabile, direi dai contorni impressionistici, forse affidati ai soliloqui del personaggio Bernard; su cui, in questa sede, soprassediamo. L’intervista immaginaria Affinito - Monet in quindici domande-risposte, consente una ulteriore conoscenza del Pittore, che giudico un espediente letterario intelligente. Scegliamo alcuni aspetti che più possono tornarci utili. Per cominciare il Pittore spiega come per tutte le cose nuove, di avere subito delle stroncature per lo stile che gli fu bollato dell’impressionismo. Spiega la metafora dell’acqua come ritorno al liquido amniotico, ritorno all’infanzia; spiega che la ripetizione dei soggetti, come il sole, costituiva una sorta di dialogo con l’astro; che come Scorpione era portato a trasformare tutto; in quanto alla donna sostiene che la figura femminile “ingentilisce l’ambiente”. Monet amava la famiglia allargata tanto che quando si è risposato aveva due figli già avuti da Camille che si aggiungevano ai sei figli portati da Alice avuti dal suo precedente marito,

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il figlio di lui Jean e la figlia di lei Blanche si sposarono e quando il figlio 47-enne muore la nuora si prende cura del padrigno-suocero fino alla morte. Per una ventina di volte ha dipinto pioppi, belli, slanciati, dritti allineati come soldati presso i fiumi; ha replicato ninfee negli stagni. Il colore che più l’appassionava era il viola che gli sollecitava richiami extrasensoriali. *** Quando commentiamo le opere altrui, credo che succeda di parlare anche di noi stessi, a volte pur non avendone intenzioni. Lego questa premessa ad alcune puntualizzazioni della nostra Isabella Michela Affinito, la quale invia o annota dei messaggi, così, per esempio: l’appartenere al segno dello Scorpione (l’essere nata nel mese di novembre), l’attitudine al multiforme (come l’acqua), la sofferenza, la genialità, l’amore paesaggistico, l’autoreclusione (come la poetessa Emily Dickinson). Ed è così che la poetessa frusinate dichiara: “Con tutti ho stabilito / e stabilisco legami d’acqua / che durano un istante e poi…” (p. 24, puntini nel testo). E, in chiusura del volume, nella nota autobiografica, apprendiamo della “drammatica vicenda della morte del padre dell’Autrice”, avvenuta nell’aprile del 2004. Evento che, sicuramente, avrà lasciato un segno nella Nostra, la quale, in tal modo, unisce in un connubio ideale i propri genitori scomparsi, e Lei ritrova la propria identità. Tito Cauchi

ISABELLA MICHELA AFFINITO VENEZIA È UN VESTITO DI SALE 3° Premio Il Croco 2020, pp. 32 Isabella Michela Affinito non finisce mai di stupirci se ancora una volta ci regala una silloge come Venezia è un vestito di sale, con in copertina una barchetta sotto la luna piena. In apertura della raccolta Domenico Defelice ricorda che sono molti gli scrittori e i poeti, gli artisti che si sono ispirati a Venezia, a vario titolo, ambientando “storie affascinanti”, spendendo fiumi di parole e di opere; e fra i tanti cita Thomas Mann, a un personaggio del quale la Nostra dedica uno dei componimenti più significativi “Tadzio”. Ebbene, si potrebbe credere che non ci sia nulla da aggiungere, eppure la Poetessa fa della Venezia salmastra una città che si rianima di innamorati, “Una città metafisica” che si lega al passato storico offrendo spunti culturali e di impegno civile. Dopo l’esauriente prefazione, al lettore parrebbe di potere scoprire poco; ma, in tutti i casi, la Poetessa ci dà molto da gustare con tutti i sensi: basta chiudere gli occhi e pensare ai versi letti. La poesia d’apertura


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è la eponima come sorta di proemio che spiega il titolo. Le goccioline che si alzano dalla laguna bagnano la città e poi, evaporando, la rivestono di sale. A Venezia non ci sono più i pittori d’una volta, “Non c’è chi / aggiunge altro sodio ai / suoi costumi barocchi, / anche perché la vecchia / scuola degli artisti suddetti / è passata”. Per godere di questa poesia occorre raffigurarsi Venezia e la sua laguna nel nostro silenzio e immaginare di essere invisibili e dappertutto. Allora ascolti lo sciabordio di una gondola, godi dell’incanto della notte, degli odori gradevoli e sgradevoli, delle calli, parli e ti senti coinvolto del tocco di erudizione che ti accompagna nelle varie fasi, sempre con eleganza, mai con arroganza. Venezia diventa luogo dell’anima, anzi modo di essere. Si vive in una sorta di concerto dove gli esecutori sono personaggi illustri alle prese con gli strumenti della propria arte che fanno sospirare. La Città la trovi lì, sul ponte Rialto da ove osservi “L’ultima gondola / che fora la luna”; la trovi nelle dame vestite di crinoline, stecche e trine, merletti, bautta, rasi e merletti; la trovi nelle tante maschere che rivestono i misteri, nel chiacchiericcio e negli sberleffi consentiti a Carnevale. Frequente è l’enjambement come a imitare un animo nient’affatto carnevalesco, la maschera ricopre tutto, come quando per esempio Isabella Michela Affinito dichiara: “Ho incontrato Venezia / ieri, oggi come un’amica / elegante, sfuggente, / (…) / Oggi / dorme e il Canal / Grande sogna gli / incontri” (p. 12). Ti pare di incontrare o di ascoltare Wagner, Antonio Vivaldi, Gustav Klimt, Casanova, Marco Polo ed anche Pierrot, personaggi orientali e dei famosi romanzi in alcuni dei quali la Poetessa si mimetizza. Ed ecco Tadzio, il bellissimo giovane quattordicenne polacco che “non / sapeva ancora nulla del/ dolore, nulla della / morte.” (p. 17). Sembra rivivere il Rococò, ed è così che si spiega il singhiozzo dei versi quando si assiste a quei personaggi, nobili aristocratici, dai costumi pomposi, dalle parrucche voluminose imbiancate e impastate con tanta di quella farina che potrebbe servire al popolo per fare pane. Una sottile ironia che mi richiama quella del Parini, nel Settecento a Milano, istitutore di giovani nobili contornati da “cicisbei”, ma anche il costume, quasi perverso dei tempi attuali, in cui ci si prende maggiore cura di un cane e di un gatto, trascurando i tanti bambini bisognosi (senza per questo fare falsa morale). Corre frequente il raffronto con Parigi, le due città sfarzose e sprecone di allora. Isabella Michela Affinito componendo Venezia è un vestito di sale, non ha solo allietato il buon gusto della lettura, bensì contribuisce a fare rifiorire la città lagunare, a fare rivivere quei personaggi illustri della letteratura e dell’arte, a reinventare una cartolina dai

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colori cangianti a seconda di come la si orienti (come le cartoline e i cartoncini di una volta). Rallegrando e vivificando, apre l’attenzione a quei risvolti reali quotidiani sia della stessa città (vedi le calli e l’inquinamento della laguna), sia dei problemi della sofferenza sociale sopraccennata su cui è bene mantenere i riflettori e tenere aperto il palcoscenico della vita sul quale misurarci. Ha ricostruito la Venezia millenaria nei suoi splendori, la più potente delle Repubbliche Marinare Italiane. Tito Cauchi

ALDO MARCHETTO SULLA POESIA Europa Edizioni srl, Roma 2020, Pagg. 176, € 12,90 Aldo Marchetto, ligure nato nel 1948, di formazione umanistica, si pone la domanda di cosa sia la Poesia, pur citando il divino Dante e pur ripetendo, egli stesso, l’affermazione: “Il poeta scrive perché non può tacere / quello che ‘non sa’ di dover dire.” (di Grazia Colonna, 30 giugno 2017). Così ha voluto percorrere una storia letteraria dall’antichità ai giorni nostri, accompagnata da numerosi assaggi, in trentatré tappe, con prevalente attenzione posta Sulla poesia che ne segna il titolo. La prefazione è di Isabella Michela Affinito, poetessa e scrittrice di vaglia, nativa del frusinate (1967), che, dichiarando essere grata all’Autore per averle chiesto un contributo, prova a rispondere citando esempi di poeti e scrittori emblematici presi da tale impulso, confermando semplicemente che: la poesia muove dal fuoco che brucia dentro facendoci conoscere i meandri dell’interiorità; e noi ne prendiamo nota. Marcel Proust (1871-1922), scrittore francese, si rifugia nella scrittura dopo la scomparsa dei genitori, avere disertato i salotti aristocratici e sofferto delusioni amorose, realizzando la sua monumentale Recherche (4.000 pagine contenenti oltre 200 personaggi). Anna Achmatova (1889-1966), poetessa russa, riesce a superare le avversità della vita che le hanno portato via l’unico figlio deportato in Siberia e i tre mariti avuti uccisi per ragioni politiche. Alda Merini (1931-2009) superò l’esperienza del manicomio grazie alla poesia; il friulano Padre David Maria Turoldo (1916-1992) dopo avere partecipato alla Resistenza abbraccia la Chiesa; Primo Levi (1919-1987), chimico, scrittore ebreo torinese deportato ad Auschwitz, rese la sua testimonianza. Sylvia Plath (1932-1963, suicida a 31 anni), poetessa americana che non superò il dramma del rapporto difficile con il padre, ma trovò sollievo nella poesia. Sergej Aleksandrovič Esenin (1895-1925) poeta russo.


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Faccio mio quanto esposto da Aldo Marchetto e per ragioni di spazio sarò riduttivo anche a costo di apparire approssimativo. L’Autore richiama l’attenzione sull’invenzione dei simboli del linguaggio, in particolare dei caratteri dell’alfabeto, facendo presente che all’inizio non erano nati per la comunicazione, bensì designavano poche cose, giusto per distinguerle alla pari di contrassegni, poi con il tempo si comprese la loro potenzialità come veicolo divulgativo, tanto più che nei tempi antichi il sapere si trasmetteva per via orale. D’altronde tutte le cose nascono e progrediscono man mano. Forzando il testo dico che Troia è stata distrutta intorno al 1200 a. C. e, almeno da allora, la conoscenza di miti e leggende era patrimonio culturale condiviso delle popolazioni, tramandato nella tradizione orale, fino a comporsi nel bacino ellenico l’Iliade e l’Odissea attribuite ad Omero (IX sec. a. C.), ed altre opere e autori meritevoli, su cui sorvoliamo (riempiremmo un’intera pagina). Opere che venivano tramandate dagli aedi (cantori e autori, come gli attuali cantautori) e dai rapsodi (cantori recitatori, come gli attuali cantanti). Addirittura era manifesta una certa intolleranza verso la scrittura, mentre invece venivano elogiate la forma orale e la memoria, ritenute virtù, come fa Platone nel Fedro per bocca di Socrate. Senza scomodare l’inconscio fatto emergere da Freud, padre della psicanalisi. Aldo Marchetto precisa che grazie alla declamazione si comprese che il ritmo della espressione si prestava a insegnare e a dilettare, come avviene anche oggi. Al ritmo si affidavano tutti i generi della comunicazione, così avvenne nelle civiltà greca e latina, che stanno alla base della civiltà europea e occidentale, su cui sorvoliamo. Quella che noi chiamiamo poesia muove i primi passi nella forma grafica di immagine nei primi secoli d. C. nel bacino del Mediterraneo. Al Paganesimo si sovrappone il Cristianesimo; in quei periodi storici fervono opere letterarie, filosofiche, scientifiche; è un mondo che pullula nonostante l’alto indice di analfabetismo. Giusto per fissare dei termini, nell’Alto Medioevo, sotto l’anno Mille, “il poeta e la sua poesia diventano un mezzo culturale di sostegno, adulazione ed esaltazione dell’imperatore e della religione nascente, il Cristianesimo” (p. 37), come avviene per varie ragioni a molti, anche oggi. *** Si dovrà oltrepassare l’Anno Mille e attendere. Così sorgono opere del ciclo carolingio e del ciclo arturiano, che si ispirano ad avvenimenti storici verificatisi un paio di secoli prima. Emergono fermenti letterari specialmente in Francia, nell’Occitania (parte meridionale confinante con la Spagna),

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in particolare nella porzione della Provenza (versante che si affaccia nel Mediterraneo). Spiccano i cantori detti trovatori con la poesia d’amore, accompagnati dalla musica. Qui si delinea la Storia della Letteratura Italiana con la poesia religiosa (San Francesco d’Assisi). Da lì a poco, siamo nel Duecento, sorge la Scuola Siciliana a Palermo, intorno all’imperatore Federico II di Svevia (l’Imperatore e il figlio Manfredi, Guido delle Colonne [di Gela], Jacopo da Lentini, Cielo d’Alcamo e altri); i fermenti legano la Sicilia e la Provenza e subito la Toscana. Da lì a qualche anno sorge la Scuola dello Stilnovo a Bologna ad opera di Guido Guinizzelli, presto diffusasi a Firenze ove ha la massima espressione (Dante, Cavalcanti, Petrarca, Boccaccio e altri) e si protrae nel Trecento, venendo denominata del Dolce Stilnovo. Quanto agli eroi paladini e delle crociate, essi lasciano un segno tangibile in Sicilia con la rappresentazione dell’opera dei pupi. Il Quattrocento è attraversato dall’Umanesimo rivolto all’uomo. Il Cinquecento sorge come Rinascimento (Boiardo, Ariosto, Tasso e altri) che vede molte poetesse “più di quante ne abbia conosciuto l’intera storia della letteratura, forse mondiale, sino a quel momento” (p. 62). Il Seicento è sfarzoso con le correnti letterarie del Manierismo, e nel contempo “il Barocco nasce per affermare i valori intellettuali delle persone” (p. 62); e del Rococò. Correnti che investono anche le arti visive (pittura, scultura, arredamenti e architettura); la magnificenza e la noia inducono a produrre anche opere dozzinali, senza gusto. Il Settecento è il secolo dell’Illuminismo che dà impulso alla ragione finisce per rivolgere l’attenzione dei letterati alla filosofia e indebolire la poesia; nascono correnti in contrapposizione all’arte Barocca: il Neoclassicismo come recupero dei canoni di armonia, misura ed equilibrio; e il Preromanticismo inizialmente inteso in senso spregiativo. Si mette in discussione il valore della poesia nel sentimento e nei contenuti. Nell’Ottocento perciò si impone il Romanticismo con l’intento di esaltare il sentimento, la passione e le differenze fra le persone; ma come per le altre correnti anche qui si presentano risvolti marcati che finiscono per essere esagerati. Nasce pure il Positivismo, sotto varie sfaccettature. Così pure il Realismo che prende nome in Francia come Naturalismo (Zola) e in Italia come Verismo (Verga). La poesia svolge varie funzioni, educatrice, moralizzatrice, didascalica, ecc. Molti sono gli autori da menzionare (Metastasio, Monti, Foscolo, Manzoni, ecc. ecc.). Il Simbolismo ad imitazione dei classici, la Scapigliatura nata a Milano come modi di essere (cioè vestire malmessi ecc.). Ancora, il


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Decadentismo sorto a Parigi in un certo senso pretende di affidarsi a “parole non descrittive ma evocatrici” rivolgendosi agli aspetti depressivi delle persone morte malinconia, malattia. Nel Novecento sorgono varie correnti come il Crepuscolarismo che ha atteggiamenti da sconfitti; il Futurismo che nasce con il Manifesto a Parigi a firma di Marinetti che vuole eliminare aggettivi e avverbi e punteggiatura, il componimento poetico cessava di esistere e veniva proiettato in disegni e locandine. L’Ermetismo caratterizzato le espressioni oscure, di difficile interpretazione. L’Esistenzialismo con i soliti interrogativi ancestrali. Nasce lo Sperimentalismo con vari Gruppi di letterati. E sul finire del secolo “I critici esaminano la poesia e trovano molta difficoltà a esprimere il loro pensiero (…) e spesso gli autori medesimi faticano poi ad apprendere il significato di ciò che hanno detto.” (p. 143); gli autori usano molte astruserie, mettendo in difficoltà il lettore che ha bisogno del vocabolario e di uno che gli stia a fianco per darne spiegazione. In questo Terzo Millennio la poesia sembra presentarsi stanca, di avere perduto il suo smalto, l’incanto; la pubblicazione avviene grazie alle disponibilità economiche degli autori; a molti editori importa poco, basta che il cliente paghi. Occorre che la poesia coinvolga il lettore con la partecipazione, l’emozione, l’umanità che assomiglia alla propria. La poesia oggi vuole stupire luccicare nei premi a concorso, nei titoli accademici conseguiti, il poeta finisce per vivere di sé nel bene e nel male. Gli indirizzi impegnati sul piano sociale e civile o politico e altro, spesso rendono la poesia come un manifesto, o seguono la moda; e a volte si scrive come passatempo. Gli esseri umani scrivono per esigenza interiore, per quel non-so-che di dentro, certamente non tutti sono dotati alla stessa maniera. Per esempio Isabella Michela Affinito nella poesia riportata in chiusura del libro dichiara che per lei la poesia è come una magia e se dovesse parlare di sé lo farebbe con un romanzo. Sembra una contraddizione se diciamo che le parole lasciano il tempo che trovano per essere comprese nelle reali intenzioni di chi le esprime. È un paradosso soprattutto dei tempi moderni che pongono l’uomo a misura delle macchine e non viceversa, si pensi alla modulistica che dovrebbe semplificare la vita e invece la complica di più. I fenomeni umani sono difficilmente catalogabili, non sono riconducibili a formulazioni assolute. Le definizioni lasciano molto spazio alle interpretazioni a differenza delle formule matematiche che pur essendo per se stesse sintetiche sono inequivocabili e rispecchiano armonia perfino nella grafica. Laddove ci

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siano da evidenziare tratti distintivi e parti analoghe sarebbe utile uno studio multi comparativo. Il discorso complesso diventa come un poliedro ove ciascuna faccia mostra solo un particolare aspetto, non omologabile agli altri. Potevamo soprassedere sull’excursus storico della nostra Letteratura, ma credo che non guasti dare uno sguardo panoramico. Qui giunti concludiamo di avere letto un libro che deve fare riflettere sia i versificatori, sia i critici militanti. Bisogna tenere presente che le varie generazioni letterarie su esposte, fissano dei confini netti, nel senso che i movimenti e le scuola nascono sempre in opposizione al preesistente. Purtroppo alcuni poeti, che fanno testo, come Ungaretti, Montale e Pasolini, senza volerlo, hanno favorito la poesia “parlata”. Aldo Marchetto, con il suo lavoro Sulla poesia, ci ha fatto fare un bagno letterario nel corso dei secoli, e infine rammenta che il vero poeta non si preoccupa del bello apparire, di accarezzare l’orecchio, l’uditorio; l’uso esagerato finisce per produrre “non-poesie” ma solo discorsi di basso stile. Penso che tutti i generi possano andare bene, purché si trovi la giusta misura, senza contrapposizioni. Tito Cauchi

MARINA CARACCIOLO VERSO LONTANI ORIZZONTI L’itinerario lirico di Imperia Tognacci BastogiLibri, 2020, pagg. 82, € 10,00 E tre. Dopo i saggi su Gianni Rescigno e Ines Betta Montanelli, ecco un nuovo e snello saggio su Imperia Tognacci, impostato giustamente sul tema del viaggio, giacché ad esso è ancorata tutta l’opera della scrittrice e poetessa nata a San Mauro Pascoli, ma residente a Roma, dove ha insegnato per anni. “Nel seguire passo a passo, un libro dopo l’altro, la produzione lirica di Imperia Tognacci - scrive Marina Caracciolo -, il lettore ha l’impressione di trovarsi spesso in cammino, sia che l’autrice ripercorra poeticamente un viaggio vero e proprio, sia che rappresenti il suo perdersi pensosa nell’incanto della Natura e nel Tempo e nei labirinti della memoria, sia che invece raffiguri un pellegrinaggio dello spirito o il divagare in un sogno, in una visione fantastica”; la poesia della Tognacci è “un continuo vagare in cerca di sorgenti a cui abbeverarsi, di un approdo che però non dà mai quiete”. Viaggi reali, insomma, che poi si scaricano in itinerari letterati dopo essersi sedimentati nella memoria e lievitati dal sapere e dalla cultura di cui la poetessa e scrittrice è impastata. La notte di Getsemani e Là, dove pioveva la manna, per


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esempio, son poemetti scaturiti dopo un viaggio reale nelle terre infuocate del Medio Oriente, parti delle quali calpestate dai piedi di Cristo. Così è per gli altri, come Il prigioniero di Ushuaia e Nel bosco, sulle orme del pastore; viaggio nel mito e nella cultura è Il richiamo di Orfeo; viaggio, ancora nella cultura, alla riscoperta del suo grande compaesano, Odissea pascoliana; e metafora di viaggio è anche il suo primo lavoro poetico, Traiettoria di uno stelo, tanto apprezzato da Francesco Fiumara da inserirlo nelle belle edizioni de La Procellaria. La fantasia di Imperia Tognacci è sempre supportata dalla realtà, dal controllo diretto con ambienti e persone, purché rispondano alle sue pulsioni interiori. Il pastore, per esempio, non è solo quello della cultura e dell’animo, scaturito dalla musica e dallo studio della poesia del passato (l’Arcadia, le Pastorali), ma è anche colui che vive a contatto con la Natura e di essa conosce gli arcani, i misteri. Lei prima introita tutto e poi lo trasforma in canto, dopo averlo bene arroventato sulla griglia della mente; una fantasia, la sua, sempre in moto, come lo sono gli uccelli, mai fermi, mai a sostare in un posto se non per poco, mai sazi di voli. “uno stormo di uccelli, alzandosi/da terra, volerà lontano/nell’azzurro leggero”. Saggio lineare, chiaro, scorrevolissimo, senza fronzoli, senza retorica, questo di Marina Caracciolo, senza i fumogeni che di solito alzano i critici a corto di acribia, che non hanno e non sanno cosa dire. Esaminando la più recente opera della Tognacci – La meta è partire -, Marina Caracciolo evidenzia il termine femminile “poetessa”, l’autrice di questo “Poema cosmologico” – così lo definisce Francesco D’Episcopo – dalla voce maschile “poeta”; ne fa, senza volerlo, quasi due discorsi paralleli, e così, inconsciamente, rinverdendo in noi la polemica sull’odierno brutto vezzo di appellare “poeta” anche le donne che scrivono versi. Distingue l’uomo-poeta dalla donna-poetessa, come se l’autrice avesse voluto isolarsi in una meditazione che la investa come essere generale e non come singolo. La donna deve continuare a chiamarsi poetessa e non poeta, deve continuare ad esprimere con orgoglio la sua natura, perché la grandezza non può essere legata al genere e “poetessa” non può essere considerato quasi un dispregiativo. Di tutto ciò, naturalmente, non c’è traccia nel saggio; siamo soltanto noi a ripensare al tema, essendoci assai impegnati nel disprezzare il cattivo andazzo de “la poeta”! Nell’opera della Tognacci è Psiche che accenna “per dar(gli) più coraggio al poeta”, che ha perso quasi la bussola in questa nostra era tecnologica, anche lui frastornato, non più vela libera e orgogliosa di navigare il mondo, ma “nave

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rassegnata”, “con le cime legate alla bitta,/nella noia mortale/delle assiepate abitudini,/delle rassegnate alture”. Domenico Defelice

MARINA CARACCIOLO VERSO LONTANI ORIZZONTI L’itinerario lirico di Imperia Tognacci BastogiLibri, 2020, pagg. 82, € 10,00 Già il titolo dato al saggio ci introduce nel mondo spirituale di Imperia Tognacci, poetessa e romanziera di eccezionale valore. Anche l’esergo ci presenta un ritratto della scrittrice. (“Attraverserò,/ di me,/ le segrete stanze. Tenterò/ un volo oltre il vicino orizzonte,/ verso l’aperto cielo.”). Su queste basi una studiosa di grande spessore, qual è Marina Caracciolo, ci ha regalato pagine critiche affascinanti, impostate sul percorso di un vero e proprio viaggio poetico attraverso venticinque anni di produzione lirica di Imperia Tognacci. Si inizia con “Traiettorie di uno stelo”, alla ricerco di un passato sempre rimpianto nella nativa terra di romagna e negli echi pascoliani del paese di San Mauro Pascoli che ha dato i natali a Imperia. La Caracciolo segue passo passo questo viaggio attraverso le sillogi. E così capta ne “La notte di Getsemani” il tormento di Cristo nell’orto degli ulivi, il dolore della natura che si fa partecipe della Sua sofferenza. Il senso di lutto è espresso con versi delicati e commossi. Per ogni libro di Imperia, vengono citati dalla Caracciolo i premi ottenuti e gli interventi di famosi letterati. In “Natale a Zollara” si idealizza l’infanzia, l’incanto, la tradizione anche attraverso citazioni della mirabile, elevata, poesia della Tognacci. La studiosa rintraccia in “Odissea pascoliana” un ritratto assolutamente inedito del poeta e un tono che accompagna “quel fatale andare verso lontananze indefinite”. Un altro itinerario nel mistero e nella fede si può seguire ne “La porta socchiusa”, libro ispirato da un viaggio in Terra Santa. Intensità di pensiero, resa ai dubbi esistenziali, “limpida intuizione lirica” caratterizzano quest’opera. Un nuovo fascinoso viaggio riguarda “Il prigioniero di Ushuaia”, silloge scritta dopo un viaggio in Patagonia. Il paesaggio estremo e l’interesse creato da un’immaginaria poesia di un prigioniero rendono il libro di eccezionale bellezza. Nel dialogo a due voci Imperia condivide la sofferenza dell’uomo e dà vita ad un’intensa opera


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poetica. Ne “Il lago e il tempo” silloge apparsa dopo il romanzo “L’ombra della madre”, la poetessa crea “due immensi calici nel cui fondo si sono tuffate” sensazioni del vissuto. In quest’opera “l’intreccio di immagini e pensieri” ricerca un’apertura verso l’infinito. Opera raffinata questa che prelude alla raccolta successiva (“Il richiamo di Orfeo”), poemetto che indaga sul ruolo della poesia in epoca di tecnologia e materialismo. Il cantore va alla ricerca della perduta Euridice che si confonde con la stessa poesia. La poetessa lo esorta a procedere nel suo cammino, per ridare senso alla vita tramite il sentimento di amore. Come sempre la Caracciolo evidenzia il fascino di questi versi armonici e musicali. “Nel bosco, sulle orme del pastore” vede la Togniacci immersa nella natura e nel silenzio. L’incontro col pastore Aristeo, interpretato al di là del mito, come Pan, come Abele, come saggio filosofo, è in realtà l’alter ego di Imperia, una guida per ritornare “all’abbraccio felice con la natura”. Il successivo poemetto è “Là dove pioveva la manna”, diario di un viaggio in Giordania. In pellegrinaggio la poetessa crea delicate immagini e splendidi paesaggi spazzati da un forte vento. Suggestiva la sosta a Petra. Il tutto “ha arricchito di un nuovo e più ampio orizzonte la sua visione del mondo”. L’ultimo poemetto in via di pubblicazione si intitola “La meta è partire”. È diviso in undici capitoli e vede come protagonista il poeta moderno che deplora “l’urto stridente tra l’ideale e il reale”. Calliope è una vecchia sfiorita e il poeta tecnologico “ha perso il suo trono”. Ma il ritmo riprende e iniziano gli incontri: con Eva, con Psiche, con la Ragione, con Adamo… tra i personaggi si intrecciano dialoghi ed esortazioni che spronano i poeti a proseguire. Nell’Ade il traghettatore Caronte riceve dal poeta come obolo il suo ultimo libro di poesia. La Caracciolo definisce “cosmologico” l’eccezionale viaggio della poetessa, che crede nel Bello e nel Vero, che ha fede nella meraviglia e nell’amore. In conclusione, il saggio mirabile della Caracciolo si sofferma sulle intuizioni di Imperia Tognacci. “Il poeta è invero una sorte di veggente, un testimone di verità nascoste, la cui missione è quella di mostrare al mondo ciò che all’occhio distratto del mondo facilmente sfugge. Ma la poesia, oltre che specchio del reale e sopra tutto fantasia: invenzione di linguaggi, di ritmi, di vicende, di figure, di situazioni.” Elisabetta Di Iaconi

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ISABELLA MICHELA AFFINITO VENEZIA È UN VESTITO DI SALE Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2020 Il Croco – Quaderno letterario di Pomezia-Notizie - di ottobre 2020, pubblica “Venezia è un vestito di sale”, silloge poetica (14 poesie in tutto) scritta da Isabella Michela Affinito, vincitrice del 3° Premio Il Croco 2020. Nell’introduzione, importanti e molto dettagliate riflessioni su queste liriche sono a firma di Domenico Defelice. L’immagine di copertina, che ritrae una gondola in una giornata di sole, fa parte dell’archivio digitale Clip-Art, del cofanetto doppio CD – Rom Microsoft Office 2020 Small Business. L’Autrice parla di Venezia e la vede con un profilo originale “Venezia è un vestito di sale”. Infatti scopre un aspetto di Venezia, città costituita anche di strade (canali) di acqua di mare, quello di avere come elemento importante il sale che purifica e corrode (“le cornici solubili nel sale”). La prima poesia, che dà il senso a tutta la raccolta di queste poesie, così inizia: “Chi poteva vestirla di sodio/ se non il Tiziano, o Giovanni Bellini, o Vittore Carpaccio/ o la mia inventiva/ che la vuole ritratta/ a carboncino su tela/ in un abbraccio di rosa/ antico, nero e bianco.” E in una successiva poesia: “Viaggio veneziano” l’ Autrice vede Venezia con “gli occhi umidi di rammenti col sale della nostalgia”.


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Fra le poesie cito in modo particolare la poesia “La bellezza di Tadzio”, dedicata ad un preciso personaggio della novella di Thomas Mann, dal titolo “La morte a Venezia” del 1912. Tadzio, secondo l’Affinito, era un ragazzo “educato forse di far parte dei marmorei capolavori greci”, ma era “solo un ragazzo, non sapeva ancora nulla del dolore, nulla della morte.” L’Affinito allude all’atmosfera di morte che aleggiava su Venezia in quel periodo. Infatti, era presente all’epoca un’epidemia di colera, che veniva nascosta alla gente per non scoraggiare il turismo e l’economia locale. Sembra quasi di rivivere l’attuale epidemia di Covid in cui si cerca di minimizzarne gli effetti per non deprimere i consumi e le attività relative. In questa silloge Venezia viene descritta in tante sfaccettature: vi è la Venezia notturna (“Le notti a Venezia”), quella luminosa e brillante di un tempo che fu, del settecento (“Mascarade Rocaille”), quella triste (“Venezia scalza”), quella malinconica (“L’ultima Venezia”), etcetera… La poesia più significativa a mio parere è “Mascarade Rocaille”, dove emerge la vocazione di Venezia di essere sempre Carnevale: Venezia è come un teatro dove gli attori sono in maschera o hanno la bautta (mascherina di seta o velluto che ricopre la parte superiore del volto, lasciando la bocca libera). Le maschere sono un comune denominatore di queste poesie. Cito: “Se non fosse per quella bautta che nasconde chissà quale misterio, non saresti la più bella maschera di Venezia”, “il giorno si fa lungo come una partita a scacchi mentre le maschere danzano il valzer della bugia”, “conviene rimanere scalzi perché anche le maschere più nobili lo sono!”, e ancora “le maschere non conoscono lo sconcerto del silenzio, si svegliano e indossano già il costume di scena. … mai sono stanche le maschere felici”. Si può continuare ulteriormente citando altri brani. Per l’Affinito le maschere sono estranee dalla realtà del vissuto quotidiano, poiché “non afferrano i bisogni reali ma le illusioni istrioniche dello spazio temporale”. Ma sottolinea Defelice nella sua presentazione: ”Goldoni ha rivoluzionato la commedia togliendo la maschera ai personaggi”. L’Affinito cita Goldoni insieme a Moliere in “Mascarade Rocaille” in quanto entrambi attiravano folle nei teatri sia a Venezia che a Parigi nel settecento. In “la mia Venezia” Affinito sogna per Venezia un nuovo rinascimento: “crinoline e ritorni di stile abbonderanno come se il Rococò non fosse mai finito” e “torneranno le stagioni di Vivaldi”. L’Affinito cita molti aspetti di Venezia: personaggi e fatti storici (Tiziano, Bellini, Carpaccio, Casanova, Klimt, Wagner…), ambiente (Venezia fatta

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di meandri di canali percorsi da “le gocce nere – gondole monacali ed eleganti”), monumenti e luoghi caratteristici (San Marco con il campanile, il Canal Grande, il ponte di Rialto, i campielli). Unico neo: manca una citazione agli effetti della luce che illumina le scene dei quadri di Tiziano, Tintoretto e Giorgione. Giuseppe Giorgioli

GABRIELLA FRENNA SGUARDO D’ARTISTA Magi Editore, 2020, Pagg 109, € 10,00 Il volume è un omaggio a Raffaello Sanzio e a Michele Frenna. L’autrice ci presenta i due maestri, dando un assaggio della loro visione, appunto del loro sguardo, di ciò che tenevano in considerazione e che mostravano nelle opere, ognuno a modo proprio, in arti, in epoche e in luoghi diversi. Il termine sguardo vuol dire volgere gli occhi verso qualcosa o qualcuno e deriva dal verbo sguardare, ossia prendere in considerazione, fare attenzione e in questo caso è di colui che crea le opere d’arte. I due artisti vengono messi a confronto, infatti nella presentazione Luigi Ruggeri scrive: “Questo, credo sia un aspetto che lega l’idea artistica di Raffaello Sanzio a Michele Frenna, cioè l’aspetto di un’opera, che per essere autentica, dimentica il suo autore, e appartenere al silenzio pensoso, all’ incrocio delle linee e alla fuga prospettica e quindi alla temporalità sinottica dell’arte”. Gabriella Frenna impreziosisce le immagini dei dipinti e dei mosaici con le sue liriche, delicate e sensibili: “Angeli in volo/ in dinamiche pose/ aleggiando nel cielo/ con grazia eterea./ Donano allo sguardo/ armonica visione/ coi tratti definiti/ con soavi espressioni”. La bravura della scrittrice sta, non solo nei testi critici, ma anche nel fare critica verseggiando: “Lo sguardo d’artista/ carpisce inusuali/ aspetti esistenziali,/ interiorizza elementi,/ esternando in opere/ la visione interiore”. “L’arte - scrive l’autrice - può farsi politica nel vero senso del termine, perché entra nella polis e si rivolge direttamente ad essa. E considerando i fatti attuali l’arte ha la capacità predittiva dell’intuito ed è per questo motivo che è utile ascoltare quello che ha da dirci”. Dunque il messaggio che l’opera veicola è alla base dell’arte stessa; fa in modo che l’opera e al tempo stesso l’artista, sopravvivano al divenire del mondo. Lo sguardo, il pensiero, il loro essere vengono catturati dall’opera ed è per questo motivo che restano nel tempo.


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Frenna è laureata in Scienze della comunicazione per le culture e le arti; ha fatto parte della scuola critica del Prof. Vincenzo Rossi; ha pubblicato numerosi volumi tra cui racconti, poesie e saggi. Si interessa di tutte quelle opere che proiettano l’animo umano verso il mistero divino e si propone di diffondere i principi cristiani impressi nei mosaici. Manuela Mazzola

ISABELLA MICHELA AFFINITO INSOLITE COMPOSIZIONI Quaderno Letterario Cenacolo Accademico Europeo POETI NELLA SOCIETÀ, Marzo 2019, Pagg. 56 Io sono colei che fu nel tempo dell’andata, io sono una lettera senza data in un groviglio di composizioni di titoli, mentre si sta eseguendo un concerto nella mente. Isabella Michela Affinito trasforma ogni argomento in poesia: i pensieri fanno giravolte creando musiche che poi mutano in un flusso di parole e versi. La silloge Insolite composizioni, giunta al 14° volume, è composta da cinque poesie dedicate al segno zodiacale del Capricorno e da ventitré liriche che hanno come titolo dei numeri in sequenza. Leggendo la raccolta si percepisce il mondo della poetessa, la sua fantasia, cosa sono per lei i poeti e la poesia e come mutano nella sua mente i personaggi della mitologia, della letteratura e le loro opere: “Nella mia torre/ il Pensatore è solo/ e scruta il suo interiore/ equinozio”, [...] “C’è una riva/ che sa di pioggia/ intrinseca ed è la riva/ dei poeti che aspettano/ l’ora fatidica”. Già dal titolo si capisce l’inusuale modo di scrivere: Insolite composizioni, insolito come non abituale, anomalo, fuori dal comune, ma anche eccezionale e composizione, il procedimento di comporre un testo o una poesia. Così come quella in copertina, fatta dalla stessa autrice con inchiostro di china e pennarelli su cartoncino liscio: insolita come uno specchio rotto al cui centro viene rappresentata la donna-capricorno, in cui forse c’è un po’ della nostra artista, contornata dai simboli dell’astrologia di cui è appassionata. Infatti, l’Affinito nella prefazione scrive: “La Donna-Capricorno, che appare in copertina, stringe a sé l’inconfondibile clessidra e guarda altrove, mentre una falce è ben visibile sopra di lei ad indicare la difficile sopravvivenza durante il gelido periodo invernale e le fasi di Luna, quando è crescente o calante ed influenza, tra le altre cose, anche ciò che riguarda i campi, per esempio nella semina e nel raccolto”. Lo stile è originale ed i suoi versi, allineati centralmente,

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sembrano delle colonne su cui poggia il flusso di parole, all’interno delle quali si disvela l’intimo dell’autrice: “Io come un chiaroscuro custodisco un dolore bianco, per questa commedia umana che usura le sue stagioni di vetro”. Quello che si evince, se pur parziale, è un ritratto dell’autrice che resterà dietro le quinte come una rosa senza spine, e del suo rapporto con il mondo esterno forse la vita è una poesia verità nella bugia e viceversa, no è solo un gioco di anfore greche con figure rosse e nere. Manuela Mazzola

ISABELLA MICHELA AFFINITO VENEZIA È UN VESTITO DI SALE Il Croco/Pomezia-Notizie, Ottobre 2020, Pagg. 31 Venezia è un vestito di sale che si indossa sul corpo e sull’anima. Chiunque abbia visitato la città ne è rimasto affascinato e colpito, per l’architettura, per la storia, per la laguna. È uno di quei luoghi la cui storia si avverte sentendone gli odori, camminando nei vicoli e attraversando i suoi ponti. La raccolta, costituita da quattordici poesie, ha vinto il terzo posto nel Premio editoriale Il Croco 2020, poiché con semplicità Isabella Michela Affinito narra Venezia, i personaggi che l’hanno resa famosa e immortale e perché la poesia deve essere sentita e vera, allora, e solo allora, arriva al cuore di chi la legge. E veri sono i versi che la poetessa sviluppa in questo suo amore nei confronti della città marinara, una passione ricambiata dalle sensazioni donate da Venezia stessa direttamente alla poetessa, la quale avverte le numerose vite che hanno solcato quelle calli, le cui storie sono ancora aggrappate ai muri dei maestosi palazzi, come l’acqua della laguna, che dopo secoli ondeggia ancora tra le fondamenta della città. “L’ultima dama/ che fu di Venezia/ ancora è prigioniera/ nelle sue calli,/ labirinto italico/ in cui serpeggia/ l’anima barocca,/ sembra una filastrocca/ invece è un saluto/ cortese”. Lo stile evocativo, verso dopo verso, risveglia i sensi e pare quasi di essere tra le calli e di ascoltare i rumori tipici della laguna. È una visione fluida e continua che unisce una realtà che non esiste più, ma che si manifesta nella mente artistica e romantica dell’Affinito. “Bisogna avere gli occhi/ umidi di rammenti col sale/ della nostalgia per/ inoltrarsi in quello di/ Rialto fino all’Accademia,/ respirando umori di canali/ stretti e lunghi senza la/ voglia di tornare indietro”. Un tuffo tra i ricordi di un passato celebre e un presente che ancora li serba cari. Scrive Domenico Defelice nella prefazione: “Il ritratto che ne deriva, di


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pastelli delicati e “d’umori intimi”, è creazione evanescente quanto reale, con rivoli e radici che risalgono nei secoli, aggrovigliati alla quotidianità ed al fantastico, indissolubilmente legati, anzi fusi, agli innumerevoli pittori, agli architetti, ai musicisti, alla storia della più potente Repubblica Marinara, ad una gente intraprendente e amante di conoscenza e d’avventura”. “È alta Venezia perché è fatta di vedute, di prospettive delicate, di ponti leggeri e di palazzi vanitosi che si specchiano allegramente nei canali”. Manuela Mazzola MEISTER ECKHART L'ANIMA E DIO SONO UNA COSA SOLA A cura di Marco Vannini, Ed. Le Lettere, Firenze, 2020, euro 16,00, pp. 1-203. Questo testo rappresenta un documento riflessivo, sostanziale e insostituibile per entrare nella dimensione della spiritualità che il prof. Vannini, il più profondo conoscitore di Meister Eckhart, intende presentare ai lettori. Indispensabile l'Introduzione (pp. 19-59), che il curatore elabora riferendosi anche ai preziosi risultati della sua pluridecennale esperienza sui testi in latino e in volgare del monaco tedesco, in particolare al Lessico mistico, ed. Le Lettere, Firenze, 2013, dal quale si possono aprire a ventaglio tutte le chiarificazioni legate a termini riscontrati anche nei Sermoni e negli altri lavori di Meister Eckhart che qui vengono analizzati, ad esempio le voci 'Anima', 'Spirito', 'Menzogna', 'Umiltà', 'Grazia', 'Distacco', 'Male', 'Fondo dell'anima', 'Ateismo mistico', 'Opera', 'Necessità', termini intorno ai quali si snoda l'insieme dei testi scelti per approfondire quanto verrà evidenziato nel percorso di avvicinamento al grande contemporaneo di Dante in terra di Germania. Operazione assai efficace questa, perché la corretta interpretazione dei termini impiegati nei testi scelti sgombra il campo da superficialità, fraintendimenti, carenze nell'elaborazione dei contenuti,fragilità o rigidità nell'impatto conoscitivo con conseguenti deviazioni dalla presa di consapevolezza di quanto questo religioso del passato abbia detto e possa ancora oggi dirci con positiva schietta, vantaggiosa luminosità. Infatti l'opera di Meister Eckhart si snoda con questi ritmi: Parte Prima L'ANIMA Dai Sermoni (pp. 63-96); Testi con in evidenza il 'FONDO DELL'ANIMA' (pp. 97-126); Testi con in evidenza il rapporto FIGLIO-SPIRITO (pp. 127-

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134); Dal COMMENTO AL VANGELO DI GIOVANNI (pp. 135-138); Parte Seconda DIO (Scelte ed approfondimenti di Marco Vannini su Meister Eckhart in relazione al tema prefigurato e legato all'ANIMA, pp. 141-191); Un Maestro lontano a noi vicino (pp. 193-198); INDICE DEI NOMI (pp. 198-201). Mi soffermo in particolare sull'avvio che conclude il viaggio d'avventura esegetica e mistica avviato con questo testo, quasi ad accompagnare il lettore con maestria semplice e toccante, aperta dalle parole di Taulero: 'Su queste cose vi istruisce e parla un amabile/maestro, ma voi non comprendete. Egli par-/lava dal punto di vista dell'eternità, invece/voi lo intendete secondo il tempo' – dal sermone Glorificami, Padre (Gv 17, 5) in G. Taulero, Le profondità dell'anima: “Nel prendere congedo dal nostro meister, ne riassumiamo in breve l'insegnamento, lontano nel tempo, ma per noi oggi straordinariamente vicino. 'Essere orgogliosi è dimenticare che si è Dio', annotava Simone Weil. Alla banale opinione che accusa di orgoglio chi pensa di essere una sola con Dio, la filosofa francese contrappone questa frase paradossale, folgorante nella sua intelligenza. L'orgoglio è nell'assumere come nostra vera essenza il piccolo ego, determinato nel qui e ora, rigettando Dio nell'alterità (il Dio della Bibbia e del Corano) e disconoscendo la nostra vera natura di spirito, come Dio stesso. Che l'anima e Dio sono una cosa sola, non significa porre se stessi al posto del Dio Biblico o di un qualche altro ente immaginario grosso e forte, magari lassù nei cieli, come hanno interpretato e interpretano, imperiti, tardi, rudes, che quello che non capiscono condannano, ma significa invece pensare l'anima, l'uomo in un certo modo. Il valore di una forma di vita religiosa, o spirituale in genere, si valuta infatti con la luce che getta sulle 'choses d'içi-bas' e non con la sua teologia e, del resto, il vangelo contiene una concezione della vita, non una teologia. Se comprendiamo chi o cosa sia l'uomo nobile, allora si comprende anche cosa significa che l'anima e Dio sono una cosa sola...” (M. Vannini, in Meister Eckhart, op. cit. pp. 193-194). Bisogna capire, prima di dire di sapere, per poter conoscere e quindi per poter poi parlare e dunque scrivere: questo insegnamento viene donato da questa intensa ed assai dilatata, direi in un'ampia prospettiva a volo d'uccello, opera recentissima che porta i testi del Meister nella nostra attualità. Marco Vannini: dalle sue appassionate ricerche si costruisce giorno dopo giorno la competenza concreta ed indu-


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bitabile, per offrire in un testo sollecitazioni spirituali così semplici e così profonde, affinché si possa entrare in sintonia con quella dimensione dell'anima oltre ogni concreta esperienza sensoriale ed interna alla consistenza stessa di Dio come respiro e vita. Proprio per questo ora mi tornano alla mente le parole di Massimo Cacciari, poste come Prefazione al volume di Marco Vannini Mistica e Filosofia (Ed. Le Lettere, Firenze, 2007): “È un grosso debito quello che la filosofia e la teologia italiana hanno accumulato in questi anni nei confronti di Marco Vannini. Grazie al suo instancabile lavoro o sotto la sua direzione il nostro Paese può oggi contare su impeccabili edizioni di Jean Gerson e di Angelus Silesius, di Margherita Porete e di Meister Eckhart. È soprattutto quest'ultimo, come noto, l'autore di Vannini: se il grande domenicano è diventato riferimento o 'scandalo' ineludibile del dibattito filosofico attuale, lo si deve all'ininterrotta serie di traduzioni e fondamentali ricerche che Vannini gli ha dedicato a partire dalle Opere tedesche, pubblicate nel 1982 da 'La Nuova Italia' di Firenze... Eckhart esprime per Vannini il distacco più radicale da ogni pretesa di 'possedere' il Bene, di poterlo ridurre alla dimensione etica e articolare perciò in proposizioni, la concezione opposta a quella di un cristianesimo in quanto 'contenuto', o insieme di 'contenuti' in forza dei quali poter giudicare il mondo secondo criteri assoluti...” (M. Cacciari, in op. cit, pag. 7). Ritorno al testo in esame per accedere a contesti che ci riguardano costantemente: “... Il distacco da sé stessi - dalla 'egomania', come dice significativamente Coomaraswamy - è ciò che maggiormente lega l'insegnamento eckhartiano a quello dei grandi maestri spirituali di ogni tradizione religiosa. Sottolineiamo però religiosa, perché, come vedremo, il movimento verso l'Assoluto - Dio - è elemento essenziale del distacco stesso. Qui si apre la spinosa questione espressa dalla celebre espressione eckhartiana 'Prego Dio che mi liberi da Dio', ovvero della necessità, proprio in nome di un riferimento all'assoluto bene - Dio -, di liberarci da tutte le immagini del divino, al punto tale da dare congedo a Dio stesso...” (M. Vannini in Meister Eckhart, op. cit. pag. 27). A questa fortissima tensione intellettuale e spirituale Vannini ha già preparato in semplicità chi lo accoglie in lettura, perché ha sostenuto con chiarezza: “Il tema del distacco mostra come la filosofia classica, 'esercizio di morte', si saldi intimamente con l'insegnamento di Gesù, secondo il quale chi vuole essere suo discepolo deve rinunciare a se stesso, fino a odiare la propria anima (o propria vita). Distacco è l'operazione dell'intelligenza che, obbedendo al richiamo del Bene assoluto che avverte dal profondo di se stessa, incessantemente e sempre di

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nuovo rimuove ogni bene relativo. Il distacco è infatti operazione morale e intellettuale insieme: riconoscimento della pochezza dei beni finiti e della bellezza finita rispetto all'infinito Bene e alla bellezza infinita, e, insieme, riconoscimento della parzialità della finitezza dei contenuti mentali, ingenui o elaborati che siano... In quanto il distacco è operazione morale, Eckhart parla dell'anima 'nobile', che non si accontenta dei beni finiti... e perciò li abbandona senza sforzo...” (M. Vannini, Meister Eckhart, op. cit. pp. 24-25). Invito alla lettura di quest'opera, della mente e dell'anima, messa in essere da Marco Vannini su Meister Eckhart, che ha subìto un processo per eresia e per grazia di Dio è stato tolto, con la morte naturale, dalla dura esperienza della morte provocata: la considero per questo nostro tempo, quando si deve far fronte a situazioni vischiose, improvvisate, imprevedibili, atte a provocare sofferenza e morte senza misura, un'opera di costante riferimento, vera medicina dello spirito. Ilia Pedrina RENATA D’ANNUNZIO MONTANARELLA UNA DONNA A cura di Tobias Fior,Ianieri Edizioni - Sezione Letteratura n. 3 – Pescara, 2020. Il giovane studioso friulano Tobias Fior, di Tolmezzo ha al suo attivo come scrittore e dannunzista anche altre pubblicazioni, come La depressione di d'Annunzio (2013) e Notte (2008), mentre è presente in rete su siti specializzati con saggi e studi e sulla prestigiosa rivista Rassegna dannunziana di Pescara. Ora affronta il testo narrativo di Renata d'Annunzio Montanarella, curando una ben documentata Introduzione che intitola Una creatura d'amore e di dolore e così scandita: Vicende letterarie di Renata Montanarella (pp. 510); Una donna: trasposizione tragica di una vita (pp. 10-32). Segue l'Avvertenza (pag. 33), nella quale il curatore intende informare il lettore che “Il manoscritto del romanzo Una donna era conservato tra le carte di Francesco Montanarella, figlio di Renata, recentemente scomparso. La sorella Maria Teresa, in accordo con la cognata, ha deciso nell'estate 2018 di donare il dattiloscritto alla Fondazione 'Il Vittoriale degli Italiani'. A tutt'oggi ancora non si conosce il motivo per il quale Renata Montanarella non abbia optato per la pubblicazione del romanzo breve, testo dal carattere molto intenso e sicuramente valido....” (Tobias Fior, Avvertenza, in Renata Montanarella, Una donna, Ed. Ianieri, Pescara, pag. 33).


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Apro a caso ed incontro Lina, la protagonista del romanzo, mentre con il suo bimbo Antonio si mette in viaggio verso Venezia: il suo innamorato, una volta appresa da lei la notizia della sua gravidanza, l'aveva lasciata interrompendo così un amore che pareva avere i tratti della carnale sacralità senza fine: “... Ripulito il piccolo viso sudicio di cioccolata, le manine appiccicose, tenendolo per la mano si avviò frettolosamente verso i binari. Attesero qualche minuto poi il treno entrò fragorosamente sotto la tettoia. Allora Antonio fu preso da un terrore folle e si aggrappò urlando alle gonne materne. Lina fu costretta a prenderselo fra le braccia urlante e sgambettante e a salire in fretta in uno scompartimento. A poco a poco il bimbo si calmò, le carezze, i baci di Lina lo persuasero e lo tranquillizzarono. Rialzò la testina e guardò in giro con occhi sospettosi: lo scompartimento era vuoto e il treno correva attraverso la campagna. Egli fu subito attratto dallo spettacolo del finestrino. La mamma gli tolse il cappello, gli asciugò il viso bagnato di lacrime, gli riavviò i riccioli ed egli rimase estatico a guardare. A poco a poco gli occhietti si chiusero e cadde vinto dal sonno fra le braccia materne. Ella lo tenne così, senza sentire la stanchezza...”(Renata d'Annunzio Montanarella, op. cit. pp. 84-85). Un breve tratto carico affettuosa, dolce dedizione che si collega ai primi passi del testo, quando Lina, nel suo camerino, si sta preparando per entrare in scena, perché lei, lo si deve sapere subito, è ballerina, dolce, esile, bella in tutto. Cito: “... Diritta dinanzi allo specchio ella guardava con occhi cupi il suo giovane e flessuoso corpo che nessun velo nascondeva. Un piccolo ventre rigonfio e duro lo deformava, ed ella pensava con infinito struggimento al piccolo essere ancora nascosto, ma che stava per vedere la luce. Al piccolo essere frutto d'una sera d'ebbrezza... Al primo annunzio della maternità egli era scomparso; ora le scriveva, aveva trovato la lettera nel suo camerino, consigliandola ad abbandonare la creatura appena nata ché egli sarebbe tornato a lei con tutto il suo amore. Dal suo profondo adesso saliva una sorda ribellione contro l'uomo egoista e brutale che disertava il suo posto e proponeva il patto infame!Una sorda ribellione contro il destino che la costringeva a nascondere la maternità che avrebbe voluto portare trionfante alla luce del sole...” (R.d'A. Montanarella, op. cit. pag. 37). Ottimi gli elementi forniti dal giovane Tobias per farci entrare nella mente e nel cuore della giovane Renata, che mostra il lavoro al suo papà, già così importante e questi, sulle prime la incoraggia, poi prende accordi non più con Treves, ma con Mondadori e vuol che passi del tempo e manda una lettera

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al suo 'aiutante' Tom Antongini dai toni del duro imperativo categorico. Cito: “... Pregoti avvertire Mondadori che manoscritto Renata ha bisogno di largo rimaneggiamento e che considero non opportuna pubblicazione affrettata...” (G. d'Annunzio in T. Fior, Introduzione in op. cit. pag. 8). Renata era felice d'aver incontrato il suo papà a Venezia, dopo tante tristezze e dopo il peso della sua lontananza dall'Italia, perché esule volontario a Parigi, e riponeva in lui tante speranze. Ma d'Annunzio, e siamo ancora nel 1915, si mantiene sulle sue posizioni: “...Mentre il 2 dicembre ingiunge, sempre ad Antongini di non prendere alcun impegno con l'editore milanese, spiegando che il libro di Renata è sì scritto con stile ma che manca di osservazione e risulta essere debole rispetto a quanto riportato nel Notturno. Il 7 dicembre invece d'Annunzio, risoluto a chiudere la questione dell'opera di Renata, scrive ancora al suo fido collaboratore: '[...]Ti ho telegrafato in quel che riguarda il libretto di Renata. Desidero che tutto sia differito sine die, compreso l'anticipo e quindi compreso il contratto. Ho dato e darò io stesso, in forma di anticipo a fondo perduto […]. In sintesi si proponeva lui stesso di anticipare il denaro e di differire il tutto, contratto compreso...” (T. Fior, ibid). Sono vicende dure, che vanno via via deteriorando il rapporto tra Renata e suo padre, interrotto senza più possibilità di un pur debole ricongiungimento. Tante le informazioni ed i dettagli interpretativi che Tobias Fior mette in campo per aprire al lettore il mondo di Renata-Lina e per questo la figura femminile in doppio risulta finalmente offerta al pubblico in tutta la sua originale interezza. Ilia Pedrina

QUANTI FIORI Quanti fiori nel mio giardino, i colori si acciuffano in un duello di meravigliosi profumi. Il mio cuore saltella con le farfalle nascoste tra le foglie, e con gli uccelli che cinguettano tra i rami degli alberi che mi riparano dai raggi cocenti del sole, che scaldano l’aria, con l’arrivo dell’estate splendente. Mi tuffo sull’erba verde che insieme alle lucciole mi rinfresca, facendo brillare di palline colorate


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l’universo di rara bellezza, che meravigliosamente mi circonda. Grazie oh mio Gesù, di questa dolce pace tanto attesa, dopo tanto soffrire con questa pandemia che ha soffocato la mia gioia! 4 – 11 – 2020 Cav. Giovanna Li Volti Guzzardi Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori (A.L.I.A.S.) ASPETTAZIONE Venendo, una sorta di presagio: in stormi a V, a un’ora così insolita centinaia d’uccelli migratori inquietavano il cielo prenotturno sentendo inconsciamente che domani è il giorno d’apertura della caccia. Ma qualcuno –uno sparo, un altro- ecco che l’ha anticipata a tradimento. Forzo invano la chiave nella toppa finché mi raccapezzo, e cambio chiave. Non si respira, la corrente è saltata. E non è scattato l’allarme? Dalla tettoia il gatto guarda e tace. Esco e mi siedo sull’orlo del poggetto. L’erba è ustionata dai lunghi controra d’un’insaziata estate che tende a oltrepassare la sua orbita col carro dissennato di Fetonte. Sfreccia un aereo: il rombo è di Tornado. Marte stanotte è più che mai vicino; ma non di guerra, di pace ho bisogno. Gran silenzio nel cielo esterrefatto! Venere non si scorge: o è tramontata o è coperta da qualche congiunzione. No, non d’amore, d’oblio ho bisogno, della capacità di rinunciare. No desiderio no dolore… ma che volontà ci vuole per non volere! Non ricordare non desiderare: ogni ricordo può essere usato contro di me; e ogni attesa. Non aspettare uguale a non amare;

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non amare equivale a non volere… No amore no attesa no dolore… Vorrei volere, voglio, a tua insaputa, chiamarmi fuori da questa partita e prima che appaia Venere/Lucifero -quasi tu fossi un’altrarinnegarti. Ti voglio rinnegare e disconoscere -quale tu seicome s’io fossi un altro. Sì, per tre volte ti rinnegherò perfino con me stesso prima del canto del gallo. Gli occhi senza risposta di sonnambulo, adesso e qui col taglio dell’orecchio ti rinnego -quale tu sei e non saiun taglio netto! prima che canti il gallo. Nell’Acquario il cielo è rosseggiante: Marte, a occhio nudo, è l’astro più incombente. Seduto in alto, ignavo e supponente, il gatto mi guarda come un Buddha. Da notti e notti il prato assetato di luna ne attende ansiosamente la rugiada. Dentro i cipressi, con la lingua secca, i merli non riescono a dormire. Ora non scrivermi, non telefonarmi. No, Meg, non scrivermi non cercare di prendermi ancora col gioco senza fine dei perché per il tuo verso. Io non ti chiedo nulla. So, come il gatto, eppure ho obliterato. Rientro in casa. Staccherò il telefono; non smanio più di trovare un messaggio come un cane drogato la droga. Semmai m’accenderò il televisore, lo sguardo assente da ogni aspettazione, e terrò spento l’occhio della mente. Rispetterò la consecutio temporum senza altri errori di coniugazione. Solo le mamme continuano a portare nel grembo il figlio che non è mai nato.


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Tu, smagnetizza il codice d’accesso ad un campo mentale che attraversi a tuo piacere, attesa e inaspettata come gli uccelli di stagione come il corso di Venere e come il vento. Sottraiamo i giorni a venire a quest’insensata alienazione che lascia appesa la spoglia alla stampella. Sì, l’amore è la presenza rimandata di un’assenza, che si dispone e si riposiziona come se la scala di Jacob s’accrescesse via più di gradini secondo il nostro bisogno di salire.1 Ma ogni giorno al risveglio sapevamo che c’era il rischio dell’errore umano. Adesso no, non dire altro, non scrivermi non chiamarmi tre volte in un’ora senza parlare non mi braccare fin dentro me stesso non farmi il vuoto spinto nel cervello non depredarmi sulla via del sesso di tutte le ragioni che sappiamo, non nominare un’altra volta invano il nome impronunciabile e ferito dell’amore. Gli occhi senza risposta dei sonnambuli, pigliamo il verso per il suo rovescio -senza un perché, senza un redde rationeme, con mutuo recesso, dall’oltre di noi stessi desistiamo. «Non lo farò, e non perché non voglia. La rana, quando le sponde sono troppo larghe, non salta in un sol balzo il fosso. Prende tempo… da foglia a foglia, ecco perché, perché non posso! Da foglia a foglia sì, da foglio in foglio…>>2 Corrado Calabrò Roma ______________ 1 Da un testo di M.T.L. 2 Versi di M.C.Z.P.

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IL COLORE NUOVO C’era stata neve Costruiva memoria quell’inverno Di odori Di briciole di pane Lasciate sulla neve Per passeri volati altrove L’aria aveva il colore nuovo del freddo Visto per la prima volta Il cielo era un soffitto di luce bianca Come la terra Diventata silenziosa Bisognerà sfogliare le margherite Quando verrà l’amore Aspettare poi Prima di soffiare un dente di leone Per spargere i semi nella brezza estiva Salvatore D’Ambrosio Caserta

PREGHIERA DELLA SERA Lo vedi anche tu sono come il tiglio d’inverno spogliata di desideri. Ho parlato con la mia anima. noi due sempre insieme a volte distante da ciò che chiede a volte abbracciata al suo conforto. Quando la notte si illumina e l’immensità avvolge gli occhi una preghiera si rivolge al “Padre di tutti i padri “ alla “Madre di tutte le madri” Sale allora all’unisono un ringraziamento per il giorno regalato, per l’accorato rimpianto per ciò che si poteva fare e non si è fatto. Navigatori d’immenso


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chiudiamo gli occhi a Morfeo alla notte che ci sovrasta

solo co pochi verzi smerlettati; ma nun lo fai pe noja o pe pigrizzia.

Consapevoli della fragilità dell’essere nell’affidamento totale, che il nostro albero spoglio possa rifiorire nel luogo nell’eterna vita Wilma Minotti Cerini Pallanza, VB

Stai su li mejo libbri de la tera e sfidi li poeti alletterati lassanno segni de saviezza vera. Elisabetta Di Iaconi Roma

MOMENTO LA TRIBBOLAZZIONE Tutta la primavera in quarantena e semo poi sortiti nell’istate. È stata ‘na galera, ‘na catena a passà chiusi dentro le giornate! Ma ste legge l’avemo sopportate p’evità quer terore e quela pena che provi quanno ciài le sciabbolate d’un male che t’uccide quanno mena! Volemo adesso rivedé la gente puro si è ricicciata l’infezzione. Tenemo ‘na connotta inteliggente; usamo le più mejo precauzzione! La scenza troverà quarche spediente pe mette fine a la tribbolazzione. Elisabetta Di Iaconi Roma

Filtra il sole tra gli alberi e lampeggia, manda arcani segnali (è il suo alfabeto fatto di pure luci che s'accendono tra cielo e terra): forse ci rivela qualcosa del mistero che circonda ogni nato a morire. Un falco vola, librandosi veloce nell'azzurro in cerca della preda. A mezza estate il mondo di sentori alti profuma. Più felice la vita si rinnova. Spende il giorno i suoi fasti, arduo campeggia, dischiudendosi in tutto il suo splendore. Su noi leggere scorrono le ore. Verso alte mete il mattino veleggia. Dal suo cielo saettando ci saluta il falco nella sua lingua perduta. Elio Andriuoli Napoli

UN BARLUME DI LUCE CARO SONETTO Caro sonetto, io te vojo bene: sò già tant’anni che me stài vicino. Sei sempre bono a conzolà le pene e a raggionà d’amore sei divino. Quanno un’idea me score ne le vene, abbasta che te chiamo un momentino e me sai fabbricà millanta scene cor canto tuo gajardo e sopraffino. Tu pòi trattà de storia e de giustizzia

Sotto una cappa indifferente di astri e di pianeti in uno spazio illimite da secoli esseri umani lottano contro la fame e il degrado mentre altri esseri umani stravivono senza ritegno e senza gioia. Ci occorre un barlume di luce autentica per poter uscire da questo tunnel che è diventata la nostra civiltà, che si trascina a tentoni nel buio più fitto nonostante


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le mille luci bugiarde e seducenti di una tecnologia che ha perso il sopravvento sulla Natura. Luigi De Rosa Da Fuga del tempo, Genesi Editrice, 2013.

D. Defelice: Il microfono (1960)

NOTIZIE LUTTO NEL MONDO DELLA CULTURA E DELLO SPETTACOLO - Per l’arresto del cuore, nella Clinica Margherita di Roma, Gigi PROIETTI se n’è andato all’improvviso, nel momento, cioè, in cui nessuno pensava alla sua morte, nel giorno preciso del suo ottantesimo compleanno. Era nato a Roma il 2 novembre 1940, giorno dei morti, e nel giorno dei morti ci ha lasciato; tutti ci sentiamo smarriti, intronati. Sì, tutti, perché, se ci sono stati attori cui il pubblico di vecchi e giovani, donne e bambini ha voluto bene, Gigi Proietti ne è l’emblema; un attore onnivoro, poliedrico, interprete fine di classici, comico brillante, saltimbanco, cantante, uomo allegro e geniale che ha saputo intrattenere anche coi silenzi. Assistere ai suoi

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spettacoli era dimenticare drammi, ambasce, dolori, obliare, almeno in quei momenti, il grigiore dell’esistenza, giacché la vita raramente è gioia, ognuno di noi lo sa benissimo, lo sperimenta giornalmente sulla propria pelle. Era di vasta cultura. Dopo il Liceo Augusto, aveva frequentato Giurisprudenza e proprio durante l’Università ha avuto i primi contatti con il teatro, recitando celebri opere di Shakespeare, Bechet, Ibsen; indimenticabili le sue interpretazioni/imitazioni di Petrolini; celebri anche i suoi spettacoli per la televisione come “A me gli occhi please”, “Alleluia brava gente”; indimenticabile, per diversità e umanità, il suo Maresciallo Rocca. Si è cimentato brillantemente anche nella poesia, pubblicando sonetti specialmente sul quotidiano Il Messaggero di Roma, per esempio, in occasione della morte di Vittorio Gassman e di Alberto Sordi. Ha lavorato con attori e artisti eccezionali, come Carmelo Bene, il già ricordato Gassman, Enrico Montesano; è stato diretto da grandi registi, tra i quali Elio Petri, Mario Monicelli, Carlo Vanzina. Lungo sarebbe l’elenco dei film che lo hanno visto protagonista, così citiamo solamente il celebre Febbre da cavallo, Brancaleone alle Crociate, Un’estate ai Caraibi. Più di sessant’anni di successi in tutte le branche dello spettacolo. I funerali si son tenuti nella Chiesa degli Artisti di Piazza del Popolo, presenti la compagna Sagitta Alter, con la quale è vissuto fin dagli anni sessanta dello scorso secolo; la figlia Susanna, 42 anni, scenografa e costumista; l’altra figlia Carlotta, 37 anni, attrice e cantante. Una istituzione che certamente continuerà a lavorare nel suo nome, è il Globe Theatre, da lui fondato nella Capitale e dal quale sono usciti tanti talenti del nostro tempo, come Enrico Brignano, Giorgio Tirabassi, Flavio Insinna. D. Defelice *** 13a EDIZIONE PREMIO DANILO MASINI, RISULTATI - Dopo attenta lettura ed esame degli elaborati e libri ricevuti, la Giuria della 13 a Edizione del Premio Internazionale di Poesia “Danilo Masini” dal tema Romanticismo e poesia nell’esistenza umana e Tema libero, riunitasi a San Pancrazio (AR), ha decretato che il 1° Premio per la Poesia Inedita andasse a Fabiola CONFORTINI per la poesia “Onde”, il 1° Premio per il Libro Edito di Poesia a Evaristo SEGHETTA ANDREOLI per il libro “In tono minore”, Passigli Poesia, 2020. Per la sezione Poesia Inedita giovani sotto i 18 anni, il 1° Premio è andato a Maria Cristina AL-


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TAVILLA per la poesia “Caos”, mentre per il Libro edito il 1° Premio è stato assegnato a Camilla SARNARI per il volume “Apnea nei miei pensieri”, Albatros, 2019. Gli altri premi assegnati per la sezione Poesia inedita sono i seguenti: 2° Premio ad Alessandro Corsi per “Eterno viandante”; 3° Premio a Maria Cristina Renai per “Nero d’autunno”; 4° Premio a Carmelo Consoli per “Una sera d’inverno”; 5° Premio ad Alfredo Alessio Conti per “Aspettami ancora”. Per il Libro edito di poesia sono i seguenti: 2° Premio a Franco Casadei per il libro “Il bianco delle vele”, Raffaelli Editore, 2012; 3° Premio a Sara Comuzzo per il libro “Invecchiano anche le rose”, Il Rio Poesia, 2014; 4° Premio a Giovanni Tavčar per il libro “Poesie in omaggio a Raffaello Sanzio”, Ma.gi Editore, 2020; 5° Premio a Luciano Delucchi per il libro “E sempre camminiamo”, Montegrappa Edizioni, 2016. Per la sezione Poesia inedita giovani sotto i 18 anni i seguenti: 2° Premio a Federico Tomasi per “Determinato a vagare liberamente”; 3° Premio a Melissa Storchi per “Il tempo che sfugge”; 4° Premio a Roberta Ranieri per “Nella nebbia”; 5° Premio a Ginevra Puccetti per “Inverno”. Per la sezione Libro edito di poesia sotto i 18 anni: 2° Premio a Ginevra Puccetti per il volume “Frammenti di cuore” Edizioni Accademia Barbanera, 2018. Sono stati, inoltre, segnalati i seguenti poeti per la sezione Poesia Inedita: 6° classificato Simona Chiesi per la poesia “Mio malgrado …”; 7° classificato ex aequo Manuela Mazzola per la poesia “Come pagine”; 7° cl. ex aequo Fausto Marseglia per la poesia “Il tramonto”; 7° cl. ex aequo Patrizia Fazzi per la poesia “Il tempo che trasforma”; 8° classificato ex aequo Gabriella Paci per la poesia “E si fa spina in gola ogni parola… (Covid 19)”; 8° cl. ex aequo Francesco Dettori per la poesia “Sognando il mito”; 9° classificato Franco Franconi per la poesia “Desiderio”; 10° cl. ex aequo Antonella Iacoponi per la poesia “La bella Toscana”; 10° ex aequo Alessandro Izzi per la poesia “Ritorno al mare”; 10° cl. ex aequo Luca Pagliai per la poesia “Destino”. I seguenti per la Sezione Libro edito di poesia: 6° cl. ex aequo Mario De Santis per il libro “In quei momenti”, Book Sprint Edizioni, 2015; 6° cl. ex aequo Evelin Cascella per il libro “Poesie d’amore e di anima”, Albatros, 2019; 7° cl. ex aequo Eleonora Maria Chiavetta per il libro “La voce dell’anima”, Bussolengo, 2018; 7° cl. ex aequo Loretta Menegon per il libro “Lettere dall’Ignoto”, Piazza Editore, 2015; 7° cl. ex aequo Giuseppe

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Barin per il libro “Il dolce canto degli anni”, Albatros, 2020; 8° cl. Marcia JelgaValer per il libro “I canti di una rondine”, Albatros, 2020; 9° cl. Patrizia Fazzi per il libro “Finché ci sarà una nota”, Prometheus, 2018; 10° cl. Luca Bacilieri per il libro “Il cielo del mattino mette a neve”, Europa Edizioni, 2019. I seguenti per la Sezione Poesia inedita giovani sotto i 18 anni: 6° classificato Ilaria Vescovi con la poesia “E un altro autunno se ne andò…”; 7° cl. Adele Spina con la poesia “A.F.L. Un pomeriggio d’estate”; 8° cl. Silvia Attianese con la poesia “Come te, nonna”; 9° cl. Gabriel Tagliabue con la poesia “Il medesimo nemico”; 10° cl. Aurora Innamorato con la poesia “Il bene superiore”. Sono stati, inoltre, segnalati i seguenti poeti per le Sezioni: Premio speciale “in memoria di Giovanna Ceccarelli (n. 24.6.1978 - m. 9.1.2018)” assegnato a Mara Tritapepe per la poesia “La tua presenza”. Premio speciale “in memoria di Tiziana Pacchi (n. 24.1.1970 – m. 27.1.2009)” assegnato a Francesca Costa per la poesia “Se un paradiso dovesse esistere”. Premio speciale della Giuria assegnato ad Alessandra Arcoraci per la poesia “Ritorno”. Premio speciale Accademia Collegio de’ Nobili ad Alessandro Inghilterra per la poesia “Corri, coi piedi per terra”. Premio speciale “in memoria del Barone Dr. Ing. Don Mario Spanò dei Tre Mulini (n. il 6.11.1928 a Reggio Calabria – m. 20.09.2019 a Messina)” assegnato ad Aldo Ripert per il volume “Parole in pentagramma”, Anscarichae Domus, 2019. La Cerimonia di Premiazione avrà luogo sabato 5 dicembre 2020 alle ore 17.00 presso il Circolo Ricreativo “Stanze Ulivieri” in Piazza Garibaldi, 1 a Montevarchi (Arezzo). Seguirà concerto di musica. Tutti i Poeti, i loro familiari ed amici sono invitati a partecipare. Salvo impedimenti, qualora persistesse il divieto di assembramenti e di spostarsi fra una Regione e l’altra (DPCM). Il Segretario del Premio Claudio Falletti di Villafalletto *** UN PARCO PER DON ANGELO ZANARDO E LA PANDEMIA – Alle pagine 49 e 50 del numero scorso, avevamo messo in risalto la decisione del Comune di Aprilia (Lt) di intitolare un parco alla memoria di don Angelo Zanardo, che ha speso quasi tutta la sua vita per quella città. La cerimonia, però, non c’è stata; all’ultimo momento, tutto è stato annullato e rinviato a data da destinarsi a causa delle nuove disposizioni contro il Coronavirus. Covid-19, purtroppo, continua a infierire in tutto il


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mondo, causando morti e disastri d’ogni genere; preoccupa il fatto che nessuno abbia trovato, finora, la ricetta per debellarlo, né che siano unanimi i pareri sugli atteggiamenti da tenere per evitarlo; anzi, qualcuno, continua con le amenità, le quali, anziché allontanare dal virus, gli facilitano la strada; come fa Francesco Bei il quale, a pag. 41 de La Repubblica di sabato 24 ottobre 2020, scrive: “Dovremo costruirci una corazza mentale, per resistere e speriamo che venga ancora voglia di cantare dai balconi e di appendere striscioni”. Cantare dai balconi e appendere striscioni! Che ilarità! Come se Covid-19 avesse timori di strilli e stracci, o bandiere al vento e dopo che noi abbiamo ampiamente dimostrato – Pomezia-Notizie, aprile 2020, per esempio, e del successivo maggio; Il Pontino nuovo del 16/31 marzo 2020 – come cantare a squarciagola dai balconi, scalmanandosi e guardandosi in faccia, si rischia che le goccioline di saliva degli uni vengano introdotte bellamente nella gola degli altri! La pandemia ci sta riportando a tempi bui del passato; in tanti ne hanno scritto e, a rileggerli, oggi, si scopre che la nostra situazione è tale e quale la loro. Ezio Mauro, su Robinson del 7 novembre 2020, ricorda, per esempio, quanto sia attuale Fëdor Dostoevskij, il cui personaggio, Raskolnikov, <<vede la malattia dilatarsi e ingigantirsi “come se tutto il mondo fosse condannato a rimaner vittima d’una epidemia mortale mai vista né sentita, che dal profondo dell’Asia avanzava in Europa. Erano comparsi degli esseri microscopici che si annidavano nel corpo della gente. Interi villaggi, intere città e popolazioni erano stati contagiati ed erano impazziti. Avevano interrotto i mestieri più usuali, l’agricoltura si era fermata. Perivano tutti e tutto. L’epidemia cresceva e avanzava sempre più. In tutto il mondo si potevano salvare solamente alcune persone, erano i puri e gli eletti, predestinati a rinnovare e purificare la terra: ma nessuno e in nessun dove aveva visto quelle persone, nessuno aveva sentito le loro voci e le loro parole”>>. Abbiamo bisogno di altro, di serietà nell’ubbidire e seguire certe regole per sconfiggere il nemico, non di urlare e schiamazzare da balconi e finestre; questa è solo follia, impotenza, masturbazione collettiva. Domenico Defelice *** UN GRAZIE A ISABELLA MICHELA AFFINITO – Riceviamo, il 10 novembre 2020, una email da Milano di Mariagina Bonciani: Carissimo Domenico,

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in attesa di ricevere il numero cartaceo di novembre ho provato ad entrare nel tuo sito ISSUU ed ho potuto sfogliarlo in anteprima, scoprendo con piacere che contiene una recensione al mio "GABBIANI" ad opera di Isabella Michela Affinito che vorrei ringraziare vivamente attraverso le pagine di POMEZIA-NOTIZIE, complimentandomi inoltre con lei perché le sue recensioni sono sempre qualcosa di più di un semplice apprezzamento, più o meno approfondito, dell'opera trattata, ma rappresentano un volo di fantasia attraverso campi di diversi settori artistici, letterari e di personali esperienze emotive, sempre di piacevole ed interessante lettura. Purtroppo non sono riuscita a trovare il modo di stampare quanto scaricato. Sarà possibile farlo in futuro, quando l'edizione cartacea di P.-N. non sarà più disponibile (almeno per gli abbonati come me, che continuerò ad esserlo)? (…) Un caro abbraccio, Mariagina *** RINGRAZIAMENTI PER LE TANTE RECENSIONI A ANIMA, la silloge vincitrice del Premio Editoriale Il Croco – Riceviamo, da Salerno, il 14 novembre 2020, la seguente e-mail del Prof. Francesco D’Episcopo: Caro Defelice, le chiedo cortesemente di pubblicare sulla rivista i miei più vivi ringraziamenti per tutti i critici, che hanno dedicato il loro prezioso tempo alla mia silloge poetica "Anima". A loro vada la mia sincera gratitudine. Cordiali saluti e auguri per la nuova avventura telematica Francesco D'Episcopo *** DA SOCRATE ALLE POSTAZIONI IN RETE, PANORAMI PROBLEMATICI DAL DIALOGO AL SILENZIO - Nella storica cornice del Museo Diocesano di Vicenza, ora spazio per il Salotto San Paolo, tra testimonianze d'arte che segnano il tempo affascinando e facendone cogliere il profondo senso storico, il 24 settembre 2020 alle ore 18:30 si è svolto il primo incontro che ha aperto il Festival Biblico, alla sua sedicesima edizione, LOGOS. PARLARE PENSARE AGIRE, in un programma dilatato anche ad altre diocesi come Verona, Padova, Rovigo, Vittorio Veneto (Tv), testimonianza necessaria per capire quali risposte devono essere interiorizzate per poter superare quelle pesanti contraddizioni che ci soffocano. Ospiti della serata Roberto Celada Ballanti (professore ordinario di Filosofia della Religione e Filosofia


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del Dialogo Interreligioso all'Università di Genova) e Marco Dotti (docente di Professioni dell'Editoria all'Università di Pavia), con Paolo Rappellino, responsabile dei periodici San Paolo, come moderatore. In un clima di piana, amicale disponibilità a mettere in comune le proprie esperienze professionali e personali, questi due studiosi intrecciano conoscenze offerte a chi ascolta in un contesto pur teso e mutato dalle circostanze che imbavagliano. Il prof. Celada Ballanti invita ad andare indietro alla radice delle parole ed a capire che il 'dià' che apre alla parola 'logos' nel termine 'dialogo' è ben più importante del logos stesso perché va ad indicare quell'attraversamento, quel superamento del 'monologo' in quanto l'Altro è presente e di esso si deve assolutamente tener conto, affinché ci sia un risultato alla comunicazione, anche se l'ambito può essere lo spazio della piazza, dell'antica 'agorà' nella quale Socrate operava e dove ha avuto denunce fino al processo finale concluso con la morte provocata. La sua colpa? Interrogare gli spazi che proteggono il sacro, templi e quant'altro e farli esplodere per rendere comuni e comunicate le loro verità. Ma attraverso i secoli quale lo spazio della Verità, quella che può abitare l'Universo oltre la brama predatrice dei Potenti in un'Europa che viene definita quale 'Leone Affamato'? Sostiene il prof. Celada Ballanti che l'incontro con l'Altro deve avvenire all'interno di una plurale, universale dimensione dell'ospitare, quando si è scavato, svuotato tutto quanto snatura lo spazio della relazione, quasi a ricordare la 'kenosis', '..l'annichilimento di Cristo sulla Croce...'. Passando attraverso il pensiero di scrittori e filosofi come il Calvino de 'Le città invisibili', lo Heidegger che sottolinea la forza dello 'zwischen Sein', dell'essere tra, dello 'stare in mezzo a ...', del Ricoeur che vuole spogliare il teologo Hans Küng della sicurezza che può dare l'appartenere ad una dottrina, il credere e l'abitare con convinzione un dogma, lo studioso afferma '… L'incontro è sul fondo mistico del non detto... Al fondo della Parola resta il silenzio... tutte le altre parole sono reiette...'. Il prof. M. Dotti denuncia gli aspetti deviati della comunicazione ed invita ad assumere nei loro confronti una vera e propria 'diffidenza': '… la logica immanente agli strumenti... è quella di creare una tabula rasa...', evitando che ci sia il tempo per reagire, e quindi si arriva '...alla reazione di annullamento dell'azione... manca il 'tra', il 'dià'... l'Altro è scomparso nella sua concretezza...'. Se gli ambienti e l'Altro vengono simulati, nulla risulta più reale: anche questo studioso richiama l'attenzione sul Calvino della 'antilingua' e del 'terrore semantico' che essa

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genera; sul Bateson quando sostiene che 'la comunicazione è... quella differenza che produce differenze...'; sull'Andrea Zanzotto delle serre per orchidee che anticipano '... le bolle del malinteso...', quando l'assuefazione da saturazione non consente più di cogliere la differenza tra Verità e realtà volutamente artificiale; su quel Peter Thiel che si interessa a René Girard e alla sua teoria mimetica antropologica del 'capro espiatorio', senza dimenticare il danese Kiekegaard ed il suo modo di intendere l'etica. Il dialogo viene salvato dalla consapevolezza che esso genera il silenzio come fondo, come quella dimensione che lo rende vitale e la stessa consapevolezza deve essere operata nei confronti di tutti i mezzi di comunicazione che oggi assalgono senza sosta ciascuno di noi e chiedono sudditanza. La serata che ha coinvolto tutti con attenzione ad alti livelli, si è conclusa con il riferimento del Rappellino al libro di R. Celada Ballanti La parabola dei tre anelli. Migrazioni e metamorfosi di un racconto, pubblicato da Edizioni di storia e di letteratura nel 2017. Ilia Pedrina *** NON DIPINGERAI I MIEI OCCHI - Rosalba Maletta, docente di germanistica dell'Università Statale di Milano ha promosso un evento culturale di vasta portata, inserito nella serie degli incontri della Book City in forma digitale sulla piattaforma Zoom sabato 14 novembre dalle 16:30 alle 18:00, coinvolgendo in collegamento da remoto Chiara Pulvirenti, docente di Letteratura tedesca all'Università di Catania: l'occasione è la pubblicazione del suo primo romanzo dalle radici storiche che l'hanno ispirato NON DIPINGERAI I MIEI OCCHI - Storia intima di Jeanne Hébuterne e Amedeo Modigliani, ed. Jouvence, Milano, 2020, in rete. Ad intrecciare parole ed immagini l'intervento, chiaro ed ispirato, del musicista e poeta Giuseppe Montemagno, che ha prodotto per l'occasione un video assai coinvolgente: immagini in successione dell'opera pittorica della giovanissima Jeanne Hébuterne, il canto dell'abbandono e della desolazione dettata dalla solitudine che prefigura morte, tratto dall'Antonio e Cleopatra di Haendel, l'interpretazione appassionata dell'Autore, in una tridimensionalità alla quale poi hanno dato riscontro i partecipanti con domande acute ed appropriate. La vicenda della Musa, amante-bambina e modella Jeanne emerge da un fondo storico degli eventi quasi a lei ostili, a partire dalla sua famiglia, che mal sopporta il legame con Modigliani, pittore della Parigi in fermento a ridosso dei tragici eventi


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della Prima Guerra Mondiale: fame, miseria, vita sregolatissima e tensione verso l'arte della pittura, della scultura, della scrittura. Nei suoi interventi Rosalba Maletta ha inteso sottolineare quanto la lettura di questo romanzo vada ad intercettare in profondità i nostri vissuti e come le terribili esperienze che i due amanti vivono, la malattia di lui, la prima gravidanza di lei, e poi la seconda che accompagna il doloroso percorso di morte di Modì per tubercolosi: percorso che Jeanne aveva già prefigurato per sé in opere per decenni ignorate dalla vista dei più ed ora tutte disperse perché vendute, certo a buon prezzo. L'occasione che ha calamitato Grazia Pulvirenti in questa avventura è stata l'attenta osservazione, quasi direi la penetrazione stratificata nelle forme e nei colori di un quadro di Jeanne esposto ad una collettanea tenutasi a Torino sull'arte contemporanea: da questo evento il gancio emozionale, insinuatosi così e poi costantemente presente in lei, l'ha portata a vivere una ricerca lunga e faticosa, ma carica di profonda fascinazione, coinvolgente ed appassionata. Ella ha voluto mostrare come la carne stessa della giovane modella sia irraggiungibile, perché lo sguardo su di lei, i pennelli, i colori di Modì ne resteranno sempre in superficie, occhi che richiamano ferite di lago azzurre, forme sempre asciutte e tese, per delineare una dimensione al femminile che in tutto dilata le sue radici all'indietro, sempre inaccessibili perché vi è l'anima dentro. Tale tensione e quasi appropriazione degli eventi di Jeanne guida l'Autrice, che ne asseconda i tratti: infatti per il diciottesimo compleanno della nipote, si recherà con lei a Parigi per entrare in quel palazzo fatiscente, posto oltre il cortile, all'interno di un altro edificio fronte strada in Rue de la Grande Chaumière, 8; per poter respirare, dopo tempo e tempo ancora, la presenza degli artisti che frequentavano La Rotonde, Boulevard

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de Montparnasse, nella Parigi del 16 novembre 1916, data che aprirà il romanzo di Grazia, con un farsi una sola di loro due, la donna di oggi e la bambina di ieri; per salire quelle scale ripide dalle pareti scrostate e suonare al campanello di quell' atelier che i due amanti hanno abitato, immettendosi nel corpo e nelle emozioni di quella donna ancora bambina, che sale e scende quelle scale più e più volte al giorno, gravida per la seconda volta al nono mese; per capire e quasi vivere da testimone l'evento che metterà fine a quei giorni della Jeanne in doppio, volando dalla finestra e schiantandosi a terra, a due giorni dalla morte di lui. Perché, quando muore lui: “...Ci sono tutti nella sala d'attesa della Charité. Zborowski, con indosso l'abito delle grandi occasioni, fa gli onori di casa. La sua fortuna è vicina: ora che si è sparsa la notizia della morte di Modigliani c'è fermento fra i mercanti. C'è KiKi che si stringe a Lunia, paralizzata e senza espressione. Cendrars, Jacob, Breton, Cocteau, Utrillo, Satie, Matisse parlano fitto. Lacrime brillano intorno. Gli amici più stretti sono al capezzale. Soutine dà di matto, si strappa la pelle dal viso, sbatte la testa contro i muri. Deve arrivare Jeanne, l'accompagna Manuel...' (G. Pulvirenti, La maschera di Modigliani – Alla Charité il 24 gennaio, op. cit. pag. 138). Per Jeanne il giorno dopo, il 25 gennaio 1920 avrà avvio l'anelato infinito oltre la pelle e il suo respiro. In copertina un acquerello d'incredibile, delicata, sommessa, irresistibile potenza, che ha rappresentato anche la locandina dell'evento, allora chiedo a Chiara chi mai l'abbia eseguito e lei, gentilissima mi scrive: “Che dire di Luigi Simonetta, l'autore dell'acquerello in copertina? Lo conosco da quando ero ventenne, poi, come spesso accade nella vita, ci siamo persi, poi in prossimità della pubblicazione del libro, ci siamo ritrovati. E a lui


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ho chiesto il dono di raffigurare Jeanne come la sente emergere dal libro, con la sensibilità del suo sguardo” (da Chiara Pulvirenti, e-mail del 17 novembre, ore 08:39) In apertura una dedica del cuore: 'A Jeanne e alle donne scomparse nell'ombra della storia. Affinché il loro sguardo silente possa ancora parlare...' Ho intuito radici ebraiche mai cancellate in Jeanne e proprio per questo così dentro la vita, la passione, la morte stessa, ben oltre qualsivoglia interpretazione romantica dei legami fra loro due, gli altri artisti di quella porzione di mondo, di tempo di aspettative, e l'arte del suo guardare, per dar testimonianza del vivere stesso nel tracciare su tela, così, quei suoi tratti pittorici e ponendo in essi per sempre la firma della propria forza. Ilia Pedrina

LIBRI RICEVUTI SANDRO ANGELUCCI – Ttiwai – Prefazione di Franca Alaimo, Postfazione (“Il Paradiso che non ci ha abbandonato mai”) di Franco Campegiani – Giuliano Landolfi Editore, 2019 – Pagg. 84, € 10,00. Sandro ANGELUCCI è nato nel 1957 a Rieti, dove vive e insegna. Poeta e critico letterario, saggista, è presente in diverse antologie, tra le quali “Inchiostri digitali” (2016). Collabora con qualificate riviste culturali e nazionali, di alcune delle quali è membro del comitato di redazione. Ha ottenuto numerosi premi per la poesia, tra cui molti primi premi per l’edito. Il suo nome figura in antologie e storie della letteratura e un suo profilo critico lo si trova anche nel IV volume della “Storia della letteratura italiana. Il secondo Novecento”. Di lui si sono occupati autorevoli critici, poeti e scrittori. Tra le opere pubblicate: Non siamo nati ancora (2000); Il cerchio che circonda l’infinito (2005); Verticalità (2009); Di Rescigno il racconto infinito (saggio, 2013); Si aggiungono voci (2014). ** ISABELLA MICHELA AFFINITO – Vittorio Martin: Storia di un pittore del nostro tempo – In copertina, a colori, disegno di Vittorio Martin, del quale, sempre a colori, son riprodotti, all’interno, ben 29 opere. Casa Editrice Menna, Avellino, 2005 – Pagg. 96, € 25,00. Isabella Michela AFFINITO è nata in Ciociaria nel 1967 e si sente donna del Sud. Ha frequentato e completato scuole artistiche anche a livello universitario, quale l’Accademia di Costume e di Moda a Roma negli anni 1987

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- 1991, al termine della quale si è specializzata in Graphic Designer. Ha proseguito, poi, per suo conto, approfondendo la storia e la critica d’arte, letteraria e cinematografica, l’antiquariato, l’astrologia, la storia del teatro, la filosofia, l’egittologia, la storia in generale, la poesia e la saggistica. Nel 1997 ha iniziato a prendere parte ai concorsi artistico-letterari delle varie regioni italiane e in seguito ha partecipato anche a quelli fuori dei confini d’Italia, tra cui il Premio A.L.I.A.S. dell’Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori di Melbourne. Ha reso edite quasi 60 raccolte di poesie e volumi di critiche letterarie, dove ha preso in esame opere di autori del nostro panorama contemporaneo culturale e sovente si è soffermata sul tema della donna, del suo ruolo nella società odierna e del passato, delle problematiche legate alla sua travagliata emancipazione. Con “Da Cassandra a Dora Maar” (2006) ripropone le infinite donne da lei ritratte nei versi per continuare un omaggio ad esse e a lei stessa. Inserita in moltissime antologie, tra cui l’ “Enciclopedia degli Autori Italiani” (2003), “Cristàlia” (2003), “8 Marzo” (2004), “Felicità di parole...” (2004), “Cluvium” (2004), “Il suono del silenzio” (2005) eccetera. Sempre sul tema della donna ha scritto un saggio sulla poetessa Emily Dickinson. Pluriaccademica, Senatrice dell’Accademia Internazionale dei Micenei di Reggio Calabria, collaboratrice di molte riviste, è presente in Internet con sue vetrine poetiche. Tra le sue recenti opere: “Insolite composizioni” - vol. VIII (2015), “Viaggio interiore” (2015), “Dalle radici alle foglie alla poesia” (2015), Una raccolta di stili (15° volume, 2015), “Percorsi di critica moderna - Autori contemporanei” (2016), Mi interrogarono le muse… (2018), “Luoghi Personali e Impersonali” (2018), “Autori contemporanei nella critica (Percorsi di critica moderna)” (2019), “Una raccolta di stili” (17° volume, 2019), “Una raccolta di stili (18° volume, 2020), “Lettera a…” (2020). ** COSMO GIACOMO SALLUSTIO SALVEMINI – Canaglie e Galantuomini – Analisi del contrasto tra disonesti e onesti negli Stati e nelle Chiese. Stigmatizzare i comportamenti dei malfattori ed elogiare l’operato dei benefattori è la funzione primaria del giornalismo. Ogni delitto è cedimento ad una sobillazione diabolica – Edizioni Movimento Salvemini, 2015, Pagg. 608, s. i. p. ** COSMO GIACOMO SALLUSTIO SALVEMINI – Diritti umani violati – Sintetica analisi storica dei crimini commessi dai leaders religiosi e politici dal Medioevo ad oggi. Le sobillazioni sataniche alla violenza vanno respinte con la forza della volontà. Bisogna convertire i cuori alla Misericordia. Edizioni


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Movimento Salvemini, 2016, pagg. 312, s. i. p. Cosmo Giacomo SALLUSTIO SALVEMINI è nato a Molfetta (Bari) nel 1943. Si è formato sugli insegnamenti morali di Gaetano Salvemini. Si laurea in Scienze politiche a Bari nel 1965. Si dà al giornalismo nel 1966. Si laurea in Giurisprudenza a Roma nel 1974. Insegna dal 1975 a livello universitario. Past Presidente della Casa d’Europa di Gallarate (Varese) e Preside del locale Liceo Cavallotti. Dal 1980 è Presidente del Movimento Gaetano Salvemini. Dirige dal 1991 il periodico L’Attualità e la Scuola di Giornalismo “G. Salvemini”. Nel 1995 fonda le Edizioni Movimento Salvemini. Nel 1999 promuove la costituzione dell’Unione Italiana Associazioni Culturali (U.N.I.A.C.) di cui è Presidente. Dal 2000 dirige l’organizzazione del “Maggio Uniacense”. Socio onorario dell’Associazione Pugliese di Roma. Gli sono stati conferiti più di 300 Premi per opere e per l’attività giornalistica. Dal 2003 è Deputato al Parlamento Mondiale per la Sicurezza e la Pace e Ministro del Dipartimento Relazioni Internazionali. Dal 2004 è direttore dell’Ufficio Stampa dell’Accademia Costantiniana. Socio onorario dell’Associazione Nazionale Magistrati Onorari. Tra i più di 35 libri, ricordiamo “Europa problemi giuridici ed economici” (1977, giunto alla sesta edizione), “La Repubblica va rifondata sulla randomcrazia” (2014), Canaglie e Galantuomini (2015), Epuloni e Lazzari (2019). ** AA.VV. – Gigi Proietti Mandrake a Roma – La Repubblica, 2020, pagg. 144. A firmare i brani del libro sono: Maurizio Molinari, Corrado Augias, Filippo Ceccarelli, Valerio Magrelli, Silvia Fumarola, Rodolfo Di Giammarco, Anna Bandettini, Piera degli Esposti, Paola Minaccioni, Pino Quartullo, Paolo di Paolo, Enrico Sisti, Angelo Carotenuto, Stefano Bartezzaghi, Pierfrancesco Favino, Walter Veltroni, Paolo Boccacci, Renzo Arbore, Alessandra Paolini, Edoardo di Leo, Franco Montini, Catherine Spaak, Arianna Finos, Stefania Sandrelli, Silvia Fumarola, Antonio Gnoli, Paolo Boccacci, Roberto Lerici, Mauro Biani e, poi, brani e poesie dello stesso Proietti.

TRA LE RIVISTE IL CONVIVIO – Trimestrale fondato a Angelo Manitta e diretto da Enza Conti – via Pietramarina Verzella 66 – 95012 Castiglione di Sicilia (CT) – Email: angelo.manitta@tin.it; enzaconti@ilconvivio.org – Riceviamo il n. 82 (luglio-settembre 2020),

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ricco di articoli, recensioni, poesie, racconti, traduzioni, pitture, rubriche varie. Tra i pittori, Vanda Dimattia, alla quale è dedicata la prima di copertina a colori con “Prima del concerto”; in quarta, sempre a colori, cinque pittori, tra cui Vittorio Martin con “Borgo a Stevenà”. Tra le firme, anche quelle di: Giuseppe Manitta, Corrado Calabrò, Ugo Piscopo, Angelo Manitta, Tito Cauchi, Antonia Izzi Rufo, Carlos Chacón Zaldivar, Manuela Mazzola, Isabella Michela Affinito, Marina Caracciolo, Enza Conti. La rivista organizza due Premi: 1) Premio per la silloge inedita “Pietro Carrera” 2021, scadenza 31 dicembre 2020; 2) Premio per saggistica e teatro inediti “Giuseppe Antonio Borgese” 2021, scadenza 31 dicembre 2020. Chiedere regolamento a giuseppemanitta@ilconvivio.org e le altre e-mail su indicate. * LETTERATURA E PENSIERO – Rivista trimestrale di Scienze Umane diretta da Giuseppe Manitta – via Pietramarina-Verzella 66 – 95012 Castiglione di Sicilia (CT) – E-mail: giuseppemanitta@ilconvivio.org – Riceviamo il n. 5, luglio-settembre 2020. Ecco il sommario: Angelo Manitta – La spelta e la verbena nel canto XIII dell’Inferno dantesco; Francesco Martillotto – Note sulla lingua dei Poemi del Risorgimento di Giovanni Pascoli; Romano Manescalchi – Il ruolo da Dante assegnato a Catone nella sua Commedia; Asteria Casadio – Scritture lungo la “nera schiena del tempo”: Luigi Pirandello e Javier Marìas; Giorgio Moio – Giacomo Leopardi: Bruto minore, grido ribelle e sete di giustizia; Marilena Genovese – La scrittura visiva di Jean-Marie Gustave Le Clézio; Giuseppe Baiocco – Il senso di Wolfgang Goethe per il colore; Fabio Russo – Immagini: Stuparich, Marin, Piccolomini. Una città e la sua immagine, l’Originale e il Ritratto; Emmanuela Diakosavva – Georgios Viziinos lo scrittore dell’eterogeneità; Vittorio Capuzza – “Alcuni versi diretti a me”. Giacomo Leopardi e l’abate Melchiorre Missirini; Angelo Manitta – La guerra di Sicilia e la quadruplice alleanza (1° Luglio 1718 – 6 Maggio 1720). In appendice il “Diario di Campo da Lemmari”; Angelo Fregnani – Laura Melosi, Leopardi, l’infinito e i manoscritti di Visso, a cura di L. Melosi; Carmine Chiodo – Marco Dondero, Leopardi personaggio. Il poeta nei ‘Canti’ e nella letteratura italiana contemporanea; Claudio Tugnoli – Francesco Roat, Miti, miraggi e realtà del ritorno; Angelo Manitta – Domenico Chiodo, Armida da Tasso a Rossini; Ugo Piscopo – Gabriele Pedullà, Biscotti della fortuna; Carmine Chiodo – Valerio Casadio, Quanto sembra sfuggirci; Ugo Piscopo – Stefano Lanuzza, Caos e bosco, Pref. di M. Lunetta; Carmine Chiodo – Mario


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Dicembre 2020

La Cava, Viaggio in Lucania, Prefazione di Giuseppe Italiano; Carmine Chiodo – Fortunato Seminara, L’Héritage de l’oncle, traduction de Erik Pesenti Rossi; Angelo Manitta – Paola Reale, La casa racconta… Dall’800 al 2000; Carmine Chiodo – Guglielmo Aprile, Farsi amica la notte; Carmine Chiodo – Maria Cristina Briguglio - Giovanni Scarfò, Corrado Alvaro e il cinema. Una magnifica ossessione, Introduzione di Paride Leporace. * FIORISCE UN CENACOLO – Rivista mensile di Lettere e Arti fondata da Carmine Manzi nel 1940 e diretta da Anna Manzi – 84085 Mercato S. Severino (Salerno) – e-mail: manzi.annamaria@tiscali.it - Riceviamo il n. 7-9, luglio-settembre 2020, nel quale rileviamo firme di nostri collaboratori, come Tito Cauchi e Isabella Michela Affinito. A pag. 12, Nazario Pardini si interessa di Antonia Izzi Rufo. * POETI NELLA SOCIETÀ – Rivista letteraria, artistica e di informazione diretta da Mariangela Esposito, redattore capo Pasquale Francischetti – via Arezzo 62 – 80011 Acerra (NA) – E-mail: francischetti@alice.it – Riceviamo il n. 103, novembre – dicembre 2020, la cui prima di copertina, a colori, è dedicata a “Omaggio a Victor Vasarely”, penne e pennarelli colorati (cm. 35 x 50), opera dell’Artista Isabella Michela Affinito. La stessa Affinito, all’interno, firma alcune recensioni e a pag. 17 Andrea Pugiotto si interessa di “Ardita salita”, poesie di Vittorio Nino Martin.

D. Defelice – Vecchia pianta di ulivo (biro)↓

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CARI LETTORI, CARI COLLABORATORI, Come onestamente annunciato nel numero dell’agosto scorso, questo di dicembre 2020 è l’ultimo numero cartaceo di Pomezia-Notizie. Non ci consentono di proseguire le leggi e Poste Italiane, con un servizio che non sappiamo come definire. Sono stati eliminati i conti correnti postali intestati ai privati e per spedire a tariffa agevolata si è costretti a macinare centinaia di chilometri (l’unico ufficio postale, per tutto il Lazio, adibito a tale bisogna, era prima in via Bernardino Alimena e poi è stato trasferito, sempre a Roma, in via Affile, in aperta campagna sulla Tiburtina verso Tivoli); cioè, si impongono alle riviste di nicchia e ai periodici culturali, le medesime condizioni che debbono e possono assolvere Case Editrici quali la Mondadori e la Rizzoli. In più, c’è da considerare l’età del direttore, che non gli consente di effettuare lunghi viaggi con la macchina e proseguire un lavoro stressante condotto mensilmente da bel 47 anni (un numero appena spedito e già occorre mettere mani al successivo: una vera e propria catena di montaggio!). A stringere definitivamente il cappio del proseguire col cartaceo, è arrivato, poi, Covid19. Dopo aver speso un mucchio di denaro per la spedizione (un euro e vent’otto a copia solo se sul territorio italiano), è deprimente sapere che molti plichi non vengano recapitati ai rispettivi destinatari; nel migliore dei casi, essi ci sono stati restituiti per mancata consegna, causa le diverse restrizioni in vigore in ogni parte del mondo (per esempio, tutto, proprio tutto quello che, dal marzo 2020, abbiamo spedito a Cuba, è ritornato in dietro per mancata consegna). Così, da prossimo numero di gennaio 2021, Pomezia-Notizie uscirà solo in formato elettronico ed elettronicamente verrà spedita a coloro che lo chiederanno e ci forniranno il mezzo di recapito (la propria e-mail, per esempio, o altra: di un amico, di un parente,


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Dicembre 2020

di una agenzia). Non ci sono più abbonamenti e coloro che vorranno continuare a collaborare e aiutare il nostro lavoro potranno farlo con contributi assolutamente volontari: Codice IBAN: IT37 N076 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX intestato a Domenico Defelice – via Fratelli Bandiera, 6 – 00071 Pomezia, RM. Gli aiuti son necessari, cari Lettori e cari Collaboratori, perché niente è gratis, neppure la spedizione elettronica e Pomezia-Notizie non ha avuto, né ha, pubblicità o finanziamenti di alcun genere. A tutti, un Grazie e Auguri di Buon Natale e Felice Anno Nuovo, nella speranza che in qualche modo si possa uscire finalmente dalla pandemia che da troppo tempo ci affligge. La Redazione e la Direzione

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A Gesù bambino La notte è scesa/e brilla la cometa che ha segnato il cammino. Sono davanti a Te, Santo Bambino! Tu, Re dell’universo,/ci hai insegnato che tutte le creature sono uguali, che le distingue solo la bontà, tesoro immenso, dato al povero e al ricco. Gesù, fa’ ch’io sia buono, che in cuore non abbia che dolcezza. Fa’ che il tuo dono s’accresca in me ogni giorno e intorno lo diffonda, nel Tuo nome. Umberto Saba

AI COLLABORATORI

Lettera a Gesù Caro Gesù, dà la salute a Mamma e Papà un po’ di soldi ai poverelli, porta la pace a tutta la terra, una casetta a chi non ce l’ha e ai cattivi un po’ di bontà. E se per me niente ci resta sarà lo stesso una bella festa. Mario Lodi

BUON NATALE 2020 ! e... FELICE ANNO 2021 !

Inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione) preferibilmente attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è gradito un contributo volontario da inviare intestato a: Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 N076 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA


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