50ISSN 2611-0954
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Anno 28 (Nuova Serie) – n. 2
€ 5,00
- Febbraio 2020 -
LA VOCE DEGLI SPECCHI poeti a confronto di Giuseppe Leone
N
E ho visti e letti tanti di libri, di un solo autore come di autori vari, ma mai con due “prime” di copertina. Come questo di Alberto Casiraghy e Ernesto Ponziani, edito allo scadere del 2019 dalla milanese Tralerighe, con un unico titolo La voce degli specchi, disseminato delle illustrazioni “surreali e metafisiche” di Casiraghy, su Progetto grafico A14 con il contributo di Francesco “Ciskije” Baldassarre e Carlotta Origoni. Un libro nel quale, uno “stampatore di emozioni e accoglie colori” e un “coltivatore di patate e parole” dialogano a colpi di aforismi e poesie, già a partire dall’unica “aletta” di cui dispongono: il primo, domandandosi se troverà mai la voce degli specchi; il secondo, rispondendo che l’aforisma, / forma assai cara ai poeti, / permette di rammentare / a quanti la frequentano che / la solitudine / è una comoda via / per evitare l’uso della verità. / La parola è semplice / per suo genoma. Due libri in uno, dunque, dove c’è pure spazio per due prefazioni: quella di Cristiana Vai agli aforismi di Casiraghy che ha come titolo Lo specchio e quella di Giampiero Neri alle poesie di Ponziani, intitolata La voce, una agli antipodi dell’altra. La voce come immagine-emblema della coscienza morale e dell’interiorità soggettiva e lo specchio, che nell’ immaginario collettivo è una metafora che evoca l’alterità, perché aiuta ciascuno a vedere se stesso come un altro e a costruire perciò la propria identità attraverso il confronto, grazie a un elemento che è alla base dell’atto di confrontare: l’ empatia.
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All’interno: Lingua italiana e dialetti, di Emerico Giachery, pag. 5 Pirandello poeta, di Carlo Di Lieto, pag. 10 Il tempo che verrà di Ceccarossi, di Marina Caracciolo, pag. 12 Dom Franco Mosconi, di Ilia Pedrina, pag. 14 Antonio Crecchia Costellazione di versi, di Tito Cauchi, pag. 16 Franco Leprino e la corda spezzata, di Ilia Pedrina, pag. 18 Disabilità e disagio, di Anna Vincitorio, pag. 21 Sensazioni di una fanciulla, di Tito Cauchi, pag. 23 Due lettere, di Patrizia De Rosa e Lorenzo De Micheli, pag. 25 Artigianato e corporazioni, di Leonardo Selvaggi, pag. 26 Premio editoriale Il Croco (regolamento), pag. 28 I Poeti e la Natura (Dante Alighieri), di Luigi De Rosa, pag. 29 Un libro da una rubrica, di Domenico Defelice, pag. 31 Notizie, pag. 47 Libri ricevuti, pag. 51 Tra le riviste, pag. 53 RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (Barcollando nell’indicibile, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 33); Isabella Michela Affinito (Sorsate ristoratrici, di Vittorio “Nino” Martin, pag. 34); Anna Aita (Domenico Defelice Operatore culturale mite e feroce, di Tito Cauchi, pag. 35); Elio Andriuoli (Il Molise letterario di Francesco D’Episcopo, di Maria Margotta, pag. 35); Marina Caracciolo (Requiem for Gina’s Death and other Poems, di Fabio Dainotti, pag. 37); Roberta Colazingari (Nuvole vagabonde, di Vittorio “Nino” Martin, pag. 38); Roberta Colazingari (Sensazioni di una fanciulla, di Manuela Mazzola, pag. 39); Roberta Colazingari (Come voli d’aironi, di Gabriella Frenna, pag. 39); Domenico Defelice (“La coscienza captiva” in Maliardaria di Fabio Dainotti, di Carlo Di Lieto, pag. 39); Antonia Izzi Rufo (Sorsate ristoratrici, di Vittorio “Nino” Martin, pag. 40); Giovanna Li Volti Guzzardi (Sensazioni di una fanciulla, di Manuela Mazzola, pag. 41); Manuela Mazzola (Ricordi, nostalgie, sentimenti, di Mercedes Chiti, pag. 41); Manuela Mazzola (Sorsate ristoratrici, di Vittorio “Nino” Martin, pag. 42); Manuela Mazzola (Una raccolta di stili 17° volume, di Isabella Michela Affinito, pag. 42); Manuela Mazzola (Miracolo a Natale, di Domenico Defelice, pag. 43); Maria Antonietta Mòsele (Sensazioni di una fanciulla, di Manuela Mazzola, pag. 43); Ilia Pedrina (La Cina l’Occidente incontra il Celeste Impero, di Gianni Guadalupi, pag. 44); Liliana Porro Andriuoli (Canzoniere dell’assenza, di Antonio Spagnuolo, pag. 46). Lettere in Direzione (Ilia Pedrina), pag. 53 Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Anna Maria Bonomi, Rocco Cambareri, Ada De Judicibus Lisena, Giovanna Li Volti Guzzardi, Wilma Minotti Cerini, Gabriella Nicole Valeria Napolitano, Giuseppe Napolitano, Gianni Rescigno, Franco Saccà, Leonardo Selvaggi, Irene Vallone
Empatia di cui se ne sono accorti per tempo anche i prefatori, sia la Vai, quando, dopo aver ammesso che avrebbe voluto scriverlo
lei, afferma che il libro è anche una visione del mondo “a quattro occhi: quelli di Casiraghy … essenziali, ispirati alla gioia, che
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amano le contrapposizioni surreali, e quelli di Ernesto, … lucidi, sicuramente lucidati di dolore, che tagliano l’ipocrisia”; sia Neri, quando nota che la novità di questo libro “è che i due, poeta ed editore, si sono messi insieme a formare un testo che comprende le poesie dell’uno e gli aforismi dell’altro in stretto colloquio”. Un libro, di poesie e di aforismi a un tempo, insomma, di due poeti che cercano, ciascuno ponendosi in ascolto dei versi dell’ altro, di avere un’immagine di sé, per sentirsi meno soli e colmare così la propria malinconia: così Casiraghy in “Potremmo stare per anni”: Anni e anni potremmo stare / senza incontrarci / anni e anni senza sapere / che avremmo potuto / potuto incontrarci / trovarci avremmo potuto / tu e io combaciare / compenetrarci galleggiare / io e te soli volteggiare / con leggerezza cogliere / i nostri fiori, quelli / proprio quelli che vedi laggiù. / Quelli che continuiamo a cercare / e non riusciamo a cogliere / senza strapparli dalla terra / che paziente continua / a partorire meraviglie. Così Ponziani, in “Quella leggera inquietudine”: Quando la poesia bussa / non aprire porte. / Per la luce / basta quella leggera inquietudine. Quello che colpisce, allora, sfogliando le pagine (non numerate) di questo volume, è come il colloquio tra i due poeti continui e proliferi per tutto il libro, grazie a questo
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gioco di specchi che rimandano a Casiraghi, quando si leggono le poesie di Ponziani: Non saprei descrivere / l’odore che avevano i binari / dopo il passaggio del treno … La poesia in forma industriale / mi inquieta e mi fa male … oppure, Quella costruzione fatiscente / frutto di qualche abuso edilizio / spuntava dalla pineta; e a Ponziani, quando si leggono gli aforismi di Casiraghy: Ogni giorno aspetto nuove parole per capire; oppure, Ci sono semi imprevisti / che portano poesia?; oppure ancora, In ogni paradiso c’è / un inferno che dorme. E non solo, ancora in maniera più frenetica, quando nella parte centrale del libro, i due poeti, ormai nelle immediate vicinanze, uno dall’altro, faranno notare la propria metamorfosi, scrivendo, ciascuno nel genere letterario dell’altro, sotto gli occhi increduli del lettore che ha assistito nel giro di poche pagine a uno scambio così clamoroso: Casiraghi d’ora in poi sarà anche autore di poesie, mentre Ponziani farà esperienza di aforismi, senza che ciò porti a una progressiva
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unificazione di un mondo sempre più omogeneo. Al contrario, tutto rimane ancora legato a una continua tensione fra il locale e l’ universale, fra la singola esperienza individuale e un ampio contesto di sguardi incrociati: Statevene in silenzio per qualche minuto. / - scrive Casiraghy - Autunno. Sole. / Il ronzio d’una mosca / sul vetro / il ronzio dell’orologio / sul muro / il ronzio del frigo / vuoto. / Il ronzio del cervello / pieno. / L’aritmia / La melodia / L’apatia / Stanno lì. / Muoviti tu./ Ma prima elimina il tempo… . E Ponziani: Ho chiesto allo scalpellino / di cambiare i connotati / del mio cuore. / “Dovrò cercare gli strumenti adatti” / mi ha risposto. / Spero riesca prima che io / abbia terminato le maschere. Poeti allo specchio, allora, per conservare la propria unità nella varietà, ma senz’ombra di narcisismo. E il perché lo spiega Ponziani: perché i poeti hanno una licenza che si sono dati da se stessi, essendo nati tra i fiori di campo / non certo nei giardini. E se sono sconosciuti e nessuno ne parla, è perché: Oggi allo spaccio del bosco/ c’era in offerta / il silenzio muschiato, di cui dice anche d’aver preso due confezioni, perché una non bastava / per tappezzare l’anima / da entrambi i lati. Gli fa eco Casiraghy, che vede il silenzio prezioso / come nettare fiorito, fino a tesserne un vero e proprio elogio: è prezioso, perché permette a lui, quando vuole ascoltare, di sentire le vibrazioni / delle piccole particelle elementari, nonché le voci / dei minuscoli abitanti della terra. E persino i colori perché essi aiutano a capire l’amore. E tutto ciò - va detto - in un contesto che non ha nulla dell’agone poetico d’un tempo, è semplicemente il risultato di una raccolta comparata di poesie e aforismi fra due poeti che sperimentano il modo di far uscire il capolavoro letterario dalla sua solitudine per inserirlo nel nuovo circuito di spiritualità che non si appaga più dell’astratto rapporto con il contesto storico, ma che cerca di rintracciare i segreti veri o potenziali della propria arte
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nell’altro artista che gli sta di fronte. Un libro bello oltre che unico, allora, La voce degli specchi, una sorta di Indovinello veronese che Alberto Casiraghy, stampatore di emozioni e accoglie colori, e Ernesto Ponziani, coltivatore di patate e parole, riscrivono ora, in piena era Internet, rivivendolo non senza un pizzico di velata malinconia e sorridente ironia. Giuseppe Leone Alberto Casiraghy – Ernesto Ponziani: La voce degli specchi, Edizioni Tralerighe. Milano 2019, € 14.00.
UN FIUME DI LUCE È sole, è oro il grano che tu cerni, e un fiume di luce scorre nel mio cuore. Mi ricordo i giorni che sembravano eterni, quando l’estate era un rogo d’amore. Franco Saccà Da Vento d’autunno, Ibico, 1962.
IL MIO ARCOBALENO! Un arcobaleno di pensieri colora la mia mente, che felice li trasforma in versi e, così colorati, avvolgono di gioia e dolci sorrisi il mio cuore. I colori del mio arcobaleno mi avvincono e sogno. Sogno la pace nel mondo! Sogno la serenità per tutti. Sogno un mondo felice nell’abbraccio del nostro Gesù. Oh mio Gesù, fa che il 2020 sia pieno di pace, di prosperità, di benessere e di fraternità. Mandaci l’arcobaleno dell’amore in tutto il nostro mondo, oh mio misericordioso Gesù! 31 – 12 – 2019 Cav. Giovanna Li Volti Guzzardi Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori (A.L.I.A.S.)
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LINGUA ITALIANA E DIALETTI di Emerico Giachery
“S
ONO infiniti i dialetti, i gerghi, / le pronunce, perché è infinita / la forma della vita: / non bisogna tacerli, bisogna possederli”. Versi di Pier Paolo Pasolini che porrei in esergo al mio dire. Pasolini, ottimo poeta in friulano (che poi è una lingua più che un dialetto), nel lontano 1947, sull’VIII quaderno di Poesia di Enrico Falqui, avviava il discorso sui dialetti in poesia che gli sarà sempre caro. L’anno seguente, un volume miscellaneo di Letterature comparate accoglieva un saggio di Mario Sansone sulle Relazioni fra la letteratura italiana e le letterature dialettali. Via via nel corso degli anni l’interesse s’è fatto sempre più vivo e ricco. Sono nate riviste specializzate di poesia dialettale come “Lengua”, “Diverse lingue” “Il Belli”, “Letteratura e dialetti”, “Rivista di letterature dialettali”. A un poeta in dialetto come il romagnolo Raffaello Baldini è stato assegnato il Premio “Viareggio”. Dell’opera poetica in dialetto di Albino Pierro, che a lungo e invano aspirò al Nobel ed è stato tradotto in molte lingue compreso lo svedese, e di recente l’olandese, sono state pubblicate, quando il poeta era ancora vivente, rigorose concordanze. Nel 1980 (1-4 dicembre) si svolgeva a Palermo un Convegno su La letteratura dialettale in Italia dall’ Unità ad oggi. Nel 1991, Francesco Piga integra la vallardiana Storia letteraria d’ Italia con un bel saggio accompagnato da ricchissima bibliografia e
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intitolato La poesia dialettale del Novecento. Nel 1992 esce, per i tipi pisani di Giardini, il mio volume Dialetti in Parnaso. Nel 1999 Franco Brevini pubblica La poesia in dialetto: storia e testi dalle origini al Novecento nei “Meridiani” di Mondadori. Nel 2005 a Trieste, in collaborazione con l’Università ungherese di Pécs, è stato organizzato il Convegno internazionale Il dialetto come lingua della poesia, pubblicato nel 2007. Nei giorni 18-19-20 ottobre 2011 ha avuto luogo a Roma un importante Convegno di studi su Letteratura, lingua e dialetto: identità nazionale. Tra le maggiori ricchezze dell’Italia è la varietà che si esprime nella sua variopinta storia, nel paesaggio, nella cucina. E nelle parlate. Ricchezza che la letteratura ha saputo mettere a frutto, generando a volte capolavori. Alcune parlate sono state vere e proprie lingue: per esempio il napoletano, il veneziano, il siciliano. Il napoletano colto si compiace ancora di mostrare la sua napoletanità, di usare la lingua che aveva prodotto, secondo Benedetto Croce, “il più bel libro italiano barocco”, Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, scritto nel suo “apollineo e dionisiaco” dialetto, come lo definisce Francesco Flora. Lingua che comparirà anche nel teatro lirico (è il caso di Lo frate ‘nnamorato con musica di Giambattista Pergolesi) e che darà vita al melos squisito di Salvatore Di Giacomo, su cui si innesterà la gloriosa canzone napoletana, e poi al non meno glorioso teatro dialettale di Edoardo Scarpetta e dei fratelli De Filippo. Pochi sanno che Giorgio Napolitano, diversi anni or sono, con lo pseudonimo di Tommaso Pignatelli, ha pubblicato un bel volume di poesie in dialetto napoletano. La tradizione attribuisce battute in napoletano ai Sovrani Borbone. Pare che alla corte pontificia di Pio XII, in cui i nobili romani erano in maggioranza spesso con la divisa della Guardia nobile) si parlasse spesso in romanesco. Il romanesco ha imperversato nel cinema, specialmente per opera di Alberto Sordi, e la pronuncia romana è forse dominante nella televisione italiana. Alla corte sabauda battute
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in piemontese sono rimaste famose, e persino nei tristi anni dell’ultima guerra Vittorio Emanuele III avrebbe detto al corregionale Maresciallo Badoglio: “nu sum d’i revenant” ; ossia “noi siamo fantasmi”, “siamo due sopravvissuti estranei all’attualità storica”. Il veneziano, per secoli lingua ufficiale della Serenissima, ci ha dato i capolavori di Goldoni, e la tradizione è continuata con Giacinto Gallina e Renato Simoni. Nella poesia, Giacomo Noventa (1898-1960), considerando troppo logora la lingua della poesia italiana e insufficiente il puro dialetto per esprimere i suoi temi “alti”, creò un suo personale linguaggio che non adotta nessuno dei dialetti veneti codificati dalla tradizione: “Mi me so fato ‘na lengua mia / Del venezian, de l’ italian”. Spesso quando un autore scrive sia in lingua sia in dialetto, la produzione dialettale ha caratteri di autenticità più accentuati. Per Goldoni la differenza di valore tra opere in lingua e in veneziano non è facilmente affermabile. Capolavori La locandiera, Gli innamorati, Il ventaglio, non meno di opere in dialetto come I rusteghi o Le baruffe chiozzotte o La casa nova: in queste ultime coglierei tuttavia un soprappiù di espressività e freschezza, dovuto al sapore del dialetto. Un forte scarto di qualità divide invece i tre grossi volumi di poesie in lingua di Belli, che quasi nessuno più ricorderebbe, nonostante l’ appassionata difesa che ne fece Giovanni Orioli, dai volumi dei sonetti romaneschi, che formano una delle maggiori opere della nostra letteratura. I nostri primi poeti in volgare, i siciliani, scrivevano in un siciliano nobilitato dal contatto col latino e con la tradizione occitanica. Ricordiamo che la lingua dei “poeti siciliani” che troviamo negli antichi Canzonieri è stata fortemente toscanizzata da copisti toscani: ci resta però qualche testimonianza di quella lingua (un “siciliano illustre”) in testi di Re Enzo e in un’intera canzone, fortunosamente pervenuta sino a noi, del messinese Stefano Protonotario: Pir meu cori allegrari. In dialetto siciliano scriverà nel Settecento uno de-
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gli arcadi più raffinati, l’abate Giovanni Meli (che comparirà come personaggio nel bel romanzo di Leonardo Sciascia Il Consiglio d’Egitto). La scelta del dialetto per esprimere il mondo poetico più suo, che è alessandrino e bucolico, non è dovuta all’intento di rappresentare un contesto popolare, ma al fascino del significante, a ragioni di musicalità preziosa, come in questo mattino, definito “così vero e così magico” da Francesco Flora: “Dimmi, dimmi, apuzza nica, / unni vai cussì matinu? / Nun c’è cima chi arrussica / di lu munti a nui vicinu; / trema ancora, ancora luci / la rugiada ‘ntra li prati…”. In dialetto “girgentino”, ossia agrigentino (al quale aveva dedicato a Bonn la sua tesi di dottorato), Luigi Pirandello compose U Ciclopu, rifacimento del Ciclope euripideo, forse ancora rappresentato in Sicilia da qualche compagnia dialettale. Il romanesco antico, che pareva tanto orribile a Dante, diede nel Trecento quasi un capolavoro che è la cronaca anonima Vita di Cola di Rienzo; ma era totalmente diverso dal romanesco di Peresio, Berneri, Belli. Poteva forse assomigliare un po’ all’attuale ciociaro, ma fu fortemente toscanizzato nel Cinquecento, forse per influsso dei Papi Medici e delle loro corti. L’eccezionale estro linguistico di Carlo Emilio Gadda farà confluire diversi dialetti per insaporire il ghiotto Pasticciaccio, che è certo tra i suoi più significativi capolavori. Non vorrei insistere in riscontri eruditi, ma piuttosto parlare dell’importante presenza di poeti dialettali nella mia ormai lunghissima esperienza di interprete di testi. Belli è stato un grande amore di gioventù, ravvivato dall’ammirevole edizione dei sonetti romaneschi compiuta da Giorgio Vigolo, durato tutta la vita e sfociato in un tardo libro a lui dedicato. Dovendo sintetizzare la “presenza” di
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Belli nella letteratura, ricorro a parole di qualche anno fa. “Immergersi nell’anima profonda e quotidiana della Roma del declinante Stato Pontificio. Identificarsi in pieno, in ogni più icastica sfumatura e cadenza espressiva, con la voce degli strati più disagiati del suo popolo impulsivo e malizioso, spesso afflitto, non di rado sguaiato, dissacratore. A quella voce offrire tutta la possibile attenzione umana e filologica, tutta la vitalità, il ritmo, la forza comunicativa di un’arte scandita nelle magistrali strutture di oltre duemilatrecento sonetti. Ecco il miracolo, ecco l’unicità di Belli. Se la lettura delle poesie dialettali di Porta nel soggiorno milanese fu propizio incentivo, esiste comunque una lunga e tenace tradizione realistica italiana, che si continua in Belli. Il quale però di gran lunga la trascende per originalità, autenticità”. (Carlo Porta si inseriva comunque in una tradizione milanese, “meneghina”, molto più ricca di quella romana sino dal Cinquecento e dal seicento con Carlo Maria Maggi e viva nel Novecento con Delio Tessa e ancora oggi con Franco Loi, Franca Grisoni). Giorgio Vigolo, uno degli studiosi più validi di Belli e quello col quale più mi sento in sintonia, già nel 1924 sosteneva che il poeta “a voler usare il dialetto romanesco senza snaturarlo, dovette farsi un’anima nuova: messa da parte ogni prevenzione letteraria, la sua immersione nel ricco elemento popolaresco dovette essere totale e assoluta. L’io di quest’uomo scompare e si propaga nel popolo, come se s’immergesse in un bagno letèo, in un lavacro battesimale in cui dovrà morire la vecchia personalità del letterato arcadico e
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nascerne l’uomo nuovo con i cinque sensi riconquistati alla vita e alla realtà”. Nessuno dei poeti romaneschi venuti dopo di lui raggiunse la grandezza di Belli. Non Cesare Pascarella, i cui sonetti epici su Villa Gloria emozionavano Carducci, non l’elegante e disinvolto favolista Trilussa, che godette di grande popolarità, e che raggiunge anche esiti epigrammatici non privi di grazia: “C’è un’ ape che se posa / s’un bottone de rosa. / Poi s’ arza e se ne va. / Tutto sommato, la felicità / è ’na piccola cosa”. Cercarono di rinnovare in forme più moderne la poesia romanesca nel Novecento Mario dell’Arco (delicato nelle poesie di La stella de carta per il figlio morto ed epico nelle ottave di Er sacco de Roma) e Mauro Maré. Ho avuto modo di conoscere entrambi. Molti poeti dialettali ho conosciuto nella mia lunga vita, tra i quali ricorderò Achille Serrao, raffinato poeta in lingua e vigoroso poeta in dialetto campano, e, tra molti abruzzesi (come Vittorio Clemente, Ottaviano Giannangeli, Walter Cianciusi, Cosimo Savastano, Vito Moretti, Leandro Ugo Japadre) Alessandro Dommarco. Dommarco, che poetava sia in lingua sia nel dialetto di Ortona a mare, mio grande amico, era figlio di Luigi, autore delle parole di molte canzoni abruzzesi (tra cui Vola, vola, vola). Tra i pugliesi, Michele Urrasio e Cristanziano Serricchio, anche lui poeta in lingua (forse il maggior poeta di Puglia nel secondo Novecento) e in dialetto. Tra i poeti “bilingui” che ho conosciuto potrei ricordare il calabrese Dante Maffia e il triestino Roberto Pagan, da poco approdato alla poesia in dialetto. Al tempo di Svevo, che forse conosceva meglio il dialetto triestino che l’italiano, la multietnica società triestina si esprimeva comunemente in dialetto. La Venezia Giulia ci ha dato due grandi lirici dialettali: il triestino Virgilio Giotti
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(1885-1957) e il molto fecondo Biagio Marin poetante nella parlata di Grado (1891-1985). Entrambi meriterebbero molto più che una semplice segnalazione. La Liguria, oltre al genovese Luigi Firpo, ci ha dato Paolo Bertolani, che ho avuto il piacere di conoscere, e che ha scritto forti poesie nella parlata già montanina della Serra di Lerici. La Romagna, ricca di buoni poeti in dialetto, ha un Archivio per la poesia dialettale a Santarcangelo; ricordiamo almeno Tonino Guerra, noto anche come sceneggiatore di alcuni film di Federico Fellini. Venticinque anni di amicizia mi hanno legato ad Albino Pierro (1916-1995), nato a Tursi, in provincia di Matera. Il paese natio gli ha tributato adeguati riconoscimenti. Nel suo palazzo di famiglia si trovano ora un museo che lo ricorda e un archivio. Nei cartelli che indicano la località è a volte scritto: “Tursi, città del poeta Albino Pierro”. Molti convegni, anche quando era in vita (uno svoltosi nella cattedrale di Tursi) hanno salutato e approfondito la sua poesia. La bibliografia che lo concerne è vastissima, e annovera alcuni tra i più illustri italianisti del secondo Novecento, da Gianfranco Contini a Umberto Bosco, da Fernando Figurelli a Giorgio Petrocchi, da Mario Marti a Gianfranco Folena. A tradurlo in svedese è stato un letterato celebre, traduttore anche di Virgilio, Dante e Baudelaire, che ho avuto modo di incontrare a Roma a casa di Pierro, Ingvar Björkeson; a tradurlo in francese è stata la scrittrice svizzera Madeleine Santschi, di cui divenni negli anni ottimo amico. Immerso con tutto se stesso nel contesto antropologico in cui è nato e ha vissuto la solitaria e malinconica infanzia, Pierro ha cominciato a scrivere in lingua evocando quel mondo e destando l’interesse di un grande etnologo come Ernesto de Martino, affascinato da momenti lirici come “Silenzio di preistoria nel villaggio”, e certamente da poesie di notevole respiro come Mia madre passava, col grande tema della madre, o Che dolce tenebra o Delitto a Frascarossa. Ma Pierro ha trovato in pieno se stesso quando ha sentito l’irresistibile impulso di scrivere nella
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parlata di Tursi, che non aveva tradizione scritta prima che lui stesso la fissasse, e quasi si potrebbe dire la creasse. La prima poesia in tursitano, Prima de parte, fu scritta di getto la sera del 23 settembre 1959. Giuseppe Jovine, anche lui buon poeta in dialetto (molisano), così descrive quel momento così significativo: “Il poeta era da poco tornato a Roma da Tursi; la partenza anticipata, più triste del solito, aveva esasperato in lui la nostalgia della sua terra, lasciata a malincuore. Quel primo ‘exploit’ creativo fu seguito da ‘un’eruzione’ di poesie dialettali che gli uscivano dall’ anima […] così come il petrolio zampilla dalle viscere della terra”. Quel breve e semplice testo è pervaso da una sorta di misteriosa atmosfera magica: “ ’A notte prima de parte / mi n’inghianèje a lu balcone adàvete / e allè sintìje i grilli ca cantàine / ammuccète nd’u nivre d’i muntagne,// Na lunicella ianca com’ ’a nive / mbianchijàite ll’irmice a u cummente, / ma a lu pahàzze méje / tutt’i balcune i’ èrene vacante”. Ossia: “La notte prime di partire me ne salii al balcone di sopra e là sentivo i grilli che cantavano nascosti nel nero delle montagne. Una lunicella bianca come la neve imbiancava le tegole al convento, ma al palazzo mio tutti i balconi erano vuoti”. L'immersione nel paese profondo è una discesa, come del resto hanno anche sottolineato Gianfranco Folena e Aldo Rossi, al Regno delle Madri evocato da Goethe, da Bachofen; è regressione all'alvo di un primordio che precede ogni storia. La insanabile nostalgia della madre carnale, scomparsa quando il futuro poeta aveva pochi mesi segna per sempre la sua vita, e si proietta su succedanei simbolici dell’archetipo materno: la madre terra, la lingua madre più immediata, ‘più madre’, se così si può dire: “il neolatino addirittura pro-
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tostorico della più isolata Basilicata”, per usare la definizione di Gianfranco Contini. In un momento cruciale del Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, Alessandro Manzoni rifletteva sul "tristo ma importante fenomeno" di "una immensa moltitudine d'uomini, una serie di generazioni che passa sulla terra, sulla sua terra, inosservata senza lasciarci traccia". Qualche traccia resta tuttavia (aggiungerei), se sopravvive e si perpetua la loro parlata. Molti anni or sono, mi tornava in mente questa riflessione manzoniana e approdavo, a proposito dell'esperienza tursitana di Pierro poeta, alle considerazioni che seguono: "Millenni di pensieri lucani, di affetti e di patimenti lucani, di silenziosa quotidiana storia dell'anima tursitana impressa e sedimentata nella creazione collettiva di una parlata di inaspettate modulazioni: tutto ciò assunto a sostanza espressiva di un canto monodico che nei momenti d'ala sa e può farsi canto di ognuno per virtù di melodia. Attraverso la scrittura e l'elaborazione formale, l'anima antica di Tursi si dona intera al lettore, il quale non può non tributarle amore, come se in quella voce (non per i contenuti espressi ma per il timbro e l'intonazione) cantassero all'unisono tutti i figli di Tursi, i vivi e i morti". Con queste ultime riflessioni, che risalgono a diversi anni or sono, penso di aver messo in evidenza l’importanza umana e storica che il dialetto può assumere soprattutto mediante l’amoroso uso che può farne un poeta. Emerico Giachery
RIFLESSIONE Dovrebbe imparare lo specchio a farsi qualche volta i fatti suoi e non riflettere quello che vede lasciando così Dorian che se la creda ancora un poco prima dell’ultima sconfitta Giuseppe Napolitano Formia (LT)
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Perché Essere nudi ai primordi incontro al sole nascente e sentire la paura svanire e farsi strada la speranza di un nuovo giorno. Sentire la vita pulsare farsi più leggero il respiro calmarsi il battito veloce e constatare guardando di vedere. Allungare una mano e distendere le dita e stupirsi ancora perché la luce offrendosi porterà i suoi doni Correre incontro al sole e alzare gli occhi al cielo sentire il pensiero farsi domanda e la domanda farsi parola una sola: “ Perché! “. Wilma Minotti Cerini da: “La luce del domani“
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 2/1/2020 Discorso quasi da tutti apprezzato quello rivolto alla Nazione dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Noi, anche debordando dalle funzioni, lo avremmo totalmente impostato sulla litigiosità della nostra classe politica, sulla sua incapacità di sentirsi ed essere unita nella difesa del nostro Paese dalla rapacità e dall’orgoglio del resto del mondo. Alleluia! Alleluia! Così, amando, noi, l’ironia fino al sarcasmo e oltre, ci permettiamo di estrapolare, per i nostri lettori, una frase emblematica: “L’Italia vera è una sola”. Sì, una “sola”, che verrà da tutti schifata, calpestata, derisa e isolata, se non cambieremo il passo. Domenico Defelice
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PIRANDELLO POETA Angelismo e doppio nella poesia di
Luigi Pirandello di Carlo Di Lieto ’angelismo è una tematica “pervasiva”, che attraversa trasversalmente lo studio della Letteratura italiana: dal “Dolce Stil Nuovo” a Dante, da Bontempelli a Montale; questo aspetto è stato poco studiato e, quindi, degno di un’acuta indagine, soprattutto per la poesia di Pirandello, da decenni caduta nell’oblìo. Nell’universo poetico pirandelliano, uno straordinario candore angelico blandisce la “coscienza disajutata” del poeta, dimidiata tra élan vital ed Erlebnis. Il languido abbandono mistico-panteistico si trasforma, in simbiosi con la poesia, in angelico rapimento, e lo sconfinamento nella non-vita viene colto come un attimo fugace di beatitudine. Le improvvise epifanie di Pasqua di Gea (1891) costituiscono un’ulteriore quête dell’io, tutto proteso verso un bisogno metafisico; la condizione di ange è uno status psicologico di non-vita e una peculiare caratteristica degli spiriti “contemplativi”, che subiscono gli influssi di Saturno. Questa sublimazione, che afferisce al trascendente, è ipostatizzata da rappresentazioni ierofaniche e trasfigurata dal potere creativo del verso. Nell’ottica disarmonica del Fuori di chiave (1912), l’angelismo è dilacerato dall’illusione dell’oltre; l’estraneità dell’io, fantasmatizzata, lascia senza risposta il gioco illusorio dei contrari, creando un distacco assoluto (ex-
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stasis) di immagini subliminali e lo sdoppiamento del poeta assume una funzione dominante, che calamita l’identificazione proiettiva. La sinergia io/altro restituisce alle immagini, rimosse ed involte nella tensione creativa, la disidentità alienante del poeta. L’io si ipostatizza nell’altro da sé e l’alterità si identifica con l’io, nella riflessione speculare e nella fascinazione narcisistica, svuotata di ogni parvenza illusoria. I frammenti dell’io vengono inglobati dall’onnipotenza dell’altro e traducono, in un sogno idilliaco, una vita non vissuta, in funzione dell’oltre. «Vi condurrò sotto un velame antico / a intendere novo caso e nova pena. / Chi nel giovin ch’io fingo sé vedesse, / mesto acconsenta». La poesia di Pirandello nasce da una forte crisi esistenziale e da una vocazione mai tradita, proiettandosi nell’arco di un trentennio (1882-1912) dal Mal giocondo al Fuori di chiave: senza soluzione di continuità dal 1882 al 1892, in modo desultorio fino al 1912 e, con un interesse fievole, ma costante, fino al 1933. Inesausta, quindi, fu la sua dedizione: inizia con i primi versi giovanili e termina con I Giganti della montagna (1936), mito inquietante ed apologo enigmatico sulla funzione dell’arte nella società. Considerata dalla critica ufficiale “un’esperienza ai margini”, pur con un interessante repertorio di temi, ricco di ascendenze tardo-ottocentesche, è tuttora consegnata all’oblìo, nonostante abbia una diorama psichico del tutto inesplorato. La poesia per Pirandello è una sorta di malattia dello spirito, una vanità appagante, le cui immagini «vengon da sé, non le sceglie il poeta; il quale deve soltanto curare che in ciascuna situazione, anche la meno drammatica, il personaggio apparisca tutto con le sue determinazioni interiori». Il travestimento dell’io decreta la linea di demarcazione con il doppio; la sua disidentità va oltre i limiti della sfera cosciente e segna il punto d’incontro con l’altro: «E gonfio il petto d’angosciose pene / senza mai posa andò, come rapito / dietro un fantasma innanzi a lui fuggente, / lusingatore». Nell’evidente ossimoro del Mal giocondo (1883-1889), ispirato ad un emisti-
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chio delle Stanze del Poliziano, è compresente il leopardismo pirandelliano “ceca peste” del “mal triste di vivere” delle Operette morali. La crisi storica è a monte di questi versi e l’amarezza per le speranze tradite del Risorgimento sarà il tema di fondo de I vecchi e i giovani (1913). Il momento creativo, i meccanismi di difesa di questa silloge si vanificano, per far emergere dallo storehouse inconscio del poeta immagini liminari. Secondo Freud (Flessibilità di rimozione nell’artista, 1915), le condensazioni rappresentano le manifestazioni basiche della struttura psichica di un poeta e i meccanismi di spostamento e di proiezione sono le modalità elettive di difesa: «Folle, e sperai; folle, ebbi fede. E solo / ai danni miei presiede ora crudele / la coscienza che mai, che mai dal suolo / in cui giaccio, menzogne pietose». Lungo un tracciato subliminare la divisione dell’io sottende uno sdoppiamento psichico che è anche attraversamento della memoria: «ad oblïare il mal triste di vivere, / mentre il volgo trionfa e il culto muore / de la bellezza eterna, / divin nostro ideale», e più oltre: «io vorrei a un sonno di miti fantasmi affollato / abbandonarmi, a un sonno / che l’ ultimo, l’ultimo sia…». Il continuum spaziotemporale metabolizza la memoria dell’ Idéal e, dietro lo schermo di alcuni simulacri, fagocita la parola, “sconciata dall’uso”: «Ira di tempo o sorriso d’aprile / già mai no’l vinse o gli allentò la furia: / sprone d’insani desideri avanti / sempre lo spinse». Ed ancora: «Nubi vaganti, nubi ideal d’ogni ideale vano, / nubi amor dei poeti e degli amanti, / egli è dunque così che va a finire / l’alta idealità che vi sublima?». Questi lacerti ci consentono di «saisir la formation et l’évolution de son esprit avant la maturité puissante et feconde; […] où il travaillait à acquérir le merveilleux matériel humain et artistique de ses contes et des drames, ont une valeur plus psychologique que poétique». Il cono d’ombra nasce dal doloroso vissuto del poeta; nell’ingorgo dell’oscurità viene inglobata la necessità di un disvelamento dell’ io, preda della sua disidentità. È un fragile
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equilibrio dalle variabili multiple, nel doppio speculare dell’io e dell’altro da sé. La dissociazione si amplifica e la coscienza scissa non riesce a mediare fra i fantasmi dell’ immaginazione e l’oggettivo principio di realtà. Il rimosso ritorna sempre sotto le mentite spoglie del fantasma poetico, che non consegna mai alla dissolvenza la pulsione di vita e il principio di piacere. Si tratta di un risveglio della coscienza di sé e di una capacità che contiene i sintomi, trasformandoli creativamente. Il poeta percepisce l’oltre, oltrepassando il limite del suo io, sostenuto dall’ onnipotenza del desiderio. La sua Stimmung accidioso-depressiva, attraverso una combustione alchemica, rende possibile il rapporto con l’Invisibile. Carlo Di Lieto
SOLO UN RICORDO terza media, e un viaggio che non ho mai dimenticato Solo un ricordo è rimasto. Tutti morti, ad Auschwitz. Tutti. Bruciati, vivi (anche se non molto: a quel punto, oramai, la vita non ha più molto senso) o lasciati morire di fame. Sguardi truci di soldati li guardavano morire. Tutti. Il 27 gennaio 1945 li hanno trovati lì, tutti morti. Alcune anime ancora in volo, nel fumo nero; qualcuno ancora vivo, ma senza anima, era ormai volata via, con il fumo. Solo un ricordo è rimasto, ma deve essere di Tutti. Gabriella Nicole Valeria Napolitano Formia (Lt)
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IL TEMPO CHE VERRÀ DI GIANNICOLA CECCAROSSI di Marina Caracciolo
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EMPRE più irta di dubbi si fa, con il passare degli anni, la poesia di Giannicola Ceccarossi. Il poeta sembra andare in cerca di una bussola, di un mezzo che possa dargli un orientamento, una fiaccola, un segno – come egli dice – che dia luce al suo percorso e gli doni certezza. In questa sua più recente prova poetica, i numerosi punti interrogativi attraversano le pagine come papaveri che occhieggiano qua e là in un campo di grano o in una pianura erbosa. E il paragone con il fiori e l’erba non è, credo, fuori luogo in questa poesia così imbevuta, anzi, direi, così posseduta dal fascino della Natura. Soltanto questo incanto riesce a distogliere la mente del poeta dagli affanni e dagli assilli esistenziali, a distendere la sua fronte pensosa per consentirgli di guardare il cielo, gli alberi, gli uccelli quasi con la medesima confidente serenità della giovinezza. Lo stesso timore dell’Oltre, del doversi un giorno inesorabilmente avventurare in una dimensione sconosciuta, sembra talora essere aggravato non soltanto dal pensiero di scivolare in una sorta di nero abisso, ma anche – e non poco – da una presunta quanto possibile assenza, in quel regno ultraterreno, della vera, fondamentale bellezza della Terra, la Natura appunto. «Il cielo/I colori/Dove sono i suoi colori? / Riappariranno /quando in primavera/volano indisturbate le pernici / e l’aria ha profumi di fucsia? / E dopo?/ Li vedrò ancora quei colori? / Nelle mie mani / ora c’è un disegno che non comprendo / Le onde ingarbugliano i miei pensieri / E io cerco la luce / La luce dell’alba / Ma è così arida la mia
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solitudine!». Ecco, ho riportato per intero l’esordio di questo libro, perché è come un’apertura programmatica: essa ci dà subito l’accordatura, per così dire, degli strumenti d’orchestra, la tonalità e le tinte (varie eppure magnificamente uniformi) che ritroveremo passo a passo nel resto dell’opera: l’appassionata ricerca di una luce, di un punto di riferimento che sia saldo e incrollabile. In questo brancolare, tuttavia, («Sono nell’ oscurità / Cieco agito le mani / nell’aria densa di nebbia / E ho paura / [...] Cosa accadrà?») non c’è una disperazione assoluta, anche se, certo, c’è una grande mestizia. Uno dei tratti fondamentali del pensiero poetico di Ceccarossi è il senso del contrappeso, dell’ equilibrio: al pessimismo, all’amaro sconforto, presto si contrappone una speranza nuova; a fianco dell’angoscia si para come solido scudo la scoperta di una letizia insospettata oppure, all’opposto, il ricordo di gioie non distrutte dall’oblio. E allora il poeta, così propenso a spingere il suo sguardo nelle nebbie dell’inconoscibile, in questo libro che per altro «scruta l’ignoto avvenire, – scrive Emerico Giachery nella prefazione – si protende verso un orizzonte temporale ed esistenziale sconosciuto, s’interroga senza tregua sul mistero dell’Essere, sul suo possibile, e in ogni caso sperabile, senso», ora guarda invece vicino a sé, per poter scorgere una bellezza che non perisce e sentire la sua anima farsi all’improvviso più leggera: «ora guardo il riverbero del sole / e il mio cuore è una foglia d’oro / fra mille sterpi di rugiada». Una serenità che, per quanto instabile, ci appare tuttavia tenacemente riconquistata proprio tramite la contemplazione di un «eden sorgivo» (Giachery), un paradiso (qui soprattutto nel significato etimologico di παράδεισος, giardino) che trasforma il cuore del poeta in una foglia d’oro e, vestendolo di un abito nuovo, lo riconduce per mano verso sentieri più lieti: «Orme corolle / calendule e gelsomini / Li vedo nei frammenti del giorno / sciogliersi in coralli di trifoglio / E poi piegarsi / Fuori / nel giardino delle gavine in volo / aromi
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brezze / e qualche grido notturno». Basta soltanto che un soffio di garbino (vento di libeccio) lo sfiori, perché il poeta ritrovi la sua via leggera e piana, là dove l’incomparabile bellezza della Natura non ha sentieri privilegiati e dove ogni sua traccia è una strada che porta a destinazione certa. Ed ecco dunque che i punti interrogativi scompaiono come candide vele che si afflosciano ammainate, lasciando affiorare, per contro, squarci lirici colmi di speranza, «sponde di laghi azzurri» e cieli illuminati da «fasci di comete», mentre sopravviene l’agognata quiete: «Quiete / Tanta quiete e verde / Ho bisogno di silenzio / Di un silenzio muto / Dove ogni cosa tace / Dove tutto è fermo...». E non è soltanto la sovrana bellezza della Natura ad affascinare lo sguardo del poeta, a donare maggiore limpidezza e più vasto respiro ai suoi versi, ma anche la sua imperturbabile armonia, la quale quasi prepotentemente riesce a entrare nei suoi occhi, a intridere di sé le sensibili fibre del suo animo e a scacciarne, almeno in parte, l’amarezza. La Natura – millenaria, immutabile ed eterna – non conosce bui precipizi nel vuoto, ignora orizzonti oltre i quali è in agguato un abisso senza fondo. Timidamente, allora, il poeta intona il suo canto più fiducioso: «... Quando il tempo verrà / fragile come la luna / non ci sarà fortunale / né gocce di grandine / Di colpo germineranno pampini / presenze si apriranno alle stelle / e refoli sfioreranno i canneti / Forse una musica incanterà / i nostri occhi / e le parole / finalmente / saranno solo d’amore». Carezzevoli brezze, uccelli, alberi, fiori dominano incontrastati in questi versi. La poesia di Ceccarossi, sempre così laica, così aconfessionale, scevra di una presenza divina immanente e provvidenziale («Padre/non Ti chiederò/dove sei/[...] ma sento il Tuo silenzio /e piango»), cela tuttavia nel profondo della sua trama lirica un insospettabile e forse inconsapevole sentimento religioso. È irresistibile, infatti, l’associazione di idee con un passo dei Vangeli, dove il Nazareno esorta i discepoli a non avere ansie per il domani, a guardare al futuro con tranquillità, poiché
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ogni giorno porta con sé il suo carico di preoccupazioni. E lì la Sua parola di predicatore e di profeta, già sempre tanto metaforica e immaginosa, all’improvviso si fa autentica poesia: «Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non hanno ripostiglio né granaio, e il Padre che è nei cieli li nutre. Quanto più degli uccelli voi valete! E chi di voi, per quanto si affanni, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? [...] Guardate i gigli dei campi, come crescono: non filano, non tessono; eppure io vi dico che nemmeno Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro [...] Non siate dunque in ansia per il domani, perché il domani si preoccuperà di sé stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno» (cfr. Matteo, 6, 2534; Luca, 12, 24-29). Ebbene, anche qui, nella pur profana poesia di Ceccarossi, la contemplazione della spensierata letizia della Natura spontaneamente trascolora in una sorta di fede, in una quieta certezza per l’Uomo. I dubbi non sono certo sconfitti per sempre, i punti interrogativi tornano in più punti a infiorare le pagine, ma anche il sole, nella sua giostra infinita, riprende ogni giorno a brillare alto nel cielo; e se, guardando al di là del tempo, la bocca del poeta si fa amara, «la brina/che maligna soffoca i virgulti/ lascerà un sentiero/Una traccia da dove ricominciare/E saremo di nuovo liberi/Liberi di amare». Di fronte a questo traguardo terreno mirato a distanza con timore e tremore, nel considerare questa fine che potrebbe essere un nuovo inizio, prevale alfine il sentimento d’amore (l’ultimo brano scritto dal poeta in questo libro è una toccante dichiarazione di immutabile affetto per la compagna della sua vita), ma anche – e non di meno – un senso aereo di ineffabile leggerezza, un soffio apportatore di una pace dolce e lieve come l’aroma dei venti: raggio di una luce in cui tramonto e aurora si confondono e si sciolgono in un sorriso soave come un volo di colombi o una fuga di rondini migranti. Marina Caracciolo Quando il tempo verrà fragile come la luna, di Giannicola Ceccarossi (Prefazione di Emerico Giachery. Ibiskos-Ulivieri, Empoli, novembre 2019; pp. 57, € 12,00).
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DOM FRANCO MOSCONI: PER UNA SPIRITUALITÀ CHE ATTRAVERSA IL GIORNO di Ilia Pedrina
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l centro è nel futuro di Dio, è nell'escaton, nell'avvento ultimo. Solo se noi spostiamo il punto di riferimento di tutti i popoli non in un luogo già dato, non in una cultura teologica già fissata e nemmeno in un orientamento ecclesiastico già sancito dalla tradizione, ma nel futuro di Dio, solo allora l'universalità dell'epifania esplode con ricchezza di senso...Il mistero di Gesù è la rivelazione di questo ultimo evento verso il quale siamo incamminati, misurandoci col quale siamo costretti a scoprire la nostra inguaribile relatività...”. Così Franco Mosconi, monaco camaldolese dal 1964, dall'eremo di San Giorgio di Rocca di Garda, in provincia di Verona, vuole vivere concretamente la Parola di Dio, il suo futuro nella trasformazione dell'esistenza in servizio: in questo EPIFANIA: IL GRANDE SOGNO, testo ancora inedito inviatomi in dono, sono di fronte alla programmazione di un'esperienza indelebile, in concomitanza con un viaggio rivoluzionario, dall'Eremo verso l'Isola di Lampedusa, ad incontrare tanti piccoli Gesù in sofferenza, dal 22 gennaio fino al 3 febbraio 2020, come lui stesso confida, quasi un regalo che si offre, per i suoi primi 80 anni. Gravido di Dio, della Sua Parola e della Sua Volontà, avvita su di sé il respiro di Gesù, quando la nascita si fa Epifania, cammino storico, passione, morte
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e resurrezione come nuovo nascimento, cancellando così ogni separazione che allontana dalla vera méta: il fascino del vivere un evento che ti trasforma dentro. Perché, in effetti, ogni sogno è tenuto in disparte dalla superficialità dell'approccio alla vita e alla speranza, a quello che egli chiama 'un angusto provincialismo dello spirito', che va via via rimosso attraverso l'impegno e l'umiltà dell'approccio all'altro. Franco Mosconi insegue e concretamente attua la sua Epifania, come grande sogno che troverà la sua realizzazione e potrà così rendere evidente quel futuro di Dio, il viaggio verso l'Isola di Lampedusa, isola dell'approdo dopo il viaggio, isola della speranza attraversata ancora dalla sofferenza, isola del sogno individuale, che si profila nell'immaginario di bambini che vogliono gioire di carezze che costruiscono futuro, di sguardi carichi di empatia vuota d'ogni malvagità, di cure che partono dalla condivisione della salute. Perché un bambino, quando sta male, non ha mezzi per controllare la sofferenza ma ha bisogno di conforto e, si, proprio di cure, di un prendersi cura di lui che lo fa dis-trarre, portandogli l'attenzione altrove. Il futuro di Dio è anche in quell'altrove verso cui anche i bambini di Lampedusa possono oggi orientare il loro sguardo, non importa che sappiano chi è Dio: “... Ripetiamoci che il punto di riferimento per la nostra coscienza è nascosto nel futuro di Dio: esso resta ancora un mistero. Mistero che ci è stato rivelato, si, ma dove e in chi? In quest'uomo, in questo bambino, in Gesù di Nazareth... Noi non abbiamo le linee definitive di questo disegno, siamo un frammento di un disegno che ci sorpassa...” (F. Mosconi, Epifania: il grande sogno, ined. Pag. 2). Per poter realizzare, nella misura in cui ci è dato credere, questo avvio alla concretezza della vita spirituale, la vera apertura è dunque 'scoprire la nostra inguaribile relatività, incoraggiata dall'egoismo tribale, che è angusto provincialismo dello spirito' (ibid.), riflessioni non ripetute qui passivamente, ma ribadite sul differente piano dell'avvenuta piena consapevolezza, perché hanno avuto ed han-
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no esercitato il loro effetto nella volontà che è iniziazione all'azione. I saggi del tempo, i Magi, si mettono a disposizione di una stella, che offre lo spunto percettivo alla loro volontà e questo avvia, in sincera adesione, l'iniziazione all'azione, la loro apertura al viaggio “...verso la città illuminata che non è né Gerusalemme né Roma, perché santo è solo l'uomo vivente...” (ibid. pag. 3). Ecco dunque il punto d'arrivo dei passi individuali che hanno reso efficace quella iniziazione di cui sono costituiti: l'umiltà, come condizione permanente, si concretizza interiorizzando la ricerca, quale situazione concreta di vita; da Gesù bambino, come tutti i bambini, a Gesù crocifisso, come tutti gli inchiodati al palo dalla violenza insensata dei perversi, questo infinito spazio della sua storia tra nascita, predicazione e morte, pone la croce come simbolo del potente che opprime e dell'impotente che è oppresso; dopo aver accettato come assunto ragionato, e questo è ben difficile ma non impossibile, che falsa è l'universalità della nostra cultura, perché discrimina e annulla chi non è visibile in rete, perché pone il denaro come misura dell'individuo e della sua interiorità, perché annulla il valore a tutto vantaggio della merce, allora, solo allora avremo capito cosa intende dom Franco Mosconi quando sostiene che 'santo è solo l'uomo vivente'. Nel tracciare l'avvio alla comprensione del suo libro “Oggi si è adempiuta questa Scrittura” (Lc 4, 21), Collana 'Quaderni di Camaldoli', EDB, Bologna, 2008, Euro 11,80 - I Ed. ott. 1994, già recensito su questa Rivista, ho ravvisato che la Scrittura, per lui è orizzonte esistenziale permanente ed ho applicato una tipologia di lettura e di approfondimento che invita, quasi spinge, come si sentiva spinta dentro Simone Weil, ogni qual volta veniva a trattare il tema di Gesù, a fare esperienza della Parola che si connota come esperienza vera della speranza. È necessario lasciarsi riscaldare dalle sollecitazioni spirituali che dom Franco propone in queste sue riflessioni perché nessuno di noi può considerarsi come parte conclusiva e di-
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segno complessivo, quasi Dio stesso, come accade per certi fanatici ispirati che questo sostengono come malata, tossica aberrazione della propria egoità (in psichiatria questo convincimento, che non è solo atteggiamento, viene definito 'ipertrofia dell'Io'). Per ridurre in tutto questa nostra tendenza egotica egli ci propone: “... Mettiamoci anche noi, idealmente, in viaggio con i Magi. Il loro punto di partenza è l'Oriente: non una località precisa, ma un termine che si presta ad altri significati. Oriente evoca la luce del mattino, la freschezza degli inizi, la promessa della vita. Oriente, in senso spirituale, è la patria di tutti coloro che si aprono alla ricerca, alla speranza, al sogno, il grande sogno del popolo di Israele, all'utopia. Oriente è la condizione di uno spirito aperto alla novità di Dio. Una novità che riunisce, sotto qualsiasi cielo, tutti coloro che si fanno cercatori di verità, scrutatori del mistero, pellegrini in cammino verso l'Assoluto, sognatori di un mondo nuovo... Tutti è come se venissero dall'Oriente...” (F. Mosconi, Epifania: il grande sogno, ined. Pag. 4). Il tema della stella, quella stessa che guida i Magi verso Gerusalemme: perché? Perché proprio a Gerusalemme e non là dove, devono arrivare, a Bethelhem? Perché a Gerusalemme, proprio a Gerusalemme la stella scompare? E perché, una volta arrivati davanti a Gesù, uno di loro ha in mano come dono la mirra? Se io incontrassi proprio lui, questo re dell'Oriente che porta ad un Bambino, per molti un bambino qualunque, della mirra in dono, cosa gli chiederei? Cosa mi potrebbe e mi vorrebbe raccontare? Questo il fascino del vivere un evento che ti trasforma dentro, perché si apre agli interrogativi. Se il nostro sogno il nostro grande sogno è quello di vivere in sincerità, allora chiediamo a dom Franco Mosconi, dopo l'imminente viaggio in cammino verso Lampedusa, ancora parole per rendere questa sua scrittura come pasto. Ilia Pedrina Vicenza, 17 gennaio 2020
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ANTONIO CRECCHIA COSTELLAZIONE DI VERSI di Tito Cauchi
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NTONIO Crecchia è un poeta e scrittore prolifico molisano di Tavenna che ho avuto modo di apprezzare attraverso precedenti opere; vanta una ottantina di titoli tra sillogi poetiche, saggistica, traduzioni e altro; lui stesso è oggetto di critica in alcune monografie, oltre che presente in molte riviste e testi letterari, perciò non può meravigliare il numero consistente di riconoscimenti e di centinaia di premi ricevuti. Il volume che adesso consideriamo si intitola Costellazione di versi, dedicato a Elvira, compagna della sua vita. In esergo un brano di lettera di Yann Jaffeux, paragona il Nostro a François-René de Chateaubriand per la “stessa eleganza, l’uguale grandezza d’animo, la medesima nostalgia poetica”. Mi faccio guidare dall’introduzione di Daniela Marra, direttrice editoriale, la quale pone il perno della poetica del Nostro nel rapporto uomo-natura. Tale legame viene sentito da pensatori e artisti; in particolare i poeti ne vivono in simbiosi, agendo come se si trovassero in un palcoscenico rivestendo diversi ruoli; sensibili alla bellezza del creato, si di-
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battono specialmente in questo tempo in cui il materialismo indiscriminato minaccia la stessa esistenza del pianeta. L’uomo da sempre si è posto interrogativi e non trovando risposte è preso dall’angoscia esistenziale. Mi si passi la metafora se aggiungo che Antonio Crecchia si pone crocevia in questo coacervo tra realtà e idealità, come se stesse in mezzo ad un traffico impazzito di automezzi e pedoni frettolosi diretti per ogni dove. Rasserenato, riesce a cogliere l’essenza e a mettere chiarezza in questo sfacelo. I componimenti sono una sorta di diario dell’anima le cui pagine possono voltarsi avanti e indietro; poggiano sul valore della memoria che il Nostro definisce “Scrigno custode/ di preziosi frammenti” e glorifica la natura viva e colorata, dei fiori, delle farfalle e dei numerosi esseri che popolano il cielo. In questo carosello le stagioni si alternano nel segno delle“fragili foglie caduche/ nel baratro dell’esistenza” e, mi verrebbe da dire, il Poeta, spettatore silenzioso come “statua antica”, osserva ‘le morte stagioni’ di eco leopardiana. I titoli sono di chiaro richiamo, come settembre, natale, inverno e voci come foglie, pioggia, mare, farfalle, tortore, pettirossi e passeri che si contengono chicchi di grano, “gazze chiassose/ fanno bottino d’ insetti” (40), ecc. a imprimere una connotazione prettamente aderente alla natura primigenia dell’uomo. Il Nostro dice di essere “viaggiatore senza meta”, in più luoghi resta a guardare, discreto, silenzioso, in assorta mestizia. Gode e soffre lo stato in cui la natura versa, l’uomo dimentica il suo contatto con la terra e lascia che le coste si “sfondano”. Osserva i tetti invasi da antenne, le città prese da assalto in molti sensi e criminali attentati che lasciano segni; fiumi e mari sporchi. La sua tenerezza traspare nell’accenno ad un bimbo appena nato. “Mi desto dal torpore dell’autunno/ invaso da venti freddi di tramontana,/ e il pessimismo lascio vagare/ oltre il limite d’una precarietà/ che preme con il tallone del tempo” (pag. 24). Eppure definisce il rumore della pioggia,
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suono dell’arpa che non si lascia vincere. Ricorda in due poesie Noemi e Emerico Giachery, a dimostrazione del comune sentire fra poeti gemelli, figli della stessa Musa; Noemi è “la stella che illumina” il cammino di Emerico; alla coppia promette, un po’ sfiduciato, che domani “racconterò dell’ingiuria sofferta/ da tiranna inclemente stagione,/ della remota apatia delle stelle,/ del distacco avventato dell’uomo/ dall’oasi felice della Natura,/ (…)/ Ma chi avrà orecchie/ per ascoltare una voce amara/ che sale dalla terra e si perde/ nel brullo dell’aria invernale?” (32). Antonio Crecchia, uomo e poeta, avverte il bisogno di allontanarsi dai discorsi banali, vuoti, che non dicono nulla e rifiuta ogni vanità. Dinanzi alla “maestà” delle cime di “querce pioppi e ontani” si emoziona e al solo pensiero della natura mortificata si addolora. Così commenta che in “primavera guasta e avvelenata” sono sempre più rari i garriti delle rondini, e aspira a librarsi in alto con pensieri soavi, osservare deserti e lo scorrere della storia, prati verdi e la terra lavorata dal trattore. Osservare piante come fossero persone: “C’è un fuoco d’amore/ nelle turgide gemme/ che si gonfiano al sole/ come grembo di madre/ in attesa d’un gioioso/ vibrante vagito.” (41). Antonio Crecchia svela i sommovimenti interiori, travaglio e serenità nello stesso tempo, vive “l’agonia del tempo/ che sta per finire.” (64). In essi possiamo leggere una sorta di psicologia del malinconico, del nostalgico che non vuole rassegnarsi. Nell’alternarsi delle stagioni, si rallegra al ricordo del giorno (3 maggio 2019) della prima comunione di Lorenzo “erede delle nostre speranze/ in un mondo d’amore e di pace” (51). Prova mestizia e affetto nei viaggi a ritroso, nello scrigno della memoria, quando “All’ora del vespro/ mio padre/ deponeva le armi/ della quotidiana fatica.” (54) e in famiglia c’era allegria. E prova tristezza per le cronache sulle violenze e sugli attentati come quello del Bataclan (in Francia), sui piromani dissacratori. Ma è anche capace di ‘divagazioni’ affidandosi a un bicchiere di vino. Oggi anche le ragazze fumano una “bionda” di “un’erba dolce-letale”.
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Nella eponima a pag. 74 spiega: “In una costellazione di versi/ racchiudo lo spirito/ sottratto al ghigno mordace/ di canuti rabdomanti/ in cerca d’acqua lustrale/ nel grembo delle muse/ da portare nel pozzo dell’io.” Il Poeta niente scrive a caso, per riempire le pagine nella “civiltà del frastuono”. Nel ventaglio di emozioni usa un linguaggio fatto degli elementi che popolano i luoghi dell’ anima, stanco di parlare a se stesso. Il cuore si intenerisce pensando alla piccola “Lisa, gemma che si apre/ alla primavera della vita.” (13 marzo 2019, pag. 83) sotto lo sguardo dei genitori e dei nonni; e si impietosisce con il ricordo del “crepuscolo” di Rita Notte. Cogliamo il Nostro nella raggiunta pienezza interiore quando si rivolge alla “sorella poesia” e non ci sorprende se a piene mani offre immagini trasognate, come le ombre “vedove di luce”. Egli registra e segna il calendario, delle cronache, così in Italia “Resta il dolore/ per un vicebrigadiere dei carabinieri ucciso a coltellate” (20 luglio 2019); così all’estero, ventate di follia, per es. a El Paso, spezzano vite nelle stragi (4 agosto 2019). Non manca qualche rima che addolcisce la versificazione e rende meno greve l’angoscia. Usa parole tutte significative e si congeda con la strofa che recita: “Va’, mia afona scrittura, va’/ colomba di parole destinate al buio,/ alla notte profonda del tempo/ che corre, scempia e in eterno dura.” Antonio Crecchia riversa nella Costellazione di versi, la sua inquietudine. Si sa che l’interpretazione è soggetta alla suggestione delle parole che interagiscono nel subconscio, secondo la nostra sensibilità; l’impressione è tanto aderente, quanto più il Poeta risulta incisivo, dalla visione oggettiva al sé intimo, coinvolgendoci nella lettura. Apre nuove frontiere della poesia. Il sottofondo musicale fa da substrato a temi della società civile. Sono sicuro che egli l’abbia fatto in modo magistrale, semplice e chiaro, perciò la lettura giova allo spirito. Tito Cauchi ANTONIO CRECCHIA, COSTELLAZIONE DI VERSI, Ediemme - Cronache Italiane, Salerno 2019, Pagg. 104, € 16,00
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Febbraio 2020
FRANCESCO LEPRINO DÀ VITA D’ARTE AD ALESSANDRO STRADELLA IN 'LA CORDA SPEZZATA' di Ilia Pedrina
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ONTINUO ad occuparmi di questo importante protagonista del nostro tempo, che associa una profonda competenza musicale alla necessità di contribuire a rendere più attivo, attento, coinvolgente l'ascolto. Questo intento vale la pena d'essere chiarito anche attraverso un testo che spiega l'evolversi del suo pensiero critico e della prassi di interpretazione musicale che Francesco Leprino sta portando avanti con i suoi film documentari su musicisti come Domenico Scarlatti (Un gioco ardito, dodici variazioni tematiche su Domenico Scarlatti 2005), Gesualdo da Venosa ('O dolorosa gioia' Carlo Gesualdo principe di Venosa – 2015) ed ora Alessandro Stradella, LA CORDA SPEZZATA, documento storicomusicale comparativo elaborato e prodotto dal 2017 al 2019. Mi riferisco al suo L'orecchio del mercante - Riflessioni intorno alla musica nel mercato della comunicazione, edito da EurArte nel 2003, con Prefazione di Gillo Dorfles, alle quattrordici tappe legate ad altrettanti momenti di stesura musicologica interpretativa che attestano un processo mai interrotto, dalla musicologia alla investigazione estetica delle creazioni musicali, che oggi vivono problematiche sempre in fermento: Premessa dell'
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Autore; I. Performance o simulazione: quale modello di ascolto musicale? (1991); II. Lo spazio musicale... alter ego del tempo. Appunti elogiativi per uno spazio inesistente (1994); III. Una critica del giudizio in musica. Obiettività ed affettività nella valutazione dell'opera originale (1996); IV. La drammaturgia ipertestuale di un medium ritrovato: radiofilm, piccolo esercizio critico per un nuovo teatro virtuale (1995); V. Suoni e immagini in movimento: il cinema come arte plastica. Riflessioni sul rapporto fra musica applicata, musica contemporanea e cinema (1995); VI. Dal palcoscenico operistico allo schermo cinematografico: presenze verdiane nel cinema. Un esempio di ricezione di un vecchio linguaggio con un nuovo Medium (2001); VII. Computer Music: algoritmo del futuro o escamotage per il presente? (1993.1995); VIII. Virtuosismi e forme virtuali per l'interprete di oggi: Playing with Schumann's, Debussy's, Stockhausen's Keyboards (1997); IX. L'arte di sfiorare, ovvero l'ironia nella musica (1990); X. Dinamica e psicopatologia dei colpi di tosse nelle sale da concerto. Ovvero: il disagio del silenzio nella civiltà contemporanea(1991); XI. L'utopia dell'educazione musicale permanente (199494); XII. La comunicazione globale e l'orecchio individuale. Effetti perversi del comfort dell'ascolto (1998); XIII. Cloni e campioni: dalle memorie collettive alle memorie di massa (2002); XIV. Il combattimento tra Febo e Pan. Categorie di cultura alta e cultura bassa in ambito musicale (1989-2001). Questa successione d'insieme, con i suoi contenuti, prepara e giustifica l'evolversi del lavoro di Francesco Leprino, nel passare con decisione alla strutturazione anche de La corda spezzata, coordinato in modo ispirato da musicista e musicologo che diventa regista, affascinando e legando a sé senza mezze misure. Questo è accaduto dunque anche per Alessandro Stradella, perché Leprino è penetrato all'interno del tempo, del suono, degli spazi dei palazzi antichi a Genova, a Venezia, a Roma e altrove onde ricercare le sue tracce e
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riproporle in un'attualità complessa, evitando così che questo musicista rimanga sconosciuto ai più. Trascrivo dalla breve sintesi che appare nel retro di copertina del DVD: “C'è un corpo mancante nei musicisti del passato, ed è quello biografico. Un vuoto di cui i pochi documenti autentici non danno conto e che la falsa aneddotica si affretta a riempire: i grandi personaggi costretti, loro malgrado a dare in pasto alla storia le loro presunte vicende umane come tributo per comunicare meglio la loro arte (già Vasari lo sapeva bene). Se 'lo denudiamo' dall'aura che gli hanno attribuito i secoli, il musicista del passato ci appare 'tutto musica' e le vicende biografiche non sono altro che una nebulosa sfocata... E la musica scritta c'è tutta, tutta la carne del personaggio, che è, appunto, un musicista che ha nome Alessandro Stradella. Con una biografia unica nella storia della musica: nasce nel 1643, muore nel 1682, a 38 anni. Pugnalato! Per ben 2 volte attentano alla sua vita ed è costretto alla fuga. Oltre 300 composizioni che coprono tutti i generi nell'arco bruciante di soli 15 anni! … Questo è un film musicale, dove gli attori principali sono i musicisti che cantano e suonano e, in secondo piano, gli stessi musicisti che recitano (e in trasparenza i luoghi odierni delle vicende antiche). Non attori che cantano come nel Musical, ma cantanti che recitano i loro personaggi storici. Personaggi caratterizzati da un annullamento temporale, personaggi che si raccontano ironicamente e che, di riflesso, raccontano Stradella da diverse soggettive. Personaggi che 'vivono' oggi e nel passato al tempo stesso, rincorrendo il tempo senza soluzione di continuità. Questo schiacciamento temporale accosta un'epoca remota alla nostra, mantenendo con naturalezza la comunità d'intenti: Stradella moderno come il rock e il jazz. Oratori e opere composti nel XVII Secolo, i cui contenuti sembrano trovare corrispondenza nella contemporaneità. Dalla seconda metà del '600 a oggi, dal 'Basso Continuo' al Pop, come d'incanto il passo si fa breve... Parole e immagini al servizio della musica, come flussi di coscienza, punteggia-
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ture per l'ascolto e per focalizzare l'attenzione, portandone alla coscienza il decorso musicale, come fosse un racconto senza parole...” (F. Leprino, La corda spezzata, DVD, Produzione Gransole, 2017-2019). Realizzato con il patrocinio ed in collaborazione con L'Accademia di Musica Antica di Milano, oltre al Conservatorio di Milano, l'Edizione Nazionale Stradella, il Conservatorio Santa Cecilia e la Società Italiana di Musicologia, quest'opera d'arte multimediale è stata vissuta e 'forgiata' anche grazie alla rete. Scrive Luca Baccolini: “... Con un budget ridotto all'osso (l'ultimo film su Stradella è cosstato attorno al 30.000 euro, finanziato anche grazie a un'iniziativa di crowdfunding) Leprino ha convinto Claudio Astronio a diventare interprete a tuttotondo, dalle scene musicali a quelle di seduzione. Perdendo in partenza qualcosa sulla credibilità scenica, il guadagno musicale è stato però incalcolabile...” (L. Baccolini, Recitar suonando, in Classic Voice, dicembre 2019, pag. 47). In quest'opera l'intento didattico si affina, il coinvolgimento dello sguardo è fondamentale e stringe a sé, necessariamente, l'ascolto delle musiche di Stradella in quasi contemporanea sovrapposizione con quelle degli esecutori contemporanei del Jazz più caldo, come Walter Testolin, basso, Sandro Cerini, sax soprano, clarinetto e basso, Alberto Turra,chitarra elettrica. L'amalgama riesce e tutto viene eseguito dal vivo, dagli attori-interpreti, tra cui appunto Claudio Astronio, musicista e clavicembalista, che interpreta Stradella e dirige l'Ensemble Harmonices Mundi, utilizzando anche l'organo; il Collegio Vocale et Instrumentale Nova Ars Cantandi, con direzione e concertazione di Giovanni Acciai; l'Ensemble Arte Musica con Francesco Cera Direttore; le soprano, bellissime, ad interpretare le amanti innamorate, siano esse regine o principesse o cantanti, tutte intente a contendersi l'amato, spesso distaccato, lui, perché ha nella testa infinite musiche da dire: Serena Erba per la Mancini, Marina Bartoli per la Antinori, Laura Catrani per la Agnadini e Sabina Macculi per la Cesi, tutte ottime interpreti sulla scena
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del Barocco musicale vocale. Poi altri, attori ed attrici che trovano spazio nelle trame di questo lavoro, a cui partecipa la mitica Carolyn Gianturco, autrice dell'opera Stradella “Uomo di gran grido” per la ETS, Giovanni Iudica, musicologo d'elezione per il versante del Barocco, Davide Mingozzi in ricerca nel campo musicale presso l'Università di Bologna. Alessandro Stradella: e allora? Solo sepolto in Santa Maria delle Vigne, a Genova, là dove chi ha messo violenta fine ai suoi giorni, forse al buio e di soppiatto, non ha nome né punizione? La sua corda, vitalissima, che crea, seduce e finisce al contempo per entrare nelle spire dell'insaziabilità da ricerca erotica, si è davvero spezzata, come questa sua fine farebbe credere? Il film di Leprino, denso della sua musica, attraversato da una passione che contamina, porta a dubitare ed a vivere il lato atemporale della sua esistenza, un risultato artisticamente coinvolgente, ai massimi livelli della creatività direzionata quale è di fatto questa sua nuova regia. Dunque, se non ci fossero stati a questo mondo cardinali e papi eccentrici, volitivi, amanti della musica e delle arti tutte, a gestire denaro e favori, non avremmo chi, come Francesco Leprino e i suoi interpreti, ci viene offrendo con mano generosa un documento che traccia un ulteriore segno indelebile dell'attualità di Alessandro Stradella. L'hanno capito in tanti, basta scorrere in rete la sintesi aggiornata delle esecuzioni pubbliche de LA CORDA SPEZZATA, a Genova, a Roma, a Milano... Ilia Pedrina
I PASSI RECLUSI Una giungla di istinti, spine secche sulle carni senza morbidezza come di legno. L'orgoglio fa saltare pezzi incandescenti, se inasprito si sbarra arrovellandosi dentro se stesso. Stagnano acque torbide,
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esalazioni di pantani infidi, dentro l'ingordigia con faccia ingrossata, gli occhi paiono usciti fuori. I passi non hanno libertà: per pianure assetate e livellate orizzonti non ci sono. Quasi appiattiti ci prende la superficie. Una reclusione che non ci fa andare oltre, movimenti trincerati che chiudono in luoghi desolati. Non si entra nell'animo degli anni vissuti, in oblio e trasognati per ritrovarci. Ombre fosche si aggirano, ai malleoli torpore e a tutto il grembo. Deformazioni delle linee fini, gli sguardi non inquadrano dolcezze, torvi vedono lontano. Presi da abbagliate forme le mani insaziate non colgono i sapori dei nutrimenti avuti. Leonardo Selvaggi Torino
NON CHIEDERTI PERCHÉ Presente è un bruciore, piccolo piccolo e in un angolo del cuore cresce una potente, tremula fiammella che distrugge i ricordi, blocca il respiro, ostacola l’andare. Non puoi interpretare il suo silenzio che parla e urla nella notte cupa. Vedi galleggiano nel cosmo tutti i suoi desideri da te traditi e ancora non riesci più a valutare quanto era importante nella tua vita. Ormai non chiederti più perché. Anna Maria Bonomi Roma
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DISABILITÀ E DISAGIO di Anna Vincitorio una giornata decisamente grigia: 3 dicembre 2019. Ho in mano un invito: – Dove può andare la mente quando il corpo è prigioniero – Incontro con Costanza Ferraro in occasione della presentazione del volume CIMETTOLAFACCIA. È ancora presto per l’incontro e, con la mente, vado indietro nel tempo. Insegnavo e, per andare verso la scuola, passavo davanti al grande cancello di San Salvi. Alla spicciolata qualcuno si vedeva uscire, ma ormai ce n’erano rimasti pochi. Devo ammettere che il luogo scatenava in me reazioni, le più svariate. Timore, curiosità, ricordi di persone che avevano chiuso là i loro giorni. Dopo gli anni ‘70 le cose erano cambiate, pur restando un luogo dove le parole dei rinchiusi non avevano peso. Anche nel silenzio di quei verdi meandri si potevano intuire i drammi insoluti che le sbarre alle finestre avevano in parte protetto. Ancora si scorgono scritte e murales a memoria d’infelici della consistenza di ombre. Tempi tristi prima della promulgazione della legge di Franco Basaglia 13-V-1978 n° 180 che sanciva la chiusura dei manicomi. Vado col pensiero a un pomeriggio d’autunno del
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2013. San Salvi è adesso luogo di memoria e di mostre. Al cancello, ragazzi sorridenti che, nel settembre, durante la festa, invitano gli ospiti a seguirli. I prati sono verdi, gli edifici accolgono fotografie del passato; si proiettano films e si ricorda che Mastroianni e la Bouchet proprio a San Salvi, girarono alcune scene. Era difficile fingere la follia. Seduti in cerchio, da una parte un antico vagone poggiato su gigantesche ruote; vecchi infermieri. Parlo con Alberta Bigagli con cui ho diviso un’amicizia profonda ed altri… Si raccontano storie del passato mentre cala la sera… Mi prende una malinconia struggente. È certo illusione, ma, come illuminati dalle torce, mi sembra di scorgere volti dietro le sbarre, labbra serrate, odo qualche gemito, agghiaccianti risate. Il passato rivive: sui muri sono segnate date, nomi, Oriano, Isolina, Alberto, Giovanna… mentre mi allontano avverto una strana oppressione e mi sento osservata da mille occhi… “Non ci dimenticare”. Ho avuto anche alunni con disabilità e ricordo l’ingenuità e le poche parole che però lasciavano una traccia nel cuore. Cari Manuela, Federico. Sono circa le sedici e mi avvio verso la sala dell’incontro. Siamo seduti in circolo, spettatori e relatori: Prof. Teresa Bonaccorsi, dirigente scolastica, Prof. M. Luisa Chiofalo, attività didattica, ricerca, divulgazione scientifica, attività politica. Ambedue vengono da Pisa. Giuseppina Caramella, coordinatrice. Al centro su una sedia a rotelle, Costanzo Ferraro. Viene illustrato il contenuto del libro, forte, disinibito. Denuncia per tutto ciò che si potrebbe fare ma che non viene realizzato e, al contempo, la profonda umanità di chi si dedica completamente all’aiuto di persone fortemente svantaggiate per motivi di salute ma, colme di linfa vitale e ricche dentro. Fisso i grandi occhi neri di Costanzo stillanti vitalità, desiderio di aprirsi, di legare e d’ imporsi con chi gli sta davanti. I suoi movimenti anche se scoordinati e la voce spezzata, sprigionano una forza titanica che mi rimanda ai Prigioni di Michelangelo. La tetraparesi spastico distonica è stata proprio per la sua gravi-
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tà, il motivo della lotta e della vittoria di Costanzo. Le sue mani in movimento; ogni suo tratto acquista la forza di una preghiera, non disperata ma rivolta a tutti per comunicare, lottare, affermarsi. La lettura del libro ci rivela l’autore che, per la forza che irradia, diviene un gigante. Sì, gigante umano con la passione per i Beatles, i Rolling Stones, con l’amico Mike, sgangherato american boy. È riuscito a studiare suggerendo lui stesso il modo di aggirare la sua disabilità. Ha conseguito una laurea in Scienze dell’Informazione combattendo con la solitudine, l’aggravarsi della malattia, senza mai demordere. Nel libro racconta la sua vita, la disillusione di un Erasmus in Svezia dove i disabili sono ingabbiati. La sua partenza da Capri verso la “rossa Toscana” e poi l’avvicinarsi alla Chiesa e a Don Claudio. Entra nel gruppo universitario culturale GUC. La Chiesa diviene luogo di scambio e correlazione. CIMETTOLAFACCIA esce nel 2014 nella collana “Gli Asteroidi”, Sez. Narrativa di Valigie rosse. La sua nascita è legata a Silvia Lavalle. Un amore forte li ha uniti; lui non ne vuole parlare ma, dai suoi occhi, trasuda il ricordo forte e tenero che li terrà legati animicamente anche se le loro strade si divideranno. Ha vinto la parola, cruda e poesia nello stesso tempo. Poesia intesa come rivelazione, denuncia, amore per la vita e per tutti coloro che hanno saputo comprendere la parola di Costanzo, spezzata ma rivelatrice. Denuncia per tutto ciò che è corruzione, indifferenza, ma anche gratitudine per l’amore ricevuto meritandolo proprio per la sua disincantata onestà. Guardo ancora il biglietto. Un volto con pochi segni squadrati e incisivi. Un’ironia prorompente e tenera. Ti ho detto poche parole, Costanzo, ma avrei voluto abbracciarti. Ho avvertito il tuo coraggio e la tua volontà di vivere e di amare. Il dolore che ammanta il tuo corpo è espressione di un messaggio di disponibilità estrema verso l’umanità. Sarebbe bello incontrarti di nuovo ed essere contagiati dal tuo essere profondamente vivo. Anna Vincitorio Firenze, 9 dicembre 2019
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FESTA IN MONTAGNA Cantavano le ragazze e salivano la montagna: freddo il viso, bianca la pelle, piedi scalzi sulle pietre. Luci di cera tra le mani al canto aggiungevano qualche lacrima e dietro veniva l’armonia della banda: trombe e flauti, piatti e tamburi; ultima Lei, la santa, sulle spalle dei più forti. Il sole occhieggiava, ondeggiava sulla cima del Sorbone, penetrava le fronde dei castagni fino a che faceva parabola raggiungendo il culmine del cielo, poi più giù, più giù, lontano, lontanissimo si coricava nel mare a precipizio. Gianni Rescigno Da Il vecchio e le nuvole, BastogiLibri, 2019
TUTTO È FINITO Tanti pensieri arruffati si formano nuovi e disturbanti. Subito invadono improvvidi il quotidiano giorno. Nella notte restano appigliati, addentellati, imbrigliati per intralciare e tormentare la dolente e tragica vita. Nello stesso tempo il cuore lacera se stesso e non vuole più sapere e non vuole più ricordare e non vuole più amare. Il pianoforte gravido di tanta annosa polvere resta impietrito e spande con una mesta sordina un flebile e oscuro suono. Tutto è finito. Anna Maria Bonomi Roma
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Una Poetessa senza retorica: SENSAZIONI DI UNA FANCIULLA Mädchenempfindungen DI MANUELA MAZZOLA di Tito Cauchi
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ENSAZIONI di una fanciulla è breve silloge poetica di Manuela Mazzola, scrittrice romana (nata nel 1972) di formazione umanistica; il titolo appare semplice e sincero. Difatti, Marina Caracciolo, nella presentazione, paragona i dodici componimenti ai segni zodiacali per il numero e avverte trattarsi di “frammenti sparsi di una giovinezza appena sbocciata (l’autrice li ha composti fra i quattordici e i diciannove anni) grondano di una genuina fantasia e di una sensibilità delicata”; osserva le liete aspirazioni della Poetessa, la fiducia pur nella consapevolezza che Manuela dovrà corazzarsi contro le avversità che la attendono. Annota, inoltre, che l’Autrice non si perde nei fumi della retorica, la maturità raggiunta la fa più equilibrata e rigorosa, e la sua poesia si presta alla sonorità della lirica romantica di “un Ei-
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chendorff, un Heine o un Rűckert”, ragion per cui ne ha tradotto i testi in lingua tedesca. Le poesie recano la data e l’ora di composizione, segno del valore che attribuisce a quei “frammenti” di vita ai quali la Nostra si aggrappa. Nella poesia di apertura, ‘Notte’, la Poetessa commenta: “La gente,/ chiude la porta della propria casa,/ temendo.”. Sente il peso degli anni, come se fosse invecchiata di colpo, ma ancorata alla giovane età non vuole rinunciare al diritto di sognare, e contrastare le avversità. Difatti promette “Con i denti stretti/ ed i pugni serrati/ combatterò per la mia vita.” (‘Terra di nessuno’), per sconfiggere lo sconforto che avanza, che la costringe a riflettere, a stare con se stessa. La solitudine la sovrasta, ma non le impedisce di partecipare al senso della vita e della bellezza della natura, in una alterna fase in cui giganteggia il “fantasma di un uomo” all’ombra del quale torna “bambina”, invocandone il nome, forse rimanendone prigioniera. Le poesie sono semplici, genuine, giudiziose; contengono intimità metaforiche non forzate, e confermano essere prive di elucubrazioni. Considerata la giovane età al momento della scrittura, ne ammiriamo l’equilibrio intellettuale raggiunto. I componimenti sono brevi, hanno una chiusa risolutoria. I primi sei appaiono quasi ingenui, e nei successive fa capolino l’Io sotto un’ombra, un pessimismo appena sfiorato; una sorta di confessione intima. Le note critiche sono utili perché aiutano a comprendere e ad approfondire un testo. Nel processo della comunicazione che viene a crearsi, le parole lasciano un segno nella persona che ascolta o che legge ed influiscono a seconda della formazione e della circostanza; il segno è permanente od effimero, realtà e fantasia sono in osmosi. L’attenzione posta suscita emozioni, sensazioni, percezioni, impressioni, che permangono quanto più sia coinvolgente, universale. Queste Sensazioni di una fanciulla di Manuela Mazzola sono rimaste a lungo nel cassetto; e se oggi, raggiunta l’età degli “anta”, la Poetessa ha deciso di pubblicarle, confermano il valore affet-
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tivo che le hanno permeato l’anima in tutto il tempo trascorso, nonostante tutto. Esse costituiscono una solida base per sorreggere una importante impalcatura. Tito Cauchi MANUELA MAZZOLA, SENSAZIONI DI UNA FANCIULLA, Mädchenempfindungen - Traduzione in tedesco a fianco e Presentazione di Marina Caracciolo, Postfazione di Domenico Defelice, in prima di copertina, a colori, una pittura della stessa Autrice - Il Croco/ I quaderni letterari di PomeziaNotizie, Dicembre 2019, Pagg. 32
TEMI MIEI Le idee come le foglie se le porta il vento a disseminare d’autunno i pensieri inconclusi su una cengia sospesi io sono di umili origini senza investiture né stendardi da mostrare semplice con una matassa di storie ed una borsa di erbe di campo me ne vado incontro al mondo col carretto e l’asinello
NEI SUOI OCCHI
14 aprile 2009 Irene Vallone Formia (LT)
In una luminosa giornata invernale sotto un azzurro cielo di Lombardia (“così bello quando è bello“)
ho visto la nuova Milano, la nuova Milano che nasce dai suoi sempre attivi cantieri. L’ho vista nel nuovo splendore dei suoi verdi spazi orizzontali, dei suoi verticali slanci protesi verso il cielo come moderne cattedrali, l’ho vista nascere come un fiore che spunta dal terreno della sua vecchia Fiera Campionaria e beve antica acqua alla fontana delle Quattro Stagioni nell’inglobata piazza Giulio Cesare. Una nuova Milano, vicino alla quale ancor più prezioso risalta il vecchio suo nucleo centrale, che ricco di storia e di arte ne esalta la sua capacità di rinnovarsi, giustificando il meneghino detto popolare: Milàn l’è un grand Milàn. 5 gennaio 2020 Mariagina Bonciani Milano
falce e vanga e una schiera stanca a seguire uno strascico soffice di manti bianchi e dentro agli occhi la moviola dei ricordi
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Mare calmo d’inverno disteso e puro come un dio sereno, oggi un bambino che viene dalle nebbie, dai grigi pioppi della Lombardia, spazia lo sguardo in te la prima volta. Assoluto così, enigmatico e chiaro, mare, non mi apparisti mai come mi appari nel lungo stupore dei suoi occhi. Ada De Judicibus Lisena Da Omaggio a Molfetta, Ed. Nuova Mezzina, 2017.
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DUE LETTERE Carissima Virginia, con l’impeto della mia giovinezza che si affacciava verso la fine del tuo nuovo secolo, le avide letture mi hanno nutrito di consapevolezze, di desideri, di una stanza tutta per sé per poter riuscire a condividere davvero il mondo e tendere all’essere donna, come naturale armonia di conchiglia, senza sacrificio. Vivo ora la maturità, gli anni in cui tu hai deciso di allontanarti, vivo in un altro secolo: complesso, con incredibili possibilità e perenni violenze, comunque. Hai saputo raccontarmi con maestria il vivere e la fine di una casa, di un progetto, di una famiglia, di un mondo e credi, le tue pagine così pregnanti di saggia leggerezza, sono macigni, una volta vissute. Con una casa distrutta, con affetti mancanti o mancati, in una morsa collettiva di egoistiche incapacità, mi accingo a preparare la mia gita al faro. Siamo pochi, siamo disillusi e stanchi, ma siamo vivi, nonostante tutte le guerre. Dopo anni di crolli, macerie e tanta polvere, è tempo di riassettare, di riaprire le stanze e naturalmente, di partire verso il mare. Grazie e a presto. Patrizia De Rosa (Genova) Carissimo Eugenio, mi è sempre sembrato che per la vostra generazione fosse più facile la vita, anche se, lo so, più stringente, dolorosa, per alcuni. C’erano comunque ruoli più chiari, percorsi scanditi da seguire o dai quali fuggire, desideri appagati e giustificati, concretezza nelle esistenze tese al miglioramento individuale e collettivo. La tua voce porgeva delicatamente le chiavi per svelare l’anello che non tiene, ma mi pareva comunque feconda quella giovinezza di uomo agli inizi del Novecento, diversa dalla mia costante ricerca di identità, di virile sensibilità, in questa società liquida che opprime con macigni virtuali e preclude ogni anelito
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verso Clizia, verso un mare azzurro, non inquinato. Che dire, il tuo nuovo secolo rivoluzionario, promettente, ha portato guerre e catastrofi umane indicibili. Il mio nuovo millennio aumenta le diseguaglianze, l’oppressione dell’uomo sull’uomo e su ogni esistenza, non solo per ideologie, ma per bieche questioni di mercato, di convenienza. Sempre per scelte. Nella mia giovinezza inespressa, spesso il male di vivere mi ha invaso e mi sono sentito escluso dall’armonia del mondo, così agognata nei giorni delle mie prime coscienze tra i monti liguri. Così, in questo travaglio, tra muri sempre più alti e diffusi, continuo a camminare, mi dibatto per essere uomo e mi sento sconfitto, accartocciato, anche se ho sempre più chiaro ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. Continuo a cantare. Lorenzo De Micheli (Genova) ↓ D. Defelice: L’attesa sulla montagna (1962), olio su tela 48 x 58, proprietà geometra Vito Laterza, Bassano del Grappa.
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ARTIGIANATO E CORPORAZIONI NELLA STORIA DI TORINO di Leonardo Selvaggi
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'OPERA della scrittrice Piera Condulmer, che oggi conosciamo e apprezziamo per la sua ricchezza di documentazione storica, per la complessità di trattazione, costituisce il risultato di un lavoro di ricerche condotto con tutto il trasporto di un animo sensibile agli autentici valori morali dell'uomo. Una passione e nello stesso tempo una naturale inclinazione a prediligere gli aspetti più veri dell'uomo, radicato alla matrice delle più forti tradizioni. L'opera "Artigianato e corporazioni nella storia di Torino" rappresenta una indagine acuta su un passato che è rimasto monumento senza fine, ma soprattutto una lezione per i tempi attuali. La Camera di commercio industria artigianato e agricoltura di Torino si è resa benemerita promuovendo la pubblicazione di quest'opera che esalta nel modo più chiaro il ricco patrimonio di capacità tecniche e professionali del popolo piemontese tenace
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e laborioso che ha saputo nei secoli andati attraverso le varie forme dei mestieri tradizionali rendere attivo il proprio spirito di iniziative in un processo continuo di applicazioni ed operatività fino a raggiungere traguardi ragguardevoli di progresso economico e di realizzazioni produttive sempre più avanzate. Il volume della Condulmer, che sarà letto con attenzione da tutti coloro che credono nella forza delle tradizioni e nelle abilità dell'uomo artigiano, attraverso l'esame della vasta gamma dei mestieri praticati ci presenta il Piemonte antico nella cornice di una sua propria caratterizzazione e soprattutto la sua autentica storia, ci restituisce alla memoria uomini e tempi ormai divenuti sostanza archeologica, una chiara testimonianza per tutti noi. Sappiamo che le novità di oggi si offrono spietate verso il passato, travolgenti con una fretta irragionevole; l'uomo si sente smembrato e perduto, con ansia di insoddisfazione, sembra che abbia smarrito la propria memoria. L'epoca che viviamo è piena di dissacrazioni, di materialismo. Occorre che rinasca la figura dell'artigiano, che rifiorisca la sua virtuosa manualità che voleva dire amore per il lavoro esperienza maturata dopo anni di paziente applicazione. I mestieri si tramandavano come messaggio di vita da una generazione all'altra. La Camera di commercio industria artigianato e agricoltura svolge un ruolo primario quando promuove con incentivazioni il ritorno delle attività artigianali ridotte quasi a un puro ricordo. Come un ponte tra il passato e il presente potrà equilibrare la vita di oggi, spezzando quella morsa che ha preso l'uomo tenendolo prigioniero del progresso stesso. La libertà rinasce superando le angustie del meccanicismo, dando respiro e forza alle attività che fanno l'uomo operatore con la propria abilità inventiva. Oggi viviamo dentro strutture tecnologiche sempre più fitte, un mondo di macchine e di congegni che opprime. Con la Condulmer vediamo l'industriosità dell'artigiano nel saper lavorare, con l'ausilio di pochi utensili, il ferro, il legno, l'argilla. I Setaioli, i tappezzieri, i fabbri aureari, l'arte degli antichi minusieri, i vetrai. Le cose più
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belle che hanno l'impronta dell'uomo; gli ornamenti, le cornici, le facciate delle case. Oggi tutta una produzione in serie, i palazzi come scatoloni che si ergono freddi e quadrati; un automatismo, l'uomo che diventa sempre più piccolo entro le tenaglie di ingranaggi meccanici. È necessario che l'attività industriale e l'opera dell'artigiano convivano perché non si vada ancora di più verso l'anonimato, come trasportati fatalmente verso un futuro deformato che non riconosce il mondo vivo ed individualista dell'uomo. La scrittrice Piera Condulmer nelle sue dense pagine che con tanta eloquenza parlano di artieri e di lavoro certamente ci fa avere una ventata di aria pura, un senso di fierezza all'ombra delle tradizioni; un prepotente desiderio accorato di rivalutazione di un operoso ambiente sano e consistente. Nel ripercorrere il passato si vuol riprendere coscienza di un ricco patrimonio civile. Dai fatti antichi, la figura del piemontese onesto conservatore, maturato nelle fatiche. Storia patria, virtù e intelligenze, affetto per le cose nostrane, una ricchezza morale che stimola ad andare verso un avvenire ridimensionato. Bello ripercorrere le proprie radici, sentirle vive legate, è come avvicinarsi ad una fonte ristoratrice. Il ritorno alle tradizioni artigianali, una necessità che si avverte da più parti per avere un soffio di vitalità, un potenziamento delle capacità umane, il recupero delle forze primigenie per smantellare i fenomeni distruttivi della vita moderna, quali il consumismo, l'alienazione. L'ambiente sociale ritorni con quell'energia che viene proprio dalle intelligenze pure non sofisticate, dal buon senso, dalla semplicità dei costumi, dalla naturale spinta dei sentimenti. Il ritorno all'attività artigianale ravviva il rapporto tra l'uomo e il suo ambiente, eliminando quei processi deleteri, che oggi si notano di livellamento, aggregazionismo. L'uomo artigiano si apre a più vivi contatti, costruisce un ambiente più vicino a sé stesso, aborrendo gli artifici, pronto ad amare il prossimo e la natura, smaterializza la vita portandosi a coltivare le innate in-
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clinazioni, la spontaneità del lavoro individualizzato al di sopra del lucro, della spasmodica voracità di interessi. Rivalutazione dei mestieri significa rinvigorire la struttura dell'uomo, risanandolo da tutte quelle varie forme di violenza e di parassitismo cui oggi assistiamo. Una maggiore vicinanza alla concretezza delle cose legami sociali più veri, un impegno individuale nel rispetto delle norme primarie che consentono la difesa della cosa pubblica, la cooperazione di tutti per il benessere della comunità. Potenziare l'artigianato vorrà dire immettere nella stessa struttura delle intraprese industriali un maggiore soffio umano, creare un ambiente di lavoro più vivibile, meno stressante, un tessuto economico-produttivo più articolato che faccia sentire l'uomo protagonista con le sue capacità professionali e quell'apporto naturale di dedizione, che viene proprio dal recupero dell'interiore virtù operosa che ci appartiene. Leonardo Selvaggi
Domenico Defelice: Natura morta con vaso e ragno (1959), olio su compensato ↓
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Servizio STAMPA I Edizione PREMIO EDITORIALE IL CROCO L’Editrice POMEZIA-NOTIZIE - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM) - Tel. 06 9112113 – E-mail: defelice.d@tiscali.it organizza, per l’anno 2020, la I Edizione del Premio Editoriale Letterario IL CROCO, suddiviso nelle seguenti sezioni : Raccolta di poesie (in lingua o in vernacolo, max 500 vv.); Poesia singola (in lingua o vernacolo, max 35 vv.) ; Racconto, o novella, o fiaba (max 8 cartelle. Per cartella s’intende un foglio battuto a macchina – o computer - da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1800 battute); Saggio critico (max 8 cartelle, c. s.). Le opere, assolutamente inedite (con titolo, firma, indirizzo chiaro dell’autore, breve suo curriculum e dichiarazione di autenticità) devono pervenire, in unica copia, per posta ordinaria o per piego di libri (non si accettano e, quindi, non si ritirano raccomandate) a: Pomezia-Notizie - via Fratelli Bandiera 6 00071 Pomezia (RM), oppure - ed è il mezzo migliore, che consigliamo - tramite e-mail a: defelice.d@tiscali.it entro e non oltre il 31 maggio 2020. Le opere straniere e quelle in vernacolo devono essere accompagnate da una traduzione in lingua italiana. Nessuna tassa di lettura. Essendo Premio Editoriale, non è prevista cerimonia di premiazione e l’operato della Commissione di Lettura di Pomezia-Notizie è insindacabile. I Premi consistono nella sola pubblicazione dei lavori. All’unico vincitore della Sezione Raccolta di poesie verranno consegnate 20 copie del Quaderno Letterario Il Croco sul quale sarà pubblicata gratuitamente la sua opera - lo stesso Quaderno verrà allegato al mensile Pomezia-Notizie (presumibilmente a un numero tra agosto e ottobre 2020) e sui numeri successivi saranno ospitate le eventuali note
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critiche e le recensioni. Ai primi, ai secondi e ai terzi classificati delle sezioni Poesia singola, Racconto (o novella, o fiaba) e Saggio critico, sarà inviata gratuitamente copia del mensile - o del Quaderno Letterario Il Croco - che conterrà il loro lavoro. Pomezia-Notizie, comunque, può sempre essere letta, sfogliata eccetera su: http://issuu.com/domenicoww/docs/ (il cartaceo è, in genere, riservato agli abbonati e ai collaboratori). Per ogni sezione, qualora i lavori risultassero scadenti, la Commissione di Lettura può decidere la non assegnazione del premio. La mancata osservazione, anche parziale, del presente regolamento comporta l’ automatica esclusione. Domenico Defelice Organizzatore del Premio e direttore di Pomezia-Notizie
IL CROCO i Quaderni Letterari di POMEZIA-NOTIZIE il mezzo più semplice ed economico per divulgare le vostre opere. PRENOTATELO!
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I POETI E LA NATURA - 100 di Luigi De Rosa
D. Defelice - La casa del pipistrello (biro, 2018)
SU DANTE ALIGHIERI E IL SUO RAPPORTO CON LA NATURA
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ella Divina Commedia del sommo Dante (nato a Firenze nel 1265 e morto a Ravenna nel 1321) la Natura non è un soggetto autonomo, a se stante, né un oggetto interpretabile da ciascun uomo o poeta, ma è esattamente la rappresentazione di Dio. Anzi, è il grande Libro – più o meno cifrato – del quale Dio si serve per far giungere il suo messaggio all'uomo e al poeta. Non è quest'ultimo, a stabilire l'essenza del rapporto tra lui e la Natura. Ma è questa stessa a qualificare e a contrassegnare la sua presenza – o assenza – nel mondo razionale e irrazionale dell'uomo e, in particolare, dell' uomo-poeta.
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Oggetto di un rapporto con la Natura e non soggetto autonomo e indipendente. Tutto questo lo dice chiaramente (e magistralmente) all'inizio della Terza Cantica (quella del Paradiso) Beatrice, che prende il posto di Virgilio come guida di Dante attraverso il Paradiso stesso. Dice la Donna Angelicata: “... le cose tutte quante hanno ordine tra loro. E questa è forma che l'Universo a Dio fa simigliante” (I, 103-105) Questa è la concezione della Natura che domina il pensiero e la fede in tutto il Medio Evo, coerentemente con la visione cristiana e occidentale fino al 1300, cioè fino all'Umanesimo e, nei secoli successivi (1400 e 1500) cioè nel Rinascimento, per arrivare al 1600 e alla nascita della Scienza sperimentale con Galileo Galilei. A questo punto, arrivato come previsto alla centesima puntata di questa Rubrica mensile (la prima uscì nel novembre 2011) non posso chiudere questa modesta Rassegna senza occuparmi del Sommo Poeta Dante Alighieri, il più eccelso tra i padri fondatori della letteratura italiana. Daltronde non posso farlo nella necessaria forma scientifica, completa ed approfondita (oltre a non averne la capacità ad ottantacinque anni compiuti) non basterebbero – per lo spazio necessario – tutte le pagine di Pomezia-Notizie per decine di anni. Per cui richiamo l'attenzione degli interessati sulla attività del Centro Dantesco di Ravenna e su quella degli studiosi specializzati in materia.
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Il Centro Dantesco di Ravenna, in collaborazione con il Comune di Ravenna, ha organizzato nel 2019, un importante ed interessante Convegno sull'argomento de “La poesia della Natura nella Divina Commedia”. Dopo l'Introduzione di Anna Maria Chiavacci Leonardi (dell'Università di Siena) si sono avvicendati diversi relatori su argomenti di grande interesse come “Le cose tutte quante” (Patrick Boyde dell' Università di Cambridge) o “Paesaggi tra realismo e simbolismo” (Sergio Cristaldi, dell'Università di Catania) o “Animali nel Paradiso” (Giuseppe Ledda, Università di Bologna) o “Il Creato dal punto di vista di Matelda” (Francesco Santi dell' Università di Lecce). Per non tacere, infine, di due Convegni dedicati alla Divina Commedia, quali “L'idea e l'immagine dell'Universo nell'opera di Dante” e “La poesia della Natura nell'opera di Dante”. Luigi De Rosa
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legato agli antichi dialetti. Correvano dentro limpidezza di sguardi, volti in assenze sprofondate. Per le strade dì pietra non si torna stanchi come un tempo, la pioggia ha tolto la sostanza alla terra. Gli uomini lavati restano ruvide croste senza carne, le ossa rotte non passano per gli erti sentieri. Leonardo Selvaggi Torino
DISTANZA Altri inverni mi inquietano. Cattedrali d’ulivi si diramano e raccoglitrici in coro. Una ciotola d’argilla mi reca ancora uno scorcio di cielo e acqua piovana. E la tua immagine solatia.
SOSTANZE SMARRITE Il desiderio di naturalezza porta indietro, dove le persone sanno di selvatico, i sapori di terra. La trasparenza della luce illuminante diffusa. Le origini corrose, le memorie aride non parlano. Il linguaggio deturpato senza vita prende in un sacco parole confuse disarticolate dall'anima pura delle idee. Senza confini spianati ed uguagliati i paesi, chiarezza e candore dell'amore vecchie cose che non si trovano. Le leggende e tutti i detti risonanti da lontane sapienze sono andati via con echi sparsi, divelti rintanati: come le piante spontanee, i fiori piccoli, i visi vivaci tra le case del vicinato. Le foglie carnose negli angoli umidi delle campagne. Corteccia di tronco il nostro dire, quasi corpo resistente ai lavori duri, veniva da lontane contrade
È tunnel la distanza, dentro ti corro incontro, abbagliato dalla luce dell’abbraccio. Rocco Cambareri Da Versi scelti, Guido Miano editore, 1983
COCCI SPARSI I cocci sparsi della vita non si lasciano ricompattare. Quanto tempo perso, quante lacrime assorbite dall’acre terra. Qualcuno bussa alla porta, e inutilmente continua. Ormai nessuno più apre. Dentro, in silenzio, si preparano le valigie di un cuore straziato. Valigie traboccanti di un amore non più corrisposto. Anna Maria Bonomi Roma
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UN BEL LIBRO DA UNA RUBRICA di Domenico Defelice
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ON la centesima puntata, per decisione dell’Autore, si chiude la rubrica de I Poeti e la Natura. Da oggi, nel confezionare i prossimi numeri, sentiremo che ci manca sempre qualcosa. Ininterrottamente, dal novembre 2011, Luigi De Rosa ci ha proposto, offrendocela come dono, poesia immortale, vera, non le solite “pseudopoesie imperanti (per riconoscimento autoreferente, non per eterolettura)”, che “sono - scrive, su Letteratura e Pensiero del gennaio-giugno 2019, Corrado Calabrò, uno dei poeti rubricati - come i giocattoli rotti dai bambini nevrotici, che li smontano perché vorrebbero essere loro a ricostruirli, a farli funzionare. Solo che non ne sono capaci e non vogliono ammetterlo (c’è della magia anche nel montaggio)”; una rubrica ch’è stata una specie di zona franca e un’isoletta verdeggiante, canora e libera sotto tutti i punti di vista. Libera da parte dell’editore e direttore responsabile, che mai ha interferito, che non ha imposto alcunché, se non ch’essa fosse contenuta per ragione di spazio, sempre asfittico in un mensile ricercato e conteso come Pomezia- Notizie. Libero nel modo più assoluto l’ Autore. È stato
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Luigi De Rosa a proporcela, come, adesso, è stato lui a stabilirne la chiusura. Libero nella scelta dei suoi poeti, di rimanere fedele alla sua cultura, ai suoi studi, alle sue preferenze, agli stimoli suggeritigli anche dal momento, com’è avvenuto, per esempio, di recente, quando, alla notizia dell’ improvvisa dipartita, ha intestato la penultima puntata all’eccellente Guido Zavanone, già inserito nella rubrica nel febbraio 2014. De Rosa, insomma, s’è mosso, volta per volta, sempre in relazione alle esigenze del suo momentaneo sentire, senza progetti a lungo meditati, senza seguire classifiche e senza spartiacque, alternando il classico (Esiodo, Alceo, Saffo, Lucrezio, Virgilio, Plinio il vecchio) al moderno (Caproni, Campana, Merini), il lirico al prosastico, l’ emergente all’autentico genio, rispondendo
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solo alle emozioni e alle vibrazioni interiori. Scelte di cuore, emozioni, non freddo calcolo, non arido progetto, sicché molti di questi poeti che l’hanno commosso e che continuano a commuoverlo, si son ripetuti nel corso delle puntate, e mai per specifica grandezza o per notorietà. Così, l’amico Gianni Rescigno, per esempio, vi appare ben tre volte, mentre, una sola volta, calibri e mostri sacri come Mario Luzi, Francesco Petrarca, Giovanni Pascoli, Dante Alighieri. E i poeti Italiani si sono alternati a quelli stranieri, perché la poesia vera non ha steccati; allora, accanto a D’ Annunzio, Montale, Ungaretti, Leopardi, Carducci, Quasimodo, ecco Basho, Baudelaire, Hikmet, Rimbaud, Dickinson, Rilke, Tagore, Lorca, Pessoa, Heine, Esenin; ecco, ancora, accanto ai poeti in lingua, poeti dialettali ma grandi come Trilussa, Di Giacomo. Siccome ogni rubrica che si rispetti non può non avere un suo logo, a I Poeti e la Natura gliene abbiamo forniti molti nel corso dei mesi e degli anni (ne riproduciamo qui alcuni, formato franco-
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bollo!), apprezzati anch’essi dai lettori, anch’essi liberi, a volte creazioni suggeriteci al momento di sistemare la puntata. Ringraziamo il caro Amico De Rosa per averci addolcito l’esistenza, tonificando il nostro spirito per così lungo tempo. Ora, ad alleggerirci il velo di mestizia, è la notizia che il contenuto delle cento puntate sarà ben presto riversato in un agile ed elegante volume. Domenico Defelice
OSCURITÀ E LUCE Quando il raggio obliquamente penetra attraverso il vetro è allora che le mie mani danzano con il pulviscolo cosmico scompongo, ma tutto si ricompone nulla è volutamente un vuoto. E allora mi sorge una domanda: “Chi sono io?” un corpo che perisce, o l’idea che lo anima? Forse una risposta esiste solo nell’immaginare un pensiero al di sopra del pensiero una oscurità dalla quale proviene la luce Una galassia sconosciuta è ciò che mi anima. Wilma Minotti Cerini Pallanza, VB
LA PAROLA Dall’attimo nasci nello stesso attimo ti dilegui. Ma è più veloce l’artiglio del cuore. T’afferra, ti stringe perché nel pensiero tu splenda. Gianni Rescigno Da Il vecchio e le nuvole, BastogiLibri, 2019
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Recensioni SALVATORE D’AMBROSIO BARCOLLANDO NELL’INDICIBILE Bastogi Editrice Italiana di Foggia, Anno 2009, Euro 7,00, pagg. 55. Sia la titolazione, sia la foto a colori di copertina del florilegio di Salvatore D’Ambrosio di Caserta, Barcollando nell’indicibile, contengono indizi di chiara derivazione dello stile spaziale e tecnico di uno degli artisti più celebrali e spirituali che sia mai esistito, nonché inesplicabilmente complicato del secolo scorso, d’origine olandese, Maurits Cornelis Escher (1898-1972). L’immagine della copertina è la riproduzione del quadro ad olio, realizzato dallo stesso D’ambrosio, intitolato Lo specchio, dove ciò che emerge è la perpendicolarità dei piani tridimensionali: una piccola porzione di planimetria ortogonale di un’abitazione con tanto di aperture che collegano le stanze fra loro, alquanto vivace nei colori e sul finire del margine destro l’estremità di un pantalone con la scarpa da uomo quasi a testimoniare che l’ambientazione è abitata. Si consuma la vita, è vero, ma c’è la precarietà in agguato che rimette tutto in discussione e da questo scaturisce la sensazione del ‘barcollare’, così come a suo tempo la teoria della Relatività (del 1905 la prima versione) affermata dal fisico tedesco Albert Einstein (1879-1955) ha rimesso in discussione la tradizione di Galileo e newtoniana. Niente è stato più di valore assoluto ma condizionato da altri rapporti in uno spazio-tempo dipendenti fra loro e variabili. Anche l’illustratore e incisore Escher realizzò nel 1953 la litografia denominata Relatività con un gioco di scale incompatibili fra loro perché diventate al tempo stesso pareti, quindi assurde secondo le classiche leggi gravitazionali e d’ architettura eppure rese possibili nel salire e scendere da
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un’intuizione che ha travalicato la realtà oggettiva. «Sui muretti seduti in successione/ mangiavamo la nostra estate/ nelle lucenti rosse ciliegie/ a grappoli golosamente/ gareggiando lo sputo del nocciolo./ A volte distesi invece/ ad ammirare quanto è bello il cielo/ e le tante altre cose della vita da capire ancora,/ ci assopivamo al suono di risate e gridolini/ dei nostri amici intenti all’altalena./ Colorate amate silicee perfezioni/ strette nelle bramose tasche/ ritmavano con invidiato sfrigolio/ il mosso passo. » (Da Delirio pag. 39). L’indicibile di Salvatore D’Ambrosio è quella proiezione di sé stesso nei paradossi esistenziali: sembra tutto preciso, ovvio, umano, invece è illusorio il palcoscenico su cui si esplica la vita, difficile da esporre così come sono fuori dalla logica d’ogni prospettiva le ambientazioni create da Escher, ovvero visioni sconvolgenti che includono simultaneamente gli opposti sotto ogni punto di vista. «Mani/ gambe/ corpi,/ realtà picassiana/ quotidiana/ nella rossa vernice/ del sangue./ Donne fallate/ discriminate/ demonizzate/ in nome della libertà,/ mai/ come in questo secolo/ più falsa verità./ Tu/ veicolo elettronico/ nato/ come dicesti/ per civilizzare il mondo:/ dove sei?/ Nelle stanze/ fredde/ del potere/ a venderti/ anche l’ultimo lembo/ della tua mente./ E intanto/ gridi:/ pace,/ e invece / fai la guerra!/ È tempo ormai:/ cancelliamo tutte le sublimazioni/ dei persuasori occulti/ gridando pace, pace, pace…// La nostra:/ quella vera! » (Da È tempo ormai pagg. 21-22). Da Escher al mondo pasoliniano il salto da compiere non è certamente facile, perché nel frattempo in seno alla teoria della Relatività nacque il principio per la fabbricazione della bomba atomica e c’è stato tutto un crescendo di vituperio con le nuove micidiali armi usate nella Seconda guerra mondiale, allorquando la famiglia Pasolini fu costretta a vivere nascosta e il fratello di Pier Paolo, Guido, ch’era entrato a combattere fra i partigiani, venne ucciso, dopo che era stato ferito, massacrato dai garibaldini nel 1945. La figura del poeta, saggista, cineasta anche collaboratore in un film di Federico Fellini, Le notti di Cabiria del 1957, giornalista, scrittore friulano, Pier Paolo Pasolini (1922-1975) è stata ‘riplasmata’ in versi dal D’Ambrosio al fine di poter spiegare, ancora una volta, l’indicibile esistenza con tutte le contraddizioni di un uomo vissuto più nei tormenti che nella gioia vera e propria, il quale nelle sue opere letterarie, cinematografiche, poesie, articoli giornalistici, ha ‘sviscerato’ la realtà denudando l’ipocrisia del perbenismo o, come diremmo oggi, del politicamente corretto. Lui fece dell’ incoerenza un abito sobrio da indossare in tutte le occasioni senza sentirsi mai inadeguato, anzi antici-
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pando di molto i tempi con tematiche sociali che stiamo affrontando noi, adesso, nel terzo millennio. «[…] Come è difficile parlare/ no, meglio ancora impossibile spiegare/ cosa racchiude il sillabare Amore/ pensando all’evangelio e spesso mai/ a quello deludente del deserto urbano./ Speranze cullate per diseredati;/ perdenti già in partenza;/ “ragazzi di vita” dalle mani vuote;/ combattenti padroni solo di macerie./ Roma carogna e indisponibile!/ Tentativo no, solo speranza di ripulire di fango/ i volti induriti dell’atroce e lurida periferia./ A chi fece torto l’impegno tuo civile/ perché quel fango ti finisse in gola/ in quel novembre tra rifiuti e botte,/ barbaro tra barbari/ riverso nella sabbia lercia di Fiumicino. » (Da 1975: Pierpaolo a Fiumicino… pag. 44). Isabella Michela Affinito VITTORIO “NINO” MARTIN SORSATE RISTORATRICI Presentazione di Domenico Defelice - Collana “Il Croco”, Supplem. al n° 1 (Gennaio 2020) di Pomezia-Notizie, pagg. 32 Dall’attento profilo stilistico sulla poesia di Vittorio “Nino” Martin espletato dal direttore, in questo caso anche prefatore, del mensile da lui fondato, Domenico Defelice, è emersa una personalità di ecclettismo incorrotto di uomo semplice rimasto sé stesso dopo una vita impegnata nei viaggi per le vernissage personali, esposizioni pittoriche fino ad Hong Kong, a Tokyo, a Cracovia, in Germania, in Svizzera, etc., nella manualità – ha scolpito e realizzato di tutto con le sue forti mani di uomo autodidatta – nel comporre versi rispecchianti il sociale di oggi e di ieri, senza orpelli e senza mistificazioni. Ama definirsi Artista-artigiano e da alcuni decenni anche poeta dell’ urgenza del dire, forse perché il Fuoco leonino, di cui è pervaso, vuole espandersi nell’ immediato senza attese inutili o freni inibitori (l’unica limitazione è quella che si autoimpone) ed è così che anche i suoi versi, fin da quando ha debuttato sul palcoscenico
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letterario contemporaneo, esprimono esuberanza e vitalità in riferimento alla sua indole di re dello Zodiaco, il Leone, appunto. «[…] Ogni sua composizione è un blocco unico. Il discorso inizia e va a razzo, aiutato solo dalle virgole, fino alla fine, dove troviamo, finalmente, l’unico punto fermo. Come se il pensiero avesse fretta di manifestarsi e temesse le pause, […] E sempre quasi lo stesso respiro, sempre la stessa quantità d’aria dai polmoni pompata ed espulsa, tanto è vero che, in queste ‘Sorsate ristoratrici’, i componimenti si aggirano tutti sui sedici, diciotto versi, non vanno mai al di là di ventiquattro.» (Dalla presentazione di Domenico Defelice, pagg. 2-3). Questo bisogno di contenimento e accuratezza nel non superare un certo numero di righe durante la versificazione è legata indubbiamente alla temperanza del Martin – altra sua importante prerogativa – sia nell’ambito professionale, sia per quanto riguarda lo stile di vita; abituato fin da piccolo ad apprezzare il poco che era già molto, perché la visione familiare e l’ambiente del dopoguerra hanno contribuito a sagomargli un animo sobrio e responsabile, tenace nella sopportazione di stenti e fatiche d’ogni tipo, portandolo ad essere multiforme, fantasista anche nell’inventarsi le varie trame dell'esistenza, lavoratore a tempo pieno con momenti d’ improvvisazione e a conservare l’onestà, soprattutto verso sé stesso e gli altri. «Le paure e la precarietà/ soffocano ogni desiderio,/ una vita forte non è fatta/ solo di bisogni da esaudire,/ occorre inginocchiarsi sulla terra/ pulirla col lavoro manuale,/ di fronte al crescente disprezzo/ bastano piccole azioni creative,/ ad evitare fatica e sudore/ esperienza, umanità ed amore,/ come tenersi per mano/ nell’abisso del dolore,/ trasmettere ai figli l’etica/ i valori, le nostre radici,/ l’onestà, la fede, la solidarietà/ sono i sogni del domani,/ torniamo ad amare con umiltà/ che appiattisce ogni tensione,/ la cultura appare minacciata/ scopriamo il segreto reale,/ apriamo le porte alla speranza/ sbocceranno splendide storie.» (Pag. 21). Per “Nino” Martin ogni cosa, anche la più insignificante, ogni persona, anche la più emarginata, può giungere al protagonismo senza però disturbare la quiete di chi ruota intorno, semplicemente l’ autore illumina il soggetto con la sua osservazione lenta e carezzevole per valorizzare lo svalorizzato, lo svilito, così per gli oggetti e così per gli esseri umani meno fortunati. È un processo personale che il poeta di Caneva, friulano, ha sempre più sviluppato ora a china, tracciando segni grafici incisivi per bozzetti estemporanei carichi di tensione simile all’elastico di una fionda dove le sagome degli alberi, ad esempio, si confondono con la fisicità
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umana di chi soffre a causa del continuo maltempo esistenziale; ora coi colori ad olio per scorci senza tempo della sua Caneva, paesaggi innevati o assolati per un moderno impressionismo che pur fugace resta nei cuori di chi li guarda; ora con le parole che vogliono restituire dignità ai perdenti, alle cose passate di moda, asciugare le lacrime di chi non ha ‘voce’ perché invisibile al consorzio umano; se dipendesse da lui tutta l’umanità verrebbe riscattata dalla sua preponderanza lirica costituita da abbondanti sorsate ristoratrici. «C’era una vita in apparenza/ lo stridulo acuto dei carri,/ i passi degli zoccoli dei passanti/ che calpestavano il selciato,/ il rumore dello sfiorarsi/ delle lunghe vesti delle donne,/ cigolavano porte e finestre/ che si aprivano sulla Calle;/ lo sbattere delle lenzuola/ sovrastava le voci squillanti/ della gente del vicolo/ e dei fedeli in preghiera,/ la fontana del cortile/ col rumore dell’acqua,/ confondeva le voci/ di chi si scambiava confidenze,/ anche le mura sussurravano/ la possibile pacifica convivenza,/ da scoprirne il fascino/ in tutte le sue sfumature,/ come codici segreti tramandati/ dalle parole non pronunciate,/ di bocca in bocca da generazioni/ come giuramenti d’onore.» (Pag. 26). Isabella Michela Affinito
TITO CAUCHI DOMENICO DEFELICE Operatore culturale mite e feroce Editrice Totem, 2018 - Pagg. 360, € 20,00. Con una lapidaria e indovinata definizione, si apre alla lettura l’interessante e completa monografia di Tito Cauchi, sull’uomo di lettere, e direi di tant’altro, Domenico Defelice. DOMENICO DEFELICE POETA E SCRITTORE MITE E FEROCE Due aggettivi, “mite e feroce”, che ci danno la visione precisa di chi sia Domenico Defelice: un uomo gentile, disponibile, che si batte per la verità e per la giustizia, attento ai lavori di ogni tipo d’arte che egli stesso coltiva essendo poeta, pittore, scrittore, critico letterario e, dall’altro canto, proprio secondo la definizione dell’Esegeta, duro, oserei dire persino inesorabile di fronte alle iniquità. Un personaggio che ama la rettitudine nel suo significato più profondo e non fa sconti a chi merita una lavata di capo. Dunque, critiche, rimproveri, strigliate vere e proprie in caso di comportamenti senza giustizia o senza regole. Ma è altrettanto famoso, il Defelice, per i suoi “Alleluia!”, declamati a gran voce, quando le condotte vanno nel verso giusto e ritiene do-
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veroso sottolinearlo La scrittura di Tito Cauchi si estende per oltre 350 pagine lasciando il lettore stupito e perplesso di fronte a tanto lavoro. Ma, dopo aver dato visione a pagine su pagine, ci si renderà conto di come siano stare necessarie tante pagine per riuscire a mettere in evidenza e rendere giustizia alle notevoli iniziative di una personalità la cui attività si sa dove inizia e mai dove finisce. Un’analisi meticolosa che ci dà le mille sfaccettature dell’eclettico personaggio Defelice di cui viene sviscerato, senza nascondimenti, il senso profondo di tutte le sue scritture e, per quanto possibile in tanta produzione, di ciascuna poesia. Fin dal primo capitolo, intitolato “L’anima del sognatore”, ci si avvede della piacevolezza della lettura e della dovizia di particolari, offerti dall’ Autore, sulla vita personale, letteraria e professionale del Defelice, seguitando nella stessa maniera con le altre opere, di cui penetra il cuore, iniziando dai primordi della sua vita letteraria ai giorni attuali. Come ci racconta lo stesso critico, la completa conoscenza del Defelice non viene soltanto dalle pubblicazioni lette con grande interesse ma, credo, soprattutto dalla profonda amicizia che ha legato, e continua ad unire, i due personaggi da svariati anni. Ce ne danno testimonianza le tante lettere, intercorse tra loro, pubblicate da pag. 290 a pag. 323, nel capitolo “Epistolario”. La corrispondenza si interrompe con una lettera datata 5 dicembre 2011, quando, come chiarisce lo stesso Cauchi, i due amici passeranno a un tipo di comunicazione più pratico, telefono e posta elettronica, fino ad arrivare ad incontri personali sempre più ravvicinati. Dunque, Tito Cauchi ha tutte le possibilità di entrare nel profondo del pensiero dell’amico e di relazionare la sua attività in tutti gli aspetti. Una monografia, dunque, eccezionale e davvero gradevole che riporta un epistolario di lettere integre, un indice dei nomi che, del Defelice, hanno scritto, un Notiziario comprendente, tra l’altro, una poesia del 2010 dedicata a Paul Courget, e diverse foto memoriali. Anna Aita
MARIA GARGOTTA IL MOLISE LETTERARIO DI FRANCESCO D’EPISCOPO (Delta Edizioni, 2019, AV € 10,00) Dopo La Salerno letteraria e La Napoli letteraria, ecco ora Il Molise letterario di Francesco D’ Episcopo, un volume che Maria Gargotta ha scritto in onore del suo Maestro, per illustrarne l’opera di
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studioso dei valori letterari della sua Terra di origine (D’Episcopo è nato a Casacalenda, in provincia di Campobasso), da lui coltivati con tenacia e con ottimi frutti. Questo di Maria Gargotta è un lavoro importante, perché l’opera di ricerca letteraria compiuto da D’Episcopo nell’ambito del Molise è vasta ed è pervenuta a notevoli risultati, a cominciare da quelli dei saggi su Francesco Jovine, nei quali D’ Episcopo va alla «ricerca delle “radici” ambientali, storiche, letterarie ed umane della propria terra», dimostrando di possedere una grande «levità narrativa», nonché «un’acutezza psicologica a livello storico e sociologico». Nello studio dei romanzi joviniani, Signora Ava e Le terre del Sacramento, D’Episcopo si mostrò inoltre propenso, seguendo la tesi di Sapegno, a «cogliere le radici biograficamente personali e intellettualmente meridionali dell’opera joviniana, come premessa dell’apertura dello scrittore verso la grande tradizione del verismo italiano e del realismo europeo». Jovine viene così anche da D’ Episcopo (come già da Sapegno) sganciato dalla «stagione neorealistica», cui invece lo legava Salinari. Per D’Episcopo inoltre «il tema religioso rappresenta senz’altro un motivo-chiave della narrazione joviniana»; e ciò contrariamente a Salinari, il quale legge Jovine «in chiave esclusivamente di realismo gramsciano». Illuminante risulta poi lo studio di D’Episcopo sugli scritti di viaggio di Jovine, che valgono a farci meglio comprendere il suo legame con la terra e con l’ambiente umano che la popola, sicché il suo interesse per il Molise appare non un «mero interesse intellettuale, ma un reale interesse antropologico». Il Viaggio molisano di Jovine vale in tal modo a farci meglio comprendere i suoi romanzi, nella loro intima essenza di poesia e verità umana, rivelando pienamente «l’universo molisano», «sospeso tra magia e religione, tra favola e storia, tra tradizione orale ed elaborazione letteraria», che diviene una «categoria dell’anima». Appare inoltre interessante, come osserva D’ Episcopo, il fatto che tra i personaggi di Signora Ava un religioso, Don Matteo Tridone, apra e chiuda il romanzo, assumendo in tal modo un ruolo chiave in tutto il contesto. Complesso si rivela pertanto l’universo narrativo di Jovine, nel quale il mondo contadino assume una parte fondamentale e nel quale «le mediazioni manzoniane e verghiane … appaiono articolate in forma non ripetitoria e statica, ma progressiva», come osserva l’autrice. La Gargotta mette poi bene in luce come D’Episcopo abbia individuato l’autentico significato
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letterario di Jovine nella sua capacità di penetrare con i suoi romanzi nell’anima segreta della sua Terra, evidenziando i principali problemi che la riguardano, specie quelli dell’isolamento e dell’ arretratezza del processo di sviluppo sociale. Ed è, quello di D’ Episcopo, uno studio fatto con profondo amore per il Molise, nel quale ha le sue radici; amore che lo porta a raggiungere dei risultati di molto rilievo. La Gargotta dimostra inoltre, nella seconda parte del libro, come cospicui risultati D’Episcopo li abbia raggiunti anche studiando altri uomini di Lettere molisani, a cominciare dall’Abate Francesco Longano, che nel 1788 scrisse un libro Viaggio per lo Contado di Molise, un’opera nella quale diede «la descrizione fisica, economica e politica» dei luoghi visitati. Osserva in proposito D’Episcopo che la conoscenza del territorio assume per Longano una «valenza fortemente ideologica», perché gli consente di proporre rimedi che vadano incontro alle «classi meridionali più povere e deboli». Ecco allora che il Viaggio dell’Abate Longano acquista una «funzione civile» della massima importanza, perché tende ad incidere sulla realtà sociale della Terra in cui vive. E molte delle sue osservazioni sono valide ancora oggi. L’attenzione di D’Episcopo si è poi rivolta a Francesco D’Ovidio, molisano di Campobasso, ma lungamente vissuto a Napoli, dove ha insegnato nel locale Ateneo, compiendo profondi studi su Dante e su Manzoni, oltre che sulla lingua, quale «organismo vivo e filtro della storia dei popoli». A D’ Ovidio D’Episcopo ha dedicato un capitolo del suo libro Al mio Molise. Un acuto studio D’Episcopo lo ha compiuto successivamente su Raffaele Capriglione, medico e poeta, vissuto a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, ed autore de La Settimana Santa a Santa Croce di Magliano, dove «tra la lingua italiana e l’idioma dialettale … Capriglione riesuma e riscatta, forse anche con la nostalgia di chi è lontano, le voci popolari della sua terra». Capriglione scrisse anche poesie in dialetto napoletano, inserendosi in tal modo nella tradizione “verista” di Ferdinando Russo e Raffaele Viviani. Sono inoltre da segnalare, tra i lavori di D’ Episcopo, gli interessanti interventi da lui compiuti nel volume pubblicato a cura di Sergio Bucci dall’ Editore Marinelli e dedicato da Giambattista Masciotta a Giacomo Caldora, nel suo tempo e nella posterità. È questo un libro dal quale emerge netta la figura di questo valente condottiero molisano del Rinascimento, ignorato dai più, ma dal Masciotta valorizzato. Altri studi D’Episcopo ha poi compiuti sul Masciotta, che valgono ad illuminare la sua opera di
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studioso del mondo molisano e dei problemi che lo agitano. Tra questi studi s’inseriscono quelli di D’ Episcopo su Lina Pietravalle, giornalista e narratrice molisana di successo ai suoi tempi, ma oggi poco nota, dalle cui opere emerge «un Molise mistico, folgorato da sprazzi di autentica poesia». Chiude il libro della Gargotta un capitolo dedicato a Giose Rimanelli, uno scrittore molisano studiato da D’Episcopo, autore di validi romanzi, quali Tiro al piccione e Il mestiere di furbo. Un lavoro ampio ed accurato questo recente di Maria Gargotta, nel quale l’apporto critico dato da Francesco D’Episcopo alla conoscenza degli scrittori molisani emerge nel suo non comune valore. Elio Andriuoli
FABIO DAINOTTI REQUIEM FOR GINA’S DEATH AND OTHER POEMS Testo originale italiano a fronte. Traduzione di Nicola Senatore e Myriam Russo. Introduzione di Enzo Rega. (Gradiva Publications, New York, 2019; pp. 64, $ 20.00) Forse più ancora che nelle sue precedenti opere poetiche – penso ad Ora comprendo (2004) ma soprattutto a Maliardaria (2006) oppure ai più recenti (2015) Selected Poems, pubblicati da questo medesimo editore statunitense – Fabio Dainotti qui porta avanti e sviluppa un genere ibrido che predilige e che attiene tanto al diario come al racconto autobiografico, ai Mémoires come alla poésie en prose. I diversi generi sono nell’insieme così equilibrati e sapientemente intrecciati da condurre a un risultato affascinante e del tutto originale. Ci troviamo di fronte a una sorta di “epica famigliare”, una saga personale che attraverso una fitta rete di citazioni, ora nascoste ora più evidenti, tende a divenire storia comune, nel senso di mutarsi in un vissuto (reale e poetico ad un tempo) collettivo, quasi universale. Acutamente Francesco D’Episcopo (nella sua prefazione a L’araldo nello specchio. Poesie 19641974) aveva definito la poesia di Dainotti «un diario quotidiano e sussultorio dell’esserci». Ma essa costituisce pure un diario lirico e in particolare un’«autoironica desublimata epopea del quotidiano», come Giorgio Linguaglossa aveva avuto occasione di commentare, a proposito dei citati Selected Poems, sulla Rivista internazionale «L’ombra delle parole» (aprile 2015). Ecco, epopea – in un significato del tutto rielaborato e attuale – è forse la parola che meglio identifi-
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ca questa poesia così singolare, dove un sorridente velo ironico, palpabile e costante, diviene un’ impronta stilistica, una fondamentale cifra distintiva dell’io poetante. Ne consegue (nell’assenza quasi totale di metrica) che anche la rima, spesso interna o lontana, appaia semplicemente come un’eco gioviale e scherzosa, un accento agrodolce lievemente sarcastico, più che un’intenzionale assonanza musicale. I sette poemetti (nell’ordine: Lamento per la morte di Gina – il più lungo e insieme quello che dà il titolo al libro – Notte a Vigevano, La zia Letizia, Due modi d’aver cinquant’anni, Al bar di Michele, Cimitero marino, Famiglia) costituiscono una trama apparentemente frammentaria e dispersa, con la quale, però, anche in tempi di stesura diversi, si è registrato il piedistallo narrativo di un romanzo famigliare (a partire dall’infanzia) che lo stesso poeta o magari qualcun altro avrebbe potuto scrivere. L’autore si autodefinisce così (oppure si finge) un semplice scriba del tempo e della memoria (Enzo Rega, Introduzione), proprio come gli antichi scrittori di saghe, che compilavano e raccoglievano in esse i fatti più salienti perché fossero tramandati ai posteri. Il poeta non ci presenta una o più storie con personaggi ben delineati e una logica temporale conseguente; sceglie invece di abbozzare suggestivi disegni a inchiostro di china (con quel «tratto di penna agile ed algido» di cui parlava Linguaglossa), dove dal detto affiora sottilmente anche il nondetto, nella consapevolezza, in ogni caso, che tutto ciò che il ricordo ha conservato posandolo sulla pagina è proprio tutto quanto era degno di non essere abbandonato all’usura dell’oblio. Ed è per questa spontanea selettività della memoria che i semplici eventi raccontati con nonchalance, i fatti quotidiani del tempo andato, tristi o lieti, si cristallizzano in una proiezione poetica che trascende il linguaggio prosastico, bonariamente digressivo e colloquiale del racconto. Sebbene pervasi fin dall’inizio dal senso della morte, questi poemetti traboccano per contro di un esuberante rigoglio di vita, e infatti si soffermano in particolare sulla giovinezza, su tutto ciò che nel proprio vissuto è stato esperienza ‘della prima volta’ (studi, viaggi, incontri, amicizie, amori, fughe, delusioni, lotte, rimpianti...), costruendo alla fine un quadro molto più coeso e unitario di quanto si potrebbe pensare. Proprio la progressiva scomparsa, con il passare dei decenni, di tante figure famigliari (le zie Gina, Letizia e Cara, la nonna Rina, gli zii Pasquale e Franco, oppure lo squattrinato amico ‘Contino’, il barista Michele e molti altri) ha fatto ricomporre, nella mente del poeta, il mosaico di tanti eventi di vita trascorsa, che vengono stesi sulle pagine come un
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complesso ricamo multicolore, e che talora sono narrati con gli accenti scanzonati e ilari della gioventù a cui appartenevano: si direbbe quasi – però in un’opposizione speculare – come dall’inverno, dalla morte della Natura, sboccia pian piano la successiva stagione, ogni volta piacevole e dolce. Da Catullo a Dante, da Pascoli a García Lorca, da Yeats a Eliot, da Ungaretti a Saba nonché a Sbarbaro e a Gatto, i frammenti tratti dai poeti prediletti (che in una sorta di programmatico avviso compaiono in esergo su una pagina iniziale) vanno a formare un altro ricamo, introducendosi e celandosi – come si è detto – nella trama discorsiva personale, con l’intento di confondervi l’universalità della poesia di ogni tempo e luogo. Particolarmente bella, fra le altre, l’immagine metaforica (per quanto concreta nel dato reale) del treno che corre di notte verso una destinazione ignota: metafora degli affanni e della precarietà della vita, spesso determinata da circostanze non volute e non previste. All’inizio dell’ultimo poemetto (Famiglia) il poeta scrive il verso tra virgolette: ‘Un treno lanciato nella notte’, poi continua ma pare completarlo soltanto otto versi dopo con le parole, sempre tra virgolette, ‘verso un incerto destino’. Sembrano due emistichi che si richiamano l’un l’altro per formare un verso solo. Il rimando a una citazione qui si direbbe esplicito. Ma quale? Più di un testo letterario potrebbe essere a monte come riferimento. Mi viene in mente in particolare un passo di un recente romanzo di Gianni De Santis (Corri, ch’è notte!, 2016), là dove l’autore (cap. XI) scrive: « ... su quel treno di ritorno ... quel carico umano, fatto di povera gente in cerca di una nuova patria, si lanciava sferragliando nella notte, fendendo il buio verso un incerto destino». Le parole usate sono pressoché identiche e il contesto è il medesimo: tanto nel romanzo come nel testo di Dainotti si sta parlando di fuga, di emigrazione verso il Nord. Forse è soltanto un caso? L’autore ci lascia in dubbio. Anche questa volta, probabilmente, si diverte a osservarci a distanza sorridendo... Marina Caracciolo
VITTORIO NINO MARTIN NUVOLE VAGABONDE Ed. Poeti nella società, 2018 Le nuvole in cielo assumono le forme più strane, sono effimere, leggere e trasportate dal vento. Possono essere, piccole, grandi, medie ed arricciate. Ed ancora possono essere bianche candide, trasparenti, rosate o nere come la pece. Le “Nuvole Vagabonde” di Vittorio Nino Martin potremmo assimilarle
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alla nostra vita, a volte leggera (nuvole bianche), felice (nuvole rosate) o complicata/triste (nuvole nere). In effetti Martin, poeta, disegnatore e pittore, alzando lo sguardo al cielo che ci sovrasta, con le sue strofe e rime, si concede lunghi attimi di riflessione e provoca la riflessione nei suoi lettori. Riflessione sulla vita, quella di tutti i giorni, sulle cose e gli attimi che ci lasciamo sfuggire, perché troppo presi da noi stessi. L’esempio che ci porta con le sue nuvole vagabonde è quello del suo paesino Stevenà, un micro-mondo da cui osservare con fedeltà il grande-mondo. Troppo spesso perdiamo di vista il nostro punto di riferimento, per ritrovarlo basterebbe alzare gli occhi al cielo (magari avere un po’ più di fede in Dio) e lasciarsi trasportare dalle nuvole. Ecco allora che le sue poesie suonano come un monito agli uomini; un messaggio a non vivere la vita senza colore, ma a soffermarsi su ciò che ci circonda, che ci rende più umani e disposti verso l’altro. Osservando le nuvole vagabonde, Martin, ritrova i profumi, i ricordi, gli usi di Stevenà, che sono gli stessi di qualsiasi altro uomo presente sulla terra. Certo, ogni tanto, la vita ci riserva delle sorprese non sempre gioiose. Alle volte ognuno di noi è costretto a passare attraverso nuvole turbolente, ma tutto questo non deve mai farci perdere la fiducia e la speranza in un mondo migliore, che sia più accogliente verso chi soffre o viene deriso. La sua poesia è quanto mai attuale, perché getta lo sguardo sugli errori/orrori del mondo: in “Fratelli” per esempio, potremmo ritrovare i migranti che ogni giorno solcano i mari su imbarcazioni di fortuna, lasciate all’oblio del mare e di uomini egoisti (‘…nuvole gonfie piangono, bagnano la delusione…implorano soccorso dal cielo, verso un futuro migliore essere tutti fratelli…e non merce di scarto, cultura diffusa nel mondo minacciata dallo stesso uomo’.). Ed ancora in “Bestialità” è chiaro il riferimento alla violenza sulle donne di qualsiasi nazionalità: ‘La società è malata, manca di rispetto…quanto a tanta bestialità il male non ha più margini…la furia omicida strazia le carni, di una ragazza innocente…maschilismo arrogante e violento…sono immagini terribili il martirio non è disgrazia’. Nonostante tutto Martin ha fiducia nel genere umano, perché possa finalmente riappropriarsi delle buone nuvole vagabonde: …. ‘l’emozione toglie la voce, si manifesta senza far rumore, non è mai troppo tardi, un raggio di sole è sufficiente, per spazzare via le molte nuvole, sugli aspetti bui e tristi…la fede dei semplici e il cuore cerca la serenità…’. (“Serenità”) Roberta Colazingari
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MANUELA MAZZOLA SENSAZIONI DI UNA FANCIULLA Traduzione in tedesco a fianco di Marina Caracciolo - Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, dicembre 2019 I pensieri della giovinezza messi in versi e rime, 12 scritti che rievocano percezioni di fanciullezza, questo è “Sensazioni di una fanciulla” di Manuela Mazzola, quaderno Il Croco pubblicato nel Dicembre 2019. I piccoli poemi, tradotti in tedesco da Marina Caracciolo, sono addirittura contrassegnati da giorno, mese, anno e ora in cui furono scritti, quasi a voler per forza fermare il tempo non solo con i versi. La Mazzola sicuramente li ha composti con uno spirito leggero, fantasioso e sensibile, con l’anima di una ragazzina di 14 anni che sta crescendo e che in questo suo cammino si pone domande, cerca risposte, riflette, osserva, scruta, scava. E’ così che si cresce non solo di età, guardando il mondo da angolazioni ogni volta diverse, usando tutti i sensi che abbiamo a disposizione. Le liriche sono state composte tra i 14 e i 19 anni e potrebbero essere benissimo una sorta di diario personale molto particolare. La raccolta si apre con “Notte”, che descrive perfettamente le ansie e le paure di una fanciulla che si appresta a passare dallo stato di bambina a quello di ragazza. L’ansia di non sapere cosa ci aspetta rappresentata dalla notte che scende e copre il mondo è contrapposta, nelle righe finali, dalla speranza che comunque il giorno porterà i giochi e le grida dei bambini, quindi la vita. In “Cielo” la Mazzola si paragona ad una formica “di fronte al mondo che mi appare dinanzi agli occhi e giorno per giorno mi spinge ad andare avanti”. In “Quadri” è come se iniziasse a spiccare il volo nella vita che le si para davanti, prima per lei c’era solo il bianco o il nero, adesso che è cresciuta comincia ad aprirsi alle sfumature, smussa il suo carattere “…ora il mio universo…è soffice ed armonioso, flessibile ai venti”.
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E’ pronta ad affrontare la vita da adulta, senza però dimenticarsi dell’infanzia che ha vissuto, bagaglio importantissimo che nessuno di noi dovrebbe mai abbandonare. Roberta Colazingari
GABRIELLA FRENNA COME VOLI D’AIRONI MAGI Editore, 2019 - Pagg. 96, € 10,00 Gabriella Frenna, con la sua raccolta “Come voli d’aironi”, omaggia il genio di Leonardo Da Vinci a 500 anni dalla morte e suo padre Michele Frenna grande compositore di mosaici, accostando l’arte di questo alla sua arte del poetare. Nella prima parte analizza la vita, le opere e l’ ingegno del Da Vinci; nella seconda compone liriche ad hoc mirate a lordare il genio leonardesco. Mette in evidenza, in particolare, alcune opere del genio di Leonardo, come lo sfumato, la sua mente aperta e le sue geniali invenzioni e scoperte. Infine, nella terza parte, affianca i suoi scritti all’ arte del mosaico del papà al quale era molto legata. Perché l’arte in generale che sia scritta, poetata o dipinta viaggia in modo parallelo, quasi a completarsi l’un l’altra. Non solo, lo scrivere e il dipingere o il far di mosaico spesso si ispirano a vicenda, creando alchimie e punti di contatto inimmaginabili. Spazio e tempo si uniscono, si scambiano informazioni e, intanto, mantengono le loro proprie peculiarità. Entrambi, sia Gabriella che Michele con la loro arte sono in cerca di risposte, in una continua indagine costruita giorno per giorno, l’una attraverso i versi l’altro con i suoi piccoli tasselli colorati. I loro lavori sono dialogo con Dio e con l’Universo che li circonda, la parola descrive la realtà disegnata dall’arte e viceversa. Il volume alterna magistralmente liriche e arte visiva, valorizzando l’intero lavoro. Roberta Colazingari
CARLO DI LIETO “LA COSCIENZA CAPTIVA” IN MALIARDARIA DI FABIO DAINOTTI Sigma Libri - Gruppo Editoriale Esselibri-Simone, 2006 - Pagg. 96, € 9,00 Fabio Dainotti è poeta apprezzato e investigato da critici di fama, di accertata serietà; tra essi è giusto ricordare Vincenzo Guarracino, Francesco D’ Episcopo, Giorgio Bárberi Squarotti, Marina Caracciolo, Giuseppe Giacalone, Giancarlo Pontiggia, Luigi Reina, Pietro Citati. Nessuno, però, a noi sembra
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l’abbia approfondito come fa Carlo Di Lieto, il quale scende nella sua “realtà psichica”, anzi, nella sua “realtà psichica inconscia”, con strumenti e mezzi nuovi e che, forse, ad altri critici mancano, in quanto “per l’accesso a questa coscienza - scrive Di Lieto - è necessaria la logica simmetrica, che consente di stabilire connessioni, associazioni, equivalenze, rappresentazioni, simbolizzazioni”. Si tratta, insomma, di scomodare anche la bi-logica assieme ad altre discipline, giacché la semplice logica non è “sempre e completamente dominata dal poeta, perché una formazione di compromesso modella i contenuti della funzione e depotenzia la coscienza che sovente entra in conflitto con sé stessa”. Carlo Di Lieto afferma che quello di Dainotti è un “sentire per immagini” e di ciò possiamo avere specifica conferma esaminando sia le singole poesie come le opere complete. In “Lamento per la morte di Gina”, per esempio, attraverso un mosaico d’immagini il poeta ci presenta parenti e amici e, in particolare la madre, della quale denuncia l’amore tiepido e ne spiega la cagione, che risiede nella rigidezza di tempi in cui abbracci e baci, manifestazioni di affetti, erano considerati segni d’autentica debolezza, assolutamente da evitare. In una poesia de “L’araldo nello specchio”, abbiamo, infatti, una madre dal “volto serio,/severo, uso all’imperio”, una creatura che, forse, “bimba non è stata, non ha pianto/mai”. Secondo Di Lieto, “Il poeta, pur convivendo con una sua logica ordinaria, re/inventa la propria identità proiettiva; nel processo creativo come nel processo onirico, il principio di non- contraddizione, irrinunciabile alla logica aristotelica, viene eliso dall’attività inconscia della poesia di Dainotti”. “Ogni poeta trova nell’immaginario nuove prospettive per l’emersione della propria identità creativa; l’ispirazione dirompente di Dainotti, con indizi rivelatori, sollecita associazioni e intuizioni introspettive”. Di Lieto colloca Dainotti nel solco della poesia crepuscolare, accostandolo in particolare a Guido Gozzano; di Gozzano è la malinconia, nonché “L’atmosfera di languore e di tenera sensualità” che ne “investe il tessuto lessicale, sintattico e ritmico”: “Altro tempo, altro inverno a Marienbad:/tu mi venivi incontro con le ciocche/ritmiche al tuo marciare musicale,/(frangersi della ghiaia sul vialetto/dei nostri incontri misteriosi, certo/sorvegliati da un occhio che s’aprì)”; lo trova, inoltre, poeta ironico: “L’ironia stempera la dolente memoria del passato nell’evasione nostalgica: Dainotti è il poeta dell’inibizione più che del vitalismo”; egli stempera malinconia e ferite attraverso un dettato che si distende “tra la tensione ironica ed autoironica”,
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“L’amaro gioco è tra nostalgia e autoironia, forse, di amori che non esistono, se non nell’immagine sbiadita di un ricordo”. “La coscienza captiva” rivelata da Carlo Di Lieto non sta, però, solo nell’opera “Maliardaria” presente nel titolo del saggio; il critico, infatti, scava nella psicologia di tutte le opere precedenti, dandoci così un lavoro ben articolato e organico, attraverso il quale Dainotti emerge quale poeta complesso e affabulante. Allo splendido saggio, Di Lieto fa seguire l’intera silloge “Maliardaria” (2006) e una antologia di brani tratti da “Diario poetico (1965), “L’araldo nello specchio” (1996), “Sera” (1997), “La Ringhiera” (1998), “Ragazza Carla cassiera a Milano trent’anni dopo” (2001), “Un mondo gnomo” (2002), “Ora comprendo” (2004): un supporto, insomma, ampio e necessario di versi a dimostrazione delle tesi trattate, e non solo. Domenico Defelice VITTORIO “NINO” MARTIN SORSATE RISTORATRICI Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, gennaio 2020 Vittorio "Nino" Martin, pur non avendo una cultura classica, ha raggiunto una cultura discreta, sufficiente, da autodidatta, e si può considerare un artista completo perché ama l'arte, in particolare la pittura e la poesia. Per quanto riguarda la pittura egli si diletta a dipingere aspetti romantici della natura, in particolare paesaggi con la neve. Ho anch'io un suo quadro in cui è dipinto, in rilievo, un paesaggio con l'angolo di un paese coperto di neve. Se ci lasciamo prendere dalla fantasia, osservando il dipinto, ci sentiamo percorrere da un brivido di freddo, oppure, se siamo in estate, ci sembra di provare un piacevole refrigerio. Egli, comunque, si diverte a dipingere persone, animali, oggetti della fantasia. In tutte le sue opere c'è realismo, ispirazione, senso del bello, autenticità. Sono artistiche, originali le sue opere e ognuno vorrebbe averle in casa. Si diletta anche a scrivere versi. Interessante la prima poesia della sua silloge "Sorsate ristoratrici". In essa descrive l'importanza della lettura - oggi piuttosto trascurata perché vi sono troppi mass media che distraggono, che fanno scegliere la via più breve, e più facile, per apprendere e divertirsi - descrive, dicevo, l'utilità della lettura: questa arricchisce l'anima, dà cultura ("sorsate ristoratrici"), fa superare momenti difficili, combatte la solitudine, fa sognare, fa apparire la vita come qualcosa di meraviglioso. Naturalmente bisogna leggere dei buoni
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libri perché non tutti sono al livello educativo, ma tutti fanno crescere in sapienza e buonsenso. Le poesie trattano tutti gli argomenti attuali: la disoccupazione, la mancanza di lavoro per i giovani, il ritorno ai tempi sani del passato, il significato profondo del dialetto, la delusione dei politici che vanno al potere, la droga e l'alcol che guastano i giovani, la mancanza di rispetto della natura, la povertà di molti, la ricchezza di pochi, le feste di paese, i sacrifici dell'uomo. Una cosa ci aspetta in ultimo: la morte che è uguale per tutti, che è la fine di tutti i nostri sogni. Antonia Izzi Rufo
MANUELA MAZZOLA SENSAZIONI DI UNA FANCIULLA Madchenempfindungen. Presentazione di Marina Caracciolo e Postfazione di Domenico Defelice - Il Croco/Pomezia-Notizie, dicembre 2019 Manuela Mazzola, una bravissima, prolifica poetessa e scrittrice, si presenta nel nostro amatissimo ‘IL CROCO’, con un grappolo di dodici poesie che vibrano di giovinezza e gloriosa fantasia, fibrillanti di spontanea maturità che arricchisce ogni verso e dà l’illusione di ammirare un bel bouquet di fiori multicolori e profumati. La poetessa e scrittrice Marina Caracciolo, presenta una splendida descrizione di ogni poesia e ci regala la traduzione in tedesco delle stesse, creando un bellissimo giardino fiorito, che danza con un venticello che arriva direttamente al cuore. “Chiudo gli occhi/ posso vedere immense vallate fiorite/ e posso sentire il profumo dei fiori,/ è tanto intenso che sa di vita”. Da Immense vallate – pag. 22. Una bellissima, breve poesia, che ci fa capire, l’ immensa creatività che fin da giovanissima, la mente della nostra Autrice contiene. Il nostro Editore Domenico Defelice, intitola la sua postfazione: STIMOLI AL RECUPERO DI CIELI DELL’INFANZIA, che tanto ci emoziona. Sono dodici liriche scritte dai 14 anni ai 19 anni, che descrivono lo stato d’animo di Manuela, puro e meraviglioso nella sua giovane età; la sua prima poesia l’ha scritta, infatti, a 14 anni e mai ha smesso. Manuela Mazzola, è laureata in lettere e collabora a parecchie riviste letterarie, (Pomezia-Notizie inclusa) mettendo tutto il suo amore in tutto ciò che scrive, ammaliando chi legge, colmando di sensazioni stupende e imprigionando il lettore coi suoi magici versi, un po’ allegri e un po’ malinconici. Invito tutti i cari amici di POMEZIA-NOTIZIE,
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di leggere IL CROCO di Manuela Mazzola, che li avvincerà con le sue dolcissime liriche. Giovanna Li Volti Guzzardi Melbourne, Australia
MERCEDES CHITI RICORDI, NOSTALGIE, SENTIMENTI Prefazione di Marcello Falletti di Villafalletto - Anscarichae Domus Accademia Collegio de’ Nobili Editore, 2018, Pagg 62, € 10,00 Da un’attenta lettura la silloge appare “di una bellezza commovente e antica che odora d’ abbandono”. E’ un andirivieni di ricordi, nostalgie e sentimenti che emergono dai delicati versi di Mercedes Chiti. Fin da bambina, l’autrice, amava scrivere ed ha ottenuto, nel tempo, notevoli risultati nei diversi concorsi a cui ha partecipato. Con uno stile garbato e raffinato esprime il suo modo di fare poesia e mediante il viaggio, sia pur simbolico, ripercorre la strada dei ricordi, dolorosa, ma necessaria. “Ed io, bambina, corro per i prati/ per catturare l’oro/ per sentire il profumo dell’infanzia/ che s’è smarrita, coi suoi sogni vaghi,/ fra i fastelli dell’erba profumata”. I versi, nonostante i temi importanti, si innalzano e si liberano come una sinfonia leggera e piacevole per tutti coloro che si accingono a leggerli. La vita, la morte, l’infanzia, gli affetti, questi i temi dominanti, oltre, naturalmente, al tema della natura che diviene una cornice perfetta in cui racchiudere, verso dopo verso, le sue liriche. Nella raccolta, composta da trentasei poesie, la parola tempo ricorre sedici volte. Dunque il senso del tempo che passa, che si modifica, si trasforma, domina tutto il pensiero della Chiti. E’ un tempo inesorabile, ma bonario “intessuto di magie”, in cui le nostalgie si perdono. “Miei sogni silenziosi/ domandate alla luna le parole/ che un tempo serbavate nelle pieghe/ dei vostri desideri.” Il tempo ha addirittura un volto ed un colore e la poetessa a volte lo scrive con la lettera iniziale maiuscola, forse perché ne è ispirata e contemporaneamente soggiogata. Inoltre, riporta per ben quarantacinque volte, altre parole con la lettera maiuscola: Universo, Aurora, Inverno, Estate, Affetti, Mistero, Infinito, Cancelli del Cielo, Immensità, Eroi, Angelo, Oscuro, Niente, Primavera, Agosto, Autunno, Eternità, Terra, Viaggio, Anime, Valle e Nulla. Termini che si riferiscono sempre al tempo e dunque allo scorrere della vita, ma anche alla natura, infatti, vi è uno stretto legame tra essa e le sue bellezze, che in questo caso diviene anelito poetico, portando i lettori a riflettere sul senso profondo della vita. Come afferma nella
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prefazione Marcello Falletti di Villafalletto: “Allo stesso tempo però, questa ‘misteriosa nostalgia’ si trasforma in esultante melodia che riconduce alla mente l’autentico senso esistenziale, permettendo di stimolare non unicamente la creatività ma anche le riflessioni più elevate che l’essere umano è destinato ad avere.” Il viaggio introspettivo e sincero di Mercedes Chiti, è un viaggio mediato dai fogli di carta, su cui scrive i ricordi, le nostalgie ed i sentimenti; è un continuo mediare tra lei ed il suo mondo interiore; il narrare in versi le permette, dunque, di scrutarsi dentro: “L’Immensità ha i suoi cancelli./ Ti mostra l’azzurro e le nubi/ perché tu possa scrutarti nell’animo,/ poi ti chiede le chiavi/ e chiude di nuovo il Mistero”. Ed ecco che “ il percorso di un attimo/ o forse di un secolo”, magicamente o forse grazie alla magia della poesia, diventa proprietà del mondo stesso. Manuela Mazzola
VITTORIO “NINO” MARTIN SORSATE RISTORATRICI Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, Gennaio 2020, Pagg. 32 “Sorsate ristoratrici” di Vittorio “Nino” Martin, è una silloge pungente e disarmante per certi versi poiché presenta una vera e propria denuncia sociale insieme al degrado dei valori etico-morali dell’ attuale società. L’artista, che è un autodidatta sia come pittore, sia come poeta, avverte il bisogno di parlare del pericoloso bilico in cui si trova l’ umanità. La raccolta è composta da venti poesie in cui Martin scrive della violenza delle nuove generazioni, ingannate da false chimere e prive di valori; scrive della disparità economica “chi gira in Ferrari/ chi perlustra i cassonetti”, due facce dello stesso problema; ma anche delle cosiddette fakenews, create dai cronisti e dai fotografi che per apparire sono disposti a tutto; descrive il mondo proiettato al benessere falso, basato sull’apparenza e non sulla sostanza; denuncia la situazione degli emigranti “erranti al largo del mare/ secondati da brezza propizia/ silenziosi, guardinghi/ stanchi e tristi”. Ma il nostro poeta ci suggerisce anche una modalità per ritrovare la pace e la speranza, consigliando l’ unione fra le persone, la trasmissione dei valori, il rispetto delle proprie radici, l’amore per la cultura, l’onestà, la fede e la solidarietà. Infatti scrive: “mi fermo e rifletto/ sul sentiero familiare,/ odo mamma e papà/ maniglie dell’amore”. La famiglia che diviene sostegno per la vita. Nella prefazione Domenico Defelice afferma: “La poesia di Martin, allora,
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sta nel contenuto - come già detto -, nella sua alta e dolente tensione per un’umanità smarrita e sofferente, che si dilania senza riuscire a trovar soluzione ai tanti suoi mali, tra i quali, a livello planetario, la mancanza di lavoro - unico elemento in grado di dare tranquillità e dignità all’uomo - e forse il conseguente sfascio delle famiglie”. Martin, con il suo stile semplice e immediato, scrive che leggere un buon libro può arricchire l’ anima, aiutare a superare i momenti difficili e a infrangere la gabbia della solitudine. Sostiene, dunque, la cultura che simbolicamente abbevera l’ uomo e la donna, toglie loro la sete di conoscenza, li gratifica e li rende meno soli. Torna indietro nel tempo e ricorda il linguaggio del cuore, ossia la voce della mamma ed il suo dialetto, fino ad arrivare alle barriere architettoniche che tormentano l’ esistenza di coloro i quali non riescono a raggiungere ciò che vogliono. C’è una severa condanna al progresso e alla maniera di vivere di una parte della società: “In vacanza col mutuo/ tutti ricchi senza soldi”. La sua cruda analisi ci porta all’ultima poesia “Posto fisso”, che chiude la silloge, ricordando a tutti: “la vita è un passaggio,/solo oltre sarà svelato/ il più grande mistero”. Ciò che siamo, ciò a cui tendiamo va ben oltre l’apparenza, le ricchezze, le vacanze e ahimè lo capiremo solo alla fine di questo splendido viaggio che si chiama vita. Manuela Mazzola
ISABELLA MICHELA AFFINITO UNA RACCOLTA DI STILI 17° volume Carta e Penna Editore, 2019, Pagg 74 “Una raccolta di stili” è il 17° volume per Isabella Michela Affinito ed è un vero e proprio omaggio all’arte. L’autrice, che passa da realizzazioni grafiche, pittoriche a saggi, da recensioni a raccolte poetiche con estrema disinvoltura e padronanza professionale, questa volta ci presenta trentuno poesie, un saggio critico su Giovanni Boldini, un articolo di critica su Egon Schiele ed una recensione su Jan Vermeer attraverso il film “La ragazza con l’orecchino di perla” del regista Peter Webber. Nelle trentuno poesie, a tema artistico, si evince un grande amore ed una grande passione per l’arte in generale. Infatti nel volume sono presenti componimenti che mettono in luce i capolavori della storia dell’arte. La poesia diventa un modo per esprimere e spiegare concetti relativi ai diversi artisti, alla scultura e ad alcune correnti come il Surrealismo e l’ Astrattismo; mediante lo svolgersi dei versi, l’Affinito snocciola i temi fondamentali legati ad artisti come
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Brancusi, Duchamp, Modigliani, Bernini, Morandi, Da Vinci, Monet, Van Gogh e tanti altri. “Solo Claude Monet sapeva il/ segreto di questi fiori/ fluttuanti, fermi ma non/ stantii, lontano dal chiasso/ che fanno gli altri colori”. Di Mirò afferma: “Mondo superiore ancorato/ ai ricordi di fanciullo che/ scarabocchiava sulla lavagna/ della sera, il cielo e la terra erano/ la stessa cosa capovolgendo/ il foglio sembrava tutto un/ guazzabuglio con un/ unico scopo”. Parlando delle mani della Monnalisa scrive: “Le mani esprimevano/ il didentro intrappolato/ nel vermiglio fulgore di essere state scelte/ per un ritratto!”. O quando si accinge a spiegare cos’è un quadro: “ Ogni quadro/ è un matrimonio / di colori svoltosi/ sul legno di una/ tavolozza dove tutti/ festeggiano”. Quella di Isabella Michela Affinito è una maniera originale di fare critica; grazie ad un linguaggio raffinato e ricercato, sempre diverso, presenta ai suoi lettori le opere che recensisce con uno stile singolare ed unico. Manuela Mazzola
DOMENICO DEFELICE MIRACOLO A NATALE Il Pontino nuovo, 1/15 gennaio 2020 Molte sono state le polemiche dopo la pubblicazione, su Il Pontino nuovo, del racconto “Miracolo a Natale” di Domenico Defelice. Leggendo la storia non ho trovato nulla di scandaloso, anzi è una storia con una morale positiva da cui noi tutti potremmo imparare. Gli esseri viventi animali ed umani hanno qualcosa di speciale e da donare all’altro, che siano normodotati o no. Il racconto prende spunto dalla realtà poiché alcuni genitori abbandonano i propri figli quando si accorgono che hanno menomazioni, malattie rare o ad esempio la sindrome di Down. Proprio qualche giorno fa in televisione, nella trasmissione “Domenica In”, la presentatrice Mara Venier, che si distingue sempre per la sua grande umanità, ha intervistato un genitore singole che ha adottato una splendida bimba con la sindrome di Down. La bambina era stata rifiutata da trenta famiglie ed era destinata a rimanere sola. Alba, così si chiama la bimba, ha regalato grandissime gioie al suo nuovo papà. Con il suo essere speciale, Alba, ha reso speciale la vita di suo padre. L’amore è universale e non guarda l’essere sani o l’essere malati, la religione, l’orientamento politico o sessuale, ma va a dare importanza all’essere vivente animale o umano che sia e va ben oltre le apparenze. Così per l’elefantino Trottola Natalino o Natalino Trottola, il
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quale è nato zoppo all’interno della grande macchina del circo. Defelice scrive: “Amiamo le piante e gli animali, specialmente cani e gatti, dei quali riempiamo le case, ma li vogliamo tutti sani e belli; un albero sciancato e sfrondato, un animale handicappato, infondono solo dolore e tristezza”. Ma l’intraprendente elefantino è riuscito da solo a farsi spazio e a farsi amare, trovando un posto tutto suo all’interno del grande tendone. Le difficoltà che Natalino Trottola aveva, sono poi diventate risorse che lo hanno caratterizzato e reso unico. Forse lungo il percorso dell’evoluzione, abbiamo perso la nostra parte migliore, quella che un tempo chiamavamo semplicemente Umanità. Manuela Mazzola
MANUELA MAZZOLA SENSAZIONI DI UNA FANCIULLA Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, dicembre 2019 Per chi attualmente, come me, conosce Manuela Mazzola – persona dolcissima, positiva e propositiva, già lodevolmente laureata, ed ora felice sposa e madre – non sembrerebbero sue queste poesie adolescenziali (“Sensazioni di una fanciulla” su “Il Croco“– quaderno Letterario di Pomezia/Notizie di dicembre 2019) così tristi e malinconiche. Certamente la fase della fanciullezza, se da una parte fa progettare sogni e grandi aspettative, da un’altra parte fa sentire l’incertezza del proprio futuro. Ma qui troviamo una Manuela troppo riservata, che soffre terribilmente la solitudine a cui vorrebbe reagire con tutte le sue forze (vedi “Oblio” e soprattutto “L’urlo del cuore”): infatti, ci chiediamo dove siano le sue compagne di scuola, le amiche e gli amici, anche se pochi. Però, ciò che risalta in questa silloge, è la determinata e ferma volontà di costruire con impegno la sua vita – di persona, di figlia, di studentessa, – nonostante il normale disorientamento giovanile. Ella dice di essere: “come la piccola formica” operosa che “giorno per giorno mi spinge ad andare avanti”. E ancor di più, ce lo dimostra nella poesia “Terra di nessuno”. Alcune liriche (“Notte, “Settembre”, “Ultima libertà”) iniziano in modo sereno, ma l’ultimo verso, inaspettatamente, rivela un pesante pessimismo. Fortemente drammatica risulta “Una rosa”, quasi sicuramente scritta dopo essere stata colpita da una grande delusione sentimentale - esperienza acuta, inattesa, dolorosa e umiliante. Invece, la natura, con le sue meraviglie, la fa estasiare e rianimare (vedi “Immense vallate” e qualche
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altra). Soltanto nella penultima poesia, con profonda introspezione di sé, la Poetessa riconosce di essere uscita da quel nero tunnel esistenziale che le mostrava solo il male del mondo che, invece, ora sa guardare in modo più oggettivo e benevolo. L’immagine di copertina – dipinto dalla stessa Mazzola nel medesimo periodo – raffigura appieno lo spirito di tutta la silloge: uno stretto ponte costruito sullo strapiombo della montagna scoscesa sul mare: se si cade, si va nel buio profondo, altrimenti, se si sta attenti, si raggiunge quell’alta roccia luminosa che, quale traguardo-baluardo, difende dal pericolo, e che rappresenta la meta, cioè la soddisfazione di essere riusciti ad arrivarci incolumi. Mi rincresce di non essere in grado di apprezzare la traduzione in tedesco da parte di Marina Caracciolo che da tempo conosciamo validissima poetessa, e che certamente avrà compiuto una felice trasposizione non solamente letterale, ma evidenziando lo spirito animatore di queste intense ed intime liriche le quali sembra impossibile siano state scritte da una fanciulla. In Postfazione, noto la sorpresa ed insieme il piacere di Domenico Defelice - abituato ad affrontare lavori letterari soprattutto di scrittori adulti - nel poter recensire questa silloge di Manuela Mazzola “allora giovinetta”. Maria Antonietta Mòsele GIANNI GUADALUPI LA CINA RIVELATA L’OCCIDENTE INCONTRA IL CELESTE IMPERO Edizioni White Star, Vercelli, 2003 Da 'La Cina rivelata' alle voci dei poeti cinesi contemporanei Gianni Guadalupi è figura centrale di protagonista del nostro tempo, come scrittore, interprete, traduttore e curatore di diversi testi d'eccellenza. Ha coperto incarichi prestigiosi nell'editoria per la Franco Maria Ricci, di cui è redattore per le collane Guide impossibili, Antichi Stati e Grand Tour ed è condirettore per la rivista Le vie del mondo del Touring Club Italiano. Tante le sue pubblicazioni degne di profonda attenzione: La Cina vista dai Gesuiti (1980),Quajar. Viaggi e avventure nella Persia dell'Ottocento (1982), Manuale dei luoghi fantastici (1982), Manuale del viaggiatore interplanetario (1983), 0ltremare. Viaggi, avventure, conquiste dei Portoghesi nelle Indie (1984), Orienti. Viaggiatoriscrittori dell'Ottocento (1989), L'America appe-
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na scoperta (1991), La terra dei rajah. Passaggi in India dal '600 all'800 (1993), Cieli del mondo. Avventure aeronautiche italiane (1994). Arrivo dunque, dopo questi assaggi trasversali di sicuro avventuroso effetto, a questo splendido volumegioiello dalle grandi dimensioni e dalle pagine ripiegate a fornire, se aperte, immagini ampie come un braccio ben disteso, LA CINA RIVELATAL'OCCIDENTE INCONTRA IL CELESTE IMPERO, delle Edizioni White Star S.r.l. di Vercelli, con progetto grafico della copertina eseguito da Cristina Cassaro e pubblicato nel 2003. Gianni Guadalupi cura i testi, mentre la realizzazione editoriale è attuata da Valeria Manferto De Fabianis e Laura Accomazzo, il progetto grafico è di Patrizia Balocco Lovisetti, con la redazione curata da Federica Romagnoli. Vi campeggiano i simboli ideografici ad indicare la Cina. Eccone la sintesi, che è d'obbligo: Introduzione (pp. 8-11); Cap. I Il Paese dei Seri (pp. 12-17); Cap. II Pellegrini e mercanti (pp. 18-23); Cap. III Il doganiere curioso e il navigatore sedentario (pp. 24-29); Cap. IV Missioni al Gran Kahn (pp. 30-41); Cap. V Messer Milione (pp. 42-61); Cap. VI L'Arcivescovo di Khambaliq (pp. 62-69); Cap. VII Il vagabondo dell'Islam (pp. 70-75); Cap. VIII Il grande eunuco dai tre gioielli (pp. 76-83); Cap. IX I Diavoli Bianchi (pp. 8495); Cap. X Il dottor Li Ma-Theu (pp. 96-107); Cap. XI Il tributo dei barbari biondi (pp. 108-125); Cap. XII Il figlio della dea del mare (pp. 126-137); Cap. XIII Il fiume del Drago Nero (pp. 138-149); Cap. XIV La Cina alla moda (pp. 150-161); Cap. XV I trastulli del figlio del cielo (pp. 162-183); Cap. XVI Il veleno delle cicale (pp. 184-195); Cap. XVII Il fratello minore di Gesù Cristo (pp. 196-203); Cap. XVIII Il Conte dell'Amur (pp. 204209); Cap. XIX Il saccheggio del Palazzo d'Estate (pp. 210-219); Cap. XX La Prostituta dell'Asia (pp. 220-227); Cap. XXI Le meraviglie del vapore (pp. 228-233); Cap. XXII I vagabondi della Fede (pp. 234-241); Cap. XXIII Alla corte del vecchio Buddha (pp. 242-251); Cap. XXIV Gli ultimi giorni di Pechino (pp. 252-261); Cap. XXV I pugni della Giusta Armonia (pp. 262-275); Cap. XXVI Il deserto dei Tartari (pp. 276-281); Cap. XXVII Il disvelamento di Lasha (pp. 282-295); Cap. XXVIII L'orso bianco e le scimmie gialle (pp. 296-305); Cap. XXIX Le cannoniere nella giungla (pp. 306315); Cap. XXX Il crepuscolo della Città Proibita (pp. 316-329). Seguono l'Indice, la Bibliografia e le Referenze Fotografiche (pp. 330-337). Questo elenco è necessario per dare un'idea sommaria di tutto il percorso che il Guadalupi si accinge a spiegare utilizzando un apparato fotografico d'eccezione. Egli, nel presentare quest'opera
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che desta meraviglia, spiega: “Per gli antichi greci, di là dall'India non c'erano che deserti popolati da mostri e belve feroci; poi da quelle contrade inaccessibili cominciò a giungere in Occidente una stoffa favolosa e impalpabile come i sogni, per acquistare la quale satrapi persiani e patrizi romani scialacquarono somme immense. Da quel momento il lontanissimo Paese della seta divenne oggetto di fabulazioni, ma rimase coperto da un velo che neppure i racconti dei mercanti islamici o dei primi inviati pontifici contribuirono a sollevare... La Cina rimase sostanzialmente estranea all'Occidente... Con la rivoluzione industriale e la conseguente spinta imperialistica, l'atteggiamento europeo divenne aggressivo: la diversità della Cina fu considerata inferiorità e il Paese fu costretto ad aprire i suoi porti al commercio e ad accettare l'importazione dell'oppio. Nel 1860 gli europei divennero praticamente padroni della Cina e lo rimasero fino ai primi anni del XX secolo, con la caduta della dinastia Qing a segnare la morte del Celeste Impero. Questo volume, avvalendosi di inediti documenti storici e di straordinarie immagini d'epoca, ripercorre le vicende che segnarono il complesso rapporto tra l'Occidente e la Cina, dai primi timidi contatti mercantili agli anni del colonialismo, fino all'epoca della caduta della monarchia imperiale, quando furono dispersi i semi della rivoluzione maoista e della Cina odierna. Un'opera dall'approccio storiografico, ma anche un omaggio all'arte e alla creatività orientali, i cui capolavori sono qui ritratti come testimonianze di una cultura e di uno stile inimitabili” (G. Guadalupi, La Cina rivelata, op. cit. retro di copertina). Terrò presente quest'opera d'arte, complessa e sintetizzata in volume perché sarà ancora oggetto della mia attenzione, ma ora, per ovvie ragioni di spazio, intendo dimostrare come la sua ispirazione, quella che emana dal contatto diretto con storia e cultura della Cina attraverso le immagini interpretate dall'Autore, si dilata fino ai giorni nostri. Ed a questo scopo mi viene incontro la testimonianza di Domenico Defelice, che così sostiene: “... Oggi però è con la Cina che si manifesta un particolare fervore e con la rivista The World Poets Quarterly, edita e diretta dallo scrittore e poeta Dr. Zhang Zhi... A Zhi dobbiamo traduzioni in cinese di parecchie nostre poesie ed è stata la sua organizzazione -l'IPTRC (The International Poetry Translation and Research Center/The Journal of World Poets Quarterly, Multilingual, Cina)- che, nel 2006, ha proposto il nostro nome per il Nobel. È normale dunque che all'amico cinese siamo molto grati...”.(D. Defelice, Zhang Zhi poeta ecologico, scrittore e operatore culturale, in Pom. Not. Febbraio 2019, pp. 24-26).
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Vi sono potenti riflessi del passato nei loro volti e nelle loro memorie, così poetesse e poeti della Repubblica Popolare Cinese offrono le loro voci ispirate dalle esperienze della vita e da quel vuoto mistico che abita il loro immaginario e che li guida nel pensare e nell'agire, anche artisticamente inteso. Mi soffermo su Zhang Zhi, con soprannome Diablo: delle due poesie riportate, The Final Phase (and another poem) e Bird's Songs scelgo nella resa poetica del Defelice gli otto versi della prima, adatti da soli a far entrare in dimensioni che la natura e la vita osservata, anche quella interiore, condivisa con gli altri attraverso la parola poetica, avvolgono nella disperazione destinale, appena placata dal respirare ancora: FASE FINALE Cristallini chicchi di grano dopo il saccheggio del temporale Il campo abbandonato È dagli uccelli Uccelli anonimi saltellano intorno Beccando pulito e chiaro Mio cuore, di tutto privo fuorché le stoppie la fase finale chi ci penserà E il Defelice commenta: “Zhang Zhi ha spesso immagini apocalittiche, legate alle trasformazioni radicali e velocissime di questi nostri anni, che sconvolgono l'ecologia, che prospettano un futuro incerto...” (D. Defelice, ibid. pag. 25). Ecco dunque apparire anche Chen Hongwei (D. Defelice, Cheng Hongwei, Pom. Not. Agosto 2019, pp. 17-18), le cui liriche sono presenti grazie alla traduzione inglese di Zhang Zhizhong e alla libera resa poetica, semplice e intensa, di Domenico Defelice: il giovane Cheng riesce a dilatare l'esperienza sensibile alle categorie della relazione, si tratti della donna amata, della natura, del rapporto con gli altri: è la contemporaneità dei due mondi, Ying e Yang, la matrice del tutto, dello stesso destino che, imprevedibile, affascina perché assoggetta al dire poetico: il simbolo del pesce fossile in 'In the Night Sky Hangs a Fossil Fish' è matrice indelebile di unità ancestrale di ogni tempo, dell'universo infinito e dell'essere vivente che ne osserva le tensioni, così la poesia si fa disegno d'arte che ha l'obbligo di sfumare sempre certezze e aprire ad interrogativi. Approfondirò il contatto con questi e con gli altri giovani testimoni della cultura cinese, aperti al mondo ed alle esperienze più costruttive, dato che proprio Zhang Xueliang, quel Generale che mi ha affascinato senza misura e che non ha mai combattuto, durante una prigionia durata ben 56 anni, come ben ha testimoniato il prof. Aron Shai, ha trovato conforto nella Poesia. Ilia Pedrina
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ANTONIO SPAGNUOLO CANZONIERE DELL’ASSENZA (Kairòs Edizioni, Napoli, 2018, € 12,00) Una poesia della memoria e del rimpianto può definirsi quella contenuta in questo Canzoniere dell’assenza di Antonio Spagnuolo, scritto in ricordo della moglie da non molto mancata al suo affetto. Sono quelle qui raccolte poesie che danno luogo ad un vero e proprio Canzoniere in morte della donna amata dal poeta, che da questi versi emerge ancora viva e vera, con la sua imperitura presenza, scaturita dall’animo di colui che la vagheggia e l’ invoca. “Rimane solo il silenzio nella penombra, / riconosce i profili ancora incerti, / nelle attese continue di un sussurro”: sono questi i primi versi di Tacito, una poesia di cui qui si offre anche la traduzione in lingua spagnola ad opera di Gustavo Vega; e si tratta di un testo che suscita in noi molti echi. Certo, le poesie che Spagnuolo ci dà con questo suo nuovo libro sono percorse da una profonda tristezza, poiché in esse continuamente si affaccia l’ immagine di Elena, la sposa perduta, che si è smarrita in plaghe remote dalle quali non potrà più ritornare. “Segno ancora sul calendario con matita a colori / una data precisa per non dimenticare” (Il segno); “Qui tutto è fermo nell’attesa: / un azzardo del buio che mi circonda” (Follia); “Ricordo le tue mani delicate, / diafane nel tocco della gioventù, / una carezza che sfugge nel sussurro / che mi opprime la mente ogni giorno” (Mani). Dopo tanti anni di vita trascorsa insieme, ecco che il loro rapporto si è interrotto ed il poeta è rimasto solo, a lottare con le ombre del passato che non gli danno pace. Le sue parole allora si fanno sommesse e un brivido doloroso le attraversa. “Per raccontare illusioni alla luna / devo ritrovare le immagini del mondo che sparisce” (Immagini); “Avorio e coralli fremono nell’antica polla / germogliando alfabeti per l’inattesa assenza” (Smerigli); “Ho chiuso i miei conti con il paradiso” (Parabola). Ancora più doloroso diviene poi il ricordo dei giorni che precedettero il fatale distacco, allorché lei si aggrappava disperatamente alla vita che sentiva sfuggirle: “Desideravi un’altra primavera / tra spine delle rose e nubi solitarie / nei colori della fine di ottobre o la vertigine / che ha confuso il sorriso” (Solitudine). Qui la parola si fa ardita e le immagini nascono come per una forza incontenibile che le suscita: “Avverto ancora il tuo abbraccio che mi avvolge / nella penombra, ove il tuo mistero / parla con figure a me sconosciute” (Dubbio); “Brancola a vuoto il desiderio” (Insieme). Passano gli anni, volgono le stagioni, ma sempre un’immagine torna ad affacciarsi alla mente e ride-
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sta visioni e pensieri che sembravano per sempre perduti, mentre invece ancora tornano a tormentare l’animo di chi è rimasto quaggiù a lottare contro le ombre. “Il tuo profilo insegue quei colori / che la chioma disperde” (Per Camaleonti); “Soffice nuvola dai capelli neri / racchiudi nel sorriso l’invito clandestino” (Autunno); “Fra le arrugginite maglie del tempo inseguo / ancora inutili motivi” (Risacca). Per Spagnuolo, che ancora la ricontempla, il tempo si è fermato per sempre nell’istante della sua morte, sicché la vita non gli offre più nuove gioie e nuovi portenti. Un motivo ricorrente in queste poesie è quello della solitudine, che sovente si affaccia con il suo terribile volto, come in Un treno in ombra, dove si legge: “Una finestra, una porta sempre chiusa / giocano senza quartiere alla solitudine”. Ed è un sentimento, questo, che ferisce profondamente il poeta, che non trova più chi lo sorregga durante la sua giornata terrena. “Mi curvo a scrutare il futuro, / un futuro che non concede speranze” (Futuro) dice Spagnuolo; ed è proprio questo venir meno delle speranze che lo getta nello sconforto e in una cupa tristezza. Il verso di cui Spagnuolo si avvale qui come altrove è, per lo più quello libero, da lui adoperato con disinvolta bravura e ricchezza di immagini che ne accrescono il significato. Sempre in lui inoltre la parola è scelta con cura, così da ottenere il massimo effetto. “Le mie sere hanno il ghiaccio della solitudine” (Le mie sere); “Forse il pianto libera dal naufragio / ora che non ho più nulla da chiedere” (Naufragio); “Ho posseduto i tuoi occhi” (Ritmi). Quella di Antonio Spagnuolo è inoltre una poesia percorsa da un’intima musica che la conduce e la reinventa ogni volta, dandole nuove pause e nuovo colore. Si legga, ad esempio, L’abbandono, così fluida e coerente sin dal movimento iniziale: “Lei conosce la mia sete, conosce il mio sussurro / impertinente e pungente, e mi ripete / gli sguardi innamorati di una volta”. Si leggano inoltre a tale proposito anche Intervalli e Insieme. Si noti come la prima, sia una poesia dall’immediato incipit: “Svaniscono nei giorni gli intervalli / delle illusioni”, mentre nella seconda è il ritmo l’elemento essenziale del verso, intimamente legato com’è al succedersi delle sue pause e delle sue riprese: “Brancola a vuoto il desiderio, / come candela e fiamma inaspettata”. Da due poesie di questo libro emerge inoltre la figura del padre del poeta, il quale in lui si rispecchia: “Abbandonai mio padre / … / ripeto nel suo volto amareggiato rovine di sete” (Ripetere) e “Ho gli occhi di mio padre, le palpebre socchiuse / nel crepuscolo grigio che si increspa” (Palpebre).
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Ed è significativo il fatto che qui l’immagine del padre, del quale Spagnuolo ha ora gli stessi anni, si accosti a quella della moglie con la quale ha trascorso i suoi giorni, sino al definitivo distacco da non molto avvenuto. Due care presenze che emergono dalle pieghe del tempo; due volti amati che la morte ha rapito al suo affetto, ma che nel fondo del suo animo vivono ancora. Liliana Porro Andriuoli
D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE BONUS PER LA SISTEMAZIONE A VERDE DI GIARDINI, TERRAZZE E BALCONI - Il Decreto Milleproroghe ha esteso, anche per il 2020, la possibilità di detrarre il 36% della spesa - massimo 5.000 euro e, perciò, fino a un totale da sottrarre di 1.800 euro - per la sistemazione di giardini, terrazze e balconi anche condominiali. Sistemazioni e miglioramenti che dovrebbero essere permanenti e che, in molti casi, invece, non lo sono. Si assiste spesso, infatti, a piantumazioni affrettate e rabberciate solo per ottenere il bonus e poi tutto viene abbandonato, divenendo, nello spazio di qualche mese, un ammasso di sterpi e desolazione. Abbiamo assistito alla piantumazione, in un giardino pubblico, nella primavera del 2019, di circa tremila alberelli, dei quali, a tutt’oggi, ne son rimasti vivi appena una ventina! Un indecoroso spreco di denaro pubblico e una presa per i fondelli del cittadino che al verde crede veramente. Stimolare e agevolare l’amore per il verde è opera lodevole, ma poi occorre che ci siano verifiche e controlli, perché, manco a dirlo, i primi ad essere in difetto non sono i singoli cittadini, ma gli Enti, a
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partire dai Comuni. Le aziende incaricate al verde pubblico spesso si rivelano incapaci perfino di eseguire le buche per metterci a dimora le piccole piante, le cui zolle vengono lasciate a pelo di superficie e il terreno intorno non sufficientemente compattato; così, basta una leggera folata per curvare o abbattere l’ alberello o la mano di un bulletto imbecille per svellerlo e buttarlo via. Gli alberi vanno messi a dimora a una giusta profondità e il terreno smosso all’intorno sufficientemente compattato (gli anziani contadini, ancora oggi, dopo aver messa a dimora una pianticella, sulla terra intorno al piccolo tronco vi ballano per un po’ con gli scarponi!); poi vanno innaffiati e curati almeno per un paio d’anni. Se tutto questo non viene effettuato, la battaglia per il verde è persa prima di incominciare e quasi tutti i soldi disonestamente sprecati. Lo Stato dovrebbe ripensare radicalmente la politica del verde pubblico sull’intero territorio nazionale. La nostra superficie forestale (16,3%) e boschiva (87,7%) è di appena una ventina di milioni di ettari; le regioni maggiormente verdi sono Trentino e Liguria; le più deficitarie, Puglia e Sicilia; ma basta
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viaggiare in macchina, in pullman o in treno, per le contrade d’Italia, specialmente dal Lazio in giù, per assistere a distese brulle e incolte, a montagne e colline desolate, quando potrebbero e dovrebbero essere coperti di verde come lo sono state tutte nel passato. Lo Stato, allora, investa direttamente in verde pubblico; trasformi queste lande in splendidi boschi e foreste. Darebbe, così, lavoro dignitoso a migliaia di giovani (altro che reddito di cittadinanza!) e ossigeno e bellezza a tutti i cittadini. Domenico Defelice (Dal quotidiano Il Messaggero, di mercoledì 15 gennaio 2020) *** Vico Faggi dieci anni dopo (1922-2010) Giornata di studi per un amico, che si è tenuta venerdì 10 gennaio 2020 presso il Museo Biblioteca dell’ Attore, in via del Seminario 10, 4° piano, Genova. A introdurre è stata Maria Novaro, presidente Fondazione Mario Novaro e sono intervenuti: Giuseppe Gazzola, Davide Puccini, Adriano Sansa, Maria Teresa Orengo, Eugenio Pallestrini, Eugenio Buonaccorsi, Roberto Trovato, Daniela Ardini. C’è stata la Inaugurazione della mostra dedicata a Vico Faggi, visitabile fino al 31 gennaio 2020. Riportiamo dal Comunicato Stampa: A dieci anni dalla scomparsa di Vico Faggi, nome d’arte di Alessandro Orengo, un convegno ricostruisce il ritratto artistico di un magistrato che ha trasferito la riflessione sull’uomo dalle aule del tri-
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bunale alle pagine della sua produzione letteraria. È stato drammaturgo, poeta, critico, traduttore dal greco e dal latino. (…) L’incontro, patrocinato dalla Regione Liguria, è organizzato dalla Fondazione Mario Novaro, con cui Faggi ha costantemente collaborato sin dal marzo 1989 e dov’è conservato il Fondo a lui dedicato. Dopo l’introduzione di Maria Novaro, presidente della Fondazione Mario Novaro, sono previsti gli interventi di Giuseppe Gazzola (Stony Brook University di New York), Davide Puccini (italianista, poeta e scrittore), Adriano Sansa (magistrato e poeta), Eugenio Pallestrini (presidente del Museo Biblioteca dell’Attore), Eugenio Buonaccorsi (Università di Genova), Roberto Trovato (Università di Genova), Daniela Ardini (fondatrice di Lunaria Teatro e regista) e di Maria Teresa Orengo, figlia di Vico Faggi e storica dell’arte. Ripercorrere la figura di Vico Faggi oggi, significa incontrare di nuovo un uomo nella cui molteplice attività si ritrova la coerenza del rigore morale, in cui alla forza giovane del partigiano che lotta per la libertà gradualmente si sostituisce l’ironia di chi ormai sa che chi combatte è sempre solo. Sarà Giuseppe Gazzola a tracciare il ritratto de “L’amico ligure”. L’evoluzione umana e artistica di Faggi è analizzata attraverso i numerosi testi teatrali, in cui si manifesta una spiccata tendenza all’impegno civile e alla riflessione storica: Ifigenia non deve morire (1963), Il Processo di Savona (1965), Cinque giorni al porto (in collaborazione con Luigi Squarzina, 1969), Rosa Luxemburg (in collaborazione con Luigi Squarzina, 1976). Alcuni di questi sono stati messi in scena dal Teatro Stabile di Genova, costituendo l’ossatura di una stagione d’oro ancora ricordata da molti spettatori per l’originalità e la coerenza con cui si ripercorrevano fatti determinanti nella storia di Genova e dei suoi cittadini. Ne parlano in particolare Eugenio Pallestrini (“La grande stagione del Teatro Stabile di Genova e il teatro di Vico Faggi”), Eugenio Buonaccorsi (“Vico Faggi, Luigi Squarzina e il teatro documento in Italia”) e Daniela Ardini (“Dalla tragedia al teatro di poesia”), mentre Roberto Trovato si dedica all’”Analisi dei teledrammi della serie Di fronte alla legge”). La produzione poetica è un altro aspetto fondamentale nel percorso creativo di Faggi, che ha pubblicato numerose raccolte tra cui Corno alle Scale (Milano, All’insegna del Pesce d’Oro, Scheiwiller, 1981; Prefazione di Sergio Solmi); Fuga dei versi (Milano, Garzanti, 1986; Prefazione di Lanfranco Caretti e Postfazione di Angelo Marchese); Poetando cose (Bellinzona, Istituto grafico Casagrande, 1990; Prefazione di Pietro Gibelli-
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ni); Signora d’Albuison (Genova, Edizioni S. Marco dei Giustiniani, 1996; Postfazione di Davide Puccini) e Svolte (Milano, All’insegna del pesce d’oro, Scheiwiller, 1998). Ne parlano Davide Puccini (“La poesia di Vico Faggi tra estetica ed etica”) e Adriano Sansa (“Un genio poliedrico tra gli amici di «Resine»”). Infine, sarà proprio la figlia Maria Teresa Orengo a mettere in luce il rapporto di Vico Faggi con gli amici pittori nell’intervento “Ut pictura poesis”. L’Autore ha amato l’arte sin dalla giovane età, segnata dalla scoperta di Pablo Picasso, e per tutta la vita ha collaborato con pittori amici o divenuti tali, con cui intesseva un dialogo in forma di versi per analizzare la creatività parallela dei disegni e delle parole. La sfida onesta di un uomo che si metteva in gioco alla pari persino nella veste di critico. *** UN SALUTO A POMEZIA-NOTIZIE (e-mail di martedì 7 gennaio 2020, da Emerico Giachery, da Roma) - Puntualissima, appena concluse la Festività, ecco Pomezia-Notizie! Ricca di orizzonti culturali, alberata come un giardino d'incontri e di vario intelligente conversare con care ricorrenti presenze che sentiamo sempre più amiche. Così avveniva tra statue antiche e magnolie in fiore ai tempi di Baldesar Castiglione e Giovan Battista della Casa. Pasolini si affaccia nelle pagine di Isabella Michela Affinito, e Isabella Michela si affaccia anche in immagine, con la sua generosa chioma, dalla pagina di Luigi De Rosa, il quale si è immerso nel bellissimo tema del rapporto tra poesia e natura, la cui bellezza esiste proprio in virtù della poesia. Ricordo, e lo ricordava anche De Rosa, un verso del caro e grande Caproni sulla bellezza del mondo prima dell'arrivo dell'uomo, e fa eco il "mio" Ungaretti, quando scrive "Come dolce prima dell'uomo / doveva andare il mondo". In realtà prima dell'uomo non esisteva "bellezza", che è concetto puramente umano. L'iguanodonte non saliva su una collina per ammirare la bellezza del paesaggio. Cercava una preda da mangiarsi e la preda a sua volta cercava di nascondersi, vivendo nel terrore di essere divorata. Quante cose ancora vorrei dirti sul numero di gennaio: giusto riconoscimento della poesia di Dainotti, che anch'io apprezzo e che conobbi infiniti anni or sono in occasione di una lectura Dantis, o del carissimo Crecchia. Ilia Pedrina sfolgora con una fervida presenza che spazia in ogni direzione. Echeggiano nomi a me cari: la grande Simone Weil, Rilke che sento così affine e che leggevo in giovani notti innamorate quando mi giungeva la voce del vento. Vorrei esser presente non soltanto come lettore a questo coro, e ti invio un testo. Se ti pare lungo,
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posso mandartene uno più breve. A te un abbraccio e a Mattia uno specialissimo bacetto datato 2020. Emerico *** GLI ITALIANI E L’ARGENTINA - Mercoledì 15 gennaio dalle ore 16.30 alle ore 18.00, presso l’Auditorium del Galata Museo del Mare ad ingresso libero, si è tenuto l’incontro con il prof Tullio Pagano dal titolo “L’alba del mondo e il ringhio degli emigranti: gli italiani alla scoperta dell’ Argentina”. L’appuntamento è stato arricchito dalla proiezione delle immagini fotografiche di Anna Maria Guglielmino. L’iniziativa è stata fortemente voluta dalla Fondazione Mario Novaro di Genova in collaborazione con l’Istituzione Mu.MA Musei del Mare e delle Migrazioni. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento l’ Argentina si profila come una risorsa importantissima per la nazione che sta nascendo. La diaspora italiana verso il Rio de la Plata rappresenta un’ alternativa più concreta e proficua rispetto al sogno coloniale, destinato a fallire. Attraverso i resoconti e le immagini dei viaggiatori italiani tra Otto e Novecento la presentazione cerca di far luce su un periodo della storia dei due paesi caratterizzato da intensi conflitti ma anche da vigorose utopie. Tullio Pagano insegna lingua e letteratura italiana presso il Dickinson College in Pennsylvania. Studioso del Naturalismo e Modernismo, a cui ha dedicato un volume intitolato EXPERIMENTAL FICTIONS (1999), si è occupato in seguito della rappresentazione del paesaggio mediterraneo e di quello ligure in particolare, culminato in un altro libro con il titolo THE MAKING AND UNMAKING OF MEDITERRANEAN LANDSCAPE (2015). Da alcuni anni studia la letteratura che ruota attorno al fenomeno della diaspora italiana in Argentina. *** POMEZIA-NOTIZIE SEMPRE APPREZZATA - Riceviamo, il 10 gennaio, da Caserta, una email di Salvatore D’Ambrosio: “carissimo Domenico, felice inizio di questo 2020, letto come si usa in questo momento. Con le cifre a due a due. Felice inizio, dunque, con la bella copertina che hai voluto dedicarmi, in seguito all'intervista della Affinito. Non posso che fraternamente ringraziarti. Come ringrazio Isabella Michela per l'arguzia del suo lavoro, e per aver voluto dedicare al mio poemetto Dieci x Dieci una recensione, che troviamo in questo primo numero della rivista. Numero sempre pieno di cose stimolanti, come gli scritti della Pedrina, dai quali nasce un grande desiderio di ulteriormente colloquiare sui vari temi, che
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cui ai primi tre è stata conferita la targa, e ai successivi due il Diploma di merito, i quali hanno letto un passo delle loro opere. Le Sezioni a Concorso erano: Raccolta di poesie o poemetto; Poesia singola; Poesia in vernacolo; Racconto o novella; Saggi critici. I nomi dei primi cinque premiati per ogni Sezione sono stati - come del resto la stessa Giuria – tenuti nell’anonimato e all’oscuro del loro ordine in graduatoria, per cui, per tutti, è stata una vera sorpresa fino all’ultimo! La Giuria ha molto apprezzato, a suo tempo, che fossero arrivate opere non solo in così grande quantità, ma anche di ottima qualità. Sono stati assegnati anche due Premi speciali a due scrittori giallisti: Fabrizio Santi e Mauro Di Giorgio. La manifestazione, che avrebbe potuto essere un po’ noiosa, invece, è risultata scorrevole e piacevole. Auguriamo che questo Premio, con la successiva pubblicazione in una rivista specialistica, sia un incentivo in più per questi validi Autori ad affermarsi nel mondo della buona letteratura. Un invitante buffet, affiancato dalla Direttrice e dal personale del Museo, e, all’uscita, le luminarie di Piazza Indipendenza hanno concluso l’Incontro in bontà e in bellezza. Primi cinque classificati (in ordine dal 1° al 5° ) con relative provenienze. Sezione A "Raccolta di poesie o poemetto": Forme minute del dono, di Giancarlo Stoccoro, Spino D'Adda - Cremona; Il ventaglio di madreperla, di Marcello Fico Stroncone - Terni; Transiti, di Elisabetta Sancino, Inzago (Milano); Gesti primi di Liliana Paisa, Fabriano; Uomini, di Davide Rocco Colacrai, Terranuova Bracciolini (Arezzo). Sezione B "Poesia singola": 1) Soffitto con travi a vista, di Marco Senesi, Genzano di Roma; 2) Voci di paese, di Antonella Riccardi, Roma; 3) Edipo, opera non abbinata all'autore; 4) Un porto sognato (pari merito), di Giovanni Villa, Bitti (NU); 5) Carotaggio (pari merito con n. 8 e 9), di Giulia Cordelli, Assisi. Sezione C "Poesia in vernacolo": 1) Donna Olimpia, di Ennio Berenato, Pomezia; 2) A culmartei e birulù, di Angelo Bergomi, Rovato (BS); 3) a Il classico e bel diploma che è stato assegnato fino alla 27 Camina (pari merito), non abbinaedizione, cioè fino a quando a gestirlo è stato il nostro ta; 3) Dò volde (pari merito), di Michele Aprile, di Adelsia (Bari); mensile. Perché non continuare a utilizzare questo logo? 4) Come sur Titanic, di Lucia Fumensilmente si propongono all'attenzione di noi lettori. Ma abbiamo una sola testa e solo due mani, per cui siamo obbligati a fare scelte... (…). Un caro abbraccio e a presto Salvatore” *** a CERIMONIA CONCLUSIVA 29 EDIZIONE PREMIO CITTÀ DI POMEZIA - Il 7 dicembre 2019, a Pomezia, presso il Museo storico del ‘900, si è tenuta la cerimonia di Premiazione della 29^ edizione del Concorso Letterario internazionale “Città di Pomezia”, da due anni organizzato dal Centro Studi Sisyphus – Istituto Culturale del Comune – diretto dalla dott.ssa Fiorenza Castaldi facente parte, con altri sei membri, della Giuria presieduta dal prof. Roberto Maggiani. Il Sindaco di Pomezia, Adriano Zuccalà, insieme con la vicesindaco Simona Morcellini, hanno dato il saluto iniziale di benvenuto al numerosissimo pubblico formato: dai concorsisti premiati e non, provenienti da quasi tutte le Regioni d’Italia (circa 280 avevano partecipato al Concorso), dai relativi accompagnatori, da cittadini di Pomezia e dintorni, informati dalla Direzione e dalle varie comunicazioni pubblicitarie. La dott.ssa Castaldi, da subito, ci ha tenuto a ricordare che questo Premio letterario è stato fondato dal poeta-scrittore-giornalista Domenico Defelice il quale, nel tempo, ha visto tra concorrenti e vincitori, illustri nomi di letterati italiani e stranieri. Il prof. Massimiliano Pecora – anch’egli partecipante della Giuria, e redattore delle accurate motivazioni critico/letterarie sui vincitori – ha condotto brillantemente tutta la manifestazione, chiamando i singoli Autori – per la maggior parte giovani! - di
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sco, di Sezze (LT); 5) Acqua, di Nicoletta Chiaromonte, Roma. Sezione D "Racconto o novella": L'ascensore, di Alessandro Bindi, Firenze Greve in Chianti (Firenze); Mega-ragni, di Paco Ranalli, Ardea (RM); Mater caritatis, di Vittorio Casillo, Pieve Santo Stefano (Arezzo); Mondo piccolo, non abbinata; Aurora triste, di Ugo Criste, Genova. Sezione E/F "Saggio critico": 1) Condannati a vita, di Pellorca Giorgia, Cisterna di Latina; 2) Uguaglianza di genere, non abbinata; 3) La poesia del tutto, di Antonio Villa, Formia (LT); 4) Con gli occhi di un bambino, di Caterina Carloni, Pomezia (RM); 5) Archeologia nascosta al Campo Verano: il cimitero di Ciriaca, di Roberto Ragione, Roma. Maria Antonietta Mòsele *** ALTO RICONOSCIMENTO A IMPERIA TOGNACCI - In occasione della trentottesima edizione del Premio “Superga”, che si è svolto a Torino in data 1 dicembre 2019, alla scrittrice Imperia Tognacci è stato conferito il Riconoscimento “Personalità” per la sua proficua attività letteraria, con la seguente motivazione: nella vasta pubblicistica dedicata alla densa, intensa e proficua attività letteraria di Imperia Tognacci, iniziata nel 1996 con la collaborazione alla rassegna letteraria “La Procellaria”, diretta per oltre 40 anni da Francesco Fiumara, si è aggiunta questa ulteriore esegesi curata da Francesco D’Episcopo dal titolo “La poesia di Imperia Tognacci”, scrittrice di cui avemmo modo di ravvisare le doti già in occasione dell’uscita dei suoi primi libri “Giovanni Pascoli. La strada della memoria”, stesura in prosa dedicata al poeta nato nel 1855 a San Mauro di Romagna, dove è venuta alla luce la stessa Tognacci, e “Traiettoria di uno stelo”, che ufficializzava il suo felice debutto come poetessa e sulla cui scia si sarebbero collocati nel tempo “La notte del Getsemani”, “Natale a Zollara”, “Odissea pascoliana”, “La porta socchiusa”, “Il prigioniero di Ushuaia”, “Il lago e il tempo”, “Il richiamo di Orfeo”, “Nel bosco, sulle orme del pastore”, fino a “Là dove pioveva la manna”. Contemporaneamente, dalla sua fertile creatività sarebbero scaturiti i romanzi “Non dire mai cosa sarà domani”, “L’ombra della madre”, “Anime al bivio”, cui nel 2017 è stato assegnato a Torino il Premio “Superga”. Ai saggi Analitici riguardanti la sua militanza in campo culturale si è aggiunto quello innanzi citato, avente come sottotitolo “Inquietudine dell’infinito”, articolato, tripartito nelle sequenze “La matrice pascoliana”, “Le singole sillogi”, “La svolta poematica” da intendersi come consequenziale prosecuzione dell’esauriente trattazione critico-biografica del 2014 “Imperia Tognacci e i suoi poemi in poesia e
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in prosa. Saggio monografico sull’opera della poetessa e narratrice di San Mauro Pascoli”.
LIBRI RICEVUTI NICOLA GRATTERI / ANTONIO NICASO La rete degli invisibili - La ‘ndrangheta nell’era digitale: meno sangue, più trame sommerse - Mondadori, 2019 - Pagg. 194, € 18,00. Nicola GRATTERI è uno dei magistrati più esposti nella lotta contro la ‘ndrangheta. Ha indagato sulla strage di Duisburg e sulle rotte internazionali del traffico di droga. Insieme ad Antonio Nicaso ha pubblicato numerosi bestseller: Fratelli di Sangue (2007); La malapianta (2010); La giustizia è una cosa seria (2011); La mafia fa schifo (2011); Dire e non dire (2012); Acqua santissima (2013); Oro bianco (2015); Padrini e padroni (2016); Fiumi d’oro (2017); Storia segreta della ‘ndrangheta (2018). Antonio NICASO, storico delle organizzazioni criminali, è uno dei massimi esperti di ‘ndrangheta nel mondo. Insegna, fra l’altro, Storia sociale della criminalità organizzata alla Queen’s University. Ha scritto oltre 30 libri, tra cui alcuni bestseller internazionali. Da “Bad Blood” (2017) è stata tratta una serie televi-
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siva di grande successo. È autore, con Maria Barillà e Vittorio Amaddeo, di “Quando la ‘ndrangheta scoprì l’America”. ** ADRIANA PANZA - Katrina - Poesie, Prefazione di Antonio Vanni - Edizioni EVA, 2019 Pagg. 66, € 12,00. Adriana PANZA è nata ad Arpino e risiede ad Isola Liri (FR), dove ha insegnato per diversi anni. Appassionata di pittura, fotografia, teatro, poesia. Ha ottenuto attestati di merito targhe e medaglie in concorsi poetici, mostre d’arte e manifestazioni varie e le sue poesie sono apparse in antologie e riviste. Ha pubblicato: Briciole (2006), Tra storia e vita (2014), Il sogno e la realtà (2015), Il coraggio di vivere (2016), Insieme (2017). ** GIANNI IANUALE (a cura di) - Nella Terra degli Angeli - Nelle bandelle, nota di Biagio Di Meglio; Premessa di Gianni Ianuale, Prefazione di Carmine Iossa - Tra copertina e interno, quasi un centinaio di foto - Iris Edizioni, 2019 - Pagg. 192, s. i. p.. Sono antologizzati: Gabriele Affini, Isabella Michela Affinito, Antonio Arpaia, Rita Bongiorno, Mario Casotti, Enrico de’ Martino, Rosa Maria Dolcimascolo, Silvana Dolcimascolo, Salvatore Gazzara, Silvio Giudice Crisafi, Giovanni Antonio Gravina, Clara Iorlano Guida, Mauro Lauria, Gianni Lembo, Barbara Lo Fermo, Ausilia Loffredo, Anita Marchetto, Gianluigi Martone, Rosalia Anna Masi, Maria Antonietta Milisenda, Assunta Ostinato, Tina Piccolo, Eli Sammartino, Francesco Terrone, Augusta Tomassini, Amelia Valentini, Silvana Vercesi, Caterina Voucaki. ** GIUSEPPE NAPOLITANO - Tutte le parole Volturnia Edizioni, 2018 - Pagg. 104, € 12,00. Giuseppe NAPOLITANO è nato a Minturno il 12 febbraio 1949. Laureato in Lettere a Roma nel 1972, ha insegnato per 33 anni, quasi sempre nel Liceo Scientifico. Sposato con Irene Vallone, vive a Formia. Hanno una figlia che ne vale tre: Gabriella Nicole Valeria. Partecipa da anni a importanti Festival internazionali in Europa e nel Nord Africa. Tradotto in numerose lingue. Questo volume è la sua 97a pubblicazione (elenco completo alle pagine 97 - 98 - 99). ** IRENE VALLONE - Nuovo raccolto - Poesie, Volturnia Edizioni, 2019 - Pagg. 84, € 12,00. Irene VALLONE, nata a Zurigo nel 1968, vive a Formia. Laureata in Economia, ha sempre avuto interesse per la Letteratura in generale, la poesia e il teatro (ha già ottenuto significativi riconosci-
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menti letterari e teatrali). Presente in alcune antologie, edite anche all’estero. Ha tradotto dal francese piccole raccolte di Nicole Stamberg e Georges Drano. Ha pubblicato: Attraverso (2009), Un niente di tre (2010), Negli occhi degli altri (2014). *** GABRIELLA NICOLE VALERIA NAPOLITANO - I rovi, la mora, lo specchio, il camminare - Poesie, note di presentazione di Giuseppe Napolitano e Ida Di Ianni - Volturnia Edizioni, 2018 Pagg. 64, € 12,00. Gabriella Nicole Valeria NAPOLITANO è nata a Gaeta (Lt) il 25 aprile 2002 e vive a Formia (Lt). Frequenta il quarto Liceo Scientifico (L. B. Alberti di Marina di Minturno) ed è alla sua seconda pubblicazione. Segue corsi di canto e suona il pianoforte. Attrice nella compagnia “Imprevisti e Probabilità” di Formia, con la quale ha vinto diversi premi come attrice non protagonista e attrice giovane, si dedica al teatro fin da quando era bambina e partecipa al corso di formazione teatrale di ambito regionale FITALAB. Legge tantissimo e scrive. Ha pubblicato: Attimi e Gabriellate (2015). ** BRUNO VESPA - Perché l’Italia diventò fascista (e perché il fascismo non può tornare) Mondadori, 2019 - Pagg. 350, € 20,00. Bruno VESPA è nato a L’ Aquila nel 1944, ha cominciato a 16 anni il lavoro di giornalista e a 24 si è classificato al primo posto nel concorso che lo ha portato alla Rai. Dal 1990 al 1993 ha diretto il Tg1. Dal 1996 la sua trasmissione “Porta a porta” è il programma di politica, attualità e costume più seguito. Per la prima volta nella storia, vi è intervenuto un papa, Giovanni Paolo II, con una telefonata in diretta. Tra i premi più prestigiosi, ha vinto il Bancarella (2004), per due volte il SaintVincent per la televisione (1979 e 2000) e nel 2011 quello alla carriera; nello stesso anno ha vinto l’ Estense per il giornalismo. Fra i suoi più recenti volumi pubblicati da Mondadori ricordiamo: Storia d’ Italia da Mussolini a Berlusconi; Vincitori e vinti; L’Italia spezzata; L’amore e il potere; Viaggio in un’Italia diversa (2008); Donne di cuori (2009); Nel segno del Cavaliere. Silvio Berlusconi, una storia italiana (2010) Il cuore e la spada (2010); Questo amore (2011); Il Palazzo e la piazza (2012); Sale zucchero e caffè (2013); Italiani voltagabbana (2014); Donne d’Italia. Da Cleopatra a Maria Elena Boschi storia del potere femminile (2015), C’ eravamo tanti amati (2016), Soli al comando. Da Stalin a Renzi, da Mussolini a Berlusconi, da Hitler a Grillo. Storia, amori, errori (2017), Rivoluzione. Uomini e retroscena della Terza Repubblica (2018).
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TRA LE RIVISTE ILFILOROSSO - Semestrale di cultura diretto da Luigina Guarasci, responsabile Valter Vecellio via Dalmazia 11 - 87100 Cosenza - E-mail: info.ilfilorosso@gmail.com - Riceviamo il n. 67, luglio-dicembre 2019. In copertina, a colori “Treno in inverno”, di Mariateresa Aiello. Ecco l’indice: Testamento di una emigrante, di Annalisa Saccà; Diario del 72° Festival del cinema internazionale di Locarno, di Valter Vecellio; Lo sguardo alla città di W. Wordsworth e W. Blake: pennellate di poesie, di Maria Virginia Basile. Poesie di: Francesco Graziano, Enzo Ferraro, Ferruccio Brugnaro, Lella Buzzacchi, Franco Araniti, Maria Carmela Errico Stancati, Simone Francesco Mandarini, Marco Angelo De Paola, Nazareno Loise, Leonardo D’Ugenta, Doris Bellomusto, Mattia Gallo, Panajotis Dimu, Giovanni Maurizi, Gina Guarasci. Sulla poesia di Giovanni Maurizi, di Salvatore Jemma; La notte, meglio in compagnia, di Aldo Celico; 1969-2019: cinquant’anni dopo lo sbarco sulla luna, di Emilio Tarditi. Le recensioni sono firmate da: Michele Lalla, Franco Araniti, Marialuigia Campolongo, Inga Conti, Vito Bonito, Lucia Bonacci, Ida Martucci, Pierpaolo Cetera e Antonio R. Daniele.
LETTERE IN DIREZIONE (Ilia Pedrina, da Vicenza) Carissimo, quante novità in questo 2020 appena iniziato! La tua bella creatura di carta è in rete fin dal Capodanno, festa per tutti, si, ma ben prima dei concerti in grande stile a Vienna, a Venezia e chi sa mai ancora dove. Un vero ottimo auspicio! Così ti penso laborioso e circondato dai tuoi splendidi nipotini. Una pubblica promessa: quando nascerà la vostra prima bambolina, qui da Vicenza ti manderò per lei una sorpresa unica nel suo genere. Ieri, domenica 12 gennaio mi hai scritto in email con schietto e sincero, commovente orgoglio:
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“... Sto lavorando al numero di febbraio e nel contempo alla correzione delle bozze di un volume antologico che uscirà bilingue (inglese-italiano) a marzo in Cina e che conterrà 10 poeti cinesi con i miei commenti già apparsi sulle pagine di Pomezia-Notizie. In verità doveva essere trilingue (compreso il cinese) ma si è soprasseduto alla terza lingua, pur essendo la nazione in cui il lavoro apparirà, per non renderlo farraginoso...”. Allora io gioisco con te perché questo tuo nuovo lavoro di interpretazione critica attraverserà tutta l'Eurasia per arrivare alla Pechino di Xi Jinping e toccherà anime d'ogni età, nel loro mondo, affascinando l'immaginario ed aprendo orizzonti di incredibile portata spirituale. Si, perché anche se rigorosissime sul piano dell'ubbidienza alla gerarchia e del rifiuto dell'individualismo di stampo anarchico, queste genti hanno una profonda spiritualità, vissuta nel silenzio di uno sguardo verso l'infinito o nell'intimità della preghiera: i 10 poeti, che hai tradotto con tanto delicato e consapevole rispetto, si sentiranno carichi di un impegno etico fermamente convincente e dovranno rispondere a tutte quelle infinite aspettative che si verranno a creare, dato che il
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poeta, in ogni tempo e luogo della Terra, è colui che interpreta, per tutti, il canto della vita, spesso proprio nel suo versante di fragile caducità. È nella natura dei corpi viventi provare stanchezza fisica, ma la stanchezza spirituale, nel poeta, viene sublimata attraverso la parola e la carica poietica che essa provoca nell'immaginario: così anche tu hai nelle tue corde il prezioso vigore della tua creatività e di tutti quelli che ti sono intorno, nel famigliare e, nelle circonferenze successive, nel sociale, tra poeti, scrittori, Amici ed Amiche che ti danno la carica, come il tuo Zhang Zhi, il Diablo! Tu, come poeta, ti carichi di autoerotismo sublimato in immagini e versi, e nel contempo, come operatore culturale ti dedichi all'altro ed alla sua forma mentale, resa estetica e condivisibile attraverso la parola. Hai vigore ed apertura dinamica verso questo nuovo traguardo, perché tantissimi credono in te e nel tuo prezioso contributo alla diffusione della cultura e della conoscenza, a confermare e confortare dentro di te quella risposta alle aspettative che qualifica meglio ogni tua motivazione. Così inciampo nel tuo PAGINE PER AUTORI CALABRESI DEL NOVECENTO, con Prefazione di Angelo Manitta, dell'Accademia Internazionale il Convivio, edito nel 2005: per spiegare meglio il tuo impegno di letterato, il prof. Manitta cita Plutarco e sottolinea: “... Si tratta, infatti, di profili critici, nati da una ricerca rigorosa e spesso da un contatto umano diretto, per offrire un quadro di quegli autori che hanno segnato la vita culturale di una regione...” (A. Manitta, Prefazione a D. Defelice, cit. pag. 5). Allora dalla tua regione originaria a Pomezia e ora alle vaste terre di Cina, il canto di questi giovani poeti e splendide poetesse ti spinge a tradurne le vibrazioni, anche se da versione intermedia quale è quella inglese di Zhang Zhizhong: moduli realtà che nella lontananza delle emozioni ravvisano il comune denominatore del ritmo. Mi prendo il bel lavoro del prof. Tito Cauchi DOMENICO DEFELICE OPERATORE CULTURALE MITE E FEROCE, dell'Ed. Totem, del
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2018, lui amico devoto, pensoso, dal calore delle terre di Sicilia nella mente e nelle vene, dallo sguardo vivace e curioso, dall'intenso bisogno etico di offrire una profonda testimonianza che attraversa l'interpretazione, in cinque momenti ben articolati, del tuo percorso poetico e critico. E vado subito ad una tua lettera a lui: “Caro Tito, fai male a considerarmi più del necessario, più di quanto effettivamente valgo. Non ho scritto niente di eccezionale, né di trascendentale. Ho solo fatto sempre con amore ciò che ho voluto fare. La ricetta è di Georgelin e sono sicuro che anche tu la applichi. Domenico 19 maggio 2011” (D. Defelice, in T. Cauchi, cit. pag. 318). Così l'amore, che ha il ritmo del respiro, precisa meglio, con questo tuo dire in spontaneità di scrittura, quel denominatore comune di cui parlo e che determina l'efficacia di ogni nostra iniziativa. Si, l'amore. E mi arriva, da non so dove, Gianni Guadalupi, a portarmi con sé nel suo viaggio che scopre, in un volumone (37 x 27 x 5, pp. 336) LA CINA RIVELATA L'OCCIDENTE INCONTRA IL CELESTE IMPERO, facendomi sognare ad occhi ben aperti, per riflettere su ogni tappa che, da
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vero esperto, individua nel tracciare storicamente lo sviluppo di questa imponente civiltà: foto stupende come quella del piccolo Ultimo Imperatore Puyi, seduto sulla roccia, del 1912, mentre posa con Long Yu, quarta da destra, una delle quattro vedove di Guangxu, e con alcune altre dame di compagnia (Copyright: The Palace Museum, Pechino), protagonista storico che ha catturato l'attenzione del regista B. Bertolucci, così proprio non ha resistito e ne ha tratto un film di valore. E Leprino? Francesco Leprino, del quale hai scelto una foto bellissima, che ti viaggia da Nord a Sud d'Italia a riportare in vita ambienti e
musiche, amori e sfide pericolose di Alessandro Stradella? Lui, che nel suo lavoro musicologico ti cita Adorno e Benjamin, Foucault e Boulez, Grisey e Pestalozza, J. Attali e Jürg Stenzel, Xenakis e il drammaturgo Heiner Muller come se li avesse appena salutati dopo una lunga chiaccherata su 'Der Streit zwischen Phoebius und Pan' di J. S. Bach? Quel Bach che non si tira certo indietro e dice “Il flauto di Pan porta diletto alla foresta e alle ninfe; egli rappresenta una musica del piacere, facile da comprendere subito e da tutti... Ma l'arte di Febo unisce la bellezza della melodia alla nobiltà e profondità d'ani-
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mo; è degna di soddisfare gli dèi...” (F. Leprino, L'orecchio del mercante, cit. pag. 171)? Questa è la magia che ammalia nelle mie ricerche e così accade anche per la Poesia! Si, sono vulcanica, come sostiene il nostro caro prof. Giachery, ma anche estremamente razionale e determinata, con un piede nel mio tempo, nei suoi guasti e nelle sue luci, quali mi appaiono infinite, quando investigo i testi di dom Franco Mosconi, carichi di speranza e di misericordiosa passione, e l'altro nei millenni che mi hanno preparato, nei popoli anche lontanissimi da me, come quello Cinese, ma dentro la mia stessa specie, con le loro culture e tutte le loro differenze, attraverso la spiritualità che si tramanda in silenzio, attraverso le libere scelte che oltrepassano la necessità, attraverso le tensioni dell'anima che rendono pieno spessore alla vita, anche nel soffrire, se occorre, come il canto dal lirismo in frizione del Diablo sta a testimoniare! Complimenti dunque ancora, con tutto il cuore. Ilia Ilia Carissima, L’antologia dei poeti cinesi dovrebbe uscire il prossimo marzo. La versione cinese era stata da me richiesta, ma Zhang Zhi ha deciso diversamente. L’edizione sarà bilingue, inglese-italiano, ma, a fare i conti, più italiano che inglese, visto che, in inglese, ci saranno le poesie e le brevi biografie, mentre, in italiano, le poesie tradotte e i miei saggetti critici. Io, però, ho fiducia negli uomini e nelle imprese e sono certo che, più in là, si potrà fare la versione in lingua cinese, giacché sarà interesse degli stessi autori antologizzati far conoscere, nella loro lingua, i miei interventi critici. L’antologia doveva avere, come titolo, “Imperial Poets”: “I have edited “Imperial Poets”, a collection of ten contemporary Chinese poets’ poems, biographies and your brilliant essays”, ci scriveva Zhang Zhi il 10 gennaio scorso. Gli abbiamo suggerito di mutare il titolo e l’amico non ha avuto diffi-
POMEZIA-NOTIZIE
Febbraio 2020
coltà ad accettare: “I have changed the title to: We Are All Waiting to Unmask Ourselves” - ci confermava il 17 dello stesso mese -, cioè, il titolo definitivo sarà: “Stiamo tutti aspettando di smascheraci”. È doveroso ricordare che Zhang Zhi conduce una delle più importanti riviste: The World Poets Quarterly, bilingue: inglesecinese, e che ha curato e cura preziose antologie, come World Poetry Yearbook 2013 (e la successiva del 2014); sia sulla rivista, che nelle antologie, anche su nostro interessamento, sono apparsi tanti nostri validissimi poeti, tra i quali: Tito Cauchi, Corrado Ca-
labrò, Elio Andriuoli, Elisabetta Di Iaconi, Salvatore D’Ambrosio eccetera. Ti sono grato, Carissima, di aver recensito il volume di Gianni Guadalupi (su questo numero, alle pagine 44/45), perché è un bell’esempio dell’interesse dell’Italia verso la letteratura cinese. Gli scambi culturali tra Italia e Cina e gli studi sui reciproci autori son destinati a crescere esponenzialmente nei prossimi anni; l’Italia possiede nel mondo almeno il 70% del patrimonio artistico-culturale e la grande Nazione Cinese sta facendo passi da gigante in tutti i campi: economico, sociale, scientifico, con la cre-
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scita, anche qui esponenziale, della fame, della voglia di cultura. L’Italia non vuole, né può sottrarsi a una generosa e diversificata collaborazione. Pomezia-Notizie l’ha capito e già l’attua ben volentieri. Domenico
AI COLLABORATORI Inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione) preferibilmente attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è gradito un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (copia cartacea) Annuo, € 50.00 Sostenitore,. € 80.00 Benemerito, € 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia, € 5,00 (in tal caso, + € 1,28 sped.ne) Versamenti intestati a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 N076 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________