50ISSN 2611-0954
mensile (fondato nel 1973) Direzione e amministrazione: Via Fratelli Bandiera, 6 - Tel. 06/91.12.113 - 00071 POMEZIA (Roma) - Fondatore e Direttore responsabile: DOMENICO DEFELICE – e-Mail: defelice.d@tiscali.it – Parziale distribuzione gratuita (solo il loco) – Attività editoriale non commerciale (art. 4, D.P.R. 26.10.1972 n. 633 e succ.ve modifiche) - Per abbonamenti: annuo, € 50; sostenitore € 80; benemerito € 120; una copia € 5.00) e per contributi volontari (per avvenuta pubblicazione), versamenti sul c/c p. 43585009 intestato al Direttore - Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 213/93 del 23/5/1993 - La collaborazione, sempre gratuita, in parte è libera, in parte è per invito. Ogni autore si assume la responsabilità dei propri scritti - Manoscritti, fotografie e altro materiale, anche se non pubblicati, non vengono restituiti - É ammessa la riproduzione, purché se ne indichi la fonte. Per ogni controversia, foro competente è quello di Roma.
Anno 28 (Nuova Serie) – n. 3
- Marzo 2020 -
€ 5,00
UN PESSOA, TANTI PESSOA... di Luigi De Rosa
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ERNANDO Pessoa, considerato uno tra i più grandi poeti del Novecento insieme al cileno Pablo Neruda, nacque a Lisbona il 13 giugno 1888, e sempre a Lisbona morì, il 30 novembre 1935, a soli 47 anni, col fegato devastato dalla cirrosi per abuso di alcoolici. Insieme all'ortònimo (Pessoa, appunto) “morirono” anche quei circa quaranta eterònimi, cioè poeti creati, inventati nel corso degli anni, dallo stesso Pessoa, nella sua inquietudine e perenne scontentezza. Ciascuno con una propria personalità e un proprio stile, un proprio curriculum ed una propria produzione letteraria. Ciascuno con una propria sensibilità ed una propria visione del mondo e della vita, con aspirazioni diverse da quelle di Fernando Pessoa e di tutti gli altri eterònimi. Nulla a che vedere con gli pseudònimi ciascuno dei quali avesse un nome diverso ma fosse l'espressione vivente e fedele, anche se nel mondo della finzione e
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All’interno: Incontri d’un interprete, di Emerico Giachery, pag. 5 Allora scrivo, di Giuseppe Leone, pag. 7 L’ombra di Dante, di Ilia Pedrina, pag. 9 Guido Zavanone, di Elio Andriuoli, pag. 12 Inseguendo le orme poetiche di Crecchia, di Anna Aita, pag. 14 Isabella Michela Affinito, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 16 Viaggio panico nella Costellazione di Crecchia, di Domenico Defelice, pag. 18 Due lettere, di Lorenzo De Micheli e Patrizia De Rosa, pag. 21 Una serata al Centro Pannunzio, di Leonardo Selvaggi, pag. 22 “Digli sempre no!”, di Ilia Pedrina, pag. 25 Premio editoriale Il Croco (Regolamento), pag. 27 Notizie, pag. 41 Libri ricevuti, pag. 45 Tra le riviste, pag. 45
RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (Nuovo Raccolto, di Irene Vallone, pag. 28); Isabella Michela Affinito (Sensazioni di una fanciulla, di Manuela Mazzola, pag. 29); Anna Aita (La poesia di Imperia Tognacci Inquietudine dell’infinito, di Francesco D’Episcopo, pag. 30); Elio Andriuoli (Sulla soglia del domani, di Francesco D’Episcopo, pag. 31); Tito Cauchi (Sorsate ristoratrici, di Vittorio “Nino” Martin, pag. 32); Roberta Colazingari (Sorsate ristoratrici, di Vittorio “Nino” Martin, pag. 33); Giuseppe Giorgioli (Sorsate ristoratrici, di Vittorio “Nino” Martin, pag. 33); Giovanna Li Volti Guzzardi (Sorsate ristoratrici, di Vittorio “Nino” Martin, pag. 34); Manuela Mazzola (Requiem for Gina’s Death and other Poems, di Fabio Dainoti, pag. 34); Pasquale Montalto (Michele Frenna nella sicilianità dei mosaici, di Tito Cauchi, pag. 35); Ilia Pedrina (Storia dell’epistolario leopardiano, di Christian Genetelli, pag. 37); Laura Pierdicchi (Sensazioni di una fanciulla, di Manuela Mazzola, pag. 37); Liliana Porro Andriuoli (Viaggio interiore, di Isabella Michela Affinito, pag. 38).
Lettere in Direzione (Béatrice Gaudy, Parigi), pag. 46
Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Corrado Calabrò, Rocco Cambareri, Antonio Crecchia, Domenico Defelice, Ada De Judicibus Lisena, Salvatore D’Ambrosio, Béatrice Gaudy, Antonia Izzi Rufo, Manuela Mazzola, Wilma Minotti Cerini, Gianni Rescigno, Leonardo Selvaggi
della letteratura, dello stesso Fernando Pessoa, sempre irrequieto, sempre insoddisfatto. No, gli eterònomi erano creati, immaginati, seguiti passo passo da Pessoa ma erano differenti da lui. E ciascuno di loro era se stesso, e basta. Una fatica improba per chiunque, ma non per Pessoa, se si pensa
che a soli sei anni di età, ancora bambinetto, aveva già creato un certo Chevalier de Pas (per poter scrivere lettere a se stesso...!). Il 30 novembre 1935 “morirono”, quindi (o in realtà non sono morti mai?) anche Alvaro de Campos, Ricardo Reis, Alberto Caèiro, Alexander Search, e perfino quel
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certo Chevalier de Pas...Dal 1942 sarebbero uscite le “poesias” di De Campos, le “odes” di Reis, i “Poemas” di Caeiro. Ad Alvaro de Campos fa dire: “Non sono niente./Non sarò mai niente/ Non posso voler essere niente/ A parte questo ho dentro di me tutti i sogni del mondo.” E lui stesso, quasi a schermirsi, aggiunge: “Dio non ha unità. Come potrei averla io?”. E ancora: “Mio Dio, mio Dio, a chi assisto? Quanti sono io? Chi è io? Cos'è questo intervallo che c'è tra me e me?” Tutti i versi scritti nella sua vita, dal primo all'ultimo, erano stati scritti in inglese. Perché quando aveva solo sette anni era stato portato in Sud Africa dalla madre che, rimasta vedova, si era risposata col console di Portogallo a Durban, in Natal. A 17 anni aveva fatto ritorno a Lisbona, ma intanto aveva ricevuto una perfetta educazione britannica, e parlava e scriveva l'inglese meglio del portoghese. Tanto che si servì dell'inglese anche e soprattutto per svolgere la sua attività lavorativa, quella di corrispondente commerciale in lingue estere (insieme al francese) ma la sua produzione letteraria è quasi tutta in inglese, se si fa eccezione per Mensagem, unica silloge curata di persona e pubblicata da Pessoa, tutta in portoghese. Ma la sua produzione verrà comunque pubblicata, tutta, dopo la sua morte. E ci si accorgerà di quanto avesse scritto durante la vita, in tanti campi diversi. Era un poligrafo instancabile e curiosissimo. Aveva scritto non solo di letteratura, ma anche di occultismo ed esoterismo, di economia, di filosofia, di teosofia e di teologia, di politica e di numerose altre discipline umane, divorato da una curiosità inestinguibile, dedicando allo scrivere tutto il suo tempo (altro che nulla dies sine linea...). Pare che all'attività di corrispondente commerciale dedicasse solo due giorni alla settimana, facendosi da solo l'orario di lavoro. Non faceva, peraltro, vita di famiglia, viveva da solo in appartamenti ammobiliati, non curava molto l'aspetto erotico-sentimentale della vita, non andava agli
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appuntamenti, scusandosi poi con la malcapitata di turno inviandole una copia del libro Mensagem. L'unica relazione sentimentale durevole della sua vita è stata quella con una certa Ophelia Queiroz, impiegata in una delle ditte di import-export per le quali lui lavorava... Era perennemente irrequieto, curioso, instabile. Nemmeno la religione gli dava un po' di pace. Si professava cristiano, ma tutt' altro che cattolico. Si autodefiniva uno gnostico. Era anche stato affiliato alla Massoneria. In politica, si professava antisocialista ed anticomunista. In letteratura aveva creato una rivista di avanguardia (Orpheu) insieme a numerosi altri poeti. Una rivista che aveva ricalcato i temi e i modi del Futurismo e del Cubismo, e la cui vita era stata breve e squassata da un mare di polemiche nell'ambiente letterario portoghese del tempo. Aveva anche collaborato a una rivista, “Portugal futurista”. Un suo libro reca, addirittura, il titolo di Libro dell'inquietudine. Per tentare di capire meglio il poeta e lo scrittore (o, quanto meno, l'uomo di immensa cultura perennemente insoddisfatto e ambizioso) poniamo l'accento su qualcuna della frasi contenute in tale libro. Ognuna di esse è una “provocazione”, e potrebbe essere la sorgente di una infinità di considerazioni, approfondimenti, sia nel campo dell'Arte che in quello del Pensiero: “ Tutto è imperfetto, non c'è tramonto così bello da non poterlo essere di più”. “ La solitudine mi sconforta, la compagnia mi opprime.” “ Non amiamo mai nessuno. Amiamo solo l'idea che ci facciamo di qualcuno. E' un concetto nostro quello che amiamo: insomma, amiamo noi stessi.” “Dormo quando sogno quello che non c'è: mi sveglio quando sogno quello che può esistere.” “Vivo sempre nel presente: Non conosco il futuro. Non ho più il passato. L'uno mi pesa come la possibilità di tutto, l'altro come la realtà di nulla. Non ho speranze né nostal-
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gie.” Una frase in particolare, può lasciare sgomenti: Il cuore, se potesse pensare, si fermerebbe.”. Il pessimismo sulla vita umana sembra proprio senza rimedio, immedicabile. Ma è proprio qui che ci viene in aiuto la risorsa della Poesia. Direi quasi la funzione della Poesia, per renderci vivibile proprio questa vita, così poco considerata. Per lo meno c'è la Natura, ad aiutarci. C'è il Mare, per esempio. E questi versi di Pessoa ci aiutano a non disperare, nonostante tutto: “Al di là: Al di là del porto/ c'è solo l'ampio mare.../Mare eterno assorto/ nel suo mormorare.../ Com'è amaro stare/ qui amore mio.../ Guardo il mare ondeggiare/ e un leggero timore/ prende in me il colore/ di voler avere/ una cosa migliore/ di quanto sia vivere...” Luigi De Rosa
INVERNO Inverno, freddo, vento, giornate brevi, misera luce. Spesso il cielo è nuvoloso. Quando, però, c'è il sole, il sorriso c'illumina il viso, la speranza il cuore e ci portano entrambi alle belle stagioni, alla spiaggia e al mare. Il sole! Ci fa sognare, c'infonde calore, gioia ed ottimismo. Antonia Izzi Rufo (Castelnuovo)
LA CONVIVENZA È LAVORO L'amore non si muove fuori, ha luoghi reconditi, in fondo all'animo luccicano stagni di acqua con fresche erbe. Nodi incastrati in un amalgama. Non vuole la superficie, terra appiattita che si estende.
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Né le parti diritte come di metallo. Il calore viene di sotto dentro cavità intense di memorie e di tempo. L'amore fonde tutto, nella casa allineati gli oggetti con gli occhi di fronte, viviamo in fila insieme. Senza fatica avanti nel nostro mondo con integrata vicinanza. Linee parallele corrono veloci, l'occhio in lontananza scruta orizzonti, sente le ali addosso, raddoppiate le forze. Il lavoro senza termine, pure la convivenza di strumenti ha bisogno per limare le punte scheggiate. Non andiamo per le nuvole, la via semplice si allarga con le naturali spinte. Quando la dimora è sventrata la strada è dissestata. I pensieri sono andati per tutti i passi errati. I momenti felici parvenze svanite, visti i passaggi di serpi dentro gineprai oscuri. Ci siamo trovati senza linfa abbattuti in un campo incolto, profughi sotto un cielo all'improvviso ottenebrato. Leonardo Selvaggi Torino
In seinen Augen Ruhiges Wintermeer, entspannt und rein wie ein heiterer Gott, heute blickt ein Kind, das aus den Nebeln, aus den grauen Pappeln der Lombardei kommt, zum ersten Mal in dich hinein. So absolut, so rätselhaft und klar, Meer, du bist mir nie erschienen wie du mir in dem langen Erstaunen seiner Augen erscheinst. Ada de Judicibus Lisena, Nei suoi occhi (Pomezia-Notizie, febbraio 2020, p. 25), Traduzione in tedesco di Marina Caracciolo
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INCONTRI D’UN INTERPRETE di Emerico Giachery
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IUSEPPE Gioachino Belli è un amore di gioventù rinvigoritosi negli anni e documentato in uno dei miei libri tardi e più cari. Immergersi nell’anima profonda e quotidiana della Roma del declinante Stato Pontificio. Identificarsi in pieno, in ogni più icastica sfumatura e cadenza espressiva, con la voce degli strati più disagiati del suo popolo passionale e malizioso, spesso bistrattato, non di rado sguaiato, dissacratore. A quella voce offrire tutta la possibile attenzione umana e filologica, tutta la vitalità, il ritmo, la forza comunicativa di un’arte scandita nelle magistrali strutture di oltre duemilatrecento sonetti. Ecco il miracolo, ecco l’unicità di Belli. Se la lettura delle poesie dialettali di Carlo Porta nel soggiorno milanese fu vantaggioso incentivo, esiste comunque una plurisecolare e tenace tradizione realistica italiana, che si continua in Belli. Il quale però di gran lunga la trascende per originalità, autenticità. Verga e D’Annunzio non li avrei cercati e deliberatamente scelti come oggetto di studio, se le circostanze del vivere non mi avessero indotto a occuparmene a fondo, con amplissime e partecipi letture. Molto da me ammirato, Verga, ma all’inizio con distacco, lontano com’è dalla mia indole poco propensa ad apprezzare il realismo in quanto tale, e ancor meno propensa ad ammettere che del realismo si faccia un canone di discriminazione critica. Tuttavia, dietro quella ricerca del vero avvertivo la ricerca anche etica del senso della vita (e della propria vita). Ne
prendevo atto nel momento in cui anch’io, come Verga, esperivo la cruciale svolta del «mezzo del cammin». La disciplina veristica, il metodo naturalistico mi parvero necessario tramite e cilicio per scoprire altro, per trascendere i confini stessi del verismo, specialmente nei Malavoglia, che il lettore avveduto può recepire come un grande simbolo, «il quale sia più vasto e profondo del tema attuale del romanzo e faccia risuonare in quel tema un’eco di universalità», secondo un’ indicazione di Adam Abraham Mendilow (noto per il volume Il tempo e il romanzo), utilizzata dal filologo tedesco Wido Hempel, autore di un impegnativo e stimolante, in Italia del tutto sconosciuto, saggio sul capolavoro verghiano. D’Annunzio lo “incontrai” nel pieno impegno critico del centenario della nascita, tra consuntivi, riesplorazioni e nuove suggestive proposte (per esempio di Carlo Diano, di Ezio Raimondi). Erano anni in cui, dopo esperienze di critica stilistica, che mi avevano messo in vivo contatto con quel coraggioso strumento di conoscenza umana che è l’impegno espressivo del maggior Verga, avvertivo l’ esigenza di più ricche prospettive ermeneutiche. Ero affascinato da voci che mi giungevano d’Oltralpe, con la salvaguardia dei cauti anticorpi dello storicismo nostrano assimilato negli anni, che però non volevo diventasse limitante e dogmatico. D’Annunzio mi pareva che si prestasse particolarmente bene a
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sperimentare, frequentando la sua vasta e varia opera, certe proposte della Nouvelle critique, che in quegli anni con passione e profitto frequentavo. Anche la mia “stagione pascoliana” ha in parte coinciso con il grande fervore critico suscitato, o comunque rigenerato, dall’ occasione del centenario della nascita. Al pari di Belli, Pascoli avrebbe rivelato il suo vero e complesso volto e la sua vera statura per merito di studiosi che si sono impegnati con acume e passione. Dopo l’ingiusta e troppo “ideologica” condanna formulata da Benedetto Croce, che tanto amareggiò il poeta (difeso dall’amico Luigi Pietrobono), dopo i tempi di “sentimentale” fruizione nelle scuole (dove imperversavano La cavallina storna, Le ciaramelle, X agosto), gli studi di quegli anni analizzarono l’opera e la personalità pascoliana in varie direzioni. Di sociologia del gusto, di psicologia del profondo (anche con l’ apporto di contributi biografici a volte sorprendenti), di indagini simbologiche, di riscontri della presenza significativa e operante di Pascoli nella poesia italiana del primo Novecento, di strutture metriche, di fenomenologia del tempo e dello spazio (penso al bel Pascoli antico e nuovo di Cesare Federico Goffis, a torto un po’ dimenticato). Momento forte, nel dilagare di studi pascoliani sollecitati dal centenario della nascita, fu il conciso saggio, sostanzialmente linguistico-stilistico, di Gianfranco Contini. I frequenti sopralluoghi a Barga e Castelvecchio mi resero familiare e cara quella contrada di Lucchesia, e visitai tutte le località evocate nelle poesie pascoliane degli anni borghigiani, e incontrai la gente che le abitava. Sembrava che si ricosti-
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tuisse un diverso circuito tra letteratura e vita, non certo indispensabile all’intendimento del testo, ma che ad esso aggiungeva comunque un soprappiù di emozione non facilmente misurabile, e in ogni caso non estranea alla vita del testo, al suo senso. Mi emozionò avere tra le mani i manoscritti e gli inediti del poeta nell’archivio di Casa Pascoli, per studiarne le varianti ed entrare così in sintonia con l’atto creativo. Ungaretti, nato nel mio stesso mese e giorno, è forse il poeta del quale mi sono occupato più a lungo, come per una speciale sintonia. Ricordo le sue lezioni universitarie su Leopardi alla Facoltà romana di Lettere e Filosofia, in un’atmosfera quasi sacrale, con un pubblico non soltanto di studenti, ma anche di poeti e di eleganti signore: erano riti di poesia. Ungaretti ha cercato di costruirsi (come
egli stesso dichiara) “una bella biografia” di poeta, e in gran parte ha saputo restarle fedele in un’appassionata equazione opera-vita, che è essa stessa quasi un’opera a sé, con una propria struttura, una fitta tessitura sinfonica di richiami e riscontri in continuo movimento, e che può essere apprezzata anche fuori dai convenzionali schemi della critica letteraria. Questa coerente opera-vita, da studiarsi con l’ausilio delle innumerevoli varianti e delle preziose pagine di auto-commento, offre all’interprete un terreno di lavoro quanto mai gratificante e proficuo. Dedico con affetto questi frutti prediletti della mia vendemmia a tutti i miei allievi effettivi e virtuali, ossia a quelli che lo sono stati e agli innumerevoli che avrebbero potuto esserlo. Emerico Giachery
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ALLORA SCRIVO di Vanda Maria Bono La volta che il realismo ha mantenuto le promesse di Giuseppe Leone
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ON un esergo tratto dal romanzo Il danno di Josephine Hart in cui si legge Ricordatelo, chi ha subito un danno è pericoloso, sa di poter sopravvivere ..., Vanda Maria Bono, psicologa nonché docente di filosofia in un liceo scientifico, ha pubblicato nel gennaio 2018, per i tipi della romana Editrice Albatros, nella collana “Chronos, Nuove Voci”, Allora scrivo. Un racconto autobiografico nel quale l’autrice - si legge in quarta di copertina – “a più di quarant'anni ripercorre la storia di un abuso sessuale subito durante l'adolescenza. Un dolore mai elaborato né superato … di cui lei si è vergognata per molto tempo, almeno, fino a quando è arrivato il momento di reagire, di sfidare quel "lu-
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po", quel mostro che è rimasto sempre lo stesso e che è tornato a minacciarla”. È una testimonianza diretta e sincera di una donna che vuole recuperare appieno la propria dignità, che rifiuta il silenzio e che dimostra di aver compreso fino in fondo il valore dell'identità femminile. Una narrazione intervallata da stralci di articoli di giornali o riviste che citano episodi di abusi e violenze, testi scientifici sulle conseguenze che le vittime subiscono o sulla personalità e le "tecniche" dei violentatori. Il tutto frutto di un desiderio impellente: di dover parlare e scrivere “a costo di piangere per ogni parola, anche se questo la costringe a pensarlo, a ricordarlo, ad avvicinarlo a sé. Ed è vero che lo farà parlare, lo rievocherà, lo farà vivere, ma per ucciderlo”. Un’esposizione, ci tiene a precisare la scrittrice, senza retorica, attraverso uno scritto che non ha nulla di eccezionale, che contiene solo il cammino quotidiano a fianco del male, quello che non ti agghiaccia di colpo, ma che ti porta via brandello per brandello (10-11). Dunque, una narrazione, sopra e sotto le cui righe gli orizzonti sono sempre scuri, senza che mai si intraveda una sola chiazza di sereno, dove, per tutto il corso del racconto, per dirla con Baudelaire – lei è piaga e coltello! schiaffo e guancia! membra e ruota! vittima e carnefice! È, insomma, psicologa e paziente a un tempo di una realtà che non consente vie d’uscita o scelte perentorie, né sollievi temporanei o riscatti futuri. Ferrea, poi, e inamovibile è anche la cornice che comprende tutta la narrazione. E sono tutti quegli estratti di stampa, unitamente ad alcuni articoli del Trattato di Lanzarote del 2007 e il testo della canzone Mio zio di Carmen Consoli sulla violenza delle donne subita fra le mura domestiche, che lei pone a margine di ciascuno dei 26 capitoletti che compongono il volume e che conferiscono allo scritto un elevato valore di oggettività. Non è un caso che i pezzi scelti siano compresi fra il 2014 e il 2016, tutti a integrazione e commento, ma anche a dimostrazione che quanto lei ha subito qua-
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rant’anni prima sia ancora oggi un argomento di primissimo piano. Quello che colpisce, allora, sfogliando le 120 pagine di questo racconto, di cui si legge anche, in una nota in calce alla quarta di copertina, che parte del ricavato della vendita sarà destinato alla realizzazione e al sostegno dei laboratori solidali di scrittura LetterariaMente, è l’ispirazione realistica che lo caratterizza, tale che avrebbe fatto la gioia di Giuditta Podestà, la comparatista che ha sempre lamentato, attraverso i suoi scritti, le lacune del realismo, soprattutto in Italia, reo, secondo lei, di un vizio di cui non è mai riuscito a liberarsi, neppure quando è stato portato alle estreme conseguenze dal Verga; e non solo, anche da quelle correnti successive che si sono lanciate in Italia all’indomani dell’affermazione dell’Estetica crociana, soprattutto dalle correnti psicanalitiche. Un vizio che si chiama idealismo e che non è nato da poco tra le pagine delle nostre lettere, anzi è sempre stato presente nel trascorrere dei secoli, tanto che la Podestà lo vede scorrere in Italia già nel motivo classico della catarsi e dell’effetto di sublimazione, cosa che Vanda Bono evita, negando autentici effetti catartici sul piano psicanalitico; vi ravvisa al contrario una ricognizione e una ricostituzione di normalità, non una liberazione pienamente gratificante. Ne sono conferma i dubbi e le perplessità che l’autrice esprime nella parte finale del racconto, quando, dopo avere a lungo insistito sugli stati d’animo e sui pensieri che si sono impossessati di lei all’indomani di quella violenza, domanda e si domanda perché non si sia ancora liberata di quel mostro, magari uccidendolo, investendolo con la macchina o sparandogli. Un atto che non ha mai compiuto finora, pensa, perché la farebbe restare vittima, perché proverebbe come la sua vita e quella della sua famiglia ne sia stata segnata per sempre o forse perché sarebbe un sussulto d’orgoglio, un’affermazione di giustizia per punire qualcuno che è davvero malvagio, la condanna per qualcuno che ha camminato sulle vite de-
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gli altri seminando dolore. Eppure a trent’anni immaginava che, con il passare del tempo, la ferita si sarebbe rimarginata; le sarebbe piaciuto vedere una sua foto nel futuro, a cinquant’anni per esempio, per vedere che occhi avrebbe avuto, se sorrideva o no, come si vestiva, come teneva le mani, per cercare di capire senza spiegare cosa. Ora che lo sa, forse, davvero, non c’è né salvezza né libertà. Forse percorriamo, e chiude, sentieri già tracciati in passato illudendoci ogni volta di scegliere. E allora scrivo (116). . La scrittrice non poteva chiudere questo suo racconto se non richiamando l’attenzione del lettore ancora sul titolo e, di conseguenza, sulle ragioni per cui è stato scelto: perché scrivere, secondo lei, non deve essere inteso come la panacea di tutti i mali, né la possibilità di cambiare le regole in corso d’opera, deve essere un atto estromettente, che ci fa vedere la nostra vita come destino, così come è andata a finire. Il fatto, poi, che chiuda il libro con le parole del titolo, paventando che quanto sia successo a lei possa avere la fisionomia di un destino, ci porta a concludere che se da una parte toglie il nome di azioni alle vicende umane, dall’altra, detta le regole per una letteratura realistica, distaccata il più possibile dai punti di vista personali, per approdare a un racconto senza autore, in questo caso, senza autrice. Giuseppe Leone Vanda Maria Bono - Allora scrivo. Gruppo Albatros Il Filo, Roma 2017. € 12.00. pp. 120.
LA GRANDE SOSTITUZIONE C’erano gli uccelli ci saranno i droni C’erano gli insetti ci saranno i robot C’era la felicità ci sarà la sorveglianza Béatrice Gaudy Parigi, Francia
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L'OMBRA DI DANTE TORMENTA ANCORA? di Ilia Pedrina
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IACOMO Leopardi è giovane e collabora con diverse riviste: gli si chiedono contributi, recensioni, interpretazioni di critica, testi originali. Ma il livello filologico del volumetto Un'inedita e ignota recensione di Giacomo Leopardi (“L'ombra di Dante”), pubblicato nel 2019 dal prof. Christian Genetelli, ordinario di Letteratura e Filologia Italiane all'Università di Friburgo, per le Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto -sigla LED- Milano, contribuisce a gettare nuova luce su temi, fonti ed ispirazioni del recanatese, il tutto presentato attraverso uno stile rigoroso e profondamente appassionato. Proprio in copertina ci si presenta l'approccio alla grafia originale del Leopardi nella stesura della prima parte della recensione stessa, depositata presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, “Carte Leopardi” XV. 38A, c. 1r., ed inserita poi al completo alle pagine 14 e 15, quando l'Autore, preparato abilmente il terreno, porta il lettore, passo dopo passo, all'incontro con l'originale, una recensione di due paginette, vibrante e significativa, '...inedita e ignota...', appunto! Cinque le tappe che fanno convergere l'attenzione del lettore su quanto lo studioso sta preparando, sapendo abilmente tenere in sospeso e regalare al momento opportuno, più illuminante e più incisivo davvero, il contributo filologico, interpretativo, chiarificatore dei risultati proposti e previsti nel progetto: 1. Il documento (p. 9) - 2. Il giovane Giuliano Anniballi , da Urbino a Loreto (p. 20) – 3. Un ex-
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cursus sul dedicatario, Sebastiano Sanchini (p. 21) - 4. Nelle maglie della recensione di Leopardi: ancora sulla datazione, rapporti fra i testi, altre implicazioni (p. 25) - 5. Itinerari futuri (Giuliano Anniballi fra Marche e Romagna) (p. 35). E, in Appendice, ecco presentarsi in copia anastatica L'ombra di Dante. Visione del Signor Giuliano Anniballi […], in Loreto, Nella Stamperia Rossi, MDCCCXVI (pp. 41-58), con la chiusura sull'Indice dei Nomi (pp. 6163). Ma diamo lettura e ascolto a questo ottimo dono dello studioso Genetelli, nelle dirette parole scritte da Giacomo stesso: “L'ombra di Dante, Visione del Sig. Giuliano Anniballi da Urbino. Loreto 1816 8° facce 10 e 3 di Dedica. Niun parla di questo libricciuolo perché è uscito da torchj infernali (e già si tratta di Dante) in città atta ad apprezzare gl'ingegni e le opere, come le sue vicine, e vo' dire, senza pregiudizio degli Arabi, come la Mecca. Il vento e i pizzicagnoli disperderanno questa poesia prima che alcun letterato l'abbia veduta. Però pensando al Colligite fragmenta ne pereant ho deliberato di recarne qui i passi più belli che saran come inediti. Giudichi il Lettore se sian degni della stampa, e se io, dando a questi versi così povero articolo, sia stato anzi avaro che prodigo...” (G. Leopardi in C. Genetelli, op. cit. pag. 10). Se Dante, in carne ed ossa e frattaglie, dopo essersi trovato all'interno d'una selva tra belve d'ogni genere teologico, mistico, mitico e carnale, deve farsi coraggio ed interpellare quell'indistinto che gli si approssima di fronte '...qual che tu si, od ombra od omo certo...', cioè Virgilio, qui le situazioni cambiano e ad approssimarsi al giovane Anniballi è proprio l'ombra di Dante, sempre adatta a provocar tremore, alle vene, ai polsi, alle forze della natura intorno oltre che alle varie sagome spettrali. Importante quanto il Genetelli chiarifica, per far procedere in sicurezza onde acquisire le nuove, originalissime postazioni esegetiche - perché lui, si proprio lui, gli strumenti di bordo li tiene sempre in perfetta efficienza!-: “... Per ragioni facilmente intuibili già a una prima lettura, la stesura del te-
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sto, di questa breve, inedita e ignota recensione-segnalazione, andrà collocata, cronologicamente, nel 1816 (poco probabile che si vada oltre): anzi, se si vuole accrescere senza indugi eccessivi il grado di precisione, si può anticipare che il periodo utile parte dalla fine di agosto di quell'anno. Com'è ovvio, non lascerò la datazione spoglia di prove e argomentazioni...: ora però il documento, il suo primato, rivendica subito la trascrizione (ne trarrà vantaggio anche l'efficacia illustrativa...” (C. Genetelli, op. cit. pag. 10). Ottimo è il lavorare in balzo, dal testo originale dell'Anniballi, posto integralmente in Appendice, ai versi in stralcio riportati nel prezioso manoscritto leopardiano, un foglio unico vergato fronte e retro e con la firma in sigla che è già un curioso programma, duro la sua parte, ad indicare con chiarezza come il vissuto del giovane recanatese possa erompere da argini posti interni alla scrittura ed emergere in forma labirintica: 'M. D.', non 'G. L.', come si potrebbe supporre. Il generoso Autore spiega anche questo, proprio quando entra 'Nelle maglie della recensione di Leopardi...': “...Torniamo ora nel cuore dell'inedito leopardiano. È firmato, in calce, 'M. D.', ovvero con la stessa sigla usata da Giacomo per un'altra recensione, più ampia,, pubblicata in due puntate nello 'Spettatore', sezione 'Rivista letteraria', quad. LXIII, 31 ottobre 1816 (pp. 61-65), e quad. LXIV, 15 novembre 1816 (pp. 87-90): Il salterio ebraico... 'M. D.' varrà 'Monaldoade', come Carlo Antici sembra che usasse chiamare, omericamente, Giacomo: un appellativo che questi poteva ancora accogliere e utilizzare nel 1816, sempre più difficilmente poi...” (C. Genetelli, op. cit. pag 25).
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Perché non metterci un trattino, far fuori un Monaldo-ade e significare uno struggente punto di osservazione del giovane Giacomo nei confronti di un ruinoso pater-Dominus? E se 'M.' significasse certo 'Monaldo' e la 'D.' 'Dominus', signore, padrone che domina da solo sui sottoposti, siano essi schiavi o figli? E se in 'Monaldo' il giovane Giacomo avesse ravvisato il solo, l'unico, l'inclito, l'al(gi)do, per poi porsi alla stregua d'un'ombra sempre insufficiente, inefficace, pur in possesso di pensiero, carne viva, anima in palpiti? Vado avanti perché poi ritornerò ancora su questa sigla. Il prof. Genetelli ipotizza, ed ha severa ragione, che la recensione 'succinta' del Leopardi sia di poco successiva alla stesura originale dell'Anniballi e ribadisce: “...E forse c'è ancora dell'altro a sostegno, se si guarda all'assieme della produzione letteraria di Giacomo nell'autunno avanzato del 1816. Penso alla cantica Appressamento della morte, imparentata in quanto 'visione' in terzine dantesche all'Ombra di Dante di Giuliano Anniballi. L'Ombra di Dante si iscrive infatti all'interno di quel 'revival marchigiano romagnolo della visione-cantica' maturato nel solco principale e celebrato della Basvilliana di Vincenzo Monti...” (C. Genetelli, op. cit. pag. 27). Seguono pagine importanti a segnalare come l'Appressamento della morte possa trovare una se pur fioca ispirazione nelle terzine dell'Anniballi, elogiative e dedicate allo zio monsignore, con grande devota sottomissione e ben dettagliate in Appendice, nel contesto della copia anastatica del libretto: l'imprimatur viene fissato da A. Can. Polidorius Revis. Dep. mentre poi ha visto tutto, dalla A alla Z, l'Archidiaconus Borghi Vic. Generalis, proprio in Laureti Die 7 Augusti 1816! Insomma tutto risulta sotto controllo: l'Io narrante si trova immerso nella natura avversa e trema, non sa più dove trovar riparo: per fortuna “Mentr'i diceva; di varj colori L'aria d'attorno a me vedea cangiarsi: Finché di mezzo ad aurei splendori A poco a poco un Anima informarsi Di vapor bianco come neve alpina,
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Ed amichevolmente a me accostarsi Vidi; come talor alla mattina Fiocco s'alza di nebbia in cima al monte Quando il nascente Sole s'arrubina: Di lauro verde aveva cinto il fronte; Ed una cetra a un lato le pendea, Dall'altro un brando, che nol feo sì Bronte: Lunga e bianca la barba, e i crini avea, Or fissava, or volgea l'ardente luce, E dir gran cose col tacer parea. Dante, e sei tu! Sei tu possente Duce De gran Vati d'Italia un dì felice, E ch'ora sol per te d'alquanto luce? …. Nel caldo dell'Amor lucenti i rai Fissava in me quel Grande, e tal si mosse Meco a parlar, che pria non si udì mai. …. Tutto è in amor, e senza lui l'obblio Ricuopre l'Universo, e tutto manca. Tutto vive in Amor; Amore è Dio. Nol conosce colui, che tien nell'anca Riposto l'intelletto, come fiera, Tal val la destra sua, tal val la manca. Nasce questi la mane, e muor la sera; E il nascere di lui è come morte, Né l'un né l'altra ci sa dir cos'era. Ma i l'intesi dappoiché fur sorte Le mie potenze a vita; e lo provai Nella selva selvaggia, ed aspra, e forte...” (G. Anniballi, L'Ombra di Dante, in C. Genetelli, op. cit.pp. 50-51). Dante, o meglio la sua ombra carica d'Amore (e qui Beatrice alquanto surga!), indica al giovane parecchie glorie tra le Italiche Genti Letterate, come il Petrarca l'Ariosto, il Tasso con alcuni protagonisti della sua Gerusalemme e poi il Bembo, il Sannazzaro, il Castiglione, il Sadoleto e poi ancora Annibal Caro e il Fracastoro e perfino il Trissino... Lascio perdere un poco l'Anniballi e il Giacomo dell'Appressamento della morte. Torno indietro alla sigla 'M. D.'. Oriento luce nuova sulle mie ipotesi, tenendo in gran conto la carica d'amara ironia che animava segretamente il nostro giovane recanatese -
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si rilegga a questo scopo il paragone tra Loreto e la Mecca, veri punti di arrivo per la Madonna e per Maometto e poi il ruolo chiave dei 'pizzicagnoli' oltre al vento che mai si può dominare...- e anch'io in fremito, perché lotto quando sento aria di soprusi, in primis quelli perpetrati in famiglia, pur da nobili e pur in altro tempo, ben s'intende, corro alle prove, rincorsa subito e confortata in questo dal Genetelli stesso e scopro un importante tassello: “... La lettera a cui rimanda è quella del 5 settembre 1829 a Karl Bunsen, in cui Leopardi, analogamente alla chiusa della coeva missiva a Melchiorri, lamenta i suoi dolori recanatesi (dopo aver seccamente smentito Monaldo, che a Roma, primi mesi di quel 1829, aveva incontrato l'erudito tedesco, dando un ritratto tutt'altro della condizione del figlio): 'Mio padre, il quale ama d'immaginarsi che nella sua casa paterna io stia meglio che altrove, le ha dato del mio stato un'idea ben diversa dal vero. Non solo i miei occhi, ma tutto il mio fisico, sono in istato peggiore che fosse mai. Non posso né scrivere né leggere né dettare né pensare. Questa lettera, finché non l'avrò terminata, sarà la mia sola occupazione, e contuttociò non potrò finirla se non fra tre o quattro giorni. Condannato, per mancanza di mezzi, a quest'orribile e detestata dimora, e già morto ad ogni godimento e ad ogni speranza, non vivo che per patire, e non invoco che il riposo del sepolcro'...” (C. Genetelli, Storia dell'epistolario leopardiano Con implicazioni filologiche per i futuri editori, Edizioni Universitarie LED, Milano, 2016, pag. 165). Peppino, come Giacomo nelle lettere spesso lo chiama, cioè Giuseppe Melchiorri, è suo cugino carnale per parte di madre, sorella di Monaldo ed a lui Giacomino scriverà ben 37 lettere, ricevendone 43. Questo ulteriore testo del prof. Christian Genetelli riserva altra miniera di preziose, acute, innovative scoperte e ad esso dedicherò altra vera, originale, appassionata attenzione a parte intera. Ilia Pedrina
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Marzo 2020
GUIDO ZAVANONE: LA VOLPONA di Elio Andriuoli
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ON molto tempo prima della sua morte, avvenuta a Genova, dove viveva, il 29 novembre 2019, Guido Zavanone ha dato alle stampe un romanzo intitolato La Volpona, che ce lo fa conoscere in una veste nuova, quella del narratore, diversa da quella consueta del poeta. Nel parlarne, è subito da dirsi che questo è un libro particolare, dato che in esso Zavanone si è servito essenzialmente della sua vena ironica e satirica, che tanta parte ha anche nella sua produzione poetica, piuttosto che di quella sommessamente intimistica, che pure a tratti vi si ritrova. La Volpona è infatti una donna ormai avanti negli anni, la quale, rimasta vedova e senza figli, possiede un cospicuo patrimonio che le dona una sicura agiatezza, ma è affetta da una insanabile avarizia. Ella vuole inoltre a tutti i costi assicurarsi nei suoi ultimi anni assistenza e conforto. Il suo ideale è pertanto quello di “creare fra le persone che la circondano una specie di gara a servirla, una disponibilità completa e pronta a soddisfare ogni sua esigenza o capriccio”. Tra queste persone vi sono la vicina Eugenia, la cugina d’acquisto Laura, la santona Gianna e la domestica Eufemia, oltre al cugino Enrico. Per ottenere ciò Maria si serve dell’arma del ricatto, minacciando di variare le sue disposizioni testamentarie, diseredando coloro che non l’assecondano. E del ricatto fa uso anche verso il parroco don Carlo, dal quale ottiene a un prezzo irrisorio un apparta-
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mento, frutto di un lascito testamentario, dove istituisce una Casa di riposo per anziani. Tutto sembra procedere secondo i progetti della Volpona, quando un’aggressione notturna da lei subita viene a turbarla intimamente e la getta in uno stato di profonda prostrazione, solo attenuato dal parziale recupero della refurtiva, costituito da alcuni quadri di valore. La casa di riposo per anziani da lei creata viene comunque inaugurata con solennità, alla presenza di alcuni rappresentanti delle autorità, tra cui c’è anche il Vescovo ausiliare. La ferisce però la scoperta che la sua amica Gianna, nella quale riponeva piena fiducia, l’ha tradita, coprendo i figli, autori dell’ aggressione e del furto compiuti nella sua abitazione. Il che fa crollare in lei anche la ferma fiducia nell’Aldilà, che Gianna le aveva istillata con le sue pratiche esoteriche. Dice l’ autore in proposito: “… le sopravvenne anche il pensiero, l’incubo della morte, non più traghettatrice verso un mondo migliore, ma quella soltanto che l’avrebbe separata da quanto era stato fino allora la ragione della sua vita, il vitello d’oro cui tutto aveva sacrificato”. Per il proprio tornaconto (non voleva rinunciare ai servigi che Gianna le prestava) la Volpona è comunque disposta a dimenticare l’aggressione subita; e così si riappacifica con lei. Decide poi, per distrarsi, di compiere un viaggio, tornando nel paese natale in compagnia del figlioccio Enrico, che tiene l’ amministrazione della sua Casa di riposo per anziani intitolata a Padre Pio. Al paese è accolta dai cugini, i quali aspirano alla sua eredità; ma Maria non li ama e anzi è disgustata per cattiva amministrazione delle sue terre da loro tenuta, sicché si propone di vendere, dal momento che le rendono poco o nulla. Come un fulmine le giunge però, al suo ritorno, la notizia che la Finanza ha bussato alla porta della sua Casa di riposo ed ha trovato i conti in un pauroso disordine. Inoltre la Polizia ha scoperto lo stato penoso in cui si trova-
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no gli anziani ospiti della struttura, mal nutriti e peggio assistiti, motivo per cui riceve dalla Procura un Avviso di Garanzia. Da tali strette la salva il fratello Alfredo, che l’affida ad un valido avvocato, Giovanni Filippone, penalista e tributarista insieme, il quale riesce ad ottenere la revoca del provvedimento di chiusura cautelare della Casa di riposo da lei creata. Restano tuttavia a suo carico i procedimenti riguardanti il decesso di due ospiti della Casa e le cause di risarcimento intentate da coloro che lamentano le privazioni e i maltrattamenti ricevuti, con la scusa che una dieta calibrata allunga la vita delle persone anziane. Maria decide così, su suggerimento del marito, evocato dalla medium Gianna, di trasferire il suo denaro liquido in comodi Paradisi Fiscali, unitamente al ricavato dalla vendita dei terreni. Le tribolazioni della Volpona non hanno comunque tregua, dal momento che viene attaccata dalla Stampa, che denuncia le sue malefatte, e successivamente anche dalla Televisione che, in una serata dedicatale dal Presentatore Pongiglione, la mette duramente alla berlina. Tutto ciò le procura un malore, con il conseguente ricovero in ospedale e con la visita di Carlo, che tenta di confortarla. Accadde a questo punto un evento imprevisto: la morte di Alfredo, il fratello della Volpona. E le cagiona una nuova ferita il fatto che egli abbia lasciato il suo lussuoso appartamento alla propria domestica Clara Rovagnoli piuttosto che a lei. Un ulteriore colpo le viene poi inferto dal figlioccio Enrico, il quale, posto dal direttore dell’istituto bancario presso il quale lavora, nell’alternativa di scegliere tra il suo servizio presso la banca e quello presso la Casa di riposo della Volpona, sceglie la banca, lasciando costei priva della sua assistenza. Un’ultima possibilità di conforto rimane a Maria: quella di rifugiarsi nelle cose dello spirito, motivo per cui si riavvicina a Gianna, che però la tradisce; sicché vengono meno tutte le sue speranze. Per di più inizia il processo, promosso contro di lei per reati fiscali e per la morte di due
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dei suoi ospiti della Casa di riposo. Gravi sono le accuse rivolte alla Volpona da parte del Pubblico Ministero e dal Patrono di parte civile, ma l’avvocato Filippone, che l’assiste, ribatte efficacemente a tali accuse, riuscendo a farla assolvere, con i suoi cavilli. Tutta ciò viene narrato da Zavanone con uno stile vivace e con un garbato sorriso che rendono il racconto scorrevole e avvincente. Negli ultimi capitoli del libro si narra dei reiterati tentativi di don Carlo, compiuti allo scopo di ottenere i beni della Volpona e in particolare l’Istituto San Pio; tentativi che però non approdano ad alcun risultato, dato che Maria istituisce erede, con un nuovo testamento, la cugina Laura. Il destino vuole tuttavia che la Volpona, logorata da un male che non perdona, muoia tra le braccia di don Carlo, nel momento in cui apprende notizia, pervenutale telefonicamente, del fallimento della sua banca, la quale chiude gli sportelli. Termina i tal modo la vita terrena della Volpona, personaggio per molti aspetti simile all’Arpagone di Molière, tipica figura di avaro, dal quale però ella si distingue per la maggiore duttilità del suo carattere, che le offre la possibilità di ritornare sulle sue decisioni, mentre Arpagone è tetragono nel suo comportamento, che non ammette deroghe. Condotto all’insegna di una efficace satira contro il vizio dell’avarizia, il romanzo di Guido Zavanone si contraddistingue per la scioltezza del dettato e l’acutezza delle meditazioni, nonché per la vivacità dei dialoghi e l’incisiva pittura dei caratteri, dei quali egli coglie ogni sfumatura. Ne risulta un libro riuscito, che bene si aggiunge agli altri di questo autore, il quale ha dimostrato con esso di possedere delle non comuni qualità di narratore, oltre che di poeta. Indovinata è anche la copertina del libro, sulla quale campeggia la figura dell’Avarizia da un significativo quadro di Matthias Stomer, pittore olandese del XVII secolo. Elio Andriuoli GUIDO ZAVANONE: LA VOLPONA (Manni Editore, PD, 2019, € 16,00)
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Marzo 2020
INSEGUENDO LE ORME POETICHE DI ANTONIO CRECCHIA di Anna Aita
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N omaggio straordinario mi giunge dal noto autore Antonio Crecchia, tre volumetti di cui uno consistente. Sono tre scrigni contenenti i gioielli della sua anima: “SPRAZZI D'AUTUNNO”, “IN MEMORIAM” e “COSTELLAZIONE Dl VERSI”, un insieme condensato di memorie, nostalgie, malinconie, rimpianti, delusioni, tutti riflessi nelle armonie della natura. “SPRAZZI D'AUTUNNO” Una immagine delicata, riposante, in copertina: una campagna dagli spazi liberi, in una indefinibile ora del giorno, in soffici colori pastello. È certamente un'ora di quiete. Come in questa rappresentazione, la natura domina le liriche di Antonio Crecchia: qualche considerazione sull'estate morente; la partenza delle rondini verso paesi caldi; il ritorno della stagione autunnale, il respiro lieve della brezza tra “rami/ al suolo chinati/ sotto il peso di frutti,..”; un ottobre, dai “piedi leggeri”, ubriaco di mosto e così via. C'è sempre, (lo vedremo anche nelle raccolte successive) un'intima comunione tra i sentimenti del nostro Poeta e l'evolversi della natura. Il vento, il sole, le cime degli alberi, il loro respiro, il canto dell'acqua, le foglie in festa, l'ulivo con le sue bacche nere, tutto penetra gli occhi e il cuore del cantore e si uniforma e si accorda ai di lui pensieri. Ritorna spesso l'autunno nei versi del Crecchia come simbolo di una stagione morente, come riflesso del suo intimo ferito da un tempo in gran parte trascorso. “Domani..”, conclude arrendevole l'Autore nella poesia intitolata “Ultima pagina”, “...Proveremo a scrivere pagine/ di un'altra storia - del ritorno dell'uomo/ alle radici del suo essere uomo”. “IN MEMORIAM”
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Di tutt'altro sapore la raccolta “In memoriam” nella quale il Poeta mette da parte se stesso e la sua anima tormentata per dedicarsi alle persone che hanno attraversato il suo cuore e più non sono. Una raccolta ricca di sentimento, di rimpianto, di nostalgia. Un elenco non soltanto di singoli nomi nella loro storia, come Giovanni Falcone, Madre Teresa di Calcutta, Elena La Rosa D'Azzurro, Padre Antonio Mancini, Lady Diana, Karol Vojtyla, Lycia Santos do Castilla ma anche il ricordo di stragi collettive come quella Tien An Men con tante giovani vittime o dei caduti di Nassiriya. E va ancora il suo pensiero alle vittime di eventi naturali, come le tante dello Tsunami dell'Oceano Indiano. Né manca il ricordo nostalgico e amoroso di alcuni familiari. Una raccolta tutta da leggere per condividere i sentimenti di un Autore che non dimentica ma ricorda, fermando nei cuori e nel tempo, in un poetico ricordo, persone ed eventi lungo una storia di vita. “COSTELLAZIONE DI VERSI” Ripetitivo, e quindi molesto, ritorna spesso nel Poeta, in questa silloge, l'angosciante pensiero della finitezza umana, della ineluttabilità di un tempo che corre inesorabilmente verso l'ultimo traguardo: tutto rappresentato in immagini di grande suggestione. Sono spesso intensi e rapidi flash ad accarezzare l'anima, o situazioni che si fermano in momenti evocativi che, non di rado, inducono alla riflessione. Ritroviamo la malinconia, ripetitiva e talvolta sconsolante del Poeta, in una natura che è perennemente specchio alla sua anima tormentala “L'autunno, con i suoi richiami/ allo vita che scorre, perde i fasti/ dell'estate, e io già penso a domani ai giorni sempre più esigui rimasti/ che con il mondo perdono i legami”; “Novembre rispolvera lo sua veste/ fragile di foglie strappate/ da folate di tenere brezze/.../ E io qui a contare le ore/.../ in attesa di salpare per lidi ignoti,/ per un'isola di quiete senza ritorno”. E potrei prolungarmi all'infinito. Ma sono tante altre le configurazioni creati-
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ve di Antonio Crecchia che aprono il nostro cuore alla tenerezza, come quella di un pettirosso che “s'inchina, saltella, svolazza” con la tenera allegria di un bambino; o come i passeri che egli osserva arrivare e partire “come frotte di bambini/ colmi di felicità/ e ardore per la vita”. Cocente è il tormento di un passato che non può tornare: l'entusiasmo, l'allegria, la giovinezza: “Raccolgo il dolore dello terra/... /Domani,/ sul palco dello mia solitudine,/ accoglierò l'autunno/ per una recita d'addio agli infiniti,/ passati splendori dello vita./ Domani”. Molto ha da lamentare, Antonio Crecchia, su una Italia “divisa tra anime nobili e scellerate” e, soprattutto, ovviamente sulle seconde. Ricorda il vice brigadiere ucciso a coltellate, a pochi giorni dal matrimonio, e la sua sposa che piange; oppure si accora per la tragedia di Strasburgo nella quale viene infranto un Natale dalla vigliaccheria di criminali incalliti e, ancora, sulla strage di El Paso, Dayton. Versifica anche dolentemente animato da rabbia repressa (la poesia viene intitolata “stirpe maledetta”), sui piromani “dal sorriso dei dementi” che godono per aver ridotto in fiamme ingenti quantità di alberi. Le tematiche sono svariate e sempre cariche di intensità emotiva “Crollano i ponti/.../ Crolla l'Italia/... Crolla l'Europa. Crollano i valori/ e la fiducia nelle istituzioni./.../ E i politici che fanno?” Interrogativo che non abbisogna di risposta, tanto lo sappiamo tutti! Ma il Crecchia si risponde: “Allegramente,/ irresponsabilmente/ giocano o fare... i soldatini, in guerra con tutti”. Il volume si conclude con una nota accorata di rimpianto, affidando, il Poeta, la sua scrittura “...alla notte profonda del tempo”. Anna Aita
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Non ho avuto a scudo coperte tirate sul naso. Mi attaccavo con fantasia a quelle strane forme, erano sogni miei non mi facevano paura. La casa nel silenzio respirava il mio respiro: si allargava, non aveva più pareti. Frastuono d’armi di battaglie di neri cavalieri ubbidienti ai mie desideri, cullavano prove di comandi che nella vita non avrei mai dato: anche potendo . Avrei per scelta deciso di essere mai martello. Io maglio e la mia stessa umanità incudine? Non avrei potuto. Tu, poco o niente avara di silenzi, nei ritornelli inventati per ore a spiegarci il senso della responsabilità di chi coltiva una strana pianta dal frutto rado che mal si vende, seppure a stento a volte si raccoglie, piccolo seme piantavi come sicomoro : amore. Sui muri, sui soffitti, sui pavimenti, nei cassetti nell’aria antica della casa, inseguito in quelle notti di ombre felici coi sensi tesi ad ascoltare il germogliare e stupire come piccola cosa può diventare grande trapassando loriche del più duro acciaio. Polvere di licopodio invece umanità sbiadita ha fatto cadere sui cuori perché non si attacchi sentimento che spaventa. Ho costruito edifici di speranze su un tappeto di illusioni, e vedo avanti una forra e di luce neppure un luminello. Salvatore D’Ambrosio (da Barcollando nell’Indicibile- Bastogi 2009)
È SERA, FIOCCA NON HO AVUTO Non ho avuto mai paura da bambino di notte delle ombre vaganti sul soffitto.
Mentre il cielo si tinge di buio, la terra si va coprendo di bianco. Magia del Tempo! Antonia Izzi Rufo (Castelnuovo)
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ISABELLA MICHELA AFFINITO L’urgente esigenza dello scrivere di Salvatore D’Ambrosio ’URGENZA, la necessità di mettere la penna su carta è forte in Isabella Michela Affinito. Sono infatti tanti i volumi editi, a volte anche piccoli di poche pagine, purché atti a soddisfare questa sua esigenza. Esigenza che scaturisce dalla sua grande emotività, la quale a sua volta nasce dal vivere le sue esperienze letterarie con patos intenso fino a farle scrivere in esergo al saggio sulla Dickinson: Ti ho vista/rinascere/nel cuore di/me stessa. Si ritrova e si specchia nella poetessa del Massachusetts. A differenza della Emily lei, però, ciò che scrive non lo tiene chiuso, anzi appena scrive deve pubblicare. Fosse anche un solo verso. A conferma di questa constatazione, basta guardare dal 1998 a oggi la grande quantità di pubblicazioni fatte. Certo la copiosità non sempre è indice di qualità, di originalità, di ricerca. Ma la Affinito sta molto attenta a non incappare in questa trappola. La sua poliedricità, i molteplici interessi soprattutto culturali, la fortificano nel corso degli anni, aggiungendo sempre qualcosa alla sua formazione. Bisogna evidenziare che due, in
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modo particolare, sono le sue passioni: il mare e l’arte. Ovviamente la seconda, l’arte, è la meta di un corso di studi al liceo artistico non per esigenza modaiola, a cui spesso ricorrono i giovani perché non sanno scegliere il loro percorso culturale, ma perché per Isabella Affinito è il suo sogno da inseguire. Ce lo dice ella stessa quando afferma che la sua inclinazione, la sua autentica passione, è stata fin da piccola il disegno. La immagino bimba mansueta, come ci racconta la sua immagine che riproduce sul retro di ogni pubblicazione, che silenziosa parla con i fogli da disegno e le matite colorate. Nella succitata immagine c’è qualcosa che l’avvicina al sereno distacco della Dickinson. Ma sono mie impressioni. Sono solo la lettura di una fotografia, che spesso è come uno specchio dell’anima. Niente certezze: non avendo avuto ancora il privilegio di una conoscenza diretta della poetessa. Leggendo il suo piccolo saggio: Il mistero Dickinson, la scelta dei brani da commentare non è a caso. Ecco, per esempio, riporta versi dove si accenna al colore bianco, che fu molto caro alla Dickinson. Come lo è ne sono certo anche a lei. La necessità poi di vivere un mondo a colori, la spinge verso Van Gogh, uno dei grandi protagonisti dell’arte del secondo 1800, che fece del colore l’essenza assoluta dei suoi dipinti. Osserva, studia attentamente i suoi lavori Isabella, al punto che la penetrano, la comprendono, la esaltano fino a portare la sua penna a dare, su alcune opere del Maestro, descrizioni in versi delle emozioni che le procurano le tele. Vi entra nei dipinti, tanto che nella sua lirica “ Girasoli” in un verso dice: Sembra come se stavo davanti/a guardare la scena … Ma metaforicamente ci racconta anche di una certa sua personale solitudine, quando nella conclusione della poesia dedicata al pittore dice: pur con un cuore/ che voleva dare,/ rimanesti solo… Ma la Affinito non si contenta solo di usare parole per mostrarci felli-
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nianamente il carosello di sentimenti, di attese, di emozioni che le ruota intorno quando, diciamo così, si trova immersa nel colorato mondo di Vincent. Interviene anche materialmente, nella ridefinizione del suo vissuto nell’arte di Vincent, reinterpretando le sue opere. Come accade nelle variazioni che apporta alla Natura morta con Iris, che poi mette in copertina al suo saggio “ Si chiamava Vincent Van Gogh”, realizzato nel 2004 e dedicato a suo padre. La fascinazione coloristica che sedusse il pittore olandese, contagia anche la Nostra poetessa che con versi semplici, genuini, fuori da ogni ricercatezza astrusa, riesce a far sentire il calore o il freddo che le procura la visione di tele, dove esplodono con i loro colori girasoli, iris, campi di grano, cieli stellati, chiese immerse nel verde di cipressi. O negli azzurri dei mari, altra sua passione, perché come ella stessa dice: il mare rappresenta la vita. Certo non ci si aspetta una così grande riverenza per il mare per una donna che è nata in un paese interno come Fiuggi. Da una ciociara ci si aspetterebbe un legame più forte con la campagna, con la terra, la rigogliosa montagna che pure ha una forte presenza in quei territori dove è nata. Ma non dimentichiamo che Fiuggi è anche terra d’acqua. Nel suo sottosuolo dimorano, fluiscono acque che stanche di restare chiuse nella terra, prorompono poi in fiotti benefici da regalare all’umanità. Nella sua nota introduttiva a C’era una volta il mare …, lei stessa ci parla della importanza psicologia, io aggiungerei anche fisica, che il mare e tutte le sue sfaccettature, ci possono dare. Si sente giustamente mediterranea, lo custodisce profondamente in lei questo sentimento e nella lirica Donna Mediterranea la Affinito si racconta, si confronta, si dichiara appartenente al Mediterraneo. Questo mare è pieno di fascinazioni perché non è solo acqua: è scrigno di tesori persi da navi vittime delle sue bufere; contenitore di conchiglie che
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sono per lei I monili di Nettuno, e non si sbaglia perche esse incamerano tutti i suoni presi da quel nulla da cui si sono formate. C’è poi il corallo con i suoi colori tra cui il bianco senza venature da spezzare l’incanto. E qui torna il richiamo al suo colore preferito. Quel bianco che l’avvicina alla Dickinson. La Poetessa sa che viviamo in una società complessa, e che per questo bisogna guardare in più direzioni. Ecco spiegato perché è attratta dalle parole che mette nei suoi racconti e nelle sue poesie. Ma anche dalle forme, che prendono corpo dal suo sapiente uso di matite e colori. E ancora dalla musica che è in noi, nella natura, nelle cose; e che per ascoltarla basta tendere l’orecchio nell’assoluto di un silenzio intimo. Isabella Michela Affinito ha tantissimi interessi che sono delle autentiche passioni, tutte vive e presenti in lei. Come disserta Hume, nel suo “Trattato sulla natura umana”, nulla può ostacolare o rallentare l’impulso di una passione, se non un impulso contrario. Per la Affinito mi piace pensare che questa condizione è difficile che si verifichi, poiché sono convinto che riesce a fare suoi anche gli eventuali impulsi contrari. E nel caso si presentassero, trarre da questi passioni da affiancare, non sostituire, a quelle che sono già in lei consolidate. Salvatore D’Ambrosio
BACI Mia nonna segnava il pane con una croce. Io baciavo la croce odorosa e mangiavo il pane caldo che sembrava cantare. Certo di tutti i baci che ho dato poi nessuno l’ho dato con tanto goloso fervore. Ada De Judicibus Lisena Da Omaggio a Molfetta, Edizioni La Nuova Mezzina, 2017.
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VIAGGIO PANICO NELLA COSTELLAZIONE DI ANTONIO CRECCHIA di Domenico Defelice
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L mondo culturale e umano di Antonio Crecchia è costantemente colpito e scosso dagli avvenimenti che quotidianamente si verificano. I suoi versi, ma anche le sue prose - si leggano, per esempio, i suoi aforismi hanno, spesso, come tema un “mix di bene e di male” che caratterizza l’uomo e il suo agire, rispecchiano, cioè, “un mondo che naviga/nelle acque marce e paludose/ della più bruta abiezione”: incendi dolosi, che rendono in cenere la splendida flora, perpetrati da “bruti” che “Hanno gli occhi acuti/dei demoni maligni/(..)/, insani e pervertiti”; i terremoti, allorché “Il cuore si ferma/in ascolto” di altre scosse che distruggono e uccidono; l’ abbandono delle campagne causato da una politica che le rende invivibili, quando dovrebbero essere l’oro e l’argento dell’ esistenza (“Tutto va in rovina,/dacché l’aratro è finito/nel museo delle cose antiche/e l’uva più non matura/su queste terre solatie”); il dissesto di strade e ponti (come il Morandi di Genova), con decine e decine di morti, a causa della mancata manutenzione derivata da eccessiva ingordigia e amministrazioni e politici collusi, corrotti o inetti, che “giocano a fare… i soldatini,/in guerra con tutti,/amici soltanto con gli amici/che portano all’occhiello/la bandierina di partito” e neppure sempre, se si dilaniano spesso tra loro; le stragi, come quelle efferate di Parigi, o di “El Paso, Dayton: morti e feriti. Stragi/di esseri umani, ventate di follia”; la parola, addirittura, più non usata come dono impareggiabile, ma come arma letale: “Una macchina feroce/la lingua dell’ uomo:/ la violenza ha del fulmine/e del tuono il fragore”. Tutto, tutto mette in subbuglio la sua estrema emotività, accresce la sua inquietudine. C’è, per fortuna, ad addolcire il suo animo,
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da quanto detto esacerbato, la Natura e in particolare quella assolutamente splendida del Molise. Così, i suoi versi s’ingioiellano di alberi di fichi, pioppi, salici, mandorli, ontani, ciliegi, gelsi, acacie, mimose, ailanti, campanule, papaveri, calicanti, rose canine e farfalle, serpenti, passeri, pettirossi, colombi, albatri, rondini, rigogoli, gazze e tortore, nei boschi, sui sentieri e “nel silenzio meridiano/dei campi spogli di grano”. Una Natura - quella molisana - che ci ha sempre affascinato e commosso fin dal primo nostro impatto in occasione di una visita, a Campobasso, all’ amico Nicola Iacobacci. Monti, colline, valli, piccole pianure, la lupinella, il grano: per molti aspetti, il paesaggio molisano ci richiamava quello della nostra Calabria, impreziosito, però, da una quasi assoluta mancanza di delinquenza e di delinquenza organizzata. Guardavamo con invidia le chiavi appese alle porte, il cuore esacerbato, grondante bile e rancore per un accostamento involontario e spontaneo con la criminalità diffusa nella nostra regione, nella quale ogni casa s’era per necessità trasformata in fortilizio. La ‘ndrangheta respirata anche nell’aria, neppure la possibilità di avere un certificato senza un inchino al protervo, sudicio, odiato capobastone; una, tra le tante cause, oltre la cronica mancanza di lavoro, che ci ha costretti all’ esilio, all’abbandono. Rivolgendoci all’amico Nicola, esprimendogli la nostra ammirazione per il Molise, imploravamo il suo aiuto, affinché l’amore nostro per la sua terra non ci facesse del tutto dimenticare la nostra Calabria: “Aiutami, Amico, a non tradire/il Sud”, gli scrivevamo nel gennaio 1973, perché, al contrario di come avviene nel tuo Molise, lì, nella nostra Calabria, “Tra gli ulivi/s’aggira il serpe, cadono i giusti,/il sangue già copre l’ Aspromonte”. A lungo, dopo aver conosciuto il Molise, abbiamo vissuto il dramma, il dilemma dell’ odio e dell’amore verso la nostra terra. tanto che, con l’altro nostro amico, il calabrese Franco Saccà, auspicavamo e promettevamo, nel maggio dello stesso anno, di trasformarci entrambi, noi e lui, una volta morti, in “Pe-
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renni, divinità vigilanti”, tali che sarebbe bastato un solo nostro gesto ad allontanare, e per sempre, la cappa (il nembo, la nuvola) delinquenziale che opprimeva e, che, purtroppo!, ancora opprime la nostra terra (il suo e il nostro più grande amore): “le mani alzeremo a disperdere/nembi ora noi flagellanti/e il nostro unico amore”. Al di là di molti altri aspetti, è il quanto da noi appena espresso che ci rende particolarmente gradito il mannello di versi di Antonio Crecchia. Una terra a noi apparsa subito favolosa e che egli canta nella cornice delle quattro stagioni, con le colline che a noi sono apparse, negli anni settanta, “aperte al respiro dei venti”, con “le piche/che (s’alzavano e) s’alzano pigre dai querceti”, con “il mietitore” che rideva “dagli arazzi gialli/del grano”, con le sue sacre (in particolare, I Misteri), le sue tradizioni, la sua pace, il canto dei suoi tanti poeti. Perciò, abbiamo trovato calzante la dedica che l’Amico ci ha rivolto inviandoci “questi versi conditi/con il sale della mia terra,/il Molise,/al quale è intimamente,/come me, legato”. Riportiamo per intero una, per noi, delle sue liriche più belle: A ritroso nel tempo
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A passi lenti, i sentieri ripercorro della memoria. Mi guidano gli stupori sempre vivi annidati dentro le pieghe intime dell’anima. Colline lucenti che degradano verso valli profonde; dirupi che s’affacciano su allegri ruscelli; musica stordente di cicale che lacera il cuore ardente dell’estate. Cammino. In volo a ritroso, sui floridi campi d’un’era tramontata il pensiero ritrova volti arsi di sole, bagnati di sudore, sorridenti, sulle labbra una canzone di gioia, di amoroso ardore verso quel mannello di paglia e di grano che stringono in mano, calice d’oro, premio d’intenso lavoro, nutrimento sicuro per quattro stagioni. “Cammino. In volo a ritroso” a passi lenti; colline, dirupi, “allegri ruscelli”, il fiume Biferno; volti sorridenti; mannelli di paglia che amavamo disegnare trascolorandoli nelle nostre tante chine paniche e metamorfizzate; calici d’oro (mitica la nostra sbornia colossale, una cinquantina di bicchieri tracannati durante la nostra prima serata in Molise, trascorsa a far visita agli amici e alle loro cantine scavate nella roccia, a Mirabello Sannitico). Sì, un vero “volo a ritroso”, per noi, la lettura di Costellazioni di Versi, un ritorno con la memoria a giorni felici, a entusiasmi, a scorpacciate di ciliegie, ad assordanti e paniche litanie di cicale. Domenico Defelice ANTONIO CRECCHIA - COSTELLAZIONE DI VERSI - Introd.ne di Daniela Marra - Ediemme - Cronache Italiane, 2019 - Pagg. 104, € 16,00. ←Qui a fianco: Domenico Defelice: Giugno, acquarello (1964), proprietà Antonio Iannnitto, Campobasso.
A NICOLA IACOBACCI Il tuo Paese per amore ho conosciuto, le colline aperte
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sulla scala di Luigia all’ora della luna quando le stelle non si potevano più contare e ci sussurravamo che Silvio e Titina la facevano a più non posso sopra il fieno del pagliaio. Di ciò ad ore ed ore si parlava tanto che ognuno in sogno lo vedeva ma nessuno sapeva che sapore aveva. Gianni Rescigno
al respiro dei venti, le piche che s’alzano pigre dai querceti. Il Molise somiglia un poco alla mia terra e non ha scatti d’ira. Echi sepolti nella memoria ridesta, gemma l’infanzia la Sacra dei Misteri; ride il mietitore dagli arazzi gialli del grano; la tortora mi chiama, mi chiami col tuo verso...
Da Il vecchio e le nuvole, BastogiLibri, 2019
I DEVASTATORI Aiutami, Amico, a non tradire il Sud. Tra gli ulivi s’aggira il serpe, cadono i giusti, il sangue già copre l’Aspromonte. Domenico Defelice ___________________________________ LA MIA POESIA La poesia mi piace quando canta, quando nel dir le cose segue un ritmo che si dispiega con naturalezza seguendo un filo magico che incanta.
Hanno sradicato sradicato sradicato degli alberi Un bombardamento non avrebbe devastato di più E il cuore di Rambouillet piange Hanno mutilato il parco i nostri decenni talvolta un’intera esistenza di ricordi felici Hanno danneggiato la nostra vita Béatrice Gaudy Parigi, Francia N. B. Secondo i giornali locali, oltre 600 alberi sono stati sradicati alla fine dell’autunno del 2019 nel parco di Rambouillet, città della regione parigina.
Mi piace la poesia con l’assonanza di studiate parole per il suono della parola stessa, che in sostanza pur senza rima ben renda il concetto. Mi piace la poesia, che oltre a questo esprima un sentimento e tocchi il cuore e dia sollievo alle cure di chi legge e lieve lo accarezzi nel dolore. 2 febbraio 2020 Mariagina Bonciani
L’ANGELO DELLA NOSTALGIA L’Angelo della Nostalgia delle memorie amate, a volte guida a zone lontane: arcane assenze richiami echi di sognate armonie.
Milano
L’AMORE DISEGNATO Allora l’amore si disegnava sui vetri appannati di gennaio: cuori trafitti dalle frecce con i nomi di Laura e Tonino. Ce lo passavamo di bocca in bocca
L’angelo scorre spazi ascensionali sfiora limiti: l’anima trema di strane inquietudini, quasi un senso di esilio l’anelito ad un ritorno. Il suo volo è trasognata preghiera. Ada De Judicibus Lisena Da Omaggio a Molfetta, Ed. La Nuova Mezzina, 2017.
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DUE LETTERE Oh come mi sia rimescolato, tra i miei mari, puoi intuirlo solo tu, carissimo Giuseppe, così come sai che ancora non mi sono riconosciuto, in questa guerra. Tra cuori e paesi straziati, il supplizio quotidiano di irraggiungibile armonia mi dilania le membra, mentre sempre, nonostante le ferite, l’acrobata ci riprova, testardo e appassionato. Il mare torbido percorso a piedi o in pedalò fin quasi all’orizzonte, lambiva la riva di cannolicchi mattutini di Lignano Sabbiadoro; tra formine e partite a bocce mia madre fioriva nella sua innocente infanzia. Il freddo limpidissimo striato Mar Ligure, con sassi apparentemente levigati, invece affaticava e stupiva la mia, con dolorosi graffi di scogli tra cugini e immensi azzurri aperti tra le vele. Il Mare del Nord mi ha spinto due metri sotto per porgere innumerevoli scoperte e lì mi sono sentito giovane uomo, libero perché insieme. Poi gli amici, dai quali non vorresti allontanarti mai, sono diventati uomini indifferenti tra uomini indifferenti ed io mi sono sentito mutilato, ritrovandomi negli anni come pietra prosciugata, per aver smarrito e cercato invano, la comunità di Fratelli. D’improvviso il velo che appannava l’ esistenza si è squarciato per me, sì per me di nuovo fibra dell’universo, semplicemente nell’immenso mare dei suoi occhi d’amore, per un tempo che, come tutti, non siamo riusciti a dilatare verso l’eterno. I miei mari vissuti con la salsedine tra i capelli o immaginati in notti sudate, ora mi sferzano nell’inesprimibile nulla, mi affogano nella solitudine di uno sfinito superstite lupo di mare, sembra che le corolle di tenebre circondano il mondo, sempre perché ancora non mi credo in armonia. Eppure lo sguardo curioso verso levante (e non so se tu l’abbia letto o scoperto naturalmente in te) ha ricordato alla mia mente che la percezione dell’armonia contiene il tutto
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(non solo limpida calma e bonaccia soleggiata, ma immobile grigio e tempesta devastante), giri immortali nelle immagini passeggere delle esistenze, bianco e nero sinuosamente abbracciati e reciprocamente invasi da punti diversi. Così i tuoi occhi lucenti, ricordando versi, riescono sempre ad afferrare con energia vita piena, antica, feconda e a condividerla, nonostante l’affanno degli anni. Sento che l’immenso di questa mattina che mi illumina, potrà nuovamente sorprenderci. Lorenzo De Micheli (Genova)
Carissima Artemisia, il tuo nome mi accompagna in questi anni, tra calde e curative tisane, nelle sere difficili. Tu, che sei alla fine riuscita, rinunciando a tanto, ad essere semplicemente artista, a difendere la persona anche se il mondo non le permette di vivere interamente se stessa, non riesci a credere che questi tempi si stiano tingendo nuovamente di rosso. E le vecchie ipocrisie di secoli rinascono come Idra. Il sangue sgorga da gole rosate di donne o fanciulle che dicono no, che vogliono modificare e dare senso alle esistenze, non essere ritratto come martire, ma umanità, insieme. Se solo tu potessi dipingere queste persone, come sai fare, senza idealizzarle ma con la potenza drammatica della realtà di tutti, forse l’essere umano vedrebbe lo scempio che perpetua; il coltello però è ora nelle mani di Oloferne e Giuditta è sola, anche le ancelle si stanno allontanando. Uomini e donne attorno a me parlano e scrivono di femminicidio, ma questa parola, lo sappiamo bene, stride feroce. Non uccidi una femmina, uccidi una persona che non può più esprimere le diverse parti di sé. E l’essenza femminile, non è un patrimonio esclusivo, ma permea l’universo, nei suoi chiaroscuri. Riusciamo a colorare nuove striate pennellate? Patrizia De Rosa (Genova)
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UNA SERATA AL CENTRO MARIO PANNUNZIO di Leonardo Selvaggi I NA giornata importante per il Centro di studi e ricerche "Mario Pannunzio": si festeggiano i vent'anni della sua fondazione; ricca e multiforme la sua operosità, prestigiosa costantemente la sua presenza nella vita culturale della città, muovendosi in quell'atmosfera magica creata dal sempre compianto Mario Pannunzio. Come sempre si trova protagonista con le sue iniziative nei momenti più significativi per la città di Torino, portando manifestazioni di vitalità. Oggi il Centro dà i suoi contributi culturali con la X edizione del Premio "Pannunzio" inquadrandosi nella straordinaria gamma di attività del Primo Salone del Libro. Sono lieto di trovarmi fra tanti convenuti e grato soprattutto per la generosità che il Presidente, l'illustre scrittore Mario Soldati, il Direttore prof. Pier Giorgio Quaglieni e tutti i componenti del comitato culturale hanno voluto dimostrarmi con l'assegnazione del Premio speciale del Presidente della Repubblica per la lette-
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ratura. Ne sono onorato e nel contempo il riconoscimento mi sorprende, mi mette in uno stato di riflessione, che mi porta a riconsiderare la mia persona, gli anni trascorsi a Torino, i problemi dell'immigrazione, gli impegni, i programmi di vita, gli scritti. Il riconoscimento vuole forse vedere una certa maturazione che si ha vivendo per molto tempo come diviso a metà in altre residenze; in una condizione di malumore e di decantazione, con una diversa psicologia, in una posizione di assolutezza e di superamento rispetto alle cose, ai costumi, ai luoghi. Un'esistenza fatta di astrazione e di comparazioni. Un altro uomo, con le radici spezzate, che cammina nostalgico della vita passata, in metafisica considerazione di sé stesso, controcorrente, idealizzando le essenze più autoctone e genuine. Il premio vuole essere forse attribuito avendo per anni costantemente rifiutato i campanilismi, imparato a indovinare nella commistione i vari idiomi e le fisonomie, tutti legati ad un'unica e comune sostanza. Il premio, avendo rifiutato le divisioni e i pregiudizi, avendo imparato ad esaminare la diversità delle provenienze e la loro importanza per un processo di integrazione e di vicendevole arricchimento. Oggi sento che d'altra parte difficile non è trovare l'ubi consistam, in ogni luogo c'è il proprio paese, in mezzo al flusso anonimo delle persone una voce amica, il colloquio in ogni paese quando l'uomo s'incontra e si guarda all'essenziale problema dell'esistenza. La memoria intatta delle cose vissute e delle immagini di altri luoghi, con una sofferta contrapposizione, il richiamo di visioni rimaste sempre amiche nella lontananza di atmosfere diverse. Il Centro "Pannunzio" lo vedo come punto di arrivo, al di là dei limiti regionali, ideale luogo di ampia convivenza, ove vive l'uomo in indipendenza di spirito, luogo conveniente per un immigrato insoddisfatto e desideroso di aprirsi con gli altri, alla ricerca di coincidenze di sentire. Il Centro vive attorno ad un uomo che fece della sua vita un esempio sublime di perseveranza per tutti quelli che l'hanno conosciuto. Animo distaccato e sereno, intelligenza pura al di là di ogni
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angusta limitazione, forza umana di comprensione. L'animo di Pannunzio è di grande equilibrio morale; aveva fondato il settimanale "Il Mondo" per dare a tanti spazio di espressione libera. Voci diversissime vi confluivano mediate e contemperate dalla sua fine sensibilità, voci di grandi autori e voci di giovani esordienti che arrivavano dalla torpida provincia italiana, non ancora devastata dall'insidie dell'industria culturale. Lo stile di Pannunzio era quello dell'uomo di ampie vedute, che detestava le pomposità, con semplicità amava la discrezione e la concretezza. Il "Mondo" di Pannunzio, che ha arricchito la cultura italiana dal 1949 al 1966, rifiuta ogni compromesso, costituisce un punto inconfondibile di stimolo e di riflessione. Uno spazio vitale per gli spiriti spregiudicati, nemici delle etichette e delle ipocrisie. Uomini senza vanagloria, sofferti, l'attaccamento ai principi e il distacco dall'utile personale. Un esame dei sentimenti e dei modi di vedere, i vari momenti di ideazione, mettere a nudo il proprio animo è quello che sento doveroso di fare. Per consentire ancora un giudizio e una valutazione della mia persona, per vedere se giustificazione c'è di contenuti e di principi. Offrirsi in tutta la chiarezza, una disamina minuta di tutto ciò che fa sé stessi, far conoscere le interiori risonanze, le latebre che in potenza hanno la vibrazione dell'essere intero. Notomizzare e poi unire le parti per ascoltare la forte sintesi dell'animo. I pensieri si rincorrono con una velocità straordinaria, voli pindarici che armonizzano e legano quello che appare frammentario. Si corre sulle superfici: le immagini si sovrappongono e si fondono per un linguaggio naturistico in prose icastiche di contenuti vari, tutti sentiti come voci resistenti unite alla persona per ricoprire di pelle sottile e diafana la corposità di ogni giorno. Nell'ambiente del Centro Pannunzio, che vuol far rivivere le migliori e più forti tradizioni di pensiero, tutte protese nella pienezza espressiva, scevre da ogni minima traccia di convenzioni e personalismi, mi muovo con naturalezza e mi piace ripercorrere i temi trat-
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tati che in vario modo hanno sempre fatto parlare il mio intimo, con asprezza e toni flebili, con sofferta nostalgia ed ostinata fermezza, tra idealità e pessimismo. II Sono lieto di trovarmi in questa manifestazione culturale, che vuol essere soprattutto il modo più adeguato per commemorare Mario Pannunzio. Domina invisibile la sua persona vicino all'operato di ogni collaboratore; grande spirito democratico, aperto ad ogni moto di rinnovamento civile, uomo autentico, modesto, generoso, intemerato. La sua forza di riflessione crea la capacità di penetrare nell' intimo della gente. A lui piacevano la chiarezza, gli animi aperti, spassionati. Il contatto umano significava trasmissione di pensieri, colloquio. Sapeva capire i problemi della vita, i tormenti che attanagliano nel profondo dell' animo, stimolava a fare meglio, a perseverare. Aprirsi con lui voleva dire trovare immediata corrispondenza di sentire. Giulio De Benedetti così lo descrisse: "M. Pannunzio era un signore garbato, gentile, talvolta quasi frivolo, ma questa sorridente apparenza nascondeva il freddo coraggio del moralista laico". A lui piaceva considerare i fatti, gli aspetti peculiari della realtà, uomo credente, sereno e mite, non voleva applausi e denaro, ma solo fare onestamente bene il proprio lavoro. Contro i facili dogmatismi, contro i fanatismi. Il suo substrato passionale e psicologico di uomo fedele inflessibilmente ai propri principi. Al Centro "Pannunzio", per suggellare un'amicizia e un impegno di collaborazione oltre tutto. Un modo anche per esprimere il mio saluto a tutti i presenti, onorato quanto mai dal riconoscimento ottenuto. Una promessa per rendermi utile, per operare con maggiore impulso. Esprimo ancora i miei sentimenti di stima e devozione verso il Centro: esso è anche un punto di richiamo. Svolge un ruolo vitale, culturale di grande rilevanza, attivo e pieno di programmi, seguendo le tracce indelebili lasciate dal nostro indimenticabile Mario Pannunzio. Il suo esempio di uomo integerrimo e infaticabile, la sua
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azione di forte penetrazione con il giornalismo a servizio della libertà delle opinioni, per la rivalutazione dell'uomo giusto, sincero, aperto, senza infingimenti. Alieno da frenesia di potere, attivo organizzatore di cultura; un campione di umanità, insomma Mario Pannunzio: con la sua testimonianza brilla in purezza di immagine in quest'epoca tanto difettosa di onestà e di principi di coerenza spirituali. Leonardo Selvaggi
IL TEMPO AMALGAMA Il sale sparso stabile cammino assicura, come saggezza matura gli animi, compattezza alla vita; pure le minestre fermentanti non si decompongono. Il tempo crea incrostazioni, chiarezza sui fatti visti alla luce di fronte. Gli anni che durano hanno forza uguali a pietre ferme coperte di muschio. Vediamo di ferro l'intonaco sulle pareti all'intemperie, le parti strette stanno d'inverno. Nell'amore come sovrapposti insieme da copertura resistente fasciati. Piante vigorose le persone nel matrimonio che non si scioglie, al sole e alla pioggia con radici più lunghe in rete intrecciata tanto nutrimento setacciano. Leonardo Selvaggi Torino
IL MATRIMONIO RENDE UGUALI Distingui i volti giovani sfavillanti all'aperto, diversi e cangianti sulla pelle che si colora. Simili si fanno se duri e vecchi, all'aria stagionati coperti da patina. Uniti insieme, combaciati i volti, stesse rughe, la voce unica incavata da profonde crepe arriva.
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Il matrimonio ha rifatto le persone con una poltiglia di uguale impasto, sono le foglie rossastre di autunno, perso il verde lucente si vedono fuse con chioma allargata. Anche la casa nuova veste ha intorno. Trasformati ì muri le pietre ammorbidite fattesi braccia, occhi in ogni angolo. Le parole trapassano dall'uno all'altra, sono dello stesso tono sopra pensieri distesi di uguale misura. Leonardo Selvaggi Torino
FIGLI DELLA LUNA Noi figli della luna: quelli che bruciano l’anima al sole e non hanno nome, quelli che bevono acqua di mare e catturano l’infinito, quelli che piangono con le stelle d’agosto e non sono visti. Gianni Rescigno Da Il vecchio e le nuvole, BastogiLibri, 2019
DATE UNA ROSA A MIA MADRE Date una rosa a mia madre, una rosa con dieci petali - raggiera delle mie mani al volto suo, quasi avorio. Date una rosa a mia madre lontana, a mia madre - piccolo sole declinante oltre oceano, ormai vaporosa essenza, densa luce che lenta si spegne. Rocco Cambareri Da Versi scelti, Guido Miano Editore, 1983.
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Il Racconto “Digli sempre 'no!': l'avrai ai tuoi piedi come un cagnolino...” Confidenze in monologo di Bobby Moon di Ilia Pedrina
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E l'avevo promesso, ma certe cose son venuto a saperle dopo, quando ho cercato di capire. Quella mi è stata addosso e mi è entrata dentro per anni: ci ha sempre saputo fare con gli uomini, con i giovani e giovanissimi e dalle donne riceveva sempre complicità nel far le corna e provocare mascheramenti all'uopo. Qualcuno deve averle ben insegnato a fare spasimare, per poi spasimare a sua volta, fino a quando non otteneva quel che voleva. La distanza tra quella là e lei non ha mai avuto misura: se si può concepire la misura che sta oltre l'infinito, beh, eccovela pronta la distanza pensabile. E pur di vederla piangere, pur di farla soffrire, quella avrebbe fatto moneta falsa. Voleva farle vedere che con me non sarebbe mai, dico mai finita, che sempre il suo fondo schiena e tutto il resto, buchi nella memoria compresi, mi avrebbe dato alla testa, che sempre... Così le va a dire: “Digli sempre 'no!': l'avrai ai tuoi piedi come un cagnolino...” Potete immaginare cosa le ha risposto? Lei le ha risposto: “Un cagnolino? Un cagnolino e magari al guinzaglio? Perché mai si ha bisogno di un uomo che sia o diventi con te un cagnolino al guinzaglio?” Quella ha riso, quasi ha fatto una risata con ghigno duro, perché non l'aveva fatta star male, perché non era riuscita a creare nel suo immaginario ingenuo ed innocente i differenti scenari, tutti quelli possibili, quando una femmina riesce a trasformare il suo uomo in cagnolino e magari in un cagnolino al guinzaglio. Potete ben capi-
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re perché mi ha sempre inquietato il lavoro di Beckett, quando i protagonisti aspettano Godot, quello non arriva mai ma inciampano in un ricco che tiene il suo servitore al guinzaglio... Si, il guinzaglio, quella misura minima della libertà d'azione che ti è concessa, altrimenti quella ti pianta e tu resti con una pipa di tabacco fra le dita, che è gran poco, credetemi. Provate a figurarvi quella fotografia che presenta Lou Andreas Salomé che siede, cavalca i due filosofi, Nietzsche e il suo amico Paul Rée, che poi si suiciderà, lì carponi a terra, a sostenere il suo corpo a cavalcioni... forse lei, invece del guinzaglio ha un frustino da cavallerizza, adesso non ricordo bene, forse loro due sostengono le barre del carretto e lei, seduta sul carretto, si atteggia ad adoperare il frustino, come se volesse andatura più spinta? Ridevano tra loro? Soffrivano in questo menage a trois, si amavano tra loro due di quell'amore omoerotico sublime che solo i giovani intellettuali tedeschi, tra loro, sanno filtrare e vivere, ognuno per la propria misura di profondità del dolore provocato, rispetto ai sentimenti di desiderio provati dentro e forse anche resi manifesti? Rispolverate con la memoria 'Al di là del bene e del male' della Cavani, e vedrete come la regista investiga nel maschile e nel femminile, li mette a nudo con semplice, altera consapevolezza, come solo lei riesce a fare dietro la macchina da presa... L'8 Marzo, il giorno della donna, come giorno speciale in cui offrire alle donne il mazzetto di mimosa: si, l'8 marzo: intanto le mimose non son affatto contente di farsi spazzolare tutti i loro rametti appena spuntati al sole e preparati alla sua luce fin dall'autunno e dal riposo d'inverno. Per darli a chi poi? Per far vedere un bene che chi sa mai se esiste davvero o se è finzione di circostanza, tanto per tirare avanti? Così intanto il tempo passa? Andatevi a vedere Marito e moglie di Ugo Betti, un grandissimo del nostro tempo, se andiamo un poco all'indietro, si, quello che è nato a Camerino il 4 febbraio scorso, no, mi son sbagliato, il 4 febbraio 1892 ed è morto a
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Roma il 9 giugno 1953 e riflettete su quanta voglia ha il marito, un grigio professore di latino, quanta voglia lui ha che lei invecchi, al più presto, così tutta la sua gioiosa bellezza svanisce e Olga (si, perché la moglie si chiama Olga) potrà restare in casa, quieta quieta, senza più farlo sussultare di gelosia e il bello è che lui anche si interroga: “... lei fa sempre la bambina, senza mai esser ridicola... In quale maniera amare la creatura che ci è vicino?”. Il tema del treno, che si ferma per poco alla stazione e tu riesci a vedere un poco, per un poco i passeggeri che son dentro, che si dicono cose che tu non puoi sentire e poi via! Il treno parte e tutto in velocità s'allontana, anche quelle cose che loro, tra loro, si son dette e loro stessi, insieme alle loro parole, alle loro cose... Cosa abbiamo afferrato di quel tempo loro che non è il nostro ma loro vi sono entrati, anche se per poco? Cosa ne è stato, cosa ne è di noi, di me, di voi, per quel tempo che loro, dall'esterno, hanno guidato e condotto verso il nulla di contenuti? E tutto quel che abbiamo dentro, di memorie e di rappresentazioni, una volta che non si è detto né scritto, vale qualcosa? Siamo avventori al tavolo verde della vita, avventizi sempre e senza volto, così non mettiamo firma e sciogliamo ogni ingranaggio che spinge alla responsabilità? Quando mi confondo così, che non vedo il fondo di niente, allora sempre mi viene in mente lei, si, lei e mi viene in mente quella volta che lei, nella notte, in treno mi era seduta di fronte, elegante, le sue gambe raccolte, le dolci ginocchia ravvicinate... e io cosa ho fatto? Volete proprio che ve lo dica? Con un guizzo, senza che lei nemmeno se ne accorgesse, ho sigillato le sue ginocchia tra le mie cosce e ho stretto all'impossibile e ho cominciato a sudare copiosamente... Quando mi vede così, lei si diverte, sorride, la sua ingenuità le viene dall'intelligenza, credetemi, perché l'intelligenza è luce interiore e lei la possiede per questa ragione; quella là, quella che mi ha fatto per anni suo cagnolino e mi ha fatto un male senza limiti, perché ha scelto un altro, un mio amico che era in
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casa con noi... e così quando io non c'ero, lei poteva con lui fargli fare pure il cagnolino... si son sposati ma lui poi l'ha piantata perché ha capito... quella là, dico, pur volendo a tutti i costi ferirla, farla piangere, renderla gelosa ai massimi livelli, quella là non ha mai potuto farle alcun male, mai! Io a lei voglio un bene che non riesco nemmeno a dire e così sbando deraglio frantumo in mille pezzi gli istanti della mia vita... Quali mimose potranno mai portare alle loro amate i due esperti macchinisti alla guida del Frecciarossa 1000 AV 9565 della linea Milano-Bologna che doveva arrivare fino a Salerno, da Nord a Sud di quest'Italia che troppi vogliono di proposito che non ingrani, dico loro due, Giuseppe e Mario, sbalzati fuori dall'impatto e schiantatisi a parecchi metri dal locomotore? “… Credevo di esser morto. Sono musulmano. Ho chiuso gli occhi e ho pregato...” ha detto uno dei sopravvissuti: lui, almeno, adesso può parlare ai giornalisti... Allora mi è venuto in mente Frana allo scalo Nord, ancora di Ugo Betti di cui, se vorrete, vi dirò ancora e ancora, perché è poeta, scrive in modo coinvolgente e sa da esperto giurista cosa significhi giustizia e sistema giudiziario in Italia- con i morti sotto le macerie, i padroni del Sistema delle Ferrovie, i lavoratori sotto inchiesta che devono sempre subire colpe e responsabilità che forse non hanno e il giovane figlio del Presidente del Sistema Ferrovie che non sta più dalla parte del padre e gli fa sciogliere un poco la corazza di perbenismo capitalista, senza esser sicuro che, ormai, mai nulla potrà più cambiare: lui non ci sta in quel futuro che quel padre-padrone gli ha già predisposto, ha coraggio e prenderà un'altra strada... Quali mimose Giuseppe Cicciù, un bell'uomo di 51 anni, di Reggio Calabria, e Mario Dicuonzo, anche lui bello la sua parte, di 59, proveniente da Capua e residente a Pioltello, vicino a Milano, quali mimose, dico, potranno mai portare alle loro amate? Quali? Ilia Pedrina (Eccetto le figure storiche qui riferite ed i tragici eventi recenti con le loro due vittime innocenti, ogni accenno a luoghi, fatti, persone è puramente casuale).
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Servizio STAMPA I Edizione PREMIO EDITORIALE IL CROCO L’Editrice POMEZIA-NOTIZIE - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM) - Tel. 06 9112113 – E-mail: defelice.d@tiscali.it organizza, per l’anno 2020, la I Edizione del Premio Editoriale Letterario IL CROCO, suddiviso nelle seguenti sezioni : Raccolta di poesie (in lingua o in vernacolo, max 500 vv.); Poesia singola (in lingua o vernacolo, max 35 vv.) ; Racconto, o novella, o fiaba (max 8 cartelle. Per cartella s’intende un foglio battuto a macchina – o computer - da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1800 battute); Saggio critico (max 8 cartelle, c. s.). Le opere, assolutamente inedite (con titolo, firma, indirizzo chiaro dell’autore, breve suo curriculum e dichiarazione di autenticità) devono pervenire, in unica copia, per posta ordinaria o per piego di libri (non si accettano e, quindi, non si ritirano raccomandate) a: Pomezia-Notizie - via Fratelli Bandiera 6 00071 Pomezia (RM), oppure - ed è il mezzo migliore, che consigliamo - tramite e-mail a: defelice.d@tiscali.it entro e non oltre il 31 maggio 2020. Le opere straniere e quelle in vernacolo devono essere accompagnate da una traduzione in lingua italiana. Nessuna tassa di lettura. Essendo Premio Editoriale, non è prevista cerimonia di premiazione e l’operato della Commissione di Lettura di Pomezia-Notizie è insindacabile. I Premi consistono nella sola pubblicazione dei lavori. All’unico vincitore della Sezione Raccolta di poesie verranno consegnate 20 copie del Quaderno Letterario Il Croco sul quale sarà pubblicata gratuitamente la sua opera - lo stesso Quaderno verrà allegato al mensile Pomezia-Notizie (presumibilmente a un numero tra agosto e ottobre 2020) e sui numeri successivi saranno ospitate le eventuali note
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critiche e le recensioni. Ai primi, ai secondi e ai terzi classificati delle sezioni Poesia singola, Racconto (o novella, o fiaba) e Saggio critico, sarà inviata gratuitamente copia del mensile - o del Quaderno Letterario Il Croco - che conterrà il loro lavoro. Pomezia-Notizie, comunque, può sempre essere letta, sfogliata eccetera su: http://issuu.com/domenicoww/docs/ (il cartaceo è, in genere, riservato agli abbonati e ai collaboratori). Per ogni sezione, qualora i lavori risultassero scadenti, la Commissione di Lettura può decidere la non assegnazione del premio. La mancata osservazione, anche parziale, del presente regolamento comporta l’ automatica esclusione. Domenico Defelice Organizzatore del Premio e direttore di Pomezia-Notizie
IL CROCO i Quaderni Letterari di POMEZIA-NOTIZIE il mezzo più semplice ed economico per divulgare le vostre opere. PRENOTATELO! Ultimi numeri pubblicati: ELISABETTA DI IACONI - Camminerò Presentazione di Domenico Defelice, illustrazioni di copertina di Ernesto Ciriello. MANUELA MAZZOLA - Sensazioni di una fanciulla - Illustrazione di copertina della stessa Autrice; Presentazione e traduzione in tedesco a fianco di Marina Caracciolo; Postfazione di Domenico Defelice. VITTORIO “NINO” MARTIN - Sorsate ristoratrici - Illustrazioni di copertina e all’interno dello stesso Autore; Presentazione di Domenico Defelice.
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Recensioni IRENE VALLONE NUOVO RACCOLTO Volturnia Edizioni di Isernia, Anno 2019, Euro 12,00, pagg. 83. Dire che l’Ars poetica regna sovrana nella sfera familiare costituita dal papà Giuseppe, la mamma Irene e la loro figlia Gabriella Nicole Valeria Napolitano, è poco, perché ci vorrebbe una trattazione giustificante per ciascuno. Ricordiamo, ed è verosimile, che l’autentica linfa versificatrice proviene dal grande albero e caposaldo che fu Nicola Napolitano, padre del poeta traduttore ex-professore nel Liceo Scientifico saggista, Giuseppe Napolitano. In questa occasione è la sua compagna-sposa, Irene Vallone, a mostrarci il suo Nuovo raccolto profumato di attimi e azioni ricavati dal suo personale circuito. Lei è una donna, Irene Vallone, che, pur essendo laureata in Economia, si è lasciata piacevolmente aspirare dal vortice delle muse trepidanti che da sempre affollano la mente e gli ambienti di casa Napolitano; muse coinvolgenti, attive e attente che nulla vada perduto della quotidianità vissuta da questa famiglia devota alla scrittura, alla versificazione nel suo significato più versatile. E allora, anche Irene si è raccontata vedendosi per un momento riproiettata da un mirabile Poliedro, in sette scene da lei numerate secondo i simboli romani come avesse suddiviso la sua finora vita in sette comparti. «(I) Bambina lo sono stata:/ ero un’onda di ansia e desideri/ inesauditi/ (correvo verso tenerezze di adulti)// capricciosa e despota/ per vincerle tutte// vedermi bambina è riscoprire/ di ansie un fagotto e di affetti // (II) Effimero è questo mio sentire/ di ter-
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ra e aria/ attraversato dal vento// radici e pensieri/ fogliame frusciante// (VII) Impetuose le fronde/ si dimenano/ vorticando va il vento/ da ponente e da levante// I vetri di questa casa/ anch’essi testimoni/ del maltempo dell’anima mia/ già in frantumi». (Pag. 16-19). La poetessa Vallone tramite la poesia ha recuperato i legami di ieri avuti con persone dal carisma irripetibile che, purtroppo, oggi non ci sono più, quali il suocero Nicola Napolitano, l’editore poeta Amerigo Iannacone, ma anche sé stessa com’era prima, accumulando un facoltoso raccolto, che potrebbe essere un abbondante fascio di rose in nascente aspetto estetico dal sapore tenue come quello che appare sulla copertina di questa silloge, naturale scatto fotografico a colori realizzato dalla medesima autrice. Alcune poesie sono datate risalenti anche a oltre dieci anni fa, ma nel ‘mucchio’ la differenza del lasso di tempo trascorso non si nota minimamente, perché in fondo Irene Vallone è sempre rimasta ancorata ai valori ricevuti, allo splendore posseduto dai paesaggi che non tradisce, alla «Terra che nascondi la pioggia/ conserva di sale, di vita, di pane/ trattieni radici e propaghi profumi// terra di sale di vita di pane/ doni la vita e nascondi la morte/ l’orma di ogni passaggio hai segnato// terra di sale di vita di pane/ profondi parole in un campo di grano/ nascondi le tracce di ogni suo passo». (Pag. 20). A questo punto si sviluppa un pensiero correlativo, considerando soprattutto la titolazione del florilegio, che va a quelle passate distese di campi sublimati dal pittore francese Jean-Françoise Millet (1814-1875) dove i contadini, le spigolatrici, eseguivano i raccolti di frutta, di spighe, di quello che la terra offriva loro nell’atmosfera compunta e operosa benedetta dal sole, giacché erano i contadini ad essere per prima ossequiosi nei confronti della natura, del loro ruolo seppure modesto e alquanto faticoso ma regnava una particolare inedita dignità, infusa dall’artista nei suoi dipinti di scene rurali. Millet fu molto ammirato da Vincent Van Gogh, di quest’ultimo ricordiamo il fascio degl’ indimenticabili girasoli nel vaso e le distese d’ariste assolate. «Lasciateci i casolari antichi/ spogli di vita a echeggiare ricordi/ di grida di fame e miserie// che i rovi li avvolgano/ e d’acciaio gli aculei/ sdentino le falci e le fauci/ sulle mangiatoie di fieno/ che sanno di campo/ e profumate cagliate// lasciatemi sentire contadina/ di paglierino e di muffe/ e col fumo lasciatemi imbiancare». (Pag. 13). C’è una lirica, Introspettiva, che rimanda a quella scenografia paesaggistica tipica dell’Europa dell’ Est dove scorre il celebre fiume Danubio blu, per quasi tremila chilometri lambisce una decina di
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Paesi ed è entrato nella storia della musica grazie alla famiglia Strauss; scenografia aspra austera perlopiù montagnosa di rocce calcaree dove avviene il cosiddetto fenomeno carsico, l’azione corrosiva dell’acqua modificante la fisionomia delle rocce millenarie. Ebbene, l’introspezione di cui parla la poetessa è riferibile a quell’azione solvente dell’ acqua che s’insinua nelle fessure rocciose dove avvengono le trasformazioni chimiche; così è il suo guardarsi dentro per spiegare i propri spontanei fenomeni ‘carsici’. «Siamo tutti grandi fiumi carsici/ penetriamo nelle profondità dell’anima// e barlumi di luce a specchio/ lasciamo intravedere/ dalle forre// fissità di pensieri/ su orizzonti alla deriva/ sullo strappo un telo blu 15 settembre 2008» (Pag. 23). Non potevano mancare versi dedicati ai suoi cari più vicini, quali il marito Giuseppe e la figlia Gabriella Nicole Valeria vista come un meraviglioso poema che si sta formando: lei (Gabriella) è cresciuta, si può dire, in braccio alle muse ispiratrici del padre e della madre, quindi, non poteva non essere a sua volta compositrice di versi a modo suo, secondo il suo giovane stile per rifinire, quasi una cornice a mano lavorata, il quadro letterario comprendente la sua artistica famiglia. «Va veloce la mia bimba/ con le dita sulla tastiera// E pensare che pochi anni fa/ - sono quasi diciassette –/ sulle ginocchia del suo papà/ (con la capoccetta sorridente/ appena sopra la scrivania)/ guardava curiosa le dita/ del papà sulla tastiera// E seguiva le parole/ che piano si componevano/ nella poesia che lei è. 28 marzo 2019» (Pag. 77). Isabella Michela Affinito
MANUELA MAZZOLA SENSAZIONI DI UNA FANCIULLA Traduzione in tedesco a fianco di Marina Caracciolo; Presentazione di Marina Caracciolo, Posfazione di Domenico Defelice - Supplem. al n° 12 (Dicembre 2019) di “Pomezia-Notizie”. Avranno notevolmente influito sia le traduzioni in tedesco delle poesie presenti nel Quaderno di Manuela Mazzola, sia l’immagine di copertina a colori della stessa raccolta, alla rievocazione dell’ inconfondibile atmosfera smarrita e dilatata dei dipinti di Caspar David Friedrich (1774-1840), pittorepioniere del Romanticismo tedesco che fu anche amico dei connazionali Goethe e Schelling. Egli fu il pittore delle rovine rimaste in atteggiamenti di rassegnazione per l’inevitabile loro disfacimento, delle lastre di pietra aguzze e tombali, dell’uomo in infinito dialogo con l’orizzonte, delle croci conficcate sulle rocce sul punto più alto dell’ineluttabilità,
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della solitudine sviluppante esperienza spirituale; lui dette inizio alla pittura suggerita dal didentro dove i differenti stati d’animo cercano, gomito a gomito, di farsi spazio, prevaricandosi in ogni momento conferendo perenne inquietudine all’uomo. La poetessa Manuela Mazzola, nata a Roma e laureatasi in Lettere all’Università “La Sapienza” della capitale, pare sia salita sulla vetta più alta delle proprie Sensazioni per dare vita ad un malinconico (romantico) monologo in versi dall’esigenza voluta dal cuore: «[…] una sorta di balcone dal quale avere il modo e il tempo di cogliere varie immagini di vita che la colpiscono e insieme l’aiutano a divenire più grande. Immagini dolci-amare, immerse nell’universo che la circonda e che l’attende, nel quale ella sa, tuttavia, che dovrà combattere con incrollabile energia se non vorrà esserne sopraffatta.» (Dalla Presentazione di Marina Caracciolo). La prefatrice di Torino, Marina Caracciolo, ha anticipato di gran lunga, forse inconsapevolmente, giustappunto l’atmosfera fertile di autocoscienza che fu di Friedrich e alla Caracciolo si devono le mirabili traduzioni in tedesco che appaiono a fronte di quelle della versione in italiano composte dalla Mazzola. Due voci con suoni dissimili per varcare l’inconoscibile che regna in ciascuno di noi. Friedrich diceva di ricercare la solitudine per avere la possibilità di fondersi coi suoi paesaggi sterili di
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emozioni, con le nubi minacciose, con le imbarcazioni senza una rotta precisa, con gli alberi che offrono i rami al sacrificio delle intemperie nell’ incastro tra vita-morte, primavera-inverno, caldofreddo, foglie-nudità, chiasso-silenzio. «Prorompe nell’oscurità/ il mio urlo alla solitudine./ Sospeso nel nulla/ il mio grido combatte/ senza armi il mondo./ L’eco ossessionante mi perseguita e/ se non avessi cuore mi distruggerebbe. » (Pag. 20). La Mazzola, altresì, ha fatto sue queste verità così lontane, in senso cronologico, da noi, eppure sono di oggi gli affanni per sopravvivere perché l’ esistenza umana sembra più fragile che nel passato. La natura si manifesta anche soprattutto per simboli, che gli animi più sensibili raccolgono per farli diventare ‘voce’ della propria anima, quindi un canto che sa delle quattro stagioni con tutte le loro sfaccettate peculiarità. «Un venticello tiepido mi plasma il viso/ ed i sentimenti,/ come se fossi un albero/ vecchio di cent’anni,/ forse sì, sono vecchia./ Ho già vissuto la mia vita/ e cerco invano di viverne un’altra,/ di un’altra donna estranea al suo destino.» (Pag. 6). Come dai quadri di Friedrich era visibile, è tuttora visibile la nudità della sostanza ritratta col trionfo della vera protagonista, ossia la solitudine, così dalle poesie di Manuela Mazzola viene fuori la ‘landa’ dove è vissuta la fanciulla che in sé ha custodito le impressioni avute in diverse occasioni. Era giovanissima, l’autrice, e al tempo stesso si sentiva vecchio tronco nell’atmosfera irreale della nonveritiera età; forse aveva troppo presto acquisito il senso della caducità di ogni cosa e questo la rendeva, l’ha resa così vicina allo struggimento, uno degli elementi-cardini della corrente Romantica. «Dipingevo il mondo in bianco e nero,/ perché così vedevo il mondo:/ l’amore e l’odio,/ l’umiltà e la superbia,/ la bontà e la malvagità./ Dura ed inflessibile gridavo ai miei quadri./ Ora il mio universo conosce tante sfumature,/ è soffice ed armonioso,/ flessibile ai venti./ Oggi non grido più,/ ma sibilo appena.» (Pag. 24). Poche notizie traspaiono dalla scheda biografica dell’autrice, in quarta di copertina, per riuscire a capire il suo universo quotidiano, tuttavia lei ci ha consegnato questa crestomazia poetica così globale nella sua essenzialità dove chi è solo non lo è mai veramente, perché comunica con l’interlocutore più diretto del momento: sé stesso! Diceva lo scrittore francese Albert Camus, premio Nobel nel 1957: «Quale solitudine? Ma non sai che non si è mai soli? E che dovunque ci portiamo addosso tutto il peso del nostro passato e anche quello del futuro? Ah se solo potessi godere la vera solitudine, non questa infestata di fantasmi, ma quella vera, fatta di si-
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lenzio e di tremori d’alberi. » (Dal Dizionario delle idee, dei pensieri e delle opinioni di Mario Lettieri, De Agostini Novara, Anno 2002, pag. 592). Isabella Michela Affinito FRANCESCO D’EPISCOPO LA POESIA DI IMPERIA TOGNACCI Inquietudine dell’infinito Genesi Editrice, 2019 - Pagg. 94, € 11 Francesco D’Episcopo! Credo che il sogno di ogni autore sia di essere degno delle sue parole. Lo è stata, senza dubbio, Imperia Tognacci. Conobbi la sua poesia leggendo la silloge “Natale a Zollara”. Mi piacque tanto che, per tempo immemore, trattenni il volumetto sul mio comodino perché potessi riassaporare, al bisogno, il suo intenso pensiero. Raccontava in versi, un tuffo nel passato in tempo natalizio: sua madre tra teneri merletti, la sorella Diva, i nonni, alcuni nostalgici momenti di festa. Una poesia di ampio respiro, quella della Nostra Autrice, che si nutre, alla base, di un grande sentimento di fede. Tale sensibilità ci viene trasmessa attraverso parecchie delle sue opere e, in maniera particolarmente singolare, ne “La notte del Getsemani” in cui la partecipazione al Cristo sofferente è palpitante e reale, a principiare dall’evento nell’orto degli ulivi, la cui dolorosa partecipazione ci coinvolge tutti, fino alla tragica conclusione. Mi è venuto spontaneo liberare un breve pensiero su Imperia Tognacci che mi ha affascinato tanto, prima di prendere il via ad una lettura molto molto importante, in grado di attrarre qualunque lettore alla lusinga dei versi di questa sensibile poetessa: il pensiero prestigioso del noto, ammaliante letterato Francesco D’Episcopo. Parlare dell’illustre docente universitario in questi termini è quanto meno semplicistico ma non è questo il mio fine. Forse la mia è una modalità apparentemente un po’ strana di voler acclamare la sua seducente capacità espressiva, ma credo che, prima ancora della competenza, degli attributi di ogni genere e tipo che gli vengono giustamente conferiti, conti molto il sentimento e la capacità di coinvolgimento che accompagnano le sue parole. A questo punto, sebbene superfluo, cercherò di dare un brevissimo cenno sulla sua attività letteraria. Docente della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Federico II, membro delle Associazioni degli italianisti italiani, tre sono i luoghi (si legge nel suo curriculum) che hanno segnato il percorso intellettuale di D’Episcopo: il Molise, luogo di nascita, Salerno suo luogo di scelta residenziale e
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di affinità intellettuali, e Napoli, città delle radici paterne e patria d’elezione, Sottolineo i suoi luoghi di origine per mettere in risalto che questi hanno sempre avuto nella sua anima. Va da sé, ed è anche ben motivata per l’importanza del personaggio, la ragione per cui il nostro critico intraprenda il commento della scrittura della Tognacci proprio sottolineando la casualità della nascita della nostra autrice in San Mauro Pascoli, terra nativa del grande Pascoli che, ovviamente, eserciterà una consistente influenza sulla bimba Imperia prima, e sulla studentessa successivamente. Sulla pubblicazione della Tognacci, Francesco D’Episcopo sviluppa una inchiesta attenta e approfondita, nel suo inconfondibile e intenso stile, collocando l’Autrice in un posto di spicco nel panorama letterario della società contemporanea. Ciascun commento sulle varie sillogi è perfettamente delineato. Non c’è fretta né improvvisazione, ma soltanto il piacere della scoperta del senso profondo dei versi. Nella sua analisi, D’ Episcopo mette in luce tutta la delicatezza e la profondità di sentimento dell’anima della poetessa e, principiando da quello religioso, apre le porte alla comprensione del tutto, mentre si consolida in noi la innegabile realtà di una poetica congiunzione emotiva tra il famoso Poeta Pascoli, la Tognacci e la terra di origine, resta più preciso e incancellabile, il ricordo dei suoi versi. Anche in questa scrittura come in tutte le sue pubblicazioni, Francesco D’E piscopo coniuga la sua immensa e svariata cultura letteraria con una attenta esposizione stilistica in un gradevole, sottile gioco intellettuale. Ne viene fuori così, un libro di critica avvincente che, oltre ad offrirci idee chiare sulla poetica di Imperia, ci partecipa la grandezza di un’Autrice che, come già accennato, è collocabile alla pari, se non al di sopra, dei grandi poeti del nostro tempo. Anna Aita FRANCESCO D’EPISCOPO SULLA SOGLIA DEL DOMANI (Editore Il Convivio, Castiglione di Sicilia CT, 2019, € 14,00) Sulla soglia del domani è il titolo del nuovo libro di poesie pubblicato da Francesco D’Episcopo, risultato vincitore del Premio Emily Dickinson 2019. Per parlarne, iniziamo col dire che quella di D’ Episcopo è una poesia di giorni e di stagioni, di attese e di ritorni, di cose amate e di cose perdute, come di persone che ci furono vicine e che non sono più.
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Ecco allora affacciarsi nei suoi versi città come Salerno, che “sa di sale e vento” e che entra all’ improvviso nei suoi pensieri; ecco allora Amalfi, la cui strada “si avvolge / in una spirale di luce”, che rapisce e porta lontano; ecco Napoli, “la fidanzata”, che per D’Episcopo rimane la città più amata; ecco il ricordo improvviso dell’amico morto, il cui ultimo appuntamento è mancato (A Maurizio); ecco la casa materna, alla quale il poeta fa ritorno per avvertire nottetempo ancora la presenza di colei che non è più, e così via. Molte sono in verità le poesie di questo libro che ci colpiscono; i momenti in cui l’emozione è efficacemente colta e trasmessa al lettore, che ne diviene partecipe. Ciò accade, ad esempio, per una poesia quale Figli, che così inizia: “Figli, / mi basta essere / nei vostri distratti pensieri, / nel vostro attento cuore” o per una poesia quale Non puoi chiedere, dove si leggono questi versi: “Non puoi chiedere / alla vita / di venirti incontro / se si è smarrita altrove. / Non puoi chiedere / all’amore / di seguirti, / se non sa camminare / né sa più dove andare” (Non puoi chiedere). Uomo innamorato della vita, D’Episcopo la canta con passione, benché dai suoi versi emergano anche il dolore e il rimpianto, come accade in Quel che resta: “Resteranno di noi / gli oggetti che non abbiamo mai usato, / i libri che non abbiamo mai letto, / gli amori che non abbiamo mai vissuto, / i sogni che non abbiamo mai realizzato”. Varia è la sua tematica, che va dal mondo degli affetti familiari (la madre, il padre, i figli, la moglie) a quello dell’arte (Poesia); dalla rivisitazione del mito (Ulisse ed Enea) all’amore (Porta d’ amore); dalla meditazione esistenziale (La grotta) al semplice gioco (Una matita). Particolarmente toccanti sono in D’Episcopo le poesie che riguardano il mondo degli affetti, del quale è un esempio Padre: “Padre, / avevi ragione tu / quando a tavola dicevi che era più importante / parlare con te, vivo, / piuttosto che interrogare i morti” o Ciò che non sono: “Grazie, / amor mio, / per avermi / aiutato a vivere / per avermi ricordato, / ogni mattina, / che esiste anche il mondo / tutt’intorno”. Nascono poi i soprassalti dell’anima, che ci colgono all’improvviso e che ci fanno soffermare, come avviene in Sulla soglia: “Ci sono molte cose / che ci attendono sulla soglia, / vere, vive, ancora / prima che la porta si chiuda”. Poesia riflessiva, quella di D’Episcopo ha talvolta un tono sentenzioso: “Tutti vedono ciò che sembri, / nessuno sa ciò che sei” (Machiavelli); “C’è un oltre, / che risarcisce il destino” (Oltre); “La morte è di chi la subisce / ma anche di chi la dà” (Morti).
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Ma si leggano anche certe sue visioni cittadine, piene di stupore e di attesa, come Parigi: “Sono pieno di te, / città d’amore / … / di giardini profumati di meraviglia, / di cimiteri carichi di nostalgia…” o certe notazioni immediate che D’Episcopo coglie con disinvolta leggerezza in certe brevi poesie, quali Nostalgia: “Nostalgia di una terra / aspra e felice, / che mi ha fatto suo, / di una donna / bella come il cielo…”. Caratteristica di queste poesie è poi il canto aperto, che va incontro al lettore con immediatezza e abbandono: “Anni della mia vita, / che m’avete fatto compagnia” (Anni); “Vento, amico mio, / non lasciarci soli, / continua a soffiare / sul nostro destino” (Vento). Né manca in queste poesie di D’Episcopo la riflessone sul tempo, con la quale la raccolta si chiude: “Nulla è più giusto di te, della tua voce” (Tempo); e si tratta di una meditazione che ci porta lontano. Un libro ricco di molteplici spunti e di felici esiti Sulla soglia del domani, che degnamente fa seguito al precedente Vita, con il quale D’Episcopo aveva fatto il suo ingresso nel mondo della poesia. Elio Andriuoli VITTORIO “NINO” MARTIN SORSATE RISTORATRICI Il Croco/ Pomezia-Notizie, gennaio 2020, Pagg. 32 Vittorio “Nino” Martin è pittore e poeta friulano di Caneva (1934) che lascia il segno, nelle sue opere, di un “realismo graffiante” originato dalla propria esperienza della fanciullezza vissuta con sacrificio e di emigrante in Svizzera e in Francia. A ragione, nella presentazione, Domenico Defelice sottolinea trattarsi di un artista fattosi da sé e che pertanto non segue, né è classificabile, in alcuna corrente, ma segue l’istinto impregnato della “tensione per una umanità smarrita e sofferente” per le troppe ferite inferte alle persone e alla natura; altresì aggiunge che i singoli componimenti poetici sono come un “blocco unico”, perché esprimono un discorso compiuto. I venti componimenti di Sorsate ristoratrici, fluiscono evidenziando l’urgenza della comunicazione, così pure le nove figure riprodotte sono di immediata comprensione. In apertura le sorsate si riferiscono al beneficio che il Poeta trae dalla lettura di “un buon libro” poiché “dà importanza alla persona,/ arricchisce l’anima”. È da questo enunciato che prendono corpo le emozioni e le considerazioni che il Nostro formula; per esempio a proposito del dialetto, giudicando “efficace essenza dell’anima,/
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la voce di mamma”; e di conseguenza tutte quelle tradizioni e radici abbandonate a favore di beni voluttuari, per illusoria felicità, che la propaganda ci propina martellandoci e ai quali i politici non pongono argini. Ovviamente “dialetto” e “radici” non vanno intesi in contrapposizione alla lingua e al Paese che ci uniscono. Le autorità territoriali non si prendono cura dei bisogni della popolazione a sufficienza e in particolare rispetto agli impedimenti fisici di alcune persone. Così avviene che i torrenti si ingrossano ed straripano, fiumi di fango che prendono il posto delle strade, ponti che crollano e via dicendo, vittime della strada e di prepotenti, come le cronache denunciano quotidianamente. Una stoccata alla politica economica e finanziaria che favorisce il divario fra ricchi e poveri, sempre di più. Una stoccata all’ esibizionismo, al volere apparire ad ogni costo. Dilagano i cattivi comportamenti, costumi degeneri e vizi che ci intossicano: siamo malati di benessere, ogni tentativo di arginarne l’avanzamento è destinato a fallire, perché la società è sempre meno coesa. Nino, come viene chiamato, è stretto da un dolore fraterno per il povero che gli sta vicino. Il suo pensiero cerca di recuperare quei prati verdi che l’ hanno visto cresce, quelle acacie che lo hanno ascoltato nel silenzio dei pensieri. La nostalgia si fa largo per le sopraddette ragioni. Sente la mancanza di spazi aperti dove possono giocare con sicurezza i bambini, dove possono riunirsi le famiglie, dove incontra-
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re gli amici, lontani dai pericoli. Considera quanto le giornate erano scandite dallo “stridulo dei carri”, dalle voci allegre dei ragazzi, dalle voci appassionate degli adulti, le feste erano occasioni per qualche degustazione speciale; mentre oggi le esagerazioni producono vistosi seni e “grandi sederi” che non si riesce a smagrire con le palestre. Sotto l’aspetto del linguaggio, osservo che la lunghezza delle poesie e l’estensione dei versi si mantengono entro una misura che oscilla poco; ubbidiscono alla prontezza del desiderio di condivisione. Gli stilemi evocano elementi pittorici, musicali e tattili (p. es. schizzi, canoro, percezione, sole, velo, brezza, velluto). Sotto l’aspetto umano il nostro poeta vive in simbiosi con la natura; il suo vissuto si è sgrossato dalle croste dell’anima. Mi viene da commentare che nell’attuale società di opulenti e di oziosi, ci si comporti come quei bigotti che pensano di purgare i propri peccati con qualche preghiera; il Poeta ci ammonisce di riflettere che ci aspetta un piccolo recinto o un loculo alla fine dei nostri giorni. Se Vittorio Nino Martin ha denominato sorsate ristoratrici le buone letture, credo che la silloge meriti il titolo a buon diritto. Un discorso a parte per le figure rappresentate, schizzi e tratti rapidi i cui personaggi non incrociano lo sguardo con quello dell’osservatore: l’unico personaggio che ti guarda esprime rabbia; gli alberi scheletrici vicino ad uno specchio d’acqua gridano un allarme. L’ Autore, senza volere essere moralista, ci lascia meditare, consegnandoci, fra gli altri, un messaggio di moderazione: “i poveri inseguono un sogno/ i ricchi truffatori si suicidano/ si ammazza per una partita,/ la mente umana è sconvolta/ assuefatta del troppo.” (pag. 23). Tito Cauchi VITTORIO “NINO” MARTIN SORSATE RISTORATRICI Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2020 Sorsate ristoratrici, pensieri liberi di scorrere dopo un’attenta osservazione; Vittorio Nino Martin, autodidatta pittore e scrittore, un’artista con una marcia in più, lascia su carta alcune liriche molto forti, che portano il lettore a riflettere. Le sue parole sono molto veloci, chiare, fluide non lasciano spazio al disincanto; attento osservatore della realtà e delle persone, riporta di getto i suoi pensieri non solo in rima ma anche con alcune opere in disegno. In “Sorsate”, la lirica che apre la raccolta, mette subito in luce l’importanza della cultura: … “Leg-
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gere un buon libro dà importanza alla persona, arricchisce l’anima di sorsate ristoratrici…molto più di un mero oggetto di carta”. In “Scaffale” spiega alle generazioni future quanto sia importante il dialetto: “…il dialetto non irretisce schemi o regole sociali…trovano sfogo completo, linguaggio del cuore efficace essenza dell’ anima…nel dialogo della parola l’identità di trovarsi…” ma purtroppo ora giace come arredo su uno scaffale. Le sorsate di Martin mettono in guardia l’umanità su cosa siamo diventati e su cosa ci aspetta se continueremo a lasciarci trascinare dall’apparenza: “…generazioni senza valori tristi ribellioni guidate, lusingati da false chimere inseguono sogni e paure…chissà se (i ragazzi) sanno volar con gli occhi all’infinito, facendo vibrare le corde del cuore…(“Urlano”)”. Abbiamo perso la capacità di fermarci, osservare noi stessi e osservare anche l’altro; non respiriamo più a pieni polmoni, galleggiamo appena per sopravvivere, presi dal lusso sfrenato, dal consumismo, dall’usa e getta. Non solo l’uomo non rispetta se stesso, ma nemmeno l’ambiente in cui vive: “…una vita forte non è fatta solo di bisogni da esaudire, occorre inginocchiarsi sulla terra pulirla col lavoro manuale… bastano piccole azioni creative… esperienza, umanità ed amore… trasmettere ai figli l’etica i valori, le nostre radici, l’onestà, la fede, la solidarietà… torniamo ad amarla con umiltà… (“Domani”)” e forse la speranza di un mondo migliore non andrà perduta. Roberta Colazingari VITTORIO “NINO” MARTIN SORSATE RISTORATRICI Ed. “Il Croco“– quaderno Letterario di Pomezia/Notizie, gennaio 2020 Mia moglie Maria Antonietta mi ha parlato di Vittorio “Nino” Martin e mi ha detto essere una persona semplice, umile e che per lavoro è dovuto emigrare in America per fare il muratore e l’ imbianchino. Martin è sia un poeta che un pittore. Ho voluto leggere le sue 20 poesie pubblicate in “Sorsate ristoratrici” - “Il Croco“– quaderno Letterario di Pomezia/Notizie di gennaio 2020. Queste poesie sono semplici, ma traspirano una profonda sensibilità, un attaccamento ai valori fondanti della vita (umiltà, radici, dovere, etica, concretezza, analisi della realtà) e un certo pessimismo relativo al senso della vita che dura un batter di ciglio come lo è una sua poesia, che si legge tutta d’un fiato. E così tutta d’un fiato passa la vita stessa. Dice Domenico De-
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felice, nella sua puntuale e precisa presentazione introduttiva, che: “ogni sua composizione è un blocco unico. Il discorso inizia e va a razzo, aiutato solo dalle virgole, fino alla fine, dove troviamo, finalmente, l’unico punto fermo. ” Le sue poesie descrivono tutti i principali mali della società attuale: le differenze fra il povero, che fruga nei cassonetti e il ricco che si può permettere di girare in Ferrari, la società dell’ apparenza e non dell’essere (“si cambia l’abito e i pantaloni/ diventati troppo stretti/ in vacanza con il mutuo/ tutti ricchi senza soldi”, il problema dei rifiuti (“nulla vale la restrizione/ crescono i rifiuti”), l’attuale problema dei migranti (“forte preme e incalza/ la miseria alle spalle/ erranti al largo del mare”), il problema delle fake news (“le disparate notizie/ vere o inventate/ episodi costruiti/ solo per sentito dire”). Il testo è corredato da nove figure e/o disegni schematici, semplici con linee marcate: tali disegni illustrano in modo figurato quanto espresso nelle sue poesie. Ad esempio una figura rappresenta un pensionato seduto con a fianco un barboncino mentre legge quasi distrattamente il giornale, pieno di disparate notizie vere o inventate. Sulla pagina a fianco della poesia “Erranti” viene raffigurata una persona seduta su un marciapiede e che sembra rassegnata al suo destino di migrante. Il quadro dell’ultima pagina del Croco rappresenta un paesaggio di piccole case coperte dalle neve: questa figura esprime un senso di nostalgia di tempi ormai passati e che più non ritorneranno! L’ultima poesia “Posto fisso” richiama la livella di Totò: “Sin dalla nascita/ aspettiamo la chiamata,/ presto o tardi arriverà/ puntuale per tutti,/ posto fisso ed eguaglianza/ nel recinto di un camposanto”. Questa poesia mi fa ricordare la poesia di un poeta vissuto a Pomezia fino alla metà degli anni ’90, che avevo conosciuto, e che si chiamava Romolo Dionisi; tale poesia così recitava: “l’uomo lavora indefesso/ per raggiungere il successo/ per finire all’ombra di un cipresso/ in un posto che spetta ad ogni fesso.” La poesia “Posto fisso” termina con “la vita è un passaggio,/ solo oltre sarà svelato/ il più grande mistero.” Con queste frasi non si capisce se Martin sia un credente o meno, ma si capisce che egli è tormentato dal dubbio sull’esistenza di un Essere Superiore. Giuseppe Giorgioli
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VITTORIO “NINO” MARTIN SORSATE RISTORATRICI Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie - Gennaio 2020. Copertine di Vittorio “Nino” Martin. Presentazione dell’Editore Domenico Defelice. Vittorio “Nino” Martin, è un bravissimo poeta e pittore autodidatta, che ha pubblicato tanti libri che entusiasmano tutti i suoi ammiratori. Ogni suo lavoro è accompagnato da sue bellissime pitture, che fanno da cornice alle sue poesie, che raccontano il suo stato d’animo per ciò che accade intorno, da rendere ogni verso importante per legare il lettore e farlo riflettere, col batticuore, per i mali che assalgono il nostro mondo. “SORSATE RISTORATRICI” che il nostro Editore, Domenico Defelice, presenta con il cuore in mano: “ALTA TENSIONE PER UN’UMANITÀ SMARRITA E SOFFERENTE”; che descrive tutte le emozioni dell’artista Vittorio ‘Nino’ Martin in queste liriche e pitture, che fanno, di questo prolifico artista, un Autore che ammalia i suoi lettori con i suoi meravigliosi versi. Tutti i libri di Martin sono pezzi del suo cuore, che galleggiano tra le pagine come barche che accolgono le onde in un abbraccio della natura. Tutti gli amici dell’A.L.I.A.S. hanno letto i suoi libri con grande afflato e lo stimano tantissimo, i suoi libri sono sempre nella nostra libreria a disposizione di chiunque se ne volesse servire. Vittorio “Nino” Martin è un nostro apprezzatissimo Autore da tanti anni. Invito i nostri amici di POMEZIA-NOTIZIE e IL CROCO, a leggere “SORSATE RISTORATRICI” e a esprimere le tante emozionati dalle quali si viene coinvolti fin dalla prima pagina. Giovanna Li Volti Guzzardi Melbourne, Australia
FABIO DAINOTTI REQUIEM FOR GINA’S DEATH AND OTHER POEMS Traslated by Nicola Senatore and Myriam Russo Introduction by Enzo Rega, Gradiva Publications, 2019 - Pagg. 64, € 20,00 Il volume presentato da Fabio Dainotti è composto da sette poemetti: Lamento per la morte di Gina, Notte a Vigevano, La zia Letizia, Due modi d’ aver cinquant’anni, Al bar di Michele, Cimitero marino, Famiglia. I poemetti sono componimenti letterari di carattere narrativo, il cui tema principale, in questo caso, è il senso della vita, rappresentato od evocato attraverso l’idea del viaggio mentale.
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Un viaggio vissuto a ritroso nel tempo, ricordando gli accadimenti e le persone più importanti della propria vita. E come tutti i poemi che si rispettino, termina con il compimento della missione da parte del narratore/eroe; difatti al poeta, già da giovane, era stata assegnata la funzione di scriba del tempo e della memoria. Così, l’autore definisce un quadro quasi completo delle vicende che più lo hanno segnato e delle persone che sono state importanti per lui. Apparentemente sembrano frammenti sparsi di vita vissuta, ma al termine della lettura, si ha una visione unitaria. L’eroe/narratore, dunque, compie la sua missione nonostante gli ostacoli e la precarietà della quotidianità. Scrive Marina Caracciolo nella sua recensione: “Particolarmente bella, fra le altre, l’ immagine metaforica (per quanto concreta nel dato reale) del treno che corre di notte verso una destinazione ignota: metafora degli affanni e della precarietà della vita, spesso determinata da circostanze non volute e non previste”. Lo stile del poeta è semplice, senza retorica, un dialogo intimo, ma evocativo allo stesso tempo. Commuovono i suoi versi poiché suscitano emozioni forti da una parte e semplicemente umane dall’altra. Infatti, Domenico Defelice afferma: “Tra i compiti primari della poesia non c’è quello di descrivere e di stupire con linguaggi e tecniche particolari; c’è, invece, quello di commuovere chi a essa si accosta, stimolare la sua immaginazione, coinvolgerlo ed esaltarlo fino al punto di sentire intimamente suoi quei versi e le vicende in esse narrate”. Non vi è retorica o ridondanza. Il susseguirsi dei versi, nella lettura spedita, genera una musicalità nostalgica, il suono dei versi cantati dà l’idea del senso di una vita libera, dinamica, fresca, ma anche con un estremo bisogno di punti fermi come, ad esempio, la casa della zia Gina, nella quale andava a rifugiarsi e direi anche forse a ricaricarsi. Fabio Dainotti è nato a Pavia nel 1948 e vive a Cava de’ Tirreni. Ha pubblicato, nel tempo, tantissime raccolte di poesie, con risultati importanti; ha collaborato a numerose riviste ed è presente in altrettante antologie; ha curato la pubblicazione de “Gli ultimi canti del Purgatorio dantesco” per la Bulzoni Editrice nel 2010 ed è attualmente condirettore dell’ annuario di poesia e teoria “Il pensiero poetante”. Ho trovato particolarmente commovente il poemetto che dà il titolo all’opera, ossia “Lamento per la morte di Gina”. Nella prefazione Enzo Rega scrive: “La lamentazione per la morte della zia assume un significato universale, “cosmico”, non solo come rivisitazione personalizzata d’un genere letterario, ma anche per gli squarci contenutistici che vi si aprono”. I versi scritti scorrono come un fiume in
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piena, parole che ricordano, evocano, ricostruiscono lo svolgersi di una vita intera. La parola con il suo valore catartico, la poesia con il suo valore creativo (ricordiamo che il termine poesia deriva dal greco poiesis e vuol dire creazione), unite alla cifra stilistica dell’autore, danno forma ad un lavoro delicato, commovente che induce il lettore ad una partecipazione affettiva. “Per me non c’è più la tua casa,/con l’albero piantato dal nonno nel giardino,/ dove potevo arrivare senza preavviso,/ e avresti riso di contentezza nel vedermi”; [...] “Eri grandissima, con tanti difetti, ma anche con tante virtù”; [...] “Con te se ne è andata gran parte della vita”; [...] “Tutto questo eri tu per me, per noi;/ e adesso che non ci sei più, con te, per sempre,/ tutta la nostra casa è seppellita”. Nella poesia di Dainotti avviene “una corrispondenza d’amorosi sensi”. Le parole come unico ed ultimo scambio d’amore, che rimangono per questo immortali. Il ricordo di lei, di ciò che è stato, ora è di tutti quelli che lo leggeranno ed allora, la poesia diventa immortale. La traduzione in lingua inglese a cura di Nicola Senatore e Myriam Russo, è sicuramente più lineare, più pragmatica, con accenti e dunque pause diverse, ma non per questo meno musicale o poetica e si distingue per il tono imponente e più lapidario. “Now you lie down with your nice face,/ disappearing into the skull ,/ I won’t be allowed to se you, non speak,/ never on your lire,/ as you are dead for ever”, oppure “Why I ought to be the scribe/ I’ve never known”. Il verso ha un tono quasi risolutorio. Dunque, nonostante la lingua italiana sia stata definita, in musica, la lingua del ‘belcanto’ grazie ai virtuosismi della voce, prodotti dal susseguirsi di toni morbidi e gravi, anche la lingua inglese, per la sua struttura sintattica prestabilita, dona ai poemetti una veste ritmica più solenne, più rigorosa rispetto alla morbidezza di quella italiana. Manuela Mazzola
TITO CAUCHI MICHELE FRENNA NELLA SICILIANITÀ DEI MOSAICI Gabriella FRENNA a cura di, EdiAccademia, Isernia, 2014, pp.192, sip) Tito Cauchi, poeta, scrittore, uomo onesto, sincero e fidato amico, con questo libro, che esalta l’eccezionalità creativa del mosaicista Michele Frenna, entra nel vivo della sua attività di saggista e di attento critico verso l’arte e la letteratura, prendendo in esame la produzione mosaica, pittorica e scultorea e la scrittura di personalità eccelse che meglio hanno interpretato e interpretano lo stile e la
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cultura, l’alta tensione di ricerca innovativa, tra classicità e sperimentalismo, di questo nuovo avvio di secolo. La presente opera è specificatamente dedicata a Michele Frenna e ai suoi mosaici (19282012), un grande uomo che ha saputo coniugare affetti, lavoro e totale attenzione ai movimenti creativi del suo animo che, sia pure in età avanzata, si sono focalizzati e stabilizzati nell’arte del mosaico, con un impegno e una dedizione, una precisione rappresentativa, che da subito si sono imposti, per la qualità realizzativa del manufatto e il significato adulto, il senso mitico simbolico delle opere, nel complesso contesto dell’alta cultura siciliana, che in fretta ha saputo apprezzarne le doti, rilanciandole negli echi artistici dell’Italia intera, facendo sì che la notorietà di Frenna valicasse in breve tempo i confini nazionali. Cauchi, in compagnia con altri noti critici e saggisti del calibro di Vincenzo Rossi e Orazio Tanelli, ma anche della figlia Gabriella Frenna e Leonardo Selvaggi, così come di Domenico Defelice e Renza Agnelli, Giovanni Campisi e Tonino e Carolina Citrigno, è stato tra quella cerchia di estimatori e amici che meglio ha saputo intercettare la grandezza di questo Maestro contemporaneo, che ha creato opere imperiture come ad esempio Trinacria, simbolo della Sicilia che, per dirlo con le parole di V. Rossi, è un capolavoro degno di entrare nel maggiore dei Musei siciliani e di restarvi fino alla consumazione dei tempi. E Tito Cauchi, critico attento e cultore amichevole dei corregionali che si fanno onore nelle arti
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creative, avendo voluto conoscere di persona l’ amico e Maestro Michele Frenna, per la risonanza che sempre più andavano ad acquisire, nel complesso panorama culturale italiano, le sue opere musive, recandosi presso la sua abitazione qualche anno prima della sua morte, ha molto contribuito alla diffusione conoscitiva dell’alto e valido profilo di Frenna mosaicista (scomparso il 5 Ottobre del 2012). Cauchi che non aveva dimenticato quell’ incontro e avendo potuto conoscere da vicino la persona e le opere del Maestro, si è subito posto al servizio della cultura iniziando un sapiente lavoro di raccolta e ricomposizione di testimonianze, articoli e recensioni, testi importanti e saggi usciti negli anni sulla sua attività di Mosaicista, con l’intento di raccoglierli in volume, proposito realizzato con il libro di cui stiamo parlando, uscito in omaggio al maestro in occasione del primo anniversario della sua scomparsa. Ecco cosa dice il critico saggista Cauchi nella nota d’apertura al libro e che testimonia la sintonia e l’impegno culturale che s’era aperto tra lui e il maestro Frenna: A mia insaputa, l’amico – maestro realizzava un mosaico per impreziosire la mia futura raccolta: non poteva farmi regalo più grande raffigurando il rudere del Castelluccio medievale della mia città, Gela. (…) La Sicilianità, di cui al titolo di questo libro, non vuole essere esclusiva o limitativa dei confini intellettuali dell’uomo, ma l’intimo attaccamento alle sue radici culturali … come paradigma della cultura mediterranea, poiché Michele Frenna, moderno nauta dello spirito, approda sempre alla sua Sicilia. Parole emozionanti, sentite, che meglio di ogni altra cosa introducono e confermano l’amore di Cauchi per la sua terra e l’amorevolezza, la chiarezza, con cui è riuscito a condurre questo lavoro, volendo anche riconoscere l’attenzione e la dedizione della figlia Gabriella Frenna nei confronti del padre, che ben cura l’intera disposizione del testo e delle immagini, d’accordo con Cauchi. Un libro, un omaggio al maestro e al padre, inseguito sia dalla figlia Gabriella che da Cauchi e che raccoglie, consegnandole agli studiosi e alla successiva ricerca, le migliori voci che si sono espresse sull’arte e le pitture musive di Frenna. Grazie, allora, e a Gabriella Frenna e a Tito Cauchi, alla loro volontà realizzativa, alla costanza e alla cura che hanno messo nel mettere insieme i materiali, sapientemente impaginandoli e dotandoli di quel fascino scritturale coinvolgente e leggero che consegna l’opera di M. Frenna Mosaicista alla storia, ai futuri sviluppi di cui questa valida monografia e raccolta critica di Cauchi rimane un testo di sicuro riferimento. Pasquale Montalto
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CHRISTIAN GENETELLI STORIA DELL'EPISTOLARIO LEOPARDIANO Con implicazioni filologiche per i futuri editori Collana Palinsesti – Studi e testi di Letteratura Italiana LED Milano, 2016, € 27,00, pp. 181 Lo studioso Christan Genetelli è addentro alla ricerca appassionata delle intime fibre dell'Epistolario leopardiano, che ha tutta una sua complessa storia di interessi e di tendenze al riserbo, proprie di alcuni tra i parenti, gli amici, gli studiosi del Recanatese, in vita e post mortem. Così questo prezioso lavoro consente di attraversare l'intricatissima materia documentale ed arrivare fino a quella meta che dovrà sicuramente interessare, come sostenuto nell'ampliamento del titolo, i 'futuri editori', sfruttando con grande abilità un percorso metodologico che associa passione, opportunità investigativa, stile espositivo coinvolgente, chiaro e sempre mirato alla dimostrazione della tesi di avvio, scelta delle fonti e degli opportuni Archivi. Ecco il contesto originale: Premessa (pp. 9-10); STORIA DELL'EPISTOLARIO LEOPARDIANO 1. Dall'officina di Prospero Viani: storia dell'epistolario leopardiano (Preliminari pp. 13-16); L'”Epistolario” 1849, tra storia e filologia – Gli apografi recanatesi (Carlo, Paolina e Pierfrancesco Leopardi – Gli apografi muzzarelliani: le lettere a Brighenti e non solo/ Autografi e apografi delle lettere ad Anton Fortunato e Luigi Stella (dagli Eredi Stella) - Ancora lettere stelliane (da Giovanni Resnati) – Le lettere a Papadopoli (da Spiridione Veludo) – Diverse: a Colletta, altre a Giordani, a Zannoni – Altri apografi dell'ARSE – Le lettere negli (e dagli) “Studi filologici” (pp. 16-79); Qualche altra implicazione filologica (pp. 80-84); Appendice e commiato. Verso “Epistolario” 1892 – La ristampa del 1856 (e poi 1864) – Una ragguardevole giunta alla derrata: l'”Appendice” 1878 – Capolinea. “Epistolario” 1892 (pp. 80-108); 2. I “frammenti Monaldiani” ritrovati e nuovi restauri all'epistolario di Giacomo Leopardi (pp. 109-134); 3. Una lettera leopardiana fra storia della tradizione e critica del testo e una piccola addizione all'epistolario (pp. 135-148); 4. Leopardi cerca casa. Su una lettera da ricollocare (e altre osservazioni sul carteggio con Giuseppe Melchiorri (pp. 149-165). Segue la preziosa sezione degli INDICI: Indice delle lettere (pp. 169-173) e Indice dei nomi (pp. 175-181), nel quale l'Autore precisa che non compaiono i nomi di Giacomo Leopardi e di Prospero Viani. È chiaro che l'Autore la sa lunga ed ottima nel creare aspettative e sospensioni anche nei più sornioni dotti ed allora l'approdo riserva grande coin-
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volgimento. Quest'opera è necessaria a chiarire quanto dietro le quinte, a Giacomino morto, ci si sia dati da fare, tra eredi indiretti che voglion pecunia ed editori, contattati, sostituiti e infine scelti per far approdare a stampa qualsivoglia reperto originale o in copia apografa, da eseguire, ben s'intende, sotto stretta sorveglianza. Il prof. Genetelli ha sensibilità toccante e ben documentabile in questo ottimo lavoro filologico, per questo fa risaltare il profondo legame del Leopardi con il suo cugino carnale Giuseppe Melchiorri... “Caro Peppino...”: si, Giacomo nell'ottobre del 1829, ecco la nuova, più precisa e sconvolgente datazione scoperta e ben sostenuta dallo studioso, chiede al cugino, che se ne sta in vacanza sui colli laziali, che gli cerchi a Roma una stanzetta... Questo testo porta una dedica vivace ed appropriata, par quasi che il prof. di Friburgo stia spiegando alle sue bimbe personaggi, fatti e intrighi in forma scenica, vibrante, riservando carezze anche all'ospite d'onore, quel Giacomino che ora ha trovato bell'accoglienza nella loro casa: “Per Silvia e le bimbe, tutte cose leggere e vaganti”. Ilia Pedrina MANUELA MAZZOLA SENSAZIONI DI UNA FANCIULLA Il Croco – I quaderni letterari di Pomezia Notizie, dicembre 2019 La breve silloge di Manuela Mazzola, avvalorata dalla traduzione in tedesco di Marina Caracciolo, contiene delle liriche scritte quando era molto giovane e che rappresentano il sentire di una ragazza che si apre alla vita. Ciò che colpisce è la semplicità e la freschezza dei testi, molto concisi, che emanano una sensibilità particolare e coinvolgono il lettore proprio per la chiarezza del significato. Ora Manuela Mazzola non è più la fanciulla di un tempo, come ben descrive nella lirica “Quadri”, e il suo sentire è più sfaccettato e maturo. Tuttavia, le immagini che è riuscita a suscitare e che hanno emozionato, hanno e avranno sempre un valore poetico. La Poesia non ha età e resta per sempre. Una delle liriche che mi ha colpito particolarmente è Immense vallate: “ Se chiudo gli occhi / posso vedere immense vallate fiorite / e posso sentire il profumo dei fiori, / è tanto intenso che sa di vita.”. Qui, nella brevità della composizione, si recepisce il mondo interno di una ragazza che adora la vita e le bellezze della natura; un animo scevro dalle tante problematiche che minacciano l’esistenza con ansie
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e dolori, come si evince pure nella lirica Uno sguardo: “Le goccioline di vapore scorrono giù, / sulla grande finestra. / Uno sguardo ingenuo le osserva / e cerca di capire, / ma l’amore che ha nel cuore /non glielo permette e la fa sognare”. Solo nella giovinezza si può avere il dono di evadere dalla quotidianità per rifugiarsi nel sogno e nella speranza di un roseo futuro. Mi auguro che Manuela Mazzola possa ancora scrivere con tanta leggerezza, ma sono sicura che nel suo dire sarà sempre presente quella particolare sensibilità che l’ha avvicinato alla poesia e che le fa percepire la vita in modo diverso dalle normali coscienze. Laura Pierdicchi
ISABELLA MICHELA AFFINITO VIAGGIO INTERIORE (Edizioni Eva, Venafro, 2015, € 12,00) Ciò che subito emerge dalla poesia di Isabella Affinito è la compiutezza dell’immagine, colta per sortilegio nell’attimo del suo affacciarsi alla mente, per fermarsi sulla pagina bianca; una compiutezza che probabilmente le deriva dalla sua precedente esperienza pittorica, a proposito della quale ella stessa, in un’intervista rilasciata al giornalista e poeta Fulvio Castellani, dice: “per un certo tempo i colori erano la voce di ciò che disegnavo, il sonoro di quello che facevano le mie mani con la mia mente. In seguito è cominciato a mancare qualcosa: la forza della verbosità si era fatta basilare e urgente per chi, come me, desiderava trascendere la realtà pittorica per approdare sul suolo della letteratura, sul semplice foglio bianco da riempire non di colori ma di versi liberi e personali”. Nacque così in lei la poesia, della quale questo suo libro Viaggio interiore (Edizioni Eva, Venafro, 2015, € 12,00) è una felice espressione. Dal titolo si arguisce subito che non si tratta di un viaggio reale, compiuto nello spazio e nel tempo, che implica uno spostamento del soggetto da un luogo ad un altro, bensì di un viaggio compiuto nei recessi dell’io. Ed è proprio in ciò che consiste la sua originalità, in quanto, in questo suo viaggio, l’Affinito compie un difficile percorso alla ricerca di se stessa, scrutandosi, per decifrare l’enigma dell’essere qui oggi, nella periferia di un universo che muove verso una meta oscura, che non sappiano intuire. Il libro si apre con una poesia, intitolata Viaggio intorno all’Essere, con la quale la nostra poetessa va alla ricerca dell’essenza ultima delle cose. Si tratta di una poesia che così inizia: “Se farò un /
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viaggio sarà / attorno all’Essere / così come l’ umano / è fatto scolpito / nella soffice mutevolezza”. Ma anche nel suo “effimero” viaggio compiuto “nel transitorio” (Viaggio effimero) ella scopre impensate verità, sicché la sua mente s’illumina d’ improvvise intuizioni. Ecco allora che la nostra poetessa procede attraverso “stazioni gremite / di pensieri e fantasie” (Viaggio interiore), munita della “valigia delle speranze” (Dire o non dire), ritrovando “echi / che partono / da molto lontano” (Ritrovare). E va in cerca di “colui che sa / scrivere i moti del cosmo / le rotazioni interne dei pianeti” (Cerco il poeta), viaggiando “alla velocità della mente” (Viaggio immobile) in un mondo senza confini. Ella sa inoltre che “tra un pianeta e l’altro / scorre il fiume del / silenzio (Universo semplice) ed è consapevole che il treno su cui viaggia (trainato dal suo vigile io) procederà tra “stazioni gremite / di pensieri e fantasie” (Viaggio interiore), magari conducendola, nella ricerca di se stessa, in luoghi che da sempre ama, come Venezia, “dai pali immersi / dentro l’acqua / dove ormeggiano le gondole” (Perché non mi confonda) o Vienna, dove camminerà “sopra / ad un prato dipinto / da Klimt” (Valzer lento). Isabella andrà comunque in cerca dello “strumento per / misurare la perfezione / del giorno” (La perfezione del giorno) e costruirà “castelli che / per un momento / almeno fino all’arrivo / di un’altra onda”, saranno “architetture irreali”, capaci di ogni sortilegio, con la loro “anima di sabbia” (Castelli di sabbia). Proseguendo nel suo “viaggio interiore”, l’ Affinito apprende a rispondere “agli enigmi che le propone il tempo” (Cenere) ed a “bussare alle stelle”, per chiedere “del cavallo alato / nato dal sangue di Medusa” (Cercando Pegaso), benché non sappia a chi domandare “se ci sarà / o no un treno a quest’ora / imprecisa della vita le cui / lancette dissimulano il tempo” (Viaggio metafisico), mentre si susseguono le “catene di / giorni che formano / un anno e catene / di eventi / rimasti sul calendario” (Il calendario). Procedendo poi sempre oltre incontra filosofi che si affacciano agli “scenari del tempo” (Il filosofo); e incontra Adamo ed Eva che, cacciati dal Paradiso Terrestre, “Nudi e col peccato”, “cercano il perdono” (Vestire gli ignudi) e partecipano alla “festa del / Signore che chiama / dal suo altare” (Il settimo giorno). Sono questi alcuni degli spunti dai quali l’Affinito ricava le sue poesie, sapendo ella trarre da ogni evento materia di canto. E spesso è la stessa Letteratura a ispirarla, con le sue opere immortali, come accade per il poema dell’Ariosto (Intensità) o
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per i poemi omerici, dai quali affiorano figure come quella di Elena o di Ulisse (Uno più uno, due). “Chilometri di addii / e di rimpianti” ha percorso comunque nei giorni la nostra poetessa (Rotaie), per la quale “C’è sempre un treno” che la trasporta lontano dalla sua meta (Ivi) e sempre c’è la voce della “Sibilla interiore” che le parla e le rivela il responso dell’oracolo: “… e vidi / il mio destino ancora/ tela da completarsi coi / fili lunghi da tagliare e / i nodi più forti della mia / volontà di esistere” (Sibilla interiore). Con la figura del Pensatore, una statua di Auguste Rodin, il libro si avvia al suo compimento. È forse superfluo qui ricordare che la grande statua di Rodin rappresenta un Pensatore moderno, e diviene in tal modo il simbolo dell’uomo che medita sul suo destino, acquistando con ciò la consapevolezza delle sofferenze a cui va incontro. La poesia che lo evoca così si conclude: “se davvero Rodin / forgiò anche il / pensiero nel bronzo / allora la sua opera è / rimasta ferma in questa / posa a ragionare a lungo / sul dolore e sulla gioia, / sul mondo nudo come / Il Pensatore” (Pensare nel bronzo). Una figura opportunamente simbolica questa del Pensatore di Rodin, che qui opportunamente compare, dal momento che la raccolta dell’Affinito è ovunque ricca di molto pensiero, dal quale trae alimento e vigore. E non dobbiamo dimenticare che il pensiero è lo strumento precipuo del “viaggio interiore”, che costituisce il tema centrale del libro. L’ultima poesia della raccolta è Poeti soli e vi si legge: “Noi poeti soli, / tra il bianco e il nero / di una scommessa fatta / non per gioco, / … / il nostro cammino / sempre da soli riprendiamo”; il che implica che il “viaggio interiore” dell’Affinito si è concluso in una solitudine che è consapevolezza delle proprie risorse intellettuali e del dono sempre salvifico della poesia, che offre la possibilità a chi vi si affida di superare ogni ostacolo e ogni affanno che incontra sul proprio cammino. Ed è questo il suo bene. Liliana Porro Andriuoli
DISEGNI (Praga 1941-Praga 1992) - dedicata a tutti i bambini ebrei di Praga che furono portati a Terezin e poi ad Auschwitz e non tornarono mai più Mai più, mai più le farfalle dalle grandissime ali colorate
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che non possono volare di Hana e Lisa. O i draghi neri di Doris e Berta che ringhiano e soffiano fiamme nere verso mondi di nuvola che rinchiudono bambine e principesse dai bei vestiti colorati. Ma neppure il gatto nero dalla schiena arcuata di Heinz che, sulla carta, rivela ancora la sua ribellione. E ancora no ai mondi di sola illusione di Gabi e Ilona, di Margit e di Marika, di Malvina e Gertrud di Franz, Joseph e David. L’una con una grande tavola vuota e persone in attesa l’altra con una casa che ride della come il ricordo e l’altra ancora con una casa dove piccoli segni di tanti colori nascondono i più riposti segreti o le colline che nascondono l’”oltre”. Potessi ricordarvi tutti piccoli, che partiste un dì a migliaia dando la piccola mano al padre o alla madre e con l’altra le matite colorate lasciando sulla placida Moldava e nei cieli di Praga a ricordo
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i vostri canti di allegrezza. E mentre i camini di Therezin gelavano lasciavate piccoli sogni grandi incubi a chi restava per non dimenticare insieme a bamboline di ferro contorto e un cane di pezza Ora a Therezin di Davide a migliaia piccole stelle guardano il cielo e, nel silenzio ombroso della Torah di Pinkas i vostri piccoli dolcissimi nomi scolpiti nella pietra Volate farfalle di Hana e Lisa colpite a morte i draghi di Doris e Berta perché la bambina e la principessa scavino un varco sulle colline senza oltre per ritrovare la terra promessa dove pioverà dal cielo la manna, per riempire la tavola vuota dove potrà mangiare il gatto dalla schiena arcuata di Heinz e dove vive la casa che ride Wilma Minotti Cerini
Un rumore sordo sopra Milano sziiiii sziiiii sziiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii una pattuglia di aerei bombardano. Nelle cantine occhi impauriti al sibilo della bomba cadente, preghiere ammutolite, case tremanti, la bomba più in là domani macerie fumanti, vite distrutte. Io e te con le nostre storie, silenziosi , ognuno col proprio “remember “: Tu, Edel יליצאragazzo ebreo di New York scavavi nel dramma della tua gente, io cercavo tra i volti perduti della Resistenza quello di mio padre. Poi tu iniziasti un canto liberatorio gioioso, ed io sulle orme delle tue parole, cantai con te: alle macerie, agli alberi, all’ erba sulla quale stavamo seduti, alla nostra giovane età : Hava nagila Hava nagila Hava nagila ve nis'mecha (ripetere due volte) Hava neranenah Hava neranenah Hava neranenah ve nis'mecha (ripetere due volte) Uru, uru achim! Uru achim b'lev sameach (ripetere quattro volte) Uru achim, uru achim! B'lev sameach Se vieni a New York chiamami ti scrivo il mio indirizzo.
I REMEMBER
Non ci venni mai, ma sempre nel ricordo.
Ti ho portato sul Monte Stella un bosco di piante verdi e noi seduti sopra montagne di macerie memori di vite squassate, forse di trilli svaniti di bimbi.
Gioia! (Hava Nagila) Gioia! Cantiamo gioia! Gridiamo gioia! Apriamo il cuore e vivrà!
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Gioia! Portiamo gioia! Doniamo gioia! Apriamo il cuore e vivrà! Gioia! Ci cambierà, ci trasfigurerà e la speranza non ci lascerà. Gioia! Ovunque sei, anche se hai troppi guai e la speranza non ti lascerà. Sveglia! Svegliati! Svegliati, fratello mio con il cuore grato a Dio! Svegliati, fratello mio con il cuore grato a Dio! Svegliati! Svegliati, grato a Dio! Gioia! Cantiamo gioia... [sempre più veloce] Wilma Minotti Cerini "Si può essere nella gioia anche nel dolore, si può essere portatori di gioia anche nelle tribolazioni, si può essere testimoni di gioia anche quando tutto sembra crollare. Solo l'incontro e la vita in Dio sono la garanzia di una gioia senza fine, di una gioia vera, profonda. (Don Salvatore Tumino, "La gioia: anelito del tuo cuor ")
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pronte a esplodere in serici fiori. Un osanna di luce calda il tacito risveglio già canta della Natura. E io mi commuovo, e gioisco, al dono divino di tanto splendore. Antonio Crecchia 13 febbraio 2020 Gentilissimo Amico e Poeta, siamo commossi e grati per la bella, squisita poesia che ci ha donato. Abbiamo varcato, Noemi ed io, la soglia dei Novanta, e cerchiamo di assaporare e valorizzare il dono infinito di stare insieme, e di comunicare a persone più giovani un po' della nostra luce, piccola luce, certo, ma intrisa di armoniosi valori. La Sua poesia, affettuoso e generoso amico, è in piena sintonia con quello che cerchiamo di essere nello scorcio di vita che ci resta, e che dobbiamo cercare di non sprecare. Viva la primavera non più lontanissima! Viva la primavera dell'anima sempre reperibile attraverso la poesia non scritta e quella scritta da poeti. Auguri di poesia della vita e della pagina, e ancora grazie! Emerico e Noemi
ALLA SOGLIA DI NUOVA PRIMAVERA (A Emerico e Noemi Giachery) Scruto il chiarore del giorno, mentre il sole lentamente sale e dal terso orizzonte s’allontana. Con ali d’uccello migratore Febbraio passa, in sfrenata corsa, senza affanni, quasi melodioso vento di nostalgici richiami. Sulla sponda del rio, il giallo delle mimose apre il cuore a un sorriso per domani, San Valentino, festa dell’amore, festa di vita nuova, dell’ardore che s’annuncia con le gemme
D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE I GRANDI POETI ITALIANI DEL 900 - Il Comitato genovese della Società Dante Alighieri, in collaborazione con la Biblioteca Civica Berio e l’Associazione “Amici di Paganini”, col patrocinio dell’Ufficio Scolastico Regionale, ha organizzato a Genova, presso la sala dei Chierici della Biblioteca
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Berio, un ciclo di incontri su I grandi poeti italiani del 900, tra parole e musica. 30 gennaio 2020, Gabriele d’Annunzio, a cura di Antonio Zollino, Università Cattolica di Milano; 13 febbraio 2020, Umberto Saba, a cura di Elvio Guagnini, Università di Trieste; 27 febbraio 2020, Giuseppe Ungaretti, a cura di Carla Boroni, Università Cattolica di Brescia; 12 marzo 2020, Camillo Sbarbaro, a cura di Enrico Testa, Università di Genova; 26 marzo 2020, Eugenio Montale, a cura di Giorgio Ficara, Università di Torino; 7 aprile 2020, Giovanni Giudici, a cura di Simona Morando, Università di Genova; 23 aprile 2020 Giorgio Caproni, a cura di Stefano Verdino, Università di Genova; 7 maggio 2020, Edoardo Sanguineti, a cura di Erminio Risso, Liceo Leonardo da Vinci, Genova. Letture di Fabio Contu. *** Premio Internazionale Poesia, Prosa e Arti figurative - Il Convivio 2020 - Scadenza: 31 maggio 2020. L’Accademia Internazionale Il Convivio e l’ omonima rivista, in collaborazione con “Il Convivio Editore”, bandiscono la XIX edizione del Premio Poesia, Prosa e Arti figurative - Il Convivio 2020. Il premio è diviso in 8 sezioni: 1) Libro di poesia edito a partire dal 2016 (3 copie); 2) Libro di narrativa edito a partire dal 2016 (3 copie); 3) Libro di saggistica edito a partire dal 2016 (3 copie); 4) Libro edito per autori stranieri con volume pubblicato a partire dal 2016 (due copie). 5) Una poesia inedita a tema libero in lingua italiana (5 copie); 6) Narrativa inedita. Si partecipa con Romanzo, Romanzo-breve o una Raccolta di racconti (minimo 25 cartelle, A4, corpo 12, interlinea singola) (3 copie); è da inviare obbligatoriamente una sinossi dell’opera (max 20 righe), pena l’esclusione. 7) Silloge di Poesie inedite, con almeno 30 liriche, fascicolate e spillate (diversamente le opere saranno escluse) (3 copie); 8) Pittura e scultura: si partecipa inviando due foto chiare e leggibili di un’opera pittorica o scultorea. Per le sezioni n. 5, 6, 7 e 8 è possibile inviare le opere per e-mail in duplice copia, una con dati personali ed una anonima, agl’indirizzi: angelomanitta@gmail.com; angelo.manitta@tin.it oppure enzaconti@ilconvivio.org; le sillogi di poesie o di racconti vanno inviate in un solo file. Si può partecipare a più sezioni, ma con una sola opera per sezione, dichiarata di propria esclusiva creazione. Saranno considerati editi solo i testi forniti di codice ISBN regolarmente registrato. Delle copie inviate, una deve essere corredata di generalità, indirizzo, numero telefonico ed e-mail, le altre copie, se inedite, devono essere anonime. Il tutto è da inviare entro il 31 maggio (per cui fa fede
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il timbro postale o la data di invio dell’e-mail) a Il Convivio: Premio “Poesia, Prosa e Arti figurative”, Via Pietramarina Verzella, 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) - Italia. Sarà data comunicazione personale solo ed esclusivamente ai vincitori, i cui nomi saranno resi pubblici sul sito www.ilconvivio.org . I premi devono essere ritirati personalmente, pena il decadimento del premio stesso (pubblicazione, premio in denaro, coppe o targhe), e non si accettano deleghe per la giornata di premiazione. Le opere inedite devono restare inedite e libere da contratto o da accordi di pubblicazione, fino al giorno della premiazione, diversamente saranno escluse. Premiazione: Giardini Naxos (ME): 25 ottobre 2020. Premi: 1- 2 -3) Libro edito nelle sezioni poesia, narrativa, saggistica: € 300,00 per il primo classificato di ciascuna sezione + targa e diploma; 4) Sez. Libro edito stranieri: Primo classificato € 300. Per gli altri premiati targhe e diplomi. 5) Poesia inedita: Primo Classificato: € 100 + targa e diploma; 6) Narrativa inedita: per il primo classificato pubblicazione dell’opera con 30 copie omaggio + targa e diploma; 7) Silloge di Poesie inedite: per il primo classificato pubblicazione dell’opera con 30 copie omaggio + targa e diploma; 8) Sez. Pittura: per il primo classificato pubblicazione gratuita dell’opera in prima di copertina della rivista Il Convivio (classe A Anvur) + targa e diploma. Non è previsto rimborso di viaggio, vitto e alloggio. Sono previsti Premi speciali. La partecipazione al concorso prevede un contributo complessivo di euro 15,00 per spese di segreteria, indipendentemente dal numero delle sezioni cui si partecipa. Per i soci dell’Accademia Il Convivio il contributo è di euro 5,00. Da inviare o con bonifico Iban: IT 30 M 07601 16500 000093035210 oppure ccp n. 93035210. Intestazione: Accademia Internazionale Il Convivio, Via Pietramarina Verzella, 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT); causale: Premio Il Convivio 2020. Informazioni e bando completo: tel. 0942-986036, cell. 333-1794694, e-mail: angelomanitta@gmail.com; angelo.manitta@tin.it.; enzaconti@ilconvivio.org; sito: www.ilconvivio.org. (Il presidente del Premio - Angelo Manitta) *** KIROV, PER NON DIMENTICARE -“... Suona la campana, una piccola campana che gli alpini avevano portato ora a braccia, ora sul dorso dei muli, attraversando le campagne militari di Grecia e d'Albania. Una campana, quanto restava di un convento distrutto dalla guerra, trasformata in un ex-voto, in una preghiera di salvezza: avevano lasciato migliaia di fratelli, sepolti e abbandonati nelle fosse di Kirov, tra tanti amici e nemici di na-
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zioni diverse, accomunate dallo stesso dolore per una guerra, inutile come ogni guerra, resa ancor più drammatica per il gelo e la marcata disorganizzazione dello Stato fascista, impegnato allora in una insensata imitazione della prepotenza della Germania...” Così Giorgio Bordin, di Arti della Rappresentazione, Leonardo Bordin, Jolanda Bertozzo ed Anna Condorelli come voci recitanti, canti e lettura di testi tratti da 'Il sergente nella neve' di M. Rigoni Stern, da 'Centomila gavette di ghiaccio' di G. Bedeschi e da un piccolo Diario Divisione Julia dal 1942 al 1945 di Cocco Sperandio, hanno presentato la rievocazione della tragica ritirata 'Ritorno da Nikolajewka', il 25 gennaio scorso, presso la Chiesetta degli Alpini, sulle colline di Montecchio Maggiore (Vicenza), in collaborazione con il Consiglio d'Europa - Venezia ed il Patrocinio del Comune stesso: il coinvolgimento diretto del Museo delle Forze Armate 1914-'45 (in Via del Lavoro 66) ha portato all'allestimento della Mostra 'Nel gelo e nel fango: la Campagna italiana di Russia 1941-43', meta successiva a completamento del percorso storico artistico e memoriale. Gli Alpini della Divisione Julia, 'A Nin Varin Furtune', sono stati testimoni qui con il Contingente '75, al fianco degli Alpini di Monteviale e di Montecchio. “... Diavolo se era freddo... Dopo, verso mezzanotte, venne la sagra... Scoppi... D'un tratto pallottole traccianti mandavano a pezzi il cielo, pallottole di mitragliatrice passavano sopra il nostro caposaldo miagolando... Tremava la terra e sabbia e neve colavano giù dai camminamenti... Le pallottole battevano sui reticolati mandando scintille... Improvvisamente tutto ritornò calmo, proprio come, dopo la sagra, tutto diventa silenzioso...”. La rievocazione si conclude con l'esecuzione di una Ballata Rinascimentale Piemontese, trascritta a fine Ottocento, trasformata nel corso della Grande Guerra e riproposta oggi nel tempo di Pace. I testi, i canti, le tensioni evocate quando nella morsa del gelo tutto si spezza dentro, meritano profonda attenzione perché la memoria riscaldi un poco l'anima delle vittime, la dignità dei sopravvissuti, la tragicità senza misura degli eventi che mai dovranno entrare nell'oblio. Ilia Pedrina *** DA VICENZA E DINTORNI? MIRABILIA! - Il bell'Arturo thienese tra le nuvole da Roma a Tokio - Il 14 febbraio 1920 il giovane Arturo Ferrarin, da Thiene (VI), bellissimo e carico di audacia, prende il volo con il suo biplano Ansaldo SVA 9, dall'aeroporto militare di Centocelle (Roma) per affrontare un'impresa unica nel suo genere: la RomaTokyo in 34 tappe per i necessari rifornimenti, da
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Gioia del Colle a Valona, da Salonicco a Smirne e poi, per dirne solo alcune, Adalya, Aleppo, Baghdad e ancora Karachi, Dehli, Calcutta; poi, per farla breve Hanoi, Canton, Shanghai, fino a Pechino e poi ancora verso Seul e finalmente l'arrivo a Tokyo, il 31 maggio 1920. Là dove atterra, per poi decollare nuovamente, i festeggiamenti non si contano e fiumi di persone lo accolgono con grande entusiasmo. Tempo permettendo, giungerà a Pechino e siederà alla tavola con l'imperatore e gli altri alti dignitari. Poi la nuova tappa, l'ultima, per atterrare a Tokyo, dove l'imperatore Hirohito proclamerà una festa nazionale in suo onore, lo insignerà del titolo di Gran Samurai, donandogli il classico kimono e una preziosa spada Katana. A un secolo di distanza, proprio all'Aeroporto di Centocelle, il 14 febbraio 2020 è avvenuta la commemorazione del centenario del prestigioso evento, con l'inaugurazione di un monumento che elenca tutte le tappe che il giovane ha scandito in 112 ore effettive di volo, al fianco dell'amico pilota Guido Masiero e del motorista Gino Cappannini, per sorvolare una distanza di 18 mila chilometri. La velocità di volo? Appena sopra i 200 Km/h, tra rischi ed incidenti tutti da dimenticare! Ubaldo Oppi e il suo sguardo d'artista. Il resto del mondo gli è al fianco fin da quando è molto giovane così, arrivato a Vicenza da Bologna, dove è nato nel 1889, lascia che il suo ingegno si esprima tra esercitazioni da culturismo armonico e consapevole e intuizioni pittoriche affascinanti. Si avvia così la mostra alla Basilica Palladiana di Vicenza (6 dicembre 2019-13 aprile 2020) Ritratto di Donna. Il sogno degli anni Venti e lo sguardo di Ubaldo Oppi, a cura di Stefania Portinari, docente di Storia dell'Arte Contemporanea all'Università Ca' Foscari di Venezia. Colgo in rete elementi importanti su questo evento assai speciale: “... Nell'Europa da poco uscita dalla Prima guerra mondiale le donne cominciano a conquistare un proprio ruolo: sempre più autonome, seduttive, moderne. I capelli si accorciano come la lunghezza delle gonne, mentre la loro influenza nella società e nella cultura si fa sempre più intensa. Coco Chanel cambia la moda, Amelia Earhart attraversa in volo l'Atlantico, i balli di Josephine Baker incantano Parigi. Anche in Italia soffia un vento nuovo e di questa donna differente così diversa dal modello anteguerra, offre un ritratto magnetico il pittore Ubaldo Oppi, cresciuto a Vicenza ma formatosi tra Vienna, Parigi e Venezia, poi divenuto milanese, dopo essere stato scoperto da Margherita Sarfatti e Ugo Ojetti che stanno cercando uno 'stile italiano' nell'arte. Ma Oppi non è il solo...” (fonte: Grandi Mostre in Basilica Palladiana a Vicenza, in rete). Oltre ad altri Autori
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come Casorati, Sironi, Cavalieri, Marussig, che immortalano donne ed esperienze legate ai miti di quei tempi e di quelle metropoli della Bellezza senza tramonto, sono visibili i loro gioielli, gli abiti in tessuti pregiatissimi, le linee dei loro corpi che, ritratte, emergono sinuose e scivolano sulla tela, a far da riverbero alla luce, sempre radente. In sospensione, tra l'Assoluto del Modello e l'esperienza sensuale, infinita nella traccia di questo particolare, assemblato nella sintesi dell'evento, che trasuda magia. Carlo Ossola si ferma a Bassano (VI) per onorare l'abate Giambattista Roberti. Questo grande filologo italiano, che ho più volte incrociato alla Fondazione Cini di Venezia per convegni e commemorazioni, oltre che a Firenze, per via del Carteggio tra Luigi Nono e Giuseppe Ungaretti, ha presentato a Palazzo Roberti la sua pubblicazione TRATTATO DELLE PICCOLE VIRTÙ-BREVIARIO DI CIVILTÀ, costruita in dialogo con don Andrea Guglielmi, abate di S. Maria in Colle, opera in 130 pagine, edita da Marsilio e recante, in Appendice, proprio il Trattatello sopra le piccole virtù', dell'abate bassanese (1719-1786). Nella bella intervista rilasciata al giornalista Lorenzo Parolin e pubblicata sul GdV il 13 febbraio 2020, il prof. Carlo Ossola, dal ricchissimo percorso di studioso e ora docente al Collegè de France, si dichiara pienamente 'Olimpico' e ricorda figure storiche della Dora Markus negli Anni '80 come Giuseppe Barbieri, ora a Ca' Foscari e Paolo Vidali, altro filosofo di vaglia: cita il testo La ragione possibile. Per una geografia della cultura, frutto di incontri e dialoghi di indubbia rilevanza internazionale. Faccio mente locale e ti ritrovo questo testo tra le migliaia di opere che invadono lo spazio vuoto di casa, in ogni dove, quasi avessero mille piedi, oltre che mille e mille pagine, per la collana Campi del sapere/Feltrinelli, del settembre 1988 (il compositore veneziano Luigi Nono morirà due anni dopo, il 9 maggio 1990). In questo testo contributi, tra gli altri, di F. Cardini, J. Starobinski, T. Todorov, C. Ossola, S. Veca, P. Vidali, F. Volpi. E proprio il prof. Ossola firmerà, per questo testo, la sezione I linguaggi della narrazione, con Introduzione. Pensare all'ordinario/1.Una ragione 'possibile'/ 2.Fondamenti dell'ordinario/ 3.'Sorpresa' e 'distrazione'/4.Aspirazioni (pp. 207-223), e con la dedica 'per Ettore Passerini d'Antrèves, maestro di umanità'. Non posso resistere e cito le tensioni conclusive quando viene chiamato a testimone il cardinale Giovanni Bona da Mondovì “... La mistica dunque è breve, spedita e facilissima perché poggia su un fundus (Grund) -fondo di vaso che è fondamento dello stesso, secondo l'esempio del Bona- che è ca-
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pace d'accogliere illuminazioni più che di esprimere ragionamenti; non emette giudizi ma si elucida e si affina in una praxis aspirationum, nell'emissione di aspirazioni a Dio che coincidano con l'emissione del respiro, brucia per 'flammigeras aspirationes... 'Desiderare di esistere': non è solo una ragione possibile, ma soprattutto possibile, in grado cioè di sopportare il pensare il proprio esistere. Poiché 'desiderare di esistere', nella sua lettera e nel suo etimo, è talmente pieno di nostalgia ('rimpianto di star fuori'), che non può pensarsi se non come commemorazione..”. (C. Ossola, op. cit. pag. 216, poi in nota 78, pag. 223 il testo di G. Bona: 'Via compendii ad deum, per motos anagogicos et orationes jaculatorias. Liber isagogicus ad Mysticam Theologiam, Roma 1657. Cito tuttavia dall'edizione di Venezia, Lazzaroni, MDCCXLII; qui cap. III, p. 11 ('La mistica è una sapienza con la quale la mente riconosce il suo Dio senza ricorrere ad argomenti e quasi lo abbraccia e senza ragionamenti lo gusta. È insomma la mistica teologia una segreta e interna interlocuzione della mente con Dio'). In queste poche pagine lo studioso spazia senza misura dispiegando le sue ali da J. Ortega y Gasset a P. Valery, a Wittgenstein, a M. De Certeau, a Pascal e a tanti altri ancora, giù giù attraverso il tempo per arrivare a prender per mano anche M. Heidegger. Un testo, questo della Feltrinelli, da vagliare con pazienza e determinazione, a trent'anni di distanza. Ilia Pedrina
Indignarsi che dei poliziotti guardino a vista mutilino uccidano senza giustificazione non è essere di sinistra non è essere di destra non è essere di centro né della Luna Indignarsi che dei poliziotti abusino della loro forza è solo DIFENDERE LA DEMOCRAZIA Béatrice Gaudy Parigi, Francia
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LIBRI RICEVUTI ANGELO AUSTRALI - Romano Bilenchi (Un ricordo in forma di racconto) - Associazione Amici di Romano Bilenchi, volume realizzato nell’ambito del progetto “Ricordare Bilenchi” con il sostegno della Regione Toscana, 2019 - Pagg. 96, s. i. p.. Angelo AUSTRALI è nato a Figline Valdarno, dove vive, nel 1954. Poeta, scrittore, saggista e giornalista, amante della musica rock e jazz. Tra le sue diverse pubblicazioni: Zia Oria (1979, racconto); Racconto di Natale (1979, racconto), Roscio (1980, romanzo), Regioni preflesse (1981, poesie), L'usignolo di provincia (1982, racconto), C'è di quello che non costa (1982, racconto), Non essere il centro ma una parte del tutto (1983, saggistica), Sul filo dell'unità (1983, poesie), La rinunzia (1984, racconto), Spartaco e Cannabis (1985, narrativa), Il mio nonno barbiere (1986, racconto), Le lucciole (1987, racconto), Eugenio Centini. Dolore e sogno (1988, saggistica), Andrea (1988, racconto), La piazza (1988, poesia), Magalodiare (1989, narrativa), All'ora di pranzo (1990, racconto), L'ombra del cielo (1990, racconto), L'esempio di società (1990, saggistica), Voglia di ascoltare (1993, saggistica), 1945/1993, L'impronta della sinistra a Figline Valdarno (1993, saggistica), I grandi navigatori (1996, narrativa), In piazza c'era un pozzo (1996, giornalismo), Le lucciole (1996, racconto), Il treno che porta al passato (1996, racconto), Cinema di carta (1996, saggistica), Vittoria (1999, narrativa), Spartaco e Cannabis (1999, narrativa), Il paesaggio reiventato (2000, saggistica), Senza memoria la vita è solo cartapesta (2001, racconto), Le torri di avvistamento piantate dal nonno (2001, racconto), Fai attenzione alle palle vaganti (2002, racconto), I sogni in Tv (2002, narrativa), L'autostrada del sole (2003, racconto), Zia Oria (2003, narrativa), Ma l'anima non muore (2004, racconto), La collanina rossa del Valdarno (2005, saggistica), Dalla foce alla sorgente (2005, narrativa), Perché sono rimasto tra le lucciole (2006, saggistica), Farfalla colorata (2006, poesie), Non ci sono troppe vie di fuga (2007, narrativa). ** ANTONIA IZZI RUFO - Volo a ritroso - Nota dell’Autrice; in copertina, in bianco e nero, una foto-cimelio con “Rita, Antonia [l’Autrice] e Galdino con la nonna Antonia” - Carta e Penna editore, 2019, pagg. 48, s. i. p.. Antonia IZZI RUFO, insegnante in pensione, laureata in Pedagogia, è nata a Scapoli (IS) e risiede a Castelnuovo al Volturno (IS), frazione di Rocchetta. Ha pubblicato opere in
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prosa e poesia, saggi e altro, circa una sessantina di testi finora. Ha vinto moltissimi Premi Letterari. Noti critici ed esponenti della cultura nazionale e internazionale hanno scritto di lei, tra gli altri Costas M. Stamatis, Paul Courget, Giovanna Li Volti Guzzardi, Giorgio Barberi Squarotti, Massimo Scrignòli, Enrico Marco Cipollini, Marco Delpino, Angelo Manitta, Sandro Angelucci, Emilio Pacitti, Luigi Pumpo, Carmine Manzi, Aldo Cervo. Tra le tante sue opere, che sarebbe troppo lungo enumerare, si ricordano: Ho conosciuto Charles Moulin (1998), Ricordi d’infanzia, ricordi di guerra (1999), Tristia - Ovidio (1999), Saffo, la decima musa (2002), Per una lettura della “Vita Nuova di Dante” (2004), Catullo, il poeta dell’amore e dell’amicizia (2006), Il poeta e l’emozione (2009), Dolce sostare (2010), Dilemma (2010), Perché tu non ci sei più (2012), Felicità era... (2012), Paese (2014), Voci del passato (2015), La casa di mio nonno (2016), Sensazioni (2016), Oltre le stelle (2017), Giorno dopo giorno e Donne (2018), I racconti di Lucio I. (2019).
TRA LE RIVISTE IL CONVIVIO - Trimestrale fondato da Angelo Manitta e diretto da Enza Conti - Via Pietramarina - Verzella 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) - E-mail: angelo.manitta@tin.it ; enzaconti@ilconvivio.org - Riceviamo il n. 79, ottobredicembre 2019, dal quale segnaliamo: “Roberto Giardina dialoga sulle recenti pubblicazioni Monologo con figlio e Il muro di Berlino”, intervista di Angelo Manitta; “Guido Zavanone: viaggio metafisico in L’essere e l’ombra”, di Angelo Manitta; “Humanitas e sogno dell’Oltre nella poesia di Italo Rocco”, di Carlo Di Lieto; “Sulla soglia del domani, raccolta poetica di Francesco d’Episcopo sotto il segno dei sogni”, di Maria Gargotta. Le poesie “Meraviglioso sole”, di Antonia Izzi Rufo; “Mandorlo in fiore”, di Aurora De Luca. Il racconto “Lotteria” di Themistoklis Katsaounis nella traduzione di Giorgia Chaidemenopoulou; la rubrica “Pittura” curata da Enza Conti e con interventi di Adriana Repaci. Delle Recensioni segnaliamo quelle a firma di: Manuela Mazzola, Domenico Defelice, Isabella Michela Affinito eccetera. Infine, la rubrica La vetrina delle notizie. * POETI NELLA SOCIETÀ - rivista letteraria, artistica e di informazione diretta da Mariangela Esposito, redattore capo Pasquale Francischetti -
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via Arezzo 62 - 80011 Acerra (NA) - e-mail: francischetti@alice.it - Riceviamo il n. 98, gennaiofebbraio 2020 e delle tante firme segnaliamo quelle di Mariagina Bonciani e Isabella Michela Affinito.
LETTERE IN DIREZIONE (Béatrice Gaudy, il 30 gennaio 2020, da Parigi) Parigi, freddo di stagione Buongiorno caro Domenico, Spero che le feste della fine dell’anno siano state piene di gioia e di calore affettivo per Lei. A Parigi e nella regione parigina, credo che la gente ne abbia soprattutto approfittato per riposarsi. Collo sciopero dei trasporti pubblici durato oltre 40 giorni, tutti erano molto stanchi. Ho scoperto “Il Croco” di Manuela Mazzola e “Pomezia-Notizie” con grande piacere. Nella seducente raccolta “Sensazioni di una Fanciulla”, rimarco una maturità poetica precoce e probabilmente anche una maturità precoce della personalità. “È quello che è giusto ad incutere la speranza” ho pensato leggendo il Suo divertente “Miracolo a Natale”, vera arringa per il diritto di vivere di tutti e contro l’uniformità. Molto seducente è anche “Una volontà ferita: ovvero L’eredità” di Wilma Minotti Cerini col suo zio lucidissimo sui sentimenti dei nipoti e su quelli delle altre persone vicine a lui. Molto originale è “…Eppure quel connotato non mi è nuovo!” di Ilia Pedrina. Il suo omaggio a Pham Thi Trà My è pieno di sensibilità. Numerosissime sono le persone commosse dal dramma delle vittime del “tir dell’orrore” e più generalmente dalla sorte terribile di tutte le vittime della violenza, della miseria, degli sfruttatori. Gli articoli su Orazio Tanelli, Luigi De Rosa e Gianni Rescigno sono interessanti. Rimarco spesso i poemi di Luigi De Rosa e di Gianni Rescigno nei numeri di “Pomezia-Notizie”. Il modo di Emerico Giachery di leggere la poesia di Albino Pierro è molto convincente. I
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luoghi dove leggiamo non sono tutti indifferenti, alcuni permettono di sentire più profondamente quello che leggiamo. La notizia della nascita del Premio Editoriale Il Croco fa piacere a tutti gli scrittori. Le auguro un felicissimo anno, pieno di poesia di vita, di salute soddisfacente, di ispirazione letteraria, di piaceri culturali. Con Calorosi saluti. Béatrice Gaudy Cara Amica, Le feste, grazie a Dio, son passate bene; è dopo che s’è scatenata l’influenza, sì che la casa è diventata un lazzaretto. L’abbiamo presa tutti, nipotini compresi ed io, ancora oggi, non riesco ad arginare una fastidiosissima bronchite, prima, che mi squassa, che passa, poi, a polmonite, che mi costringe al ricovero in pronto soccorso per cinque giorni; ora, mentre scrivo, sto proseguendo la cura nella mia casa. Occorre, tuttavia, lavorare, non ci si può fermare, gli impegni vanno mantenuti. Voi Francesi sapete distinguervi da noi Italiani anche negli scioperi; voi fate scioperi di 40 giorni; qui, da noi, i sindacati (di sinistra, come la CGIL, o a sinistra orientati come lo sono gli altri) organizzano gli scioperi di venerdì, per legare il riposo al sabato e alla domenica, e tutto finisce. Anzi, a dire il vero, di scioperi consistenti, qui, in Italia, non se ne svolgono ormai da anni e non se ne svolgeranno finché la Sinistra dominerà, finché gestirà il potere, nella realtà e sottobanco (non si disturba il manovratore!). Una Sinistra da salotto, non da battaglia, com’era nel passato: ormai è tutta gente lisciata, agghindata, truccata, profumata, che affolla i Salotti televisivi, sproloquia, ipocrita al par della Destra, che non arrossisce (e, se anche lo facesse, non si vedrebbe, spalmata ben bene com’è di cerume). “Miracolo a Natale” ha voluto spezzare una lancia verso i più deboli, persone ed animali compresi. E contro l’ipocrisia, ormai troppa. Le nostre case son piene di cani e gatti e altri animali, non di bambini; e cani e gatti costretti a vivere innaturali, non da animali, cioè: pisciare e defecare a determinate ore del giorno; non
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abbaiare né miagolare per non disturbare; sterilizzati, costretti a non avere compagni, a non fare sesso e a vivere rinchiusi in stanze, a volte anche buie, come compagnia la TV o un giocherello elettronico… Perché questi super egoisti mi domando -, che dicono di amare gli animali, non provino a vivere loro come fanno vivere cani e gatti: chiusi, senza socializzare con i propri simili, fare i bisogni quasi a comando, senza alcuna attività sessuale e via elencando? Provino, questi ipocriti, a vivere come fanno vivere quelli che dicono di amare! Vedrebbero che goduria! E guai se gli animali si ammalano! Li vogliono sempre sani e pimpanti per la loro vanità, per il loro smodato narcisismo. A Roma, qualche ano fa, anche un albero immiserito per colpa della vanità degli uomini è stato ridicolizzato col nome di “Spelacchio!” “Miracolo a Natale” ha voluto sollevare il velo grondante sangue sugli abbandoni minorili e, in specie, sui bambini ammalati o handicappati; un problema vecchio come il cucco, ma oggi assai più crudele, perché, volendo, ci sarebbero mezzi e strutture perché si evitassero drammi inauditi. Non posso dire di aver raggiunto lo scopo; c’è stato qualche commento positivo, c’è stata qualche critica; il racconto-fiaba è stato ristampato con illustrazioni a colori sull’attività circense da un quindicinale che si pubblica in più di dodicimila copie. Tutto qui, e i drammi continuano. La stessa cosa succede con gli immigrati, in cerca di pace e benessere attraverso barche e carrette del mare, marce estenuanti, muri e siepi di filo spinato da valicare, o quel che lei definisce i “tir dell’orrore”: la gente sembra commuoversi sul momento, poi tutto viene risucchiato dal solito andazzo e i cadaveri continuano ad ammucchiarsi, sulla terra e in fondo al mare. Amen! Il modo di leggere i poeti da parte di Emerico Giachery, non è soltanto originale, è geniale. Né sono indifferenti solo i luoghi ove si leggono, ma anche i tempi. Ricordo gli autentici pianti, allorché, nella mia giovinezza, sdraiato sotto un pioppo vegliardo e ciarliero, leggevo l’amato Leopardi. Continuo ad amarlo, continuo a leggerlo, all’aperto e al chiuso, ma il tempo mio è mutato e più non piango.
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Ecco, qui di seguito, Cara Béatrice, le poesie da lei tradotte e per le quali la ringrazio, anche a nome degli Autori. Domenico HORS DU TEMPS Fermés le portail sur la place et celui secondaire côté mer dans la cathédrale du silence. Depuis longtemps les cloches ne sonnent plus l’Ave Maria dans le village global. Figé et doux le soleil s’étend sur la mer et ronronne dans le grand vitrail latéral. Corrado Calabrò In Pomezia-Notizie, dicembre 2019, Traduction de Béatrice Gaudy.
4 avril 1991 - 21.08 TABLEAUX Je peignais le monde en noir et blanc, parce que je voyais ainsi le monde : l’amour et la haine, l’humilité et l’orgueil, la bonté et la méchanceté. Dure et inflexible je criais sur mes tableaux. A présent mon univers connaît tant de nuances, il est doux et harmonieux, flexible aux vents. Aujourd’hui je ne crie plus, mais je siffle à peine. Manuela Mazzola Da Sensazioni di una fanciulla, Ed. Il Croco/PomeziaNotizie, 2019, Traduction de Béatrice Gaudy
DEUX NOVEMBRE A SANTIAGO Ne me dis pas de mots d’amour. Un autre amour intérieurement me déchire avec une voix de tonnerre. Les morts me traînent
POMEZIA-NOTIZIE
Marzo 2020
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aux pays du sud où grand est le silence. Laisse-moi, petite, entre les visages en peine, stalagmites de larmes. Laisse-moi entre nuages bas et pluies et cyprès noirissimes. Rocco Cambareri In Pomezia-Notizie, dicembre 2019, Traduction de Béatrice Gaudy
AI COLLABORATORI Inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione) preferibilmente attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è gradito un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________
Domenica 23 febbraio 2020 - circondato dall’affetto dei genitori Annachiara Pedicino e Luca Defelice; dai nonni materni (venuti da Campobasso, nel Molise) Maria Carmela Varriano e Nino Pedicino; dai nonni paterni Clelia Iannitto e Domenico Defelice (quest’ultimo, in verità, assente giustificato, perché ricoverato al pronto soccorso della clinica Sant’Anna!); dalle zie e dagli zii di entrambe le famiglie: Michele Pedicino e Sara Neri (venuti da Roma), Gabriella Defelice e Roberto Carnevalini Milano, Emanuela Vignaroli e Stefano Defelice; dai cuginetti Riccardo, Valerio e Leonardo -, MATTIA DEFELICE ha ricevuto il Santo Battesimo nella Chiesa di San Bonifacio, in via Singen, a Pomezia. Madrina e Padrino: Gabriella Defelice e Michele Pedicino. Ha svolto la funzione il collaboratore del parroco: don Nestor Luis Rojas Guzman.
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