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50ISSN 2611-0954

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Anno 28 (Nuova Serie) – n. 4

€ 5,00

- Aprile 2020 -

Singolare inaugurazione a Bergamo della Mostra di

GAETANO ORAZIO di Giuseppe Leone N’inaugurazione tanto inusitata quanto suggestiva, nel segno di un nobile filosofare, quella della mostra De rerum natura dedicata a Gaetano Orazio, nel tardo pomeriggio di sabato 15 febbraio, nella sede dello Studio Balini in via Alberico da Rosciate a Bergamo, davanti a un pubblico numeroso e attento. L’evento, cui fa riferimento il titolo, è nato da un’idea di Vittorino Balini, che, per l’occasione, ha riunito attorno a un tavolo artisti e uomini di cultura, che, in vario modo e con competenze disciplinari diverse, hanno dialogato con lui, rispondendo alle sue domande sulla natura, il tema ispiratore della pittura di Orazio: dallo stesso Gaetano Orazio a Franco Piavoli regista cinematografico; Alberto Casiraghy, editore di Pulcino Elefante, aforista e poeta; Giuseppe Leone, scrittore e saggista; Luca Mangili, botanico e presidente della Flora Alpina Bergamasca; Giancelso Agazzi e Lino Galliani, della commissione cultura Cai, e Flavio Salvetti, coltivatore e responsabile dell’Orto Botanico di Carona.

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All’interno: Coronavirus e rapporto umano, di Luigi De Rosa, pag. 5 Itzhak Katzenelson, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 7 Erick Pesenti Rossi, Seminara lettore e critico, di Carmine Chiodo, pag. 10 Leonardo Selvaggi, Poesie in due tempi, di Domenico Defelice, pag. 14 Francesco Filippi, Mussolini ha fatto anche cose buone, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 17 Caterina Felici, Nei giorni, di Domenico Defelice, pag. 19 Gianni Rescigno, Sulla bocca del vento, di Isabella Michela Affinito, pag. 21 Yang Yunxia, di Domenico Defelice, pag. 23 Vittorio “Nino” Martin, Sorsate ristoratrici, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 26 Filosofi interpreti di poesia, di Emerico Giachery, pag. 28 Il mio grano di scrittura, di Luciana Vasile, pag. 29 Due lettere, di Patrizia De Rosa e Lorenzo De Micheli, pag. 30 La cremazione, di Leonardo Selvaggi, pag. 31 “Bisogna mangiare”, di Antonia Izzi Rufo, pag. 35 “…Per far cadere nelle maglie…”, di Ilia Pedrina, pag. 35 Premio Il Croco (regolamento), pag. 39 Dediche, a cura di Domenico Defelice, pag. 40 Notizie, pag. 49 Libri ricevuti, pag. 52 Tra le riviste, pag. 53 RECENSIONI di/per: Elio Andriuoli (Il lato oscuro delle cose, di Raffaele Urraro, pag. 42); Domenico Defelice (Luoghi personali e impersonali, di Isabella Michela Affinito, pag. 43); Domenico Defelice (Volo a ritroso, di Antonia Izzi Rufo, pag. 43); Salvatore D’Ambrosio (Sensazioni di una fanciulla, di Manuela Mazzola, pag. 44); Giuseppe Giorgioli (Le parole a comprendere, di Domenico Defelice, pag. 45); Manuela Mazzola (Volo a ritroso, di Antonia Izzi Rufo, pag. 47); Manuela Mazzola (Nei giorni, di Caterina Felici, pag. 48); Laura Pierdicchi (Sorsate ristoratrici, di Vittorio “Nino” Martrin, pag. 48). Lettere in Direzione (Ilia Pedrina), pag. 54 Inoltre, poesie di: Luigi De Rosa, Ada De Judicibus Lisena, Salvatore D’Ambrosio, Nino Ferraù, Antonia Izzi Rufo, Giovanna Li Volti Guzzardi, Manuela Mazzola, Wilma Minotti Cerini, Teresinka Pereira, Gianni Rescigno, Franco Saccà

Lo ha fatto, attraverso un andirivieni di suggestioni letterarie e riflessioni scientifiche, legando la manifestazione a un arco di tempo infinito che, dall’epoca di Lucrezio, autore a Roma della traduzione in versi del trattato sulla natura del filosofo greco Epicuro, giunge fino ai nostri giorni alle prese con i seri problemi del surriscaldamento della terra, passando per le concezioni sulla natura di Giacomo Leopardi. Eccolo, prima, intrattenersi con gli esper-


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ti di botanica, partendo da Mangili, al quale chiede di commentare una sua frase posta a chiusura di un suo libro: ''perché la bellezza non muoia occorre prima saperla vedere, il resto verrà di conseguenza ''; un’ affermazione, alla quale cercheranno di rispondere anche gli altri colleghi interlocutori, portando il loro discorso sul comportamento dell’ uomo, ritenendolo unico responsabile ai fini della conservazione della natura; e tutti, con temi e tesi assai vicini a una sorta di neodeismo, la concezione che vuole la natura nata grezza dalle mani del creatore e migliorata in seguito dall’intervento umano grazie alla ragione. Ne hanno così parlato delle camminate e delle arrampicate in montagna nonché delle passeggiate nei boschi, tutte manifestazioni che, se compiute con la do-

vuta accortezza, non potranno che far bene tanto all’uomo quanto alla natura. E passare, successivamente, al sottoscritto, che ha parlato della natura nell’opera leopardiana, di quell’immagine che il poeta venne deducendo dalle tesi del materialismo-meccanicistico, che gli facevano vedere l’universo come un ciclo perenne di vita e di morte; a Piavoli, che, soffermandosi sull’ infinità della natura, sempre in Leopardi, cita come il poeta l’avesse dimostrata con tre inquadrature degne del miglior cinema di oggi, soprattutto in quei versi de L’infinito a partire da quest’ermo colle / e questa siepe che formano un campo breve, prima del campo lungo Interminati spazi… io nel pensier mi fingo e, poi, lunghissimo e mi sovvien l’eterno … ; e a Casiraghy, anch’egli

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artista non estraneo alle suggestioni di una natura infinita, fatta non solo per l’uomo, quale egli stesso è venuto spesso celebrando in aforismi, come: Se è vero che Dio esiste, è un entomologo che vede ovunque, o Il fiume ha sempre ragione, elevato a metafora del tempo che scorre incessante, e divenuto, poi, anche il titolo di un film documentario di Silvio Soldini, con protagonisti lo stesso Casiraghy e lo svizzero Josef Weiss, grafico e restauratore di libri. Il tutto a margine di questa mostra di Gaetano Orazio, che proprio nelle cose della natura ritrova somiglianze e analogie con il suo essere attraverso un’arte che Philippe Daverio definisce una sorta di urgenza creativa, quasi sciamanica, secondo lui, frutto di un’ispirazione che non parte mai da vincoli di scuola, ma da un demone che gli spira dentro. E non solo, che è anche espressione di una memoria filogenetica, che spinge l’ artista a dipingere animali e cose che hanno preceduto la presenza dell’uomo sulla terra, come salamandre, libellule o castagne d’ acqua, soprattutto le prime, che “si dice abbiano trecento milioni di anni, assai più vicine di noi, semplici pensatori, al big bang”. Perché ciò che oggi interessa a Orazio


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non è il concetto dell’arte come panacea contro tutti i mali. Egli ha scoperto, per dirla ancora con Daverio, “un’alternativa possibile, suscettibile di dare un senso assolutamente nuovo al dipingere”, che lo porta a risultati esteticamente coinvolgenti, per i quali ha bisogno che inciampi in questa o in quell’apparizione di questo o quell’animale, di questa o quella pianta, tutte cose che finiranno per formare un proprio infinito, personale, in tutta la sua libertà di ricercare. Tale e quale l’infinito leopardiano, con la differenza, si direbbe, che quello del poeta recanatese non è arredato, non vi compaiono mai oggetti reali, né parole concrete come stelle o cielo, come, invece, in questo di Orazio, con tanto di suppellettili e altre immagini, di cui s’è detto, che segmentano i campi lunghissimi di cui parlava Piavoli a proposito di Leopardi in numerosi campi brevi. Un dibattito variegato, interdisciplinare, allora, che Balini ha portato dentro questa mostra giunta a Bergamo al termine di un percorso partito dalla Brianza, terra d’ ele-

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zione di Gaetano (lui originario di Angri nella provincia salernitana), a cui piace tanto che la disegna, la "misura", la percorre, affascinato come Leonardo dai dettagli, come i suoi anfratti, le sue acque, le sue erbe, i suoi animali, gli insetti, le pietre, le sue rocce; e che ha condotto, attraverso un modo squisitamente filosofico, rendendo giustizia a una certa idea di filosofia a cui la espone da sempre la sua etimologia, che è quella del suo amore verso il sapere o, per meglio dire, verso i saperi, degli altri non il proprio; e di capirli, mettendoli in comunicazione gli uni con gli altri. Come in questa occasione, in cui, prendendo spunto dalle provocazioni di Gaetano Orazio che invita ad un atteggiamento di ascolto e di contemplazione di fronte al microcosmo del suo torrente, Balini è riuscito a riunirli, “aiutato – a sua detta - dall'inattuale della sua pittura che rende protagoniste le cose umili, come i suoi fiori della cicoria comune, per provare a scoprire quanto spiraglio rimanga ancora aperto alla nostra libertà di scegliere e alla bellezza e varietà delle forme vitali della natura e quanto invece irrimediabilmente chiuso”. Insomma, quante possibilità ancora permangano “perché la bellezza non muoia”, ora che l’uomo non sembrerebbe più capace di emozionarsi se non davanti alle sole meraviglie della tecnica. Giuseppe Leone


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CORONAVIRUS E “RAPPORTO UMANO” di Luigi De Rosa

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RA le tante, dannose pseudo-notizie che imperversano sui media e sui cosiddetti social, in questi tempi di coronavirus, vi sono per fortuna anche notizie e iniziative ispirate all'intelligenza e al buon senso (oltre a quelle, indispensabili, basate sulla scienza) valide sul piano umano e culturale. Una di queste mi ha colpito favorevolmente, mi trova d'accordo, e mi ridona sollievo e fiducia nell'essere umano. Per contrastare la diffusione del coronavirus, si è dovuto, tra l'altro, chiudere le scuole. Ha chiuso, ovviamente, anche il Liceo Scientifico “Alessandro Volta” di Milano, ma qui il Preside, il dirigente scolastico Domenico Squillace, ha pensato bene di scrivere una lettera aperta ai suoi ragazzi forzosamente inattivi nelle rispettive case. Li ha esortati tra l'altro, a leggere il capitolo 31 de “I Promessi Sposi”, dedicato da Alessandro Manzoni all' epidemia di peste nella Milano di fine 1629 e inizio 1630. Allora la Lombardia era sottoposta al “malgoverno spagnolo”. Ma l'epidemia (quella volta si trattava della peste...) vi era arrivata al seguito delle invasioni delle “bande alemanne”. Cioè dei lanzichenecchi tedeschi diretti a Mantova perché pagati (erano mercenari) per decidere la guerra di successione del Ducato di Mantova tra Spagna e

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Francia. Dallo studio storico e dalla rappresentazione artistico letteraria della storia di Renzo e Lucia Don Lisander ricava il convincimento che certi atteggiamenti delle masse sono sbagliati ed infondati sia nel 1600 che nel 1800. Egli scriveva nell'Ottocento ma non pare che nei secoli successivi certe mentalità siano cambiate in modo decisivo. Tra i consigli e le indicazioni (non solo culturali ma anche pratiche) del prof Squillace, richiamo l'attenzione su: lo scontro delle autorità, la ricerca esagerata del paziente zero, il disprezzo e la supponenza verso i tecnici e gli esperti, la caccia agli untori, le voci incontrollate, i rimedi più assurdi, la corsa all'acquisto di beni di prima necessità nel terrore di arrivare dopo gli altri e quindi di trovare gli scaffali vuoti, la paura di restare fuori del soccorso del sistema sanitario, etc.etc. Già mi sembra di sentire certe obiezioni stizzite: “Uffa, ci manca solo che tirino di nuovo fuori quel noioso di Manzoni! E poi cosa c'entra la Milano del 1630? La Milano di oggi è ultramoderna, è tutta un'altra cosa!” Meno male che non c'è – neanche nei periodi peggiori – la frenesia di chiudere le scuole che in generale sono ancora luoghi di solidarietà morale e sociale. Luoghi nei quali si vivono i ritmi della vita e in cui si impara il senso della misura, della moderazione e del distacco dal fanatismo. Dovremmo organizzarci e fare scuola anche fuori degli appositi edifici. Scuola a distanza grazie alla tecnologia e alla elettronica. Scuola personalizzata che però non prevede il soddisfacimento dei bisogni di istruzione di una società di massa. Il punto più qualificante del discorso del dirigente scolastico Squillace rimane, comunque, quello attinente il patto sociale e morale. In altri termini “Il rapporto umano”. C'è la necessità assoluta di evitare un imbarbarimento dei rapporti interpersonali: “uno dei rischi più grandi in vicende del genere - conclude infatti il dirigente Squillace – ce lo insegnano Manzoni e forse ancor più Boccaccio, è l'avvelenamento della vita sociale e civile. L'istinto atavico quando ci si sente mi-


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nacciati da un nemico invisibile è quello di vederlo ovunque, il pericolo è quello di guardare ad ogni nostro simile come ad una minaccia, come ad un potenziale aggressore”. La salvezza consiste nel fidarsi della scienza per non farsi battere dalla “peste”. Credo che rispetto agli anni del Trecento e dei secoli passati, noi abbiamo dalla nostra parte la medicina moderna, i suoi progressi, le sue certezze. Usiamo il pensiero razionale di cui è figlia per conservare il bene più prezioso che possediamo, il nostro tessuto sociale. Se non riusciremo a farlo la peste avrà vinto davvero. Luigi De Rosa

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Non piangete inutilmente senza avere prima ricordato, narrato, lasciato la memoria come fecero le madri antiche, che allevarono figli senza l’odio per una carne che bruciata, puzza come la tua. Ti dici ariano? Da quale mondo vieni, in quale mondo vivi se non sai- ancora oggi- che l’umanità è una e che è solo Sua? Che non hai tu, il diritto di niente? Salvatore D’Ambrosio *Itzhak Katzenelson- Poeta ebreo nato in Polonia (Karèličy, 1886- Auschwitz, 1° maggio 1944)

MEDITERRANEO PER UN POPOLO E UN POETA EBREO MESSI A MORTE Che vino fai bere Itzhak?* Che vino amaro hai messo in quelle bottiglie sotterrare per l’invecchiamento? Ho pianto sai, già al primo sorso. Una nonna raccontò quello che aveva visto un giorno del 1900, un giorno di quel secolo mio: peccatore senza peccati colpevole senza colpe, eppure mie, ma non per aver chiuso gli occhi. Perché occhi verranno solo dopo a cancelli chiusi, quando il fumo puzzolente dei forni sarà coperto dal silenzio della vergogna di non aver detto niente. Narratemi dunque madri, nonne, gente comune vissuta nell’indifferenza. Raccontatemi, ditemi perché si uccide un popolo Yiddish mansueto? Si profana, si bestemmia la sua vita regalatagli da un Dio che dite d’amare? Non si è fatto da solo quel popolo. Come il tuo è stato fatto. Tu lo ammazzi senza diritto, senza sapere quello che fai, proprio come fecero con quel Figlio mandato anche per te su questa Terra.

Dietro non si guarda mai dietro sempre avanti si dice ma è dietro che si lasciavano fili spinati che racchiudevano baracche gasate fino alla morte O è dietro ancora che si lasciano combattenti senza nemici in guerre mai dichiarate oggi mandare oggi a riposo ossa vicino a Tritone poggiato su colonne di giornale che esaurite al mattino tutte le emozioni finiranno al calare della sera nel buio di uno sgabuzzino ma per i più per quelli che non guardano dietro mai nel fondo di un cestino tra cose e notizie diventate anche per oggi solo carta straccia Salvatore D’Ambrosio Caserta


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ITZHAK KATZENELSON Canto del popolo yiddish messo a morte

A cura di Erri De Luca di Salvatore D’Ambrosio

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OVE sono i miei morti? Cerco i miei morti, Dio,/in ogni letame,/in ogni mucchio di cenere, ditemi dove siete. Ecco, non vi è cosa più brutta che non avere dei propri morti neppure un osso su cui pregare. Così diceva mia madre sempre, ogni volta che pensava al fratello morto in AOI e che non gli fu restituito. Questi ultimi anni divenuti così crudeli, così somiglianti a giorni passati che ritornavano solo nei racconti di nonne, madri, uomini, che non avevano vergogna di lacrime sciolte dagli eventi avutoli come protagonisti. Loro forse si possono perdonare, come per i

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più è stato fatto, perché non sapevano tutta la verità. Tutto il male che in nome loro si andava perpetrando. Ma oggi no, non si può perdonare. Tutti dobbiamo condannare con voce forte, senza timidezze, senza sottovalutazioni, questo rigurgito di follie novecentesche. Nel 2020 non si può minimizzare il fatto orrendo di chi va in giro per le porte d’Europa, a disegnare stelle e a mettere accanto a esse il nome di un popolo, come se fosse una colpa. Come se avessero carne diversa, fatta di altra materia, di altra consistenza. E quantunque anche fosse, uno fu l’Ente Supremo che la fece quella carne. Aver sdoganato le destre, riconducendole nell’alveo della normale dialettica della pluralità politica, non significa cancellare o autorizzarle a rivedere o ricostruire la storia passata, assecondando il loro negazionismo di fatti e vicende, di cui esiste ancora memoria reale per gli ultimi sopravvissuti. Si diventa uomini migliori non negando il male fatto, ma raccontandolo in modo giusto e reale, da qualunque parte politica esso sia stato fatto. La verità non ha etichette. La verità rende tutti persone sagge, responsabili, veri educatori di nuove generazioni. Per questo e altri innumerevoli motivi, che chiunque può aggiungere al fine di ritrovare finalmente una pace definitiva e proficua, dobbiamo leggere e far leggere soprattutto nella scuola, il poema scritto da una mano che sapeva che in un qualunque momento, non sarebbe stata più in grado di lasciarci la cronaca dei giorni che stava vivendo. Dobbiamo smetterla con le sciocchezze che, in questi ultimi trent’anni, le nuove generazioni hanno dovuto sentire. Superficialità e demenze che li hanno resi aridi, violenti, freddi e impassibili nel comprendere e riconoscere la differenza tra ciò che è bene e ciò che è male. Ho sentito ragazzini che, ripresi per bullismo, hanno candidamente risposto che il loro è uno scherzo, che non ci vedono nulla di male. Ho sentito ragazzine in fiore, che metteva-


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no in bilancio la possibilità di subire una violenza carnale. Il male si veste, dunque, di normalità. Perde di efficacia in dicotomia con il bene. Raccontiamo, facciamo leggere a tutti grandi e piccoli, le cose che hanno sconvolte e annientate vite. Portiamo nelle scuole Itzhak Katzenelson con la sua tragica cronaca di una realtà vissuta sulla sua pelle. Spieghiamo con la lettura del “ Canto del popolo yiddish messo a morte”, perché si distrugge per odio un popolo intero. Facciamolo subito, visto che è ritornato in libreria per la Feltrinelli con la cura di Erri De Luca, una nuova traduzione di questo sublime canto-cronaca di un poeta che ha avuto la sventura di essere polacco ebreo. E di finire la sua vita, come dice per i suoi cari figli e moglie, in un mucchio di cenere. Morte avvenuta nel campo di sterminio di Auschwitz il primo di maggio del 1944. Compose Itzhak il suo capolavoro scrivendo di nascosto e con una gran fretta di completarlo, per la paura che lo avessero messo a morte prima di avere terminato la spaventosa cronaca dei suoi giorni. Scrisse dal 3 ottobre 1943 al 17 gennaio 1944 e nascose tutto in tre bottiglie interrate in un luogo noto a una sua amica, Miriam Novitch, miracolosamente sopravvissuta. Nel primissimo dopo guerra, 1945, si ebbe del Canto una prima pubblicazione a Parigi. Seguirono una nel 1951 in tedesco, una nel 1955 in inglese e nel 1966 in italiano curata dalla Novitch e Fausta Beltrame Segré. La prefazione fu di Primo Levi. Nel 1995 per Giuntina di Firenze si ebbe una nuova versione operata da Daniel Vogelmann, su traduzione di Sigrid Sohn. Questa recente edizione del 2019, curata da De Luca che ha studiato e imparato la lingua yiddish, ha come base un testo della biblioteca Medem, che è la casa parigina della cultura yiddish. Confesso, senza vergogna, che nonostante la mia frequenza delle librerie, più che delle discoteche, non avevo mai avuto la fortuna di

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leggere questo capolavoro che descrive la crudeltà umana. Probabilmente dovrebbero vergognarsi anche tutti quelli, che non hanno diffuso con dovizia le precedenti edizioni di questo Canto. Oggi che si è ripresentata la possibilità, mi adopererò affinché lo si possa leggere quante più persone. Dobbiamo farlo per salvarci, perché ci siamo messi su una cattiva strada: quella della stupida intolleranza sorretta dalle false notizie diffuse da falsi amministratori, erti a paladini di carta velina di una Nazione molto più forte di loro e delle loro bislacche ideologie. L’opera si compone di quindici canti di quindici strofe di quattro versi molto lunghi. De Luca chiama acutamente queste strofe: “colonne in marcia del solo esercito invincibile e del solo formato adatto al contrattacco dell’accusa, la poesia.” Novecento versi di dolore, di inspiegabile crudeltà, di abiezione da parte di un popolo che pure fino a quegli anni era depositario di cultura millenaria. Il tedesco non era barbaro, per cui resta ancora più inspiegabile la sua novecentesca follia. Popolo bellico, questo si, ma mai si sarebbe immaginato la sua deriva verso la crudeltà più disumana. Dal primo al quindicesimo dei canti, c’è tutto il racconto della carneficina di gente colta, pacifica, osservante dei voleri di un Dio, che li volle su questa terra: non per soffrire, ma per essere sale, sapienza, speranza, futuro. “Ho avuto fede in voi, cieli, vi ho cantati nelle poesie, nelle canzoni,/ ho amato voi come si ama una donna, andata via, svanita come schiuma, …” In un attimo tutto cambia. Niente più canti, preghiere, famiglia, amici, pace. C’è solo lo spettro dei vagoni che ingoiano ogni giorno migliaia di esseri umani portati a morte, vigliaccamente raccontando fandonie sul loro viaggio. “Vi spogliate qui, sistemate i panni in un posto, le scarpe a due a due, lasciate qui tutto quello che avete,/ vi serviranno, vestiti e


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scarpe e tutto, tutto ciò che lasciate, tornerete a prenderlo./ Siete qui dopo un viaggio, no? Da Varshe? Da Parigi? Da Praga? Salonicco? Andate a farvi un bagno”./ Ne vengono infilati mille in un camerone e mille nudi aspettano che i primi mille siano soffocati.” Ecco io non voglio che nuovi vigliacchi, la facciano franca come quelli del morto e orrendo millenovecento. Salvatore D’Ambrosio ITZHAK KATZENELSON - Canto del popolo yiddish messo a morte - A cura di Erri De Luca - Feltrinelli – 2019- € 7,50

CARO PAPÀ Quando più mi sforzavo, in gioventù, di esserti, e apparirti, dissimile, tanto più, in questi miei anni maturi, mi accorgo che ogni giorno ti assomiglio un po’ di più. Mi mancano i tuoi occhi indagatori che scrutavano con ansia i miei ritorni, non fan più capolino dietro i vetri di quel palazzo ad Asti, in periferia, dove vivevi in autoisolamento. Nel rifugio del tuo appartamento (ristrutturato) oggi ci vivono persone estranee che han cancellato quella tua liturgia laica, che dava un senso a giornate tutte uguali e interminabili. Ormai quelle piramidi di libri, testimonianze di cultura classica, di politica, di lavoro commerciale, i tuoi mobili antichi, i rifugi segreti traboccanti di lettere e di foto, sopravvivranno solamente in me, in questo cuore angosciato dai dissidi di un’esistenza, da bambino a uomo, per non essermi mai sentito compreso e non averti, a mia volta, compreso. Luigi De Rosa Da Fuga del tempo, Genesi Editrice, 2013

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RISORGERÒ Passano le ore e il giorno diventa un anno e poi tanti anni e il malumore diventa quotidiano, pensando che tantissimi giorni hanno formato tantissimi anni, i capelli son diventati color della neve e le rughe hanno invaso tutto il territorio del corpo, che si è afflosciato come un palloncino sgonfiato. Risorgerò lo so, quando andrò lassù tra le stelle lucenti, e il mio Gesù mi tenderà le mani per condurmi nel giardino della vita eterna e gioire con Lui la danza del Paradiso. Risorgerò, e le ore diventeranno stelle, splenderanno lassù insieme a me e al mio Compagno Gesù! Cav. Giovanna Li Volti Guzzardi Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori (A.L.I.A.S.)

MARE D’INVERNO A volte arriva a me, lunghissima onda. Nella mia casa fra alberi e brine arriva e se ne va sciolto nel vento. E lo incontro così, d’inverno, il mare. Nomade, ambiguo. Come un amore segreto che mi venga a trovare mi avvolga e turbi poi mi debba lasciare. Ada De Judicibus Lisena Da Omaggio a Molfetta, Edizioni Nuova Mezzina, 2017


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ERICK PESENTI ROSSI FORTUNATO SEMINARA LETTORE E CRITICO di Carmine Chiodo

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RICK Pesenti Rossi ha dedicato a Fortunato Seminara interventi critici innovativi che lumeggiano meglio la vita e l’arte narrativa dello scrittore di Maropati (RC). Grazie allo studioso italo–francese possiamo disporre di un bel libro dedicato a Seminara lettore e critico per l’appunto. Lo stesso scrittore nella conferenza che tenne nel 1981, a Strasburgo precisò che non era un <<arido erudito>> ma che le sue interpretazioni personali erano <<libere>> e basate su intuizioni. Seminara come tanti altri scrittori, all’ attività narrativa, creativa, unì quella giornalistica, scrivendo articoli di critica letteraria, tenne pure conferenze, partecipò a vari convegni sulla narrativa novecentesca. Questa sua attività, come precisa lo studioso, <<minore rispetto alla sua opera narrativa, e accettata soprattutto per necessità economiche, è più oc-

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casionale che regolare (contrariamente ai racconti dati a quotidiani e riviste) ma prosegue praticamente fino alla sua morte>> (v. p. 7 della <<Introduzione>>). Questo bel libro vuole pure mettere in evidenza, descrivere, delineare l’itinerario intellettuale e culturale, <<spesso caotico ma sempre determinato, di un uomo che ebbe l’ unica <<arma>> dell’intelligenza e della scrittura per conquistare la sua libertà in un mondo che gli fu sempre ostile (ma questo fu, a modo suo, la sua <<fortuna>>) (ivi, p. 8). Lo scopo di questo volume è quello di fornire una <<maggiore comprensione e scoperta dell’opera di quello che è uno dei maggiori scrittori del Mezzogiorno >> (Ibidem), che conobbe nella sua Calabria e durante i suoi soggiorni romani molti scrittori e intellettuali della sua generazione sui quali ha espresso i suoi giudizi. Questa sua testimonianza è degna - come sottolinea lo studioso - di <<interesse e lascia trasparire lati inediti (spesso poco indulgenti e parziali) del mondo letterario e intellettuale italiano dai Trenta agli anni Sessanta>>. Nel libro si trovano raccolti questi diversi aspetti di quello che si può definire una variegata attività critica: giudizi scritti (inediti o pubblicati), presentazioni orali e inedite, profili e ritratti di scrittori con i quali era in contatto o frequentati. Questi tre aspetti spesso si confondono tra di loro. Lo studioso analizza e mostra quelli che pure sono i pregi e i limiti di Seminara critico, che poi sono pure quelli della sua opera. Pesenti Rossi nello scrivere il libro si è avvalso del prezioso e vario materiale inedito che si conserva nella <<Fondazione F. Seminara>> di Maropati (RC), e grazie a questo materiale viene ricostruito <<l’universo mentale>> dello scrittore, le influenze intellettuali subite, le letture, la formazione letteraria e critica ma pure le <<lacune di un autodidatta quale fu Seminara>>. La formazione culturale dello scrittore si può conoscere grazie pure a ciò che egli scrive e afferma: di essersi formato <<sui classici latini e greci>>, di aver letto le opere dei classici e moderni, <<di quasi tutti i paesi europei, i francesi nella lin-


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gua originale e gli altri tradotti, alcuni dei classici e moderni inglesi ed americani>>. Ci parla poi delle sue conoscenze romane, ma nonostante ebbe conosciuto vari <<scrittori e poeti come il vecchio Ungaretti, nessuno ha avuto influenza particolare su di me >>. Ancora ci parla dei suoi rapporti col fascismo (<<opposizione radicale>>), col comunismo >> (<<Dissenso dai metodi autoritari>>). Queste cose sono state scritte con ogni probabilità negli anni Sessanta, Seminara ebbe una insaziabile curiosità, e Pesenti Rossi ci fa entrare nella sua biblioteca descritta in modo dettagliato. La biblioteca è quella di Maropati, i libri e i manoscritti che erano destinati nel fondo di Pescano e poi andarono distrutti per un incendio doloso. In sostanza, ed ha ragione Pesenti Rossi - quando osserva che Seminara è un lettore <<isolato>>, lontano dalle mode e dalle polemiche, per lo più legge le novità con ritardo, e ne legge <<poche perché non ha i mezzi per comprarsi i libri>>. Ciò che resta della sua biblioteca mostra l’assenza di <<piani di lettura sistematici, su tale o tale autore o argomento, tranne forse per quanto attiene alla Calabria. Letture non solo isolate ma lacunose, che in caso di necessità certo non facilmente può ricorrere ad una biblioteca pubblica, e poi erano queste biblioteche lontane dal suo paese. Seminara è anche critico di se stesso e spesso si contraddice e lo studioso tiene in debito conto un testo importante in cui lo scrittore enuncia le sue idee estetiche e la visione, l’interpretazione della sua stessa opera narrativa. Quali i suoi modelli? Dapprima d’ Annunzio e poi rimosso, rinnegato, e ancora

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Knut Hamsun, di questi, durante il soggiorno ginevrino, Seminara lesse il romanzo <<La fame>>, segue poi Pirandello, scrittore della <<relatività>>. Altro scrittore varie volte citato da Seminara nei suoi scritti è Zola che scopre <<sicuramente durante il suo soggiorno ginevrino>> (p. 31), come pure Seminara conosceva – e c’è qualche rapporto - il mondo degli scrittori russi: gli scrittori calabresi e meridionali in modo frequente citano la letteratura russa (Mario La Cava fu uno dei primi a dire che sull’opera di Seminara influì molto la narrativa russa) e nella biblioteca di Seminara sono presenti autori russi, appunto, ma anche negli appunti spuntano gli scrittori russi mentre non lesina critiche agli scrittori mondani e nello stesso tempo aveva coscienza della propria originalità. Egli ha opposto il suo realismo a quello degli altri: si proclamò scrittore realista e non condivise la letteratura astratta ma concreta e la sua adesione andò a Dostoevschkj, Gogol, Tolstoi e Pesenti Rossi ci informa che nell’archivio di Maropati esiste anche un racconto manoscritto dal titolo <<Un agricoltore tolstoiano in Aspromonte>> (al riguardo lo studioso scrive che <<ignora se sia stato pubblicato>>). Questi legami tra lo scrittore calabrese e i russi son ben analizzati e mostrati con prove pertinenti. Altro scrittore presente in Seminara è Alessandro Manzoni, e al riguardo si rinvia agli studi magistrali di Monica Lanzillottta (<<I romanzi calabresi di F. Seminara>>, pp. 16 17;28 -31, <<passim>>). Seminara ebbe coscienza della sua solitudine e non lesinò critiche agli scrittori mondani (Moravia, per esempio) e nello stesso tempo aveva coscienza ancora della propria originalità: si proclamò scrittore realista e non concepì la letteratura astratta dalla realtà sociale. Non amò, e non credette, alla letteratura di puro divertimento, e distinse pure il realismo dal verismo. La forza di Seminara consiste nelle sue descrizioni delle cose da dentro, delle situazioni da lui conosciute e vissute in campagna ma pure in città. Inoltre chiare ed esaustive risultano pure le pagine dedicate a Seminara ed ai suoi contributi critici e inter-


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pretativi. Qui Pesenti Rossi si chiede che tipo di critica è quella di Seminara? E’ una critica d’artista. Gli scritti meno teorici di Seminara (giudizi, pareri, profili, ritratti) cadono nella critica <spontanea>> (che lo studioso è tentato di chiamare critica <<passiva>>). Comunque nella sua conferenza di Strasburgo, Seminara dovendo fare il critico di se stesso e delle sue opere, sottolinea che l’esercizio critico è molto arduo e che l’interpretazione della propria opera è <<ugualmente soggetta ad errori e può cedere a suggestioni di vario genere>>. L’interpretazione che lo scrittore può dare della propria opera è una delle tante interpretazioni che di essa si possono dare. Qui Seminara tenta di rivalutare la funzione del critico <<professionista>> anche se – come ben si sa - i rapporti dello scrittore con la critica - sono stati tempestosi, cosi ad esempio, Seminara al cugino Antonio Piromalli (questi dedicò studi importanti alla sua opera) muove obiezioni per quanto attiene al suo modo di fare critica e ancora viene ricordato da Pesenti Rossi che già nel 1931 Seminara aveva espresso nei suoi diari <<le sue prevenzioni nei confronti dei critici>> e come dice egli stesso – uno scrittore è ciò che è, e <<non ciò che altri, critici o meno, desiderano che sia>>. Pesenti Rossi poi passa ad esaminare la critica <<spontanea>> su Corrado Alvaro e altri: Bacchelli, Bassani, Berto (molto polemico fu con questo scrittore), Borgese, il poeta Lorenzo Calogero (il suicidio di questo grande poeta impressionò Seminara il quale sarà stato <<sensibile a certe similitudini con la sua situazione di estrema solitudine e povertà>>), Italo Calvino, molto amico di Seminara, e se-

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condo quest’ultimo Calvino è l’unico scrittore settentrionale capace di capire la sua opera. Cosi ancora seguono i giudizi dati su Cassola e Pratolini, su Libero De Libero, sul poeta Alfonso Gatto, sullo scrittore La Cava, su Moltanto. E poi ancora i giudizi fortemente limitativi e polemici su Elsa Morante, su Moravia che ha <<una mano grossa, nodosa e fredda, da manipolatore di cadaveri. Non mi è mai piaciuto>> (M) né come scrittore, né come uomo>>. A questi nomi sono da aggiungere quelli di Papini, di Pasolini, Pavese, Prisco, Rea, Repaci, Francoise Sagan, Scotellaro, Silone, Strati, per esempio, e poi ancora poeti e poetesse: Gilda Trisolini, il già citato Ungaretti, Vittorini, Domenico Zuppone. Gli articoli di critica ci mostrano uno scrittore dagli ampi interessi culturali. I suoi appunti <<riflettono i suoi molteplici interessi>> e l’ autodidatta Seminara ha dovuto colmare durante la sua esistenza le proprie lacune. Eccolo interessarsi di musica, di teatro, di cinema, di arte, di pittura, Monteleone pittore), di scultura (lo scultore Michele Guerrisi), e ancora il pittore calabrese Domenico Savica. Orbene, Fortunato Seminara è stato anche un lettore di critica letteraria e al riguardo Pesenti Rossi ci presente e segnala i libri che ha letto. <<Lectura Dantis>> (Il Canto VII dell’<<Inferno>> ) di Isidoro del Lungo; <<Alvaro e la Calabria>> di Repaci, <<Linguaggio di Ungaretti>> di Ioan Gutia; <<Francesco Saverio Salfi>> di Bruno Barillari, <<Letteratura ed emigrazione>> di Pasquino Crupi, ad esempio. L’attività critica dello scrittore si svolse in modo particolare alla fine della sua carriera letteraria. La sua critica – come già osservato prima - è quella di un artista, quindi difficile, raramente imparziale (nonostante gli sforzi dello scrittore), in quanto, sia pure in modo inconscio, l’artista continua a parlare di sé. Ciò appare in modo evidente nei testi di Seminara, che è propenso - si ribadisce - a parlare di sé. La sua critica, però, non è creatrice (di concetti, immagini, ad esempio, né poetica). Spesso – come osserva lo studioso - vuole essere <<tecnica>> e <<concreta>>. Per la sua curiosità spesso chiedeva al cugino Piro-


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malli l’ invio di libri che gli servivano per fare conferenze o per scrivere articoli. In fin dei conti sono ben descritti e analizzati gli scritti di Seminara come <<Succhi nativi della letteratura meridionale>> del 1956, oppure lo scritto sulla poesia della già citata Gilda Trisolini, come pure l’intervento critico attinente alla letteratura calabrese di Piromalli e qui Seminara critica il critico di professione. Viene pure analizzato <<L’Echec de Pavese>> di D. Ferdanez del 1968, e, infine, <<Letteratura meridionale>> di Francesco Bruni del 1968. Seminara partecipò pure a presentazioni di romanzi come pure lesse e scrisse su <<Salto mortale>> di Luigi Malerba. La critica di Seminara mostra i suoi limiti e la sua incapacità di apprezzare opere letterarie che non rientrano nei suoi criteri (v, p. 208). Altri suoi interventi riguardano <<I fratelli Rupe >> di Repaci oppure <<La crisi della narrativa meridionale>> del 1971, e ancora scrive su poeti e romanzieri, scrittori: <<Il codardo>> di Saverio Strati, per esempio, e di Strati viene pure discussa l’altra opera dal titolo << Il selvaggio di Santa Venere>>, e scrive ancora su <<Tommaseo quasi inedito>> ( 1938 - 1965 1977). Seminara e Tommaseo non hanno sopportato le imposture e sono ancora entrambi spiriti solitari, e nei loro diari si trovano domande, interrogativi simili che attengono alla vita, alla esistenza, alla superbia, alle umiliazioni, alla ignoranza, alla solitudine, alla povertà e alla sventura. Da dire ancora che Seminara si è interessato ad un altro scrittore calabrese. Antonio Altomonte, autore dell’ opera <<Dopo il Presidente>>, e ancora di Nicola Misasi, di cui parlò in una conferenza tenuta nella Accademia Cosentina, poco tempo dopo essere nominato socio ordinario. Questo libro su Seminara solo uno studioso della preparazione di Pesenti Rossi poteva scriverlo. Qui inoltre viene discussa molto bene la formazione culturale e umana dello scrittore, il suo modo di fare critica e valutare testi poetici e in prosa. Seminara fu in sostanza un autodidatta, lontano da ideologie o scuole o accademie; Seminara è rimasto sempre se stesso, in ogni caso e situazione, <<fa-

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cendo critica o scrivendo romanzi; manteneva la propria originalità e la propria libertà in tutti i casi, anche negli esercizi più tradizionali e codificati come la critica o il ritratto d’artista, In questo sta la vera coerenza di Fortunato Seminara, e la sua forza>>. Carmine Chiodo Erick Pesenti Rossi, Fortunato Seminara lettore e critico, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 2018.

POESíA Teresinka Pereira Poco es la poesía. Para algunos, no es nada. Pero si es lo único en que podemos creer, que podemos compartir, que podemos vivir, y en que podemos pedir que me acaricies con su sonido de pasión porque jamás la inteligencia llegará a tanto.

POESIA Teresinka Pereira Poco è la poesia. Per alcuni, è niente. Per certo è l'unica cosa in cui possiamo credere, che possiamo condividere, che possiamo vivere, nella quale possiamo porre domande che mi accarezza con il suo suono di passione perché mai l'intelligenza arriverà a tanto.


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LEONARDO SELVAGGI POESIE IN DUE TEMPI di Domenico Defelice

L

A poesia di Leonardo Selvaggi non è né lirica né ermetica, è assolutamente narrativa; è più sciolta, più diluita della prosa, ma è una sua continuazione; in essa non ci sono voli pindarici, ci sono ragionamenti, osservazioni sociali, storiche, filosofiche, di costume, in un linguaggio costruito da un impasto estremamente concettoso. La poesia - così come la prosa -, per Leonardo Selvaggi non è mezzo per appagare la fantasia, dare sfogo all’astrazione; è strumento per raccontare esperienze proprie e familiari, contatti con personaggi della cultura, del presente e del passato, gli ambienti di lavoro e confrontare l’esistenza povera, sofferta, ma libera della sua Basilicata con l’apparente libertà del benessere e del perbenismo - impastato, il più delle volte, di ipocrisia - della Torino, nella quale, per ragioni di lavoro, ha scelto di vivere, mai smettendo, però, di considerarsi uno sradicato, un esule. Il suo, è un linguaggio secco, petroso, rude,

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composto di brani che, a volte, sembrano fra loro slegati, perché qualche elemento viene da lui sottinteso (un verbo, un sostantivo, una punteggiatura) e perché non riesce a star dietro all’urgenza della mente; un narrare veloce, libero da schemi e regole, sicché il lettore, a volte, sembra invitato a collaborare con qualche semplice raccordo. Un linguaggio denso ed esplosivo, turbinoso, sbrigliato; narrazione nella quale entra tutto, un amalgama di storia e quotidianità; una specie di crogiolo bollente, da cui salgono i vapori della sua vastissima cultura, delle sue tante esperienze, la sua infanzia difficile, le sue solide convinzioni. Prosa e poesia - ripetiamo - che hanno un unico impasto e uno stile personalissimo, tale che il lettore potrebbe risalire all’autore anche se fossero prive di firma. E questo stile rimane tale anche nella critica; nell’esame di un’opera letteraria, infatti, Leonardo Selvaggi apre a raggiera il suo campo d’indagine, investendo, oltre il contenuto, cioè, i singoli temi, la personalità dell’autore, la sociologia, i costumi e vi rovescia, a volte, anche le sue esperienze personali. Tutta l’opera di Leonardo Selvaggi segue gli schemi qui da noi velocemente adombrati, ed anche la silloge Poesie in due tempi; in due tempi perché - come egli stesso dichiara nella Prefazione - il volume è composto di due brani uniti, ma nati distanti l’uno dall’altro: “Un lasso di tempo - egli afferma -, poco più di venti anni, intercorre tra le due raccolte di poesie che si trovano unite, disposte in ordine alternato”, mescolate, cioè, ma dalle differenze quasi impercettibili senza la sua dichiarazione. Tra i temi presenti in questo volume c’è l’emigrazione. Lui stesso si definisce e si considera un immigrato, perciò non si comprendono certi suoi atteggiamenti, per esempio, verso i rom e gli altri stranieri. Gli zingari straripano come acque, apparentemente senza regole, solo perché, di regole, ne seguono altre che non collimano con le nostre. Sotto sotto, però, egli li ammira, per la loro libertà, per la loro semplicità di vita; si sente certamente uno di loro nelle “mani/unite che


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diventano scodella per il muso/ assetato”, giacché non può dimenticarsi del bambino che è stato, allorché, anche lui, avrà eseguito molte volte quel gesto, attingendo a qualche fresca e vivida sorgente. Accennando alle mulatte, sembra che tratti di bestie: hanno “il colore dell’onda/del fiume, odore di marcio emanano,/quello dei giacigli pestati di frasche/e di paglia, dei nascondigli riempiti/di escrementi di rifiuti”; la loro vista in noi “fa affiorare sentimenti/repressi, le cose naturali proibite”, frutto di nostre inibizioni, di nostri pensieri contorti, ma reali e “Il grigio oscuro di carne di razza diversa” ci porta istintivamente alla repulsione, ce le rende “intoccabili nel fondo di noi”. La Basilicata è sempre in cima ai suoi pensieri; la sua terra non è mai presentata come luogo d’idillio, ma nella sua semplicità di vita, nelle durezze giornaliere della sua gente, nella costante e dolorante esistenza di formiche; una vita dura e feroce anche per gli animali (il pensiero, in particolare, corre ai poveri muli) e per le cose. Eppure, per lui, quella regione è più di una calamita, dalla quale non riescono a staccarlo neppure i miglioramenti economici - che mai avrebbe ottenuto al suo paese - e i tanti agi che indubbiamente la città gli ha procurato e gli procura. E perché? Perché, nella Torino del benessere, tutto è ipocrisia e violenza, magari sotterranea, mascherata: “L’uomo malevolo della città chiuso/nelle lamiere della macchina accigliato/che sorpassa il semaforo rosso/all’assalto va nell’ ingranaggio del moto/meccanico di mezzi e oggetti/per essere primo a rubarti il posto,/gli artigli nella gara di superamento,/lame affilate del nostro tempo./La donna che vive fuori/adescatrice facile negli intrallazzi,/tigre dominatrice astuta senza scrupoli.”. Violenza palese e strisciante ch’egli vede dappertutto, perciò la sua Basilicata è e rimane faro luminoso che gli procura struggente nostalgia in quel che lui si ostina a considerare solo un grigio carcere piemontese: "penso alle distese terre arsicce/tra i cardi spinosi carichi di sole” (il male e il bene: il dolore, cioè le spine e il sole, che rappresenta la vita, la gioia). C’è

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una differenza abissale tra la cordialità, la vicinanza, la partecipazione dell’uomo del Sud in genere e della sua Basilicata (che ama “vederti negli occhi/affinato nella dolcezza calda, le lacrime/facili per le tue miserie” e gli abitanti del Nord: “Le persone del condominio non ti vedono/neppure moribondo, talpe fuggitive,/l’ipocrisia crudele. Turlupinatura/sfacciata della democrazia/feroce divoratrice del prossimo”. Egli si sente e si considera un “malato sentimentale”, rimasto “bambino (…) negli anni maturi”, che continua a sentire nostalgia per le “mamme,/figure oggi da leggenda: le mani/dure per i panni lavati al fiume,/le caldaie/di liscivia poggiate sulle pietre a bollire”. La donna è dal Selvaggi vista quasi sempre in un passato arcaico, nel chiuso della casa, ad allevare i figli, compagna silenziosa del suo uomo, pudica, spesso descritta non attraverso la sua carnalità, ma le cose e nelle cose che la circondano e la fasciano: “La veste di filo bianco traforata leggera/avvolge la sua comparsa subitanea/immersa nella luce dentro il vano della finestra”; donna astratta per i nostri tempi, ma per lui unica, in grado di sublimare anche “Il fango dei giorni/trascinato dall’onda che appesantisce/le scarpe delle fragili forze”. Violenza. Ma, il suo Sud, nostalgico, è forse privo di violenza? No, assolutamente; la violenza domina il Sud, è violenza d’altro genere. Selvaggi sembra attenuarla e quando accenna a drammi terribili lo fa con estremo pudore; si pensi, per esempio, all’impiccato, del quale non si conoscono né motivazioni né altro e che viene ricordato solo per la paura che il luogo e l’albero infondono nell’animo di lui fanciullo: “La pelle che ancora sa di latte si strappa/alle lacerazioni. Vinco la paura che mi fa/il luogo accanto deserto,/immobile/spiritato, le piante rimaste spaventate./Era morto appeso al pruno un uomo,/l’albero senza potatura diventato selvatico”. Ricco di particolari per la violenza del Nord, sfuggente per le motivazioni violente della sua terra, annegate nella descrizione del contorno (il luogo deserto, le piante spaventate, il pruno inavvicinabile come un appestato,


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inselvatichito perché nessuno più lo pota, e zero motivazione della morte violenta di quell’uomo). Se non lo si leggesse attentamente, si finirebbe per accusare Selvaggi di razzismo nei confronti dei settentrionali e degli stranieri, come di maschilismo e d’altro nei confronti delle donne, ciò ch’è assolutamente falso. La sua terra gli suggerisce versi che sono vere, affascinanti, paniche pitture, come questa “campagna annegata nella canicola/gonfia di ombre e di silenzio”. Selvaggi è un disilluso concreto, al tal punto da riportare tutto alla vicenda materiale delle cose, all’istinto più semplice e vitale, alla reciprocità dell’interesse. Egli sfronda persino l’amore da ogni romanticheria, abbassandolo a un insaziabile appetito, a quella reciproca, naturale fame di sopravvivenza teorizzata dal filosofo Gino Raja; una necessità voluta dalla natura per la prosecuzione della specie: “I corpi si legano/negli amplessi, si nutrono insieme:/facile scambio di contatti per essere sazi,/si ritorna ancora insieme, altro travaso/di voglie di nuovo ribollenti”: “si nutrono” ”per essere sazi”, non per altro; niente sentimentalità, niente di niente, solo voracità, solo basso istinto. Domenico Defelice LEONARDO SELVAGGI - POESIE IN DUE TEMPI - In apertura, brani critici di: Salvatore Porcu, Guerino d’Alessandro, Carolina Citrigno, Luigi Pumpo, Brandisio Andolfi, Angelo La Vecchia; Prefazione dello stesso autore - Edizioni Cronache Italiane, 1996, Pagg. XVI + 104, L. 10.000.

A TE LASCERÒ A te lascerò parole che cantano che sorridono a fiori, a notti ammantate di splendore. E tu scoprirai quelle stelle che nel buio le leggono negli occhi ardenti dei poeti. Gianni Rescigno Da Il vecchio e le nuvole, BastogiLibri, 2019.

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LE TUE MANI A Livio Le tue mani tenere come dita di bimbo mani ammiccanti, fraterne Mani amiche e nemiche mani che asciugano il pianto e bevono lacrime Mani che giocano con le mie dita mani che giocano all’alfabeto muto mani che danzano sui tasti del pianoforte Mani che accarezzano il mio volto mani d’amore sul mio corpo mani affusolate Mani bellissime Le tue mani Wilma Minotti Cerini 10/02/2020 IMMOBILE Immobile nel letto, respiri piano. Il tuo cuore è legato da corde dolorose, intrecciate da mani prepotenti. Ti alzi e cammini, senza far rumore, per non dar fastidio. La gola è chiusa, il freddo corre nel tuo corpo. Ti guardi le mani, le dita sono viola, cerchi di muoverle, ma è dal cuore che, bloccato dal terrore, il torpore della violenza si irradia. Solo dagli occhi escono lacrime salate, come la vita che stai pagando. Manuela Mazzola Pomezia (RM)


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FRANCESCO FILIPPI

MUSSOLINI HA FATTO ANCHE COSE BUONE di Salvatore D’Ambrosio

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LLEGATO al giornale Repubblica c’è in edicola un libro molto interessante, soprattutto per coloro che si interessano di storia seriamente, basato su documenti veri e non sulle quotidiane sciocchezze che si leggono online. O peggio si reggono su nostalgismi, di cui non avremmo proprio bisogno. Il libro è di Francesco Filippi, un giovane storico classe 1981. Pubblicato nel 2019 per Bollati Boringhieri ha avuto, su loro licenza, questa edizione diffusa tramite “La Repubblica”. Il titolo è ambiguo volutamente, ma poi basta guardare il sottotitolo e si comincia a

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capire. Cosa racconta Filippi: racconta con documenti alla mano tutte le falsità che un regime doveva inventarsi, per rimanere là dove si era insediato. Fake news di quel tempo: diciamo. Allora come oggi: dico io. Perché bugie? Qualche sprovveduto si ostina ancora a chiedere. Perché il potere assoluto, ci fa capire il libro, per mantenersi in vita ha bisogno di falsità. La sola via per resistere a lungo è la menzogna, condita da qualche contorno di mini verità. Nel risvolto di prima di copertina: fu tanto caro proprio ai fascisti di allora:” Dite il falso, ditelo molte volte e diventerà una verità comune”. Questa è la tattica. Da circa trent’anni il nostro paese, nonostante la brutta esperienza avuta nel famigerato ventennio, si fa abbindolare da un personaggio fallito, che per salvarsi si è inventato un partito con le fondamenta nel peggiore dei passati italiani. Ma si sa gli allievi superano sempre i maestri. Allora accade che l’appannamento momentaneo del precursore dà la stura a personaggi che, vuoi per emulazione, vuoi per sembrare migliori, vuoi per sembrare più duri e puri, stanno riportando il Paese a una forte e pericolosa lacerazione, soprattutto interna. Il fatto è che oggi, dopo settant’anni dalla fine di quel periodo non tanto felice, c’è ancora una marea crescente di popolo che invece di guardare al futuro, guarda invece al passato inglorioso della storia nazionale. Per cui tutti i diffusori di chiacchiere da bar, farebbero bene a documentarsi attraverso le pagine di questo libro. Qualcuno potrebbe trovarci anche degli spunti per un approfondimento personale. Scorrendo le oltre 100 pagine, nelle quali tutti i fatti riportati sono sostenuti da documentazione certa, verificabile e citata in una dettagliata bibliografia, si entra dalla porta giusta per capire i meccanismi che muovevano la politica fascista.


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Per esempio, il primo capitolo, mette a fuoco la diceria che la pensione sia stata inventata dal duce. Falso o quanto meno inesatto: perché il sistema previdenziale per la vecchiaia e la malattia è di matrice tedesca e risale al 1888. A questa, poi, il governo Crispi si ispirò per concepirne una per l’Italia, già dal 1895. Esisteva dunque precedentemente una legge, che regolamentava il rapporto di lavoro in quiescenza. La sola cosa che fece il regime, fu quello di emanare disposizioni accentuative in modo da tenere ogni cosa sotto controllo politico. L’altro esempio più famoso è quello della regolarità dell’arrivo dei treni. Per decenni è stata un’altra falsa messinscena. Questo perché i ritardi per legge non dovevano essere annunciati. Come tutto ciò che faceva sfigurare il regime fascista. Inoltre la rete ferroviaria era scarsa e con pochi treni, per cui con un poco di maggiore impegno qualche treno poteva pure giungere in orario. E si va avanti con Mussolini bonificatore; costruttore; legalitario; economista; femminista(sob!); condottiero, statista e umanitario (come mister B …) . Una lettura che non stanca. Essa scorre veloce e attira, anche se non stiamo leggendo un romanzo, perché stiamo constatando le occasioni mancate per far diventare il nostro paese veramente quello a cui ancora oggi aspiriamo. Un Paese libero, depositario di una cultura antichissima, con la quale si può anche mangiarci: creando tantissima occupazione. Ma la nostra è una storia di non progresso stratificata nel tempo. Colpevole la mentalità del privilegio e non dell’interesse per il cittadino. Un poco come sta accadendo in questi giorni con il coronavirus. Si pensa soprattutto alle conseguenze economiche che stanno subendo alcune categorie particolari della produttività, dimenticando che prima viene la buona salute degli italiani.

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Accadeva, per esempio ancora, che il ministro del tempo fascista, Gentile, convinto che il nostro futuro stava solo nel passato, dava grande impulso alla scuola pubblica, ma solo nel senso della classicità. Lo studio tecnico, fondamentale per il progresso di una nazione, fu ridotto e poco incentivato. Emerge dalle statistiche dell’epoca consultate, che il numero di iscritti alle facoltà scientifiche subì un significativo calo. Per l’ ingegneria si ebbe una diminuzione di circa 5000 immatricolazioni tra quelle del biennio 1921/22 e quelle del 1939/40. Lavoro accurato quello di Filippi, che riporta in appendice anche tutti quei romanzi, film, fonti in cui si è parlato di fascismo e Mussolini. Cita per esempio Bassani con il suo romanzo “Gli occhiali d’oro”; o il “Canale Mussolini” di Pennachi e altri. O ancora i film come: Una giornata particolare di Scola o Fascisti su Marte di Guzzanti. Ci indica altre fonti come il sito dell’Inps, attraverso il quale è stato possibile recuperare le notizie relative ai decreti in materia di pensioni. Ma cita anche fonti storiche relative al funzionamento dell’economia, della sanità e della legislazione a partire dall’unità d’Italia. Finanche a darci le fonti dalle quali attingere notizie sulla mafia e sulle calamità naturali. Tutte indicazioni utili per comprendere, se si vuole, ancora meglio la nostra storia recente. Acquisire, quindi, una maggiore e più corretta informazione sui fatti, renderebbe evidente che l’attualità rigurgita indecorosamente di errori e passate malefatte. E con una più giusta conoscenza, o meglio con una maggiore e più profonda conoscenza, si potrebbe iniziare a pensare di fare qualche passo avanti, evitando di restare ancora indietro rispetto al resto delle civiltà occidentali. E non solo. Salvatore D’ambrosio FRANCESCO FILIPPI - MUSSOLINI HA FATTO ANCHE COSE BUONE - Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo GEDI- Edizione speciale -2020 € 9.90


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CATERINA FELICI NEI GIORNI di Domenico Defelice

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N genere, almeno nella poesia italiana, alla nitidezza, alla chiarezza del dettato, non corrisponde sempre altrettanta concisione; perciò, consideriamo Caterina Felici una eccezione. In Nei giorni, il componimento più lungo è “Priorità”, l’unico che raggiunge ventisette versi, tutti gli altri essendo al disotto di venti, un buon numero intorno ai dieci e l’ultimo, “Reciprocità”, addirittura ne ha appena tre: “Ho capito/che sente amica la vita/chi le è amico”. A questa brevità nella chiarezza ci sembra vi accenni pure Giacinto Spagnoletti, ma non è il solo; Cesare Segre sottolinea la lucentezza; alla essenzialità e alla fulmineità allude Giorgio Bárberi Squarotti; alla nitidezza, Mario Luzi; alla limpidezza, Maria Luisa Spaziani. Caterina Felici, insomma, sa dare corpo alle

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sue osservazioni, ai suoi pensieri, a volte a veri e propri aforismi, alla sua sottile filosofia, alle vicende esistenziali impastate di poche gioie e di molte pene, senza far spreco di parole; riesce, cioè, a renderci ciò che la colpisce nel profondo, attraverso la vista, l’udito e il resto dei sensi, senza pietrificarlo, cristallizzarlo, ma lasciandolo nel suo genuino e limpido manifestarsi; ci presenta il tutto in quell’intatta purezza che l’ha investita e fermentata. La silloge è suddivisa in tre parti: Trionfante vita; Realtà nitide, velate, nascoste; Occasioni d’imparare. Nella prima, protagonista assoluta è la Natura. Si apre già con “gli occhi dei prati,/degli alberi, dei fiori”, col dare ad essa atteggiamenti e funzioni che sono dell’umano, per poi passare a bellissimi quadri, cangianti nell’ alternarsi delle stagioni, con “le chiome degli alberi/illividite/dal grigiore del cielo”; con il luccichio delle “foglie bagnate/che riflettono il sole”; con i “rasserenanti voli”; il “ciuffo d’erba/proteso alla luce”; “il pigolio d’uccelli/di un nido”. È panica - e panico infonde - la Natura priva dell’essere umano e degli animali. La sua celestiale bellezza non è sufficiente, non basta a saziarci e a rassicurarci, anzi!, ci spaventa e, inconsciamente, ci suggerisce “pensiero di morte”. Il brano “L’uniformità” richiama una medesima pagina di Franco Saccà: “Venga qualcuno ad affacciarsi”, da Uomini, solchi, nuvole, allorché il poeta, davanti alla solitudine di un’aia “invasa dalla luce”, in un mattino assolato, assalito “dallo sgomento”, pensa che la gente “fosse stata colta da morte”. In entrambi i brani - della poetessa pesarese e del poeta di San Pantaleo -, c’è un senso di sgomento metafisico, che riporta all’ atmosfera di alcuni quadri di Giorgio De Chirico. Questa sensazione di solitudine, che produce tremori interiori, è presente, ancora, nella Felici, in “Messaggi di vita”, allorché, dinanzi a “vecchie case abbandonate”, alla “crepa/di un muro in rovina”, a una pozzanghera verdastra e cupa, nella quale si tuffano le rane, “sembra/dominare la morte”.


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Per non pensare alla morte, occorre amare immensamente la vita, ciò che sanno e che fanno coloro che la vivono in continua sofferenza. Costoro, tranne eccezioni, anziché disperare, alla vita anelano con tutto l’essere. Ne sono esempi Martina Talevi, vissuta quasi tutti i suoi cinquantatré anni in carrozzella, per una malattia genetica, e lo sono gli innumerevoli che, a dispetto di “gravi problemi fisici”, si sono affermati e si affermano nello sport, nell’arte, nella scienza, come, per fare un altro esempio, Stephen Hawking; per amarla - ci dice la Felici - “Dobbiamo avere scopi”. Panico d’altro genere troviamo nella seconda parte, legato più all’inconscio che alla realtà: voci e suoni amplificati dal buio e dal silenzio, o dal silenzio attutite, come un “abbaiare smorzato di un cane”; “impenetrabili zone buie” che la nostra mente, il nostro interiore popolano di figure ora gioiose, ora paurose e allucinanti; luoghi fantastici o reali; cammini agevoli e “strade tortuose”; paesaggi luminosi e “impenetrabili zone buie”; sogni che ci procurano allegria, ma “anche sofferenze”, che sono, a volte, continuazione di realtà vissuta, altre volte proiezioni dell’ inconscio che ci portano “in mondi sconosciuti”; sogni che son simili alla nebbia, che trasforma, devasta e chiude nel suo “bianco fumo”, finché, sciogliendosi, non ritorni la rassicurante realtà. Ma sono anche brani nei quali la poetessa ci dà lezioni di civiltà e vita, nei quali inevitabilmente spunta il ruolo dell’insegnante svolto per tanti anni. Così, ammonisce che “la vera forza/è nel controllo/dei propri impulsi”; si addolora e pena per l’uomo “picchiato a sangue”, solo perché di pelle nera, da violenti “che sono i delinquenti/nascosti dentro/la loro pelle bianca”. La terza parte è definita già dal titolo: “Occasioni da imparare”. La vita è tutta un apprendimento e una continua crescita fino all’ ultimo istante. Non c’è momento, età, incontro, atteggiamento, azione, che non possano avere o portare a correzioni: basta volerlo e amare la vita; allora, un vecchio “può sentirsi

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anche giovane/per le sue lunghe radici”; allora, all’improvviso, quasi una rivelazione, una persona, alla quale mai avremmo dato importanza, ecco svelare “certi valori”; allora, ancora all’improvviso, egoisti si aprono e si accorgono della “importanza/del dare,/di ricevere affetto:/di creare ponti umani”. Caterina Felici ama la vita e la natura; è partecipativa; conosce il valore dei rapporti umani; ama la sua città e la sua casa “rassicurante rifugio”, piena di “oggetti cari” e, nel contempo, si sente “nomade del mondo”. Una donna positiva, insomma, che nella vita ha realizzato molto in umanità e cultura, specie in poesia e in prosa e perciò può sentirsi fiera e orgogliosa di tanti “soddisfacenti/(…) bilanci positivi”. Domenico Defelice CATERINA FELICI - NEI GIORNI - Longo Editore Ravenna, 2020 - Pagg. 96, € 12,00

NELLA RETE Anima violata, ti ha messo in un angolo, bendati gli occhi, legate le mani e chiusa la bocca. Hai dimenticato cos'è un sorriso, cos'è il gioco di un istante perduto. Nello smarrimento le tue gambe si sono piegate, i tuoi pugni si sono chiusi. Nella violenza sei caduta, ma lentamente. Ti ha tessuto una tela quasi perfetta e giorno dopo giorno sei inciampata nella rete di colui che, incapace di sostenere il peso della vita, ha trasformato il dono dell'amore nel nodo del terrore, e con un cappio tiene bloccato il tuo cuore. Manuela Mazzola Pomezia (RM)


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GIANNI RESCIGNO SULLA BOCCA DEL VENTO di Isabella Michela Affinito

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UANTE sonorità può contenere il vento? Tutte le brezze obbediscono ancora al dio greco dei venti Eolo? E solo i poeti sanno udire le parole che ogni corrente in sé trascina? La crestomazia poetica di Gianni Rescigno, Sulla bocca del vento, già alla soglia della sua lettura è capace di far fiorire tali domande, poi magari sfumeranno nei paesaggi poetici che l’autore Rescigno ha dipinto sulle tele del proprio immaginario, quando, ancora in vita, lui andava in cerca dei colori autentici così come Van Gogh amava uscire con qualsiasi tempo per ammirare da vicino i toni naturali che la luce solare rendeva veritieri. In questa tenue circostanza versificatoria è avvenuto un simposio di folate piacevoli e non, dove si sono sovrapposte parole frasi discorsi provenienti da chissà dove e il poeta di Santa Maria di Castellabate ne ha

tratto spunti per la sua versificazione. Non c’è una sua lirica che non trasmetta l’idea di una passeggiata, di una camminata all’aria aperta in cerca di musicalità e sensazioni anche antiche, che non possegga un granello di quel sale marino del Golfo di Salerno, insomma un coro di voci non umane ma di tante brezze assieme. Questa silloge è la somma di alcune parti estrapolate da altre sillogi di Gianni Rescigno, come una sorta di losanghe eterogenee cucite assieme per una stupenda Riconciliazione fra lui e la natura che gli ha sempre parlato, in ogni stagione, ma serviva una maggiore intesa che diventasse anche deferenza e allora «[…] Non pensavo che tu fossi qui/ accanto alle mie orme trascinate/ alle pietre miliari del riposo/ a tendermi la mano/ per prestarmi con lo sguardo/ sconfitte e pace di rinuncia/ a convincermi che padri e figli/ prima o poi s’incontreranno/ berranno la stessa acqua/ ascolteranno lo stesso vento/ mentre impollina l’amore.» (Pag. 25). Le metafore rescigniane vanno oltre l’ impensabile, oltre il visibile, pur rimanendo salde alle ragioni del poeta che non si è mai ac-


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contentato di comporre versi tanto per evadere da qualcosa, bensì per restare nel suo regno piccolo ed esteso al contempo, accogliente ed impervio, materno e paterno, lunare e soleggiato, marino e terrestre, femminile e maschile, benevolo e severo, gassoso e ligneo… «Siamo mare aria terra/ viaggi di pensiero/ cuori delusi affacciati/ alla finestra della notte./ Per prendere forza dalla vita/ le rubiamo gli occhi.» (Pag. 45). Ciascuna poesia è stata tradotta in francese ora da Jean Sarraméa, ora da Paul Courget, in questo modo sono state destinate due pagine per ognuna in lingua italiana e in lingua francese come se si fossero uniti i venti della Normandia e della Provenza con quelli circolanti per la nostra Penisola, regalando fragranze novelle tra le quali spicca più intenso anche il comune Profumo di viole. «Ti sono davanti/ con tutti gli anni d’amore./ È il giorno delle mimose/ ma non ho dimenticato/ di portarti le viole./ Le prime che hanno aperto/ gli occhi ai piedi dei castagni.// Allora te le poggiavo sul petto./ Altre te le seminavo tra i capelli./ Però subito te le rubava/ il vento della corsa./ Bruciavo di desiderio nel rincorrerti./ E quando ti prendevo/ anche il tuo nome si tramutava/ in profumo di viole sulle labbra.» (Pag. 99). Questa soffiante raccolta è stata resa edita

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dall’Accademia internazionale “Il Convivio” nell’anno 2013 e il poeta Gianni Rescigno ci ha lasciati, purtroppo, improvvisamente durante la notte del 13 maggio 2015, ovvero lui compose la lirica premonitrice Crederai di trovarmi, inserita nella precedente raccolta Cielo alla finestra del 2011, quattro anni prima della sua dipartita quasi a considerarsi anzitempo parte di un vuoto che creerà nel mezzo di un boscato. Ha immaginato di qualcuno, presumibilmente l’amatissima moglie Lucia, che andrà a cercarlo chiamandolo ad alta voce per nome senza però trovarlo laddove la brezza sposterà le foglie, scenario desolato e di desolazione che confonderà gli stati d’ animo di chi andrà ad inseguire invano il poeta. Tutta la poesia si presenta come un sovrumano traslato annunciatore di quella che sarà poi la dolorosa scomparsa di Gianni Rescigno. «Crederai di trovarmi/ nel bosco dei castagni./ La tramontana alzerà le foglie/ le spingerà nelle gole delle valli/ per chiamarci ad alta voce./ Non risponderò./ Allora sarai tu a lanciare/ nel vento il mio nome/ e te ne tornerà l’eco/ con il pianto dell’addio.// Te ne andrai/ le mani aperte senza le viole/ senza i giorni della gioia:/ li inventammo là/ puntando il dito/ alle rotte degli uccelli./ Sola, senza le notti dell’amore/ senza le strade dritte e lisce/ che portano tutte al sole,/ troverai secco l’abbeveratoio/ dei cavalli.// Immaginerai i nostri visi/ sul suo fondo,/ nei cerchi d’acqua/ i nostri fiati/ i nostri occhi/ grandi come specchi/ lucidati da cieli nuovi/ e senza ombre di tempesta.» (Pag. 107). Isabella Michela Affinito Gianni Rescigno: SULLA BOCCA DEL VENTO, Il Convivio di Catania, Anno 2013, € 14,00, pagg. 136.


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YANG YUNXIA di Domenico Defelice

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ANG Yunxia è una poetessa della Cina contemporanea. Nata nel 1976 a Huize, nella provincia dello Yunnan, è laureata in programmazione e gestione dell'istruzione della Yunnan Normal University ed è membro della China Film Literature Association e della Yunnan Writers Association. Scrive poesie, saggi, sceneggiature e testi. La sua canzone “Dream Drunk in the Water Village” ha vinto il primo premio Mainland Fifth Song Creation nella provincia dello Yunnan, nel 2018. I suoi saggi “Captain Pu” e “Freedom is Separated by Glass” sono stati pubblicati su giornali e siti web come “China Discipline Inspection and Supervision Daily”, “Chinese Writers”, “Writers’ Net” e “Yunnan Daily”. Il suo poema in prosa “Revelation of Spring” (Rivelazione della primavera) è stato pubblicato in “Prose Poetry”. “Tree on the Edge of Cliff” e altre sue pooesie sono apparse su qualificate riviste: “Shanghai Poets”, “the World Poets Quarterly”, “Chi-

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nese Poets”, “Dian Lake” e “Prose Poetry” ecc. Fino ad oggi, ha pubblicato in letteratura almeno un milione di parole. Pubblicato ha pure i saggi “Antologia di YANG Yunxia”, “The Will of a Road” (La volontà di una strada) e la raccolta di poesie “Peacock Words” (Parole del pavone). Attualmente lavora nel dipartimento pubblicitario della zona di sviluppo economico di Qujing. Ecco, di seguito, tre suoi brani. Le notizie biografiche e le poesie sono state tradotte, in Inglese, da Brent O. Yan e, dall’Inglese in Italiano, da Lidia Chiarelli. Quietness While smiling holding in hand a flower I overlook all the vicissitudes on my fingers And forget the red flowers And the green leaves on the stem yearning Oh, the birds are chirping While I Stay exceptionally silent I Just Need the Light Penetrating Throug h the Leaves I don’t need thorns, I don’t need nettles I don’t need beetles Pansies, scutellaria barbata or a entire garden Pressing on the pure heart This is not a joke, nor some kind of unique zen This is the most important secret And the most sincere exhortation Oh, I don’t need the fake sun and the fake moon I don’t need a half of the world or the whole of love I just need and enjoy a little bit Of light penetrating Through the leaves Sadness Will Burn I should not have told you Crack appears in the hot sun. Every angry cicada of this summer


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Is single But they gather flames with their buzzing The words they spit out Are burning hot like nails, the wounds smoking Make people understand That sadness too will burn YANG Yunxia is a poetess in contemporary China. Born in 1976 in Huize, Yunnan province, he is a postgraduate of education management of Yunnan Normal University, a member of China Film Literature Association and Yunnan Writers Association. She writes poetry, essays, screenplay and lyrics. Her song “Dream Drunk in the Water Village” won the first prize of the Mainland Fifth Song Creation in Yunnan Province in 2018. Her essays “Captain Pu” and “Freedom is Separated by Glass” were published in newspapers and websites such as “China Discipline Inspection and Supervision Daily”, “Chinese Writers”, “Writers’ Net” and “Yunnan Daily”. Her the prose poem “Revelation of Spring” was published in “Prose Poetry”; Her poems such as “Tree on the Edge of Cliff” were published in magazines such as “Shanghai Poets”, “the World Poets Quarterly”, “Chinese Poets”, “Dian Lake” and “Prose Poetry”, etc,. To date, her one million words of literature have been published. She has published essays “Anthology of YANG Yunxia”, “the Will of a Road”, and the poetry collection “Peacock Words”. Now her work in the publicity departmen of Qujing Economic Development Zone. Tranquillità Mentre sorridendo tengo in mano un fiore Non penso a tutte le vicissitudini sulle mie dita E dimentico i fiori rossi E le foglie verdi che sul gambo appaiono Oh, gli uccelli cinguettano Mentre io Rimango eccezionalmente silenziosa

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Ho solo bisogno che la luce penetri attraverso le foglie Non ho bisogno di spine, non ho bisogno di ortiche Non ho bisogno di scarabei Viole del pensiero, scutellaria barbata o di un intero giardino Che prema sul cuore puro Questo non è uno scherzo, né una sorta di unico zen Questo è il segreto più importante E l'esortazione più sincera Oh, non ho bisogno del finto sole e della finta luna Non ho bisogno di mezzo mondo O di tutto l'amore Ho solo bisogno di gioire Della luce penetrante Attraverso le foglie La tristezza brucerà Non avrei dovuto dirtelo La crepa appare sotto il sole cocente. Ogni cicala arrabbiata di quest'estate E' sola Ma le cicale raccolgono fiamme con il loro ronzio Le parole che sputano fuori Bruciano calde come unghie, le ferite che fumano Fanno capire alla gente che Anche quella tristezza brucerà *** La poesia di Yang Yunxia ha toni alti, è quasi gridata, è detta con autorità. Ne fa fede quell’avverbio di negazione “Non”, palese (almeno otto volte nei tre brani) e sottinteso - perché presente, in realtà, almeno davanti a “viole del pensiero”, “scutellaria barbata”, “intero giardino” -, che presuppone sempre risposte positive, giacché il “Non penso di “Tranquillità” affoga nello stupore che infonde la bellezza della Natura; i “Non ho bisogno” di “Ho solo bisogno che la luce penetri attraverso le foglie” - ci si perdoni il


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necessario bisticcio - vengono annullati già dalla positività del titolo e il “Non avrei dovuto” di “La tristezza brucerà” viene neutralizzato dalla certezza che tutto sarà rovesciato, che la crepa, insomma, la solitudine arrabbiata delle cicale, le taglienti, dure “parole che sputano fuori” e scottano, le ferite esacerbate (che fumano”), saranno vinte e trionferà la gioia. Quella della poetessa è fede granitica, fede laica, filosofia, capacità dell’uomo a dominare con la volontà le tante “vicissitudini” che quotidianamente tentano di impaniarci l’esistenza. Zen sostanziato dal sogno; dal panico gioioso che ci investe allorché la luce filtra in filigrana dalle “foglie verdi; dal panismo - ch’è assai diverso dal panico -, che dilaga quasi in forma liquida da una Natura splendida. Il naufragare nella bellezza è un tale stupore che ha il potere di renderci muti, di toglierci la parola: “Rimango eccezionalmente silenziosa” - confessa Yang Yunxia, bloccata, letteralmente stupefatta. Domenico Defelice

PRIMAVERA E' giunta, di già? Che luce, che sole, che splendore! E' forse arrivata Primavera? Mi alzo, spalanco la finestra... Oh, meraviglia! Il prato è coperto di primule gialle, mammole profumate, margheritine... Che bello, che incanto! Il cielo è limpido, gli uccelli trillano, fanno piroette, inneggiano alla Fata che in anticipo è arrivata. Tutto intorno ride, danza, mentre Primavera, bellissima, spande intorno profumi e colori, rinascita nel cuore degli uomini. Antonia Izzi Rufo (Castelnuovo)

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…La silloge delinea un percorso di vita che si intraprende dalla prima pagina e che arricchisce e coinvolge il lettore grazie ad uno stile a volte disincantato, pungente e dissacrante, a volte sensibile, delicato ed amareggiato. (…) Nelle poesie vi è un continuo rimando alla natura religiosa, rigenerante della sua terra, ossia la Calabria, con la quale Defelice è in profonda connessione. (…) I versi del poeta evocano momenti lontani che lui stesso non ha mai dimenticato e che sempre lo hanno accompagnato durante la sua esistenza (…).la sua vita si intreccia con quella della nostra società e dunque “Le parole a comprendere” diventano un invito affinché (…) si riesca a comprendere il senso della vita, dei fatti che accadono, che (…) non sempre si capiscono per l’uso sbagliato che se ne fa… Manuela Mazzola Da Oceano News, febbraio 2020

VEDREI STERMINATE PIANURE Potessi come quegli uccelli librarmi ad alti voli superare i monti che mi dividono dal mio paese, vedrei sterminate pianure rosseggianti di fieno, la mia vecchia valle splendente al sole di primavera. Franco Saccà Da Vento d’autunno, Ibico, 1962


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VITTORIO “NINO” MARTIN SORSATE RISTORATRICI di Salvatore D’Ambrosio

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EGGERE un buon libro/ dà importanza alla persona,/ arricchisce l’anima/ di sorsate ristoratrici, … In apertura del quaderno letterario “Il Croco”, edito dalla rivista POMEZIA-NOTIZIE, la poesia SORSATE di Vittorio Martin, conosciuto più comunemente come “Nino”, ci indica subito la cifra di questo artista. Si, non abbiamo specificato poeta, perché il Nostro è

innanzitutto un pittore. Nato in provincia di Pordenone, è un giovane spirito di 86 anni. Come pittore lo si inquadra tra i vedutisti e ritrattisti italiani di scuole manieristiche. Ama ritrarre scorci della sua provincia in-

nevata, oppure far sentire il desiderato calore, lui che è uomo di una fredda provincia del nord, di marine venete nei sui rossi tramonti. Ma non è del Martin pittore che dobbiamo parlare, bensì dell’altra faccia che inspiegabilmente posseggono intercambiabilmente poeti e pittori. Vanno sulla stessa strada i pittori e i poeti. Lasciano, o meglio, sostituiscono volentieri la penna al pennello e viceversa. Questo accade perché spesso la parola riesce a centrare le cose, molto più efficacemente di qualunque altra arte. Immergendosi, allora, nella lettura di queste venti liriche, trascurando innanzitutto qualche imprecisione di punteggiatura, che avrebbe meglio dato il senso alle parole, vogliamo far rilevare la calma contemplativa e osservativa di questo artista-poeta. Scivola quasi come un pennello la penna sulla carta, dipingendo con le parole quadretti di vita non necessariamente tutti vissuti, ma sicuramente osservati e valutati. Così, per esempio, mi fa piacere che ritenga importante il valore del dialetto, che restituisce identità, memorie, immediatezza nell’ autenticità di un linguaggio antico e comprensibile a tutti. Anche a coloro che di studi ne hanno fatti poco o niente. E si intravede un poco di rammarico per il quasi abbandono delle lingue dialettali, leggendo così nella lirica SCAFFALE: Ammuffi-


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ta in un angolo/ l’eco delle voci remote,/non può dissolversi/ scomparire nella nebbia,/depositario di memorie/ della nostra parlata,/ il dialetto non irretisce/ schemi o regole sociali … Ci sono anche nelle sue riflessioni in versi, momenti di sarcasmo, scoramento, pensiero del domani dei giovani, del presente piratesco dei politici, che da miopi pescecani dilaniano qualsiasi preda. Allora così si leggono in “Due Facce” questi versi: … chi gira in Ferrari/chi perlustra i cassonetti,/ una realtà- due facce/ dolore e speranza,/ contro tanta opulenza. Vive da osservatore profondo il suo tempo. Questo nostro tempo così pieno di erranti che non provengono solo da terre lontane veicolati dal mare, ma che vivono anche nelle nostre città inseguendo un sogno. Il progresso non dà tregua/i poveri inseguono un sogno … la mente umana è sconvolta/ assuefatta del troppo. Ma c’è anche l’attualità vissuta ogni giorno e ogni giorno ignorata, soprattutto dalle istituzioni che hanno goduto del voto di cittadini in buona fede. Ecco, loro non si curano, per esempio, di permettere ai disabili di circolare senza ostacoli e barriere di qualsiasi genere: ... difficol-

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tà/che ostacolano,/ cose alla portata di mano/diventano irraggiungibili,/ tormentano la vita/ la rendono impossibile. Sembra in alcuni tratti, Vittorio “Nino” Marin, Diogene che cerca l’uomo. Ovviamente come un tempo, non lo trova. O se lo trova, non è quello fatto della pasta da lui desiderata. Leggiamo in queste “Sorsate Ristoratrici”, il desiderio di Marin di vedere, prima che chiuda gli occhi per sempre, il ravvedimento umano nei confronti del mondo, che messo a sua disposizione è stato maltrattato fino a farlo diventare un posto invivibile. Chiude questa raccolta, così piena di desideri e di aspettative, con ironia dicendo che arriverà /puntuale per tutti,/posto fisso ed eguaglianza/ nel recinto di un camposanto. Verità assoluta a cui nessuno può sfuggire. Movimenta la raccolta la presenza di alcuni suoi disegni, pensati per le poesie con cui fanno coppia. Sono perfettamente in sintonia con la parola. Questi segni grafici vogliono significare anche, l’immagine delle nostalgie di tempi appartenuti a un uomo che ha cercato di lasciare un segno del suo passaggio. Un uomo che è consapevole che la presenza sulla terra, è vita incantata/ con i suoi intimi segreti,/ (e che l’uomo Martin) dietro la sua fierezza/ nasconde una fragilità estrema,/… Salvatore D’Ambrosio Vittorio “Nino” Martin - Sorsate ristoratrici - Presentazione di Domenico Defelice - Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, gennaio 2020.


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FILOSOFI INTERPRETI DI POESIA di Emerico Giachery

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ER chi, come me, non è filosofo, e si rammarica di non esserlo, è sempre un’esperienza avvincente venire in contatto con la critica letteraria praticata da filosofi. Per quanto concerne la poesia, penso con ammirazione, per esempio, alle pagine - che anche Ungaretti apprezzava - di Heidegger su Rainer Maria Rilke, su Stefan George. Rilke, pur così lontano da un animus filosofico, affascinava anche Romano Guardini, filosofo e teologo in via di canonizzazione. Per quanto concerne le arti figurative, mi si affacciano alla mente certe intense letture di capolavori pittorici del nostro Quattrocento fatte da Massimo Cacciari. Non è del resto, il critico, proprio un philosophus additus artifici, secondo la definizione di Croce? Croce che rifiutava, come del resto Baudelaire, la “poesia filosofica” ammetteva che la poesia, l’arte “ha una sua propria filosofia implicita e spontanea”, insomma una sua vocazione teoretica. Il buon vecchio Croce, che nel tempo, ahimè lontanissimo, della mia giovinezza, praticava in proprio la critica letteraria in cui si era a lungo esercitato, e soprattutto affascinava tanti importanti maestri della critica let-

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teraria e non soltanto letteraria (il grande Mario Fubini, Mario Sansone, Francesco Flora, il linguista Alfredo Schiaffini, mio indimenticato Maestro, il critico musicale Guido Pannain, forse il critico d’arte Matteo Marangoni). E che nel celebre volume Poesia e non poesia aveva dedicato uno dei suoi brevi saggi di letteratura europea a Baudelaire, dando prova di buona conoscenza anche dell’opera critica, certamente significativa, del poeta, e indicando le proprie preferenze per una quindicina di poesie delle Fleurs du Mal, tra cui (con piena ragione, direi) Les Petites Vieilles, Le Vin des Chiffonniers, Les Sept Viellards, La servante au grand coeur, Le Balcon. Al pari di Leopardi - al quale Croce aveva dedicato un coerente e rigoroso ma molto contestato saggio - anche Baudelaire non era fatto per essere amato e compreso a fondo da Croce. Baudelaire non era certamente, come Ariosto tanto sintonico a Croce, “poeta dell’ armonia”. Bensì, come la filosofa Silvia Peronaci ha suggerito nel volume L’atto creativo in Baudelaire, edito pochi anni or sono, un poeta dal “pensiero senziente che disfa il tradizionale dualismo tra pathos e logos”. La dialettica crociana tra poesia e non poesia, tra poesia e allotria, non certo immotivata e affidata alla scrittura limpida e armonica di uno dei maggiori prosatori italiani del suo tempo quale Croce certamente fu, implicava il rischio di diventare meccanica, semplicistica o astratta, e andava perciò ripensata a fondo. Per leggere la poesia con lo sguardo del filosofo occorre dunque, oggi, ben altra strumentazione dialettica. Tanto ulteriore cammino del pensiero, più di mezzo secolo dopo l’attardato idealismo della cultura italiana al tempo della mia giovinezza, può offrire un’allettante ricchezza di referenti e di ispirazioni. Un momento significativo di dialogo tra filosofia e poesia è quello dell’ incontro fra Ungaretti ed Enzo Paci, che in quegli anni fu un apprezzato maître à penser: Lettere a un fenomenologo di Ungaretti e Ungaretti e l’esperienza della poesia di Paci. Emerico Giachery


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IL MIO GRANO DI SCRITTURA Roma 12 marzo 2020 di Luciana Vasile

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ESSI diversi anni fa La peste, romanzo del 1947 di Albert Camus, scrittore e filosofo algerino di nazionalità francese. Premio Nobel per la Letteratura nel 1957. Morto nel 1960 all’età di 47 anni. Quelle pagine, allora, molto mi colpirono e restarono tatuate in me per l’acutezza e la profondità nell’addentrarsi nell’animo umano in un momento tragico per la popolazione “Unita e Separata” dal morbo infettante, come del resto verifichiamo in questi giorni della nuova drammatica esperienza per il nostro mondo globalizzato. E così, ora, ho sentito il bisogno di andarlo a riprendere quel libro, confrontarmi con le parole ma soprattutto con i vuoti fra di esse che la scrittura lascia nel bianco del foglio. Muti suggerimenti, interrogativi, dubbi, paure, ma anche un’infinità di riflessioni che altrimenti l’essere umano non trova mai il tempo di fare - c’è sempre del positivo anche nelle situazioni più tragiche -.Nella sua corsa verso non si sa cosa: sicuramente la fine, inesorabile per tutti ma alla quale vogliamo arrivare con il fiatone, l’uomo non riesce a vivere il presente, qui e ora. Proviamoci, in un momento così difficile. Ecco, raccolgo l’invito-provocazione della FUIS. Non fuggire, stazionare nel vuoto del non detto, non solo in quello che leggiamo ma anche in ciò che abita la nostra interiorità, che tuttavia ci parla se abbiamo orecchie per sentire, con l’anima e con il corpo. Perché come succede negli spazi reali è il Vuoto che disegna il pieno. Lui il protagonista. Cosa leggiamo nel libro di Camus: Orano è una cittadina commerciale della costa dell’Algeria francese in cui << ci si annoia e ci si applica a contrarre delle abitudi-

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ni >> fino al giorno in cui le strade e le case vengono invase dai topi che portano la terribile malattia. La città si chiude poco a poco nell’ isolamento. L’isolamento e la paura modificano i comportamenti collettivi ed individuali: “La peste fu un affare di tutti”, nota il narratore. Gli abitanti devono convivere con l’ isolamento sia all’esterno che all’interno . Incontrano difficoltà a comunicare con i loro genitori o i loro amici che sono all’esterno. Negli interstizi, pause fra le parole, del racconto l’Autore sembra suggerire: l’uomo può superare la disperazione e la solitudine della propria condizione attraverso la rivolta lucida e cosciente contro l’assurdo, ovvero attraverso l’impegno e la solidarietà. Il male ed il dolore non possono essere spiegati teoreticamente ma possono e devono essere affrontati con l’etica laica della sincerità individuale e dell’impegno collettivo. Quanto tutto ciò assomiglia a quello che sta succedendo …!? Ecco, personalmente ho ritrovato e mi sono ri-conosciuta (riconoscersi è un attimo, conoscere è lento) nel bisogno di Solidarietà, più che mai forte in questi giorni, all’interno dell’ossimoro della forzata responsabile Separazione dei corpi. Luciana Vasile

L’ULTIMA CAREZZA Siamo ancora delle anime distratte. Ci arrampichiamo invano su muri lisci ed ogni volto è carcere di pietra. Mendichiamo sorrisi e sguardi assenti. Ogni nostro fratello ha già una strada che più non è nostra, ed anche i figli sparano a zero. Troveremo, una sera, forse più amici gli assenti e poseremo l’ultima carezza sopra un brivido d’erba. Nino Ferraù Da E sentirsi così…, Edizioni G. B. M., 1990


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DUE LETTERE Carissima Goliarda, mi piacerebbe tanto passeggiare con te per le vie di Gaeta (un cappello di paglia nella stagione delle romane villeggiature e un sorriso complice tra i negozianti nei grigioverdi invernali), per poter risentire l’arte della gioia nelle esistenze. Ho davvero bisogno di riassaporare i profumi del mare aperto e di rileggere, anche grazie alla tua Sapienza, i percorsi di vita che si dipanano in me e attorno a me, sradicarmi completamente dalle illusioni e riuscire a comprendere semplicemente ciò che è, giorno per giorno. Nella mia infanzia e adolescenza non c’era alcuna saggezza, lo sai, solo un crogiolo di emozioni, di naturale vitalità e empatia che, alla fine, risultava sempre la giusta, sana risposta, nonostante tutta quella ingenuità. Nella giovinezza, come te, ho amato la curiosità e lo studio, la conoscenza come difesa e opportunità alla realizzazione di una persona autonoma; non ero Modesta, tutto volevo, ma senza imporre alcuna autorità. A volte lo spirito vitale, sotto una sofferenza, mi fuggiva dal corpo e non riuscivo a sostenermi, né a sostenere il dubbio di me e degli altri: non riuscivo a saldare il mio continuo essere diviso. Dopo aver doppiato il capo dei trent’anni, che gioia invece assaporare pienezza, la consapevolezza della sessualità e dell’arte dell’amore, della carnalità e della volontà di vita di un figlio, la condivisione per reali progetti sociali di cambiamento. Come sai bene però, le promesse, che le onde e il vento sanno ripetere, si frantumano e, a un certo punto, sembra davvero che quasi tutte le parole mentano. Si inizia quindi ad imparare che vivere contempla, per ciascun essere umano, cadere sotto i colpi di abbandoni, delusioni, solitudini, frustrazioni e sapersi rialzare (anche tra follie e prigio-

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ni), riprendere la propria essenza e saper cambiare percorso. All’epoca d’oro dei cinquant’anni, come tu mi hai insegnato, sto imparando a rinascere da me, nella coscienza di essere sola, sola insieme agli altri (prevedibili, enigmatici, irraggiungibili?) e di poter assaporare, con vera saggia pienezza, la gioia di essere arte (metodo e maestria di essere viva), tra i vivi. Ti mando una risata, tra gli spuzzi di questo mare. Patrizia De Rosa (Genova)

Carissimo Giacomo, qualsiasi parola, emozione, sentimento ti dica, ti porga da lontano, risulta piccolo, riduttivo, lo so benissimo e quasi me ne vergogno. Vitale e fantasioso come sei, sei stato così solo, così solo ogni giorno e ogni notte, così intrappolato nella vita quotidiana del corpo imperfetto, della famiglia che stringe alla gola, del borgo meschino impegnato nelle apparenze, di umane genti incapaci d’amore, da mettere all’angolo, ora, solitudini trascorse in perenne falsa socialità. Vorrei risollevare il tuo spirito, rendendoti partecipe di tutti quei doni di istanti o di intere vite che hai nutrito. Riesci a percepire quanto il tuo pensiero, le tue passioni non certo scolasticamente romantiche, il tuo sentire tra orridi abissi o ardite stelle, abbia fatto compagnia e consolato e incoraggiato uomini e donne nel tempo, rendendoli molto, molto meno soli, meno inadeguati? Sei l’amico prezioso che dà voce al dolore giovanile, alla disperazione di una vita avara d’amore, alle progressive consapevolezze di uomo che cerca di vivere il suo tempo e l’eterno, assaporandoli interamente senza inutili consolazioni. Continuiamo a naufragare Giacomo, la dolcezza è rara, ma lo sentiamo, lo sentiamo il palpitare dell’infinito. Lorenzo De Micheli (Genova)


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LA CREMAZIONE di Leonardo Selvaggi Trasmutazione panteistica A cremazione per la trasportabilità dei resti mortali risolve i problemi assillanti di chi è materialista con i significati più ampi e nobili della parola, del materialista che non concepisce la distruzione del corpo, la dipartita della figura amata, della figura a somiglianza divina con il marchio impresso della creazione. Si vorrebbe tenere il morto a casa poiché pare illogico che debba andare fuori dai luoghi della sua vita. La cenere che rimane dopo la cremazione rappresenta la sintesi della sua esistenza: la sottigliezza e penetrabilità, permanenza sulla superficie a noi vicina. La polvere si trasporta nella rete fine dell'aria, si estende e ritorna, ha una trasmutazione panteistica e si fa energia nei suoi elementi di cui si compone. Anche nella casa la cenere del morto si fonde nello spazio delle camere e gli oggetti che sono stati posseduti si movimentano, si mantengono nella loro struttura viva di uso, quasi sono ancora nelle mani di chi li teneva. Gli oggetti

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della casa per dove aleggia lo spirito dei minuti e impalpabili resti della cremazione non si stratificano e non si lasciano coprire di patina. La loro posizione si sposta con le mani di chi è rimasto, in amicizia di ricordo con chi è andato via. Il corpo sepolto conserva attaccati ancora gli screzi avuti in vita; i livori con il fuoco si frantumano. La lontananza della memoria ci porta alla presenza sublimata di chi abbiamo avuto vicino. La positura orizzontale diventa aria, si incurva la linea del corpo e si innalza trasformandosi in traiettoria ascendente. Nella prigione della bara il peso del corpo morto con il processo di putrefazione crea dei movimenti di assestamento e nuovo equilibrio delle parti che fanno pensare ancora vivo il cadavere e si hanno segni di costrizione incatenata. Gli spiriti del passato si stratificano e formano le falde magiche presenti in rivoli per ogni luogo. Polvere uguale spirito: polvere di tutte le cose, di tutti gli esseri. Dal fumo della cremazione si sprigiona lo spirito: in tempi di materialismo si va alla ricerca di profondità animistiche poiché la superficie è brutale, ricoperta di orrori. Drammatica la decomposizione lenta della carne nella bara di zinco, strati di melma che infangano, uno spavento demoniaco vedere quello che rimane della persona ricordata. La consumazione graduale è fenomeno materialistico di riduzione, selezione di parti resistenti, lembi di vestiti impastati dentro pezzi appiattiti e secchi di carne, bottoni disseminati, capelli arsi arricciati. La fiamma della cremazione si alza ad abbellire la figura, rituale espressione, fiamma votiva sull'altare, glorificazione della memoria Nell' ossario le parti raccolte pure si frantumano e nell'umido pure si ammassano marcite, diventano terra indistinta. Disarticolazione delle ossa dalla carne che sa di letame, di sostanza che ammorba la cassa di esalazioni soffocanti. Devi seguire lui con la tua intelligenza, l'incontro della tua luce con la sua essenza che dentro la cenere indistruttibile non si distacca dalla tua pelle. Il panteista che crede alla conservazione. Puoi andare per la casa in punta di piedi, sulle orme di chi vedi con im-


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maginazione. La fantasia corre dentro di lui. Il marmo della sepoltura si è svuotato, il mucchio di ossa scaricato come materiale di rifiuto. Con la cenere della cremazione il corpo si fa sparso, sulle punte delle dita ci sono granelli di quel grigio che è colore diffuso, che trovi dappertutto. Il granellino come l'atomo più leggero del movimento dell'aria, nello spazio sia quello aperto che quello circoscritto della casa. La polvere contiene l'anima, continua l'aderenza psico-fisica. La croce alta dell'ossario l'ho vista sempre uguale alla fiamma della cremazione: cospargi mento della polvere dei morti e conservazione di essa nell'urna. La croce amplificata nei suoi bracci nell'aria del cielo e la sostanza degli spiriti sento aleggiare elevate, fiammeggianti in altezza di sublimazione, in evanescenza di movimento. La forza del ricordo corre dietro in immediata congiunzione naturale di incontro e di immedesimazione. Processo di sintetizzazione Dentro l'ammasso informe delle ossa accatastate le tracce dello spirito rimangono mortificate. Lo spirito è in emanazione se rimane legato ad un resto materiale visibile, nella parte fine decantata di cenere accumulata. Le ossa che sprofondano in una fossa dirupata in basso sono inghiottite, materia finita dopo il ciclo concluso. Con la cremazione c'è una volontà filosofica di voler vedere nella conservazione dei limitati raffinati resti, una specie di olio santo acceso, il candelabro alimentato brilla con la sua fiammella. I cimiteri delle grandi città, divenuti sempre più freddi depositi di corpi morti rovesciati in quadrati di terra grassa o nei riquadri uguali di marmo su pareti a più livelli di sepolture, convivono con le ossa intorno. Passi vicino, non ti accorgi di essere tra quelli dell'aldilà. I morti dentro il muro di cinta paragonati a carcasse di macchine sconquassate con la gru ammonticchiate, ferraglia che ruggine sgretola sulla superficie rossastra. I cimiteri piccoli di paese, lontani dall'abitato con i loro cipressi statici, paiono un luogo di disperati ed ossessi rimarresti dentro tramortito, preso nelle maglie del-

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le streghe, passare vicino o al cancello significa avere il cuore svuotato tremante. La cremazione ci porta a considerare di più la unicità della presenza spirituale tramite il processo di sinterizzazione delle parti corruttibili. E non vedi i cimiteri come luoghi di pianto. Invece il corpo ancora intatto strappa le lacrime e fa disperare quello strato di terra che toglie la possibilità di prendere per mano la persona cara o di adagiarti vicino per colloquiare. Ritrovi la sua presenza, i suoi vestiti sono quelli che lo distinguevano con le movenze rimaste note. Il cimitero con la tradizionale sepoltura rende contradditorio il rapporto fra la sensibilità, il sentimento di pietà e la persona inerte che non ti appartiene relegata com'è in quello stato di magica frattura che divide due mondi fisici intoccabili, un muro di silenzio si è interposto. Pare davvero che si sia introdotta la mano malefica del maligno, si è spezzata la posizione della sagoma che verticale ti accompagnava nei giorni. La cremazione ha consentito una intercomunicabilità di colloqui, sostanze impercettibili si intravedono e si trapassano. Si crea uno stato di serenità e di naturale accettazione, linearità di condizioni parallele che si integrano, nulla di macabro che conturba e ti mette dentro una solitudine che squilibra. All'intemperie, il sole rende sbiadite le immagini sui marmi, arrugginisce con la pioggia le figurazioni metalliche scolpite. Quadrate le sepolture, appesantite da significazioni barocche, che avvolgono in un manto di assenza e travolgono tutto quello che di concreto e personale aveva il corpo vivo di nostra conoscenza. Gli umori ritornano alla terra, quello che è venuto dal processo di consumazione si confonde per la superficie cosparsa di fango e di pietrame, tutto impastato per i sentieri dove continua il passaggio dei vivi, il ricambio sopra spoglie corrotte del mondo animale e vegetale, pestate nelle stagioni del nostro esistere. La terra si frantuma ai soffi del vento, gli sterpi si spezzano, sotto la pioggia si spogliano le pietre, i morti frammentati, frammisti alla millenaria sostanza calcarea su cui passiamo. Se ne stanno per conto loro, sono in tanti. Se si potesse svellere quella corteccia


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di terra, una fiera di ossa. Un indugio e poi con fretta a sommergere la fossa: le cose sopra ad ammassarsi; tutto pulito e disteso, non c'è un segno che ricorda la giornata caduta. Intorno al cimitero un labirinto di abitazioni, non ti accorgi di nulla: chi è andato via è arrivato in fondo in un baleno, nell'oscuro silenzio. Meandri sconosciuti, sprofondamenti, non vedi chi ci ha abbandonato. Disarticolato, è un sacco rigonfio, tolta la funzionalità delle parti, è buono per quel ciclo di ritorno, per il processo di circolazione fra nuova germinazione e corpi caduti. La terra divoratrice Una frattura fra noi che rimaniamo e i morti. Nella cassa l'ultima immagine lustra di nero. I necrofori crudeli inchiodano a colpi frenetici di martello, hanno paura che venga fuori e non aspettano un altro giorno. C'è una segregazione di materia rifiutata, non più utilizzabile. Il materialismo pesante e cieco si abbatte sul morto tenendolo compresso, la corruzione nociva può avvelenare l'atmosfera dei vivi. Il morto non è più l'uomo buono, preso dal freddo lo portano via perché la sua faccia è coperta di lividore. Insaccato nell'abito nuovo, a passi precipitosi, lo accompagnano al luogo dove sulle pareti di crisantemi si fanno più secche dondolando con voci metalliche stridenti che di notte fanno paura. La terra avara divora le ossa subito risucchiate, la carne presto consumata. La terra che attira per la forza gravitazionale con le sue fauci insaziabili, la terra piena di ghiaia e arsa, umida setacciata e pesante, le crepe della terra, la terra che si ammassa, che frana rovinando le costruzioni messe sopra. La terra distrugge tutto, pure l'essenza della vita soffocata. La cremazione seleziona, ci mantiene eretti nel pugno di cenere raccolto dopo il fuoco che ha bruciato l'involucro mortale. I resti fini del corpo, come passati dal setaccio, dopo la cremazione si estendono con lo spirito dentro e volano insieme: la persona intatta rimasta, le due essenze inscindibili. Luna come base, l'altra la divina farfalla che si nutre di stelle e di cielo. Anche i morti sono stanchi di vedersi

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lacerati dal tarlo della consumazione, di vedersi sgretolati, compressi da fobie per quel coperchio pesante che grava sulla fronte: negli occhi secchi ammuffiti, le mani staccate. Alla scomparsa di mio padre, incredulo ho sostato davanti alla bara percuotendo i pugni sopra, sicuro di avere segni di risposta, la riconferma fra me e lui dello stato psicologico di pazzia che straniava feroce la mente. Anche i morti vorrebbero incenerirsi per non portare più addosso le ferite dell'incomprensione sofferta sulla terra: i fatti della vita che facili si sarebbero avuti se non ci fossero state quelle false fratture fra simili, a volte con sadismo si considera meritevole la morte se impossibili spesso i rapporti d'amore. Si dice sempre che costa niente convivere meglio, quando illusori momenti di ricominciare bene si hanno sul punto della fine che chiude nel baratro un nostro caro. Tanti vorrebbero il fuoco della cremazione per non avere i loculi e i cumuli di terra da un solco all'altro il sentore di marcio intriso in tanta parte di fosforo. Non sai distinguere il profumo carico dei petali ammuffiti dall'odore di quell'aria tetra che densa e spessa, compatta e immota prende lo spazio del rettangolo chiuso del cimitero. Una notte di luglio al cimitero Non dimentico il racconto fatto da un compaesano, che vivace sapeva mettere con il suo parlare quasi sadico una speciale ansia a chi ascoltava, di come era andato lo scherzo tramato ad amici coraggiosi che si proclamavano pronti a passare delle ore della notte al cimitero fra le croci e le cappelle tetre, tranquilli andando di qua e di là e standosene seduti a parlare come in un qualsiasi posto, dentro i limiti del cancello chiuso che sbarrava magico la dimora dei morti. Una notte stellare del mese di luglio, tante lucciole lungo le siepi e tanta fosforescenza nell'aria greve e appiattita delle tombe. Secondo il disposto del macabro gioco, prima che arrivasse il gruppo, già preparato il protagonista numero uno, invisibile sulla cima del cipresso il più alto fra quelli che svettano nel fitto ed austero filare. La luna guardava ammiccando, ombre distese im-


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mote si intersecavano per terra e sui bianchi marmi, alcune piatte librate in alto lungo le pareti. Pareva che una forza superiore con una possente mano tenesse incatenato e solidificato l'ambiente. Mentre si parlava liberi e sereni, come si fa nella piazza del paese, il cipresso comincia ad ondeggiare, l'unico in mezzo a tanti altri che rimangono di ferro e di colore oscuro, troni immensi ed immobili nel silenzio dei morti. Non si muove una foglia, un'aria ferma e leggera nel contempo per tutta l'estensione delle tombe, lungo il muro di cinta e sul cancello che serra un rettangolo di incantesimo. Il cipresso dopo una pausa, riprende a dondolare forte sembra voglia con agitazione dire qualcosa, mosso davvero da forze sotterranee e sataniche. Il silenzio e la solitudine della notte si pensava che avessero riacceso la vita alle ossa frantumate, alla carne in sfacelo, fatto resuscitare i corpi freschi di sepoltura, ancora pieni di respiro e spaventati del passaggio all'aldilà. La fine polvere dentro l'ampolla simile ai sottili pensieri, la bianca polvere come la pelle del viso chiaro, come la luce brillante degli occhi, l'azzurro dei vestiti. La manciata di cenere sparsa si volatilizza facendosi aria, parvenza di figura che si colora di contorni lievi davanti allo sguardo. Le ossa si rimpolpano, divengono cordoni di nervi che fuoriescono uguali ai lunghi solchi di terra intrecciati, induriti sotto la suola delle scarpe. Anche i resti marciti con i brandelli dei vestiti lacerati si ricompongono sotto il primo strato di copertura; si rimuovono i morti ridestati, rigonfiati da rendere elastica e calda la superficie. Pare che il duro fondo ghiaioso del viale si sia fatto movimento di materia fluida. Le bare oscure sono celle diaboliche per i corpi supini in una notte di luglio piena di luce per lo spazio immenso del cielo. Le serenate dei grilli che fanno l'aria fonda e vellutata riempiendo gli anfratti e le distese della campagna, la collina ammantata di freschezza che scende al Basente È il momento magico in cui rivivono le loro storie martoriate, tragiche, felici. Il dramma della vita ribolle nelle carcasse rimaste dopo il fuoco divoratore della morte. Gli amici impavidi

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che erano certi di non impressionarsi di stare nel cimitero di notte avvertono esagitazione diffusa e un tremito confusionale che squilibra la mente. Per loro non solo il cipresso si muove, sbattuto da irreale tempesta d'acqua e vento, ma lo stesso viale pare animato afferrandosi ai passi che non vogliono andare avanti. Lo stato fobico che tiene incatenato combatte esasperato con la voglia di tutto il corpo che vuole liberarsi da quel luogo indemoniato. Quella serenità che si spandeva per tutti i dintorni del paese, la quiete paradisiaca fra terra e cielo in un chiarore di armonia beatificante erano nel viale del cimitero sconquassate. Pure le ombre, che fasciavano pacifiche le pareti slanciandosi da una lapide all'altra quasi fossero celestiali legami di pace eterna, scatenate traballavano simili a travi di un dirupato grande caseggiato. La cenere della cremazione, polvere benedetta che si infiltra in ogni angolo, come uscita da un aspersorio, profumo d'incenso a candore di acqua santa, si adagia sulle vesti, si radica nella mente intrecciata con i ricordi: continuità e protezione attraverso i passaggi dei corpi e la permanente presenza dello spirito. Leonardo Selvaggi Pag. 31: Domenico Defelice - Piano dischiudo il cancello con mano tremante… (china, 1960).

QUI Qui Natale a volte ha indugi di sole, il mare ha serici abbandoni. Passano alte in cielo le migrazioni, nei campi si rincorrono chiarori. Natale e luce vasta. Ma vibrano le cose a un richiamo intimo: atmosfere segrete dilatano all’infanzia, irretiscono assenze. La festa, la mia festa, è nostalgia. Ada De Judicibus Lisena Da Omaggio a Molfetta, Edizioni Nuova Mezzina, 2017


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Il Racconto “Bisogna mangiare… “ di Antonia Izzi Rufo

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IEDONO, nonna e nipotino, su un muretto del giardino, esposto al sole, riparato dal vento. E’ inverno ancora, ma sembra già primavera perché le giornate sono più lunghe, il sole è più alto nel cielo, c’è tanta luce. La nonna si lamenta dei suoi acciacchi e della sua tarda età e dice che le piacerebbe tornare indietro nel tempo quando correva, saltava, faceva lunghe passeggiate, aveva tanta energia e la sua mente era sveglia, lucida. <<Non è un problema>> ribatte il nipotino <<Tu puoi tornare giovane e possiamo giocare insieme di nuovo, “alla guerra”, “a nascondino”, “a correre”, “a fare le capriole sull’erba”… >>. <<Magari!>> dice la nonna <<E in che modo?>>. <<Non è difficile>> continua il bambino <<Tu devi soltanto mangiare, mangiare di tutto e tutto ciò che ti preparano>>. E la nonna incredula: <<Io non ci credo. Sono vecchia e tale devo restare, anzi peggiorerò col passare dei giorni>>. <<Tu prova. Poi mi dirai>>. La nonna non risponde; abbraccia il nipotino e lo stringe grata a sé. Ella crede che il bambino voglia, certamente, infonderle coraggio, comunque gliene è riconoscente. Quando però è sola, seppure scettica, comincia ad illudersi che (perché no?) potrebbe essere vero quanto ha detto il bambino. E, sebbene per nulla convinta, comincia a mangiare di più, ad aumentare la quantità di cibo, un po’ alla volta. Compie un grande sforzo, ma s’accorge che qualcosa in lei sta cambiando: mangia di più e si sente più forte, più energica, più desiderosa di fare, di agire, di non trascorrere il suo tempo in ozio. Che le succede? Per caso è vero quanto le ha detto il nipotino? Allora esiste il rimedio per ridiventare giovani, per riacquistare le forze di una volta! Confessa il cambiamento avvenuto in lei e, insieme al nipotino, decidono, entrambi, di recarsi nel paese

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della fantasia dove tutto è possibile, dove tutto è magia. Così un bel giorno vanno in campagna e, con un tocco magico, trasformano il cavallo a dondolo in “navicella spaziale”, una navicella che non ha nulla di quelle vere che si mandano sulla luna o su uno dei pianeti che girano intorno al sole, una navicella che funziona come un elicottero. Con questo strano mezzo si recano nel mondo della fantasia, una specie di grande luna-park. Possono divertirsi come vogliono: sulle giostre, sulle altalene, con i palloni rotondi o ovali, con le bocce, con le liane, come quelle di Tarzan, col tiro a segno, sui cavalli, a far capriole sui prati… Quanto si divertono! Infine, stanchi, ritornano sulla terra e ritrovano le loro cose così come le avevano lasciate. Il nipotino può giocare ancora, di nuovo, con la nonna perché questa è diventata giovane, può correre come lui, fare addirittura una partita di calcio, con lui, sul prato che è dietro casa. <<Che ti dicevo?>> le ricorda il nipotino. <<Avevi ragione>> gli risponde la nonna abbracciandolo con affetto. Antonia Izzi Rufo

“...PER FAR CADERE NELLE MAGLIE DEL DESIDERIO E DEL DELIRIO DA DESIDERIO...” Dialogo tra Mephisto, la Bambina e Dmitri con intorno le alte montagne del Massiccio di La Meije, a La Grave, terra d'elezione del compositore francese Olivier Messiaen.

di Ilia Pedrina

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EI, la Bambina ha camminato a lungo e si ferma ora sul ponticello, guardando il Vénéon che scorre rapido e in certi tratti profondo. Pensa e sorride, perché sa che tra poco... Infatti Dmitri arriva e ha bevuto, tanto, senza perdere lucidità: se ne intende assai nel campo della musica contemporanea e non solo. Tra loro due, al momento


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opportuno arriva Mephisto, ospite atteso dopo quello che è successo al Convegno. Loro tre si conoscono da molto tempo ma lei, la Bambina, ha sempre dato a Mephisto del filo da torcere senza fargli ottenere né trama né ordito. B. Sapete, sto pensando a questo compositore, a questo Messiaen, alla sua voce, quando parla alla classe dei suoi allievi del rapporto tra i suoni, gli accordi, le loro trasposizioni e i colori, quelli articolati, quelli anche puntinati da altri che sono a loro vicini. M. Si, certo, Olivier Messiaen, che nel nome mi ricorda colui che mi voleva sedurre senza lasciarmi scampo e al quale ho resistito con tutte le mie forze: la sua fede è qualcosa che mi irrita molto, sempre, ogni volta che si parla di lui. E adesso, con i colori, tutta una storia inventata: i vetri della cattedrale, il blu brillante... ho i nervi a fior di pelle! B. Ma è vero: quando era bambino la sua mamma lo portava in cattedrale e lui guardava ammaliato tutti quei giochi di luce, tutte quelle figure sulle vetrate che si oppongono al sole e ti rinviano splendidi bagliori di raggi e di forme che si allungano sulla pavimentazione della chiesa e ci puoi vedere anche il pulviscolo di polvere nell'aria: mostrano la storia di Gesù per tutti quelli che entrano e possono vedere... Vedere è un gioco da bambini, vedere oltre ciò che realmente si vede è loro grande dono, loro riescono a vedere subito, a vedere bene, anche oltre. D. È così, come dici tu, cara, vera Bambina figlia del Sole e della Luna, perché sono stati proprio i canti antichissimi, che si innalzano dalle mie parti per lodare l'Altissimo, quelli che mi sono entrati dentro e che mi hanno fatto scegliere questa strada: i miei per tanto tempo mi hanno lasciato solo e sono cresciuto con la mia nonna. Lei era molto credente e mi raccontava sempre la storia di Gesù... M. Ecco Dmitri, hai toccato un tasto che mi innervosisce ancora di più! La storia di Gesù, del così detto Messia, di cosa poi Messia lasciamo perdere, le chiese, quelli che vi vanno dentro... a che fare poi? Ad ascoltare la Messa? Figurati! Cosa capiscono lo sa solo Dio,

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da ieri a oggi chi sa mai che cosa hanno capito! Per fortuna che io mi mantengo i nervi saldi e procedo per la mia strada ad infestare e ad infastidire. I risultati si vedono, le chiese si stanno svuotando. B. Fede e fiducia hanno la stessa radice... D. Certe si svuotano e altre si riempiono e magari da fuori non sono certo chiese... M. Che vita piatta, che piatta vita sarebbe senza il Male! Vedete, io mi trovo bene con voi perché la vostra innocenza mi eccita: è come se fossi spinto quasi a lacrimare dalla tensione che mi fa esaltare dentro pensando a come farvi cedere, a quali armi, che a molti ho fatto usare su questa terra, posso io stesso impiegare contro di voi, per farvi conoscere una dipendenza che non vi è ancora nota, quella erotica forte, profonda, quella che toglie il respiro e non ti abbandona più fin che campi e la devi reiterare ancora e ancora per sentirti vivo, fino alla morte. B. E dopo? Sarò Bambina, questo è certo ma non credi tu che io abbia anche tutti gli anni che mi porto addosso, quelli del mio, del nostro DNA che son oltre i 100.000? Hai capito: sono curiosa per natura, ma ho anche un certo modo diciamo 'animale' di percepire il rischio, quello vero, quello che ti annulla se ci entri dentro anche di striscio, quello di cui tu hai il comando permanente. Ecco: è come se io fossi protetta da quel rischio lì, come se fossi diversa. D. Per questo bevo, sapete, bevo senza misura perché tu, cara, sei così ed io non posso fare a meno di te, così come sei, così, intatta. Così mi trascini nella tua luce e quando morirò sarà per me come entrarvi dentro per sempre. M. Voi mi volete portare fuori strada, mi volete portare a ragionare e io ci sto perché è la prima volta che posso un poco rimandare il mio lavoro, riposare e conversare con voi, così, ad osservare ogni tanto questo splendido panorama che ci avvolge: essere insieme io e voi due a parlare di voi e di me. Non mi era mai accaduto, sapete, perché in fondo la mia vita è frenetica: non vi rendete conto di quanti devo asservire al mio potere e come devo


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usare sempre le stesse formule, gli stessi schemi, gli stessi stimoli per avere risposte uguali, già prevedibili, già programmate. Il vostro modo di presentarmi il tempo e la natura umana mi portano a riflettere, una cosa questa che non facevo da molto tempo, almeno da quando dovevo cavar di cervello nuovi modi, nuove formule per far cadere nelle maglie del desiderio e del delirio da desiderio uomini e donne grandi dentro, tenaci, ribelli anche a chi mi dà da lavorare, diciamolo, e quindi prima di tutto ribelli a me e alle tentazioni che mettevo in campo. B. Vedi, non lo posso negare e ti capisco. La tua oggi è una vita monotona e quasi senza senso perché è come se avessi operai di tutto il mondo che si sono uniti per darti onore, senza fatica e senza sforzo o intervento diretto da parte tua, così, per il loro gusto e preciso desiderio di scegliere lo stato di schiavi. Sono convinta che non ti aspettavi, forse non la volevi tutta questa gran grazia! (Dmitri la osserva con sguardo dolcissimo, gli occhi lucidi quasi da lacrime che non scendono mai ma che stanno a segnalare emozione anche spirituale.) M. Non so perché, ma mi annoia tutto questo esercito di non pagati e nemmeno appagati, che mi si sono sottomessi con il passa-parola globale. Certo l'Imperatore del Male non dovrebbe dirle queste cose, eppure voi mi avete messo nella condizione di non nuocere, perché il male adesso lo si fa al naturale, come se si fosse innescato un riflesso condizionato che ha portato indietro di millenni il mio interlocutore, che dico, di millenni solo? Non so come fare fruttare questa noia. Ho sentito dire che è come uno stato di sospensione dell'agire, che è illuminata e che dà molti frutti... D. È uno stato duro e tutto interiore, un silenzio che ti invade, anche se tutti ti stanno intorno e quasi ti schiacciano; è come attraversare un deserto senza fine e tu ti incammini senza sapere nulla, ti senti guidato, quasi disperato e protetto nello stesso tempo! B. Dici bene, Dmitri: si tratta quasi come di un chiostro, di un hortus conclusus - tanto tu,

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Mephisto, il latino lo conosci bene e pure il greco e l'aramaico e il caldeico e l'ebraico e l'antico russo e tutte le altre lingue con quella sola, oggi, che prevale con la violenza di un uragano...- un giardino delle delizie. È tutto dentro di te, anche il desiderio che si mantiene ai livelli più alti. Il fatto di non poterlo portare all'appagamento attraverso il godimento, come ben ci ha spiegato, a me e a Dmitri, quella volta Hegel un po' di tempo fa, lo mantiene illuminato appunto, acceso di sempre nuova luce e di nuova forza, quella che ti mette in cammino nel silenzio che avvolge il deserto, in tensione, e tutto il corpo vi partecipa: la mente allora si abbandona ad uno stato di creatività, che tu nemmeno immagini o forse si, se ti metti nei panni di chi hai interpellato tanto tempo fa, sfidandolo, mettendolo alla prova, incoraggiandolo al cambiamento di rotta senza poter intaccare quel fine che lui intendeva perseguire. Forse lì, in quella tensione alta per asservirlo alla Terra, hai messo in atto una creatività che poi è stata clonata sempre e dappertutto senza nessuna originalità... M. Adesso non mi fate ricordare il silenzio e il deserto, in quel bel tempo nel quale avevo un gran da fare: la lotta era dura ed erano più le volte che perdevo che quelle nelle quali portavo il mal capitato dopo gran fatica dalla mia parte. Avete ragione: il mio giardino delle delizie era in questa tensione, quasi un'aspettativa della lotta da mettere in campo, articolata poi in molti modi a seconda delle circostanze... B. Ecco, le circostanze! Queste sono fondamentali, in altro modo le possiamo chiamare eventi e mettono insieme i fatti in un dato tempo ed in un determinato luogo. Ci vedremo tra non molto, intanto porta con te questo sasso: lo abbiamo trovato ieri notte, sì, era così, nel buio... (Dmitri e la Bambina gli offrono ciascuno la metà di un sasso grande come il cavo di una mano). M. Ma pesa ed è aperto a metà! B. Certo, lo abbiamo trovato così, una metà qui e l'altra poco distante, nella notte le due


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metà, distanti tra loro, sotto il chiarore delle stelle che qui si vedono benissimo, mandavano bagliori bianchi, quasi un silenzioso richiamo. L'abbiamo tenuto a lungo, dopo averlo unito, tra le nostre due mani e le tue, grandi, Dmitri, raccoglievano le mie e con le mie riscaldavo il sasso inerte, ma via via sempre più intiepidito dal nostro calore. D... e io ti sussurravo con la mia voce piena, forte, delicata quelle parole del nostro canto d'amore e di tristezza, quelle del Kak Molody: solo così, nella notte, ti ho protetto, con tutta la tensione vibrante della mia anima, di cui sono stato capace, dal torbido evento di questa mattina, al Convegno... (Lei gli sorride e gli accarezza quella mano che ha appena ceduto la sua metà del sasso a Mephisto, donandogli un poco del suo calore.) B. Tu, Mephisto, cerca di unire le due parti. Vedi? Non combaciano perfettamente perché mancano frammenti, ci sono dei vuoti, vedi? È verso questo vuoto di materia, vuoto che noi ieri abbiamo benedetto, è verso questo vuoto di materia che dobbiamo tutti dirigere l'attenzione. L'evento della rottura porta tensione verso la forma, quella compatta e perfetta che c'era prima, nel sasso tutto intero. È in quel vuoto della FORMA-BELLEZZA che ognuno può incontrare il fondo dell'anima, il fondo di sé stesso. (Mephisto è sopraffatto dalla loro grazia, dalla dolcezza della loro intensa passione, quella che lo sta attraversando senza mezze misure: non ha difese rispetto alla pura gioia, anche l'Imperatore del Male ha bisogno del Bene per poter esistere altrimenti non avrebbe senso, né relativo né assoluto. Gli manca l'aria, eppure intorno il vento è forte e viene dalle alte vette del ghiacciaio: lui sa che Dmitri a breve lascerà questa vita tra grandi sofferenze, ma il suo sorriso sarà di poco annebbiato perché lui, in vita, è approdato davvero al fondo dell'anima, innescando il bisogno di vuoto e d'eterno.) M. Mi avete creato e portato dentro questo stesso peso moltiplicato all'infinito, questi frammenti dove si presenta il vuoto e la for-

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ma intera viene a mancare. Voglio capire e terrò questo dono come cosa preziosa. Incontriamoci ancora, non lasciate passare troppo tempo! M. Ilia Pedrina (Quelli che leggono possono completare con l'immaginazione gesti, notizie e particolari del paesaggio che qui vengono volutamente trascurati. A parte le figure storiche di riferimento e tutto l'onore presentato in memoria del grande Dmitri Hvorostovsky, ogni accenno ad altri elementi e protagonisti è puramente casuale).

LA TERRA, LO SPIRITO, LE ALI Ti saluto ogni sera come quando ci toccavamo le mani dopo l’incontro dei nostri occhi. Cerco d’immaginare il punto esatto da dove mi guardi e mi si gonfia il cuore. I passi dello spirito non hanno bisogno di terra per raggiungerti. Volano con la poesia che è fiato di Dio: solleva l’uomo all’infinito. Gianni Rescigno Da Il vecchio e le nuvole, BastogiLibri, 2019.

PILLOLE La poesia aiuta a dimenticare i guai della vita, e sgombra l’animo da molte tristi passioni. Chi riceve lodi eccedenti è degno di perdere quelli ch’ei merita veramente. Ugo Foscolo Lettera a Giovanni Zuccala, 21 ottobre 1823

Chi non punisce il male comanda che si facci. Leonardo Da Vinci


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Servizio STAMPA I Edizione PREMIO EDITORIALE IL CROCO L’Editrice POMEZIA-NOTIZIE - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM) - Tel. 06 9112113 – E-mail: defelice.d@tiscali.it organizza, per l’anno 2020, la I Edizione del Premio Editoriale Letterario IL CROCO, suddiviso nelle seguenti sezioni : Raccolta di poesie (in lingua o in vernacolo, max 500 vv.); Poesia singola (in lingua o vernacolo, max 35 vv.) ; Racconto, o novella, o fiaba (max 8 cartelle. Per cartella s’intende un foglio battuto a macchina – o computer - da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1800 battute); Saggio critico (max 8 cartelle, c. s.). Le opere, assolutamente inedite (con titolo, firma, indirizzo chiaro dell’autore, breve suo curriculum e dichiarazione di autenticità) devono pervenire, in unica copia, per posta ordinaria o per piego di libri (non si accettano e, quindi, non si ritirano raccomandate) a: Pomezia-Notizie - via Fratelli Bandiera 6 00071 Pomezia (RM), oppure - ed è il mezzo migliore, che consigliamo - tramite e-mail a: defelice.d@tiscali.it entro e non oltre il 31 maggio 2020. Le opere straniere e quelle in vernacolo devono essere accompagnate da una traduzione in lingua italiana. Nessuna tassa di lettura. Essendo Premio Editoriale, non è prevista cerimonia di premiazione e l’operato della Commissione di Lettura di Pomezia-Notizie è insindacabile. I Premi consistono nella sola pubblicazione dei lavori. All’unico vincitore della Sezione Raccolta di poesie verranno consegnate 20 copie del Quaderno Letterario Il Croco sul quale sarà pubblicata gratuitamente la sua opera - lo stesso Quaderno verrà allegato al mensile Pomezia-Notizie (presumibilmente a un numero tra agosto e ottobre 2020) e sui numeri successivi saranno ospitate le eventuali note

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critiche e le recensioni. Ai primi, ai secondi e ai terzi classificati delle sezioni Poesia singola, Racconto (o novella, o fiaba) e Saggio critico, sarà inviata gratuitamente copia del mensile - o del Quaderno Letterario Il Croco - che conterrà il loro lavoro. Pomezia-Notizie, comunque, può sempre essere letta, sfogliata eccetera su: http://issuu.com/domenicoww/docs/ (il cartaceo è, in genere, riservato agli abbonati e ai collaboratori). Per ogni sezione, qualora i lavori risultassero scadenti, la Commissione di Lettura può decidere la non assegnazione del premio. La mancata osservazione, anche parziale, del presente regolamento comporta l’ automatica esclusione. Domenico Defelice Organizzatore del Premio e direttore di Pomezia-Notizie

IL CROCO i Quaderni Letterari di POMEZIA-NOTIZIE il mezzo più semplice ed economico per divulgare le vostre opere. PRENOTATELO! Ultimi numeri pubblicati: ELISABETTA DI IACONI - Camminerò Presentazione di Domenico Defelice, illustrazioni di copertina di Ernesto Ciriello. MANUELA MAZZOLA - Sensazioni di una fanciulla - Illustrazione di copertina della stessa Autrice; Presentazione e traduzione in tedesco a fianco di Marina Caracciolo; Postfazione di Domenico Defelice. VITTORIO “NINO” MARTIN - Sorsate ristoratrici - Illustrazioni di copertina e all’interno dello stesso Autore; Presentazione di Domenico Defelice.


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“UNA VERA ARTE” - 1 -

DEDICHE a cura di Domenico Defelice

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ATTEO Collura, sul quotidiano Il Messaggero di Roma, del 1° marzo 2020, nella rubrichetta “Al volo”, ricorda che “Un amico del poeta Giacomo Noventa (1898 - 1960) nel 1987 pubblicò un volumetto-strenna a cura di Vanni Scheiwiller, che raccoglie le dediche scritte da Noventa per alcuni suoi libri”. “Le dediche degli scrittori una vera arte”, intitola Collura la sua divertente e ghiotta nota. Nel corso degli anni, di dediche ne abbiamo scritte poche e ne abbiamo ricevute molte. Di quelle da noi scritte, non possediamo traccia, mentre, di quelle ricevute, possiamo testimoniare, almeno in parte, attraverso i volumi presenti nella nostra biblioteca. Diciamo “in parte”, perché, su richiesta, abbiamo fatto molte donazioni a biblioteche pubbliche, donando loro migliaia di volumi, oltre a materiale documentario, tra cui migliaia di lettere. La nota di Mattero Collura ci ha suggerito questa rubrichetta, che da questo numero apparirà sulle pagine di Pomezia-Notizie, attraverso la quale faremo conoscere ai nostri lettori molte dediche, a partire dai volumi in nostro possesso e - chiediamo scusa per l’immodestia - da quelle a noi dedicate. Le presentiamo alla rinfusa, senza ordine alcuno, né di tempo, né di autore, ma così, co-

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me ci vengono, sotto occhio e sotto mano, rovistando nei nostri scaffali. Infine, abbia o meno un valore, la rubrica ha senz’altro il pregio di ricordare Autori e libri. Perciò, invitiamo lettori e collaboratori a inviarci le dediche, indicando con chiarezza, però, nome e cognome degli autori, titoli dei libri sui quali sono state vergate, casa editrice e anno di pubblicazione. *** “A Domenico De Felice,/il cui demone poetico non/impazza né traligna/ Francesco Pedrina/Padova, 21 giugno 1968” (sul suo volume Giuseppe Gerini, Casa Editrice Trevisini, 1964). *** “All’egregio/Prof. Francesco Persiani,/con simpatia e cordialità/G. R. Zitarosa” (sul volume di Gerardo Raffaele Zitarosa Fiori e fioretti…, Società Edizioni “Aspetti Letterari”, 1934). *** “A Domenico De Felice/Elena Bono/1 agosto 2007” (sul suo volume Poesie Opera omnia, Le Mani, 2007). *** “A Domenico Defelice/fratello maggiore nella/fede e nella poesia/Un abbraccio col cuore/Giovanni Dino/Villabate 08/04/2013” (volume Nuovi Salmi, a cura di Giacomo Ribaudo - Giovanni Dino, I Quaderni del CNTN 28, 2012). *** “Torino, 20.11.011/Al Direttore - Scrittore,/poeta Domenico Defelice/con la stima di/sempre e ammira/zione per la Sua/attività culturale./LSelvaggi” (Quaderno di Leonardo Selvaggi: Pantaleo Mastrodonato nella vita e nell’arte profilo critico di scrittore e poeta, Symposiacus, 2011). *** “A mon confrère littéraire/Domenico Defelice con tanto affetto,/Nadia CP/le 19.11.2012” (su Nadia-Cella Pop: Naufragii Amânate/Naufrages ajournés/Shipwrecks delayed, Editura Eurocarpatica, 2010). *** “A Domenico/con amicizia/ed affetto/


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da/Pasquale” Volume: Pasquale Calabrò (da Motta San Giovanni) “P’a me’ terra… e u’ me’ paisi”, Arti Grafiche Iiriti, Reggio Calabria, 2010). *** “17 Marzo 2014/a Domenico,/questo umile/volumetto che/conclude un/percorso,/in attesa del/prossimo/importante/passo!/”Materia grezza”/un caloroso/abbraccio/con affetto e/ stima./Aurora” (Volume di Aurora De Luca: Primizie, Leonida Edizioni, 2014). *** “A Domenico Defelice/con affetto/Serena Careddu” (suo volume: Viaggio verso la verità, Il Convivio, 2009). *** “Questa sfida/gioco, sfida/lavoro,/con affettuosa cordialità, affido/alla sapiente sensibilità di/Domenico Defelice. Con i più/vivi auguri per la sua bella at=/tività e per la sua Vita!/Elena Milesi/Bergamo, 27 maggio 2014” (suo Il quaderno della sfida, Corponove, 2014). *** “Fresco di stampa!/A Domenico Defelice,/ con ammirazione per il suo/lavoro “di resistenza!” con/amicizia e tanti auguri di/ soddisfazioni meritate/Elena Milesi/(…GRAZIE per la presentazione/ su un prossimo numero di Pomezia-Notizie)” (suo volume: Come dicono a Parigi “C’est la Vie!”, Corponove, 2010). *** “a Domenico Defelice/con affetto e…/ preghiera di recensione/M S Lenisa” (volume di Maria Grazia Lenisa: L’ilarità di Apollo, Bastogi di A. Manulali, 1983). *** “Sorrento, 7.7.2009/Al carissimo e stimato/prof. Domenico Defelice,/con la certezza che la/Sua penna saprà riscrivere/le pagine più toccanti del/cuore del grande Delcroix./In segno d’amicizia./Maria Teresa Epifani Furno./(Volume tratto dalla biblioteca di famiglia).” (Sul volume di Carlo Delcroix: Guerra di popolo, seconda edizione, Vallecchi Editore, 1923). ***

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“All’amico Poeta, Scrittore,/Critico e Giornalista/DOMENICO DEFELICE,/con vivo affetto/e profonda stima./Luigi De Rosa/ Rapallo (Genova), novembre 2013.” (suo volume: Fuga del tempo, Genesi Editrice, 2013). *** “Carissimo Domenico!/Questo piccolo fiorello/narrativo mi ha/davvero affascinato./Te lo invio sperando/che la Posta faccia/giudizio!... Poi x e-/mail ti mando anche/la “recensione” - Con/caro abbraccio da/Marina/Torino, 24.1.2012” (Marina Caracciolo sul volume di Kerstin Ekman: Il piccolo cane, Cairo, 2011). *** “Al carissimo/Domenico Defelice,/amico da una vita,/con un forte/abbraccio./Gianni Rescigno/S. Maria di Castellabate/26 - 2 - 2010” (suo volume: Anime fuggenti, Genesi Editrice, 2010). *** “Con gli auguri/di Buon Anno 2013/ all’ Amico Carissimo/Domenico Defelice -/ Gianni Rescigno/S. Maria di Castellabate/28 - 12 - 2012” (suo volume: Nessuno può restare, Genesi Editrice, 2013). *** “Con immutato/affetto al grande/Amico Domenico Defelice/Gianni Rescigno/5 - 1 2001” (suo volume: Cielo alla finestra, Genesi Editrice, 2011). *** “Con tantissimo/affetto fraterno/all’Amico Domenico Defelice -/Gianni Rescigno/S. Maria di Castellabate/21 - 3 - 2014/Ti prego caldamente/d’onorarmi di una tua/recensione - Grazie.” (suo volume: Un sogno che sosta, Genesi Editrice, 2014). *** “All’Amico Carissimo/Domenico Defelice/ sempre grato -/Gianni Rescigno/S. Maria di Castellabate/(SA)/20 - 2 - 2013” (suo volume: Sulla bocca del vento, Il Convivio, 2013). Invitiamo lettori e collaboratori a inviarci le dediche, indicando con chiarezza, però, nome e cognome degli autori, titoli dei libri sui quali sono state vergate, casa editrice e anno di pubblicazione. Grazie!


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Recensioni RAFFAELE URRARO IL LATO OSCURO DELLE COSE (RP libri, Benevento, 2019, € 12,00) Da sempre i poeti hanno cercato di guardare al di là delle apparenze, per cogliere il senso profondo della realtà, che ai più non è dato vedere. Non è da meravigliarsi dunque che Raffaele Urraro abbia intitolato la sua nuova raccolta di versi Il lato oscuro delle cose, a significare quale è stato il percorso della sua ricerca poetica degli ultimi anni. È infatti la sua una poesia assorta e meditativa, volta ad indagare il significato del mondo, che si accende di stupore per ciò che scopre dischiudersi al suo sguardo, come una stella che appare nella vastità del cielo; il che avviene in L’immaginazione che conforta: “A mezzanotte in punto / una stella si accosta lentamente / alla luna…” o in Il cane fermo nel cortile, dove un cane che “si alza e se ne va / chiuso nel suo silenzio / portandosi con sé / il segreto dei suoi pensieri”, fa nascere nel poeta nuove meditazioni. Stupisce Urraro anche il silenzio che talora lo avvolge, dato che egli scrive in una di queste poesie, intitolata Abitare il silenzio: “Abitare il silenzio / e ascoltare soltanto i rumori delle stelle / e la cosmica armonia / che c’intride di sé”; così come lo stupisce “un punto nero sulla pagina bianca” che emerge dalla poesia Un punto nero o “l’onda che si alza e se ne va / per le immense praterie del mare / senza neanche sapere / se ti ha lambito la mano” (L’onda del mare). Emblematica di questo libro è una poesia come La sfida del tempo, nella quale “I granelli della

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clessidra” che “pigiando si affollano all’uscita” suscitano nell’autore profondi pensieri sul significato del nostro vivere, sospeso tra il prima ed il poi, e sullo scorrere del tempo, l’“irreparabile tempus” oraziano, che tutto travolge. Certo, l’affacciarsi al nostro sguardo delle apparenze costituisce un mistero, così come costituisce un mistero il loro sparire dal nostro orizzonte, come quello della “falena che sembra morta / mentre culla nel cuore / il seme delle sue speranze” (Dorme la falena e sembra morta). Noi non sappiamo perché sul nostro capo ruotino gli astri, inseguendo una meta che si perde nell’infinito; né sappiamo perché nascano in noi “i mostri dell’anima” (I mostri dell’anima) né perché sorga in noi la poesia (Da dove arriva la poesia?). E invero il sorgere della parola poetica, che trema tra il Tutto e il Nulla, costituisce un grande miracolo, riuscendo ad esprimere i più segreti sentimenti che s’affacciano al nostro animo. Tutto ciò Urraro lo dice in versi limpidi e intensi, che gli sono suggeriti dalle apparenze, come una nuvola che naviga silenziosa nel cielo, un’ombra che passa o i rintocchi di una campana, che suscita in lui il pensiero della morte: “Quando per me i rintocchi / scandiranno il sopraggiungere dell’ora / mi troverò confuso e smarrito” (Un tom-tom metafisico). Sono in fondo gli eterni pensieri dell’uomo, il quale ignora il senso della sua avventura sul mondo, così come ignora “il lato oscuro delle cose”, che soltanto al poeta è dato indagare e magari in parte cogliere perché, come dice il filosofo, ciò che scopre lo scopre non con la ragione, ma con l’intuizione e con il sentimento. Noi “abitiamo per anni / nella casa della nostra esistenza” senza penetrare “delle cose / il seme più interno / e inesplorabile” scrive Urraro nella poesia Chi lo sa? che chiude il suo libro. È questo il limite dell’uomo: quello di non sapere ed è pure il suo destino. Raffaele Urraro ha meditato a lungo su tutto ciò e ne ha tratto la materia per questo suo nuovo libro, che ora ci presenta, quale frutto delle sue fatiche e dei suoi pensieri. E si tratta di pensieri da lui tradotti in pagine di schietta poesia. Elio Andriuoli

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ISABELLA MICHELA AFFINITO LUOGHI PERSONALI E IMPERSONALI Poesie, Nota dell’Autrice, Prefazione di Carmine Iossa, Introduzione di Silvio Giudice Crisafi - Brignoli Edizioni, 2018 - Pagg. 128, € 18,00. La produzione letteraria di Isabella Michela Affinito non conosce sosta, è inarrestabile, tale da suscitare stupore; come suscita meraviglia la freschezza delle immagini e la scioltezza del dettato, presenti in ogni suo lavoro; diciamo che, al contrario di come avviene nella generalità degli autori, nei quali, all’abbondanza dei versi e delle prose si contrappone un calo di tensione e una non brillantezza di stile, nell’Affinito ciò non si verifica e i suoi scritti continuano a mantenere un dettato fluido e cantante, un contenuto ricco, qualunque sia il tema trattato, reale o dello spirito, generico, intimistico, filosofico, paesaggistico, o, addirittura, quando lei della poesia si serve per fare critica artistica. Non si discosta dagli altri questo suo ennesimo lavoro, Luoghi Personali e Impersonali, nel quale non mancano tocchi inerenti il suo mondo; accenni mitologici; richiami ai suoi pittori dell’anima: “…il rosso di Matisse,/non il rosa di Picasso,/le trasparenze di Monet,/non i corvi neri/di Van Gogh, non i toni acuti/di Munch, ma le sfumature/fra il chiaro e lo scuro/di un mondo a tempera che si perde/nella verità dell’acqua”. Siamo in presenza di tanti paesaggi reali e sognati, di fughe e ritorni nella realtà (“Se io fossi un quadro”); di immagini pittoriche che ben descrivono fenomeni della natura, come “gli accesi volteggianti/avidi del fuoco” tramonti. Canto corale, il suo, che “Non possiede toponomastica,/che non ha insegne” e che riesce, tuttavia, ad esaltare ogni cosa, d’ogni soggetto a toccare le corde più intime. Riportiamo per intero “Dea Italia”, che, in 28 versi, con appena quattro soste del punto fermo, la poetessa descrive, volando dal mito alla realtà, tutta intera la nostra splendida penisola: “Stile antico del tempo di Enea, con gli occhi verdi come il saluto del Tevere, avvolta nel manto cobalto dall’Adriatico al Tirreno, ogni giorno il sole ancor ti benedice. Leggevi Giovanni Pascoli e ti sentivi Beatrice nel Gran Paradiso delle Alpi Graie; ti nascondevi sulle alture degli Appennini

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e nella baia dai pini marittimi ti ornavi di corallo dal rosso al rosa fino agli scavi di Pompei. Rimproverasti Scilla e Cariddi per far passare Ulisse e la sua nave, desti ai Romani la gloria eterna, a Venezia la leggerezza del cristallo, ad Urbino la natività di Raffaello. Sei la penisola più bella e gli altri dèi lo sanno, tutto di te è un’opera d’arte.” Il libro è impreziosito da numerose foto in bianco e nero, quattordici delle quali rappresentano la stessa Autrice, all’Isola d’Ischia, nella bellezza e nella contemplazione della natura, nelle varie stagioni, sempre sola, comunque, o meglio: sempre e solo accompagnata dalla sua Musa, dalla sua Poesia. Domenico Defelice

ANTONIA IZZI RUFO VOLO A RITROSO In copertina, foto in bianco e nero: “Rita, Antonia e Galdino con la nonna Antonia” - Edizioni Carta e Penna, 2020 - Pagg. 48, s. i. p.. Se, questo volo nel passato, Antonia Izzi Rufo l’avesse presentato in prosa anziché in veri, non avrebbe certamente scemato il suo fascino. Il racconto è di bozzetti, per lo più assai brevi, senza enfasi e voli pindarici; un dettato fluido e limpido; è come il narrare di una nonna ai più piccoli per far loro apprendere come si svolgesse la vita quando lei era bambina, nel contempo rapportandola a quella del nostro tempo; oggi, l’agiatezza ce la rende più piacevole e bella e le macchine e la tecnologia ci esentano quasi del tutto da lavori manuali e pesanti. Le case di una volta - tranne quelle sontuose e immense di principi, marchesi, baroni ed altri personaggi altolocati - erano piccolissime, prive di acqua corrente, di servizi igienici (per i bisogni corporali si andava nelle stalle o nei campi) e di riscaldamenti; per i bambini non c’erano montagne di giocattoli, si usavano le cose più semplici e anche un mucchietto di bottoni poteva servire a divertirsi e a imparare; si utilizzava l’acqua piovana, opportunamente raccolta, per tutte le esigenze, tranne che per bere; l’immondizia la “Si buttava (…) per terra/(e le galline facevano razzia)”; il bagno lo si faceva di rado e in tinozze o al fiume; non c’erano le automobili, ma gli animali da soma, come gli asini;


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l’igiene era quasi inesistente e si sputava e si espettorava per terra e poi “si strofinava sullo sputo,/(…)/con un piede, una scarpa”; dominavano le mosche e, allorché, per esempio, si preparava la conserva (ma non solo), qualcuno veniva incaricato di scacciarle; le relazioni tra fidanzati non erano libere, era vietato persino toccarsi, pertanto, c’era sempre con loro una persona che li sorvegliava; gli insegnanti erano severi (si bacchettava sulle mani) e lo erano pure i genitori, che agli insegnanti dicevano di picchiare i bambini s’era necessario, perché un proverbio recitava “mazzate e panelli fanno i figli belli”; si partoriva in casa servendosi della “mammara”; il medico andava su e giù, a piedi (e, quindi, a volte arrivando in ritardo dall’ammalato), per case e paesi e campagne allorché veniva richiesto; le feste erano assai sobrie, comprese quelle del matrimonio, e consistevano, per lo più, in pochi biscotti, pochi confetti e magari tanto vino (per chi lo beveva, non certo per donne e bambini), così, al termine, “Erano quasi tutti ubriachi”. C’era, però, più rispetto e più collaborazione tra singoli e tra gruppi, come le famiglie. Questo e tant’altro ancora ci racconta con delicatezza e semplicità Antonia Izzi Rufo nel suo Volo a ritroso; un gioiellino, uno scrigno di usi e costumi di un tempo non molto remoto. L’autrice dimostra di amarlo quel passato, ma onestamente riconosce e ama il progresso che ha fatto e fa passi da gigante e che, in pratica, quegli usi e quei costumi ha del tutto cancellato. Oggi - afferma l’autrice - si vive assai meglio e di questo progresso bisogna andare orgogliosi. Domenico Defelice

MANUELA MAZZOLA SENSAZIONI DI UNA FANCIULLA Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2019 Edita per il Croco, supplemento storico della rivista Pomezia-Notizie del dicembre 2019, una fresca seppure breve silloge della poetessa Manuela Mazzola di Roma. La raccolta è curata da Marina Caracciolo, che ne ha fatto a fronte anche la traduzione in lingua tedesca. Conserva, infine, una chiara e breve nota finale di Domenico Defelice. Sono raccolte in questo testo dodici liriche giovanili della Mazzola, che presentano già un forte carattere alla riflessione della poetessa, nonostante la giovane età. Si riportano scritti di una quattordicenne che capta e riporta le sensazioni, che solitamente a quella età possono dare, per esempio, il calare della notte

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con i suoi silenzi e le connaturali paure adolescenziali. La notte scende,/copre il mondo con una coltre nera. E si rincuora, da fanciulla quale è ancora, aspettando il giorno/ per sentire i giochi e le grida dei bambini. Le liriche sono brevi: di otto, dieci versi che connotano la sintesi propria dell’età adolescenziale. In questo periodo della vita si tende a essere fulminanti, scarni di parole, a comunicare poco verbalmente soprattutto. Fatto questo dovuto, come acutamente osserva il Defelice, alle sensazioni che, nella prima età e soprattutto nell’adolescenza, sono forti e lasciano segni indelebili. Ecco, per esempio, che le gocce di vapore condensato sui vetri, lasciano il posto a metaforiche lacrime per sopraggiunta ineludibile voglia d’amore, di cui il cuore è già gonfio. Per cui la curiosità di capire il fenomeno fisico operato dal vapore acqueo diventa niente, si annulla rispetto all’altra più grande sensazione, che la conduce in un’altra dimensione. In questa nuova dimensione non vede altro che solo due stelle: lei e l’amore. E nonostante comincia a possedere una cosa grande come l’amore, si sente piccola cosa nel mondo.


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Formica si, ma testarda pronta a continuare il percorso che è appena iniziato. Cresce di età, la ragazzina maneggia il verso con denti stretti/ e i pugni serrati. Esiste in lei una consapevolezza di come va il mondo, ma sa anche che il suo sarà un impegno costante affinché la sua vita non sia vuota, inutile; piena e sicuramente non scevra di obbiettivi da raggiungere. La silloge procede raccogliendo le varie tappe della giovane Mazzola, che da adolescente raggiunge, con il conforto della poesia, la maggiore età. Nei dodici testi, poiché tali sono come già detto i componimenti della raccolta, con una titolazione di per sé già emblematica: “Sensazioni di una fanciulla”, vi è in breve tutto il racconto del suo affacciarsi alle cose del mondo. E le cose del mondo che scopre gli sembrano già vecchie, come se fossi- dice- un albero/vecchio di cent’anni. Come se la sua alba alla vita fosse già carica di niente. Questa sensazione, se pur tra la folla, la fa sentire sola. E non sono solo i normali languori adolescenziali. Vi è urlo alla solitudine di chi combatte le storture del mondo senza armi: In der Leere aufgehängt, come traduce la Caracciolo. Fortunatamente si cresce e si matura con le esperienze di qualsiasi tipo esse siano. La vita, crescendo poi, si accende di colori e si capisce che anche il bianco e il nero hanno le loro sfumature, e che l’universo in fondo è soffice ed armonioso,/ flessibile ai venti(della vita). Il processo di maturazione la sta cambiando per cui: Oggi non grido più/ ma sibilo appena. Ecco su quest’ultimo punto diciamo a Manuela, ora per allora, una cosa che sicuramente la crescita fisica e culturale poi le hanno insegnato. La vita, vogliamo dirle, indipendentemente dal nostro approcciarsi, contiene e conterrà sempre dicotomie indigeribili, per cui non bisogna sibilare. È necessario che si gridi, specialmente quando queste grida servono per rendere migliore la nostra e l’altrui presenza sulla terra. Ci sono altri due fattori che cogliamo nella silloge e che entrano di prepotenza nella maturazione di questa giovane, che poi diverrà donna, madre, professionista: poetessa. Sono il canto della perdita, con la maggiore età, di due simboli essenziali e fondamentali che travagliano in modo particolare la sensibilità delle donne: il riferimento paterno e il dire addio all’ ingenuità della fanciullezza, della verginità, del candore. Preziose cose che scompaiono con le aperture al mondo, che finalmente ci sembra nostro.

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Quella notte la rosa è caduta, dice: quindi sa che la rosa “auelentissima”, sebbene custodita sotto la campana di vetro dei suoi sogni di adolescente, verrà profanata, perderà i suoi turgidi petali. Essi saranno rossi di quel sangue che servirà, nella fecondità, alla continuità della specie sulla terra. Tutta questa consapevolezza basta? Anche se si chiudono gli occhi e si immagina un mondo pieno di profumi e di fiori? Certamente non basta. Come non basta più avere i pensieri colmi di amore paterno. Si aprono stagioni in cui c’è bisogno di altre braccia che ci stringono, del calore di baci impastati di un altro sapore. Si è bambini per poco, diceva mia madre: poi però la cosa più bella è il ricordo indelebile di chi ci ha amati, e di chi abbiamo amato. Preziosi sempre i versi adolescenziali. Possiedono qualcosa di genuino che da grandi si perde. Significativa anche la trasposizione della Caracciolo in lingua tedesca, che certamente farà apprezzare la musicalità del verso maggiormente a coloro che conoscono la lingua. Salvatore D’Ambrosio

DOMENICO DEFELICE LE PAROLE A COMPRENDERE Genesi Editrice, 2019, pagg. 150, € 14,50, ISBN 78- 8874-147069 Considero questo libro come una pietra miliare della produzione letteraria di Domenico Defelice. La figura presente in copertina “Torre di Babele nel duomo di Milano” rappresenta il caos in cui è caduta attualmente l’umanità. In Genesi (11 – 9) si legge: “alla quale fu dato il nome di Babele, perché ivi il Signore aveva confuso il linguaggio di tutta la terra e di là li aveva dispersi per tutta la terra”. Ora l’uomo, come ai tempi successivi al Diluvio Universale, è diventato egoista e superbo e vorrebbe sapere tutto tramite il web e parlare una sola lingua, quella della globalizzazione, arrivando così al caos mediatico (fake news e quant’altro!). Quest’ultima considerazione dà significato anche al titolo del libro e di una poesia (presente in quarta copertina): “Le parole a comprendere”. In questa poesia si legge, fra l’altro: “Singolarmente o in prosa/ sempre inadeguate sono/ le parole a comprendere/ il senso della vita e delle cose”. Anche Papa Francesco nella giornata della Comunicazione del 24 gennaio 2020 ha detto: “sulla confusione di voci e dei messaggi che ci circondano, abbiamo bisogno di una storia umana che abbia uno sguardo di tenerezza…”. In questa


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frase del Papa sta il significato di questo libro “Le parole a comprendere”. E’ tutto in versi, composto da quattro Parti con poesie di pregevole fattura. Il libro è presentato da Sandro Gros-Pietro, e in Postfazione da Emerico Giachery. Nella copertina interna è presente un elenco completo della vastissima produzione letteraria di Domenico Defelice. Si spazia dai ricordi malinconici e romantici di tempi passati dalla fanciullezza all’età adulta, alla satira politica (mi fa ricordare le mie letture che avevo fatto in gioventù di Giovanni Gioacchino Belli). Bellissima e molto sostanziosa la prima Parte “LE PAROLE A COMPRENDERE”, con temi che vanno da riflessioni e considerazioni sulle varie fasi della vita di Domenico - e soprattutto di quella attuale: vengono ricordati i suoi genitori, la madre in Dormi serena (“Dormi serena,/ placata finalmente./ Finalmente al passato,/ansie, dolori, pene, urli/ che improvvisi laceravano il cuore.) ed il padre in Morte da saggio (Respirò forte. “Perdonatemi!”/ E stese le labbra ad un sorriso/ per darci coraggio./ Invocò la Madonna/ ed il volto gli si colorò d’infanzia.). In questi versi traspare anche la profonda religiosità di Defelice con il raggiungimento della vita eterna dopo il trapasso! Si veda a pag. 75 la poesia “Presto dovrò salire al cielo”: Presto dovrò salire al cielo/ Attacca, allora, o Dio, le ali/ ai miei talloni stanchi/ e della terra che con me trasporto/ fanne nobile strame/ pei tuoi celesti e sterminati campi. Il poeta non teme la morte, ma spera di poter vivere abbastanza ancora per poter vedere nascere i suoi nipotini: “L’augurio è che il buon Dio nei suoi giardini/ or non mi chiami subito,/ prima ch’io veda almen le vostre case/ tutte fiorite d’occhi di bambini.” (dalla poesia Sempre ho avuto un sogno a pag. 48). Con occhio di poeta dimostra sensibilità verso la povera bambina, lasciata sotto il sole in macchina a morire mentre il padre andava a lavorare all’ Università: “l’ansia capitalista che ci stritola…fragili insetti impazziti/ nel vortice capitalista/…”, sensibilità verso la natura tutta (“Sei tu, lo sento./ Sei tu che mi saluti./ Sei tu quel pettirosso/ che la sua danza esegue/ sopra il pruno deserto.”) - (pag. 49, poesia dedicata al suo amico morto Geppo Tedeschi), dolore verso la dissacrazione dei simboli religiosi (“Con mazze pesanti selvaggiamente/ devastato hanno il Tuo Corpo/ Cristo affranto, tribolato, vessato”). Il poeta nella sua sensibilità prova anche un senso di colpa per non essere stato capace lui stesso di impedire tale scempio: “Perdonaci. Signore, perdonali” (pag.33). E a pag. 34 nella poesia Quei tuoi occhi fissare pietosi viene descritta la distruzione della statua della Madonna di Lourdes.

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Fatti avvenuti Sabato 15 ottobre 2011, nella Chiesa dei Santi Marcellino e Pietro di Roma: un crocifisso e la statua della madonna di Lourdes sono stati devastati a colpi di mazza da alcuni violenti black bloc. Nella poesia: “Sempre una ne ho amato” (pag. 36) l’Autore dimostra che, nonostante le lusinghe della vita terrena, ha mantenuto salda l’unità familiare contrariamente al caos dell’attuale modernità che privilegia addirittura le famiglie allargate o unioni fra persone dello stesso sesso!! Non potevano mancare i riferimenti a quell’entità misteriosa e preziosa per noi mortali che è il Tempo: in “Il calendario esatto” (pag. 41) si cita che “Il tempo per l’uomo è molto labile/ Iddio soltanto ha il calendario esatto.”; in “Come la terra” (pag. 43) si cita che “Tu sei padrone del Tempo/ - dice Papa Francesco -,/ noi del momento.” Papa Francesco lo dice riferito a Dio. Gli anglofoni dicono che “Time is money”, Il tempo è denaro; Einstein ne ha fatta una teoria, quella della relatività; il tempo è inafferrabile, il presente sfugge ed il tempo passato non torna più indietro! A pag. 78 Domenico, nella sua poesia Oggi è festa grande, esprime la sua gioia per il matrimonio di Luca Defelice con Annachiara Pedicino: “Oggi, nella mia casa, è festa grande./ Versiamo dalle ampolle, nei bicchieri,/ vini generosi e forti/ che imprigionano il sole…..” Mi piace ricordare questa considerazione, riportata nella poesia Tutto nelle tue mani (pag. 70) in cui Defelice osserva il ruolo decisionale della donna nella procreazione “Niente più figli./ non più famiglie vive e numerose./ Mai ha deciso il maschio./ La donna è stata a popolare il mondo/ ed è lei che lo muta e lo distrugge;/ …/ Tu che fosti in quel lontano dì fatale/ a dare all’intontito Adamo il frutto.” Altra poesia che mi ha colpito è quella di pag. 62 Veliero fiorito, in cui Domenico sogna, mentre sta sul suo balcone, (Con gli occhi chiusi all’orizzonte/ posso fingermi spiagge dorate e palme…. Mi ricordano i sogni di Emilio Salgari mentre descriveva l’habitat asiatico di Sandokan e Tremal Naik! Domenico non dimentica di ricordare nelle sue poesie validi personaggi della cultura che ha conosciuto personalmente e con cui ha collaborato sempre cordialmente, fra i quali Peter Russell e Geppo Tedeschi. La seconda Parte: “RIDERE (PER NON PIANGERE)” è una satira politica che spazia dai tempi del Governo Berlusconi del 2008 fino alle dimissioni di Renzi (4 dicembre 2016). Per certi versi somiglia al poeta Belli: anche se quest’ ultimo ha vissuto durante il Papato, i tempi non sono cambiati, cambiano solo i suonatori cioè i go-


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vernanti! Belli diceva in un suo Sonetto del 5 aprile 1836 “Le GABBELLE”: Ah, ddunque, perché nnoi nun negozziamo/ e nnun avémo manco un vaso ar zole,/ lei vorebbe cunchiude in dù parole/ che le gabbelle noi nu le pagamo?/ Le pagamo sur pane che mmaggnamo,/ sur panno de le nostre camisciole,/ sur vino che bbevémo, sur le sole/ de le scarpe, e sull’ojjo che llogramo./ Le pagamo, per dio, su la piggione,/ sur letto da sdrajacce, e su li stijji/ che ssérveno a la nostra professione./ Le pagamo (e sta vergna è la ppiù ddura)/ pe ppijjà mmojje e bbattezzà li fijji/ e pper èsse bbuttati in zepportura. Traduzione: Ah, dunque, perché noi non facciamo contratti e non abbiamo neanche un vaso al sole, lei vorrebbe concludere in due parole che le gabelle noi non le paghiamo? Le paghiamo sul pane che mangiamo, sul panno delle nostre camicie, sul vino che beviamo, sulle suole delle scarpe e sull’olio che consumiamo, Le paghiamo, per Dio, sulla pigione, sul letto sul quale ci sdraiamo, e sugli stigli (mobili e arredi) che servino alla nostra professione. Le paghiamo (e questa lettura è la più dura) per prendere moglie e per essere gettati in sepoltura. Questa del Belli la paragono alla poesia a pag. 102 di Defelice “La manovra”: La manovra è troppo dura?/ La batosta è dolorosa?/ Il tuo reddito è meschino?/ La gran fame ti tormenta?/ Lascia perdere la lagna,/ corri tosto in Parlamento./ Lì è tutta una cuccagna./ Con una spesa assai modesta,/lì si beve e lì “se magna!”/ Riso all’inglese; pasta al pomodoro/ e al naturale; Penne all’ arrabbiata;/ Spaghetti con le alici; Minestrone;/ Minestra ancor di pasta e di patate;/ una birra; Zuppetta di verdure…/ ordinarli se vuoi potrai a millanta,/ costando solo un euro e sessanta!/ Di pollo il petto? Di manzo una bistecca?/ I ristoranti dei parlamentari/ felici te li servono di botto/ al costo veramente eccezionale:/ solo due euro appena e sessantotto! E il Belli si può ricordare anche in quest’altra poesia di pag. 101 “La batosta della CIR”: Ed in mezzo allo sfacelo/ il politico? Fa festa!/ Privilegi, emolumenti,/ sprechi, inutili poltrone,/ consulenze, auto blu…/ Tutto quanto come prima./ Anzi, no, sempre di più! Defelice fa la satira di tutti i politici da Rosy Bindi a Berlusconi, da D’Alema a Bertinotti, da Fini a il Casin(ar)o e via dicendo. Di Fini (poesia a pag. 94 “Ballata della moralità”: Fini presidente,/ terza carica dello Stato,/ per libidine del potere/ il Governo ha frantumato.) devo dire a suo favore che se si è scontrato con Berlusconi (“E che fai mi cacci?”) era perché contrario ad appoggiare alcune delle leggi che avrebbero favorito Berlusconi stesso nei

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suoi imbrogli. La terza Parte: “EPIGRAMMI” è costituita da 7 brevi poesie per colpire alcuni vizi capitali e difetti dell’uomo: il meretricio, la superbia (Ad un borioso – pag. 118; Il Presidente – pag. 115), l’ipocrisia nel volontariato (Enza bene fic – pag. 117: “Era la santità fatta persona,/ gli occhioni bassi, una bella tardona./ …/ Fondi cercava con tre giovanotti/ per i poveri bimbi del Burundi/ e trascorreva i giorni – e pur le… notti!”). La quarta Parte: “RECENSIONI” è costituita da 8 poesie. Sono rimasto colpito dalla poesia di pag. 123 Marionetteemiti in cui Defelice prendendo spunto dai divertenti versi di Lilianaugolini: “Par olé parole,/ in vece paro le/ orlape lorape praole,/ praleo prolae praole,/ orapel plaroe che così/ disfatte e fatte,/ ne divengan rappe di chine”. fa successivamente un esercizio di scioglilingua, costituito da anagrammi della parola ciabatta! Rimasto colpito perché mi ha fatto ricordare mia madre, che era maestra negli anagrammi! A parer mio, considero questo libro di notevole spessore culturale e secondo me di difficile interpretazione. Forse per capirlo meglio lo dovrei leggere più volte! Giuseppe Giorgioli

ANTONIA IZZI RUFO VOLO A RITROSO Carta e Penna Editore, 2020, Pagg 48 È un “volo a ritroso” nel tempo, quello che compie Antonia Izzi Rufo, come dice il titolo stesso della silloge che comprende quarantuno poesie. È una sorta di diario, nel quale ogni componimento appare come un capitolo della vita dell’autrice. Nelle note la poetessa scrive: “Il progresso ha fatto passi da gigante. Oggi abbiamo tutto, quasi tutto, non ci manca niente, eppure siamo insoddisfatti, vorremmo di più”. Il volo immaginario inizia dalla sua casa, che è vuota e silenziosa, nella quale parte la proiezione di un passato importante mai dimenticato, che l’ha forgiata profondamente. Si rivede bambina svelta, intelligente ed educata al saluto, al rispetto delle persone più grandi; una bambina che giocava tranquilla e serena. Ricorda l’amore materno che è sempre uguale nel tempo, infatti, anche allora le mamme si prodigavano come potevano: “Di sera le mamme,/ perché i loro figli/stessero caldi nel letto,/ mettevano ai loro piedi/ un mattone scaldato/sotto la cenere/ e avvolto in un panno di lana”. La poetessa con uno stile essenziale e sobrio, valorizza un passato che sembra dorato, fatto


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di semplici cose. Quasi si avvertono la fragranza e la bontà dei cibi genuini del tempo. Antonia Izzi Rufo è un’insegnante in pensione, ha pubblicato numerosi volumi di poesie, narrativa e saggi; oggi collabora con tante riviste in veste di critico; ha inoltre vinto moltissimi premi e riconoscimenti. Anche in questa silloge è presente il suo essere educatrice, che ci porta a riscoprire la spontaneità, la naturalezza di una volta e ad apprezzarne anche i valori, compresi i buoni sentimenti. “Seduti davanti al camino,/ si chiacchierava fino a notte fonda./ I vecchi narravano la storia della loro vita,/ gli usi, i costumi dei loro tempi”. Paragonando, però, il passato con il presente, la poetessa ammette che oggi l’istruzione e la cultura sono maggiormente valorizzate ed il bambino è molto più protetto. Emerge l’atmosfera di una realtà passata, accogliente e protettiva, di reciproco aiuto, in cui le relazioni umane stavano al centro di ogni cosa. Pertinente è l’immagine di copertina: una vecchia foto di famiglia, in cui sono presenti la poetessa e la nonna, che permette di intuire immediatamente di che genere sia questo volo a ritroso. Un viaggio sulle ali del ricordo, in un intimo dialogo con un passato semplice, ma alquanto significativo. Manuela Mazzola

CATERINA FELICI NEI GIORNI Longo Editore Ravenna, 2020, Pagg 94, € 12,00 “Continuamente mi sorprende/ la vita” e così sorprende anche la lettura della raccolta composta da quaranta poesie di Caterina Felici. I componimenti trasmettono messaggi propositivi nell’ottica di un futuro che trionfa: Trionfante è la vita tra realtà nitide, velate e nascoste che presentano, però sempre, occasioni da cui imparare. I versi creano nella mente immagini luminose, splendenti e preziose, tra realtà che a volte appaiono velate sui nostri occhi, ma basta togliere il velo per poter apprezzare ciò che realmente si possiede. E’ uno sguardo positivo alla vita che presenta continue occasioni da saper cogliere. Lo stile della poetessa è essenziale, non ridondante, ma carico di pura emotività positiva. Una poesia di una dolcezza e di una femminilità che trasuda dai toccanti versi. Il termine vita ricorre diciassette volte, una vita che rappresenta la sorpresa, la reciprocità continua in cui i rapporti umani sono ponti, con i quali si può vivere una possibile esperienza tra il dare ed il ricevere. “Nei giorni” è una silloge che affascina e che

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propone una maniera semplice di essere, di esistere, ma anche nel senso di resistere “nei giorni”. Versi aperti al mondo, alle relazioni umane senza mai soccombere alle brutalità e al dolore. Caterina Felici è un’insegnante che ha pubblicato numerosi libri di poesie, di narrativa ed ha vinto altrettanti premi. Nella fotografia di copertina “Ravenna, pineta S. Vitale” di Roberto Zaffi, i pini marittimi dal lungo e sottile fusto si protendono in avanti verso il mare, così come la poetessa si protende e si apre al mondo con una delicata sensibilità. E’ presente inoltre l’unione con le bellezze della natura da cui nascono versi sentitamente profondi e malinconici, ma anche capaci di far sentire la serenità appagante di una giornata di sole: “Malinconia, a volte,/ di fronte all’uniforme manto/ della neve/ che nasconde alla vista/ forme e colori” [...] “le chiome lucenti/ dalle foglie bagnate/ che riflettono il sole”. Molti sono i temi affrontati dall’autrice come i rapporti umani sbagliati e violenti, l’ isolamento sociale fino a quello dell’ultima età dell’ uomo. Commoventi i versi: “un vecchio,/ amante del vivere,/ può sentirsi anche giovane/ per le sue radici/ nella vita”. La Felici si definisce stanziale, ma sopraffatta dalle emozioni e grazie alla sua immaginazione e all’ispirazione poetica, comincia a viaggiare abbattendo le barriere e diventando così una nomade del mondo. Manuela Mazzola VITTORIO “NINO” MARTIN SORSATE RISTORATRICI Ed. Il Croco – I quaderni letterari di Pomezia Notizie, 2020 Vittorio Nino Martin è poeta e pittore, un artista che si è avvicinato all’arte e alla scrittura per un bisogno interiore e un’ispirazione naturale. Nella silloge Sorsate ristoratrici troviamo pure alcune sue opere di pregevole segno che accompagnano il dettato. Martin è molto attento alla vita sociale e riesce a rilevare i molti difetti del mondo contemporaneo: “...la girandola contemporanea / deludente atmosfera ineffabile /ai confini della dignità, / sul tremolio delle foglie / amarezza del presente, / sogni e rumori di paura / del distorcente progresso.”. I nostri giorni sono segnati da un sistema elitario, egocentrico ed egoista, che non si preoccupa della povera gente in lotta quotidiana per sopravvivere. Inoltre, vi è un giro malavitoso che alimenta droga, prostituzione e così via. Per


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scaricare il suo malessere, Martin si rifugia nei ricordi, quando il tempo scorreva serenamente e l’ambiente era carico di energia positiva e di umanità: “...la fontana del cortile / col rumore dell’acqua, / confondeva le voci / di chi si scambiava confidenze, / anche le mura sussurravano / la possibile pacifica convivenza...”. Anche il ricordo dell’infanzia è sempre vivo e la madre è stata la figura più importante per la sua crescita . In Scaffale troviamo dei versi pregnanti che denotano il suo coinvolgimento emotivo in un’atmosfera popolare, seguito dalla vicinanza materna: “...la voce di mamma / che associava i vocaboli , / in questo pezzo di terra / dove ho

D. Defelice: Il microfono (1960)

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mosso i primi passi, / nel dialogo della parola / l’identità di trovarsi,...”. Come ha ben sottolineato Domenico Defelice nella prefazione, Martin soffre per la situazione attuale dell’umanità che ha perso tanti valori e creato un individualismo scostante, oltre che un divario sempre più ampio tra ricchi e poveri. Tale tensione lo porta a sfogare il suo sentire con una scrittura urgente che termina solo quando si esaurisce ciò che voleva comunicare. Ed è il suo altruismo, il suo amore per l’umanità, la sua sofferenza, che arricchiscono il significato di questa silloge e donano alle sue opere una dimensione poetica e solitaria. Laura Pierdicchi

COVID 19 - Notizie? Cari Lettori e cari Collaboratori, a pensar bene, oggi non ci sarebbero notizie; anzi, ce ne sarebbe una sola: il maledetto COVID 19. Il mondo intero, non solo l’Italia, sta vivendo un dramma inaspettato, che, una società così avanzata - per esempio, in fatto di tecnologia - non si sarebbe neppure immaginato e che rischia di provocare milioni e milioni di vittime. Si dice che siamo costretti a combattere una vera e propria guerra. Niente di più sbagliato. Una guerra si riconosce, diciamo che si tocca con mano, così ci si può in qualche modo difendere, escogitare strategie, approntare ripari. COVID 19 non si vede e non si tocca; COVID 19 sta in mezzo a noi, ci colpisce a tradimento e ci annienta quando vuole e noi ce ne accorgiamo, a volte, quando ormai è troppo tardi; non possiamo controbattere. Non è guerra una lotta alla cieca. Nell’infanzia, abbiamo conosciuto la violenza della guerra. Siamo stati sotto le bombe e abbiamo rischiato di morirne. Ma la vedevamo - la guerra - e, in certo qual modo, eravamo istruiti a difenderci, come, appena sentivamo l’arrivo di un aereo, correre verso i rifugi o stenderci e rimanere pancia a terra finché il pericolo non si fosse allontanato; così, se la bomba non ci cadeva proprio addosso, più o meno evitavamo le schegge infuocate che la bomba, esplodendo, seminava a raggiera. La guerra stava davanti e intorno a noi e noi la vedevamo e la toccavamo: attraverso i soldati; le rappresaglie, gli attentati, gli eccidi; le razzie (in cam-


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pagna, un plotone di tedeschi ci ha privato di tutto, uccidendo galline e maiale, portandosi via, sghignazzando, ogni bene e ogni vettovaglia caduti sotto i loro occhi e sotto le loro mani grifagne); gli aerei che, all’improvviso, apparivano in frotta da dietro i monti e le colline, mitragliando e scaricando i loro ordigni di morte; i giocattoli per noi bambini, che, appena raccolti, esplodevano, devastando o uccidendo. Si vedeva, la guerra, e la si toccava; contro di essa - ripetiamo - ci si difendeva, s’inventavano astuzie; COVID 19 - ripetiamo - non si vede e non si tocca, è come l’aria che si respira. Allora, COVID 19 è invincibile? No, assolutamente no. Lo vinceremo se la smetteremo di pensare e dire scioccamente che noi stiamo combattendo una guerra. Per annientare COVID 19 occorre, prima d’ogni cosa, correggere noi stessi, modificare il nostro modo di pensare e di vivere, riconoscere che, nel mondo, esseri umani, animali, piante, siamo un tutt’uno e, come tale, dobbiamo comportarci e agire. Occorre abbandonare furberie ed egoismi; occorre combattere e vincere noi stessi, i nostri nichilismi, i nostri parassitismi, i nostri anarchismi e gli altri innumerevoli ismi. La libertà non è assoluta, la libertà è relativa, la libertà finisce dove incomincia la libertà di un altro; perciò, non possiamo continuare a folleggiare come se fossimo gli unici sulla crosta terrestre; se non considereremo l’unicità della vita sulla pianeta terra, COVID 19 non lo vinceremo; continuerà a lavorare nell’incognito, muterà, si trasformerà continuamente, agevolerà l’arrivo di altri nemici uguale a se stesso, o ancora peggiori e per l’uomo nel mondo non ci sarà più scampo. L’abbiamo compresa, o, almeno, ci siamo messi in sintonia di comprendere la lezione? Sembra di no. Continuano le leggerezze nell’affrontare la pandemia da parte di coloro che governo le nazioni. Sbeffeggiare un Paese in difficoltà, pensando che si sia intoccabili o immuni, è da cinici lestofanti; approfittare del virus per fare concorrenza, denigrare i cibi e i prodotti degli altri (lo spot francese contro la nostra pizza ha fatto veramente vomitare, ha superato ogni limite di decenza, volgarità, cattiveria), è da banditi d’infima tacca; un’economia mondiale, impostata solo sulla finanza, creata e mantenuta da un ristretto manipolo di caimani che, nelle sue mani insanguinate, conserva più del novanta per cento della ricchezza globale, è da bestie sataniche, immonde, feroci (con tutto il rispetto per le bestie feroci, che uccidono solo per bisogno). Occorre abbattere questo triste e nefando capitalismo ad esclusiva trazione finanziaria e speculativa, dove tutto è stato snaturato, dove persino le banche - tanto per fare un esempio e visto che abbiamo accennato al dio denaro - non sono più tali ma macchine feroci

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per succhiare i nostri risparmi e metterci sul lastrico. Le banche erano nate per raccogliere ricchezza dando un giusto compenso, un interesse, a chi gliela consegnava in deposito e prestandola, poi, ad altri a un interesse più alto; il loro utile consisteva nella differenza tra i due tassi. Oggi le banche non danno più interesse e divorano il nostro capitale attraverso innumerevoli balzelli; svolgono quasi esclusivamente speculazione finanziaria e attività di vera e propria rapina; se un loro cliente è in difficoltà col mutuo per la casa, non gli danno tregua, gliela pignorano anche per una sola rata non pagata, la fanno mettere all’asta e loro stesse se la comprano a un prezzo irrisorio, rivendendola, poi, a prezzo di mercato. Occorre ripensare tutto. La ricchezza non va sprecata per sciocchezze e cose futili, ma impiegata specialmente nella scienza e nella cultura, per una vera e totale conoscenza dell’uomo, nella sua interezza materiale e spirituale, e per lo studio delle malattie, per prevenirle e per debellarle. Occorre cambiare rotta, in tutto: nella famiglia, tra i popoli, le nazioni; occorre ripensare ogni cosa e partendo da ciascuno di noi. La consapevolezza del dramma che stiamo vivendo non ci sembra ancora da tutti recepita, come non ci sembra ci sia assoluta e unanime volontà di combatterlo. Una Francia, che sberleffa l’Italia, perché è stata tra le prime nazioni a essere invasa dal virus, non è apparsa generosa, lungimirante, tanto meno edificante e ora è costretta a piangere per lo stesso male. Un premier inglese, che, quasi con indifferenza, dica ai propri concittadini di prepararsi a veder morire molti loro familiari; che auspica un virus che infetti almeno il sessanta per cento della popolazione, così da pervenire, nel tempo, a una specie di vaccinazione naturale, ci sembra sia investito di nient’altro se non di lucida follia. Un’Europa solo grettamente burocratica, che pensa a conti e bilanci - e sbagliando, per giunta, quasi tutto! -, che non riesce a darsi una direttiva comune in campo sanitario e contro la terribile pandemia, continuando, invece, a gingillarsi con leggi e leggine ridicole e assurde, come il consumo degli insetti, la lunghezza dei cetrioli dei piselli e delle banane, l’età e la lunghezza delle sardine da pescare e tante altre autentiche ilarità; che si barcamena tra due parlamenti, spendendo e sprecando ricchezze a palate; ci sembra un’inutile istituzione tetragona, ottusa, dannosa, destinata a procurare solo disastri, non a realizzare, finalmente, quell’unione auspicata e voluta dai suoi fondatori. Una ONU, che non riesce a imporsi tra nazioni che di essa fan parte e che continuano a combattere guerre infinite e sanguinosissime, a noi appare inutile se non perniciosa, perché fa solo l’interesse del più forte.


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Tutto, nel mondo, deve essere ripensato. Ma, ripetiamo, bisogna partire dal singolo, da ognuno di noi. Non si vince COVID 19 abbandonando in fretta e furia le città del Nord, prendendo d’assalto treni e pullman, per rifugiarsi al Sud, rischiando d’infettare zone ancora esenti e meno attrezzate a combattere il male; tutto ciò ci sembra demenza, menefreghismo, vera e propria disonestà. Non combattono COVID 19 quei giovani che continuano ad affollare locali o a riunirsi all’aperto in centinaia e in migliaia, dandosi abbracci e baci, facendo autoscatti, rischiando che, o prima o poi, vengano infettati anche loro e trasportando, così, il nemico nelle proprie case, contaminando genitori e nonni, bambini, anziani debilitati o già colpiti da altri mali e da altre infermità. Non si combatte COVID 19 diffondendo false notizie, spesso a fine di concorrenza sleale; ricorrendo a segni e a riti taumaturgici; vendendo unguenti e infusi vari. E lasciatecelo dire, permetteteci di star lontani da ogni ipocrisia, visti gli entusiasmi dei media per certi fenomeni ed estemporaneità: non si combatte COVID 19 con canti e schiamazzi da finestre e balconi e col ballare il walzer o il tango sui terrazzini: anche se a distanza consigliata, basta il vento, basta una leggera brezza perché il virus li investa; a noi si dà l’impressione che, per esorcizzare la paura, ci si masturbi in collettivo; né si combatte con l’esporre il tricolore, quando al tricolore veramente non si crede, quando, fino a ieri, è stato schifato da una maggioranza pecorona, volta per lo più a sinistra; siamo starti nella scuola e sappiamo le difficoltà che abbiamo dovuto superare, non tanto tra gli allievi, ma tra i colleghi, nel parlare di Bandiera, di Patria, di Famiglia, di Religione; ed è di appena qualche anno che una nostra valorosa parlamentare ha portato per le strade e le piazze di Roma un cartello con su scritto: Dio Patria Famiglia, che vita de merda! Povero Mazzini, al quale noi abbiamo sempre creduto. Il tricolore è sacro, rappresenta la nostra Nazione; va prima amato, tenuto nelle nostre case e nei nostri cuori (gli Americani, la loro bandiera, se la portano appresso piegata a puntino anche nei portafogli); non va esposto solo durante i campionati di calcio e solo per esorcizzare il coronavirus, il quale del tricolore se ne infischia, come se ne infischia di ogni altra bandiera. E non si combatte il COVID 19 con editti quasi draconiani e folli, cervellotici: chiusura di alcuni locali e non di altri; chiusura di locali a partire da una certa ora (come se il coronavirus seguisse gli orari!); chiusura di alcune attività e non di altre; divieti di andare nei parchi (Boccaccio ci ha insegnato che le infezioni si possono evitare o attenuare stando nelle campagne, sotto gli alberi, certamente non a gruppi serrati, non

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in folle compatte, ma distanziati l’uno dall’altro) e tanto altro ancora, sempre e comunque slegato, cervellotico, contraddittorio, lontano, spesso, da ciò che vien detto e consigliato da scienziati e virologi, come se ciò che vien fuori dalla testa di cavolo di un inetto politico (non abbiamo più, da decenni, veri politici e veri statisti, ma ignoranti parassiti) avesse più senso e valore di quello di chi studia e combatte ogni giorno, nelle università, nei laboratori, nelle cliniche, negli ospedali. COVID 19, Cari Lettori e cari Collaboratori, l’annienteremo - lo ripetiamo per l’ennesima volta se prima lo combatteremo con fermezza e tenacia dentro ciascuno di noi, rivoltandoci, ciascuno di noi, come un pedalino. Domenico Defelice Pomezia, 14 marzo 2020 *** CORONAVIRO DUCE - Ciò che stiamo vivendo sembra paradossale eppure è vero più che mai. Siamo chiusi nelle nostre case, aspettando che il Coronavirus si indebolisca affinché possa essere debellato. Le notizie sono tante, a volte contrastanti tra loro ed anche angoscianti, ma sapere che i nostri bambini siano il veicolo preferito e che il bersaglio più debole siano i loro adorati nonni è devastante. La chiusura delle frontiere, delle scuole, delle palestre, dei musei, dei mercati, agevolare il lavoro da casa, rende l’idea di quello che l’Italia è diventata, una “penisola isolata”; sembra un gioco di parole, eppure è la realtà. Siamo in quarantena, come direbbero i nostri padri latini “sotto il comando del Coronavirus”. Siamo tutti stretti nell’attesa di una parola di speranza, evitando il più possibile contatti ravvicinati. Sembra come vivere in un film di fantascienza, però questa volta non siamo comodamente seduti sul divano aspettando la fine. Ogni giorno ci svegliamo con una spada di Damocle sulla testa e pare che giorno dopo giorno si avvicini sempre di più. In televisione si vedono scene apocalittiche: rivolte nelle prigioni, persone positive al Covid-19, che annoiate nelle loro belle case, evadono per andare a farsi una tranquilla gita sulla neve, altre che fuggono dal nord per rifugiarsi al sud, infettando così il resto della nazione. Troppe persone con animo leggero vivono alla giornata, sotto l’inno Mors tua Vita mea. Molte cose sono gravi: la prima è che se ne siano fregati del divieto, la seconda è che nessuno se ne sia accorto. Il viaggio degli egoisti sta diffondendo il virus in tutta l’Italia. Qualche giorno fa anche a Pomezia sono state fermate due persone positive, che erano in isolamento domiciliare e che, invece, giravano indisturbate per le strade della città. Meglio annoiarsi a casa che contagiare o essere contagiati. La vita di ogni per-


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sona è unica e speciale e deve essere rispettata. Fortunatamente c’è una grande parte della città che rispetta le regole e che ogni pomeriggio si ritrova sui balconi cantando e suonando, sperando in un futuro migliore, ma soprattutto in una Umanità più responsabile. Manuela Mazzola *** I POETI E LA NATURA - Riceviamo, dall’Australia, il rincrescimento per la chiusura della apprezzatissima rubrica (e-mail del 20/02/2020): “…Mi dispiace per Luigi La Rosa che ha smesso la bellissima importante rubrica. Ma resterà sempre nei nostri dolci ricordi, purtroppo l’età, ci fa rinunciare a tante cose che abbiamo fatto con amore nella nostra vita. Cav. Giovanna Li Volti Guzzardi Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori (A.L.I.A.S.)

LIBRI RICEVUTI CATERINA FELICI - Nei giorni - Poesie - Longo Editore, Ravenna, 2020 - Pagg. 96, € 12,00. Caterina FELICI, insegnante, è poetessa e scrittrice e ha pubblicato volumi di poesia e prosa. Tra i libri di poesia: “Reciproco possesso” (1975), “Vastità nei frammenti” (1978), “Oltre le parole” (1982), “Poesie scelte” (1992), “Labili confini” (1994), “Confluenza” (1997), “Tessere di vita” (2004), “Tratti d’insiemi” (2007), “Fogli di vita” (2013), “Matteo e il tappo” (2016), Dentro la vita (2017). Sue poesie sono presenti in antologie. Tra i volumi di narrativa: “Il vecchio e altri racconti” (1987). Ha ricevuto vari primi premi in noti concorsi letterari nazionali. Tra coloro che si sono interessati di lei, si ricordano: Cesare Segre, Giacinto Spagnoletti, Giuliano Gramigna, Giorgio Bárberi Squarotti, Walter Mauro, Bruno Maier, Giorgio Cusatelli, Claudio Toscani, Maria Lenti, Paolo Ruffilli, Antonio Piromalli, Marino Moretti, Giambattista Vicari, Luigi Volpicelli, Gian Luigi Beccaria, Vittorio Coletti, Gina Lagorio, Domenico Rea, Lucio Felici, Carlo Betocchi, Mario Luzi. ** LEONARDO SELVAGGI - Poesie in due tempi In testa (pagine III/XVI), testimonianze critiche di: Salvatore Porcu, Guerino d’Alessandro, Carolina Citrigno, Luigi Pumpo, Brandisio Andolfi, Angelo La Vecchia - Nota e Prefazione dell’Autore - Edizioni Cronache Italiane, 1996 - Pagg. 104, L. 10.000. Leonardo SELVAGGI è nato a Grassano

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(Matera) e risiede a Torino. E’ stato dirigente superiore del Ministero per i Beni Culturali. Scrittore, poeta, saggista, ha ottenuto numerosissimi premi ed è collaboratore d’ importanti testate editoriali. Ha curato sei antologie di poesia contemporanea. Della sua attività letteraria hanno scritto centinaia di critici su giornali e riviste. Il Centro di Studi e Ricerca “Mario Pannunzio” gli ha conferito il Premio Speciale del Presidente della Repubblica per la letteratura 1988. Il 13 giugno 1989 gli è stata conferita l’onorificenza di Ufficiale dell’Ordine “Al merito della Repubblica Italiana”. Tra le opere, in versi è prosa, si ricordano: Le Ombre (1955); Diario poetico (1964); Frammenti (1970); Desiderio di vivere (1973); Vent’anni di poesia (1975); La transizione (1978); Lo sradicato ed altri scritti (1986); Pagine di un anno (1988); Le radici dell’essere (1990); L’ultimo dei romantici (1991); La croce caduta (1993); Le feste degli altri (1993); Il mattino dell’ufficio (1993); Franti pensieri d’autunno (1994); Poesie in due tempi (1996); Eterne illusioni (1997); I giorni del baratro (1998); Realtà e poesie (1998); Michele Martinelli, La terra di Lucania e la sua gente negli anni cinquanta (1998); La poesia nel Dialogo Serale di Francesco De Napoli (1999); Stimolazioni e colloqui (1999); Arpeggi di mare Saggio etico su “pensieri di sabbia” di Graziano Giudetti (1999); Sugli assetati di ordine e di giustizia (2000); Francesco Lo Monaco (2001); Saggi sulle “Poesie di Francesco Brugnaro” (2001); Brandisio Andolfi in “Alberi curvi d’ acqua” (2001); Lontano è il tempo della notte (2001); Le ultime pagine del Duemila (2001); Andrea Bonanno pittore e saggista dell’ uomo nella sua essenzialità primordiale (2002); L’amore sopra il precipizio (2002); Vita e pensieri (2002); Poesie nella tempesta (2002); Nicola Festa il classicista sommo della Basilicata (2002); I tempi felici (2002); Iddio non conosce gli uomini (2002); L’altra valle (2003); L’anima e gli echi lontani (2003); Il divorzio e l’amore (2003); Storia e autobiografia (2003); La poesia di Carmine Manzi nella sua ultima evoluzione (2003); Ruggero Bonghi (2003); Brandisio Andolfi cantore dei tempi nostri (2003); Il nostro tempo (2004); Alle fonti dell’essere (2004); La terra tutta ci prende (2004); Poesie di sempre (2004); Sui sentieri del cuore di Maria Teresa Epifani Furno (2004); Tra crisi di transizione la poesia di Amerigo Iannacone in stimolazioni etico-sociali (2004); AA. VV. Rino Cerminara nel secondo Novecento letterario italiano (2005); L’indignazione poetica (2005); Luigi Pumpo - Poeta della vita e della Natura (2005); Gli Italiani eterni immigrati (2005); Letteratura di ieri e di oggi (2005); Personaggi e storia umana (2005); La costante lunare e spirituale


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nell’ars poetica di Isabella Michela Affinito (2005); Polvere di ossa (2005); Vincenzo Rossi voce rappresentativa del ‘900 (2005); Lo specchio del cielo - Poesie 1996-2005 (2005); Bruno Giordano cantore dei nostri tempi (2005); La poesia di Amerigo Iannacone (2006); La critica di Leonardo Selvaggi sull’arte e sulla letteratura frenniana (2006); Estrosità immaginativa e Armonia poetica di Anna Aita (2006); Dalle poesie di Antonio Vitolo: il cuore antico dell’uomo in sentimentalità ed eterno amore (2007); Natura ed umanità (2007); Dalle opere di Antonio Angelone ritornano i pensieri e le amarezze dei grandi meridionalisti (2007); Umanità e grandezza lirica di Carmine Manzi (2008); Le dolcezze della vita (2008); Dai mosaici alle poesie (2009); Il mio esilio (2009); Domenico Defelice e le sue opere etico-sociali (2009); Giudizi critici “Le avventure di Fiordaliso” di Antonio Angelone (2009); Poesia e tradizione nelle opere di Antonia Izzi Rufo (2009); Le poesie di Giovanni Cianchetti (2010); Alle fonti dell’essere e della vita - saggio sull’opera di Vittorio Martin (2010); Vittorio Martin poeta e pittore (2010); Nunzio Menna; Opere e attività culturali (2010); Il fantasma e altre poesie di Vincenzo Rossi (2010); Nel Diario di Domenico Defelice giovinezza e poesia (2011); Pantaleo Mastrodonato nella vita e nell’arte - Profilo critico dello scrittore-poeta (2011); La poesia di Francesco Terrone (2012); Il dissolversi dell’uomo moderno (2012); Luce e saggezza nella poesia di Pasquale Francischetti (2012); Le commedie dialettali di Antonio Angelone (2012); Antonio Angelone e il suo mondo ideale (2013); Le opere di Nunziata Ozza Corrado (2013); Il percorso letterario di Vincenzo Vallone (2014); Tito Cauchi Voce all’anima (2017).

TRA LE RIVISTE ntl LA NUOVA TRIBUNA LETTERARIA - Rivista di Lettere ed Arte fondata da Giacomo Luzzagni, Direttore responsabile Stefano Valentini, editoriale Natale Luzzagni, vicedirettore Pasquale Matrone - via Chiesa 27 - 35034 Lozzo Atestino (PD) - e-mail: nuovatribuna@yahoo.it - Riceviamo il n. 137, col quale si festeggiano i trenta anni di vita. Ecco i principali interventi: “Raffaello Armonia cosmica”, di Maria Valbonesi; “Trent’anni di noi”, di Natale Luzzagni; “Peter Handke Il negazionista”, di Luigi De Rosa; “Olga Tokarczuk I vagabondi”, di Maria Nivea Zagarella; “Etty Hil-

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lesum Resistenza”, di Giuseppina Rando; “Antonio Machado Intimismo”, di Liliana Porro Andriuli; “Romanzi picareschi”, di Elio Andriuoli; “Wendell Berry Natura”, di Anna Vincitorio; “Andrea Zanzotto e le conseguenze del progresso”, di Maria Luisa Daniele Toffanin; “Carlo Bolli Come un film”, di Lorenzo Marotta; “Natale religioso e Natale laico”, di Antonino Scuderi; “La poesia: istruzioni per l’uso”, di Giorgio Poli; “I senza nome”, di Natale Luzzagni; “Il libro illustrato”, di Odilla Danieli; Intervista a Giani Manca, di Pasquale Matrone; “Guido Pagliarino L’ira dei vilipesi”, di Alfonso Genovese; “Che cerchi, poeta, nel tramonto?”, di Corrado Di Pietro; “Impiego e diffusione del papiro”, di Enzo Ramazzina; “Maju sicilianu ovvero “unni simplici ridi la Natura” “, di Maria Nivea Zagarella; le tante recensioni a firma di Stefano Valentini e poesie e rubriche varie. * LETTERATURA E PENSIERO - Rivista semestrale di scienze umane, direttore responsabile Giuseppe Manitta, editoriale Angelo Manitta - via Pietramarina-Verzella 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) - e-mail: angelomnitta@gmail.com; angelo.manitta@tin.it; giuseppemanitta@ ilconvivio.org - Riceviamo il n. 2, luglio-dicembre 2019. Saggi e Studi: Una probabile fonte milanese per Leopardi: Giovanni Zuccala su Lo spettatore italiano del 1818, di Vittorio Capuzza; Caratteri del linguaggio e dello stile del Tasso, di Francesco Martillotto; Traducendo e pubblicando Virgilio Giotti, Traduzione dal tedesco di Augusto Debove, di Hans Raimund; Assetto di spazi e idea di polis nel rapporto interno/esterno per Leonardo Sinisgalli, di Fabio Russo; Sogni e desideri dell’altrove nella letteratura dell’emigrazione, di Carlo Di Lieto; Intervista a Francesco d’Episcopo, di Angelo Manitta; “Rosa Luxemburg: la femminista, la rivoluzionaria, la scienziata. A cento anni dalla scomparsa, di Anna Gertrude Pessina; La poetica di Cristina Ferrari tra tempo ed eternità, di Claudio Tugnoli; L’Annunciazione nella pittura dei maestri italiani del Trecento e Quattrocento, di Otilia Dorotea Borcia; Confronti stilistici tra la cuba bizantina di Malvagna (ME), il sacello San Paolo di Parma e la cosiddetta naumachia di Taormina, di Angelo Manitta. Inediti e rari…: Pietro Giordani “Autore del panegirico a Napoleone è vivo”, di Vittorio Capuzza. Letture: Sandro Gros-Pietro, Fratello cattivo, di Carlo Di Lieto; Dante Maffia, Profumo di Murgia, di Luigi Reina; Fortunato Seminara, Donne di Napoli, di Carmine Chiodo; Vittorio Capuzza, Alle origini della poesia di Leopardi nel suo laboratorio di greco e latino, di Angelo


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Manitta; Raffaele Manica, Praz, di Carmine Chiodo. * L’ERACLIANO - organo mensile dell’ Accademia Collegio de’ Nobili - fondata nel 1689 -, diretto da Marcello Falletti di Villafalletto - Casella Postale 39 - 50018 Scandicci (Firenze) - e-mail: accademia_de_nobili@libero.it - Riceviamo il n. 264/266 del gennaio-marzo 2020. Ecco gli articoli principali: “Educare per crescere”, di Marcello Falletti di Villafalletto; “Eventi in valle di Viù”, di Gian Giorgio Massara; “Intervista al senatore Vannino Chiti”, di Carlo Pellegrini; “Roccaforte dell’arte”, di Marcello Falletti di Villafalletto; “Apophoreta”, rubrica recensiva di Marcello Falletti di Villafalletto. * L’ORTICA - pagine di informazione culturale, direttore responsabile Davide Argnani - via Paradiso 4 - 47121 Forlì - e-mail: centroculturalelortica@gmail.com; orticadonna@tiscali.it - Riceviamo il n. 23/124, aprile-settembre 2019. Segnaliamo: Edith Stein e Iréne Némirovsky, di Claudia Bartolotti; Poesie, di Joe Bolton, nell’originale e nella traduzione di Fiorella Moscatello; Corrado Calabrò e la Quinta dimensione, di Davide Argnani; La seconda vita di Sasà, di Antonio Cervone; La poesia di Lea Melandri, di Loris Rambelli; Poesie di Alex Sanchez; Rovistando riviste e cataloghi, di Davide Argnani; F.A.K.E., di Margherita Orsi; Luigi Fontanella e il Dio di New York, di Francesco Politano. *

LETTERE IN DIREZIONE (Ilia Pedrina, da Vicenza) Amico carissimo, tu ridevi allo spettacolo, bambino innocente, mentre il cielo nella notte s'infuocava di malvagità assassina, ora i bambini e con loro tutti gli altri, sono senza sorriso. Gli si dice: '…State a casa da scuola fino a... Non uscite di casa e riscoprite i giochi da tavolo... La sanità sta scoppiando … Il pipistrello, il temerario pipistrello...”. Perché colpevolizzare il pipistrello, così utile, così necessario, così simpatico, proprio da quando tu ci hai costruito apposta una casetta speciale, proprio a lato della fanciulla in fiore, nella sua bella abitazione arborea? Ora bisogna giustificare dove si sta andando per non essere multati, per non ricevere avvisi di garanzia di detenzione sicura. Ma dove

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ci possono mettere se i detenuti scappano o vengono ammazzati? Le leggi d'eccezione, in uno Stato Sovrano, vengono messe in campo per sospendere le libertà del cittadino in questo caso per la sua salute, per proteggerlo da lui stesso, se desidera liberamente bere in compagnia dopo le ore 18... Si sta chiedendo un sacrificio, si sta mettendo in ginocchio l'economia di uno stato che sovrano non è in quanto ai suoi cittadini pensa solo quando succedono gravi calamità, li priva delle loro più alte capacità creative e professionali, per cedere alle lusinghe della globalizzazione, tanto basta aggiornare i parametri della pericolosità, come qui per la presenza di PFAS nell'acqua, perché la pericolosità non sussista più; tanto basta garantire che, insomma, dopo 10/15 anni dall'intossicazione contaminante si può già dire di esser contenti perché il fatto scatenante non sussiste più e se vieni a mancare a questa vita, di certo, è un fatto naturale e dipende da altri fattori, non dall'inquinamento. La signora XY, che non vuol rivelarsi, ha oltrepassato i 90, è nonna e bisnonna, laureata in scienze biologiche, ha insegnato lungamente nel milanese e qui a Vicenza, all'ITIS Fusinieri: c'incontriamo qualche mattina, mi vede studiare, è saggia e ha detto a chiare lettere: “...Siamo stati puniti perché abbiamo parlato più degli altri...” Lo stato di eccezione, con le sue leggi, impone lo stato di paura, nel quale il popolo reclama protezione e in effetti l'indicazione di restare a casa o di giustificare assolutamente in AUTONOMIA (cioè attraverso un'autocertificazione) dove stai andando e perché, segnala la presunta pericolosità che rappresenti se esci. Nella zona chiave dell'Hubei ora è tutto finito ed esultano con l'Imperatore a vita Xi Jinping che va a trovare il suo Popolo in quelle zone, a milioni di certo, che lo osanna e lo acclama come taumaturgo, perché questo è anche un Imperatore, Capo Materiale e Spirituale totalizzante. Il povero oftalmologo che ha protestato dando l'avviso della pericolosità soprattutto per gli occhi, di una certa affezione virale, è bell'e stecchito e sia pace all'anima sua: che abbia gloria piena, dato che ha denunciato un sistema gerarchico che toglie ogni spazio dell'autonomia individuale. Ma, dimmi tu, carissimo, se l'individuo come principio della norma nel diritto e della concreta libertà di scelta nella realizzazione di sé e nell'espressione del proprio pensiero, oltre che nell'inviolabilità del proprio domicilio e della libera possibilità di aggregarsi in gruppo con altri, può ora ancora dirsi tale. Anni fa, e lo spiegherò a tempo debito, il Maestro di Scuola Elementare Danilo Dolci, nel suo preziosissimo


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PROCESSO ALL'ART. 4 DELLA COSTITUZIONE, ha dichiarato che lo Stato non garantisce certo ai suoi cittadini la possibilità di realizzare la loro capacità di ambire a costruire percorsi formativi e professionali secondo la loro vocazione, differente in ognuno. Alla fine del testo una carrellata sulle torture (e siamo negli anni '50 del secolo scorso e il giovane massacrato, Cucchi dico, aveva di certo ancora da nascere!) come quella della 'cassetta'... Danilo ha avuto grande coraggio e nella fase della militarizzazione della Sicilia ha dato una mano ai braccianti e per questo lo hanno indegnamente arrestato. Anche Goffredo Fofi l'ha seriamente considerato come suo nobile e prezioso Maestro di vita e d'esperienza. Siamo stati puniti perché abbiamo parlato più degli altri? Non ubbidiamo a sufficienza e per questo basta un pipistrello per metterci alla prova e consentire la sospensione delle libertà costituzionali? Il primo articolo della nostra Costituzione parla di Repubblica Democratica fondata sul lavoro, non di Repubblica Parlamentare non rappresentativa fondata sulla salute buona e di tutti e per tutte le età, perché allora non ci sarebbero problemi di posti letti negli ospedali, blocchi da anni dei concorsi per medici ed infermieri, che hanno portato da tempo a conglobare le Unità sanitarie, ora Aziende, con più burocrazia e meno servizi in senso assoluto, che devono garantire profitti. Certo la signora Lagarde ha detto che bisogna morire prima per poter lasciare posto ai giovani, ora ti si dice che gli anziani hanno grande esperienza e con i bimbi a casa da scuola servono assai, perché la bambinaia ha un suo costo, a meno che non la si compensi amabilmente in natura... Di certo come il mio amico William sosteneva, senza esser però gran che originale, che il sole sorgerà e tramonterà sulle sciagure umane ancora per un certo tempo, questo però non consola i bimbi che hanno diritti fondamentali... A scuola a luglio? A scuola in modo interattivo, da casa, in rete e quant'altro? E i rapporti umani? Si ha così paura che generino 'ANARCHIA'? Un altro interessante articolo di cui ti dirò nella prossima lettera, pone in parallelo la modalità del dirsi e dell'essere anarchico e la modalità del Mahatma Gandhi di dirsi e d'essere pacifista. Credimi: Gesù è il primo ANA-ARCHÉ SENZAPRINCIPIO, in quanto Principio Egli stesso nel Padre e fonte dinamica dilatata dello Spirito nella Storia degli esseri viventi. Paura di che? Si, carissimo, Lucia Mondella viene presentata dal Manzoni senza paura perché prega: oggi il contagio porta a far tutto alla spicciolata, così si benedicono le spoglie del morto, fuori dalla chiesa e tutti i vescovi hanno aderito e i due Poteri, la Chiesa e

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lo Stato sono insieme per proteggere la salute dei cittadini e la loro, certo, anche la loro. La buona salute del corpo non basta se l'anima è malata e non riesce più a cogliere la gioia spirituale che ti invade quando osservi il sorgere del sole e corri poi, dopo ore, dall'altra parte per colorarti il volto di deboli ombre mentre la luce cala oltre le colline... L'altro giorno sono andata a Povolaro di Dueville, dove sono nata, dopo il cavalcavia, che da bimba vedevo carico di fiori perché morivano alla grande giovani del paese, sotto le macchine o sotto il treno, si passa davanti alla villa poi si arriva alla chiesa, con un san Sebastiano tutto sofferenza con le cinque lance, le ho proprio contate, sono cinque, che mi ha sempre provocato empatia: ordino per telefono tanto pane in michette piccolissime, così con un chilo ne ho per giorni. Quando a casa ho donato a Pietro e a Martina, due studentelli di 7 anni, qui del condominio, un poche di michettine ciascuno, sono stati contenti e Martina poi, a casa da scuola, ha preparato dalla sua nonna un bouquet stupendo con violette, rosmarino, alloro e altri mille fiori ed erbe. L'ho portato in voto al mio Papà: '...Qui non giace, sogna ancora F. P. Da questa quiete ai sereni Elisi è breve il passo'. Che ci sia dato il compito, severo, di difendere la nostra salute spirituale, perché essa è fonte di vera gioia: quella del corpo vien di lato, insieme forse, ma mai totalizzante, mai. Un abbraccio che ti offra tutto l'affetto e la riconoscenza per quanto fai, soprattutto dopo i difficili momenti che hai attraversato di recente, per tutti noi. Ilia tua, commossa Sì, Carissima, I tempi della mia infanzia erano, forse, più feroci di quelli attuali, ma, data l’ingenuità, per noi bambini, meno apprensivi; eravamo liberi di vagare in una Natura ancora splendida, ancora da vero Paradiso terrestre. Oggi, la maggioranza dei minori è costretta a passare i giorni chiusa in una stanza, magari davanti a uno schermo e la situazione psicologicamente diviene assai pesante. Le bombe, allora, cadevano di giorno e di notte; ricordo quante volte, avvolti in qualche coperta, durante la notte eravamo costretti a lasciare la casa e rifugiarci nei pagliai di campagna. Stavamo sempre all’erta e i genitori ci dicevano, all’approssimarsi degli aerei, di buttarci per terra e rimanervi distesi finché non li sentivamo allontanarsi. Un giorno di luglio, io e mia sorella Annunziata stavamo sotto un enorme e frondoso albero di arancio, quando giunsero gli aerei in un frastuono infernale e una bomba ridusse la pianta in frantumi fin nelle radici, scavando


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una fossa circolare di alcuni metri, letteralmente sotterrandoci, ma senza riportare, né io né mia sorella, il benché minimo graffio. Ho sempre considerato tutto questo un vero e proprio miracolo. Oggi, doverli tenere in casa, è debilitante e oppressivo per noi e per gli stessi piccoli, ma non troviamo altra soluzione, siamo e ci sentiamo impotenti. Non essendo tutti virologi e scienziati, non ci resta che attenerci a quel che ci vien detto da chi se ne intende e da chi è chiamato a governarci, anche quando alcune restrizioni siano palesemente contraddittorie e assurde. Il comportamento anarcoide e insofferente di molti di noi non aiuta a risolvere, ma complica le cose. In Cina ciò non può avvenire perché la dittatura è ferrea e chi non si attiene ai dispositivi non rischia solo la contravvenzione o la prigione, rischia la vita. Efficaci o meno, le direttive imposteci vanno rispettate. Avvilente e scandaloso è assistere alla fuga, in treno o in pullman, dal Nord verso il Sud; vedere giovani ostinarsi a non seguire alcuna regola; obbligare chiusure illogiche, o parziali, o dopo solo certi orari, di attività e locali eccetera. Come altrettanto scandaloso sono le speculazioni, l’ approfittarsi dei drammi anche per lucrare, il mettere in giro fandonie, il prendersela - come tu accenni con i pipistrelli, ai quali dovremmo essere grati, se non altro, perché si nutrono solo d’insetti. Io, ripeto, non essendo un esperto di malattie e di virus, ritengo che, ob torto collo, bisogna attenersi alle direttive che ci vengono impartite, nella speranza che siano efficaci e possano arrestare prima e poi debellare questo nemico subdolo che ci sta distruggendo anche psicologicamente. Ma, oltre la medicina, gli accorgimenti vari, l’ igiene e via elencando, per combattere la pandemia occorre un radicale cambiamento dell’ intera società; ripensare a molti nostri comportamenti, compresa la gestione della libertà. Perciò, mentre si protesta per certe restrizioni che ci toccano e che possono ritenersi insensate o sgangherate, non possiamo non stigmatizzare certi comportamenti che, pur senza intenzione, possano peggiorare la difficile situazione. Necessario è ripensare la nostra società economicistica e capitalistica, appannaggio e al servizio di pochi, basata solo sul profitto di pochi e sullo sfruttamento di molti; necessita ripensare ogni cosa, far tesoro di questa tragedia, mutare i rapporti tra singoli e tra gruppi, popoli e nazioni. D’accordo con te: niente è sufficiente, paradossalmente neppure la salute del corpo, se la nostra “anima è malata”. Domenico

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Causa PANDEMIA, con tipografie e tante attività chiuse, servizi in difficoltà, anche POMEZIA-NOTIZIE rischia di non poter mantenere gli impegni, in particolare stampa e invio del cartaceo. Ci scusiamo, chiedendo comprensione a tutti, principalmente agli abbonati. La Direzione

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