Pomezia Notizie 2020_8

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50ISSN 2611-0954

mensile (fondato nel 1973) Direzione e amministrazione: Via Fratelli Bandiera, 6 - Tel. 06/91.12.113 - 00071 POMEZIA (Roma) - Fondatore e Direttore responsabile: DOMENICO DEFELICE – e-Mail: defelice.d@tiscali.it – Parziale distribuzione gratuita (solo il loco) – Attività editoriale non commerciale (art. 4, D.P.R. 26.10.1972 n. 633 e succ.ve modifiche) - Per abbonamenti: annuo, € 50; sostenitore € 80; benemerito € 120; una copia € 5.00) e per contributi volontari (per avvenuta pubblicazione), versamenti sul c/c p. 43585009 intestato al Direttore - Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 213/93 del 23/5/1993 - La collaborazione, sempre gratuita, in parte è libera, in parte è per invito. Ogni autore si assume la responsabilità dei propri scritti - Manoscritti, fotografie e altro materiale, anche se non pubblicati, non vengono restituiti - É ammessa la riproduzione, purché se ne indichi la fonte. Per ogni controversia, foro competente è quello di Roma.

Anno 28 (Nuova Serie) – n. 8

€ 5,00

- Agosto 2020 -

Addio a

ENNIO MORRICONE di Domenico Defelice

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ELLA notte del 6 luglio scorso - al Campus Biomedico di Roma, dove da giorni era stato ricoverato ed operato per una frattura al femore, provocata da una caduta - si è spento il più grande musicista dei nostri tempi: Ennio Morricone; era nato a Roma, in Trastevere, il 10 novembre 1928 e nella Capitale era sempre vissuto, rifiutando anche sirene importanti e danarose che volevano si trasferisse in America, dove, per abitare, gli avrebbero concesso una villa da favola. I funerali sono stati celebrati in forma strettamente privata per sua espressa volontà, nel pomeriggio dello stesso 6 luglio, nella stessa clinica. Cresciuto con la volontà di fare il medico, Ennio Morricone si è diplomato, poi, in composizione, per non tradire la volontà del padre, suonatore di tromba. Frequentò l’Istituto Salesiano


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All’interno: Europa: sogno o realtà?, di Lia Giudici, pag. 4 Rocco Salerno: L’emblema casto del passato, di Carmine Chiodo, pag. 6 Yanis Varaufakis, Adulti nella stanza, di Giuseppe Leone, pag. 8 Federico Fellini, di Isabella Michela Affinito, pag. 11 Il vecchio e le nuvole, di Carmine Chiodo, pag. 14 Emerico Giachery e la parola trascesa, di Domenico Defelice, pag. 16 Maria Montessori, di Anna Cimicata, pag. 18 Isabella Michela Affinito, di Antonio Crecchia, pag. 20 Marcello Falletti di Villafalletto e Il coraggio di amare, di Domenico Defelice, pag. 23 Ruggero Bonghi, di Leonardo Selvaggi, pag. 25 Il primo giorno di scuola, di Luciana Vasile, pag. 30 Dediche, a cura di Domenico Defelice, pag. 31 Premio Letterario Il Croco: continuazione dal numero precedente con elaborati di: Alessandro Corsi, Paolangela Draghetti, Gloria Venturini, Anna Maria Gargiulo, Domenico Pujia, Anna Vincitorio, Antonio Nicolò, pagg. 32/46 Notizie, pag. 55 Libri ricevuti, pag. 58 Tra le riviste, pag. 60 RECENSIONI di/per: Elio Andriuoli (Préime che ve’ le schìure, di Pietro Civitareale, pag. 47); Domenico Defelice (Parole deposte sulla carta, di Leonello Rabatti, pag. 48); Antonia Izzi Rufo (Nel frattempo viviamo, di Nazario Pardini, pag. 49); Manuela Mazzola (L’importante è che non diventi un’abitudine, di Alessio Arena e Elisa Iacovo, pag. 49); Manuela Mazzola (Il coraggio di amare, di Marcello Falletto di Villafalletto, pag. 50); Manuela Mazzola (Rosso sangue, di Maria Teresa Infante, pag. 51); Ilia Pedrina (Glauco Lombardi, a cura di Francesca Sandrini, pag. 51); Laura Pierdicchi (Le parole a comprendere, di Domenico Defelice, pag. 54). Lettere in Direzione (Ilia Pedrina), pag. 61 Inoltre, poesie di: Elio Andriuoli, Mariagina Bonciani, Corrado Calabrò, Irène Clara, Marina Caracciolo, Antonio Crecchia, Antonio De Marchi-Gherini, Antonia Izzi Rufo, Giovanna Li volti Guzzardi, Teresinka Pereira, Gianni Rescigno, Geppo Tedeschi

del quartiere Monteverde ed ebbe come compagno di banco Sergio Leone (Roma, 3 gennaio 1929 - 30 aprile 1989), regista famoso, rimasto a lui legato fino alla morte, maestro indiscusso del western all’italiana e al quale il musicista, negli anni, compose le colonne sonore dei film più importanti: Per un pugno di dollari; Per qualche dollaro in più; Il buono il brutto il cattivo; C’era una volta il West; Giù la testa; C’era una volta in America; film, tutti, con protagonisti d’eccezione, come l’ormai divenuto mitico

Clint Eastwood. Ma collaborò, oltre che con Sergio Leone (che oggi giace nel piccolo cimitero di Pomezia, in Pratica di Mare), con i più grandi registi del mondo, che se lo contesero, come Tarantino, Carpenter, Fuller, De Palma, Almodóvar, Stone, Tornatore (uno dei più amati, amico intimo di famiglia, tanto da essere ricordato nel necrologio), Petri, Bertolucci, Pontecorvo, Argento, Scola, Cavani, Bellocchio, Verdone eccetera. Nel 1956, Morricone si sposa con Maria


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Travia, dalla quale ha i figli Marco, Alessandro, Andrea (musicista) e Giovanni (sceneggiatore e regista); profondo il suo amore verso i nipotini e verso l’intera famiglia, che ha sempre voluto unita e dalla quale non si è allontanato neppure per momentanee ragioni di lavoro. Pur avendo guadagnato tanto, specie negli ultimi vent’anni, non ha mai dimenticato le sue origini modeste e, perciò, dava il giusto valore al denaro, che non doveva, diceva, venire mai sprecato. A gestire il tutto non è stato mai lui, che spesso usciva di casa senza un euro in tasca, ma l’adorata moglie Maria. Sensibile e altruista, non si è mai isolato e ha sostenuto battaglie importanti, specie nell’ambito dei diritti civili. Musicista insigne; partito dalla classica, ha saputo aprirsi e rinnovarsi continuamente, arrivando al rock, al pop, alle canzonette che, grazie ai suoi arrangiamenti, hanno dominato le classifiche, sono state, e continuano a esserlo, amate, ascoltate e canticchiate dalla gente giovane e meno. Morricone è riuscito a nobilitare, nell’ambito musicale, la così detta “materia bassa”, nei brani popolari “inculcando frammenti di musica classica, abbozzi di serie dodecafoniche, invisibili esperimenti d’avanguardia nel tessuto ordinario di spartiti consapevolmente commerciali” (www.ondacinema.it). Le rivoluzioni in campo musicale sono state suggerite in lui dall’esperienza, specialmente dal fatto che, per anni, ha praticato e suonato nelle sale da ballo e in orchestrine d’intrattenimento. Saranno, però, le colonne sonore che gli permetteranno di effettuare i suoi più importanti esperimenti timbrici, quelli che renderanno i suoi pezzi immediatamente riconoscibili a livello mondiale, e universalmente orecchiabili. Sono, le sue, “brillanti commistioni di musica alta e bassa” (idem) e sono i film che gli danno la possibilità di esprimere anche il suo impegno civile e sociale, oltre che popolare. Ma è la musica in genere, e la classica in particolare, a interessare il grande Maestro, quella per la quale si è sempre rammaricato nel saperla soverchiata dalle pur sempre bel-

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le e impeccabili colonne sonore, che sono, le più famose, almeno un 500 e che gli hanno procurato numerosissimi e prestigiosi Premi, tra cui due Oscar (nel 2007 e nel 2016, entrambi dedicati alla moglie Maria e uno dei quali consegnatogli dalle mani di Clint Eastwood) e poi tanti Grammy, Golden Globe, David, Nastro d’Argento, Leone d’Oro eccetera. Ennio Morricone è stato Accademico di Santa Cecilia e Roma ha deciso di onorarlo intestandogli l’Auditorium. Raro, e segno di coraggio e di fede, il suo autonecrologio, che ha veramente commosso il mondo intero. Pomezia, 7 luglio 2020. Domenico Defelice

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Il numero di questo mese è dedicato a: ANIMA di Francesco D’Episcopo, opera vincitrice della prima edizione del Premio IL CROCO 2020


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EUROPA: SOGNO o REALTA’?

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di Lia Giudici

RSULA von der Layen, Angela Merkel... nomi a noi ultra conosciuti... personalmente sto seguendo quasi con ansia le trattative che il nostro paese sta conducendo per uscire dalla situazione economica complessa causata dalla chiusura di molte attività produttive durante l’emergenza sanitaria. Il dato di fatto che alcuni dei personaggi chiave di questo contesto prettamente politico siano di sesso femminile rappresenterà una svolta? Sarà l’Europa per noi una vera famiglia che nei momenti di difficoltà si prende cura dei suoi membri e porge una mano per aiutare? O il potere rimane sempre lo stesso, interessato solo a far tornare i conti, qualunque sia il genere di chi lo esercita? La mia non è una domanda retorica, ma è vera, nel senso che non riesco a prevedere una risposta, anche se la speranza in una direzione inclusiva continua ad albergare in me, nonostante il passato non aiuti a rispondere in modo positivo, nomi come Margaret Thatcher, attingendo dall’estero, o Elsa Fornero per rimanere in Italia, farebbero storcere la bocca a molte/i...e io sono tra queste/i. Sono nata dopo la Seconda Guerra Mondiale di cui ho saputo non solo studiando sui libri di storia, ma ascoltando mio padre quando ci raccontava la sua esperienza. Nel 1940, ventenne, era partito per la leva e si era ritrovato in guerra. Il 9 settembre 1943 si trovava nella caserma di Ostia quando fu circondata dall’esercito tedesco e con i suoi commilitoni fu deportato in Germania. Visse due anni in un campo di concentramento a Fuerstenberg, uno dei 31 sottocampi di Ravensbrueck, a ca 100 km a nord di Berlino, e poi il 21 febbraio 1944 si trasferì nella parte est della capitale del Terzo Reich, ove rimase fino al 23 aprile 1945, quando fu liberato dall’Armata Rossa. Insieme a una dozzina di compagni di prigionia organizzò il rientro in

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Italia che fu alquanto avventuroso. A noi figli narrava di questa sua esperienza come se fosse stato un romanzo; da autentico “storyteller” riusciva anche a farci ridere e quindi a non terrorizzarci, ma contemporaneamente a trasmettere l’assurdità della guerra. Il suo lascito più prezioso per me ha infatti un profumo “pacifista”: “Quando la guerra scoppia, non ci sono né vinti, né vincitori, ma solo vinti. La guerra non dovrebbe mai scoppiare perché, una volta scoppiata, le atrocità, da entrambi i fronti, sono inevitabili”. I traumi provocati dalla guerra avrebbero lavorato subdolamente in lui nel profondo, ma del periodo post bellico mi avrebbe trasmesso solo la speranza che un altro mondo sarebbe stato possibile, e di questo altro mondo possibile l’Europa poteva diventare un faro di civiltà, a tutti i livelli e in tutti gli aspetti. A mio padre è corso nuovamente il pensiero quando in terra greca, durante un soggiorno invernale, ho letto “Adults in the room” di Yanis Varoufakis, riletto poi in italiano (“Adulti nella stanza”) una volta tornata a casa. L’economista greco, professore universitario ad Atene, nel passato anche in Gran Bretagna, in Australia e negli Usa, si è fatto conoscere in tutto il mondo come ministro delle finanze del governo Tsipras, da gennaio ad agosto 2015. Colui che tentò di trovare un accordo ragionevole con la Troika, fallì e si dimise. Nel libro soprammenzionato l’autore descrive in modo molto preciso e dettagliato gli incontri con la Troika, un racconto con dovizia di particolari, che riesce a trasmettere fedelmente grazie a registrazioni fatte con il cellulare, all’insaputa degli astanti. Ma nel libro non si limita a riferire di quegli incontri, di quelle conversazioni, descrive anche il contesto precedente alla vittoria di Syriza (il partito radicale di sinistra che vinse le elezioni nel gennaio 2015), i presupposti che portarono lui alla politica attiva, le ragioni che lo spinsero a candidarsi, pur non essendo un esponente di Syriza e ad accettare l’incarico propostogli dopo la vittoria, che lo aveva visto prendere voti più di tutti gli altri. Il racconto non si chiude con le sue dimissioni, ma


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con la fondazione il 9 febbraio 2016 del Movimento per la democrazia in Europa 2025 (DieM25) nel Teatro Volksbuehne a Berlino. Il suo racconto travalica l’aspetto economico nei punti dove sospende l’illustrazione degli aspetti tecnici, anche un po’ ostici per chi non masticasse di economia, per parlare di fatti personali che in me hanno suscitato grande commozione. O quando descrive in modo poetico paesaggi che rappresentano lo scenario degli accadimenti. Inoltre la sua testimonianza è accompagnata da riferimenti culturali che ne fanno una lettura estremamente godibile. Nella sua appassionata e trascinante narrazione emerge una intensa capacità visionaria, che non perde mai di vista la realtà però; concretissime proposte infatti, in alcuni casi ai tempi nemmeno prese in considerazione da chi avrebbe dovuto/potuto, arricchiscono l’ incedere del racconto. E quando rimase solo nel credere a quanto era stato progettato insieme ai suoi compagni perché loro si arresero, fu bersagliato di critiche, tacciato di essere un ingenuo utopista, e non solo dagli avversari. Subì le più ignobili ingiurie, fu deriso, messo alla gogna pubblicamente e io spero che la storia lo ripaghi di tutte le umiliazioni che ha dovuto sopportare. Il “senno del poi” si è comunque già destato, con la crisi in corso molti “esperti” stanno “riesumando” quella vicenda. Durante tutto il percorso, in Grecia e poi in Italia, mi sono chiesta come fosse possibile che un economista greco, così diverso da me per tanti aspetti, potesse evocare in me sentimenti di così grande profondità. La risposta non tardò ad arrivare: il genere, l’età, l’estrazione sociale, la professione svolta e la nazionalità sono differenti, per certi versi la differenza è veramente grande, ma l’humus nel quale siamo cresciuti ci accomuna, intriso com’è di spirito europeista. L’epilogo della carriera di Yanis Varoufakis come ministro delle finanze fu tragico e questa tragedia però avrebbe investito l’Europa intera. Ma non impedì a lui di continuare a credere nel progetto europeo (il movimento da lui fondato infatti è pan-europeista), e a

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me, e con me tante/i altre/i, di anelare a un’ Europa che non sia solo un’accozzaglia di genti tenute insieme esclusivamente dal danaro, dalla finanza, dal mercato, ma a una Comunità con ideali che gli interessi economici dovrebbero sempre prendere in considerazione con rispetto. L’essere europei di coloro che sono nati nei due decenni successivi alla fine della guerra è un’identità che nel corso del tempo si è meglio delineata, si è affinata, si è diffusa, è diventata appannaggio di una moltitudine appartenente alle generazioni successive, che ha potuto godere di tantissime facilitazioni messe a loro disposizione e che non erano usufruibili da chi era nato prima di loro (Erasmus, viaggi low cost, etc). Le aspirazioni europeiste di chi è giovane oggi o di chi non lo è più, ma ancora crede in questo progetto, portano con sé anche un afflato “spirituale” che non vede confini, ma solo una comune umanità, intrisa di affinità che travalicano le frontiere. Imparando a essere cittadini europei oggi, domani lo saremo del mondo, per chi non lo fosse già. Ai “Giochi senza Frontiere” del 1970, allora diciassettenne, partecipai con la squadra di Como e nella finalissima a Verona portammo a casa la vittoria; fu un’esperienza entusiasmante e non potei che assorbirne lo spirito perché quei Giochi erano nati per volontà di Charles De Gaulle e Konrad Adenauer, a capo delle due nazioni da sempre acerrime nemiche, con il preciso intento di evitare un’ altra guerra rovinosa. Solo la capacità di pensare a un mondo alternativo può condurci a progettarlo per poi realizzarlo, un mondo dove le utopie vengano prese in considerazione, restando intellettualmente onesti e aderenti alla verità. Un’altra Europa è possibile? La pandemia aiuterà in questa direzione? Lo sperano in tanti, anche mio padre, che ora sarebbe centenario se fosse ancora in vita, ne gioierebbe. Della guerra fu vittima, ma fu in grado di guardare avanti e di trasmettere a me ideali di alta umanità. Lia Giudici


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ROCCO SALERNO L’EMBLEMA CASTO DEL PASSATO di Carmine Chiodo

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ALABRESE di Roseto Capo Spulico (CS), ma risiede e insegna materie letterarie nelle superiori a Fondi (LT), Rocco Salerno è saggista e poeta, autore, tra le altre opere, di un poemetto: <<Una notte in paradiso >> del 2009, con la splendida prefazione di Emerico Giachery e postfazione di Dante Maffia, da ricordare pure <<L’origine del fuoco>> del 2004, con prefazione di Pasquale Maffeo. Ora, con <<L’emblema casto del passato>> ha avuto il premio Nazionale di poesia <<Libero De Libero>> XXVI edizione –Anno 2015. Sezione per inediti. Queste poesie sono ben prefate da Leone d’Ambrosio (v,<<L’esilio antropologico di Dario Bellezza nei versi di Rocco Salerno>>, pp. 5-6) che sottolinea il fatto che Rocco Salerno è stato ispirato dai versi di Bellezza che appartengono alla raccolta <<Proclama sul

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fascino>> del 1996: <<Sei Dio forse /solo perché t’ho amato /e ora inguaribile/ ritorno a te /bestemmia, insulto emblema casto del tempo>>. In sostanza, per citare d’Ambrosio, Rocco Salerno racconta, e sa raccontare in versi, e lo fa senza retorica e paura, il dolore e la morte dell’amico poeta Dario Bellezza. Poesia, questa di Rocco Salerno, che presenta un linguaggio originale oltre che tematiche che svelano l’animo, l’intimo del poeta: <<Che ne sapete/voi/ di un poeta ,/ che ne sapete voi /[…]/del suo veleno/[…]/ che ne sapete voi/di questo piccolo dio /Crocifisso qui/a fare prodigi>> (p. 9: <<Che ne sapete voi>>). La poesia di Salerno è ricca di pregi, di solitudine, di belle immagini che dicono ciò che fermenta e cresce nel cuore del poeta. Certo, il poeta è un Dio crocifisso>> che la gente non può <<capirlo>>. Ci troviamo davanti a versi il cui <<la >> è dato da Baudelaire che introduce ai componimenti in cui si dice di Dario Bellezza, e al riguardo ci sono varie fotografie che ritraggono vari momenti degli incontri tra Salerno e Bellezza. Leggiamo una intensa e sentita poesia che ci fa rivivere la figura, la personalità di Dario Bellezza come pure certi luoghi romani frequentati dal poeta, ad esempio <<via dei Giubbonari>>. Ecco, appunto, i versi che ritraggono Dario Bellezza in un ricordo preciso e alla via appena richiamata: <<Ti ritrovo sordo /ad ogni superfluo bisogno /se allarghi solo gli occhi /al delirante sole di via dei Giubbonari>> (<<Ti ritrovo sordo>>, p. 11). Versi che dicono e ritraggono le passeggiate che i due poeti fanno per strade e luoghi romani. << le sponde del Tevere intorbidato>> e qui vanno per <<cercare la pace>> e poi ricordato il <<ciao>>, quel <<ciao di commiato /mentre ti allontani […]>>, un ciao che esplode negli occhi <<come il giallo di Van Gogh>> (p. 11). Similitudini, paragoni metafore molto controllate e intense poeticamente dicono l’io interiore, l’essere poeta, l’amicizia di Salerno con il poeta romano: entrambi <<incamminati nelle contrarietà della vita, [,,,]/ un cielo di sorrisi>> (<<Alza il vessillo >>, p. 123).


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Rocco Salerno ha saputo immedesimarsi nella vita e nelle opere di Dario Bellezza e cosi ci presenta il suo <<Io in tempesta /a brandelli lungo l’azzurro cielo>>. Momenti di vita passati insieme ad amici e l’attenzione del poeta Salerno è sempre concentrata su Dario Bellezza, di cui Salerno si sente assai vicino a questi e altri amici (Luigi Gulino): << Anch’io vado, come te e Dario, verso il buio irripetuto di notti irrisolte nei sogni /[…]/ in inquiete sillabe che incrinano /la mia vita >> (<<Anch’io vado verso il buio irripetuto>> p, 19). Salerno si immedesima, sente in sintonia la vita con Dario Bellezza ed ecco l’esito preciso di questi versi: <<Anch’io come te caro Dario, assalgo questa […]/ società inautentica con <<sarcasmi>> e si mantiene lontanissimo da essa. Ciò che conta non è l’apparenza, il potere ma l’Essere, l’io e c’è molta vita in questi versi di Salerno, la sua vita, le sue pene, le sue lacerazioni, ma c’è pure la vita di Bellezza. Si legge una poesia in cui talvolta figurano e si incontrano <<sogni inariditi>> (v. <<Ancora anch’io mi scopro>> (p. 22). Presenti pure i <<giorni impazziti >> (ivi), e ancora <<occhi come lingue di fuoco>> e ancora l’amico poeta reputato, presentato – con perfetta identificazione - <<cane randagio /accucciato nel tuo dramma>> (p. 24). Si tratta di momenti di vita trascorsi insieme in certe occasioni, come nel caso specifico, quello della lettura del testo teatrale <<Salomè>> recitato da Dario Bellezza in un Club di via Degli Umbri (San Lorenzo, Roma). Dopo cala il sipario: <<mentre Bruno e David /ti accompagnano a casa /[…]>> (p, 25). Tutto passa, tutto muore, però <<dura su questa terra /se non la bellezza del verso>>. E i versi di Salerno sono veramente belli, sentiti. <<Hai detto addio / nel tuo cuore al tuo amico>> (p. 30): <<La luce silenziosa dei tuoi occhi / a questo mondo incolore e vivo solo /nel traffico di vane illusioni /di una vuota parola /che non apre al Sogno / e non smuove il giorno>> ( p. 31): <<Voglio trovare uno spazio /per il ritratto di Dario,/uno spazio bianco come la sua anima /oscurata da

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questa società>> (<<Voglio trovare uno spazio >>, p. 33). Salerno canta magistralmente l’anima solare dell’amico poeta Bellezza, ed eccolo, Bellezza, allorquando, <<annoiato dalla Capitale>>, ama rifugiarsi <<nell’assolato mare della Calabria, perdersi nei vicoli del mio paese>> (Ivi). C’è, poi, lo sguardo <<altero>> di Bellezza <<oscurato, fatalmente/da una truce Parca>>. Comunque, nei versi di Salerno ricorrono varie immagini che dicono varie situazioni, luoghi precisi, ad esempio Roma, il suo Tevere o La Piramide. Insomma, questi versi ci consegnano <<l’ anima sobria di Bellezza, quell’anima che però irride la spavalda immagine/di questo mondo capovolto / proteso all’eterno rovello /di una futile gloria>> (<<La tua immagine dolente>>, p. 37). Con molta sincerità Rocco Salerno ci fa rivivere – lo ribadisco – la figura e la poesia di Bellezza, e lo fa, appunto, con modi caldi, appassionati, e ciò che più conta che i due poeti hanno espresso con voce intensa e varia la loro condizione, il loro io. Rocco Salerno ci ha dato una sua versione della figura e della personalità artistica di Dario Bellezza, letta - come giustamente ha scritto alla fine della sua illuminante <<Prefazione>> Leone D’Ambrosio -, in <<chiave del cuore>>, del cuore che vive e palpita in tutta la poesia di Salerno, che dà alla sua meditazione poetica una varietà stilistica e tematica che dice in modi originali l’io e la sua condizione. Carmine Chiodo Rocco Salerno, L’emblema casto del passato. In memoria di Dario Bellezza, Ediz. Confronto, 2017.

LUNA NUOVA DI MAGGIO È tanto ingenua questa luna nuova. Ieri, per quattro favole di vento, diede al furbo canneto, argento, e argento. Geppo Tedeschi (1907 - 1993)


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YANIS VAROUFAKIS ADULTI NELLA STANZA (MA NON TROPPO) di Giuseppe Leone

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ON poteva che pubblicarlo La Nave di Teseo il romanzo di Yanis Varoufakis, edito nell’agosto 2018 nella traduzione italiana curata da Lorenzo Matteoli. E non solo perché, due anni prima, la nota casa editrice avesse dato alle stampe un suo saggio dal titolo I deboli sono destinati a soffrire? L’Europa, l’austerità e la minaccia alla stabilità globale; o perché, ora, davanti al nuovo testo, abbia ceduto alle suggestioni di una similitudine tra l’operazione di salvataggio imposto dalla troika per la Grecia da 110 miliardi di Euro e l’entrata di Teseo nel Labirinto per confondere e poi uccidere il Minotauro (32-33) ma, anche perché, né Mondadori, né Einaudi, avrebbero potuto farsi avanti, dopo che lo scrittore greco, in una delle tante pagine del libro, s’era pronunciato contro il loro editore, definendolo “l’orribile … Silvio

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Berlusconi” (117n). Si tratta di Adulti nella stanza, secondo volume della saga di Varoufakis, ministro delle Finanze della Grecia nel primo governo Tsipras, da gennaio a luglio 2015, nel quale l’illustre autore descrive “la storia del suo appassionato e competente tentativo di convincere l’Europa a rinegoziare il debito greco per renderlo sostenibile senza costringere la Grecia a vendere l’argenteria, chiudere gli ospedali, affamare i pensionati e azzerare qualunque servizio di assistenza sociale”. Il racconto ne documenta “le complesse trattative con l’Eurofin (Presidente l’olandese Jeroen Dijsselbloem), la Banca Centrale Europea (Mario Draghi) le manovre dei vari ministri delle finanze, i risvolti della vicenda nella politica interna greca, lo schema della proposta negoziale greca per la ristrutturazione del debito e le posizioni dei vari responsabili della burocrazia di Bruxelles (CE), di Francoforte (BCE) e del Fondo Monetario Internazionale (FMI), la pressione dei governi francese e tedesco sul FMI e sulla CE”. Ne è venuto fuori un ponderoso scritto, a metà strada fra il romanzo noir e il saggio politico-finanziario, corredato di un ricchissimo repertorio di note bibliografiche e di commento a piè di pagina, che ne estendono l’orizzonte d’indagine del testo. Lo chiudono i ringraziamenti, che l’autore rivolge a tutti coloro che meritano la sua gratitudine, in particolare, a Will Hammond (editore del testo in lingua inglese) e a Christine Lagarde, della quale è debitore del titolo del libro (837); quattro appendici e una postfazione, in cui Guido Maria Brera sostiene che, in fondo, questo libro, sebbene “rinunci alla finzione e si affidi al rigore dei materiali documentari”, rimane sostanzialmente un romanzo, “un racconto trascinante che … tiene col fiato sospeso grazie al ritmo che incalza e a una sapiente alternanza di punti di svolta o colpi di scena” (859). E in effetti, il libro, nel suo lungo percorso, muta continuamente pelle, diventando, ora, un dialogo storico-politico, ora, un dramma ideologico e sociale, ora, un trattato


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economico-finanziario, ora, anche, un pamphlet dai toni comici e polemici, come si evince da una barzelletta appresa in un locale pubblico di Dublino, che Varoufakis riporta per far comprendere “la furbizia con la quale i banchieri greci hanno risolto il problema”. Questa la storiella: “Art e Conn, per uscire dalla loro miseria, convincono Olcàn, gestore di un pub, a prestargli una botte di whiskey”, con l’intenzione di farla “rotolare lungo la strada e raggiungere un paese vicino dove si sta svolgendo una festa, e dove potranno vendere il whiskey un bicchiere alla volta. Lungo la strada decidono di riposarsi e si fermano all’ombra di una grossa quercia. Mentre stanno seduti sotto la quercia Art si fruga in tasca e trova uno scellino, e tutto contento chiede: “Ehi Conn, se ti do uno scellino, mi fai bere un bicchiere di whiskey?” “Certo, fa pure”, dice Conn, intascando la moneta. Un minuto dopo, Conn si rende conto di avere uno scellino da spendere, si rivolge al compagno e dice: “Art, che ne dici, se ti do uno scellino mi fai bere un bicchiere?” “Certo, Conn,” dice Art e si riprende lo scellino. E così vanno avanti con lo scellino che cambia di mano continuamente. Ore dopo Art e Conn dormono beati sotto la quercia e la botte è vuota” (101-102). Ma v’è di più. Alla stregua del Principe di Machiavelli, della Scuola dei dittatori di Silone, della Comedie humaine di Balzac e, più in particolare, di 1984 di Orwell, citato più volte nel testo, Varoufakis si propone di mettere in chiaro il funzionamento reale della società capitalistica nell’epoca della globalizzazione, nonché i segreti del potere, sbugiardandone le ipocrisie. Lo fa implementando la sua scienza politica di due lezioni che Yanis dice di aver ricevuto a partire dal 2012: la prima, una presentazione della sua compagna Danae Stratou di un’installazione artistica in una galleria nel centro di Atene, chiamata: È ora di aprire le scatole nere. “Cento scatole metalliche nere disposte geometricamente sul pavimento … che contenevano una parola scelta da Danae fra le migliaia che gli ateniesi avevano fornito

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su Internet rispondendo alla sua domanda: “Con una sola parola cosa vi fa più paura perdere, o qual è la sola cosa che vorreste a tutti i costi conservare?” (27-28). La seconda, tre anni dopo, all’indomani delle sue dimissioni da ministro, dal titolo: “Quelli che giocano dentro” di Larry Summers, segretario al Tesoro degli Stati Uniti d’America, che rivela che “ci sono due specie di politici, quelli che giocano dentro e quelli che giocano fuori. Quelli che giocano fuori privilegiano la loro libertà di dire quello che pensano … Quelli che giocano dentro hanno una regola sacrosanta: non si mettono mai contro gli altri che giocano dentro e non dicono mai a quelli che giocano fuori cosa dicono o cosa fanno quelli che giocano dentro” (24). Quello che colpisce, allora, leggendo le 896 pagine di questo corposo volume, con foto di Varoufakis in copertina, è come lo scrittore allarghi effettivamente lo sguardo, e non solo il suo, fino a capire e far capire come l’uomo politico moderno – lui, beninteso non deve possedere solo la conoscenza delle parole della storia o della scienza, ma anche e soprattutto le parole correnti, quelle che maggiormente preoccupano la gente; e conoscerle possibilmente prima, come insegna l’ installazione artistica di Danae, non dopo, come avviene per le scatole nere degli aerei, che vengono consultate a disgrazia avvenuta. E, deve anche saper giocare dentro e fuori: affrontando, da una parte, l’establishment della politica e dell’economia mondiale; dall’altra, scendendo in piazza, per dialogare coi giovani dimostranti, che lottano per un mondo migliore. Insomma, di Adulti nella stanza, tutto si può dire, tranne che sia un libro in odore di pessimismo, nonostante si respiri aria di tragedia già nelle prime battute. È anzi quanto di più ottimistico il suo autore potesse rappresentare, se, nemmeno una volta, parlando di queste vicende, le ritiene un feudo della divinità o il frutto di complotti ad opera di potenti (30); o, se riferisce di una Christine Lagarde che, “esasperata, in un particolare momento


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della complessa vicenda”, dice: “per risolvere il dramma avremmo avuto bisogno di “adulti nella stanza” (15). Una dichiarazione nel segno del migliore umanesimo, che considera, nel bene e nel male, ciascun uomo artefice della propria fortuna. E c’è da credere, tanto a lei, quanto allo scrittore. A Christine, che è “donna molto ragionevole” (569); a Varoufakis, che, all’ interno di un testo che cambia continuamente genere, tiene dritta la barra del suo stile, sempre effetto di un autentico e concreto realismo, testimoniando che “la Grecia non è mai stata salvata”; e che, con il prestito cosiddetto di “salvataggio” e gli ispettori della troika entusiasticamente impegnati a tagliare le entrate, l’UE e il Fondo monetario internazionale avevano in pratica condannato la Grecia a una moderna versione della dickensiana prigione per debiti” (44). Ma soprattutto a lui, all’autore, quando, ancora nella prefazione di questo “sanguinoso dramma”, cosciente di quanto sia difficile poter sfuggire tanto al pregiudizio quanto al desiderio di vendetta, invoca il dono dell’ imparzialità, fissando i criteri della sua poetica in Sofocle e in Shakespeare; e lo ottiene, se, di lì a poco, può dichiarare che “dietro la sequenza di eventi specifici, (ha) riconosciuto la trama di una storia assai più generale; che, quello che è successo in Grecia è “la storia di quello che succede quando gli uomini si trovano nella morsa di circostanze crudeli generate da un invisibile, efferato sistema di poteri. …; e, che “tutti quelli che (lui ha) incontrato … erano convinti di operare correttamente ma, nell’ insieme, le loro azioni hanno prodotto un disastro di dimensioni continentali” (15). Giuseppe Leone Yanis Varoufakis: Adulti nella stanza. La mia battaglia contro l’establishment dell’Europa. La Nave di Teseo Editore, Milano, 2018. € 25.00. Pp. 896.

NOTTE E' notte fonda. Dormono le creature, forse sognano.

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Sovrano, il silenzio, si muove con lo scettro. Vegliano le stelle, le poche visibili, e la luna, regina della volta, che s'impone con la luce rubata al sole. Tace ogni astro, pur se sveglio. Da un pezzo di vetro osservo il cielo chiaro, in alto, e la terra buia, in basso. Veglio anch'io, coi corpi celesti: ci facciamo compagnia. Antonia Izzi Rufo (Castelnuovo - IS -)

UN GIOCO È un gioco richiamare antichi versi alla memoria, nel tardo meriggio, con l’amico ch’è giunto da lontano e che, seduto accanto a te, ricorda con voce lieve gli smarriti giorni della sua, della nostra giovinezza. Nella trama del tempo ci addentriamo che sottile ci avvolge ed è più gioia, più letizia ritrovare il seme delle cose che amiamo. Rinasce una saggezza ormai smarrita se, percorrendo a ritroso il cammino, le prime età evochiamo della vita, quando s’andava incontro al destino con spavalda allegria. Oggi il sogno dell’ora ci trascina, la fuga delle attese ci accarezza, ma non v’è fuoco, non v’è più certezza: il vento spazza questa nostra via. Elio Andriuoli Napoli


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A cento anni dalla nascita del regista, scrittore, sceneggiatore e fumettista riminese,

FEDERICO FELLINI (1920-1993)

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di Isabella Michela Affinito

[…] Era un pezzo che volevo fare un film per Giulietta: mi sembra un’attrice singolarmente dotata per esprimere con immediatezza gli stupori, gli sgomenti, le frenetiche allegrezze e i comici incupimenti di un clown. Ecco, Giulietta è appunto un’attrice-clown, un’autentica clownesse. Questa definizione, per me gloriosa, è accolta con fastidio dagli attori che vi sospettano forse qualcosa di riduttivo, di poco dignitoso, di rozzo. Sbagliano: il talento clownesco di un attore, a mio avviso è la sua dote più preziosa, il segno di un’aristocratica vocazione per l’arte scenica. » (Dal libro Fare un film con l’Autobiografia di uno spettatore di Italo Calvino di Federico Fellini, Einaudi Tascabili di Torino, ristampa Anno 2003, pag. 58). Così si espresse il geniale regista riminese, Federico Fellini, a proposito della sua riconsiderazione sulle origini del film La strada del 1954, coi protagonisti sua moglie, Giulietta Masina, nei panni di Gelsomina, e l’ attore americano Anthony Quinn, nei panni di Zampanò, che impersonarono due artisti

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di strada del dopoguerra nel loro quotidiano ‘tirare avanti’ tra stenti e sentimenti incompresi. Probabilmente, Federico Fellini da giovane non sospettava minimamente che sarebbe divenuto uno dei simboli-capisaldi del cinema italiano, un po’ come l’artista di Malaga, Pablo Picasso, lo divenne nella storia dell’arte del Novecento, ambedue rivoluzionari nelle rispettive arti, ma il primo iniziò con tutt’altra mansione artistica, ovvero il fumetto caricaturale. Lui frequentò fino alla conclusione il Ginnasio-Liceo classico dal 1930 al 1938, ma era un ragazzo più che altro attento a cogliere la ‘goffaggine’ altrui per farne un sano umorismo, perlopiù di chi gli stava attorno e così elaborò innumerevoli caricature dei suoi professori e compagni di scuola. Ebbe bisogno di sfogare in questo modo la sua anticipata ansia d’arrivare a qualcosa d’importante, perché sentiva, da buon Capricorno, che un giorno avrebbe raggiunto la vetta del successo nel territorio esclusivo dell’Arte. Addirittura superò l’esame di maturità classica con un espediente tipico del suo allenamento a non perdersi mai d’animo improvvisando, che comunque salva gli audaci. «[…] Se ho preso la licenza liceale, a Forlì, moltissimi anni fa, lo devo proprio a un amico scultore che mi aveva insegnato a pasticciare con la plastilina: senza aver mai aperto un libro, mi presentai il giorno degli esami con un gran valigione dove dentro, sistemati con cura nella paglia come personaggi da presepe, c’erano le statuine caricaturali di tutti i severissimi professori della commissione che, durante gli scritti, di nascosto, avevo avuto modo di osservare e schizzare sulla brutta copia del tema di greco. Non solo fui promosso, e decentemente, ma anche tutti i miei compagni godettero il beneficio di quella mattinata di buon umore. » (Ibidem, pag. 69). Quando giunse a Roma nel 1939 – facendo credere ai genitori di voler proseguire gli studi frequentando la Facoltà di Giurisprudenza, a cui s’era iscritto – entrò come collaboratore in alcuni giornali, sempre come disegnatorevignettista e ben presto avviò la serie di sto-


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rielle umoristiche a puntate da lui inventate, sia nei dialoghi sia nei disegni, mettendosi già nei panni dello sceneggiatore ed erano, purtroppo, gli anni della grande magra, poiché riusciva a stento a mangiare qualcosa solitamente dando in cambio i suoi ritratti- caricature, cosa che a suo tempo abitualmente fece il pittore olandese Vincent Van Gogh, donando i suoi quadri in cambio di pasta e fagioli o pasta e patate. In più di un’occasione il grande attore romano Alberto Sordi, interprete di alcuni film famosi di Fellini tra cui Lo sceicco bianco del 1952, ha ricordato quegli anni descrivendo l’amico riminese molto magro in contrasto con l’altezza ch’aveva e che un’ amica comune, cameriera in un’osteria romana, ogni tanto nascondeva sotto un ‘normale’ piatto di spaghetti bistecca e uova per loro. La caricatura, l’ambiente circense, la comicità vista dai bassifondi, il linguaggio degli sguardi marcati, l’insoddisfazione esistenziale recondita, l’assembramento dei corpi umani (maschili e femminili d’ogni età) e il chiasso derivante da essi che in alcuni momenti infondevano anche una controversa e inspiegabile solitudine, sono stati gli ingredienti ragguardevoli per l’attestazione di realista visionario – dallo stile cinematografico di fantarealismo da lui ideato – che in seguito gli è stata debitamente attribuita, specie dopo il conclamato successo del suo film 8½ del 1963, che vide la partecipazione di Sandra Milo, Rossella Falk, Marcello Mastroianni (protagonista e diventato il suo alter ego), Claudia Cardinale ed altri attori più o meno noti dell’epoca. Diciamo che l’arte felliniana affonda le sue radici persino nella primissima sperimentazione delle arti applicate nella scuola di Weimar, il Bauhaus (1919-1933), coi primi modelli di personaggi strampalati tra l’umano e l’impersonale disegnati dal professore di scultura, scenografia e pittura murale, Oskar Schlemmer, ispiratosi alle semplici figure geometriche; di fare il cinema non più mettendo in risalto le gesta eroiche e i valori positivi tanto propagandati dal colosso del cinema hollywoodiano di quegli anni, bensì i limiti e le imperfezioni del genere

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umano visto con gli occhi della disillusione, che già si poneva dietro l’angolo del boom economico dell’Italia anni ’60. Gli uomini e le donne felliniani sono apparsi tempestati dalle loro molteplici inquietudini, dalle loro visioni ad occhi aperti che non gli conferivano pace, infragiliti da frastuoni interiori che corrispondevano a musiche-ritornelli esterni, come la marcetta celebre che ha fatto da colonna sonora al film-consacrazione 8½ composta da Nino Rota. L’abbinamento Fellini-Picasso non nasce per caso: il primo ha rotto gli argini della ‘normalità’ di fare cinema, delle convenzioni fino ad allora adottate nelle trame e nelle tecniche cinematografiche; il secondo ha messo sulla tela non più una visione soltanto – Guernica del 1937 – ma più visioni insieme stravolgendo il soggetto ritratto; ricordiamo, ad esempio, la sua amante-modella fotografa iugoslava Dora Maar, ripresa su tela in modo da apparire non come una piacevole creatura femminile ma miscela di tratti somatici esasperati anche dai colori accesi del ricordo, dalla passione intercorsa fra i due, dalla trasfigurazione dell’amore che per un certo periodo li vide, negli anni della Seconda guerra mondiale, assiduamente insieme. La precedente pellicola cinematografica di Fellini del 1960, La dolce vita, con l’attrice svedese Anita Ekberg e Marcello Mastroianni, già era stata definita ‘picassiana’ tanto da aver suscitato polemiche e critiche negative riguardo alla mancanza di moralità che nell’Italia del benessere proprio non si addiceva, della sfrenata follia di voler fare quello che si voleva tra cui l’immergersi vestiti di notte nella scenica Fontana di Trevi, infrangendo le regole del sano comportamento. «[…] Invece ieri notte ho sognato Picasso. È la seconda volta che lo sogno. La prima volta (anche allora attraversavo un periodo di confusione e di sfiducia) stavamo in una cucina, era chiaramente la cucina di casa sua, un enorme cucinone ingombro di cibi, di quadri, di colori. Parlammo tutta la notte. Nel sogno dell’altra notte invece c’era un mare sconfinato che mi pareva quello che si


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può vedere dal porto di Rimini: un cielo scuro, temporalesco, le onde verdi, livide, punteggiate dalle creste bianche dei giorni di tempesta. Davanti a me un uomo nuotava con poderose bracciate, la testa pelata affiorante dall’acqua, appena una crinierina canuta sulla nuca. A un tratto l’uomo si voltava verso di me: era Picasso che mi faceva segno di seguirlo più avanti, in un posto dove avremmo trovato dell’ottimo pesce. È un bel sogno, no? Dici di no? Per quanto riguarda il titolo non mi è venuto niente che mi convinca. Flaiano propone La bella confusione, ma non mi piace molto. […] ho disegnato un grande 8½. Sarebbe il suo numero, se lo farò. » (Ibidem, pag. 86). Isabella Michela Affinito

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CHE MERAVIGLIA! Un altro giorno d'estate: è caldo, il cielo è limpido, il sole illumina l'universo, tutti gli esseri viventi. Un senso di gioia avvertiamo dentro, nell'anima, e non crediamo più all'inverno né all'inferno. Dono meraviglioso la vita! Vogliamo viverla intensamente, eternamente. La morte? Non esiste, è una parola astratta, inventata, inesistente. Antonia Izzi Rufo Castelnuiovo (IS)

LA FATA POMEZIA-NOTIZIE Da oltre vent’anni, arriva dalla nostra Italia la Fata Pomezia-Notizie, che il Suo Mago Dr. Domenico Defelice, con tanto affetto c’invia dal cielo italiano e la fa atterrare col saltellare dei canguri, il quieto sorriso dei koala, il correre sinuoso degli emu, il passeggiare delle eleganti gazzelle e il nostro cuore palpitante in festa, nella nostra lontana Australia. Italia-Australia vicina, nell’abbraccio dolcissimo della Fata Pomezia-Notizie, che ci unisce col cuore e l’anima e ci fa sentire nella nostra Italia con la gioia e tanta emozione, che cancella le lacrime della nostra lontananza con il Suo Grande Amore! 26 – 6 – 2020

Rogo. Ti aspetto qui sulle cime immacolate. Signore oscuro del mio tempo. Tra un’alba e un tramonto. Dove i venti chiudono le ali. Divorante dono. Rogo tra sguardo e attesa. Sacralità di un invisibile amore. Senza il gracile tinnio dei cuori. Fiamma dell’attesa. Qui.

Feuer. Ich warte hier auf den makellosen Gipfeln auf dich, dunkler Herr meiner Zeit. Von wann die Sonne aufgeht bis wann sie untergeht. Wo die Winde ihre Flügel schließen. Geschenk das verschlingt. Feuer zwischen Blick und Erwartung. Heiligkeit einer unsichtbaren Liebe. Ohne das dünne Klingen der Herzen. Flamme des Wartens. Hier. (Antonio De Marchi-Gherini, lirica tratta da

Giovanna Li Volti Guzzardi Melbourne, Australia

Il volo, probabilmente. signum edizioni d’arte, s.d. Traduzione in tedesco di Marina Caracciolo)


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IL VECCHIO E LE NUVOLE DI

GIANNI RESCIGNO di Carmine Chiodo

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ULLA poesia del compianto Gianni Rescigno (1937-2015) si ha una massiccia bibliografia e il poeta nel corso del tempo ci ha lasciato varie sillogi poetiche alle quali ora si unisce questa che ha visto la luce dopo la scomparsa dell’A. I prefatori di questa raccolta hanno colto bene quelli che sono i tratti peculiari della poesia di Rescigno: una poesia chiara, sentita, originale che rispecchia fedelmente l’essere umano del poeta che è sempre attento alla società e agli altri. Una poesia di pensiero e di anima, d’ amore come ha messo in evidenza la Alaimo che pone pure l’accento sull’altro aspetto della poesia di Rescigno, che è poi la sua nota più originale e appariscente: la mancanza di ogni cerebralismo e tecnicismo: ma ciò si nota anche in tutta quanta la poesia del com-

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pianto amico e poeta Rescigno, che non ho mai conosciuto di persona ma attraverso le sue poesie, e varie volte nelle nostre telefonate ho avuto modo di ascoltare la sua voce dolce e delicata che mi comunicava con gioia l’invio di un nuovo libro poetico oppure per dirmi grazie per aver dedicato a qualche sua silloge una scheda. Orbene, sono d’accordo con Marina Caracciolo allorquando scrive che la poesia di Rescigno ha un <<fascinoso potere>>, e che sia cosi è ampiamente provato dai versi che cito: <<Nuvole bianche /montagne di cielo/ trapassate di luce./Cade rossa sul mare la sera>> (<<Nuvole bianche>>); <<L’anima nostra sapeva./I poeti non muoiono,/Sono dovunque /trascinati dal sole della notte>> (<<Bagnata da un sogno>>). Qui ci sono i temi cari a Rescigno, come appunta Sandro Angelucci: la natura, la fede, gli affetti familiari, la vita, la morte, le lacrime dei poeti, e via dicendo. Gianni Rescigno è stato un uomo buono, onesto, gentile e garbato che si è fatto sempre amare, e come scrive opportunamente la Alaimo <<era sapientissimo ed era un bambino e sapeva amare e farsi amare>>. La sua poesia fluisce limpida e spontanea come è stata la sua vita: <<Bionda è la mia donna/sazia di sogni/in questa notte di grilli>> (<<Notte di grilli>>); <<Con le parole morte /e le parole vive /piangono i poeti>> (<<Con le parole morte>>); <<Non lasciarmi solo stanotte /Non ho più amici,/ Se ne sono andati a coltivare i giardini dei sogni,/Tu sei l’unico che mi resta>> (<<Non lasciarmi solo>>). Questo libro poetico è molto compatto, unitario nella lingua e nei temi, e in esso si leggono liriche veramente eccezionali, affascinanti che rendono l’A. un grande e vero poeta: <<Non morirà /l’amore per Lucia,/splenderà in ogni pagine /delle mie parole>> (<<L’amore per Lucia>>); <<Le carezze /ce le regalavamo con gli occhi/ i baci nel sonno con le punta delle dita>> (<<Le carezze e i baci>>); << Dove non ci sono luci canti addobbi e sprechi/ è più Natale che da noi>> (<< Natale 2009>>). La silloge che sto esaminando è costituita


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da sei sezioni che rispettivamente si intitolano. <<I Poeti>>, <<Legami d’amore>>, <<Il tempo dell’attesa>>, <<La natura>>, <<La fede>>, <<Memorie>>, e sono queste sezioni che danno origine a un canto lirico pieno e di varia tonalità tematiche e di diversi esisti stilistici: <<Dall’attimo nasci / nello stesso attimo ti dilegui /Ma è più veloce l’artiglio del cuore /Ti afferra, ti stringe /perché nel pensiero tu splenda>> (<<La parola>>, poesia che appartiene alla sezione <<I Poeti>>; <<Eravamo felici:/ il pane in mano /tre gocce d’olio /un pizzico di zucchero>> (<<Le carezze e i baci>> (sezione <<I legami d’amore>>); <<Non sapevamo dove andare ,/ci mettevamo le mani davanti agli occhi per non vedere;/ Il mondo erano le strade / sconosciute, i venti le giornate /perdute, le voci mai sentite>>

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perché qui ritorni la carità, qui dove si avvampano le menti di chi ha poco o proprio niente, e sono falò disperati gli occhi in cui si inceneriscono le ore di domani. Gianni Rescigno Da: Il vecchio e le nuvole, BastogiLibri, 2019.

Non so Non so come facevi a credere che io potessi dipingerti il volto col bianco della luna, metterti nelle mani le stelle d’agosto ch’erano soltanto lucciole smarrite. Non so come facevi a diventare fata, bimba vestita di parole, di sogni incontrati e subito fuggiti dal profumo della primavera.

(<<Non sapevamo dove andare>>, sezione <<Memorie>>. La silloge contiene varie liriche di Rescigno inedite, affidate dalla diletta moglie, Lucia, a Franca Alaimo che ha saputo bene organizzarle e prefarle con altri amici del poeta.>>). Carmine Chiodo Gianni Rescigno, Il vecchio e le nuvole, Prefazioni di Franca Alaimo e Marina Caracciolo. Introduzione di Sandro Angelucci, Bastogi Libri, 2019.

A SCRUTARE OLTRE IL NULLA Ci siamo ancora noi a scrutare oltre il nulla, a bussare a porte sconosciute, con un filo di voce a pregare

Ich weiß nicht Ich weiß nicht, wie du gedacht hast, ich könnte dein Gesicht mit dem Weiß des Mondes bemalen und die Auguststerne, die nur verlorene Glühwürmchen waren, in deine Hände legen. Ich weiß nicht, wie du es geschafft hast, eine Fee zu werden, du, ein kleines Mädchen, das Worte und Träume trägt, die fast erfüllt wurden, aber sofort aus dem Duft des Frühlings verschwanden. (Gianni Rescigno, da Il vecchio e le nuvole. Traduzione in tedesco di Marina Caracciolo)


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EMERICO GIACHERY LA PAROLA TRASCESA E ALTRI SCRITTI di Domenico Defelice

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UELLO che subito colpisce è il racconto colloquiale; è come se lo scrittore stesse attorniato da una schiera di amici, o meglio di allievi, e con loro ragionasse piano e suadente, sommergendoli e incantandoli col continuo fluire delle immagini e l’affacciarsi via via di personaggi famosi, a volte da lui conosciuti di persona, più spesso amati, perché in sintonia perfetta con le loro pagine, con i loro pensieri. Sotto un tale aspetto, a proposito, cioè, dei tanti autori che s’incontrano, questo meraviglioso libro è “una densa rassegna”; tutti quelli citati o ricordati, sempre mi danno - afferma Giachery - “qualche motivo che consuona nel profondo con quello che vado cercando”. Il suo è un linguaggio forbito, netto, lim-

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pido, senza ombra alcuna di astrusità; in lui è assolutamente assente il fumo di certi nostri critici osannati; i poeti ai quali si accompagna son noti in tutto il mondo e gli basta appena un cenno, o il riporto di pochi versi, per caratterizzarli, darci di loro contorni perfetti. Nel testo abbiamo molte affascinanti, magiche digressioni, a volte così lunghe e intense, che affabulano lo stesso autore, costretto a ritornare indietro e riprendere il discorso: “Riprendiamo contatto col titolo”; “Torniamo ai giorni nostri”; “Torniamo un attimo a Calvino”; “Tornando a Petrarca”; “Ma torniamo ai “Quaderni di Poesia””; “Torniamo per un momento in Francia”… Precisa più d’una volta che le sue sono divagazioni e che ha avuto sempre e continua ad avere, della poesia, una “concezione (…) profondamente spiritualistica e orfica”. Giachery si sofferma su diversi termini fascinosi come “leggerezza”, anche in contrapposizione a “pesantezza”, attraverso, naturalmente, i suoi tanti amati autori (Calvino - in particolare -, Savinio, Montale, Petrarca, Leopardi che, secondo Calvino, “nel suo ininterrotto ragionamento sull’insostenibile peso del vivere, dà alla felicità irraggiungibile immagini di leggerezza: gli uccelli, una voce femminile che canta da una finestra, la trasparenza dell’aria, soprattutto la luna”; o come “luce”, “spesso con significato spirituale”, e sempre con l’apporto dei suoi amati poeti (Ungaretti, per esempio, Comi, Viviani e, naturalmente, Dante e Petrarca), nonché pittori quali Caravaggio, Monet, Simone Martini e la poesia alta di Luzi, affermando che “non è facile dissociare la luce dal senso del divino e dell’assoluto”. Compito assai arduo, che Giachery riesce a risolvere, perché uno che ama profondamente la poesia; egli stesso ci ricorda quel che diceva Paul Valéry: “a chi non ama profondamente la poesia dovrebbe essere proibito di occuparsene”. E siamo appena all’assaggio di questa bellissima opera: l’Introduzione. Vengono, poi, capitoli altrettanto intensi, come “Rosario


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Assunto e Dante”, nelle cui “pagine lo slancio spirituale di Assunto (…) si ritrova tutto. Con Dante, il pensatore trova davvero un argomento degno del suo generoso impegno teoretico”; “Presenza e fascino di Orfeo”, il quale, per Giachery, è “Un sogno, un grande sogno dell’uomo occidentale”, che egli ci rende facendolo emergere da una infinità di famosi poeti, scrittori e critici e da altrettanto famosi pittori; “Incontri con l’ ermeneutica”; <<”Saggezza” dell’interprete>>; “Lo stile dell’interprete letterario”; “L’ interpretazione vocale dei testi poetici”; “Promenade en mer”, sui quali occorrerebbe soffermarsi a lungo, tanto sono solari e ghiotti. Usando le parole dello stesso Giachery, “Si vorrebbe continuare a citare e citare, lasciandosi catturare dal ritmo serrato del suo pensiero, ma per questa volta ci si ferma qui”, anche perché, forse, è saggio lasciare al lettore intatto il fascino della scoperta, il brivido della poesia, la partecipazione, con l’autore, alla commozione. Giachery ha insegnato a lungo nelle università e ci piace immaginare i suoi allievi smagati, asciugarsi, senza farsi notare, qualche furtiva lacrima di gioia. Sì, perché commuoversi di gioia vuol dire, a volte, salire proprio fino all’empireo, indiarsi, spiccare veramente “il volo verso i cieli dell’Essere”. Pomezia, 13 luglio 2020. Domenico Defelice

sola, estatica, su un muretto siede, e pensa, commosso lo sguardo, in fermento l'anima... Rivede i suoi cari,, il suo sposo, non più, e la bambina d'un tempo che fu... Piange, ride, assapora ricordi lontani, gioiosi, di lacrime il sale. Antonia Izzi Rufo (Castelnuovo al Volturno - IS)

EMERICO GIACHERY - LA PAROLA TRASCESA E ALTRI SCRITTI - Aracne Editrice, 2020 - Pagg. 120, € 9,00

Träumerei

SERATE DI LUGLIO Dolci serate di luglio, fresche, silenti, lenimento al torrido giorno, rifugio per chi dalla città a goderne vola in paese dove deserto è la terra protetta da un cielo splendente di luna che eclissa le stelle! Una donna immobile,

Fantasticheria Con un abito di seta gonfio di vento come azzurra vela sul mare, vorrei attraversare il cielo su un carro di nuvole tirato da mille farfalle. Vorrei chiamar le stelle per nome ad una ad una per accorgermi infine che anche di notte il brillio incantevole degli astri è assai più forte dell’oscurità. Marina Caracciolo Torino

Mit einem windgeschwollenen Seidenkleid wie ein blaues Segel auf dem Meer, möchte ich den Himmel überqueren auf einem Wolkenwagen, der von tausend Schmetterlingen gezogen wird. Ich möchte die Sterne einzeln beim Namen nennen um endlich zu erkennen, dass ihr bezauberndes Funkeln auch nachts viel stärker ist als die Dunkelheit. (Traduzione della stessa Autrice)


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Nel 150° della nascita

MARIA MONTESSORI di Anna Cimicata

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E v’è per l’umanità una speranza di salvezza e di aiuto, questo aiuto non potrà venire che dal bambino, perché in lui si costruisce l’uomo”, cosi si esprimeva la dottoressa Maria Montessori in uno dei suoi discorsi sul Metodo da lei ideato e sperimentato fra la fine dell’800 e la metà del ‘900 diffuso in tutto il mondo. Ancora oggi sempre più richiesto e apprezzato da genitori e insegnanti; il Metodo è soggetto a rinnovate letture e ricerche da parte degli studiosi, perché risponde alle attuali esigenze dell’educazione nella nuova realtà sociale multietnica. Il suo Metodo Scientifico rappresenta una strada maestra per gli educatori alla pace e all’intercultura di oggi. Alcune parole chiave dell’educazione interculturale alla luce dell’ esperienza montessoriana sono: accoglienza, ascolto, osservazione. Il metodo elaborato dalla dottoressa è volto alla costruzione della pace sui due versanti quello della pace interiore, frutto della realizzazione delle proprie potenzialità attraverso il lavoro libero e quello delle relazioni sociali. Osservando il mondo di oggi appare chiaro, forse non a tutti, che solo la pace e la collaborazione fra i popoli potranno garantire lo sviluppo della civiltà, o meglio la sopravvivenza. Nella visione cosmica della Montessori “l’Educazio ne è l’ arma della Pace”, aiuto alla vita; tutto il suo instancabile lavoro ha come punto di partenza e, al tempo stesso obiettivo,

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l’impegno per la pace, al di là delle ideologie, dei sentimenti, delle posizioni politiche. Nella concezione della dottoressa sulla Pace c’è qualcosa di più profondo: la pace è condizione indispensabile per la crescita del bambino, necessaria per lo sviluppo della civiltà umana. Ciò che rende importante e caratteristico l’insegnamento della Montessori valido per il presente e per il futuro è il metodo scientifico, basato sull’accoglienza, l’ascolto e l’osservazione delle esigenze dei bambini e sulla sperimentazione scientifica condotta. Un aspetto particolare dell’ accoglienza è quello che comporta il massimo rispetto per le realtà, le culture e le religioni diverse. La fede religiosa della dottoressa ha influenzato il suo lavoro; persone che conoscono poco il suo pensiero credono che il metodo abbia qualcosa di clericale o di bigotto; la prima evidenza di quanto ciò non sia vero è la concentrazione nelle scuole Montessoriane di bambini di culture e religioni differenti. Un importante insegnamento che ci viene dalla pratica dell’Educazione interculturale è che le differenze non sono un problema, ma una ricchezza; avere radici diverse è la base per il confronto e la crescita individuale e collettiva e tanto più profonde sono le radici, tanto più ricchi saranno il confronto e la crescita. Per la Montessori ad ogni alunno, dalla materna all’università, si deve riconoscere il diritto di essere il protagonista della propria formazione, guidandolo in questo compito complesso, non sovrapponendosi a lui. Così diceva riferendosi al maestro: “Si è venuto delineando un nuovo tipo di docente: invece della parola, deve imparare il silenzio; invece d’insegnare deve osservare; invece della dignità orgogliosa di chi voleva apparire infallibile, assume una veste di umiltà”. L’ insegnante deve organizzare l’ambiente; attendere affinché i bambini svolgano il loro compito, osservarli, rispettare i loro ritmi. Porre al centro la libertà e la creatività dei bambini; fare acquisire loro alti livelli di autonomia; curare l’ambiente di apprendimento e i materiali didattici (sensoriali e di vita pratica).


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Il Metodo Montessori ha avuto origine dallo studio dei bambini e delle bambine con problemi psichici, per poi espandersi allo studio dell’educazione per tutti. Questo è il suo grande valore! L’aver studiato a fondo le modalità di apprendimento di alunni con disabilità e aver trasferito queste conoscenze in ambito “normale” valorizzando tutte le forme di intelligenza. Nelle Case dei Bambini aperte da Maria Montessori e diffuse in tutto il mondo gli alunni vengono lasciati liberi di esplorare con la certezza che ci sia un impulso naturale verso l’apprendimento. E’ sorprendente che, grazie a lei, intorno al 1900 si stesse rivoluzionando da un lato l’approccio riabilitativo nei centri speciali, dall’altro la pedagogia diretta ai bambini “normali” che, se ne rileggiamo i contenuti, non differisce da quella contemporanea. “Fu così che interessandomi agli idioti, venni a conoscere il metodo speciale di educazione per questi infelici bambini ideato da Segnini e in genere a penetrare l’idea allora nascente anche tra i medici dell’efficacia di cure pedagogiche per varie forme morbose come la sordità, l’idiozia, il rachitismo (…)”. Maria Montessori nacque il 31 Agosto del 1870 a Chiaravalle e morì il 6 Maggio 1952 a Noordwijk, nei Paesi Bassi. Fu la prima donna in Italia a laurearsi in medicina (1896), grazie al suo lavoro di medico si avvicinò al mondo dei bambini cosiddetti “deficienti”; vide nel “problema” di questi bambini non più una questione medica ma in particolar modo pedagogica, idea espressa nel primo Congresso Pedagogico Italiano, avvenuto a Torino nel 1898. La dottoressa si ispirò a studi di medici e pedagogisti francesi (Itard e Seguin) che si occupavano dell’educabilità di alunni “subnormali”; sostenevano che prima vengono le potenzialità e poi la patologia…, Itard insegnò a leggere ad un Subnormale sconfessando l’equazione “l’inguaribile è incurabile”. Maria Montessori medico diventa pedagogista; prepara i maestri ai metodi speciali per bambini frenastenici; nel 1900 apre la prima scuola ortofrenica e nel 1907 la prima Casa dei Bambini. Scrive il “Trattato mo-

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rale, igiene e educazione degli idioti”. Innumerevoli i suoi scritti di pedagogia e didattica: eredità di immenso valore per docenti e genitori. La sua opera continua a vivere attraverso le centinaia di scuole istituite a suo nome nelle più disparate parti del globo. Sulla sua tomba l’epitaffio recita: “Io prego i cari bambini, che possono tutto, di unirsi a me per la costruzione della pace negli uomini e nel mondo”. Anna Cimicata

FERMO IMMAGINE Niente si muove interruzione di corrente arresto del cuore del mondo aguzzo lo sguardo lo focalizzo sulle strade invano niente si muove dovrei averci pertanto un pedone un velocipede una carretta una vettura da qualche parte un cane errante sorto dal nulla una figliata di gattini immersa in un secchio d’acqua salata per annegarli ma no niente si muove ad eccezione nel porto dove un cielo grigio pesa sulle antenne e marinai invisibili giustamente intaccati da insolenti gabbiani che si beffano in un muto valzer dei viaggiatori confinati nelle cabine liberi planano al volere dei venti attorno a fumaioli spenti da cui non viene nessun canto di sirene eccoli coloro che d’un colpo d’ala sfrenato rompono l’immaginario degli uomini il cui solo desiderio è guadagnar terra prima che il mare se l’inghiotta Irène Clara (Libera versione di Domenico Defelice dell’ originale francese “Arrêt sur images”, a pag. 16 della rivista Florilège n. 179, Juin 2020)


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La consistente e prolifica produzione letteraria di

ISABELLA MICHELA AFFINITO di Antonio Crecchia

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A presenza di Isabella Michela Affinito in ambito letterario nazionale è ben nota e seguita da vicino da validi esponenti della fenomenologia espressiva e comunicativa. Ho avuto recentemente tra le mani quattro volumi da lei pubblicati 1) “Dalle radici alle foglie alla poesia” (Edizioni Eva, Isernia 2015); 2) Lettere a… (Il Convivio Editore, Castiglione di Sicilia, gennaio 2020); 3) “Una raccolta di stili” (18° volume edita da Carta e Penna – Torino, gennaio 2020); 4) “Autori contemporanei nella critica di I. M. Affinito”, III volume – Casa Editrice Menna di Avellino, febbraio 2019). In sostanza, i volumi sopra indicati tracciano gli itinerari principali, privilegiati dalla scrittrice di Fiuggi. Altri, però, vengono frequentati abitualmente per appagare la sua sete di “virtute e conoscenza”, dilatando gli interessi culturali verso gli ambiti della “critica

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d’arte, cinematografica, l’antiquariato, la diaristica, la storia del teatro, la filosofia, l’ egittologia, la poesia del panorama contemporaneo e la saggistica”. Già dal primo impatto con i suoi libri di poesia, il lettore ha l’impressione di trovarsi davanti a un rubinetto canoro che trae versi fluidi, scorrevoli senza interruzioni, con rare pause e cesure. Le facoltà intellettive esercitano il controllo razionale con discrezione, quasi intimorite di fronte alla piena dell’estro narrante, espositivo. Gli apporti collegabili alla realtà naturale, oggettiva, culturale, artistica, di costume sono notevoli. Da una cultura ampia, solida, profonda, eterogenea, felicemente interiorizzata e di continuo ravvivata da nuove esplorazioni cognitive, l’Affino trae linfa per dar corpo e struttura alle sue esternazioni. Una rara e stretta familiarità con personaggi dell’arte e della letteratura le danno i semi da spargere nel suo giardino poetico, in cui avviene la nascita esplosiva di componimenti tendenzialmente miranti ad una elevazione verso l’alto, a una dimensione aerea, a un volo oltre la terrestre spazialità. La disamina, sia pure affrettata, dei testi a mia disposizione non lascia dubbi sulla strabocchevole vena discorsiva della poetessa/scrittrice/ saggista di Fiuggi. Vita vissuta e cultura sono i poli a cui di continuo si richiama e accede per dar anima e sostanza alle sue esternazioni formali e solennizzano l’effusione dei pensieri, suggestioni, emozioni e sentimenti. Il rapporto con la natura, desumibile dalla lettura della silloge “Dalle radici alle foglie alla poesia”, si rivela nella sua dimensione mistica: parte dal fondo dell’animo e all’ animo ritorna, apportandovi tutti i benefici di cui la natura è capace di dispensare a coloro che l’amano e ne fanno un sostegno non solo materiale ma essenzialmente spirituale della propria esistenza. Nei versi della Poetessa dedicati agli “alberi” emerge con chiarezza uno stato di solitudine vissuto per libera scelta, al fine di meglio


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e più compiutamente seguire gli incantamenti dell’arte creativa e “sfuggire” il caotico e incomprensibile teatro allestito dagli imprenditori delle faide a catena, dove si recita la farsa dei beceri e corrotti costumi della civiltà decadente. Certo, l’albero, di per sé, non potrebbe “scrivere versi”, ma ha il magico potere di “dettarli” “con tutti / gli ingredienti della sua / favola di legno”. Poeti e pittori di tutto il mondo, in ogni tempo hanno tratto struggenti emozioni nell’ immedesimarsi alla vitale statuità, armonia e fierezza dell’albero, nel cogliere il suo “canto silenzioso”, la sua perpetua ansia di elevazione verso il cielo, sede superna della divinità. Poiché il pendolo della vita dell’Affinito oscilla tra natura e cultura, tra oggettività e soggettività, il contraltare agli stati di solitudine è la “comunicazione” il dialogo con se stessa, con il mondo reale della quotidianità, con celebri artisti, poeti scrittori entrati nel gotha della celebrità, attraverso “lettere” scritte in versi e raccolte in una lunga serie di volumi (definibili come raccolte di stili). Il diciottesimo, che qui si esamina, è un “omaggio alla genialità scultorea di Antonio Canova – Uno dei più grandi interpreti del Neoclassicismo”. Seguendo una collaudata metodologia, nel modulo si rende omaggio anche ad altre note icone dell’arte, essenzialmente pittorica, tra cui Leonardo da Vinci, Frida Pollock, Kahlo, Anna Achmatova, Kandinskij, Vincent Van Gogh, Klimt, Monet, Andy Warhol… Questo modo abituale di vivere idealmente con i Grandi, il condividere senza riserve il loro vissuto, le loro idee, gli stili utilizzati per approdare all’eternità dell’arte o della scrittura, è riscontrabile anche in Lettere a… (Il Convivio Editore, gennaio 2020), ove tra i destinatari eccelsi, compaiono i nomi di Virginia Woolf, Thomas Mann, Modigliani, Picasso, Giorgio Morandi, Giacomo Leopardi, Emily Dickinson, Eraclito, Franz Kafka… A fianco a questi celebrati simboli della maestria rappresentativa del mondo oggettivo o soggettivo, trovano posto persone e entità di diversa natura, tutte con una loro dignità che

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le qualifica generatrici e portatrici di esempi di umiltà, bontà, utilità e di valori, sia pure secondari, ma comunque meritevoli di rispetto e attenzione, giacché, ci fa capire l’Autrice, la sensibilità umana non ha limiti e il poeta può lasciarsi intenerire da una foglia, da un filo d’erba, dall’apparire di una stella o di un pianeta, di un’alba come di un crepuscolo; può immedesimarsi e esaltarsi nella lettura di un romanzo come “Gita la faro” di Virginia Woolf, come sprofondare nel dolore alla notizia che Nȏtre Dame di Parigi sta bruciando. Il poeta è per eccellenza lo strumento amplificatore di quanto nel mondo vi è di vero, di buono, di giusto, di bello. Rapportarsi ad esso con delicatezza e sublimità di sentimenti significa partecipare alla Vita del mondo, nel tempo e oltre il tempo. Tutto ciò che accade, vicino o lontano; tutto ciò che è visibile, animato o inanimato; tutto ciò che motivo di pensiero, emozione, sentimento è discorribile, può dare al poeta l’occasione per manifestarsi nella sua totalità di essere cosciente e partecipe al corso della storia in divenire. Dentro il flusso di queste energie vitali e spirituali mi pare si muova e procede sicura e senza impedimenti la Poetessa di Fiuggi. Per lei, come per Virginia Woolf, scrivere è il piacere primario, fondamentale, profondo; essere letta è senza dubbio motivo di soddisfazione, ma secondario e superficiale. Consona ad una filosofia di vita orientata verso forme di solidarietà e di altruismo, convinta come me che il piacere maggiore si prova nel dare e non nell’avere, l’Affinito mette a disposizione di coloro che si dedicano alle arti creative tutta la sua ars dicendi, raffinata e incrementata in decenni di esperienze in letture interpretative e di interventi esegetici. Ne sono prova i tre volumi di “Autori contemporanei nella critica di Isabella Michela Affinito”, editi da Editrice Menna - Avellino. Seguirà a breve un quarto volume. Un lungo e fecondo percorso di “Critica moderna”, iniziato con l’avvento del Terzo millennio e portato avanti senza soluzione di continuità, a conferma di un passione per la lettura e la di-


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sanima delle opere di vario genere a firma di autori diversi. Nel terzo volume, che ho tra le mani, trovo non pochi autori a me noti, sia per aver avuto l’opportunità di conoscerli direttamente, sia per aver letto le opere e rilasciato dei commenti, sia per averli incontrati nelle pagine di riviste letterarie. I tantissimi libri letti, “amati”, in questi ultimi vent’anni, che poi sono gli anni migliori della maturità e suggellano il compimento della sua vocazione letteraria con l’ affermazione definitiva della sua dinamica e vulcanica personalità, hanno indubbiamente contribuito non soltanto a dilatare la sfera degli incontri con anime vocate a diffondere i semi dell’arte e della cultura, ma anche a misurarsi di continuo con i prodotti di altri talenti creativi: un tirocinio impegnativo, un’ applicazione faticosa ma utile a incrementare le proprie facoltà intellettive e a sviluppare e accrescere le proprie dotazioni cognitive. Su questo tracciato operativo sono affissi i circa settanta titoli dei volumi di poesie e saggi pubblicati fino ad oggi da Michela Isabella Affinito. Prevedibile, quindi, un futuro all’insegna della continuità e della fedeltà alle “segrete cose”. Con immancabili stimoli, incoraggiamenti e riconoscimenti da parte dei lettori, della critica e delle istituzioni pubbliche. Antonio Crecchia

FUORI STAGIONE Fuori stagione è comparsa giorni fa sul mio balcone una farfalla bianca. “Toh, una farfalla!” ha esclamato Teresa con sorpresa. Ma il mio cuore ha tremato: ormai conosco il saluto che mi porta la bianca farfalla ogni volta che un mio caro lascia per sempre questo nostro mondo. Da tempo non avevo tue notizie e ti sapevo

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alternare la casa all’ospedale. Da anni lottavi sorridendo contro il male che ti consumava, ma continuavi a suonare il pianoforte e dar concerti. Da mesi non rispondevi ormai ai miei messaggi. Ed oggi all’improvviso ho letto un post per te su Facebook. Per te, che più non suonerai il pianoforte, né più darai concerti, né più dirigerai orchestre. Per te, solare e sorridente musicista, cara e dolcissima Claudia Vanzini. 14 luglio 2020 Mariagina Bonciani Milano OLTRE LA SIEPE Oltre la siepe tracciata dal rovo con i suoi tralci sfioriti, svettanti rigogliosi sulle erbe sottostanti, v’è, tra gli ulivi, quel verde ritrovo che lieto accoglie ad ogn’ora del giorno frotte briose d’alati abitatori. Di se stessi vispi solerti pastori, scorazzano e svolazzano d’intorno al verde fico, che offre, a giugno, frutti maturi, polposi e dolci, vistosi tra foglie palmate e rami asciutti. Stuoli di figli del cielo, bramosi come gl’infanti del latte materno, fanno bottino in contegno fraterno. Antonio Crecchia Termoli, CB IL CROCO i Quaderni Letterari di POMEZIA-NOTIZIE il mezzo più semplice ed economico per divulgare le vostre opere. PRENOTATELO!


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MARCELLO FALLETTI DI VILLAFALLETTO IL CORAGGIO DI AMARE di Domenico Defelice

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ARLO era nato a Firenze il 22 agosto 1896, da Giuseppe e da Ida Corbi; studiò prima a Livorno e poi a Firenze, nel collegio dei Salesiani e nel liceo “Michelangelo”; nel 1914 si iscrive in Giurisprudenza - laureandosi dopo la fine della guerra anche in Lettere - e frequenta la scuola allievi ufficiali di Modena. Giovane brillante, ama la cultura e, come tutti, le belle ragazze. Nella primavera del 1916 è chiamato alle armi, nel terzo Regimento bersaglieri, tra Marmolada e Col di Lana. Carlo è anche coraggioso, viene promosso tenente nel febbraio del 1917 e passa alla Divisione di stanza sempre alla Marmolada, a Malga Ciapéla, presso il comando del battaglione alpini Val Cordevole. Qui subisce un devastante incidente il 12 marzo 1917 che lo dilania, con profonde ferite in tutto il corpo, all’addome e al torace, che gli mozza entrambe le mani e gli cava en-

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trambi gli occhi. Curato immediatamente, riesce miracolosamente a sopravvivere, ma è costretto a far la spola da un ospedale all’altro e per molto tempo, fino a ridursi su una carrozzella. Durante una di queste soste, presso l’ospedale “Villa Pisa” a San Domenico a Fiesole, rincontra la giovane infermiera Cesara, la quale non solo non lo abbandonerà più, ma lo sposerà nel gennaio del 1921, gli darà splendidi figli e gli farà da infermiera e da segretaria per tutta la vita. Ecco, in estrema sintesi, un esempio sublime di coraggio di amare. L’attento lettore avrà già capito che ci stiamo riferendo alla coppia Carlo Delcroix e Cesara Rosso. L’abbiamo incontrata per la prima volta a Roma, ancora affiatatissima dopo tanti anni, nella bella casa di Piazza Adriana, nel 1970 o 1971, dove ci siamo recati per correggere, al Delcroix, le bozze di un libro, su preghiera del vicentino prof. Francesco Pedrina, l’autore della Storia e Antologia della Letteratura Italiana, edita dalla Trevisini di Milano e sulla quale ci eravamo formati studiando al “Piria” di Reggio Calabria. Dopo quel primo incontro, ce ne sono stati tanti altri e abbiamo potuto costatare il forte e profondo amore che univa Carlo e Cesara, il grande affetto di lei nel servirlo, nel prodigargli carezze e sorrisi (sorrisi che lui, purtroppo, non poteva vedere), anche nel semplice gesto di accendergli la sigaretta che lui fumava servendosi di un braccio meccanico. Esiste ancora oggi il vero amore? In una società come la nostra, mirante, per lo più, al piacere e alla ricchezza, al corpo bello e perfetto, ci sono ancora coppie come quella alla quale abbiamo accennato e come quella di Margherita e Andrea raccontata da Marcello Falletti di Villafalletto nel suo romanzo Il coraggio di amare? Esisteranno senz’altro, anche se la realtà della cronaca giornalmente ci sbatte in faccia tutt’altro: amore proclamato a parole e platealmente sui media, ma che poi, alla prima difficoltà si scioglie come nebbia al sole, che porta alla separazione, al divorzio, quando non addirittura al delitto; appena l’eros si abbassa in uno della coppia, tutto frana, tutto si frantuma.


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La risposta, se esiste o meno il vero amore, ce la danno Margherita e Andrea, nella quale, per noi, è stato naturale veder specchiata quella di Carlo e Cesara; né loro due, né Carlo e Cesara arretreranno dinanzi al dramma e tutti e quattro ne usciranno vittoriosi. La finzione che combacia perfettamente con la realtà. Ci sono differenze tra le coppie CarloCesare, Andrea-Margherita, ma è uguale l’intensità dell’amore e perciò sono le stesse le conclusioni. Se si ama veramente, niente e nessuno potranno distruggere affetto e unità. Andrea fa un mestiere che non è certo quello del militare; Margherita non fa l’ infermiera; ma terribile era la guerra guerreggiata, reale, di Carlo e Cesara, come altrettanto è quella di Andrea e Margherita nella finzione, sotterranea, perniciosa, economica, sociale e affettiva. Il dramma di Margherita che, dalla spensieratezza passa “improvvisamente, in una gelida e ferale serata di buio”, è lo stesso di Cesara nel vedere, sopra una barella, il giovane Carlo straziato in tutto il corpo, interamente coperto dalle bende, senza le mani e senza gli occhi. Margherita rimane decisa “di coronare tutto (…) con un impego vincolante”, cioè il matrimonio, e lo stesso fa Cesara, sposando il suo martoriato ragazzo. Da aggiungere è che l’amore vero e disinteressato di Margherita e Andrea s’è potuto gestire al meglio anche grazie a datori di lavoro coscienziosi: “Il Direttore del mio ufficio”, dice Margherita, “mi ha assicurato e garantito che non sarò lasciata in balia degli eventi”; ma quanti ce ne sono, oggi, che ragionano così? Quanti non si comportano da caimani, invece, licenziando e passando sopra con le scarpe chiodate a sentimenti e necessità appena succede qualcosa ai propri dipendenti? E grazie, anche, alla corona dei familiari, pure inusuale se dobbiamo dar credito alle cronache. Andrea potrà benissimo esclamare di credere “nella forza dell’amore ma più che mai nel coraggio dell’amore”, per la catena di solidarietà che si scopre d’intorno. Carlo e Cesara hanno avuto figli propri da far crescere e sui quali hanno riversato il loro affetto; Andrea e Margherita ne adottano uno,

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figlio segreto dello zio Valerio. Andrea guarisce, si rimette quasi completamente; Carlo vivrà per sempre sopra una carrozzella e senza mai vedere il sorriso e la bellezza splendente del suo amore. Due vicende e un solo vero inossidabile coraggio di amare. Domenico Defelice MARCELLO FALLETTI DI VILLAFALLETTO IL CORAGGIO DI AMARE - Ascarichae Domus, Accademia Collegio de’ Nobili Editore, 2020, pagg. 74, € 10,00

PORQUE ASÍ SOMOS Primero la verguenza porque los pobres comían nuestra basura Después la incompatibilidad porque nuestra clase social decía que así era la vida: que siempre los pobres iban a estar ahí para molestarnos Entonces la rabia porque los militares defendían el derecho de los ricos a explotar el hambre y el trabajo de los pobres Y por fin, nuestro cambio de vida para hacer la revolución Porque así éramos fuimos al exilio, pero no al silencio, no a la conformidad porque seguimos en la revolución aunque sea en el papel aunque sea en patria ajena aunque sea en el honor porque así somos. Teresinka Pereira Usa


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RUGGERO BONGHI IN CINQUANT’ANNI DI STORIA ITALIANA di Leonardo Selvaggi I Con spirito autodidattico traduce Platone a 18 anni UGGERO Bonghi ricco di tanto spirito di osservazione, vedeva e rifletteva, studiando ogni situazione dall’ ambiente esterno a quello psicologico. Il suo pessimismo voleva dire carattere fermo, serietà e prudenza. Il temperamento adamantino del moralista; il bene, la sua meta costante da raggiungere. La bontà era la sua veste che si rispecchiava in ogni atteggiamento e in ogni suo pensiero. Con intuizione e fervore improvvisava senza cadere in superficialità e vuotaggini. Il senso del vero dominante in lui creava inimicizie e lo faceva apparire superbo, ma bastava conoscerlo per ricredersi. Era pervaso da tanta bonarietà e nobiltà di cuore. Francesco D'Ovidio poteva confermare questo, aveva avuto dal Bonghi tanti ammaestramenti e benevolenze, che sono stati stimoli a ben fare, a superare ostacoli e momenti di crisi.

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Ruggero Bonghi nacque a Napoli il 21 marzo 1826 al vico Gagliani a S. Chiara, 2. Rimasto orfano di padre nel 1836, fu educato dal nonno materno. La sua famiglia di origine pugliese godeva di una certa agiatezza. Dagli undici ai quindici anni fu in collegio dagli Scolopi. Continuò da solo con il suo connaturato spirito autodidattico, approfondendosi negli studi della lingua greca; mostrò subito ingegno fervido. A 18 anni traduce il "Filebo o del Sommo Bene" di Platone, stampato a Napoli nel 1847. E' il primo risultato della sua natia intelligenza fatta di spontaneità e di senso del profondo, di capacità interpretative. Sa vedere con chiarezza i fatti e seguirne l'evoluzione. La storia concepita come svolgimento della volontà, dell'intelligenza, dello spirito, delle virtù dei popoli. Inoltre il Bonghi traduce il "Bello" di Plotino, si dedica al Diritto romano. Non appartiene a nessuna scuola, dotato di spirito autonomo conservato per tutta la vita. Pubblica una breve "Vita di Galluppi" e lo scritto "Degli studi platonici italiani da Petrarca sino a Marsilio Ficino"; “giovanissimo e dottissimo filosofo” definito da Giuseppe Massari, deputato al Parlamento napoletano del 1848, esule a Parigi, direttore a Torino del "Mondo illustrato". Il Bonghi aveva seguito le lezioni di filosofia del Palmieri, successore di Pasquale Galluppi nella cattedra di Logica e Metafisica all'Università di Napoli. Di temperamento esuberante, i moti politici del '48 lo trovano pronto all'azione. Un agitatore liberale irrefrenabile per ottenere norme costituzionali che creassero un Parlamento a Napoli, centro di cultura e di movimenti rivoluzionari. Partecipa al moto delle riforme seguendo le speranze di Pio IX. II Siamo nel 1848 All'inizio del 1848 in casa di Gaetano Filangieri scrive una petizione firmata dai più illustri patrioti del Regno, diretta a Ferdinando II di Borbone, perché fosse concessa la Costituzione. Il Re in un primo tempo si rifiuta, ma quando vede le sommosse di Palermo volte alla creazione di un Regno separato da


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quello di Napoli si decide a promulgare il 10 febbraio una Costituzione rappresentativa. Nella chiesa di S. Francesco da Paola il 24 dello stesso mese giura, ma senza convinzione. Infatti il 15 maggio, come stabilito, il Parlamento non viene convocato. Si ha una sommossa che viene domata dalle forze regie. Al Re interessa frenare la sollevazione siciliana che vuole abbattere i Borboni e nominare Ferdinando duca di Genova, figlio di Carlo Alberto. Ruggero Bonghi collabora al "Tempo", il giornale di Carlo Troya e al "Nazionale" diretto da Silvio Spaventa. E' nominato segretario della Commissione che, presieduta da Pietro Leopardi, aveva ricevuto dal Governo l'incarico di iniziare trattative diplomatiche con gli altri Stati italiani per una lega contro l'Austria. Nulla di concreto si ottiene. Dopo il ritiro della Costituzione per sfuggire alle rappresaglie borboniche, il Bonghi dà inizio all'esilio durante il quale la sua personalità acquisisce una ricca maturazione intellettuale e politica. Nell'agosto 1848 è a Firenze. Frequenta il Gabinetto Vieusseux, si sente vicino a Silvio Spaventa per gli ideali unitari. L'idea fondamentale è la lotta contro la tirannide. E' dopo poco costretto ad andare via da Firenze per essere stato accusato di aver scritto articoli in cui sconsigliava la Casa di Lorena di dare la figlia di Leopoldo II in sposa ad un figlio del Re di Napoli. Ripara a Torino, conosce gli Arconati e i Collegno; partecipa, presente Paolo Emilio Imbriani, ad una riunione di esuli napoletani, durante la quale si parla della guerra di Crimea. Lo vediamo a Pallanza ospite degli Arconati che si trovano colà in villeggiatura. Si reca a Stresa per conoscere Rosmini e il Tommaseo. Nel 1851 è a Parigi. Incontra il Tocqueville di cui segue le teorie liberistiche. Scrive il "Diario" in cui sono in sintesi indicate le letture effettuate sino al febbraio del '53. Nel 1852 di nuovo a Torino e a Stresa. Qui il Rosmini lo accoglie con grande cortesia. Frattanto nella casa del grande religioso e filosofo avviene l'incontro con il Manzoni. Grande differenza tra i due:

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vena facile e bonarietà meridionale del Bonghi, astuzia, freddezza e minuta riflessione nel grande lombardo. Sul Bonghi l'influsso del Manzoni è rimasto vivo e duraturo negli anni, non solo nel campo filosofico e religioso, ma anche in quello linguistico. III I rapporti con Alessandro Manzoni Il Bonghi dà alle stampe due volumi delle "Opere di Platone" e la traduzione dei primi sei libri della "Metafisica" di Aristotele. Invia a Terenzio Mamiani per gli "Atti dell'Accademia di filosofia italica" (1852) lettere sul concetto dell'anima. Scrive, inoltre, dialoghi contenenti le idee maturate durante le conversazioni con Rosmini e Manzoni. Intanto la traduzione della suddetta opera di Aristotele viene criticata sullo "Spettatore" da Alessandro d'Ancona. Il Bonghi in risposta interviene fra il marzo e l'ottobre del 1855 con lettere presentate con il titolo "Perché la letteratura italiana non sia popolare in Italia", trattazione importante nella storia della controversia sulla lingua italiana. Il Bonghi aveva studiato i trecentisti ed era un purista, anche se non aveva frequentato la scuola di Basilio Puoti. In un primo tempo critica lo stile del Manzoni, in seguito lo accetta, vedendo con convinzione nel fiorentino il modello dello scrivere. Quando aveva riletto i "Promessi sposi" aveva avuto l'impressione, invece, che la lingua toscana non avesse migliorato le espressioni del grande romanzo. Della "Colonna infame" ammirava l'acume e la dialettica del contenuto, ma non apprezzava la forma. A Stresa era pieno di orgoglio per tutto quello che aveva letto, fremente dentro la sua cultura fattasi nell'ambiente partenopeo. Pertanto lo turbarono le critiche che il Manzoni fece sugli autori meridionali. Col tempo, come si è detto, un certo processo di integrazione e di rettifica si maturò in lui. Il Bonghi porta un cambiamento a quanto acquisito nella sua giovinezza. Con scrupolosa, minuta diligenza copiò ed arricchì di note gli abbozzi delle composizioni del Manzoni. Appunti, notizie, osservazioni che in sintesi


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si ritrovano nel discorso che pronunciò il giorno della inaugurazione della sala manzoniana nella Biblioteca braidense. Il Croce severi giudizi ha dato su quanto scritto dal manzoniano Ruggero Bonghi sul Cinquecento: afferma che non è stato preso in considerazione il problema linguistico dal punto di vista della storia civile, culturale e morale, senza capire che sono stati esaminati gli aspetti pratici, apprezzata la prosa del '500 che rese la nostra letteratura superiore a quelle contemporanee francese e inglese, criticata soltanto la mancanza di movimento speculativo e di sentimento religioso. I cinquecentisti, secondo la logica e il buon senso, migliori dei moderni meno spontanei, manieristi e poveri di concetti. Non si pensava ad essere di guida ai giovani, ad avviarli all'espressione con un'autonomia propria, molta imitazione e lo studio dei classici fatto in modo meccanico. II Croce ritiene giusto il giudizio del Leopardi quando parla della perfezione di stile nei cinquecentisti, come anche quello del Carducci che vede in loro il tipo nazionale di prosa corrispondente alla cultura del tempo, concetto, in fondo, uguale a quello espresso dal Bonghi molti anni prima. IV Nel 1855 sposa Carlotta Rusca Nuovi orientamenti filologici si hanno nelle versioni dell’Eutidemo" e del "Protagora" di Platone (Milano 1857) e nelle successive traduzioni: il "Gitone", il "Fedone", il "Cratilo", il "Teeteto", il "Convito", pubblicate con le precedenti (Dialoghi di Platone, Roma 188096). Il Bonghi, tenace traduttore di Platone e di Aristotele, filosofo, ma non nel significato dato dagli studiosi dei sistemi speculativi. Non aveva una visione generale della realtà né la forza sistematrice delle idee. Considerò i vari problemi nelle loro complesse manifestazioni senza giungere ad una sintesi. Guardava i principi essenziali della vita senza arrivare ad avere un'organicità di pensieri davanti a tutto l'esistente. Cultura filosofica e dello spirito con una sensibilità che lo portava ad essere interessato

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a tutti gli aspetti della storia umana con riflessione e originalità propria. Numerosi gli scritti apparsi, in questo periodo, sul "Risorgimento", relativi alla figura e all'opera del Manzoni. Nel 1855 a Belgirate nei pressi di Stresa in casa del conte Galeazzo Fontana conobbe la nipote di questi, Carlotta Rusca, di nobile famiglia lombarda, donna intelligente e colta che sposò dopo alcuni mesi. Testimoni del matrimonio furono Pasquale Stanislao Mancini e Pier Silvestro Leopardi. Visse un periodo di serena vita familiare sul lago di Como, dedicandosi a studi e letture affinando sempre più sensibilità e intelligenza. Per consiglio di Cavour rifiuta la cattedra di Logica nell'Università di Pavia offerta nel 1858 da Massimiliano d'Austria, accettata, invece, nel 1859 dal conte Gabrio Casati, quando la Lombardia è libera con le vittorie di Magenta e Solferino. Importante la prolusione "Delle relazioni della filosofia con la Società" (Milano 1859). Il Bonghi si ispira a Mamiani per quanto riguarda l'evoluzione del pensiero filosofico dal medioevo all'età moderna. V Ruggero Bonghi ritorna a Napoli al massimo della sua maturità intellettiva L'Italia meridionale è in piena fermentazione con la spedizione dei Mille, la liberazione della Sicilia, l'entrata di Garibaldi a Napoli e la crisi di Francesco II. Ruggero Bonghi ritorna festante nella città partenopea. Fa risorgere "Il Nazionale", il giornale rivoluzionario del 1848. Partecipa ai movimenti che porteranno al Plebiscito, cioè all'unificazione di Napoli e di tutto il Mezzogiorno alle altre regioni d'Italia. Dopo la permanenza nelle città del Nord il Bonghi è al massimo della sua maturità intellettiva. La sua attività di studioso e di politico si intensifica. La sua personalità ricca e ardente, temprata. Di carattere disciplinato, dall'aspetto duro, sempre pronto e umano. Con equilibrio domina le acerbità della vita, intollerante delle stravaganze, guarda alla efficacia dei contenuti. Ruggero Bonghi vive nel suo tempo una vita movimentata con rapporti e conoscenze


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con tutta la politica e la cultura: Vincenzo Gioberti, Guglielmo Pepe cui rivolge uno scritto di lode, apparso nel liberale "Contemporaneo", Giulio Carcano, Carlo Landriani. Eletto deputato il 25 marzo 1860 al Parlamento Subalpino. Con la Costituzione proclamata da Francesco II il Bonghi lo vediamo in piena fermentazione. Il 7 novembre 1860 Vittorio Emanuele II e Garibaldi sono accolti trionfalmente a Napoli. Dopo un periodo di incertezze l'eroe dei due mondi, che condizionava l'annessione di Napoli alla eliminazione del potere temporale dei papi, come vogliono gli ardenti patrioti, finalmente acconsente. Bonghi, intanto, scrive un saggio su Cavour, mettendo in evidenza l'importanza che sullo statista ebbe il soggiorno in Inghilterra. Nelle biografie degli uomini illustri vita vissuta e la presenza viva degli avvenimenti nei loro intrecci. Garibaldi gli assegna la cattedra di Storia della Filosofia all'Università partenopea. Ruggero Bonghi è stato la più geniale e completa rivelazione nella fecondità culturale del Mezzogiorno, inesauribile fonte di energie latenti: da Giovambattista Vico a Pietro Giannone, Filangieri, Mario Pagano, Spaventa, Francesco De Sanctis, tutti espressione elevata ed autentica della ricca natura meridionale, che è il prodotto dello spirito greco innestato al saldo tronco della nostra razza. Il Carducci è un ammiratore del Bonghi, vedendo in questi mente acuta e ingegno vasto, anche se spesso inorganico. Altri critici illustri hanno evidenziato la sua sconfinata dottrina, le capacità del poligrafo, un'erudizione non arida, ma ricca di idee. Joseph Grabinski lo definì "talent hors ligne". Ruggero Bonghi dal 1861 inizia la sua lunga vita politico-parlamentare, tenendo di mira sempre i due problemi che gli stanno più a cuore: le riforme della scuola e i rapporti tra lo Stato e la Chiesa. Per rinnovare l'Italia, costruendola su basi forti, occorre un'omogeneità culturale che crea la salda volontà di un popolo. Bisogna vincere le divergenze che si hanno, le diversità di tradizione che si oppongono per andare verso una nuova risorta coscienza nazionale. Eletto, poi. deputato alla Camera

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del Regno d'Italia il 3 febbraio 1861, torna a Torino ove nel 1862 fonda "La Stampa" che ha breve vita. Il primo numero esce il 1° gennaio 1862. Nel programma di questo periodico si accenna alla necessità che gli interessi meridionali vanno tutelati nella capitale del Nuovo Regno. È nominato professore di Letteratura greca dopo aver rifiutato la cattedra di filosofia offerta nell'ateneo napoletano dal De Sanctis. Collabora alla "Perseveranza" di Milano. VI Cultura e politica con attività infaticabile La vita di Ruggero Bonghi è un arricchimento continuo per la grandezza morale dell'Italia. La cultura e la politica sono i due campi di battaglia per il suo intelletto, la versatilità del suo pensiero geniale, aperto a tutti i problemi. Sulla cattedra, nel Parlamento, nel giornalismo. L'amore per l'arte, il suo patriottismo con spirito di rettitudine e intensa passione. La sua umanità e la sua sensibilità prendono tutti gli aspetti della vita italiana, per tutte le direzioni, in grande estensione si allargano le sue doti e virtù civili. Osservatore, filosofo, storico, spirito irrequieto, poliedrico, sempre presente negli avvenimenti di attualità. Segue la concezione etico-religiosa di Rosmini e Manzoni. La vena oratoria erompente. Capacità di interessi multiformi, la complessità delle vedute crea una volubilità che lo porta ad abbandonare i temi appena affrontati, impulsivo e nello stesso tempo un sottile ragionatore. Straordinario conversatore nei più eleganti salotti del suo tempo. La vastità genera frammentarietà della sua produzione. Mutabilità di opinioni anche nella destra nelle cui file sempre milita. Lo stesso spirito critico, ironico nei confronti dell'opinione pubblica non lo fa essere mai un vero statista con impegno a realizzare. Sa osservare, commentare gli avvenimenti politici. Quando Firenze è capitale d'Italia Bonghi viene nominato nel 1865 professore di letteratura latina nell'Istituto di Studi Superiori. Nella prolusione "Del concetto di ogni scienza storica" (Firenze 1866) riprende quando affermato


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da S. Spaventa sulla necessità vitale del pensiero europeo. Nel 1866 a Milano dirige la "Perseveranza" ed è professore di Storia antica nell'Accademia scientifico- letteraria. Rimasto escluso alle elezioni del 1865 esprime la sua concezione oligarchica della politica. Rientra alla Camera il 1869, cessa da deputato il 31 luglio 1870, richiamato all'insegnamento nell'Accademia scientifico-letteraria di Milano di Storia antica. Collabora alle riviste "Il Politecnico", "La Nuova Antologia". A quest'ultima dal 1866 al 1895 per ricchezza di notizie e acutezza di giudizio dà il meglio della produzione di giornalista. Parla di politica generale e di attualità, dei partiti della vita italiana, degli inconvenienti del parlamentarismo, sulla necessità di una formazione moderata. Traduce il "Dizionario di Antichità greche e romane", Milano 1869 di Anthony Rich. Nel 1869 è membro della Commissione presieduta dal Manzoni, incaricata dal ministro Broglio di cercare i provvedimenti indirizzati ad aiutare gli studi della buona lingua e della buona pronuncia. Leonardo Selvaggi

MAI SARÒ SAZIO DI TE

FIGURA

C’est un immense plaisir de découvrir le dernier recueil du poète italien Domenico DEFELICE lequel déploie en quatre partie une écriture qui dans cette langue italienne si mélodieuse se fait tantôt combattante. (…) une deuxième partie annonce la couleur : « Ridere (per non piangere) », « Rire (pour ne pas pleurer) » dans laquelle l’auteur fustige à travers le Cavaliere immortel, BERLUSCONI et consorts, toute la classe politique italienne qui continue à sévir sans gêne en misant sur l’ aveuglement du peuple séduit par des frasques à répétition et des discours écervelés. (…) Les poèmes les plus touchants sont sans doute ceux qu’il dédie à son père, où il fait un retour sur ses peurs d’enfant, où il évoque la nature à travers les peupliers, lauriers roses et papillons et où il demande humblement que la mère de toutes les mères le protège. (…). Irène Clara Da Florilège, n. 179, Juin 2020

Ha pensoso lo sguardo. Pare intenta a fissare qualcosa oltre l’evento breve che la racchiude. La sua mente vaga assorta, inseguendo alti richiami di stagioni remote ormai perdute dentro il fiume del tempo e cosa vana per lei è tentare di scoprirne il senso. L’amore, il disamore: scorre l’ora su quadranti di luna. Giungerà forse un miraggio a lei da un altro cielo. Si fa lunga l’attesa. Nella sera, mentre il mondo consuma i suoi portenti, dalla volta che tacita s’annera (son calati sul mare tutti i venti) affiora il volto antico delle stelle. Elio Andriuoli Napoli

Mai sarò sazio di te. L’amore è una voragine che ti sprofonda e t’innalza. Gianni Rescigno Da Il vecchio e le nuvole, BastogiLibri, 2019


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Il Racconto

IL PRIMO GIORNO DI SCUOLA di Luciana Vasile

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OME architetto sono fra i fortunati che da lunedì 4 maggio possono tornare a lavorare. Quale sarà il modo giusto di stare in cantiere con collaboratori ed operai? Quale il rapporto con i clienti, con i quali incontrandoci ci “daremo di gomito”? E quanto altro non riesco neanche ad immaginare? Come i comportamenti del corpo influenzeranno quelli mentali e psicologici? Emozionata e preoccupata mi preparo ad intraprendere una nuova epoca della mia vita. L’era Covid-19, come nelle precedenti rivoluzioni geologiche, corrisponderà ad un cambiamento fondamentale nella storia degli organismi viventi. Perché, rifletto, sarà tutto diverso e sconosciuto. Per ora forse neanche mi rendo conto quanto differente e nuovo. Tutto sommato, adesso che ci penso, questo stato d’animo sospeso posso paragonarlo solo a ciò che provai quando mi trovai, all’ improvviso, ad affrontare il primo giorno di scuola. Avevo cinque anni. La mamma mi comunicò che ero stata ammessa a frequentare come auditrice la prima elementare. Per motivi che mi restano tuttora ignoti non ero andata all’asilo. Era tempo che scalpitavo, le mie sorelle maggiori già seguivano le lezioni in quello spazio magico, fino allora a me proibito, che si chiamava ”scuola”. La Notizia significava diventare grandi. L’entusiasmo provocato dall’annuncio mi aveva fatto dimenticare ciò che era successo durante l’estate … bastò toccarmi la testa e con orrore constatare la cute levigata. Mia madre, orgogliosa dei miei riccioli

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biondi, a un anno – al fine di rinforzare la capigliatura – non aveva avuto il coraggio di raparmi. Ma con il tempo i miei capelli erano diventati fini e radi, così a luglio si era decisa a ripassare la mia zucca con la macchinetta, creandomi in quel momento, sicuramente per un bene futuro, un vero trauma. Il primo giorno di scuola mi presentai alla maestra e alle mie compagne completamente pelata. Di fronte alla nuova fase della mia esistenza, ai nuovi rapporti e come svilupparli, alle responsabilità, agli ostacoli e alle conquiste che mi aspettavano, ero completamente NUDA. Non conoscevo ancora Sansone, tuttavia pensai che la forza doveva essere nei capelli, dei quali io ero totalmente sprovvista. Dovevo avere fiducia! Il mio primo giorno di scuola nell’era Covid-19 offre le stesse incognite, gli stessi timori. Ma il mio aspetto è diverso: mantenendo la distanza di sicurezza mi sono presentata in cantiere con il volto coperto da una mascherina, le mani provviste di guanti. Insomma sulla difensiva. Tanti anni vissuti - probabilmente anch’io avevo contribuito con i miei comportamenti - per sviluppare questa reciproca diffidenza che ci costringe ad alzare barriere fra simili? Ora completamente VESTITA. Luciana Vasile

L’ALTRO M’incontro appena sveglio nello specchio ed allibisco dinanzi a un altro volto che mi guarda. Alieno, intruso, eppure lui mi guarda in faccia con un’aria di sospetto. Oh Dio! e se foss’io un altro da me stesso?! Corrado Calabrò Roma, 28 agosto 2019


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“UNA VERA ARTE” - 5 -

DEDICHE a cura di Domenico Defelice

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iuria del Premio “Sebeto, =/S. Battaglia - A. Grande - M. Pomi/lio - M. Prisco - M. Stefanile -/1° classificato = Mario Luzi/2° “ = F. Mastroianni/Con viva stima/Felice Mastroianni/Piazza Gesù e Maria 5/Napoli, 6 giugno 1966” (suo volume: Lucciole sul granturco, Rebellato Ed., 1965). *** “Roma 26/7/66/All’amico Domenico/ Defelice i cui disegni/illustrativi hanno arric/chito, del presente volumetto,/le misere mie composizioni./offro in omaggio come/riconoscenza e stima./Rocco Cambareri” (suo volume: Avvolto nel silenzio, La Procellaria Ed., 1966). *** “Al caro amico poeta/Domenico Defelice/nel giorno della sua gradita visita/a Galatro. Con affetto e simpatia/Sac. Rocco Distilo/Galatro 26 - 1 - 967” (suo volume: Prime luci nella valle, Editrice Convivio Letterario, 1958). *** “A Domenico De Felice/in augurale cambio/con il suo libro di/poesie “Dodici mesi con/la ragazza”./Giuseppe Selvaggi/Roma, 30 maggio 1968 -“ (suo volume: L’Italiano nuovo, Ed. Dell’Albero, 1965). *** “A Domenico Defelice/con immutata stima e

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simpatia./Aversa/27/7/69” (volume: Raffaele Aversa - Gregorio Aracri da Stalettì, Pellegrini, 1969). *** “Al Caro Amico/Domenico Defelice/con tanta stima -/Cordialmente -/Roma 15/6/ 1968/ Ettore Alvaro/Ci potremmo incontrare?/ Gradirei una recensione!/Grazie ett” (suo volume: …E mo’ lèjiti st’atri!..., Editrice MIT, Cosenza, 1968). *** “Al giovane e valoroso poeta/Domenico Defelice/con viva stima e affetto -/Franco Saccà” (suo volume: Il vecchio battello, Ibico, 1968). *** “Al fraterno amico/scrittore e poeta/ Domenico Defelice/con affettuosa stima/ RMangano/Reggio Calabria, Novembre 1968” (volume: Raffaele Mangano - Luce d’autunno, La Procellaria, 1968). *** “All’amico/Domenico Defelice/Scrittore, poeta,/editore, critico/ecc. ecc. …/ calabresissimo/e testardo/con stima/Rocco Cambareri” (suo volume: Tralcio alla vite, Rebellato Ed., 1968). *** “Cordiale omaggio/all’amico carissimo/ Domenico Defelice/FFiumara/Reggio Cal. 9/12/ 1968” (volume: Francesco Fiumara - Mazzini e l’Internazionale (contatti, rapporti, polemiche), Ed. Nistri - Lischi, 1968). *** “All’Amico carissimo/Defelice Domenico/ offro/questo mio lavoro in/versi dialettali calabresi -/Roma, 30/10/1970/Ettore Alvaro” (suo volume: Scifidhi, Polistena, 1933). *** “Al caro amico/Domenico Defelice/con affetto/30 - 1 - 1971/Mario Sergio” (suo volume: Quando beve un uomo, Ed. Pagine, 1971). Invitiamo lettori e collaboratori a inviarci le dediche, indicando con chiarezza, però, nome e cognome degli autori, titoli dei libri sui quali sono state vergate, casa editrice e anno di pubblicazione. Grazie!


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PREMIO EDITORIALE LETTERARIO IL CROCO 2020, Prima Edizione (Seguito dal numero precedente) Racconto, o novella o fiaba

FIGLIO DELLA LIBERTÀ di Alessandro Corsi ’ampia vetrata dava verso ponente. Il pomeriggio stava declinando, ed aveva qualcosa di melanconico pure nella luce che filtrava da oltre la fitta ed uniforme coltre di nubi. Livio, dalla sua poltrona ergonomica, guardava verso il tramonto senza un vero pensiero nella mente. Su di un tavolinetto, a portata di mano, aveva appoggiato un libro ed i suoi occhiali da lettura. C’era un segnalibro, tra le pagine del volume. Gli piaceva sempre di più, la villetta monofamiliare nella quale si era trasferito da quasi un anno. La città gli era venuta in uggia, non ci si riconosceva più. Non era più il luogo nel quale era nato, nel quale era sempre vissuto prima di traslocare. Una domenica, durante una delle sue consuete gite solitarie fatte a bordo della sua utilitaria, si era fermato a Miconacci. Dopo avere parcheggiato, appena fuori del paese, aveva iniziato a girovagare per le sue strade. E si rese conto che gli piaceva molto. “È qui che vorrei abitare” si era detto, fermandosi nella piazza centrale del paese. Tornando verso la propria auto, facendo un diverso percorso, era transitato davanti a quella che sarebbe diventata la sua nuova abitazione. Se ne era innamorato fin dalla prima occhiata. “Deve essere casa mia” si era detto, un at-

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timo dopo avere letto un cartello che avvertiva che era in vendita. Prese nota del numero telefonico riportato. Le settimane seguenti erano state intense, se non addirittura frenetiche: ma alla fine si era trovato ad abitare nella casa dei suoi sogni. -0Aveva cenato e si era messo davanti alla televisione. Non gli ci volle molto, a sentirsi annoiato. Ebbe voglia di uscire, anche se era iniziata a cadere un’acquerugiola che prometteva di essere fredda. “Arrivo sino alla stazione e torno indietro” si promise Livio, come se volesse convincersi. Indossò una giacca impermeabile. La chiuse accuratamente e tirò su il cappuccio, prima di uscire. Si diresse verso la sua meta, lontana poco più di un chilometro, camminando lentamente. Si voleva gustare ogni passo, ogni particolare della sua passeggiata. Ogni goccia di pioggia. Trovava romantico, passeggiare così. “In realtà, rischio soltanto di buscarmi un malanno” si volle dire, con un mezzo sorriso. Con la mente vuota, assorbiva e memorizzava ogni particolare del percorso. Lo avrebbe assaporato poi, nella tranquillità di casa sua. Magari centellinando un bicchiere di vino, osservando un tramonto che lo accarezzava con la propria melanconia. Si trovò davanti la stazione quasi senza accorgersene. Si soffermò per guardarne la facciata, quasi fosse la prima volta che la vedeva. Poi entrò, comportandosi come un turista curioso. L’atrio era deserto, le luci soffuse. Le biglietterie erano già chiuse. Un paio di biglietterie automatiche, poste in angoli opposti fra loro, erano delle presenza quasi inquietanti. “Il prossimo treno arriva fra quaranta minuti” si disse, dopo avere osservato un monitor. Livio si diresse verso la sala d’attesa, con la speranza d’incontrare qualcuno. Magari si sarebbe seduto, fingendo di essere un viaggiatore: o, ancora meglio, d’essere in attesa di un


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viaggiatore. Entrando, ebbe l’impressione che fosse deserta: poi lo vide. Era un senzatetto di circa trentacinque anni, con una gran barba incolta ed una massa di capelli aggrovigliati in maniera inestricabile. L’uomo vi aveva infilato dei fiori finti. Accanto a sé aveva un carrello di un supermercato, colmo di quelli che dovevano essere tutti i suoi beni terreni. Pareva avere gli occhi chiusi, mentre le mani le teneva intrecciate sul ventre. “Come ci si può ridurre, a vivere così?” si chiese Livio. Nello stesso momento si rese conto che il barbone poteva domandarsi la stessa cosa di lui. Sedette all’angolo opposto, rispetto alla sedia del senzatetto. “Sarà qui per trascorrere la notte” considerò Livio, guardando attraverso la porta che dava sui binari. Era aperta solamente un’anta, proprio accanto a lui. “Si deve essere messo là per essere più riparato” valutò Livio, sbirciando il senzatetto, prima di tornare a guardare i binari. Erano lucidi di pioggia, il cui tamburellare lieve e monotono pareva conciliare il sonno od i ricordi. Fu a questi che Livio si abbandonò. Così si trovò a rammentare di eventi, di episodi, del tutto dimenticati. Ed ogni memoria ne suscitava altre, e poi altre ancora. “Cosa ci fai, qui?” lo riscosse una voce roca e brusca. Volgendosi, Livio si trovò davanti il barbone. Era più alto e robusto di quanto si fosse immaginato. Lo guardava con l’espressione dura di chi avesse trovato un intruso in casa propria. Aveva i denti devastati dalle carie. “Aspetto un amico” replicò Livio, tentato di dirgli che si doveva occupare dei fatti propri. “Arriva con il prossimo treno?” “Esatto”. “Sarà qui da trentacinque minuti. Perché sei venuto così presto?” domandò il senzatetto, sospettoso. “Non mi pare che siano fatti tuoi” rispose Livio, infastidito.

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“Qui io ci dormo” ribatté il barbone. “Si dà il caso che questa sia una sala d’ attesa, un luogo pubblico” disse duramente Livio: ed assumendo, senza accorgersene, un atteggiamento aggressivo. “Non vuoi infastidirmi, allora?” chiese il barbone, sgranando gli occhi. “Sono qui per aspettare il prossimo treno. E mi sono seduto lontano da te per non disturbarti” rispose Livio, ancora più aggressivo. “È vero, hai ragione!” annuì il senzatetto, dopo essersi voltato per osservare la sedia sulla quale si era addormentato. Si immobilizzò, con la testa reclinata su di una spalla e lo sguardo lontano. Rimase così per qualche momento, poi sedette accanto a Livio ma lasciando fra loro un posto vuoto. “Sono figlio della libertà” disse, indicandosi e sorridendo. “Io, invece, sono figlio dei miei genitori” replicò Livio. “Sono ancora vivi?” “Purtroppo no”. “Mia madre, la libertà, invece è ancora viva. Non può morire. Vivrà per sempre”. “Al contrario di noi”. “Ma soltanto perché dobbiamo andare altrove, in un altro quando”. Livio annuì, osservando il volto del senzatetto. Non sarebbe stato brutto, se si fosse curato. “E tuo padre?” chiese poi, curioso di vedere cosa avrebbe tirato fuori l’interlocutore. “La libertà non ha bisogno di un marito, o chi per lui, per generare dei figli” si compiacque il barbone. “Una grande cosa”. “Si, una grande cosa”. “Hai una famiglia?” chiese dopo alcuni momenti il senzatetto, scrutando il volto dell’ interlocutore. “Se intendi moglie e figli, no. Ed ero figlio unico” sospirò tristemente Livio. In certi momenti, in quel momento, avrebbe voluto avere una famiglia numerosa. “Allora sei come me” si compiacque il barbone, annuendo “In realtà, però, essendo figlio della libertà ho un’infinità di fratelli e di


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sorelle. Ma è come se fossimo tutti dei figli unici”. Livio non seppe cosa rispondere, così si limitò ad annuire. Volse lo sguardo ai binari, alla pioggia che li bagnava, ai lampioni che davano un’aria stralunata a tutta la scena. “Certe notti paiono non finire mai” filosofeggiò il senzatetto, dopo essersi alzato per andarsi a fermare sulla soglia. A Livio parve una manovra per attirare l’attenzione su di sé. Forse era la prima persona che parlava con lui dopo chissà quanto tempo. “O, forse, più banalmente, uno dei pochi che lo fa con un minimo di civiltà” considerò un momento dopo. “Stanotte voglio partire. Devo partire” tornò a parlare il barbone, ancora volgendo le spalle a Livio, con le mani nelle fessure che una volta dovevano essere state le tasche dei pantaloni. Il tono della voce era quello di una persona che stesse rivelando un segreto, una conoscenza riservata a pochi eletti. “Per dove?” ritenne opportuno chiedere Livio, pur ritenendo scontata la propria domanda. “Salirò sul prossimo treno, dovunque esso vada. Scenderò la dove mi dirà la mamma” sorrise il senzatetto, volgendosi verso l’ interlocutore. Era lieto che gli fosse stato chiesto dove sarebbe andato. Nessuno, a parte sua madre, si interessava di lui. E l’amore della sua genitrice comportava tanta, troppa solitudine. Con il fare deciso dell’avventuriero rotto a qualunque esperienza, capace di cavarsela egregiamente in qualunque situazione, per quanto disagevole, si accostò al proprio carrello. Rufolò per qualche momento e ne estrasse un capace zaino. Lo appoggiò sulla sedia accanto, spalancandone l’apertura: e con gesti lenti, studiati, espertissimi, iniziò a riempirlo di tutti i suoi beni terreni. Livio lo guardava, ammirandone la manualità. In men che non si dica lo zaino fu pieno. Il carrello era rimasto praticamente vuoto. Gli oggetti rimasti erano semplicemente meritevoli di essere gettati nella spazzatura.

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Il barbone si assicurò che ogni cinghia fosse chiusa a dovere, poi lanciò un’occhiata ad un orologio appeso ad una parete. “È tempo di avviarci al binario tre, il treno arriverà tra non molto” disse, come parlando a se stesso. Sollevò lo zaino con una certa difficoltà, dovuta non soltanto al peso ed all’ ingombro, e se lo mise sulle spalle. “Si, andiamo” annuì Livio, alzandosi e seguendo il senzatetto che già si era avviato al sottopassaggio. Fecero il percorso in silenzio, l’uno accanto all’altro. Una volta sul binario, deserto, il barbone si accostò ad una panchina per appoggiarvi lo zaino. In quel momento, più che mai, pareva un viaggiatore che avrebbe potuto narrare un’infinità di aneddoti. Si accostò al binario, volgendosi nella direzione della quale sarebbe giunto il treno. “Non so chi sei, non m’importa di saperlo: ma ricordati di me” disse, senza voltarsi. Livio capì che si stava rivolgendo a lui. “Certo, lo farò” promise. “Sono figlio della libertà, il mio nome è Vento” continuò il senzatetto, perso in un delirio del quale si percepivano le tracce nella sua voce. “Vento. È la prima volta che sento un nome del genere”. “E come il vento non ho una dimora, non posso rimanere in un luogo per fare di me polvere o fango” proseguì il barbone, con il tono di chi si volesse scusare della propria partenza. “Salutami il luogo nel quale giungerai”. “E tu salutami quell’amico che non stai aspettando” sorrise il senzatetto, volgendosi per guardare l’interlocutore. Livio non seppe cosa replicare. Rimasero immobili e silenziosi fino a quando non videro i fari del treno che si stava avvicinando. Il convoglio si fermò con un fastidioso stridio di freni. Nel frattempo il barbone si era rimesso lo zaino sulle spalle. Si accostò alla porta più vicina, l’aprì e salì senza degnare Livio di un solo sguardo. Il


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quale rimase immobile, sperando di intravedere il senzatetto da un finestrino. Ma così non fu. La porta si chiuse, da sola. Dopo alcuni momenti il treno partì. Livio rimase a guardarlo fino a quando non si perse nel buio e nella distanza. Dopo qualche minuto, sorridendo, si volse per tonare verso casa. Un luogo che mai, prima d’allora, gli era parso accogliente. Alessandro Corsi Alessandro Corsi è nato a Livorno il 20 aprile 1956, dove vive e lavora. Ha conseguito il Diploma di Maturità Magistrale presso l’Istituto Statale “Angelica Palli Bartolommei”. Ha maturato diverse esperienze lavorative, operando pure come assistente sociale seguendo persone con gravi disagi e non vedenti. Ha fatto parte della Compagnia di Prosa del Tirreno, recitando in “Più forti del mare” e in “Buio dentro”. Ha pubblicato diciannove volumi tra poesia (tra i quali “Piccole immagini”, “Gocce di vita”, “Attimi di vita”), teatro, saggistica e narrativa (tra i quali: “Il popolo dei cieli grigi”, racconti; “Gocce di luce nel buio”, romanzo); “Un diario lungo una notte”. Inoltre, ha dato alle stampe oltre quattrocentocinquanta fra racconti e liriche, in riviste ed antologie nazionali ed internazionali. Ha ottenuto oltre novecento settanta riconoscimenti in premi e manifestazioni a livello nazionale ed internazionale. Ha fondato l’Associazione Culturale ‘Ercole Labrone’, avente per scopo la promozione della letteratura. Collabora con l’Associazione Culturale ONLUS YORICK fantasy magazine di Reggio Emilia.

IL PITTORE PORTENTOSO di Paolangela Draghetti

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ICHELE, nato e cresciuto da una modesta famiglia di pescatori, viveva in una deliziosa e colorata borgata marinara. Fin da bambino aveva manifestato una certa inclinazione verso la pittura, tracciando disegni ovunque e colorandoli con i pastelli. Anziché giocare con i balocchi preferiva disegnare e lo faceva ovunque, anche sulla spiaggia. Quando con la madre attendeva sulla batti-

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gia il ritorno del padre dalla pesca notturna, col suo ditino o con una conchiglia, tracciava sulla sabbia piccoli disegni, molto ben definiti e ispirati. Tutti si stupivano per quella sua abilità e lo lodavano, compreso il padre, nonostante egli avesse sempre sperato che il figlio da grande seguisse le sue orme facendo il pescatore, così come egli aveva eseguito quelle di suo padre e di suo nonno di generazione in generazione. Volle pertanto assecondare l’ inclinazione di suo figlio, iscrivendolo ad una prestigiosa scuola d’arte, affinché si affinasse. Certo, per lui avrebbe significato dover fare grossi sacrifici lavorando sodo per sostenere i costi onerosi delle rette scolastiche, ma la felicità di suo figlio per lui significava tutto. E Michele non lo deluse, diventando un valente e stimato pittore. La sua abilità, però, non consisteva solo nel saper disegnare, dosare sapientemente i colori e cogliere lo spirito del soggetto, c’era dell’ altro. Michele possedeva una dote particolare che distingueva le sue opere. Dovete sapere che dal suo estro insieme ai colori uscivano le note musicali. Sì, avete capito bene, proprio le note musicali. Nell’usare il Rosso dal pennello usciva anche il DO, dall’Arancio usciva il RE, dal Giallo il MI, dal Verde il FA, dall’azzurro il SOL, dall'Indaco il LA e dal Violetto il SI. Il suo pennello si muoveva come la bacchetta di un direttore d’orchestra, dirigendo magistralmente le note che traducendosi in meravigliose melodie fissavano i colori sulla tela, adeguandosi al soggetto dipinto e alle emozioni che Michele provava. Ma la sua dote non finiva qui, perché una volta ultimato il quadro e seccati i colori, era sufficiente sfiorare il dipinto con una mano per riascoltarne la melodia. Per questo motivo, credendo che la sua fosse opera di magia, la gente del paese lo soprannominò il ‘pittore portentoso’. Ben presto la fama della bravura e dell’ originalità delle opere di Michele si diffuse in tutta la regione fino a giungere alle orecchie del Re. Incuriosito, egli lo convocò a corte e,


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per saggiare di persona il suo estro, gli ordinò di eseguire il proprio ritratto. Immaginatevi quale fu il suo stupore quando udì la musica che usciva dal quadro mentre Michele dipingeva. Non credeva alle proprie orecchie, ma si meravigliò ancora di più quando vide l’opera finita. La sua persona risultava così vera da sembrare di carne ed ossa. Soddisfatto, lo pagò profumatamente e gli commissionò altre opere, nominandolo ‘pittore ufficiale di corte’. Michele iniziò così a dipingere quadri di ogni genere, da quelli a soggetto paesaggistico (i giardini e il parco intorno alla regia gli fornivano deliziosi spunti) a quelli che ritraevano i membri della famiglia reale, da soli o in gruppo. Tutti furono ben felici di posare per lui, deliziati dalle musiche dei suoi capolavori, ed in particolare ricevette l’ apprezzamento della bellissima principessa Marilina. Per il suo ritratto Michele, che si era sentito particolarmente e inspiegabilmente emozionato, aveva composto una dolcissima serenata d’amore, alle cui note anche la fanciulla era arrossita per il turbamento. Purtroppo, tutta quella stima dei reali e della corte, unita alla sua nomina a pittore ufficiale, avevano destato l’invidia dell’anziano pittore che prima di lui aveva occupato quel ruolo. L’uomo non sopportava di essere stato dimenticato nei suoi alloggi, come se in tutti quegli anni egli non avesse fatto nulla. Si sentì quindi oltre che declassato anche defraudato del suo titolo e, pieno di acredine, si recò dal Re per avere chiarimenti, mettendo in dubbio l’operato di Michele. “Sire, non avete timore che tutta quella musica possa provocare seri danni al vostro udito?” insinuò. “Ma che dite, messere! Non rammentate forse quanto io ami la musica?... E poi, quella di Michele è una musica dolce, leggera che manda in sollucchero le mie orecchie, e non certo le offende. Per non parlare poi della bellezza dei suoi quadri, che sono una delizia per i miei occhi.” “Convengo che il ragazzo è un ottimo pittore, ma… resto dell’opinione che tutta quella

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musica non sia necessaria.” “Messere, riconosco che in passato pure voi mi avete servito molto bene e, credo, di avervi dimostrato tangibilmente il mio apprezzamento.” disse il Re, certo che il vecchio fosse mosso da invidia. “Però, lasciatemelo dire, nei vostri quadri, seppur eccellenti, manca l’ anima, la personalità, ma soprattutto la musica che rende i quadri di Michele veramente unici.” concluse il Re congedandolo. Quelle parole di evidente critica alle sue opere non andarono giù all’anziano pittore che, ritiratosi nei propri alloggi, iniziò a studiare il modo per danneggiare Michele. Pensa e ripensa decise di entrare di nascosto quella notte stessa nel laboratorio del giovane per rubargli tutti i pennelli e le matite colorate, che poi sostituì con i suoi, pensando che la magia stesse in essi. “Caro Michele, ti dimostrerò che sono capace anch’io di dipingere creando musica.” disse fra sé, mentre tornava nella propria stanza. Lì giunto, prese subito in mano un pennello e tracciò un disegno su di una tela. Ma non accadde nulla. Allora ne provò un altro, ma niente, e poi un altro ancora e dopo i pennelli provò con tute le matite colorate…Ma da essi non scaturì manco una nota. Livido per la rabbia, li spezzò tutti quanti e li scaraventò a terra, sbisoriando parole oscene. Al mattino, ignaro dell’accaduto, Michele si accinse a dipingere con la solita ilarità un quadro idilliaco fatto di fiori e uccellini, destando come al solito la famiglia reale e l’intera corte con le sue note allegre. Nell’udire la musica, l’anziano pittore si stupì. “Dunque… la sua magia non sta nei pennelli. Eh no. Allora… vuol dire che sta nei colori. Già… è così.” e con un ghigno beffardo pensò di trafugarglieli nella notte. Così fece. Ma questa volta non sostituì i tubetti dei colori, e dei pastelli e delle polveri coloranti con altri in suo possesso, no. Anzi… per spregio distrusse ogni strumento che si trovava sul tavolo da lavoro, così da impedire a Michele di dipingere. Raggiunta poi la


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propria stanza, dove aveva già posizionato sul cavalletto una nuova tela intonsa, iniziò a dipingere con foga, ma… Anche questa volta non accadde nulla. Né un DO, né un MI, né un FA o le altre note musicali uscirono dalle sue combinazioni di colori. Accecato dall’ira, si mise a sbraitare e ad urlare, insultando Michele, il quale si destò e, raggiunto il proprio laboratorio, dovette costatare il furto e il disastro che era avvenuto. Anche il Re si svegliò e, riconosciuta la voce del vecchio, lo fece portare al suo cospetto insieme a Michele per chiarire la questione. Michele denunciò subito il furto dei suoi colori e la distruzione totale degli strumenti da lavoro, comprese le tele e i cavalletti. “E voi, messere, cosa avete da dire a discolpa delle vostre urla e imprecazioni?” domandò il Re. “Sire, confesso di aver rubato io i colori di Michele e di aver distrutto anche il suo laboratorio… Volevo dimostrare di saper dipingere in musica come lui, pensando che la sua magia venisse dai suoi strumenti di lavoro. Ma non ci sono riuscito. Invidio il suo estro, la sua bravura, la sua pittura, ma devo ammettere di non saperlo imitare… Michele è più bravo di me.” confessò il vecchio, abbassando la testa pentito. Nonostante la sua confessione e contrizione, il Re lo punì ugualmente, ordinando che fosse cacciato da palazzo, ma il buon Michele spezzò una lancia in suo favore. “Maestà, vorrei che consideraste il fatto che quest’uomo vi ha servito fedelmente e con bravura per anni. Non è colpa sua se non riesce a creare la musica con la pittura. La mia non è assolutamente una magia dovuta ai pennelli o ai colori, bensì una dote che posseggo fin dalla nascita. Probabilmente è un dono di Dio. Lui ha voluto che io trasformassi in musica ogni sentimento che provo mentre dipingo. Vogliate, Sire, inoltre considerare la veneranda età di quest’uomo. Abbiate pietà del suo sfogo, ve ne prego.” “Queste prole ti fanno onore, Michele, e aumentano la stima che nutro per te.” disse il Re stupito da tanta accalorata difesa per un

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uomo che oltretutto lo aveva offeso e danneggiato. Grazie quindi all’intercessione di Michele, il Re usò misericordia verso l’anziano pittore, lasciando che trascorresse a palazzo gli ultimi anni della sua vita. Qualche anno dopo, il ‘giovane portentoso’ sposò la bella Marilina, ma continuò a dipingere per i suoi figli e per i figli dei suoi figli. Brutta cosa l’invidia, vero?! Paolangela Draghetti Paolangela DRAGHETTI è nata a Mirandola (MO), sposata e vissuta per diversi anni a Siena, attualmente abita col marito a Livorno. Non ha avuto figli ma ben sei nipoti, insieme ai quali, ed oggi anche ai pronipoti, si è divertita ad ideare fiabe, racconti e filastrocche che anche molti bambini ormai leggono ed ascoltano. Infatti, ne ha incontrati parecchi nei suoi ‘Incontri con gli Autori’ organizzati sia dalla Provincia di Siena che dalla Biblioteca di Colle Val D’Elsa (SI), nell’ambito delle rispettive Mostre Mercato del Libro per Ragazzi. Di recente una delle sue fiabe (La fonte delle Fate) è stata interpretata dal Centro per anziani ‘La lunga gioventù’ nel loro teatrino interno a Siena alla presenza di numerosi bambini. Molti sono i concorsi letterari ai quali Paolangela Draghetti ha partecipato con successo di primi, secondi, terzi premi e menzioni d’onore, sia a livello nazionale che internazionale. I volumi editi dalla DELTA 3 Edizioni di Grottaminarda (AV) sono: Serenella e l’abito da sposa (2004), La Fonte delle Fate (2005), Fiabe senesi (2006), Il cappello a cilindro (2007 e 2015 dopo revisione), Una magica notte d’estate (2009, edizione ampliata della precedente edita nel 2003), I campanellini d’argento (2010), I sette cavalieri del sole (2013). Editi da altre case editrici quale premio di concorso: Una magica notte d’estate (2003), Il Drago dal pennacchio (2009), Gocce di sogni (2009), La brocca fatata (2009), La giostra delle meraviglie (2011), Gherda e Cris (2013), Giocando a colori (2016), Nonna, mi racconti una storia? (2016).

D. Defelice: Castello→


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IL CILIEGIO, IL SAKURA E IL SENSO DELLE COSE di Gloria Venturini Mondo di sofferenza: eppure i ciliegi / sono in fiore. (Kobayashi Issa)

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AL 2015, anno in cui ho avuto un intervento al seno a causa di un carcinoma, mi sono prefissata di fare un viaggio “importante” una volta all’anno, una corsa al di fuori dal tempo e dallo spazio della mia consueta contemporaneità, per vedere i colori di diverse civiltà, annusare l’odore di altri mondi, assaporare differenti sapori, riempire la mente, le conoscenze, tutta la mia anima. Quest’anno, il famigerato 2020, la mia meta era situata in un punto tosto del Giappone: Tokio. Già sognavo d’immortalare l’Asakusa, la città bassa e la policromia dei kimoni indossati dalle ragazze. Il Mori Tower, il grande grattacielo nel distretto di Rappongi. I musei, santuari e templi di Ueno, il posto d’ eccellenza della cultura nipponica. Tuttavia, il vero motivo che mi aveva suggerito quell’ itinerario, riguardava il parco di Inokashira e un desiderio tutto mio, essere presente durante la stagione dell’hanami (ammirare i fiori), muovermi sul laghetto con la barca a forma di cigno, sotto un cielo fatto di fiori di ciliegio, d’azzurro e di lanterne rosse, puntini di luci che si confondono con le stelle illuminando la notte. Ed ecco che m’immagino sommersa da una nevicata di petali bianchi e rosa che mi solleticano il naso, il sakura (fiori di ciliegio) in una danza che s’inchina ai piedi di madre Natura. Sakura è un fiore bellissimo, ma dura poco, nella cultura giapponese è paragonato ai Samurai, i guerrieri possenti dalla vita magnifica e importante, ma sempre pronta a finire nel momento di più intensa vigoria. Sono sempre stata affascinata dal sapere orientale. Ricordo che da bambina adoravo fare lun-

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ghe passeggiate con la nonna lungo l’argine del canaletto, costeggiava il paese e delimitava le campagne. Mi raccontava di quanto ogni fiore fosse differente dall’altro, dell’ imponenza delle radici della quercia, del legno bianco dei pioppi, ed io, con gli occhi sgranati, osservavo in modo chirurgico ogni minimo particolare della vegetazione rigogliosa. Amavo tutte le stagioni, ciascuna aveva qualità uniche e tutte erano utili. La primavera simboleggia la rinascita, il primo respiro. La fioritura sugli alberi da frutto è la gestazione di ciò che coglieremo poi. Nell’aria il profumo dei fiori è la fragranza della vita e il disperdersi dei pollini la rigenerazione. È la stagione del mattino, la creazione di nuove melodie e l’odore dell’erba baciata dalle farfalle è semplicemente incanto. Nel cortile dietro a casa mia c’è un albero di ciliegio, mi accompagna da anni nel valzer delle stagioni, come un maestro della natura mi insegna la vita nelle piccole cose, che alla fine, sono le più importanti. Ed ecco che le debolezze diventano i miei punti di forza. Mi rendo conto che modificarsi è possibile, basta guardare il mondo con occhi nuovi ogni giorno. Faccio un sacco di similitudini, mi aiutano a stare meglio. Affermo tra me e me che non serve fare il Don Chisciotte in ogni situazione che il destino ci presenta, ma che il vero coraggio sta nell’accettazione degli eventi, e proprio lì c’è il segreto per cambiare ogni respiro della propria vita e costruire sé stessi, creando relazioni forti e profonde, vere e sincere dove poter adagiare il cuore. Il ciliegio è un albero robusto, rappresenta il guerriero samurai, eppure i suoi fiori sono fragili, basta una folata di vento per strapparli dai rami. La fioritura dura poco, ma la bellezza che si sprigiona in una manciata di giorni è indicibile, unica e ogni volta irripetibile. La vita è una cosa meravigliosa in ogni stagione e ogni minuto è prezioso. “Vivi qui e ora,” sembra dire l’albero “nel presente, godi di ogni singolo istante e fallo adesso, ricorda, adesso è il giusto momento”. Guardo i fiori che cadono per lasciare il po-


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sto alle ciliegie, ai frutti gustosi, ai nuovi inizi! Una fine fornisce il seme per un nuovo ciclo, perpetuo, come il reiterare delle stagioni, è un cambiamento piacevole, lasciando così che tutto sia. Il tempo e le attese rinforzano le emozioni, le consolidano, dissolvendo i sentimenti superficiali. Le forzature vanno contro corrente e cercare di controllare ossessivamente il destino non serve, tanto i fiori sbocciano comunque tutti gli anni. La certezza più grande risiede in noi e si trasmette attraverso le parole e i fatti per sbocciare dalla cornucopia dell’amore. L’amore ha molteplici tinte, infinite sfumature. Il bianco del fiore di ciliegio esprime la purezza, insegna ad accettare candidamente le emozioni. Il rosso delle ciliegie rammenta la passione, la vitalità, l’assaporare ogni momento di libertà, di complicità, essere ciò che si è, donando e permettendo l’autenticità, la genuinità e la gratitudine. Offrire la propria persona senza vincoli. Il verde delle foglie rappresenta l’amore profondo e incondizionato, la saggezza, l’ empatia tra le anime. Amare vuol dire donare, sperimentare nelle relazioni e cercare l’ equilibrio della bilancia della vita. L’amore è la libertà di scelta consapevole, perché nulla ci appartiene. Il ciliegio, come il tutto, flora e fauna, appartiene alla terra, al sole, alla natura, all’ universo. Questo m’insegna che non si può perdere niente e nessuno, proprio perché niente e nessuno è nostro. Ogni giorno si sceglie la qualità di energia con la quale si vuol vivere, come l’albero dona il profumo dei fiori, i suoi frutti, cerco di condividere la vita con tutto l’amore che posso e che sono capace. Lasciare andare ciò che non mi appartiene, le insoddisfazioni e i disagi, tendere le braccia come i rami di ciliegio verso il sole, questo significa essere il cambiamento, togliersi di dosso il fare le stesse cose, per dissolvere i lividi delle nuvole caliginose. Aspetto fresche fioriture per altre prime

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primavere nel cielo di ogni giorno. Un respiro profondo, anche se si è nel cuore dell’inverno, per dare spazio ad aria nuova e lasciarsi conquistare dal profumo dei fiori per nascere ogni giorno alla vita, al domani, come fosse sempre un eterno appuntamento d’amore. Gloria Venturini

FILO DI RAGNO di Anna Maria Gargiulo

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ISTESA sul letto di una camera d’ospedale, pallida, senza voce, Anna pensava. Il pensiero, questo le restava. Era tutto lì dentro il suo sentire. Piano le gote si tinsero di rosa, proprio come quando da bambina avvampava dal rossore, timidissima com’era! Cercava di rivedere con la mente il suo passato. Ricordò come da ragazza non attecchiva alla vita per una sorta di naturale repellenza. Sentiva il corpo scivoloso delle cose e se ne allontanava senza desiderio. Dal piacere stava lontano come da un bene troppo deperibile per essere preso in considerazione. Non le piaceva quel che finisce, ‘ferisce quel che perisce’ si ripeteva con tono tra giocoso e severo e, poiché in breve tutto finisce, nulla l’intrigava più di tanto, quel tanto –poco- che la faceva inerte alla vita e la teneva come sospesa. Aveva come un freddo nel cuore e freddo risuonava il lei il Qoelet della vanità. Ripercorse col pensiero l’evento che l’ aveva segnata il giorno precedente, lì, in ospedale, avvertendo l’emozione ancora viva in lei. Ricordò. Si rivide mentre era portata in camera operatoria, tutta nuda sotto le lenzuola bianche come il suo viso, ancor più sbiancato dalla paura, sola sulla lettiga, ancora sveglia, sotto l’iniziale effetto di un preanestetico che le era stato appena somministrato. E’ vero, era una donna, ormai adulta, sposata, aveva persino partorito un bambino ma il suo sentire rimaneva quello di una fanciulla, con un forte senso del pudore. Il ricovero in ospedale l’esponeva ad un continuo disagio, quando su


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quei freddi lettini era sotto il tocco delle mani dei medici. Aveva con sgomento visto corsie affollate con malati buttati nei corridoi senza alcun rispetto della loro intimità, intimità fisica ma anche del dolore e della paura della morte ed era rimasta senza parole, si riteneva fortunata ad avere un lettino in una stanza d’ospedale. Le si avvicinò l’infermiere - un omone dalle spalle larghe - che l’aveva portata in quella sala, ora lo poteva vedere bene faccia a faccia. Con voce robusta ma garbata le spiegò come sarebbero andate le cose. Poi l’avrebbe spostata sul lettino della camera operatoria. E così fu. Una lacrima le solcò il viso. L’uomo la rassicurò, le diceva di non avere paura né vergogna; dovette avvertire il suo tremore nel sollevarla e adagiarla tutta nuda, sul lettino operatorio, quando si chinò su di lei, prese un fazzoletto bianco dal taschino che aveva sul petto, “Ho una figlia della tua stessa età, non devi vergognarti, non avere paura, andrà tutto bene!” le sussurrò e le asciugò le lacrime, che ormai scendevano copiose, ricomponendole di nuovo il lenzuolo addosso. Lei sentì un brivido di speranza mentre tutto intorno sfocava fino a scomparire. Ora si andava riprendendo lentamente. Ripensava al gesto di quello sconosciuto, a quell’infermiere. A quel brivido di speranza che le aveva dato, restituendole fiducia, il senso del rispetto di sé. Non volle saperne il nome. Voleva conservare nella mente l’ immagine di un uomo buono, capace di restituire dignità e sicurezza quando la fragilità umana pone in situazioni di rischio il rispetto di sé. Ripensò a quel gesto, a quel tono di voce che l’aveva rincuorata, sottraendola al disagio, facendola sentire più forte, in grado di sostenere anche quella dura prova e la solitudine che avvertiva crescere intorno come un’edera che si avvinghia a un tronco. Ricordò le parole del poeta che le erano così care “ognuno sta solo/ sul cuore della terra/trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera”. Cosa era accaduto dentro di lei? Quell’uomo le era sembrato un angelo rassicurante! Lei aveva percepito, toccato con mano di non essere co-

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sì sola come si sentiva. Forse quel brivido di speranza era il suo raggio di sole!? Ecco, si disse, la chiamerò ‘solidarietà oggettiva’ questa cosa che accade quando uno, anche se non ti conosce, capisce il tuo stato e ti dà coraggio. In fondo è una piccola cosa, una parola, un gesto eppure che grande potere che hanno!, pensò meravigliata. È questa l’ empatia, pensò, la capacità di riconoscere il sentire dell’altro e di sostenerlo o, come diceva sua nonna, più semplicemente, la capacità di mettersi nei panni degli altri. Avvertì soprattutto d’essere parte di un insieme, un sistema che si autoregola in azioni di reciproco riconoscimento. Perché gli altri sono uno specchio del sé e in qualche modo ci appartengono, ci apparteniamo. Ricordò certe lezioni di filosofia quando il Professore l’aveva affascinata parlando della ‘comunità come fondamento’* argomento che lei rese motivo di ricerca costante, non nella teoria dei libri ma nella pratica quotidiana della sua stessa vita. Trascorse qualche giorno, andava migliorando. Ora era in piedi. I primi passi dopo l’ intervento. La breve lenta distanza dal lettino d’ospedale alla finestra di quelle bianche asettiche pareti. Un viaggio. Ora era poggiata al davanzale, lo sguardo si era fermato proprio lì: dietro il vetro della finestra una piccola pianta grassa, che le era stata regalata da chi sapeva quanto le piacessero quelle piante dalle foglie succulenti e carnose con i loro fiorellini di una indicibile delicatezza. L’ aveva messa sul davanzale della finestra, all’aria, così da poterla guardare dal letto posto di fronte alla finestra. In quei giorni costretta a letto, qualche foglia era caduta, lì su una pozzetta d’acqua e terra che si era formata dalla fuoruscita di precedenti annaffiature. E lì, proprio lì un cotiledone aveva cacciato radice ed andava sviluppandosi in una nuova piantina. La radichetta appariva appena come un filo, la foglia quasi inerme, diventata madre della nuova piantina. Le sembrò che dal quel filino di radice uscisse un filo di voce e di rimprovero: “Ma tu hai mai visto una radice starsene all’aria ad aspettare le lodi? O


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sentito dire di un fiore: ‘che bella radice che ha! Certo che no! Le lodi sono per quel che appare nell’aria; noi apparteniamo alla terra profonda, siamo radici, non di lodi viviamo ma di scavo!” Capì. Forse in altri tempi avrebbe pensato di ripulire lì fuori, senza far caso a questa piccola cosa, senza badare a quel germe di vita, magari si sarebbe incolpata del davanzale sporco ma ora, appoggiata a quel davanzale, per un tempo indeterminabile, fu presa da una profonda emozione, vide il miracolo della vita che vuole affermarsi anche in condizioni estreme, capace di germinare anche in un po’ di fango. Rimase ferma a lungo, sorpresa, pensò a quanti bambini nascono e si sviluppano in situazioni di estrema povertà, in contesti ostili e, in quella fogliolina che andava radicandosi in quel po’ di fango, vide se stessa che rimetteva radici con una nuova consapevolezza: si sarebbe presa cura di sé e di quella piantina e ne avrebbe assicurato la crescita; comprese che lei stessa, che si sentiva d’essere nata senza radici, come quelle piante figlie dell’aria, doveva radicarsi in nuove certezze perché la vita vale in sé, in qualsiasi forma e maniera si manifesti e sempre bisogna inchinarsi alla vita ed averne cura, anche solo di un filo di vita, almeno finché è in grado di nutrirsi da sé. “Solo questo legame autentico rende possibile la determinazione giusta della cosa in questione e rimette l’altro alla propria libertà”.** Ricordò le parole del filosofo, ancora fresche nella sua mente, dato lo studio recente per uno degli ultimi esami prima della laurea. Questo pensò, è il rispetto. E, volendo, in una sintesi provvisoria, tentare una definizione dell’idea di ‘rispetto’ o, magari, in approssimazione, individuarne, per così dire, ‘l’anatomia’ (dunque ne doveva aver avvertito la perdita o, perlomeno, il rischio della perdita!), per individuarne gli elementi costituenti, cercò di capire cosa fosse questo ‘rispetto’ nel sentire di sé e degli altri. Così, ragionando per metafora, le sembrò una buona idea rappresentarsi il rispetto come un filo di ragno che viene tessuto nel silenzio dell’esperienza, nel segreto della coscienza, e

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germina in quella scienza del cuore che opera come un sapere generativo d’amore e solidarietà e che si esprime in una prossimità. Ecco, concluse, il rispetto è prossimità! E fu lieta di questa immagine che le semplificava molto l’essenza della cosa, senza troppi giri di parole, come spesso faceva, nei suoi esercizi mentali, di figurarsi e fissare in immagini semplici e chiare l’ambiguità di tanti discorsi. Anna Maria Gargiulo [* Aldo Masullo, La comunità come fondamento, Libreria Scientifica Editrice, 1965 ** M. Heidegger, Essere e tempo, ed. it. a cura di F. Volpi sulla versione di P. Chiodi, Milano, Longanesi, 2006, § 26, pp. 149-154] ***Salvatore Quasimodo, Ed è subito sera, 1930 Anna Maria Gargiulo, di Meta di Sorrento (NA). Laureata in Filosofia (UNI Federico II di Napoli), poi studi post laurea (Scuola Superiore Comunicazioni Sociali, Università Cattolica, Milano). Docente di Scuola Media Superiore, poi per l’Invalsi e l'UNI di Salerno come Formatrice di Docenti. Amministra Coo Group Poesia https://sites.google. com/a/coobook.org/la-bottega-in-azione/ coogroups,. Pubblica: DOVE CADONO LE RONDINI (2019), AMARITUDINE (2018), L'EFFIMERO LO SCACCO IL VARCO (2015), IN SALITA CONTROVENTO (2012), NOSTALGIA D’ORIZZONTI (2010) e PEGASO E LA SIRENA (2008). Per la sua poetica riceve attestazioni e riconoscimenti in importanti Premi Letterari.

LA NEVICATA DEL ‘56 di Domenico Pujia

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L pavimento del salone è lucido e pulito. Il profumo è fresco e sa di lavanda. Quando salgo le scale cerco di indovinare dove sarà lei. In camera? Oppure nella piccola cappella al piano terra? O sta per essere accompagnata nella sala da pranzo? Ogni volta che vado a trovarla i suoi gesti sono sempre gli stessi: gli occhi alla ricerca di una persona familiare, la mano tesa e l’ accenno di un sorriso. La suora che l’assiste ogni tanto mi informa


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di come ha passato la notte, se ha mangiato o se è di buon umore. Le altre signore presenti nel salone sono quasi tutte sulle loro carrozzelle. Qualcuna cammina con un bastone. Poche si muovono sulle loro gambe. Le saluto. Mi osservano con curiosità. Quando mia madre si accorge di me si apre ad un breve sorriso e sembra risvegliarsi di colpo da chi si è rassegnata al proprio destino. Mi chiede sottovoce chi sono e quando le dico il mio nome il suo viso si illumina. Mi fa cenno di sedersi accanto a lei. Le prendo una mano. Poi inizia a parlare a voce bassa. Quasi un sussurro. -Ha nevicato tanto in questi giorni- mi dice guardandosi intorno con aria meravigliata. Roma è rimasta bloccata per qualche giorno da una nevicata improvvisa ed abbondante. Fuori la neve scintilla ancora al tiepido sole di febbraio. Mia madre cerca di raccogliere nella sua labile memoria qualcosa che stenta ad esprimere. I suoi ricordi ora si confondono con i mei. Dal balcone di casa, molti anni fa, lei ha visto le strade imbiancate, ha ascoltato un silenzio innaturale. I rumori attutiti e soffocati. Con la voglia di toccare e stringere fra le mani quella neve così bianca e soffice. Poi chiede a mio padre se riuscirà ad andare al lavoro. Lui le dà un bacio sulla guancia e poi posa con delicatezza una mano in grembo. Forse si aspetta una risposta che sa già. Mia madre lo guarda con una dolcezza infinita e aspetta un po' prima di rispondere. -Sono già due mesi – dice mentre i suoi occhi brillano di felicità. Poi abbassa lo sguardo: - Nascerà a settembre …- mormora, con due lacrime nuove che le scorrono in silenzio lungo le gote mentre fuori il cielo sembra avere lo stesso colore dei suoi occhi. Mio padre è già corso al telefono per avvisare che non potrà arrivare al lavoro. Gli autobus non passano più per le strade e i

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prati intorno ai palazzi hanno perso i colori. Tutto sembra essersi fermato in un’ improvvisa sensazione di un insolito e muto stupore. Un’automobile è bloccata tra la neve mentre due persone cercano di spostarla dopo aver rimosso la coltre bianca e farinosa che la ricopriva. Ma c’è una sorpresa: l’automobile non è quella giusta. Uno dei due se la prende con l’altro, lo rimprovera e si allontana sconsolato. Mia madre, dopo averli osservati, ride divertita dietro i vetri. Un gruppo di bambini gioca a lanciarsi palle di neve. Qualcuno si diverte rotolandosi. Altri se ne mettono in bocca un pezzetto. Che gusto avrà? Un uccellino cerca qualche briciola di pane che qualcuno aveva lasciato sul davanzale. Mentre le accarezzo i capelli le chiedo incuriosito: -Sei mai uscita da casa con tutta quella neve? – Lei sorride di nuovo: - No. Uscivo poco. Era tuo padre a pensare a tutto. Mio padre: lo immagino arrancare tra la neve fresca verso il negozio di alimentari lungo il corso e poi cercare una farmacia aperta. Mia madre socchiude gli occhi, poi li riapre: Faceva tutto lui,sai? Cucinava, lavava, puliva e stirava. Non permetteva che mi affaticassi. – Poi, guardinga, prosegue con un po' di emozione. -Una volta sono uscita mentre tuo padre era fuori, allora ho indossato il cappotto, i guanti, le scarpe nere di vernice con il tacco alto, la sciarpa. Sai, stava finendo di nevicare e dovevo fare degli acquisti… Ha un’esitazione mentre dalla borsetta tira fuori lentamente una foto che la ritrae un po' Infreddolita e sorpresa. La mano guantata è vicino alla bocca quasi a vergognarsi di essere stata fissata in quel momento. -E’ accaduto in quest’anno. - mi dice porgendomela. La osservo meravigliato mentre leggo sul retro la data.


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E’ del febbraio 1956! E’ l’anno in cui sono nato e ho sorriso per la prima volta alla vita! Domenico Pujia Domenico PUJIA è nato nel 1956 a Roma dove vive e lavora. Docente di scuola primaria statale, è anche docente formatore in Educazione Motoria. Ha collaborato con vari Istituti, scuole ed enti di Roma e provincia per la promozione ludicomotoria e sportiva. Nel 2014 vince il Premio della critica” Le ali di Pindaro” con la silloge poetica “Al di là del mare” (Sanremo). Tra il 2016 e il 2018 pubblica tre romanzi: “Calabria terra di passaggio”, con cui vince il premio speciale Amarganta-2016 per la sezione “Tra fiction e realtà”; “La vergine della soglia”(2017); ”I giorni dell’odio“ (2018) con cui vince ancora il premio speciale Amarganta sempre per la sezione “Tra fiction e realtà” e il prestigioso Holmes Awards – Napoli 2019 per alti meriti culturali nella sezione Letteratura Gialla Edita. Tra gli inediti il racconto “Portatemi in paradiso” (2017) vince numerosi premi, fra i quali il Concorso letterario Internazionale “La valle delle storie” (Vallefiorita- Catanzaro 2017); Premio Speciale Giubbe Rosse (Firenze 2018 ) per la narrativa inedita. Con lo stesso racconto nel 2019 vince il Premio “Arteinte Montegrappa edizioni “e il Premio Selezione Alberoandronico (Roma) per la narrativa inedita. Nello stesso anno il racconto ottiene il secondo posto nel Concorso letterario “Vivi il libro d’artista” Naos Artecultura (Reggio Calabria) e vince il Premio letterario “Uniti per la legalità” (Melito di Napoli). Nel mese di maggio è tra i vincitori del Premio Nazionale di Letteratura Italiana Contemporanea (Roma).

IL NONNO E LA BAMBINA di Anna Vincitorio LL’improvviso l’immagine di una bambina. È vicina alla gabbia dei conigli in una grande terrazza. Ogni tanto ne prende qualcuno dei più piccoli e lo stringe tra le mani; lo accarezza. È un po’ il suo baloccarsi di bambina sola. Silenzio intorno. Dovrebbe a poco venire il suo nonno, compagno di giochi. Si affaccia alla finestra e lo vede spuntare. Piccolo, con pochi capelli e grossi baffi ancora un po’ rossicci. Lo saluta di lontano con la mano e il sorriso prende

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l’intero viso. Si rintanano in una stanza per giocare. “Nonno, tu eri ingegnere vero? Me la fai una casina? La vorrei per le mie bambole”. Gli occhi azzurri sorridono alla bambina. Inizia a disegnare su un grande foglio una casa; poi ritaglia le porte e le finestre. La casa c’è; ora ci vuole la fantasia per animarla. Il contatto e la visione scompaiono. Fuga nel tempo di ricordi. Lo scoppio del carro a Firenze e lei che grida: “Andiamo via, c’è di nuovo la guerra”. Scappa serrando la mano del nonno e non aspetta l’arrivo della colombina. Era una particolare simbiosi quella che li legava. Una bimba di nove anni e un nonno di novanta. Gli fu preparata una grande festa al Forte dei Marmi; profumo di mare, di legno delle grandi cabine, quasi casette dove rifugiarsi nelle ore più calde. Tutto ha una fine. Il nonno Antonio muore a novantadue anni. Per la bambina, la scoperta della morte: un bacio sulla fronte del nonno e quel senso tragico di gelo sulla pelle indurita. Da allora ricercherà sempre una lampada nel buio della stanza e nella notte, nel dormiveglia, assaporerà tutti i ricordi legati a quel tenero amore. Gli anni ricchi di eventi, passioni, abbandoni, riempiono la sua vita. Rimpiange l’infanzia ormai lontana, reprimendo i singhiozzi per un amore finito. Una voce lontana chilometri che vorresti accanto, una voce che ti martella dentro ma che non udrai più. Ma è la volontà dell’uomo spesso e non la morte a privarti di una presenza. La vita però è attraversata da spazi aperti: apprezzi il fulgore dorato del grano sui campi prima della mietitura, e una fuga di nuvole in un cielo che si confonde con l’azzurro avvolgente di mari diversi ma sempre percossi da spume boccheggianti. C’è ugualmente solitudine ma è una solitudine amica. C’è intorno a te una moltitudine di attimi, ora belli, ora tristi. Ti accorgi del passerotto che beccheggia qualche briciola tra le auto in sosta e i luoghi esotici, puoi immaginarli a te vicini, vedendo la domenica pomeriggio Kilimangiaro. La vita è tante cose. Basta saper guardare e ascoltare. Confortare con la


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parola chi ha meno di te. Scrivere su un foglio le emozioni provate e dirsi: “Sono sola ma ho…” e soffermarsi sul frusciare del vento tra gli alberi, oppure la corsa del fiume nel suo fluire fino a quella piccola cascata tra le pietre. Punto di arrivo di una passeggiata e la sosta di qualche attimo davanti ad un altarino con una madonna sbiadita, qualche fiore secco e il ricordo di un nome. Quanti una volta erano e più non sono; quanti ancora varcheranno la soglia misteriosa dell’oltre. Sono ormai tanti i giorni sempre eguali ma diversi nel susseguirsi di notizie angoscianti. Siamo tutti preda di un nemico senza volto, non possiamo percepirne il contatto ma siamo tutti vittime potenziali e propagatori di questo male ignoto che uccide. Paura, rabbia, impotenza, ma anche attenta consapevolezza perché non c’è distinzioni di classi sociali e di etnia. Nell’ora del terrore con qualche ritardo, il pensiero si volge all’epidemia di tubercolosi e di malaria con milioni di vittime: erano soltanto bambini che non potranno più crescere nella carezza del sole. Andare col pensiero alle guerre in Iraq, Afghanistan, alla enorme povertà dell’India ma con distacco, come davanti alla proiezione di un film impegnato in una comoda sala cinematografica. Opprimente la costrizione che limita le sacrosante libertà dell’uomo ma, almeno, molti di noi sono in case riscaldate con televisione, musica e cibo. I meno anziani non hanno vissuto la guerra ma forse adesso ascolteranno con maggior attenzione i racconti dei nonni allora bambini, terrorizzati dai topi nei rifugi, enormi nella loro memoria e dai proiettili traccianti che attraversavano le case. Donne eroiche che per salvare i loro uomini in casa per sfuggire al nemico, trainavano pesanti carretti con sopra damigiane di acqua. Quella bambina che giocava col nonno, credeva, vedendo la mamma con le ginocchia piagate, che – i grandi – non sentissero male. Solo i bambini. Beata sprovveduta innocenza! Adesso non ci sono bombe ma squillano le sirene delle ambulanze assieme al suono delle campane. Piazze immense deserte nel

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loro splendore; penombre che anticipano un numero indefinito di morti. C’è un risveglio di sensibilità; ora lo sguardo avvolge con tenerezza quelle teste bianche per strada che avanzano con passo insicuro e il carrello della spesa. Qualcuno ripenserà a qualche mese avanti quando il nonno era definito un rompipalle che ripeteva vecchi fatti. Qualche altro, invece, con occhi umidi è consapevole che quel nonno o nonna non c’è più. Senza risposta il telefono e al letto saranno levate le lenzuola. Resta però nell’uomo una speranza: nella pioggia di un venerdì, gocce come lacrime bagnavano la maestà di un Cristo antico (1622 – la peste di Roma –), e un uomo vestito di bianco, sfidava il vento e la pioggia in una lunga accorata preghiera di misericordia. Siamo con Te, Francesco e, forse, se avremo un po’ di fede, potremo accettare la solitudine e aspettare che si rinnovi la vita. È sera: le ombre calano attenuate dalle luci che brillano nelle case. È pur sempre vita in una dimensione diversa che potremo accettare se non si spegnerà in noi la speranza. Firenze, 29 marzo 2020 Anna Vincitorio Nata a Napoli. Trasferita a Firenze fin dalla primissima infanzia. Ha seguito studi classici al Liceo Dante a cui ha fatto seguito la laurea in Giurisprudenza. Docente per 31 anni di diritto, economia, Scienza delle Finanze. Si occupa attivamente di letteratura, poesia e critica letteraria, saggistica dal 1974. Dal 1986 inizia a tradurre dal francese e dall’inglese. Collaborazione con Roberto Sanesi – una plaquette su Agrippà D’ aubigné – con Mimmo Morina – Lussemburgo – L’ Orée di G.E. Glancier edizione Les Ducats. Una ventina di pubblicazioni in poesia e prosa. Tra le più recenti: Il pianto dei bambini di E. Barrett Browning nei quaderni di Lucio Zinna; Poesie giovanili di Eliot in Vernice. Attualmente D. Gascoyne, Wendell Berry, Alfred Tennyson, William Wordsworth. Ha collaborato negli anni con varie riviste: Hellas, Eleusis, Revisione, Firme Nostre, Astolfo di Barberi Squarotti, Pietra Serena, Fuori Binario, Collettivo R, Il Cristallo. È stata per vari anni inviata del Corriere di Roma e attualmente collabora con Erba d’Arno, Pomezia Notizie, La Nuova Tribuna Letteraria, Vernice e il blog del Prof. Nazario Pardini, Arenaria di L. Zinna.


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ERNEST HEMINGWAY E LA FINCA VIJA, VERO TESORO DI CULTURA CUBANA di Antonio Nicolò

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ONO stato a Cuba ventidue anni fa, ho visitato la Finca Vija, villa dello Scrittore Ernest Hemingway e ogni qualvolta che leggo un articolo su Cuba mi commuovo sempre. Rimango estasiato nel sapere che ogni anno la sua villa, oggi diventata Museo Hemingway è affollata sempre da turisti che possono sbirciare le stanze attraverso le finestre e la porta di ingresso aperta. La tavola è sempre apparecchiata, c’è un disco di Glenn Miller sul piatto, sulle mensole del bar rum in abbondanza e Cinzano. Ci sono più di novemila libri e trofei di caccia in Africa, in modo che i visitatori dovessero sentire come se il padrone di casa potesse entrare all’ improvviso ed offrir loro un drink. Tutto molto affascinante come le auto americane anni cinquanta che percorrono le strade di Cuba. È rimasta identica la Bodeguita del Medio, il caffè dell’Avana vecchia dove Ernest Hemingway beveva i suoi celebri mojiotos. Nel ristorante La Terraza dove lo scrittore andava a mangiare non è insolito trovare qualche anziano che dica di trovare lo scrittore seduto al suo tavolo. Il solito tavolo è ancora lì dove Gregorio Fuentes si faceva fotografare per dieci dollari e intervistare per cinquanta. Aveva il permesso del governo di pranzare gratis tutti giorni alla Terraza come guardiano del mito. Sono trascorsi più di cinquant’anni dalla consegna del Premio Nobel al leggendario scrittore americano Ernest Hemingway grazie al libro “Il Vecchio e il Mare”, libro che divenne un celebre film che ebbe come protagonista Spencer Tracy. Grandi furono le doti di cacciatore, di pescatore, di pugile, di dongiovanni e di grande bevitore in tutta la sua vita. Famosi erano diventati i suoi viaggi in

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Africa, in mare a bordo del suo yacht “Pilar” e le corrispondenze di Guerra. Meno conosciuta è la straordinaria tenerezza che lo scrittore dimostrava in compagnia di un gatto. Hemingway amava moltissimo i gatti. Per Lui i gatti dimostrano un’assoluta onestà emotiva, al contrario degli esseri umani che riescono a nascondere sempre i propri sentimenti. Nel romanzo “Isole nella corrente” Hemingway descrive il protagonista, Thomas Hudson, che riposa teneramente abbracciando il suo gatto. Nella Finca Vija, la grande villa che possedeva a Cuba, lo scrittore viveva con cinquantasette gatti, aveva costruito per loro una torre e sistemato cucce per i suoi piccoli amici. Quando era in giro per il mondo telefonava a casa per sapere notizie dei suoi gatti, ai quali dedicò spesso alcune delle sue avventure. Nel 1942, la Marina degli Stati Uniti affidò ad Hemingway il compito di pattugliare le coste con il suo yacht alla ricerca di sottomarini tedeschi. Era un’operazione top-secret che lo scrittore ribattezzò “Frindless” come uno dei suoi gatti. Durante la seconda guerra mondiale Hemingway ebbe l’idea di costituire una specie di agenzia di spionaggio con base nella sua Finca di Cuba. Il nome dell’operazione fu “Croock Factory” dal nome, Croock, uno dei gatti che amava di più. Esiste una foto che ha fatto il giro del mondo che ritrae lo scrittore seduto alla scrivania piena zeppa di carte, di fascicoli e di cartelle davanti alla macchina da scrivere e con una mano accarezza un gatto che era andato a fargli visita mentre stava scrivendo, cercando un posticino dove dormire. Purtroppo ai suoi gatti capitarono anche dolorosi incidenti. Si racconta che una sua gattina venne investita quando attraversava la strada. Ferita a morte riuscì ad entrare nella villa dove Hemingway la trovò e lacerato dai miagolii lo scrittore decise con le sue mani di porre fine alle sofferenze della gattina e dopo aver fatto questo i domestici lo trovarono con la gattina tra le braccia che piangeva come un bambino. Il pilar, il barcone di Hemingway giace da mezzo secolo poco lontano dallo chalet di Finca Vija, poggia su due grossi assi di legno e pende


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leggermente verso destra lungo la stradina dove Lui inseguiva sbronzo di notte, Ava Gardner fino alla piscina. Corrosa dal tempo dall’umidità, il Pilar aveva bisogno di cure come tutto ciò che si trovava nella vecchia villa di Hemingway, così il governo cubano decise di sborsare seicentomila dollari per restaurare Pilar e il Tesoro di Finca Vija. La villa conserva oltre ventiduemila pezzi appartenuti allo scrittore tra i quali ci sono più di novemila libri e riviste, un migliaio di dischi in vinile e moltissime lettere indirizzate a Hemingway comprese quelle scritte da Scott Fitzgerald, Marlene Dietrich e Ingrid Bergman. L’affetto di Hemingway per quella casa era pari alla sua barca. El pilar fu la compagna di tutte le sue scorribande a caccia di pesci spada e barracuda nelle acque dei Caraibi tanto da ispirargli il capolavoro “Il Vecchio e il Mare” che cementò la sua amicizia con Gregorio Fuentes, il marinaio cubano morto a 104 anni che l’accompagnò sempre. E fu proprio Gregorio che in numerose occasioni raccontò la vita di Hemingway a Cuba. Si conobbero per caso in mezzo al mare in un giorno di tormenta. Hemingway era rimasto senza benzina e il cubano lo trascinò ad una delle isolette della Florida. Poco dopo Hemingway gli propose di salire sul pilar ed accompagnarlo a pesca. Per lui fu cuoco, marinaio, capitano della barca e soprattutto amico. Gregorio ricordava che smise di andare a pesca il giorno che Hemingway non si sparò una fucilata in testa. Fu inesauribile con le sue storie di Hemingway. Gregorio Fuentes ricordava anche che durante la seconda Guerra mondiale lo scrittore aveva trasformato Pilar in una piccola nave da Guerra con mitragliatrice e bazooka, allo scopo di attaccare eventuale sottomarini tedeschi. L’ultima estate che trascorsero insieme, nel 1961 Hemingway si sentì male e tornò negli Stati Uniti per farsi visitare. Gli dissero del cancro e si uccise perché non poteva sopportarlo. Nel Testamento regalò il barcone al suo fedele compagno ma questi non ebbe mai il coraggio di navigarci da solo. Antonio Nicolò

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Antonio Nicolò, attratto in giovane età dalla letteratura, dalla poesia del Romanticismo e dalla fotografia, inizia il suo cammino artistico nel 1999 conseguendo numerosi riconoscimenti letterari in lingua italiana e in vernacolo. Oltre ai due libri di poesie “L’Arcobaleno della Vita” e “Atmosfera Trasparente” è presente in diverse riviste ed antologie di poesia a tema libero in lingua italiana, in vernacolo e religioso. Ha ricevuto la nomina di Cavaliere della Cultura e di Senatore Accademico dall’ Accademia Nazionale d’Arte e Cultura “Il Rombo” ed è stato nominato “Accademico Leopardiano a Vita” (con iscrizione nell’albo generale accademico) dal Centro Studi Accademia Internazionale “G. Leopardi” di Reggio Calabria. Nel gennaio 2012 si è classificato al primo posto alla XXII Edizione del Concorso Fotografico Mini Presepi e Presepi di Famiglia 2011 con Encomio Solenne del Sindaco Dott.essa Teresa Zaccone, Comune di San Giorgio Monferrato, Alessandria. Su decisione del Senato Accademico, in virtù del suo curriculum dal quale emergono i più nobili valori della cultura e comprovati meriti per virtù civili è stato nominato Socio Onorario dell’Accademia Universale di Lettere e Scienze “Parthenope” di Alezio (LE) nella sezione: Lettere. Dal 2013 è Presidente del Concorso Nazionale di Fotografia-Poesia “Costruiamo il Presepio” Medaglia del Presidente della Repubblica. Il 2 giugno 2019 nel “73° Anniversario della Proclamazione della Repubblica” è stato nominato Cavaliere al merito della Repubblica Italiana dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. (La pubblicazione dei saggi al prossimo numero)

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Recensioni PIETRO CIVITAREALE PRÉIME CHE VE’ LE SCHÌURE (Edizioni Cofine, Roma, 2019, € 14,00) Préime che ve’ le schìure (Prima che venga il buio) è la quinta raccolta di poesie scritte da Pietro Civitareale nel dialetto abruzzese di Vittorio, suo paese natale, situato in provincia dell’Aquila; e sono, queste sue, poesie che del dialetto contengono la duttilità e la freschezza. Certo, Civitareale adopera il dialetto con rara maestria, e con questo strumento, in parte da lui creato, riesce a dire ciò che non potrebbe nella lingua nazionale, ormai logora dall’uso. È il suo un dialetto che ha il sapore della lingua natia e che pochi conoscono come lui in tutte le sue sfumature: una lingua che gli è rimasta nel cuore ed ha il colore della nostalgia e del rimpianto per i luoghi dell’infanzia, che ha dovuto lasciare per ragioni di lavoro, ma ai quali sempre ritorna con l’animo di chi non sa dimenticare. Ciò che qui emerge è pertanto innanzi tutto un profondo amore per la terra, avvertita come cosa viva, che sempre fa udire il suo richiamo e gli parla con amica voce. “È da nu piézze che vuojje remenéje, / ma ju tiémpe passe i stiénghe sempr’ècche” (È da tempo che desidero ritornare, ma il tempo passa e sono sempre qui) (Terra majje / Terra mia). Ed è quello di Civitareale per il suo paese, un amore che comprende anche la campagna circostante, della quale egli avverte fortemente il richiamo e nella quale egli si immerge: “Ogni matéine me resvejje / nu ciarmujje de ciéjje / sotto ajju titte” (Ogni mattina mi sveglia un parlottio di uccelli sotto la gronda) (Na matéine de premavere / Un mattino di primavera). Si legga anche: “Sta calènne ju

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sole/arréte alla muntagne / i la terre se sta spujènne / de ju vestéite d’ore” (Il sole sta tramontando dietro i monti e la terra sta spogliandosi del suo vestito d’oro) (Ma già ju ciele / Ma già il cielo). Ci sono poi in Civitareale i momenti di oscura tristezza ( Uarde la notte / Guardo la notte), che si contrappongono a quelli luminosi (Na jurnate de sole / Una giornata di sole), così come ci sono i tuffi nel passato, che a tratti riaccendono nella sua mente il ricordo dei giorni felici vissuti (Autre tiémpe / Altri tempi), che gli riportano il loro conforto e il loro bene, fatto di attese e di promesse. Eccellono tra queste poesie quelle nelle quali Civitareale evoca l‘immagine della moglie morta, che a lui ritorna con le sue fattezze e con la sua voce: “Ne so’ passate d’ènne / da quande ce semme lassate! / È nu piézze che ajje / smisse de cuntàreje. / Eppure la véucia tajje / me la recorde ancheéure” (Ne sono passati di anni da quando ci siamo lasciati! È un pezzo che ho smesso di contarli. Eppure ricordo ancora la tua voce) (La véuce / La voce); “Tra de niue ce sta na destanze / come quele che passe tra la Terre / i la stelle chiù luntane; i de téjje / sole na sembianze appannate / me revé ‘mmènte ogni tante” (Tra noi c’è una distanza come quella che passa tra la Terra e la stella più lontana e di te soltanto un’immagine sbiadita mi torna in mente ogni tanto) (Stiénghe a nu puoste / Mi trovo in un luogo). Il poeta ricorda i primi incontri avuti con colei che poi diverrà la compagna della sua vita e l’emozione che suscitavano in lui: “Te vedàive passà ogni juorne, / ma jéje nen tenàive ju curagge / de farte nu cenne, de dirte na parole” (Ti vedevo passare ogni giorno, ma non avevo il coraggio di farti un cenno, di dirti una parola) (I queste vastàive / E ciò bastava). Ora è trascorsa tutta una vita e quel tempo si tinge di favola. “Ne’ me recorde quante vote, / appustate arrete ajju spigule / de na case, ajje aspettate / che t’affaccéive alla fenestre” (Non ricordo quante volte, appostato dietro l’angolo di una casa, ho aspettato che ti affacciassi alla finestra) (Quante chéuse / Quante cose). Ma la loro storia ancora fa luce: “Scì state come na rose / che la matéine fa scuppà” (Sei stata come una rosa che il mattino fa sbocciare) (Già la sàire / Già la sera). È questo un libro della memoria e dei soprassalti dell’anima, sorpresa per lo scorrere veloce del tempo: “Passene accuscì leste i juorne / che nen ti’ nemmene / ju tiémpe pe’ cuntàreie. / I come nu sturdéite reméne / a uardà senza puté fa niénte” (Pasano così veloci i giorni che non hai nemmeno il tempo per tenerne il conto; e, come uno stupido, resti sgomento ad assistere senza poter far nulla) (Préime e dope / Prima e dopo). Ed è essenzial-


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mente un diario dei giorni che scorrono monotoni e sempre uguali, ora che non c’è più colei che sapeva farli ogni volta diversi con la sua presenza e con il suo sorriso. Oggi assedia il poeta l’infermità “Da quande nen pozze chiù cammenà / me ne stiénge rencìuse dentre / alla case come un carcerate” (Da quando non posso più camminare, sto chiuso in casa come un carcerato) (Come nu carcerate / Come un carcerato) e lo turba il fatto di ignorare cosa l’attende: “Caméine, caméine i caméine, / ma ju puoste addò ajj’a jéjje / nen se vàide” (Cammina, cammina e cammina.Ma il luogo dove sono diretto non si vede) (Ju puoste / Il luogo). Egli allora si rifugia nel sogno, che gli “restituisce il desiderio di vivere”, dischiudendogli un nuovo spiraglio (Sunnà). Ed ecco che ritorna il dolore, nascente dalla consapevolezza del suo stato e della fatica del vivere: “Éive tutte pe’ méjje: ju passate, / ju presente i l’avveneje, la lìuce / che me reschiaràive la vjje” (Eri tutto per me: il passato, il presente e il futuro. La luce che mi rischiarava la via) (Come nu cecate / Come un cieco). C’è pertanto in questo libro di Civitareale un continuo oscillare tra la disperazione e la speranza; tra il rimpianto per tutto ciò che il poeta ha perduto e il richiamo della vita che ferve intorno a lui. Così per Civitareale si susseguono i giorni, con i recuperi della memoria, che gli restituiscono le luminose visioni del passato: “Te chenosce da quande / èive na quatralelle / che nen stàive me’ ferme” (Ti conosco da quando eri una ragazzina che non stava mai ferma) (Stiénghe a nu puoste / Il poco e l’assai) e la sofferta consapevolezza del presente: “È chiù de nu màise che jace / a nu funne de liétte i nen tiénghe / nesciuna vojje d’auzarme” (È più di un mese che giaccio in ub fondo di letto e non ho nessuna voglia d’alzarmi) (Le bene e le miéjje / Il bene e il meglio). Lo salva forse la visione della bellezza del mondo e la poesia, che gli consente di scandagliare gli abissi dell’anima. Così, “prima che venga il buio” Civitareale scrive le sue poesie più ispirate e più vere, che rischiarano l’ultimo tratto del suo cammino terreno e lo accendono di una fervida luce, che ancora gli dona un senso e che lo consola. Elio Andriuoli

LEONELLO RABATTI PAROLE DEPOSTE SULLA CARTA Ed. La Linea dell’Equatore, 2019, pagg. 52, e. f. c. La prima impressione che si prova leggendo Parole deposte sulla carta, è che l’Autore sia stato e continui ad essere fortemente influenzato da

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Gabriele D’Annunzio. Ci portano, a liriche famose e intramontabili del grande pescarese, non soltanto gran parte del contenuto delle prime poesie di Rabatti, ma anche il linguaggio - con parole chiave come notte, buio, amore, corpo, cellule, piacere - e un sottile, vellutato erotismo; ma anche la cadenza, il ritmo, il narrare fluido, veloce, quasi il pullulare di sorgente, le immagini (“La pioggia cade (…)/sul tuo volto antico/d’umida terra”) e l’iterazione delle “e” (“e la luce”, “e le tue cellule”, “e il lampo”). Se isolata, la prima parte rappresenta un poemetto, nel quale è protagonista Rita, “Appena prima dell’amore” e dopo e al risveglio, anche se lei non ha il fascino della virago dannunziana de “La pioggia nel pineto”, perché l’atmosfera è dura e poco idilliaca: “Scendono parole/sul tuo volto/come sillabe di pianto”. Ancora D’Annunzio si affaccia nella seconda parte: “Trovo senso/nell’acqua che scorre”, “La pioggia cade/sui vivi, sui morti,/sui sussulti,/sulle agonie innumerevoli/dei volti insensati”. In questi componimenti si respira largamente un’atmosfera grigia e dolorosa, con anime vuote, vasti cimiteri, macerie materiali e intime, tra ”Commerci d’ emozioni,/compravendite d’affetti” ed il linguaggio è crudo, quasi a voler far eco alla rabbia che straripa dal cuore del poeta. Neppure la pioggia può recare nettezza e luce, perché anch’essa “sporca” e “ferma, immobile/come stagno putrefatto”, proprio come la lingua e la parola. I palazzi sono “brulicanti di pensieri”, tristi anche e più nelle feste; una periferia chiusa, pallida e dolente, che non riesce ad arieggiare neppure “il vento (che) corre/tra labirinti di pensieri”. E tutto ciò prosegue anche in “Tempo e paesaggi”, con lo stesso linguaggio, le “sillabe stanche”, come prima la lingua, composta da “parole devastate”. Il paesaggio si attaglia all’interiore del poeta, intontito e sorpreso di tanta sorda disperazione da chiedersi: “Perché questo verde/non entra nel mio sangue/ma rimane/tenera, splendente primavera/alla radice degli occhi?”. Un dolore senza scampo, insomma, senza via di uscita, di certo provocato dalla morte, nello spazio di appena otto mesi, del padre del poeta - cacciatore e contadino che ha conosciuto “con sapienza” i “semi della terra” - e della madre, che il figlio, straziato, vorrebbe strappare al destino e conservare nel proprio corpo, così come, per nove mesi, la donna lo aveva nutrito e fatto crescere nel suo ventre: “Aggrappati al mio promontorio di scogli/protesi verso il largo salmastro,/vieni in me, disciogliti nelle mie vene”. Domenico Defelice


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NAZARIO PARDINI NEL FRATTEMPO VIVIAMO Prefazione di Enzo Concardi, Casa Editrice Miano Editore, Milano, 2020; pagg. 124, € 12,00 Nazario Pardini, noto scrittore, poeta e critico tra i più preparati dell'età contemporanea, ha affrontato, questa volta, nella sua silloge, "Nel frattempo viviamo", un argomento di somma importanza: la vita. Intorno c'è vita in ogni angolo: in noi, nei nostri simili, negli animali (domestici, liberi), nelle piante. La vita si rinnova, periodicamente, non si estingue: si può dire "eterna". Quante volte noi uomini la rinneghiamo! Succede, però, in momenti particolari, quando siamo irritati, quando non sopportiamo il male che ci assilla, quando non possiamo risolvere un problema. Quasi sempre, però, sempre, noi difendiamo la vita: ricorriamo ai medici, se siamo malati, e seguiamo le cure che ci vengono ordinate, prendiamo le medicine che fanno al nostro caso, facciamo tesoro delle esperienze degli anziani. E' perché vogliamo vivere, il più a lungo possibile, anche se affermiamo di "voler morire piuttosto che continuare a soffrire" (Quest'ultima affermazione la pronunciamo con la bocca, non col cuore, per "scaramanzia"). La silloge di Pardini si compone di due parti: la prima parte ha per titolo "Nel frattempo viviamo", la seconda "Dal serio al faceto. Dal sacro al profano". Il poeta tratta argomenti che riguardano l'uomo, il suo procedere, il suo comportamento e il suo reagire nei momenti di crisi; egli esprime le sue opinioni. E' vero che la vita è una lotta, che non è facile superare gli scogli che affiorano nel suo cammino, ma non bisogna arrendersi, bisogna perseverare per riuscire vincitori, per provare la soddisfazione di non aver lottato invano. Se osserviamo attentamente, con scrupolosità, notiamo che in essa sono molte le cose belle, positive, che si fanno prediligere: in primo luogo la natura nei suoi aspetti stupendi che si evidenziano durante le quattro stagioni, l'affetto e la vicinanza dei nostri cari, gli amici, la soddisfazione delle nostre conquiste... Sono molte anche le cose negative che riscontriamo nella società. Ciò dipende dal fatto che noi uomini non siamo tutti uguali; vi sono, tra noi, anche i disonesti, gli egoisti, coloro che si danno da fare solo per sé a danno degli altri. E sono proprio questi che Pardini mette in luce, che non perdona, che condanna. Gli individui migliori sono coloro che coltivano l'arte: hanno sensibilità spiccata, sono onesti e generosi, amano la giustizia, l'imparzialità. Le liriche hanno tutte un significato. Riporto versi, stralci, solo di qualcuna di esse: <<In seno alla natura / un colore c'è sempre>>: è la natura che guida l'uomo nella scelta armoniosa dei colori. <<Com'è scaltro

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il tempo! / Mi nasconde il suo passare / ora con il profumo del mare, / ora con il volare dei passeri, / ora con foglie rame... >>. Il tempo, con le sue immagini, favorisce l'ispirazione. <<Sulle pareti della mia casa, / sono rimasti... / i canti di mio padre, / le esortazioni di mia madre... >>. Il poeta ricorda, con nostalgia, la sua casa e i suoi genitori. <<Sarà solitudine / la vecchiaia.. / ma pur sempre / l'unico mezzo / di restare.. / a respirare la vita>>. Chi muore a tarda età, vive più a lungo, conosce più cose della vita (E se la vecchiaia è un tormento? Allora si cambia, su di essa, parere). <<L'amore è come la luna: / questa telecomanda il mare, / quello lo fa con il cuore>>. Scene romantiche, sentimentali. <<La musica di Puccini / è uno dei messaggi / che riesce a trasmettere attimi di certezza / sull'esistenza del soprannaturale>>. C'è sempre qualcuno che induce alla fede. <<Non esiste poeta / che della bugia / non ne faccia un'arte>>. Il poeta trova ispirazione anche nelle cose negative. E', per caso, quest'ultima affermazione, uno scherzo?>>. Antonia Izzi Rufo

ALESSIO ARENA/ELISA IACOVO L’IMPORTANTE È CHE NON DIVENTI UN’ABITUDINE Intervista ad Alessio Arena Presentazione di Marcello Falletti di Villafalletto Ascarichae Domus Accademia de’ Nobili Editore, 2019, Pagg. 50, € 10,00 L’intervista è un dialogo tra due giovani che si confrontano pensando alla vita, ai fatti che accadono nel mondo, ai loro obiettivi e se siano o meno preparati ad affrontare l’età adulta con tutte le sue responsabilità. Elisa Iacovo, colei che pone le domande, è laureata in Scienze dell’Informazione, collabora con “Il Moralizzatore” come redattrice e come speaker per Radio Street Messina, conduce il programma radiofonico “Passeggia con me” per Radio UniversoME. Alessio Arena, colui che risponde, è laureato in Lettere presso l’Università degli Studi di Palermo, conduce una rubrica di lingua e cultura italiana per la Radio Nazionale argentina, collabora per la Treccani ed ha vinto numerosi premi nazionali e internazionali; è Presidente dell’Osservatorio Poetico Contemporaneo e Direttore esecutivo del Sito archeologico di Calathamet; ha pubblicato, inoltre, cinque raccolte di poesie ed un saggio. Gli autori del volume, Alessio ed Elisa, discutono di molti argomenti: il mondo digitale, Dio e la spiritualità, la mafia ed i mafiosi, il femminismo, la violenza, la natura, l’amore, l’arte, ognuno a modo


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proprio; utilizzano l’intervista come modalità, con la speranza di arrivare a più persone, con tanta voglia di comunicare, sentendo sulle loro spalle la responsabilità di dimostrare che la parola non va mai sprecata in vanità e noia, ma maneggiata con cura e passione. Alessio afferma: “La mia priorità adesso è continuare il percorso di ricerca in ambito artistico e umanistico che mi sono prefissato. Continuo a considerare il mio lavoro una goccia nell’enorme calderone di parole che abbiamo a disposizione oggi, a partire da quello del web, dei social. Oggi chi fa cultura non deve pretendere attenzione alzando la voce in questo coso, ma deve sussurrare”. Quando affrontano il tema della mafia Elisa scrive: “Al di là del senso comune, ho imparato che il mafioso non è quello che uccide, che spaccia, che ruba. […] In fondo siamo tutti un po’ mafiosi quando tentiamo di superare la fila al supermercato o alle poste; quando non ci fermiamo davanti al bambino o all’uomo che chiede aiuto; siamo mafiosi quando ci facciamo dare una (magari solo una!) raccomandazione per superare un concorso o un esame; quando dichiariamo un reddito falso per non pagare le tasse universitarie; quando scegliamo la via più facile…”. La Iacovo mette in evidenza un vecchio, vecchissimo difetto di una parte degli Italiani, che mette in pratica azioni che richiamano quelle tanto detestate dei mafiosi. Lo scambio dei due evidenzia la vitalità, la freschezza e l’entusiasmo che hanno i giovani nell’affrontare il loro viaggio esistenziale. Infatti, nella prefazione Marcello Falletti di Villafalletto scrive: “Quello che colpisce, a mio avviso, è la preponderante voglia di essere partecipi; di esserci - indubbiamente più attivi di altri contemporanei - con programmi, progetti ed evoluzioni nel voler cambiare, modificare e progettare un futuro eccezionalmente nuovo”. Il volume è tanto piccolo, quanto prezioso, dal momento che leggendolo si può riflettere insieme ai due scrittori, su atteggiamenti, vizi e problematiche che ancora oggi sono radicati in Italia. Ne esce uno spaccato della vita sociale e politica del nostro paese che mi riporta, per alcuni versi, al saggio “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli Italiani” scritto, con grande lucidità e capacità critica nel 1824, da Giacomo Leopardi, anche lui giovanissimo. Manuela Mazzola

MARCELLO FALLETTI DI VILLAFALLETTO IL CORAGGIO DI AMARE Prefazione di Tiziana Caputo - Anscarichae Domus Accademia de’ Nobili Editore, 2020, Pagg 72, € 10 “Il coraggio di amare” di Marcello Falletti di Vil-

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lafalletto è un romanzo che narra le vicende di Margherita ed Andrea, i quali si innamorano, iniziano la loro vita insieme condividendo la quotidianità e quando tutto sembra essere perfetto, arriva l’imprevisto che sconvolge i loro piani. Nella prima parte del romanzo c’è la descrizione della famiglia di origine, dei protagonisti, gli studi, il lavoro, il raggiungimento della stabilità economica. Purtroppo, però, Andrea ha un incidente sul lavoro che lo costringe a dure e lunghe prove. La vita che avevano sognato, all’improvviso, diventa tutta in salita e la stabilità della coppia, il loro amore subisce un forte scossone. La lettura è scorrevole, il romanzo si legge tutto d’un fiato, grazie ad un linguaggio fluido, ma allo stesso tempo elegante; è ben delineata la concatenazione degli eventi, l’esposizione delle emozioni ed anche la rappresentazione del dolore. L’autore ha una notevole capacità espositiva: “Le rocce, lassù, brillavano di una luce abbacinante, riflettendo come in mille caleidoscopi, multiformi disegni che, ad occhio umano, potevano apparire innaturali”. La descrizione della natura è accurata e partecipa all’andamento emozionale dei fatti; è una cornice perfetta in cui racchiudere la storia che non parla di una semplice vicenda d’amore. Nella prefazione, infatti, Tiziana Caputo scrive che il romanzo è un messaggio d’amore, un messaggio di speranza e di vita che sa andare oltre tutto. Il lettore può facilmente rispecchiarsi nel racconto poiché la vita è piena di imprevisti e chi ha il coraggio di amare trova in sé la più potente delle forze, che è universale e trasversale. “Si stava chiudendo un ciclo, per Margherita e Andrea, quello della giovinezza innamorata, per lasciare campo ad una maturità che, invece di essere prodiga, si stava rivelando oltraggiosa matrigna; foriera di un futuro tutto in salita, incerto, terribilmente difficoltoso e faticoso”. La narrazione ha continue sorprese e alla fine i due scelgono di fare qualcosa che nasconde in sé una delle più grandi espressioni d’amore. La vita è un dono, come pure è un dono amare un altro individuo e riceverlo è una grazia che permette di affrontare la precarietà della vita con uno spirito ed un’energia particolari. Scriveva Pablo Neruda: “ Nascere non basta. E’ per rinascere che siamo nati. Ogni giorno”. Dunque, la coppia affronta diverse difficoltà, ma mediante il coraggio di amare, rinasce e si rinnova, dando un senso profondo alla loro esistenza. Marcello Falletti, laureato in Lingue e Letteratura Straniera, è un poeta, saggista e storico, ha pubblicato numerose opere dal 1992 ad oggi; è Preside dell’Accademia Collegio de’ Nobili, direttore e fondatore del periodico “L’Eracliano”; fondatore e presidente del Premio Internazionale di


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Poesia “Danilo Masini”. Manuela Mazzola

MARIA TERESA INFANTE ROSSO SANGUE Oceano Edizioni, 2018, Pagg 163, € 14,00 Di forte impatto emotivo è la silloge di Maria Teresa Infante, composta da centoventi poesie che documentano la violenza gratuita sulle donne: infibulazione, lapidazione, spose bambine, violenza psicologica e omicidio. Ogni poesia è una storia narrata mediante versi forti e struggenti, anche molto commoventi. “Bussasti all’alba sfondando a calci la mia porta chiusa”. Anche se le situazioni sono diverse, le lingue e le culture sono diverse, sono sempre le donne a diventare agnelli da sacrificare in nome di una religione, di un’ideologia, di una cultura che, evidentemente, sono sbagliate. Nella relazione allegata, la dottoressa Anna Maria Pacilli scrive: “ Queste donne sono arrivate a confessare che avrebbero preferito morire, piuttosto che non riuscire ad uscire da questa lenta agonia: la morte vista, come unica via di scampo dal persecutore”. Si parla di donne saccheggiate e profanate come luoghi sacri da cui ha avuto, e sempre lo sarà la vita; il suo non è solo un corpo da prendere per riempire come un vaso, è molto di più: è una mente, un cuore, un’anima, una mamma da amare, una compagna da rispettare, nonostante tutti i cambiamenti che possono accadere nel normale divenire della vita. Nell’introduzione Franca Alaimo afferma: “Il corpo femminile è infatti raffigurato come uno spazio sacro, il sangue che vi scorre come un’energia divina” [...] “E’ lei che domina i versi con le sue qualità interiori, la vocazione alla maternità, la disponibilità al perdono, la capacità di riamare sempre, il coraggio di essere”. Nella raccolta ricorrono molto spesso i termini “mani” e “pane” ed ironia della sorte, la parola compagno viene dal latino cum panis ossia “insieme con il pane” e dunque colui che mangia insieme alla sua donna il pane, un cibo sacro che rappresenta la vita, la fertilità, la terra, di conseguenza il compagno dovrebbe essere colui con cui dividere la propria quotidianità, che protegge e con il quale decidere di formare una famiglia. Le mani invece significano amicizia, fiducia, ma anche l’atto di fare ed è per questo che le violenze che le donne subiscono da secoli, ma che hanno avuto un’impennata negli ultimi decenni, sono da condannare in assoluto. Il compagno con le mani uccide e fa violenza, la quale è sempre gratuita e non ha mai una giustificazione. Eppure l’opinione pubblica spesso giustifica

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la violenza e giudica la vittima dagli abiti che indossa, è una questione molto ambigua ed è fondamentale discuterne. La poetessa riesce a mettere in evidenza proprio questo concetto: “Forse domani /potrò dimenticare/ceste ricolme/di sogni andati a male”. “Sono una donna/ la gonna alla caviglia o sul ginocchio/ oppure a un dito dallo slip/ tanto non importa cosa mostro/ quel che non svelo è ciò che ti spaventa”. Maria Teresa Infante, con un linguaggio chiaro, scorrevole e realista, canta le tristi storie di molte, troppe donne uccise in modo barbaro. L’autrice è giornalista, poetessa e scrittrice, ha pubblicato molte sillogi ed un romanzo; è ideatrice di antologie poetiche e letterarie e da sempre si occupa di problematiche sociali come la violenza contro le donne. Con questa raccolta ha vinto il premio Books for Peace 2018 e la targa Euterpe. Alcune poesie sono dedicate a piccole donne, uccise nel fiore degli anni coma Sara Scazzi e Yara Gambirasio. In particolare la lirica “Ciabattine bianche” parla della lapidazione di una giovane donna, filmata durante la sua morte e sepolta fino al collo da pietre; il martirio dura dieci minuti ed è struggente l’immagine in cui la ragazzina si toglie le ciabattine e le mette sul ciglio della buca, atto che indica la totale sottomissione fisica e psicologica della ragazza, la quale ha accettato il macabro rito senza alcuna ribellione. Femmina: “Solo calice di vetro/ fine, fragile di cristallo/muta e nuda trasparenza/ nelle schegge, la sua forza”. Manuela Mazzola Museo Glauco Lombardi GLAUCO LOMBARDI (1881-1970) - molto più di un collezionista 1961-2011:PROFILO DI LOMBARDI NEL 50° ANNIVERSARIO DI APERTURA DEL MUSEO NEL PALAZZO DI RISERVA. Quaderni del Museo n. 12, a cura di Francesca Sandrini, Saggi di Francesca Sandrini e Mariachiara Bianchi - Grafiche Step editrice – Parma 2011 Il volume è stato pubblicato con il concorso del Comune di Parma, della Fondazione Monte di Parma e la Camera di Commercio di Parma. La curatrice dott. Francesca Lombardi, direttrice del Museo Glauco Lombardi intende sottolineare che “Il Quaderno è stato presentato in occasione della XII edizione de La Settimana di Maria Luigia, svoltasi presso il Museo Glauco Lombardi dal 10 al 18 dicembre 2011, durante la quale è stata inaugurata anche la mostra dall'omonimo titolo Glauco Lombardi (1881-1970) molto più di un collezionista


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(Parma, museo Glauco Lombardi, 10 dicembre 2011-4 marzo 2012)... Polemiche, dissensi, incertezze, attese, ripensamenti, lungaggini burocratiche e politiche segnarono amaramente quei decenni in cui Lombardi si adoperò su tutti i fronti per trovare una sede idonea al suo Museo; accarezzò moltissime opzioni, dalla donazione alla vendita, dall'alienazione parziale alle rassegne temporanee in sedi provvisorie, fermo però sempre nell'idea cardine che l'amata disgraziata Colorno dovesse accogliere le sue raccolte. Ma poiché ciò fu possibile solo in un certo periodo (1915-1943), alla fine la scelta di Parma parve la migliore o, per lo meno, l'unica realizzabile in quel momento; a distanza di tanto tempo riteniamo che la valutazione fosse corretta. Nel novembre del 1961, durante quel primo centenario dell'Unità nazionale veniva aperto il Museo... La scoperta per la quale devo gratitudine all'amico Mario Zannoni, di una straordinaria parte dell'archivio privato dello studioso, finora ignorata e da leggersi in assoluta complementarietà ai materiali documentari conservati in Museo e in collezioni private, ha consentito di riscrivere a fondo e con estrema dovizia di dati diretti una biografia a tutto tondo del colornese, ridisegnato nella sua complessità, ricchezza, intelligenza di attività e di vita umana...” (F. Sandrini in Glauco Lombardi (18811970) -molto più di un collezionista, op. cit. Pag. 5). L'imponente dimensione del testo offre già la misura della grande complessità del percorso messo in atto per arrivare alla sua realizzazione in 573 pagine di grande valore storico, artistico, documentale. L'Indice Generale così si compone: I Sezione – CONTRIBUTI CRITICI Profilo di Glauco Lombardi: una vita per una missione civile (I. Il contesto familiare e ambientale. Colorno sopra ogni cosa./II. I primi scritti./III. Glauco Lombardi fotografo all'avanguardia./IV. La missione incompiuta: “La triste faccenda delle nostre rivendicazioni”./V. La nascita di “Aurea Parma” e ...inediti interessi poetici./VI. Ruoli istituzionali e privati di Glauco Lombardi nel contesto cittadino./VII. La formazione delle collezioni: apporti maggiori e minori al grande fiume delle raccolte./VIII. 1915-1961:Un Museo in divenire tra Colorno e Parma./IX. La morte di Glauco Lombardi: la sua eredità culturale e morale. - A cura di F. Sandrini, pp. 11-107); Il Museo che non c'è: gli acquisti perduti di Glauco Lombardi (I. Il “Museo del Risorgimento”./II. L'arte francese./III. I Maestri Italiani./IV. Parma: Artisti e Accademia tra Sette e Ottocento./V. “Tre grandi Artisti”: Petitot, Bodoni e Toschi./VI. La fine del Ducato: da Maria Luigia agli ultimi Borbone. - A cura di M. Bianchi, pp.

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110-168); Cronistoria – Le attività del Museo Glauco Lombardi dal 1959 al 2011 ( A cura di M. Bianchi, pp. 170-175); Le donazioni pervenute al Museo Glauco Lombardi nel 2011 (A cura di F. Sandrini, pp. 177-181). II Sezione – GLI SCRITTI DI GLAUCO LOMBARDI Avvertenza per il lettore (F. Sandrini); Anni Dieci e precedenti (Varietà storiche: la seconda moglie di Napoleone./Il Teatro Farnesiano di Parma./Il Teatro Farnese./Il Ducato di Parma nella storia del Risorgimento Italiano./Contro la esclusione delle statue dei caduti di Parma e di Modena dal Monumento a Vittorio Emanuele II in Roma./Parma alla Mostra Fiorentina del Ritratto Italiano./La fontana del Trianon./Le “Annunciazioni” dipinte da Girolamo Bedoli-Mazzola./Per la risurrezione di una Villa gloriosa./ L'armonia del Teatro Farnese./Giambattista Bodoni nel primo centenario della sua morte./Per la conservazione del Bosco d'Arcadia nel Giardino Ducale di Parma./Il “Gran Maestro” di Ferdinando Bibiena./Gli Ospedali Militari di Parma nel primo biennio di guerra. -pp. 189-301; Apporti MinoriAnni Dieci, pp. 303-317). Anni Venti (Come furono spogliati i nostri Palazzi Ducali./Ciò che Parma rivendica dai Palazzi Reali./L'amicizia di due grandi artisti: Paolo Toschi e Lorenzo Bartolini./ Rivendichiamo il Patrimonio Universitario./I disegni di un grande architetto francese della Corte di Parma./.La destituzione di Paolo Toschi/Per la reintegrazione dell'Archivio Farnesiano./Francesco Farnese e la “Madonna del San Girolamo”./Medaglioni Parmensi./Mostra di Paolo Toschi./La Quadreria Storica dei Farnesi./Documenti di Arte e Storia restituiti a Parma./La Reale Fabbrica della Maiolica in Parma – Riassunto storico./Artisti Francesi a Parma nella seconda metà del Settecento-pp. 321-372; Apporti Minori-Anni Venti, pp. 374-377); Anni Trenta (Patriottismo di un grande artista. Paolo Toschi nel 1831./Incipit Vita Nova./L'annuncio della morte del Duca di Reichstadt a Parma./Lo squallido destino della Villa Farnese di Colorno./Un giudizio sconosciuto del Generale Enrico Cialdini sugli avvenimenti del 1870./Il glorioso passato dell'Accademia Parmense di Belle Arti./Cenni storici sul Formaggio Parmigiano./Il conte Claudio Linati e la Società parmigiana degli incisori all'acquerello./Il Museo del Teatro Farnese./Espansione dell'Arte Francese a Parma-Un articolo del “Temps” sulla Versaglia dei Principi di Parma./Collezioni di Napoleone I e di Maria Luigia nella Villa Farnese di Colorno./I disegni di Paolo Toschi per la decorazione del Teatro Regio./Un quadro sconosciuto di Giuliano da Parma./Le mie collezioni./Origine degli scavi farnesiani sul Palatino,/I bassorilievi dei


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monumenti equestri farnesiani di Piacenza./Les papiers intimes de Marie-Louise./Motivi per cui non ci fu possibile nel '700 scrivere la Storia di Parmapp. 381-444; Apporti Minori-Anni Trenta, pp. 446459); Anni Quaranta (I bassorilievi delle statue equestri dei Farnesi a Piacenza./Il dissidio di G.B. Bodoni con i suoi migliori allievi:gli Amoretti./Giambattista Bodoni, Vincenzo Monti e il mecenatismo ducale./Ritratti sconosciuti di G.B. Bodoni./Il pensiero di Maria Luigia sul genio verdiano./Nuova luce sulla fine del re di Roma?/Il Colonnello Pilota Guido Bonini./Per il Centenario della morte di Maria Luigia Imperiale Duchessa di Parma, Piacenza, Guastalla 1847-1947./Nemesi parmigiana del Risorgimento./Mostra di acquarelli, disegni e stampe di Paolo Toschi a Parma-Catalogo./La voce di Pietro Giordani dal Carcere di S. Elisabetta./La Guerra di Successione della Polonia in Italia esaminata dall'ultimo diplomatico dei Farnesi-pp. 463502; Apporti Minori-Anni Quaranta, pp-504-505); Anni Cinquanta e seguenti. (Collezioni e oggetti di Maria Luigia alla Mostra di Salsomaggiore./La Scenografia./Colorno centro ideale della Certosa di Parma./La mongolfiera del “Risorgimento”./Per il restauro del Teatro Farnese di Parma./La mascherata alla greca del Cavaliere Ennemondo Petitot Accademico Parmense 1762./Lo strazio dell'arte nella Versaglia dei Principi di Parma./La Versaglia Parmense nella storia delle reggie italiane./Splendore e decadenza della Versaglia Parmense./Come ho formato il mio Museo-pp. 509-551; Apporti Minori-Anni Cinquanta pp. 554-563); Indice degli scritti di Glauco Lombardi (pp. 569-573). Veramente significativi e consistenti i contributi fotografici e documentari che contribuiscono a rendere unico il contenuto storico, artistico, eticopolitico di questo volume, a testimonianza concreta di tutti i percorsi messi in atto dal prof. Glauco Lombardi per realizzare il suo ambizioso progetto di restituire a Colorno e a Parma i diritti giuridici di capitali culturali d'Italia, d'Europa e ora del mondo. Egli precisa: “Colorno, la Versaglia dei Principi di Parma. Con questa frase breve ma incisiva Stendhal ha indicato il centro ideale del suo romanzo 'La Certosa di Parma' e lo ha disegnato in modo sommario col palazzo ducale ed i cinque viali del parco posti nel mezzo del piano di marcia della sua creazione romantica, mostrando così una conoscenza sicura del territorio, che dalla città di Parma, seguendo il corso del torrente omonimo, scendo al Po e all'oltre Po lombardo. La indicazione di Colorno come Versaglia dei Principi di Parma, non solo richiama il fasto regale della celebre residenza di Luigi XIV, ma mostra con particolari storici ed artistici indiscutibili quanto sia vera l'affermazione del-

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lo Stendhal di essere stato spinto al suo romanzo dalla lettura di una cronaca di quella Corte di Parma, che, dopo di aver scelto Colorno nel 1660 come villeggiatura con la doppia attrattiva della caccia e della pesca, vi aveva preso nel settecento dimora permanente... Maria Luigia, passando dal trono imperiale a quello ducale di Parma, assunse sempre, durante i suoi viaggi, il titolo di 'Contessa di Colorno' e questo spinse la prudenza dello Stendhal a non dare un rilievo apertamente romanzesco ad un luogo che era divenuto la residenza preferita e il rifugio sentimentale della più nobile vittima del naufragio napoleonico...” (G. Lombardi, Colorno centro ideale della 'Certosa di Parma', in op. cit. pag. 512). Apro a caso e mi trovo INCIPIT VITA NOVA. Cito: “A venti anni di distanza dal giorno in cui unitamente al compianto avvocato Giuseppe Melli fondai Aurea Parma, ne riprendo la direzione. I sedici volumi che si allineano sul mio scrittoio densi di materia, ricchi di illustrazioni dimostrano come essa abbia realizzato il suo programma: 'Studiare lo svolgimento della vita parmigiana nei diversi momenti storici; combattere l'incuria per le nostre glorie artistiche; affermare gli incontestabili diritti di Parma alla rivendicazione dei preziosi documenti di arte e di storia che le furono tolti; difendere le tradizioni del patriottismo parmense non tollerandone il disconoscimento; concorrere ad avvivare l'attività cittadina nell'arte; procurare infine che Parma partecipi con rinnovato entusiasmo a quella rifioritura d'amore per le nobili manifestazioni del passato e per le luminose conquiste del progresso intellettuale le città italiane e le spinge a magnifici ardimenti... Ma la storia multiforme del nostro territorio non è forse una miniera inesauribile per gli studiosi? Il fastoso governo dei Farnesi e dei Borboni e la provvida signoria di Maria Luigia imperiale non hanno forse trasformata la nostra città in un centro politico e culturale propizio ad ogni esperimento, ricco di fermenti proprii, spesso superiore al prestigio di una piccola capitale?...” (G. Lombardi, Incipit Vita Nova, in Aurea Parma. Rivista di Storia, Arte e Lettere, Anno XVII fasc. 1, gennaio-febbraio 1933 (XI), Parma, pp. 3-5, riportato in op. cit. pag. 384). Dagli eventi delineati in queste tracce intendo far emergere la forza diplomatica, politica quasi militante del Lombardi nel difendere strenuamente il patrimonio artistico acquisito e conservato con scrupolosa consapevolezza dell'Italianità d'arte da salvaguardare. Mi riferisco ai due documenti storici di inestimabile valore presentati nella I Sezione, PROFILO DI GLAUCO LOMBARDI: UNA VITA PER UNA MISSIONE CIVILE: il Cartello


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di protezione per le collezioni Lombardi sottoscritto da Karl Wolff, generale delle Waffen-SS, che impone: “Dieses Bauwerk mit seiner gesamten Ausstattung steht als KUNSTDENKMAL unter deutschem Schutz! Belegung verboten. Objekt: Colorno, Via Aurelio Saffi 99-101; Besitzer: Prof. Glauco Lombardi...”. Questo preziosissimo documento porta la data del 16 novembre 1943 e nella stessa pagina, la 77, è riprodotto anche il Cartello di protezione di tutte le collezioni Lombardi sottoscritto da Lucian K. Truscott, luogotenente generale della quinta armata statunitense, che così stabilisce: “THIS IS AN HISTORIC, ARTISTIC OR EDUCATIONAL MONUMENT – It will not be requisitioned without consulting A.M.G Monuments Officer, under SAE Instrs. R-1110, (Notice type 1). LUCIAN K. TRUSCOTT Jr.Lieutenant General, U.S. Army Commanding Fifht Army- Nr 26”. Segue la firma in calce dell'Ufficiale e il timbro della data: 22 giugno 1945. Eventi storici da non dimenticare, affrontati dal prof. Glauco Lombardi con orgogliosa determinazione e dignitosa sicurezza intellettuale, civile e civica: anche per queste ragioni propongo un'avventura virtuale d'altissimo livello, messa a disposizione di tutti dal Museo Glauco Lombardi di Parma e dalla sua attuale Direttrice, dott. Francesca Sandrini, per attraversare in rete e poi, se possibile, meravigliosamente dal vivo tutto questo suo gran mondo. Ilia Pedrina

DOMENICO DEFELICE LE PAROLE A COMPRENDERE Genesi Editrice - 2019 pagg. 138 - € 14,50 Domenico Defelice ci regala un nuovo volume, Le parole a comprendere, che denota il suo instancabile bisogno di avvicinarsi alla scrittura. Ben sottolinea Sandro Gros-Pietro nell’arguta prefazione, quando dice che “Domenico Defelice appartiene agli archivi della memoria letteraria dell’ultimo Novecento e della prima metà del Duemila...”. Infatti, la sua copiosa produzione comprende opere di poesia, prosa e critica. Inoltre, è da molti anni Direttore della Rivista Pomezia Notizie, nella quale sono passati e continuano ad apparire nomi prestigiosi. La sua personalità eclettica si avvale pure dell’arte pittorica, completando il cerchio di una vita spesa per l’arte e la cultura. La sua poetica ha sempre spaziato in diverse direzioni e la struttura dei suoi versi cambia rispetto alla tematica trattata. Questo suo ultimo lavoro è suddiviso in quattro parti e rispecchia appunto il suo sentire, poiché ogni sezione tratta un argomento dif-

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ferente. In Le Parole a comprendere, che dà il titolo al libro, Defelice si apre a riflessioni esistenziali che riflettono la caducità della vita con i tanti dolori che ci presenta, portandoci anche momenti di disperazione. La memoria di Defelice è colma di ricordi. In primis, le figure che lo hanno accompagnato nella sua infanzia, alle quali è legato profondamente. Il Poeta ci presenta delle scene meravigliose che rivelano un quotidiano povero ma ricco di amore familiare: “Mio padre è stanco ed ha sempre / le mani sanguinanti / dal gelo e dagli sterpi screpolate; / mia madre, attenta vivandiera, non mangia, / sazia della nostra fame mai placata”. Tuttavia, pur nella finitudine e nella consapevolezza che la morte ci accompagna sempre, emerge di continuo un velo di speranza. I ricordi, che all’inizio avevano fatto tanto male, assumono una certa lievità che scalda il cuore e portano consolazione. Inoltre, Defelice è riconoscente alla vita per aver passato anche tanti momenti felici; per questo, è pronto ad andare oltre. Sin dalla nascita il pensiero della fine è presente: “Mi aliti dentro, notte e giorno / da quando sono nato. Notte e giorno / e neppure me ne accorgo.”. Chiede soltanto di poter andare in pace, consapevole di aver fatto del suo meglio, e di avere amato molto. Ormai sono tanti gli amici che lo aspettano: “ Gli amici quasi tutti son partiti / per il viaggio incognito.”. Tra questi, Peter Russell, al quale ha dedicato dei versi molto belli e pregnanti. Nella seconda parte, Ridere (per non piangere), Defelice cambia registro e dal tono lirico e a volte nostalgico, passa alla sferzata ironica e alla critica sbeffeggiante, talvolta molto pesante. Diversi personaggi, sia politici sia dello spettacolo, vengono denudati della loro maschera e presentati sotto una veste ridicola o addirittura equivoca: “Silmàtteo è frantumato! / Silvio se la gode con mestizia / - in fondo, onestamente l’ha ammirato - / Matteo è salito al Colle e s’è dimesso. / Per anni ed anni avremo altri pagliacci / e il tutto cristallizzato, come adesso.”. Anche nelle due ultime sezioni, Epigrammi e Recensioni, continua il tono ironico rivolto ad altri personaggi, sia anonimi sia noti nei vari campi. La voce critica di Defelice si eleva senza remore e ha il merito di esporsi e sottoporsi anche ad eventuali proteste. Non teme niente e nessuno ed espone ciò che pensa sinceramente. Questo nuovo volume comprende dunque la sua particolare personalità ricca di sfaccettature, che lo rende poeta complesso poiché sa spaziare in ogni anfratto dell’animo umano. Laura Pierdicchi


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mi prende per mano, mi fa giocare con lui, per terra, fra mucchi di giocattoli. I nipoti sono per me figli, ancor più che figli (Nipoti), la fusione ritmica tra parola e verso: parola giusta nel verso giusto: “E’ l’amico l’altro te stesso. Gli puoi aprire l’anima: non ti tradisce, puoi fidarti…”.

D. Defelice: Il microfono (1960)

NOTIZIE ALLA VOLTA DI LEUCADE - E ti rivissi, vita, con un sentire lieve e tanto amato che in ogni fatto lieto o meno lieto, ma scampato, vidi un superbo dono. mercoledì 1 luglio 2020, NAZARIO PARDINI LEGGE: "VOLER BENE" DI ANTONIA IZZI RUFO. Antonia Izzi Rufo. Voler bene. Carta e penna. 2020 Iniziare da una pericope tratta dalla quarta di copertina forse è ilmigliore dei modi per entrare nella poetica di Antonia Izzi Rufo che si affaccia alla scena letteraria con una plaquette dal titolo significativo e indicativo sul suo modo di far poesia. Una plaquette ben editata, fine, preziosa per caratteri, impostazione grafica, quarta e copertina che riporta, come Ella afferma, il ritratto dei suoi gioielli: “Novella Cornelia/ quando le amiche/ venivano dame/ e mi chiedevano/ di mostrare loro/ le mie preziosità/ / tornando da esse/ per mano i bimbi,/miei belli, stupendi,/dicevo: “Ecco, qui,/i miei due gioielli” (I miei gioielli). Ed eccoci, quindi, a questo lacerto da cui partire per delineare il tragitto della Nostra nella reificazione degli input emotivi in versi di cui Ella si dimostra poetessa di lungo corso: “C’è nei versi della Izzi Rufo, la semplicità e la schiettezza della poesia di Saffo, l’intimismo e il panismo del Pascoli, l’ermetismo, addolcito, di Ungaretti, la dolcezza e la musicalità del Petrarca, il senso dell’ infinito del Leopardi,… la filosofia di Dante…”. E partirei proprio da quelli che sono i valori aggiunti del suo canto: la semplicità, l’armonia: “… Mi abbraccia, mi bacia,

Tante sono le poesie di questa plaquette che giocano il loro ruolo su questi binari: Voler bene: “Voler ben, donare amore, senza discriminazione, disinteressatamente, è sentirsi paghi dentro è non avvertire, per nessuno, sentimenti negativi;…” (Voler bene), Mio nonno: “A chi non lo tollerava duro, severo sembrava, non mite affabile, uomo invidiabile. “Burbero benefico”…” I miei genitori: “… Essi mi ascoltano e per caso, per magia, il mio male si allevia io sorrido, serena.” (I miei genitori), Festa degli alberi: M’ero arrampicata il giorno prima Su per i fitti cespugli della china. Camminavamo tra erbe, buche, sassi, rischiavamo scivoloni nei fossi…” (Festa degli alberi), Miracolo di natura: “E il giorno appresso: “cosa sarà successo?” dicevan i curiosi, tranquilli, non furiosi. Miracol di natura! Io divenni mamma!... (Miracolo di natura), Già sveglio: “Quel bimbo, assai carino, già vivace, dal lettino, con fare repentino, lanciò all’improvviso uno spruzzo di pipì


POMEZIA-NOTIZIE al dottor che lì per lì, piuttosto divertito, pulendosi il viso, disse: “Birbantello, cominci da monello! Così mi sei grato Per averti liberato?”. Battimani scroscianti Di tutti gli astanti”. (Già sveglio), Nipoti: “E’ proprio vero il detto “Figlie nipoti più ne fai Più è sprecato, perduto”? Io dico:“Non è vero”, Amo i miei nipoti, di più il pronipotino;…” (Nipoti), Il vecchietto: “Conosco un vecchietto che vive solo soletto in una casa modesta. Non ha parenti vicino. (…) M’ispira gran tenerezza, lo stimo, gli voglio bene” (Il vecchietto), Desiderio: “Se guardo le finestre dalle mura domestiche, desidero evadere, volare, competere con uccelli, farfalle, inetti giù a valle che vanno alla deriva su ogni fiore e spina…” (Desiderio), In natura: “Libertà, effluvi, musica, sinestesia melodiosa aspiro, respiro, incido nel mio mondo interiore, nel cuore, nell’anima. Mio mondo meraviglioso! Sei mio, tutto mio!” (In natura), Il ruscello: “Che incanto quel ruscello! Trasparente, terso, bello. Gira tra sassi, saltella…”(Il ruscello), La margherita: “Per un viottolo di campagna, Sola soletta, una ragazza se ne va: Dove andrà? non si sa.

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(…) Tale vista mi distrae, mi riporta ai tempi belli quando anch’io giocavo a ‘m’ama non m’ama’ e, alla risposa della margherita, gridavo felice: “Egli m’ama!””. (La margherita), Monte Meta: “Tra boschi di faggi, sassi e salite, radure, a volte, del tutto informi, giungemmo in cima, stanchi, sudati, ma entusiasti…” (Monte Meta (m. 2241), … Una serie di emozioni scatenate da una natura vicina e coinvolgente per i suoi colori, i suoi paesaggi, che tanto ci dicono degli stati d’animo della scrittrice; della sua purezza spirituale, della sua eleganza formale, sempre nuova e accattivante, sempre fresca e coinvolgente: una vera cascata di suoni ed armonie. Definirla poesia dell’home non è di certo azzardato, definirla poesia della casa, del giorno, della notte, della bellezza che ruota attorno a noi non è di sicuro improprio, dacché la Nostra sviscera tutti gli impulsi emotivi che danno luce e potenza al suo poema. Ma sono soprattutto le poesie dedicate alle stagioni che ci offrono il cuore della sua melodia, della varietà metrica, che l’autrice riesce a sfoderare per concretizzare le sue emozioni: da Gennaio a Febbraio, da Marzo a Aprile, da Maggio a Giugno, da Luglio a Agosto, da Settembre a Ottobre, da Novembre a Dicembre, una pioggia di luci e di abbandoni, di sensazioni e scoperte che solo un animo vocato alla poesia può realizzare: “Amo la primavera fiorita Che mi riporta la luce e il calore Del sole più alto nell’azzurro, per le rondini, i vestiti leggeri, le passeggiate all’aperto; (…) Amo la natura tutta, in tutte le sue manifestazioni, perché mi rilassa, m’ispira, mi fa creare poesia (Amo le quattro stagioni). Il libro si chiude con una poesia dal titolo fortemente emblematico che racchiude in sé tutta l’energia focale della Rufo: Voglio bene. Versi di grande energia lirica e di esplosione emozionale che con il loro afflato segnano il cuore di questa plaquette: Voglio bene ai cuccioli dei cani,


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Ai gattini, ai caprettini, agli agnellini, ai vitellini, a tutti i piccoli degli animali, domestici in particolare. Vorrei prenderli in braccio, accarezzarli, con tenerezza, ricambiare le loro effusioni. Un amore totale, plurale, universale che si fa fil rouge e sottofondo musicale di un’opera che tanto si accosta alla musica e al sentimento di una Bohème pucciniana. Pubblicato da nazariopardini a 00:01 *** Ricordo di ROBERTO GERVASO - Il 2 giugno ’20 si è spento a 82 anni Roberto Gervaso a Milano. Era nato a Roma il 9 luglio del 1937. Lascia la moglie Vittoria, la figlia Veronica e tre nipotini. I funerali si sono svolti sabato 6 giugno presso la Chiesa degli Artisti a Piazza del Popolo. Cito alcune delle personalità presenti del mondo dello spettacolo (Arbore, Pingitore, Giucas Casella, Enrico Vanzina), del giornalismo (Bechis, Napoletano), della politica (Cicchitto, Tajani), della letteratura (Corrado Calabrò) e della medicina (Franesco Romeo, Cognetti). Con Montanelli firmò sei volumi della storia d’Italia. Scrisse vari libri, ne cito alcuni: a) biografici come Cagliostro, Casanova, Nerone; b) sulla depressone “Il cane nero”; c)ironici sugli aforismi, dei quali era un maestro; d) sui vizi degli italiani in “Italiani pecore anarchiche”. Ha scritto sia per il Corriere della sera che un po’ ovunque: sul Giornale, il giornale di Vicenza, sul Mattino, sul Gazzettino e sul Messaggero. Ho un buon ricordo di Gervaso. Frequentava la trattoria Nerone al Colle Oppio dove io da giovane andavo a pranzo spesso con i miei colleghi di Università (facoltà d’ingegneria). Quando, qualche anno fa, andai a pranzo da Nerone, il proprietario del locale mi riconobbe, gli ricordai i miei colleghi e gli nominai Gervaso che abbiamo ricordato con piacere. Il 31 ottobre 2015 incontrai Gervaso casualmente presso la libreria Termini per la presentazione del suo ultimo libro di aforismi e lo salutai. Negli anni, Gervaso mi ha risposto sulla rubrica del Messaggero (atupertu e gervasodanotte) a vari quesiti che gli ponevo sui temi più disparati: dalla politica, alla storia, all’ambiente e alla religione. Mi ricordo un suo articolo sul problema dimenticato delle foibe, che citai in un convegno dedicato su questo tema a Pomezia. In un articolo sui privilegi scandalosi della politica, Gervaso diceva: se l’ offerta politica è scadente perché andare a votare? E’ come se andassi in un ristorante dove il menu è di

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cattiva qualità! In un articolo che fece sul messaggero in data 14 marzo ’19 affermò: ”sono un inquilino dello Stivale che non capisce più niente di quel grande condominio, diventato gran casino che è l’Italia.” E prosegue:” non abbiamo senso dello Stato perché non abbiamo uno Stato. Quello sotto cui vegetiamo è nato tardi e male, il Risorgimento è stato fatto da un élite, il fascismo da un ex maestro di scuola, di straordinario fiuto politico, ma cinico e spregiudicato. Siamo passati attraverso due guerre: una l’abbiamo vinta solo sulla carta, la seconda l’abbiamo perduta ignominiosamente. La ripresa è stata formidabile grazie a De Gasperi, Einaudi, Di Vittorio, Scelba e Togliatti.” Poi prosegue descrivendo con la sua magistrale e significativa sintesi che lo contraddistingue, il successivo degrado con il centrosinistra, Tangentopoli, Berlusconi, Prodi per finire a Grillo! Visto che da giovane lessi i libri di Alessandro Dumas (fra cui “Giuseppe Balsamo” e “La collana della regina”, che descrivevano i prodromi della Rivoluzione francese), preso dalla curiosità alcuni anni fa lessi anche il libro “Cagliostro” (Cagliostro è uno pseudonimo di Giuseppe Balsamo) di Gervaso e ne feci una recensione sulla rivista Pomezia – Notizie. Il 10 maggio del 2019 Gervaso trattava sul Messaggero il significato dell’esistenza e la religione: “Io non sono né cattolico né apostolico, non mi riconosco in nessuna Chiesa, rifiuto tutti i dogmi, generatori di fanatismo, intolleranze, inquisizioni e roghi. Io sono stoico, laico, non posso fornirvi esplicabili certezze. Ma interiormente ne ho una. E non da poco. Sono destinato, come tutti, all'immortalità. Se nulla, per un insondabile mistero, si distrugge, perché dovrei estinguermi io? Eccovi un microbo. Prendetelo a martellate, bruciatelo. Non riuscirete mai ad annullarlo. Riuscirete solo a trasformarlo. Quando sarà il mio momento, e prima o poi sarà anche il mio momento, una forza meravigliosa e misteriosa, mi attirerà a sé, un enorme buco celeste, l'universo, mi risucchierà e io mi abbandonerò ai suoi magnetici flussi spirituali. Diventerò di nuovo una particella infinitesimale di un cosmo infinito, che mi comprende da sempre e da sempre mi protegge….” Era un agnostico, credeva ad una propria coscienza morale, che portava l’uomo retto a fare il proprio dovere fino in fondo. Seguiva la filosofia di Seneca, Voltaire, Unamuno. Si dava uno stile di vita metodico. Per scrivere usava ancora la macchina da scrivere Olivetti. In uno scambio con Gervaso tramite email su “atupertu” Gervaso mi scrisse che ero un maestro nell’uso del computer, al quale lui stesso non si è mai convertito!


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Il 3 maggio del 2011 Gervaso mi rispose sul Messaggero ad alcune mie riflessioni sul sacramento della Confessione. Fra l’altro gli scrissi:” Ciò che vorrei farle notare è che i preti sono come noi, con le loro debolezze umane, ma sono degli intermediari fra noi e Dio.” Gervaso mi rispose:” Lei, e non solo Lei, dice che sono intermediari fra l’uomo e Dio. Ed è proprio questo che io rifiuto: di parlare con Dio tramite i suoi intermediari.” Poi prosegue:” E che i conti, della giornata e della vita, li faccio, li ho sempre fatti, con la mia coscienza. E’ la parte migliore di noi, il nostro tribunale interiore, i cui verdetti sono insindacabili.” Parlai di questi argomenti con Padre Peter Paul, che nel 2004 prestava servizio a Pomezia presso San Benedetto, e nel 2011 era insegnante presso l’Urbaniana. (nel 2017 fu nominato Vescovo a Mangalore – India). Nel luglio 2011 vi fu uno scambio di varie email fra il sottoscritto, Gervaso e Padre Peter Paul. Ho inviato a Gervaso una biografia di Newman convertitosi alla fede in inglese, ho inviato anche le considerazioni di Padre Peter Paul sulla coscienza. Fra l’altro P. Peter Paul afferma, secondo Newman: ”la coscienza deve essere formata per diventare la coscienza retta e perciò per togliere la cecità, gli errori per ignoranza. Qui Dio ci aiuta per la rivelazione per mezzo di Gesù e gli apostoli e la Chiesa che porta nel suo seno questa rivelazione che essa utilizza nella catechesi per la formazione della coscienza. Perciò, l'aiuto della comunità e di coloro che sono ministri nella chiesa è importante. Certo, nessun atto nostro può togliere il peso della colpa se non il Signore che ha guadagnato il perdono sulla croce.” Ma purtroppo Gervaso restò in quel tempo nelle sue convinzioni! Ho accumulato una discreta raccolta dei suoi aforismi. Ne cito alcuni: - L’ironia ti fa capire quanto tutto sia relativo. - Il rimpianto è nostalgia del passato; il rimorso invece è paura. - I dolori ci temprano più dei piaceri. - L’uomo nasce solo e solo resta; finché non trova una donna che lo fa sentire ancora più solo! - Se Dio ci ha fatti così, vuol dire che non poteva farci migliori. - L’amore è il più calcolatore dei sentimenti. Non corrisposto, si trasforma in odio. - L’adultera a chi la scopra: “Non si può dir no a tutti!”. - Se non so quello che è stato prima di me, perché dovrei sapere quello che sarà dopo? -Gli innamorati si giurano eterno amore perché non conoscono né l’amore né l’eternità.

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- Dove cominciano i tuoi privilegi, finisce la mia libertà. - Il meglio non esiste. Esiste il meno peggio. - La bocca è fatta non solo per parlare, ma anche per tacere. - Il moralista è il più abile degli impostori: denuncia e flagella negli altri le proprie magagne e le proprie colpe per poterle meglio nascondere. - Non dire mai:” so io quel che si deve fare”. Qualcuno potrebbe chiederti come. - Non crede in nulla. Neanche in se stesso. Per concludere cito una interessante considerazione di Gervaso sul destino pubblicata sul Messaggero del 25 gennaio 2012. Rispose ad una mia email in cui dicevo che nel 1968 mentre ero militare mi successe un brutto episodio durante il servizio militare per cui fui mandato a Udine e feci il campo ad Asiago dove conobbi la mia futura moglie. Ho detto anche che questo fu un segno del destino ed inoltre ho chiesto a Gervaso: perché non credere alla Divina Provvidenza di manzoniana memoria? A Gervaso capitò questo: mentre era solo a Roma in quanto la moglie era andata a Milano per seguire i suoi tre nipotini, decise di cenare alla trattoria sotto casa sua e chiamò per compagnia il suo amico professor Romeo, cardiologo di Tor Vergata. In quella cena Gervaso si sentì male ed il giorno dopo fu operato al cuore. Gli misero due bypass. Gervaso interpretò il fatto di trovarsi solo a Roma, invitare a cena il suo amico cardiologo come un segno del destino. L’articolo di Gervaso è molto interessante. Io lo conservo gelosamente. Gervaso si pone tante domande: sulla Fede, sul Caso, cita Voltaire, sul libero arbitrio ecc… sono belle considerazioni sul mistero della vita cui tutti quanti noi, sia grandi che piccoli, dobbiamo quotidianamente fare i conti! Giuseppe Giorgioli Pomezia (Rm)

LIBRI RICEVUTI EMERICO GIACHERY - La parola trascesa e altri scritti - Aracne editrice, 2020 - Pagg. 118, € 9,00. Emerico GIACHERY, già ordinario di Letteratura italiana moderna e contemporanea nella II Università di Roma-Tor Vergata, dopo avere insegnato negli Atenei di diverse città italiane e straniere, tra cui Ginevra. Una trentina le opere pubblicate. Tra le altre: “Metamorfosi dell’orto e altri scritti montaliani”, 1985; “Nostro Ungaretti”, 1988; “Verga e D’Annunzio; Ritorno a Itaca”, 1992; “Dialetti in Parnaso, 1992; “Letteratura come ami-


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cizia”, 1996; “Luoghi di Ungaretti, 1998; “Ungaretti “verticale” “ (in collaborazione con Noemi Paolini), 2000; “La parola trascesa e altri scritti”, 2000; “L’avventura del sogno”, 2002; “Albino Pierro grande lirico”, 2003; “Gioia dell’interpretare. Motivi, Stile, Simboli”, 2006; “Belli poeta di Roma tra Carnevale e Quaresima”, 2007; “Abitare poeticamente la terra”, 2007; “Ungaretti ad alta voce ed altre occasioni”, 2008; “Voci del tempo ritrovato”, 2010; La vita e lo sguardo (2011); “Passione e Sintonia Saggi e ricordi di un italianista” (2015). Alcune “Lecturae Dantis (Inferno XIII, Purgatorio X, Paradiso I e III)” sono state pubblicate di recente con l’aggiunta di cd contenenti la lettura vocale dei canti fatta dallo stesso lector. ** MARIA TERESA INFANTE - Rosso sangue Poesie, Nota dell’Autrice, Introduzione di Franca Alaimo e una relazione a cura della dottoressa Anna Maria Pacilli - Oceano Edizioni, 2018, pagg. 164, € 14. Maria Teresa INFANTE è nata a San Severo il 20 marzo 1961. Ideatrice e curatrice della trilogia poetica e letteraria “Ciò che Caino non sa”: La tela di Penelope (vol. I, 2014), Odi et amo (vol. II, 2015), Amore e Psiche (vol. III, 2016), è vicepresidente dell’associazione culturale L’Oceano nell’Anima e responsabile del settore editoriale della stessa; Collaboratrice del giornale Il Corriere di San Severo; Ambasciatrice di Pace della Universum Academy Switzerland e Accademico onorario della stessa; Ambasciatrice del Premio Letterario internazionale L. S. Senghor di Africa Solidarietà Onlus. Tra le sue opere edite: Quando parlerai di me (2012), C’è sempre una ragione (2014), Il viaggio (2016), Itinere (2016), Il richiamo (2017). ** ANTONIA IZZI RUFO - Diario di un anno - Carta e Penna Editore, 2019 - Pagg. 48, s. i. p. ** ANTONIA IZZI RUFO - Voler bene - Poesie, in copertina, i nipotini dell’Autrice, Lucio e Lino sulla spiaggia di Serapo (Gaeta) - Carta e Penna Editore, 2020 - Pagg. 48, s. i. p. Antonia IZZI RUFO, insegnante in pensione, laureata in Pedagogia, è nata a Scapoli (IS) e risiede a Castelnuovo al Volturno (IS), frazione di Rocchetta. Ha pubblicato opere in prosa e poesia, saggi e altro, circa una sessantina di testi finora. Ha vinto moltissimi Premi Letterari. Noti critici ed esponenti della cultura nazionale e internazionale hanno scritto di lei, tra gli altri Costas M. Stamatis, Paul Courget, Giovanna Li Volti Guzzardi, Giorgio Barberi Squarotti, Massimo Scrignòli, Enrico Marco Cipollini, Marco Delpino, Angelo Manitta, Sandro Angelucci, Emilio Pacitti, Luigi Pumpo, Carmine Manzi, Aldo Cervo. Tra le

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tante sue opere, che sarebbe troppo lungo enumerare, si ricordano: Ho conosciuto Charles Moulin (1998), Ricordi d’infanzia, ricordi di guerra (1999), Tristia - Ovidio (1999), Saffo, la decima musa (2002), Per una lettura della “Vita Nuova di Dante” (2004), Catullo, il poeta dell’amore e dell’amicizia (2006), Il poeta e l’emozione (2009), Dolce sostare (2010), Dilemma (2010), Perché tu non ci sei più (2012), Felicità era... (2012), Paese (2014), Voci del passato (2015), La casa di mio nonno (2016), Sensazioni (2016), Oltre le stelle (2017), Giorno dopo giorno e Donne (2018), I racconti di Lucio I. (2019), Volo e ritorno (2019), Diario di un anno (2019). ** WILMA MINOTTI CERINI - L’alba di un nuovo giorno - Poesie; come prefazione, interventi di Mons. Franco Buzzi - Prefetto della Veneranda Biblioteca Ambrosiana Collegio dei Dottori di Milano - e di Francesco Di Ciaccia (Il dramma e la possibilità dell’impossibile) - In copertina, a colori, “Spiritus intus alit”, del pittore Mario Braciliano - Ed. Eugraphia, 2020 - Pagg. 260, € 16,00. Wilma MINOTTI CERINI è nata a Milano nel 1940. Attualmente vive a Pallanza (VB). Ha all’attivo diverse pubblicazioni. Per la poesia: La luce del domani; Alla Ricerca di Shanti (1993); La strada del ritorno (1996). In campo saggistico: Caro Gozzano (1997); Una questione di dosaggio. Nella narrativa: Rajana (romanzo, 1998); I figli dell’illusione (racconto filosofico, 19981 e 20182); Ci vediamo al Jamaica (romanzo, 2010). L’Autrice è presente nella Storia della Letteratura Italiana, nel Dizionario Autori Poeti scelti a livello Europeo -, in varie riviste letterarie e nel sistema www.Literary.it. È Senatrice dei Micenei. ** COSMO GIACOMO SALLUSTIO SALVEMINI La Repubblica va rifondata sulla random-crazia - Analisi storica delle anomalie istituzionali e delle collusioni tra malavita e politica dal 1948 ad oggi. Proposta di riforma della Costituzione per abolire il “metodo Caligola” ed introdurre il “metodo Pericle” - Edizioni Movimento Salvemini, 2014 - Pagg. 304, s. i. p.. ** COSMO GIACOMO SALLUSTIO SALVEMINI Epuloni e Lazzari - Analisi storica dei fattori che determinano le disuguaglianze economiche tra persone e tra popoli - Prefazione di Franco Ferrarotti, Introduzione dell’Autore - Europa Edizioni, 2019 Pagg. 296, € 19,90. Cosmo Giacomo SALLUSTIO SALVEMINI è nato a Molfetta (Bari) nel 1943. Si è formato sugli insegnamenti morali di Gaetano Salvemini. Si laurea in Scienze politiche a


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Bari nel 1965. Si dà al giornalismo nel 1966. Si laurea in Giurisprudenza a Roma nel 1974. Insegna dal 1975 a livello universitario. Past Presidente della Casa d’Europa di Gallarate (Varese) e Preside del locale Liceo Cavallotti. Dal 1980 è Presidente del Movimento Gaetano Salvemini. Dirige dal 1991 il periodico L’Attualità e la Scuola di Giornalismo “G. Salvemini”. Nel 1995 fonda le Edizioni Movimento Salvemini. Nel 1999 promuove la costituzione dell’Unione Italiana Associazioni Culturali (U.N.I.A.C.) di cui è Presidente. Dal 2000 dirige l’organizzazione del “Maggio Uniacense”. Socio onorario dell’Associazione Pugliese di Roma. Gli sono stati conferiti più di 300 Premi per opere e per l’attività giornalistica. Dal 2003 è Deputato al Parlamento Mondiale per la Sicurezza e la Pace e Ministro del Dipartimento Relazioni Internazionali. Dal 2004 è direttore dell’Ufficio Stampa dell’ Accademia Costantiniana. Socio onorari dell’ Associazione Nazionale Magistrati Onorari. Tra i più di 35 libri, ricordiamo “Europa problemi giuridici ed economici” (1977, giunto alla sesta edizione) e “La Repubblica va rifondata sulla random-crazia” (2014). ** AA. VV. - Antologia degli artisti - Prefazione di Leonardo Zonno; in copertina, a colori, “Un angolo di Parigi”, di Florinda Battiloro; all’interno, in bianco e nero o a colori, ben 35 immagini - Edizioni Movimento Salvemini, 2019, pagg. 96, s. i. p., ma acquistabile via Internet. Tra poeti, pittori, fotografi, narratori, saggisti, sono antologizzati: Stefania Barbieri Guitaldi, Florinda Battiloro, Lina Botticelli, Giovanni Campisi, Mario Coletti, Marcella di Nallo Martino, Paola Lamonica, Maria Marsicano, Francesca Pagano, Vittorio Pesca, Gerardina Russoniello, Grazia Maria Tordi, Anna Maria Chirigoni, Regina Senatore, Nico Valerio, Vincenzo Maio, Angela Libertini, Rosmina Viscusi Passannanti, Daisy Alessio, Patrizia Frangini Klum, Marina Giudicissi Angelini, Carlo Morganti, Cosmo Giacomo Sallustio Salvemini, Aurora Simone Massimi, Mariannina Sponzilli, Gabriele Zaffiri.

TRA LE RIVISTE LA RIVIERA LIGURE - quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro diretta da Maria Novaro - Corso A. Saffi 9/11 - 16128 Genova - e-mail: info@fondazionenovaro.it - Riceviamo il n. 90, monografico, dedicato a Elio Lanteri e altri, con le firme di: Fabio Barricalla (Premessa agli Atti con una postilla); Fabio Barricalla (“…un fiorellino

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bianco…” Sul lirismo di Elio Lanteri); Alberto Cane (Elio); Francesco Improta (Una tristezza soave, una coraggiosa allegria); Alfredo Luzi (Rileggendo La ballata della piccola piazza: il tempo e lo spazio); Giovanni Rainisio (Elio Lanteri. Un vanto per il ponente ligure); Notiziario della Fondazione; Guido Zavanone, un ricordo a cura di Rosa Elisa Zangoia; Fabio Barricalla (Dal carteggio di Mario Novaro. Una lettera inedita a Giovanni Petronilli); Giammarco Parodi (Tentativo di cantare… un De Giovanni); Marilena Vesco (Franco D’Imporzano. Poeta e paladino dei valori sanremaschi). * FLORILÈGE - Revue trimestrielle de création littéraire et artistique, n. 179/Juin 2020 ; Directeur de la publication : Stephen Blanchard - 19 Allée du Maconnais - 21000 DIJON (France) - Numerose immagini a colori in prima e quarta di copertina e all’interno, come numerose sono le firme di poeti, artisti, critici, narratori, tra cui: Ludivine Corominas, Cath Lefebvre, Christine Duhamel, Joël Grenier, Yolaine Blanchard, Marc Andriot, Pierre Ducouret, Florent Boucharel, Didier Colpin, Jean Sarraméa, Peter Seminck, Marc Andriot, William Markopoulos, Annie Jibert, Marie-France Cunin, Pierre Delangle, Nathalie Lauro, Gérard Courtade, Kathleen Hyden-David, Jean-Louis Hivernat, Marc Rébéna, Pierre Boby, Béatrice Gaudy, Jean Faux, Marie-José Pascal, Catherine Rolland, Patrick Lefèvre, Alain Marchand, Marie-Claude Puyobro, Maurice Amstatt, Jean-Pierre Amiot, Olivier Abiteboul, Christian Amstatt, Lyse Bonneville, Paule Milamant, Marie-Tjérèse Bitaine De La Fuente, Robert Chanal, Roger Charasse, Laurence Chaudouët, Joël Conte, Daniel Augendre, Daniel Emond, Marie-Christine Guidon, Jean-Claude Fournier, Louis Savary, Louis Hosote, Catherine Lamagat, Jean-Marie Leclercq, Pascal Lecordier, Claude Luezior, Philippe Martineau, Gérard Mottet, Irène Clara, Michel Santune, Édouard Richebonne, Joël Bertrand, Victoria Thérame, Florence Taillasson, Nicole Piquet-Legall, Claude Vella, Arthur Clavié, Léon Bralda, Viktoria LaurentSkrabalova, Annick Gautheron, Murielle CompèreDemarcy, Nicole Hardouin, Pierre Goldin, Laurent Zimmern, Julius Nicoladec, Aline Petiot, Jean Claval, Khaled Youssef, Sylvie Righetti, Christine Dernis-Gravelle, Jacqueline Mosson, Daniel Pierre Brivet, Marie-José Pascal, Anne Sananes, Claire Tabouret, Maurice Vidal, Jany Gobel, Dominique Di Tuoro, Michèle Peressinotti, Jeanne ChampelGrenier, Evelyne Berruero, Jacques-Hubert Frougier, Maram Al-Masri, Rik Hemmerijckx, Émile Verhaeren, Paul Verlaine eccetera, scusandoci per i


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tanti altri che non ci è possibile elencare. Irène Clara, a pag. 34 segnala il numero di febbraio 2020 di Pomezia-Notizie e, a pag. 35, ci dà una interessante nota del volume Le parole a comprendere di Domenico Defelice. Invitiamo i nostri lettori a contattare la bella rivista, ad abbonarsi e a collaborare: aeropageblanchard@gmail.com; Téléphone 06.12.68. 15.47

LETTERE IN DIREZIONE (Ilia Pedrina, da Vicenza) Carissimo Amico ora risanato, in tempi così difficili per l'arte, la letteratura, la cultura tutta, è importante ricordare chi, come il prof. Glauco Lombardi, ha dedicato la sua vita a difendere e a preservare per la pubblica condivisione patrimoni parmensi che altrimenti sarebbero andati dispersi, trafugati forse per essere venduti a macchia di leopardo nel mondo, utilizzando tutte le sue risorse materiali, spirituali e di altissima professionalità e competenza. Lo zio Aurelio Cartone (Milano, 12 dicembre 1910) fratello più piccolo di mia mamma Luisa (Milano, 27 maggio 1909) era molto

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amato ed apprezzato anche da Papà, che lo sosteneva sempre facendolo conoscere nel vicentino da personalità come il conte Gaetano Marzotto, cui pure fece il ritratto e da tanti altri amici, oltre a commissionargli il proprio ritratto ed altre opere stupende per la chiesetta della villa di Povolaro -pensa che due di essi, grandi assai, il San Francesco che predica agli uccelli e l'Annunciazione della Vergine Maria sono stati letteralmente rubati in anni recenti e non se ne è saputo più niente!-. Eravamo nel 1947 e la Luisa mi portava in grembo... Tanti altri amici di Papà, a Dueville e dintorni lo hanno avuto per casa, a ritrarre i grandi e i piccini che, come Giorgio Casarotto, scalpitavano quando dovevano posare! Mio zio soleva dire alla Luisa, che gli voleva un bene grandissimo, perché, come devi aver capito dalle date, erano quasi come gemelli e perché da piccino, a sette anni, sotto gli occhi di Nonna Aida è stato falciato da un tram a Milano, sai, di quelli che corrono su rotaie, e ha perso per sempre una gamba, dal ginocchio in giù e quindi portava un arto artificiale,: “... Quand te vedet un quaicoss che sbarlusiss, quel l'è el me crapun!” tra loro due, il Lelio e la Luisa, parlavano sempre in milanese (per me, credimi, se il Manzoni non si fosse sciacquato i panni in Arno, avremmo un capolavoro, I Promessi Sposi, nel popolare milanese come testo d'eccezione per sfidare gli studiosi d'ogni tempo dopo don Lisander, perché radicato nella mente e nel cuore di tutti i Milanesi. Ti basti un esempio: “...Il cielo di Lombardia, così bello quando è bello...” e “...El ciel de la Lumbardia, iscì bel quand l'è bel...”). Perché lui, l'Aurelio, sempre gioioso e solare, quando arrivava in littorina da Vicenza a Povolaro, faceva la strada a piedi dalla fermata in rettilineo fino alla villa, circa un chilometro, e così lei, che con noi lo aspettava in gran fermento al cancello avrebbe potuto esser sicura del suo arrivo, dato che proprio aveva gran pochi capelli in testa e per giunta rossi, come lei del resto! Ha fatto il ritratto nel 1937 anche al duce Mussolini, che lui ha scelto proprio da appendere nella Sala Centrale della Questura di Milano. Pochi giorni


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prima che Aurelio morisse, nel dicembre 1969 per via della febbre asiatica, alla moglie Carla è arrivata una misteriosa telefonata. Una voce maschile la sollecita: “... Signora, dica per favore al Maestro che quel ritratto è in mani sicure!”. Quando c'è stata la rassegna anni fa, credo su L'Espresso o su Panorama, di tutti gli artisti che hanno ritratto Benito Mussolini, quello fatto da Aurelio Cartone non era presente... Si volevano talmente bene il Lelio e la Luisa che lei ha impegnato di nascosto il suo anello di fidanzamento donatole da Papà, bello assai e grande, per andargli incontro; quando poi ha mandato a ritirarlo al Monte di Pietà di Vicenza le hanno dato in cambio uno zircone... Anche Eduardo Scarpetta del Monte dei Pegni con sedi tra i vicoli di Napoli parla assai quando firma la farsa Miseria e nobiltà, che verrà poi trasfusa in un film interpretato dal grande Totò con la regia di Mario Mattòli. Il tema vuol sottolineare che in tutta Napoli, se hai bisogno, fuori dal giro degli strozzini, puoi portare al Monte di Pietà gioielli, lenzuola, addirittura '...il paltò di Napoleone...' se ti aspetti di ricevere almeno un poco di denaro per fare la spesa. Poi quando ne avrai, potrai sempre andare a spegnorare la tua roba! Lavoro bellissimo, con la Loren e la giovanissima Franca Faldini, dalle misure fuori d'anorressia, cm. 74-35-78, cioè seni, giro vita, fianchi; con Peppeniello, figlioletto di don Pasquale Sciosciammocca che porta la lettera al compare tutta unta di grasso per via di una pizzetta che aveva rimediato onestamente e che aveva tenuta in tasca e il compare nemmeno l'ha voluta leggere; con le riprese degli interni di palazzi popolari barocchi di Napoli

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che fanno immaginare abitati aperti ai litigi tra donne, scale, ballatoi, portici e atmosfere d'inizio '900 in tutto, nei costumi e nelle trame degli eventi... Guardare per capire un mondo fatto di speranze come disegni forti della mente, a sollevare un poco le tinte dure e cupe d'una realtà che ti dà solo segnali di lotta, di sofferenza, di ingiustizia: l'ironizzare intorno alla propria condizione è come benefico distacco anche dai morsi della fame. Perdona la necessaria digressione e torniamo all'Aurelio. Con Parma lo zio Aurelio ha avuto un rapporto bellissimo e in rete tutti possono leggere alla voce Aurelio Cartone, Maestro del '900 anche l'articolo a firma dell'ottimo critico d'arte parmense Giovanni Copertini, di cui qui ti do in anteprima alcuni tratti significativi: “... Egli illumina dolcemente le figure facendo vibrare il colore con accostamenti sapienti di tinte fuse nell'atmosfera... Ha fatto ritorno fra noi per fissare sulla tela le immagini di alcuni personaggi parmensi più noti, stimati ed amati... non poteva mancare il ritratto di Sua Eccellenza l'Arcivescovo Evasio Colli... Il secondo personaggio a cui Aurelio Cartone ha rivolto la sua attenzione è stato Glauco Lombardi, l'infaticabile ricercatore di tutte quelle memorie che fanno grande il nostro passato e il fondatore di quell'interessante Museo che s'intitola in suo nome... Nello studio il pittore ha saputo cogliere nell'atteggiamento e nel volto, quel certo che di irrequieto, di mobile e di acuto che è una delle caratteristiche più evidenti del nostro caro amico.” (Fonte Internet, citazioni tratte dalla Gazzetta di Parma del 4 Gennaio 1963). Dalla provincia vicentina alla Milano tutta da bere, il Cartone è chiamato a coglier l'anima vitale di personaggi di spicco come Elettra Marconi, il cardinale Camillo Caccia Dominioni, l'editore Ulrico Hoepli, la Signora Caiafa di Salerno, l'Eccellenza Parrella del Tribunale di Milano, l'ing. Bocconi e altri ancora come Papa Paolo VI e poi schizzi di scorci en plein air durante questi suoi soggiorni romani, e poi ancora paesaggi e marine, con barche, mercati, pescatori colti nell'in-


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timo contatto con le loro reti, da riparare se lacerate, e con i pesci che ancora guizzano, argentei, tra Portofino, Santa Margherita Ligure, Rapallo. Ecco, si: il tema del pescatore è ricorrente in lui, quasi lunghezza d'onda profonda nell'intersezione tra mare, cielo ed operosità ancestrale da trascendere, cristianamente. Mi metterò in ricerca per scovare quei privati che, pur in età, conservano ancora come cose preziose e care i suoi pastelli e quadri a olio su tela, con questo tema che sigilla quella sua spiritualità quasi sconcertante. E poi ancora nature morte, fiori e frutti e uova al tegamino e poi ancora, su tutto questo, Carla, la sua amata, moglie e modella ad un tempo, bellissima, che compirà 90 anni ad ottobre e che mi ha chiesto esplicitamente di contattare la dott. Francesca Sandrini, Direttrice del Museo Glauco Lombardi a Parma, proprio per via del pastello preparatorio del ritratto a olio del prof. Lombardi, ancora in suo possesso - pensa, carissimo che solo alla Luisa l'Aurelio ha dato il certificato originale del loro matrimonio, celebrato in Sant'Ambrogio a Milano, visto che le malelingue vociferavano perché Carla all'epoca, negli Anni '60 del secolo scorso, era assai più giovane e non ci volevano credere: a lui bastava consegnare la verità alla Luisa!-. Vorrei dirti un altro infinito mondo di cose ma per ora ti lascio assaporare con l'immaginazione la bellezza della sua arte con tutte queste vibrazioni d'esperienze personali e sociali assai intrecciate e convergenti. Un grande abbraccio. Ilia

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Ilia Carissima, Grazie per questa tua sentita lettera, un vero pezzo di antologia. Tutti i personaggi da te fugacemente menzionati hanno, o dovrebbero avere un adeguato posto nella storia della cultura del Novecento e meritano, perciò che, almeno di tanto intanto, qualcuno si prenda la briga di spolverar loro l’oblio che, inesorabilmente, si adopera a coprire esseri e cose. Tuo zio Aurelio Cartone è stato un grande artista e lo provano le sue opere dai colori morbidi, dalla grafica perfetta, dalla poesia dell’impasto e del narrato, dalla penetrazione e dalla lettura interiore dei diversi soggetti (esseri umani, nature morte, luoghi urbani e paesaggi). I suoi pastelli (come quello, per esempio, eseguito nel 1962 a Parma, “a

viso” come tu altrove precisi, e che rappresenta il prof. Glauco Lombardi), nelle fattezze, negli sguardi, nelle pose, nel tracciato (compresi i segni che affollano gli sfondi e che non sono a casaccio), narrano di azione e di partecipazione, non già di quiete, di appagamenti, di contemplazione idilliaca e basta. Peccato solo che questi tuoi siano solamente ghiotti accenni alla storia della tua famiglia, che vorrei fosse narrata più dettagliatamente, giacché, a quanto s’intuisce, ha avuto momenti altamente drammatici. Ricordo, a proposito che, quando, da giovane, frequentando a Reggio Calabria la redazione de La Procellaria; ho sentito accennare, dal suo fondatore e direttore prof. Francesco Fiumara, di un suo incontro memorabile col tuo Papà e di


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una dolorosissima vicenda nella tua famiglia riguardante una bambina. A mio modesto parere, faresti bene, Carissima, vincendo le comprensibili resistenze della riservatezza, scavare quanto più possibile nella vasta e profonda miniera dei tuoi cari, di tuo zio “Lelio”, di tua Madre, del tuo grande Papà, di tutti gli altri, portando in superficie le tante pepite, con le loro splendide luci e con le ombre; sì con le ombre, giacché tutti ne abbiamo, anche i diamanti più puri, e, anzi, sono proprio esse che contribuiscono ad accrescere lo splendore. Anche a te un grande e caloroso abbraccio. Domenico

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