Pomezia Notizie 2020_9

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50ISSN 2611-0954

mensile (fondato nel 1973) Direzione e amministrazione: Via Fratelli Bandiera, 6 - Tel. 06/91.12.113 - 00071 POMEZIA (Roma) - Fondatore e Direttore responsabile: DOMENICO DEFELICE – e-Mail: defelice.d@tiscali.it – Attività editoriale non commerciale (art. 4, D.P.R. 26.10.1972 n. 633 e successive modifiche) - Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 213/93 del 23/5/1993 - La collaborazione, sempre gratuita, in parte è libera, in parte è per invito. Ogni autore si assume la responsabilità dei propri scritti - Manoscritti, fotografie e altro materiale, anche se non pubblicati, non vengono restituiti - É ammessa la riproduzione, purché se ne indichi la fonte. Per ogni controversia, foro competente è quello di Roma.

Anno 28 (Nuova Serie) – n. 9

€ 5,00

- Settembre 2020 -

Aveva appena compiuto cento anni

FRANCA VALERI (1920 - 2020) attrice, sceneggiatrice e drammaturga, teatrale e cinematografica di Isabella Michela Affinito ONO sempre più rare le persone che raggiungono il secolo di vita e l’attrice italiana di teatro e di cinema, Franca Valeri, c’è riuscita compiendo cento anni, il 31 luglio 2020, di preciso nove giorni prima di lasciarci definitivamente. Che dire di quell’annata ‘straordinaria’ del 1920 in cui nacquero persone destinate all’immortalità, non soltanto nell’ambito dello spettacolo: Federico Fellini, Alberto Sordi, Franca Valeri, il Papa San Giovanni Paolo II, tanto per citarne qualcuna, mentre, morivano a Parigi quasi insieme, sul finire del gennaio 1920, prima il pittore livornese Amedeo Modigliani, consumato nel fisico dagli stenti e dall’alcool a soli trentasei anni, poi, gettandosi da una finestra per la disperazione, la sua compagna Jeanne Hébuterne, di ventidue anni, che di lì a poco avrebbe partorito per la seconda volta un figlio dell’artista. Erano gli anni in cui l’Italia, ma anche gli altri Stati europei, si stava leccando le ferite causate dalla Prima guerra mondiale e «[…] nel 1922, antifascisti a 24 carati invocavano Mussolini perché rimettesse in sesto

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All’interno: Camilleri, De Crescenzo, il Paradiso ritrovato, di Giuseppe Leone, pag. 4 Glauco Lombardi e il patrimonio artistico parmense, di Ilia Pedrina, pag. 6 Francesco D’Episcopo e la poesia di Imperia Tognacci, di Carmine Chiodo, pag. 10 Emerico Giachery e Orfeo, di Ilia Pedrina, pag. 12 Febe, di Rosa Elisa Giangoia, di Luigi De Rosa, pag. 15 Franca Alaimo, Sacro Cuore, di Elio Andriuoli, pag. 18 Gabriella Frenna, Sguardo d’artista, di Tito Cauchi, pag. 20 Quattro opere di Salvatore D’Ambrosio, di Isabella Michela Affinito, pag. 23 Il telefonino, di Antonia Izzi Rufo, pag. 25 Francesco Lomonaco, di Leonardo Selvaggi, pag. 26 Dediche, a cura di Domenico Defelice, pag. 32 Premio Letterario Il Croco: continuazione dal numero precedente con elaborarti di: Marina Caracciolo, Virginio Guacci, Maria Grazia Ferraris, Lorenzo Spurio, Roberto Amati, pagg. 33/53 Notizie, pag. 61 Libri ricevuti, pag. 63

RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (In morte del Papa Magno, di Antonio Crecchia, pag. 54); Tito Cauchi (Verso lontani orizzonti, di Marina Caracciolo, pag. 55); Domenico Defelice (Il richiamo, di Maria Teresa Infante, pag. 56); Luigi De Rosa (Voler bene, di Antonia Izzi Rufo, pag. 57); Antonia Izzi Rufo (Anima, di Francesco D’Episcopo, pag. 58); Antonia Izzi Rufo (Le parole a comprendere, di Domenico Defelice, pag. 59); Manuela Mazzola (Il richiamo, di Maria Teresa Infante, pag. 59); Ilia Pedrina (Vorrei aiutare gli altri a vedere con occhi nuovi, di Romano Guardini, pag. 60).

Inoltre, poesie di: Rinaldo Ambrosia, Mariagina Bonciani, Corrado Calabrò, Ada De Judicibus Lisena, Béatrice Gaudy, Maria Teresa Infante, Antonia Izzi Rufo, Wilma Minotti Cerini, Aida Isotta Pedrina, Francesco Pedrina, Gianni Rescigno

un’Italia sfasciata, demotivata, indebitata e divisa. Giolitti gli riconosceva il merito di aver “tratto il paese dal fosso in cui finiva per imputridire”. Amendola suggeriva di “secondare le mosse dell’onorevole Mussolini… perché questo è il solo mezzo per ripristinare la forma della legalità”.» (Dal libro di Bruno Vespa, Perché l’Italia diventò Fascista (e perché il fascismo non può tornare), Rai Libri Mondadori Libri di Milano, Anno 2019, pag. IX). Alma Franca Maria Norsa, in arte Franca Valeri, come il poeta francese Paul Valéry, aveva diciotto anni quando in Italia vennero

promulgate le leggi contro gli ebrei, per cui visse con consapevole drammaticità quei duri momenti insieme alla madre a Milano, dove era nata, mentre il padre Luigi e il fratello maggiore si erano rifugiati in Svizzera. Suo padre era di credo ebraico, invece la madre Cecilia era cattolica. Frequentò il liceo classico nell’unica sezione dove era possibile studiare l’inglese e la sua fortuna fu che, già tra i banchi di scuola, ebbe modo di fare delle amicizie importanti, come quella con Silvana Mauri Ottieri, futura moglie del romanziere italiano Ottiero Ottieri, tra l’altro imparentata con Valentino Bompiani


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che fonderà l’omonima casa editrice. Iniziò col teatro, viaggiando anche all’ estero con la compagnia del Teatro dei Gobbi negli anni postbellici dove non c’ erano abbastanza risorse economiche e, allora, proponevano scenette satiriche rimanendo con le vesti abituali, senza trucchi o travestimenti, proprio per dare maggior risalto alla loro bravura nel suscitare spontaneo divertimento. Aveva sui trent’anni quando entrò nel cinema col suo primo film firmato da Federico Fellini e Alberto Lattuada, Luci del varietà del 1950 e, poi, è stato tutto un divenire di successo costruito giorno dopo giorno dedicato alla recitazione e non solo. Il grande giornalista Indro Montanelli la incoraggiò a pubblicare il suo primo libro, Il diario della Signorina snob, del 1951 edito dalla Mondadori, descrizione in prosa derivante dalla precedente sua esperienza in radio allorquando aveva impersonato una signorina, diremmo, alla Marcel Proust, sempre in mezzo alla gente altolocata, fra vacanze e incontri delineanti un’esistenza un po’ privilegiata. In questo suo tanto da farsi, soprattutto quando cominciò a girare i film uno dopo l’altro dagli anni ’50 ai ’70, Franca Valeri prendeva sempre più coscienza di sé nel consolidare l’inedita struttura espressiva del suo personaggio femminile eccentrico, pur non avendo una bellezza fisica da maggiorata o particolare nella fisionomia. Abbiamo detto alla Marcel Proust, scrittore francese anch’egli di origine ebraica, nel senso che dimostrava attrattiva per gli ambienti e le persone di ceto superiore, atteggiandosi di conseguenza con innata nonchalance, magari cambiando di continuo l’acconciatura e il colore dei capelli come nel suo famoso film, Parigi, o cara del 1962 – il regista era stato Vittorio Caprioli, anche attore al suo fianco e nella realtà divennero marito e moglie talché si sposarono nel gennaio 1960, quando Franca aveva quarant’anni –, ‘addobbandosi’ di bracciali anelli e collane, con l’ apparire sempre impeccabile nel vestito anche a prima mattina o sotto la pioggia, insomma

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estrosa più che mai nella quotidianità seppure fatta di momenti di grande ‘magra’. Ma la peculiarità che ha fatto celebre Franca Valeri di sicuro è stato il legame inscindibile fra lei e il telefono vecchia maniera, anticipando di gran lunga quello che nell’odierno è il nostro rapporto intenso con gli Smartphone. Infatti, sia quando è stata la Sora Cecioni, sia nei numerosi film d’ambientazione del suo tempo corrente, la Valeri ha dimostrato un bisogno estremo di comunicare attraverso la cornetta telefonica contestualmente alla recitazione vera e propria. Col telefono fisso lei acquistava la padronanza della donna che finalmente voleva essere libera di parlare, di sfogarsi, di dire anche delle corbellerie per sentirsi emancipata, al passo coi tempi che stavano realmente mutando a seguito della rivoluzione giovanile del 1968. Un’altra sua inconfondibile caratteristica è stata la sua vena di ‘criticona’, quale conseguenza del suo lungo conversare al telefono dove si finiva sempre con lo sparlare dei fatti degli altri, ma lei lo faceva con garbo (finto?), a mezza bocca, tra il dire e l’intendere, volontariamente o involontariamente, forse con qualche punta di cinismo ma senza scivolare mai nella volgarità, nel peccato vero e proprio del pettegolezzo. È stata una donna ‘speciale’, una leonessa nel vero senso del termine dato che era del Segno del Leone e per tutta la sua longeva vita ha dimostrato di esserlo nelle diverse circostanze interpretative, negli ultimi anni anche nelle fiction per la tivù, ha scritto testi teatrali come La vedova Socrate da lei interpretata, del 2003; regista di opere liriche, doppiatrice, sceneggiatrice, scrittrice di libri e album discografici. Insomma, se n’è andato un notevole ‘monumento’ dell’arte recitatoria e la ricorderemo sempre con affetto ogni volta che risentiremo parlare di lei. Ciao Franca Valeri e grazie per tutto quello che ci hai donato! Isabella Michela Affinito


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CAMILLERI, DE CRESCENZO E, SI DÀ IL CASO, IL PARADISO RITROVATO di Giuseppe Leone

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uje viecchie prufessure 'e cuncertino, Nu juorno, nun avevano che fá. Pigliájeno 'a chitarra e 'o mandulino E, 'n Paraviso, jèttero a suná: - Ttuppe-ttù – “San Pié', arapite! Ve vulimmo divertì” “Site 'e Napule?! Trasite! E facitece sentì” Proprio come i duje viecchie prufessure 'e cuncertino della nota e divertente canzone napoletana, in una calda giornata di luglio 2019, Andrea Camilleri e Luciano De Crescenzo, scrittore drammaturgo, il primo; ingegnere filosofo, il secondo, lasceranno la Magna Grecia dove vissero per moltissimo tempo, per salire alla volta del cielo. Anch’essi, come i nostri della canzone, presi dalla noia nella sonnolenza del meriggio, si recheranno in paradiso per divertirsi e divertire, a loro volta, la corte delle anime

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beate, portandosi dietro un repertorio di opere che nun ferneva maje. Al cospetto di San Pietro, non si presentano con i loro nomi, li cambiano in Tiresia e Bellavista. L’uno, cieco; l’altro, dallo sguardo ancora gratificante, ma entrambi vedenti. Tiresia di più, tanto che afferma: «Da quando io non vedo più, vedo meglio». E, per di più, si presentano in paradiso, da laici. Così Tiresia-Camilleri, che dice di sé: Ho trascorso questa mia vita ad inventarmi storie e personaggi. L’invenzione più felice è stata quella di un commissario conosciuto ormai nel mondo intero. Da quando Zeus, o chi ne fa le veci, ha deciso di togliermi di nuovo la vista, questa volta a novant’anni, ho sentito l’urgenza di riuscire a capire cosa sia l’eternità e solo venendo qui posso intuirla, solo su queste pietre eterne. Chiamatemi Tiresia! E anche Bellavista-De Crescenzo, che si definiva ateo-cristiano o ateo-sperante nell’ esistenza di Dio, dà il suo biglietto da visita per motivare questo viaggio assieme: Siamo angeli con un'ala soltanto e possiamo volare solo restando abbracciati! Rimarranno per qualche sera a magnificare la bellezza dei luoghi da cui provengono.


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Ma, quali colombe dal disio chiamate, con l’ali alzate e ferme al dolce nido, anche loro, trascorse alcune serate nella gioia del paradiso, come accade ai due nella canzone, chiedono di ritornare a Napoli … e in Sicilia: “… doppo poco, da ‘a malincunía ‘E viecchie se sentettero ’e pigliá: Suffrévano nu poco ’e nustalgía E, a Napule, vulèttero turná, perché “per me - dirà De Crescenzo - la napolitudine è un tipo di nostalgia inspiegabile, perché a me Napoli manca sempre, persino quando sono lì!” E anche a Camilleri, della sua Sicilia, manca soprattutto “u scrusciu du mare”. A differenza, però, dei duje viecchie prufessure, essi non sono più tornati, pare, perché San Pietro abbia temuto che, una volta scesi, questi non avrebbero fatto più ritorno nel paradiso dei cristiani. Chissà – si sarà domandato - che altri paradisi non li avrebbero richiesti per i loro intrattenimenti serali. Meglio tenerseli, dunque. Tutto questo, almeno, fino al compiersi del primo anniversario dalla loro morte, avvenuta, per Camilleri il 17 luglio, per De Crescenzo, appena il giorno dopo, a poche ore di distanza l’uno dall’altro. Giuseppe Leone

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hanno rischiato o perso la vita e che i nostri governanti metodicamente assassinano a colpi di sorveglianza di leggi bavagli di divieti di sfollagente di gas di LBD di granate di autoblinde E durante questo tempo la criminalità cresce Béatrice Gaudy Parigi, Francia

TANT SOUFFLE LE VENT Tant souffle le vent et la tempête l’incendie à travers la nuit. Je suis un pèlerin de la mer cri de goéland perdu. Lointaine est la terre de mon attente. Gianni Rescigno (Traduzione di Béatrice Gaudy Dal testo italiano apparso a pag. 36 di PomeziaNotizie, maggio 2020).

IN COMA ECOGRAFIA In coma lei si batte per rialzarsi ricominciare ad incarnarsi in tutto il paese Dopo la sorveglianza video la sorveglianza telefonica la sorveglianza elettronica eccola anche confinata dei poliziotti autorizzati ad ispezionare e a giudicare il contenuto della sua sporta Lei la Libertà per cui i nostri ascendenti

- Lei, Signora, ha la milza ingrossata. - Oh, Dio! Com’è possibile? Avrà, forse, mangiato troppo? (Vignetta di Domenico Defelice)


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PER GLAUCO LOMBARDI, VIGOROSO DIFENSORE DEL PATRIMONIO ARTISTICO PARMENSE di Ilia Pedrina

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ingt-sept ans après la mort de Napoléon, le 17 décembre 1847, le palais ducal de Parme était en deuil. Celle qui avait partagé la gloire de l'Empereur et lui avait donné l'héritier tant désiré, qui s'etait vue contrainte de l'abandonner lors de la catastrophe de 1814 et avait dû se résigner à troquer le trône de France contre les duchés de Parme, Plaisance et Guastalla, mourait après une courte et mystèrieuse maladie, lassait de profonds regrets parmi son entourage... La chambre mortuarie, tendue d'une tapisserie bleu Marie Louise, était ornée de nombreuses miniatures représentant le roi de Rome et d'autres membres de la famille impériale d'Autriche. Le mobilier, de style empire, était d'une élégante simplicité. A côté du lit, se trouvait le secrétaire de la duchesse. Ce meuble renfer-

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mait les lettres et les écrits de Napoléon... Marie-Louise lassait encore d'autres papiers. Elle avait l'habitude, notamment, de prendre note de tout ce qui, au cours de ses lectures, avait pu la frapper... Ces ècrits intimes...”. Glauco Lombardi firma questo importante articolo storico Les papiers intimes de MarieLouise per la Revue des duex mondes, pubblicata a Parigi il 15 dicembre 1938, alle pagine 762-764. (fonte: Glauco Lombardi (1881-1970) Molto più di un collezionista – Museo Glauco Lombardi, Quaderni del Museo N. 12, pag. 439). Nello stesso articolo lo studioso spiega con precisione che tutto il materiale documentario intimo e d'inestimabile valore etico-storico e politico appartenuto a Maria Luigia d'Austria gli è stato ceduto nel marzo del 1934 dal conte Giovanni Sanvitale, ultimo discendente della figlia Albertine che l'imperatrice aveva avuto dal generale Neipperg. Per il grande studioso parmense allora quello con Maria Luigia d'Austria è stato amor a lunga vista, che ha attraversato la sua esistenza e ne ha reso vigorose e combattive le scelte! Ottima oltre che buona stella nascere per lui a Colorno, là dove, dalla sua prospettiva di bimbetto, poteva ammirare le maestose architetture della Versaglia Farnese: quella fascinazione permarrà nel tempo e diventerà fonte d'amore pratico, attivo e concreto sul doppio versante storico ed intimo, spirituale, da tramandare come eredità alle generazioni che verranno. Questo il suo intento, messo in pratica con infiniti sacrifici e lotte senza quartiere, per salvaguardare conservare e costruire complessivamente ancora una gloria di genti, d'uomini e donne, di tempi che vanno conosciuti ed apprezzati come memoria storica individuale e sociale d'infinita portata nazionale, europea, internazionale. Si, perché Napoleone, il Generale alla guida di eserciti tra giovani soldati che per lui si fanno ammazzare in gran numero, la sa lunga su come far guerre in ogni terra e oltre i confini della propria isola di nascita, la Corsica, e su come far bottino, in quegli stessi luoghi conquistati, d'ogni ben di Dio, materiale e immateriale. Si,


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perché a livello europeo le nazioni tutte dovevano cambiar padrone e calendario e motivare scelte ed alleanze, quando lui era ancora generale e si era in epoca di Repubblica, spazzando via regole, conventi, cimiteri nelle diverse Repubbliche, e per l'Italia la Cisalpina, Cispadana, la Partenopea e quant'altro. Si, perché una volta diventato Imperatore e consorte di Maria Luigia, spinge tutti a scegliere da che parte stare e lord Nelson ha già latifondi in Sicilia e appoggia per finta i Borboni e Casa d'Austria è ancora lì, nel Mediterraneo, a vivere tremando e temendo rivolte popolari: infatti la dimensione europea e quella internazionale sono eccitanti e l'Imperatore va sconfitto e relegato nell'Isola di sant'Elena, che osserverà impassibile la sua morte. Maria Luigia ha amanti e l'ultimo, tutto spiritualmente coinvolto nelle forme della sua malinconica bellezza, è proprio il prof. Glauco Lombardi: in un piano privilegiato emerge il generale Adam Albrecht Adalbert von Neipperg, oculato governatore del Ducato, da lei sposato dopo la morte di Napoleone e morto proprio a Parma nel 1829. Dopo arriverà il terzo marito, Charles-René de Bombelles, conte maggiordomo scelto dal Metternich per starle al fianco, sedotto da lei, grande Imperatrice dell'amore, ma non tanto da morirne! Glauco Lombardi è allora proprio l'ultimo amante di Maria Luigia d'Asburgo Lorena, duchessa imperiale di Parma, Piacenza, Guastalla? Viaggiar tra carte, reperti storici, scenografie principesche, mondi immaginari solo profilati nella mente e poi resi concreti attraverso ricerche circostanziate e capillari in svariate direzioni è impresa che invoglia e spinge, per un certo riposo, all'abbandono ma il

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prof. Glauco Lombardi sogna e sognando lotta per una causa etico-storica senza precedenti, pur restando, proprio per questo, sempre ben desto: infatti è riuscito a far portare all'antico splendore la Reggia Farnese a Colorno ed a creare poi il Museo che porta il suo nome. “... Polemiche, dissensi, incertezze, attese, ripensamenti, lungaggini burocratiche e politiche segnarono amaramente quei decenni in cui Lombardi si adoperò su tutti i fronti per trovare una sede idonea al suo Museo...” (F. Sandrini in Glauco Lombardi (18811970) -molto più di un collezionista, op. cit. pag. 5). Rimando alla recensione dello splendido volume presente in questo numero ed amo così rinforzare la voce del prof. Lombardi perché ne rimanga traccia forte, chiave universale per aprire quelle prigioni invisibili che creano asservimento dei Popoli, grazie al diritto dei vincitori a saccheggiare e a deprivare di risorse le loro terre: questo suo esempio - basta una passeggiata virtuale o reale nel Museo Glauco Lombardi e nella reggia di Colorno, mondi storico-artistici da lui così acutamente resi a nuova vita per darne forza ed efficacia - rende anche il singolo cittadino responsabile con tutti gli altri della difesa, anche strenua, durissima, delle fondamenta della loro storia. Spiega la dott. Francesca Sandrini, immettendo negli albori di quella che diventerà decisione di vita e di lotta: “... Il legame con il paese natio, che attraverso la villa ducale divenne simbolico luogo di bellezza devastata, è quindi fondamentale per comprendere lo sviluppo della personalità e l'indirizzo delle ricerche compiute da Lombardi; esso rappresenta un filo rosso che collega i vari aspetti della sua attività, dagli studi documentari al collezionismo, dalle rivendicazioni ai servizi di denuncia e documentazione fotografica. L'attaccamento era davvero viscerale, si nutriva del quotidiano contatto fisico con quelle vestigia il cui pietoso stato, contrapposto allo splendore del passato, generava in lui palpabile sofferenza e lo guidava nella missione civile che abbracciò per decenni. Colorno (di cui venne scherzosamente definito 'il re'!) ri-


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mase sempre il punto di partenza e di arrivo di ogni suo progetto, una sorta di bussola da seguire in qualsivoglia attività... La memoria sul vissuto ottocentesco era particolarmente viva e si nutriva dei ricordi dei protagonisti diretti di quegli eventi; i materiali documentari, presenti copiosi nelle blasonate famiglie locali e spesso tenuti in scarso conto, venivano facilmente alienati... Queste circostanze, unite a una grande memoria, all'acribia delle ricerche condotte e ai contatti personali proficuamente coltivati, permisero a Lombardi di crearsi un solido bagaglio di conoscenze e di fondi archivistici su cui basarsi per sviluppare i propri studi. I milioni di scritti da lui reperiti e identificati, in buona parte confluiti nell'archivio del suo Museo, furono a uno a uno letti, compresi, tradotti, comparati e sempre, immancabilmente annotati nella sua grafia fine, ordinata, quasi femminile; la matita sottile dello studioso, che, per una forma di rispetto alla superficie della carta di quei fogli antichi, rifuggiva l'inchiostro della penna, è identificabile senza incertezze ogniqualvolta ci si imbatte in documenti su cui il suo occhio attento e indagatore si era posato. Ugualmente

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fondamentali restano le tante trascrizioni di manoscritti antichi, oggi non più rintracciabili o dispersi da eventi bellici, che Lombardi aveva consultato durante i ripetuti viaggi e le puntigliose ricerche negli archivi italiani a quell'epoca davvero 'terra di nessuno' poiché si era lontani dal fare storia o storia dell'arte attingendo alle fonti...” (F. Sandrini in op. cit. pag. 19-20). Nelle fotografie scelte la testimonianza dell'evento d'arte e d'amore che ha legato il Lombardi alla memoria di Maria Luigia, questa mirabile e malinconica sovrana e altri momenti ricchi di spessore conoscitivo trasversale: il manto ducale di Maria Luigia indossato da una ragazza in occasione di un servizio fotografico pubblicato su 'Epoca' del 15 dicembre 1951 e Glauco Lombardi mentre posa davanti al ritratto di Maria Luigia del Lefèvre (op. cit. pag. 86 e pag. 153); Glauco Lombardi e il presidente Giovanni Gronchi il giorno dell'inaugurazione del Museo, il 26 novembre 1961, nella stampa originale in Parma, Museo Glauco Lombardi (op. cit. pag. 87); lo studio dal vero per il ritratto a olio di Glauco Lombardi, pastello eseguito dal pittore Aurelio Cartone nel 1962, nella foto di Valentina Bergero collezione e proprietà di Carla Cartone (op. cit. pag. 6 e pag. 91, dove si può ammirare anche il ritratto ad olio su tela, eseguito dal Cartone stesso ed ora in collezione privata). E del pittore e incisore Paolo Toschi? Della lotta condotta dal prof. Lombardi per portare in luce la forza, l'artisticità, la dignità di questo grande artista parmense? Quel Paolo Toschi che elabora il disegno a carboncino del Duca di Reichstag, nato unico Re di Roma perché figlio di Napoleone e di Maria Luigia e morto il 22 luglio 1832 e sul quale il Lombardi traccia parole e memorie nell'articolo 'L'annuncio della morte del Duca di Reichstadt a Parma', nella rivista Aurea Parma del gennaio-febbraio 1933 (op. cit. pp. 386-388)? Delle umiliazioni e delle delazioni subite dall'artista quando si vedrà togliere l'incarico di Direttore dell'Accademia Parmense di Belle Arti con disposizione del 18 ottobre 1849,


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sofferenze indicibili che il Lombardi a distanza di tempo tenta di lenire con iniziative sorprendenti ed articoli illuminanti? Ne parlerò in dettaglio, perché ne varrà la pena. Glauco Lombardi, uno studioso appassionato che ama investigare, raccogliere, preservare per salvaguardare e tramandare; un ferreo e determinato impegno d'azione, che individua alleati degni e con lui convergenti nei progetti e nelle nobili intese, come lo storico Roberto Papini e l'avv. Giuseppe Melli, persone dal grande intelletto e dalla piena consapevolezza di cosa significa lottare al suo fianco per liberare la storia e l'arte italiane e i loro infiniti mondi dal degrado, dall'oblio dal vuoto di memorie e di esperienze; un combattente della pratica e dello spirito, che allontana, annullandole, le avverse tensioni che sempre ti si profilano dinnanzi; un coltissimo intenditore che coinvolge e porta testimonianza di come questo nostro debole Paese debba essere difeso in tutti i suoi valori, d'arte e d'intelletto, dalle potenze saccheggiatrici di turno, dando così dignità rivoluzionaria a tutte quelle iniziative messe in campo nel corso dei decenni, che io definisco vere e proprie lotte storicoetico-politiche per salvaguardare il patrimonio artistico parmense. Contro ogni corso degli eventi, il prof. Glauco Lombardi ha vinto ed è responsabilità di ciascuno appropriarsi moralmente e direttamente di questa sua grande eredità. Ilia Pedrina

SENTIMI Ho sceso il fiume Non senti il mio profumo? Tra le sue sponde ho sparso le mie vesti mi son calata ho immerso le mie carni ho dato all’acqua due scampoli di pelle alla corrente la scia di un’emozione

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e tra i canneti ho steso il mio sorriso. Ho sceso il fiume ma tu non puoi sentirmi. Maria Teresa Infante Da Rosso sangue, Oceano Edizioni, 2018. L’HIRONDELLE Je reviens toujours avec le printemps et je trace des broderies dans le ciel du matin au soir. Amour m’appelle souvent au nid d’où j’envoi mon cri heureux. Dieu donne à mes enfants la force de voler parce que je dois traverser avec eux la mer. Francesco Pedrina (Torri di Quartesolo, 1896 - Vicenza, 1971) (Traduzione di Béatrice Gaudy Dal testo italiano apparso a pag. 45 di PomeziaNotizie, giugno 2020).

AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 29/7/2020 Ma non esiste un “rito ambrosiano”, Caro Salvini&Company; se un rito deve esistere, è solo e solamente l’italiano. Torvo agitando “palude romana” Bossi copriva gli affarucci suoi e Il Trota bamboccion si acculturava con l’acquistare titoli a Tirana. Non occorre scavare nello ieri per dimostrar che non c’è poesia; Belsito coi diamanti in Tanzania, o Craxi con gli amici e Pillitteri. A favorir parenti, oggi, è Fontana, che tiene conti in Svizzera e in Bahama… Non vale, allor, sviar per la tangente, siamo al solito rito, all’italiana! Domenico Defelice


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Francesco D’Episcopo LA POESIA DI IMPERIA TOGNACCI di Carmine Chiodo

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UESTA puntuale e chiara monografia sulla poesia di Imperia Tognacci si deve a un noto ed esperto interprete di testi letterari e poetici come è Francesco D’Episcopo. Ora proprio grazie a questo studioso possiamo disporre di una guida critica preziosa per capire meglio la poesia della Tognacci, e il suo scopo è quello di <<far conoscere e riconoscere una poetessa, che si è incontrata casualmente in premi e libri comuni e che ora si esprime in tutta la sua realtà vivente e poetante>>. (quarta di copertina). D’Episcopo passa in rassegna diversi componimenti della poetessa di San Mauro Pascoli, e viene sottolineato il fatto che <<si resta colpiti da una onestà intellettuale che può ben definirsi esistenziale, nei confronti del suo mondo personale, che prova sempre, riuscendoci, a farsi universale. Che è poi il compito precipuo della vera poesia>> (v. <<Postscrip-

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tum>>, p. 83. Nella Tognacci si notano influenze, suggestioni pascoliane, e nel contempo è lontana dalle neoavanguardie, e la poetessa crea una poetica sua personale, fatta di parole e cose familiari ma anche universali, nelle quali potersi <<riconoscere integralmente, sinceramente, umanamente>> (v, p. 85). Imperia Tognacci ha scritto vari libri di poesia: <<Odissea pascoliana>> (prefazione di G. Anziano del 2006); <<Il lago e il tempo>> (prefazione di S. Gros –Pietro del 2009); <<Là dove pioveva la manna>> del 2015 per esempio. Ma ancora vanno pure segnalati alcuni suoi libri di prosa: <<Giovanni Pascoli. La strada della memoria>> (con prefazione del compianto Vincenzo Rossi del 2002). <<Non dire mai cosa sarà domani>> (romanzo del 2002); <<Anime al bivio>> (altro romanzo, prefato da D’Episcopo e presentato da G. Laterza), per indicarne alcuni. La Tognacci è ancora autrice di vari saggi letterari apparsi in diverse riviste. L’esegesi di D’Episcopo, sempre chiara e centrata si inizia con il presentare e analizzare, quella che è la matrice pascoliana, presente in opere, come <<Giovanni Pascoli/ La strada della memoria>> e la già citata <<Odissea pascoliana>>. È sottolineato il fatto, per esempio, che una poetessa incontra il <<suo>> poeta e ne ripercorre la sua <<storia personale da vicino, grazie ai racconti e ricordi dei suoi compaesani, dei suoi familiari>> (p. 11). Inoltre è merito della poetessa di far rivivere poeticamente l’ambiente natale del poeta, che è poi la fonte inesauribile della sua ispirazione. Giovanni Pascoli vive immerso nei suoi campi, nei luoghi del borgo natio, ne percepisce le voci più segrete. Sono fissati ancora i gusti del poeta, e non solo quelli letterari, ma pure gastronomici, e anche in ciò Pascoli ha mostrato il suo attaccamento alle tradizioni della sua terra. Non viene trascurato l’impegno civile del poeta bargeo, e si pensi <<Al vecchio amico di lotta>>. In sostanza D’Episcopo esamina compiutamente le singole opere da <<La notte di Getsemani>> del 2004 a <<Natale a Zollara>> del


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2005, a <<La porta socchiusa>> del 2007. Poi seguono le attente pagine attinenti <<alla svolta poematica>> rappresentata da testi come, per indicarne alcuni, <<Il lago e il tempo>> del 2010, <<Il richiamo di Orfeo>> del 2011, << Nel bosco sulle orme del pastore>> del 2012, <<Là dove piove la manna >> del 2015. L’analisi del critico su questi testi è molto chiara e mette a fuoco il linguaggio, i temi della poetessa, che ama ovviamente la sua terra ed essa è presente ancora in un’altra opera come <<Nell’antro del ciclope>>, <<Canti la tua terra, dove dai solchi /s’irradia la luce del giorno che verrà, / e le aie /dove la piadina odora /e si mischia al sentore dei vinacci, / quando cantano le ore della vendemmia>> (p. 18). Ancora è sottolineato e provato il fatto che una raccolta poetica, già citata, <<La notte di Getsemani>>, è permeata di <<profonda spiritualità>>, mentre in <<Natale a Zollara>> il discorso poetico prende l’avvio dalla propria terra. Qui pullulano le memorie e i ricordi per esempio della madre: <<Scavando la memoria, / recupera i pezzi rari del passato, / li libera dalle opacità delle paure, / ne ravviva i colori animanti /il mio raggio che già s’inclina>> (v. <<Sguardo materno>> IV). Nell’altra silloge del 2007, <<La porta socchiusa>> i temi sono Dio e l’uomo e lo studioso passa in rassegna componimenti quali, per esempio, <<Leggere la mappa>>, <<Le vie del vento>> <<Spinosi varchi>>, <<Controluce>>. Ben tratteggiati sono pure i poemi, che hanno origini e motivazioni mostrate dallo studioso. Ecco <<Il richiamo di Orfeo>> che è dedicato tutto alla <<divina poesia>> e a tutti coloro che scrivono o praticano la poesia. Orfeo, è arcinoto incantava con le parole, con il canto le belve ma il <<problema certamente è che oggi le belve sono diventati gli uomini e la poesia stenta a secondare i suoi fini>> (v. p. 67). La poetessa non invoca una mitica poesia ma la poesia che col <<bianco peplo, /accarezza morbide onde, /sfida /il tarlo del tempo; si inerpica / fino allo sperone estremo / della roccia che sul greco / mare si sporge; È musica / che avvince in un abbraccio / la pioggia

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obliqua con l’immensità / racchiusi in fili d’erba / in ogni sospiro del crepuscolo>> (p. 69). Infine dopo le acque con le sue forme è la terra, il bosco, con i suoi alberi, i suoi silenzi, che accolgono la serena inquietudine della poetessa, non la <<selva oscura>> di Dante, ma la <<selva intricata>> del suo cuore, che <<si scioglie al calore / di fiaccole ardenti di memorie /e di speranze antiche> (v. <<Nel bosco sulle orme del pastore>>, p. 17). Poi la poesia matura della Tognacci sceglie il respiro dell’assoluto: <<Siamo vene di vita prosciugate /dal tempo>> (Ibidem) e la sua voce mira a constare il nulla e lo fa in nome di quella Luce, che ha accompagnato la sua vita: <<Darò un nome al Nulla, là, / dove la luce è profonda>> (p. 18: <<Là dove pioveva la manna>>). Qui c’è il viaggio nel deserto, e dopo questo viaggio l’anima che è assetata d’infinito, cercherà sempre di interrogare, sentire il mistero, e Imperia Tognacci <<novella Sibilla, continuerà a vergare i suoi responsi, i suoi vaticini, sulle foglie>>. (p. 82). La monografia di Francesco d’Episcopo è di piacevole e utile lettura per capire i vari risvolti della poetessa di San Mauro di Romagna. Carmine Chiodo Francesco D’Episcopo - LA POESIA DI IMPERIA TOGNACCI Inquietudine dell’infinito, Genesi Editrice, Torino 2019.

LE NOTTI D’AGOSTO Stupende le tenere notti d'agosto! Non ci sono uguali nell'anno. C'è intorno silenzio di pace. Si va scalzi, nudi, addosso uno straccetto soltanto. Si sta fuori, desti, fino a notte fonda, si passeggia, si ride, si sogna, spensierati, ad occhi aperti. Che dolci, chiare, soavi - rimedio alla calura del giorno le fresche notti d'agosto! Antonia Izzi Rufo (Castelnuovo IS)


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EMERICO GIACHERY PORTA ORFEO NEL NOSTRO GIORNO di Ilia Pedrina

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OEMERICO è la parola che trascende l'esperienza e rende i due nell'Unità del tutto. Così apro all'Amore e a ciò verso cui Emerico Giachery tende con tutto il suo sguardo, l'interpretazione del testo scritto, l'introduzione e la dizione di QUASI UN MADRIGALE Il girasole piega a occidente e già precipita il giorno nel suo occhio in rovina e l'aria dell'estate s'addensa e già curva le foglie e il fumo dei cantieri. S'allontana con scorrere secco di nubi e stridere di fulmini quest'ultimo gioco del cielo. Ancora, e da anni, cara, ci ferma il mutarsi degli alberi stretti dentro la cerchia dei Navigli. Ma è sempre il nostro giorno e sempre quel sole che se ne va con il filo del suo raggio affettuoso. Non ho più ricordi, non voglio ricordare; la memoria risale dalla morte, la vita è senza fine. Ogni giorno è nostro. Uno si fermerà per sempre, e tu con me, quando ci sembri tardi. Qui sull'argine del canale, i piedi in altalena, come di fanciulli, guardiamo l'acqua, i primi rami dentro il suo colore verde che s'oscura. E l'uomo che in silenzio s'avvicina

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non nasconde un coltello tra le mani, ma un fiore di geranio. (Fonte Internet: Salvatore Quasimodo, La vita non è un sogno, 1946-48). Invito tutti, con grande e pura grazia, ad ascoltare Emerico Giachery mentre interpreta questa poesia, da lui amata e vissuta in prima persona perché, sostiene, nel verso più bello '...è sempre il nostro giorno' risiede il vincolo indissolubile che lega due innamorati. Allora dobbiamo avere negli occhi e nel cuore il suo volto e il suo dire mentre ci addentriamo nel testo filosofico, critico ed estetico LA PAROLA TRASCESA E ALTRI SCRITTI, pubblicato nel marzo 2020, in questa dura temperie di accadimenti, dalla casa Editrice Aracne. Questa testimonianza è una vera miniera di conoscenze e di passioni che attraversano i suoi lunghi decenni di docente universitario, perché avvenga l'incontro con l'Autore e con il suo testo ed accada così l'evento reale della sua interpretazione, che è sempre trasparente e flessibile, documentata e credibile perché verificata dalla diretta esperienza, degli autori, dei loro testi, dei luoghi di vita, nella scoperta, affascinata sintonia con i grandi pensatori d'ogni tempo, a lui così affini quando si sono occupati di mito, di sacralità della parola, di poesia come scrittura della parola che trascende se stessa ed avvia verso un oltre che è ancora da intercettare. Emerico Giachery si appropria in tutto, senza sforzo, dell'invito di Armando Rigobello: 'Il fare poesia e il pensare, come ceppi di uno stesso albero sono tra loro vicini, accomunati dalla capacità di illuminare l'essere, di evocare l'originario' (in E. Giachery, op. cit. pag. 58). Il tema di Orfeo attraversa La Parola Trascesa come fonte che mai esaurisce il suo pulsare e bello è, per me, scoprire che Emerico Giachery cita, tra tanti altri, Elena Bono e il suo Alzati Orfeo, così caro a Francesco Pedrina, ad indicare l'attualità poetica d'una ispirazione che attira quasi archetipo stesso dell'essere al mondo e dell'amare. L'ambito dell'indagine è dunque il Capitolo II Presenza e fascino di Orfeo, nella pittura come nell'opera musicale, oltre che nella veste pura


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dell'esperienza poetica, così l'Autore offre il suo sguardo penetrante su un vastissimo materiale originale: “... Per integrare con rapidi e sparsi riscontri novecenteschi questa sommaria scorribanda orfica, si potrebbe cominciare col registrare alcuni dei contrassegni forti rappresentati dai titoli. Tra i quali ecco primeggiare i Canti orfici di Dino Campana... Al pari di Campana, Alda Merini ha provato a lungo e ripetutamente i tetri inferi manicomiali e anche in pagine abbastanza tarde non manca, qua e là, la presenza di Orfeo. 'Alzati Orfeo' è una raccolta poetica tradotta anche in svedese da Nanny Nilson, di Elena Bono, poetessa e narratrice che visse per anni in Liguria e alla quale è dedicato il numero di maggio-settembre 2000 del quadrimestrale 'La Riviera Ligure'...” (E. Giachery, op. cit. pp. 68-69). Allora, per queste due pagine e per tantissimi altri intensi luoghi dell'Opera, è come se l'Autore entrasse in casa mia e si soffermasse nel caos che tutto fa generare per trovarvi il suo citato I grandi iniziati di Edouard Schuré, secondo il quale, suggerisce lo scrittore, “... Orfeo 'brilla attraverso le epoche col raggio personale di un genio creatore', e dopo la sua morte mistica 'il verbo orfico, per le vie segrete dei santuari e dell'iniziazione, misteriosamente s'infiltrò nelle vene dell'Ellade; gli dei si accordarono alla sua voce, come un coro di iniziati si accorda nel tempio ai suoni di un'invisibile lira, e l'anima di Orfeo divenne l'anima della Grecia'...” (E. G. op. cit. ibid.). È proprio il caso di dire che sono stata letteralmente contaminata dai continui sussulti di conoscenze e di esperienze che in ritmo incalzante egli è proteso ad offrire, entrando ad abitare il silenzio con la forza dell'evocazione d'armonia. Perché così vuole Orfeo, perché così impone la parola quando si fa respiro e grazia. Allora arriva Romano Guardini, ad ancorare meglio la mia adesione curiosa, inesauribile e spiritualmente ben modulata all'originale. L'Autore lo sceglie e, nel tema della luce come forma e sostanza essenziale della leggerezza in tensione con la pesantezza del corpo, da lui si fa accompagnare per dar se-

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gnali innamorati ed autorevoli di quanto ha già sciolto in immagini e rimandi dall'antica tradizione biblica nello Zohar, libro così caro agli studiosi della Kabbalah, giù giù fino a Plotino, a Paolo di Tarso, a Dionigi l'Aeropagita e ad altri ancora. Cito: “...Basterà qui il seguente passo di Romano Guardini che sembra bene riassumere l'argomento: 'Il pensiero platonico e successivamente - puntualizzato e approfondito mediante concetti giovannei - il pensiero di Sant'Agostino, si rifanno all'immagine della luce. Si pensi alla gradazione del fenomeno della luce in senso diretto: la luce fisica, che rende visibili gli oggetti; la luce dell'anima che, nell'emozione della gioia, illumina il cuore e il volto; la luce spirituale, che viene esperimentata nell'atto della realizzazione della verità tramite un' acquisizione conoscitiva e così via. E ora l' immagine dice: il divino è luce'... Se poi compiamo un viaggio di secoli e secoli per approdare al pensiero filosofico del Novecento, ecco che anche qui possiamo trovare presente con forza l'immagine della luce. In belle pagine sul fenomeno della luce nella Commedia, Guardini scrive che la tradizione della metafisica della luce, 'muovendo dalla filosofia greca, attraverso il neoplatonismo e Agostino, passa per tutto il Medioevo, per poi proseguire nel platonismo del Rinascimento, ed essere ancora operante nella fenomenologia di Edmund Husserl e di Max Scheler'...” (E. Giachery, op. cit, pag. 40). Approdo d'un balzo al Capitolo IV “Saggezza” dell'interprete e mi lascio vincolare da un ulteriore interessante rimando: “... In diverso senso e contesto, ho trovato in profonde e a volte ardite pagine di Romano Guardini sull'interpretazione, affermata la necessità, per l'interprete, di 'quella virtù, in cui Platone vede il carattere della maturità: della sofrosyne, della vigilanza, della responsabilità spirituale'. Guardini collega questa esigenza a un suo discorso, secondo il quale: 'La parola del poeta è più che la semplice espressione della sua personalità. Di tale più si è sempre avuta cognizione e quindi si è cercata nella poesia una sapienza più profonda che


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nelle affermazioni di chi sia puramente esperto nella vita e abile a svolgere il pensiero. In certo qual modo, è l'esistenza stessa a parlare in lui […]. La poesia è più grande del suo autore; perciò il compito dell'interprete tende a far emergere questo alcunché di più grande' L'interprete avrebbe: Diritto e compito di intervenire a favore del poeta nella sua specifica autenticità contro colui che egli è accidentalmente. Non occorre sottolineare particolarmente quanto sia rischiosa questa sua qualità. Essa può divenire un salvacondotto per ogni arbitrio. Ciò che essa intende realmente è un mandato segreto all'interprete, una missione che al tempo stesso lo sprona a usare la più elevata sofrosyne. Per soddisfare tale compito, deve mettersi integralmente a disposizione della composizione poetica, lasciar penetrare in se stesso le sue movenze, pensare alimentandosi con essa, perseguire le sue linee di significazione. Quanto più puramente lo fa, tanto maggiore è la prospettiva di dare parola a quel più.' Senza dubbio, specie nella poesia del Novecento, esistono testi 'difficili' per densità, tensione allusiva e non è facile parlarne (ma è grave il rischio che si annida in ogni parafrasi e commento di testi poetici anche non troppo 'ermetici') di banalizzare...” (E. G. op. cit. pag. 97). Prove concrete queste ed elementi sperimentali dell'interpretazione come compito, di una filosofia dell'esistenza, di una filosofia estetica della percezione della luce e della sua sussunzione, sublimazione sostanziale come l'oltre il visibile, quella porta d'accesso alla forza dilatativa dello spirituale, del logos illuminato dal mithos, misticamente: questa intanto la minima sintesi che riesco a produrre nell'incontro con La parola trascesa intorno al percorso di pensiero di Emerico Giachery, dalle antiche radici, anche d'Oriente, verso una tensione spirituale mai pacata né placata che caratterizza il pensiero occidentale nel suo svolgersi anche come storia: da Socrate su su fino ad Heidegger per sostare a lungo sul Capitolo I Rosario Assunto e Dante, lasciandomi animare di vigoria esegetica pro-

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prio in virtù delle sue accese posizioni contrastanti l'ipse dixit crociano. E per Petrarca, Pascoli, Ungaretti e tanti altri amati nei loro testi e nell'amicizia diretta, come Mario Luzi? Emerico Giachery, il viandante, il Wanderer, quasi flautista magico che cavalca il giorno nella luce e nel buio tanto il sole l'ha dentro, ci induce a seguirlo, per cogliere con lui alla guida, interprete permeato d'orfismo, l'instancabile moto del conoscere, attraverso il pensiero che si fa parola: gli Autori che egli ci ha fatto attraversare, poi, non saranno più testo e contesto, ma canto ed esperienza. Nel farsi interprete, egli entra in dialogo con Orfeo e lo porta nel nostro giorno, perché la parola trascenda se stessa ed entri nella sfera dell'immaginario individuale e condiviso; perché la parola trascenda se stessa come canto ed avvii una relazione intensa tra chi propone il canto in scrittura e chi ne trascrive l'armonia; perché la parola trascenda se stessa come fonte e sorgente di senso ed offra al significante, nello spazio e nel tempo, un significato dilatato a dis-misura, affinché il canto, nel farsi esperienza, attraversi ogni contingenza e si elevi alla luce, modulato come il respiro. Ilia Pedrina

Degli alberi dei cespugli dei prati fiorivano Dei malati a profusione esalavano l’ultimo respiro Era la primavera dei morti Una primavera di strade di metropolitana vuote e di obitori pieni La natura rinasceva dall’altro lato del respiro dei moribondi Béatrice Gaudy Parigi, Francia


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L'ULTIMO ROMANZO DI ROSA ELISA GIANGOIA:

“FEBE - DAL TEMPO ALL'ETERNO” di Luigi De Rosa

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A scrittrice Rosa Elisa Giangoia, che vive e opera a Genova dove ha insegnato materie letterarie nei Licei, ha messo la sua eccezionale preparazione classica al servizio della ricerca didattica in corsi di aggiornamento per docenti presso associazioni culturali e professionali. Inoltre ha svolto attività di consulente degli Assessorati alla Cultura della Regione Liguria e della Provincia di Genova. E' redattrice di numerose riviste letterarie e culturali tra cui XENIA, di Genova, e NUOVA TRIBUNA LETTERARIA di Padova. Come scrittrice ha al suo attivo notevoli pubblicazioni sia nel campo della poesia (raffinate sillogi di liriche) sia in quello della prosa (romanzi e racconti, e saggi di gastronomia letteraria). Il suo ultimo romanzo “Febe – dal tempo all'eterno” (Europa Edizioni, Roma 2018, 198 pagg. euro 14,90) costituisce il punto più alto nella sua storia di scrittrice, al culmine di esperienze fondamentali nel campo della lirica, del pensiero, della visione storicoreligiosa della vita umana e del mondo. Febe è una donna greca, di Cencre presso Corinto, una vedova colta, sensibile e gentile, alla quale il marito ha lasciato una ricca eredità, frutto della proprietà di alcune navi con le quali suo figlio Ippolito esercita il commercio

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nel mar Egeo e fino ad Ostia e a Roma. Ma non è il denaro che può saziare la ricerca di assoluto di Febe che soffre molto per la solitudine interiore e per la mancanza di un soddisfacente senso della vita e dell' Aldilà. Ella passa da una esperienza all'altra circa il culto degli Dei dell'Olimpo o dei Misteri Eleusini o in ricerche presso filosofi ed astrologi. Soffre per la perdita dell'affetto del marito e per le lunghissime assenze del figlio tanto che teme perfino che egli sia morto o sia prigioniero dei predoni in qualche luogo sconosciuto. Un giorno a Corinto vede una folla di ebrei che minaccia l'incolumità di un altro ebreo, Paolo di Tarso. Lo sente parlare, nella vicina sinagoga, di Gesù il Cristo e per Lei è come una folgorazione. La sua conversione alla visione della vita terrena ed ultraterrena di Gesù il Salvatore, il Messia, conquista il suo cuore e lo consola, nonostante dubbi e difficoltà di ogni genere. Un altro giorno rivede Paolo di Tarso non braccato dagli ebrei suoi persecutori e ascolta avidamente, con gioia, il suo racconto su Gesù e la sua Parola di salvezza eterna. Dopodiché mette la sua comoda e lussuosa casa, con giardino sul mare, a disposizione dei malati più poveri e abbandonati da tutti. Provvede al loro sostentamento e alle loro cure, occupandosene personalmente aiutata da un gruppo di ancelle e rivolgendosi a medici dagli alti onorari. La prova narrativa riesce felicemente sul piano tecnico-letterario perché la scrittrice Giangoia si immedesima pienamente con il suo personaggio- protagonista nel leggere ed esprimere con affetto e comprensione i pensieri, i dubbi, le sensazioni, gli slanci e le angosce. La narrazione procede spesso in modo solenne e pur esaminando a fondo temi fondamentali di una crisi individuale inserita in una crisi generale ed epocale, non assume mai i toni della retorica e della predica nell'ampiezza delle descrizioni e dei concetti, senza trascurare né la profondità dei temi trattati né i dettagli delle varie situazioni. Sono rappresentate in modo magistrale le scene in cui agisce, a Corinto, Paolo di Tarso,


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ed è esemplare il racconto della propria vita che egli fa ad una Febe affascinata e avida di Fede nell'eterno, ma pur sempre donna curiosa ed intelligente, esigente non solo sul piano della fede ma anche su quello del raziocinio. Va alla Giangoia il merito di aver fornito ai lettori un quadro equilibrato delle problematiche emergenti dalla storia, regalandoci un romanzo che spicca come una storia originale pur essendo basata su fatti storici. Obiettivo il giudizio su Paolo, da accanito persecutore (in quanto coerente “ebreo fariseo”) ad appassionato difensore e divulgatore del cristianesimo degli anni vicini alla morte in croce di Gesù. Originali ed obiettivi i ritratti dei personaggi del mondo dei templi e degli Dei dell' Olimpo, dei filosofi, degli scienziati, dei personaggi del mondo pagano, con tutte le sue luci e le sue ombre. Originali e obiettivi anche i ritratti relativi ai primi cristiani visti da vicino con gli occhi di Febe neo-convertita. O quelli relativi al popolo degli Ebrei, alla Legge, all' Antico Testamento. Nessuna parzialità, nessun pregiudizio positivo o negativo. Solo una entusiastica constatazione, quella della forza rivoluzionaria e consolatrice della Parola di Gesù nel mondo destinata a diffondersi sempre più fino alla Seconda Venuta e al Giudizio Universale. E che non si tratti di una semplice fiducia acritica, ma di una necessità assoluta per il genere umano, lo dimostra anche l'atteggiamento disincantato dell'Autrice di fronte alla morte improvvisa di un proprio condomino (praticamente sconosciuto) nel suo stesso palazzo, in una grande città. Una situazione stagnante emblematica dal punto di vista spirituale, che non risponde alle esigenze suscitate dalla parola di Gesù, e per la quale Rosa Elisa Giangoia ha sentito il bisogno di scrivere le seguenti parole, a titolo di auto-prefazione al proprio romanzo: “C'è poi da chiedersi a chi si unirebbe se vivesse ai nostri giorni. Oggi Gesù riuscirebbe a fondare la sua Chiesa se fosse un uomo di modesta condizione, senza relazioni di rilievo e con idee controcorrente? Se fosse un giovane senza grandi studi in scuole e università prestigiose, proveniente

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da un piccolo villaggio, neppure segnato sulle carte, sperduto su una mappa. E noi cosa dovremmo avere perché Gesù posasse il suo sguardo su di noi? Probabilmente non si fermerebbe con quelli che sono in chiesa, leggerebbe nei cuori, capirebbe l'indifferenza e anche la tepidezza, magari chiamerebbe con sé qualcuno di quelli che sono lì fuori al freddo, di notte e di giorno, sotto il portico, con le loro coperte multicolori, i loro cartoni, le loro scatolette di carne, di tonno e di fagioli, le bottiglie di vino e le lattine di birra... Direbbe loro: “Vostro è il Regno dei Cieli” e quelli lo seguirebbero. Ma questa frase non gliela dice anche il parroco? Forse no, forse dà loro un po' di denaro, qualche indumento, delle cose insomma. Bisognerebbe avere il coraggio di uscire dalla chiesa, di avvicinarsi a loro, invece di allungargli frettolosamente la solita monetina e dire. “Alzatevi, vostro è il Regno dei Cieli”. Già questo coraggio chi ce l'ha oggi? Loro forse sono come la vedova che non ha denaro ma offre le sue poche monete al Tempio, o come la donna di Samaria o come il lebbroso o il cieco risanati. Anche loro erano persone che noi riterremmo marginali, perdute, che non sanno, che non percorrono le nostre vie. Gesù non ha cercato le persone importanti né quelle ritenute, al suo tempo, di grande cultura, né tantomeno i potenti, ha raccolto intorno a sé dei suoi parenti, forse dei suoi vicini di casa, i suoi compagni di lavoro. Tutte persone semplici, perché le parole di Gesù erano per il cuore, non per la mente. Il sapere non poteva servire per accogliere le sue parole, era meglio un animo sgombro, capace di accettare la verità radicale di quanto Lui diceva. Lui non era venuto per risolvere i problemi di questo mondo ma per salvarci e portarci alla felicità eterna in Paradiso. Pensando tra me e me queste cose, mi è venuta voglia di immaginare e ricostruire quel mondo, quello dei primi che hanno accolto la parola di Gesù. Per farlo non avevo altra possibilità che descriverlo. Così ho costruito una storia e un mondo intorno ad un nome, quello di Febe, una donna greca di Corinto


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che, pur non avendo conosciuto Gesù nelle strade della Galilea, ma fidandosi soltanto delle parole di Paolo di Tarso, ha scelto la fede in Lui. Di Lei non c'è rimasto altro che il nome, ma è grazie a persone come Lei che la parola di salvezza del Vangelo è arrivata fino a noi, perché lei, nei giorni della sua vita, ha creduto e ha saputo agire e parlare in modo convincente. Anche intorno a lei c'erano tante voci discordanti, altre proposte di vita e di salvezza, ma lei ha saputo valutare e scegliere con la mente e con il cuore, anche per noi.” Luigi De Rosa

DEMAIN Il y aura le temps intermédiaire et tout recommencera à fleurir entre nos regards et nos paroles. Et il y aura le temps du retour où nous nous promènerons parmi la foule et où prendront leur vol nos souffles, tout comme nos sourires. Rinaldo Ambrosia (Traduzione di Béatrice Gaudy Dal testo italiano apparso a pag. 10 di PomeziaNotizie, maggio 2020)

IL NOSTRO AMORE Il nostro amore è fatto di affinità, di affetto e di comprensione e non ha bisogno del corpo. Il nostro amore è comunione di anime, desiderio di fusione nell’unità dei nostri sentimenti.

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Per questo il nostro amore è eterno. Mariagina Bonciani Milano

CIEL Premier matin; le ciel, limpide et solennel avec mille nuances de bleu foncé, est encore plus beau si entrevu entre les cimes des pins. De petits nuages blancs et lumineux se dissolvent tandis que s’élève le soleil ; demeure, éternel, l’incroyable miracle du ciel. Aida Isotta Pedrina (Traduzione di Béatrice Gaudy Dal testo italiano apparso a pag. 47 di Pomezia-Notizie, giugno 2020)

CHE FESTA! Che tripudio di voli, che festa, che gridi di rondini stamani nel cielo d'agosto! M'incanto estatica ad ammirare il folle frullare di ali che dipinge di brio la nitida volta d'azzurro. Antonia Izzi Rufo (Castelnuovo al Volt. IS

MARE AGITATO Mare agitato m’inquieta appena entrato e poi m’acquieta cullandomi come un neonato. Corrado Calabrò 3 luglio 2020


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FRANCA ALAIMO SACRO CUORE di Elio Andriuoli L libro di un ritorno all’infanzia e alla prima giovinezza è questo Sacro Cuore di Franca Alaimo, apparso nelle Edizioni Ladolfi nel gennaio 2020; un libro nel quale l’autrice rivive la sua scoperta del mondo, con tutta la felicità e l’infelicità che essa racchiude. Si tratta soprattutto di un libro nel quale “lo spettacolo bello della vita” può anche essere “censurato” da pregiudizi ancestrali, come avviene in Quella mano sugli occhi; ma nel quale pure si affaccia con spontaneità la scoperta dei primi turbamenti amorosi, incerti tra la religiosità e l’amore: “Mamma, perché ha il palmo della mano / trafitto, perché ci mostra il cuore? (Lui è un ragazzo bellissimo); “Sorridendoci – le mani intrecciate, / un bacio lieve come il vento – / ci dicemmo che per sempre per sempre / ci saremmo amati” (Era aprile o maggio, non ricordo).

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C’è in queste poesie la prima consapevolezza di ciò che significa essere donna e c’è il difficile confronto con la figura materna, la quale tende a mettere un freno all’insorgere degli istinti e del desiderio: “Fu allora che mi disse vergognosa / la madre, guardandomi sottecchi: / essere donna è un’antica colpa” (Fu allora che mi disse vergognosa). Né meno severa di quella della madre è la figura del padre, il quale di fronte alla figlia che diventa donna, avverte accrescere la sua responsabilità (Nella penombra dell’ androne). Sottile è poi in questo libro l’assiduo studio psicologico che l’Alaimo compie su se stessa, concernente il passaggio dal mondo dell’ infanzia a quello dell’età adulta, attraverso acute osservazioni, in poesie quali: Le ragazze della terza classe; Il padre confessore; Eravamo fidanzati in casa; Cominciammo a nasconderci ovunque, sinché si giunge al completo abbandono ai sensi di Due passerotti svolando di rosa in rosa, una poesia che contiene anche un richiamo esplicito al Canto V dell’Inferno dantesco: “Per più fiate li occhi ci sospinse il tamburo / del sangue e ci arrossò le gote e poi ci vinse”. Ma ciò che si respira in questo libro è pure un’atmosfera classica, attraverso richiami ad alcuni antichi poeti greci. Basti leggere poesie quali Afferrala – urlo, dove vi è non soltanto il ricordo dell’omerica Nausicaa e di Ulisse, ma anche quello di Anacreonte, innamorato della fanciulla di Lesbo, dai sandali variopinti, e quello di Saffo, per la quale l’uomo amato assomiglia a un dio se “divinamente ride”. Scritte con estrema spontaneità, queste poesie rivelano un’alta autenticità del sentire, unita a una forte incisività dell’espressione, che s’affacciano con naturalezza ad ogni passo: “Venne leggero come brezza / o tutto ciò che non ha sostanza. /Me lo ricordo: / un attimo di fulgore, / il profumo dei gigli di mare…” (Venne leggero come brezza); “Un angelo tentatore / mi ha ordinato di peccare. / Mi ha detto che l’amore / giustifica se stesso” (Un angelo tentatore); “Il mio ragazzo / che abbraccio senza luna / e senza lampada / ha


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un corpo infinito” (Il mio ragazzo). C’è pure in queste poesie l’eco del mondo esterno, con tutti i problemi che vi si agitano, come quelli tanto discussi tra i giovani nel ’68, al tempo dell’occupazione delle aule universitarie, con in vista “la faccia barbuta di Che Guevara” e con la lettura dei romanzi di Kerouac e della Morante. Così come c’è lo scontro generazionale, che per l’Alaimo avviene specialmente con il padre, un “militare dell’esercito” che “proclamava l’ordine”, nonché con la madre, “nata agli inizi del Novecento”, che conservava i severi principi del tempo che era stato il suo. Di fronte a loro disinvolti appaiono i versi della nostra poetessa, quali li leggiamo in liriche come Sotto i fiori di lacca rossa; Eccomi di nuovo qui / davanti alla tua porta; Lui è ardente come fuoco; e ciò anche se non manca in questo libro la presenza del sacro, che troviamo in poesie quali La voce del prete al di là della grata; Qualunque fosse il luogo / avevo sempre paura; Vieni, balliamo – disse –. Questo Sacro Cuore di Franca Alaimo appare pertanto come il libro di un’iniziazione alla vita, che si conclude con un intenso profumo di fiori nuziali. E si tratta di un libro nato all’insegna della sincerità, che porta sulla pagina le vicende dei giorni, che sempre s’avvertono autentiche e vere. Elio Andriuoli

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LA MIA ESTATE La mia estate eri tu, mare, laggiù alla cala abbraccio di scogliera. Onde lievi sciamavano alla riva: schiume fiorivano di miti alghe vibravano di attese. Facevo collane di conchiglie davo volti alle pietruzze raccolte fra gli scogli. E tremavano di luci nell’acqua i primi amori lungo il molo del Duomo lunare. Lontano… isole vietate e all’orizzonte la nube d’oro di tutti i desideri. Mare, tutta azzurra di te fu la mia giovinezza stellata di emozioni. Tutto rosso di foglie è il mio autunno. Pensosa è la campagna. Ada De Judicibus Lisena Da: Omaggio a Molfetta, Edizioni Nuova Mezzina, 2017. C’était là-bas. Le soleil était bleu sous le grand pin et les pommiers délicieux Les fleurs de la prairie s’envolaient en papillons dans les bonds joyeux des chiens C’était chez nous tout un panorama qui appartenait à nos vies enracinées par l’occitan dans mille ans de poésie d’émail de porcelaine Pays de troubadours et de pauvres paysans que la culture orale et l’intelligence élevaient parfois jusqu’à la sagesse Béatrice Gaudy Paris, France


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GABRIELLA FRENNA SGUARDO D’ARTISTA di Tito Cauchi ABRIELLA Frenna è legata all’arte mosaicale di Michele Frenna con amore filiale che sapientemente abbina alla propria poesia. Diciamolo pure, è ammirevole, la dedizione agli affetti non disgiunta dalla competenza che man mano evolve arricchendosi di nuovi elementi. Senza richiamare le precedenti opere, questo volumetto, Sguardo d’artista, nasce in occasione del “500° anniversario della morte di Raffaello Sanzio”, come recita il sottotitolo, e vuole essere un omaggio al proprio genitore e allo stesso pittore di Urbino. In copertina lo scaffale dell’Archivista mostra un esempio dell’ opera musiva in argomento. Percorrendo le pagine osserviamo che la prima metà del volume è dedicata quasi esclusivamente al pittore urbinate Raffaello Sanzio e la seconda metà è dedicata al mosaicista girgentano Michele Frenna. Non scopro nulla di nuovo se dico che non guasta conoscere le notizie biografiche che, nella narra-

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zione esistenziale di tutti e, nel nostro caso, degli artisti, si rivelano come veli in controluce. Entrambe le parti sono interconnesse con richiami ai due stessi Maestri, impreziosite dalle rappresentazioni a colori riprodotte delle rispettive opere; altresì accompagnate generalmente da composizioni poetiche di Gabriella Frenna e delle descrizioni da parte dell’editore Luigi Ruggeri; entrambi i commentatori illustrano vita e opere dei due Artisti. In chiusura del libro torna utile l’indice delle opere raffigurate; oltre, naturalmente, l’indice dei titoli. *** Raffaello Sanzio (Urbino, 6 aprile 1483 – Roma, 6 aprile 1520) perse la madre in età dell’infanzia e poi, in quella dell’adolescenza, perse il padre. Non è per indugiare su queste semplici noticine, bensì perché questo spiega molte cose del carattere che viene a maturare e che si riflette sulla propria arte. Da ragazzo apprese le prime tecniche artistiche nella bottega paterna, grazie al genitore fu introdotto alla frequentazione del Palazzo Ducale, avendo modo di studiare le grandi opere del tempo. Frequentò grandi pittori come il Perugino (all’anagrafe Pietro di Cristoforo Vannucci), del quale in seguito si distanzia; nello stesso torno di tempo realizzò lo Sposalizio della Vergine. Ancora giovane assurse alla notorietà in tutta l’Umbria e nella culla della cultura che era Firenze, producendovi la serie delle Madonne, ivi conosce Michelangelo e Leonardo. Ben presto il nome di Raffaello Sanzio si diffuse giungendo a Roma dove ricevette commissioni dai Papi, ad iniziare da Giulio II, e in seguito chiamato e confermato da Leone X, alla pari di Michelangelo e Donato Bramante, giusto per citare qualche nome, quale artista e soprintendente a lavori di vasta portata in tutta la città e in particolare nella Basilica Vaticana. Nella Città Eterna, come in altre città italiane, molti palazzi e basiliche del Rinascimento contengono esempi di architettura monumentale, scrigni di inestimabile valore. Sono realizzati pavimenti, colonnati, volte e soffitte e i dipinti ci introducono in


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quelle atmosfere. Nelle basiliche possiamo ammirare pale d’altare, trittici, polittici di argomenti sacri. Vasta è l’eredità artistica lasciata di opere sublimi, specialmente considerando la breve esistenza (morì all’età di 37 anni). Opere ammirate dai contemporanei e consacrate ai posteri che trasudano di sentimenti profondi, rievocano eventi storici e vicende sacre. Elementi caratterizzanti della poetica pittorica raffaelliana sono rintracciabili in: volti sereni; linee geometriche, rette e curve; colori e sfumature, chiari e scuri. Esempi di serenità interiore sono riscontrabili negli autoritratti e nella Fornarina, dipinto ad olio, celeberrimo anche per la storia che si narra intorno alla bellissima Margherita Luti, figlia di un fornaio di Trastevere, di cui pare si sia innamorato il Raffaello il cui viso ha ispirato figure della Madonna. Esempio di linee geometriche rette è offerto dalla Sacra Famiglia Canigiani (un vertice e la base, formanti triangolo o piramide); e con linee curve offerto dalla Disputa del sacramento. Altra opera celeberrima è la Trasfigurazione, in cui si contrappongono la luce e l’oscuro, due piani di lettura; opera che merita di essere approfondita per i suoi aspetti metaforici sotto i quali si cela il pensiero filosofico e teologico dell’ Urbinate; il trionfo del bene sul male; un’opera complessa che si presta ad essere osservata in sezioni contenendo così vari elementi poetico-pittorici (nello splendore della luce è possibile individuare un triangolo: Gesù al centro fra due personaggi). Le opere su citate sono esemplificative perché le caratteristiche distintive dell’arte dell’ Urbinate non sono disgiunte; così nella Madonna Sistina e nella Madonna del cardellino, come pure nella sopracitata Trasfigurazione. In esse rileviamo due o più piani che

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potrebbero essere osservati separatamente, per esempio i due angioletti che oggi ritroviamo replicati in molti oggetti commerciali; in sostanza si tratta di composizioni multiple denominate retablo. Capiscuola di Storia dell’Arte, già nel Quattrocento e nel Cinquecento, sono i pittoriarchitetti Leon Battista Alberti (Genova, 14 febbraio 1404 – Roma, 25 aprile 1474), scrittore e matematico, teorico della prospettiva; e Giorgio Vasari (Arezzo, 30 luglio 1511 – Firenze, 27 giugno 1574) critico e storico dell’arte. Entrambi tuttora fanno testo sulla geometria della prospettiva, che è quella che fornisce su piano l’illusione e la percezione dello spazio e quindi della distanza in termini volumetrici. È Giorgio Vasari che ha denominato l’arte di Raffaello di genere del “manierismo”, perché innovativa per la “maniera” intrapresa della varietà e complessità dell’ impianto architettonico delle rappresentazioni; “manierismo” nell’ accezione di nuova maniera, che riguarda la complessità dei soggetti, il rapporto tra spazio e figure, sfumature tra chiaroscuri e armonia cromatica. *** I versi di Gabriella Frenna raccontano le origini e la trascorsa adolescenza del padre con commovente annotazione. Michele Frenna (Agrigento, 10 luglio 1928 – Palermo, 5 ottobre 2012), educato ai valori cristiani dai genitori, Salvatore e Rosa, visse con umiltà e dignità le privazioni durante il periodo bellico. Giovane adulto diventa servitore dello Stato e durante il servizio a Messina viene attratto da una “ridente ragazza” di nome Rosa, alla quale si lega per tutta la vita. Apprese nozioni sull’arte in età adulta aiutando le sue due figlie nelle elaborazioni scolastiche, cosa che ha svegliato in lui la vena artistica dormiente che è evoluta quando è andato in pen-


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sione. È il mosaico che lo ha attratto, composto con piccolissimi tasselli di vetro di diversi colori, sapientemente collocati su una base rigida. L’aspetto non presenta retinature, sì da dare la percezione di una genuina pittura dalle linee morbide. Si osservi la ricorrenza del nome Rosa (la madre, la moglie, la figlia). Michele Frenna “continua un unico discorso, ma un discorso coerente e in continuo svolgimento.” non solo comunicativo o espressivo, in ciò riscontriamo una certa analogia, affinità geometrica, alle linee di fuga prospettica e quindi alla visione sinottica dell’ arte. Le sue opere offrono un indirizzo didascalico innato, religiosità e affetti familiari, attaccamento alle radici e al valore delle piccole cose. Interessante è l’argomento riguardante il “manierismo” dei due Artisti considerati in questa disamina. Gli elementi distintivi del “manierismo” sono individuabili nella complessità compositiva: in Raffaello abbiamo le sfumature grazie ai chiaroscuri, in Michele gli effetti sono originati dalle tonalità che passano dai colori naturali reali alle tonalità fantastiche; la prospettiva, a parte i rapporti geometrici, nel Mosaicista viene realizzata con i giochi di luce e di volume. Il talento non è acqua che scende dai rubinetti o ce l’hai o non ce l’hai. Penso all’importanza che assumono certe circostanze nella vita di una persona. Come nascere in una città dell’arte, vivere a Firenze, stare a contatto con artisti, avere le origini in luoghi come la Sicilia che è stata crocevia di civiltà che si sono sovrapposte e sapientemente amalgamate dai geni. La mescolanza ha realizzato un sincretismo avvertito come naturale nelle persone che l’abbiano assorbito, diventa una seconda pelle. *** Certamente siamo tutti figli del nostro tempo e gli artisti, più di tutti, ne danno testimonianza e nel contempo offrono segni del loro mondo interiore. Raffaello Sanzio, come molti artisti dell’epoca dipinge per commissione personaggi del suo tempo come i Papi e altri, così pure figure sacre. Michele Frenna raffigura per passione la quotidianità vissuta, le

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sue radici natie, così i Templi di Agrigento, lavori e prodotti della terra, umili artigiani, ritratti di famiglia, la Madonna e Santi. Raffaello usa un linguaggio classicheggiante, le sue figure trasmettono bellezza interiore. Era un poeta, ha lasciato tracce dei suoi versi sui disegni nelle momentanee pause, come semplici annotazioni; ma gli innumerevoli impegni di lavoro non gli consentivano di dedicarvisi maggiormente. Se Raffaello viene ammaliato dalla bellezza della Fornarina, le figure di Michele trasmettono una interiorità poetica che definirei statica, immagini armoniose e impietrite. Forse le parole che uso non sono appropriate, ma sono giustificate dal dolore che ha segnato l’Agrigentino, per la perdita della figlia maggiore, Rosa, in età giovanile, il che costituisce un discrimine della sua poetica pittorica. Entrambi gli artisti vivono “estrose visioni” sublimate in un’ aurea di serenità. Letture come queste generano amore per l’ arte e sono ristoratrici. Un discorso maggiormente profittevole richiederebbe conoscenze di Storia dell’Arte; tuttavia a grandi linee, pur sacrificando la delucidazione di particolari tecnici, abbiamo seguito un certo percorso atto a fornire formulazioni di giudizio. A questo ha sopperito bene Gabriella Frenna licenziando quest’opera, Sguardo d’artista, perché ci dà occasione di rinverdire conoscenze che potevano essere vaghe, ai non addetti, su Raffaello Sanzio, che pure ha dominato cinque secoli; e di portare alla conoscenza del pubblico sempre più vasto il nome di Michele Frenna, artista musivo che man mano cresce ed è uscito dai confini nazionali. Il discorso non si esaurisce, ma viene rinviato al libro. Nella eponima è spiegato: “Lo sguardo d’artista / carpisce inusuali / aspetti esistenziali, / interiorizza elementi, / esternando in opere / la visione interiore.” Gli uomini tutti meritano di essere ricordati, ma i geni meritano di appartenere all’intera umanità. Tito Cauchi Gabriella Frenna, Sguardo d’artista, omaggio a Michele Frenna e a Raffaello Sanzio nel 500° anniversario della sua morte - Magi Editore, Patti (Messina) 2019, pp. 110. € 10,00


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QUATTRO OPERE ARTISTICHE DEL POETA SCRITTORE SALVATORE D’AMBROSIO di Isabella Michela Affinito

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L lavoro artistico a collage, di Salvatore D’Ambrosio, avente per tema Gli occhi è abbastanza pregno di momenti ‘catturati’ con lo sguardo, affastellamento eterogeneo di tutto e di più degli atteggiamenti umani, e mirabili sequenze sicuramente di chi guarda per essere guardato, famoso o non. Alcuni ‘miti’ di ieri e di oggi sono riconoscibili come la parte superiore del viso del tenore Andrea Bocèlli; la statua della Libertà in versione azzurrognola tipo statuina opalescente; forse qualche divo o diva i cui occhi si confondono con altre iridi ma quella predominante, tra il celeste polvere e l’avion, è quella posta al centro in primo piano assumente l’aspetto non più di singolo organo ma quasi a voler rubare la scena all’intera anatomia umana. Tra la fine del 2004 e l’inizio del 2005 si tenne a Roma, ai Musei Capitolini, la mostra Nell’occhio di Escher, fornita esposizione dell’artista incisore olandese Maurits Escher (1898-1972), tra cui c’era il suo lavoro del 1946, Occhio, ingigantito a tal punto da far intravedere dentro la pupilla l’effigie di un teschio, quale indomabile fantasma che ci portiamo dentro sin dalla nascita. «[…] Le sue opere diventano finestre che si aprono sulla

realtà stessa. L’artista è specchio vivente e contiene nella sfera del suo occhio l’ immagine dell’intero cosmo, concentrando tutto ciò che vede come in una formula magica. Da vero giocoliere, gioca con le regole della

prospettiva evocando così un’armonia meravigliosamente impossibile. » (Dal Catalogo della Mostra Nell’occhio di Escher, a cura di Mondadori Electa S.p.A. di Milano, in abbinamento ad una testata del Gruppo Editoriale L’Espresso di Roma, Anno 2004, pag. 24). Ricordiamo la Medusa mitologica, il cui solo sguardo pietrificava chiunque e che l’eroe Perseo, per ucciderla, ricorse allo stratagemma dello specchio che altro non era che il suo scudo lucente, scena ripresa coi toni tipici della drammaticità da Caravaggio (15731610), dove su un altrettanto scudo ovale egli montò la sua tela raffigurante la testa mozzata della Gorgone con tanti serpentelli al posto dei capelli, gli occhi quasi fuori dalle orbite e la bocca aperta nell’atto d’emettere l’ultimo grido, del 1596. Dagli occhi in genere è anche


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possibile ‘leggere’ l’anima dell’individuo da come si suol dire che Gli occhi sono lo specchio dell’anima. Nel secondo lavoro artistico del D’ Ambrosio, abbiamo lo scorcio di una tela suddivisa in tanti piccoli quadrati ‘autonomi’ nella loro cromaticità. Ciò che li accomuna è la texture trattata diversamente nelle singole quadrature, come a dire che lo stesso soggetto bidimensionale e semplice della figura geometrica del quadrato non è da considerare monotono, anzi si presenta in mille modi basta variare i colori e non solo. La terza immagine ci mostra una donna di spalle che osserva, di fronte ad una estesa vetrata, un agglomerato urbano che potrebbe essere quello della metropoli. Come ha specifi-

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cato l’autore, Salvatore D’Ambrosio, in una sua nota a parte, la figura femminile anonima non propriamente vestita dà adito unicamente ad uno stereotipo di desiderio carente di interiorità. Purtroppo, oggi la donna soffre proprio per questo motivo: il suo aspetto può essere frainteso, la sua bellezza esteriore prevalere sulle sue doti profonde e così scivolare sul piano materiale con difficoltà poi a risalire la china dell’idealismo. Nel quarto ed ultimo lavoro d’arte troviamo in primo piano la sagoma frontale di una poltrona classica, sotto la quale c’è una scarpa a décolleté (prettamente femminile) forse lasciata lì non per caso. La scena ‘spezzata’ superiore sembra il proseguimento della scena, ugualmente tagliata, sottostante: ermetica narrazione di una donna a piedi nudi (in alto) accanto ai quali compare la pariglia (?) della calzatura lasciata sotto la poltrona. In definitiva è un ‘gioco’ stimolante l’osservatore a ricomporre tutto pur senza spostare nulla, solo facendo lo sforzo mentale dei riaccostamenti giusti. È difficile raccontare una storia in questo modo, è vero, ma l’arte può tutto, si può permettere ogni cosa come ha fatto Andy Warhol (1928-1987), inizialmente grafico pubblicitario poi pittore e cineasta americano con la sua Pop art negli anni ’60 del Novecento. Isabella Michela Affinito Ti scrivo dall’altro mondo da un mondo tagliato fuori dal mondo Quando la presente ti giungerà il mondo sarà cambiato e il mio mondo e il tuo mondo non saranno più separati dalle invisibili pareti del confinamento I cittadini saranno di nuovo autorizzati ad uscire di casa ed a respirare a pieni polmoni l’inquinamento ed anche il profondo profumo delle violette del tempo Béatrice Gaudy Parigi, Francia


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IL TELEFONINO di Antonia Izzi Rufo

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NA volta i componenti la famiglia dialogavano, di solito, durante il pranzo, più spesso di sera, mentre si cenava, perché c'erano tutti e quasi nessuno aveva la preoccupazione di tornare a lavorare. La cena rappresentava la sosta dal lavoro della giornata, il riposo prima di andare a letto, la possibilità di conversare e risolvere insieme problemi che richiedevano il parere di tutti. La notte, poi, dava la carica d'energia per il giorno successivo. C'era ordine nel gruppo familiare, i giovani ascoltavano i consigli degli anziani, erano umili, rispettosi, si lasciavano guidare nelle loro esperienze, di rado protestavano. Oggi la famiglia non è più quella di una

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mo, non usare violenza su di esso. Oggi si dialoga col telefonino. Di questo sono tutti in possesso, i giovani e i vecchi. Anche i bambini lo posseggono e lo sanno adoperare benissimo, anche se non hanno ancora l'età per iniziare a leggere e scrivere, per entrare nella scuola elementare. Il telefonino ognuno lo porta con sé, sempre, anche di notte, nel letto. Non c'è persona che non lo abbia. Lo si porta in borsetta, in mano, in tasca, dovunque si va. E' comodo, molto comodo, perché ti permette di essere informato di ogni cosa, dovunque tu sei. Infatti vediamo, in giro, gente che cammina, e va di corsa, col telefonino all'orecchio. E il dialogo che una volta si faceva in famiglia, i contratti, gli acquisti, gli incontri... oggi si fanno con il cellulare. E', questo, un mezzo comodo, comodissimo, però molti, le persone anziane soprattutto, rimpiangono le lunghe discussioni che si facevano a voce diretta, in famiglia. Antonia Izzi Rufo

Domenico Defelice: Il telefono, china, 1964↓ volta, in essa non comanda più il capo, ossia il più anziano, ma ognuno è libero di esprimere il proprio parere, di fare delle scelte proprie senza essere contrastato dagli altri; ognuno (i giovani in particolare) può incamminarsi per la strada che ritiene più congeniale, può programmare il proprio futuro secondo le proprie inclinazioni, le naturali predisposizioni. I giovani sono propensi ad accettare i consigli degli adulti, ma sono anche decisi a fare le proprie scelte, a prepararsi in quelle attività per le quali sono predisposti, ad imparare ciò che a loro piace ed in cui riusciranno a dare il meglio di sé. Una volta i giovani dovevano conseguire la professione che sembrava giusta ai propri genitori e non potevano protestare; oggi è diverso: sono essi, i giovani, a scegliere e i genitori devono accettare, non contraddire. Ciò è giusto: significa rispettare il prossi-


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FRANCESCO LOMONACO SCRITTORE E PATRIOTA LUCANO AMICO DEL FOSCOLO di Leonardo Selvaggi 1 - Rivoluzione per la Repubblica Partenopea rancesco Lomonaco, scrittore e patriota, nacque iJ 22 novembre 1772 a Montalbano Jonico, ridente cittadina della Basilicata. Napoli, la capitale geografica del mezzogiorno d'Italia, con la sua cultura e la presenza di grandi maestri del diritto, esercitava su di lui fin da giovinetto attrazione ed accendeva di entusiasmo e di ardore il suo spirito ribelle. Entrato nella cerchia dei giacobini, conobbe Mario Pagano, Francesco Conforti e Domenico Cirillo, diventandone discepolo ed amico. Nel 1799 F. Lomonaco prende parte alla rivoluzione per la Repubblica Partenopea, la cui proclamazione lo porta all'esaltazione, infiammandolo con pubblicazione di articoli sui principi di libertà e di indipendenza. L'orgoglio innalzato fino alla sublimazione dei suoi pensieri e delle ideologie sofferte nelle meditazioni e nelle solitudini dura poco. La Repubblica cade dopo alcuni mesi a causa delle orde del Cardinale Ruffo. Il nostro venne arrestato e per puro caso riuscì a scampare il supplizio.

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2 - In esilio a Marsiglia, Parigi e Ginevra Va esule a Marsiglia, Parigi e Ginevra. Scrive il "Rapporto al cittadino Carnot", ministro della guerra, in esso denuncia, sostenuto da un chiaro ideale unitario italiano, le segrete cause e gli avvenimenti che, secondo lui, avevano determinato la catastrofe napoletana. Il "Rapporto" fu definito da Alessandro Manzoni "energico e veramente vesuviano". Si dava notizia del tradimento del comandante francese, corrotto dall'oro inglese. Francesco Lomonaco ha parole feroci, colme di risentimento, parla di scelleratezze e invoca la maledizione della Giustizia Divina contro la perfidia del Re Ferdinando IV e la complicità

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dell'Ammiraglio Nelson. Iroso e veemente si lancia contro la crudeltà borbonica, contro il governo per diritto divino e i soprusi che reprimono giorno per giorno il popolo. Lo storico lucano, precursore del Mazzini, dopo le disillusioni succedute al fallimento della rivoluzione napoletana era convinto che l'Unità d'Italia poteva conseguirsi con virtù del nostro popolo, spinto da un unico volere e legato dagli stessi intenti, torturato dalle miserie di ogni forma e dalle violenze, e non per opera dello straniero. Solo lo spirito ardente delle masse poteva realizzare il sogno dell'Indipendenza, solo le forze interiori delle amarezze dovevano portare ai martiri, al sangue versato a profusione: gli ultimi gridi sul patibolo potevano far giungere alle estreme resistenze e come in un impeto di devastazione immane far distruggere nel fuoco della rabbia esplosiva le radici malefiche della crudele dominazione. La mente di F. Lomonaco, ampia e distesa, coltivata assiduamente con gli studi: vi confluiscono tutti i sentimenti del bene e del bello, fermenta dentro la cultura meridionale, tutta vitalità, presa dal vivo, ricca di esperienze, nutrita da profonde radici. E' una pianta che offre doni fragranti in abbondanza. 3 - Nel 1800 Io troviamo a Milano Trova rifugio a Milano nel 1800 in seguito alla repressione anglo-borbonica e con la vittoria di Napoleone a Marengo. Con scambi di consigli, confronti nasce l'amicizia con Foscolo e Manzoni. Il nostro diffuse l'interesse per la concezione vichiana con gli altri intellettuali fuggiti dal sud. Il Foscolo dai contatti con gli illustri esuli meridionali potè avviare quello storicismo che lo distingue da tutti gli scrittori della generazione precedente e anche da molti della sua. Pure il Manzoni fu aperto al Vico e fu aiutato a capire il valore della vita attiva, a qualunque prezzo affrontata. C'è tutta una fermentazione di pensieri e di riflessioni sulla filosofia del Vico. La storia costituisce la nuova scienza, che ha per oggetto la conoscenza dei fatti certi che attraverso la comprensione razionale divengono verità. La storia ricerca le leggi universali che regolano


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i fatti. La teoria vichiana afferma che il progresso storico è diretto da un disegno della Provvidenza. Si distinguono due scienze proprie dell'uomo: quella della matematica, costituita da astrazioni, e quella della storia, che è un prodotto dell'azione umana. Nel 1801 abbiamo il saggio "Analisi della sensibilità", ispirato alla filosofia del Condillac. 4 - Le due grandi opere biografiche F. Lomonaco è scrittore dalla tempra eccezionale, con stile forbito. Nel 1802 pubblica l'opera "Vite degli eccellenti italiani". Vi esprime l'amore per le tradizioni più nobili dell'Italia nei secoli di storia e di civiltà dai primordi della romanità alla grande letteratura del Medioevo e a tutto lo splendore artistico, unico al mondo, del nostro Rinascimento. La passione per gli studi storici e letterari vuole significare inclinazione verso il ritrovamento delle grandi matrici nazionali, un'incitazione ad emulare i grandi esempi di eroismo, a seguire gli straordinari geni che hanno segnato le tracce della gloria patria e il cammino delle virtù civili. Dante, Petrarca, Boccaccio ed altri uomini grandi, monumenti di venerazione intorno a cui dobbiamo ritrovarci tutti, da essi emanano eternamente per l'umanità i principi sublimi di vita e i supremi valori dello spirito. Lo scrittore lucano compose in seguito per incarico del Governo tra il 1804-05 "Vite dei famosi capitani d'Italia", in cui volle esaltare e suscitare nel nostro popolo l'amore delle armi. Con quest'opera, insieme con la precedente, venne definito il "Plutarco d'Italia". Si intensificano i rapporti con Manzoni, su cui pure il Nostro esercita una certa influenza spirituale. Il grande lombardo lo vede taciturno ed attento, lo guarda con l'amarezza mista alla nera melanconia, vede in lui il riflesso di se stesso: la sensibilità sofferta di compenetrazione e comprensione nei confronti delle realtà dure, delle condizioni di miseria che tartassano gli umili presi dalla vita che tante volte è malvagia sotto le sferze del destino fatale. Le verità portate con rassegnazione come croce di ferro sulle spalle. Anni difficili a Milano, si adatta a fare il correttore di bozze in una tipografìa

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ed a impartire lezioni private. 5- I sentimenti di Patria La continua lievitazione delle ideologie del glorioso lucano fa di lui uno spirito eletto; si eleva a significare in sintesi i principi-base dell'Unità della Patria che si costruisce dalle spinte interiori e dalle necessità spontanee di autoregolarsi, come processo di maturazione delle coscienze collettive, dal profondo di se stessi. F. Lomonaco simboleggia nei suoi fremiti e negli affanni la Patria che si costituisce con gli impeti giovanili, superando la discontinuità degli stenti sofferti e delle privazioni, oltre gli stati di abbattimento e delle percosse che pesano sulle membra sfibrate. La genuinità delle vibrazioni che erompono dal di dentro, la freschezza e la limpidezza dell'idea di Patria, forte che si fa di marmo e di bronzo, monumento a perenne dimostrazione del proprio ardore. Le forze naturali, quali virgulti in continua crescita, tutti diritti ed elevati, dalle pulsazioni dell'animo, in unione sincrona con le matrici della propria progenie. La Patria si estrinseca dall'ambiente, dalle fatiche degli avi, dalle antiche costumanze. La Patria è in ciascuno di noi, come seme che germoglia, piantato nel proprio sangue, dentro la struttura delle ossa. Trepidanti nelle ansie e nelle attese di un avvenire diverso, in piena intesa di lotta con gli altri: con la volontà che è potenza di movimento, con l'impegno di costruirsi liberi ed attivi, con intelligenza e spirito di sacrificio. La Patria, secondo F. Lomonaco, fiammeggia nei sentimenti che sono in noi, nelle opere manuali e dell'intelletto, per nobilitarci con tutte le capacità e la perseveranza. Diremmo proprio con Ovidio che "Patriae scribere jussit amor". Una resurrezione davvero, uscendo dal silenzio, un trionfo in piena illuminazione che fu esaltazione del suo spirito e gloria nel 1915, inaugurandosi al Pincio il suo busto. Si delineò con parole semplici e grande emozione da parte di un suo illustre corregionale, Francesco Torraca, continuatore di Francesco De Sanctis, con chiarezza e lapidarietà la sua figura. Si parlò della sua nascita in uno dei più


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solitari borghi della Basilicata, ove dai primissimi anni della sua vita si temprò con impegno in mezzo all'asprezza dei luoghi, sentendo il peso dell'incuria dei governi e la miseria di una terra tra le più povere: con lo studio assiduo si tenne fermo con perseveranza alla passione del sapere e all'abitudine della meditazione. Con orgoglio evidenziate le amicizie col Foscolo e il Manzoni, le conversazioni con questi grandi della letteratura italiana. I giorni battagliati nelle varie peregrinazioni di esule, la vita triste che lo accompagnò fino alla fine. 6 - L'amicizia con il Foscolo F. Lomonaco ci dà del Foscolo dei precisi tratti del carattere sia riferiti alla grandezza dei suoi pensieri di storico, sia al suo umore melanconico e all'erompere fremente delle sue passioni. Nel portamento del Foscolo, secondo il Nostro, si ravvisa un'accensione, una vitalità, come pure nella voce e negli atteggiamenti che sanno di fuoco. La cultura classica del Foscolo nella luminosità della bellezza dei versi, scolpiti e levigati, di vicina derivazione dalla poesia ellenica, si incontrava con la sensibilità del Lomonaco attraverso altri pensieri di profondi, radicati intrecci, passati nella mente di un uomo che aveva preso tanto dalla sua terra, centro attivo della Magna Grecia. Montalbano s'affaccia sullo Jonio, tra luce e mare; ondate di poesia dalle Isole egee arrivano splendenti di colori e di suoni lontani. Fra i due correva una intimità che, per certi versi, significava una vera, naturale simpatia, un'affinità profonda di sentimenti. Si maturava si può dire un processo di integrazione culturale oltre che spirituale. Erano tutti e due esuli e li accomunavano fremiti di ansie e di speranze. Lo scrittore lucano veniva da ancestrali patimenti e da sofferenze diffuse che tenevano sempre l'animo ferito tra nostalgia e turbamenti. La Basilicata arida e misera con i suoi contadini affaticati era il suo tormento continuo, come una madre che piange il suo figlio lontano, gli affetti lasciati avevano spaccato il cuore, la solitudine in luoghi stranieri apriva nell'intimo un vuoto incolmabile. Solo lo spirito del Foscolo pote-

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va penetrare nelle spaccature psicologiche del Nostro per spargere dei lenimenti comprendendone le pene struggenti. Il Foscolo dopo la morte del fratello Giovanni aveva giorni drammatici d'infinita desolazione; solo la vicinanza della madre rendeva le lacrime meno amare: ragionando con lei e sentendo il calore del suo affetto lo stato di disperazione si faceva più sopportabile. La terra di Basilicata prostrata, oppressa da una tacita, lunga malinconia e da incomprensioni sociali aveva spinto F. Lomonaco, esule fremente di amor patrio, a trovare spazio e paesi più aperti alle battaglie delle idee e ad incontrare gli spiriti indomiti dei grandi personaggi del tempo che si battevano per i principi di unità ed uguaglianza, ad unirsi a loro in simbiosi di passione, accomunati da medesimi intenti accesi e sfolgoreggianti da un unico ardore esplodente ed invincibile. 7 - Solitudine e forza irresistibile di lotta Le ossa stanche e le membra ridotte a brandelli dalla sorte matrigna, che ha tenuto sempre mordaci i cani sguinzagliati, trasportate dalla volontà testarda, come trascinate, nel lungo esilio senza i piaceri della vita, senza la gioia dei momenti idilliaci: una desolazione e una rabbia di giorno in giorno. Il corpo inaridito, dissolto in un'altra aria senza gli umori della terra di Basilicata che erano linfa densa all'esuberanza dei suoi anni. Non si erano tolte le incrostazioni delle ferite di una vita grama: frammenti di roccia, sterpi spezzati, vento caldo e colori aspri rimanevano sulla pelle delle mani, dentro gli occhi e sul viso. La filosofia-ricerca lo avvicinava all'essenza intellettiva degli uomini di genio, gli studi storici rappresentavano la strada per eccellenza di realizzazione-liberazione del suo essere. La sua Basilicata quale una donna amata si è solidificata, ferma nei ricordi, luminosa predominante in ogni luogo, nelle inafferrabili lontananze vive uguale a chiodo fisso dolorante nella sua mente. Con l'esilio si sono allargati gli spazi che danno sempre maggiori stimoli alla meditazione; il suo corpo come esteso movimento vagante, il pensiero si diffonde in


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ramificazioni, vive di legami e di articolazioni: espansione continua verso l'alto in una serie infinita di cerchi concentrici. F. Lomonaco, illanguidito dalle stanchezze fisiche, è sempre audace e forte nello spirito, alimenta senza sosta la grande fiamma dei suoi ideali. Nella sua vita breve ha avuto l'esuberanza di una giovinezza tormentata, anni di smarrimento e di penuria, di angustie, di maltrattamenti e di catene. Le persone di sensibilità e di carattere ribollenti di idee di libertà sono combattute di continuo come sotto un cielo tempestoso. Non ci si arrende mai, un solo giorno con la sua intensità equivale ad anni di vita. I disagi, le tensioni, i contorcimenti psicologici sono tanti, vogliono dire quasi che sopra le membra tenute all'intemperie simili a pareti scrostate di case sono passati lunghi tempi carichi di storia. Un vulcano di pensieri, un uomo che nelle sue energie spirituali non è venuto meno neppure in momenti di fuoco. 8 - Scrittore e patriota rimasto pressoché sconosciuto Scrittore prolifico e di idealità, intimisticoraffinato, dalle espressioni dense di essenzialità, con parole nette come scolpite, nel contempo ruvide quasi di roccia. Vissuto di interiorità, umile e coerente, alieno da estrosità, non conosce la superbia che genera veleno e inimicizia. Pochi hanno sentito parlare di lui, anche se i grandi del suo tempo lo tenevano in gran conto. Il suo pensiero ha sparso rivoli di idee dappertutto, ha influenzato i personaggi che hanno determinato il nuovo corso degli avvenimenti politici, mentre lui in stretto ambito senza passaggi ulteriori è rimasto, non ha avuto spazio di storia che lo abbia fatto conoscere nel modo confacente ai suoi meriti. Scarsa risonanza ha ottenuto la sua figura di grande ideologo nella stessa Basilicata, ove con poca vitalità e con labile interesse è onorata la storia patria. Negli anni liceali al "Duni" di Matera, istituto di prestigio che mantiene immutabili il ricordo dell'insegnamento del Pascoli dal 1882-84, come quello di Giuseppe Lipparini, e la presenza in qualità di studente di Nicola Festa, geniale filologo, di-

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scepolo amato del Poeta di S. Mauro, non ho mai sentito nominare F. Lomonaco. Realistico il Nostro, vede i fatti come sono. Castigato il corpo che si tiene allineato con la mente retta in ogni momento a tutte le circostanze. La coerenza che fa parlare senza remore, la lingua pronta ad uscire mordace contro le storture, con tutto il cuore che prova dolore agli atteggiamenti che si presentano cambiati. 9 - La polemica con Vincenzo Monti Incontra Vincenzo Monti, ma non con la simpatia che era intercorsa con il Foscolo e il Manzoni. Insorge una polemica nelle discussioni avviatesi a riguardo del Vico. Il Monti aveva biasimato lo stile della "Scienza Nuova", l'avrebbe voluto più terso e fluido, con l'armonia e la sonorità di accenti con cui andavano altezzose le sue opere e la pomposità stessa del suo carattere, pronto a seguire tutte le mode, flessibile ad ogni cambiamento di politica e di indirizzo culturale. Tanto paludamento e prosopopea, tanta ufficialità e troneggiamento negli ambienti letterari. F. Lomonaco ammira e considera vicina alla sua psicologia la forte espressione, dura intensa del fondatore dello storicismo. Vico appartiene a quella "razza gagliarda che pare tenga del monte e del macigno" come direbbe F. Torraca. Il Nostro, che aveva scritto "Vita del Vico", inserita nel volume dedicato agli eccellenti Italiani, sostiene che il linguaggio del grande filosofo è simile ad un torrente che solo gli energici riescono ad attraversare, i deboli rimangono travolti dalla velocità delle acque. Molti come il Monti volevano un Vico ingentilito nello stile, quell'asprezza che sa di ferro e di roccia l'avrebbero smussata, vestendola con le moderne raffinatezze. Certamente Lomonaco controbatte con il suo cipiglio acre e nel contempo con serena espressività allegra dicendo che se si toglieva l'agreste e il selvatico alle pagine straordinarie del Vico, che sono appena sbozzate rimanendo sempre in un blocco unico di vitalità fatta di sintesi, di tanta storia e di tante realtà, si deformavano le grandi idee illuminate da sublime filosofia, intrecciate con acuto pensiero


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e con le problematicità umane: grande miniera di intelligenza che disarticola fatti portandoli alla luce della chiarezza. La polemica in seguito prese i toni accademici, e il Monti aderendo alla preghiera del Manzoni smorzò l'acceso ardore di contraddittore avuto nel primo incontro con Lomonaco, fu propenso ad aiutarlo nella ricerca di una cattedra che consentisse a lui di vivere in quegli anni tristi e difficili di esilio. Dal 1805 al 1810 lo troviamo a Pavia, ove tiene la cattedra di storia e geografia nella Università, dalla quale avevano insegnato V. Monti e Ugo Foscolo, A. Manzoni e A. Volta. Pubblica altri scritti storico-letterari di idee liberali; continuano le sue indagini di speculazione scientifica. Neil' "Analisi della sensibilità" precorre il moderno positivismo, il volontarismo di Schopenhaueur e i principi che costituiscono in seguito la base della sociologia criminale. Secondo F. Lomonaco i premi migliorano l'individuo e sono degli Stati liberi, mentre le pene lo avviliscono e appartengono ai poteri assoluti. La severità eccessiva porta ad aumentare i misfatti, ci deve essere una proporzionalità tra reati e punizioni. Occorre un correttivo al misfatto, un contrappeso; per fare un esempio, il delitto di ambizione con le pene di infamia, quello di avarizia con la multa. 10 - I "Discorsi letterari e filosofici" Nel 1809 con i "Discorsi letterari e filosofici" vengono riaffermate le idee unitarie e democratiche. Organici, pur se nella forma frammentaria, costituiti dai contenuti più vari, dai più eterei concetti metafisici ai più umili fatti comuni. Un legame interiore con una velocità di pensiero va da un argomento all'altro; una congerie di osservazioni, frutto di meditazioni lunghe nel tempo. La varietà dei temi nel loro insieme formano una sintesi e nello stesso tempo un'armonia che fanno di tutto ciò che è pensato una vera e propria emanazione spirituale. Momenti diversi e vari stati d'animo, pensieri che tendono ad accoppiarsi ad altri di sviluppo, diversificazione od anche di contrapposizione. L'opera conduce a risfogliare di continuo per nuovi confronti. Sono sfaccet-

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tature di una mente filosofica e geniale dallo spazio infinito. Una vitalità morale che scorre dentro, evidenziando il contrasto tra vizio e virtù. I "Discorsi letterari e filosofici" gli alienarono il favore governativo, vennero sequestrati dalla crudele intolleranza. Pieni di verità e di ricchezza ideale. Nell'insieme una condanna implicita del Governo e della società. Lomonaco accusato di avere avuto espressioni "imprudenti, false, sudice, ributtanti e cariche di lascivia e laidezza intollerabile". Filosofo idolatra della virtù e della libertà, sull'onda di un criticismo puro, calunniato, vuole uscire fuori dalla persecuzione per evitare che la sua anima venisse dilaniata. Per lo scrittore di Montalbano la virtù è l'anima della grande storia, "insuperabile compagna della verità", nemica del "basso orgoglio del potente" e della insensata ferocia del malvagio. La sua indomabile coerenza, risplendente come cristallo non si lascia atterrire né dalla malizia degli uomini né dalla prepotenza della fortuna. Il criticismo e il cerebralismo dei tempi nostri tengono F. Lomonaco nell'ombra, non hanno saputo apprezzare l'efficace concisione quale quella di Tacito né il suo spirito profetico. L'Unità per lui è sopra i livelli dell'umanità superiore, poiché significa progresso sulla via della gloria, della virtù e delle libertà civili. Ne siamo tanto lontani; molti regressi si sono avuti su questo cammino, si è andati avanti con la corruzione e con la disgregazione sociale. Con la malavita attuale diffusa il principio di Unità è divenuto disarmonia, non forza, ma debolezza di un popolo malsano e scombinato. I "Discorsi letterari e filosofici" costituiscono l'opera più significativa e coraggiosa: l'autore si scaglia contro il malcostume ed il governo subdolo. Si biasima la vanità e l'incoerenza degli umani giudizi; il vizio staffilato, le virtù esaltate. L'opera scritta da una mente illuminata dai grandi principi morali, da uno spirito elevato che, dopo anni di lotta, di peregrinazioni, ha raggiunto le vette più alte della purezza, maturatosi negli studi e nei contatti con la gente, nelle riflessioni, nei turbamenti, nell'ostinazione battagliera tenuta verso le idealità di


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una politica giusta e corretta, sempre tese alle sognate realizzazioni, alla redenzione cui si mira da sempre, provati come si è dalle oppressioni del dispotismo. Le difese di Lomonaco contro le ingiuste denunce indirizzate verso il ministro dell'interno furono inutili. L'ordine di sequestro non venne revocato. Tutto ciò amareggiò il nostro storico e patriota in modo fatale, da condurlo in una crisi da cui non riuscì a risollevarsi. L'ultima opera ''Discorsi letterari e filosofici", misconosciuta ed accusata violentemente, era per lui l'espressione più vera e connaturata. Il sequestro, che voleva dire distruzione dei pensieri più autentici della sua mente, era stato un feroce annientamento della persona. Disperato, Francesco Lomonaco era stato esempio di forza e di perseveranza, di sopportazione, di felicità per i suoi principi coltivati con assiduo impegno contro tutte le avversità; era andato avanti come un'ala di spirito sublime disprezzando ogni sorta di pericolo e le sfortune che sempre lo avevano perseguitato. 11 - Muore il primo settembre 1810 Il primo settembre 1810 l'insigne lucano si buttò nel Naviglio, affluente del Ticino, presso Pavia, annegando miseramente a soli 38 anni. Quel gesto di morte violenta, che sempre aveva condannato considerandolo atto di debolezza, non degno di un uomo vero, quasi pare un paradosso, aveva il significato di difesa estrema dei suoi principi di libertà, di eguaglianza, di giustizia politica, della sua altezza morale e dei suoi sentimenti patri. Fra le cause del suicidio certamente molto peso ha avuto la mancata realizzazione dell'Unità italiana da parte di Napoleone, che costituiva di continuo un assillo che lo torturava; la frammentazione dell'Italia faceva soffrire i suoi connazionali e specie i suoi corregionali. La Basilicata, una vera madre legata d'affetto alla sua persona, si espande e si ramifica come forte edera che si nutre del poco che afferra fra gli interstizi della parete. L'amore totale che è la vita stessa. L'amore fra i cittadini uniti da vicendevole compenetrabile vicinanza di sentire, l'amore per la patria, manto di soffice

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amplesso che si raccoglie attorno al popolo, preso in un ricettacolo unico di soccorsi e protezione. La sua terra ognora nella mente con la fremente nostalgia, le cui radici sono nel sangue e legano agli avi in una continuità esistenziale, come sua madre nei ricordi, nutrimento di bene e di attaccamento che lo ha seguito nell'esilio, vista nei sogni, sentita riconfortante nei momenti di pena e smarrimento. Pare fra le cause della sua morte vi sia stata anche quella di un amore infelice. La sua sensibilità lo teneva in una esasperata solitudine, avvinta alla sua persona nel flusso ribollente delle vene. L'amore per la donna del cuore era tutto, confluiva fremente in un afflato complessivo di sentimenti patri, materni: era intreccio e simbiosi inestricabile di due esseri allacciati, nel silenzio e nelle parole tacite, in una pulsazione unica, due corpi uniti formanti un masso entro cui si vedono sovrapposti strati attraversati da venature e da legami multipli diramati per tutta la superficie e diretti ad un centro inavvertibile. Sentimenti d'amore nella loro smagliante luminosità che invadono tutto l'essere, tutti gli attimi della vita. Amore per tutto senza concepire divisioni, incomprensione, un flusso continuo intercomunicabile che attraversa le membra, in battiti all'unisono. La donna amata come la sua terra legata ai primi ricordi della vita, come il suo corpo, le ideologie che lo hanno fatto morire. Dopo aver tutta la notte vegliato e vagato come ombra vivente, preso e attanagliato dai pensieri lungo i chiostri della Certosa di Pavia, all'alba si getta nelle vorticose onde, torbide e livide del Naviglio. Le battaglie dei suoi ideali non erano compiute, l'unificazione ancora lontana. Il suo cammino di dolore e glorioso non era giunto al punto finale, era una traccia per le genti future, per la storia umana che ha un passo lento, inesorabile e inesauribile. La morte voluta è il rifugio nel tempio della gloria. Francesco Lomonaco rimane in tal modo forte e solennemente innalzato nei più alti strati del suo pensiero che tanta vita aveva sparso e tanta virulenza contro i nemici del popolo e del suo avvenire. Leonardo Selvaggi


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“UNA VERA ARTE” - 6 -

DEDICHE a cura di Domenico Defelice

“A

l Prof. Domenico Defelice/Scrittore epoeta sensibilissimo/Con tanta cordialità/ FLaruffa/Roma 6/11/71” (volume: Francesco Laruffa - Poesie di ieri Raccolta di versi dialettali calabresi, Tip. Marafioti, Polistena, 1969). *** “Natale 1971/Con tanti auguri e/rinnovata amicizia/Felice Mastroianni/Via Federico Nicotera 18/88046 Nicastro/(CZ.)” (suo volume: Il riso delle nàiadi, Editore Rebellato, 1971). *** “Al fraterno amico/Domenico Defelice/con stima profonda e/affetto -/Franco Saccà” (sul volume: ΦΟΙΒOΥ ΔΕΛΦΗ ΦΡΑΝΚΟ ΣΑΚΚΑ Ο ΠΟΙΗΤΗΣ ΤΗΣ ΚΑΔΑΒΡΙΑΣ ΑΘΗΝΑΙ ΑΙΦΡΟΣ - 1972). *** “Roma, 5/2/’73/Al caro Domenico/ Defelice/amico da/sempre -/Rocco Cambareri” (suo volume: Azzurro veliero, Ed. Gruppo “Fuego de la Poesia”, 1973). *** “Santiago, giugno ‘74/Ai coniugi/Clelia e Domenico/Defelice/con immutata/stima ed/ amicizia/Rocco Cambareri” (suo volume: Paesaggi e profili, Presenza Editrice, 1974). ***

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“A/Domenico Defelice,/Poeta poeta/e critico/lineare/con stima/affettuosa/e antica/ Geppo Tedeschi/Roma li 19 - Sett - 74” (suo volume: L’ombra si bevve i cavalli, Ed. Gabrieli, 1974). *** “Allo scrittore/Domenico Defelice/cordiale omaggio/G. Benedetto” (volume: Giuseppe Benedetto - Immaginazione e realtà, Editrice Romeo, 1974). *** “A/Domenico Defelice/con affetto e stima /Ettore Alvaro/22/6/77” (su: Note biobibliografiche di Ettore Alvaro, maggio 1977). *** “All’Amico/Domenico Defelice/offro/ queste mie storielle/che non hanno alcuna/pretesa… se vuol leggerle!/Roma, 18/2/ 976/Ettore Alvaro” (suo dattiloscritto: Racconti Fiabe Fantasie, 1976). *** “All’amico e corregionale poeta DeFe-/lice, questa mia “Primavera” in versi/neogreci (preceduto da un altro, anche in versi/neogreci, “Quaderno di un’estate”) ove ho/ racchiuso il remoto e profondo senti-/mento della nostra ascendenza/greca di Calabria./ Felice Mastroianni/Via Federico Nicotera 18/Casella postale 29 bis/88046 Nicastro (Cz.)” (suo volume Α ΝΟΙ Ξ Η СΔ ΔΙΦРΟΣ, 1977). *** “Al carissimo/Domenico Defelice,/con tante cordialità -/10 - 10 - 1977/Ettore Alvaro” (sul dattiloscritto: D’ ‘a “GÈNESI”, 3 gennaio 1978). *** “All’Amico carissimo/Scrittore Domenico Defelice/con tanta stima./Aspetto un tuo giudizio./Ettore Alvaro” (sul dattiloscritto: D’ ‘a “GÈNESI”). Invitiamo lettori e collaboratori a inviarci le dediche, indicando con chiarezza, però, nome e cognome degli autori, titoli dei libri sui quali sono state vergate, casa editrice e anno di pubblicazione. Grazie!


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PREMIO EDITORIALE LETTERARIO IL CROCO 2020, Prima Edizione (Seguito dal numero precedente) Saggio critico Palinodie di un mito:

LA FIGURA DI ELENA DA OMERO A EURIPIDE A LUCIANO DI SAMOSATA di Marina Caracciolo Τοιῇδ’αμφί γυναικί πολύν χρόνον ἄλγεα πάσκειν (Omero)1

F

IGLIA di Zeus e di Leda, Elena dalle bianche braccia e dal collo di cigno, la femme fatale che con il suo fascino straordinario aveva conquistato tutti i principi della Grecia, nello svolgimento del mito di cui è protagonista si muta ben presto in un’adultera in fuga, una fedifraga senza onore e senza rispetto per le sacrosante leggi coniugali, e diventa per di più la causa di una lunga e rovinosa guerra, portatrice di stragi e distruzioni. La condanna degli antichi è quasi unanime: da Omero a Stesicoro, da Eschilo a Euripide, poeti, tragici, scrittori hanno sempre puntato su di lei un indice accusatore, pronunciando parole di esecrazione. Un biasimo che si riversa non di meno anche sul suo amante Paride, il principe troiano bello come un dio (θεοειδής), il quale, in missione diplomatica alla corte di Sparta, non aveva esitato a sedurla e a trascinarla con sé a Troia. A tal proposi-

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to così si esprime il Coro in un passo dell’ Agamennone di Eschilo: «Neppure le invocazioni alcuno dei numi più ascolta; / il malvagio che si avvoltola tra le colpe / è destinato a perire. / Tale anche Paride / entrò nella reggia degli Atridi / a insozzare la mensa dell’ospite / col rapirgli la donna».2 Nell’Iliade Elena si mostra consapevole della sua colpa e se ne pente affliggendosi per la lunga scia di sangue che ne è conseguita. In più passi si autodefinisce cagna (oppure κυνῶπις, dallo sguardo di cane, cioè impudente, svergognata) e nel libro III si rammarica di non esser morta prima che la seducesse Paride ma viene consolata con affetto paterno proprio da Priamo, il quale accusa invece gli dèi di aver provocato i Danai contro di lui e contro il suo popolo, in una guerra colma di molte lacrime (πολύδακρυν πόλεμον). Se è pur vero, come ha scritto Jacqueline de Romilly, che in Elena si ravvisa «le principe même de la culpabilité humaine, si essentielle au genre tragique»,3 è però proprio in questo aspetto fatalistico così radicato nel pensiero dei Greci, in questo far dipendere dagli dèi o dalla sorte (τύκη) il destino e le azioni degli uomini che si trova l’attenuante, anzi l’unica possibilità di scagionare la colpevole Elena. Nel libro IV dell’Odissea, riconciliata da tempo con Menelao, a banchetto con gli ospiti nella reggia di Sparta, la donna rievoca la sua folle fuga di un tempo, causa di successiva sofferenza, ma ne attribuisce tutta la colpa ad Afrodite, la quale solo per sua divina volontà aveva reso lei e Paride preda di uno stordimento accecante (ἄτη) a cui non era possibile sottrarsi. (In una prospettiva razionale, ovviamente, la presunta “responsabilità” degli dèi non rappresenta che una proiezione esteriore di ciò che avviene nell’interiorità dell’individuo e di cui egli non riesce a offire, a se stesso o agli altri, una plausibile spiegazione).4 Così ancora Eschilo rappresenta Elena in un altro passo dell’Agamennone: «Dapprima entrò in Ilio / direi la sensazione / della chiarità di un mare senza vento, / una placida gemma del tesoro, / un soave strale degli occhi, / un


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fiore d’amore che punge l’anima. / Poi si mutò: condusse / le nozze a termini amari, / piombata tra i Priamidi / per funestare la reggia, per funestare la città, / Erinni inviata da Zeus Ospitale / con dote di lacrime».5 Placida gemma del tesoro, soave strale degli occhi, fiore d’amore che punge l’anima: in un contesto tragico qui Eschilo prende a prestito metafore attinenti alla lirica amorosa, e con esse, in pochi versi, sprigiona un’incantevole suggestione, tale da rendere tangibile il fascino sottile e penetrante come una lama, che emana dalla figura di Elena. Pur criticata come «donna dai molti uomini»6, segnata a dito come «rovina di navi, rovina di eroi, rovina di città» (Eschilo), Elena di Sparta è tuttavia la personificazione stessa della bellezza, il cui splendore abbagliante è di origine divina e per questa stessa ragione un valore assoluto. Come può dunque una simile donna non essere stata anche buona, fedele, casta? È il concetto – che già serpeggia nei poemi omerici, ma avrà pieno sviluppo soltanto nei secoli successivi – della cosiddetta καλοκἀγαθία (kalokagathìa, sostantivo derivato dalla crasi di καλός καί ἀγαθός = bello e buono), per cui la vera bellezza – intesa non soltanto in un senso puramente estetico ma anche come modo di essere, di pensare, di comportarsi – non può non coincidere in tutto e per tutto con la perfezione morale e quindi con il possesso di tutte le virtù. Questo può spiegare il gusto diffuso, anzi quasi la necessità della palinodia (la completa ritrattazione di quanto già affermato altrove), che ha investito la figura di Elena più di quanto sia mai accaduto per altri personaggi della mitologia greca. Già molto oscillante fra condanna e indulgenza nei poemi omerici, Elena di Sparta è oggetto di un totale ribaltamento nei versi dell’aedo Stesicoro (Himera, 630 a.C.? – Catania, 555 a.C.?). Dopo aver composto precedentemente l’elegia intitolata Elena, in cui, in accordo con la tradizione, la donna veniva rappresentata come adultera e come causa scatenante della sanguinosa guerra fra Greci e Troiani, il poeta della Magna Grecia (secondo

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la leggenda reso cieco dai Dioscuri, che in tal modo avevano inteso vendicare l’affronto fatto alla sorella) scrisse due Palinodie sull’ argomento. La seconda di esse (di cui ci è pervenuto un unico ma significativo frammento) nega in modo assoluto che Elena fosse fuggita con Paride a Ilio: al suo posto vi si era recato invece un sosia, un replicante creato dalla dea Era.7 Il frammento pervenutoci recita così: «In tutta questa storia, non c’è nulla di vero: / tu non andasti mai sulle navi compatte, / agli spalti di Troia tu non giungesti mai».8 Ecco, dunque: l’onore di Elena è salvo, e lei è assolta perché in realtà non ha mai tradito Menelao né mai ha provocato vittime e lacrime di disperazione. Su questa stessa scia si pone Euripide, il quale, è vero che nella sua tragedia Le Troiane (415 a.C.) rappresenta Elena come la grande meretrice che per vanità e lussuria è fuggita con Paride, causando lo scoppio della guerra e le conseguenti immani sventure (cfr. l’agone fra Ecuba e Elena, vv. 914-1032), ma tre anni dopo mette a punto l’Elena, dove ritratta tutto, riprende il tema della Palinodia di Stesicoro e lo intreccia con un’altra versione del mito, risalente ad Esiodo, alla quale già lo stesso Stesicoro si era riferito nella prima delle sue due palinodie: la regina di Sparta era approdata in Egitto presso il re Proteo, mentre soltanto un εἴδωλον, un fantoccio fatto a sua immagine e somiglianza, era giunto insieme a Paride a Troia. Nel dramma euripideo, dunque, troviamo Elena in Egitto, alla corte del re Teoclimeno, figlio del defunto Proteo, sulla cui tomba ella dà sfogo a tutto il suo sconforto: dovunque, sia fra gli Achei sia tra i Frigi, il suo nome è maledetto, lei è creduta da tutti l’empia adultera, fonte esecrabile di rovine di ogni genere, mentre invece è pura da ogni colpa, non è mai arrivata ad Ilio, è rimasta la sposa fedele di Menelao, il quale ignora del tutto, purtroppo, la sua completa innocenza. Solo per volontà della crudele Era è stata trascinata via dalla sua dimora regale e trasportata da Hermes in quella landa desolata. Al suo posto, un fantasma ha seguito il principe troiano, e soltanto a


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causa di quel falso idolo sono cadute, per anni e anni, migliaia di vittime... Giunge intanto Teucro, fratello di Aiace e figlio di Telamone di Salamina, esiliato dalla sua patria per ostilità dei suoi. Ad Elena egli porta notizie infauste: Menelao è morto nelle acque del Mar Egeo; Leda, madre di Elena, si è impiccata per il disonore della figlia, e i Dioscuri, suoi fratelli, sono scomparsi, trasformati in una costellazione. Elena è disperata: sola e inerme, ora sarà costretta a sposare Teoclimeno, che lei non ama e che la insidia da tempo. Medita che sarebbe meglio morire. Il Coro la invita a non crucciarsi troppo, a volgere ancora il suo animo alla speranza: molte parole che avevano parvenza di verità si sono spesso rivelate menzognere. E infatti, inaspettatamente, giunge proprio Menelao, cencioso e affamato, a chiedere cibo e ospitalità alle porte di quella reggia sontuosa. I due sposi si riconoscono, anche se sulle prime l’Atride non crede ai propri occhi, perché un’altra donna, identica a quella che ora ha di fronte, è stata da lui trascinata via da Troia in fiamme per riportarla in Grecia: per il momento è nascosta in una grotta non lontana ed è sorvegliata da un gruppo di armati. Ma la vera Elena riesce a convincerlo della propria identità, a spiegargli l’equivoco e a narrargli dell’avversa volontà divina che a suo tempo ha dato origine a tanti disastri e a tanto dolore. Di lì a poco, inoltre, un nunzio viene a riferire che “l’altra Elena” si è volatilizzata. Ora però sorge un altro grave impedimento: come faranno i due a fuggire insieme dall’ Egitto? Se Teoclimeno venisse a sapere della presenza di Menelao, non esiterebbe a farlo uccidere per eliminare il rivale e sposarne la consorte. In loro soccorso giunge allora la sacerdotessa Teònoe, sorella di Teoclimeno, che accetta di non rivelare al re l’identità di Menelao, da lei subito riconosciuto grazie alle sue facoltà divinatorie. Egli finge dunque di essere un naufrago e chiede pietosa ospitalità al re d’Egitto, annunciandogli nel contempo che il marito di Elena è ormai defunto. Teoclimeno crede ben volentieri a una simile notizia, poiché con essa ha finalmente la certez-

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za di poter sposare la donna da tanto tempo desiderata. Accoglie così la proposta di celebrare un rito in onore dello scomparso Menelao. Poiché egli è stato inghiottito dal mare, un’imbarcazione dovrà raggiungere il largo e là, in segno di offerta, si dovranno gettare fra le onde armi lucenti, animali di razza e frutti preziosi della terra. Il re dona generosamente tutto il necessario per la cerimonia e lascia che Elena e lo sconosciuto si allontanino su un vascello da lui stesso approntato con cinquanta rematori. Ben presto, però, ritorna a riva un messaggero che gli rivela l’inganno in cui è caduto: l’uomo era proprio Menelao, e con tale stratagemma è riuscito a riprendersi la moglie. Una volta in alto mare, uccisi o gettati in acqua i rematori con l’aiuto dei suoi, egli ha imposto al timoniere di fare immediatamente rotta verso la Grecia. Nell’ impossibilità di raggiungerli, Teoclimeno vorrebbe vendicarsi uccidendo la sorella Teònoe, che giudica traditrice e complice dei due fuggiaschi, ma è fermato dai Dioscuri, fratelli di Elena, che appaiono all’improvviso sull’alto della reggia, come un deus ex machina, e lo ammoniscono solennemente: Teònoe ha agito con rettitudine; egli deve rassegnarsi, a lui non spetta di sposare la regina di Sparta, poiché gli dèi hanno deciso che la figlia di Zeus ritorni alfine “nell’alveo delle antiche nozze”, accanto al re suo legittimo marito. Teoclimeno si arrende di fronte ai decreti divini, e le sue ultime parole sono ancora uno splendido elogio della donna a lungo agognata, che egli definisce “di rara nobiltà di sentimenti” e “la più casta e virtuosa che esista”. Con un lieto fine termina dunque il dramma di Euripide, che in realtà si rivela quasi una commedia degli equivoci, talora condita di ironia e di comicità, con sotterfugi e sostituzioni di persona e un finale da romanzo di avventura. Nella conclusione, però, il Coro allude in tono serioso al frammento della Palinodia di Stesicoro: «Togliete ad Elena l’obbrobrio, / l’accusa di nozze barbariche; / ha pagato per una rissa fra dee, / e non ha mai posto piede, / mai, tra le mura di Ilio». Nel II secolo d.C., al tempo dell’imperatore


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Adriano, a circa mille anni dai poemi omerici, Luciano di Samosata nei suoi Dialoghi dei morti (Νεκρικοί Διάλογοι) torna a riflettere, con l’amara irrisione del saggio, sulla caduca bellezza di Elena e soprattutto sulla futilità di una lunga guerra combattuta a causa di una donna tanto seducente quanto debole di fronte alla potenza schiacciante di Afrodite, o forse – peggio ancora – a causa di un’ombra, di un manichino che l’alterigia di frivole divinità aveva creato, da esso generando un’infinità di sventure. Così lo scrittore fa parlare il filosofo Menippo9 con il dio Mercurio: Menippo Dove sono i belli e le belle, o Mercurio. Menami a loro, ch’io ci son nuovo qui. Mercurio I’ non ho tempo, Menippo: ma riguarda costà a destra, che v’è Jacinto, Narcisso, Nireo, Achille, e Tiro, ed Elena, e Leda, e insomma tutte le bellezze antiche. Menippo Io vedo solo ossa e cranii scarnati, quasi tutti simiglianti fra loro. Mercurio Ed ecco quello di che tutti i poeti cantano le meraviglie, le ossa, che tu mostri di spregiare. Menippo Almeno additami Elena, ché da me non la potrei discernere. Mercurio Questo cranio è Elena. Menippo E per questo mille navi sciolsero da tutta la Grecia, tanti Greci caddero e tanti barbari, e tante città rovinarono? Mercurio Ma tu non la vedesti viva, o Menippo, questa donna: avresti detto anche tu che meritatamente ‘Per cotal donna fu sofferto tanto’.10 Se uno vede fiori secchi e scoloriti, certo gli paion brutti: ma quando han vita e colore ei sono bellissimi. Menippo E di questo io mi meraviglio, o Mercurio;

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come gli Achei non capirono che si affaticavano per cosa che sì breve dura, e presto sfiorisce. Mercurio Io non ho tempo di filosofar teco, o Menippo. Onde scegliti qual luogo più t’aggrada, e vi ti adagia: io vado a tragittar altri morti.11 Da quei tempi fino ai nostri giorni, innumerevoli Elene sono sfilate nelle opere dei grandi scrittori: da Shakespeare a Chaucer a Marlowe, da Goethe a Leconte de Lisle, da Huysmans a Pascoli fino a Hoffmannsthal e alle moderne rivisitazioni – ironiche e tragiche insieme – di Erskine e di Giraudoux. Il personaggio di Elena è un mito inestinguibile che si configura, in particolare, come un’ immagine vista in specchi riflettenti una figura sempre identica e tuttavia costantemente rovesciata. Migliaia di Greci e di Troiani si sacrificarono tutti per un’illusione? La figlia di Zeus era forse davvero un fantasma?... «È ciò che probabilmente pensava anche Moreau12 – ha scritto Silvia Ronchey – quando, nel più celebre dei suoi ritratti, raffigurò Elena davanti alla porta Scea, immobile, bianca, senza volto, simile ai fili di fumo sospesi sulle rovine di Ilio».13 Marina Caracciolo NOTE 1 «Per cotale donna patire dolori per lungo tempo» (Omero, Iliade, III, 157). 2 Eschilo, Agamennone, Stasimo I, Ant. I; in Le Tragedie, prefazione e traduzione di Carlo Carena. Einaudi, Torino, 1956; pp. 219-220. 3 Jacqueline de Romilly, «La belle Hélène et l’évolution de la tragédie grecque», in Les études classiques, 56; 1988 (pp. 129-143). 4 Anche il filosofo sofista Gorgia da Lentini nel suo celebre Encomio di Elena (415 a.C.) invoca a discolpa della donna una serie di moventi esterni tali da scagionarla o renderla almeno degna di compassione: «... o per volere della sorte, e per comandamento de’ Numi, e per necessità del destino operò ciò, che fece, o per forza rapita fu, o da discorsi convinta, o presa da amore» (Orazione di Gorgia leontino intorno al rapimento di Elena; traduzione dal greco di Angelo Teodoro Villa, 1753). Il discorso del filosofo ebbe molta risonanza, tanto da essere poi ripreso da Isocrate (dopo il 390 a.C.) in un’orazione dal medesimo titolo.


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Eschilo, Agamennone, Stasimo II, Str. III; cit. p. 230. 6 Dopo l’uccisione di Paride ad opera di Filottete, Elena aveva sposato un altro figlio di Priamo, Deifobo. Il poeta Partenio di Nicea (I sec. a.C.) nella sua opera Patimenti d’amore narra che Elena si era a suo tempo unita anche a Corito, figlio di Paride e della ninfa Enone. Corito era stato poi ucciso senza pietà dal suo stesso padre, preda dell’ira e della gelosia. 7 Dopo il giudizio di Paride sul monte Ida, Era, furiosa per non essere stata giudicata la più bella fra le tre dee, aveva scaraventato Elena in Egitto e ne aveva creato un’immagine identica per ingannare Paride, il quale, portandola con sé a Troia, avrebbe poi dato origine a una guerra che sarebbe stata la rovina di lui e di tutti i Frigi. Ma secondo altre versioni del mito è la stessa Afrodite, la vincitrice della contesa, a creare il simulacro per poter mantenere la promessa fatta al principe troiano di donargli la donna più bella del mondo, preservando nello stesso tempo la vera Elena dall’ignominia. 8 Stesicoro, Palinodia, Fr. 192. Trad. it. di Filippo Maria Pontani, in I lirici greci. Einaudi, Torino, 1969. 9 Menippo di Gadara (Gadara, 310 a.C. – Tebe ? 255 a.C.). Filosofo cinico. In un misto di prosa e poesia e con uno stile semiserio, scrisse diverse opere (tutte perdute) in cui spesso attaccava sia gli Stoici sia gli Epicurei. I suoi scritti esercitarono molta influenza sui Dialoghi di Luciano, nei quali è più volte citato oppure, come in questo caso, è protagonista. 10 Citazione di un verso dell’Iliade (v. nota n.1). 11 Luciano di Samosata, Dialoghi dei morti. XVIII: Menippo ed Hermes. Traduzione dal greco di Luigi Settembrini (Felice Le Monnier, Firenze, 1862). 12 Gustave Moreau (Parigi, 1826-1898). Pittore francese, precursore del Simbolismo e del Surrealismo. 13 Silvia Ronchey, Elena di Troia: una, nessuna, centomila. La Stampa, 24.12.2002 (p. 27).

cess, Whore, Jonathan Cape, London, 2005. . Paduano Guido, Elena o l’inconsistenza del volere umano, Liguori, Napoli, 2007. . Roismann Hanna, «Helen in the Iliad. Causa Belli and Victim of War: From Silent Weaver to Public Speaker», American Journal of Philology, 127, 2006 (pp. 1-36). . Romilly Jacqueline de, «La belle Hélène et l’évolution de la tragédie grecque», in Les études classiques, 56; 1988 (pp. 129-143). . Scafoglio Giampiero, «I due volti di Elena. Sopravvivenze della tradizione orale nell’Odissea», in Revue interdisciplinaire sur la Grèce ancienne, 18, 2015 (pp. 133-144). . Zagagi Netta, «Helen of Troy: Encomium and Apology», Wiener Studien, 19, 1985 (pp. 63-88). _____________________ Nata a Milano, Marina Caracciolo vive e lavora a Torino. Dopo la maturità classica si è laureata in Lettere (Storia della Musica) a pieni voti con lode. Ha insegnato per anni nei licei e successivamente ha collaborato con importanti Case Editrici sia per ricerche e stesura di testi, sia per lavori di carattere redazionale. Ha pubblicato diversi saggi di critica letteraria e musicale e ha conseguito molti e prestigiosi premi, tra i quali il «Premio Mario Pannunzio» per la saggistica (Torino, 2002), il «Premio alla Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri» (Roma, 2005) e il Premio speciale per la Critica letteraria al «Premio Internazionale Rocca di Montemurlo» (Prato, 2005). Ha pubblicato testi letterari e musicali tradotti dal tedesco e dal francese, e sue prefazioni o interventi sono inseriti in monografie e antologie. È stata più volte premiata o segnalata anche per brani inediti di poesia e di narrativa. Scrive saggi, articoli e recensioni su numerose riviste letterarie italiane.

Bibliografia . Austin Norman, Helen of Troy and Her Shameless Phantom, Ithaca, Cornell University Press, 1994. . Bettini Maurizio, Brillante Carlo, Il mito di Elena. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Einaudi, Torino, 2002. . Homeyer Helena, Die spartanische Helena und der trojanische Krieg. Wandlungen und Wanderungen eines Sagen-Kreises vom Altertum bis zur Gegenwart, Franz Steiner Verlag, Wiesbaden, 1977. . Hughes Bettany, Helen of Troy. Goddess, Prin-

di Virginio Gracci

EDWARD LEAR E IL PERIODO ROMANO ELLA prima metà dell’ ‘800 Roma era divenuta il centro della cultura europea: artisti, musicisti e scrittori, soprattutto dai paesi del Nord Europa, avevano i loro studi nella capitale, concentrati per lo più attorno a Piazza di Spagna. Il loro punto di ritrovo era il Caffè Greco, che aveva sale e spazi distinti a seconda del paese di provenienza dei frequentatori, dove gli artisti si

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trovavano a discutere di arte, di musica, di poesia e di politica. Si calcola che negli anni ’30 vi fossero più di cinquecento “foresti”, come li chiamavano indistintamente i romani. Nella sua autobiografia, Hans Christian Andersen così ricordava il suo arrivo a Roma: “Il 5 settembre 1833, attraversai il Sempione diretto in Italia […] e misi piede nel paese dei miei desideri e della mia felicità poetica […]. Era come se io, per la prima volta, aprissi gli occhi: un nuovo mondo di arte mi si presentava di fronte, di cui avevo già scritto a Roma il primo capitolo” (1). Edward Lear (1812-1888) vi giunse il 3 dicembre 1837. Il nostro paese aveva trovato spazio nella sua mente, da quando, a dieci anni, ebbe modo di sfogliare il libro di Samuel Rogers sull’Italia, con le illustrazioni di Joseph William Turner, che lo affascinarono per tutta la vita. Era venuto in Italia per evitare l’inverno britannico, poco favorevole alla sua salute, e fermarsi il tempo necessario ad affinare la sua arte. Vi rimase, quasi ininterrottamente, fino al ’48. E se non fosse stato per i moti insurrezionali di quell’anno, probabilmente sarebbe rimasto anche di più, se non per sempre, visto che più tardi, nel 1870/71, si stabilì a San Remo, dove visse fino alla fine dei suoi giorni. Nel cimitero della città ligure fu anche sepolto (2). Edward Lear era nato a Holloway, allora un piccolo villaggio rurale vicino a Highgate a Nord di Londra, il ventesimo di ventuno fratelli. Piuttosto timido di carattere, non ebbe un’istruzione formale: solo a 11 anni poté frequentare regolarmente la scuola, ma per un breve periodo. Ciò fu dovuto alla sua salute piuttosto cagionevole: soffriva infatti di asma, di bronchite e di una grave forma di miopia. Inoltre, fin dalla prima infanzia sviluppò anche l’epilessia, che ne segnò l’intera esistenza. Egli stesso la definì il suo “Demone”, e fu la ragione per cui non fu cresciuto in famiglia. Fu affidato alla sorella maggiore Ann, più vecchia di lui di ventuno anni, che si occupò anche della sua istruzione, insieme alla seconda sorella, Sarah. L’epilessia era allora ritenuta effetto di una possessione demoniaca,

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quindi una malattia da tenere nascosta, di cui provare vergogna. Più tardi Edward Lear si convinse che fosse ereditaria, per cui mai si sposò per paura di poterla trasmettere ai figli. Dalle sorelle, entrambe appassionate d’arte e di poesia, oltre a leggere e scrivere e suonare il piano, apprese anche gli elementi di base del disegno e della pittura, che perfezionò poi da solo (e a Roma, frequentando gli studi degli artisti). Fin da ragazzino le sorelle lo portarono con loro a visitare esposizioni e gallerie d’arte, o nella libreria che il poeta James Bird (1788-1839) aveva aperto nel villaggio della contea di Suffolk, dove la sorella Sarah si era stabilita dopo il matrimonio. Fu sotto l’influenza e la guida di quel poeta che il giovane Lear si avvicinò alla poesia e ne apprese la tecnica. Forse già da prima dei quindici anni iniziò a guadagnarsi da vivere, eseguendo ritratti e caricature, disegnando bizzarri bozzetti di negozi, che poi vendeva agli stessi esercenti. Inoltre, decorava paraventi e ventagli, eseguiva disegni colorati di uccelli per naturalisti, figure anatomiche per medici e ospedali, oltre a dare lezioni di disegno e pittura ai vicini. Spesso esponeva i suoi acquerelli nelle hall dei teatri o delle locande dove gli spettatori e i clienti li compravano per pochi scellini. Fin da allora fu quindi del tutto autonomo, anche se continuò ancora per qualche anno a vivere con la sorella Ann in Grey’s Inn Road a Londra (e saltuariamente nel Suffolk presso la sorella Sarah). Compose le sue poesie migliori quando aveva diciassette anni, come “Ruins of the Temple of Jupiter”, ispirata da due quadri di Turner sullo stesso tema, esposte presso la Royal Academy di Londra fin dal 1816. E “When the light dies away on a calm summer’s eve”, o “From the pale and the deep”, che da sole sono sufficienti ad assegnargli un posto di riguardo accanto ai maggiori poeti del suo tempo. Nel 1830 ottenne un impiego come disegnatore presso la Zoological Society di Londra, con l’impegno di illustrare i pappagalli presenti nei giardini aperti l’anno prima in


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Regent Park. I suoi disegni furono talmente apprezzati che solo due anni dopo gli furono pubblicati in uno dei primi volumi di ornitologia mai usciti in Gran Bretagna, dedicati a una sola specie di volatili: Illustrations of the Family of Psittacidae, or Parrots. Si tratta del primo lavoro in folio imperiale ad essere riprodotto secondo il procedimento litografico e anche il primo in cui l’artista aveva operato direttamente dal vero. E fu proprio nella esecuzione di quelle illustrazioni che Edward Lear prese familiarità con quel tipo di tecnica (Il successo del suo lavoro fu tale che a due esemplari della specie, a cui non era ancora stato attribuito un nome scientifico, fu assegnato il suo). Dal 1832 al 1836/37 fu impegnato a Knowsley, una cittadina non lontana da Liverpool presso la residenza di Lord Derby, con lo stesso compito, ossia di catalogare e disegnare gli uccelli e gli altri animali che facevano parte della collezione presente nel giardino zoologico privato costituito nella proprietà di famiglia. Pure in questo caso i suoi disegni furono inseriti in un volume dedicato allo stesso giardino zoologico: Gleamings from the Menagerie, at Knowsley Hall, uscito alcuni anni più tardi. Negli anni trascorsi a Knowsley Edward Lear concepì anche l’idea di comporre i suoi nonsense (o limericks), a cui deve la sua notorietà, benché il suo maggiore impegno fosse da sempre rivolto alle arti figurative. E infatti, a partire dal 1836 si dedicò al paesaggio, definendosi appunto un Landscape Painter, un paesaggista, senza peraltro trascurare la poesia (più tardi compose anche delle nonsensesongs e nonsense-stories in versi dedicate ai bambini, che avevano tuttavia molto da dire anche agli adulti, come del resto i suoi nonsense). Egli era convinto che ogni forma d’arte, per definirsi tale, doveva poter trasmettere delle emozioni come la poesia (e la musica). I limericks erano delle brevi composizioni che avevano avuto origine in Irlanda nella seconda metà del XVIII secolo fra i frequentatori dei pub e i militari, tra i quali si era diffu-

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sa l’abitudine di comporre delle brevi poesie e canzoni, rispondendo alla domanda seguente, posta da uno dei presenti: Will you come to Limerick? (“Vuoi venire a Limerick?”) Chi voleva intervenire - amici o commilitoni aggiungeva dei versi estemporanei improvvisati, pieni di motivi inverosimili e allusioni talvolta maliziose o oscene. In seguito, tali composizioni assunsero una struttura ben definita, che si mantenne nel tempo, ossia quella di una strofa divisa in cinque versi, non sempre regolari, per lo più rimati secondo lo schema metrico: aa, bb, a. Edward Lear mantenne lo stesso schema, disponendo però i versi in tre righe, come si può vedere dalla prima edizione del suo Book of Nonsense del 1846 (uscito a Londra nel corso di uno dei suoi due rientri nel suo paese da Roma, dove tra l’altro aveva composto parte dei nonsense inclusi nello stesso volume), e nelle edizioni successive. Egli infatti intese i nonsense come didascalie di disegni e bozzetti in cui con pochi tratti di penna esprimeva dei concetti, o puntualizzava episodi di vita – spesso assurdi (o solo apparentemente tali). Edward Lear ebbe il merito di avere elevato a forma letteraria i limericks, che fino ad allora erano rimasti giochi di parole al pari delle nursery rhymes o filastrocche recitate dai bambini. Egli tuttavia non usò mai quel termine per indicare le sue brevi composizioni, ma Nonsense o Old Persons. E l’edizione del 1861 di quel volume, arricchito e aggiornato, lo rese popolare e apprezzato in tutti i paesi di lingua inglese, dove ebbe un’ampia diffusione. Nel corso della sua vita se ne ebbero 24 ristampe, e nuove edizioni si sono ripetute lungo tutto il XX secolo fino ai nostri giorni, tanto da oscurare la sua figura di artista di altrettanto valore. Quando giunse a Roma, Edward Lear aveva quindi già acquisito notevoli competenze nel campo del disegno e della pittura, ed era in grado di utilizzare la litografia su pietra per la riproduzione dei suoi lavori. Nella capitale venne subito in contatto con gli artisti più noti del tempo, che apprezzarono la sua arte e la


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sua dedizione, oltre alla sua cultura. Con gli stessi egli perfezionò la tecnica dell’ acquerello, affermandosi come uno dei maggiori acquerellisti inglesi del secolo. Inoltre, apprese anche l’uso dei colori ad olio, che non aveva mai utilizzato prima. Con alcuni artisti strinse anche amicizia e durante l’estate compì varie escursioni, dapprima nella campagna romana, poi in Abruzzo, in Calabria, in Sicilia, e in altre regioni d’Italia, sempre munito dei suoi quaderni sui quali intercalava versi o disegni e bozzetti (che poi nel suo studio trasformava in quadri o litografie), a dettagliate descrizioni dei luoghi visitati. Queste ultime gli servirono per la stesura dei suoi Journals e dei suoi libri di viaggio, come i due volumi delle Excursions in Italy, usciti nel 1846/47, sempre mentre era ancora a Roma, illustrati con litografie e vignette, e arricchiti con note storiche e topografiche. Vari furono anche i nonsense che compose nel corso delle sue escursioni, come il seguente mentre si trovava sulle falde dell’Etna: There was an Old Person of Gretna, who rushed down the crater of Etna; When they said, ‘Is it hot?” He replied, ‘No, it isn’t!” That mendacious Old Person of Gretna. C’era un Vecchio Signore di Gretna, che precipitò giù per il cratere dell’Etna; quando gli chiesero, ‘E’ rovente?’ Egli rispose, ‘No, per niente!’ Quel mendace Vecchio Signore di Gretna. La sua attenzione maggiore, come si è detto, fu sempre rivolta al paesaggio. Infatti, fin dal suo arrivo a Roma fu affascinato dalla campagna romana, a cui dedicò varie illustrazioni, acquerelli e litografie raccolte poi nelle Views in Rome and its Environs, uscite in Inghilterra nel 1841. Tra le stesse si evidenziano, per raffinatezza e resa dei particolari, quelle che raffigurano Civitella di Subiaco, dove aveva trascorso alcune settimane in più occasioni, tanto era rimasto incantato dal luogo torreggiante sulla cima dirupata del dorso di Colle Secco. Alla stessa dedicò anche un grande quadro ad olio, uno dei suoi primi

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eseguiti con quella tecnica. Nel suo Diario essa compare spesso insieme a Nemi come luogo della memoria da cui era impossibile separarsi. Mentre era a Civitella iniziò a usare il termine “morbid” come “morbido” in italiano – lingua che conosceva fin da ragazzo (mentre in inglese ha il significato di “patologico” o “morboso”). Egli lo riferì al paesaggio e alla sua rappresentazione artistica, come qualcosa che poteva essere percepito dal punto di vista fisico, quindi attraverso il tatto e non solo attraverso la vista (3). Vi era giunto per la prima volta nel corso di un viaggio intrapreso a piedi alla volta di Firenze, con un gruppo di altri artisti tra cui James Uwins, con il quale pochi giorni dopo il suo arrivo a Roma aveva visitato la Baia di Napoli e la costa amalfitana. In un quadro, dedicato ad Amalfi, eseguito nell’occasione, appare evidente l’influenza di Turner, a cui però impresse la sua impronta personale, in particolare nel senso di pace e tranquillità, di evanescente delicatezza, che traspare dal bianco delle rocce della scogliera e dalla loro luce soffusa. Dell’anno successivo è anche un disegno dal titolo: Scene in the Campagna of Rome. In esso, ad un paesaggio naturale con alberi e una fattoria, vi aggiunse delle figure assurde, tipiche dei suoi nonsense: in questo caso, una specie di sirena che fuma la pipa seduta ad un tavolo con un fiasco di vino e un bicchiere di fronte. E nel cielo, un gufo, uno dei suoi volatili più amati. Dello stesso periodo sono pure le vignette: Lear’s adventures on horseback, in cui narrò le disavventure che gli erano capitate mentre prendeva lezioni di equitazione per prepararsi all’escursione negli Abruzzi, compiuta tra luglio e ottobre del 1843 e ripresa nell’anno successivo. Nelle varie sequenze Edward Lear vi si raffigura come il personaggio di un cartoon, che si confronta con il cavallo: entrambi indossano un paio di occhiali del tutto simili. Nelle didascalie compaiono i termini “feroce” e “per niente docile”. Infatti, un volta sul suo dorso, le situazioni si fanno sempre più buffe o esilaranti, come quando è lanciato


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in aria dalla parte posteriore del cavallo, o quando si siede al disotto della sella, e finisce in un acquitrino. Il tutto si svolge tra Zagarolo e Frascati (4). Tali sequenze “possono essere lette in una rapida successione come se le immagini stessero viaggiando con il cavallo e il cavaliere”. E il movimento è reso perfettamente nelle didascalie in inglese mediante l’uso del presente progressivo. Mentre “le righe del testo sotto ciascuna immagine agiscono come un sottotitolo nel cinema muto”. E’ quanto osserva Sara Lodge nel suo recente libro dedicato a Edward Lear (5). Virginio Gracci

Menacao 2018, Antologia Brentana, a cura dell’Associazione “La Pentola dei Nodi”, di Dolo, Venezia. Nelle ultime edizioni della stessa antologia sono contenuti anche dei suoi racconti brevi. Tra i riconoscimenti più recenti in poesia: Primo Premio nel concorso “La Poesia del 2019”, dalla rivista LA NUOVA TRIBUNA LETTERARIA; Primo Premio Internazionale di Poesia in Lingua Straniera (Inglese), promosso da SCRIPTURA, nel 2020.

NOTE (1) Hans Christian Andersen, The Story of my Life, London, Longman, 1847, chapter 5. (2) Una accurata descrizione dell’atmosfera che si respirava nell’ambiente internazionale della capitale ci viene da: Jenny Uglow, Mr Lear: a Life of Art and Nonsense, London, Faber & Faber, 2017. (3) Sulla sua arte pittorica fondamentale è lo studio di Vivien Noakes, The Painter Edward Lear, London, David & Charles Newton Abbot, 1991. La stessa Noakes fu anche autrice di una biografia, oltre ad avere dedicato a Lear alcuni saggi e aver curato varie edizioni dei suoi nonsense. (4) Una ventina degli originali delle vignette sono conservati presso il British Museum di Londra: Catalogue number 1970. (5) Sara Lodge, Inventing Edward Lear, Cambridge Mass. & London, Harvard University Press, 2019. Pp. 226-228. _________________ Ex-docente di Lingua e Civiltà Inglese, Virginio Gracci è autore di articoli e saggi di didattica e letteratura apparsi in riviste e giornali italiani e stranieri. Ha curato, tra l’altro, per la Loescher di Torino un testo di Mary Shelley, Maurice, or the Fisher’s Cot, con un saggio in inglese sull’autrice. Fin da ragazzo ha composto poesie (in italiano e in dialetto veneto), alcune delle quali sono state premiate o segnalate nei concorsi e inserite in varie antologie e raccolte. Nel 2015 ha pubblicato L’Urlo di Munch, e altre Storie (nel 2016 finalista al Premio Acqui Terme). Nello stesso anno, con il breve saggio, Ernest Hemingway: dal Tagliamento all’Isola di Torcello, passando per Caorle, ha vinto il Primo Premio del “Salotto Letterario – Sotto il Campanile” di Caorle (Venezia). Compone haiku, una trentina dei quali, nel 2018, sono stati inseriti in Fiori di

di Maria Grazia Ferraris

Scrittrici dimenticate:

TÉRESAH (1877-1964)

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CRITTRICI nel silenzio, si può dire delle donne che all’inizio del Novecento si cimentano con la scrittura. Eppure la decisione di scrivere è una scelta non graziosa o velleitaria, ma di libertà, che le emancipa, sottrae la donna all’ordine costituito della società che la vuole obbediente al marito, relegata alla casa, la famiglia, i fornelli, custodi del focolare…e destinata al silenzio. Perciò il viaggio letterario delle donne sarà impegnativo, come anche la conquista e il possesso della lingua, impresa non da poco, faticosa, al di là della scelta dei contenuti. A fatica, a lungo provarono ad esprimersi, nascondendosi con uno pseudonimo, nei giornali, terreno privilegiato per la penna maschile (“La gazzetta letteraria” di Torino, “Il Fanfulla” di Roma, la “Nuova Antologia” di Firenze, il “ Pungolo” di Milano) sulla quotidianità, e sulla desolante miseria dei primi lavori fuori-casa, come balie, serve, sguattere, sartine, modiste…, sull’amore (il rosa!) e più tardi si dedicarono alla stesura dei galatei e ai romanzi d’appendice. Alcune ripercorreranno i modi del feuilleton d’oltralpe, come la Invernizio, o del rosa, come Mura, altre cercheranno l’imitazione dei moduli dannunziani, come Contessa Lara, altre avranno una strada impegnativa, come Matilde Serao, la maestra delle giornaliste italiane, Sibilla Aleramo, la femminista ante litteram, più anticonformista,


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Grazia Deledda, innamorata della sua Sardegna ancestrale, alla quale verrà nel ’26 conferito il premio Nobel…, Ada Negri, la maestrina dalla penna rossa, che indagherà sugli aspetti rimossi o taciuti della sua esperienza, Liala, la regina notissima del “rosa”, altre saranno oggetto di un effimero e spesso ironico interesse. Tra le tante donne-scrittrici del primo Novecento, dimenticate per la gran maggioranza, che pur hanno avuto rilievo e discreta notorietà al tempo, (come Neera, la marchesa Colombi, Flavia Steno, Milly Dandolo, Annie Vivanti…) forse la più dimenticata è stata Teresah, pseudonimo di Corinna Teresa Ubertis (1877 –1964), sposata al giornalista e uomo politico Ezio Maria Gray, che è autrice di alcuni volumi di poesie, numerose raccolte di novelle e parecchi romanzi. Nacque a Frassineto Po (Piemonte) nel 1877 (data incerta, il padre, militare di carriera, era soggetto a vari trasferimenti); visse a lungo a Firenze e a Roma. Collaborerà negli anni con il “Corriere della Sera”, “Il resto del Carlino”, e le riviste “La Donna”, “La Riviera Ligure”, “La Lettura”; di quest'ultima nel 1902 vince un concorso con la novella "Rigoletto” che darà il titolo alla sua prima raccolta. Pubblica in tutto circa cinquanta libri, le raccolte di poesie "Il libro di Titania" (1908), "Il cuore e il destino" (1910), "Strade mie" (1942); le novelle "Il corpo e l'ombra" (1911), "La casa al sole" (1917), "La piccola dama" (1921); i romanzi "Pare un sogno" (1906), "Il glicine" (1926), "Dobbiamo vivere la nostra vita" (1941); i racconti per l'infanzia (furono tradotti anche nelle principali lingue europee) "I racconti di sorella Orsetta" (1910), "I racconti della foresta e del mare" (1915), "Storia di una coccarda" (1917), "Il Natale dei Benno Claus" (1920), "Ombrone, il fiume che piange e altre novelle" (1926), "Balillino di suo papà, una ne pensa e cento ne fa" (1928), "Apparizioni del viandante" (1939). Tranne qualche racconto antologico nulla è stato ripubblicato in tempi recenti e la critica, molto distratta, non sempre è stata per lei positiva. Penso a Giovanni Boine (1887-1917), un

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vociano inquieto, collaboratore di riviste varie, come “Rinnovamento”, “Riviera ligure”, “Voce”, “Anima”, scrittore e critico dilettante molto ascoltato, che in “Plausi e botte” ( dove raccoglie i suoi interventi fortemente personalizzati di critica militante spiritualistica e un po’ impressionistica) parla di lei, recensendo “Il salotto verde”, 14 novelle, pubblicato da Treves nel 1914 con queste parole: “Complicatezza passionale, vellutata e femminea, che incuriosisce e interessa. Manca in questo volume una tramontana morale fissa, ed anche una impronta stilistica unica: non si può definire. Ma s’intravede un’anima e c’è, disugualmente sparsa, dell’arte”. È un giudizio severo che Boine, moralista, riserva spesso alla letteratura femminile coeva ché le donne, a suo parere, imitano- donnescamente e morbidamente- via via un diverso e vario modello letterario in modo confuso e verboso. I contemporanei, come C. Giochetti ne “La fiera letteraria “, descrivono Teresa Ubertis Gray come una signora composta ed elegante, «fisicamente quale a leggere le sue novelle, i suoi romanzi, i suoi versi ce la possiamo immaginare: bionda, fine, aristocratica, con un po’ di mestizia nel viso stanco e negli occhi cerulei» e in un articolo apparso sull' “Almanacco Italiano” del 1922 si legge: «L’ immagine che si profila nella mente di chi si lascia cullare dal fascino di questa sua arte soave è, come ben definì Luigi Tonelli, un’ immagine di madonna fiorentina, alta e sottile, passeggiante solitaria e silenziosa lungo prode fiorite nel crepuscolo mattutino». Leggendo gli Abbozzi del 1931 de “L’ incendio di via Keplero” di C.E. Gadda (Appendice I) si incontra un interessante capitolo che porta il titolo di Térésaaah . Carlo Emilio Gadda costruisce un ritratto di lei un po’ svagato, considerandola solo come poetessa, e gioca da par suo in modo parodico con lo pseudonimo allungandolo, alla lombarda in Térésaaah... Il ritratto è gustosissimo. “Voi siete stato molto gentile con me, Gadda, molto buono con i miei singhiozzi dell’ Anima...che sono realmente gli aneliti della


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mia anima…” “Forse, più che per Voi, sono stato buono per gli aneliti della mia, che da tanto desiderava incontrarvi…...”.. “I vostri versi sono voci della divina poesia… come i palpiti stessi della natura…” “Vi piacciono dunque davvero i miei cieli?…anche tempestosi?, disse deliziosamente provocatrice Térésaah”.. “ E i tramonti? Vi pare che io renda i tramonti?” “Sono meravigliosi, Térésaaaah..Voi avete superato i romantici da una parte e i frammentisti dall’altra, che è tutto dire….” “Sapete che sono stata invitata dal “Corriere del Pomeriggio”? Non vi stupite!” “Non me ne meraviglio affatto, Téresaaah, mi meraviglierei del contrario…Oggi la sensibilità…è tale…” “….. È vero che avete dei nemici…” “Non crederei… non ho mai fatto del male a nessuno...e a nessuna… Coloro che mi leggono non corrono altro pericolo che quello…di addormentarsi…” .. “ Suvvia Gadda, io vi predico che voi emenderete e scriverete il più bel romanzo del 900; sarà un romanzo d’anime, tutto ombre, luci, chiaroscuri…” Un ricordo di Riccardo Rovere, un lontano parente, che le faceva visita quando era bambino, con la madre, ricostruisce le atmosfere crepuscolari e malinconiche di decadenza che dominano il ricordo della ormai vecchia scrittrice, che morirà a 87 anni: “ Tutto intorno, a perdita d’occhio vedevo solo enormi, altissime librerie.. piene di libri. Migliaia di libri, di ogni tipo, di ogni grandezza…in fondo alla casa, in una grande stanza dove, seduta sempre in una poltrona fin de siècle di raso rosso, c’era lei che ci aspettava… Era davvero molto, molto vecchia e incredibilmente piccola…Mamma mi raccontava che la vecchina era stata una grande scrittrice e poetessa….Un tempo era stata bellissima, nella sua vita era stata una donna famosa e invidiata e aveva frequentato gli ambienti più esclusivi, re, nobili, politici, grandi imprenditori. Io ascoltavo e m’ incu-

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riosivo. Cominciavano a parlare, di cose che io non spesso non riuscivo a capire. Non avevo il coraggio di girare per quella grande casa, che pure mi interessava, mi accontentavo di guardare e riguardare tutto quello che c’era in quella stanza, meraviglie antiche e sconosciute che raccontavano la lunga storia della vecchina… Era restata sospesa nel tempo…e da quella volta anch’io, come lei, sono rimasto sospeso nel ricordo di quel giorno.” Questo ricordo sottolinea una componente della scrittura di Téresah, quella riflessivaanalitica un po’ sognante e melanconica. Ricorda vagamente la malinconia pacata e dimessa dei crepuscolari. Si incontrano nei suoi racconti anziane signore e beghine praticanti, zitelle di lunga data, figure femminili candide e sprovvedute, contrapposte spesso a donne moderne tormentate e inconcludenti come appare per esempio nella novella “L’ordine”: “Voleva essere felice: un’inezia! Il modo, il dove e il quando della sua felicità, le sfuggivano poi completamente. Era, la sua, un’ aspirazione oscura di essere scontento; il malessere indefinibile di chi sente l’atmosfera appesantirglisi intorno e gli pare di naufragare senza scampo in uno stagno insidioso dove si affonda a poco a poco: ma non vede cielo più limpido, non conosce riva alla quale giovi approdare. Ella non era ricca, non era né intelligente né ribelle né disonesta; non era neppure una carne tormentata: la carne sa infrangere i gioghi. Era un’anima in pena e nulla più. Con un bagaglio così modesto, non si va lontani.” È convinta che la felicità non esiste, ma per farne esistere almeno una parvenza, bisogna evitare di mettere a fuoco con chiarezza i contorni del reale. La felicità nasce sempre da un equivoco, da una mistificazione, da una visione offuscata delle cose che vengono provvidenzialmente mal comprese. Così come non esiste la bontà, ma esiste forse solo il desiderio della bontà, il compiacimento dell’ ideale, dell’azione positiva, anche se compiuta per caso, fortunosamente e senza merito. “A lui piaceva moltissimo vedere il suo amico in qualche guaio. Gli era sinceramente


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affezionato e non avrebbe potuto durare in quell’affetto se Franco fosse stato sempre fortunato: l’amicizia ha le sue macchie, come il sole.” Così è per l’amore. Scrive in “Addio per sempre” : “Le realtà più tenaci non sono fatte che d’inganno. […] Giulio l’amava assente, inafferrabile, perduta, l’amava come un dolore: come una morta sepolta nell’anima sua. E guai ai morti che risorgono! (Il salotto verde). Questo è l’atteggiamento e l’artificio che persegue nelle novelle più riuscite, che serve a velare lacune e buchi, ansie delle esistenze claudicanti. Térésah fu un’interventista convinta, ma distinguendosi dal clima acceso e retorico di molti scrittori del tempo, riesce a parlare della guerra senza retorica con la sua particolare forma di ironia leggera, che è una delle caratteristiche della sua scrittura. Racconta con umorismo e disincanto, con lucidità la realtà, misurandosi con il mondo, non certo umanamente ideale che vuol descrivere. Esemplare il racconto “Piccola storia patriottica” in “Allegretto ma non troppo” (1920). I protagonisti sono una coppia di droghieri benestanti, il signor Enrico e la signora Clementina. Eccone un passo esemplare: “La guerra? Sciocchezze! Quando scoppiò (non pareva vero) ne furono un po’ meravigliati, un po’ scontenti, per la forma. In realtà non se ne occuparono. In che cosa li disturbava? Avevano dei figlioli? Avevano dei nipoti? No, nessuno. Non avevano altro che una bella casa, dei bei vigneti e una bella drogheria, che faceva affari d’oro anche con la guerra.… Alla guerra, poi, a pensarci bene, come fenomeno sociale, rimanevano piuttosto contrari. Non molto. Tra il sì e il no. La gente malignò e disse: quando il grasso sale al cuore non c’è più rimedio. E la gente malignava senza logica. Infatti il grasso, quando sale al cuore, provoca disturbi seri. I disturbi seri fanno pensare alla morte. Il pensiero della morte rende più cara la vita, e che cosa c’è di meglio, per gustare la gioia di vivere, che immaginarsi con patetica nostalgia (se fossi

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giovane! ecc.) la morte eroica che si potrebbe, per avventura incontrare? Il signor Enrico e la signora Clementina, per quanto tondi e rubicondi, non erano ancora minacciati dal grasso che sale al cuore. Godevano ottima salute. Non avevano mai un mal di testa, mai un mal di stomaco. …C’era la guerra, sissignori: ma loro i giornali li passavano rapidamente, da gente che non ha tempo da perdere. […] Quell’idea delle calze ai soldati, quando scoppiò improvvisamente, parve al signor Enrico il colmo dell’assurdità. La guerra, chi l’aveva decisa? Il Governo. E ci pensasse il Governo alle calze e al resto. […] Andassero pure al Comitato altri due bei calzerotti, usciti precisi precisi da quell’avanzo di lana delle sei paia di calze che la signora Clementina aveva fatto per il marito. Ci guadagnava anche l’ordine, perché non si è mai veduto che le persone assestate escano dalle cifre regolamentari: sei calzerotti, dodici colli, diciotto fazzoletti ecc. Al Comitato la reazione davanti alle calze donate non è benevola: tutti sanno che i due commercianti guadagnano moltissimo e quella donazione appare ridicola. Ciononostante alle calze viene attaccato un bigliettino per il soldato che le riceverà «Da Enrico e Clementina Bianchi. Caro soldato, Dio ti benedica». Il soldato risponde con una letterina «ingenua, enfatica, sgrammaticata, eroica e piena di fervida rassegnazione, di dolorosa bontà». Il signor Enrico e sua moglie si persuadono di averla meritata e comincia per loro una nuova vita, un nuovo gustoso piacere. D’altra parte, a quel soldatino così poetico, che si figura tante belle cose e promette mari e monti per due calzerotti di lana, bisogna pure rispondergli. Gli scriverà il signor Enrico cercando di mettersi all’unisono. Parlerà di patria, di eroi, di dovere, di sacrifizio… Finirà col prenderci gusto. Il peggior passo, dice il proverbio, è quello dell’uscio: e chi non dà non sa. In certe avarizie quello che manca è l’abitudine di dare. Uno che non ha mai provato ad aiutare nessuno, non può dire se non


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nasconda nel suo intimo un fervente, un appassionato, un maniaco, un fanatico dell’ assistenza… Ora lui parla di «figli di Roma», di «razze latine», di «bandiera della civiltà». Lei si commuove quando sente i bambini dell’asilo cantare «Gioia bella». Sanno dov’è Trieste, che non confondono più con Trento, vogliono la guerra fino in fondo, e sono madrine tutti e due di soldati senza famiglia. La signora Clementina, come madrina, ha la specialità delle conserve; il signor Enrico, pare impossibile, quella delle lettere. Non sapeva d’essere grafomane. Quante cose non sapevano! E tutto per un miserabile paio di calzerotti! Il più bello è che ci ingrassano. Mangiano meno, eppure ingrassano. È la felicità. Conclusione: bisognerebbe essere un po’ indulgenti per il signor Enrico e per la signora Clementina. Ma il piccolo Comitato paesano (che si riunisce, è assodato, per fare il bene) ha i suoi difetti, scusabili: non perdona che lo si trascuri e non sdegna, se può, la mormorazione. Innocente, però, innocente. Parlano spesso di quel fervore così inopinato, di quella conversione rumorosa. «Finita la guerra» dice uno «non sapranno più che cosa fare». Dice un altro: «Si divertono»….” Téresah si dedicò anche ai racconti per l’infanzia. Racconti leggeri, graziosi, che raccontano di quella sua vena malinconica e crepuscolare. I bambini che descrive, spesso sono incompresi e in difficoltà, piccoli, ingenui, disorientati e sensibili, immersi dentro i loro sogni trasparenti, fedeli alla parola data, sono più vicini a quella parte di ideale che gli adulti non conoscono e nel migliore dei casi si sforzano di inventare. Anche in questo lavoro Térésah riesce a evitare ogni retorica banale sull’infanzia, con un realismo preciso e minuto e un andamento a tratti onirico, poetico, che si può leggere ancora senza fastidio, come nella novella “Duccio e l’uomo che vola”, sempre nella raccolta “Il salotto verde” (1913). Il protagonista ha cinque anni e mezzo e fa

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parte di una famiglia numerosa. È l’ultimo nato e non viene mai preso in considerazione nelle sue fantasie e nei suoi perché…. La domenica la famiglia va a vedere gli aviatori al Campo di Marte. Per Duccio è un’ esperienza intensa, sconvolgente. Vede l’ uomo dal berretto rosso che partì, tra un palpito d’aria smossa. Salì, salì, salì. “Fu come un nodo di nastri bianchi, come un fuscello bruno e sottile, come una piuma: fu un punto. Andava in cielo, spariva… gli occhi di Duccio si riempirono di lacrime: non vide più…” Nella sua emozione non vide la discesa, non udì l’applauso: piangeva sempre. “Più tardi, quando si riebbe, il cielo era sgombro. Guardò in su, timorosamente: dov’ era l’uomo? Non si vedeva. Era ancora su, era andato chissà dove! Lo attese. Tutto finì; la gente si mosse, sfollò; Duccio fu tirato per un braccio dall’Armida. Si andava via. Duccio si fece coraggio: «Se l’uomo discende stanotte e non trova nessuno?» chiese”, ma nessuno lo ascoltò né gli rispose. A casa, solo, pensò di non poter dormire con tale preoccupazione…Nascose i datteri e i biscotti che aveva avuto per sé e pensò: «Caro uomo sei salito fino in cielo e ti hanno dimenticato!» : aveva il cuore gonfio, amareggiato dal ricordo di quell’ingiustizia. Esce di nascosto e “corre fuori, verso il Campo di Marte, seguendo la linea del tram, che trova e perde, lungo il cammino. Le luci fra le case lo guidano e finalmente raggiunge il posto che cercava. Per un attimo il rumore del treno lo illude, ecco l’aeroplano che scende! Poi si rifà il silenzio. C’è qualche timido cri in mezzo al prato; i primi grilli si arrampicano lungo gli steli del trifoglio. C’è anche un odore acuto di acacia fresca che sventola grappoli bianchi, come bandiere. Duccio capisce d’essere solo, d’aver freddo, d’aver paura; capisce che ha fatto il viaggio per nulla, che l’uomo è morto o è già disceso, già andato via, e che, in ogni modo, non ha più bisogno di mangiare. Allora, adagio adagio, prende dal panierino un dattero, poi un altro, poi un altro: mangiare gli tiene compagnia. E mangia tutti i datteri e tutti i biscotti,


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tremando di freddo e di febbre … le palpebre gli ricascano su quegli occhi che non ne possono più, la testa ciondola per un po’, di qua, di là; Duccio cade rovescioni e dorme. Dorme e sogna che tutti volano.” Maria Grazia Ferraris Maria Grazia Ferraris vive a Gavirate (VA), si occupa di critica letteraria ed in particolare studia il contributo della scrittura femminile del Novecento. Ha pubblicato saggi e articoli di critica letteraria sulle riviste cartacee e sul web. Ha pubblicato: Volevo scrivere, la letteratura femminile del primo Novecento, e Marina Cvetaeva, Ma non è forse anche l' amore un sogno? (2018), Una singolare generazione ( la Milano degli anni Trenta) (2018); POESIE: Di Terra e di acque, Aprile di fiori (2013), Viaggi forse desueti (2019); RACCONTI, Lettere mai spedite (2009), Occhi di donne (2012), Il croconsuelo e altri racconti (2015), Racconti fantastici (2015), Il paradiso degli alberi (2019); SAGGI: G. Rodari, un fantastico uomo di lago (2010), La luna giocosa: G. Rodari e Italo Calvino. Leggerezza ed esattezza (2016), Vado via coi gatti (2019). È finalista in concorsi letterari e poetici Alcune delle sue poesie e dei suoi racconti sono state pubblicati in volumi antologici.

L’ULTIMO PRANZO DI FEDERICO GARCÍA LORCA A NEW YORK di Lorenzo Spurio

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EGLI anni 1929-1930 il poeta spagnolo Federico García Lorca viaggiò in sud America soggiornando per vari mesi, prima a New York, poi a Cuba. L’intenzione originaria, come attestano i diari, era quella di poter imparare la lingua inglese a diretto contatto con l’ambiente americano sebbene, tra le ragioni che motivarono i genitori (abbienti, essendo il padre proprietario agricolo) a mandarlo Oltreoceano v’era sicuramente anche il desiderio di voler regalare al figlio un momento di tranquillità e lontananza dai suoi drammi esistenziali. Difatti si era da poco chiusa la storia amorosa con lo scrittore Emilio Aladrén e di certo questo aveva contribuito a rendere il giovane Lorca

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molto propenso alla malinconia e alla tristezza (secondo alcuni, addirittura, avrebbe pensato di suicidarsi). Di questo tormento, che è vivo nella prima parte della sua esperienza sul territorio americano, Lorca riuscirà a stemperarne le forme più pesanti, durante la sua frenetica attività che vivrà nella Grande Mela, tra nuovi amici, conoscenze, lezioni e visite fuori porta (a Coney Island, metafora del divertimento, tornerà varie volte, ma visiterà assiduamente anche il barrio negro di Harlem e viaggerà finanche in Virginia, ospite di amici). A testimonianza di questa fase importantissima per la sua crescita umana e professionale (lì scrisse varie opere) rimane principalmente quella componente para-letteraria sempre utile per lo studio di un intellettuale e la sua giusta collocazione storico-sociale: il carteggio (raccolto recentemente sembrerebbe in forma completa, a meno di qualche epistola segreta che, per ragioni diverse, sempre vengono fuori in momenti non prevedibili), gli appunti, finanche la sua attività di disegnatore e, ancora, le memorie, i diari e i ricordi di chi lo conobbe direttamente e nel tempo ha prodotto libri interamente dedicati alla sua figura . Si diceva, per l’appunto, della sua attenzione in termini scrittori durante la estancia americana e vanno sicuramente ricordate le poesie, dal gusto surrealista e avvicinabili a Ámbito e a Espada como labios di Vicente Aleixandre che scrisse in questo periodo. Poesie alle quali il docente Menarini dell’Università di Bologna dedicò quello che può essere considerato uno dei primi studi esaustivi sull’opera Poeta en Nueva York di cui Lorca ebbe modo di parlare anche con Neruda che, in qualche modo, gli consigliò il titolo. Poesie – pubblicate solo dopo la sua morte, nel 1940, da un editore messicano – che mettono in luce una società disumanizzata e violenta, dove sembra esser venuto meno il senso delle cose a beneficio unico dei loro scopi utilitaristici che non guardano in faccia nessuno. È la New York dei grattacieli e del denaro, ma anche del fango e dei suicidi, delle fogne e dei ratti, della violenza, dei gabbia-


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ni sgozzati e tanto altro ancora. È la New York che, proprio in quel periodo, vive uno dei momenti di arresto più pesanti, quello del noto Crollo della Borsa di New York che mise molte famiglie al lastrico, che azzerò´ le ricchezze finanziarie, che aprì a un nero periodo di recessione, incertezza e disperazione (ce n’è traccia nel volume quando si parla di questo “denaro-bitume”, dei suicidi dai grattacieli, dell’indifferenza e paura della gente). La sua attività di drammaturgo, per la quale aveva esordito nel marzo del 1922 con El maleficio de la mariposa (opera scritta due anni prima) aveva riguardato un’opera dai contenuti buoni in chiave quasi favolistica, dettata da personaggi animali. Purtroppo per l’autore non si era impressa con un segno positivo subitamente, difatti l’estreno (il debutto) venne accolto con aspre criticità e delusione dalla stampa e in molti non mancarono di osservare che l’opera era di infima qualità, improponibile, certamente troppo avanguardista e lontana dal poter essere accettata. Si inaugurava, in questo modo, quella che era la produzione drammaturgica surrealista di Lorca, vale a dire quelle opere (per le quali trarrà molta ispirazione dal Living Theatre americano) prive di un canovaccio chiaro, generalmente imperscrutabili, contenutisticamente caotiche e volutamente confuse, imperniate su drammi dell’individualità, di difficile relazione interpersonali, di chiarificazione della coscienza individuale e collettiva. Chiaramente l’ influenza di Pirandello, Shaw e Cocteau dovette essere rilevante sul Lorca del periodo e, pur non esistendo notizie certe in merito all’ effettivo incontro di Lorca (che mai giunse in Italia) con il genio siciliano, di certo conosceva e apprezzava la sua opera. Come pure Orfeo di Cocteau e Niebla e Medea dello spagnolo Unamuno che, in quel periodo, sollevava questioni umane e filosofiche analoghe. Nel periodo americano Lorca lavorò a nuove possibili opere pensate per un teatro de porvenir confidando nel suo carteggio che molto probabilmente sarebbe stato più semplice e opportuno proporle in America, dove avrebbero potuto essere comprese o comun-

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que non rigettate, che in Spagna, dove permaneva un teatro classicista, ridondante, di stampo borghese, ancora attaccato agli stereotipi delle storie dei fratelli Quintero e Benavente. Lavorò all’opera El Público e, nel periodo ad esso coevo, ad Así que pasen cinco años (secondo alcuni già nel 1931). Sono delle opere astruse e quasi illeggibili, cosparse di personaggi umani, animali, della commedia e della maschera che s’intrattengono tra loro, con confusione spaziale e temporale, con le quali Lorca – ancor meglio che con la sua fiorente poesia – denuncia l’insicurezza che lo pervade, il sentimento represso di autoesclusione, il dolore per la sua diversità che lo situa in un’impossibilità di rivelazione. Sono i temi dell’ossessione amorosa, della nevrosi verso la vita di coppia in senso omoerotico, della simpatia promiscua, dell’inclinazione omosessuale che vive come pesanti macigni e che, pur di evidenza comune, non può palesare (per non offendere la famiglia, per non voler subire la gogna del popolo, perché il tempo in cui vive non è disposto a perdonare nulla). Grazie alla conoscenza con il produttore cinematografico messicano Emiro Amero nacque, quasi d’impulso, anche l’idea della scrittura di un testo pensato come scenografia. Non va dimenticato che il 1929 fu l’anno di pubblicazione del cortometraggio Un perro andaluz di Luis Buñuel, opera che, per la convulsione e l’inestricabilità dei contenuti, ottenne un grande successo. Si trattava del prodotto finale di un’amicizia profonda e di una collaborazione importante di Buñuel con Dalí, il celebre pittore surrealista degli orologi molli, persone delle quali anche Lorca fu inizialmente amico durante la sua estancia alla Residencia de Estudiantes di Madrid. Poi, i motivi di gelosia e invidia, elementi creduti e animati da Lorca in relazione all’amicizia Dalí-Buñuel che avrebbe sempre più allontanato il pittore da lui, portò a una vera e propria rottura. Secondo alcuni (e lo stesso Lorca) Buñuel, con il titolo del suo corto, volle proprio riferirsi a lui, bollandolo come “cane”


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e questo trattamento spregiativo (che il regista sempre negò) di certo afectó profondamente il granadino. Possiamo considerare che le recenti delusioni (amorose e amicali) di Lorca, sommate da una leggera invidia verso chi, a differenza di lui (che ancora non era così affermato) riusciva ad imporsi, potessero essere stati i motivi di base per la nascita, frenetica e veloce, del suo testo Viaje a la luna. Opera poco conosciuta e recentemente portata in scena nella versione rivista dal catalano Frederic Amat della quale pare che esisterono due diverse versioni, di cui l’originale consegnato alla collettività solo alla morte di Amero, alla fine degli anni Settanta. Nel 2019, con la volontà di ripercorrere alcuni degli aspetti e degli incontri di questa sua rilevante permanenza sul territorio americano, nell’occasione dei novanta anni di distanza, ho deciso di tenere alcuni incontri per riferire su questo periodo centrale nella sua formazione, anche con l’ausilio di supporti fotografici (foto, cartoline, lettere, appunti) del periodo oggi conservati nell’Archivio della Fondazione e riprodotti in volumi tematici, come quello di Andrew Anderson1. Non sono, invece, risultati audiovisivi in possesso che traccino l’immagine di Lorca o che forniscano la registrazione della sua voce, aspetti che in un certo qual modo possono dirsi come gravemente mancanti per definire, al di là delle copiose informazioni in possesso fatte da altri relativamente a questi aspetti, alcuni tratti della sua personalità. Pur disponendo, limitatamente a lui e alla sua opera, di una delle più ampie bibliografie sui poeti del Secolo scorso (per quanto riguarda l’Italia vanno senz’altro ricordati gli studi, le analisi e i commenti di autori quali Vittorio Bodini, Carlo Bo ed Elena Clementelli, che pure si dedicarono alla traduzione della loro opera, 1

Gli incontri si sono tenuti secondo il seguente calendario: il 29/03/2019 alla Sala Conferenze dell’InformaGiovani di Ancona, il 13/04/2019 alla Stanza della Poesia di Palazzo Ducale di Genova, il 14/04/2019 al Poggio Orto Bar di La Spezia e il 25/07/2019 alla Biblioteca Civica “Romolo Spezioli” di Fermo.

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Piero Menarini, Gabriele Morelli, Maria Grazia Assumma), siamo deficitari, pertanto, della componente orale, fonologica, sonora e cinetica della sua poliedrica figura. Pochi giorni fa sul giornale online domenicano Listin Diario è apparso un interessante articolo su Lorca durante la sua permanenza in America dal titolo “El ultimo almuerzo de Federico García Lorca en Nueva York”2, ovvero “L’ultimo pranzo di Federico García Lorca a New York”, dove vengono tracciati, seppur per pillole, una serie di riferimenti importanti e, pertanto, ho deciso di tradurre in italiano, a continuazione, prendendomi la libertà di integrarlo (adoperando appositamente i segni [ ]) con informazioni e nozioni in mio possesso che ritengo utili per maggiori specificazioni in merito ai temi ivi trattati. L’ultimo pranzo di Federico García Lorca a New York Le grandi vetrate incoronate da archi a medio punto e le pareti rivestite di legno del refettorio della residenza John Jay, all’ università della Columbia di New York, permettono [di] immaginare come potesse essere quel refettorio novanta anni fa, quando Federico García Lorca celebrò3 lì, il 4 marzo 1930, il suo ultimo pranzo, prima di lasciare la città. L’autore di Poeta a New York arrivò il 25 luglio 1929 sulle coste della città che odiò e ammirò quasi in egual misura, “fuggendo da varie crisi personali” come [ebbe a dichiarare] a EFE, l’ispanista dell’università di New York, James Fernández, e per studiare l’ in2

https://listindiario.com/lasmundiales/2020/03/02/606522/el-ultimo-almuerzode-federico-garcia-lorca-en-nueva-york 3 L’articolo usa il termine celebrar (“celebrare”) che sarebbe meglio riferibile a una messa o a un rito di altra natura, sicuramente non per un pranzo. Probabilmente l’autore dell’articolo intende sottolineare la centralità di questo evento accaduto – essendo stato, pur nella sua generalità dei contenuti, l’ultimo – e impiega il termine celebrare, come a volerlo innalzare per meglio renderlo visibile e dunque farne oggetto della sua documentazione. Ho deciso, per tali ragioni, di lasciarlo invariato, anche nella traduzione.


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glese, senza molto successo, in un corso per stranieri presso l’Università della Columbia. “La mia stanza di John Jay è da ammirare. Si trova al piano dodicesimo della Hall e [da qui] vedo tutti gli edifici dell’università, il fiume Hudson e uno skyline di grattacieli bianchi e rosa”, scriveva Lorca in una lettera che Daniel Castillo e Mónica Vasa raccolsero in un “atlante letterario” che editarono nel 2017 e che riassume in maniera grafica la permanenza dell’artista in [questa] città. Non ci è stato permesso visitare la stanza 1231 che occupò [Lorca] in questo stabilimento, né la stanza 617 dell’edificio di Furnald, [altro luogo] dove alloggiò, ma una placca commemorativa collocata a novembre 1990, nell’occasione del cinquantesimo anniversario della pubblicazione di Poeta a New York, ricorda la sua permanenza nel campus. “Federico García Lorca visse presso John Jay Hall, dove scrisse Poeta a New York, tra giugno 1929 e marzo 1930”, dice la placca ubicata vicino a una tabella di sughero con annunci e una fontana dove gli studenti riempiono di acqua le proprie bottiglie. Sebbene non sia totalmente certo, dal momento che a gennaio 1930 abbandonò la residenza universitaria per alloggiare in un appartamento [privato], ma il suo legame con l’[Università della] Columbia continuò fino al suo ultimo giorno a New York. Le tracce di Lorca all’Università della Columbia Tra gli edifici dello storico campus, ancora è conservata la base dell’orologio solare di fronte al quale Lorca si fotografò allora e dinanzi al quale certamente lesse l’iscrizione latina “Horam expecta veniet” ovvero “Aspetta l’ora [che] verrà”. “Vi mando una [mia] foto molto bella fatta dinanzi all’orologio dell’Università. È una sfera di porfido molto grande. In essa si può vedere un paesaggio di grattacieli4, se uno si 4

Di superficie lucida, avvicinandosi e con le giuste condizioni, è possibile vedere il paesaggio di grattacieli che la persona che osserva la palla si lascia alle spalle, vale a dire il loro riflesso.

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sofferma con attenzione, e il sole”, scrisse alla sua famiglia. Segue anche un’[altra foto nella quale il poeta è] in piedi nei pressi dell’edificio di Filosofia, dove il 16 agosto 1929 prese parte a un evento in suo onore [voluto e organizzato] dalla scrittrice Concha Espina e [dove] elargì discorsi sulla poesia. Inoltre presentò una relazione del torero Ignacio Sánchez Mejías, la cui morte avrebbe pianto alcuni anni dopo nelle quattro elegie [che compongono il suo celebre Llanto]. È nell’accogliente teatro di Casa Italiana che si conserva, in maggior parte, [il ricordo] dopo i novanta anni [dalla sua presenza] dove il poeta granadino diresse al piano un coro femminile che interpretò musica tradizionale spagnola. “Vorrei che vedeste le americane cantare il vito5! Qualcosa di colossale”, assicurava il poeta dopo aver diretto i cori dell’Istituto de las Españas il 7 agosto 1929. La New York di Lorca Ed è che, come spiega James Fernández, l’epoca nella quale Lorca visse a New York concise con un “boom senza precedenti di spagnoli nel mondo di lingua spagnola”, un’epoca nella quale numerosi letterati, artisti e intellettuali spagnoli ascesero in questa città, come Juan Ramón Jiménez, María de Maetzu, Vicente Blasco Ibáñez, Julio Camba, Joaquín Sorolla o Ignacio Zuloaga, tra gli altri. Il suo itinerario per le vie di New York, da Harlem, che scoprì essere “la città nera più

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Il vito è una romanza, un canto popolare che appartiene alla tradizione andalusa che, come il jaleo e lo zorongo, Lorca conosceva molto bene. In un saggio di prossima uscita il critico Lucia Bonanni ha posto attenzione verso questo forma cantata richiamando alcuni versi di Lorca; in esso si legge: “Del vito Lorca fa menzione nel secondo quadro de Los títeres de cachiporra, facendo cantare a Rosita la strofa di quella danza, assai vivace anche nell’espressione e nel significato letterale: «Con il vito, vito, vito,/ con il vito sto morendo;/ sempre più, tesoro mio/io sento di stare ardendo»”.


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importante del mondo”, fino alla “fredda e crudele” Wall Street, dove “arriva l’oro nei fiumi di tutte le parti della terra e la morte arriva con esso”, si può seguire nella mappa editata da Castillo e Vacas che, come spiega Castillo a EFE, è elaborata a partire da un percorso turistico del 1930, comprato per 600 dollari in un antiquario di New York. Spaventato dalla “assenza totale dello spirito” del quartiere finanziario della città, la cui fatidica crisi del 1929 concise con la presenza di Lorca, si lasciò, senza dubbio, catturare dagli spettacoli di Broadway e dal “ritmo delle immense luminarie di Times Square”. “Lo spettacolo di Broadway di notte mi tolse il respiro. Gli immensi grattacieli si vestono dall’alto al basso di annunci luminosi di colori che cambiano e si trasformano con un ritmo insospettato e stupendo, fiotti di luci azzurre, verdi, gialle, rosse, cambiano e rimbalzano fino al cielo”, sosteneva il poeta, assassinato nel 1936 nella sua terra natale dalle truppe franchiste. Il ritorno in Spagna In una conferenza-recital pronunciata a Madrid il 16 marzo 1932 per presentare per la prima volta le poesie ispirate alla città dei grattacieli, Lorca assicurava che “i due elementi che il viaggiatore capta in [quella] grande città sono: [la] architettura extraumana e il ritmo furioso. Geometria e angoscia”. “Ad una prima vista, il ritmo può sembrare allegria, ma quando si osserva il meccanismo della vita sociale e la schiavitù dolorosa degli uomini e la macchina assieme si comprende quella tipica angoscia vuota che rende perdonabile, per evasione, anche il crimine e il banditismo”, continuava. Ma, al di là del ritmo frenetico, della mancanza di umanità o della denuncia della schiavitù, dopo aver lasciato New York confessava che si era [come] separato da essa “con emozione e con ammirazione profonda” e che durante la sua permanenza “aveva ricevuto l’esperienza più utile della sua vita”. Il 18 giugno 1930, Lorca tornò a New York

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proveniente da L’Avana a bordo della nave Manuel Arnús. Ma il suo visto era scaduto e non poté toccare terra, cosicché dovette contemplare la città dall’imbarcazione dove organizzò un pranzo con alcuni degli amici che si avvicinarono a salutarlo. Questo mercoledì saranno pertanto novanta anni dall’ultimo giorno del poeta a New York. Lorenzo Spurio Lorenzo Spurio (Jesi, 1985), poeta, scrittore e critico letterario. Per la poesia ha pubblicato Neoplasie civili (2014), Tra gli aranci e la menta. Recitativo dell’assenza per Federico García Lorca (2016) e Pareidolia (2018). Ha curato antologie poetiche tra cui Convivio in versi. Mappatura democratica della poesia marchigiana (2016) e Sicilia: viaggio in versi (2019). Per la narrativa ha pubblicato tre raccolte di racconti. Critico, ha pubblicato saggi in rivista e volume e il volume Cattivi dentro: dominazione, violenza e deviazione in alcune opere scelte della letteratura straniera (2018). In corso di pubblicazione sono due ampi saggi su Federico García Lorca poeta e drammaturgo, del quale è grande studioso. Si è dedicato anche allo studio della poesia della sua regione con Scritti marchigiani (2017) e La nuova poesia marchigiana (2019). Numerosi i premi letterari vinti, tra cui il "Casentino"; è stato più volte finalista al Premio "Camaiore".

BREVE STORIA DELLA BUROCRAZIA IN EUROPA di Roberto Amati

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A crisi generata dal Covid19 ha riportato al centro delle cronache nazionali un tema molto antico che è quello del ruolo e del potere della Burocrazia. Accusata, obtorto collo, di tutti i mali e i malfunzionamenti del nostro sconquassato paese, l’ insieme di uffici e funzioni esercitanti il potere esecutivo/amministrativo sia a livello locale che nazionale è spesso un vero è proprio potentato organizzato e massivo. Un apparato che si presenta compatto, gerarchizzato, consolidato nei suoi riti impenetrabili, che infine


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assumono una parvenza quasi sacra all’ osservatore. E il motivo è storico. Tutto iniziò con le antiche civiltà mediorientali e nell’Egitto dei faraoni, che usavano tavolette d’argilla o papiri per registrare i dati della contabilità di stato e fiscali, dati anagrafici e censimenti, nonché i depositi dei beni primari stipati nei granai pubblici, che posero le basi della Burocrazia e del suo rapporto biunivoco con la testualità codificata. Modelli che divennero prassi liturgica nell’Impero universale di Dario I, il quale realizzò importanti riforme fiscali e amministrative (Satrapie), poi ereditate da Alessandro ‘magno’ e dai Regni Diadochici. Esempio che anche Roma imitò: già la Res Publica militarizzata e fondata sul censo e sulle centurie si affidava agli esecutori delle leggi/decisioni del Senatus, dei Comitia e dei Magisters e agli esattori dei tributi (pubblicani), conservando documenti e atti di diritto nel Tabularium. Fu Claudio a istituire le Cancellerie, quali organi ausiliari-legati all’ Imperatore, ‘uomini di fiducia’ scelti personalmente per amministrare la finanza, la giustizia, le comunicazioni e gli archivi di stato del Princeps. Poi, Adriano fondò la Res Publica Universalis organizzata sulle leggi romane (Ius Publicum) e gestita da una Burocrazia professionale, legata all’Imperatore dal vincolo di fedeltà e alla sua nominae personale. Durante l’epoca imperiale, la figura del Princeps divenne simile al monarca assoluto di tipo ellenistico-persiano, posto al vertice di uno Stato universalistico e gerarchico e del regime burocratico-militare a carattere dinastico e divino (Augustus). Con la riforma teocratica di Costantino I [325 d.C.], l’Imperator si collocava al vertice di un vasto sistema burocratico (Dioecesis): per il diritto romano, esso rimaneva l’unico titolare del diritto-potere di emettere le leggi (Lex Regia) e di coniare moneta aurea. L’Impero bizantino ereditò per intero civiltà, diritto, sistema amministrativo e forma dell’Impero romano: col prevalere del potere militare, la burocrazia imperiale assunse un ruolo dominante sulle altre classi, cosicché i

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funzionari disseminati su tutto il territorio imperiale e legati direttamente alla Corte dell’Imperator raccolsero autorità e giurisdizione sempre crescenti. Il sistema di potere romano-bizantino fu in seguito imitato dall’Impero carolingio, che istituì Comites, Balivi e Signori locali cui affidare i “poteri di banno” atti ad esercitare quelle funzioni esecutive/fiscali un tempo in mano ai burocrati imperiali, sfruttando l’ ausilio di Schole e monasteri benedettini che per tutto il Medioevo gestirono registri, anagrafi, e depositi di documenti giuridici “pubblici”. Fu Carlo ‘magno’ a recuperare la cultura classica e a fondare la Schola Palatina, mirata alla formazione della conoscenza giuridica dei governatori dell’Impero (Conti Palatini, Missi dominici, Conti e Duchi) e alla diffusione del latino e del diritto romano quali strumenti di redazione degli atti amministrativi. Anche gli imperatori sassoni, che si rifacevano al culto imperiale bizantino e presero lo scettro del regno carolingio, impostarono il sistema del potere imperiale secondo il modello romano, per cui aristocrazia e clero ricevevano i titoli ecclesiastici/comitali esclusivamente dall’Imperator. Con la cristianizzazione/conquista dell’Est si impose il modello imperiale-sacro del Reich, che ruotava attorno agli Arcivescovadi cui il Kaiser, assegnava anche poteri civili e giudiziari in coordinamento coi poteri laici territoriali (Margravi / Burgravi ), secondo la formula politica del Cesaropapismo. Le cose cambiarono un po’ con la Castellania, un’evoluzione della Signoria fondiaria sorta sul diritto di proprietà/possesso del feudum cui si associavano doveri/poteri di protezione/amministrazione del contado, ampliati da nuove funzioni giurisdizionali e politiche assegnate al Signore locale, nonché da poteri fiscali, giudiziari e di ordine pubblico concessi dal Re con il diritto di banno. Altro cambiamento decisivo si ebbe con l’avvento dei Comuni e le relative autonomie politicogiuridiche, fondati sul concetto solidaristico e sull’alleanza fra Cives (conjuratio) mirata a gestire in modo equanime i poteri ammini-


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strativi e militari loro concessi (regalia jura), per mezzo dell’assemblea dei liberi cittadini (Concilium): gli esempi europei furono numerosi e distribuiti ovunque (Fueros, Stadt, Franchige, Boroughs, Civitas). Una tappa fondamentale della storia della burocrazia europea fu l’istituzione del “Domesday Book”, il primo storico censimento di feudi e proprietà/beni patrimoniali demaniali e materiali esistenti nel regno d’Inghilterra, che Enrico I “beauclerc” integrò nel più ampio sistema giurisdizionale dello Stato inglese, composto di Corte dello Scacchiere, Corte dei Conti, ufficiali-sceriffi del Re, Tribunali regi, giustizia locale e burocrazia amministrativa centralizzata [XI secolo d.C.]. Altra tappa miliare di questo percorso fu la promulgazione delle Constitutio Melfitane (la prima vera Costituzione statale di ogni tempo!): era un codice di leggi romano-normanne del Regno di Sicilia che delineava un’ organizzazione giuridica innovativa e centralizzata, embrione dello Stato laico ove i funzionari agivano (per conto del Sovrano esercitante la Suprema Auctoritas) nei confronti della Chiesa e dei feudatari, sulla base dell’antico Diritto giustinianeo, avendo potere su ogni suddito. La formula Rex Imperator in regno suo est divenne il fondamento della regalità francese [“Cotumes de Beaumanoir”, 1283 d.C.], ove l’estensione della sacralità del Rex nel culto e nella burocrazia permise di creare una struttura giuridica gerarchizzata e centralizzata, sottoposta alla guida del Signore-Rex, cui dovettero adeguarsi anche i Duchi, Conti e Baroni francesi, seppur sovrani nel loro feudo. Questo modello fu vigente in tutti i regni europei del Basso Medioevo e perdurò fino al XV secolo, sulla base del ‘principio monarchico’ che informò anche il cd. “stato moderno”: infatti, il Diritto Romano fu la fonte giuridica utile all’elaborazione dei concetti di patria, eternità, continuità e Corporation, necessari a ridefinire istituzioni pubbliche costitutive quali la tassazione pubblica annuale (perpetua necessitas), la difesa perpetua della Patria (necessitas in habitu), relazioni diplomatiche permanenti e la politica estera.

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Nell’Europa orientale, la Russia di Ivan III (proclamatosi ‘Gran Principe’) ereditò la tradizione/simbolica romana-ortodossa di Bisanzio, per cui lo Czar era a capo dello Stato centralizzto/cesaropapista/dispotico/ teocratico e autocratico detto ‘Zarato’. Il modello centralizzato monarchico ispirò anche Casimiro “detto il grande” quando attuò una serie di riforme allo stato polacco, affidando i poteri militari e giudiziari ai burocrati (Starosta), escludendo nobiltà e clero e redigendo gli Statuti (codificazione di diritto consuetudinario polacco), fondando l’Accademia di Cracovia e imponendo la lingua polacca al paese. Fu quindi nell’Inghilterra dei Tudor [XVI secolo d.C.] che nel regime centralizzato con forti tassazioni e limitazioni ai poteri del Parlamento emersero i primi consiglieri politici fedeli al Re (Ministers), gli attuali ministri del governo. La piena indipendenza raggiunta dai Regni europei in epoca moderna li trasformò in Stati sovrani, dotati di un ordinamento giuridico proprio (Ius proprium), pienamente vigente su un territorio ben delimitato, definito dai trattati del Diritto internazionale (Ius Communis), e sulla popolazione residente (sudditi). Si andava così definendo il costrutto politico della giurisdizione autonoma, vigente su di un popolo, all’interno di un territorio definito, che imponeva le responsabilità centrali al Re e al suo gabinetto e gli riservava il diritto alla disponibilità assoluta sui propri sudditi (rapporto di cittadinanza), sulle risorse economiche del fisco e del patrimonio statali, che in alcuni Regni erano il Bene comune (o Res Publica). Con l’avvento del Diritto statuale [a partire dal XIII secolo d.C.], i Regni dinastici stabilirono fecero della legge positiva l’espressione della volontà (o del piacere) del Monarca assoluto. Ma nella gerarchia delle fonti del Diritto positivo si annida il potere democratico elitario tipico: l’ordinamento giuridico diventa infatti strumento con cui manipolare l’ ordine socio-politico per fornire regole comuni arbitrarie alla società civile. È la concezione esattamente opposta alla regalità divina (Lex


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animata) della tradizione cristiana e imperiale. Tuttavia, con l’avvento del Rinascimento e della retorica dell’“uomo nuovo” ispirata all’etica pseudo-cristiana laicizzata, segnata dalla protesta religiosa e dal progresso delle novità scientifiche, si formalizzarono in Europa nel XVIII d.C. le Costituzioni “concesse” dai sovrani, lo stato di diritto, le libertà concesse ai sudditi, la divisione dei poteri politici statuali, l’organizzazione permanente degli ‘stati generali’ e la cooperazione fra Stati e soggetti privati. Ne seguì il “programma politico del Modernismo”, espresso nelle varie riforme apportate dai principali Stati europei fra XVIII e XIX secoli d.C. (cd. “dispotismo illuminato”). Un esempio di scuola fu il modello burocratico-militarista improntato a metodi scientificomatematici del Regno di Prussia di Federico II “il grande”. Che ispirò anche Pietro I “detto il grande” nell’istituire l’ Impero Russo [1721 d.C., con la riforma che cambiò il regime politico-giuridico in stato assolutista]. Modello seguito anche da Luigi XIV in Francia, con importanti trasformazioni in senso autocratico, costituzionalista e laico. Ma tutto fu superato dal colpo di stato del Triumvirato rivoluzionario [1799 d.C.], cui era partecipe tale Napoleone Bonaparte, nominato Primo Console: con la proclamata nuova Costituzione furono istituiti Prefetti statali, Amministrazione burocratizzata, Polizia politica e venne emesso il Codice Civile cd. “egualitarista”, che sarà imposto e diffuso a tutta l’Europa continentale (ancora oggi in vigore in molti Stati!). Dopo la “restaurazione” di Vienna e la trasformazione degli stati europei in repubbliche al termine della Prima Guerra Mondiale, l’Europa fu divisa dalla “cortina di ferro” e diede forma a due modelli contrapposti di organizzazione politico- amministrativa: uno ispirata ai principi di libertà, democrazia e apertura in Occidente, l’altro bloccato, centralista, diretto da élite burocratiche-partitiche a Oriente. Sorsero così importanti istituti formativi pubblici di amministrazione quali l’E.N.A. francese, le public school inglesi e la nostra Scuola Superiore di P.A..

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L’Italia adottò il modello centralizzato della Francia (durante uno dei “giri di valzer” del Regno di Sardegna) durante il XVIII secolo d.C., ereditato in seguito dal Regno d’Italia e dalla Repubblica Italiana. Negli ultimi decenni si è introdotto il sistema tedesco di “efficienza”, che separa la sfera politica-decisoria da quella esecutiva e informa l’intero procedimento ai principi di decentramento e semplificazione, così adeguando la P.A. italiana a quella comunitaria (a sua volta costruita sul modello burocratizzato del Welfare State), aggiornato alle recenti innovazioni tecnologiche e procedurali previste dal modello “civil servant” anglosassone. Roberto Amati Nato nel 1971 a Torino, dove, tranne un breve periodo a Milano per lavoro, ha sempre vissuto e nella cui università ha conseguito due laure: la prima in Scienze della Comunicazione, nel 1998, e la seconda in Scienze Strategiche, nel 2004. Dopo 10 anni di lavoro nel settore informatico e dell’Ict (Information and Communication Technology), nel 2002 ritorna agli studi frequentando un corso di specializzazione in Scienze Diplomatiche Internazionali, idoneo alla preparazione per la carriera diplomatica o per il funzionariato presso le organizzazioni internazionali e approfondendo materie come Economia politica, Politica economica, Diritto internazionale, Bellico e Comunitario, Storia delle relazioni internazionali, nonché Diritto civile, Pubblicoamministrativo e Costituzionale italiano e comparato, Diritto tributario e i Codici fiscali eccetera. Attualmente, è titolare di una posizione Iva. Dal 2009 è iscritto all’albo dei Giornalisti pubblicisti dell’ Ordine del Piemonte.

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Recensioni ANTONIO CRECCHIA IN MORTE DEL PAPA MAGNO Ed. ac. 2019, Edizione fuori commercio, pagg. 64. In età ellenistica – di quando l’insigne sapere della civiltà greca si espanse in altri paesi dopo la morte di Alessandro Magno – era in voga il carme cosiddetto figurato, dove la posizione grafica dei versi dovevano dare luogo ad una figura. In questo caso l’intero carme del poeta saggista storiografo autore di testi teatrali traduttore dal francese, Antonio Crecchia, di Termoli, ‘ridisegna’ in senso globale una delle figure più imponenti che la Chiesa abbia avuto negli ultimi secoli a ruolo di pontefice: S.S. Giovanni Paolo II (1920-2005). Credenti e non, cattolici e non, praticanti e non, di qualsiasi continente hanno riscontrato in questa straordinaria guida della Chiesa, dal 1978 fino alla sua morte nell’aprile 2005, più che un successore di San Pietro, perché si è trattato di un uomo di Dio che ha cambiato le regole e anche, in un certo qual modo, il corso della storia della nostra umanità fino alla sua canonizzazione avvenuta nell’aprile 2014. Amava vari sport tra cui il canottaggio, il nuoto, l’alpinismo e quando ricevette la notizia della sua chiamata a vescovo di Cracovia, che espletò dal 1958 al 1978, trascorse l’intera notte a leggere il capolavoro letterario dello scrittore Premio Nobel statunitense, Ernest Hemingway, Il vecchio e il mare, e la mattina seguente tornò a remare in canoa con gli amici del gruppo con cui era partito per una breve vacanza. Lui, Karol Józef Wojtyla, è stato anche soprattutto poeta, filosofo-teologo, autori di testi teatrali (prima dell’ordinazione sacerdotale, tra il 1941-43,

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recitò come attore teatrale nella clandestinità sfidando le restrizioni imposte dall’ultima guerra sopraggiunta nel suo territorio polacco) e nel 2003 pubblicò, per la Bompiani, l’articolato Trittico romano – Meditazioni, curato da Giovanni Reale, docente universitario di filosofia antica a Milano, nelle prefazioni e introduzione, quale opera letteraria poetica comprendente, tra gli altri testi, l’ interpretazione personale in versi della Genesi dipinta da Michelangelo nella Cappella Sistina nel lontanissimo Rinascimento. «[…] Chiedilo alla Sistina./ Quanto raccontano queste mura!// L’Inizio è invisibile. Qui tutto lo indica./ Tutta questa esuberante visione/ che il genio umano ha liberato./ Pure la Fine è invisibile./ Anche se qui, viandante, davanti al tuo sguardo/ compare la visione del Giudizio finale./ Come renderlo visibile, come poter scrutare/ i limiti del bene e del male?// L’Inizio e la Fine, invisibili, da queste mura/ scrutano noi! » (Dal volume Trittico Romano – Meditazioni, Edizione con testo polacco a fronte, a cura di Giovanni Reale, Bompiani di Milano, Anno 2003, pag. 47). La bellezza di rivederlo e risentirlo vivo tra i versi abilmente composti da Antonio Crecchia, ripercorrendone l’affascinante parabola esistenziale, è incomputabile e l’incipit dell’esteso poema rievoca la sua commovente dipartita, di quando tutti noi, umili mortali, siamo rimasti come gregge senza più l’ energica sua guida in quell’aprile 2005, con la primavera che si ‘bloccò’ per un momento in segno anch’essa di rispetto verso un Santo uomo «[…] Padre e Maestro/ nell’indicare agli uomini di seguire/ con fiducia il messaggio di Cristo,/ sollecitando ciascuno a portare/ con ferma rassegnazione la sua croce,/ a seguire intrepido la retta via del Bene,/ a non lasciarsi vincere e inibire dal Male./ L’eco del tuo “Aprite le porte a Cristo”/ risuona vivo e forte in ogni coscienza,/ sprona ad alzarsi e mettersi in cammino/ sui sentieri della Luce e della Vita eterna,/ senza timore, senza paura, con l’ orgoglio/ di chi vive la primavera della vita/ in armonia con le certezze della fede. » (Pagg. 13-14). È l’apoteosi di un cordoglio autenticamente provato e trasmesso col linguaggio della poesia a tutti noi del presente e a quelli che verranno, affinché, anche fra moltissimi decenni, non vada smarrita l’ essenza dell’uomo Wojtyla, il Papa che ha fatto della sofferenza un irripetibile ‘capolavoro’; come se lui, Karol, avesse messo mano ad un’opera scultorea del grande Michelangelo lasciata sbozzata portandola al compimento, quel ‘Non-finito’ finalmente terminato dopo secoli grazie alla forza della Parola di Dio e al dolore che Giovanni Paolo II ha vissuto per anni sulla propria persona. «[…] Tu dormi il sonno dei giusti e più non sei/ virgulto che


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si rinnova ad ogni primavera,/ ma vivi reliquia consacrata dal Tempo/ nei cuori pietosi di tutte le genti,/ vivi nel ricordo di quanti, da vicino/ o da lontano, ti conobbero e videro/ nella tua presenza un segno del cielo/ su questa offesa e martoriata terra. […] Felice chi potrà dire ai nascituri: Io c’ero! Termoli, 3-7 aprile 2005 » (Pagg. 26-28). Isabella Michela Affinito

MARINA CARACCIOLO VERSO LONTANI ORIZZONTI L’itinerario lirico di Imperia Tognacci BastogiLibri/testimonianze, Roma 2020, pp 82, € 10,00 Marina Cracciolo, milanese residente fin dall’ infanzia a Torino, di formazione letteraria, docente nei licei, è stata consulente di redazione di diverse Case Editrici prestigiose. Collabora a varie testate culturali e scritto numerosi interventi, ha pubblicato saggi, il più recente dei quali si intitola Verso lontani orizzonti L’itinerario lirico di Imperia Tognacci. Nell’introdurre la figura della poetessa romagnola di San Mauro Pascoli, ne sottolinea la biografia trasparente nelle opere e si propone di “evidenziare, tra le varie tematiche, la sua dimensione poetica del Tempo (…) e quella dello spazio” avvertendo che ciò ne costituisce la matrice. Rileva che le opere sono caratterizzate dal viaggio interiore, specificando che più importante non è la meta bensì il percorso suggerito da parole ricorrenti legate al movimento come scorrere, scia, itinerario, strade, percorso, fuga, ecc. La freschezza dell’esposizione mi fa pensare ad una lettura fatta in successione ravvicinata. La Tognaci, di formazione pedagogista, ha insegnato a Roma, città di sua elezione; oggetto di critica, vanta un curriculum di tutto rispetto tra saggistica letteraria, narrativa e poesia. Di questo ultimo genere la Caracciolo passa in rassegna undici opere, seguendo l’ordine cronologico di pubblicazione, non mancando di citare versi e Critici notevoli che si sono espressi sulle stesse. Ci soffermeremo per sommi capi, ricalcando il pensiero della Nostra, con estrema sintesi: offrire un minimo del contenuto delle singole opere, a chi non ne abbia conoscenza, *** Traiettoria di uno stelo (2001), pref. di Francesco Fiumara. Poemetto che segue una raccolta edita in pochi esemplari. La traiettoria è già una linea che descrive un senso “itinerante” ma in questo caso rappresenta il tratto che parte dalle radici e giunge al fiore. Vive tra sogno e realtà degli anni Novanta. Ivi rievoca la fanciullezza spensierata trascorsa a

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Zollara adesso pervasa da malinconica nostalgia per il distacco dalla sua terra che le ricorda l’illustre concittadino e poeta Giovanni Pascoli evocato attraverso riferimenti specifici. Questi riferimenti saranno replicati in altre opere successive. Ben presto il consenso ricevuto incide sul suo orientamento poetico futuro. La notte di Getsemani (2004), pref. di Luca Alfiero Medea. Poemetto di dieci brani di carattere religioso che evoca il “momento più drammatico della vita di Cristo” nell’Orto degli Ulivi, prima dell’ arresto. Traspare la religiosità nella Poetessa e tutta la natura partecipa a questo dramma. Natale a Zollara (2005), pref. di Pasquale Matrone. Volumetto in 5 sezioni; qui il borgo natio diventa centrale con la rievocazione degli affetti familiari, opera da cui trapela la formazione letteraria della Poetessa dei classici, delle Sacre Scritture, del Pascoli, del Leopardi e dei contemporanei illustri. L’atmosfera nebbiosa che s’incontra diventa metafora della “siepe dell’infinito leopardiano”. Odissea pascoliana (2006) pref. di Giuseppe Anziano. Opera in cui reinterpreta temi poetici del poeta romagnolo, è “il titolo stesso, Odissea, allusivo di lunghe e dolorose avventure” rievocante il mito; la moltitudine dei personaggi crea una sorta di coro, il coro della tragedia greca. Nello specifico soffermandosi su un brano pascoliano, “La tessitrice” diventa una “sorella ideale di Silvia e di Nerina, e come loro strappata alla vita anzitempo…” La porta socchiusa (2007, pref, di Mario Landolfi. L’opera si lega alle precedenti per l’argomento sacro e perché rappresenta un cammino pieno di interrogativi sul destino ultimo dell’Uomo al quale spetta da che parte stare della porta. Il prigioniero di Ushuaia (2008), pref. di Mario Esposito. Ushuaia è città dell’Argentina situata nell’estremo sud della Patagonia, è stata sede di una colonia penale fino alla metà del Novecento, in seguito è divenuta museo. Imperia Tognacci immagina che il prigioniero, detenuto che sconta duramente la pena, affidi il messaggio della propria storia di recluso ad una bottiglia lanciata a mare o al vento, affinché l’eventuale viandante leggendolo ne abbia compassione. È qui che si concentra il nocciolo: il prigioniero e la poetessa confondendosi in dissolvenza con il paesaggio, diventano una voce sola. La Poesia è riuscita con il suo “soffio” divino a fare giungere la fraterna compassione al prigioniero. Penso che potremmo pensare ad una trasposizione metaforica. Il lago e il tempo (2010), pref. di Sandro GrosPietro. Il lago viene paragonato a un “crogiolo” di emozioni contenente vari brani tra cui emerge il ricordo della madre scomparsa. Vengono citati brani


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recensivi di Vittoriano Esposito, Brandisio Andolfi. Rosetta Mor. Il richiamo di Orfeo (2011), pref. di Francesco D’Episcopo. Caracciolo osserva che la parola “richiamo” può assumere due significati diversi e contrapposti: attrarre e ammonire. Detto in modo sintetico: nel mito, Orfeo vuole strappare al regno dei morti la promessa sposa Euridice. Qui la vergine viene identificata con la Poesia, quindi OrfeoTognacci vuole salvare Euridice-Poesia dall’oblio. Nel bosco, sulle orme del pastore (2012), pref. di Luigi De Rosa, postfaz. di Giuseppe Laterza. Ritroviamo il mito. Bosco come luogo di fuga o di pace; il pastore si richiama al mitico Aristeo che si era invaghito di Euridice volendola sottrarre ad Orfeo, ma a differenza del mito qui può essere paragonato a diverse figure pure contrastanti: Pan, divinità dei boschi; il biblico Abele; o addirittura il Buon Pastore; o anche riecheggia il pastore leopardiano; o ancora può rappresentare un filosofo, ma soprattutto l’alter ego della Poetessa che si pone interrogativi esistenziali. Là, dove pioveva la manna (2015) pref. di Andrea Battistini e postfaz. di Angelo Manitta. Diario di un lungo viaggio in Giordania, terre del Mar Rosso, e in particolare nell’antica città di Petra i cui templi sono scavati nelle pareti di arenaria. Si apre una nuova visione del mondo che, forse (così mi pare di intendere) allarga gli orizzonti che rispondono alle domande esistenziali di sempre. Il luogo è quello biblico dove la manna era l’alimento che Dio fece piovere per nutrire gli ebrei di ritorno dalla schiavitù in Egitto. La meta è partire (2020, in via di pubblicazione) pref. di Francesco D’Episcopo che definisce l’opera “poema cosmologico”. Il titolo è tratto da un verso di Giuseppe Ungaretti. Nel viaggio di pura finzione non ritroviamo più il cantore Orfeo con la lira e gli antichi miti, ma troviamo il poeta moderno tecnologico alle prese con miti antichi, personaggi biblici e astratti personificati, a confronto. Così con la guida della musa Calliope, non più bella e giovane, ma vecchia e sfiorita, incontriamo nell’ordine, l’Eva primordiale, la Psiche-anima, e dal Paradiso appare Adamo. Nel poeta moderno riecheggia l’arcaico interrogativo sul perché “le folle osannano ancora Barabba” e così vaga nello spazio temporale che parte dai Pitagorici e giunge a Leibnitz e Kant. Ritroviamo il fiume dell’Acheronte che per attraversarlo necessita versare un obolo al traghettatore Caronte; in mancanza della moneta sopraggiunge Calliope, adesso ringiovanita, che offre dei versi del poeta. *** Per concludere penso che Imperia Tognacci con

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le sue opere voglia uscire dalla omologazione corrente dei poeti e voglia scuotere i poeti moderni a non restare alla fonda o a non pascersi nella monotonia quotidiana e non rimanere asservito alla tecnologia moderna. La poesia crea immagini e paesaggi; è rievocazione del vissuto di cui si è impregnati, personale proprio o acquisito per cultura; la poesia gronda degli stati d’animo a volte sbandierati e a volte sottaciuti; la poesia si presenta sotto molteplici aspetti e varca orizzonti insondabili. È lo stile che diventa topos ricorrente che contraddistingue il singolo poeta. E la nostra poetessa mantiene questa o queste due caratteristiche; molto si potrebbe rivelare dento questa “matrice”. Lungo è l’elenco dei recensori che si sono interessati della sua poesia, di varie sensibilità, compreso il sottoscritto. Per tornare a Marina Caracciolo e al saggio, Verso lontani orizzonti, l’autrice ha seguito l’itinerario poetico di Imperia Tognacci, come recita il sottotitolo, si sofferma su aspetti che conducono alla molteplicità delle interpretazioni con particolare cura al linguaggio. Per rimanere all’obiettivo dell’itinerario osserviamo la presenza del topos nel mito classico su cui sorvoliamo; rileviamo luoghi dell’infanzia e della giovinezza (vedi Zollara e Pascoli); estese superficie (p. es. lago e bosco) come abiti con cui coprirsi; viaggi reali (come in Giordania) in cui scopriamo un nuovo modo di vedere il mondo; viaggi verosimili (come in Getsemani e in Ushuaia) nello spirito della compassione. Dall’ultima opera presentata traggo un brano della meta nel viaggio di pura finzione che recita: “Sei nave rassegnata, poeta, // con le cime legate alla bitta, // nella noia mortale // delle assiepate abitudini, // delle rassegnate alture.” Eravamo partiti da un umile stelo e siamo giunti all’alter ego della Poetessa che si pone interrogativi esistenziali. Tito Cauchi

MARIA TERESA INFANTE IL RICHIAMO L’Oceano nell’Anima Edizioni, 2017 - Pagg. 120, € 13,00. Di Maria Teresa Infante, pugliese di San Severo, abbiamo potuto leggere, quasi in contemporanea, due intense opere: Rosso sangue (Oceano Edizioni, 2018) - poesie in difesa della donna, contro il femminicidio che, quasi ogni giorno, immola una vittima innocente sull’altare del falso amore e della bestialità dell’uomo - e Il richiamo (L’Oceano nell’Anima Edizioni 2017), un racconto/romanzo ambientato nel Sud degli anni a cavallo, più o me-


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no, lo scoppio della seconda guerra mondiale e il boom economico, allorché c’è stato un enorme flusso migratorio dal Meridione d’Italia verso il Nord in cerca di lavoro e di una sistemazione più agiata e dignitosa. Peppino, infatti, è un giovane pugliese che abbandona la famiglia e la terra per recarsi a Torino, dove svolgerà diverse attività e lavorerà, per un certo periodo, anche alla catena di montaggio della FIAT; farà ritorno nella sua terra in seguito alla morte del padre e riscoprirà affetti e amori latenti nel suo cuore, lasciandosi definitivamente aggrovigliare dalle ataviche radici. Il richiamo - scrive Giovanni De Girolamo - è “Un affresco in un microcosmo intimista, all’ interno del quale ruota l’uomo con tutte le sue debolezze, la voglia di riscatto, la malinconia, ma anche la sua imperiosa voglia di continuare a essere, nonostante tutto, protagonista della propria esistenza.”; “Un libro - afferma Massimo Massa - che celebra il legame emozionale del protagonista, Peppino, con la propria terra natia, con la memoria del passato, i luoghi in cui è cresciuto, con gli affetti a lui più cari.”. Il richiamo è veramente una bella pittura, impastata con i colori intensi dei sentimenti e delle passioni. Tutti i personaggi, ad esclusione di qualcuno (Giammarco, per esempio, Paolo) sono ben definiti, anche nei loro affetti - sempre intensi - e nelle loro asprezze (“i figli si baciano mentre dormono”), frutto, spesso, dell’ambiente e “di un’educazione rigida e severa”. Il linguaggio è essenziale, supportato da un’ottima punteggiatura e la narrazione fluida, veloce, senza fronzoli, priva assolutamente di retorica. Un quadro forte e veritiero di un Sud agricolo, che ha la terra come unica fonte di ricchezza, e di uomini e donne con le loro aspirazioni, le frustrazioni e le loro conquiste faticose, perciò più gratificanti, macerate come sono nei sudori e nel sangue. Riteniamo doveroso lasciare al lettore la scoperta della trama e l’approfondimento dei personaggi principali, come Peppino e Cecchino; secondari, come Soccorsa, Maria, Lucrezia - e accennare almeno a due protagonisti, in genere mai sufficientemente considerati, perché rappresentano lo sfondo, le quinte del palcoscenico sul quale si svolgono gli eventi: la Terra e la Natura in genere. La Terra, ne Il richiamo, è “un’amante avida e insaziabile”, che fagocita l’essere e gli succhia perfino l’anima, “trascinandolo con sé, nella morsa senza scampo” e “da cui molti vanno via, ma che aspetta sulla soglia, in silenzio, il ritorno di ogni figlio, raccogliendolo nel proprio grembo”. Terra sentita da Peppino come essere vivente, insomma, giacché “emanava calore, lo sentiva sotto le mani.

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Come un corpo caldo. Era vivo, Respirava sotto di lui. Alitava. Pulsava” e come un corpo vivo essa viene spesso dall’uomo profanata “come una mamma a cui è stato strappato il figlio squarciandone il ventre (…), nuda. Immobile. Arresa. (…) Tra la fissità delle acque paludose del lago di Lesina che ruba un lembo (…) alla pianura del Tavoliere, le acque dell’Adriatico e le prime rocce del Gargano, le cave di marmo di Apricena erano uno squarcio nel paesaggio natio”. La Natura ha spesso la pastosità della pittura impressionista e a volte richiama Van Gogh: “Il campo di girasoli si illuminò alla sua destra, strappandogli una smorfia (…). Il giallo oro sfolgorava lungo tutto il lato destro della carreggiata, animando la piana”; “il cielo. Nella sua terra ha un colore che nessun cielo ha mai avuto”; “…un colore, una sfumatura di verde tra le fronde che si lasciavano attraversare dal volo delle gazze o una striatura tra le nuvole che disegnavano l’azzurro, come una tela i Monet.”. La Natura è animata, a volte, “solo dal leggero fruscio delle foglie degli alberi, un bemolle pizzicato dal respiro caldo del vento”; altre volte, dall’ordine, dovuto alla sapiente mano del contadino, che ama svisceratamente la sua terra e la lavora con mano d’artista: “La campagna, ben curata, era un mercato ortofrutticolo a cielo aperto”; “Tra i filari, il vecchio melograno offriva alla vista le ferite aperte dei suoi frutti e le perle rosso rubino”. Un invito a leggere questo bel libro e a gustarne anche odori e sapori. Domenico Defelice

ANTONIA IZZI RUFO VOLER BENE Carta e Penna Editore, 2020 - Pagg. 48, s. i. p. Ecco un volumetto, di una quarantina di pagine, che si lascia leggere d'un fiato e che lascia la bocca buona. L'ultima silloge di Antonia Izzi Rufo, quarantuno composizioni, intitolata “Voler bene” ha un titolo programmatico e una copertina molto bella, che rappresenta due ragazzini in costume sulla spiaggia di Serapo, Gaeta (Lucio, il pronipotino adorato e Lino). L'edizione è stata curata dalla Associazione Culturale “Carta e Penna” di Torino (maggio 2020). Antonia Izzi Rufo non fa, né intende fare, della letteratura erudita (o quanto meno falsa e retorica), ma intende produrre della poesia allo stato puro. Certo, con questo progetto così ambizioso, non cento composizioni su cento, per il solo fatto di essere


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semplici ed autenticamente sentite, possono raggiungere il top qualitativo. Ma quando ciò succede (assai spesso) il risultato è ottimo. La poesia essenziale, nella sua preziosità, è assicurata. Certo al termine “letteratura” non va automaticamente attribuito il significato di retorica. La colpa è di troppi autori che ne hanno abusato, e dei profondi cambiamenti sociali e culturali intervenuti negli ultimi tempi, che hanno creato un solco dannoso tra autori e lettori di poesia e di letteratura in generale. Antonia è una “ragazza cresciuta”. Tutta la vita ha fatto la maestra elementare (laureata in pedagogia) e sa come “prendere” i bambini (anche quelli più sofisticati e “moderni”) per il semplice fatto che li ama (anzi, vuol loro bene...), così come confessa di amare tutti i piccoli degli animali ( vedi la poesia “Voglio bene”, l'ultima della silloge) - Il fatto è che Antonia Izzi Rufo, prima ancora che maestra innamorata ed esperta di bambini, è una donna sensibile e affettuosa che ha posto al centro della vita umana nell'Universo la comprensione intelligente, l'affettuosità, l'indulgenza. Tra le poesie meglio riuscite, più belle e convincenti sul piano qualitativo, mi preme ricordare “Voler bene”, quella che dà il titolo al libro, e che incarna la filosofia di vita e di arte della poetessa: “ Voler bene, donare amore, senza discriminazione, disinteressatamente, è sentirsi paghi dentro, e non avvertire, per nessuno, sentimenti negativi; è avere il sorriso negli occhi, sulla bocca, nell'anima, è abbracciare tutti, ogni essere vivente, con tenerezza, sincerità; è sentirsi puri, leggeri, rendersi degni di volare su, nell'alto dei cieli, di raggiungere l'Infinito.”. Luigi De Rosa FRANCESCO D’EPISCOPO ANIMA Poesie; Prologo dell’Autore, Posfazione di Domenico Defelice, al quale si deve anche l’immagine di copertina - 1° Premio Il Croco 2020 - Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, agosto 2020. Il titolo della silloge, 1° Premio <<Il Croco 2020>>, è quello della lirica "Anima", nella quale così si esprime l'Autore: <<Anima è quel soffio di

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vento, / ... che ti ricorda che esiste / un mondo che soffia da lontano / e... ti prende>> e ti fa <<respirare quell'aria d'infinito che porta con sé>>. Noi uomini, pertanto, materia, siamo vivi grazie a quel "soffio", eterno, che percepiamo col pensiero, che alimenta la nostra intelligenza, la nostra ragione e ci rende simili al Creatore. Quel "soffio", infatti, ci ricorda quando Dio, dopo aver creato il primo uomo, a sua immagine e somiglianza, gli soffiò nella bocca e gli donò l'anima, lo rese vivo, capace di pensare, muoversi, agire. Significativo il titolo: pervade tutte le poesie, scopre, con sincerità, sinonimo di soffio, spirito, il mondo interiore dell'Autore, ci fa conoscere i suoi sentimenti, il suo modo di procedere nella vita, soprattutto la sua religiosità. Le liriche, schiette, scritte in un linguaggio semplice ma profondo, esprimono coerenza e continuità, si susseguono in modo ordinato e rivelano il vero carattere dell'Episcopo, uomo razionale, colto, morigerato, dotato di spirito umanitario. Egli parla di se stesso, di cosa ha fatto e di ciò che vorrebbe fare in futuro. Si esprime con calma, con tranquillità, si dice rassegnato ad ogni evento. Nella prima lirica, "Quando morirò", rivela una grande verità: l'indifferenza con cui la gente accoglie la morte: è, questa, un avvenimento come tanti, si continua nelle proprie attività, si sa, si nasce per morire. Intanto egli esprime un desiderio: vorrebbe vivere gli anni che gli restano "da re", non privarsi di nulla. L'amore non è sempre uguale, ma bisogna accontentarsi, resistere all'usura del tempo. E la vecchiaia? Picasso la vorrebbe più lunga, se, però, si fosse in buona salute. Qual è la città più bella del mondo? Napoli, naturalmente, la sua città: <<Tutto ciò che cerchi altrove, / forse in cielo, / qui lo trovi in terra: / costa poco e regala molto>>. Tra le piante ricorda "la Ginestra": questa <<non chiede niente, / se non la pietra nera / e qualche goccia d'infinito>>. Il nostro pensiero va al Leopardi e al Vesuvio, al "Fiore del deserto", all'implacabile ostilità della natura contro l'uomo che vorrebbe dominare l'universo. Antonia Izzi Rufo


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DOMENICO DEFELICE LE PAROLE A COMPRENDERE Genesi Editrice, 2019 Era da tempo che volevo conoscere "Le parole a comprendere" di Domenico Defelice; era da tanto che leggevo, sulle riviste alle quali sono abbonata, recensioni positive sul bellissimo, interessante testo poetico. Stavo per chiederlo, ma l'Autore mi ha preceduto, me lo ha mandato. Lo ringrazio. Ho sfogliato dapprima, e poi letto attentamente il libro. Le poesie delle quattro sezioni sono spontanee, originali, veritiere, alcune ironiche (in particolare quelle che trattano di politica) e rivelano il vero carattere dell'Autore, uomo colto, attivo, puntuale, morigerato. Quali gli argomenti? L'uomo, la natura, la famiglia, gli amici, l'amore, la politica, l'attualità. Per esprimere i nostri pensieri, ci serviamo della parola. Infatti, fu <<la Parola a confortare / l'umanità ferina delle foreste, / dei deserti, dei ghiacci / nei passati millenni>>. E' stata la parola, e lo è tuttora, che ha permesso all'uomo di confessare la sua gioia di essere venuto al mondo, anche se a volte egli rinnega la vita: <<Nasci ed è primavera. / La giovinezza esplode / e ti arrovelli nel cuore dell'estate. / Imbrunisci nei colori dell'autunno / e ti dissolvi l'inverno / nel mare dell'Eterno>>. Siamo legati al nostro prossimo, in particolare ai nostri parenti. Il poeta ricorda la madre: <<Dormi serena / ...Tra te e noi intatto è ancora / il rosso cordone ombelicale>>; ricorda il padre: <<Te ne andasti chiedendo perdono, / d'essere stato solamente buono, / di non averci lasciato ricchezza>>; ricorda il matrimonio del figlio Luca con Annachiara: <<Oggi nella mia casa è festa grande. / ... Un fiore spunterà>>; ricorda la sua infanzia: <<A cena, pane e cicoria / cotti in acqua di fiume / per le nostre bocche avide./ Mio padre è stanco ed ha sempre / le mani sanguinanti. / Mia madre.. non mangia, / sazia della nostra fame mai placata>>. E l'amore? <<Ho amato più donne / ...Poi venne Clelia, la madre dei miei figli>>. Inneggia alle "donne belle e gentili", "affamate d'amanti.. alti e virili", ma non sanno esse che "l'appetito d'un istante / non sarà mai amor totale>>. Molte sono le liriche che si riferiscono alla politica contemporanea e ai suoi esponenti. Questi fanno a gara per essere eletti, ma pensano solo ai propri interessi, non cercano di favorire le tante persone che li hanno votati, sono esseri subdoli, egoisti, falsi. E le cose vanno male, per la patria, per i cittadini, soprattutto per la povera gente. Lo scrittore fa dell'ironia sul comportamento di certi politici: vorrebbe suscitare il riso, ma, in realtà, fa intendere che "si ride per non piangere". Tanti gli argomenti e tutti attuali. Nel leggere "Le parole a comprendere" , ci

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ritroviamo nei nostri tempi, incontriamo problemi che potrebbero essere risolti dai politici, ma questi non lo fanno perché detengono il potere ingiustamente, non fanno ciò che hanno promesso. Il libro è molto valido e si legge con piacere e interesse. L'autore, attraverso l'ironia, presenta un quadro completo della situazione attuale con l'intenzione di indurre tutti, i politici soprattutto, ad impegnarsi seriamente perché il mondo cambi, in meglio naturalmente. Antonia Izzi Rufo

MARIA TERESA INFANTE IL RICHIAMO Oceano Edizioni, 2017 , pagg. 120, € 13,00 “Potrei liberamente definire ‘Il Richiamo’ - sottotitolo ‘L’appartenenza’ - un romanzo sull’ accettazione, sull’essenza delle cose, sulle scelte di vita. Delicato, morbido, attento, emozionante, rivela tutta la sensibilità che risiede nella penna professionalmente matura e poetica di Maria Teresa Infante”, così scrive nella postfazione Massimo Massa. L’autrice di cui ormai conosciamo quasi tutte le opere, vive un’intensa attività artistico-letteraria, dalla cui lettura emerge, appunto, sensibilità, preparazione e serietà verso argomenti non facili, ma leggeri e soprattutto socialmente impegnati. Il racconto è ispirato liberamente a storie di paese, in cui potrebbero rispecchiarsi parecchie persone del Sud, ma anche del Centro e perché no del Nord Italia. Infatti il racconto ha vinto il Premio Letterario Lupo 2016, perché la storia è universale e narra delle radici culturali di un uomo e della sua famiglia. Afferma Giovanni De Girolamo nella prefazione: “Un affresco in un microcosmo intimista, all’interno del quale ruota con tutte le sue debolezze, la voglia di riscatto, la malinconia, ma anche la sua imperiosa voglia di continuare a essere, nonostante tutto, protagonista della propria esistenza”. Lo stile è fluido, i fatti vengono espressi con un’ottima capacità descrittiva e rappresentativa. Peppino è l’uomo del Sud, che lo abbandona per cercare lavoro e farsi una posizione migliore al Nord e intorno a lui ruotano tre donne che hanno amato e che ameranno sempre senza alcuna condizione; tre donne che soffrono in silenzio senza fare scenate e che vivono in una terra difficile, ma che le appartiene fin dentro. È la storia di una famiglia in cui si discute, si litiga e che si ritrova nel perdono dopo quarant’anni. La Infante scrive: “Un uomo è tale solo quando le sue orme continueranno ad essere calcate. Un fiore reciso non saprà mai dove andrà a morire”. Il senso di appartenenza può essere fon-


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damentale sia nella crescita, sia nella maturità di un individuo, ti rende più sicuro, non ti fa sentire solo e soprattutto ti offre la chiave per scoprire chi sei e da quale realtà provieni; è un codice culturale che ti permette di interpretare i fatti che si svolgono intorno a te e con libertà puoi criticarli, accettarli o scegliere di viverli in maniera diversa. È il racconto di molte persone che abitano in una terra unica come quella del Tavoliere, in cui le distese di grano si allargano donando agli occhi quel tipico color giallo dorato, il cui profumo si libera quando il sole è alto nel cielo. Le vicende si sviluppano in un periodo temporale particolare, in cui la vita era dura e soprattutto per una madre come Maria, che rappresentava il frutto del vissuto matriarcale, vestiva con fierezza l’immagine della donna di ogni tempo, della moglie, della madre, che dignitosamente celava la sua forza dietro le vesti dell’angelo del focolare. La quotidianità insegnava a essere forti, a non ammalarsi, a non lamentarsi, a non mostrare alcuna debolezza: “Era il collante, l’anima della famiglia, il cuore, il seme, il frutto, la stessa terra. Era la Madre. Inizio e fine in eterno divenire”. Maria Teresa Infante con le sue doti poetiche e divulgative, mette in evidenza le numerose sfaccettature delle personalità femminili; anche in questo racconto, in cui sono protagoniste le radici culturali e il senso di appartenenza, il ruolo centrale delle donne emerge in maniera delicata, velata e silenziosa, come soltanto loro sanno fare. Manuela Mazzola ROMANO GUARDINI VORREI AIUTARE GLI ALTRI A VEDERE CON OCCHI NUOVI Catalogo della Mostra realizzato dalla Associazione Rivela, 2018, Euro 10,00 Questo essenziale contenitore della vita e del pensiero dello studioso Romano Guardini offre una sintesi appropriata su tutto il percorso al quale accostarsi onde cogliere energia per un cambiamento interiore. Costruito in collaborazione con il Comune di Isola Vicentina (VI), il Centro Studi Romano Guardini di Isola Vicentina (VI), il Meeting per l'amicizia fra i popoli, e con il contributo del Banco BPM-Banca Popolare di Verona e la Fondazione Giorgio Zanotto e grazie al patrocinio del Comune di Isola Vicentina e del Comune di Verona, il prezioso documento storico si apre con la fotografia di Romano Guardini da piccino nell'avvio al percorso Italiano e Tedesco: “Io sono nato in Italia, a Verona, e precisamente, se mi è lecito aggiungerlo, nelle vicinanze dell'Arena, il cui possente ovale parla di

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un lungo contesto storico e insieme del vigore della forma proprio dell'antichità classica […]. Passa attraverso Verona l'antica via del Nord e le strade sono binari della vita, sui quali si può venire ed anche andare...” (Romano Guardini, Vorrei aiutare gli altri a vedere con occhi nuovi, pag. 6) Seguono 4 pagine di disegni e schizzi che Romano effettuava da piccolo, nature morte e strutture architettoniche che colpivano la sua attenzione e che poi regalava sempre alla Mamma, cui voleva molto, molto bene. Le altre sezioni, che vanno assaporate con estremo indugio spirituale, sono Nello specchio dell'anima. Sezione I Un uomo in tensione (La consegna di una parola/Una lotta sommessa -oltre la parvenza di ciò che è ovvio-/L'opposizione polare -ciò che si chiama vita è in noi discorde-/La malinconia -qui abbiamo a che fare con qualcosa di costituzionale-/Il dramma della libertà -posso dare la mia anima o tenerla- pp. 13-17); Sezione II Nell'esperienza di un grande amore (Il Cristianesimo è un avvenimento il Cristianesimo … è costituito da Gesù di Nazareth/La fede: dialogo di un Io con un Tu -mi guarda, mi parla ed io sono un tu per lui- pp. 20-21); Sezione III Il senso della Chiesa (Un'istanza oggettiva -dare la mia anima ma a chi?/La via per divenire uomo -La Chiesa suscita nell'uomo quella tensione che è in fondo al suo essere-)/ La Chiesa via della vera libertà -abbracciare con tutta l'anima una potenza liberatrice, pp. 22-24); Sezione IV La natura e l'arte, un dialogo tra l'Io e la realtà (Con gli occhi e con il cuore -Il mondo non sono soltanto le cose per se stesse, là fuori-/Il giardino di Isola Vicentina -un albero è una cosa primordiale-/Il paesaggio e il colore (Venezia-Torcello)/Hölderlin -la sua malinconia è terminata nella notte-/Wagner -È un vero e profondo cristianesimo-/Van Gogh -in ogni autentica opera parla il mondo stesso-/Nolde l'azzurro è sempre gioia-/Liturgia -La liturgia...ha la sua ragion d'essere non nell'uomo ma in Dio- pp. 25-36); Sezione V La vita desta la vita (Lo stupore dell'incontro -ti mostro il mio volto/L'amicizia: Joseph Weiger -un rifugio per l'anima-/L'avventura dell'educazione -cosa dunque significa educare?/L'esperienza del Quickborn -Ci affascinava ciò che non avevamo mai percepito prima-/La Rosa Bianca -La sera ne arrivano altri, leggiamo Guardini e parliamo della preghiera- pp. 37-43); Sezione VI Il mondo moderno e la libertà dell'Io (La scienza e la tecnica -la potenza... può creare il bene o il male/Potere come responsabilità -Fare ogni singola cosa... secondo la sua verità-/L'Europa e il suo compito -all'Europa autentica è estraneo l'ottimismo assoluto-/Le forze che cambiano la storia -Le vere possibilità salvatrici risiedono nella coscienza dell'uomo, unito a Dio- pp. 44-49); Sezione VII Testimoni


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(In punta di piedi -Credo che avesse sempre bisogno di avere un oggetto bello davanti a sè-/Hans Urs von Balthasar -ha costruito ricoveri per intere generazioni-/Luigi Giussani -Perché Romano Guardini aveva migliaia e migliaia di ascoltatori?/Papa Paolo VI -ciò che l'uomo contemporaneo desidera udire è il totale e puro annuncio cristiano/Papa Benedetto XVI -La Chiesa non è un'istituzione escogitata e costruita a tavolino..., ma una realtà vivente...-/Papa Francesco -Forse possiamo applicare le riflessioni di Guardini al nostro tempo- pp. 52-57). Questo lo scorrere dei contenuti di vita che han legato Romano Guardini all'esistenza come avventura responsabile, nel pieno ascolto di tutte le realtà, da penetrare per vederne l'essenza, l'anima, quasi come il palpito stesso del pulsare del cuore e la tensione forte al volo d'ali del gabbiano. Romano Guardini. Mi soffermo a lungo sulla riproduzione di un suo acquerello, posto a conclusione di questo documento che è testimonianza di un viaggio anche della coscienza, in quell'azzurro intenso e sfumato, in quel lago di luce tra isole di terra e di vuoto, in quell'intenso notturno blu che talora annera, per entrare in una nuova dimensione che va oltre ogni forma e dilata verso l'infinito... 'per vedere con occhi nuovi...'. Ilia Pedrina

AU BORD DE LA NUIT Mon coeur vibre de joie De n’avoir pas perdu Les heures du jour. Wilma Minotti Cerini (Traduzione di Béatrice Gaudy Dal testo italiano apparso a pag. 48 di PomeziaNotizie, giugno 2020).

Sul tetto della cappella un piccione tuba per attirarsi i favori della banderuola Ma il seduttore non perverrà a rendere infedele la metallica sposa del vento Béatrice Gaudy Parigi, Francia

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D. Defelice: Il microfono (1960)

NOTIZIE ROMANO GUARDINI - Il Priore del Convento di S. Maria del Cengio a Isola Vicentina, padre Renzo Marcon, venerdì 14 agosto 2020 ha aperto l'incontro che inaugura la Mostra QUANDO UNA VITA DIVENTA DISCORSO – Percorso conoscitivo sulle tracce di Romano Guardini (18851968), allestita nella sala Sette Santi del convento curata dalla dott. Giuliana Fabris, coordinatrice scientifica, affiancata da Albano Luigi Berlaffa, storico, aperta al pubblico fino al 30 agosto. Nella locandina la sintesi di un percorso di vita, quella di Romano Guardini, attraverso le tracce grafiche dei mondi che egli ha riscaldato con la sua presenza, i suoi scritti, il suo sguardo: il Convento di Isola Vicentina; la Villa Guardini, abitazione della famiglia e meta estiva dello studioso, teologo e filosofo così amato da Karl Rahner, Papa Ratzinger, suo attento allievo, dai giovani della Weisse Rose, La Rosa Bianca, il gruppo che partendo dalle sue lezioni e dai suoi scritti, trovava il coraggio di opporsi alla tensione di morte che offuscava il loro tempo, nel corso della II Guerra Mondiale e di tanti altri ancora; le architetture della comunità di Mooshausen. Tre fonti archivistiche dirette e convergenti per dar testimonianza delle tappe significative della sua vita proprio come percorso: Gli Inizi-La ScritturaLa malinconia-La Conversione-La LiturgiaOggetti e Segni. Mi ha colpito la sua capacità di cogliere attraverso lo sguardo l'essenza delle cose anche piccole, insignificanti, che acquistano senso profondo se ci si lascia aprire al vedere: nel suo


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sguardo sul mondo, nei suoi scritti, nelle sue approfondite ricerche filosofiche e letterarie è costantemente presente l'invito a cambiare la relazione con se stessi, a rinnovare la consistenza della vita come dono, la Bellezza e l'Armonia come segnali forti della presenza-assenza-essenza del divino. Egli ha scelto Gesù perché vi ha trovato, come essenziale appunto, uno sguardo nuovo con cui legarsi all'Altro, nella Parola e nel Silenzio. Grande impatto spirituale ha offerto la lezione magistrale tenuta in video registrazione da padre Juan Gabriel Ascencio (Università Regina Apostolorum di Roma), a sottolineare il silenzio che ha caratterizzato la diffusione delle sue profonde prospettive d'esistenza e di sguardi sul mondo, rivelati attraverso i suoi scritti in tedesco e poi in italiano dopo il 1968, anno della sua morte, e la necessità di riprendere nuovamente nella mente e nella coscienza, resa responsabile dagli eventi anche recentissimi, il suo modo rivoluzionario di presentare l'essenza del Cristianesimo. Altro importante momento dell'evento è stato la presentazione della pubblicazione per Aracne Editrice degli Atti del Convegno ROMANO GUARDINI – UOMO DEL DIALOGO, UOMO EUROPEO, UOMO CRISTIANO (pp. 233-Euro 13,00), a cura di Giuliana Fabris e Johannes Modesto, tenutosi in questa stessa sede il 17 agosto 2019, e così articolati in successione dai relatori: Premessa dei curatori (pp. 7-10)/Premessa di Francesco Enrico Gonzo, sindaco di isola Vicentina (pp. 11-12)/Saluti introduttivi di Beniamino Pizziol, vescovo della diocesi di Vicenza e di Francesco Rucco, sindaco di questa città (pp. 13-16) /Presentazione di Giuliana Fabris (pp. 1720)/Romano Guardini e l'Europa di Reinhard Marx (pp. 21-36)/L'interpretazione della prima elegia duinese di Rainer Maria Rilke da parte di Romano Guardini di Johannes Modesto (pp. 37-50)/Il rischio immane del modo occidentale di vivere e di operare di Hanna Barbara Gerl-Falkovitz (pp.51-58)/Nel principio era il dialogo di Kosmas Lars Thielman (pp. 59-66) /Cristianesimo come avvenimento di Monica Scholz-Zappa (pp. 67-80)/Il pensiero di Romano Guardini come impulso per l'Europa di Marc Griesser (pp. 81-88)/L'Europa può tornare a esistere? L'orizzonte esistenziale e culturale europeo di Gabriel Wendt (pp. 89106)/Fedeltà a sé e apertura all'incontro. La formazione della persona per la vita politica di Claudia Cristoforetti (pp. 107-128)/Tre rose: amicizia, gioco e malinconia in Romano Guardini di Giuliana Fabris (pp. 129-156). Segue una preziosa Appendice: Una famiglia senza confini tra Italia e Germania- La molteplice complessità nell'iniziale percorso biografico di Romano Guardini di Luigi

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Albano Berlaffa (pp. 157-230), adatta in tutta la sua ricca estensione a far comprendere l'inteso legame del Guardini con la famiglia ed in particolare con la madre, cui dedica, fin da bambino, dei disegni di fiori e schizzi di architetture che testimoniano una sorprendente maturità nella scelta dei temi e nei tratti compositivi. Note sugli Autori trovano spazio alle pp. 231-233. Questa pubblicazione afferma la profonda consistenza spirituale di questo grande protagonista del Novecento che, quando gli è stata presentata da papa Paolo VI la possibilità di diventare Cardinale, ha rifiutato con decisione rigorosa e schietta, autenticamente cristiana. Ilia Pedrina *** CI SCRIVE D’EPISCOPO il 17 luglio scorso: - Un po’ di me Nel più recente numero di luglio di “PomeziaNotizie”, l’ottimo poeta e critico letterario Elio Andriuoli ha recensito, con le consuete intelligenza e sensibilità, la mia silloge poetica Tempo (Il Terebinto Edizioni, 2020), immaginando che seguisse la mia prima raccolta Vita (Genesi Editrice, 2018), vincitrice tra l’altro del Premio “I Murazzi” di Torino. In realtà, tra le due, c’è stata un’altra creatura poetica, Sulla soglia del domani (Il Convivio Editore, 2019), importante per chi scrive perché raccoglie le poesie, vincitrici dei Premi “Emily Dickinson” di Napoli e “Pietro Carrera” di Catania. A Elio Andriuoli e alla sua gentile consorte, Liliana Porro, si devono i più sentiti ringraziamenti per l’impegno, costante, tenace, rivolto a recensire opere di vari autori, compreso chi scrive, e a “Pomezia-Notizie” va il merito di avere giustamente onorato la nostra colta e variegata critica letteraria. Grazie, dunque, sempre ad Andriuoli, Porro e Defelice per il lavoro che svolgono con passione e onestà intellettuale. Francesco D’Episcopo *** ANIMA, di FRANCESCO D’EPISCOPO - Ci scrive, il 4 agosto, da Vicenza, Ilia Pedriana: “carissimo Domenico, grazie davvero anche per IL CROCO, con quel volto di donna senza tempo né luogo, sognante e schivo, seducente e carico di malìa in solitudine, quasi a dar corpo, insieme all'Anima e alla Poesia di Francesco D'Episcopo, che scopro ora esser poeta classico, anche lui nella dimensione d'un tempo e d'un luogo altri, quelli dell'Anima, che cerca la parola per farsi carne e corpo di vita, dando vita. Diglielo, perché mi son scaricata questa vostra splendida testimonianza e ne ho gustato già parti piccole ma bastevoli, come il ricordo di Stanìs Nie-


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vo in ricerca d'un prato in fondo al mare... Grazie ancora e un altro abbraccio Ilia”. *** POMEZIA-NOTIZIE AGOSTO 2020 - Scrive Marina Caracciolo il 4 agosto da Torino: Grazie, caro Domenico dell'invio via mail della rivista. Questo numero di agosto è particolarmente bello: mi è piaciuto tantissimo il tuo editoriale, l'articolo in prima pagina in ricordo di Ennio Morricone; vi ho scoperto certe tue doti perspicaci di critico musicale che non conoscevo (o forse mi erano sfuggite). E poi la bella, entusiastica recensione sul nuovo libro di Emerico. Quindi le appassionate "lettere" di Ilia e le tue belle risposte. E poi le firme di Selvaggi, Leone, Manuela Mazzola e tanti altri; i bei racconti vincitori del Croco; volendo, si potrebbe continuare ad ogni pagina... Spero che PomeziaNotizie non debba, mai davvero scomparire, è troppo bella e interessante per finire in niente. (…) . Un abbraccio grande Marina Emerico Giachery, dall’isola d’Elba, il 13 agosto: Carissimo, è delizioso quel bel bambino, Mattia, che serio serio sfoglia un libro! Mi piacerebbe conoscerlo; quando ero meno vecchio, con l'anima di clown che ho, improvvisavo scenette per i bambini: antoa, antoa (cioè "ancora") mi diceva una bambina che chiedeva il bis. Capisco la tua amarezza per la crisi della cara rivista che è così legata alla tua vita, e non ha mai trovato uno sponsor che la sostenesse. L'hai comunque generosamente e coraggiosamente portata avanti per così lungo tempo. Mi spiace di non aver potuto accontentare D'Episcopo, che stimo come studioso e come uomo. Il numero di agosto lo troverò al rientro. Su quello di luglio ho trovato un bell'omaggio a Ungaretti e mi compiaccio per averlo voluto ricordare con tanto rilievo. Noemi ed io siamo molto legati a Ungaretti. Noemi ha avuto in dono dal poeta una rara edizione con un'affettuosa dedica autografa che elogiava un suo scritto su di lui ed è autrice di un libro su di lui. Io sono nato il suo stesso giorno di febbraio (non lo stesso anno, ovviamente!). L'ho sognato spesso. Ho seguito, sia pure in modo discontinuo, le sue lezioni universitarie all'Ateneo romano, ho scritto parecchio, e ho tenuto corsi, su di lui. Noemi ed io abbiamo anche scritto su di lui un libro "a quattro mani", a capitoli alterni (uno lei, uno io), che s'intitola Ungaretti "verticale", cioè "religioso", e che ha avuto buona accoglienza. Perciò ci associamo con gioia all'omaggio che "Pomezia-Notizie" gli ha dedicato. Speriamo che il nome di Pomezia diventi noto nel mondo intero per la tanto attesa scoperta del vacci-

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no che ci salverà dalla tremenda pandemia. Buon Ferragosto e un abbraccio da Emerico e Noemi

LIBRI RICEVUTI GABRIELLA FRENNA - Sguardo d’artista omaggio a Michele Frenna e a Raffaello Sanzio nel 500° anniversario della morte - Presentazione di Luigi Ruggeri; in copertina, a colori, un mosaico di Michele Frenna; all’interno, a colori, numerose riproduzioni di opere di Raffaello e di Michele Frenna - Magi Editore, 2020, Pagg. 110, € 10,00. Gabriella FRENNA è nata a Messina e risiede, fin dall’infanzia, a Palermo. E’ sempre stata affascinata dai narratori, dal modo di scrivere e di trasportare il lettore all’interno delle loro creazioni. Dalla dipartita dal mondo terreno della sua amata sorella maggiore, si è interessata alle opere che proiettano l’animo umano verso il mistero del divino. Esterna con poesie, racconti e scritti critici, il suo desiderio di addentrarsi nell’essenza conosciuta, di proiettarsi verso il mondo trascendentale e di evidenziarlo insieme con la propria visione realistica. Collabora con riviste nazionali e straniere e fa parte della scuola critica del Prof. Vincenzo Rossi. Ha pubblicato: “La serie dello zodiaco nell’elaborazione musiva” (2002); “Il fascino della valle” (2003); “L’Eremo Italico di Carmine Manzi” (2004); “La rosa” (2005); “L’anima lirica e storica di Brandisio Andolfi” (2007); “Generosa Natura” (2008); “Arcano splendore – Arcane splendour” (2008); “L’anelito spirituale di Ernesto Papandrea” (2009); “Il croco” (2010); “La ragione e il sentimento nelle opere di Leonardo Selvaggi” (2011); “Mosaico di San Calogero di Naro” (2012); “A mio padre - para meu pai” (2015),; “Come voli d’aironi. Omaggio a Michele Frenna e Leonardo da Vinci nel cinquecentenario della sua morte” (2019) eccetera. Nel 2006 è stata edita “La critica di Leonardo Selvaggi sull’arte e sulla letteratura frenniana” e, nel 2009, il saggio di Leonardo Selvaggi “Dai mosaici alla poesia”. Sito internet: www.literary.it ** FABIOLA CONFORTINI - Profumo di Vita Poesie, Prefazione di Marcello Falletti di Villafalletto - Anscarichae Domus Accademia Collegio de’ Nobili, 2020 - Pagg. 98, € 12,00. Fabiola CONFORTINI è nata a Firenze il 1° dicembre 1948 e risiede a Limite sull’Arno (FI). Docente di Lettere in pensione ed ora nonna a tempo pieno. Nel 2016 ha vinto l’11° Premio Internazionale di Poesia


POMEZIA-NOTIZIE

Settembre 2020

“Danilo Masini” e nel 2018 il 12° Premio dello stesso Concorso. Nel 2019 ha ottenuto la Menzione di merito al Premio Internazionale Letterario ed Artistico “Giglio Blu” di Firenze. ** MARINA CARACCIOLO - Verso lontani orizzonti. L’itinerario lirico di Imperia Tognacci BastogiLibri/Testimonianze, 2020, Pagg. 82, € 10,00. Marina CARACCIOLO è nata a Milano ma fin dall’infanzia risiede a Torino. Presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’ Ateneo torinese ha studiato Storia della Letteratura italiana moderna e contemporanea con Giorgio Bárberi Squarotti e si è laureata con lode in Storia della Musica. Dopo aver insegnato alcuni anni nei licei, è diventata consulente di redazione per diverse Case Editrici. Con la UTET ha collaborato all’ opera in 6 volumi “Musica in scena. Storia dello spettacolo musicale” e al “DEUMM. Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti”; al volume “I Mozart in Italia”, a cura di Alberto Basso (2006). Per le sue pubblicazioni ha ricevuto recensioni su quotidiani e periodici, tra cui “Amadeus” e “Il Sole 24 Ore” e qualificati premi, come “Mario Pannunzio” (2001), “Premio alla Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri” (2005), Premio speciale per la Critica Letteraria Rocca di Montemurlo” (2005), Per la poesia inedita, il “Premio Speciale della CriticaMario Tobino” (2008), Premio “Over Cover Scriba” (2008). Traduttrice dal francese e dal tedesco, ha scritto prefazioni, saggi brevi, moltissime recensioni. Inserita in monografie e antologie. Ha pubblicato: Gianni Rescigno: dall’essere all’infinito (2001), Brahms e il Walzer. Storia letteraria critica (2004), Oltre i respiri del tempo. L’universo poetico

IL CROCO I Quaderni Letterari di

POMEZIANOTIZIE Il numero di questo mese è dedicato a:

SENSAZIONI DI UNA FANCIULLA - parte seconda di Manuela Mazzola

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di Ines Betti Montanelli (2016), Otto saggi brevi (Premio ‘Dignità di Stampa’, “I Murazzi”, 2016).

A LETTORI E COLLABORATORI Per mancanza di spazio, si rimandano al prossimo numero la rubrica “Tra le riviste” e parte di quella dei “Libri ricevuti”. Grazie per la comprensione. D. Defelice

AI COLLABORATORI Inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione) preferibilmente attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è gradito un contributo volontario da inviare intestato a: Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 N076 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA


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