Pomezia Notizie 2021_2

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50ISSN 2611-0954

mensile (fondato nel 1973) Direzione e amministrazione: Via Fratelli Bandiera, 6 - Tel. 06/91.12.113 - 00071 POMEZIA (Roma) - Fondatore e Direttore responsabile: DOMENICO DEFELICE – e-Mail: defelice.d@tiscali.it – Attività editoriale non commerciale (art. 4, D.P.R. 26.10.1972 n. 633 e successive modifiche) - Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 213/93 del 23/5/1993 - La collaborazione, sempre gratuita, in parte è libera, in parte è per invito. Ogni autore si assume la responsabilità dei propri scritti - Manoscritti, fotografie e altro materiale, anche se non pubblicati, non vengono restituiti - É ammessa la riproduzione, purché se ne indichi la fonte. Per ogni controversia, foro competente è quello di Roma.

Anno 29 (Nuova Serie) – n. 2

- Febbraio 2021 -

N° 2 della Serie online

L’Intervista

TITO CAUCHI Professore poeta saggista critico letterario a cura di Isabella Michela Affinito. ITO Cauchi – professore negli Istituti Superiori, poeta, critico letterario, assiduo collaboratore di riviste, saggista soprattutto di approfondite monografie su autori contemporanei. Siciliano di nascita – è nato a Gela – vive ad Anzio già da molti anni ed ha cominciato a pubblicare fin dal 1993 con la silloge Prime emozioni, a seguire l’altra raccolta poetica Conchiglia di mare del 2001, Amante di sabbia del 2003, Isola di cielo del 2005, Francesco mio figlio del 2008, Arcobaleno del 2009, Crepuscolo (antologia collettanea) del 2011, Veranima (Quaderno letterario “Il Croco” a cura della redazione di “PomeziaNotizie”, 5° premio al Concorso letterario “Città di Pomezia” 2012), Palcoscenico del 2015. Ma, è soprattutto in questi ultimi anni che ha voluto redigere importanti ed originali monografie, vagliando la più o meno voluminosa produzione letteraria di autori del panorama letterario e artistico contemporaneo, quali il mosaicista

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All’interno: Appetito e letteratura, di Emerico Giachery, pag. 7 Vittoriano Esposito tra Silone e Dante, di Giuseppe Leone, pag. 10 Edith Dzieduszycka: Poesie del tempo che fu, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 13 Trenta righe al giorno, di Luciana Vasile, pag. 15 Una poesia per tutte le stagioni, di Maria Margotta, pag. 22 Un poeta del nuovo millennio: Alessandro Rivali, di Elio Andriuoli, pag. 24 Giannicola Ceccarossi: Anima mia, di Marina Caracciolo, pag. 26 Qiao Hao, di Domenico Defelice, pag. 28 Domenico Defelice: Le parole a comprendere, di Gianni Antonio Palumbo, pag. 31 L’Umanesimo in Basilicata, di Leonardo Selvaggi, pag. 33 Il benvenuto dell’addio, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 37 Dediche, a cura di Domenico Defelice, pag. 42 Notizie, pag. 53 Libri ricevuti, pag. 57 Tra le riviste, pag. 59 RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (Gianni Rescigno: Dall’essere all’infinito, di Marina Caracciolo, pag. 44); Roberta Colazingari (Venezia è un vestito di sale, di Isabella Michela Affinito, pag. 45); Roberta Colazingari (Delirio di parole, di Anna Maria Bonomi, pag. 45); Antonio Crecchia (Verso lontani orizzonti. L’itinerario lirico di Imperia Tognacci, di Marina Caracciolo, pag. 46); Domenico Defelice (Per Luigi non odio né amore, di Gianni Antonio Palumbo, pag. 46); Domenico Defelice (Silvano Demarchi Fine letterato e poeta, di Tito Cauchi, pag. 47); Manuela Mazzola (Un salotto per gli amici, di Marcello Falletti di Villafalletto, pag. 48); Manuela Mazzola (Un uomo che seppe contare i propri giorni, di Marcello Falletti di Villafalletto, pag. 48); Manuela Mazzola (Lasciami almeno un sogno, di Gianni Longo, pag. 49); Laura Pierdicchi (Venezia è un vestito di sale, di Isabella Michela Affinito, pag. 50).

Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Rocco Cambareri, Tito Cauchi, Domenico Defelice, Ada De Judicibus Lisena, Luigi De Rosa, Maria Gargotta, Marie-Christine Guidon, Antonia Izzi Rufo, Giovanna Li Volti Guzzardi, Gianni Rescigno, Franco Saccà, Anna Trombelli Acquaro

siciliano Michele Frenna, Salvatore Porcu, Ettore Malosso, Carmine Manzi, Leonardo Selvaggi, Antonio Angelone, Domenico Defelice, Angelo Manitta, Giovanna Maria Muzzu, Alfio Arcifa, Graziano Giudetti, Pasquale Montalto e altri ancora. Anche lui, attraverso le sue pubblicazioni, è stato oggetto di trattazione nel 2017 da parte dell’illustre poeta saggista prolifico scrittore di origini lucane e residente a Torino, Leonardo Selvaggi, con il libro-saggio Tito Cauchi, Voce all’anima. Dal

2011 al 2017 è stato il presidente del Premio Nazionale di Poesia Edita, “Leandro Polverini” della sua città di residenza, nell’ambito del quale ha curato la mole delle recensioni relative ai volumi partecipanti al premio con la pubblicazione di raccolta di sue note critiche in diversi volumi. «[…] Penso che sia interessante la visione di un solo recensore (lo scrivente) su una pluralità di Poeti (di questa raccolta). Ho tentato di interpretarli, sul filo narrativo, sia pure schematico, che dà un segno


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dei tempi che viviamo; altresì ho provato ad inquadrarli nel proprio ambito poetico senza ricorrere alla comparatistica. » (Dalla sua Prefazione ai Profili Critici 2012, Premio “Leandro Polverini” Anzio, 163 Recensioni, Editrice Totem di Lavinio (RM), Anno 2020, pagg. 230). 1 - Lei è nato a Gela, in Sicilia, isola che ha subìto varie dominazioni nel corso dei secoli, come una pietanza che è stata condita con una grande varietà di spezie. Da cosa o da chi ha avuto lo stimolo di comporre versi e a che età è accaduto? Che dire? Nelle Elementari la poesia godeva di un alone magico e prima che imparassi a scrivere venivo ammirato, dai coetanei e dagli adulti, per i miei pensierini; tuttavia appena imparato a scrivere tenevo per me gli scritti. 2-Il suo luogo natio è situato nella zona a Sud della Sicilia, col Golfo di Gela, dalla cui costa risalendo verso Nord-Ovest s’incontra la suggestiva Valle dei Templi di Agrigento. Confrontando i due ‘mari’, quello che ha visto e dove è cresciuto da bambino e da ragazzo, con l’altro dove risiede già da diversi anni, Lavinio Lido di Enea sul Mar Tirreno, qual è la componente ispiratrice che li diversifica e che lei ha recepito da poeta soprattutto?

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Lavinio Lido di Enea è una frazione di Anzio. Gela e Anzio sono due luoghi mitici, l’ellenico e il latino. Nei miei primi anni Gela era povera e molto semplice; e Lavinio, come centro abitato, non esisteva ancora; quando vi sono venuto ad abitare, nel 1980, aveva il fascino del verde nella quasi totalità delle abitazioni. Gela ed Anzio sono le due sponde dello sbarco anglo americano (a parte quello intermezzo nel golfo di Salerno), evocano la guerra. 3-Lei è del Segno zodiacale del Leone e, quindi, trasmette energia in tutto ciò che fa: intraprendente, ottimista, portato al comando, generoso, che splende e fa risplendere. Basti pensare ai suoi innumerevoli saggi monografici dove la produzione letteraria di altri meritevoli autori hanno ricevuto la sua ‘illuminante’ analisi. Come mai nel suo precedente libro di poesie, Conchiglia di mare, ci sono state le intromissioni di parole quali: morte, notte, deserto, soffrire… e titoli come ‟Contare la morte”, ‟Cimitero di soldati”, ‟Ultima età”, etc. Per l’occasione ripropongo la domanda che, a suo tempo, scrissi all’interno della mia recensione al suddetto suo libro, ovvero: «Perché, allora, una conchiglia ha suggerito anche profezie di morte, essa che è lo scrigno di tutte le voci presenti nel mare?» Il mio segno dice che sono portato al comando? Può darsi. Nel lavoro ed anche nella vita da ragazzo ho avuto compiti di “comando” o di primo piano, senza mai pretenderlo, ma non ho mai comandato, ho sempre cercato la collaborazione. Fatto sta che non sono stato mai un gregario, ma nemmeno uno che vuole comandare, semmai ho agito riuscendo a mediare fra gli amici. C’è una complessità di sentimenti in questa conchiglia, ma sbrigativamente dico che essa è uno scrigno che contiene una perla, accoglie la vita nel nascere. Quindi dopo i tanti


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lutti e disastri si ritorna alla vita (conchiglia) nascendo ancora. 4-Quanto ha contato, a livello umano, l’amicizia fra lei e il maestro, suo conterraneo, Michele Frenna? È rimasto qualcosa che avrebbe voluto dirgli o chiedergli e che non ha avuto il tempo, la circostanza adatta per farlo? Se sì, cosa? L’amicizia è un sentimento prezioso, più dell’amore comunemente inteso fra due persone di sesso diverso. Non avrei voluto chiedere di più perché non sarei stato capace di tenergli testa nel suo campo artistico, ma avrei desiderato goderne di più per la sua saggezza e per la sua umiltà. 5-Quando ha pubblicato la raccolta di poesie ‟Palcoscenico˝, nel giugno 2014, lei si è sentito attore o regista nei confronti delle sue oltre quaranta liriche? Sinceramente non saprei dire quale dei due ruoli sia prevalso. Credo di essere stato protagonista e osservatore. 6-Lei ha redatto saggi critici ad illustri letterati: Ettore Malosso, Leonardo Selvaggi,

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Domenico Defelice, Alfio Arcifa, Salvatore Porcu, Graziano Giudetti, etc. Verso quale personaggio esaminato, e di conseguenza dissertazione, si è sentito più coinvolto, legato da vincoli culturali, amicali o altri, e perché? Tutti gli autori letti e che leggo mi coinvolgono perché, come dice il mio conterraneo Pirandello, noi siamo uno e mille. Da tutti ho imparato qualcosa, mi sono arricchito. Comunque non credo di avere trovato un autore cui identificarmi e prendere a modello, forse sono un po’ asettico; tuttavia ho trovato in Giudetti, come ho scritto nel titolo, “Il senso della poesia”. 7-L’avventura-dissertativa sull’autore Salvatore Porcu, dove soprattutto ha svolto l’ardua mansione di riordino del suo patrimonio letterario (stralci di giornali, articoli, poesie, note critiche, articoli di polemica ed altro) da lui affidatole, è stata un’esperienza che rifarebbe oppure no e perché? Il solo riordino del materiale mi ha impegnato per intero il mio primo anno di pensionamento. Adesso sono preso da altre cose che mi riguardano più da vicino; ugualmente rifarei la fatica perché le carte delle persone valide arricchiscono veramente la vita. Mi sarebbe piaciuto parlare ancora con molte delle persone che adesso non ci sono più e sono diverse. 8-Lei proviene da una formazione TecnicaEconomica ed Informatica. Quando ha scoperto la passione letteraria di scrivere per sé e per gli altri? La mia passione, come ho detto all’inizio, praticamente è nata con me, scrivevo nel mio chiuso; poi ho capito che mi sembrava giunto il momento di una verifica e di confronto (pubblicando nel 1993, a 49 anni). Quanto a scrivere per gli altri la lettura me ne dava occasione e cioè da circa vent’anni (a cominciare dal 2001, dall’età di 57 anni). Recensire gli altri è un atto di generosità e d’amore (e non tutti


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sono disposti a farlo). 9-Essere nato nel 1944, anno dello ‘Sbarco ad Anzio’ da parte delle truppe anglo-americane, rimasto impresso nei libri di storia e non solo, quanto ha influito sulla sua esistenza di uomo, poeta e saggista? In che modo negli anni si è sentito congiunto ad un’epoca determinata e determinante per la storia dell’umanità? Nel mio piccolo non mi sono sentito nulla. Direi piuttosto “l’essere nato a Gela un anno dopo il primo sbarco anglo americano” in Italia, ha segnato la mia vita dei lutti della guerra, delle distruzioni e della povertà intorno.

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di 25 anni, ne sento i brividi. Aggiungo che con questa raccolta ho partecipato a un paio di concorsi: non è stata considerata nemmeno come ultima. 11- “Veranima” (titolo della silloge vincitrice del 5° premio a “Città di Pomezia” 2011) è una parola composta venuta fuori in che modo? Composi Veranima letteralmente d’un fiato, giusto per partecipare al Concorso indetto dal mio amico prof. Domenico Defelice. Lo feci con spirito disinvolto quasi per gioco perché sentivo che la mia “vera” natura si celava lì; era stata custodita (o imprigionata) nella “conchiglia” (o anima) e adesso veniva alla luce.

10-Nella sua magnanimità di autore, ma an-

che di essere umano, ha composto un intero florilegio dedicato ad un ragazzo morto ad appena quattordici anni, “Francesco mio figlio”, pubblicato nell’agosto 2008. Si è talmente immedesimato in quella tragedia familiare da aver saputo egregiamente descrivere in versi il silenzio glaciale subentrato nella casa senza più Francesco, senza più la musica della sua chitarra e del pianoforte che lui suonava. La sua poesia che ha spiegato meglio l’atmosfera luttuosa è stata “Cigola il cancello”. Come è nata e quanto le è costata, a livello emotivo, comporla? Francesco era figlio unico di miei cari amici che frequentavo. Era stato a casa mia e l’avevo visto qualche giorno prima in casa sua. Lo sentivo come un figlio. Ancora adesso, a distanza

12-Quest’ultima domanda prende spunto da uno stralcio della sua presentazione alla raccolta poetica “Arcobaleno”, da lei pubblicata nel 2009. «[…] Così (in riferimento al secolo andato) gli anni ’50 sono quelli delle privazioni del dopoguerra, gli anni ’60 sono quelli oggi detti mitici, gli anni ’70 sono quelli del terrorismo, gli anni ’80 sono per me una parentesi a parte; gli anni ’90 sono quelli contrassegnati da tangentopoli, dai suicidi, dagli assassinii di mafia e dalle tante vittime innocenti.» (Pag. 5 del libro summenzionato). Qual è il decennio, fra i tanti menzionati del secolo scorso, che le è rimasto gradevole in qualità di ricordo e perché? Ho vissuto intensamente tutti gli anni, ma solo in modo interiore. Gli anni più cari sono quelli dell’adolescenza e della prima giovinezza, a


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cavallo dei Cinquanta e dei Sessanta, ma sono anche i più struggenti. Per rispondere compiutamente occorrerebbe scrivere l’intera mia biografia; in tutti i casi, vari semi sono sparsi nelle mie raccolte. (Settembre 2020, T. C.) Isabella Michela Affinito Foto: Pag. 3: Roma, 2002, Tito Cauchi, il prof. Augusto Giordano - giornalista RAI e Domenico Defelice alla cerimonia del Premio Letterario Nazionale “Padre Raffaele Melis”; pag. 4: Roma, 24 gennaio 2014, Università La Sapienza, laurea della giovane Alessandra Cauchi, tra la madre Concetta e il papà Tito; pag. 5: Domenico Defelice, Angelo Manitta e Tito Cauchi il 28 ottobre 2006 alla cerimonia del premio Athanor, sala dell’Immacolata, piazza SS. Apostoli, Roma; pag. 5: Roma, venerdì 24 aprile 2015, facoltà di Lettere e Filosofia, università Torvergata, Tito Cauchi, Domenico Defelice, il prof. Carmine Chiodo e tre allieve.

È IN TRADUZIONE NEGLI STATI UNITI D’AMERICA la silloge di poesie

12 MESI CON LA RAGAZZA di Domenico Defelice A tradurla è la dottoressa scrittrice e poetessa

Aida Pedrina-Soto Ecco, di seguito, un brano nell’originale e nella bella traduzione: SINFONIA D’INSETTI Maggio entra nelle vene con il profumo delle campanule. Nuova luce - e che luce! - arde nei tuoi occhi di conchiglia. Vorrei narrarti in questa sinfonia d’insetti com’è profonda la malinconia che mi affatica; vorrei dirti

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che t’amo come quando... e rifioriva Cleome spinosa!... Ora che corri sull’arco dei miei sogni a rinverdire la passione già come un tempo maggio più dolce si fa, più lacrimoso. Ritorna, io non ti so scordare. Domenico Defelice

A SYMPHONY OF INSECTS May enters in your veins with the fragrance of bluebells. New light - and what light! - Glows in your shell-like eyes. I would like to tell you, in this symphony of insects, how deep is the sadness that wearies me; I would like to tell you that I love you as much as when.... and the thorny cleome was again in bloom!.... Now that you are flowing on the arc of my dreams to awaken the passion, just as long ago, May becomes sweeter, more tearful. Come back, I can't forget you. (Translated by Aida Pedrina Soto)


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APPETITO E LETTERATURA di Emerico Giachery ’era una volta uno studioso siciliano di bizzarro ma non vile ingegno, dotato di un gran gusto per la polemica. Si chiamava Gino Raya. Era noto, tra l'altro, come autore del volume Il romanzo nella «Storia dei generi letterari» dell’editore Vallardi, come autore di una storia della letteratura italiana, come editore di lettere inedite, specialmente nel volume Ottocento minore. Diversi i suoi contributi sul prediletto Verga: i volumetti La lingua del Verga, con un capitolo su Metafore e logica della fame, Eros verghiano e infine Un secolo di bibliografia verghiana, di una puntigliosa minuzia che a volte rasenta la stranezza, arrivando per esempio a segnalare un articolo apparso su una rivista di gastronomia e intitolato Leopardi andava pazzo per i gelati napoletani, articolo che «riguarda il gelato in genere, e ricorda una scena in proposito del

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Mastro-don Gesualdo». Del suo grande conterraneo, del quale aveva anche curato l’epistolario diretto alla Contessa Dina di Sordevolo, Raya aveva una volta imitato lo stile, confezionando ex novo un capitolo della Duchessa di Leyra e spacciandolo per celia sulle pagine della «Fiera Letteraria» come inedito verghiano appena scoperto. Raya, però, considerava suo maggior titolo di gloria l’aver dato vita a una sua «filosofia senza maiuscole», interamente fondata sulla fame come esigenza primaria e come motrice di ogni attività umana, letteratura compresa. Verga, certo, aveva intuito la crudeltà inesorabile e schiacciante del motivo economico già così predominante, con forza di fato, in Nedda. Il critico aggiunge: «Ma ciò che - pure implicito - non è chiaro allo stesso Verga, è la precisazione di quel fatto economico e la sua interna dialettica: è la fame come unica realtà della vita, è la circolarità trofica dell’universo, il mangiare e l’esser mangiato, fuori di che non c’è nulla, e perciò l’assoluta indeducibilità d’ogni azione connessa con la fame più elementare in individui elementari, sia questa fame di cibo o di sesso». Raya riuscì a disporre di una casa editrice, la Ciranna, dedita soprattutto a divulgare i suoi scritti e le sue dottrine, e di riviste, come «Narrativa» e «Biologia culturale» (un titolo che è tutto un programma!), in cui applicava le sue teorie all’analisi letteraria, praticando quella che soleva definire «critica fisiologica». Ebbe persino un fedele discepolo, di nome Pasquale Licciardello, tutto impegnato a diffondere - non saprei dire con quali risultati - il verbo del «famismo» nella cultura contemporanea. Nessun dubbio sull'assoluta primarietà, nell'esistenza umana e, in genere, animale, dell'esigenza nutritizia. Ma al tono leggero e divagante di queste poche pagine si addice molto meglio un titolo che si richiami, anziché alla fame, che evocherebbe l’ombra tragica di uno dei più angosciosi problemi del mondo contemporaneo, al più casalingo appetito. Il quale, del resto, fa la sua comparsa già all’aurora della nostra letteratura, con positivo segno


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di sana vitalità. Penso, per esempio, alla novella XXXIX del Novellino, in cui Aldobrandino, vescovo di Orvieto, probabilmente inappetente o sofferente di stomaco, trovandosi a tavola, osservava non senza invidia un frate minore «che mangiava una cipolla molto savorosamente e con fine appetito». Prima di procedere, assaporiamo (nessun verbo più pertinente al tema!) la ghiotta distinzione dell’inarrivabile Niccolò Tommaseo: «Fame è il bisogno, o venga da digiuno o da voracità: appetito è il desiderio, e il piacere del soddisfarlo. La fame è più urgente, ma talvolta si contenta di poco, il secondo è più fiacco a un tempo e più sciupone. Ogni sorta di cibo serve a placare la fame, nessuno la irrita, ma c’è dei cibi che aguzzano l’appetito; e l’appetito di certa gente non d’ogni vivanda si appaga». Senza far troppo conto di distinzioni, le pagine che seguono non hanno altro intento che suggerire spunti o frammenti di eventuali paragrafi per un’ipotetica storia del motivo, diciamo cosi, «fagico», nella letteratura. Motivo legato, nella maggioranza dei casi, al popolare (o falso popolare) e al comico, nel senso più

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lato del termine. Ancora nel 1861, nel primo romanzo pubblicato da Giovanni Verga, I Carbonari della Montagna (è il primo esempio che mi si affaccia alla mente), il contesto in cui si muovono e si esprimono i personaggi della classe subalterna, come sottolinea Carlo Annoni, appartiene allo stile comico realistico e tocca volentieri l’aspetto mangereccio. Il capitolo in cui sono descritti gli incontri sentimentali dei contadini Angelo e Rita si intitola Amore e sospiri fra piatti e bicchieri. Angelo consola Rita, deperita per pene d’amore, mettendo sulla tavola «due pernici arrostite e ancora calde, che mandavano il più bell’odore, a giudicare dalle smorfie del naso di Angelo, coronate da una fila di passerotti grassi e saporiti. In fondo al paniere riposava uno di quei pani maestosi che fanno l’orgoglio dei contadini. Dopo aver disposto il tutto sulla tavola egli mise un hein! di soddisfazione, e cominciò a servire Rita; poi aprì il suo gran coltello a forchetta e si mise a mangiare con tanto fervore che mostrava che l’ora, l’amore, e il dispiacere non hanno alcuna influenza sullo stomaco di un contadino». «Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io / Fossimo presi per incantamento»: squisita raffinatezza di una rêverie in chiave cortese, in una tradizione affine al provenzale plazer. Un sogno, invece, in chiave popolareggiante o «comica», evoca (in un sonetto anonimo del Codice Riccardiano 2184 pubblicato da Salomone Morpurgo), con fantasia ben altrimenti corpulenta, una squadrata montagna sorgente dal mare, con in mezzo una gran campagna atta a produrre continuamente e spontaneamente ogni mangereccio ben di Dio: «Io vorrìa, in mezzo al mare, una montagna / che fosse lunga e larga in ogni lato / trecento miglia, e quadra come un dato [=dado] / e in mezzo fosse una gran campagna, / e dentro ve nascesse ciò [che] se magna / che fa mistiero a ciascun omo nato». Miraggio affine a quello che il boccacciano Maso, con arte sagace, accenderà nella fantasia credula di Calandrino, descrivendogli la contrada chiamata Bengodi,


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in cui sorgeva «una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavano genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gettavan quindi di giù, e chi più ne pigliava, più se n’aveva». Alla corte medicea, mentre i Signori sedevano a mensa, venivano recitati i canti del poema di Luigi Pulci, e gli ascoltatori certo si divertivano, tra un piatto e l'altro, al racconto delle smisurate imprese divoratorie di Margutte (esperto di tutti i segreti «del fagian, della starna e del cappone, / di tutte le vivande a parte a parte / dove si truovi morvido boccone») e di Morgante nella locanda del malcapitato oste: «Hanno mangiato tanto, che in un mese, / non mangerà tutto questo paese». Epica del robusto appetito, già presente nelle rappresentazioni popolari della figura di Orlando. Nelle Avventure di Pinocchio, non immemori della tradizione comica toscana che risale a Boccaccio (il nome stesso di Mangiafoco che ha una barbaccia nera «come uno scarabocchio d’inchiostro» non può non ricordare lo Scarabone Buttafuoco della novella di Andreuccio da Perugia), il terribile serpente muore per il troppo ridere come Margutte. Vi si ritrovano inoltre spropositate abbuffate all’osteria care agli eroi di Luigi Pulci. Al «Gambero Rosso» il Gatto, «indisposto, non poté mangiare altro che trentacinque triglie con salsa di pomodoro e quattro porzioni di trippa alla fiorentina», mentre la Volpe «dovè contentarsi di una semplice lepre dolce e forte con un leggerisimo contorno di pollastre ingrassate e di galletti di primo canto», non senza «un cibreino di pernici, di starne, conigli, ranocchi, lucertole e uva paradisa». Un vero trionfo del «fagico» sarà, naturalmente, celebrato dal vitalissimo genio di Rabelais, non immemore di Morgante e Margutte, oltre che di Trimalcione. Monsignor Gaster, incontrato da Pantagruel nell’isola in cui regna come «protomaestro d’arti del mondo», può sembrare un precursore del sopra ricordato «famismo» di Raya. Le liste di vivande

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che occupano intere pagine del capolavoro rabelaisiano ben si accordano con quanto ora vedremo in sonetti belliani. Ma in Rabelais la «gastrolatria» è segno estremo di una realtà molto più complessa e ricca, generata da amore della cultura e della scatenata inventività verbale, alimentata da incontenibile amor vitae, che comporta anche polemica «contro il vuoto spiritualismo, contro il mortificante ascetismo, contro ‘'incubo e l’ossessione della morte che aveva oppresso le coscienze del secolo precedente. La letteratura come forza, come energia». Così Giovanni Macchia, nel saggio premesso alla bella traduzione italiana di Augusto Frassineti. E ancora Macchia: «Quale è dunque il sogno di Rabelais sulla terra? Da una parte la scienza, dall’altra la gioia dei sensi che ci pongono in comunione con la natura». Quando Gargantua si siede a tavola, il suo formidabile appetito, che è anche avidità di conoscenza, si volge a «tutta la natura, aperta davanti a lui, offerta ai suoi desideri». Emerico Giachery L’UOMO Sta, bimbo, con la mamma, nel suo seno; così dopo, ancor piccolo e quando cresce, quando va a scuola. Adulto si sposa ed è con la nuova famiglia. Quando, però, si fa vecchio e perde le forze del corpo e della mente, resta solo nella sua casa vuota, silenziosa, e che appare più grande. Eppure, non si lamenta. Serio in viso e nella mente, aspetta soltanto... che si spenga. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo, IS


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VITTORIANO ESPOSITO tra Silone e Dante di Giuseppe Leone

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ITTORIANO Esposito, di cui ricorre quest’anno il nono anniversario dalla morte, è stato un critico militante, a tutto tondo, e non solo quando i suoi studi hanno riguardato autori contemporanei, come Silone, Pavese, Pomilio, Flaiano, D’Annunzio, Pirandello, ma anche scrittori e poeti del passato, come Dante, per esempio, in omaggio al quale ha pubblicato, all’alba del Duemila, per i tipi delle Edizioni Tracce di Pescara un saggio dal titolo La “commedia” dantesca tra fede e dissenso, in vista del Giubileo indetto da papa Giovanni Paolo II per quell’anno. Lo ha fatto, ancora una volta, non proponendo una rilettura “estetizzante, ma piuttosto un rigoroso riesame delle motivazioni eticopolitico-religiose che turbarono l’anima ferita d’un cristiano autentico, che al clamore esibizionistico dell’evento ufficiale intese per tutti – e non solo per sé – opporre un pellegrinaggio interiore fatto alla luce della ragione e della fede pura, attraverso i regni della dannazione e della espiazione fino al ricongiungimento con Dio” (11).

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Tutte problematiche per nulla nuove nelle frequentazioni critico-letterarie di Vittoriano, ma alle quali egli stesso si era già interessato: ora, alla luce del cristianesimo di Ignazio Silone; ora, di quel Giubileo, che lasciava intravedere rischi, non nuovi per la Chiesa cristiana, e che il critico ora esorta a evitare. Tanto, che non scriverà questo libro per gli specialisti della dantistica accademica, ma per i lettori comuni, di fede cattolica in particolare, pensosi del destino della società cui appartengono (8). È per loro che Vittoriano domanda e si domanda quanto siano ancora valide le urgenze avvertite da Dante ai primi del ‘300 in occasione di quel primo Giubileo della storia cattolica. E non ha esitazione a rispondere che le tentazioni di ripetere gli stessi errori siano ancora presenti, sulla soglia del terzo millennio, perché esiste tuttora il rischio costante, per non dire, amara certezza, di una chiesa mondanizzata, che si alimenta di ritualismi formali e dottrinali anziché di pratiche concrete all’insegna dell’imitatio Christi. Soprattutto se si pensa – insiste Vittoriano - a quello che è accaduto, di recente, in occasione della beatificazione di Padre Pio da Pietrelcina, a proposito della quale un critico come Carlo Bo non ha esitato ad esprimere la sua perplessità e la sua indignazione, asserendo di non mettere in discussione la persona del Padre, né di avere alcun dubbio sulla santità, ma di nutrire molti dubbi sull’uso che è stato fatto dell’evento e che in certi casi ha sfiorato l’idolatria e la superstizione, con la trasformazione della festa in una fiera, se non in una speculazione o più brutalmente in un robusto giro di miliardi (10). Ora, perché il rischio di quello che Carlo Bo ha chiamato “il supermercato della santità” non si prospetti di qui a qualche mese ingigantito a dismisura per il giubileo del Duemila, Vittoriano propone questo ritorno a Dante (11), che fu, non solo un cristiano autentico – ed è cosa risaputa – ma un cristiano fortemente critico, dalla coscienza lacerata tra il sentimento della fede e il dilagante conformismo


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ideologico, con un invincibile bisogno di rinnovamento reso manifesto attraverso un radicale dissenso con la Chiesa ufficiale del tempo. Ed è bene precisare subito, un dissenso con la Chiesa non in quanto istituzione, bensì come stato teocratico, Chiesa mondanizzata, poco o per nulla rispondente ai fini per cui fu voluta da Dio” (39). La Divina Commedia, infatti, è percorsa interamente da una vigorosa e pur dolentissima polemica anticuriale e anticlericale, che si può assumere a parametro d’un dissenso aspro, reciso, inflessibile nei confronti della chiesa mondanizzata (46). E questo è quanto si evince da un testo che Vittoriano scrisse agli inizi del Duemila, a commento di “passi della “Commedia”, relativi alle tre cantiche dove Dante lancia apostrofi alla gente di chiesa: contro i papi ignavi e simoniaci come Bonifacio VIII, Niccolò III e Clemente V (62); contro la mala condotta di essi, i quali, avidi dei beni mondani, pretendono di tenere insieme la spada col pasturale (79); e contro i papi avari (93) e neghittosi (96). E non solo invettive contro la Curia, anche contro l’Europa politica del tempo retta da un

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Sacro Romano Impero, fragile quanto incapace di azioni di governo e del tutto assente o quasi nelle questioni italiane, se solo si pone attenzione all’invocazione che Dante rivolge all’imperatore asburgico esortandolo a scendere nella penisola per riprendere le redini del comando. “O Alberto tedesco ch’abbandoni costei ch’è fatta indomita e selvaggia e dovresti inforcar li suoi arcioni.” Ma può un saggio del genere avere, nel 2021, nella ricorrenza delle celebrazioni del settecentesimo anniversario dalla morte di Dante, la stessa carica di attualità che aveva ieri, per inserirsi, con la stessa puntualità, nel novero delle manifestazioni previste per questo evento? Può, ove si tenga conto che Vittoriano venne saggiando la commedia dantesca alla luce di un sentimento religioso moderno quale si manifestò alla sua coscienza studiando l’opera d’Ignazio Silone, che gli insegnò a cercare Cristo e i suoi valori in mezzo ai cafoni della Marsica, lontano dai luoghi sacri della liturgia, tanto da instillargli un cristianesimo sul filo dell’eresia, coi poveri in primo piano in fiduciosa attesa di una palingenesi del mondo. Allora ben s’intuisce quanto lunga sia l’onda del suo saggio, grazie a un comparatismo che viaggia sotterraneo lungo le 120 pagine che lo compongono, già a partire dal sottotitolo tra fede e dissenso, che riguarda, certo, il dissidio interiore di Dante, quale emerge dalle terzine del suo poema; ma che evoca anche dubbi e perplessità siloniani. Un saggio, allora, questo, di Vittoriano, che fa apparire Dante siloniano e Silone dantiano, e che finisce anche per dirimere una questione che aveva finito per dividere l’uno e l’altro sul conto di Celestino V, “colui che fece per viltade il gran rifiuto, secondo Dante; e per Silone, colui che si era dimesso dal pontificato per rimanere un buon cristiano: due punti di vista a cui Vittoriano non sembra andargli dietro perché il confronto non sussiste se egli stesso dà credito a Sapegno quando afferma


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che non fosse certamente lui quell’innominato da Dante, perché “la figura dell’innominato non ha nel contesto un suo risalto specifico; è piuttosto un personaggio emblema, termine allusivo di una disposizione polemica, che investe non un uomo singolo, ma tutta la schiera innumerevole degli ignavi” (57). Dunque, una profonda riflessione; un’analogia, si direbbe, questa Commedia dantesca tra fede e dissenso, una similarità, tra Dante “fiorentino di nascita ma non di costumi” e Silone, cristiano senza chiesa e socialista senza partito, due intellettuali lontani nel tempo, ma così vicini nello spirito fino a ritrovarsi fianco a fianco, nonostante le leggi anticovid lo impediscano, durante questi festeggiamenti del 2021 dedicati a Dante, a cui Vittoriano Esposito non ha fatto mancare il proprio tributo di critico militante quale è sempre stato. Anche ora a vent’anni dalla composizione di questo saggio e a nove dalla sua scomparsa. Giuseppe Leone Vittoriano Esposito: La “Commedia” dantesca tra fede e dissenso. Edizioni Tracce Pescara. Lire 22.000. Pp. 120. Foto di pag. 11: Ninetta, Darina Silone, Vittoriano Esposito

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Un libro da leggere e da regalare:

I racconti di Domenico Defelice sono sviluppati sul modello di un autobiografismo venato dall’immaginazione artistica, dal sogno e dalla memoria della letteratura. L’atmosfera che si sviluppa sulla pagina è quella di un realismo palmare, in cui tuttavia non manca il ricorso alla metafora letteraria. La parola scritta possiede una capacità di “trasferimento” dell’intreccio in una dimensione che è altra cosa rispetto all’esposizione denotativa della prosa. C’è sempre il sogno di un mondo parallelo alla realtà che vive nella memoria dell’Autore, come è magnificamente rappresentato nel racconto esemplare In viaggio con Google, nel quale lo spartito su cui si compone il concento possiede due chiavi distintamente bene connotate: la prima è data dal realismo schietto della visione documentaristica d’attualità come appare nelle videate dello strumento audiovisivo, mentre la seconda consiste nella ricostruzione evocativa della memoria dell’autore, così ricca di emozioni, di simboli, di ricorsi letterari. Sandro Gros-Pietro Genesi Editrice – via Nuoro 3 – 10137 Torino – genesi@genesi.org; http://www.genesi.org – Pagine 210, € 12,00


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EDITH DZIEDUSZYCKA: POESIE DEL TEMPO CHE FU di Liliana Porro Andriuoli E Poésies d’antan (Poesie del tempo che fu) di Edyth Dzieduszycka apparse presso l’Editrice La vita felice nel 2018, possono definirsi come liriche della memoria, per il loro proiettarsi nel passato del quale rivivono l’incanto e il prodigio. Sono queste poesie bilingui, dato che appaiono in lingua francese col testo italiano a fronte, nella versione della stessa autrice. Il libro reca in epigrafe alcuni versi di Pierre Ronsasrd che così iniziano: “Mignonne, allons voir si la rose / Qui ce matin avait déclose / Sa robe de pourpre au soleil, / A point perdu cette vesprée, / Les plis de sa robe pourprée, / Et son teint au vôtre pareil”1 (Carina, andiamo a vedere se la rosa / che stamattina aveva dischiuso / al sole la sua veste di porpora, / non ha stasera perso / le pieghe della sua veste purpurea / e l’incarnato al vostro simile”). E sono versi che subito ci danno la misura ed il ritmo della silloge in esame, che rivela nell’autrice una piena padronanza del verso e della lingua in cui è scritto. Del resto Giorgio Bárberi Squarotti parla, in una sua lettera datata Torino, 7 aprile 2016, a proposito di questa raccolta, di poesie “efficacemente e suasivamente tradotte” e il prefatore Donato Di Stasi, di “un’ininterrotta polifonia di voci” e di “un’opera-specchio che riverbera in una lingua gli impasti segnici e semantici dell’altra”. E sono questi giudizi che trovano conferma nella lettura dei testi, a cominciare da Crépuscule/Crepuscolo, dove leggiamo: “Toi qui des choses éteins les bruyantes couleurs, / effaçant les contours dévorés d’ombres grises, / qui estompes les angles en formes imprécises, / toi dont j’aime le son, fugitive lueur, // crépuscule aux mains douces et aux parfums de fleurs, …” (Tu che delle cose smorzi i chiassosi colori, / cancellando contorni mangiati d’ombre grigie, / che gli angoli sfumi in forme imprecise, / di cui amo il suono, fuggitivo chiarore, // crepuscolo,

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1 Primo libro delle Odi, 17, 1545.

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morbide mani e profumi di fiori, …). Vario è in queste poesie il gioco della mente che insegue i suoi fantasmi e acuta è la capacità d’introspezione che di una storia d’amore individua le diverse fasi e gli sviluppi, trascorrendo da quelli più estatici e lievi a quelli più pensosi e tormentati. “Moi qui t’ai au hasard de l’amour deviné, / déchiffrant le revers de ton ȃpre méfiance…” (Io che nell’amore per caso ti ho scoperto, / decifrando il rovescio della tua diffidenza…) Combat/Combattimento; “Tu ne m’as rien donné. / Peut-être pour n’avoir / rien à cacher / rien à semer / rien à jeter au vent?” (Tu niente mi hai dato. / Forse per non avere / nulla da nascondere / nulla da seminare / nulla da buttare al vento?”) Les fleurs de rien/Fiori di nulla. Alla diversità delle situazioni la Dzieduszycka fa conseguire la diversità del linguaggio, che si sostanzia di una musica variata, ma sempre fonda ed intensa: “Quelque chose est tapi, / quelqu’un s’est installé, / quelque part, / dans moi” (Si è nascosto qualcosa, / qualcuno


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si è insediato, / da qualche parte, / dentro di me) Autour/Intorno; “Combien d’oreilles astu ravies / du flot de lascives promesses, / affolant des vertu s enfuies / qui n’attendaient que ces ivresses?” (Quante orecchie hai rapito / col flusso di lascive promesse, / sconvolgendo virtù fuggite / in attesa di quelle ebbrezze?) Don Juan/Don Giovanni. Come tutte le storie d’amore anche quella di Edith nasce, cresce ed ha una fine, lasciando in lei la piena dei ricordi, che ella rievoca e che le fanno rivivere le gioie e i dolori di quella sua avventura, che generano in lei nostalgia e tristezza. “Nostalgie des jours heureux / qui habite mon coeur désormais triste, / nostalgie des jours heureux, / jusques à quand traineras-tu / le long de jours si longs / de n’être plus heureux?” (Nostalgia dei giorni felici / ormai di casa nel mio cuore triste, / nostalgia dei giorni felici, / fino a quando ti trascinerai / lungo giorni tanto lunghi / perché non più felici?) Nostalgie/Nostalgia. La nostra poetessa trascorre ora i suoi giorni assediata dai ricordi che in lei “fanno ressa”, facendole rivivere una felice stagione d’amore che l’ha profondamente coinvolta. “Comme des mains goulues, / la furieuse cohue / des souvenirs en rut / se bouscule et se rue / lorsque l’heure est venue” (Come mani ingorde, / la ressa dei ricordi / scatenata, furiosa, / preme e si avventa / allorché scatta l’ora”) Souvenirs/Ricordi. Così, tra nostalgia e malinconia, Edith ci ha dato un libro nel quale il sentimento si fa musica e la parola coglie i moti più segreti dell’animo con immediatezza ed efficacia, comunicandoci i suoi più riposti pensieri che con naturalezza si fanno poesia. “Toi l’oiseau fugitif planant sur mes nuits nues, / l’obsédant visiteur de mes songes mouvants, / serais-tu l’hirondelle aux litanies aiguës / tournoyant sur les bords de cercles lancinants…” (Uccello fuggitivo sulle mie notti nude, / viaggiatore ossessivo dei miei sogni vaganti, / la rondine saresti dai richiami acuti / roteante sull’orlo di cerchi lancinanti…) Vol de nuit/Volo di notte. È questa la virtù del suo dono. Liliana Porro Andriuoli

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T’INCONTRO NELL’ORA Ti incontro nell’ora in cui dormi coi giorni raggomitolati nel pensiero. Tutto ci unisce, niente ci sospinge ai punti opposti della rosa. Gianni Rescigno Da Il vecchio e le nuvole, BastogiLibri, 2019.

È uscito in libreria, ma può essere acquistato anche su internet:

Autore: Domenico Defelice Collana: Arte Formato: 17 x 24 cm Legatura: Filorefe ISBN13: 9788849239911 ISBN10: 9788849239911 Ub.int: VFdS Anno di edizione: 2020 Pagine: 96


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TRENTA RIGHE AL GIORNO Suggestioni e riflessioni al tempo del coronavirus di Luciana Vasile 11 marzo - La peste Lessi diversi anni fa La peste, romanzo del 1947 di Albert Camus, scrittore e filosofo algerino di nazionalità francese. Premio Nobel per la Letteratura nel 1957. Morto nel 1960 all’età di 47 aa. Quelle pagine, allora, molto mi colpirono e restarono tatuate in me per l’acutezza e la profondità nell’addentrarsi nell’animo umano in un momento tragico per la popolazione “Unita e Separata” dal morbo infettante, come del resto verifichiamo in questi giorni della nuova drammatica esperienza per il nostro mondo globalizzato. E così, ora, ho sentito il bisogno di andarlo a riprendere quel libro, confrontarmi con le parole ma soprattutto con i vuoti fra di esse che la scrittura lascia nel bianco del foglio. Muti suggerimenti, interrogativi, dubbi, paure, ma anche un’infinità di riflessioni che altrimenti l’essere umano non trova mai il tempo di fare - c’è sempre del positivo anche nelle situazioni più tragiche -. Nella sua corsa verso non si sa cosa: sicuramente la fine, inesorabile per tutti ma alla quale vogliamo arrivare con il fiatone, l’uomo non riesce a vivere il presente, qui e ora. Non fuggire, stazionare nel vuoto del non detto, non solo in quello che leggiamo ma anche in ciò che abita la nostra interiorità, che tuttavia ci parla se abbiamo orecchie per sentire, con l’anima e con il corpo. Perché come succede negli spazi reali è il Vuoto che disegna il pieno. Lui il protagonista. Cosa leggiamo nel libro di Camus: Orano è una cittadina commerciale della costa dell’Algeria francese in cui << ci si annoia e ci si applica a contrarre delle abitudini >> fino al giorno in cui le strade e le case vengono invase

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dai topi che portano la terribile malattia. La città si chiude poco a poco nell’isolamento e nella paura che modificano i comportamenti collettivi ed individuali: “La peste fu un affare di tutti”, nota il narratore. Negli interstizi, pause fra le parole, del racconto l’Autore sembra suggerire: l’uomo può superare la disperazione e la solitudine della propria condizione attraverso la rivolta lucida e cosciente contro l’assurdo, ovvero attraverso l’impegno e la solidarietà. Il male ed il dolore non possono essere spiegati teoreticamente ma possono e devono essere affrontati con l’etica laica della sincerità individuale e dell’impegno collettivo. Quanto tutto ciò assomiglia a quello che sta succedendo!? Ecco, personalmente ho ritrovato e mi sono ri-conosciuta (riconoscersi è un attimo, conoscere è lento) nel bisogno di Solidarietà, più che mai forte in questi giorni, all’interno dell’ossimoro della forzata responsabile Separazione dei corpi. 13 marzo - Cristo Velato In questi giorni di agonia per molti quasi mi perseguita l’immagine della scultura il “Cristo Velato” della metà del XVIII sec. di Giuseppe Sanmartino. A mio avviso una delle opere d’arte più emozionanti e sconvolgenti che abbia mai visto. Quando visitai la cappella Sansevero di Napoli, dove è conservata, vi rimasi inchiodata davanti per interminabili minuti, immobile, senza parole. Tempo e spazio dilatati di fronte al miracolo della levità della materia (il marmo), lì carica di significato ed essenza. Quella visione suggestiva e piena di mistero mi aiutò ad abbandonare lo sguardo prigioniero, rivolto alle recriminazioni del passato con insistenti richieste al futuro, che rende l'essere umano incapace di vivere il presente. Ivi mi immersi. Intravidi per un attimo la Verità che ci sfugge. Forse troppo semplice, a portata di mano, non abbiamo occhi per vederla, la Verità. Al suo cospetto folgorante, se abbiamo la fortuna di riconoscerla, ci mancano comunque le parole per spiegarla.


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Nella descrizione di Matilde Serao: -… la testa sollevata sui cuscini, piegata a destra. I capelli sono arruffati, quasi madidi del sudore dell’agonia… su quel corpo straziato, una religiosa e delicata pietà, ha gettato un lenzuolo dalle pieghe morbide e trasparenti, che vela senza nascondere, che non cela la piega ma la mostra, che non copre lo spasimo ma lo addolcisce -. Infatti quello che mi colpì, e che dopo anni è rimasto intatto nel sentire della memoria, fu la liquida trasparenza del sudario: la lieve esausta inspirazione richiamava il velo sottile all’interno della bocca dischiusa. Tanta dolce serenità nell’inesorabile ultimo fiato. Quel leggero alito che torna indietro, dentro, ad accarezzare il cuore con il suo calore. Ad entrare e non uscire mai più, complice del trapasso nell’ unità di corpo e anima. Mi chiedo, anzi mi auguro che tutte le migliaia di morti in debito di ossigeno, che sta mietendo la polmonite da coronavirus, possano assaporare la delicatezza dell’estremo sospiro che tanta arte è riuscita a rendere impalpabile, senza angoscia e sofferenza. E così nella veglia, come in un sogno surreale, immagino i tanti Uno, del silenzioso esercito di “cristi velati”, incamminarsi insieme, compagni di avventura, verso un dove. 18 marzo – Il Vuoto La sensazione di vuoto così nuova, la mancanza di terreno sotto i piedi nella quale stiamo galleggiando con il Covid-19 ci aiuterà a cercare una luce nel buio della indeterminatezza che ci avvolge nel tentativo di trasformare l’avversità in opportunità? Trovo suggerimenti nell’architettura. Per un architetto la misura dello stupore è il vuoto. E’ lì che trova l’impulso, autentico e creativo come quello che può provare un bambino e la sua verginità. Dentro di me devo essere vuota, o essere disposta a svuotarmi, per riempirmi, per accettare. Infatti è proprio il vuoto, lo stimolo della mancanza, che ci fa mettere alla ricerca, spesso inconsapevolmente.

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Fuori da noi non è così diverso. I luoghi hanno un’anima. Basta saperla ascoltare. La sua magia sembra legata anche dal rapporto fra pieno e vuoto, là dove è il vuoto che disegna il pieno. E’ lui a dare al pieno il suo significato, ne diventa l’aldilà. Il pieno è dato ed è immutabile. Il vuoto è in divenire e dipende da noi la sua vita futura. Il pieno deve salvaguardare la sua perfezione, preservarla intatta. Il vuoto non si deve difendere può solo accogliere, è disarmato. Il pieno è completezza ma anche impossibilità. Il vuoto è mancanza ma anche possibilità. Il pieno costringe. Il vuoto è libero. Il pieno si può solo distruggere. Il vuoto si può solo costruire. Il pieno è guerra. Il vuoto è pace. Tutto ciò sembra incredibilmente coinvolgere le nostre emozioni e sensazioni trascinate nell’energia che si sprigiona dai vuoti magici della semplice preziosa purezza delle forme geometriche e della plasticità della nuda materia quando si visita una Abbazia Romanica. Energia pregna di tutta quella che altri esseri umani, nei secoli, hanno lasciato, lì, per noi, per comunicare nello spazio e nel tempo. Miracolosamente il tutto vuoto ci avvolge e ci seduce. Lì, allora, avresti solo voglia di cantare. Perché, come dice il Celano parlando di Francesco d'Assisi, che intonava melodie a voce spiegata anche di sola musica senza parole "...la forma di espressione, il canto, unica può tradurre e diffondere i muti messaggi che salgono dalle cose"… e dalle anime. Proviamo, ORA, a cantare la nostra rinascita con impegno, smentendo il coronavirus che sembrerebbe indicarci di dover soccombere alla morte fisica ed economica. 22 marzo - Stretti. Il ballo Sono le 22:00 di domenica e, nell’isolamento da coronavirus, non mi resta che specchiare il pensiero nel ricordo, e perché no … di frivole evasioni. Normalmente, fino a poche settimane fa, in


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questo momento mi sarei trovata immersa: nella musica che catapultava in una nuova atmosfera dopo che il grande portone insonorizzato si era chiuso dietro le spalle. Le note si facevano largo fra i pensieri e ne prendevano il posto. Sembrava che tutto entrasse in armonia al ritmo forte o dolce dei suoni degli strumenti e del canto eseguiti dal vivo. Il mondo con le sue buie preoccupazioni e difficoltà restava fuori. Attivando con curiosità, insieme all’udito, il senso della vista, i frequentatori del Mariposa si presentavano variegati dai molteplici punti di vista da cui si preferisse guardarli. Donne più giovani e scatenate alla pari delle più agé, bravissime e preparatissime anche quelle su tacchi da capogiro e zeppe da rischio storta con capigliature dalle tinture sfacciatamente gialle, carota, nere, sciolte sulle spalle e sui seni generosi strizzati in corpetti di due taglie più piccole, non si perdevano neanche un ballo di gruppo che era stato preannunciato silenziosamente dalle luci rese più forti per una migliore partecipazione corale, anche di coloro che erano rimasti seduti. La luce soft che avrebbe smussato angoli, nascosto i contorni della realtà per entrare nell’ascolto, non si sarebbe fatta attendere quando avrebbe sottolineato la maggiore intimità nel ballo di coppia. Un discorso fra Lui e Lei di familiarità e confidenza nel solo sfiorarsi senza conoscere il nome l’uno dell’altro. Le parole troppo spesso ingannano. Sarebbe stato l’avvicinarsi delle aure, il loro invisibile intersecarsi a svelare consonanza e complicità magari per il tempo di una canzone. Tutti quanti volteggiavano intorno alla sala, leggeri liberi da ogni peso, con volti raggianti accoglienti, impegnati in valzer lenti, nei più vivaci valzer viennesi, in strazianti tanghi, in dolci bachate e rumbe, in allegre mazurche e cha cha cha, in scatenati rock n' roll e jive. L’unica cosa vera, tangibile e che “faceva sentire Insieme” era la passione per il ballo. Ora mi chiedo, potremo mai, in futuro, permetterci ancora di muoverci all’unisono accanto all’Altro, stringerci all’Altro, e per di più sconosciuto, con l’inevitabile diffidenza che

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stiamo maturando che ci spinge a cambiare marciapiede, nei momenti d’aria concessi per spesa e giornale, al fine di non incrociare da vicino un nostro simile che ci deprime con la sua mascherina? Il Mariposa, spazio di concordia, resterà solo un nostalgico respiro di farfalla? Chi può dirlo. 29 marzo - Solo In tempo di pandemia si sente parlare molto, e giustamente, della solitudine della morte, soprattutto per quanto riguarda gli anziani. Isolati, confinati nelle case di cura, a difesa di se stessi e degli altri, senza alcun conforto della presenza di familiari e amici. Nonostante, io sono convinta che, con o senza coronavirus, l’essere umano nasce e muore SOLO, senza poter dividere questi trapassi con alcuno, neanche con la madre che gli dà la luce. Alla morte di papa Giovanni Paolo II mi capitò di riflettere alla vista del lungo serpentone di fedeli che si articolava come labirinto nell’abbraccio del colonnato di Piazza San Pietro. Scrissi queste parole che ripropongo ora, sembrandomi adeguate al tempo che stiamo vivendo, dove alcune domande urgono più che mai, per fare chiarezza, senza illusioni, nelle menti e nelle anime. Solo sei quando la vita ti prende nel grido di pianto si intende la tua ignara paura di vivere Cammini, corri e insegui Cerchi, elemosini e chiedi Solo, se monca è la mano che tendi al fratello Solo, se arida è la bocca ansiosa di baci Solo, se muto batte il cuore sordo all’ascolto Ma quando con pale d’amore riempi quel vuoto glaciale scopri e gioisci d’incanto che Solo nel mondo non sei Solo sei quando la vita ti lascia nella tua ultima umana battaglia di morire hai cosciente paura


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Là nelle piazze le folle condannano, le folle plaudono Uomo sei Solo se ti fai buio Uomo sei Solo se ti fai luce Senza gridare e senza piangere solo il silenzio ti onorerà 19 aprile - Elogio alla brevità Quando ricevemmo la visita inaspettata del Covid-19 con l’obbligo di restare a casa con o senza di LUI una associazione di scrittori ebbe un’idea illuminata proponendo di creare, con il contributo degli scrittori, un “Diario in coronavirus”. Una raccolta di racconti brevi e poesie da far uscire ogni domenica sul sito online. Accettai subito con entusiasmo. Mi piacque la coralità dell’iniziativa - protratta nel tempo di settimane… chissà quante, ahinoi! -. Raccogliere le intuizioni man mano che si presentavano nella loro immediatezza e spontaneità. Un pensiero flash, espresso, come io mi prefissi, in una cartella di non più di trenta righe, da lanciare al mondo di coloro ai quali piace scrivere fissando le proprie emozioni, che contribuisse a colmare la solitudine dell’ isolamento, condividendo. Da convinto architetto minimalista (concisione spaziale), quale sono, mi allettò quel grano, quel piccolo seme, sintesi creativa che poteva diventare moltiplicatore di riflessioni. Lo interpretai come una sfida, un interessante esercizio di scrittura-aritmetica: trenta righe. Mi venne subito alla mente la frase con la quale iniziava la nota dell’editore del mio primo libro di narrativa: “Tutto ciò che l’individuo pensa può essere scritto su un mezzo foglio di carta. Il resto è nient’altro che applicazioni, divagazioni all’intorno”(T. E. Hulme, fra i fondatori dell’imagismo). Mi si adatta anche l’imagismo. I disegni di un architetto hanno il compito di comunicare in un attimo l’idea del progetto, senza bisogno di aggiungere parole, solo in quel caso possono dirsi riusciti. Se comunicare è un’arte, farlo con poche parole o semplici immagini, è Virtù di pochi. Infatti un’altra mia piccola passione sono aforismi e proverbi: “Il

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proverbio è un avanzo dell’antica filosofia, conservatosi fra molte rovine per la sua brevità ed opportunità” (Aristotele). Ho tempo, continuo a cercare compagni di grani di brevità: “Inutile la chiarezza, se il giudice, vinto dalla prolissità, si addormenta. Più accetta la brevità, anche se oscura: quando un avvocato parla poco il giudice, anche se non capisce quello che dice, capisce che ha ragione” (Piero Calamandrei); “Noi vediamo il nostro io migliore negli occhi di coloro che ci amano. E c’è una bellezza che solo la brevità procura” (Cassandra Clare). Ricco il mio mondo onirico. Mi ricordo e mi interpreto i sogni, pure qui trovo alleati: “Il contenuto manifesto del sogno racchiude sempre abbreviazioni rispetto a quello latente” (Principio di Condensazione di Ernst Mach applicato alla psicanalisi). Sono alla trentesima riga. Mi taccio: Meno è meglio dice Beppe Severgnini. “Scrivere breve, per concludere prima di annoiare” (Nicolas Gomez Davila). 22 aprile - La città dei maiali Devo dire che ogni volta che in televisione ci mostrano immagini, all’aperto o al chiuso, con tante persone rigorosamente equipaggiate di mascherine, mi viene da sorridere. Sembra un piccolo esercito di maiali su due gambe, ovviamente non in branco bensì ben distanziati. Infatti le mascherine chiamate FFP2 e FFP3, soprattutto quelle dotate di filtro, presentano al centro della prognatura una specie di grande bottone piatto. Insomma, che dire, così conciati i nostri volti assomigliano al muso allungato del maiale, detto grugno che presenta all’estremità un disco in cui si aprono le narici. Agli ottimisti come me piace pensare che il Covid-19, sicuramente un dramma per il mondo intero, potrebbe essere anche una buona opportunità per riflettere cominciando proprio da noi che, privati di spazi e rapporti esterni, con una capriola di 180° ci potremmo immergere nel Sé, e lì meditare. Chissà, un punto dal quale ripartire per un serio cambiamento nell’atteggiamento di fronte alla vita?


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Per riconoscere le cose veramente importanti? Il Rispetto. L’Uguaglianza. La Solidarietà. La Pace. E così mi sono detta: - Una città di maiali deve essere un buon auspicio -. Il maiale si chiama così perché sacro a Maia, antica dea del risveglio della natura, della fecondità della terra e della primavera. E noi in primavera ci siamo! Approfittiamone! La Città Ideale, città dei maiali, vagheggiata da Platone nella Repubblica, è una città giusta e ben funzionante. Si evidenzia come l’uomo non possa essere solo bisogno: nella città dei maiali lo spazio per il desiderio non c’è; l’appellativo “suino” non è da intendere in senso dispregiativo, ma indica coloro che si accontentano di poco. Ovviamente la città della brama, portata ad esempio, è Atene ed i problemi non mancano anche qui: una città individualista ed egoista senza un profondo senso di comunità è portata alla degenerazione. Questo l’allarme offerto dal filosofo greco. Il 2019, per tutti i paesi asiatici, è stato l’anno lunare del maiale. Nella cultura dell’Estremo Oriente il maiale è un animale importante, sinonimo di prosperità, abbondanza, vita, gioia e fertilità. Ha il colore della pelle, rosa, gradevole, un carattere simpatico, in genere socievole ed è sinonimo di salute e sviluppo. Perché, pensandoci bene, un maiale non fa la guerra contro nessuno, ma vuole vivere in pace con tutti. Forse un aspetto questo che potrebbe suggerire qualcosa ai nostri politici? Sì, mettiamoci le mascherine! 25 aprile - Liberazione dall’egoismo e dalla paura, motivi dell’infelicità umana Dopo aver letto il bellissimo articolo di oggi, 25 aprile, di Paolo Rumiz: “E’ il momento di rifare la Liberazione” che sollecita a riflessioni importanti e profonde, mi riallaccio agli ultimi versi della sua commovente preghiera laica che così recita: Dobbiamo liberarci … dal credere che la felicità sia solo un diritto,/ quando il sorriso è un nostro dovere verso il mondo -. Come architetto che offre il suo aiuto volon-

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tario nel Terzo Mondo mi sono più volte chiesta: - Dove ha dimora la felicità? -. Sicuramente non in quel mondo a sud senza Giustizia, dove la privazione di tutto toglie a troppi ogni volontà di reazione per il proprio riscatto. Immersi in una povertà culturale che li disimpegna, forse è così che qualcuno li vuole. Ma il mondo a nord è ugualmente infelice, nell’anima come nel corpo. Lamentoso, sempre scontento e insoddisfatto, annoiato e con la pancia piena, circondato e ricoperto di beni materiali alla richiesta dei quali non c‘è mai fine. Mai, come in questo momento di epidemia da coronavirus, mi risuona dentro la stessa domanda: - Dove ha dimora la felicità? -. Ma questa volta è tutta l’umanità a soffrire senza distinzioni, anche se gli ultimi godono della palma di essere i primi. La missione con il sacrificio a volte anche della vita, la dedizione agli ammalati, vede in questi drammatici giorni in prima fila medici, infermieri, operatori sanitari. Non posso non ricordare e non paragonare tutto ciò a quello che ho vissuto in Nicaragua. Devo solo riandare con la mente a quel pomeriggio: Li avevo avuti davanti e non li avrei dimenticati. Si facevano largo, nella distesa dell’infelicità che avvolge la terra, sguardi luminosi proiettati fuori dal proprio egoismo, accoglienti, non timorosi dell’Altro. Appartenevano a coloro che, anch’essi bisognosi di aiuto, aiutavano chi si era attardato nel cammino della Speranza. “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi” (Voltaire). Avevano organizzato una festa per bambini nel barrio El Pantanal nella città di Granada, in occasione dell’inaugurazione della donazione di uno spazio sociale. Canti e balli folcloristici. Musica e giochi. Avevano raccolto con una colletta fra poveri quanto necessario per offrire un fresco e una tortilla a tutti.


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Sparito il cupo silenzio, allegro il ridere e il vociare. Mi si aprivano nuovi orizzonti sui quali si distendeva un nuovo raggio di luce. Le emozioni che arrivavano dagli spazi più riposti dell’IO suggerivano e mettevano a fuoco un rivoluzionario e provocatorio punto di vista che mi avrebbe accompagnata per il resto della vita. Durante la festa mi ero immersa, mi ero lasciata contagiare da quel mondo collettivo: dal calore dell’avvicinarsi, dai valori della semplicità e della generosità, dalla capacità di condividere e comunicare che circolava come spirito vivo. Non potevo sbagliare .… lì stava la felicità. 2 maggio - Un buon rapporto RAPPORTO : ogni forma di relazione esistente fra due o più persone, gruppi, istituzioni, organizzazioni, Stati. (definizione dal Dizionario) In questo mondo di lotta conosciamo bene il cattivo rapporto dell’uno contro l’altro. Molte volte mi sono invece chiesta: dove e quando esiste un buon rapporto? Considero importante rispondere a questa domanda. Ho voglia di capire. La conoscenza apre nuovi mondi. Anni che ci rifletto. Lo faccio oggi più che mai partendo dai legami stretti nella vita privata dove, causa Covid-19, si è forzati a condividere H24 spazi al chiuso di pochi metri quadrati. Altro che focolare domestico, gabbia dorata rifugio dal mondo avverso! Proprio fra quelle quattro mura del Mulino Bianco sembra si stia consumando la resa dei conti di relazioni problematiche, ora portate all’esasperazione. Sono anche aumentati i femminicidi. Fra genitori e figli si acuiscono i conflitti. Per non parlare di ciò che succede nel mondo sociale, politico, economico, nel rapporto fra i Paesi all’interno della Comunità Europea, di interi continenti fra loro. Prendendo in considerazione le singole persone, una relazione può assumere diversi significati a seconda con chi la s’intrattiene. Oltre a quelli familiari esistono rapporti di

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amicizia, di lavoro, sentimentali. Quelli che creiamo con gli altri rimarranno con noi per sempre, perciò è molto importante che siano solidi, duraturi e positivi. Allora normalmente cosa si può dire? Ho un buon rapporto con qualcuno quando ci vogliamo bene, quando andiamo d’accordo, quando c’è reciproca sincerità fiducia rispetto, quando affrontiamo insieme gioie e sofferenze, etc. etc. Non mi accontento, troppe troppe parole. Ci deve essere una definizione, una sintesi che contenga tutto ciò e anche di più. Non c’è dubbio che ciascuno di noi possieda pregi e non sia immune da difetti, senza distinzioni o discriminazioni. In questa parità potrei azzardare una definizione e affermare che: Si ha un buon rapporto dove e quando ciascuno tira fuori il meglio di sé. Perché, in fin dei conti, nessuno si piace quando prova rabbia ostilità invidia gelosia … sentimenti negativi. Gratifica invece nutrire affetto comprensione disponibilità solidarietà … sentimenti positivi. E allora come posso stabilire un buon rapporto con il coronavirus, in modo da non soffrire troppo? Accettando la sua presenza, senza prendermela, nella consapevolezza che con Lui dovrò convivere per diverso tempo. A poco a poco anche Lui si sentirà soddisfatto dell’accoglienza, avrà sviluppato il meglio di se stesso e, liquefatto da quel calore, se ne andrà felice. 9 maggio – Il primo giorno di scuola Come architetto sono fra i fortunati che da lunedì 4 maggio possono tornare a lavorare. Quale sarà il modo giusto di stare in cantiere con collaboratori ed operai? Quale il rapporto con i clienti, con i quali incontrandoci ci “daremo di gomito”? E quanto altro non riesco neanche ad immaginare? Come i comportamenti del corpo influenzeranno quelli mentali e psicologici? Emozionata e preoccupata mi preparo ad intraprendere una nuova epoca della mia vita.


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L’era Covid-19, come nelle precedenti rivoluzioni geologiche, corrisponderà ad un cambiamento fondamentale nella storia degli organismi viventi. Perché, rifletto, sarà tutto diverso e sconosciuto. Per ora forse neanche mi rendo conto quanto differente e nuovo. Tutto sommato, adesso che ci penso, questo stato d’animo sospeso posso paragonarlo solo a ciò che provai quando mi trovai, all’improvviso, ad affrontare il primo giorno di scuola. Avevo cinque anni. La mamma mi comunicò che ero stata ammessa a frequentare come auditrice la prima elementare. Per motivi che mi restano tuttora ignoti non ero andata all’asilo. Era tempo che scalpitavo, le mie sorelle maggiori già seguivano le lezioni in quello spazio magico, fino allora a me proibito, che si chiamava ”scuola”. La Notizia significava diventare grandi. L’entusiasmo provocato dall’annuncio mi aveva fatto dimenticare ciò che era successo durante l’estate … bastò toccarmi la testa e con orrore constatare la cute levigata. Mia madre, orgogliosa dei miei riccioli biondi, a un anno – al fine di rinforzare la capigliatura – non aveva avuto il coraggio di raparmi. Ma con il tempo i miei capelli erano diventati fini e radi, così a luglio si era decisa a ripassare la mia zucca con la macchinetta, creandomi in quel momento, sicuramente per un bene futuro, un vero trauma. Il primo giorno di scuola mi presentai alla maestra e alle mie compagne completamente pelata. Di fronte alla nuova fase della mia esistenza, ai nuovi rapporti e come svilupparli, alle responsabilità, agli ostacoli e alle conquiste che mi aspettavano, ero completamente NUDA. Non conoscevo ancora Sansone, tuttavia pensai che la forza doveva essere nei capelli, dei quali io ero totalmente sprovvista. Dovevo avere fiducia! Il mio primo giorno di scuola nell’era Covid19 offre le stesse incognite, gli stessi timori. Ma il mio aspetto è diverso: mantenendo la di-

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stanza di sicurezza mi sono presentata in cantiere con il volto coperto da una mascherina, le mani provviste di guanti. Insomma sulla difensiva. Tanti anni vissuti - probabilmente anch’io avevo contribuito con i miei comportamenti - per sviluppare questa reciproca diffidenza che ci costringe ad alzare barriere fra simili? Ora completamente VESTITA. Luciana Vasile

L’AMORE L’amore che anno dopo anno si carica di foglie secche l’amore che di sogni riluce tramutati in stelle dalla notte l’amore che mai stanco assiste al miracolo dei fiori e dei frutti l’amore che apre l’anima ad altre anime andate via l’amore che con noi cammina così fragile nella carne così tenace nello spirito l’amore che è stato pane nel dolore dolcezza nella gioia l’amore che un giorno ti consegneremo così vero così sincero Tu lo passerai ad altre mani messaggere di speranza inviate là dove noi lo coltivammo cantandolo d’inverno e in primavera. Gianni Rescigno Da Il vecchio e le nuvole, BastogiLibri, 2019.


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UNA POESIA PER TUTTE LE STAGIONI di Maria Gargotta

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A poesia ha sempre molte voci e abbraccia infiniti spazi grazie allo sguardo unico e privilegiato del poeta, che vede anche quello che gli altri non vedono e sente con cuore profondo quello che pochi sentono. Ma se questo è sempre vero per i poeti di ogni tempo, per Domenico Defelice, poeta di questi nostri tempi, in cui sembra non possa esistere più poesia, è particolarmente vero. “Fiat!” è la Parola e il verso che apre la silloge Le parole a comprendere, edita da Genesi editrice (2019); parola magica, anzi sacra, con cui tutto ha avuto inizio in un vortice di creatività, che nel vuoto, con questo imperativo d’amore e di luce, ha posto tutto o, come dice il poeta: Fu la Parola a riempire / il vuoto tenebroso degli abissi / e a dargli luce” (Basterà pronunciare una parola). La Parola, dunque, creatrice e creativa, da quel giorno per sempre ad accompagnare l’avventura umana, a civilizzare, come disse Vico, e dice oggi il poeta, “l’umanità ferina”, a dare “suono luce”, a dare da quel passato speranza al presente e al futuro. La Parola, l’amore per essa, per il suo incanto, per la sua infinita potenza, ma anche per la sua ineluttabile fragilità è, allora, il fulcro, la chiave di tutta la silloge, che già nel titolo Le parole a comprendere ne annuncia la centralità e che, nell’apparente incompiutezza di un mancato (complemento) oggetto, pone forse a se stesso e al lettore una domanda insidiosa in

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una cosa? o in un chi? dalle molteplici e sorprendenti risposte; infatti, proprio quell’apparente incompiutezza, se si tiene presente l’accezione latina cum-prehendere, apre, anzi spalanca, uno squarcio nella coscienza dell’anima contemporanea. Tuttavia, nella poesia, che dà il titolo alla raccolta, sembra svelato l’enigma: Singolarmente o in prosa / sempre inadeguate sono / le parole a comprendere / il senso della vita e delle cose (Le parole a comprendere). E allora, come recita Dante, nell’esperienza del Paradiso, la parola, pur nella sua efficacia, non può tenere dietro a quanto visto, così Defelice sembra inficiare la capacità espressiva dell’ uomo a comprendere il senso della realtà, nonostante quella stessa Parola sia all’origine e al centro di tutto. Ma una cosa è la parola, altra cosa è la Parola poetica, che attinge a quel sublime non ben definibile ma assolutamente percepibile. Infatti, al lettore, che si accosti alla poesia di Defelice, sembra proprio che la sua Parola poetica, di ampio spettro e di molteplici sfumature anche sonore, sappia comprendere e dare voce agli affetti, all’amicizia, alla solitudine, all’autunno della vita, alla morte, quale approdo naturale, in qualche momento addirittura atteso, all’amore per la natura, ad invettive politiche e sociali; testimonianza di una passione poetica che ambisce a comprendere tutti gli aspetti multiformi dell’umanità, qualche volta della disumanità, e a stringerli in una sintesi naturale ben armonizzata. Si ha l’immediata sensazione, di fronte ai versi, mai monotoni e monocordi, di Defelice, che davvero vita e poesia si abbraccino in un unico respiro, consentanei, nella malinconia e nella vitalità di un cercare, che sa scavare nelle profondità impalpabili dell’essere, ma anche nella fisicità più prorompente di una “gioventù fremente nelle vene” (Oggi che avrei bisogno di certezze…), che non dimentica i suoi ineludibili richiami nemmeno al suo declino: “Sei con me tra la folla, / quando ancora – sì, lo confesso: ancora! / la bellezza femminea mi conturba” (Dal panico mi salvi la tua voce). Ma l’esigenza e l’abbandono spirituale è


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ispirazione innegabile, legante le incerte fragilità dell’oggi e le avide speranze dell’oltre; dialogo costante e alitante tra Creatore e creatura, che in questo caso davvero non ha bisogno di parole né ne teme le insufficienze, perché “Mi aliti dentro, notte e giorno, / da quando sono nato. Notte e giorno / e neppure me ne accorgo… Perdonami se non me ne accorgo. / Di me tutto già scritto è nel Tuo libro. / Quando hai deciso, aspirami” (Quando hai deciso, aspirami). E così la fine, che non è mai fine, ma incontro con la Presenza invisibile, che per la “crisalide” terrena saprà trovare abbraccio salvifico di pietà e d’amore: “Chiamami quando vuoi. / Ossa e carne strizzate, / crisalide per la terra / e navicella pietosa: / che a te mi si conduca” (Crisalide e navicella). I richiami letterari, le reminiscenze di immagini poetiche della nostra grande tradizione, così sotterranei eppure presenti nei versi del nostro poeta, lungi dall’appesantire la poesia, le offrono una ulteriore suggestione, perché, come ci ricordava Leopardi, un’immagine è veramente poetica quando ce ne richiama un’altra lontana in un tempo indefinibile. Poi, d’improvviso, nella seconda parte della silloge, il tono cambia, diviene prima risata, divertissement, infine invettiva, fustigante, forte, a tratti dissacrante, in cui la Parola, ancora una volta, gioca, con tutta la perizia possibile, a spiazzare il lettore, abituato già ai toni sommessi e autunnali delle prime poesie. Eppure, è sempre lui, il Poeta, con la sua “dignità”, priva di “conti in banca” e di “villa con piscina” (Del poeta la dignità), che con il miracolo della parola canta la dissolvenza di un altro “vecchio” poeta: “Scuotiti, vecchio fauno. / Un bel raggio del sole mattutino / varca già la collina / e sussulta la gola della cincia” (A Peter Russell), ride (“per non piangere”), fustiga, alla maniera di Giovenale, in epigrammi alternativi, antiletterari, agrammaticali, perché il Poeta può far tutto, cantare la morte e la vita, piangere e ridere nello stile che il suo genio gli suggerisce, o dantescamente gli “ditta” dentro, senza il timore, tutto borghese, tutto mediocre, di non saper volare. Mi piace concludere questo breve excursus

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nella poesia del Defelice con le parole attente del suo editore, Sandro Gros-Pietro: “Alla grazia e alla preparazione dell’uomo di lettere, Domenico Defelice ha sempre aggiunto la mordacità sarcastica e irridente del castigatore della dabbenaggine degli sciocchi, ancora più della bassezza morale dei cialtroni e massime della prepotenza dei violenti” (dalla Prefazione). E, allora, il Poeta, dopo aver giocato seriamente il suo ruolo di trovatore e di giullare, può ben dire, con il piglio ironico sulla banalità del mondo e autoironico sulla presunzione dell’io: “Cosa ha fatto? / Vi chiederete dopo il mio trapasso. / Niente, né per ricchezza, né per gloria. / Ho scritto centinaia di versi / - questo è vero – e qualche piccola / storia, per diletto, sparso ho pure / quintali di sarcasmo e d’ironia. /… / Vi chiederete: cosa ha fatto? Nulla. / Me lo son chiesto tante volte anch’io”. Ma in questo niente, caro Poeta, c’è tutto un universo! Maria Gargotta FUGA DEL TEMPO E può arrivare il giorno del rimpianto per frammenti di vita autentica perduti a miliardi in illusioni inconsistenti. Chi ci restituisce i nostri anni migliori, e i diamanti, e le perle che abbiamo gettato nel vortice banale del giorno dopo giorno? La cultura non rende felici, la sensibilità fa soffrire. Forse il bulbo della nostra vita è rimasto lo steso, ma i delicati fiori, seccati sui gambi, sono innumerevoli. Potremmo disegnare un’intera mappa degli errori da evitare per non svenarsi in cento melodie, per non regalarsi in cambio di un avaro, freddo sorriso. Ma questa mappa sarebbe sempre inutile perché continueremmo ad amare la vita per continuare a viverla. Luigi De Rosa Da Fuga del tempo, Genesi Editrice, 2013.


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UN POETA DEL NUOVO MILLENNIO:

ALESSANDRO RIVALI di Elio Andriuoli RA i poeti che si sono distinti all’inizio del nuovo millennio in Italia è da segnalare Alessandro Rivali, nato a Genova nell’aprile del 1977, il quale ha pubblicato sinora due libri di poesie: La Riviera del sangue (Mimesis, Milano 2005) e La caduta di Bisanzio (Jaca Book, Milano 2010): raccolte che appaiono di buon interesse e sulle quali pertanto ci vogliamo un poco soffermare. L’immagine che scaturisce da queste poesie è quella di un autore che evoca le vicende dell’umanità partendo da una concezione tragica della Storia, che dà luogo a rapide ma incisive visioni, come quelle con le quali si apre La Riviera del sangue (titolo di evidente derivazione dantesca: Inferno, XII, 46), ispirate a taluni episodi della guerra Partigiana, che ebbero luogo durante la Seconda Guerra mondiale e che in questo libro sono ricordati dai luoghi in cui avvennero: il lago del Brugneto, il Passo dei Giovi, la Benedicta. Qui la parola di Rivali si fa scabra e dolente nell’esprimere tutta la sofferta tristezza dell’ora. Si legga ad esempio Verso la Benedicta, poesia dalla quale la prima sezione prende nome: “salivamo così, confusi, / nella nebbia di prima mattina. // la salita s’inerpicava / e la materia

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si spegneva. // Tutti trasparenti, / senza accorgersene. // Così giovani, / in una aureola di fumo. // Al patibolo insieme, / senza saperlo”. Lo stesso sentimento di soffusa mestizia emerge dalle altre sezioni della raccolta, che si susseguono, a cominciare da Janua (Genova), che ferma alcune immagini della città natale del poeta, quali Carignano, il Santuario della Guardia e il Porto: “Poco più di un sogno è Genova / con il porto fasciato dal fuoco” (Nella foto siate leggeri). Ma si vedano anche le poesie qui dedicate a Milano, con “I viali ghiacciati di Lambrate” e le “gelide / e lentissime acque dei Navigli”. E si vedano, per i forti pensieri che suscitano, poesie quali Presso le catacombe di Priscilla e Presso la tomba di Federico II. Particolarmente suggestive per la tragicità delle visioni evocate, sono le poesie dell’ultima sezione, Otranto, ispirate dalla presa di questa città da parte dei Turchi nel luglio del 1480, nelle quali rivive uno degli episodi più dolorosi della nostra storia nazionale e che ancora una volta ci porta a riflettere sulle atrocità compiute dall’uomo nei secoli, secondo una concezione negativa della vicenda umana sulla Terra. Nel suo secondo libro di versi La caduta di Bisanzio Rivali seguita a darci, con il suo stile incisivo ed essenziale, dei vasti affreschi storici, a cominciare dalla prima sezione della raccolta, Pompei, con la quale il libro si apre, evocando la drammatica eruzione del Vesuvio del ’79 dopo Cristo, che causò la scomparsa, sotto la cenere, di questa fiorente città e di altri centri minori adiacenti. Ciò che emerge da queste poesie è un sentimento di desolazione e di sgomento, di fronte al disastro: “Il mare danzò con il sole. / Videro Pompei ardere per giorni, / la cenere imbiancare le alture” (Le lucertole azzurre correvano); “… videro il drago sul vulcano, / lo straordinario artificio nel cielo, / zolfo e fuoco diventare bulbo, / la nube ignea asciugare le cose” (Il decumano si fece calce); “Pensa all’intreccio degli scheletri / sotto il porticato di Ercolano” (Apprenderai). La visione tragica della Storia che muove Rivali a scrivere le sue poesie emerge però più


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viva nella sezione eponime della raccolta, Bisanzio, dove la caduta di questa città ad opera del Turchi, il 29 maggio del 1453, è descritta nei suoi episodi più raccapriccianti, attingendo specialmente dal volume della Fondazione mondadoriana Lorenzo Valla, dal titolo La caduta di Costantinopoli. “Ventimila alberi scuoiati / perché ventimila prigionieri / agonizzassero sui pali” (Il principe si deliziò); “Era cenere la terra oltre i bastioni, / chiusa la fuga per terra e per acqua” (Era cenere la terra oltre i bastioni); “I lamenti dei sepolti / s’affievolirono dopo giorni” (Scavarono canali sotto le mura); ecc. Giovanni della Croce, la terza sezione della raccolta, esprime invece il tormento di questo Santo che volle perdersi in Dio, col suo ardore mistico: “Dalla cella Giovanni vedeva / il mare diventare brace” (Nel culmine dello scontro); “Paragonava le fiamme / al desiderio per l’Amato” (Paragonava le fiamme); “Ripetevano che era l’oscuro, / quando abitava lo splendore” (Ripetevano che era l’oscuro). Eldorado, la quarta sezione, evoca altre tragedie della Storia: quelle che fecero seguito alle grandi Scoperte Geografiche. “Dell’Armata delle Molucche, / solo diciotto vinsero i due oceani” (Nelle voci più straordinarie); “Gli emissari aztechi portarono / vassoi d’oro larghi come ruote / … / per placare i venuti dal mare” (La capitale si alzava sui laghi); “I rivestiti di ferro videro / il lungo corollario di croci / che indicava l’altopiano” (La brama coronava le tempie). La stessa drammatica visione del mondo la troviamo nelle successive sezioni, Sacrari (che ricorda le stragi causate da aspre guerre, i cui morti sono sepolti in grandi mausolei, quali quelli di Redipuglia, Monte San Michele, Kolyma, Passo del Turchino); Persepoli (sezione dalla quale emergono immagini di oscura ferocia: “Ritornava / lo spasimo dei corpi / trapassati nelle giunture, / i carri assiri sopra le schiere, / Sargon che violava Tebe” –Sagome contemplavano il deserto–); La terra dei serpenti (in cui si accenna a rituali di un passato antichissimo, frutto di credenze ancestrali (“A Walpi catturavano i crotali / per chiuderli nelle

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cisterne: / i giovani dovevano addentarli / per diventare guerrieri” –Era il movimento improvviso–); La terra di Lamec (che prende nome da un personaggio biblico e da cui emergono “Uomini appesi alle corde, / alberi anneriti dai fulmini. // La terra … concessa al drago …” ecc.–Uomini appesi alle corde–); Atlantide (la sezione che chiude il libro, dalla quale si affacciano nuove immagini e nuovi pensieri, con accenni all’Oltrevita ed anche ad una possibile salvezza: “Era conclusa / l’alternanza tra sogno e sangue, / contemplava infine / l’epicentro e la bellezza del fuoco” –Si distese sulla piana–). Un libro intenso La caduta di Bisanzio, che degnamente si aggiunge al precedente, confermando le doti di questo autore, capace di ampie meditazioni sulla vicenda umana nei secoli. Elio Andriuoli

UNA CITTÀ AZZURRINA È un tempo astratto un silenzio abitato. Son tornate le tortore sulla statua severa, rivivono i guardiani delle aiole i pesci rossi nella vasca di pietra. Cerchi di legno scorrono sui viali, fluiscono bianchi carretti di gelatai. E strade miti e piccoli negozi e case basse si slargano al mio stupore. Lentissimi i sorrisi della gente gli zoccoli dei cavalli giganteschi i canti gregoriani delle suore. Lentissimi i miei giochi. Nel mio sogno riemergi in miraggio, città azzurrina dell’infanzia. Ada De Judicibus Lisena Da Omaggio a Molfetta, Edizioni La Nuova Mezzina, 2017


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GIANNICOLA CECCAROSSI

ANIMA MIA di Marina Caracciolo

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NIMA mia è una ghirlanda di trenta poesie pensate e scritte all’insegna della semplicità, della più completa rinuncia ad artifici letterari per quanto belli essi possano essere. Il poeta rifiuta qui orpelli e rimandi eruditi, tralascia le sofisticate sinestesie di cui spesso si è intessuta la sua scrittura poetica, evita rime e studiate assonanze o consonanze. Lascia che questa volta sia il sentimento a parlare, il sentimento d’amore che nei secoli è stato spesso rivestito con le sete e gli eleganti pizzi dello stile, mentre qui è da solo, nella sua nuda spontaneità, sgorgato come limpida e pura acqua cristallina dalla fonte

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dell’animo. Il poeta non vuole creare impressioni particolari, non desidera studiare effetti da cui il lettore debba essere colpito: ha soltanto raccolto un delicato bouquet di semplici fiori di campo da offrire alla sua donna, alla compagna della sua vita, ‘la sua immortale amata’. Ha voluto farlo con la voce genuina del cuore, per poterla, se possibile, restituire “allo stato brado”, senza farle attraversare il tempo con tutto il suo carico di modelli e di tradizioni. «Ho voluto esprimere – scrive l’autore nella breve premessa – ciò che sento profondamente, disegnando, con parole essenziali e semplici concetti, le emozioni che ci hanno accompagnato in questo lungo viaggio e che ci hanno concesso di viverlo con amore e dedizione». È una poesia trapuntata dalle pause, dai silenzi densi di pensieri, con versi brevissimi che possono anche ridursi a una sola parola. Qui il poeta è come un compositore che, se vuole, rinuncia, in qualche parte di una sua opera, ad armonizzare e ad orchestrare le sue melodie, per far sì che in quel passo gli strumenti propaghino il loro puro suono, con la sua sola e specifica bellezza timbrica. E talora può anche insistere nel ribattere anaforicamente le stesse note, perché non si stanca di udirle e di farle udire, perché troppo belle di per sé. Così la poesia di apertura: È sempre la stessa / La tua voce / Stesso il tuo respiro / Stesso il tuo sguardo / E il mio amore? / Sempre lo stesso. L’esordio annuncia il tema di fondo di questa corona di liriche: l’inossidabilità, l’immutabilità dell’amore attraverso il tempo. Il tempo che sgretola, che sminuisce e può distruggere, l’imber edax di cui parlava il latino Orazio, qui non ha avuto potere: ha sfiorato i volti lasciandovi la traccia inevitabile del suo passare, ma nulla ha potuto mutare nei cuori. Fin dalla folgorazione del primo incontro: Era novembre / Di pioggia e vento / Arrivasti smarrita / e leggera / Quello fu l’attimo / Ti incontrai / con la tua veste azzurra / come il colore dei tuoi occhi / Incantesimo. Sguardi e passi, fruscii e sussurri, profumi e respiri, labbra sempre giovani come fiori che magicamente non appassiscono, giorni vissuti


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come un sogno che inizia ogni mattino: è il magnifico corredo di questa poesia domestica, nobilissima e sentimentale, che fluttua fra memorie indelebili e un futuro senza traguardi. Vi si riconosce in alcuni passi – e felicemente – l’impronta di un altro mirabile canzoniere d’amore di Giannicola Ceccarossi, che ha per titolo Fu il vento a portarti (2015); per esempio nei versi che dicono: Ti osserverò / mentre intrecci / coralli e fili d’argento / E sognerò / di scorgerti all’alba / con fiori di sambuco / a coronare i tuoi capelli. Ogni breve scena è immersa nella quiete della casa o nella luce aperta di prati e boschi, in un’atmosfera sempre dolce, diafana e iridescente come una bolla di sapone; e il sentimento che anima ogni verso è una brezza tenue che tutto lambisce e avvolge, tutto accarezza e mette in moto con una levità che ha del surreale. La donna amata, la compagna di vita, subisce una trasfigurazione quasi stilnovistica: ella è donna-angelo, donna-luce, musa ispiratrice e sostegno, dispensatrice di grazia e di armonia, imprescindibile metà di un tutto e ad un tempo indistinguibile da quel tutto. La sua figura aerea, impalpabile e sfumata, si confonde con la Natura, in essa dispare e riappare costantemente; non ha nome, non ha tratti definiti, è semplicemente lei, la sola, l’insostituibile, l’Amore stesso: È l’alba / e le tortore mi parlano / Mi raccontano / di questo grande amore / che non finirà / e volano nuvole / a ingarbugliare il mare / Ma tu / sei ancora qui / Lucerna delle mie illusioni. Una storia d’amore inalterabile, come se il tempo vi avesse marcato il passo senza mai procedere avanti; un ritratto dal vero la cui beltà non può né mutare né sfiorire, perché il poeta-pittore gli ha donato per sempre l’eterna giovinezza, fissandolo sulla tela nel momento del suo massimo splendore, e quello splendore non è mai venuto meno. Allora, dunque, nell’incanto di questa sospensione temporale gli estremi opposti coincidono: i ricordi mai estinti sono tutti parte della vita presente, e gli anni che verranno sono un percorso che non ha barriere, non ha limiti conosciuti, è una strada infinita: Ti ritroverò / in un lago / fitto di alghe

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e ninfee / Ti chiamerò / con un bisbiglio / e so che ci sarai / Lontano / dalla casa delle chimere / vicino agli alberi che amammo. Marina Caracciolo Giannicola Ceccarossi. Anima mia (Ibiscos-Ulivieri, Empoli, novembre 2020; pp. 40, € 12,00. In copertina: Vincent Van Gogh, Two Lovers, Arles 1888).

DALLA SPAGNOLA ALLA CINESINA Dalla Trinacria al fronte del Piave tra voci incomprensibili si svolge forse il suo primo viaggio senza sapere perché imbraccia un fucile e non un crivello della sua assolata Terranova agropastorale dal mare solcato da mille pescherecci. Torna invitto ma il mantello d’Arcangelo non gli fa scudo dalla predace Spagnola. Lascia la giovane sposa con due bimbi una foto che lo ritrae fiero nella divisa e tante mancate carezze. Divenuto adulto da Ghelas raggiunge Pola e dopo una guerra ingloriosa ritorna l’ebanista ma la gelosa Atropo si fece beffa del suo nome Vincente, d’un colpo tagliò il filo, lasciando la giovane sposa, i figli e mancate carezze. Divenuto adulto da Gela raggiunge il Friuli con sogni e canzoni d’amore in tempo di pace. Trascorrono altalenanti una terza e una quarta leva ma una giovane con occhi a mandorla accudisce ora nelle sembianze di figlia o nipote adulatrice ora ti lusinga per un amplesso fino allo spasmo e ti soffoca lasciandoti con mancate carezze. Con le ultime forze volgi lo sguardo al sole al mare di Anzio, vagheggi la tua isola gli amori sbocciati anche se non vissuti le tenerezze coltivate di cui ti sei nutrito guardi il prato verde, i fiori multicolori il salice rimasto a piangere che ti invita e dopo cent’anni di mancate carezze ti offre quelle che non hai avuto mai e come un Titano urli: Io ci sono…! Tito Cauchi Lavinio RM


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QIAO HAO di Domenico Defelice

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IAO Hao, poeta della Cina contemporanea, è nato a Fengyang, nella provincia di Anhui, e vive ad Anqing. I suoi lavori sono stati pubblicati su giornali e riviste, alcuni dei quali inclusi in una serie di antologie e altri tradotti in lingue straniere, come inglese, giapponese, russo, bengalese. Ha pubblicato due raccolte di versi: Selected Poems of QIAO Hao e The Poems of QIAO Hao. Ha vinto diversi premi, tra cui il Premio editoriale al 4° premio provinciale di scienze sociali e letteratura presso il 2° governo municipale di Anqing. È membro della Chinese Poetry Society e dell'Anhui Provincial Writers 'Association, nonché vice proprietario di Changhuai Poetry Society. È responsabile della colonna “Selected Poems” di Anhui Poets. Qiao Hao è uno dei sette poeti cinesi da noi recentemente tradotti dall’inglese per l’antologia Seven Plus One, della quale fanno parte anche Zhou Duanzhuang (apparsa anche su questo mensile nel numero di dicembre 2020), Wang Mengren, Liang-Style Poetic Lines (anch’egli su Pomezia-Notizie del novembre 2020), Zhu Likun, Xu Zefu e Zou Lian’an. Ecco, di seguito, tre sue poesie tradotte in inglese da ZHANG Zhizhong e, da questa versione, la nostra libera interpretazione in italiano.

Noon Break

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Awake from the noon break. I sink into an uneasy Solitude, now the sunshine is bright And I am in a remote place. What about you, fine? I often ask Without hoping for reply. Yes I have forgotten some distance, forgotten How weary a person is! Sometimes, I do not know where I am I only know I am still living Days are decreasing, decreasing While time increases from day to day Oh, I have stayed for too long These years, I live in forbearance Watching and lamenting, experiencing A unique fate … you do not know How I want to retain some warmth In my memory, the sense of Being worriless, no need for words.

The Art of Balance With the slightest sound, in the beginning I feel, that those people In their soul the inherent Trifling things, strange ideas which refuse to be hidden In spite of opposition from other people More and more piling up Constitute the icy cold toxin, always in its mind It intends to invade the frothing blood. I remain unchanged In composed and profound ease With silent bewitchment To be exact, these years I am silent Like stars in the night sky Practice the art of balance in confusion Like the fated reef, without any single Thread of tremor


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Febbraio 2021

In a Trance Busy, a sudden feeling while Washing hands, like in a strange land, The strange feeling does not limit itself to dread The most profound is little humbleness. Oh, I have entered some organization by a mistake The key floor of building, if it is a forbidden area A sharp-shooter in darkness? Covetous look Making the last preparation for hunting and killing This really surprises me, I am Watching uneasily, on the wash platform The dark green liquid soap Has eased the air of tension It makes a straightened middle-aged man Cautiously, to acquire a simple heart In life, no fluster, no intensity Lonely and charming (Translated by ZHANG Zhizhong) QIAO Hao, a poet in contemporary China. A native of Fengyang, Anhui Province, now he lives in Anqing. His works have been published in newspapers and magazines, some of which are included into a host of anthologies, and some works have been translated into foreign languages such as English, Japanese, Russian, and Bengali, etc. He has published two poetry collections: Selected Poems of QIAO Hao and The Poems of QIAO Hao. He has won the publishing prize at the 4th Anhui Provincial Social Sciences and Literature and literature prize at the 2nd Anqing Municipal Government, etc. He is a member of Chinese Poetry Society and Anhui Provincial Writers’ Association, as well as vice proprietor of Changhuai Poetry Society. He is in charge of the column of “Selected Poems” of Anhui Poets.

Pausa di Mezzogiorno

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Sveglio dalla pausa di mezzogiorno. Affondo in un disagio Solitudine, ora il sole splende E io sono in un luogo remoto. E tu, bene? Chiedo spesso Senza sperare in una risposta. Sì Ho dimenticato una certa distanza, dimenticato Come è stanca una persona! A volte, non so dove mi trovo So solo che sto ancora vivendo I giorni vanno diminuendo, diminuendo Mentre il tempo aumenta ogni giorno Oh, sono rimasto troppo a lungo In questi anni, vivo nella tolleranza Guardando e lamentando, sperimentando Un destino unico ... non lo sai Come vorrei trattenere un po' di calore Nella memoria, la sensazione di Essere senza preoccupazioni, senza bisogno di parole. L’arte Dell’equilibrio Con il minimo suono, all'inizio Percepisco, quella, quelle persone Nella loro anima le inerenti Cose minacciose, idee strane che rifiutano di essere nascoste Malgrado l'opposizione di altre persone Sempre più accumulando Costituisce la gelida fredda tossina, sempre nella sua mente Vuole invadere la schiuma del sangue. Rimango invariato In composta e profonda facilità Con silenzioso incantesimo Per essere esatti, in questi anni taccio Come le stelle nel cielo notturno Pratico l'arte dell'equilibrio nella confusione Come la barriera corallina predestinata, senza nessun singolo Filo di tremore


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In Trance Occupato, una sensazione improvvisa mentre Ci si lava le mani, come in terra straniera, La strana sensazione non si limita alla paura La più profonda è la piccola umiltà. Oh, sono entrato in qualche organizzazione per errore Il piano chiave dell'edificio, se è un'area proibita Un tiratore acuto nell'oscurità? Aspetto avido Facendo l'ultima preparazione per la caccia e l'uccisione Ciò mi sorprende davvero, sono Guardando a disagio, sulla piattaforma di lavaggio Il sapone liquido verde scuro Ha allentato l'aria di tensione Rende cauto un uomo di mezza età raddrizzato, Per acquisire un cuore semplice Nella vita, nessuna agitazione, nessuna intensità Solitario e affascinante (tradotte da Domenico Defelice)

Ci sembra di poter individuare, in tutti e tre i brani di Qiao Hao, almeno due aspetti o temi di particolare rilievo: l’ambiguità e l’equilibrio, a prima vista antitetici, giacché la prima tende all’apertura (più in senso negativo che positivo), all’espandersi, mentre, il secondo, al restringersi e al raccordare. Ambiguità ed equilibrio in “Pausa di Mezzogiorno”. A chi son rivolti quel “tu” e quella dichiarazione d’affetto e di mestizia? A una donna? A un uomo? Certo è, che si sente fortissimo il bisogno di comunicare con colei o colui che manca da troppo tempo (“E tu, bene? Chiedo spesso/Senza speranza di una risposta”); c’è un crescente disagio che esaspera la solitudine. Il bisogno di comunicare è così forte da provocare intontimento (“non so dove mi trovo”), da dilatare tempo e spazio, rendendo viva e lacerante la sensazione

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che, mentre la vita si accorcia (“I giorni vanno diminuendo”), crescono gli anni e il disagio (“il tempo aumenta ogni giorno”). Il trascorrere veloce della vita è reso efficace dalla ripetizione: “diminuendo, diminuendo”. Ambiguità ne “L’arte dell’equilibrio” (quest’ultimo, qui neppure è mascherato). L’ambiguità – le “idee strane” – viene fuori prepotente a dispetto dello stesso poeta che fa sforzi sovrumani per nasconderla, non si capisce se per paura che gli possa arrecare danni d’ogni genere: fisici (“Cose minacciose”) o psicologici (“la gelida fredda tossina”). Che il poeta pratichi entrambi è da lui stesso dichiarato apertamente: “Pratico l’arte dell’equilibrio nella confusione”, cioè, nell’ambiguità. Ambiguità ed equilibrio, infine, nel terzo brano “In Trance”, dove lo stare in sospensione, in continuo disaggio (il sentirsi perennemente “sulla piattaforma di lavaggio”) si sposa al comportamento pilatesco (“Ci si lava le mani”), indice di insicurezza, di paura presente e prossima. Tutto è ambiguo, instabile e scivoloso come lo stare su un “sapone liquido verde scuro”. Evidenziamo, per concludere: l’essere, lo stare “come in terra straniera”; il senso di paura, sotterraneo, continuo; un disagio, per lo più incolpevole, come se il protagonista fosse finito, a sua insaputa, in qualche setta pericolosa (“organizzazione”); l’immagine forte dell’uomo al quale si dà la caccia, che si vuole uccidere (ma è a lui che si dà la caccia o è lui che la dà ad altri?); “Il sapone liquido verde scuro” gli aumenta la tensione e il disquilibrio, o, al contrario, glieli rallenta rendendolo “cauto”?. In una nostra prima versione – quella per la ricordata antologia -, abbiamo reso l’ultimo verso di “In a Trance” (“Lonely and charming”), “Solitario e affascinante”; ma, proseguendo nell’ambiguità e nell’equilibrio, possiamo anche rendere “Lonely” aggettivo qualificativo sia di “agitazione” che di “intensità”, rendendo, così, solitarie e affascinanti, entrambi: l’agitazione e l’intensità! Domenico Defelice


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DOMENICO DEFELICE LE PAROLE A COMPRENDERE di Gianni Antonio Palumbo un lavoro dai molteplici registri Le parole a comprendere dello scrittore Domenico Defelice. Plurilinguismo e pluristilismo connotano questa bella raccolta articolata in quattro sezioni, pubblicata dall’editore Genesi nella collana “Le scommesse”, con una lucida prefazione di Sandro Gros-Pietro e una densa postfazione di Emerico Giachery. La parte prima emerge per l’allure di raffinata espressività. Coesistono molteplici rivoli tematici. La forza della parola è esaltata nell’incipit, caratterizzato dall’aura epifanica e dalla presenza di echi biblici, che poi ritornano, con cadenze ora salmiche ora di accorata preghiera, nei numerosi esempi di poesia metafisica della prima sezione. Defelice riesce intenso in una delle espressioni poetiche più difficili, quella del canto di lode o di affidamento a Dio, spesso compiuto nelle volute di un dialogo che si innalza limpido in versi come questi: “Nel tuo Giardino verdeggia ogni pianta / ed ogni filo d’erba”, e ancora “Tu la Casa incrollabile sei, / alla cui porta busserò tremante / anche se certo della tua clemenza”. La Parola è dunque protagonista della prima sezione (e non solo), nella duplice accezione di parola poetica e divina. La riflessione sulla parola del poeta induce alla composizione di versi come quelli dedicati a Peter Russell, in cui non mancano felici accenti di carattere parenetico (“Scuotiti, vecchio fauno. / Un bel raggio del sole mattutino / varca già la collina / e sussulta la gola della cincia”), o i numerosi

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autoritratti disseminati nell’opera. In essi, l’io lirico decide montalianamente di rimarcare soprattutto ciò che non è e non sarà (si pensi a Cosa ho fatto? Nulla e Del poeta la dignità), per far emergere il proprio netto rifiuto dell’iniquità e la devozione alla bellezza (che dire, a proposito di questo motivo, della figura femminile che, in un componimento, induce a rievocare Venere, per la sua forza di creatura dotata del potere polizianesco di far fiorire la Natura intorno a sé?). Negli autoritratti, Defelice non manca di sottolineare la duplice ispirazione che governa la sua scrittura: l’incedere aereo che connota i versi lirici, quelli di matrice intimistica o consacrati alla riflessione sul mistero cosmico e su quanto di bello punteggia questo mondo, e la satira sferzante contro il malcostume e il malgoverno. Satira che, se domina la seconda e la terza sezione, si affaccia difatti anche nella prima, assumendo le forme di uno sguardo sgomento e indignato che osserva gli atti di vandalismo ai danni delle insegne del sacro. Molto efficace, a tal riguardo, l’incipit con citazione scritturale di Le sue ossa hanno infranto, ispirato alla devastazione di un crocifisso nella Chiesa dei Santi Marcellino e Pietro di Roma. Tale componimento costituisce dittico con Quei tuoi occhi fissare pietosi, che si risolve, invece, in un confidente atto di affidamento alla Vergine. V’è in questa sezione un profondo senso della Natura, che, in una lirica dai bei colori di “una pianta / di peperoncino viola”, poi velata dall’elegia del Tempus edax, è definita dall’autore “Amante esclusiva”. L’opera di Defelice è innervata da un profondo senso della spazialità; la natura rivive nei suoi elementi botanici e ornitologici, non di rado recando in sé già il germe della consunzione (si veda la maestosamente barocca Montagna degli alberi morti).


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Da essa lo scrittore attinge numerosi elementi a sostenere il suo metaforismo costante (penso alle metafore entomologiche a pennellare il mistero della Morte o all’immagine ridente del balcone “veliero fiorito” e le preziose similitudini; ci riferiamo, per esempio, all’accostamento del mondo e della vita al “ciangottio / lieve delle foglie del pioppo”, protagonista di numerosi testi, con la sua “anima (…) assai bambina”. La Natura appare motivo ancipite: essa reca in sé bellezza e bacio venefico; notevole, a tal proposito, è All’oleandro, in cui il veleno, circonfuso di fascino, che si è mescolato al “respiro dei Cesari” nella Roma dei Fori sembra fare pendant con l’italico tarlo evocato in un testo di matrice dialogico-narrativa, Montagne di tesori. Significativo è anche il ruolo rivestito dalla poesia delle familiares, per così dire: il ricordo di un padre che, morendo, chiede perdono, dal quale l’io lirico sembra aver ereditato l’amore per la Natura; la celebrazione della famiglia e dei nipoti-fiori (Sempre ho avuto un sogno); la gioia di un epitalamio (Oggi, nella mia casa, è festa grande) dalle cadenze antiche eppur moderne, in cui rivive l’idea – in contrapposizione all’allitterante “vortice di un vento avvelenato” (il “mondo inquieto”) – di una possibile età dell’oro sotto la signoria d’Amore. Età in cui “un fiore spunterà sopra ogni sterpo”. Anche la poesia della sodalità conosce felici articolazioni: la più intensa ci pare quella del componimento che dà il titolo alla raccolta, una robusta prova dall’incedere narrativo, tra linea lombarda e memorie bibliche vive persino nel nome dell’interlocutore, Geremia, definito, con una bella soluzione “pastore di falangi”. Più brevi le altre sezioni. La seconda, Ridere (per non piangere), e la terza (Epigrammi) sono accostabili per l’essere vigorose rappresentazioni della crisi politica e morale che attanaglia il paese. Suggestioni giustiane, ma anche di Giuseppe Gioacchino Belli, accanto alla vis corrosiva delle Pasquinate e alla memoria della poesia comico-realistica (o anche della tradizione satirica latina), si fondono in un quadro caratterizzato dal plurilinguismo e dal

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pluristilismo di cui si parlava in apertura. L’autore riesce a trarre componimenti sferzanti persino dal menu di un ristorante (quello dei Senatori, per essere precisi), a squadernare il divario sempre più incolmabile tra una classe dirigente abbarbicata al privilegio ingiustificabile e il cittadino che innalza la sua “canzone arrabbiata”. Interessante anche il commento alle elezioni americane del 2016, con l’inventiva verbale dell’amaro accostamento tra TRUMP e TRIUMPHUS. La quarta sezione, le Recensioni, è un divertissement, dal fondo serio, in cui l’autore, tra citazioni e ammiccamenti, in particolar modo nel trionfo del linguaggio agrammaticale di Marionette e miti, dialoga con altri poeti (ben due componimenti sono dedicati a Liliana Ugolini), in un connubio di ironia e di sottile meditazione sulle declinazioni della parola poetica. Un’opera complessa e affascinante, insomma, che coniuga l’espressione più icastica e immediata, a volte anche gergale a sfondo erotico-sessuale (il famigerato Bunga Bunga), con la parola composta d’omerica memoria (il “bizzarro altotogato”) e le immagini più aeree ed eteree che possano incantare lo sguardo d’un uomo innamorato della Vita. Gianni Antonio Palumbo Domenico Defelice, Le parole a comprendere, Genesi, Torino 2019.

I CORMORANI Uccelli di bronzo lungo un mare dal bronzeo respiro passavano ieratici, idoli affusolati di una strana teofania. Ma li guardai negli occhi rotondi: disperata sanguinante vi trovai l’agonia. Ada De Judicibus Lisena Da Omaggio a Molfetta, Edizioni La Nuova Mezzina, 2017


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L’UMANESIMO IN BASILICATA di Leonardo Selvaggi ’Umanesimo con il suo splendore dovuto al risorgere dell’attività culturale dei Centri di studio costituisce la rivalutazione dell’uomo nelle sue fondamentali, autentiche identità. Soprattutto un’ambientazione sociale dai rinnovati impulsi di dinamicità e di cooperazione: libere estrinsecazioni di una intelligenza pura pervenuta ad alti gradi di maturazione. L’Umanesimo ha il primo avvio a Montepulciano e di lì si irradia come una vera esplosione per ogni parte d’Italia. Si parla di Homo ludens, dell’uomo di cultura che trova la sua concreta dimensione vitale tra ispirazione ed azione, tra realtà concettuale e immagine ludica, tra espressione e immediatezza. L’Umanesimo caratterizzato dal senso della spregiudicatezza e della spontaneità. Ogni città italiana ha avuto una scuola di cultura ispirata ai principi morali: tutto improntato ad una generale ripresa dopo l’oscurantismo medievale. Sempre attuale la importante affermazione che leggiamo nella “Vita” di Vittorino da Feltre scritta da Sassolo da Prato, che riporto tra-

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dotta dal latino, “Tutti odiano le buone lettere, ammirano ed amano le leggi e la medicina, ma come mezzi ottimi per far quattrini: anzi asseriscono che lo studio delle arti sia una scorciatoia pe far capo alla miseria”. Se nel sec. XVI, come d’altra parte in ogni periodo storico, si sono visti decaduti i sentimenti e le virtù e si anelava a miglioramenti delle condizioni di vita, oggi non ci sono limiti allo sgretolamento in atto dei costumi, dei rapporti sociali sempre improntati a calcoli, ad interessi. Oggi con i progressi della tecnologia le facoltà umane si sentono soppiantate, le energie innate dell’uomo appaiono vittime degli automatismi. Occorre per ricostruire il mondo umano nella sua integrità, per risollevarlo dall’appiattimento materialistico, ritornare ai valori artistici, alla poesia, alle tradizioni. L’Umanesimo fu un fenomeno culturale e di civiltà prettamente nostro, che come forza di rinascita prese tutta l’Italia. Molti studiosi hanno voluto escludere alcune parti del Sud considerandole sempre legate a stati di abbandono e di inferiorità, tra queste la Basilicata. Qui hanno visto una straordinaria carenza di scritti umanistici parlando quasi di un antiumanesimo in opposizione al movimento che si svolgeva in Toscana e nella maggioranza delle regioni più evolute. Non è vero. L’Umanesimo ha avuto la sua presenza anche nella Basilicata. Certamente le ricerche in merito vanno ancora approfondite in archivi privati e nelle biblioteche di periferia per acquisire nella forma più lata possibile il materiale ignorato su umanisti lucani poco noti o sconosciuti del tutto. Occorre operare esplorazioni più allargate ed in un modo sistematico, specie nell’ambito di raccolte bibliografiche di Istituti religiosi. Cominciamo subito a dare, anche se in modo succinto, notizie sui letterati che in un certo qual modo sono venuti alla luce, presenti in documentazioni abbastanza diffuse. Giovanni Albino, nato a Castelluccio, piccolo comune della provincia di Potenza. Abbate commendatario di S. Pietro ad Montes presso Caserta. Rese preziosi servizi alla causa degli Aragonesi. Della biblioteca di questi fu solerte curatore. Godette la simpatia di Lorenzo de’


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Medici; fu nelle corti di Roma, Ferrara, Urbino dove svolse uffici diplomatici. Durante un ritiro di preghiera e di contemplazione nella sua Lucania l’Albino si dedicò a studi storici e letterari. L’opera più nota “De gestis regum neapolitanorum qui extant libri quattuor” fu pubblicata alla fine del sec. XVI a Napoli dal nipote Ottavio Albino. Del nostro umanista ricordiamo pure una raccolta di sentenze tolte via dalle “Vite parallele” di Plutarco, scritta nel 1481. Poi abbiamo l’”Oratio” composta nel 1494 in occasione dell’incoronazione di Alfonso il Magnanimo, stampata nel 1495. Dai fondi archivistici di Matera è venuta fuori la figura di un altro umanista, Piero Pierangelo, vissuto nella prima metà del sec. XVI. Scrisse elegie, carmi, epigrammi, sonetti, distici raccolti in “Latina atquae etrusca poemata”, opera rimasta manoscritta che si conserva nella biblioteca Gattini di Matera e di lì portata a Roma presso gli eredi. Gli scritti letterari del Pierangelo interessano anche la storia del folklore. Abbiamo da parlare del suo discepolo Donato Frisonio, figura importante nell’ambiente umanistico della Basilicata. Tommaso Pedio nella sua opera “Storia della storiografia lucana” lo considera un eminente letterato, erudito ed oratore brillante, vissuto negli anni 1524 – 1597. Il Frisonio in qualità di segretario accompagna l’arcivescovo Michele Saraceno al Concilio di Trento. Questo personaggio attivo della chiesa, sempre con a fianco il Frisonio, lo vediamo nominato Cardinale assistente nei conclavi dal 1555 al 1565 da cui escono i papi Marcello II, Paolo IV e Pio IV. Gli scritti del nostro umanista interessano la storia ecclesiastica del materano, si trovano in gran parte negli archivi di Acerenza. In questo rapido elenco si inseriscono, inoltre, i nomi dei Maranta di Venosa: Roberto giurista e letterato, che tenne scuola a Napoli, Salerno, Palermo; Bartolomeo insigne letterato del sec. XVI, morto a Molfetta il 24 marzo 1571. Fu medico di raro valore, il re di Spagna e il principe Vespasiano Gonzaga ed altri nobili lo ebbero a loro servizio. Fu anche botanico che

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seppe studiare i rapporti tra la scienza delle piante e quella della medicina. Precisò la natura, l’azione, la nomenclatura e i caratteri di nuove piante fino a dare vita a una ricca famiglia di queste che va sotto il nome di “Marantacee”. Come scienziato molto apprezzato dal Falloppio e come letterato dal Tiraboschi. Altro nome che arricchisce queste note è un venosino, Achille Tommaso Cappellano, autore di una “Descrittione della città di Venosa”, ultimata il 28 dicembre 1584. Citiamo pure Tommaso Chiaula di Chiaromonte, autore di un “Carmen heroicum ad Alphonsum Aragonensem Siciliae regem”. Tuccio de Scalzonibus, medico, morto nel 1488, ricercatore di notizie su Matera: “Notamento di memorie de la città di Matera”. Certo grande rilevanza nella letteratura italiana assume la poetessa Isabella Morra di Valsinni. È nella scia delle influenze esercitate dal glorioso Umanesimo napoletano, accanto ai nomi del Pantano, del Panormita, del Sannazzaro. Isabella Morra ristudiata da Angelo de Gubernatis e dal Croce, vissuta negli anni 1520 – 1548. Lirica di vena petrarchesca (“Canzoniere” 1552). Ebbe vita breve e infelice, fu uccisa dai suoi fratelli a causa di una relazione amorosa col poeta spagnolo Diego Sandoval De Castro. Dei dieci sonetti e delle tre canzoni che costituiscono il Canzoniere di Isabella Morra, le tre canzoni e due dei sonetti furono per la prima volta pubblicati nel volume “Rime di diversi signori Napoletani, e d’altri” a Venezia presso il famoso stampatore Gabriel Giolito de’ Ferrari nel 1550. Grande poetessa dal tormentato pathos, anelava alla bellezza dell’arte e della Natura con gli ardori degli affetti. Il suo dramma d’amore insieme con i sogni e i ricordi scorre nelle acque del Sinni. Siamo ai confini della Calabria nell’estremo lembo della Basilicata, tra la riva del mar Jonio dove lussureggiava la foresta di Policoro e il corso del Sarmento: una piccola zona della Magna Grecia e della regione detta la Siritide. La poesia di I. Morra personale e originale non è comprensibile fuori dai luoghi ove è stata scritta. Al paesaggio selvaggio rappresentato da terre aride, selve, grotte solitarie si contrappone un paesaggio umano e civile


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provato con i segni della violenza, della miseria, delle ricorrenti pestilenze. Giuseppe Toffanin la mette vicino a Gaspara Stampa e Vittoria Colonna. Il de Gubernatis vide nella Morra la Saffo della Basilicata. Ci viene in mente Luigi Tansillo, nato a Venosa il 1510. Ai suoi tempi ebbe grande risonanza, compose moltissime “Rime”, lodate da Giordano Bruno e da Ludovico Ariosto. Autore anche di un poemetto “Il Vendemmiatore” che ricorda un po’ l’”Ars amandi” di Ovidio, messo all’indice da Paolo IV, considerato troppo libero e licenzioso. Di natura didascalica vicino alle “Georgiche” di Virgilio il poema “Podere”. L’opera maggiore del Tansillo “Le lacrime di S. Pietro”, pubblicato a Venezia nel 1538. Amico fraterno di Annibal Caro, che da Piacenza gli scriveva lettere nelle quali si scorgeva fra i due illustri letterati intimità di intenti e di opere in un’epoca gloriosa per la nostra cultura. Luigi Tansillo morì il I° dicembre del 1568 a Teano, in terra campana. Alla fine di questa panoramica del quattro-cinquecento in Basilicata parliamo di Gabriele Altilio, nato a Caggiano, attualmente in provincia di Salerno, ma che fa parte della Lucania storica. Il sacerdote professore Egidio D’Angelo di Latronico ha pubblicato nel 1914 il codice 9977 della Biblioteca Nazionale di Vienna contenente numerose poesie del nostro umanista, che è stato considerato sotto il profilo non solo letterario, ma anche dei tempi in cui visse e dell’attività politica che svolse a servizio degli Aragonesi. L’Altilio fa parte dell’Accademia pontaniana, è scrittore, poeta, segretario di Stato di Ferrante II d’Aragona. Amico dei più noti letterati del tempo, quali il Pontano, Sannazzaro, Cariteo, Michele Marullo Tarcaniota, il Galateo. L’Altilio è morto vescovo di Policastro nel 1501. Servitore fedele degli Aragonesi, svolse molte missioni diplomatiche. Nell’Archivio di Napoli si conservano numerosi documenti di Stato firmati dall’Altilio. Segretario politico di Ferrandino, duca di Calabria. Nel 1494 l’Altilio è con questi in Romagna nel tenta-

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tivo di arrestare l’avanzata di Carlo VIII. Negli ultimi anni della sua vita si dedica agli studi teologici. La civiltà dell’Umanesimo, la cui matrice si trova già in Dante, che rappresenta il vate-simbolo per tutte le letterature del mondo, ha avuto, come detto in queste note, la sua esistenza nelle zone aspre e boscose della Basilicata. L’Umanesimo ha dato lustro all’uomo e alla cultura basata sulle tradizioni più vive: sintesi di secoli di storia civile, di progresso, manifestazione di inventività, di saggezza, è stato una lezione di equilibrato sviluppo delle attività intellettive ed operative in tutti i settori dei mestieri e dell’Arte. Dobbiamo oggi più che mai rinverdire quelle generose testimonianze che troviamo in grandi studiosi, letterati, poeti per evitare che vada nell’oblio il meglio che si è realizzato nella Storia della Civiltà italiana. L’Umanesimo ha significato di rifulgente dominio dell’uomo: baluardo di sicura difesa contro il falso modernismo e il tecnicismo che distruggono e materializzano, rendendoci servi della meccanicità, automi, svuotati della luce di esseri superiori che ci è propria. Occorre per la Basilicata perseguire in ricerche in vecchi, abbandonati fondi per riscoprire altre testimonianze sull’ Umanesimo, civiltà propriamente italiana che ha avuto ripercussioni in tutta Europa. Una cultura radicata nei valori dell’uomo, nelle sue doti, nell’industriosità dell’intelligenza. In aree ampie e vitali di rapporti sociali improntate alla saggezza, al senso della misura. L’Umanesimo non conosce le miserie che vengono dalle ristrettezze mentali e dall’immiserimento psicologico dell’homo meccanicus, prigioniero dell’alienazione. L’uomo nella vastità degli spazi naturali che può dare un vivere libero con spontanei movimenti. L’uomo “faber fortunae suae” in unitarietà armonica con tutto se stesso come sintesi psico-fisica. I mezzi fatti dalle mani con moto sperimentativo e applicativo continuo, trasfondendo sulla materia i propri impeti trasformando come creando. L’uomo in espansione felice, disciplinato, con ordinata attività, prodigando tutti gli im-


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pulsi della volontà. Poche ma di estremo interesse le fonti di studio individuate sull’Umanesimo della Basilicata. Appaiono come stratificati resti archeologici. Escono da esse, portate alla luce, scintille pure di vita umana, uomini e contesti ambientali. Minime le tracce segnate. Ancora tutto da ricercare. Occorre il lavoro degli appassionati studiosi. In passato ricordiamo Giuseppe Gattini di Matera (Saggio di biblioteca basilicatese), l’indimenticabile animatore di cultura, amico fraterno Pietro Borraro, Sergio De Pilato, Francesco Torraca continuatore di Francesco De Sanctis, Oscar Cristeller, oggi Tommaso Pedio, Giovanni Bronzini (Fonti documentarie e bibliografiche). L’Umanesimo estese dalla Toscana a tutte le regioni d’Italia la sua atmosfera salubre, tersa, luminosa. Come un campo ferace, lussureggiante fece germinare la vita per l’Uomo Nuovo, rinvigorendolo alle fonti della cultura classica. L’Uomo nel rispetto della Natura senza irruenza né alterigia né istintività aggressive. Facoltà intellettive non frammentate né trasferite in strumenti tecnologici. Il senso della sobrietà nelle piene energie originarie. Nella Basilicata l’Umanesimo trova i luoghi meravigliosi per ritiri e vita meditativa, tra boschi e plaghe verdeggianti come oasi su alture rocciose, lontani dal frastuono, sprofondati in solitudini celestiali. Pare la regione più confacente all’uomo della cultura umanistica nei momenti di ripiegamento in se stessi, in ampiezza di sentimenti ed espansione dell’animo. Leonardo Selvaggi

E fili di telefono attorcigliati al cuore, Tanti infiniti sospiri e pianti, Ma abbiamo costruito un ponte Che ci ha sempre tenuti avvinti. Adesso questo ponte è crollato, L’ha spezzato il tempo con gli anni Sulle tue esili spalle curve Ed io mi ritrovo qui da sola, Anche se tra la folla come sempre, A combattere il mio urlo straziante Che rimbomba di continuo nel mio cuore, Come quando ti lasciai per fare l’emigrante! Adesso sento che mi sei più vicina, Un’ombra sottile aleggia al mio fianco E t’immagino bella come quando ti ho lasciato. Guardando questo cielo azzurro australiano, Ti vedo su d’una nuvoletta che mi viene incontro, Ti vedo tra un tappeto di stelle e ti riconosco Perché so che sei la più luccicante, Sei la mia stella oh mamma del mio cuore, E guiderai col tuo eterno grande amore Questa povera tua figlia emigrante per errore! Giovanna Li Volti Guzzardi Australia

NAPOLI

LA PRIMAVERA TI PORTÒ VIA

Salii le scale e d’improvviso la città mi si slargò nel cuore con le colonne antiche bianche d’anima nascosta. Arrampicata al cielo respirava aria di chiara mattina.

La primavera ti portò via Dopo lunghi inverni di profonde Sofferenze e dura malinconia, Oh! dolce cara lontana mammina mia! Un gran dolore mi afferrò al cuore, Al petto, allo stomaco e alla mente Come quando ti lasciai per fare l’emigrante!

Scesi le scale e la città in una sera che “sa di rosa” mi dici – nel vento forte d’autunno imbianca una luna curiosa a salutare Amore che parte.

Quanti chilometri di lettere

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Maria Gargotta Napoli


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Il Racconto

IL BENVENUTO DELL’ADDIO di Salvatore D’Ambrosio

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ANDRO non ricordava esattamente quale fosse stato il giorno del mese di gennaio di cento anni prima, ma stava cadendo esattamente la stessa copiosa neve. La cosa era abbastanza insolita perché il cambiamento del clima, per eccessivo riscaldamento della terra, aveva portato negli ultimi quarant’anni solo abbondanti piogge. La guardava cadere immobile stupito come quel giorno dei suoi primi dieci anni. I suoi occhi sebbene infiacchiti da anni di glaucoma, erano fissi su quel biancore a goderne avidamente. Quello stupendo spettacolo non sarebbe durato a lungo. Non era più il tempo della famosa neve del millenovecentocinquantasei. Nessuno della sua generazione la dimenticò. Aveva Sandro da poco compiuti i centodieci anni ed erano cento anni che ricordava di quella soffice lana che veniva giù dal cielo e che riempì tutti i terrazzi della sua grande casa. Ricordava anche che coperti ben bene si erano precipitati fuori per raccoglierla e tirarsela addosso, facendo palle da gelare le mani. Durò giorni l’enorme copia del Mosè di Michelangelo che i figli giovanotti del notaio del primo piano avevano realizzato sulla loro terrazza. Ricordava anche che l’acqua ghiacciò nelle tubature, che sotto la pressione dell’aumento di volume creparono: lasciandoli a secco. Ricordò suo padre che a piedi si recava ugualmente al lavoro, e la mamma che andava a fare la spesa senza imprecare o dare colpe a qualcuno per quell’evento improvviso e non prevedibile. Si commosse quasi quando ricordò la serenità e la gioia con la quale la gente accolse quell’evento naturale fuori dal controllo dell’uomo. La vita frenetica già allora, si fermava per qualche giorno ma non era un

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dramma. Le automobili, già all’epoca numerose, non circolando per qualche giorno restituivano un poco d’aria pulita e il piacevole odore del freddo. Le case ridiventavano il centro delle attività, erano di nuovo il focolare. Ricordò che gli sembrò piacevolmente più caldo stare in quei giorni di neve, insieme ai suoi cugini, accoccolato vicino alla nonna che raccontava antichi fatti e fatterelli. Guardando quella meraviglia cadere, dimenticò quello che leggi preventive imponevano nei casi di nevicate. Glielo ricordò la stridula ed imperiosa voce metallica degli altoparlanti degli elicotteri-laser che già volteggiavano a bassa quota su tutta la città. Si affrettò allora a chiudere gli schermi- battenti delle finestre, aiutato dal suo badante assegnatogli dal Magister Federale e di esclusiva razza ariana. Tutti i badanti venivano reclutati tra i figli e i parenti del Magister Federale e dei suoi amici più intimi, tranne qualche rara eccezione riservata ai figli e parenti dei capi-elettori che gli procuravano i voti. I voti venivano letteralmente estorti con la forza o acquistati mediante pagamento di bollette di telefono, gas, luce, rata auto, razioni molto maggiori d’acqua potabile, inviti a cene privatissime per coloro che avevano figlie particolarmente belle e giovani. In pochi minuti sarebbero stati sparati migliaia di spot-laser- direzionali, che avrebbero sciolta tutta la neve che si era depositata sulle strade e sui viottoli dei condomini privati. Questi dovevano avere obbligatoriamente, per tali eccezionali situazioni, sui tetti delle case dei pannelli riscaldanti, in modo da fondere all’istante la neve che veniva poi raccolta liquida, attraverso tubazioni, in cisterne poste sotto gli edifici. Nelle cisterne si raccoglieva anche l’acqua piovana che per circa undici mesi all’anno cadeva abbondantissima. In questo caso particolare anche quella della neve dei cortili, sciolta dai raggi laser, doveva essere raccolta nelle cisterne condominiali. La raccolta delle acque era anche obbligatoria per gli ospedali, gli uffici, le fabbriche e ogni altro edificio presente sul territorio delle Federa-


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zioni. L’accumulo serviva per gli usi domestici. Anche le acque reflue venivano recuperate e rese riutilizzabili attraverso un sistema di filtraggio e bonifica perfetto che ogni edificio doveva possedere. Tutto ciò in ottemperanza all’ordine di risparmiare. In realtà l’acqua delle sorgenti sebbene abbondantissima era stata tutta privatizzata e commercializzata in confezioni di vario taglio. Il prezioso liquido veniva venduto dietro presentazione di una scheda, voluta dai Magister, sulla quale erano annotate il numero delle persone di ogni abitazione. Le famiglie che avevano bambini avevano diritto a confezioni da un litro per un massimo di sei bottiglie a settimana e per un nucleo di quattro persone. Per singoli e vecchi, come Sandro, erano previste tre bottiglie da mezzo litro a settimana. I badanti ricevevano l’acqua direttamente nelle loro case senza nessuna tessera. Quando erano al lavoro gli era consentito bere quella del loro assistito. Ovviamente tutti ne approfittavano senza scrupoli. Nei bar, nei ristoranti e in tutte le strutture pubbliche, si trovava l’acqua solo in confezioni da 100 C.C. e costavano sei volte il prezzo di quella da un litro. Erano commercializzate ovviamente, come il resto delle bevande, dalla società di imbottigliamento di proprietà del Magister e dei suoi sostenitori-elettori più intimi. Dicevano che questo sistema serviva a combattere lo spreco per avere la disponibilità nell’unico mese estivo dell’anno, in cui il grande caldo faceva temperature superiori anche ai 43 gradi con l’umidità al 110 percento. Tutti sapevano invece che il prezioso liquido serviva al Magister e a coloro che erano i suoi più fidati e stretti procacciatori di potere politico – economico - subliminale. Costoro, infatti, avevano nelle loro case-palazzo vasche da bagno enormi e possedevano almeno due piscine: una con acqua calda e una con quella fredda. Esse venivano svuotate due o tre volte al giorno per avere sempre acqua pulita e ben areata. Nelle loro case-palazzo era stato vietato l’uso di agenti chimici, micro onde, ultrasuoni, filtri e tutti gli altri sistemi noti per rendere

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pure le acque. Per loro doveva esserci solo e sempre prodotto fresco di fonte. Si sapeva che avevano in ogni stanza delle loro case-palazzo, rubinetti e condutture di platino dai quali fuoriusciva acqua minerale di diverso tipo. Per questo le stanze venivano chiamate: sala litiosa, sala acetosa, sala frizzante, sala oligominerale, sala sulfurea. Il particolare metallo delle condutture e dei rubinetti era stato impiantato perché manteneva inalterato il sapore ed il gusto dell’acqua. Era invece legale, anzi obbligatorio, per i pedones, ovvero il resto dei cittadini, usare qualunque mezzo per depurare le acque raccolte nelle cisterne. I componenti per stabilizzare le acque erano ovviamente prodotti e venduti dai Magister Federali e compagni. Come anche il materiale sintetico per fare tubazioni e rubinetteria. Mentre lo squittio dei raggi laser liberava la città dalla neve, nelle stazioni i treni facevano altrettanto. Questi erano muniti di due laser sulla parte anteriore della motrice, un poco più sotto dei respingenti, quasi a livello delle ruote. Messi in azione mentre continuavano nel loro percorso, i binari venivano liberati dalla neve per una distanza di cento metri in cento metri. Anche negli aeroporti, sulle piste di decollo, avveniva la stessa cosa. Sotto la pancia e sul muso del velivolo una miriade di mini laser liberavano la pista dalla neve fondendola. Lo stesso sistema era diffuso sulla parte superiore e sui lati della fusoliera, nonché sulle ali. Ciò era necessario per evitare la formazione di ghiaccio, specie da alta quota. Bloccare i timoni col ghiaccio sarebbe stato molto pericoloso. In pratica quando cadeva la neve non le si dava mai il tempo di solidificare al suolo. La gente in questo modo, non godeva mai pienamente della bellezza di un panorama cittadino innevato. La gente non voleva fermarsi per una nevicata grande o piccola che fosse. Voleva e doveva continuare a correre, trafficare lecitamente ed illecitamente, produrre con un surplus che nessuno riusciva a consumare,


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ma che doveva acquistare pena sanzioni gravissime, quali: riduzione della razione d’acqua da bere, abbassamento della potenza elettrica, abolizione o spostamento dell’unica settimana di ferie a tempo indefinito e al giudizio inappellabile dei Factotum Magistrali, pena altre sanzioni. E ancora lavorare intere settimane gratis, programmare e fare altri figli in modo da riuscire a consumare di più. Andare tutte le sere o le mattine, a secondo dei turni di lavoro a tutte le funzioni religiose che si tenevano nella chiesa dai cui dipendeva la propria famiglia. Partecipazione ovviamente obbligatoria, anche se teoricamente era concesso di essere di altro credo religioso. Nessuno però era così matto da dichiarare la reale e segreta professione di fede. Questa tracotanza poteva costare l’allontanamento immediato dal posto di lavoro e l’Isolamento Purificatore fino a giudizio dell’Assolutore Superiore. Una specie di catechista di altri tempi, che ti sottoponeva a test per verificare il tuo ravvedimento. Le sanzioni venivano applicate dai Raddrizzatori Urbani: una sorta di polizia dai sistemi molto convincenti. Malgrado ciò la gente era appagata, non contenta ma appagata: almeno apparentemente e chiaramente per convenienza. D’altronde tutti possedevano, più che una vera casa, un luogo dove riposare alla fine della giornata. Avere un ricovero sicuro rendeva tutti molto docili, specialmente dopo una giornata lavorativa che durava dalle sei del mattino alla mezza notte. Le case erano microscopiche ed in funzione delle persone che vi dovevano dormire la notte. Una persona sola, come Sandro per esempio, doveva abitare in uno spazio unico di circa ventisette metri quadrati e mezzo, che era provvisto di tutto quello che era utile a soddisfare le esigenze di una persona. Il resto era superfluo e quindi sprecato. Bisogna anche dire che queste case costavano molti tickets, la speciale moneta-non moneta con cui si pagavano i lavoratori e i pensionati, cioè i pedones. Gli altri, cioè i ricchi, appellati Benefactores, percepivano moneta internazionale: ossia

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veri soldi. Infatti, quando i pedones dovevano pagare un professionista, a cui per un qualsiasi motivo facevano ricorso, dovevano convertire presso le banche del Magister Federale i tickets in moneta internazionale, questa cosa però comportava la rinuncia a molti generi di prima necessità come l’olio, la pasta, il latte, burro, vino, frutta, e via così. Sandro che già possedeva la casa, perché l’aveva acquistata nel millenovecentottantasei, era considerato un privilegiato perché viveva adesso in circa quarantasette metri quadrati, dopo aver ceduto obbligatoriamente gli altri settantacinque. La cosa che più gli dava fastidio era la sensazione di sentirsi come un pollo in gabbia. Una volta in un momento di nostalgia degli anni della sua giovinezza, del ricordo della sua famiglia, e della sua bella casa grande, si aprì in questa amara constatazione sullo spazio con il suo badante. Gli venne risposto che probabilmente non ricordava che le galline hanno uno spazio trenta volte inferiore al suo. Il vecchio Sandro ammutolì all’inconcludente risposta ed ebbe un attimo di sgomento, poiché ricordò che l’attuale badante era il nipote di un nipote del cugino del Magister. Se avesse riferito la cosa al Factotum Magistrale, poteva avere seri guai. Frugò allora in un cassetto dove aveva le ultime cose preziose di famiglia, oro e pietre vere non pezzi di carta inutili come i tickets, prese una crocetta d’oro massiccio e diamanti e la diede all’uomo. Era stata di sua madre. Il badante la intascò con una smorfia di disgusto, per la pochezza della cosa. Nel frattempo era cessata l’allerta neve e si potevano riaprire i battenti-scudo. Fu fatto e la prima cosa che fece Sandro fu quella di guardare in alto verso il cielo, che non era più del bel grigio uniforme tipico del tempo di neve. Svolazzava solo qualche puntino bianco di tanto in tanto. Il pericolo era cessato e non rimaneva che il lucido delle strade ancora piene d’acqua, che a mano a mano con apposite macchine veniva aspirata e condotta verso i depuratori-rettificatori.


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L’operazione di eliminazione della neve non durava molto perché erano state eliminate tutte le zone a prato e tutti gli alberi. Questi ultimi perché erano considerati un pericolo pubblico, specialmente se costeggiavano le strade. Essi infatti erano di grave pericolosità per coloro che si spostavano con mezzi meccanici quali: scooter-laser, auto laser, idro-bus. Spesso gli alberi si erano trovati sulla loro traiettoria di velocità ed avevano procurato la morte dei conducenti, che viaggiavano alla velocità che più gli piaceva, come stabilito da apposite Emanazioni. Fu allora che Sandro, prima che se ne accorgesse il suo badante, il quale lo avrebbe severamente apostrofato, si asciugò furtivamente una lacrima agli angoli degli occhi. Imputò questa debolezza improvvisa al ricordo del bianco sorriso della madre che lo tenne caldo in quella fredda giornata del millenovecentocinquantasei, o più probabilmente al ricordo legato al bianco che stava tra il verde ed il rosso della bandiera nazionale che conservava segretamente. Bianco che a lui ricordavano anni di libertà. Anni in cui ogni uomo era libero di parlare, scrivere, riunirsi in associazioni o circoli, leggere i libri e studiare quello che voleva, anni in cui la libertà era il lusso di tutti i cittadini e non l’abuso di pochi. Anni in cui la libertà era il presupposto per la cultura, alla quale tutti potevano legittimamente aspirare. Anni in cui non si eliminavano alberi per correre con le auto senza moderazione, ma si multava chi non rispettava le regole. Gli uomini come lui, specialmente quelli della sua età o molto vicino alla sua, erano chiamati Osteggianti ed erano schedati perché depositari di cultura. Tutti i responsabili che gestivano ed amministravano le Federazioni, che erano le antiche regioni, sapevano di questi vecchi e li avevano schedati e li monitoravano di continuo attraverso i badanti con cui vivevano. Le persone comunque continuavano segretamente a fare cultura, perché molti badanti erano estremamente corrotti e dietro buone mance chiudevano un occhio. E anche perché erano tutti

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molto ignoranti, per cui anche se parlavano apertamente facevano molta fatica a capire. A loro era stato vietato capire, cosa che potevano fare esclusivamente i Magister, i Benefactores, gli Assolutori. Tutti gli altri dovevano solo impegnarsi per raggiungere la felicità, che era considerata cosa indispensabile essendo l’uomo materia, e la materia doveva rispondere solo alla conquista di cose materiali per raggiungere l’appagamento completo che portava alla felicità. Cultura, spiritualità, sentimentalismo erano retaggio di un ‘epoca corrotta nella quale la preziosità del tempo era stata sprecata in cose inutili ed antieconomiche. Egocentrismo, vanità, perfezione estetica erano queste le virtù che dovevano essere perseguite. Sandro intanto si era alzato dalla poltrona avvicinandosi ai vetri del balcone, con il desiderio di vedere anche un piccolo residuo di qualcosa che lo aveva reso felice tantissimi anni prima. Il badante rientrando nella stanza, trovò Sandro fermo con le braccia alzate un poco più sopra delle spalle, le mani poggiate ai vetri con le palme semi aperte come quando si cerca di afferrare qualcosa. In piedi, rigidamente e stranamente in equilibrio, era rimasto il vecchio. Felicemente racchiuso nella sua morte. Egoista III, tale era il nome del badante di Sandro, inconsuetamente si affrettò verso il balcone per sorreggere il suo assistito. Capì però che non c’era altro da fare che chiamare la Squadra Rimozione. Contravvenne prima di farlo a tantissime regole. Depositò con delicatezza Sandro sulla sua poltrona, gli coprì le gambe con un plaid e gli diede una ravviata ai pochi capelli rimasti. Aprì poi il cassetto dove, ben nascosto Sandro teneva la Bibbia, la trovò e la infilò nella cintola ben nascosta dalle maglie. Tutte queste operazioni fecero ritardare la chiamata della Squadra Rimozione contravvenendo alla più grave delle disposizioni. La legge disponeva che il recupero doveva avvenire massimo entro cinque minuti dal decesso. Egoista III non


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si spiegava perché stesse operando in quel modo. Ne ebbe paura. Qualcosa di strano che gli stava accadendo gli procurava un acuto timore. L’indefinibile e sconosciuto nuovo che lo sconvolgeva, era più spaventoso del rilievo che potevano fargli, qualora se ne fossero accorti, quelli della Squadra Rimozione. Il giovane badante era confuso, un tremore interno lo scuoteva, le mani erano di ghiaccio mentre invece la testa era un fuoco. Il cicalio dell’apertura elettronica della porta lo fece tornare alla realtà. Erano arrivati gli operatori della Squadra Rimozioni che, come da rigido regolamento, sollevarono Sandro per deporlo nella Tecafuneraria di cartone pressato, che sarebbe finita poi nell’inceneritore con il suo contenuto. L’operazione fu rapida e si concluse seguendo scrupolosamente i tempi prescritti. Egoista III inconsapevolmente disse, durante l’operazione, quasi senza voce come in una preghiera: ”Piano”. I quattro uomini lo udirono ugualmente e lo guardarono obliquamente, ma lui non se ne curò. Ebbe ancora una volta tanta paura, ma non di quegli uomini. Qualcosa di sconosciuto si stava impadronendo di lui. Sentiva una cosa strana, come un languore che gli faceva sobbalzare lo stomaco. Erano sensazioni sconosciute, qualcosa di cui nei campi di formazione non si era mai nemmeno accennato. Gli tornavano alla mente frammenti dei discorsi che Sandro a volte faceva con i suoi amici, a cui però non aveva mai prestato orecchio. Adesso invece come in un eco gli flagellavano la mente. Stava uscendo dai canoni, pensava con sgomento. Non poteva permetterselo, doveva ottenere un nuovo lavoro e non languire in un campo di rieducazione. Gli uomini intanto erano andati via con il loro carico. Il giovane si sedette sulla poltrona che era stata di Sandro, si rialzò, andò alla finestra, vagabondò per la stanza per diverso tempo.

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Stranamente si accorse che pensava, rifletteva, faceva cose che nei campi d’addestramento gli erano state vietate. Non sapeva cosa fare. Come agire. Anzi lo sapeva benissimo. Ritornò infatti a sedersi sulla poltrona di Sandro, tirò lentamente la Bibbia dalla cintola e cominciò a leggere. Salvatore D’Ambrosio Racconto vincitore del premio Città di Cassino 2011. Piccola nota polemica: all’epoca la Atwood non aveva ancora pubblicato il suo romanzo L’Ancella.

PORTAE INFERI Non prevarranno le porte dell’inferno, non prevarrà il demonio che con le arti sottili della tecnologia moderna sta tentando di seminare la cattiveria nel mondo. Col rapido diffondersi di questi moderni mezzi di comunicazione, così sensibili e variabili e fonte di continuo stress per l’utente e conseguente perdita di tempo per il loro aggiornamento, non si rende conto la massa del male che ne viene per la mente e la tranquillità dell’anima. E la gente resa sempre più esposta a questo virus subdolamente dell’altro più pericoloso impazzisce e facilmente perde il controllo delle proprie azioni. Mal costume, cattivo gusto, violenze e uccisioni, perdita di umanità e di religione … Tutto il mondo sta ritornando al caos primordiale. E’ forse questo il preludio della fine ? O ci risveglieremo in tempo ? 22 dicembre 2020 Mariagina Bonciani Milano


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“UNA VERA ARTE” (Matteo Collura) - 11 -

DEDICHE a cura di Domenico Defelice “Grenoble, le 7 novembre/2012/A Domenico Defelice,/(parola non chiara) d’ici et d’ailleurs!/Vous êtes harmonieuses, les/mêmes partout… La grande/beauté du monde que les/étoiles (non chiara) sous le/lampadaire lunaire !/Bien Cordialement/Brigitte » (volumetto : Brigitte Neulas Bermond Brigedouce, Morphee, Altaïr, 2010). *** « Al/ dr. Domenico Defelice/come il fiore del campo/lo splendore dell’animo!/per un caro augurio/nell’abbraccio dell’amicizia!/Maurilio/Capodanno 2014” (volume: Giovanni Maurilio Rayna - Amo i fiori che non colsi mai, Tipografia Gengraf - Genola, 2012). *** “Con la più profonda stima/Daniela Quieti/Pescara, luglio 2009” (suo volumetto: Cerco un pensiero, Edizioni Tracce, 2008). *** “Con preghiera di recensione/Molte grazie/Renato Greco” (suo volume: Mattinali e tramonti dell’opera compiuta, L’artedeiversi n. 11, 2015). *** “Al mio caro amico/Domenico Defelice/con

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stima e gratitudine/Giuseppe Leone” (suo volume: D’in su la vetta della torre antica, Il Melabò, 2015). *** “6/07/2011/A Domenico,/Con stima e grande/riconoscenza/Lucia Sallustio” (suo volumetto: La fidanzata di Joe, Faligi Editore, 2011). *** “Al prof. Domenico Defelice/cordialmente /Silvano Demarchi” (volume: Antonio Crecchia - La militanza letteraria di Silvano Demarchi dall’esordio ad oggi, Edizioni Cronache Italiane, 2011). *** “Caserta, 25/1/2016/A Domenico Defelice/che fece della sua/vita una continua/conquista culturale./Fraternamente/Salvatore D’ Ambrosio” (suo volume: Storia postale italiana Annullamenti di Terra di Lavoro (1863 1889) con valutazioni). *** “Caro De Felice,/mi sono riabbonato/me lo recensisci?/tuo Nigro/x - 12” (volume: La Musa accanto, di Giuseppe Conte, Nevio Nigro, Maria Luisa Spaziani, Eugenio Gino Vitali Blu di Prussia, 2012). *** “To Dr. Domenico Defelice,/with my best wishes for continued/success in your work ./With respect,/Zavvέta KaλύBa - Zanneta Kalyva - Papaioannou/May, 2009” (suo volume: With my heart’s wings). *** “All’amico Domenico Defelice/con stima sincera/Maria Teresa Epifani Furno” (suo libretto: L’ultimo volo, Cronache Italiane, 2011). *** “09/07/2012/All’amico/Domenico/De Felice/con grande/stima/ed affetto/Colombo” (volume: Colombo Conti - Il bandolo della matassa, Aletti Editore, 2012). *** “24.07.13/Al mio caro amico/Domenico/con tanta stima!/Colombo” (volume: Colombo Conti - La donna dei Velcha 100 poesie d’amore, Aletti Editore, 2013).


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*** “Al direttore De Felice/la storia di un cuore, i suoi/trasalimenti, le memorie/con immutata stima/Elena Mancusi/Aprile 2013” (volume: Elena Mancusi Anziano - dal cuore - DPNET sas, 2013). *** “Alla stima del/pre.mo prof. Domenico De Felice/Salvatore D’Ambrosio/Caserta 20.11. 2010” (suo volume: Barcollando nell’indicibile, Bastogi, 2009). *** “Al caro Poeta e amico/Domenico Defelice/con i sensi della mia profonda/stima e cordialità/A. Bonanno -/Sacile, 29/12/2010” (volume: Andrea Bonanno - L’arte deviata otto biennali di Venezia ed altri saggi, Edizioni dell’Archivio “L. Pirandello”, 2010). *** “Cordialmente/Giuseppe Ruggeri/Messina, 15/ott/10” (suo spillato: Macrocosmi, Quaderni del Pagnocco, Messina 2006). *** “All’ottimo Domenico/l’ultimo mio folle libro/sperando che Dante/non si rivolti nella tomba/Veniero Scarselli” (suo volume: La suprema macchina elettrostatica, Genesi Editrice, 2010). *** “12.01.2013/A Domenico Defelice/con grande stima/e sincera amicizia/Laura Pierdicchi” (suo volume: Voci tra le pieghe dei passi, Edizioni del Leone, 2013). *** “Al/Prof. Domenico Defelice/per un dono amico/e un caro augurio/nel nome della Poesia!/GMaurilio Rayna/ - 2012 -” (volumetto: Giovanni Maurilio Rayna - Le sette lucerne, Tipografia Gengraf - Genola, 2010). *** “A Domenico De Felice/con amicizia/Maria Elena Di Stefano” (suo volumetto: Realtà e fantasia, Nuova Impronta Edizioni, 2011). *** “A Domenico Defelice,/che sente e guarda il mondo/con sentimento poetico./Nicola Lo Bianco/Palermo/ott. ‘16” (suo volume: Lamento ragionato sulla tomba di Falcone, Di

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Girolamo Crispino, 2010). *** “Para el notable italiano/Domenico Defelice,/ estas reflexiones poèticos/sobre la poesia de/Carilda Oliver Labra,/Chacón/2014/ CUBA” (spillato: El retrato femenino ed la poesia de Carilda Oliver Labra, Montaraz, 2013). *** “A Domenico Defelice,/amico carissimo, con/affetto,/Elio Andriuoli/Ge, 22/1/2011” (suo volume: L’Azzardo della voce, Genesi Editrice, 2010). *** “A Domenico Defelice,/amico carissimo, con/affetto,/Elio Andriuoli/Ge, 4/3/09” (suo volume: Le vie della saggezza, De Ferrari, 2009). *** “Al Direttore Defelice/con preghiera di recensione/LAndr” (volume: Liliana Porro Andriuoli - La narrativa di Silvano Demarchi, Le Mani, 2010). *** “Caiazzo, maggio 2011/A Domenico Defelice,/nel nome di una corrispondenza/nata dal comune amore per/le humanae litterae./Con sincera stima/All” (volume: Aldo Cervo - Profilo di un irregolare Breve ricordo di Pasquale Cervo, Edizioni EVA, 2011). *** “For Domenico/Defelice,/with my best wishes/GZ/Zacharoula Gaitanaki/Grecia/Dec. 2009” (volume: Potis Katrakis - The unforeseen, Lexitipon editrions, 2009). *** “A Domenico/allo scrittore/ed all’amico autentico,/in segno di chiara amicizia./Sandro Angelucci” (suo volume: Verticalità, Book Editore, 2009).

Invitiamo lettori e collaboratori a inviarci le dediche, indicando con chiarezza, però, nome e cognome degli autori, titoli dei libri sui quali sono state vergate, casa editrice e anno di pubblicazione. Grazie!


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Recensioni MARINA CARACCIOLO GIANNI RESCIGNO: “DALL’ESSERE ALL’INFINITO“ Genesi Editrice di Torino, Anno 2001, Euro 8,27, pagg. 119. Le cose semplici perlopiù sono quelle effettuate con pochi ingredienti e abbastanza impegno dell’ideatore. A distanza di qualche anno dalla scomparsa improvvisa del poeta dell’agro nocerino nel Cilènto, Gianni Rescigno, sembra lievitare il desiderio quasi inspiegabile di conoscerlo più da vicino tramite la lettura (o rilettura) delle numerose opere letterarie che ci ha donato nell’arco dei costruttivi quarantacinque anni della sua vita: dal 1969 con la silloge poetica, Credere, fino al 2014, un anno circa prima di andar via per sempre, con la silloge di poesie, Un sogno che sosta. Gli ‘ingredienti’ che Egli usava inserire nei suoi componimenti in fondo non erano molti, riadducibili al suo amato circondario di sempre: vento, ambiente pelagico, ambiente agricolo e naturale, stagioni e condizioni climatiche, affetti familiari soprattutto, la fede in Dio, il trascorrere del tempo e le loquacità del silenzio, perché per lui esso possedeva mille sonoritade. Ma la sua bravura, il suo genio versificatorio prendeva atto nel ‘rimaneggiare’ teneramente questi semplici componenti, più comuni che originali, nella regione della letteratura, creando discorsi aulici dai sottili filamenti diramati verso il Creato tutto. Nelle sue poesie Rescigno si rivolgeva quasi sempre a qualcuno e lo faceva con una vena di velato bisogno di uomo ‘ferito’ da una freccia di mordace consape-

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volezza, forse perché avvertiva dentro di sé la medesima piaga del Meridione offeso da secoli e mai del tutto riscattato. Gianni Rescigno è riuscito a rimanere fino alla fine un uomo senza tante pretese, riservato e finanche conscio che le sue poesie non sarebbero servite certo a mutare favorevolmente la sorte del suo Meridione; però, continuava a comporre senza stancarsi mai con gli occhi rivolti al suo amato circondario, che immutabile fingeva di resistere al suo sguardo. Ci fu un rasentato incontro durante la cerimonia di premiazione del concorso letterario, prima edizione del “Comune di Nibionno” nel dicembre 1994, dove si recarono sia la professoressa saggista Marina Caracciolo in compagnia di un’altra partecipante al Premio, sua amica e insegnante di violino, sia i coniugi Rescigno, Gianni e sua moglie Lucia Pagano, partiti quest’ultimi dalla provincia di Salerno fino in Lombardia. Quel giorno non avvenne nulla di fatidico tra la futura dissertatrice della presente opera e il poeta già pluripremiato e apprezzato, Rescigno, quasi un ‘arrivederci’ tacito procrastinato dal destino per un’altra occasione che in seguito li ha visti procedere sul medesimo binario. «[…] Passarono ancora cinque anni. Un pomeriggio di settembre, in casa di un’amica pittrice, Anna Ferrari, incontro Paola Insola. […] Lei pure ha pubblicato alcune raccolte di versi e ha già vinto prestigiosi premi. Un giorno, mentre confrontiamo le nostre opinioni sulla poesia attuale, mi parla del contemporaneo che l’affascina di più: è Gianni Rescigno – dice – perché, a differenza di molti altri, possiede uno schietto, naturale “istinto” poetico. Paola dovrebbe recensire su una rivista letteraria l’ultima raccolta che Gianni ha pubblicato, Le strade di settembre. Ma non ha tempo, purtroppo: è un momento in cui ha una montagna di impegni da portare a termine. Mi propone di farlo al posto suo e, visto che accetto volentieri, mi mette in contatto con lui. […] Di lì a un anno, dopo aver recensito anche la successiva Farfalla, progetto di scrivere un saggio critico su tutta la sua produzione poetica e provo a parlargliene: nasce in tal modo l’idea di questo lavoro.» (Dalla Prefazione di Marina Caracciolo al presente saggio, pagg. 11-12). Ecco come fioriscono le grandi opere, appunto, con ingredienti semplici e tanto, tantissimo impegno della persona chiamata (volontariamente o da qualcuno) a compierle. Il presente lavoro della Caracciolo si estende per la lunghezza di ben valutate tredici pubblicazioni poetiche di Gianni Rescigno, quelle che vanno dal 1969 al 2001 ed è un’esegesi che aumenta certamente l’attrattiva per le opere letterarie del poeta di S. Maria di Castellabate, perché


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di ognuna, considerata dalla saggista, sono state ricalcate le visioni primigenie insieme al tecnicismo istintivo e professionale al contempo usufruiti dall’autore, intercalando anche le voci d’altri esperti ai lavori che nel corso del tempo si sono soffermati ad apprezzare il Nostro, sia con giudizi critici, sia accompagnando le sue scelte poetiche con prefazioni, presentazioni, postfazioni, etc. «[…] ‟La poesia di Rescigno – scrive Bárberi Squarotti – è fondamentalmente, allora, preghiera come invocazione a Dio perché intervenga a sanare le ferite della storia e della vita, a soccorrere l’anima angosciata o divisa, a colmare il vuoto del cuore, a confortare le vittime, a salvare dalla disperazione”. È una richiesta che può divenire ‟una domanda urgente e passionata di intervento dentro una realtà che è andata sempre più rovinando e disgregandosi e facendosi disperatamente desolata e dolorosa, e che tale è divenuta come per l’assenza per troppo tempo e per troppi eventi di Dio.» (Dalla Prefazione di Giorgio Bárberi Squarotti al libro di Rescigno, Un altro viaggio del 1995, pagg. 92-93 saggio M. C.). Nessuno poteva nemmeno lontanamente immaginare che, da questa lunghissima pagina di ponderazioni a quattordici anni più tardi, sarebbe venuto a mancare il poeta prolifico di quel meraviglioso territorio che ingloba anche la mitica Paestum e la costiera amalfitana, la terra cosiddetta ‘faticata’ dove «[…] I bufali si spalmano il ventre di melma/ e l’acqua dei pantani sa di afa/ come il tramonto nei loro occhi nero-china./ Foglie lanceolate i corvi scendono sui templi./ Dalla bocca il fico lacrima gocce caramellate/ alla Storia in esilio che scavalca le mura/ e passa la notte accucciata su una colonna in compagnia della civetta. » (Dalla poesia di G. R., La piana di Paestum, pag. 40 saggio M. C.). Isabella Michela Affinito

ISABELLA MICHELA AFFINITO VENEZIA È UN VESTITO DI SALE Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2020 Alla scoperta di Venezia più nascosta e intima. Questo ci raccontano i versi di Isabella Michela Affinito nella sua raccolta dal titolo “Venezia è un vestito di sale”, pubblicata su Il Croco. In questo difficile periodo in cui si può viaggiare solo con la fantasia, a causa di questa “scomoda e antipatica” pandemia, la Affinito con i suoi versi ci invita a chiudere gli occhi e ad andare alla scoperta di una delle città che tutto il mondo ci invidia. La grande Venezia, che ha ancora in sé i fasti della

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Repubblica Marinara che è stata in passato, la Venezia che ha dato i natali ad illustri personaggi, culla dell’arte, della cultura e dei commerci. Centro nevralgico di incontri tra culture diverse e, nello stesso tempo, così fiera delle proprie radici. Anche se non possiamo essere fisicamente in Piazza San Marco o in una delle sue caratteristiche calli, ci arriviamo con la forza dei versi della Affinito, che descrivono una Venezia profumata di salsedine, che “incrostata” lascia intravedere ogni sua caratteristica. Ed ecco che sfilano davanti ai noi, come per magia: Goldoni, Marco Polo, il carnevale, le caratteristiche gondole e gli innumerevoli ponti, Canal grande e così via. Venezia senza l’acqua non sarebbe più lei, essere immersa e lambita dal mare è il suo elemento naturale. Ogni giorno la città recita un nuovo Rondò Veneziano: “…le maschere non conoscono lo sconcerto del silenzio, si svegliano ed indossano già il costume di scena”. Roberta Colazingari

ANNA MARIA BONOMI DELIRIO DI PAROLE Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2020


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Anna Maria Bonomi cerca nei suoi versi la pace che la sua anima non riesce a trovare. Con “Delirio di parole” pubblicato su Il Croco di dicembre 2020, si lascia andare ai ricordi forse di un amore mai vissuto a pieno e, forse, mai ricambiato come si deve. I versi sono struggenti, aggrovigliati, figli di un caos interiore tanto che, ancora oggi, la poetessa non riesce a superare la mancata vita desiderata con il suo lui. Si comprende subito che i versi sono autobiografici, ispirati dal groviglio di sentimenti e astio che ancora le viaggiano dentro l’anima. Un’anima, quella della Bonomi, che cerca rifugio nella poesia per sfogarsi, per cercare di liberarsi dai dubbi, dagli affanni, ma ci riesce? Forse scrivere per lei è ancora un modo per tormentarsi, forse per punirsi, per non dar modo a se stessa di voltare finalmente pagina e accettare, purtroppo, le vicissitudini che la vita ci riserva. Una vita, è vero, che facciamo noi con le nostre mani e con le nostre azioni, ma che arrivati ad un certo punto dovremmo essere in grado di accettare, con i momenti bui e di gioia… dovremmo essere in grado di perdonarci... Frammenti di vita, pieni di delirio, che si nutrono dei fantasmi del passato, in cui l’autrice si scarnifica punendosi perché si vede come colpevole per una storia d’amore mai decollata. Forse questo suo tormento, alla fine si risolverà soltanto nella fede in Dio, dove il Padre adorato si confonde con il lui amato, con il quale la poetessa sembra sperare di godere un giorno la serenità eterna. Roberta Colazingari

MARINA CARACCIOLO VERSO LONTANI ORIZZONTI L’itinerario lirico di Imperia Tognacci BastogiLibri, 2020 Fresco di stampa (luglio 2020), mi giunge “Verso Lontani orizzonti”, a firma della nota saggista Marina Caracciolo, la quale ermeneuticamente e felicemente attraversa l’intero “itinerario lirico di Imperia Tognacci”. Su ciascuna delle undici raccolte liriche pubblicate finora dalla poetessa di San Mauro Pascoli, l’autrice appunta la sua indagine critica, partendo dal presupposto che la linea guida per approdare alla conoscenza della poetica della Tognacci, ossia delle “fonti di verità e certezza”, sia da individuare nel “viaggio”. Un lungo viaggio, un cammino personale della poetessa romagnola nel tempo e nello spazio, con le sue partenze e suoi ritorni, le esperienze vissute, intimamente assorbite e maturate, i progetti e le realizzazioni materializzate in una

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pregevole serie di pubblicazioni. L’esame critico – preceduto da una introduzione in cui si dà vita e immagine rappresentativa alla personalità della poetessa, penetrando nella profondità del suo essere per cogliere desideri, visioni, disposizioni dello spirito a peregrinare oltre la sfera della realtà quotidiana e contingente, riscontrabili nel “desiderio incessante di proseguire verso un lontano altrove” – si snoda sicuro in undici letture e si chiude con le “Note biografiche”, in cui è condensata l’attività letteraria ufficializzata dalla Tognacci nell’arco di questi due primi decenni del Duemila. Aderente e partecipe al percorso poetico di Imperia Tognacci, la Caracciolo vi immette considerazioni qualificanti un’esperienza immaginativa e creativa tra le più significative, meglio riuscite e favorevolmente accolte in una tipologia letteraria attuale alquanto vasta e variegata. Vita, memorie, paesaggi, temi, arte, stile, sollecitazioni e inquietudini, evocazioni e invenzioni poetiche attraversano la fitta rete del setaccio critico della Caracciolo e si offrono al lettore in una bonomia d’eloquio che rivela la dimestichezza al confronto, al raffronto, alla scoperta della fragilità dell’animo umano nel suo sofferto passaggio dalla terrestrità alla spiritualità, dall’umano al divino. “Tutto questo – conclude efficacemente la Caracciolo – la poetessa realizza con grande originalità creativa e di scrittura; per di più con immagini spesso di straordinaria bellezza, frutto di profonde intuizioni liriche che sfiorano talora il brivido del surreale”. Antonio Crecchia

GIANNI ANTONIO PALUMBO PER LUIGI NON ODIO NÉ AMORE Romanzo giallo, Edizioni Scatole Parlanti, luglio 2020, pagg. 206, € 15,00 Il giallo, in Italia, non ha goduto mai quella considerazione che ha avuto, invece, sempre all’estero e i nostri giallisti sono stati sempre impietosamente messi a confronto con gli stranieri, considerati autentici mostri sacri. Eppure, trai i giallisti nostrani, non mancano quelli fascinosi e sarebbe ora che ci scrollassimo di dosso il provincialismo e la sudditanza che continuano negativamente a caratterizzarci; autori come Maurizio de Giovanni, per esempio, Antonio Manzini (con l’investigatore Rocco Schiavone), Giancarlo De Cataldo, Ben Pastor (e il suo Martin Bora), Massimo Carlotto (e l’ispettore Giulio Campagna), Marco Malvaldi, Cristina Cassar Scalia, Diego De Silva (e


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l’investigatore Vincenzo Malinconico), Loriano Macchiavelli, Alessandro Robecchi, Gaetano Savatteri, Marcello Fois, Giampaolo Simi, Francesco Recami eccetera – nomi estratti senza un ordine e la diversa importanza dall’archivio della nostra mente, nomi neppure tra i più prestigiosi – attestato che sarebbe l’ora di avere più rispetto degli autori di casa nostra, appassionarci di più ai loro eroi e alle loro vittime, perché gli uni e le altre, compreso l’ambiente, cittadino e campagnolo, il paesaggio, il teatro, insomma, non hanno niente perché vengano sminuiti nel paragone con quelli foranei. Al giallo s’è rivolto anche Gianni Antonio Palumbo, pugliese, docente di materie letterarie nei Licei, pubblicista, narratore. In Per Luigi non odio né amore (titolo che l’esergo spiega derivare da Robespierre), Palumbo s’inventa una città – Candevari – come palcoscenico sul quale fa muovere una vera e propria folla di figure, tra fatti veri o verosimili e sogni aggrovigliati, “proiezioni del nostro inconscio”. Tra donne belle e affascinanti; tra individui di estrazione diversa, colti e ignoranti, più o meno gentili, più o meno maneschi; in ambienti misteriosi; tra comportamenti che, a volte, sfiorano la vera e propria follia; tra dicerie e turpiloqui, latinismi e lingue diverse – quella, per esempio, dell’albergatrice Adeliana Rodec, “bagascia arrivata dalla Romania” -, il commissario Fano, coadiuvato da Marta Salvo – funzionario di polizia dai “riccioli castani e il sorriso franco” -, dovrebbe sbrogliare un’intricatissima matassa e tenere col fiato sospeso fino all’ultima pagina. Naturalmente, non diciamo chi è o chi sono i morti, né chi è o chi sono gli assassini. Accennavamo ai personaggi, veramente in gran numero - per caratterizzare i quali, principali o secondari che siano, a Gianni Antonio Palumbo servono pochi tratti -, a partire da uno dei primi che s’incontrano, il sottotenente Benelli, un tantino prepotente e arrogante, irrispettoso dei propri sottoposti, dallo “sguardo gelido” e dal “sorriso indelebile”. Ed ecco, via via, Laura Ferro, professoressa e direttrice di un collegio; Mattia Landi, suo nipote, legato alla bella Eleonora Molteni, figlia di Arturo Molteni, che va dicendo che il giovane sia suo marito; Arturo Russo, professore di disegno; Maria, cameriera, fidanzata di Gesualdo; Elda Varchi, la pazza, che, stando alle dicerie, “massacrava a bastonate [i gatti] e poi li cucinava per nutrirsene alla sera. A dire di molti era l’unico cibo che la donna gradiva, a patto che i felini fossero grassi e in calore”; “Antonio Berti, cinquantenne docente di scienze”; Andrea Ceci, muratore simpatizzante per Prima Linea; Alessandro Proietti, stalliere di casa

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Molteni; Arturo Molteni, accademico e padre dell’affascinate Eleonora; Saverio Molteni, figlio di Arturo (padre e figlio, “il clan”, “la mafia dell’Accademia Amaranta”); Sauro Mavelli, decano dell’Accademia; Andrea Cardano, allievo dell’Accademia, un “ragazzo (che) doveva essere un pazzo o forse veniva da una famiglia talmente ricca, che s’era abituato a non attribuire alcun valore al denaro”; Giuseppe Lamola, alias Capra, bibliotecario dell’Accademia; Enrico Verdi, professore dell’Accademia; Stefano Landolfi, che “Passava il suo tempo a gingillarsi coi suoi stupidi insetti”; e tanti, tanti altri, un elenco interminabile. Né possiamo non annoverare, tra i personaggi, la Natura, sempre presente col suo fascino: ragni, farfalle (“la cavolaia sui fiori bianchi”, “la farfalla cobra”), “Il temporale (che) sferzava la vetrata e le siepi nel giardino (che) profumavano di pioggia battente”. Ad abbondare son pure le citazioni dotte - tra le quali troviamo anche Dante e Montale - e le frasi in dialetto, o in lingua straniera, come il romeno, il tedesco, lo spagnolo. Non mancano, naturalmente, amore e sesso, tra uomini e donne e tra gay; questi, anzi, abbondano tra i docenti e tra gli allievi, come non mancano le brutalità d’ogni genere. Domenico Defelice

TITO CAUCHI SILVANO DEMARCHI Fine letterato e poeta (15 febbraio 1931 – 23 agosto 2018) e critica di Liliana Porro Andriuoli Antonio Crecchia Editrice Totem, 2020 – Pagg. 116, € 15,000 Il volume, oltre che specificatamente di Silvano Demarchi, tratta, come indicato nel titolo, di Elio Andriuoli, Liliana Porro Andriuoli e Antonio Crecchia, giacché, tutti e quattro, ebbero, fra loro e col critico, scambi di libri, di amicizia e di corrispondenza; e di corrispondenza tra Tito Cauchi e gli autori succintamente indagati, il libro, in coda, ne porta ampia messe. È lo stesso Cauchi che dichiara l’intento del presente e di altri suoi lavori del genere: “Questa mia raccolta, come le precedenti, non pretende di essere un esempio di scrittura, ma una semplice testimonianza di come da una lettura, fatta per caso e dalla recensione conseguente quale segno di riscontro, nascono amicizie che si rinsaldano al di là di ogni cosa”. “Silvano Demarchi – afferma Cauchi – ha dedicato la sua vita professionale alla scuola: da professore di filosofia e materie letterarie, a preside e a incaricato universitario di letteratura tedesca. Oltre


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a vari impegni letterari di prestigio ha un ricco patrimonio di opere di saggistica, traduzioni, narrativa, poesia e ha richiamato su di sé l’attenzione della critica con saggi e monografie”. La produzione letteraria di Silvano Demarchi è vastissima e Cauchi ne prende in esame solo una parte, i soli lavori, cioè, che lui ha avuto occasione di leggere negli anni della loro amicizia; si tratta di: Poeti del Novecento (2004), Duecento letterario (2005), Momenti (2007), Poeti minori dell’800 italiano (2008), Sogni e Realtà (2009), E poi la notte (2011), L’assurdo della vita. Riflessioni filosofico-esistenziali (2012), Stranezze (2012), Poesie scelte (2012), Occaso (2013), Commiato (2013), Gioventù dorata (2014). Il Demarchi degli ultimi anni, insomma, e siccome egli ha iniziato a pubblicare già nel lontano 1960, si può dire che l’autore bolzanino rimane ancora quasi del tutto inesplorato. Ugualmente solo alcune sono le opere prese in esame degli altri autori e, tuttavia, anche nella inevitabile incompletezza, dalle recensioni di Cauchi qui raccolte, le figure di questi poeti e scrittori non mancano di venire illuminate. Domenico Defelice

MARCELLO FALLETTI DI VILLAFALLETTO UN SALOTTO PER GLI AMICI Anscarichae Domus Accademia de’ Nobili Editore, 2002 Pagg 261 € 18,00 Era nata aristocratica e aveva sposato un aristocratico, questo le dava il modo e i mezzi per accedere a ciò che per altri era impossibile, eppure questo stato sociale lo ha usato per alleviare le sofferenze e le miserie degli altri. Una donna generosa o una benefattrice dell’umanità? Semplicemente una donna, che aveva capito le necessità dei suoi simili. Anche questo saggio, del conte Marcello Falletti di Villafalletto, è un fiore all’occhiello della saggistica letteraria italiana; è una ricostruzione fedele e appassionata di una donna sorprendente e della sua grande umanità. La marchesa Giulia Colbert fu una donna istruita, timorata di Dio e cresciuta nell'amore della sua famiglia, fece sempre il suo dovere, grazie anche all’educazione che il padre, Edouard-Victurnien gentiluomo di grande generosità, le diede, ma soprattutto al senso di rispetto per gli umili e i più indifesi che le trasmise. “Infatti le riforme volute dalla marchesa di Barolo per le carceri, soprattutto per quelle femminili, sono incredibilmente moderne e “profetiche”, e si comprendono solo a partire dalla visione di umanità che Juliette Colbert matura in sé stessa, alla luce dei Vangeli della misericordia e della compassione di Cristo” così scrive il cardinale

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Paul Poupard. Conobbe il conte Tancredi Falletti di Barolo durante un ricevimento e si sposarono il 18 agosto del 1806, avendo come testimone di nozze l’imperatore Napoleone Bonaparte e l’imperatrice Josephine. L’educazione, l’istruzione, ma anche la loro intelligenza li portarono a vivere il matrimonio e la relazione con l’altro nel reciproco rispetto; ebbero in comune una spiccata sensibilità verso i poveri, i carcerati, gli svantaggiati, nonostante gli impegni mondani, relativi alla posizione sociale e agli intrecci politici, culturali, artistici e religiosi a cui erano sottoposti. Nel loro salotto transitarono i più importanti personaggi dell’epoca: Camillo conte di Cavour, Cesare Alfieri, Pietro de Rossi di Santarosa, Lamartine, Alexis de Tocqueville, Gregorio XVI, Pio IX, Luigi Lambruschini, Giusto Recanati da Camerino, Pasquale Gizzi, Antonio Francesco Orioli, Carlo Alberto e Silvio Pellico. Nella prefazione Mariagrazia Orlandi afferma: “Questa donna individua già valori significativi, quelli che oggi sono diritti costituzionali e che fanno da sfondo al processo penale accusatorio, in particolare gli aspetti afferenti il giusto processo di cui all’art. 111 della Costituzione e quelli riguardanti gli effetti rieducativi della pena”. Dopo la morte del marito visse i suoi ultimi ventisei anni al servizio degli emarginati, umili e delle sue figlie religiose con le quali pregava e lavorava. Nel testamento, definito capolavoro d’amore, di intelligenza e carità, la marchesa lasciò molti doni a parenti, amici, domestici e inservienti. Morì il 19 gennaio 1864, venne, in seguito, tumulata accanto al marito. Fu una donna moderna con un’apertura mentale notevole, che si fece strumento di Dio assieme al marito Tancredi. Manuela Mazzola

MARCELLO FALLETTI DI VILLAFALLETTO UN UOMO CHE SEPPE CONTARE I PROPRI GIORNI Anscarichae Domus Accademia de’ Nobili Editore, 2006 Pagg 315 € 20,00 Un uomo che seppe contare i propri giorni è stato scritto per festeggiare i 200 anni dal matrimonio dei marchesi Carlo Tancredi Falletti di Barolo e Giulia Colbert, celebrato il 18 agosto del 1806. L’autore è il discendente della famiglia Falletti del ramo di Villafalletto, dunque, anche e soprattutto legato affettivamente alla coppia. Carlo Tancredi è stato un uomo che visse pienamente la sua vita, partecipando attivamente alla storia del suo paese; fu sindaco di Torino, educatore, collezionista di arte, benefattore e


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uomo pio. Infatti, nella prefazione Suor Franceschina Milanesio scrive: “Abbiamo ora tra le mani una biografia degna del Servo di Dio Carlo Tancredi Falletti di Barolo, personaggio illustre per natali e per ricchezza, ma ancora di più per lo spirito di carità che ha animato la sua vita e quella della sua amata consorte, instancabile collaboratrice e continuatrice dei suoi progetti”. Fu un uomo straordinario, un marito esemplare, creò una famiglia che divenne una chiesa domestica e fu anche testimone del Vangelo, aperto alla vita e alla solidarietà verso i più bisognosi. Divenne padre di tutte quelle persone svantaggiate che aiutò durante la sua esistenza. “Il marchese Carlo Tancredi amava la vita, ogni suo scritto è un’esaltazione di questo dono divino, lo volle vivere pienamente, ebbe il dono dei talenti evangelici che fece fruttare come un esperto economo. E’ riuscito a far passare il cammello dalla cruna dell’ago, ma anche a meritare, già da qui sulla terra, l’amore di Dio”. Aveva una grande passione per la cultura e per l’arte poiché, era certo, che attraverso esse si potessero formare le generazioni future. La sua sensibilità e intelligenza lo aveva portato a comprendere che l’istruzione fosse fondamentale per affinare gli animi e dunque migliorare i giovani e la società stessa. Il marchese Tancredi e sua moglie furono una coppia moderna, diversa dai tipici aristocratici del Settecento. Furono attenti nel prendersi cura di tutto quello che li riguardava: l’amministrazione, la conduzione della casa, la produzione agricola, il legname, l’allevamento del bestiame, la produzione del vino, gli impegni sociali, la vita mondana, i numerosi viaggi e poi le visite in carcere, nelle scuole e gli incontri pubblici. Il caro amico, Silvio Pellico, scrive così della coppia: “I coniugi Barolo non per proponimento ma per felice disposizione non pensata, avevano preso costume, che vidi fra loro, e conobbi eccellente. Dopo aver fatto ognuno, fino all’ora prossima al pranzo, la sua vita di letture, di visite, di beneficenze, di seccature sofferte ecc..., si trovavano insieme prima che venissero i convitati od amici non intimi, e ciascuno diceva all’altro, così alla buona, tutta la storia della sua mezza giornata, confidenze di molta, di poca o di nessuna grave entità, ma occasione sempre dimostrarsi il reciproco stato delle loro idee, pene e contentezze. Se poi uno era assente dall’altro, si scrivevano senza smorfie di sensibilaggine, ma partecipandosi cure, affari ed anche inezie per tenersi al corrente dei loro pensieri”. Anche questo è un volume affascinante che comincia dal 1782 fino ad attraversare il nostro Risorgimento, periodo complesso, fatto di piccoli e grandi personaggi, che hanno reso grande la storia d’Italia. Lo stile del

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Conte Marcello Falletti di Villafalletto è inconfondibile: elegante, raffinato e nello stesso tempo leggero e scorrevole. La Chiesa Cattolica ha dichiarato Carlo Tancredi e sua moglie Giulia venerabili proprio per quell’amore che li contraddistingueva, non solo l’uno per l’altra, ma anche e soprattutto verso l’altro. Furono, proprio per questo, forse, i primi ad avvertire che l’altro, diverso da loro per natali, per condizione economica, doveva essere aiutato, compreso amorevolmente, come è in grado di fare un genitore. Nella comprensione empatica e compassionevolmente cristiana, si fecero strumento di Dio. Seguendo il ritmo dei versi scanditi dal salmista che implora “Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore”, Carlo Tancredi si è fatto servo di Dio. Manuela Mazzola

GIANNI LONGO LASCIAMI ALMENO UN SOGNO Armando Curcio Editore, 2017 Pagg 180 € 14,90 “Tutte le vicende espresse in ‘Lasciami almeno un sogno’ prendono spunto da fatti realmente accaduti, sono quindi un cammino frequentemente battuto per indagare a fondo il tema della propria mal finalizzata volontà. A torto o a ragione, giro intorno alle cose di questa realtà come una falena attorno a una luce e il mio sguardo non tace, anche se muta, ma commenta il suo mondo effimero, anche se seduttore e irrilevante”. Il volume è una raccolta di testi scritti dal 2004 al 2017, che induce il lettore a riflettere e a porsi domande. Gianni Longo, infatti, si esprime con un linguaggio forbito ed elegante nel dipanare considerazioni e riflessioni che si intrecciano in un percorso complesso, che va dai dibattiti sulla povertà e sulla ricchezza, agli scritti critici su artisti come Sonia Alvarez e Piero Guccione, fino a giungere alla condizione attuale della società. Ogni scritto è intessuto di ragionamenti, dunque sono testi affini alla filosofia, in cui l’autore propone una serie di argomentazioni e questioni che sono sorte nella sua intimità, ma che riguardano ogni individuo che è in grado di porsi dubbi e di utilizzare la facoltà umana del pensiero. È pieno di contenuti, di intime riflessioni che si trasformano in una dura critica alla società italiana. “Non esistono più individui, ma solo frammenti e la stessa nozione di personalità è andata da molto tempo a pezzi. Nulla è rimasto in piedi, solamente la mancanza di rispetto per le idee altrui”. Gli italiani, afferma l’autore,


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cambiano idee, pensiero e sono servili e, inoltre, trascorrono il loro tempo a prendersi in giro; i giovani sono affascinati dal denaro; il mondo è un guazzabuglio di chiacchiere, l’importante è parlare proponendo idee e poi contraddirle all’infinito. Quando parla degli artisti in generale afferma che essi non sanno dove andare perché sanno già cosa fare, la strada è stata già costruita. Tutto è stato detto, tutto è stato scoperto; è una società, la nostra, che non ha più stimoli. Le riflessioni di Longo sono nude e crude, ma proprio alla fine suggerisce la maniera, forse la più semplice, per affrontare la quotidianità: “La vera dignità che mi conquista è il pensare, mi permette anche di volgermi al passato rispondendo alle esigenze del presente. [...] Ma le lancette dell’orologio della mia esistenza ancora una volta bramano di seguire l’inquieto e veloce passo intrapreso nuovamente dal mio pensiero”. Lo scrittore esordisce con un’antologia di Piero Guccione nel 1986, questo è il suo secondo lavoro che ha avuto moltissimi premi e riconoscimenti: Diploma Honoris Causa delle Belle Arti – Premio Scrittore eccellente dell’anno per meriti artistici e per la diffusione dei valori della cultura in ambito nazionale e internazionale – Edizione 2020; Diploma Honoris Causa delle Belle Arti – Premio letterario e di Arti visive internazionale Giotto e Dante Alighieri 1° classificato; Diploma Honoris Causa – Premio Franz Kafka Italia® di Rita Mascialino per meriti artistici e per la diffusione dei valori della cultura in ambito nazionale e internazionale – Edizione 2020 – Meriti artistici; Diploma Honoris Causa – Premio William Shakespeare – Il teatro nell’arte per meriti letterari e per la diffusione dei valori della cultura in ambito nazionale e internazionale – Edizione 2020 – Meriti letterati – 1° classificato; Diploma Honoris Causa – Premio Giacomo Leopardi per meriti artistici e per la diffusione dei valori della cultura in ambito nazionale e internazionale – Edizione 2020 – Meriti artistici; Diploma Honoris Causa delle Belle Arti – Premio Luigi Pirandello – 1° classificato; Diploma Honoris Causa delle Belle Arti – Premio Giuseppe Ungaretti – 1° classificato; Diploma Honoris Causa delle Belle Arti – Premio Letterario Gabriele D’Annunzio – 1° classificato; Diploma Honoris Causa delle Belle Arti – Premio Letterario come Miglior Scrittore dell’anno; Bestseller della Biblioteca Civica di Bressanone – Premio Shakespeare; Premio Cesarò – Cesaresi nel mondo; Diploma accademico per il Teatro nell’Arte come critico teatrale; Diploma accademico dell’Albo d’Onore dell’archivio universale delle Belle Arti; Premio Accademico Marc Chagall – La realtà di un sogno; Premio della Giuria – Premio letterario Milano International – 2° Edizione

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– 2018. Gianni Longo è inserito fra i Grandi autori della Storia, nell’archivio storico universale delle Belle Arti. In copertina un’opera di Guccione, Il carrubo o albero cavo dopo il tramonto, in cui l’artista ritrae la Natura che soffre e subisce ingiustizie e violenze, in particolare nella terra natia cioè la Sicilia, terra omerica che regala suggestioni ed emozioni, ma è anche arsa dalla mancanza di acqua. Dunque, l’albero cavo diviene simbolo di questa nostra società, che ha raggiunto livelli eccezionali in tutti i campi, ma che ha perso lungo la strada dell’evoluzione le cose più elementari e fondamentali per trascorrere un’esistenza umanamente serena. Manuela Mazzola

ISABELLA MICHELA AFFINITO VENEZIA E’ UN VESTITO DI SALE Ed. IL CROCO I quaderni letterari di Pomezia Notizie – Ottobre 2020 Isabella Michela Affinito si è aggiudicata il 3° premio “Il Croco 2020” con la raccolta Venezia è un vestito di sale. Sono tutte liriche dedicate alla meravigliosa ed unica città lagunare, come ben sottolinea Domenico Defelice nella Prefazione, ma si distinguono dal solito poetare per l’accostamento particolare della tematica. In esse infatti prevale l’atmosfera


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del Carnevale e della maschera relativa, ben diversa da quella che portiamo purtroppo in questo periodo. Un quadro della leziosità del tempo lo troviamo nella bella lirica “Mascarade Rocaille” (Mascherata settecentesca). Venezia è rappresentata in una visione quasi surreale che le dona da millenni un fascino speciale, ma la poetessa coinvolge anche artisti importanti che hanno lasciato la bellezza di opere ammirate da tutto il mondo. Venezia è un museo vivente: ogni Chiesa e ogni palazzo sono parte della storia. L’abbinamento però risulta nuovo e particolare. Isabella Michela Affinito conosce bene la storia di Venezia e coglie sia gli aspetti positivi sia quelli negativi, come le atrocità delle tante pene di morte, date in pasto alla folla per un chiaro avvertimento. Il verso centrale delle liriche serpeggia nel bianco in un discorso continuo e di ampio respiro, che denota una ispirazione sincera e l’amore verso la città lagunare. Ci fa tornare indietro nel tempo, quando era lussureggiante e centro del vivere: “L’ultima festa / aveva palazzi / in livrea e si / recitava alla maniera / di Goldoni, anche / una locandiera era / signora e per i / campielli neanche / una baruffa…”. In certi versi vi è anche un velo di rammarico e di nostalgia perché la poetessa vorrebbe rivedere la Venezia di un tempo: “Quando un / giorno rifarò / le sue fattezze / non ci sarà la / volubilità / dell’acqua, la mia / Venezia sarà una / conchiglia d’argento / struggente, tutti / i colori torneranno / ad essere intensi, le / sue isole a corona si / sentiranno laute sorelle...”. Un tempo però a Venezia la diversità tra le classi non era molto differente da quella dei nostri giorni, come ben sottolinea pure Defelice. Infatti, mentre i nobili si abbellivano con il superfluo, al popolo mancava lo stesso pane. Vi è perciò uno sguardo anche al sociale e ai difetti di una società poco democratica. Laura Pierdicchi

AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 6/1/2021 Secondo i quotidiani, la ministra della Pubblica Istruzione Azzolina ha affermato che, per quanto concerne il Coronavirus, nelle scuole ci siano stati “meno casi con i banchi a rotelle”! Alleluia! Alleluia! Si vede che gli allievi son più veloci del virus mentre caracollano qua e là per le aule! Domenico Defelice

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Sie glauben nicht an Geister Es schwingt die Laterne der Fuhrleute, die in die Berge gehen. Sie werden Mondstraßen treffen, Reime von Nachtigallen. Die Nacht macht ihnen keine Angst, sie glauben nicht an Geister. Sie sind nicht wie ich: Ein Kind, das zittert, wenn es Stille oder einen Windhauch an der Tür hört. (Non credono ai fantasmi, di Franco Saccà, da ‘Tutto è memoria” Ed. La Procellaria, 1957; pubbl. su Pomezia-Notizie, gennaio 2021, p. 7. Traduzione in tedesco di Marina Caracciolo)

TRENO FERMO IN CAMPAGNA Il treno da Milano si fermò tranquillo in aperta campagna. Case sparse, indumenti di donne e di bambini ad asciugare, verde picchiettato di papaveri, capellini finissimi di pioggia da nuvoloni orlati di rosso. La mia fuga in Liguria mi emozionava a tal punto da farmi battere il cuore per un’assurda felicità. Luigi De Rosa Da Fuga del tempo, Genesi Editrice, 2013.

DUE NOVEMBRE A SANTIAGO Non dirmi parole d’amore. Altro amore dentro mi strazia con voce di tuono. Mi trascinano i morti ai paesi del Sud


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ove grande è il silenzio.

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Lasciami tra nuvole basse e piogge e cipressi nerissimi. Rocco Cambareri Da Versi scelti, Guido Miano Editore, 1983.

i tuoi racconti di mare e non ti ho dato parole a riempire il tuo vuoto. Ho perso, ora lo sento. Tra le tue rughe e le tue parole avrei trovato fiabe per saziare la panchina della mia vecchiaia. Maria Gargotta Napoli

*

NEVE

Valparaiso – Napoli: itinerario che dalle Ande alle colline mi congiunge, identità d’azzurro, divergere di addii e gioia, gioia del ritorno.

Neve nel giardino in riva al Naviglio Grande. Grossi e nodosi rami neri di imponenti gelsi spogli e carichi di neve.

C’è un vortice nei miei pensieri e lacrime su ciglia amiche che non sanno frontiere. “Addio, arrivederci, hasta luego amigo!”, abbracci lunghi e un nugolo di fazzoletti al vento tante ali di ricordi. Rocco Cambareri Da Versi scelti, Guido Miano Editore, 1983.

Una finestra a pianterreno e un bimbo dietro il vetro della finestra, in una stanza calda di luce e voce di mamma.

Lasciami, fanciulla, tra volti di pena, stalagmite di lacrime.

AD UN PESCATORE DI NOME PEPPINO Sedevi, ormai vecchio, di fronte al tuo mare. Su una panchina del porto riempivi lo sguardo per ore di barche in attesa, di notte tranquille, di povere albe. Sulla panchina del porto saziavi l’anima sola di antichi ricordi gli occhi stanchi a cercare orizzonti. Così ti ho visto, pescatore della mia infanzia, ma non ho saputo ascoltare

Scroscio di pioggia. Mi riparo sotto un portone aperto. Attendo Teresa che mi porti impermeabile ed ombrello. Intanto ammiro sulla distesa bianca il disegno dei neri rami delle piante, aperti come braccia distese. Freddo e caldo, bianco e nero, il mio sogno di stanotte. 16 gennaio 2021 Mariagina Bonciani Milano

PARTENZA La sera s’incupiva e le luci della nave diventano sempre più fulgide. Il cuore non palpitava più, fermo, colmo d’ansia e malinconia.


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Era l’autunno. Nel cielo cominciavano a brillare le giovani stelle. Nell’aria aleggiava il profumo del mare. Piano, la nave si muoveva, colma di giovinezze e di sogni. La meta: una terra lontana. D’improvviso, sentii grande il peso sulle mie spalle. Un tremito irrefrenabile mi prese. Guardai indietro, cominciava ad essere lontana la mia terra. Era luminosa e silenziosa quella terra mia appariva in festa. Sembrava emergere dall’acqua specchiandosi sulla superfice limpida. La nostra gente s’allontanava. Un leggero vento trasportava l’eco delle nostre voci. Era l’addio! Ed io dissi a quella Patria mia: Sei bella come la bandiera tricolore, sei gioconda come l’Inno di Mameli! E le lacrime scendevano senza sosta, perché? Perché era il cuore che piangeva! Anna Trombelli Acquaro Australia

L’INCHIOSTRO VERSATO Marea amara traccia la sua strada nera riempiendo il nulla di perdute illusioni requiem sulla pagina bianca d’una storia che mai più si scriverà… Tu sei partita! Marie-Christine Guidon (Da: Florilège, n. 181, dicembre 2020, pag. 18, versione italiana di Domenico Defelice)

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D. Defelice: Il microfono (1960)

NOTIZIE RICORDO DI ONORINA TACCONE Era più nota con il nome di Ninetta la moglie di Vittoriano Esposito, venuta a mancare a 88 anni, colta da un malore improvviso la notte tra il 24 e il 25 dicembre scorso nella sua casa di Avezzano in via dei Tulipani, dove visse per lunghi anni con Vittoriano e le figlie Fiorella e Katia. Ho conosciuto Ninetta nell’agosto del 2003 nel Centro Studi Ignazio Silone di Pescina, in occasione di un convegno sull’autore di Fontamara, a 25 anni dalla morte. Ero lì, anch’io tra i relatori, per presentare un mio saggio dal titolo Silone e Machiavelli. Una scuola … che non crea prìncipi, con la prefazione di Vittoriano Esposito, e ricordo che fu proprio Ninetta a farmi il più perfetto dei ritratti su Vittoriano critico militante. Lo ha fatto, riferendosi al suo intervento, ma


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senza la benché minima intenzione di magnificarlo: Come al solito - mi disse - Vittoriano non ha relazionato su quello per cui si era preparato, ma ha consumato i minuti a sua disposizione per obiettare a un’affermazione che non gli andava a genio. E in effetti, Vittoriano aveva risposto, a braccio, al relatore che l’aveva preceduto, il quale aveva parlato di socialismo liberale in Silone, piuttosto che “libertario”, come avrebbe poi corretto Vittoriano. Questo aneddoto, per dire quanto Ninetta fosse attenta e acuta in questo suo ruolo di compagna e “consigliera” negli incontri letterari di Vittoriano; e anche, quanto la sua partecipazione fosse puntuale in occasioni come queste, destinate a intensificarsi ancora di più dopo la scomparsa di Vittoriano nel 2012. Da allora, già a partire da un convegno alla sua memoria tenuto a settembre sempre nel Centro Silone a Pescina, a cui hanno partecipato Liliana Biondi, Aurora Botticchio, Walter Capezzali, Romolo Liberale, Maria Moscardelli, Vittoria Addari Petrucci, Pasquale Petricca Angelo Melchiorre, Angelo Sabatini e il sottoscritto, Ninetta vivrà gli anni che le saranno ancora concessi, impegnandosi a promuovere iniziative per non disperdere la memoria e l’eredità letteraria di Vittoriano. Solleciterà incontri nelle scuole, nei centri culturali e nelle sale civiche; ovunque, darà il suo contributo per vedere riconosciuti i meriti di Vittoriano, che non tarderanno a manifestarsi: così a Celano, paese d’origine del marito, dove sarà istituito il Premio letterario di narrativa Città di Celano a lui intitolato; così ad Avezzano, dove verrà intestato al suo nome il Parco dei Letterati, unitamente a quello di Gianni Corbi e Romolo Liberale; e a Pescina, dove sarà dedicata ancora a lui la Scalinata che dal Piazzale Rancilio sale alla Tomba di Silone. Il tutto frutto della stima e del rispetto di Ninetta verso “un galantuomo delle lettere”, quale è stato Vittoriano Esposito e, soprattutto, del profondo amore che l’avrebbe legata per tutta la vita a un uomo che le aveva dedicato già al primo incontro versi come questi: … M’avevi guardato! M’avevi sorriso! Nulla da dirmi aveva il tuo sguardo; ma lo disse in modo grazioso quel nulla. E il tuo sorriso, in apparenza tranquillo, aveva in germe la favilla. Erano versi scritti da un giovanissimo Vittoriano Esposito, ancora all’alba del loro amore, quando, firmandosi con lo pseudonimo Amato

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Amans, gettava la chiave della loro interpretazione in un dominio dantesco, portando a maggior sintesi il celebre Amor ch’a nullo amato amar perdona: Amato Amans, in italiano Amato Amante, Amato che a sua volta ama, nel senso che i versi che lui rivolge a Ninetta non sono richieste d’amore, ma sono la risposta che lui è già pronto ad amarla. Questo è ciò che mi pare di poter dire intorno a questi versi. Ma se in seguito dovessi ricredermi, non perderei l’occasione di chiederlo a Dante stesso, che quest’anno si trova ancora in giro per il mondo per essere festeggiato nel suo settecentesimo anniversario dalla morte. Giuseppe Leone *** ANCORA ECHI DI CORDOGLIO PER MARIO DE FELICE – Riceviamo ancora, per telefono in particolare, molti messaggi di cordoglio per la morte di Mario Defelice, avvenuta il 14 dicembre scorso e i cui funerali si sono celebrati a Pomezia il 30 dello stesso mese. Eccone alcuni arrivati via e-mail, scusandoci per non poterli riportare tutti: Da Aurora De Luca, Rocca di Papa (RM), il 31/12/2020: Carissimo Direttore, torno a lei abbracciandola il più calorosamente possibile, partecipando al suo dolore e a quello


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della sua famiglia. Un Natale questo del tutto atipico e malinconico, pieno di solitudini. Il 2021, che si appresta ad iniziare, porta sulle spalle le nostre grandi aspettative di rinascita. Una rinascita che vogliamo sia in grado di risarcirci di quanto abbiamo perso, e di quanto ci è stato tolto. Ad ogni modo, la vita ci ha imposto e ci impone cambiamenti, un ritmo più umano: questo è quello che mi auguro per noi tutti. A lei, caro Direttore, auguro invece la vicinanza dei suoi affetti più cari, tempo da trascorrere insieme a loro, in completa armonia. La abbraccio caramente, Aurora Da Mimma D’Elia, Vibo Valentia, il 2/1/2021: Caro Domenico, mi dispiace che il covid ti abbia colpito con un grave lutto. (…) Il mondo è stravolto, imprevedibili malesseri sono in agguato ma continuiamo a sperare che gli anni che si avvicendano ci portino qualcosa di positivo. (…) Un abbraccio Da Liliana Porro e Elio Andriuoli, Napoli, il 5 gennaio 2021: …abbiamo appreso il grave lutto che ti ha colpito (..) per il quale ti facciamo le nostre più sentite condoglianze. Un affettuosissimo abbraccio. Da Salvatore D’Ambrosio, Caserta, il 5 gennaio 2021: Carissimo Domenico innanzitutto ti faccio le mie sentite condoglianze per la morte del caro tuo fratello Mario. Non ti nascondo un poco di commozione, per il fatto che fino ad ora ho sentito dei tanti andati via per questo terribile virus, ma non mi era ancora capitato di dover condividere un dolore così vicino come quello che ha colpito un mio caro amico quale ti considero. Potrei dirti tante belle parole, non servono al dolore di una fratellanza perduta. Ti conforti il ricordo della vita trascorsa insieme e vicino a lui. (…) Salvatore Da Andrea Bonanno, Sacile (PN), l’otto gennaio 2021: Caro e stimato Defelice, nel ringraziarLa per l'invio di Pomezia Notizie in formato digitale, che ho trovato ottimo, La prego di scusarmi per non averLe risposto (…). E' un periodo brutto incalzato da quel virus maledetto che ci fa vivere in modo ansioso e con grande paura. Dalla Sua Rivista ho appreso con grande tristezza che è morto il Suo caro fratello Mario. Sono, pertanto, molto vicino al Suo dolore e alla Sua anima afflitta, che sento mie, dato un lungo nostro passato di vera amicizia e di stima reciproca. Le rivolgo,

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pertanto le mie sentite condoglianze, insieme alla sua famiglia, per la dipartita di Suo fratello Mario. Cordiali saluti, rivolgendoLe un caro abbraccio con tanto affetto. Suo Andrea Bonanno *** LA NUOVA AVVENTURA DI POMEZIANOTIZIE – Il nostro mensile, con numero scorso, è felicemente decollato in forma elettronica. A parte la nostalgia, giustificatissima, di alcuni che non possono e non vogliono dimenticare l’odore della carta, l’iniziativa sembra totalmente accettata. Ecco alcuni echi: Giuseppe Leone, il 5/1/2021: Grazie, caro Domenico, per tutto quello che hai fatto e continui ancor oggi a fare per Pomezia-Notizie, tua e nostra scialuppa per scampare al naufragio di una civiltà che c’era sembrata solida ed eterna, ma che così non era. Eloquente il tuo grido: Aiuto, anneghiamo nel porridge! E chi potrà mai aiutarci se - come tu scrivi - la nostra attuale classe politica parla sillabando parole inglesi, e quando non lo fa, in italiano sa dire soltanto: “Detto questo”? Che cosa poi sia stato detto, non lo sapremo mai. Chi potrà salvarci? Non certo questa classe politica di fine impero, in fuga da se stessa, da noantri diceva il saggio Belli, da tutto e da tutti. Ci salveremo in piccioletta barca. Allora, grazie ancora a te, caro Domenico, per questa tua creatura, che ha il dono della rinascita e del rinnovamento, se oggi, nel suo quarantottesimo anno di età, finita l’avventura del cartaceo, rinasce come primo numero online. Evviva! Un caro saluto a te e alla tua Clelia. Giuseppe Marina Caracciolo, il 5/1/2021: Carissimo Domenico, grazie per Pomezia-Notizie di gennaio 2021 (in PDF la rivista è ancora più bella che in formato word!). Per il prossimo numero di febbraio io ti invio in allegato la mia traduzione tedesca della poesia di Franco Saccà, Non credono ai fantasmi, che hai pubblicato a pag. 7 - magnifica! Un abbraccio grande grande e a presto! Marina Antonio Crecchia, il 5/1/2021: Carissimo Domenico, ho ricevuto attraverso la rete elettronica, il primo numero “non cartaceo” di P.N. Non ho incontrato alcuna difficoltà a sfogliarlo e a leggerlo, qua e là per il momento: tutto limpido e scorrevole. Ho trasferito il tutto su un’apposita chiavetta-archivio che accoglierà solo ed unicamente i prossimi numeri, di modo che nulla vada disperso. Un sentito grazie per aver pubblicato la mia poesia sul Natale e la recensione al libro di poesie “Si chiamava Claude Monet”, di M. I. Affinito, di cui ho perso il


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contatto da oltre un mese. (…). Condivido in pieno la tua giusta e indignata riprovazione dell’uso così massiccio, dilagante e inopportuno di tanti termini stranieri, “migliaia e migliaia che hanno imbarbarito e distrutto la nostra splendida e cantante lingua italiana”. Un costume riprovevole che ci viene malauguratamente propinato da “governanti e politici pecoroni, ignoranti e clonati” e da “un giornalismo e una stampa esterofilizzati”. Autentici plagiari, i quali, avendo il cervello corto, arrugginito e … deviato, rendono difficile e incomprensibile alla maggioranza dei cittadini informazioni di interesse generale per il gusto, ridicolo e riprovevole, d’apparire quello che effettivamente sono: “pappagalli… alla cavezza degli altri”, millantatori che di continuo mortificano “l’orgoglio e la nostra diversità di Italiani”. Meriti una medaglia d’oro per questa tua difesa “a spada tratta” del glorioso idioma italico. Un fraterno abbraccio. Antonio Tito Cauchi, il 5 gennaio 2021: Carissimo Domenico, ti ringrazio per l’invio della Rivista cui ho dato già una scorsa. Grazie per la cura che poni alla tua creatura, diventata familiare alle migliaia di lettori e collaboratori. Spero che la famiglia di Mario stia uscendo dall’incubo del coronavirus; la perdita subita certamente lascia dei segni. Adesso invio la recensione ad Anna Maria Bonomi, Delirio di parole. Ho già ricevuto il tuo libro Non circola l’aria; ho riconosciuto il primo racconto, ‘Il pesce g(rosso)’, per averlo letto in altra occasione. (…). Un abbraccio, Tito Sandro Gros-Pietro, il 7 gennaio 2021: Gran bel numero di Pomezia-Notizie, congratulazioni! Sandro Giovanna Li Volti Guzzardi, il 7 gennaio 2021: (…) Pomezia-Notizie è sempre unica e meravigliosa. Emerico Giachery, il 7 gennaio 2021: Carissimo, ti avevo scritto un messaggio abbastanza lungo, poi è apparsa una scritta che citava il server che aveva non so quale problema, e la mia mail è scomparsa e non la ripesco in nessun angolo del computer. Mi spiace! Rinnovo comunque il più affettuoso abbraccio di Noemi e mio, abbraccio più che mai partecipe in questo tuo dolorosissimo lutto familiare. Ti ringraziavo anche, e mi complimentavo, per l'invio del nuovo numero 2021 della tua e nostra cara rivista. Speriamo che questo nuovo messaggio stavolta non scompaia. Ti siamo vicini Emerico e Noemi Luigi De Rosa, il 7 gennaio 2021: Caro Domenico,

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complimenti per il nuovo "Pomezia Notizie" on line. E' bello, gli manca solo...la carta. Scusami se solo adesso ti rispondo. E ti porgo sentite condoglianze. Purtroppo non lo vogliamo ammettere, ma siamo solo di passaggio. Non ci rimane che meditare, ricordare, credere nel superamento della materia e nella solidarietà. (…) Un caro abbraccio. Luigi Zhang Zhi, il 10 gennaio 2021: Dear friend Mr. Domenico , Your magazine is becoming more and more beautiful, grand, and more and more influential in China. Here, I recommend the poems, BIO and a photo of an outstanding Chinese poet to you. Please publish them in your great literary monthly magazine. Thank you very much! All the best! ZHANG ZHI *** GIOCO LETTERARIO: Ci scrive da Torino la nostra collaboratrice Marina Caracciolo il 19 gennaio: Carissimo Domenico! Per il prossimo numero di Pomezia-Notizie ti propongo un ... gioco letterario: mi sono divertita a tradurre in tedesco l'ultima strofa di una famosa poesia di un celeberrimo poeta italiano del Novecento. (Se traducevo la prima, era troppo facile, perché contiene il titolo del brano stesso). I lettori e collaboratori di P.-N. sono invitati a scoprire (cercando di tradurre): 1) il titolo della poesia e il nome dell'Autore 2) da quale famosa raccolta del poeta proviene (E' possibile arrivare alla soluzione anche senza sapere il tedesco, con l'aiuto di un buon vocabolario!). Tutti quelli che indovineranno, avranno da me un premio: gli sarà mandato in PDF un e-book con tutta la raccolta in questione (Ed. Feltrinelli, 78 pagine). Quello che avrà mandato la soluzione per primo, avrà in più un altro premio: sempre in PDF riceverà tutte le 12 Elegie Duinesi di Rainer Maria Rilke, con l'originale tedesco a fronte e la recente (2018) traduzione italiana della poetessa e traduttrice Chiara Adezati. Ecco i versi: <<…. Oh, der flüchtende Horizon, wo das Licht des Öltankers selten aufleuchtet! Ist die Eröffnung hier? (Es schäumt immer noch


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die Welle und bricht auf der steilen Klippe…). Du erinnerst dich nicht an das Haus meines Abends. Und ich weiß nicht, wer geht und wer bleibt..>> Un abbraccio grande grande da Marina *** TEATRO DI POMEZIA, STOP AND GO Quotidiani come Il Messaggero (Moira Di Mario, sabato 2 gennaio 2021), nonché riviste e periodici (compreso Il Pontino nuovo, numero 1/15 gennaio 2021), hanno dato la notizia dell’avviso pubblico, da parte della Amministrazione comunale di Pomezia, perché “operatori economici qualificati” si decidano finalmente a dare una mano “per il completamento dei lavori e la gestione” del nostro teatro. Notizia che ancora una volta provoca in noi che da sempre ci siamo battuti perché il teatro si realizzasse – gioia e avvilimento; un contrasto, insomma, che proviene da speranze e delusioni non nuove, verificatesi più e più volte e sempre, purtroppo, con risultati avvilenti; una specie di stop and go (oggi, non sappiamo più esprimerci usando solo la nostra splendida lingua; grazie all’esempio dei nostri politici nazionali “detto questo” e ai mass media ammalati di provincialismo e di esterofilia , tutti stiamo affogando nell’inglese porridge!) di entusiasmi e scoramenti. Così, abbiamo timore di intitolare, anche stavolta, “Una gran bella notizia” - come fatto su Il Pontino nuovo del 16/31 ottobre 2019 -, perché, da allora, son trascorsi tredici mesi abbondanti senza che per il teatro di via Virgilio si movesse foglia. O meglio, qualche foglia reale s’è mossa, visto che di erbe e di cespugli selvatici, nel frattempo, ne son cresciuti a iosa, invadendo anche l’interno dello scheletro; c’è persino la pianta di un fico, ramificata e alta più di due metri, segno di negligenza e di lungo abbandono (si può ammirare la bella pianta di fico dal marciapiede di via Fratelli Bandiera). Le colonne di cemento incominciano a rivelare i segni del tempo e, se non si corre sveltamente ai ripari, finiranno con il non servire più e la necessità di essere abbattute. Sì, perché anche le strutture di cemento si logorano sotto il sole e la pioggia; sole e pioggia che effettuano su di esse, quando rimangono a lungo scoperte, tensioni continue, continui stop and go che finiranno col comprometterle. Invitiamo, chi volesse sincerarsene, chi volesse rendersene conto de visu, a dare uno sguardo sostando sulla rotonda di via Virgilio – senza, cioè, la necessità di entrare nel manufatto -: costaterà come tutto sia annerito e in qualche punto anche

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scorticato, segno che umidità e calore (sole e piaggia, stop and go) stanno costantemente conducendo il loro silenzioso logorio. C’è di più; c’è che i due brani di vecchio Consorzio, inglobati nella nuova struttura, stanno perdendo il tetto, giacché le tegole son tutte maciullate, non si sa se dalle intemperie, o dallo scorrazzare di giovinastri che qualche volta vi si arrampicano, o dagli imbecilli imbrattatori di muri che hanno sporcato anche la parete della sala che dovrebbe ospitare il palcoscenico. Questi brani dell’ex Consorzio agrario appaiono oggi così logorati e ingrigiti che, forse, sarebbe bene abbatterli del tutto e riqualificare l’ambiente che li contiene. Allora, forse è meglio che si consideri la notizia un ennesimo avanzare e fermarsi, o, meglio, un avanzare e indietreggiare, un rimanere sempre allo stesso punto a logorarsi; abbiamo deciso, stavolta che esulteremo e scriveremo di bella notizia solo quando e se ne vedremo fervere i lavori. Pomezia, 8 gennaio 2021 Domenico Defelice

LIBRI RICEVUTI GIANCARLO DE CATALDO – Medusa – Ed. La Stampa, La Repubblica, ottobre 2020, pagg. 46. Giancarlo DE CATALDO è nato a Taranto il 7 febbraio 1956, giudice di corte d'assise a Roma, città nella quale vive dal 1974, anno in cui vi si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza. Scrittore, traduttore, autore di testi teatrali e sceneggiature televisive, ha pubblicato come autore diversi libri, per lo più di genere giallo. Collabora con La Gazzetta del Mezzogiorno, Il Messaggero, Il Nuovo Paese Sera e Hot! Il suo libro più significativo è Romanzo criminale (2002), dal quale è stato tratto un film, diretto da Michele Placido, e una serie televisiva, diretta da Stefano Sollima. Nel giugno del 2007 è uscito nelle librerie Nelle mani giuste, ideale seguito di Romanzo criminale, ambientato negli anni novanta, dal periodo delle stragi del 1993, a Mani pulite e alla fine della cosiddetta Prima Repubblica. I due libri hanno alcuni personaggi in comune come il commissario Nicola Scialoja e l'amante, ex prostituta, Patrizia. Ha scritto la prefazione per l'antologia noir La legge dei figli della Casa Editrice Meridiano Zero, e ha curato l'introduzione al romanzo Omicidi a margine di qualcosa di magico, scritto da Gino Saladini, edito da Gangemi. Del 2010 è I traditori, romanzo ambientato durante il Risorgimento italiano. Altre opere: Nero come il


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cuore (1989), Contessa (1993), Terroni (1995), Il padre e lo straniero (1997), Onora il padre. Quarto comandamento (2000), Teneri assassini (2000), Acido Fenico. Ballata per Mimmo Carunchio camorrista (2001), Fuoco! (2007), L'India, l'elefante e me (2008), I traditori (2010), Brevi note sull'essere italiano, oggi come ieri (2010), In giustizia (2011), Io sono il Libanese (2012), Int'allu Salento (2012), Il combattente. Come si diventa Pertini (2014), Nell'ombra e nella luce (2014), L'agente del caos (2018), Quasi per caso (2019), Alba Nera (2019), Io sono il castigo (2020) eccetera. ** BEN PASTOR – Il giaciglio d’acciaio – Ed. La Stampa, La Repubblica, ottobre 2020, pagg. 48. Ben PASTOR (Maria Verbena Volpi Pastor), è nata a Roma il 4 marzo 1950; laureata in Lettere con indirizzo archeologico presso l'università La Sapienza di Roma. Acquisita la cittadinanza statunitense senza rinunciare a quella italiana, sposa un ufficiale dell'aviazione militare di lontane origini basche da cui mutua legalmente il cognome Pastor. Docente di Scienze Sociali presso numerose Università (Ohio, Illinois, Vermont). Scrive numerosi saggi, collabora con quotidiani e riviste e parallelamente si impegna nella narrativa di stampo sovrannaturale, nella fattispecie ghost stories cioè "storie di fantasmi", con una serie di novelle che riscuotono il plauso di critici e appassionati al punto da essere pubblicate numerose volte su antologie di settore. Nel 2000 pubblica negli USA Lumen, il primo romanzo poliziesco della serie di Martin Bora, tormentato ufficiale-investigatore tedesco ispirato alla figura di Claus von Stauffenberg, l'attentatore di Hitler nel 1944. Il buon esito di Lumen spinge l'autrice a scrivere ulteriori seguiti che vengono tradotti e pubblicati in numerosi Paesi. Tra i suoi romanzi con protagonista Martin Bora: il già citato Lumen (1999), 2001 e 2012 nella traduzione di Paola Bonini), Luna bugiarda, (Liar Moon, 2001, 2002 e 2013 nella traduzione di Marilia Piccone), Kaputt Mundi (2002, 2003, traduzione di Paola Bonini, e 2015, traduzione di Paola Bonini), La canzone del cavaliere (2003, 2004, traduzione di Paola Bonini), Il morto in piazza (2005, 2005, traduzione di Judy Faellini, e 2017, traduzione di Luigi Sanvito), La Morte, il Diavolo e Martin Bora (2008, traduzione di Judy Faellini e Paola Bonini), La Venere di Salò (2005, 2006, traduzione di Judy Faellini), Il Signore delle cento ossa (2010, 2011, traduzione di Paola Bonini), Il cielo di stagno (2013, 2013, traduzione di Luigi Sanvito), La strada per Itaca (2014, 2014, traduzione di Luigi Sanvito), I piccoli fuochi (2016, traduzione di Luigi Sanvito), La notte delle stelle cadenti (2018, traduzione di Luigi Sanvito); Romanzi

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con Karel Heida e Solomon Meisl: I misteri di Praga (2002, 2002, traduzione di Paola Bonini), La camera dello scirocco (2007, traduzione di Paola Bonini); Romanzi con Elio Sparziano: Il ladro d'acqua (2006, 2007, 2017 e 2020, traduzione di Paola Bonini), La Voce del fuoco (2008, 2008 e 2017, traduzione di Paola Bonini), Le Vergini di Pietra (2007, 2010 e 2017, traduzione di Paola Bonini), La traccia del vento (2012, 2012 e 2018, traduzione di Luigi Sanvito), La grande caccia (2019, 2020, traduzione di Luigi Sanvito) eccetera. ** ALBERTO CASAS - La materia oscura. L’elemento più misterioso dell’Universo. Ed. RBA, 2020, pagg. 160, € 1,99. Volume primo di una serie, gli altri volumi a € 9,99. Alberto CASAS è direttore dell’Istituto di Fisica Teorica e professore ricercatore presso il Consejo Superior de Investigaciones Cientificas (CSIC). ** ALFONSO GRASSO – Antichi versi contadini. L’agricoltura nella poesia dialettale di Placido Cavallaro (1784 – 1866) – In copertina, il momento della “pisata”, ovvero la battitura del grano, in due immagini di Placido Benina e Salvatore Bisicchia; disegni di Antonino Distefano – Ed. Nero su Bianco, 2018, pagg. 118, € 12,00. Alfio GRASSO, già professore a contratto nelle Facoltà di Agraria delle Università di Palermo e Reggio Calabria, ha svolto attività politica come dirigente del Pci di Biancavilla, con la carica di consigliere comunale, assessore e Sindaco. Presidente dell’Associazione regionale delle cooperative agricole e di produzione lavoro, direttore del Centro regionale di studi e formazione cooperativa, componente del Consiglio di Amministrazione dell’Ente di sviluppo agricolo della Regione Sicilia, collabora con riviste giuridiche e di agraria. Tra le tante sue pubblicazioni: Il miglioramento e l’acquisizione delle proprietà della terra; Aspetti giuridici della ricomposizione fondiaria in Italia; Cooperazione e associazionismo per la conduzione agraria; Cooperative di conduzione e agricoltura di gruppo. Notevole il suo contributo agli studi di storia locale, con pubblicazioni quali: Biancavilla nel secondo dopo guerra; Momenti di storia paesana, Biancavilla tra fine Settecento e metà Ottocento eccetera. ** TITO CAUCHI – Silvano Demarchi. Fine letterato e poeta (15 febbraio 1931 – 23 agosto 2018) e critica di Liliana Porro Andriuoli Antonio Crecchia – In prima di copertina, a colori, foto di Demarchi, in quarta, foto di Cauchi e Demarchi Editrice Totem, 2020, pagg. 115, € 15,00. Tito


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CAUCHI, nato l’ 11 agosto 1944 a Gela, vive a Lavinio, frazione del Comune di Anzio (Roma). Ha svolto varie attività professionali ed è stato docente presso l’ITIS di Nettuno. Tante le sue pubblicazioni. Poesia: “Prime emozioni (1993), “Conchiglia di mare” (2001), “Amante di sabbia” (2003), “Isola di cielo” (2005), “Il Calendario del poeta” (2005), “Francesco mio figlio” (2008), “Arcobaleno” (2009), “Crepuscolo” (2011), “Veranima” (2012), Palcoscenico” (2015). Saggi critici: “Giudizi critici su Antonio Angelone” (2010), “Mario Landolfi saggio su Antonio Angelone” (2010), “Michele Frenna nella Sicilianità dei mosaici” (monografia a cura di Gabriella Frenna, 2014), “Profili critici” (2015), “Salvatore Porcu Vita, Opere, Polemiche” (2015), “Ettore Molosso tra sogno e realtà. Analisi e commento delle opere pubblicate” (2016), “Carmine Manzi Una vita per la cultura” (2016), “Leonardo Selvaggi, Panoramica sulle opere” (2016), “Alfio Arcifa Con Poeti del Tizzone” (2018), “Giovanna Maria Muzzu La violetta diventata colomba” (2018), “Domenico Defelice Operatore culturale mite e feroce” (2018), Graziano Giudetti, Il senso della poesia (2019), Profili Critici 2012. Premio Nazionale Poesia Edita Leandro Polverini, Anzio. 163 Recensioni (2020), Pasquale Montalto. Sogni e ideali di vita nella sua poesia (2020), Angelo Manitta e Il Convivio (2020), Lucia Tumino una vita riscattata (2020). Ha inoltre curato la pubblicazione di alcune opere di altri autori; ha partecipato a presentazioni di libri e a letture di poesie, al chiuso e all’aperto. È incluso in alcune antologie poetiche, in antologie critiche, in volumi di “Storia della letteratura” (2008, 2009, 2010, 2012), nel “Dizionario biobibliografico degli autori siciliani” (2010 e 2013), in “World Poetry Yearbook 2014” (di Zhang Zhi & Lai Tingjie) ed in altri ancora; collabora con molte riviste e ha all’attivo alcune centinaia di recensioni. Ha ottenuto svariati giudizi positivi, in Italia e all’estero ed è stato insignito del titolo IWA (International Writers and Artists Association) nel 2010 e nel 2013. E’ presidente del Premio Nazionale di Poesia Edita Leandro Polverini, giungo alla quinta edizione (2015). Ha avuto diverse traduzioni all’estero.

TRA LE RIVISTE PALOMAR – I Quaderni de La Nuova Tribuna Letteraria, dr. responsabile Stefano Valentini, editoriale Natale Luzzagni, vicedirettore Pasquale Matrone – Via Chiesa 27 – 35034 Lozzo Atestino (PD) – E-mail: nuovatribuna@yahoo.it - È uscito

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il n. 21, dicembre 2020: “Giovanni Pascoli Triste Natale a Matera”, di Giovanni Caserta; “Guy de Maupassant: Bel Ami”, di Alfonso Genovese; “Julio Cortazar: Le ragioni della collera”, di Cristina Biolcati; “Angelo Marcellino: Don Liborio”, di Maria Nivea Zagarella; “Gesualdo Bufalino: Lettera di una siciliana”, di Stefano Saccani; “Letteratura irlandese. Tra conflitto e poesia”, di Anna Vincitorio: “Roberto Lachin: Storie improbabili”, di Alfonso Genovese. * FLORILÈGE – Rivista internazionale fondata nel 1974, Presidente Stephen Blanchard – 19 Allée du Maconnais – 21000 Dijon (Francia) – E-mail: aeropageblanchard@gmail.com. Riceviamo il n. 181, dicembre 2020, del quale segnaliamo, in particolare, in prima e in quarta di copertina, a colori, le splendide opere del pittore Gyuri Lohmuller; all’interno, oltre che di Lohmuller, opere di Kleinhans, Marc Andriot, Cécile CaylaBoucharel, Viktoria Lask. Decine e decine le poesie (ne riportiamo una, tradotta, su questo stesso numero), prose, foto, rubriche: un’autentica miniera di cultura che invitiamo i nostri lettori a esplorare. Abbonatevi, cari amici, e collaborate. A pag. 45, Irène Clara, evidenzia il n. 8/2020 di Pomezia-Notizie (ricordiamo che il nostro direttore si chiama Domenico Defelice e non “Delfelice”!), ma sono tante le altre testate recensite in questa bella rivista. Tra i tanti poeti, troviamo, oltre a Irène Clara, anche Béatice Gaudy, spesso apparsa sulle pagine del nostro mensile.

AI COLLABORATORI Inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione o altro) preferibilmente attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute); per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. Per eventuali versamenti, assolutamente volontari: Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 N076 0103 2000 0004 3585 009


POMEZIA-NOTIZIE

Febbraio 2021

Domenico Defelice: Uomo grandemente feroce

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