5350ISSN 2611-0954
mensile (fondato nel 1973) Direzione e amministrazione: Via Fratelli Bandiera, 6 - Tel. 06/91.12.113 - 00071 POMEZIA (Roma) - Fondatore e Direttore responsabile: DOMENICO DEFELICE – e-Mail: defelice.d@tiscali.it – Attività editoriale non commerciale (art. 4, D.P.R. 26.10.1972 n. 633 e successive modifiche) - Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 213/93 del 23/5/1993 - La collaborazione, sempre gratuita, in parte è libera, in parte è per invito. Ogni autore si assume la responsabilità dei propri scritti - Manoscritti, fotografie e altro materiale, anche se non pubblicati, non vengono restituiti - É ammessa la riproduzione, purché se ne indichi la fonte. Per ogni controversia, foro competente è quello di Roma.
Anno 29 (Nuova Serie) – n. 3
- Marzo 2021 -
N° 3 della Serie online
Intervista al Conte
MARCELLO FALLETTI DI VILLAFALLETTO Professore, poeta, saggista e storico di Manuela Mazzola
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ARCELLO Falletti di Villafalletto, laureato in Lingue e Letteratura Straniera, è poeta, saggista e storico. Discende da un’antica e nobile famiglia ed è il Preside dell’Accademia Collegio de’ Nobili nonché direttore e fondatore del periodico “L’Eracliano”; ha pubblicato numerose opere dal 1992, tra cui ricordiamo “”San Pancrazio in Val d’Ambra, camminando lungo i millenni”, (Ed. Anscarichae Domus, 2002); “Un salotto per gli amici”, (Ed. Anscarichae Domus 2002); “Un uomo che seppe contare i propri giorni”, (Ed. Anscarichae Domus, 2006); “Il coraggio di amare”, (Ed. Anscarichae Domus, 2020); fondatore e presidente del Premio Internazionale di Poesia “Danilo Masini”. Ha ricevuto il Premio Nazionale Letterario Artistico “Elio Vittorini” (Messina 1979) e il Premio Paolo VI “Una poesia per la pace” (Ercolano, Napoli, 1989); collabora, inoltre, a giornali e riviste. Buongiorno conte prof. Marcello Falletti di Villafalletto, Lei attualmente è il preside dell’Accademia Collegio de’ Nobili di Firenze ed è il discendente di una nobile e antichissima famiglia.
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All’interno: Solo il vaccino salverà il mondo, di Francesco D’Episcopo, pag. 7 Appetito e Letteratura (II), di Emerico Giachery, pag. 8 Domenico Defelice: Non circola l’aria, di Corrado Calabrò, pag. 11 Pietro Civitareale: Préime che ve’ le schiure, di Carmine Chiodo, pag. 12 Corrado Calabrò, L’Altro, di Lorenzo Spurio, pag. 15 Vittorio Bodini e l’Arte, di Giuseppe Leone, pag. 18 Intervista ad Antonio Crecchia, di Isabella Michela Affinito, pag. 20 Francesco D’Episcopo, La casa sul mare, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 24 Francesca Costantini, Frammenti, di Lorenzo Spurio, pag. 26 Dante e la Divina Commedia, di Antonia Izzi Rufo, pag. 29 Francesco D’Episcopo, Il cielo negli occhi, di Anna Aita, pag. 30 Giovanni Emanuel, di Leonardo Selvaggi, pag. 32 Dediche, a cura di D. Defelice, pag. 34 Notizie, pag. 49 Libri ricevuti, pag. 50 Tra le riviste, pag. 51
RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (Sensazioni di una fanciulla (parte seconda), di Manuela Mazzola, pag. 36); Elio Andriuoli (Domenico Antonio Tripodi pittore dell’anima, di Domenico Defelice, pag. 37); Tito Cauchi (Non circola l’aria, di Domenico Defelice, pag. 38); Domenico Defelice (In rime sparse, di Nicola Prebenna, pag. 42); Domenico Defelice (Antichi versi contadini, di Alfio Grasso, pag. 43); Salvatore D’Ambrosio (Stiamo tutti aspettando di smascherarci, di AA. VV., pag. 44); Elisabetta Di Iaconi (Domenico Antonio Tripodi pittore dell’anima, di Domenico Defelice, pag. 45); Manuela Mazzola (Colori e stupori della vita e della natura, di Lina D’Incecco, pag. 45); Manuela Mazzola (Lucia Tumino una vita riscattata, di Tito Cauchi, pag. 46); Laura Pierdicchi (Colori e stupori della vita e della natura, di Lina D’Incecco, pag. 46); Lorenzo Spurio (Lettura di testi di autori contemporanei, di Nazario Pardini, pag. 47).
Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Rocco Cambareri, Antonio Crecchia, Elisabetta Di Iaconi, Ada De Judicibus Lisena, Luigi De Rosa, Wilma Minotti Cerini, Gianni Rescigno
Può raccontarci brevemente la storia della sua famiglia? Buongiorno Professoressa Manuela, Sì, da oltre trent’anni sono il Preside dell’antica Accademia Collegio de’ Nobili, nata a Firenze agli inizi del Seicento, oggi diffusa in quasi tutto il mondo. La famiglia ha superato il millennio di vita. Quindi, per raccontarne le vicende occorrerebbe troppo tempo. Posso evidenziare come dal Piemonte, diramatasi per l’Italia e all’estero
(Francia, Fiandre), venne illustrata da notevoli personaggi andati a ricoprire notevoli incarichi civili, militari e religiosi. Imparentandosi con altre illustri casate, come avveniva da sempre: duchi di Savoia, Visconti di Milano, marchesi di Monferrato, di Saluzzo ecc. ha generato: un viceré di Sardegna; arcivescovi, vescovi; abati; uomini politici; insigni condottieri e uomini d’armi; artisti; letterati e protettori di arti ecc., ma anche semplici personaggi che hanno saputo svolgere il proprio dovere
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con abnegazione e dedizione costante. Si potrebbe descrivere come una normale famiglia comune a tante altre del passato. Diversa solamente per un retaggio, oggi, strettamente privato, da conservare gelosamente e farne tesoro. Per dirla con Cicerone: «Historia… testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuncia vetustatis». L’Accademia è nata nel 1689. Per quale ragione è stata costituita? E come è cambiata nel tempo? Dobbiamo chiarire immediatamente che la datazione al 1689 si deve solamente far risalire alla redazione di un primo Statuto ufficiale, da dove assunse la specifica denominazione rimasta attuale. La nostra Accademia sorse poco dopo quella della Crusca (1583) e poco prima di quella del Cimento (1657); delle Scienze e di Francia a Roma (1666); di Musica (1669) e di Architettura (1671); proprio agli inizi del secolo XVII, quando si cominciò ad avvertire il desiderio di manifestare gli effetti di quel Rinascimento che aveva coinvolto non solamente la cultura e l’arte, ma anche la letteratura, non escludendo la stessa politica. Non unicamente fiorentina, ma dell’intero Continente europeo. Perché non dobbiamo dimenticare che Rinascimento vuol dire “rinascita, rifioritura”, ma anche ripresa. Si sentiva, proprio in quel tempo, il desiderio di amplificare e sviluppare una concezione nuova, di dare avvio ad un’era innovatrice che si servisse anche delle tradizioni e delle esperienze del passato. Un po’ come accade a ogni mutazione o sviluppo epocale. Dopo il Rinascimento abbiamo avuto l’Illuminismo, il Romanticismo, il Risorgimento, fino al Futurismo e il Post-Futurismo, il Modernismo e il Post-Modernismo che ci ha proiettati nell’epoca attuale dell’elettronica e della telematica. In breve, l’Accademia in oggetto, sorse l’8 gennaio del 1623 come Conversazione del Casino di San Marco, poi di Santa Trinita, per volontà di un ristretto numero di “nobili” che volevano incontrarsi, ritrovarsi e parlare
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di avvenimenti culturali, artistici, storici, politici, ma anche sociali, tipici del loro tempo. Il primo Provveditore (Reggitore, carica equivalente a quella dell’attuale Preside) fu Giovan Batta Bracci. Non volevano essere una copia delle altre Istituzioni, quindi pensarono bene di collegare questi incontri ad un Collegio che ospitasse i giovani desiderosi di apprendere quanto d’importante c’era da conoscere del passato e come si poteva accrescere questo valore che andava proiettandosi verso un futuro totalmente diverso. Attraverso alcune inevitabili traversie verso la fine del secolo si cercò di dare, a questo moderno organismo, una struttura ordinata e ben programmata. Ecco arrivare un primo Statuto, al quale fecero seguito tanti altri, per adeguarlo e conformarlo sempre più ai tempi che, di volta in volta, si presentavano. Naturalmente, avendo quel nome “de’ Nobili”, significava che era riservata esclusivamente agli appartenenti a questo ceto sociale dominante. Lo stesso primo Statuto risente completamente del medesimo spirito che aveva animato i Padri Fondatori. Anche se, in certi periodi, viene ricordata come l’Accademia di “via degli Arazzieri” (già via degli Armaioli, prospiciente proprio piazza San Marco); “di Piazza delle Cipolle” o “di Piazza Strozzi”, fino all’“Accademia di Palazzo Gianfigliazzi”. Rileggendo quel primo Statuto (del 1689), si scorgono nei capitoli: un Santo Protettore proveniente da famiglia nobile (Giovanni Gualberto, fondatore dei Monaci Benedettini Vallombrosani); l’ammissione riservata ai figli degli stessi, anzi si rese ereditaria la successione ai primogeniti dei Fondatori; le materie che vi si insegnavano e si discutevano, pur volgendo già ad una modernità che premeva, tendevano ad essere quelle a loro congeniali e riservate; non ultimo, dobbiamo ricordare che per entrare a farvi parte era necessario contribuire con una quota sia di ammissione, sia annuale (necessaria per la sopravvivenza) che potevano sostenere solamente le famiglie aventi pubblica notorietà e peso sociale rilevante. Ma, col trascorrere degli anni, pur rimanendo il privilegio ereditario,
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si pensò bene di allargare l’entrata anche a persone di altri ceti sociali; quelli che si stavano affacciando sulla scena sociale di quasi tutta Europa: liberi professionisti, medici, notai, avvocati, speziali, commercianti, artigiani ecc. Gli Statuti più vicini a noi resero l’appartenenza accademica quasi fruibile a tutti, eccezion fatta per le donne che vi hanno trovato posto in età moderna (1770). Nei quasi quattrocento anni di storia l’Accademia, pur conservando quella intrinseca definizione, e accogliendo anche altre che vi confluirono (degli Affinati, dei Vaganti, dei Risoluti)), ha “giubilato” (termine ormai desueto che sta a significare: promosso, licenziato) un ragguardevole numero di giovani che potevano accedere direttamente, non solamente alle Università italiane di Firenze, Pisa, Bologna, Padova, ma anche di Francia e di altri paesi europei. Vi fu un tempo che essere “passati” nell’Accademia Collegio de’ Nobili equivaleva ad aver superato gli attuali esami di maturità. Oltre al non trascurabile prestigio del “Collegio”, non si deve dimenticare la variegata vitalità accademica che, fin dai primi anni, si rendeva utile con la promozione di attività culturali e artistiche che hanno lasciato un segno tangibile nelle vicende educative: nella storia, nell’arte, nella letteratura, musica, nella gestione amministrativa e politica non soltanto della Toscana, ma dell’intera Penisola e dell’antico continente europeo. Dalla Accademia uscirono personaggi notevoli che seppero anche gestire ottimamente la cosa pubblica e organizzativa. Godendo della “speciale protezione”: dei Principi di Toscana, di Alfonso e Luigi d’Este di Modena; del Principe Elettore di Sassonia; di Savoia; dei Principi di Baviera e di altri Sovrani d’Europa ebbe un notevole sviluppo sotto la reggenza di Giovambattista Casotti (1669-1737) che dedicò molte opere letterarie all’Accademia e ne commissionò anche il primo emblema nonché i diversi bozzetti e scenografie teatrali, al contemporaneo e grande artista, Giovanni Battista Foggini
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(1652-1725); lo scrittore Vincenzo Alamanni (che risulta essere anche tra i Fondatori); il musicista Giovambattista da Gagliano; Cicognini; Giulio Parigi; i musicisti Baldassare Galuppi, Andrea Salvatori, Iacopo Peri, P. S. Agostini; L. Cattani e molti altri ancora che, naturalmente, insegnavano anche nell’annesso Collegio accademico. Giusto per ricordarne alcuni. Vi fu un tempo che avendone osservato la portentosa utilità si pensò perfino di trasferire l’Accademia in Francia, per volontà degli stessi Protettori, dei Reggenti e degli Uffiziali di Giunta. Professore, Lei è anche autore di numerosi volumi tra cui San Pancrazio in Val d’Ambra, Un uomo che seppe contare i propri giorni, Un salotto per gli amici. Leggendoli si evince una grande passione per la storia del nostro Paese. Cosa ha imparato da queste esperienze letterarie? Mi pare di avere, in parte, risposto già alla domanda. L’amore per la storia, oltre ad essere stato una componente della mia formazione, mi riconduce costantemente agli insegnamenti che da essa, ancora oggi, ci provengono. Permettendoci così di affrontare la vita in modo consapevole e di programmare o osservare il futuro in modo completamente diverso. Si potrebbe dire, che dalla storia del passato si possono correggere e modificare gli errori futuri. Dall’esperienze letterarie ho imparato moltissimo: sono maturato con esse e attraverso di esse. Particolarmente dai personaggi e dagli eventi che hanno saputo far fruttificare i talenti ricevuti, mettendoli a disposizione dei propri fratelli. Sono stati degli ottimi maestri che hanno saputo trasfondere nel “povero allievo” quegli insegnamenti che servono alla vita. Per essere vissuta in moto totale e senza rimpianti! Il suo ultimo lavoro è Il coraggio di amare, un romanzo sulle vicende di una coppia, Andrea e Margherita. Nella storia i due si trovano davanti ad alcuni problemi che mettono in grande difficoltà la loro vita, ma riescono ad affrontarli e a superarli e grazie all’amore anche a ritrovarsi. Come è nato
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questo romanzo e cosa ne pensa delle numerose separazioni che ci sono oggi in Italia? La ringrazio, prima di tutto, per questa rilevante domanda! Il romanzo ha avuto gestazione da un tragico evento che mi ha toccato personalmente e non ancora risolto totalmente. Oggi i giovani, quando si trovano davanti ad eventi come quello capitato ai due protagonisti della narrazione, ma anche semplicemente davanti a piccoli problemi, si scoraggiano: arrendendosi immediatamente. Mentre, se avessero compreso appieno il valore dell’amore, unico e irripetibile, avrebbero potuto avere un’arma maggiore in mano per superare e vincere ogni evento, per quanto tragico esso sia. Margherita e Andrea non sono due semplici “eroi” dei nostri tempi. Bensì una coppia di giovani che, improvvisamente, l’esistenza li ha proiettati in una realtà neppure immaginata: stravolgendo ogni loro iniziativa e confondendo qualsiasi programma esistenziale, al quale hanno saputo rispondere in modo semplice ma, allo stesso tempo, originale: attingendo alla forza generatrice dell’amore. Quella che erano certi di possedere, pur non avendone ancora assaporato completamente il valore ma, anche il potere di oltrepassare e sconfiggere ogni difficoltà. Purtroppo, le innumerevoli separazioni odierne, sono l’effetto di quella mancanza di amore autentico, originale e della permissività di poter dire: “se non va, tanto possiamo riprovare”. Accolto, ad ogni livello intellettivo, questo pensiero ha generato tantissima sofferenza ma, anche effetti deleteri nell’apprendimento e la maturità dei figli. Un altro problema della nostra società è il femminicidio che è sempre esistito, ma negli ultimi decenni è notevolmente peggiorato. Esiste, secondo Lei, un modo o una strada da percorrere per risolverlo? Più che un problema, si dovrebbe definire un dramma sociale in costante aumento. Ogni giorno assistiamo alla tragica morte di donne che fino a quel momento avevano trascorso un’esistenza quasi serena. Una calamità esplosa, per non dire aggravata da molteplici e contingenti mutamenti della nostra
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moderna società. Talvolta, l’esuberante, seppur corretta, emancipazione femminile; basata maggiormente su una razionale indipendenza e meno disponibile ad accettare e conciliare con un’atavica prevaricazione del sesso maschile. Un “femminismo” talvolta esasperato e portato verso l’eccesso; come un “maschilismo” eccessivamente proditorio: inequivocabilmente immaturo. Frutto di una società che ha precorso i tempi senza aver prima posto in essere quelle regole fondamentali, alla base di qualsiasi convivenza umana. Qui pare di aver dato, parzialmente, risposta alla seconda parte del quesito. Il modo migliore ma, anche il più idoneo, a mio avviso, per risolverlo, dovrebbe partire dalla famiglia; ancora primaria fonte educativa. Poi, dalla scuola; dove ogni bambino e bambina avrebbero il bisogno di veder semplificato il valore della perfetta diversità: più estetica e fisica che non culturale o intellettiva. Ritengo cosa non facile se gli educatori non hanno compreso loro, per primi, l’autentico significato. Tornando a rinvigorire anche il vero sentimento dell’amore; non lasciandolo solamente all’aspetto esteticamente attrattivo e sessuale. L’Accademia si prodiga in tantissime iniziative sia culturali sia religiose, portando avanti un discorso trasparente di opere di carità. Ce ne vuole parlare? Durante i miei lunghi anni di Presidenza, forse già troppi, ho cercato di valorizzare questo aspetto delle iniziative da lei citate; non arrestandomi soltanto al merito dell’appartenenza, come se fosse una dignità ma, quale programma fondamentale di ogni istituzione che si presenta con principi fondamentali quali: l’educazione, il rispetto reciproco e degli altri, nonché portare soccorso secondo le proprie capacità: siano esse economiche, culturali, materiali. Incontrando la disponibilità degli appartenenti all’Accademia, abbiamo sviluppato un programma di adozioni a distanza; affidandoci a religiose, chiaramente rassicurabili e ben preparate ad accogliere le nostre volontà. Collaborando
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attivamente e con qualsiasi mezzo (conferenze, incontri, dibattiti, pubblicazioni, manifestazioni, mostre, concerti, letture e lezioni) affinché i nostri principi fondamentali e umani potessero svilupparsi in modo corretto e potessero servire a quanti si frapponevano nel nostro secolare cammino. Insomma, ci stiamo ancora provando con entusiasmo e forza interiore. Saranno poi i posteri a giudicare il nostro operato! Quali sono i suoi auspici per questo nuovo anno appena cominciato? Sicuramente questa è la richiesta più difficile alla quale rispondere! Purtroppo, il nuovo anno si è presentato con il peggiore dei problemi che lasciava quello appena trascorso: una pandemia che ha sconvolto l’umanità intera. Sanità, economia e rapporti sociali da ricostruire completamente. Stiamo attraversando un tunnel oscuro nel quale s’intravede una flebile luce, non sapendo se questa tornerà, velocemente o meno, ad illuminare le nostre martoriate vite. Noi ce lo auguriamo e lo speriamo con tutte le forze possibili. Confidiamo nell’infinita misericordia divina, mai venuta meno e nella buona volontà di chi ci governa. Personalmente vorrei tornare a vedere gli uomini in volto e non più nascosti da un pezzo di tessuto: sorridenti e sereni come lo erano prima. Auspicando però che, anche questa negativa esperienza, possa essere servita a farci mutare direzione: forgiando esseri umani nuovi, maturi e disponibili. Facendoci comprendere quanto questa vita non appartenga esclusivamente ad alcuni, ma a tutti gli uomini di buona volontà e che sappiano impegnarsi a ricostruirla, indirizzandola verso un percorso umanamente percorribile ad ognuno di noi: senza esclusioni di sorta. Non posso sperare in una fratellanza cosmologica imminente, ma posso implorare per una strategia comune che permetta di orientarci verso una diversità creatrice, affinché ogni personale desiderio sia il più prossimo possibile a quello degli altri. Manuela Mazzola
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GIOVANE ESTIVA Quale letargo ti ha reclusa lungamente? Netto si staglia il petto e ne preme roseo un semicerchio avido; dall’esile vita lisce colline nascono compatte. Con dentro tanto fuoco mi sfiori schiva e rapida, folata di ghibli, canicola. Non mia, eppure assaporo succhi venturi, le arene di te preziose, le balde fughe oceaniche e in me t’annunci vittima trafitta, traforata. Rocco Cambareri Da Versi scelti, Guido Miano Editore, 1983
Baignée dans un rêve Baignée dans un rêve, notre âme est allée derrière la lune, soleil de la nuit coloré de lait. Elle a écouté des mots voyageant sur des millions de pensées ou des syllabes tremblantes sur des milliers de bouches. Notre âme le savait. Les poètes ne meurent pas. ils sont partout, emportés par le soleil de la nuit. (Bagnata da un sogno, poesia di Gianni Rescigno pubbl. su Pomezia-Notizie, novembre 2020, p.14; traduzione in francese di Marina Caracciolo)
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SOLO IL VACCINO SALVERÀ IL MONDO di Francesco D’Episcopo
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EMPO fa, inviai al Direttore Domenico Defelice un intervento, dallo stesso titolo, da comporre e pubblicare sulla rivista; lo spedii per posta, ma sembra che non sia mai giunto a destinazione. Mi lamentavo allora che l’argomento “vaccino” anticovid fosse relegato, nei giornali, telegiornali, parlo anche da giornalista, alla fine di servizi, spesso inutili e ripetitivi. Ora che i morti per questo terribile virus, che ha sconvolto il nostro pianeta, è esponenzialmente aumentato, l’argomento sembra avere faticosamente conquistato alcune posizioni mediatiche. I morti sono esseri umani e non numeri, citati frettolosamente in un mondo, dominato dall’assenza e dall’indifferenza. Quando eravamo bambini, ci allinearono in uno spazio ampio e arioso della scuola, ci fecero scoprire un braccio e ci marchiarono a vita, come i cavalli, del vaccino contro il vaiolo, di cui ancora oggi resta qualche segno. Allora mi domando: com’è possibile oggi mandare allo sbaraglio, con politica disinvoltura, professori, studenti, ai quali si potrebbero agevolmente aggiungere militari, forze dell’ordine, religiosi, e molte altre categorie, esposte nella vita di tutti i giorni, mentre il virus miete senza pietà vittime sempre più numerose, che ricordano una guerra? E anche qui parla un ex ufficiale dell’esercito.
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Il vaccino, indubbiamente, è stato scoperto in un tempo record, ma, in un tempo altrettanto sorprendente, deve essere diffuso e somministrato. Un solo giorno mancato può provocare un numero considerevole di morti, che, ripeto, non sono numeri ma esseri umani, sottratti alla vita, che amavano e volevano godere fino in fondo. Tutte le forze, nazionali e internazionali, dovrebbero sentirsi allertate, come accade appunto in una guerra, in tal caso addirittura planetaria, per elaborare strategie, non egoistiche ma solidali, per sconfiggere un nemico invisibile e spietato. Si richiedono, dunque, fatti rapidi e concreti, anzi sempre più rapidi e concreti, oltre ogni politica, ogni retorica, stupidamente inattive, perché, quando si vive, la vita sembra più forte della morte. Ma, purtroppo, non è sempre così… Francesco D’Episcopo
“ SQUASH “ Ancora a distanza epocale riaffiora il ricordo di eventi lontani. Momenti di vita fissati negli occhi della mente, filmati scolpiti nel cuore. Se anche queste vicende odierne di preoccupazioni ed ansie pare vogliano con prepotenza cancellare ogni altro turbamento, basta un niente, una frase, una parola letta (“squash”) e tutto ritorna presente. 5 gennaio 2021 Mariagina Bonciani Milano
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APPETITO E LETTERATURA (Seconda parte) di Emerico Giachery
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IÙ che motivata l'importanza del mangiare e del bere nel «commedione» romanesco di Giuseppe Gioachino Belli. È ovvio che nel mondo popolare, mondo di poveri, cui attinge la vena più vitale della tradizione «comica», l’esigenza primaria del cibo assuma importanza centrale. Si pensi al sempre affamato Pulcinella, protagonista-cireneo di tanta autentica storia d’Italia, come suggerì Giuliano Procacci nell’introduzione una sintetica Storia degli italiani, apparsa alla fine degli anni Sessanta nell’Universale Laterza: personaggio «di grande spessore e verità umana, che [...] ha molto vissuto, molto visto e sofferto,[...] Pulcinella non muore mai, perché egli sa che tutto può accadere nelle storia. Anche che la sua antica fame venga un giorno saziata». Si pensi anche ai non meno affamati «zanni» della Commedia dell'Arte. Il loro discendente Leporello, col «barbaro appetito» che lo costringe a cantare con la bocca piena di cibo nella scena finale del capolavoro mo-
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zartiano, introduce una nota sapidamente «comica» nell’incombente tragedia determinata dall’arrivo del convitato di pietra. Per il popolano del Belli manicaretti e libagioni rappresentano il più vistoso e invidiato segno di privilegio. Ora, quale privilegio più proverbiale di quello papale («sto come un papa»), specie poi per un suddito dello Stato Pontificio? L'insistito mito comico - centrale nell’opera romanesca belliana - di Papa Gregorio, caratterizzato da un nasone quasi espressionisticamente ingigantito, e che «penza a ggodé la pacchia ch’ha trovato» e «tiè Roma pe' cammera-locanna», si esprime anche in pantagruelici eccessi di cibo e di vino. Proviamo a entrare nella cucina pontificia che assomiglia a un porto di mare («Che ccuscina! Hai da dì pporto de mare»), tenendo presente che «porcina» significa carne suina: Pile marmitte, padelle, callare Cossciotti de vitella e de vaccina, Polli, ova, latte, pesce, erbe, porcina, Caccia, e ‘gni sorte de vivanne rare. L’accumulazione onomastica, tipica del genere giocoso, è recepita con abbondanza dall'incontenibile vitalità verbale belliana, che è propensa ai coloriti elenchi: di nomi considerati «buffi», di pittoreschi sinonimi (che riempiono interi sonetti) degli organi sessuali sia maschili, come Er padre de li santi, sia femminili, come La madre de le sante. Quando enumera cibi, sembra che alla goduta corposità fonica dei significati associ l'evocazione di ghiotti sapori e stuzzicanti aromi. È, si potrebbe dire, l'aspetto giocoso ed esuberante del «barocco» belliano, che come contraltare ha l'aspetto funebre di vanitas vanitatum su cui domina tetra l'ombra della «commaraccia secca de Strada-Ggiulia», ossi della morte. Seguiamo il Belli attraverso la città in una sera di Giovedì Santo o di Venerdì Santo: Colonne de casciotte, che ssaranno Scento a ddi ppoco, areggeno un’arcova Ricamata a ssarcicce, e llì cce stanno Tanti animali d’una forma nova.
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Il poeta commenta così, «Le varie forme e i diversi colori di simili oggetti, stimolanti l'appetito di un popolo che si dovrebbe supporre essersene astenuto per 46 giorni, vi sono calcolati e studiati all'ornamento più o meno elegante in proporzione del genio architettonico del pizzicagnolo». Compiuto Er giro de le pizzicarie (questo il titolo del sonetto sopra ricordato), aspettiamo che passi la Settimana Santa, e affacciamoci col poeta in una trattoria di Trastevere. dove ha luogo un banchetto interminabile e memorabile. annunziato con pertinente solennità. Il «garofolato» è una specie di umido di manzo, chiosa lo stesso poeta, lo «stufataccio» è altro umido tagliato in pezzi, lo «spido» è spiedo, schidionata, i «granelli» sono testicoli di vitello o abbacchio, le «radisce» ravanelli, il «risorio» è rosolio. Il susseguirsi delle crasse rime in -accio sembra sottolineare la compiaciuta corposità dell’enunciato, che trova riscontro nella clausola, così assaporata nel significante e nel significato, che suona «certe radisce da slargatte er core»: Mo ssenti er pranzo mio. Ris’e ppiselli, Allesso de vaccina e gallinaccio, Garofolato, trippa, stufataccio, E un spido de sarcicce e ffeghetelli. Poi fritto de carciofoli e ggranelli, Certi ggnocchi da facce er peccataccio, ‘Na pizza aricressciuta de lo spaccio, E un agreddorce de ciggnale e uscelli. Ce funno peperoni sott'aceto, Salame, mortatella e casciofiore, Vino de tuttopasto e vvin d'Orvieto. Eppoi risorio der perfett’amore, Caffè e ciammelle: e tt'ho lassato arreto Certe radisce da slargatte er core. *** La persistenza e centralità quasi ossessiva del motivo del cibo nell’opera gaddiana può essere richiamata con profitto. Per far questo in una brevissima nota, si dovrà rinunciare al
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pur prezioso e pertinente ausilio della psicanalisi, che suggerirebbe un inevitabile indugio sulla «fase orale» così presente e prepotente in Gadda. Acute pagine psicocritiche su Gadda del resto non mancano, e tra esse spiccano quelle dell’eccellente volume di Elio Gioanola L’uomo dei topazi. Si può rinunciare a una pur allettante anamnesi biografica fondata su testimonianze di amici (per esempio di Giulio Cattaneo autore del volume biografico Il gran lombardo) che lo rappresentano a mensa e ne riferiscono le dissertazioni gastronomiche. Ma non si possono trascurare del tutto certe memorie dell'autore stesso, dove egli rievoca il repressivo dressage alimentare impostogli dal padre e le privazioni prodotte dal tracollo economico della famiglia (con una fame da lui definita «terribile, simile alla morte, peggiore della morte»). Soprattutto, poi, non vanno dimenticate le pagine dove descrive, nel Giornale di guerra e di prigionia, gli affamati prigionieri di guerra nel Celle Lager, i quali frugavano tra i rifiuti (e i torsoli racimolati «erano, sotto i molari, delizioso legno») e «numeravano l'ore» nell'attesa «immortale» della pur inadeguata e tutt’altro che appetibile sbobba del rancio: «caldaie stagnate recavano la polta liquida a fumare lungo gli anditi cerchiati di pietra». L’opera di Gadda è tutta attraversata da immagini afferenti all'area semantica del «mangereccio», che potrebbero fornire la traccia per un interessante itinerario interpretativo.
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Metafore tratte dall’area «fagica» del cibo e del cibarsi vengono volentieri utilizzate a rappresentare la fenomenologia stessa dell'esistenza. Quando «l'essere si parzializza, in un sacco, in una lercia trippa», e si formano gli individui, «è allora che l’io si determina, con la sua brava monade in coppa, come il cappero sull’acciuga arrotolata sulla fetta di limone sulla costoletta: alla viennese». Sono parole poste sulle labbra dell’autobiografico protagonista-narratore della Cognizione del dolore, Don Gonzalo Pirobutirro, «vorace, avido di cibo e di vino», il cui cognome rimanda all’area del cibo, in particolare alle odiate pere butirre piantate dal padre («che polta butírrosa, le butirro»). Proprio nell'immaginazione di Gonzalo, che in quel momento ha sul piatto «tre peperoncini verdastri, vizzi», prende l’aire il celebre delirio barocco della «grande abbuffata» lombarda, tra «cataste d'asparagi» e «trombe marine di risotti». Emblema della negatività del mondo è, per Gonzalo, il «nauseabondo», nonché «muffo, giallo, verminoso» croconsuelo, formaggio nazionale dell'immaginario Maradagàl (è sin troppo evidente che si tratta del patrio e detestato gorgonzola). Poltiglie casearie, brodaglie, salse rappresentano non di rado l’originario intruglio di cui è materiato il mondo. Immagine dell'aborrito disordine del mondo può essere un mercato alimentare cosparso di «bucce, gusci tritume fogliacce di verze», come accade nelle Meravíglie d’Italia. Ma in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, il caos multicolore e vociante del mercato di Piazza Vittorio - ancora e sempre caro, ai buoni Quiriti afflitti per la sua minacciata soppressione considerata imminente - suggerisce invece esuberanza vitale, pienezza creativa. Specie se lo si visita «nell’ora delle mozzarelle, dei formaggi, delle vermifughe cipolle», e si passa «davanti alle bancarelle abbacchiare», dedicando poi una sosta adeguata a contemplare la regale porchetta «dalla pelle d'oro»: «la bella porca d'Ariccia con un bosco de rosmarino in de la pancia». Si potrebbe aggiungere che la valenza «mangereccia» si collega alla stessa poetica di
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Gadda, alla sua incredibile voracità lessicale, linguistica: «i doppioni li voglio tutti, per mania di possesso e per cupidigia di ricchezze; e voglio anche i triploni e i quadruploni, sebbene il Re Cattolico non li abbia ancora monetati. E tutti i sinonimi, usati nelle loro varie accezioni e fumature d’uso corrente o d’uso rarissimo» Pasticciaccio non è soltanto il groviglio del giallo di Via Merulana, ma il mírabolante pastiche linguistico, che si richiama a un referente alimentare («il pasticcio» del lessico culinario), come, del resto, il pot-pourri (stufato di carne e verdure calcato sull’iberica olla podrida), la satira (lanx satura, piatto pieno di primizie, e si ricordi che centro e culmine del Satyricon è l’evento gastronomico e conviviale della Cena Trimalchionis), la farsa (da farcire), il genere «macaronico». Ensaladas o ensaladillas si chiamavano nel medioevo spagnolo composizioni simili alle nostre frottole. Insomma: spunti «appetitosi» per riflessioni, accertamenti, sviluppi ulteriori, in un tema come questo sembra che non ne manchino davvero, come forse si è potuto intravedere già dai rapidissimi cenni che precedono. Emerico Giachery Ça, oui... J’ètais une petite fille et je n’aimais pas la neige, merveille de mon pays, rues enchantées, palmiers mystérieux, glace au vin chaud dans mon verre. Même aujourd’hui je n’aime pas la belle neige qui trahit les pousses, les errants, les moineaux noirs. Mais la glace molle de ma mère toute rouge du balcon, ma mère qui danse et qui est jeune comme la neige, ça, oui, je le veux toujour! (Quello, sì… poesia di Ada De Judicibus Lisena pubbl. su Pomezia-Notizie, novembre 2020, p. 31; traduzione in francese di Marina Caracciolo)
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Domenico Defelice NON CIRCOLA L’ARIA di Corrado Calabrò
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O letto golosamente e con una certa emozione i ventuno racconti che compongono questo libro. Racconti di vario contenuto, tutti contrassegnati dalla grande efficacia narrativa di Domenico Defelice. Quest’uomo dai toni sommessi e quasi umbratili, così come minimalista è il titolo dell’interessante rivista ch’egli dirige (Pomezia-Notizie), è in realtà un autore di grande forza espressiva e di una vivezza rappresentativa che cattura e coinvolge il lettore. Le sue narrazioni pseudoautobiografiche hanno l’immediatezza e l’impatto visivo delle immagini delle strade, case, alberi, persone del paese che, cliccando su Naps e Earth, all’improvviso apparvero sullo schermo nel racconto Il viaggio con Google.
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Concretezza a tutto tondo di luoghi e personaggi, di vicende che si sviluppano con evidenza palpabile; ma al tempo stesso le storie raccontate, i luoghi fatti rivivere hanno un potenziale evocativo che va ben oltre il ricordo cronachistico. Suscitano l’emozione attuale di un mondo perduto e rigenerano volta a volta, empaticamente, sentimenti d’insofferenza per lo squallore soffocante degli impieghi alle dipendenze di imprenditori meschini e spregiudicati, sussulti di gioia improvvisa e repressa alla vista della ragazza amata oltre ogni limite1. Indimenticabile la pena preagonica del venditore ambulante che, disidratato e a stomaco vuoto, spinge su per un’erta proibitiva il suo trabiccolo con una manciata di fagiolini che deve vendere a ogni costo per la sopravvivenza sua e della sua famigliola. Il linguaggio di impressiva esattezza nella denominazione degli alberi e dei siti (il botro dei fossati dei torrentelli) s’inserisce con naturalezza nell’incantata descrizione del paesaggio, nel fluire della narrazione. Le consistenti tracce autobiografiche forniscono al racconto la trama sulla quale Defelice tesse un ordito che l’esalta e lo muta nell’ardimentoso e appassionato tentativo di rappresentare la vicenda umana nelle molteplici sfaccettature in cui s’incarna in una vita operosamente vissuta e inesaustamente si proietta in aspirazioni irrinunciabili malgrado tutte le delusioni e frustrazioni del vissuto. Corrado Calabrò 1 – Una curiosità: anch’io ho aspettato la ragazza di cui ero innamorato all’uscita della chiesa di S. Giorgio; e io pure l’ho seguita sulla nave traghetto a Messina, dopo avere inseguito in bicicletta il treno su cui viaggiava da Reggio a Villa San Giovanni. Domenico Defelice - Non circola l’aria - Genesi editrice, 2020, pagg. 210, € 12,00.
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PIETRO CIVITAREALE
PRÉIME CHE VE’ LE SCHIURE di Carmine Chiodo
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IETRO Civitareale, poeta, critico letterario, traduttore, è una presenza ben nota nel panorama della letteratura contemporanea. Nel corso della sua attività ci ha dato testi poetici in lingua e in dialetto molto apprezzati, e giustamente, da lettori specializzati e non. La presente raccolta, intitolata Préime che ve' le schìure (Prima che venga il buio) e composta da testi scritti tra il 2013 e il 2018 ed altri negli anni precedenti ma mai riuniti in volume, è la quinta dopo Come nu suonne (Come un sogno) del 1984, Vecchie parole (Vecchie parole) del 1990, Le miele de ju 'mmiérne (Il miele dell'inverno) del 1998 e Ju core, ju munne, le parole (Il cuore, il mondo, le parole) del 2013. Civitareale scrive in dialetto per non recidere i vincoli che lo legano al suo amato Abruzzo: il dialetto, per la precisione, del suo luogo di nascita e cioè Vittorito, un paese
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dell'aquilano. È lo stesso poeta, nella premessa alla raccolta, a precisare che il dialetto utilizzato, “così come la memoria glielo restituisce”, è quello del suo paese natio, che poi ha lasciato, “per motivi di lavoro”, nel lontano 1960, per trasferirsi, prima ad Alessandria, in Piemonte, e poi a Firenze, dove tuttora vive e svolge un'intensa attività culturale e creativa. Ovviamente egli non ha dimenticato il luogo dove è nato, la sua gente, ciò che ha appreso da essa, la parlata, l'amore per la natura. Non a caso la poesia, che apre la raccolta, porta il titolo significativo: Le parole tajje (Le tue parole), parole ascoltate ed apprese durante “la cetelanze” (nella fanciullezza) che però la lontananza non ha cancellato dalla sua memoria. Dico subito che questo dialetto, questa parlata di Vittorito, è agevole a comprendersi nel suo complesso, possiede una marcata espressività e mette bene in evidenza il rapporto sentimentale che il poeta ha avuto, e continua ad avere con il suo paese, con la sua diletta terra ed ancora con il paesaggio, con le sue acque chiari e lucenti, i suoi boschi folti ed ombrosi, le albe d'oro e d'argento: insomma, tutto un mondo le cui parole “me reschiàrene anchéure la véjje” (mi rischiarano ancora la via). La terra, il luogo in cui è nato, infatti, ricorrono spesso in queste splendide e nitide poesie, anche se il poeta, qualche volta, tende a reprimere il desiderio di ritornare appunto alle sue origini, alla sua terra che “sté vecéine i sté luntane, dentre ajju core / i alla féine de ju munne. Ma, pure / se ne' me recorde chiue coma sci fatte, / le bene che te vuojje è sempre ju stesse” (sei vicina e sei lontana, nel cuore e alla fine del mondo. Ma anche se non mi ricordo più come sei fatta, il bene che ti voglio è sempre lo stesso), Come si vede, sono espressioni dialettali di facile comprensione e fortemente sentite, percepibili anche da chi non conosce il dialetto di Vittorito. Versi chiari, naturali, istintivi che restano bene impressi nella memoria: “La véite è nu viajje i nen semme / niue a decidere quande se parte i quande / s'arréive, addò cumenze i addò fenisce” (La vita è un viaggio e non siamo noi a decidere quando si parte e
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quando si arriva, dove comincia e dove ha termine). Il tempo, però, travolge ogni cosa e dove c'era vita, case aperte e pulsanti appunto di vita, ora c'è rovina: “La case nen te' chiue / né porte i né fenestre / e i ciéjje ce ìntrene / i ce jéscene come / se nen ce stesse chiue (La casa non ha più porte né finestre e gli uccelli vi entrano e vi escono come se non esistesse più). Ed ancora il tempo incide sulle cose, porta ruggine, produce degradazione e i bei giardini di un tempo ora sono diventati un groviglio di foglie e di rami: “La zappe i la fàuce / se so' arruzzenéite / dentre ajju giardéine /che è deventate nu 'ntréiche / de fojje i de réme” (La zappa e la falce sono coperte di ruggine nel giardino che è diventato un groviglio di foglie e di rami). E “Pure ju cane s'è fatte viecchie / i ciòppeche quande / me ve' appriésse” (Anche il cane è invecchiato e zoppica quando mi viene dietro). Versi stupendi, essenziali, con andamento narrativo, ma con piena adesione interiore, dei quali è ammirevole soprattutto la linearità del dettato; versi che, con termini precisi e rappresentativi, rendono bene i cambiamenti, ad esempio, che il tempo causa, la sua incidenza sulla vita umana, sulle cose, sugli animali (come nel caso, prima citato, riguardante il cane che zoppica e zoppicando va dietro il padrone). Poesie, inoltre, che sono dei quadretti, ricchi di suggestione e straripanti di vita, di sentimenti vari, di passaggi figurativi che si snodano in tutta la loro fluidità e bellezza; ed ecco ancora momenti particolari della giornata; e penso alla poesia Ma già ju ciele (Ma già il cielo): “Sta calènne ju sole / arrete alla muntagne / i la terre se sta spujènne / de ju vestéite d'ore” (Il sole sta tramontando dietro i monti e la terra sta spogliandosi del suo vestito d'oro), Insomma, è il paese, la sua gente, il suo paesaggio, i suoi boschi, gli uccelli, le piante e le ragazze conosciute da adolescente a costituire il cuore di questa tenera, e talvolta dolce, poesia di Civitareale, la quale svolge vari temi e presenta molteplici e attraenti situazioni; ed ecco la meravigliosa poesia che si intitola I
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queste vastàive (E ciò bastava), in cui si parla di una ragazza che il poeta, ancora adolescente, vedeva passare tutti i giorni, ma non aveva il coraggio di farle un cenno: “Ma jéje nen tenàive ju curagge / de farte nu cenne, de dirte na parole” (Ma io non avevo il coraggio di farti un cenno, di dirti una parola). Di certo, una ragazza molto bella tanto “che la lengue / me deventàive de prete i le parole / me se fermèvene 'nganne” (che la lingua mi diventava di pietra e le parole si arrestavano in gola). Solo uno sguardo c'era tra loro “I queste, queste soltante, vastàive” (E questo, questo soltanto, bastava). Ma ora che il poeta è lontano dalla sua terra, che vive altrove, lontano dal paesaggio di un tempo, ora “Ju ciele / è nu lenzìule de nùvele schìure, / ju sole, come nu furastiere, se fa / vedajje i 'nse fa vedàjje i la gente, / che te passe accante / te uarde, come se nen ce stisce” (Il cielo è un lenzuolo di nuvole scure, il sole, come un forestiero, si fa vedere e non si fa vedere e la gente che ti passa accanto, nemmeno di guarda, come se non ci fossi). Lo ripeto. Vari momenti esistenziali, incisivi, molto chiari si rilevano in queste poesie, dove la mente del poeta va, ad esempio, a certe ragazze o ad una, in particolare, che per poterla vedere si apposta dietro l'angolo di una casa, aspettando che si affacci alla finestra e quando alfine la vede, viene detto con pregnante, pronta ed affascinante espressione dialettale: “Ju core me faciàive nu zumpe / 'mpiette” (il cuore faceva un salto nel mio petto) e “j'uocchie luccechèvene / de cuntentezze, come me succede / quande vàide spuntà ju sole / d'arrete alla muntagne” (gli occhi rilucevano di gioia, come mi accade quando vedo spuntare il sole da dietro la montagna). Civitareale è poeta non della mente, ma del cuore, come si evince facilmente dalla sua poesia; ed al cuore infatti viene dedicata una poesia, intitolata appunto Ju core (Il cuore), in cui si leggono magnifici versi finali: “So' sechìure che la véite sarebbe / chiù fàcele i belle, se stassàme / attente chiù alla véuce de ju core / che a quele de la mente” (Sono certo che la vita sarebbe più facile e bella se stessimo attenti più alla voce del cuore che a quella della
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mente). Il poeta sente questa voce, che alimenta e genera poesie belle, terse e di profondissimo significato esistenziale e poetico, e, sempre ascoltandola, riesce a creare espressioni dialettali affascinanti e di notevole resa poetica: “i, quande càpete, ju core se mette / a vatte accuscì forte i leste che pare / na campane quande sone a feste” (e quando accade il mio cuore si mette a battere così forte e lesto che sembra una campana quando suona a festa). Talvolta però il cuore è nero, come quello della donna, di quella donna che fa finta di non conoscerlo: “i jèje tajje uardate / i reuardate, ma tu sci fatte / sempre finte de niénte / come se ne me cuniscisse” (io ti ho guardata e riguardata, ma tu hai sempre fatto finta di niente, come se non mi conoscessi). Bastava soltanto uno sguardo: “na vota sole / pe' fa de méjje la perzéune / chiù cuntente de ju munne” (una sola volta per fare di me la persona più felice della terra). Nella poesia di Civitareale la realtà esterna, il paesaggio, con i suoi eventi naturali, ed i momenti interiori, ciò che sente, coincidono e quindi l'io poetico canta varie situazioni; ed ecco, ad esempio, quella di una pianta di ciliegio, che viene presentata come un'entità vegetale che il poeta, da fanciullo, ha visto a mano a mano crescere nel tempo, e che è diventata per lui un altro io, quasi un suo simbolo di vita; e sono ancora le cose, gli aspetti della natura con i quali è costantemente in sintonia, in questo caso le foglie autunnali, che fanno dire al poeta: “Accuscì, come fojje d'autunne / trascenate da ju viénte, / aspettémme che la sorte / fa de niue quele che vole” (Così, come foglie autunnali trascinate dal vento, attendiamo che la sorte faccia di noi ciò che vuole). Poesie, dunque, quelle di Civitareale, fittemente intrecciate tra loro, le quali, dipanando il filo della vita, ne segnano, sul piano oggettivo e soggettivo, gli eventi salienti, attraverso un dettato poetico che si configura come un colloquio interiore con la realtà delle cose. Per tale ragione, la sua esperienza poetica merita attenzione per i temi trattati e l'uso singolaris-
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simo che egli fa del suo dialetto nella rappresentazione e nella interpretazione dei suoi sentimenti sia quando sono sostenuti e nutriti dalla gioia che quando sono minati ed incupiti da un'ombra serpeggiante di malinconia. Carmine Chiodo PIETRO CIVITAREALE, Préime che ve' le schìure (Prima che venga il buio), Edizioni Cofine, Roma, 2019, pp. 64.
SOTTOBOSCO A volte, per trovare un valore autentico, bisogna abbandonare il caldo, assolato sentiero, bisogna osare, scivolare nel folto del sottobosco della vita, inoltrarsi con passi cauti ma decisi nel buio, nel freddo, nel bagnato, restando attenti a non precipitare. Prima o poi la gioia della scoperta potrebbe arrivare, un amore nemmeno immaginato, una soddisfazione ineseguita a lungo, un ricordo appagante, un sogno che insperabilmente si avvera. Luigi De Rosa Da Fuga del tempo, Genesi Editrice, 2013.
AALLELUIA ! AALLELUIA ! ALLELUUIAAA ! 18/2/2021 Matteo Salvini ha abbassato i toni ma non riesce ad abbandonare del tutto le sue recite da capocomico, da saltimbanco; non è cattivo e neppure lui crede alle proprie sparate; a noi appare un naturale artista della politica, in lotta perenne per distinguersi. Alleluia! Alleluia! Somiglia tanto a un attore sperimentalista: al roboante Tommaso Salvini (Milano, 1/1/1829 – Firenze, 31/12/1915), forse antico suo parente, sempre attento a dominare le scene. Domenico Defelice
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CORRADO CALABRÒ L’ALTRO di Lorenzo Spurio uscita negli ultimi mesi una preziosa plaquette poetica di Corrado Calabrò che, appena un paio di anni fa, per Mondadori, ha pubblicato in un corposo volume una selezione di un cinquantennio di far poesia (Quinta dimensione, il titolo, opera presentata a Torino e a Roma nella magica location del Tempio di Adriano, ampiamente recensito, commentato con entusiasmo e plauso su riviste e in altri contesti). La nuova opera – in veste editoriale egregia e raffinata al contempo che si apre con un’opera di Enzo Tardia dal titolo “Equilibrio”, si compone di venticinque poesie per un totale di quaranta pagine in formato ridotto, facilmente consultabile e pratico. Non prefazioni, commenti critici, note di lettura, elementi para-testuali; il lettore è immediatamente catapultato all’interno del breve eppure assai notevole sentiero che Calabrò – poeta di lungo corso con vari riconoscimenti di livello
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internazionale – ci propone. Vi troviamo alcune poesie già note perché apparse in precedenti raccolte – mi riferisco a quelle che riportano la data di 2000 o 2002 – e in particolare un estratto del geniale poemetto Roaming (che ho avuto modo di commentare in precedenza) e del quale anche il critico Fabia Baldi ha fornito una lettura attenta e perspicace in L’altrove nella poetica di Calabrò (Aracne, 2019), un voluminoso saggio sull’opera di Calabrò. Vi sono poi vari testi recentissimi, scritti negli ultimi anni (il più recente è di appena qualche mese fa, settembre 2020) dove distintamente s’imprimono in maniera visiva alcune immagini come preponderanti. Il tema cardine è sempre quello dell’amore – della donna che accompagna l’uomo, scorta e ricercata di nascosto, amata, ma anche percepita distante e, in quanto tale, viva in un sentimento d’assenza («una dolenzia intermittente /mi fa sentire che qualcuno manca», 23); c’è anche il passato – nella figura della madre, sempre molto importante – e di momenti vissuti in un tempo che ormai appare così distante. L’elemento dominante è senz’altro l’acqua: quella del mare dell’infanzia, della passione della pesca, della cultura marittima della regione natale ma anche nella forma di una pioggia ricorrente e martellante, fastidiosa e impertinente che, nella Capitale, dove Calabrò vive da molti anni, ritorna con puntualità a caratterizzare la dimensione metereologica (e umorale) di vari testi ivi proposti. Pur nella forma breve della plaquette, si ritrovano con piacevolezza e un pizzico di stupore i temi fondanti e peculiari della poetica del Nostro, così distintiva e suasiva, che lo fa uno dei poeti più insigni del nostro panorama letterario odierno. A tutto questo – comprese le citazioni e i riferimenti a un universo in senso scientista che affascina da sempre Calabrò poeta dell’astrofisica – si aggiungono alcuni elementi quali l’immancabile influenza dell’ansia generalizzata dei tempi attuali dovuti alla pandemia in atto (in “Doppio cieco” sono presenti termini relativi ai lemmi di vaccino e immunità, così tanto comuni in questi
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giorni), le considerazioni sulla terza età e finanche vagheggiamenti che riguardano un futuro possibile che coinvolge la dipartita del reale (poesia “Se mai un giorno morrò” scritta nel 2000 ma anche la poesia “20 marzo” scritta, appunto, a marzo di quest’anno). Nel corso delle liriche qui contenute (tra cui un haiku) non possono non richiamare l’attenzione i continui riferimenti che ricalcano un’idea di ciclicità del vivere, gli aspetti che trattano di un fluire, di un cambiamento che si compie nella maturazione; ciò avviene nella circostanza di un raffronto attento che s’instaura tra l’identità corporale e il sé della coscienza. C’è – nella pregevole plaquette edita da Thule di Palermo del prof. Tommaso Romano – una predisposizione all’ascolto verso un’alterità (il titolo del libro parla appunto de L’altro) che non è tanto da vedersi in uno scambio io-tu (sebbene, come si è detto, il rapporto amoroso, dunque tra gli amanti, sia centrale e importantissimo), piuttosto tra sé, tra le componenti del proprio recondito. Non sono, infatti, casuali – come mai nulla è nella poetica elegante e forbita del Nostro – l’immagine della cover di cui si diceva dove, un contorsionismo di quadrati con partiture di triangoli di vari colori dissonanti, crea un senso di vertigine e di spaesamento generale. Sembra di essere introiettati con forza all’interno – come risucchiati – e quasi contemporaneamente venirne sbalzati fuori – come una spirale che attanaglia e non si sa dove conduce. L’immagine, più affine a un cubofuturismo che a un cubismo puro, richiama quella frantumazione dell’identità e quel dinamismo che, proprio nel continuo divenire, ne descrive un movimento spasmodico che attrae e crea ripulsa. Nella prima parte della plaquette vi sono liriche che si concretizzano attorno all’immagine-emblema-simbolo-metafora dello specchio che, nella letteratura di tutti i tempi, ha sempre rivestito grande importanza con i notissimi esiti tanto nella narrativa dell’autocoscienza, psicanalitica e la filmografia allucinata e distopica. Riporto, a tal riguardo, due estratti significativi di questa indagine io-altro dove l’elemento dello specchio, che da una
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parte dovrebbe fornire immagine perfetta e speculare del reale, non manca di creare fastidio, insicurezza finanche stordimento: «M’incontro appena sveglio nello specchio / ed allibisco / dinanzi a un altro volto che mi guarda. // Alieno, intruso, eppure lui mi guarda / in faccia con un’aria di sospetto. // Oh Dio! / E se foss’io un altro da me stesso?!» (7). Nella poesia “Dentro lo specchio” si legge: «C’era qualcosa / nel modo in cui sgusciavi / per cui sentii che non t’avrei raggiunta. / Ti guardavo, bloccato nello specchio, / e non cercavo neanche di capire. / Un uomo è incapsulato nel suo ruolo / come uno è chiuso dentro l’ascensore: / si guarda nello specchio solo a solo / e preme inutilmente sul bottone. / Né un attore può uscire dalla parte / finché non cala, alla fine, la tela / La donna può perché è un altro animale» (11). Non si dimentichi – pure – di un nonsense che aleggia, in chiusura dell’agevole volume, su una determinata lirica. Già l’esergo – con una chiosa di Bertrand Russel – c’inserisce in questo universo fatto di doppi, di immagini e trasparenze, sembianze, ombre e duplicati quando, appunto, ci si riferisce a una supposta «somiglianza ai nostri [scopi]». L’aeriformità della citazione non è scevra da una capacità di sintesi invidiabile che in Calabrò si esemplifica spesso con la scelta arguta e specialissima di contenuti: se non esiste (o non dovrebbe esistere un’aristocrazia poetica, per lo meno non nel senso che l’etimo ci fornisce) credo che possa esistere quella delle citazioni. È un’arte originalissima e meditata, un affinamento progressivo delle grandi conoscenze acquisite, che in pochi riescono a porre con la giusta evidenza e valenza in apertura ai propri testi. Va in questa direzione la citazione del fisico americano premio Nobel nel 1979 Steven Weinberg («Più l’universo sembra comprensibile, più appare privo di scopo») anteposta al noto poemetto Roaming qui riproposto in forma di estratto. Si è detto – e ho contribuito io stesso con forza a rimarcarlo in vari scritti – che Calabrò è con viva probabilità il poeta che nell’attualità più ha saputo interfacciarsi con la scienza, tanto la quantistica che l’astrofisica e questo è rivelato
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anche dall’utilizzo di un determinato lessico, dalle chiose puntuali, assertive, frutto d’indagini, circospezioni della scienza. Calabrò – al quale l’Unione Astronomica Internazionale ha attribuito il suo nome a un asteroide scoperto nel 2018 – conduce il lettore, con un linguismo parco e al contempo variegato, seducente ed evocativo, non restio a esterofilismi e a soluzioni formali innovative, una conversazione che è poetica ma al contempo ontologica – dunque filosofica -, esistenziale, dunque umana, finanche scientifica, empirica, di continua interrogazione, raffronto, interfacciamento e perlustrazione. È un domandare che evita la retorica e l’astruso, la foschia di un linguaggio che potrebbe farsi ossuto ed ellittico e che, al contrario, incide nella profondità il cuore delle argomentazioni fatte, lette, che lo animano, lo coinvolgono. Le parole “universo”, “altro”, “stelle”, “luna”, - come già rivelato altrove – rappresentano quel lastricato prediletto dove i versi si costruiscono tra nebulose e polvere in un campo infinito che l’uomo – come fece Dante, Leopardi e a seguire tutta la tradizione amorosa e malinconica della poesia vera – ammicca all’insù meravigliato. Lorenzo Spurio CORRADO CALABRÒ, L’altro, Edizioni Thule, Palermo, 2020.
IL TRAGUARDO Il traguardo è lì manca poco alla cima cammino con piedi di pietra ogni passo un infinito tempo come ci fosse una ribellione al mio comando mentale. Mi fermo guardo indietro ho attraversato deserti ho riempito un vuoto di speranze ho proiettato un traguardo di amore mi hanno colpita più volte al cuore ho rimarginato le ferite ho mandato un sorriso a chi incontravo.
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Poi c’eri tu a prendermi per mano per camminare insieme meno difficile superare le difficoltà abbiamo fatto tanta strada abbiamo raccolto le more del gelso abbiamo sognato lo stesso sogno ti ho accarezzato il viso tu mi hai stretta tra le tue braccia. Sapevamo che il cammino era irto e lungo a volte tu mi precedevi perché io poi potessi seguirti dove tu mi aspettavi: Tu eri il mio traguardo. Ma ora hai preceduto tutto tu sei oltre il traguardo e i miei piedi sono pietre che bloccano. Sento la tua voce che mi chiama al tuo richiamo faccio qualche passo. Chiamami sempre! Il Traguardo saranno le tue braccia dove il mio cammino avrà fine ma prima guarderò quanta strada si è fatta difficile ed agevole a volte, lascio questo bagaglio con ricordi che mi trattengono E finalmente corro… corro …. Wilma Minotti Cerini Pallanza, Verbania
AALLELUIA ! AALLELUIA ! ALLELUUIAAA ! 2/2/2021 Per Massimo Giannini, a Otto e mezzo, qualora Matteo Renzi e Italia Viva appoggiassero un governo di Centro-Destra, l’Italia diventerebbe un Paese delle banane; non lo è stato, né lo sarebbe se continuassero a stare con la Sinistra. Alleluia! Alleluia! Come al solito, senza pudore i giornalisti faziosi. Domenico Defelice
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VITTORIO BODINI
E L’ARTE DI “ALLARGARE IL GIOCO” di Giuseppe Leone
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CCO un saggio che non le manda a dire. Non si fa ancora in tempo a sfogliarlo che già nel titolo e nella prima aletta di copertina, Antonio Lucio Giannone, curatore del testo uscito allo scadere del 2020 per i tipi della leccese Besa Muci, fa presente al lettore che l’espressione Allargare il gioco, in uso nei giochi d’azzardo, “in letteratura significa includervi tutte le impurità, tutte le retoriche e vedere poi se si è capaci di bruciarle”. E in effetti, è quanto, prima di lui, ha cercato di dimostrare Vittorio Bodini attraverso
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questi suoi scritti di argomento letterario composti dal 1941 al ’70, apparsi su periodici, riviste e quotidiani dedicati a scrittori italiani e stranieri, recensioni, riflessioni sulla letteratura, interventi di carattere militante, veri e propri saggi. Sono, a detta di Giannone in una nota, prose critiche che rivestono una notevole importanza per delineare il percorso letterario di Bodini che comprende fasi diverse, ripensamenti, svolte, per chiarire meglio la personalità dello scrittore (7-8). Il tutto per “allargare il gioco”, estendere o abolire il massimo delle puntate, o, anche … lasciar puntare su altre carte oltre che su quelle di banco; onde avventurarsi in “itinerari grandi e doverosi … per gente che ha polmoni ed è pronta ad accumulare grandi ricchezze o a finire pezzente, piuttosto che calcolare da dietro un banco che reddito può dare un sillogismo” (82). In altre parole, tanto per uscir di metafora, lo scrittore deve aspirare al gioco largo, per non correre il rischio d’esserne tagliato fuori o sprofondare in quello stato psicologico di tristezza, che non risparmiò grandi della letteratura come Shakespeare o Baudelaire; e Dante, che ne illustrò così stupendamente quel passaggio: Quando si parte il gioco de la zara, colui che perde si riman dolente, repetendo le volte, e tristo impara con l'altro se ne va tutta la gente; qual va dinanzi, e qual di dietro il prende, e qual dallato li si reca a mente. Giannone, è il caso di dire, vi entra in questi “scritti” con discrezione, rispettoso sia delle forme particolari di grafie, tipiche dell’uso scrittorio dell’autore, come Abbruzzo, ubbriaco, obbiettività, sia dell’ordine cronologico in cui sono state disposte le prose; e lo fa, attraverso una lunga, illuminante introduzione critica, in difesa di una causa assai cara a Bodini, dove il poeta, lamentando le scarse incursioni della letteratura nostrana nel campo delle novità europee, esorta gli scrittori ad ampliarne la vi-
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sione e a prendere in considerazione qualsiasi materia, perché “allargare il gioco”, per lui, vuol dire, per l’appunto, includervi tutte le impurità, tutte le retoriche: e vedere poi se si è capaci di bruciarle al fuoco della passione civile e dell’emozione artistica (18). E questo è quanto Bodini si era proposto già nel dopoguerra, manifestando la volontà di allontanarsi dall’ermetismo, soprattutto dopo il soggiorno spagnolo dal ’46 al ’49, che gli aveva consentito, incontrando i superstiti della generazione del ’27 e Garcia Lorca, che conobbe attraverso la traduzione del suo Teatro, di dare alla sua poesia una patina di surrealismo. E non solo, anche una diversa e più universale visione del Sud, tale - per dirla con Donato Valli – “non tanto per l’acquisto di una dimensione culturale europea, ma anche per la indotta riscoperta di una entità etnica e artistica che fondeva fantasticamente costumi, tradizioni sentimenti della Spagna con quelli della patria storica e biografica, cioè il Salento e più in generale, il Sud borbonico e mitico”. Quello che colpisce, allora, in questo saggio, pubblicato in occasione del cinquantesimo anniversario dalla morte del poeta, è il ritratto di Bodini come lettore-critico; un critico partecipe, che instaura un rapporto diretto con gli autori che esamina al fine di chiarire meglio le ragioni della propria ricerca letteraria (9-10): così, quando commenta Joyce, Kafka e Poe, nei quali egli vede, non solo innovatori delle strutture narrative, ma anche acuti indagatori della psiche umana, delle fratture, dei traumi, avvenuti all’interno di essa, (10-11); così, quando si sofferma su Piovene di cui apprezza “la pensosa bellezza della scrittura densa di durata”(13); o su Gozzano, che “ha saputo reagire all’inflazione non solamente verbale di D’Annunzio attraverso il rinnovamento del linguaggio, la cui eco giunge fino a Montale” (19); o ancora su Silone, per il quale, anche se esprime riserve sul piano strettamente letterario, manifesta un’adesione di tipo ideologico per le sue posizioni antifasciste (13-14);
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e su Carmelo Bene, nel cui Don Giovanni cinematografico Bodini riconosce un’opera nel segno del barocco, che non è mai un aspetto esteriore, ma “un disperato senso del vuoto che è ad esso sotteso e che si cerca con esso di colmare” (32). Ma, non solo critico partecipe; per Giannone, Bodini è anche un critico riflessivo che, ora, tende a cercare strade diverse per la sua poesia in cui affiora sempre più chiaramente l’esigenza di natura profondamente etica e civile (14), come un po’ avviene in Quasimodo, riconosciuto come l’iniziatore della poesia meridionale (29), e in Tobino, apprezzato per la presenza di sentimenti forti, quali religiosità, amore e amicizia (31); ora, si distingue per l’attenzione che presta all’aspetto umano dei letterati uomini tra gli uomini: come il poeta gallese Dylan Thomas, conosciuto a Firenze, in casa di Piero Bigongiari, definito “uno degli uomini che incarnano più sensibilmente quest’antico ideale d’interiorità e di cultura”; Sandro Penna, che vendeva vitamine e sveglie silenziose; Cardarelli, che muore di freddo nel sole di Roma, in piena estate avvolto nel suo cappotto (24); Caproni, ricco di umanità, passioni e sentimenti (25). È, insomma, un Bodini in grande spolvero di empatia, questo, che Giannone vede crescere ogni giorno nel dialogo con altri scrittori e ne segnala i progressi, esponenziali, quali solo una personalità straripante poteva permettersi: quella di un infaticabile viaggiatore alla ricerca di una nuova stagione della poesia, quale effettivamente è stato Bodini “tra neorealismo e persistente eredità dell’ermetismo”. Un Vittorio Bodini colto nel momento di maggior tensione, in cui riunisce gli sforzi di critico, di poeta e di uomo, per verificare di persona, mentre gioca su carte lontane dal banco, quali rendite e redditi gli comportino queste ripetute riflessioni sulle funzioni della letteratura e dei letterati. Giuseppe Leone Vittorio Bodini, Allargare il gioco. A cura di Antonio Lucio Giannone. Besa Muci Editore, Lecce. € 15.00. Pp. 192.
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Intervista a
ANTONIO CRECCHIA Saggista, poeta, drammaturgo a cura di Isabella Michela Affinito
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NTONIO Crecchia è nato a Tavenna, piccolo centro di montagna, e risiede a Termoli, zona di mare, ambedue luoghi del Molise. Oltre ad essere un prolifico poeta – ha pubblicato decine e decine di sillogi – s’è distinto nel settore della saggistica con meritati premi, iniziando a dare alle stampe le sue trattazioni su argomenti monografici incentrati sulle figure e produzioni letterarie d’autori contemporanei, fin dal 1993 con il saggio Dentro la poetica di Rosalba Masone Beltrame. Altri nomi di spicco sono entrati nei suoi ponderosi lavori di vaglio, tra cui l’indimenticabile professore, è stato anche preside, scrittore poeta Vincenzo Rossi, suo conterraneo, a cui ha destinato un brillante saggio reso edito, come da promessa fatta a sé stesso, nemmeno un anno dopo in cui è avvenuta la dipartita del letterato Rossi ovvero nell’ottobre 2014, considerando era novembre 2013 quando egli morì. Così ha scritto il professore,
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poeta, saggista, traduttore dal francese, storiografo, Antonio Crecchia, nel suddetto lavoro dissertatorio: «[…] La sua rettitudine morale, il suo viscerale amore per la terra e le creature che l’abitano, la sua convinzione che la gente di campagna è la sola a tenere ancora in piedi i sani princìpi di vita, di amore e di affetto per la famiglia e la natura, il senso profondo della libertà di pensiero, sono stati i pilastri su cui egli ha costruito l’elevato edificio letterario. La sua coerenza ideologica non è venuta mai meno, avendo egli nel sangue le antiche virtù dei padri, apprese dentro l’alveo di una comunità dove la sacralità della vita, della terra, del lavoro e dei costumi è strettamente legata ad una concezione educativa basata su pochi, buoni e salutari princìpi, ad una scala di valori che permettono all’individuo di sapere che cosa sia il bene e che cosa sia il male ». (Dal libro Vincenzo Rossi – Un talento creativo al servizio della cultura di A. Crecchia, Ediemme-Cronache Italiane Salerno, Anno 2014, Euro 20,00, pag. 15) 1) Professore Antonio Crecchia, leggere la sua ‘monumentaleʼ bibliografia fa pensare che Lei sia sempre stato impegnato nella scrittura. Il suo primo libro di poesie, Il mio cammino, Gabrieli Editore di Roma, risale al 1989, ma in realtà quando è stato il momento in cui ha composto versi per la prima volta e perché? R.) Scrissi le prime poesie quando mi stavo affacciando alla soglia dei vent’anni. In precedenza ricordo d’aver scritto in versi qualcosa che esaltava l’eroismo dei Romani, e di Cesare, nella battaglia di Alesia. Dopo i vent’anni la scrittura in versi, anche in rima, è diventata un’abitudine che continuo a coltivare intenzionalmente ancora oggi. La considero un piacevole passatempo; credo, però che questa giustificazione non sia sufficiente. Dietro ogni poesia c’è una spinta interiore, una sollecitazione a manifestare, a rendere visibile ciò che è in fermentazione nell’anima. Per chi scrive versi, la poesia, ogni poesia, è la storia, la memoria di momenti particolari dell’esistenza, è la trascrizione di un’idea, di
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un pensiero, di uno stato d’animo che, unito alla meditazione, realizza nel poeta il desiderio di lasciare un ricordo, un segno, una traccia di un momento particolare, di una situazione intensamente vissuta, affettiva o intellettuale. 2) Lei, nel 2019, ha reso edito il dramma in cinque atti, Eccidio in casa Drusco, in riferimento ad una strage familiare realmente accaduta nel 1813 nella sua natia Tavenna. Essere nato in questo piccolo luogo cosa è significato per Lei e cosa Le è rimasto dentro? R.) Essere nato e vissuto per trent’anni in un borgo agricolo del Molise è servito a conoscere e ad affrontare sacrifici, diffidenze, umiliazioni, mortificazioni, a scontrarmi con una realtà arcaica, chiusa, maliziosa e irriconoscente. Ho dato molto, come docente, come amministratore comunale, come segretario del Patronato scolastico, come ricercatore di storia locale, usi, costumi, tradizioni, cultura espressa con canti, detti, motti e proverbi, favole, ecc. Per il mio paese ho scritto una quindicina di libri; in compenso, qualche raro e sbrigativo apprezzamento. Sono però rimasto visceralmente legato alla mia terra d’origine, non tanto all’ambiente urbano, al quale non ho mai mancato di offrire i frutti delle mie ricerche, quanto alle contrade di campagna, percorse a più riprese, in lungo e in largo. Ho imparato così, frequentandole assiduamente, ad amare la Natura in tutte le sue manifestazioni, fenomeniche e stagionali. Indefinibile il numero delle poesie che mi ha ispirato. 3) Lei ha tradotto diverse opere in lingua Francese, tra cui la silloge poetica di Paul Courget, Au coeur de la vie, dell’anno 2000. Aver scelto d’imparare questa lingua straniera è da considerarsi una conseguenza, estesa nel tempo successivo, della dominazione francese nel Regno delle due Sicilie – il cosiddetto decennio francese, ben spiegato nella sua Introduzione al dramma Drusco – comprendente il territorio suo di nascita o quale altra ragione? R.) L’amore per la lingua francese nacque
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quando avevo quindici anni, grazie al professore Elio Verzellini, di Vasto (Chieti), che mi preparò, da privatista, all’esame di terza media. Professore di lettere, greco e latino nel Liceo Statale della città in cui dimorava, aveva studiato in Francia e non mancava di manifestarmi la sua ammirazione per la civiltà e la lingua francesi. Notando i miei progressi in quella lingua, m’incoraggiò a studiarla anche in futuro. 4) Per la saggistica Lei ha pubblicato a dismisura, occupandosi di autori del calibro di Orazio Tanelli, Carmine Manzi, Silvano Demarchi, Vincenzo Rossi, Pasquale Martiniello ed altri ancora. C’è stato un autore da Lei esaminato che più degli altri le è rimasto impresso, in riferimento soprattutto alla sua produzione letteraria, e perché? R.) È vero, ho scritto molto. Oltre a una quindicina di monografie, ho dettato numerose prefazioni e confezionato tantissime recensioni a seguito della lettura di libri di autori contemporanei, recentemente raccolte in dieci volumi, che non verranno pubblicati, ma che resteranno, a futura memoria, una testimonianza concreta della mia dedizione dilettantistica alla scrittura e alla cultura. 5) In moltissime sue liriche è presente l’ambiente naturale della sua terra molisana. È una natura contrassegnata dalle catene montuose, quindi in certi tratti ostica. Lei in che modo si sente legato ad essa? R.) La natura è stata sempre la mia seconda Madre. E più che alla prima, devo ad essa esperienze e conoscenze di cui sono profondamente soddisfatto. In “Soave e gentile mia terra” (l’ultima edizione, accresciuta, è del 2020), ho reso omaggio con un “canto degno d’encomio” a giudizio di Orazio Tanelli, a diversi centri urbani e a luoghi simboli di una terra “ostica” (il Molise) come dice Lei, ma anche ricca di monumenti antichi, bellezze naturali e ingegni umani.
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6) Il suo grande amico “vanto letterario del Molise”, poeta scrittore saggista Vincenzo Rossi, a cui ha dedicato la corposa sua trattazione del 2014, Cronache Italiane di Salerno, quanto ha rappresentato per Lei sul piano umano e letterario? R.) Vincenzo Rossi, alla prima lettura occasionale di un mio saggio critico, ebbe da subito la convinzione che avessi “la stoffa del critico”. Mi contattò telefonicamente. Mi volle ospite a Cerro al Volturno. Mi offrì in lettura la “montagna” dei suoi libri, in prosa e in versi. Non faticai molto a capire che era un grande e ossuto uomo di cultura. Grazie a lui entrai in contatto con una schiera e noti letterati in ambito nazionale e in quello internazionale. Fu, nei primi anni Novanta del secolo scorso, il mio “maestro”. Rinvigorì la mia passione per la lettura e la scrittura, mi aiutò a crescere pubblicamente, se per “pubblico” vogliamo intendere lo stuolo dei cultori delle belle lettere con i quali ebbi la felice opportunità di relazionarmi e scambiare libri. A Vincenzo ho dedicato due monografie: la prima nel 2006, la seconda nel 2014, ad un anno dalla sua scomparsa. 7) C’è un autore/autrice della letteratura del passato a livello mondiale a cui Lei s’è ispirato di solito o amato/amata in modo particolare? R.) Negli anni giovanili, che corrispondono a quelli degli studi scolastici in vista del conseguimento di un diploma di scuola superiore, e poi in quelli della frequentazione della neonata Libera Università degli Studi “Gabriele D’Annunzio” di Pescara, (primi anni Sessanta) affrontai la lettura e lo studio di tantissimi autori, vale a dire da Omero a Ungaretti, da Virgilio a D’Annunzio, da Dante a Carducci, da Petrarca a Mallarmé, dall’Ariosto a Baudelaire, da Shakespeare a Vittorio Alfieri, da François-René de Chateaubriand (cui fui accostato, “per eleganza e nostalgia poetica” dalla scrittrice/poetessa Yann Jaffeux) a Alessandro Manzoni; e poi Foscolo, Leopardi, Pascoli, Arthur Rimbaud, Paul Valéry, Paul Courget e tanti altri. Tutti amati,
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ma non saprei dire se mi sono ispirato a qualcuno di loro. C’è chi ha visto nelle mie poesie prodromi della poetica foscoliana e/o leopardiana. 8) Qual è, secondo Lei, il tratto principale di sé stesso che risalta nell’immediato quando è a contatto con gli altri e perché? R.) La riservatezza. Caratteristica che fa parte del mio carattere, accresciuta e rafforzata nel tempo dall’incomprensione di tanti con cui ho vissuto fianco a fianco per ragioni professionali. Quand’ero all’inizio del mio “apprendistato” poetico, rivelai timidamente ad una collega la mia segreta vocazione. Mi rise in faccia, in “modo che ancor m’offende”. Da allora e per quasi trent’anni ho tenuto nel cassetto le mie “segrete cose”. Cominciai a partecipare a concorsi letterari sul finire degli anni Ottanta e non mancarono le soddisfazioni di conquistare, con poesie inedite, non pochi primi premi nell’arco di un decennio. Le mie apparizioni in pubblico sono rarissime e avvengono soltanto “su richiesta”, mai per desiderio di esibizionismo, di “apparire”, per darmi l’aria del “saputo”. La vanità è un sentimento che non mi appartiene. 9) Se non avesse fatto il poeta, il saggista, lo storiografo, il traduttore, lo scrittore in genere, cosa avrebbe voluto svolgere e perché? R.) Data la mia simpatia per la carta stampata, l’attività editoriale m’è apparsa da sempre una nobile arte; l’avrei svolta ben volentieri e con passione. Non potendola esercitare professionalmente, mi diletto, da alcuni anni, a editare in proprio buona parte dei miei libri, con l’ausilio di un’ottima e veloce stampante laser, che mi permette di stampare un libro di cento pagine in pochi minuti. I destinatari, naturalmente, sono pochissimi cari amici, per lo più eccellenti “letterati” di lunga carriera. 10) Ha un motto che ha fatto un po’ da guida alla sua vita e quale? R.) Sì, preso in prestito dal filosofo greco Epicuro (Samo 341 a.C. – Atene, 270 a.C.): “Vuoi
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vivere felice? Vivi nascosto”. A “nascosto” ho sostituito “appartato". E devo proprio a questa felice condizione di vita “appartata” se ho prodotto e impaginato tanti libri. Sono vicino a quota cento. Al raggiungimento di questo obiettivo, se ne avrò la possibilità, chiuderò definitivamente cantiere e officina, con la serena coscienza d’aver fatto quanto era nei miei intenti e nelle modeste possibilità intellettive e operative. 11) Ha detto John Dryden (1631-1700), da altri definito padre della critica inglese e drammaturgo, occupante l’intera scena letteraria per circa mezzo secolo, che: ‟ Una cosa ben detta conserva il suo sapore in tutte le lingue”. Lei, da traduttore, cosa ne pensa? R.) Chi ha una certa dimestichezza con i grandi capolavori della letteratura mondiale, ma anche delle altre arti, sa che non è la lingua che crea, ma l’intelletto, il genio che presiede all’espressione linguistica o artistica. Di veri talenti creativi il mondo è pieno, non soltanto oggi, ma anche nel passato, ha avuto artisti di eccezionale talento. Dalla loro attività espressiva, linguistica o artistica, nascono i capolavori che chiunque, in qualsiasi lingua, può apprezzare, proprio perché ben fatti, ben strutturati, magnificamente insaporiti di gusto estetico e raffinati con i carismi della bellezza, dell’armonia e della perfezione. Valori universali ed eterni. Isabella Michela Affinito
APPANNAVAMO I VETRI Appannavamo i vetri con l’aria del respiro e vedevamo di primo mattino lavorare nel cielo gli uccelli. Ci stringevano il cuore i loro giri in un unico gomitolo di canti e paglia. Gianni Rescigno Da Il vecchio e le nuvole, BastogiLibri, 2019.
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Un libro da leggere e da regalare:
…Il mondo è il presente in cui si vive, così come viene documentato dagli occhi elettronici delle telecamere, dei droni, dei satelliti artificiali. Ma l’occhio umano possiede una profondità di lettura e una facondia di rielaborazione evocativa del passato, nonché di proiezione verso il futuro capace di moltiplicare la realtà e di trasferirla nella dimensione della memoria, del sogno, della speranza, della fede. Questa sorta di meravigliosa diplopia della vista umana, portata a vedere in contemporanea ciò che c’è nel mondo e ciò che c’è fuori dal mondo, cioè in metafora, rare volte è stata così bene valorizzata e messa a fuoco come riesce a Domenico Defelice nel suo prezioso libro di racconti Non circola l’aria. Il titolo è tratto dal racconto eponimo ove si narra una storiella simbolica che fa riflettere il lettore: lo stesso roseto assume ai nostri occhi un valore assai diverso a seconda della persona e dello scopo per il quale viene piantumato. In un caso potrà crearci un sentimento di soffoco e di tormento, mentre in altri casi potrà essere fonte di gioia e di libertà, eppure il roseto è sempre lo stesso, ma è diversa l’osservazione elaborata dalla mente dell’essere umano. Sandro Gros-Pietro Genesi Editrice – via Nuoro 3 – 10137 Torino – genesi@genesi.org; http://www.genesi.org – Pagine 210, € 12,00
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FRANCESCO D’EPISCOPO
LA CASA SUL MARE di Liliana Porro Andriuoli I Francesco D’Episcopo conoscevamo le doti di saggista di rango e di poeta schietto e incisivo, nonché di autore di sapidi quadretti di vicende napoletane, contenute in un volumetto intitolato Napoli città creativa; ed ecco che ora egli si ripresenta a noi nella veste del narratore dalla prosa tersa e accattivante con un nuovo volumetto dal titolo La casa sul mare, nel quale ci parla, in terza persona, di una dimora da lui acquistata sulla costa campana con i proventi della liquidazione di professore universitario versatagli al momento del pensionamento. È questo un titolo che subito ha attirato la mia attenzione, dal momento che richiama quello di una poesia del suo primo libro, Vita, intitolata appunto La casa sul mare che così suona: «Troverò, / un giorno, / la casa sul mare, / rifugio provvisorio / di ciò che non c’è». Non è un caso poi che questo titolo sia
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saltato ai miei occhi nel momento in cui mi sto occupando di D’Episcopo poeta. Per ritornare al libro in esame, va subito detto che si tratta di un libro-confessione col quale l’autore rivela tutto se stesso, con i suoi gusti e le sue aspirazioni, attraverso una prosa limpida e accattivante. Ma vediamone il contenuto. Quella acquistata da D’Episcopo è una casa non grande, ma confacente alle sue necessità di uomo dedito allo studio e quindi in cerca della pace e del silenzio, che in questo caso è rotto soltanto dallo sciacquio delle onde del mare che s’infrangono sullo scoglio sul quale la casa è costruita. Nel vasto salone che quasi tutta la comprende, D’Episcopo ha collocato «un’antica scrivania», una poltrona «comoda e sicura» e «un letto sovrastato da una libreria», mobili che soddisfano appieno le sue esigenze e gli consentono di vivere tra i suoi cari libri, con i quali continua con passione i suoi studi sugli scrittori meridionali, da lui scoperti e valorizzati. Un lavoro che ha compiuto durante tutta la vita e che anche ora che è andato in pensione, seguita a praticare assiduamente, alternandolo al suo lavoro creativo, fatto di poesie, aforismi, racconti brevi, che maggiormente lo appagano. E più lo appagano ora, di fronte «a quel mare spumeggiante e a quel terrazzo che sembra implorarlo ad alzarsi e a godere del sole, dell’aria, della brezza che soffia dolce e accarezzava la pelle». Qui ha «conquistato la calma» e raggiunto la pienezza del vivere, toccando il «paradiso della parola e della scrittura». E maggiormente tutto ciò lo soddisfa, in quanto si sente pienamente in comunione con la natura, essendo anche un amante del mare, nel quale gli piace tuffarsi, per nuotare e pescare, preparandosi anche dei saporiti piatti col ricavato, spesso cospicuo, della pesca. Nella sua nuova casa sul mare D’Episcopo però, oltre a studiare, leggere, scrivere e mangiare dorme piacevolmente sonni beati, specie di ‘controra’ ed anche sogna, dato che i sogni costituiscono una parte essenziale della vita. Dotato di una splendida calligrafia, il nostro professore ama inoltre scrivere delle lettere,
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nelle quali esprime interamente se stesso con eleganza e sapienza di stile; così come ama la parola, nella quale l’uomo compiutamente racchiude il suo io più profondo, mettendosi in contatto col Divino: non per nulla il Vangelo di San Giovanni inizia con queste parole: «Il Principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio». Ottimo conferenziere, D’Episcopo sa esibirsi in pubblico, adoperando magistralmente le parole, affascinando i suoi ascoltatori, così come da giornalista-pubblicista affascina i suoi lettori, sempre rimanendo però geloso della sua libertà di giudizio. Molti i suoi incontri con noti uomini di cultura avvenuti negli anni. Tra costoro sono da ricordare Riccardo Muti, che conobbe in occasione del Premio «Luigi Vanvitelli», che gli era stato conferito nella reggia di Caserta. Sono inoltre da ricordare gli incontri avvenuti con Gerardo Marotta e Fernanda Pivano. Assidua è stata poi la sua frequentazione dei circoli culturali napoletani, che gli ha offerto l’opportunità di fare importanti conoscenze. L’incontro più entusiasmante però D’Episcopo lo ebbe con un delfino, che venne a trovarlo nel tratto di mare antistante la sua nuova casa, mentre passeggiava sulla grande terrazza, in un giorno di assoluta calma. Il delfino si esibì con capriole e volteggi, con i quali fece notare la sua presenza, ed egli gli rivolse la parola, con un discorso al quale il delfino rispose con una piroetta. D’Episcopo gli offrì allora alcuni pesci che aveva da poco pescato e il delfino parve gradirli molto, mangiandoli tutti. La scena si ripeté per più giorni, sinché egli decise di scendere in mare per stabilire un più diretto contatto con il suo nuovo amico. L’esperienza fu entusiasmante, anche se unica, perché da quel giorno il delfino non si fece più vedere. Dice D’Episcopo che se ne dispiacque, ma che gli fu per sempre grato, come per una sorta di «apparizione divina», un’inattesa epifania dell’Oltre o magari «un invito a continuare ad immergersi, da solo o in compagnia, nel grande mare della vita». Il libro si chiude con un elogio della campagna retrostante la casa sul mare; una campagna
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che offre i frutti della terra a buon mercato, ed è un luogo in cui tutto sa di sole e di mare. Certo, un piccolo Paradiso, dove la vita può ancora acquistare un senso, non soltanto per la nostra, ma anche per le generazioni future, alle quali D’Episcopo lancia un invito: quello di creare, dopo la sua scomparsa, nella sua casa sul mare un Centro di incontri letterari e di alta Cultura. Ed è questo un invito che anche noi auspichiamo venga accolto e che il Centro un giorno si realizzi, recando nuova linfa a nuovi apporti alla letteratura partenopea. Liliana Porro Andriuoli FRANCESCO D’EPISCOPO: LA CASA SUL MARE (Graus Edizioni, Napoli, 2021, € 12,00)
L’AMORE DEI MORTI Ogni sera scendono i morti a vegliare il nostro sonno. Grande è il loro amore. Più grande di quello dei vivi. Ininterrottamente ne bevono guardando Dio. Gianni Rescigno Da Il vecchio e le nuvole, BastogiLibri, 2019.
AALLELUIA ! AALLELUIA ! ALLELUUIAAA ! 21/2/2021 Dilaga la polemica nei confronti del “Professore” Giovanni Gozzini, che ha definito Giorgia Meloni “ortolana”, “rana dalla bocca larga”, “vacca”, “scrofa”. Alleluia! Alleluia! Date le reazioni, l’illustre professore di Sinistra ora si scusa, afferma – pensate! – di non aver voluto offendere! La solita Sinistra salottiera – da decenni non più quella vera -, che come un coronavirus ha infettato e distrutto la Scuola. Domenico Defelice
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FRANCESCA COSTANTINI FRAMMENTI di Lorenzo Spurio O letto con piacere l’opera prima di Francesca Costantini, autrice pesarese classe 1970, che ho avuto l’occasione d’incontrare varie volte in seno ad alcune iniziative poetiche. Noto con piacere che nella raccolta figurano alcuni testi che la poetessa aveva letto nel corso di una manifestazione poetica itinerante tenutasi nel 2019 nelle Marche. Vincitrice della tappa svoltasi ad Urbino, presso la Sala della Poesia di Palazzo Odoasi, si era automaticamente aggiudicata l’accesso alla finale del Ver Sacrum – questo il nome del progetto sviluppato dal l’Ass.ne Culturale Euterpe – dove con grande entusiasmo era stata proclamata vincitrice indiscussa
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della gara poetica itinerante. La cerimonia finale, inizialmente pensata per tenersi a Jesi, si tenne a Cupramontana in un contesto particolarmente piacevole, all’interno degli spazi suggestivi del MIG – Musei in Grotta. Ricordo, tra i suoi testi, in particolare, la lirica “Terremoto” che mi colpì molto sin dalla prima volta che l’ascoltai pronunciata dalla stessa poetessa. Con uno sguardo attento sul testo, brevi accenni verso un pubblico in ascolto, la voce sicura non restia a un dolore intimo contenuto nel dramma di quegli enunciati. Ritrovo ora la poesia in oggetto pubblicata in Frammenti, questa silloge poetica che la poetessa pesarese ha recentemente dato alle stampe con Bertoni Editore di Perugia. Conservandone un ricordo impressivo non ho potuto che soffermarmi a leggerla più volte notandone – anche nell’ordito dello scritto – la perfezione formale della lirica, oltre all’indiscussa capacità espressiva, la forza magmatica di comunicazione che in poesia non è mai qualcosa di scontato né semplice. La struttura di questo componimento è data da brevissimi versi – in alcuni casi, come nel secondo verso, costituiti da un solo lemma – riuniti a gruppi (mi piace definirli così anche se si tratta di vere strofe) di tre versi. Il linguaggio scarno, volutamente teso a rimuovere il superfluo per far risaltare il necessario tra i lembi di un’assenza dolente che è data dal terremoto che ha prodotto macerie, creato il silenzio e ampliato distanze, è tale che, pur essendo un testo assertivo – lontana l’implorazione e la denuncia, finanche lo sdegno mosso da tensioni civili – arriva con grande potenza nell’ascoltatore. La levità delle immagini, la parsimonia lessicale che contraddistingue tutta la sua poetica, così incisiva e puntuale, nel caso della poesia “Terremoto” fungono da contraltare – non è un espediente, tutto avviene in forma autentica – alla drammaticità delle immagini evocate, al dolore insito tra i versi. Questo testo è stato pubblicato in seno al secondo compartimento di liriche del volume che la Costantini ha raccolto sotto il titolo di “Frammenti di luce”. Nella poesia appena ri-
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chiamata, che descrive un contesto di stordimento e di scuotimento, tanto fisico quanto emotivo, ritrova (o è intenzionata a ritrovare) la sua “luce” in quella – pur fioca – “speranza [che] riemerge/ e si fa/ voce di vita” (59). Versi, questi, che siglano l’explicit della lirica in un miscuglio di resilienza e fierezza arcaica del popolo marchigiano che dinanzi alle catastrofi e alle privazioni che ha incontrato sul suo cammino non ha mancato mai di far risaltare la sua identità ed espressione orgogliosa e combattiva. Le poesie che compongono questa sezione – proprio come la poesia “Terremoto” – sono per lo più poesie di buio e di apparente rassegnazione, di tribolazione e di sonno della coscienza che nella sintesi delle vicende poste in oggetto, nelle varie tematiche – molte di impegno civile – che interessano questi testi, permettono, comunque, l’apertura di un varco di luce, la possibilità di un cambiamento, un bagliore pronto a rischiarare, così come avviene in “Lato oscuro” la cui chiusa richiama un’immagine di luminosità. La poetessa vuol forse lasciar intendere che, sebbene il mondo sia spesso dominato dal male, dai vizi e dalle disattenzioni verso le situazioni di rischio ed emarginazione, la possibilità della luce mai deve essere scartata e, anzi, al contrario, deve essere sostenuta, praticata, percorsa e – chiaramente – condivisa. Il contrasto oscurità-luce, metafora di discesa-ascesa, morte-vita, abbattimento-speranza, si ritrova in “Candele e lanterne”, un componimento che ricalca il dramma del periodo dettato dall’emergenza Coronavirus (“si spengono / le vite / al soffio di questo gelido vento // Una dietro l’altra / come foglie d’autunno / cadono // […] // come formiche allineate / sfilano / le bare / con dentro i vostri corpi”), fotogramma della triste scia di autocarri militari di Bergamo – nel picco della prima ondata del COVID-19 – che nessuno di noi può dimenticare (né fingere di non aver visto). Anche in questo caso la Costantini prevede una chiusa di speranza, stavolta in chiave spirituale: “Ma le vostre Anime! / Come lanterne volanti / quelle in cielo / salgono / una
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accanto all’altra”. Il poeta Stefano Sorcinelli, che sigla l’articolata prefazione al volume, richiama la cosiddetta poesia confessionale di marca americana (Plath, Sexton, Lowell) per avvicinarsi e descrivere la poetica della Nostra. Credo che ci sia senz’altro qualcosa di questa confessione che si muove nelle pieghe dell’io, in quel bisogno non procrastinabile di ascolto interiore, di ricerca personale, di auscultazione, di dialogo intersoggettivo dinanzi ai tristi accadimenti del presente che si fanno storia. Eppure mi pare di poter osservare che è un atteggiamento partecipe e filantropico, teso a una lettura solidale e collettiva di un sentimento comune, dove l’àncora di salvataggio spesso è vista, dietro quella confessione intima che è sorgiva e impellente, proprio in quel desiderio di riferirsi a un’alterità, a un al di là possibile e necessario per poter spiegare (nei limiti di spiegazioni razionali) il senso e la destinazione di accadimenti difficilmente configurabili. Tanto in “Terremoto” che in “Candele e lanterne”, difatti, sembra di trovare, rileggendo più volte i rispettivi testi, un senso di pacificazione dato dal percorso che la Poetessa attua con i suoi versi. Dinanzi alla spigolosità dei fatti, la Nostra è in grado di entrare nella materia poetica, di viverla, di renderci partecipi della mestizia, della perdizione, del tormento. Questo, però, che in altri autori ha visto avere quali esiti il melenso pietismo o, al contrario, la condanna spietata, nella Costantini prende la forma di una meditazione dai tratti quasi ontologica, di una preghiera, sulle onde di un sentimento che è intimo ma anche plurale, personale e collettivo. Scopo della poesia non è parlare di sé e costruire biografie in versi che hanno forse utilità in chi le produce e che rimangono distanti (quando non incomprensibili) a terzi, ma di rendere universale il reale, di estendere la validità di un accadimento (e di un dolore) alla partecipazione onesta e sentita di una pluralità. Una poesia, quella della Costantini, che si staglia tra preghiera e riflessione, ben lontana da forme gridate di condanna o da insulso vittimismo. Torno ora, con un percorso à rebours che –
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spero – mi si perdonerà, alla prima parte dell’opera, anch’essa “giocata” sui contrasti tra bagliori e abissi; essa ci parla di “Frammenti di ombra” dove a dominare sono i temi che girano attorno al senso di mancanza, alla frustrazione dettata dal percepire l’assenza di una persona amata, finanche la passività dolorosa che detta il senso d’impotenza (che non deve lasciar il posto alla rassegnazione) dinanzi ad accadimenti improvvisi e imprevisti che a volte la vita ci mette dinanzi. Liriche per lo più notturne, dai contorni non meglio definiti, o dove questa patina d’incertezza e oscurità sembra non dare scampo all’io lirico (“mi guarda indifferente / mentre la mia ombra si confonde fra la gente”). Se dovessimo riferirci a uno dei cinque sensi per descrivere queste liriche, al di là della vista il cui senso oggettivamente è pervasivamente presente in tutto il volume nei contrasti testé richiamati, penso che è l’universo sonoro a rappresentare una posizione di rilievo. Poesie quali “Parole”, “Come potevo” (con i suoi incalzanti interrogativi), “Sono qui” (con il caratteristico rimando anaforico), “La tua voce” ricordano – spesso in una logica privativa – la dominanza di una dimensione sonora: percepita o meno, ricercata, evocata, echeggiata, mal udita, inascoltata, etc. Ad arricchire il volume sono alcuni dipinti della nota Mara Pianosi che, pure, è l’autrice del dipinto curioso, che svela e copre, fa intravedere e immaginare, un particolare del volto dell’autrice colta mentre fissa in un punto imprecisato che è verso un “oltre”, un al di là dal reale, in una direzione approssimativamente verso l’alto. Tale immagine, oltre a fondersi e a rispecchiarsi molto bene col titolo del libro – quel fragmenta che è partizione di una totalità – è un appropriato apripista visivo ai contenuti poetici che questa silloge propone, con un’asciuttezza formale che mai fa venir meno l’alta capacità espressiva e mimetica in noi lettori. Lorenzo Spurio FRANCESCA COSTANTINI, Frammenti. Raccolta di poesie, prefazione di Stefano Sorcinelli, Bertoni Editore, Collana “Aurora”, a cura di Bruno Mohorovich, Perugia, Luglio 2020.
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È uscito in libreria, ma può essere acquistato anche su internet, il bel libro d’arte:
…Scrive Domenico Defelice nel suo elegante e polisemico saggio (cogliamo una pericope dell’intera narrazione critica): “… Il pittore si mette dalla parte degli animali, insomma, si immedesima in loro, li fa pensare e parlare. O, meglio, è lui che presta loro il pensiero e la voce…”. È proprio vero Tripodi vola in alto, par-dessus le toit direbbe Verlaine, per annotare i movimenti dei volatili, per coglierli nei loro moti, e riprodurli anche quando sono senza vita. Il linguaggio del pittore è quello che la Natura gli presta con le sue immagini. E con esse Tripodi parla e dipinge, dipinge e parla in continuo contatto spirituale e fattivo. Nazario Pardini Da Alla volta di Leucade, martedì 16 febbraio 2021
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DANTE E LA “DIVINA COMMEDIA” di Antonia Izzi Rufo
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BBIAMO tanti scrittori in Italia, tanti poeti, ma il più grande, il più importante è Dante Alighieri. Lo chiamiamo, lo abbiamo sempre chiamato solo “Dante”, “Padre Dante”, perché è unico, è il massimo. Lo ricordiamo, più che per le sue altre opere, per la “Commedia”, che il Boccaccio definì “divina”. E’, la “divina Commedia”, un’opera grandiosa. In essa Dante descrive un suo viaggio, affidatogli da Dio, compiuto attraverso i tre regni dell’oltretomba, Inferno, Purgatorio e Paradiso. E’ un viaggio allegorico che allude allo svolgersi della vita dell’uomo sulla terra, alla sua vita che migliora a mano a mano che egli cresce in esperienza. Difatti, egli attraversa un periodo di cadute e riprese, riso e pianto, e poi, infine, assurge, purificato, al Paradiso dove, finalmente, vive, beato, la sua vita eterna. Tanti, tantissimi i personaggi che, secondo i meriti, Dante colloca nei tre regni e le pene che essi scontano, nei primi due. Nella scelta e nel reperimento di tante anime, egli è stato giusto, ha trovato la pena adatta che ognuno deve scontare per rendersi degno di assurgere in Paradiso o per rimanere, in eterno, nell’inferno. Ha avuto fantasia, buonsenso, chiaroveggenza. Certo (tranne il giudizio discorde di pochissimi), nessuno osa mettere in dubbio il suo
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modo di disporre i personaggi nelle tre cantiche e le giuste pene a cui essi sono sottoposti. Guida di Dante è Virgilio (che simboleggia la ragione). Questi lo accompagna solo attraverso l’Inferno e il Purgatorio, perché vissuto in tempi pagani e quindi non battezzato. Nel Paradiso Dante incontra Beatrice, la donna che egli ama, che ha sempre amato, pura, quindi degna di godere della luce divina. E’ importante la “divina Commedia”. Si studia nelle scuole e in tre anni. Essa ha molto in comune con la religione cattolica circa il nostro stato dopo la morte. Induce l’uomo a comportarsi onestamente, ad evitare il male e a fare il bene. E’ quindi un’opera educativa per eccellenza, oltre che interessante e originale. Antonia Izzi Rufo
UNA SERENATA Filigrana di un ricordo puro come il cielo estivo del paese in Appennino. Era terra di ruscelli e ginestre di selci azzurrine. Era l’infanzia, zefiro interrogante primula che si apriva al mattino. Ma fu notte e mistero quel risveglio stregato dal suono di un violino, lenta serenata che entrava con tutte le stelle e sciami di gelsomini. Musica e plenilunio. Finestra aperta al cielo e impensate armonie: fu il mio primo sgomento dell’Infinito. Ada De Judicibus Lisena Da Omaggio a Molfetta, Edizioni La Nuova Mezzina, 2017.
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FRANCESCO D’EPISCOPO
IL CIELO NEGLI OCCHI di Anna Aita
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ER ragioni di vita, che non sto qui a raccontare, sono in ritardo nel commento di diverse pubblicazioni, sottoposte gentilmente alla mia attenzione. Può capitare, però, di trovarmi dinnanzi ad un testo che mi prenda prima ancora della lettura: in questo caso particolarissimo, a rischio di bruciare l’arrosto o il sugo sui fornelli, non riesco a temporeggiare. Questo è accaduto, ad esempio, quando lo sguardo si è posato sulla copertina di un libro, riportante l’immagine di un uomo, che me ne ricordava un’altra ben nota; quando ho letto il titolo, già di per sé commovente, “Il cielo negli occhi”; quando in alto c’era una scritta: “Non cercò la poesia, la poesia cercò lui”; quando è bastato leggere la firma Francesco D’Episcopo,(una colonna, una poesia egli stesso della nostra cultura e, oserei dire, della nostra
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napoletanità), per commuovermi…ebbene, quando è accaduto tutto questo, non mi è stato possibile indugiare: sono stata “costretta” ad andare avanti. L’amore di Francesco D’Episcopo per suo padre, l’ho introiettato un po’ di tempo fa, proprio attraverso una poesia. Mi colpì tanto: ogni verso trasudava amore, un amore speciale, unico. Non ha occhi di cielo, come spesso si dice per indicare il colore delle pupille, ma HA il cielo negli occhi. Quanta poesia in un semplice titolo! Compresa nella mia emozione, svolto la copertina. Ed eccola, la prima lirica, poesia vera che scaturisce dall’anima, poesia dell’amore, pianto segreto di chi è stato privato di uno dei suoi più grandi tesori, “Senza”: la malinconia, il deserto, la nostalgia di una giostra di cavalli bianchi in corsa. Ritornare bambini per vivere nell’innocenza, per non più soffrire. E si chiede il nostro Poeta, smarrito: in un domani incerto “…chi incontrerai, chi troverai, chi perderai?”, chi? In questo gioco della vita rassomigliante alla roulette, dove si fermerà la pallina? “…sul rosso, sul nero?”. Profondo è il tormento di cui sono pervasi alcuni versi. Mestizia e nostalgia le ritroviamo, ancora, nel ricordo delle tante lezioni tenute all’Università Federico II, nella rievocazione commossa dei suoi ragazzi “in jeans sdruciti, a prendere appunti”. E, più avanti, leggiamo: “…si vive, senza tempo,/ finché il tempo diventa troppo/ e bisogna inventarsi altre vite,/ altre storie, prima che tutto finisca/ nell’illusione di aver fatto tutto, o quasi tutto”. Ma c’è anche il disagio, l’insoddisfazione di un mondo che va alla deriva, che “vive di superficie” e sconvolge anche la lingua italiana imbellettandola di termini stranieri; un mondo ingrato verso “Maestri romantici e gratuiti” che lavorano con gioia senza attendere ricompensa e senza, talvolta, ricevere un grazie sincero, che venga dal cuore. E, altrove: “Sono entrato in molti libri/ e spesso non ne sono uscito/…/ per non incon-
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trare di nuovo la vita,/ disordinata, dissipata/…/ nel vizio dell’esistere/ senza senso, senza ordine…” Direi che tutta la raccolta è dominata da una malinconia che strugge anche il lettore, in quanto grandi sono le verità che vengono fuori, dal profondo della sua anima. “Strana la vita, fa vivere e morire, qualche volta anche da vivo.”, considerazioni tipiche del nostro Autore, che lasciano sempre affiorare un sorriso, pur talvolta nell’amarezza e nella serietà di profonde affermazioni. Di questi pensieri che nascondono, forse, un che di filosofico, il docente continua ad infiorare le sue conferenze, alleggerendo simpaticamente tratti del suo dire che richiedono maggiore attenzione e concentrazione. Ancora molta amarezza riscontriamo nella poesia “Solitudine”. In questi nostri tempi, bombardati dal tecnicismo, dalla corsa, dall’avidità di guadagno, dall’arida voglia di sopraffazione e da tant’altro di negativo, non esiste più l’emozione di una lettera scritta a mano, né ci si parla più con quell’amore, quella tenerezza che ci faceva avvertire, nell’altro, una rassicurante partecipazione, un sentimento di condivisione del quale tutti, particolarmente oggi, abbiamo bisogno. E il nostro sensibile Autore, stanco e deluso, prorompe a conclusione: “Voglio sentirmi vivo”. E ritorna più volte il vento nei versi del D’Episcopo, uno degli elementi della natura da lui particolarmente amato. Lo ritroviamo in una breve, simpaticissima poesia in vernacolo napoletano, ma anche in poesie di profondo respiro: “Mio nonno, napoletano/ non si alzava/ quando il vento non spirava./ Si sentiva come mi sento ora io: una barca a vela/ che sogna il vento della vera vita”. Sono tante i versi che danno un pizzichino al cuore. Citerei ad esempio “Sola”. Non tratta di una esperienza personale ma di un sentimento femminile, travolto dal tradimento della vita che riesce a bruciarne le gioie, lasciando soltanto “foto sbiadite di un passato/…rattrappito/ in una stanza solitaria senza amore”. E come non partecipare accoratamente leg-
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gendo la poesia, la più grande, nella sua brevità, di tutta la raccolta, ed esattamente quella che dà il titolo all’opera, “Il cielo negli occhi”? Non posso girarci intorno, non saprei dove andare. Posso solo riportare le stupende, fantastiche parole uscite dall’anima di un figlio: “Ho sempre cercato di possederlo,/ da piccolo, volandoci dentro/ da grande scoprendo il suo mistero”. Volandoci dentro!... Non sarebbe stato facile, facendo propria tutta la facoltà di scelta delle parole, trovare qualcosa di più bello, di più straordinario per rendere razionale l’impossibile! Ma stiamo parlando di Francesco D’Episcopo! Una poesia, dunque, che “racconta” degli occhi di un padre e dello stupore del suo bambino che vuole capire, comprendere il mistero della bellezza di quelle pupille, così ammirate, così tanto amate; scoprire quale universo irraggiungibile, può esserci dentro di noi, dentro i nostri occhi. Che dire ancora? Di parole ne ho scritte tante, e tante potrei ancora utilizzarne perché, sui versi di questo meraviglioso Autore, c’è tanto da riflettere e da commentare, mettendo egli in evidenza, l’inquietudine che è, sì, dentro di lui ma direi, in fondo, in ciascuno di noi. Mi manca, inoltre, la capacità necessaria per esprimere, in maniera efficace, i sentimenti e le emozioni che si sono andate accumulando, in me, durante la lettura di questa pubblicazione, prima classificata per la sezione poesia inedita da “La Ginestra” di Firenze 2020. Anna Aita VELAME Dentro una stilla gracile di vita si cela il mio coraggio. Soffusa dal lavacro che mi bagna, la pelle si distende. Posso continuare il duro viaggio deciso dalla sorte, che tutto avvolge in un velame oscuro. Rischiaro strade buie con lanterne oscillanti al forte vento che in questo tempo spira. Elisabetta Di Iaconi Roma
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GIOVANNI EMANUEL O DEL NATURALISMO TEATRALE IN ITALIA di Leonardo Selvaggi I IOVANNI Emanuel, attore, nato a Morano Po nel 1848, riconosciuto come il capofila del naturalismo teatrale in Italia. Nel 1875 ventisettenne rappresenta l’Amleto. Nel 1879 con Giacinta Pezzana e la giovane Eleonora Duse dà vita a Napoli ad altre importanti interpretazioni secondo la sua concezione naturalistica, l’Otello, l’Assomoir di Zola, le opere che riscuotono il maggior successo. Giovanni Emanuel è l’attore sperimentalista di una nuova scuola, il suo talento è straordinario, tutti vanno a vederlo impazzire o morire sulle scene. Per lui gli autori sono classici, romantici, idealisti, realisti, gli attori debbono essere sempre veristi. Qualsiasi personaggio va recitato con naturalezza, l’artista drammatico deve rappresentare in ciascun personaggio l’uomo, un uomo come un altro. Bisogna bandire dalla
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scena il teatralismo. Nel dramma, nella tragedia la passione, che è eccesso e straordinarietà, è solo manifestazione momentanea, tutto il resto è espressione di normalità. II Giovanni Emanuel non rappresenta più l’Otello fino a dicembre del 1886, mentre lavora a una nuova interpretazione. Il lavoro gli costa fatica, scrive a Felice Cavallotti dicendo che l’Otello ce l’ha in tutte le parti, nel cervello, nel cuore, sulle spalle. Traduce egli stesso il testo. Viene rappresentato a Milano. L’interpretazione accende polemiche e la critica è in buona parte avversa. L’Otello prende forma sulla scena seguendo la poetica naturalistica. Emanuel si allontana dalla tradizione interpretativa che lo ha preceduto. La tenace caparbietà di un artista che vuole distinguersi. L’abilità di un capocomico che vuole aprirsi nuovo spazio, offrendo un prodotto originale. Emanuel è discontinuo nella sua recitazione, mentre appare mediocre, all’improvviso raggiunge culmini più luminosi dell’Arte. Diversi la monoliticità dei personaggi trattati dal tonante Tommaso Salvini, manierista classicista, il barocchismo affascinante dello stile romantico di Ernesto Rossi. Enrico Panzacchi considera insuperabile Giovanni Emanuel in Re Lear, Amleto, Arduino, Sirchi, Figaro Mercadet. Per Salvini, Otello è un personaggio tragico, per Emanuel è un uomo come noi, animato da una gelosia ingenua, è gentile come una fanciulla, non si può avere una rappresentazione di un personaggio tragico, se non nei modi semplici. Un attore deve recitare con verità. Lo stesso Shakespeare nella sua grandezza ha creato personaggi veri, è un gran verista della letteratura drammatica. Emanuel ci conduce alla naturalità della vita quale è vissuta, piuttosto che alle convenzioni artistiche della scena. Se il personaggio è serio e piange, l’attore deve stare serio e piangere, ma con naturalezza e verità, tanto vestito alla romana, che alla veneziana. L’Otello non è nell’esercizio delle sue funzioni, ma sullo sfondo della semplicità di un’ambientazione quotidiana. Si vuole recuperare un rapporto armonico fra
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uomo e natura. Il soggetto viene a trovarsi nell’oggetto naturale e viceversa. Si richiama la semplicità della natura, l’antropomorfismo, la simmetria in un rapporto orizzontale tra l’io e le cose. III Giovanni Emauel, Ermete Novelli, Eleonora Duse, Sarah Bernhardt fanno dell’arte nevrotica, quella che rispecchia il vero, la vita quale è vissuta. Gli attori debbono recitare come il pubblico parla. Non riproduzione fonografica di particolari, ma di tutta la vita. L’arte è un’armonia di verità e di bellezza. Emanuel non recita, ma parla, discorre e piange come un uomo, non come un attore. Il compito dell’artista è di sostituire l’uomo fisiologico all’uomo metafisico. Imitiamo l’uomo e prendiamo per maestra la Natura. Il mondo è scettico, crede alle cose naturali, niente enfasi, ampollosità, affettazione. Si vuole la vita, abbandonando il convenzionalismo teatrale. Vicino a Zola, il riconosciuto caposcuola del movimento naturalistico europeo. Un ritorno alla Natura e all’uomo, l’osservazione diretta, l’esatta anatomia. Si vuole ciò che è, l’artista secondo Zola non è un creatore di opere, ma registra i fatti. Le astrazioni sostituite con la realtà, le formule empiriche con le analisi rigorose. Non più invenzioni false, non più l’assoluto, ma personaggi reali, la storia vera, il realismo della vita quotidiana. Shakespeare non è teatro, è vita. Zola preferisce la via all’arte, cioè il naturale all’artificio. In riferimento a una replica del 1887 a Buenos Aires si afferma ne “L’operaio italiano” che non si è dinanzi ad un personaggio che si scorge solo nella scena di un teatro, si ha davanti un Otello dei nostri giorni, in una scena reale. IV Negli anni Ottanta improvviso il cambiamento, si parla di uno stile nervoso, di un’arte in cui il pubblico si specchia. Emanuel è un artista coscienzioso, un’artista che pensa e che vuol essere convinto egli stesso di ciò ch’egli fa, un artista che ha studiato, non periodo per periodo, ma parola per parola la sua parte. Alta
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elaborazione stilistica e nel contempo un linguaggio freddo, cerebrale. Reca sulla scena il pensiero più che il cuore d’Amleto. Dice il personaggio più che viverlo. Dalla metà degli anni Novanta Giovanni Emanuel si allontana progressivamente dal naturalismo e ciò crea una certa disaffezione del pubblico e un giudizio negativo della critica, sembra di non avere più l’artista riformatore. La bella, classica, limpida semplicità accompagnata da sentimenti di alta umanità che una volta costituiva la grande, mirabile energia dell’arte di Emanuel, cede ora in lui spesso a forme artefatte. Nell’ultimo periodo di attività teatrale subentra una certa monotonia di espressione a quella viva varietà di riproduzioni sceniche di un tempo. Il troppo amore e studio per la naturalezza, l’impegno e la passionalità perdono il calore della vitalità. Momenti diversi vissuti dall’Arte di Giovanni Emanuel: si illuminano di sempre nuovi modi rappresentativi, lasciano indelebili esperienze di genialità creativa nella storia del teatro, atte ad aprire cammini per più splendidi e gloriosi traguardi con il forte senso della verità e dell’umano. Leonardo Selvaggi
I FIORI RECISI I fiori recisi che tengo nel vaso mi fanno tristezza. Ne tolgo ogni giorno le foglie appassite, ogni giorno raccolgo i petali a terra caduti. Assisto impotente al loro declino ed è come assistere un malato finale. I fiori recisi che vedo nei vasi mi fanno tristezza. 5 gennaio 2021 Mariagina Bonciani Milano
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“UNA VERA ARTE” (Matteo Collura) - 12 -
DEDICHE a cura di Domenico Defelice “Pasqua 2011/Al meraviglioso amico Domenico,/con gratitudine e affetto/Anna” (volume: Anna Aita - Don Giustino tra storia e poesia, Edizioni Vocazioniste, 2011). *** “5 ottobre 2012/A Domenico con amicizia/e affetto/Anna” (volume: Anna Aita - Angelo Ambrosino - Il coraggio dell’amore (Storia dei nostri tempi), RCE Multimedia, 2012). *** “All’Amico Domenico Defelice/con i sentimenti del comune/amore per l’arte e la poesia/MaSqug” (volume: Maria Squeglia - La barca di piume (un viaggio d’amore e altre poesie), Genesi, 2010). *** “Al Dott. Domenico Defelice/per una lettura semplice,/Con profondissima stima/Ciro Rossi” (suo volume: Forme d’apparenza, Bastogi, 2009). *** “Con stima/a Domenico/Defelice/Angelo/Manitta” (suo volume: Capitoli Consuetudini e Usi Civici di Castiglione di Sicilia e in appendice Randazzo e Linguaglossa, Il Convivio, 2008). ***
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“A Domenico Defelice/molto amichevolmente/da/Guido Zavanone/settembre 2009” (suo volume: Il viaggio stellare, Edizioni San Marco dei Giustiniani, Genova, 2009). *** “A Domenico, caro amico mio,/scrittore fecondo e intellettuale/generoso, con affetto e/riconoscenza -/Giuseppe Leone/Pescate (LC) 6 aprile 2011” (suo volume: L’ottimismo della conchiglia Il pensiero e l’opera di Giuditta Podestà fra comparatismo e europeismo, Franco Angeli, 2011). *** “A Domenico/con stima e gratitudine/Giuseppe/21 giugno 2011” (volume: Giuseppe Napolitano - Genius loci Diciotto poesie per Normanno Soscia, Graficart, 2009). *** “A De Felice/Con preghiera/di rec./Nigro/VI -11” (volume: Nevio Nigro - Possiedo la tua assenza, Crocetti Editore, 2011). *** “A De Felice il/grande con preghiera di/una ampia recensione/Sono abbonato!/Nigro/III13” (volume: Percorsi d’autore, di Nevio Nigro, Giancarlo Pontiggia, Maria Luisa Spaziani, Eugenio Vitali - Blu di Prussia, 2013). *** “Caro Domenico/se mi fai una/breve recensione/ti ringrazio/tuo Nigro/17 -V - 11” (volume: Nei dintorni di Elicona, di Giorgio Bárberi Squarotti, Anna Maria Farabbi, Nevio Nigro, Antonio Spagnuolo, Edizioni Blu di Prussia, 2011). *** “Al caro Domenico Defelice/per una Sua attenzione/critica./Cordialmente./Valeria/Pisa 18.02.2012” (volume: Valeria Serofilli La parola e la cura, note critiche di Gianmario Lucini Con una raccolta inedita, Puntoacapo, 2010). *** “Al caro M…/”Nelle piccole/cose la ricchezza/della Vita: fulgidi/sogni che, ora,/divengono/realtà”/Con un fortissimo/abbraccio/Mi… e Mimì/Oppido M. 28 - 12 - 2013” (volume: Mimì Frisina - Pagine di diario, Depa edizioni, 2004).
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*** “Al Direttore Dott./Domenico Defelice,/con stima e cordialità/da Isabella Michela/Affinito” (volume: L’Autodidatta Rassegna Poesia Contemporanea XXII Edizione Artecultura 2005 Milano”). *** “Ricordo/di un ottantenne/stagionato./Cecconi/Venezia, Maggio 2014” (volume: Raffaele Cecconi - Il libro dei contrasti, Edizioni Giuseppe Laterza, 2013). *** “Un Omaggio alla redazione/della rivista/POMEZIA NOTIZIE/Buon Anno/Gennaio 2014” (volume: Filomena Iovinella - Il ritorno di Stefano, MEF L’Autore Libri Firenze, 2013). *** “Dono al Poeta Domenico Defelice/mis versos mi amistad/desde Madrid/Jaime Kozak/2016” (sua volume: Abrázate fuerte, Editorial Grupo Cero, 2016). *** “Cordialmente/Patrizia Pallotta/Febr. 2010” (volume: Patrizia Pallotta - Racconti senza polvere, EdiLet, 2009). *** “Maria Luisa Daniele Toffanin/Egregio Domenico De Felice,/con piacere le invio questo/saggio sulla mia poesia. In/appendice è inserito “Di traghetto/in traghetto per non morire” (volume: Pensieri nomadi. La poesia di Maria Luisa Daniele Toffanin, di Silvana Serafin, Studio LT2, 2011). *** “Con immensa stima al poeta/Domenico Defelice, pietra/miliare nel mondo delle lettere/di questo tempo./Elisabetta Di Iaconi” (suo volume: Altalene, Bonaccorso, 2016). *** “Torino, 10.7.14/Al Prof. Domenico/Defelice/Scrittore e poeta/con ossequi/LSelvaggi” (volume: Leonardo Selvaggi - Il percorso letterario di Vincenzo Vallone, Edizioni Eracle, 2014). *** “Settembre 2016/A Domenico Defelice/che conosce i segreti/delle piante,/questo libro di
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voli,/canti, ali, fischi/e cinguetti/con stima e cordialità/Giancarlo Baroni/- Baroni.giancarlo@alice.it” (suo volume: I merli del giardino di San Paolo e altri uccelli, Grafiche STEP, 2016). *** “Al prof. Domenico/Defelice/Stima e ammirazione/S. Pelizza” (volumetto: Susanna Pelizza/Vito Sorrenti - Visioni Culturali, Il Convivio Editore, 2016). *** “Con Cordialità/Angelone” (spillato: Leonardo Selvaggi - Antonio Angelone e il suo mondo ideale, EdiAccademia, Isernia 2013). *** “Al caro Poeta e Direttore/Domenico Defelice/con il mio vivo apprezzamento/e i sensi della mia profonda/stima./Andrea Bonanno/Sacile, 11/12/2016 -“ (suo volume: Van Gogh e la pittura “verificale”, Youcanprint, 2016). *** “Firenze, 18 marzo 2013/Alla gentile attenzione/di Pomezia Notizie/grata per una attenta/lettura/Anna Vincitorio/via Capo di Mondo, 78/50136 Firenze/t 055 678826” (suo volume: per vivere ancora, Guida, 2012). *** “Termoli, 16.5.2017/All’esimio/Dr. Domenico Defelice/con stima e amicizia/A. Crecchia” (volume: Antonio Crecchia - Mythos il fascino del mito antico, Ed.ac, 2017). *** “Verona 1.1.2017/Al carissimo Domenico Defelice/con stima ed affetto./Enrico Ferrighi” (suo volumetto: Carmina, Ed. PomeziaNotizie, 1983).
Invitiamo lettori e collaboratori a inviarci le dediche, indicando con chiarezza, però, nome e cognome degli autori, titoli dei libri sui quali sono state vergate, casa editrice e anno di pubblicazione. Grazie!
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Recensioni MANUELA MAZZOLA SENSAZIONI DI UNA FANCIULLA (Parte seconda), Supplem. al n° 9 (Settembre 2020), di “Pomezia-Notizie”, pagg. 60. Sembrava si fosse chiusa definitivamente quella ‘porta’ – ma non s’è udito alcun rumore – dietro le fragili spalle della postadolescenziale Manuela Mazzola, col precedente suo Quaderno letterario, sempre della collana “Il Croco”, titolato, appunto, Sensazioni di una fanciulla, in data dicembre 2019. Nessuno, nella Prima parte, prefatrice postfatore e autrice stessa, aveva fatto cenno ad una probabile prosecuzione di versi provenienti ugualmente da quella fresca età in cui lo studio, gli amici, la famiglia, gli svaghi, sembrano non essere piuttosto sufficienti alla completezza della persona, perché si sta cercando qualcosa di cui non si comprende ancora bene l’essenza e per questo procura insoddisfazione, desiderio di rimanere più a lungo da soli e in certi momenti inquietudine. E, invece, ecco il continuum della precedente voce della ragazza Mazzola, ora più cosciente e meno fragile per aver superato quelle vette acuminate che furono tanto care al pittore del Romanticismo tedesco, Caspar David Friedrich – dallo stile alquanto approfondito nella mia precedente critica relativa alla visione d’una sua opera pittorica che ha fatto da immagine di copertina al primo Quaderno suddetto – e adesso è stato posto in prima di copertina un lavoro artistico a colori della Mazzola, del sole nascente (o calante?) all’orizzonte di un ondoso mare davanti al quale oscillano degli esili steli di rada vegetazione. Nella fattispecie del nuovo scenario si presume che
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quella persistente solitudine che c’era stata prima, ora stia dileguandosi per lasciare il campo al «[…] sole che arde/ e che infiamma la valle/ le macchine che corrono verso la morte,/ le mamme che gridano il loro ruolo/ e i bambini che piangono l’infanzia./ Il vento bussa alla mia porta,/ chiusa per sempre,/ vuole che io apra/ e faccia parte di quel mondo./ Ma io sono una stella/ e per sempre farò parte del cielo,/ il cielo che mi coinvolge/ nel suo caotico movimento/ che mi ruba ogni secondo,/ che mi toglie il respiro/ e mi strappa l’amore. » (Pag. 30). Anche in questa riuscita circostanza la prefatrice, Marina Caracciolo, ha tradotto in tedesco le poesie della Mazzola e il direttore di “Pomezia-Notizie”, Domenico Defelice, ha ricoperto nuovamente il ruolo di postfatore, dando risalto a coloro che hanno concentrato l’attenzione alla passata raccolta poetica omonima con le relative note critiche, tra cui la sottoscritta. Anche un alito di collatio è stato da lui effuso per quanto riguarda una «[…] stratificata sensazione di Sturm und Drang, a suggerire a Marina Caracciolo la bella e partecipe traduzione nella lingua più acconcia del tedesco. Pomezia, primo luglio 2020». (Pag. 59). In effetti, quella forma di tempesta e impeto – Sturm und Drang – del tempo di Johann Wolfgang von Goethe, di cui fu il massimo rappresentante in Germania intorno al 1770, fu un movimento che inneggiava alla libertà, ai valori sacri del sentimento, alla vitalità tenuta prigioniera fino ad allora dal classicismo e barocco francesi, perché c’era stata l’epopea di Napoleone. Perlopiù coloro che ne fecero parte erano giovani e i giovani, si sa, hanno bisogno di spazio, di libertà fisica ed intellettiva, di amare per sentirsi vivi dentro e fuori, di fare progetti per delle giuste cause con l’autentica loro passione. Nel caso della poetessa Manuela Mazzola, si snoda tra i suoi versi quella fatidica tempesta e impeto quasi a voler spalancare le porte e le finestre dell’allora sua età giovanissima, di quando così scriveva: « Sento su di me il respiro del vento,/ lo stesso che nelle ossa mi penetra,/ che mi cambia, che mi rinnova./ Il respiro del vento che accarezza i prati/ dove sono nata,/ che trascina l’amore da un cuore all’altro./ Quello stesso respiro/ che mi porta da un mondo all’altro/ e che mi fa assaporare la vita. » (Pag. 26). Per amare la vita non ci vuole immobilismo ma progressismo, voglia di fare e disfare magari anche sbagliando c’è tempo dopo per valutare gli errori commessi, intanto si va avanti. Tutte le poesie, una dopo l’altra, sono la narrazione di com’era, come è stata Manuela Mazzola, cosa provava negli anni a cavallo tra la fine degli ’80 e l’inizio dei ’90 del se-
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colo oramai trascorso. Persino c’è una sua breve lirica, delle ore quattro meno un quarto di pomeriggio del 10 maggio 1987, dove la poetessa racconta la sua azione in tempo reale senza dolcificarlo d’elementi superflui, perché lei coglieva l’atmosfera così com’era anche nuda d’orpelli, sterile, informale. «In questo momento percorro/ la lunga strada della vita,/ con un sole accecante, da sola./ All’orizzonte non c’è nessuno,/ vedo solo catrame su catrame,/ che si scioglie e che fuma./ Tutto intorno a me è evanescente. » (Pag. 14). Alcuni suoi disegni, sulle tonalità del grigio, adornano l’interno del Quaderno, soprattutto raffigurazioni di cavalli – il simbolo equino è quello entrato nella costellazione zodiacale del Segno del Sagittario, l’arciere metà umano e metà animale quale fu l’immaginario centauro alla continua ricerca di terre su cui galoppare, per la sua smisurata sete di conoscenza e di dinamicità – nelle diverse pose, anche in gruppo. Da qui, l’evasione, reale o immaginaria, del Sagittarius che insegue grandi ideali, bisognoso di muoversi e di rinnovamento, altresì la ragazza Mazzola deve essere stata proprio così in quel periodo da lei raccontato in versi, nati da spunti occasionali fino a quando non è diventata, parafrasando il titolo del celebre romanzo autobiografico della scrittrice indipendente ante litteram, Sibilla Aleramo (pseudonimo di Rina Faccio), che per un breve periodo della sua vita ebbe una relazione tormentata col poeta ‘maledetto’ Dino Campana, Una donna del 1906, ora intestazione dell’ultima poesia della silloge della Mazzola. «Arrivò finalmente il tempo/ in cui io mi fermai dinanzi/ all’immagine di me stessa./ La guardai a fondo./ E vidi una donna,/ una giovane donna./ Pensai allora che/ a volte anche una donna/ può avere paura,/ può scambiare la realtà,/ può dimenticare un sogno./ Perché una donna è/ come un pensiero leggero/ un sorriso nascosto./ Come un fiore/ che sboccia all’improvviso./ Come un fiore/ che si volta verso il sole. » (Pag. 54). Isabella Michela Affinito
DOMENICO DEFELICE DOMENICO ANTONIO TRIPODI PITTORE DELL’ANIMA Gangemi Editore, 2020, pagg. 96, € 20,00 Presso l’Editore Gangemi di Roma è recentemente apparso un libro di Domenico Defelice che tratta dell’opera pittorica di Domenico Antonio Tripodi, intitolato Domenico Antonio Tripodi, pittore dell’anima. È questo un saggio che giunge quanto mai opportuno, dal momento che Tripodi è pittore di
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molto pregio e come tale è stato riconosciuto dalla critica sia italiana che straniera. Defelice nel suo ampio e ponderato capitolo introduttivo parla diffusamente di questo pittore, dandoci numerose notizie sulla sua vita ed esprimendo penetranti giudizi critici sul suo lavoro. Ci informa così dapprima che Domenico Tripodi è nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte, sesto di otto figli, da Carmelo Tripodi, anch’esso pittore e scultore di chiara fama. Dopo aver compiuto i suoi primi studi in Calabria, Domenico Tripodi si trasferì in Toscana, dove completò la sua formazione dipingendo dapprima nature morte, per passare poi agli animali e quindi all’ uomo. Ecco allora comparire nella ricca sezione iconografica I giovani cormorani, una tempera del 1979, alla quale fanno seguito Rapaci nel cielo d’Aspromonte, un olio del 1989; Cormorano, una tempera del 1985; Gallo cedrone, una tempera del 1988; Uccello blu, acquerello del 1987; Allodola che canta in cielo aperto, acquerello del 2002; Ala di gabbiano sul filo d’acqua, acquerello del 1986: tutte opere che rivelano in Tripodi un grande amore per questi figli dell’aria, colti con rara maestria in vari momenti della loro vita. Compaiono poi in questo libro Cavallo al galoppo, tempera del 1990, nella quale un cavallo in corsa pare portato dal vento e compare Famiglia di gatti, una tempera del 1983, dove questi simpatici felini si
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mostrano in tutta la loro eleganza e bellezza. Vengono poi le nature morte, come Carciofi, olio del 1983 e Aringhe su fondo rosso, olio del 1980, opere nelle quali domina il colore con particolare vivacità ed efficacia. Fanno seguito i paesaggi, quali Scilla la Mityque, olio del 1991; Torre Marrana, olio del 1995; Paesaggio umbro, olio del 1981; Cassinetta di Lugognano, china 1982; Piani d’Aspromonte, olio del 1976; La rupe e la fortezza di San Leo, olio del 1994; Capo Vaticano, olio del 1990; Tramonto sul mare, olio del 1990; Paesaggio lombardo, olio del 1980, china del 1982, tutte opere nelle quali, oltre all’ aspetto cromatico, assume particolare importanza anche il disegno, che nettamente ne delinea i contorni. Ciò che però maggiormente colpisce nella pittura di Domenico Tripodi è la figura umana, specie quale affiora da alcune teste che s’accampano, emergendo dallo sfondo, come quella del Filosofo, una tecnica mista del 1984, raffigurante un volto adornato da una lunga barba, che guarda intensamente avanti a sé e che sembra assorto in profondi pensieri. Altre teste umane che compaiono in questo libro sono quelle del poeta Antonio Martino, acquerello del 1999, particolarmente espressivo per la durezza dei tratti del volto e quelle di Manfredi, tempera del 1990, dove in condottiero sconfitto appare caduto al suolo, immerso nel suo sangue, col capo emergente dall’elmo che gli sfugge. Figura antica, tempera del 1986, è invece la rappresentazione di un uomo che guarda lontano e che pare rapito nella contemplazione di un evento a noi ignoto. Segue da ultimo una sezione intitolata Dante e Tripodi, che contiene una tempera raffigurante La fine di Ulisse, ispirata dal Canto XXVI dell’Inferno dantesco, dove è colto il momento in cui la nave, sollevata da un’onda gigantesca, s’inabissa nei flutti e un’altra immagine, quella di Ulisse (un olio del 1998), che lo raffigura mentre guarda con stupore l’incendio di Troia ed è illuminato, da una luce intensissima. Ci informa poi Defelice che l’amore per Dante ha portato Tripodi a comporre circa centocinquanta acquerelli su diversi episodi della Divina Commedia, poema del quale il nostro pittore è un validissimo interprete. Il libro contiene anche un’intervista di Defelice a Tripodi, con la quale gli vengono fatte significative domande sulla sua visione del mondo e sul suo modo di concepire l’arte in generale e quella della pittura in particolare; domande alle quali l’intervistato risponde in maniera puntuale e coerente, sicché netta ne emerge la sua figura di uomo e di artefice Un libro ottimamente elaborato e compiuto questo
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di Domenico Defelice, che si pone tra i suoi più riusciti nel campo della saggistica; il che è anche dovuto al fatto che Defelice è oltre che poeta e prosatore di talento, anche un valente pittore, come i suoi ormai molti quadri stanno a dimostrare. Elio Andriuoli
DOMENICO DEFELICE NON CIRCOLA L’ARIA Genesi Editrice, Torino 2020, Pagg. 210, € 12,00 Domenico Defelice non ha bisogno di presentazione, conosciuto anche fuori dai confini nazionali, poeta, saggista e operatore culturale, vanta una vastissima produzione, la più recente delle quali si intitola Non circola l’aria, con in copertina “La battaglia fra il Carnevale e la Quaresima”, di Pieter Bruegel. Bella e concettosa si presenta la presentazione a firma di Sandro Gros-Pietro, editore e fine letterato, nella bandella di quarta copertina, che la lettura conferma. Un prezzo contenuto per un così interessante volume di ventuno racconti: ivi troviamo di tutto, senza esagerazioni, nei contenuti, su un substrato pedagogico e divertente, dal farsesco al favolistico, dalla denuncia di fenomeni malavitosi e mafiosi, al sociale e al politico. Il tutto accompagnato da bellissime descrizioni naturalistiche, e ca-
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ratterizzazione dei soggetti e degli oggetti che si incontrano, in una prosa scorrevole e vivida che non stanca; una prosa rappresentativa per proprietà e ricchezza di linguaggio; e non solo. Il momento storico che viviamo, mi aveva suggestionato facendomi pensare all’aria che viene a mancare, per via della pandemia che va sotto il nome di Covid-19; ma ci torneremo su. È ammirevole la capacità di tessere storie intricate con semplicità, con penna e parole usate come ago e filo, per comporre un piacevole ordito. Un filo rosso sottile lega tutte le storie narrate, sia in prima, sia in terza persona, conducendo all’Autore, cioè al suo vissuto. I personaggi e i luoghi, teatro degli avvenimenti, sono reali, salvo quelli dichiaratamente farseschi. Vero è che degli episodi bellici e del dopoguerra sono pieni i libri, specialmente da parte di autori allora testimoni, ma le descrizioni ambientaliste e dei comportamenti umani costituiscono veri e propri esempi da imitare come testi classici. Tutto scorre senza pedanteria o pretesa culturale. La lettura si presenta piacevole e merita che ci si soffermi traendone utili considerazioni. *** Domenico Defelice apre con “Il pesce (g)rosso” (con la g entro parentesi) nella doppia lettura del colore del pesce, entro un acquario, e della mole di un delinquente omicida che continua a fare il gradasso, ma che finisce i suoi giorni, per mano di un solerte comandante dei Carabinieri (Pellegrino) il cui padre era stato assassinato dal “boss” (Facciadibronzo). In questo racconto il sogno dell’acquario che finisce per terra, diventa presagio di morte. Nelle vesti del protagonista (Ernesto), direttore vessato di un giornale locale, e nei suoi tre bambini (Luca, Gabriella e Stefano) che ammirano i pesci dell’acquario, troviamo l’Autore e i suoi figli; inoltre i personaggi sono originari della Calabria (terra d’origine del Nostro), trasferitisi nel Nord. In “Una lettera d’addio” viene dichiarata la gelosia di un giovane innamorato calabrese, i moti dell’animo sono tumultuosi, quasi farneticanti in questi frangenti, alla fine decide di allontanarsene e a nulla valgono altre promesse di lavoro per restare sotto lo stesso cielo. In considerazione della differente statura fisica fra i due, l’innamorato decide di ritirarsi concludendo: “Tu sola sei e resterai l’amore vero. Ma l’amore è libertà, è non fare soffrire gli altri.” (p. 51); direi trattarsi di una consolazione filosofica. I posti di lavoro descritti versavano in pessime condizioni igieniche. Riscontriamo un elogio alla Calabria, terra ricca d’antiche testimonianze, come la città di Crotone. Il terzo racconto “Fagioloni giallosé” è molto divertente; ha per protagonisti un venditore
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ambulante, che si sposta con un traballante triciclo, bisognoso, che grida i suoi prodotti, fino a farsi seccare la gola anche per la fatica del percorso irto e in salita, e una donna al cui marito era passata la “voglia”. Il malinteso sulla varietà dei fagiolini, costringe l’ambulante, suo malgrado, a stare ad assecondare la donna nel farle credere che si trattasse di prodotti “afrodisiaci”, tanto che la donna decide di acquistare per intero il carico e il venditore può rientrare e provvedere al fabbisogno della famiglia, “la moglie macilenta e la nidiata affamata dei figli”. Nel quarto racconto Domenico Defelice si appalesa in prima persona, di quando era un ragazzino, all’indomani del Secondo Conflitto Mondiale ne “La banda tedesca”. L’epilogo era ormai chiaro e un “ducetto”, per coscienza o per calcolo, avverte tutti i suoi compaesani che i tedeschi stavano risalendo dopo lo sbarco anglo-americano in Sicilia (a Gela, 10 luglio 1943). Si avvicendano così episodi di paura e di apparente tranquillità; la razzia di derrate di ogni genere, animali da carne confiscati ed uccisione degli stessi con ferocia inaudita, perfino del cane di nome Cupo al quale il ragazzo era molto affezionato, che adesso gli “giaceva accanto in una pozza di sangue, le carni letteralmente maciullate” dalla scarica di proiettili. I Tedeschi prima di andare salutarono militarmente il padre si giustificarono in uno stentato italiano “Nnoi ucciso cane, perché ora ffoi non affere più nulla per sfamarlo!”, che sa tanto di beffa. L’epopea prosegue nel successivo racconto “Un miracolo” (V). Il padre del Nostro dà sepoltura al cane, lontano dagli occhi del figlio. Andati via i Tedeschi, le popolazioni si devono riparare dai bombardamenti degli Alleati. Nonostante lo sfacelo le famiglie non perdevano la fiducia, ragazzi e donne si prendevano cura di spannocchiare “staccando il cartoccio da càule con un deciso strattone”. Miracolosamente avevano sfiorato la morte più volte e qualcuno dei vicini è stato meno fortunato della famiglia del piccolo Domenico. L’autobiografia continua in “Due lampi nella notte” (VI) che ci riporta al Defelice 15-enne, dell’esperienza scolastica, quando viene fortemente deluso dall’insegnante di matematica durante una lezione di trigonometria fuori programma, su “seno e coseno”, insensibile e privo dei rudimenti pedagogici necessari, che usava pugni e calci e si prendeva gioco degli studenti. Riprende la terza persona ne “Il rosso succo dei sicomori” (VII), piante appartenenti alla famiglia delle moracee, i cui frutti, come si sa, sono dolci. Mentre la giovane Marilisa si arrampica su uno di essi divaricando le gambe per sorreggersi,
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Gionata, senza malizia, scambia per ingordigia il liquido rosso che scivola dalle gambe ben “tornite e slanciate come giunchi, il pube appena appena velato da una grigia peluria”. Ne “La fonte canora” (VIII) abbiamo il colono Giuseppe e la moglie Rosa (genitori del Nostro) che ricevono, come ogni anno, il proprietario rimasto vedovo di Artemisia, in visita nel proprio podere. Un paradiso perduto dell’infanzia, un eden da sogno, pittoresco, bucolico e pastorale: greggi che belavano, galline che saltavano, ecc., un torrentello e lo zampillo di una fontana cui andavano ad abbeverarsi armenti e persone che venivano presi d’allegria. Donne che cantavano durante i lavori, domestici o nei campi, e uomini rigorosi che davanti alla fontana diventavano canterini. Lo stesso padrone della tenuta, scettico, dovette cedere al fascino della fontana. “Non circola l’aria” (IX) titolo eponimo. Assistiamo alle lagnanze fra due vicini per via della messa a dimora di una varietà di rose lungo il confine di trenta metri. Il confinante, aizzato dalla propria moglie, lamentava che in tal modo “non circola l’aria” proveniente dal mare, così che l’altro, stufo delle lagnanze, estirpa le piante. Dopo poco tempo senza più dovere annaffiare le sue rose, il proprietario rinunciatario, si gode il sole sdraiato mettendosi in bella mostra in “tenuta adamitica” e facendo gli occhi dolci alla moglie del vicino quando questi era assente. Dopo qualche tempo avviene così che questa donna lusingata pianta le rose dalla sua parte apostrofando il marito che si trattava di “rose speciali, grullo!” che non avrebbero impedito all’aria di circolare. “Il mercante” (X) commissiona a un pittore di dipingere la modella secondo il suo gusto estetico. Ma nel dipinto lamentava la mancanza dell’anima, fin quando a un certo momento, alla vista del dipinto sensuale, avverte il pittore di arrestarsi, era finalmente soddisfatto; paga quanto dovuto e porta via la tela, con mortificazione dell’artista. In “Umanali” (XI) le persone trasferiscono le proprie passioni sugli animali domestici. Romolo e Pecorino sono due cani, ai quali marito e moglie, senza figli, affibbiavano epiteti tipo il “bello di papà” e il “bello di mamma”. L’uomo definiva il primo, macho, vantandosene, e il secondo finocchio. Ma si verifica che un giorno il cane “virile” torna a casa squarciato fino a morirne ad opera di una gatta del vicinato, di nome Camilla, la cui proprietaria, vedendola senza occhi e senza una zampa, urlava: “Figlia mia, gattina mia!” “Santa Prunella” (XII). Il nome di Pru-
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nella è stato ispirato ad un uomo poco prima di diventare padre per essersi punto con l’aculeo di un pruno. Ciò detto la bambina non ha il giorno da festeggiare l’onomastico, se non quello di Ognissanti (1° novembre). Cresce con il desiderio di diventare una “santa” così da essere inserita nell’annuario dei santi. Ed in effetti conduce una vita timorata da Dio, sana, bella e colta; sennonché all’età di quasi trent’anni alla vista di un giovane corpo cede alle richieste d’amore. Sposa, madre e nonna non aveva nulla da rimproverarsi se non il rammarico per avere rinunciato a farsi santa. Salì in cielo sentendo una voce: “Amate con purezza e coltivate i miei fiori. L’Amore è tutto. La Poesia è Amore!” Domenico Defelice riprende la prima persona non resistendo al ricordo della sua “Topolino”, la mitica “500, Amore mio!” (XIII), acquistata con una montagna di cambiali a Gioia Tauro, magari risparmiando sull’alimentazione e nutrendosi di Poesia, di amicizia e di avventure amorose, come con Teresa prematuramente scomparsa; ma si aggiungono altre bellezze come Paola, Gisella, Elena, fin quando non conosce la futura moglie: Clelia, con la quale ha girovagato in largo e in lungo, soprattutto a Roma. Un elogio più appassionato non poteva farsi alla mitica 500! Ed è così che ha voluto ricordare cari amici come Gerardo Raffaele Zitarosa, Rocco Cambareri, Adelchi Spinelli, il Teologo, Aldo Onorati e tanti altri come la poetessa francese Solange De Bressieux, Franco Saccà, Rosario Lo Verme, Nino (Pensabene) e la voluminosa moglie Giulietta (Livraghi Verdesca Zain), Geppo Tedeschi, Nino Ferraù. Ha conosciuto e frequentato colossi della Letteratura Italiana come Francesco Pedrina, il grande invalido Carlo Delcroix, Ettore Serra. In “Ah, Susanna!” (XIV) un sogno ingarbugliato lo ha fatto ritardare all’incontro all’aeroporto di Ciampino alla cara amica, una “bellissima bionda incontrata all’Università”. Sperava di ripetere le strette e i palpeggiamenti. Ma giunto sul posto e lasciata la mitica 500, senza chiuderla, fatta una ricognizione, ritrova l’auto con un biglietto incollato a un palo vicino che recitava: “Ho trovato un passaggio. Susanna”. In “Naufragio” (XV) una coppia di sposi, Babel ed Evelina, su prenotazione dei figli, fa una crociera nel Mediterraneo, in cui è prevista la sosta di un giorno a Messina. L’uomo è un insegnante in pensione e poeta. Nell’occasione della sosta a Messina una operatrice culturale, “donna bellissima e formosa” lo invita a ritirare un premio del Peloro d’Oro, alla carriera. La moglie messa al corrente ne è gelosa e tiene il broncio. Qui abbiamo descritto un uomo dedito al lavoro e a risparmiare per
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la famiglia, a svolgere in contemporanea varie attività fra le quali quella di agente della SIAE per cui aveva ricevuto minacce avendo riscontrato irregolarità e fatto denuncia ai Carabinieri per sistemare le cose; ma ha dovuto smettere tale attività durata cinque anni. Un excursus nella memoria lo riporta a quando insegnante negli anni Settanta (del secolo scorso, ovviamente) non si potevano redarguire gli studenti, molto difesi dalla sinistra politica. Dopo la premiazione riprendono il viaggio e a seguito dei marosi avviene il naufragio, l’unica vittima è l’insegnante sognatore. “La signora Lilly” (XVI) è una donna nata malformata e per questo palesemente bruttina. Veniva evitata fin da bambina. Laureata e ottima preparazione tutti la scansavano fin quando grazie all’interessamento di un sacerdote viene assunta dal Comune come operatrice ecologica. Lavoro che accetta e svolge con lode, specialmente per la cura che si prende del verde con gli irrigatori che facevano divertire i bambini, fra cui Riccardo, nient’affatto spaventati e che l’ammiravano esclamando: “Brava signora Lilly!” Defelice spiega che è “Perché i piccoli ai mostri sono abituati attraverso la razione giornaliera di cartoni animati” sono i pregiudizi degli adulti che fanno male. Riprendendo la prima persona, in “Un brutto sogno” (XVII) descrive un episodio confuso con l’epilogo di un incidente stradale a Roma in cui muore un conducente d’auto; discorsi animati a Pomezia e dintorni, discorsi sulla politica al bar da parte di clienti su Bersani e Berlusconi, Fini e Casini (riferimenti che marcano il tempo storico degli anni Novanta). Destato da una telefonata apprende che ad Anoia è morto uno zio materno. Qui, in “Boss senza volerlo” (XVIII) si riferisce al suo alter ego, Aneba, e nomina località che riconosco reali, avendone conoscenza, come via dei Peschi. Quando, vicino al cancello del proprio appezzamento, dopo la chiamata dell’amico Tito, riceve minacce da un boss della zona (Faccia tagliuzzata), che a tutti i costi voleva acquistarne il terreno. Il proprietario mette la mano in tasca per prendere le chiavi del cancello, “le quali strofinando l’una sull’altra produssero il metallico suono di un clic.” Ciò intimorì i malavitosi credendo di trovarsi difronte a un boss più cattivo di loro, così non diedero più fastidio; mentre il nostro protagonista se la stava facendo addosso, letteralmente. In prima persona si dichiara “In viaggio con Google” (XIX) poiché un giorno una laureanda, che intendeva scrivere la tesi sul Nostro, “navigava” su internet. Così Domenico Defelice per rispondere alla studentessa sulla propria vita, insieme con lei si
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mette “in un viaggio con Google” visitando attraverso le mappe e lo stradario, molti posti della propria vita e raccontando di sé: il campo di Baldes che il padre lavorava a colonia, racconta di qualche diverbio fra i contadini, la vita di campagna; ricorda che alle medie aveva un “burbero insegnante” di lettere e per migliorare la lingua il ragazzo Domenico va in una libreria per acquistare dei libri, ma inesperto si affida al proprietario il quale, senza dire una parola, gli vende tre volumi di Emile Zola che erano “Nanà, Il paradiso delle signore e Il fallo dell’abate Mouret; il loro contenuto non era certamente edificante, né adatto alla mia età” (p. 170). Ricorda le elementari e la dolce maestra, qualche compagnetto; riporta qualche diceria del luogo, Anoia, di una donna ingravidata da un prete. Infine commenta di non riconoscere più il suo antico Eden. Riflettendo sulla morte, confessa: “m’è difficile reprimere nella memoria tutti quei flash a catena di vita trascorsa, di atteggiamenti, non risentire parole e suoni usciti da quelle bocche, e tutto ciò in me provoca una tale dolorosa oppressione da rimanerne a lungo schiacciato.” (p. 164). Ecco così ricordare il padre, Peppe, la madre Rosa, i nonni materni Antonio e Carmela, e paterni Domenico e Annunziata, e altri. “Khalid” (XX) è un mendicante che in una città del Marocco, viene assoldato con la promessa di espatriare, a condizione di eseguire un attentato dinamitardo durante una cerimonia ufficiale. Così causa parecchi morti. L’ultimo racconto “Miracolo a Natale” (XXI) è una favola a misura di bambini, ma riflette una realtà che è lezione per gli adulti i quali escludono dalla vita di relazioni le persone fisicamente diverse, come succedeva in tempi antichi, per esempio fra gli Spartani. Teatro del racconto è un circo equestre dove tutti i protagonisti, persone e animali, sono denominati con nome e cognome che si ripetono al contrario per esempio come la bellissima Fortunella Delle Rose o Delle Rose Fortunella, l’incantatrice, fulcro d’attrazione; così gli elefanti come Sonia Comparsita o Comparsita Sonia, le capre, ecc. Tutti si infastidivano se venivano rovesciati nome e cognome, tranne due: il cane poliziotto Dick Dick e Chow Chow. L’elefantessa dà alla luce un cucciolo storpio e il Gran Consiglio circense con dispiacere ne medita la soppressione; sennonché durante uno spettacolo l’elefantino, sfuggendo all’attenzione, entra nella scena e dà spettacolo di sé con gran gioia. Insperatamente, l’episodio fuori programma, segnò la sopravvivenza dell’elefantino che pertanto fu denominato Natalino Trottola o Trottola Natalino. Tra i piccoli spettatori dello show assistono Riccardo, Valerio, Leonardo e Mattia. ***
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Osserviamo che Domenico Defelice espressamente ha aperto con un riferimento ai propri tre figli e concluso citando i quattro nipotini, volendo con ciò rappresentare la prosecuzione della vita. Chi abbia letto i suoi libri ritrova corrispondenza con le sue esperienze lavorative, riscontra i riferimenti agli Istituti scolastici frequentati da studente, come il “Piria”, e qualche altro come insegnante. Si riscontrano luoghi e personaggi, molti dei quali si trovano descritti nelle sue opere; si rivelano le sue passioni, per la pittura, per le piante come in “Arturo dei colori” (1987), “L’orto del Poeta” (1991). “Diario di anni torbidi, Anni Sessanta” (2009), “Alberi?” (2010) e in altri ancora. Scorrono con discrezione considerazioni socio-politiche e riflessioni intime. Ma non si creda che ci si trovi solo dinanzi a ripetizioni, perché questo volume a differenza degli altri, si presta ad una lettura per tutti, prescindendo dall’età e dalla cultura, perché presenta vividezza descrittiva e semplicità. E proprio quest’ultimo aspetto costituisce la vera ricchezza del libro che è tutta da gustare: ho indicato solo la superficie, ma nell’anima presenta pura pittura, poesia pura. Tornando al titolo, “Non circola l’aria”, ne troviamo il riferimento in quattro o cinque luoghi (pp. 91, 136, 143, 162), fin quando viene affermato che l’aria circola, per voce di una donna (Silvana, nome appropriato) che prima ne era stata ostile. Riflettendo mi pare che si possa associare l’espressione negativa alla “mancanza di comunicazione” (mie virgolette) e quella positiva alla presa di coscienza. E tornando sulla pandemia, dico che la mancanza d’aria non ci fa parlare, ma se l’aria circola, allora riprendiamo la favella e a vivere. Tito Cauchi
NICOLA PREBENNA IN RIME SPARSE In copertina, a colori, “Bosco in primavera”, di S. Innaco; Prefazione di Giuseppe Manitta – Il Convivio Editore, 2020, pagg. 80, € 10,00 Nicola Prebenna è poeta semplice, che non ama sgomitare per stare sulla scena ad ogni costo; due pilastri lo sorreggono: “amor di consorte e affetto filiale”; “Sono pago della beatitudine/della famiglia – scrive -, non nutro propositi/di sterile orgoglio” “e di spazi aperti nel cielo della celebrità”; si appaga di poco, non mira alla ricchezza; la sua casa non è la baracca di Terimaco, ma neppure una reggia, ha un balcone, dal quale egli può godersi l’odore e la vista di “ciuffi di ginestre nel pieno del loro splendore” e, confessa, “dall’alto del mio terrazzo fisso/immobile
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le orse che vegliano sui miei sogni”; Terimaco non aveva terrazzo, la sua stamberga era una cosa sola con il manto di stelle, ma l’appagamento del vecchio bovaro e del poeta moderno è decisamente lo stesso. A una prima lettura di In rime sparse, si rimane perplessi. Prebenna usa periodi lunghissimi che, come minimo, disorientano. In “Al canto del gallo”, per esempio, il punto fermo lo si incontra al ventesimo rigo ed ogni verso non è stentato come avviene in gran parte della poesia moderna: non scende mai, o quasi, al di sotto dell’endecasillabo; “Arlecchino”, ancora, è tutto un lungo brano, appena sezionato da tre punto e virgola al 2°, 10° e 14° verso; si potrebbe continuare, ma pensiamo che basti. Un periodare, insomma, che non aiuta chi ha fretta, che costringe a più letture se si vuol venire a capo di concetti e temi, che son vari e tanti e, a volte, intricati. È nella ripetuta lettura che si scoprono armonie, tra rime interne, assonanze, anafore e tante altre figure metriche. In “Nero seme”, per esempio, “consolatore”, del primo verso, rima internamente con “cuore” del secondo e con “parole”, assonanza del terzo; “attesa”, del nono, con “”presa” dell’undicesimo e ”impresa” del dodicesimo; in “Sul filo di lana”, “lista”, all’interno del secondo, con “vista” all’interno del terzo e, sempre a caso, rileviamo, nello stesso brano, l’assonanza tra “cari” del quinto verso e “assale” all’interno del settimo. Anche per questo aspetto si potrebbe andare avanti a lungo con le citazioni. Veniamo, invece, ai temi e alle immagini. In cima ai sui pensieri e ai suoi affetti – accennavamo - c’è la famiglia, ch’egli intende guidare accortamente e premurosamente; il poeta esulta, in conseguenza, allo sbocciare di nuove vite, ai “vagiti impauriti/di bimbi vogliosi di crescere e durare” e grida come un antico patriarca: “Benedico per ora il tuo arrivo, Simone”. Abbiamo già accennato a come, dall’alto del suo terrazzo, il poeta ami contemplare le stelle; lo affascinano i segreti, i misteri dell’universo, nei quali “l’uomo ha osato penetrare/e tante risposte ha trovato”, ma sono appena un’inezia, giacché non è facile, per esseri finiti quali siamo, arrivare a totalmente comprendere la “moltitudine infinita/di mondi lontani e senza spiegazione”. Né cognizione perfetta abbiamo del “fiume/del tempo che tutto accoglie e tutto/cancella”, versi che ci riportano all’immagine insuperabile del Foscolo dei Sepolcri: “e l’uomo e le sue tombe/e l’estreme sembianze e le reliquie/della terra e del ciel traveste il tempo”. Il sociale lo troviamo nella pena che gli “fanno i vegliardi/dallo sguardo fisso a terra curiosi/solo se domani il sole tornerà/ad illuminare gli usci delle loro case”, o in quella quasi favola ch’è il saluto
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dell’elefante ai piccoli convenuti al circo. All’apparenza, la sua è una vita felice, perché i padroni lo trattano bene, lo nutrono, lo istruiscono; anzi, ai padroni bisogna essere grati perché l’han tolto dalla savana, assordata dai lamenti dei propri fratelli che giornalmente cadono sotto i “colpi precisi e profondi” “di uomini cattivi e senza scrupoli”. Lasciamo, naturalmente, al lettore rilevare l’ironia e meditare sulla attività dei circhi, sulla caccia, sulla crudeltà, in genere, di allevare e tenere in cattività animali che potrebbero vivere in libertà e felici nell’aperta natura. La Natura – “madre/di tutti” – è ben presente nella silloge. Allegoricamente, l’estate è la “monotona/lunga stagione”, mentre è “triste e lungo (l’) inverno”; l’autunno è un Arlecchino che si annuncia “da scrosci improvvisi/di pioggia”, immagine che ce ne richiama un’altra insuperabile, quella dell’Autunno di Vincenzo Cardarelli, dalle “piogge di settembre/torrenziali e piangenti”. La Natura, anche se “incolpevole”, provoca disastri immani, ma, spesso, questi hanno origine dalle sconsiderate devastazioni dell’uomo; basta pensare agli incendi dolosi che ogni anno distruggono ambienti, animali, foreste. Prebenna ce ne dà uno struggente esempio in quei cipressi “in parte vivi in parte mutili”, assaliti dalle “lingue di fuoco/che macchiarono gli abiti (…) in festa/protesi all’abbraccio della luna chiara/ ed alta sulla campagna” e in quel suo esultare appena li vede ritornare in vita: “Vi vedo in parte rinati e con voi mente/e cuore che per un po’ arrecano conforto/ai viandanti sorpresi dal fuoco che ferisce./Abito nuovo per voi la primavera prossima/appresterà”. Chiudiamo con la visione della “immensa distesa del mare/onde bianche che s’increspano/e dileguano e risorgono/altrove e con nuova lena, ed è tutta/una tela cosparsa di spume/bianche”, vera e propria tavolozza. Domenico Defelice
ALFIO GRASSO ANTICHI VERSI CONTADINI L’agricoltura nella poesia dialettale di Placido Cavallaro (1784 – 1866) Nero su Bianco Ed., 2018 – Pagg. 118, € 12,00 Un tecnico e professionista della legislazione agraria legge e ci presenta, svelandoci segrete armonie, i versi di un contadino poeta, esperto, onesto, timorato, lungimirante. Il primo è Alfio Grasso, professore alla Facoltà di Agraria nelle università di Palermo e Reggio Calabria; il secondo, Placido Cavallaro, il poeta “burgisi”. Entrambi di Biancavilla, in
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Sicilia: Grasso, fine studioso del nostro tempo; Cavallaro, preparatissimo maestro agricolo a cavallo tra Sette e Ottocento. Placido Cavallaro nacque nel 1784 e morì nel 1866 e per tutta la vita coltivò con arte e competenza terra propria e altra in affitto (da ciò il termine “burgisi”); essendo, però, poeta nato nel vero senso del termine, cantò usanze e pratiche dell’agricoltura in genere e, in particolare, del frumento, della vite e dell’ulivo; di conseguenza, anche del pane, della pasta, del vino e dell’olio, prodotti da essi derivati; un vero affresco in materia, di storia e di costume. In verità, Cavallaro non mise mai sulla carta le sue poesie, analfabeta com’era; i suoi versi orali, intensi e pieni di armonie, sono stati da altri successivamente raccolti e pubblicati. I lavori e le coltivazioni agricoli cantati da Cavallaro riguardano soltanto l’ambiente ristretto di Biancavilla, però – afferma Grasso – essi “non erano tanto diversi da quelli praticati dagli altri contadini siciliani” e prosegue: Cavallaro può considerarsi un contadino “organico”: “Egli, per la sua azienda e per l’insieme dei lavori agricoli, aveva una capacità tecnico-organizzativa nel pensare, nel sentire e nel programmare il regolare svolgimento del processo produttivo e nel dispiegare le diverse mansioni attribuite ad ogni singolo addetto ai lavori. Cavallaro, per il modo in cui sentiva l’arte agricola voleva insegnarla ai suoi “discepoli”, ma soprattutto sentiva l’esigenza di un attento approfondimento agro-culturale, nonostante le sue conoscenze non fossero state apprese a scuola, ma rozzamente sul terreno pratico”. Cavallaro, insomma, è stato un contadino che dell’agricoltura conosceva ogni segreto, esperto di potatura, lungimirante nei cambiamenti, nel senso che sapeva apportare migliorie assolutamente rivoluzionarie per il suo tempo; a suo modo, egli era assai colto, sebbene il suo sapere avesse origine completamente dall’oralità; era, pure, sinceramente religioso. Un lavoro godibilissimo e non solo per i versi che Alfio Grasso riporta in abbondanza, ma anche per la esposizione stilistica e critica, esprimendosi, egli, con semplicità lineare, assolutamente priva di retorica. Spontanei quanto precisi e poetici i disegni di Antonino Distefano. Domenico Defelice
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AA. VV. STIAMO TUTTI ASPETTANDO DI SMASCHERARCI Antologia di poeti cinesi, a cura di Zhang Zhi, edita da The world poets quartely –Marzo 2020 pp. 104 € 20 La penetrazione nella cultura poetica cinese della nostra rivista culturale Pomezia - Notizie, è stata così forte e sentita che quasi da subito il poeta, critico, traduttore ZHANG Zhi, ha contattato il direttore Domenico Defelice inviando poesie di autori del suo paese, ma soprattutto chiedendo che gli venissero segnalati poeti italiani da inserire nella prestigiosa rivista da lui fondata: The World Poets Quarterly. Ovviamente il direttore Defelice è stato felicissimo di questa grande opportunità e nel contempo anche di questo immenso onore riservato alla sua creatura di carta. Ma le soddisfazioni per un lungo e duro lavoro sono venute non solo dalla pubblicazione in lingua cinese dei suoi versi, ma anche di aver ottenuto una sua foto in prima pagina nella succitata rivista di Zhi. Ma questi fatti, che chiamiamo esteriori, sono secondari a quello che è diventato in seguito il più serio rapporto di scambio culturale tra Italia e Cina a livello poetico.
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E a coronamento di questo scambio tra Domenico Defelice e Zhang Zhi, quest’ultimo ha redatto e stampato un volumetto, nel quale ha raccolto dieci poeti cinesi di prestigio. E per la grande considerazione che ha di Pomezia Notizie, ha posto come rispetto tra gli editori anche la testata del Defelice. La Lidia Chiarelli, contattata da Zhi, ha tradotto dall’inglese in italiano due poesie (pag. 17 e 54), proponendoli così come voluto da Zhang Zhi ai lettori e agli operatori culturali del nostro paese. Il resto dei poeti cinesi è stato tradotto dall’inglese dal nostro direttore Defelice. Ne risulta un volume bilingue (inglese- italiano), di notevole interesse per la comprensione dell’attuale momento culturale della Cina. Ovviamente come accade per tutte le trasposizioni dalla lingua originale, c’è qualcosa che si perde nel senso, nei modi di dire, nelle citazioni, ma Defelice, da ottimo poeta quale egli è, ha saputo rendere il contesto vicinissimo al gusto e alla delicatezza che contraddistingue questo popolo asiatico. La raccolta prende il titolo da una poesia di CHEN Hongwei, che tradotta suona così: Stiamo aspettando tutti di smascherarci. Dei dieci poeti (otto uomini e due donne) raccolti nel volumetto vengono proposte di ognuno tre poesie nella traduzione in inglese dal cinese e la relativa trasposizione in lingua italiana, come già detto, dalla Chiarelli e dal Defelice. Vi è ancora, alla fine di ogni poeta, una breve analisi del contenuto dei versi a opera del solo Defelice, unitamente ad alcuni cenni biografici sui vari autori. Materiale non nuovo in quanto nel corso delle pubblicazioni fatte nei vari numeri della rivista P. N., il Direttore ne aveva già parlato con dovizia. Quello che si evince subito in questi poeti, anche dalla semplice lettura dei titoli dei poemi, è il forte legame alla loro terra e in modo particolare a ciò di cui la natura le ha fatto dono. Notiamo quindi il trasporto per la montagna, il fiume, i fiori, gli uccelli, il cielo, le nuvole, il respiro del mondo. Si dicono tante cose stupidamente superficiali, direi occidentali, sulla Cina, ma i cinesi invece sono un popolo contento. Per il fatto che esiste una coesione sociale pur nella differenziazione. Il contadino, il politico, il ricco, il poeta, l’impiegato, la donna, i vecchi, i giovani sono differenti, ma costituiscono un blocco unico che si chiama Cina. Inoltre, a differenza di noi occidentali, la libertà è vista come una coniugazione rispettosa tra autorità e disciplina. Lasciando fuori il concetto di autocrazia: che è altra cosa. Concetti da noi molto più labili, per questo diciamo che in certi paesi vi è poca libertà. Anche se non possiamo escludere, che spesso si è
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costretti a dovere indossare delle maschere. E la lezione ci viene da questi versi della poesia eponima della raccolta, e scritti da CHEN: Tutti ci aspettiamo di vivere, almeno agli occhi degli altri/una vita decente./Indossando maschere, decentemente/viviamo. Certo è un popolo anche di languori, di melanconie, di solitudini, ma a chi non appartengono queste cose. A loro forse un poco in più perché hanno avuto Confucio, che ha lasciato nei secoli una concezione etica dell’uomo nella sua integrità e universalità. Nelle poesie delle due poetesse, invece, vedo una frattura generazionale evidente. Tra ZHANG Ye nata nel 1948 e CHENG Guo nel 1968, corrono venti anni duranti i quali, in Cina, sono accadute molte cose. Per ZHANG c’è stata la rivoluzione di Mao del “49 che ha portato la famosa ciotola di riso a tutti, ma anche quella che noi in occidente chiamiamo incomunicabilità. La foresta sta crescendo. L’alta marea che supera l’alta marea. CHENG Guo ha superato, invece, quel periodo, e per lei il tempo ricorda solo il margine del tempo. Vive una dimensione diversa, per lei strisciare è un’altra postura. Un altro modo di essere. Anche la metaforica aquila, non ostante la sua possanza, non è in grado di raggiungere il posto dove vuole andare. Comincia a capire la Guo, come nuova generazione, che quelle aquile sono giocattoli dell’era moderna, la loro impennata è un’altra nuova postura. Questa volta nei confronti del suo corpo di donna sul quale vuole camminare. Ecco vuole dirci che oggi c’è gente in attesa, che sonnecchia, che resta appollaiata bramosa di raggiungere comunque i suoi scopi. Anche turpi. Dipinge perfettamente lo stato attuale dell’umanità nel mondo. Dal punto di vista della versificazione, i poeti presentati nel volume con il commento di Defelice, usano versi semplici, armoniosi, di facile comprensione, fuori da astruse e assurde metafore. Bella poesia limpida: si legge e si assorbe con facilità e chiarezza. Salvatore D’Ambrosio
DOMENICO DEFELICE DOMENICO ANTONIO TRIPODI PITTORE DELL’ANIMA Gangemi Editore International, 2020, pagg. 96, € 20,00 Il professor Defelice, che conosciamo anche come valido pittore, ha scritto un saggio completo, ricco di
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notizie sul pittore Domenico Antonio Tripodi, sulle sue apprezzate mostre organizzate in tutto il mondo, sulle tematiche della sua arte. Interessanti le notizie biografiche sull’autore (classe 1930, sesto di otto figli) nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte. Tutti in famiglia si sono dedicati all’arte pittorica (a cominciare dal padre) e alcuni fratelli (come il nostro) hanno approfondito la tecnica del restauro. Il libro è arricchito da numerose foto dei celebri quadri di Tripodi. I soggetti (molti dei quali eseguiti sull’isola di Capraia, luogo prediletto del pittore) riguardano uccelli, panorami, nature morte. Eccezionali anche i ritratti. Stupendo “Il filosofo”, che campeggia anche sulla copertina del volume. Da citare anche i 150 pezzi su Dante. Defelice narra nei minimi particolari l’incontro romano con l’amico e indaga, come solo lui sa fare, sulla personalità dell’uomo, ricorrendo all’intervista. Defelice non ha neanche trascurato l’aspetto meno conosciuto di Tripodi: la sua vena poetica. Dalla poesia “Aspromonte”, tradotta in tante lingue: “L’Aspromonte è il mio monte, il mio Fujiyama. Prima di nascere bevvi le sue acque sorgive e respirai l’aria delle sue cime. A volontà la respirai ancora prima se l’anima, non ancora incarnata, ha bisogno di respirare.” Si resta incantati, a fine lettura, dopo aver apprezzato molteplici aspetti di questo testo: libro d’arte, modello di critica, pagina amicale dai risvolti psicologici. Elisabetta Di Iaconi LINA D’INCECCO COLORI E STUPORI DELLA VITA E DELLA NATURA Il Croco/Pomezia-Notizie, Novembre 2020, Pagg.24 La silloge si è classificata al 4° posto nel Premio editoriale Il Croco ed è composta da diciotto poesie. Sono attimi rubati da un occhio attento che, poi, li sviluppa in versi delicati con una punta di malinconia. Sono fotogrammi che sembrano scorrere uno dopo l’altro, scena dopo scena. Il fil rouge che unisce la raccolta è il tema dei colori, infatti Defelice scrive: “Lina D’INCECCO ama distinguere i colori e stupori della vita e della natura, vale a dire colori e stupori che si identificano nella persona - o in cose e oggetti alle persone dovute - , da colori e stupori che la Natura spontaneamente elargisce”. I colori descrivono il mondo circostante, lo caratterizzano e suscitano emozioni e sentimenti per coloro che li guardano: i colori freddi, i colori caldi;
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dalla gioia, alla felicità, alla tristezza, alla malinconia, fino alla paura. Dai colori al senso di grande meraviglia, di stordimento come può essere lo stupore che nasce dall’osservazione della Natura. I colori e gli stupori possono, purtroppo, anche essere negativi, infatti, parlando dei soldati la poetessa scrive: “Orme nere che scrivevano/ la pagina/ di una guerra brutta”, la guerra nera poiché il nero è assenza di colori e dunque di vita. “Il volto e le membra di ebano/ nell’abito rosso./ Il corpo pesante/ portava sulla schiena/ il suo piccino/ legato con una fascia bianca”, descritta così sembra essere un quadro sulla maternità; poche e semplici parole come poche le pennellate su una bianca tela. I colori sul pennello come i colori nelle parole, il risultato sembra essere lo stesso. “La luce d’ambra/ sulle volte e l’arcata/ dell’antica abbazia/ avvolge il sogno dei monaci”, questa la descrizione di un coro gregoriano nell’attimo in cui la luce del sole colpisce la struttura dell’abbazia e dona un colore che l’avvolge di mistero. “Nubi rosa/ sopra un tappeto di luce/ planano sul quartiere/ avvolto nell’ombra. Sagome nere/ passano sulla strada”. Versi semplici come scatti istantanei che regalano immediate emozioni. Lina D’Incecco è un’insegnante di lingua francese in pensione. Ha coltivato l’arte della poesia e della pittura. Ha pubblicato “Ombre e luci” nel 2017 e “Suggestioni” nel 2018, entrambe bene accolte dalla critica. Manuela Mazzola
TITO CAUCHI LUCIA TUMINO UNA VITA RISCATTATA Editrice Totem 2020 Pagg 64 € 10,00“ “La condizione della donna, mortificata dalle leggi non scritte dagli uomini (padri, mariti, fratelli e parenti), la dignità che sorregge, stati d’animo tutti di turbamento, di ansia, di abbattimento, eppure mai trovi un’imprecazione. Una poesia monocorde che commuove”. Tito Cauchi ci conduce per mano nell’universo femminile, poetico e alquanto doloroso di Lucia Tumino. La sua è una scrittura intesa come salvezza, come ponte che unisce le due sponde opposte. I suoi libri sono un unico diario esistenziale. Il volume è una raccolta di recensioni sulle opere della poetessa con la pubblicazione della loro corrispondenza, dal novembre 2012 fino alla scomparsa della scrittrice. Le opere recensite sono: I disegni del tempo, I colori della vita, Primavera dei sogni perduti, Miraggi di vita, Al fiatar del vento, Storie di vita, Ispirazioni all’alba, Il pensiero del giorno e il romanzo Le sorelle Faustine. Con uno
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stile scorrevole e armonioso, il professore riesce perfettamente a descrivere il mondo della poetessa, le sue emozioni, la malinconia, ma anche la signorilità di un animo gentile. Lucia è una donna delicata, sensibile, piena d’amore e di sogni, purtroppo, però viene considerata dalla comunità e dalla famiglia meno di niente. Durante tutta la sua vita, la poetessa viene derisa e schernita, ma sempre sostenuta da una fede incrollabile. Con l’umiltà che appartiene solo ai più grandi, è andata avanti nel suo percorso artistico, fondando, poi, nel 1984 l’Accademia Letteraria “Contea di Modica”. Purtroppo non è riuscita a leggere questo volume, è scomparsa poco prima. Le raccolte liriche sono una sorta di diario da cui si capiscono le problematiche, le angherie, i bocconi amari che la Tumino ha dovuto mandar giù nella sua lunga esistenza. Eppure lei è sempre stata una donna educata che rispondeva positivamente alle cattiverie. Forse la scrittura è stata come una terapia. Molto spesso, infatti, la creazione artistica permette alle anime più pure di distaccarsi e andare oltre, guardando il mondo che le circonda con uno sguardo diverso. Le persone provate sono quelle che hanno una particolare forza che le aiuta e le rende ancora più umane. Scrive Cauchi: “ Sua caratteristica è l’autobiografismo mantenuto con sempre alta tensione emotiva e pacata, dai risvolti socio antropologici”. Lucia Tumino dei marchesi Cannata è nata a Ragusa Ibla il 26 gennaio 1928 ed è morta il 14 ottobre 2020. Attraverso la lettura delle sue parole scolpite nella pietra, scritte con il fuoco che le arde dentro e che è costretta a soffocare, ci auguriamo che nessun’altra donna in futuro debba vivere situazioni simili. Manuela Mazzola Pomezia, RM LINA D’INCECCO COLORI E STUPORI DELLA VITA E DELLA NATURA Ed. Il Croco – I quaderni letterari di Pomezia Notizie, 2020 Il quarto premio Città di Pomezia 2020 è stato assegnato a Lina D’Incecco per la raccolta Colori e stupori della vita e della natura. Con una tematica variegata, la D’Incecco ci propone la sua visione riguardo a ciò che di bello è stato creato sia dall’uomo sia dalla natura. In primis la figura di Leonardo Da Vinci, il genio strabiliante che abbiamo avuto, creatore di pura bellezza e di
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invenzioni tanto innovative, da risultare ancora moderne. Un altro fiore all’occhiello dell’Italia è la Ferrari e la poetessa trasmette appieno la sua ammirazione per tutti coloro che ruotano attorno alla “bella macchina sofisticata”. Da “Quel team di diavoli rossi” ai campioni che la pilotano e che accendono la passione sportiva dei fans. Quando s’immerge nella natura la D’Incecco descrive delle immagini amene: il filare di oleandri che a guardarli “è vedere la festa ridondante /della stagione calda / che sa trovarsi lo spazio /anche nella ruvidezza / di un quotidiano afoso.”; il mare, da lei tanto amato, che si riveste di colori diversi a seconda del momento e dal quale prende forza “In esso traggo vigore, / dallo stillicidio / dei pensieri / trovo rifugio”. Lina D’Incecco trova ispirazione anche nei momenti meno belli e i suoi versi allora infondono tristezza. In “Anzianità” vi è tutta la rassegnazione di una vita ormai vicina al traguardo, ma vi è pure una nota positiva “Una mano frettolosa / lo getterà via. / Tornerà a nutrire / la terra. / Non è stato inutile / il suo giorno”. Solo infinita amarezza invece in “Coronavirus”, dove vi è dolore e disperazione. Il virus che ha fermato il mondo, quando colpisce gravemente non lascia speranze e la morte diviene un passaggio crudele: “Soli, in anonimo silenzio / lasciano la vita. / Su camion militari / l’ultimo viaggio.”. E’ meglio soffermarsi sulle bellezze della natura, stupendoci dei colori meravigliosi che ci propone
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anche quando la mano dell’uomo la ferisce gravemente: “I disastri ambientali / sono le conseguenze / del nostro agire. / La natura sa riprendersi / la rivincita.”. E’ con questa nota di speranza che la D’Incecco ci ha proposto la sua raccolta. Laura Pierdicchi
NAZARIO PARDINI LETTURA DI TESTI DI AUTORI CONTEMPORANEI vol. V, 2018-2020, The Writer, Marano P., 2021. È appena uscito, per le edizioni The Writer, il nuovo corposo volume del poeta, scrittore e critico letterario toscano Nazario Pardini che raccoglie la sua attività critica, di lettura e approfondimento, su testi e autori italiani della nostra età. Si tratta del quinto volume che viene pubblicato sotto il titolo “Lettura di testi di autori contemporanei”, collettanea di studi critici, saggi, recensioni, commenti e vari altri generi di testi dove Pardini ha fatto dell’atteggiamento speculativo, elucubrativo e di scandaglio lessicale le sue progrative principali. Il macilento volume, che conta ben 1055 pagine, (un vero catalogo, si dirà, ben al di là di un’enciclopedia chiusa, essendo l’opera in continuo divenire data l’attività frenetica e instancabile del Nostro) è stato pubblicato in seno alla collana di saggistica “Il Melograno” e ricostruisce, nelle pagine che lo compongono, il repertorio attento di tutte le sue disamine e investigazioni critiche – soprattutto nel mondo poetico ma non solo – compiute nel corso degli ultimi due anni. In copertina, infatti, viene bel delineato il periodo (2018-2020) nel corso del quale i testi sono stati vergati e poi – chiaramente – diffusi tanto in rete, sul suo spazio frequentatissimo (il blog “Alla volta di Lèucade”), che in cartaceo quale preambolo critico ai testi che ha inteso presentare, in molteplici prefazioni, postfazione, note di lettura e altro ancora. Un consuntivo su carta e in un volume unico – agevole, per quanto la copiosità delle pagine lo rende formalmente “pesante” – che compendia l’intensa e assai apprezzata carriera di critico letterario e che si misura con testi in genere medio-brevi in cui l’autore – moderno Virgilio che accompagna in un percorso sconosciuto – prende per la mano il lettore facendogli vivere mille storie, percorrere tragitti diversi, tra le pieghe delle esistenze altrui che sono riflesso anche delle Nostre. Non è possibile presentare in questa sede i tanti contenuti raccolti nel volume perché ciascuno meriterebbe il giusto spazio, tanto è democratico l’apporto di Pardini alla letteratura, ben restio a vedute
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settarie o di congreghe particolareggiate, di supposte aristocrazie poetiche e di circoli elitari. Dispensa con generosità e grande acume il suo sapere, indistintamente, a tutti quei poeti e autori – che, sì, reputa validi – gli propongono in lettura i suoi testi sapendo di trovare in lui, oltre che una persona magnanima e attenta, anche un vero e proprio oracolo. Ma anche un chirurgo delle emozioni. La sua penna attenta e sempre circostanziata non manca, neppure, in molti ambiti, di relazionare gli scritti e i versi degli autori a noi contemporanei con alti nomi della classicità e, finanche, con rimandi – sempre apprezzati – al mondo mitologico e della tradizione greco-romana. La piccola immagine che sembra posta “ad incastro” nella cover si riferisce a un particolare di una raffigurazione miniata del periodo medievale. In essa è ritratto Sant’Agostino e Volusiano e fa riferimento al “Amanuense di Vichy” del XII secolo, opera conservata nell’Archivio Diocesano di Vichy, in Francia. È, in effetti, proprio quella dell’amanuense contemporaneo la figura di Pardini: non solo ricopiatore di versi (tanti ne vengono citati e richiamati nelle sue scritture) ma chiosatore, commentatore, osservatore e analista stesso del testo. Oltretutto, ed era questo lo scopo primario dei laboratori di scrittura in seno a biblioteche di conventi ed abazie, la sua attività – scrittoria – è tesa a una raccolta sapienziale di note e informazioni, per una raccolta dello scibile che possa avere testimonianza nelle epoche successive. È per tale ragione che un’opera come questa non è un archivio (una sterile raccolta, fissa e soggetta al decadere della polvere) quanto, piuttosto, un museo molto frequentato. Mi piace richiamare il contesto museale, più che quello ben più attinente del mondo bibliotecario, perché in effetti i suoi testi vanno al di là della letterarietà dello scritto, promanano liricità anche da un punto di vista meramente artistico, visuale, di creazione dell’opera e di figuratività. Nel volume, oltre a un ricco numero di interventi critici di Pardini su altrettante opere poetiche, sono presenti numerosi testi critici che, invece, di riflesso, altri hanno scritto su di lui, tra cui un mio intervento dal titolo “Il colloquio con Thanatos. Il poeta toscano Nazario Pardini nell’ultimo volume della trilogia dell’approccio “ai dintorni” della vita” già apparsa su “Blog Letteratura e Cultura” il 31 gennaio 2020 e dalla quale – molto generosamente – l’Autore ha anche estratto un frammento che ha deciso di inserire nella quarta di copertina del suddetto volume. Tra gli autori a cui Pardini ha dedicato sue riflessioni in questo volume, cito ad libitium (senza pretesa né velleità alcuna) dacché per extenso sarebbe
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complicato e didascalico: Ester Cecere, Claudia Piccinno, Antonio Spagnuolo, Carmelo Consoli, Anna Vincitorio, Orazio Antonio Bologna, Gianni Rescigno, Francesco D’Episcopo, Luciano Domenighini, Maria Grazia Ferraris, Maddalena Leali, Rossella Cerniglia, Edda Conte, Enzo Concardi, Marisa Cossu, Pasquale Balestriere, Sandro Angelucci, Ugo Piscopo, Umberto Cerio, Vittorio Verducci, Michela Zanarella, Pasqualino Cinnirella, Patrizia Stefanelli e Carmen Moscariello. Un corposo tomo che va, dunque, in doppia direzione: la critica di Pardini sui testi di autori contemporanei e quella di questi ultimi sulle sue opere poetiche, in un diorama di vedute assai diversificato, esegesi a tratti particolareggiate, in altri casi lievemente didattiche e concentrate attorno a linee sinottiche che rappresentano le chiavi di svolta delle rispettive opere. In questa interrelazioni di voci, nessuno sale in cathedra, ed è questa la cosa bella di questo libro dove, ciascuno con le proprie competenze e l’acquisizione di un linguaggio più confacente al suo narrato, trasmette su carta sensazioni e amplia riflessioni, tutte in qualche modo collegate – in origine o in divenire – alla prolissa e mai scontata opera di un grande della letteratura nostrana, qual è Pardini. Lorenzo Spurio
FEBBRAIO La magica bacchetta di febbraio dispensa brine e rugiade, l’orchestra della natura anima con versi di cince e ghiandaie. Avvisaglie di pratoline e viole ai margini di rustiche strade, preludono l’esplosione dell’amore che al ramo ridarà foglia e fiore. Scendo a lunghi passi nella valle che mi vide infante sotto raggi di sole tendere la mano tra macchie di rovi per cogliere freschi turioni. Casolari diroccati, campi deserti, pascoli abbandonati. Un mondo tetro, avvilito, senza un domani. Raccolgo la desolazione tra le mani. Antonio Crecchia Termoli, CB
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D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE L’ITALIA, IN QUESTE PIETOSE CONDIZIONI, HA BISOGNO DI UNA DITTATURA? - Noi non siamo stati mai teneri verso Romano Prodi, ma dobbiamo dargli ragione quando afferma che gli attuali partiti non solo “non si limitano a dividersi in correnti, come avveniva anche in passato, ma finiscono, sempre più spesso, con il risolvere i loro contrasti dando vita a continue scissioni o implosioni che rendono sempre più difficile l’attività di governo” (Il Messaggero, giovedì 4 febbraio 2021). Il problema è che né lui, né la Sinistra, alla quale egli è sempre appartenuto ed appartiene, ha mai indicato una soluzione che ponesse fine a questo sconcio, a questo infinito dramma italiano che ha portato, in 74 anni, dal 1946 a oggi, a ben 66 diversi governi! Colpa dalla quale non sono esenti il Centro e la Destra, giacché conviene a tutti frantumarsi per apparire, per erigersi a galli non essendo neppure galline, e perché, così facendo, ogni sigla, anche la più insignificante, dello zero zero virgola, può incassare soldi pubblici, in base a norme a favore dei partiti che si son date gli stessi politici, lo stesso Parlamento, in barba al volere del Popolo, al quale dovrebbe appartenere il potere e, che sul problema, si era già chiaramente espresso con un referendum. Eppure, una legge per portare stabilità in Italia ci sarebbe ed è quella sull’elezione dei sindaci; sarebbe sufficiente una qualche insignificante correzione, attestare, cioè, ch’essa valga anche per le elezioni nazionali e far sì che un Governo, liberamente eletto, possa finalmente durare per cinque anni. Siccome, però, la modifica la dovrebbero fare proprio coloro
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che amano frantumarsi per ragioni di borsa, di potere e di bottega, è sicuro che continueremo ancora per decenni in questo vergognoso andazzo. Al quale non sfugge neppure Mario Draghi, sebbene il Presidente della Repubblica gli abbia dato un mandato chiaro: fare “un governo di alto profilo che non debba identificarsi con alcuna formula politica”. Significa che egli avrebbe potuto chiamare a far parte del suo Governo personalità capaci, non politici e politici appartenenti al Centro, alla Destra e alla Sinistra ma con autorità zittiti, gridando loro in faccia, ficcando loro nel cervello, che il suo Governo, forte della volontà del Capo dello Stato, mai si sarebbe identificato “con alcuna formula politica”. Bastava un po’ di coraggio, quello che neppure il santo subito Mario Draghi dimostra di avere avuto. I partiti, data la situazione, obtorto collo, avrebbero accettato. Invece, i vari ministri, all’interno del Governo lanciano - per ora, di tanto in tanto - il loro chicchirichì e, fuori del Governo, ogni partito agisce in tutto e per tutto come un corpo estraneo; Matteo Salvini, per esempio, ha abbassato un po’ i toni, ma non del tutto le sue teatralità, le sue recite da capocomico, da saltimbanco, da naturale artista della politica, in lotta perenne per distinguersi; ci fa pensare a un attore sperimentalista: il roboante Tommaso Salvini (Milano, 1/1/1829 – Firenze, 31/12/1915) – forse un antico suo parente? -, al suo tempo anche lui sempre attento a dominare le scene! Chicchirichì continui all’interno del Governo; solito andazzo al di fuori: Draghi deve aspettarsi, quindi, fra non molto, il solito chiasso indiavolato. Niente fermezza, niente coraggio. Così, la nostra malattia è irreversibile; è un tumore maligno; è una condanna eterna a un eterno declino; un eterno essere votati alla burla nel contesto delle nazioni. Amaro e tragico è dover concludere, come si dice nei bar, nei loro ormai rari momenti d’apertura, che solo una dittatura ci salverebbe. Tragico, assolutamente tragico e senza speranza alcuna allorché anche un solo degli italiani sia costretto a pensare a una tale idiozia. Domenico Defelice *** EUTERPE N. 33 - La rivista di Poesia e Critica Letteraria Euterpe, l’aperiodico tematico di letteratura online fondato nel 2011 e diretto da Lorenzo Spurio, comunica che è in preparazione il n. 33, che avrà come tema/titolo (al quale sarà possibile ispirarsi e rifarsi, ma in nessun modo strettamente vincolante) “Amori impossibili tra arte, storia, mito e letteratura”. Per la lunghezza degli interventi, consultare: https://associazioneeuterpe.com/norme-redazionali/ ; e-mail: lorenzo.spurio@alice.it ***
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Marzo 2021
ADDIO A LAWRENCE FERLINGHETTI – Il 22 febbraio 2021 è morto il poeta, scrittore, pittore, editore Lawrence Ferlinghetti. Era nato il 24 marzo del 1919 e, quindi, fra giorni avrebbe compiuto 102 anni. La madre, Lyons Albertine Mendes-Monsanto, era di origine francese e il padre, Carlo Ferlinghetti, nativo di Brescia, emigrato negli Stati Uniti d'America nel 1894 e morto sei mesi prima che il bambino nascesse. Ricoverata la madre in manicomio, egli fu affidato alla zia Emily con la quale visse i suoi primi cinque anni. Emigrata a New York con i suoi datori, la famiglia Bislands, adottò il bambino. Studiò alla Mount Hermon School e all'Università della Carolina del Nord a Chapel Hill; si arruolò, poi, nella Marina statunitense durante la seconda guerra mondiale. Si laureò dopo la guerra. Fu imprigionato e condannato per oscenità nel 1956. Fondò una casa editrice e pubblicò i primi lavori letterari della Beat Generation, tra cui Jack Kerouac e Allen Ginsberg. Fu amico di personaggi importanti e di lui qualche volta ci ha parlato pure l’amico poeta Peter Russell, che a Pomezia-Notizie ha collaborato per anni. Senza dilungarci ancora sul suo curriculum sterminato, citiamo tra le sue tante opere: Pictures of the Gone World (1955), A Coney Island of the Mind (1958), Her (1960), Unfair Arguments with Existence (1963), Starting from San Francisco (1967), Routines (1968), The Secret Meaning of Things (1968), Tyrannus Nix? (1969), The Mexican Night (1970), Back Roads to Far Places (1971), Open Eye, Open Heart (1972), Who Are We Now? (1976), Northwest Ecolog (1978), Landscapes of Living and Dying (1980), Literary San Francisco: A Pictorial History from its Beginnings to the Present Day (1971, con Nancy J. Peters), A Trip to Italy and France (1981), Endless Life: Selected Poems (1981), Seven Days in Nicaragua Libre (1984), Over All the Obscene Boundaries: European Poems and Transitions (1988), When I Look at Pictures (1990), These Are My Rivers: New & Selected Poems 19551993 (1993), Poesie. Questi sono i miei fiumi. Antologia personale 1955/1993 (1996), A Far Rockaway of the Heart (1998), Un luna park del cuore (2000),
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Blind Poet (2003), Americus: Book One (2004), Il lume non spento (2006), Poesia come arte che insorge (2009) eccetera. (ddf)
LIBRI RICEVUTI NICOLA PREBENNA – In rime sparse – Prefazione di Giuseppe Manitta; in copertina, a colori, “Bosco in primavera”, di S. Innaco. Il Convivio Editore, 2020, pagg. 80, € 10,00. Nicola PREBENNA è nato ad Ariano Irpino, ove vive, dopo essere stato all’estero quale docente prima e dirigente scolastico poi: in Turchia, in Francia, in Grecia e altrove. Si interessa di poesia, narrativa, critica letteraria. Suoi lavori sono presenti in importanti riviste (Vernice, per esempio, Parnassos) e in prestigiose antologie. Ha vinto molti e significativi premi e ha ottenuto importanti riconoscimenti. Tra le sue pubblicazioni: L’approdo (1976), Colpo d’ala (1978), Scuola oggi (1986), Rari Nantes (1988), Tempo che va (1995), Dacruma (2001), In Gurgite Vasto (2004), E la fiaccola vive… (2005), Come per acqua cupa (2008), Barbe e virgulti (2009), Il Settecento e l’autobiografia (2010), Era il maggio odoroso (2010), Pietro Paolo Parzanese: l’intellettuale che si volle poeta popolare (2012), Fragmina (2013), Mi prendo per la gola… e dimagrisco (2015), In una parte più e meno altrove (2017), Vulnera temporis (2018), Per correr migliori acque (2020). ** MANUELA MAZZOLA – Frammenti di vita Tra passato, presente e futuro – Presentazione di Marina Caracciolo; in copertina, a colori, “La mareggiata”, di Paolo Sommaripa – Il Convivio Editore, pagg. 40, € 8,00. Manuela MAZZOLA è nata a Roma nel 1972 e risiede a Pomezia (RM). Laureata in Lettere alla Sapienza di Roma, collabora con riviste letterarie e periodici italiani e stranieri; sue poesie sono state inserite nell’antologia “M’illumino d’immenso” (2020). Ha fatto parte di giurie di concorsi letterari. Ha pubblicato: Sensazioni di una fanciulla (2019), Sensazioni di una fanciulla (parte seconda, 2020). ** COSMO GIACOMO SALLUSTIO SALVEMINI – “Non mollare” è il nostro motto – Prefazione di Franco Ferrarotti – Analisi storica dei fatti avvenuti in Italia da un secolo ad oggi. Riproposizione dei valori morali contro la corruzione e la degenerazione della Democrazia. Rilancio del modello ateniese fondato sul metodo Pericle. Edizioni Movimento
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Marzo 2021
Salvemini, 2017 – Pagg. 576, € 25,00. Cosmo Giacomo SALLUSTIO SALVEMINI è nato a Molfetta (Bari) nel 1943. Si è formato sugli insegnamenti morali di Gaetano Salvemini. Si laurea in Scienze politiche a Bari nel 1965. Si dà al giornalismo nel 1966. Si laurea in Giurisprudenza a Roma nel 1974. Insegna dal 1975 a livello universitario. Presidente della Casa d’Europa di Gallarate (Varese) e Preside del locale Liceo Cavallotti. Dal 1980 è Presidente del Movimento Gaetano Salvemini. Dirige dal 1991 il periodico L’Attualità e la Scuola di Giornalismo “G. Salvemini”. Nel 1995 fonda le Edizioni Movimento Salvemini. Nel 1999 promuove la costituzione dell’Unione Italiana Associazioni Culturali (U.N.I.A.C.) di cui è Presidente. Dal 2000 dirige l’organizzazione del “Maggio Uniacense”. Socio onorario dell’Associazione Pugliese di Roma. Gli sono stati conferiti più di 300 Premi per opere e per l’attività giornalistica. Dal 2003 è Deputato al Parlamento Mondiale per la Sicurezza e la Pace e Ministro del Dipartimento Relazioni Internazionali. Dal 2004 è direttore dell’Ufficio Stampa dell’Accademia Costantiniana. Socio onorario dell’Associazione Nazionale Magistrati Onorari. Tra i più di 35 libri, ricordiamo “Europa problemi giuridici ed economici” (1977, giunto alla sesta edizione), “La Repubblica va rifondata sulla random-crazia” (2014), Canaglie e Galantuomini (2015), Diritti umani violati (2016), Epuloni e Lazzari (2019). ** ERIK PESENTI ROSSI – Fortunato Seminara lettore e critico – Luigi Pellegrini Editore, 2018 – Pagg. 296, € 18,00. Erik PESENTI ROSSI è professore ordinario di letteratura italiana, membro del centro di ricerca CHER (università di Straburgo). Tra le sue pubblicazioni: Fortunato Seminara. Diari 1939 – 1976 (2009), Vita di Fortunato Seminara, scrittore solitario (2012). ** MASSIMO CARLOTTO – Morte di un confidente – Un’inchiesta dell’ispettore Giulio Campagna – Ed. La Stampa/La Repubblica, ottobre 2020, pagg. 46. Massimo CARLOTTO è nato a Padova il 22 luglio 1956. Scrittore, drammaturgo, giornalista, saggista, sceneggiatore. A 19 anni, militante di Lotta Continua, venne accusato dell’assassinio, con 59 coltellate, il 20 gennaio 1976, di Margherita Magello, di 24 anni. Condannato a 18 anni di carcere, fugge in Francia e poi in Messico, da dove viene estradato. Venne graziato dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Tra i tanti suoi romanzi: Il fuggiasco (1995), L’oscura immensità della morte (2004), Niente, più niente al mondo (2004), La terra della mia anima (2006), Mi fido di te (2007), L’alligatore (2007), Cristiani di Allah (2008), Perdas de
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Fogu (2008), L’albero del microchip (2009), Respiro corto (2012), Il mondo non mi deve nulla (2014), Il Turista (2016), La signora del martedì (2020).
TRA LE RIVISTE ntl LA NUOVA TRIBUNA LETTERARIA – trimestrale di lettere e arte fondato da Giacomo Luzzagni, direttore responsabile Stefano Valentini, editoriale Natale Luzzagni, vicedirettore Pasquale Matrone – via Chiesa 27 – 35034 Lozzo Atestino (PD) – e-mail: nuovatribuna@yahoo.it – Trentesimo anno dalla fondazione. Riceviamo il n. 140 dal quale evidenziamo: “Constantin Hansen. L’età dell’oro”, di Natale Luzzagni; “L’eredità di Salvatore Quasimodo. Tutto splende. Ed è subito sera”, di Luigi De Rosa; ”Il “fantastico” per esplorare la realtà. Dino Buzzati”, di Pasquale Matrone; “Nel centenario della nascita. Gianni Rodari. Non soltanto filastrocche”, di Maria Nivea Zagarella; “Parole da una prigione dorata. Emily Dickinson”, di Anna Vincitorio; “Il potere creativo dell’immaginazione. William Blake”, di Liliana Porro Andriuoli; “Personaggi femminili sul palco. William Shakespeare”, di Elio Andriuoli eccetera, giacché tutta la rivista è da sfogliare, goderla con gli occhi, leggerla. Tra le recensioni, Stefano Valentini scrive di “Verso lontani orizzonti. L’itinerario poetico di Imperia Tognacci”, di Marina Caracciolo; Ntl, di “Un saggio di Wilma Minotti Cerini compendia il percorso letterario, umano e intellettuale di Peter Russell”. Rubriche varie e, in “Risultati e notizie”, i vincitori del premio letterario editoriale “Il Croco” 2020, organizzato da Pomezia-Notizie. * IL BORGHESE – mensile diretto da Claudio Tedeschi, Dir. editoriale Luciano Lucarini – via Gregorio VII, 160 – 00165 Roma – E-mail: ilborghese1950@gmail.com – Riceviamo on line il n. 12, dicembre 2020, con tante rubriche e numerosi interventi, tutti interessanti; sommario lungo da riportare, firme prestigiose: Barbara Appiano, Cristiano Arni, Alessandro Baldi, Adalberto Baldoni, Alessandro Ballicu, Mario Bernardi Guardi, Umberto Bianchi, Fabrizio Bianco, Maria Grazia Bielli, Giuseppe Brienza, Michele Cardin, Francesco Carlesi, Hervé A. Cavallera, Alessandro Cesareo, Massimo Ciullo, Vitaldo Conte, Fabio Cutaia, Daniela Damiano, Filippo de Jorio, Gianfranco de Turris, Gianpiero Del
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Monte, Giovanni Dentamaro, Stefano Duranti Poccetti, Enea Franza, Dalmatio Frau, Raffaello Giorgetti, Andrea Iacovitti, Teodoro Klitsche de la Grange, Aldo Ligabò, Massimo Magliaro, Gennaro Malgieri, Franco Palmieri, Riccardo Paradisi, Errico Passaro, Riccardo Rosati, Roberto Rosseti, Francesco Rossi, Giuseppe Sanzotta, Carlo Sburlati, Adriano Segatori, Giovanni Sessa, Enrico Silverio, Daniele Trabucco, Manlio Triggiani, Marcello Veneziani, Carlo Vivaldi-Forti. A pagina 75, Alessandro Baldi recensisce Sensazioni di una fanciulla (parte seconda), di Manuela Mazzola, silloge edita nel 2020 da Il Croco, i Quaderni letterari di Pomezia-Notizie. Scrive, Baldi, tra l’altro: “Nei versi della Mazzola vi è una precisa e attenta osservazione della realtà esterna, che denota una maturità e una capacità critica notevole, se si paragona alla giovane età”. * IL CONVIVIO – Trimestrale fondato da Angelo Manitta e diretto da Enza Conti – via PietramarinaVerzella 66 – 95012 Castiglione di Sicilia (CT) – Email: angelo.manitta@tin.it; enzaconti@ilconvivio.org – Riceviamo il n. 83, ottobre-dicembre 2020, dal quale segnaliamo: l’intervista a Angelo Manitta a cura di Giusy Capone; “Il tema dell’ingabbiamento in Locdown di Corrado Calabrò”, di Fabia Baldi; “Loretta Marcon. Paolina Leopardi. Ritratto e carteggi di una sorella”, di Angelo Manitta; le varie rubriche, tra cui quella dei racconti, quella della poesia, sia italiana che straniera, quella della pittura, delle recensioni eccetera. Tra le tantissime firme, segnaliamo, a diverso titolo: Caterina Felici, Antonia Izzi Rufo, Gabriella Frenna, Manuela Mazzola (la quale, tra l’altro, recensisce “Verso lontani orizzonti. L’itinerario lirico di Imperia Tognacci”, di Marina Caracciolo), Isabella Michela Affinito (recensione di “AA. VV., Antonia Izzi Rufo nella critica”), Marina Caracciolo. * FIORISCE UN CENACOLO – mensile fondato nel 1940 da Carmine Manzi, diretto da Anna Manzi – 84085 Mercato S. Severino (SA) – e-mail: manzi.annamaria@tiscali.it – Riceviamo il n. 10-12, ottobre-dicembre 2020, dal quale segnaliamo vari pezzi a firma di Aldo Marzi, “La ricorrenza del settimo centenario della morte di Dante Alighieri”, di Maria Cristina Iavarone Mormile, “Vittorio Martin, La rotta del cuore”, di Isabella Michela Affinito, le poesie sul Natale di Carmine Manzi, le poesie di Antonia Izzi Rufo eccetera.
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* L’ATTUALITÀ – mensile di società e cultura fondato e diretto da Cosmo Giacomo Sallustio Salvemini – via Lorenzo il Magnifico 25 – 00013 Fonte Nuova (Roma) – e-mail: lattualita@yahoo.it – Riceviamo il n. 1, gennaio 2021, con decine e decine di firme, tra le quali quelle delle nostre collaboratrici Manuela Mazzola (quattro pezzi) e Isabella Michela Affinito, la quale, tra l’altro, cura la rubrica “Io e i pianeti delle zodiaco”.
AI COLLABORATORI Inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione o altro) preferibilmente attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute); per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. Per eventuali versamenti, assolutamente volontari: Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 N076 0103 2000 0004 3585 009
Domenico Defelice: Casa di Giovanni Pascoli (1983 - olio su tela 30 x 40, proprietà Mario Giarruzzo, Aprilia, Lt) ↓